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Maurizio Ferraris e la “Documanità”

SCHEDA BIOGRAFICA: Maurizio Ferraris, nato a Torino, allievo di Gianni Vattimo, collega in
Francia di Jacques Derrida, è professore ordinario di Filosofia teoretica nell’Università di Torino, dove
dirige il LabOnt (Laboratorio di Ontologia). Editorialista di “La Repubblica” e del supplemento
culturale de “Il Sole24ore”, è direttore della “Rivista di Estetica”.
Ha scritto più di cinquanta libri che sono stati tradotti in diverse lingue; tra i più recenti Documanità.
Filosofia del mondo nuovo (2021); Manifesto del nuovo realismo (2012); Spettri di
Nietzsche (2014); Emergenza (2016); Postverità e altri enigmi (2017).
Ha lavorato nel campo dell’estetica, dell’ermeneutica e dell’ontologia sociale, legando il suo nome alla
teoria della documentalità e al nuovo realismo contemporaneo; ha collaborato come autore e conduttore
a numerose trasmissioni televisive di Rai Cultura, come “Zettel”, “Zettel Debate”, “Lo stato dell’arte”.

PRESENTAZIONE DEL LIBRO.


Il filosofo italiano Maurizio Ferraris (nato nel 1956) a partire dal 2005 ha sviluppato un’interessante
ricerca sugli “oggetti sociali”. Nel saggio Dove sei? Ontologia del telefonino (2005), Ferraris sostiene
che la realtà in cui viviamo è costituita da tre tipi di oggetti: oggetti fisici, come le montagne o il tavolo;
oggetti ideali, come il numero 5 o il teorema di Pitagora; oggetti sociali, come le promesse, i contratti,
gli attestati, i trattati politici. L’esistenza dei primi due (fisici e ideali) non dipende dai soggetti umani,
mentre quella degli oggetti sociali sì, perché sono una nostra creazione. Gli oggetti sociali stabiliscono
relazioni e legami tra gli esseri umani, ed esistono e funzionano in quanto sono “inscritti” su supporti
di vario tipo, come la carta dei documenti legislativi, i file dei computer oppure la memoria delle
persone. Ferraris ha scritto questo nei primi anni Duemila, quando il cellulare non aveva ancora le
caratteristiche odierne, prevedendo che esso potesse un giorno contenere tutti i tipi di “iscrizioni” della
nostra realtà sociale (realtà in cui la scrittura assume un ruolo dominante). È esattamente quello che è
accaduto con l’avvento dello smartphone, che, grazie alle sue capacità di memoria e ad applicazioni
sempre più aggiornate, può concentrare in sé una grandissima quantità di documenti, dalle carte di
credito ai biglietti del tram, e può inoltre consentire di accedere a diverse forme di comunicazione ed
espressione, dal messaggio testuale alla videochiamata.
Successivamente, e ci avviciniamo al libro Documanità, Ferraris è giunto a elaborare il concetto di
rivoluzione documediale, intendendo con questa espressione la proliferazione senza precedenti di
documenti che caratterizza la nostra epoca. Grazie ai dispositivi digitali, quasi tutte le nostre azioni sono
registrate e archiviate: dai like che postiamo sui social al numero di passi che compiamo in un giorno. Si
produce così un’ingente quantità di documenti virtuali, che sono la vera ricchezza, totalmente
smaterializzata, del mondo contemporaneo: un capitale non più fatto di merci, di denaro o di operazioni
finanziarie, ma di Big Data, flussi di informazioni generati attraverso la mobilitazione degli utenti sul
web, che permettono di tracciare non soltanto linee di tendenza ad esempio nei consumi, ma addirittura
il profilo di ogni singolo individuo. Si aprono pertanto nuovi scenari che coinvolgono tutti gli aspetti
della vita delle persone.
In Documanità, libro uscito nell’aprile 2021, le riflessioni sulla rivoluzione documediale sono ampliate
e approfondite. Il sottotitolo “Filosofia del mondo nuovo” ci permette di capire le intenzioni dell’autore:
secondo Ferraris l’umanità è entrata in una nuova era, che richiede una nuova filosofia. La nuova era è la
realtà contemporanea, con le sue tecnologie, che tutti usiamo quotidianamente, e con un nuovo rapporto
tra capitale e lavoro. Le novità però non sono state comprese adeguatamente da molti filosofi, che si
ostinano a servirsi di strumenti concettuali vecchi, come per esempio la condanna rousseauiana del
progresso, l’invocazione di un ipotetico e mai esistito stato di natura, l’avversione per la società dei
consumi. Ne consegue una critica radicale alla società contemporanea. Al contrario, secondo Ferraris,
comprendere con il pensiero il nostro tempo, anche attraverso un sistema filosofico (Documanità è,
consapevolmente, un testo sistematico) può portare a un nuovo umanesimo e a una organizzazione
sociale più giusta e umana, che l’autore chiama Webfare: una nuova forma di Stato sociale sostenuto
economicamente dalle piattaforme web, che finalmente ci restituiranno quello che abbiamo consegnato
loro sotto forma di Big Data.
Di seguito vi propongo alcuni estratti del libro Documanità e due interviste con Ferraris .

ESTRATTI da DOCUMANITÀ

Prologo: Il mondo nuovo


Il secolo breve, ossia il Novecento, iniziato nel 1918 e conclusosi nel 1989, è stato in realtà un po’ più
lungo del solito, 102 anni. È finito nel 2020, e il XXI secolo si è aperto quest’anno. Oppure, se
preferiamo, dopo il secolo breve ce n’è stato uno brevissimo, durato trentun anni, e adesso si apre il
XXII secolo. Secolo nuovo, mondo nuovo, e anche una nuova umanità, giacché l’umanità non
costituisce una entità definita una volta per tutte, bensì un progetto, in difetto del quale potremmo
spegnere la luce e togliere il disturbo. Che cosa mi autorizza a un ottimismo fuori luogo? Non vedo i
pericoli e la crisi? Certo che sì, ma se è per questo un illustre collega, Agostino di Ippona, ha scritto La
città di Dio sotto l’impressione del sacco di Roma del 410. Rassicuratevi, ho un altro progetto, non solo
perché purtroppo non sono Agostino, ma soprattutto perché le epoche di transizione, come le famiglie
infelici secondo Tolstoj, sono ognuna infelice a suo modo. Si tratta di capire da cosa deriva questa
infelicità, e trovare delle maniere per trasformarla in fiducia nei confronti del futuro, non permettendo
che il pessimismo o la nostalgia paralizzino i nostri sforzi. Ora, per quanto scarsa sia la considerazione
che abbiamo di noi stessi, e per quanto motivato possa essere il giudizio sul legno storto dell’umanità,
resta che i segni di un progresso non mancano, e trascurarli e non farli crescere sarebbe una colpa verso
noi stessi e verso le generazioni future. Questi segni non si mostrano in piena luce, come è naturale che
sia, poiché nessuna epoca ha mai avuto modo di leggere, dall’inizio, le tavole della legge che
l’avrebbero governata. Ma proprio per questo è necessario provare a cogliere nel confuso impasto del
presente le tracce del futuro.
Primo segno: la rivoluzione documediale. Da qualche decennio assistiamo non a una rivoluzione
politica e ideologica come quelle che hanno avuto luogo intorno alla prima guerra mondiale, bensì a una
rivoluzione tecnologica, che è molto più radicale giacché non dipende dalle credenze delle persone,
bensì dal funzionamento infaticabile delle macchine. Nel nostro caso del web, che, al di là degli
entusiasmi o delle esecrazioni di breve periodo, ha introdotto una automazione destinata, in un periodo
non si sa quanto lungo, a liberare l’umanità dal peso della fatica e della alienazione. E questo non per
una qualche forma di filantropia industriale, ma semplicemente perché, diversamente dagli umani, la
macchina non ha diritti né sogni o incubi o nevrosi, non conosce fame, sete, stanchezza, noia, divorzi,
spese condominiali, non va in pensione, non ha idee, e se muore può risorgere.
Dunque, non c’è niente di sbagliato nel pensare che l’intelligenza artificiale sia stata inventata per
portarci via il lavoro: è proprio così (in compenso, come vedremo, non è vero che le macchine
prenderanno il potere). Robotica e domotica sperimentano nell’assistenza domestica e nel campo
militare, però il vero obiettivo è l’automazione di tutti i processi di produzione. Ed è difficile negare che
l’automazione costituisca il destino di un processo che potrà prendere molti anni, ma che è già in corso
da quando il primo ominide ha adoperato un osso come clava o leva, potenziando la propria forza con
un automa rudimentale. Da allora non si è più tornati indietro. Diamola dunque come un dato acquisito,
il che tutto sommato è consolante, visto che nessuno rimpiange le miniere o le catene di montaggio, o
anche soltanto il capoufficio che gira tra le dattilografe con l’orologio in mano. E consideriamo che,
come quei lavori sono scomparsi o stanno sparendo, spariranno anche i fattorini, i lavoratori on demand,
i microlavori richiesti da una intelligenza artificiale non ancora sufficientemente sviluppata, sebbene
prontissima a imparare. Si tratta di una situazione drammatica e potenzialmente senza uscita, che
annuncia una crisi incomparabile rispetto a quelle che l’umanità ha conosciuto sinora, ma che non può
essere risolta attraverso il rimpianto del passato, e richiede piuttosto una comprensione del presente nella
sua singolarità e originalità.
Dalla fine del Settecento conosciamo il mondo del capitale industriale: produceva merci, generava
alienazione, faceva rumore, quello delle fabbriche. Poi è stata la volta del capitale finanziario: produceva
ricchezza, generava adrenalina e faceva ancora un po’ di rumore, quello delle sedute di borsa. Oggi si sta
facendo avanti un capitale insieme nuovissimo, perché è reso possibile da una tecnologia che prima non
c’era, e antichissimo, perché manifesta l’essenza della capitalizzazione costitutiva del mondo sociale:
produce documenti, genera mobilitazione traendone automazione, e non fa rumore. Si tratta di un
capitale più ricco di quello finanziario, e ancor più influente sulla creazione del valore, sui rapporti
sociali e sulla organizzazione della vita delle persone – e non parlo ovviamente solo della loro esistenza
professionale, visto che è incline a far cadere la differenza tra la vita e il lavoro.
Questo capitale è rivoluzionario e si lega a una trasformazione tecnologica, dalla scheggiatura della
prima selce all’età del bronzo e del ferro allo sfruttamento del vapore. Definisco «documediale» la
rivoluzione in corso perché si basa sulla intersezione tra la crescita della documentalità, la produzione di
documenti in quanto elemento costitutivo della realtà sociale, e quella della medialità, che nel digitale
non è più uno-a-molti bensì molti-a-molti. L’ambiente in cui si produce è il web, cioè un luogo
potenzialmente ubiquo, proprio come l’ambiente genetico della rivoluzione industriale erano state le
fabbriche e le città operaie. Questa trasformazione è anche una generalizzazione: le fabbriche sono da
qualche parte, il web è potenzialmente ovunque, il che spiega facilmente la radicalità delle
trasformazioni avvenute. Ed è il risultato, in buona parte accidentale, dell’incremento vertiginoso delle
possibilità di registrare, comparare e profilare la mobilitazione dell’umanità, ossia il capitale di atti che
gli umani compiono nel mondo.
Chi accede al web ha l’impressione di guardare la televisione, ma in realtà tra il guardare un video su
un medium analogico e su uno digitale ha luogo una rivoluzione copernicana. Nel primo caso, siamo noi
che guardiamo il video, passivamente, tanto è vero che prima o poi ci addormentiamo. Nel secondo, per
così dire, è il video che guarda noi, tenendo traccia delle nostre abitudini e preferenze, dei commenti che
facciamo, delle persone a cui inviamo il link, della frequenza con cui ci ritorniamo, e stimolandoci ad
azioni, tanto è vero che non credo che nessuno si sia addormentato davanti al telefonino, a meno che lo
usasse come televisore, ma anche in quel caso, diversamente dal televisore, il telefonino annotava
impassibilmente l’ora, il giorno, l’illuminazione ambientale e tante altre cose. Che il 90% di tutti i
documenti attualmente archiviati nel mondo sia stato generato solo negli ultimi due anni risulta così
un’affermazione difficile da provare, però intuitivamente ragionevole. In Europa, negli Stati Uniti e
progressivamente in tutto il mondo, con un enorme vantaggio competitivo della Cina, che ha quasi un
miliardo e mezzo di abitanti, e soprattutto un miliardo di telefonini, atti quotidiani che sino a un passato
recentissimo sarebbero scomparsi nel nulla oggi vengono registrati e, come dimostrerò estesamente in
questo lavoro, capitalizzati.
Secondo segno: dalla produmanità alla documanità.Di qui un secondo segno che non si mostra sulle
prime, e che costituisce il punto di partenza del groviglio che cercherò di dipanare in questo libro. A chi,
con legittima preoccupazione, parla di fine del lavoro, e dunque dei lavoratori, a chi teme la distopia di
un mondo di macchine che producono mentre l’umanità sta a guardare e soccombe, propongo una
semplice riflessione: che senso ha una macchina senza un umano? Che senso ha una produzione senza
un consumo? Proprio la crescita dell’automazione ha comportato una rivelazione di qualcosa che sinora
era rimasto nascosto nelle officine dell’homo faber. E cioè che ben poche sono le funzioni in cui una
macchina non può sostituire l’umano, e una di queste (o forse l’unica) è il consumo, sia esso materiale
(le macchine hanno bisogno di energia, ma possono anche farne a meno senza danno; gli organismi, e
tra questi gli umani, muoiono) o spirituale (riesco a immaginare una macchina che produce sinfonie, non
una macchina che ne gode).
Se al centro della rivoluzione industriale, fatta di materia, c’era la produzione, al centro della
rivoluzione documediale, fatta di memoria, c’è il consumo. Le macchine possono produrre infinitamente
più e meglio degli umani. Ma nessuna macchina potrà mai consumare al posto di un umano, mentre ogni
umano è in grado di consumare, e anzi deve necessariamente farlo per tenersi in vita. Proprio per questo,
il consumo, con le sue urgenze fisiologiche e con la mobilitazione sociale che produce, fornisce un
obiettivo all’intero apparato produttivo che altrimenti sarebbe privo di senso. Dunque non è solo
l’oggetto sporco e deprecato, non so quanto sinceramente, negli ultimi secoli, ma va considerato come il
grande motore della crescita umana. Reciprocamente, è nelle funzioni non automatizzate, perché
esclusivamente umane e organiche, del consumo che va individuato l’avvenire della produzione di
valore. I meccanismi, infatti, consumano solo in senso metaforico o quantomeno derivato: un’auto senza
carburante non muore, un umano senza cibo sì. E gli organismi non umani soddisfano i loro bisogni
attraverso processi che non hanno a che fare con il consumo, non essendo inseriti in un ciclo tecnico ed
economico (quando lo sono, è di nuovo in vista del consumo umano: allevamenti, animali da
compagnia, ecc.).
Ma perché il consumo dovrebbe essere equiparato alla produzione? Questo è il punto cruciale di tutto
il discorso, ma la risposta è più semplice di quanto non paia: perché genera documenti. A lungo la
produzione ha richiesto fatica fisica e ha comportato alienazione, ma oggi non è più necessariamente
così. La produmanità, l’umanità che fatica nei campi e nelle officine, onnipresente nell’età industriale
proprio come nei diecimila anni che l’avevano preceduta, è ancora fra noi. Ma già si fa avanti una
documanità, una umanità la cui massima funzione sta nel produrre documenti su di sé, documenti minori
o minimi, ma utilissimi, come i documenti delle nostre navigazioni sul web, o documenti maggiori e
massimi come le produzioni dello spirito e della cultura. Tutti questi documenti si rivelano essenziali per
la profilazione dei bisogni e dei comportamenti, l’automazione della produzione che ne deriva, e la
razionalizzazione della distribuzione, con il conseguente abbassamento dei prezzi.
Se compresa nella sua vera struttura, la rivoluzione documediale è dunque portatrice di un circolo
virtuoso tra l’automazione della produzione generata dalla raccolta dei documenti prodotti dagli umani e
il mondo della vita in cui hanno luogo gli atti degli umani destinati ad alimentare la produzione di
documenti. Da una parte, l’automazione rende possibile la registrazione, l’archiviazione, la profilazione
e il riuso delle forme di vita umana. Ciò che chiamiamo «intelligenza artificiale» non è che questo.
D’altra parte, l’intero processo riceve nutrimento, senso e scopo dal fatto che ci siano degli agenti
umani, degli organismi mortali che hanno una fine irreversibile, diversamente dalle macchine, e che
dunque sono in grado di prescrivere un fine alle macchine, per esempio quello di ossigenarci nei reparti
di terapia intensiva. Provate a pensare una terapia intensiva senza umani: di colpo perde senso, e ci si
chiede se convenga conservarla. Ora pensate a un web senza umani, e vedrete in grande il ruolo
essenziale che ognuno di noi gioca rispetto alla automazione, il cui attore principale sono le profilazioni
di comportamenti e bisogni umani da parte delle piattaforme.
In sintesi, la produzione, in quanto parte meccanica dell’umano, è destinata all’automazione, mentre il
consumo, in quanto fatto propriamente umano, è ciò che non può venire in alcun modo automatizzato,
per ragioni non etiche ma ontologiche. Il consumo non è solo la cooperazione degli utenti alla
produzione. È il fine ultimo di ogni produzione. Se di colpo l’umanità si trovasse priva di bisogni da
soddisfare attraverso il consumo, tutto l’apparato documediale imploderebbe. Il consumo ci accompagna
sino al nostro ultimo giorno, e anche dopo, se abbiamo formulato richieste onerose per la sepoltura. In
questo quadro, il consumo non è il surrogato moderno dei vizi capitali, ma il bisogno organico inserito
in un contesto sociotecnico, che genera ogni tipo di potenziamento, supplementazione e metamorfosi del
bisogno che si trasforma in desiderio, ambizione, lusso, spreco, cultura. Proprio questa circostanza,
cruciale, resterà nascosta sino a che non si sia riconcettualizzato il consumo come lavoro, e si andrà alla
ricerca del tempo delle officine quasi fosse il tempo delle lucciole.
Terzo segno: signoria e servitù. Anche il terzo segno richiede un lavoro di comprensione, senza il quale
l’umanità si ridurrebbe al vittimismo della servitù volontaria. Non abbiamo più bisogno di operai (e
buon per l’umanità), però questo non significa che possiamo fare a meno degli operai, così come di tutti
gli altri esseri umani, della loro mortalità e della loro fretta, della loro curiosità e della loro illogicità, dei
loro bisogni e dei loro desideri. L’esclusione del lavoratore dalla produzione non significa in alcun modo
una revoca della possibilità per gli umani di essere produttori di valore. La macchina ha sempre bisogno
di qualcuno – di un vivente e il più delle volte di un umano – che le dia uno scopo. Un orologio, un
coltello, la grattugia per il parmigiano, il computer, il telefonino: provate a immaginare un mondo senza
umani, e chiedetevi che senso potrebbero avere un romanzo giallo o un caricabatteria. Proprio qui sta
l’enorme e sottovalutata forza dell’umano. È possibile che prima o poi ci sarà una macchina per
produrre e distribuire qualunque cosa, ma quella macchina sarebbe sovranamente inutile in assenza di
umani. Il che significa, se ci pensiamo bene, che noi siamo, letteralmente, i padroni del vapore, i signori
delle macchine, benché per qualche motivo – di solito legato al desiderio di assolverci dalle nostre
inerzie o colpe addossando la responsabilità alle macchine – siamo per lo più inclini a pensarci come
schiavi dell’automazione.
A noi spetta il compito di una rivoluzione concettuale, di un rivolgimento del modo di pensare che ci
ha accompagnati nel tempo, lungo ma non infinito, in cui gli umani erano interessanti come produttori.
Oggi è sempre meno così, per i motivi che ho detto e che analizzerò diffusamente in questo libro. Ma
proprio perché siamo organismi viventi, e nella fattispecie organismi sistematicamente connessi con
dispositivi tecnologici, dobbiamo capire che senza di noi, senza i nostri bisogni, senza le nostre urgenze,
senza la noia e l’angoscia che derivano dalla consapevolezza di possedere un tempo di vita limitato e
che sono solo nostre, gli automi non avrebbero senso. Così come dobbiamo prendere coscienza del fatto
che, proprio perché fortunatamente le macchine progressivamente risponderanno alla larghissima
maggioranza dei bisogni produttivi, l’umanità dovrà ripensare il proprio essere al mondo in termini
diversi dalla produzione, e anzitutto comprendere che senza i consumi e i bisogni degli umani la
produzione non ha alcun senso. Alla luce di questa circostanza, occorre una trasvalutazione di tutti i
valori e di tutti i lavori. Una trasvalutazione senza Walhalla, una trasformazione di quanto ci è
consegnato da una tradizione che, per essere antica, non è necessariamente giusta.
Bisogna, seguendo questa via, rilanciare la dialettica signoria/servitù, e per farlo bisogna capovolgere
l’assunto ingannevole per cui saremmo padroni della natura e schiavi della tecnica. Quanto alla signoria
sulla natura, un virus ci mostra come meglio non si potrebbe quanto la natura ci sovrasti, senza
dimenticare che tutti, tra cent’anni o fra un minuto, moriremo. Proprio qui, tuttavia, sta il motivo della
nostra signoria sulla tecnica. Questo è un punto che richiede una riflessione, perché ne va della nostra
libertà. Da quando il diavolo o gli dèi non sono più candidati presentabili, si è posto un problema anche
più serio della teodicea. Se non c’è un unico principio a cui ricondurre il mondo, nel bene e nel male, a
chi dobbiamo imputare le nostre disgrazie? La domanda non ha più senso, da un punto di vista laico, di
quella che stava alla base della teodicea ma, diversamente da quella, ha prodotto un gran numero di
risposte, accomunate dal difetto di distrarre dall’analisi della realtà effettuale, e solitamente concordi nel
riconoscerci schiavi della tecnica. Questa è però una schiavitù che dobbiamo imputare soltanto a noi
stessi. Se mi puntano una pistola non sono schiavo della pistola bensì di chi la impugna. Prendersela con
il web per il populismo è come prendersela con la radio per il nazismo. E parlare di governo degli
algoritmi non è diverso dal pensare che l’intenzione di uccidere Cesare stesse nei pugnali e non nei
congiurati. Gli umani non sono schiavi della tecnica né di astratti sistemi, queste sono giustificazioni per
chi comanda e per chi obbedisce. Possono, ovviamente, essere schiavi di altri umani, e il loro primo
dovere è emanciparsi, con l’azione politica e con la comprensione filosofica.
Quarto segno: umanità a venire. Il quarto segno, infine, riguarda il mondo nuovo che si apre di fronte
a noi, e i suoi caratteri originali, a partire dalla centralità dell’educazione. È di qui che bisogna partire.
Quanto più l’umanità progredisce, tanto più diviene sensibile alle ingiustizie e alle disparità, tanto più in
avanti si spingono la richiesta dei diritti umani, e il dovere di soddisfare queste esigenze. E questo,
anzitutto, per un motivo filosofico essenziale a cui spesso non si presta la sufficiente attenzione. Non
esiste una «natura umana» definita una volta per sempre, e di conseguenza i diritti (e i corrispondenti
doveri) degli umani non sono scritti sul muro di qualche spelonca neolitica o su tavole della legge
portate giù dal Sinai o esposte in bronzo sulle mura di una città, Roma, considerata maestra di civiltà, a
giusto titolo, ma in cui la schiavitù era una condizione normale e universalmente accettata. La natura
umana, i suoi diritti e i suoi doveri costituiscono un divenire storico, e curiosamente coloro che hanno
condannato il relativismo etico come fonte di lassismo morale o di ingiustizia sociale, che travolgono i
bei valori di una volta, hanno omesso di considerare che quei valori tanto belli non erano, anzi, erano
decisamente peggiori dei nostri, che indubbiamente – poiché la ricerca non ha fine, e meno che mai la
storia dell’educazione dell’umanità – appariranno insufficienti e limitati ai nostri remoti discendenti, che
ci dovranno gratitudine, mentre a noi resta il diritto, umano, troppo umano, di invidiarli un poco.
Il mondo moderno, proprio grazie all’automazione, è riuscito a soddisfare i bisogni di un numero
crescente di esseri umani e, contrariamente a quanto spesso si scrive e si legge, il nostro problema
fondamentale non sono le guerre o la fame nel mondo, che ci sono, però con una estensione e gravità
inferiore alle epoche precedenti. Non lo dico per minimizzare, giacché ogni morte conta (e come
vedremo la sola cosa che conti è la morte), ma per indicare la vera urgenza. Ciò di cui abbiamo più
bisogno, nel mondo nuovo, è l’educazione, da intendersi prima di tutto come capacità di produrre una
umanità che non si senta sottomessa o spaesata nel mondo che essa stessa ha creato. Dunque, ciò che si
prospetta come la necessità fondamentale per il mondo nuovo, che non sarà il paradiso e il conseguente
tedio eterno, ma che sicuramente sarà migliore e più giusto di tutto il mondo che ci siamo lasciati alle
spalle, è il passaggio dalla preoccupazione per la produzione a quella per l’educazione. Non
dimentichiamolo: Socrate non ha detto che una vita senza produzione non ha valore; ha detto che non ha
valore una vita senza ricerca, e, in termini produttivi, non ha lavorato un giorno in vita sua. È lì che
dobbiamo tendere, e se guardiamo al mondo senza pregiudizi siamo più vicini a quell’obiettivo che in
qualunque epoca storica, certo più che in quella di Socrate.
Keynes il problema del che fare nel tempo libero se lo poneva per gli altri, lui sapeva benissimo come
occuparlo: leggere, scrivere, partecipare a conferenze internazionali, conversare, ballare e flirtare con gli
amici di Bloomsbury. Se c’è un destino auspicabile per l’umanità, è proprio quello che, in un tempo più
o meno lungo – ma che non potrà mancare di venire, perché la storia non va indietro –, una forma di vita
simile sia concessa a ogni essere umano. Il webfare, il welfare digitale che propongo in questo libro,
deve passare attraverso l’educazione, che insegnerebbe a trovare nuovi nomi e nuove forme, più
tolleranti e giuste, alle esigenze umane di sicurezza, identità e proiezione nel futuro che nel passato si
sono riconosciute in quei vecchi nomi. E soprattutto insegnerebbe a trasformare il tempo che ci è
lasciato dalla automazione in una occasione di progresso. Il web cesserebbe così di essere la macchina
dello scontento, e diverrebbe uno strumento di emancipazione. Così era nei sogni, inadeguati perché
iniziali e ingenui, dei suoi inventori, così può e deve tornare a essere.
Un ultimissimo punto per questa introduzione già troppo lunga. Sono a dir poco scettico rispetto a ogni
critica che non sia accompagnata da un’alternativa, a ogni decostruzione senza ricostruzione. Ciò di cui
abbiamo bisogno non è l’ennesimo libro sulle crescenti disuguaglianze, sulle nuove povertà, sulla fine
del lavoro, sulla dittatura delle macchine e sullo Stato panottico; semmai, occorrono idee per evitare
tutto questo, poiché le condizioni per farlo ci sono oggi più che in ogni altra epoca storica. L’idea è
pressappoco: «non ti va bene il comunismo? non ti va bene il capitalismo? non ti va bene il welfare?
D’accordo. Ma allora dimmi perché non vanno bene, e soprattutto che cosa, secondo te, va bene. Mentre
ci pensi, dammi il tempo di spiegare perché, secondo me, stiamo meglio oggi che un tempo, e come
potremmo star meglio ancora, se riconosciamo (cosa che tu non fai) che la strada che abbiamo preso da
un milione di anni a questa parte è quella giusta». È quello che, se avrete la pazienza di seguirmi, farò
nelle prossime pagine.

Parte prima: Rivoluzione: che cosa è il web?


Non siamo schiavi del web, bensì della nostra pigrizia, o più precisamente della nostra ignavia, che ci
impedisce di pensare che nel confronto tra gli umani e il web sono gli umani ad avere necessariamente
la meglio, purché lo vogliano, perché abbiamo la prova di millenni in cui gli umani sono vissuti senza
web, e il fondato sebbene poco frequentato sospetto che il web, senza gli umani, non andrebbe da
nessuna parte, perché ha bisogno di noi, della nostra vita, della nostra curiosità, della nostra fretta, dei
nostri consumi. Abbiamo il coltello dalla parte del manico e non lo sappiamo. Come è possibile? Per
continuare con la metafora tecnologica, il difetto sta nel manico. Forse non abbiamo ancora capito che
cosa è il web. Da decenni, per catturare un’essenza che probabilmente rimane impensata, «il web», si
susseguono nomi sempre diversi, parziali, esoterici: virtuale, intelligenza collettiva, internet, big data,
intelligenza artificiale... Insomma, stiamo apprestando un poema collettivo fatto di libri, saggi, articoli,
dibattiti, post che canta i mille nomi di Visnù, la cui essenza rimane sconosciuta. Quello dei mille nomi
di Visnù non è solo un problema teorico. È ovvio che, di fronte a qualcosa di cui si ignora l’essenza, le
risposte non possono che risultare inadeguate. L’espressione «fare a pugni con la nebbia» è
probabilmente quella che meglio si attaglia alle molteplici reazioni di fronte al dio nascosto. Mentre le
interpretazioni confliggono, Visnù, come è giusto che sia, prosegue il suo corso nel mondo. Dunque, che
cosa è il web, in poche parole?
Partiamo dall’unico punto su cui tutte le interpretazioni convergono, ossia che ci troviamo di fronte a
una rivoluzione. Questo accordo è però di breve durata, giacché vien meno subito dopo, quando si tratta
di definire la natura della rivoluzione. Tutti sono d’accordo nel vederci una rivoluzione non solo
tecnologica, ma politica, economica e sociale; e una larga e quasi miracolosa convergenza vuole che
questa rivoluzione sia la quarta. Il punto è però che non c’è accordo su quali siano le tre che la
precedono, e questo ovviamente non è un problema da poco. Per taluni, è la quarta rivoluzione
industriale. Per altri, è una rivoluzione ben altrimenti radicale, che riguarda anzitutto il modo di pensare
e di vedere il mondo, ed è paragonabile a quelle promosse da Copernico, Darwin, e Freud, e
consisterebbe in una ferita narcisistica: Copernico aveva tolto la terra dal centro dell’universo, Darwin
aveva dimostrato la nostra discendenza dalle scimmie, Freud aveva rivelato che la coscienza non è che
la punta emersa di un continente inconscio, e Turing ci ha mostrato che delle macchine possono pensare
molto meglio di noi.
Per me, invece, la rivoluzione dipende da una crescita esponenziale della registrazione che motiva il
concetto di «documanità». Sebbene più di un essere umano su due non possieda ancora un cellulare, è
significativo osservare che il numero di dispositivi connessi è pari a 23 miliardi: più di tre volte la
popolazione mondiale. Questa connessione, ogni giorno, produce un numero di documenti maggiore di
quanto non ne producano tutte le fabbriche del mondo, e che insieme ne orienta l’automazione e la
produzione: una mole immane di atti, contatti, transazioni e tracce codificati in 2,5 quintilioni di byte. Di
qui la risposta alla domanda: cosa è il web? Il web è il più grande apparato di registrazione che
l’umanità abbia sinora sviluppato, e questo spiega l’importanza dei cambiamenti che ha prodotto.
Ma perché la registrazione è così importante? E, soprattutto, perché proprio adesso ce ne sarebbe
tanta? Come spesso avviene, la rivoluzione ha un’origine modesta e accidentale, una differenza tra
analogico e digitale che può passare inosservata. Nell’analogico prima si ha il messaggio e poi, semmai,
la registrazione, che il più delle volte non ha luogo – si pensi ai miliardi di ore di radio e televisione di
cui non è rimasta traccia se non nella labile memoria degli utenti, per tacere dei fantastiliardi di parole al
vento che si sono susseguiti nella storia e nella preistoria. Nel digitale la registrazione precede la
comunicazione, e più in generale ogni interazione con la rete lascia una traccia di sé, contribuendo a una
crescita enorme di documenti, e in particolare di quei documenti che chiamiamo «big data» e che in
effetti sono metadati o metadocumenti, tracce della nostra attività che non lasciamo intenzionalmente
che registrano il luogo e la data di composizione del documento, chi ha visto il documento, le reazioni
che ha avuto. Realizzando un sogno alla Jules Verne, tutto può diventare documento. Inoltre, la
digitalizzazione ha fatto sì che lo statuto di segni manipolabili non si riducesse ai numeri e alle lettere,
ma investisse suoni, immagini, comportamenti, completando l’omologia funzionale tra la parte
meccanica della mente e l’intelligenza artificiale. Che tutto sia documentabile, e che questa
documentabilità sia una, ossia possieda uno standard unificato, cambia il mondo con la forza di una
guerra in tempo di pace.

Parte prima, cap. 2: Una rivoluzione copernicana


Ripartiamo dal punto capitale, dal dettaglio tecnico carico di tante conseguenze: il web determina una
rivoluzione copernicana per cui la comunicazione segue alla registrazione. Sembra un niente, ma
sovverte l’ordine gerarchico tra pensiero, parola e scrittura che domina il senso comune e che viene
sanzionato dall’autorità di Aristotele: l’assunto per cui avremmo delle idee che si esprimono in parole e
che successivamente si imprimono in supporti, siano questi le menti degli interlocutori o supporti
meccanici e non organici, come tavolette di cera e simili. Abbiamo compreso questo capovolgimento?
Ne abbiamo misurato le conseguenze? Direi proprio di no.
Tutti, dicevo, parlano di «rivoluzione», ma si ha l’impressione di confrontarsi con una rivoluzione solo
apparente, così come lo era quella di Kant – che a tutti gli effetti era una controrivoluzione tolemaica che
riportava l’uomo, in veste di Io penso, al centro dell’universo; mentre in questo caso ci si limita ad
estendere e a trasformare in un orizzonte onnicomprensivo l’ambito della informazione, uscita dai
giornali, dalle televisioni e dalle biblioteche e trasformatasi nel mondo in cui viviamo, generando una
infosfera, ossia una crescita puramente quantitativa di un fenomeno caratteristico del secolo scorso,
dell’epoca dei mass media.
Per essere chiari sin dall’inizio. Il web è anche una infosfera, ma questa non ne è che la minima parte;
l’infosfera poggia su una docusfera, ossia su documenti che registrano le azioni umane senza
necessariamente portare informazioni, e quest’ultima poggia su una biosfera, ossia sul mondo della vita
che – questa l’autentica rivoluzione che il web ha portato nel mondo – oggi è in linea di principio
sempre documentabile, ed esce dal silenzio e dall’oblio a cui, per mancanza di strumenti tecnici
adeguati, è rimasta confinata sin dall’inizio del mondo, lasciandoci solo testimonianze o molto
deliberate e rare (poemi, testi sacri, contratti solenni, piramidi e archi di trionfo) o accidentali e di per sé
non troppo espressive (piatti sbeccati, punte di freccia, anfore per vino). Il che però non significa che sia
di per sé informazione, perché in quel caso confonderemmo il web con Wikipedia. Cerchiamo dunque
un disegno alternativo, più fedele, a mio avviso, alle venature del reale, e il primo passo consiste nel
passaggio da un web tolemaico, che si concepisce come informazione e comunicazione, a un web
copernicano, che si concepisce invece come isteresi e capitalizzazione.
1.2.1. Dal web tolemaico al web copernicano. L’identificazione tra web e infosfera, muovendo da un
presupposto tolemaico, sostiene che ciò che abbiamo intorno a noi, grazie al web, sono informazioni,
cioè pensieri. Ma sono davvero e anzitutto pensieri e informazioni quelli che ci scambiamo? E
soprattutto, la rivoluzione è consistita nell’accrescere l’isteresi [registrazione, permanenza] di pensieri e
di informazioni, o non ha rappresentato piuttosto una moltiplicazione del numero di atti e di
comportamenti, significativi o meno, informativi o meno, coscienti o meno, che possono venire
registrati? […]
È chiaro che nella teoria della informazione classica, «informazione» è solo il computo degli stati
possibili di qualcosa, cioè si avvicina molto all’isteresi, che è il presupposto del computo, ma purtroppo
si ingenera una confusione tra l’informazione nel senso ordinario del termine e in quello tecnico-
informatico. Certo c’è la necessità di trovare un termine forte e chiaro per tutti, però questa chiarezza ha
un costo molto elevato. Perché un conto è parlare di informazioni disponibili a tutti, un altro è dire che il
libro del web è scritto in caratteri accessibili solo a pochi umani aiutati da automi potentissimi. In questo
senso, le informazioni non mancano: qualsiasi comportamento futile o insignificante io abbia online, che
sia aprire video per noia, scrivere a caso sui social, o mettere «mi piace» a casaccio, è un’informazione
per quei pochi che sanno come utilizzarla per profilarmi. Il che è vero, ma genera una grandissima
differenza tra coloro che sanno leggere solo le informazioni in chiaro e quelli che sanno interpretare i
documenti: una differenza non meno grande di quella che intercorre tra l’analfabetismo e la cultura, o tra
l’alchimia e la chimica. «È ormai risaputo: per una riga ragionevole, per una notizia corretta, vi sono
leghe di insensate cacofonie, di farragini verbali e di incoerenze». L’infosfera realizza non l’Intelletto
Generale, bensì la biblioteca di Babele, in base a quattro caratteristiche principali.
La prima è la viralità. Rispetto al mondo mediale classico, quello documediale si caratterizza per una
crescita vertiginosa delle interconnessioni, che moltiplica esponenzialmente le fonti, giacché si passa da
qualche canale radiotelevisivo e qualche giornale ai miliardi di utenti dei social network. Il quantitativo
si trasforma nel qualitativo: quando metà dell’umanità è sul web, il mondo diviene un’altra cosa,
sebbene nulla di ciò che offre il web sia privo di antefatti anche remoti. Infatti, la documedialità poggia
su strutture, come la scrittura, che esistono da migliaia di anni, ma per il suo tramite è diventato
facilissimo riprodurre e diffondere globalmente isteresi di ogni sorta, dalle immagini ai suoni, dagli
scritti meditati ai gridi dell’anima. Il processo è alimentato da una miriade di attori privi di capacità o
infrastrutture peculiari e da una crescita vertiginosa della velocità di trasmissione, che non ha alcuna
comune misura rispetto al passato.
Un secondo carattere è la persistenza. I documenti sono accessibili ben più che in precedenza: il
giornale del giorno prima era il simbolo dell’effimero; ora i documenti (che non sono solo, né
principalmente, notizie, bensì tranche de vie e commenti, benedizioni e maledizioni, gradimenti e
sentimenti, preghiere e minacce, e soprattutto foto che, da sole, non parlano) galleggiano nel web senza
notificare, in genere, la data dell’evento a cui si riferiscono, determinando un eterno ritorno del post per
cui un evento pare ripetersi in ragione delle sue occorrenze documediali. Ovviamente non è escluso che
una svolta tecnologica lo cancelli come un’impronta sulla sabbia, ma per il momento è lì, sempre a
portata di mano.
Un terzo carattere è la mistificazione. È facilissimo crearsi delle identità fittizie, così come basta
tagliare e incollare per realizzare plagi e copie che, proprio per la semplicità dell’operazione, non sono
avvertiti come tali, e soprattutto godono di libera cittadinanza nell’informazione, mentre in precedenza
l’anonimato screditava una notizia e crearsi una falsa identità andava incontro a difficoltà pratiche e a
sanzioni giuridiche.
Il quarto è la frammentazione. Il broadcasting, per cui una fonte raggiunge moltissimi destinatari, si
frammenta in una molteplicità di fonti che generano comunità di ricezione e di discussione molto più
ristrette. Ne derivano, anche attraverso il filtro degli algoritmi, fonti dedicate, che dicono ciò che gli
utenti e il narrowcaster vogliono sentirsi dire, contribuendo alla produzione di verità alternative e di
camere di risonanza. Si aggiunga che la sfida lanciata dalle informazioni prodotte in forma gratuita,
volontaria e fluviale costringe i tradizionali canali di informazione, già svantaggiati dall’equazione
complottista tra «fonte alternativa» e «fonte veritiera», a una iperproduzione che spesso rinuncia al
controllo delle fonti. Questa opacità costituisce il correlato conversazionale della frammentazione al
livello ideologico e della atomizzazione al livello psicologico.
[…] Nel web gli umani, molto prima che scambiarsi informazioni e conoscenze, registrano azioni
fissate in documenti che, in un ambiente documediale, divengono ubiqui e automatici. Queste azioni
documentate possono, qualora se ne dispongano gli strumenti, diventare informazioni, però in quanto
tali sono un libro chiuso di cui ignoriamo il codice: diciamo, sono come Enigma prima che Turing lo
decifrasse. Se parlare di «infosfera» e di «informazione» come nel web tolemaico evoca idee
controverse e antiche, secondo cui per agire abbiamo bisogno di sapere, e conosciamo davvero solo ciò
che noi abbiamo fatto, dunque la società e non la natura, il web copernicano ci fornisce una immagine di
tutt’altro tipo: la competenza necessaria per agire non richiede una comprensione concettuale né un
sapere preliminare più di quanto sia necessaria una teoria (e per giunta vera!) …della moneta per pagare
il caffè al bar; e, sebbene non abbia dubbi circa il fatto che la società sia opera dell’uomo e non di Dio o
della natura, ho il fondato sospetto di non essere io quell’uomo, tanto è vero che ci sono aspetti della
società che mi appaiono non meno misteriosi degli arcani celesti e dei misteri della natura.
Capovolgiamo il modo di pensare tolemaico e veniamo al web copernicano. In sintesi: 1) il web è
anzitutto isteresi, e non solo comunicazione; funziona non come una televisione, bensì come un
archivio; 2) è azione e performatività prima che informazione, non si limita ad accumulare conoscenza,
definendo altresì uno spazio in cui hanno luogo atti sociali come promesse, impegni, ordini; 3) è reale
prima che virtuale, ossia non è una semplice estensione immateriale della realtà sociale, costituendo
invece lo spazio elettivo per la costruzione della realtà sociale; 4) è mobilitazione prima che
emancipazione, ossia non fornisce immediatamente liberazione, come si credeva quando il web mosse i
suoi primi passi, né semplicemente si configura come uno strumento di dominio, d’accordo con l’idea
oggi prevalente, ed è piuttosto un apparato che mobilita, ossia capitalizza le azioni compiute e ne
promuove di ulteriori; 5) è emergenza molto più che costruzione, nel senso che non è il progetto
deliberato di qualcuno, bensì l’esito di molte componenti che sono venute convergendo in forma non
programmatica; 6) infine, è opacità e non trasparenza, ossia non si chiarisce da solo, ma, al contrario,
chiede di essere chiarito, anche in questo caso rivelando uno stretto isomorfismo con la realtà sociale.
Alla luce di questo capovolgimento, ritorniamo sulle tre sfere mettendole nella giusta prospettiva.
[…] Il primo equivoco, distopico, è che il web sia l’espressione di un capitalismo di sorveglianza.
L’espressione «capitalismo di sorveglianza», se presa sul serio, è una contraddizione in termini come
«Partito rivoluzionario istituzionale» – e il fatto che un simile partito esista non lenisce la
contraddizione. Abbiamo a che fare con un ossimoro: o c’è capitalismo, che non vuol sorvegliare ma far
profitto; o c’è sorveglianza, e allora non c’è capitalismo, perché sorvegliare è un costo. È ovvio che se
costruisco un satellite spia è per sorvegliare, e che la sorveglianza costituisce il succo dell’arte della
guerra, giacché assicura quel bene inestimabile che è l’informazione. Nondimeno, sostenere che questi
strumenti, che rispondono a una necessità antica come l’umano, si possano trasformare in un sistema di
controllo universale dell’umanità è presupporre che ci possa essere qualche interesse che travalichi
quello commerciale, tale da indurre a controllare l’umanità, quasi che non ci fosse niente di meglio da
fare. Che l’Occidente delle piattaforme commerciali, oggi, si trovi nelle enormi difficoltà che
conosciamo nella lotta con la pandemia è la dimostrazione più lampante del fatto che gli Stati e le
organizzazioni sanitarie non dispongono di alcun tipo di controllo e di governo dei comportamenti.
Malgrado la nostra presunzione alimenti l’idea, o più esattamente il miraggio e il miracolo, che ci sia
mezzo mondo che farebbe carte false per rubarci l’anima, la verità è che il mondo intero cerca di
venderci qualcosa. E, salvo errore, i casi in cui l’anima ha un prezzo sono tutti letterari – Faust e
Mefistofele, per esempio, però Mefistofele è già ricco di suo, per questo è interessato all’anima di Faust,
che per inciso non è un’anima qualunque. Ovviamente, il capitale, posto che si possa identificare una
entità così indeterminata, non è interessato alle nostre idee, bensì ai nostri soldi, né gli importiamo come
individualità sorvegliabile, bensì come generalità profilabile e profittevole. Il limite del capitalismo di
sorveglianza è dunque che, con una meccanica trasposizione della microfisica del potere, tratta il
capitale come uno Stato totalitario, e l’umanità come un congresso di ideologi.
Entrambe queste circostanze sono lontane dalla verità e rendono difficile l’azione politica effettiva,
creando fantasmi e chimere. Se uno cerca di comprare un Kalashnikov in rete (in questo caso, nel web
«oscuro»), l’ultimo pensiero della piattaforma è denunciarlo. Semplicemente, la volta dopo gli proporrà
delle bombe molotov («chi ha comprato questo compra anche questo»). E su una medesima piattaforma
si possono comprare Il capitale e Mein Kampf, con la sola conseguenza che se abbiamo comprato il
primo ci proporranno il Manifesto, e se abbiamo comprato il secondo I protocolli dei Savi anziani di
Sion. Pensare che i computer siano interessati alle nostre credenze e coscienze e vogliano manipolarle è
una idea degna del presidente Schreber, il paziente tanto caro a Freud, convinto che Dio si occupasse
della regolarità della sua defecazione. Per una simile inquisizione ci va tanta pazienza e tanta voglia, e
dubito che il computer ce l’abbia, così come dubito che ce l’abbia chi il computer lo programma.
L’accumulo di documenti scommette sui nostri futuri comportamenti ma, si noti bene, questi non sono
orientamenti ideologici, bensì stili di consumo. E perché mai dovrebbe essere altrimenti? A meno che
abbia cambiato idea nel frattempo (e non se ne capirebbe il motivo), il capitalismo è laissez
faire e laissez aller, visto che il principio è «arricchitevi» e l’unico interesse è il profitto.
Parlare di «capitalismo di sorveglianza» è dunque un’espressione vuota e strana, pressappoco come
«sciatalgia cervicale». Lo stesso ragionamento si può applicare al governo degli algoritmi. Se il governo
è algoritmico, non è governo, poiché l’algoritmo non ha obiettivi; se è davvero governo, l’algoritmo
segue l’umano così come le intendenze seguono il generale. […]
C’è poi un punto teoricamente rilevante, che ha a che fare con la natura della sorveglianza. I teorici del
Panopticon partivano dall’assunto che ci sia un reale interesse di un sorvegliante nel tenere sotto
osservazione una o più persone. Nel caso di Bentham, che aveva inventato una prigione modello,
l’interesse era ovvio. Nel caso di Foucault, che pensava a uno Stato assoluto di stampo francese, poteva
ancora andare. Ma l’applicazione alle piattaforme è [sbagliata]: non c’è nulla di comune fra uno Stato
centralista e il decentralizzatissimo e rizomatico capitale documediale. Da questo punto di vista, che in
Europa e negli Stati Uniti, diversamente che in Cina, le piattaforme siano private e rispondano a interessi
commerciali sembra una grandissima opportunità, quella di una produzione di valore tassabile che non
comporta una inquisizione ideologica degli utenti delle piattaforme. Né si trascuri che ci sono buoni
motivi per dubitare che il concetto di «sorveglianza» abbia un senso qualsiasi se non si accompagna al
concetto di «punizione»: infatti il libro seminale sul tema era Sorvegliare e punire. Non si scrive un libro
sulla sorveglianza senza punizione perché allora anche chi fa birdwatching sarebbe un controllore
benthamiano di uccelli; chi studia l’archeologia ittitica sarebbe un controllore benthamiano di ossi e
monili; e un astronomo sarebbe un supercontrollore benthamiano cosmico. Le piattaforme non sono il
Grande Fratello che punisce i devianti; anzi, li promuove, perché svelano nicchie di mercato che vanno
saturate.
[…] Nell’età documediale, il solo capitalismo di sorveglianza che abbiamo conosciuto sin qui non è un
capitalismo, bensì un comunismo profondo, potente e tecnicamente aggiornato, quello cinese, che ha
nazionalizzato le piattaforme rendendo possibili le due fondamentali aspirazioni del comunismo: il
benessere sociale e il controllo delle idee attraverso la riduzione della libertà individuale. Sospetto però
che un libro intitolato Comunismo di sorveglianza farebbe molto meno scalpore.
Un fatto è certo. Di che cosa noi pensiamo, dei piccoli o grandi segreti delle nostre vite, le
piattaforme commerciali non sanno che farsene. […]
Il nostro problema, in altri termini, è quello di valorizzare il ruolo degli umani in quanto motore
fondamentale del processo, e non di reclamare una volta di più un galateo per l’informazione, in gran
parte già scritto, e che soprattutto non avrà maggiori possibilità di essere applicato dei 14 punti del
presidente Wilson dopo che il contingente americano era stato ritirato dal teatro di guerra europeo. Ciò
premesso, non ci opporremo assolutamente a considerare seri e rilevanti i problemi della privacy e
dell’etica dell’informazione. Ma la loro rilevanza per la documedialità non è maggiore della loro
rilevanza per l’economia industriale. Ben diversa è l’importanza della docusfera, perché è in questo
ambito che la documedialità produce una nuova economia e un nuovo plusvalore di cui sino a pochi
anni fa non si sospettava l’esistenza.
Se qualcuno avesse suggerito, nel 1919 o magari nel 1929, «It’s the economy, stupid!», si sarebbe
evitato che in Germania la crisi economica producesse il nazismo con quel che ne è seguito.
Ovviamente, il tempo libero crescente – è difficile scrivere un hate speech alla catena di montaggio – e
l’insocievole socialità umana hanno le loro responsabilità. Tuttavia, più di tutto conta l’enorme mole di
lavoro non retribuito e neppure riconosciuto come tale che viene erogato attraverso la mobilitazione. Lo
scambio tra utenti e piattaforme racchiude infatti un plusvalore particolarmente ben nascosto. Da tutto
ciò discende una conseguenza molto concreta: da sola, la tutela della privacy è un distrattore. Come nei
vecchi avvisi in stazione, un treno può sempre nasconderne un altro, e la preoccupazione per la privacy
maschera processi reali molto più sostanziosi, a partire dal fatto che il web non è interessato a noi
individualmente e alle nostre idee, bensì alla forza lavoro dell’intera umanità. Senza dimenticare che la
privacy è evidentemente l’ultimo dei problemi per quella abbondante metà del mondo che posta dei
contenuti sui social network, e per quella quasi totalità del mondo che dà il proprio consenso all’uso
dei cookies, avendo urgenza di ottenere il servizio. Non è questione di riservatezza borghese, di decoro,
di fare i fatti propri con la dovuta discrezione, ma di produzione di valore. Trascurare questa circostanza
ha un costo, che non è solo conoscitivo, perché sostituisce il problema politico ed economico con una
deriva etica che non so quanto porti lontano, giacché il web, come del resto la strada per l’inferno, è
lastricato di buone intenzioni, e i primi a enunciarle sono i proprietari di piattaforme, che ci avvisano,
mentre stiamo cercando il pronto soccorso più vicino, che la nostra privacy è la cosa più importante per
loro, e che sono pronti a rispettarla, purché rinunciamo al servizio.
Dopo l’equivoco disforico dell’infosfera, il capitalismo di sorveglianza, veniamo all’equivoco
euforico, il capitalismo cognitivo, che condivide con la distopia della sorveglianza l’assunto secondo cui
il potere è anzitutto conoscenza, ma ritiene che – proprio come nella figura hegeliana della signoria e
della servitù – il lavoro sul web costituisca come tale conoscenza ed emancipazione. Spingendosi più
avanti delle teorizzazioni di una intelligenza collettiva che si svilupperebbe in forma spontanea sul web,
o delle visioni messianiche per cui la nostra età sarebbe quella della trasparenza, i teorici del capitalismo
cognitivo ripropongono il rapporto di signoria e servitù, ma nella forma classica, quella secondo cui il
servo sconfigge il padrone perché è dominatore dei processi produttivi. Senza considerare, cioè, che la
figura hegeliana è sempre attuale, però la signoria non consiste nel dominio dei processi produttivi,
ormai perfettamente automatizzati, bensì nell’economia circolare, ma profondamente ingiusta, del
bisogno. In altri termini, il capitale non ha bisogno dei lavoratori per produrre valore, li manda tutti a
casa, e produce sempre più valore avvalendosi non della loro intelligenza, bensì dei loro consumi e della
loro mobilitazione. […]
INTERVISTA 1 (https://it.pearson.com/aree-disciplinari/agora/filosofia/filosofia-nostro-
tempo/umanita-documanita-intervista-maurizio-ferraris.html#)
Professore, nel suo ultimo libro Documanità. Filosofia del mondo nuovo, lei propone una visione del
presente e del futuro in radicale discontinuità rispetto al passato. Quali sono i cambiamenti principali e
da quali fattori sono provocati?

La più grande trasformazione del presente rispetto al passato deriva da una circostanza in apparenza
minuscola: registrare non è mai costato così poco e non è mai stato così ubiquo. Questo deriva da una
caratteristica del digitale rispetto all’analogico su cui spesso non si riflette a sufficienza. Mentre
nell’analogico ha luogo prima la comunicazione, e dopo – se mai, e il più delle volte in effetti mai –, la
registrazione, nel digitale la registrazione precede e rende possibile la comunicazione. Come risultato,
non abbiamo avuto mai così tanti documenti, relativi non solo alle nostre azioni deliberate e linguistiche,
ma a ogni nostra forma di interazione con il web, ossia i famosi metadati, e questo ha cambiato tutto.
Ci si può chiedere come mai, ma la risposta viene da un aspetto della realtà sociale che avevo preso in
esame in Documentalità (2009): gli oggetti sociali – cose come le promesse, il denaro, i ranghi sociali, il
prestigio, la proprietà, i confini, le dichiarazioni di guerra, le dichiarazioni d’amore – si basano su
documenti che registrano e trasmettono gli atti che li hanno registrati. Per sposarmi, non è sufficiente
che io pensi di sposarmi e non è semplicemente dicendo “vorrei sposarmi” che mi sono sposato. È
necessario seguire un certo rito ed è necessario che questo rito sia registrato. Un matrimonio fra
amnesici, senza testimoni e senza documenti, non è un matrimonio. Inversamente, tutto ciò che è
registrato acquisisce una rilevanza sociale ed è esattamente ciò che sta accadendo sotto i nostri occhi
negli ultimi dieci anni.
Se ne avevano già avuti degli accenni nel momento in cui la macchina per parlare per eccellenza, ossia il
telefono, si è trasformata in una macchina per scrivere, ossia il telefonino, una macchina per registrare,
per archiviare, per trasformare in documento ogni istante della nostra vita; ed è anche per questo che il
mio primo interesse nei confronti della rivoluzione in corso, in Dove sei? Ontologia del
telefonino (2005), è dipeso da questa trasformazione capitale: il passaggio dalla prevalenza del parlato
alla enorme prevalenza dello scritto, che oggi possiamo osservare ovunque, tranne nei vagoni silenzio
di Trenitalia.

Il web quindi non soltanto è entrato organicamente nelle nostre vite, condizionandole e modificandole
irreversibilmente, ma sta generando una vera e propria nuova umanità, che lei definisce “documanità”:
dopo Homo sapiens, che cosa stiamo diventando?

Diventiamo quello che siamo sempre stati cioè degli uomini documentali. Questo era all’orizzonte da
sempre, dal primo nostro antenato che, abbandonando la condizione puramente animale, si dedicò a
una attività tecnica, quella dello scheggiare una selce per trarne un raschietto. Questo gesto
antichissimo ha segnato il passaggio dall’animale non umano all’animale umano, e al tempo stesso ha
segnato il passaggio dalla assenza di documenti al primo documento della storia. Perché l’ attrezzo
costruito attraverso l’attività umana era, al di là della sua funzione, la registrazione di un atto, degli atti
che erano stati necessari per fabbricarlo, ossia del lavoro vivo che si conservava all’interno del lavoro
morto.
E che si tratti di un documento è provato dal fatto che tuttora quello che noi sappiamo di società
precedenti la scrittura consiste nei loro apparati tecnici sopravvissuti, vasi, fibbie, punte di freccia; per
non parlare poi del fatto che ci sono intere civiltà che sono designate attraverso delle attività
tecnologiche: l’età del bronzo, e dopo l’età del ferro, ma all’inizio di tutto il processo l’età della pietra,
ossia di quel primo gesto che il nostro progenitore compì generando un attrezzo.

Quel gesto diede avvio all’epopea, prima che dell’Homo sapiens – mi auguro che quell’epopea, per altro
punteggiata di enormi momenti di imbecillità, non sia ancora finita –dell’Homo faber, ossia dell’uomo
che produce. È stato così per millenni, prima nel caso in cui l’uomo produceva degli attrezzi, e
principalmente delle armi per cacciare; poi quando questi attrezzi si sono trasformati in strumenti per la
coltivazione, dando avvio a un processo che sarebbe culminato nell’età industriale. Ma in tutti questi
momenti, l’umano era semplicemente la protesi dell’automa, giacché un uomo che usa un giavellotto,
un uomo che usa un aratro o un uomo che lavora in una catena di montaggio è sostanzialmente
l’appendice della macchina a cui è collegato.
Ora è successo qualcosa di cui non abbiamo ancora preso le misure, ma che ha cambiato tutto.
L’automazione ha fatto sì che noi umani non siamo più l’appendice della produzione delle macchine,
ma siamo semplicemente il loro destinatario. L’uomo produttore si è trasformato nell’uomo
consumatore. Una concezione sbagliata e moralistica vede in tutto questo una situazione catastrofica. Io
credo invece che l’umano non sia mai stato così umano come adesso, giacché quando non è più costretto
a presentarsi come l’appendice delle macchine, può agire in maniera propriamente umana, manifestando
i propri desideri, le proprie forme di vita giuste o sbagliate che siano, le proprie inevitabili follie e i
propri meriti.
L’intelligenza artificiale non è che questo: il fatto che noi come umani siamo portati a elaborare delle
forme di vita che appartengono soltanto a noi e che vengono registrate e archiviate da parte del web in
modo da poter essere riutilizzate come automazione finalizzata alla produzione. Il meccanismo di
dettatura che sto adoperando in questo momento sta registrando le parole che dico semplicemente per
rendere più efficace il sistema di trasformazione del parlato nello scritto; e questo vale anche per i
traduttori automatici, per l’infinita quantità di attrezzi e di strumenti di cui ormai l’uomo è
semplicemente l’istruttore, il più delle volte inconsapevole, e la macchina l’esecutrice sempre più
autonoma.

Dobbiamo dunque imparare a considerare la tecnica, il capitale, il lavoro e la stessa umanità con
categorie concettuali e linguistiche impensabili fino a poco tempo fa. Che ruolo giocano istruzione,
educazione, formazione, prima di tutto dei giovani?

Nel momento in cui non abbiamo più bisogno di essere le protesi delle macchine, si creano due
condizioni: da una parte, ci si domanda che cosa si può fare di noi, di noi che ora abbiamo perso quel
senso della vita che derivava dal fatto di eseguire un lavoro. Bene, occorre comprendere che noi, tutta
l’umanità – bambini, anziani, disoccupati, altrimenti occupati – produciamo valore sopra il web perché
per la prima volta nella storia del mondo il consumo viene sistematicamente registrato e
quindi trasformato in valore attraverso un processo di capitalizzazione.
Per la prima volta nella storia del mondo il semplice vivere è produzione di valore. Si tratta di
riconoscere questa circostanza e di tassare le piattaforme che accumulano un plusvalore enorme di
cui noi non siamo consapevoli, così come non siamo consapevoli del fatto di lavorare in ogni
momento della nostra vita. Preoccupiamoci di questo, prima di tutto, prima della privacy, prima delle
fake news: le piattaforme non esercitano uno scambio equo con l’utente. L’utente riceve gratis delle
informazioni, la piattaforma riceve gratis molte più informazioni; diversamente dall’utente, ne diventa
proprietaria, cioè crea una forma di accumulo primario; queste informazioni potranno essere
successivamente capitalizzate adibendole a scopi di automazione; e, soprattutto, queste registrazioni,
i big data, diventano dei beni come qualunque altro bene, e possono essere comprate e vendute.
Questo genera l’enorme capitale documentale della nostra epoca, che trae la propria origine dalla
attività che gli umani svolgono sul web, e che va ridistribuito in forma di welfare o meglio di webfare. È
insomma necessario che le piattaforme vengano tassate e che a questo punto i proventi della tassazione
vengano restituiti a tutti coloro che stanno perdendo lavoro o che devono essere riqualificati nel quadro
della trasformazione industriale in corso.
Molti vedono in questa trasformazione una catastrofe, evidentemente perché non pensano che la natura
umana abbia un senso al di là dell’essere una protesi delle macchine; trascurano la circostanza per cui, in
ultima analisi, ciò che può essere fatto da una macchina è indegno di un umano, essendo noioso,
faticoso, ripetitivo – che si tratti di spaccare pietre, di lavorare in una catena di montaggio, o di lavorare
come dattilografo.

Bisogna cambiare sguardo. I senatori romani sapevano benissimo come occupare il loro tempo. Erano
stati educati in modo eccellente, e disponevano di schiavi che ESTRAlavoravano per loro. Oggi l’intera
umanità dispone di schiavi, l’automazione è proprio questo. Invece che dichiararci, per puro vittimismo
e per scarico di coscienza, schiavi della tecnica, dobbiamo riconoscerci come padroni della tecnica,
che non avrebbe alcun senso in assenza di umani.

Le grandi domande dell’uomo - chi siamo? da dove veniamo? dove andiamo? – sembrano oggi più che
mai necessarie per non perderci. Come la filosofia può aiutarci a comprendere e ad affrontare la svolta
epocale che stiamo vivendo?

Attraverso la riflessione. Può darsi che tutto quello che ho detto sia sbagliato, può darsi che tutto quello
che ho detto sia circonfuso da un ottimismo fuori luogo. Spero proprio che non sia così, e anzi nutro la
ragionevole speranza che non lo sia. Ma poiché ogni prospezione verso il futuro comporta un rischio,
sono dispostissimo, seppure a malincuore, a correrlo. Però di una cosa non dovrò mai pentirmi, perché
me ne sono astenuto con cura: e cioè di avere assunto l’atteggiamento superstizioso e farisaico che
consiste nell’addossare tutte le nostre infelicità a un fantomatico neoliberismo e a una dispotica tecnica,
assolvendomi così non solo dai miei peccati, ma anche da qualunque attività di pensiero.

INTERVISTA 2. Ferraris: “Non siamo schiavi della tecnologia, ma suoi padroni”


“La tecnica non è alienazione ma rivelazione dell’umano”. Nel suo ultimo libro (“Documanità.
Filosofia del mondo nuovo”, Laterza) Maurizio Ferraris smonta molti dei luoghi comuni sul rapporto
fra esseri umani e tecnologia. E invita a governare dei cambiamenti che, oltre a essere inevitabili, sono
anche auspicabili Cinzia Sciuto 13 Agosto 2021

Non siamo destinati a soccombere allo strapotere delle macchine, la tecnologia non è alienazione ma
rivelazione dell’umano, l’automazione ci ha liberato e continuerà a liberarci dalla fatica, senza toglierci
la nostra umanità, che sta principalmente nell’essere consumatori. Nel suo ultimo libro, Documanità.
Filosofia del mondo nuovo, di recente uscito per Laterza, il filosofo Maurizio Ferraris smonta diversi
luoghi comuni che, specie a sinistra, imperversano sul rapporto fra umani e tecnologia e ci invita a
guardare con ottimismo al futuro.
Il linguaggio e la capacità di documentare e trasmettere conoscenze sono fra le caratteristiche che
hanno consentito lo straordinario sviluppo di Homo sapiens. Con il web questa capacità si è
ampliata in maniera esponenziale. Siamo di fronte a una rivoluzione antropologica? Cosa
dobbiamo attenderci dal futuro?
Noi siamo cresciuti nel mito dell’Homo faber, quello rappresentato con l’incudine e martello sulle
vecchie monete da 50 lire. Ora indubbiamente quella dell’Homo faber è stata un’epoca importante della
storia dell’umanità, ma un’epoca che ha avuto un inizio (i nostri antenati infatti non erano faber, non
erano produttori, ma raccoglitori) e potrebbe auspicabilmente avere una fine. Nulla, infatti, ci impedisce
di pensare che l’automazione possa raggiungere un livello tale da far sì che non ci sia più bisogno
dell’umano come produttore. Tutto ciò da un lato ci fa paura ma, per spaventevole e orrendo che possa
essere questo mondo nuovo che si fa avanti, non sarà mai così spaventevole e orrendo come il mondo
vecchio che ci siamo lasciati indietro. Noi soffriamo di una specie di complesso dell’età dell’oro per cui
si pensa che prima si stava enormemente meglio. Ebbene, facciamo il conto. Torniamo indietro di
cent’anni e troviamo la spagnola a causa della quale le persone morivano come mosche. Un’epoca nella
quale si trovava del tutto normale mandare decine di migliaia di giovani di vent’anni ad ammazzarsi gli
uni contro gli altri e si considerava che fosse degno di un essere umano starsene per dieci ore a una
catena di montaggio. Andando molto più avanti nel tempo, fino a non molti decenni fa si trovava
normale che una persona andasse in un ufficio alla mattina alle 9 e cominciasse a scrivere sotto dettatura
per otto ore, poi finiva e tornava a casa. Adesso che ci sono i computer ci sembra inumano. Quindi non
c’è dubbio che ci siamo liberati da molti aspetti faticosi del lavoro. Altri diranno: però ci siamo anche
liberati del lavoro, nel senso che ci sono moltissime persone che non hanno più un lavoro. È questo il
problema, che però si può risolvere soltanto cercando di concettualizzare il mondo nuovo che si fa
avanti invece di continuare a guardarlo con le categorie del mondo vecchio.
Se tramonta il mito dell’Homo faber, se non siamo più principalmente produttori, allora cosa
siamo?
Siamo consumatori. Lo so, è una parola che ormai è diventata quasi una parolaccia. Ma se ci pensiamo
bene, mentre possiamo facilmente immaginare delle macchine che possano sostituirci in tutti i compiti
di produzione, non possiamo neanche immaginare una macchina che ci sostituisca in quanto
consumatori. Uno che dicesse “ho inventato una macchina per consumare il sushi” sarebbe esposto al
ludibrio universale perché tutto il sistema di produzione del sushi è lì soltanto perché ci sono poi delle
persone che vogliono mangiarlo. Se fai una macchina per mangiare il sushi fai una macchina assurda,
inutile, autocontraddittoria. Così come possiamo immaginare una macchina che riproduce fedelmente
dei quadri o addirittura che ne produce di nuovi, non possiamo immaginare una macchina che gode di
fronte a un dipinto (e neanche una che gode nel farlo, per questo anche la più sofisticata delle macchine
non può essere un artista). Dovremmo smetterla con questa demonizzazione dei consumi. Come tutti
quelli della mia generazione sono cresciuto in un mondo in cui si parlava malissimo del consumo e si
continua a farlo tutt’ora. Questo sostanzialmente perché quando si pensa al consumo si pensa a delle
forme particolarmente poco significative di consumo e spesso allo spreco. Come se leggere un libro o
ascoltare musica classica non fossero forme di consumo! Nella condanna di certi consumi ci sono
spesso motivazioni salutistiche oppure moralistiche, ma la sostanza del consumo è la medesima.
La rivoluzione dentro cui ci troviamo immersi ruota attorno al web: qual è la sua caratteristica
principale?
La definizione più diffusa del web è quella di “infosfera”. Ma pensare al web come una infosfera
significa confonderlo con Wikipedia, e oltre tutto con la Wikipedia scritta nella lingua di chi lo consulta.
Perché se io trovo una voce di Wikipedia in tamil l’informazione per me è pari a zero. Definire il web
prioritariamente come un apparato di informazione significa non aver colto la differenza essenziale fra
l’analogico e il digitale e cioè che con il digitale la registrazione, la documentazione – che nell’analogico
era una fase successiva e opzionale a qualunque azione – coincide con l’azione stessa. Qualunque atto
noi compiamo sul web – attenzione: atto, non informazione – viene registrato di default. In questo modo
noi produciamo una quantità di documenti – i cosiddetti Big Data – senza paragoni rispetto a tutte le
epoche precedenti dell’umanità perché il processo di produzione di questi documenti non è intenzionale
ma intrinseco a ogni atto. Quella che noi concepivamo come infosfera è in realtà una docusfera cioè un
gigantesco oceano fatto di documenti e questi documenti sono l’accumulo di tutti gli atti dell’umanità
depositati nel web.
E così produciamo inconsapevolmente valore, a tutto vantaggio dei proprietari delle
piattaforme…
Esatto, e qui sta il problema e il cambiamento che dobbiamo governare. Perché è ovvio che una fabbrica
che non paga i lavoratori realizza delle plusvalenze straordinarie. In questo caso i “lavoratori” neanche si
accorgono di lavorare, perché stanno semplicemente vivendo e però, vivendo, producono valore. Ma se
è valore allora è lavoro e se è lavoro allora deve essere retribuito.
E come lo governiamo questo cambiamento?
Ci sono due soluzioni: la prima è quella che ha intrapreso la Cina, che ha preso questo enorme
plusvalore, l’ha nazionalizzato e l’ha ridistribuito. Certo in questo sistema c’è il problemino che essendo
lo Stato proprietario delle piattaforme va anche a ficcare il naso nella tua vita. Ma questa è la regola del
gioco del comunismo: avrete sicurezza sociale e in cambio non avrete libertà sociale. Invece nel
liberalismo la regola attualmente è: siete liberi ma anche liberi di morire ubriachi in un angolo di strada
perché avete perso il lavoro. È giunto il momento di introdurre dei meccanismi – certamente la
tassazione delle multinazionali del digitale va in questa direzione, ma non è sufficiente – affinché anche
in un sistema liberale riusciamo a garantire un minimo di sicurezza sociale senza rinunciare alle nostre
libertà.
Le macchine della rivoluzione digitale hanno una caratteristica specifica: il loro uso è
semplicissimo e alla portata di tutti mentre il loro funzionamento è estremamente complesso e solo
in pochi lo capiscono fino in fondo. Inoltre, ci sono degli studi recenti che dimostrano come gli
algoritmi introiettino gli stereotipi. E se naturalmente questo non è “colpa” delle macchine, ma
delle informazioni che noi diamo loro, è altrettanto vero che mentre siamo disponibili a tollerare
un errore fatto da un essere umano siamo meno disponibili ad accettare un errore fatto da un
algoritmo.
In verità, avere a che fare con dei meccanismi complessi che noi non comprendiamo non è una
caratteristica specifica del nostro rapporto con le macchine. Per esempio, il nostro rapporto con la
società è così: la gran parte delle cose che accadono dentro una società non ci è chiara. Sulla questione
dell’errore e della giustificazione: certo, se un algoritmo mi rifiuta un mutuo io devo sapere in base a
cosa ha compiuto questa decisione. Anche se il problema del non saper giustificare il perché un
algoritmo ha dato un risultato invece che un altro non mi sembra decisivo, perché moltissime cose
all’interno del mondo umano funzionano proprio così: noi non sappiamo perché accadono. Ma
ragioniamo su un altro aspetto: all’epoca della bolla immobiliare si è scoperto che le banche
concedevano mutui a persone che non se lo potevano permettere, soltanto per speculare. Ecco, questo è
un comportamento tipicamente umano, una macchina non l’avrebbe mai escogitata una cosa del genere.
Così come solo un umano può concedere dei favori in cambio di prestazioni sessuali oppure solo un
umano può guidare una macchina in stato di ebbrezza. Insomma, quando confrontiamo la macchina con
l’umano confrontiamo un’immagine molto elevata dell’umano, come saggio illuminato disinteressato.
Ma le cose, ahimè, non stanno così.
Non c’è però dubbio che le macchine stanno diventando sempre più potenti. Non c’è davvero il
rischio che prima o poi ne diventeremo schiavi?
Questa idea che siamo o stiamo diventando schiavi della tecnica è completamente sbagliata: non siamo
noi ad avere bisogno della tecnica, è la tecnica ad avere bisogno di noi. Se non ci fossero gli umani, il
web sparirebbe in 30 secondi. La tecnologia è completamente dipendente dagli umani e quanto più una
tecnologia è sofisticata tanto più è dipendente dagli umani: un bastone può essere adoperato per molti
scopi e anche da un animale mentre uno smartphone, nel suo uso proprio, può essere adoperato soltanto
da un umano. Quindi la tecnica non è alienazione dell’umano ma rivelazione dell’umano.
Cosa vorrebbe dire che le macchine prenderanno il potere? Come pensare che il mio orologio o il mio
smartphone fosse interessato alla presidenza del Consiglio! Le macchine non sono interessate al potere
semplicemente perché non hanno interessi. Per avere interessi bisogna avere dei bisogni e, soprattutto,
bisogna avere un tempo di vita limitato, bisogna essere mortali. E le macchine non lo sono. Quando una
macchina si rompe talvolta diciamo “il mio computer è morto”, che è naturalmente una metafora. È un
modo per dire che si è guastato in maniera irreparabile. Però non è che siano venuti meno dei processi
che non possono essere ripristinati. Io posso creare un altro computer identico e solo per delle ragioni
pratiche – magari perché non ci sono più i pezzi di ricambio – non faccio “risorgere” quel computer.
Quindi solo gli umani sono mortali, e questo segna una differenza insormontabile con le macchine.
Però proprio lo sviluppo dell’intelligenza artificiale e della tecnologia in particolare in ambito
biomedico comincia a mettere in discussione anche questo postulato. La durata della vita è
enormemente aumentata e si pongono già dei problemi sul quando e come porre fine alla vita,
perché ci sono dei momenti in cui di fatto, senza una decisione attiva di qualcuno, la vita
sembrerebbe quasi poter non finire mai. Che si fa nel momento in cui lo sviluppo tecnologico
arriva al punto da mettere in discussione lo stesso postulato di distinzione fra noi e le macchine,
ossia la mortalità dell’essere umano?
Questo è un punto importantissimo. Heidegger diceva addirittura che gli animali non muoiono e che
solo gli umani muoiono. Ora evidentemente qualunque organismo muore e certi organismi sanno anche
di morire senza essere umani. Quindi la distinzione tra umano e animale non sta nell’essere un
organismo ma nel fatto che l’umano è un organismo sistematicamente connesso con dei meccanismi
mentre l’animale no. Essere sistematicamente connesso con dei meccanismi significa che la nostra vita è
strettamente legata alle tecnologie che noi stessi inventiamo e tramandiamo. Già noi viviamo molto più
dei nostri antenati e assistiamo all’aumento e all’invecchiamento della popolazione mondiale.
Banalmente se non ci fosse stato qualcuno che nel Medioevo avesse inventato gli occhiali, io ormai da
parecchi decenni sarei abbastanza inabilitato nelle mie attività perché sono presbite. Ora, come
suggerisce lei, l’unico modo per fare dell’umano una macchina sarebbe renderlo immortale. Ma
riusciamo anche solo a concepirla una cosa del genere? Quando si parla di allungamento della vita si
parla di vivere fino a 120 anni o giù di lì, ma potrebbe un umano vivere 2 miliardi di anni? Pensi il
continuo addestramento che dovrebbe fare, quante lingue cambiano in due miliardi di anni e poi la
memoria: ritrovi un tuo amico delle elementari, solo che le elementari le avete fatte milioni di anni fa!
Questo per dire che noi possiamo immaginare un significativo prolungamento della vita umana ma mi
sembra difficile concepirne un prolungamento sine die. E questo per ragioni trascendentali, perché
quello che noi chiamiamo forma di vita umana implica il fatto di finire. Se noi creiamo un qualcosa che
può durare all’infinito, non so se si possa più chiamare forma di vita umana.

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