Documenti di Didattica
Documenti di Professioni
Documenti di Cultura
JSTOR is a not-for-profit service that helps scholars, researchers, and students discover, use, and build upon a wide
range of content in a trusted digital archive. We use information technology and tools to increase productivity and
facilitate new forms of scholarship. For more information about JSTOR, please contact support@jstor.org.
Your use of the JSTOR archive indicates your acceptance of the Terms & Conditions of Use, available at
https://about.jstor.org/terms
Casa Editrice Leo S. Olschki s.r.l. is collaborating with JSTOR to digitize, preserve and extend
access to Lettere Italiane
In un
nel corso di lezioni
Settecento »1 noneera
discussioni
necessario,sul
né tema « Sensibilità
forse era prevedibile,e che
razionalità
si
discorresse di proposito del Foscolo. Se Ludovico Ariosto, nato nel 1474,
avesse cessato di vivere nel 1500, il suo nome non figurerebbe in alcuna
storia della letteratura italiana. Pertanto a nessuno è mai venuto né può
venire in mente di appaiare l'Ariosto al suo immediato predecessore Boiar
do e di farne un epigono di quella poesia quattrocentesca che pur è neces
saria condizione, ma non sufficiente, di un'interpretazione storica della
cinquecentesca poesia del Furioso. Se il Foscolo, nato nel 1778, fosse
morto nel 1800, qualcosa di lui resterebbe: l'Ortis bolognese del 1798 e
la lettera dedicatoria premessa nel 1799 alla seconda edizione dell ode a
Bonaparte liberatore basterebbero a far testimonianza di un uomo e scrit
tore eccezionale. Ma di lì, e se anche fosse, con altre poesie di quegli anni,
sopravvissuto il sonetto che per l'appunto celebra la fine del secolo, « Che
stai? Già il secol l'orma ultima lascia », non sarebbe divinabile per noi il
Foscolo più vero e più grande, che appartiene ai primi anni dell'ottocento.
Pertanto ogni tentativo che sia stato fatto ο si faccia di ritrarre l'opera tutta
del Foscolo indietro, verso le sue origini, e insomma di considerare lui,
come pur fu detto, « ultimo fra i nostri grandi poeti veramente ed in tutto
uomo del settecento », è a mio giudizio un tentativo arbitrario e dispe
rato. Non so, né mi importa sapere, se si possa dare del Settecento ο di
altro secolo una qualunque definizione che sia storica e non insieme cro
nologica. Ma è chiaro che non si può fare uso nel discorso storico di una
terminologia cronologica, riservandosi l'arbitrio di alterare il significato dei
termini ogni qualvolta faccia comodo. A parte ciò, nel caso specifico, è
probabile che i tentativi di cui sopra siano stati promossi dalla preoccu
pazione legittima e ben giustificata di mettere e serbare a fuoco l'opera
adolescente, quai era il Foscolo allora, i mesi valgono anni. Tuttavia non
appaga l'ipotesi che il poeta, in erba sì ma già nel 1794 sorprendentemente
accorto e pronto a scegliere i suoi modelli nella poesia contemporanea,
fosse giunto a Venezia l'anno prima digiuno, non dirò di lingua, ma di
lettere italiane. Che cosa avesse imparato a Spalato e a Zante non sap
piamo, e probabilmente non sapremo mai. Nuove ricerche sull'ambiente
veneto-greco e dalmata sono augurabili, ma è chiaro che tali ricerche esi
gono un impegno e interesse storico più serio che non quello di alma
naccare sui primi rudimenti linguistici e letterari di un ragazzo; esigono
che si faccia storia di uomini, quali che fossero, mediocri e minimi, di
comunità greche e slave che cominciavano in quegli anni ad acquistare
più risentita e distinta coscienza di sé e dei rapporti non sempre idillici
che era toccato loro in sorte di avere con le autorità di Venezia. I recenti
studi ad esempio di M. Zoric (« Studia Romanica et Anglica Zagrabiensia »,
8, 1959, pp. 31-39 e 15-16, 1963, pp. 151-83) non soltanto valgono a illu
strare il buon maestro, Francesco Gianuizzi, del Foscolo a Spalato, e il
ricordo che nella città rimase di quel ragazzo « vivace sempre fino all'inco
modo ed alla impertinenza », e occasionali incontri con uomini e cose della
Dalmazia che risultano dalla vita e dall'opera tutta del Foscolo, ma ci fanno
intravvedere anche, con maggior profitto nostro una tradizione locale
inquieta e impaziente che, pur essendo armata di lingua e cultura italiana,
non per questo rinunciava a servirsi, come era suo diritto, di tali armi
ai fini propri, che potevano anche non essere quelli proposti ο imposti
dalla dominazione veneziana. Perché, come ebbe a dichiarare poi (1844)
Vincenzo Solitro, « la repubblica ci tenne servi e assoldati, figliuoli non
ci ebbe mai ». È probabile che anche per la dissidenza greca si debba fare
un analogo discorso, e certo è che in quegli anni, non soltanto nell'isola
natia, ma a Venezia, nella colonia greca tanto più forte ivi e pugnace
che qualunque rappresentanza della costa dalmatica, non saranno mancati
gli stimoli a quello spirito guerriero, prepotente e scontroso, per cui il
Foscolo giovinetto appare così isolato e diverso nel quadro della società
νρηρ7.ιαηίΐ
restante a' barbassori ed a' critici ». Dunque il Foscolo non soltanto s'illu
deva, come ogni novellino s'illude, che l'opera sua potesse trionfalmente
sopraffare l'oste confusa dei barbassori e dei critici, ma già aveva in mente,
nel 1795, una ben definita schiera di oppositori: quella dei puristi, ai quali
gettava in pasto, come guanto di sfida, il neologismo. Bisogna a questo
punto badare alle parole piuttosto che alle cose. È inutile risalire indietro
per li rami della polemica, variamente dibattutasi, di generazione in gene
razione, fra i difensori della purità della lingua e i fautori di un rinno
vamento e arricchimento di essa lingua. La fortuna in Italia della parola
neologismo ha origine, per quanto sappiamo, dalla dissertazione di Matteo
Borsa Del gusto presente in letteratura italiana, apparsa in Venezia sul
finire del 1784. Il Borsa aveva identificato e combattuto nel Neologismo
straniero il primo dei tre caratteri costitutivi del gusto presente, gli altri
due caratteri essendo il Filosofismo enciclopedico e la Confusione di generi.
Dal 1785 innanzi la Dissertazione del Borsa e le congiunte benché discordi
Osservazioni dell'Arteaga erano state al centro della discussione letteraria
in tutta l'Italia settentrionale, nel Veneto in ispecie. Subito nel 1785, da
Padova, entrò in campo il Cesarotti coi due memorabili saggi sopra la
lingua italiana e sulla filosofia del gusto, nel primo dei quali erano alcune
pungenti stoccate contro i puristi. Insieme i due saggi riapparvero nel 1788
a Vicenza, dove già si era opposto al Cesarotti il giovane abate G. B. Gar
ducci Velo. Il dissenso fra i due non era insanabile, e comunque verteva
piuttosto sul concetto di poesia e letteratura che non sulla lingua. Ma nel
1791 la polemica contro il Cesarotti fu vigorosamente ripresa, nei termini
propri di una questione linguistica, dal piemontese Galeani Napione. La
risposta del Cesarotti giunse tardi, nel 1800, con le note e appendici
aggiunte ai saggi del 1785 nel primo volume dell'edizione pisana delle sue
Opere. In quegli anni dunque, dal 1785 innanzi, e nel 1795 in specie,
dopo cioè l'attacco mosso dal Galeani Napione al Cesarotti, un accenno,
come quello del Foscolo, al neologismo e ai puristi, non poteva essere
fatto se non da chi intendesse esprimere il proprio consenso di massima
alle idee linguistiche del Cesarotti.
D'altra parte sappiamo che nel 1795 il Foscolo ancora non aveva alcun
rapporto personale col maestro di Padova. Né è da credere che l'ambiente
veneziano bastasse a far di lui, a distanza, un docile allievo di tanto
maestro. Forte era a Venezia la diffidenza di Padova, e gli oppositori del
Cesarotti erano ivi tanti almeno quanti i fautori di lui. E già si è visto
che, iniziandosi alla carriera letteraria, il Foscolo si era imposto e tuttavia
si imponeva una disciplina linguistica assai stretta. Non è da escludere che
anche nella sua sfida ai puristi come nella più tarda ostentazione della sua
origine straniera, egli mirasse a parare ο attenuare i colpi che critici
scrupolosi in fatto di lingua avrebbero potuto inferirgli. Ma non si trat
tava solo di questo. Anche allora, sopratutto allora, la questione linguistica
coinvolgeva fondamentali divergenze in questioni di tutt'altro genere. Su
alfieriana, dalla dedica del 1795 al Tieste, il Foscolo certo non poteva né
voleva passare per Padova. Il Tieste è un capolavoro alla rovescia: è la
peggiore cosa che il Foscolo abbia mai scritto, in versi ο in prosa. Ma
indubbia è la importanza polemica di una tragedia così fatta, su quel tema
greco, con quella struttura alfieriana, proprio nel momento in cui a Ve
nezia e a Padova, nella scuola stessa del Cesarotti, si tentava di far argine
al recente incomodo successo dell'Alfieri, ravvivando e sostenendo un
teatro tragico affatto diverso, moderno e di ascendenza francese. Il Tieste
del Foscolo insomma è inseparabile, per contrasto, dalla Dissertazione
sopra la tragedia cittadinesca di Pierantonio Meneghelli, collega in Ac
cademia del Cesarotti, apparsa a Padova nel 1795. Ed è a maggior ragione
inseparabile, per contrasto, dalle tragedie che in quel giro d'anni si rap
presentavano ο addirittura si stampavano a Venezia, da quelle in ispecie
di due uomini, anzi titolatissimi gentiluomini, Alessandro Pepoli e Gio
vanni Pindemonte, troppo vistosi perché anche un oscuro e irto princi
piante, qual'era il Foscolo, potesse ignorarli. Appena occorre ricordare
che antialfieriano era allora per eccellenza e fino al ridicolo il Pepoli, e
che d'altra parte, dal 1791 innanzi, ripubblicando coi nobili tipi del
Bodoni a Parma, poi a Venezia nella sua propria Tipografia Pepoliana
le sue sciagurate tragedie, egli aveva ottenuto per la seconda, Carlo e
Isabella, rivale del Filippo alfieriano, una lettera di accompagnamento e di
encomio del Cesarotti. Perfino un antialfieriano irreducibile come il Bet
tinelli si era fatto beffe della catastrofe escogitata dal Pepoli per quella
tragedia. Al Cesarotti invece l'idea, senza dubbio nuova e moderna, di far
morire Carlo e Isabella per lo scoppio di una mina, era piaciuta. Delle
ultime tragedie del Pepoli apparse a stampa a Venezia nel 1795-1796,
quando il Foscolo componeva il Tieste, possono bastare i titoli: Rotrude,
Zulfa, Dara\ dalla Pavia longobarda al serraglio di Algeri e all'India.
Più lungo e meno facile discorso richiederebbero le tragedie di Gio
vanni Pindemonte. Omettendolo qui senz'altro e riducendomi su un ter
reno più volgarmente noto, ricorderò che YArminio dell'altro Pindemonte,
Ippolito, apparve si a stampa nel 1804, ma con in fronte al prologo di
Melpomene la data 1797, che non è, per la concezione e prima stesura,
una data fittizia. Sappiamo che proprio in quell'anno e nel seguente il
Pindemonte non soltanto compose la sua tragedia, ma anche la sottopose
a una revisione, che al solito fu meticolosissima, del Cesarotti; onde il
14 maggio 1798 scriveva all'amico Zacco: « Quanto mi costa piacere a
Cesarotti! ». E per contro ancora nel 1805, scrivendo il 21 marzo allo
stesso amico, il Pindemonte ricordava il successo avuto sette anni prima
dal Tieste, « ascoltato dieci sere consecutive con sommo applauso, e del
quale oggidì l'autore si vergogna altamente », come una riprova esemplare
« che gl'Italiani, quando sono al teatro, non fanno più uso della ragione ».
Mi pare chiaro che quel successo lo aveva scottato, e anche più chiaro,
quando si tenga conto della struttura e significato àtWArminio, che nel
vista e conversazione del grande Morelli. Per uno che ancora non fosse
riuscito a incuriosirsi, a breve distanza, da Venezia a Padova, d'un maestro,
a paragone di tutti gli altri nel dominio veneto di statura altissima, come
era il Cesarotti, Venezia doveva apparire in quegli anni ostile e deserta.
Ma riguardandola di lì a poco più attentamente, con gli occhi di un allievo,
non dell'Alfieri, ma per l'appunto del Cesarotti, i lineamenti e i colori del
quadro cominciavano a emergere dall'ombra. Non era soltanto il quadro,
che nell'editoria e nei giornali di Venezia si rispecchiava più fedelmente e
prontamente che altrove, di un po' tutta la contemporanea cultura italiana.
Era anche, più stimolante ai fini pratici immediati, il quadro delle dissi
denze locali e di generazioni diverse nell'ambito del sistema veneto, larga
mente aperto per la sua tradizione editoriale e giornalistica all'immigra
zione da altre parti d'Italia. A Padova, Vicenza, Verona, Brescia, e via
dicendo, esistevano discordi e indipendenti scuole e gruppi, che per sé,
per la loro tradizione e attività, poco ο nulla potevano offrire al Foscolo.
Ma a Venezia l'indipendenza di scuole e gruppi cessava, e la discordia in
tanto poteva manifestarsi, in quanto si traducesse in polemica di scritti
e di idee, magari anche di intrighi, ma a fronte di un'autorità centrale
che pur nella sua ultima decadenza riservava a sé sola il diritto della
indipendenza e della decisione.
In quella polemica il Cesarotti, per la sua autorità personale e acca
demica, aveva gran parte, e il Foscolo, che allievo di lui era diventato, ma
non certo succube allievo, poteva ora intendere chiaramente scritti e idee
importanti per lui, quand'anche provenissero da mediocri personaggi, dal
vecchio ma sempre arzillo reazionario Andrea Rubbi ο dal rivoluzionario
Compagnoni, ο addirittura da Angelo Dalmistro che a lui Foscolo era
stato primo maestro a Venezia nel Collegio di S. Cipriano, e che ancora,
come tanti altri in quegli anni, oscillava fra il volgar dei moderni e il
sermon prisco.
Gli esempi potrebbero essere moltiplicati, ma i tre, naturalmente non
scelti a caso, possono bastare. Perché anche i primi due certo furono
allora, e il Compagnoni per molti anni ancora, a Bologna e a Milano,
per tutto il periodo napoleonico, ben presenti al Foscolo. E di tutti tre si
può dire che, essendo affatto diversi da lui e tendenzialmente avversi,
pure contribuirono in qualche modo a far del Foscolo negli ultimi due
anni del suo noviziato veneziano l'uomo addestrato a recitare la parte
sua sulla scena della letteratura italiana nell'età rivoluzionaria. Chiaro,
e però esile, proporzionato all'esilità dell'uomo, il contributo del Dal
mistro. Ma la prima apparizione in pubblico del Foscolo poeta non
può essere dissociata dall'attività dell'abile e servizievole primo editore
di quella fortunatissima raccolta periodica, VAnno poetico, che per l'ul
tima volta richiamò a Venezia da ogni parte d'Italia i trilli e gli strilli
della poesia arcadica. Di gran lunga più importante, se anche meno ovvio,
il contributo degli altri due, da molti anni in continua zuffa fra loro.
col Parini: « Parini non mi piacque. Non era egli figlio dell'amenissimo
Eupili, ma della breccia che forse ne fa il fondo ». A mezza via, fra la de
vozione figliale del Foscolo per il Cesarotti e la figurazione del Parini
nell'Orbi milanese, non sarà inutile rilevare anche, in un paragone a
distanza del Compagnoni e del Foscolo, che lo stile singhiozzante delle
Veglie del Tasso (Parigi 1800) è senza dubbio parente strettissimo, a mia
notizia il più stretto, dello stile del primo Ortis, àzWOrtis bolognese
del 1798.
Caduta la repubblica, anche venne meno d'un colpo la funzione e va
lidità letteraria di Venezia. Cadde come uno specchio infranto. Se non
10 avesse costretto alla fuga il Trattato di Campoformio, non si vede come
11 Foscolo avrebbe potuto rimanerci. Difatti Venezia, come città, non contò
per lui più, se non per il mito, valido a distanza, di una madre, di una
casa, di un cimitero. Contò il mito congiunto dell'esilio, e la trasfigura
zione ideale, che si compie d'una in altra redazione dell'Orar, di Venezia
nella patria. Ma la patria del secondo e autentico Ortis è indubbiamente
l'Italia: un'Italia imperniata su Milano e Firenze. Di Venezia non resta
più nulla. Né di Padova, « scomunicato paese ». Né il Professore C.,
cioè il Cesarotti, incidentalmente ricordato, ha un posto suo nel libro.
Resta, per l'amore e per la morte, il paesaggio della terraferma veneta,
dei colli Euganei. Ma la conquista, al di là di qualunque cerchia muni
cipale, fosse pur Milano ο Firenze, di quell'ideale patria, e il ritorno stesso
del Foscolo esule alle sue origini, Alfieri, Parini, Bertola, risultano da una
prosa di romanzo scritta con un inchiostro ignoto alla vecchia Italia.
Questa prosa, materia e stile, ancora fa testimonianza dell'ultima vigilia
veneziana e padovana, alla scuola moderna del Cesarotti, in cui si era
conchiuso il noviziato dello scrittore.
Carlo Dionisotti