a cura di
MASSIMO OLDONI
traduzione di
LUISA ROBERTI DE LUCA
con un saggio di
FEDERICO MARAZZI
Chronicon Vulturnense del MONACO GIOVANNI
a cura di
MASSIMO OLDONI
Traduzione
LUISA ROBERTI DE LUCA
Direzione Editoriale
IDA DI IANNI
Realizzazione editoriale
Volturnia Edizioni
Piazza Santa Maria, 5
86072 Cerro al Volturno (IS)
www.volturniaedizioni.com
info@voltuniaedizioni.com
Le Miniature e le pagine del Chronicon sono state fornite dalla Biblioteca Apostolica
Vaticana che ne ha approvato la pubblicazione in questo volume.
Autorizzazione n. 695 del 23/10/2009 - (Fatt. n. F/PR36 23/10/2009 - 6/4879)
Tutti i diritti sono riservati. Nessuna parte di questo volume può essere riprodotto o
utilizzata in alcun modo senza il consenso scritto da parte dei titolari del copyright.
ISBN 978-88-96092-03-3
In copertina: Miniatura Cod. Barb. lat. 2724. f. 036 r, che raffigura l’arrivo
di Paldo, Tato e Taso a San Vincenzo al Volturno nell’anno 703 d.C.
VII
Presentazione
Presentazione
Presentazione
La Badessa Benedict rispose inviando due sue sorelle, che incaricò di espletare
questa missione nel 1990, vale a dire la Reverenda Madre Miriam Benedict, O.S.B.,
Priora, co-fondatrice della Prioria Our Lady of the Rock nelle San Juan Islands del
Pacifico Northwest degli Stati Uniti, e Madre Agnese Shaw, bibliotecaria, storica e
rilegatrice presso il Regina Laudis. Nel 1991 anche Madre Filippa Kline, O.S.B., giunse
a San Vincenzo per approfondire i propri studi in Archeologia. Ella prima rientrò per
più di tre anni al Regina Laudis per continuare a studiare ed in seguito fece ritorno a
San Vincenzo nel 1994 per diventare un membro permanente della comunità, scrive-
re la sua tesi “The land remembers: a contextual approach to the Abbey of Regina Laudis
archaeological project” e ricevere infine la Laurea in Antropologia. Quel che ciascuna si
riprometteva venendo a San Vincenzo era un impegno da assumersi nei confronti del
luogo, della sua gente e del Molise con la sua cultura e con la sua storia.
Sin dagli inizi della nostra vita monastica a San Vincenzo, il 14 maggio del
1990, ci siamo sentite inserite nella lunga e varia esistenza di questa abbazia, parte
della continuità del Chronicon. Giorno dopo giorno infatti il progredire degli scavi
archeologici che andavano rivelando il passato ed il risorgere dell’osservanza della
vita monastica nel quotidiano hanno destato l’abbazia dal suo centenario sonno per
riportarla ad una nuova primavera. Giorno dopo giorno lo spirito degli originari fon-
datori di San Vincenzo è diventato il nostro modo per arrivare a Cristo nella povertà
dell’esistenza. Come Sant’Ambrogio afferma nelle Vita Patrum, Paldo, Taso e Tato
avevano quella sola volontà, quell’unico pensiero e quel solo desiderio di seguire
Cristo “nudo”, privo di qualsiasi fardello spirituale e materiale, nel combattere con-
tro il nostro nemico, il diavolo nel suo vario manifestarsi…Giorno dopo giorno il san-
gue dei santi monaci e martiri di San Vincenzo è tornato a fiorire nella preghiera, nel
lavoro dei campi, nell’artigianato, nella cultura…
Sin dall’inizio non avremmo potuto godere di questa nuova Primavera senza
la grazia del Signore, il sostegno dell’Abate Bernardo D’Onorio e del suo successore
l’Abate Pietro Vittorelli di Montecassino e della sua comunità, della Regione Molise,
XII CHRONICON VULTURNENSE DEL MONACO GIOVANNI
Presentazione
NATALINO PAONE
U
n grande teologo, oggi al vertice della Chiesa Cattolica, ha dedicato l’udienza
generale di mercoledì 22 aprile 2009 all’insegnamento di sant’Ambrogio
Autperto per uscire dalla crisi economica mondiale.
Il grande teologo odierno si chiama Benedetto XVI, sant’Ambrogio Autperto fu
monaco e abate nell’VIII secolo a SanVincenzo al Volturno, “oasi di cultura classica e
cristiana”, come viene definito dal pontefice nell’udienza.
Nel duecentesco Chronicon Vulturnense le prime 40 pagine sono dedicate a quel mona-
co: monaco del quale Benedetto XVI è andato a ricercare le opere conservate in poche
biblioteche europee per approfondire il pensiero del noto teologo altomedievale.
Di Autperto hanno scritto in molti, ma la novità è l’attualità dell’insegnamento tra-
mandatoci che Benedetto XVI ha riproposto al mondo.
Si tratta di un insegnamento teso al riposizionamento culturale di una società che si è
lasciata prendere dalla cupidigia: quella su cui si intrattiene Autperto nell’opera De
cupiditate. Un’opera che non è venuta alla luce dagli scavi archeologici, ricchi di archi-
tettura e d’arte, ma dalle biblioteche che qua e là per l’Europa documentano l’esisten-
za di un attivissimo scriptorium monastico che pose San Vincenzo tra i pochi primi
monasteri impegnati a produrre cultura oltre che a recuperarla durante le invasioni
barbariche seguite alla caduta dell’impero.
A Benedetto XVI piace molto “scavare” negli archivi, come, ad esempio, sta facendo
madre Agnese Shaw O.S.B., che a San Vincenzo al Volturno è impegnata nel recupe-
ro e nella riproposizione degli scritti di Autperto con commento: recente è la pubbli-
cazione di Exposition in Apocalypsin.
(A. Shaw, I libri dell’Abbazia di San Vincenzo al Volturno nella loro storia. Volume I. Gli
antenati,“ I quaderni” dell’Associazione Culturale Amici di San Vincenzo al Volturno,
Volturnia Edizioni, 2009).
Due parole su Autperto per profilarne al meglio la personalità.
Nato in Provenza da distinta famiglia, secondo il suo “tardivo biografo
Giovanni”, dopo essere stato ufficiale di corte di Pipino il Breve e precettore di Carlo
Magno, giunse in Italia al seguito del pontefice Stefano II, di ritorno dalla Francia nel
753-754, e qui, in visita al monastero di San Vincenzo, abbracciò la vita monastica.
Altra fonte, invece, dà Autperto monaco nel 740 a San Vincenzo al Volturno, dove
riceve la sua formazione, è sacerdote nel 761, abate dal 4 ottobre 777 al 28 dicembre
778, muore nel viaggio per Roma convocato dal papa Adriano I il 30 gennaio del 778
(“probabilmente assassinato”) (Réginald Grégoire, Università di Pisa, L’abate
Ambrogio Autperto e la spiritualità altomedievale, in “ San Vincenzo al Volturno”,
Montecassino 1985).
Ma, al di là della fonti sulla sua vita, importanti sono le opere che ha lasciato,
tra cui il Commento sull’Apocalisse; “acuti scritti religios”, come ricorda Nicola
Cilento, che contribuirono ad introdurre il culto di Maria mediatrice in Occidente; De
XVI NATALINO PAONE
sono abbastanza noti e documentati. Nella relazione di uno degli abati commendata-
ri, Cesare Costa (1566-68) , per esempio, si legge che il monastero, una volta in grado
di alimentare 500 monaci, ora manteneva a stento un cappellano. Si deve a Costa il
recupero del Chronicon, che egli voleva integrare con la sua testimonianza oculare,
che con greci e romani faceva fonte storica; testimonianza mancata al monaco
Giovanni che dovette affrontare l’immane lavoro secoli dopo il rogo saraceno segui-
to da decenni di abbandono, quindi con ricostruzione fatta di immagini riflesse del
passato e, per necessità, reinventate qua e là.
Dal Chronicon agli scavi archeologici, andati avanti in modo particolare dal
1980 al 2oo8 in particolare con recupero degli unici pavimenti originali dei monaste-
ri benedettini europei coevi, la realtà volturnense benedettina ha trovato coniugazio-
ne, integrazioni e modifiche, e oggi il quadro appare in tutta la sua portata storica.
Se a questo felice connubio si unisce il ritrovamento di scritti culturali importanti
anche per l’attuale società, come dimostra l’intervento del pontefice riportato all’ini-
zio, San Vincenzo entra nel dibattito globale attuale con valori universali, quelli che
alcuni filosofi e politologi pongono ala base del riposizionamento della società in que-
sto suo passaggio di civiltà. Valori che qualche ricercatore prone di chiamare “virtù
globali” ad evitare equivoci con termini che rimandano al passato di forti divisioni e
contrapposizioni. Dal resto, negli anni ’80 del secolo scorso anche i Gesuiti invocava-
no la nuova scala di valori per sostituire quella tradizionale che non c’era più già allo-
ra!
Come si evince approfondendo il discorso sul monastero volturnense, il
Chronicon, con tutte le lacune, rimane un documento importante per ridefinire enti-
tà e ruolo di uno dei monasteri europei alla base della rinascita del vecchio continen-
te dopo la caduta dell’impero. Per fortuna, dopo un viaggio travagliato che si può leg-
gere appresso, oggi quel documento duecentesco è consultabile grazie all’intervento
di restauro della Biblioteca Apostolica Vaticana con il sostegno finanziario dell’istitu-
to Regionale per gli Studi Storici “V. Cuoco” all’inizio degli anni ’90 del secolo scor-
so.
In questa attualizzazione di San Vincenzo al Volturno finalizzata alla scelta di
fondo della ricomposizione europea su valori condivisibili, è quanto mai opportuno
riprendere l’altro insegnamento tramandatoci dal Ambrogio Autperto: “ Abbracciate
il piccolo, ma volgete il pensiero all’immenso” (“Discorso sull’Ipapante di Santa
Maria, 4”).
Ed è con questo messaggio di grande attualità che un pensiero di riconoscen-
za va doveroso a coloro che hanno contribuito al recupero di un monastero disperso
tra le carte e sepolto da campi coltivati frequentati per secoli da uomini e animali al
lavoro.
Alcuni dati essenziali sul Chronicon originale aiutano a comprendere anche le traver-
sie abbaziali.
Il Chronicon nasce a San Vincenzo tra il 1124 e il 1130. La stesura è curata dal
monaco Giovanni con la partecipazione di diversi confratelli. Il volume si compone di
341 fogli di pergamena e misura cm. 19,5x32,6. La lingua è quella beneventana di tipo
cassinese, in uso nel Mezzogiorno continentale italiano tra i secoli X e XIV. È decora-
INSEGNAMENTI E PECULIARITÀ DI SAN VINCENZO AL VOLTURNO XIX
FEDERICO MARAZZI
P er chi si avvicini per la prima volta allo studio della storia di San Vincenzo al
Volturno sorge quasi spontaneo considerare il manoscritto Barberiniano Latino
2724, custodito presso la Biblioteca Apostolica Vaticana, e che è il codice originale su
cui fu vergato il testo del Chronicon Vulturnense, come lo scrigno che serba tutte le
risposte riguardo la vita e le vicende dell’abbazia molisana. La realtà tuttavia è molto
diversa.
Il prezioso tomo, infatti, contiene uno scritto generato da una tormentata ste-
sura, a sua volta suddiviso in “blocchi” testuali molto difformi tra loro per tipologia,
cronologia e tradizione, che fu composto non da un solo “scrittore” ma, assai proba-
bilmente, da più persone attive nello scriptorium abbaziale e, per di più, evidentemen-
te interrotto poco oltre la metà del piano dichiarato in apertura del primo dei sette
libri in cui l’opera si sarebbe dovuta articolare.
Inoltre, molte delle notizie storiche che le parti narrative del testo riportano,
non sono, per così dire, delle “esclusive”, derivanti dal fatto che il monaco Giovanni,
che ebbe il compito di coordinare la stesura del Chronicon, fosse stato testimone ocu-
lare degli eventi narrati; bensì esse per lo più derivano da un’opera di collazione fra
diverse altre fonti (contemporanee o più antiche), la cui consultazione dovette essere
possibile presso lo scriptorium abbaziale.
Infine – ed è la considerazione apparentemente più banale – bisogna tenere presente
il punto di vista e l’obbiettivo che il nostro testo si prefiggeva. Il Chronicon, senza
peraltro nulla togliere al suo rilievo in quanto fonte per la storia, non è una vera e pro-
pria opera di storiografia. Dico ciò poiché il suo autore (o, piuttosto, redattore-capo),
nonostante le intenzioni, palesate nell’apertura del I libro, di collegare la storia del-
l’abbazia alla cronologia universale, non manifesta quasi mai l’ambizione di propor-
re un racconto storico organico, magari accompagnato da riflessioni generali sulle
contingenze politiche e spirituali delle diverse epoche solcate dalle vicende interne
del suo monastero.
In questo senso, egli diverge anche dalla cronachistica monastica altomedieva-
le vera e propria, che pure nel Meridione italiano aveva prodotto personalità di un
certo rilievo, in grado di svolgere non solo un racconto storico articolato, ma anche di
“condirlo” con l’esplicitazione di opinioni fortemente motivate: mi riferisco per esem-
pio al monaco cassinese Erchemperto, attivo fra terzo e ultimo quarto del IX secolo,
ma anche al cosiddetto Anonimo Salernitano, fiorito un secolo dopo, per tacere dei
cronisti della prima età normanna, come Amato di Montecassino e Guglielmo di
XXII FEDERICO MARAZZI
Puglia.
In realtà, il prodotto che il monaco Giovanni ha inteso realizzare è piuttosto un
dossier, in cui l’elemento preminente è costituito dalla serie di documenti (sulla cui
attendibilità tornerò più avanti) necessari a puntellare, con la forza di una tradizione
e di una memoria plurisecolari, la traballante auctoritas del cenobio vulturnense nel
quadro di un Meridione, ormai dominato dai normanni, in cui erano da tempo scom-
parsi gli antichi interlocutori istituzionali del monastero (l’impero e i principati lon-
gobardi) e se ne era fortemente indebolita la base patrimoniale, un tempo base della
sua indiscussa primazia spirituale.
Fermo restando che nessuna narrazione storica (e tanto meno quelle medieva-
li) può assumere carattere di assoluta terzietà rispetto al proprio oggetto, è però evi-
dente che, nel nostro caso, il cronista di San Vincenzo, non solo svolge un lavoro “su
commissione” del proprio abate, come egli stesso apertamente dichiara, ma è eviden-
temente assillato dalla necessità di conseguire il più rapidamente possibile l’obbietti-
vo che si è prefissato, lasciando quindi sostanzialmente ai documenti che egli trascri-
ve il compito di dimostrare l’appartenenza del suo monastero al disegno storico prov-
videnziale universale, alla cui attuazione esso contribuisce mediante la viva fede e
l’incessante preghiera dei suoi monaci. I passi narrativi che s’intervallano ai testi dei
documenti – benché di certo non privi in sé d’interesse – hanno però più che altro fun-
zione di “cucitura” tra le diverse evidenze documentarie e di introduzione (talora
piuttosto sbrigativa) alle medesime.
Più o meno nello stesso periodo in cui Giovanni attivò l’officina del Chronicon
Vulturnense, e cioè nei decenni a cavallo fra XI e XII secolo, anche altri importanti
monasteri del centro-sud italiano attesero ad un’analoga opera di ricostruzione stori-
co-documentaria del proprio passato. Ma, rispetto a quanto avviene a San Vincenzo
al Volturno, negli altri casi il lavoro appare in genere meno frettoloso e succinto.
Soprattutto, viene distinta nettamente, in genere, la costruzione della narrazione sto-
rica dal momento del riordinamento e della presentazione dei documenti che alla
prima dovrebbe conferire sostanza e validità.
A Farfa e Montecassino, ad esempio, cronaca e repertorio documentale vengo-
no collocati in sedi diverse: da un lato abbiamo il testo cronachistico vero e proprio e
dall’altro tomi nei quali fu raccolta è resa possibile la consultazione dei dati documen-
tari. Anche nel caso del monastero abruzzese di San Clemente a Casauria, che per ulti-
mo provvede, agli inizi alla fine del XII, alla riorganizzazione della propria memoria
scritta, non avviene la continua e faticosa interferenza fra narrazione e documenti che
si registra nel Chronicon Vulturnense. In qustocaso, infatti, cronaca e documenti sono
sì disposti sulle pagine del medesimo codice, ma il testo narrativo procede per pro-
prio conto, senza svolgere la funzione ancillare nei riguardi delle chartae cui è costret-
to nella cronaca del monastero molisano. Analogamente accade a Subiaco, la cui cro-
naca, benché costituita da un patchwork di blocchi testuali redatti in tempi diversi
(ma con un nucleo originario del XII secolo), è nettamente distinta dal regestum delle
chartae. La differenziazione di testo e documenti va a tutto vantaggio della qualità
della cronaca, che può così dispiegare più liberamente il suo filo narrativo, benché
questo sia sempre indirizzato – come nel caso di San Vincenzo al Volturno – verso
LEGGERE LA STORIA DI SAN VINCENZO AL VOLTURNO ATTRAVERSO IL CHRONICON XXIII
l’obbiettivo di garantire un valido strumento con cui sostenere la lotta che il monaste-
ro conduce per garantirsi uno spazio di sopravvivenza in un presente politicamente
incerto e minacciato, anche dal punto di vista prettamente spirituale, dall’emergere di
nuove forme di organizzazione e conduzione della vita ascetica.
Ci si può legittimamente chiedere, operando un confronto con le altre crona-
che, se lo sbilanciamento che si registra nel Chronicon Vulturnense fra testo narrativo e
testi documentari sia stato frutto di un progetto che, sin dall’inizio, si fosse previsto
di articolare in questo modo, o se, viceversa, ci si trovi di fronte ad un prodotto “inter-
medio” rispetto ad un obbiettivo originario più ambizioso, magari simile a quello
attuato in altri cenobi e che nel monastero molisano potrebbe essere stato impedito da
varie ragioni, come ad esempio quella di dover disporre in fretta di uno strumento in
grado di garantire rapidamente la disponibilità di informazioni preziose.
Si consideri, a questo proposito, che la fase redazionale del Chronicon cade in
un periodo particolarissimo della storia del monastero, e cioè quella che vide l’abban-
dono della vecchia e gloriosa sede fondata in età longobarda, ingrandita in età caro-
lingia e, ancora, oggetto di importanti restauri effettuati fra tardo X e XI secolo, in
favore di un nuovo complesso costruito sulla riva opposta del Volturno, che sarebbe
stato inaugurato in occasione della visita di papa Pasquale II, avvenuta nel 1115. Nel
suo prologo, il cronista vulturnense ci ricorda che al papa stesso, durante il suo sog-
giorno a Benevento, fu mostrata la sua opera, ancora in corso di redazione, auspice
l’intervento del cancellarius pontificio Giovanni, che, di lì a poco, sarebbe stato a sua
volta eletto pontefice, con il nome di Gelasio II. Non è da escludere, quindi, che si per-
seguisse l’obbiettivo di ottenere, al contempo, il completamento del nuovo monaste-
ro e la possibilità che, attraverso il Chronicon, si dipanasse una sorta di filo di Arianna
che lo collegava all’antico.
Se dunque si dovesse stilare un’immaginaria graduatoria della produzione
cronachistica monastica dell’Italia centro-meridionale del XII-XIII secolo, il testo vul-
turnense, apparirebbe schiacciato verso il basso in virtù della preminenza conferita, a
scapito del testo narrativo vero e proprio, alla sequenza delle evidenze documentarie,
alle quali il monaco Giovanni attribuiva un ruolo assolutamente centrale. E proprio
questa sorta di florilegio archivistico, costituito dalla serie di duecentoquattro docu-
menti, compresi cronologicamente fra l’inizio dell’VIII secolo ed il 1115, trascritti ed
inseriti nella cronaca e che ne costituiscono la vera e propria spina dorsale, rappresen-
ta la crux storico-filologica più rilevante di tutto il testo.
Senza poter scendere in questa sede in una disamina dettagliata dei singoli
casi, esiste infatti un problema rilevantissimo di valutazione dell’attendibilità di
molte delle chartae inserite dal cronista nella sua opera.
Bisogna dire che Giovanni e i suoi aiutanti ebbero di fronte a loro una sfida
assolutamente ardua: i quattrocento anni di vita del monastero, infatti, erano stati sì
punteggiati da momenti di gloria, ma anche da frangenti drammatici, in occasione dei
quali la stessa sopravvivenza della comunità era stata posta a serio rischio. Mi riferi-
sco ovviamente in primo luogo all’evento del sacco arabo del 10 ottobre dell’881, cui
seguì il forzato trasferimento dei monaci a Capua e l’abbandono del vecchio monaste-
ro, ma anche al successivo assalto all’abbazia compiuto dai Borrelli, conti della val di
XXIV FEDERICO MARAZZI
Sangro, alla fine degli anni ’30 dell’XI secolo ed ai torbidi che si verificarono tra la
morte dell’abate Liutfredo (1053) e l’elezione del suo successore, Giovanni V, che ebbe
luogo nel 1057, quindi dopo ben quattro anni di vacanza.
Un archivio ed il suo contenuto sono di per sé qualcosa di estremamente fragi-
le, che mal sopporta eventi traumatici, abbandoni e traslochi. È molto probabile, per-
ciò, che un corollario delle traversie subite nei secoli dal monastero sia stato il dan-
neggiamento – più o meno esteso – dell’archivio medesimo e del suo contenuto. Già
per opera di Ludovico Antonio Muratori, che per primo produsse un’edizione a stam-
pa del Chronicon nel XVIII secolo, e poi di Vincenzo Federici, che ne curò la prima (e
sinora unica) edizione critica negli anni ’30 del XX secolo, e infine da parte Herbert
Zielinski, che ha pubblicato recentemente i volumi del Codice Diplomatico
Longobardo concernenti i territori dei ducati di Spoleto e Benevento, è stato segnala-
to che, soprattutto fra i documenti anteriori all’881 (circa una novantina), è altissima
la percentuale di quelli che, da un punto di vista formale, o sono chiaramente dei falsi
o presentano un testo che è stato quanto meno ampiamente rimaneggiato. Tale valu-
tazione è emersa soprattutto relativamente ai documenti di origine pubblica, e cioè
quelli emessi da autorità sovrane, come re e duchi longobardi, re e imperatori franchi
e da pontefici. E da tale problematica non sono immuni neppure diversi fra i docu-
menti pubblici di X e XI secolo, emessi ancora una volta da pontefici, ma anche da
imperatori germanici e bizantini e dai principi longobardi di Capua e di Benevento.
La valutazione della falsità totale o parziale di documenti pubblici è più age-
vole rispetto a quelli privati, poiché i primi sono il prodotto di cancellerie che opera-
vano seguendo stili e formulari più rigidamente codificati e tracciabili nel tempo. Ma,
naturalmente, non può essere escluso che anche fra le carte private si possano trova-
re esemplari il cui contenuto sia stato oggetto di interventi di manomissione.
Il problema della falsificazione dei documenti non riguarda solo San Vincenzo
al Volturno. A Montecassino, ad esempio, il continuatore di Leone Ostiense, autore
della Chronica Monasterii Casinensis – che possiamo considerare come l’omologo cas-
sinese del monaco Giovanni di San Vincenzo -, fu il celebre Pietro Diacono, che svol-
se un ruolo importantissimo nel riordinamento dell’archivio dell’abbazia laziale
durante il secondo quarto del XII secolo. Alla sua opera è ricondotta anche la produ-
zione di un cospicuo insieme di falsificazioni ovvero di interpolazioni, operate soprat-
tutto su documenti pubblici, mirante in genere al rafforzamento delle pretese abba-
ziali su beni immobili di vario tipo. L’opera manipolatoria di Pietro Diacono è stata
condotta con tale pervasività e raffinatezza, da generare un intrico di problemi inter-
pretativi la cui effettiva portata sulla consistenza complessiva del corpus documenta-
rio di Montecassino è ancora ben lungi dal poter essere pienamente compresa. Dato
che l’abbazia laziale subì un assalto arabo nello stesso periodo di quello avvenuto a
San Vincenzo al Volturno, i problemi maggiori anche in questo caso affliggono i docu-
menti di VIII e di IX secolo, che certamente più soffrirono a causa dei danni riportati
dal monastero in questa circostanza e dal suo successivo abbandono e trasferimento
della comunità prima a Teano e poi a Capua, che fece ritorno a Montecassino solo
intorno al 950.
Per comprendere come operazioni del genere siano state possibili, bisogna
LEGGERE LA STORIA DI SAN VINCENZO AL VOLTURNO ATTRAVERSO IL CHRONICON XXV
tenere presenti alcuni fattori che, nella mentalità dei secoli dell’alto e del pieno
medioevo, rivestivano un’importanza assolutamente centrale. Da un lato, alle infor-
mazioni trasmesse per via orale veniva attribuita una credibilità tale per cui, dati e
notizie che potevano scaturire dall’escussione di testimoni relativamente all’apparte-
nenza o meno di un determinato bene al patrimonio monastico, potevano facilmente
essere poi assorbite in documentazione scritta prodotta ex-novo, anche in presenza
della perdita di “pezze d’appoggio” più antiche. D’altro lato, non va dimenticata l’au-
torità quasi sacrale conferita alla parola scritta, strumento che solo pochi (e, tra que-
sti, in particolare gli ecclesiastici) erano in condizione di gestire con sicurezza. Infine,
e in conseguenza di quanto appena detto, nonostante tutte le traversie cui potevano
andar soggetti, va tenuta presente anche la rarità dei luoghi in cui la parola scritta era
coltivata e custodita (biblioteche e archivi), e quindi la reputazione dei medesimi.
Nei monasteri si realizzava la felice concomitanza che permetteva a tutti e tre
questi elementi di entrare in gioco con estrema efficacia, per permettere anche ad
informazioni non verificabili di acquisire forza e persuasività. La stabilità e la conti-
nuità di vita nel tempo di una comunità monastica, il grado generalmente alto di alfa-
betizzazione e di acculturazione riscontrabile al suo interno e la presenza in essa –
nonostante danni e menomazioni – di archivi che avevano (o si ritenevano avere)
secoli di esistenza sulle loro spalle ed il cui accesso non era consentito a chiunque,
contribuivano a far sì che fatti e dati non solo si potessero conservare più agevolmen-
te che altrove, ma che di essi si riuscisse anche ad operare una costruzione in vitro. Ad
esempio, non era difficile che un’informazione – magari tramandata “a memoria”
all’interno della comunità –, relativa all’appartenenza di un certo possesso al patrimo-
nio dell’abbazia, potesse essere poi trasposta per iscritto, conservata nell’archivio e, al
momento opportuno, fatta inserire all’interno di un documento emanato da un’auto-
rità pubblica (un re, un imperatore o un pontefice) in grado di sanzionarne l’ufficiali-
tà.
Questi complessi e mai espliciti retroscena hanno inciso fortemente sulla for-
mazione dei corpora documentari dei monasteri altomedievali italiani e, nella fattispe-
cie, di quello proposto dal Chronicon Vulturnense. Essi costituiscono la trama di vere e
proprie “detective stories”, in cui trovare mandanti, moventi ed esecutori di quanto
viene posto in essere non solo è assai complesso, ma può richiedere il concorso di più
competenze scientifiche: da quella dello storico tout-court, a quella del diplomatista
(cioè chi svolge l’analisi formale dei documenti), a quella del filologo del testo, a quel-
la, infine, del topografo e dell’archeologo, quando si tratti di andare a verificare sul
terreno quanto descritto nei documenti.
Un caso concreto di come questo tipo di processo potesse essere messo in pra-
tica emerge chiaramente esaminando un documento prodotto all’indomani del sac-
cheggio dell’ottobre 881 (vedi in questo volume a pag. 216 -217) . Un monaco, di nome
Sabatino, viene richiesto di fornire verbalmente tutte le informazioni in suo possesso
relativi ai beni posseduti dall’abbazia vulturnense nel territorio di Isernia, di cui egli
aveva avuto, per delega dell’abate, la responsabilità amministrativa. Questa esigenza
era evidentemente sorta in seguito ai danni che l’archivio abbaziale aveva subito in
quella circostanza. Il documento che ne scaturisce è una sorta di breve relazione, tec-
XXVI FEDERICO MARAZZI
zioso verteva sul fatto che il principe di Benevento, Pandolfo Capodiferro, che pure
non era animato da ostilità verso il monastero vulturnense, aveva concesso, nel 964,
al suddetto Landolfo, il controllo di un ampio distretto territoriale che, oltre ai dintor-
ni di Isernia, comprendeva anche buona parte delle terre dell’alto Volturno, che i
monaci affermavano essere di propria pertinenza, in virtù di antichissime concessio-
ni risalenti sino agli albori dell’abbazia stessa. In questo caso, i monaci si trovarono di
fronte ad un atto sovrano, di fresca data, al quale non era facile opporsi, poiché, in
linea di principio, Pandolfo di Benevento aveva tutto il diritto di disegnare come
meglio credeva le circoscrizioni amministrative del territorio sottoposto alla sua auto-
rità. Questa controversia fu probabilmente l’occasione in cui, per corroborare le pro-
prie tesi, i monaci di San Vincenzo al Volturno produssero (o ri-produssero?) una
serie di atti, risalenti sino agli inizi dell’VIII secolo, che dovevano dimostrare come i
duchi di Benevento avessero concesso all’abbazia il blocco di terre percorso dal primo
tratto del Volturno e dai suoi affluenti (il Vandra in primo luogo) di cui poi re longo-
bardi, re e imperatori franchi avevano sempre riconfermato il possesso ai monaci,
includendovi chiaramente anche le terre assegnate da Pandolfo Capodiferro al conte
di Isernia. Ciò senza contare che, sia San Vincenzo sia Montecassino, nell’849, all’atto
della divisione in due del principato di Benevento, seguito alla guerra civile fra bene-
ventani e salernitani, erano stati assegnati alla potestà imperiale e non a quella dei
principi longobardi. Buona parte degli atti utilizzati in questo frangente – e poi inse-
riti nel Chronicon Vulturnense – sono stati giudicati a vario titolo dei falsi da parte degli
studiosi che li hanno analizzati dal punto di vista formale. Il quadro dei diritti che i
monaci prospettavano (che, per inciso, a mia opinione ha una sua plausibilità storica)
fu però preso per buono al fine della risoluzione della vicenda in favore del monaste-
ro, esito che però fu reso possibile da un intervento, di sapore tutto politico, compiu-
to nel 982 dall’imperatore Ottone II in persona, quando, fra l’altro, Pandolfo
Capodiferro era già morto. La lite con il conte di Isernia, benché dal felice sbocco, si
era però protratta per quasi vent’anni ed aveva costituito una concreta minaccia
(anche militare) all’azione che, proprio in quel periodo, gli abati di San Vincenzo
andavano dispiegando per fondare, nelle aree dell’alta valle del Volturno, una rete di
nuovi insediamenti, in alcuni casi anche fortificati. Ciò al fine di rafforzare il proprio
controllo sul territorio e garantirsi così un ruolo decisivo di collegamento fra il prin-
cipato beneventano e le terre abruzzesi, appartenenti al regnum Italiae e quindi sotto-
poste alla diretta autorità degli imperatori.
Questo caso dimostra, ancora una volta, quanto fosse essenziale il controllo
della memoria storica – soprattutto se affidata all’autorità della parola scritta -, ma
indica anche come tale opera fosse condotta con estrema perizia ed anche con un filo
di disinvoltura, cosa che oggi, agli occhi dello storico, rende una fonte come il
Chronicon Vulturnense un terreno sul quale avventurarsi con cautela, avendo piena
consapevolezza del fatto che ci si trova di fronte ad un prodotto, oltre che fortemen-
te “orientato”, frutto di una gestazione assai complessa. Solo en passant varrà la pena
ricordare, ad esempio, che il Chronicon, il cui testo latino possiamo leggere nella bella
edizione critica di Vincenzo Federici e che oggi è disponibile per la prima volta inte-
gralmente in traduzione italiana, non rappresenta il primo tentativo di produrre una
XXXII FEDERICO MARAZZI
narrazione storica “con documenti” della vicenda di San Vincenzo al Volturno. Esiste
infatti un importante frammento di quella che potremmo definire una “proto crona-
ca”, redatta circa un secolo prima, e cioè a cavallo fra X e XI secolo. Si tratta di un
manoscritto, giuntoci purtroppo mutilo, noto come “Frammento Sabatini”, attual-
mente conservato a Montecassino, nel quale, insieme ad elementi pienamente recupe-
rati nell’opera di Giovanni, si trovano anche diverse discordanze, per le quali non è
sempre agevole trovare una spiegazione.
Se volessimo utilizzare un termine tutto contemporaneo, quindi, potremmo
dire che il Chronicon è un vero e proprio ipertesto ante litteram, cioè un filo narrativo
che contiene al suo interno molti altri testi, legati a quello principale attraverso con-
nessioni e rimandi che vanno decodificati caso per caso e che talora, più che essere
porte che immettono su narrazioni parallele, possono costituire vere e proprie botole
che si aprono su tranelli o dentro labirinti dai quali è difficile uscire con le idee chia-
re.
Il problema alla base di tutto, per quanto ciò possa apparire banale, e che oggi
non abbiamo più alcun modo di sapere quali materiali avessero a disposizione il
monaco Giovanni e i suoi collaboratori nell’archivio dell’abbazia e quindi cosa abbia-
no scelto di recuperare, cosa abbiano dovuto ricostruire (più o meno applicando cri-
teri di fedeltà ai dati originali), cosa, infine, abbiano deciso di tacere.
\ Come dicevo all’inizio, il Chronicon Vulturnense, più che essere un’opera storio-
grafica vera e propria è un dossier informativo, quasi una sorta di portfolio illustrati-
vo, allestito per rappresentare quella di San Vincenzo al Volturno come una comuni-
tà erede di una storia carica di gloria spirituale e di esperienza politica, che anche i
normanni, nuovi conquistatori dell’Italia meridionale, erano invitati a guardare con
interesse e rispetto. In quegli anni cruciali, il monastero vulturnense non aveva avuto
la fortuna di vedersi guidare da un uomo di energia spirituale, cultura e scaltrezza
politica comparabili a quelle del grande abate Desiderio di Montecassino, divenuto
perfino papa per qualche mese alla fine della sua vita, fra il 1086 e il 1087. Tuttavia,
monaci e abati del cenobio molisano fecero del loro meglio per non soccombere agli
eventi, ed il Chronicon è il frutto di uno sforzo notevole di elaborazione di memorie
stratificate, di variegata provenienza e non sempre dai contorni lineari, che dovevano
contribuire a mantenere alta la consapevolezza della comunità del presente rispetto al
proprio passato.
Parlo della comunità come primo destinatario dell’opera di Giovanni, perché
forse essa fu immaginata in primo luogo proprio per un uso interno. Infatti, del
Chronicon non si conoscono copie, se non di età molto tarda (dal XVI secolo in poi),
né, a quanto sembra, ad esso attinsero altri cronisti contemporanei o di poco posterio-
ri per trarne informazioni. Quindi, sembra abbastanza verosimile pensare che il testo
non abbia mai circolato, ma sia rimasto sempre chiuso nel segreto dell’archivio abba-
ziale sino a quando, alla fine del ‘500, di fronte all’incombente rovina materiale del
monastero ricostruito all’inizio del XII secolo, uno degli abati commendatari, Cesare
Costa, lo fece trasportare a Napoli, da dove poi giunse a Roma, concludendo la sua
peregrinazione nella biblioteca del cardinale Maffeo Barberini, divenuto nel 1625
papa con il nome di Urbano VIII.
LEGGERE LA STORIA DI SAN VINCENZO AL VOLTURNO ATTRAVERSO IL CHRONICON XXXIII
menzione e quanto, invece, egli ha tratto notizie dell’esistenza dei medesimi da rac-
conti e memorie (scritti e orali) captati o recuperati più o meno frammentariamente,
all’interno della comunità?
La domanda non è oziosa, poiché, come si è appena detto, Giovanni attese alla
composizione della sua opera in un momento molto particolare della storia del mona-
stero. Almeno a partire dagli ultimi due decenni dell’XI secolo, infatti, l’abate Gerardo
– un monaco in origine cassinese – aveva dato il via ad un progetto tanto ambizioso
quanto traumatico: lo spostamento del monastero dalla riva sinistra alla riva destra
del Volturno, con la conseguente demolizione del vecchio complesso abbaziale e la
ricostruzione a fundamentis di uno nuovo. È impossibile dire con esattezza quali siano
stati la data d’inizio e quella di conclusione dei lavori ma, considerando che nell’otto-
bre del 1115 papa Pasquale II venne a consacrare la nuova chiesa abbaziale e che l’a-
bate Gerardo, iniziatore dei lavori, doveva essere venuto a mancare negli anni a ridos-
so del 1100, è pensabile che i due cantieri per lo smantellamento del vecchio e per la
costruzione del nuovo, abbiano funzionato per almeno un venticinquennio; ciò atte-
so che, nel 1115, l’abbazia nuova fosse già stata completata in tutte le sue parti. Le
datazioni delle stratigrafie di abbandono della grande chiesa abbaziale del monaste-
ro altomedievale e degli edifici adiacenti, che hanno restituito materiali ceramici di XI
e XII secolo, confermano che, su questa faccenda, Giovanni ha raccontato il vero.
Stando così i fatti, cosa ha visto con suoi occhi il cronista dei luoghi ove i suoi
confratelli avevano vissuto per quasi quattro secoli? Vedremo che, anche in questo
ambito, i problemi che si presentano sono di una certa complessità.
Certamente, la vecchia basilica maggiore, per quanto ormai in via di sistemati-
co smontaggio – al fine di recuperarne i materiali destinati alla costruzione della
nuova chiesa – dovette per lunghi anni essere ancora leggibile nelle sue forme archi-
tettoniche e forse anche nella sua decorazione interna. Ma, fra l’VIII e l’XI secolo, gli
edifici e gli spazi del grande chiostro avevano subito certamente numerose trasforma-
zioni. In particolare, il saccheggio dell’881 era stato seguito da decenni di abbandono
quasi totale, dato che la comunità si era trasferita a Capua, come la cronaca racconta
con dovizia di particolari. E che anche su questo punto Giovanni sembra aver detto il
vero lo confermano sia, ancora una volta, gli scavi archeologici, che sinora non hanno
restituito quasi nulla di databile alla prima metà del X secolo, sia la testimonianza di
un prelato tedesco, Teodorico vescovo di Metz, cugino dell’imperatore Ottone I.
Questi, intorno al 970 si trovava in Italia perché avrebbe dovuto ricevere la promessa
sposa del figlio dell’imperatore, la principessa bizantina Theophanu. Approfittò allo-
ra della circostanza per cercare di procacciarsi reliquie da deporre in un monastero,
dedicato proprio a san Vincenzo, che si trovava nella sua città. Ovviamente, egli
pensò di recarsi a San Vincenzo al Volturno ma, quando vi giunse, trovò il monaste-
ro quasi completamente in abbandono, abitato solo da pochi monaci anziani che vive-
vano alla bell’e meglio nelle rovine degli antichi edifici. La storia del vescovo
Teodorico non è ricordata da Giovanni, ma proviene da una fonte del tutto autonoma
e quindi, insieme ai dati archeologici, corrobora indirettamente le parole del cronista
vulturnense.
Sempre le indagini archeologiche hanno acclarato che, quando alla fine del X
LEGGERE LA STORIA DI SAN VINCENZO AL VOLTURNO ATTRAVERSO IL CHRONICON XXXV
secolo, gli abati Giovanni III, Roffredo e Giovanni IV iniziarono a ristrutturare gli edi-
fici di età carolingia, si dedicarono soprattutto all’eccelsia maior fatta costruire dall’a-
bate Giosuè all’inizio del IX secolo, mentre sembra essere stato quasi del tutto trala-
sciato il settore del monastero circostante la cripta di Epifanio. Anche gli abati Ilario
e Giovanni V, che operarono durante tutto l’XI secolo, si dedicarono principalmente
all’abbellimento di questo edificio, cui giustapposero una serie di ambienti per il sog-
giorno della comunità.
Ma nel monastero carolingio esistevano ben dieci chiese, di cui Giovanni fa
menzione. Alcune di queste dovevano essere sopravissute all’abbandono del X seco-
lo. Il cronista dice infatti che i monaci, prima che si provvedesse al restauro della basi-
lica maggiore si erano radunati intorno alla chiesa del Salvatore, originariamente fatta
edificare dall’abate Talarico (817 – 824) e ricorda anche che Ilario, nel secondo quarto
dell’XI secolo, provvide a restaurare le chiese di Santa Maria Maggiore, una delle più
antiche del cenobio, in quanto risalente all’epoca dell’abate Taso (720 – 739), e quelle
di San Pietro, fatta edificare dall’abate Ato (739 – 749) e dell’Arcangelo Michele, volu-
ta anch’essa da Talarico. Nulla si sa però del destino di altre chiese, e cioè quella di
Santa Maria Minore o iuxta flumen vulturnum fatta costruire da Paolo I (783-792), le
due promosse dall’abate Epifanio (824 – 842), e cioè Santa Maria in Insula e San
Lorenzo in alia Insula e quella denominata San Pietro ad Pontem Marmoreum, voluta da
Toto (842 – 844). Infine, nulla si dice del destino di un oratorio di San Vincenzo che il
cronista accredita come il luogo, preesistente al monastero stesso, in cui avrebbero
trovato ricetto i tre fondatori, Paldo, Taso e Tato e che potrebbe corrispondere al San
Vincenzo Minor, ricordato dal Frammento Sabatini, ma di cui il Chronicon curiosa-
mente omette la menzione.
Il problema costituito da questa ultima chiesa è della massima importanza,
poiché ha a che fare con l’origine stessa del monastero vulturnense, ma è anche quel-
lo su cui la cronaca si mostra più reticente.
Gli scavi archeologici dei primi anni ’80, condotti in particolare nella chiesa
dove si trova la cripta di Epifanio e nella zona immediatamente a meridione di essa
portarono alla luce tracce di una densa frequentazione dell’area di età tardo romana.
Esse furono interpretate come i resti di una coppia di chiese affiancate, divenute in
seguito rispettivamente, quella dove sarebbe stata inserita la cripta di Epifanio, desti-
nata al culto, e quella posta al suo fianco a destinazione funeraria, oggetto poi di una
massiccia ricostruzione datata all’ultimo quarto dell’VIII secolo.
Gli archeologi britannici che effettuarono queste scoperte proposero l’identifi-
cazione della chiesa funeraria – o “Chiesa Sud” – con l’originario sacello dedicato a
san Vincenzo, in cui s’insediarono i fondatori, e che perciò hanno denominato chiesa
di “San Vincenzo Minore”. Quella attigua, invece, si sarebbe dovuta riconoscere in
una delle due fondazioni di Epifanio, e cioè la chiesa di Santa Maria in Insula o quel-
la di San Lorenzo in alia Insula, dato che, negli affreschi del ciclo epifaniano sono raf-
figurati tanto la Vergine quanto il protomartire romano.
In realtà, l’origine tardoantica della Chiesa Sud presenta diversi elementi di
problematicità – impossibili da descrivere in questa sede – ed è al contrario molto pro-
babile che la sua fondazione risalga alla fine dell’VIII secolo, nel qual caso la dovrem-
XXXVI FEDERICO MARAZZI
mo riconoscere nella chiesa dedicata alla Vergine (la Santa Maria Minore presso il
Volturno), voluta dall’abate Paolo I. E l’ipotesi che la chiesa con la cripta affrescata
possa corrispondere ad una delle due ascritte ad Epifanio a sua volta non è priva di
incertezze. Essa, infatti, contrasta con il fatto che il Chronicon dice che l’abate le edifi-
cavit, cioè le costruì ex-novo; cosa che mal si spiega, se prendiamo per buona l’ipotesi
degli archeologi britannici, secondo cui nel caso specifico, l’edificio di IX secolo
ristrutturava una chiesa già esistente. Quindi, le possibilità sono due: o la chiesa con
la cripta non ha origini tardoantiche, ed allora la si può riconoscere in una delle due
fatte costruire da Epifanio, oppure, se le ha, non corrisponde ad alcuna di esse, ed
allora ci si deve chiedere a chi fosse dedicata.
Il problema ruota tutto intorno alla presenza ab origine di un oratorio dedicato
a san Vincenzo, che avrebbe costituito il nocciolo originario dell’insediamento mona-
stico. Anche questo elemento, in realtà, è tutt’altro che certo. Il culto del diacono di
Saragozza, martirizzato a Valencia alla fine del III secolo, fu popolarissimo in Spagna
e nella Gallia meridionale in età tardoantica e fu poi promosso nella Gallia del nord,
nel tardo VI secolo, dai re franchi. In questo periodo esso non ha invece alcuna diffu-
sione in Italia meridionale. Questo è già di per sé un elemento di forte dubbio rispet-
to alla sua presenza nell’area del Sannio in cui sarebbe sorto il monastero vulturnen-
se. Ma un elemento di ulteriore incertezza viene suscitato dal fatto che la prima chie-
sa abbaziale di cui il Chronicon parla è quella fatta costruire dall’abate Taso nel secon-
do quarto dell’VIII secolo e dedicata alla Vergine, nota come Santa Maria Maggiore.
Alla Vergine sarebbero poi state offerte in seguito altre due chiese, al punto tale da
determinare la curiosa situazione che, nell’abbazia, al culto mariano sarebbero state
intitolate più chiese che al santo eponimo, e cioè Vincenzo. Giova fra l’altro ricordare
che la nascita del monastero molisano è legata all’importante monastero laziale di
Farfa, intitolato alla Vergine.
È possibile quindi avanzare il sospetto che il monastero molisano fosse in ori-
gine nato sotto le insegne di questo culto, assai popolare nell’Italia longobarda, e che
quello vincenziano vi avrebbe trovato spazio in un momento successivo, molto pro-
babilmente da identificare negli anni 750, quando a San Vincenzo al Volturno appro-
dò una cospicua pattuglia di monaci franchi, tra i quali Ambrogio Autperto. Tra l’al-
tro, alcuni importanti studi condotti sulla figura di questo monaco-teologo, collocano
il suo arrivo in Italia al seguito di papa Stefano II, nel 754, di ritorno dall’importante
viaggio nel regno franco in occasione del quale il papa aveva unto re Pipino, padre di
Carlo Magno, aprendo così la strada al coinvolgimento politico-militare dei franchi
nelle vicende italiane, che avrebbe portato, vent’anni più tardi, all’abbattimento del
regno dei longobardi. Se così è stato, Ambrogio doveva in qualche modo essere lega-
to all’ambiente della corte franca e non è quindi impossibile immaginare che il culto
di san Vincenzo, rilevante in tale ambito, abbia trovato in quella circostanza la strada
per giungere in un monastero come quello vulturnense che, al pari di Farfa e
Montecassino, godeva già di una notevole reputazione. Tra l’altro, Ambrogio
Autperto, nella sua opera teologica, si occupò a più riprese della figura di Maria e
quindi l’unione di questi due culti nella sua persona, che fu di grande rilievo a San
Vincenzo al Volturno per tutti gli anni ’50 e ’60 dell’VIII secolo, trova significato e
LEGGERE LA STORIA DI SAN VINCENZO AL VOLTURNO ATTRAVERSO IL CHRONICON XXXVII
quelli del 2000-2002 poi, hanno interessato e progressivamente riportato alla luce le
strutture di un’enorme chiesa, che si è voluto riconoscere nella basilica maior, di cui il
cronista Giovanni attribuisce la paternità al volere dell’abate Giosuè. Per una serie di
aspetti architettonici, tra cui la presenza di una cripta di tipo anulare posta sotto l’ab-
side principale della chiesa, e in base all’analisi formale dei resti della decorazione pit-
torica della cripta medesima, si è potuto constatare che la datazione dell’edificio pro-
posta dal Chronicon ha fondamento di verità. Anche le misure dell’edificio che il testo
propone sono – tradotte in metri – assolutamente compatibili con quelle riscontrabili
nei resti materiali. Tuttavia, vi sono altre cose che il testo dice (o non dice) che rendo-
no l’esercizio interpretativo sinottico della parola scritta e dei resti archeologici, anche
in questo caso, compito particolarmente arduo. Oltre al fatto che il testo riferisce della
presenza, all’interno della chiesa, di un numero di colonne che non corrisponde a
quello posto in luce dagli scavi, vi è un elemento su cui esso curiosamente tace: la pre-
senza dell’atrio. Si tratta di una struttura monumentale, a pianta quadrata, di ventot-
to metri circa di lato, addossata alla facciata della basilica e preceduta verso est da un
avancorpo destinato a contenere una scalinata necessaria per raggiungere la quota
della basilica provenendo dal piano di campagna antistante. Al momento delle prime
esplorazioni archeologiche, a metà degli anni ’90, si pensò (ed anche io ho condiviso
questa opinione) che atrio e avancorpo fossero strutture contemporanee alla basilica
– e quindi di età carolingia – che, nel clima culturale dell’epoca, imitavano soluzioni
applicate in celebri edifici romani tardoantichi, come la basilica vaticana. Il prosieguo
delle indagini, tuttavia, ha fatto emergere una serie di dati che mi hanno spinto a rive-
dere quell’interpretazione ed a propendere per una datazione differente, ponendo l’e-
dificazione di questo manufatto alla fine del X secolo, quando la chiesa fu ricostruita
dopo il lungo abbandono seguito al sacco dell’881. In effetti, anche per questa fase (e
anche di più che per quella carolingia) sono disponibili numerosi confronti relativi
alla costruzione di grandi atri connessi a sia a chiese gestite dal clero secolare sia per-
tinenti a complessi monastici.
Questa nuova interpretazione ha sollevato una polemica contrapposizione con
Richard Hodges e John Mitchell, che, insieme a me, avevano diretto la prima fase
degli scavi della basilica. Gli studiosi britannici, infatti, rimanevano della loro opinio-
ne quanto alla datazione carolingia del manufatto e ritenevano quindi la mia nuova
lettura frutto di un errore interpretativo madornale.
Per brevità non posso riassumere, in questa circostanza, tutti gli elementi che
sono stati oggetto di discussione. In realtà, la diatriba si è alimentata a causa del fatto
che, al di là della lettura dei dati di carattere prettamente archeologico, in questo
dibattito era venuto a mancare quello che potremmo definire il “giudizio arbitrale” di
Giovanni, sul quale, talora anche senza rendersene conto, tutti gli studiosi che nel
tempo hanno studiato i resti materiali di San Vincenzo al Volturno, hanno fatto affi-
damento. Su questo specifico problema, Giovanni non solo non ha parlato chiaro ma,
peggio, ha collocato nel suo testo indizi che, sibillinamente, potevano essere letti a
favore dell’una o dell’altra tesi.
Innanzitutto, come ho ricordato poc’anzi, il passo della vita di Giosuè in cui si
parla della costruzione della basilica fornisce per la medesima dimensioni che, chia-
LEGGERE LA STORIA DI SAN VINCENZO AL VOLTURNO ATTRAVERSO IL CHRONICON XXXIX
ramente, sono riferite al solo edificio basilicale privo dell’atrio. Perché Giovanni
avrebbe dovuto omettere un dato così importante, se veramente atrio e basilica erano
contemporanei, considerando, fra l’altro, che l’atrio non è stato interamente smantel-
lato alla fine dell’XI secolo e quindi era una struttura ben visibile ai suoi occhi? Forse
egli aveva raccolto nel monastero memoria del fatto che la paternità della sua edifica-
zione non risaliva al tempo di Giosuè?
Inoltre, a conclusione della biografia di questo abate, egli dice che il suo corpo
«fu sepolto in pace, davanti a quella chiesa, nella parte destra. Ma, dal momento che
dopo molto tempo, vale a dire dopo l’abbandono [o “la distruzione” – il termine usato
è desolatio, che ha ambedue i significati, n.d.r.] della chiesa medesima, abbiamo appre-
so che, in virtù della fama del celebre [uomo], alcuni [recandosi] presso il suo corpo
ne traevano benefici divini, abbiamo deciso di trasferire in questo luogo le sue ossa e
quelle del venerabile Autperto, la cui vita abbiamo in precedenza descritto, insieme a
quelle di altri padri del tempo andato, e le abbiamo poste in un grande sarcofago,
insieme a quelle del signor abate Ilario, del quale con l’aiuto di Dio narreremo a
tempo debito le cose che siamo stati in grado di apprendere».
Da questo passo si capisce che Giovanni scrive trovandosi in un luogo diverso
da quello in cui le spoglie di tutti gli abati che ricorda erano stati originariamente col-
locati. In altre parole, egli scriveva trovandosi già nel monastero nuovo che, sebbene
ancora in costruzione, doveva essere già ad un punto tale da permettere allo scripto-
rium di funzionare regolarmente. Ma qual era quella chiesa davanti alla quale era stato
deposto il corpo di Giosuè? Istintivamente, si sarebbe portati a credere che si tratti
della chiesa maior dedicata a San Vincenzo, di cui il cronista parla in apertura della
biografia di Giosuè stesso. Nel 1996 fu effettuato il ritrovamento del sepolcro dell’a-
bate Talarico, successore di Giosuè: esso era posto, insieme a diverse altre sepolture,
nel braccio occidentale dell’atrio antistante la chiesa maior, a ridosso della sua faccia-
ta, sul lato sinistro dell’ingresso, avendo alle spalle l’abside della basilica. Questo
nuovo dato fece ritenere che, se scavando presso il lato destro della porta si fosse tro-
vato un sepolcro analogo, il caso sarebbe stato risolto, in perfetta coerenza con quan-
to sembrava dire il Chronicon. Purtroppo, però, il sepolcro di Giosuè non è apparso, e
la questione è rimasta in sospeso. Se tuttavia consideriamo attentamente la struttura
narrativa di questa parte del testo del Chronicon ci accorgiamo che la relazione fra la
sepoltura di Giosuè e la chiesa di San Vincenzo è tutt’altro che scontata poiché, nel
manoscritto, le due notizie si trovano distanziate l’una dall’altra di ben quarantatre
pagine. Subito dopo aver parlato del sepolcro di Giosuè, invece, il cronista ricorda che
l’abate Talarico fece costruire la chiesa dedicata al Salvatore. Lo spazio antistante que-
sta chiesa, fra l’altro, fu utilizzato almeno un’altra volta per ospitarvi un’illustre sepol-
tura: quella dell’abate Ilario che, guarda caso, è colui i cui resti sarebbero stati trasla-
ti, al tempo del cronista Giovanni, nel grande sarcofago allestito nel monastero nuovo.
Bisogna tenere presente che non mancano, in età carolingia, altri esempi di sepolture
di abati importanti presso gli ingressi di chiese dedicate al Salvatore, poiché il culto
del Cristo ben poteva fungere da cornice alla sepoltura in expectatione resurrectionis di
un uomo venerato all’interno della propria comunità; ed è anche possibile che
Talarico abbia voluto celebrare la propria impresa architettonica, ospitando presso di
XL FEDERICO MARAZZI
essa le spoglie il suo illustre predecessore. Da ciò si deduce, quindi, che la notizia
della sepoltura di Giosuè e quella della costruzione della nuova chiesa del Salvatore,
intrapresa da Talarico, oltre che fisicamente contigue, possono anche essere connesse
dal punto di vista logico.
Resta il problema della presenza della tomba di Talarico davanti alla basilica
maior. In realtà, ad un’analisi più attenta, si è potuto constatare che le quattro lastre di
pietra che compongono il sarcofago che, su un lato, riporta un’iscrizione che ricorda
la sepoltura di un Talaricus, non sono congrue fra di loro. Ciò significa che il sarcofa-
go fu composto, lì dove è stato trovato dagli archeologi, utilizzando elementi di diver-
sa provenienza e quindi è da credere che quella non fosse la sua collocazione origina-
ria. Ma da dove proveniva? Atteso, come pure è probabile, che il Talarico della tomba
corrisponda all’abate del IX secolo, non è da escludere che il sepolcro potesse prove-
nire dalla chiesa di San Pietro, dove era stato in origine seppellito anche Autperto,
luogo che peraltro funse da chiesa funeraria della comunità – abati inclusi - per tutto
il periodo antecedente all’881, come viene dettagliatamente descritto da Giovanni in
conclusione del III libro della cronaca, quando ricorda che, nella cripta di questo edi-
ficio furono collocati i corpi che si riuscì recuperare dei monaci morti durante l’ecci-
dio che ebbe luogo durante il sacco arabo.
Quest’ultima informazione pone anche in seria discussione il fatto che il cimi-
tero monastico rivenuto nell’atrio della basilica maior, entro cui si trovava il raffazzo-
nato sarcofago di Talarico, potesse essere quello utilizzato durante il IX secolo e rende
assai più verosimile che si tratti invece del luogo ove i monaci che vissero a San
Vincenzo al Volturno tra la fine del X e l’XI secolo avevano scelto di seppellire i loro
confratelli.
Il caso dell’atrio della basilica maggiore mostra molto bene quanto sia intenso
e problematico il rapporto tra la fonte scritta e i dati materiali per l’analisi del com-
plesso monastico vulturnense, come del resto avviene per qualsiasi luogo per il quale
si disponga di ambedue i tipi di informazioni.
Nessuna delle due tipologie di fonti può né deve prevalere sull’altra, e neppu-
re è possibile procedere a sbrigative equazioni fra quanto entrambe propongono, se
non dopo aver esperito, per quanto possibile, tutte le soluzioni interpretative che la
logica consente. Ed anche così, come si è visto nel caso appena esaminato, la risolu-
zione può avvenire solo su base indiziaria, poiché vanno sempre tenuti presenti alcu-
ni principi generali: a) Giovanni non aveva per obbiettivo quello di scrivere una guida
del monastero ad uso degli archeologi del XX e del XXI secolo e, anche se avesse avuto
questo obbiettivo in mente, molte delle cose che descrive al suo tempo non erano-
neanche più visibili, quanto meno nella loro configurazione originaria; b) la fonte
scritta, in questo come in quasi tutti gli altri casi, si presenta a noi come un’opera tut-
t’altro che conclusa ed integra in tutte le sue parti e, per di più, caratterizzata da una
struttura compositiva complessa; c) l’archeologia del nostro tempo, d’altra parte,
opera con metodologie e strumenti critici suoi propri e non può mai costruire la sua
agenda in dipendenza da quanto dicono le fonti scritte: i due tipi di fonti dialogano
tra loro e stimolano una ricostruzione storica complessiva che di ambedue si avvale,
ma non è detto che l’una sia destinata a “spiegare” le carenze dell’altra ; d) l’archeo-
LEGGERE LA STORIA DI SAN VINCENZO AL VOLTURNO ATTRAVERSO IL CHRONICON XLI
logia non solo riporta alla luce sempre e solo frammenti, che costituiscono mere meta-
fore dell’integrità di edifici, oggetti e paesaggi del passato e di come essi si sono evo-
luti nel tempo della loro vita, ma, nel caso specifico di San Vincenzo al Volturno, deve
tenere in conto che lo stato attuale della esplorazione del sito, nonostante i progressi
compiuti attraverso tre decenni di indagini, ha portato, a voler essere ottimisti, alla
scoperta di non più di un quarto di ciò che costituiva l’interezza del complesso mona-
stico.
3) Conclusioni.
Come avrebbe detto Eugenio Montale, tutte le conclusioni possibili oggi su San
Vincenzo al Volturno sono inevitabilmente solo, e direi fisiologicamente, aggiorna-
menti provvisori e caduchi all’interno di un percorso di conoscenza che attende di
veder percorse ancora lunghe tappe prima di potersi concludere.
Ricordare tutto ciò non equivale a dire che il Chronicon non possa essere letto
da chiunque e che non valga la pena fare in modo che quanto in esso contenuto non
possa e non debba appassionare, ad esempio, anche gli studenti delle scuole molisa-
ne, che vengono così avvicinati alla conoscenza della storia della loro regione. Ma si
deve sempre tenere presente che, per un approccio consapevole, ci si deve armare di
strumenti critici adeguati, conoscendo bene in primo luogo la storia del monachesimo
benedettino e quella dell’Italia altomedievale, attraverso la conoscenza sia delle fonti
scritte sia di quelle materiali.
In altre parole, un po’ come per la Divina Commedia e per i Promessi Sposi, il
nostro testo ha bisogno di una “lettura guidata”, che sappia rendere il lettore consa-
pevole delle problematiche che ho cercato in queste pagine di riassumere, certamen-
te con risultato impari alla complessità del soggetto.
Non si deve quindi commettere l’errore di pensare che, aver tradotto il
Chronicon Vulturnense in italiano abbia ipso facto risolto tutti i problemi di accessibili-
tà e di comprensione del testo, anche se certamente ciò può costituire un utile stru-
mento per avere con esso una maggiore familiarità.
Il mio consiglio, quindi, è quello di tenere sempre a mano, mentre si legge la
traduzione, quanto meno l’edizione di Vincenzo Federici pubblicata nelle Fonti per la
Storia d’Italia, con il suo ricco apparato critico, nonché i suoi articoli, apparsi negli
anni ’40 sul Bullettino dell’Istituto Storico Italiano per il Medio Evo, che danno conto
delle minuziose ricerche che egli compì sulla storia compositiva e sulla tradizione del
manoscritto. Ciò affinché non sfugga mai la percezione di quanto ho cercato di sotto-
lineare più volte in queste pagine, e cioè che il Chronicon è un ipertesto, composto da
molte mani e contenente elementi testuali e documentari di natura diversissima fra
loro e spesso oggetto di profonde rielaborazioni, quando non di vere e proprie re-
invenzioni. E non sarà inutile anche esaminare contestualmente – senza pretesa di
vedervi corrispondenze puntuali con il testo – anche i risultati delle indagini archeo-
logiche, che, a loro volta, hanno conosciuto, nell’arco di un secolo, conduzioni diver-
sificate culturalmente e metodologicamente.
Il risultato sicuramente sarà quello di evitare sia una lettura semplicistica sia,
XLII FEDERICO MARAZZI
NOTA BIBLIOGRAFICA
Sarebbe impresa impossibile elencare tutti i contributi scientifici pubblicati sui vari aspetti della storia
e dei resti materiali dell’abbazia di San Vincenzo al Volturno. In questa nota si menzionano quelli che,
a mio personale avviso, possono essere considerati gli studi principali, a partire dai quali, peraltro, sarà
possibile recuperare i riferimenti a tutte le opere non direttamente menzionate.
Il Chronicon Vulturnense è stato edito a cura di V.Federici, Roma 1925 - 1940 (Fonti per la Storia d’Italia,
58 - 60 e Prefazione), mentre il cosiddetto “Frammento Sabatini” è stato recentemente oggetto di una
nuova edizione, a cura di G.Braga e M.Palma, apparsa in Il Frammento Sabatini. Un documento per la sto-
ria di San Vincenzo al Volturno, a cura di G.Braga, Roma 2003. All’edizione del testo fanno corollario gli
studi pubblicati da Federici sul «Bullettino dell’Istituto Storico Italiano per il Medio Evo». Si tratta di
quattro articoli, intitolati Ricerche e studi per l’edizione del «Chronicon Vulturnense» del monaco Giovanni,
apparsi rispettivamente nel volume 52, del 1937 (con il sottotitolo: Il codice originale e gli apografi della
Cronaca, alle pp. 146 - 236); nel volume 57, del 1941 (con il sottotitolo: Gli abati, parte I, pp. 71 - 114); nel
volume 61, del 1949 (con il sottotitolo: Gli abati, parte II, pp. 67 - 123); ancora nel volume 61 del 1949
(con il sottotitolo: La biblioteca, pp. 173 - 180). Purtroppo, Federici non fece in tempo a realizzare tutto
il programma di studi a sussidio dell’edizione del testo della cronaca, che doveva comprendere il trat-
tamento di diversi altri argomenti, come ad esempio la geografia patrimoniale del monastero, produ-
cendo quindi un quadro d’insieme paragonabile a quello ricostruito da Bloch per Montecassino (H.
Bloch, Montecassino in the Middle Ages, 3 voll., Città del Vaticano 1986). Gli appunti frutto della immen-
sa attività di ricerca condotta da Federici, comprese le parti della medesima ancora inedite, costituisco-
no ora un fondo d’archivio conservato a Roma, presso la Scuola Speciale Archivisti e Bibliotecari
dell’Università “La Sapienza”, che il sottoscritto è stato autorizzato a consultare grazie alla disponibi-
lità del Preside, prof. Attilio De Luca, e del consegnatario del fondo, prof. Massimo Oldoni, con la gen-
tilissima assistenza del dott. Vincenzo Matera.
I resti materiali e le testimonianza artistiche del monastero hanno ricevuto la loro prima attenzione cri-
tica da parte di O. Piscicelli Taeggi, nel saggio Pitture cristiane del IX secolo esistenti nella cripta della badia
di S.Vincenzo alle fonti del Volturno, Montecassino 1896, cui è seguito l’intervento di P. Toesca, Reliquie
d’arte della badia di S. Vincenzo al Volturno, «Bullettino dell’Istituto Storico Italiano», 25 (1904), pp. 1 – 84.
L’esplorazione archeologica vera e propria prende le mosse con i lavori di A. Pantoni, di cui si ricorda
l’opera Le chiese e gli edifici del monastero di San Vincenzo al Volturno, Montecassino 1980 (Miscellanea
Cassinese, 40) ed il saggio, Tracce e avanzi dell’insediamento monastico primitivo a San Vincenzo al Volturno,
in Una grande abbazia altomedievale nel Molise. San Vincenzo al Volturno, cur. F. Avagliano, Montecassino
1985 (Miscellanea cassinese, 51), pp. 205 - 220. Tutto questo volume è peraltro della massima impor-
tanza per l’aggiornamento degli studi sul monastero sino all’inizio degli scavi condotti a partire dall’i-
nizio degli anni’80 del XX secolo. L’edizione integrale delle indagini archeologiche condotte fra 1980 e
1986 si ritrova in San Vincenzo al Volturno 1. The 1980 - 1986 excavations. Part 1, cur. R. Hodges, London
1993 (The British School at Rome Archaeological Monographs, 5); San Vincenzo al Volturno 2. The 1980
- 1986 excavations. Part 2, cur. R. Hodges, London 1995 (The British School at Rome Archaeological
Monographs, 7); San Vincenzo al Volturno 3: the finds from the 1980 - 1986 excavations, cur. J. Mitchell -
I.L.Hansen, Spoleto 2001; per le indagini condotte fra 1989 e 1996, si vedano R. Hodges - F. Marazzi -
J. Mitchell, San Vincenzo al Volturno, scavi 1994. La scoperta del San Vincenzo Maggiore, «Archeologia
Medievale», 22 (1995), pp. 37 - 92; R. Hodges - F. Marazzi, San Vincenzo al Volturno. Sintesi di storia e
archeologia, Roma 1995; R. Hodges - J. Mitchell, The basilica of Abbot Joshua at San Vincenzo al Volturno,
Montecassino 1996 (Miscellanea Vulturnense, 2); W. Bowden - C.M. Coutts - R. Hodges - F. Marazzi,
Excavations at San Vincenzo al Volturno: 1995, «Archeologia Medievale», 23 (1996), pp. 467 - 476; R.
Hodges - F. Marazzi, San Vincenzo al Volturno nel IX secolo. L’invenzione di una città monastica, in Scavi
medievali in Italia 1994 – 1995, cur. S. Patitucci Uggeri, Roma-Freiburg-Wien 1998, pp. 311 - 322; R.
Hodges - S. Gibson - J. Mitchell, The making of a monastic city. The architecture of San Vincenzo al Volturno
in the ninth century, «Papers of the British School at Rome», 65 (1998), pp. 233 - 286; R. Hodges, Light in
the dark ages. The Rise and Fall of San Vincenzo al Volturno, London 1997; sugli scavi condotti dal 2000 in
poi, si veda F. Marazzi - C. Filippone - P.P. Perone - T. Galloway - L. Fattore, San Vincenzo al Volturno.
XLIV NOTA BIBLIOGRAFICA
Scavi 2000-2002, rapporto preliminare, «Archeologia Medievale», 29 (2002), pp. 209 - 274; R. Hodges – K.
Francis – J. Mitchell, Contro la nuova interpretazione dell’atrio di San Vincenzo Maggiore, ibidem, pp. 557 –
560; F. Marazzi, San Vincenzo al Volturno. Guida allo scavo, Campobasso 2006; F. Marazzi – R. Martino,
San Vincenzo al Volturno. La vita quotidiana di un monastero altomedievale vista attraverso i suoi reperti,
Campobasso 2006; F. Marazzi, San Vincenzo al Volturno: evoluzione di un progetto monastico fra IX e XI
secolo, in Il monachesimo italiano dall’età longobarda all’età ottoniana (VII convegno di studi sull’Italia bene-
dettina), cur. G. Spinelli OSB - Centro Storico Benedettino Italiano, Cesena 2006, pp. 425 - 460; Between
Text and Territory. Survey and excavatins in the Terra of San Vincenzo al Volturno, cur. K. Bowes – K.
Francis – R. Hodges, London 2006 (Archaeological Monographs of the British School at Rome, 16); F.
Marazzi, San Vincenzo al Volturno. L’impianto architettonico fra VIII e XI secolo, alla luce dei nuovi scavi della
basilica maior, in Monasteri in Europa Occidentale (secoli VIII - XI): topografia e strutture, cur. F. De
Rubeis - F. Marazzi, Roma 2008, pp. 323 – 390 (il volume contiene anche molti altri saggi di approfon-
dimento su specifici aspetti della cultura materiale del monastero emersi dagli scavi del 2000 – 2002);
Il lavoro nella Regola. L’approvvigionamento alimentare e il cantiere edile di San Vincenzo al Volturno fra IX e
XI secolo, cur. F. Marazzi - A. Gobbi, Napoli 2007 (Quaderni della Ricerca Scientifica, Università degli
Studi Suor Orsola Benincasa, Serie Beni Culturali, 8); P. Raimo, La decorazione aniconica della cripta semia-
nulare di Giosuè a San Vincenzo al Volturno, in L’VIII secolo. Un secolo inquieto, cur. V. Pace, Cividale del
Friuli 2010, pp. 185 - 193. Di prossima pubblicazione è una dettagliata scheda su San Vincenzo al
Volturno nell’ambito del volume Molise preromanico e romanico, cur. F. Marazzi (con saggi di L.
Catalano, M. Gianandrea, F. Gangemi, F. Marazzi), Patrimonio Artistico Italiano, Jaca Book, Milano. È
infine in corso di ultimazione, a cura di chi scrive, il report definitivo sugli scavi condotti presso la basi-
lica maior di Giosuè fra 2000 e 2002, con estensioni negli anni 2005 – 2007.
I principali studi sulla storia del monastero condotti a partire dalle fonti scritte, oltre ad essere rappre-
sentati all’interno del già ricordato volume Una grande abbazia altomedievale, si trovano anche raccolti
nel volume San Vincenzo al Volturno. Dal Chronicon alla storia, cur. G. De Benedittis, Isernia 1995; San
Vincenzo al Volturno. Cultura, istituzioni, economia, cur. F. Marazzi, Montecassino 1996 (Miscellanea
Vulturnense, 3), che contiene tra l’altro la riedizione dell’importante studio di Chris Wickham Il proble-
ma dell’incastellamento nell’Italia Centrale: l’esempio di San Vincenzo al Volturno (pp. 103–150, ma origina-
riamente costituente un volume a sé: Firenze 1985). Tutti questi lavori si giustappongono alle fonda-
mentali e pionieristiche ricerche di M. Del Treppo, apparse prima nell’«Archivio Storico per le
Province Napoletane» (annate 1953-1954 e 1955) e poi confluite nel volume Terra Sancti Vincencii.
L’abbazia di San Vincenzo al Volturno nell’alto medioevo, Napoli 1968. Di più recente pubblicazione sono
F. De Rubeis, I graffiti di Santa Maria in Stelle (Verona) e di San Vincenzo al Volturno (Isernia): due casi per
due scritture, in Mensch und Schrift im frühen Mittelalter, cur. P. Erhart, Sankt Gallen 2006, pp. 120 – 127;
F. Marazzi, ‘Fama praeclari martyris Vincentii’. Riflessioni su origini e problemi del culto di San Vincenzo di
Saragozza a San Vincenzo al Volturno, «Sanctorum», IV (2007), pp. 163 – 202 e F. Marazzi, Varcando lo
spartiacque. San Vincenzo al Volturno dalla fondazione alla conquista franca del Regnum Langobardorum, in
L’VIII secolo, cit., pp. 163 – 184. Di prossima pubblicazione, infine, sono F. Marazzi, San Vincenzo al
Volturno dal X al XII secolo. Le “molte vite” di un monastero fra poteri universali e trasformazioni geopolitiche
del Mezzogiorno, Roma – Istituto Storico Italiano per il Medio Evo (Additamenta alle Fonti per la Storia
d’Italia); F. Marazzi, San Vincenzo al Volturno L’abbazia e il suo territorium fra VIII e XII secolo (Note per la
storia insediativa dell’Alta Valle del Volturno), ed. Abbazia di Montecassino.
È necessario infine un breve richiamo alle altre cronache monastiche ricordate nel testo. La Chronaca
Monasterii Casinensis è stata oggetto di un’edizione critica abbastanza recente, a c. di H. Hoffmann
(Monumenta Germaniae Historica – Scriptores, vol. XXXIV, Hannover 1984) mentre, in mancanza di un’e-
dizione completa ed aggiornata del fondo archivistico di Montecassino, si può ricorrere quanto meno
alla edizione del Registrum di Pietro Diacono pubblicata pochi anni addietro a c. di D. Mariano
Dell’Omo (Il registrum di Pietro Diacono [Montecassino, Archivio dell’Abbazia, Reg. 3]. Commentario codico-
logico, paleografico, diplomatico, Montecassino 2000). Per quanto concerne l’abbazia di Farfa, le opere rea-
lizzate dal monaco Gregorio da Catino, alla fine dell’XI secolo, per il riordinamento della memoria sto-
rica e archivistica dell’abbazia sono ben quattro: il Chronicon Farfense, disponibile in un’edizione piut-
tosto datata, curata da U. Balzani, Roma 1903 (Fonti per la Storia d’Italia, 34), così come lo è quella del
Regesto in cui fu riportato il testo dei documenti d’archivio che Gregorio riordinò (Il regesto di Farfa
LEGGERE LA STORIA DI SAN VINCENZO AL VOLTURNO ATTRAVERSO IL CHRONICON XLV
compilato da Gregorio da Catino, ed. I. Giorgi - U. Balzani, 5 voll., Roma 1879-1914), purtroppo assai
carente da un punto di vista critico. Le altre due fonti farfensi sono il Liber Largitorius, che contiene i
testi di contratti di affitto dei beni monastici (Liber Largitorius vel Notarius Monasterii Pharphensis, ed. a
c. di G. Zucchetti, Regesta Chartarum Italiae, 11 e 17, Roma 1913 e 1932) e il Liber Floriger che costituisce
l’indice topografico riassuntivo dei principali documenti relativi ai possessi dell’abbazia (Il “Liber
Floriger” di Gregorio da Catino, ed. a c. di M.T. Maggi Bei, Miscellanea della Società Romana di Storia
Patria, XXVI, Roma 1984). Per l’abbazia di Subiaco, il Chronicon Sublacense, edito negli anni ’20 del XX
secolo, è stato ripubblicato nel 1991 (Chronicon Sublacense [593 – 1369], ed. a c. di R. Morghen, Roma –
Subiaco), mentre del Regestum dei documenti esiste solo un’edizione della fine dell’800, completa ma
poco approfondita sotto il profilo critico (Il Regesto Sublacense dell’undecimo secolo, a c. di L. Allodi e G.
Levi, Roma 1885).
XLVII
LA TERRA E L’ANIMA
MASSIMO OLDONI
C
ome una tessera epigrafica inserita dentro il muro della memoria il testo del
Placito di Capua ripete la formula che tanti documenti hanno fissato e che regge
i pilastri ancora incerti d’una lingua italiana alle prime prove, ma che descrive
la forza delle transazioni che la storia d’intere generazioni ha legato all’impegno
espresso dalla ritualità dell’espressione. Come se sull’immaginario muro di fondo
della Cronaca di San Vincenzo al Volturno stiano scolpite le stesse parole che hanno pro-
nunciato individui coinvolti nei giudizi, davanti a vescovi, re, imperatori e potenti,
che hanno interessato giudicati e firme di contratti. Il X secolo punteggia quest’atten-
zione specialissima al possesso della terra. Altri tre Placiti, di Sessa Aurunca, del
marzo 963; il primo di Teano, del luglio 963; il secondo di Teano, dell’ottobre 963 ripe-
tono identica la formula: l’abate Giovanni, autore della Cronaca nella prima metà del
XII secolo (stesura iniziata probabilmente fra 1119 e 1124), se ne ricorda e in quattro
documenti (77, 88, 93,151) fa ripetere più volte ai protagonisti dell’atto pubblico la for-
mula del Sao ko kelle terre…
Stranamente questa medesima attenzione alla terra riguarda anche l’altro più
antico e non meno celebre documento che, fra la fine dell’VIII secolo e l’inizio del IX,
apparenta un volgare romanzo ai primi passi della lingua italiana-ma-ancora-latina:
il cosiddetto Indovinello veronese, infatti, descrive una campagna dove stanno i buoi,
un aratro, un seminatore…
per raccontare la fatica dello scrivere: il foglio bianco da coprire di segni e lo stilo del-
l’amanuense che semina inchiostro…Nonostante l’aristocrazia un po’ scolastica dei
due versicoli, il paesaggio resta quella della campagna, e negli anni dell’Indovinello la
storia dell’Abbazia di San Vincenzo è già cominciata da molto tempo, almeno da cen-
t’anni, perché i tre Re Magi del Volturno (Paldone con i suoi cugini Tasone e Tatone,
fratelli) si sono già messi in cammino. I tre principi di Benevento, scegliendo la vita
monastica, nel 703 muovono alla volta del regno dei Franchi e, lungo il percorso,
XLVIII MASSIMO OLDONI
(entrambi della seconda metà del XIII secolo. Si è detto che queste opere sono in real-
tà ‘cronache cartulario’ il cui principale interesse è raccogliere testimonianze delle
attività documentarie che hanno interessato l’abbazia, conservare la memoria di tutti
i possibili atti pubblici e privati che hanno legato fra loro le parti contraenti, celebra-
re la presenza delle grandi istituzioni medievali nelle persone del papa e dell’impera-
tore, coinvolti nelle delibere riguardanti la vita della fondazione monastica. E dentro
tutto questo c’è la descrizione dei territori e dei loro residenti, con valli, fiumi, città,
monti, paludi, laghi, foreste…un paesaggio sociale e storico che allinea un orizzonte
di condotte politiche dove la vita, la morte, gli inganni, le certezze, i soprusi e le inva-
sioni, le quasi assenti tenerezze, pullulano nel ruolo di riferimento costituito dall’ab-
bazia e dal ruolo degli abati. Ma in questo paesaggio storico sarebbe bello davvero
ritrovare il sentimento del tempo e la voce narratrice dello scrittore. Invece, quasi
tutte le Cronache ricordate qui sopra, non hanno il respiro di una grande storiografia
perché sono fortemente e prevalentemente attente ai patrimoni, ai passaggi di pro-
prietà, agli interventi dei protagonisti del potere. Nel XII secolo soltanto la Cronaca
della Novalesa (Chronicon Novaliciense) interpreta in senso molto alto il modo di raccon-
tare: l’anonimo vuole celebrare la rinascita dell’Abbazia per opera dell’abate Gezone,
nella Valle di Susa, alle falde del Monte Rocciamelone,. Fondata nel 726 lungo il per-
corso della Via Francigena, l’Abbazia della Novalesa è la sola provvista d’una Cronaca
dove l’eredità dell’Antico si salda al mutare del mondo, all’epica della chanson de geste
riaffiorante nell’eroe leggendario Walther ‘manoforte’ (Waltharius manufortis), che sce-
glie il chiostro per riscattarsi dalle sue colpe, agli intrecci dove i re e i semplici si con-
frontano in dialoghi, tranelli e speranze. Di siffatti teatri narrativi non c’è traccia nella
tradizione monastica benedettina di queste Cronache. Cercare un loro tentativo sto-
riografico sembra quasi inutile a fronte dell’importanza data ai documenti. Sì, è pale-
se una costante e dichiarata avversione agli Arabi, una diffidente e negativa opinione
sui Normanni corre qui e là in questi testi, ma resta un fattore marginale rispetto alla
sensibilità documentaria. A meno che…
A meno che non si voglia provare a credere al Giovanni, autore di questa
Cronaca di San Vincenzo al Volturno: l’autore nel primo libro dei sette promessi non ha
difficoltà a simulare un inequivoco atteggiamento storiografico. Preferisce partire da
lontano: nel nome di Ambrogio Autperto l’opera si pare con un’Orazione dedicata alle
«sette specie di vizi» derivanti dall’esercizio della superbia, creatrice di tutti i mali.
Sicuro di questa minacciosa ouverture, Giovanni insiste: il suo avant-propos, non meno
minaccioso è per i Nemici delle chiese che non hanno voluto correggersi o emendarsi, ma
non sentendosi a suo agio nei panni di chi semina interdetti preferisce utilizzare per-
sonaggi d’autorità a suo giudizio indiscutibili: i papi Gregorio III, Pasquale II,
Anastasio IV, e Alessandro III gli forniscono con i loro decreti emessi negli anni 739,
1115, 1153/4, 1179 (documenti 2-5), un buon motivo per affermare l’esaltazione del
monastero e la denuncia delle colpe più gravi delle quali gli uomini si rendono
responsabili: «il sacrilegio, l’omicidio, l’adulterio, la falsa testimonianza, il furto, la
rapina, la superbia, l’invidia, la tristizia, l’iracondia e l’ubriachezza». Sistemati con
chiarezza i perimetri dell’esistenza, l’opera può cominciare e utilizzando il modello
dei sette giorni della Creazione l’autore anticipa che il suo lavoro sarà in sette libri,
L MASSIMO OLDONI
ai beni e ai patrimoni, umani e fondiarî del monastero. Nel secondo libro comincia
un’altra storia.
Ed è la storia che Giovanni preferisce: quella dei suoi abati predecessori. Da
Giosuè a Maione il secondo libro è la prima grande rassegna degli abati, circa cent’an-
ni della vita altomedievale del monastero segmentata nei nomi di Talarico (817-823),
Epifanio (824-842), Totone (842-844), Iacopo (844-853), Teutone (853-856), Giovanni
(856-863), Artefuso (863-872), Maione (872-901, ma nel secondo libro è fatto morire
durante la cruenta devastazione perpetrata dagli Arabi nell’881; nel quarto
libro…resuscita!). Nei quarantasei documenti inseriti si fissano gli interventi, più o
meno significativi, degli abati e, grazie ad uno specifico episodio, Epifanio vi occupa
un posto di rilievo. Infatti è Epifanio a raccogliere sotto la giurisdizione di San
Vincenzo il monastero di Monte Marsico dov’è custodito il corpo del monaco
Martino, confessore di Cristo. Il principe di Benevento Arechi aveva tentato di trasfe-
rire in città le sacre spoglie di Martino: l’intenzione è quella di fare di Benevento una
città-reliquiario, il sancta sanctorum della devozione nella Longobardia meridionale.
Ma il tentativo va a vuoto: dalla sua tomba, il confessore Martino dice al principe di
non poter abbandonare il proprio sepolcro. A quel punto non resta che affidare alle
cure del cenobio di San Vincenzo il monastero di San Martino: questa eredità qualifi-
ca gli atti di Epifanio. Anche se il grande protagonista del secondo libro resta Giosuè:
la sua figura spicca su tutte (regge San Vincenzo dal 792 all’817) e, come è accaduto
nel libro precedente per Ambrogio Autperto, a Giosuè è dedicata un’intera sezione
del secondo libro, e dal medesimo titolo, Vita e morte del venerabile signor abate Giosuè.
Perché Giosuè, come Autperto, viene da lontano, dalla regione dell’Escaut, ha rappor-
ti stretti con i più alti gradi del potere. A voler credere a Giovanni, nell’anno 808 all’i-
naugurazione della Cappella dell’Imperatore, a San Vincenzo, sono presenti il papa
Pasquale I (817-824), l’imperatore Ludovico il Pio, figlio di Carlo Magno, con la
moglie belga, l’imperatrice Ermengarda de Hesbaye, «sorella germana dello stesso
beatissimo abate Giosuè», e poi vescovi, cardinali, chierici che ammirano i suggeri-
menti di arredo dati da Ermengarda. Ma lo scrittore fa confusione di date e di ruoli,
di presenze e di luoghi, ché certo la San Vincenzo di Giosuè è molto diversa da quel-
la raccontata ad esaltazione dell’opera di Giosuè. All’inaugurazione della nuova chie-
sa non c’era nessuno dei personaggi citati: Ludovico, non ancora imperatore, non era
in Italia, Ermengarda tampoco, Pasquale I non era diventato ancora papa, e nemmeno
la Cappella dell’Imperatore forse c’è mai stata a SanVincenzo. Giovanni sta copiando
Leone Ostiense che nella Chronica Monasterii Casinensis racconta con accenti molto alti
la consacrazione di Montecassino, oppure confonde Pasquale I con Pasquale II (1099-
1118), ben più contiguo allo scrittore, e contamina indietro nel tempo la consacrazio-
ne che proprio Pasquale II fa di San Vincenzo nel 1115, già narrata dal documento 2
nell’avant-propos della Cronaca alla sezione dedicata ai Nemici delle chiese che non hanno
voluto correggersi o emendarsi. Ma con questo metodo si rischia di non capire il mondo
della Cronaca: perché all’autore non interessa, nonostante le apparenze, essere preci-
so; i tanti errori di datazioni e situazioni dicono chiaramente che Giovanni persegue
un intento storico ma non stilografico. Egli vuole costruire la dimensione emotiva
dell’Abbazia di San Vincenzo, come i suoi predecessori ne costruirono le strutture
LA TERRA E L’ANIMA LIII
materiali. Così nemmeno è da credere che a quel grande consesso di vescovi ed abati
riuniti ad Aquisgrana nel luglio dell’817, alla presenza imperiale di Ludovico il Pio,
abbia partecipato l’abate Giosué, ormai defunto. Ma quello che conta è l’altezza dello
spirito, l’amplificazione dei ruoli, addirittura la distruzione delle effimere cronologie:
al suo venerato Giosuè Giovanni attribuisce il merito di aver ottenuto dall’imperato-
re, dopo un secondo viaggio ad Aquisgrana nell’819, un Diploma per un bosco in
Terra di Lavoro (documento 29). Giosuè ormai dorme il sonno dei giusti da almeno
due anni, ma la fabbrica della propaganda e dell’ammirazione non conosce soste:
sono ben ventisette gli Atti ufficiali inseriti nella Cronaca al tempo di Giosuè (docu-
menti 28-54). «Tutti coloro che come lettori si avvicineranno a questo libro sappiano
che io non ho scritto nulla se non quello che mi insegnò la Sacra Scrittura o che ho
appreso dalle fedele testimonianza degli anziani, venerabili per canizie e serietà, o
quanto io stesso, durante la vita, ho potuto osservare con i miei occhi»: si direbbe una
forte indicazione per la valorizzazione dell’oralità nel tessuto narrativo della Cronaca;
ma non è così, perché Giovanni, che preferisce fornire la testualità istituzionale degli
Atti con il loro inserimento spesso eccessivamente credulo nel valore dei documenti,
talvolta ripetitivo, non sempre coerente con un disegno di ricostruzione patrimonia-
le, tendenzialmente poco interessato al fattore sociale, assegna scarsa importanza pro-
prio all’oralità nel costruire la Cronaca. E, anche se così non sembra, i dialoghi in pub-
blico, il sentito dire qualcosa, l’aver visto qualcos’altro, non sposta quasi nulla nella
rappresentazione verticistica e gerarchica della società che ruota intorno a San
Vincenzo, e della quale San Vincenzo risulta la grande istituzione orchestratrice, e
Giovanni colui che gira la pagine dello spartito.
La prova di questa insensibilità di Giovanni ad un uso vero e partecipato del-
l’oralità si ha nel terzo libro, dedicato alla Storia dei novecento monaci decapitati.
Allorché nel primo quarto del XII secolo Giovanni si pone a scrivere la sua
Cronaca, decide di inserirvi un planctus, una lamentazione in versi, che nell’Abbazia
era certo cantata poiché nella redazione dell’esametro del primo verso del testo (Tybia
nunc dicat, mea luctu corda recisa… Ora narri la tibia, i miei sensi straziati dal dolore…)
sono anche specificate note musicali che nel manoscritto appaiono poi corrette da
mani differenti. L’adozione di questo planctus negli uffici liturgici del cenobio riporta
la memoria all’anno terribile 881/882, quando, com’è scritto in chiusura del secondo
libro, «questo monastero…venne occupato, devastato e incendiato dalla scelleratissi-
ma gente degli Agareni, e il suddetto padre [l’abate Maione] e, insieme, novecento
confratelli furono decapitati». È vero l’episodio, non è vera la decapitazione dell’aba-
te. Ma a Giovanni sta a cuore il mito del martirio e la crudeltà degli Arabi ne esalta gli
aspetti sacrificali.
Gli Arabi, i Saraceni o gli Agareni della tradizione storiografica longobarda,
hanno sempre espresso il ruolo di massimo turbamento nelle cose del Mezzogiorno
italico. Le incursioni arabe interessano un’area molto vasta che va dalla Sicilia alla
Puglia, dalle coste calabre alla Campania e più su fino in Molise e oltre. Non legando-
si ad alcun potere in particolare, gli Arabi, anticipando il comportamento che sarà dei
Normanni, però ben più opportunisti e politicamente avveduti, rappresentano una
forza dispari che riesce di volta in volta a stringere alleanze con Amalfi (con i prefet-
LIV MASSIMO OLDONI
sorte meno aspra: denudati e messi in catene, i monaci subiscono il rituale islamico
del taglio della gola: secondo la regola coranica chi taglia la gola ad un animale rispet-
tando precise norme si accredita d’un possibile ingresso in paradiso. I nemici sono
considerati, allora, animali perché viventi e, quindi, consentono l’applicazione del
supplizio. Giovanni ignora quanti monaci patirono il martirio: novecento… cinque-
cento… Paragona la strage con quella subita dagli oltre seimila martiri della «beata
legione dei Tebaidi» e fra i caduti viene messo anche l’abate Maione. Forse, in questo,
gioca la memoria dell’uccisione, nell’883, del cassinese Bertario, abate di San
Benedetto, massacrato insieme ai suoi monaci: Giovanni la riferisce compiutamente.
Maione, tuttavia, non era fra i martiri e le altre fonti nemmeno fanno alcun cenno a
quel tradimento dei servi. Ma lo scrittore ha molta cura nell’apparire credibile: recu-
pera così la testimonianza del monaco Sabatino che, scampato a Sawdàn, riferisce
quali proprietà del monastero di San Vincenzo restino ancora attive. Non è chiaro a
cosa serva quest’uso d’un «fatto memorabile…trovato scritto negli antichissimi volu-
mi segreti di questo monastero». Forse soltanto a dimostrare che qualche monaco si
salvò dall’eccidio che, peraltro, non cessava di allargarsi verso il Garigliano e verso
Capua fino a quando non appare il beato confessore Martino. Guidando una miraco-
losa carica di monaci cavalieri Martino si scaglia sui Saraceni: li uccide, li ferisce, li
acceca e, tutti, li costringe alla fuga. Come in una favola: «Da quel giorno l’esercito dei
Saraceni rimase così fiaccato e abbattuto, che non sapeva portare più guerra ai
Cristiani, ma dandosi alla fuga soccombevano al momento decisivo della morte…. I
documenti degli antichi padri hanno tramandato la memoria…». Giovanni arriva così
alla fine della tragedia: è stato pronto ad intonare canti di lutto (in luctu versa est cytha-
ra nostra, suona a lutto la nostra cetra), magari ripetendo un refrain che nel XII è diffu-
sissimo in Europa grazie alla poesia Versa est in luctum cithara Waltheri di Walther di
Châtillon (1135-1184), ma poi gli sembra che la storia abbia voltato pagina, e anche
lui volta la sua apprestandosi al quarto libro. Però dice che per il ricordo di chi è pas-
sato e per l’occasione dei tormenti presenti gli piace continuare ad intonare, nel suo
monastero, quel planctus, come fosse una protezione dall’incertezza del futuro.
L’oralità del terzo libro è tutta qui, legata al planctus di qualche salmodia monastica.
Eppure il terzo libro riguarda l’unico momento della Cronaca dove l’oralità diventa
tradizione orale per l’eccezionalità dell’episodio; il fatto storico è immenso: due
monasteri devastati, rapine e uccisioni dovunque… Si sarebbe dovuta formare, e certo
si formò, una tradizione orale che i più anziani della comunità avrebbero conservato
e trasmesso, ripetendola dalla memoria di precedenti narrazioni; ma Giovanni non si
sarebbe fidato: preferisce le testimonianze scritte, salvo modificarle e alterarle a suo
piacere. Gli è che qui lo scrittore palesa il suo progetto edificante e la sua esclusiva
vocazione volturnense e sceglie il ruolo del compilatore piuttosto che quello del nar-
ratore; in certo modo si potrebbe davvero dire che si tratta d’un ortodosso atteggia-
mento da cronista nel senso più specializzato del termine. Sbagliato cercare uno scrit-
tore dove c’è un cronista devoto al suo cenobio. Tanto devoto da rischiare di dimen-
ticarsi che Maione è morto nel primo tempo, e nel secondo tempo, il quarto libro, non
può resuscitare! Ma si sa: i miracoli del beato martire Vincenzo…Eppure, dopo lo
scempio dell’Abbazia, seguirono trentatre anni di totale smarrimento che cambiaro-
LVI MASSIMO OLDONI
del corpo dell’apostolo Matteo, intorno al 976. I papi e gli imperatori passano, la terra
resta: la strada sicura del cenobio volturnense è tracciata dal solco del vomere e dagli
intrecci delle viti sospese, ieri come oggi, fra gli alberi.
È però tempo di tornare a quei trentatre anni di buio nella vita del monastero,
perché proprio da lì occorre riflettere su alcuni interessanti cambiamenti nella vicen-
da sociopolitica del cenobio di San Vincenzo, cambiamenti che affiorano anche, pur
non conclamati, nella composizione dell’opera. Fin dalla sua fondazione San
Vincenzo al Volturno gravita nella realtà dei Longobardi beneventani e le sue pro-
prietà spaziano dai territori circostanti ad aree decentrate o lontane (Santa Maria in
Loco Sano, Santa Colomba a Sora, Santo Stefano a Balsorano, Santa Maria alle Due
Basiliche sul fiume Sangro, Santa Maria di Cinque Miglia, Sant’Andrea a Pesano, San
Giuliano di Vicalvi, e molte altre località che la Cronaca enuncia con accuratezza). La
vastità dei possedimenti territoriali implica un ruolo importante dell’Abbazia di San
Vincenzo, situata sulla direttrice che dall’Adriatico scende, attraverso Isernia verso il
Meridione. L’armonia di rapporti con il potere carolingio conferisce al cenobio uno
snodo di equilibrio tra Franchi, Longobardi e Papato. Al punto che lo stesso Carlo
Magno, nel marzo del 787, da Capua, conferma al monastero (documento 27) il pos-
sesso di San Pietro a Benevento, Santa Maria in Apianico, Santa Maria in Loco Sano,
ma soprattutto sancisce l’immunità per il cenobio e il diritto di eleggersi il proprio
abate senza l’interferenza di chicchessia. Da qui parte un movimento di donazioni
fatte a San Vincenzo nella convinzione, così, di salvarsi di fronte al giudizio di Dio.
Con le donazioni al monastero si cerca di guadagnare la vita eterna. La speranza della
salvezza o la paura della dannazione diventa il motore incessante di queste donazio-
ni che, intanto, ingigantiscono a dismisura la signoria fondiaria della congregazione
volturnense fino ad interessare le terre di Lazio, Campania, Molise, Puglia, Lucania.
Questo potere e questa totale immunità, riconosciuta anche da Santa Romana Chiesa,
fa di San Vincenzo al Volturno un protagonista politico decisivo per le vicende del
tempo. Tutto questo fino alla distruzione dell’881 da parte degli Arabi. Da quel
momento l’intera ma fragile ricchezza è legata alla terra, e la possibilità di esercitarvi
l’autorità diventa nulla perché la crisi economica sprofonda la comunità nel disagio
più cupo. Rifugiandosi a Capua, la comunità volturnense entra in una differente logi-
ca di comportamento: la dinastia capuana si è unificata nel Principato di Capua e
Benevento e la perdita d’immunità, di potere e di risorse economiche dell’Abbazia
apre l’ingresso a nuovi personaggi preposti alla guida del monastero. I principi, i
signori e i gastaldi, da Capua, Benevento, Venafro, Isernia o altrove entrano sulle pro-
prietà volturnensi, diventano abati, si fanno mediatori di affari che possano far
sopravvivere il cenobio. Terre, case, casali, chiese, cappelle, celle e territori da coltiva-
re sono dati in affitto in cambio di prestiti, in monete, in argento e in oro che permet-
tano alla comunità di sopravvivere argento. Sono molti i documenti che nella Cronaca
testimoniano come l’Abbazia diventi controparte esposta alle dazioni di danaro e
costretta a contratti di enfiteusi e ad accordi di reciproca convenienza. Da proprieta-
ria e creditrice di terre e anime, l’Abbazia diventa debitrice. E’ un periodo che dura
non poco, almeno fin quasi alla metà del X secolo, allorché, venuti a maturazione gli
effetti di quei contratti, la comunità monastica, specialmente nel periodo dell’abate
LVIII MASSIMO OLDONI
Leone e dei suoi successori Paolo, Giovanni, Roffredo, riapre il contenzioso con i
poteri laici, gastaldi soprattutto, per tornare in possesso dei suoi beni.
In questo continuo mutare di rapporti l’abate Ilario (+1043) diventa un perso-
naggio decisivo. In ordine d’importanza la sua azione, testimoniata da ben dicianno-
ve Atti pubblici (documenti 184-202) è seconda soltanto a quella dell’antico predeces-
sore Giosuè (ventisette Atti; documenti 28-54) e dei precedenti abati Paolo (trentacin-
que Atti; documenti 107-1412) e Giovanni III (ventidue Atti; documenti 142-163).
L’abate Ilario è protagonista d’un formidabile recupero di territori e beni fondiarî
(documenti 188-202), riceve privilegi dal papa Sergio IV (documento 184), dagli impe-
ratori Enrico II (documenti 185-186) e Corrado (documento i87), accoglie donazioni
rilevantissime da parte del conte Trasmondo (documento 194), del conte Pandolfo
(documento 195) e dei signori Ildegardo (documento 200, di eccezionale ampiezza la
donazione di ventitre appezzamenti nel territorio di Teano) e Rachi (documento 201).
Sia Ilario che il suo successore, l’abate Liutfredo (+1053) ebbero tuttavia a confrontar-
si con l’aggressività dei conti della Val di Sangro, e i quattro anni che intercorrono fra
la morte di Liutfredo e l’elezione del suo successore Giovanni V, abate nel 1057, dico-
no in modo eloquente un periodo di profondo malessere per l’Abbazia. Con l’elezio-
ne di Giovanni V, tuttavia, si apre un periodo relativamente felice per la fondazione
volturnense. Negli oltre ventidue anni del suo governo c’è un risveglio culturale e
strutturale nei ritmi del cenobio: «Restaurò in modo ammirevole la chiesa di San
Vincenzo, che è detta Maggiore, nel pavimento, nelle travi, nel tetto…portò a compi-
mento gli ornamenti della chiesa, i libri, le croci d’argento, il ciborio dell’altare, la
tavola rivestita d’argento, i calici, i turiboli. Fece costruire con il massimo impegno il
chiostro interno e quello esterno, il Capitolo, il dormitorio, il refettorio e le altre parti
necessarie della casa», e fra i calici c’erano forse anche quelli dove centottant’anni
prima aveva bevuto Sawdàn brindando sul sangue versato dei monaci sgozzati. Una
corrente maligna corre ancora, dal tempo di Liutfredo, nelle sorti del monastero, per-
ché Giovanni «come un agnello tra i lupi convisse con i tiranni che avevano invaso
quella terra. Ma poiché non poteva sopportare a lungo la malvagità di quelli, dal
momento che si erano divisi tutto il bottino, e non avevano lasciato niente, di grande
o di modesto, alla chiesa di Dio, alcuni fratelli,…preso consiglio…, intrapresero un
arduo cammino…»: la richiesta di assistenza è fatta al papa Niccolò II (1059-1061) che
con due suoi immediati privilegi (documenti 204-205) ripristina all’Abbazia le pro-
prietà del Castello di Scapoli, il Castello di Gualdo Porcino, quello di Fornello, e poi
Fossacieca, Colle Sant’Angelo, Colle Stefani, Licenoso, Acquaviva, Rionero,
Malacocchiara, Alfedena, Santa Maria in Castagneto e tanti altri. Si direbbe un buon
momento per la vita della comunità di S.Vincenzo, ma accade qualcosa…
«Da questo periodo i Normanni, mentre assediavano Capua, cominciarono a
devastare gravemente tutti i territori circostanti. Allora il venerabile abate Giovanni,
avendo preso con sé gli uomini che abitavano nei dintorni della chiesa di Santa Maria
in Oliveto, fece costruire sul monte un castello, che ancora si vede esserci…»: accado-
no, anzi, due cose. La prima è la memoria della presenza dei Normanni, la seconda è
la costruzione del castello.
La Cronaca di Giovanni non dedica molto spazio ai Normanni: vi accenna una
LA TERRA E L’ANIMA LIX
prima volta nella cronologia pontificia del libro primo allorché, all’anno 1052, è regi-
strata, forse sulla base del Liber Pontificalis, la breve ‘scheda’ dedicata a Leone IX
(1049-1054): «Leone IX Magno, germanico….Questi combatté in Puglia contro i
Normanni ma, non riuscendo a vincerli, tornò a Roma». Giovanni sa tutto di quella
battaglia di Civitate (17/18 giugno 1053), perché l’importanza dell’avvenimento
risuona in tutta la storiografia e l’annalistica fra XI e XII secolo. Lo scontro è tra i
Normanni di Umfredo d’Hauteville, Riccardo di Aversa e Riccardo Drengot contro
una coalizione di Longobardi e Svevi, molti dei quali mercenari. L’esito della batta-
glia determina un totale ribaltamento di ruolo nella presenza dei Normanni in Italia
e si conclude con il riconoscimento ufficiale delle loro conquiste (Trattato di Melfi nel
Concilio del 1059). Lo sconforto delle fonti germaniche per la sconfitta di Brunone dei
Conti di Egisheim, papa Leone IX, è grande e sembra quasi che la successiva morte
del pontefice sia dipesa proprio da quella sconfitta: al punto che l’Anonimo di
Augsburg scrive nei suoi Annales (inizio del XII secolo) che Leone IX trucidatus est nel
combattimento. Quando Giovanni organizza la Cronaca non ha alcun interesse a sot-
tolineare il fallimento della spedizione papale, ma non può nemmeno accettare la
verità delle notizie date dalle fonti: il papa è tenuto prigioniero a Benevento per nove
mesi, ma Giovanni lo fa tornare a Roma. Intorno al mondo di S.Vincenzo ruotano
troppi interessi papali, longobardi e germanici perché egli si dilunghi sulla faccenda.
E addirittura ritorna evasivamente sull’argomento, nel quinto libro, se non per scrive-
re, seguendo le sue malcerte cronologie, che «Il santo papa Leone IX combatté contro
i Normanni presso la città» di Capua.
La seconda comparsa normanna è, nel secondo libro, negli ultimi anni dell’a-
bate Giosuè: «I Normanni giunsero in Italia. Questi ultimi, saccheggiando ogni cosa
per sé, iniziarono ad edificare castelli al posto dei villaggi…e, agendo come se non
avessero né re né leggi, nominando se stessi patroni delle chiese, anzi definendosene
i dominatori, a stento, secondo un giusto diritto, per quanto sembrava loro opportu-
no, e comunque controvoglia, pagavano di anno in anno i tributi ai signori per quei
beni dei quali riuscirono ad impadronirsi. Tale cattivo costume perdura fino ad oggi:
essi si appropriano illegalmente, per sé e per i propri figli, dei beni posseduti dalle
chiese, commettendo grave sacrilegio…». Una esplicita tirata contro gli invasori: ci si
aspetterebbe da Giovanni qualche ulteriore informazione, ma fino al quinto libro non
c’è più traccia dei futuri signori del Mezzogiorno europeo. Poi, molto prima della
morte dell’abate Ilario, un breve appunto: «I Normanni, venendo in Italia, sotto il
comando di Melo cominciarono a conquistare la Puglia»: è l’anno 1017; viene poi bre-
vissimamente riferita la loro disponibilità mercenaria al soldo del conte beneventano
Rainolfo per combattere la sacrilega perversità dei figli del conte Borrello della Val di
Sangro, che saccheggiano il monastero di San Vincenzo e vi prendono dimora.
L’intervento dell’abate Ilario, presentatosi sul posto insieme alla forze di Rainolfo,
risolve la questione.
Si arriva così all’abate Giovanni V che per difendersi dai Normanni fa costrui-
re un castello sul monte nei pressi di Capua. E questa è la seconda cosa rilevante del-
l’episodio: perché l’incastellamento è un tipico tratto di affermazione del potere
signorile, dove anche la territorialità dell’Abbazia rivede le sue destinazioni primarie,
LX MASSIMO OLDONI
ieri legate alle proprietà dei casali, delle celle e dei latifondi (villae), adesso espresse
dalla possibilità di costruire castelli, elevare torri. Importantissimo, a questo riguardo,
il documento 124 nel quarto libro dell’opera, il diploma per la costruzione di torri e
castelli rilasciato nel luglio del 967 all’abate Paolo dai principi longobardi Pandolfo I
e Landolfo III. Da questi nuovi arredi ambientali nascono nuovi agglomerati urbani e
coloni, servitori, contadini potranno portare con sé altri consanguinei, amici, soci…La
sociologia della Cronaca si arricchisce di nuovi rapporti interpersonali che nascono
proprio dall’incastellamento, e questo conviene a tutti: all’Abbazia, fisionomizzata
adesso anche in una sua funzione civica, e agli uomini, che attorno al castello, alle
torri si raccolgono in una personalizzazione urbana del quotidiano; senza trascurare
il fenomeno della filiazione di queste strutture fortificate che, anche se piccole, costi-
tuiscono una sorta di ossatura che interagisce nel più ampio fenomeno della diaspo-
ra signorile monastica. Certo, è grande il rischio di veder prevalere all’interno di que-
sti nuovi insediamenti territoriali gruppi familiari potenti, ricchi e ben armati, anche
provenienti da fuori. Si spiega così il caso delle famiglie di Ansero, Sansone e Borello,
rispettivamente di origine franca, spoletina e di Val di Sangro, che assumono un posto
di rilievo nella proprietà fondiaria non soltanto volturnense. Se a questi si aggiungo-
no i nuovi nuclei familiari normanni, in rapida crescita dall’XI secolo in avanti, allora
sembra di poter prevedere addirittura la fine della signora monastica di San
Vincenzo, forse iniziata fin dalla fuga a Capua all’indomani della distruzione islami-
ca. Rimane comunque significativa l’attenzione prestata dal cronista Giovanni al
carattere innovatore dell’incastellamento: negli Atti registrati dalla Cronaca svettano
spesso torri e castelli, e non per amore del paesaggio.
Il penultimo atto pubblico dell’opera è del 6 luglio 1066 (documento 206). Tre
mesi più tardi, molto lontano da S. Vincenzo al Volturno, si combatte la battaglia di
Hastings, fra gli Anglosassoni di re Aroldo e i Normanni di Guglielmo il
Conquistatore. In cielo c’è già la cometa di Halley, che le ricamatrici di Bayeux dise-
gnano poi sull’arazzo della battaglia. L’autore della Cronaca, non celebra la famosa
vittoria dei Normanni di Guglielmo, cugino e prozio dei Normanni che Giovanni
vede sulle sue terre, e nemmeno ricorda il passaggio della cometa in tante pagine così
prive di cielo, anche se tanto cariche di devozioni. E forse è un caso che l’ultima trac-
cia della narrazione continua del monaco Giovanni si fermi sui Normanni: «Riccardo
entrò a Capua e Roberto, per primo fra i Normanni, fu fatto principe»: tanto poco pre-
senti nel prima e nel durante, così irresistibilmente presenti e affermativi, i signori
d’Hauteville, in un dopo che l’interruzione della Cronaca non può raccontare perché
perduta, ma che forse avrebbe prudentemente evitato per non turbare gli ormai diffi-
cili rapporti tra i Normanni e le fondazioni monastiche.
Le parti successive e discontinue della Cronaca si formano, intanto, da un patch-
work di apografi, di manoscritti copiati direttamente dall’originale (Barberiniano,
Cassinese, Catemario), dove i frammenti non permettono una sicura intelligenza
degli eventi. Si intende una disorganica successione di abati, tra i quali spicca l’azio-
ne degli abati Gerardo e Benedetto nel recupero e nella valorizzazione architettonica
dell’Abbazia. E dove affiora il profilo dell’autore stesso dell’opera, il monaco
Giovanni, eletto abate come Giovanni VI «per comune volontà di tutti i
LA TERRA E L’ANIMA LXI
le bocche del popolo celebrano con cento lodi questo fatto divulgato con insigne fama
in lungo e in largo…»: accade nel libro primo, poco prima di chiudere il dossier Vita
e morte del venerabile abate Autperto. Alcuni confratelli, reduci da un pellegrinaggio a
Roma nel quale hanno lucrato preziose reliquie di santi martiri, si fermano per ripo-
sare al confine fra i territorî delle contee di Balva e di Forcone, vicino al Castello di
Gorgiano. Sistemano i reliquiarî sul ramo di un albero e se stessi al di sotto, alla base
del tronco, per rifocillarsi e dormire. Decisi poi a rimettersi in cammino, vanno per
prendere le reliquie ma vedono che quelle si sollevano verso l’alto, fin sulla cima del-
l’albero. È il segno che là dev’essere costruita una chiesa. E così fu. Ma, evidentemen-
te, nella zona gli alberi hanno una loro partecipe vitalità, come nelle favole, dove cam-
minano, parlano, si spostano…Qui, nella terra intorno a Gorgiano, gli alberi mangia-
no. Un giorno si scatena un grande nubifragio e i fedeli, abituati ad andare su diffici-
li sentieri di montagna per raggiungere un piccolo oratorio dedicato al santo
Vincenzo e lì raccogliersi in preghiera, si trovano in mezzo alla tempesta. È primave-
ra, ma neve, pioggia e vento sconvolgono dovunque. Ci sono vittime e dispersi, e il
luogo rimase a lungo deserto dopo quel terribile episodio. Nessuno più osava avven-
turarsi fin là. Ma sulla sommità della chiesetta c’era una croce, consacrata alle reliquie
di santi e molto venerata da tutti; così le processioni a poco a poco riprendono. Si sca-
tena un nuovo nubifragio. La croce si solleva dalla sommità della chiesetta e si pog-
gia sulla cima d’un grande faggio. Nell’infuriare degli elementi l’albero si apre:
inghiotte la croce per preservarla dalla tempesta. L’albero si richiude lasciando fuori
soltanto un piccolo pezzo di uno dei bracci della croce. Chi sta lì vede il miracolo e lo
racconta. L’oralità si trasforma in tradizione orale,al punto che lo stesso abate-scritto-
re Giovanni andò a verificare il prodigio: «Noi stessi, giungendo un giorno sul posto,
vedemmo quello che avevamo sentito dire: e vedendolo credemmo a quello che non
avremmo mai potuto credere se non lo avessimo visto».
Con queste parole Giovanni non si rende conto di screditare qualsiasi attendi-
bilità delle tradizioni orali: affermare di credere soltanto a quello che si vede spiega
benissimo, la sua lontananza, la sua diffidenza nei confronti di qualsiasi oralità che
non abbia prove riscontrabili. Per uno scrittore che lavora su materiali a distanza di
secoli è un limite addirittura colpevole. Ma questo conferma anche il tipo di ruolo
testimoniale che Giovanni si è scelto. La verità sta nella prassi. E soltanto perché gli
hanno raccontato attendibilissimi e stimatissimi anziani confratelli egli è disposto a
credere a quello che racconta nel quinto libro. Il confratello Buono era un «venerabi-
le servo di Dio, buono per meriti e nome». Di costui non si sa nulla, né origini né fami-
glia né provenienza, ma si sa che un giorno sta seduto presso la sponda del Volturno
a dire le sue preghiere, salmodiando dal suo lezionario. Arriva un diavolo: gli strap-
pa il salterio dal grembo e lo getta in acqua. Buono non fa una piega e continua a can-
tare i salmi. Il diavolo s’infuria e, avvolgendolo in un mefitico puzzo (fetore nimio, nel
testo), sparisce. Buono abbassa gli occhi e vede che il salterio è di nuovo là, sulle sue
ginocchia, con le pagine aperte proprio nel punto dove continua la preghiera che lui
aveva cominciato. Forse nemmeno bagnato, ma questo la tradizione orale non lo dice.
Dopo la sua morte, Buono operò molti miracoli: guarì malati e fece rinsavire i violen-
ti (inerguminos).
LXIV MASSIMO OLDONI
Le reliquie che si sollevano, come la croce della chiesetta, l’albero che mangia,
il libro che torna da solo al suo posto… Fenomeni di levitazione e di protezione mira-
bile. Per la psicologia di Giovanni sarebbero storie quasi incredibili, ma la forza delle
testimonianze lo convince. Lo convince al punto che, ed è l’unico momento diverten-
te di tutta la Cronaca, riesce perfino a far diventare simpatico il diavolo, non quello
della puzza, bensì un altro ancora più sfortunato!
È ancora merito di Buono quanto succede. Un indemoniato viene portato sul
sepolcro di Buono per essere liberato. Appena là, per bocca del poveretto, il diavolo
comincia ad urlare: non è quella la santa tomba che lo atterrisce e lo mette in fuga; c’è
un altro sepolcro, invece, che gli fa paura e lo fa sparire, il sepolcro che nessuno sa
dov’è e del quale nessuno sa di chi sia il corpo che vi è dentro. È del venerabile
Landolfo che quel diavolo ha davvero terrore, e rivela il nome e il luogo del sepolcro.
Così, intanto, l’indemoniato è risanato, e il ‘povero diavolo’ ha involontariamente
compiuto una buona azione rendendo possibile la scoperta d’un altro miracoloso con-
fratello.
Com’è scritto il testo della Cronaca ? Che latino è quello di Giovanni ? Questa
domanda ancora ha senso dopo la lunga e complessa impresa di questa traduzione.
Se i Placiti qui citati insieme all’Indovinello veronese all’inizio dell’Introduzione segnano
un punto di intersezione, anzi di trasformazione, del latino in volgare, in una scrittu-
ra ormai libera da qualsiasi concordanza e rispetto di declinazioni, potrebbe dirsi che
il latino della Cronaca di San Vincenzo al Volturno denuncia fasi di accelerazione com-
pletamente tendenti al volgare e fasi di rallentamento formale rispettose della sche-
maticità dei documenti e dell’ufficialità degli atti politici. Così, l’annullamento pres-
soché completo di qualsiasi norma grammaticale viene smentito dalla pervicace e
insistita ricerca di una norma sintattica: in molti documenti le concordanze tra i voca-
boli sono del tutto casuali, l’uso delle preposizioni è completamente derivante da
chiarissimi caratteri di discorsività, ma il rispetto della consecutio temporum appare
costante, anche se non sempre riuscito. E questo si spiega molto bene con il contenu-
to dei materiali narrativi, che poi narrativi non sono per essere invece tendenzialmen-
te materiali amministrativi, notarili, generalmente Atti pubblici.
Nelle cose e nei beni che cambiano padrone, nei passaggi da un proprietario
all’altro, nell’accettazione d’un contratto di convenienza o di accordo, nell’adozione
di mediatori, nel proferimento di una fideiussione, nella delibera di un’enfiteusi, nella
conferma d’un proprietà, nell’offerta di una donazione, nella cessione d’un diritto,
nell’esercizio d’una prerogativa come nell’adozione d’una tassa c’è una cosa che resta
indiscutibile, sempre dovunque e comunque: il prima, il durante e il dopo. In questo
sta il continuo mutamento, l’incessante variare di beni, proprietà e poteri. Nel prima,
nel durante, nel dopo sta la sintassi della storia.
La sintassi della Cronaca non è mai sintassi dei casi, ma è sempre sintassi dei
tempi. Perché dentro le storie della terra e dell’anima c’è il tempo, e lo stesso
Giovanni, l’abate scrittore Giovanni, non se ne rende conto, compreso e coinvolto
com’è a rabberciare i pezzi di storia del suo amatissimo cenobio di San Vincenzo. I
suoi futuri anteriori, i suoi perfetti congiuntivi sono la meraviglia della Cronaca, sono
la stratigrafia sintattica del Chronicon Vulturnense e rappresentano per il lettore e per
LA TERRA E L’ANIMA LXV
sibili, visto che, per come appare strutturata la Cronaca, nessuna delle opere cronisti-
che coeve è tenuta in gran conto da Giovanni e non emergono predilezioni che supe-
rino l’orizzonte del chiostro. Emergono invece, e frequetemente, confusioni cronolo-
giche o relative ai personaggi che si giustificherebbero soltanto in un quadro lettera-
rio che è del tutto lontano dalle intenzioni del cronista. L’invasiva predominanza
della documentazione ufficiale allude ad un preciso progetto dell’autore: disimpe-
gnarsi da qualsiasi valutazione storiografica per il passato e da qualsiasi presa di posi-
zione politica per il presente che non sia legata alla sopravvivenza della fondazione
di San Vincenzo. La Cronaca descrive, quindi, chiarissimo il manifesto di una scelta
volontaria: la storia è fatta dai documenti legati all’azione degli abati. Questa è la sola
struttura portante dell’opera. Così diventa anche quasi superfluo aggiungere valuta-
zioni sul latino di Giovanni, tanto più che ogni documento è riconducibile ad uno
schema che deve rapportarsi ad una precisa tipologia redazionale. Resta, quindi, poco
spazio per interventi personali dello scrittore che, peraltro, preferisce rimanere in
disparte anche per motivi di opportunità politica. Coesistere nell’età di Ruggero II
non doveva essere facile per l’abate di San Vincenzo, fondazione ormai declassata.
Un utile contributo all’intelligenza della Cronaca appare, per altro verso, la let-
tura del Glossario, il cui inserimento ad integrazione della versione italiana può risul-
tare di grande aiuto per fare chiarezza sui caratteri lessicali o denominativi come sui
vocaboli istituzionali, legali, fiscali e sociali dell’opera. Attraverso il Glossario è pos-
sibile raggiungere alcuni snodi linguistici nella terminologia specializzata che
Giovanni adotta ereditandola dall’alto Medioevo, dalla tradizione germanica, dalla
cultura di Bisanzio e dagli usi correnti. A questo si aggiunga il dato forse più interes-
sante della sua ricostruzione sociale: l’adozione d’un autentico vocabolario georgico,
legato alla realtà delle campagne, ai caratteri ambientali della vita quotidiana sulla
terra, ai fattori organizzativi del lavoro di gruppo e ai sistemi locali per valorizzare i
differenti tipi di colture. A questo proposito non sembri superfluo scorrere con atten-
zione l’Indice di un’opera pubblicata a Napoli nel 1815, il cui autore, Francescantonio
Notarianni, «Corrispondente al Real Giardino delle piante», scrive un piccolo e pre-
zioso trattato Agricoltura. Memoria sulle piante economiche della Provincia di Terra di
Lavoro, dove gli argomenti sono organizzati così: «I-Biade, o semi cereali (grano, seci-
na o segala, orzo, riso, panico, biada, granodindia, granturco, marzuglio, grano sici-
liano, saggina, sorgo); II-Civaje (fava, fagiolo, lenticchia, cece, pisello, cicerchie, lupi-
no, mauci, occhi di trotta, dente di cavallo); III-Ortaggj (scarola, endivia, lattuga, cavo-
lo, radice, bieta, pastinaca, spinace, cocozza, cocomero e melone, molagnana, pomo-
doro, peperone, carcioffo, finocchio, accio, ruchetta o rucoletta, patata, taratufolo
[stampato proprio così!] bianco, cipolla, aglio, fraula); IV-Piante che danno materia da
vestire (cannova, lino, cotone, altre piante non usate) e Piante da olio (ulivo, lentisco,
altre piante non curate); V-Agrumi (limoni da sugo, limoni da pane, arancj, cedri); VI-
Alberi da frutto; VII-Piante per tinte; VIII-Piante per la concia delle pelli; IX-Piante per
usi diversi». A distanza di oltre sette secoli questo prontuario ancora evoca il giorno-
dopo-giorno di tante generazioni che in Terra di Lavoro e in tutto il Mezzogiorno vol-
turnense hanno lavorato la terra per salvare l’anima, e hanno lasciato traccia nelle
pazienti e appassionate pagine dell’abate scrittore Giovanni.