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SCHEDA BIOGRAFICA: Maurizio Ferraris, nato a Torino, allievo di Gianni Vattimo, collega in
Francia di Jacques Derrida, è professore ordinario di Filosofia teoretica nell’Università di Torino, dove
dirige il LabOnt (Laboratorio di Ontologia). Editorialista di “La Repubblica” e del supplemento
culturale de “Il Sole24ore”, è direttore della “Rivista di Estetica”.
Ha scritto più di cinquanta libri che sono stati tradotti in diverse lingue; tra i più recenti Documanità.
Filosofia del mondo nuovo (2021); Manifesto del nuovo realismo (2012); Spettri di
Nietzsche (2014); Emergenza (2016); Postverità e altri enigmi (2017).
Ha lavorato nel campo dell’estetica, dell’ermeneutica e dell’ontologia sociale, legando il suo nome alla
teoria della documentalità e al nuovo realismo contemporaneo; ha collaborato come autore e conduttore
a numerose trasmissioni televisive di Rai Cultura, come “Zettel”, “Zettel Debate”, “Lo stato dell’arte”.
ESTRATTI da DOCUMANITÀ
La più grande trasformazione del presente rispetto al passato deriva da una circostanza in apparenza
minuscola: registrare non è mai costato così poco e non è mai stato così ubiquo. Questo deriva da una
caratteristica del digitale rispetto all’analogico su cui spesso non si riflette a sufficienza. Mentre
nell’analogico ha luogo prima la comunicazione, e dopo – se mai, e il più delle volte in effetti mai –, la
registrazione, nel digitale la registrazione precede e rende possibile la comunicazione. Come risultato,
non abbiamo avuto mai così tanti documenti, relativi non solo alle nostre azioni deliberate e linguistiche,
ma a ogni nostra forma di interazione con il web, ossia i famosi metadati, e questo ha cambiato tutto.
Ci si può chiedere come mai, ma la risposta viene da un aspetto della realtà sociale che avevo preso in
esame in Documentalità (2009): gli oggetti sociali – cose come le promesse, il denaro, i ranghi sociali, il
prestigio, la proprietà, i confini, le dichiarazioni di guerra, le dichiarazioni d’amore – si basano su
documenti che registrano e trasmettono gli atti che li hanno registrati. Per sposarmi, non è sufficiente
che io pensi di sposarmi e non è semplicemente dicendo “vorrei sposarmi” che mi sono sposato. È
necessario seguire un certo rito ed è necessario che questo rito sia registrato. Un matrimonio fra
amnesici, senza testimoni e senza documenti, non è un matrimonio. Inversamente, tutto ciò che è
registrato acquisisce una rilevanza sociale ed è esattamente ciò che sta accadendo sotto i nostri occhi
negli ultimi dieci anni.
Se ne avevano già avuti degli accenni nel momento in cui la macchina per parlare per eccellenza, ossia il
telefono, si è trasformata in una macchina per scrivere, ossia il telefonino, una macchina per registrare,
per archiviare, per trasformare in documento ogni istante della nostra vita; ed è anche per questo che il
mio primo interesse nei confronti della rivoluzione in corso, in Dove sei? Ontologia del
telefonino (2005), è dipeso da questa trasformazione capitale: il passaggio dalla prevalenza del parlato
alla enorme prevalenza dello scritto, che oggi possiamo osservare ovunque, tranne nei vagoni silenzio
di Trenitalia.
Il web quindi non soltanto è entrato organicamente nelle nostre vite, condizionandole e modificandole
irreversibilmente, ma sta generando una vera e propria nuova umanità, che lei definisce “documanità”:
dopo Homo sapiens, che cosa stiamo diventando?
Diventiamo quello che siamo sempre stati cioè degli uomini documentali. Questo era all’orizzonte da
sempre, dal primo nostro antenato che, abbandonando la condizione puramente animale, si dedicò a
una attività tecnica, quella dello scheggiare una selce per trarne un raschietto. Questo gesto
antichissimo ha segnato il passaggio dall’animale non umano all’animale umano, e al tempo stesso ha
segnato il passaggio dalla assenza di documenti al primo documento della storia. Perché l’ attrezzo
costruito attraverso l’attività umana era, al di là della sua funzione, la registrazione di un atto, degli atti
che erano stati necessari per fabbricarlo, ossia del lavoro vivo che si conservava all’interno del lavoro
morto.
E che si tratti di un documento è provato dal fatto che tuttora quello che noi sappiamo di società
precedenti la scrittura consiste nei loro apparati tecnici sopravvissuti, vasi, fibbie, punte di freccia; per
non parlare poi del fatto che ci sono intere civiltà che sono designate attraverso delle attività
tecnologiche: l’età del bronzo, e dopo l’età del ferro, ma all’inizio di tutto il processo l’età della pietra,
ossia di quel primo gesto che il nostro progenitore compì generando un attrezzo.
Quel gesto diede avvio all’epopea, prima che dell’Homo sapiens – mi auguro che quell’epopea, per altro
punteggiata di enormi momenti di imbecillità, non sia ancora finita –dell’Homo faber, ossia dell’uomo
che produce. È stato così per millenni, prima nel caso in cui l’uomo produceva degli attrezzi, e
principalmente delle armi per cacciare; poi quando questi attrezzi si sono trasformati in strumenti per la
coltivazione, dando avvio a un processo che sarebbe culminato nell’età industriale. Ma in tutti questi
momenti, l’umano era semplicemente la protesi dell’automa, giacché un uomo che usa un giavellotto,
un uomo che usa un aratro o un uomo che lavora in una catena di montaggio è sostanzialmente
l’appendice della macchina a cui è collegato.
Ora è successo qualcosa di cui non abbiamo ancora preso le misure, ma che ha cambiato tutto.
L’automazione ha fatto sì che noi umani non siamo più l’appendice della produzione delle macchine,
ma siamo semplicemente il loro destinatario. L’uomo produttore si è trasformato nell’uomo
consumatore. Una concezione sbagliata e moralistica vede in tutto questo una situazione catastrofica. Io
credo invece che l’umano non sia mai stato così umano come adesso, giacché quando non è più costretto
a presentarsi come l’appendice delle macchine, può agire in maniera propriamente umana, manifestando
i propri desideri, le proprie forme di vita giuste o sbagliate che siano, le proprie inevitabili follie e i
propri meriti.
L’intelligenza artificiale non è che questo: il fatto che noi come umani siamo portati a elaborare delle
forme di vita che appartengono soltanto a noi e che vengono registrate e archiviate da parte del web in
modo da poter essere riutilizzate come automazione finalizzata alla produzione. Il meccanismo di
dettatura che sto adoperando in questo momento sta registrando le parole che dico semplicemente per
rendere più efficace il sistema di trasformazione del parlato nello scritto; e questo vale anche per i
traduttori automatici, per l’infinita quantità di attrezzi e di strumenti di cui ormai l’uomo è
semplicemente l’istruttore, il più delle volte inconsapevole, e la macchina l’esecutrice sempre più
autonoma.
Dobbiamo dunque imparare a considerare la tecnica, il capitale, il lavoro e la stessa umanità con
categorie concettuali e linguistiche impensabili fino a poco tempo fa. Che ruolo giocano istruzione,
educazione, formazione, prima di tutto dei giovani?
Nel momento in cui non abbiamo più bisogno di essere le protesi delle macchine, si creano due
condizioni: da una parte, ci si domanda che cosa si può fare di noi, di noi che ora abbiamo perso quel
senso della vita che derivava dal fatto di eseguire un lavoro. Bene, occorre comprendere che noi, tutta
l’umanità – bambini, anziani, disoccupati, altrimenti occupati – produciamo valore sopra il web perché
per la prima volta nella storia del mondo il consumo viene sistematicamente registrato e
quindi trasformato in valore attraverso un processo di capitalizzazione.
Per la prima volta nella storia del mondo il semplice vivere è produzione di valore. Si tratta di
riconoscere questa circostanza e di tassare le piattaforme che accumulano un plusvalore enorme di
cui noi non siamo consapevoli, così come non siamo consapevoli del fatto di lavorare in ogni
momento della nostra vita. Preoccupiamoci di questo, prima di tutto, prima della privacy, prima delle
fake news: le piattaforme non esercitano uno scambio equo con l’utente. L’utente riceve gratis delle
informazioni, la piattaforma riceve gratis molte più informazioni; diversamente dall’utente, ne diventa
proprietaria, cioè crea una forma di accumulo primario; queste informazioni potranno essere
successivamente capitalizzate adibendole a scopi di automazione; e, soprattutto, queste registrazioni,
i big data, diventano dei beni come qualunque altro bene, e possono essere comprate e vendute.
Questo genera l’enorme capitale documentale della nostra epoca, che trae la propria origine dalla
attività che gli umani svolgono sul web, e che va ridistribuito in forma di welfare o meglio di webfare. È
insomma necessario che le piattaforme vengano tassate e che a questo punto i proventi della tassazione
vengano restituiti a tutti coloro che stanno perdendo lavoro o che devono essere riqualificati nel quadro
della trasformazione industriale in corso.
Molti vedono in questa trasformazione una catastrofe, evidentemente perché non pensano che la natura
umana abbia un senso al di là dell’essere una protesi delle macchine; trascurano la circostanza per cui, in
ultima analisi, ciò che può essere fatto da una macchina è indegno di un umano, essendo noioso,
faticoso, ripetitivo – che si tratti di spaccare pietre, di lavorare in una catena di montaggio, o di lavorare
come dattilografo.
Bisogna cambiare sguardo. I senatori romani sapevano benissimo come occupare il loro tempo. Erano
stati educati in modo eccellente, e disponevano di schiavi che ESTRAlavoravano per loro. Oggi l’intera
umanità dispone di schiavi, l’automazione è proprio questo. Invece che dichiararci, per puro vittimismo
e per scarico di coscienza, schiavi della tecnica, dobbiamo riconoscerci come padroni della tecnica,
che non avrebbe alcun senso in assenza di umani.
Le grandi domande dell’uomo - chi siamo? da dove veniamo? dove andiamo? – sembrano oggi più che
mai necessarie per non perderci. Come la filosofia può aiutarci a comprendere e ad affrontare la svolta
epocale che stiamo vivendo?
Attraverso la riflessione. Può darsi che tutto quello che ho detto sia sbagliato, può darsi che tutto quello
che ho detto sia circonfuso da un ottimismo fuori luogo. Spero proprio che non sia così, e anzi nutro la
ragionevole speranza che non lo sia. Ma poiché ogni prospezione verso il futuro comporta un rischio,
sono dispostissimo, seppure a malincuore, a correrlo. Però di una cosa non dovrò mai pentirmi, perché
me ne sono astenuto con cura: e cioè di avere assunto l’atteggiamento superstizioso e farisaico che
consiste nell’addossare tutte le nostre infelicità a un fantomatico neoliberismo e a una dispotica tecnica,
assolvendomi così non solo dai miei peccati, ma anche da qualunque attività di pensiero.
Non siamo destinati a soccombere allo strapotere delle macchine, la tecnologia non è alienazione ma
rivelazione dell’umano, l’automazione ci ha liberato e continuerà a liberarci dalla fatica, senza toglierci
la nostra umanità, che sta principalmente nell’essere consumatori. Nel suo ultimo libro, Documanità.
Filosofia del mondo nuovo, di recente uscito per Laterza, il filosofo Maurizio Ferraris smonta diversi
luoghi comuni che, specie a sinistra, imperversano sul rapporto fra umani e tecnologia e ci invita a
guardare con ottimismo al futuro.
Il linguaggio e la capacità di documentare e trasmettere conoscenze sono fra le caratteristiche che
hanno consentito lo straordinario sviluppo di Homo sapiens. Con il web questa capacità si è
ampliata in maniera esponenziale. Siamo di fronte a una rivoluzione antropologica? Cosa
dobbiamo attenderci dal futuro?
Noi siamo cresciuti nel mito dell’Homo faber, quello rappresentato con l’incudine e martello sulle
vecchie monete da 50 lire. Ora indubbiamente quella dell’Homo faber è stata un’epoca importante della
storia dell’umanità, ma un’epoca che ha avuto un inizio (i nostri antenati infatti non erano faber, non
erano produttori, ma raccoglitori) e potrebbe auspicabilmente avere una fine. Nulla, infatti, ci impedisce
di pensare che l’automazione possa raggiungere un livello tale da far sì che non ci sia più bisogno
dell’umano come produttore. Tutto ciò da un lato ci fa paura ma, per spaventevole e orrendo che possa
essere questo mondo nuovo che si fa avanti, non sarà mai così spaventevole e orrendo come il mondo
vecchio che ci siamo lasciati indietro. Noi soffriamo di una specie di complesso dell’età dell’oro per cui
si pensa che prima si stava enormemente meglio. Ebbene, facciamo il conto. Torniamo indietro di
cent’anni e troviamo la spagnola a causa della quale le persone morivano come mosche. Un’epoca nella
quale si trovava del tutto normale mandare decine di migliaia di giovani di vent’anni ad ammazzarsi gli
uni contro gli altri e si considerava che fosse degno di un essere umano starsene per dieci ore a una
catena di montaggio. Andando molto più avanti nel tempo, fino a non molti decenni fa si trovava
normale che una persona andasse in un ufficio alla mattina alle 9 e cominciasse a scrivere sotto dettatura
per otto ore, poi finiva e tornava a casa. Adesso che ci sono i computer ci sembra inumano. Quindi non
c’è dubbio che ci siamo liberati da molti aspetti faticosi del lavoro. Altri diranno: però ci siamo anche
liberati del lavoro, nel senso che ci sono moltissime persone che non hanno più un lavoro. È questo il
problema, che però si può risolvere soltanto cercando di concettualizzare il mondo nuovo che si fa
avanti invece di continuare a guardarlo con le categorie del mondo vecchio.
Se tramonta il mito dell’Homo faber, se non siamo più principalmente produttori, allora cosa
siamo?
Siamo consumatori. Lo so, è una parola che ormai è diventata quasi una parolaccia. Ma se ci pensiamo
bene, mentre possiamo facilmente immaginare delle macchine che possano sostituirci in tutti i compiti
di produzione, non possiamo neanche immaginare una macchina che ci sostituisca in quanto
consumatori. Uno che dicesse “ho inventato una macchina per consumare il sushi” sarebbe esposto al
ludibrio universale perché tutto il sistema di produzione del sushi è lì soltanto perché ci sono poi delle
persone che vogliono mangiarlo. Se fai una macchina per mangiare il sushi fai una macchina assurda,
inutile, autocontraddittoria. Così come possiamo immaginare una macchina che riproduce fedelmente
dei quadri o addirittura che ne produce di nuovi, non possiamo immaginare una macchina che gode di
fronte a un dipinto (e neanche una che gode nel farlo, per questo anche la più sofisticata delle macchine
non può essere un artista). Dovremmo smetterla con questa demonizzazione dei consumi. Come tutti
quelli della mia generazione sono cresciuto in un mondo in cui si parlava malissimo del consumo e si
continua a farlo tutt’ora. Questo sostanzialmente perché quando si pensa al consumo si pensa a delle
forme particolarmente poco significative di consumo e spesso allo spreco. Come se leggere un libro o
ascoltare musica classica non fossero forme di consumo! Nella condanna di certi consumi ci sono
spesso motivazioni salutistiche oppure moralistiche, ma la sostanza del consumo è la medesima.
La rivoluzione dentro cui ci troviamo immersi ruota attorno al web: qual è la sua caratteristica
principale?
La definizione più diffusa del web è quella di “infosfera”. Ma pensare al web come una infosfera
significa confonderlo con Wikipedia, e oltre tutto con la Wikipedia scritta nella lingua di chi lo consulta.
Perché se io trovo una voce di Wikipedia in tamil l’informazione per me è pari a zero. Definire il web
prioritariamente come un apparato di informazione significa non aver colto la differenza essenziale fra
l’analogico e il digitale e cioè che con il digitale la registrazione, la documentazione – che nell’analogico
era una fase successiva e opzionale a qualunque azione – coincide con l’azione stessa. Qualunque atto
noi compiamo sul web – attenzione: atto, non informazione – viene registrato di default. In questo modo
noi produciamo una quantità di documenti – i cosiddetti Big Data – senza paragoni rispetto a tutte le
epoche precedenti dell’umanità perché il processo di produzione di questi documenti non è intenzionale
ma intrinseco a ogni atto. Quella che noi concepivamo come infosfera è in realtà una docusfera cioè un
gigantesco oceano fatto di documenti e questi documenti sono l’accumulo di tutti gli atti dell’umanità
depositati nel web.
E così produciamo inconsapevolmente valore, a tutto vantaggio dei proprietari delle
piattaforme…
Esatto, e qui sta il problema e il cambiamento che dobbiamo governare. Perché è ovvio che una fabbrica
che non paga i lavoratori realizza delle plusvalenze straordinarie. In questo caso i “lavoratori” neanche si
accorgono di lavorare, perché stanno semplicemente vivendo e però, vivendo, producono valore. Ma se
è valore allora è lavoro e se è lavoro allora deve essere retribuito.
E come lo governiamo questo cambiamento?
Ci sono due soluzioni: la prima è quella che ha intrapreso la Cina, che ha preso questo enorme
plusvalore, l’ha nazionalizzato e l’ha ridistribuito. Certo in questo sistema c’è il problemino che essendo
lo Stato proprietario delle piattaforme va anche a ficcare il naso nella tua vita. Ma questa è la regola del
gioco del comunismo: avrete sicurezza sociale e in cambio non avrete libertà sociale. Invece nel
liberalismo la regola attualmente è: siete liberi ma anche liberi di morire ubriachi in un angolo di strada
perché avete perso il lavoro. È giunto il momento di introdurre dei meccanismi – certamente la
tassazione delle multinazionali del digitale va in questa direzione, ma non è sufficiente – affinché anche
in un sistema liberale riusciamo a garantire un minimo di sicurezza sociale senza rinunciare alle nostre
libertà.
Le macchine della rivoluzione digitale hanno una caratteristica specifica: il loro uso è
semplicissimo e alla portata di tutti mentre il loro funzionamento è estremamente complesso e solo
in pochi lo capiscono fino in fondo. Inoltre, ci sono degli studi recenti che dimostrano come gli
algoritmi introiettino gli stereotipi. E se naturalmente questo non è “colpa” delle macchine, ma
delle informazioni che noi diamo loro, è altrettanto vero che mentre siamo disponibili a tollerare
un errore fatto da un essere umano siamo meno disponibili ad accettare un errore fatto da un
algoritmo.
In verità, avere a che fare con dei meccanismi complessi che noi non comprendiamo non è una
caratteristica specifica del nostro rapporto con le macchine. Per esempio, il nostro rapporto con la
società è così: la gran parte delle cose che accadono dentro una società non ci è chiara. Sulla questione
dell’errore e della giustificazione: certo, se un algoritmo mi rifiuta un mutuo io devo sapere in base a
cosa ha compiuto questa decisione. Anche se il problema del non saper giustificare il perché un
algoritmo ha dato un risultato invece che un altro non mi sembra decisivo, perché moltissime cose
all’interno del mondo umano funzionano proprio così: noi non sappiamo perché accadono. Ma
ragioniamo su un altro aspetto: all’epoca della bolla immobiliare si è scoperto che le banche
concedevano mutui a persone che non se lo potevano permettere, soltanto per speculare. Ecco, questo è
un comportamento tipicamente umano, una macchina non l’avrebbe mai escogitata una cosa del genere.
Così come solo un umano può concedere dei favori in cambio di prestazioni sessuali oppure solo un
umano può guidare una macchina in stato di ebbrezza. Insomma, quando confrontiamo la macchina con
l’umano confrontiamo un’immagine molto elevata dell’umano, come saggio illuminato disinteressato.
Ma le cose, ahimè, non stanno così.
Non c’è però dubbio che le macchine stanno diventando sempre più potenti. Non c’è davvero il
rischio che prima o poi ne diventeremo schiavi?
Questa idea che siamo o stiamo diventando schiavi della tecnica è completamente sbagliata: non siamo
noi ad avere bisogno della tecnica, è la tecnica ad avere bisogno di noi. Se non ci fossero gli umani, il
web sparirebbe in 30 secondi. La tecnologia è completamente dipendente dagli umani e quanto più una
tecnologia è sofisticata tanto più è dipendente dagli umani: un bastone può essere adoperato per molti
scopi e anche da un animale mentre uno smartphone, nel suo uso proprio, può essere adoperato soltanto
da un umano. Quindi la tecnica non è alienazione dell’umano ma rivelazione dell’umano.
Cosa vorrebbe dire che le macchine prenderanno il potere? Come pensare che il mio orologio o il mio
smartphone fosse interessato alla presidenza del Consiglio! Le macchine non sono interessate al potere
semplicemente perché non hanno interessi. Per avere interessi bisogna avere dei bisogni e, soprattutto,
bisogna avere un tempo di vita limitato, bisogna essere mortali. E le macchine non lo sono. Quando una
macchina si rompe talvolta diciamo “il mio computer è morto”, che è naturalmente una metafora. È un
modo per dire che si è guastato in maniera irreparabile. Però non è che siano venuti meno dei processi
che non possono essere ripristinati. Io posso creare un altro computer identico e solo per delle ragioni
pratiche – magari perché non ci sono più i pezzi di ricambio – non faccio “risorgere” quel computer.
Quindi solo gli umani sono mortali, e questo segna una differenza insormontabile con le macchine.
Però proprio lo sviluppo dell’intelligenza artificiale e della tecnologia in particolare in ambito
biomedico comincia a mettere in discussione anche questo postulato. La durata della vita è
enormemente aumentata e si pongono già dei problemi sul quando e come porre fine alla vita,
perché ci sono dei momenti in cui di fatto, senza una decisione attiva di qualcuno, la vita
sembrerebbe quasi poter non finire mai. Che si fa nel momento in cui lo sviluppo tecnologico
arriva al punto da mettere in discussione lo stesso postulato di distinzione fra noi e le macchine,
ossia la mortalità dell’essere umano?
Questo è un punto importantissimo. Heidegger diceva addirittura che gli animali non muoiono e che
solo gli umani muoiono. Ora evidentemente qualunque organismo muore e certi organismi sanno anche
di morire senza essere umani. Quindi la distinzione tra umano e animale non sta nell’essere un
organismo ma nel fatto che l’umano è un organismo sistematicamente connesso con dei meccanismi
mentre l’animale no. Essere sistematicamente connesso con dei meccanismi significa che la nostra vita è
strettamente legata alle tecnologie che noi stessi inventiamo e tramandiamo. Già noi viviamo molto più
dei nostri antenati e assistiamo all’aumento e all’invecchiamento della popolazione mondiale.
Banalmente se non ci fosse stato qualcuno che nel Medioevo avesse inventato gli occhiali, io ormai da
parecchi decenni sarei abbastanza inabilitato nelle mie attività perché sono presbite. Ora, come
suggerisce lei, l’unico modo per fare dell’umano una macchina sarebbe renderlo immortale. Ma
riusciamo anche solo a concepirla una cosa del genere? Quando si parla di allungamento della vita si
parla di vivere fino a 120 anni o giù di lì, ma potrebbe un umano vivere 2 miliardi di anni? Pensi il
continuo addestramento che dovrebbe fare, quante lingue cambiano in due miliardi di anni e poi la
memoria: ritrovi un tuo amico delle elementari, solo che le elementari le avete fatte milioni di anni fa!
Questo per dire che noi possiamo immaginare un significativo prolungamento della vita umana ma mi
sembra difficile concepirne un prolungamento sine die. E questo per ragioni trascendentali, perché
quello che noi chiamiamo forma di vita umana implica il fatto di finire. Se noi creiamo un qualcosa che
può durare all’infinito, non so se si possa più chiamare forma di vita umana.