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Enrico E.

Cleri ci - E lvy Cos ta

Appunti pe r un a
Storia di
MONCASACCO

Cahiers de la Malmostosa
___ __ __ ___ __ __ __ ___ __ __ __ __ ___
Monc asac co M MI

1
2
INDICE
Pag.

5 - premessa
5 - ringraziamenti
5 - abbreviazioni

Parte pri ma
Cons i dera zion i ge ogra fic he

9 I.- L’isola di Moncasacco


9 II.- Cenni geografici, geologici e climatici
11 III.- Il panorama che si ammira da Moncasacco
13 IV.- La flora e la fauna a Moncasacco
15 V.- Etimologia di alcuni nomi geografici

Parte se co nd a
Not i zie st ori ch e

23 VI.- Gli abitanti i veri artefici della storia di Moncasacco


26 VII.- Moncasacco faceva parte della Rosara?
29 VIII.- Moncasacco nel Medioevo feudo dei Malvicini Fontana
32 IX.- Moncasacco terra dello Stato della Chiesa (1521-45) e del Ducato di Piacenza sotto i Farnese
34 X.- Marchesato (1650-1677) e contea (dal 1688)
42 XI.- Moncasacco terra del Regno di Sardegna dal 1743
49 XII.- Moncasacco terra dell’Impero di Francia, poi nuovamente del Regno di Sardegna in
provincia di Bobbio
51 XIII.- Moncasacco passa alla provincia di Pavia (1859-1923)
53 XIV.- Moncasacco ridiventa piacentino nel 1923 e nel 1938 ritorna alla provincia di Pavia
56 XV.- La guerra partigiana
62 XVI.- Il dopoguerra: Moncasacco ritorna alla provincia di Piacenza.- Lo spopolamento e l’arrivo
dei “milanesi”
68 XVII - L’isola di Moncasacco e il suo futuro

Parte te rza
Ap pen d ice

73 XVIII.- Il blasonario di Moncasacco


74 XIX.- La Chiesa
75 XX.- Le feste:
1) festa patronale (pag. 75); 2) calendimaggio (pag. 76); 3) carnevale (pag. 76); 4) la nott dì grasb (pag. 77)
77 XXI.- La casa
79 XXII.- Il corredo della sposa
79 XXIII.- Il forno
80 XXIV.- Il desinare di ogni giorno e quello della festa
82 XXV.- La stalla
83 XXVI.- La macellazione del maiale
84 XXVII.- La veglia
84 XXVIII.- La veglia funebre
85 XXIX.- Il dialetto di Moncasacco
86 XXX.- Il costume
87 - Bibliografia

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PREMESSA

Nel marzo 1970 arrivammo a Moncasacco un po’ per caso e da


subito lo amammo perché ci sembrò di averlo sempre conosciuto. Sarà stato
il fatto che potevamo vantare l’una una bisnonna (Maria Parma) nativa di
Ottone e l’altro un sacerdote (don Pietro Antonio Clerici) che fu Parroco di
Soriasco dal 1707 al 1743.
Per trenta anni abbiamo raccolto notizie su Moncasacco, certamente
senza rigore scientifico, così come capitava… alla buona. Il materiale
raccolto ci è sembrato “sufficiente” per scriverne un breve cenno storico
che offriamo a tutti coloro che, come noi, sono affezionati a Moncasacco.
Dalla Malmostosa in Moncasacco il 20 luglio 2001,
ENRICO E. CLERICI ed ELVY COSTA

***

RINGRAZIAMENTI

Avremmo scritto ben poco senza il racconto e le precisazioni di queste persone (alcune
purtroppo scomparse) : signor RINO BELLINZONA; signor GIOVANNI GANELLI; signor
GIUSEPPE QUADRELLI; signor AGOSTINO CALATRONI; signor PIETRO
CALATRONI; signor TINO ACHILLE; signor PRIMINO CALATRONI; signora
GIUSEPPINA SCARANI in CALATRONI; signora ANNAMARIA ACHILLI in
CALATRONI ; signor LIVIO CALATRONI; signor PIETRO CAI; signor QUINTINO CAI
presidente della pro loco di Pometo; signor Antonio VISERTA.
Un grazie alla signora CARLA CALATRONI segretaria del Comune di Caminata; alla
geometra CLAUDIA CALATRONI che ci ha fornito della documentazione molto utile; allo
storico commendatore VINCENZO STALTARI.
Un ringraziamento particolare rivolgiamo a tutti i componenti della famiglia ACHILLE
della Rossarola, che per più di un anno abbiamo “importunato” per avere notizie e precisazioni
sulle vecchie tradizioni che è stato possibile “ricostruire” grazie alla “memoria storica” del signor
GUIDO ACHILLE e della signora LINA REMUZZI in ACHILLE.
Nella ricerca bibliografica siamo debitori a due persone ora scomparse: l’avvocato
ALDOGRECO BERGAMASCHI, noto storico della Val Tidone e al ragioniere ROMEO
RAZZINI che, sapendo del nostro interesse, ci segnalava articoli di storia locale.
Nonostante l’autorevolezza del contributo delle molte persone citate la responsabilità
degli errori e delle valutazioni è da attribuirsi unicamente agli autori.

ABBREVIAZIONI

A.C.= Archivio del Comune di Caminata; A.d.c.C.=


Archivio Clerici (Moncasacco); A.S.M.= Archivio di Stato
di Milano; A.S.P.= Archivio di Stato di Piacenza; A.S.T.=
Archivio di Stato di Torino.

5
6
PARTE PRIMA
Considerazioni geografiche

7
8
I.- L’ISOLA DI MONCASACCO

Moncasacco è un’isola! Certamente non un’isola in mezzo al mare,


ma un’isola amministrativa perché il suo territorio è staccato dal territorio del
proprio Comune (Caminata Valtidone) da una striscia di terreno della
profondità di circa trecento metri, che appartiene al comune di Nibbiano.
L’isola ha la forma di un triangolo della superfice di 101 ettari1
incuneato nella Lombardia: confina a ovest col comune di Ruino
(Lombardia); a nord ed est col comune di Canevino (Lombardia) e a sud col
comune di Nibbiano (Emilia-Romagna).
I paesini di Moncasacco e di Canova e il casale della Mostarina di
Sotto sono i centri abitati dell’isola di Moncasacco, che d’ora in poi
chiameremo solo Moncasacco, il cui territorio, situato nella regione Emilia-
Romagna, appartiene al Comune di Caminata Val Tidone in provincia di
Piacenza.

II.- CENNI GEOGRAFICI, GEOLOGICI E CLIMATICI

Moncasacco è ubicato sulla linea di crinale che costituisce lo


spartiacque fra la Val Tidone e la Val Versa, nella porzione appenninica a
ridosso del confine delle regioni Emilia-Romagna e Lombardia.
Le coordinate geografiche2 di Moncasacco, prendendo come
centro l’Oratorio, sono:

- latitudine 44° 55’ 42”


- longitudine - 3° 09’ 16” (riferita al meridiano di Roma – Monte Mario)
9° 17’ 53” (riferita al meridiano di Greenwich).

Geologicamente Moncasacco si erge nella zona di formazione


oligocenica-eocenica delle arenarie di Ranzano che si presentano nella veste
marnoso-sabbiosa: strutture plicative sinclinaliche che per effetto di processi
erosivi risultano sopraelevate rispetto alle altre formazioni. I fronti di
sovrascorrimento e gli assi delle pieghe risultano orientati verso la direttrice
appenninica NW-SE. Si può notare che
su ciascuna di queste prominenze boscose o nei pressi si trova un insediamento.
Nell’ordine: l’abitato di Vallorsa, il castello di Rocca de’ Giorgi, la cascina
Ginestre, la cascina San Silvestro, infine i paesi di Canevino e Moncasacco3.

11
Sono poco meno di un terzo dell’intera superfice del comune di Caminata che è di 317 ettari.
2 Informazione forniteci dall’Istituto Geografico Militare (Firenze) con lettera del 21 maggio
1979: A.d.c.C.
3 FABRIZIO CAPECCHI, Un altro Oltrepo’ (Pavese, Piacentino, Tortonese), Ed. Croma (Pavia, 1996).

9
Da un esame di un campione di terreno, prelevato nel dicembre 1998 in
Moncasacco alta, è risultato:

da cm. 0,20 a 0,60 suolo argilloso agrario con radici e resti vegetali;
da cm. 0,60 a 0,90 limi sabbiosi compatti, marne fessurate e alterate.

In un documento del 1767, che si conserva nell’Archivio di Stato di Torino,


sul quale torneremo, si parla di una frana che aveva interrotto la strada nei
pressi di Moncasacco. Quello delle frane è un fenomeno naturale che
caratterizza tutto l’Oltrepo’ e che è
particolarmente attivo in primavera e in autunno quindi in corrispondenza dei
mesi più piovosi, quando le abbondanti precipitazioni inducono importanti
modificazioni nel suolo e i banchi argillosi sottostanti, riducendo l’attrito fra le
due componenti e facilitando così lo smottamento4.

Il territorio di Moncasacco, che è costituito da una serie di dossi e


di valloncelli intramezzati da piccole zone pianeggianti, ha un andamento
altimetrico molto movimentato perché va dai 384 metri sul livello del mare
nelle vicinanze di Ca’ del Gatto ai 601 metri delle due collinette (una che
sovrasta l’Oratorio e l’altra dove vi è l’acquedotto): Moncasacco centro è a 578
metri s.m., Canova è a 584 metri s.m., il casale diroccato della Mostarina di
Sopra è posto a 540 metri s.m. e il casale della Mostarina di Sotto è a 451 metri
s.m.
Le acque che filtrano dalle terre poste sul lato sud di Moncasacco
danno origine al rio Cavaglione, che è tributario del Tidone, affluente del Po,
che da Moncasacco appare scorrere in un arco ad “esse” che va da
Zavattarello a Caminata. Le acque che filtrano dalle terre poste sul lato nord
di Moncasacco danno origine al torrente Versa che nell’ottocento il Casalis
così descriveva5:

questo torrente scaturisce nei colli presso Moncasacco sui limiti del Piacentino,
passa per le terre di Canevino, Montecalvo, Soriasco6, Donelasco, Montescano,
taglia la via Regia a levante di Stradella e si scarica nel Po a Port’Albera.

Il clima di Moncasacco è temperato d’estate e freddo d’inverno con


giornate mitigate dall’effetto benefico del Marin : un vento così chiamato
perché proveniente dal Mar Ligure. Ha scritto Enrica Bellocchio7:

4 PIERMARIA GREPPI, L’Oltrepo’ Pavese collinare e montano, Greppi Editore (Piacenza, 2000),
pag.- 37.
5 GOFFREDO CASALIS, Dizionario geografico-storico-statistico degli Stati di S.M. il Re di Sardegna,

parte relativa a Voghera, pg. 61, 1ª edizione del 1833, riedizione anastatica a cura dell’editore
Arnaldo Forni (Bologna, 1972)
6 Fino al 1890 Soriasco era comune e Santa Maria della Versa frazione.

10
il marin ha una forza impetuosa, arriva improvvisamente e fischiando fra i coppi
e comignoli scioglie i ricami di cristallo che ornano le grondaie. Quest’aria
proveniente dal mare riesce a trasformare i lastroni di ghiaccio ai bordi delle
strade e i cumuli di neve indurita in acqua gocciolante.

Non sempre il marin porta benessere: spesso dal Penice porta temporale8
con nubi basse e grige, il suo soffiare qualche danno alla stagionatura dei
salami lo arreca se riesce a penetrare nelle cantine.
Altri venti sono: il piacentino che spira gelido da nord-est e può durare
per più giorni; il vento d’la vall che spira dalla Val Versa e porta cattivo tempo.
La tramontana che spira da nord- nord ovest perde umidità nella zona alpina
e arriva su Moncasacco senza nubi e permette giornate di rara limpidezza.
Sulla variabilità del tempo a Moncasacco riportiamo quanto descritto
da Fabrizio Capecchi:
Mi trovavo in pieno vento, che continuava a soffiare da nord-ovest, sulla costa
tra Pometo e Moncasacco. Nel giro di pochi minuti il vento era scemato. L’aria
era ancora limpida, si distinguevano facilmente città e paesi in pianura. Avvertii
alle spalle una folata: il vento improvvisamente aveva virato da nord est. Osservai
la pianura in quella direzione e vidi un’onda di foschia grigia che avanzava veloce.
In un quarto d’ora invase tutto il settore che rientrava nella fotografia. Non potei
fare altro che riporre l’attrezzatura e rientrare9.

Ancor oggi è rimasta un eco della meterologia popolare in voga presso i


Moncasacchesi. Un proverbio dice:” quand che ël vent tira in ver sira pia la rôca e
fila; quand ël vent tira in ver matin pia la zapa e ël bõtazzìn”. Altri proverbi di
contenuto meteorologico dicono: “quand piöva in sla ruzä piöva tütta la giurnä”,
“quand ch’ël sôl turna indré l’acqua ghe l’uma al pè”. Si dice (ed è vero) che
quando a Moncasacco ci sono le nubi basse in pianura non si trova nebbia.

III.- PANORAMA CHE SI AMMIRA DA MONCASACCO

Un capitoletto a parte vogliamo dedicare al panorama che si può


ammirare dalle posizioni alte di Moncasacco e di Canova. Panorama
costituito dalla catena degli Appennini (a sud-ovest e a sud est), mentre se ci
volgiamo da ovest verso nord-est scorgiamo (a circa 175 chilometri in linea
d’aria) la catena delle Alpi.

7 ENRICA BELLOCCHIO, “ il marin “ componente essenziale del clima invernale bobbiese, in La


Trebbia del 21 gennaio 1999.
8 Il Penice nuvoloso è segnale di mal tempo per l’isola di Moncasacco.
9
FABRIZIO CAPECCHI, Un altro Oltrepo’ (Pavese, Piacentino, Tortonese), ed. Croma (Pavia, 1996),
pag. 60.

11
La vetta che domina paesaggisticamente l’isola di Moncasacco è il
Monte Penice, che al di là del Tidone si erge maestoso con i suoi 1460
metri s.m. Anche se deturpato da alcuni ripetitori della televisione,
guardandolo non si può non avvertire un che di maestoso, quasi di sacro. In
antico la vetta del monte Penice era luogo di culto pagano10 come
testimonia il ritrovamento di una statuetta11 del I-II secolo d.C. raffigurante
un sacerdote con in mano una patera12. Nel VII secolo d.C. i Monaci
dell’abbazia di Bobbio sostituirono il culto pagano col culto cristiano
dedicando il Monte Penice alla Madonna. Scrive il Tosi13:

dagli estimi del IX secolo ricaviamo la testimonianza dell’esistenza di un oracolo


dedicato alla Madonna: esso reca il nome di «oraculum S. Mariae»14.

Da sud-est verso sud-ovest si vedono: il Monte Lazzarello, il Monte


Aldone il Monte Lesima (metri 1742 s.m.), il Monte Calenzone (metri
1724 s.m.) e il profilo tripartito del Monte Vallassa.
Posando lo sguardo oltre la Val Versa appare la Valle Padana con le
sue città che nelle serate chiare si manifesta illuminata da migliaia di luci.
Nelle giornate terse si distingue15 in lontananza la catena delle Alpi
Marittime e Cozie con le principali cime (da ovest verso nord-est):
l’Argentera, il Monviso, il Gran Paradiso, le Alpi Pennine con il
Cervino, il Monte Rosa; le montagne svizzere del cantone del Vallese (lo
Strahlhorn, l’Alphubel e la catena dei Mischabel), le Alpi Bernesi, le
Grigne, le Alpi Retiche con l’Adamello.
Oltre a questo vi è un panorama “immediato”: si vedono il paese di
Trebecco, il lago di Molato, Zavattarello col suo castello, Ruino con la
sua chiesa che sembra a guardia della Val Tidone, i paesi di Pometo e di
Canevino. La chiesa di Canevino è posta sul cocuzzolo di una collinetta:
qualche volta emerge da un “mare” di nebbia così da sembrare la miniatura
di Mont Saint-Michel16. Poco oltre si vede: il castello di Montecalvo
Versiggia, che lo scrittore Carlo Alberto Pisani Dossi ricordava nelle sue
“Note Azzurre”; più lontano l’imponente castello di Montalto Pavese e
quello di Cicognola posto a guardia della Valle dello Scuropasso.

10 MICHELE TOSI, Santuario Millenario di Monte Penice, Edizione a cura del Santuario (Bobbio,
1980).
11 Conservata a Genova nella collezione de Albertis nel castello di Montegalletto.
12 Recipiente usato dai Romani per i sacrifici.
13 MICHELE TOSI, Bobbio, guida storica, artistica, ambientale della città e dintorni, Edizione degli

Archivi Storici Bobiensi (Bobbio, 1983), pgg. 160-161.


14 La costruzione fu ampliata intorno al 1073. La Chiesa attuale risale al XVII secolo.
15 Vi è una descrizione particolareggiata nel volume di FABRZIO CAPECCHI, Un altro Oltrepo’-

pavese, piacentino, tortonese, Edizioni Croma (Pavia, 1996).


16 Alludiamo alla celebre abbazia francese.

12
IV.- LA FLORA E LA FAUNA DI MONCASACCO

Attualmente (scriviamo nel 2001) il paesaggio che circonda


Moncasacco è caratterizzato dall’attività agricola: pochissimi sono gli
“incolti”, diffusa è la coltivazione della vite (vida) , del frumento (forment)
dove occhieggiano i papaveri (cônfanòn), del granoturco (mèlga), della biada
(biava) oltre ad alcuni prativi. Nei boschi (bòsc) troviamo esemplari di querce
(rõvër), la sangonella (sanguanei) con la quale un tempo si facevano le scope
(scõva), i noccioli , la fusaggine o beretta del prete dalle curiose capsule rosse
con semi arancione e il crataegus monogyma, un arbusto spinoso molto
ramificato che a maggio si ricopre di fiori bianchi profumatissimi. Di
primavera inoltrata le macchie giallo vivo della ginestra colorano i sentieri
che frangiano i boschi e inondano di una fragranza dolcissima l’aria nelle
calde serate. Il castagno è diventato raro, mentre l’olmo (olëm) è quasi
scomparso a causa di una malattia apparsa intorno agli 1970-80: un tempo il
suo legno durissimo era prezioso perché serviva per fare carri, gioghi,
piallotti e manici degli attrezzi agricoli. La robinia pseudoacacia (rûbinia) è un
acquisizione recente (inizi dell’ottocento) ed essendo un infestante si è
diffusa moltissimo. Delle caprifogliace abbiamo il sambuco (sambugh) che
deve il suo nome alla “sambuca” l’antico strumento musicale costruito col
suo legno leggero, rallegra i nostri autunni con le drupe rosse o nere, che un
tempo venivano usate per dare colore al vino o come antinevalgrico
naturale.
Oggi i boschi sono meno curati d’un tempo così anche le piante più
vigorose diventano facile preda della vitalba (videlbör). Nel sottobosco non è
raro trovare gli asparagi selvatici (besàprett) e il dittamo (erba panneina).
A primavera è tutto un fiorire di primule che punteggiano di giallo
tenero i prati ombreggiati. Assai diffusa è la malva che cresce spontanea e
che un tempo veniva usata per tisane antinfiammatorie ed empiastri
emollienti. Dalla tarda primavera fino all’inizio dell’inverno appare sia sui
prati che ai bordi delle strade rustiche il taraxacum officinale utile per
decotti diuretici. In estate fiorisce l’orchis purpurea dal fusto eretto con
molte foglie alla base e con il fiore in spighe dal colore viola brillante. A
giugno le spallette assolate sono ricoperte da un fitto tappeto di fragole
(magiöstar).
Nei boschi di Moncasacco dalla primavera all’autunno si possono
raccogliere funghi (fönz). Molto diffusa è la colombina dorata (culumbéna o
panera se bianca, buleri se rossa) Dall’estate all’autunno viene raccolta anche
la mazza di tamburo (masa âd tabûran), mentre in primavera si raccoglie la
morchella rotunda (spunsgnöla) e il chiodino (ciudén) usato per prepare sughi.
Dall’estate all’autunno nelle radure scoperte si trovano a gruppi i prataioli

13
(pradarö o fons da prà). Fra gli altri abbiamo: il gallinaccio (galinâta) che spicca
nel verde col suo bel cappello carnoso di color arancione chiaro; il gelone
(urgéna) aggregato alle latifoglie, che nasce sia d’autunno che di inverno, dalla
buona pasta bianca e soda. La vescia (lofa ad lu) si trova di preferenza nelle
faggete o sui tronchi morti ed è commestibile solo in giovane età.
Da ottobre fino alla caduta della prima neve cresce spontaneo e
succulento il tartufo nero (strüfel).
Quando d’inverno la neve ricopre tutto e tutti, saltella da un ramo
nudo all’altro, alla ricerca di cibo, l’ôslèin däl frëd grande come un pollice, e il
passero invernale (passrèin). Dorme sotto i cespugli o nel cavo degli alberi il
tasso (tass) e lo scoiattolo rosso (girëta rôssa) si avvicina alle case e si vedono
le orme sulla neve fresca e quelle piccole e saltellanti della lepre (levör) e
quelle grosse e profonde del cinghiale (gugn salvadegh). Con i primi tepori
primaverili si sveglia la puzzola (gatt spuss o spussõ) che si avvicina alle corti
rustiche in cerca di alimento. La notte fanno sentire il loro canto-pianto i
piccoli predatori: la civetta (murit) e l’allocco (ciod) entrambi hanno un
richiamo amoroso piuttosto lugubre, che in antico si considerava di
malaugurio fautore di qualche magia (striozz).
Non lontano dalle case abitate fanno le loro tane le volpi rosse che
appaiono in gran numero durante la falciatura dell’erba. E’ facile trovare
“tracce” che a seconda della stagione contengono noccioli di ciliegie o
bacche di rosa selvatica (rösla salvâdga).
La voce della primavera sono le rondini che arrivano puntuali
dall’Africa in numero sempre minore e ritrovano il vecchio nido volando
alte nel cielo. Più in basso volteggia il pipistrello (rat sgulatèn) che ha il suo
ricovero nei vecchi portici dove un tempo si conservava il fieno. Anche il
batticoda (bôareina) arriva in primavera e il picchio (picõsson o catlinon) batte la
corteccia degli alberi. Nelle giornate terse e ventose fa il volo a vela, fra le
due valli della Versa e dello Scuropasso, la poana (pôiana) parente stretto
delle aquile che ha timore delle cornacchie, ma in realtà è molto astuta:
stanzia in località ricche di selvaggina e vola in picchiata sulle prede. La
tortora (türdla) ha sistemato il suo nido nel bosco dell’Inferno e la si sente
tortoreggiare in cerca di cibo. Finito il suo tempo parte per luoghi lontani,
mentre rimane la tortora dal collare ormai da lungo tempo stanziale che
contende la pastura al colombaccio. A Moncasacco hanno trovato il loro
habitat ideale anche le quaglie e il fagiano così domestici da attraversare a
volo radente i giardini recintati. Le trasparenze dell’inverno permettono di
vedere alti sugli alberi i nidi (nid) delle gazze simili a enormi cestini. La
cornacchia bianca e nera (sgasla) e la cornacchia grigio scura (berta) sono in
concorrenza nella caccia con la poana e si adattano anche al rigore della
stagione, quando nel silenzio si ode il loro roco verseggiare.

14
V.- ETIMOLOGIA DI ALCUNI NOMI GEOGRAFICI

Alcuni anni fa, il professore Dante Olivieri scriveva17:


oggi è principio incontrastato che anche i nomi di luogo riflettono in sé la storia
delle vicende linguistiche di un paese.

Dal momento che non possiamo che condividere questa tesi cercheremo di
indagare sull’etimologia dei principali toponimi dell’isola di Moncasacco.
Mon cas ac co
Moncasacco, l’oggetto della nostra narrazione, in antico era chiamato18
anche Moncastracum o Montesacco o Mongasacco . Questa ultima voce è frutto
dell’italianizzazione delle termine dialettale Mongasac.
Certezza sull’etimologia del nome non c’è. Il dottore Pierino Boselli, noto
studioso di etimologia, da noi interpellato in proposito, ci ha scritto19:
del toponimo MONCASACCO posso fare solo un’ipotesi circa la sua etimologia.
Così come è oggi, il toponimo sembra composto da queste tre radici: mon
“troncamento di monte”, cà “troncamento di casa” e sacco “via senza uscita”.

Potrebbe quindi Moncasacco significare “casa del monte senza uscita”. Noi
guardando i due cocuzzoli che sovrastano Moncasacco abbiamo pensato a
due corni di un sacco capovolto e sosteniamo che Moncasacco voglia dire
“casa del monte sacco ” . Del resto in antico era anche chiamato Montesacco.
Tutt’altra etimologia venne attribuita nell’ottocento da Francesco Nicolli
che fece riferimento alla posizione di terra di confine20 dove prosperava il
contrabbando. Scrive21 il Nicolli:
MANCASACCO o MONCASACCO = in qualsiasi maniera si legge tale nome,
egli sembra derivato in odiosità delle gabelle cui ivano soggetti i sacchi di merce i
quali in conseguenza venivano a ritrovarsi monchi o mancanti in una parte delle
medesime.

Moncasacco non potrebbe derivare dal latino Moncastrum (= monte


fortificato)?

17 DANTE OLIVIERI, Dizionario di toponomastica lombarda, ed. Ceschina (Milano, 1961, 2ª


edizione) pag. 7.
18 SERAFINO MAGGI-CARMEN ARTOCCHINI, I Castelli del Piacentino nella storia e nella

leggenda, Unione Tipografica Editrice Piacentina (Piacenza, 1967).


19 Lettera datata 25 agosto 1979 in A.d.c.C. (Moncasacco)
20
nell’ottocento nelle vicinanze di Moncasacco vi era il confine fra il Regno di Sardegna e il
Ducato di Parma e Piacenza.
21 FRANCESCO NICOLLI, Dell’etimologia dei nomi di luogo degli Stati ducali di Parma, Piacenza e

Guastalla (Piacenza, 1833), due volumi.

15
Cano va
Canova ( in dialetto Kanöva) è un paesino dell’isola di Moncasacco.
L’etimologia ci dice che in origine era costituito da una “casa di nuova
costruzione”, infatti in una relazione del 1767 si menziona una “cascina nuova”
che sicuramente rappresentò il primo nucleo abitativo dell’attuale paese.
Most ari na
un tempo vi erano due cascinali chiamati Mostarina di Sotto e Mostarina di
Sopra: quest’ultimo da tempo è diroccato. Il nome Mostarina deriva
probabilmente da “ most “ (= mosto) che è il prodotto della pigiatura
dell’uva o dal verbo môstà (= pigiare).
Bre gne
strada comunale che fino al 1977 circa collegava (usiamo l’imperfetto perché
una frana l’ha interrotta) Moncasacco alta con la strada provinciale che porta
a Canova. Potrebbe derivare il nome dal piacentino “brugna” cioè la prugna
selvatica. Alcuni invece pensano possa derivare dalla voce ligure o gallica
preen (= bosco) che potrebbe significare “strada nel bosco “.
Iin fer no
bosco che da Moncasacco si estende verso il territorio comunale di
Canevino: è chiamato Inferno (in dialetto Infèran) perché d’autunno le querce,
che lo formano, prendono una colorazione rossa che ricorda l’Inferno.
Rasp a
nel 1747 il confine (conteso) fra il Comune di Moncasacco e il Comune di
Ruino era costituito dal fosso della Raspa. In dialetto râsp significa “scabro,
ruvido”, ma potrebbe significare anche “erta, salita”.
Bu b bi ano
in dialetto Bubiàn è una località nelle vicinanze della Mostarina di Sopra. Nel
milanese c’è un paese che si chiama Bubbiano: il Boselli22 scrive che la
radice probabilmente è da ritrovarsi nel nome proprio Bubbius. Noi
avanziamo l’ipotesi che derivi dal vocabolo latino bivium che vuol dire
“punto d’incontro di due strade”.
Bu i
è un terreno, ora inglobato nella Malmostosa, dove un tempo c’era un
pozzo. Secondo il Sertoli Salis23 Bui vorrebbe dire “buglio, fonte, sorgente, vasca,
conca”.

PIERINO BOSELLI, Toponimi lombardi, Sugarco Edizioni (Milano, 1977), pg. 57.
22
23RENEO SERTOLI SALIS, I principali toponimi in Valtellina e Val Chiavenna, dott. A. Giuffrè
Editore (Milano, 1955), pg. 29.

16
Versa
è il torrente che nasce nell’avvallamento fra Moncasacco e Canova. Un
tempo era chiamato “Versula” o “Anversa” o “Aversa”. L’Olivieri24 dice che il
toponimo significherebbe “storta” o “risolta”, mentre il Boselli25 avanza
l’ipotesi che significhi “riversare ai lati, sulle sponde” con riferimento alle piene
torrenziali.
Ti do ne
è un importante affluente del Po che scorre a sud di Moncasacco. Del
toponimo ne sono state fornite due etimologie26:

Da un etimo ligure trarrebbe nome il Tidone. Deriverebbe dalle voci Tid che
significava “tempo” e On abbreviativo di “Avon”, acqua. Dall’unione dei due
termini, risulta una parola di senso compiuto: “acqua di ore”, ossia acqua
temporanea, vale a dire torrente. E’ questa appunto la natura del Tidone.
Di questo nome piace però riferire una spiegazione più leggendaria, che sebbene
sicuramente priva di fondamento storico, ha il calore della poesia con cui gli
uomini di un tempo popolavano monti, boschi e fiumi di ninfe e di numi.
L’antica leggenda ci riporta alla battaglia della Trebbia, combattuta nel 218 avanti
Cristo non lungi dalle nostre terre. Apprestandosi a rinchiudere di sorpresa
l’esercito romano in una morsa, Annibale, in segno di gratitudine per aver potuto
varcare senza difficoltà il torrente che alle pendici del Monte Penice scende verso
il Po, si sarebbe sfilato un anello dal dito e, gettandolo nella corrente avrebbe
esclamato: “Te dono”, ossia “Ti dono”, da cui Tidone.

Cav ag lio ne
in dialetto Kavaion è il torrente che nasce a sud di Moncasacco ed entra nel
Tidone nei pressi di Caminata. Trattasi di toponimo frequente in Lombardia
e nel Veneto che deriva da “cav”= fosso e che unito al suffisso “ion”
significa “grande fosso”.
Lo C h alet
villetta costruita nel 1973 dai coniugi Panelli su progetto del geometra Mario
Bollati. Chalet è parola che significa “piccola costruzione turistica” la cui
etimologia27 è da rintracciarsi nei “dialetti della Svizzera Romanda;
diminutivo in -et di una base di partenza cala = “rientranza, riparo sotto la
roccia.”

Il Gl ic ine

24 DANTE OLIVIERI, Dizionario di toponomastica lombarda, Ceschina editore (Milano, 1961), voce
“Versa”.
25 PIERINO BOSELLI, op. cit., voce “Versa”.
26 CARLO ALBERTO FACCHINO, ANTONIO TRAZI, ENRICO BALDAZZI, Zavattarello

pagine di storia e di vita, Associazione Amici di Zavattarello (Pavia, 1972), pg. 28.
27 GIACOMO DEVOTO e GIAN CARLO OLI, Vocabolario illustrato della lingua italiana,

Selezione dal Reader’s Digest (Milano, 1971).

17
casa di proprietà Montalbano deriva il suo nome da un glicine che fu
piantato intorno al 1974.

L’E de n
villa costruita nel 1975 dall’avvocato Sebastiano Triscari che significa il “il
paradiso terrestre” dall’ebraico28 ´Êden.
La Ma lm ostos a
casa di proprietà Clerici che deriva il suo nome dall’aggettivo del dialetto
milanese “malmostos” che significa “sgraziato, malcontento”. Nell’ambito
della Malmostosa è stato incorporato il terreno che gli abitanti di
Moncasacco chiamavano Bui .
Via de ll’ Orator io
strada che dalla piazza della Chiesa porta a Moncasacco alta. Oratorio è il
nome italiano per indicare una piccola chiesetta per l’appunto quella di
Moncasacco.
Via Sa n Co lom ba no
strada, indicata da un targa in marmo, che poco dopo casa Viserta al termine
della via dell’Oratorio porta oltre il cancello della “Malmostosa”. Il nome
della via è stato dato nel 1987 a ricordo di un miracolo, legato a San
Colombano, che si verificò più di mille anni fa alle pendici del paese di
Canevino. Il 17 luglio 929 d.C. era partito da Bobbio un corteo di Monaci
che, in processione, doveva portare a Pavia il corpo di San Colombano. Il
corteo passò29 per Arcello, Pianello, Nibbiano, Caminata, Montelungo ed il
giorno 18 transitò nei pressi di Canevino, dove avvenne il miracolo. La
descrizione la ricaviamo dal “Miracula S. Colombani 30”, un opuscolo di uno
scrittore anonimo che probabilmente31 era un monaco del monastero di
Bobbio che partecipò alla “traslazione”. Narra l’anonimo che:

un contadino del villaggio di Canevino aveva un figlio muto dalla nascita. Proprio
quel giorno, egli e suo figlio si trovavano a lavorare nei campi. All’improvviso, il
ragazzo, rivolto al padre, disse:«Papà, papà. c’è San Colombano!» Il genitore
sorpreso e contento gli rispose: «Che vuoi, o figlio?» e quello riprese: «Non senti,
papà? Arrivano i monaci che trasportano San Colombano!» Il padre, salito su di
una altura, stando con orecchi ed occhi intenti, cercava di scoprire un qualche
segno di ciò che aveva udito dal figlio. A lungo aspettare, di lontano, lungo il
monte che si chiama Longo32, percepì voci di persone che si avvicinavano e
28 idem
29 Monsignor MICHELE TOSI, Il trasferimento di san Colombano da Bobbio a Pavia: 17-30 luglio [929],
articolo in Archivium Bobiense, anno III, maggio 1981, pg. 129-150.
30 L’edizione critica fu curata da H. BRESSAU in M.G.H. SS. 3012, Lipsiae 1934.
31 TOSI, opera citata, pg. 135.
32 Il corteo proveniva da Montelungo dove il Monastero di Bobbio aveva una cella monastica e

una chiesa dedicata alla Madonna.

18
cantavano “Krieeleyson”. Constata la verità di ciò che aveva udito dal figlio,
corse alla Chiesa per avvertire il Sacerdote. Questi all’annuncio, indossate le vesti
sacre, ordinò di riempire un vaso di vino. Uscito sulla strada, per la quale
sarebbero giunti, gli andò incontro. Arrivati alfine i monaci. Con modi, umili e
supplici pregava il santo e narrava a tutti l’accaduto. Egli offrì da bere a tutti.

Reso grazie a Dio il corteo col corpo di San Colombano riprese il cammino
per dirigersi a Pavia attraverso la Val Versa.

19
20
PARTE SECONDA
NOTIZIE STORICHE

21
22
VI.- GLI ABITANTI I VERI ARTEFICI DELLA STORIA DI
MONCASACCO

La vera storia di Moncasacco (fatta di sudore, di fatica, di fame)


l’hanno certamente “fatta” i suoi abitanti (i Moncasacchesi) e non i feudatari
(Malvicini Fontana e Arcelli) che a Moncasacco nulla o poco hanno investito
economicamente, ma solo…«preso» quel che si poteva prendere. Del resto
anche, dopo l’abolizione del feudalesimo, i governi centrali (Impero
francese; Regno di Sardegna; Regno d’Italia; Repubblica italiana) ne
seguirono l’esempio.
Gli abitanti di Moncasacco, fino al 1960 circa , erano degli agricoltori
che possedevano poca terra (qualche pertica) che coltivavano a vigna
(lavorandola col solo vanghetto) o a grano (i più abbienti con l’aiuto di un
paio di buoi, gli altri aggiogavano le vacche). Quando il tempo era stato
inclemente (siccità, gelate, grandinate, ecc.) significava un inverno di “fame
nera”.
Le case dei Moncasacchesi erano modeste: una stanza al piano terra;
una stanza al piano superiore collegata da una ripida scala di legno a pioli.
Le case dei più ricchi dall’ottocento ebbero anche il solaio. Case di questo
tipo erano le case di Moncasacco alta (ora Viserta, Di Silvio, Bianchi,
Montalbano).
L’acqua, non essendoci un acquedotto, si doveva andare a prenderla
“a l’Infèran” cioè ad una sorgente nel bosco dell’Inferno e in alcuni pozzi:
se ne possono vedere ancor oggi uno all’esterno di casa Farina e un altro
(ora diroccato) detto “põzz dell’albra” lungo la strada per andare verso il
bosco delle castagne. Un altro pozzo si trovava nel Bui (ora terreno della
Malmostosa), scomparso in seguito ad una frana. Le donne il bucato lo
facevano in alcune risorgive del Bubbiano
Per risparmiare la legna nei mesi freddi i Moncasacchesi passavano le
serate nelle stalle facendo la così detta “veglia”.
Fino al 1950 circa vi era a Moncasacco un’osteria-privativa gestita da
ultimo dalla signora Giuseppina Calatroni. Questa osteria esisteva già nel
seicento, come troviamo nell’atto di infeudazione del 1688. L’osteria costituì
per secoli uno dei pochi svaghi di un paese che d’inverno era “quasi” isolato
perché le strade, per il gran fango (malta), erano spesso impraticabili.
Come tutte le terre di confine, Moncasacco visse anche di
contrabbando, attività che cesserà solamente nel 1859 quando il Regno di
Sardegna, al quale Moncasacco apparteneva dal 1743, incorporò il vicino
Ducato di Parma, Piacenza e Guastalla.
Nel XVI secolo gli abitanti di Moncasacco erano individuati col solo
nome di battesimo. In un documento del 1537, conservato nell’Archivio di

23
Stato di Milano33, alcuni Moncasacchesi che possedevano terre in comune di
Canevino erano individuati col nome di battesimo seguito dalla dizione “da
Moncasacho” o “da Moncasaco”.
I cognomi fecero a Moncasacco la comparsa qualche decennio dopo.
Nell’agosto 1688 abitavano34 a Moncasacco queste famiglie:
BERINZONA35, CHIAPPINO, DALL’OCCHIO, DA PIAZZO,
JANVELLA, MOLINARO, MONTEMARTINO, NONINO, PISANO,
ZUFFADA.
Qualche anno più tardi, cioè nel 1718, abitavano36 a Moncasacco le famiglie:
ALESSI, BELLINZONA, BORGOGNONI, CALATRONE,
CHIAPPINI, DELLA COLOMBA, DALL’OCCHIO, DA PIAGGIO,
FARANELLI, FASOLI, MARTINONI, MOLINARI, PISANI, PISANO,
ZANARDA, ZUFFADA.
A Moncasacco nel 1687 c’erano 19 fuochi che equivalevano a più di
un centinaio di persone; nella prima metà dell’ottocento il Molossi scrisse
che c’erano a Moncasacco centotrenta abitanti. Dati più precisi sul numero
degli abitanti li abbiamo dal 1871 grazie ai censimenti che prima il Regno
d’Italia e poi la Repubblica italiana indissero. L’ISTAT (Istituto Centrale di
Statistica) ci ha comunicato i dati dei vari censimenti:

1861
il dato non si può ricavare perché confuso con altri del Comune di
Caminata. Secondo il censimento gli abitanti del comune di Caminata erano
627 (326 uomini e 301 donne).

1871
l’isola di Moncasacco aveva 126 abitanti così suddivisi:
- 87 a Moncasacco
- 39 a Canova e alle Mostarine

1881
l’isola aveva 129 abitanti così suddivisi:
- 112 a Moncasacco-Canova
- 14 alle Mostarine
- 3 assenti

1901
gli abitanti dell’isola erano 143 così suddivisi:
- 130 a Moncasacco – Canova
33 A.S.M., sezione censo – parte antica – cartella 263.
34 Dall’atto di infeudazione del 1688. Ci siamo serviti della copia conservata in A.S.T.
35 probabilmente Bellinzona.
36 A.S.T.

24
- 13 alle Mostarine

1911
Il dato del censimento comprende il numero degli abitanti dell’isola (148) e
quello delle famiglie (30) così distribuiti:
- a Moncasacco – Canova 118 abitanti (suddivisi in 27 famiglie);
- alle Mostarine 15 abitanti (suddivisi in 3 famiglie);
- 15 abitanti risultavano temporaneamente assenti

1921
Gli abitanti dell’isola erano 155 di cui 5 temporaneamente assenti. Le
famiglie erano 27.

1931
Gli abitanti dell’isola erano 150 così suddivisi:
- 136 a Moncasacco- Canova
- 14 alle Mostarine

1936
Gli abitanti dell’isola di Moncasacco erano138 di cui :
- 78 a Moncasacco
- 60 in case sparse (Canova e Mostarina).

193837
Gli abitanti dell’isola erano 137
1951
Gli abitanti dell’isola di Moncasacco erano 93 di cui:
- 32 a Moncasacco
- 54 a Canova
- 7 in case sparse (Mostarina)

1961
Gli abitanti dell’isola di Moncasacco erano 67 di cui:
- 23 a Moncasacco
- 40 a Canova
- 4 in case sparse ( Mostarina di Sotto)

1971
Gli abitanti dell’isola di Moncasacco erano 47 di cui:
- 7 a Moncasacco
- 37 a Canova
37 dato rilevato nell’atto di aggregazione di Moncasacco al comune di Pometo-Ruino.

25
- 3 in case sparse (Mostarina di Sotto)

1981
gli abitanti dell’isola di Moncasacco erano 42 di cui:
- 5 a Moncasacco
- 35 a Canova
- 2 alla Mostarina di Sotto

I dati dei censimenti dimostrano che lo spopolamento, che si verificò


dopo la seconda guerra mondiale, fu più marcato a Moncasacco che a
Canova. A cominciare dal 1970 le case disabitate dell’isola di Moncasacco
vennero poste in vendita (il fenomeno fu rilevante soprattutto nella capitale
dell’isola): “abboccarono” delle famiglie che cercavano una seconda casa per
avere un motivo plausibile per uscire il sabato e la domenica dalla città. Le
statistiche non censiscono i “dimoranti” così non è dato sapere quanti
abitanti abbia l’isola di Moncasacco nel fine settimana.
Nell’elenco telefonico (aggiornato al 30 ottobre 1998), le Famiglie (sia
residenti che dimoranti) abbonate al telefono risultavano essere:
BELLINZONA, BENVENUTI, BOSONI, CALATRONI, CHIESA,
CLERICI, D’AYALA VALVA, FOLCINI, GANELLI, GRACI,
MONTALBANO, PIROSCIA, SANTUCCI, TRISCARI, VALENTINO,
VISERTA, VOMOZZI, ZUFFADA. Nel 1998 c’erano anche le famiglie:
BIANCHI, ANGUISSOLA, DI SILVIO, ROSSI, MILANI, FARINA. Nel
2001 vi sono stati nuovi arrivi: significativo quello del giornalista e storico
Giorgio Boatti autore fra l’altro del libro: “Preferirei di no ”, edito nel 2001 da
Einaudi.

VII.- MONCASACCO FACEVA PARTE DELLA ROSARA?

Dobbiamo iniziare la storia di Moncasacco col riferire ed analizzare


una leggenda che intorno al periodo 1970-75 ci fu raccontata grosso modo
così: Moncasacco in antico era una città che fu distrutta da un terremoto. Sulle prime
non prestammo al racconto l’attenzione dovuta: qualche dubbio ci venne in
seguito perché ci accorgemmo che la leggenda veniva raccontata in vari
paesi della Val Tidone (Caminata, Pianello, Corano) e della Val Versa (Santa
Maria della Versa, Castana). Col tempo acquisimmo due altri elementi: la
distruzione doveva essere avvenuta a cavallo fra il II e il III secolo d.C. e la
“città” si chiamava Rosara (in dialetto Rosera ).
Qualcosa di vero ci potrebbe essere. A Moncasacco alta nel dicembre 1998,
facendo uno scavo per un garage, vennero alla luce alcuni frammenti di
materiale di ferro che “sembrerebbero” accreditare l’esistenza di una antica

26
fornace. Che ci fosse un castelliere? Dove? Dove c’è l’acquedotto o dove
sorge dal 1976 la Malmostosa? Per ora sono domande senza risposta.
Poco distante da Moncasacco alcuni anni fa affiorarono dei reperti di
interesse archeologico e l’avvocato Aldo Greco Bergamaschi scrisse38
in località «Monte Pioggia» (a quota 592 s.m.) sita in Stadera, frazione del comune
di Nibbiano, da testimoni oculari si conferma l’esistenza di affioramenti, tracce
murarie di un’antica fortificazione dominante la via di comunicazione che (in
epoca romana) risalendo la Val Tidone si dirigeva a Libarna.

A Caminata Val Tidone si trovarono diverse testimonianze della presenza


romana. Scrisse sempre Aldo Greco Bergamaschi39 che si scoprirono:
anfore, tavelloni, embrici romani, i resti di un edificio da identificarsi
presumibilmente con una fornace, situato sulla via sinistra del Tidone nella
confluenza del torrente Cavaglione col Tidone stesso.

Presenza di vestigia romane si sono trovate anche in Val Versa40. Sul muro
della Chiesa di Volpara si trova una lapide sepolcrale pagana, del secondo
secolo dopo Cristo, che reca sul timpano la mitica Gorgona41.
Baruffi e Lonati gli autori di una bella storia di Santa Maria della
Versa nell’esaminare la leggenda sostengono che la Rosara più che una città
vera e propria poteva essere
un vasto susseguirsi di nuclei insediativi, tanto esteso da essere definito città.

In quest’ottica può essere credibile che anche Moncasacco facesse parte


della Rosara, ma che cosa voleva dire Rosara? Ancora una volta lasciamo la
parola ai due autori Baruffi e Lonati42:
innanzitutto bisogna prendere in considerazione la voce dialettale (Rusèra) e non
quella italianizzata del termine. Infatti Rosara traduce Rusèra e la radice Rus è
sicuramente riconducibile al sostantivo latino rus -uris = campagna. Risulta
pertanto molto probabile che, nel latino volgarizzato ultrapadano, sia avvenuta
un’aggettivazione di tale sostantivo in Rusara. In seguito attraverso il corso dei
secoli, si verificò l’ultimo passo, cioè una modifica fonetica con sostituzione di
vocale (in piacentino la lettera “e” prevale sulla “a”) determinata da influssi

38 ALDO GRECO BERGAMASCHI, La Val Tidone dalla preistoria alla romanità, in studi raccolti
in occasione del Convegno Storico tenuto a Pianello V.T. a cura della sezione di Piacenza della
Deputazione di Storia Patria per le Province Parmensi, estratto dell’Archivio Storico Parmense
1964 (Parma 1966) dal titolo “La Val Tidone “. L’articolo citato a pg. 12.
39 BERGAMASCHI, idem, pag. 12-13.
40 G. BARUFFI- C. LANATI, S. Maria della Versa e il suo territorio, Luigi Porzio e figlio Editori in

Pavia, pg. 27-42.


41
Viaggio nei luoghi del Vicariato di Val Versa, articolo in “Il Popolo” dell’11 dicembre 1998.
42 Idem pag. 32.

27
linguistici locali, che produssero il noto Rusèra, italianizzazione avvenuta in
Rosara.

La Rosara, quindi, più che una città, sarà stata una terra molto popolata che
subì, intorno al secolo II e III d. C., uno spopolamento repentino. Una
Rosara che si trovava vicino a Pianello arrivò fino al 1244 d.C. e fu distrutta
dalle truppe imperiali. Certamente non è la Rosara alla quale presumiamo
facesse parte Moncasacco. Scrive il Molossi43 che
un quarto di miglio all’E, S-E dalla borgata (n.aa. Pianello) è un luogo
denominato le Campagne, lagrimevol sepolcro di un paese antichissimo, dalla
tradizione ricordatoci col nome di Rosara, e che dalle immani soldatesche di
Federico II o del re Enzo suo figlio, siccome altri deliziosi luoghi della Valtidone,
dannato al ferro e al fuoco dell’anno 1244.

Diverse possono essere le cause che portarono alla distruzione, fra il II e il


III secolo d.C., della Rosara alla quale apparteneva Moncasacco.
Escludiamo possa essersi trattato di un’eruzione vulcanica anche se ancora
agli inizi del milleottocento, nelle vicinanze di Cicogni, si poteva vedere il
cratere di un vulcano spento. Il Molossi scrive testualmente44:
quasi 2 migl(ia) e ½ al S.O. di Cicogni e sulla linea di detto confine, è Praticchia,
villetta di pochi fuochi, nelle cui vicinanze vedesi il cratere di un vulcano estinto.
Vuolsi che sienvi memorie scritte di un’irruzione di lava, in tempo ch’esso
vulcano ardeva.

L’eruzione avrebbe dovuto essere di tale portata da fare della Rosara un’altra
Ercolano o Pompei, ma non ce n’è giunta notizia alcuna. Probabilmente la
distruzione avvenne a causa di un terremoto, la vicina zona di Varzi è
sismica: questa ipotesi sarebbe in linea con quanto si raccontava.
Che la Rosara fosse stata distrutta da un’invasione potrebbe essere la terza
ipotesi. Che si trattasse dei Biturigi45?
Come siano andate realmente le cose non ci è dato sapere: è rimasto
solamente il ricordo in una leggenda che i giovani ignorano e che per noi un
qualche fondamento di verità lo potrebbe avere.
Fra qualche anno di questa leggenda e di altre se ne perderà la memoria
impoverendo il patrimonio culturale di Moncasacco e dell’Oltrepo.

43 LORENZO MOLOSSI, Vocabolario Topografico dei Ducati di Parma, Piacenza, Guastalla, edito a
Parma nel 1832 dalla Tipografia Ducale, sotto la voce Pianello pgg. 409-410.
44 MOLOSSI, op. cit.
45 ipotesi avanzata nella già citata Storia di Santamaria, pg. 36.

28
VIII.- MONCASACCO NEL MEDIOEVO FEUDO DEI
MALVICINI FONTANA

Nel IX secolo dopo Cristo il paese di San Sinforiano (l’attuale


Caminata Val Tidone) faceva parte dei beni fondiari dell’abbazia di
Bobbio46. Ignoriamo se al Monastero appartenesse anche il territorio di
Moncasacco. Di sicuro sappiamo che intorno al XIII secolo Moncasacco si
trovava in una zona che il Comune di Piacenza considerava vitale per la
difesa del suo territorio e che con la forza aveva sottratto all’egida politica
del Vescovo di Bobbio, che era subentrato all’Abbazia. Per arginare
l’espansionismo pavese47 verso la Val Tidone, Piacenza aveva favorito la
costruzione di castelli che aveva affidato a famiglie guerriere a lei fedeli.
Moncasacco nell’orbita piacentina era circondato da castelli e case-forte,
alcuni di questi edifici militari si possono ancora vedere, mentre di altri
abbiamo solo notizia.
Proprio di fronte a Moncasacco c’è (in linea d’aria: quattrocento
metri) M onte Pioggia 48 sulla cui sommità vi era un castello che apparteneva
al Comune di Piacenza. Nel 1283 Ubertino Landi, Signore di Zavattarello,
con i suoi uomini assalì ed espugnò il castello che riuscì a tenere solo per
pochi giorni: i Piacentini lo ripresero con le armi perché lo consideravano di
grande importanza strategica.
A Torre G andini 49 , paese posto sulla strada che collega Nibbiano a
Stadera, si erge una torre costruita sul confine del Piacentino per impedire ai
Pavesi infiltrazioni dalla Val Versa.
Più lontano, oltre il Tidone, a Trebecco ci sono i ruderi di un castello50 già
esistente nel 1029 d.C. menzionato come “castrum de Durobecho “. Stando al
cronista Codagnello il castello, che era stato distrutto, nel 1180 fu ricostruito
dal Comune di Piacenza perché i Piacentini lo consideravano un baluardo
per arginare l’espansionismo dei Malaspina. Nel 1207 il Castello passò sotto
il monastero bobbiese di San Colombano e poi alla Mensa Vescovile di
Bobbio.

46 La descrizione era stata voluta dall’abate Wala. Cfr. ALDOGRECO BERGAMASCHI,


Toponimi valtidonesi nelle Carte del Monastero di S. Colombano in Bobbio in fascicolo Bobbio e la
Valtrebbia (Piacenza, 1963), pag. 20-26.
47 FLAVIO FAGNANI, Rovescala nei secoli bui: dal «vicus» al «castrum» , studio apparso nel volume

di AA.VV., Rovescala (1192-1992), a cura del Comune di Rovescala (Azzate, 1992), pag. 43.
48 alcuni lo chiamano Monte Poggio. In un documento del 1203 è menzionato come “Mons

Pioglosi” Notizie si possono trovare in CARMEN ARTOCCHINI, Castelli piacentini, Edizioni TEP
(Piacenza, 1983),voce “Stadera (Nibbiano)”, pg.114.
49 ARTOCCHINI, idem, voce “Torre Gandini (Nibbiano)”.
50 ARTOCCHINI, idem, “Trebecco (Nibbiano)”, pgg. 114-118.

29
A Zav attarello 51 c’era il castello che nel X secolo era stato fatto
costruire dal Monastero di Sant’Ambrogio di Milano. Nel 1327 era divenuto
feudo di Manfredi Landi, dopo essere stato conteso fra Piacenza e Bobbio.
A Ruin o c’era un castello costruito dai Da Ruino, che erano stati
infeudati dal Monastero di Bobbio.

Da Moncasacco alta si vede il tetto del castello di Mon tù Berchielli,


che i Belcredi avevano fatto costruire nel secolo XII, il castello di Stefanag o
e il castello di M ontecalvo Versiggia, che facevano parte del sistema
difensivo della Val Versa con i castelli di Rocca degli Aymorici52 (l’attuale
Rocca de’ Giorgi), di Montalto53 e di Cicognola..

Nel 1355 l’imperatore Carlo IV di Lussemburgo aveva concesso a


Dondazio Malvicini Fontana la Signoria su Castel San Giovanni e su la
Valtidone. Nello stesso anno, forte della concessione imperiale, Dondazio
Malvicini occupò il Castello di Monte Pioggia, Torre Gandini, Trebecco ed
anche il fortilizio54 di Moncasacco che costituiva sul confine piacentino un
vero avamposto verso la Lombardia. La politica espansionistica di Dondazio
Malvicini Fontana, alleatosi con i Beccaria e col marchese di Monferrato,
non piacque ai Visconti che occuparono Moncasacco. I Beccaria, la potente
famiglia che signoreggiava su Pavia e l’Oltrepo’, dopo aver respinto (aprile
1356) l’esercito di Galeazzo II Visconti, che voleva impossessarsi di Arena
Po55, fecero un’incursione nell’alta Val Versa: assalirono il castello di
Moncasacco che bruciarono con le poche case che costituivano il paese.
Non immaginiamoci niente di molto epico! Probabilmente a guardia e difesa
del castello e del paese i Visconti vi avranno posto una decina di persone
che, davanti a una “masnada” più numerosa, avranno potuto fare ben poco.
Poi le truppe dei Beccaria avranno appiccato il fuoco e con la mancanza
d’acqua che c’era non sarà stato possibile spegnere l’incendio. Per questa
“sortita” i Beccaria la pagarono cara: dopo la vittoria, nella battaglia di

51 FLAVIO CONTI - VINCENZO HYBSCH - ANTONELLO VINCENTI, I Castelli della


Lombardia (Province di Milano e Pavia), Istituto geografico De Agostini (Novara, 1990), pg. 187.-
CARLO ALBERTO FACCHINO-ANTONIO TRAZI-ENRICO BALDAZZI, Zavattarello-
pagine di Storia e di vita, Associazione Amici di Zavattarello- Pro Loco editore (Pavia, 1972).
52
Detta anche Rocha Campixanis
53
oggi si vede il grande palazzo costruito nel 1594.
54
Sul castello di Moncasacco si possono consultare questi volumi: (1) GIUSEPPE FONTANELLA, La
Valtidone (guida turistica e compendio di notizie sulla storia, geografia, economia della vallata)Lions
Club (Castel San Giovanni, 1970), voce “Caminata”, pg. 76.- (2) SERAFINO MAGGI-CARMEN
ARTOCCHINI, I Castelli del Piacentino nella storia e nella leggenda, Unione Tipografica Editrice
Piacentina (Piacenza, 1967).
55
FLAVIO FAGNANI, Origine e sviluppi della Signoria dei Beccaria su Arena Po,Articolo in Bollettino
della Società Pavese di Storia Patria, XLII (Pavia, 1990), pag. 84.

30
Casorate (12 novembre 1356) Bernabò Visconti, come ha scritto lo
Scarabelli56,
per vendicarsi de’ Beccaria che gli avevano arso Moncasacco di qua dal Po
(Mocastracum), li fece espellere da Pavia.

Il paese ed il castello furono ricostruiti. Oggi l’edificio del castello, proprietà


dei marchesi Anguissola, ha più l’aspetto di una casa colonica che del
castello!
I Malvicini Fontana si misero d’accordo con i Visconti57 così
nell’ambito dello Stato visconteo e poi sforzesco ebbero la signoria sui feudi
di Nibbiano, Vicobarone, Moncasacco e Campremoldo. Si trattava di un
ampio territorio feudale che confinava con gli Stati Vermeschi, cioè di quel
complesso di feudi che erano sotto la Signoria dei Dal Verme. Ancor oggi
nel patrimonio araldico58 della nobile casata ne è rimasto il ricordo: conte di
Bobbio con Corte Brugnatella e Romagnese, Signore di Zavattarello, Ruino,
Trebecco e Caminata.
Avere la signoria sul feudo di Moncasacco non voleva dire essere i
proprietari del suo territorio (cioè delle case e dei terreni), significava invece
esercitare la potestas, cioè il potere diretto, sugli uomini liberi che vi
abitavano59 e possedevano beni. In soldoni, i Visconti (poi gli Sforza) erano
i Duchi di Milano nel cui territorio c’era anche Moncasacco; i Malvicini
Fontana, come feudatari di Moncasacco, avevano diritto di “spremere” con
tasse i Moncasacchesi, di imporre corvées, di amministrare la giustizia..
Nel Medioevo60 poco distante da Moncasacco, lungo la via della
Costa61, passavano diversi pellegrini diretti al mare per andare in Terra Santa o
a Bobbio. Ci piace pensare (è solo un’ipotesi!) che qualcuno di questi
pellegrini sia passato, facendo una variante, da Moncasacco con lo scopo di
visitare il santuario di Montelungo62.

56
LUCIANO SCARABELLI, Istoria civile dei Ducati di Parma, Piacenza, Guastalla, 1ª edizione
stampata nel 1846 e pubblicata nel 1858; riedizione anastatica Arnaldo Forni Editore (Sala Bolognese,
1989), volume II, pag. 108.
57 Con diploma 8 maggio 1408 Giovanni Maria Visconti, Duca di Milano, investì Francesco
Malvicini Fontana dei feudi di Nibbiano, Stadera, Genepreto, Tassara e Vicobarone.
58 Libro d’Oro della Nobiltà Italiana,edizione XXI, volume XXIV (1995-1999), edito dal
Collegio Araldico, pg. 843.
59 KARL FERDINAND WERNER, Nascita della Nobiltà, Giulio Einaudi Editore (Torino, 2000),

pagg. 221-222.
60 GIANCARLO ALBERTO BARUFFI, La via Franchigena- sulle vie dei pellegrini in provincia di

Pavia, edizioni Guardamagna (Varzi, 1999) pgg. 181-185.


61 Da Torre di Pizzofreddo la strada dei pellegrini passava da Casa Scagliosi, Costa Rettani, Costa

Calatroni, Stadera, Pieve di Stadera.


62
Il Santuario è stato rifatto nel 1929.

31
IX.- MONCASACCO TERRA DELLO STATO DELLA CHIESA
(1521-1545) E DEL DUCATO DI PIACENZA SOTTO I FARNESE

Nel 1521 Moncasacco, che dalla seconda metà del trecento faceva
parte del Ducato di Milano, passò col Piacentino a far parte dello Stato
della Chiesa. Il nuovo confine fra le due entità statali (Ducato di Milano e
Stato della Chiesa) passava a nord di Moncasacco e coincideva col confine
del territorio di Moncasacco con quello dei comuni di Canevino e di Ruino:
grosso modo il confine fra i due Stati nel 1521 era dove ora passa il confine
fra le regioni Emilia e Lombardia.
Alcuni Moncasacchesi, pur abitando nello Stato della Chiesa,
possedevano terre nel Ducato di Milano, che nel 1530 era passato sotto gli
Spagnoli, così per lavorarle varcavano spesso il confine. Nel 1537
risultavano avere terre nel territorio comunale di Canevino63, cioè nel
Ducato di Milano, i seguenti proprietari:
- Cabro da Moncasacho
- Jacomino da Moncasaco
- Bassino da Moncasaco
- Zanino da Moncasaco
- Rancino da Moncasaco
- Her(edi) di Albertino Bertolame da Moncasaco

Nel 1545 papa Paolo III creò in favore del proprio figlio (Pier Luigi
Farnese) il Ducato di Parma e Piacenza, donandogli terre che
appartenevano allo Stato della Chiesa. Dal 1545 la situazione era questa:
Moncasacco apparteneva al Ducato di Piacenza, mentre Ruino, Canevino e
Caminata erano paesi sudditi del Re di Spagna che tramite un Governatore
amministrava il Ducato di Milano.
Moncasacco era un comune retto da un Console assistito da due Savi;
religiosamente dipendeva dalla parrocchia di Pieve di Stadera; feudatari
erano sempre i Malvicini Fontana.
Signore di Moncasacco fu anche il celebre condottiero Erasmo II
Malvicini Fontana che militò prima al servizio di Carlo IX, Re di Francia,
e poi passò al servizio della Serenissima Repubblica di Venezia che lo
nominò governatore di Verona. La morte di Erasmo II Malvicini Fontana
diede luogo a una lunga bega riguardante i diritti feudali di Moncasacco.
Riportiamo quanto è stato scritto64:

63 A.S.M., sezione censo- parte antica- cartella 263. Elenco riportato anche nel libro di
GIUSEPPE MODICA e FABRIZIO BERNINI, Canevino terra dell’Alta Val Versa, a cura del
Comune di Canevino (Broni, 1989), pagg. 53-54.
64 SERAFINO MAGGI- CARMEN ARTOCCHINI, I Castelli del Piacentino nella storia e nella

leggenda, Unione Tipografica Editrice Piacentina (Piacenza, 1967), voce “Moncasacco”.

32
sorse una controversia per la successione tant’è che i beni di Vicobarone,
Moncasacco, Stadera e Campremoldo nel 1603 furono «presi» dallo
Eccellentissimo Consiglio di Piacenza per togliere gli scandali che potevano
nascere tra il marchese Pier Francesco figlio primogenito e i marchesi Alberico e
Sforza figli secondogeniti del detto marchese Erasmo avuti da due donne.
Dagli atti della Camera Ducale farnesiana si rileva che nel 1625 si ebbero varie
convenzioni e composizioni fra la Camera stessa e i Malvicini riguardo alle terre
di Stadera, Moncasacco e Vicobarone confiscate tanto al marchese Sforza
Malvicini per aver commesso un «delitto capitale», quanto al marchese Fortunato
resosi colpevole di aver abbandonato gli Stati Parmensi senza il debito permesso.

Non pensiamo a Moncasacco come a un paese di bengodi, si viveva


stentatamente e come terra di confine (di Stato) vedeva un gran passare di
soldati e spesso era teatro di scorrerie di bande irregolari come era
successo65 nell’estate del 1635. Nell’ottobre 1655 da Zavattarello per la Val
Tidone passò una colonna di soldati francesi e piemontesi inseguita dagli
Spagnoli66. Intorno al 1686 a Rocca de’ Giorgi un certo Antonio de Vecchi
aveva costituita una banda di malfattori che
commise molte spoliazioni coi suddetti sicari assalendo i passeggeri, inseguendo i
fuggitivi, conducendo via il bestiame e rubando a molti denaro in quantità67

Il Duca di Piacenza aveva voluto istituire in Val Tidone un


Reggimento (allora si chiamava Terzo) della Milizia Suburbana col compito
di polizia e di guardia alle frontiere e repressione del contrabbando. Gli
uomini di Moncasacco, compresi fra i diciotto e i quarantatre anni erano
tenuti a prestare servizio nella Milizia a meno che non pagassero un’apposita
imposta per essere esentati e così attendere al lavoro nei campi68.
Oggi (anno del Signore 2001) i cartografi nelle loro carte, anche
quelle stradali delle province di Piacenza e di Pavia, si “dimenticano” di
indicare Moncasacco69. Nel milleseicento non era così! Con la dizione
Mongasacco il nostro paese fu indicato nella carta70 del Principato di Pavia,
edita a Pavia il 17 agosto 1654, disegnata da Ludovico Corte su
65 Atti del convegno di studi tenutosi a Piacenza dal 24 al 26 novembre 1994 sul tema. I Farnese –
Corti, Guerra, Nobiltà in antico regime. Vedi relazione di MARCO BOSCARELLI intitolata Appunti
sulle istituzioni e le campagne militari dei Ducati di Parma e Piacenza, a pagina 573 degli Atti pubblicati
dall’editore Bulzoni (Roma, 1997).
66 GIUSEPPE BONAVOGLIA, Documenti per la storia di Fabbrica Curone, (Tortona 1993)
67 Monsignor LEGÈ, Storia di Montalto, pg. 156.- Monsignor CLELIO GOGGI, Storia dei Comuni

e delle Parrocchie delle Diocesi di Tortona, Liticoop (Tortona 1973, 3ª edizione) pg. 315 (voce: Rocca de
Giorgi).
68 Atti del convegno ecc., pg. 562- 563.
69 Fanno eccezione, oltre alle carte catastali (Catasto di Piacenza) le carte geografiche dell’Istituto

Geografico Militare (Firenze) fatte in scala 1: 50.000 (quadrante Voghera) e 1:25.000 (quadrante:
Montalto).
70 la carta si trova riprodotta nel volume di VITTORIO PRINA, Vedute di Pavia dal ‘500 al ‘700,

edizioni Vigieffe (Pavia, 1992), pg. 76.

33
commissione di Ottavio Ballada ed incisa da “Jacobus Cotta Bergomensis”.
Nella carta il torrente Versa è indicato col nome Aversa.

X.- MONCASACCO: MARCHESATO (1650-1677) E CONTEA DAL


1688

Il feudo di Moncasacco, tolto ai Malvicini Fontana, fu amministrato


dalla Camera Ducale che nel 1650 lo pose in vendita. Fu acquistato il 5
febbraio 1650 da Paolo Camillo Arcelli, che apparteneva a un ramo71 della
celebre famiglia che dal 1372 possedeva il castello di Pavarano72. Sua Altezza
Serenissima il Duca di Parma e Piacenza, contestualmente alla vendita del
feudo elevò Moncasacco a Marchesato, forse perché terra di confine:
nell’alto medioevo i feudi posti al confine dell’Impero erano marchesati.
Moncasacco fu marchesato solamente per ventisette anni, cioè fino al
1677, anno in cui morì il marchese Paolo Camillo Arcelli, che fu il primo e
l’ultimo marchese di Moncasacco perché non aveva eredi maschi.
Il feudo ritornò alla Camera Ducale, che lo amministrò per undici
anni, cioè fino al 1688 quando lo pose in vendita73.
Il Duca di Parma non volle più che fosse un marchesato, ma una contea:
decisione giustificata dalla piccolezza del feudo. Il prezzo (8 mila lire
imperiali di Piacenza) fu stabilito in seguito alla valutazione fatta dal perito
Giuseppe Cremonesi. Il valore dei feudi dipendeva dal reddito di carattere
fiscale che il feudatario poteva ricavare imponendo tasse su ogni fuoco, sulle
attività (osteria, panificazione, macellazione) e sull’utilizzo gratuito da parte
del feudatario di alcune giornate di lavoro che gli abitanti del feudo gli
dovevano. Nella relazione redatta dal perito Giuseppe Cremonesi leggiamo:
Mi sono portato subito in ordine alli comandi della Signoria Vostra Illustrissima
nel luogo di Moncasacco Piacentino e ho pigliato la nota quelli fuochi Regali
sono i seguenti:
- Una casa di Giô. Antonio Chiappino abitata dal medesimo n° 1
- Una del Giô Antonio Chiappino abitata dal medesimo n° 1
- Una di Bartolomeo Zuffada dal medesimo abitata n° 1
- Una di Giovanni Daltonio dal medesimo abitata n° 1
- La casa dove si esercita l’osteria n° 1
- Una di Pelegrino Pisano dal medesimo abitata n°1
- Una di Francesco Pisano n°1
- Una di Carlo da Piazzo n1

71 Per la storia di questo ramo si consulti AA:VV., Le antiche Famiglie di Piacenza e i loro stemmi,
Edizioni Tep (Piacenza, 1979) pg.119.
72
castello situato in Val Luretta in comune di Piozzano.
73 Ci siamo avvalsi di documenti che si trovano in A.S.T. (feudi) e in A.S.P. (Archivio Arcelli di

Corticelli, cassetta 7, fascicolo 91). Tutta la documentazione trovasi in fotocopia in A.d.C.C.


(Moncasacco).

34
- Una di Mario Molinaro n°1
- Una di detto Francesco Pisano vuota n°1
- Una di Francesca Murano abitata da Stefano Morino n°1
- Una di Riccardo Faravelli dal medesimo abitata n°1
- Una dal medesimo abitata da Carlo Montemartino n°1
- Una di Giacomo Berinzona dal medesimo abitata n°1
- Una di Giô. Campesio vuota n°1
- Una di Giacomo da Piazzo dal medesimo abitata n°1
- Una di detto Riccardo vuota n°1
- Una di Francesco Piazzo dal medesimo abitata n°1
- Una del Co. Giovanni Anguissola abitata dal Fittabile n°1
---------------
Sicchè i fuochi sono in tutto n° 19
che a ragione di Ducatoni a £. 18 sono 3.420
Vi sono poi due case diroccate che formano due
fuochi che a una ragione imputiamo 360
----------
3.780

Vi sono tre giornate per ogni fuoco che i Rurali devono


presentare gratis al feudatario. Nel caso non le facciano
pagano 15 soldi ed essendo i Rurali n° 18 sono giornate 54,
ma perché li su detti Giô. Antonio Chiapino del fu Giô. F.co
e Giacomo Berenzona godono una casa per uno, che altre volte
faceva un fuoco, ed ora sono incorporate con dette sue case,
niente di meno pagano giornate tre ogni anno di più per
ciascheduno per detta casa incorporata nelle sue sicchè fanno
in tutto giornate 63 che a detta ragione di soldi 15 l’una se causa
in tutto ogni anno £. 78
che regolandole al 3% sono £. 2.625
Di più il Jus dell’Osteria, Pristino, Macello che è affittata a £. 18
che a ragione del 3% sono £. 600
e più la Casa dove si fa l’Osteria, qual è della Sovrana Ducal
Camera, che consiste di una stanza con sotto una saletta, sopra
vi è il granaio, ed il sito dove vi era l’Osteria dirocata quali per
mio parere vaglino £. 400
Sicchè detto feudo vale in tutto £. 7.406.

Il feudo di Moncasacco valutato 7.406 lire imperiali di Piacenza fu


posto in vendita dalla Serenissima Camera Ducale a lire ottomila. Chiesero
di poterlo acquistare i fratelli don Ottavio (sacerdote) e Giovanni Battista
Arcelli, figli del fu Sebastiano che abitavano a Piacenza nella Vicinia di San
Giacomo Maggiore; si trattava di un ramo che possedeva il castello di
Corticelli ed erano parenti molto alla lontana col defunto Paolo Camillo
Arcelli, primo ed unico marchese di Moncasacco.

35
I Questori della Camera Ducale chiesero l’assenso del Sovrano. A Parma nel
Palazzo Ducale il Duca Ranuccio Farnese, il 13 luglio 1688, autorizzò i
Questori a vendere il feudo di Moncasacco. Leggiamo nel rescritto ducale:
Illustrissimi e molto Magnifici nostri Amatissimi
Contentandoci Noi di dare in vendita il feudo di Moncasacco a Ottavio
ed al sacerdote Giô. Battista suo fratello degli Arcelli col titolo di Contea, e colle
condizioni espresse nell’ingionto Loro foglio, e nella stima fatta del medesimo
feudo per lire otto mille da essi esibiti, ne stipulerete con loro di conformità il
contratto in nome della nostra Camera, ne manderete poscia in nostra mano la
Supplica secondo il solito, che così vi ordiniamo, e vi preghiamo da Dio ogni
bene. Parma 13 luglio 1688
RANUCCIO FARNESE

Il 19 luglio 1688 gli Arcelli indirizzarono al Duca questa supplica:


Noi infrascritti Ottavio e Giô. Battista Sacerdote, fratelli delli Arcelli, ci
proponiamo, quando venga approvato da S.A.S.74, comperare dalla Serenissima
Ducal Camera di Piacenza il feudo col titolo di Contea di Moncasacco col mero e
misto Imperio, giurisdizione e potestà del Gladio, con li Regali d’Osteria, Pristino
e Beccaria, con la ragione dell’opere dovute annualmente da quei sudditi al
feudatario, e con la casa dove al presente si fa osteria, ed il sito nel quale già era
l’osteria, come viene espresso nella relazione del perito alla Sudetta Camera
Serenissima, e riguardo alla medesima Camera colle riserve del maggior
Magistrato e tanto per una parte, quanto per l’altra con le forme e clausole da
estendersi all’uso solito in simili contratti. Detto feudo sarà riconosciuto da me
infrascritto Ottavio per me, per li miei figlioli, e discendenti maschi legittimi, e
naturali nati da un legittimo matrimonio in infinito.
A detto feudo S.A.S. ammetterà il detto Giovanni Battista Sacerdote, con patto
che morendo esso, la Camera Serenissima non possa prendere la di lui porzione
di detto feudo, ne in quella pretendere cosa alcuna, ma che passi detta porzione
immediatamente in detto Ottavio suo fratello, o ne’ figlioli o discendenti d’esso
legittimi e naturali come sopra.
Detto feudo con li Regali ed altro come sopra viene stimato dal suddetto Perito,
come dalla sua relazione in prezzo di £. 7405 moneta corrente, ma secondo il
concordato pagheremo noi infrascritti fratelli £. 8000.
A favore delli Discendenti di detto Ottavio si dovrà esprimere nella investitura
feudale, che esso possa erigerlo in primogenitura e non erigendolo, che durante la
discendenza d’esso suddetto per linea mascolina legittima e naturale nata da
legittimo matrimonio siano li discendenti maschi reciprocamente sostituiti in
infinito, ed in mancanza in Colonnella succeda l’altro, senza che la Serenissima
Ducale Camera non ne possa pretendere il possesso e non ostante qualsivoglia
Costituzione in contrario.
E per quanto di sopra si contiene promettiamo e ci obblighiamo in ogni miglior
modo.
Piacenza li 19 luglio 1688.

74 Leggi “Sua Altezza Serenissima”.

36
Io Ottavio Arcelli di man propria a nome anche di Giô Battista Arcelli mio
fratello Sacerdote.

Dalla ricevuta liberatoria, rilasciata dal Tesoriere Lorenzo Nonati,


apprendiamo che a Piacenza il 26 luglio 1688 i fratelli Arcelli versarono le
ottomila lire necessarie per l’acquisto del feudo di Moncasacco. Il giorno
seguente a Piacenza i Questori della Camera Ducale vendettero il feudo ai
fratelli Arcelli. Con rescritto firmato il 5 agosto 1687 nel Palazzo Ducale di
Parma S.A.S. il duca Ranuccio elevò a contea il feudo di Moncasacco
investendo ufficialmente i fratelli Arcelli, concedendo loro il diritto di
giudicare in materia civile e penale (si diceva allora “criminale”). Il 7 agosto
il rescritto ducale fu iterinato dalla Camera Ducale.
Il 23 agosto 1688 Giovanni Francesco Quieti, corriere pubblico,
scelto dal conte Arcelli, fu inviato a Moncasacco, per conto della Camera
Ducale, per comunicare al Console e ai Savi del Comune l’avvenuta
infeudazione e per predisporre la cerimonia di presa di possesso del
feudo. Fu fissata la data del 26 agosto 1688. Le carte non lo dicono, ma
pensiamo che il Conte si sia mosso di primo mattina dal castello di
Corticelli75 dove certamente i suoi ospiti avranno fatta tappa il giorno
precedente provenendo da Piacenza. Sicuramente avranno fatto parte del
corteo i tre gentiluomini che, per conto della Camera Ducale, avevano avuto
l’incarico di fare da testimoni, i due notai e presumiamo un drappello di
soldati come scorta e magari qualche “bravo” di manzoniana memoria. Il
verbale redatto in latino dal notaio Ottavio Malaragia Cani, che aveva come
assistente il notaio Giacomo Prati, ci permette di ricostruire la cerimonia.
Sulla piazza di Moncasacco (quodam curia existente inter domos) attendevano il
corteo il Console del comune di Moncasacco Giô Maria Molinari, i Savi (o
Deputati) e tutti gli uomini, perché dovevano essere parte attiva della
cerimonia. Certamente come spettatori ci saranno state le donne, i ragazzi e
i bambini del paese: una cerimonia così non capitava di vederla tutti i giorni!
Presero posto i tre illustri testimoni: il conte Gasparo Lampugnano76, il
nobile Francesco dei conti Landi77, don Francesco Vulpulante78 chierico di
Piacenza mentre i due notai si sedettero davanti a un tavolino per redigere il
verbale. Il conte Ottavio Arcelli fu fatto sedere su un trono di legno (nel
verbale troviamo scritto: « apposita fuit cathedra lignea ») e gli porsero un
Vangelo. Il notaio, dopo aver letto i documenti che legittimavano la presa di
possesso del feudo, disse che, per volontà del Duca di Parma, Moncasacco
era stato elevato a contea e che la signoria spettava ai conti Arcelli che

75 Il castello di Corticelli si trova in territorio del Comune di Nibbiano. Provenendo da Nibbiano


verso Castel San Giovanni poco prima di Trevozzo lo si vede sulla sinistra.
76 Il conte Gasparo Lampugnano di Luigi della vicinia di San Paolo
77 figlio del conte Oldradi della vicinia di Sant’Eufemia.
78 Abitava nella vicinia di Sant’Andrea.

37
avevano “mero et mixto imperio”, giurisdizione e potestà del gladio con i
diritti (Regali) derivanti dall’osteria, forno e macelleria e che gli abitanti
dovevano ogni anno prestare loro alcune giornate di lavoro gratuito. In fine
il notaio Malaragia Cani lesse, ad alta e chiara voce, la formula del
giuramento e chiamò a prestarlo, ad uno ad uno, gli uomini di Moncasacco.
Dopo aver fatto la riverenza ognuno si inginocchiava e giurava fedeltà al
feudatario e ai suoi successori toccando il Vangelo che era tenuto fra le mani
dal conte Ottavio Arcelli assiso in trono.
Giurò per primo il Console (Giovanni Maria Molinari) che giurò anche
per conto del fratello (Giovanni Molinari), poi il savio Carlo da Piazzi, e
dopo di lui gli uomini:
- Francesco Pisani
- Riccardo Faranelli79
- Pellegrino Pisani
- Stefano Morini
- Giacomo Berinzona80
- Francesco Morelli
- Franco da Piazza figlio di Giacomo
- Franco da Piazza figlio del fu Gerolamo
- Giô. Guglielmo Quadrelli
- Giô. Antonio Chiappini del fu Giovanni detto della Colomba
- Giô. Dell’Occhio
- Bartolomeo Zuffada
- Carlo Montemartini
- Giovanni Antonio Chiappini del fu Filippo.

Subito dopo il Conte di Moncasacco nominò Podestà il notaio Giovanni Prati,


che era presente alla cerimonia, attribuendogli la facoltà di amministrare in
suo nome, nella contea di Moncasacco, la giustizia sia civile che penale. Il neo
podestà giurò nelle mani del Conte e subito dopo fu letto in italiano questo
proclama:

Avendo l’illustrissimo Signor Conte Ottavio Arcelli in questa


parte Signore e Feudatario del feudo di questo luogo di Moncasacco
appartenente al Ducato Piacentino dopo aver preso tanto a nome
proprio, come del Molto Reverendo Signor Conte Giovanni Battista suo
fratello il possesso ha eletto in Podestà di detto feudo il Signor Giacomo
Prati, tale elezione si fa sapere ad ogni persona qualsivoglia sia suddita di
detto feudo e abbia od avrà in avvenire di bisogno dell’ufficio suo, debba
avanti di lui comparire al suo Tribunale eretto per ora nella casa di
Corticelli, nella quale per virtù della parte d’ordine del suddetto Signor
Conte Ottavio Signore e Feudatario ha istituito il suo idoneo Tribunale,
significando ognuno che da lui sarà amministrata buona giustizia.

79 Potrebbe leggersi Faravelli


80
potrebbe leggersi Bellinzona.

38
Inoltre si fa intendere d’ordine e come sopra a ciascuno de’
Sudditi del Signor Conte di detto feudo, che nelle cause civili e criminali si
osserveranno non solo li Statuti di Piacenza, ma anche le Grida e Ordini
pubblicati d’ordine del Serenissimo Principe in questo luogo e sue
pertinenze, e questo sino a nuovo ordine.
Dato nel luogo di Moncasacco Li 26 agosto 1688.

Le carte non ci dicono se seguì una bicchierata con buon vino prodotto a
Moncasacco. Di certo sappiamo, perché lo troviamo scritto, che da
Moncasacco si mosse un corteo formato dal Conte, dai tre gentiluomini
piacentini, dal notaio, dal podestà, dal console, dal savio e da tutti gli uomini
di Moncasacco. Andarono a Pieve di Stadera perché Moncasacco
apparteneva a quella parrocchia: nella chiesa dedicata a San Martino il Conte
ed i Moncasacchesi assistettero alla Messa celebrata dall’arciprete don
Angelo Matteo Casali, dottore in teologia. Questo ci farebbe pensare che
l’oratorio a Moncasacco non fosse ancora stato costruito.
In Francia gli Araldi, dopo la morte del Re, annunciavano al
popolo:”è morto il Re viva il Re”; non sappiamo se a Moncasacco quando
moriva il feudatario si dicesse:” è morto il Conte, viva il Conte”. Quando
morì il conte Ottavio gli successe nel titolo di conte di Moncasacco il figlio
conte Giambattista.
I Moncasacchesi erano, comunque, sempre tenuti a prestare ognuno
le tre giornate di lavoro gratuite al feudatario. Nell’archivio di Stato di
Torino abbiamo trovato questo elenco che trascriviamo:
Nota degli Uomini che devono le Giornate annue al
Feudatario di Moncasacco conte Arcelli:
- Giô. Antonio Chiappino
- Agostino Chiappini della Colomba
- Giô. Bellinzona
- Fratelli Zuffada
- Pellegro Pisani
- Carlo da Piaggio
- Carlo dall’Occhio
- Bartolomeo Faranelli
- Giacomo e Figli Bellinzona
- Giô. Da Piaggio
- Contardo Martinoni e suoi Eredi
- Giô. Calatrone
- Margherita Zuffada
- DomenicaAngela da Piaggio
- Antonio Castagnola
- Angela Maria Bersolotti
- Giô. Maria Molinari
- Carlo Alessi

39
- Antonio Maria Borgognoni
- Giacomo da Piaggio
- Carlo Fasoli
- Francesco Pisano
- Angela Maria Zanarda
- Pietro Borgognoni
1718 29 Julii
datus ordo executionis realis

Gli abitanti di Moncasacco anche se dipendevano direttamente dal


feudatario, che aveva una propria sfera di dominio e di autonomia, facevano
parte del Ducato di Parma e Piacenza e quindi risentivano della vicende
politiche di quello Stato. Furono sudditi dei Farnese fino al 1731 anno in cui
morì l’ultimo duca (Antonio Farnese), poi per breve periodo furono sudditi
dei Borbone. Nel 1731, infatti, era diventato Duca di Parma e Piacenza il
figlio del Re di Spagna: Carlo di Borbone che il 26 marzo 1736 rinunciò al
Ducato per salire sul Trono del Regno di Napoli. Con il Trattato di Vienna
del 1738 il Ducato di Piacenza passò all’Austria, così Moncasacco fu
soggetto agli Austriaci fino al 1743 anno in cui, col Piacentino, passò
sotto i Savoia, Re di Sardegna.

***

A Moncasacco “beghe” per i confini ce ne furono come in un


qualsiasi paese di campagna, ma una fu “bega aulica”81 perchè veniva a
toccare i confini fra gli Stati (il Ducato di Piacenza e l’Oltrepò) ed aveva per
oggetto una contestazione che riguardava il territorio del comune di
Moncasacco.
Nel 1744 l’agrimensore Gerolamo Gatti di Camatta per conto del
Comune di Ruino sosteneva che il confine fra il comune di Ruino (in
Oltrepò) e il comune di Moncasacco (nel Piacentino) non fosse costituito
dal fosso della Raspa, bensì da una linea retta che partiva dal piede della
Croce della Rossarola ed arrivava al termine divisorio dell’imboccatura del
torrente Versa. In questo modo il Comune di Moncasacco veniva a perdere
una quindicina di pertiche. La questione era complicata perché si trattava di
toccare i confini di due Stati: l’Oltrepo (dove si trovava Ruino) e il Ducato
di Piacenza (dove si trovava Moncasacco). In verità l’anno precedente (13
settembre 1743) il trattato di Worms aveva posto sotto la sovranità dei
Savoia82 sia l’Oltrepò Pavese che il Piacentino, ma il Re aveva preferito
tenere i due territori distinti e quindi anche i loro confini.

81 Per la ricostruzione ci siamo avvalsi di documenti rintracciati presso l’Archivio di Stato di


Torino
82 sotto la sovranità dei Savoia erano passati anche la Lomellina e il Marchesato di Finale.

40
In seguito a segnalazione del console di Moncasacco, il marchese Tedaldi,
che era commissario generale dei confini del Piacentino, ordinò
un’ispezione che fu affidata a Giacomo Franco Pisani di Roccapolzona,
ispettore dei confini nel distretto di Tassara e Stadera. Il Pisani si recò a
Moncasacco e interrogò gli uomini del Paese che gli dissero che il confine
fra il Ducato di Piacenza e l’Oltrepò era costituito da sempre dal fosso della
Raspa e che le quindici pertiche che il Gatti voleva attribuire a Ruino (cioè
all’Oltrepò) erano di proprietà enfiteutica del conte Giacomo dal Verme di
Zavattarello, che non aveva mai pagato tasse al Ducato di Piacenza perché
quei terreni da sempre li avevano goduti gli abitanti di Moncasacco. Le
quindici pertiche in discussione confinavano: nel Piacentino con terre di
proprietà della Casa Arcelli e da parte pavese con le proprietà del conte
Giacomo dal Verme di Zavattarello e con dei beni parrocchiali.
La disputa sembrò quietarsi, ma due anni dopo il podestà di Zavattarello
rivendicò per Ruino il possesso delle quindici pertiche.
Il 6 luglio 1746 il marchese Tedaldi, commissario generale dei confini del
piacentino, scriveva da Piacenza a Felice Gazzotti, podestà feudale di
Zavattarello, questa lettera:
Molto illustre Signore,
non mi giunge nuova la controversia territoriale ultimamente insorta fra il
comune di Ruino Pavese, e quello di Moncasacco Piacentino, ma mi è
egualmente noto che alla medesima ha dato nocumento la novità irregolare
innestata dal signor Gerolamo Gatti agrimensore col volere di propria autorità, e
contro ogni ragione mettere mano a tirare linee di confine di Stato, il che non
solo a lui non spetta, ma lo rende colpevole d’uno dei più animosi attentati. I
sudditi dell’una e dell’altra giurisdizione devono restare nei rispettivi loro antichi
possessi senza la minima innovazione e quando dovesse farsi qualche variazione
per alcuna concorrente circostanza che lo richiederebbe per maggior comodo e
quiete dei Paesi finitimi, non sarebbe ciò eseguibile senza un’intima cognizione di
causa, e senza l’ordine superiore del Sovrano. Se la S.V. volesse portarsi sulla
faccia del luogo insieme col Sig. Giacomo Francesco Pisani di Roccapolzana, mio
delegato in quelle parti alla Cura dei Confini, non avrò difficoltà di accordarglielo,
quando Ella si compiaccia di darmene nuovo motivo, prevenendola però, che
non potrò attribuirgli altra facoltà, che di pura e semplice oculare ispezione,
mentre in ordine al concertare, o stabilire alcuna ben minima cosa, ciò resta
riservato alla mia disanima e alle sovrane disposizioni della Corte. Per…83 del più
riservato contegno per la parte di questi sudditi Piacentini, quando lo stesso
venga ugualmente praticato anche per la parte dei Pavesi di che non posso
dubitare, e tutto disposto al di Lei servizio con vera stima mi riaffermo.

***

83 alcune parole incomprensibili

41
Un’altra contesa confinaria Moncasacco la ebbe col Comune di
Canevino. Nell’Archivio di Stato di Torino84 si conserva il « Tipo dimostrativo
delle contese territoriali tra Canevino e Moncasacco colla relazione alli Numeri delle
Mappe di detti territori di Canevino, Volpara». Canevino rivendicava alcuni
terreni (pertiche 263 e tavole 13) che erano quasi tutti (n°. 632, 639, 640,
641) di proprietà del conte Anguissola, mentre 6 pertiche e 23 tavole (n°.
633) erano del signor Andrea Dappiagio.
Non erano certamente tempi tranquilli perché si era in piena guerra:
la guerra di successione austriaca. Nel 1747 i Moncasacchesi avranno
senz’altro visto, con qualche apprensione, il fumo che saliva dal castello di
Zavattarello: l’incendio era stato appiccato dalle truppe franco-liguri, al
comando del generale Lintz85.

XI.- MONCASACCO TERRA DEL REGNO DI SARDEGNA DAL


1743

Il trattato di Aquisgrana (1748), che pose termine alla guerra di


successione austriaca, stabilì che i Savoia dovessero cedere il Piacentino che
ritornò Ducato autonomo sotto la guida di Filippo di Borbone, figlio del Re
Filippo V di Spagna e di Elisabetta Farnese.
Moncasacco, benché storicamente e geograficamente appartenesse al
Piacentino, fu lasciato sotto la giurisdizione dei Savoia (Regno di Sardegna)
con un confine col Ducato di Parma e Piacenza che a sud lo lambiva a
pochi metri dell’abitato. Sempre terra di confine rimase! Prima del 1748
Moncasacco facendo parte del Ducato di Parma e Piacenza aveva il confine
di Stato (fra il Ducato e l’Oltrepò austriaco) a nord del paese. In una sua
relazione86 l’ingegnere Giovanni d’Aponte definì “il luogo di Moncasacco, terra
smembrata dallo stato piacentino “.
Fra il 1763 e il 1764 gli ingegneri del Regno di Sardegna da una parte
e gli ingegneri del Ducato di Parma dall’altra prepararono la Carta
Topografica della frontiera fra i due Stati, che fu ufficialmente “concordata
e sottoscritta”87 il 26 luglio 1764. Con diversa colorazione sulla carta gli
ingegneri dei due Stati avevano indicato i “siti controversi”. S.M. Carlo
Emanuele III, Re di Sardegna, e S.A.R. Filippo di Borbone, Duca di Parma,
decisero di affidare a una Commissione il compito di

84 A.S.T., fondo “confini col Piacentino”.


85 CARLO ROMAGNESE ed ELENA ANELLI, Il castello di Zavattarello, stampato sotto il
patrocinio del comune di Zavattarello (Copiano, 2000).
86 relazione del 1 luglio 1767 in Archivio di Stato di Torino.
87 Regolamento dei Confini stabilito tra le Corti di Torino e di Parma li 10 marzo 1766, Stampato a Torino

nel 1766 nella Stamperia Reale. In A.d.c.C. si conserva la fotocopia integrale del regolamento.

42
fissare un regolamento dei confini che fosse di reciproca soddisfazione delle Due
Corti…e con un sodo stabilimento de’ Limiti radicalmente togliere le occasioni di
dispute sempre contrarie al buon vicinato e alla quiete de rispettivi Sudditi.

Sua Maestà il Re di Sardegna delegò a rappresentarlo nella Commissione


(il) Barone Giò. Giuseppe Foucet di Montallieur, Signore de la Tour, Presidente e
Sopraintendente dei Reali Archivi, e Giuseppe Francesco Girolamo Perret, conte
di Hauteville, Signore di Trauz, e de la Batie, Regio Intendente delle Provincie
Pavese Oltrepò, Siccomario e Bobbiese.

Sua Altezza Reale l’Infante Duca di Parma, Piacenza e Guastalla designò


quali suoi Commissari
(il) marchese Gioseffo Domizio Tedaldi marchese d’Ancarano, Commissario
Generale de’ Confini, e (il) conte Gioseffo Pompeo conte Sacco, e (il) Regio
Avvocato Fiscale Giambatista Antonio Riga.

La Commissione decise di riunirsi a Stradella (che faceva parte degli Stati


Sardi) perché era la località più vicina ai luoghi in contestazione, il che
permetteva di poter fare più facilmente, se necessario, dei sopralluoghi. La
Regolamentazione dei Confini richiese delle “opportune conferenze” sopra
tutti gli oggetti in contestazione, trovato un accordo, fu stesa una bozza del
Regolamento che sottoposero alle rispettive Corti che autorizzarono i
Commissari a firmare il Regolamento. La firma avvenne a Stradella il 10
marzo 1766: ogni Commissario vi appose la sua firma e il sigillo col proprio
stemma.
Per essere esecutivo il Regolamento richiese la ratifica dei due Sovrani88: lo
scambio degli strumenti di ratifica fu fatto a Torino come prevedeva
l’articolo XXI del Regolamento.
Non possiamo parlare di tutta la Regolamentazione del confine fra
Regno di Sardegna e Ducato di Parma, tratteremo invece di quella parte che
riguarda da vicino Moncasacco.
L’articolo VII del Regolamento recitava:
Dalla croce, e termine della Rossarola resta convenuto, che la limitazione
traverserà il territorio di Moncasacco fino alla Croce della Rossella secondo la
linea verde nuovamente tirata sopra a detta Carta concordata, a tenore della quale
la strada, che dopo la Croce della Rossella ritorna fino all’angolo di quella, che
viene da Stadera al Villaggio di Moncasacco, sarà comune e divisoria per metà; e
quanto all’altre parte della medesima strada, che da detto angolo saranno
limitrofe fino alla Croce della Rossarola, resteranno per intero della Sovranità di
S.M.89, e, mediante questa nuova linea di divisione, la parte settentrionale del
Contado, e territorio di Moncasacco col sito, che formava un oggetto di

88 Il Re di Sardegna lo ratificò il 31 marzo 1766.


89 Cioè del Re di Sardegna.

43
contestazione tra questo medesimo territorio, e quello di Canevino, apparteranno
alla medesima S.M.

Moncasacco aveva il confine di Stato sotto casa, cosicchè i suoi abitanti


coltivavano i campi sia nel Regno Sardo (dove c’era il paese) che nel Ducato
di Parma. Per un Moncasacchese, che era suddito del Re di Sardegna, andare
a coltivare la proprio terra, che si trovava negli Stati parmensi, voleva dire
“espatriare”. Per ovviare a questo l’articolo XX del Regolamento permise ai
Moncasacchesi di godere dei loro beni che si trovavano nel Ducato di
Parma “con libertà di estrarne i frutti “ e di trasportarli attraverso il confine di
Stato

senz’essere soggetti al pagamento di alcun diritto per questo riguardo, una


soltanto le precauzioni necessarie per prevenire gli abusi.

Un chiaro riferimento allo “abuso” che equivaleva a dire “contrabbando”.


I Moncasacchesi espatriavano non solo quando dovevano lavorare i
loro campi posti verso la Val Tidone, ma anche da morti perché il cimitero
era a Pieve di Stadera nelle vicinanze della Chiesa che era sede della
parrocchia da cui Moncasacco dipendeva. Il paese amministrativamente
faceva parte del Regno di Sardegna, e religiosamente dipendeva dalla
Diocesi di Piacenza che era nel Ducato di Parma e Piacenza.
L’articolo XXI del Regolamento stabiliva che

si procederà alla piantumazione de’ termini necessari per far constare dalla
divisione delli due Stati nell’estensione della nuova ed antica linea de’ confini, e se
ne farà processo verbale, colla formazione di una Carta di limitazione.

Fino al 1975 circa almeno tre di questi termini erano ben visibili nell’isola di
Moncasacco: ora l’unico ben visibile si trova nelle vicinanze di Canova sulla
destra, dopo il cimitero, venendo da Moncasacco.

***
Nell’ancien règime vigeva un sistema di governo complesso:
governavano, nel caso di Moncasacco, i Savoia con la loro burocrazia e un
qualche potere lo avevano i feudatari : i conti Arcelli, che sebbene abitassero
in altro Stato (a Piacenza) mantennero i loro diritti feudali come prevedeva
l’articolo XIX del Regolamento sottoscritto a Stradella nel marzo 1767.
Conti di Moncasacco furono nel Regno sardo: Giambattista Arcelli (1727-
1792) e Carlo Arcelli (dal 1792). Il 7 aprile 1770 Re Carlo Emanuele III
aveva emanato nuove “Regie Costituzioni 90“ che obbligavano i Feudatari a

90 il testo si può leggere in CARLO MISTRUZZI di FRISINGA, Trattato di Diritto Nobiliare


Italiano, dott. A. Giuffrè Editore (Milano, 1961), volume primo.

44
presentare i documenti che legittimavano il possesso del feudo. Gli Arcelli
consegnarono la copia dell’atto di investitura del feudo all’Intendenza
dell’Oltrepò che aveva sede a Voghera. La documentazione fu trasmessa a
Torino dall’Intendenza. Con lettera firmata Cappa, datata Torino 31 luglio
1771, e indirizzata a Voghera all’intendente conte d’Hautville si diceva:
Ho ricevuto col compitissimo foglio di V.S. Ill.ma la desiderata notizia del
Feudatario di Moncasacco unitamente all’Atto d’Infeudazione, quale ho l’onore
qui compiegato restituirle senza averne nemmeno fatta fare la Copia in vista, che
rilevo dal precitato suo foglio, che V.S. Ill.ma è in disposizione di farlo passare
quanto prima unitamente ad altri titoli agli Archivi di Corte e sensibile alla di Lei
attenzione ho l’onore di dichiararmi con tutto il rispetto. Di V.S. Ill.ma Div.mo
Obb.mo Ser.e”

Probabilmente l’Hauteville presentò agli Archivi di Corte la


documentazione infatti il barone Antonio Manno ci riferisce che
Giambattista Arcelli, conte di Moncasacco, nel 1778 figurava nel
“Titolario”91.
Nel 1766 l’Ufficio del Censo inviò a Moncasacco l’ingegnere
Giovanni D’Aponte che fece la misurazione dell’intero territorio di
Moncasacco. Il 16 settembre il D’Aponte si recò a Moncasacco e
avvalendosi delle indicazioni del moncasacchese Giuseppe Dalochio
cominciò a tracciare la mappa del comune di Moncasacco. I rilevamenti
durarono una quarantina di giorni cioè fino al 31 ottobre 1766. Gerardo
Conti copiò la mappa su tre fogli che attualmente (2001) sono conservati
nell’Archivio di Stato di Torino. Scorrendo la mappa rileviamo che il
confine di Stato (Ducato di Parma- Stati Sardi) era compreso fra la croce
della Rossarola (termine n. 61) e la croce della Rossella (termine n. 69).
Lungo questo confine vi era una strada che, nella mappa, dalla Rossella a
Moncasacco venne indicata come “Strada che dal Piacentino tende a Moncasacco”
e da Moncasacco alla Rossarola come “Strada pubblica che da Moncasacco tende
ai feudi vermeschi e oltre”. Sempre dalla mappa rileviamo che nel 1766
Moncasacco era esteso come oggi, Canova era costituito solamente da
quattro fabbricati, non esistevano né la Mostarina di Sotto né la Mostarina
di Sopra.
***
Il governo piemontese dimostrò di interessarsi ai problemi concreti
del territorio che da poco era sotto la sua giurisdizione. Un esempio di
solerzia piemontese ci è fornito dalla tempestività con cui il governo del Re
(regnava allora Carlo Emanuele III) si occupò di una frana che minacciava

91 dal libro di ANTONIO MANNO, Il Patriziato Subalpino, Stabilimento Giuseppe Civelli


(Firenze, 1906), volume II (Dizionario genealogico: A-B), pag. 75.

45
la strada che portava a Moncasacco92. Le piogge dell’aprile 1767 avevano
creato guai alla viabilità tanto da allarmare il Comandante del Cordone
Militare93 che inviò una memoria alla Segreteria di Guerra con cui avvisava
di una certa rovina seguita sulla strada confinante collo Stato Piacentino nel
territorio di Moncasacco fra i termini 61 e 62 della nuova limitazione stabilita fra i
due Stati.

Nel maggio 1767 la memoria del Comandante del Cordone Militare fu


trasmessa dalla Segreteria di Guerra alla Segreteria di Stato che la sottopose
al parere del Re che ordinò personalmente al conte d’Hauteville, intendente
della provincia dell’Oltrepò che si trovava a Torino per conferire, di

far fare per mezzo di un ingegnere la ricognizione di detta rovina e dello stato
della strada, con farne rilevare l’opportuno disegno accompagnato di tutte quelle
informazioni di fatto, che potessero mettere la M.S.94 in grado di dare le sue
determinazioni circa l’oggetto.

Il conte d’Hauteville, appena giunto a Voghera, convocò l’ingegnere


D’Aponte, che conosceva bene il territorio di Moncasacco perché l’anno
precedente aveva fatte le misurazioni per conto dell’Ufficio del Censo.
L’ingegnere si recò subito a Moncasacco, prese visione della frana e il 1°
luglio 1767 sottoscrisse la sua relazione95 per l’Intendente dell’Oltrepo che
intitolò “Relazione sovra la libbia96, o sia valanca nel Territorio di Moncasacco nella
strada esistente tra i termini 61 e 62 tutto di ragione del dominio di Sua Maestà”. Si
trattava di una frana che già l’anno precedente esisteva e che nelle sue
rilevazioni catastali l’ingegnere aveva censita e disegnata sulla mappa al n.
53, frana che lambiva i fondi n. 54, 55, 59, 60 e continuava la sua discesa
fino al fondo della confluenza di due Riali, a forma di cuneo, i quali dividono i tre
confini, questo di Moncasacco, Ruino, Clanevino97, verso dove la suddetta libbia
ha il suo motto discendente mettendo sopra i fondi il terreno, le ripe , e li
macigni, formando una catastrofe d’irregolarissime alture, a guisa di tanti
monticelli con lunghe e larghe aperture, o fessure, sorgendo eziandio l’acqua in
più luoghi ripieni, originati dalla stessa libbia a guisa di piccoli laghetti.

L’ingegnere trovò che la strada (Strada Regia ) che portava a Moncasacco,


all’altezza della frana, dall’anno precedente era peggiorata, tanto che i

92 ricostruzione fatta con documenti che si trovano in A.S.T. (fondo” Confini verso il
Piacentino”).
93 Il Cordone Militare era un rafforzamento di truppe che avevano il compito di sorvegliare la

frontiera.
94 la sigla va letta “Maestà Sua”.
95 Datata 1 luglio 1767 scritta fitta in tre facciate. Si trova nell’Archivio di Stato di Torino.
96 Voce antica per frana.
97 Canevino

46
viaggiatori erano costretti, per passare, a sconfinare nel Ducato di Piacenza
ed avevano creato un sentiero che permetteva, a loro e agli animali, di
superare la strada franata. Per porvi rimedio l’ingegnere escludeva la
costruzione di muri o palificate, costosi e, per la natura franosa del terreno,
inutili. Proponeva di tenere buono il tratto della strada spianandola e
facendola
ingiarare con pietre e scaglie in buona forma che nel paese non sono scarse la
quale con tutta diligenza va in ogni bisogno riparata e mantenuta, con nuovi
ingiaramenti, espianamenti, a misura che la libbia la rimovesse, senza mai inoltrar
gli spianamenti verso il Piacentino, già che si ha il luogo di poterla sbassare
quanto si vuole, che sarà sempre men male che dilatarsi oltre lo Stato. In questo
modo è facile abolire l’accennato sentiero, poiché essendo conveniente la strada
gli stessi possessori de’ fondi della parte del Piacentino, che sono campi e vigne si
difenderebbero dal danno con impedirne il passo.

Avuta la relazione dell’ingegnere D’Aponte l’intendente conte d’Hauteville il


1 agosto 1767 da Voghera la spedì a Torino alla Segreteria di Stato
indirizzandola a monsieur Bruel pregandolo di fargli sapere le
determinazioni del Re
particolarmente sul modo di contenermi nel far riparare la detta strada, ed evitare,
o togliere qualunque pregiudizio che dalla rovina di essa potesse risultare alla
Regia Giurisdizione.

Il 12 agosto il Bruel scriveva al conte d’Hauteville comunicandogli gli ordini


di Sua Maestà che voleva che si facessero le riparazioni proposte
dall’ingegnere d’Aponte. Il 14 agosto l’Hauteville scriveva al Bruel
assicurandolo che
mi farò in dovere di dare le disposizioni opportune per l’esecuzione delle
riparazioni proposte dal sig. ingegnere D’Aponte.

Dalla relazione dell’ingegnere possiamo ricavare altri dati importanti sulla


viabilità nelle vicinanze di Moncasacco. Lasciamo la parola all’ingegnere
D’Aponte:
Ho esaminato il rimanente della strada di questo territorio confinante al
Piacentino, ed i rispettivi termini i quali sono tutti al loro posto. E sebbene
questa, anch’essa è molto cattiva all’inverno per la gran fanga, nulla meno è
soggetta a pericolo di Libbia. In tal stagione si fanno da condottieri molti sentieri
trasversali per evitare il fango, espressamente massime ne boschi della Cascina
Nova98, ch’è sullo Stato99, e parte di quelli della Rossella100 Piacentino, i quali non

98 l’attuale Canova.
99 Piemonte
100 Cascina sopra Canova attualmente è in territorio del comune di Nibbiano.

47
credo di conseguenza poiché nella buona stagione si riprende la strada grossa
perché più comoda, né soggetta a fessure o libbie: oltre di che qui la strada è
divisoria fra gli Stati .

La “grande fanga” contribuiva ad isolare Moncasacco e i suoi abitanti. Oggi


pensiamo alla strada Stradella-Pometo-Romagnese come un’arteria asfaltata,
ma allora era poco più di una mulattiera che si percorreva a fatica.
Moncasacco era luogo di passaggio “clandestino” del sale che
arrivava dalla Liguria. I contrabbandieri lo portavano in Val Versa e di lì
nella Lombardia governata dagli Austriaci. Sotto il Regno di Carlo
Emanuele III di Savoia vi fu una forte repressione del contrabbando101.
Qui vogliamo dissentire con coloro che scrivendo delle storie locali
danno un’idea idilliaca delle condizioni di vita dei nostri antenati. Non ce la
sentiamo di trasformare le case degli abitanti di Moncasacco in regge perché
non lo erano. Si soffriva il freddo (per ripararsi si passavano le serate nelle
stalle), la fame, l’analfabetismo, le malattie (basti pensare alla alta mortalità
infantile) regnavano sovrane: i pochi risparmi venivano presi dal feudatario
e dal governo centrale
Mentre nel 1537 i Moncasacchesi proprietari di terreni nel vicino
comune di Canevino erano sette, in un Summarione datato 27 luglio 1785,
conservato nell’Archivio di Stato di Torino, vi figurano solo gli “Eredi di F.co
d’Appiaggi da Mongasacco Piacentino ” che possedevano 8 pertiche e tavole 18
per un valore di 7 scudi e ottavi 5.
Con manifesto senatorio102 del 29 agosto 1789 il Regno Sardo per
“agevolare le assise dei Giudici” aveva suddiviso in Cantoni il territorio delle
Province di Novara, Pallanza, Tortona, Voghera e Vigevano. Il comune di
Moncasacco fu assegnato al primo Cantone (quello di Voghera), mentre i
paesi vicini (Zavattarello, Ruino, Trebecco, Caminata) fecero parte del
secondo Cantone.
Con editto del 7 marzo 1797 Re Carlo Emanuele IV di Savoia, sotto
la spinta delle idee rivoluzionarie francesi, abolì negli Stati Sardi la feudalità.
Questo provvedimento avrebbe dovuto liberare gli uomini di Moncasacco
dall’obbligo di prestare (gratis) ognuno tre giornate di lavoro all’anno in
favore del feudatario, ma gli eventi bellici ne impedirono l’attuazione. Sarà
Napoleone a farlo:
il 27 giugno 1797, con una sua lettera diretta al cittadino Faypoult, inviatogli dal
Direttorio di Parigi, decretava che i diritti feudali erano aboliti e dava disposizioni

101 CORNELIO MORARI e DANIELA BOTTO, Voghera e l’Oltrepo Pavese, Edibooks (Milano,
1994), pagg. 202-203.
102 Il testo integrale del Manifesto lo si può trovare nella “ raccolta delle leggi 1681-1798” curata da

F.A. Duboin, tomo III, (Torino, 1826).

48
per un proclama ufficiale allo scopo. Il feudalesimo fu dunque soppresso in
Oltrepò’103.

XII.- MONCASACCO TERRA DELL’IMPERO FRANCESE, POI


NUOVAMENTE DEL REGNO DI SARDEGNA

Le truppe napoleoniche conquistarono l’Italia. Moncasacco dal 1802


al 1814 divenne parte integrante della Repubblica Francese che nel 1804 si
trasformò nell’Impero Francese. Ve li immaginate i Moncasacchesi alle
prese col francese perché gli atti pubblici dovevano essere redatti in quella
lingua!
Amministrativamente Moncasacco faceva parte del circondario
(arrondissement) di Bobbio che dipendeva dal dipartimento di Marengo. Il 15
giugno 1805 il circondario di Bobbio (Moncasacco ne seguì le sorti) fu
staccato dal dipartimento di Marengo e aggregato al dipartimento di
Genova104 sempre nell’ambito dell’Impero Francese.
L’aggregazione a Genova fu la goccia che fece traboccare il vaso: vi fu una
rivolta di contadini, ma ignoriamo se qualche Moncasacchese vi abbia
partecipato. Il 6 dicembre 1805 l’insurrezione era scoppiata a Castel San
Giovanni e si propagò nelle Valli del Tidone e del Trebbia105.
Napoleone soppresse i piccoli Comuni, provvedimento che colpì
anche Moncasacco, che si trovò retrocesso al ruolo di frazione.
Caduto Napoleone, Moncasacco ritornò nel 1814 ad essere paese
degli Stati Sardi, sotto la Real Casa di Savoia, come frazione del Comune di
Caminata nel mandamento di Zavattarello che faceva parte della provincia
di Bobbio nell’ambito della divisione di Genova. Oltre a Caminata, facevano
parte del mandamento di Zavattarello: Fortunago, Ruino, S. Albano,
Trebecco, Valverde. Il comune di Canevino, che confinava con Moncasacco
era invece in provincia di Voghera.
Venne ripristinato anche il confine di Stato col ricostituito Ducato di
Parma e Piacenza: confine identico a quello fissato nel 1766 che a sud
lambiva l’abitato di Moncasacco. Il Congresso di Vienna assegnò il Ducato
di Parma, Piacenza e Guastalla a Maria Luisa d’Austria moglie di
Napoleone. I Moncasacchesi che avevano terreni nel Ducato, cioè quei

103
FABRIZIO BERNINI, Quando Napoleone pranzò a Broni, articolo in “Il Popolo” del 27 gennaio
2000.
104 Facevano parte del dipartimento di Genova gli arrondissements (circondari) di Novi,
Tortona, Voghera e Bobbio.
105 V. PALTRINIERI, I moti contro Napoleone negli Stati di Parma e Piacenza (1805-1806), (Bologna,

1927)- FRANCESCO LEONI, Storia della controrivoluzione in Italia (1788-1959), Guida Editori
(Napoli, 1975), pagg. 37-40.

49
terreni che si affacciano sulla Val Tidone, quando espatriavano per andare a
lavorarli dicevano: «vo’ né lla Maria Luisa».
Movimenti di truppe lungo il confine ce n’erano spesso: ora per
reprimere il contrabbando, ora per evitare ingressi non desiderati. Nel
settembre 1831 lungo il confine le autorità piemontesi rafforzarono la
sorveglianza nel timore di un espatrio di agitatori carbonari provenienti dal
Ducato di Parma e Piacenza106.
I Moncasacchesi i loro prodotti li vendevano nei mercati che si
tenevano nei paesi vicini. Di questi mercati scriveva nella prima metà
dell’ottocento Lorenzo Molossi:
Pianello…è floridissimo il mercato di bestiame, granaglie, polli, frutte, cuoi ed
altro che si tiene ogni mercoledì, al quale concorrono circa 3.000 persone dalla
bella e popolosa vallata del Tidone, ed anche dal Pavese. Vi si tiene pure una fiera
negli ultimi lunedì, martedì e mercoledì di agosto (decreto 9 agosto 1827)107.

Nibbiano…al tempo del governo francese108 era un mercato fiorente, ma oggi109


è ridotto a poco per cagione delle gabelle piemontesi. Il lunedì dopo la 3ª
domenica d’agosto vi si fa pure110 una piccola fiera di bestiame111

I Moncasacchesi, che acquistavano beni sia a Pianello che a Nibbiano,


sarebbero dovuti passare con i loro acquisti da Caminata, dove vi era la
ricevitoria di Dogana sarda112 per pagare la “gabella”, ma…ogni buon
Moncasacchese sarà andato a casa per sentieri. Sfidiamo il lettore a
dimostrarci il contrario!
Senza dover attraversare la frontiera i Moncasacchesi potevano andarsene,
sempre a piedi, a Zavattarello dove il mercato di bestiame e merci si teneva
il mercoledì di ogni settimana113. Vi era poi il mercato di Santa Maria della
Versa la cui esistenza venne ufficializzata da Re Vittorio Emanuele II, con
decreto 23 marzo 1853, che autorizzò
a stabilire un mercato da tenersi nella borgata di Santa Maria della Versa nel

106 G. BARUFFI e C. LANATI, S. Maria della Versa ed il suo territorio, Luigi Ponzio e Figlio (Pavia,
1994), pg. 254.
107 LORENZO MOLOSSI, Vocabolario Topografico dei Ducati di Parma, Piacenza, Guastalla, edito a

Parma nel 1832 dalla Tipografia Ducale, pag. 408.


108 Anni 1800-1814.
109 Anno 1832.
110 Ancor oggi (anno 2001).
111 MOLOSSI, op. cit., pag. 237.
112 La Ricevitoria di dogana del Ducato di Parma-Piacenza era Nibbiano.
113 Il mercato, su richiesta dei conti dal Verme, era stato autorizzato dal governo spagnolo con

rescritto datato da Madrid il 4 dicembre 1649.

50
sabato di ogni settimana, ed una fiera pure da tenersi nella stessa borgata nel
lunedì immediatamente successivo al giorno sedici luglio di ogni anno114.

Il mestiere di vivere a Moncasacco era reso difficile anche dalle


epidemie che colpirono la regione: nel 1817 si era visto il tifo petecchiale, il
colera si era affacciato negli anni 1836, 1837 e 1855.
Nel 1844 moriva a Piacenza il conte Carlo Arcelli che fu l’ultimo
conte di Moncasacco perché non aveva eredi maschi. L’evento aveva
solamente un risvolto araldico perché con l’abolizione del feudalesimo
(1797) i conti Arcelli non esercitarono più alcuna signoria su Moncasacco.
Tre soli furono i conti di Moncasacco: Ottavio Arcelli dal 1687 al
1727; Giambattista Arcelli dal 1727 al 1792 e Carlo Arcelli dal 1792 al 1844.
Con legge 19 luglio 1857, n. 2320 i Comuni del circondario di Bobbio
ebbero una riduzione del canone gabellario di lire 14 mila che si traduceva
per Caminata in lire 248 e centesimi 27 e… per l’isola di Moncasacco nella
classica castagna “bausciata”!

XIII.- MONCASACCO PASSA ALLA PROVINCIA DI PAVIA (1859-


1923)

Nella imminenza della seconda guerra di indipendenza (1859)


Moncasacco, come terra di confine vide movimenti di truppe. Una traccia di
questi eserciti “forse” è rimasta. Nel 1975 dove ora sorge “la Malmostosa”
fu ritrovato un acciarino che un esperto (dottore Luciano Selvatici) affermò
appartenere a fucile militare
di modello francese e più precisamente quello modello 1842 che fu usato da
molti eserciti. Visto il luogo di ritrovamento i candidati più probabili sono il
Regno di Sardegna (al quale Moncasacco apparteneva) o il Ducato di Parma col
quale Moncasacco confinava115
.
Probabilmente l’acciarino ritrovato nel 1975 apparteneva a un fucile che
qualche soldato aveva abbandonato e che qualche Moncasacchese occultò.
Sempre nel terreno dove sorge “La Malmostosa” fu ritrovato nel
novembre 1998 un concreto ferroso che “sembrerebbe” appartenere a un
crogiolo del periodo romano o antecedente (forse dei Liguri?). Ricerche
fatte con apparecchio cerca metalli non hanno dato esiti positivi.
Il Piemonte invase nel 1859 il Ducato di Parma, che fu annesso al
Regno Sardo in seguito a un plebiscito ben orchestrato (63.167 voti
114G. Baruffi e C. Lanati, S. Maria della Versa ed il suo territorio, Luigi Ponzio e figlio Editori (Pavia,
1994), pg. 254.
115 Lettera del 14 gennaio 1988 del dottore Luciano Selvatici al dottore in medicina Carlo

Alfredo Clerici.

51
favorevoli contro 504 “no”) Questa annessione qualche riflesso l’ebbe:
dopo secoli Moncasacco non fu più terra di confine fra Stati.
Amministrativamente Moncasacco frazione del comune di Caminata,
circondario di Bobbio, fu aggregato alla provincia di Pavia.
A Bobbio i giovani Moncasacchesi andavano a fare la visita di leva.
Era una “impresa” che durò fin quasi ai tempi della seconda guerra
mondiale. A piedi i coscritti andavano a Bobbio attraverso la montagna.
Impiegavano un giorno e mezzo ad andare ed altrettanto tempo a tornare.
Se dichiarati abili i Moncasacchesi erano soggetti al servizio militare che dal
1861 al 1875 era di otto anni; ridotto a tre dal 1875 al 1887 e a due dal 1888
in poi. Indubbiamente il servizio militare era un “balzello” molto gravoso
che toglieva braccia preziose alle famiglie. Unico elemento positivo era
costituito dal fatto che i Moncasacchesi potevano “vedere” luoghi diversi
dalla Val Versa e dalla Val Tidone. Certamente ne avrebbero fatto a meno!
Anche il nuovo Regno d’Italia, che era stato proclamato a Torino nel
1861, non fu foriero di grandi progressi sociali. Osservava giustamente
Giovanni Spadolini116
Il Risorgimento politico della Nazione italiana non coincise con il Risorgimento
sociale del suo popolo.

Per secoli a Moncasacco si arrivava per strade fangose, mulattiere e sentieri


e questo costituiva un isolamento molto pesante, ma qualcosa col nuovo
Regno cominciava a muoversi. Nel 1867 iniziarono i lavori dell’importante
arteria, che dopo alcuni anni di lavoro fatto di piccone e di pala, congiunse
Stradella a Zavattarello.
Nel triennio 1896-98 il Moncasacchese che scendeva a piedi a Santa
Maria della Versa trovava un servizio di tram a cavalli col quale andava a
Stradella dove poteva prendere il treno per Alessandria (il tratto era in
funzione dal 1858) oppure il tram per Voghera (in funzione dal 1883).
Per Moncasacco furono anni ancora duri: ci si muoveva a piedi per
strade piene di fango, si lavorava la poca terra con il vanghetto e l’aiuto dei
buoi. Anche lo Stato con nuove tasse contribuiva a rendere difficile la vita.
Dal 1° gennaio 1869 fino al 1884, in forza della legge 7 luglio 1868, i
Moncasacchesi dovevano pagare una tassa sulla macinazione dei cereali che
versavano nelle mani del mugnaio prima del ritiro della farina. Solitamente si
servivano di mulini posti lungo il Tidone e la Versa (Molino dei Fondi,
Molino Garbarini, Molino Montà, ecc.). Il mulino era luogo d’incontro: mentre si
aspettava il proprio turno per macinare si chiacchierava, si scambiavano idee
e spesso si concludevano affari117.
116GIOVANNI SPADOLINI, Lotta sociale in Italia, Firenze 1948, pg. 14.
117MATTIA TANZI, L’ultimo mulino d’Oltrepo’ rischia la scomparsa, articolo in “Il Popolo” del 22
febbraio 2001.

52
Nel 1879 arrivò l’infezione della peronospera. Ci vorranno dieci anni
per debellarla spruzzando sulle viti, con una pompa a pressione azionata a
mano, una miscela di solfato di rame e calce.
Negli anni 1867 e 1886 fece la sua comparsa il colera. Raramente
arrivava il medico condotto, il più delle volte si ricorreva a qualche
“medicone” che conosceva le proprietà delle erbe medicinali. Fra questi
ricordiamo don Giovanni Guasone, prevosto di Canevino dal 1873 al 1908,
che aveva
fama di medico, ordinava erbe e unguenti e una quantità di ammalati si recavano
da lui118.

La lontananza dei mercati rendeva difficile vendere “vantaggiosamente” i


prodotti della terra. Qualche utilità la portò la costituzione, nel 1905, della
Cantina Sociale di Santa Maria della Versa119. Si ebbe nella Val Versa una
trasformazione del paesaggio agricolo: ci si indirizzò verso la monocultura
(cioè la vite) perché grazie alla Cantina Sociale era possibile vendere
“equamente” il prodotto.
Lo scoppio della prima guerra mondiale vide partire alcuni
Moncasacchesi per il fronte. Giuseppe Quadrelli fece la guerra fra gli Arditi, in
un reparto d’assalto cui erano affidate operazioni particolarmente rischiose.
Al ritorno il mutilato Varini, con i soldi dell’assicurazione che spettava ad
ogni soldato ferito in zona di guerra, si costruì in Moncasacco alta una
torretta in pietra a tre piani che pericolante venne demolita intorno al 1980.

XIV MONCASACCO RIDIVENTA PIACENTINO NEL 1923 e


RITORNA PAVESE NEL 1938

Il dopoguerra fu movimentato dallo scontro fra “rossi” e “fascisti”


che culminò il 28 ottobre 1922 con la marcia su Roma.
Nonostante tutto la civiltà avanzava: alla fine degli anni venti il
Moncasacchese aveva la possibilità di farsi a piedi una decina di chilometri e
poteva trovare a Nibbiano o a Santa Maria un tram che lo portava a Castel
San Giovanni o a Stradella.
Una concreta occasione di lavoro per gli abitanti di Moncasacco
(come per quelli di Ruino, Zavattarello, Caminata, ecc.) fu la costruzione

118 Dalla Cronistoria della Parrocchia di Canevino scritta dal prevosto don Antonio Grassi e
pubblicata nel libro di GIUSEPPE MODICA e FABRIZIO BERNINI, Canevino terra dell’Alta
Val Versa, a cura del comune di Canevino (Broni, 1988), pg. 157.
119 GIORGIO CASELLA, Le cantine sociali nell’Oltrepo. Origini e primi sviluppi, articolo in Bollettino

della Società Pavese di Storia Patria (1974-76), pagg. 231-257.

53
della diga che ha dato origine al lago di Molato120. Il 21 marzo 1917 era stato
costituito il “Consorzio di irrigazione della Val Tidone” che incaricò l’ingegnere
Augusto Ballerio di fare il progetto per una diga che doveva sbarrare il
Tidone a 250 metri a monte della confluenza del torrente Molato. Il 15
giugno 1923 Benito Mussolini, presidente del Consiglio dei Ministri, venne
ad inaugurare i lavori della diga che durarono per sei anni. Il lavoro di scavo
e la gettata in calcestruzzo121 furono fatti a mano da lavoratori che venivano
dalla Val Tidone e… anche da Moncasacco. Costruirono una diga, che
poteva trattenere 12 milioni di metri cubi d’acqua, di
un’altezza di 48 metri dal piano dell’alveo a valle; la parte centrale con struttura
ad archi multipli, consta di 17 volte in calcestruzzo armato che scaricano su 16
speroni intermedi e, alle estremità, su tronchi di diga a gravità massiccia122.

Nel maggio 1929 la diga fu inaugurata alla presenza del Principe


Ereditario: S.A.R. il Principe Umberto di Savoia giunse accompagnato dal
suo primo aiutante di campo: il generale Ambrogio Clerici, un pavese nativo
di Costa de’ Nobili.
Il Regio decreto 8 luglio 1923, n. 1726, pubblicato nella Gazzetta
Ufficiale del 17 agosto 1923, soppresse la circoscrizione circondariale di
Bobbio assegnando i Comuni, che ne facevano parte, alcuni alla provincia di
Genova, altri a quella di Piacenza, altri lasciandoli a quella di Pavia.
I comuni di Caminata (e quindi Moncasacco), Ottone, Cerignale, Zerba,
Corte Brugnatella, Bobbio, Romagnese, Zavattarello, Trebecco e Ruino
furono aggregati alla Provincia di Piacenza ed assegnati al primo
circondario. Vi furono dei malumori, ma la goccia che fece traboccare il
vaso fu la pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale del Regno (n. 113 del 15
maggio 1925) del Regio Decreto del 2 aprile 1925 che istituiva la
circoscrizione di Bobbio aggregandola alla provincia di Piacenza. Nel
decreto si leggeva:
E’ istituita la circoscrizione circondariale di Bobbio con i comuni di Bobbio,
Caminata, Cerignale, Coli, Corte Brugnatella, Ottone, Pecorara, Romagnese,
Ruino, Trebecco, Zavattarello e Zerba.

Scoppiò nella Alta Val Tidone una piccola rivoluzione123 che durò dal luglio
1925 al dicembre 1926. Il ponte di legno (ora è in muratura) della strada
120 ANTONIO e MARCO ZAVATTARELLI, La diga di Molato, Trebecco, la Madonna della
Torrazza, edizioni Pontegobbo (Fidenza, 1995).
121 Una cementiera fu impiantata poco fuori il paese di Caminata e ancora nell’anno 2001 se ne

vedono gli anti-estetici resti.


122 ZAVATTARELLI, op. cit., pg. 20.
123 CARLO ALBERTO FACCHINO, ANTONIO TRAZI, ENRICO BALDAZZI, Zavattarello-

pagine di storia e di vita, stampato a cura dell’Associazione Amici di Zavattarello- Pro Loco (Pavia,
1972) pgg. 103-114.

54
Zavattarello-Caminata una notte venne bruciato. La linea telefonica con
Piacenza fu più volte interrotta perché i pali di sostegno furono segati o fatti
saltare con la dinamite. Nel dicembre 1925 più di mille uomini della
Valtidone marciarono su Bobbio, allora sede di una sottoprefettura. In
seguito a questo episodio il Governo di Roma il 27 febbraio 1926 indisse un
Referendum: la maggioranza votò per il ritorno alla provincia di Pavia.
Con la legge 23 dicembre 1926, n. 2246 (in Gazzetta Ufficiale n. 8 del
12 gennaio 1927) i comuni di Zavattarello, Romagnese e Ruino passarono di
nuovo sotto la provincia di Pavia. Moncasacco, quale frazione di Caminata,
restò alla provincia di Piacenza.
Moncasacco fu ed è terra piacentina, staccata dal Ducato di Parma
e Piacenza dal trattato di Worms del 1743, restò separata dalla madre patria
(il Piacentino) per centottanta anni. Non avverrà mai, ma nel caso si dovesse
ripristinare il Ducato di Parma, Piacenza e Guastalla certamente si dovrebbe
includere nel Ducato l’isola di Moncasacco che per tanto tempo fu “terra
irredenta”124; al contrario Caminata (sede del Comune) è da considerarsi
terra di tradizione pavese.
Gli sconvolgimenti amministrativi dell’isola di Moncasacco, aggregata
al comune di Caminata non erano certamente finiti!
Il Regio Decreto 13 dicembre 1928, n. 3173 (pubblicato nella Gazzetta
Ufficiale n. 25 del 30 gennaio 1929) dispose la soppressione dei comuni di
Caminata e di Trebecco e la loro aggregazione al comune di Nibbiano.
Moncasacco divenne così frazione di Nibbiano, cessando di essere
un’isola amministrativa perché non era più separata dal territorio comunale.
Con legge 30 dicembre 1937 Moncasacco, Canova e le Mostarine,
con i loro 137 abitanti, passarono sotto il comune di Pometo125 che
apparteneva alla provincia di Pavia.
Nel 1938 arrivò a Moncasacco anche la luce elettrica. La scuola era in
due stanze del castello (proprietà Anguissola) e dipendeva prima dalla
direzione didattica di Caminata e poi (1938) da quella di Pometo.
Ancora nel decennio 1930-40 i Moncasacchesi si muovevano a piedi;
sulle strade vi era un gran passaggio di pedoni: automobili se ne vedevano
poche. Da Moncasacco a piedi per sentieri molti suoi abitanti andavano a
Nibbiano. Fra tutti ricordiamo il signor Giuseppe Bellinzona e la signora
Giuseppina Scarani che sposò poi il signor Leonida Calatroni che si recava
in Val Tidone per rifornirsi di tabacchi per la privativa che gestiva prima con

124 Sulla pretensione al Trono del Ducato di Parma e Piacenza si consulti di PAOLO RINALDO
CONFORTI,Il patrimonio araldico della Real Casa di Borbone Parma – L’Ordine di San Lodovico, Silva
Editore (Parma, 1998). Cfr. articolo in “Libertà” del 27 settembre 2000 di LUDOVICO
LALATTA, Carlo Ugo di Borbone a Piacenza.
125
Il regio decreto 3 settembre 1936, n. 1758 (in Gazzetta Ufficiale del Regno n. 233 del 7
ottobre 1936) stabilì che i comuni di Ruino e di Canevino si unissero in un unico comune
denominato Pometo.

55
la madre e poi lei stessa. La privativa era un negozietto che, oltre ai generi
del monopolio di Stato (tabacchi, sale, chinino, fiammiferi) vendeva di tutto.
In locale separato c’era l’osteria che aveva la stessa conduzione della
privativa. L’osteria era un’istituzione: abbiamo visto che esisteva a
Moncasacco già nel 1688. Come in tutte le osterie si
parlava dei fatti della settimana (non arrivavano giornali), dei campi, dei raccolti,
dell’andamento del tempo e delle stagioni. L’Osteria era luogo d’incontro, di
discussioni, di confronti, di scambi di pareri, di affari, di informazioni e quindi di
emancipazione e, perché no, anche di cultura e di formazione professionale126.

Lo scoppio della seconda guerra mondiale vide alcuni


Moncasacchesi partire per fronti lontani. Uno di questi non rivide
Moncasacco perché cadde in combattimento: si chiamava Gino Mastri. Chi
rimase a Moncasacco però dovette affrontare un periodo difficilissimo. Alla
sera spesso si sentivano passare gli aerei degli Alleati e poco dopo si vedeva
in lontananza su Pavia e su Milano il cielo diventare rosso per gli incendi
provocati dalle bombe.
Lo zolfo e il solfato di rame furono razionati così per tutto il periodo
di guerra vi fu un aumento delle malattie dell’uva. Nel febbraio 1943
vennero proibiti i mercati e le fiere del bestiame, anche i Moncasacchesi
furono costretti a sottostare alla vendita controllata conferendo i loro
prodotti all’Ammasso.
In questo periodo era venuto ad abitare a Moncasacco un tipo strano:
un certo Nemesio Quadrelli, proveniente da Golferenzo. Faceva il fabbro:
a piedi andava a cercare il lavoro di paese in paese, di cascina in cascina. Era
abilissimo a saldare a fuoco vivo, nel costruire attrezzi agricoli…non era
però abile a farsi pagare così viveva in ristrettezze. Il fabbro Nemesio si era
costruito un alambicco per distillare la grappa, operazione quasi alchemica
che faceva nelle nottate senza vento per non turbare le narici della Regia
Guardia di Finanza.
A Moncasacco c’era un altro fabbro (Gustèn Bellinzona) che aveva
il suo laboratorio davanti alla Chiesa, nell’edificio in pietra che poi fu adibito
a box dal signor Giovannino Ganelli.

XV.- LA GUERRA PARTIGIANA

Nei giorni che seguirono l’8 settembre 1943 passarono da


Moncasacco alcuni soldati del disciolto Regio Esercito, che cercavano di
sfuggire ai posti di blocco istituiti dai Tedeschi lungo la via Emilia.

126 Da articolo di EMILIO del GOBBO contenuto nel libro di ENZO DRIUSSI, Vecchie osterie
friulane solo un ricordo?, CCIAA Servizi (Udine, 1995), pag. 67.

56
La costituzione della Repubblica Sociale permise, per breve tempo, ai
fascisti di affacciarsi nella alta Val Versa. Poterono farlo per poco tempo
perché la zona venne occupata dai partigiani.
A Pometo e Ruino c’era il gruppo di Tiziano Marchesi, detto il Tungra, mentre il
gruppo “Montù” comandato da Cesare Pozzi (detto Fusco) si muoveva nella Val
Versa e, pur mantenendo i suoi punti di forza nella zona collinare e montana di
Casa Matti, Scagno, Torre Alberi, Calghera, Ruino, etc. ha come principale
obiettivo la via Emilia, importantissima arteria di collegamenti e dei
vettovagliamenti nazi-fascisti127.

Poco distante da Moncasacco il 16 maggio 1944 un commando della


“Piccoli” aveva freddato il colonnello Vittorio Ricci, commissario prefettizio
di Volpara: un fascista al quale qualche abitante di Moncasacco aveva fatto
ricorso.
La zona a cavaliere tra il torrente Versa e il torrente Tidone era
presidiata dalla 2ª Brigata Giustizia e Libertà. Nell’agosto 1944 i partigiani
avevano liberato
Rocca de Giorgi, Ruino, Montecalvo, Canevino, Volpara, Golferenzo,
Fortunago, Borgoratto Marmirolo, Montalto Pavese e Rocca Susella128.

Il 9 agosto i Tedeschi avevano abbandonato il presidio di avvistamento


situato a Costa di Volpara perché seriamente minacciato dai Partigiani129.
Le notizie dei rastrellamenti fascisti, nelle località vicine, tenevano
sulla corda i Moncasacchesi. Il 10 agosto 1944 a Santa Maria della Versa
circa duecento persone, tutti uomini adulti, sono arrestate e portate in piazza
della Chiesa per essere fucilate. In favore degli arrestati interviene
coraggiosamente don Vincenzo Lanardi, parroco di Santa Maria della Versa e con
le sue suppliche riesce a convincere i nazifascisti a rinunciare alla strage130.

Moncasacco ebbe la fortuna di non subire il grande rastrellamento che la


162ª divisione Turkestan131 iniziò la notte fra il 22 e il 23 novembre 1944
lungo tre direttrici: una da Borgonovo Valtidone attraverso Pianello e
Nibbiano, un’altra da Casteggio e una terza da Broni e da Stradella.

127 Paesi e Gente di quassù, Centro Culturale “Nuova presenza” (Varzi, 1979) pgg. 143-144.
128 UGO SCAGNI, guerriglia partigiana e popolazione in un settore dell’Oltrepo’ pavese, Editoriale dei
Corsi Serali di Stradella, pg. 63.
129
UGO SCAGNI, La Resistenza e i suoi Caduti tra il Lesima e il Po, Edizioni Guardamagna (Varzi,
1995), pag. 171.
130
AA.VV., Cento Croci e Cento pagine di Storia della Resistenza nell’Oltrepo, ANPI di Stradella (Broni,
1980), pag. 13.
131 Grande unità dell’esercito tedesco composta in gran parte da truppe turcomanne ed impiegata

in Italia con compiti antiguerriglia. I suoi componenti erano impropriamente chiamati


“mongoli”.

57
Passarono da Pometo e dal Carmine. A Moncasacco tirarono un respiro di
sollievo quando appresero che i “mongoli” si erano diretti verso il Pavese
montano (Zavattarello, Romagnese).
I partigiani “prudenzialmente” si erano ritirati in luoghi più sicuri, poi nel
gennaio 1945, allentata la morsa tedesca, rioccuparono l’alta Val Versa con
tre brigate (Togni, Milazzo, Matteotti).
La brigata Togni formatasi il 10 gennaio 1945 presidiò la Val Ghiaia
e il costone che dal castello di Montù Berchielli arrivava alla Chiesa di
Canevino. L’8 febbraio 1945 la brigata Togni occupò Pometo.
La brigata GL. Milazzo-Deniri, comandata dal tenente Guido,
aveva inizialmente il comando a Cascina Rossarola, poi da metà gennaio
1945 si trasferì a Casa Calatroni.
La brigata Matteotti nel novembre 1944, sotto la pressione della
divisione tedesca Turchestan era stata costretta a rifugiarsi sulle montagne
della alta Val Curone. Verso Natale i partigiani della brigata Matteotti
ritornarono alla spicciolata in Oltrepo’. Fusco,132 il comandante della brigata
decise di occupare Moncasacco
essenzialmente per la sua posizione, allora più difficile di adesso da raggiungere.
Si lasciavano le strade innevate si da rendere difficoltoso il traffico di mezzi a
motore; difendibile, per quanto lo potevamo difendere, abbastanza defilato, per
vederlo bisognava entrarci ma soprattutto perché offriva varie possibilità di
ritirata in particolare per la vicinanza al piacentino. Tra le forze avversarie pavesi
e piacentine non esisteva quel collegamento atto a produrre unità nelle
operazioni. Sul piacentino si stava meglio, non vi era la Sichereits (la SS
italiana)133.

Dalla metà del gennaio 1945 cominciarono ad affluire a Moncasacco una


quarantina di partigiani e la popolazione li accolse favorevolmente. Fusco ha
scritto134:
nella popolazione, che allora credo fosse un po’ meno di 100 unità, trovammo
una cordiale ospitalità e nonostante rischiassero più di noi in quanto per noi, era
solo la vita, per loro: la vita ed averi.
Da parte nostra cercammo di dare il meno fastidio possibile. Ricordo vi era un
tale che chiamavamo il Fabbro135, lo faceva per mestiere, era il maggiorente della
frazione e funzionava da collegamento collaborando con noi per risolvere ogni
problema che poteva sorgere e il comune di Pometo per quanto riguardava la
amministrazione.

Il comando della brigata partigiana fu posto nel castello dove

132 Cesare Pozzi


133 lettera di Cesare Pozzi (Fusco) del 25 settembre 1993. In A.d.c.C.
134 idem.
135Si tratta del fabbro Gustèn Bellinzona.

58
vi era una piccola scuola elementare, due locali ed una scala per accedervi. Ne
facemmo un ufficio e vi collocammo una vecchia Olivetti e dove tenevamo i
processi136.

In un processo contro un partigiano il fabbro Gustèn Bellinzona fece da


pubblico ministero137.
Il primo pensiero del comandante Fusco fu di rendere difendibile
Moncasacco nel caso di un’incursione nazi-fascista. Fu stabilita una linea
avanzata sul costone Mollio-Costa Piaggi, mentre a Moncasacco si
prepararono delle difese perché era prevista
la resistenza nella parte nord del paese, quella che guarda Canova, dove
scavammo una specie di trincea su un sentiero che dalla frazione scendeva sulla
strada per Canova138.

Fino al 1985 questa trincea era ben visibile sul terreno sotto l’acquedotto,
poi il proprietario (Romeo Razzini) fece livellare il terreno da una ruspa,
cancellando la trincea.
I Partigiani non avevano bisogno di “depredare” gli abitanti di Moncasacco
perché erano ben forniti di denaro e potevano acquistare ciò di cui avevano
bisogno sia a Moncasacco che al mercato di Nibbiano. Questo facilitò i
rapporti con i Moncasacchesi. L’atmosfera che c’era in paese in quel periodo
la possiamo ricavare da due lettere del comandante Fusco che ha scritto:
gli abitanti di Moncasacco, in quel tempo, vivevano sui terreni che lavoravano
traendone il sostentamento, agricoltura e bestiame. Le stalle erano piene di buoi.
Ovviamente una vita semplice, non vi era certamente il consumismo di oggi. Una
vita dignitosa. Nessuno è mai venuto a lamentarsi ne chiederci aiuti di sorta139.
Nel dramma non mancarono anche i momenti della commedia, momenti
felici con la gente del paese140.

Gli Americani con aviolanci rifornirono i partigiani di armi, di divise,


di benzina, di razioni di viveri, di radiotelefoni, di carte geografiche
dettagliate e di denaro141.
Nel febbraio 1945 i Partigiani che erano a Moncasacco avevano
queste armi: una mitraglia di fabbricazione tedesca (machine Ghaver) usata

136 lettera di Cesare Pozzi (Fusco) del 12 settembre 1993. In A.d.c.C.


137 lettera di Cesare Pozzi (Fusco) del 25 settembre 1993. In A.d.c.C.
138 lettera di Cesare Pozzi (Fusco) del 12 settembre 1993. In A.d.c.C.
139 lettera di Cesare Pozzi (Fusco) del 25 ottobre 1993. In A.d.c.C-.
140 lettera di Cesare Pozzi (Fusco) del 12 settembre 1993. In A.d.c.C.
141 lettera di Cesare Pozzi del 25 settembre 1993. In A.d.c.C.

59
da un tedesco che aveva disertato, fucili e sten americani, oltre a molte
bombe a mano142.
Il 14 febbraio 1945, era il giorno delle Ceneri143, verso le otto del
mattino le vedette partigiane che erano appostate sulla linea Mollio-Costa
Piaggi diedero l’allarme. Il comandante Fusco, giunto da Moncasacco, ha
poi raccontato144 che cosa vide:
…scorsi nel cerchio del binocolo un autobus che, alla grande svolta della
provinciale che da Santa Maria della Versa porta a Montecalvo dove è il bivio per
Volpara e cioè la strada che arriva fino a noi, scaricava uomini. Feci girare le lenti
e al bivio Volpara-Golferenzo vidi una lunga fila indiana che si snodava per la
strada tortuosa tra la neve sino al nostro torrente.
Venivano, infatti, dopo un attimo di sosta al bivio (probabilmente la guida non
sapeva la strada) scelsero la destra.

Fu dato l’allarme. Fusco decise di aspettare il nemico sulla linea Mollio-


Costa Piaggi. Arrivarono da Moncasacco i partigiani della brigata Matteotti e
da Costa Calatroni quelli della brigata “GL Milazzo De Niri”.
Quando la colonna nazi-fascista arrivò in località “Bacà”145 i partigiani, che
occupavano una posizione dominante cominciarono a sparare. Il capitano
Hofman146, che guidava la colonna nazi-fascista, fu colpito a morte: ed i suoi
tentarono invano di portarlo verso il Colombarone.
La battaglia durò147 dalle dieci alle sedici con alterne vicende perché i fascisti
ricevettero verso le quattordici dei consistenti rinforzi che portarono un
cannone e dei mortai. Verso le quindici i partigiani mossero all’attacco e per
il nemico non ci fu più scampo: i nazi-fascisti dovettero battere in ritirata
verso Santa Maria della Versa lasciando sul campo diversi morti.
A Moncasacco fu portato il cadavere del capitano Hofmann e fu
giustiziato il sergente Muller148. I loro cadaveri, nel timore di una
rappresaglia tedesca, furono sepolti nel bosco dell’Inferno. Poco dopo
vennero esumati perché il Comando Tedesco, tramite don Diana parroco di
Volpara, aveva chiesto di poter avere i corpi, richiesta che il Comando della
Brigata Matteotti decise di accogliere. Dal presidio tedesco di stanza alla

142 idem
143 CARLO ALFREDO CLERICI ed ENRICO E. CLERICI, La battaglia delle Ceneri (14 febbraio
1945), in Bollettino della Società Pavese di Storia Patria dell’anno 1996 pagg. 391-399.
144 memoria del comandante Fusco pubblicata nel libro di GIUSEPPE MODICA e FABRIZIO

BERNINI, Canevino, terra della Alta Val Versa, a cura del Comune di Canevino, (Broni, 1988) pag.
177.
145 Sulla strada per Nibbiano al bivio per Moncasacco. Ora vi è un misero monumento a ricordo

della battaglia.
146 Il capitano Hofman in realtà si chiamava Luis Ferdinand Bisping.
147 testimonianza di Cesare Pozzi (Fusco).
148 Il suo vero nome era Werner Schlneter.

60
Centrale dei telefoni di Montù Beccaria, sempre tramite don Diana,
arrivarono due casse da morto, cosicché
martedì 20 febbraio alle quattro del pomeriggio le spoglie mortali di Hofmann,
con quel tram salito giorni prima con tanta sicurezza, arrivarono a Stradella.

Il Parroco di Canevino (don Grassi) scrisse subito una bella poesia per
celebrare la vittoria:
il nemico è battuto ed in rotta
mentre Hofmann è ucciso al Bacà.

La sera del 14 marzo nei paesi occupati dai Partigiani si fece festa. La felicità
dei Moncasacchesi per la vittoria era più che giustificata perché il nemico era
stato fermato sul costone di Costa Piaggi e quindi il paese era stato
risparmiato sia dalle bombe che dalla rappresaglia nazi-fascista. Scrive 149
Fusco:
indubbiamente dopo la battaglia vi fu allegria in tutte le popolazioni della zona.
Da un documento trovato nelle tasche del sergente tedesco, caduto, nell’itinerario
che avrebbe dovuto percorrere quel giorno (se andava bene) vi era anche
Moncasacco e il rastrellamento (così si chiamavano le incursioni nazi-fasciste)
doveva essere di terzo grado, incendiare i nostri rifugi.

Gli abitanti di Moncasacco non avevano partecipato alla battaglia delle


Ceneri, ma alcuni portarono viveri e soprattutto vino ai partigiani che
combattevano150.
Alcuni giorni dopo la battaglia delle Ceneri, era la sera del 18 febbraio
1945, il comandante Fusco con altri due uomini scese da Moncasacco a
Stradella per giustiziare alcuni fascisti. Uno di questi benchè colpito reagì
ferendo alla pancia il partigiano Romano Bongiorni151. Fusco caricò il ferito
su un calesse e lo portò a Moncasacco: era gravissimo perché aveva perso
molto sangue. Bisognava trovare un medico: ci pensò Quintino Bongiorni
che era stato avvisato del ferimento del cugino da un partigiano della
Matteotti. A cavallo andò a Borgonuovo e convinse un medico di
quell’Ospedale a seguirlo per sentieri fuori mano. Era notte, per non
incontrare i fascisti i due passarono per Vicomarino, Montalbo, Tassara,
Stadera, Monte Pioggia e alla fine arrivarono
a Moncasacco dove si compì il miracolo. Il medico al lume di candela e in una
stalla, gli estrasse la pallottola152.
149 Cesare Pozzi (Fusco) lettera del 12 settembre 1993.
150 Lettera di Cesare Pozzi (Fusco) del 25 ottobre 1993. In A.d.c.C.00
151 Memorie del partigiano Gino Bongiorni, Casa Editrice Vicolo del Pavone (Piacenza, 1999) pg. 76.
152 Idem pg. 76.

61
Il partigiano Romano Bongiorni guarì grazie alla perizia di quel medico, il
cui nome ignoriamo.
L’occupazione di Moncasacco da parte della Brigata Matteotti durò
poco più di due mesi (dal gennaio al marzo 1945). Scrive153 il Fusco:
levammo le tende da Moncasacco verso la metà di marzo, un reggimento di
soldati slovacchi aveva disertato, esigenze logistiche esigevano l’occupazione di
zone più a nord così ci portammo a Costa Calatroni, sopra Volpara, da dove
partimmo per la pianura il 25 aprile.

XVI.- IL DOPOGUERRA: LO SPOPOLAMENTO E L’ARRIVO


DEI “MILANESI”

La guerra finalmente finì! Bisognava ricostruire l’Italia. Le donne di


Moncasacco, per la prima volta nella Storia, furono chiamate a votare,
diritto che esercitarono a Pometo, dove154 nel referendun istituzionale vinse
la Repubblica con 618 voti, mentre la Monarchia ebbe 234 voti. Dopo
Volpara (23,5%), Pometo fu il comune della provincia di Pavia colla
maggiore percentuale di voti non validi: 250 (22,7%), di cui 232 schede
bianche. L’Italia divenne una Repubblica: i Moncasacchesi erano stati
sudditi della Real Casa di Savoia per 203 anni, cioè dal 1743 al 1946.
Nell’agosto 1946, in varie parti d’Italia, molti ex-partigiani salirono
nuovamente in montagna per protestare contro il tradimento degli ideali
della Resistenza. Su proposta dell’onorevole Palmiro Togliatti, ministro della
giustizia, il governo De Gasperi aveva concesso un’amnistia della quale
beneficiarono “anche” i fascisti. Il 24 agosto 1946 il quotidiano “l’Unità ”
così spiegava la protesta degli ex-Partigiani che vedevano
una metodica distruzione delle loro speranze e degli ideali per i quali hanno dopo
l’8 settembre impugnato le armi.

Il 24 agosto 1946 anche il territorio del Comune di Pometo155, del quale


Moncasacco era frazione dal 1938, fu occupato da una sessantina di ex-
Partigiani al comando di Tiziano Marchesi. Dopo qualche giorno con
“false” promesse il Governo li convinse a tornarsene a casa. I
Moncasacchesi, durante l’occupazione partigiana, non furono disturbati,
dovevano solamente superare un posto di blocco nei pressi di Pometo.

153Lettera di Cesare Pozzi (Fusco) del 12 settembre 1993. In A.d.c.C.


154 MINISTERO DELL’INTERNO, Consultazioni popolari della Lombardia 1946/60, volume I,
edito dal Poligrafico dello Stato (Roma).
155 UGO SCAGNI, La Resistenza e i suoi caduti tra il Lesima e il Po, Edizioni Guardamagna (Varzi,

1995)

62
Il Fascismo aveva soppresso i piccoli Comuni, la neo Repubblica
invece volle ripristinarli. La legge 21 gennaio 1950, n. 25 (in Gazzetta
Ufficiale n. 41 del 18 febbraio 1950) decretò la “Ricostruzione del Comune di
Caminata” con la circoscrizione preesistente all’entrata in vigore del regio
decreto 13 dicembre 1928, n. 3173 che aveva stabilita l’aggregazione del
comune di Caminata a quello di Nibbiano. Ope legis l’isola di Moncasacco
passò dal comune di Ruino-Pometo a quello di Caminata. Si ridiventava
piacentini! La cosa non piacque a tutti: alcuni Moncasacchesi guidati da
Giuseppe Quadrelli protestarono energicamente.
Fra le famiglie residenti in quel tempo a Moncasacco ricordiamo:
Bellinzona, Cagnani, Calatroni, Dalmini, Duca, Ordali, Pezzina, Quadrelli,
Varini, Vornucci.
Ancor oggi si racconta di un evento naturale che sconvolse la zona
fra Pometo e Moncasacco: nel giugno 1950 il cielo si oscurò e si scatenò una
terribile grandinata che fece ingenti danni distruggendo i raccolti…come al
solito gli aiuti del governo furono pochi.
I dati dei censimenti parlano chiaro: nel dopoguerra l’isola di
Moncasacco cominciò a spopolarsi. La gente migrò nei paesi vicini
(Pometo, Broni, Stradella) e nelle grandi città (Pavia, Milano). Prima della
seconda guerra mondiale (ci riferiamo ai dati del censimento del 1936) i
residenti erano 138; nel 1951 erano scesi a 93, nel 1961 a 67 e nel 1971 a 47.
I Moncasacchesi se ne andavano altrove: la privativa e l’osteria
vennero chiuse; i pochi che rimasero dovettero fare i conti col molto
silenzio: poterono però ampliare i loro possedimenti acquistando terre da
chi lasciava il paese. L’esercizio dell’agricoltura anche a Moncasacco,
nonostante il governo di Roma, divenne più redditizio grazie alla
meccanizzazione e al maggior numero di terreni da coltivare soprattutto a
vigna: un’unica scelta che ha anche condizionato il paesaggio156. Intorno al
1975 ad uno degli autori capitò di assistere a uno scambio di “impressioni
nostalgiche” fra i signori Agostino Calatroni e Giuseppe Quadrelli che
rimpiangevano la qualità del vino d’un tempo, quando la vigna si lavorava
tutta col vanghetto…sembrava che parlassero dell’ambrosia, la bevanda
degli Dei dell’Olimpo.
Se esaminiamo nel dettaglio i dati dei censimenti ci accorgiamo che lo
spopolamento fu più marcato nella capitale dell’isola che a Canova. Nel
1936 i residenti a Moncasacco erano 78 e nel 1971 erano solo 7; mentre a
Canova nel 1936 i residenti erano circa157 55 , erano scesi a 37 nel 1971. Già

156 articolo di CORRADO BARBERIS intitolato “il paesaggio agrario” contenuto nel volume Il
Paesaggio Italiano, Touring Editore (Milano, 2000).
157 Il dato della Canova non era scorporato da quello della Mostarina di sotto ed indicato sotto la

voce “case sparse” che indicava 60 residenti.

63
nel 1951 gli abitanti di Canova (54 residenti) superavano quelli di
Moncasacco (32 residenti).
Fin verso il 1970 la spesa si poteva farla a domicilio: passavano con i
loro carretti sia Pipotu (Giuseppe Labò), che vendeva alimentari, carne di
maiale, mostarda che teneva in mastelle di legno di castagno sia “ad Gilon ”
(Mario Pezzati) che vendeva frutta e verdura. Quest’ultimo arrivava su un
carretto trainato da un mulo, che aveva la caratteristica di fermarsi davanti
alle porte delle osterie.
La scuola fino al 1968 si tenne, come sempre, in due stanzette del
castello di Moncasacco: vi insegnò anche la maestra Anna Maria Achilli. Nel
1969 la scuola fu spostata a Canova in una casa di proprietà del signor
Primino Calatroni, dove vi insegnarono le maestre: Mariuccia Tagliani, che
veniva da Borgonuovo, Nicoletta Zuffada e Mariangela Chiesa. Lo scuola-bus e
il decremento demografico fecero chiudere la scuola: i pochi ragazzi furono
costretti ad andare a Pometo dove, oltre alle elementari, era stata istituita la
scuola media, divenuta scuola dell’obbligo. L’isola di Moncasacco ebbe i
suoi primi geometri e ragionieri, ma anche questo traguardo fu conquistato a
costo di fatica perchè per frequentare a Stradella le superiori i giovani
Moncasacchesi dovettero sobbarcarsi delle “levatacce”.
Una delle cause dell’abbandono di Moncasacco era il frazionamento
della proprietà che non dava reddito sufficiente per tutti. Gli autori di questa
breve storia il 20 febbraio 1971 a Stradella, davanti al notaio Giovanni
Adamo, acquistarono due stallette e dieci pertiche di terreno dove nel 1976
cominciarono la costruzione de “La Malmostosa”. I venditori di quella poca
terra erano ben dodici (cinque Bellinzona; un Dalmini e sei Calatroni), tutti
nati nell’isola di Moncasacco, ma al momento dell’atto solo cinque residenti.
Il più vecchio, nato il 28 ottobre 1884, era il signor Ernesto Calatroni che da
“patriarca” venne a Stradella accompagnato dai suoi cinque figli.
Il Comune di Caminata non era in grado di provvedere “ad una curata
e ordinata manutenzione delle strade158“. Per poter beneficiare dell’intervento
dello Stato (come prevedeva la legge n. 181 del 21 aprile 1962) nella seduta
del 4 gennaio 1965 il Consiglio Comunale classificò le strade comunali ad
uso pubblico. Le strade dell’isola di Moncasacco furono così classificate:

a) Strade comunali esterne (extra-urbane)


1. Bivio Rossarola-Moncasacco- Canova-Bivio Baccà159 Km. 3,064

b) Strade vicinali
1. Canova-Rossella-Pieve di Stadera Km. 2,560
2. Moncasacco-Mostarina Km. 1,852
3. Rio Cavaione-Moncasacco Km. 0,772

158 Documento in A.C.C.


159
ora strada provinciale n. 160.

64
Dal 1970 si verificò il fenomeno del ripopolamento durante il fine
settimana. Le case disabitate (erano in maggioranza a Moncasacco paese)
vennero poste in vendita. Uno degli artefici di questa operazione fu il
mediatore Attilio Zandalassini che si pubblicizzava sul quotidiano “La
Provincia Pavese”. In archivio conserviamo questo annuncio apparso il 21
marzo 1970:
Casetta 3 locali, 4 pertiche terreno, collina pavese, vista panoramica vendo
700.000.- Zandalassini Attilio, Albergo Belvedere, Carmine di Ruino tel. 0385-
79743.

Per curiosità l’annuncio si riferiva alla casa che fu acquistata da Romeo


Razzini, ora casa di Antonio Viserta. Agli annunci del Zandalassini, il tipico
mediatore col fazzoletto annodato al collo, “abboccarono” numerose
famiglie che cercavano una seconda casa per avere un motivo plausibile per
uscire il sabato e la domenica dalla città.
Ogni rilevamento catastale, ogni frazionamento era fatto dal
geometra Fausto Calatroni, che aveva studio a Pometo, che potremmo
definire il “catasto vivente” perché quello che diceva lui in fatto di termini era
“Vangelo”. Vennero poi altri geometri: Gatti (dal Carmine); Mario Bollati
(da Nibbiano); Tino Comaschi (da Santa Maria della Versa) e in seguito
Graziano Degli Antoni (da Pometo) e Marino Calatroni. Tecnici del
Comune furono, in ordine di tempo, i geometri: Mario Bollati, Giuseppe
Romani e Claudia Calatroni.
I nuovi dimoranti vennero subito bollati dai residenti come “i milanesi ”, ma
ad onor del vero l’etichetta era impropria perchè160 i ROSSI erano di origine
cremasca; pavesi erano i NEGRI, i RAZZINI, i CLERICI161; siciliani i
TRISCARI e i BRIGANDI’; piemontesi i VITTONE; pugliesi i RECCHIA.
All’inizio degli anni settanta ci volle del coraggio, se l’incoscienza si
può definire coraggio, ad acquistare a Moncasacco case e terreni. In quel
periodo dei “servizi civili “ c’era solo la luce; l’acqua era erogata (si fa per dire)
da un acquedotto rurale che mal funzionava tanto che a Moncasacco alta
non arrivava: si doveva andare a prenderla con delle taniche a un rubinetto
vicino alla Chiesa. Non c’erano né il telefono, né la fognatura, né il servizio
spazzatura: le strade non erano asfaltate. Sembrava di vivere in un’altra
epoca. Fin verso il 1980 si poteva incontrare, trainato da un vecchio cavallo,
il tibar162 del “mulnè Valeri” che ritirava nelle cascine i cereali che riportava
macinati qualche giorno dopo.

160 Per tutti ci riferiamo all’origine del capo famiglia.


161 Apparteneva alla famiglia don Pietro Antonio Clerici che fu parroco di Soriasco dal 1707 al
1743.
162 Carro a due ruote ribaltabile all’indietro.

65
I “milanesi” di diverse estrazioni portarono la loro cultura e
purtroppo qualcuno, contro il più elementare senso dell’estetica, portò la
“cultura della periferia“ che consisteva nel far baracche di lamiera e
nell’ammonticchiare i “residuati” degli straccivendoli, svilendo la bellezza
del posto e col rischio, fortunatamente sventato, di trasformare il paese in
una “favela”.
Nel 1977 le famiglie presenti163 nell’isola di Moncasacco erano:

AIMI, BELLINZONA, BORIERI, BRIGANDI’, CALATRONI, CHIESA,


CLERICI, CORDELLI, DATO, FERRARI, FRANZINI, GANELLI,
MARABELLI, MILANI, MOIOLI, MONTALBANO, NEGRI, PANELLI,
QUADRELLI, RAZZINI, RECCHIA, RIZZI, ROSOLILLO, ROSSI,
SANTORO, SANTUCCI, TRISCARI, VALENTINO, VEREZZI,
VERONESI, VITTONE, VOMOZZI.

Fra i grandi appassionati di Moncasacco, che non risultano nelle carte,


dobbiamo citare: i coniugi Garavaglia; il capitano di marina Alfredo Costa: il
signor Emilio Pisanti, cancelliere di Corte d’Appello; la signora Rosetta
Filippone Razzini “autentico” pollice verde.
La necessità di un nuovo acquedotto era veramente sentita sia dai
residenti che dai dimoranti. Si trattava di trovare i soldi perché il comune di
Caminata poteva metterne solo una parte, cioè una somma proveniente da
un indennizzo governativo per danni provocati dall’alluvione di Genova.
Nel periodo 1972-73 si attuò una situazione di “democrazia diretta”, simile a
quello che avviene in qualche cantone della Svizzera: le riunioni venivano
fatte sulla piazza della Chiesa a ridosso di un pagliaio di proprietà del
marchese Anguissola. Vi partecipavano tutti i capi famiglia (residenti e
dimoranti) e le riunioni erano presiedute dal Sindaco di Caminata
commendator Quintino Pizzali, assistito dal consigliere comunale Gian
Pietro Calatroni e dal geometra Mario Bollati che era il progettista del nuovo
acquedotto. Con fatica e dopo tanto discutere si arrivò a un civile
compromesso: il Comune ci mise cinque milioni, i frazionisti di Moncasacco
lire 1.874.300, mentre quelli di Canova lire 1.140.000. Il Genio Civile di
Piacenza appaltò i lavori dell’acquedotto all’impresa edile di Pietro Molinari
da Nibbiano. Finalmente furono messi i contatori e Moncasacco-Canova
ebbero l’acqua, ma… l’acquedotto, fatto in “grande” economia, funzionò
male. Si fecero riunioni su riunioni. Il Sindaco di Caminata (commendatore
Pizzali) esasperato propose di affidarne la gestione agli utenti164. Si costituì
un comitato, un dimorante fece (6 luglio 1977) perfino un esposto al
Procuratore della Repubblica di Piacenza. Fuochi d’artificio! Il problema
163
Residenti e dimoranti (alcune proprietarie altre in affitto). I nominativi li abbiamo ricavati da
due documenti conservati in A.d.c.C.
164 in A.d.c.C. alcune lettere.

66
acquedotto fu risolto dal nuovo Sindaco di Caminata (dottore Eugenio
Dovati) che fece fare alcuni lavori risolutivi. Dal 15 settembre 1980 si può
dire che l’acquedotto funzionò bene.
Il “problema acquedotto”, può sembrare strano, ebbe “anche” un
risvolto positivo. Dal 1972 al 1980 indubbiamente fu motivo di
aggregazione perché si fecero riunioni su riunioni: ci si “doveva” incontrare,
parlare, discutere. Quando l’acquedotto fu sistemato a Moncasacco trionfò il
“privato” quello che Guicciardini chiamava il “particulare”.
Sotto l’amministrazione del dottor Eugenio Dovati a Moncasacco si
fecero delle consistenti migliorie: fognatura, servizio spazzatura, raccolta
differenziata del vetro165, asfaltatura di alcune strade. Come annunciava un
articolo apparso il 24 dicembre 1987 sul quotidiano “Libertà”, l’acquedotto
di Moncasacco-Canova fu potenziato.
Nel luglio 1980 vi fu una raccolta di adesioni per il telefono privato e
l’allacciamento fu fatto nel 1981: prima vi era un posto pubblico a Canova.
Nel 1989 il Comune di Caminata prese la decisione di metanizzare
anche Moncasacco. Il 4 novembre 1989 chiese agli abitanti una adesione di
massima. Vi fu una riunione in Municipio e presto anche a Moncasacco e
Canova arrivò il metano (i contatori furono installati nell’ottobre 1990)
distribuito dalla società CO.RE.GAS con sede a Cremona.
Fra coloro che in vari tempi rappresentarono l’isola di Moncasacco
nel Consiglio Comunale di Caminata è doveroso citare i Consiglieri: sig.
Rino Bellinzona, signora Luciana Calatroni, il signor Angelo Calatroni, il
veterinario dottore Gianfranco Negri, e il signor Gian Pietro Calatroni che
per circa trenta anni partecipò attivamente alla amministrazione del Comune
sia come consigliere che come Assessore166.
Nel periodo 1970-2000 a Moncasacco si ristrutturano vecchie case e
se ne costruirono di nuove. Un “vincolo estetico” avrebbe evitata qualche
costruzione di “stile mediterraneo”, ma è un discorso soggettivo! Del resto
in tutto l’Oltrepò il patrimonio edilizio della antica civiltà rurale è stato
“violentato” da case con le tapparelle, da verande in allumio anodizzato,
ecc.167
La storia di Moncasacco dal 1970 ad oggi registra: beghe di confine e
di vicinato; la visita del Vescovo di Piacenza; la concessione del cavalierato
di Vittorio Veneto a Giuseppe Quadrelli che era stato un ardito durante la
prima guerra mondiale; buoni e cattivi raccolti; l’ordinazione sacerdotale di
don Chiesa della Mostarina di Sotto; la laurea in informatica di Roberto

165 Con raccoglitore posto all’inizio della strada delle Bregne.


166 Libertà (22 giugno 1985), pg. 9.
167 GUIDO NICOSIA, Il nuovo cemento uccide la Storia, articolo ne “Il Giorno” del 28 settembre

1973.

67
Bellinzona; la permanenza (intorno al 1975) durante qualche fine settimana
dei componenti del complesso dei Dick-Dick, ospiti dell’architetto Marabelli.
Fra il 1973 e il 1980 l’isola di Moncasacco fu attraversata da diverse
competizioni sportive: il Rally Automobilistico e la Marcia Internazionale dell’Alta
Val Versa. Di quest’ultima se ne fecero diverse edizioni. I marciatori,
provenendo da Campasso-Ortaiolo, attraversavano Canova e transitavano
sulla provinciale che lambisce Moncasacco per ritornare verso Santa Maria
della Versa dove era posto il traguardo.
Negli ultimi anni alcune seconde case sono state poste in vendita: i
dimoranti con più di trenta anni di presenza sono rimasti in pochi (Triscari,
Milani, Montalbano, Clerici). Nella primavera 1982 una immobiliare
milanese (San Giorgio) faceva mettere sui parabrezza delle macchine
posteggiate a Milano un volantino dove si leggeva:
CANOVA di CAMINATA (Oltrepo’ Pavese) rustico su due piani
completamente ristrutturato e rimesso a nuovo, completamente arredato, due
camini, orto, nel centro di un magnifico paesino a 700 metri di altitudine, per un
totale di mq. 180 circa, vista magnifica, possibilità mutuo all’80%, minimo
contante.

Nel volantino era indicato il prezzo che era di lire cinquantasei milioni a
condizione che l’acquisto fosse fatto entro il giugno 1982.
Un’importante conquista si ebbe nel 1992: ai vigneti dell’isola di
Moncasacco, facenti parte del sistema orografico della Val Versa, venne
estesa la “Doc Oltrepo’ Pavese” 168. Fu un provvedimento doveroso perché da
molti anni le uve prodotte in questi terreni venivano conferite a Cantine
Pavesi (Cantina La Versa, Faravelli, ecc.) che dichiararono, durante
l’istruttoria, che le uve di Moncasacco non dimostravano diversità rispetto
alle altre uve della Val Versa169.
Nell’ottobre 2000 i comuni di Caminata, Pecorara, Nibbiano e
Pianello hanno presentata alla Regione Emilia Romagna la domanda per
ottenere la costituzione della Comunità Montana della Val Tidone170.

XVII.- L’ISOLA DI MONCASACCO E IL SUO FUTURO

Il compito dello storico è “ricostruire” il più fedelmente possibile il


passato, progettare il futuro è compito del politico. Un progetto politico per
Moncasacco non sembra esserci: in verità non c’è mai stato!

168 Corriere dell’Oltrepo’ del 17 ottobre 1992.


169 idem
170 Libertà 1 ottobre 2000 pg. 17.

68
La marginalizzazione di Moncasacco ha un suo fascino, tuttavia non
si può non essere preoccupati dalla “marginalizzazione” dei paesi vicini: gli
uffici postali, le scuole, i negozi e le pompe di benzina chiudono.
Per eleggere le amministrazioni comunali la legge italiana dà diritto di
voto ai soli residenti, così a Moncasacco i numerosi “dimoranti” non hanno
voce. Questi pagano, senza sconto171 alcuno, l’ICI (= imposta comunale
sugli immobili), ma non possono decidere sul suo impiego. Da questo punto
di vista nel Regno del Lombardo-Veneto, soggetto al “retrivo” Impero
d’Austria, vi era una legge che concedeva ai possessori di beni immobili (sia
residenti che dimoranti) il diritto di partecipare al Convocato che era
un’Assemblea che si riuniva ogni anno per approvare il bilancio del Comune
e nominare gli ufficiali (medico, maestro, ostetrica).
Per ovviare a questa “palese ingiustizia” andrebbe riformato lo Statuto del
Comune di Caminata che potrebbe istituire un Consiglio di Frazione,
eletto fra “residenti” e “dimoranti”. Un Consiglio che abbia solo un potere
consultivo e propositivo: sarebbe certamente un passo avanti!
Parlando del futuro di Moncasacco una domanda pare legittima: il
paesaggio muterà? Un tempo i boschi erano molto estesi, poi si disboscò
per piantarvi le vigne, forse un giorno, sia per mancanza di addetti
all’agricoltura o per accordi internazionali (globalizzazione), si potrebbe
ritornare per forza di cose al bosco.

171 Nell’anno 2000 i residenti fruivano di uno sconto di lire 200mila.

69
70
PARTE TERZA
APPE ND ICE

71
72
XVIII.- BLASONARIO MONCASACCHESE

Ci avrebbe fatto piacere riportare la blasonatura degli stemmi dei


produttori di vino, ma purtroppo nell’isola di Moncasacco le etichette dei
vini sono molto semplici, al contrario di quello che succede in altre località
(Piemonte, Tirolo, ecc.) che coniugano la commercializzazione al folclore. Il
“Blasonario di Moncasacco” risulta di conseguenza ridotto agli stemmi degli
Enti pubblici, da cui Moncasacco dipende, e agli stemmi di alcune famiglie
che hanno avuto rapporti col Paese o perché feudatarie del luogo o perché
semplicemente proprietarie di beni allodiali.
ANG UIS S OLA
Partito: nel 1° d’oro all’angue al naturale; nel 2°di rosso ai quattro albioni o
promontori d’argento.

ARCE LLI
Inquartato: al 1° d’azzurro alla mezza aquila coronata d’oro, uscente dalla
partizione; al 2° inquartato: a) e d) d’argento (o oro) a tre cani di nero, correnti,
posti uno sopra l’altro; b) e c) scaccato d’argento e di rosso di sei pile 2,1.

AYA LA VA LVA ( d’ )
Partito nel 1° d’argento a 2 lupi di nero uno sull’altro colla bordatura di rosso,
caricata di otto decussi d’oro; nel 2° d’argento alla fascia di rosso, accompagnato
da nove uccelli di nero, cinque in campo (3 e 2), quello di mezzo ed in capo
coronato d’oro, e quattro in punta rivoltati (2 e 2).

CLERICI
D’oro allo scaglione di rosso, accompagnato in capo da due stelle dello stesso e
in punta da una granata fiammeggiante di porpora, crociata d’argento. Capo
d’azzurro carico di una spada da parata, posta in fascia, d’argento, con l’elsa e
l’impugnatura pomellata d’oro.
MA LVICI NI F ONT A NA
Inquartato: nel 1° e 4° d’azzurro alla croce d’oro trifogliata, nel 2° e 3° di rosso
alla croce d’argento e d’azzurro.
M ONT A LBA N O
D’azzurro al monte a cinque vette d’oro emergente da un mare mosso di nero
con le onde d’oro.
VISER TA
D’azzurro all’albero di quercia, sostenente un nido con un uccello, nodrito su un
prato verde fiorito, accompagnato in capo da tre stelle (8) male ordinate.

Parlando di stemmi, che hanno qualche collegamento con


Moncasacco, non si può non citare gli stemmi degli Enti dai quali dipende
amministrativamente:

73
EMI LIA R OM AG NA (regione)
trapezoide rettangolo, di colore verde, con lato superiore di andamento
sinusoidale, inserito in un campo quadrato bianco confinato di verde.172

PIACE NZ A (provincia)
Dado d’argento in campo rosso

CA MIN AT A V A L TI D ON E (comune)
Lo storico avvocato Aldogreco Bergamaschi ha scritto173:

lo stemma del Comune di Caminata riassume, per simboli, le fortunose vicende


del paese. Traversalmente esso si divide in due distinte sezioni. Nella sezione
superiore, a sinistra guardando, su sfondo azzurro ed in oro, è inserito il sigillo
del Monastero di San Colombano di Bobbio, a ricordare come Caminata sia stata
un possedimento fondiario. Nella sezione inferiore, a destra, su sfondo rosso, in
un paesaggio montuoso dalle tinte ferrigne, campeggia, stilizzato, un luogo
fortificato: la spericolata vita di contrabbando e di brigantaggio è simboleggiata
dal falco rapace che cala sulla intravista preda. Il motto scritto nel cartiglio
spiegato a piè dello scudo («Audenter», cioè «con audacia») riassume il coraggio e
l’audacia delle genti di Caminata, auspicio di un migliore avvenire.

XIX.- LA CHIESA

Lorenzo Molossi nel Manuale Topografico degli Stati Parmensi, edito a


Parma nel 1856, scriveva che la Parrocchia di Pieve di Stadera
stende la sua giurisdizione su la villa piemontese di Moncasacco (comune di
Caminata, Diocesi di Bobbio), la quale ha un oratorio pubblico e circa 130
abitanti.

Queste poche annotazioni mettono in luce che già nel 1856 a Moncasacco
esisteva l’oratorio, che noi pensiamo risalire a metà del settecento. Intorno
al 1975 il costruttore Quadrelli da Nibbiano raccontò che suo trisavolo
cadde (e morì) mentre riparava il tetto dell’oratorio.
La Chiesa di Pieve di Stadera, che per secoli fu la parrocchia di
Moncasacco, già nel Medioevo era molto importante perché era collegiata
e l’Arciprete unitamente ai canonici, che erano cinque, aveva il diritto di eleggere i
cappellani di Nibbiano, di Montemartino, di Ginepreto, di Santa Maria del Monte
e della Tassara174.

172Articolo 1 della Legge regionale n. 46 del 15 dicembre 1989.


173 ALDOGRECO BERGAMASCHI, «La Caminà » ( Caminata)- Appunti di storia, dialetto, usanze e
tradizioni locali, Bollettino della Società Pavese di Storia Patria (Pavia, 1985), pag. 135.

74
La crisi delle vocazioni sacerdotali rese vacante la parrocchia di Pieve
di Stadera. Fra il 1972 e il 1975 il Parroco di Tassara (don Dino Merli) fece
da delegato Vescovile della Parrocchia, così nei mesi estivi veniva a
celebrare Messa a Moncasacco. Nel 1975 il Vescovo di Piacenza chiese al
Vescovo di Bobbio di provvedere alla cura delle anime di Moncasacco. Fu
incaricato il Parroco di Pometo: monsignor Martino Marini, fino al 31
ottobre 1993, don Giampiero Culacciati dal 1993 al 1995, don Claudio
Carbeni, fra Arnaldo Pellesi e dal gennaio 2001 don Donato Casella.
Un tempo i Morti dell’isola di Moncasacco venivano seppelliti a Pieve
di Stadera solamente nel 1965 Moncasacco ebbe il suo cimitero.
La religione fino agli inizi del novecento era molto sentita, anche se vi
erano usanze che avevano “radici superstiziose”. In tutta la Val Tidone nella
settimana santa alcuni battevano il rollo (barloca175) o dei tolloni (tola)
provocando un suono che si sentiva molto lontano e serviva a mezzogiorno
ad avvisare chi lavorava in assenza delle campane che erano “legate”. In
antico176 si pensava così di battere i peccati (bat i pcà) o Ponzio Pilato (bat
Pilàt) o Giuda (bat Giuda). Il venerdì santo con paglia sottratta nei fienili si
faceva un fantoccio, che simboleggiava Barabba e che dopo la processione
veniva bruciato (brusà Baraba).

XX.- LE FESTE

Quando si parla di Moncasacco con i vecchi dei paesi vicini quasi


tutti ricordano con nostalgia le feste di Moncasacco alle quali partecipavano
venendo a piedi. Uno di questi ci disse che veniva da Genepreto.
1.-Fest a P atron ale
La festa di Moncasacco si celebra la prima domenica d’agosto. Un
tempo interveniva il Parroco di Pieve di Stadera sotto la cui giurisdizione
c’era Moncasacco.
Venivano anche il gelataio, il venditore d’angurie, quello che vendeva
file di nocciole, croccanti e poi c’era la balera. Ancor oggi si ricorda che un
certo Mario detto Marion da Colombato preparava la pista da ballo con assi di
legno dietro il portico di Giuseppe Quadrelli o nella corte del castello,
innalzava tutto attorno dei teli di sacco affinché la pista fosse celata a quelli
174 ANTONIO BOCCIA, Viaggio ai monti di Piacenza (1805), TEP-Gallarati (Piacenza, 1977), pg.
168.
175 Troviamo scritto nel Vocabolario pavese-italiano redatto dal Gambini che la «barloca è quel celebre

movimento delle bacchette o di altri simili corpi sopra il tamburo od altro arnese sonoro per cui
ne nasce unsuono particolare. La pavese voce barloca indica quel rollo particolare che si fa nelle
nostre cascine sopra il fondo del secchione capovolto, onde chiamare i famigli al lavoro.»
176 CARMEN ARTOCCHINI, Le superstizioni nel Piacentino attraverso i Sinodi diocesani post-tridentini,

Bollettino Storico Piacentino (luglio-dicembre 1993), pag. 238.

75
che non ballavano. I ballerini paganti erano separati, da quelli che volevano
ballare senza pagare, da una fune che ogni due o tre balli177 veniva tesa da un
lato all’altro della pista. Accorrevano a piedi dal circondario molti giovani, si
facevano gare di danza: Agostino Calatroni della Canova è ancor oggi
ricordato come provetto ballerino. Si eleggeva anche una Miss: una Ordali
vinse la sfida.
I ragazzini spesso si divertivano ad “alleggerire” il carretto del
gelataio, nascevano nuovi amori, ci si divertiva molto e… con poco!
2.-Cal en di ma gg io

A maggio si traevano auspici per l’annata: magg’ vintus ann bundasius.


Il risveglio primaverile fin dall’antico veniva celebrato in tutta Europa con
feste e cerimonie che risalivano a tempi remotissi178. Questo avveniva anche
a Moncasacco il primo giorno del mese di maggio (calendimaggio).
Si formavano delle squadre di giovani che andavano a bussare alla porta di
ogni famiglia per chiedere uova per poi farne una grande frittata, che si
mangiava in compagnia. La richiesta era accompagnata dalla filastrocca della
“galeina grisa “ di derivazione piacentina
Se la padrona mi darà il côccon
Scampa la ciossa con tütt i so padron.
Se la padrona non mi dà il côccon
Crapa la ciozza e tütt i sö padròn.

Se la regiora era stata generosa nel dare uova il gruppo le faceva lodi
sperticate; se la regiora era stata sparagnina il gruppo non le lesinava insulti
mordaci.

3.-Car nev ale

Oggi (2001) il Carnevale non si festeggia più in Moncasacco. Una


volta durava tre giorni. Il primo giorno si festeggiava a Colombara, il
secondo giorno all’Ortaiolo e Mollio, il terzo giorno a Moncasacco. Si
faceva una grande mascherata. Ci si preparava alcuni giorni prima: grandi e
piccoli cercavano nel fondo dei bauli gli abiti smessi, i vecchi scialli, le pezze
di stoffa colorate per fare il più pazzo degli arlecchini e poi su e giù per il
paese cantando e ballando: i maschi vestiti da donna, le donne in abiti lunghi
delle bisnonne con strani capellini, le guance infarinate, le bocche rosse
ridisegnate, le voci chiocche per non farsi riconoscere, ognuno prendeva in
giro l’altro e ne faceva le spese il più grullo (lôch). Erano risate, canti, balli,
bevute. Si mettevano in piedi commedie ruspanti dove
177 Alcuni dicono ogni dieci balli.
178 Enciclopedia Italiana (Treccan) voce: maggio.

76
l’originalità non stava tanto nel travestimento, quanto nel divertire il pubblico
con le loro trovate179.

Tutto finiva in grandi mangiate di chiacchere, tortelli e ravioli (ciaciar,


tôrtlitt, chifér).

4. La not t d ì gr asb

Peggiori degli scherzi di Carnevale erano quelli che coincidevano con


il 3 maggio festa della Santa Croce. Si celebrava la nott dì grasb o nott dì malfatt
cioè la notte dei malfatti. Durante quella notte, nonostante la vigile
attenzione di tutti, gli scherzi non avevano limite: da giorni erano tenute
d’occhio le vittime prescelte e al mattino… era sparita la ruota di un carro o
una carèta si trovava issata su un albero alto.

XXI.- LA CASA

La casa tipica di Moncasacco era costruita col lato lungo a ridosso


della collina, quasi a ripetere nel tempo la disposizione dell’antico castelliere,
così da essere protetta dal vento di tramontana, ma non per tutte era così,
molte costeggiavano la sottile lunga strada che partendo dal “paese basso” si
insinuava nel sottoportico dell’osteria, si addossavano all’oratorio e attorno
al castello, fiancheggiavano ad intervalli la breve salita e si schieravano
strette l’una all’altra guardando la valle del Tidone esposte al vento di
“marin”. Tutte però avevano una caratteristica comune: il pianoterreno con
la cucina abbastanza grande per consentire alla massaia di muoversi bene e
alla famiglia di disporsi con le “cadreghe” attorno al tavolo; il camino non
molto grande nel quale trovava posto il treppiedi (pulintera) per abbrustolire
le fette del “micon” o quelle di polenta o per tenere in caldo le vivande nei
tegami, pentolini e piatti di rame. Appesa sopra l’acquaio lo scolapiatti
(scoladõra), c’era la “ramera” con i tegami di rame, il setaccio (sdazzèin),
l’imbuto (pilièù) e lo scaldaletto (previ e scaldalet) tenuti lucidissimi vanto dalla
“arzadora”. Sulla credenza (pannadôra) troneggiava il macinino (masnèin) per
il caffè ( un vero lusso!), la bilancia a due piatti (balanza), il piatto non troppo
concavo per servire le pietanze(tond), la grattugia (grattaréna), alcuni vasi di
terra usati come casseruole (biella e stuòn) ed il ferro da stiro (fèr da sopress)
che veniva scaldato sui carboni roventi per stirare a dovere le camice
dell’uomo. Nel cassetto del tavolo era tutto il necessario per apparecchiare:
il cucchiaio (cuciâr), la forchetta (förslena), il coltello (curtè), il cucchiaino
(cuciarin). Qua e là appesi al muro un paio di cestini (scôrbinèin) e un piccolo
179 Articolo di Carlo Lanati pubblicato su “Il Popolo” del 19 dicembre 1989.

77
canestro (cavagneù) per tenere le verdure o quando c’era la frutta, ed era festa
quando attorno aleggiava il profumo del “crescente” o della “schisla”.
Appoggiata allo stipite della porta d’entrata immancabilmente c’era la scopa
fatta di rami di sangonella(scuon o scova), per tenere pulita l’aia e a scacciare il
malocchio quando cantavano il “ciod” e il ”murit”.
Una scaletta di legno (scalëta) a pioli conduceva al piano superiore
costituito da un’unica stanza da letto in qualche caso due. Nella camera
prendevano posto il letto (lett), due comodini (cumoden), l’armadio per gli
abiti (vestè) e l’armadio per la biancheria (armàri), il cassettone (cumô), il
portacatino (portacatei) e il baule (bavül).
Un portico (pòrtich), anche se di piccole dimensioni, era sempre nelle
vicinanze della casa o addossato ad essa. Al piano terreno si tenevano gli
attrezzi d’uso: la forca (fôrca), il forcone (fôrcòn), il rastrello (rastè o rastèll), il
marazzo (marass), la vanga (badìl), il badile con pala più leggera (badila), la
falce da fieno (fèrr da pra), la falce messoria (msôra), il falcetto per tagliare
l’erba nel campo (msôrein).
Non era raro vedere nei giorni di pioggia, quando non era possibile
lavorare nei campi, gli uomini seduti ad intrecciare “cavagnei ” o a preparare
la cesta per la chioccia (ciösa), usando i giovani rami del salice bianco (gabba),
o i tralci sottili (broca) per legare la vigna o intenti ad usare la mola (meùla)
per macinare i cereali secondo la stagione. Al riparo del portico c’erano i
conigli da carne (cunili).
In un angolo dell’aia, protetto dai rigori dell’inverno e dal sole, c’era il
pollaio con il gallo (gal), le galline (galène), la chioccia (ciösa) e i pulcini
(pulestren) e più distaccato il porcile con la mangiatoia (arbi) per il maiale (gugn
o animâl) la ricchezza della famiglia.
La cantina (cantena) doveva per necessità essere buia (scur), fresca e
ben orientata. Al suo interno troneggiava la botte (bôta) col suo tappo
(stoplòn) e sotto di questa il mastello per il travaso (travasen ), ed accanto la
botte per il vino da imbottigliare (buttarlèn) e la bigoncia (nävassa) capovolta
in attesa della vendemmia o il recipiente (bigoncen) dove si schiacciava l’uva a
piedi nudi. Appeso al muro il setaccio (sdàsa de la cantèna), in un angolo a
testa in sù la pala per rimuovere il graspo e le vinacce (pala per le racche). Varie
assi sovrapposte reggevano le bottiglie destinate all’invecchiamento.
Possibilmente distante dal vino c’era la botticella per l’aceto (buttarlen per
l’asèd). Da un muro all’altro veniva teso del filo di ferro al quale si
appendevano i salami (saläm), la pancetta e le bondiole per la stagionatura.
Su di un ripiano di legno (ass) qualche formagetta (formagela) ad indurire.

78
XXII.- IL CORREDO DELLA SPOSA

Ogni ragazza che si sposava portava il corredo che veniva preparato


con largo anticipo. Facevano parte del corredo: lenzuola (linsèù), asciugamani
(sugaman), federe (fodrëta), e la coperta imbottita (cuerta trapònta).
Il corredo minimo veniva detto “a dodici”, ma se la sposa era più
abbiente si faceva nei multipli di dodici. Tutto munito delle immancabili
cifre della sposa. Ricordiamo che il corredo veniva sempre mostrato alla
suocera prima delle nozze.
La sposa conservava gelosamente il suo corredo nel baule (bavül) che
era l’elemento più importante dell’arredo della camera da letto.

XXIII.- IL FORNO

Il forno (ël fôrën) consisteva in una piccola costruzione di pianta


quadrata con tetto a spiovente nelle immediate vicinanze della casa, in pietra
esternamente e con la volta semisferica di mattoni all’interno, con la bocca
chiusa da un coperchio in ferro con maniglia, il tutto sormontato da un
comignolo (camen). Sotto il forno isolato da una tramezza poteva esserci il
porcile (stabi) con il suo truogolo (arbi). Un forno si può vedere ancora in
Moncasacco alto ora proprietà Montalbano.
Gli attrezzi necessari per usare il forno erano: la ventola (ventàla) per
arieggiare il fuoco; la pala (pala da fôrën); il gancio (rampin); il secchio (basul)
per raccogliere le braci e uno spazzolone fatto di strisce di stoffa (brus,cion)
che inumidito serviva a nettare dalla cenere il piano di cottura. Quando il
cielo del forno arrivava al calor bianco si potevano introdurre i pani da
cuocere.
I meno fortunati, un tempo, mangiavano il pane nero fatto con la
farina della vicia sativa (vëssa) mischiata a quella delle fave essiccate e
macinate con la mola (mèula). In antico i cereali erano battuti sulle aie con il
coreggiato180 (verga).
Il pane di farina bianca era confezionato in grosse pagnotte (micon)
che si conservavano per più giorni nella madia (mesla).
A forno meno caldo cuocevano forme di pane di polenta (pan giard), i
panini (michei)e le ochette per la merenda dei piccoli, fatti con i ritagli della
sfoglia di pasta di pane con aggiunta di zucchero.

180Strumento che un tempo serviva per battere il grano ed era fatto di due bastoni, uno che si
teneva in mano detto manfanile, altro che serviva a battere detto vetta e questi erano legati insieme,
per i capi, con gombina o correggia.

79
XXIV.- IL DESINARE DI OGNI GIORNO E QUELLO DELLA
FESTA

Come in ogni contrada d’Europa un tempo anche a Moncasacco il


cibo era frugale: polenta, pane nero, qualche patata181 (pom ëd tera) condita
con il sale (sal), che al di là di ogni superstizione non andava sprecato ed era
un elemento prezioso. Dall’orto di casa si avevano i fagioli (fasèù), il cavolo
d’inverno (verz), qualche zucca (zuca e zucheìn).
San Geri, San Geri, la pegôra la ga la lana, la vaca la ga ël lat, ël tajabosch ël ga la
lëgna, a mi dam una castegna.

Il bosco in tutte le stagioni era fonte di sostentamento: i funghi (fons), le


lumache (lumäg), le castagne (castegne). Queste ultime si cuocevano in acqua
con la scorza (balët). Carne se ne vedeva poca o nulla. Il brodo (breüd) solo
per gli ammalati, una formula curativa diceva:brèùd de galena e decot de cantena.
Questo e poco d’altro. La dieta base di ogni giorno consisteva in zuppa,
fagioli, polenta (sûpa, fasèù, puleinta). Poche fette di polenta mangiate tra le
nove e le dieci del mattino erano il viatico fino a sera. Ovviamente quelle
famiglie che allevavano le galline, il maiale, la vacca potevano usufruire di
una maggiore benessere: qualche fetta di pancetta (pan e panseta) e di lardo
(lard); con lo strutto (l’unto) si friggeva la focaccia con i ciccioli (schisla coi
gratòn) e le patate (pôm frit). Il risparmio era una regola per tutti: qull ca travia
incö qull ga pèù niènt për dmàn. Con la torta di patate, ad esempio, si faceva a
meno della farina bianca
Dai soffitti delle cantine pendevano i salami crudi e le coppe (salam
crû e bondièùla) e sulla tavola ogni tanto faceva la sua apparizione il salame
cotto (salãm cot).
Per la ricorrenza dei morti era di rigore la zuppa di ceci (supa ëd zisër)
o la cotenna con i ceci (ziser con la cõdga).
Santa Lucia ël di ël pussé cürt che ghe sia. Si avvicinava l’inverno: le
nevicate erano abbondanti, si attendeva al lavoro al riparo dal freddo e il
cibo era più calorico, si terminava il pasto con pere o mele tagliate ed
essicate al sole dell’estate rinvenute in acqua e cotte in poco zucchero
(barciùll), barbabietola rossa (bidrâva) e baccalà in umido (mërluzz) con cipolla
e salsa di magro (pucia).
Il pasto del venerdì e quello della vigilia di Natale erano di magro
stretto, così l’antivigilia si celebrava la sira di set sene cioè si mangiavano a
scoppiare i ravioli (ravièù) vivanda di uova, carni e formaggio o verdure
tagliati nella pasta in forma quadrata con la rotella (rodleina), arrosti di
pollame cotti nel forno del pane, anzichè nel modo consueto, bolliti con

181 La patata fece la sua comparsa a Moncasacca agli inizi del milleottocento.

80
verdure, e per finire ciambelle (buslan) fatte con farina, burro, latte e
zucchero, e croccanti con le noci (crocant coi nös). Salvo il giorno dopo dover
invocare:

Santa Apollonia, Santa Apollonia


fa che ël mal ch’ go in di dent
va tutto nella sanforgna182.

Arrivava Natale (Nadal un pas ëd gal): al suo pranzo si rivedevano i ravioli,


gli arrosti e la ciambella e per la prima volta faceva la sua comparsa in tavola
l’uva, croatina o verdea (croateina o verdea), messa ad essiccare (uga secca) su
graticci o appesa a travetti del soffitto con dello spago, in un locale asciutto,
appassiva mantenendo la sua bontà e durava ben oltre le feste.
All’Epifania si diceva “Pasquetta un’oretta” e si portava in tavola
polenta con la frittura o risotto con la carne trita e i funghi (risòt e fons) e si
festeggiava con gli invitati
Pär la Madona ëd la Ziriöla183 ëd l’invërn sum fõra ma che piöva, che fiöca, che
faga él sôl, quaranta di aggiuma in co.

Il 17 gennaio: Sant’Antonio Abate si festeggiava con le castagne bianche


pelate (castegne plà) cotte in acqua con alloro e ammorbidite col lardo e unite
al riso.
Carnua ël vusa. A Carnevale quanta neve ancora! Le mascherine
saltellavano infreddolite, rattrappite, ma era un’occasione per festeggiare e
mangiare insieme a tutto il paese.
San Giuseppe era la festa delle frittelle (festa di farsèu) e delle
chiacchere. Le Ceneri e la Quaresima volevano ancora il magro stretto con
baccalà (mërluzz) e aringhe (sâracch) e il pane vecchio tagliato in fette sottili
rinvenuto in poca acqua e olio con l’aggiunta di un uovo e formaggio
(panada ) o la pasta con i funghi (pasta coi fons) e le cipolle ripiene (zigoll pen).
A Pasqua si rivedevano i panini di piccola forma (michei), ma questa
volta con inserito un uovo simbolo della vita che rinasce.
Se marz al na bagna, an fa erba ne päia ; aprïl tùtt i di un barì. E’
primavera, nuovamente la terra offre i primi frutti, anche le erbe tenere del
campo vanno a puntino, scottate in acqua bollente, strizzate e passate in
padella al burro con aggiunta di un paio di uova (para d’èùv), ecco la frittata
di tarasacco (frità de dent ëd can) e più avanti frittata di foglie tenere di
papavero (frità ëd cöfanon). Per le merende dei bambini (bagai) pane e crema di
latte (pan e panna) o pane e mela (pan e pôm).

182 Sanforgna= scacciapensieri, strumento a foggia di piccolissima arpa.


183 Ziriöla=candelora, festa della purificazione della Madonna.

81
Per le Cresime i padrini (gudàss e gudàssa) regalavano collane di
ciambelline (brassadè, buslanëi) che si mettevano al collo dei festeggiati.
San Giovanni: (San Giôan la giurna pussè lunga dl’ann). E’ il tempo del
gran lavoro: la massaia accompagnava il marito nei campi e il cibo
ridiventava frettoloso e frugale.

XXV.- LA STALLA

La stalla (stala) era di norma orientata ad est, non esposta ai venti


dominanti. Essa era di forma rettangolare con porta e finestrino per
consentire il ricambio dell’aria, sui lati lunghi era sistemata la mangiatoia
(grüpia), gli animali occupavano la posta (antag) ed erano legati con la catena
(cadeina). Il pavimento era leggermente in discesa per consentire lo scarico
del liquame. In antico a Moncasacco in ogni stalla non vi erano più di un
paio di animali o due buoi o due vacche. I buoi venivano ferrati e aggiogati
mentre le vacche davano vitelli e latte. Talvolta una sola vacca veniva
attaccata con un piccolo giogo ad un aratro di ridotte dimensioni (àra) e il
Moncasacchese lavorava il campo per quel che poteva.
Era vita dura! Al mattino d’estate la sveglia (levà su) era molto prima
dell’alba: gli uomini dovevano rifare la lettiera (fa su ël let) con il forcone (fôrca
a tri dent) rinnovandola con paglia fresca e resti di erba e fogliame (paja e
bula), pulire gli animali (ras,ciai e brus,ciai). L’impiantito veniva lavato con la
ramazza (strusòn o scôva)e si ripuliva la zanella (ël foss o rusadè) al centro del
locale.
Il pasto dei buoi era costituito dal beverone (búaia) consistente in
crusca bollita in acqua. Alle vacche era destinato lo stesso pasto dei buoi più
erba appena falciata per dare buon sapore al latte; al vitellino l’orzo e il seme
di lino cotto (linôsa). Il mungitore sedeva sullo sgabellino (scailegn) ed era
munito del secchio per mungere (slen da mönz).
Il latte veniva raccolto in recipienti (bidon) che venivano prelevati da
un raccoglitore che passava il mattino presto. Col latte rimasto toccava alla
massaia preparare il burro (butër) sbattendo il latte col battiburro o pestone
(burlarö) nel vaso fatto di doghe di legno, la zangola (tinèll de fa ël butèr),
tagliare la panna dal latte nella pannarola (spannadôra).
Quando il burro doveva durare per l’uso della famiglia la massaia lo
faceva soffriggere (butèr zittà), in modo che scaldandosi perdesse umidità, lo
formava in piccoli pani, lo salava e lo conservava in barattoli. Preparava
inoltre con i cagli naturali del piccolo cacio fresco o da conservare (ribiöla e
strachin) la cui forma tonda e schiacciata veniva data dall’apposito
contenitore in legno con i buchi (farscela) e il formaggio passo (formag niss o
ribiöla cui begh). Quest’ultimo si preparava lasciando maturare le formaggine

82
tenere fino a vederne dei piccoli vermi, questo era il momento giusto per
tagliarle a pezzi e metterle in un vaso di vetro con panna o vino bianco e
zucchero, tutto ben impastato; dopo qualche tempo si ripuliva il formaggio
dai residui, si amalgamava bene e serviva per condire le fette di polenta o
spalmarlo sul pane.

XXVI.- LA MACELLAZIONE DEL MAIALE

Quasi tutte le famiglie di Moncasacco allevavano il maiale: quelle


abbienti ne allevavano due. In questo caso per un detto in auge in Oltrepò
era come avere un salvadanaio perché il primo maiale serviva a pagarli,
mentre il secondo era gratis184.
Per le famiglie contadine, e quindi anche per quelle di Moncasacco,
l’uccisione del maiale (dopo il matrimonio, la nascita e la morte) era
l’avvenimento più importante.
Il giorno stabilito185 tutti i membri della famiglia, anche i bambini, si
alzavano presto e sul fuoco mettevano grandi pentoloni perché occorreva
molta acqua calda.
Il maiale (gugn, porsé) veniva fatto uscire dal porcile e con l’aiuto di una
corda veniva accucciato su un fianco. Il norcino (masulàr) lo uccideva
vibrandogli sulla testa un colpo secco di scure, poi gli infilava un coltello
nella gola per far uscire il sangue che veniva raccolto in un secchio. Il maiale
veniva adagiato su una scala a pioli e pulito con acqua bollente. Poi la scala
veniva issata e il maiale appeso ad essa per essere sventrato e squartato.
Nulla si perdeva! Le budella venivano lavate con acqua e aceto. La carne
tritata serviva per i salami, i cotechini (cùdghin). Si ricavavano coppe
(bondièùla), pancetta (pansèta), lardo (lard), salsiccia (salsizza). Si facevano col
sangue dei sanguinacci(sangônàzz). Le cipolle ben rosolate con l’aggiunta del
sanguinaccio tagliato a fettine, condite con burro, sale e pepe costituivano
una pietanza succolenta chiamata il “sang rustì”; invece i nervetti di guancia e
di piedino con l’aggiunta di uva passa, zucchero ed aceto costituivano il
ghiotto “duls e brusc”.
Il lavoro durava tutto il giorno. Il masulàr veniva pagato in denaro. Al
termine si faceva una festa alla quale partecipavano anche i vicini; si
mangiava risotto con funghi e carne trita del maiale appena macellato e si
beveva vino rosso.
L’aria di Moncasacco era (ed è) particolarmente adatta per la
stagionatura dei salami: coloro che non avevano la cantina li facevano
stagionare in camera da letto.

184 OSVALDO GALLI, äl masulàr, edizioni Guardamagna (Varzi, 1991), pag. 63.
185 Idem pagg. 31-35.

83
XXVII.- LA VEGLIA

Le stalle di Moncasacco, d’inverno, erano luogo di riunione (sït o sïd)


caldo ed accogliente dove si trascorreva la sera (veglia). Ci si riuniva anche di
giorno quando all’esterno c’era la neve o il gelo.
Per partecipare alla veglia, che avveniva dopo la cena frugale, tutti si
portavano da casa una seggiola (cadregh) o uno sgabello (sgabell).
All’accogliente calore della stalla, dove stavano silenziose le vacche e la
“primareula” che avrebbe partorito a primavera il “bôcin” (vitello da latte), si
attendeva la notte: qualche donna filava o lavorava a maglia e alla tenue luce
del lume a petrolio (lüm) si raccontavano storielle ai bimbi appariva nel buio
l’immagine del diavolo (Barlìcc), mentre gli uomini giocando a carte si
scambiavano opinioni sui fatti del paese, sui frutti dell’annata, sul vino (ven) ,
sul vitello (vidèll) o recriminavano i danni provocati dal cinghiale (gügn
salvadeg) alle culture, oppure infinite discussioni sul prezzo del grano.
Se era novembre si gustavano i ciccioli di maiale (gratòn) offerti su un “tond”
oppure fragranti castagne cotte in acqua con la scorza (ballìt), il tutto
innaffiato di tanto in tanto dal buon vino novello, versato dal “butili ”
appena spillato dal “bottarlin ” nei capaci “bicèr ”, mentre ogni capofamiglia
beveva nel “pèchër186” . Si sbocconcellavano avanzi di micca o di polenta I
più giovani amoreggiavano nella semi oscurità: si ballava e si rideva. Attorno
i “bagai ” sgattaiolavano tra le gambe degli adulti giocando nel buio a
nascondino (scôndalera) o a testa e croce (cröss e stëlla) o ad “andà sött”, mentre
qualche piccino, ultimo nato. dormiva nella “côna” (culla). Dai Santi a
Pasqua la veglia era anche occasione di preghiera comune: si recitava il santo
Rosario.

XXVIII.-LA VEGLIA FUNEBRE

La morte oggi è diventata quasi un fatto privato. Un tempo non era


così. A Moncasacco, fino al 1960 circa, a turno si vegliava, anche durante la
notte, la salma del compaesano che era morto. Si recitava coralmente in
latino il Rosario quasi a sottolineare il passaggio dalla vita mortale alla vita
eterna. Questa ritualità era un mezzo che permetteva, per dirla con le parole
dello storico Ernesto de Martino187, di “trascendere il momento critico della
situazione luttuosa” che non era avvertito solamente dai familiari del defunto,
ma da tutti i componenti della comunità di Moncasacco.

186 Il pèchër è un bicchiere grande col manico.


187 ERNESTO de MARTINO, Morte e pianto rituale, Paolo Boringhieri (Torino, 1975), pag. 43.

84
Tutto il paese partecipava al funerale: il corteo si avviva da
Moncasacco per la strada, che dopo l’attuale cimitero, passa per Monte
Pioggia per giungere a Pieve di Stadera nella cui chiesa si celebrava il rito
funebre al termine del quale la salma veniva accolta nel locale cimitero. La
famiglia del defunto faceva intervenire alle esequie dei cantori che lo
facevano di professione.

XXIX.- IL DIALETTO DI MONCASACCO

La Val Tidone e la Val Versa sentono l’influenza del sistema dialettale


emiliano-romagnolo che si propaga oltre la regione Emilia, verso ovest, sino
a Voghera e Pavia188. Il dialetto dell’area di Moncasacco è un misto di
termini piacentini e pavesi. Senza voler fare una trattazione scientifica
indichiamo, a titolo di esempio, alcuni vocaboli usati a Moncasacco
sottolineandone la derivazione

Italiano dialetto di Moncasacco dal dialetto

barba di becco basa prètt piacentino


botte bôtta piacentino
cappello capell pavese
cappello di paglia lobia pavese
castagna castegna pavese
castagna lessata ballìtt piacentino
ceci zìzër pavese
cestino cavagnèù pavese
covone môrgnòn piacentino
finocchio erba bona pavese
fragola magiostra pavese
grattugia grattaréna pavese
madrina gudazza pavese antico
mugnaio mulnè pavese
ortolano ortlàn pavese
padrino gudazz pavese antico
padrone di casa arzadõ pavese
padrona di casa arzadôra pavese
rastrello rastè pavese
taraxacum catareina piacentino
vitalba videlbôra pavese
zucca succa pavese
zucchina suchèin pavese
zuppa supa pavese

Di alcuni vocaboli, che non citiamo, non abbiamo ritrovato il


corrispondente nei dialetti pavese o piacentino perché sembra predominare
188 Enciclopedia Italiana (Treccani), voce Emilia pg. 905-6.

85
l’influenza dell’italiano. Di alcune parole non siamo riusciti a trovare il
riscontro in altri dialetti tanto che pensiamo siano vocaboli formatisi
nell’area di Moncasacco quando l’isolamento era più marcato. Spesso
abbiamo avuta difficoltà a scrivere alcune parole, infatti quando non è stato
possibile un riscontro sui dizionari dialettali abbiamo trascritto i vocaboli
così come si pronunciano. Soluzione adottata anche dai più autorevoli
cultori del dialetto189.

XXX.- IL COSTUME

Nel novecento, in occasione delle festività, gli uomini di Moncasacco


indossavano pantaloni alla zuava o la muda (comprendente giacca, gilet,
calzoni); d’inverno il mantello (tabar) di panno nero pesante, con il bavero
(bavër) lasciato ricadere all’indietro. Le donne portavano sul capo un
fazzoletto (fazzolët), legato sotto il mento, dai colori più o meno vivaci
secondo l’età e l’occasione; sopra la camicia (camisei) indossavano un
corpetto190 (bust), indumento che, come il grembiule (scossal) si può
riscontrare in quasi tutti i costumi regionali Solo nei giorni di festa le donne
calzavano degli stivaletti. Di più non ci è dato sapere, eppure siamo convinti
che nel settecento e nell’ottocento in Val Versa e in Val Tidone (e quindi
anche a Moncasacco) ci fosse un abito tradizionale di cui si è persa la
memoria. Forse in un baule depositato in qualche soffitta c’è la soluzione
del mistero, che se svelato potrebbe servire al folclore della zona.

189CESARE ZILOCCHI, Asé, azé o aseo? Il dubbio resta. Breverant potrebbe derivare da ebreo errante,
articolo nella “Libertà” del 5 febbraio 2000.
190 Indumento che si tiene sopra la camicia.

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BIBLIOGRAFIA

Oltre alle fonti archivistiche, che abbiamo citato nelle note e alle testimonianze, che abbiamo indicate
nel ringraziamento, ci siamo avvalsi di alcuni volumi e articoli di periodici che si trovano a Moncasacco
nella biblioteca de «la Malmostosa» a disposizione di chi li volesse consultare.

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Finito di stampare nel mese di luglio dell’anno 2001
nella Tipografia

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