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Lepanto nella cultura italiana del tempo

Author(s): Carlo Dionisotti


Source: Lettere Italiane , OTTOBRE-DICEMBRE 1971, Vol. 23, No. 4 (OTTOBRE-DICEMBRE
1971), pp. 473-492
Published by: Casa Editrice Leo S. Olschki s.r.l.

Stable URL: https://www.jstor.org/stable/26258657

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Lepanto
nella cultura italiana del tempo

Alla guerra
mente, per
dopo la difesa di
trent'anni di Cipro Venezia
ininterrotta, fu costretta,
proficua improvvisa
e splendida pace. In
Italia qualche azione di guerra s'era avuta durante quel trentennio: in
Piemonte, in Toscana, nello stato pontificio. Nulla più che potesse anche
lontanamente paragonarsi con la rovinosa belligeranza del primo trentennio
del Cinquecento: erano stati gli ultimi guizzi di un incendio ormai do
mato. Dal 1560 la neutralità veneziana non faceva più eccezione: era
giunta a far corpo con la neutralità tutt'altra dell'Italia, di un'Italia diret
tamente ο indirettamente sottomessa alla Spagna. Proprio per questo
Venezia era diventata più aperta e insieme più esposta a esigenze e sug
gestioni esterne. E a maggior ragione, col resto d'Italia, più sensibile alla
minaccia di guerra che sempre incombeva oltre mare, alla pirateria spic
ciola e al pericolo di una massiccia aggressione dei Turchi. A mezza via,
nel decennio che precede Lepanto, la vittoriosa difesa di Malta nel 1565
fa spicco su ogni altro evento bellico interessante l'Italia: ne furono com
mossi non soltanto gli stati, ma anche l'opinione pubblica e la letteratura,
e poiché una volta ancora, in tale occasione, Venezia si mantenne neutrale,
e per contro a Venezia stessa la letteratura unì la sua voce a quella del
resto d'Italia con altrettanta preoccupazione prima, esultanza poi, è da
credere che proprio allora i responsabili della politica veneziana comincias
sero a rendersi conto, non soltanto, com'era ovvio, della probabilità di
una ripresa dell'offensiva turca nel Mediterraneo orientale, ma anche dei
maggiori rischi inerenti al tradizionale isolamento di Venezia e a una
neutralità, che sempre più faceva scandalo, nei confronti dei Turchi. Si
spiega che nel 1570, all'improvvisa intimazione della guerra, la reazione di
Venezia non soltanto fosse, come era da attendersi, pronta e valida tecni
camente, sul piano diplomatico e su quello militare, ma anche fosse, in
contrasto colla tradizionale prudenza e colla lunga neutralità, eccezional
mente animosa e intransigente. I precedenti storici, come per l'appunto
sottolineò il Parata nella sua H istoria vinetiana (Parte seconda, Venezia
1605, pp. 44-45), testimoniavano a favore di quelli che ancora volevano

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a ogni costo evitare la guerra: la rotta d


non doveva né poteva misurarsi da
mente di gran lunga maggiore, e l'insuc
moniva che in una guerra contro i T
guadagnare e troppo rischiava di per
l'Impero o, nelle condizioni presenti,
l'altro con una flotta affidata al coman
nostante, Venezia decise per la guer
Spagna. È difficile spiegarsi una tale de
vicenda dimostrò politicamente fragile
versu rapporto, non soltanto ne propriamente pontico, istituitosi ira
Venezia e il resto d'Italia, e conseguentemente fra l'Italia, Ven
clusa, e il mondo esterno. Bisogna insomma pensare a una attenuata
di Venezia nella legittimità e convenienza di quell'autonoma ne
mercantile, anche e in ispecie nei confronti dei Turchi, che fino
momento si era dimostrata valida, e insieme e per contro al richi
che sempre più si faceva sentire anche a Venezia, di una politica i
ad altri princìpi e fini, che non quelli di una pacifica e utile coesi
con gli Infedeli.
Negli ultimi dieci anni, volente ο nolente, l'Italia tutta era
tata pacifica, ma non era più l'Italia mercantile di un tempo: era,
Firenze poteva vedersi, un'Italia schiva dei suoi vecchi panni b
e risoluta a vestire quelli dell'antica e nuova aristocrazia feudale d
pa. Venezia ancora era, e fermamente sarebbe rimasta, antitet
renze, né certo fa contraria prova la vicenda, che proprio in quel m
diventava di pubblico interesse e che del resto è storicamente signif
di Bianca Capello, ma l'antitesi non esclude il paragone, anzi lo
giustifica. L'anno 1560 già sopra ricordato può considerarsi un
discriminante per chi voglia intendere la storia d'Italia e di Venez
quell'età, nell'età che include la battaglia di Lepanto. Per una conv
esemplificazione, basta partire dalla Rerum venetarum ab urbe co
historia di Pietro Giustinian, apparsa a stampa proprio in quell'an
indi procedendo nei decennio segnato ai suo inizio uaue conclusive scuulc
del Concilio di Trento, fermarsi sul quadro tutt'altro, che indirettamente
emerge dai dialoghi Della perfezione della vita politica di Paolo Paruta.
Non che l'opera del Paruta, pubblicata nel 1579, possa riportarsi pari pari
a quel decennio, ma anche in questo caso, come in parecchi altri, la data
e la scena a Trento della finzione dialogica hanno una ragion d'essere:
indicano le condizioni di spazio e di tempo in cui la questione discussa
era di fatto insorta con irresistibile urgenza. Nella Historia del Giustinian,
negli ultimi due libri in ispecie, dal 1522 innanzi, è un quadro mirabile
del graduale distacco di Venezia dalla crisi in cui, ai primi del secolo,
essa era precipitata con tutta l'Italia. Da ultimo è il quadro di una Venezia
ancora intatta, ancora sicura di se stessa, della sua singolarità, prosperità

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e indipendenza, pacifica e autorevole, ovunque presente coi suoi diploma


tici, attenta, non però sgomenta, agli altrui guai e al rombo di minacce
ancora lontane. Notevole è che nel quadro conclusivo, oltre la metà del
secolo, appaiono sullo sfondo, come digressioni del racconto, la storia e
struttura, militare in ispecie, dell'impero ottomano (pp. 476-478), e la sco
perta di nuove terre, di nuove rotte percorse da quelle navi che « cara
vellas Hispani vocant », tutt'insieme col trionfo della Riforma nell'Inghil
terra di Elisabetta, « petulans mulier » (p. 479), e col dilagare della Ri
forma stessa in Francia (pp. 487-488). Senza dubbio, come da quest'ultima
digressione risulta (« multi ex infima plebe atque honestae condìtionis viri,
vanis superstitionibus imbuti, Lutheri delirium sequebantur, in quos ad
extirpandam tantam fidei labem variis cruciatum generibus publice ani
madversum est, sed nec suppliciorum metus perversos insanae gentis
errores compressit debaccantiumque haereticorum insanabilis furor erat »),
il Giustinian già aveva fatto nel 1560 la sua scelta politico-religiosa in
pieno accorcio con ìa stragrande maggioranza aen opinione puDDiica e aena
cultura italiana, e non è da escludere che la registrazione, a proposito
della tragica fine di Enrico II, dell'opinione di alcuni, « qui dicerent talem
illi vitae exitum merito contigisse, quod diu rex cum Turcis arma con
sociasse! » (p. 481), già implicasse nello storico veneziano un qualche
dubbio sulla legittimità della politica neutrale di Venezia nei confronti dei
Turchi. Qua e là insomma non mancano indizi di preoccupazione, piut
tosto che semplice curiosità, degli eventi esterni e, che più conta, di una
partecipazione piena del Giustinian agli ultimi sviluppi della cultura ita
liana, di una cultura in parte diversa da quella propria di Venezia, certo
più esposta nel suo insieme alla crisi politica e religiosa del medio Cin
quecento. Ma la differenza salta agli occhi proprio là dove, nella chiusa
dell'opera sua (p. 487), il Giustinian registra la recentissima istituzione
dell'Accademia Veneziana: « Admirabileque hoc tempore Federici Ba
duarii viri ingenio clari adinventum Venetam Urbem ornavit, qui Acha
demiam hominum cunctis artibus ac disciplinis illustrium instituit, se
desque singulae earum professoribus in Bibliotheca Nicena miro ordine
assignatae sunt, ut Stoicorum Peripateticorumque vetus illa schola resur
rexisse videatur. Nam scientiarum omnium scatentes rivi profluunt, unde
uDeres Kespuoiica rructus perceptura est immortali cum authoris laude
ob praeclaram in litterario florentissimae Achademiae agone liberorum insti
tutionem ». Il Giustinian non poteva naturalmente prevedere che quel
l'accademia istituita con tanto apparato e con un programma così ambi
zioso, di così lunga oltreché grande portata, avrebbe avuto poco più di un
biennio di vita, d'una vita stenta a paragone di quel programma, e, che
è peggio, una fine così ingloriosa, quasi grottesca, per il dissesto finanziario
del suo fondatore, ma la scusabile imprevidenza dello storico non toglie
che l'elogio renda testimonianza di una fede ancora inconcussa nella pre
minenza intellettuale di Venezia, Atene d'Italia. Di fatto invece, come

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anche e per l'appunto dimostra il fallim


non era più questione di preminen2a:
la tradizionale ospitalità e il principato e
sulle iniziative e sui contributi propri de
aveva finito col trovarsi indirettamente
sentativa, che di fatto non le competev
Di qui l'imprudenza, che un tempo no
Venezia, di quell'impresa accademica,
l'opera del Giustinian ancora non traspar
a posteriori dall'opera già citata del Paru
della vita politica. Quest'opera è, come s
pensiero politico italiano del tardo Cinq
zione regionale, ma non per ciò manca d
finzione e nella sostanza, nel quadro tut
che pur s'immagina avvenuta a Trento, i
perta contrapposizione in quel quadro de
fondamentale della crisi aperta dalla s
maturato in Italia, da Machiavelli inna
irresistibile, della perfezione politica, m
tutt'altra, spregiudicata e però gelosa
l'impegno teorico e aderente alla pratica
quella propria di Venezia.
Storicamente, le vicende della guerra d
Lepanto presuppongono e rispecchiano l
fra Venezia e l'Italia. Cominciamo da
Lepanto deve essere tenuto presente e c
sente di vedere la questione dal roves
contemporanee interpretazioni veneziane
dunque il De pugna navali cursularia c
Montefiore, stampato nel 1572. Qui natu
di Venezia in Oriente è giudicata, com
gioranza in Italia, negativamente, con in
e l'aggressione turca a Cipro è salutata c
« Diu Venetos tenuit hic gravissimus err
Italiae etiam potituros si barbaris armis n
debilitari, ita diligenter amicitiam, quam
habere, obsevabant, ut si alterutrum es
delissimi tyranni partem favere quam n
post annos ex hac cum barbaris amicitia
mento cognoverunt quanto in errore ve
quasi che nel suo grosso latino non aves
ex nostris in malis gaudebant quod ho
suspiciones in Venetos tandem irrupisse
quae totius Italiae est ornamentum, ever

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qui Reipublicae Christianae iamdiu renunciasse videbantur ut Turcarum


amicitiam sibi conservarent, quantum in barbarorum perfidia esset spe
randum, tandem possent agnoscere ». E a questo modo il Montefiore spie
gava le difficoltà incontrate dalla diplomazia pontificia nelle trattative per
la stipulazione della Santa Lega: « Sed inanis astutia Venetorum, qui in
alienis periculis spectatores antea semper se praebuerant, non sinebat has
Pontificis adhortationes tantum proficere apud nostros Principes quantum
ipse voluisset: iandiu enim, si tempus accidisset, Venetis gratiam referre
constituerant ». Questo il rovescio, ο piuttosto lo sfondo, sia pur meschino
e parziale, del quadro alla vigilia della battaglia di Lepanto. Ancora esi
bLcva c Luniava li solco, cne ira Venezia e ι nana aveva scavato la prepo
tenza di Venezia nel tardo Quattro e primo Cinquecento e che in
era stato attenuato, ma non certo colmato, anzi in diverso modo
dall'isolamento e dalla neutralità di Venezia nei confronti de
ancora da ultimo, quando era stata assediata Malta, caposaldo vita
difesa dell'Italia. Del resto la nuova lega, promossa dal Papa,
mente si richiamava all'altra lega, così malamente fallita nel 15
vitabile era per i contraenti il rigurgito del passato.
Rinnegando quella politica astuta, incompatibile con la sua pert
alla « Respublica Christiana », e stringendosi in una lega offens
soltanto difensiva, col Papa e con la Spagna, Venezia si avventur
una via e a un'impresa, che non potevano più essere quelle di tr
prima. Il nemico era Io stesso e gli alleati anche erano gli stessi
là dei nomi, guardando alla sostanza delle cose, si sarebbe potut
che in trent'anni i Turchi e Venezia non fossero sostanzialmente
Come allora, così anche ora la Francia era esclusa dalla lega.
questo punto, di contro alla Francia, salta agli occhi la differ
Carlo V e suo figlio, e insomma l'esclusione dalla nuova lega del
politicamente e militarmente, se anche di fatto soldati tedeschi c
sero poi nella battaglia di Lepanto, la nuova lega rispecchiava la
ormai insuperabile aperta in Europa, sulla linea del Reno e del D
dalla Riforma religiosa. Onde anche, a scapito di Venezia, la con
zione della guerra nel bacino mediterraneo per tutta la sua lungh
soltanto nel bacino orientale, e per contro l'esclusione del fronte
complementare, danubiano e balcanico. Accanto a aueste oreoccun
ferenze restrittive, la nuova lega ne rivelava però altre che, pur
anche per Venezia preoccupanti, erano al tempo stesso attraenti.
di Pio V, nella persona del suo capo e nella sua struttura, era in
bilmente più degna di fiducia, più scoperta nei suoi procediment
che non quella di Paolo III. E tanto più stretto era l'accordo f
maggiori alleati, Chiesa e Spagna, e perciò tanto più forte potenzi
che non fosse al tempo di Paolo III e di Carlo V. Era, nonostante
zione della Francia e dell'Impero, la forza della Controriforma c
e anche era la forza di un'Italia, che nell'ultimo decennio si era

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mente e militarmente riorganizzata e r


lunga più compatta, sotto l'egida dell
fosse prima. Aggredita dai Turchi, V
sua politica di isolamento se non acc
in pace ο in guerra, a un prezzo altissim
badasse all'utile. Si spiega che finisse col ce
si levava, di una politica eroica, della
essendo approvata dall'esperienza, era a
pubblica, senza dubbio corrispondeva al
lenti nell'età nuova, e insomma promet
attiva, di primo piano, nel sistema pur
apparteneva, dell'Italia cattolica. Infatt
firmata, la sola previsione di essa, cio
crociata, provocò una mobilitazione spo
dominio veneziano come in tutta Italia.
ctntî rv-vr» un imrtAtrrtrt Ai mpvvi ρ Ai tmmînî r\fnnnr7Înfmtompntp nntMrnliç.

simo, e risposero gli individui, i cosiddetti avventurieri, il fiore dell'aristo


crazia italiana. Quarant'anni prima, per salvare ο comunque aiutare Fi
renze, non si era mosso nessuno. Prima ancora, si era ben visto quanti e
con che animo si fossero mossi per salvare Roma dal Sacco. Parrà forse
riscontro paradossale, ma non sarà inutile ricordare che, risalendo ancora
più indietro nella storia del Cinquecento, un'analoga mobilitazione di gran
parte dell'Italia, non per combattere, ma per dare addosso a qualcuno,
solo si era avuta al tempo della lega di Cambrai contro Venezia. Ora invece,
nel 1571, Venezia si ritrovava investita, forse anche più di quanto le
piacesse, dal vento favorevole di un'Italia decisa a combattere. Non era
più l'Italia dell Orlando furioso, la girandola delle donne e dei cavalieri,
delle armi e degli amori, delle cortesie e delle audaci imprese, quel
mirabile guazzabuglio della fantasia e del cuore umano. Era l'Italia eroica
e tragica della Gerusalemme liberata. Il caso volle che in quella generale
mobilitazione brillasse per la sua assenza proprio la Ferrara degli Este
e del Tasso, ferita nel suo orgoglio e nel suo destino dalla questione di
precedenza con Firenze e dalla recentissima promozione granducale di
Cosimo de' Medici. Come sempre, a un attento esame, il caso scopre una
sua ragion d'essere. Di tatto l'Italia insorta con Venezia an impresa ai
Lepanto era più innanzi sulla via prosastica e austera della perfezione poli
tica cristiana, sulla via insomma che attinge il Soliloquio del Paruta, di
quanto risulti l'Italia rappresentata dalla Gerusalemme del Tasso, del
poeta che, reduce proprio allora dalla Francia, viveva e scriveva nell'ario
stesca Ferrara, accanto ai figli e alle figlie dell'eretica Renata. Certo sulle
galee di Lepanto anche erano imbarcati i protagonisti di future tragedie
amorose e demoniache, gli Orsini, gli Accoramboni, ma storicamente conta
che fossero imbarcati in buon numero e debitamente registrati dalle fonti
contemporanee i Cappuccini e i Gesuiti, i commissari politici, avremmo

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detto noi un tempo, della nuova crociata, voluta e diretta dalla Contro
riforma cattolica.
Investita da quel gran vento di battaglia, Venezia finì coll'indursi a
combattere, come non aveva mai fatto prima, alla disperata, per l'onore
e per la gloria. Dopo la caduta di Famagosta, dove un eccellente sistema
difensivo era stato tradito e vinto, prima che dai Turchi, dalla tradizionale
riluttanza veneziana a combattere con forze adeguate, al momento giusto,
correndo gl'inevitabili rischi, era venuto meno ogni motivo di affrontare
la flotta turca per riaprirsi la via verso Oriente. Né a quella data, ai primi
d'ottobre, era prevedibile una insistenza dei Turchi nell'offensiva lungo
le coste adriatiche o, se pur fossero stati vinti, come di fatto accadde, uno
sfruttamento del successo proporzionato alla grandezza del rischio. Tutte
le fonti storiche italiane si accordano nel rappresentare come un fatale
errore dell'ammiraglio turco la decisione di attaccare ο accettare la bat
taglia. Ma fu decisione, da parte di uomini, come i Turchi erano, abituati
aila vittoria e con buone carte in mano per vincere, di gran lunga più ra
gionevole che non quella dei loro avversari. A norma, non soltanto della
tradizione veneziana, ma generalmente dell'arte militare italiana di allora,
la decisione di affrontare in quel momento la flotta turca appare inspie
gabile. È probabile che da entrambe le parti si contasse su una prudente
ritirata dell'avversario. Così infatti, all'inizio della battaglia, manovrarono
il Doria e il suo avversario diretto, i due comandanti più esperti.
Ma lo sviluppo e l'esito della battaglia dimostrano che alla superiorità dei
Turchi nella manovra i vincitori furono in grado di opporre, non soltanto
mezzi tecnici superiori nel combattimento a distanza, il fuoco cioè delle
galeazze e degli archibugi, ma anche, in modo decisivo nell'arrembaggio,
una imprevedibile baldanza e ferocia e determinazione di vincere ο morire.
È la baldanza splendidamente ritratta da un testimone e storico napoletano,
Ferrante Caracciolo, conte di Biccari, nei suoi Commentarli (Firenze 1581),
là dove racconta quel che accadde sulla tolda della nave ammiraglia della
Lega e di Spagna nel momento in cui le opposte flotte, correndosi incontro,
si apprestavano alla battaglia ormai inevitabile: « Allora Don Giovanni
intrepidamente andò a prua e facendo sonar le trombe a battaglia, era in sì
ardente desiderio d'attaccar presto la zuffa che, tratto da giovami ferocità,
fece suonar i pifferi e sopra la rombata con due cavalieri ballò la ga
gliarda ». Questa era baldanza spagnola, ma poiché si è troppo insistito
sulla responsabilità dell'ancor giovane e ambizioso, non però inesperto
Don Giovanni d'Austria nella decisione di dar battaglia, quasi che da lui
dipendesse il destino di un'armata di quella mole e di quella composi
zione, sarà bene volgere l'occhio alle galee veneziane, che per il loro
numero costituivano il nerbo dell'armata. Ecco dunque ritratto dal già
citato Caracciolo, con la debita ammirazione ma non senza una punta iro
nica, il comandante di quelle galee nel momento dell'azione: « Del Veniero
si potè notare un grand'animo, il quale, conoscendosi decrepito, stava

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480 Carlo Dionisotti

armato d'una corazza all'antica, in piane


battendo coraggiosamente ». Ed ecco lo
una tutt'altro mano, di un legista vene
solo a parole, Emilio Maria Manolesso: «
per tutti i secoli fu bene vedere il Ven
sua vecchiezza soldato novello, avanzar n
il serpente alla primavera uscito di ten
della nuova e splendente scorza altier
che mai robusto, col fuoco degli occhi e
va, ad ogni animale terror e morte app
chiaro acciar che il capo li arma e il b
con la toga la vecchiezza deposta e vesten
gioveni e gagliardi membri vestito, con
l'armi prove onorarissime ». Secondo lo
caso ineccepibile, « la longa, folta e bia
vice-ammiraglio veneziano, Agostino oarDango, moriannenie lento neiia
battaglia. Anche il Barbarigo, che aveva sulle spalle vent'anni meno del
settantacinquenne Veniero, non era e dimostrava di non essere più u
giovanotto. Entrambi erano uomini di toga, inesperti della guerra, di quel
navale in ispecie. Solo a Venezia uomini cosiffatti, di quella età, potevan
essere chiamati al comando di una flotta. Per buoni motivi del resto: da
tempo immemorabile la flotta veneziana non si era più esposta al cimento
di una battaglia decisiva. Vero è che bisognava risalire indietro d'oltre un
secolo per imbattersi in una battaglia navale che, per la quantità e qualità
delle forze contrapposte, fosse in qualche modo paragonabile alle no
poche memorabili battaglie terrestri della recente storia italiana. E anche
allora, a Ponza, protagonista era stata la flotta di Genova, non quella di
Venezia. Per oltre un secolo, nella guerriglia e guerra di corsa combattuta
senza soste da un capo all'altro del Mediterraneo, Genova, piuttosto che
Venezia, aveva mantenuto alta, ο per lo meno a galla, la sua tradizion
e reputazione marinara. Infatti, proprio a Lepanto, nell'imminenza dello
scontro, ancora si dimostrò il diverso conto che, a torto ο a ragione, i
direttamente interessati e competenti Turchi facevano delle due ali, ispan
genovese e veneziana, dello schieramento nemico. Che poi il calcolo risu
tasse sbagliato, e che il vantaggio conquistato a sinistra in battaglia ma
novrata contro il genovese Doria, ritenuto avversario più abile e temibile
fosse annullato dalla disfatta subita al centro e verso terra in una mischi
■ -1- - A+vViiKiinrî «a A nll* nrr£*nr\l~\a crcrl r\ f* altro Cl IIP
ov.iJ.aiu>

stione. Schieramento e manovra dei T


monianza, altrimenti sospettabile, de
stima delle galee ponentine, per le
Sicilia insino a Spagna, e principalm
loro Ulan Capitano, cioè il Capitano
non tener conto, se ben fussero mille

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Lepanto nella cultura italiana del tempo 481

dall'esperienza, anche da quella di più fresca data, risultò sbagliato, perché


quei vecchi uomini di toga che Venezia aveva eletto al comando in nome
di una più che secolare tradizione temporeggiatrice, e che certo non avreb
bero mai dato battaglia in condizioni di virtuale equivalenza delle opposte
forze e pertanto di estremo rischio, se si fossero trovati soli a dover deci
dere l'impiego e il destino dell'intiera loro flotta, a Lepanto, imprevedibil
mente, si gettarono allo sbaraglio, emulando i più giovani e più esperti
capitani alleati.
La vittoria fu quant'altra mai sanguinosa, conquistata con enorme sa
crificio di vite umane: Venezia in ispecie subì, vincendo, perdite superiori
di gran lunga a quelle di ogni più grave disfatta negli ultimi due secoli.
Era un sacrificio accettabile e apprezzabile dall'ideologia politico-religiosa,
in cui era maturata la decisione di combattere, non dalla ragion di stato,
non dai responsabili della politica veneziana. Questi non tardarono a fare
nei termini loro propri un bilancio delle perdite e dei guadagni, un bi
lancio anche di previsione qualora si fosse andati avanti per quella via, e a
torto ο a ragione decisero di ripetere esattamente, dopo una strepitosa
vittoria, la mossa operata trent'anni prima dopo una vergognosa disfatta:
il distacco senza preavviso dalla Santa Lega e a ogni costo, a gravissimo
costo, l'accordo coi Turchi. Di questa dura decisione, senza dubbio la più
rlnra γΙτρ α Vpnp^iii fnqcp rvrpcci ìn ππρΙ çprnîn nnn ri tnrra nni mnctrlprarp

i motivi e gli effetti propriamente politici. Dobbiamo però partire dallo


storico politico per eccellenza, dal Paruta, che mirando nell'opera sua a
giustificare la finale decisione veneziana seppe rappresentare mirabilmente
il contrasto fra l'esultanza popolare dopo la vittoria e la preoccupazione
degli « uomini di più sano e di più maturo giudizio, li quali con l'espe
rienza delle cose passate andavano i futuri successi misurando ». La figura
zione dell'esultanza nell'esordio del libro III del Paruta è polemica e
parziale, ma certo coglie nel segno: « la vittoria ... aveva negli animi di tutti
destate grandissime speranze e altissimi concetti ... tutti in ogni luogo,
fatti uomini militari, popolarmente e spesso con vanissimi disegni discor
revano in qual modo, valendosi di tanta occasione, usar si dovessero le
forze de' collegati ». Come da questo passo risulta, il contrasto non era
solo fra l'esultanza popolare e la preoccupazione degli uomini savi: anche
e anzi tutto era fra uomini capaci di concetti e disegni politico-militari. La
11- J: 1- L J:
lox V-4JL una Lanka uv.v,aûiwij.v.,

di tradurre insomma e fermare nella realtà quel che ancora pareva, e


parte era, un sogno ο miraggio dell'immaginazione, un miracolo d
fede. Il genovese Montefiore che, pur essendo uomo di chiesa, aveva, co
già si è visto, i piedi sulla terra, attesta nel suo commentario che, qua
a Genova giunsero le prime notizie della vittoria di Lepanto, i più no
volevano credere, perché le notizie « somnis atque fabulis viderentur
milia ». A Venezia, nella prima solenne celebrazione della vittoria
S. Marco, il carico dell'orazione ufficiale toccò a un umanista, G. B. Rasa

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482 Carlo Dionisotti

che per questo solo titolo ha tramandat


tamente del resto, perché la sua orazio
fretta e subito pubblicata (Venezia, Val
bene informato e pensoso. L'orazione
non basta vincere: « non satis esse vi
diceva l'umanista, che non era veneziano
suo uditorio. Infatti non toccava all'o
presentasse con parole dette ο stampat
dovesse farsi della vittoria. Toccava i
della politica. Ma il preesistente contra
neamente appianato, fra i responsabili v
a una tutt'altra politica, e la pression
Italia e nella stessa Venezia mirava alla
non era una polemica invenzione del Pa
toria, per la scissione e la sproporzione
che i letterati fecero della vittoria, sub
che i politici responsabili si trovarono
cessivo, silenziosamente, con angosciosa
questa vittoria risonantissima in tutte le p
frutto, ma in sé medesima agghiacciars
poteva scrivere meglio, uno storico v
(Historia vetietiana, Venezia 1598, p. 89
vittoria di Lepanto fu, com'è noto, am
riore a quella di ogni altro evento della
to quantitativo, quel cumulo enorme d
sato un evidente e del resto giustificabi
diventati più coriacei, e comunque p
dati quantitativi e a un'analisi qualitativ
semplicemente sia descrittiva e caratter
alla celebrazione letteraria è, nelle condi
Anche più significativo è per la sua dist
sociale. Alla battaglia avevano parteci
regioni d'Italia. Geograficamente analog
anche questa, per ovvi motivi editori
o/inHccimn fu il i-rtntriLiitn Ac] rpsto
ampia raccolta di sole poesie latine is
victoriam contra Turcas iuxta sinum Co
partant poemata varia, fu stampata a V
insieme a Roma da un giovane umanista
anche era la destinazione, come prova
raccolta comprende un centinaio di poe
Notevole è, trattandosi di poesia lati
numero due autori soli risultino dichia
non si qualificano gli italianizzati Achi

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Lepanto nella cultura italiana del tempo 483

tevole anche è che questa raccolta tutta latina quantitativamente prevalga


di assai su ciascuna delle altre due raccolte poetiche plurilingui, messe
insieme e stampate a Venezia nello stesso anno: l'anonima Raccolta di
varii poemi latini, greci e volgari fatti da diversi bellissimi ingegni nella
felice vittoria riportata da Christiani contra Turchi alli VII d'ottobre del
MDLXXI, in due parti, e il Trofeo della vittoria sacra ottenuta dalla
Christianissima Lega contra Turchi nell'anno MDLXXI, rizzato da i più
dotti spiriti de' nostri tempi, nelle più famose lingue d'Italia, con diverse
rime raccolte e tutte insieme disposte da Luigi Groto, Cieco di Hadria. La
prevalenza o, quando pur si mettessero insieme le tante rime in lingua
ο in dialetti sparsamente pubblicate in quell'anno, l'equivalenza del latino
certo non è normale in Italia a una data così tarda. Una forte ripresa
umanistica s'era avuta nell'ultimo ventennio, ma piuttosto nel campo della
filologia e dell'antiquaria, come dimostra il nome stesso del card. Sirleto,
dedicatario della raccolta del Gherardi. Questa ripresa aveva favorito
anche, marginalmente, l'esercizio della poesia latina, senza però rimettere
in questione la prevalenza ormai normale della lirica volgare anche a livello
accademico. Si direbbe che, in occasione della vittoria di Lepanto, la poesia
latina improvvisamente risorgesse in figura antagonistica accanto alla poesia
volgare, quasi che nella scelta linguistica si riflettesse la tendenza della
letteratura ad appropriarsi di un evento così nuovo e grande, sottraendolo
al controllo dei politici, e imponendo dell'evento stesso un'interpretazione
religiosa e romana insieme, direttamente ostensibile in quella lingua ai
lettori di tutta Europa. Certo è che questa mobilitazione della poesia latina
importò allora una mobilitazione di cultura prevalentemente ecclesiastica.
Non mancavano umanisti laici né gentiluomini capaci di comporre un
epigrammetto latino, ma a priori, senza sobbarcarsi al difficile compito di
una riprova documentaria, si può e si deve credere che l'assoluta maggio
ranza di quei versificatori in tanto fossero abili e disposti a servirsi del
latino, in quanto erano ecclesiastici. Con ciò, passando a una qualificazione
sociale, si tocca un punto importante per Venezia, e che a Venezia, più
speditamente e precisamente che altrove, può essere chiarito.
La lega prima, la vittoria poi, finalmente l'esuberante celebrazione let
teraria e popolare e per contro l'insuperabile difficoltà di far uso pratico
della vittoria provocarono, come in parte già s'è visto, un improvviso e poi
crescente sconquasso nei tradizionali rapporti di Venezia col resto d'Italia
e anche all'interno del dominio nei rapporti coi suoi cittadini e sudditi. A
questi inevitabilmente Venezia aveva dovuto fare appello e imporre ecce
zionali sacrifici per una guerra così dispendiosa e sanguinosa. I festeggia
menti popolari e la stessa celebrazione letteraria della vittoria a Venezia
testimoniano di un allentamento dei freni, di un rimescolio delle classi, di
una più libera e vivace iniziativa dal basso e dalla periferia. Letteraria
mente, le tre raccolte poetiche sopra citate, e in prosa un paio di orazioni
del Groto, prima e dopo la battaglia, quella già citata del Rasario e quella

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484 C.arln T)inni<:ntfi

comunemente nota del Parata, finalment


torneremo fra poco, potrebbero bastar
proporre all'indagine un quadro ben def
Bibliograficamente, il quadro è tutt'alt
posti da una scelta letteraria si aggiung
scoli, che insieme compongono un capit
l'editoria popolare cinquecentesca. Ne ri
urgenza e larghezza della richiesta, ma
larghezza dell'offerta. Non esiste altro
tutta Italia, di una tale mobilitazione
qui, a basso livello, la conferma decisiv
e sociale, che a guardar bene emerge anc
letterariamente più cospicui. Il Parata f
della classe dirigente, e a quella data non
potesse far spicco, né individualment
1 Accademia Veneta, che poco più di die
giamenti di Federico Badoer e nel solenn
non si vede più traccia nella celebrazione
a Venezia. La celebrazione è tutta, ost
Non necessariamente più basso da un
ferma, perché non mancano fra gli auto
cati fra i combattenti a Cipro e a Lepan
sottomesse a Venezia, dal Friuli a Bresc
dal punto di vista politico. E, che più
noto che a Venezia esisteva da tempo
dialettale. Ma l'esuberanza della celeb
parificazione di essa a stampa, nelle ste
lingua, non si spiegano sulla sola base
gnano una svolta brusca, cui senza dubb
sviluppo, propriamente linguistico-Ietter
lora riconosciuto e chiarito dal Cieco d'
alla sua raccolta, ma che anche fu determ
Venezia, da un eccezionale reflusso della
malmente tenuto sotto buona guardia, d
di uno sconquasso festoso si trattava
poiché la guardia, se anche si fosse mom
era certo dileguata, latino e dialetto, ai
strumenti di comunicazione meno risch
impiego, che più fa spicco nella celebra
Lepanto, prefigura il rapporto sempr
l'ultima, fugace ora di gloria, si doveva
e il popolo di contro a una struttura po
sviluppi.
Questa prefigurazione subito ci richiama a un importante aspetto, che

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Lepanto nella cultura italiana del tempo 485

ancora ci resta a considerare, della celebrazione letteraria di Lepanto. Allo


sconquasso popolare e festoso, seguito a Venezia e nella Terraferma, il
tempo sarebbe stato sufficiente rimedio. Ma lo sconquasso nei rapporti di
Venezia con Roma e coi rappresentanti interni e esterni della Chiesa di
Roma, non era tale da poter essere semplicemente affidato al rimedio del
tempo. Sempre era stato un tasto sensibilissimo della politica veneziana.
E più che mai era e sarebbe stato nel prossimo futuro, come per l'appunto
dimostra l'opera tutta, teorica e storica, del Paruta. Ora è notevole che,
quando si scartino effimere e sostanzialmente innocue orazioni, relazioni
e poesie d'ogni provenienza, restino a testimonianza della celebrazione
letteraria veneziana della vittoria di Lepanto due opere storiche, apparse
nel 1572, una a Venezia, l'altra a Padova, che entrambe offrono in diversa
misura chiari segni di uno slittamento politico dalla parte di Roma. I due
autori, Gio. Pietro Contarini e Emilio Maria Manolesso, erano, e subito
apparivano per il loro nome, veneziani, ma non erano gentiluomini: la rap
nfPCPfltiitV7a IpftPMflo ri 1 7lo r\\e> c/-»i*iv7É»f»/-4/-v ο τνπΙλΙλ! ΐ r

vano, non era sorretta né tanto meno autorizzata da una responsabilità


politica. Il Contarmi dedicava la sua Historia delle cose successe dal prin
cipio della guerra mossa da Selim Ottomano a' Venetiani fino al dì della
gran giornata vittoriosa contra Turchi a uno dei maggiori rappresentanti
del clero veneziano, al Grimani, Patriarca di Aquileia, e celebrando nella
dedica quella grande famiglia, grande anche nel prossimo passato e nel
presente per titoli e benefici ecclesiastici, non mancava di sottolineare la
tesi religiosa a suo giudizio proposta dagli eventi: se anche risulti « l'im
menso della prudentia e bravura di tanti prencipi, gentiluomini e soldati
che si sono trovati in questa giustissima guerra », chiaro anzi tutto risulta
che « questa sacra vittoria è piena più dell'immensa forza e miracoloso mi
sterio di Cristo figliuol di Dio a favor de' suoi Cristiani ». Quali fossero le
conseguenze di questa tesi, può vedersi là dove il Contarmi tocca la que
stione, che più doveva scottare a Venezia, del mancato soccorso a Fama
gosta per il richiamo a Messina del provveditore Querini con le sue galee
nel momento in cui forse sarebbe stato ancora possibile rifornire e sal
vare la città assediata. Questo il commento insolitamente e sintomatica
mente brusco del Contarini (c. 30): « lodare si può Iddio d'ogni impedi
mento fin qui occorso, che tutto è stato a beneficio de' Cristiani, non es
sendo dubbio che. se Ί soccorso era euidatn da ventirinrinp nwr 1-rpnta
galee in Famagosta, l'armata della Lega senza esse non combatteva né cer
cava giornata, sì che mettasi silentio a tutti, e lodisi Iddio di quanto fin
qui ci ha donato ». Notevole anche è, in questa sede e occasione, la voluta
ripresa di un motivo tipico della letteratura turchesca, che in passato aveva
sempre riconosciuto, più ο meno a denti stretti, comunque a vergogna
della corruzione cristiana, taluni aspetti ammirevoli della vita e disciplina
di quegli infedeli, aspetti tali da giustificare, ove Dio non si fosse un
giorno opposto, la loro invincibilità e potenza. Immaginando il dibattito

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486 Carlo Dionisotti

avvenuto prima della battaglia fra i com


attaccare, il Contarmi fa dire, tra l'alt
queste parole: « Sono costoro sopra il tu
Dio, ricchi di preciosi vestimenti, carich
nito numero di danari e monitioni;
piamo che sia bestemmia alcuna, si river
siamo in unione e riverentia » (c. 40v).
Di gran lunga più esplicita, ambiziosa
nolesso, come già risulta dal lungo ti
contengono tutti i successi della guerra
di Nortfolch contra la Regina d'Inghilte
Zelanda et Holanda, l'uccisione d'Ugonot
de' novi, e finalmente tutto quello che
fino all'ora presente. Cominciando anch
che dopo aver dedicato il primo libro
dedicasse il secondo all'ambasciatore di S
canonico di Toledo, e il terzo al vesco
Venezia, il futuro Innocenzo IX. Insiem
rispondono e rendono omaggio all'allean
la Chiesa, e anche corrispondono al cont
dal titolo, mira a inquadrare la guerra
Lepanto nella storia europea dell'ultim
quali Venezia non aveva avuto alcun
importanti per la Spagna e per la Chies
nel racconto di questi eventi il venezia
dubbi né riserve: accetta e fa suo il p
Chiesa. Resta che, anche cronologicamen
alla battaglia di Lepanto, potevano esse
del Manolesso sono tutti raccolti nel te
giustapposti, appaiono conseguenti all
successivi di una stessa impresa. Di uno
ì.ì Λ C /vi λ X /J/if/v Ìl «vfonnniineio <111 CI iìno ol
χα nviiv

libro: « questo lugubre e mesto fin


anno infelicissimo per la Cristiani
simo re di Francia, essendo nel pos
aspettava la destruttione delli Ug
sommo Pontefice, del Re di Spag
eretici suoi rebelli, restituendo a l'
onori, gradi, stati e facoltà, e dand
e autorità di predicare publicamen
verse, abominevoli e diaboliche, no
qual pace ne seguì poi, come direm
beneficio al Cristianesmo, e il fine
tissimo zelo del Re Cristianissim

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Lepanto nella cultura italiana del tempo 487

primi giovenili anni, prudenzia » (c. 42v). Dopo di che non indugeremo
a cercare nel terzo libro (cc. 90-94v) di un'opera che risulta stampata a
Padova nel 1572 (ma certo, secondo lo stile veneziano, nei primi mesi del
1573) il racconto di quei recentissimi eventi francesi, di « un accidente
a quel regno e a tutto il Cristianesmo molto utile ». Qui la « inaudita
prudentia », attribuita nel primo libro al ventiduenne Carlo IX, è con
maggiore verosimiglianza riconosciuta propria della Regina madre, che
invece era stagionata, capace di procedere « in questo negotio con quella
prudentia et arte, con la quale, tenendo i suoi pensieri pieni di sapientia
e fede nascosti, ha in tanti travagli conservato a' figliuoli pupilli il regno
e estirpati alla fine i suoi nemici », e insomma capace di vedere al mo
mento giusto « che non bisognava più tardare da scoprire la sua santissima
mente tenuta tant'anni con inaudita prudentia nascosta ». Era stata una
lezione di politica machiavellica tale da far sbalordire in Italia, patria
allora, e non soltanto allora, del dilettantismo politico, uomini più maturi,
più esperti e più presuntuosi del legista e teologo Manolesso. Ma questi
non era un ragazzo, e a trentacinque anni era abbastanza presuntuoso per
non voler apparire sorpreso da un così mirabile evento: « Questo fu il
fine dell'Ammiraglio e suoi, come io subito che intesi la pace fatta da
Sua Maestà con li Ugonoti (quella cioè di S. Germain, commentata, come
s'è visto, nella chiusa del primo libro), senza altro stimai dover succedere,
del quai mio pensiero Antonio Guido, persona letterata e dotta, me ne
sarà buonissimo testimonio, al qual io scrissi l'infrascritta in risposta
d'una sua ». Segue il testo di una lunga lettera, datata di Venezia il 16 set
tembre 1570, un vero e proprio discorso ο parere politico, inteso a dimo
strare che per quattro cause un Principe « può divenir eretico » e che
nessuna delle quattro si applicava in quel momento al Re di Francia, sicché
bisognava pensare che la pace segnata cogli eretici fosse piuttosto una tre
gua e mirasse ad altro fine. Poco prima della Notte di S. Bartolomeo era
fallita in Inghilterra la congiura del Duca di Norfolk contro l'eretica regina
Elisabetta, « con grave danno della Cristianità », perché, « quando fosse
succeduto, ne sarebbe riuscito infinito beneficio universale » (c. 78v).
Anche nei Paesi Bassi le cose avrebbero potuto avere un più spedito e
favorevole corso: forse il duca d'Alba, volendo stravincere, aveva esasne
rato la resistenza degli eretici « adimandati gbeosi in quei paesi » (c. 82),
ma il recentissimo sacco di Malines faceva sperare bene.
Tale, fin dal 1572, con una immediatezza inspiegabile senza una matura
predisposizione ideologica, il quadro in cui uno storico veneziano giustifi
cava e celebrava la vittoria di Lepanto. Era un quadro a quella data, poco
prima che la Lega Santa si sciogliesse, verosimile. Storia e cultura si
accordavano nel promuovere la crociata della Controriforma cattolica sul
duplice fronte dei Turchi nel Mediterraneo e degli eretici in Europa. Già
nel 1571, prima di quella insperata, miracolosa vittoria, proprio a Padova
era apparso a stampa un discorso di Don Marco Uberti Correggiaio da Pavia,

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488 Carlo Dionisotti

Accademico Affidato col nome di Biante


Della vera maniera di vincere il Turco,
una predica tenuta cinque anni prima n
gli eretici dovevano considerarsi « as
i Turchi », che per combattere questi po
« che per la maggior parte sarà eretico
cattolico », come era stato quello che p
in Ungheria, e che più felicemente era
« mercé d'Iddio, appo cui valse molto c
dati cattolici ». L'autore di questo disco
J:_: - ; ... J-11- : -11 J: I-. .. -- 1>
υια uigxuiiu ν- xuvuiaiiLV uv-xxa x^xvxxv.a axxuxa ux xxxvua· \λ ov_. χ vj-'v.xa ν

come opera - scriveva nella dedica - ella è pur molta com


Altra volta caricheremo più la mano ». Non occorreva maggi
discorso rispecchia l'intransigenza e veemenza, per cui la Con
cattolica poteva ormai opporsi ad armi pari, in un duello sen
alla Riforma protestante: intransigenza morale e veemenza a
immaginosa nell'atteggiamento di fronte alla vita e alla stor
confronti della propria parte come di quella avversa. « Di tutt
che già tutto fu Cristiano insino all'America (come congettur
nel protestano), la maggior parte al paganesimo è ritornata.
zato, parte, e gran parte, è doventata eretica. Il restante, da
infuori, ... ο che son farisei e ipocriti... ο che son publicani e
carnali, rapitori, ingiusti, adulteri e peggio » (c. lv). Inuti
frontare ai nemici esterni senza essersi prima temprati intername
gran cosa veramente è che la giustitia si voglia a casa d'altri e
a casa propria. No, no, un barbiere rade l'altro qui» (c. l
guerra ai Turchi, « confidanza maggiore e meglio fondata ci
stizia maggiore e migliore: se queste due cose avremo, comba
che vinceremo; se no, perderemo » (c. 42v).
È inutile chiedersi se a Padova lo storico Manolesso fosse i
di questo discorso ο addirittura avesse famigliarità coll'autor
1571, al momento della stampa, era lì, nel monastero di S. G
Τ3/Ιί<+Λ fi 1 <1rT/l ΚΛ λποΙλζ» ΠλΙΙλ pfAfîn <4o1 Ainnr\1i»ccA tnft'nlffA

uomo, affiorano le nervature di quella intransigenza controriformistica.


Non si spiegano altrimenti, in una storia contemporanea e in un ambiente
così stretto e controllato, giudizi come questo sui due cardinali veneziani,
Francesco e Alvise Pisani, zio e nipote, morti entrambi nel 1570: « il zio
lassò, non alla patria, come già fece il card. Zeno, né distribuì a poveri,
come dovea, ma a suoi dugento mille ducati, e il nipote quattro mille alla
concubina e ventitre mille a due figliole, il qual testamento, essendo alle
leggi canoniche contrario, fu da Sua Santità cassato e annulato » (c. 26).
E a proposito di poveri, notevole è il rilievo delle conseguenze che la
guerra aveva avuto a quel livello nelle condizioni interne di Venezia: « la
plebe, essendo per el mancamento de' trafichi in somma, non dirò povertà,

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Lepanto nella cultura italiana del tempo 489

ma mendicità redutta, se doleva » (c. 45). E ad alto livello, notevole è


l'asprezza del rilievo dato all'inchiesta condotta a Venezia, dopo i disastri
e insuccessi del primo anno di guerra, sulla condotta del generale Zane,
che anche il Manolesso riconosceva probabilmente innocente, e di altri
comandanti: « perché, come il mare non può entro di sé tenere alcuna
carogna ma subito la getta al litto, parimente Venetia, non potendo vedere
gl'uomini macchiati e vili, li scaccia da sé » (c. 48v).
Insomma la guerra contro i Turchi, al di là di una splendida, tragica e
sterile vittoria, non soltanto s'inquadrava nella generale mobilitazione e
rivincita italo-spagnola contro gl'infedeli, quali che essi fossero, ma anche
importava e giustificava una riforma interna, nei rapporti e ordinamenti dei
fedeli, un maggior controllo religioso e morale, da parte di chi fosse inve
stito di autorità religiosa e morale, sull'attività dei politici. Giova a questo
punto rivolgersi da Venezia a Roma, pur attenendosi a esempi che siano
in certa misura ambivalenti. Nel 1572 apparve a Venezia, opera di un
Cosimo Filiarchi da Pistoia un Trattato della guerra e dell'unione de'
principi cristiani contra i Turchi e gli altri Infedeli. Come dal contesto
risulta e come l'autore stesso conferma in altra sua opera, il trattato era
stato scritto prima della vittoria di Lepanto. Si capisce leggendolo, perché
nei frangenti della guerra ne fosse differita a Venezia la pubblicazione, e
perché fosse poi, così com'era, pubblicato dopo la vittoria, quando ogni
cosa su quell'argomento aveva smercio sicuro. L'anno stesso, essendo a
Pio V succeduto Gregorio XIII, il Filiarchi, che col nuovo Papa aveva una
qualche famigliarità, si affrettò a dedicargli due opere, che entrambe appar
vero a Roma nel 1573. Nella prima, che è un Trattato della frequente et
benigna audientia che debbe darsi da principi, con ripetuti elogi della
imparziale e rigorosa amministrazione della giustizia a Venezia ma con
una significativa insistenza su un rapporto più diretto e più aperto fra i
principi e i sudditi, all'insegna insomma di un governo assoluto, notevole
è il rilievo che a proposito del nuovo Papa assume la « vittoria contra gli
Ugonoti », cioè la recente strage della notte di S. Bartolomeo: « a pena
si messe a sedere in quella Santa Sede, che ebbe una tanto miracolosa
vittoria, mediante la quale si è purgata la Fiandra, spestata la Francia,
spaventati gli eretici, atterrito il Turco e assicurata tutta la Cristianità ».
Moti tiijfp rlii» l'ontrttA erkprvnceo aftnrin«rto«/4cv olio <♦>

vittoria ... non ne perì neppur uno de' nostri » (pp. 75-76). Certo la vit
toria di Lepanto era stata alquanto più costosa, e a distanza d'un anno
bisognava riconoscere che non aveva purtroppo dato i frutti sperati: « nel
seguente (anno), che è questo del 1572, l'armata cristiana partì più ani
mata e con maggiori forze di prima, s'abboccò col nemico debilitato e im
paurito, ed è ritornata senza far niente ». Così il Filiarchi nell'altra sua
opera, che è un Trattato della Lega e del seguitar la guerra contra il Turco,
nel quale, come sufficientemente dichiara il sottotitolo, dispensandoci da
un esame del testo, « con la Sacra Scrittura, ragioni e istorie antique e

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490 Carlo Dionisotti

moderne si mostrano le cause che possa


vittoria e che debbano indurre i Princip
del Papa sopra di loro; si persuade
Il Filiarchi scriveva sotto la sferza della
si prevedeva a Roma, specie a quel livello
fatto pace coi Turchi. La questione ancor
1573 la guerra della Lega Santa vittorios
romana fosse di una dieta di principi, ch
del Concilio di Trento portasse al ricono
e sotto di essa a un concorde sforzo belli
e Turchi.
L'improvviso annuncio della pace « res
sospesa », come ancora a fine secolo ebbe
il già citato Doglioni, che certo non usav
danti la sua città aveva imparato a essere
fu, com'è noto, la reazione del Papa e
Doglioni aggiungeva che l'ambasciatore v
pena potea stare nella propria sua stan
in Roma, ché egualmente in Ispagna e
disfattion si scorgeva» (pp. 897-898). Ques
nprrl-ip tarAi ρ rl'nrrn ctnrìrn ÌrrpcnnnciiÌvIp TsJAtnrAlmpntp hisnana qii niipstn

punto far capo allo storico responsabile per eccellenza, al Paruta, che re
gistrando la violenta reazione di Roma, insiste sulla reazione tutt'altra,
negativa ma controllatissima, della Spagna: « generalmente gli Spagnuoli,
nella corte di Roma e di Spagna, procedendo con grandissimo tempera
mento, non ne dimostrarono con alcun segno esteriore dispiacere né resen
timento... Questa maniera di negotio grave, e regolata con la ragione della
propria utilità, non dall'affetto, come poco conosciuta e usata dagli uomini
italiani, era grandemente ammirata » (p. 315). Ci guarderemo dall'acco
gliere senza riserve questa presunta ammirazione, e del resto il Paruta
stesso subito dopo forniva una diversa e più convincente spiegazione del
riserbo spagnolo, ma coglieremo al balzo la illuminante precisazione che
quella « maniera di nogozio », praticata allora da Venezia firmando una
pace separata coi Turchi all'insaputa dei propri alleati, era « poco cono
sciuta e usata dagli uomini italiani ». La precisazione del grande storico
à «-*λλ η Αϊ C ΑΠΠΛ AfA ΓΝΓ*ί <5ΠΓΛΡί» ίΛΠΟ

e deve essere cronologicamente assottigliata


canto suscitato dalla vittoria di Lepanto, Ven
con la maggioranza degli Italiani, si era di n
mento, si era ribellata alla nuova ideologia po
e conseguiva a quella vittoria e che alla magg
come ultima e sola rivalsa compatibile col p
Venezia era parte d'Italia: dell'Italia che
giustificazione teorica, oltreché una mirabi

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Lepanto nella cultura italiana del tempo 491

quella « maniera di negozio grave, e regolata con la ragione della propria


utilità, non dall'affetto », e che lungamente era stata all'avanguardia del
l'Europa non per forza d'armi né di fede, ma d'ingegno, e che da ultimo
non aveva cercato né conseguentemente accettato la Riforma protestante,
se anche avesse dovuto per forza accettare il predominio politico e mili
tare dei marrani di Spagna. È chiaro che all'indomani della vittoria di
Lepanto, a quell'improvviso squillo di gloria dopo tante umiliazioni e
rinuncie, una scelta si era posta fra la vecchia Italia e la nuova, fra la
conservazione prudente di quel che ancora restava della ricchezza e dispo
nibilità del prossimo passato e l'azzardo di una partecipazione senza riserve
al nuovo corso degli eventi. Non era soltanto né principalmente una scelta
politica. Anche e anzi tutto era una scelta di civiltà. L'esempio della Spagna
basta a dimostrare che non era in questione la possibilità di una grande
letteratura, di una grande arte, ma che in questione era la sopravvivenza
e capacità di sviluppo di una cultura preminente in Europa e perciò stesso
„ιι>τ?., ι„ ι*,,.,. :*^is

Era allora bambino a P


teologo il ventenne Paol
destino loro, e della cult
scelta in quel momento
stite vecchia Italia, che
definitiva frattura dell'E
Che la repugnanza non
motivi di forza maggio
nomica, risulta da un t
citare e che però non pu
raria della vittoria di L
veneziani Contarmi e M
novese Montefiore, ave
orazioni e poesie, che se
degli Italiani in ispecie,
tatori lontani. Questi
editore di Basilea, che f
volumi di buon latino u
due ultime guerre comb
Autore dei due volumi s
Romanorum et Solyman
lum Inter Venetos et Se
liano, Pietro Bizzarri, un
jupciiuiiLa vav~iaa tuuuia va uiiguit txaiivj uaoLaic c uadiavaiiu pei LdllalC

la loro sorte in paesi lontani, dalla Sassonia all'Inghilterra.


diretta e per la sua professione di informatore politico, il
bene quale fosse la situazione dell'Europa, e al Pannonicum
aggiunto una Epitome illarum rerum quae in Europa insi

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492 Carlo Dionisotti

sunt et praesertim de Belgarum motib


Disimpegnatosi così di quella materia, p
lesso aveva invece giustapposto nell'ope
Turchi nel Mediterraneo, il Bizzarri po
bellum trattare di questa guerra isolat
aver dedicato l'opera sua all'Elettore di
riformata, nella conclusione autobiogr
mente professasse la sua riconoscenza e
e ai suoi ministri.
Questa professione di fede politica e religiosa d'uno storico italiano
della guerra e vittoria di Lepanto suggerisce un ultimo, piacevole recupero
nella folta letteratura sull'argomento. Ai primi del 1573 a Venezia, di
giusta misura prima della pace di Venezia coi Turchi, il vicentino Filippo
Pigafetta, che a Lepanto aveva combattuto e che, pur essendo prossimo
ai quarant'anni, ancora aveva innanzi a sé il meglio della sua vita, e ancora
non aveva trovato la sua via nella congiunta abilità di viaggiatore e di
scrittore, aggiunse la sua voce al coro della celebrazione letteraria della
guerra contro i Turchi, riesumando e pubblicando, dedicate al nuovo papa
Gregorio XIII le Lettere et Orationi del reverendissimo Cardinale Bessa
rione, tradotte in lingua italiana, nelle quali esorta i Prencipi d'Italia alla
Lega e a prendere la guerra contra il Turco. Quindici anni dopo lo stesso
Pigafetta pubblicò a Roma un suo Discorso sopra l'ordinanza dell'Armata
Catholica. Era una descrizione, quale poteva fare un esperto, della più po
derosa flotta che mai si fosse vista in mare dopo per l'appunto la giornata
di Lepanto, l'invincibile armata di Filippo II e dei suoi collegati. Questa
è la conclusione del discorso del Pigafetta: « Così, insta agendo et iuste
agendo per usare i termini d'Aristotile, cioè a dire col tor a finire imprese
giuste e con giusta e religiosa intentione mediante il favor divino e negli
auspitii di Sisto papa V principe ottimo, egli si debbe sperare che, entrando
la Cristiana armata con l'ordine premonstrato nel canale dell'Inghilterra
e incontrando gli eretici, sua Maestà Cattolica abbia a riportare una feli
cissima vittoria ». Incredibile e vero, la dedica di questo discorso del
Pigafetta porta la data di Roma, 27 agosto 1588. Già da un mese quella
invincibile armata era decimata e dispersa in una irreparabile rotta. È pro
babile che assai prima Venezia avesse trovato un qualche conforto alla sua
dura decisione di contentarsi della perdita di Cipro e della gloriosa, san
guinosa e sterile vittoria di Lepanto, pur di non esporsi al rischio che un
giorno le galee di San Marco dovessero in bellissima ordinanza con quelle
di Spagna e di Roma avventurarsi nel tempestoso canale degli eretici
d'Inghilterra.

Carlo Dioni sotti

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