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recato a fare visita all’amico Zhang. Dopo la nascita del figlio David, avuto dalla moglie
Christine, Paul è riuscito a fare i conti con i propri fantasmi e a lasciarsi alle spalle il
passato. Anche Zhang, l’amico poliziotto della squadra omicidi di Shenzen, ha cambiato
radicalmente vita: da tre anni ha abbandonato la polizia e si è ritirato in un monastero
buddista nella sua città natale, Shi, per meditare e fuggire le tentazioni del mondo.
Shi non è più la città dei ricordi di infanzia di Zhang. Jian Guo, astro nascente nel Partito
comunista, un uomo estremamente ambizioso, la governa come un imperatore rosso, tra
processi esemplari e crudeli esecuzioni.
Durante la sua permanenza a Shi, Paul accompagna un giorno il figlio allo zoo dei
panda. Qui, mentre il bambino osserva eccitato gli animali, Paul scorge una dozzina di
giovani avanzare verso di loro. Hanno circa vent’anni, ridono ad alta voce e sfoggiano un
abbigliamento estremamente curato. A dominare il gruppo è un ragazzo dall’aria
carismatica, accompagnato da una ragazza bellissima, che ha occhi solo per il piccolo
David. La giovane chiede di poter scattare alcune fotografie con il bambino.
Rientrato in hotel, Paul attraversa a grandi passi la hall e lascia il passeggino accanto a
una colonna di fronte al bagno degli uomini. Quando esce, due minuti più tardi, il
passeggino è vuoto: David è svanito nel nulla.
Raggiunto dalla moglie Christine, l’uomo si rivolge, disperato, alla polizia. Ma le forze
dell’ordine non sono di nessun aiuto: attraverso il sistema di sorveglianza dell’albergo
hanno compreso che cosa è accaduto al bambino e stanno provvedendo a distruggere le
registrazioni. Perché dietro alla sparizione di David si cela qualcuno di molto potente,
qualcuno abituato a ottenere sempre quello che desidera.
Dall’acclamato autore del bestseller L’arte di ascoltare i battiti del cuore, Alla fine della
notte, terzo romanzo della saga di Sendker dedicata alla Cina, costituisce una splendida
conferma del talento dell’autore nel descrivere la dicotomia tra bene e male attraverso
personaggi sapientemente descritti e una trama ricca di inaspettati colpi di scena.
Jan-Philipp Sendker è nato nel 1960 ad Amburgo, ha vissuto negli Stati Uniti dal 1990 al
1995 e dal 1995 al 1999 è stato corrispondente in Asia per lo Stern. Dopo un secondo
soggiorno negli Stati Uniti è tornato in Germania, dove lavora come giornalista per lo Stern.
Vive a Berlino con la sua famiglia. Con Neri Pozza ha pubblicato L’arte di ascoltare i battiti
del cuore, Gli accordi del cuore, Il sussurro delle ombre e Gli scherzi del Dragone.
LE TAVOLE D’ORO
JAN-PHILIPP SENDKER
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trasmessa in alcuna forma tramite alcun mezzo senza il preventivo permesso scritto
dell’editore.
Il file è siglato digitalmente, risulta quindi rintracciabile per ogni utilizzo illegittimo.
A Paul non era mai piaciuto ballare, né gli era capitato di farlo
spesso in vita sua, ed erano trascorsi anni dall’ultima volta.
Ma siccome era una di quelle persone che non riescono a dire no
a un bambino, men che meno al proprio figlio, cominciò a muoversi
lentamente.
Fece un passo avanti al ritmo della musica, uno di lato, uno
indietro. Ondeggiò sulle ginocchia e girò di slancio su se stesso.
Portava il peso del mondo sulle spalle. Così lieve che non sentiva
la fatica.
David esultò felice.
Erano circondati da diverse centinaia di coppie che ballavano il
valzer. Alcune non facevano caso ai due stranieri sulla pista, altre
ridevano alla vista di quell’uomo alto con il bambino sulle spalle, che
superava tutti di parecchie spanne. C’era chi rivolgeva loro parole di
incoraggiamento, chi sorrideva e batteva le mani a ogni pausa.
David era contento di quelle attenzioni, Paul della spensieratezza
con cui ballavano nella Piazza del Popolo di Shi. Al posto
dell’opprimente afa di Hong Kong, si godeva con il figlio l’aria tiepida
di una mite giornata autunnale nel Sichuan. Sopra di loro si apriva
un cielo blu inchiostro. Un violento acquazzone al mattino aveva
lavato via la sporcizia dall’aria, quello che restava era stato spazzato
nelle ultime ore dal vento.
Dopo qualche ballo, il bambino gli disse di avere sete. Paul lo
posò a terra e insieme raggiunsero una fila di chioschi che
delimitavano un lato della piazza. Le bancarelle vendevano gelati,
dolciumi e bevande ed erano gremite. Dagli altoparlanti usciva della
musica pop cantonese, nell’aria c’era aroma di caffè. Paul ordinò un
espresso doppio e una pallina di gelato con una limonata per David.
Si misero seduti su due sgabelli a uno degli ultimi tavoli liberi. David
chiese una cannuccia, Paul gliela portò.
«No, gialla no. Rossa».
«Rosse non ci sono».
«Sì, invece. La signora a quel tavolo ce l’ha».
«Il colore della cannuccia non cambia il sapore di una bibita».
«Invece sì».
«Sicuramente no».
«Sicuramente sì. Per favore, papà».
Paul andò a prenderne una rossa.
Rimasero per un po’ in silenzio a guardare la piazza.
Una statua di Mao Tse-tung di pietra grigio-bianca si ergeva verso
il cielo, gigantesca. Mao teneva il braccio destro alzato, salutava il
popolo oppure gli indicava la strada, non era ben chiaro. La testa e
le spalle erano visibilmente più chiare, la pietra era stata ripulita di
recente dal guano degli uccelli.
Ai piedi di Mao la città aveva deposto grandi corone di fiori rossi
autunnali. Alle sue spalle sventolava uno striscione: «Lunga vita al
grande presidente».
David non notava niente di tutto questo. Svuotato il bicchiere e
finito il gelato, voleva tornare a ballare.
«Tra poco».
«Quand’è tra poco?»
Man mano che scendeva la sera, la Piazza del Popolo si faceva
sempre più affollata: famiglie uscite a godersi la tiepida serata
autunnale, persone cariche di sacchetti della spesa, giovani coppie
in cerca di intimità sedute sulle panchine e sulle seggiole.
Un vecchio si avvicinò a loro e li fissò con insistenza. Quando i
loro sguardi s’incrociarono, scoppiò a ridere. Una risata strana,
sdentata. Non ostile, ma neppure amichevole.
Alcune anziane signore si aggiunsero incuriosite e si misero a
parlare nello stretto dialetto del Sichuan, esprimendo supposizioni
sullo straniero e il singolare bambino insieme a lui. Per quanto
riusciva a capire, si stupivano dei capelli neri e ricci di David e del
colore blu scuro dei suoi occhi, che, concordavano tutte, non
combaciavano con il taglio orientale. Sicuramente non era cinese,
ma nemmeno un vero e proprio gwai lo. Allora cos’era, giapponese
forse? Paul trattenne una risata e rimase in silenzio. Quelle lo
fissarono insistenti e gli domandarono se fosse il padre oppure il
nonno.
«Il padre» replicò Paul.
Occhiate scettiche. Qualche risatina incredula.
Doveva essere un uomo ricco che si era preso per moglie una
giovane cinese. Chissà dove si era cacciata, probabilmente lo aveva
già lasciato. Su questo, per quanto riusciva a capire Paul, le opinioni
discordavano.
David era spazientito. Voleva ballare.
Paul si alzò e se lo issò di nuovo sulle spalle.
La musica si interruppe a metà del valzer successivo. I ballerini si
bloccarono. Occhiate perplesse. Un brusio sommesso, che crebbe,
si affievolì e poi si spense del tutto. Un silenzio teso, inquietante
ammantò la piazza. David si chinò verso il padre. «Che cosa
succede, papà?»
«Non so. Forse stanno cercando un’altra musica».
Davanti agli altoparlanti scoppiò un diverbio. Uomini e donne
litigavano furiosamente, le voci concitate arrivavano fino a loro. D’un
tratto si levò un’altra musica, si spense, il litigio si fece più acceso. Di
nuovo quelle note, Paul riconobbe subito la melodia, ma impiegò un
istante a catalogarla.
Compagni avanti, il gran partito noi siamo dei lavoratori.
Quando aveva sentito «L’Internazionale» l’ultima volta? Le prime
coppie ripresero a ballare, altre indugiavano, in attesa di vedere
cosa avrebbe deciso la maggioranza. A poco a poco tornarono
anch’esse a muoversi.
Su, lottiamo!
David ondeggiava entusiasta al ritmo della musica. Paul gli strinse
più saldamente le gambe.
«Perché tu non balli?» gli domandò il figlio.
Paul detestava le marce e i canti di lotta, ma per accontentare il
bambino mosse qualche passo, riluttante e impacciato.
«Non così!» esclamò una voce contrariata dall’alto. «Devi ballare
per davvero. Come prima».
Paul s’impegnò.
Si udì un «lunga vita al presidente», un augurio che ai tempi di
Mao risuonava quotidianamente in tutto il Paese. Il vecchio accanto
a loro si arrampicò entusiasta su una sedia e si mise a cantare.
Aveva una voce gracchiante, ma conosceva il testo a memoria. Dei
ragazzi seduti su un muretto a qualche metro di distanza facevano
smorfie divertite.
Paul si fermò.
«Ancora, ancora» gli ordinò il figlio.
«Tra poco».
«No, adesso».
Poi fu la volta di «L’Oriente è rosso».
L’Oriente è rosso, il sole sta sorgendo.
La Cina ha generato Mao Tse-tung.
Mao Tse-tung ama il suo popolo,
egli è il nostro timoniere,
nel costruire la nuova Cina,
avanziamo sotto la sua guida.
Un numero sempre maggiore di giovani coppie si unì a chi già
ballava e cantava sulla pista. Anche la maggior parte dei clienti dei
due caffè si era alzata in piedi. Qualcuno era salito sulle sedie.
«Canzone della Stella Rossa».
Il canto di migliaia di voci riecheggiò squillante nella piazza.
Brilla la Stella Rossa, brilla scintillante;
arde la Stella Rossa, riscalda i nostri cuori.
La Stella Rossa è il cuore dei lavoratori e dei contadini,
la fama del partito risplende per sempre.
La forza della massa. Paul rabbrividì, si sentiva a disagio. Il cuore
gli batteva forte e aveva il respiro affannoso. Forse non avrebbe
dovuto bere quel doppio espresso.
David aveva smesso di dondolarsi, quasi avvertisse anche lui il
disagio. Si reggeva con entrambe le mani alla testa del padre.
Due uomini ordinarono in malo modo al proprietario del chiosco di
spegnere la musica cantopop. Di fronte alla sua risposta negativa, si
avvicinarono senza esitazioni agli altoparlanti e staccarono i cavi.
Quindi si piazzarono davanti ai ragazzi. Bastarono poche parole e
i giovani abbassarono gli sguardi, si alzarono ubbidienti e si unirono
al coro. Uno soltanto rimase spavaldamente seduto. Nonostante il
clima mite portava un giubbotto di pelle, jeans tagliati, stivali a punta
da motociclista e aveva i capelli tinti di biondo, che al sole
sembravano quasi bianchi. Qualche secondo più tardi un pugno gli
ruppe il setto nasale. Paul si voltò raccapricciato.
David volle subito scendere dalle spalle del padre per rifugiarsi tra
le sue braccia.
Il vecchio rivolse loro alcune parole rabbiose e altri uomini, poco
distanti, aggiunsero qualcos’altro. Paul non capiva bene che cosa
stessero dicendo, per qualche motivo ce l’avevano con il Giappone.
Rispose con un sorriso impotente, che accese ancora di più la loro
collera. Le donne, che fino a quel momento avevano seguito
incuriosite la conversazione, gettarono occhiate ostili verso di loro, i
ragazzi assentirono. Paul cercò intorno a sé Zhang, che era in
ritardo di più di mezz’ora. Voleva andarsene.
David tremava.
Paul strinse il figlio tra le braccia. Da lontano vide Zhang venirgli
incontro.
Aveva dello sputo appiccicato alla tonaca.
2.
No, non voleva tornare in hotel, non gli importavano i consigli del
commissario. Zhang credeva seriamente che potesse riposare
mentre la polizia cercava suo figlio, che riuscisse a stare tranquillo?
Che idea assurda! Voleva dare una mano nelle ricerche. Avrebbe
battuto sistematicamente le strade intorno allo Shangri-La, avrebbe
guardato in ogni portone, ogni cortile, ogni androne. Avrebbe
bussato alle porte, chiesto ad altri bambini, sarebbe andato nei
parco giochi. Non si sarebbe accontentato di un no come risposta.
Aveva con sé una foto di David. Forse qualcuno lo aveva visto.
Qualche passante? La commessa del negozio di tè dirimpetto
all’hotel? Al supermercato. All’edicola. Al ristorante. Nel piccolo
centro commerciale a un isolato di distanza. Forse era corso fin lì a
nascondersi. Non si sarebbe dato pace finché non avesse trovato
suo figlio. Gli stessi poliziotti dicevano che i bambini piccoli si
smarriscono più spesso di quanto si pensi, che si allontanano per
curiosità. E poi tornano sempre.
Forse era stato investito da un’auto ed era ricoverato in qualche
ospedale cittadino. Di questo non avevano ancora parlato, degli
ospedali. Avrebbe telefonato a tutti quanti, uno dopo l’altro, non gli
importava se lo stesse facendo anche la polizia. Una seconda
telefonata non guastava. Oppure, ancora meglio, ci sarebbe andato
di persona e avrebbe chiesto di lui al pronto soccorso. Non gli
importava quanti ospedali ci fossero a Shi.
Forse però qualcuno aveva trovato David che piangeva per
strada, smarrito, e per sicurezza lo aveva portato a casa con sé. E
ora non sapeva che cosa fare, perché David non conosceva il nome
dell’hotel. Forse dovevano fotocopiare la sua foto e attaccarla a tutti
gli alberi e i palazzi intorno all’hotel. Forse potevano chiedere l’aiuto
delle emittenti televisive locali. Potevano disegnare un identikit di
David. È una buona idea, Zhang? Nelle ore successive lo avrebbero
trovato da qualche parte, sano e salvo. I bambini non scompaiono
senza lasciare tracce, vero, Zhang? Tu eri un poliziotto, tu lo sai. Di’
qualcosa, Zhang. Di’ qualcosa.
9.
Da due ore Zhang era seduto con gli altri monaci e cercava di
rilassarsi. Non pensare alle ginocchia doloranti, non pensare alla
schiena, non pensare a Paul, David e Christine.
Più si sforzava, più diventava difficile. Si concentrò sul proprio
respiro. Percepì l’aria fresca del mattino entrare nelle narici e uscirne
riscaldata. Recitò il suo mantra. Focalizzò lo sguardo sul Buddha
dorato davanti a sé. Niente da fare. I suoi pensieri giravano
instancabili intorno all’amico. Che razza di karma era quello?
Perdere due figli? Che cosa doveva aver fatto nella vita precedente
per meritare una cosa del genere? Oppure erano altre le leggi che
governavano il mondo, rispetto a quelle indicate e annunciate
dall’Illuminato? La vita forse era retta dal caso. Un freddo e spietato
arbitrio. L’aberrazione.
Come affermava sempre Paul.
Dal cortile risuonarono le martellate dei primi muratori. Quel
mattino Zhang fu contento del rumore, era il segnale ufficioso della
fine della meditazione. L’abate e gli altri monaci si alzarono.
Zhang andò nel refettorio a mangiare controvoglia qualche
boccone, quando udì alle proprie spalle delle voci familiari. Si voltò,
e davanti a lui c’erano Paul, Christine e David. Zhang comprese
subito dallo sguardo dell’amico che non erano solo buone notizie a
condurlo a quell’ora del mattino nel monastero.
Prese ciotole di riso e verdura e un thermos di tè, e si misero
seduti in cortile sotto i primi raggi del sole. Mentre David mangiava
svogliatamente, Paul raccontò quanto era accaduto.
«Ho prenotato tre posti sul volo delle 22.00 per Hong Kong»
annunciò alla fine.
Zhang scrollò energicamente la testa. «Non potete andare
all’aeroporto».
«Perché no?» domandò Christine incerta.
«Che cosa potrebbe succedere? Ho i biglietti e le carte d’imbarco,
abbiamo già fatto il check-in» aggiunse Paul.
Zhang si stupì dell’ingenuità dell’amico. «Prima di imbarcarvi
dovrete superare il controllo doganale. Se Chen vi cerca, cosa di cui
sono sicuro, verrete fermati».
«Con quale motivazione?»
«Vogliono vostro figlio. E sono abituati a ottenere quello che
desiderano. Se non lo ottengono spontaneamente, se lo prendono».
«Chi sono?» Paul continuava a non capire, Zhang colse la
perplessità nella sua voce.
«Chen. Xi. Wu. Scegli il nome che preferisci. I potenti di questo
Paese. Sarà facile fabbricare prove per trattenervi in custodia
cautelare per mesi. E il processo non sarebbe equo, i giudici non
sono indipendenti. Lo sai benissimo anche tu, non è la prima volta
che vieni in Cina! Credi che importerebbe a qualcuno se spariste per
anni in una prigione del Sichuan? Il console americano farebbe
qualche tentativo all’inizio, forse il governo americano scriverebbe
una nota di protesta. E poi? Scatenare una crisi diplomatica per
causa vostra? Non credo». Zhang osservò l’effetto delle proprie
parole. «Senza contare che per tutto il tempo David resterebbe in un
istituto. Oppure, cosa facilmente realizzabile, con i Chen».
«Che alternative abbiamo? C’è un treno per Shenzhen?» chiese
Christine.
Nessuno dei due si era reso conto in che razza di guaio fossero
finiti. «Scordatevi il treno. Per l’acquisto dei biglietti avete bisogno
dei passaporti. Inoltre non andrei verso sud, se fossi in voi. Non
credo che vi lascerebbero raggiungere Hong Kong. In passato Chen
è stato segretario di partito della provincia di Guangdong, avrà
sicuramente ottimi contatti. Il confine è zona che scotta per voi».
«Credi davvero che il suo potere sia così vasto?»
«Non lo so. Ma questo è uno dei problemi del nostro Paese: non
sappiamo mai bene quanto sia vasto il potere di chiunque. Vuoi
verificarlo di persona?»
«Certo che no» rispose Paul. «Ma allora dove possiamo andare?
Nello Yunnan e poi in Birmania attraverso le montagne?»
«No, significherebbe una marcia di giorni tra le montagne. Non è
possibile con un bambino di quattro anni».
«Allora?»
«A Pechino» rispose deciso Zhang.
Paul lo guardò incredulo. «Perché nella capitale?»
«Perché lì c’è l’ambasciata americana. È il luogo più sicuro. Tu sei
americano. Non siete dissidenti, l’ambasciata può garantirvi l’uscita
dal Paese. Il potere di Chen finisce davanti a quel cancello».
«Quanto dista Pechino da Shi?» domandò perplessa Christine.
«All’incirca duemila chilometri».
«Come ci arriviamo?»
Zhang si passò entrambe le mani sul cranio rasato. Non aveva la
minima idea di come potessero arrivare a Pechino senza essere
identificati. Paul era facilmente riconoscibile già solo per la sua
statura, David per i suoi lineamenti. Non avrebbero potuto pernottare
in albergo, né prendere i mezzi pubblici.
Sarebbero bastate un paio di telefonate a nome di Chen e la
polizia avrebbe dato loro la caccia in tutte le province. Chi avrebbe
avuto il coraggio di nasconderli anche per una notte soltanto? Chi
sarebbe stato disposto a correre il rischio di trasferirli da un luogo
all’altro? E perché? L’unico motivo che venne in mente a Zhang era
il denaro.
Si accese una sigaretta e tirò un paio di boccate, poi la spense.
«Quanti contanti avete con voi?»
Christine e Paul fecero il conto. Non arrivavano a più di seimila
RMB.
«Non è molto». Seimila renminbi non bastavano per comprare il
viaggio fino alla capitale. Non sarebbero stati sufficienti nemmeno
sessantamila. Il rischio era troppo grande e imponderabile. Chen
perseguiva i suoi avversari in maniera spietata, senza risparmiare
famiglie, amici e colleghi. Era un figlio della rivoluzione culturale e
ogni giorno a Shi dimostrava di aver imparato bene la lezione: chi
manifesta indulgenza verso i propri nemici se ne pente, chi mostra
debolezza è sconfitto. Zhang spostò lo sguardo dall’uno all’altro.
David fino a quel momento aveva mangiato solo pochi bocconi e non
aveva aperto bocca, Paul era esausto.
«Avete l’aria stanca, volete riposare un po’ nella mia stanza?
Cercherò di organizzare qualcosa. Ho ancora dei parenti in città».
12.
Che cosa voleva da loro quella gente? La donna con tutte quelle
domande gli dava sui nervi. Non si rendeva conto di importunarli?
Perché il bambino era rimasto tutto il tempo in braccio all’uomo
senza muoversi? E adesso, come se non bastasse, dormivano pure
nel suo letto. Perché il nonno li lasciava restare?
Da Lin odiava le visite.
Gli ultimi forestieri venuti in casa erano stati quelli che avevano
riportato suo padre. Erano arrivati con un carro tirato da cavalli,
aveva sentito il rumore degli zoccoli fin da lontano. Lo sentiva ancora
oggi, di notte, quando era sveglio e il nonno russava.
Era sdraiato sul pianale del carro. Avvolto in bende bianche.
Insanguinate.
Da Lin però non lo aveva capito subito.
Lo avevano sollevato dal carro, trasportato in cortile e posato sulla
panca davanti a casa.
Il nonno li aveva osservati attentamente, senza battere ciglio,
senza dire niente. Poi avevano liberato suo padre dalle bende. O
almeno ciò che restava di lui.
Da Lin non lo aveva riconosciuto.
Il nonno si era girato, era entrato in casa zoppicando ed era uscito
poco dopo.
Da Lin non era riuscito a distogliere gli occhi, come se bastasse
fissare il morto abbastanza a lungo per riportarlo in vita. Si era
addirittura avvicinato, nella speranza di poterlo riconoscere almeno
dall’odore. Non c’era niente che gli fosse più familiare dell’odore
caldo, piacevole di suo padre. Da sempre si addormentavano
insieme nello stesso letto tutte le sere, e tutte le mattine si
svegliavano insieme.
Quello che gli stava lì davanti non aveva odore.
Puzzava.
Non è papà, aveva pensato, non è possibile, era uno sconosciuto
che avevano trascinato fin lì. Ma poi aveva visto il viso del nonno e
aveva capito che era proprio suo padre.
Da grande, aveva detto agli sconosciuti, lui avrebbe trovato gli
assassini. Prima avrebbe guadagnato tanto, in modo che la mamma
non dovesse più lavorare a Pechino. E poi avrebbe trovato gli
assassini.
Gli uomini avevano riso. Una risata strana. Brusca e fredda. Non
c’è bisogno che tu lo faccia, piccolo, avevano detto. Conosciamo gli
assassini. Li conoscono tutti. Tanta gente li ha visti.
Il nonno aveva ascoltato la loro storia. Da Lin non aveva capito
molto di ciò che avevano raccontato.
Quando se n’erano andati, aveva vomitato. Per tutto il pomeriggio,
fino a notte.
E anche il mattino dopo. E la sera.
Era stato malato per un mese ed era così dimagrito che la pelle gli
tirava sulle costole.
Da allora era rimasto in silenzio. E mangiava pochissimo.
Parlava soltanto con il cane e con il nonno, che si preoccupava
tanto. E questo lui non lo voleva. E naturalmente con la mamma.
Ma era da tanto che non la vedeva.
Al telefono non parlava con nessuno. Nemmeno con la mamma.
3.
«Dov’è papà?»
Tutte le mattine sempre la stessa domanda. Che si svegliasse da
solo accanto a lei perché Paul si era già alzato, oppure che fosse lei
ad andare in camera sua perché li chiamava.
Dov’è papà?
Non poteva dire che la cosa le dispiacesse. Al contrario, era
contenta dell’attaccamento di David verso suo padre, di come
cercasse la sua vicinanza.
La addolorava invece a volte la reazione di Paul. La sua
esitazione. La sua indifferenza.
In quei momenti temeva per suo figlio. Il padre era una persona
difficile, amarlo comportava qualche rischio. Da parte sua, lei poteva
scegliere. Poteva proteggersi. Almeno così sperava. David non
poteva farlo.
Amare comporta sempre un grosso rischio, aveva replicato Paul
una volta che lei gliene aveva parlato. L’amore può non essere
corrisposto. Si può restare delusi. Traditi. Abbandonati.
Certo, Paul, certo, aveva risposto. Ma per i bambini non vale, per
loro amare non dev’essere un rischio. Lui l’aveva guardata senza
parlare. Aveva capito. Gliel’aveva letto negli occhi.
«Dov’è papà?» ripeté David. La voce era impaurita, non
incuriosita.
«È fuori. Si è già alzato». Christine si sollevò leggermente e si
accorse di quanto si sentisse male. Aveva fame, era dolorante in
tutto il corpo; le faceva male soprattutto la testa. Fitte lancinanti, che
partivano dalla nuca e si spandevano fino alla fronte e agli occhi. Si
chinò e cercò a tentoni il figlio. Da qualche parte nella stanza si udì
un fruscio. Christine si bloccò spaventata.
«Cos’è stato?» volle sapere David.
«Non so. Un topo, credo».
«Perché è così buio? Non vedo niente».
Paul aveva chiuso la porta, nella stanza non filtrava nemmeno un
raggio di luce. «Aspetta, accendo la lampada».
Stava per alzarsi, ma lui si aggrappò a lei. «Non andartene. Ho
paura».
«Come faccio ad accendere la luce?»
Lo prese in braccio e lui si avvinghiò al suo corpo. Si alzò, perse
l’equilibrio e ricadde sul letto. Ci riprovò, cauta, avanzando a tentoni
nell’oscurità. Un’improvvisa fitta di dolore le attraversò il piede
destro, doveva aver calpestato qualcosa di appuntito.
«Mamma?»
«È tutto a posto, tesoro».
Era così buio che per un istante temette di sprofondare nel panico.
Rimase impigliata in un indumento abbandonato per terra, allungò il
braccio per non finire contro il muro. Dov’era la porta?
«Paul?» Perché l’aveva lasciata sola in quel miserabile buco?
Avrebbe dovuto aspettare che fossero svegli anche loro, oppure
avrebbe dovuto svegliarli. Come poteva essere tanto insensibile?
«Paul» chiamò rabbiosa. «Paaaaul!»
La porta si spalancò e lei rischiò di perdere di nuovo l’equilibrio per
lo spavento. Riconobbe in controluce la sagoma di un bambino.
«Grazie» disse sollevata.
Da Lin accese la luce. Guardò poi i due sconosciuti nella sua
stanza con un’espressione che Christine non riuscì a decifrare.
«Sai dov’è mio marito?»
Invece di rispondere, lui entrò e cominciò a raccogliere le proprie
cose dal pavimento.
La luce accecante in cortile non fece che peggiorare la sua
emicrania. Paul e il vecchio erano seduti a bere il tè davanti alla
casa.
David scivolò dalle sue braccia e si arrampicò in braccio al padre.
Christine fu assalita da un capogiro. Doveva assolutamente
mangiare e bere qualcosa.
«Ha fame?» chiese Luo vedendola.
Lei assentì. «Avrei bisogno anche di un tè o di un po’ d’acqua».
Pochi minuti dopo erano seduti in silenzio a tavola a mangiare
spaghetti dan dan. Lei avrebbe preferito del riso o una zuppa, ma
non aveva osato chiederli. Gli spaghetti erano ancor più piccanti
della sera prima, anche se Christine lo aveva pregato di condirli un
po’ meno. David aveva ricevuto una porzione senza sugo. Ci
infilzava svogliato le bacchette, senza mangiare.
Da Lin trangugiò veloce quelli che aveva nel piatto, fissando
imperterrito David.
Christine spronò il figlio a mandar giù almeno qualche boccone.
«Non ho fame» bisbigliò lui.
«Su, fa’ uno sforzo» disse lei severa.
«No».
«Almeno un boccone».
Lui scrollò il capo e strinse le labbra.
«Vostro figlio ha la febbre» dichiarò Luo a bocca piena.
«Come fa a saperlo?»
«Lo vedo».
«Lei è un medico?»
«Lo ero».
«Lei?» Le era sfuggito. Non avrebbe voluto essere tanto
sprezzante.
Luo non fece caso al suo tono beffardo, oppure i suoi dubbi non gli
interessavano. Lei premette le labbra contro la fronte di David.
Scottava.
«Un dottore scalzo, se questo le dice qualcosa». Trangugiò
rumorosamente gli ultimi sorsi di sugo.
Avvicinò la sedia, esaminò la lingua di David, gli tastò il polso, poi
il collo e i piedi.
«Se vuole gli preparo un tè e domattina starà meglio».
«Che cos’ha?»
«La febbre».
«L’ha già detto. Ma perché? Non ha preso freddo».
Luo sospirò. «Vuole il tè oppure no?» Evidentemente non aveva
voglia di spiegare nei dettagli la propria diagnosi.
«Un tè sarebbe perfetto, grazie» intervenne Paul.
Luo si alzò e zoppicò fino in cucina; Christine lo seguì con un
misto di diffidenza e curiosità. Messa a bollire dell’acqua, tagliò due
fette da una radice marrone umida, estrasse da alcuni barattoli di
latta una manciata di foglie, bacche essiccate, funghi, e versò tutto
nell’acqua bollente.
«Lei non crede nella medicina cinese».
«Non è vero» obiettò Christine. «Ho un medico cinese a Hong
Kong».
«Allora perché è tanto diffidente?»
«Non sono diffidente. Sono curiosa».
Luo scrollò il capo e tirò fuori un’altra scatola di latta dal ripiano.
«Vuole qualcosa contro il mal di testa?»
«Come le viene da pensare che io…»
Indicò uno sgabello. «Si sieda lì».
Christine si sedette incerta sullo sgabello traballante a tre gambe.
Lui le si mise dietro, le posò le mani sulle spalle e schiacciò con
entrambi pollici.
«Ahia!» gridò lei. «Non così forte».
Luo non badò alle sue proteste, le prese le braccia, gliele tirò
dietro la testa finché si udì uno schiocco. Le massaggiò la nuca, poi
il collo. Aveva la pelle ruvida, la presa decisa, ma in breve tempo lei
si accorse che le spalle a poco a poco si rilassavano. Chiuse gli
occhi. Fu assalita da una micidiale pesantezza, e per un attimo
temette di cadere dallo sgabello per la stanchezza. Luo prese un
vasetto da una scatola e le massaggiò la nuca e le spalle con un
unguento dall’aroma pungente.
«Tra poco sentirà la pelle molto calda».
Nel giro di pochi secondi le sembrava di essersi presa
un’insolazione.
«Fa male».
«Passa subito».
In realtà peggiorò. «Quando?»
Senza rispondere il vecchio rimise a posto i barattoli.
Christine sentiva un bruciore insopportabile alle spalle. Mancò
poco che prendesse uno degli strofinacci lerci per rimuovere
l’unguento.
Fu Paul a salvarla. All’improvviso comparve alle sue spalle, le
prese la testa tra le mani, le massaggiò le tempie e lentamente il
dolore si alleviò.
Il tè aveva un colore marrone scuro, quasi nero, e un odore di
terra umida e marcia. David lo guardò scettico, ne assaggiò un sorso
e girò la testa disgustato. Lei lo provò e dovette fare uno sforzo per
non sputare. Era molto più amaro degli infusi che il suo medico
cinese le portava ogni tanto a Hong Kong.
«Avrebbe un po’ di zucchero?»
Luo la guardò come se sentisse quella parola per la prima volta.
«Magari un po’ di miele?»
Nessuna risposta. Nei suoi occhi le parve di leggere ciò che
pensava di loro: cinesi di Hong Kong smidollati, viziati, decadenti.
«No» ribatté brusco. «Non è una limonata. Però aiuta».
Lei avvicinò di nuovo la tazza alle labbra di David, che si tappò la
bocca con entrambe le mani.
«Su, niente storie. Non è poi così cattivo».
Il bambino rispose scrollando energicamente il capo.
«Due sorsi. Poi starai meglio. Promesso».
David nascose il viso contro il suo seno.
«Paul» disse lei stizzita. «Per favore, potresti…» Si alzò e mise
David in braccio al padre. Poi udì un risolino alle proprie spalle e si
voltò. Dietro di lei c’era Da Lin, che li aveva seguiti in cortile, dentro
casa, in cucina e in soggiorno senza mai smettere di osservarli. Ora
sembrava prendersi gioco di David.
«Che cos’hai da guardare?» lo rimproverò lei.
Da Lin indietreggiò spaventato. Per un attimo le sembrò che
volesse dire qualcosa. Prima che lei avesse il tempo di scusarsi, lui
si voltò e corse fuori.
6.
Luo spazzolò via con le mani la polvere dalla giacca. Si era lasciato
provocare, era stato un errore. Conosceva bene quel poliziotto. Lo
aveva interrogato più di una volta al posto di guardia ed era anche
venuto spesso alla fattoria. Nei due anni precedenti il vecchio aveva
imparato a suddividere gli agenti in diverse categorie. C’erano gli
indifferenti, il gruppo più numeroso, che cercavano semplicemente di
fare il proprio mestiere, senza mettersi troppo in mostra. C’era
qualche animo comprensivo, che lasciava intendere a Luo che, pur
condannando l’omicidio del figlio, non poteva intervenire in alcun
modo. E c’era un buon numero di zelanti, che prendeva sul serio il
proprio dovere e considerava Luo e Da Lin una minaccia all’ordine
pubblico. O almeno fingeva che fosse così.
Infine c’erano i sadici, che traevano piacere dal potere che
esercitavano sugli altri esseri umani. Il poliziotto in questione
apparteneva a questa categoria.
Luo zoppicò in fretta verso la panca davanti a casa. Sebbene non
sapesse precisamente dove si fossero nascosti Paul con Christine e
il figlio, voleva allontanare il poliziotto dai capanni. Immaginava che
si trovassero in uno dei due.
«Che cosa vuole da noi?»
«Vorremmo informarci sulle sue condizioni» rispose il secondo
poliziotto, che Luo non conosceva. Il suo tono fu così cortese da
lasciare interdetto Luo. Era chiaramente più giovane dell’altro, la
divisa era come minimo due taglie troppo grande, la cintura avrebbe
avuto bisogno di qualche buco in più. La pelle foruncolosa e la
peluria sopra le labbra lo facevano sembrare un ragazzino.
«Grazie, stiamo bene» rispose Luo con distacco. «Riferitelo al
vostro capo e sparite».
«Non abbiamo fretta» disse l’altro, avvicinandosi a Luo con in
mano la stecca da biliardo. «Che programmi avete per i prossimi
giorni?»
«Che programmi dovremmo avere? Lavorare il campo. Mietere.
Riparare il tetto. Tagliare la legna».
«Un sacco di lavoro per un vecchio solo». La voce trasudava
sarcasmo. «Per di più malato».
«Non sono solo».
«Non vorrai dirmi che quel mucchietto d’ossa ti aiuta».
Luo finse di non aver sentito.
«O magari avete degli ospiti che ti danno una mano?»
Luo provò una stretta allo stomaco. Se i poliziotti cercavano già
Paul e la sua famiglia, erano perduti. Non c’era modo di fuggire
inosservati dal capanno. E se anche ci fossero riusciti, dove
sarebbero andati? Dove sarebbero arrivati?
«Come le viene in mente che io abbia degli ospiti?»
«Un contadino del villaggio ha visto un forestiero, apparentemente
un gwai lo, che passeggiava con un bambino qui in cortile».
«Non conosco nessun gwai lo».
«No?»
«No!»
«E se qualcuno lo avesse visto sul tetto di casa vostra a sostituire
le tegole?»
«Ci tenete d’occhio? I vicini vi pagano forse per spiarci? Siamo
davvero in un paese ricco e sicuro, se la polizia non ha altro da
fare!»
«Non dire scemenze e rispondi!»
«Se qualcuno afferma una cosa del genere, si sbaglia».
«E se qualcuno fosse venuto qui nel tuo cortile e avesse visto un
gwai lo con i suoi occhi?»
«Allora mente».
«Perché dovrebbe farlo?»
«Che ne so io?» Luo sperava che i poliziotti non cogliessero la
sua insicurezza. «Forse ha lui stesso qualcosa da nascondere?»
L’agente più anziano aggrottò la fronte con diffidenza. «Allora per
chi avrebbe preso in prestito una bicicletta per bambini, il tuo
moccioso?»
Era ovvio che i vicini li spiassero, era ovvio che Deng avesse
riferito il proprio incontro alla polizia. Come aveva potuto pensare il
contrario. Erano malvisti da tutti. Come prima, e anche adesso.
Probabilmente non avevano dovuto nemmeno pagare. Denunciare
Luo non costava niente. Non guastava di sicuro fare un piccolo
favore alla polizia.
«Non ne ho idea. Lo chieda a lui».
«Quel lurido fetente non parla». Il poliziotto si avvicinò comunque
a Da Lin, fermandosi minaccioso davanti a lui. «Perché hai preso la
bicicletta?»
Da Lin, imperturbabile, girò la testa lentamente da una parte,
come se la cosa non lo riguardasse affatto.
«Sai una cosa, piccoletto? Se volessi, potrei farti parlare nel giro di
due secondi, ci credi?»
Il poliziotto rivolse un cenno al collega. «Per cominciare diamo
un’occhiata in giro».
Luo stava per cercare di ostacolarli, ma poi ci ripensò.
«Non avete davvero niente di meglio da fare che sorvegliare un
vecchio storpio e un bambino?»
Forse sarebbe riuscito a distrarli grazie a una provocazione.
«Quanto vi pagano per questo lavoraccio?»
I poliziotti lo superarono ed entrarono in casa.
«Non avete proprio il minimo rispetto, almeno per voi stessi?
Perché accettate di fare certe porcherie? Quanto vi paga la Golden
Real Estate perché lasciate a piede libero gli assassini di mio figlio?»
gli gridò dietro Luo disgustato. «Avanti, ditemelo, quanto?»
21.
Christine chiuse gli occhi, ignorando i colpi di Paul sulla porta. Era
stanca. Era esausta. Non aveva voglia di parlare. Non quella sera, e
neppure l’indomani. Non c’era niente da dire, o quantomeno niente
che lei fosse in grado di riassumere a parole. Forse in seguito,
quando sarebbero stati al sicuro. Forse.
Si lasciò scorrere l’acqua calda sul viso, sulle spalle, sui seni,
sull’addome. Aumentò la temperatura fino a sentire la pelle bruciare,
mentre le spalle si arrossavano. Il bagno si riempì di vapore.
La prima doccia dalla sua partenza da Hong Kong, più di una
settimana prima.
Su una mensola c’era una mezza dozzina di bagnoschiuma e
altrettanti shampoo e balsami. Prese una boccetta e l’annusò. Poi
una seconda. Lavanda. A Hong Kong utilizzava qualcosa di simile.
Sentire qualcosa di familiare, anche se era solo un profumo, le
faceva bene.
Si lavò accuratamente i capelli, si insaponò il corpo una volta, poi
una seconda e una terza. Era come se gli avvenimenti degli ultimi
giorni fossero uno strato di sporcizia da cui voleva liberarsi
strofinandosi con il sapone.
Per la prima volta dalla loro fuga da Shi, Christine avvertiva quasi
un senso di sicurezza. Non avrebbe saputo spiegare precisamente
perché, ma si sentiva protetta da quella donna con la sua risata, in
quell’appartamento caotico e disordinato, pieno di casse e scatole.
Finché fossero rimasti lì, nessuno li avrebbe trovati. Pechino era a
un solo giorno di viaggio da lì, aveva detto Paul. O a una notte di
viaggio. Sicuramente Gao Gao aveva un’auto. Con il suo aiuto forse
sarebbero riusciti a raggiungere l’ambasciata americana.
Pensò a Josh e a sua madre. Alla sua casa e al suo stupendo
giardino a Lamma. Ben presto sarebbero tornati lì. A godersi le
tiepide giornate autunnali. La pace. La sicurezza. A giocare con
David nella sua cassetta della sabbia. A osservare le farfalle. Il
periodo in Cina le sarebbe sembrato un brutto sogno, lontanissimo.
La mattina si sarebbe alzata per prima come di consueto, si sarebbe
preparata dopo una doccia. Avrebbe dato un bacio di saluto ai due
addormentati, avrebbe preso il traghetto verso Central. La sera, al
suo ritorno, Paul e David l’avrebbero accolta sul molo.
Tutto sarebbe tornato come prima.
Christine prese un asciugamano, pulì lo specchio appannato, si
guardò e trasalì. Era diventata ancora più pallida e durante la fuga
doveva essere dimagrita di parecchi chili. Il viso era più smunto, le
rughe intorno alla bocca e agli occhi erano più accentuate, gli zigomi
sporgenti come chi patisce la fame. Le gambe, già magre, erano
diventate esili e prive di vigore, sembravano due stecchi. I seni non
erano più sodi. Aveva un aspetto fragile e vulnerabile. Com’era
debole, con quale velocità si stava disfacendo il suo corpo. Incrociò
le braccia davanti al petto, per sorreggersi o per proteggersi. Il
pensiero che Paul la vedesse così le creava imbarazzo, quasi
ripugnanza.
Più a lungo si guardava allo specchio, più l’immagine le diventava
insopportabile. Prese un asciugamano da bagno e se lo avvolse
intorno al corpo.
La paura tornò, ma non era più la stessa. Alla paura concreta che
potessero strapparle il figlio si mescolava un senso di panico
indeterminato. Non avrebbe saputo dire che cosa la terrorizzasse.
La sensazione che qualcosa si fosse spezzato e fosse andato
irrimediabilmente perduto. La fiducia di fondo che le cose alla fine si
sarebbero volte per il meglio. Gliel’avevano sottratta già una volta,
dopo la morte del padre e la fuga dalla Cina. All’epoca era stata
assalita da una profonda sfiducia e da un vero e proprio terrore
verso l’umanità, e liberarsene era stato un processo logorante e
faticoso. Aveva impiegato molti anni prima di sentirsi nuovamente
con i piedi ben piantati per terra. Paul era stato un aiuto decisivo in
tal senso. E ora? Si era rifugiata in bagno da sola, ed era contenta
che la porta si potesse chiudere a chiave. Non voleva vederlo. Non
voleva essere toccata da lui. Christine avvertiva una crescente
distanza nei suoi confronti, e questo peggiorava ulteriormente le
cose. Aveva bisogno di lui. Si struggeva per lui. Le mancavano il suo
umorismo, la sua forza, il suo calore.
Ma non provava più niente del genere. Giorno dopo giorno lui le
era sempre più estraneo, anche esteriormente. Si era fatto crescere
una barba brizzolata. Era dimagrito, il viso si era affilato, era
invecchiato.
Le sue emozioni non le ubbidivano più, la vita la tradiva.
Stava per perdere il controllo di se stessa.
O forse non lo aveva mai posseduto e si era semplicemente illusa
che fosse così?
4.
Gao Gao beveva di rado e sentì l’effetto dello champagne fin dal
primo sorso. Un piacevole calore le si irradiò in tutto il corpo. Come
prima.
Pensò a suo padre.
L’aveva cresciuta nella consapevolezza che c’era una persona per
la quale lei era più importante di qualunque altra cosa al mondo. Era
stata una fortuna e una maledizione.
La madre le aveva donato la vita e aveva pagato con la propria.
Lui non si era più risposato ed era stato molto discreto con le sue
amanti. Lei non ne aveva mai vista in faccia neppure una.
Di questo gli era grata.
Bevve un secondo sorso di champagne. Quale inaudita e
seducente spensieratezza! Se solo si fosse mantenuta per sempre.
Alcune immagini affiorarono davanti ai suoi occhi. Vecchie foto in
bianco e nero, che mostravano una piccola Gao Gao con la
governante e la balia.
Abitavano in una villa in una zona riservata agli alti funzionari di
partito e ai militari. Un muro di cinta li separava dal mondo esterno, i
poliziotti sorvegliavano l’ingresso. E l’uscita. C’erano pochissimi
bambini e le giornate, nonostante il personale di servizio, erano
lunghe e vuote.
Suo padre lavorava molto, ma si sforzava di tornare a casa
puntuale tutte le sere. Cenavano insieme, poi lui le leggeva qualcosa
e la portava a letto. Appena si addormentava – questo glielo avrebbe
raccontato in seguito –, lui tornava in ufficio, a presenziare a riunioni
o a partecipare a esercitazioni per i quadri del partito.
Continuò a restare fedele ai loro appuntamenti serali anche dopo
essere salito sempre più in alto nella gerarchia del partito.
Pensò alle domeniche, che erano tutte riservate a loro due, con un
rituale prestabilito rimasto immutato per anni. Se avesse dovuto
indicare qualcosa della sua infanzia di cui sentiva la mancanza,
sarebbe stato la tenera intimità di quelle domeniche.
Si alzavano presto e, prima di fare colazione, andavano al
mercato. Facevano la spesa e mangiavano crêpe o panini caldi con
carne di maiale. Tornati a casa, si mettevano all’opera in cucina. Il
padre le spiegava l’uso delle diverse apparecchiature, le mostrava
come affilare i coltelli, disossare i polli ed eviscerare i pesci, come
distinguere gli ortaggi freschi da quelli che non lo erano, come fare in
modo che i meloni invernali e le melanzane conservassero la giusta
consistenza durante la cottura. Preparavano la sfoglia per il loro
piatto preferito, i ravioli, e quasi ogni settimana provavano ripieni
diversi. Il profumo di aglio rosolato, di pancetta arrostita, il profumo
della sua infanzia. Ricordi. Una linea sottile tra felicità e profonda
tristezza.
«Vuoi ancora un goccio di champagne?»
Il suo bicchiere era vuoto. Anche quello di lui.
Fece un cenno affermativo.
Paul si alzò e andò a prendere la bottiglia.
Gao Gao sprofondò nuovamente nel passato. Vide se stessa che
apparecchiava la tavola per quattro, cinque, a volte addirittura sei
persone, in base al numero di ospiti. Era lei a decidere quanti
riceverne e chi invitare. Accoglievano i visitatori insieme sulla porta e
li accompagnavano a tavola. Qui suo padre dava inizio alla
conversazione. Durante il pasto dialogava animatamente con gli
insegnanti della figlia, le sue attrici preferite, i vicini o la venditrice del
mercato che le regalava spesso un panino dolce. Gli piaceva calarsi
completamente nella parte, modificava la voce, a volte cambiava
persino le sedie e faceva ridere fino alle lacrime Gao Gao.
Nei suoi ricordi quelle erano le cene più divertenti e spassose
della sua vita, senza che nessun estraneo fosse mai entrato in casa
loro.
La sensazione di potersi fidare di lui, qualunque cosa fosse
accaduta.
«Xiao Changjinglu», la mia piccola giraffa, così la chiamava,
perché non la smetteva di crescere. A sedici anni era una spanna
più alta del secondo ragazzo più alto della sua classe.
Quando si era messa in testa di diventare una ballerina classica,
lui le aveva organizzato le lezioni di danza, anche se quella della
prima ballerina era una professione tutt’altro che adeguata per la
figlia di un alto funzionario con ambizioni di carriera.
Il suo primo ragazzo fu da lui trattato con freddezza e distacco.
Verso il secondo si mostrò un po’ più benevolo, per tutti gli altri
manifestò solo un interesse marginale, quasi sapesse che con
nessuno di loro la storia sarebbe diventata seria.
Forse le cose sarebbero andate diversamente, se lei non avesse
fondato una società e non avessero fatto affari insieme. La proposta
era partita da lui. La Cina, diceva, sta vivendo il suo momento di
gloria, in cui tutti prendono ciò che possono, tutto ciò che riescono
ad arraffare. Una febbre dell’oro che avrebbe punito gli indecisi e gli
incerti. Praticamente tutti gli alti funzionari di tutte le province
favorivano parenti e amici, oppure costruivano imperi commerciali
con l’aiuto di prestanome. Perché loro avrebbero dovuto comportarsi
diversamente?
Fecero in modo che lui restasse in secondo piano. Bastava fare il
suo nome e, se c’era qualche problema, era sufficiente una sua
telefonata.
Lei otteneva ciò che voleva, al prezzo che voleva. Terreni.
Immobili. Concessioni edilizie. Partecipazioni azionarie. Tutte le sue
società prosperavano, tutto ciò che comprava, tutto ciò in cui
investiva creava profitti. Era come se avessero ottenuto una licenza
per creare profitti tutta per loro.
Gao Gao non si faceva troppi scrupoli. «Alcuni hanno il diritto di
arricchirsi prima» aveva detto Deng Xiaoping.
Durante i loro viaggi naturalmente prenotavano camere separate,
ma spesso venivano presi per una coppia. Un uomo anziano e la
sua amante giovane e carina. Le prime volte lui lo aveva trovato
disdicevole, poi i complimenti che riceveva la figlia lo avevano
convinto. Lei si divertiva.
Padre e figlia. Erano stati molto vicini.
Mai troppo, però.
«Da quanto tempo vivi in questa città fantasma?»
La domanda la riportò al presente. La leggerezza scivolò via da
lei, sostituita da nubi plumbee all’orizzonte. Gao Gao bevve una
lunga sorsata di champagne. Forse sarebbe riuscita a ritardare un
po’ il loro arrivo.
«Ti interessa veramente saperlo o lo chiedi solo per educazione?»
Lui rispose con un sorriso che lei non seppe come interpretare.
«Le chiacchiere insulse non mi interessano» aggiunse.
«Nemmeno a me» ribatté lui.
Aveva svuotato di nuovo il bicchiere. «Bevi sempre così in fretta?»
«No».
Gao Gao prese la bottiglia di whisky, lui annuì e lei gliene versò
una quantità generosa.
«Non bevo quasi mai. Ma a volte l’alcol aiuta».
«Solo nell’immediato» osservò lei con un sorriso.
«Sempre meglio di niente» ribatté lui sogghignando. «Perché
compri tante cose che non ti servono?»
«Chi decide cosa mi serve e cosa no?»
«Ho visto molti scatoloni ancora chiusi sparsi nell’appartamento».
Lei si strinse nelle spalle. «Mi diverte. Mi serve per ammazzare il
tempo».
«In alcuni Paesi è proibito».
«Che cosa? Comprare?»
«No. Ammazzare il tempo».
Diceva sul serio o la stava prendendo in giro?
«Perché?»
«Perché è troppo prezioso. Ne abbiamo così poco».
Il suo senso dell’umorismo le piaceva. «Perché avete tanto
bisogno di un rifugio, se posso chiederlo?»
Lui non rispose subito, ma non evitò il suo sguardo. I suoi occhi
tristi le ricordavano quelli del padre durante gli ultimi mesi della sua
vita.
«Se non ti va, non me lo devi spiegare per forza. Potete restare
tutto il tempo che volete».
Lui alzò il bicchiere in un brindisi e bevve con foga. Lei credette a
ogni parola della storia che poi le raccontò. Un bambino come
regalo. Perché no? Tutto era ridotto a merce e poteva essere
comprato. Carriere. Incarichi. Permessi. Amicizie. Donne. Perché
allora non un bambino di quattro anni? Una volta suo padre le aveva
raccontato di Chen. Si erano incontrati spesso alle riunioni di partito,
lo aveva definito il funzionario più spietato, privo di scrupoli e
ambizioso che avesse mai conosciuto. Lo aveva detto con una certa
ammirazione. I figli dei pezzi grossi erano abituati a ottenere ciò che
volevano. Lei doveva saperlo, era stata una di loro. E chissà, con un
pizzico di fortuna in più, o di cattiva sorte, lo sarebbe stata ancora.
La fine non era giunta inaspettata. Non con un grande preavviso,
ma per contro estremamente chiara. I funzionari delle province
vicine erano stati arrestati a dozzine sull’onda della nuova campagna
anticorruzione di Pechino. Era giunto il momento di vendere una
parte delle loro partecipazioni? Era il caso di intensificare le trattative
per ottenere un passaporto americano o australiano? Oppure era
meglio provare a prendere la cittadinanza di Singapore, anche se in
caso di emergenza avrebbe assicurato garanzie relativamente
inferiori? Lui aveva sempre detto di no. Avrebbe dato un segnale
negativo se lui, un alto funzionario, avesse chiesto una seconda
cittadinanza.
Suicidio. La versione ufficiale del partito, eccezionalmente,
corrispondeva alla verità.
Gao Gao l’aveva visto arrivare, senza sapere tuttavia come
impedirlo. La vita era la sua e lui aveva il diritto di porvi fine come e
quando voleva.
Durante una seduta dei vertici del partito della provincia si era
alzato, si era scusato brevemente dicendo di avere qualcosa di
urgente da sbrigare e che sarebbe tornato nel giro di pochi minuti.
Aveva raggiunto con tutta calma a piedi l’ultimo piano, era salito sul
tetto e si era lanciato nel vuoto. Era morto sul colpo.
Non le aveva lasciato nessuna lettera di addio. D’altronde non era
necessario. Che cosa avrebbe dovuto dirle che lei già non sapesse:
era il suo ultimo, grande regalo per lei e lo pagava con la vita. I
parenti dei funzionari che si suicidavano venivano risparmiati, salvo
poche eccezioni, da ulteriori indagini per corruzione.
Un paio di settimane dopo la sua morte lei si recò nel luogo dove
lui aveva messo fine alla propria vita. Salì le scale un gradino dopo
l’altro, si fece aprire la porta del tetto, nonostante le proteste del
portinaio, si spinse fino al bordo, la punta dei piedi nel vuoto, e
guardò in basso. Sette piani. Proprio sette. Il numero fortunato e
sfortunato di suo padre. Gao Gao era venuta al mondo il 7 luglio e
quello stesso giorno lo aveva reso vedovo.
Tra gli arbusti davanti all’edificio si vedevano ancora i rami
spezzati. Da quella prospettiva il loro contorno era chiaramente
riconoscibile.
Doveva, voleva lanciarsi? Passarono diversi secondi. Un passo
solamente. Il semplice spostamento del peso in avanti e sarebbe
tornata con lui. Gao Gao non sapeva che cosa l’avesse trattenuta
all’ultimo istante. Non aveva un marito, né figli. L’unico essere
umano di cui avrebbe sentito la mancanza se n’era andato prima di
lei.
Una settimana più tardi un articolo sul giornale del partito
annunciò che le indagini si sarebbero allargate alla famiglia del
segretario di partito Qian. Lei comprese il messaggio e il giorno dopo
vendette tutto il proprio patrimonio al figlio del successore di suo
padre. Le aveva fatto un’offerta che non poteva rifiutare. Il prezzo
corrispondeva alla metà del valore reale, ma era accompagnato
dalla promessa che le autorità avrebbero rinunciato a ulteriori
indagini nei suoi confronti.
Qualche ora dopo la firma dei contratti, Gao Gao ebbe un crollo
emotivo mentre riordinava l’ufficio. La sua vecchia vita terminava
così come era cominciata.
Con la morte di un genitore.
Paul si alzò. Incerto sulle gambe, si appoggiò alla spalliera della
poltrona. «Devo andare a dormire».
Lei assentì. «Io devo comprare ancora due cuociriso».
Lui si ritirò in camera da letto, lei riaccese il televisore e preparò le
carte di credito.
La bottiglia era vuota, lo champagne aveva esaurito il suo effetto,
le nubi nere si avvicinavano implacabili, l’avevano quasi raggiunta.
L’acquisto dei due cuociriso fu concluso rapidamente. Vi aggiunse
un set di dodici coltelli professionali da sushi e diciotto bicchieri da
vino rosso. Consegna lampo.
Si era espressa male, pensò. Non si trattava di ammazzare il
tempo, era questione di distrarsi. Certi ricordi erano troppo dolorosi
per sopportarli senza anestetico.
Tra la fine della sua prima vita e l’inizio della seconda erano
trascorse alcune settimane.
Le prime due le aveva passate ricoverata in terapia intensiva
nell’Ospedale del Popolo Numero Uno. Conservava ricordi vaghi di
quel periodo. Una tenda verde. Molti tubi. Apparecchi che
emettevano ronzii o fischi allarmanti a intervalli regolari.
Un’infermiera che puzzava di alcol. Crampi. Dolori al basso ventre.
Facce preoccupate intorno al suo letto. Dalla cartella clinica aveva
poi scoperto che i dottori la davano per spacciata. Il suo recupero
era stato miracoloso. Era stata colpita da una insufficienza
multiorgano. L’organismo cominciava a spegnere l’una dopo l’altra
tutte le funzioni, come se venissero spente le luci di una casa,
stanza per stanza. Contemporaneamente il sistema immunitario
aveva iniziato a ribellarsi contro se stesso. I medici non sapevano
spiegarsi la causa di quella patologia, supponevano una reazione
allergica o un avvelenamento. Gao Gao sapeva bene di cosa si
trattava.
Un giovane assistente della provincia di Hubei manifestò un
particolare interesse per il suo misterioso caso. Seduto spesso al
suo capezzale, esaminava i risultati degli esami e dei test di
laboratorio e parlava con lei. Gao Gao non capiva granché di ciò che
le diceva, ma la sua voce limpida e amichevole le faceva bene.
A un certo punto le infermiere la staccarono dalla maggior parte
degli apparecchi e la misero in una camera singola. Lei non sapeva
se si trattasse di una camera per malati terminali o per
convalescenti.
Era una stanza terribile, piccola, la finestra con le sbarre che dava
su un cortile dove i raggi del sole arrivavano solo nella tarda
mattinata. Non riceveva visite, d’altronde chi poteva arrivare? I suoi
amici le avevano voltato le spalle, la sua famiglia, dopo la morte
della nonna, era ridotta a lei e a suo padre. Per intere giornate non
scambiava una parola con nessuno, a parte due chiacchiere con le
infermiere.
Aveva la sensazione di diventare sempre più piccola e indifesa,
con il passare del tempo, fino a trasformarsi nella bambina che
aspettava il ritorno del padre seduta sul muretto. Ma l’oscura paura
di allora era diventata realtà: lui non sarebbe arrivato.
L’aveva abbandonata.
Per la prima volta da quando era bambina sentì la mancanza della
madre. Non poteva ricordarla, naturalmente. Non associava a lei
nessuna voce, nessun profumo. Com’era possibile sentire la
mancanza di una persona che non si è mai conosciuta? Eppure. Era
un dolore profondo, lacerante, che aveva creduto da tempo estinto.
Anche lei l’aveva abbandonata.
In piedi sul tetto aveva guardato in basso. Sarebbe potuta morire
nello stesso posto, ma le era mancato il coraggio di compiere
quell’ultimo passo. Che cosa l’aveva trattenuta dal porre fine a una
vita disgraziata e solitaria? All’epoca Gao Gao aveva maledetto la
propria vigliaccheria, ora capitava che spesso se ne rallegrasse.
Era stata morta abbastanza a lungo.
6.
Da Lin non aveva voglia di parlare. Tanto la cicciona non stava mai
zitta. E quando lo faceva, Paul e Christine litigavano. Come capitava
prima ai suoi genitori. E alla vecchia coppia della fattoria vicina. A
volte avevano alzato così tanto la voce che era arrivata fino a loro.
Oppure i venditori al mercato con i clienti. Perché gli adulti litigavano
sempre?
Christine si era chiusa in camera sua. Peccato, gli sarebbe
piaciuto chiacchierare un pochino con lei. Forse sapeva come stava
il nonno. Per quanto tempo dovevano restare lì. Se Paul aveva già
telefonato a sua madre e se lei lo aspettava. Ma Christine aveva
l’emicrania.
Anche Paul. Era seduto in poltrona e teneva quasi sempre gli
occhi chiusi.
La cicciona si era seduta davanti al televisore. Davano un film su
un orso ghiotto di miele e sui suoi amici. Solo che gli animali non
erano veri, erano disegnati. David era seduto accanto a lui e tutte le
volte che aveva paura gli si stringeva contro, e gli prendeva la mano.
Capitava spesso. Da Lin gli spiegava che gli animali erano solo
disegnati e che qualcuno si era inventato la storia, ma non serviva a
niente. David aveva paura lo stesso.
Il tempo trascorreva con logorante lentezza. Non c’era niente da
fare, a parte guardare la tivù. La donna avrebbe voluto giocare a
carte con loro, ma David non capiva le regole, così avevano lasciato
perdere.
Sentiva la mancanza del nonno. Del cane. Persino delle galline.
Dentro l’appartamento faceva un caldo insopportabile e non si
potevano nemmeno aprire le finestre. Inoltre c’era uno strano
profumo.
Contro una parete del salotto c’era una grande cassa di vetro con
dentro acqua, piante e due pesci, uno rosso e uno nero. Per un po’
si mise a osservarli nuotare instancabili da una parte all’altra e
fissarlo con sguardo ebete. Ma poi diventò noioso anche questo.
Da Lin pensava al poliziotto. Non riusciva a toglierselo dalla
mente. Lo vedeva riverso immobile in cortile, con il sangue che gli
usciva dalla testa. Come un ratto. Lo aveva preso di mira con la
fionda e aveva scagliato il sasso. Com’era possibile che un
sassolino abbattesse un uomo così grande? Ma la colpa era stata
sua: se non avesse spezzato la stecca di papà mettendosi pure a
ridere, non sarebbe successo niente. Gli stava bene. Chissà se era
ancora in ospedale? Forse non sarebbe più riuscito a parlare. Come
una vecchia in paese, perché le era scoppiato qualcosa dentro la
testa. Da allora non camminava più, erano i suoi figli a doverla
trasportare. E quando diceva qualcosa, nessuno la capiva. Da Lin si
domandò se gli facesse pena. Un pochino, ma anche no. Strano:
aveva preso la mira con attenzione, aveva voluto colpirlo, e tuttavia
aveva la sensazione di non averlo fatto apposta.
7.
Era dalla morte di Justin che non si sentiva più tanto solo. Quando al
mattino si infilava nel letto di Christine e David, lei si alzava e si
chiudeva in bagno. Puzzava di whisky, gli diceva. A colazione
evitava il suo sguardo. Non ricambiava i suoi baci fugaci. Più lei si
sottraeva, più a lui risultava difficile immaginare come sarebbero
potuti tornare insieme a Hong Kong. Si stava ripetendo l’esperienza
del suo primo matrimonio. Anche allora, durante la malattia di Justin,
ancor prima della sua morte, era giunto il momento in cui lui e
Meredith si erano allontanati così tanto che Paul aveva capito che
non si sarebbero mai più riavvicinati. Tra loro era finita, che il figlio
sopravvivesse oppure no.
Era felice che Christine uscisse per un paio d’ore con Gao Gao.
Prima di andarsene, quest’ultima gli diede il numero di telefono di
un vicino del ventiduesimo piano. Se si fossero annoiati, potevano
chiamarlo. Il signor Chou era un po’ matto, ma innocuo. Possedeva
qualcosa che sarebbe sicuramente piaciuto ai bambini.
All’inizio Paul provò a giocare con loro. Da Lin non riusciva a
pensare a niente che lo divertisse, David voleva giocare a
nascondino. Siccome però Da Lin tutte le volte lo trovava subito, gli
passò la voglia.
Paul propose di giocare a rodeo. Si mise carponi, Da Lin gli montò
sulla schiena, lui fece una brusca sgroppata e il ragazzino scivolò
giù e cadde sui gomiti. A questo punto la voglia di giocare gli passò
del tutto. Seduto per terra davanti alla finestra, si mise a guardare
fuori. Paul si caricò sulle spalle il figlio e cominciò a trotterellare per il
salotto. David conosceva il gioco e si reggeva forte ai capelli del
padre. Galopparono finché a Paul venne il mal di schiena.
Mezz’ora più tardi telefonò al vicino.
Il signor Chou era un ometto anziano con i capelli grigi che gli
sfioravano le spalle. Si rallegrò molto della visita inattesa. Il suo
appartamento di tre stanze era pieno zeppo di acquari. Alcuni erano
grandi quanto vasche da bagno, altri piccoli come scatole da scarpe,
la maggior parte apparteneva a una via di mezzo. Dovevano essere
almeno un centinaio. Ci nuotavano pesci di tutte le forme, dimensioni
e colori. Il gorgoglio dell’acqua e il sonoro ronzio delle numerose
pompe riempivano le stanze. L’aria era umida e calda e c’era odore
d’acqua stagnante. David e Da Lin si bloccarono senza sapere dove
guardare.
«Vi va di dare da mangiare ai pesci?» chiese Chou.
I due bambini annuirono.
Chou diede loro due vasetti di mangime per pesci e mostrò
esattamente come fare. Le prime volte li aiutò e, quando vide che
seguivano alla lettera le sue indicazioni, tornò a rivolgersi a Paul.
«Vuole un tè?»
«Volentieri, grazie».
Andarono in cucina. Sul tavolo era sparsa una batteria di pompe,
filtri, motori e parti di ricambio. Sul frigorifero troneggiava un terrario
con due tartarughine, sul pavimento ce n’era uno che ospitava
salamandre e gechi. Chou prese due tazze da un armadietto e versò
il tè.
«Cosa se ne fa di tutti quei pesci?» domandò Paul distrattamente.
Gli acquari non lo avevano mai interessato.
«In realtà volevo venderli» rispose Chou. «Ma non riesco a
separarmi da nessuno di loro. Non bisognerebbe commerciare in
esseri viventi». Dopo una breve pausa aggiunse: «A lei gli acquari
non interessano molto, vero?»
«Come fa a saperlo?»
«Lo vedo». Chou sorrise.
Bevvero in silenzio il loro tè.
«Vive qui da solo?»
«Sì. Vado più d’accordo con i pesci che con le persone».
Paul lo guardò con aria interrogativa.
«Non riesco a leggere l’animo umano. Le persone dicono una
cosa e fanno il contrario. Non lo capisco».
«In effetti i pesci sono più taciturni» commentò Paul e gli venne da
sorridere per la battuta.
Chou invece non manifestò alcuna reazione. «Ha due bei figli. I
miei mi ritengono un perdente» disse serio.
«Perché?»
«Perché non possiedo nulla all’infuori di qualche centinaio di
pesci. L’appartamento è di mio figlio». Versò altro tè a Paul e andò a
controllare brevemente i bambini, assorti nel compito di nutrire i
pesci. «Ma la mia vita è proprio come la vorrei. È una mia scelta.
Sono una persona libera, i miei figli questo non lo capiscono. Dicono
che dovrei lavorare di più. Io gli domando: perché? Loro rispondono:
per avere più soldi e godermi la vita. Io gli dico che la vita me la
godo già. Loro non mi capiscono».
Paul annuì. Non aveva voglia di affrontare discorsi più profondi.
Desiderava solo una distrazione per sé e per i bambini.
«Conosce da molto Gao Gao?»
«Da quando vive qui. E lei?»
«No, è amica di un’amica».
«Allora sia prudente». Vedendo che Paul non ribatteva, Chou
aggiunse: «Non può fidarsi di Gao Gao».
Paul ignorò anche questa affermazione. Dalla porta aperta
osservava un pesce grigio argento che nuotava dietro un altro più
piccolino in un grande acquario. Lo seguiva su e giù, oltre le piante
acquatiche e i sassi. A un certo punto agitò bruscamente la pinna
caudale, sfrecciò in avanti e il pesciolino sparì dentro la sua bocca.
«Mi ha sentito?» proseguì imperterrito Chou. «Ha contatti
importanti».
Paul annuì. Per un attimo ebbe la tentazione di chiedergli che
cosa volesse dire. Che genere di contatti? Perché avrebbe dovuto
danneggiarli? A che scopo? Meglio non sapere niente. Non
potevano fare altro che fidarsi di lei e, se doveva basarsi sul proprio
istinto, non c’era nulla da temere da quella strana donna con la sua
mania dello shopping.
8.
Certo che poteva telefonare. Sì, anche a Hong Kong. Dove voleva,
per tutto il tempo che voleva.
Sua madre non rispose. Probabilmente era da qualche parte con
le amiche a mangiare dim sum o a giocare a mahjong. Christine
lasciò un messaggio, scusandosi per il lungo silenzio. Il suo cellulare
si era rotto e avevano deciso impulsivamente di prolungare il viaggio
e raggiungere Pechino e Shanghai. Stavano bene, sarebbero tornati
la settimana seguente.
Christine valutò poi se fosse il caso di telefonare anche a Josh in
Australia. Da quando si era trasferito a Sydney tre mesi prima, per
studiare architettura, si sentivano regolarmente, spesso più volte la
settimana, anche se per pochi minuti. In genere lui aveva da
chiederle qualcosa di pratico oppure aveva bisogno del suo aiuto. Di
certo aveva cercato di contattarla ed era preoccupato.
Sì, certo, anche a Sydney, confermò Gao Gao dalla cucina.
Nessun problema.
La sua voce. Non era stata una buona idea telefonargli.
«Dove sei, mamma?» Era preoccupato.
«Mi si è rotto il cellulare. Siamo ancora in Cina». Le mancò la
voce. Tutte le volte che restava senza sentirlo per diverso tempo si
rendeva conto di quanto le mancasse, di quanto avesse nostalgia di
lui.
«Come stai, tesoro?»
«Bene».
«Come vanno gli studi?»
«Bene».
«Che cosa stavi facendo?»
«Studiavo».
Non era mai stato loquace, men che meno al telefono. Aveva
preso da suo padre, pensò Christine. Avevano trascorso in silenzio
gran parte del loro matrimonio. A cena scambiavano poche
chiacchiere sulla giornata appena trascorsa, poi accendevano la
tivù.
In seguito l’avevano accesa già durante i pasti.
«Potresti mandarmi altri soldi?»
«Di nuovo? A cosa ti servono?»
«Il materiale per lo studio è più costoso di quanto credessi».
«Quanto ti serve?»
«Non saprei».
«Ti bastano cinquemila dollari di Hong Kong?»
«Sì».
«Te li mando appena torneremo a Hong Kong».
«Grazie».
«Hai telefonato alla nonna?»
«No. Dovrei farlo?»
«Lei ne sarebbe sicuramente contenta…»
Rimasero in silenzio. Christine era sollevata che lui non le facesse
domande, non voleva mentirgli. Nel contempo la irritava che non si
informasse mai su come stessero. Su cosa facessero. Se il suo
fratellino sentisse la sua mancanza.
«Quando tornerete a Hong Kong?»
«La prossima settimana. Abbiamo prolungato la vacanza».
Lui non fece commenti, come se fosse la cosa più naturale del
mondo restare in Cina due settimane anziché due giorni.
Probabilmente non gli interessava affatto.
Christine sentiva il suo respiro e avrebbe voluto che dicesse
qualcosa. Di colpo ebbe paura di terminare la conversazione. La
voce del figlio le dava un senso di vicinanza e familiarità. Era il
legame con la sua vita prima della fuga. Quando l’avrebbe sentita di
nuovo?
«Josh? Sei ancora lì?»
«Sì».
«Tutto a posto?»
«Sì».
«Allora ci sentiamo presto. Ti chiamo non appena saremo tornati a
Hong Kong».
«A presto».
«Abbi cura di te».
«…»
«Ti voglio bene».
Sarebbe bastato un semplice «anch’io». Lei non era troppo
esigente.
Lui invece riattaccò.
Aveva ragione Paul, pensò. Lui detestava parlare di cose serie al
telefono, fare domande con il cellulare premuto sull’orecchio. Aveva
bisogno di vedere l’interlocutore, di accertarsi se le parole
pronunciate si rispecchiavano anche nei gesti, nella mimica, se
corrispondevano a ciò che comunicavano gli occhi. Il telefono per lui
era solo un amplificatore della voce. Rendeva più sicure le persone
sicure, più timorose quelle timorose, più solo chi era solo.
In quel momento Christine era una di quelle timorose e sole.
Neppure una telefonata con Josh, per quanto lunga, avrebbe
cambiato quello stato di cose.
10.
Era colpa sua. Era stata lei a volerlo portare con loro. Nonostante i
suoi avvertimenti, nonostante il suo parere apertamente contrario.
Paul aveva previsto che Da Lin avrebbe rappresentato un rischio
ulteriore per la loro sicurezza. Christine non gli aveva creduto, lo
aveva giudicato senza cuore e si era risentita con lui.
Sebbene dopo il ferimento del poliziotto non avessero avuto altra
scelta, lei si sentiva comunque responsabile. Per questo non voleva
svegliare Paul per chiedergli aiuto.
Da Lin era scomparso, lo aveva cercato in tutto l’appartamento.
Che cosa diavolo gli era passato per la testa? Da quando erano
scappati dal villaggio non avevano parlato molto. Lui era taciturno e
chiuso in se stesso, lei non sapeva che cosa provasse. Aveva
nostalgia di casa e voleva tornare dal nonno? Oppure aveva paura
di rivedere la madre?
Valutò il da farsi. Dovevano aspettare che tornasse da solo?
Troppo pericoloso. Doveva andarlo a cercare, prima che finisse tra le
mani della polizia. Forse si divertiva semplicemente a salire e
scendere con l’ascensore. Oppure stava giocando nell’atrio. Sperava
di tornare prima che Paul si accorgesse della sua assenza. In ogni
caso gli scrisse un biglietto che mise sul tavolo da pranzo.
In ascensore non c’era, e neppure nell’atrio.
Si fermò interdetta davanti al portone, senza la minima idea di
dove cercarlo. Girò intorno al palazzo, sul retro c’era una piccola
zona pedonale, i negozi vuoti sbarrati da inferriate. Il vento aveva
trascinato con sé un parasole e delle sedie di plastica, sparse tra i
negozi.
Tornò sulla strada e s’incamminò a caso in un’altra direzione.
Da lontano vide un’auto venirle incontro. Quando si accorse che
aveva i lampeggianti blu sul tettuccio era troppo tardi.
L’auto della polizia si dirigeva proprio verso di lei: rallentò
all’improvviso, frenò e le si fermò accanto. Davanti erano seduti due
poliziotti, sul sedile posteriore c’era Da Lin, che la implorò di aiutarlo
con gli occhi prima di distogliere lo sguardo. Aveva il labbro
superiore spaccato, una guancia gonfia, il viso arrossato. Guardando
i suoi occhi, Christine comprese che aveva pianto.
Trascorsero diversi secondi. Per un istante lei sperò di perdere i
sensi. Di sprofondare semplicemente nell’asfalto. Di non sentire più
niente. Non vedere più niente. Non provare più niente. Che fossero
gli altri a occuparsi di lei. E di lui. Svegliarsi quando fosse finito tutto.
I due poliziotti scesero dall’auto. Si muovevano con grande
lentezza, nei loro occhi si rifletteva una profonda diffidenza. Christine
indietreggiò involontariamente.
«Gli agenti di sorveglianza hanno acciuffato questo moccioso al
centro commerciale» disse uno dei due. «Non dice una parola.
Quando ha visto lei, all’improvviso ha dichiarato che è sua madre. È
vero?»
Avrebbe potuto rispondere di no, pensò precipitosamente. No, non
conosco questo bambino. Probabilmente lui non avrebbe nemmeno
protestato. Non c’era motivo di non crederle. Quale madre nega di
riconoscere il proprio figlio? I poliziotti lo avrebbero condotto con loro
e l’avrebbero lasciata in pace.
Rispondere sì, al contrario, rappresentava un rischio
imponderabile. Che cosa aveva combinato Da Lin? Perché
assumersi la responsabilità di madre nei suoi confronti? Glielo
avrebbero consegnato senza ulteriori accertamenti, oppure avrebbe
dovuto dimostrare la loro parentela, cosa che non poteva fare?
Aveva lasciato i documenti nell’appartamento e non voleva
assolutamente portare la polizia da Gao Gao, Paul e David. Se
avesse risposto di sì, poteva sperare solo che le consegnassero Da
Lin con qualche parola di rimprovero, senza chiedere altre
informazioni su di lui.
E se non fosse stato così? Se avessero cominciato a fare
domande?
«È vero?» ripeté impaziente il poliziotto.
Doveva rispondere, più a lungo taceva, più si rendeva sospetta.
Poteva scegliere. Sì o no?
Christine guardò l’agente, poi il collega. I suoi occhi si posarono su
Da Lin, rannicchiato sul sedile posteriore, che non osava più
neppure fissarla. Evidentemente intuiva che il proprio destino era
nelle sue mani.
«È suo figlio?»
«Sì». E poi, facendo appello a tutto il proprio coraggio, aggiunse:
«Che cosa è successo? Che cosa gli avete fatto?»
«Glielo racconteremo in centrale». Il poliziotto spalancò la portiera
e l’afferrò per un braccio con un gesto brutale. «Salga».
13.
Paul fu svegliato dalle grida del figlio nella camera accanto. «Papà!
Papà?»
Il letto di Da Lin accanto a lui era vuoto. Corse da David, che era
rannicchiato sotto le coperte. «Dov’è la mamma?»
«Non lo so».
David si mise a sedere preoccupato. «Perché non lo sai?»
Risposta sbagliata. «Perché mi sono appena svegliato. È in cucina
a preparare la colazione».
David strisciò fuori dal letto e corse in soggiorno.
Passò qualche secondo.
«Qui non c’è».
Christine doveva aver scritto il messaggio in fretta e furia. Di solito
la sua calligrafia era precisa e ordinata, come quella di una
scolaretta. Quelle righe invece erano quasi illeggibili.
Non dovevano preoccuparsi, aveva scritto. Sarebbe tornata al più
tardi entro un’ora. Sotto aveva indicato l’ora: 6.50.
Adesso erano le 9.15.
David non lo aveva perso di vista nemmeno un istante. «Dov’è
andata?» L’ansia nella sua voce.
Non lo so, avrebbe voluto rispondere Paul, ma invece disse: «È
andata a fare una passeggiata con Da Lin».
«Non è giusto. Perché non ci ha portato con lei?»
«Perché… perché non voleva svegliarci».
«Quando torna?»
«Io non… presto».
«Quando è presto?»
«Tesoro». Paul si sforzò di non perdere la pazienza. «Presto può
essere dieci minuti oppure un’ora».
David lo guardò contrariato e rimase in silenzio. Quasi avesse
capito che quella risposta poco esauriente fosse tutto ciò che
avrebbe ottenuto.
Perché Christine gli aveva fatto questo?
Paul svegliò Gao Gao. Non appena l’ebbe informata della
sparizione di Christine e Da Lin, lei si alzò di scatto, s’infilò la
vestaglia, andò in salotto e accese il televisore. Pochi secondi più
tardi sullo schermo apparve l’immagine in bianco e nero, nitidissima,
del pianerottolo appena fuori dalla porta.
«Ho installato una telecamera di sicurezza sopra la porta. Tiene in
memoria le ultime sei ore». Gao Gao tornò indietro fino al punto in
cui videro aprirsi lentamente la porta e Da Lin che usciva. L’orologio
sullo schermo segnava le 6.25. Una mezz’ora dopo Christine usciva
dall’appartamento, andava all’ascensore e spariva.
L’immagine si bloccò. David aprì la bocca per dire qualcosa, ma
poi rimase in silenzio.
Gao Gao guardò l’ora, pensierosa. «Non riesco proprio a
immaginare che cosa si possa fare a Hongyang per un tempo così
lungo» disse sottovoce, quasi parlando tra sé.
«C’è un bar o una casa da tè qui vicino?» chiese Paul.
«No».
«Un ristorante?»
«No».
Paul rifletté. «Un centro commerciale?»
«Sì, ma i negozi sono vuoti».
«Forse sono andati da padre Lee?»
«Ne dubito. Però posso chiamarlo».
Non erano neppure lì.
David stava seduto in braccio a Paul, sempre più quieto.
«Dov’è la mamma?» bisbigliò.
Paul preferì non rispondere. «Ti va di giocare un po’?»
«No».
«Vuoi che ti legga qualcosa?»
«No. Voglio sapere dov’è la mamma».
«Te l’ho già detto, è andata a fare una passeggiata».
«Per tutto questo tempo?»
Non riusciva a sostenere lo sguardo del figlio. David sapeva che
suo padre non gli stava dicendo la verità, e Paul provava disagio a
mentirgli, e ancora di più a essere scoperto. Ma non gli veniva in
mente una risposta migliore.
«Hai fame?»
«No!» esclamò David testardo. La pelle sul mento gli si increspò, il
labbro superiore scomparve, come succedeva sempre quando gli
veniva da piangere ma non voleva farlo.
Paul si alzò tenendolo in braccio e si mise a ballare. Gao Gao
mise una canzone di Teresa Teng, poi fece le smorfie, come se
fosse lei a cantare, e cominciò a danzare con loro. Sembrava un
orso ubriaco. Persino David scoppiò a ridere quando la vide.
All’improvviso suonò il citofono. Corsero alla porta e uscirono sul
pianerottolo. Si misero davanti all’ascensore, impazienti, ad
aspettare Christine e Da Lin.
La porta si aprì con grande lentezza. Dall’ascensore uscì Zhang.
14.
I due poliziotti osservavano ogni loro movimento. Uno dei due stava
mezzo girato all’indietro, l’altro continuava a guardare nello
specchietto mentre guidava.
Christine non riusciva quasi a muoversi per la paura.
Da Lin si era rannicchiato lontano da lei. Aveva la maglietta
strappata sulla scollatura, come se qualcuno lo avesse afferrato. Lei
notò una macchia bagnata larga quanto un piatto sul cavallo dei
pantaloni. Lo cinse con un braccio e subito lo sentì irrigidirsi. Si
spostò più vicino a lui, lo attirò a sé e, dopo una breve esitazione, lui
abbandonò ogni resistenza: chinò il busto sul suo grembo, si
nascose il viso tra le mani e si mise a piangere piano. Lei guardava
le strade deserte fuori dal finestrino e gli accarezzava la testa.
In centrale fecero togliere le scarpe a entrambi. Presero poi la
cintura a Da Lin, quasi temessero che uno di loro potesse usarla per
impiccarsi. Una donna li condusse in una stanza senza finestre e
disse loro che dovevano aspettare.
Nella stanza c’erano quattro sedie, nient’altro. Le pareti nude
erano imbiancate e sul soffitto erano appesi diversi tubi al neon. La
porta era priva di maniglia all’interno.
Christine si accovacciò di fronte a Da Lin e gli osservò meglio la
faccia. Il labbro superiore e l’occhio sinistro si erano ulteriormente
gonfiati. Sul mento aveva una profonda abrasione. Quando aprì la
bocca, vide che gli mancavano due incisivi. Gli prese teneramente la
testa tra le mani. Non aveva neppure dell’acqua per pulire le ferite.
«Povero piccolo. Ti fa molto male?»
Un cenno d’assenso appena abbozzato.
«Che cosa ti hanno fatto?»
Silenzio.
«Ti hanno picchiato?»
«…»
«Non vuoi raccontarmi che cosa è successo?»
Nessuna risposta. Quando cercò di leggere qualcosa di più nel
suo sguardo, lui abbassò gli occhi.
«Hai sete? Vuoi che chieda dell’acqua?»
Tutto inutile.
Si mise seduta accanto a lui e gli strinse la mano. Tremava.
Aveva bisogno di un medico. Si alzò, andò alla porta e raccolse
tutto il proprio coraggio.
Bussò. Dapprima piano, poi più forte, finché prese a calci la porta
e gridò. Dopo il quinto o sesto calcio udì dei rumori in corridoio. Un
poliziotto aprì la porta.
«La smetta subito» le ordinò.
Lei fece un passo indietro. «C’è bisogno di un dottore» disse con
voce piatta.
«Un dottore?» Un’occhiata sprezzante. «Perché?»
Indicò il viso tumefatto di Da Lin. «Mio figlio non sta bene.
Qualcuno lo ha maltrattato».
Il poliziotto si limitò a stringersi nelle spalle.
«Abbiamo. Bisogno. Di. Un. Medico». Rimase sorpresa lei stessa
dall’improvvisa determinazione nella propria voce. Il suo tono deciso
stupì anche il poliziotto.
«Qui non c’è nessun medico» replicò, più conciliante.
«Avete almeno un analgesico e un panno bagnato?»
L’uomo si allontanò e tornò poco dopo con una bottiglia d’acqua,
due compresse e un panno bagnato.
Da Lin prese la medicina e svuotò la bottiglia a grandi sorsate. Lei
gli pulì delicatamente la ferita sul mento. Lui sussultava a ogni
contatto, era più profonda di quanto sembrasse. Christine gli scostò i
capelli dal viso, si mise seduta e lo prese tra le braccia. Lui la lasciò
fare.
Rimasero ad aspettare senza sapere cosa. Forse volevano solo
prendere le loro generalità. Perché erano lì? Dove abitavano?
Quando sarebbero ripartiti? Ma lei non aveva risposte convincenti
neppure per le domande più semplici. Non era brava a raccontare
storie, e ancora di meno a mentire.
La sua paura cresceva di minuto in minuto. In qualsiasi momento
sarebbe potuto entrare qualcuno per arrestarla. O per arrestare Da
Lin.
Pensò a Paul e al figlio morto.
L’attesa dei risultati delle visite era stata un’agonia, le aveva
raccontato una volta. Le ore nelle sale d’attesa dei medici o nei
corridoi dell’ospedale, finché una porta si apriva e lo facevano
accomodare. La speranza di valori migliori. L’impotenza di fronte a
una brutta notizia. Tutto dipendeva da una semplice frase: mi spiace
doverla informare… Bastavano poche parole per dare alla vita una
direzione completamente diversa. I valori sono peggiorati, oppure:
sono tornati nella norma.
Era sempre stata convinta di riuscire a capire cosa avesse provato
Paul in quei momenti. In quanto madre, conosceva l’ansia per un
figlio. Ora si rendeva conto di essersi completamente sbagliata. Non
aveva capito proprio niente. Tutto il suo corpo si ribellava. Era quello
che Paul doveva aver sofferto per mesi.
Trascorsero diverse ore.
A un certo punto Da Lin si sdraiò sul pavimento e si addormentò.
Lei gli si sedette accanto e gli prese la testa in grembo. Nel sonno lui
le afferrò la mano. Che mano infantile, pensò Christine, stringendolo
a sé. Com’era magro. Gli poteva tastare tutte le costole. Per evitare
che prendesse freddo, lì sdraiato sul pavimento, gli sollevò il busto e
se lo appoggiò sulle cosce.
Dopo un po’ perse la sensibilità alle gambe.
Christine udì dei passi. Entrò un poliziotto e le ordinò brusco di
seguirlo.
Da sola.
Chiese una coperta per Da Lin. Dopo un attimo di esitazione
l’uomo gliela portò e lei la distese delicatamente sotto il ragazzo
addormentato.
Si incamminarono lungo un corridoio malamente illuminato,
superando stanze vuote. La centrale di polizia era semideserta,
come il resto della città. Il poliziotto la condusse in una stanza, le
indicò una sedia e si accomodò dietro una scrivania. Di fronte a lui
un modulo e una matita. E una fionda.
«Come si chiama?»
«Wu».
«Wu e poi?»
«Christine Wu».
«Non ha un nome cinese?»
«No» mentì lei.
Un gesto sprezzante. «E il ragazzo è suo figlio?»
«Sì».
Lui la scrutò a lungo. «Non vi somigliate molto» dichiarò beffardo.
«Non esteriormente, almeno».
Lei si strinse nelle spalle. Che risposta avrebbe dovuto dargli?
«Età?»
«Dodici anni».
«Come si chiama?»
«Da… Da…» balbettò Christine. Era il caso di dire il suo vero
nome? Se fosse stato ricercato, era un indizio rivelatore. «Damien.
Damien Wu».
«Damien? Che razza di nome è?»
«Inglese».
«Vive con lei?»
«Sì».
Il poliziotto non credeva a una parola. Lo si capiva dal suo
sorrisetto perfido.
«Lei dove abita?»
«A Hong Kong».
L’uomo alzò lo sguardo, sorpreso. «Allora che cosa ci fate a
Hongyang?»
«Siamo turisti».
«Turisti? Non capita spesso che ne arrivino nella nostra città,
nemmeno per sbaglio. Che cosa siete venuti a visitare?»
Si prendeva gioco della sua incertezza.
«Niente. Siamo venuti a trovare un’amica».
«Un’amica, capisco».
«Perché vuole sapere tutte queste cose?»
Lui non rispose alla domanda. «Dove siete stati prima?»
«A Xian» mentì lei. «A vedere l’esercito di terracotta».
«E prima ancora?»
«A Pechino. Volevo mostrare a mio figlio la Città Proibita e la
Grande Muraglia». Si accorse da sola quanto fosse incerta e poco
convincente la propria voce.
Il poliziotto non si preoccupò neppure di prendere appunti. Si
appoggiò all’indietro sulla sedia con le braccia incrociate dietro la
testa. «Pechino-Xian-Hongyang. È un viaggio piuttosto tortuoso.
Siete mai stati a Shi?»
Lui sapeva, pensò. Certo che sapeva.
«Dove si trova?»
«Nella provincia del Sichuan. Dovrebbe saperlo». Prese la fionda,
la esaminò assorto, tirò l’elastico, la rimise sulla scrivania.
«Un bell’oggetto. Appartiene a suo figlio?»
Christine non rispose.
«Appartiene a suo figlio?» ripeté l’uomo più forte, in tono
minaccioso.
Prima che lei avesse il tempo di rispondere, la porta si aprì ed
entrò Da Lin, seguito da un altro poliziotto.
La sua corporatura massiccia occupò quasi per intero la porta.
Indossava un’uniforme con diverse stellette sul bavero e doveva
essere coetaneo di Paul.
Lei lo aveva già visto una volta. Impiegò qualche secondo prima di
ricordare in quale occasione.
15.
Oltre i finestrini oscurati la città era buia, quasi tenebrosa. Non c’era
molta gente per strada, i pochi pedoni avevano le mascherine sul
naso e sulla bocca. Paul non riusciva a vedere bene nemmeno dal
parabrezza anteriore. La visibilità non doveva superare i cento metri,
duecento al massimo; poi lampioni, semafori, palazzi, alberi e auto
erano inghiottiti da una densa nebbia grigiastra. Inizialmente Paul
pensava che si trattasse di vapore o fumo, ma Gao Gao gli spiegò
che Pechino era avvolta da una densa nube di smog. Era del tutto
normale in quella stagione.
Dal cellulare una gradevole voce femminile le dava istruzioni sul
tragitto. A quanto riusciva a capire Paul, stavano percorrendo la
seconda circonvallazione in direzione nord, poi superarono il lago
Houhai e imboccarono una stradina che partiva dalla Gulou
Dongdajie.
Il loro alloggio si trovava da qualche parte in un hutong fra il
Tempio dei Lama e la Torre della Campana.
Conosceva la zona dalle sue visite precedenti nella capitale. Se
non ricordava male, il tragitto in macchina da lì all’ambasciata
americana richiedeva da venti minuti a un’ora, a seconda del traffico.
Bastava proseguire verso est fino alla terza circonvallazione. Non
era molto distante da lì.
Gao Gao guidava veloce e sicura per la città, ma faticava a
manovrare l’ingombrante veicolo nei vicoli stretti. All’improvviso fece
una brusca frenata: gli avventori di un ristorante furono costretti ad
alzarsi e a sgombrare la strada da tavoli e sedie pieghevoli,
altrimenti l’auto non sarebbe riuscita a passare.
A un certo punto si fermarono davanti a un muro grigio. Qualcuno
aprì dall’interno uno stretto portone rosso e, dopo numerose
manovre, Gao Gao riuscì a parcheggiare il minivan in un cortile.
Paul capì subito che non si sarebbero potuti fermare a lungo.
L’appartamento era composto da due stanzette stipate e una cucina.
C’erano gatti dappertutto. Sul tavolo. Sulla libreria. Sul letto. Sul
divano. Tre cani si sgolavano ad abbaiare. Erano così piccoli che
neppure David aveva paura di loro. Ovunque c’era puzza di piscio di
gatto. Quando si riunirono tutti in cucina, la riempirono
completamente.
Dall’appartamento vicino sentirono tossire un bambino. Da
qualche parte qualcuno russava sonoramente. Non avrebbero potuto
trovare un nascondiglio peggiore. Ai vicini non sfuggiva mai niente.
«Non sapevo che foste così tanti» disse Hong Mei, sconcertata
ma non risentita. «Comunque ce la caveremo. Avete fame o sete?»
Senza aspettare una risposta, mise in tavola delle tazze e un
thermos.
Estrasse poi un cassetto da sotto un letto e tirò fuori coperte e
cuscini.
Per Gao Gao, Christine e David c’era un letto, per Hong Mei il
divano.
Zhang suggerì che lui, Paul e Da Lin avrebbero potuto anche
dormire in macchina.
Qualcosa in Paul però si opponeva a quest’idea. Non voleva
trascorrere la notte senza David e Christine, e d’un tratto provava
una infantile paura del distacco.
«Vado io a dormire in macchina?» chiese Gao Gao.
«No, no» protestò Paul.
Presero un cuscino a testa e un paio di coperte e salirono sul
minivan. Paul preparò un letto per Da Lin sul sedile posteriore. Lui
avrebbe dormito su quello centrale. Zhang reclinò il sedile anteriore,
in modo da potercisi sdraiare.
Faceva fresco nell’abitacolo, sarebbe stata una notte fredda. Da
Lin si addormentò nel giro di pochi minuti e Paul gli mise addosso
un’altra coperta.
Seduto davanti, Zhang osservava entrambi. «Che ne facciamo di
lui?»
«Domani lo portiamo da sua madre». Paul sapeva che non era la
risposta che si aspettava Zhang. «Oppure hai un’altra idea?»
Zhang si mordicchiò l’unghia di un mignolo, assorto. «E se la
polizia ci aspettasse a casa sua?»
A questo Paul non aveva pensato. La madre di Da Lin era l’unico
punto di riferimento, e anche il primo indirizzo dove la polizia
sarebbe andata a cercarli.
«Che cosa sai di lei?»
Paul ci pensò su. «Non molto. Si chiama Yin Yin e, a quanto mi ha
fatto capire Luo, voleva trasferirsi in una delle città costiere per
guadagnarsi da vivere. È finita a Pechino e lavora in fabbrica».
«Ufficialmente? È registrata in città?»
«Non ne ho idea. Probabilmente no. Sarebbe molto insolito per
una donna nella sua situazione».
«Se non è registrata, le autorità non sanno dove si trova. Ci sono
centinaia di milioni di lavoratrici clandestine come lei. Potrebbe
benissimo essere a Shanghai oppure a Shenzhen. Conosci il nome
della fabbrica e il suo indirizzo?»
«Solo l’indirizzo. E un numero di cellulare».
«Servirà in caso di emergenza. Domani vedremo se la polizia ci
aspetta da lei. Forse dovrei andare io per primo, mentre tu rimani in
macchina con Da Lin. Da solo non darò nell’occhio».
Paul annuì. «E se…?» Non terminò la frase. Nella sua testa si
affollavano troppe domande.
E se la polizia sapesse dove vive Yin Yin?
E se lei si fosse trasferita altrove in cerca di lavoro?
E se non avesse voluto prendere il figlio con sé?
Non aveva risposte per questi interrogativi, né poteva pretendere
che le avesse Zhang.
«Come sei riuscito ad arrivare a Hongyang?»
«È stato difficile. Mio nipote mi ha dato un sacco di soldi. Sono
serviti per autobus, taxi, pick-up. Tuttavia ho dovuto fare qualche
deviazione».
«Che cosa farai quando ce ne saremo andati? Tornerai a Shi?»
«Non è possibile. Là ci sono troppe persone che sanno chi vi ho
aiutato». Si accarezzò pensieroso la barba rada. «Conosco un abate
in Tibet. Dirige un piccolo monastero semiclandestino in un luogo
sperduto. È un buon posto in cui sparire per un po’».
«Non avevi detto di aver vissuto a sufficienza nella fede?»
Zhang cercò di sorridere, senza riuscirci. «È vero. Ma forse non
sono abbastanza forte per una vita senza fede».
«Ne dubito. Non conosco nessuno più forte di te».
Zhang non rispose. Paul fu scosso da un brivido.
«Prendi la mia coperta, io sono vestito pesante».
«Sicuro?»
«Sì».
Paul si avvolse riconoscente nella coperta. «Perché non torni a
Shenzhen?»
«Che cosa potrei fare lì?»
Il tono brusco e categorico con cui Zhang pronunciò queste parole
fece capire a Paul che l’amico ci aveva già riflettuto e aveva scartato
l’idea. Non sapeva se fosse il caso di esprimere ciò che pensava.
«Magari potresti andare a trovare tuo figlio?» suggerì cauto.
Zhang socchiuse gli occhi e strinse le labbra fino a farle quasi
scomparire. Paul temeva una reazione collerica, invece Zhang esitò
a lungo prima di rispondere. «Non saprei…» disse infine, poi ripeté:
«Non saprei…»
Due parole così cariche di struggimento e sofferenza che Paul non
seppe che cosa dire.
Guardò fuori dal finestrino. Vide aprirsi una porta, un uomo che
barcollava in cortile. Era ubriaco e non si accorse di loro.
«Anche dentro l’ambasciata non siete al sicuro» osservò Zhang
nel silenzio.
«Che cosa vorresti dire? Non ci consegneranno mica alla polizia
cinese?»
Zhang dondolò il capo. «Il poliziotto è morto. Siete accusati di
omicidio, o di complicità in omicidio. Le autorità non vi lasceranno
partire finché la vostra posizione non sarà chiarita. Non ci sono
testimoni, a parte il ragazzo. Le trattative potrebbero andare per le
lunghe».
«Abbiamo qualche alternativa?»
«No. E se non altro all’ambasciata dovreste essere al sicuro da
Chen e dai suoi».
Prima di addormentarsi, Paul pensò a Christine. Sentiva talmente
la sua mancanza da provare quasi un dolore fisico.
Lui e Meredith si erano allontanati durante la malattia di Justin,
senza rendersene conto. Quando lo avevano capito era ormai troppo
tardi. Con Christine era diverso. Lui era pieno di rabbia e di dolore.
Non la capiva. A volte avrebbe voluto scuoterla e inveire contro di
lei. Si richiudeva in se stesso, ma non le voltava le spalle.
Quanto gli sarebbe piaciuto sdraiarsi accanto a lei adesso.
Cingerla semplicemente con un braccio e percepire il suo calore.
Sentire il suo odore. Tuttavia temeva che lei non avrebbe sopportato
la sua vicinanza fisica.
Durante il viaggio aveva tentato ripetutamente di accarezzarle la
testa da dietro. Tutte le volte lei si era sottratta.
Quanto conforto gli avrebbero dato quelle carezze.
3.
Sul letto stretto c’era spazio per una persona soltanto, ma ci si erano
pigiati in tre. Gao Gao, dalla parte del muro, si addormentò dopo
pochi minuti e cominciò a russare. David era sdraiato per metà sulla
madre e si agitava nel sonno. Christine aveva caldo. Le prudeva
tutto il corpo, ma non aveva spazio nemmeno per grattarsi. Con un
gran balzo uno dei gatti saltò su una mensola sopra di loro. Lei
temeva che il felino potesse piombarle addosso da un momento
all’altro. Una fitta pulsante le salì dalle spalle contratte fino alla testa.
Uno dei cani guaì nel sonno.
Quando non ne poté più di stare così sacrificata, si alzò in silenzio
e si sdraiò per terra. Il pavimento era duro e freddo.
Raggiunse in silenzio la cucina, per vedere se c’erano delle sedie
con cui improvvisare una branda. C’erano solo tre sgabelli, troppo
piccoli per sdraiarcisi sopra.
Un orologio sopra la porta segnava le 2.13.
Su un ripiano scoprì un mucchio di vecchi fazzoletti che
puzzavano di gatto e provò a usarli per ricavarne un giaciglio di
fortuna in un angolo.
«Ti serve aiuto?»
Si voltò di scatto. Alle sue spalle c’era Hong Mei.
«Non volevo spaventarti» si scusò la donna.
«Il letto è troppo piccolo. Non riesco a dormire».
«Lo immaginavo. Puoi metterti sul divano, se vuoi».
«E tu?»
«Non ho sonno».
Christine era restia ad accettare l’offerta. Era notte fonda, come
mai quella donna non era stanca? Cosa poteva fare a quell’ora?
«Non ho bisogno di molte ore di sonno» spiegò Hong Mei, quasi
volesse tranquillizzarla.
«Non avresti un analgesico?»
«No, mi spiace. Non ne tengo in casa».
«Di nessun tipo?»
Hong Mei scosse la testa.
«Vuoi che ti prepari una tisana? Magari ti aiuta».
«Ne dubito».
«Un massaggio alle spalle?»
La disponibilità della donna insospettì Christine. Che cosa voleva
da lei? «No, grazie, non importa».
Sul divano era acciambellato un gatto bianco e grigio con gli occhi
grandi. Si rizzò e fece la gobba quando Christine si avvicinò. Hong
Mei lo prese in braccio e lo portò in cucina.
Il divano era troppo corto, ma rannicchiando le gambe poteva
andare. Sentì Hong Mei preparare una tisana e sedersi a tavola.
David mormorò qualcosa nel sonno, ma Christine non capì cosa
dicesse. Poi tornò il silenzio.
Era completamente sveglia e aveva sete, così si alzò e andò in
cucina. Hong Mei era seduta, china in avanti, la testa appoggiata
sulle braccia, e dormiva. Accanto a lei un raccoglitore e una serie di
ritagli di giornale.
Due gatti le girarono intorno silenziosi, osservando diffidenti ogni
suo movimento.
Christine bevve un bicchiere d’acqua, tornò a sdraiarsi sul divano,
piegò le gambe e si tirò la coperta sulla testa. Quando le si chiusero
finalmente gli occhi, era quasi l’alba.
Per colazione la padrona di casa aveva comprato panini e ravioli
di verdure. Preparò il tè e tirò fuori dei biscotti da un cassetto. A
parte lei e i bambini, però, nessuno aveva appetito. Paul e Zhang si
divisero un panino, Gao Gao mangiò un raviolo, ne lasciò un altro
nel piatto dopo il primo morso e rimase a guardare nel vuoto.
Christine non toccò niente. Nessuno parlava.
Paul le stava accanto; le posò una mano sulla spalla, e lei si
allontanò con la scusa di voler aiutare David a mangiare.
Non lo faceva di proposito, era una reazione istintiva del suo corpo
che agiva di sua iniziativa. Questo non faceva che peggiorare le
cose. Non voleva perdere Paul. Non voleva ritrovarsi per la seconda
volta ad allevare un figlio da sola. Un secondo matrimonio fallito.
Addormentarsi da sola, svegliarsi da sola. Serate solitarie davanti
alla tivù. Nessuno per soddisfare le sue voglie. I commenti della
madre. Sarebbe stato molto peggio della prima volta. Amava Paul
più del suo primo marito e David era molto legato a suo padre, più di
quanto lo fosse stato Josh. E per lei non ci sarebbe stata una terza
occasione.
Avrebbe voluto parlare con Paul. Ma come spiegargli qualcosa
che non capiva neppure lei?
La paura era troppo grande. Si era insinuata in tutte le fibre del
suo essere e non lasciava spazio a nessun’altra emozione. Si
sentiva priva di forze. Cominciava a sgretolarsi sotto la pressione, si
disfaceva, stava diventando un’altra. La Christine che conosceva
prima di quel viaggio si allontanava inesorabilmente in una nebbia
sempre più fitta.
4.
Che cosa prova una madre che non vede un figlio da quasi due anni
e nemmeno lo abbraccia? Che gli dice di non avere posto per lui, pur
sapendo che non c’è nessun altro che possa accoglierlo? Christine
faticava a credere al racconto di Paul. Come poteva una persona
essere così fredda e spietata?
La sua indignazione non durò a lungo. Pensò al fratello morto.
Quando erano bambini non era potuto fuggire con loro a Hong Kong
e aveva trascorso la vita in Cina. Si erano persi di vista per quasi
quarant’anni e, dopo averlo rivisto, Christine si domandava ogni
tanto che cosa sarebbe stato di lei se fosse rimasta in Cina. Era
stata la sorte, non la sua volontà, a permetterle di crescere a Hong
Kong. Gli anni in Cina come l’avrebbero trasformata? Sicuramente
non sarebbe diventata una madre che respinge il figlio dodicenne.
Almeno lo credeva. Ci sperava. Non era forse azzardato affermare di
avere una risposta a un simile interrogativo?
Tempi spietati forgiano persone spietate.
Da Lin le passò davanti senza guardare nessuno, e andò a
rannicchiarsi sul sedile posteriore.
«Che cos’ha, mamma?» volle sapere David. «Ha la bua?»
«Sì».
David si allungò oltre il poggiatesta e lo accarezzò. Da Lin non
reagì.
«Che cosa facciamo adesso?» Era una domanda rivolta a
nessuno in particolare. Le rispose un silenzio disorientato.
«Una cosa è sicura, non possiamo rimanere qui» disse Gao Gao
mettendo in moto.
Christine non era in grado di pensare lucidamente. Provava solo
un grande vuoto dentro di sé. Che cosa dovevano fare con Da Lin?
Esisteva la possibilità di portarlo a Hong Kong con loro? O magari
almeno all’ambasciata americana? Esisteva un altro luogo dove
fosse al sicuro? Da Gao Gao? Si sarebbe presa cura di lui?
Probabilmente no. Nel volto esausto di Paul vide che neppure lui
aveva una soluzione. Lo stesso Zhang, che le aveva dato
l’impressione di essere in grado di escogitare qualcosa anche nelle
situazioni più difficili, era seduto affranto sul sedile anteriore.
L’unico a sapere cosa fare era stato David. Era andato a sedersi in
fondo con Da Lin, e ora continuava ad accarezzarlo.
7.
Gao Gao girò verso nord alla seconda circonvallazione. La sua pelle
chiarissima, quasi trasparente, aveva assunto una sfumatura rossa
sul viso e sul collo. Stava seduta impettita, stringeva il volante con
entrambe le mani e guardava tesa davanti a sé.
«Dove stiamo andando?» volle sapere Zhang.
«Non lo so».
Si era infilata nel flusso delle auto e Zhang aveva la sensazione
che si lasciasse trasportare dal traffico, più che decidere sulla
velocità o sulla direzione.
«Tu hai qualche idea?» gli chiese senza guardarlo.
Non ne aveva. Zhang guardò dietro. Christine e Paul erano seduti
l’uno accanto all’altra come due estranei. Lei teneva la testa
appoggiata al finestrino e guardava fuori. Lui era sprofondato sul
sedile a capo chino.
Da loro non poteva aspettarsi una risposta.
Zhang provò a riflettere. Non potevano tornare al loro rifugio. Più
tempo trascorrevano a Pechino, più aumentava il rischio di essere
scoperti. Paul e la sua famiglia dovevano arrivare il prima possibile
all’ambasciata americana. Anche se le autorità non li avrebbero fatti
partire, finché erano collegati a un’accusa di omicidio. Ma questo era
un problema di cui si sarebbero occupati i diplomatici.
Per Da Lin avrebbe trovato una soluzione in seguito. Almeno così
sperava.
Il traffico rallentò.
«C’è un hotel vicino all’ambasciata?»
«Non ne ho idea. Controlla». Gao Gao gli porse il telefono.
Zhang trovò un Hilton a meno di dieci minuti di distanza. Da lì
Paul, Christine e David avrebbero potuto prendere un taxi, sarebbe
stato più sicuro che presentarsi a bordo dell’auto di Gao Gao. Inserì
l’indirizzo e il telefono calcolò il tragitto. Stavano andando nella
direzione sbagliata.
Gao Gao frenò sino a fermare del tutto la macchina.
«Che succede?» chiese Paul.
«Un ingorgo» rispose Gao Gao.
A tre, quattrocento metri di distanza si vedevano numerosi
lampeggianti azzurri.
«Un incidente, probabilmente».
Oppure un posto di blocco, pensò Zhang. Improbabile a quell’ora
del giorno e sulla seconda circonvallazione, ma non del tutto da
escludere.
Zhang si accorse che Gao Gao si stava innervosendo. Si
guardava intorno, quasi a voler verificare se fosse possibile fare
un’inversione a U. «Siamo bloccati» disse infine a mezza voce,
quasi parlando tra sé.
Trascorsero diversi minuti senza alcun cambiamento. Le chiazze
rosse sul collo di lei diventarono più grandi e più accese.
All’improvviso udirono un suono di sirene alle loro spalle. Un’auto
della polizia avanzava faticosamente tra i veicoli fermi, seguita da
un’autoambulanza.
«Dove siamo diretti?» si informò Paul.
«A un hotel nei pressi dell’ambasciata. Lì prenderete un taxi. Noi
vi aspetteremo per un po’ nell’hotel».
Paul si sporse in avanti. «E Da Lin?» bisbigliò.
8.
Era una di quelle giornate di fine autunno in cui Hong Kong è più
bella che mai. Un cielo limpido e azzurro si apriva sopra la città, il
giorno prima un vento forte aveva spazzato via l’inquinamento
dell’aria, soffiandolo verso il mare. Il termometro segnava
venticinque gradi con un’umidità di poco inferiore al cinquanta
percento.
Paul aspettava sul pontile con David, che reggeva in una mano un
mazzolino di fiori, nell’altra una palla. Le corse incontro e le
consegnò orgoglioso i fiori. Passeggiarono su e giù per la via
principale, bevvero come al solito una spremuta d’arance fresche al
Green Cottage. Giocarono a calcio al campo sportivo, Christine in
porta non parò neppure uno dei tiri di David, che esultava di gioia a
ogni gol. Anche quella era una delle loro affiatate routine.
A casa Christine lo mise a letto, mentre Paul cucinava, illuminava
il giardino di candele e appendeva qualche lanterna al frangipani.
Preparò due semplici ricette tra quelle che preferivano: mango
fresco con mozzarella, peperoni rossi e basilico, e spaghetti
all’arrabbiata come piatto principale. Stappò una bottiglia del loro
vino toscano preferito.
Si impegnava, come se non fosse successo niente.
Christine distribuì l’antipasto sui piatti. «Credi che nasciamo tutti
peccatori?»
Lui si bloccò. «È una domanda seria?»
«Sì».
«Peccatori? No, non credo. Come ti viene in mente?»
«Il reverendo Lee a Hongyang ha detto che così stava scritto nella
Bibbia».
«Credo sia vero. Ma non trovi anche tu che sia un punto di vista
spaventoso?»
«Più che altro realistico».
Paul piegò la testa all’indietro e osservò il cielo notturno
punteggiato da qualche stella solitaria. Lei rimase a guardarlo. «No»
obiettò lui. «Sono convinto che ogni persona sia in grado di fare le
cose più belle e generose. Ma anche le più terribili. Dipende dalle
circostanze. Un ambiente malvagio crea persone malvagie».
Christine si era aspettata una risposta del genere. Però aveva
un’opinione diversa.
«Ma chi crea un ambiente malvagio? Le persone malvagie».
Lui sorrise. «Cosa è nato prima, l’uovo o la gallina?»
Lei non sapeva come indirizzare altrove l’oggetto della
conversazione e cominciò a mangiare.
«Hai avuto notizie da Pechino oggi?»
«No. Te lo avrei detto subito».
«Mi chiedo dove sia Da Lin…»
«Christine» la interruppe lui, vagamente irritato.
«Perché ti arrabbi subito tutte le volte che nomino Da Lin?»
«Non sono arrabbiato» protestò lui. «Però non serve a niente
continuare a fare illazioni. In questo momento non possiamo fare
niente per lui».
«Tu non ti rimproveri mai?»
Quella domanda lo colse di sorpresa. Lei se ne accorse dal suo
sguardo smarrito, dal modo in cui piegò la testa di lato. «No» rispose
alla fine.
«Perché no?» domandò lei meravigliata.
«Quello che è successo non è stata colpa nostra. Siamo stati
vittime, esattamente come Da Lin. Mi farei dei rimproveri solo se
avessimo avuto la possibilità di comportarci diversamente. Ma non lo
credo. Dove abbiamo sbagliato?»
«Che cosa significa sbagliare? Se però non fossimo andati da lui
alla fattoria…»
«Christine, scusa se t’interrompo di nuovo, ma non ha senso.
Eravamo in fuga. Non avevamo scelta».
Con la forchetta lei spinse il mango qua e là sul piatto senza
parlare. Il frutto era squisito, ma le era passato l’appetito. «Hai avuto
notizie da Zhang?»
«No, nemmeno».
«Pensi spesso a lui?»
Paul posò la forchetta, bevve un sorso di vino e si appoggiò
all’indietro sulla sedia. «Sì, mi manca. Solo quando l’ho rivisto mi
sono reso conto di quanto mi fosse mancato. Quella complicità tra di
noi».
«Sei preoccupato?»
«Sì, quando ci siamo incontrati a Shi non stava bene. Era solo. E
dopo tutto quello che è successo, le cose non sono certo migliorate
per lui».
«Perché non provi a chiamare Mei o suo figlio, per sapere se
hanno notizie?»
Lui scrollò il capo. «Penso che si farebbe vivo prima con me».
Mangiarono in silenzio gli spaghetti.
«Paul» disse lei alla fine, «ci ho riflettuto bene».
«So già a che cosa ti riferisci».
«Ah, sì?»
«Vorresti andare via da Hong Kong».
«Sì».
Lui raddrizzò la schiena, si scostò i capelli dalla fronte e la guardò
assorto, senza dire niente.
«Ho paura. Tu no?»
«No» rispose Paul.
Qualcosa nel suo tono la colpì. «Proprio mai?»
Paul ci pensò a lungo. «Ogni tanto, forse». Fece un’altra pausa.
«Ma non voglio lasciarmi terrorizzare. Voglio essere io a decidere
dove vivere e dove no. Se…»
«Anch’io» lo interruppe lei. «Pensavo che con il tempo le cose
sarebbero migliorate, ma non è così. Siamo tornati da più di due
mesi e basta un viso sconosciuto sul traghetto per farmi piombare
nel panico. Ho la sensazione che le cose stiano peggiorando».
«Mhm». Lui bevve un sorso di vino. «Hai mai pensato di
consultare un professionista per farti aiutare?»
«Che genere di professionista?» chiese lei interdetta.
«Ci sono terapeuti specializzati a trattare pazienti con fobie».
«Sei matto?» Christine gettò il tovagliolo sul tavolo con un gesto
rabbioso. «Non ho bisogno di un terapeuta. Le mie non sono
suggestioni. Hanno cercato di rapire nostro figlio. Se non fossimo
stati così fortunati, ora saremmo rinchiusi in una prigione cinese per
chissà quanti anni, senza possibilità di uscire. Te lo sei
dimenticato?»
«No, però…»
«Però cosa?»
«Qui siamo al sicuro».
«Come fai a saperlo?» replicò lei.
«Perché Hong Kong non fa parte della Cina».
«Ah, no?»
«Non completamente, almeno. Ci sono accordi. Esistono trattati
che garantiscono l’autonomia di Hong Kong. “Un Paese, due
sistemi”».
«Parli sul serio?»
Lui rimase zitto.
«Mi credi paranoica, vero?»
«No» rispose Paul debolmente, senza la minima convinzione.
Questo la fece infuriare ancora di più.
«Ad aver bisogno d’aiuto sono le persone che si fanno prendere
dal panico senza motivo. I miei timori hanno una causa concreta.
Non mi sto inventando niente».
«Perché credi che a Sydney ti sentiresti più al sicuro?»
«Che razza di domanda è? Perché è molto lontana e non fa parte
della Cina».
«Hong Kong è casa mia» replicò lui quasi con arroganza.
«Anche mia! Non credere…»
«Merda!» esclamò lui all’improvviso e si alzò.
Si mise a camminare nervoso su e giù per la terrazza. «Non voglio
andarmene da qui».
5.
Non era mai stato con David sul Victoria Peak. Christine ce lo aveva
portato spesso, salivano in cima con la funicolare e tutte le volte
tornavano a casa entusiasti. Era l’ultimo giorno e Paul voleva fare
una gita con lui sulla vetta più alta di Hong Kong. Christine era
impegnata con sua madre e non aveva tempo per accompagnarli.
Per Paul non esisteva luogo migliore per congedarsi dalla città. Il
migliore e il più doloroso.
Era salito spesso fino in cima con il primo figlio. Le frequenti
escursioni sul crinale con il panorama della città, del porto e del Mar
Cinese meridionale, avevano riempito Justin di meraviglia fin dai due
anni di età. Tutti gli anni, il giorno della sua morte, Paul saliva da
solo sul monte.
Presero un taxi dal traghetto al capolinea del Peak Tram a Central.
Da lì un sentiero pedonale saliva fino in vetta. Il dislivello
complessivo era di cinquecento metri, una distanza che in passato
non gli aveva mai creato problemi, anzi, certi giorni la copriva
portando Justin sulle spalle. Erano passati dieci anni da allora.
Percorsero la scalinata parallela ai binari, con i gradini sempre più
ripidi. Paul sudava e ansimava, David voleva sapere quando
sarebbero arrivati in cima.
«Manca poco» rispose Paul trafelato.
Imboccarono il Chatham Path, che si inoltrava nella fitta
vegetazione deviando dalla strada. David non ce la faceva più e
volle essere preso in braccio. Paul se lo caricò sulle spalle. Da lì fino
alla vetta non c’era più una strada dove poter prendere un autobus o
un taxi in caso di necessità. Ogni pochi metri si fermavano per una
breve sosta. Ciononostante, nel giro di pochi minuti Paul era così
spompato che tornarono indietro e presero un taxi su May Road.
Alla Peak Galleria comprarono un gelato, poi si diressero verso
Lugard Road, un sentiero che un tempo conduceva fino in cima.
Paul rallentò il passo. Qualcosa in lui esitava. Udì la voce di Justin.
Poco prima di morire gli aveva chiesto se potevano tornare un’altra
volta insieme in cima al Peak.
«Ma certo» aveva risposto Paul. Suo figlio aveva alzato
debolmente il capo, gli aveva sorriso e aveva chiesto: «Davvero?»
Voleva sapere la verità? Voleva sentirsi dire: no, Justin, no, non
credo che ce la faremo, sei troppo debole e io non posso portarti in
salita per cinquecento metri. Non c’è più speranza. Non torneremo
mai più insieme sul Peak. Era evidente che non era ciò che voleva
sentire. Nessuna persona sana di mente sarebbe riuscita a dire una
cosa del genere a un bambino di otto anni.
«Ma certo» confermò Paul una seconda volta. Justin fece un
breve sorriso e reclinò la testa sul cuscino. Una piccola bugia
bianca, la risposta giusta, chi poteva dubitarne, e tuttavia Paul non
riusciva ancora a perdonarsela. Lo aveva ingannato, gli aveva infuso
una stupida, dissennata speranza invece di dirgli la verità, di
condividerla e di renderla così più sopportabile.
David guardò con stupore il padre ammutolito.
«Che cos’hai?»
«Niente».
«Allora vieni, dai».
«Aspetta, non so bene dove…» ribatté Paul evasivo.
«Ti prego, papà. Voglio mostrarti una cosa». David s’incamminò
senza voltarsi indietro; stava già per scomparire oltre la prima curva,
quando Paul si mise in movimento per raggiungerlo.
Dopo un paio di svolte, il panorama della città e del porto apparve
davanti a loro. Tutte le volte Paul ne restava sopraffatto.
Davanti a loro due lucertole erano ferme in mezzo al sentiero.
«Il coniglio pasquale arriva anche a Londra?» si informò David.
Paul si fermò e si accovacciò, per guardare il figlio negli occhi.
«Certo che arriva anche a Londra».
«Come fa a sapere dove abitiamo?»
«Possiamo scrivergli».
«Ma io non so ancora scrivere».
«Allora puoi disegnargli Londra e la nostra casa».
David annuì tranquillizzato. «Quanto tempo resteremo a Londra?»
«Un anno. Poi vedremo».
«Perché la nonna non viene con noi?»
«Qualcuno deve restare qui per badare alla nostra casa. Ci
penserà la nonna con una sua amica di Hang Hau».
«Baderanno anche ai miei giocattoli?»
«Anche ai tuoi giocattoli».
Per un po’ David proseguì camminando assorto accanto a lui.
«Papà, quando compio cinque anni?»
Paul gli scostò i capelli dal viso. «Manca ancora un po’».
David si concentrò al massimo. «E quando ne compio sei?»
«L’anno dopo. E poi sette, otto, nove e a un certo punto avrai la
mia età».
«Tu quanti anni hai?»
«Tanti».
«Come la nonna?»
«Di più».
«Sei coooosì vecchio?» Il figlio lo esaminò con attenzione. «E
quando compio di nuovo quattro anni?»
«Mhm». Paul trattenne una risata, vedendo quanto fosse seria la
questione per il figlio. «Ho paura che non succederà».
«Perché no? Non si ricomincia daccapo?»
Paul rimase in silenzio. David aspettava una risposta.
«Papà?»
«No, non si ricomincia daccapo».
«Perché no?» Nello sguardo di David c’era più sorpresa che
delusione. «Un film si può rivedere daccapo».
«Hai ragione». Paul lo prese in braccio e lo strinse a sé.
«Ti ho mai raccontato che ho avuto un altro figlio prima di te?»
«Anche lui si chiamava David?»
«No, Justin».
«E dov’è ora?»
«È morto».
«Perché?»
«Era malato».
David annuì distratto. Mangiò con calma il gelato e alla fine si
leccò accuratamente tutte le dita, una dopo l’altra.
«Con lui venivo spesso quassù».
David si guardò intorno. «Giochiamo a qualcosa?»
Il padre lo posò a terra. «A cosa? Aeroplanino? Cavalluccio?»
«Acchiappino» disse David correndo via.
Paul lo guardò. Era passato appena un giorno da quando lo aveva
tenuto in mano, un esserino nudo, impiastricciato di sangue, la pelle
chiara, in alcuni punti azzurrognola, le manine rattrappite. Un
miracolo del peso di tre chili e trecentotrentatré grammi lungo
quarantanove centimetri, fragile e delicato. Adesso scappava via e
lui doveva sbrigarsi, se non voleva perderlo di vista.
«Vieni a prendermi!» esclamò suo figlio.
Paul si lanciò all’inseguimento, con due falcate lo raggiunse e lo
prese in braccio. David scalciava e gridava di gioia.
«Ancora».
Lo lasciò libero e David si rimise a correre.
Continuarono così, a lungo. Paul lo afferrava e poi lo lasciava
andare.
E ogni volta si sentiva un po’ più libero. Era come se un fardello si
sgretolasse a poco a poco, un peso che si era accumulato su di lui,
come una crosta spessa e opprimente, durante le settimane, forse i
mesi e gli anni precedenti, senza che se ne rendesse conto. La
risata di suo figlio. La vita tra le sue mani. La gioia del gioco,
l’allegria, la spensieratezza lo portavano via.
Paul raggiunse David e lo afferrò. Lo sollevò tra le braccia un’altra
volta, lo lanciò in aria, lo riprese al volo, lo strinse più forte. Non lo
avrebbe mai lasciato andare.
«Non così forte, papà. Mi fai male».
Lo depose a terra, spaventato. «Scusa, tesoro, non volevo».
David gli lanciò un’occhiata perplessa.
Poi scoppiò a ridere. «Prendimi, se ci riesci!»
E scappò via.
Ringraziamenti
Sono più di vent’anni che mi reco in Cina. All’inizio ci sono stato come giornalista, poi come
scrittore. Durante questo periodo ho ricevuto l’aiuto di tante, tantissime persone. Mi hanno
raccontato le loro storie, mi hanno fatto entrare nelle loro vite. Hanno condiviso con me le
loro paure, i loro dolori, i sogni e le speranze. Questi libri sono dedicati anche a loro. È
impossibile nominarle una a una e in certi casi, per la loro stessa incolumità personale, mi
hanno chiesto di non essere citate. A titolo simbolico vorrei ringraziare Zhang Dan per tutti
quanti. Lei mi ha accompagnato in quasi tutti i miei viaggi come interprete, ricercatrice e
amica, e mi ha spiegato con infinita pazienza il suo Paese, la sua cultura e la storia recente
della Cina. Senza il suo intrepido aiuto, i romanzi della mia trilogia sulla Cina non sarebbero
stati scritti.
Naturalmente sono riconoscente anche alla mia editor Hanna Diederichs, che ha
collaborato insieme a me a tutti e tre i volumi con la sua accuratezza, la sua precisione e la
sua passione.
Con il passare degli anni mio figlio Jonathan è diventato un lettore estremamente attento
e critico dei miei manoscritti e mi dà un grande aiuto con le sue domande e i suoi spunti.
Un grazie particolare va a mia moglie Anna. È la mia prima lettrice. Le sue osservazioni
critiche, le sue idee, la sua pazienza, le sue parole di esortazione e di incoraggiamento nei
momenti di profonda crisi rappresentano un contributo irrinunciabile alla realizzazione dei
miei libri.
Table of Contents
Copertina
Trama
Autore
Collana
Frontespizio
Colophon
Dedica
Prologo
La città. Due settimane prima
Capitolo 1
Capitolo 2
Capitolo 3
Capitolo 4
Capitolo 5
Capitolo 6
Capitolo 7
Capitolo 8
Capitolo 9
Capitolo 10
Capitolo 11
Capitolo 12
Capitolo 13
Il villaggio
Capitolo 1
Capitolo 2
Capitolo 3
Capitolo 4
Capitolo 5
Capitolo 6
Capitolo 7
Capitolo 8
Capitolo 9
Capitolo 10
Capitolo 11
Capitolo 12
Capitolo 13
Capitolo 14
Capitolo 15
Capitolo 16
Capitolo 17
Capitolo 18
Capitolo 19
Capitolo 20
Capitolo 21
Capitolo 22
Capitolo 23
Il monastero
Capitolo 1
Capitolo 2
Capitolo 3
Capitolo 4
Capitolo 5
Le case fantasma
Capitolo 1
Capitolo 2
Capitolo 3
Capitolo 4
Capitolo 5
Capitolo 6
Capitolo 7
Capitolo 8
Capitolo 9
Capitolo 10
Capitolo 11
Capitolo 12
Capitolo 13
Capitolo 14
Capitolo 15
Capitolo 16
Capitolo 17
Pechino
Capitolo 1
Capitolo 2
Capitolo 3
Capitolo 4
Capitolo 5
Capitolo 6
Capitolo 7
Capitolo 8
Capitolo 9
Capitolo 10
Capitolo 11
Capitolo 12
Capitolo 13
Hong Kong
Capitolo 1
Capitolo 2
Capitolo 3
Capitolo 4
Capitolo 5
Capitolo 6
Capitolo 7
Capitolo 8
Capitolo 9
Ringraziamenti
Catalogo Neri Pozza Editore