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DIGELO
E STELLE
Alle stelle che ascoltano...
E ai sogni che si avverano
FEYRE
Finalmente abbastanza sveglia da non dire cose senza senso, abbassai lo scudo nero – duro
come il diamante – che mi proteggeva la mente e proiettai un pensiero lungo il ponte che
univa la mia anima e quella di Rhys. “Dove sei volato, così presto?”
La mia domanda svanì nell’oscurità. Una conferma del fatto che Rhys non era nelle vi-
cinanze di Velaris. Probabilmente non era nemmeno entro i confini della Corte della Not-
te. Anche quello non era insolito: in quei mesi aveva fatto visita ai nostri alleati di guer-
ra per consolidare i nostri rapporti, organizzare il commercio e tenere sotto controllo le
loro intenzioni nel nuovo mondo senza muro. Spesso, quando il lavoro me lo permette-
va, andavo con lui.
Raccolsi il piatto, scolai il tè fino all’ultima goccia e mi avviai verso la cucina. Giocare
con il ghiaccio e la neve poteva attendere.
Nuala stava già preparando il pranzo al tavolo da lavoro. Non c’era traccia della sua ge-
mella, Cerridwen, ma la allontanai con un gesto della mano quando fece per prendere le
mie stoviglie. «Posso lavarle io» dissi a mo’ di saluto.
Immersa fino ai gomiti in una sorta di pasticcio di carne, il mezzo spettro mi rivolse un
sorriso grato e mi lasciò fare. Era una donna di poche parole, anche se nessuna delle due
gemelle si poteva definire timida. Certamente non quando lavoravano – spiavano – sia
per Rhys sia per Azriel.
«Sta ancora nevicando» osservai un po’ inutilmente, guardando il giardino dalla fine-
stra della cucina mentre sciacquavo il piatto, la forchetta e la tazza. Elain aveva già prepa-
rato il giardino per l’inverno, coprendo con sacchi di tela i cespugli e le aiuole più delica-
ti. «Chissà se smetterà mai.»
Nuala posò la sfoglia con un disegno a griglia sopra il pasticcio di carne e iniziò a pizzi-
care i bordi per unirli; le sue dita d’ombra lavoravano rapidamente e con destrezza. «Sarà
bello avere un Solstizio bianco» disse, con voce cadenzata ma bassa. Piena di sussurri e di
ombre. «Certi anni può esserci un clima abbastanza mite.»
Giusto. Il Solstizio d’inverno. Una settimana dopo. Il mio titolo di Signora Suprema era
ancora così recente che non avevo idea di quale sarebbe stato il mio ruolo formale. Non
sapevo se ci sarebbe stata una Somma Sacerdotessa che avrebbe condotto qualche odiosa
cerimonia, come aveva fatto Ianthe l’anno prima...
Un anno. Per gli dèi, era passato quasi un anno da quando Rhys aveva preteso il rispet-
to del nostro patto perché voleva disperatamente allontanarmi dal veleno della Corte della
Primavera, voleva salvarmi dalla mia disperazione. Se l’avesse fatto un minuto dopo, solo
la Madre sapeva che cosa sarebbe successo. Dove sarei stata in quel momento.
La neve turbinava vorticosamente nel giardino e si impigliava nelle fibre marroni della
tela che copriva gli arbusti.
La mia Metà, che si era impegnata così tanto e così generosamente, senza neanche la
speranza che un giorno saremmo stati insieme.
Avevamo combattuto entrambi e avevamo sanguinato per quell’amore. Rhys era mor-
to per quell’amore.
Vedevo ancora quel momento, nei miei sogni da addormentata e da sveglia. L’aspetto
del suo viso, il petto che non si sollevava, l’Unione tra noi che si era spezzata. Lo sentivo
ancora, quel vuoto nel petto dov’era stata l’Unione, dov’era stato lui. Anche adesso, con
l’Unione che scorreva di nuovo tra noi come un fiume notturno punteggiato di stelle, per-
maneva l’eco del suo svanire. Mi strappava dal sonno; mi distoglieva da una conversazio-
ne, da un dipinto, da un pasto.
Rhys capiva perfettamente perché c’erano notti in cui mi aggrappavo più forte a lui, per-
ché c’erano momenti sotto il sole luminoso e splendente in cui gli stringevo una mano. Lo
capiva, così come io sapevo perché a volte distoglieva gli occhi, perché ogni tanto batte-
va le palpebre davanti a tutti noi come se non ci credesse del tutto e si strofinava il petto
come per alleviare un dolore.
Lavorare aveva fatto bene a entrambi. Ci aveva tenuti occupati, ci aveva fatto rimanere
concentrati... A volte temevo i giorni tranquilli e oziosi in cui tutti quei pensieri alla fine
mi catturavano. Quando c’eravamo solo io e la mia mente, e quel ricordo di Rhys che gia-
ceva morto sul terreno roccioso, quello del re di Hybern che spezzava il collo a mio padre,
quello dei tanti Illyrian che prorompevano dal cielo e cadevano sulla terra come cenere.
Forse, un giorno, neanche il lavoro sarebbe bastato a tenere alla larga i ricordi.
Per fortuna, ne restava molto per l’immediato futuro. Ricostruire Velaris dopo gli attac-
chi di Hybern era solo uno dei tanti compiti monumentali. E ce n’erano molti altri, sia a
Velaris sia oltre: sui Monti Illyrian, nella Città Spaccata, in tutta la vasta Corte della Not-
te. E poi c’erano le altre corti di Prythian. E, più in là, il nuovo mondo emergente.
Ma, per il momento, ci sarebbe stato il Solstizio. La notte più lunga dell’anno. Mi vol-
tai dalla finestra verso Nuala, che stava ancora sigillando i bordi del suo pasticcio di car-
ne. «Anche qui è una festa speciale, vero?» chiesi con apparente noncuranza. «Non solo
nelle Corti dell’Inverno e del Giorno.» E della Primavera.
«Oh, sì» rispose Nuala, chinandosi sul tavolo da lavoro per esaminare la sua opera. Era
un’abile spia, addestrata dallo stesso Azriel, e una cuoca provetta. «Ci piace moltissimo. È
una festa intima, calda, incantevole. Ci sono regali, musica e cibo, a volte banchetti sotto
la luce delle stelle...» L’opposto dell’enorme, selvaggia, lunghissima festa che avevo dovu-
to subire l’anno prima. Ma... i regali.
Dovevo comprare regali per tutti loro. Non dovevo, ma volevo.
Perché tutti i miei amici, che ormai erano la mia famiglia, avevano combattuto e sangui-
nato, e anche loro erano quasi morti.
Scacciai l’immagine che mi attraversò la mente: Nesta, china su Cassian ferito, entram-
bi pronti a morire insieme contro il re di Hybern. Dietro di loro, il cadavere di mio padre.
Feci roteare il collo. Ci avrebbe fatto bene festeggiare qualcosa. Erano diventate rare le
occasioni in cui potevamo riunirci tutti per più di un’ora o due.
Nuala continuò: «È anche un tempo di riposo. E un tempo per riflettere sull’oscurità, su
come fa risplendere la luce».
«C’è una cerimonia?»
Il mezzo spettro si strinse nelle spalle. «Sì, ma nessuno di noi ci va. È più per coloro che
desiderano onorare la rinascita della luce; di solito passano tutta la notte seduti nel buio
totale.» L’ombra di un sorriso. «Non è proprio una novità per me e mia sorella. O per il
Signore Supremo.»
Annuii, e cercai di non far trasparire troppo il mio sollievo per il fatto che non sarei sta-
ta obbligata a passare ore in un tempio.
Misi ad asciugare i piatti puliti sulla piccola griglia di legno accanto al lavandino, augurai
buona fortuna a Nuala per il pranzo e mi diressi al piano di sopra per vestirmi. Cerridwen
mi aveva già preparato gli abiti, ma ancora non c’era traccia della gemella di Nuala men-
tre indossavo il pesante maglione color carbone, i pantaloni neri aderenti e gli stivali fo-
derati di pelliccia e poi mi legavo i capelli in una treccia morbida.
Un anno prima ero stata rivestita di abiti e gioielli raffinati e avevo dovuto sfilare da-
vanti a una corte tutta agghindata che mi aveva guardata a bocca aperta come se fossi una
pregiata giumenta da riproduzione.
Lì, invece... Sorrisi all’anello di argento e zaffiri che portavo alla mano sinistra. L’anello
che avevo sottratto alla Tessitrice del Bosco.
Il mio sorriso si affievolì un po’.
Potevo vedere anche lei. Vedevo Stryga in piedi davanti al re di Hybern che, coperto del
sangue della sua preda, le prendeva la testa tra le mani e le spezzava il collo. Poi la getta-
va alle sue bestie.
Strinsi le dita a pugno, inspirando dal naso, espirando dalla bocca, finché la leggerez-
za delle mie membra non svanì, finché le pareti della stanza non smisero di opprimermi.
Finché non potei esaminare il miscuglio di oggetti personali nella stanza di Rhys, la no-
stra stanza. Non era affatto piccola come camera, ma ultimamente cominciava a... starci
stretta. La scrivania in palissandro contro una parete era coperta di carte e libri riguardan-
ti gli affari di entrambi; i miei gioielli e i miei vestiti dovevano essere divisi tra lì e la mia
vecchia camera da letto. E poi c’erano le armi.
Pugnali e spade, faretre e archi. Mi grattai la testa mentre guardavo una mazza pesan-
te e dall’aria malvagia che Rhys doveva aver posato accanto alla scrivania senza che io me
ne accorgessi.
Non volevo nemmeno sapere che cosa ci fosse dietro. Ma non avevo dubbi sul fatto che
in qualche modo c’entrasse Cassian.
Ovviamente avremmo potuto mettere tutto nello spazio tra i reami, ma... Mi accigliai
guardando la mia serie di lame Illyrian, appoggiate all’armadio torreggiante.
Se fossimo rimasti bloccati dalla neve, forse avrei potuto approfittarne per mettere a po-
sto quelle cose. Trovare spazio per tutto. Soprattutto per quella mazza.
Non sarebbe stato facile, perché Elain occupava ancora una camera da letto in fondo al
corridoio. Nesta si era trovata una casa all’altro lato della città, una casa a cui avevo deci-
so di non pensare troppo. Lucien, perlomeno, era andato ad abitare in un elegante appar-
tamento lungo il fiume il giorno dopo essere tornato dai campi di battaglia. E dalla Cor-
te della Primavera.
Non avevo chiesto niente a Lucien su quella visita, su Tamlin.
E Lucien, del resto, non aveva fornito spiegazioni sull’occhio nero e il labbro spaccato.
Aveva solo chiesto a me e a Rhys se sapevamo di un posto dove potesse stare a Velaris, dal
momento che non voleva darci ulteriore disturbo soggiornando nella casa di città e non
desiderava restare isolato nella Casa del Vento.
Non aveva menzionato Elain, o la sua vicinanza a lei. Elain non gli aveva chiesto di re-
stare o di andarsene. E, se le importava qualcosa dei lividi sul viso di lui, di certo non l’a-
veva detto.
Ma Lucien era rimasto, aveva trovato il modo di tenersi occupato e spesso era via per
giorni o settimane di seguito.
Eppure, anche con Lucien e Nesta che vivevano nei loro appartamenti, la casa di città
era un po’ piccola di quei tempi. Lo sarebbe stata ancora di più se Mor, Cassian e Azriel
si fossero fermati a dormire. E la Casa del Vento era troppo grande, troppo formale, trop-
po lontana dalla città vera e propria. Andava benissimo per una notte o due, ma... io ama-
vo la casa di città.
Era casa mia. La prima che avessi davvero avuto, negli aspetti che contavano davvero.
E sarebbe stato bello festeggiare lì il Solstizio. Con tutti loro, per quanto potessimo sta-
re stretti.
Guardai accigliata la pila di carte che dovevo esaminare: lettere da altre corti, da sacer-
dotesse che volevano essere ingaggiate e da regni umani e Fae. Era un compito che riman-
davo da settimane, ormai, e avevo deciso di occuparmene quella mattina.
Signora Suprema della Corte della Notte, Protettrice dell’Arcobaleno e della... Scrivania.
Sbuffai e mi buttai la treccia dietro una spalla. Forse per il Solstizio mi sarei fatta un re-
galo: una segretaria personale. Una persona che leggesse quelle cose e rispondesse, che
stabilisse che cosa era importante e che cosa si poteva scartare. Perché sarebbe stato bel-
lissimo avere un po’ di tempo in più per me stessa, per Rhys...
Avrei studiato il bilancio della Corte, cosa che Rhys non faceva mai, e avrei visto che
spese si potevano eliminare per rendere possibile una cosa del genere. Per lui e per me.
Sapevo che i nostri forzieri erano pieni, sapevo che ce lo potevamo permettere tran-
quillamente senza nemmeno intaccare la nostra fortuna, ma non mi dispiaceva darmi da
fare. Amavo darmi da fare, in realtà. Quel territorio, la sua gente... mi stavano a cuore
quanto la mia Metà. Fino al giorno prima, avevo passato quasi tutte le ore di veglia ad
aiutarli. Fino a quando non mi era stato detto, educatamente e gentilmente, di tornare a
casa e godermi le feste.
Dopo la guerra, il popolo di Velaris aveva accettato la sfida: ricostruire e aiutare la sua
gente. Prima ancora che mi venisse un’idea su come aiutarli, erano state create varie asso-
ciazioni per sostenere la città. Mi ero quindi offerta volontaria presso alcune per compiti
che andavano dalla ricerca di case per quelli che si erano visti distruggere la loro, alle vi-
site alle famiglie che avevano subito danni, alla distribuzione di cappotti e altri oggetti a
coloro che non avevano più effetti personali.
Tutto era importantissimo; tutto rappresentava un lavoro utile e soddisfacente. Eppure...
mancava qualcosa. Avrei potuto fare di più per aiutare. Io, personalmente. Ma non avevo
ancora capito come.
Sembrava che non fossi l’unica desiderosa di aiutare quelli che avevano perso così tan-
to. Con le feste era arrivata tutta un’ondata di nuovi volontari, che riempivano la sala pub-
blica vicino al Palazzo del Filo e dei Gioielli, dove si trovava la sede di molte associazio-
ni. “Il tuo aiuto è stato fondamentale, Signora” mi aveva detto il giorno prima la direttrice
di un ente di beneficenza. “Sei stata qui quasi ogni giorno, hai lavorato come una schiava.
Prenditi una settimana libera. Te la sei guadagnata. Festeggia con la tua Metà.”
Avevo cercato di obiettare, avevo insistito sul fatto che c’erano altri cappotti e altra le-
gna da distribuire, ma la femmina si era limitata a indicare la sala pubblica affollata at-
torno a noi, piena fino all’orlo di volontari. “Abbiamo più mani di quante ce ne servano.”
Quando avevo provato a obiettare di nuovo, mi aveva sospinta oltre la porta d’ingresso.
E me l’aveva chiusa alle spalle.
Capito. Era successo lo stesso in tutte le altre organizzazioni da cui ero passata il pome-
riggio prima. “Vai a casa e goditi le feste” mi dicevano tutti.
E così avevo fatto. La prima parte, perlomeno. In quanto al godermi le feste, però...
Finalmente, su un rombo di potere scuro e brillante, scintillò lungo l’Unione la rispo-
sta di Rhys alla mia domanda precedente: dove si trovasse. “Sono al campo di Devlon.”
“E ci voleva così tanto a rispondere?” I Monti Illyrian erano a una bella distanza, sì, ma
era strano che la risposta avesse impiegato diversi minuti.
Un sensuale sbuffo di risate. “Cassian stava sbraitando. Non prendeva neanche fiato.”
“Mio povero piccolo Illyrian. Ti tormentiamo proprio, eh?”
Il divertimento di Rhys si propagò nella mia direzione e mi accarezzò nel profondo con
mani velate di notte. Ma poi si interruppe e svanì rapidamente come era arrivato. “Cassian
sta entrando nel vivo della questione con Devlon. Ci vediamo più tardi.” Sfiorandomi amo-
revolmente i sensi, sparì.
Presto avrei ricevuto un rapporto completo, ma per il momento...
Sorrisi alla neve che danzava fuori dalle finestre.
RHYSAND
se. E, se alcune si fossero sottratte a quei doveri, sarebbero state punite da una della mez-
za dozzina di “madri del campo” o da qualcuno dei maschi che controllavano le loro vite.
Era stato sempre così, per la gente di mia madre, fin da quando conoscevo quel posto.
Il mondo si era trasformato durante i mesi di guerra, il muro era crollato nel nulla, eppure
alcune cose non cambiavano. Soprattutto lì, dove i cambiamenti erano più lenti dello scio-
glimento dei ghiacciai sparsi tra le montagne. C’erano tradizioni che risalivano a migliaia
di anni prima e che in buona parte non erano mai state contrastate.
Fino a quel momento. Finché non l’avevamo fatto noi.
Distogliendo l’attenzione dal trambusto del campo oltre i bordi dei recinti di allenamento
tracciati con il gesso, mi imposi un’espressione neutrale mentre Cassian affrontava Devlon.
«Le ragazze sono impegnate nei preparativi per il Solstizio» stava dicendo il signore
del campo, con le braccia conserte sul torace possente. «Le mogli hanno bisogno di tut-
to l’aiuto possibile, perché i preparativi siano completati in tempo. Le ragazze si potranno
addestrare la settimana prossima.»
Avevo perso il conto di quante variazioni di quella conversazione avessi già sentito, du-
rante i decenni in cui Cassian aveva discusso di quell’argomento con Devlon.
Il vento sferzava i capelli scuri di Cassian, ma la sua faccia rimase dura come il grani-
to quando disse al guerriero che – a malincuore – ci aveva addestrati: «Le ragazze posso-
no aiutare le loro madri dopo aver concluso l’allenamento. Lo ridurremo a due ore. Il re-
sto della giornata sarà più che sufficiente per i preparativi».
Devlon fece scivolare gli occhi nocciola sul punto in cui mi trovavo io, a pochi passi di
distanza. «È un ordine?»
Sostenni quello sguardo. E nonostante la mia corona, nonostante il mio potere, dovet-
ti sforzarmi per non ridiventare il bambino tremante che ero stato cinque secoli addietro,
quel primo giorno in cui Devlon aveva torreggiato su di me e poi mi aveva scagliato nell’a-
rea di addestramento. «Se Cassian dice che è un ordine, allora lo è.»
Mi era venuto in mente, durante gli anni in cui avevamo condotto la stessa battaglia con
Devlon e gli Illyrian, che avrei potuto semplicemente penetrare nella sua mente, in tut-
te le loro menti, e fare in modo che fossero d’accordo. Ma c’erano alcune linee che non
potevo superare, che non avrei superato. E poi Cassian non me l’avrebbe mai perdonato.
Devlon grugnì e il suo respiro formò un viticcio di vapore. «Un’ora.»
«Due ore» ribatté Cassian, aprendo leggermente le ali. Mi aveva chiamato, quella mat-
tina, perché lo aiutassi a mantenere la linea dura.
La situazione doveva essere brutta, se mio fratello mi aveva chiesto di andare lì. Davve-
ro schifosa. Forse era necessario che qualcuno stesse lì in permanenza, almeno finché gli
Illyrian non si fossero ricordati dell’esistenza di quelle piccole cose chiamate “conseguenze”.
Ma la guerra aveva avuto un impatto su tutti noi; con la ricostruzione, con i territori
umani che ci venivano pian piano incontro, con altri regni Fae che osservavano un mon-
do senza il muro e si chiedevano che stronzate potessero fare senza subirne le conseguen-
ze... non avevamo le risorse per piazzare stabilmente lì qualcuno. Non ancora. Forse l’e-
state successiva, se le altre situazioni fossero state abbastanza tranquille.
Gli amici di Devlon indugiavano nel campo di addestramento più vicino, soppesando
Cassian e me, esattamente come avevano fatto durante tutta la nostra vita. Nel Rito di San-
gue di molti secoli prima ne avevamo massacrati tanti che ancora si tenevano in disparte,
ma... erano stati gli Illyrian che avevano sanguinato e combattuto quell’estate. Che aveva-
no dovuto subire il maggior numero di perdite, che erano stati più danneggiati da Hybern
e dal Calderone.
Il fatto che una parte dei guerrieri fosse sopravvissuta testimoniava a favore della loro
abilità e delle capacità di comando di Cassian, ma, con gli Illyrian isolati e inattivi lassù,
quelle perdite stavano iniziando a dare forma a qualcosa di brutto. Di pericoloso.
Nessuno di noi aveva dimenticato che, durante il regno di Amarantha, alcune bande di
guerrieri si erano allegramente inchinate davanti a lei. E sapevo che nessuno degli Illyrian
aveva dimenticato che, nei primi mesi dopo la sua caduta, avevamo dato la caccia a quel-
le masnade. E le avevamo fatte fuori.
Sì, lì era necessaria una presenza stabile. Ma più avanti.
Devlon insistette, incrociando le braccia muscolose. «I ragazzi hanno bisogno di un bel
Solstizio, dopo tutto quello che hanno dovuto sopportare. Lasciate che le ragazze glie-
lo forniscano.»
Quel bastardo sapeva sicuramente quali armi brandire, sia fisiche sia verbali.
«Due ore nel campo di addestramento ogni mattina» disse Cassian con lo stesso tono
duro; quando aveva quel tono, io stesso non insistevo, a meno che non avessi voglia di una
rissa. Non distolse lo sguardo da Devlon. «I ragazzi possono aiutare a decorare, pulire e
cucinare. Hanno due mani anche loro.»
«Alcuni sì» disse Devlon. «Altri sono tornati a casa con una sola.»
Percepii, più che vedere, la ferita che quelle parole infersero a Cassian.
Era il prezzo che pagava il comandante dei miei eserciti: considerava suoi fallimen-
ti personali ogni ferita, ogni morte, ogni cicatrice. E stare con quei guerrieri, vedere que-
gli arti mancanti e quelle ferite brutali che stavano ancora guarendo o che non sarebbe-
ro mai guarite...
«Si eserciteranno per novanta minuti» dissi, placando il potere oscuro che iniziava ad
agitarsi nelle mie vene, che voleva uscire nel mondo, e mi feci scivolare in tasca le mani
gelate. Cassian, saggiamente, si finse oltraggiato e spalancò le ali. Devlon aprì la bocca,
ma lo interruppi prima che potesse sbraitare qualcosa di molto stupido. «Un’ora e mez-
zo ogni mattina, poi si dedicheranno alle faccende domestiche, e i maschi contribuiran-
no ogni volta che possono.» Guardai le tende permanenti e le piccole case di pietra e le-
gno sparse lungo l’ampio passo e le vette coperte di alberi dietro di noi. «Devlon, non
dimenticare che anche un gran numero di donne ha subito perdite. Forse non hanno per-
so mani, ma i loro mariti, figli e fratelli erano su quei campi di battaglia. Tutti collabore-
ranno ai preparativi per le feste e tutti si alleneranno.»
Feci un cenno con il mento a Cassian, per dirgli di seguirmi fino alla casa dall’altra par-
te del campo, che era diventata la nostra base operativa semi-permanente. Lì dentro non
esisteva una superficie su cui non avessi preso Feyre; il tavolo della cucina era il mio pre-
ferito, grazie a quei giorni selvaggi dopo il nostro primo accoppiamento, quando riuscivo
a malapena a stare vicino a lei senza seppellirmici dentro.
Quanto sembravano lontani quei giorni. Un’altra vita.
Avevo bisogno di una vacanza.
La neve e il ghiaccio ci scricchiolavano sotto gli stivali mentre ci dirigevamo verso la
stretta casa di pietra a due piani, vicino alla linea degli alberi.
Non mi serviva una vacanza per riposare, né per visitare qualche luogo, ma solo per pas-
sare più di qualche ora nello stesso letto della mia Metà.
Per dormire un po’ più di qualche ora e per immergermi in lei. Sembrava che in quei
giorni potessimo fare solo l’una o l’altra cosa. Il che era assolutamente inaccettabile. E mi
aveva rimbecillito.
La settimana prima era stata piena di stupidi impegni, e io desideravo così disperatamente
la pelle e il sapore di Feyre che l’avevo presa durante il volo dalla Casa del Vento alla casa
di città. In alto, sopra Velaris... avrebbe potuto vederci chiunque, se non ci avessi scher-
mati. Erano state necessarie alcune accurate manovre, e ormai da mesi avevo programma-
to di farne un’occasione speciale, ma con lei stretta contro di me, e noi soli nei cieli, era
bastato uno sguardo in quegli occhi grigio-azzurri e le stavo già slacciando i pantaloni.
Un attimo dopo ero dentro di lei, e per poco non ci eravamo schiantati sui tetti come se
fossi stato un ragazzetto Illyrian alle prime armi. Feyre aveva riso.
Quel suono roco mi aveva fatto raggiungere subito il culmine.
Non era stato il mio momento più glorioso, e senza dubbio sarei sceso a livelli ancora
più bassi prima che il Solstizio invernale ci regalasse un giorno di tregua.
Soffocai il mio crescente desiderio finché non fu altro che un vago ruggito nella parte
posteriore della mia mente, e non parlai fino a quando io e Cassian non fummo quasi ol-
tre la porta di legno.
«C’è qualcos’altro che dovrei sapere, già che sono qui?» Picchiai gli stivali contro lo sti-
pite della porta per farne cadere la neve ed entrai in casa. Il tavolo della cucina era in mez-
zo alla stanza d’ingresso. Scacciai l’immagine di Feyre china su di esso.
Cassian fece un sospiro e chiuse la porta dietro di sé, poi ripiegò le ali e si appoggiò allo
stipite. «Il dissenso è in fermento. Con tutti i clan che si riuniscono per il Solstizio, avran-
no l’opportunità di diffonderlo ancora di più.»
Un guizzo del mio potere fece accendere un fuoco nel camino e il piccolo piano infe-
riore si riscaldò rapidamente. Era appena un alito di magia, eppure servì ad alleviare la
tensione quasi costante di dover tenere sotto controllo tutto ciò che ero, tutto quel potere
oscuro. Mi appoggiai a quel dannato tavolo e incrociai le braccia. «Ci siamo già occupati
di stronzate simili, in passato. Ce ne occuperemo di nuovo.»
Cassian scosse la testa; i capelli scuri, lunghi fino alle spalle, brillarono nella luce smor-
ta che entrava dalle finestre anteriori. «Non è più come prima. Allora ce l’avevano con me,
te e Az per quello che siamo, per chi siamo. Ma questa volta... li abbiamo mandati a com-
battere. Ce li ho mandati io, Rhys. E ora non si lamentano solo quei coglioni di guerrie-
ri, ma anche le femmine. Credono che li abbiamo fatti marciare verso sud per vendicarci
di come siamo stati trattati da bambini; pensano che abbiamo messo apposta in prima li-
nea alcuni dei maschi come vendetta.»
Non andava bene. Non andava bene per niente. «Dovremo affrontare la situazione con
delicatezza, allora. Scopri da dove viene questo veleno ed eliminalo... pacificamente» preci-
sai, quando inarcò le sopracciglia. «Non possiamo uscire da questa faccenda ammazzan-
do gente a destra e a manca.»
Cassian si grattò la mascella. «No, non possiamo.» Non sarebbe stato come dare la cac-
cia a quelle bande di guerrieri farabutti che avevano terrorizzato chiunque si trovasse sul
loro cammino. No, per niente.
Vidi che scrutava la casa in penombra, il fuoco che scoppiettava nel focolare, su cui ave-
vamo visto mia madre cucinare tanti pasti durante il nostro addestramento. Un dolore an-
tico e familiare mi riempì il petto. Ogni punto di quella casa era colmo di passato. «Molti
di loro stanno arrivando per il Solstizio» proseguì. «Posso restare qui io, tenere d’occhio
la situazione. Magari distribuire regali ai bambini, ad alcune mogli. Cose di cui hanno ve-
ramente bisogno, ma che non chiedono per orgoglio.»
Era un’ottima idea. Ma... «Può aspettare. Ti voglio a casa per il Solstizio.»
«A me non importa...»
«Ti voglio a casa. A Velaris» aggiunsi quando aprì bocca per vomitare qualche stronzata
lealista Illyrian a cui credeva ancora, anche dopo che lo avevano trattato per tutta la vita
come se valesse meno di niente. «Passeremo il Solstizio insieme. Tutti noi.»
Anche se, per ottenerlo, avessi dovuto impartire un ordine preciso come Signore Supremo.
Cassian inclinò la testa. «Che cosa ti rode?»
«Niente.»
Per come stavano andando le cose, avevo poco di cui lamentarmi. Fare sesso regolar-
mente con la mia Metà non era esattamente un problema urgente. E non riguardava nes-
suno tranne noi.
«Sei un attimino teso, Rhys?»
Ovviamente non si era fatto ingannare.
Sospirai, aggrottai la fronte e fissai l’antico soffitto macchiato di fuliggine. In quella casa
avevamo celebrato anche il Solstizio. Mia madre aveva sempre regali per Azriel e Cassian.
Per Cassian, il primo Solstizio che avevamo condiviso lì era stata la prima volta in assolu-
to in cui aveva ricevuto un regalo qualsiasi. Potevo ancora vedere le lacrime che Cassian
aveva cercato di nascondere mentre apriva i regali, e le lacrime negli occhi di mia madre
mentre lo guardava. «Vorrei passare direttamente alla prossima settimana.»
«Sicuro di non poterlo chiedere al tuo potere?»
Gli lanciai uno sguardo pungente. Cassian si limitò a rivolgermi un sorrisetto arrogante.
Non smettevo mai di provare gratitudine per loro: i miei amici, la mia famiglia, che ve-
devano quel mio potere e non si tiravano indietro, non odoravano di paura. Sì, a volte po-
tevo spaventarli a morte, ma ci spaventavamo tutti l’un l’altro. Cassian mi aveva terrorizza-
to più volte di quante volessi ammettere, e una era stata solo pochi mesi prima.
Due volte. Era successo due volte, nel giro di poche settimane.
Vedevo ancora Azriel che lo trascinava fuori dal campo di battaglia, con il sangue che
gli colava lungo le gambe, nel fango, con quella ferita simile a delle fauci spalancate al
centro del corpo.
E lo vedevo ancora come l’aveva visto Feyre, dopo che mi aveva lasciato entrare nella sua
mente per rivelare che cosa fosse successo esattamente tra le sue sorelle e il re di Hybern.
Vedevo ancora Cassian, a terra, a pezzi e sanguinante, che implorava Nesta di correre via.
Cassian non mi aveva ancora parlato di quello che era successo in quei momenti. Di Nesta.
Cassian e la sorella della mia Metà non si rivolgevano la parola.
Nesta si era segregata in un appartamento squallido al di là della Sidra e rifiutava di in-
teragire con tutti noi, a parte una breve visita a Feyre ogni mese.
Avrei dovuto trovare una soluzione anche a quel problema.
Vedevo quanto quella cosa tormentasse Feyre. La tranquillizzavo ancora quando si sve-
gliava, agitatissima, dagli incubi in cui riviveva quel giorno a Hybern, quando le sue sorelle
erano state Create contro la loro volontà. Incubi sul momento in cui Cassian era stato vicino
alla morte e Nesta si era sdraiata su di lui, proteggendolo dal colpo mortale, e sul momen-
to in cui Elain – Elain – aveva afferrato il pugnale di Azriel e aveva ucciso il re di Hybern.
Mi strofinai la fronte col pollice e l’indice. «È dura, adesso. Siamo tutti impegnati, stia-
mo tutti cercando di far funzionare le cose.» Io, Az e Cassian avevamo rimandato anco-
ra una volta i nostri cinque giorni annuali di caccia al rifugio, quell’autunno. Rimandati
all’anno successivo, di nuovo. «Torna a casa per il Solstizio, e potremo metterci tranquilli
a studiare un piano per la primavera.»
«Sembra un evento festivo.»
Con la mia Corte dei Sogni, lo era sempre.
Ma mi costrinsi a chiedere: «Devlon è uno degli aspiranti ribelli?».
Pregavo che non fosse vero. Mi disturbavano i suoi atteggiamenti da maschio e le sue
idee arretrate, ma si era comportato correttamente con me, Cassian e Azriel quando erava-
mo ai suoi ordini. Ci aveva riconosciuto gli stessi diritti dei guerrieri Illyrian purosangue.
Lo faceva ancora per tutti i bastardi sotto il suo comando. Erano le sue assurde idee sulle
donne che mi facevano venire voglia di strozzarlo. Di nebulizzarlo. Ma, se avessi dovuto
sostituirlo, solo la Madre sapeva chi avrebbe preso il suo posto.
Cassian scosse la testa. «Non credo. Devlon interrompe qualsiasi discorso del genere.
Ma serve solo a farli diventare più riservati, il che rende più difficile scoprire chi sta dif-
fondendo queste stronzate.»
Annuii e mi alzai in piedi. Dovevo andare a Cesere e parlare con le due sacerdotesse so-
pravvissute alla strage di Hybern l’anno prima; dovevamo decidere che cosa fare dei pel-
legrini che volevano andare lì dall’esterno del nostro territorio. Arrivare in ritardo non mi
avrebbe aiutato a convincerle a rimandare fino alla primavera. «Tienilo d’occhio per i pros-
simi giorni, poi torna a casa. Ti voglio lì due notti prima del Solstizio. E il giorno dopo.»
Un accenno di sorriso malizioso. «Presumo che continueremo la nostra tradizione del
giorno del Solstizio, allora. Anche se adesso sei un maschio tutto adulto e accoppiato.»
Gli feci l’occhiolino. «Non vorrei che voi piccoli Illyrian sentiste la mia mancanza.»
Cassian ridacchiò. In effetti c’erano alcune tradizioni del Solstizio che non diventavano
mai noiose, anche dopo secoli. Ero quasi alla porta quando Cassian disse: «E...». Deglutì.
Gli risparmiai il tentativo di mascherare il suo interesse. «Entrambe le sorelle saranno a
casa. Che lo vogliano o no.»
«Nesta renderà le cose sgradevoli, se decide di non volerci venire.»
«Ci sarà» dissi, digrignando i denti «e si comporterà bene. Lo deve a Feyre.»
Gli occhi di Cassian lampeggiarono. «Come sta?»
Non ci ricamai sopra. «Nesta è Nesta. Fa quello che vuole, anche quando ferisce sua
sorella. Le ho offerto un lavoro dopo l’altro, e lei li rifiuta tutti.» Feci un verso esasperato.
«Forse potrai inculcarle un po’ di buon senso, durante il Solstizio.»
I Sifoni di Cassian gli scintillarono sulle mani. «Probabilmente finirebbe in rissa.»
Verissimo. «Allora non dirle una parola. Non mi importa, ma tienine fuori Feyre. È an-
che la sua giornata.»
Perché quel Solstizio... era anche il suo compleanno. Avrebbe compiuto ventun anni.
Per un momento mi colpì l’esiguità di quel numero.
La mia bella, forte, fiera Metà, incatenata a me...
«So che cosa significa quello sguardo, bastardo» disse brutalmente Cassian «ed è una
stronzata. Ti ama, e non ho mai visto nessuno amare così tanto qualcun altro.»
«A volte è difficile» ammisi, fissando il campo innevato fuori dalla casa, i recinti di ad-
destramento e le abitazioni più in là, «ricordare che è stata una sua scelta. Che lei ha scel-
to me. Che non è come i miei genitori, spinti insieme a forza.»
Cassian fece un’espressione insolitamente solenne, e rimase in silenzio per un momento
prima di dire: «A volte divento geloso. Non potrei mai avercela con te per la tua felicità,
ma quello che avete voi due, Rhys...». Si passò una mano tra i capelli e il suo Sifone cre-
misi brillò nella luce che filtrava dalla finestra. «Tutte quelle leggende, quelle bugie che ci
raccontano quando siamo bambini. Su com’è gloriosa e meravigliosa l’Unione delle Metà.
Pensavo che fossero tutte stronzate. Poi siete arrivati voi due.»
«Sta per compiere ventun anni. Ventuno, Cassian.»
«E allora? Tua madre aveva diciotto anni contro i novecento di tuo padre.»
«Ed era infelice.»
«Feyre non è tua madre. E tu non sei tuo padre.» Mi studiò. «A che cosa è dovuto tut-
to questo, comunque? Non vanno bene le cose tra voi?»
Il contrario, in realtà. «Ho questa sensazione...» dissi, spostandomi di un passo; le anti-
che assi del pavimento in legno mi scricchiolavano sotto gli stivali, il mio potere era come
una cosa viva che vagava e si torceva nelle mie vene, «che sia tutto una specie di burla.
Una sorta di trucco cosmico, e che nessuno, proprio nessuno, possa essere così felice sen-
za doverla pagare.»
«L’hai pagata in anticipo, Rhys. L’avete pagata tutti e due. Abbondantemente.»
Agitai una mano. «È solo che...» Ma non riuscivo ad andare avanti.
Cassian mi fissò per un lungo momento.
Poi mi venne vicino e mi strinse in un abbraccio così forte che riuscivo a malapena a re-
spirare. «Ce l’hai fatta. Ce l’abbiamo fatta. Entrambi avete sopportato tanto che nessuno vi
biasimerebbe se vi allontanaste danzando nel tramonto come Miryam e Drakon e non vi
preoccupaste più di nient’altro. E invece vi preoccupate ancora, e vi state ancora dando da
fare per far durare questa pace. Pace, Rhys. Abbiamo la pace, quella vera. Goditela, e go-
detevi lo stare insieme. Avete ripagato il debito prima ancora che esistesse.»
Mi si chiuse la gola e lo strinsi forte attorno alle ali; le scaglie delle pelli che indossava mi
si piantarono nelle dita. «E tu?» chiesi dopo un momento, tirandomi indietro. «Sei... felice?»
Ombre oscurarono i suoi occhi nocciola. «Ci sto lavorando.»
Una risposta tiepida.
Mi sarei dovuto dare da fare anche in quella direzione. Forse c’erano fili da tirare o da
intrecciare.
Cassian mi indicò la porta con il mento. «Vai, bastardo. Ci vediamo fra tre giorni.»
Annuii e finalmente aprii la porta. Ma mi fermai sulla soglia. «Grazie, fratello.»
Il sorriso storto di Cassian era luminoso, anche se aveva ancora quelle ombre sugli oc-
chi. «È un onore, mio signore.»
CASSIAN
C assian non era totalmente sicuro di poter trattare con Devlon e i suoi guerrieri senza
strozzarli. Non per un’ora abbondante o giù di lì, perlomeno.
E, visto che strozzarli non avrebbe contribuito a placare il malcontento, Cassian aspettò
che Rhys trasmutasse nella neve e nel vento prima di sparire a sua volta.
Non trasmutò, anche se sarebbe stata un’arma fantastica contro i nemici in battaglia. Ave-
va visto Rhys farlo, con risultati devastanti. Anche Az, che aveva un suo strano modo di
spostarsi nel mondo senza tecnicamente trasmutare.
Non gli aveva mai chiesto niente, e di certo Azriel non l’aveva mai spiegato.
Ma a Cassian andava benissimo il suo metodo di movimento personale: il volo. Di sicu-
ro gli era stato utile in combattimento.
Uscì dalla porta principale dell’antica casa di legno in modo che lo potessero vede-
re Devlon e quegli altri cazzoni nei recinti di allenamento e poi si stirò per bene. Pri-
ma le braccia, ben sviluppate... e ancora doloranti perché aveva preso a pugni alcune fac-
ce Illyrian. Poi le ali, più ampie e larghe delle loro. Ce l’avevano sempre avuta con lui per
quello, forse più che per tutto il resto. Le allargò finché la tensione lungo i potenti muscoli
e i tendini non divenne un piacevole bruciore; le ali proiettavano lunghe ombre sulla neve.
E solo allora, battendole poderosamente, scattò nei cieli grigi.
Il vento gli ruggiva tutto attorno, la temperatura era così bassa da fargli lacrimare gli
occhi. Tonificante, liberatoria. Salì più in alto e poi virò a sinistra, puntando verso le vet-
te dietro il passo. Non era necessario fare un giro di avvertimento su Devlon e sui cam-
pi di addestramento.
Ignorarli, trasmettere il messaggio che non erano così importanti da costituire una minac-
cia, erano modi perfetti per farli infuriare. Glielo aveva insegnato Rhys. Molto tempo prima.
Catturando una corrente ascensionale che lo mandò a librarsi sulle vette più vicine e poi
nell’infinito labirinto di montagne innevate che rappresentavano la loro patria, Cassian
fece un respiro profondo. Gli indumenti di cuoio da volo e i guanti gli tenevano abbastan-
za caldo, ma le ali erano esposte al vento gelido... Il freddo era tagliente come un coltello.
Poteva proteggersi con i suoi Sifoni, l’aveva già fatto in passato. Ma, quella mattina, de-
siderava quel freddo pungente.
Soprattutto tenendo conto di quello che avrebbe fatto. Del luogo in cui stava andando.
Avrebbe riconosciuto la via anche se fosse stato bendato; gli sarebbe bastato ascoltare il
suono del vento tra le montagne, inalare l’odore dei pini dalle cime sottostanti, dei cam-
pi di roccia brulla.
Andava lì di rado. Di solito lo faceva solo quando era probabile che il suo temperamen-
to avesse la meglio su di lui, e gli restava abbastanza autocontrollo da capire che aveva bi-
sogno di andarsene per qualche ora. Era andata così anche quel giorno.
In lontananza, piccole forme scure sfrecciavano nel cielo. Guerrieri di pattuglia. O forse
scorte armate che guidavano le famiglie alle riunioni del Solstizio.
I Fae Superiori, in gran parte, credevano che gli Illyrian fossero la minaccia peggiore su
quelle montagne.
Non sapevano che, tra le vette, si aggiravano furtivamente esseri molto più pericolosi.
Alcuni di loro cacciavano trasportati dai venti, altri strisciavano fuori da profonde caver-
ne nelle rocce stesse.
Feyre era stata così coraggiosa da affrontare alcuni di quegli esseri nelle pinete delle
Steppe. Per salvare Rhys. Cassian si chiese se suo fratello le avesse mai detto che cosa vi-
veva su quelle montagne. La maggior parte dei mostri era stata uccisa dagli Illyrian o era
fuggita in quelle Steppe. Ma i più astuti di loro, i più antichi... erano riusciti a nasconder-
si. E nelle notti senza luna emergevano per nutrirsi.
Neanche cinque secoli di addestramento riuscirono a impedire che un brivido gli per-
corresse la spina dorsale, mentre osservava le montagne vuote e silenziose più in basso e
si chiedeva che cosa dormisse sotto la neve.
Virò verso nord, scacciando quel pensiero dalla mente. All’orizzonte prese forma una sa-
goma familiare, che diventava sempre più grande a ogni battito d’ali.
Ramiel. La montagna sacra.
Il cuore non solo dell’Illyria, ma di tutta la Corte della Notte.
Nessuno, tranne gli Illyrian, era autorizzato ad andare sui suoi pendii brulli e rocciosi, e
anche loro potevano farlo soltanto una volta all’anno. Durante il Rito di Sangue.
Cassian volò in quella direzione, incapace di resistere all’antico richiamo di Ramiel. Di-
versa: la montagna era così diversa dall’arida, terribile presenza della vetta solitaria al cen-
tro di Prythian. Ramiel gli era sempre sembrata viva. Sveglia e vigile.
Ci aveva messo piede solo una volta, nell’ultimo giorno del Rito, quando lui e i suoi fra-
telli – insanguinati e malconci – ne avevano scalato le pendici per raggiungere il monolite di
onice sulla sua sommità. Poteva ancora sentire la roccia che gli si sgretolava sotto gli stivali,
udire il rantolo del suo respiro mentre quasi trascinava Rhys su per i pendii, con Azriel che
copriva loro le spalle. I tre avevano toccato la pietra nello stesso momento; erano stati i primi
a raggiungere la vetta al termine di quella settimana brutale. Erano stati i vincitori indiscussi.
Il Rito non era cambiato nel corso dei secoli successivi. Si svolgeva ancora all’inizio di
ogni primavera: centinaia di guerrieri novizi venivano sguinzagliate tra le montagne e le
foreste che circondavano la vetta. Durante il resto dell’anno l’accesso a quel territorio era
proibito, per impedire che qualcuno dei novizi andasse a cercare i percorsi migliori e i pun-
ti in cui piazzare trappole. C’erano varie prove di qualificazione durante l’anno per capire
quali novizi erano pronti, e ogni campo aveva le sue prove, leggermente diverse da quel-
le degli altri. Ma le regole del Rito restavano le stesse per tutti.
I novizi gareggiavano con le ali legate, senza alcun Sifone – veniva attivato un incante-
simo che bloccava ogni magia – e senza alcuna scorta, solo gli indumenti che portavano
addosso. L’obiettivo: arrivare in cima a quella montagna entro la fine della settimana e toc-
care la pietra. Gli ostacoli: le distanze, le trappole naturali e gli altri partecipanti. Vecchie
faide giungevano a conclusione e ne nascevano di nuove. Si saldavano i conti.
Una settimana di inutile spargimento di sangue, insisteva Az.
Rhys era spesso d’accordo, ma altrettanto spesso concordava con Cassian: il Rito di San-
gue offriva una valvola di sfogo per le pericolose tensioni all’interno della comunità Il-
lyrian. Meglio sfogarle durante il Rito che rischiare la guerra civile.
Gli Illyrian erano forti, orgogliosi, senza paura. Ma non erano certo custodi della pace.
Forse sarebbe stato fortunato. Forse il Rito di quella primavera avrebbe placato una par-
te del malcontento. Diavolo, si sarebbe offerto di partecipare lui stesso, se fosse servito a
silenziare i brontolii.
Erano sopravvissuti a malapena a quella guerra. Non avevano proprio bisogno di un’al-
tra. Non con tanti estranei che si radunavano all’esterno dei loro confini.
Ramiel svettava ancora più in alto, un frammento di pietra che perforava il cielo grigio.
Bella e solitaria. Eterna e senza età.
Non c’era da stupirsi che il primo sovrano della Corte della Notte ne avesse fatto la sua
insegna. Insieme alle tre stelle che apparivano solo per un breve periodo ogni anno e che
incorniciavano la vetta più alta di Ramiel come una corona. Era durante quel periodo che
si svolgeva il Rito. Se fosse nata prima l’insegna o il rito, Cassian non lo sapeva. Non gli
era mai importato scoprirlo.
Le foreste di conifere e i burroni che punteggiavano il paesaggio ai piedi di Ramiel bril-
lavano sotto la neve fresca. Era tutto vuoto e pulito. Nessun indizio dello spargimento di
sangue che si sarebbe verificato all’inizio della primavera.
La montagna si avvicinava, potente e sconfinata, così vasta che lui, in confronto, sem-
brava un’effimera nel vento. Cassian volò verso la parete meridionale di Ramiel e salì ab-
bastanza in alto da intravedere la lucente pietra nera che si ergeva sulla vetta.
Non sapeva nemmeno chi avesse messo lì quella pietra. Secondo la leggenda, esisteva
già prima che si formasse la Corte della Notte, prima che gli Illyrian migrassero dai Mir-
midoni, prima ancora che gli umani camminassero sulla Terra. Anche con la neve fresca
che copriva Ramiel, nessuno aveva toccato il pilastro di pietra.
Un brivido, gelido eppure non sgradevole, gli percorse le vene.
Era raro che qualcuno, durante il Rito di Sangue, riuscisse a raggiungere il monolite. Da
quando l’avevano fatto lui e i suoi fratelli, cinque secoli prima, Cassian ricordava solo una
dozzina di persone circa che non solo avevano raggiunto la montagna, ma erano anche
sopravvissute alla scalata. Dopo una settimana di combattimenti, di corse, di ricerca del
cibo e fabbricazione delle proprie armi, quella scalata era peggio di tutti gli orrori prece-
denti. Era la vera prova di volontà, di coraggio. Arrampicarsi quando non si avevano più
forze; arrampicarsi quando il corpo implorava di fermarsi... Era lì che di solito si crollava.
Ma quando aveva toccato il monolite di onice, quando aveva sentito quell’antica for-
za cantargli nel sangue e nel battito del cuore prima di riportarlo al sicuro al campo di
Devlon... Ne era valsa la pena. Pur di sentirla.
Dopo aver chinato solennemente la testa in direzione di Ramiel e della pietra viva sul-
la cima, Cassian colse un altro vento veloce e si librò verso sud.
Un’ora di volo lo fece avvicinare a un’altra vetta familiare.
Una a cui non si avvicinava nessuno, a parte lui e i suoi fratelli. Ciò che aveva tanto de-
siderato vedere e sentire, quel giorno.
Lì, un tempo, c’era stato un campo pieno di attività, come quello di Devlon.
Un tempo. Prima che nascesse un bastardo in una gelida tenda solitaria ai margini del vil-
laggio. Prima che scagliassero nella neve una giovane madre non sposata, solo pochi gior-
ni dopo il parto, con il suo bambino tra le braccia. E prima che riprendessero quel bam-
bino, pochi anni dopo, e lo gettassero nel fango al campo di Devlon.
Cassian atterrò sul tratto pianeggiante del passo di montagna; i cumuli di neve erano
più alti che a Rifugio dal Vento. Nascondevano ogni traccia del villaggio che un tempo
sorgeva lì.
Comunque di quel villaggio rimanevano solo cenere e detriti.
Se ne era assicurato.
Dopo che lui aveva affrontato i responsabili delle sofferenze e dei tormenti di sua ma-
dre, nessuno era voluto restare lì un minuto di più. Non con i frammenti di ossa e il san-
gue che ricoprivano ogni superficie, che imbrattavano ogni campo e ogni area di adde-
stramento. E quindi erano emigrati; alcuni si erano uniti ad altri campi, altri si erano rifatti
una vita altrove. Nessuno era mai tornato.
Secoli dopo, non se ne pentiva.
In piedi nella neve e al vento, mentre osservava il vuoto in cui era nato, Cassian non se
ne pentiva nemmeno per un istante.
Sua madre aveva sofferto in ogni momento della sua troppo breve vita. E le cose non
avevano fatto altro che peggiorare dopo averlo partorito. Soprattutto gli anni dopo che
lui era stato portato via.
E quando Cassian era stato abbastanza forte e abbastanza grande da tornare a cercar-
la, lei non c’era più.
Si erano rifiutati di dirgli dove era stata sepolta. Avevano rifiutato di dirgli se le aveva-
no almeno concesso quell’onore, o se avevano gettato il suo corpo a marcire in un bara-
tro ghiacciato.
Ancora non lo sapeva. Anche con i loro ultimi, rantolanti respiri, quelli che si erano assi-
curati che lei non conoscesse mai la felicità si erano rifiutati di dirglielo. Gli avevano spu-
tato in faccia e gli avevano raccontato ogni cosa orribile che le avevano fatto.
Avrebbe voluto seppellirla a Velaris. In un posto pieno di luce e calore, pieno di perso-
ne gentili. Lontano da quelle montagne.
Cassian esaminò il passo innevato. Aveva ricordi cupi di quel posto: fango e freddo e fuoche-
relli troppo piccoli. Ma riusciva a ricordare una voce dolce e cadenzata, mani gentili e snelle.
Era tutto ciò che gli rimaneva di lei.
Cassian si passò le mani tra i capelli e le dita si incastrarono nei nodi provocati dal vento.
Sapeva perché era andato lì, perché andava sempre lì. Anche se Amren lo derideva e di-
ceva che era un bruto Illyrian, lui conosceva la propria mente, il proprio cuore.
Devlon era un signore del campo più corretto degli altri. Ma per le femmine meno for-
tunate, prese di mira o scacciate, c’era ben poca pietà.
Quindi addestrare quelle donne, dare loro le risorse e la sicurezza necessarie per reagi-
re, per poter guardare oltre i loro fuochi da campo... era una cosa che faceva per lei. Per la
madre sepolta lì, o forse sepolta da nessuna parte. Perché non succedessero mai più cose
del genere. Perché il suo popolo, che amava ancora nonostante i tanti difetti, potesse un
giorno diventare qualcosa di più. Qualcosa di meglio.
La tomba anonima e ignota in quel passo era il suo promemoria.
Cassian rimase in silenzio per lunghi minuti prima di volgere lo sguardo verso ovest.
Come se potesse vedere fino a Velaris.
Rhys lo voleva a casa per il Solstizio, e lui avrebbe obbedito.
Anche se Nesta...
Nesta.
Persino nei suoi pensieri, quel nome risuonava dentro di lui, vuoto e freddo.
Non era il momento di pensare a lei. Non lì.
E, comunque, si concedeva molto raramente di pensare a lei. Di solito, in quei casi, non
finiva bene per chiunque fosse nel campo di addestramento con lui.
Mentre spalancava le ali, Cassian lanciò un’ultima occhiata al campo che aveva raso al
suolo. Rappresentava anche un altro promemoria: di che cosa era capace quando veniva
spinto troppo oltre.
Gli ricordava di fare attenzione, anche quando Devlon e gli altri gli facevano venire vo-
glia di urlare. Lui e Az erano gli Illyrian più potenti di tutta la loro lunga e sanguinosa
storia. Indossavano sette Sifoni ciascuno, una cosa senza precedenti, solo per poter gesti-
re le ondate di potere letale che possedevano. Era un dono, e un fardello insieme, che non
aveva mai preso alla leggera.
Tre giorni. Aveva tre giorni prima di dover andare a Velaris.
Avrebbe cercato di sfruttarli bene.
FEYRE
L ’Arcobaleno era un ronzio di attività, anche sotto la neve che continuava a cadere.
I Fae Superiori e i Fae entravano e uscivano dai vari negozi e studi; alcuni erano appol-
laiati sulle scale per appendere ghirlande di pino e agrifoglio tra i lampioni, altri spaz-
zavano mucchietti di neve dalle loro soglie, altri ancora – senza dubbio artisti – stavano
semplicemente in piedi sui ciottoli chiari e giravano su se stessi, con i visi sollevati verso
il cielo grigio e capelli, pelle e abiti coperti di fiocchi di neve.
Dopo avere schivato una di quelle persone in mezzo alla strada – una Fae con la pel-
le simile a onice scintillante e gli occhi come ammassi vorticosi di stelle – puntai verso la
facciata di una piccola e graziosa galleria, la cui vetrina rivelava un assortimento di dipin-
ti e ceramiche. Il posto perfetto per fare acquisti per il Solstizio. Una ghirlanda di sem-
preverdi era appesa alla porta azzurra dipinta di fresco, dal centro della quale pendevano
campanelle di ottone.
La porta: nuova. La vetrina: nuova.
Entrambe erano state spaccate e inzaccherate di sangue, mesi prima. E lo stesso valeva
per tutta la strada.
Faticavo a non guardare le pietre della strada spolverate di bianco, che scendevano ripi-
de fino alla serpeggiante Sidra. Il lungofiume, pieno di mecenati e artisti, dove mesi pri-
ma avevo evocato i lupi da quelle acque sonnolente. Allora il sangue scorreva sui ciottoli
e per le strade non c’erano stati canti e risate, ma urla e suppliche.
Inspirai forte dal naso e l’aria gelata mi solleticò le narici. Lasciai uscire il fiato lenta-
mente e lo guardai formare una nuvoletta davanti a me. Mi osservai nel riflesso della vetri-
na del negozio: ero a malapena riconoscibile nel mio pesante cappotto grigio, una sciarpa
rossa e grigia che avevo sgraffignato dall’armadio di Mor, gli occhi spalancati e distanti.
Un istante dopo mi resi conto che non ero l’unica a fissarmi.
All’interno della galleria, almeno cinque persone stavano facendo del loro meglio per
non guardarmi a bocca aperta mentre esaminavano la collezione di dipinti e ceramiche.
Mi avvamparono le guance, il cuore si mise a battere in modo discontinuo, feci un sor-
riso teso e poi proseguii.
Anche se un oggetto aveva attirato la mia attenzione. Anche se sarei voluta entrare.
Tenni le mani inguantate nelle tasche del cappotto mentre scendevo a grandi passi lun-
go la strada ripida, attenta a dove mettevo i piedi sui ciottoli scivolosi. C’erano tanti in-
cantesimi attivi su Velaris per mantenere caldi i palazzi, i caffè e le piazze durante l’inver-
no, ma sembrava che molti di essi fossero stati sospesi in occasione di quella prima neve,
come se tutti volessero sentirne il bacio gelido.
Io avevo affrontato coraggiosamente la camminata dalla casa di città, invece di trasmu-
tare o volare, non solo perché volevo respirare l’aria fredda e odorosa di neve, ma anche
per assorbire l’eccitazione scoppiettante di tutti quelli che si preparavano per il Solstizio.
Sebbene Rhys e Azriel mi istruissero ancora ogni volta che potevano, sebbene amassi
davvero volare, il pensiero di esporre al freddo le mie ali sensibili mi faceva rabbrividire.
Poche persone mi riconobbero mentre passavo; trattenevo saldamente dentro di me il
mio potere, e comunque la maggior parte della gente era troppo occupata a mettere deco-
razioni o a godersi la prima neve per notare gli altri.
Una piccola grazia, anche se certo non mi dispiaceva essere avvicinata. In quanto Signo-
ra Suprema, ogni settimana tenevo udienze pubbliche alla Casa del Vento, insieme a Rhys.
Le richieste andavano dalle cose più piccole – un lampione di luce Fae che si era rotto –
a quelle complicate: “per favore, è possibile smettere di importare merci da altre corti, vi-
sto che questo danneggia gli artigiani locali?”.
Alcuni erano problemi che Rhys affrontava ormai da secoli, ma non lo dava mai a vedere.
No: ascoltava ogni postulante, poneva domande approfondite e poi lo congedava con
la promessa di inviare una risposta al più presto. Mi ci erano volute alcune udienze per
capire bene le domande che faceva, il modo in cui ascoltava. Non mi aveva spinta a inter-
venire a meno che non fosse necessario, mi aveva concesso lo spazio per capire il ritmo e
lo stile di quelle udienze e iniziare a fare domande per conto mio. E poi iniziare a scrive-
re anche le risposte ai postulanti. Rhys replicava personalmente a ognuno di loro. E or-
mai lo facevo anch’io.
Ecco il motivo delle pile di scartoffie – sempre in aumento – in tante stanze della casa
di città.
Non avevo idea di come avesse potuto gestirle così a lungo senza una squadra di segre-
tari ad assisterlo.
Ma mentre scendevo lungo la strada ripida, con gli edifici colorati dell’Arcobaleno che bril-
lavano intorno a me come un luccicante ricordo dell’estate, riflettei di nuovo sull’argomento.
Velaris non era affatto povera, la maggior parte della sua popolazione stava bene, gli edi-
fici e le strade erano ben tenuti. Mia sorella, a quanto pareva, era riuscita a trovare la cosa
più simile ai bassifondi che esistesse lì. E insisteva per viverci, in un edificio più vecchio
di Rhys e che aveva un bisogno disperato di riparazioni.
In città c’erano solo pochi isolati in quelle condizioni. Quando avevo chiesto a Rhys
perché non vi si era posto rimedio, si era limitato a dirmi che ci aveva provato. Ma sfollare
le persone mentre le loro case venivano demolite e ricostruite... era una faccenda delicata.
Non ero rimasta sorpresa, due giorni prima, quando Rhys mi aveva consegnato un fo-
glio e mi aveva chiesto se avrei voluto aggiungere qualcos’altro. Sul foglio c’era un elenco
di organizzazioni di beneficenza a cui faceva donazioni attorno al Solstizio. C’era di tut-
to: dall’aiuto ai poveri, ai malati e agli anziani fino alle sovvenzioni alle giovani madri per-
ché potessero avviare una loro attività. Avevo aggiunto solo due voci, entrambe organiz-
zazioni di cui avevo sentito parlare mentre facevo volontariato: donazioni agli umani che
erano stati sfollati durante la guerra contro Hybern, nonché alle vedove di guerra Illyrian
e alle loro famiglie. Le somme che stavamo stanziando erano considerevoli, più denaro di
quanto avessi mai sognato di possedere.
Un tempo non desideravo altro che cibo a sufficienza, un po’ di denaro e il tempo per
poter dipingere. Niente di più. Mi sarebbe andato benissimo se le mie sorelle si fossero
sposate e io fossi rimasta a prendermi cura di mio padre.
E invece, oltre ad avere la mia Metà, la mia famiglia, oltre a essere Signora Suprema, c’e-
ra il semplice fatto che vivevo lì, che potevo attraversare un intero quartiere di artisti ogni
volta che lo desideravo...
Un altro viale incrociava la strada a metà del pendio e io lo imboccai. In mezzo alla neve,
le file ordinate di case, gallerie e studi seguivano la sua curva. Ma anche tra i colori acce-
si c’erano macchie di grigio, di vuoto.
Mi avvicinai a uno di quei punti, un edificio semidiroccato. Il colore verde menta dei
muri era diventato grigiastro, come se la luce stessa si fosse ritirata dal colore quando l’e-
dificio era stato fatto a pezzi. Anche alcune costruzioni lì attorno erano silenziose e cre-
pate, e una galleria sull’altro lato della strada era sbarrata da assi.
Qualche mese prima avevo iniziato a donare una parte del mio stipendio mensile – l’i-
dea di ricevere una cosa del genere mi sembrava ancora assolutamente ridicola – per ri-
costruire l’Arcobaleno e aiutare i suoi artisti, ma le cicatrici c’erano ancora, sia sugli edi-
fici sia sui loro residenti.
E poi c’era il cumulo di macerie coperte di neve davanti a me: chi ci aveva abitato, chi ci
aveva lavorato? Erano ancora vivi o erano stati trucidati durante l’attacco?
C’erano molti posti così a Velaris. Li avevo visti mentre lavoravo, mentre distribuivo cap-
potti invernali e facevo visita alle famiglie nelle loro case.
Buttai fuori il fiato di nuovo. Sapevo che mi soffermavo troppo spesso e troppo a lungo
in punti simili. Sapevo che avrei dovuto proseguire, sorridere come se nulla mi disturbas-
se, come se tutto andasse bene. Eppure...
«Sono usciti in tempo» disse una voce femminile dietro di me.
Mi voltai, con gli stivali che slittavano sull’acciottolato scivoloso. Allungai un braccio
per riprendere l’equilibrio e mi aggrappai alla prima cosa con cui venni a contatto: un pez-
zo di pietra caduto dalla casa distrutta.
Ma vedere chi c’era dietro di me, a guardare le macerie, mi fece dimenticare ogni imbarazzo.
Nei mesi trascorsi dall’attacco, non l’avevo dimenticata.
Non avevo dimenticato il momento in cui l’avevo vista fuori dal negozio, con un tubo ar-
rugginito sollevato su una spalla, pronta ad affrontare il gruppo di soldati di Hybern, pronta
a sferrare colpi con quel tubo per difendere le persone terrorizzate rannicchiate lì dentro.
Una tenue e graziosa sfumatura rosata le brillava sulla pelle verde chiaro, e i capelli neri
le scendevano fin sotto il petto. La proteggevano dal freddo un cappotto marrone, una
sciarpa rosa avvolta intorno al collo e alla metà inferiore del viso, ma mentre incrociava le
braccia vidi che le dita lunghe e delicate non portavano guanti.
Era una Fae, ma di un tipo che non avevo visto spesso. Il suo viso e il suo corpo mi ri-
cordavano i Fae Superiori, anche se aveva le orecchie più sottili e più lunghe delle mie.
Aveva una forma più snella e più slanciata; lo vedevo nonostante il cappotto pesante.
Incrociai il suo sguardo – gli occhi erano di un ocra vibrante che mi fece chiedere qua-
li colori avrei dovuto mescolare per rendere quella sfumatura – e le feci un sorrisino. «Mi
fa piacere.»
Calò il silenzio, interrotto dal canto allegro di alcune persone per strada e dal vento
che soffiava dalla Sidra.
La Fae si limitò a inclinare la testa. «Signora.»
Cercai qualcosa da dire, qualcosa di adatto a una Signora Suprema e tuttavia amichevo-
le, e non trovai niente. Avevo la mente così vuota che mi uscì di bocca: «Sta nevicando».
Come se quella roba bianca che scendeva dal cielo potesse essere qualcos’altro.
La donna inclinò di nuovo la testa. «Già.» Sorrise al cielo, mentre i fiocchi di neve si
posavano sui capelli neri come l’inchiostro. «Ed è proprio bella, come prima nevicata.»
Studiai le rovine dietro di me. «Tu... conosci le persone che abitavano qui?»
«Sì. Adesso vivono nella fattoria di un parente, in pianura.» Agitò una mano verso la
piatta distesa di terra tra Velaris e la lontana riva del mare.
«Ah» riuscii a dire, poi indicai con il mento il negozio sbarrato sull’altro lato della stra-
da. «E quello?»
Lei guardò il punto che indicavo. Strinse le labbra, dipinte di un rosa-bacca. «Lì non
c’è stato un lieto fine, temo.»
Mi sudarono i palmi dentro i guanti di lana. «Capisco.»
Si voltò di nuovo verso di me e i capelli di seta ondeggiarono. «Si chiamava Polina.
Quella era la sua galleria. Lo era stata per secoli.»
Ormai era un guscio scuro e silenzioso.
«Mi dispiace» dissi, incerta su cos’altro dire.
Le sopracciglia sottili e scure della femmina si aggrottarono. «Perché dovresti essere di-
spiaciuta?» E poi aggiunse: «Mia signora».
Mi mordicchiai un labbro. Discutere di quelle cose con estranei... forse non era una buo-
na idea. Quindi ignorai la sua domanda e le chiesi: «Aveva una famiglia?». Speravo che al-
meno loro ce l’avessero fatta.
«Anche loro vivono in pianura. Sua sorella e tutti i nipoti.» La creatura studiò di nuo-
vo la facciata sbarrata. «È in vendita, adesso.»
Sbattei le palpebre, comprendendo la proposta implicita. «Oh, ma... non lo stavo chie-
dendo per questo motivo.» Non mi era nemmeno passato per la mente.
«Perché no?»
Una domanda franca e facile. Forse più diretta di quanto la maggior parte delle persone
osasse essere con me, soprattutto gli estranei. «Io... che cosa me ne potrei fare?»
Mi fece un gesto aggraziato con una mano. «Si dice che tu sia una brava artista. Mi ven-
gono in mente molti possibili usi.»
Distolsi lo sguardo, odiandomi un po’ per quello. «Non sono introdotta nel settore, temo.»
La Fae sollevò una spalla. «Be’, che tu lo sia o no, non è necessario che giri qui attor-
no furtivamente. Ogni porta è aperta per te, sai.»
«Come Signora Suprema?» osai chiedere.
«Come una di noi» rispose semplicemente.
Le parole si assestarono dentro di me; in modo strano ma, allo stesso tempo, come un
pezzo della cui assenza non mi ero accorta. Mi era stata tesa una mano, e non mi ero resa
conto di quanto volessi afferrarla.
«Io sono Feyre» dissi, togliendomi il guanto e allungando il braccio.
La Fae mi strinse le dita; aveva una presa forte come l’acciaio, nonostante la corporatu-
ra snella. «Ressina.» Non era una persona incline a sorridere eccessivamente, ma comun-
que sembrava piena di un calore pragmatico.
Le campane di mezzogiorno suonarono in una torre ai margini dell’Arcobaleno, e su-
bito il suono fu ripreso in tutta la città dalle altre torri.
«Dovrei andare» dissi, lasciando la mano di Ressina e indietreggiando di un passo.
«Mi ha fatto piacere conoscerti.» Mi rimisi il guanto; le dita già bruciavano per il fred-
do. Forse quell’inverno avrei dovuto dedicare un po’ di tempo a padroneggiare meglio
i miei poteri del fuoco. Sarebbe stato molto utile imparare a scaldarmi i vestiti e la pel-
le senza bruciarmi.
Ressina mi indicò un edificio lungo la strada, sull’altro lato dell’incrocio da cui ero ap-
pena passata. Era lo stesso edificio che aveva difeso, con le pareti dipinte di rosa lampone
e le porte e le finestre di un turchese brillante, come l’acqua attorno a Adriata. «Sono una
degli artisti che usano lo spazio in quello studio. Se mai volessi una guida, o anche solo
un po’ di compagnia, sono lì quasi tutti i giorni. Vivo sopra lo studio.» Un elegante cen-
no della mano verso le minuscole finestre rotonde al primo piano.
Mi posai una mano sul petto. «Grazie.»
Di nuovo silenzio, e io guardai quel negozio, la porta davanti a cui si era piazzata Res-
sina, per difendere la sua casa e le case di altri.
«Lo ricordiamo, sai» disse sottovoce Ressina, facendomi distogliere lo sguardo. Ma la sua
attenzione si era rivolta alle macerie dietro di noi, allo studio sbarrato, alla strada, come se
anche lei potesse vedere – attraverso la neve – il sangue che era colato tra i ciottoli. «Ri-
cordiamo che quel giorno sei venuta ad aiutarci.»
Non sapevo che cosa fare del mio corpo, delle mie mani, quindi optai per l’immobilità.
Finalmente Ressina incrociò il mio sguardo, e gli occhi color ocra erano luminosi. «Ci
teniamo a distanza per lasciarti il tuo spazio, ma non pensare neanche per un momento
che qualcuno di noi non lo sappia e non lo ricordi, che non ti sia grato di essere venuta
qui e avere combattuto per noi.»
Non era stato sufficiente, però. L’edificio in rovina dietro di me ne era la prova. Parec-
chie persone erano comunque morte.
Ressina fece qualche passo verso il suo studio, senza fretta, poi si fermò. «Abbiamo un
gruppo che dipinge insieme, nel mio studio. Una sera alla settimana. Ci incontreremo tra
due giorni. Sarebbe un onore se volessi unirti a noi.»
«Che genere di cose dipingi?» La mia domanda era sommessa come la neve che ci ca-
deva attorno.
Ressina fece un sorrisino. «Le cose che devono essere raccontate.»
Anche se la gelida sera era scesa presto su Velaris, le strade erano piene di persone; alcu-
ne erano cariche di borse e di scatole, alcune trasportavano a fatica enormi cesti di frutta
presi in una delle tante bancarelle che occupavano i due Palazzi.
Con il cappuccio foderato di pelliccia che mi proteggeva dal freddo, esaminai i carrelli dei
venditori e le vetrine dei negozi nel Palazzo del Filo e dei Gioielli, soprattutto le vetrine.
Alcune delle aree pubbliche erano ancora riscaldate, ma buona parte di Velaris era stata
temporaneamente esposta al vento pungente e mi dispiacque non essermi messa un ma-
glione più pesante, quella mattina. Imparare a riscaldarmi senza evocare una fiamma sa-
rebbe stato davvero utile. Se mai avessi avuto il tempo per farlo.
Stavo tornando a guardare la vetrina di uno dei negozi costruiti sotto gli aggetti degli
edifici quando un braccio si allacciò al mio e Mor disse, con voce strascicata: «Amren ti
amerebbe per sempre se le comprassi uno zaffiro così grande».
Risi e tirai indietro il cappuccio per poterla vedere bene. Le guance di Mor erano arros-
sate dal freddo, e le trecce dorate scendevano sulla pelliccia bianca che bordava il suo man-
tello. «Purtroppo, non credo che le nostre casse ci amerebbero altrettanto.»
Mor fece un sorrisetto compiaciuto. «Lo sai che siamo facoltosi, vero? Potresti riempi-
re una vasca da bagno con quei cosi» indicò col mento lo zaffiro, delle dimensioni di un
uovo, nella vetrina della gioielleria «e intaccare appena i nostri conti.»
Lo sapevo. Avevo visto gli elenchi dei beni. Non riuscivo ancora a comprendere l’enormi-
tà della ricchezza di Rhys. Della mia ricchezza. Quei numeri, quelle cifre non sembravano
reali. Come se fossero soldi giocattolo, per i bambini. Compravo solo quello che mi serviva.
Ma in quel momento... «Sto cercando qualcosa da prenderle per il Solstizio.»
Mor esaminò la fila di gemme nella vetrina, da quelle grezze a quelle incastonate. Alcune bril-
lavano come stelle cadute. Altre ardevano senza fiamma, come se fossero state sottratte al cuo-
re infuocato della Terra. «In effetti Amren merita un regalo decente quest’anno, non è vero?»
Dopo quello che aveva fatto per distruggere gli eserciti di Hybern durante quella batta-
glia finale, dopo la sua scelta di rimanere lì con noi... «Lo meritiamo tutti.»
Mor mi diede un colpetto col gomito, ma i suoi occhi castani brillavano. «E Varian ci
raggiungerà, secondo te?»
Sbuffai. «Ieri l’ho chiesto ad Amren e lei non mi ha risposto.»
«Penso che voglia dire che verrà. O, perlomeno, andrà a trovarla.»
Sorrisi al pensiero e trascinai Mor verso la vetrina successiva, standole appiccicata per
riscaldarmi. Amren e il principe di Adriata non avevano fatto dichiarazioni ufficiali, ma a
volte rivedevo in sogno quel momento in cui lei si era spogliata della sua pelle immorta-
le e Varian si era inginocchiato.
Amren era stata una creatura di fiamme e zolfo, creata in un altro mondo per infligge-
re le punizioni decise da un dio crudele, per essere il suo carnefice delle masse di mortali
inermi. Per quindicimila anni era rimasta bloccata nel nostro mondo.
E non aveva amato – non di quell’amore che può modificare la storia, che può mutare
il destino – finché non aveva conosciuto quel principe di Adriata dai capelli d’argento. O,
perlomeno, amato nella maniera in cui Amren poteva amare qualcosa.
E quindi, certo, non c’era niente di ufficiale tra loro. Ma sapevo che lui era venuto a tro-
varla, in segreto, nella nostra città. Soprattutto perché alcune mattine Amren incedeva nel-
la casa di città con un sorrisetto compiaciuto simile a quello di un gatto.
Ma se pensavo a ciò a cui aveva rinunciato, per poterci salvare...
Io e Mor notammo il gioiello in vetrina nello stesso istante. «Quello» dichiarò lei.
Io mi stavo già dirigendo verso la porta d’ingresso a vetri; quando entrammo, si udì l’al-
legro tintinnio di un campanello d’argento.
La negoziante spalancò gli occhi ma sembrò raggiante quando indicammo il gioiello, e
lo posò subito su un cuscinetto di velluto nero. Inventò una scusa gentile – disse che do-
veva prendere qualcosa dal retro – per lasciarci un po’ di intimità davanti al bancone di
legno lucido.
«È perfetto» sussurrò Mor; le pietre spezzavano la luce e sembravano ardere internamente.
Feci scorrere un dito sull’elegante montatura d’argento. «E tu che regalo vuoi?»
Mor scrollò le spalle. Il pesante cappotto marrone faceva risaltare il ricco color terra dei
suoi occhi. «Ho tutto ciò di cui ho bisogno.»
«Prova a dirlo a Rhys. Dice che al Solstizio non si dovrebbero ricevere regali di cui si
ha bisogno, ma quelli che non si comprerebbero mai per se stessi.» Mor alzò gli occhi al
cielo. Ero tentata di fare altrettanto, ma insistei: «Allora, che cosa vuoi tu?».
Fece scorrere un dito su una gemma tagliata. «Niente. Io... Non c’è niente che voglia.»
A parte le cose che forse non era pronta a chiedere, a cercare.
Esaminai di nuovo il gioiello e chiesi con tono disinvolto: «Sei andata spesso da Rita,
ultimamente. C’è una persona che vorresti portare alla cena del Solstizio?».
Mor mi guardò negli occhi. «No.»
Doveva decidere lei quando e come informare gli altri di quello che mi aveva detto du-
rante la guerra. Soprattutto, quando e come dirlo ad Azriel.
Il mio unico ruolo era starle accanto... coprirle le spalle quando ne aveva bisogno.
E così continuai: «Che cosa regali agli altri?».
Lei si accigliò. «Dopo secoli di doni, è una gran rottura di palle trovare qualcosa di nuo-
vo per tutti loro. Azriel deve avere un cassetto pieno di tutti i pugnali che gli ho comprato
nel corso dei secoli, ne sono sicura; è troppo educato per buttarli via, ma non li userà mai.»
«Pensi sinceramente che darebbe mai via lo StrappaVerità?»
«L’ha dato a Elain» disse Mor, ammirando una collana di pietra lunare nella teca di ve-
tro del bancone.
«Lei gliel’ha restituito» la corressi, e non riuscii a evitare di ricordare la lama nera che
trafiggeva la gola del re di Hybern. Ma Elain l’aveva restituito; l’aveva messo nelle mani
di Azriel dopo la battaglia, proprio come lui aveva fatto prima con lei. E poi se n’era an-
data senza voltarsi.
Mor mormorò qualcosa fra sé e sé. La gioielliera tornò un attimo dopo e io firmai il
mio conto di credito personale, cercando di non rabbrividire per l’enorme somma di de-
naro che era appena scomparsa con un tratto di penna d’oro.
«A proposito di guerrieri Illyrian,» dissi mentre camminavamo nella piazza del Palaz-
zo, piena di gente, e giravamo attorno a un carrello dipinto di rosso che vendeva tazze di
cioccolata bollente «che diavolo posso comprare per loro?»
Non avevo il coraggio di chiedere che cosa avrei dovuto prendere per Rhys, perché, an-
che se adoravo Mor, mi sembrava sbagliato chiedere consiglio a un’altra persona su che
cosa comprare alla mia Metà.
«In tutta onestà, potresti regalare un nuovo coltello a Cassian e lui ti bacerebbe. Ma Az
probabilmente preferirebbe non ricevere regali, solo per evitare di essere al centro dell’at-
tenzione mentre li apre.»
Risi. «Vero.»
Proseguimmo, tenendoci sottobraccio; gli aromi di nocciole tostate, pigne e cioccola-
to sostituivano il solito profumo di sale, limone e verbena che riempiva la città. «Conti di
andare a trovare Viviane durante il Solstizio?»
Nei mesi trascorsi dalla fine della guerra, Mor era rimasta in contatto con la Signora
della Corte dell’Inverno; forse presto Viviane ne sarebbe diventata la Signora Suprema, se
dipendeva da lei. Erano state amiche per secoli, fino a quando il regno di Amarantha non
aveva interrotto i contatti, e, anche se la guerra con Hybern era stata brutale, una delle
conseguenze positive era stato il riaccendersi della loro amicizia. Rhys e Kallias avevano
un’alleanza ancora tiepida, ma sembrava che il rapporto di Mor con la Metà del Signore
Supremo dell’Inverno avrebbe fatto da ponte tra le nostre due corti.
La mia amica mi rivolse un sorriso pieno di calore. «Forse uno o due giorni dopo. Loro
festeggiano per tutta una settimana.»
«Ci sei già stata?»
Scosse la testa e i capelli dorati catturarono la luce Fae dei lampioni. «No. Di solito ten-
gono chiusi i loro confini, anche agli amici. Ma con Kallias ora al potere e, soprattutto,
con Viviane al suo fianco, stanno ricominciando ad aprirsi.»
FEYRE
A l calar del crepuscolo ero raggomitolata sul letto, calda, comoda e assonnata tra gli
strati di coperte e piumoni, quando Rhys finalmente tornò.
Sentii il richiamo del suo potere molto prima che si avvicinasse alla casa, una melodia
oscura che attraversava il mondo.
Mor aveva annunciato che non saremmo andati alla Città Spaccata prima di un’ora o
giù di lì; con tutto quel tempo a disposizione, avevo scartato i documenti sulla scrivania
in palissandro dall’altra parte della stanza e avevo preso un libro. Ero riuscita a leggere ap-
pena una decina di pagine quando Rhys aprì la porta della camera da letto.
I suoi indumenti Illyrian brillavano di neve sciolta, e altra luccicava sui capelli scuri e
sulle ali mentre chiudeva silenziosamente la porta. «Esattamente dove ti ho lasciata.»
Sorrisi e posai il libro accanto a me. Fu quasi inghiottito dal piumone color avorio. «Non
è forse l’unica cosa in cui sono brava?»
Rhys cominciò a togliersi di dosso le armi e poi i vestiti con un sorriso da mascalzone
che gli sollevava un angolo della bocca. Ma, nonostante l’umorismo che gli illuminava gli
occhi, ogni movimento era pesante e lento, come se combattesse la stanchezza a ogni respiro.
«Forse dovremmo dire a Mor di rimandare l’incontro alla Corte degli Incubi.» Aggrot-
tai la fronte.
Lui si tolse la giacca di cuoio, che atterrò rumorosamente sulla sedia della scrivania.
«Perché? Se davvero ci sarà Eris, vorrei sorprenderlo con una mia visitina.»
«Perché sembri esausto, ecco perché.»
Si mise una mano sul cuore con aria drammatica. «La tua preoccupazione mi riscalda
più di qualsiasi fuoco invernale, amore mio.»
Alzai gli occhi al cielo e mi misi a sedere. «Perlomeno hai mangiato?»
Alzò le ampie spalle, che sforzarono la stoffa della camicia scura. «Sto bene.» Quando
spinsi via le coperte, gli scivolò lo sguardo sulle mie gambe nude.
Mi sentii invadere dal calore, ma infilai i piedi nelle pantofole. «Ti porto qualcosa da
mangiare.»
«Non voglio...»
«Quando hai mangiato l’ultima volta?» Un silenzio imbronciato. «Ecco, come pensa-
vo.» Mi misi sulle spalle una vestaglia bordata di pelliccia. «Lavati e cambiati. Partiamo tra
quaranta minuti. Torno fra poco.»
Raccolse le ali, e la luce Fae indorò l’artiglio sopra ciascuna di esse. «Non c’è bisogno
che tu...»
«Lo voglio fare e lo farò.» Detto questo, uscii e percorsi il corridoio azzurrino.
Cinque minuti dopo, un Rhys in mutande mi tenne aperta la porta mentre entravo con
un vassoio tra le mani.
«Visto che hai portato su tutto quello che c’era in cucina» brontolò mentre andavo verso
la scrivania «tanto valeva che scendessi io.» Non si era ancora vestito per la nostra visita.
Gli mostrai la lingua, ma poi mi accigliai mentre esaminavo la scrivania ingombra alla
ricerca di spazio libero per il vassoio. Niente. Anche il tavolino vicino alla finestra era co-
perto di oggetti. Tutti oggetti importanti e vitali. Mi rassegnai a posarlo sul letto.
Rhys si sedette e piegò le ali dietro di sé prima di allungare le mani per tirarmi in grem-
bo, ma io le schivai e mi mantenni a una prudente distanza. «Prima pensa alla cena.»
«Allora dopo mangerò te» ribatté, sorridendo maliziosamente, ma si tuffò sul cibo.
La velocità e intensità con cui lo divorava furono tali da farmi passare ogni desiderio
provocato dalle sue parole. «Non hai mangiato per niente, oggi?»
Un lampo di occhi viola mentre finiva il pane e attaccava l’arrosto freddo. «Una mela,
stamattina.»
«Rhys.»
«Avevo da fare.»
«Rhys.»
Posò la forchetta, e la bocca ebbe un guizzo che era quasi un sorriso. «Feyre.»
Incrociai le braccia. «Nessuno ha troppo da fare per poter mangiare.»
«Ti stai agitando.»
«Agitarmi è il mio compito. E, poi, tu ti agiti parecchio. Per cose molto più banali.»
«Il tuo ciclo non è banale.»
«Avevo un po’ di dolore...»
«Ti contorcevi sul letto come se qualcuno ti avesse sventrato.»
«E tu ti comportavi come una chioccia prepotente.»
«Non ti ho vista sbraitare contro Cassian, Mor o Az quando si sono preoccupati per te.»
«Loro non hanno provato a imboccarmi come se fossi un’invalida!»
clo fosse iniziato. Come diavolo avrei potuto lasciare che sopportasse quel dolore da sola?
Non ero neanche sicura che ce l’avrebbe fatta, da sola.
Elain, perlomeno, sarebbe stata troppo gentile per mandare via Lucien se lui avesse vo-
luto aiutarla. Era troppo gentile per mandarlo via anche in una giornata normale. Si limi-
tava a ignorarlo o gli rivolgeva appena la parola finché lui non capiva l’antifona e se ne
andava. Per quanto ne sapevo, non le si era più avvicinato dal giorno dopo la battaglia fi-
nale. Lei non faceva altro che curare i suoi giardini e piangere silenziosamente la sua vita
umana perduta. Piangere Graysen.
Non avevo idea di come potesse sopportarlo Lucien. Non che avesse mostrato interes-
se a colmare quel divario tra loro.
«Su che pianeta sei finita?» mi chiese Rhys, scolando il vino e mettendo da parte il vassoio.
Se avessi voluto parlare, mi avrebbe ascoltata. Se non avessi voluto, mi avrebbe lasciata in
pace. Era stato un nostro patto tacito fin dall’inizio: ascoltare quando l’altro ne aveva bisogno
e concedere spazio quando era necessario. Lui stava ancora lentamente cercando la maniera
per raccontarmi tutto quello che gli era stato fatto, tutto quello a cui aveva assistito nel Re-
gno Sotto la Montagna. C’erano ancora notti in cui baciavo via le sue lacrime, una per una.
Quell’argomento, tuttavia, non era altrettanto difficile. «Stavo pensando a Elain» dissi,
appoggiandomi al bordo della scrivania. «E a Lucien.»
Rhys inarcò un sopracciglio e io condivisi le mie riflessioni.
Quando conclusi, aveva un’espressione meditabonda. «Lucien si unirà a noi per il
Solstizio?»
«Sarà una brutta cosa, se lo farà?»
Rhys mormorò qualcosa e ripiegò ulteriormente le ali. Non avevo idea di come potes-
se resistere al freddo durante il volo, anche se si schermava. Ogni volta che avevo provato
a volare, nel corso delle ultime settimane, avevo resistito a malapena qualche minuto. L’u-
nica volta che ci ero riuscita era stata la settimana prima, quando il nostro volo dalla Casa
del Vento si era fatto molto più caldo.
Alla fine Rhys disse: «Posso sopportare di stargli vicino».
«Sono sicura che lui apprezzerebbe tutto questo galoppante entusiasmo.»
Fece un mezzo sorriso che mi attirò verso di lui; mi fermai tra le sue gambe. Mi posò
pigramente le mani sui fianchi. «Posso lasciar correre le derisioni» disse, studiandomi il
viso. «E il fatto che nutra ancora qualche speranza di riunirsi, un giorno, con Tamlin. Ma
non posso lasciar correre il modo in cui ti ha trattata dopo il Regno Sotto la Montagna.»
«Io posso. È una cosa che gli ho perdonato.»
«Be’, scusami, ma io non ci riesco.» Rabbia gelida oscurava le stelle in quegli occhi viola.
«Ancora quasi non riesci a parlare con Nesta» dissi. «Eppure con Elain parli gentilmente.»
«Elain è Elain.»
«Se biasimi una, devi biasimare anche l’altra.»
«No, non necessariamente. Elain è Elain» ripeté. «Nesta è... lei è Illyrian. Lo dico
come un complimento, ma ha un cuore da Illyrian. Quindi non ci sono scuse per il suo
comportamento.»
provarci.» Esaminò la stanza e poi il folto tappeto, come se potesse vedere l’intera casa lì
sotto. «Possiamo trasformare in uno studio la tua vecchia camera da letto, se vuoi...»
«Non ce n’è bisogno» lo interruppi. «È che... La luce non è ideale là dentro.» Di fronte
alle sue sopracciglia inarcate, ammisi: «Ho controllato. L’unica stanza che andrebbe bene
è il soggiorno, e preferirei non fare puzzare tutta la casa di pittura».
«Credo che non dispiacerebbe a nessuno.»
«Dispiacerebbe a me. E comunque mi piace stare per conto mio. L’ultima cosa che vo-
glio è avere Amren dietro di me, che mi critica mentre lavoro.»
Rhys ridacchiò. «Si può scendere a patti con Amren.»
«Non sono sicura che stiamo parlando della stessa Amren, allora.»
Sorrise, mi attirò di nuovo a sé e mormorò contro il mio stomaco: «Il giorno del Sol-
stizio è anche il tuo compleanno».
«E allora?» Stavo cercando di dimenticare quel fatto. E lasciare che anche gli altri lo
dimenticassero.
Il sorriso di Rhys si mitigò e divenne felino. «E, allora, significa che riceverai due regali.»
Gemetti. «Non avrei mai dovuto dirtelo.»
«Sei nata nella notte più lunga dell’anno.» Le sue dita mi accarezzarono di nuovo la
schiena. In basso. «Fin dal primo istante eri destinata a essere al mio fianco.»
Mi passò – lentamente, pigramente – una mano tra le natiche. Visto che ero in piedi
davanti a lui, poté sentire subito il mio odore cambiare quando il calore iniziò a propa-
garsi nel mio corpo.
Prima che mi mancassero le parole, riuscii a dire lungo l’Unione: “Tocca a te. Un pen-
siero per un pensiero”.
Mi diede un bacio proprio sull’ombelico. «Ti ho già parlato di quella prima volta che
trasmutasti, quando mi placcasti nella neve?»
Gli diedi uno schiaffetto sulla spalla, sul muscolo duro come la pietra. «Questo è il tuo
pensiero per un pensiero?»
Sorrise contro il mio stomaco mentre le sue dita continuavano a esplorare e a blandire.
«Mi affrontasti come un Illyrian. Mossa perfetta, un colpo diretto. Ma poi ti ritrovasti di-
stesa su di me, ansimante. Non desideravo altro che restare nudi.»
«Com’è che la cosa non mi sorprende?» Ma gli passai le dita tra i capelli.
La stoffa della mia vestaglia era poco più che una ragnatela tra noi mentre faceva una
risata sulla mia pancia. Non mi ero messa niente, sotto. «Mi facevi impazzire. In tutti quei
mesi. Ancora non riesco bene a credere di esserci riuscito. Ad averti.»
Mi si strinse la gola. Questo era il pensiero che voleva scambiare, che aveva bisogno di
condividere. «Ti volevo, anche nel Regno Sotto la Montagna» dissi piano. «Lo attribui-
vo a quelle circostanze orribili, ma dopo che l’abbiamo uccisa, quando non potevo dire a
nessuno come mi sentivo... quanto fosse davvero brutta la situazione, a te lo dicevo. Sono
sempre riuscita a parlare con te. Penso che il mio cuore sapesse che eri mio molto prima
che me ne rendessi conto razionalmente.»
Gli brillarono gli occhi e seppellì di nuovo il viso tra i miei seni; le mani continuava-
no ad accarezzarmi la schiena. «Ti amo» sussurrò. «Più della vita, più del mio territorio,
più della mia corona.»
Lo sapevo. Aveva rinunciato alla sua vita per riforgiare il Calderone, il tessuto di cui
era fatto il mondo stesso, perché io potessi sopravvivere. Non avevo potuto essere furio-
sa con lui per quel motivo, subito dopo o nei mesi successivi. Era di nuovo vivo: un dono
per cui non avrei mai smesso di essere grata. Alla fine, comunque, ci eravamo salvati a vi-
cenda. Tutti noi l’avevamo fatto.
Lo baciai in cima alla testa. «Ti amo» sussurrai sui suoi capelli nero-blu.
Le mani di Rhys mi strinsero la parte posteriore delle cosce, l’unico preavviso prima
che ci capovolgesse e mi bloccasse sul letto mentre mi strofinava il collo con il naso. «Una
settimana» disse sulla mia pelle, ripiegando con grazia le ali dietro di sé. «Una settimana
con te in questo letto. Non voglio altro, per il Solstizio.»
Risi affannosamente, ma lui mosse i fianchi e si spinse contro di me; le barriere tra noi
erano poco più che pezzetti di stoffa. Mi sfiorò la bocca con un bacio. Le ali erano una
parete scura dietro le sue spalle. «Pensi che stia scherzando.»
«Siamo forti, come Fae Superiori» riflettei, cercando di concentrarmi mentre mi tirava il
lobo dell’orecchio con i denti, «ma una settimana di fila di sesso? Non credo che sarei in
grado di camminare. O che tu potresti ancora funzionare, perlomeno la tua parte preferita.»
Mi morse la delicata curva dell’orecchio e mi si piegarono le dita dei piedi. «Allora do-
vrai solo baciare la mia parte preferita e farla guarire.»
Feci scivolare una mano su quella sua parte preferita – che era anche la mia – e la strin-
si attraverso la stoffa. Gemette, spingendosi contro il mio tocco, e l’indumento scompar-
ve, lasciando solo il mio palmo contro la sua durezza, come velluto al tatto.
«Dobbiamo vestirci» riuscii a dire, pur continuando ad accarezzarlo.
«Più tardi» ringhiò, succhiandomi il labbro inferiore.
Si tirò indietro, appoggiandosi sulle braccia tatuate ai lati della mia testa. Uno era co-
perto dai suoi simboli Illyrian, l’altro dal tatuaggio uguale a quello sulle mie braccia: l’ul-
timo patto che avevamo fatto. Per affrontare insieme tutto ciò che ci attendeva.
Pulsavo nel profondo, con lo stesso ritmo del mio fragoroso battito cardiaco, e avevo
bisogno di sentirlo dentro di me, di possederlo...
Come per deridere quelle mie pulsazioni, si sentì bussare alla porta della camera. «Tan-
to perché lo sappiate» cinguettò Mor dall’altro lato «fra poco dobbiamo andare.»
Rhys fece un ringhio sommesso che mi percorse la pelle, e i capelli gli scivolarono sulla
fronte mentre girava la testa verso la porta. Non c’era altro che un intento predatorio nei
suoi occhi vitrei. «Abbiamo trenta minuti» disse con ammirevole fluidità.
«E ti ci vogliono due ore per vestirti» lo schernì Mor attraverso la porta. Una pausa a
effetto. «E non sto parlando con Feyre.»
Rhys fece una risata che era quasi un brontolio e abbassò la fronte contro la mia. Chiusi gli
occhi, respirando il suo odore, mentre aprivo le dita. «Non è finita» mi promise, con voce roca,
prima di baciarmi l’incavo della gola e allontanarsi. «Vai a terrorizzare qualcun altro» gridò a
Mor, roteando il collo mentre faceva svanire le ali e si avviava verso il bagno. «Devo vestirmi.»
MORRIGAN
Il tono era beffardo. Mor poteva ancora sentire gli insulti sibilati che c’erano dietro, sus-
surrati molto tempo prima nell’appartamento privato della sua famiglia, bisbigliati a ogni
riunione e raduno a cui non era presente suo cugino. “Mostruosità mezzosangue.” “Una
disgrazia per la nostra stirpe.”
«Signore Supremo.»
L’aveva detto senza pensarci. E la voce, la voce che usava lì... non era la sua. Non usa-
va mai la sua, mai, laggiù con loro nell’oscurità. Mor mantenne la sua voce fredda e ine-
sorabile mentre lo correggeva: «A che cosa dobbiamo questo piacere, Signore Supremo».
Lasciò intravedere un balenare di denti. Keir la ignorò.
Era il suo insulto preferito: agire come se una persona non valesse il fiato necessario
per parlarle.
“Prova qualcosa di nuovo, miserabile bastardo” pensò Mor.
Rhys intervenne prima che lei decidesse di dirlo ad alta voce, e il suo potere oscuro
riempì la stanza, la montagna: «Siamo venuti, naturalmente, a fare gli auguri per il Solsti-
zio a te e ai tuoi. Ma pare che tu abbia già un ospite da intrattenere».
Le informazioni di Az erano state impeccabili, come sempre. Quella mattina l’aveva tro-
vata nella biblioteca della Casa del Vento, che leggeva un volume sulle usanze della Cor-
te dell’Inverno, e lei non gli aveva chiesto come avesse fatto a sapere che Eris sarebbe an-
dato lì quella sera. Aveva imparato da tempo che forse Az gliel’avrebbe detto o forse no.
Ma quel maschio della Corte dell’Autunno in piedi accanto a Keir... Mor si costrinse a
guardare Eris. A guardarlo negli occhi color ambra.
Più freddi di qualsiasi sala della corte di Kallias. Erano sempre stati così dal momento
in cui l’aveva conosciuto, cinque secoli prima.
Eris posò una mano pallida sul petto della sua giacca color peltro, il ritratto della galanteria
della Corte dell’Autunno. «Ho pensato anch’io di portare i miei auguri per un buon Solstizio.»
Quella voce. Quella voce setosa e arrogante. Nel corso dei secoli non erano cambiati
neanche il tono e il timbro. Erano gli stessi di quel giorno.
Luce solare calda e avvolgente passava tra le foglie, e le faceva brillare come rubini e topazi. L’odore
umido e terroso di cose marce sotto le foglie e le radici su cui giaceva. Su cui era stata gettata e lasciata.
Le faceva male tutto. Ogni parte di sé. Non poteva muoversi. Non poteva fare altro che guarda-
re il sole filtrare attraverso il fitto baldacchino di rami molto più in alto, ascoltare il suono del ven-
to tra i tronchi argentei.
E ascoltare anche quel dolore, che si irradiava verso l’esterno come fuoco vivo a ogni suo respiro
irregolare e stridulo...
Passi leggeri e regolari fecero scricchiolare le foglie. Sei paia di piedi. Una squadra di frontiera,
una pattuglia.
“Aiuto. Qualcuno mi aiuti...” pensò Mor.
Una voce maschile, estranea e profonda, imprecò. Poi tacque.
Tacque quando si avvicinò una sola persona. Lei non poteva voltare la testa, non poteva sopporta-
re quel dolore atroce. Non poteva fare altro che respiri umidi e tremolanti.
«Non toccarla.»
Un colpetto della mano di Feyre contro la sua la strappò via da quella radura insangui-
nata appena oltre il confine della Corte dell’Autunno.
Mor lanciò uno sguardo grato alla sua Signora Suprema, che Feyre ignorò abilmente,
concentrandosi di nuovo sulla conversazione. Da cui, del resto, non si era mai distratta.
Feyre aveva assunto il ruolo di signora di quella orribile città con molta più disinvoltu-
ra di lei. Vestita di uno scintillante abito color onice, con il diadema della luna crescente
sulla testa, la sua amica interpretava benissimo la parte dell’imperiosa sovrana. Sembrava
far parte di quel luogo quanto le bestie serpeggianti che si attorcigliavano, scolpite e incise
ovunque. Forse era così che, un tempo, Keir aveva immaginato potesse diventare Mor stessa.
Non com’era in quel momento, con l’abito rosso brillante e audace, o con quei gioielli
d’oro ai polsi e alle orecchie, che lì nell’oscurità splendevano come la luce del sole.
«Se volevi che questo vostro rapporto rimanesse privato» stava dicendo Rhys con calma
letale «forse non è stata una mossa saggia incontrarsi in una riunione pubblica.»
Effettivamente.
Il castaldo della Città Spaccata agitò una mano. «Perché lo dovremmo nascondere? Dopo
la guerra, siamo tutti così buoni amici.»
Lei sognava spesso di sventrarlo. A volte con un coltello; a volte a mani nude.
«Come vanno le cose alla corte di tuo padre, Eris?» chiese Feyre con tono tranquillo
e annoiato.
Quegli occhi color ambra non contenevano altro che disgusto.
Vedendo quello sguardo, un boato riempì la testa di Mor. Riuscì a stento a sentire la sua
risposta, pronunciata con voce strascicata. O la risposta di Rhys.
Una volta la deliziava provocare Keir e quella corte, per tenerli sull’attenti. Diamine,
quella primavera aveva anche spezzato alcune ossa del castaldo, dopo che Rhys gli ave-
va frantumato le braccia fino a renderle inutilizzabili. L’aveva fatto con gioia, dopo quello
che Keir aveva detto a Feyre, e poi si era rallegrata quando sua madre l’aveva bandita dai
loro alloggi privati. Un bando che era ancora in vigore. Ma dal momento in cui Eris era
entrato in quella sala del consiglio diversi mesi prima...
“Hai più di cinquecento anni” ricordava spesso a se stessa. Avrebbe potuto affrontarlo,
gestirlo meglio di così.
“Non ho l’abitudine di scoparmi gli avanzi degli Illyrian.”
Anche ora, anche dopo che Azriel l’aveva trovata in quei boschi, dopo che Madja l’a-
veva guarita e le ferite dei chiodi non le deturpavano più il ventre... Non sarebbe dovu-
ta andare lì quella sera.
Le si tese la pelle, il suo stomaco si agitò. “Vigliacca.”
Aveva affrontato tanti nemici, combattuto molte guerre, eppure quello, quei due ma-
schi insieme...
Mor percepì – più che vedere – Feyre irrigidirsi accanto a lei per qualcosa che aveva
detto Eris.
La sua Signora Suprema gli rispose: «A tuo padre è proibito entrare nelle terre degli uma-
ni». Nessuna possibilità di compromesso con quel tono, con l’acciaio negli occhi di Feyre.
RHYSAND
Ombre diverse da tutte quelle che i miei poteri evocavano, a cui parlavano. Era nato in
una prigione priva di luce e di aria, una prigione studiata per distruggerlo.
E lui, invece, ne aveva imparato la lingua.
Anche se i Sifoni color cobalto dimostravano che il suo lignaggio Illyrian era reale, nean-
che il ricco folklore di quel popolo guerriero, del mio popolo guerriero, sapeva spiegare
da dove provenissero i doni del cantaombre. Certo non erano collegati ai Sifoni, al puro
potere letale che la maggior parte degli Illyrian possedeva e incanalava attraverso quelle
pietre per evitare di distruggere tutto quello che incrociava. Compreso il portatore stesso.
Distogliendo gli occhi dalle gemme sulle sue mani, guardai aggrottato la pila di fogli
che Az mi aveva consegnato pochi istanti prima. «L’hai già detto a Cassian?»
«Sono venuto direttamente qui» rispose Azriel. «Arriverà presto anche lui, comunque.»
Mi mordicchiai un labbro mentre studiavo la mappa del territorio Illyrian. «I clan sono
più numerosi di quanto mi aspettassi» ammisi, e feci svolazzare nella stanza uno stormo
di ombre per alleviare il potere che si agitava, irrequieto, nelle mie vene. «Anche nei miei
calcoli più pessimistici.»
«Non sono tutti i membri di questi clan» disse Az, ma la sua espressione cupa minò quel
tentativo di attenuare il colpo. «Questo numero complessivo riflette solo i luoghi in cui si
diffonde il malcontento, non dove si trovano le maggioranze.» Indicò uno dei campi con
un dito sfregiato. «Qui ci sono solo due femmine che sembrano vomitare veleno a propo-
sito della guerra. Una è vedova e l’altra è madre di un soldato.»
«Dove c’è fumo, c’è fuoco» replicai.
Azriel studiò a lungo la mappa. Gli permisi di restare in silenzio, sapendo che avrebbe
parlato solo quando fosse stato davvero pronto. Da ragazzi, Cassian e io avevamo dedica-
to ore a prendere a pugni Az, cercando di convincerlo a parlare. Non aveva mai ceduto.
«Gli Illyrian sono pezzi di merda» disse piano, troppo piano.
Aprii la bocca e la richiusi.
Le ombre gli si raccolsero attorno alle ali, poi si riversarono sullo spesso tappeto rosso.
«Passano la vita a addestrarsi come guerrieri, eppure, quando non tornano a casa, le loro
famiglie ci considerano i cattivi che li hanno mandati a combattere?»
«Le loro famiglie hanno perso qualcosa di insostituibile» risposi con cautela.
Azriel agitò una mano piena di cicatrici e, mentre le dita tagliavano l’aria, il suo Sifone
color cobalto brillò. «Sono ipocriti.»
«E che cosa vorresti che facessi, allora? Sciogliere il più grande esercito di Prythian?»
Az non rispose.
Io sostenni il suo sguardo, però. Sostenni quello sguardo gelido che, a volte, ancora mi
spaventava a morte. Avevo visto che cosa aveva fatto ai suoi fratellastri secoli prima. Lo so-
gnavo ancora. A continuare a turbarmi non era l’atto in sé. Ne avevano meritato ogni par-
te. Ogni singola dannata azione.
Era il precipizio ghiacciato in cui era caduto Az che a volte si levava dal fondo della
mia memoria.
Quel gelo ora stava cominciando a formarsi nei suoi occhi. Così dissi con calma, ma la-
sciando ben poco spazio per la discussione: «Non ho intenzione di sciogliere gli Illyrian.
Non hanno un posto in cui andare, comunque. E, se provassimo a trascinarli fuori da quel-
le montagne, potrebbero scatenare proprio l’assalto che stiamo cercando di disinnescare».
Az non disse niente.
«Ma forse ancora più pressante» continuai, puntando un dito sul continente tentacola-
re, «è il fatto che le regine umane non sono tornate nei rispettivi territori. Sono rimaste
in quel loro palazzo comune. Oltre a ciò, la popolazione generale di Hybern non è esat-
tamente entusiasta di aver perso questa guerra. E, senza più il muro, chissà quali altri ter-
ritori Fae potrebbero tentare di conquistare terre umane?» Quell’ultimo pensiero mi fece
irrigidire la mascella. «Questa pace è fragile.»
«Lo so» disse infine Az.
«Quindi potremmo aver bisogno nuovamente degli Illyrian, prima che sia finita. Devo-
no essere disposti a versare sangue.»
Feyre lo sapeva. L’avevo tenuta al corrente di ogni rapporto e riunione. Ma quell’ultima
cosa... «Terremo d’occhio i dissidenti» conclusi, lasciando che Az percepisse il rombo del
potere che si agitava dentro di me, facendogli capire che parlavo molto sul serio. «Cassian
sa che sta crescendo il dissenso nei vari campi ed è pronto a fare tutto quello che è neces-
sario per risolvere il problema.»
«Non sa quanti sono.»
«E forse dovremmo aspettare per dirglielo. Fino a dopo le feste.» Az batté le palpebre.
Spiegai sottovoce: «Avrà già abbastanza problemi da affrontare. Lascia che si goda le fe-
stività, finché può».
Io e Az badavamo a non nominare Nesta. Non tra di noi, e certamente non davanti a
Cassian. Non lo prendevo neanche in considerazione. Altrettanto valeva per Mor, dato il
suo insolito silenzio sulla questione da quando la guerra era finita.
«Si arrabbierà con noi per averglielo tenuto nascosto.»
«Ne sospetta già una gran parte, quindi a questo punto è solo una conferma.»
Az fece scorrere il pollice lungo l’elsa nera dello StrappaVerità; le rune argentate sul fo-
dero scuro scintillavano alla luce. «E le regine umane?»
«Continueremo a tenerle d’occhio. Tu continuerai a tenerle d’occhio.»
«Vassa e Jurian sono ancora con Graysen. Li informiamo?»
Era uno strano gruppo, quello nelle terre umane. Visto che non era mai stata assegna-
ta una regina alla porzione di territorio alla base di Prythian, ma c’era solo un concilio
di ricchi signori e mercanti, Jurian si era in qualche modo assunto il compito di guidarli.
Usando la tenuta di famiglia di Graysen come postazione di comando.
E Vassa... lei era rimasta. Il suo custode le aveva concesso una tregua dalla maledizione,
quell’incantesimo che la trasformava in un uccello di fuoco di giorno e la faceva tornare
donna di notte. E la legava al lago di lui, nel profondo del continente.
Non avevo mai visto in funzione un simile incantesimo. Avevo provato a usare il mio
potere su di lei, e ci aveva provato anche Helion, alla ricerca di fili da sciogliere. Non ave-
vo trovato niente. Era come se la maledizione fosse intessuta nel suo stesso sangue.
Ma la libertà di Vassa sarebbe finita. Lucien l’aveva detto mesi prima, e andava ancora a tro-
varla abbastanza spesso da sapere che non era cambiato nulla. Sarebbe dovuta tornare al lago,
dallo stregone che la teneva prigioniera, a cui era stata venduta dalle stesse regine che si erano
riunite di nuovo nel loro castello comune. Quello che un tempo era anche il castello di Vassa.
«Vassa sa che le regine saranno una minaccia fino a quando non verranno affrontate»
dissi infine. Un’altra notizia che ci aveva riportato Lucien. Almeno a me e ad Az. «Ma, a
meno che le regine non superino i limiti, non spetta a noi affrontarle. Se facessimo irru-
zione, anche se fosse per impedire loro di scatenare un’altra guerra, saremmo considerati
invasori, non eroi. Abbiamo bisogno che gli umani negli altri territori si fidino di noi, se
vogliamo sperare di raggiungere una pace duratura.»
«Allora forse se ne dovrebbero occupare Jurian e Vassa. Finché Vassa può ancora farlo.»
L’avevo preso in considerazione. Io e Feyre ne avevamo discusso per tutta la notte, pa-
recchie volte. «Agli umani deve essere data la possibilità di governarsi da soli. Di decide-
re per se stessi. Anche ai nostri alleati.»
«Invia Lucien, allora. Come nostro Emissario umano.»
Studiai la tensione nelle spalle di Azriel, le ombre che lo riparavano in parte dalla luce
del sole. «Lucien è via, in questo momento.»
Az inarcò le sopracciglia. «Dove?»
Gli strizzai un occhio. «Sei il mio capo delle spie. Non dovresti saperlo?»
Az incrociò le braccia, il viso elegante e freddo come il leggendario pugnale al suo fian-
co. «Non seguo i suoi movimenti.»
«Perché?»
Neanche un barlume di emozione. «È la Metà di Elain.» Attesi il seguito. «Seguirli sa-
rebbe un’invasione dell’intimità di lei.»
Perché avrebbe saputo quando e se Lucien la cercava. E che cosa facevano insieme.
«Sei sicuro di questo?» chiesi con calma.
I Sifoni di Azriel lampeggiarono e le pietre diventarono scure e minacciose come il mare
più profondo. «Dov’è andato Lucien?»
Raddrizzai la schiena per il tono di comando. Ma risposi, con voce strascicata: «È an-
dato alla Corte della Primavera. Sarà lì per il Solstizio».
«Tamlin lo ha buttato fuori, l’ultima volta.»
«Sì. Ma lo ha invitato per le feste.» Probabilmente perché Tamlin si era reso conto che
l’alternativa era passarle da solo in quella villa. O in quello che ne era rimasto.
Non mi ispirava nessuna compassione.
Non quando potevo ancora sentire il puro terrore di Feyre mentre Tamlin distruggeva
lo studio. Mentre la rinchiudeva in quella casa.
Anche Lucien l’aveva lasciato fare. Ma avevo fatto pace con lui. O ci provavo.
Con Tamlin, era più complicato. Così complicato che, di solito, non mi permettevo di
soffermarmici.
Era ancora innamorato di Feyre. Non potevo biasimarlo per questo. Anche se mi face-
va venire voglia di squarciargli la gola.
Allontanai quel pensiero. «Discuterò di Vassa e Jurian con Lucien, quando tornerà. Ve-
drò se sarà pronto per un’altra visita.» Inclinai la testa. «Pensi che possa sopportare la pre-
senza di Graysen?»
Il viso inespressivo di Az era il motivo per cui non perdeva mai a carte con noi. «Per-
ché dovrei valutarlo io?»
«Vuoi dire che non bluffavi quando hai detto che non segui ogni movimento di Lucien?»
Niente. Assolutamente niente su quel viso, nel suo odore. Le ombre, qualunque cosa fos-
sero, si nascondevano troppo bene. Troppo. Azriel disse solo, con voce fredda: «Se Lucien
ucciderà Graysen, sarà una liberazione».
Tendevo a essere d’accordo. E così la pensavano Feyre... e Nesta.
«Sono quasi tentato di concedere a Nesta i diritti di caccia, per il Solstizio.»
«Le farai un regalo?»
No. Più o meno. «Penso che finanziare il suo appartamento e l’alcol sia un dono suf-
ficiente.»
Az si passò una mano tra i capelli scuri. «Siamo...» Era insolito per lui incespicare con
le parole. «Dovremmo fare regali alle sorelle?»
«No» risposi, e dicevo sul serio. Az sembrò fare un sospiro di sollievo. “Sembrò”, per-
ché neanche un filo d’aria gli uscì dalle labbra. «Penso che a Nesta non importi un acci-
dente, e non credo che Elain si aspetti di ricevere qualcosa da noi. Lascerei che le sorelle
si scambino regali tra loro.»
Az annuì con espressione distante.
Picchiettai con le dita sulla mappa, proprio sopra la Corte della Primavera. «Potrò dir-
lo a Lucien io stesso, tra un giorno o due. Di andare alla tenuta di Graysen.»
Azriel inarcò un sopracciglio. «Vuoi far visita alla Corte della Primavera?»
Avrei voluto poterlo negare. Ma invece gli dissi ciò che Eris aveva insinuato: che forse
Tamlin non avrebbe avuto voglia di rafforzare i suoi confini con il regno umano, o forse
avrebbe lasciato che li attraversasse chiunque. Dubitavo che avrei avuto una notte di ripo-
so decente finché non l’avessi saputo con certezza.
Quando conclusi, Az tolse una particella invisibile di polvere dalle scaglie di cuoio del
suo guanto. L’unico segno del suo fastidio. «Posso venire con te.»
Scossi la testa. «È meglio che lo faccia da solo.»
«Ti riferisci al vedere Lucien o Tamlin?»
«Tutti e due.»
Lucien l’avrei potuto sopportare. Tamlin... Forse non volevo testimoni per quello che
avremmo potuto dire. O fare.
«Chiederai a Feyre di venire con te?» Lanciai un’occhiata agli occhi nocciola di Azriel
e capii che aveva compreso benissimo le ragioni per cui preferivo andare da solo.
«Glielo chiederò tra qualche ora» dissi «ma dubito che vorrà. E dubito che farò del mio
meglio per convincerla a cambiare idea.»
Pace. Avevamo la pace a portata di mano. Eppure c’erano dei debiti non riscossi che
volevo sistemare.
Az annuì con aria di intesa. Era lui che mi aveva sempre capito meglio, più degli altri.
A parte la mia Metà. Non avevo mai saputo se fosse merito dei suoi doni o, semplicemen-
te, del fatto che io e lui eravamo più simili di quanto molti pensassero.
In ogni caso, Azriel sapeva un paio di cosette sui vecchi conti da regolare. Sugli squi-
libri da correggere.
E così era per la maggior parte della mia cerchia ristretta, supponevo.
«Non si sa niente di Bryaxis, immagino.» Sbirciai verso il marmo sotto i miei stivali,
come se potessi vedere fino alla biblioteca sotto quella montagna e ai livelli inferiori, ora
vuoti, che un tempo erano stati occupati.
Anche Az studiò il pavimento. «Neanche un sussurro. Né un urlo, se è per questo.»
Ridacchiai. Quel mio fratello aveva un senso dell’umorismo perverso e maligno. Ormai
da mesi avevo progettato di dare la caccia a Bryaxis, di prendere Feyre e lasciarle rintrac-
ciare l’entità che, in mancanza di una spiegazione migliore, sembrava essere la paura stes-
sa. Ma, come succedeva a molti miei piani per la mia Metà, si era messo di mezzo il diri-
gere quella Corte e capire il mondo all’esterno.
«Vuoi che gli dia la caccia?» Una domanda disinvolta e imperturbabile.
Agitai una mano e il mio anello, simbolo dell’Unione, catturò la luce del mattino. Il fat-
to che non avessi ancora sentito Feyre era sufficiente a dirmi che dormiva ancora. E, per
quanto fosse allettante l’idea di svegliarla solo per sentire il suono della sua voce, non mi
andava di farmi inchiodare le palle al muro per averle interrotto il sonno. «Lascia che an-
che Bryaxis si goda il Solstizio» dissi.
Un raro sorriso curvò le labbra di Az. «Generoso da parte tua.»
Inclinai la testa con fare drammatico, il ritratto della magnanimità regale, poi mi la-
sciai cadere sulla sedia e appoggiai i piedi sulla scrivania. «Quando parti per Rosehall?»
«La mattina dopo il Solstizio» rispose, voltandosi verso la scintillante distesa di Velaris.
Fece una lieve smorfia. «Devo provvedere ancora a qualche acquisto, prima di andare.»
Rivolsi a mio fratello un sorriso storto. «Comprale qualcosa da parte mia, ti va? E met-
tilo sul mio conto, questa volta.»
Sapevo che Az non l’avrebbe fatto, ma lui annuì lo stesso.
CASSIAN
ro alloggi, con le lampade accese all’interno. E, nella vetrina, c’era esattamente quello che
era venuto a cercare.
Un campanello sopra la porta di vetro impiombato tintinnò quando entrò Cassian, strin-
gendo a sé le ali anche se la porta era più larga del normale. Lo accolse un gradito e deli-
zioso calore, e lui si chiuse subito la porta alle spalle.
La femmina giovane e snella dietro il bancone di pino era già in piedi, immobile. E lo
osservava.
Cassian notò innanzitutto che aveva cicatrici sulle ali. Cicatrici brutali e precise lungo
i tendini centrali.
Si sentì ribollire lo stomaco per la nausea, ma le rivolse un sorriso e si diresse verso il
bancone lucidato. Menomata. Era stata menomata.
«Sto cercando Proteus» disse, guardando la femmina negli occhi castani. Svegli e ac-
corti. Era stata colta alla sprovvista dalla sua presenza, ma non aveva paura. I capelli scu-
ri, intrecciati in maniera semplice, lasciavano vedere bene la sua pelle abbronzata e il viso
stretto e spigoloso. Un viso non propriamente bello, ma sorprendente. Interessante.
Lei non abbassò gli occhi, anche se le femmine Illyrian venivano addestrate e costrette
a farlo. No: anche se le cicatrici da taglio dimostravano che le brutali usanze tradizionali
erano in uso nella sua famiglia, sostenne lo sguardo di Cassian.
Gli ricordava Nesta, quello sguardo. Era franco e inquietante.
«Proteus era mio padre» disse lei, slacciandosi il grembiule bianco e rivelando un sem-
plice vestito marrone. Poi emerse da dietro il bancone. Era.
«Mi dispiace» disse lui.
«Non è tornato a casa dalla guerra.»
Cassian si impedì di abbassare il mento. «Sono ancora più dispiaciuto, allora.»
«Perché dovresti esserlo?» Una domanda impassibile e disinteressata. Protese una mano
sottile. «Sono Emerie. Questa bottega è mia, adesso.»
Aveva tracciato un confine. E un confine insolito. Cassian le strinse la mano e non lo
sorprese scoprire che la sua presa era forte e risoluta.
Aveva conosciuto Proteus. Era rimasto stupito quando si era unito all’esercito durante
la guerra. Cassian sapeva che aveva una sola figlia e nessun figlio maschio. Nemmeno pa-
renti maschi stretti. Con la sua morte, l’attività sarebbe dovuta andare a uno di loro. Ma
era indicativo che sua figlia si fosse fatta avanti, avesse insistito che quella bottega era sua
e avesse continuato a gestirla. Esaminò lo spazio piccolo e ordinato.
Diede un’occhiata alla bottega dall’altra parte della strada, con l’insegna del tutto esaurito.
Poi a quella di Emerie, pieno di merci. Come se avesse appena ricevuto nuovi riforni-
menti. O come se non vi fosse entrato nessuno. Mai.
Il fatto che Proteus avesse posseduto e costruito quel posto, in un accampamento in cui
l’idea delle botteghe era nata solo una cinquantina di anni prima, significava che aveva avuto
un bel po’ di soldi. Forse abbastanza perché Emerie potesse tirare avanti. Ma non per sempre.
«Sì, sembra proprio che sia tua» disse infine, riportando l’attenzione su di lei. Emerie si
era allontanata di un paio di piedi, la schiena dritta, il mento sollevato.
Aveva visto anche Nesta in quella particolare posizione. L’aveva chiamata la posa “Tru-
ciderò i miei nemici”.
Ormai Cassian aveva dato un nome a circa due dozzine di posizioni di Nesta. A parti-
re da “Ti divorerò gli occhi per colazione” fino a “Non voglio che Cassian sappia che sto
leggendo sconcezze”. Quell’ultima era decisamente la sua preferita.
Sopprimendo un sorriso, Cassian indicò le graziose pile di guanti foderati di vello di
pecora e le grosse sciarpe che adornavano la vetrina. «Prenderò ogni indumento inverna-
le che hai.»
Le sopracciglia scure della ragazza si sollevarono verso l’attaccatura dei capelli. «Dici
sul serio?»
Lui si infilò una mano in tasca, tirò fuori un sacchetto di monete e glielo porse. «Que-
sto dovrebbe coprire il costo.»
Emerie soppesò il sacchetto di pelle nel palmo della mano. «Non ho bisogno di carità.»
«Allora prenditi il costo dei tuoi guanti, stivali, sciarpe e cappotti, qualunque sia, e re-
stituiscimi il resto.»
Lei non rispose, ma gettò il sacchetto sul bancone e andò alla vetrina. Trasferì sul ban-
cone tutto ciò che lui chiedeva, in pile e mucchi ordinati, poi si spostò nella stanza sul re-
tro e ne emerse con altre merci. Continuò finché non ci fu più spazio vuoto sul bancone
lucido, dopodiché si mise a contare il denaro e si udì solo il suono delle monete tintinnanti.
Poi, senza una parola, gli restituì la borsa. Cassian si trattenne dal dirle che era una dei
pochi Illyrian ad aver mai accettato i suoi soldi. Gli altri, in gran parte, ci avevano sputato
sopra o li avevano gettati a terra. Anche dopo che Rhys era diventato Signore Supremo.
Emerie studiò i mucchi di indumenti invernali sul bancone. «Vuoi che trovi borse e sca-
tole?»
Lui scosse la testa. «Non sarà necessario.»
Di nuovo, la ragazza inarcò le sopracciglia scure.
Cassian infilò una mano nel sacchetto del denaro e mise tre pesanti monete sull’unico
spazietto vuoto che riuscì a trovare sul bancone. «Per le spese di spedizione.»
«A chi?» sbottò Emerie.
«Vivi sopra il negozio, vero?» Un conciso cenno di assenso. «Allora presumo che tu ne
sappia abbastanza di questo campo, di chi vive nell’abbondanza e di chi non ha niente.
Qui, tra qualche giorno, si abbatterà una tempesta. Vorrei che distribuissi questi indumen-
ti tra quelli che potrebbero soffrirne di più.»
Lei batté le palpebre e Cassian vide che lo stava rivalutando. Poi studiò la merce am-
mucchiata. «A loro... a molti di loro non piaccio» disse, più piano di quanto lui avesse mai
sentito parlare.
«Non apprezzano neanche me. Sei in buona compagnia.»
Le si curvarono le labbra, con riluttanza. Non era esattamente un sorriso. Certo non
avrebbe sorriso a un maschio estraneo.
«Considerala una buona pubblicità per questo negozio» proseguì lui. «Di’ che è un dono
da parte del loro Signore Supremo.»
FEYRE
Mi fermai a una casa di distanza dallo studio di Ressina, con i palmi sudati sotto i guanti.
Prima di allora non avevo mai dipinto con un gruppo. Raramente mi andava di condi-
videre i miei quadri con qualcuno.
E quella prima volta di nuovo davanti a una tela, senza essere sicura di che cosa sareb-
be potuto uscire da me...
Un richiamo lungo l’Unione.
“Tutto bene?”
Una domanda casuale e sommessa. La cadenza della voce di Rhys mi lenì i tremori lun-
go i nervi.
Mi aveva detto dove intendeva andare il giorno dopo. Che informazioni voleva recuperare.
Mi aveva chiesto se volevo andare con lui.
Avevo risposto di no.
Anche se ero in debito con Tamlin per la vita della mia Metà, anche se gli avevo augu-
rato pace e felicità, non desideravo vederlo. Parlare con lui. Trattare con lui. Non per mol-
to tempo, di sicuro. Forse per sempre.
Forse era per quel motivo, forse era perché, dopo aver rifiutato l’invito di Rhys, mi ero
sentita peggio di come stavo prima, che quella sera mi ero avventurata nell’Arcobaleno.
Ma a quel punto, di fronte allo studio condiviso di Ressina, sentendo già le risate che
si levavano dalla sala in cui lei e gli altri si erano riuniti per il loro lavoro collettivo setti-
manale, la mia determinazione si spense come una candela.
“Non so se posso farlo.”
Rhys rimase in silenzio per un momento. “Vuoi che venga con te?”
“A dipingere?”
“Sarei un ottimo modello per i nudi.”
Sorrisi, senza preoccuparmi di essere da sola in strada con innumerevoli persone che mi pas-
savano accanto. Comunque, il cappuccio mi nascondeva la maggior parte del viso. “Spero che
mi perdonerai, ma non ho voglia di condividere con altri la visione del tuo corpo glorioso.”
“Forse ti farò da modello più tardi, allora.” Un lieve tocco sensuale lungo l’Unione, che
mi scaldò il sangue. “È passato un po’ di tempo dall’ultima volta che ci siamo divertiti con
la pittura.”
Mi balenarono in mente quella casa e il tavolo della cucina, e mi si seccò la bocca.
“Mascalzone.”
Una risatina. “Se vuoi entrare, entra. Se non vuoi, non farlo. Spetta a te decidere.”
Aggrottai la fronte e abbassai lo sguardo sulla tela infilata sotto un braccio, la scatola
di colori tenuta dall’altro. Guardai accigliata lo studio a trenta piedi di distanza. C’erano
ombre fitte tra me e quella macchia dorata di luce.
“So che cosa voglio fare.”
Nessuno mi notò trasmutare dentro la galleria chiusa e lo studio in fondo alla strada.
E, con le finestre sbarrate, nessuno si accorse delle sfere di luce Fae che accendevo e fa-
cevo fluttuare nell’aria, trasportate da una lieve brezza.
Ovviamente, con le finestre chiuse solo da assi e la casa vuota da mesi, la stanza prin-
cipale era gelida. Così fredda che posai i miei pacchi e saltellai sulla punta dei piedi men-
tre osservavo quello spazio.
Probabilmente era stato bello prima dell’attacco: c’era un’enorme finestra rivolta a sud,
che lasciava passare infinita luce, e il soffitto a volta era punteggiato di lucernari, anch’es-
si chiusi con assi. La galleria sul davanti era forse larga trenta piedi e profonda cinquanta,
con un bancone a metà di una parete e una porta che doveva dare su uno studio o un ma-
gazzino sul retro. Un rapido esame mi disse che avevo ragione in parte: il magazzino era
sul retro, ma lì non c’era luce naturale per dipingere. Solo finestre strette sopra una fila di
lavandini incrinati, alcuni ripiani di metallo ancora macchiati di vernice e vecchi prodot-
ti per la pulizia.
E pittura. Non proprio pittura, ma il suo odore.
Respirai profondamente, sentii che quell’odore mi penetrava nelle ossa, lasciai che vi si
depositasse insieme alla quiete di quel luogo.
La galleria sul davanti era stata anche il suo studio. Polina doveva aver dipinto mentre
chiacchierava con i clienti che osservavano i quadri appesi, di cui riuscivo appena a distin-
guere i contorni contro le pareti bianche.
Il pavimento era di pietra grigia, e frammenti di vetro brillavano ancora tra le fessu-
re delle pietre.
Non volevo iniziare a dipingere, la prima volta, davanti ad altri.
Sarei riuscita a malapena a farlo davanti a me stessa. Era sufficiente a scacciare ogni sen-
so di colpa per aver ignorato l’offerta di Ressina. Dopotutto non le avevo promesso niente.
Così evocai il mio fuoco per cominciare a riscaldare l’aria, e feci ardere piccole sfere di
fiamme a mezz’aria in tutta la galleria. Illuminandola ulteriormente. Ridandole vita con
il calore.
Poi andai in cerca di uno sgabello.
FEYRE
O la me stessa che avevo visto dentro l’Ouroboros, quella bestia fatta di squame, arti-
gli e oscurità; di rabbia e gioia e freddo. Tutto quello che c’era in me. Ciò che stava in ag-
guato sotto la mia pelle.
Non ero fuggita quando l’avevo visto nello specchio. E non ero fuggita dipingendolo.
Sì, era il primo punto per chiudere una ferita. Ecco l’effetto che mi faceva.
Con il pennello penzoloni tra le ginocchia, con quella bestia immortalata sulla tela, il
mio corpo si afflosciò un po’. Come se fosse senza ossa.
Studiai la galleria, la strada dietro le finestre sbarrate. Nessuno era venuto a indagare
sulle luci accese, durante le ore che avevo passato lì.
Alla fine mi alzai, mi stirai e gemetti. Non potevo portarlo con me. Il quadro doveva
asciugarsi, e non gli avrebbe certo fatto bene l’aria notturna, resa umida dal fiume e dal
mare lontano.
Di sicuro non l’avrei riportato alla casa di città, perché non volevo che qualcuno lo tro-
vasse. Neanche Rhys.
Ma lì... Se anche fosse entrato qualcuno, non avrebbe saputo chi l’aveva dipinto. Non
l’avevo firmato con il mio nome. Non volevo.
Se l’avessi lasciato lì ad asciugare durante la notte, se fossi tornata il giorno dopo, poi
l’avrei potuto sicuramente nascondere in un ripostiglio nella Casa del Vento.
L’indomani, allora. Sarei tornata l’indomani a reclamarlo.
RHYSAND
mano nella tasca della giacca nera, senza ali o indumenti di cuoio Illyrian in vista, men-
tre bussavo alle porte rovinate.
Silenzio.
E poi...
Tamlin stesso aprì la porta.
Non sapevo bene che cosa commentare: il maschio smunto davanti a me o la casa buia
dietro di lui.
Era un bersaglio facile. Un bersaglio troppo facile; non valeva la pena di deridere i ve-
stiti – un tempo eleganti – che avevano un disperato bisogno di essere lavati, i capelli ar-
ruffati che chiedevano a gran voce di essere spuntati. La villa era vuota, non si vedeva un
servitore, non c’erano decorazioni per il Solstizio.
Neanche gli occhi verdi che guardarono i miei erano quelli a cui ero abituato. Ossessio-
nati e tetri. Non c’era una scintilla di vita.
Sarebbe bastato qualche minuto per farlo a pezzi, anima e corpo. Per finire quello che
senza dubbio era iniziato il giorno in cui Feyre aveva gridato in silenzio al loro matrimo-
nio, e io ero andato lì.
Ma... avevamo bisogno di pace. Il nostro obiettivo era la pace.
Avrei potuto farlo a pezzetti dopo aver raggiunto quell’obiettivo.
«Lucien mi aveva detto che saresti venuto» disse Tamlin in segno di saluto, con una voce
piatta e senza vita come i suoi occhi, una mano ancora appoggiata alla porta.
«Buffo... pensavo che fosse la sua Metà ad avere il dono della veggenza.»
Tamlin si limitò a fissarmi, ignorando – o non rilevando – l’umorismo. «Che cosa vuoi?»
Nessun suono dietro di lui. Su ogni acro di quella tenuta. Nemmeno un singolo cin-
guettio. «Sono venuto per fare due chiacchiere.» Gli rivolsi un sorrisetto che, lo sapevo, lo
mandava su tutte le furie. «Posso scomodarti per una tazza di tè?»
La biblioteca non era ancora stata distrutta. Probabilmente mi aveva portato nell’unica
stanza di quella casa che avesse ancora mobili utilizzabili.
Tenni la bocca chiusa mentre ci dirigevamo verso una grande scrivania al centro del-
la sala; Tamlin occupò una sedia decorata e imbottita su un lato della scrivania stessa. In
quei giorni doveva essere l’unica cosa rimasta che somigliasse a un trono.
Mi adagiai sul sedile uguale di fronte a lui e il legno chiaro gemette in segno di pro-
testa. Probabilmente quelle sedie erano state pensate per ridenti cortigiani, non per due
guerrieri adulti.
Cadde il silenzio, denso come il vuoto di quella casa.
«Se sei venuto a gongolare, puoi risparmiarti lo sforzo.»
Mi posai una mano sul petto. «Perché dovrei disturbarmi?»
Nessun segno di divertimento. «Di che cosa volevi parlare?»
Studiai con ostentazione i libri, il soffitto a volta dipinto. «Dov’è il mio caro amico
Lucien?»
«A caccia della nostra cena.»
«A te non interessano queste cose, al momento?»
Gli occhi di Tamlin rimasero spenti. «Se n’è andato prima che mi svegliassi.»
A caccia della cena, perché lì non c’erano servitori che preparassero il cibo. O che lo
comprassero.
Non potevo dire di soffrire per lui.
Mi dispiaceva solo per Lucien, che ancora una volta era stato intrappolato dall’amicizia.
Posai una caviglia sopra un ginocchio e mi appoggiai allo schienale della sedia. «Cos’è
questa faccenda che ho sentito, sul fatto che non fai rispettare i tuoi confini?»
Un attimo di silenzio. Poi Tamlin indicò la porta. «Vedi qualche sentinella che possa
farlo?»
Anche loro lo avevano abbandonato. Interessante. «Feyre ha fatto bene il suo lavoro,
non è vero?»
Un lampo di denti bianchi, un barlume di luce nei suoi occhi. «Seguendo le tue istru-
zioni, senza dubbio.»
Sorrisi. «Oh, no. Ha fatto tutto lei. Intelligente, non è vero?»
Tamlin strinse il bracciolo curvo della sedia. «Credevo che il Signore Supremo della
Corte della Notte non si disturbasse a vantarsi.»
Non sorrisi mentre replicavo: «Penserai che dovrei ringraziarti, per avere contribuito a
resuscitarmi».
«Non mi illudo: il giorno in cui mi ringrazierai di qualcosa, Rhysand, sarà il giorno in
cui le fiamme dell’inferno diventeranno fredde.»
«Poetico.»
Un ringhio basso.
Troppo facile. Era fin troppo facile innervosirlo, irritarlo. E anche se non avevo dimen-
ticato il muro, la pace di cui avevamo bisogno, dissi: «Hai salvato la vita della mia Metà in
diverse occasioni. Te ne sarò sempre grato».
«Non permetterò l’accesso alle mie terre neanche a un solo bruto della Corte della Notte.»
La sua gente lo disprezzava già a sufficienza, a quanto pareva.
E a quella parola – bruto – ne ebbi abbastanza. Era un territorio pericoloso. Almeno per
me. Era pericoloso lasciarmi trascinare dal mio temperamento. Perlomeno quando c’era lui.
Mi alzai dalla sedia, Tamlin non si mosse. «È colpa tua tutto quello che ti è successo»
dissi, ancora a voce bassa. Non avevo bisogno di urlare per trasmettere la mia rabbia. Non
ne avevo mai avuto bisogno.
«Hai vinto» sembrò sputare, inclinandosi in avanti. «Hai la tua Metà. Non è suffi-
ciente?»
«No.»
La parola echeggiò nella biblioteca.
«L’hai quasi distrutta. In ogni modo possibile.»
Tamlin mi mostrò i denti. Io gli mostrai i miei, e al diavolo il controllo del tempera-
mento. Lasciai che un po’ del mio potere rimbombasse nella sala, nella casa, nei giardini.
«Però è sopravvissuta. È sopravvissuta a te. E tu hai ancora sentito il bisogno di umiliar-
la, di sminuirla. Se volevi riconquistarla, vecchio mio, non era quella la strada più saggia.»
«Vattene.»
Non avevo finito. Non ci ero neanche arrivato vicino. «Ti meriti tutto quello che ti è ac-
caduto. Ti meriti questa casa patetica e vuota, ti meriti le tue terre devastate. Non mi in-
teressa se hai offerto quel nucleo di vita per salvarmi, non mi interessa se ami ancora la
mia Metà. Non mi importa se l’hai salvata da Hybern o, prima, da mille altri nemici.» Le
parole si riversavano da me, fredde e regolari. «Spero che tu viva il resto della tua mise-
rabile vita qui, da solo. Mi darà molta più soddisfazione che massacrarti.» Feyre una vol-
ta era giunta alla stessa decisione. Allora ero stato d’accordo con lei, e lo ero ancora, ma
solo ora la capivo veramente.
Gli occhi verdi di Tamlin divennero feroci.
Mi irrigidii, mi preparai... lo volevo. Volevo che lui saltasse su da quella sedia e si lan-
ciasse contro di me, volevo che i suoi artigli cominciassero a squarciarmi.
Il sangue mi martellava nelle vene, il mio potere vorticava dentro di me.
Combattendo, avremmo potuto distruggere quella casa. Ridurla in macerie. E poi avrei
trasformato le pietre e il legno in nient’altro che polvere nera.
Ma Tamlin si limitò a fissarmi. E, dopo un istante, abbassò gli occhi sulla scrivania.
«Vattene.»
Sbattei le palpebre, l’unico segno della mia sorpresa. «Non ti va una rissa, Tamlin?»
Non si disturbò a guardarmi di nuovo. «Vattene» si limitò a ripetere.
Un maschio distrutto.
Distrutto dalle sue stesse azioni, dalle sue scelte.
Non era un problema mio. Non meritava la mia compassione.
Ma mentre trasmutavo, e il vento oscuro mi sferzava intorno, una strana sensazione di
vuoto mise radici nel mio stomaco.
Tamlin non aveva scudi attorno alla casa. Non c’era niente che potesse impedire a qual-
cuno di trasmutare lì dentro, che potesse impedire ai suoi nemici di apparire nella sua ca-
mera da letto e tagliargli la gola.
Era quasi come se stesse aspettando che qualcuno lo facesse.
Incontrai Feyre che stava tornando a casa; presumibilmente era stata a fare acquisti, per-
ché alcune borse le pendevano dalle mani inguantate.
Il suo sorriso quando atterrai accanto a lei, con la neve che ci sferzava intorno, mi fece
l’effetto di un pugno nel cuore.
Tuttavia il sorriso svanì immediatamente quando mi guardò bene in faccia.
Anche se eravamo nel bel mezzo di una trafficata strada cittadina, mi mise una mano
sulla guancia. «È andata così male?»
Annuii e appoggiai la guancia alla sua mano. Il massimo che potevo fare.
Mi diede un bacio sulla bocca; le sue labbra mi sembrarono così calde da farmi capi-
re che avevo freddo.
«Torna a casa con me» disse, prendendomi a braccetto e stringendosi a me.
Obbedii e le presi le borse dall’altra mano. Mentre superavamo vari isolati e attraver-
savamo la gelida Sidra, e poi risalivamo le ripide colline, glielo raccontai. Le riferii tutto
quello che avevo detto a Tamlin.
«In confronto a come insulti Cassian, direi che sei stato abbastanza mite» osservò quan-
do ebbi finito.
Sbuffai. «In questo caso non era necessario imprecare.»
Rifletté sulle mie parole. «Sei andato lì perché eri preoccupato per il muro, o solo per-
ché volevi dirgli quelle cose?»
«Tutte e due le cose.» Non potevo mentirle su quell’argomento. «E forse massacrarlo.»
Un lampo d’allarme le accese gli occhi. «E questo a che cosa è dovuto?»
Non lo sapevo. «Ho solo...» Mi mancarono le parole.
Strinse il braccio attorno al mio, e mi voltai per studiarle il viso. Era aperto, comprensi-
vo. «Le cose che hai detto... non erano sbagliate» dichiarò. Nessun giudizio, nessuna rabbia.
Una parte del vuoto che avevo dentro si riempì un po’. «Avrei dovuto essere il maschio
più maturo.»
«Sei il maschio più maturo quasi tutti i giorni. Hai il diritto di commettere un errore.»
Fece un ampio sorriso. Luminoso come la luna piena, più bello di qualsiasi stella.
Non le avevo ancora preso un regalo per il Solstizio. Né per il compleanno.
Inclinò la testa vedendo il mio cipiglio e la treccia le scivolò su una spalla. Ci passai so-
pra una mano, per il piacere di sentire quei fili di seta contro le mie dita congelate. «Ci ve-
diamo a casa» dissi, ridandole le borse.
Fu il suo turno di aggrottare la fronte. «Dove vai?»
La baciai sulla guancia, respirando il suo profumo di lillà e pera. «Devo sbrigare qualche
commissione.» E poi guardarla, camminare accanto a lei, non aveva placato la rabbia che
ancora mi si agitava nelle viscere. No: quel bel sorriso mi faceva venire voglia di trasmutare
di nuovo alla Corte della Primavera e piantare la mia lama Illyrian nelle viscere di Tamlin.
Esaminai tutto quello che la mia gioielliera preferita aveva disposto sul velluto nero sopra
il bancone di vetro. Sotto le luci del suo accogliente negozio accanto al palazzo, avevano
un fuoco interno che sembrava chiamare con un cenno.
Zaffiri, smeraldi, rubini... Feyre li aveva tutti. Be’, in quantità moderate. Tranne quei
bracciali di diamanti che le avevo dato per la Notte delle Stelle.
Li aveva portati solo due volte.
Quella notte in cui avevo ballato con lei fino all’alba, osando appena sperare che potes-
se iniziare a provare per me una frazione di quello che provavo per lei.
E la notte in cui eravamo tornati a Velaris, dopo la battaglia finale con Hybern. Quan-
do aveva indossato solo quelli.
Scossi la testa e dissi alla Fae snella ed eterea dietro il bancone: «Per quanto siano bel-
li, Neve, non credo che la Signora voglia gioielli per il Solstizio».
Una scrollata di spalle, per niente delusa. Ero un cliente abituale e Neve sapeva che pre-
sto mi avrebbe venduto qualcos’altro.
Fece scivolare il vassoio sotto il bancone e ne tirò fuori un altro, muovendo dolcemen-
te le mani velate dalla notte.
Non era uno spettro, ma qualcosa di simile: il suo corpo alto e snello era avvolto da om-
bre permanenti. Solo i suoi occhi, simili a carboni ardenti, erano sempre visibili. Il resto
tendeva ad apparire e scomparire, come se le ombre si aprissero per rivelare una mano scu-
ra, una spalla, un piede. Il suo popolo era tutto composto da maestri gioiellieri, che viveva-
no nelle più profonde miniere di montagna della nostra corte. La maggior parte dei nostri
cimeli di famiglia era stata creata dai Tartera, compresi i braccialetti e le corone di Feyre.
Neve agitò una mano ombrosa sul vassoio che aveva sottoposto al mio esame. «Li ave-
vo selezionati in precedenza. Se non è troppo presuntuoso, potresti prenderli in conside-
razione per la Signora Amren.»
In effetti, tutti sembravano cantare il nome di Amren. Pietre grandi, castoni delicati.
Gioielli possenti, per la mia possente amica. Che aveva fatto così tanto per me, per la mia
Metà, per la nostra gente. Per il mondo.
Esaminai i tre gioielli. Sospirai. «Li prendo tutti.»
Gli occhi di Neve brillarono come una fornace vivente.
FEYRE
Alla fine mi rimise giù. «Che cosa mi hai portato per il Solstizio?»
Gli diedi uno schiaffetto sul braccio. «Un enorme mucchio di chiudi-quella-boccaccia.»
Rise di nuovo e io gli strizzai l’occhio. «Cioccolata calda o vino?»
Cassian mi circondò con un’ala e fece voltare entrambi verso la porta della cantina.
«Quante bottiglie buone ci ha lasciato il piccolo Rhysie?»
Ne bevemmo due prima che arrivasse Azriel, desse un’occhiata ai nostri tentativi ubriachi
di decorazione e decidesse di migliorarli prima che chiunque altro potesse vedere il casi-
no che avevamo fatto.
Seduti su un divano davanti al fuoco di betulla nel soggiorno, ghignavamo come de-
moni mentre il cantaombre raddrizzava le corone e le ghirlande che avevamo buttato qua
e là, raccoglieva gli aghi di pino che avevamo sparso sui tappeti e, soprattutto, scuoteva la
testa per quello che vedeva.
«Az, rilassati per un minuto» biascicò Cassian, agitando una mano. «Prendi un po’ di
vino. Biscotti.»
«E togliti il cappotto» aggiunsi, puntando la bottiglia verso il cantaombre, che non si
era nemmeno preoccupato di spogliarsi prima di sistemare il nostro casino.
Azriel raddrizzò una parte floscia della ghirlanda sul davanzale della finestra. «È quasi
come se vi foste sforzati di rendere tutto il più brutto possibile.»
Cassian si afferrò il cuore. «Questo ci offende.»
Azriel rivolse un sospiro al soffitto.
«Povero Az» dissi, riempiendomi un altro bicchiere. «Il vino ti farà sentire meglio.»
Lui mi lanciò un’occhiataccia, poi guardò la bottiglia, poi Cassian... e infine attraversò in
un lampo la stanza, mi tolse la bottiglia di mano e ingollò il resto. Cassian ghignò di gioia.
Soprattutto perché in quel momento Rhys disse, dalla porta: «Be’, almeno ora so chi sta
bevendo tutto il mio vino migliore. Ne vuoi un’altra bottiglia, Az?».
Azriel quasi sputò il vino nel fuoco, ma si costrinse a deglutire e a voltarsi, rosso in fac-
cia, verso Rhys. «Vorrei spiegare...»
Rhys rise, e quel suono intenso rimbalzò sulle modanature di quercia intagliata della
stanza. «Cinque secoli, e pensi che non sappia ancora che, se il mio vino finisce, di soli-
to c’è dietro Cassian?»
Il quale alzò il bicchiere in segno di saluto.
Rhys esaminò la stanza e ridacchiò. «Si capisce benissimo quali decorazioni avete fatto voi
due, e quali ha cercato di sistemare Azriel prima che io arrivassi.» Azriel si stava massaggiando
una tempia. Rhys mi guardò e inarcò un sopracciglio. «Mi aspettavo di meglio, da un’artista.»
Gli mostrai la lingua.
Un istante dopo mi disse nella mente: “Risparmia quella lingua per dopo. Ho qualche
idea su come usarla”.
Mi si incurvarono le dita dei piedi nei calzettoni spessi e alti.
«Fa un freddo infernale!» proclamò Mor dall’ingresso, distogliendomi dal calore che stava
crescendo dentro di me. «E chi diavolo ha lasciato le decorazioni in mano a Cassian e Feyre?»
Azriel sembrò strozzarsi con quella che avrei giurato essere una risata, e il suo viso nor-
malmente ombroso si illuminò all’ingresso di Mor, rosea per il freddo, che si soffiava aria
nelle mani. Lei, invece, si accigliò. «Voi due non potevate aspettare che arrivassi anch’io,
prima di aprire il vino buono?»
Sorrisi quando Cassian disse: «Avevamo appena attaccato la collezione di Rhys».
Rhys si grattò la testa. «È lì per tutti voi, lo sapete. Servitevi pure.»
«Parole pericolose, Rhysand» lo ammonì Amren mentre attraversava impettita la porta;
era quasi inghiottita dalla sua enorme pelliccia bianca. Sopra il colletto erano visibili solo
i capelli scuri, lunghi fino al mento, e i suoi occhi d’argento. Sembrava...
«Sembri una palla di neve rabbiosa» disse Cassian.
Strinsi le labbra per trattenere una risata. Ridere di Amren non era mai una mossa saggia.
Anche ora, con i suoi poteri in buona parte scomparsi e un corpo stabile da Fae Superiore.
La palla di neve rabbiosa lo fissò con gli occhi socchiusi. «Attento, ragazzo. Non ti con-
viene dare il via a una guerra che non puoi vincere.» Sbottonò il colletto e tutti la ascol-
tammo mentre diceva chiaramente: «Soprattutto con Nesta Archeron che verrà per il Sol-
stizio, tra due giorni».
Sentii qualcosa che si propagava tra loro: Cassian, Mor e Azriel. Sentii la pura rabbia che
emanava Cassian, la cui allegria mezza ubriaca svanì di colpo. Disse a bassa voce: «Chiu-
di la bocca, Amren».
Mor stava osservando così da vicino che era difficile non fissarla. Io lanciai un’occhiata
a Rhys, ma un’espressione contemplativa si era impossessata della sua faccia.
Amren si limitò a sorridere, e quelle labbra rosse si aprirono tanto da mostrare la mag-
gior parte dei suoi denti bianchi mentre andava verso l’armadio dell’ingresso e diceva, da
sopra una spalla: «Mi divertirò a vedere come ti fa a brandelli. Ammesso che arrivi sobria».
E quello era sufficiente. Rhys sembrava avere la stessa idea ma, prima che potesse dire
qualcosa, intervenni io: «Lascia perdere Nesta, Amren».
Amren mi rivolse quello che si sarebbe potuto considerare uno sguardo di scuse. Ma,
mentre infilava il suo enorme cappotto nell’armadio, si limitò a dire: «Sta arrivando Varian,
quindi datevi pace».
Elain era in cucina e stava aiutando Nuala e Cerridwen a preparare la cena. Anche se man-
cavano due notti al Solstizio, erano venuti tutti nella casa di città.
Tutti tranne una persona.
«Sai qualcosa di Nesta?» chiesi a mia sorella a mo’ di saluto.
Elain sollevò il busto dalle pagnotte roventi che aveva tirato fuori dal forno; aveva i ca-
pelli raccolti solo a metà e il grembiule, sopra il vestito rosa, imbiancato dalla farina. Sbat-
té le palpebre sui grandi occhi castani. «No. Le ho chiesto di unirsi a noi stasera e, quan-
do avesse deciso, di farmelo sapere. Non ho avuto risposta.»
Agitò uno strofinaccio sul pane per raffreddarlo un po’, poi sollevò una pagnotta e pic-
chiettò sul fondo. Ne uscì un suono cupo che evidentemente la convinse.
«Credi che valga la pena di andarla a prendere?»
Elain si mise lo strofinaccio sulla spalla sottile e si arrotolò le maniche fino al gomito.
La sua pelle aveva preso colore in quei mesi, almeno finché non era arrivato il freddo. Le si
era anche riempito il viso. «Vorresti che ti rispondessi come sua sorella o come veggente?»
Mantenni il viso calmo e sereno e mi appoggiai al tavolo da lavoro.
Elain non aveva accennato ad altre visioni. E noi non le avevamo chiesto di usare il suo
dono. Se esistesse ancora, con la distruzione del Calderone e poi la sua riformazione, non
lo sapevo. E non glielo volevo chiedere.
«Conosci Nesta meglio di me» risposi cautamente. «Pensavo che ti facesse piacere dire
la tua.»
«Se Nesta non vuole venire qui stasera, portarla qui sarebbe un problema tale che non
ne varrebbe la pena.»
La voce di Elain era più fredda del solito. Lanciai un’occhiata a Nuala e Cerridwen e
quest’ultima scosse la testa come per dire “Non è in una buona giornata”.
Come tutti noi, Elain stava guarendo pian piano. Aveva pianto per ore il giorno in cui
l’avevo portata su una collina ricoperta di fiori selvatici alla periferia della città, fino alla
lapide di marmo che avevo fatto erigere lì in onore di nostro padre.
Avevo ridotto il suo corpo in cenere dopo che il re di Hybern l’aveva ucciso, ma si me-
ritava comunque un luogo di riposo. Per tutto quello che aveva fatto alla fine, si merita-
va la bellissima lapide su cui avevo fatto scolpire il suo nome. Ed Elain si era meritata un
luogo in cui fargli visita, in cui parlare con lui.
Ci andava almeno una volta al mese.
Nesta non c’era mai stata. Aveva ignorato il mio invito a venire con noi quel primo gior-
no, e ogni volta successiva.
Mi piazzai accanto a Elain e presi un coltello dall’altra parte del tavolo per iniziare a ta-
gliare il pane. Lungo il corridoio echeggiavano i suoni della mia famiglia: la risata lumi-
nosa di Mor copriva il rombo di Cassian.
Attesi di avere una pila di fette fumanti prima di dire: «Nesta fa ancora parte di que-
sta famiglia».
«Davvero?» Elain infilò il coltello in profondità nella pagnotta successiva. «Di certo non
si comporta come se fosse così.»
Nascosi il mio cipiglio. «È successo qualcosa, oggi, quando l’hai vista?» Elain non ri-
spose. Continuò ad affettare il pane.
E quindi continuai anch’io. Non mi piaceva quando gli altri cercavano di costringermi
a parlare. Le avrei offerto la stessa cortesia.
Continuammo a lavorare in silenzio, poi iniziammo a riempire i vassoi con il cibo che
Nuala e Cerridwen avevano dichiarato pronto; le loro ombre le velavano più del solito.
Per garantirci un senso di intimità. Lanciai loro uno sguardo di gratitudine, ma entrambe
scossero la testa. Non era necessario ringraziarle. Avevano passato più tempo con Elain di
quanto ne avessi passato io. Capivano i suoi stati d’animo, sapevano di che cosa aveva bi-
sogno a volte.
Fu solo quando Elain e io eravamo nel corridoio, e stavamo portando nella sala da
pranzo il primo dei piatti da portata, che lei parlò. «Nesta ha detto che non vuole veni-
re al Solstizio.»
«Va bene.» Anche se mi si torse qualcosa nel petto.
«Ha detto che non vuole venire neanche in altre occasioni. Mai.»
Mi fermai, studiando il dolore e la paura che in quel momento lampeggiavano negli oc-
chi di Elain. «Ha detto perché?»
«No.» Rabbia: c’era anche rabbia sul viso di Elain. «Ha detto solo... ha detto che noi
abbiamo le nostre vite, e lei ha la sua.»
Che lo dicesse a me, poteva andar bene. Ma a Elain?
Inspirai. Il mio stomaco gorgogliò quando mi si riempì il naso con il profumo di salvia
e limone del pollo arrosto che tenevo tra le mani. «Le parlerò.»
«No» disse Elain in tono piatto, riprendendo a camminare; veli di vapore le fluttuava-
no sulle spalle dal piatto di patate al rosmarino arrostite che aveva in mano, come se fos-
sero le ombre di Azriel. «Non ti ascolterà.»
Altroché se l’avrebbe fatto.
«E tu?» mi costrinsi a chiedere. «Stai... bene?»
Elain mi guardò da sopra una spalla quando entrammo nell’atrio, poi girò a sinistra, in
sala da pranzo. Nel soggiorno lì di fronte, tutte le conversazioni si interruppero all’odo-
re del cibo. «Perché non dovrei stare bene?» chiese, con il volto illuminato da un sorriso.
Avevo già visto quei sorrisi. Sulla mia dannata faccia.
Ma gli altri arrivarono precipitosamente dal soggiorno, e Cassian diede un bacio su una
guancia a Elain in segno di saluto, poi quasi la sollevò per spostarla e poter andare al tavo-
lo da pranzo. Dopo arrivò Amren che rivolse un cenno del capo a mia sorella. Le luci Fae,
sparse sulle ghirlande nell’ingresso, facevano scintillare la sua collana di rubini. Poi Mor, che
le schioccò un bacio su ogni guancia. Poi Rhys, scuotendo la testa a Cassian, che aveva ini-
ziato a servirsi dai piatti che Nuala e Cerridwen trasmutavano lì. Dato che Elain viveva con
noi, la mia Metà la salutò solo con un sorriso prima di prendere posto alla destra di Cassian.
Azriel emerse dal soggiorno, con un bicchiere di vino in mano e le ali ripiegate all’in-
dietro, che lasciavano vedere la sua giacca nera – semplice ma bella – e i pantaloni del-
lo stesso colore.
Più che vederla, sentii mia sorella immobilizzarsi mentre Az si avvicinava, e le sussul-
tò la gola.
«Hai intenzione di tenerti quel pollo tutta la notte?» mi chiese Cassian dal tavolo.
Accigliandomi, andai verso di lui e posai il piatto sulla superficie di legno. «Ci ho spu-
tato dentro» dissi con dolcezza.
«Il che lo avrà reso ancora più delizioso» cantilenò Cassian, e subito sorrise. Rhys ri-
dacchiò e bevve un lungo sorso del suo vino.
Io andai al mio posto – annidata tra Amren e Mor – in tempo per vedere Elain che di-
ceva ad Azriel: «Ciao».
Az non disse niente.
No, le si era appena avvicinato.
«E non perdevo tanto tempo per consumarlo» grugnì Amren, sollevando un minuscolo
brandello di pollo arrosto verso le labbra dipinte di rosso.
Ci volevano pasti piccoli e lenti per Amren. Il primo pasto normale che aveva mangia-
to al ritorno dalla battaglia, una scodella di zuppa di lenticchie, l’aveva fatta vomitare per
un’ora. Quindi era stato necessario un adattamento graduale. Non poteva ancora tuffarsi
nei pasti come tendevamo a fare tutti noi. Non sapevamo se era un problema totalmente
fisico o se, forse, aveva bisogno di un periodo di adattamento psicologico.
«E poi ci sono altre spiacevoli conseguenze del mangiare» continuò Amren, tagliando
le sue carote in minuscole schegge.
Azriel e Cassian si scambiarono un’occhiata, poi entrambi sembrarono trovare i loro
piatti molto interessanti. Anche se un sorriso era spuntato sui loro visi.
Elain chiese: «Che tipo di conseguenze?».
«Non rispondere» disse subito Rhys, indicando Amren con la forchetta.
Amren gli sibilò, con i capelli scuri che ondeggiavano come una cortina di notte liqui-
da: «Sai quanto è disagevole dover trovare un posto per liberarmi ovunque io vada?».
Un suono effervescente provenne dal lato del tavolo dov’era Cassian, ma io strinsi le labbra.
Mor mi afferrò un ginocchio sotto il tavolo; tremava per lo sforzo di tenere a freno la sua risata.
Rhys chiese ad Amren: «Vuoi che cominciamo a costruire bagni pubblici per te in tut-
ta Velaris, Amren?».
«Dico sul serio, Rhysand» scattò Amren. Non osavo incrociare lo sguardo di Mor. O
di Cassian. Uno sguardo e mi sarei dissolta in risate. Amren agitò una mano verso di sé.
«Avrei dovuto scegliere una forma maschile. Almeno puoi tirarlo fuori e andare dove ti
pare senza doverti preoccupare di versare...»
Cassian perse la battaglia contro l’ilarità. Poi Mor. Poi io. E persino Az ridacchiò un po’.
«Davvero non sai ancora come fare la pipì?» ruggì Mor. «Dopo tutto questo tempo?»
Amren ribolliva. «Ho visto animali...»
«Dimmi che sai come funziona un gabinetto» esplose Cassian, battendo il palmo aper-
to sul tavolo. «Dimmi che sai almeno questo.»
Mi premetti una mano sulla bocca, come se potessi ricacciare indietro la risata. Dall’al-
tra parte del tavolo, gli occhi di Rhys erano più luminosi delle stelle e la sua bocca una li-
nea tremante mentre cercava, senza riuscirci, di rimanere serio.
«So come sedermi sulla tazza» ringhiò Amren.
Mor aprì la bocca, con l’ilarità che le danzava sul viso, ma Elain chiese: «Avresti potu-
to farlo? Avresti potuto decidere di assumere una forma maschile?».
La domanda interruppe di colpo le risate, come una freccia scoccata tra noi.
Amren studiò mia sorella, che era arrossita per quel nostro discorso a tavola. «Sì» disse
semplicemente. «Prima, nella mia altra forma, non ero né l’uno né l’altro. Semplicemente ero.»
«Allora perché scegliesti quel corpo?» chiese Elain, mentre le curve della sua treccia ca-
stano-dorato catturavano la luce Fae del lampadario.
«Ero più attratta dalla forma femminile» rispose semplicemente Amren. «Pensai che era
più simmetrica. Mi appagava.»
Mor guardò accigliata la sua stessa forma, i suoi considerevoli pregi. «Vero.»
Cassian ridacchiò.
Elain chiese: «E dopo esserti ritrovata in quel corpo, non potevi cambiare?».
Gli occhi di Amren si strinsero leggermente. Raddrizzai la schiena e spostai lo sguar-
do tra l’una e l’altra. Era insolito che Elain parlasse tanto, ma stava migliorando. La mag-
gior parte dei giorni era lucida, forse silenziosa e incline alla malinconia, ma consapevole.
Elain, con mia sorpresa, sostenne lo sguardo di Amren.
Dopo un momento Amren disse: «Me lo chiedi perché ti incuriosisce il mio passato o
il tuo futuro?».
La domanda mi lasciò troppo sbalordita per pensare a rimproverare Amren. Lo stesso
accadde agli altri.
La fronte di Elain si aggrottò prima che potessi intervenire. «Che cosa intendi?»
«Non si può tornare a essere umani, ragazza» disse Amren, forse con una traccia di
gentilezza.
«Amren» la ammonii.
Elain arrossì ulteriormente e drizzò la schiena. Ma non scappò. «Non so di che cosa tu
stia parlando.» Non avevo mai sentito la voce di Elain così fredda.
Guardai gli altri. Rhys era accigliato, Cassian e Mor stavano entrambi facendo una smor-
fia, e Azriel... C’era compassione sul suo bel viso, mentre guardava mia sorella. Compas-
sione e dolore.
Erano mesi che Elain non parlava dell’essere stata Creata, o del Calderone, o di Graysen.
Avevo pensato che forse si stesse abituando a essere una Fae Superiore, che forse avesse
iniziato a distaccarsi dalla sua vita mortale.
«Amren, hai un vero talento per rovinare la conversazione a cena» disse Rhys, facendo
roteare il suo vino. «Chissà, forse potresti farne una carriera.»
La sua seconda in comando lo fulminò con gli occhi. Ma Rhys sostenne il suo sguardo,
con un ammonimento silenzioso sul viso.
“Grazie” dissi lungo l’Unione. In risposta mi giunse una calda carezza.
«Scegliti avversari della tua stessa taglia» disse Cassian ad Amren, infilandosi con foga
il pollo arrosto in bocca.
«Mi dispiacerebbe per i topi» borbottò Azriel.
Mor e Cassian ulularono divertiti, guadagnandosi un rossore da parte di Azriel e un sor-
riso di gratitudine da parte di Elain, e non mancarono occhiate truci da parte di Amren.
Ma qualcosa in me si rilassò sentendo quella risata, vedendo tornare la luce negli oc-
chi di Elain.
Non avrei permesso che quella luce si attenuasse ulteriormente.
“Devo uscire dopo cena” dissi mentalmente a Rhys mentre riprendevo a mangiare. “Ti
andrebbe un volo fino all’altro capo della città?”
to dell’edificio fatiscente in cui aveva scelto di vivere, poi inviai un filo di magia attraver-
so l’appartamento oltre quella porta.
Rhys aveva eretto barriere intorno all’intero edificio, e con la nostra magia unita, l’unio-
ne delle nostre anime, non c’era possibilità di resistere al filo di potere che avevo proiet-
tato attraverso la porta e dentro l’appartamento stesso.
Niente. Nessun segno di vita o... o peggio ancora.
Non era a casa.
Avevo una buona idea di dove potesse essere.
Quando tornai sulla strada gelata, vorticai le braccia per mantenermi in equilibrio men-
tre i miei stivali scivolavano sul ghiaccio che ricopriva le pietre.
Appoggiato a un lampione, Rhys ridacchiò e non si mosse di un pollice. La luce Fae gli
indorava gli artigli in cima alle ali.
«Stronzo» bofonchiai. «La maggior parte dei maschi aiuterebbe la sua Metà se stesse
per spaccarsi la testa sul ghiaccio.»
Si staccò dal lampione e venne verso di me, ogni movimento fluido e calmo. Anche
dopo tutto quel tempo, avrei passato ore a guardarlo.
«Ho la sensazione che, se fossi intervenuto, mi avresti staccato la testa a morsi per es-
sermi comportato come una chioccia prepotente. Mi hai già chiamato così.»
Brontolai una risposta che lui scelse di non sentire.
«Non è a casa, allora?»
Brontolai di nuovo.
«Be’, ci sono esattamente altri dieci posti in cui potrebbe essere.»
Feci una smorfia.
Rhys chiese: «Vuoi che la cerchi?».
Non parlava di andare a cercarla fisicamente, ma di usare il suo potere per trovare Ne-
sta. Non avevo voluto che lo facesse prima, perché mi sembrava una sorta di violazione
della sua intimità, ma visto che faceva un freddo tremendo... «Va bene.»
Rhys mi circondò con le braccia e poi con le ali, avvolgendomi nel suo calore, mentre
mi mormorava tra i capelli: «Tieniti forte».
L’oscurità e il vento turbinarono attorno a noi, e io nascosi il viso sul suo petto, inspiran-
do il suo odore.
Poi ci furono risate e canti, musica ad alto volume, l’odore pungente della birra stan-
tia, il morso del freddo...
Gemetti quando vidi dove ci aveva trasmutati, dove aveva individuato mia sorella.
«Ci sono cantine in questa città» disse Rhys, rabbrividendo. «Ci sono sale da concerto.
Ristoranti raffinati. Circoli eleganti. Eppure tua sorella...»
Eppure mia sorella era riuscita a trovare le taverne più squallide e miserabili di Velaris.
Non erano molte. Ma lei le frequentava tutte. E quella, la Tana del lupo, era di gran lun-
ga la peggiore.
«Aspetta qui» dissi sopra il suono di violini e tamburi che fuoriusciva dalla taverna,
mentre mi staccavo dal suo abbraccio. In fondo alla strada, alcuni festaioli ubriachi ci av-
vistarono e tacquero. Sentirono il potere di Rhys, forse anche il mio, e decisero di anda-
re altrove per un po’.
Di sicuro sarebbe accaduto lo stesso nella taverna, e di sicuro Nesta si sarebbe risentita
perché le avevamo rovinato la serata. Perlomeno, da sola, sarei potuta passare più o meno
inosservata. Sapevo che, se fossimo entrati entrambi, mia sorella si sarebbe sentita attaccata.
Quindi sarei andata io. Da sola.
Rhys mi baciò la fronte. «Se qualcuno ti fa una proposta, digli che saremo liberi tut-
ti e due tra un’oretta.»
«Sciò.» Gli feci cenno di andarsene e ridussi i miei poteri a una specie di sussurro den-
tro di me.
Mi mandò un bacio.
Scacciai anche quello con un cenno e attraversai la porta della taverna.
FEYRE
M ia sorella non aveva compagni di bevute. Per quel che ne sapevo, usciva da sola e
si trovava compagnia nel corso della notte. E ogni tanto portava qualcuno a casa con sé.
Non le avevo chiesto niente. Non ero nemmeno sicura di quale fosse stata la sua pri-
ma volta.
Non osavo nemmeno chiedere a Cassian se lo sapeva. Dopo la guerra si erano scambia-
ti a malapena qualche parola.
E quando mi immersi nella musica popolare della Tana del lupo e individuai mia so-
rella, seduta con tre maschi a un tavolo rotondo e poco illuminato in fondo alla taverna,
potei quasi vedere incombere dietro di lei lo spettro di quella giornata contro Hybern.
Sembrava che avesse perso ogni oncia di peso che aveva guadagnato Elain. Il suo viso
si era fatto ancor più orgoglioso e spigoloso di prima, gli zigomi parevano abbastanza af-
filati da tagliare. Aveva i capelli raccolti nella solita coroncina intrecciata, indossava il suo
abito grigio preferito ed era, come sempre, perfettamente pulita nonostante il tugurio in
cui si trovava. Nonostante fosse in una taverna puzzolente e surriscaldata che aveva visto
anni migliori. Secoli migliori.
Una regina senza trono. Ecco come avrei chiamato il dipinto che mi venne in mente.
Gli occhi di Nesta, dello stesso grigio-azzurro dei miei, si sollevarono nell’istante in cui
mi chiusi alle spalle la porta di legno. Nulla balenò sul suo viso, oltre a un vago disprez-
zo. I tre Fae Superiori al suo tavolo erano tutti abbastanza ben vestiti, per essere frequen-
tatori di quel posto.
Niente di ciò che avevo visto – intravisto – in quei momenti contro Hybern era sem-
brato morte. Solo bruto potere. Ma l’Intagliaossa l’aveva sussurrato. E io l’avevo vista bril-
lare fredda e luminosa nei suoi occhi.
Ma non la vedevo da mesi, ormai.
Non che l’avessi frequentata molto.
Passò un minuto. Poi un altro.
Silenzio assoluto, fatta eccezione per l’allegra musica del gruppo di quattro elementi
all’altro lato dello stanzone.
Potevo aspettare. Potevo stare lì ad aspettare tutta la dannata notte.
Nesta si appoggiò allo schienale della sedia, con l’evidente intenzione di fare altrettan-
to. “Io punto su tua sorella” disse Rhys lungo l’Unione.
“Taci.”
“Sto prendendo freddo, qui fuori.”
“Piccolo Illyrian.”
Una risatina cupa, poi l’Unione tacque di nuovo.
«Quella tua specie di “Metà” starà al freddo tutta la notte?»
Sbattei le palpebre, chiedendomi se avesse potuto percepire i pensieri che ci eravamo
scambiati. «Chi ti dice che sia qui?»
Nesta sbuffò. «Dove va uno, segue l’altro.»
Mi impedii di pronunciare tutte le potenziali risposte che mi erano balzate sulla lingua.
Chiesi invece: «Elain ti ha invitata a cena stasera. Perché non sei venuta?».
Il sorriso di Nesta fu lento, affilato come una lama. «Volevo sentire suonare questi musicisti.»
Lanciai uno sguardo al gruppo. Più bravi del gruppo medio da osteria, ma non erano
un granché come scusa. «Lei ti voleva lì.» “E io ti volevo lì” pensai.
Nesta si strinse nelle spalle. «Avrebbe potuto mangiare qui con me.»
«Sai bene che Elain non si sentirebbe a suo agio in un posto come questo.»
Inarcò un sopracciglio ben curato. «Un posto come questo? Che posto sarebbe?»
Alcune persone si stavano voltando verso di noi. Signora Suprema... io ero la Signo-
ra Suprema. Insultare quel posto e le persone che lo frequentavano non mi avrebbe fatto
guadagnare sostenitori. «Elain non sopporta gli affollamenti.»
«Non era così.» Nesta fece roteare il liquido ambrato nel suo bicchiere. «Amava i bal-
li e le feste.»
Altre parole rimasero inespresse: “Ma tu e la tua corte ci avete trascinate in questo mon-
do. Le avete portato via quella gioia”.
«Se ti prendessi la briga di passare da casa, vedresti che si sta riadattando. Ma i balli e
le feste sono un’altra cosa. Elain non ha mai frequentato taverne, in passato.»
Nesta aprì la bocca, senza dubbio per cambiare discorso ed evitare il motivo per cui ero
andata lì. Quindi la interruppi prima che potesse farlo. «Non è questo il punto.»
Occhi gelidi come l’acciaio fissarono i miei. «Puoi arrivarci, allora? Vorrei tornare al mio gioco.»
Pensai se spargere le carte sul pavimento viscido di birra. «Il Solstizio è dopodomani.»
Niente. Nemmeno un battito di ciglia.
Intrecciai le dita e le misi sul tavolo in mezzo a noi. «Che cosa posso dire per farti venire?»
«Per amore di Elain o per te?»
«Per entrambe.»
Un altro sbuffo. Nesta esaminò la stanza; ormai tutti badavano bene a non guardarci.
Sapevo che, senza che ci fosse bisogno di chiederglielo, Rhys aveva creato una barriera
del suono attorno a noi.
Alla fine, mia sorella si voltò a guardarmi. «Mi vuoi corrompere, allora?»
Non trasalii. «Voglio vedere se sei disposta a ragionare. Se posso fare in modo che per
te ne valga la pena.»
Nesta piantò la punta dell’indice sopra il mazzo di carte e le aprì a ventaglio sul tavo-
lo. «Non è nemmeno una nostra festività. Noi non abbiamo festività.»
«Forse dovresti provarci. Potresti divertirti.»
«Come ho detto a Elain: voi avete le vostre vite e io ho la mia.»
Lanciai di nuovo uno sguardo alla taverna. «Perché? Perché vuoi la distanza a tutti i costi?»
Si sistemò meglio sul sedile e incrociò le braccia. «E perché dovrei far parte della tua
allegra piccola brigata?»
«Sei mia sorella.»
Di nuovo, quello sguardo vuoto e freddo. Attesi.
«Non verrò alla tua festa» disse.
Se Elain non era riuscita a convincerla, di certo non ci sarei riuscita io. Chissà perché
non l’avevo capito prima. Prima di sprecare il mio tempo. Ma feci ancora un tentativo... un
ultimo tentativo. Per amore di Elain. «Papà vorrebbe che tu...»
«Non finire quella frase.»
Nonostante lo scudo acustico attorno a noi, non c’era nulla che impedisse di vedere
mia sorella che scopriva i denti. Di vedere le sue dita che si piegavano in artigli invisibili.
Il naso di Nesta si increspò di rabbia pura mentre ringhiava: «Vattene».
Una scenata. Stava per diventare una tremenda scenata.
Così mi alzai e nascosi il tremore delle mie mani stringendole a pugno lungo i fianchi.
«Per favore, vieni» fu tutto quello che dissi prima di voltarmi verso la porta. Il percorso
tra il suo tavolo e l’uscita mi sembrava molto lungo. Vedevo incombere tutte le facce a cui
dovevo passare accanto.
«Il mio affitto» disse Nesta dopo che ebbi fatto due passi.
Mi arrestai. «L’affitto?»
Sorseggiò dal suo bicchiere. «Il pagamento è previsto per la settimana prossima. In caso
te lo fossi dimenticato.»
Era totalmente seria.
Risposi con voce asciutta: «Vieni al Solstizio e mi assicurerò che venga consegnato».
Nesta aprì la bocca, ma io mi voltai di nuovo, fissando ogni volto stupito che mi guar-
dava passare.
Sentii lo sguardo di mia sorella che mi perforava la schiena, in mezzo alle scapole, per
tutto il tragitto fino a quella porta d’ingresso. E per tutto il volo di ritorno.
RHYSAND
E non ero così stupido da ignorare il fatto che stavo rimandando questa passeggiata da
un bel po’, e che lei aveva fatto altrettanto.
Avevo visto i suoi occhi diventare distanti, quella sera alla Città Spaccata. Il suo silen-
zio dopo il ringhio iniziale di ammonimento a suo padre mi aveva detto abbastanza sul
percorso della sua mente.
Era un’altra vittima di quella guerra: dover collaborare con Keir ed Eris aveva offusca-
to qualcosa in mia cugina.
Oh, lo nascondeva bene. A parte quando si era trovata faccia a faccia con i due maschi
che l’avevano...
Non mi permisi di concludere quel pensiero, di evocare quel ricordo. Anche cinque se-
coli dopo, la rabbia minacciava di inghiottirmi tanto da farmi distruggere la Città Spacca-
ta e la Corte dell’Autunno.
Ma spettava a lei uccidere quelle persone. Era sempre stato così. Non le avevo mai chie-
sto perché avesse aspettato così a lungo.
Avevamo girato tranquillamente nella città per una mezz’ora, passando quasi inosser-
vati. Una piccola benedizione del Solstizio: erano tutti troppo impegnati con i loro pre-
parativi, per fare caso a chi passeggiava nelle strade gremite.
Non avevo idea di come fossimo finiti in quella zona. Ma eccoci lì, e come unica com-
pagnia avevamo i blocchi di pietra caduti e spaccati, le erbacce secche per l’inverno e il
cielo grigio.
«Le famiglie» dissi infine «sono nelle loro altre tenute.» Li conoscevo tutti, nobili e ric-
chi mercanti che avevano lasciato la Città Spaccata molto prima che le due metà del mio
regno venissero ufficialmente separate. «E non contano di tornare presto.» Forse non sa-
rebbero mai tornate. Avevo sentito da una di loro, la matriarca di un impero mercantile,
che probabilmente avrebbe venduto la sua proprietà piuttosto che affrontare la dura pro-
va di ricostruire da zero.
Mor annuì distrattamente; il vento gelido le sferzava ciocche di capelli sul viso mentre
si fermava nel mezzo di quello che una volta era stato un giardino formale, che scendeva
dalla casa al fiume ghiacciato stesso. «Keir verrà qui presto, vero?»
Era rarissimo che lo chiamasse “mio padre”. Certo non la biasimavo. Quel maschio non
era suo padre da secoli. Da molto prima di quel giorno imperdonabile.
«Sì.»
Ero riuscito a tenere a bada Keir, da quando la guerra era finita. Ma mi ero preparato:
sapevo che – indipendentemente da quanto lavoro gli assegnassi, indipendentemente dal-
le mie interruzioni delle visite di Eris – avrebbe visitato quella città.
Forse avevo provocato io quella situazione, imponendo il confinamento della Città Spac-
cata per così tanto tempo. Forse le loro orribili tradizioni e le loro menti ristrette non ave-
vano fatto che peggiorare durante quel lunghissimo periodo. Quel territorio era loro, sì,
ma non avevo dato loro nient’altro. Non mi stupiva che fossero così curiosi nei confronti
di Velaris. Anche se Keir desiderava visitarla solo per tormentare sua figlia.
«Quando?»
FEYRE
D ovevo ancora trovare un regalo per Rhysand, o almeno farmi venire una vaga idea di
che cosa donargli per il Solstizio.
Per fortuna, Elain mi si avvicinò silenziosamente a colazione; Cassian era ancora pratica-
mente svenuto sul divano del salotto di fronte all’atrio e non c’era traccia di Azriel sul di-
vano di fronte a lui su cui si era addormentato. Entrambi erano stati troppo pigri – e forse
un po’ troppo ubriachi, dopo tutto il vino che avevamo bevuto la notte prima – per trasci-
narsi fino alla minuscola camera degli ospiti che avrebbero condiviso durante il Solstizio.
Mor aveva preso la mia vecchia camera da letto, senza preoccuparsi di tutte le cose che vi
avevo stipato, e Amren era tornata nel suo appartamento alle prime ore del mattino, quando
finalmente eravamo andati a letto. Sia la mia Metà sia Mor stavano ancora dormendo, e io
ero stata contenta di lasciarli dormire. Si erano meritati quel riposo. Ce lo meritavamo tutti.
Ma Elain pareva insonne tanto quanto me (io lo ero soprattutto per la bruciante con-
versazione con Nesta, che neanche il vino che avevo bevuto una volta a casa aveva potuto
smorzare) e voleva sapere se mi interessava una passeggiata in città; mi aveva fornito una
scusa perfetta per andare a fare altri acquisti.
Com’era decadente. Mi sembrava decadente ed egoista fare acquisti, anche se era per le
persone che amavo. In città – e fuori – c’erano tante persone che non avevano quasi nul-
la, e mi irritava ogni momento che passavo a sbirciare nelle vetrine e a far scorrere le dita
sulle varie merci.
«So che non è facile per te» osservò Elain mentre vagavamo nella bottega di una tessi-
trice, ammirando i begli arazzi, i tappeti e le coperte su cui aveva raffigurato varie scene
della Corte della Notte: Velaris sotto il bagliore della Notte delle Stelle, le coste roccio-
se e selvagge delle isole settentrionali, le stele dei templi di Cesere, i simboli della Corte,
cioè le tre stelle che incoronavano un picco montano.
Smisi di guardare un rivestimento murale con quella immagine e mi voltai. «Che cosa
non è facile?»
Le nostre voci erano poco più che un mormorio in quello spazio tranquillo e caldo, per
rispetto verso gli altri che ammiravano le opere.
Gli occhi castani di Elain vagarono sulle insegne della Corte della Notte. «Acquistare
cose senza un disperato bisogno di farlo.»
In fondo alla bottega a volta, rivestita di pannelli di legno, un telaio vibrò e scattò men-
tre l’artista dai capelli scuri continuava il suo lavoro, fermandosi solo per rispondere alle
domande dei clienti.
Com’era diverso... Quel posto era così diverso dalla casa degli orrori che era apparte-
nuta alla Tessitrice del Bosco. A Stryga.
«Abbiamo tutto il necessario» ammisi a Elain. «Comprare regali mi sembra eccessivo.»
«È la loro tradizione, però» ribatté Elain, con il viso ancora arrossato dal freddo. «Du-
rante la guerra hanno combattuto e sono morti per proteggere anche questa tradizione.
Forse è meglio vederla così, invece che sentirsi in colpa. Meglio ricordare che questa gior-
nata significa qualcosa per loro. Per tutti loro, indipendentemente da chi ha di più, chi ha
meno. E nel seguire le tradizioni, anche attraverso i regali, onoriamo coloro che hanno lot-
tato per la loro stessa esistenza, per la pace di cui gode adesso questa città.»
Per un momento mi limitai a fissare mia sorella, meravigliandomi per la saggezza che
aveva appena espresso. Non c’erano tracce dei suoi poteri profetici. Solo occhi limpidi e
un’espressione aperta. «Hai ragione» dissi, e mi misi a guardare l’insegna davanti a me.
L’arazzo era stato tessuto con un filato così nero che sembrava divorare la luce, così nero
che quasi stancava gli occhi. Il ricamo, tuttavia, era in filo d’argento, no, non d’argento: in
una sorta di filo iridescente che, a ogni movimento, creava scintille di colori. Come se fos-
se stata intessuta la luce delle stelle.
«Stai pensando di comprarlo?» chiese Elain. Non aveva comprato niente durante l’ora
che avevamo già passato fuori, ma abbastanza spesso si era fermata a riflettere. Le serviva
un regalo per Nesta, aveva detto. Stava cercando un regalo per nostra sorella, anche senza
sapere se si sarebbe degnata di unirsi a noi l’indomani.
Ma Elain era sembrata più che soddisfatta di limitarsi a guardare la città ronzante di
vita, di ammirare i filamenti scintillanti di luce Fae tra gli edifici e sulle piazze, di provare
tutti gli assaggi di cibo offerti da un venditore zelante, di ascoltare i menestrelli che suo-
navano vicino alle fontane attualmente silenziose.
Come se, quel giorno, anche mia sorella avesse avuto bisogno di una scusa per usci-
re di casa.
«Non so a chi potrei regalarlo» ammisi, allungando un dito verso la stoffa nera dell’a-
razzo. Quando la mia unghia toccò la superficie morbida come il velluto, sembrò svanire.
Come se il materiale avesse davvero assorbito tutto il colore, tutta la luce. «Ma...» Guar-
dai la tessitrice all’altra estremità della galleria, che aveva sul telaio metà di un’altra ope-
ra. Lasciando incompiuto il mio pensiero, andai verso di lei.
La tessitrice era una Fae Superiore, con una figura piena e la pelle chiara. Aveva una
ciocca di capelli neri intrecciata dietro alla testa, che le ricadeva lungo la spalla del suo
spesso maglione rosso. Pratici pantaloni marroni e stivali foderati di lana completavano il
suo abbigliamento. Abiti semplici e comodi. Quello che avrei potuto indossare io per di-
pingere. O per fare qualsiasi altra cosa.
Quello che stavo indossando sotto il mio pesante cappotto blu, a dir la verità.
La tessitrice interruppe il suo lavoro, fermò le dita abili e alzò la testa. «Come posso es-
serti utile?»
Nonostante il suo bel sorriso, gli occhi grigi erano... silenziosi. Non sapevo in che altro
modo definirli. Silenziosi, e un po’ distanti. Il sorriso cercava di compensare, ma non riu-
sciva a mascherare la pesantezza al loro interno.
«Volevo sapere dell’arazzo con l’insegna» dissi. «Quel tessuto nero... che cos’è?»
«Me lo chiedono almeno una volta all’ora» disse la tessitrice; sorrideva ancora, ma non
c’era allegria nei suoi occhi spenti.
Mi tirai un po’ indietro. «Mi dispiace aggiungermi alla lista.» Elain si spostò al mio fian-
co, con una coperta pelosa rosa in una mano e una viola nell’altra.
La tessitrice respinse le mie scuse con un cenno della mano. «È un filato insolito. Le
domande sono previste.» Passò una mano sulla cornice di legno del telaio. «Io lo chiamo
Vuoto. Assorbe la luce. Crea una completa mancanza di colore.»
«L’hai fatto tu?» chiese Elain, girando la testa per guardare l’arazzo.
Un solenne cenno del capo. «Un mio nuovo esperimento. Per capire come si possa crea-
re, tessere l’oscurità. Per vedere se potevo andare più lontano, più in profondità di quan-
to abbia fatto qualsiasi altro tessitore.»
Essendo stata anch’io sospesa in un vuoto, mi sentivo vicina a quel tessuto in un modo
snervante. «Perché?»
I suoi occhi grigi si spostarono di nuovo verso di me. «Mio marito non è tornato dal-
la guerra.»
Quelle parole franche e aperte mi echeggiarono dentro.
Mi sforzai di sostenere il suo sguardo mentre continuava: «Ho iniziato a provare a crea-
re Vuoto il giorno dopo aver saputo che era morto».
Ma Rhys non aveva chiesto a nessuno, in quella città, di unirsi ai suoi eserciti. Ave-
va voluto che fosse una scelta personale. Vedendo la confusione sul mio viso, la tessitri-
ce aggiunse dolcemente: «Pensava che fosse giusto. Contribuire ai combattimenti. Se ne
andò con molti altri che la pensavano allo stesso modo, e si unì a una legione della Cor-
te dell’Estate in cui si imbatterono mentre andavano verso sud. Morì nella battaglia di
Adriata».
«Mi dispiace» dissi dolcemente. Elain fece eco alle parole, con la sua voce gentile.
La tessitrice continuò a fissare l’arazzo. «Pensavo che avremmo passato altri mille anni
insieme.» Iniziò a rimettere in movimento il telaio. «Nei nostri trecento anni di matrimo-
nio, non siamo mai riusciti ad avere figli.» Le sue dita si muovevano con estrema grazia e,
nonostante l’argomento, non esitavano mai. «Non ho nemmeno una parte di lui, quindi.
Se n’è andato, e io no. Vuoto è nato da quella sensazione.»
Non sapevo che cosa dire mentre le sue parole mi si depositavano dentro. Mentre lei
continuava a lavorare.
Sarei potuta morire io.
Sarebbe potuto morire Rhys.
Quella stoffa straordinaria, creata e tessuta nel dolore che avevo sfiorato per un attimo
e che speravo di non provare mai più, conteneva una perdita da cui probabilmente io non
mi sarei mai ripresa.
«Continuo a sperare che sarà più facile, ogni volta che racconto a qualcuno di Vuoto»
disse la tessitrice. Se la gente lo chiedeva con la frequenza a cui aveva accennato... io non
lo avrei potuto sopportare.
«Perché non lo togli da lì?» chiese Elain, con il viso pieno di compassione.
«Perché non voglio tenerlo per me.» La navetta volò attraverso il telaio, come se aves-
se una vita propria.
Nonostante l’equilibrio e la calma della tessitrice, potevo quasi sentire il suo tremendo
dolore che si irradiava nella stanza. Un tocco del mio potere da daemati e avrei potuto al-
leviare quel dolore, ridurre quella pena. Non l’avevo mai fatto per nessuno, ma...
Ma non potevo. Non lo avrei fatto. Sarebbe stata una violazione, pur eseguita con le
migliori intenzioni.
E la sua perdita, il suo infinito dolore le avevano fatto creare qualcosa. Qualcosa di
straordinario. Non potevo portarglielo via. Anche se me lo avesse chiesto.
«Il filo d’argento...» chiese Elain. «Come si chiama?»
La tessitrice mise di nuovo in pausa il telaio; i fili colorati vibravano. Sostenne lo sguar-
do di mia sorella. Non provò neanche a sorridere, stavolta. «Lo chiamo Speranza.»
La mia gola si strinse in maniera insopportabile, gli occhi mi bruciavano così tanto che
dovetti voltarmi e tornare a quello straordinario arazzo.
La tessitrice spiegò a mia sorella: «L’ho creato dopo aver padroneggiato Vuoto».
Rimasi a fissare il tessuto nero; era come scrutare in un pozzo dell’inferno. E poi fissai
il filo d’argento vivo e iridescente che lo attraversava, luminoso nonostante l’oscurità che
divorava ogni altra luce e colore.
Sarebbe potuto succedere a me. E a Rhys. Era quasi andata così. Eppure lui era vivo,
e il marito della tessitrice no. Noi eravamo sopravvissuti, mentre la loro storia si era con-
clusa. A lei non era rimasta una parte del marito. Non come avrebbe voluto, perlomeno.
Io ero fortunata, così tremendamente fortunata che potevo persino lamentarmi della ne-
cessità di fare acquisti per la mia Metà. Il momento in cui era morto era stato il peggio-
re della mia vita, e probabilmente sarebbe rimasto un atroce ricordo, ma eravamo soprav-
vissuti. In questi mesi, gli “e se...” mi avevano perseguitato. Tutti gli “e se...” a cui eravamo
scampati per un soffio.
E c’era la festa dell’indomani, quell’occasione per festeggiare il fatto che eravamo in-
sieme, che eravamo vivi...
L’impossibile profondità del nero davanti a me, l’improbabile sfida di Speranza che
splendeva attraverso il nero, mi sussurrò la verità prima che me ne rendessi conto. Prima
che capissi che cosa volevo regalare a Rhys.
Il marito della tessitrice non era tornato a casa. Ma il mio sì.
«Feyre?»
Elain era di nuovo al mio fianco. Non avevo sentito i suoi passi. Non sentivo alcun suo-
no da un po’.
La galleria si era svuotata, mi resi conto. Ma non mi importava. Mi avvicinai ancora una
volta alla tessitrice, che aveva fermato di nuovo il telaio sentendo il mio nome.
Aprì un po’ di più gli occhi e chinò la testa. «Mia signora.»
Ignorai quelle parole. «Come...» Accennai al telaio, al pezzo semilavorato che prende-
va forma sulla sua cornice, alle opere sulle pareti. «Come fai a continuare a creare, nono-
stante quello che hai perso?»
Se notò che mi si era spezzata la voce, non lo diede a vedere. Disse solo, con lo sguar-
do triste e addolorato che incrociava il mio: «Devo».
Quella semplice parola mi colpì come una mazzata.
La tessitrice continuò: «Devo creare, o sarà stato tutto per niente. Devo creare, o mi rag-
gomitolerò su me stessa per la disperazione e non mi alzerò più dal letto. Devo creare per-
ché non ho altro modo di esprimere quello che provo». Aveva posato una mano sul cuo-
re; a me bruciavano gli occhi. «È difficile» disse, continuando a guardarmi negli occhi,
«e fa male, ma, se mi dovessi fermare, se lasciassi silenziare questo telaio o il fuso...» Di-
stolse lo sguardo, infine, e fissò il suo arazzo. «Allora non ci sarebbe la Speranza che ri-
splende nel Vuoto.»
Mi tremarono le labbra e lei si protese per stringermi una mano; le sue dita callose era-
no calde a contatto con le mie.
Non avevo parole da offrirle, non sapevo trasmetterle ciò che mi si agitava nel petto.
Riuscii solo a dire: «Vorrei comprare quell’arazzo».
L’arazzo era un regalo per me e per nessun altro, e sarebbe stato consegnato alla casa di
città nel tardo pomeriggio.
Io ed Elain esplorammo vari negozi per un’altra ora, poi lasciai mia sorella a fare i suoi
acquisti al Palazzo del Filo e dei Gioielli.
Trasmutai direttamente dentro lo studio abbandonato nell’Arcobaleno.
Avevo bisogno di dipingere. Avevo bisogno di tirare fuori quello che avevo visto, che
avevo provato nella galleria della tessitrice.
Finii col restarvi tre ore.
Alcuni dipinti furono schizzi rapidi. Altri cominciai solo a delinearli con carta e mati-
ta, rimuginando sulla tela necessaria, sui colori che avrei voluto usare.
Dipinsi attraverso il dolore che provavo per la storia della tessitrice, dipinsi per la sua
perdita. Dipinsi tutto ciò che sorgeva dentro di me, lasciando che il passato si riversasse
sulla tela e provando un beato sollievo a ogni pennellata.
Non mi stupì essere colta sul fatto.
Feci appena in tempo a saltare giù dallo sgabello quando si aprì la porta d’ingresso ed
entrò Ressina, con uno spazzolone e un secchio tra le mani verdi. Certo non feci in tem-
po a nascondere tutti i dipinti e i materiali.
Ressina, dovevo dargliene atto, si fermò di colpo e sorrise semplicemente. «Sospettavo
che fossi qui. Ho visto le luci l’altra sera e ho pensato che fossi tu.»
Il cuore mi batteva forte, avevo il viso caldo come una fornace, ma riuscii a produrre un
sorriso a labbra serrate. «Scusa.»
La Fae attraversò la sala con grazia, pur tirandosi dietro quegli attrezzi per la pulizia.
«Non c’è bisogno di scusarti. Avevo solo intenzione di pulire un po’.»
Lasciò cadere con un lieve tonfo lo spazzolone e il secchio contro una delle pareti bian-
che senza quadri.
«Perché?» Posai il pennello sulla tavolozza, che era su uno sgabello accanto al mio.
Ressina si mise le mani sui fianchi sottili e studiò la stanza.
Per misericordia o per mancanza di interesse, non guardò troppo a lungo i miei quadri.
«Nella famiglia di Polina non hanno discusso la possibilità di vendere, ma ho pensato che
lei non avrebbe voluto che il posto fosse un disastro.»
Mi morsi un labbro e annuii, a disagio, accanto al disordine che avevo aggiunto. «Scu-
sa se... se non sono venuta nel tuo studio, l’altra sera.»
Ressina si strinse nelle spalle. «Ancora una volta, non c’è bisogno di scusarsi.»
Era molto raro che qualcuno al di fuori della cerchia ristretta mi parlasse con tanta di-
sinvoltura. Persino la tessitrice era diventata più formale, quando mi ero offerta di com-
prare il suo arazzo.
«Sono solo contenta che qualcuno stia usando questo posto. Che tu lo stia usando» ag-
giunse Ressina. «Penso che a Polina saresti piaciuta.»
Non risposi, e cadde il silenzio. Cominciai a raccogliere le mie cose. «Mi tolgo di mez-
zo.» Andai ad appoggiare alla parete un quadro che si stava ancora asciugando. Un ritrat-
to a cui ormai pensavo da tempo. Lo inviai in quello spazio tra i regni, insieme a tutti gli
altri su cui stavo lavorando.
Poi mi chinai a prendere il mio pacco di materiali.
«Quelli potresti lasciarli.»
Mi fermai, con una mano attorno alla cinghia di cuoio. «Non è mio questo posto.»
Ressina si appoggiò al muro accanto al secchio e allo spazzolone. «Forse potresti par-
larne con la famiglia di Polina. Hanno buoni motivi per vendere.»
Mi raddrizzai e sollevai il pacco. «Può darsi» risposi vagamente e, mentre mi avviavo
verso la porta, inviai nello spazio tra i regni il resto dei materiali e dei quadri, senza preoc-
cuparmi della possibilità che si schiantassero uno contro l’altro.
«Vivono in una fattoria a Dunmere, vicino al mare. In caso ti interessasse.»
Non era probabile. «Grazie.»
Potevo percepire il suo sorriso mentre raggiungevo la porta d’ingresso. «Felice Solstizio.»
«Anche a te» risposi girando appena la testa prima di svanire in strada.
E andai a sbattere contro il petto duro e caldo della mia Metà.
Rimbalzai da Rhys con un’imprecazione e lo guardai male, mentre lui rideva e mi af-
ferrava le braccia per evitare che scivolassi sulla strada ghiacciata. «Stai andando da qual-
che parte?»
Lo fissai accigliata, ma poi lo presi sottobraccio e mi misi a camminare rapidamente.
«Che cosa ci fai qui?»
«Perché stai scappando da una galleria abbandonata come se avessi rubato qualcosa?»
«Non stavo scappando.» Gli diedi un pizzicotto al braccio e provocai un’altra profon-
da, roca risata.
«Stavi camminando con una velocità sospetta, allora.»
Non risposi finché non arrivammo al viale che scendeva verso il fiume. Sottili lastre di
ghiaccio scivolavano sopra le acque turchesi. Potevo sentire la corrente che scorreva an-
cora sotto di loro, ma non forte quanto nei mesi più caldi. Come se, per l’inverno, la Sidra
fosse caduta in un sonno crepuscolare.
«È lì che avevo dipinto» dissi alla fine mentre ci fermavamo al parapetto del lungo-
fiume. Fui investita da un vento freddo e umido che mi scompigliò i capelli. Rhys me ne
mise un ciuffo dietro l’orecchio. «Oggi ci sono tornata e sono stata interrotta da un’arti-
sta, Ressina. Ma lo studio apparteneva a una femmina Fae che non è sopravvissuta all’at-
tacco della primavera scorsa. Ressina stava ripulendo la galleria per suo conto. Per conto
di Polina, nel caso la famiglia di Polina volesse venderla.»
«Possiamo comprare uno studio per te, se hai bisogno di un posto dove dipingere da
sola» propose, con i capelli indorati dalla tenue luce del sole. Nessuna traccia delle sue ali.
«No, no, il punto non è tanto essere sola quanto... avere il luogo giusto per farlo. Un
luogo che mi dia la sensazione giusta.» Scossi la testa. «Non so. Dipingere aiuta. Aiuta me,
voglio dire.» Feci un sospiro e osservai quel viso che per me era la cosa più preziosa del
mondo, mentre mi echeggiavano dentro le parole della tessitrice.
Lei aveva perso suo marito. Io no. Eppure lei continuava a tessere, continuava a creare.
Posai una mano sulla guancia di Rhys, e lui vi si appoggiò mentre io chiedevo con calma:
«Pensi che sia stupido domandarsi se la pittura possa aiutare anche gli altri? Non la mia
pittura, voglio dire. Ma insegnare agli altri a dipingere. Lasciare che dipingano. Persone
che potrebbero avere problemi da affrontare, come li ho io».
Gli si addolcirono gli occhi. «Credo che non sia affatto stupido.»
Gli passai un pollice sullo zigomo, assaporando ogni punto di contatto. «Se fa sentire
meglio me, forse sarebbe lo stesso per gli altri.»
Rimase in silenzio, offrendomi quella compagnia che non richiedeva nulla, non chie-
deva nulla mentre continuavo ad accarezzargli il viso. Eravamo Metà da meno di un anno.
Se le cose fossero andate male durante quella battaglia finale, quanti rimpianti mi avreb-
bero consumato? Sapevo... sapevo quali mi avrebbero colpita di più, colpita più a fondo.
Sapevo quali cose avevo il potere di cambiare.
Alla fine abbassai la mano. «Pensi che verrebbe qualcuno? Se fosse disponibile uno spa-
zio del genere, una possibilità del genere?»
Rhys rifletté, mi studiò gli occhi e poi mi baciò una tempia; la bocca era calda contro
il mio viso gelido. «Dovrai aspettare e vedere, suppongo.»
Un’ora dopo trovai Amren a casa sua. Rhys doveva partecipare a un’altra riunione con Cas-
sian e i comandanti Illyrian al campo di guerra di Devlon, e mi aveva accompagnata alla
porta del suo edificio prima di trasmutare.
Arricciai il naso quando entrai nel caldissimo appartamento di Amren. «C’è un odore...
interessante qui dentro.»
Amren, seduta al lungo tavolo da lavoro al centro dello spazio, mi rivolse un sorriso
sferzante e poi indicò il letto a baldacchino.
Lenzuola sgualcite e cuscini di traverso la dicevano lunga sugli odori che stavo rilevando.
«Potresti aprire una finestra» dissi, indicando tutte quelle all’altro lato dell’appartamento.
«Fuori fa freddo» si limitò a dire, e tornò a...
«Un puzzle?»
Amren inserì un minuscolo pezzo nella sezione a cui stava lavorando. «Perché, dovrei
fare qualcos’altro durante la mia vacanza del Solstizio?»
Non osai rispondere, ma mi tolsi il cappotto e la sciarpa. Amren manteneva il fuoco nel
camino a un livello tale che la stanza era quasi soffocante. O lo faceva per sé o per il suo
compagno della Corte dell’Estate, di cui non vedevo traccia. «Dov’è Varian?»
«È uscito a comprare altri regali per me.»
«Ancora?»
Quella volta mi fece un sorriso più ridotto: un lato della sua bocca rossa fremette men-
tre lei inseriva un altro pezzo nel suo puzzle. «Ha deciso che non bastavano quelli che mi
ha portato dalla Corte dell’Estate.»
Sorvolai anche su quella frase.
Mi sedetti di fronte a lei al lungo tavolo di legno scuro ed esaminai il puzzle comple-
tato a metà; sembrava essere una sorta di scena agreste autunnale. «Un tuo nuovo pas-
satempo?»
«Senza quell’odioso Libro da decifrare, ho scoperto che mi mancano cose del genere.»
Un altro pezzo fu piazzato nel punto giusto. «È il quinto che faccio, questa settimana.»
«La settimana è iniziata solo da tre giorni.»
«Non li fanno abbastanza difficili per me.»
«Quanti pezzi ha, questo?»
«Cinquemila.»
«Sbruffona.»
Amren emise un suono di disapprovazione, poi raddrizzò la schiena, se la massaggiò e
fece una smorfia. «Fa bene alla mente, ma male alla postura.»
«Meno male che hai Varian con cui tenere in esercizio anche il corpo.»
Amren rise, e il suono sembrò il gracchiare di un corvo. «Davvero una buona cosa.»
Quegli occhi d’argento, ancora misteriosi, ancora illuminati da una traccia di potere, mi
scrutarono. «Non sei venuta qui per tenermi compagnia, suppongo.»
Mi appoggiai allo schienale della vecchia sedia traballante. Non c’erano due sedie ugua-
li attorno al tavolo. In realtà, ognuna sembrava di un decennio diverso. O di un secolo di-
verso. «No, in effetti.»
La seconda in comando del Signore Supremo agitò una mano dotata di lunghe unghie
rosse e si chinò di nuovo sul suo puzzle. «Procedi.»
Feci un respiro profondo. «Si tratta di Nesta.»
«Lo sospettavo.»
«Le hai parlato?»
«Viene qui spesso.»
«Davvero?»
Amren tentò, senza riuscirci, di inserire un pezzo nel suo puzzle; i suoi occhi saettava-
no sui pezzi attorno a lei, divisi in base al colore. «È così difficile da credere?»
«Non viene alla casa di città. O alla Casa del Vento.»
«A nessuno piace andare alla Casa del Vento.»
Presi un tassello e Amren fece schioccare la lingua in segno di ammonimento. Posai di
nuovo la mano su un ginocchio.
«Speravo che tu potessi avere un’idea di che cosa le sta succedendo.»
Amren non rispose per un po’ ed esaminò invece i pezzi disposti tutt’attorno. Stavo per
ripetermi quando disse: «Mi piace tua sorella».
Una dei pochi, ad apprezzarla.
Amren alzò gli occhi su di me, come se avessi pronunciato le parole a voce alta. «Mi pia-
ce perché piace a ben poche persone. Mi piace perché non è facile starle vicino, né capirla.»
«Ma?»
«Ma niente» disse Amren, tornando al puzzle. «Visto che mi piace, non sono incline a
spettegolare sul suo stato attuale.»
«Non sono pettegolezzi. Sono preoccupata.» Lo eravamo tutti. «Si sta avviando su una
strada che...»
«Non tradirò la sua fiducia.»
«Ti ha parlato?» Troppe emozioni mi attraversarono tutte insieme. Sollievo per il fatto
che Nesta avesse parlato con qualcuno, confusione perché la prescelta era Amren, e for-
se anche un po’ di gelosia per il fatto che mia sorella non si fosse rivolta a me... o a Elain.
«No» disse Amren. «Ma so che non vorrebbe che meditassi sul suo percorso con nessu-
no. Con te.»
«Ma...»
«Dalle tempo. Dalle spazio. Dalle la possibilità di risolvere la questione da sola.»
«Sono passati mesi.»
«È un’immortale. I mesi sono irrilevanti.»
Strinsi i denti. «Si rifiuta di venire a casa per il Solstizio. Elain avrà il cuore spezzato
se non...»
«Elain, o tu?»
Quegli occhi d’argento mi inchiodarono.
«Entrambe» dissi tra i denti.
Di nuovo, Amren passò al setaccio i suoi pezzi. «Elain ha i suoi problemi su cui con-
centrarsi.»
«Per esempio?»
Amren si limitò a lanciarmi un’occhiata. La ignorai.
«Se Nesta si degna di farti visita» risposi, e l’antica sedia gemette mentre la spingevo
indietro e mi tiravo su, poi presi il cappotto e la sciarpa dalla panchina vicino alla porta,
«dille che significherebbe molto se venisse per il Solstizio.»
Amren non si disturbò ad alzare lo sguardo dal suo puzzle. «Non ti prometto niente,
ragazza.»
Era il meglio che potessi sperare.
RHYSAND
Q uel pomeriggio, Cassian lasciò cadere la sua borsa di cuoio sul lettuccio contro la pa-
rete della quarta camera da letto, nella casa di città; il contenuto tintinnò.
«Hai portato armi al Solstizio?» chiesi, appoggiandomi allo stipite della porta.
Azriel posò la sua borsa sul letto di fronte a quello di Cassian e poi lanciò a nostro fra-
tello un vago sguardo di allarme. Dopo aver perso conoscenza sui divani del soggiorno la
notte prima, e dopo aver – probabilmente – dormito scomodi, si erano finalmente decisi
a sistemarsi nella camera assegnata loro.
Cassian alzò le spalle e si lasciò cadere sul letto, più adatto a un bambino che a un guer-
riero Illyrian. «Alcuni potrebbero essere regali.»
«E il resto?»
Cassian si sfilò gli stivali, si appoggiò alla testiera del letto e incrociò le braccia dietro
la testa mentre le sue ali si posavano sul pavimento. «Le femmine portano i loro gioielli.
Io porto le mie armi.»
«Conosco alcune donne in questa casa che si potrebbero offendere per questa frase.»
Cassian mi rispose con un sorriso perfido. Lo stesso sorriso che aveva rivolto a Devlon
e ai comandanti un’ora prima, durante la nostra riunione. Tutto era pronto per affrontare
la tempesta; tutte le pattuglie erano presenti all’appello. Una riunione ordinaria, a cui non
avrei avuto bisogno di partecipare, ma era sempre bene ricordare loro la mia presenza. So-
prattutto prima che si radunassero tutti per il Solstizio.
Azriel si avvicinò all’unica finestra in fondo alla camera e sbirciò nel giardino sottostan-
te. «Non sono mai stato in questa stanza.» La sua voce da mezzanotte riempì la stanza.
«Questo perché tu e io siamo stati spinti in fondo alla gerarchia, fratello» rispose
Cassian, le cui ali erano drappeggiate sul letto e sul pavimento di legno. «Mor ha la ca-
mera bella, Elain vive nell’altra e quindi noi ci becchiamo questa.» Non disse che l’uni-
ca camera rimasta vuota, la vecchia stanza di Nesta, sarebbe rimasta disponibile. Non lo
fece neanche Azriel.
«Meglio della soffitta» suggerii.
«Povero Lucien» commentò Cassian con un sorriso.
«Ammesso che Lucien si faccia vivo» lo corressi. Non ci aveva fatto sapere se sarebbe
venuto o no. O se sarebbe rimasto in quel mausoleo che Tamlin chiamava casa.
«Io punto sul fatto che verrà» disse Cassian. «Vuoi scommettere?»
«No» rispose Azriel, senza voltarsi dalla finestra.
Cassian si mise a sedere, e sembrava il ritratto dell’indignazione. «No?»
Azriel si richiuse nelle ali. «Ti piacerebbe se la gente scommettesse su di te?»
«Voi stronzi scommettete su di me tutto il tempo. Ricordo l’ultima volta: tu e Mor scom-
mettevate sul fatto che le mie ali sarebbero guarite.»
Sbuffai. Era vero.
Azriel rimase alla finestra. «Nesta starà qui, se viene?»
All’improvviso Cassian notò che il Sifone sulla sua mano sinistra aveva bisogno di una
lucidata.
Decisi di risparmiarlo e dissi ad Azriel: «Il nostro incontro con i comandanti è anda-
to come ci si poteva aspettare. Devlon aveva effettivamente preparato un programma per
l’addestramento delle ragazze, per quando sarà passata la tempesta in arrivo. Non credo
che fosse solo per fare scena».
«Comunque mi sorprenderebbe se se ne ricordassero, una volta passata la tempesta» dis-
se Azriel, voltandosi finalmente dalla finestra che dava sul giardino.
Cassian grugnì in segno di approvazione. «Qualcosa di nuovo sui dissensi nei campi?»
Mantenni un’espressione neutra. Az e io avevamo deciso di aspettare fino a dopo le va-
canze per rivelare a Cassian tutto quello che sapevamo, chi sospettavamo – o sapevamo –
ci fosse dietro. Gli avevamo detto le cose basilari, però. Quanto bastava per placare ogni
senso di colpa.
Ma conoscevo Cassian tanto quanto conoscevo me stesso. Forse anche meglio. Se l’a-
vesse saputo in quel momento, non sarebbe stato in grado di lasciar correre. E, dopo tut-
to quello che aveva sopportato in quei mesi, e anche molto prima, mio fratello si merita-
va una pausa. Almeno per qualche giorno.
Ovviamente quella pausa aveva già incluso l’incontro con Devlon e un’estenuante ses-
sione di allenamento in cima alla Casa del Vento, quella mattina. Fra tutti noi, Cassian era
quello a cui suonava più estraneo il concetto di rilassamento.
Azriel si appoggiò alla pediera di legno intagliato in fondo al letto. «C’è poco da ag-
giungere a quello che sai già.» Con che disinvoltura e facilità mentiva. Era molto più bra-
vo di me. «Ma hanno capito che la situazione sta peggiorando. Il momento migliore per
valutarla è dopo il Solstizio, quando saranno tornati tutti a casa. Allora vedremo chi è che
non le piaceva neanche trovarsi nella sua stessa stanza. Sapevo perché. L’avevo visto acca-
dere, mi ero sentito spesso così.
«Forse quello sarà il tuo regalo per il Solstizio, Cassian» risposi invece. «Un nuovo letto qui.»
«Meglio dei regali di Mor» mormorò Az.
Cassian rise e il suono rimbombò sui muri.
Io diedi un’occhiata verso la Sidra e alzai un sopracciglio.
Sembrava raggiante.
La vigilia del Solstizio aveva totalmente permeato Velaris, placando il brusio che ave-
va pulsato per la città nelle ultime settimane, come se tutti si fossero fermati ad ascolta-
re la neve che cadeva.
Una nevicata leggera, senza dubbio, in confronto alla tempesta selvaggia che si stava
scatenando sulle montagne dell’Illyria.
Ci eravamo riuniti nel soggiorno; il fuoco scoppiettava, si aprivano le bottiglie e il vino
scorreva. Non si erano fatti vedere né Lucien né Nesta, ma l’atmosfera era tutt’altro che cupa.
In effetti, quando Feyre emerse dal corridoio della cucina, mi presi un momento per di-
vorarla con gli occhi dalla poltrona su cui ero seduto, accanto al fuoco.
Andò dritta da Mor, forse perché Mor aveva in mano il vino, la bottiglia già protesa.
Ammirai la visuale da dietro mentre il bicchiere di Feyre veniva riempito.
Faticavo a tenere sotto controllo i miei furiosi istinti, con quella particolare visuale. Con
le forme sinuose della mia Metà, con la sua aura così vibrante, anche in quella stanza pie-
na di tante personalità. Il suo abito di velluto blu notte la fasciava perfettamente, lascian-
do ben poco all’immaginazione, prima di ricadere sul pavimento. Aveva lasciato i capelli
sciolti, leggermente arricciati alle estremità; sapevo che più tardi avrei voluto immergere
le mani in quei capelli, sparpagliando i pettini d’argento che li fissavano ai lati della testa.
E poi le avrei tolto quel vestito. Lentamente.
«Mi farai vomitare» sibilò Amren, dalla poltrona accanto alla mia, prendendomi a calci
con la sua scarpina di seta argentata. «Tieni a freno quel tuo odore, ragazzo.»
Le lanciai uno sguardo incredulo. «Scusa.» Guardai Varian, in piedi accanto alla sua pol-
trona, e in silenzio gli porsi le mie condoglianze.
Varian, vestito con i colori azzurro e oro della Corte dell’Estate, si limitò a sorridere e
a inclinare la testa verso di me.
Com’era strano vedere lì il principe di Adriata. Nella mia casa di città. Che sorrideva.
Che beveva il mio liquore.
Finché...
«Festeggiate il Solstizio anche alla Corte dell’Estate?»
Finché Cassian non decise di aprire la bocca.
Varian voltò la testa verso il punto in cui Cassian e Azriel giacevano sul divano, i suoi
capelli argentei scintillanti alla luce del fuoco. «Quello estivo, ovviamente. Visto che ci
sono due solstizi.»
Azriel nascose il suo sorriso bevendo un sorso di vino.
Cassian mise un braccio sullo schienale del divano. «Ci sono davvero?»
Madre nei cieli. Ecco che razza di notte sarebbe stata, dunque.
«Non preoccuparti di rispondergli» disse Amren a Varian, sorseggiando il suo vino.
«Cassian è proprio stupido come sembra» aggiunse con uno sguardo tagliente.
Cassian alzò il bicchiere in segno di saluto prima di bere.
«Suppongo che il vostro Solstizio estivo si svolga più o meno come il nostro» dissi a
Varian, anche se conoscevo la risposta. Ne avevo visti parecchi, molto tempo prima. «Le
famiglie si riuniscono, si mangia, ci si scambiano regali.»
Varian mi rivolse un cenno, e avrei giurato che fosse di gratitudine. «Infatti.»
Feyre apparve accanto a dov’ero seduto e il suo profumo mi riempì i polmoni. La tirai
giù perché si appollaiasse sul bracciolo della mia poltrona.
Lo fece con una familiarità che mi riscaldò nel profondo, senza nemmeno preoccuparsi
di guardare nella mia direzione prima di posarmi un braccio sulle spalle. Metteva il brac-
cio lì solo perché poteva.
Metà. La mia Metà.
«Quindi Tarquin non celebra per niente il Solstizio d’inverno?» chiese a Varian.
Lui scosse la testa.
«Forse avremmo dovuto invitarlo» rifletté Feyre.
«C’è ancora tempo» dissi io. Solo il Calderone sapeva quanto avessimo bisogno di al-
leanze. Più che mai. «Vedi tu se è il caso, principe.»
Varian abbassò lo sguardo su Amren, che sembrava totalmente concentrata sul suo ca-
lice di vino. «Ci penserò.»
Annuii. Tarquin era il suo Signore Supremo. Se fosse venuto lì, l’attenzione di Varian
sarebbe stata altrove. Lontano da dove desiderava concentrarsi, per i pochi giorni che po-
teva passare con Amren.
Mor si lasciò cadere sul divano tra Cassian e Azriel, e i suoi riccioli dorati rimbalza-
rono. «Comunque mi fa piacere che siamo solo noi» dichiarò. «E tu, Varian» si corresse.
Varian le offrì un sorriso che significava: apprezzo lo sforzo.
L’orologio sulla mensola del camino suonò le otto. Come se fosse stata evocata, entrò Elain.
Mor si alzò all’istante, offrendole vino, insistendo. Tipico.
Elain lo rifiutò cortesemente e si sistemò su una delle sedie di legno nel bovindo. Ti-
pico anche quello.
Ma Feyre stava fissando l’orologio, con la fronte aggrottata. “Nesta non arriva.”
“L’hai invitata per domani.” Inviai una carezza rilassante lungo l’Unione, come se po-
tesse spazzare via la delusione che si irradiava da lei.
La mano di Feyre si strinse sulla mia spalla.
Alzai il bicchiere e tutti si zittirono. «Alle famiglie vecchie e nuove. Che inizino i fe-
steggiamenti del Solstizio.»
Bevemmo tutti a quello.
FEYRE
L a mattina del Solstizio, mi svegliò il bagliore del sole sulla neve; filtrava dalle nostre
pesanti tende di velluto.
Guardai accigliata il raggio di luce e mi voltai, distogliendo lo sguardo dalla finestra.
Ma la mia guancia si scontrò con qualcosa di increspato e solido. Di sicuro non era il mio
cuscino.
Staccandomi la lingua dal palato, massaggiandomi la testa per scacciare il dolore che si
era piantato sul lato sinistro della fronte grazie alle ore di bevute, risate e altre bevute an-
cora fino alle prime ore del mattino, mi tirai su il necessario per vedere che cosa c’era vi-
cino al mio viso.
Un regalo. Avvolto in carta crespa nera e legato con filo d’argento. E accanto, sorriden-
te, c’era Rhys.
Aveva appoggiato la testa su un pugno e drappeggiato le ali sul letto, dietro di sé. «Buon
compleanno, Feyre cara.»
Gemetti. «Come fai a sorridere dopo tutto quel vino?»
«Non avevo una bottiglia tutta per me, ecco come.» Mi passò un dito lungo il solco
della spina dorsale.
Mi alzai sui gomiti e studiai il pacchetto. Era rettangolare e quasi piatto, spesso solo uno
o due pollici. «Speravo che te ne dimenticassi.»
Rhys sorrise. «Certo che lo speravi.»
Sbadigliando mi sollevai in ginocchio, allungai le braccia sopra la testa e poi tirai il re-
galo verso di me. «Pensavo che avremmo aperto i regali stanotte insieme agli altri.»
Aggiunsi, aprendo il mio album da disegno sulla prima pagina: «Una volta hai detto
che l’ideale sarebbe stato un nudo».
A Rhys brillarono gli occhi; un sussurro del suo potere fece spalancare le tende, e il
sole di metà mattina inondò la camera, mostrò tutto il suo glorioso corpo nudo diste-
so sul letto e illuminò le tenui sfumature rosse e dorate delle sue ali. «Fai del tuo peggio,
Spezzamaledizioni.»
Mi sentivo scintillare il sangue. Tirai fuori un carboncino e iniziai.
Erano quasi le undici quando uscimmo dalla nostra camera. Avevo riempito pagine e pa-
gine del mio album: avevo disegnato le sue ali, i suoi occhi, i suoi tatuaggi Illyrian. E così
tante parti del suo bel corpo nudo che non avrei mai mostrato quell’album a nessuno, tran-
ne lui. Rhys aveva mormorato la sua approvazione quando l’aveva sfogliato, sorridendo
per l’accuratezza dei miei disegni riguardanti certe aree del suo corpo.
La casa di città era ancora silenziosa mentre scendevamo le scale; la mia Metà si era
messa gli indumenti di pelle Illyrian, per qualche strana ragione. Se la mattina del Solsti-
zio includeva una delle estenuanti sessioni di allenamento con Cassian, sarei stata ben fe-
lice di restare a casa e iniziare a mangiare le leccornie; arrivava già il loro profumo dalla
cucina in fondo al corridoio.
Entrando nella sala da pranzo trovammo la colazione in attesa, ma non c’era nessuno
degli altri. Rhys mi spostò la sedia per farmi accomodare al mio solito posto a metà tavo-
lo, poi si sedette accanto a me.
«Immagino che Mor sia ancora di sopra a dormire» dissi, mettendo un dolcetto al cioc-
colato nel mio piatto, poi uno nel suo.
Rhys affettò il pasticcio di porri e prosciutto e me ne mise un pezzo nel piatto. «Ha be-
vuto anche più di te, quindi immagino che non la vedremo fino al tramonto.»
Sbuffai e porsi la tazza per farmi versare il tè che mi stava offrendo, mentre si levava il
vapore dal beccuccio della teiera.
Ma due massicce figure riempirono l’arco della sala da pranzo e Rhys si arrestò.
Anche Azriel e Cassian – che dovevano essersi avvicinati in punta di piedi – indossa-
vano i loro indumenti Illyrian.
E, a giudicare dai loro sogghigni schifosi, sapevo che non sarebbe finita bene.
Si mossero prima che potesse farlo Rhys, e solo un lampo del suo potere impedì alla
teiera di cadere sul tavolo quando lo trascinarono via dalla sedia, puntando verso la por-
ta d’ingresso.
Io mi limitai a addentare il mio dolcetto. «Per favore, riportatelo indietro tutto intero.»
«Ci prenderemo cura di lui» promise Cassian, con un perfido umorismo negli occhi.
Anche Azriel stava sorridendo quando disse: «Se riesce a tenere il passo con noi».
Alzai un sopracciglio e, proprio mentre svanivano dal portone, sempre trascinando Rhys,
la mia Metà mi disse: «Tradizione».
Come se quello spiegasse qualcosa.
E poi se ne andarono, solo la Madre sapeva dove.
Ma almeno nessuno degli Illyrian si era ricordato del mio compleanno, e ne resi gra-
zie al Calderone.
Quindi, con Mor addormentata ed Elain probabilmente in cucina – che aiutava a pre-
parare quel cibo delizioso il cui aroma riempiva la casa – mi concessi un raro pasto tran-
quillo. Mangiai anche il dolcetto che avevo messo nel piatto di Rhys, insieme alla sua por-
zione di pasticcio. E poi un’altra.
La tradizione, sì.
Visto che avevo poco da fare, oltre a riposarmi, fino a un’ora prima del tramonto, quan-
do sarebbero iniziati i festeggiamenti, mi piazzai alla scrivania nella nostra camera da let-
to per sbrigare alcune scartoffie.
“Che attività festosa” commentò Rhys lungo l’Unione. Potevo praticamente vedere il
suo sorrisetto.
“E dove sei esattamente?”
“Non ti preoccupare.”
Fissai l’occhio sul palmo della mia mano, anche se sapevo che Rhys non lo usava più.
“Questo mi fa proprio pensare che dovrei preoccuparmi.”
Una risata sinistra. “Cassian dice che potrai prenderlo a pugni quando torneremo a casa.”
“Cioè quando?”
Una pausa troppo lunga. “Prima di cena?”
Ridacchiai. “Meglio che non ne sappia niente, eh?”
“Molto meglio.”
Continuando a sorridere, lasciai cadere il filo che ci univa e rivolsi un sospiro ai fogli
che mi fissavano. Fatture, lettere e conti...
Alla fine sollevai un sopracciglio e tirai verso di me un tomo rilegato in pelle. Un elen-
co delle spese domestiche, solo mie e di Rhys. Una goccia d’acqua rispetto alla ricchezza
rappresentata dai suoi beni. Dai nostri beni. Presi un foglio e cominciai a sommare le spe-
se fatte fino a quel momento, aggrovigliandomi con la matematica.
I soldi c’erano, se avessi voluto usarli. Se avessi voluto comprare quello studio. Nel fon-
do per gli “acquisti vari” c’era denaro a sufficienza.
Sì, avrei potuto comprare quello studio in un baleno con la fortuna che ora possedevo.
Ma l’idea di usare tutti quei soldi in maniera così disinvolta, anche se lo studio non sareb-
be stato solo per me...
Chiusi il libro mastro, infilai i miei calcoli tra le pagine e mi alzai. I documenti pote-
vano aspettare. Decisioni del genere potevano aspettare. Il Solstizio, mi aveva detto Rhys,
era per la famiglia. E dato che lui, al momento, lo stava trascorrendo con i suoi fratelli, io
avrei dovuto trovare almeno una delle mie sorelle.
Incrociai Elain a metà del percorso per la cucina; stava portando un vassoio di crosta-
tine al tavolo della sala da pranzo. Su cui si stava accumulando un assortimento di delizie
cotte al forno, torte a vari strati e biscotti glassati, panini coperti di zucchero e torte alla
frutta spruzzate di caramello. «Quelli sembrano proprio belli» le dissi a mo’ di saluto, in-
dicando i biscotti a forma di cuore sul vassoio. Sembrava tutto bello.
Elain sorrise; la sua treccia dondolava a ogni passo verso il crescente mucchio di cibo.
«Il sapore è all’altezza dell’aspetto.» Posò il vassoio e si pulì le mani coperte di farina sul
grembiule che indossava sopra il vestito rosa polvere. Anche in pieno inverno, lei era sem-
pre un’esplosione di colori e di sole.
Mi passò una delle crostatine, con lo zucchero scintillante. Le diedi un morso senza esi-
tare e mi lasciai sfuggire un mormorio di piacere. Elain era raggiante.
Esaminai il cibo che stava assemblando e, tra un boccone e l’altro, le chiesi: «Da quan-
to tempo ci lavori?».
Alzò una spalla. «Dall’alba.» E poi aggiunse: «Nuala e Cerridwen si erano alzate ore
prima».
Avevo visto la gratifica che Rhys aveva dato a ognuna di loro per il Solstizio. Era più di
quanto la maggior parte delle famiglie guadagnasse in un anno. Ma loro meritavano ogni
singolo marco di rame.
Soprattutto per quello che avevano fatto per mia sorella. In quella cucina le avevano for-
nito compagnia, uno scopo, un senso di normalità. Era per loro che aveva comprato quel-
le coperte morbidissime dalla tessitrice, una rosa lampone e l’altra lilla.
Elain mi studiò a sua volta mentre finivo la tortina e ne prendevo un’altra. «Hai avu-
to sue notizie?»
Sapevo a chi si riferiva. Proprio mentre aprivo la bocca per dire di no, bussarono alla
porta di casa.
Elain si mosse così velocemente che riuscivo a malapena a starle dietro, spalancò la por-
ta di vetro satinato che dava sull’atrio, e quindi aprì la pesante porta d’ingresso di quercia.
Ma non era Nesta che stava lì sulla soglia, con le guance arrossate dal freddo.
No: Elain fece un passo indietro e tolse la mano dalla maniglia, permettendomi di ve-
dere Lucien che faceva un sorriso tirato a entrambe.
«Buon Solstizio» fu tutto ciò che disse.
FEYRE
«Sembri star bene» dissi a Lucien quando ci fummo sistemati sulle poltrone davanti al
fuoco. Elain si appollaiò in silenzio sul divano vicino.
Lucien si scaldò le mani al fuoco di betulla; la luce proiettava sul suo viso toni rossi e
dorati, e quelli dorati erano uguali al colore del suo occhio meccanico. «Anche tu.» Un’oc-
chiata di sbieco verso Elain, rapida e fugace. «Anche voi, tutte e due.»
Elain non disse nulla, ma perlomeno chinò la testa in segno di ringraziamento. Nella
sala da pranzo, Nuala e Cerridwen continuarono ad aggiungere cibo al tavolo. Erano di-
ventate poco più che ombre gemelle, e passavano attraverso le pareti.
«Hai portato regali» dissi, indicando la piccola pila che aveva messo vicino alla finestra.
«Qui si usa così per il Solstizio, no?»
Repressi un sussulto. Il mio precedente Solstizio era stato alla Corte della Primavera.
Con Ianthe. E Tamlin.
«Sei il benvenuto, se vuoi fermarti stasera» lo invitai, visto che Elain non l’avrebbe cer-
to fatto.
Lucien si mise le mani in grembo e si appoggiò allo schienale della poltrona. «Grazie,
ma ho altri programmi.»
Pregai che non si accorgesse del barlume di sollievo sul viso di Elain.
«Dove andrai?» chiesi invece, sperando che restasse concentrato su di me. Pur sapendo
che era un compito impossibile.
«Io...» Lucien cercò a tentoni le parole. Non per inventare una bugia o una scusa, come
capii un attimo dopo. Me ne resi conto quando disse: «Sono stato alla Corte della Prima-
vera, ogni tanto. Ma, se non sono qui a Velaris, sto per lo più con Jurian. E con Vassa».
Raddrizzai la schiena. «Davvero? Dove?»
«C’è una vecchia casa padronale nel Sudest, nel territorio degli umani. Jurian e Vassa
l’hanno... ricevuta in regalo.»
Dalle rughe che gli circondavano la bocca, probabilmente sapevo chi aveva fatto in modo
che avessero la tenuta. Graysen... o suo padre. Non osavo guardare Elain.
«Rhys mi aveva detto che erano ancora a Prythian. Non avevo capito che fosse una
base così permanente.»
Un breve cenno del capo. «Per ora. Mentre le cose si sistemano.»
“Cose” come il mondo senza un muro. Come le quattro regine umane che occupavano
ancora il palazzo all’altro lato del continente. Ma non era il momento giusto per parlarne.
«Come stanno... Jurian e Vassa?» Rhys mi aveva detto abbastanza su come stava Tamlin.
Non mi andava più di sentirne parlare.
«Jurian...» Lucien sospirò e studiò il soffitto di legno intagliato sopra di lui. «Ringrazio
il Calderone per la sua esistenza. Non avrei mai pensato di poterlo dire, ma è vero.» Si pas-
sò una mano tra i setosi capelli rossi. «Sta facendo funzionare tutto. Penso che a quest’o-
ra sarebbe stato incoronato re, se non fosse per Vassa.» Contrasse le labbra e apparve una
scintilla in quell’occhio rossastro. «Lei se la cava abbastanza bene. Assapora ogni secondo
della sua temporanea libertà.»
Non avevo dimenticato la sua supplica di quella notte, dopo l’ultima battaglia contro
Hybern. Mi aveva implorata di spezzare la maledizione che la rendeva umana durante la
notte, uccello di fuoco durante il giorno. Una regina che un tempo era stata orgogliosa,
e che lo era ancora, sì, ma alla disperata ricerca della sua libertà. Del suo corpo umano.
Del suo regno.
«Lei e Jurian vanno d’accordo?»
Non li avevo visti interagire; potevo solo provare a immaginare come si comportassero
quando erano nella stessa stanza. Entrambi cercavano di guidare gli umani che occupava-
no il lembo di terra all’estremità meridionale di Prythian. Che era rimasto senza governo
per tanto tempo. Troppo a lungo.
Non c’erano più re o regine in quelle terre. Nessun ricordo dei loro nomi, delle loro stirpi.
Almeno tra gli umani. Forse i Fae lo sapevano. Forse Rhys lo sapeva.
Ma tutto ciò che restava, di chi un tempo aveva governato la punta meridionale di
Prythian, era un assortimento eterogeneo di signori e signore. Nient’altro. Niente duchi o
conti o nessuno dei titoli che una volta avevo sentito menzionare dalle mie sorelle men-
tre parlavano degli umani nel continente. Non c’erano titoli del genere nelle terre dei Fae.
A Prythian.
No, c’erano solo Signori Supremi e Signori. E ora una Signora Suprema.
Mi chiedevo se gli umani avessero preso a usare solo “signore” come titolo grazie ai Fae
Superiori che erano stati in agguato a nord del muro.
Ma che ora non lo erano più.
Lucien rifletteva sulla mia domanda. «Vassa e Jurian sono le due facce della stessa me-
daglia. Per fortuna, la loro visione del futuro dei territori umani per lo più coincide. Ma i
metodi su come ottenerlo...» Aggrottò la fronte in direzione di Elain, poi fece una smor-
fia a me. «Questo non è un discorso molto adatto al Solstizio.»
Assolutamente no, ma non mi importava. E, per quanto riguardava Elain...
Mia sorella si alzò in piedi. «Vado a preparare il tè.»
Anche Lucien si alzò. «No, non preoccuparti. Sono...»
Ma lei era già fuori della stanza.
Quando non udimmo più i suoi passi, Lucien si accasciò sulla poltrona e fece un lun-
go respiro. «Come sta?»
«Meglio. Non fa menzione dei suoi poteri. Ammesso che ci siano ancora.»
«Bene. Ma è ancora...» Gli guizzò un muscolo nella mascella. «Lo piange ancora?»
Le parole erano poco più di un grugnito.
Mi morsi un labbro, valutando quanta verità rivelare. Alla fine decisi di dire tutto. «Era
profondamente innamorata di lui, Lucien.»
I suoi occhi rossastri lampeggiarono di rabbia latente. L’istinto incontrollabile di una
Metà: eliminare qualsiasi minaccia. Ma lui rimase seduto. Anche se le sue dita si conficca-
rono nei braccioli della poltrona.
Continuai: «Sono passati solo pochi mesi. Graysen ha chiarito che il fidanzamento è
terminato, ma forse ci vorrà un po’ più tempo perché lei lo superi».
Di nuovo quella rabbia. Non per gelosia o per una minaccia, ma... «È uno dei peggio-
ri stronzi che io abbia mai incontrato.»
Lucien lo aveva conosciuto, capii. In qualche modo, vivendo con Jurian e Vassa in quella
tenuta, si era imbattuto nell’ex fidanzato di Elain. Ed era riuscito a lasciarlo in vita.
«Tendo a essere d’accordo con te, su questo argomento» ammisi. «Ma ricorda che era-
no fidanzati. Dalle il tempo di accettarlo.»
«Di accettare una vita incatenata a me?»
Le mie narici si dilatarono. «Non è quello che intendevo.»
«Non vuole avere niente a che fare con me.»
«E tu vorresti, se fossi al suo posto?»
Non rispose.
Feci un tentativo: «Dopo la fine del Solstizio, perché non vieni a stare qui una settima-
na o due? Non nel tuo appartamento, voglio dire. Qui, nella casa di città».
«Per fare cosa?»
«Per passare un po’ di tempo con lei.»
«Non credo che sopporterebbe due minuti da sola con me, figurati due settimane.» Ave-
va la mascella contratta, mentre studiava il fuoco.
Fuoco. Il dono ereditato da sua madre. Non da suo padre.
Sì, era il potere di Beron. Il potere del padre che, per quel che ne sapeva il mondo, lo
aveva generato. Ma non di Helion. Il suo vero padre.
Non ne avevo ancora parlato a nessuno, a parte Rhys.
vinato ogni mia possibilità di tornare alla Corte della Primavera. Non da Tamlin, ma nella
Corte oltre casa sua. Tutti credono ancora alle bugie che hai inventato o mi credono compli-
ce del tuo inganno. E per quanto riguarda questa casa...». Si liberò dalla mia presa e si diresse
verso la porta. «Non sopporto di stare nella stessa stanza con lei per più di due minuti. Non
sopporto di stare in questa Corte e sapere che è la tua Metà a pagare quello che indosso.»
Studiai la giacca che portava. L’avevo già vista. Ai tempi di...
«Tamlin l’ha mandata ieri alla nostra tenuta» sibilò Lucien. «Ha mandato i miei vestiti.
I miei averi. Tutto. Li ha spediti dalla Corte della Primavera e me li ha fatti scaricare sul-
la soglia della porta.»
Bastardo. Era ancora un bastardo, nonostante quello che aveva fatto per me e Rhys du-
rante l’ultima battaglia. Ma la colpa di quel comportamento non era solo di Tamlin. Ave-
vo creato io quella spaccatura. L’avevo creata con le mie stesse mani.
Non mi sentivo abbastanza in colpa da volermi scusare. Non ancora. Forse mai.
«Perché?» L’unica domanda che mi venne in mente.
«Forse ha avuto qualcosa a che fare con la visita della tua Metà, l’altro giorno.»
Mi si irrigidì la spina dorsale. «Rhys non ti ha coinvolto in questa faccenda.»
«Potrebbe anche essere. Qualunque cosa abbia detto o fatto, Tamlin ha deciso che de-
sidera rimanere solo.» Il suo occhio rossastro si incupì. «La tua Metà avrebbe dovuto sa-
pere che non è il caso di prendere a calci un maschio abbattuto.»
«Non posso dire di essere particolarmente dispiaciuta, se l’ha fatto.»
«Avrete bisogno di Tamlin come alleato prima che si depositi la polvere. Procedete con
cautela.»
Non volevo proprio pensarci, quel giorno. Qualsiasi giorno. «Non ho più niente a che
fare con lui.»
«Tu forse, ma Rhys no. E faresti bene a ricordarlo alla tua Metà.»
Un impulso lungo l’Unione, come in risposta. “Tutto bene?”
Lasciai che Rhys vedesse e sentisse tutto quello che era stato detto: gli trasmisi la con-
versazione in un batter d’occhio. “Mi dispiace avergli causato problemi” disse Rhys. “Ti
serve che torni a casa?”
“Ci penso io.”
“Fammi sapere se hai bisogno di qualcosa” aggiunse Rhys, e l’Unione tacque.
«Comunicazioni?» chiese piano Lucien.
«Non so di che cosa tu stia parlando» risposi, e il mio viso era il ritratto della noia.
Mi lanciò uno sguardo consapevole, proseguì verso la porta e prese il suo cappotto pe-
sante e la sciarpa dai ganci dei pannelli di legno. «La scatola più grande è per te. Quella
più piccola è per lei.»
Mi ci volle un attimo per capire che si riferiva ai regali. Mi guardai alle spalle per vede-
re i begli involucri di carta argentata, i fiocchi azzurri su entrambe le scatole.
Quando mi voltai di nuovo, Lucien se n’era andato.
sua Banda di Esiliati. Lascia che si occupi di Tamlin a modo suo. Lascia che capisca dove
vuole stare. Chi vuole essere. E lo stesso vale per lei.»
Aveva ragione.
«So che ti senti ancora in colpa per la Creazione delle tue sorelle.» Mor mi diede un
colpetto al ginocchio con il suo. «Ed è per questo che vuoi risolvere tutto per loro, ora
che sono qui.»
«Ho sempre voluto farlo» dissi, cupa.
Mor fece un sorriso storto. «Ecco perché ti amiamo. Perché ti amano.»
Non ero tanto sicura che mi amasse anche Nesta.
Mor continuò: «Sii paziente. Le cose si risolveranno da sole. Lo fanno sempre».
Un altro nocciolo di verità.
Mi riempii il bicchiere, posai la caraffa di cristallo sul gradino dietro di noi e bevvi di
nuovo. «Voglio che siano felici. Tutti loro.»
«E lo saranno.»
Pronunciò quelle semplici parole con tanta convinzione che le credetti.
Inarcai un sopracciglio. «E tu... sei felice?»
Mor sapeva che cosa intendevo. Ma lei si limitò a sorridere, facendo roteare il liquore nel
suo bicchiere. «È il Solstizio. Sono con la mia famiglia. Sto bevendo. Sì, sono molto felice.»
Abilmente evasiva. Ma mi andava bene prendere parte a quell’evasione. Feci tintinnare il
mio pesante bicchiere contro il suo. «A proposito della nostra famiglia... Dove diavolo sono?»
Gli occhi marroni di Mor si illuminarono. «Oh... oh, non te l’ha detto, vero?»
Il mio sorriso vacillò. «Dimmelo tu.»
«Stanno facendo quello che fanno loro tre, ogni mattina del Solstizio.»
«Comincio a innervosirmi.»
Mor posò il bicchiere e mi prese per un braccio. «Vieni con me.» Prima che potessi
obiettare, ci aveva trasmutate. Mi colpì una luce accecante. E il freddo.
Un freddo vivo e brutale. Un freddo eccessivo per i maglioni e i pantaloni che indossavamo.
Neve. E sole. E vento.
E montagne.
E... una casa.
La casa.
Mor indicò il grandissimo campo in cima alla montagna. Coperto di neve, proprio come
l’avevo visto l’ultima volta. Ma invece che una distesa piatta e ininterrotta...
«Quelli sono fortini di neve?»
Annuì.
Qualcosa di bianco attraversò il campo, qualcosa di bianco, duro e scintillante, e poi...
L’urlo di Cassian echeggiò sulle montagne intorno a noi. Seguito da un «Bastardo!».
La risata di risposta di Rhys fu luminosa come il sole sulla neve.
Studiai le tre pareti di neve – le barricate – che delimitavano il campo mentre Mor eri-
geva uno scudo invisibile contro il vento pungente. Che, tuttavia, fece ben poco per scac-
ciare il freddo. «Stanno facendo una battaglia a palle di neve.»
Annuì di nuovo.
«Tre guerrieri Illyrian» dissi. «I più grandi guerrieri Illyrian della storia. E stanno com-
battendo a palle di neve.»
Gli occhi di Mor brillavano di gioia e malizia. «Da quando erano bambini.»
«Hanno più di cinquecento anni!»
«Vuoi che ti dica il numero attuale di vittorie?»
La guardai a bocca aperta. Poi fissai il campo. Le palle di neve che volavano con brutale
e rapida precisione mentre teste scure spuntavano dai muri che avevano costruito.
«Niente magia» recitò Mor «niente ali, niente pause.»
«Sono qui fuori da mezzogiorno.» Erano quasi le tre. Cominciai a battere i denti.
«Io sono sempre rimasta dentro a bere» disse Mor, come se quella fosse una risposta.
«Come fanno a decidere chi ha vinto?»
«Chi non subisce danni da assideramento?»
La guardai di nuovo sbalordita, battendo i denti. «Ma è ridicolo.»
«C’è altro alcol in casa.»
Nessuno dei maschi sembrava averci notate. Azriel spuntò fuori, lanciò due palle di neve
verso il cielo e scomparve di nuovo dietro il suo muro di neve.
Un attimo dopo, volarono verso di noi feroci imprecazioni di Rhys. «Coglione.»
C’era gioia in ogni sillaba.
Mor mi prese di nuovo a braccetto. «Non credo che quest’anno vincerà la tua Metà,
amica mia.»
Mi adagiai nel suo calore e ci avviammo nella neve alta fino alla casa, il cui camino sbuf-
fava fumo contro il cielo azzurro e limpido.
Piccoli Illyrian, proprio.
FEYRE
V inse Azriel.
Era la sua centonovantanovesima vittoria, a quanto pareva.
I tre erano entrati in casa un’ora dopo, sgocciolando neve, con la pelle chiazzata di ros-
so e sorrisi che andavano da un orecchio all’altro.
Mor e io, accoccolate insieme sul divano sotto una coperta, ci limitammo ad alzare gli
occhi al cielo.
Rhys mi diede un bacio sulla testa, annunciò che loro tre avrebbero fatto un bagno di
vapore nella baracca rivestita di cedro adiacente alla casa, e poi se ne andarono.
Sbattei le palpebre verso Mor mentre svanivano, lasciando che l’immagine si stabilizzasse.
«Un’altra tradizione» mi disse. La bottiglia di alcol color ambra era quasi vuota, e mi gi-
rava la testa. «Sono un’usanza Illyrian, in realtà, le capanne riscaldate. I birchin. Un bran-
co di guerrieri nudi, seduti insieme nel vapore, a sudare.»
Battei di nuovo le palpebre.
Le labbra di Mor si contrassero. «È praticamente l’unica bella usanza che gli Illyrian ab-
biano mai inventato, a essere onesti.»
Sbuffai. «Quindi loro tre sono lì dentro. Nudi. E sudano.»
Madre nei cieli.
“Ti interessa dare un’occhiata?” Le fusa oscure echeggiavano nella mia mente.
“Vecchio bavoso. Torna alla tua sudata.”
“C’è spazio per un’altra persona, qui.”
Il sole stava tramontando verso il mare lontano al di là di Velaris quando Rhys si acco-
stò alla mensola del camino di marmo nero, nel salotto della casa di città, e sollevò il suo
bicchiere di vino.
Tutti noi – una volta tanto, eleganti dal primo all’ultimo – sollevammo i nostri.
Avevo scelto di indossare il mio abito della Notte delle Stelle, rinunciando alla corona
ma mettendo i braccialetti di diamanti ai polsi. Il vestito brillava e splendeva nella mia li-
nea visiva mentre stavo al fianco di Rhys e osservavo il suo bellissimo viso. Stava dicendo:
«Alla benedetta oscurità da cui siamo nati e alla quale ritorneremo».
Alzammo i bicchieri e bevemmo.
Guardai la mia Metà, nella sua più bella giacca nera, con il ricamo d’argento che bril-
lava alla luce del sole. “Questo è tutto?” gli chiesi lungo l’Unione.
Inarcò un sopracciglio. “Volevi che continuassi a blaterare o è meglio cominciare a
festeggiare?”
Le mie labbra si contrassero. “Mantieni davvero le cose informali.”
“Dopo tutto questo tempo, ancora non mi credi.” Fece scivolare una mano dietro di me
e mi diede un pizzicotto. Mi morsi un labbro per non ridere. “Spero che tu mi abbia fat-
to un bel regalo per il Solstizio.”
Toccava a me pizzicarlo; lui rise e mi diede un bacio sulla tempia, poi uscì dalla stanza.
Senza dubbio per prendere altro vino.
e le ombre seguivano i suoi passi, arricciandosi come tizzoni turbinanti, ma non si vede-
vano altre tracce del guerriero che era in lui. Soprattutto quando disse gentilmente a mia
sorella: «Buon Solstizio».
Elain voltò le spalle alla neve che cadeva nel buio e fece un sorrisino. «Non ho mai par-
tecipato a una di queste festività.»
Amren – dall’altra parte della stanza, con Varian al suo fianco, splendente nelle sue ve-
sti principesche – proclamò: «Sono decisamente sopravvalutate».
Mor sorrise. «Dice la donna che si riempie le tasche ogni anno. Non so com’è che non
ti hanno ancora derubata sulla strada verso casa, con tutti quei gioielli addosso.»
Amren mostrò i suoi denti troppo bianchi. «Attenta, Morrigan, o riporto indietro la gra-
ziosa cosina che ti ho preso.»
Mor, con mia sorpresa, tacque subito.
E così fecero gli altri, quando Rhys tornò con...
«No, dimmi che non è vero» sbottai.
Lui mi fece un ampio sorriso da sopra la gigantesca torta a vari strati che aveva tra le
braccia... e sopra le ventun candeline scintillanti che gli illuminavano il viso.
Cassian mi diede una pacca sulla spalla. «Pensavi di poterci sfuggire, eh?»
Gemetti. «Siete tutti insopportabili.»
Elain fluttuò al mio fianco. «Buon compleanno, Feyre.»
I miei amici – la mia famiglia – riecheggiarono quelle parole mentre Rhys posava la tor-
ta sul tavolino basso davanti al fuoco. Guardai mia sorella. «L’hai...?»
Annuì. «Però l’ha decorata Nuala.»
Fu allora che mi resi conto di come erano stati dipinti i tre diversi strati.
In alto: fiori. Al centro: fiamme. E sul fondo, sullo strato più largo... stelle.
Le stesse cose che un tempo avevo disegnato sulla cassettiera di quella casetta fatiscen-
te. Un disegno diverso per ognuna di noi, per ogni sorella. Quelle stelle e lune che era-
no state inviate a me, alla mia mente, dalla mia Metà. Molto prima che ci conoscessimo.
«Ho chiesto a Nuala di metterli in quest’ordine» disse Elain mentre gli altri si radunavano
attorno a noi. «Perché sei le nostre fondamenta, quello che ci sostiene. Lo sei sempre stata.»
Mi si annodò la gola in maniera insopportabile e le strinsi la mano in risposta.
Mor, che fosse benedetta dal Calderone, gridò: «Esprimi un desiderio e passiamo ai
regali!».
Almeno una tradizione era uguale da entrambi i lati del muro.
Incrociai lo sguardo di Rhys sopra le candele scintillanti. Il suo sorriso fu sufficiente a
trasformare la tensione alla gola in un bruciore agli occhi.
“Che desiderio esprimerai?” mi chiese lungo l’Unione.
Una domanda semplice e franca.
E osservandolo, guardando quel bel viso e quel sorriso disinvolto, tante di quelle om-
bre svanirono, con la nostra famiglia raccolta attorno a noi, con l’eternità che era una stra-
da davanti a noi... lo seppi.
Seppi esattamente che desiderio volevo esprimere, come se fosse un pezzo dei puzzle
di Amren che si incastrava, come se i fili dell’arazzo della tessitrice rivelassero finalmente
il disegno che dovevano formare.
Non glielo dissi, però. Presi fiato e soffiai.
La torta prima di cena era assolutamente accettabile al Solstizio, mi informò Rhys men-
tre posavamo i nostri piatti su qualsiasi superficie disponibile nel soggiorno. Soprattutto
prima dei regali.
«Quali regali?» chiesi, esaminando la stanza vuota, fatta eccezione per le due scato-
le di Lucien.
Gli altri mi sorrisero mentre Rhys schioccava le dita e...
«Oh.»
Scatole e borse, tutte colorate e decorate, riempirono i bovindi.
Mucchi e montagne e torri di pacchetti. Mor si lasciò sfuggire uno strillo di gioia.
Mi voltai verso l’atrio. Avevo lasciato i miei in un ripostiglio delle scope al secondo piano...
No. Eccoli. Dietro agli altri, tutti incartati.
Rhys mi strizzò un occhio. «Mi sono preso la libertà di aggiungere i tuoi regali al bot-
tino comune.»
Inarcai le sopracciglia. «Tutti ti hanno affidato i loro doni?»
«È l’unico di cui ci si può fidare, l’unico che non ficca il naso» mi spiegò Mor.
Guardai Azriel.
«Lui no» disse Amren.
Azriel fece una smorfia con aria colpevole. «Capo delle spie, ricordi?»
«Cominciammo a farlo due secoli fa» continuò Mor. «Quando Rhys sorprese Amren
che letteralmente scuoteva una scatola per capire che cosa ci fosse dentro.»
Amren fece schioccare la lingua mentre io ridevo. «Quello che non hanno visto era Cas-
sian, quaggiù, dieci minuti prima, che annusava ogni pacchetto.»
Cassian le lanciò un sorriso pigro. «Non sono stato colto in flagrante, io.»
Mi rivolsi a Rhys. «E così tu saresti il più degno di fiducia?»
Rhys sembrò decisamente offeso. «Sono un Signore Supremo, Feyre cara. L’onore in-
crollabile è incorporato nelle mie ossa.»
Mor e io sbuffammo.
Amren si diresse verso la pila di regali più vicina. «Comincio io.»
«Non avevo dubbi» mormorò Varian, guadagnandosi sorrisi da me e da Mor.
Amren gli sorrise dolcemente e poi si chinò a prendere un regalo. Varian ebbe il buon-
senso di rabbrividire solo quando lei gli ebbe voltato le spalle.
Ma Amren prese un regalo avvolto in carta rosa, lesse il bigliettino con il nome e la-
cerò la confezione.
Tutti tentammo di nascondere i nostri sussulti e nessuno ci riuscì.
Avevo visto animali strappare brani dalle carcasse con meno ferocia.
Ma lei sorrideva quando si voltò verso Azriel, con squisiti orecchini di perle e diaman-
ti nelle mani. «Grazie, cantaombre» disse, inclinando la testa.
Azriel si limitò a inclinare la testa a sua volta. «Sono contento che passino l’ispezione.»
Cassian superò Amren a gomitate, guadagnandosi un sibilo di avvertimento, e iniziò a
lanciare regali. Mor prese al volo il suo e distrusse l’involucro con lo stesso entusiasmo di
Amren. Poi sorrise al generale. «Grazie, caro.»
Cassian assunse un’aria compiaciuta. «So che cosa ti piace.»
Mor tenne in alto...
Quasi mi strozzai. Anche Azriel, che si voltò di colpo verso Cassian.
Cassian gli fece l’occhiolino mentre l’impalpabile negligé rosso oscillava tra le mani di Mor.
Prima che Azriel potesse esprimere ad alta voce quello che ci stavamo chiedendo tutti,
Mor mormorò tra sé e sé e poi disse: «Non lasciatevi ingannare: non riusciva a decidere
che cosa regalarmi, quindi si è arreso e me lo ha chiesto apertamente. Io gli ho dato istru-
zioni precise. Per una volta nella vita, le ha seguite alla lettera».
«Un guerriero perfetto, in tutto e per tutto» commentò Rhys.
Cassian si appoggiò allo schienale del divano e stese davanti a sé le lunghe gambe. «Non
preoccuparti, Rhysie. Te ne ho preso uno uguale.»
«Dovrò indossarlo per te?»
Risi, e mi sorprese sentire un’eco della mia risata nella stanza.
Era Elain.
Il suo regalo... Mi precipitai verso la pila di regali prima che Cassian potesse lanciarne
un altro e cercai il pacchetto che avevo incartato con cura il giorno prima. L’avevo appena
visto dietro una scatola più grande quando lo sentii. Un colpo alla porta.
Solo uno. Rapido e duro.
Lo sapevo. Sapevo, prima ancora che Rhys mi guardasse, chi era in piedi dietro quel-
la porta.
Tutti lo sapevano.
Cadde il silenzio, interrotto solo dallo scoppiettio del fuoco.
Un attimo e poi mi mossi, con il vestito che mi frusciava attorno mentre attraversavo
l’atrio, spalancavo la porta di vetro impiombato e poi quella di quercia, e mi preparavo
all’assalto del freddo.
All’assalto di Nesta.
FEYRE
L a neve si attaccava ai capelli di Nesta mentre stavamo a fissarci ai due lati della soglia.
La notte gelida le aveva tinto di rosa le guance, ma il suo viso rimaneva solenne. Fred-
do come i ciottoli spolverati di neve.
Aprii un po’ di più la porta. «Siamo in salotto.»
«Ho visto.»
Arrivavano fino all’atrio conversazioni incerte ed esitanti. Senza dubbio era un nobile
tentativo da parte di tutti: volevano fornirci un po’ di intimità, dare un senso di normali-
tà a quella situazione.
Visto che Nesta restava sul pianerottolo, le tesi una mano. «Dai, ti prendo il cappotto.»
Cercai di non trattenere il respiro mentre lei guardava oltre le mie spalle, verso l’inter-
no della casa. Come se stesse valutando se fare quel passo oltre la soglia.
Al limite del mio campo visivo, un barlume viola e oro: Elain. «Ti ammalerai se rimani lì
al freddo» disse a Nesta, con un ampio sorriso. «Vieni a sederti con me accanto al fuoco.»
Gli occhi grigio-azzurri di Nesta si posarono sui miei. Diffidenti. Calcolatori.
Restai dov’ero. Tenni aperta quella porta.
Senza una parola, mia sorella varcò la soglia.
In un momento l’aiutammo a togliersi il cappotto, la sciarpa e i guanti; sotto c’era uno
di quegli abiti semplici ma eleganti che prediligeva. Aveva optato per un grigio ardesia.
Niente gioielli. Certamente non aveva regali con sé, ma almeno era venuta.
Elain prese Nesta sottobraccio per condurla nel salotto, e io le seguii, osservando il grup-
po che aveva interrotto le conversazioni.
Osservando soprattutto Cassian, che era in piedi davanti al fuoco con Az.
Sembrava perfettamente rilassato, con un braccio appoggiato sulla mensola scolpita del
camino, le ali ripiegate ma non serrate, un vago sorriso sul volto e un bicchiere di vino in
mano. Puntò i suoi occhi nocciola su mia sorella senza muoversi di un pollice.
Elain si era incollata un sorriso in faccia mentre conduceva Nesta non verso il fuoco
come aveva promesso, ma verso l’armadietto dei liquori.
«Non portarla al vino, portala al cibo» la esortò Amren dalla poltrona su cui era appol-
laiata, mentre si infilava nei lobi gli orecchini di perle che le aveva regalato Az. «Vedo il
suo culo ossuto anche attraverso il vestito.»
Nesta si fermò a metà della stanza, con la schiena rigida. Cassian era immobile come
la morte.
Elain si fermò accanto a nostra sorella; quel sorriso stampato stava vacillando.
Amren fece un sorrisetto furbo a Nesta. «Buon Solstizio, ragazza.»
Nesta fissò Amren, finché il fantasma di un sorriso non le incurvò le labbra. «Begli
orecchini.»
Più che vederlo, percepii che tutti si rilassavano un pochino.
Elain disse allegramente: «Avevamo appena iniziato con i regali».
Solo quando lo disse, mi venne in mente che su nessuno dei pacchetti in quella stanza
c’era il nome di Nesta.
«Non abbiamo ancora mangiato» dissi, indugiando sulla soglia tra il salotto e l’atrio.
«Ma, se hai fame, possiamo prepararti un piatto...»
Nesta accettò il bicchiere di vino che Elain le mise in mano. Non mancai di notare che,
quando Elain si voltò di nuovo verso l’armadietto degli alcolici, versò un dito di liquore co-
lor ambra in un bicchiere e lo buttò giù con una smorfia prima di affrontare di nuovo Nesta.
Amren, a cui non sfuggiva nulla, fece un lieve sbuffo.
Ma l’attenzione di Nesta si era rivolta alla torta di compleanno ancora posata sul tavo-
lino; tutti avevamo attinto più volte ai suoi vari strati.
Nel silenzio, sollevò lo sguardo verso il mio. «Buon compleanno.»
Feci un cenno di ringraziamento. «Ha fatto Elain la torta» la informai, anche se era ab-
bastanza inutile.
Nesta si limitò ad annuire e poi si diresse verso una sedia sul fondo della stanza, vici-
no a una delle librerie. «Potete tornare ai vostri regali» disse con voce bassa, ma non de-
bole, mentre si sedeva.
Elain si precipitò verso un pacchetto sulla parte anteriore del mucchio. «Questo è per
te» annunciò a nostra sorella.
Lanciai a Rhys uno sguardo implorante. “Per favore, ricomincia a parlare. Per favore.”
Parte della luce era svanita dai suoi occhi viola mentre studiava Nesta che beveva. Non
rispose lungo l’Unione, ma disse invece a Varian: «Tarquin organizza una festa ufficiale
per il Solstizio d’estate o ci sono incontri più informali?».
Il principe di Adriata non perse un colpo e si lanciò in una descrizione – forse inutil-
mente dettagliata – delle celebrazioni alla Corte dell’Estate. Lo avrei ringraziato più tardi.
A quel punto Elain aveva raggiunto Nesta e le stava porgendo quella che sembrava una
scatola pesante avvolta nella carta.
Vicino alle finestre, Mor si mise in moto e porse il suo regalo ad Azriel.
Non sapendo chi guardare, rimasi sulla soglia.
La compostezza di Azriel non vacillò nemmeno quando aprì il suo regalo: un assorti-
mento di asciugamani azzurri ricamati, con le sue iniziali sopra. Un azzurro acceso.
Dovetti distogliere lo sguardo per non ridere. Az, a suo merito, rivolse a Mor un sorri-
so di ringraziamento, con le guance che si arrossavano e gli occhi nocciola fissi su di lei.
Guardai altrove notando come erano colmi di calore, di desiderio.
Mor respinse i ringraziamenti con un cenno della mano e fece per passare a Cassian
il suo regalo, ma il guerriero non lo prese. Né distolse gli occhi da Nesta che toglieva la
carta marrone dalla scatola e scopriva una serie di cinque romanzi in una scatola di pelle.
Lesse i titoli e poi alzò la testa verso Elain.
Elain le sorrise. «Sono entrata in quella libreria. Hai presente quella del teatro? Ho chie-
sto un consiglio, e la donna, voglio dire la femmina... ha detto che i libri di questa autri-
ce sono i suoi preferiti.»
Mi avvicinai abbastanza da poter leggere uno dei titoli. Narrativa romantica, sembrava.
Nesta tirò fuori uno dei libri e ne sfogliò le pagine. «Grazie.»
La parola era rigida... aspra.
Alla fine Cassian si voltò verso Mor e aprì il suo regalo senza alcun riguardo per la bel-
la carta in cui era avvolto. Rise, qualunque cosa ci fosse dentro la scatola. «Proprio quello
che ho sempre desiderato.» Ci mostrò quelle che sembravano essere mutande di seta ros-
sa. L’abbinamento perfetto con il negligé di lei.
Con Nesta occupatissima a sfogliare i suoi nuovi libri, passai ai regali che avevo incar-
tato il giorno prima.
Per Amren: un contenitore pieghevole studiato appositamente per i suoi puzzle. Così
non avrebbe dovuto lasciarli a casa se avesse voluto visitare terre più soleggiate e più calde.
Questo le fece alzare gli occhi al cielo ma mi fece ottenere un sorriso di apprezzamento.
La spilla di rubini e argento, a forma di ali piumate, mi valse un raro bacio sulla guancia.
Per Elain: un mantello celeste con fori per le braccia, perfetto per il giardinaggio nei
mesi più freddi.
E per Cassian, Azriel e Mor...
Grugnii mentre trascinavo i tre dipinti incartati. Poi attesi in silenzio, nervosa, mentre
li aprivano.
Mentre guardavano che cosa c’era dentro e sorridevano.
Non avevo idea di che cosa regalare a loro tre, a parte quelle cose. I quadri a cui avevo
lavorato di recente: momenti delle loro storie.
Nessuno di loro commentò i dipinti, disse che cosa ci vedevano. Ma ognuno di loro mi
baciò sulla guancia in segno di ringraziamento.
Prima che potessi dare a Rhys il suo regalo, me ne trovai un mucchio in grembo.
Da Amren: un manoscritto miniato, antico e bellissimo. Da Azriel: colori rari e palpi-
tanti portati dal continente. Da Cassian: un vero fodero di cuoio per una lama, da metter-
mi lungo il solco della spina dorsale come un autentico guerriero Illyrian. Da Elain: pen-
nelli fini con il monogramma delle mie iniziali e le insegne della Corte della Notte sui
manici. E da Mor: un paio di pantofole foderate di pelliccia. Pantofole di un rosa brillan-
te foderate di pelliccia.
Niente da Nesta, ma non mi importava. Neanche un po’.
Gli altri si scambiarono i loro regali e finalmente trovai il momento giusto per portare
l’ultimo dipinto a Rhys. Si era soffermato vicino al bovindo, silenzioso e sorridente. L’an-
no precedente era stato il suo primo Solstizio dopo Amarantha, questo il secondo. Non
volevo sapere com’era stato, che cosa gli aveva fatto, durante quei quarantanove Solstizi
che si era perso.
Rhys aprì con cura il mio regalo, sollevando il dipinto in modo che gli altri non lo
vedessero.
Osservai i suoi occhi vagare su quello che c’era sopra. Guardai la sua gola muoversi.
«Dimmi che non è il tuo nuovo animaletto domestico» disse Cassian, che si era intru-
folato dietro di me per sbirciare.
Lo spinsi via. «Impiccione.»
Il viso di Rhys rimase solenne; i suoi occhi luminosi come stelle quando incontrarono
i miei. «Grazie.»
Gli altri si misero a parlare un po’ più rumorosamente, per darci un po’ di intimità in
quella stanza affollata.
«Non ho idea di dove potresti appenderlo» dissi «ma volevo che lo avessi tu.»
Che lo vedesse lui.
Perché su quel dipinto gli mostravo ciò che non avevo rivelato a nessuno. Ciò che mi
aveva rivelato l’Ouroboros: la creatura dentro di me, la creatura piena di odio e di rim-
pianto, di amore e di spirito di sacrificio, la creatura che poteva essere crudele e coraggio-
sa, triste e gioiosa.
Gli avevo dato la me stessa che nessuno, tranne lui, avrebbe mai visto. Che nessuno,
tranne lui, avrebbe mai capito.
«È bellissimo» disse, con la voce ancora roca.
Battei le palpebre per allontanare le lacrime che mi fecero spuntare quelle parole e mi
adagiai nel bacio che mi premette sulla bocca. “Sei bellissima” sussurrò nell’Unione.
“Anche tu.”
“Lo so.”
Risi e mi tirai indietro. “Scemo.”
Erano rimasti solo pochi pacchetti, quelli di Lucien. Aprii il mio e trovai un rega-
lo per me e per la mia Metà: tre bottiglie di ottimo liquore. “Ne avrete bisogno” dice-
va il biglietto.
Passai a Elain la scatoletta con il suo nome sopra. Quando lo aprì, le svanì il sorriso.
«Guanti incantati» lesse dal cartoncino. «Non ci si taglia né si suda troppo quando si fa
giardinaggio.» Mise da parte la scatola senza guardarla per più di un istante. E mi chiesi
se magari preferisse avere le mani tagliate e sudate, se lo sporco e i graffi fossero la prova
del suo lavoro. Se le dessero gioia.
Amren strillò di gioia – davvero strillò – quando vide il regalo di Rhys, i gioielli che
scintillavano nelle loro varie scatole. Ma la sua gioia si fece più tranquilla, più intenerita
quando aprì il regalo di Varian. Non mostrò a nessuno di noi che cosa c’era dentro la sca-
tolina e poi gli rivolse un piccolo sorriso privato.
Era rimasto un minuscolo pacchetto sul tavolo accanto alla finestra: Mor lo sollevò, guar-
dò l’etichetta con il nome e disse: «Az, questo è per te».
Il cantaombre inarcò le sopracciglia, ma la sua mano sfregiata si protese per prende-
re il regalo.
Elain, che stava parlando con Nesta, si voltò. «Oh, quello è da parte mia.»
Il viso di Azriel non cambiò espressione a quelle parole. Non fece nemmeno un sorri-
so mentre apriva il regalo e rivelava...
«L’ho fatto fare da Madja» spiegò Elain. Azriel aggrottò la fronte sentendo nominare la
guaritrice preferita della famiglia. «È una polvere che puoi mescolare con qualsiasi bevanda.»
Silenzio.
Elain si morse un labbro e poi sorrise, imbarazzata. «È per il mal di testa che ti fanno
venire sempre tutti. Visto che ti strofini le tempie così spesso.»
Di nuovo silenzio.
Poi Azriel piegò all’indietro la testa e rise.
Non avevo mai sentito un suono così profondo e gioioso. Cassian e Rhys lo raggiunsero;
il primo strappò la bottiglia di vetro dalla mano di Azriel e la esaminò. «Fantastico» disse.
Elain sorrise di nuovo e chinò la testa.
Azriel riprese il controllo, abbastanza da poter dire: «Grazie». Non avevo mai visto i suoi
occhi così luminosi; i toni del verde tra il marrone e il grigio sembravano vene di smeral-
do. «Questo è un regalo inestimabile.»
«Coglione» disse Cassian, ma rise di nuovo.
Nesta osservava con diffidenza dalla sua sedia, tenendo in grembo il regalo di Elain...
il suo unico regalo. Irrigidì leggermente la schiena. Non per le parole, ma perché Elain ri-
deva con loro. Con noi.
Come se Nesta ci stesse guardando da una specie di finestra. Come se fosse ancora in
piedi in giardino, a guardare dentro casa.
Però mi sforzai di sorridere. Di ridere con loro.
Avevo la sensazione che Cassian stesse facendo altrettanto.
La notte fu un insieme confuso di risate e bevute, anche se Nesta stava seduta quasi in si-
lenzio al tavolo da pranzo pieno zeppo.
Fu solo quando l’orologio suonò le due che i presenti cominciarono a sbadigliare. Amren
e Varian furono i primi ad andarsene, il secondo portando tutti i regali di lei tra le brac-
cia, la prima avvolta nella bella pelliccia di ermellino che le aveva regalato lui: un secondo
regalo, oltre a quello – qualunque cosa fosse – che era in quella scatoletta.
Nesta si sistemò di nuovo in salotto, ma mezz’ora dopo si alzò in piedi. Con calma augurò
la buona notte a Elain, le diede un bacio sulla testa e si diresse verso la porta d’ingresso.
Cassian, accoccolato sul divano con Mor, Rhys e Azriel, non si mosse nemmeno.
Ma io sì: mi alzai e seguii Nesta fino alla porta d’ingresso; stava indossando i suoi vari
strati di abbigliamento. Aspettai che fosse entrata nell’anticamera e poi allungai una mano.
«Ecco.»
Nesta si voltò a metà verso di me, concentrandosi su ciò che avevo in mano. Il picco-
lo pezzo di carta.
La nota del banchiere per l’affitto. E qualcosa in più.
«Come promesso» dissi.
Per un momento, pregai che non lo prendesse. Che mi dicesse di strapparlo.
Ma le labbra di Nesta si limitarono a contrarsi, e le sue dita non esitarono mentre pren-
deva i soldi.
Poi mi voltò le spalle e uscì dalla porta principale, nell’oscurità gelida.
Rimasi nella fredda anticamera, con la mano ancora tesa; indugiava sulle mie dita la
spettrale aridità di quell’assegno.
Sentii dei tonfi sulle assi del pavimento dietro di me, e poi fui spostata di lato con deli-
catezza ma con decisione. Accadde così in fretta che ebbi a malapena il tempo di render-
mi conto che Cassian era passato come una furia ed era uscito dal portone.
Dietro mia sorella.
CASSIAN
Non l’aveva vista, neanche di sfuggita, per mesi. Non aveva visto il suo sorriso, né sen-
tito la sua risata.
Sapeva che beveva, sapeva degli altri maschi. Diceva a se stesso che non gli importava.
Diceva a se stesso che non voleva sapere chi fosse il bastardo che aveva colto la sua ver-
ginità. Diceva a se stesso che non voleva sapere se quei maschi significavano qualcosa...
se lui significava qualcosa.
Non sapeva perché diavolo gli importasse. Perché si preoccupasse. Fin dall’inizio. Anche
dopo che lei gli aveva dato una ginocchiata nelle palle, quel pomeriggio, a casa di suo padre.
Anche quando aveva detto: “Ho spiegato chiaramente che cosa voglio da te”.
Non aveva mai incontrato qualcuno capace di mettere tanto significato in così poche
parole, di porre tanta enfasi su “te” da renderlo un vero e proprio insulto.
Cassian strinse la mascella. E non si preoccupò di trattenersi quando disse: «Sono stan-
co di giocare a questi giochi di merda».
Lei teneva il mento alto, era il ritratto dell’arroganza regale. «Io no.»
«Be’, tutti gli altri sì. Forse potresti sforzarti un po’ di più, quest’anno.»
Quegli occhi sorprendenti scivolarono verso di lui, e lui faticò a mantenere la sua po-
sizione. «Sforzarmi?»
«So che per te è una parola straniera.»
Nesta si fermò in fondo alla strada, proprio lungo la gelida Sidra. «Perché dovrei sfor-
zarmi di fare qualcosa?» I suoi denti brillarono. «Sono stata trascinata in questo tuo mon-
do, in questa Corte.»
«Allora vai da qualche altra parte.»
La sua bocca si trasformò in una linea tesa, a quelle parole di sfida. «Forse lo farò.»
Ma sapeva che non c’era un altro posto in cui andare. Non aveva soldi, e non aveva una
famiglia al di fuori di quel territorio. «Scrivici, ogni tanto.»
Lei si mise di nuovo a camminare rapidamente, mantenendosi lungo la riva del fiume.
Cassian la seguì, odiandosi. «Potresti almeno venire a vivere alla Casa» iniziò, e Nesta
si voltò verso di lui.
«Smettila» ringhiò.
Lui si arrestò, allargando leggermente le ali per bilanciarsi.
«Smettila di seguirmi. Smettila di cercare di trascinarmi nel tuo piccolo circolo felice.
Smettila di fare tutto quanto.»
Quando li aveva davanti agli occhi, Cassian riconosceva gli animali feriti. Sapeva che
potevano scoprire i denti, che potevano mostrare cattiveria. Ma ciò non gli impedì di dire:
«Le tue sorelle ti amano. Non riesco proprio a capire perché, ma ti amano. Se non puoi
sforzarti per il bene del mio piccolo circolo felice, almeno potresti farlo per loro».
Quegli occhi sembrarono colmarsi di vuoto. Un vuoto infinito e senza profondità.
Ma Nesta disse solo: «Vai a casa, Cassian».
Poteva contare sulle dita di una mano il numero di volte che lei aveva usato il suo nome.
Che lo aveva chiamato in un modo diverso da “tu” o “quello là”.
Si voltò verso il suo appartamento, verso la sua parte sudicia della città.
Cassian affondò la punta delle dita nel legno tenero della scatolina.
Fu grato del fatto che le strade fossero vuote, quando lanciò quella scatolina nella Si-
dra. La scagliò così forte che l’impatto spaccò il ghiaccio e l’acqua schizzò sugli edifici
che fiancheggiavano il fiume.
Poi il ghiaccio si riformò all’istante sopra il foro che aveva aperto. Come se quel foro, e
il regalo, non fossero mai esistiti.
NESTA
Nesta chiuse la quarta e ultima serratura della porta del suo appartamento e si accasciò
contro il legno scricchiolante e marcio.
Il silenzio calò attorno a lei, accogliente e soffocante.
Silenzio, per lenire il tremito che l’aveva inseguita in tutta la città.
Lui l’aveva seguita.
Lo sentiva nelle ossa, nel sangue. Si era tenuto alto nei cieli, ma l’aveva seguita finché
lei non era entrata nell’edificio.
Sapeva che, in quel momento, era su un tetto vicino e aspettava che si accendesse la
sua luce.
Istinti gemelli combattevano dentro di lei: avrebbe voluto non toccare la luce Fae e far-
lo aspettare nell’oscurità gelida e, allo stesso tempo, accendere quella ciotola e liberarsi
della sua presenza. Liberarsi di tutto ciò che era lui.
Scelse la seconda opzione.
Nel silenzio semibuio e denso, Nesta indugiò accanto al tavolo contro il muro, vicino
alla sua porta di casa. Fece scivolare la mano in tasca e tirò fuori l’assegno piegato.
Era abbastanza per tre mesi di affitto.
Cercò la vergogna dentro di sé, ma non riuscì a trovarla. Non vi trovò niente.
Niente di niente.
Ogni tanto c’era rabbia. Una rabbia rovente e acuta che la feriva.
FEYRE
E rano le tre quando gli altri andarono a letto. E quando Cassian tornò, silenzioso e pen-
sieroso, e buttò giù un bicchiere di liquore prima di salire di sopra. Mor lo seguì, con la
preoccupazione che le danzava negli occhi.
Azriel ed Elain rimasero in salotto; mia sorella gli mostrò i piani che aveva abbozzato
per espandere il giardino sul retro della casa di città, usando i semi e gli strumenti che la
mia famiglia le aveva regalato quella sera. Non sapevo proprio se a lui interessassero quel-
le cose, ma gli inviai una silenziosa preghiera di ringraziamento per la sua gentilezza pri-
ma che io e Rhys scivolassimo di sopra.
Feci per togliermi i braccialetti di diamanti ma Rhys mi fermò e mi strinse i polsi tra le
mani. «Non ancora» disse con dolcezza.
Aggrottai la fronte.
Lui si limitò a sorridere. «Tieniti forte.»
Arrivarono l’oscurità e il vento, e io mi aggrappai a lui mentre ci trasmutava...
Lume di candela e fuoco scoppiettante e colori...
«La casa?» Doveva avere modificato le barriere per permetterci di trasmutare diretta-
mente all’interno.
Rhys sorrise, mi lasciò andare, si spostò con aria spavalda al divano davanti al caminet-
to e vi si lasciò cadere, con le ali che toccavano il pavimento. «Per avere un po’ di pace e
tranquillità, Metà.»
C’era una promessa oscura e sensuale nei suoi occhi punteggiati di stelle.
Scorrevano tra noi ciò che avevamo fatto la notte prima e le parole che ci eravamo scam-
biati, invisibili e solide come la nostra Unione delle Metà. Non avevo preso il mio tonico
contraccettivo a colazione. Non avrei ricominciato presto a prenderlo.
«Non mi hai chiesto del tuo regalo per il Solstizio» disse Rhys dopo un po’, mentre i
nostri passi facevano scricchiolare la ghiaia ghiacciata dei giardini lungo la Sidra.
Sollevai la testa dalla sua spalla mentre camminavamo lentamente. «Suppongo che stes-
si aspettando per fare una rivelazione drammatica.»
«Suppongo di sì.» Si fermò e io mi fermai accanto a lui mentre si voltava verso la casa
dietro di noi. «È questo.»
Sbattei le palpebre guardando le macerie della magione. «Questo?»
«Consideralo due regali in uno, per il Solstizio e per il compleanno.» Indicò la casa, i
giardini, i terreni che arrivavano fino al bordo del fiume. Con una perfetta visuale nottur-
na dell’Arcobaleno, grazie alla curvatura del terreno. «È tuo. Nostro. L’ho acquistato alla
vigilia del Solstizio. Tra due giorni arriveranno gli operai per cominciare a rimuovere le
macerie e abbattere il resto della casa.»
Sbattei di nuovo le palpebre, a lungo e lentamente. «Mi hai comprato una proprietà.»
«Tecnicamente sarà la nostra proprietà, ma la casa è tua. Ricostruiscila a tuo piacimen-
to. Tutto ciò che vuoi, tutto ciò di cui hai bisogno... costruiscilo.»
Il costo... il costo di quel dono doveva essere più che astronomico. «Rhys.»
Fece qualche passo e si passò le mani tra i capelli blu-neri, con le ali ben serrate. «Non
abbiamo spazio nella casa di città. Noi due riusciamo a malapena a far stare tutto in ca-
mera da letto. E nessuno vuole abitare alla Casa del Vento.» Indicò di nuovo la magnifica
tenuta che ci circondava. «E quindi costruisci una casa per noi, Feyre. Realizza i tuoi so-
gni più sfrenati. È tua.»
Non avevo parole per descrivere quello che stavo provando. «È... il costo...»
«Non preoccuparti per il costo.»
«Ma...» Ero rimasta a bocca aperta davanti a quella terra addormentata e aggrovigliata,
alla casa in rovina. Immaginai che cosa avrei potuto voler ricostruire, lì. Mi tremavano le
ginocchia. «Rhys... è troppo.»
La sua faccia divenne mortalmente seria. «Non è troppo per te. Niente è mai troppo per
te.» Mi circondò la vita con le braccia e mi baciò una tempia. «Costruisci una casa con
uno studio per dipingere.» Mi baciò l’altra tempia. «Costruisci una casa con un ufficio per
te e uno per me. Costruisci una casa con una vasca da bagno abbastanza grande per noi
due... e per le ali.» Un altro bacio, questa volta sulla guancia. «Costruisci una casa con ca-
mere per tutta la nostra famiglia.» Mi baciò l’altra guancia. «Costruisci una casa con un
giardino per Elain, un’area di allenamento per i piccoli Illyrian, una biblioteca per Amren
e un’enorme cabina armadio per Mor.» Risi all’idea. Ma Rhys mi zittì con un bacio sulla
bocca, lungo e dolce. «Costruisci una casa con stanze per i bambini, Feyre.»
Il mio cuore si strinse fino al punto di far male, e ricambiai il bacio. Lo baciai ancora, e
ancora, in mezzo a quella proprietà ampia e luminosa. «Lo farò» promisi.
RHYSAND
va la gola. Il sangue si stava raccogliendo sul pavimento di pietra grigia, e il suo goccio-
lio era l’unico suono.
L’unico suono, mentre Tamlin sedeva davanti al tavolo e fissava la bestia abbattuta.
«La tua cena sta sgocciolando» gli dissi a mo’ di saluto, indicando la pozza sul pavimento.
Nessuna risposta. Il Signore Supremo della Primavera non mi guardò nemmeno.
“La tua Metà avrebbe dovuto sapere che non è il caso di prendere a calci un maschio
abbattuto.”
Mi si erano piantate in testa le parole che aveva detto Lucien a Feyre, il giorno prima.
Forse era per quello che avevo lasciato Feyre a sperimentare con i nuovi colori che le ave-
va regalato Azriel ed ero trasmutato lì.
Osservai il possente alce, i suoi occhi scuri, aperti e vitrei. Accanto alla testa ispida c’e-
ra un coltello da caccia, conficcato nel legno.
Ancora nessuna parola, nemmeno un accenno di movimento. Benissimo, allora.
«Ho parlato con Varian, il principe di Adriata» lo informai dall’altra parte del tavolo;
l’impalcatura dell’alce era come un cespuglio di spine tra noi. «Gli ho detto di chiedere a
Tarquin di inviare soldati al tuo confine.» L’avevo fatto la sera prima, prendendo da par-
te Varian durante la cena. Aveva accettato subito e giurato che l’avrebbe fatto. «Arriveran-
no entro pochi giorni.»
Nessuna risposta.
«È accettabile per te?» Nell’ambito delle Corti delle Stagioni, quella dell’Estate e quel-
la della Primavera erano state a lungo alleate, fino a quella guerra.
Tamlin sollevò lentamente la testa; i capelli dorati erano sciolti, opachi e arruffati.
«Pensi che mi perdonerà?» Aveva la voce stridula. Come se avesse urlato.
Sapevo chi intendeva. E non sapevo che cosa rispondergli. Non sapevo se il suo augurio
di felicità equivalesse al perdono. Chissà se Feyre avrebbe mai voluto offrirgli il suo per-
dono. Il perdono poteva essere un dono per entrambi, ma quello che aveva fatto... «Vor-
resti che lo facesse?»
I suoi occhi verdi erano vuoti. «Me lo merito?»
No. Mai.
Doveva avermelo letto sul viso, perché mi chiese: «Tu mi perdoni... per tua madre e tua
sorella?».
«Non ricordo di aver mai sentito scuse da parte tua.»
Come se le scuse potessero mettere tutto a posto. Come se le scuse compensassero la
perdita che ancora mi divorava, il vuoto che era rimasto dove un tempo brillavano le loro
belle e luminose vite.
«Non credo che le scuse faranno differenza, comunque» disse Tamlin, rimettendosi a
fissare l’alce abbattuto. «Per nessuno dei due.»
Era a pezzi. Completamente a pezzi.
“Avrete bisogno di Tamlin come alleato prima che si depositi la polvere” aveva detto
Lucien alla mia Metà. Forse era anche per quello che ero venuto lì.
Agitai una mano; la mia magia si mise ad affettare e staccare, e il mantello dell’alce sci-
volò sul pavimento con un fruscio di pelo e un tonfo di carne bagnata. Un altro guizzo
di potere e fette di carne si tagliarono dai lati e si ammucchiarono vicino alla stufa scura,
che presto si accese.
«Mangia, Tamlin» dissi. Non sbatté nemmeno le palpebre.
Non era perdono, non era gentilezza. Non potevo dimenticare... non avrei mai dimen-
ticato quello che aveva fatto alle persone che amavo di più.
Ma era il Solstizio, o lo era stato. E, forse perché Feyre mi aveva fatto un regalo più gran-
de di qualsiasi cosa potessi mai sognare, dissi: «Potrai lasciarti deperire e morire dopo che
avremo risolto i problemi di questo nostro nuovo mondo».
Una pulsazione del mio potere e una padella di ferro scivolò sul fornello ormai caldo,
una bistecca di carne vi atterrò dentro con uno sfrigolio.
«Mangia, Tamlin» ripetei, e svanii in un vento scuro.
MORRIGAN
precedente si era stufato di loro. Tutte razze rare e ambite. Valevano quanto la vasta tenu-
ta e i trecento acri incontaminati a nordovest di Velaris. Una terra di ondulate colline e di
ruscelli gorgoglianti, di antiche foreste e di mari che si infrangevano sulle rive.
Non le piaceva stare da sola a lungo, non lo sopportava. Ma alcuni giorni qua e là era-
no necessari, erano vitali per la sua anima. E uscire con Ellia era ringiovanente come ogni
giorno passato a crogiolarsi al sole.
Fece fermare la giumenta in cima a una delle colline più grandi e la lasciò riposare, an-
che se Ellia dava strattoni alle redini. Se fosse stato per lei, avrebbe corso fino a farsi scop-
piare il cuore: non era mai stata docile come avrebbero voluto i suoi allevatori. Mor l’a-
mava ancora di più per quel motivo.
Era sempre stata attratta da ciò che era indomito e selvaggio.
Mentre cavalla e cavallerizza respiravano affannosamente, Mor osservò i suoi terreni
ondulati e il cielo grigio. Grazie agli indumenti Illyrian e alla galoppata, si sentiva piace-
volmente calda. Pregustava la gioia di una lettura pomeridiana accanto al fuoco scoppiet-
tante nella vasta biblioteca di Athelwood, seguita da una ricca cena, e poi sarebbe anda-
ta a letto presto.
Quanto sembravano lontani il continente e la richiesta di Rhys. Andare là, fare la spia,
la cortigiana e l’ambasciatrice, vedere quei regni chiusi da tempo, dove un tempo avevano
dimorato gli amici... Sì, il suo sangue la spronava. Le diceva: “Vai più lontano che puoi.
Vai con il vento”.
Ma andarsene, far credere a Keir che il suo patto con Eris l’avesse spinta ad allontanarsi...
“Codarda. Patetica codarda” disse a se stessa.
Mise a tacere i sibili nella sua mente e fece scorrere una mano lungo la criniera inne-
vata di Ellia.
Non ne aveva parlato durante gli ultimi giorni a Velaris. Preferiva fare quella scelta da
sola, e aveva capito che la notizia avrebbe potuto gettare un’ombra sull’allegria.
Sapeva che Azriel sarebbe stato contrario, che avrebbe voluto saperla al sicuro. Come
sempre. Cassian avrebbe approvato, anche Amren, e Feyre si sarebbe preoccupata ma avreb-
be acconsentito. Az sarebbe stato furibondo e si sarebbe chiuso ancor più in se stesso.
Non aveva voluto sottrargli la gioia. Non più di quanto facesse già normalmente.
Ma a un certo punto avrebbe dovuto dirglielo, indipendentemente da che cosa avreb-
be deciso.
Ellia appiattì le orecchie contro la testa.
Mor si irrigidì, seguendo lo sguardo della giumenta.
Stava fissando il bosco intricato alla loro sinistra, poco più che un mucchio di alberi da
quella distanza.
Accarezzò il collo di Ellia. «Tranquilla» sussurrò. «Tranquilla.»
Si sapeva che anche da quei boschi erano emersi antichi terrori.
Ma Mor non sentiva odori particolari, non vedeva niente. Il viticcio di potere che lan-
ciò verso i boschi rivelò solo i soliti uccelli e altri piccoli animali, più un cervo che beve-
va da un foro in un ruscello ghiacciato.
Niente, tranne...
Là, in mezzo a un groviglio di spine. Una chiazza di oscurità.
Non si muoveva, sembrava non fare altro che aspettare. E guardare.
Era qualcosa di familiare e, allo stesso tempo, di estraneo.
Il suo potere le sussurrò di non toccarlo, di non avvicinarsi. Neanche da quella distanza.
Mor obbedì.
Ma continuò a osservare quell’oscurità tra le spine; era come se un’ombra si fosse ad-
dormentata in mezzo a loro.
Non come le ombre di Azriel, che si intrecciavano e sussurravano.
Era qualcosa di diverso.
Qualcosa che contraccambiava, che la osservava a sua volta.
Era meglio lasciarlo indisturbato. Tanto più che, a casa, la attendevano un fuoco scop-
piettante e un bicchiere di vino.
«Prendiamo la strada più breve per tornare indietro» mormorò a Ellia, accarezzando-
le il collo.
La cavalla non aveva bisogno di ulteriori incoraggiamenti e si lanciò al galoppo, allon-
tanandole dal bosco e dall’ombroso osservatore.
Cavalcarono sopra e tra le colline, finché i boschi non rimasero nascosti dalle nebbie
dietro di loro.
Che cos’altro avrebbe potuto vedere, scoprire, in terre in cui nessuno della Corte della
Notte si avventurava da millenni?
La domanda si ripresentava a ogni passo tonante di Ellia sulla neve, sul ruscello e sul-
la collina.
La risposta echeggiò tra le rocce, gli alberi e le nuvole grigie nel cielo.
“Vai. Vai.”
FEYRE
rinviare. «Mi hanno consegnato l’atto di proprietà, mi hanno detto di firmarlo con il mio
nome e mi hanno dato la chiave.» Mi strofinai la faccia. «Hanno rifiutato i miei soldi.»
Ressina emise un lungo fischio. «Non mi sorprende.»
«La sorella di Polina, però» dissi, con la voce che tremava mentre infilavo la chiave nel-
la tasca del cappotto, «mi ha suggerito di usare il denaro per qualcos’altro. Ha detto che,
se volevo darlo via, potevo donarlo a “Pennello e Scalpello”. Tu sai che cos’è?»
Ero stata troppo sbalordita per chiederglielo; ero riuscita solo ad annuire e a dire che
avrei fatto così.
Gli occhi ocra di Ressina si addolcirono. «È un ente di beneficenza per artisti che hanno
bisogno di aiuto finanziario. Fornisce a loro e alle loro famiglie i soldi per il cibo, l’affitto
o i vestiti, così non devono soffrire la fame o la mancanza di qualcos’altro mentre creano.»
Non riuscivo a frenare le lacrime che mi offuscavano la vista. Non potevo impedirmi di
ricordare gli anni in quel tugurio, il cupo dolore della fame. L’immagine di quei tre picco-
li contenitori di colori che avevo apprezzato tanto.
«Non sapevo che esistesse» riuscii a sussurrare. Anche se avevo aiutato tante associazio-
ni, come volontaria, non l’avevo sentito nominare.
Non sapevo che ci fosse un luogo, un mondo, in cui gli artisti potevano essere apprez-
zati. In cui ci si prendeva cura di loro. Non avevo mai sognato una cosa del genere.
Una mano calda e snella mi si posò sulla spalla e la strinse delicatamente.
Ressina chiese: «Allora che cosa ne farai? Dello studio, dico».
Esaminai lo spazio vuoto davanti a me. No, non vuoto, ma in attesa.
E da lontano, come se venisse trasportata dal vento gelido, udii la voce del Suriel.
“Feyre Archeron, ho una richiesta. Lascia questo mondo migliore di come l’hai trovato.”
Inghiottii le mie lacrime e mi rinfilai una ciocca di capelli nella treccia prima di rispon-
derle. «Non è che per caso stai cercando una socia totalmente inesperta, vero?»
pi. Da allora Cassian era stato distante. C’era più malcontento di quanto ci aspettassimo.
Molti di loro appartenevano al campo Cresta di Ferro, famigerato rivale del nostro; era lì
che Kallon, figlio del suo Signore, stava cercando di fomentare il maggior dissenso possi-
bile. Tutto diretto contro me e Cassian.
Una mossa coraggiosa, tenuto conto del fatto che Kallon era ancora un guerriero novi-
zio. Non avrebbe nemmeno affrontato il Rito fino alla primavera successiva o quella dopo
ancora. Ma era cattivo quanto quel bruto di suo padre. Anche di più, aveva affermato Az.
“A volte ci sono incidenti durante il Rito” avevo suggerito, quando Cass aveva sentito
quella notizia e si era irrigidito.
“Non disonoreremo il Rito interferendo” si era limitato a rispondere.
“Ci sono spesso incidenti durante il volo, allora” aveva detto Azriel con voce fredda.
“Se quel ragazzetto vuole rompermi i coglioni, può farsene crescere un paio e farlo allo
scoperto” aveva ringhiato Cassian, e la questione si era conclusa lì.
Lo conoscevo abbastanza da lasciar fare a lui, da lasciargli decidere come e quando af-
frontare Kallon.
«Nonostante i dissensi nei campi...» dissi a Cassian, indicando i recinti di addestramen-
to. I maschi si tenevano a debita distanza da dove si allenavano le poche femmine, come se
temessero di contrarre qualche malattia mortale. Patetici. «Questo è un buon segno, Cass.»
Azriel annuì in approvazione e le sue ombre lo avvilupparono. La maggior parte delle
donne del campo si era rifugiata in casa quando era apparso lui.
Una rara visita dal cantaombre. Mito e terrore insieme. Az sembrava altrettanto dispia-
ciuto di essere lì, ma aveva acconsentito quando glielo avevo chiesto.
Forse era salutare, per Az, che a volte ricordasse da dove veniva. Indossava ancora gli
indumenti di pelle Illyrian. Non aveva provato a far rimuovere i tatuaggi. Una parte di lui
era ancora Illyrian. Lo sarebbe sempre stata. Anche se avrebbe voluto dimenticarlo.
Cassian non disse nulla per un minuto; il suo viso era una maschera di pietra. Era sta-
to distante anche prima che, quella mattina, ci riunissimo intorno al tavolo nella vecchia
casa di mia madre per consegnargli il rapporto. Era distante dal Solstizio. Avrei scommes-
so una bella cifra sul perché.
«Sarà un buon segno» disse infine Cassian «quando lì ci saranno venti ragazze e si pre-
senteranno ogni giorno per un mese di fila.»
Az sbuffò. «Scommetto che...»
«Niente scommesse» disse Cassian. «Non su questo argomento.»
Az sostenne lo sguardo di Cassian per un momento, con i Sifoni color cobalto che lam-
peggiavano, e poi annuì. Aveva capito. Quella missione di Cassian, iniziata anni prima e
forse prossima al completamento... per lui andava oltre le scommesse. Risaliva a una feri-
ta che non si era mai davvero rimarginata.
Gli posai un braccio sulle spalle. «Piccoli passi, fratello.» Gli rivolsi un sorriso, pur sa-
pendo che non mi arrivava agli occhi. «Piccoli passi.»
Per tutti noi.
Il nostro mondo poteva benissimo dipendere da quello.
FEYRE
In attesa.
«Verranno?» mormorai a Ressina.
La Fae spostò il peso da un piede all’altro, l’unico segno esteriore della sua preoccupa-
zione. «Hanno detto che sarebbero venuti.»
Nel mese in cui avevamo lavorato insieme, era diventata una buona amica. Una cara ami-
ca. L’occhio di Ressina per il design era impeccabile, tanto che le avevo chiesto di aiutar-
mi a progettare la casa sul fiume. È così che la chiamavo. Perché tenuta sul fiume... no. L’a-
vremmo chiamata casa, anche se sarebbe stata la più grande di quella città. E questo non
per pavoneggiarci, ma semplicemente per praticità. Per le dimensioni della nostra corte,
dalla nostra famiglia. Una famiglia che forse sarebbe cresciuta ancora.
Ma quello riguardava il futuro. Per il momento...
Passò un minuto. Poi due.
«Su, forza» mormorò Ressina.
«Forse non hanno capito giorno e ora?»
Ma, mentre lo dicevo, apparvero. Ressina e io trattenemmo il fiato mentre il branco gi-
rava l’angolo e puntava verso lo studio.
Erano dieci bambini, Fae Superiori e Fae, e alcuni dei loro genitori.
Solo alcuni di loro, perché gli altri non erano più vivi.
Mantenni un caldo sorriso sul volto, anche se mi martellava il cuore per ogni bambino
che passava dalla nostra porta, circospetto e insicuro, e si raggruppava con gli altri vicino
ai cavalletti. Mi sudavano i palmi mentre i genitori li raggiungevano, con i visi meno guar-
dinghi ma comunque esitanti. Esitanti, ma speranzosi.
La speranza non era solo per se stessi, ma per i bambini che avevano portato lì.
Non avevamo fatto molta pubblicità. Ressina aveva contattato alcuni amici e conoscenti e
aveva detto di chiedere in giro. Di chiedere se in quella città c’erano bambini che potevano
aver bisogno di un luogo in cui esprimere gli orrori che avevano vissuto durante la guerra. Se
c’erano bambini che non riuscivano a parlare di ciò che avevano dovuto subire, ma che forse
sarebbero riusciti a dipingerlo, disegnarlo o scolpirlo. Forse non avrebbero fatto nessuna di
quelle cose, ma il semplice atto di creare qualcosa... sarebbe potuto essere un balsamo per loro.
Come lo era stato per me.
Come lo era stato per la tessitrice, per Ressina e per tanti altri artisti di quella città.
Appena si era sparsa la voce, erano arrivate richieste di informazioni. Non solo da ge-
nitori o tutori, ma da potenziali istruttori. Artisti dell’Arcobaleno desiderosi di aiutare, di
tenere classi.
Io avrei tenuto una lezione al giorno, se me l’avessero permesso i miei doveri di Signo-
ra Suprema. Ressina ne avrebbe tenuta un’altra. E c’era un programma a rotazione di altri
insegnanti per il terzo e il quarto corso della giornata. E c’era anche la tessitrice, Aranea.
Perché la reazione di genitori e famiglie era stata travolgente.
“Quando iniziano le lezioni?” era stata la domanda più frequente. Subito dopo, c’era:
“Quanto costa?”.
Niente. Niente, dicevamo loro. Era gratis. Nessun bambino e nessuna famiglia avrebbe
mai dovuto pagare le lezioni o i materiali.
La stanza si riempì, e io e Ressina ci scambiammo rapidamente uno sguardo solleva-
to. E anche nervoso.
Poi mi voltai verso le famiglie riunite in quella sala aperta e soleggiata, sorrisi ancora
una volta e cominciai.
FEYRE
tacco. «Non abbiamo dato loro suggerimenti dettagliati» dissi, mentre gli occhi di Rhys
vagavano sul quadro. «Abbiamo solo suggerito di dipingere un ricordo. Questo è quello
che ha tirato fuori lei.»
Era difficile da guardare. Le due figure. Il colore rosso. Le figure nel cielo, i loro den-
ti feroci e gli artigli allungati.
«Non portano i loro quadri a casa?»
«Questi si devono asciugare, prima, ma le ho chiesto se voleva che lo tenessi in un po-
sto speciale. Ha detto di buttarlo via.»
Negli occhi di Rhys balenava la preoccupazione.
Dissi a bassa voce: «Voglio tenerlo. Per metterlo nel mio futuro ufficio. Così non
dimenticheremo».
Così non avremmo dimenticato che cosa era successo, per che cosa ci stavamo dando
da fare. Lo stesso motivo per cui era appeso lì alla parete l’arazzo di Aranea con le inse-
gne della Corte della Notte.
In risposta, lui mi baciò una guancia e passò al dipinto successivo. Rise. «Spiegami questo.»
«Questo ragazzo era terribilmente deluso dai regali che ha ricevuto per il Solstizio. So-
prattutto perché non includevano un cucciolo. Quindi il suo “ricordo” è quello che spera
di avere in futuro, di lui e del suo “cane”. Con i suoi genitori in una cuccia, mentre lui e il
cane vivono nella casa vera e propria.»
«Che la Madre aiuti i suoi genitori.»
«È stato lui a creare la bolla.»
Rise di nuovo. «Che la Madre aiuti voi, allora.»
Gli diedi una gomitata, ridendo a mia volta. «Mi accompagni a casa per pranzo?»
Abbozzò un inchino. «Sarà un onore, mia Signora.»
Alzai gli occhi al cielo e gridai a Ressina che sarei tornata dopo un’ora. Rispose di pren-
dermela con calma. La lezione successiva sarebbe iniziata solo alle due. Avevamo deci-
so di partecipare a tutte le lezioni iniziali, perché i genitori e i tutori potessero conoscer-
ci. E anche i bambini. Sarebbero passate due settimane intere prima di completare l’intero
elenco delle classi.
Rhys mi aiutò a mettermi il cappotto e mi rubò un bacio, poi uscimmo nella giornata
soleggiata e gelida. L’Arcobaleno era pieno di vita attorno a noi; artisti e acquirenti ci ri-
volsero cenni del capo e saluti mentre ci avviavamo verso la casa di città.
Lo presi a braccetto e mi annidai nel suo calore. «È strano» mormorai.
Rhys inclinò la testa. «Che cosa è strano?»
Sorrisi. A lui, all’Arcobaleno, alla città. «Questa sensazione, questa eccitazione quando
mi sveglio ogni giorno. Vederti, lavorare, semplicemente essere qui.»
Quasi un anno prima, gli avevo detto il contrario. Avevo desiderato il contrario. Il suo
viso si addolcì, come se anche lui lo avesse ricordato. E capisse.
Continuai: «Lo so che c’è tanto da fare. So che ci sono cose che dovremo affrontare. E
diverse abbastanza presto». A quelle parole, alcune delle stelle nei suoi occhi si oscuraro-
no. «So che ci sono gli Illyrian, le regine umane e gli umani stessi, e tutto il resto. Ma no-
nostante questo...» Non riuscii a completare la frase. Impossibile trovare le parole giuste.
Oppure pronunciarle senza cadere a pezzi in pubblico.
Così mi appoggiai a lui, a quella forza inesauribile, e dissi lungo l’Unione: “Mi rendi
talmente felice. Ho una vita felice, e non smetterò mai di essere grata del fatto che ne fai
parte anche tu”.
Alzai lo sguardo e scoprii che non si vergognava affatto – anche se eravamo in un luo-
go pubblico – di avere lacrime che gli scorrevano sulle guance. Ne asciugai qualcuna pri-
ma che il vento gelido potesse congelarle, e Rhys mi sussurrò all’orecchio: «Nemmeno
io smetterò mai di essere grato di averti nella mia vita, Feyre cara. E, qualunque cosa ci
aspetti» fece un piccolo, gioioso sorriso «la affronteremo insieme. Ce ne godremo ogni
momento insieme».
Mi inclinai di nuovo verso di lui e il suo braccio mi strinse le spalle. E mi strinse la par-
te superiore del braccio, decorato con il tatuaggio che portavamo entrambi, quella pro-
messa tra noi. La promessa di non separarci mai, fino alla fine.
E anche dopo.
“Ti amo” gli dissi lungo l’Unione.
“Per forza: non ho difetti.”
Prima che potessi dargli una gomitata mi diede un altro bacio, rapido e ansante. “Alle
stelle che ascoltano, Feyre.”
Per asciugare le ultime lacrime gli passai una mano sulla guancia, su quella pelle calda
e morbida, e imboccammo la strada che ci avrebbe portato a casa. Verso il nostro futuro,
verso tutto ciò che ci attendeva.
“Ai sogni che si avverano, Rhys.”
ALI
E BRACI
UNA SCENA ELIMINATA DA UNA CORTE DI NEBBIA E FURIA
N on era a caccia di litigi, disse Cassian a se stesso mentre – per la quinta volta – volava
in cerchio sopra la vasta tenuta, nonostante il freddo fuori stagione; quell’inizio di prima-
vera era così brutale da togliere il respiro anche al guerriero Illyrian più temprato. Era stato
Rhys a chiedergli di consegnare un’altra lettera per le regine umane, perché Az stava cer-
cando un modo per superare le malevole difese che avevano piazzato attorno al loro palaz-
zo, e Mor non voleva mettere piede nel regno dei mortali se non era proprio indispensabi-
le. Amren, naturalmente, era fuori discussione, semplicemente perché era Amren e sarebbe
stato come mandare un felino delle pianure in un recinto di agnelli. Quindi restava solo lui.
Be’, ci sarebbe stata anche Feyre, ma lei e Rhys erano... occupati.
E, certo, forse aveva accettato un po’ troppo in fretta di andarci, ma... Cassian esaminò
la tenuta, i terreni resi fangosi dal disgelo, il villaggio lontano e la foresta minacciosa e pie-
na di gemme. Quando se n’era andato da lì dopo il loro primo incontro, non sapeva bene
che rapporto si fosse creato fra loro o chi avesse avuto la meglio. E, che la Madre lo dan-
nasse, nelle ultime settimane si era ritrovato a riesaminare ogni parola e ogni sguardo che
aveva scambiato con lei, più e più volte.
Non c’era stato nulla di piacevole, neanche una sillaba uscita dalla bocca pungente e
crudele di Nesta. Cassian emise un sospiro, e il vento lo portò via. Non sapeva che cosa
fosse peggio: averci pensato così tanto o essersi precipitato alla tenuta con tale velocità.
Per poi rimanere lì a ciondolare.
Quel pensiero lo spinse in un tuffo rapido e quasi avventato verso il tetto verde della
casa; il manto della sua magia lo rendeva poco più che un vento nefasto e un sordo bat-
tito di ali. I cavalli nelle stalle vicine si agitarono e nitrirono percependo la sua presenza,
ma gli stallieri scrutarono le immediate vicinanze, non videro nulla di allarmante e ripre-
sero il lavoro.
Cassian cercò di non pensare a quanto era stato facile, al fatto che quella mancanza di
percezioni, quella mancanza di istinto, probabilmente sarebbe costata loro la vita se il muro
fosse stato abbattuto. Se uno come lui avesse deciso di trasformare quella tenuta nella sua
personale riserva di caccia.
L’aveva visto accadere nell’ultima guerra. Non c’erano stati molti umani così ricchi da
possedere una proprietà, ma lui aveva visto che cosa era rimasto di interi accampamenti di
schiavi quando uno dei Fae aveva deciso di divertirsi. Gli bastò quel pensiero per stringe-
re i denti e concentrarsi sulla porta d’ingresso davanti a lui.
Il giorno prima avevano fatto sapere esattamente quando aspettarlo. Quindi, quando
bussò alla porta d’ingresso, questa venne spalancata dopo un istante.
Il movimento brusco gli disse quale sorella lo stava aspettando.
Ma lui era avvolto dalla sua magia, e quindi Nesta Archeron – e il suo viso così per-
fetto da essere inquietante – non videro altro che chiazze di neve residua sul prato fan-
goso e sul vialetto in pendenza che lo attraversava, e i ciottoli su cui luccicava il ghiac-
cio che si stava sciogliendo. Aprì con disinvoltura la porta per farlo passare e gridò a
quell’insopportabile ficcanaso della governante che non c’era nessuno e che doveva es-
sere stato il vento.
Giusto. Perché fare andare via tutti i domestici così spesso avrebbe potuto far sorgere
troppi sospetti. Soprattutto tenendo conto del fatto che l’altra sorella era fidanzata con un
imbecille che andava a caccia di Fae.
La governante si precipitò nell’atrio immacolato per controllare che davvero non ci fos-
se nessuno, ma Nesta si limitò a informarla che stava andando di sopra e che non voleva
essere disturbata per un’ora. La donna aprì la bocca per obiettare, ma Nesta, con un tono
notevolmente asciutto, ripeté il suo ordine e iniziò a salire la grande scalinata.
La governante socchiuse gli occhi fino a ridurli a una fessura mentre la giovane padrona
si allontanava a grandi passi, e Cassian – silenzioso come la morte – girò attorno all’an-
ziana donna e poi seguì Nesta sulle scale.
Si stava concentrando tanto sul non fare rumore, sul tenere le ali ben serrate in modo
che non facessero frusciare nulla, che notò appena il pesante abito viola chiaro, più sem-
plice di altri che le aveva visto indossare: il corpetto attillato metteva in risalto la vita sot-
tile, le maniche aderenti mostravano le braccia snelle. Aveva una corporatura più esile di
Feyre ed Elain, se non si teneva conto del seno generoso che Cassian intravide quando
Nesta arrivò in cima alle scale e svoltò a sinistra.
Non che lui lo guardasse. Non lo guardò tanto, perlomeno.
Per quel che ne sapevano tutti, Nesta stava semplicemente andando con calma verso
la sua stanza, forse un po’ scontrosa e stizzita. Ma appena entrò nella spaziosa camera da
letto, piena di velluti e sete in varie tonalità di blu e argento, e un attimo dopo richiuse la
porta di quercia, perse quel portamento pesante e lento.
E lui fece svanire il suo manto.
Come unico segnale di disagio o sorpresa, Nesta batté le ciglia. E forse Cassian lasciò
che le sue ali si allargassero un po’, mentre lei lo guardava.
«Sei in ritardo di dieci minuti» si limitò a dirgli, spostandosi verso l’estremità opposta
della stanza, dove ardeva un fuoco contro il freddo di quell’inizio di primavera. Lì il cre-
pitio delle fiamme avrebbe coperto le loro voci. Ragazza sveglia.
«Ho altri doveri, sai» disse lui sottovoce, sorridendo.
Per esempio, volteggiare sopra la casa compilando un elenco di insulti raffinati da lan-
ciarle, in risposta a una discussione inventata. Come un perfetto idiota.
«E io» replicò Nesta, simile a una colonna di ghiaccio e acciaio accanto al camino «che
pensavo di averti sentito svolazzare in giro per dieci minuti. Deve essere stato un piccio-
ne bloccato in uno dei comignoli.»
Cassian si limitò a fissarla. E Nesta fissò lui.
Si infuriò con una velocità vertiginosa per quelle parole, per la sua assurda perfezione.
Una lama che aveva preso vita, ecco che cos’era quella donna.
Le rivolse un sorriso lento e malizioso, quel tipo di sorriso che – aveva scoperto – la
mandava in bestia. Un sorriso che le avrebbe fatto sfoderare immediatamente quei suoi
stupendi artigli. «Salve, Nesta. Mi fa piacere vederti.»
Nessuna reazione, nessuna modifica del suo odore vedendo il sorriso che di solito face-
va scappare i nemici di Cassian. Niente, a parte una lieve dilatazione delle narici. «Come
sta mia sorella?»
“Sta guarendo” pensò – e quasi disse – lui. “Cerca di sfuggire al fatto che si sta inna-
morando di Rhys, e ignorando esplicitamente il fatto che lui si è innamorato di lei tanto
tempo fa. E che tutti gli indizi indicano che sono Metà, ma non sono così stupido da an-
darlo a dire a uno dei due.”
Quindi si limitò a rispondere: «Molto indaffarata».
Un guizzo nella gola di Nesta. «Così indaffarata da non poterci degnare di una visi-
ta, a quanto pare.»
«Feyre ha già abbastanza da fare, con la faccenda di Hybern e tutto il resto.»
Nesta inclinò la testa, e il fuoco fece risaltare la lucentezza dorata dei suoi capelli. Un
predatore che valutava un degno avversario. «E qual è il tuo ruolo in tutto questo?»
Cassian allargò i piedi. «Io comando gli eserciti di Rhys.»
I suoi occhi grigio-azzurri lo percorsero con uno sguardo che avrebbe potuto trancia-
re le palle di un maschio più debole. «Tutti?»
«Quelli principali.»
Lei sbuffò e guardò di nuovo il fuoco. Cassian non si era mai sentito così rifiutato e
sminuito.
Si irrigidì. «E tu che cosa fai, esattamente, di importante?»
La ragazza sollevò la testa di scatto. Oh, quella domanda aveva colpito nel segno.
«Perché mai dovrei giustificarmi» disse Nesta, e la sua voce era letalmente fredda, «con
un maschio talmente pieno di sé che nella stanza c’è spazio solo per la sua enorme testa?»
Toccò a Cassian sbattere le palpebre.
Poi le si avvicinò, percorrendo a lunghi passi il tappeto tra loro. Lei non si ritrasse, non
fece un passo indietro. Si limitò a sollevare il mento per incrociare lo sguardo del maschio
che torreggiava su di lei, che allargò leggermente le ali e che le chiese tra i denti: «Hai ri-
cevuto notizie dalle regine?».
Nesta abbassò le sopracciglia. «Comandi gli eserciti del Signore Supremo, ma sei sem-
pre un bruto. Non puoi intimorirmi con le parole, quindi cerchi di intimorirmi con la tua
mole imponente.»
«Enorme...»
«Hai bisogno di me molto più di quanto io abbia bisogno di te. Quindi ti suggerirei
semplicemente di mostrarti d’accordo, chiudere per bene quelle ali da pipistrello e chie-
dere le cose con gentilezza.»
Lui non fece niente del genere.
Invece fece un passo avanti, posò una mano sulla mensola del camino e si chinò verso
di lei per respirare quel suo odore.
L’odore lo colpì allo stomaco con tale forza che riuscì a malapena a concentrarsi, e solo
grazie a cinque secoli di autodisciplina riuscì a guardarla negli occhi e a impedire che i
propri ruotassero all’indietro, a restare fermo e a impedirsi di seppellire il viso nell’incavo
tra il suo collo e la sua spalla, a impedirsi di avvicinarsi ancora, di... toccarla.
Mantenne la stessa distanza tra loro, poco più di un palmo tra i loro visi, ma lei non arrossì.
Era giovane: ventidue, ventitré anni al massimo. Ma era già stata con un uomo? Non
avrebbe dovuto preoccuparsene, neanche chiederselo, e per lui non faceva differenza, ma...
di solito, lo capiva. Con lei era diverso, invece: Cassian non poteva leggerla affatto. Quin-
di avvicinò la testa, mentre i capelli scuri gli scivolavano sulla fronte, e disse con tono sua-
dente: «Potrei fare altre cose con gentilezza, Nesta Archeron».
aveva tentato di farlo, lei aveva provato un terrore cieco, prima di mettersi a gridare e di
liberarsi graffiandolo. E non l’aveva mai detto a nessuno.
Qualcosa doveva essere apparso sul suo viso, nel suo odore.
Perché l’irritazione di Cassian svanì... no, si trasformò. In qualcos’altro, in qualcosa... Rabbia.
Fu quella che raggelò la faccia di Cassian.
Pura rabbia ardente.
La fece rimanere senza fiato, le tolse la sensazione di avere avuto la meglio mentre lui
chiedeva a denti stretti: «Chi è stato?».
Odiava Tomas, lo odiava così tanto che a volte sperava che venisse investito da un car-
ro, ma non augurava a nessuno il tipo di morte che promettevano gli occhi di Cassian.
«Non so di che cosa stai parlando» disse, e fece per ritirare la mano.
Lui la afferrò, con un movimento troppo rapido per gli occhi, e la tenne lì.
Il cuore di Cassian stava galoppando: un galoppo possente e fragoroso.
Quel maschio era pericoloso, pericoloso, pericoloso.
Se non altro per il fatto che la faceva sentire così fuori controllo. Che Nesta non aveva
idea di cosa avrebbe fatto lui – o di che cosa avrebbe fatto lei – se l’avesse trovata in uno
stato di vulnerabilità, anche solo per un momento.
«Qualcuno ti ha fatto del male?» chiese Cassian, con una voce così profonda che lei
riusciva appena a capirla.
Quell’ira, quella totale immobilità: ecco com’era lui quando era sul punto di uccidere.
Quando voleva uccidere.
La sua mano premette contro quella di Nesta, che sentì il raschio dei calli.
Non gli aveva risposto. «Cambierebbe qualcosa se qualcuno l’avesse fatto? Mi vedresti
in modo diverso, mi tratteresti in modo diverso?»
«Andrei a cercarlo e gli frantumerei ogni osso del corpo.»
Un brivido le scese lungo la schiena, non perché lui le facesse paura, ma per la verità
che c’era in quella promessa. La sincerità.
«Non mi conosci» disse. «Perché dovresti farlo?»
Cassian ringhiò e si avvicinò a poco a poco, tenendole stretta la mano, poi si fermò.
Come se avesse assimilato la domanda. Come se avesse assimilato la realtà. Batté le pal-
pebre. «Lo farei per chiunque.»
Nesta sapeva che diceva sul serio, e che l’avrebbe fatto.
Forse era quello che la innervosiva, che le faceva venir voglia di ferirlo. L’assoluta sin-
cerità. Sapere che non prometteva con leggerezza e che onorava le sue promesse. Che ve-
deva e diceva la verità e che, al loro primo incontro, aveva soppesato come si era compor-
tata lei quando vivevano nella casupola.
La sua codardia, il suo egoismo. La rabbia che l’aveva consumata, tanto da desiderare
che facessero tutti la fame, solo per vedere se quel loro padre inetto avrebbe fatto qualco-
sa per salvarli. E poi era intervenuta la piccola Feyre, e Nesta aveva odiato anche lei per
quello: Feyre aveva fatto l’impensabile ed era riuscita a mantenerli in vita.
Non sapeva che cosa farsene, di quella rabbia. La bruciava ancora e la braccava, le fa-
ceva ancora venire voglia di lacerare le cose, di urlare e di fare a pezzi il mondo. Percepi-
va tutto con troppa intensità, con troppa acutezza. A volte pensava di odiare e di prendere
a cuore, di amare e di temere più delle altre persone. Poteva vivere tutte quelle emozio-
ni in pochi momenti, come se si stesse provando diversi vestiti, e nessuno se ne accorge-
va o se ne preoccupava.
Tranne lui. Lui lo vedeva, lo sentiva.
Quel primo pomeriggio, l’aveva guardata – non il viso e il corpo che notavano gli uma-
ni, ma aveva guardato lei – e aveva visto tutto. Per quello aveva voluto ferirlo, prima che
potesse rivelare quelle cose a tutti gli altri, voleva trovare un modo per spezzarlo in modo
che non potesse...
La mano che premeva la sua contro il petto divenne più delicata. Il pollice di Cassian,
con il polpastrello irruvidito dai calli, gliene accarezzò il dorso.
Un ceppo si mosse nel fuoco e si spezzò; le braci esplosero e illuminarono la stanza.
Lei lo stava fissando. Cassian batté le palpebre e socchiuse la bocca.
Poi si chinò verso di lei e Nesta si ritrovò a inclinare la testa all’indietro, esponendo il
collo, concedendogli un accesso totale mentre lui le sfiorava la gola con il naso.
divisa di cuoio. Cercò di non pensare a che effetto gli avrebbe fatto quella mano altrove.
Quella mano che lo afferrava; che lo accarezzava.
“Ancora, ancora, ancora” cantava il suo corpo.
Inclinò la testa e le baciò un altro punto, più vicino alla mascella.
Il frenetico battito del cuore di Nesta sembrava la vibrazione delle ali di un colibrì, ma
il suo corpo rimase teso e sciolto allo stesso tempo; un rossore si era diffuso sul suo pet-
to, facendosi strada verso i suoi seni meravigliosi. Seni grandi abbastanza da riempirgli il
palmo, da accarezzare finché lei non lo avesse pregato...
Sentiva il ritmo frenetico delle sue pulsazioni proprio sotto la bocca. Sfiorò quel pun-
to con la lingua.
Fu quel tocco a farla sobbalzare e indietreggiare.
Nesta andò a sbattere contro i pannelli di legno, così forte che Cassian allungò un braccio.
Ma lei aveva gli occhi spalancati, sembrava livida di rabbia, e si portò una mano alla gola.
Cassian sapeva che avrebbe detto qualcosa di velenoso e la prevenne: «Sei un po’ tesa
in questi giorni, Nesta?».
Lei abbassò la mano e sibilò: «Tutto questo è opera della tua magia Fae?».
Lui fece una risata che sembrava un latrato. «No. Anche se mi lusinga che tu lo pensi.»
Nesta lo guardò torva, ma fece una risatina sommessa e riflessiva. «Bene» disse, passan-
dogli accanto e andando verso la finestra con passi calmi e calcolati. «Se è questo che può
fare un guerriero Fae, un bastardo qualunque, non mi stupisce che mia sorella si sia lega-
ta così tanto ai Signori Supremi.»
Stronza.
Stronza, per l’insulto a lui e a Feyre. «Che cosa ti ha dato più fastidio, Nesta? Che lo
volessi anche tu, o che sia stato un bastardo a farti provare queste cose?»
«È stato un lungo inverno. Quando c’è poca scelta, non si può essere schizzinosi.» Ri-
tirò su un muro dietro l’altro e la sua postura divenne più rigida.
Che importanza aveva? Che importanza aveva? Aveva già abbastanza merda di cui oc-
cuparsi. Metterci dentro anche una mortale, con cui la situazione sarebbe diventata imba-
razzante dopo qualche decennio, era... folle. E poi avrebbe dovuto spiegarlo a tutti.
A Mor. Si sentì gelare il sangue.
Non era stupido. Sapeva che lei e Azriel erano... qualunque cosa fossero. Sapeva che
Azriel si era innamorato di Mor nell’istante stesso in cui lei era entrata impettita nell’ac-
campamento Illyrian, cinque secoli prima. E Cassian era stato geloso: degli sguardi timidi
di Mor ad Azriel in quelle prime settimane, e del fatto che il suo più caro amico e fratel-
lo... guardava qualcun altro. Del fatto che lei era apparsa, e Azriel era cambiato. Non c’e-
rano stati grandi cambiamenti, ma Cassian sapeva che il suo amico non apparteneva più
solo a lui e Rhys.
E quindi, quando Mor gli aveva chiesto di andare a letto con lei... l’aveva fatto. Da co-
glione geloso e stupido, l’aveva fatto, e se ne era pentito immediatamente, quando si era
reso conto di aver preso la sua verginità e aveva realizzato l’enormità di ciò che era successo.
Ma poi lei se n’era andata e Azriel non aveva fatto niente, e... Mor era ancora lì tra loro.
In qualche punto, tra amica e amante. Gli era cara come se fosse del suo sangue, ma...
Cassian si era odiato per l’espressione che aveva visto, dopo, sul viso di Azriel.
E poi per quello che aveva fatto a Mor la sua stessa famiglia.
Aveva avuto amanti, alcune per una notte e altre per mesi, e a Mor non era mai impor-
tato, ma...
Quella donna in piedi davanti a lui come una colonna d’acciaio e di fiamme... Cassian
non voleva parlare di lei a Mor. Di come le aveva sfiorato il collo.
Riuscì a dire: «Visto che desideravi una distrazione, ne dedurrò che le regine non si sono
messe in contatto e me ne andrò». Prima che riuscisse a castrarlo completamente. Fece
schioccare le dita e la lettera di Rhys apparve tra loro. La gettò su un tavolo basso lì vicino.
«Spediscila alle regine il prima possibile.»
Nesta spostò lo sguardo tra lui e la lettera, raddrizzando le spalle.
«Di’ a mia sorella e a quel suo nuovo Signore Supremo di mandare qualcun altro, la
prossima volta.»
Cassian scoprì i denti in un sorriso feroce. «Di’ a quell’altra tua sorella che preferirem-
mo trattare con lei.»
«Elain deve restare fuori da questa faccenda. Meno viene associata con la tua specie,
meglio è.»
Lui non riuscì a trattenersi. «Perché le lasci sposare quel coglione fanatico?»
«Lui ha buone ragioni per odiare la tua specie. Come tutti noi.»
«Questa è una stronzata, e lo sai.»
«Pensavo che te ne stessi andando.»
«Hai una stramaledetta opinione su ogni altro essere vivente. Perché non vuoi dire a
Elain che sta per sposare un mostro?»
«Forse tutti voi maschi siete mostri.»
Se qualcuno le aveva fatto del male, non la biasimava affatto per quel sentimento. Ma
rispose con tono ancora tagliente: «Lei merita di meglio di una persona del genere».
«Verissimo.» Con voce piatta e fredda.
Lui insisté, semplicemente perché non riuscì a impedirselo: «E che cosa meriti tu?».
Un sorriso lento; sembrava davvero un felino delle pianure che si prepara a uccidere.
Poi: «Certo più di un bastardo qualunque».
“Stronza” pensò lui. Ma disse con voce strascicata: «Che brava alleata sei, Nesta. Ricordami
di portarti un libro sulla strategia militare, la prossima volta. Forse allora avrai una possibilità».
Uno sguardo freddo e piatto.
«È più facile, no?» bisbigliò Cassian, andandole di nuovo vicino, senza preoccuparsi di
chi li potesse vedere in piedi nel bovindo. «Brandire le parole e la freddezza come un’ar-
matura per impedire a tutti di vedere dove e come hai fallito, e il fatto che non ti è impor-
tato finché non è stato troppo tardi.»
Solo l’odio brillava negli occhi di Nesta; nessun accenno di quel desiderio assopito che
gli aveva sconvolto i sensi.
«Be’, io lo vedo, Nesta Archeron. E tutto quello che vedo è una ragazza annoiata e viziata...»
Si mosse con una rapidità impressionante per un essere umano, ma era comunque trop-
po lenta per impedirgli di bloccarla.
Cassian le afferrò il ginocchio sollevato, vicinissimo alle sue palle, e lo strinse abbastan-
za forte da farla sibilare.
«Un colpo da due soldi» le disse con un mezzo sorriso. «Vieni a giocare con me, Nesta,
e ti insegnerò modi molto più interessanti per mettere in ginocchio un maschio.»
Nesta cercò di liberarsi, ma Cassian non la lasciò andare. Si inclinò all’indietro e lui la
prese per la vita e se la tirò più vicino, per impedirle di cadere dalla finestra. Ridacchiò
vedendosi circondato dalle sue gonne.
«E, comunque, che cosa nascondi sotto tutto questo?»
Nesta si stabilizzò abbastanza da strappare il ginocchio dalla sua presa.
«Fuori da casa mia.»
Cassian si limitò a sorriderle.
Lei si sollevò verso di lui.
Cassian pensò che volesse strangolarlo, e fu proprio per quello che le afferrò i polsi, ma...
Le mani di Nesta, fredde e ferme, gli si posarono sui lati del viso. Poi gli tirò giù la testa.
Il respiro di Cassian divenne irregolare mentre le posava lo sguardo sulla bocca, men-
tre i due corpi si accostavano, mentre sentiva contro di sé quei seni così morbidi. “Stupi-
do, stupido, stupido...” si disse.
Non gli importava. Non gliene fregava niente. Lei si sollevò sulla punta dei piedi, av-
vicinò la bocca alla sua...
E poi il dolore gli esplose tra le gambe, bloccandogli il respiro, quando il dannato gi-
nocchio di lei colpì il bersaglio.
Cassian indietreggiò barcollando e imprecando ferocemente. Lei sbuffò, guardandolo
mentre cadeva a sedere su una poltrona, si afferrava lo stomaco, cercava di rimettere or-
dine nel suo cervello...
«Siete tutti uguali», disse, imperiosa come la notte e fredda come l’alba. «Forse essere
un immortale ti rende prevedibile.»
«Tu...» ansimò lui.
Una risatina sommessa uscì da quelle labbra, che lui era stato prontissimo ad assapora-
re, a divorare.
«No, le regine non hanno mandato notizie» disse Nesta, andando verso la porta. «Non
ne ho più saputo niente.»
Cassian ordinò alle sue gambe di muoversi, ma il dolore persisteva e gli immobilizza-
va le ginocchia.
«Spedirò la lettera domani mattina.» Nesta si fermò con la mano sul pomo della porta
e voltò la testa verso di lui. «Non sai nulla di chi sono, di che cosa ho fatto e di che cosa
voglio. E, già che siamo in argomento... ricordati di mandare qualcun altro, la prossima vol-
ta. Se ti vedrò sulla porta di casa mia, urlerò così forte da allertare la servitù.»
La guardò a bocca aperta; il dolore diminuì abbastanza da permettergli di alzarsi
barcollando.
Ma Nesta se n’era già andata e camminava con grazia lungo il corridoio. Un servitore
la chiamò e lei mormorò una risposta.
Un minuto dopo, se ne andò anche lui. Non dalla porta d’ingresso, ma passando dalla
finestra della sua dannata camera, come un ladro nella notte. Si lanciò in cielo prima che
qualcuno potesse stupirsi per il fruscio e per il battito delle ali.
Cassian non volò più in cerchio sopra la casa. Ma si sentì osservato dallo sguardo di
Nesta mentre si librava in direzione del muro. Anche quando fu troppo distante per esse-
re visto, continuò a sentirsi addosso quegli occhi grigio-azzurri.
Quella sensazione lo seguì fino a Velaris.