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David J.

Centanaro

Rocky

Rocky stava ore nel bar, senza aspettarsi niente dalla vita. Guardava la gente che entrava e che
usciva ed era felice. Tutti lo conoscevano e gli volevano bene. La sua padrona lo amava di un
amore ruvido e brutale. Era bello vedere come fosse indifferente a quel cane, a volte. Era
l'indifferenza buona e generosa di una madre vecchia e stanca per un figlio scapestrato avuto in
tarda età. Lei non aveva avuto figli, ma era più madre con quel cane di tante madri con i loro figli.
Quando la vecchia morì la chiesa era incredibilmente piena di gente, non c'era posto nemmeno in
piedi, cose che non capitano mai al funerale di una vecchia sola. Fra tutta quella gente più di uno si
domandò che fine avrebbe fatto Rocky, piccolo bastardo mordace e indisciplinato. Lo prese l'unica
nipote di Luciana, insieme alla casa, un appartamento piccolo all'ultimo piano di un condominio
anni cinquanta, da cui si vedeva il mare. Era il solo bene della vecchia, oltre il cane.

Ai tempi in cui quel cane passava le giornate al bar, ai piedi della sua padrona, si poteva ancora
fumare nei locali. Luciana fumava lunghe sigarette bianche da donna, unica sua nota femminile.
Per il resto era un uomo, a cominciare dalla voce rauca, da fumatore. Era una donna massiccia,
pesante, dai modi bruschi, infastiditi. Era bassa, tozza, gonfia per l'alcool, con una quantità di
piccole venuzze viola che le macchiavano il volto.
Portava capelli i corti, che aveva bianchi e che tingeva da sé di un biondo cenere ridicolo sulla sua
persona, sempre con un evidente segno di ricrescita. Vedeva poco, aveva occhiali dalla montatura
pesante e pretenziosa e dalle lenti spesse, che metteva e toglieva in continuazione mentre parlava,
strizzando i suoi piccoli occhietti scuri e piegando la bocca all'ingiù. La sua bocca larga, dalle
labbra sottili e circondate da una raggiera di piccole rughe in cui quell'orribile rossetto violaceo che
metteva quotidianamente risaliva come la linfa nell'albero disegnandole un'ombra scura. La sua
bocca stava all'ingiù sempre, anche quando rideva. Una risata rauca come la sua voce. Avevi
sempre paura che ti sputasse addosso qualcosa, quando rideva.
Soffriva di varici nelle gambe e per questo camminava incerta e dondolante, oltre al fatto che era
grossa e quasi mai sobria.
Portava solo i pantaloni, le gonne, non sapeva cosa fossero. D'estate, quando era senza calze e stava
seduta al tavolino del bar, l'orlo delle sue braghe si sollevava e potevi vedere, già subito al di sopra
delle sue caviglie gonfie, vene grosse come spago da pacchi che risalivano il polpaccio con un
percorso accidentato e sofferente, nere sotto la pelle bianca che non aveva mai preso il sole.
Con tutto questo era una donna di grande fascino, soprattutto per noi ragazzi. Raccontava le più
incredibili storie, tutte cose che giurava le erano capitate davvero. Noi stentavamo a crederle, ma
ci piaceva ascoltarle e offrirle un bicchiere con i nostri pochi soldi perché raccontasse ancora.
Quando parlava sputava le parole con dispetto, con un'indifferenza e un fastidio che rendevano il
racconto ancora più inverosimile, ancora più avvincente.
In quei giorni, come dice il Vangelo, in quei giorni caldi e cupi dell’estate del 1985, Luciana
meditava sullo stato delle sue finanze. Il marito, un bravo falegname che rientrava a casa solo per
dormire, era morto ormai da più di due anni e i pochi soldi che le aveva lasciato erano finiti.
Lei non aveva un reddito, non aveva mai lavorato, se si eccettua qualche corso di teatro, tenuto per i
più baldi fra i vecchi del ricovero o per i bambini delle elementari, creature innocenti e perfide,
terrorizzate dalla voce e dall'aspetto di quella vecchia. Tutta la vita era stata troppo impegnata a
vivere le sue pazzesche avventure, che adesso ci donava a piene mani, con la generosità di un
sultano.
Non era una persona di particolari esigenze, ma qualche soldo per le sigarette e per un caffè o un
bicchiere al bar le era necessario.
Così pensò di mettere a frutto il suo unico bene e di affittare una stanza del suo appartamento.
Chiese a noi ragazzi di spargere la voce se ci fosse qualcuno interessato a una bella cameretta vista
mare, bagno in comune, uso cucina, modesta richiesta economica.
Nel giro di un paio di settimane le trovammo l'inquilino, un ragazzo che era fuori del giro del nostro
bar. Aveva diciannove anni, lavorava come apprendista in un cantiere navale ed era stufo di stare a
casa con i suoi.
Avrebbe voluto un buchetto per sé, l'idea di perdere i genitori per acquistare una nonna non gli
andava molto a genio. Ma noi insistemmo, gli presentammo la vecchia come un essere
straordinario, fuori da ogni convenzione sociale e sottolineammo anche la convenienza economica
della faccenda, un prezzo basso e nessuna bolletta da pagare.
Quest'ultimo argomento lo convinse e Franz -non ho mai saputo il suo cognome e immagino che
quello non fosse nemmeno il suo vero nome- un pomeriggio, dopo il lavoro, si presentò al bar per
conferire con la vecchia.
Era un ragazzo basso, magro, con un grosso naso, un volto scavato che metteva in evidenza gli
zigomi, due occhi sporgenti e gonfi, una massa di capelli neri e ricci, che gli ricadevano in stretti
boccoli fino alle spalle. Un tipo di poche parole, che parlava solo se interrogato. Dopo scarni
saluti la vecchia lo tormentò per una manciata di minuti con poche domande, semplici e dirette.
«Ti affitto una stanza, non la casa. L'affitto a te e a nessun altro. Io ci vivo lì dentro, quindi
scordati di invitarci gente, farci feste o roba del genere. Ce l'hai la ragazza?»
«No.»
«Mi dispiace per te, giovanotto. È un'età in cui ne avete bisogno. Ma per me meglio così, non
avrai la tentazione di usare il mio letto per le tue porcherie, quando non ci sono. Non sei mica di
quelli che vanno a bagasce?»
«No, signora.»
«Chiamami Luciana. Quello non lo permetterei. Il mio letto, dico. Se non hai una ragazza e ti
vuoi sfogare e invece di arrangiarti da solo decidi che è il caso di sentire il sapore della carne di una
femmina, liberissimo. Ma non in casa mia. Hai capito bene?»
«Sì.»
«Questo voglio che sia chiaro. Non ho niente contro la prostituzione, si intende. Anzi, fa girare
un bel pezzo di economia. Ma ognuno a casa sua. Per cui se, come ti ho detto, ti scappa di usare
l'uccello a pagamento, spendi un po' di più e vai da una che lo faccia in casa. Lascia perdere le
battone di strada. Questo è un consiglio che mi sento di darti. Se vai con quelle ti tocca farlo in
macchina, che è una roba scomoda e poi dove ci si va a imboscare sono sempre gli stessi posti e c'è
pieno di guardoni. Uno schifo.»
Luciana disse queste ultime due parole come se sputasse. Il ragazzo fece sì con la testa, ma aveva
un'aria perplessa. Probabilmente si stava chiedendo il senso di tutto quel discorso. Manteneva però
la sua aria neutra, assente, che poteva sempre essere scambiata per un assenso interiore.
Luciana si tirò su con la schiena, si passò il fazzoletto sul collo per asciugarsi il sudore e gli chiese:
«A proposito: hai la macchina?»
Franz se ne uscì con un discorso piuttosto articolato, dato che quello era un argomento che gli
interessava:
«No, però ho la patente. Appena ho i soldi penso che me ne compro una usata.»
«Usata è meglio -assentì la vecchia- nuova non vale la pena. Con quello che costano le macchine.
Eppure c'è pieno di deficienti che se le prendono nuove. Sei un ragazzo con la testa sul collo.
Ascolta: io almeno una volta alla settimana vado a trovare la buonanima di mio marito. Controllo
che non scappi.»
Rise di quella usurata battuta, tossì più volte e si accese una sigaretta.
«Gli cambio i fiori e do una pulita, cosa vuoi che faccia? Lui non c'è più ed era l'uomo della mia
vita. Ma lasciamo perdere. Ti dicevo, vado al cimitero e ci vado in autobus. È una menata per
via del cane, mi tocca pagare il biglietto anche per lui, così fra andata e ritorno sono quattro
biglietti, quattromila ottocento lire. Un bel salasso.»
«Non può lasciare il cane a casa?» Chiese Franz con un tono di voce piuttosto neutro, anzi quasi
apatico, ma grattandosi la testa, segno che era dubbioso. Tutte quelle chiacchiere lo stavano
confondendo. Era stanco per la giornata di lavoro e voleva solo sapere se sì o se no e, se si faceva
l'affare, da quando.
«Lui sta sempre con me. Se lo lascio a casa piange tutto il tempo, fa impazzire la vicina, che è una
rompicoglioni e poi lei fa impazzire me con quelle sue lamentele da vecchia. Ha dieci anni meno
di me ed è una già vecchia. Rocky sta bravo e non da fastidio a nessuno, basta che lo lasci stare.
È come me.» Di nuovo rise e tossì e si accorse che la sigaretta era finita e schiacciò il mozzicone
nel portacenere di vetro sul tavolino.
Franz guardò sotto il tavolo e vide il cane, immobile fra i piedi della vecchia.
Si fissarono per un momento e poi Rocky abbaiò, per una volta sola, con una certa allegria.
«Gli piaci -disse la vecchia con aria soddisfatta- Se uno non gli piace si capisce subito, abbaia
come un matto e non la smette più. Rocky -disse al cane- fatti un po' vedere.» E con un piede lo
spinse fuori dal riparo del tavolino.
Rocky si alzò, annusò i pantaloni blu sporchi di grasso e ci si sfregò contro. Franz lo lasciò fare; se
ne stava in piedi con le braccia abbandonate lungo i fianchi e la testa bassa, lo sguardo rivolto a quel
piccolo cane dal lungo pelo grigio.
«Puoi accarezzarlo se ti va» gli propose la vecchia.
Il ragazzo obbedì e toccò macchinalmente la testa al cane e le sue dita giovani e già dure per il
lavoro sentirono sotto quel lungo pelo il cranio ossuto della bestiola. Franz si meravigliò che fosse
così magro; tutto quel pelo ingannava.
«Be, adesso che avete fatto amicizia è tutto a posto. Prendi qualcosa?»
«No, grazie» rispose lui con il solito tono assente.
«Allora andiamo.»
Luciana si alzò, lasciò mille lire sul bancone e uscì fuori, seguita dal ragazzo e dal cane.
Tirò fuori un lungo guinzaglio e si chinò sul suo piccolo amico per agganciarlo al collare.
«Che cazzo, ogni volta mi ci vuole mezz'ora. L'anello è troppo piccolo.»
Si tirò su e passò il guinzaglio a Franz.
«Fai tu, ragazzo, aiuta una povera vecchia.»
Franz si inginocchiò a fianco del cane, lo accarezzò sulla nuca, girò il collare e trovato l'anello ci
agganciò il guinzaglio. Poi si tirò su e lo passò alla vecchia.
«Già che l'hai legato puoi anche portarlo» disse lei, fermandolo con un gesto della mano.
«Vieni, andiamo, ti faccio vedere la tua stanza.»
Attraversarono la piccola piazza quadrata e passarono dal sole all'ombra fresca delle case. Poi si
infilarono in una strada stretta, dirigendosi verso casa.

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