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ALMA MATER STUDIORUM - UNIVERSITA' DI BOLOGNA

Corso di laurea in

STORIA

TITOLO DELLA TESI

DANTE A FORLI’: IL PASSAGGIO DI UN POETA

Tesi di laurea in

STORIA MEDIEVALE

Relatore Prof.ssa: Paola Galetti

Presentata da: Federica Saviotti

Appello
terzo

Anno accademico
2018-2019
Vorrei ringraziare la professoressa Paola Galetti per avermi guidato nella stesura della
tesi, e per essermi stata di esempio e ispirazione in questi tre anni.

Ringrazio la mia famiglia, in particolare i miei genitori Alessandro e Isabella per non
avermi mai lasciata sola, e i miei nonni Ovidio, Iris, Sandra, Ivan, Gabrio e Mara, che
per me sono sempre stati una guida.

Ringrazio il mio fidanzato Filippo, perché ha sempre creduto in me e mi ha dato la


forza di affrontare gli ostacoli.

Un grazie anche agli amici e alle amiche che mi hanno sopportato e supportato in
questo percorso di tesi.

Dedico questo lavoro alla nonna Sirle, che sono sicura sarebbe stata fiera di me.

2
INDICE

Introduzione ........................................................................................................ 4

Cap. 1: Il contesto storico ................................................................................... 5


1.1 Firenze ......................................................................................................... 5
1.1.1 Gli Ordinamenti di Giustizia .................................................................. 10
1.2 Forlì........................................................................................................... 13
1.2.1 Gli Ordelaffi........................................................................................... 16

Cap. 2: L’esilio e l’arrivo a Forlì ..................................................................... 17


2.1 Dante in politica ......................................................................................... 17
2.2 L’esilio ....................................................................................................... 22
2.3 Il primo soggiorno nel 1302 alla corte di Scarpetta ................................... 24
2.4 Il secondo soggiorno nel 1310 e l’epistola a Cangrande della Scala ......... 27

Cap. 3: Forlì e i Forlivesi nella Divina Commedia......................................... 30


3.1 Il canto XVI dell’Inferno e l’Acquacheta .................................................. 31
3.2 Il canto XX dell’Inferno e Guido Bonatti .................................................. 32
3.3 Il canto XXVII dell’Inferno di Guido da Montefeltro e la Romagna ....... 34
3.4 Il canto XIV del Purgatorio e i De Calboli ................................................ 37
3.5 Il canto XXIV del Purgatorio e Marchese degli Argugliosi ...................... 39

Appendice .......................................................................................................... 41
Bibliografia ........................................................................................................ 45

3
INTRODUZIONE

Il presente lavoro ha come oggetto principale il soggiorno di Dante Alighieri a Forlì,


che avvenne in due occasioni nel corso della vita del poeta. Le persone incontrate e le
circostanze storiche segnarono il Dante uomo e il Dante letterato; infatti molti di questi
ricordi si ritrovano nei canti della Commedia. Le motivazioni che mi hanno spinto alla
scelta di questo particolare argomento sono due. La prima è di natura personale, ossia,
Forlì è la città in cui vivo, e, durante le ricerche per una tesina di seminario
sull’Abbazia di San Mercuriale di Forlì, mi sono imbattuta in una fonte che riportava il
passaggio di Dante in questa città, la qual cosa mi ha molto incuriosito. Questo mi ha
portato a volere più informazioni a proposito, quindi il secondo motivo è puramente
interesse nei confronti del più grande autore dell’età medioevale. Con questi propositi
ho voluto racchiudere in un unico testo tutto ciò che c’è di Dante a Forlì e viceversa, in
quanto non ho trovato trattazioni che unissero il piano storico, letterario e biografico,
ho così deciso di farlo in autonomia.

La tesi si compone di tre capitoli: nel primo capitolo vengono fornite le informazioni a
proposito del periodo storico che Dante ebbe modo di vivere e conoscere. Il secondo si
concentra maggiormente sulla vita del poeta, sulle motivazioni del suo esilio e su come
arrivò poi a sostare a Forlì alla corte degli Ordelaffi una prima, e dopo alcuni anni, una
seconda volta. Il terzo, ed ultimo, capitolo raccoglie i passi della Divina Commedia in
cui sono presenti i Forlivesi e Forlì, dei quali viene spiegata la storia ed è
accompagnato da un’Appendice finale in cui i versi presi in esame sono commentati,
con lo scopo di dare maggior chiarezza ai canti trattati.

4
Capitolo 1

IL CONTESTO STORICO

Ai tempi di Federico II si parlava di pars Imperii e pars Ecclesiae per definire i


sostenitori dello scontro, inevitabile, tra Papato e Impero che occupò la prima metà del
XIII secolo e che, nei decenni successivi si trasformò e acuì. Solitamente si parla
rispettivamente di Ghibellini e Guelfi, ma più che di schieramenti politici o partiti, ci si
riferisce a scelte personali e divisioni interne alle varie città interessate dallo scontro
suddetto1. Ora, non è mia intenzione esporre le origini della lotta tra le due fazioni, ma
di dare un’idea della realtà che Dante visse, conobbe e raccontò.

1.1 Firenze
La morte dello stupor mundi avvenne a Fiorentino in Puglia il 13 dicembre 1250, data
che segnò definitivamente il destino dell’Italia intera. Federico II lasciò dietro di sé
uno scenario a dir poco disastroso dovuto a due vicende collegate fra di loro. La prima
riguarda suo figlio Enzo, re di Sardegna, il quale era stato imprigionato dai Bolognesi
nel palazzo che ancora oggi porta il suo nome, a seguito della sconfitta nella battaglia
di Fossalta del 1249, dove rimase fino alla morte nel 1272. La seconda è la diretta
conseguenza della vittoria dei Guelfi, che portò alla nascita di un’insurrezione a
Firenze, dando così vita a contrasti interni che indussero l’imperatore a inviare il figlio
Federico d’Antiochia al fianco del capo dei Ghibellini fiorentini, Manente degli
Uberti, meglio conosciuto come lo chiamava Dante nell’Inferno: Farinata2. Nonostante
i successi e l’occupazione delle città di Capraia e San Miniato, a Figline Valdarno si
assistette ad un fallimento irreversibile della campagna del principe d’Antiochia; da
quel momento in poi i Ghibellini vissero un graduale deterioramento del potere in
parte dovuto al comune esilio nei pressi di Poggibonsi. Nell’anno della morte di
Federico II, i Fiorentini si diedero un governo proprio con l’istituzione di trentasei
capitani del popolo: dodici facenti parte del Consiglio degli Anziani e ventiquattro

1
D. Balestracci, La battaglia di Montaperti, Bari, Laterza, 2017, p. 15.
2
If, X, v. 32.

5
consoli delle Arti. Il potere esecutivo venne affidato ad un Capitano del popolo, quello
giudiziario e di comando dell’esercito ad un podestà. Questo sistema viene ricordato
come quello del “Primo Popolo”.

Con la morte di Federico II si dovette affrontare il problema della sua successione in


quanto ebbe diverse mogli e amanti nel corso della vita, e di conseguenza, un cospicuo
numero di figli. La sua volontà era quella di lasciare l’Impero al primogenito Enrico, il
quale morì precocemente nel 1242 (forse suicida); quindi le corone passarono nelle
mani di Corrado, figlio della seconda moglie Isabella di Gerusalemme. In caso di
morte senza eredi di quest’ultimo i successori sarebbero stati gli altri figli Enrico e
Manfredi. La Sicilia, teatro di giovinezza del defunto sovrano, venne rivendicata da
papa Innocenzo IV, creando scompiglio; ciò fece muovere Manfredi che, deciso a
difendere il Regnum, si alleò con Guglielmo II re d’Olanda3. Le sue buone intenzioni,
prive di volontà di scontro col pontefice, mutarono quando gli si ritorse contro il
fratello Corrado, che però morì nel 1254.

Nel frattempo i Guelfi, alla notizia della morte del puer Apuliae, erano tornati a
Firenze, dove godevano della protezione del Capitano del Popolo. I Ghibellini espulsi
strinsero un patto con le città di Siena, Pistoia e Pisa in funzione anti-fiorentina nel
1251. L’accordo fece gola a diverse località toscane, in particolare alle famiglie più
abbienti che avevano la possibilità di ricevere ingenti somme in cambio dell’alleanza
dalla città facente capo alla coalizione: Siena. C’era aria di guerra4. Entrambe le parti
strinsero alleanze in modo da non farsi trovare impreparate. L’attacco venne scagliato
dai Fiorentini, affiancati dai cittadini di Prato, nell’estate dello stesso anno; in parallelo
Lucca, alleata di Firenze, attaccò Pisa, la quale sferrò il contrattacco. Si succedettero
altri combattimenti negli anni, quasi tutti favorevoli ai Fiorentini. La svolta avvenne
nel 1254, quando l’esercito ghibellino stanziato a Monteriggioni, nella montagnola
senese, si offrì di tradire gli alleati per 50.000 lire5.

Firenze non accettò e decise di procedere alla conquista di Poggibonsi, Volterra e


costrinse Pisa alla resa, ordinando la cessione di Piombino e Ripafratta; riuscì ad
3
D. Balestracci, La battaglia di Montaperti cit., pp. 36-40.
4
Ibid., p. 47.
5
Ibid., p. 50.

6
ottenere soltanto la seconda. Questo passò alla storia come l’anno vittorioso6 di
Firenze, tanto che Siena, resasi conto di non poter vincere, si piegò a stipulare la pace
con il capoluogo fiorentino; l’atto venne redatto dal maestro di Dante, Brunetto
Latini7. Il patto consisteva in un reciproco aiuto militare e mutua protezione dei
cittadini in caso di attacchi esterni. E’ da ricordare che la pace non scioglieva le
alleanze che Firenze e Siena avevano stretto prima del conflitto rispettivamente con
Lucca, Genova, Orvieto, Montepulciano, Volterra, Arezzo, San Miniato, Prato, Pistoia
la prima, con Pisa e Grosseto la seconda. La situazione rimase stabile in un rispetto
reciproco, il che favorì anche un florido sviluppo economico per Firenze8. Manfredi si
fece incoronare re a Palermo nel 1258, risvegliando gli animi dei Ghibellini, i quali
provarono a farsi valere a Firenze, ma senza successo, anzi furono costretti ad un
secondo esilio9. L’incoronazione non venne riconosciuta da papa Alessandro IV, ma
nonostante ciò il figlio di Federico II trovò una buona parte di Romani dalla sua, tanto
che il Papa fu costretto a trasferire la propria corte a Viterbo. Mentre i Ghibellini
esiliati si rifugiavano a Siena, l’ennesimo conflitto si aprì a Firenze, che ruppe
definitivamente la pace ormai fragile: i Fiorentini catturarono e uccisero un abate
vallombrosano ghibellino, perché accusato di tradimento. L’accusa non aveva prova
alcuna, ecco perché si scatenò l’ira dei nemici e del Papa che scomunicò Firenze. Ai
primi di settembre del 1260 si consumò «lo strazio e 'l grande scempio che fece
l'Arbia colorata in rosso»10, una battaglia caratterizzata dall’avanzata violenta di
un’armata fiorentina in numero maggiore rispetto all’esercito ghibellino-senese, di cui
uno dei protagonisti fu il già menzionato Farinata degli Uberti, che chiese aiuto a
Manfredi in modo che Firenze non venisse rasa al suolo, come i Senesi volevano fare.
La battaglia viene ricordata anche per il tradimento di Bocca degli Abati, motivo per
cui Dante inserisce il nobile fiorentino nell’Antenora11, dove vengono puniti i traditori
della patria. Bocca era di famiglia guelfa, ma durante la battaglia tagliò la mano di
Jacopo de’ Pazzi (guelfo come lui) che portava lo stendardo fiorentino, il che

6
Ibid., p. 49.
7
Ibid., p. 52.
8
Si veda Enciclopedia Dantesca Treccani (www.treccani.it/enciclopedia/elenco-opere/Enciclopedia_Dantesca).
9
Si tratta della famiglia degli Uberti. Negli scontri rimase ucciso Schiattuzzo degli Uberti, mentre Uberto Caini e
Mangia Infangati vennero decapitati, come ricorda D. Balestracci, in La battaglia di Montaperti cit., p. 56.
10
If, X, v. 85.
11
If, XXXII, v. 106.

7
disorientò l’esercito e fu il segnale per le armate tedesche di Manfredi di attaccare, con
la conseguente vittoria ghibellina. L’evento catastrofico riecheggiò per anni negli
scritti del tempo.

Non passò molto tempo prima di un secondo (decisivo) scontro. Nel 1261 era salito al
soglio pontificio il francese Urbano IV, che continuò quella politica anti-sveva propria
dei predecessori. L’anno successivo scomunicò Manfredi sperando di indebolirlo,
cercando oltretutto di cedere il Regno di Sicilia ad altri. Incontrò diversi rifiuti, così
nel 1263 chiamò in Italia Carlo I d’Angiò, fratello del sovrano di Francia, che accettò
di ricoprire il ruolo di Senatore della città di Roma. Questa carica dava a Carlo I un
enorme potere, che consolidò con il successore di Urbano IV, Clemente IV, salito al
soglio nel 1264. Con l’appoggio del nuovo pontefice, si mise alla testa di quella che
generalmente viene indicata come “crociata” contro lo svevo. Nei primi giorni del
1266 l’angioino divenne Rex utriusque Siciliae. La battaglia combattuta a Benevento
segnò la fine di Manfredi, il quale morì sul campo proprio nel febbraio di quell’anno.
Sempre più città comunali conobbero le brutalità delle truppe francesi del sovrano di
Sicilia, tanto che un poeta genovese di nome Calega Panzà scrisse nel suo sirventese
che «aveva trovato maggior pietà presso i Saraceni, che non […] presso i cavalieri
francesi».12 Fu Corradino, l’ultimo degli Hohenstaufen, a rendersi interprete degli
scontenti delle città toscane e non solo, in un tentativo di difesa contro i soprusi
angioini. Lo svevo si mosse in direzione del sud Italia, passò da Viterbo, dove si
trovava ancora la sede pontificia, e si fermò a Roma; proseguì per l’Abruzzo cercando
di congiungersi con le truppe saracene sue alleate. Carlo I d’Angiò fu più scaltro di lui
e lo raggiunse, cogliendo il nipote di Federico II di sorpresa. Lo scontro che seguì si
svolse nel 1268 ad Alba, in Abruzzo, e passò alla storia come Battaglia di
Tagliacozzo.13 La sconfitta significò la fine della dinastia degli Hohenstaufen, l’ultimo
esponente dei quali venne decapitato a Napoli14 qualche mese dopo.

12
R. Davidsohn, Storia di Firenze: L’egemonia guelfa e la vittoria del popolo, Firenze, Sansoni, 1957, p. 12.
13
If., XXVIII, vv. 17-18.
14
R. Davidsohn, Storia di Firenze cit., p. 57.

8
Il periodo di governo guelfo per Firenze viene ricordato per essere stato assai florido e
caratterizzato da stabilità, almeno fino agli anni Ottanta del XIII secolo. E’ un’epoca in
cui il potere veniva conservato dall’oligarchia guelfa, nonostante questo i cavalieri
riuscirono ad affermare la propria posizione sia nel partito, che nel Consiglio della
città come riporta Robert Davidsohn.15 I Consigli, nel governo fiorentino, avevano un
ruolo di massima importanza in quanto revisionavano regolarmente le leggi, erano
l’ossatura del dominio di Firenze e quindi erano determinanti per la vita politica e per
la storia della città.16

L’apparente stabilità politica nascondeva una fiamma che ancora bruciava tra i
sostenitori della Chiesa e quelli dell’Impero. Ci furono due tentativi da parte del Papa
di trovare un’intesa per i due partiti fiorentini; entrambi i tentativi di pace furono
firmati, ma senza esito. Il primo viene ricordato come pace sull’Arno, dal fiume presso
cui si stilò l’accordo, voluto da Gregorio X nell’estate del 1273. Il secondo avvenne
sette anni dopo e passò alla storia col nome del firmatario, il Cardinal Latino. Latino
Malabranca Orsini era stato nominato Cardinale pontificio per la Toscana e la
Romagna da suo zio, papa Niccolò III, con il compito di sanare le discordie, reprimere
la mondanità della Chiesa e occuparsi delle cose ecclesiastiche.17 La stipulazione della
pace ebbe luogo il 18 febbraio 1280 nella piazza di Santa Maria Novella dove «quelle
stesse labbra, che poco prima avevano pronunziato bestemmie e minacce contro
l’avversario, ora si univano nel bacio di rito».18 Cinquanta Ghibellini e cinquanta
Guelfi scelti dallo stesso Cardinale, diventarono un unico governo in modo che si
occupassero insieme della città e trovassero interessi comuni. La quiete durò ben poco.
I Guelfi mantennero un ruolo egemonico, poiché i Ghibellini erano ancora indeboliti
dai tredici anni di esilio.19

I Consigli fiorentini, ormai stanchi di tutto quell’odio, nel giugno 1282 istituirono i
Priori delle Arti, affinché si favorisse l’emergere della classe mercantile; i tre Priori

15
Ibid., p. 208.
16
P. Gualtieri, Il Comune di Firenze tra Due e Trecento, Firenze, Olschki, 2009, p. 81.
17
Durante il soggiorno a Firenze al Cardinale venne dato l’onore di porre la prima pietra nella costruzione della
Chiesa di Santa Maria Novella, diventata poi una delle Chiese più celebri e magnifiche della città come racconta
Robert Davidsohn nella sua opera sulla Storia di Firenze cit., p. 218.
18
Ibid., p. 229.
19
Ibid., p. 283.

9
inizialmente continuarono a lavorare al fianco dei Quattordici, però in seguito l’organo
fittizio creato dal Cardinal Latino non ebbe più ragion di esistere, poiché i Priori ne
assunsero i compiti e si sostituirono20, divenendo manifestazione politica del ceto
mercantile e artigiano.21

La situazione dell’Italia centrale era profondamente mutata anche solo rispetto a un


secolo e mezzo prima. Una città valorosa come Siena, che aveva sempre difeso la
propria anima ghibellina a spada tratta, a questo punto si arrese ai Guelfi e passò dalla
loro parte. Ghibellina era ancora Arezzo, che difatti si scontrò con Firenze l’11 giugno
del 1289. Fu una collisione di città e di grandi famiglie nobili, quella che avvenne a
Campaldino nei pressi di Poppi, che fu sì la battaglia che diede la vittoria ai Guelfi, ma
significò anche un inizio per la città di Firenze, che da quel momento in poi avrebbe
assunto il ruolo di potenza mercantile ed economica che le permise di diventare la città
più potente della Toscana. Gli ultimi decenni del XIII secolo furono quindi decisivi,
portando Firenze ai massimi livelli di popolamento, alla migliore forma urbis mai
avuta prima, con la costruzione di una nuova cinta muraria. Questo periodo significò,
per la città, un passaggio di “livello” alla dimensione di un dominio politico a misura
regionale, quindi il superamento della condizione di città-stato.22

1.1.1 Gli Ordinamenti di Giustizia


I Ghibellini non erano più un problema a Firenze dopo la sconfitta di Campaldino, ma
le famiglie più abbienti continuarono ad essere rivali e contendersi il potere nella città.
Verso la fine del XIII secolo i Guelfi fiorentini si divisero in due, tra coloro che
sostenevano la famiglia dei Cerchi e coloro a favore dei Donati, comunemente
conosciuti come “Bianchi” e “Neri”.

I Cerchi erano una famiglia che si era fatta un nome nonostante le umili origini, una
famiglia di banchieri e uomini d’affari, che aveva accresciuto le proprie ricchezze

20
Dovevano garantire uno «pacifico stato» per il popolo, per le Arti e proteggere il popolo minuto dalle brutalità
dei magnati, amministrare la giustizia, occuparsi della difesa del territorio ed infine della gestione delle finanze,
come riportato da P. Gualtieri, Il Comune di Firenze cit., p. 193.
21
Ibid., p. 174.
22
Ibid, p. XIII.

10
grazie all’ingegno del capostipite Cerchio, il quale era riuscito ad avviare commerci
con l’estero (con la Francia in particolare). Era il fronte più moderato quello dei Guelfi
Bianchi, non incline alla violenza in genere e assai rispettato dal popolo fiorentino.

La personalità di maggior spicco della famiglia a fine Duecento, fu Vieri de’ Cerchi,
campione valoroso di Campaldino. Spesso viene ricordato per la sua cautela nell’agire,
ma anche per non aver colto l’occasione di prendere il potere a Firenze durante l’esilio
a Roma dell’avversario Corso Donati nel 1300. Con riferimento a questo episodio
Dino Compagni scrisse di lui «i Cerchi schifavano non volere il nome della signoria,
più per viltà che per pietà, perché forte temevano i loro avversari»23.

I Donati erano al centro della vita politica fiorentina. Erano una famiglia estremamente
ricca, possedevano infatti numerose terre e palazzi a Firenze e nei dintorni, e spesso si
trovavano al comando degli eserciti nelle guerre contro i nemici ghibellini. Una delle
figure più celebri di fine XIII secolo fu Corso Donati, al centro delle vicende di
Firenze e di Pistoia, città di cui fu podestà. Il “barone”, come veniva chiamato per il
suo modo violento e autoritario di agire, fu un uomo profondamente odiato dal popolo
e dai Bianchi, per il legame che strinse con Bonifacio VIII, tanto che la sua scomparsa
venne vista come una liberazione. Dante descrive la sua morte violenta con una certa
soddisfazione al fratello Forese Donati: «La bestia ad ogne passo va più ratto, /
crescendo sempre, fin ch’ella il percuote, / e lascia il corpo vilmente disfatto»24.

Il panorama sociale sopra accennato fu sconvolto da un cambiamento totale della


politica fiorentina e le conseguenze di come questa svolta venne accolta determinarono
le sorti della società della Toscana e delle regioni confinanti. Tutto partì dalla volontà
di un politico appartenente a una delle famiglie più nobili di Firenze25, di cui Dante
ricorda «la bella insegna»26 a Cacciaguida27 in Paradiso: Giano della Bella.
Quest’ultimo era ghibellino di nascita, ma guelfo per scelta, difatti cambiò partito
perché voleva fare gli interessi del popolo e limitare il potere aristocratico. Le leggi

23
D. Compagni, Cronica delle cose occorrenti ne' tempi suoi, I, XXVII.
24
Pg., XXIV, vv. 85-87.
25
R. Davidsohn in Storia di Firenze cit., p. 615.
26
Pd., XVI, v. 127.
27
Cacciaguida era il trisavolo di Dante Alighieri, da lui viene collocato nel V cielo del Paradiso tra gli spiriti
combattenti. (Pd., canti XV e XVI).

11
emanate nel mese di gennaio del 1293 aggiunsero nove corporazioni minori alle Arti
fiorentine, in modo da ammettere in politica un numero maggiore di rappresentanti del
popolo. Delle sette Arti antiche di Firenze, la maggior parte poteva essere considerata
di tipo mercantile. Le più importanti furono: l’Arte di Calimala, i cui componenti
erano commercianti di tessuti, l’Arte della lana, di cui facevano parte grandi
rivenditori e l’Arte dei «pelliparii» cioè dei commercianti di pellicce.28 La più famosa,
grazie ad un membro d’eccellenza come Dante, fu l’Arte dei medici e speziali, i cui
appartenenti erano appunto medici e negoziavano droghe (le medicine medievali),
soprattutto dall’Oriente; commerciavano inoltre le tinture e i colori per gli artisti,
motivo per cui numerosi letterati e uomini d’arte entrarono proprio in questa
corporazione.29 Grande contributo per la promulgazione delle leggi venne dato da
Giano della Bella in quanto al tempo ricopriva la carica di gonfaloniere di giustizia; la
stesura del testo però fu di Donato Alberto Ristori, Ubertino dello Strozza30 e Baldo
Aguaglioni.31 La paura di un’insurrezione della nobiltà c’era, motivo per cui si decise
che gli Ordinamenti di Giustizia non potessero essere revocati e che nemmeno un
Consiglio per moderarne i decreti potesse essere convocato, e se fosse accaduto ci
sarebbero state sanzioni pesantissime.32 Gli Ordinamenti erano un’eredità di quel
Priorato creato per favorire l’avanzata del popolo minuto in politica nei primi anni
ottanta del Duecento. Con queste nuove leggi il ceto mercantile fiorentino era
pienamente riuscito ad inserirsi e ad avere una rappresentanza in politica. Bisogna
tener conto però che a Firenze e nella società medievale del tempo, i risentimenti, gli
odi e le ostilità interne alle famiglie aristocratiche non cessavano mai; quindi anche gli
Ordinamenti di Giustizia da lì a poco furono cambiati per soddisfare i bisogni di
rivalsa delle dinastie fiorentine che si sentivano schiacciate. I giochi politici, propri
della Firenze a cavallo fra XIII e XIV secolo, portarono lo scontro fra le due pars ad
essere più aspro che mai, con la conseguente prevalenza di uno dei partiti su quello
avversario e l’allontanamento di personalità scomode per chi ricopriva le massime

28
R. Davidsohn in Storia di Firenze cit., pp. 563-564.
29
Ibid.., p. 608.
30
Giudice della famiglia fiorentina degli Strozzi di San Pancrazio.
31
Ibid., p. 622.
32
Dagli stipendi del podestà e del capitano sarebbero state tolte 1000 libbre, a ciascun Priore e al Gonfaloniere di
giustizia 500 come riporta R. Davidsohn in Storia di Firenze cit., p. 642.

12
cariche dello stato. Di questo circolo vizioso fu vittima lo stesso Dante, che venne
costretto ad abbandonare la sua patria e a vagare per corti straniere, come un simbolo
del destino di chi veniva sconfitto in politica.

1.2 Forlì
L’epoca vissuta dalla Romagna dopo la morte di Federico II fu caratterizzata da
mutamenti di potere e dal rinnovato interesse del Papato che, dovendosi occupare di
riassestare i propri possedimenti, pose particolare attenzione in quel territorio che per
lungo tempo era (e sarebbe stato) contesa con la forza imperiale. La Romagna vide la
nascita di particolarismi e desiderio espansionistico dei comuni, favorito
dall’indebolimento del potere temporale e spirituale della seconda metà del Duecento;
quindi il quadro era quello di città in contrasto le une con le altre in un tentativo di
difesa dei propri interessi e dei propri poteri.33 Vorrei ora porre la mia attenzione sulla
città di Forlì e sulle vicende storiche che l’hanno interessata nella seconda metà del
Duecento.

La città di Forlì ereditò dall’imperatore svevo l’aquila imperiale nera, che dalla metà
del XIII secolo si erge al centro del suo stemma. Forlì si è sempre distinta nella
regione per aver difeso il proprio ghibellinismo, a differenza di molti altri comuni che
si piegarono immediatamente al Pontefice, tanto che verso la metà del Duecento era
l’unica città ghibellina rimasta in Romagna. Alla morte di Federico Forlì si trovava
nelle mani del Pontefice, che aveva inviato il Cardinale Ottaviano degli Ubaldini a
sottomettere i comuni romagnoli nel 1248. La città venne assediata dall’Ubaldini,
quindi costretta alla resa; a questo punto i Forlivesi si trovarono sotto la potestà di
Bologna34, dove rimasero fino al 1273 insieme alle altre città romagnole conquistate
come una vera e propria provincia dello Stato Pontificio.35 Vent’anni prima che il
guelfismo venisse definitivamente abbattuto, Forlì visse un momento di ritorno del

33
A. Vasina, I Romagnoli fra autonomie cittadine e accentramento papale nell’età di Dante, Firenze, Olschki,
1965, p. 5.
34
Ibid., p. 131.
35
A. Calandrini, G.M. Fusconi, Forlì e i suoi vescovi: appunti e documentazione per una storia della chiesa di
Forlì, Forlì, Centro studi e ricerche sulla antica provincia ecclesiastica ravennate, 1985, p. 563.

13
sentimento ghibellino quando, nel 1253 si trovò a dover difendere la città dalle truppe
bolognesi di Uguccione della Faggiola, al tempo legato di papa Innocenzo IV,
costringendole alla resa.

Non pago della sconfitta il Papa inviò il bolognese Castellano degli Andalò36, ma
anch’egli fallì nell’impresa. Giorgio Viviano Marchesi nei suoi testi sulla storia di
Forlì riporta che Forlì e Faenza furono le uniche città a negare l’entrata37 a Carlo
d’Angiò e alla sua corte quando il sovrano francese, al tempo alleato col Pontefice,
stava attraversando la penisola per giungere a Napoli. Non è però sicura questa notizia.
Nel 1273 la città si rifiutò di ricevere il podestà di Bologna38, che subito mobilitò le
truppe, ma l’antica famiglia bolognese dei Lambertazzi si alleò segretamente coi
Forlivesi e corse in loro aiuto liberando definitivamente la città dal guelfismo.
L’azione dei Lambertazzi non fu una coincidenza, in quanto anche loro avevano
bisogno di supporto nella lotta con i Geremei; accadde però che le forze dei nemici
erano troppo ardue da battere, quindi la famiglia Lambertazzi si rifugiò a Faenza39. Il
13 giugno 1275 i Bolognesi e i Forlivesi si scontrarono nei pressi del fiume Senio,
nella battaglia di San Proloco, passata alla storia per la schiacciante sconfitta dei
Bolognesi ad opera di Guido da Montefeltro, che era Capitano del popolo forlivese.
Nella speranza di sedare le rivolte tra Guelfi e Ghibellini nel 1280 venne firmata la
Pace del Cardinal Latino a cui prese parte anche Forlì, ma come già ricordato, risultò
effimera. Gli scontri ripresero ancor più vigorosi, tanto che Guido da Montefeltro si
vide costretto a chiedere aiuto prima all’imperatore Rodolfo d’Asburgo, poi ad
Alfonso di Castiglia e Pietro III d’Aragona40. Papa Martino IV aveva inviato in
Romagna un comandante del sovrano angioino, Giovanni d’Appia, col fine di
indebolire il conte da Montefeltro. Ai Forlivesi l’inviato papale offrì la libertà se si
fossero sottomessi al Papa a condizione che il Capitano del popolo fosse cacciato e i
Lambertazzi bolognesi allontanati; Forlì rispose con l’uccisione41 di alcune personalità

36
Ibid., p. 568.
37
G. V. Marchesi, Vitae virorum illustrium foroliviensium, Forlì, 1726, riportato da G.M. Fusconi in Forlì e i
suoi vescovi cit., p. 572.
38
Ibid., p. 574.
39
Che nel frattempo era stata conquistata dai forlivesi, come viene ricordato da Gian Michele Fusconi in Forlì e
i suoi vescovi cit., p. 574.
40
Ibid., p. 582.
41
Furono bruciati nella torre cittadina, riporta Gian Michele Fusconi in Forlì e i suoi vescovi cit., p. 582.

14
guelfe importanti. Dopo una seconda offerta di sottomissione del Papa (ovviamente
rifiutata) scoppiò la battaglia di Forlì, ricordata come «sanguinoso mucchio»42, nella
notte tra il 30 aprile e il primo giorno di maggio 1282. L’esercito francese venne
letteralmente trucidato dalle truppe di Guido da Montefeltro; ai morti però venne data
sepoltura43 dagli stessi Forlivesi nella piazza maggiore e nelle chiese della città. Sulla
città vigeva la scomunica, ma nonostante vi si rifugiassero anche degli ecclesiastici
che erano passati dalla parte ghibellina, le intenzioni del papa di eliminare Guido da
Montefeltro non erano cambiate. Il panorama mutò quando a capo dell’esercito
pontificio venne posto il francese Guido di Montfort, che riuscì a sconfiggere i
Forlivesi con la conseguente resa del Capitano del Popolo, che scappò e si diresse in
Toscana. Nonostante le condizioni di pace44 imposte a Forlì risultassero durissime, non
bastarono a soffocare le lotte tra le due fazioni. Il vuoto lasciato dal Montefeltro venne
riempito dal marchese Maghinardo Pagani di Susinana il quale diede un periodo di
pace a Forlì, nonché a Faenza e Imola, dove nel 1300 venne eletto Capitano del
popolo45. L’equilibrio offerto dal nuovo capitano del popolo era dovuto al suo
atteggiamento ambivalente nei confronti dei Ghibellini, di cui faceva parte, ma anche
dei Guelfi fiorentini, che appoggiava allo stesso modo. Il modo di agire del Pagani
fece scalpore tra i contemporanei, infatti viene citato da Dante nella Divina Commedia
quando descrive la situazione politica della Romagna: «il lioncel dal nido bianco, / che
muta parte da la state al verno.»46. Nel 1294 ci fu il famoso «gran rifiuto»47 di
Celestino V, che portò all’elezione di Bonifacio VIII, che in Romagna, nonostante le
prime controversie con i Ghibellini, riuscì a siglare una pace triplice48 tra Bologna e la
famiglia Lambertazzi, Bolognesi ed Estensi, ed infine una pace generale. Maghinardo

42
If., XXVII, v. 44.
43
A. Calandrini, G.M. Fusconi, Forlì e i suoi vescovi cit., p. 592.
44
«esilio dei Ghibellini, bando dei seguaci di Guido da Montefeltro e dei Lambertazzi, abbattimento di torri,
fortificazioni e mura ed eliminazione dei fossati, accettazione di un governatore designato dal papa e conferma
da parte di questi dell’elezione del podestà e del capitano del popolo, necessità del consenso del governatore per
le deliberazioni da parte dei priori, consoli, consiglieri eletti dal popolo ed infine versamento al papa delle
somme fino ad allora versate all’imperatore […] vennero inoltre sottratti tutti i castelli» queste furono le
condizioni di pace come riporta Gian Michele Fusconi in Forlì e i suoi vescovi cit., p. 603.
45
C. Dolcini, Storia di Forlì. Volume II: il Medioevo, a cura di A. Vasina, Bologna, Nuova Alfa, 1990, p. 133.
46
If., XXVII, vv. 50-51.
47
If., III, v. 60.
48
A. Calandrini, G.M. Fusconi, Forlì e i suoi vescovi cit., p. 631.

15
Pagani di Susinana morì nel 1302, dando il via alle lotte tra le famiglie aristocratiche
forlivesi per la presa di potere, quali i De Calboli, gli Orsini e gli Ordelaffi.

1.2.1 Gli Ordelaffi


Nel tardo Medioevo si attribuiva alla famiglia Ordelaffi un’origine leggendaria49, ma
in realtà la fortuna di questo casato doveva provenire dalle ricchezze ereditate di
generazione in generazione. L’inizio della scalata al potere risultò essere nel periodo in
cui a Forlì era capitano del popolo Guido da Montefeltro, momento in cui iniziarono
ad emergere le rivalità con i De Calboli e gli Argogliosi. Il primo degli Ordelaffi
degno di nota fu Tebaldo, il quale stette sempre dalla pars imperii, sia quando
Federico II era ancora in vita, sia successivamente con Guido da Montefeltro, al quale
fu sempre fedele50. Fu un uomo di grande ingegno politico riuscendo ad inserire i
propri familiari nel governo cittadino e ad attuare strategiche alleanze matrimoniali;
difatti fece sposare entrambi i suoi figli, Sinibaldo e Caterina Ordelaffi, con due figli
dei De Calboli, ovvero Onestina il primo e Giovanni Calboli la seconda. La personalità
più insigne della famiglia fu però il «vir nobilis et ghibellinorum in Forolivio
princeps»51 Scarpetta Ordelaffi, uno dei figli di Tebaldo. Il periodo in cui Scarpetta fu
signore (nonché vescovo) di Forlì, fu un periodo florido per la città e per i cittadini,
infatti la politica dell’Ordelaffi promosse lo sviluppo del ceto mercantile e degli
artigiani; si impegnò anche nel mantenimento della pace con il papa, che venne
riconfermata in occasione del Giubileo del 1300 indetto da Bonifacio VIII con il legato
pontificio Matteo d’Acquasparta. La pace non durò poi molto, ricorda infatti Gian
Michele Fusconi.52 Le discordie tra Bianchi e Neri a Firenze riecheggiarono anche a
Forlì, che ben presto si ritrovò ad accogliere i guelfi Bianchi cacciati dalla loro città,
tra i quali Dante Alighieri.

49
C. Dolcini, Storia di Forlì cit., pag. 156.
50
Ibid., p. 159.
51
F. Biondo, Le Decadi, XIX. 10, p. 548.
52
A. Calandrini, G.M. Fusconi, Forlì e i suoi vescovi cit., p. 858.

16
Capitolo 2

L’ESILIO E L’ARRIVO A FORLI’

In questo secondo capitolo s’intende continuare la storia interrotta in quello precedente


focalizzando l’attenzione sulla persona di Dante Alighieri, sul contributo politico da
lui dato nella Firenze a cavallo tra XIII e XIV secolo, sulle cause dell’esilio e una
breve introduzione al suo viaggio tra le signorie romagnole; per poi dedicare in seguito
una parte della narrazione all’arrivo e al soggiorno del poeta a Forlì.

2.1 Dante in politica

Mentre nascevano le ostilità tra Siena e Arezzo, Dante Alighieri si trovava a Bologna
impegnato ad approfondire gli studi di diritto e filosofia53, ma con l’intensificarsi degli
scontri sentì la necessità di tornare a Firenze. Avendo vent’anni era chiamato alla leva
militare obbligatoria.54 Dubbia è la partecipazione dell’Alighieri alla spedizione del
novembre 1285 in cui i Fiorentini, guidati da Guido di Montfort55, corsero in aiuto ai
Senesi che avevano cinto d’assedio la cittadina di Poggio Santa Cecilia, piazzaforte di
Arezzo.56 Certa è invece la presenza di Dante tra le fila di Vieri de’ Cerchi nella
battaglia di Campaldino l’11 giugno 1289, la sua prima esperienza militare di scontro
diretto con il nemico, e nell’impresa di Caprona nell’agosto dello stesso anno in cui i
Fiorentini cinsero d’assedio il castello pisano guidati da Nino Visconti57, di cui
abbiamo testimonianza diretta del poeta «così vid’ ïo già temer li fanti / ch’uscivan
petteggiati di Caprona, veggendo sé tra nemici costanti».58

53
G. Petrocchi, Vita di Dante, Roma-Bari, Laterza, 1983, p. 24.
54
Ibid., p. 25.
55
Era vicario in Toscana, per conto di Carlo d’Angiò. Si rese colpevole dell’omicidio del nipote di Enrico III
d’Inghilterra durante la messa come ricorda Anna Maria Chiavacci Leonardi in Divina Commedia Inferno,
Milano, Mondadori, 2016, pp. 380; il fatto fece tanto scalpore tra i contemporanei che Dante lo inserì nel girone
dei violenti contro il prossimo «Colui fesse in grembo a Dio / lo cor che ‘n su Tamisi ancor si cola» così
scriveva in If., XII, vv. 119-120, dove i dannati sono condannati a bagnarsi in un fiume di sangue per l’eternità.
56
G. Petrocchi, Vita di Dante cit., p. 21.
57
Egli era il giudice capitano dei Guelfi pisani con cui il poeta strinse un forte legame d’amicizia come si
apprende in G. Petrocchi, Vita di Dante cit., p. 28.
58
If., XXI, vv. 94-96.

17
Con la vittoria guelfa a Campaldino il panorama politico fiorentino mutò
notevolmente, così il giovane Alighieri, da poco convolato a nozze, fresco dal campo
di battaglia avvertì la necessità di inserirsi nella vita politica della sua città, forse
perché faceva parte di quella generazione che aveva osservato un susseguirsi di organi
di potere (i Quattordici, il Priorato, il tentativo di governo guelfo-ghibellino) e ancora
nutriva la speranza che le lotte tra Guelfi e Ghibellini che affliggevano, ormai da
decenni, la Toscana si potesse risolvere.59 La prima esperienza politica di Dante fu
l’incontro con Carlo Martello nel 1294, quando il sovrano d’Ungheria stava per
giungere a Firenze e si decise di creare una delegazione apposita per accoglierlo, al cui
capo venne posto Giano de’ Cerchi e di cui fece parte il nostro poeta. Dante per lui
ebbe grandissima ammirazione e nell’occasione dell’incontro gli avrebbe mostrato la
canzone ‘Voi che 'ntendendo il terzo ciel movete’60 come fa ricordare allo stesso Carlo
Martello nel canto VIII del Paradiso61. Nell’agosto 1294 un nuovo papa salì al soglio
pontificio: era il monaco benedettino Pietro Angelario, da molti considerato un santo
già in vita con il nome Pietro da Morrone, ma ricordato come Celestino V da Papa. Il
suo fu un pontificato molto breve; difatti durò appena quattro mesi giacché egli era un
eremita non adatto a ricoprire la carica che gli era stata affidata. Decise di abbandonare
il ruolo per cui era stato scelto, in favore di Benedetto Caetani, che prese il nome di
Bonifacio VIII. Dante non perdonò mai il gesto a Celestino V, che inserì tra gli ignavi
dell’Antinferno riconoscendolo così: «vidi e conobbi l’ombra di colui / che fece per
viltade il gran rifiuto»62. Negli ultimi anni del XIII secolo l’Alighieri ricoprì alcune
cariche minori soltanto grazie al prestigio letterario che aveva tra i contemporanei, in
quanto opere come Il Fiore, le liriche delle Rime e la stessa Vita Nuova erano state
assai apprezzate dal pubblico duecentesco63. Giano della Bella, l’artefice degli
Ordinamenti di Giustizia, venne cacciato nel febbraio 1295 dai nobili fiorentini, in
modo che si potesse procedere con una modifica delle leggi che proibivano qualsiasi

59
G. Petrocchi, Vita di Dante cit., p. 58.
60
Rime, LXXIX.
61
« ai quali tu del mondo già dicesti: / ’Voi che ’ntendendo il terzo ciel movete’; / e sem sì pien d’amor, che, per
piacerti, / non fia men dolce un poco di quïete » da Pd., VIII, vv. 36-39.
62
If., III, vv. 59-60.
63
G. Petrocchi, Vita di Dante cit., p. 64.

18
intrusione aristocratica nella politica di Firenze. I «temperamenti»64 vennero emessi
già a luglio; questi però non eliminavano gli Ordinamenti, bensì ne attenuavano la
durezza facendo spazio all’interno del governo a quei nobili che fino al 1293 erano
sempre stati al potere. Questo cambiamento permise a Dante l’entrata effettiva in
politica, egli infatti nello stesso anno di emanazione dei Temperamenti si iscrisse
all’Arte dei Medici e Speziali, quella più adatta alle sue facoltà intellettuali65. In questi
anni le controversie tra Bianchi e Neri si fecero più taglienti, e spesso si arrivava alle
mani. Per il momento Bonifacio VIII guardava Firenze da lontano, osservava senza
agire, ma la quiete del pontefice sarebbe durata ben poco.

Dante era sposato con Gemma Donati, cugina di Forese, Piccarda e Corso Donati. La
parentela con i caposaldi dei Neri non impedì al poeta di prendere le parti di Vieri de’
Cerchi, di cui condivideva gli ideali, anche se questa fermezza gli causò la rovina.
Nonostante per Firenze il periodo a cavallo del secolo fosse estremamente florido per
l’economia, non si poteva dir lo stesso per quanto riguarda gli animi dei Fiorentini, per
i continui scandali di cui si rendevano colpevoli le famiglie nobili e per le zuffe
giornaliere tra Bianchi e Neri. Nel 1299 il corrotto Monfiorito da Coderta venne
destituito dalla carica di podestà di Firenze e confessò malefatte coinvolgenti
personalità importanti nella città. Nello scandalo di Monfiorito era coinvolto il capo
dei Guelfi Neri Corso Donati, il quale venne cacciato. Il Donati fece intervenire il
Papa, che prese le sue difese e lo nominò podestà di Orvieto, rivelando la falsa
neutralità con cui si era mascherato fino a quel momento nei confronti degli affari
fiorentini.66 L’anno 1300 si aprì con la promulgazione della bolla Antiquorum habet
fida relatio che diede inizio al Giubileo voluto da Bonifacio VIII, sia per soddisfare il
bisogno dei fedeli di indulgenza, sia per riempire le casse dello Stato pontificio,
nonché per rafforzare il proprio prestigio offuscato dalla guerra ai nemici Colonna e
dalle accuse di aver tolto in modo illegittimo il soglio pontificio a Pietro da Morrone.67

64
Con le leggi cosiddette «temperamenti» s’intende un compromesso raggiunto nel Consiglio, convocato
d’urgenza il 6 luglio 1295, che rendeva eleggibili chi era iscritto alle Arti, anche come matricola, quindi non
esercitando il mestiere propriamente. In questo modo si permise l’entrata di un ceto intermedio tra i popolani e i
magnati, mitigando così i precedenti Ordinamenti di Giustizia. Si veda R. Davidsohn Storia di Firenze cit., pp.
736-741.
65
G. Petrocchi, Vita di Dante cit. , p. 63.
66
Ibid., pp. 68-69.
67
Ibid., p. 77.

19
In occasione del Giubileo il Papa aveva offerto al capo dei Bianchi Vieri de’ Cerchi di
recarsi a Roma per riconciliarsi con i Donati. Vieri rifiutò ogni invito e così Bonifacio
rese ancor più forte il legame con i Neri proclamando Corso Donati rettore di Massa
Trabaria, una località dello Stato pontificio a cavallo tra Umbria, Romagna e Toscana.
Nell’annuale festa di Calendimaggio68 le brigate dei Donati, tra cui c’era il nipote di
Corso, Bardellino de’ Bardi, assalirono armati e a cavallo i Cerchi nel bel mezzo dei
festeggiamenti, dando vita ad uno scontro che si risolse nel sangue. Le zuffe di
Calendimaggio furono la goccia che fece traboccare il vaso nelle faccende dei Bianchi
e dei Neri. Sei giorni dopo venne affidato a Dante l’importante compito di recarsi a
San Gimignano nel contado senese, una delle località scelte per stringere alleanza
creando una Lega guelfa per prepararsi allo scontro che non sarebbe tardato ad
arrivare.69 Il compito di Dante fu di convincere i Sangimignanesi a partecipare
all’elezione del Capitano della Taglia guelfa toscana e ad unirsi alle forze Bianche. Ci
riuscì. Altri ambasciatori nel frattempo stavano cercando di far lo stesso a Lucca,
Prato, Pistoia, Volterra, Colle, San Miniato e Poggibonsi.70 In quei mesi ci si stava
anche occupando della congiura che tre Fiorentini stavano tramando a discapito
dell’autonomia della loro città, in cambio della protezione papale, ma Lapo Saltarelli71,
Lippo Rinucci-Becca72 e Bondone Gherardi, inviati a Roma, avevano scoperto la beffa
e successivamente condannato i traditori. Ad aprile Bonifacio ordinò la revoca della
sentenza, ma il governo fiorentino rifiutò ed elesse il Santarelli nei Priori a giugno.73
Come se non bastasse il pontefice inviò Matteo d’Acquasparta come paciaro74 in
Toscana e in Romagna, ma anch’egli risultò solo uno strumento di Bonifacio per
rafforzare i Guelfi Neri, tanto che si trovò a Firenze in occasione dell’elezione del
Priorato di quell’anno per cercare di favorire l’entrata dei Donateschi nel Consiglio.

68
Cadeva il primo maggio perché si festeggiava l’arrivo della primavera come racconta Dino Compagni nei
Cronica, libro I, XXII.
69
G. Petrocchi, Vita di Dante cit., p. 78.
70
Ibid., p. 79.
71
Fu giurista fiorentino, riconosciuto fra i rimatori minori del secolo.
72
Fu gonfaloniere.
73
Ibid., p. 79.
74
E’ un mediatore, incaricato solitamente da altri, per ristabilire la pace tra persone, gruppi di persone o popoli
in guerra.

20
Le elezioni si svolsero il 13 giugno 1300 e coloro che risultarono vincitori furono:
Noffo di Guido75, Neri di Iacopo del Giudice76, Nello di Arringhetto Doni77, Biondo di
Donato Bilenchi78, Ricco Falconetti79 e Dante Alighieri. Quest’ultimo si ritrovava a
ricoprire la massima carica dello Stato, ma ben presto se ne sarebbe pentito scrivendo
così in un’epistola perduta: «Tutti li mali e l’inconvenienti miei dalli infausti comizi
del mio priorato ebbono cagione e principio».80 Il primo compito dei Priori fu quello di
occuparsi della sentenza per i sopracitati traditori di Firenze: essi decisero di
condannarli ad una multa salatissima e al taglio della lingua.81 Verso la fine di giugno
Neri e Bianchi si scontrarono di nuovo, e a questo punto si prese la comune decisione
di esiliare i colpevoli, tra cui figurava anche il grande amico di Dante Guido
Cavalcanti, il quale dovette mettersi in viaggio con i seguaci dei Cerchi verso Sarzana,
mentre i nemici erano destinati all’esilio a Castel della Pieve. Oltre al dolore la beffa,
perché i Neri non si piegarono alla decisione del governo di Firenze e come se non
bastasse avevano l’appoggio di Matteo d’Acquasparta, il quale procurò loro anche
milizie lucchesi.82

I Guelfi bianchi, tenendo sempre fede al loro pensiero moderato, inviarono legati a
Lucca per chiedere di non combattere ed evitare altre inutili lotte al clima già
tesissimo. Se da una parte i Cerchieschi erano per la pace, il popolo di Firenze era
esasperato dai fatti di quei mesi, tanto che un cittadino tra il 15 e il 18 luglio tentò di
uccidere il paciaro del papa. Matteo d’Acquasparta rifiutò qualsiasi onore dai Priori e
oramai adirato col popolo di Firenze abbandonò la città assieme ai Guelfi Neri; così il
governo ne approfittò per richiamare i Bianchi dall’esilio. Nell’anno seguente il ruolo
politico di Dante si rafforzò. Le fonti riportano infatti la sua partecipazione al
Consiglio delle Capitudini ad aprile in cui si decretò il nuovo tipo di sorteggio per

75
Fu grande sostenitore di Giano della Bella, seguace della fazione dei Cerchi, ma alla loro caduta passò dalla
parte dei Donati, il che gli permise di essere eletto più volte Priore.
76
Come Noffo di Guido, anche Neri fu inizialmente nel partito dei Cerchi, però si convertì alla fazione
avversaria nel momento in cui cadde, permettendogli l’elezione al Priorato.
77
Forse appartenente alla famiglia bancaria che portava lo stesso cognome, ma della sua vita non abbiamo
notizie, se non che venne eletto nel Priorato insieme a Dante.
78
Apparteneva ad una ricca famiglia fiorentina di San Pancrazio, della sua vita non esistono notizie, se non che
la sua famiglia era dalla parte dei Guelfi.
79
Era uno spadaio fiorentino, che aveva già ricoperto la carica di Priore al tempo di Giano della Bella.
80
G. Petrocchi, Vita di Dante cit., p. 80.
81
Ibid., p. 81.
82
Ibid., p. 82.

21
l’elezione al priorato. Divenne inoltre sovrintendente ai lavori di costruzione della via
di San Procolo e a giugno prese parte al Consiglio dei Cento. Durante il Consiglio
Dante fu l’unico a votare a sfavore della concessione di truppe a Matteo d’Acquasparta
per le missioni che aveva intenzione di compiere contro la contessa di Sovana
Margherita Aldobrandeschi; ma nonostante la fermezza dimostrata dal poeta, i
favorevoli prevalsero.83 Le funzioni politiche di Dante (o almeno quelle documentate
dalle fonti a tal proposito giunte sino a noi) volsero al termine con le sedute del 13, 20
e 28 settembre 1301 in cui egli si proclamò favorevole al mantenimento degli
Ordinamenti di Giustizia e a supporto del governo popolare.

E’ ormai chiaro come le cariche politiche ricoperte da Dante Alighieri ebbero una
pluralità di significato: rappresentarono l’amore per la propria patria, per gli ideali che
all’inizio della sua vita l’avevano portato sui campi di battaglia e per la costante
fermezza del suo pensiero a proposito del ruolo popolare al governo, nonostante
questo volesse dire scontro diretto con una personalità forte come quella pontificia, ed
infine furono la causa della sua condanna all’allontanamento da Firenze.

2.2 L’esilio

«Perché siete voi così ostinati? Umiliatevi a me: e "io vi dico in verità, che io non ò
altra intenzione che di vostra pace»84

Queste sono le parole che, secondo il Compagni, avrebbe pronunciato Bonifacio VIII
ai Guelfi Bianchi giunti a Roma per discutere della situazione che stava affliggendo
Firenze.85 Nell’ambasceria designata per incontrare il pontefice c’era anche Dante, che
era partito a fine settembre insieme ai suoi compagni non consapevole che non
avrebbe mai più messo piede nella città che gli aveva dato i natali. L’urgenza con cui
si preparò l’ambasceria era dovuta all’imminente arrivo di Carlo di Valois, chiamato
da Bonifacio VIII, col fine di porre nelle sue mani il quadro politico toscano. Carlo di

83
Ibid., p. 84.
84
Dino Compagni, Cronica, libro II, IV.
85
G. Petrocchi, Vita di Dante cit., p. 86.

22
Valois era il fratello del regnante di Francia, Filippo IV detto il Bello, ed era stato
inviato da lui in Italia per tentare di fermare le lotte tra Aragonesi e Angioini che
incendiavano la Sicilia dal 1282, meglio conosciute come Guerre del Vespro. Prima di
giungere a Roma però Carlo di Valois si era fermato a Bologna per incontrare i Guelfi
Neri cacciati da Firenze, con i quali aveva stretto un patto di alleanza favorendone il
rientro in città. A Firenze si assistette alla distruzione e ai saccheggi delle abitazioni
dei Bianchi, e tra queste anche di quelle della famiglia Alighieri.86 Dino Compagni
riporta che due degli ambasciatori che erano partiti con Dante, Maso Minerbetti e
Guido Morubaldini, tornarono a Firenze prima della fine di settembre, mentre Dante
rimase alla corte papale dove il 7 novembre ricevette la notizia delle crudeltà che i
Neri avevano operato e la conseguente instaurazione del loro governo, con l’elezione
di Cante de’ Gabrielli da Gubbio alla carica podestarile.87 Non è chiaro dalle fonti se il
poeta nel sentire cos’era successo si fosse precipitato a Firenze per mettere a posto i
suoi affari e ricongiungersi con la famiglia, oppure se si fosse messo in salvo lontano
dalla sua città già consapevole del destino che lo aspettava. Il 27 gennaio il nuovo
podestà proclamò le sorti dei malcapitati Guelfi Bianchi: nella sentenza i sei priori e
gli altri Bianchi considerati colpevoli furono accusati non solo di aver cospirato contro
i Neri nel priorato dell’anno 1300, ma anche di aver contribuito alla cacciata dei Guelfi
Neri dalla città di Pistoia, fatto che dalle fonti risulta impossibile. Il prezzo da pagare,
pronunciato nella sentenza, era: l’esclusione da ogni incarico pubblico, il versamento
di cinquemila fiorini e l’esilio di due anni.88

I Bianchi, amareggiati, non si presentarono mai in città per difendersi dalle accuse
ingiuste e nemmeno per pagare i fiorini dovuti, motivo per cui il 10 di marzo venne
pronunciata un’altra condanna, ancor più spietata, in cui il fraudator Dante Alighieri
venne condannato a morte insieme ad altri quattordici guelfi Bianchi. «Uscito adunque
in cotal maniera Dante di quella città, […] andava vagando per Toscana»89 scrisse il
Boccaccio, giacché il poeta, nelle prime settimane d’esilio, nutriva ancora la speranza
che le condanne venissero attenuate e quindi che potesse tornare a casa.

86
Ibid., p. 87.
87
D. Compagni, Cronica, libro II, XIX.
88
G. Petrocchi, Vita di Dante cit., p. 89.
89
G. Boccaccio, Trattatello in laude di Dante, XI.

23
2.3 Il primo soggiorno nel 1302 alla corte di Scarpetta

I fuoriusciti Bianchi si rifugiarono a San Godenzo nel Mugello, dove si accordarono


con i Ghibellini, allontanati anche loro ormai da decenni, in modo da poter rientrare a
Firenze.90 Quest’episodio rese ancor più evidente la distanza che separava i Bianchi e i
Guelfi Neri, che un tempo stavano dalla stessa parte. L’accordo venne stipulato l’8
giugno all’interno di una pieve, dove diciassette Guelfi si impegnavano a risarcire i
danni che gli Ubaldini, antica famiglia ghibellina loro alleata, avrebbero subito a causa
di quella che sarebbe potuta essere una guerra lunga e difficile.91 Il gruppo dei
fuoriusciti prese il nome di Universitas Partis Alborum de Florentia92 e tra questi si
trovava proprio Dante Alighieri, ormai personalità di spicco del movimento, al fianco
di Vieri de’ Cerchi, Bettino de Pazzi e Lapo degli Uberti, figlio di Farinata. Se
l’armata riscontrò successi a Serravalle, Ganghereto, Gaville e Piantravigne, a metà
luglio perse al Mugello e venne sconfitta dalle armate nemiche, con la conseguente
perdita di Piantravigne. L’insuccesso di quest’ultima operazione era stato causato dal
tradimento di uno dei compagni di Dante, Carlino de’ Pazzi, il quale in cambio di
quattrocento fiorini e dei possedimenti che aveva perso a causa dell’esilio, consegnò al
nuovo podestà di Firenze Gherardo de Gambara93 il Castel de Piano e i suoi compagni,
molti dei quali «furono morti e presi».94 Dante inserì Carlino de’ Pazzi nell’Antenora
infernale tra i traditori della patria nel canto XXXII della Divina Commedia,
nonostante fosse ancora in vita, attraverso le parole del suo parente Camicione de’
Pazzi95: «sappi ch’i’ fu il Camiscion de’ Pazzi; / e aspetto Carlin che mi scagioni»96.
A questo punto il poeta fuggì, pur tenendosi nei pressi del territorio di guerra, in modo
da assistere alle vicende nonostante non combattesse in prima persona sul campo.

90
A. Calandrini, G.M. Fusconi, Forlì e i suoi vescovi: appunti e documentazione per una storia della chiesa di
Forlì, Forlì, Centro studi e ricerche sulla antica provincia ecclesiastica ravennate, 1985, p. 858.
91
G. Petrocchi, Vita di Dante cit., p. 93.
92
G. Inglese, Vita di Dante una biografia possibile, Roma, Carrocci editore, 2018, pp. 72-73.
93
G. Petrocchi, Vita di Dante cit., p. 93.
94
G. Villani, Nuova Cronica, VIII, 53.
95
Uccise il suo congiunto Ubertino de’ Pazzi per ottenerne i possedimenti, ma aspetta di vedere Carlino condannato
come lui nel Cocito per sentirsi meno in colpa dell’ omicidio commesso, in quanto il tradimento di Carlino fu molto
più grave come riporta Anna Maria Chiavacci Leonardi in Inferno, Milano, Mondadori, 2016, p. 958.
96
If., XXXII, vv. 68-69.

24
Nell’autunno del 1302 Dante decise di recarsi a Forlì alla corte di Scarpetta Ordelaffi,
il nuovo condottiero dell’azione militare dei fuoriusciti fiorentini. La città di Forlì,
conosciuta sotto la fiorente signoria degli Ordelaffi, fu sempre ammirata dal poeta che
nel De Vulgari Eloquentia così ne parlava: «et presertim Forlivienses, quorum civitas,
licet novissima sit, meditullium tamen esse videtur totius provincie».97 Scarpetta
Ordelaffi aveva ormai consolidato la propria potenza in città, dopo che sul finire del
XIII secolo era uscito vittorioso dallo scontro con le famiglie che volevano prendere il
suo potere e conquistare Forlì98, la quale gli era stata tolta dai Guelfi nel 1296 mentre
era impegnato nell’assedio di Castelnuovo, tenuto dai Calboli.99 Durante i primi
scontri dei fuoriusciti era stato inviato a sanare le discordie Rinaldo da Concorrezzo,
nuovo rettore della Romagna risiedente a Forlì, il quale venne assalito il 1 settembre in
città. Gian Michele Fusconi riporta che nell’azione doveva essere stato presente il
fratello di Scarpetta, Peppo Ordelaffi100. Alla corte forlivese Dante probabilmente
svolse ruoli di consigliere, in quanto lo storico Flavio Biondo101 sostenne di aver
consultato le lettere dettate dal poeta a Pellegrino Calvi, il segretario di Scarpetta.
Dante si occupò, insieme al signore di Forlì, di preparare l’azione di guerra da
condurre a Montaccianico contro Fulcieri de’ Calboli, che si consumò fra l’8 e il 12
marzo 1303102 con esiti disastrosi per i Bianchi. Mentre Dante si allontanava da Forlì,
Scarpetta si diresse a Bologna per raccogliere fondi a favore dei Guelfi Bianchi, dei
quali appoggiava ancora la causa e di cui era ancora capitano nel giugno di
quell’anno.103 Michele Barbi104 suggerisce che non sia possibile ritenere come primo
rifugio dell’esiliato Dante la corte di Scarpetta, perché non ve n’erano le condizioni e
neppure la testimonianza del poeta, il quale infatti fa predire all’avo Cacciaguida nella
Divina Commedia che il suo primo rifugio sarebbe stato quello alla corte del signore di
Verona: «Lo primo tuo refugio e ‘l primo ostello / sarà la cortesia del gran Lombardo

97
Dve., XIV, 3.
98
Durante lo scontro perse la vita Rinieri de’ Calboli, «è 'l pregio e l'onore / de la casa da Calboli», ricordato da
Dante in Pg., XIV, vv. 88-89.
99
A. Calandrini, G.M. Fusconi, Forlì e i suoi vescovi cit., p. 857.
100
Ibid., p. 859.
101
Ibidem.
102
G. Inglese, Vita di Dante cit., p. 74.
103
A. Calandrini, G.M. Fusconi, Forlì e i suoi vescovi cit., p. 859.
104
M. Barbi, Sulla dimora di Dante a Forlì, in Contributi alla biografia di Dante, Firenze, Tipografia di
Salvadore Landi, 1893, p. 19.

25
che ‘n su la scala porta il santo uccello»105. Dopo la battaglia del Mugello il nome di
Dante non si trova nel documento firmato dai Bianchi giunti da Forlì a Bologna,
facendo supporre che si fosse già recato a Verona alla corte di Bartolomeo della Scala,
dove rimase da maggio 1303 a marzo del 1304.106 Non fu molto chiaro il motivo per
cui Dante si recò proprio alla corte veronese. Giorgio Inglese riferisce l’ipotesi che il
poeta, impegnato nello studio oltre che politicamente, dovesse consultare i testi di
Livio, Plinio e Frontino, le cui copie si trovavano esclusivamente nella Biblioteca
Capitolare di Verona.107 Dopo la morte di Bonifacio VIII, avvenuta l’11 ottobre 1303,
Dino Compagni scrisse che «il mondo si rallegrò di nuova luce»108 e probabilmente
anche Dante era d’accordo, in quanto il nuovo papa, Benedetto XI, diede ai Bianchi
quella speranza di un ritorno a Firenze che con le sconfitte subite avevano perduto. Il
papa elesse paciaro di Toscana, Romagna e Marca Trevigiana Niccolò da Prato, un
uomo di origine umile, ma come ricorda Dino Compagni «di grande scienza»109, a cui
venne affidato il compito di porre fine alle lotte interne alla città di Firenze e forse di
poter dare l’opportunità ai Bianchi e ai Ghibellini di rientrare. I cronisti sostengono
appartenesse lui stesso al partito ghibellino.110

I Bianchi si stabilirono nelle vicinanze di Firenze, in particolare ad Arezzo, dove


poterono osservare da vicino quel che stava succedendo e, nel caso ci fosse necessità,
mettersi in movimento. Niccolò da Prato iniziò le trattative di pace nei primi giorni di
marzo, ma il lavoro fu piuttosto arduo; egli non solo doveva mettere d’accordo Guelfi
e Ghibellini dopo lunghi anni di lontananza, ma doveva anche affrontare il problema
dei conflitti interni tra le famiglie dei Neri. I principali esponenti dei Bianchi entrarono
in città per firmare la pace, che venne siglata il 26 aprile nella piazza di Santa Maria
Novella. Come al tempo della pace del Cardinal Latino, quella firmata ad aprile fu un
contratto effimero e destinato a non durare nel tempo. Lo stesso accadde a giugno,
quando tra i dodici delegati Guelfi Bianchi ad entrare in città ci fu anche Lapo degli

105
Pd., XVII, vv. 70-72.
106
G. Petrocchi, Vita di Dante cit., p. 94.
107
G. Inglese, Vita di Dante cit., p. 75.
108
D. Compagni, Cronica, III, I.
109
Ibidem.
110
G. Inglese, Vita di Dante cit., p. 77.

26
Uberti.111 Essi si ritrovarono costretti a lasciare Firenze perché, come scrisse Dino
Compagni, i Neri «non avevano voglia di pace».112 Anche il paciaro, spaventato dalla
violenza e dalle minacce subite, venne costretto a fare lo stesso, in quanto dovette
assistere agli incendi delle case di alcune famiglie bianche appiccati dai Neri, che lo
costrinsero a lanciare sulla città un interdetto.113 Dante, che nel frattempo aveva
assistito a ciò che era accaduto nella sua città da fuori, maturò un pensiero differente
da quello dei suoi compagni sulle modalità con cui affrontare i nemici. Se
l’Universitas continuava a sentire l’esigenza dell’azione militare, il poeta al contrario
era conscio del fatto che per vincere i Neri ci fosse bisogno del contesto politico-
sociale giusto e che i combattimenti non servissero a nulla.114 La battaglia della Lastra
ebbe luogo il 19 luglio 1304 nelle vicinanze di Firenze: i fuoriusciti tentarono di
rientrare in città con la forza, ma contro le truppe dei Neri non riuscirono nell’intento,
anzi più di quattrocento uomini tra Bianchi e Ghibellini persero la vita nello scontro
sanguinoso.115 Nel Paradiso il poeta citò così l’evento essendo grato di essersi fatto da
parte in tempo, sempre attraverso le parole di Cacciaguida: «Di sua bestialitate il suo
processo / farà la prova; sì ch’a te fia bello / averti fatta parte per te stesso».116

2.4 Il secondo soggiorno nel 1310 e l’epistola a Cangrande della


Scala

Lasciata la «compagnia malvagia e scempia»117, Dante si allontanò dalla Toscana e,


non potendo tornare alla corte veronese essendosi ora instaurata la signoria di Alboino
Della Scala con cui non era in buoni rapporti, si diresse nel nord Italia, cioè a
Treviso.118 Soggiornò alla corte di quel «buon Gherardo»119 da Camino dal 1304 fino
a metà dell’anno seguente, ma sicuramente durante quei mesi si spostò anche a Padova
111
Lapo degli Uberti era il figlio di Farinata e, da fiero ghibellino come lui, subì la condanna all’esilio nel 1251.
G. Inglese, Vita di Dante cit., p. 78.
112
D. Compagni, Cronica, III, VII.
113
G. Inglese, Vita di Dante cit., p. 78.
114
G. Petrocchi, Vita di Dante cit., p. 97.
115
Ibidem.
116
Pd., XVII, vv. 67-69.
117
Ibid., v. 62.
118
G. Petrocchi, Vita di Dante cit., p. 98.
119
Pg., XVI, v. 124.

27
e Venezia, come dimostrato dalle prime due cantiche della Divina Commedia, in cui
spesso si ritrovano espressioni tipiche venete.120 Il soggiorno seguente fu in Lunigiana,
alla corte dei Malaspina di Giovagallo nel 1306, dove strinse amicizia con Morello e
fece da paciaro per i signori che l’ospitavano presso il vescovo di Luni nell’ottobre
1306.121 Il poeta a questo punto del suo viaggio si trovò ad essere un esiliato solo,
lontano dal gruppo di fuoriusciti in cui non poteva sfruttare ne’ le sue abilità militari,
ne’ politiche, dovendo quindi affidarsi al proprio prestigio letterario e ai compiti che
gli veniva chiesto di svolgere nelle corti in cui sostava. Nel 1307 Dante probabilmente
soggiornò nel Casentino e a Lucca, in cui i documenti riportano la presenza del figlio
Giovanni, quindi forse anche della moglie Gemma Donati e dei figli più piccoli.122

Carlo Troya sostenne una permanenza di Dante a Forlì nel 1308, tenendo conto delle
lettere scritte dal segretario del signore di Forlì Pellegrino Calvi, tuttavia Michele
Barbi ne ha dimostrato l’impossibilità, difatti lo storico napoletano si confuse con il
soggiorno del 1302.123 Il 31 marzo 1309 venne emanata un’ordinanza che bandiva tutti
i condannati fiorentini dalla città di Lucca e dalle località vicine, costringendo Dante
ad allontanarsi ancora una volta. Ci sono diverse attestazioni di un viaggio a Parigi del
poeta che, non essendo certo, viene spesso collocato proprio in questo anno, ma non
abbiamo informazioni attendibili per accertarlo. Il 27 novembre 1308 fu incoronato
imperatore a Francoforte Enrico VII, con l’appoggio del nuovo pontefice Clemente V,
il quale aveva preso residenza permanente ad Avignone nella Francia meridionale. Si
riaccesero le speranze dei fuoriusciti e dei ghibellini di un ripristino del potere
imperiale in Italia, nell’attesa di una discesa lungo la penisola del giovane sovrano, che
doveva giungere a Roma per essere incoronato dal Papa. Grazie allo storico forlivese
Flavio Biondo sappiamo di un’epistola in cui Dante si rivolse a Cangrande della Scala,
desiderando riallacciare i rapporti con la corte veronese, in vista della discesa di Enrico
VII in Italia, di cui si presume che il poeta fosse venuto a conoscenza proprio mentre si
trovava in soggiorno a Forlì nel 1310.124 Nella lettera a Cangrande Dante riferì anche

120
G. Petrocchi, Vita di Dante cit., p. 99.
121
G. Inglese, Vita di Dante cit., p. 90.
122
G. Petrocchi, Vita di Dante cit., p. 101.
123
M. Barbi, Sulla dimora di Dante a Forlì cit., pp. 17-24.
124
A. Calandrini, G.M. Fusconi, Forlì e i suoi vescovi cit., p. 860.

28
l’arrogante risposta che i Fiorentini diedero ai messi imperiali giunti a Firenze per
annunciare la venuta di Enrico VII: «Pellegrino Calvi ci lasciò il testo, riporta la
risposta temeraria e assurda dei capi della città e di Benvenuto da Imola, che credo
abbia letto i manoscritti del Calvo, ritiene che il poeta abbia cominciato allora a
chiamar ciechi i Fiorentini».125 A questo punto il viaggio del poeta continuò in altre
corti, che per lui erano l’unico rifugio lontano dalla casa natia, ormai completamente
certo dell’impossibilità ben chiara di un ritorno in patria, conseguente sia alla morte di
Corso Donati per mano di Rossellino della Tosa, sia a quella prematura
dell’imperatore. Dante si trasferisce in Romagna dove scrisse il Boccaccio, «là dove
l’ultimo suo dì, e che alle sue fatiche doveva por fine, l’aspettava».126

125
B. Flavio, Decadi, XIX 20, p. 555.
126
G. Boccaccio, Trattatello in laude di Dante, XI.

29
Capitolo 3

FORLI’ E I FORLIVESI NELLA DIVINA COMMEDIA

In questo terzo capitolo si passano in rassegna i canti della Commedia di Dante


Alighieri contenenti riferimenti alla città di Forlì e ai Forlivesi, approfondendo
l’analisi dei luoghi e dei personaggi a livello storico, nonché offrendo una visione
generale del contenuto dei canti presi in esame.

Il progetto della Commedia nacque di conseguenza alla «mirabile visione» con la


quale Dante chiuse la Vita Nuova, annunciando che non avrebbe più parlato di
Beatrice fino a quando non avrebbe potuto dire di lei quello che nessun’altro aveva
mai detto di una donna.127 L’occasione di farlo venne con il grande poema della
Commedia, dove la donna è la guida del poeta attraverso i cieli del Paradiso. Il viaggio
nell’aldilà è ambientato nella settimana santa dell’anno giubilare 1300. Per redigere il
poema del cammino attraverso i tre mondi ultraterreni il sommo poeta impiegò più di
vent’anni fino alla sua morte nel 1321. Nelle prime due cantiche, Inferno e Purgatorio,
Dante viene accompagnato da Virgilio, l’autore dell’Eneide, ossia il poema epico
narrante la discesa negli inferi dell’eroe troiano Enea, progenitore dei Romani, dal
quale il poeta fiorentino prese ispirazione.128 Giorgio Petrocchi riporta che le fonti
della Commedia furono molteplici e assai distanti fra loro; infatti Dante riuscì ad unire
le visioni profetiche della Bibbia ai racconti della mitologia classica, proiettati in un
aldilà concepito secondo lo schema aristotelico tolemaico.129 I primi tre canti analizzati
nel capitolo si svolgono nell’anfiteatro infernale, il quale ha la forma di un imbuto ed è
suddiviso in nove cerchi concentrici che, man mano che ci si dirige verso il basso dove
si trova Lucifero130, si restringono in quanto la colpa dei dannati si fa sempre più
grave131; gli ultimi due, invece, avvengono nel Purgatorio, una montagna posta in

127
G. Petrocchi, Vita di Dante cit., p. 119.
128
Ibid., p. 121.
129
Ibidem.
130
Lucifero è confinato nel fondo dell’Inferno, che è formato da un lago ghiacciato, esso è il punto centrale della
Terra, quindi quello più lontano possibile da Dio.
131
G. Petrocchi, Vita di Dante cit., p. 122.

30
mezzo all’oceano che è composta di sette cornici in cui i penitenti devono purificarsi
dai peccati, fino al momento in cui potranno raggiungere il Paradiso.

A fine capitolo si trova un’appendice che riporta i versi che si riferiscono


all’argomento preso in considerazione in ogni paragrafo, con il rispettivo commento,
che può essere consultata per avere maggior chiarezza su quali siano i versi di
interesse.

3.1 Il canto XVI dell’Inferno e l’Acquacheta

Dante e Virgilio si trovano al III girone del VII cerchio infernale, dove vengono puniti
i violenti contro Dio, la natura e l’arte. I tre dannati fiorentini, con i quali il poeta
discorre sul destino della terra prava, si rivelano essere Guido Guerra132, Tegghiaio
Aldobrandi133 e Jacopo Rusticucci134, condannati ad un’incessante corsa sotto una
pioggia eterna di fuoco in quanto in vita hanno peccato di sodomia. Il canto si
presenta, per struttura e argomento, come un continuo del canto XV, ma il
prolungamento viene spezzato dalla visione del burrone che introduce al cerchio
sottostante135, dove Dante e la sua guida odono un rumore d’acqua che cade a
strapiombo nel baratro con un unico balzo.136 La discesa d’acqua ricorda al poeta la
cascata dell’Acquacheta, il fiume romagnolo che doveva aver visto coi propri occhi,
così chiamato prima di arrivare nella città di Forlì dove porta il nome di Montone.
Dante paragona il rimbombo quasi assordante del fiume infernale Flegetonte a quello
che l’Acquacheta produceva nel passaggio sopra al monastero di San Benedetto.

La città di Forlì nacque come insediamento dei Romani, voluto da Caio Livio
Salinatore nel 188 a. C., non solo per la presenza nell’area di un villaggio umbro-

132
Fu conte di Dovadola, condottiero della parte guelfa, egli combatté a Montaperti e poi da esule a Benevento
contro Manfredi.
133
Nel 1256 fu podestà di Arezzo, partecipò a Montaperti come capitano dell’esercito di Firenze; egli aveva
consigliato ai Fiorentini di combattere a campo aperto contro i senesi, come ricordato in D. Alighieri, Divina
Commedia Inferno, con il commento di Anna Maria Chiavacci Leonardi, Milano, Mondadori, 2016, p. 491.
134
Fu un valoroso cavaliere fiorentino.
135
Il burrone che divide i due cerchi infernali è a strapiombo, quindi invalicabile, però Dante e Virgilio salgono
in groppa al mostro Gerione, guardiano del cerchio VIII, che ha volto umano, corpo di serpente, zampe di leone
e la coda di scorpione.
136
D. Alighieri Inferno, commento di Anna Maria Chiavacci Leonardi cit., p. 482.

31
gallico, ma soprattutto per la posizione favorevole, con la congiunzione di strade già
esistenti e per le vie fluviali, essendo la città delimitata dai fiumi Rabbi e Montone, il
quale è preceduto da un’imponente cascata, come ricorda Dante, e nei pressi dei
Romiti137 si divideva in due rami, ormai non più esistenti.138 Gian Michele Fusconi
riporta che Scarpetta Ordelaffi139 nel 1045 avrebbe fatto congiungere il Rabbi al
Montone nei pressi di Vecchiazzano, facendo congiungere il canale di Ravaldino nel
letto del Rabbi, che passava in quella che oggi è la Piazza Saffi.140

3.2 Il canto XX dell’Inferno e Guido Bonatti

Nel canto XX Dante e Virgilio si trovano nella quarta bolgia dell’ottavo cerchio
dell’Inferno, ossia dove sono puniti coloro che hanno avuto la presunzione di
conoscere il futuro: maghi e indovini. E’ un canto pervaso da continua tristezza a
partire dall’esordio con il pianto del poeta, rimproverato da Virgilio, sino alle
descrizioni dei corpi deformati con il viso girato dei dannati che si muovono quindi
all’indietro verso di loro. La pena dei dannati è descritta continuativamente nel canto
per sottolineare la posizione di Dante nei confronti dell’arte divinatoria come frode,
nonostante al suo tempo fosse altamente diffusa. La voce che elenca le figure
autorevoli degne di nota tra i dannati è quella di Virgilio, il quale coglie l’occasione di
ricordare l’origine della sua città, Mantova, in un lungo excursus, ripreso dalla Tebaide
di Stazio alla vista della maga Manto. Gli indovini riconosciuti sono divisi in due
gruppi: uno di personaggi dell’antichità classica quali Anfiarao141, Tiresia142,

137
Romiti è il nome che venne dato al territorio, tra il fiume Montone e il quartiere Cava, per la presenza di
eremiti.
138
A. Calandrini, G.M. Fusconi, Forlì e i suoi vescovi cit., p. 32.
139
Omonimo antenato, del Signore di Forlì che ospitò Dante Alighieri.
140
A. Calandrini, G.M. Fusconi, Forlì e i suoi vescovi cit., p. 387.
141
Secondo la mitologia greca fu indovino della città di Argo, famoso per aver previsto la propria morte a Tebe e
aver cercato di nascondersi in modo da non partecipare all’assedio della città, ma al quale fu costretto perché
ingannato dalla moglie Erifile. Durante l’assedio venne inghiottito da una voragine davanti al resto dell’esercito;
cadendo nel vuoto giunse fin davanti a Minosse, il giudice dei dannati dell’Inferno di Dante.
142
Anche lui fu indovino e assistette come Anfiarao all’assedio di Tebe; ai versi 40-45 Dante fa riferimento
all’episodio narrato da Ovidio nelle Metamorfosi (III 324-31) in cui racconta come l’indovino colpendo due
serpenti divenne femmina, e per tornare uomo li colpì nuovamente.

32
Arunte143, Manto144, Euripilo145; e un secondo di maghi famosi al tempo di Dante cioè
Michele Scoto146, Asdente147 e Guido Bonatti.

Guido Bonatti, riporta Domenico Guerri, scrisse un’opera di scienza astrologica in


dieci libri, che divenne famosa in tutta Europa al tempo di Dante, il che fece di lui
«principe dell’arte ai tempi suoi».148 Fu lo stesso Bonatti, nel titolo di un suo atto, ad
affermare di essere forlivese149; però Filippo Villani affermò che apparteneva ad una
famiglia nobile di Firenze, originaria di Cascia nel Valdarno, ma l’ipotesi venne
scartata. Della sua fanciullezza non si sa quasi nulla, se non che forse lavorava come
«ricopritore di tetti»150 e che studiò a Bologna, dove conobbe Pier delle Vigne.151 Nel
1246 l’indovino forlivese rivelò a Federico II, momentaneamente a Grosseto, la
congiura ordita contro di lui da alcuni suoi segretari, che aveva scoperto con la
consultazione dei pianeti.152 Nel 1259 si trovava alla corte di Ezzelino da Romano,
tiranno di Brescia, come astrologo al fianco di Salione di Padova153, Riprandino da
Verona154 e Paolo “saraceno”, di cui si diceva che giungesse dall’Oriente per via della
lunga barba che portava.155 Dopo la battaglia di Montaperti, a cui partecipò nel 1260 al
fianco di Guido Novello, divenne astrologo ufficiale della Repubblica di Firenze.
Domenico Guerri riporta diverse testimonianze di consultazioni che furono fatte a

143
Aruspice etrusco che, tramanda Lucano (Pharsalia, I), predisse la vittoria di Cesare nella guerra civile.
144
Indovina tebana, figlia di Tiresia, da cui prese il nome la città di Virgilio, Mantova, alla quale è dedicata la
parte centrale del canto narrata proprio dall’autore dell’Eneide.
145
Personaggio dell’Eneide che, secondo Dante, fu l’augure che suggerì il sacrificio di una fanciulla (Ifigenia)
dopo aver interrogato il dio Apollo, per permettere alle navi greche di partire per Troia nonostante i venti
contrari, ma Anna Maria Chiavacci Leonardi sottolinea che in realtà nell’Eneide Euripilo non è ne’ augure ne’
colui che suggerisce di uccidere la fanciulla. Egli avrebbe infatti soltanto interrogato il dio Apollo per sapere
come vincere la resistenza dei venti, e la risposta sarebbe stata di sacrificare la vita di un greco, non di Ifigenia.
146
Il nome originale era Michael Scot, in quanto fu un astrologo scozzese, forse il più famoso della sua epoca,
egli fu al servizio di Federico II.
147
Fu un indovino parmense, così soprannominato per via dei denti grossi. Nacque col nome di Benvenuto e
prima di intraprendere la divinazione fece il calzolaio. Divenne famoso per aver previsto la sconfitta di Federico
II per mano dei cittadini di Parma nel 1248.
148
D. Guerri, Un astrologo condannato da Dante, in Scritti danteschi e d’altra letteratura antica, Anzio, De
Rubeis Editore, 1990, p. 154.
149
«astrologus communis Florentiae de Forlivio», titolo dell’atto di alleanza tra Fiorentini e Senesi del 22
novembre 1260, di cui fu testimone come riporta D.Guerri in Un astrologo condannato cit., p. 158.
150
G. Villani, Cronica, I, VII, 81.
151
Fu uno degli uomini più fidati di Federico II, nonché famoso rimatore della «scuola siciliana».
152
D. Guerri, Un astrologo condannato cit., p. 157.
153
Nobile canonico padovano che fu sempre al seguito di Ezzelino da Romano, per il quale predisse la vittoria
nella battaglia di Cassano nel 1259, nella quale perse invece la vita.
154
Di lui non si sa nulla, viene più volte citato tra gli astrologi al servizio di Ezzelino da Romano, come in G.
Tiraboschi, Storia della letteratura italiana volume secondo, Napoli, Nella stamperia de’ classici, 1840, p. 104.
155
D. Guerri, Un astrologo condannato cit., p.158.

33
Guido Bonatti, come quando Guido Novello lo interrogò sull’esito della battaglia che
stava per cominciare a Lucca tra i Ghibellini di Manfredi e i Fiorentini, al quale
rispose che lo scontro non si sarebbe fatto, e così accadde.

Molti commentatori di Dante, scrivono che fu grazie al servizio di Guido Bonatti che
Guido da Montefeltro, per il quale l’astrologo forlivese lavorò a lungo, uscì vittorioso
da molte battaglie.156 Un ulteriore aneddoto su di lui racconta che era solito dare il via
alle truppe del conte da Montefeltro suonando le campane del campanile di San
Mercuriale.157 Morì in età assai avanzata, ancora al servizio di Guido da Montefeltro,
sul finire del XIII secolo; non è chiara la causa della morte, ma è noto che fu sepolto
proprio a San Mercuriale. Di lui molte notizie incerte sono state tramandate;
particolarmente famosi sarebbero i suoi viaggi a Parigi e in Arabia, ma di questo non si
hanno prove. L’opera che Guido Bonatti scrisse in età avanzata, portava il titolo di
Decem tractatus astronomiae. Essa eguagliò l’astrologo agli autori antichi, secondo
Giovanni Villani.158 Il trattato venne stampato la prima volta nel 1491 ad Augusta da
Erardo Ratdolt e fu tradotto in tedesco, inglese e francese.159

3.3 Il canto XXVII dell’Inferno e Guido da Montefeltro

Il poeta e la sua guida si trovano ancora nell’ottava bolgia dell’VIII cerchio, dove
vengono puniti i consiglieri fraudolenti che per l’eternità sono imprigionati in lingue di
fuoco e hanno appena finito di ascoltare il racconto di Ulisse narrato nel XXVI canto,
quando vedono avvicinarsi un’altra fiammella, che si rivela essere il conte Guido da
Montefeltro. A lui Dante dedica l’intero canto, per narrare la sua vita, la situazione
della sua terra, per ricordare il suo peccato di essere un abile ingannatore, ma
soprattutto per denunciare la corruzione della Chiesa. Guido da Montefeltro avvicina i
due uomini, scambiandoli per dannati appena giunti nella bolgia, in modo da avere
notizie della situazione politica in Romagna. Virgilio invita Dante a parlare in quanto

156
Ibid., p. 159.
157
Abbazia simbolo della città di Forlì.
158
D. Guerri, Un astrologo condannato cit., p. 161.
159
Ibid., p. 163.

34
come lui «è latino».160 La risposta di Dante si apre con un’affermazione simbolica
della situazione romagnola: «Romagna tua non è, e non fu mai, / senza guerra ne’ cuor
de’ suoi tiranni».161

In effetti, come è già stato detto nei capitoli precedenti, lo scontro tra Papato e Impero
portò a numerose guerre che devastarono la regione, con la conseguenza di un
incessante susseguirsi di cambi di potere tra le varie signorie e parallelamente gli
abitanti dei comuni dovettero fare i conti anche con le lotte interne tra i gruppi
familiari che governavano.162 Dante continua il discorso con un elenco dei «tiranni»
delle principali città romagnole facendo largo uso di perifrasi. Nomina Ravenna, che
l’aquila dei Da Polenta covava gelosamente, arrivando a ricoprire con le lunghe ali
anche la città di Cervia. Si tratta della famiglia da cui discendeva Francesca, la donna
colpevole di quel «Amor, ch’a nullo amato amar perdona»163 che aveva incontrato nel
II cerchio infernale tra i peccatori di lussuria. Dante passa poi a nominare Forlì,
facendo riferimento alla battaglia del 1282 di cui Guido da Montefeltro fu campione,
facendo strage dei Francesi guelfi. Domenico Guerri riferisce che l’astrologo Guido
Bonatti, di cui si è parlato nel paragrafo precedente, avesse previsto che Guido da
Montefeltro, per cui lavorava, avrebbe avuto successo e che sarebbe rimasto ferito
nella battaglia contro i Francesi, e così accadde.164 I Forlivesi, racconta Dante, erano
governati dagli artigli verdi, cioè dalla famiglia Ordelaffi, il cui stemma era costituito
da un leone verde. Il poeta passa poi alla città di Rimini, governata dai Malatesta,
conosciuti per essere feroci, motivo per cui vengono paragonati a dei mastini che
affondano i denti in profondità nella carne dei propri sudditi165, citando anche
Montagna dei Parcitadi166, il ghibellino riminese fatto uccidere proprio da Malatesta
del Verrucchio per impadronirsi della città. Le città «di Lamone e di Santerno»167
erano controllate dal leone azzurro in campo bianco, che era lo stemmo di Maghinardo

160
If., XXVII, v. 33.
161
If., XXVII, vv. 37-38.
162
Augusto Vasina, I romagnoli nell’età di Dante, cit., p. 5.
163
If., V, v. 103.
164
D. Guerri, Un astrologo condannato cit., p. 159
165
Si veda il commento di A. M. Chiavacci Leonardi in Inferno, p. 810.
166
Fu uno dei maggiori esponenti del ghibellinismo riminese e il più grande oppositore della famiglia Malatesta,
per mano della quale morì.
167
If., XXVII, v. 49; Il Lamone è il fiume che attraversa Faenza, e il Santerno quello che passa per Imola.

35
Pagani da Susinana, detto da Giovanni Villani «grande e savio tiranno»168, ricordato
spesso per la sua tendenza ad adeguarsi alla fazione che meglio gli conveniva in base a
dove si trovasse; così in Romagna si proclamava ghibellino, mentre quando si recava
in Toscana si diceva guelfo.169 L’ultima città degna di nota è Cesena, bagnata dal
fiume Savio, che, così come è geograficamente situata tra pianura e montagna, mutava
spesso il suo governo tra tirannia170 e libertà. A questo punto è il poeta a chiedere la
parola a Guido da Montefeltro il quale, ancora convinto di parlare a un dannato appena
giunto nella bolgia, rivela il peccato che lo condanna a giacere in eterno nell’Inferno e
dice che, nel caso in cui stesse parlando a qualcuno che poteva tornare sulla Terra e
rivelare ciò che egli stava per dire, non avrebbe mai aperto bocca.171 Il conte, ricorda
Gian Michele Fusconi fu particolarmente devoto a San Francesco. Infatti, lasciate le
armi, chiese in ginocchio a papa Bonifacio VIII di potersi convertire all’ordine
francescano e di poter cedere tutti i suoi beni alla Chiesa, in cambio del perdono172,
che gli venne concesso, cosicché poté prendere l’abito francescano nell’inverno
1296.173 Guido da Montefeltro incolpa delle sue disgrazie Bonifacio VIII con un’aspra
accusa che domina tutto il canto, ovvero che lo «rimise ne le prime colpe»174: la frase
si riferisce al consiglio che il Papa gli chiese per ingannare i Colonna, la famiglia
nemica sua rivale al soglio pontificio con cui era scoppiata una guerra dal 1297 quando
l’abdicazione di papa Celestino V, in favore di Benedetto Caetani, venne ritenuta non
valida dai principali esponenti della famiglia Colonna. Bonifacio VIII lanciò su di loro
una scomunica e ordinò loro di inginocchiarsi alla sua autorità, cosa che non fecero,
motivo per cui chiese il consiglio di un uomo astuto come Guido da Montefeltro; egli,
in cambio dell’assoluzione al peccato che era consapevole di star per compiere175,
suggerì a Bonifacio di stringere una pace con i Colonna, promettendo di togliere loro

168
G. Villani, Cronica, VII, 149.
169
Si veda il commento di Anna Maria Chiavacci Leonardi in Inferno, p. 810.
170
Qui Dante fa riferimento a Galasso da Montefeltro, cugino dell’interlocutore. Si veda il commento di Anna
Maria Chiavacci Leonardi in Inferno, p. 811.
171
Ibid., pp. 812-813.
172
In quanto era stato scomunicato dopo la battaglia di Forlì.
173
A. Calandrini, G.M. Fusconi, Forlì e i suoi vescovi cit., p. 659.
174
If., XXVII, v. 71.
175
Guido da Montefeltro si era già guadagnato il Paradiso essendosi pentito ed essendo entrato nell’ordine
francescano, ma l’aiuto al Papa lo rese nuovamente peccatore.

36
la scomunica in cambio della resa di Palestrina176, ma il Papa li ingannò e dopo aver
stretto quell’accordo rase al suolo la città. Dante con questo canto vuole rivelare le
colpe di Guido da Montefeltro ma allo stesso tempo celebrare la sua grandezza di
uomo militare e personaggio fondamentale della storia del suo tempo. Così ricorda la
fama delle vittorie del conte, che fu tanto grande da spargersi in tutto il mondo e così
grande che Martino IV usò la frase biblica, ripresa nel canto «ch’al fine de la tessa il
suono uscie»177, per indicare la diffusione della notizia dell’impresa della battaglia di
Forlì.178 Ma Dante sottolinea, alla fine del canto, che per il principio di non
contraddizione179 «ch’assolver non si può chi non si pente»180.

3.4 Il canto XIV del Purgatorio e i De Calboli

Dante e Virgilio si trovano nella seconda cornice del Purgatorio dove gli invidiosi
sono privati temporaneamente della vista da un fil di ferro che cuce loro le palpebre e
si reggono l’un con l’altro seduti a spalle contro il muro. A inizio canto si trova il
dialogo di due anime che si accorgono della presenza di un vivo nonostante la cecità e
pensano di non essere sentiti: sono Guido del Duca181 e Rinieri da Calboli. Dante
rivela di essere toscano d’origine e Guido ne prende spunto per condannare le terre del
Casentino, di Arezzo, Firenze e Pisa, i cui abitanti vengono paragonati rispettivamente
a porci, cani, lupi e volpi. A questo punto il discorso si sposta al futuro. Guido
profetizza le crudeltà del nipote di Rinieri, Fulcieri da Calboli, il «cacciator di quei
lupi»182, cioè dei Guelfi Bianchi; egli, infatti, durante il suo periodo di podestà di
Firenze nel 1303, guidò l’esercito della Parte Nera contro i Guelfi bianchi alleati con i

176
Era il centro del potere della famiglia Colonna.
177
If., XXVII, v. 78.
178
Si veda il commento di Anna Maria Chiavacci Leonardi in Inferno cit., p. 814.
179
Il principio sostiene che una proposizione non può essere contemporaneamente vera e falsa, quindi Dante
unisce la logica aristotelica alla dottrina cristiana affermando che Guido da Montefeltro cedette a Bonifacio VIII,
illudendosi di salvarsi, ma, come dice lui stesso (Monarchia, III, VIII): «ne’ il Papa ne’ Dio stesso potrebbe
assolvere un cuore non pentito».
180
If., XXVII, v. 118.
181
Gentiluomo romagnolo della nobile famiglia ghibellina degli Onesti da Ravenna; non si sa nulla della sua
vita, se non che visse per molto tempo nella cittadina di Bertinoro vicino a Forlì e nemmeno il motivo per cui
Dante lo inserisce tra gli invidiosi. L’intero canto è contrassegnato da un appello nostalgico alla grandezza del
passato, così in contrasto con la decadenza del tempo presente. Così Dante vedeva quella nobiltà romagnola che
col tempo si stava estinguendo in un gentiluomo come Guido, che infatti è la voce di tutto il discorso.
182
Pg., XIV, v. 59.

37
Ghibellini nella cosiddetta battaglia del Mugello, pianificata da Scarpetta Ordelaffi con
l’aiuto di Dante come raccontato nel secondo capitolo.183 Dopo la dura condanna al
presente, il canto segue con il ricordo nostalgico del passato attraverso l’elenco uomini
d’onore, che Dante ebbe modo di conoscere, i quali oramai non hanno più eredi degni
di loro, tanto che delle loro casate si preferisce l’estinzione. Questa seconda parte del
discorso inizia con l’introduzione che Guido fa di Rinieri, presentato come nobilissimo
dei signori de Calboli di Forlì, la famiglia guelfa che mai era riuscita ad avere il
predominio sulla città poiché era stata vinta prima da Guido da Montefeltro e poi da
Scarpetta Ordelaffi nel 1296, pagando con la morte. Se, come già accennato, la
Romagna fu una regione in cui il guelfismo venne rapidamente soppiantato dagli ideali
ghibellini nel XIII secolo, alcune famiglie non cedettero subito al cambiamento, bensì
decisero di stringere un legame più saldo con la Santa Sede; una di queste famiglie fu
proprio quella dei Calboli i quali combatterono contro Guido da Montefeltro e contro i
Guidi di Dovadola184, costruendo un solido dominio nei pressi del fiume Rabbi.185 Le
rivalità con le altre famiglie nobili forlivesi portò i Calboli anche ad un periodo di
esilio nel 1294, ma poterono ritornare come potente famiglia d’indirizzo popolare
grazie all’appoggio di Maghinardo Pagani di Susinana, che divenne poi podestà della
città. Con la scomparsa di Rinieri, il membro più influente della casata, il prestigio dei
Calboli iniziò la sua discesa in favore della ormai potentissima famiglia Ordelaffi.186

Tornando al canto e al discorso nostalgico per il passato sulla Romagna, la regione


viene dipinta come piena di sterpi avvelenati che non si possono più estirpare; ecco
perché nei versi di chiusura Guido ricorda le passate casate ricche di gloria e i loro
membri più importanti. Il primo nome è «‘l buon Lizio»187 da Valbona, un signorotto
guelfo che si era distinto nel 1277 per essersi ribellato, assieme a Rinieri de Calboli, ai
Forlivesi e a Guido di Montefeltro.188 E’ poi la volta di Arrigo Mainardi dei signori di
Bertinoro, conosciuto per essere amico di Guido del Duca e «cavaliere pieno di

183
Si veda il paragrafo 2.3.
184
Nobile famiglia guelfa che si distinse per il valore militare.
185
A. Vasina, I romagnoli nell’età di Dante cit., p. 177.
186
Ibid., p. 296.
187
Pg., XIV, v. 97.
188
A. Vasina, I romagnoli nell’età di Dante cit., p. 57.

38
cortesia e d’onore»189, poi di Pietro Traversaro, il nobile ghibellino che fu signore di
Ravenna tra il 1218 e il 1225 e, come riporta Anna Maria Chiavacci Leonardi, famoso
per la sua liberalità.190 Altri grandi uomini del passato degni di nota sono Guido da
Carpigna, che fu guelfo e podestà di Ravenna nel 1251, Fabbro della famiglia
bolognese dei Lambertazzi, valoroso nelle azioni politiche e militari, che, con la sua
morte, diede inizio al declino della forza ghibellina a Bologna; il prestigioso
Bernardino di Fosco, che difese Faenza da Federico II nel 1240, poi Guido da Prata e
Ugolino d’Azzo, che era discendente dalla famiglia toscana degli Ubaldini, ma visse in
Romagna, nonché Federigo Tignoso, la cui casa era «sempre aperta ai buoni e agli
onesti».191 Il discorso di Guido si chiude con il ricordo di quelle «donne e ‘
cavalier»192 che ispirarono Ludovico Ariosto193, che lo portarono alla commozione;
dopodiché Dante e Virgilio si allontanano in direzione della cornice successiva,
accompagnati da voci assordanti che narrano gli esempi di invidia non punita di
Caino194 e Aglauro.195

3.5 Il canto XXIV del Purgatorio e Marchese degli Argugliosi

Dante e Virgilio si trovano nella cornice dei golosi, come nel canto precedente, in cui i
penitenti, un tempo troppo dediti al mangiare e al bere, hanno un aspetto denutrito dal
continuo camminare sotto alberi rigogliosi di frutti che non possono toccare. Dante sta
conversando con Forese Donati196, al quale chiede notizie della sorella Piccarda, che
scopre essere beata nell’Empireo e successivamente di indicargli alcuni spiriti degni di
189
Secondo L’Ottimo commento della Divina Commedia. Testo inedito di un contemporaneo del poeta, Pisa,
1827-1829 come riportato in D. Alighieri, Purgatorio, da Anna Maria Chiavacci Leonardi, Milano, Mondadori,
2016, p. 424.
190
Ibidem.
191
Così scrisse Benvenuto da Imola nel commento al canto, come ricorda Anna Maria Chiavacci Leonardi in
Purgatorio cit., p. 425.
192
Pg., XIV, v. 109.
193
La terzina a cui si fa riferimento dei vv. 109-111 riecheggia nel primo verso dell’Orlando Furioso: «Le
donne, i cavallier, l’arme, gli amori».
194
Figlio maggiore di Adamo che, secondo il racconto Biblico, era invidioso del fratello Abele, i cui sacrifici
erano maggiormente graditi a Dio.
195
Figlia del re di Atene, era invidiosa dell’amore del dio Mercurio per sua sorella Erse che tentò di impedire
bloccando le porte della sua stanza, ma per punizione fu trasformata in statua come narrato nelle Metamorfosi
(II, 708-832) da Ovidio.
196
Fratello di Corso e Piccarda Donati, fu un grande amico di Dante e come lui letterato; di lui ci è ben nota la
Tenzone che si scambiò con il poeta presumibilmente negli anni tra il 1293 e il 1296.

39
nota. I golosi ricordati sono: papa Martino IV, Ubaldino della Pila197, Bonifazio
Freschi198 e Marchese degli Argugliosi.

Marchese (o Marchesino) apparteneva a una nobile famiglia forlivese, che non riuscì
mai ad emergere in città politicamente perché oscurata dagli storici rivali De Calboli e
dagli Ordelaffi. Fu podestà di Faenza nel 1296 e di lui Dante ricorda ironicamente la
dedizione al bere. Al centro del canto c’è però il dialogo con il lucchese Bonagiunta
Orbicciani, importante esponente della scuola toscana del ‘200, con cui il poeta
intavola un discorso di poetica e fa quell’affermazione solenne che dona il nome alla
sua scuola, chiamandola «dolce stil novo»199. Il canto termina con la profezia della
morte violenta di Corso Donati fatta proprio dal fratello Forese che si allontana,
lasciando Dante e la sua guida ad ammirare il secondo albero dei golosi, dalle cui
fronde una voce consiglia di allontanarsi. Nell’aria risuonano esempi di golosità
impunita, quando spunta un angelo che accompagna i due alla cornice superiore.

197
Appartenente alla nobile famiglia degli Ubaldini, fece parte di quei sostenitori della distruzione di Firenze
dopo la battaglia di Montaperti, contro cui si oppose Farinata (If., X, v. 92).
198
Nobile dei conti di Lavagna, ricoprì importanti cariche ecclesiastiche, come arcivescovo a Ravenna dal 1274
e 1294; fu anche legato pontificio in Romagna. La Chiavacci Leonardi ritiene che Dante lo additò come goloso
solo a causa di dicerie popolari, così come anche Martino IV, si veda il comento del Purgatorio cit., p. 705.
199
Pg., XXIV, v. 57.

40
Appendice
Inferno: Come quel fiume c’ha proprio cammino 94-96. Come quel fiume…: la lunga
canto XVI, prima del Monte Viso ‘nver’ levante, similitudine spezza il canto,
vv. 94-105 da la sinistra costa d’Appennino, 96 chiudendo la scena con i sodomiti e
che si chiama Acquacheta suso, avante aprendo ad un nuovo avvenimento,
che si divalli giù nel basso letto, l’arrivo di Gerione. Dante paragona
e a Forlì di quel nome è vacante, 99 la cascata del fiume infernale
rimbomba là sovra San Benedetto Flegetonte a quella di un corso a lui
de l’Alpe per cadere ad una scesa familiare. Il fiume dal Monviso
ove dovria per mille esser recetto; 102 verso est, è il primo ad avere il
così, giù d’una ripa discoscesa, proprio cammino fra i torrenti che
trovammo risonar quell’acqua tinta, scendono dalla costa sinistra
sì che ‘n poc’ ora avria l’orecchia offesa. 105 dell’Appennino per sfociare
nell’Adriatico (al giorno d’oggi il
primo è il Reno).200
97-99. che si chiama
Acquacheta…vacante: nella prima
parte il corso porta il nome di
Acquacheta, poi quando giunge a
Forlì si chiama Montone. 201
100. rimbomba là: l’Acquacheta è in
realtà soltanto uno dei tre torrenti
che formano il Montone. Esso
scende con una cascata sopra San
Benedetto, nell’altopiano dei Romiti
dove sorge il monastero omonimo
che al tempo di Dante era assai
noto.202
101-102. per cadere ad una scesa…:
la cascata ha la particolarità di
scendere con un solo balzo, motivo
per cui produce il rimbombo, invece
di essere formato di più cascatelle
(recetto).203
103. d’una ripa discoscesa: il fiume
infernale si getta a strapiombo
nell’alto burrone sottostante così
come fa il fiume romagnolo già
citato.204
105. offesa: il suono è così forte che
per poco non danneggia l’udito di
Dante.205

200
D. Alighieri, Inferno cit., pp. 499-500.
201
Ibid., p. 500.
202
Ibidem.
203
Ibidem.
204
Ibid., p. 501.
205
Ibidem.

41
Inferno: Vedi Guido Bonatti; vedi Asdente, 118. Guido Bonatti: astrologo
canto XX, ch’avere inteso al cuoio e a lo spago forlivese al servizio di Federico II,
vv. 118-120 ora vorrebbe, ma tardi si pente. 120 Ezzelino da Romano, Guido Novello
da Polenta e per molti anni di Guido
da Montefeltro. Di lui ci rimane un
trattato di astronomia, che al tempo
di Dante era assai diffuso.206
- Asdente: così chiamato per la
grossa dentatura, faceva di nome
Benvenuto ed era un calzolaio
parmense, ricordato da Dante anche
nel Convivio. Si dedicò all’arte della
divinazione, per questo disprezzato
dal poeta.207
119-120. al cuoio e a lo spago…si
pente: ora vorrebbe essersi dedicato
solo al lavoro di calzolaio, ma è
troppo tardi.208

Inferno: La terra che fè già la lunga prova 43. La terra: Forlì, città ghibellina in
canto XXVII, E di Franceschi sanguinoso mucchio, stato di assedio dal 1281 al 1283
vv. 43-45 sotto le branche verdi si ritrova. 45 (lunga prova). Dante ricorda come
Guido da Montefeltro, con cui sta
dialogando nel canto, che al tempo
era signore della città, fece strage
dei nemici francesi durante l’assedio
(sanguinoso mucchio).209
45. sotto le branche verdi: sono le
zampe artigliate di un leone verde
rampante, quello dello stemma della
famiglia Ordelaffi.210

206
Ibid., p. 615.
207
Ibid., p. 616.
208
Ibidem.
209
Ibid., p. 809.
210
Ibidem.

42
Purgatorio: Questi è Rinier; questi è ‘l pregio e l’onore 88. Rinier: è Rinieri della famiglia
canto XIV, de la casa da Calboli, ove nullo Paolucci di Calboli di Forlì. Fu
vv. 88-96 fatto s’è reda poi del suo valore. 90 podestà di Faenza, Parma, Cesena e
E non pur lo suo sangue è fatto brullo, Ravenna. Cercò di impossessarsi di
tra l’Po e ‘l monte e la marina e ‘l Reno, Forlì, ma venne sconfitto da Guido
del ben richiesto al vero e al trastullo; 93 da Montefeltro e successivamente
chè dentro a questi termini è ripieno ucciso in uno scontro con Scarpetta
di venenosi sterpi, sì che tardi Ordelaffi nel 1296.211
per coltivare omai verrebber meno. 96 89. ove nullo…: nessun suo
discendente lo ha eguagliato nella
virtù.212
91. E non pur…: E non solo la
famiglia di Rinieri. Qui Dante elenca
le signorie romagnole di cui si
rimpiange il passato glorioso.213
- brullo: privo. 214
92. tra l’Po e ‘l monte…: perifrasi
indicante la Romagna attraverso i
suoi confini, a nord il fiume Po, a
sud l’Appennino, a est il mare
Adriatico e a ovest il Reno.215
93. trastullo: ciò che rallegra.216
94. dentro a questi termini: cioè in
Romagna.217
95-96. venenosi sterpi…verrebber
meno: sono gli eredi che hanno
avvelenato le loro nobili famiglie
con la mancanza di virtù, tanto che
per Dante sono ormai come
estinte.218

211
D. Alighieri, Purgatorio cit., p. 422.
212
Ibid., p. 422.
213
Ibidem.
214
Ibidem.
215
Ibid., p. 423.
216
Ibidem.
217
Ibidem.
218
Ibidem.

43
Purgatorio: Vidi messer Marchese, ch’ebbe spazio 31. messer Marchese: Marchese (o
canto XXIV, già di bere a Forlì con men secchezza, Marchesino) degli Argugliosi, nobile
vv. 31-33 e sì fu tal, che non si sentì sazio. 33 forlivese che fu podestà di Faenza
nel 1296. Non riuscì mai ad
emergere politicamente nella città di
Forlì perché oscurato dai de Calboli
e dagli Ordelaffi. Dante ricorda
ironicamente la sua dedizione al
bere facendo sua una storiella
sicuramente ben nota nella Romagna
che lui frequentò. Si dice che
Marchese chiese ad un servitore
cosa si dicesse in giro di lui ed egli
disse «Signore, si dice che voi non
fate mai altro che bere» e lui
avrebbe risposto «Perché non dicono
che ho sempre sete?». 219
32. con men secchezza: con meno
ardore.220
33. e sì: e nonostante questo.221

219
Ibid., p. 706.
220
Ibidem.
221
Ibid., p. 707.

44
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