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access to Lettere Italiane
Alla guerra
mente, per
dopo la difesa di
trent'anni di Cipro Venezia
ininterrotta, fu costretta,
proficua improvvisa
e splendida pace. In
Italia qualche azione di guerra s'era avuta durante quel trentennio: in
Piemonte, in Toscana, nello stato pontificio. Nulla più che potesse anche
lontanamente paragonarsi con la rovinosa belligeranza del primo trentennio
del Cinquecento: erano stati gli ultimi guizzi di un incendio ormai do
mato. Dal 1560 la neutralità veneziana non faceva più eccezione: era
giunta a far corpo con la neutralità tutt'altra dell'Italia, di un'Italia diret
tamente ο indirettamente sottomessa alla Spagna. Proprio per questo
Venezia era diventata più aperta e insieme più esposta a esigenze e sug
gestioni esterne. E a maggior ragione, col resto d'Italia, più sensibile alla
minaccia di guerra che sempre incombeva oltre mare, alla pirateria spic
ciola e al pericolo di una massiccia aggressione dei Turchi. A mezza via,
nel decennio che precede Lepanto, la vittoriosa difesa di Malta nel 1565
fa spicco su ogni altro evento bellico interessante l'Italia: ne furono com
mossi non soltanto gli stati, ma anche l'opinione pubblica e la letteratura,
e poiché una volta ancora, in tale occasione, Venezia si mantenne neutrale,
e per contro a Venezia stessa la letteratura unì la sua voce a quella del
resto d'Italia con altrettanta preoccupazione prima, esultanza poi, è da
credere che proprio allora i responsabili della politica veneziana comincias
sero a rendersi conto, non soltanto, com'era ovvio, della probabilità di
una ripresa dell'offensiva turca nel Mediterraneo orientale, ma anche dei
maggiori rischi inerenti al tradizionale isolamento di Venezia e a una
neutralità, che sempre più faceva scandalo, nei confronti dei Turchi. Si
spiega che nel 1570, all'improvvisa intimazione della guerra, la reazione di
Venezia non soltanto fosse, come era da attendersi, pronta e valida tecni
camente, sul piano diplomatico e su quello militare, ma anche fosse, in
contrasto colla tradizionale prudenza e colla lunga neutralità, eccezional
mente animosa e intransigente. I precedenti storici, come per l'appunto
sottolineò il Parata nella sua H istoria vinetiana (Parte seconda, Venezia
1605, pp. 44-45), testimoniavano a favore di quelli che ancora volevano
detto noi un tempo, della nuova crociata, voluta e diretta dalla Contro
riforma cattolica.
Investita da quel gran vento di battaglia, Venezia finì coll'indursi a
combattere, come non aveva mai fatto prima, alla disperata, per l'onore
e per la gloria. Dopo la caduta di Famagosta, dove un eccellente sistema
difensivo era stato tradito e vinto, prima che dai Turchi, dalla tradizionale
riluttanza veneziana a combattere con forze adeguate, al momento giusto,
correndo gl'inevitabili rischi, era venuto meno ogni motivo di affrontare
la flotta turca per riaprirsi la via verso Oriente. Né a quella data, ai primi
d'ottobre, era prevedibile una insistenza dei Turchi nell'offensiva lungo
le coste adriatiche o, se pur fossero stati vinti, come di fatto accadde, uno
sfruttamento del successo proporzionato alla grandezza del rischio. Tutte
le fonti storiche italiane si accordano nel rappresentare come un fatale
errore dell'ammiraglio turco la decisione di attaccare ο accettare la bat
taglia. Ma fu decisione, da parte di uomini, come i Turchi erano, abituati
aila vittoria e con buone carte in mano per vincere, di gran lunga più ra
gionevole che non quella dei loro avversari. A norma, non soltanto della
tradizione veneziana, ma generalmente dell'arte militare italiana di allora,
la decisione di affrontare in quel momento la flotta turca appare inspie
gabile. È probabile che da entrambe le parti si contasse su una prudente
ritirata dell'avversario. Così infatti, all'inizio della battaglia, manovrarono
il Doria e il suo avversario diretto, i due comandanti più esperti.
Ma lo sviluppo e l'esito della battaglia dimostrano che alla superiorità dei
Turchi nella manovra i vincitori furono in grado di opporre, non soltanto
mezzi tecnici superiori nel combattimento a distanza, il fuoco cioè delle
galeazze e degli archibugi, ma anche, in modo decisivo nell'arrembaggio,
una imprevedibile baldanza e ferocia e determinazione di vincere ο morire.
È la baldanza splendidamente ritratta da un testimone e storico napoletano,
Ferrante Caracciolo, conte di Biccari, nei suoi Commentarli (Firenze 1581),
là dove racconta quel che accadde sulla tolda della nave ammiraglia della
Lega e di Spagna nel momento in cui le opposte flotte, correndosi incontro,
si apprestavano alla battaglia ormai inevitabile: « Allora Don Giovanni
intrepidamente andò a prua e facendo sonar le trombe a battaglia, era in sì
ardente desiderio d'attaccar presto la zuffa che, tratto da giovami ferocità,
fece suonar i pifferi e sopra la rombata con due cavalieri ballò la ga
gliarda ». Questa era baldanza spagnola, ma poiché si è troppo insistito
sulla responsabilità dell'ancor giovane e ambizioso, non però inesperto
Don Giovanni d'Austria nella decisione di dar battaglia, quasi che da lui
dipendesse il destino di un'armata di quella mole e di quella composi
zione, sarà bene volgere l'occhio alle galee veneziane, che per il loro
numero costituivano il nerbo dell'armata. Ecco dunque ritratto dal già
citato Caracciolo, con la debita ammirazione ma non senza una punta iro
nica, il comandante di quelle galee nel momento dell'azione: « Del Veniero
si potè notare un grand'animo, il quale, conoscendosi decrepito, stava
primi giovenili anni, prudenzia » (c. 42v). Dopo di che non indugeremo
a cercare nel terzo libro (cc. 90-94v) di un'opera che risulta stampata a
Padova nel 1572 (ma certo, secondo lo stile veneziano, nei primi mesi del
1573) il racconto di quei recentissimi eventi francesi, di « un accidente
a quel regno e a tutto il Cristianesmo molto utile ». Qui la « inaudita
prudentia », attribuita nel primo libro al ventiduenne Carlo IX, è con
maggiore verosimiglianza riconosciuta propria della Regina madre, che
invece era stagionata, capace di procedere « in questo negotio con quella
prudentia et arte, con la quale, tenendo i suoi pensieri pieni di sapientia
e fede nascosti, ha in tanti travagli conservato a' figliuoli pupilli il regno
e estirpati alla fine i suoi nemici », e insomma capace di vedere al mo
mento giusto « che non bisognava più tardare da scoprire la sua santissima
mente tenuta tant'anni con inaudita prudentia nascosta ». Era stata una
lezione di politica machiavellica tale da far sbalordire in Italia, patria
allora, e non soltanto allora, del dilettantismo politico, uomini più maturi,
più esperti e più presuntuosi del legista e teologo Manolesso. Ma questi
non era un ragazzo, e a trentacinque anni era abbastanza presuntuoso per
non voler apparire sorpreso da un così mirabile evento: « Questo fu il
fine dell'Ammiraglio e suoi, come io subito che intesi la pace fatta da
Sua Maestà con li Ugonoti (quella cioè di S. Germain, commentata, come
s'è visto, nella chiusa del primo libro), senza altro stimai dover succedere,
del quai mio pensiero Antonio Guido, persona letterata e dotta, me ne
sarà buonissimo testimonio, al qual io scrissi l'infrascritta in risposta
d'una sua ». Segue il testo di una lunga lettera, datata di Venezia il 16 set
tembre 1570, un vero e proprio discorso ο parere politico, inteso a dimo
strare che per quattro cause un Principe « può divenir eretico » e che
nessuna delle quattro si applicava in quel momento al Re di Francia, sicché
bisognava pensare che la pace segnata cogli eretici fosse piuttosto una tre
gua e mirasse ad altro fine. Poco prima della Notte di S. Bartolomeo era
fallita in Inghilterra la congiura del Duca di Norfolk contro l'eretica regina
Elisabetta, « con grave danno della Cristianità », perché, « quando fosse
succeduto, ne sarebbe riuscito infinito beneficio universale » (c. 78v).
Anche nei Paesi Bassi le cose avrebbero potuto avere un più spedito e
favorevole corso: forse il duca d'Alba, volendo stravincere, aveva esasne
rato la resistenza degli eretici « adimandati gbeosi in quei paesi » (c. 82),
ma il recentissimo sacco di Malines faceva sperare bene.
Tale, fin dal 1572, con una immediatezza inspiegabile senza una matura
predisposizione ideologica, il quadro in cui uno storico veneziano giustifi
cava e celebrava la vittoria di Lepanto. Era un quadro a quella data, poco
prima che la Lega Santa si sciogliesse, verosimile. Storia e cultura si
accordavano nel promuovere la crociata della Controriforma cattolica sul
duplice fronte dei Turchi nel Mediterraneo e degli eretici in Europa. Già
nel 1571, prima di quella insperata, miracolosa vittoria, proprio a Padova
era apparso a stampa un discorso di Don Marco Uberti Correggiaio da Pavia,
vittoria ... non ne perì neppur uno de' nostri » (pp. 75-76). Certo la vit
toria di Lepanto era stata alquanto più costosa, e a distanza d'un anno
bisognava riconoscere che non aveva purtroppo dato i frutti sperati: « nel
seguente (anno), che è questo del 1572, l'armata cristiana partì più ani
mata e con maggiori forze di prima, s'abboccò col nemico debilitato e im
paurito, ed è ritornata senza far niente ». Così il Filiarchi nell'altra sua
opera, che è un Trattato della Lega e del seguitar la guerra contra il Turco,
nel quale, come sufficientemente dichiara il sottotitolo, dispensandoci da
un esame del testo, « con la Sacra Scrittura, ragioni e istorie antique e
punto far capo allo storico responsabile per eccellenza, al Paruta, che re
gistrando la violenta reazione di Roma, insiste sulla reazione tutt'altra,
negativa ma controllatissima, della Spagna: « generalmente gli Spagnuoli,
nella corte di Roma e di Spagna, procedendo con grandissimo tempera
mento, non ne dimostrarono con alcun segno esteriore dispiacere né resen
timento... Questa maniera di negotio grave, e regolata con la ragione della
propria utilità, non dall'affetto, come poco conosciuta e usata dagli uomini
italiani, era grandemente ammirata » (p. 315). Ci guarderemo dall'acco
gliere senza riserve questa presunta ammirazione, e del resto il Paruta
stesso subito dopo forniva una diversa e più convincente spiegazione del
riserbo spagnolo, ma coglieremo al balzo la illuminante precisazione che
quella « maniera di nogozio », praticata allora da Venezia firmando una
pace separata coi Turchi all'insaputa dei propri alleati, era « poco cono
sciuta e usata dagli uomini italiani ». La precisazione del grande storico
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