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Venezia e il noviziato poetico del Foscolo

Author(s): Carlo Dionisotti


Source: Lettere Italiane , GENNAIO-MARZO 1966, Vol. 18, No. 1 (GENNAIO-MARZO 1966),
pp. 11-27
Published by: Casa Editrice Leo S. Olschki s.r.l.

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Venezia e il noviziato poetico
del Foscolo

In un
nel corso di lezioni
Settecento »1 noneera
discussioni
necessario,sul
né tema « Sensibilità
forse era prevedibile,e che
razionalità
si
discorresse di proposito del Foscolo. Se Ludovico Ariosto, nato nel 1474,
avesse cessato di vivere nel 1500, il suo nome non figurerebbe in alcuna
storia della letteratura italiana. Pertanto a nessuno è mai venuto né può
venire in mente di appaiare l'Ariosto al suo immediato predecessore Boiar
do e di farne un epigono di quella poesia quattrocentesca che pur è neces
saria condizione, ma non sufficiente, di un'interpretazione storica della
cinquecentesca poesia del Furioso. Se il Foscolo, nato nel 1778, fosse
morto nel 1800, qualcosa di lui resterebbe: l'Ortis bolognese del 1798 e
la lettera dedicatoria premessa nel 1799 alla seconda edizione dell ode a
Bonaparte liberatore basterebbero a far testimonianza di un uomo e scrit
tore eccezionale. Ma di lì, e se anche fosse, con altre poesie di quegli anni,
sopravvissuto il sonetto che per l'appunto celebra la fine del secolo, « Che
stai? Già il secol l'orma ultima lascia », non sarebbe divinabile per noi il
Foscolo più vero e più grande, che appartiene ai primi anni dell'ottocento.
Pertanto ogni tentativo che sia stato fatto ο si faccia di ritrarre l'opera tutta
del Foscolo indietro, verso le sue origini, e insomma di considerare lui,
come pur fu detto, « ultimo fra i nostri grandi poeti veramente ed in tutto
uomo del settecento », è a mio giudizio un tentativo arbitrario e dispe
rato. Non so, né mi importa sapere, se si possa dare del Settecento ο di
altro secolo una qualunque definizione che sia storica e non insieme cro
nologica. Ma è chiaro che non si può fare uso nel discorso storico di una
terminologia cronologica, riservandosi l'arbitrio di alterare il significato dei
termini ogni qualvolta faccia comodo. A parte ciò, nel caso specifico, è
probabile che i tentativi di cui sopra siano stati promossi dalla preoccu
pazione legittima e ben giustificata di mettere e serbare a fuoco l'opera

1 È il Corso Internazionale di Alta Cultura tenutosi presso la Fondazione Giorgio


Cini di Venezia nel settembre del 1965.

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12 Carlo Dionisotti

del Foscolo nel periodo storico cui essa


nonostante la parziale corrispondenza
l'opera di un Manzoni ο di un Leop
inglese e l'influsso che di lontano,
morte, il Foscolo indubbiamente eser
tocento, non bastano a rescindere l'op
chiude con la catastrofe del regime
segue affatto che la decisiva frattu
Italia la rivoluzione romantica e risor
considerata sufficiente a uno spedito
storia italiana.
Nella vita degli uomini contano i fat
e tanto più contano quanto più ne r
ragioni del vivere. Come per noi il 19
senza dubbio contò per il Foscolo e pe
la fine del regime napoleonico. Ma m
coetanei e maggiori, la Rivoluzione, v
turalmente il 1789, che in Italia non
più di quanto già l'avesse commossa la
rore sì, e finalmente, anche per chi in
il 1796-97, l'inizio per tutti, volen
dopo questo terremoto i più, non e
di puntellare e riparare gli edifici rim
piazza pulita e ricostruire ex novo, è v
il fatto, di riprovarlo in nome del co
età. Ma vero anche è che il terremoto
tal modo che la restaurazione del buon
non soltanto a Venezia, ma in varia m
negli ordinamenti politici, ma anche
La storia della letteratura è anzi tut
della società letteraria. In Italia, nel 1
e democratica di una società letteraria
gli abati senza abbazie e i frati e i mo
religiosa, avevano avuto, accanto agli
maggioranza assoluta. Non si può dire
cattivo uso dei loro privilegi e della st
metà del Settecento era stata loro c
l'abate Parini, ma all'abate Casti. Né è
tando in piazza buon numero di que
facesse d'un colpo uomini nuovi. Sem
il periodo napoleonico e anche dopo, a
bene ο male mantiene, nell'esercizio
avverte in Italia ο la goffaggine ideol
malinconica sterilità, ο l'una e l'altra c

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Venezia e il noviziato poetico del Foscolo 13

ingombro, nella sua esiguità, di troppi frati sfratati ο ex-abati. Ma era


il prezzo inevitabile d'ogni rivoluzione. Come anche fu il prezzo, assai
più grave, che in quegli anni l'Italia pagò, di biblioteche e scuole distrutte,
di una precipitosa decadenza degli studi e di un crescente isolamento e
distacco della erudizione e alta cultura dalla critica e letteratura militante,
il prezzo insomma di quella povertà rozza e triste, e però anche ribelle,
che dilagò e prevalse poi, dopo la Restaurazione, dopo il 1820 in ispecie,
in un'Italia ormai ridotta a provincia, balcanizzata, veramente agli occhi
dell'Europa la terra dei morti, e agli occhi gelosi degli Italiani la loro
patria.
La rivoluzione politica e militare del 1796-97 non produsse, né poteva
produrre in Italia alcuna dottrina ο moda letteraria nuova. Neppure pro
dusse, non poteva d'un colpo produrre, una società letteraria nuova. Ma
sconvolse e dissolse quella vecchia, e mutando violentemente le condizioni
di vita e i rapporti degli uomini, di fatto istituì in Italia le fondamenta
di una nuova società letteraria e di una nuova letteratura. Se il Foscolo
fosse venuto al mondo dieci anni prima, molto probabilmente egli sarebbe
uscito dal Seminario di Spalato per entrare a Venezia segretario ο precet
tore, in qualche casa patrizia, con titolo di abate e con soprannome arca
dico, e di qui probabilmente sarebbe uscito poi, nel 1797, per ingrossare
la schiera dei Gianni e dei Monti, « persone — per dirla col Cesarotti —
il di cui nome non ebbe mai altra fama che poetica, scrittori incendiari,
entusiasti di tutte le massime rivoluzionarie le più esagerate, detrattori
violenti della religione dei loro padri », arcadi insomma e abati sempre,
fino all'osso, comunque si rivestissero, uomini veramente e in tutto, come
del resto anche, e a maggior ragione, il vecchio Cesarotti, dell'età rivolta.
Il Foscolo invece, benché non avesse un nome, né un'arte, né mezzi di
fortuna, di giusta misura si trovò, precipitando gli eventi, a poter disporre
della sua vocazione letteraria liberamente, gettandosi allo sbaraglio, con la
testa alta, in una società che si era d'improvviso fatta selvatica, aperta
non soltanto, com'era stata prima, all'avventura, alla ciurmerla, all'astuzia
dei servi nelle anticamere, ma anche, in piena aria e luce, al coraggio
virile, alla forza dell'ingegno e del braccio, insomma, per dirla col Foscolo
stesso, a feroci petti e altissimi ingegni, quale che fosse la loro origine
e classe. In quegli estremi anni del secolo, per il Foscolo, e grazie al
Foscolo per l'Italia, si rese possibile una letteratura nazionale non anar
chica né accademica, una letteratura cioè fondata su una dignità e animo
sità nuova dell'uomo di lettere in una società potenzialmente di eguali.
Sono vecchie nozioni, che abbiamo imparato a scuola, ma accade che per
sazietà e confidenza si mettano da parte e si dimentichino a volte le no
zioni elementari, benché vere, della scuola.
Si può discutere se il primo Ortis, quale è giunto a noi, l'Ortis bolo
gnese del 1798, sia documento di una nuova letteratura. A mio giudizio
non è: il paragone con l'Orto milanese del 1802 mi pare decisivo. Ma

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14 Carlo Dionisotti

decisivo anche è il paragone colla secon


liberatore, perché questa prosa, d'uno
Ortis pareggia, degna insomma di star
antologia foscoliana, non ha, ch'io sapp
tura italiana del Settecento. Neppure l
si era mai levato tanto alto, con occh
sonaggi e sugli eventi della tragedia st
appartiene ancora al Settecento, e se p
Ortis e alla breve stagione poetica dei
potrà sembrare a qualcuno che si tratt
raria e d'un capitolo ancora nel suo ins
il caso di far questione per così poco. M
la frattura che stacca questo capitolo d
anche nella storia della letteratura italiana dalla rivoluzione e invasione
francese, si rischierebbe a mio giudizio di perdere affatto il senso della
realtà e delle proporzioni.
Ritengo dunque che si possa e debba, discorrendo del Foscolo e del
l'età sua, considerare il 1796-97, ossia, anno più anno meno, la fine del
secolo, come un punto fermo, e che un discorso così ristretto, sul Foscolo
giovanissimo e acerbo, valga per lui, e non per lui soltanto, proprio perché
consente di saggiare in un breve giro di anni, in precisi limiti di spazio, in
una esperienza individuale estremamente intensa ma ancora tutta aperta
a qualunque scelta, le varietà e validità della cultura e letteratura italiana
del tardo Settecento, immediatamente prima della resa dei conti imposta
dalla rivoluzione.
Il Foscolo si stabilì a Venezia nel 1793, a quindici anni. Nel 1794 già
scriveva poesie a gran forza, nel 1795 minacciava la stampa di un volu
metto suo di Odi, nel 1796 varie poesie sue apparivano qua e là a stampa,
nel gennaio del 1797 gli riusciva di far rappresentare in uno dei primi
teatri di Venezia il Tieste con trionfale successo, pubblicava la sua tragedia
nell'aprile, e via via, a Venezia e a Bologna, qualche altra lirica. Ma ormai
gli eventi incalzavano: poesia e letteratura soggiacevano all'azione e pre
dicazione politica. Valgono per quell'estate del 1797 e oltre fino all'autun
no, dalla caduta della Repubblica alla notificazione del trattato di Campo
formio, i mirabili verbali di sedute della Società Patriottica e della Muni
cipaiitâ di Venezia, mai oaizano ancora ai nostri occm ie immagini suc
cessive, rapide, vivide, drammatiche, di quel tribuno diciannovenne che
non era nato per scrivere tragedie, ma certo aveva, e poi sempre ebbe,
l'estro, e in seguito il vizio, dell'attore. Per esempio, il 7 agosto: « Il
cittadino Foscolo monta la tribuna. Colla sua solita energia sostiene l'opi
nione di Gian Giacomo Rousseau che il Principe del Machiavello sia il
libro dei Repubblicani ». Nel novembre il Foscolo abbandonava per sempre
Venezia, e cominciava una nuova vita, la sua vita.
Ê dunque una storia, dal 1793 al 1797, di soli cinque anni. Per un

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Venezia e il noviziato poetico del Foscolo 15

adolescente, quai era il Foscolo allora, i mesi valgono anni. Tuttavia non
appaga l'ipotesi che il poeta, in erba sì ma già nel 1794 sorprendentemente
accorto e pronto a scegliere i suoi modelli nella poesia contemporanea,
fosse giunto a Venezia l'anno prima digiuno, non dirò di lingua, ma di
lettere italiane. Che cosa avesse imparato a Spalato e a Zante non sap
piamo, e probabilmente non sapremo mai. Nuove ricerche sull'ambiente
veneto-greco e dalmata sono augurabili, ma è chiaro che tali ricerche esi
gono un impegno e interesse storico più serio che non quello di alma
naccare sui primi rudimenti linguistici e letterari di un ragazzo; esigono
che si faccia storia di uomini, quali che fossero, mediocri e minimi, di
comunità greche e slave che cominciavano in quegli anni ad acquistare
più risentita e distinta coscienza di sé e dei rapporti non sempre idillici
che era toccato loro in sorte di avere con le autorità di Venezia. I recenti
studi ad esempio di M. Zoric (« Studia Romanica et Anglica Zagrabiensia »,
8, 1959, pp. 31-39 e 15-16, 1963, pp. 151-83) non soltanto valgono a illu
strare il buon maestro, Francesco Gianuizzi, del Foscolo a Spalato, e il
ricordo che nella città rimase di quel ragazzo « vivace sempre fino all'inco
modo ed alla impertinenza », e occasionali incontri con uomini e cose della
Dalmazia che risultano dalla vita e dall'opera tutta del Foscolo, ma ci fanno
intravvedere anche, con maggior profitto nostro una tradizione locale
inquieta e impaziente che, pur essendo armata di lingua e cultura italiana,
non per questo rinunciava a servirsi, come era suo diritto, di tali armi
ai fini propri, che potevano anche non essere quelli proposti ο imposti
dalla dominazione veneziana. Perché, come ebbe a dichiarare poi (1844)
Vincenzo Solitro, « la repubblica ci tenne servi e assoldati, figliuoli non
ci ebbe mai ». È probabile che anche per la dissidenza greca si debba fare
un analogo discorso, e certo è che in quegli anni, non soltanto nell'isola
natia, ma a Venezia, nella colonia greca tanto più forte ivi e pugnace
che qualunque rappresentanza della costa dalmatica, non saranno mancati
gli stimoli a quello spirito guerriero, prepotente e scontroso, per cui il
Foscolo giovinetto appare così isolato e diverso nel quadro della società
νρηρ7.ιαηίΐ

Tardi nella vita il Foscolo scrisse: « Spuntò in m


volontà di studiare ». Dunque nel 1794, a Vene2Ìa. È p
l'anno gli rimanesse fitto in mente perché allora,
dichiarata in lui la vocazione poetica e letteraria che
la sua vita. La volontà di studiare, venutagli allora, a se
volontà di studiare e di scrivere: non già che prima,
non avesse studiato. Nel 1797, dedicando alla città di
a Bonaparte liberatore, il Foscolo si dichiarava « nato
fra' Dalmati e balbettante da soli quattro anni in Ital
razione pubblica e solenne trova conferma nelle sue le
indipendenza e pubblica conferma, in quello stess
amico che elogiava il Foscolo poeta « nato in Grecia, c

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16 Carlo Dionisotti

dici anni fuori d'Italia e italianizza


l'origine straniera e la recente, rapi
letteraria italiana, dovevano servire d
insieme dare maggior spicco ai merit
credere cne non si trattasse solo d una retorica « captatio oenevoientiae »
e che qualche cosa di vero ci fosse. Certo gli amici del Foscolo allora, testi
moni non sospetti né interessati, avvertivano in lui non soltanto la precoce
originalità del carattere e dell'ingegno, ma anche una diversa origine e
formazione intellettuale. I moderni editori del Foscolo hanno concorde
mente rilevato le frequenti e a volte sorprendenti incertezze, licenze e
aberrazioni grafiche e grammaticali che occorrono negli scritti in prosa di
lui, non soltanto nelle lettere né soltanto negli scritti giovanili. Su questo
fenomeno è difficile pronunciar giudizio, perché la storia della lingua ita
liana nel Settecento, la storia intendo dell'insegnamento e dell'uso comune,
non delle dottrine e preferenze teoriche di questo ο quello individuo, an
cora non ci è sufficientemente nota. Naturalmente era più facile allora, e
non soltanto allora, scrivere correttamente in versi che in prosa. Ma la
moda del verso sciolto da un lato, e dall'altro quella dei metri lirici can
tabili, con versi brevi, frequenti rime, frequenti sdruccioli e tronchi, ave
vano congiuntamente aperto anche il linguaggio poetico italiano a quel
rischioso gusto della libertà, della facilità, del brio, come allora si diceva,
che era proprio della cultura settecentesca. Giovanissimo, fin dai primi
documenti a noi noti, il Foscolo scrisse in versi con sufficiente, e, direi,
notevole correttezza. Saranno stati brutti versi, non però più brutti dei
tanti prodotti allora anche da scrittori provetti e rinomati. Comunque
importa qui che fossero versi per lo più linguisticamente corretti, perché
trattandosi di esercizi non propriamente scolastici, su modelli tradizionali,
bensì arieggianti, come già ho accennato, modelli contemporanei che di
troppa correttezza certo non peccavano, bisogna concludere che il Foscolo
sedicenne potè scrivere a quel modo, perché si era imposto una disciplina
linguistica alla sua età, e in quell'età, non comune. Anche di qui appare
probabile che egli avesse dovuto in realtà vincere nei primi passi della sua
carriera letteraria a Venezia l'impaccio di un'origine mista e lontana, e
che proprio per questo, per vincere, avesse dovuto imporsi quella disci
plina, e che insomma, come egli scrisse più tardi, nel settembre 1805, a
un'amica francese, in francese, con una sincerità che non può essere messa
in dubbio, la lingua italiana era stata il suo unico amore e la sua unica
sposa: sposa, piuttosto che madre.
Anche è notevole a questo proposito la consapevolezza, che il Foscolo
ebbe precocissima, della esistenza e importanza, nell'età sua, di una que
stione della lingua. Il volumetto di Odi che nell'agosto del 1795 egli
vagheggiava di poter pubblicare in breve, avrebbe dovuto presentarsi così
ai lettori: « La dedica di cinque righe all'Alfieri; il neologismo ai puristi,
i margini a quei che si dilettano di scarabocchiarvi i loro pensieri, ed il

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Venezia e il noviziato poetico del Foscolo 17

restante a' barbassori ed a' critici ». Dunque il Foscolo non soltanto s'illu
deva, come ogni novellino s'illude, che l'opera sua potesse trionfalmente
sopraffare l'oste confusa dei barbassori e dei critici, ma già aveva in mente,
nel 1795, una ben definita schiera di oppositori: quella dei puristi, ai quali
gettava in pasto, come guanto di sfida, il neologismo. Bisogna a questo
punto badare alle parole piuttosto che alle cose. È inutile risalire indietro
per li rami della polemica, variamente dibattutasi, di generazione in gene
razione, fra i difensori della purità della lingua e i fautori di un rinno
vamento e arricchimento di essa lingua. La fortuna in Italia della parola
neologismo ha origine, per quanto sappiamo, dalla dissertazione di Matteo
Borsa Del gusto presente in letteratura italiana, apparsa in Venezia sul
finire del 1784. Il Borsa aveva identificato e combattuto nel Neologismo
straniero il primo dei tre caratteri costitutivi del gusto presente, gli altri
due caratteri essendo il Filosofismo enciclopedico e la Confusione di generi.
Dal 1785 innanzi la Dissertazione del Borsa e le congiunte benché discordi
Osservazioni dell'Arteaga erano state al centro della discussione letteraria
in tutta l'Italia settentrionale, nel Veneto in ispecie. Subito nel 1785, da
Padova, entrò in campo il Cesarotti coi due memorabili saggi sopra la
lingua italiana e sulla filosofia del gusto, nel primo dei quali erano alcune
pungenti stoccate contro i puristi. Insieme i due saggi riapparvero nel 1788
a Vicenza, dove già si era opposto al Cesarotti il giovane abate G. B. Gar
ducci Velo. Il dissenso fra i due non era insanabile, e comunque verteva
piuttosto sul concetto di poesia e letteratura che non sulla lingua. Ma nel
1791 la polemica contro il Cesarotti fu vigorosamente ripresa, nei termini
propri di una questione linguistica, dal piemontese Galeani Napione. La
risposta del Cesarotti giunse tardi, nel 1800, con le note e appendici
aggiunte ai saggi del 1785 nel primo volume dell'edizione pisana delle sue
Opere. In quegli anni dunque, dal 1785 innanzi, e nel 1795 in specie,
dopo cioè l'attacco mosso dal Galeani Napione al Cesarotti, un accenno,
come quello del Foscolo, al neologismo e ai puristi, non poteva essere
fatto se non da chi intendesse esprimere il proprio consenso di massima
alle idee linguistiche del Cesarotti.
D'altra parte sappiamo che nel 1795 il Foscolo ancora non aveva alcun
rapporto personale col maestro di Padova. Né è da credere che l'ambiente
veneziano bastasse a far di lui, a distanza, un docile allievo di tanto
maestro. Forte era a Venezia la diffidenza di Padova, e gli oppositori del
Cesarotti erano ivi tanti almeno quanti i fautori di lui. E già si è visto
che, iniziandosi alla carriera letteraria, il Foscolo si era imposto e tuttavia
si imponeva una disciplina linguistica assai stretta. Non è da escludere che
anche nella sua sfida ai puristi come nella più tarda ostentazione della sua
origine straniera, egli mirasse a parare ο attenuare i colpi che critici
scrupolosi in fatto di lingua avrebbero potuto inferirgli. Ma non si trat
tava solo di questo. Anche allora, sopratutto allora, la questione linguistica
coinvolgeva fondamentali divergenze in questioni di tutt'altro genere. Su

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18 Carlo Dioniso tti

bito colpisce l'epigrafe « Vitam impe


voleva iscritta sul frontispizio del p
raccolta di odi. Non era naturalment
meno a Giovenale. Quel motto era
altro, un omaggio a Rousseau: era i
pertanto la parola d'ordine di quelli cu
avrebbe consentito in Italia di profes
rato prima né tollerabile dalle vigent
questa professione di fede del Fosc
disgiunta la sua sprezzante impazienz
cosiddetti puristi, né la sua implicita
stica aperta e proporzionata a un m
l'utopia rivoluzionaria. Era, nel 1795,
teva ben essere, a quella data, anch
che erano stati ο erano allievi del Ces
ovvii motivi, la posizione del maestro
Il Cesarotti, nato nel 1730, aveva
parte di scrittore d'avanguardia fra i
il neologismo straniero, il filosofism
generi, secondo la caratterizzazione
Italia. Dal 1785 innanzi, il declino di q
e il Cesarotti si trovò a dover difend
ancor prossimo, già era e sempre più
vocabile passato. Fu una splendida d
con l'impeto dell'uomo che crede no
causa, ma anche nella vittoria. Che è q
filosofia del gusto dedicato all'Arca
Senonché poco importava vincere a
dell'Italia meridionale che già era in r
al Metastasio e agli Enciclopedisti. Né
del Cesarotti fu intiera, e per contro,
settentrionale, prevalsero su di lui gl
mirando polemicamente al bersaglio p
risti. Il purismo vero e proprio albeg
giovane Antonio Cesari, che proprio
il suo volgarizzamento dell'Imitazion
patria e poi roccaforte del purismo,
garizzamento poteva far figura di m
terremoto, prima della tragica Pasq
cratici Pellegrini e Pindemonte, non
atteggiarsi a maestro, francamente s
discepolo del roveretano dementino V
l'amico e corrispondente del Monti, p
dopo il suo discepolo Cesari gli avrebb

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Venezia e il noviziato poetico del Foscolo 19

Più vicino a Padova, a Vicenza da un lato, a Venezia dall'altro, gli avver


sari del Cesarotti erano ancor meno sospettabili di purismo. In realtà il
nocciolo della questione era altro. La cultura italiana repugnava sempre
più vivacemente al neologismo straniero perché straniero, non perché neo
logismo. E questa repugnanza e rivalsa nazionalistica in tanto sorgeva e
prevaleva in quanto era venuta e veniva meno quella fiducia nei lumi
della universale ragione umana, nel comune e concorde progresso della
civiltà, che gradualmente, già nella prima metà del Settecento, aveva
aperto le frontiere della vecchia Italia alla cultura della nuova Europa.
Che in Italia questa crisi della cultura, ο per essere più precisi della filo
sofia illuministica si manifestasse primamente nel campo della lingua e
della letteratura, è naturale. Ma non bisogna fermarsi al primo aspetto, ai
frontispizi e ai titoli. Del resto, nella sua dissertazione del 1785 il Borsa
aveva messo il dito sulla piaga: dei tre caratteri che, secondo la sua dia
gnosi, spiegavano la corruzione del gusto presente in letteratura italiana,
il primo e il terzo, il neologismo straniero e la confusione dei generi, evi
dentemente risultavano dal secondo, dal filosofismo enciclopedico. Su que
sto punto fondamentale della discussione apertasi in Italia, il Cesarotti
non poteva né cedere né combattere con successo. Non poteva cedere
perché le sue virtù di autore e di maestro erano radicate nella curiosità
agile e spregiudicata, nella cordialità fiduciosa e nel malizioso buonsenso
che erano stati propri di quel filosofismo. Non poteva però combattere con
successo perché negli anni facili, quando le due discipline, filosofia e let
teratura, parevano accordarsi, egli non aveva optato per l'una ο per l'altra,
né si era preoccupato di saggiarne a fondo i vicendevoli rapporti; ora,
messo in questione l'accordo, egli si trovava ad essere insufficientemente
armato, e come filosofo e come poeta. Perché il rapporto non si poneva ora
più in Italia fra una filosofia prevalentemente straniera e un'approssima
tiva, accogliente letteratura, prevalentemente prosastica quand'anche fosse
in versi. Il rapporto si poneva fra quella filosofia e una letteratura propria
mente italiana e pertanto prevalentemente poetica, quand'anche fosse in
prosa. Era difficile per il Cesarotti opporsi a questa rivincita alfieriana della
poesia, anche perché, negli anni facili per l'appunto, quando la poesia come
la filosofia era sollecitata da uno spirito avventuroso e dall'ansia del nuovo,
egli stesso, giovane, aveva legato il suo nome al successo strepitoso della
versione poetica dei canti di Ossian. Ora, nella sua tarda maturità e vec
chiezza, inutilmente egli cercava di ristabilire sulla letteratura greca, e su
Omero in ispecie, il dominio della moderna ragione critica e del buon
gusto. Perdurando, e di generazione in generazione rinnovandosi il suc
cesso di quell'improbabile Ossian, l'argine che il Cesarotti si affannava a
costruire lungo il corso della poesia omerica, si dimostrava inutile e da
ultimo assurdo. La piena di una sensibilità incontrollabile dalla ragione,
di una poesia volta a volta estatica, frenetica e querula, senza capo né

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20 Carlo Dionisotti

coda, senza alcun sottinteso religioso


di lui Cesarotti, per l'ampio varco ape
Questa ambiguità e intima contradd
lamento, sulla fine del secolo, del Ces
che pure avevano titoli sufficienti e le
pato nel sistema ben differenziato, m
d'una sua fondamentale omogeneità, de
Ottimi studi sono stati fatti, anche
decadenza e finale dissoluzione della
Questi studi già sono serviti e sempre
faccia storia della letteratura. L'indeb
conseguenza una maggior differenziaz
dominio di terraferma, sono fenomen
portanti nella storia letteraria di quel
della crisi finale del 1797. Sarà un cas
che i primi documenti epistolari a no
strino lui, ancora estraneo e ignoto al
affratellato già al gruppo tanto più lon
Scevola, Labus, all'avanguardia cioè, po
tivamente ribelle, della città, Brescia,
più impaziente della sudditanza veneta
scolo al Fornarini, da Venezia nel 1
narini datata il 2 maggio 1797 « Anno
si disegna e conclude come in un perfe
luzionaria giovanile del Foscolo. Ma
mente letterario, il carteggio bresciano
Perché quegli amici del Foscolo eran
del Cesarotti, e certo non avevano m
gnamento del maestro. Ma la loro for
nienza padovana, in una solidarietà acc
a Brescia, in un'attesa e aspettazione d
cui inutile era volgersi indietro a Ven
da cui siamo partiti, di una sua raccol
all'amico Fornarini di voler pubblic
dedica all'Alfieri, testimonianza ineq
quel momento, da Venezia e da Pado
Alfieri, testimoniano di un Foscolo int
di Brescia, a un appello rivoluzionario
vagheggiata dedica, si diparte e proce
una linea alfieriana che sempre è st
l'opera e nel pensiero del Foscolo. Ma
oggi sussiste a guardare in faccia la re
dell'Alfieri, come del Foscolo, e una c
non le spine, converrà precisare che, c

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Venezia e il noviziato poetico del Foscolo 21

alfieriana, dalla dedica del 1795 al Tieste, il Foscolo certo non poteva né
voleva passare per Padova. Il Tieste è un capolavoro alla rovescia: è la
peggiore cosa che il Foscolo abbia mai scritto, in versi ο in prosa. Ma
indubbia è la importanza polemica di una tragedia così fatta, su quel tema
greco, con quella struttura alfieriana, proprio nel momento in cui a Ve
nezia e a Padova, nella scuola stessa del Cesarotti, si tentava di far argine
al recente incomodo successo dell'Alfieri, ravvivando e sostenendo un
teatro tragico affatto diverso, moderno e di ascendenza francese. Il Tieste
del Foscolo insomma è inseparabile, per contrasto, dalla Dissertazione
sopra la tragedia cittadinesca di Pierantonio Meneghelli, collega in Ac
cademia del Cesarotti, apparsa a Padova nel 1795. Ed è a maggior ragione
inseparabile, per contrasto, dalle tragedie che in quel giro d'anni si rap
presentavano ο addirittura si stampavano a Venezia, da quelle in ispecie
di due uomini, anzi titolatissimi gentiluomini, Alessandro Pepoli e Gio
vanni Pindemonte, troppo vistosi perché anche un oscuro e irto princi
piante, qual'era il Foscolo, potesse ignorarli. Appena occorre ricordare
che antialfieriano era allora per eccellenza e fino al ridicolo il Pepoli, e
che d'altra parte, dal 1791 innanzi, ripubblicando coi nobili tipi del
Bodoni a Parma, poi a Venezia nella sua propria Tipografia Pepoliana
le sue sciagurate tragedie, egli aveva ottenuto per la seconda, Carlo e
Isabella, rivale del Filippo alfieriano, una lettera di accompagnamento e di
encomio del Cesarotti. Perfino un antialfieriano irreducibile come il Bet
tinelli si era fatto beffe della catastrofe escogitata dal Pepoli per quella
tragedia. Al Cesarotti invece l'idea, senza dubbio nuova e moderna, di far
morire Carlo e Isabella per lo scoppio di una mina, era piaciuta. Delle
ultime tragedie del Pepoli apparse a stampa a Venezia nel 1795-1796,
quando il Foscolo componeva il Tieste, possono bastare i titoli: Rotrude,
Zulfa, Dara\ dalla Pavia longobarda al serraglio di Algeri e all'India.
Più lungo e meno facile discorso richiederebbero le tragedie di Gio
vanni Pindemonte. Omettendolo qui senz'altro e riducendomi su un ter
reno più volgarmente noto, ricorderò che YArminio dell'altro Pindemonte,
Ippolito, apparve si a stampa nel 1804, ma con in fronte al prologo di
Melpomene la data 1797, che non è, per la concezione e prima stesura,
una data fittizia. Sappiamo che proprio in quell'anno e nel seguente il
Pindemonte non soltanto compose la sua tragedia, ma anche la sottopose
a una revisione, che al solito fu meticolosissima, del Cesarotti; onde il
14 maggio 1798 scriveva all'amico Zacco: « Quanto mi costa piacere a
Cesarotti! ». E per contro ancora nel 1805, scrivendo il 21 marzo allo
stesso amico, il Pindemonte ricordava il successo avuto sette anni prima
dal Tieste, « ascoltato dieci sere consecutive con sommo applauso, e del
quale oggidì l'autore si vergogna altamente », come una riprova esemplare
« che gl'Italiani, quando sono al teatro, non fanno più uso della ragione ».
Mi pare chiaro che quel successo lo aveva scottato, e anche più chiaro,
quando si tenga conto della struttura e significato àtWArminio, che nel

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22 Carlo Ό ioni sotti

1797 l'alfieriana tragedia del Foscolo dov


come al Pindemonte antitetica al concetto che essi avevano del teatro e
della letteratura.
Il Τleste è posteriore ai primi esperimenti lirici del Foscolo. Di qui,
dalla lirica, era inevitabile che egli cominciasse. Ma il titolo e la struttura
dell'esile raccolta che egli disegnava di pubblicare nel 1795, non vanno
confusi col normale esercizio lirico di un poeta alle prime armi e qual
cosa aggiungono al significato della dedica all'Alfieri. Perché se anche in
quella età oraziana un po' dappertutto e da tutti si scrivessero e stam
passero odi, è però un fatto, accertabile con una spedita ricognizione
bibliografica, che il preciso titolo Odi sul frontespizio d'una raccolta poe
tica non era allora comune. È probabile, e l'ipotesi trova subito conferma
nella dedica apposta a una di quelle odi nel Piano di studi che il Foscolo
compose per sé l'anno dopo, che già nel 1795, disegnando quella raccolta,
egli avesse innanzi a sé il modello delle Odi colle quali poco prima, nel
1791, era tornato alla ribalta, dopo lungo silenzio, un vecchio maestro
lombardo, il Parini. Era, non meno che l'Alfieri, un modello remoto nello
spazio, e sostanzialmente diverso da quelli che a un principiante si offri
vano a Venezia e a Padova. Ancora una volta par di vedere il Foscolo
diciassettenne attratto, sulla via di Brescia, oltre i confini del dominio
veneto.

Quanto fosse in lui forte la smania di evadere, bene ri


l'appassionata lettera che il 28 maggio di quello stesso ann
scrisse al Bertola, che aveva di persona conosciuto, pochi giorn
durante un breve soggiorno del poeta riminese a Venezia. Sma
dere e, insieme, non meno forte, una smania di stringere altri
stretto, in una solidarietà chiusa e gelosa, amicizie e amori. So
1795, a diciassette anni, i tratti poi fondamentali di tutta la su
all'ultimo. In termini di storia letteraria, l'incontro del Foscol
tola si pone su di un piano affatto diverso da quello del su
ideale coll'Alfieri e col Parini. Ancor sempre era, come la lett
del Foscolo dimostra, un incontro poetico, ma con una poesia
rini era rimasta affatto estranea e che l'Alfieri aveva tenuto
e represso. Benché fosse nata e cresciuta sotto altri cieli, fra Sie
la poesia del Bertola era tutta percorsa dalla nostalgia di un Se
che prima di essere gessneriano e alemanno e insomma europe
semplicemente stato e tuttavia era ossianesco, e cioè padovano
così la poesia come l'uomo erano di casa nel Veneto. Non ch
vi potesse mettere radici: piuttosto a Pavia, fra gente al pa
aspra e impaziente e intraprendente e però più atta a bilan
delicatezza e debolezza. Ma volentieri tornava di quando in
Veneto, a quell'ozio e a quel gioco elegante, agile, a quei m
amici della sua giovinezza, intelligentissimi e lievemente affett
fra tutti il suo Polidete Melpomenio, Ippolito Pindemonte.

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Venezia e il noviziato poetico del Foscolo 23

E se l'incontro del giovane Foscolo col Bertola a Venezia non è immagi


nabile oggi per noi senza la mediazione della donna, Isabella Teotochi Al
brizzi, che nel ritrarli entrambi dette poi forse la prova più alta dell'arte
sua, bisogna anche dire che esso incontro non è immaginabile, in quella pri
mavera del 1795, senza che fra i due, anzi fra i tre, Foscolo, Bertola e
Isabella, si intravveda, testimone vigile e indifferente, l'uomo in cui, se
condo Isabella, « l'arte difficilissima di tacere opportunamente » sembrava
natura, Ippolito Pindemonte. Non erano male gatte, né certo il Foscolo
fu mai, neppure giovanissimo, un sorcio. Ma a parte il Bertola che era lì
di passaggio e che probabilmente per lettera, di lontano, corrispose da
par suo all'esuberante offerta del Foscolo, non si vede come questi, allora,
potesse reggere al difficile gioco di una solidarietà presente e continua con
Isabella e il Pindemonte. Che in diverso modo e misura i due imprimes
sero fin d'allora un segno profondo sulla sua vita è dimostrato dal seguito
della storia. Ma non ci vollero meno di dieci anni perché il Foscolo po
tesse ripresentarsi a loro, nel colmo della sua forza, e riconoscerli e farsi
riconoscere, forse anche cercare una rivalsa, da pari a pari. In quell'estate
del 1795, di fronte all'invito che per la prima volta discretamente gli era
venuto a una pausa, a guardarsi attorno, a distinguere vicino a sé, acces
sibile, quel che poteva occorrergli, egli dovette rendersi conto, come la
lettera al Bertola dimostra, che urgentemente gli occorreva ormai una
solidarietà letteraria più alta e più aperta, e al tempo stesso che a Venezia
gli sarebbe stato difficile, in quella cerchia, ottenerla.
ι^οη lettera del zs settembre 1 /yj u Foscolo si presento ai Cesarotti:
« all'uomo di genio, al poeta della nazione, al traduttore finalmente del
l'Ossian io mi accingo a rendere un tributo che già il mio cuore gli rese
dal primo istante ch'io incominciai a leggere i suoi versi ». In verità il
Foscolo non si era affrettato a rendere questo enfatico tributo. Si decise
quando già altri maestri e compagni, tanto più lontani, lo avevano aiutato
a intraprendere una via che non era certo quella raccomandata ai suoi
allievi dal Cesarotti. Né presentandosi, il Foscolo era disposto a rinnegare
alcunché del suo prossimo passato. Pronto, come sempre era stato, a ogni
nuovo suggerimento, e a dichiararsi insoddisfatto di sé, bisognoso di
censura e di aiuto, serbava però una cupa e prepotente fede nel suo genio.
Al Cesarotti si presentò con alcuni saggi di poesia filosofica che verosimil
mente al maestro sarebbero piaciuti, ma anche col Τ teste che era, come
già si è visto, quanto di meno cesarottiano potesse allora immaginarsi.
E dopo un anno e più di appassionata frequenza nella nuova scuola, proprio
col Τ teste e nonostante l'opposizione del maestro, il Foscolo volle e ot
tenne a Venezia, al momento giusto, nel gennaio del 1797, il suo primo e
pieno successo letterario e mondano.
Da parte sua il Cesarotti, ormai vecchio, ma d'una verde vecchiezza,
sempre più chiuso e solo nel culto di un'età passata, che però era stata
per l'Italia e per l'Europa un'età splendida di vita, d'una vita ancora in

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24 Carlo Dionisotti

parte vivace, seppe dimostrarsi a con


scolo, di quest'ultimo e di gran lunga m
chiamava gli allievi, un grande maest
Foscolo cominciò a usare, scrivendogli,
immeritato. Anche a prescindere dalla p
maestro, che il Foscolo pubblicò a Mi
pibile criticamente e moralmente infam
bene e del male, delle entrate e delle us
due, padre e figlio, maestro e allievo
Foscolo improvvisamente si allenta. Eg
sì, e nel Piano di studi, composto verso
fondamentale dell'influsso esercitato su
è visibile una conversione brusca dagli
poesia largamente e variamente evocati
sciolti, e addirittura alla prosa. Lo stes
volta, si faceva urgente in lui, della
mente e parallelamente risolversi nel d
tolato Laura: lettere e in quello d'un lib
in terzine e in isciolti. Erano insomma
fino alle Grazie: dei momenti brevi, im
delle ricorrenti e nell'insieme prevalen
scrittore.
Quando ormai gli eventi precipitavan
luzionaria, la scuola del Cesarotti in
uscire dal guscio di un noviziato ribelle
di ideali e fantasmi nobilissimi ma inte
noscere velocemente intorno a sé la rea
degli antichi e dei moderni, dell'Itali
sé con questa realtà, anche se domestic
di giusta misura col proprio successo a
rivoluzione. Non si sa bene che cosa Ve
scolo fra il 1793 e il 1795. Nel Piano
prescelti dal Foscolo sono Sofocle, Shak
più Racine né Corneille, ancora figura,
Metastasio, ma non figura, fra tanti g
il Goldoni, non figura la commedia. Né
alcunché per il Foscolo la tradizione an
dei Granelleschi e dei giornali di Gaspar
ma non certo assisterlo nella sua ascesa
il tempo in cui fuori d'Italia e di rifles
serio non era ancor venuto. II Foscolo e
dare ascolto alla poesia vernacola, ma no
per prendere anche quella sul serio. Né
giovanissimo Foscolo che in Marciana s

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Venezia e il noviziato poetico del Foscolo 25

vista e conversazione del grande Morelli. Per uno che ancora non fosse
riuscito a incuriosirsi, a breve distanza, da Venezia a Padova, d'un maestro,
a paragone di tutti gli altri nel dominio veneto di statura altissima, come
era il Cesarotti, Venezia doveva apparire in quegli anni ostile e deserta.
Ma riguardandola di lì a poco più attentamente, con gli occhi di un allievo,
non dell'Alfieri, ma per l'appunto del Cesarotti, i lineamenti e i colori del
quadro cominciavano a emergere dall'ombra. Non era soltanto il quadro,
che nell'editoria e nei giornali di Venezia si rispecchiava più fedelmente e
prontamente che altrove, di un po' tutta la contemporanea cultura italiana.
Era anche, più stimolante ai fini pratici immediati, il quadro delle dissi
denze locali e di generazioni diverse nell'ambito del sistema veneto, larga
mente aperto per la sua tradizione editoriale e giornalistica all'immigra
zione da altre parti d'Italia. A Padova, Vicenza, Verona, Brescia, e via
dicendo, esistevano discordi e indipendenti scuole e gruppi, che per sé,
per la loro tradizione e attività, poco ο nulla potevano offrire al Foscolo.
Ma a Venezia l'indipendenza di scuole e gruppi cessava, e la discordia in
tanto poteva manifestarsi, in quanto si traducesse in polemica di scritti
e di idee, magari anche di intrighi, ma a fronte di un'autorità centrale
che pur nella sua ultima decadenza riservava a sé sola il diritto della
indipendenza e della decisione.
In quella polemica il Cesarotti, per la sua autorità personale e acca
demica, aveva gran parte, e il Foscolo, che allievo di lui era diventato, ma
non certo succube allievo, poteva ora intendere chiaramente scritti e idee
importanti per lui, quand'anche provenissero da mediocri personaggi, dal
vecchio ma sempre arzillo reazionario Andrea Rubbi ο dal rivoluzionario
Compagnoni, ο addirittura da Angelo Dalmistro che a lui Foscolo era
stato primo maestro a Venezia nel Collegio di S. Cipriano, e che ancora,
come tanti altri in quegli anni, oscillava fra il volgar dei moderni e il
sermon prisco.
Gli esempi potrebbero essere moltiplicati, ma i tre, naturalmente non
scelti a caso, possono bastare. Perché anche i primi due certo furono
allora, e il Compagnoni per molti anni ancora, a Bologna e a Milano,
per tutto il periodo napoleonico, ben presenti al Foscolo. E di tutti tre si
può dire che, essendo affatto diversi da lui e tendenzialmente avversi,
pure contribuirono in qualche modo a far del Foscolo negli ultimi due
anni del suo noviziato veneziano l'uomo addestrato a recitare la parte
sua sulla scena della letteratura italiana nell'età rivoluzionaria. Chiaro,
e però esile, proporzionato all'esilità dell'uomo, il contributo del Dal
mistro. Ma la prima apparizione in pubblico del Foscolo poeta non
può essere dissociata dall'attività dell'abile e servizievole primo editore
di quella fortunatissima raccolta periodica, VAnno poetico, che per l'ul
tima volta richiamò a Venezia da ogni parte d'Italia i trilli e gli strilli
della poesia arcadica. Di gran lunga più importante, se anche meno ovvio,
il contributo degli altri due, da molti anni in continua zuffa fra loro.

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26 Carlo Dionisotti

Importante s'intende per chi, scaltrito


in grado di afferrare al volo la tenace
e la impetuosa esagerazione dall'altro
rispettivamente ad opera del Rubbi e d
con alacrità e abilità diabolica, aveva rie
d'un nazionalismo armato di stile moder
letteraria della Francia. Né era soltanto
secolo nostro, oggi, abbiamo imparato
italiano dello stampatore Zatta, edito da
di poesia, che la Storia del Tirabosch
rimesso a nuovo e in vista, con un ra
gioco di tagli e di luci. Il paragone fr
ancora freschi di grazia e di intelligen
siccia congerie della raccolta dei Classic
Milano, basta a spiegare come e perché l
naufragio nella prima metà dell'Ottoce
sé, rari nantes, un mostruoso vocabo
patriottici rottami di incerta origine e des
Ma il Foscolo, a differenza di tanti alt
dal Manzoni, fu ancora uomo cui la let
innanzi sempre a vele spiegate, alta e c
che questa visione si fece per lui più
ultimi anni deserti dalla sua poesia. M
vinezza, fin dal piano di studi del 1796
critica conoscenza della tradizione. E ce
in quegli anni, egli prese le mosse, non
meno dalla Storia del Tiraboschi cui si s
Il Compagnoni, coetano del Monti,
Romagna e da Bologna pochi anni prima
prato alle battaglie giornalistiche, alfier
e civile, spregiudicata e mordente. Clam
non potè sfuggire perché forte soprat
nezia, era stata la lettera del Compag
altre Lettere piacevoli se piaceranno
paragone degli Ebrei e dei Greci, concl
di quanto il vecchio Cesarotti e il giova
cettare. Ma era anche il segno di una ag
applicata insieme alla tradizione e alla
lasciarli indifferenti. Più che settanten
memorie, il Compagnoni ancora ricorda
di lettere: nessuno valeva lui ») come, a
letteratura italiana de' nostri tempi ».
si legge, a proposito dei letterati conos
seguente che può servire di utile riscon

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Venezia e il noviziato poetico del Foscolo 27

col Parini: « Parini non mi piacque. Non era egli figlio dell'amenissimo
Eupili, ma della breccia che forse ne fa il fondo ». A mezza via, fra la de
vozione figliale del Foscolo per il Cesarotti e la figurazione del Parini
nell'Orbi milanese, non sarà inutile rilevare anche, in un paragone a
distanza del Compagnoni e del Foscolo, che lo stile singhiozzante delle
Veglie del Tasso (Parigi 1800) è senza dubbio parente strettissimo, a mia
notizia il più stretto, dello stile del primo Ortis, àzWOrtis bolognese
del 1798.
Caduta la repubblica, anche venne meno d'un colpo la funzione e va
lidità letteraria di Venezia. Cadde come uno specchio infranto. Se non
10 avesse costretto alla fuga il Trattato di Campoformio, non si vede come
11 Foscolo avrebbe potuto rimanerci. Difatti Venezia, come città, non contò
per lui più, se non per il mito, valido a distanza, di una madre, di una
casa, di un cimitero. Contò il mito congiunto dell'esilio, e la trasfigura
zione ideale, che si compie d'una in altra redazione dell'Orar, di Venezia
nella patria. Ma la patria del secondo e autentico Ortis è indubbiamente
l'Italia: un'Italia imperniata su Milano e Firenze. Di Venezia non resta
più nulla. Né di Padova, « scomunicato paese ». Né il Professore C.,
cioè il Cesarotti, incidentalmente ricordato, ha un posto suo nel libro.
Resta, per l'amore e per la morte, il paesaggio della terraferma veneta,
dei colli Euganei. Ma la conquista, al di là di qualunque cerchia muni
cipale, fosse pur Milano ο Firenze, di quell'ideale patria, e il ritorno stesso
del Foscolo esule alle sue origini, Alfieri, Parini, Bertola, risultano da una
prosa di romanzo scritta con un inchiostro ignoto alla vecchia Italia.
Questa prosa, materia e stile, ancora fa testimonianza dell'ultima vigilia
veneziana e padovana, alla scuola moderna del Cesarotti, in cui si era
conchiuso il noviziato dello scrittore.
Carlo Dionisotti

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