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Università degli Studi di Trento Università degli Studi di Verona

Dipartimento Dipartimento

Lettere e Filosofia Tempo, Spazio, Immagine,


Società

Corso di Laurea in interateneo in

Scienze storiche

Percorso: Società e istituzioni nell’età moderna e


contemporanea

Tesi di laurea

Dalla Baia di Assab all’A.F.I.S.


Storia della colonizzazione italiana in Africa Orientale.

Relatore Laureando Luigi Facchinetti

Prof.ssa Sara Lorenzini Matricola: 168348

Correlatore

Prof.ssa Cinzia Lorandini

Anno Accademico 2018/2019.


2

Ai miei genitori
3

“L’Africa ci attira invincibilmente. E’ una predestinazione.


Ci sta sugli occhi da tanti secoli questo libro suggellato,
quest’orizzonte misterioso che ci chiude lo spazio che ci
rende semibarbaro il Mediterraneo, che costringe l’Italia
a trovarsi sugli ultimi confini del mondo civile.
[…] L’Africa, sempre l’Africa! […]
L’abbiamo proprio sugli occhi e fin qui ne siamo esiliati…”

Cesare Correnti
4

INDICE

Introduzione Pag. 5
Cap. I – L’Italia e l’Africa. Pag. 7
1.1. I primi esploratori e l’ideologia coloniale italiana. Pag. 7
1.2. Le colonie penitenziarie e il fattore migratorio. Pag. 14
1.3. La colonia dello Sciotel e l’acquisto di Assab. Pag. 19
Cap. II – Dal ritorno ad Assab alla Colonia Eritrea. Pag. 27
2.1. La polemica tra filo ed anticolonialisti. Pag. 27
2.2. Dal definitivo acquisto della baia di Assab a Dogali. Pag. 32
2.3. Il trattato di Uccialli e la “Colonia Primigenia”. Pag. 47
Cap. III – L’espansione dell’Italia liberale in Africa Orientale. Pag. 54
1.1. La Somalia. Pag. 54
1.2. Dalla disfatta di Adua alla Grande Guerra. Pag. 78
Cap. IV – Il ventennio fascista. Pag. 100
1.1. Dall’età liberale al regime. Pag. 100
1.2. Il sogno dell’Impero. Pag. 114
1.3. La catastrofe. Pag. 127
Cap. V – Il dopoguerra, dalla perdita delle colonie all’A.F.I.S. Pag. 136
1.1.Via dall’Africa: i profughi e la situazione postbellica. Pag. 136
1.2. Il destino dell’Eritrea. Pag. 148
1.3. La Somalia e l’A.F.I.S. Pag. 160
Conclusione Pag. 183
Ringraziamenti Pag. 193
Documenti Pag. 194
Fonti archivistiche Pag. 241
Bibliografia Pag. 241
Documenti e risorse on line Pag. 245
Indice delle sigle Pag. 246
5

INTRODUZIONE

L’argomento del colonialismo italiano in Africa ha sempre riscosso un grande


interesse, scatenando furiosi dibattiti di tipo ideologico, storico, sociale e politico. Bisogna
ammettere, ad ogni modo, che il periodo coloniale che più accende gli animi è quello che va
dal 1922 al 1941, in concomitanza con la presenza del regime fascista in patria. Nonostante
l’idea coloniale nasca in Italia molto prima dell’avvento al potere di Mussolini, e che il
dominio italiano su alcuni territori africani, come Eritrea e Somalia, sia attivo già da diversi
anni, per la stragrande maggioranza degli italiani il periodo coloniale per eccellenza sono gli
anni ’30 del novecento, sicuramente più strombazzato dalla propaganda di regime ma,
secondo il mio modesto parere, non il più importante né per il nostro paese né per quelli
africani, per lo meno non dal punto di vista socio-politico (sicuramente dal punto di vista
architettonico e propagandistico). Ad esempio parlando di confini nazionali, come quello
attuale tra Etiopia ed Eritrea, verrà rispolverata negli anni ’90 del novecento, dopo una
sanguinosissima guerra trentennale che decreterà l’indipendenza dell’Eritrea, la stessa linea di
confine stabilita con il trattato di Uccialli del 1889 e confermata dopo la battaglia di Adua e la
fine della guerra Abissina del 1896!

A proposito del periodo coloniale esiste una vastissima bibliografia nella quale
l’analisi storica non è certo stata priva di strascichi ideologici. Ho letto spesso che per chi fa
storia è quasi impossibile non lasciarsi condizionare dalle proprie idee personali ma, a costo
di peccare di presunzione, voglio dichiarare che l’obiettivo di questo studio sarà proprio
quello di esaminare ed analizzare il fenomeno coloniale italiano nella sua essenza più pura,
cercando di riferire e valutare ogni episodio con lo sguardo e la mentalità dei contemporanei e
non certo utilizzando i criteri odierni. Peraltro non intendo dare giudizi o fare commenti sul
fenomeno in questione se non attraverso una personalissima analisi all’interno della rituale
conclusione dell’opera.

Lo studio si divide in cinque capitoli: nel primo, che tratterà dal 1850 al 1869,
cercherò di evidenziare e approfondire le motivazioni che spinsero uomini, di un paese non
ancora unificato, alla ricerca di una colonia africana. Parlerò anche di quei viaggiatori che
affrontarono rischiosissimi viaggi in cerca di fortuna, di fama, o per questioni di principio e
per i quali l’idea di colonialismo non aveva l’importanza che ebbe in seguito.

Nel secondo capitolo, sarà presa in esame la penetrazione italiana in Eritrea, a partire
dall’acquisto della baia di Assab (1869), al Regio Decreto 6592 del 1 gennaio 1890, con il
quale i possedimenti italiani nell’area vennero ufficialmente rinominati come Colonia Eritrea,
denominazione che rimase fino al 9 maggio 1936 quando Eritrea, Etiopia e Somalia furono
riuniti nell’Africa Orientale Italiana.

Nella terza parte di questo studio verrà affrontato il tema della prima guerra
d’Abissinia ripercorrendo il periodo antecedente, le frizioni tra Italia ed Etiopia, l’inizio della
guerra fino alla famosissima battaglia di Adua e l’epilogo del conflitto. Verranno evidenziati
tutti i cambiamenti avvenuti nel pensiero politico italiano all’indomani della clamorosa
disfatta che meravigliò l’Europa intera. Verranno presentati anche i principali attori della
vicenda come l’imperatore Menelik II, l’imperatrice Taytù, il generale Oreste Baratieri, Ras
6

Maconnen ed altri. Inoltre si occuperà dello sviluppo coloniale in Somalia, dal protettorato
(1889) a colonia italiana vera e propria, fino alla prima guerra mondiale. In questa fase va
anche sottolineata l’importantissima, se non fondamentale, posizione della chiesa cattolica,
con particolare riferimento ai missionari ed all’atteggiamento del Vaticano nei confronti del
colonialismo come fenomeno e delle popolazioni africane.

La quarta parte vedrà come argomento il periodo che va dal primo dopoguerra, con
particolare attenzione all’Etiopia e la sua annessione, la creazione dell’ A.O.I., fino alla resa
dell’ultima sacca di resistenza italiana a Gondar il 28 novembre 1941. Voglio anticipare che
per quanto riguarda l’immagine dell’Etiopia come colonia, mi trovo in sintonia con il Prof.
Shiferaw Bekele, il quale sostiene che l’occupazione italiana dell’Etiopia non fu vera
colonizzazione (anche a causa del brevissimo periodo 1936-1941) ma una semplice
occupazione militare, anche se recenti studi hanno dimostrato la volontà del regime e dello
stesso popolo italiano di fare dell’Etiopia una vera e propria colonia di popolamento anche se
nella realtà non sviluppata per diversi fattori, non ultimo quello temporale. Il docente etiope
sostiene che nessuno ritiene che la Polonia invasa dalla Germania nel 1939 sia diventata una
colonia tedesca e quindi, dato che anche l’Etiopia era uno stato nazionale indipendente, non si
spiega perché l’invasione italiana del suo paese debba essere considerata una colonizzazione
invece di quello che lui ritiene fosse e cioè un’aggressione straniera seguita da
un’occupazione principalmente militare. Voglio premettere che, dato il fiume d’inchiostro
utilizzato da decine se non centinaia di autori sul periodo coloniale durante il ventennio
fascista, la mia disamina del periodo cercherà di essere esauriente ma non eccessivamente
prolissa per evitare di ripetere questioni già abbondantemente studiate.

L’ultimo capitolo di quest’opera vedrà analizzate le eredità del colonialismo, l’A.F.I.S.


e l’assenza di una vera e propria fase di decolonizzazione. Verrà trattato il periodo che va
dalla fine delle seconda guerra mondiale fino all’inizio dell’amministrazione fiduciaria della
Somalia.

Concludo informando il lettore che, dove possibile, ho analizzato i vari argomenti


attraverso fonti bibliografiche sia italiane (Europee) che africane, nel tentativo di ottenere una
visione d’insieme a 360° ed il massimo rigore storico. Voglio inoltre sottolineare che non mi
dispiacerebbe affrontare come ulteriore argomento di studio per un eventuale Dottorato di
ricerca, i rapporti che legarono l’Italia alla Somalia dopo la fine dell’Amministrazione
Fiduciaria fino all’operazione “Restore Hope” del 1992-93.

Ricordo inoltre che tutte le note relative ai personaggi, italiani e stranieri, citati in
questo studio sono state attinte presso il sito www.treccani.it, e consultando il dizionario
biografico degli italiani.
7

CAPITOLO I
L’Italia e l’Africa.
1.1. I primi esploratori e l’ideologia coloniale italiana.

In un quadro di analisi del sistema coloniale italiano, non può assolutamente passare
sotto silenzio un elemento permanente che ha accompagnato il vario atteggiarsi dell’Italia nei
confronti del fenomeno per l’intera durata del periodo espansionistico in Africa: la politica di
incivilimento. Questo aspetto che si verificò durante tutto l’arco cronologico della politica
coloniale italiana, quindi dall’Italia liberale fino alla fine dell’Italia fascista, diede al
colonialismo italiano un carattere specifico, “civile”, sconosciuto o quasi al colonialismo
degli altri stati europei. Oggi quindi, liberi da esaltazioni e trionfalismi patriottici di
derivazione nazionalista, fascista e post-fascista, e da un’altra lettura, vista attraverso la lente
del materialismo storico e del marxismo, impegnata esclusivamente a denunciare nella sua
totalità la questione coloniale come pura affermazione di prepotenza e di violenza, possiamo
rileggere questo complesso fenomeno, che non ha mancato in alcuni momenti di sollevare
entusiasmi popolari, in modo che non si rifaccia a queste due sole visioni. Non confondiamo
il termine incivilimento con il concetto di riduzione al modello italiano o euro-occidentale e
con l’affermazione di una civiltà “superiore”, la nostra, che deve sempre trionfare sulle
barbarie altrui. L’incivilimento, secondo i più autorevoli interpreti coloniali italiani, voleva
dire rispettare, nella lettera e nello spirito, quanto di più onesto si poteva trovare nella civiltà
altrui, e rifiutare la versione autoritaria, magari militare, della difesa e della diffusione della
nostra civiltà, vista come l’unico riferimento accettabile e quale ultimo traguardo necessario
dell’intera politica coloniale. Tra i pensatori più conosciuti che hanno nel tempo intuito
l’importanza di questa realtà e che hanno continuamente invitato gli storici ad evidenziarne
l’importanza, inviti sempre caduti nel vuoto, troviamo Giuseppe Prezzolini1, Andrea Costa2,
Davide Comboni3 e Guglielmo Massaja4, oltre che, naturalmente, ai primi viaggiatori come
___________________________
1 Prezzolini, Giuseppe. - Scrittore italiano (Perugia, 1882 – Lugano, 1982). Partecipe del dibattito culturale del primo
Novecento, P. si accostò al pragmatismo, al modernismo cattolico e soprattutto all'idealismo crociano, approdando a un
conservatorismo disincantato (Manifesto dei conservatori, 1972). Nel 1908 fondò il settimanale La Voce.
2 Costa, Andrea. - Uomo politico italiano (Imola, 1851 - ivi 1910), pioniere del movimento operaio italiano. Fu negli anni

giovanili seguace delle idee anarchiche di M. Bakunin e dopo il 1871 organizzò in Romagna sezioni della Internazionale.
Egli dichiarò un'ostilità non pregiudiziale verso la politica coloniale; condivideva anzi l'enfasi positivista sulla missione della
"civiltà" verso la "barbarie": o la civiltà, disse, ha il diritto di diffondersi, e però di abbattere gli ostacoli che le si possono
opporre sul suo cammino". Ma riteneva che i mezzi più adatti non fossero né le conquiste né le violenze né la distruzione
sistematica, ma un'azione come "da buoni padri ... verso i figli", l'aiuto "a percorrere la spinosa carriera della civiltà", il
sostegno "negli sforzi che [i popoli "barbari"] far possono per progredire".
3 Comboni, Daniele. - Missionario (Limone del Garda, 1831 - Kharṭūm, 1881). Recatosi in Egitto, compì durante alcuni anni

(1857-59) diversi viaggi nell'Alto Nilo (Nubia), facendo opera antischiavistica. Fu in seguito nominato provicario (1872) e
vicario apostolico (1877) dell'Africa Centrale col titolo vescovile di Claudiopoli. Esplorò il Dar-Nuba, di cui costruì una
carta; ha lasciato un Piano per la rigenerazione dell'Africa (1864), un Quadro storico delle scoperte africane (1880), varî
studî sulla lingua dei Denka e un vocabolario nubiano. Fondò i Figli del di Gesù (1867) e le Pie madri della Nigrizia (1872),
detti comunemente comboniani e comboniane. Il 17 marzo 1996 è stato beatificato e il 5 ott. 2003 dichiarato santo da
Giovanni Paolo II.
4
Massaja, Guglielmo. – Missionario (Piovà d’Asti, 1809 – S. Giorgio a Cremano, 1889), L’apostolato africano del M. iniziò
il 4 giugno 1846, quando partì dal porto di Civitavecchia con destinazione Alessandria d’Egitto. La missione tra gli Oromo
propriamente detta andò dal 1852 al 1863 e venne preceduta da una parentesi di sei anni in cui, oltre a un periodo di
permanenza nella prefettura d’Abissinia dovuta a esigenze di ministero, si consumarono vani tentativi di aprirsi una via per i
territori a lui assegnati. A partire dal 1852 il M. fondò le missioni di Assandabo (1852), dell’Ennerea (1854), del Kaffa
(1855), di Lagamara (1855) e di Ghera (1859).
8

Carlo Piaggia e Giovanni Miani dei quali parleremo più diffusamente in questo capitolo5.
Naturalmente vi erano anche diverse personalità che avevano un’idea di colonialismo più
“tradizionale”, più simile al fenomeno degli altri paesi europei come Francia e Gran Bretagna,
con un’idea di sfruttamento del territorio e di incivilimento forzato dei nativi; tra di loro
troviamo Romolo Gessi, Giovanni Bovio, Francesco Crispi e molti altri fino a Benito
Mussolini. Dobbiamo rilevare che nella prima fase della penetrazione italiana nel Corno
d’Africa, l’ideologia civilizzatrice “con rispetto” era preponderante nella politica e nelle
figure attive dell’epoca ma dopo le sconfitte di Dogali e soprattutto quella di Adua
cambiarono radicalmente le prospettive italiane in terra d’Africa; continuarono certamente ad
esserci sostenitori di un approccio morbido nei confronti dei paesi africani ma aumentarono a
dismisura i fautori di un’azione decisamente più aggressiva.

L’idea di incivilimento che caratterizza la prima fase della penetrazione italiana in


Africa Orientale attraverso i primi esploratori, può essere ben compresa tramite la lettura del
seguente abbozzo di dialogo scritto dal lucchese Carlo Piaggia6 verso il 1875, una sorta di
bilancio dell’esperienza da lui fatta in più di vent’anni di esplorazioni nel bacino dell’alto
Nilo:

[…]

Domanda: Chi sono i selvaggi che voi dite sotto questo nome selvaggio?

Risposta: Selvaggi comprende tutti gli animali che vivono in selve o boschi in stato naturale e
compreso l’uomo.

Domanda: Dunque l’uomo selvaggio e feroce è pericoloso all’uomo domestico?

Risposta: Al contrario, l’uomo domestico è di pericolo alla vita del selvaggio, giacché
vorrebbe comandargli a prima vista con severità e con forza d’armi di distruzione.

Domanda: Il selvaggio non si deve considerare come l’uomo domestico giacché vive in selve e
non conosce niente di bene al di là delle sue cacce per vivere?

Risposta: Il selvaggio non differisce in niente al di là della razza umana; il selvaggio cresce in
selve come in casa l’uomo domestico. Il selvaggio imita il bambino dell’uomo domestico fino all’età di
circa cinque anni, vado a dire che il selvaggio non conosce ambizioni di sorta e né bugie di inganni
col suo simile e giunto all’età d’essere sommesso dalle leggi naturali si ritiene agli ordini d’un altro
che fa da capo, come noi diciamo il Re.7

[…]

_______________________________
5 R. Rainero , L’altro colonialismo: i progetti d’incivilimento, L’Italia nella crisi dei sistemi coloniali fra otto e novecento,

Bastogi, Foggia 1998, Pag.. 103-104.

6
Piaggia, Carlo. - Esploratore (Badia di Cantignano, Capannori, 1827 - Karkoǵ 1882). Trasferitosi in Egitto e quindi a
Kharṭūm, compì un viaggio nell'alto Nilofin oltre Gondokoro (1856-57) e accompagnò poi O. Antinori lungo il Bahr el-
Ghazāl (1860-61). Riuscì in seguito a penetrare solo nell'avverso paese dei Niam-Niam, o Zande (1863-66), raccogliendo
notizie geografiche ed etnologiche. Con A. Raffray compì anche un viaggio in Etiopia da Massaua al Lago Tana (1874-75) e
di là rientrò a Kharṭūm. Risalito l'anno seguente un tratto del Nilo, scoprì il Lago Kioga (1876). Quindi viaggiò ancora lungo
il Nilo Azzurro, trovandovi la morte per malattia. Ha lasciato lettere e altri scritti di notevolissimo interesse, in parte inediti.

7 R. Battaglia, La prima guerra d’Africa, Einaudi, Torino 1973, Pag. 15.


9

Quando nel 1847, all’età di vent’anni, Carlo Piaggia inizia la sua carriera di
esploratore, la sua figura non differisce dalle tante degli italiani che hanno lasciato il proprio
paese per guadagnarsi il pane. Nato da un povero mugnaio, parte per cercare fortuna lontano
dalla propria terra d’origine; dopo un breve soggiorno in Tunisia si trasferisce in Egitto,
all’epoca luogo di corrente migratoria degli italiani, dove svolge svariate attività come il
legatore di libri, l’impagliatore di animali, il cappellaio, il verniciatore di carrozze, l’armaiolo,
il tintore ed il tappezziere. L’ultimo mestiere citato gli consente di risparmiare il denaro che
gli permetterà di cominciare la sua nuova vita di esploratore ed in una nota autobiografica
riassume la lunga vicenda dei suoi viaggi:

[…]

“Nel 1857 ero sui monti Regiaf; l’anno appresso conducevo una squadra di cacciatori
di elefanti lungo il fiume Bianco; nel 1860 viaggiavo col marchese Antinori verso il Bahr-el-
Ghazal; l’anno dopo percorrevo i territori della tribù dei Cianghè e dei Giur; tra il ’63 e il
’65 attraversavo in direzione longitudinale tutta la grande regione idrografica del Bahr-el-
Ghazal, e visitavo per il primo la zona compresa fra il 7° e il 4° parallelo nord; tra il ’71 e il
’75 mi trovavo successivamente coll’Antinori a Cheren, nell’Abissinia interna col conte di
Sarrec, e solo sul lago di Tzana; nel ’75 rimontavo per la quinta volta il Nilo Bianco col
colonnello Gordon e col Gessi e sulla fine del ’76 ero di nuovo al Cairo dove la Società
geografica del Khedivè mi riceveva a festa.”8

[…]

All’inizio del capitolo abbiamo parlato del progetto di incivilimento che ha sempre
caratterizzato la presenza italiana in Africa, ma l’atteggiamento di Carlo Piaggia ed il modo
con cui penetra nel mondo africano è assolutamente, per l’epoca, quanto meno singolare.
Dopo aver constatato il carattere mite delle tribù dell’alto Nilo, assiste sdegnato alla tratta
schiavistica reagendovi attraverso una sentita diffidenza verso la civiltà europea. Piaggia,
infatti, si spinge sempre più a sud principalmente per fuggire lontano da un mondo, quello
della superiorità bianca sul resto dell’umanità, che non riesce a capire e che tanto meno
approva. Quando finalmente raggiunge le misteriose gole dei monti Mandù9 nel novembre
1863, entra in contatto con il popolo dei Niam-Niam10 con i quali convive fino al settembre
del 1865.

Nelle osservazioni che Piaggia annota, assai raramente giudica; anche quando realizza
che l’antropofagia degli Zande non è una leggenda, pur se utilizzata quasi esclusivamente in
momenti eccezionali di guerra o di fame, l’unico suo rammarico è quello di avere lui stesso
mangiato carne umana durante un banchetto e di averla trovata “assai dolce”. Nei suoi scritti
emerge sempre la realtà con i suoi pro ed i suoi contro, non ritiene di vivere in un paradiso
terrestre e non idealizza i personaggi.

_______________________________
8
R. Battaglia, La prima guerra d’Africa, Einaudi, Torino 1973, Pag. 16-17.
9
Mandù - Catena montuosa del Sudan occidentale.
10 Niam-Niam - Termine dispregiativo utilizzato dai francesi per definire il popolo Zande, facendo riferimento alla supposta

antropofagia (confermata poi dallo stesso Piaggia).


10

Le sue osservazioni sono sempre rispettose delle usanze altrui, annota senza
scandalizzarsi i già citati episodi di antropofagia e le libertà sessuali che i nativi si prendono,
compresi episodi di incesto, non parla mai di costumi corrotti ma cerca di trovare all’interno
di quella società le leggi e le norme che la regolano. Non cerca mai di modificare lo stile di
vita dei nativi né introduce particolari novità tecnologiche (l’unico suo tentativo è quello di
costruire un rudimentale mulino al fine di sostituire il duro lavoro femminile, ma il capo della
tribù lo fa demolire giustificando l’atto con la necessità di non lasciare le donne senza lavoro).
In compenso sfrutta il suo ascendente sugli Zande per far risparmiare la vita ad una figlia del
capo che aveva passato la notte con un giovane di corte. Il suo più grande successo politico lo
coglie quando evita una guerra tra tribù attraverso un’ambasceria protetta dalla bandiera
italiana; l’eccezionalità del fatto non è dovuta tanto alla presenza della bandiera nazionale,
sempre presente con i viaggiatori europei, ma che per una volta sia stata un simbolo di pace
anziché di violenza.11

Quando Piaggia rientra a malincuore dal suo soggiorno con gli Zande, il bagaglio di
esperienze che ha ottenuto lo porta a esprimere delle conclusioni nette e convinte; la condanna
non si limita più ai negrieri od alle guerre coloniali di conquista ma comprende anche la
civiltà europea che egli considerata contaminata da mali quali la nuova scienza e lo sviluppo
industriale. Secondo Piaggia, se i “selvaggi” si devono proprio civilizzare ciò va fatto con
estrema gradualità e con tempistiche lunghe. Vediamo di seguito l’idea che può essere
considerata il suo testamento spirituale:

[…]

“Molti dicono che le ferrovie, i telegrafi e le macchine in genere portano la civiltà in


nuove contrade e in nuovi popoli. Invece i selvaggi non sentono bisogni nella loro semplice
vita e non sono per niente ambiziosi, ma limitati nei loro bisogni; al contrario di ciò che sono
a detta di costoro, i turchi, che, dove vanno, portano nuovi comandi e gastighi e puniscono
con la morte chi non capisce i loro barbari ordini.”

[…]

“Che altro possono fare i vapori per i popoli selvaggi se non portar loro fucili e
munizioni? Questo non si chiama civiltà, ma barbarie. Il selvaggio vuole nuovi lavori di
braccia, buoni consigli e con parole chiare e fatti di prova; e prima d’introdurre il vapore,
bisogna svegliare in esso l’ambizione dell’agricoltura e della casa e renderlo previdente; più
tardi il commercio lo educherà, mettendolo in contatto con popoli civili, questa è la vera via
di civiltà, non quella di precipitare le cose introducendo d’un tratto le ultime conseguenze
della civiltà, dovunque può penetrare un uomo civile.”12

[…]

______________________________
11 R. Battaglia, La prima guerra d’Africa, Einaudi, Torino 1973, Pag. 23-25.

12 Ibidem, Pag. 26.


11

La mentalità e la formazione del Piaggia, quella di modesto artigiano, l’hanno portato


a comprendere subito il linguaggio dei nativi, fin dal primo momento non ha avuto problemi a
considerarli uomini come lui e non ha mai sentito la superiorità di uomo bianco; da parte loro
i popoli del Nilo non l’hanno mai visto come bianco invasore portatore di sciagure ma quasi
come un dono mandato da Dio.

Dopo aver brevemente descritto la figura di Carlo Piaggia, un altro grande esploratore
della medesima statura che non possiamo non ricordare è sicuramente Giovanni Miani13,
uomo di ben altro spessore culturale, studioso, compositore e poeta. Al contrario di Piaggia
non parte per l’Africa come migrante in cerca di fortuna, ma di sua iniziativa, dopo avere
partecipato ai moti rivoluzionari del 1849 in difesa di Venezia, decide di auto esiliarsi in
Egitto soprattutto per sfogare la disillusione politica. Nel 1859 decide di impegnarsi in una
spedizione nel tentativo di rivelare uno degli ultimi segreti geografici dell’epoca e cioè quello
dell’origine del Nilo. Un primo tentativo fallisce a Khartum a causa della morte dei suoi
compagni di viaggio vittime delle febbri ma alla fine dello stesso anno riparte verso sud in
compagnia di Andrea de Bono14. Al contrario di Piaggia, durante il suo cammino non si
preoccupa di aprirsi la strada a viva forza quando gli indigeni si mostrano ostili, dando anche
alle fiamme i loro villaggi. Bloccato dagli ostacoli naturali sul fiume deve tornare a
Gondokoro15 ammalato e privo di mezzi. Senza perdersi d’animo, nel 1860 riparte verso
sud, alla testa di cento soldati e centocinquanta portatori riprendendo anche la lotta contro gli
indigeni. Attraversa il territorio dei Bari, quello degli Auidi16 risalendo il fiume fino al
territorio dei Galuffi17. Per merito suo montagne, fiumi, villaggi prima sconosciuti entrano a
fare parte delle carte geografiche dell’Africa. Ammalatosi nuovamente durante la stagione
delle piogge vorrebbe comunque continuare il viaggio e, riuniti i capitribù dei Galuffi per
avere notizie, si sente dire che la sorgente del Nilo si trova tra le montagne ad un mese di
marcia. Cosciente di non potercela fare, si deve accontentare di scrivere il suo nome sulla
corteccia di un tamarindo; quel punto rimarrà per molti anni il punto più meridionale toccato
da un viaggiatore europeo risalendo il Nilo18.

__________________________

13 Miani, Giovanni. - Esploratore (Rovigo 1810 - Africa centrale 1872). Dopo alcuni viaggi in Europa ed in Asia, si trasferì in

Egitto per realizzare il suo progetto di una spedizione alla ricerca delle sorgenti del Nilo. Dal Cairo raggiunse Kharṭūm
(1859), dove la maggior parte dei compagni lo lasciò solo; proseguì quindi con una piccola imbarcazione per Gondokoro e
poi lungo il Nilo fino alla località di Galuffi. Scoprì così il fiume Assua, tributario del Nilo (1860). Ritornato alcuni anni
dopo a Kharṭūm (1867), ne ripartì con una piccola scorta verso regioni ancora ignote dell'Africa centrale e attraversò un
lungo tratto di foresta equatoriale oltre lo spartiacque Nilo-Congo, raggiungendo la località di Bakangoi presso l'equatore.
Morì nel bacino dello Uele a causa delle privazioni sopportate.
14 De Bono, Andrea. - Mercante ed esploratore maltese, (Senglea 1821 – Il Cairo 1871). Dal Sudan nel 1855 intraprese con il

siciliano Filippo Terranova un'ardita ricognizione nel corso del Sobat, allora inesplorato, per raccogliervi l'avorio. Alcuni
frammenti della sua relazione furono pubblicati nel Tour du Monde nel 1860. Nel 1858-59 tentò più volte di risalire il Nilo,
insieme con G. Miani, e poi con il francese A. Peney, e nel 1860 da solo riuscì effettivamente a spingersi una quarantina di
chilometri più a S. dell'estremo punto raggiunto dal viaggiatore veneziano ("albero di Miani"). Quivi nella stazione
commerciale da lui fondata a Faloro trovò le sue genti lo Speke reduce dal lago Vittoria. Su questi suoi viaggi il De Bono
riferì nello scritto Recenti scoperte sul fiume Bianco fatte da A. D. B. e da lui stesso descritte (Alessandria d'Egitto 1862).

15Gondokoro era una stazione commerciale sulla riva orientale del Nilo Bianco o Bahr al-Jabal, nel Sudan del sud, distante
circa 1200 km da Khartum in direzione sud. La sua importanza risiedeva nel fatto che questo luogo era l'estremo limite
navigabile risalendo il Nilo da Khartum. Da qui in poi il viaggio verso l'Uganda andava continuato per via di terra.
16
Auidi - Tribù dei Bari e degli Auidi: indigeni residenti in territori nel Sudan del sud.
17
Territorio dei Galuffi - Territorio ugandese a poche giornate di cammino dal lago Vittoria.
18 Posizione geografica 3°32’ latitudine Nord.
12

Personaggio molto diverso dal Piaggia, sia come formazione che come temperamento,
Miani è il classico esploratore ambizioso e orgoglioso, che ricerca con le proprie scoperte
glorie ed onori personali ed è disposto a qualsiasi cosa pur di riuscire a raggiungerli. Questa
non vuole essere una vuota critica all’esploratore veneto, dato che quasi il cento per cento
degli esploratori europei la pensava in questo modo (vanno esclusi Piaggia, Livingstone19 e
pochi altri), ma per capire bene la figura, farò riferimento ad un appunto di Carlo Piaggia
quando incontrò Miani in Africa:
[…]
“La sera del giorno 5 agosto giunse a Suakin il viaggiatore italiano Giovanni Miani
che aveva percorso la stessa strada che avremmo dovuto compiere noi per raggiungere
Khartum. Il suo incontro mi procurò un immenso piacere, poiché fino a quel momento io non
l’avevo né veduto né conosciuto. Egli mi raccontò il suo viaggio lungo il Nilo Bianco; ma
quando apprese che anch’io mi ero spinto fino ai monti Regiaf parve offeso. Qualche
bottiglia di vino che io avevo con me dissipò il suo malumore e durammo a chiacchierare fino
a mezzanotte.”20
[…]
Comunque anche nelle note di Miani appare l’ammirazione per quelle società
primitive, la laboriosità degli indigeni, il loro amore per la musica ed il gusto per le belle arti;
malgrado tutte le differenze di partenza tra Piaggia e Miani, le valutazioni positive sui nativi
coincidono a resuscitare il mito del “buon selvaggio”. Ma l’incontro è soltanto apparente, li
divide una fondamentale divergenza: se per Piaggia gli indigeni rappresentano «gli uomini
quando erano fanciulli», per Miani la loro civiltà è troppo avanzata per poggiare solo su una
società tribale ed è convinto, come tanti altri viaggiatori europei, che i nativi della valle del
Nilo siano gli inconsci eredi delle civiltà Mediterranee. Tenterà sempre, infatti, di dimostrare
una presunta penetrazione egiziana fino al centro del mondo. Questa teoria ci ricorda peraltro
quella di Ephraim Squier21 a proposito dei mounds funerari del nord America: la complessità
dei tumuli era ritenuta eccessiva per le capacità tecniche dei nativi americani e quindi venne
data una spiegazione che vedeva la costruzione di questi complessi funerari opera di alcuni
non meglio definiti “costruttori” venuti dall’esterno.22
L’ultimo pioniere italiano che merita di essere citato in questo breve excursus sui
primi viaggiatori italiani è Romolo Gessi23.
____________________________
19 Livingstone, David. - Missionario ed esploratore scozzese (Blantyre, 1813 - Citambo, Rhodesia settentr., 1873). Medico,

missionario nell'Africa australe (1840), attraversò il continente in diverse spedizioni tra il 1840 e il 1860, contribuendo a
ricostruire la carta dell'Africa centrale e l'idrografia del continente. Morì nel corso di una spedizione, dopo essersi guadagnato
una vasta notorietà per le sue imprese e la sua umanità.
20 R. Battaglia, La prima guerra d’Africa, Einaudi, Torino 1973, Pag. 28.

21
Squier, Ephraim G. - (Betlehem, 1821 – New York, 1888) è stato un archeologo e giornalista statunitense. E’ assai noto
per il suo lavoro sui mounds preistorici, e la sua opera Ancient monuments of the Mississippi Valley (1848) costituì la prima
pubblicazione della Smithsonian Institution fondata da poco.
22 C. Renfrew, P. Bahn, Archeologia. Teoria, Metodi, Pratiche, Zanichelli, Bologna, 2010, Pag.12.

23 Gessi, Romolo. - Esploratore italiano (Costantinopoli, 1831 – Suez, 1881); combatté in Crimea e poi con Garibaldi fra i

Cacciatori delle Alpi. Invitato a partecipare al viaggio di G. Gordon nel Sudan, si spinse con C. Piaggia da Dufile per il Nilo
fino al Lago Alberto, di cui rilevò la carta (1876). Insieme a P. Matteucci, tentò due anni dopo di penetrare per il Nilo
Azzurro nei paesi dei Galla, ma non poté proseguire oltre Fadasi. Accettò quindi l'incarico del Gordon di condurre operazioni
militari per conto del governo egiziano nel Bahr el-Ghazāl e riuscì a reprimere la sollevazione ivi scoppiata (1879). Dopo un
penoso e lungo viaggio a Kharṭūm, morì di malattia a Suez sulla via del ritorno in patria. Scrisse Sette anni nel Sudan
Egiziano (post., 1891).
13

Personaggio molto diverso dai due precedenti, uomo di formazione culturale e politica
estremamente eccezionale rispetto a tutti i viaggiatori italiani dell’epoca, frequenta le
accademie militari di Wiener-Neustadt e Halle in Germania; partecipa alla guerra di Crimea e
si arruola nei Cacciatori delle Alpi di Garibaldi durante la seconda guerra d’indipendenza
italiana. Dopo avere ottenuto la cittadinanza italiana a Ravenna, città di nascita del padre,
emigra in Romania dove si sposa e tenta di impiantare un’attività industriale con scarsa
fortuna. A più di quarant’anni va in Africa su invito del colonnello Charles G. Gordon24, suo
ex commilitone in Crimea ed amico; è un uomo maturo, perfettamente cosciente delle sue
responsabilità e dei suoi doveri di colonizzatore, consapevole della propria educazione
avanzata europea e del suo essere uomo bianco. Il suo occhio durante i suoi viaggi in Sudan è
freddo e spassionato, la natura e gli animali che lo circondano non distraggono mai la sua
mente dal pensiero della trasformazione e dello sfruttamento economico di quella natura
selvaggia. Naturalmente il suo pensiero non cambia nei confronti degli indigeni, considerati
troppo pacifici e con scarsa attitudine al lavoro: Gessi non ne ammira certo il loro amore per
la musica e per la danza ma li considera semplicemente dei fannulloni. Ma le migliori
caratteristiche di Gessi sono le capacità organizzative e quelle militari per le quali si mette in
evidenza durante la prima circumnavigazione del Lago Alberto nel marzo del 1876, alla quale
partecipa anche Carlo Piaggia; durante tutto il viaggio evita accuratamente gli scontri con i
nativi, per non sprecare uomini e materiali, riesce a stabilire rapporti amichevoli con alcuni
capi tribù e così facendo la spedizione non incontra particolari difficoltà se non quelle
naturali. Poco dopo essere rientrato in Italia, viene richiamato dal suo amico Gordon per
sedare la rivolta di Suleyman Bey, un mercante di schiavi, e per sopprimere definitivamente la
tratta schiavistica. Gessi si lancia in quest’impresa con la solita tenacia e grazie alle sue arti
militari riesce a liberare l’incredibile numero di trentamila schiavi guadagnandosi
l’appellativo di “Garibaldi d’Africa”. Nonostante il suo realismo, Gessi non si accorge che la
guerra, da lui aspramente combattuta, non porterà alla liberazione ma alla semplice
sostituzione del dominio degli schiavisti arabi con quello del governo egiziano e nulla di più.

Una volta spazzato via l’ultimo negriero, il piano di Gessi è quello dell’incivilimento
graduale dei neri attraverso la conversione agli ideali ed alla fede religiosa dei dominatori; è
infatti molto lontano dal pensare ad uno sviluppo autonomo della civiltà locale. Anche
l’istruzione rientra in questa prospettiva ed il pensiero di Gessi è che la scuola sia il più
efficace strumento per raggiungere lo scopo, che è quello di creare un’élite di funzionari
indigeni da porre a capo dell’amministrazione.25

Al contrario di Piaggia, Gessi non respinge il brusco erompere della civiltà industriale
in un ambito così ristretto come quello della società primitiva ed enuncia anzi i principi
fondamentali della colonizzazione così come oggi è largamente intesa:

__________________________

24 Gordon, Charles G. – Generale inglese (Woolwich, 1833 – Khartum, 1885). Conosciuto in Cina come Gordon il cinese,
in Africa come Gordon Pascià e in Sudan come Gordon di Khartum, fu un valente ufficiale e un coordinatore dell'esercito
britannico, morto durante l'assedio di Khartum da parte dei seguaci sudanesi di Muhammad Amahd. Eroe nazionale, fu
nominato cavaliere dell'ordine del Bagno e viene ricordato per le sue imprese in Cina ed in Africa del nord.

25 R. Battaglia, La prima guerra d’Africa, Einaudi, Torino 1973, Pag. 39-47.


14

[…]

“E’ vero che si sono fatti grandi progressi verso l’interno dell’Africa, ma sembra a
me che sarebbe tempo di smettere le esplorazioni di singoli individui, che del resto hanno
egregiamente servito per squarciare gran parte del velo che copriva questo paese, e far
succedere a questi nobili sforzi parziali, l’azione comune dei capitalisti colla costruzione di
vie ferrate nei luoghi più popolati e ricchi. Le spese che si dovranno fare per aprire queste vie
saranno, non dubito, largamente compensate dai vantaggi che se ne ricaveranno.”

[…]

Quando finalmente realizza che la sua idea di libertà dai negrieri è un utopia e gli
stessi egiziani si sostituiscono ai precedenti aguzzini, Gessi cerca di rientrare a Khartum con i
suoi soldati e le relative famiglie, ma l’odissea del viaggio che ne segue termina con la morte
di quasi tutti i protagonisti Gessi compreso.26

La caratteristica comune dei tre viaggiatori che abbiamo citato è quella che tutte e tre
le vicende esposte hanno carattere assolutamente individuale e che nulla hanno a che vedere
con le fasi storiche che in questo periodo assillano gli italiani impegnati nelle varie fasi del
Risorgimento. La lotta per l’indipendenza e l’unità nazionale è troppo impegnativa perché
l’argomento della penetrazione in Africa possa far breccia nei governi nazionali.

Quelle che abbiamo affrontato finora possono definirsi vicende pre-coloniali e sono
servite a darci un’idea di come il continente africano sia sempre stato una calamita nei
confronti degli europei (nel nostro caso degli italiani) per diversi motivi: spirito d’avventura,
ricerca geografica e scientifica, questioni politiche, interessi economici, motivi di prestigio
hanno influenzato ed attratto molte persone del vecchio continente spingendole a compiere
azioni che altrimenti difficilmente avrebbero compiuto. Da questo momento in avanti, ci
occuperemo di persone e fatti collegabili direttamente a forme, anche embrionali, di
colonialismo e più specificamente dell’attività coloniale italiana nel Corno d’Africa, che altro
non è che il naturale proseguimento del sentiero tracciato da Piaggia, Miani e Gessi.

1.2. Le colonie penitenziarie e il fattore migratorio.

La domanda più pressante che rimbomba nella testa di chi si avvicina all’argomento
del colonialismo italiano è sicuramente questa: perché un paese di così recente formazione,
con gravissimi problemi al suo interno, quali la non ancora completata e faticosa unificazione
nazionale, una disastrosa disparità economica tra il nord ed il sud del paese ed un’economia
per il 75% legata ad un’agricoltura arretrata, decide di intraprendere un avventura costosa in
termini di risorse e con risultati positivi tutt’altro che certi? A questo quesito si è risposto
spesso, almeno fino al termine del secondo conflitto mondiale, che le motivazioni principali
che spinsero questi uomini della metà del XIX secolo alla ricerca di una colonia erano
_______________________
26
R. Battaglia, La prima guerra d’Africa, Einaudi, Torino 1973, Pag. 46-50.
15

semplicemente quelle di risolvere problemi come quello della emigrazione italiana all’estero,
oltre alla gravosa situazione dell’ordine pubblico e delle carceri che assillavano
l’amministrazione sabauda nei primi anni della raggiunta unità, nonché una maggiore
penetrazione commerciale in aree prive di presenze italiane. Naturalmente non era certo
assente l’idea di rendere il neonato paese più importante a livello internazionale e di elevarlo a
potenza, come lo erano altri paesi europei, anche attraverso i possedimenti d’oltremare.
Certamente per molti statisti dell’epoca questo rimaneva il fine ultimo dell’idea coloniale ma,
soprattutto nella fase iniziale, la ricerca di territori al di fuori dei confini nazionali venne
effettivamente compiuta nel tentativo di risolvere per lo meno alcuni dei gravi problemi che
assillavano la nazione e che dopo l’unità del paese erano esplosi in tutta la loro virulenza. Una
delle idee che spinsero il paese verso l’esplorazione ed il successivo tentativo di impadronirsi
di territori molto lontani dall’Italia, volutamente lontani, fu quella delle colonie penali, non
nuova in realtà dato che si parlava di deportazione dei detenuti più pericolosi già intorno alla
metà dell’800 nei palazzo di governo piemontesi. Nel 1852, infatti, era stata nominata nello
stato Sabaudo una commissione atta a definire l’opportunità della pena della deportazione e a
consigliare il modo ed il luogo per applicarla. Nonostante il parere favorevole della
commissione, il problema non fu più all’ordine del giorno per circa dieci anni fino al 1862
quando Bettino Ricasoli27, secondo Presidente del Consiglio del nuovo Regno d’Italia dopo la
morte del conte di Cavour28, istituì una seconda commissione che diede un parere opposto a
quello della prima. Quando il 14 marzo 1865 fu abolita la pena di morte, venne proposto in
parlamento un progetto di legge per sostituire la deportazione alla pena capitale; un’ennesima
commissione senatoriale invitava il governo a studiare un sistema completo di deportazione
ma anche questo invito non ebbe seguito. 29

Naturalmente questi possedimenti d’oltremare (in linea di massima delle isole) non
sarebbero dovuti servire esclusivamente da colonie penali e garantire una maggior sicurezza
pubblica in patria ma avrebbero anche dovuto favorire una penetrazione economica italiana
nell’area in questione, attraverso la popolazione civile inviata sul territorio, ottenere
un’autonomia dei bisogni oltre al fatto di garantire alla madre patria un maggior prestigio
politico in Europa, e, in ultima analisi, essere dei possedimenti in grado di trasformarsi nel
tempo in vere e proprie colonie. Negli anni’60 e ’70 del XIX secolo furono quindi inviati
diversi esploratori, soprattutto in Asia e nell’Oceano Pacifico nel tentativo di trovare delle

_________________________

27
Ricasoli, Bettino, barone. - Uomo politico italiano (Firenze 1809 - Brolio 1880). La sua azione politica negli anni del 1859-
61 lo pone tra gli artefici dell'unità nazionale. Esponente del cattolicesimo liberale, cercò di indurre il granduca di Toscana,
Leopoldo II, a concedere le riforme. Dopo l'Armistizio di Villafranca (1859) assunse il potere e realizzò l'annessione della
regione al Piemonte. Presidente del Consiglio del nuovo regno d'Italia (1861-62; 1866-67), affrontò il brigantaggio e la
questione romana, sostenendo la pacificazione con il papato.

28 Cavour, Camillo Benso conte di. - Statista (Torino 1810 - 1861). Ufficiale del genio (1827-31), fece il suo ingresso in
politica nel 1847, fondando il giornale “Il Risorgimento”. Deputato (1848, 1849), fu più volte ministro (1850, 1851) e
presidente del consiglio (1852). Nel 1860 assunse il pieno controllo diplomatico dell’impresa garibaldina, che controbilanciò
con le annessioni e i successivi plebisciti, cosa che gli consentì poi di far prevalere il suo punto di vista (unitario ma
monarchico) e di attuare la trasformazione giuridica del Regno di Sardegna nel Regno d’Italia, facendo proclamare Vittorio
Emanuele II re d'Italia (1861). Gettò poi le premesse di un’azione volta a sanare i rapporti tra Stato e Chiesa ma morì prima
di essere riuscito a portarla a compimento. Animato da spirito liberale, C. fu tra le figure di maggior spicco del Risorgimento,
tra i pochi uomini dell'Ottocento italiano dotati di statura europea.

29
E. de Leone, Le prime ricerche di una colonia e la esplorazione geografica politica ed economica, L’Italia in africa, Vol. II,
Ist. Poligr. dello Stato, Roma, 1955, Pag. 32.
16

soluzioni confacenti ai bisogni italiani, bisogni che dovevano essere soddisfatti senza però
andare ad infastidire le altre potenze europee (Francia e Inghilterra) già presenti in Polinesia,
nel sud-est asiatico e nel subcontinente indiano. Peraltro una grave mancanza che si verificò
nella classe dirigente italiana dell’epoca e che si sarebbe ripresentata durante le spedizioni nel
Corno d’Africa fu la completa ignoranza sia geografica che politica dei territori d’oltremare la
quale, unita alle già citate remore in ambito internazionale, avrebbe portato a decisioni o
meglio a non decisioni che avrebbero condotto all’abbandono dell’idea delle colonie penali.
Tra le zone visitate dai nostri esploratori ricordiamo le isole Nicobar nel Mar del Bengala,
l’arcipelago della Nuova Guinea, l’isola di Sumatra e la costa del Borneo.

Oltre al già citato timore di irritare altri paesi europei, l’Olanda elevò una, peraltro
lieve, protesta al tentativo italiano di stabilirsi nella Nuova Guinea e la diplomazia inglese
fece notare lo scarso gradimento di una presenza tricolore nel sub-continente indiano, la
motivazione principale che fece probabilmente naufragare l’idea delle colonie penitenziarie fu
la lotta politica che si svolgeva in patria tra due diverse correnti di pensiero in relazione allo
status che avrebbero dovuto avere questi possedimenti d’oltremare. Da un lato, con alla testa
Cristoforo Negri30, si schierarono i sostenitori della semplice espansione commerciale ed
assolutamente contrari ad ogni qualsivoglia occupazione territoriale; dall’altro i fautori
dell’acquisizione di territori coloniali nel tentativo di emulare le altre grandi nazioni europee
con l’Inghilterra come esempio da seguire. Dato che entrambe le fazioni si rivelarono poco
inclini a negoziare le proprie posizioni, tutti i tentativi di dare al paese un punto d’appoggio
per una successiva espansione, commerciale o territoriale che fosse fallirono.31

Per quanto riguarda la questione dell’emigrazione, lo scarso interesse del popolo verso
la questione coloniale non favorì certo lo sviluppo di quest’ultima. D’altronde una nazione
con una percentuale di analfabetismo che negli anni ’60 dell’800 rasentava il 75% della
popolazione, un’economia ancora principalmente agricola e grossissimi problemi di ordine
pubblico dovuti all’esplosione del brigantaggio nel meridione, non poteva certo rivolgere la
propria attenzione verso quelli che, in quel preciso momento storico, altro non erano che
assurdi voli pindarici. Tra la classe dirigente dell’epoca ci fu chi si lamentò del fatto che gli
italiani pensassero esclusivamente al proprio lavoro ed alla propria cena invece di pensare alla
grandezza della nazione.

L’altra grande questione dalla quale i fautori dell’espansione italiana presero spunto
per promuovere una campagna a favore del colonialismo fu quella dell’emigrazione dei nostri
connazionali all’estero. Dal loro punto di vista il fenomeno migratorio era tutt’altro che un
fattore negativo ma era anzi visto come un elemento propulsivo per l’economia della nazione.

__________________________

30
Negri, Cristoforo. - Geografo, economista e diplomatico (Milano 1809 – Firenze 1896), prof. di scienze e leggi politiche
nell'università di Padova, dopo il 1848 andò esule in Piemonte, dove fu alla direzione della divisione consolare del ministero
degli Esteri. Dopo il 1859 fu incaricato di alcune missioni di ordine politico-economico. Partecipò alla conferenza per la
costruzione del Canale di Panama e alla conferenza coloniale di del 1884-85. Fondò a Firenze (1867) la Società geografica
italiana. Senatore del Regno dal 1890.

31 E. de Leone, Le prime ricerche di una colonia e la esplorazione geografica politica ed economica, L’Italia in africa, Vol. II,
Ist. Poligr. dello Stato, Roma, 1955, Pag. 36.
17

Per personaggi come Jacopo Virgilio32, Francesco Ferrara33, Alessandro Rossi34 e Augusto
Riboty35, le colonie sorte spontanee all’estero (in quel periodo soprattutto nell’America
Meridionale) avrebbero potuto avviare delle proficue correnti di scambi che avrebbero portato
sicuri benefici alla marina mercantile ed allo sviluppo commerciale del paese. Virgilio fu
incaricato dal ministero di Agricoltura, Industria e Commercio di compilare una memoria
sulla questione dell’emigrazione nella quale egli sostenne prima di tutto il sacrosanto diritto di
qualsiasi uomo ad emigrare ed affermò che il fenomeno non avrebbe costituito un grave
danno all’agricoltura italiana vista la carenza di capitali investiti e l’arretratezza tecnologica
da cui era afflitta. Sul tema delle colonie intervenne anche Gerolamo Boccardo36 proponendo
una classificazione dei tipi di colonie alle quali l’Italia avrebbe potuto essere interessata: le
colonie miste, attuabili attraverso l’azione militare, politica, navale e commerciale; le colonie
interne o all’americana attuabili in Sardegna, nell’agro romano o nel meridione; le colonie
trans marine le uniche, secondo Boccardo, dove fosse praticabile l’equazione emigrazione-
colonie e che avrebbero potuto costituire una base all’allargamento dei traffici commerciali.

Il viaggiatore Giovanni Battista Cerruti37 entrava più nel dettaglio in merito alle
positività che le colonie avrebbero portato allo sviluppo economico del paese: secondo Cerruti
la miseria che affliggeva la classe contadina italiana era dovuta alla sovrabbondanza di
popolazione impiegata nel settore ed alla mancanza di capitali da investire da parte dei
proprietari.

___________________________

32 Virgilio,
Iacopo. - Patriota, economista, giurista (Chiavari 1834 – Genova 1891); collaboratore di Q. Sella e F. Ferrara,
fondò a Genova l'Istituto superiore di scienze economiche e commerciali e vi diresse Il commercio di Genova, La Borsa, Il
giornale degli operai. Contribuì a risolvere i problemi del porto di Genova e scrisse numerose opere di diritto e di economia
marittima.

33 Ferrara, Francesco. - Economista e uomo politico italiano (Palermo 1810 – Venezia 1900). Di profonda fede liberale e di

potente ingegno, è il più autorevole rappresentante della scuola classica in Italia. Le sue opere più importanti furono: Lezioni
di economia politica (ed. crit. 1935), Della moneta e dei suoi surrogati (1858); La tassa sul macinato (1865); Il corso forzato
dei biglietti di banco in Italia (1866) oltre alle prefazione alla Biblioteca dell'Economista (1850-1870).

34 Rossi, Alessandro. - Industriale (Schio 1819 - Sant'Orso, Schio, 1898), pioniere dell'industria laniera in Italia, senatore del

Regno (1870). Succeduto nel 1839 al padre alla direzione di un modesto opificio a Schio, ne promosse uno straordinario
sviluppo, trasformando poi nel 1873 l'azienda in società anonima (il lanificio Rossi, divenuto nel 1954 Lanerossi e acquistato
dalla Marzotto nel 1987). S'interessò e contribuì alla realizzazione di numerose iniziative industriali e agricole, di scuole
popolari, di società di mutuo soccorso tra operai e contadini. n Il figlio Giovanni (Schio 1850 - ivi 1935) ampliò l'attività e gli
impianti dell'azienda. Cavaliere del lavoro (1902), senatore (1910).

35
Riboty, Augusto Antonio. - Ammiraglio (Puget-Théniers, Nizza, 1816 - Nizza 1888). Ufficiale della marina sarda,
partecipò alla spedizione navale del 1849 in difesa di Venezia, poi alla guerra di Crimea (1855-56) e alla terza guerra di
indipendenza (1866). Si distinse particolarmente nella battaglia di Lissa, quando al comando del Re del Portogallo attaccò la
corazzata austriaca Kaiser danneggiandola e riuscì a disimpegnarsi contro tre navi nemiche. Per la sua condotta ottenne la
medaglia d'oro al valor militare. Incaricato di sedare la rivolta di Palermo (1866) fu in seguito comandante in capo della
squadra del Mediterraneo (1867), ministro della Marina (1868-69 e 1871-73), deputato (1867-70) e dal 1870 senatore.

36 Boccardo, Gerolamo. - Poligrafo e uomo politico italiano (Genova 1829 – Roma 1904), prof. (dal 1860) all'univ. di
Genova, senatore (1877), socio nazionale dei Lincei (1878); contribuì alla diffusione della scienza economica con il Trattato
teorico pratico di economia politica (1853), sulle linee di J. St. Mill, col Dizionario della economia politica e del commercio
(1857-63), e dirigendo (1876-92) la 3a serie della Biblioteca dell'economista. Scrisse opere di economia, finanza, geografia
(Sismopirologia, 1869), manuali scolastici, e diresse la 6a ed. della Nuova Enciclopedia Italiana o Dizionario di scienze,
lettere, industrie, ecc. (1875-88).

37 Cerruti, Giovanni Battista. - Esploratore italiano (Varazze 1850 - Penang 1914). Dal 1881 nei mari orientali, visse a lungo
fra i Sakai (Sumatra nord-orient.) di cui studiò lingua e costumi. Nel 1886 fu compagno di E. Modigliani nell'isola di Nias;
visitò in seguito i Semang e i Batacchi; quindi viaggiò nella penisola di Malacca ove morì lasciando (museo di Penang) un
manoscritto di memorie.
18

Secondo Cerruti se l’Italia avesse avuto delle colonie, queste avrebbero consentito un invio di
capitali in patria consentendo così lo sviluppo dell’agricoltura. Così facendo in Italia si
sarebbe liberata della nuova forza lavoro libera di essere assorbita in altri settori,
principalmente alla creazione di infrastrutture necessarie alla modernizzazione del paese oltre
che, naturalmente, alimentare un nuovo flusso verso le colonie. Il viaggiatore riteneva anche
che i territori coloniali sarebbero stati importanti anche ai fini dello sviluppo industriale ed
alla marina; oltre che assicurare nuovi consumatori alle manifatture nazionali avrebbero
potuto rifornire la patria di quelle materie prime che tanto mancavano all’industria italiana.
Per quanto riguarda la creazione delle suddette colonie, Cerruti sosteneva, in linea con il
pensiero più comune dell’epoca, che il modo migliore di sviluppare l’idea fosse attraverso le
colonie penali della quale già abbiamo parlato precedentemente.

Anche l’economista Leone Carpi38, noto per le sue posizioni saldamente moderate,
scriveva nella sua opera più importante “Dell’emigrazione italiana all’estero, nei suoi
rapporti coll’agricoltura, coll’industria e col commercio” che, nonostante l’emigrazione
fosse ben lungi dall’essere definita un fattore positivo, considerava infatti i migranti
«abbandonati a mendicare oltre Atlantico un lavoro giornaliero e fuggevole», altro non era
che la cartina al tornasole di una infinita povertà in cui versavano le campagne italiane e
l’evidente fallimento della politica liberale. Ciononostante il fenomeno avrebbe potuto avere
aspetti positivi purché fosse regolato ed organizzato dallo Stato. Anch’egli pensava che
solamente attraverso una fitta rete di stabilimenti commerciali e di colonie all’estero ci
sarebbe stata la possibilità di estendere i commerci italiani e solo una rapida modernizzazione
della marina avrebbe consentito tutto questo. Peraltro il problema della marina sarda ed in
seguito di quella italiana era quello di avere una flotta principalmente a vela e con scafi di
legno, problematica connessa con la scarsità di ferro e carbone nella penisola e all’altrettanto
abbondanza di legname, oltre al fatto che gli armatori italiani ricevevano comunque sufficienti
commesse per navi in legno, abbastanza da farli procrastinare nella conversione della
produzione in battelli a vapore con gli scafi in acciaio. Carpi, riprendendo le tesi di Cerruti,
riteneva che il modo migliore per la formazione delle colonie libere fosse quello di fondare
colonie penali; segnalava inoltre la scarsezza di iniziative italiane in materia di viaggi
scientifici e commerciali.39

A quest’ultimo problema cercò di dare una risposta Cristoforo Negri attraverso la


fondazione il 12 maggio 1867 della Società Geografica Italiana, ente preposto allo studio di

___________________________

38 Carpi, Leone. - Patriota ed economista (Cento, Ferrara, 1810 - Roma 1898). Nato in un’agiata famiglia israelita di
sentimenti liberali, all’inizio del 1849 fu eletto deputato alla Costituente romana e si schierò su posizioni decisamente
moderate vicine a quelle di Mamiani. Sorpreso mentre era in missione all’estero dalla caduta del governo repubblicano,
fu bandito sia dallo Stato pontificio sia dai territori governati dall’Austria. Dopo aver soggiornato in vari paesi europei, si
stabilì infine con la famiglia in Piemonte dove continuò la sua attività politica e di studioso. Dedicò numerosi scritti al tema
dell’emancipazione degli ebrei e intervenne con saggi e articoli nel dibattito sulla politica economica, esprimendosi
ripetutamente contro le scelte liberiste di Cavour. Nel 1860 fu deputato nella VII legislatura. Sostenute da una convinta
ispirazione protezionista, sono le opere pubblicate negli anni Settanta: Dell’emigrazione italiana all’estero, nei suoi rapporti
coll’agricoltura, coll’industria e col commercio. Studi (1871), Delle colonie e dell’emigrazione d’Italiani all’estero sotto
l’aspetto dell’industria, commercio ed agricoltura (1873) e Statistica illustrata della emigrazione all’estero nel triennio
1874-76 nei suoi rapporti economico-sociali (1878).

39
D. Natili, Un programma coloniale. La Società Geografica Italiana e le origini dell’espansione in Etiopia, Gangemi,
Roma, 2008, Pag. 29-32.
19

nuove scoperte geografiche e scientifiche ma, come quasi tutte le società geografiche
dell’epoca, con il fine ultimo di scovare nuovi territori adatti alla colonizzazione.

Questo era in definitiva il pensiero della maggior parte della classe dirigente italiana
negli anni sessanta del XIX secolo (anche se non il solo, ma svilupperemo le ragioni contrarie
nel prossimo capitolo); il desiderio di trasformare il neonato stato nazionale in una potenza
europea covava in seno a molti ed anche le disfatte militari della 3° Guerra d’indipendenza
nel 1866 (soprattutto quella di navale di Lissa), che confermavano l’impreparazione militare e
tecnica oltre alla scarsa coesione dei vertici italiani, non fermarono la corsa a quello che più
tardi sarebbe stato definito il posto al sole in terra africana. A dire il vero dobbiamo osservare
che le modifiche profonde del capitalismo e della rivoluzione industriale di quegli anni
imposte dalla navigazione a vapore, dall’uso del telegrafo, dall’estendersi della rete
ferroviaria mondiale fino al taglio degli istmi (Suez 1869-1871, Corinto 1881-1893) stavano
determinando un epocale cambiamento nelle comunicazioni e nel commercio internazionale;
questi uomini si rendevano conto (nella maggior parte dei casi) del divario di risorse
economiche e politiche che separavano l’Italia dalle nazioni più avanzate ma nonostante tutto
erano convinti che da qualche parte bisognasse iniziare dato che, secondo loro, era in gioco il
futuro del paese. L’Italia avrebbe dovuto dunque inserirsi in questa rete di scambi
internazionali, fortemente aumentata proprio dalla metà dell’800, e l’avvio di una politica di
espansione avrebbe costituito la naturale prosecuzione del processo risorgimentale, lo
sviluppo politico e tecnologico del paese ed in ultima analisi avrebbe garantito le risorse
politiche e la personalità per sedersi al tavolo con le grandi potenze europee.40

1.3. La colonia dello Sciotel e l’acquisto di Assab.

Nell’introduzione di quest’opera abbiamo parlato dell’importanza della chiesa


cattolica negli avvenimenti che si susseguirono nel Corno d’Africa ed ora prima di rivolgere
la nostra attenzione verso quella che sarebbe stata la prima effimera colonia italiana, la baia di
Assab, è giusto mettere in evidenza le figure fondamentali che aprirono la strada,
volontariamente o meno, all’infiltrazione italiana in Etiopia e cioè i missionari cattolici. Fin
dall’inizio del XIX secolo la chiesa romana inviò nel Corno diversi missionari con il duplice
obiettivo di convertire al cattolicesimo (la popolazione etiope era cristiana di antica tradizione
ma copta) gli autoctoni e battere sul tempo i pari grado protestanti, in quel periodo molto
attivi nel continente nero. Giuseppe Sapeto41, l’artefice principale dell’acquisto della baia di
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40D. Natili, Un programma coloniale. La Società Geografica Italiana e le origini dell’espansione in Etiopia, Gangemi,
Roma, 2008, Pag. 34-36.

41 Sapeto, Giuseppe. - Esploratore e orientalista (Carcare 1811 – Genova 1895). Entrato (1829) nella Congregazione della
missione (lazzaristi) di S. Vincenzo de' Paoli, fu inviato (1834) nel Libano. Trasferitosi in Eritrea, compì un primo viaggio da
Massaua fino ad Adua e a Gondar (1838). Ritornato nel 1851, visitò le ancora inesplorate regioni dei Bogos, dei Mensa e
degli Habab e quindi accompagnò un'ambasceria di Napoleone III presso il deggiasmacc Negussiè, aspirante al trono
d'Etiopia. Svestito l'abito talare, tornò in Europa per dedicarsi agli studî linguistici e fu professore di arabo a Firenze e a
Genova. Favorì la penetrazione italiana nel Mar Rosso e trattò l'acquisto di una parte della costa della Baia di Assab per conto
della compagnia Rubattino. Lasciò numerosi scritti, tra i quali una relazione sul suo secondo viaggio.
20

Assab, era un missionario lazzarista che in seguito dismise la tonaca per dedicarsi
completamente alle scoperte scientifiche ed ai viaggi, alla ricerca di una colonia commerciale
per l’Italia. Fondamentale per i successivi sviluppi fu anche il fatto che molti dei religiosi
inviati in questi territori fossero di origine piemontese o ligure quindi sudditi sabaudi.
Cristoforo Negri si rivolse infatti, già dal 1857, a monsignor Massaia rendendogli noto che il
Regno di Sardegna sarebbe stato interessato a concludere accordi commerciali con i principi
d’Abissinia42 disposti a farlo. Molti storici cosiddetti “coloniali”, nel tentativo di dare
all’infiltrazione ed al successivo dominio italiano nell’area una nobile genesi, hanno sostenuto
che fosse stato lo stesso Cavour ad interessarsi per primo sulla situazione politica ed
economica del Corno d’Africa, nella non remota ipotesi di un coinvolgimento del regno sardo
nella ricerca di una colonia, dando così allo statista piemontese la paternità dell’ideale
coloniale italiano. Oggi però è chiaro, grazie anche a documenti riletti nell’ottica corretta43,
che Negri fece tutto autonomamente, salvo poi informare il conte degli esiti, come il suo ruolo
di funzionario imponeva. Il primo ministro, al contrario, frenò gli entusiasmi di Negri e di
qualche zelante missionario, come padre Leone des Avanchers44, scrivendo egli stesso:
[…]
“Al progetto, però, di colonizzazione l’attualità delle circostanze direttamente si
oppone. Io, quindi, già feci in modo cortese conoscere allo stesso padre Leone des Avanchers
perché moderi lo zelo e non accresca proposte.”45
[…]
Nel 1866 un altro missionario padre Giovanni Giacinto Stella ottenne una concessione
nello Sciotel, una regione dell’Amasien46, terra dei Bogos47, dove fondò una colonia agricola.
Padre Stella era presente nella regione sin dal 1851 dove si conquistò presto stima e prestigio
presso la popolazione locale grazie alla sua opera di elevazione materiale e di ordinamento
civile; dopo avere a lungo difeso i diritti dei Bogos ed essere intervenuto in seguito alle razzie
di altre tribù limitrofe, si trovò nel bel mezzo della disputa del territorio tra Egitto, Etiopia e
Turchia. Nel 1866 dismise l’abito talare e nello stesso anno ottenne, come abbiamo riferito in
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42 Abissinia, Nome con cui nelle lingue europee spesso si designava l’intera Etiopia o specialmente in opere scientifiche,

l’altopiano centrale e settentrionale dell’Etiopia (che comprendeva anche una buona parte dell’attuale Eritrea), abitato
tradizionalmente dalle genti di lingue semitiche (particolarmente l’amarico, ma anche il tigrè) e di religione cristiana
monofisita.
43E’ lo stesso Negri che, in una lettera a mons. Massaia del 1858 a proposito di un eventuale trattato, fa notare come il conte
di Cavour non sia ancora stato informato: “Io sebbene conosca che S.E. il conte di Cavour, presidente del Consiglio e
ministro delle Finanze e degli Affari Esteri, accoglierebbe volentieri una regolare proposta che gli facessi d’un trattato con
l’Abissinia, non so raccogliere gli elementi di fatto da presentare ad un uomo perspicacissimo quale egli è, e necessari per
mostrare la probabilità di venire agli accordi”. (R. Battaglia) Questa lettera mostra inoltre che solo sottoponendo al conte una
serie di dati estremamente precisi si potrebbe giungere ad un accordo.
44Des Avanchers, Leone (al secolo Michele Galliet). - Missionario e viaggiatore nell'Africa orientale (Les Avanchers,
Savoia, 1809 - Afallo, Ghera, 1879). Entrato nell'ordine dei cappuccini, svolse attiva opera missionaria e civilizzatrice in
Somalia, in Eritrea e nel paese dei Galla e Sidama, negoziando anche (1859) un trattato di amicizia tra il regno sardo e quello
abissino. Morì avvelenato dalla regina di Ghera.
45 E. de Leone, Le prime ricerche di una colonia e la esplorazione geografica politica ed economica, L’Italia in africa, Vol. II,
Ist. Poligr. dello Stato, Roma, 1955, Pag. 5-8.
46 Amasien, talvolta citata anche come Amassien o Amasen era il nome di una provincia storica che comprendeva Asmara e
i suoi dintorni, ora parte della moderna Eritrea.
47 Bogos, zona del nord dell’Eritrea con capoluogo Cheren sede dell’omonima tribù.
21

precedenza, una concessione dal degiasmacc48 Hailù per fondare una colonia agricola gestita
da italiani. Recatosi nel novembre del 1866 in Egitto, convinse alcuni capitalisti a creare una
società col nome di “Colonia italo-africana di Sciotel” , che avesse per oggetto lo
sfruttamento agricolo del centro di Sciotel. La colonia contava circa trenta italiani tra
finanziatori, contadini ed artigiani. L’iniziativa di Stella fece sorgere la gelosia del
rappresentante egiziano in Abissinia Werner Munzinger49, il quale mirava a sostituirsi
all’italiano nell’influenza sul capo della regione, contesa come si è riferito tra Egitto e
Abissinia. Egli riuscì infatti a sollevare sospetti ed inimicizia nel nuovo negus neghesti50
Giovanni e nel nuovo governatore dell’Amasien Walda Michael. Dopo aver subito numerose
angherie, la piccola colonia venne abbandonata dalla maggior parte dei suoi dipendenti e
nell’ottobre del 1869, in seguito alle numerose amarezze e ad una congestione sanguigna
Giacinto Stella morì. Nel 1872 la società venne venduta al Munzinger decretando così la fine
della prima effimera colonia italiana in terra d’Africa.51
Se, come abbiamo evidenziato, le aspirazioni coloniali di Cavour sono quantomeno
discutibili, non possiamo dire altrettanto per le sue ambizioni commerciali, l’interesse per le
quali è manifesto fin dal 1850. L’appoggio fornito a Raffaele Rubattino52, definito da R.
Battaglia “l’uomo più audace della borghesia del Risorgimento”, oltre al vero e proprio
rapporto di amicizia che lega i due uomini, resero molto stretta la loro collaborazione. Alla
Compagnia Rubattino fu infatti rilasciata nel 1851 la concessione del servizio di linea da
Genova per la Sardegna, prolungata poi fino a Tunisi in modo da favorire i rapporti economici
e politici con la folta colonia italiana ivi presente; peraltro il ruolo di Rubattino sarà decisivo
nello sviluppo degli interessi italiani a Tunisi negli anni seguenti.53 Fondamentale fu
soprattutto la parte da lui ricoperta nell’acquisto della baia di Assab nel 1869, vicenda della
quale ci accingeremo ora a raccontarne gli sviluppi.
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48 Degiasmacc ("comandante/generale della Porta") o abbreviato Degiac. Titolo militare che designava il comandante del

corpo centrale del tradizionale esercito imperiale che comprendeva l'avanguardia, il corpo centrale, l'ala sinistra, l'ala destra e
la retroguardia. Marcus lo paragona al titolo di conte. Gli eredi del Leul Ras ricevevano il titolo di Leul Deggiasmac per
essere differenziati dai Deggiasmac di sangue non imperiale.

49
Munzinger, Werner. - Viaggiatore (Olten 1832 – Dancalia 1875). Recatosi con incarichi commerciali a Massaua (1854),
compì di là numerosi viaggi nell'interno (1854-63), spingendosi nel Kordofan e nella Nubia. La relazione pubblicata al
ritorno in patria (1864) contiene importanti notizie soprattutto sull'Eritrea. Ebbe poi incarichi militari e politici in Africa
orientale per conto dell'Egitto e della Francia. Fu trucidato dai Danachili presso il Lago Assal insieme con tutti i suoi uomini.

50
Negus Neghesti ("Re dei Re") era l'Imperatore dell’Etiopia. Nonostante numerosi re di Axum avessero utilizzato questo
titolo, sino alla restaurazione della dinastia salomonide ad opera di Iecuno Amlac i sovrani dell'Etiopia utilizzarono il titolo di
Negus, anche se "Re dei Re" venne utilizzato sin dall'epoca di Ezanà. La titolatura completa dell'Imperatore d'Etiopia era
Negust Neghesti e Seyoume Igziabeher ("Eletto del Signore").

51 C. Giglio, Etiopia / Mar Rosso, L’Italia in Africa, Vol. I, Tomo I, Ist. Polig. Dello Stato, Roma, 1958, Pag. 64-68.

52
Rubattino, Raffaele. – Armatore (Genova 1809 – ivi 1881). Dedicatosi fin da giovane al commercio, nel 1840 fondò la
prima flotta a vapore del Regno di Sardegna (società Rubattino). Di tendenze liberali, assicurò i rifornimenti alla Repubblica
romana; delle sue navi si servirono sia C. Pisacane per la spedizione di Sapri (1857), sia G. Garibaldi per la spedizione dei
Mille (1860). Nel 1869 acquistò la Baia di Assab sul Mar Rosso, primo stabilimento italiano in Eritrea, come base per i suoi
commerci con l’Oriente. Deputato dal 1876 al 1880, nel 1881 fuse la propria compagnia con la società Florio di Palermo,
dando vita alla Navigazione generale italiana.

53 J. L. Miège, L’imperialismo coloniale italiano dal 1870 ai giorni nostri, Rizzoli, Milano, 1976, Pag. 16-17.
22

Giuseppe Sapeto, dismesso l’abito talare nel 1861, ricevette l’anno successivo dal
Ministro di Agricoltura, Industria e Commercio l’incarico di recarsi nel Mar Rosso per
studiare i lavori in corso del canale e sulle eventuali ripercussioni che la sua apertura avrebbe
avuto sui traffici italiani. Il risultato di questo viaggio fu un’interessante relazione (del 28
luglio 1863) al Ministro per l’Istruzione Michele Amari54, che gli procurò una cattedra di
“Civiltà e lingua araba” all’istituto tecnico di Genova, e la produzione di un’opera “L’Italia e
il Canale di Suez” (1865) nella quale Sapeto sostenne che l’apertura del canale avrebbe
portato grandi vantaggi all’Italia, se però il paese si fosse tempestivamente attrezzato sia dal
punto di vista delle infrastrutture che da quello degli investimenti produttivi e commerciali.
Sapeto riteneva che la creazione di una stazione commerciale e militare nel Mar Rosso
andasse realizzata nel più breve tempo possibile, possibilmente prima dell’apertura del canale,
onde evitare che l’onnipresente Inghilterra e la Francia arrivassero ad occupare tutte le zone
ideali delle due sponde. Dopo avere più volte inutilmente bussato all’indirizzo del Ministro
degli Esteri e dell’Agricoltura, nel settembre 1869 non vide alternativa di sorta se non quella
di rivolgersi direttamente al sovrano, Vittorio Emanuele II, il quale lo appoggiò senza riserve
presso il Presidente del Consiglio e Ministro degli Esteri Menabrea55. Oltre alla “spinta” reale,
la buona sorte venne incontro a Sapeto dato che Menabrea fu l’unico ministro italiano, tra il
1861 ed il 1878, a condividere l’espansione commerciale nonché territoriale italiana.

Dopo che il Primo ministro ebbe concordato con il Ministro della Marina Riboty di
affiancare un ufficiale di marina a Sapeto, il contrammiraglio Acton56, nella ricerca di una
stazione marittima, il 2 ottobre 1869 venne fatta firmare all’ex religioso una dichiarazione con
la quale egli si impegnava ad acquistare un territorio sulla costa araba o su quella dell’Africa e
che i suddetti acquisti sarebbero stati fatti per conto e per mandato del governo italiano.57 I
due delegati partirono da Brindisi il 12 ottobre 1869 e dopo avere escluso la costa araba a
causa di voci, rivelatesi poi false, che Inghilterra e Francia avessero già occupato le zone
migliori, si rivolsero alla costa africana e dopo ampie perlustrazioni scelsero la baia di Assab
la quale, come scrisse lo stesso Sapeto, presentava diversi vantaggi:

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54
Amari, Michele. - Patriota, storico e arabista siciliano (Palermo 1806 – Firenze 1889). Oppositore dei Borbone, costretto a
un lungo esilio in Francia, fu dapprima fervente mazziniano ma infine appoggiò la soluzione cavouriana. Rientrato in Italia,
divenne ministro dell'Istruzione, organizzò gli studi orientali e contribuì in modo rilevante alla conoscenza della Sicilia
musulmana.

55
Menabrèa, Luigi Federico, conte. - Uomo politico, scienziato e generale (Chambéry 1809 - Saint-Cassin, Chambéry,
1896). Ufficiale del genio, fu dal 1839 al 1848 insegnante di geometria descrittiva, meccanica e scienza delle costruzioni
all'Accademia militare di Torino; si occupò attivamente di varie questioni di scienza delle costruzioni, in partic. di elasticità
enunciando il principio "del minimo lavoro". Nel 1848 fu eletto deputato al parlamento subalpino e tale rimase fino al 1860,
evolvendo tuttavia dall'iniziale posizione di militante della sinistra democratica fino a quella di convinto sostenitore della
destra anticavouriana. Nel 1859-60 ebbe incarichi militari; senatore dal 1860, fu ministro della Marina (giugno 1861 - marzo
1862), poi dei Lavori pubblici (dic. 1862 - sett. 1864). Plenipotenziario italiano per la pace di Vienna del 3 ott. 1866, ebbe in
tale occasione il Collare della Ss. Annunziata. Presidente del Consiglio dall'ott. 1867 al dic. 1869, non riuscì a evitare lo
scontro di Mentana. Fu poi incaricato di missioni straordinarie a Vienna (1870) e a Stoccolma (1873), e ambasciatore a
Londra (1876-82) e a Parigi (1882-92). Socio nazionale dei Lincei (1874).

56 Acton, Guglielmo. - Ammiraglio (Castellamare di Stabia 1825 - Napoli 1896), fratello di Emerich e Ferdinando; capitano
di fregata nella marina del Regno di Napoli, passato come capitano di vascello nella marina italiana, si distinse a Lissa. Fu
ministro della Marina nel 1870-71, senatore (1871) e nel 1879 fu promosso viceammiraglio.

57 V. Documento n.1.
23

[…]

1. La sua vicinanza allo stretto di Ba bel-Mandeb e il suo facile approdo indicato


dall’isola elevata di Sennabaiar e dai monti tagliati a sella, che additano da lontano il
capo Lumah.
2. La sua posizione rispetto a Mokha e Hodeidah, empori dello Jemen, con i quali può
comunicare con tutti e due i monsoni.
3. L’attitudine sua a diventare, come già fu nell’alta antichità, l’emporio dell’Arabia e
dell’Abissinia, potendovi far capo le carovane che ora vengono a Massaua, Ras
Bailul, Raheita, Tagerrah e a Zeila.58

[…]

Il 15 novembre 1869 Sapeto stipulò con i sultani Hassan ed Ibrahim Ahmad un


compromesso-contratto di acquisto per la baia di Assab.59 Il rapporto venne presentato al
nuovo governo Lanza60 che ratificò l’operato dei due delegati; per la definitiva stesura del
contratto però, dato che il governo avrebbe voluto sì acquistare una colonia ma non aveva il
coraggio di farlo alla luce del sole, anche per non mettere in allarme le altre potenze europee,
venne deciso di ricorrere ad un prestanome privato, la compagnia del già citato Raffaele
Rubattino ed un contratto in proposito venne stipulato il 2 febbraio 1870 tra alcuni ministri
(Visconti Venosta, Acton, Castagnola e Gadda) ed un procuratore della compagnia genovese.
Soltanto una settimana dopo, l’8 febbraio 1870, Sapeto venne a conoscenza della sua nuova
posizione di agente della Compagnia Rubattino tramite una lettera di Acton della quale
pubblichiamo un breve stralcio:

[…]

“La dichiarazione di proprietà dei punti acquistati dovrà essere fatta in nome del sig.
Rubattino o di quelle persone che dal medesimo Le verranno indicate. Fra le condizioni
stabilite nel contratto stipulato con il sig. Rubattino havvi poi quella di lasciare in piena
proprietà di quest’ultimo, a giudizio della S.V. Illustrissima e salva l’approvazione del R.
Governo, una porzione di terreno conveniente per l’impianto di una stazione ad uso di quella

__________________________

58 C. Giglio, Etiopia / Mar Rosso, L’Italia in Africa, Vol. I, Tomo I, Ist. Polig. Dello Stato, Roma, 1958, Pag. 105.

59
V. Documento n. 2.

60 Lanza, Giovanni. - Uomo politico (Casale Monferrato 1810 – Roma 1882). Medico, ma maggiormente dedito

all'agricoltura e al giornalismo, nel 1848 accorse volontario in Lombardia per combattere gli Austriaci e nel maggio fu eletto
deputato. Dapprima contrario alla ripresa delle ostilità con l'Austria, quindi favorevole alla resistenza a oltranza dopo la
sconfitta di Novara, votò contro la pace di Milano. Vicepresidente della Camera (1853), ministro dell'Istruzione (1855), poi
delle Finanze (1858), fu eletto (1860) presidente della Camera, ed esercitò quest'ufficio con rigida imparzialità. Accentuatasi
intanto la sua evoluzione dal centro-sinistra alla destra, della quale divenne uno dei capi più autorevoli, fu ministro
dell'Interno (sett. 1864 - ag. 1865), nuovamente presidente della Camera (1867-68 e 1869); quindi, presidente del Consiglio
(dic. 1869 - luglio 1873), proseguì la riduzione delle spese militari in un regime di stretta economia, evitando l'intervento in
favore della Francia, allora in guerra con la Prussia. Proprio la disfatta francese permise l'acquisizione di Roma al Regno
(1870). Dimessosi perché respinti i suoi provvedimenti finanziarî, visse poi prevalentemente a Torino, ove (dal 1878) fu
presidente dell'Associazione costituzionale.
24

compagnia di navigazione, da retribuirsi però in ragione del prezzo originario di acquisto.”61

[…]

Il giorno 15 febbraio 1870 il vapore “Africa” partì da Livorno con a bordo G. Sapeto,
O. Beccari62, A. Issel63 e Grandoni, agente della compagnia Rubattino, con destinazione
Assab per la stesura definitiva del contratto di acquisto della baia (a Suez si unì al gruppo
anche O. Antinori64 in viaggio verso lo Sciotel). Quest’ultima fase non fu semplicissima
poiché quando il vapore gettò l’ancora nella baia di Buia, Sapeto apprese dai due sultani
Hassan ed Ibrahim che degli emissari egiziani avevano offerto un prezzo cinque volte
superiore a quello concordato con gli italiani per l’acquisto del territorio già venduto ed erano
inoltre stati minacciati di rappresaglie sia dagli stessi egiziani che dai governatori della vicina
Arabia se avessero onorato il contratto. Inoltre i due sultani informarono Sapeto che la baia di
Buia, dove il vapore aveva attraccato, era di proprietà del sultano Abdallah Sciahim e quindi
non avrebbero potuto venderla; Sapeto, per evitare inutili discussioni, mandò a chiamare il
terzo sultano, propose di redigere un nuovo contratto che ampliasse il territorio acquistato,
dietro naturalmente ad un congruo aumento del corrispettivo. Il nuovo contratto venne
stipulato l’11 marzo 1870 tra i tre sultani, Giuseppe Sapeto ed il capitano del vapore Andrea
Buzzolino come rappresentante della Compagnia Rubattino.65

A seguito della felice conclusione della trattativa, il giorno 13 marzo 1870 venne issata
sul promontorio di Assab la bandiera italiana, venne costruita una piccola baracca in legno e
vennero conficcati nel terreno due pali con delle tabelle con la scritta “Proprietà Rubattino -

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61
C. Giglio, Etiopia / Mar Rosso, L’Italia in Africa, Vol. I, Tomo I, Ist. Polig. Dello Stato, Roma, 1958, Pag. 106.

62 Beccari, Odoardo. - Esploratore, botanico, naturalista (Firenze 1843 - ivi 1920). Compì lunghi viaggi soprattutto nelle

Indie Orientali, raccogliendo numeroso materiale scientifico. Dal Borneo, con G. Doria, attraversò per vie ancora inesplorate
il Sarawak. Nel 1870 prese parte all'acquisto della baia di Assab e con O. Antinori e A. Issel visitò la regione di Cheren. Con
L. M. D'Albertis esplorò la Nuova Guinea e poi da solo le isole Aru e Key (1873), Celebes (1874), la Nuova Guinea occid.
(1875). Rientrato in patria, ne ripartì dopo breve tempo (1877) per l'India, Sumatra e l'Australia. In uno dei suoi viaggi,
scoprì, a Sumatra, l'Amorphophallus titanum, pianta delle Aracee, interessante per la grande infiorescenza. Fu uno dei più
competenti illustratori delle Palme. Tra le sue opere si ricordano: Malesia (1877-90); Nelle foreste di Borneo: viaggi e
ricerche di un naturalista (1902); Nuova Guinea, Celebes e Molucche (post., 1924).

63 Issel, Arturo. - Geologo italiano (Genova 1842 - ivi 1922); prof. di geologia, mineralogia, geografia e paleontologia
nell'univ. di Genova; socio nazionale dei Lincei (1919). Studiò diverse regioni del Mediterraneo, tra cui il Canale di Suez,
l'Arcipelago Egeo, la Tunisia, ecc., e, in occasione della cessione della Baia di Assab, fu in Africa Orientale, dove visitò
Massaua e Cheren (1870). Lasciò una vasta produzione scientifica riguardante non solo argomenti di geologia, ma anche di
malacologia, talassografia, sismologia, antropologia, paletnologia, con particolare riguardo alla regione ligure. Degni di
particolare rilievo sono i suoi studî sui lenti movimenti del suolo, da lui chiamati bradisismi.

64 Antinori, Orazio. - Naturalista e viaggiatore (Perugia 1811 – Let Marefià 1882); nel 1848 combatté nel Veneto e l'anno

seguente prese parte alla difesa di Roma; iniziò quindi i suoi viaggi, dapprima in Grecia, nell'Asia Minore e in Siria curando
raccolte ornitologiche, poi in Egitto (1858) e di là nel Sudan. Di qui compì, con C. Piaggia e con altri, diversi viaggi sul Nilo
Azzurro e sul Bahr el-Ghazāl. Nel 1867 fu tra i fondatori della Società geografica italiana, della quale ricoprì per varî anni la
carica di segretario generale. Negli anni successivi, con O. Beccari e A. Issel visitò i paesi del Mar Rosso (1869), rimanendo
poi due anni in Etiopia; partecipò poi a una missione della Soc. geogr. ital. in Tunisia (1875). Tornato in patria, attese
all'allestimento di una grande spedizione nella regione dei laghi equatoriali. Dopo un viaggio di alcuni mesi, raggiunse a
Liccè il campo di Menelik, ed ebbe la concessione di un territorio a Lèt Marefià per impiantarvi una stazione scientifica e
ospedaliera; privato da un incidente dell'uso della mano destra, rimase a capo della stazione di Lèt Marefià, ove attese alla
preparazione di collezioni naturalistiche.

65 V. Documento n. 3.
25

comprata agli 11 marzo 1870”.66

Sapeto si trattenne nella baia fino al 25 aprile 1870 e dopo soli quattro giorni dalla sua
partenza, il 29 aprile 1870, dei soldati egiziani sbarcarono nella baia, forzarono la porta della
casetta e lasciarono un presidio militare. Possiamo dunque affermare che la prima effimera
colonia italiana nel Corno d’Africa durò solamente quarantanove giorni con l’aggravante che
il Ministro degli Esteri egiziano elevò una protesta ufficiale tramite una nota che inviò al
Console Generale d’Italia al Cairo:

[…]

“Aux termes d’une communication que j’ai reçue du ministère de la marine, la


compagnie italienne Rubattino, par l’intermédiaire de ses agents, a occupé un morceau de
terrain vers le cap Assab, sur le litoral égyptien de la mer Rouge, et établi sur ce terrain un
dépôt de charbon pour le besoin de son service.

Ce terrain dépendant du gouvernement égyptien, l’autorité rechercha les titres en


vertu desquels avait pu avoir lieu l’occupation et il fut constaté que les agents de la
compagnie le tenaient de quelques pêcheurs qui l’avaient vendu comme leur propriété.

Evidemment, monsieur l’agent et consul général, cette vente est radicalement nulle,
car les pêcheurs n’ont pu vendre la propriété d’autrui, la propriété de l’état.

Le gouvernement s’élève donc absolument contre cette occupation arbitraire, et je


viens, en son nom, vous prier, monsieur l’agent et consul général, de vouloir bien pourvoir à
ce que la compagnie, respectant les droits incontestables du véritable propriétaire, laisse les
lieux libres dans le plus bref délai.

J’ajoute que, pour la facilité des compagnies de navigation qui poussent leurs
opérations jusque dans l’extrême Orient, le gouvernement égyptien ne se refuserait pas à leur
accorder, le cas échéant, la jouissance des terrains dont elles croiraient devoir disposer sur
le litoral dont il s’agit, mais cela à titre de location, et sous les conditions qu’il indiquera lui-
même à ces compagnies."67

[…]

Riportiamo di seguito la risposta della diplomazia italiana, particolarmente abile nel


fare leva sulla principale debolezza della posizione egiziana, cioè sulla scarsa autorità che il
governo vicereale deteneva nell’area di Assab:

_________________________

66
C. Giglio, Etiopia / Mar Rosso, L’Italia in Africa, Vol. I, Tomo I, Ist. Polig. Dello Stato, Roma, 1958, Pag. 106-110.

67T. Scovazzi, Assab, Massaua, Uccialli, Adua. Gli strumenti giuridici del primo colonialismo italiano, Giappicchelli,
Torino, 1996, Pag. 9-10.
26

[…]

“Aussi avons-nous été surpris en apprenant, par votre dépêche du 3 juin, que Schérif
pacha a jugé à propos de vous adresser une note par laquelle le gouvernement égyptien
déclare nul et d’aucune valeur l’achat fait par la société Rubattino du terrain en question.
Dans cette note le gouvernement du Khédive n’a envisagé la question qu’au point de vu des
droits des vendeurs du terrain. D’après lui, la société Rubattino l’a acheté à quelques
pêcheurs de la côte, qui n’y avaient aucun droit de propriété. Schérif pacha donne à entendre
que, le gouvernement égyptien étant le seul propriétaire des terrains de la côte africaine de la
mer Rouge, c’est à lui que les acheteurs auraient dû s’adresser.

Nous n’avons aucune difficulté à discuter une question posée dans ces termes : mais
c’est au gouvernement égyptien de nous faire connaître le droit qu’il peut avoir, soit à titre de
souveraineté territoriale, soit à titre de propriété de l’état, de contester une acquisition
consentie par les occupants effectifs du sol, dans des contrées où, faute d’une organisation
administrative regulière, les populations indigènes jouissent d’une indépendance de fait
complète. Il est aisé de démontrer à l’Egypte que les acquiereurs du terrain en question ont
traité de bonne fois avec les chefs des tribus qui, étant en possession du territoire, auraient
certainement refusé de reconnaître toute cession, vente ou location du territoire, effectuées
par l’administration égyptienne.

En droit commun, le vendeur ou bailleur d’un terrain est tenu de garantir la


possession à l’acheteur ou au fermier. L’Egypte était-elle à même de donner cette garantie à
la société Rubattino, et aurait-elle pu se charger de la faire respecter ?"68

[…]

Il risultato di questo scambio di corrispondenza diplomatica fu il ritiro del contingente


egiziano da Assab, che per qualche anno rimase abbandonata sia dagli egiziani che dagli
italiani ma la delicata questione politica rimase sospesa e si sarebbe trovata una soluzione solo
una decina d’anni dopo come vedremo nel prossimo capitolo.

_________________________

68T. Scovazzi, Assab, Massaua, Uccialli, Adua. Gli strumenti giuridici del primo colonialismo italiano, Giappicchelli,
Torino, 1996, Pag. 14.
27

CAPITOLO II

Dal ritorno ad Assab alla Colonia Eritrea.


2.1. La polemica tra filo ed anticolonialisti.

Negli anni ’70 del XIX secolo, all’indomani dell’abbandono della baia di Assab, si
sviluppò nel nostro paese una vivace polemica tra coloro che vedevano nel colonialismo
d’oltremare una soluzione ai diversi problemi che assillavano la giovane nazione e chi, al
contrario, riteneva che lo stato dovesse pensare prima di tutto alla situazione interna, in quegli
anni tutt’altro che tranquilla; tutto questo si scatenava a dispetto di una posizione governativa
assolutamente disinteressata all’argomento coloniale, come ricorda Carlo Giglio.69

Il 30 aprile 1871 venne istituita dal governo Lanza una speciale commissione per le
colonie, al fine di esaminare l’eventualità di una creazione di altre colonie italiane con gli
scopi già ricordati in precedenza (popolamento, commercio, deportazione), ma, a conferma
della posizione incerta del governo, non erano stati chiamati a farne parte né Giuseppe Sapeto
né altri personaggi come Nino Bixio favorevoli da sempre all’avventura coloniale in Africa.
La commissione presieduta da Cristoforo Negri, notoriamente avverso alla baia di Assab ed
più principalmente al colonialismo territoriale, non riuscì, dalla sua creazione fino al suo
scioglimento in data 20 ottobre 1872, a redigere alcuna relazione in proposito. Bisogna
ammettere, ad onor del vero, che in quel preciso momento storico la stragrande maggioranza
dei commentatori, a parte Sapeto e pochi altri, riteneva che la baia di Assab non fosse altro
che una gigantesca voragine che avrebbe risucchiato una quantità enorme di denaro pubblico
senza rilasciare il benché minimo profitto.70 Lo scarso interesse che il governo dimostrava
verso Assab venne anche evidenziato quando la commissione Possenti, speciale commissione
tecnica inviata in Egitto ed incaricata di riferire sulle eventuali opportunità che si sarebbero
aperte per l’Italia nel Mar Rosso con l’apertura del canale di Suez, non solo non soddisfò
queste attese dato che i suoi componenti non riuscirono neppure ad incontrarsi al Cairo, ma
oltretutto tra le richieste di informativa governative la baia eritrea non figurava neppure.71

_________________________________

69
C. Giglio, Etiopia / Mar Rosso, L’Italia in Africa, Vol. I, Tomo I, Ist. Polig. Dello Stato, Roma, 1958, Pag. 5. – Carlo
Giglio suddivide la prima fase della politica coloniale italiane in quattro fasi ben definite:

1. Fase del quasi assoluto disinteressamento (1861-1879).


2. Fase della politica coloniale commerciale (1879–1882).
3. Fase della transizione dalla politica coloniale commerciale alla politica coloniale territoriale – militare (1882-1884).
4. Fase della inaugurazione della politica coloniale territoriale-militare (1884-1885).

70 R. Rainero, L’anticolonialismo italiano da Assab ad Adua (1869-1896), Ediz. Di Comunità, Milano, 1971, Pag. 22-26.

71 Ibidem, pag. 28. – Elenchiamo ora le informative richieste: “1) Sul canale e sua profondità, e sui mezzi impiegati nella sua

escavazione; sul Porto Said e sue dighe e loro materiale di costruzione; sui lavori che fossero ulteriormente necessari a
perfezionare tutte le opere in modo da assicurare la piena e costante comunicazione marittima tra il Mediterraneo e l’Eritreo;
sulla possibilità tecnico-economica di sua perpetua conservazione; nonché sugli interessi nazionali collegati alla medesima.
2) Sul Nilo, sue torbide fecondatrici e modi di loro equabile diffusione sui terreni del Basso Egitto. 3) Sulle ferrovie, loro
costruzione ed esercizio, loro materiale fisso e mobile e sull’influenza del clima nella di lui conservazione. 4) Sullo stato
degli altri porti, che venissero toccati durante il viaggio e sull’illuminazione delle coste. 5) Finalmente, se da tutte le cose
osservate lungo il viaggio si possano trarre applicazioni proficue per l’Italia.”
28

Ciò nonostante, riguardo alla baia vi furono parecchie valutazioni che se


principalmente si rivelarono negative non lo furono comunque all’unanimità; alcuni
ritenevano la vocazione di Assab eminentemente mercantile-navale, altri pensavano che,
attraverso un impegno più deciso del governo in termini di infrastrutture, la baia sarebbe stata
utile sia a fini commerciali che a quelli migratori, infine vi era chi pensava che le possibilità
di sviluppo di Assab fossero buone se non addirittura ottime. Secondo Francesco Giustiniani
ciò che comprometteva lo sviluppo di Assab era l’incertezza del governo: “E’ ora che il
governo italiano lasci questo stato di dubbiezza che è tanto dannoso agli interessi nazionali e
che pensi seriamente a questi interessi se non vuol vedere qualche altra potenza raccogliere il
frutto che esso non ha saputo cogliere a tempo”.72 Per l’esploratore Giuseppe Maria Giulietti73
l’utilizzazione e l’eventuale allargamento di Assab non appariva come una possibilità remota:

[…]

“Il comandante ha accolto favorevolmente alcune mie idee circa la futura


colonizzazione di Assab ed è ormai persuaso che anche un presidio militare d’una certa
importanza non riuscirebbe nient’affatto superfluo. Secondo me occorrerebbe qui un
battaglione di disciplina accompagnato da due o trecento condannati ai lavori forzati, un
paio di compagnie del genio e un paio di batterie d’artiglieria… La compagnia del genio
compirebbe con questi lavoratori dei lavori colossali in confronto a quelli che possono fare
gli operai di questi paesi. E’ inutile lusingarsi, con buona pace anche del nostro prof. Sapeto
(che ha viste commerciali dei tempi della regina di Saba) senza seminare potentemente qui
non si farà mai nulla.”74

[…]

Per Giacomo Messedaglia75, invece, la baia eritrea oltre ad essere “arida, insalubre,
non coltivabile, in una parola inabitabile” era economicamente di scarso valore: “Gli
amministratori devono rammentare quel vecchio adagio: dove non v’è guadagno la perdita è
sicura. Per Assab non v’è dubbio.”76 Certo è che questi contrasti d’opinione così profondi
erano spesso fondati su una diffusa ignoranza geografica delle regioni abissine e spesso su
veri e propri contrasti personali e rivalità.

________________________

72
R. Rainero, L’anticolonialismo italiano da Assab ad Adua (1869-1896), Ediz. Di Comunità, Milano, 1971, Pag. 29.

73
Giulietti, Giuseppe Maria. - Esploratore dell'Africa (Casteggio, Pavia, 1847 – Dancalia settentr. 1881); partito col
proposito di raggiungere O. Antinori nello Scioa, traversò da solo il deserto da Zeila a Harar. Stabilitosi quindi ad Assab per
conto della Compagnia Rubattino, organizzò una spedizione nell'interno e, con pochi marinai al comando del tenente G.
Biglieri, raggiunse Beilul e s'inoltrò quindi nella valle del Gualima. Ma, assalito dagli indigeni, fu massacrato insieme con i
compagni. I resti furono ritrovati da R. Franchetti (1929), il quale battezzò col nome di G. il Lago Afrera.

74 R. Rainero, L’anticolonialismo italiano da Assab ad Adua (1869-1896), Ediz. Di Comunità, Milano, 1971, Pag. 32.

75Messedaglia, Giacomo Bartolomeo. - Viaggiatore e militare (Venezia 1846 – Pisa 1893). Intrapresa la carriera militare, fu
assunto (1876) nell'esercito egiziano per lavori cartografici. Nel 1878 divenne collaboratore di C. G. Gordon nel Sudan e
governatore del Dār Fūr, dove, oltre a contribuire alla conoscenza del paese percorrendo regioni poco note, promosse la
costruzione di strade e riordinò l'amministrazione. Colonnello, prese parte alla campagna contro il madismo, rendendo
eminenti servigi agli Anglo-Egiziani.

76 R. Rainero, L’anticolonialismo italiano da Assab ad Adua (1869-1896), Ediz. Di Comunità, Milano, 1971, Pag. 33.
29

Dal punto di vista più prettamente politico, la partecipazione dei partiti alla diatriba
coloniale all’inizio fu quasi nullo; dalla parte della sinistra storica non vi era alcun interesse
nel coinvolgere le masse popolari in questioni di politica coloniale (per lo meno fino ai primi
rovesci militari di Dogali, Amba Alagi, Adua), dato che spesso la politicizzazione delle masse
non era sentita neppure sui problemi interni. Inoltre per molte correnti di sinistra, legate ad un
socialismo rivoluzionario ed anarchico, la sostanza reale della rivendicazione e lo stesso
ambito dell’agitazione popolare non avevano molto valore. Andrea Costa77 affermava nel
novembre del 1880: “Non si fanno al tempo stesso tutte le conquiste sociali. Bisogna che
questo popolo si agiti e cominci a discutere i suoi diritti: è naturale che si cominci dalle
apparenze come quelle che più colpiscono ma poi si verrà alla sostanza… Il suffragio
universale non basta; per il momento servirà ad incominciar la lotta contro l’ordine…”.78 In
fondo vi erano molti più argomenti di politica interna su cui puntare per raccogliere consensi
che non la sterile polemica coloniale e per dimostrare in toto la propria fede anticolonialista le
sinistre dovranno attendere le clamorose sconfitte dell’esercito italiano in Africa. In definitiva
la questione coloniale altro non era per la Sinistra che una delle tante situazioni di politica
estera che venivano denunciate come pretesti per distogliere l’attenzione dell’opinione
pubblica dai reali problemi del paese.79

Riguardo i limiti dell’azione socialista nella polemica anticoloniale citiamo


un’affermazione di Raffaele Colapietra80: ”I socialisti nel circoscritto settore coloniale e più
generalmente in quello della politica internazionale non erano riusciti ad evadere dagli schemi
consueti un po’ a tutte le sfumature dell’opposizione, né quindi a formulare propri spunti
caratteristici che valessero ad attirare il consenso della pubblica opinione.”81

Per quanto riguarda l’opposizione della destra, rappresentata dalle correnti cattoliche
che non avevano aderito alla soluzione del 20 settembre 187082 della questione romana, la
_______________________

77
Costa, Andrea. - Uomo politico italiano (Imola 1851 - ivi 1910), pioniere del movimento operaio italiano. Fu negli anni
giovanili seguace delle idee anarchiche di M. Bakunin e dopo il 1871 organizzò in Romagna sezioni della Internazionale.
Arrestato e condannato nel 1874, emigrò in Francia(1876) e in Svizzera, per sottrarsi a una nuova condanna. In Francia
cominciò a orientarsi verso il socialismo evoluzionistico. Al suo ritorno in Italia annunciò in una famosa lettera Agli amici di
Romagna la sua conversione dall'anarchia al socialismo, molto contribuendo alla diffusione del socialismo in Italia. Fondò
(1880) a Milano la Rivista internazionale del socialismo e nel 1881 a Imola il settimanale Avanti!. Deputato nel 1882 fu tra i
fondatori del Partito socialista; nel 1898 fu arrestato a Milano durante lo stato d'assedio; nel 1908 fu eletto vicepresidente
della Camera.

78 R. Rainero, L’anticolonialismo italiano da Assab ad Adua (1869-1896), Ediz. Di Comunità, Milano, 1971, Pag. 48.

79 Ibidem, pag. 42-49.

80Colapietra, Raffaele.– Storico (L’Aquila 1931), è stato docente di storia moderna presso l'Università di Salerno, dove ha
insegnato fino al 1990.Ha scritto numerosi saggi di storia sociale e sulle classi dirigenti del Mezzogiorno in età moderna e
contemporanea, occupandosi, in particolare, della Napoli vice reale, di Masaniello, della transumanza, nonché dei partiti
politici italiani fra XIX e XX secolo. La sua opera principale, tuttavia, consiste in un corposa biografia politica di Benedetto
Croce uscita, in due volumi, tra il 1969 e il 1971.All'Abruzzo, e alla sua città natale, ha dedicato diverse monografie, oltre a
numerosi articoli pubblicati in particolare sulla «Rivista Abruzzese». Grazie al documentario Draquila di Sabina Guzzanti, in
cui compare, ha avuto risalto la sua scelta, da unico aquilano, di volere continuare ad abitare nella propria casa gravemente
lesionata dal sisma del 2009, per il desiderio di non abbandonare né i propri gatti né i propri libri.

81 R. Rainero, L’anticolonialismo italiano da Assab ad Adua (1869-1896), Ediz. Di Comunità, Milano, 1971, Pag. 68.

82
Giornata della breccia di Porta Pia e della presa di Roma da parte delle truppe italiane.
30

situazione africana era sicuramente un problema marginale nell’attacco contro il governo


usurpatore, ma venne inquadrata come un primo gradino di un’escalation di interventi da
condurre comunque seguendo l’insegnamento papale della non partecipazione83 cattolica alla
politica dello stato italiano. Il principale perno sul quale ruotava l’opposizione della destra
storica era quello economico; i cattolici intransigenti lamentavano che l’avventura africana,
visto il bilancio statale non particolarmente roseo, un’enorme emigrazione ed una
trasformazione economica interna assolutamente prioritaria, sarebbe stata un lusso che l’Italia
non poteva permettersi. Inoltre la politica coloniale, fonte di sicure perdite, sarebbe pesata sul
popolo e più precisamente sulle spalle dei lavoratori i quali, sfruttati e delusi nelle aspettative,
sarebbero stati messi nella posizione di aderire ai movimenti socialisti ed aggravare così la
tensione politica già presente nel paese. Inoltre, per i cattolici, Assab non presentava nessuno
dei vantaggi che garantivano alle altre potenze delle vere colonie; anche da destra veniva
deprecato l’immobilismo governativo, definito “sempre uguale a sé stesso il governo italiano
segue in Assab la politica che segue in Italia, la politica di vivere alla giornata”. La questione
dei mancati vantaggi diventò la pietra su cui faceva leva la politica cattolica, perlomeno ai
tempi di Assab ed in seguito di Massaua ed Asmara, ma si dimostrò anche la premessa al
superamento futuro di una simile impostazione nel momento in cui si fosse scelta una colonia
altrettanto fruttifera di quelle delle altre potenze europee.84

Naturalmente nella polemica cattolica anticolonialista non poteva mancare la


questione religiosa dato che la natura della penetrazione italiana in Eritrea era politica e non
morale, laica e non religiosa, governativa e non missionaria. L’ideale si rifaceva ad una
vecchia tradizione di pacifismo e di penetrazione “singola”, tramite i missionari e gli
esploratori, e che aveva dato ai contatti tra l’Italia ed i paesi africani una dimensione civile
oltre che ribadirla vocazione alla conquista pacifica ed all’incivilimento disarmato.

Spostandoci ora verso coloro che vedevano, nella baia di Assab ed in una possibile
dilatazione dei possedimenti italiani in Africa, un’opportunità per il commercio nazionale,
troviamo alcuni personaggi dell’ambiente genovese (dal quale proveniva lo stesso Sapeto): il
geologo Arturo Issel affermava nel 1870 che la baia avrebbe potuto attrarre una parte del
commercio del caffè dello Yemen e che sarebbe stata in grado di competere con Massaua
(ovviamente non ancora occupata) come porto d’imbarco delle merci delle province
occidentali e meridionali dell’Abissinia oltre che rivelarsi fondamentale anche per il
commercio con l’entroterra. Anche il naturalista Odoardo Beccari segnalava Assab come una
zona favorevole dal punto di vista commerciale, come stazione navale e come deposito di
carbone per i rifornimenti delle navi in transito; rispondendo sul quotidiano “Il Fanfulla”85 alle

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83
Il famoso Non-expedit (non giova,non conviene), sanzionato il 14 settembre 1874 da Pio IX, vietava ai cattolici di
partecipare alla vita politica italiana. Venne implicitamente abolito da Benedetto XV nel 1919.
84
R. Rainero, L’anticolonialismo italiano da Assab ad Adua (1869-1896), Ediz. Di Comunità, Milano, 1971, Pag. 43-49.
85 Il Fanfulla, quotidiano fondato a Firenze nel 1870 da F. De Renzis, G.A. Cesana, G. Piacentini, e dal 1871 pubblicato a

Roma, dove, dopo l’avvento della Sinistra al potere, divenne giornale di opposizione (1876). Ebbe illustri collaboratori, da F.
Martini a C. Collodi, da P. Molmenti a G. D’Annunzio. Per iniziativa di Martini sorse più tardi (1879), come supplemento del
quotidiano, Il F. della Domenica, il primo settimanale letterario a carattere nazionale, dopo l’unità d’Italia. Subì dapprima
l’ascendente di G. Carducci, poi quello di D’Annunzio. A Martini succedettero nella direzione E. Nencioni, L. Capuana, E.
Cecchi. Sempre più declinando, e uscendo negli ultimi anni saltuariamente, Il F. durò fino al 1899, mentre la pubblicazione
del F. della domenica proseguì fino al 1919.
31

riflessioni negative che il generale Ezio de Vecchi86 aveva inviato al governo riguardo alla
baia (ragioni di idrografia, insalubrità del clima, mancanza d’acqua, sterilità del suolo e
pochissima sicurezza) si espresse in questi termini:

[…]

“L’impressione che ha provato il generale De Vecchi alla vista di Assab è quella che
proverebbe qualunque altro, che si recasse colà direttamente dall’Europa, e mi par quindi
naturalissimo che a lui sia parso d’aver trovato in Assab poco meno che un inferno. […]
Assab non può essere confrontato con alcun punto, non dico dell’Italia ma nemmeno
dell’Europa; ma solo con gli altri porti e città del mare in cui si trova […]. Si dice che a
stabilirsi ad Assab si oppongano:

1. Ragioni di idrografia: io naturalmente mi taccio su questo punto, professandomi su di


ciò assolutamente incompetente; faccio solo osservare che pure cotesto luogo fu
scelto, or sono quasi due anni, da un ammiraglio che mi pare impossibile non
dovesse accorgersi di coteste ragioni idrografiche se c’erano.
2. Insalubrità di clima: cotesta notizia mi ha tutta l’aria di uno spauracchio suggerito
da qualcuno interessato che la colonia italiana non si stabilisca ad Assab, giacché
non so che il generale De Vecchi abbia dovuto sperimentarne gli effetti malefici; dei
quali in verità, io ed i miei compagni non solo non ci siamo accorti, ma nemmeno
abbiamo sentito parlare.
3. La mancanza d’acqua: cotesta mancanza non è vera; sostengo anzi che Assab può
aver tant’acqua quanto qualunque altro posto meglio favorito della costa africana sul
Mar Rosso.
4. La sterilità del suolo: il suolo di Assab è sterile, ma sfido io a trovare un suolo fertile
sulle coste di quel mare. E poi Assab non deve essere né una colonia agricola, né un
luogo di bagni o di villeggiatura […].
5. Pochissima sicurezza per parte delle tribù finitime: se cotesto ostacolo viene fatto
risaltare per i viaggiatori che avessero intenzione di visitare quel paese, sarebbe
certamente da calcolarsi; ma parlar di poca sicurezza ad una potenza che pure si
sente volentieri chiamar di primo ordine, per lo meno vuol dire considerarsi troppo
poco. Noi in tutto il tempo che siamo rimasti ad Assab non abbiamo avuto nulla a
temere dagli indigeni.”87

[…]

___________________________

86
De Vecchi, Ezio. – Militare (Grosseto 1824 – Firenze 1897). Su proposta del ministero della Marina, il D. fu nominato
membro della commissione incaricata di studiare il problema di uno stabilimento coloniale all'estero. Infatti, dopo l'acquisto
della baia di Assab da parte della Compagnia Rubattino e le prime richieste di stampa e parlamentari per stabilirvi una
colonia italiana, il governo presieduto dal Lanza aveva ritenuto opportuno affidare ad un gruppo di esperti il giudizio sulla
possibilità di procedere all'occupazione di Assab ed alla formazione di un vero e proprio insediamento coloniale. Il D.
espresse un parere negativo all'istallazione di un qualsiasi tipo di colonia in un luogo che giudicava inidoneo per ragioni
idrografiche, climatiche e di sicurezza generale. Sconsigliò inoltre l'occupazione, anche per considerazioni diplomatiche, e
cioè per evitare prevedibili contrasti sia con l'Egitto sia con la Porta. Di conseguenza, il suo nome si trovò coinvolto nelle
discussioni e polemiche che seguirono alla mancata istallazione della colonia, da parte dei più decisi sostenitori di questa
prima espansione coloniale italiana, tra i quali furono soprattutto G. Sapeto e O. Beccari.

87 D. Natili, Un programma coloniale, Gangemi, Roma, 2008, Pag. 36-37.


32

A chiusura vale sottolineare come, nonostante l’ideologia contraria, furono uomini


della Sinistra storica come Benedetto Cairoli88 e Stanislao Mancini89 a dare una svolta alla
politica coloniale italiana in Africa poiché evidentemente erano cambiate le condizioni in
Italia, in Europa ma soprattutto in Africa.90

2.2. Dal definitivo acquisto della baia di Assab a Dogali.


Prima di procedere con il racconto dell’effettivo inizio della politica coloniale italiana,
giova fare alcune considerazioni sulla politica estera, quindi anche quella coloniale, del nostro
paese e sulle sue costanti storiche che hanno spesso limitato le vedute della classe politica e
hanno portato a compiere anche macroscopici errori, che peraltro vediamo ripetersi spesso
anche ai giorni nostri. Una prima importantissima costante è quella della collocazione
dell’Italia all’interno di una gerarchia di potenze e la confusione che spesso è stata fatta in
merito al rango di una nazione ed il ruolo della stessa, termini spesso usati in modo
intercambiabile ma in realtà cose diverse. A partire dal giorno successivo all’unità, il ruolo
dell’Italia è stato interpretato e misurato dal sistema politico interno in termini di posto da
occupare nella scala formale di potenza fra le nazioni europee (questo però è il rango) e non
nelle funzioni svolte e nel peso specifico in termini di potenza politica, economica, militare
che un attore esercita e quindi guadagna sul campo (ruolo). In Europa chi era all’interno della
fascia delle grandi potenze pareva essere accomunato agli altri in termini di rango, di diritti e
privilegi, ma in realtà una rigida gerarchia di ruoli collocava l’Italia all’ultimo posto nella
classifica dei potentati del vecchio continente. Stanislao Mancini, ministro degli Esteri tra il
1881 ed il 1885, ricorda in proposito che l’ambasciatore di Russia gli riferì, senza alcuna
volontà di offesa, che l’Italia, dopo l’unificazione, era stata invitata a partecipare alle riunioni
del gruppo di testa della politica internazionale per pura cortesia.
La seconda costante è quella che deriva dalla filosofia di sicurezza che il nostro paese
ha sempre ricercato; la politica estera italiana ha sempre anteposto a qualsiasi altra
argomentazione la protezione dei propri interessi vitali affidandosi spesso ad un alleato molto
più forte, chiunque esso fosse, sperando di assicurarsi una protezione globale che però non
compromettesse in maniera totale la propria autonomia regionale.
___________________________

88 Cairoli, Benedetto. - Patriota e uomo politico italiano (Pavia 1825 - Capodimonte, Napoli, 1889); figlio primogenito di
Carlo e di Adelaide Bono, ardente neoguelfo in gioventù, volontario nella guerra del 1848, aderì nel 1850 al partito
mazziniano e poco dopo fu costretto a rifugiarsi in Piemonte. Passato in Svizzera, si allontanò dalle posizioni mazziniane, e,
tornato a Genova, vi conobbe nel 1854 Garibaldi, al cui seguito combatté volontario nel 1859 e nell'impresa dei Mille. Eletto
deputato nel 1861, si schierò con la sinistra e, dopo Aspromonte, si riavvicinò al Mazzini sostenendo la liberazione del
Veneto (volontario nella guerra del 1866) e di Roma. Salita la sinistra al potere (1876), appoggiò alla Camera, poi combatté,
A. de Pretis, al quale successe come presidente del Consiglio il 28 marzo 1878, dando vita a un ministero orientato in senso
nettamente democratico. Ferito il 17 nov. 1878 dall'anarchico Passanante mentre accompagnava per Napoli il re Umberto I,
accusato di debolezza nella sua politica interna, il C. si dimise il 19 dic. 1878. Presidente del Consiglio per la seconda volta e
ministro degli Esteri dal 14 luglio 1879 al 29 maggio 1881, dovette far fronte a una situazione difficile (urto con l'Austria per
la questione irredentista e con la Francia per quella tunisina).

89 Mancini, Pasquale Stanislao. - Giurista e uomo di stato (Castel Baronia, Ariano, 1817 – Roma 1888). Membro del
parlamento di Napoli (1848), dopo la repressione borbonica si rifugiò a Torino, dove ebbe la prima cattedra di diritto
internazionale. Deputato (dal 1860) della sinistra, più volte ministro, fu artefice dell'adesione italiana alla Triplice Alleanza
(1882).

90 G.P. Calchi Novati, Fra Mediterraneo e Mar Rosso. Momenti di politica italiana in Africa attraverso il colonialismo,
Istituto italo-africano, Roma, 1992, Pag. 3.
33

Una terza costante storica è la dispersione degli obiettivi, cioè l’incapacità della
politica estera italiana di orientarsi su obiettivi precisi e coerenti dove concentrare le risorse
umane e materiali del paese. Invece, come abbiamo visto nel capitolo precedente in
riferimento alle colonie penali, ci si è spesso dispersi in molteplici quanto velleitarie o
impossibili aspirazioni geopolitiche, lontane sia dalle potenzialità del paese e sia dalla logica
della concentrazione degli sforzi.91 Una quarta costante, che però trova nel periodo in oggetto
la sua eccezione, è quella di subordinare la politica estera alla politica interna. Infatti nel
periodo unitario quasi mai un governo è caduto per problemi di politica estera salvo proprio il
governo Cairoli in seguito alla questione tunisina del 1881 ed altre rarissime eccezioni.
L’ultima costante storica è quella legata al metodo di conduzione della politica estera, che non
si è modificato durante i tre periodi dello stato unitario quello liberal-monarchico, quello
fascista e quello repubblicano. Questo metodo si ispira a due criteri permanenti, la reattività e
l’opportunismo politico. Per reattività si intende compiere azioni che sono sempre o quasi una
conseguenza delle iniziative di altri; l’opportunismo politico è una caratteristica che può
riguardare sia le grandi che le piccole potenze, ma esiste una differenza sostanziale tra
l’opportunismo finalizzato ad un disegno politico di grande respiro, atto al rafforzamento
dell’area di influenza e quello di consolidare posizioni rubacchiando ovunque sia possibile,
approfittando della distrazione di alleati ed avversari.92

Proprio seguendo la costante dell’opportunismo il governo italiano riprese ad


interessarsi ad Assab nella seconda metà degli anni ’70 dell’800 quando, in seguito alle
sconfitte militari egiziane di Guda-Guddi e di Gura contro l’imperatore etiope Yohannes IV, il
paese nordafricano era rimasto indebolito politicamente e si erano create delle condizioni
favorevoli per un intervento italiano. Infatti il 7 di settembre 1878 un gruppo di grossi
industriali milanesi (tra i quali citiamo Carlo Erba93, Francesco Gondrand94, Giovan Battista
Pirelli95) esposero sul quotidiano economico meneghino “Il Sole” e sui periodici
__________________________

91 C.M.
Santoro, La politica estera di una media potenza. L’Italia dall’Unità ad oggi., Il Mulino, Bologna, 1991, Pag.72-77.
92 Ibidem, Pag. 84-85.
93 Erba, Carlo. - Farmacista (Vigevano 1811 – Milano 1888), esercitò a Pavia e a Milano. Visse negli anni nei quali
l'erboristeria, sulla quale l'arte farmaceutica si era fino allora fondata, veniva rapidamente soppiantata dalla chimica.
Sull'esempio di quanto si faceva in Germania e Francia, si diede alla preparazione di diversi prodotti fra i quali il calomelano,
alcuni sali di ferro, sali di bismuto, di chinino, acido valerianico, la magnesia calcinata, la santonina, l'estratto di tamarindo,
ecc. Nel 1835 costruì un piccolo laboratorio, che per lo sviluppo ricevuto divenne ben presto insufficiente e fu sostituito da
uno più grande nel 1865. E. ebbe anche interessi culturali e sociali: finanziò la spedizione di P. Matteucci in Abissinia, aiutò
le ricerche di C. Lombroso sulla pellagra, fondò l'Istituzione elettrotecnica C. Erba.
94
Gondrand, Francesco. – Imprenditore (Pont-de-Beauvoisin, Savoia, 1840 – Milano 1926). Nel 1866 partì per Milano dove
fondò, insieme con i suoi fratelli, la ditta di trasporti Fratelli Gondrand; questa nuova attività imprenditoriale ebbe una rapida
espansione, integrandosi con le attività dell'impresa Girard e, già nei primi quindici anni di vita, la Gondrand istituiva sedici
dipendenze in cinque differenti paesi: sei in Italia, sei in Francia, due in Belgio, una in Inghilterra e una in Svizzera, alle quali
si aggiungevano le nuove sedi della Fratelli Girard, presente in altre otto località europee. L'espansione proseguì nel
quinquennio seguente con l'apertura di nuove succursali in Europa e anche in America, cosicché venne a definirsi una
complessa rete di servizi a livello continentale con teste di ponte Oltreoceano.
95 Pirelli, Giovan Battista. – (Varenna, 1848 – Milano, 1932). Nel 1866, insieme a molti compagni di studi e al suo professore

Giuseppe Colombo – futuro creatore della società Edison –, si arruolò nel 3° reggimento dei volontari garibaldini e partecipò
alla terza guerra di indipendenza, combattendo nella battaglia di Monte Suello (Brescia) del 3 luglio 1866, e, in seguito, alla
sfortunata impresa di Mentana (in provincia di Roma) il 3 novembre 1867. optando per quella di ingegneria industriale, dove
Il 10 settembre 1870 Pirelli conseguì il diploma di ingegnere industriale ottenendo i migliori voti della sua sezione. A Milano
costituì, nel gennaio 1872, la prima impresa italiana per la manifattura di oggetti in caucciù, la società in accomandita
semplice G.B. Pirelli & C., della quale venne nominato gerente e al cui capitale parteciparono personalità importanti della
vita economica milanese. A partire dalla seconda metà degli anni Settanta, Pirelli affiancò all’attività imprenditoriale
l’impegno nella vita politica milanese. Nel 1877 accettò di entrare nel Consiglio comunale, rimanendovi fino al 1889 e
occupandosi in particolare dei problemi del quartiere dove risiedeva e aveva sede la sua fabbrica. Nello stesso periodo, dal
1879 al 1886, e poi nel biennio 1889-90, fu anche consigliere della Camera di commercio.
34

“L’Esploratore” e “ Il Giornale delle Colonie” il loro pensiero riguardo all’importanza che


avrebbe avuto la formazione di una società di commercio ad Assab; inoltre gli stessi
imprenditori prepararono una spedizione che potesse confermare il valore economico di zone
come lo Scioa ed il Galla, cercando di ottenere il massimo sostegno. Il 3 ottobre 1878 si era
già fondato un comitato ed organizzata una spedizione guidata da Pellegrino Matteucci.96 La
spedizione partì nel novembre 1878 e visitò le regioni del Tigray, dell’Amhara e del Goggiam
(l’imperatore Yohannes non acconsentì alla visita allo Scioa ed al Kaffa) e la relazione di
Matteucci fu di questo tenore: l’esportazione di merci italiane sarebbe stata difficile in queste
zone ma l’importazione di materiali utili all’industria nazionale sarebbe stata fattibile.
Riteneva che il futuro di Assab sarebbe stato roseo con un flusso commerciale da tutte le
zone interne del territorio e non solo dallo Scioa. Entro la fine del 1879 la Società per
l’esplorazione commerciale in Africa ritenne conveniente l’insediamento nella baia eritrea e
Cairoli decise quindi di procedere con la colonizzazione di Assab.97

Nel 1879 il capitano di fregata Carlo de Amezaga98 venne incaricato di tornare nella
baia di Assab e di stendere un rapporto sulla sua importanza, cosa che l’ufficiale fece
consigliando di procedere con l’occupazione. Dopo che il capo del governo italiano Benedetto
Cairoli ebbe chiesto a Menabrea, in quel periodo ambasciatore italiano a Londra, quale
sarebbe stata la reazione delle autorità inglesi ad un occupazione ufficiale italiana di quel
territorio ed averne ricevuto parere negativo, il governo scelse di avvalersi ancora dei servizi
della compagnia Rubattino. De Amezaga arrivò ad Assab il 25 dicembre 1879 in compagnia
di G. Sapeto e di O. Beccari oltre ad altri dipendenti della società Rubattino e dopo avere
inviato una comunicazione alle altre potenze europee per evitare attriti99, il giorno 30
dicembre 1879 venne siglata una nuova convenzione per la cessione delle isole Darmackiè e
di altre due isole della baia, tra il sultano di Ratteita e G. Sapeto come rappresentante legale

________________________

96 Matteucci, Pellegrino. - Esploratore italiano (Ravenna 1850 – Londra 1881). Negli anni 1877-78 accompagnò R. Gessi nel

Sudan risalendo il Nilo Azzurro e tentando di penetrare nel paese dei Galla (Sudan e Gallas, 1879). Nel 1879 guidò una
spedizione, cui parteciparono G. Bianchi, G. Vigoni e altri, organizzata dalla Società di esplorazione commerciale e diretta
allo Scioa, ma, costretto a mutare programma per le condizioni politiche del paese, si portò a Debra Tabor presso la corte del
negus Giovanni e di là nel Goggiam (In Abissinia, 1880). Intraprese l'anno seguente, con A. M. Massari, un altro ardito
viaggio attraverso l'Africa, dalle coste del Mar Rosso a Kharṭūm e alle foci del Niger toccando il Kordofan, il Dār Fūr,
l'Uadai, il Bornu, Kano e discendendo quindi il corso del Niger stesso (1881). Rientrato a Londra, trovò poco dopo la morte
per le febbri contratte durante il difficile viaggio.

97
Y. Mesghenna, Italian Colonialism: A Case of Study of Eritrea 1869-1934, University of Lund, Lund, 1988, Pag.76-77.

98
De Amezaga, Carlo. – Militare (Genova 1835 – Castelletto d’Orba, Alessandria 1899). Arruolatosi volontario come
marinaio di quarta classe nel 1848, entrò in servizio effettivo nella marina sarda il 10 febbraio 1849. Ebbe il comando del
trasporto "Europa" e degli avvisi "Messaggero" (per una crociera nel Levante), "Rapido" (con l'incarico di recarsi nel Mar
Rosso e nel golfo di Aden, fra il marzo ed il luglio del 1879, per accompagnare a Zeila Sebastiano Martini, il Giulietti e
l'Antonelli, e valutate le possibilità di installare in quelle zone una stazione marittimo-commerciale), ed "Esploratore":
quest'ultima spedizione, diretta nuovamente nel Mar Rosso ed alla quale presero parte pure Odoardo Beccari, il marchese
Giacomo Doria e Giuseppe Sapeto, aveva lo scopo di riaffermare e definire il possesso di Assab. In mancanza di autorità
consolari, fu lo stesso D. a controfirmare, il 15 maggio 1880, gli atti stipulati dal Sapeto per rinnovare il contratto del 1869.
Al ritorno il D. scrisse una relazione, pubblicata sul Bollettino della Società geografica italiana, nella quale, oltre a
ricostruire le vicende della spedizione, con particolare riguardo ai contatti ed alle trattative politiche, fece una dettagliata
rassegna delle ricerche e dei rilevamenti compiuti, concludendo con una serie di riflessioni, apprezzamenti, giudizi e proposte
relativi allo sfruttamento della baia di Assab da un punto di vista commerciale, dai quali emerge in maniera chiara
l'atteggiamento decisamente filocolonialista del D., desumibile anche dagli articoli che sullo stesso argomento pubblicò nel
corso di quegli anni sul Fanfulla e sulla Nazione.

99 V. Documento 4.
35

della società.100

Tra il 15 marzo101 ed il 15 maggio102 1880 vennero stipulati altri due contratti ed il 5


novembre, con un’altra cessione da parte del Sultano Abdallah Sciahimi103, il territorio
acquistato da Sapeto venne ad assumere uno sviluppo costiero di circa 60 chilometri ed una
superficie di 700 km2, possedimento decisamente più grande di quello acquistato nel 1870.104

Nuovamente l’Egitto, spalleggiato dalla Gran Bretagna, non tardò ad inviare note di
protesta al consolato italiano ed a seguito di una fitta corrispondenza tra Roma e Londra,
Cairoli decise di far pervenire a de Amezaga istruzioni atte ad evitare qualsiasi azione che
potesse implicare un esercizio di sovranità:

[…]

“Avverto inoltre in seguito scambio confidenziali comunicazioni con Inghilterra


essere assolutamente indispensabile Ella si astenga scrupolosamente da tutto ciò che possa
avere apparenza esercizio di sovranità bastanti atti anteriori a tutela del nostro diritto ed
essendo ora importantissimo evitare nel fatto quanto possa suscitare premature pericolose
complicazioni. E’ perciò strettamente necessario che quanto facciamo in questo momento non
oltrepassi i limiti dello stabilimento apparentemente inaugurato dalla Compagnia
Rubattino.”105

[…]

La comunicazione venne ricevuta da de Amezaga il 1 marzo 1880; peccato che il 16 di


febbraio, in seguito ad un furto di bestiame compiuto da alcuni indigeni, de Amezaga avesse
affisso un’ordinanza che può essere ritenuta, a tutti gli effetti, il primo atto ufficiale del
colonialismo italiano, anche se fu subito abrogata all’arrivo della comunicazione
governativa.106

Nel 1880 vennero create le prime infrastrutture di Assab, venne tessuta una rete di
relazioni diplomatiche con le varie regioni confinanti e venne aperta la via Assab-Aussa-Scioa
risolvendo i problemi della sua sicurezza.107

_________________________
100 V. Documento 5.

101 V. Documento 6.

102
V. Documento 7.

103 V. Documento 8.

104 T. Scovazzi, Assab, Massaua, Uccialli, Adua. Gli strumenti giuridici del primo colonialismo italiano, Giappicchelli,
Torino, 1996, Pag. 15-16.

105 Ibidem, Pag. 29-30.

106 V. Documento 9.

107 Y. Mesghenna, Italian Colonialism: A Case of Study of Eritrea 1869-1934, University of Lund, Lund, 1988, Pag.86.
36

Dobbiamo ricordare che fino a questo momento, più precisamente fino al 1882, Assab
rimarrà un possedimento teoricamente privato (Rubattino), e quindi andremo ora ad
analizzare i motivi che spinsero il governo italiano ad uscire da quel limbo che l’aveva fino ad
allora contraddistinto ed intervenire direttamente nelle questioni coloniali.

Esaminando gli eventi in modo strettamente cronologico, dobbiamo rilevare che la


prima spinta che la diplomazia italiana ricevette verso una riconsiderazione dei territori del
corno d’Africa venne data dal cosiddetto “schiaffo di Tunisi”108 del 1881, avvenimento molto
sentito in patria e che portò alla caduta del governo Cairoli. La Tunisia era considerata dalla
politica italiana il naturale sbocco per la risoluzione dei problemi demografici che assillavano
il paese e grazie alla forte presenza italiana sul posto109 il ministero degli esteri italiano era
convinto di riuscire a far passare, prima o dopo, un effettivo protettorato italiano sul paese
nordafricano. Il colpo di mano francese del 12 maggio 1881 prese completamente alla
sprovvista il governo italiano ed in seguito alle feroci polemiche ed alle proteste che si
svilupparono, il presidente del Consiglio Cairoli diede le dimissioni, caso rarissimo, come
abbiamo visto all’inizio di questo capitolo, per questioni di politica estera.

A questo punto dobbiamo osservare che da questo momento in poi entrerà in campo
nel dibattito della politica coloniale e non solo, un nuovo fattore il quale, fino ad allora, non si
era certo potuto considerare chiave nelle mosse politiche italiane e cioè quello degli organi di
stampa. Nell’ultimo ventennio dell’800, nonostante l’analfabetismo nel paese raggiungesse
ancora livelli alquanto elevati110 ma comunque in calo, l’importanza sociale dei giornali
cominciò a crescere permettendo a fasce marginali della popolazione, fino a quel momento
per nulla coinvolte nella politica italiana, di poter esprimere il proprio parere su questioni di
stretta attualità. All’alba del 1881 la questione coloniale e quella della ricerca di territori
d’oltremare era rimasta confinata a ristretti circoli di intellettuali (come la Società Geografica
Italiana) e la stampa non aveva minimamente enfatizzato tutta la questione della baia di
Assab. Anzi la maggior parte dei giornali, tranne quelli mazziniani assolutamente avversi al
colonialismo, ritenevano che, dato che il governo aveva stabilito ad Assab una stazione
commerciale senza utilizzare frode o violenza, si dovesse pensare di trarne quei benefici che
ci si era prefissi senza discutere se fosse un bene od un male.111

________________________________

108Con il trattato del Bardo, firmato il 12 maggio 1881 a Casr-Said, detto così dal nome del castello dove fu stretto tra il
Bey di Tunisi e il generale Bréat, la Francia riconosceva il potere del Bey e gli prometteva il suo appoggio, dietro compenso
di controllo e di rappresentanza diplomatica che la Francia si assumeva della Tunisia all'estero; a questo fine un console
francese era intermediario tra il suo governo e le autorità tunisine. Praticamente, la Francia istituiva un protettorato, con il
consenso della Gran Bretagna, che assomigliava molto ad una colonia, lasciando l’Italia a bocca asciutta ed obbligata a
rivolgersi verso altri lidi.

109
Gli italiani emigrati presenti in Tunisia nel 1881 erano circa 11.000, la comunità straniera di gran lunga più folta nel paese
nordafricano.

110La percentuale nazionale di analfabetismo era del 67,2% nel 1881, ridotta al 56% nel 1901. Le cifre non sono omogenee
per tutto il paese ma, come purtroppo usuale, la percentuale nel meridione italiano era decisamente più alta rispetto al nord.

111
G. Pescosolido, Alle origini del colonialismo italiano: la stampa italiana e la politica coloniale dell’Italia dal rifiuto di
intervento in Egitto alla vigilia dell’occupazione di Massaua (1882-1884), Fonti e problemi della politica coloniale italiana,
Atti del convegno Taormina-Messina,23-29 ottobre 1989, Vol. II, Ministero per i beni cult. e amb., Roma, 1996, Pag. 567-69.
37

La rivolta di Arabi Pascia112 in Egitto, ed il rifiuto italiano di intervenire militarmente


al fianco della Gran Bretagna fu un altro di quegli episodi che in qualche modo spinsero il
governo presieduto da Agostino Depretis113 a schiacciare il piede sull’acceleratore
nell’impegno italiano in Africa Orientale. Infatti, dopo che la stampa nazionale aveva
inizialmente sostenuto la politica governativa di non intervento ed aver deprecato l’Inghilterra
per l’eccessiva ingerenza nelle questioni interne egiziane114, le pubblicazioni legate ai circoli
filo colonialisti cominciarono ad accusare Mancini di immobilismo e di non aver saputo
difendere gli interessi italiani nell’area. In realtà, la politica estera tricolore in quegli anni fu
abbastanza coerente giacché, oltre alla necessità di mantenere le distanze dalla Francia,
nazione oltretutto direttamente concorrente al nascente ideale espansionistico italiano, dovette
anche sottostare alle obbligazioni derivanti dalla firma del trattato con Austria e Germania115,
la cosiddetta Triplice Alleanza.116

Ad ogni buon conto, con la convenzione del 10 marzo 1882117 la proprietà della baia
di Assab veniva ceduta dalla società Rubattino allo Stato italiano e fu così possibile dare al
territorio un più idoneo assetto giuridico che passava dall’essere un «Possedimento italiano di
proprietà della società Rubattino» a «colonia italiana». Naturalmente non fu estraneo alla
definizione di tale diritto di sovranità il riconoscimento del governo britannico, al quale in
cambio l’Italia s’impegnò a non farne né una base navale né un sito di commercio d’armi;
__________________________

112
G.P. Calchi Novati, Fra Mediterraneo e Mar Rosso. Momenti di politica italiana in Africa attraverso il colonialismo,
Istituto italo-africano, Roma, 1992, pag. 23-43. Nel febbraio del 1881 alcuni colonnelli dell’esercito egiziano con a capo
Arabi Bey (in seguito definito Pascià) si ribellarono una prima volta al viceré Tewfik chiedendo di licenziare tutti i circassi
dell’armata. In realtà la protesta aveva lo scopo di ottenere una costituzione e di limitare il sistema di controllo che Francia e
Gran Bretagna esercitavano sulla sovranità egiziana. Non avendo ottenuto nessun risultato, il 9 settembre 1881 si verificò una
nuova rivolta con la richiesta di un nuovo governo, una costituzione e l’incremento delle forze armate da 11000 a 18000
effettivi. Dopo alterne vicende sia politiche che militari, la decisione di Londra di bombardare Alessandria con la flotta
presente nel Mediterraneo (11 luglio 1882) e l’intervento della Turchia a sostegno della posizione britannica, portarono Arabi
alla sconfitta e trasformarono l’Egitto, di fatto se non di nome, in un protettorato inglese che molto assomigliava ad una
colonia.

113
Deprètis, Agostino. - Uomo politico (Mezzana Corti, Pavia, 1813 – Stradella 1887). Mazziniano in gioventù, fu
ministro, capo della Sinistra parlamentare, capo del Governo. Al suo nome è legata la prima fase della politica trasformistica
che nell'annullamento delle distinzioni di destra e sinistra assicurò al D. la maggioranza parlamentare. Col suo governo
s'iniziò anche l'espansione coloniale in Africa.

114Ibidem. Mancini era un fermo sostenitore del principio di nazionalità ed inoltre in Italia si pensava che il sostegno al
governo egiziano avrebbe garantito non solo i reali interessi della comunità italiana presente in Egitto (circa 14000 persone,
seconda per numero solo a quella greca), ma che sarebbe stato utile anche per le prossime mosse in Africa Orientale.

115 Triplice Alleanza. - Patto difensivo segreto siglato tra Germania, Austria e Italia (20 maggio 1882), promosso dal
cancelliere tedesco O. von Bismarck per isolare la Francia. Prevedeva l’aiuto reciproco tra Italia e Germania in caso di
aggressione francese o se uno dei tre contraenti fosse stato attaccato da due potenze e neutralità nel caso che uno dei firmatari
fosse indotto a dichiarare guerra. L’Italia, preoccupata per il proprio isolamento politico e per le possibili complicazioni della
questione romana che coinvolgeva la Francia, entrò nel sistema degli imperi centrali nonostante le ostilità irredentistiche nei
confronti dell’Austria. Il trattato, della durata di 5 anni, era integrato dalla dichiarazione, richiesta dall’Italia, che l’alleanza
non potesse essere rivolta contro la Gran Bretagna.

116
G.P. Calchi Novati, Fra Mediterraneo e Mar Rosso. Momenti di politica italiana in Africa attraverso il colonialismo,
Istituto italo-africano, Roma, 1992, Pag. 23-25.

117
V. Documento 10.
38

peraltro secondo Mancini il territorio di Assab non rappresentava che interessi meramente
economici.

La prima preoccupazione, una volta acquisito il territorio, fu quella di presentare un


progetto di legge alla Camera che definisse la particolare condizione giuridica della colonia;
venne quindi definito un territorio “non geograficamente italiano ma politicamente italiano”,
“non parte integrante del Regno d’Italia, ma parte del territorio italiano costituito da
condizioni legislative, giudiziarie e amministrative affatto speciali, e convenienti al
reggimento di una colonia”. Il progetto confermava inoltre al ministero degli Esteri la
competenza della politica coloniale stabilendo inoltre un principio di diritto positivo che
avrebbe trovato riscontro in tutte le successive leggi coloniali: dal punto di vista
amministrativo, legislativo, giudiziario ed economico sarebbe stato l’esecutivo, cioè il
governo a provvedere con decreti reali e ministeriali a scapito della legislazione parlamentare.
Inoltre il disegno di legge definiva anche la condizione giuridica degli abitanti della colonia
riconoscendo due soggetti di diritti con diversi stati giuridici e capacità politica: i cittadini
italiani conservavano le leggi del Regno ed i codici italiani mentre gli indigeni avrebbero
usufruito di un diritto consuetudinario, opportunamente modificato se in contrasto con quello
nazionale.118 Ecco come Mancini commentò alla camera il disegno di legge:

[…]

“che nulla è più pericoloso quanto l’adoperare nei Codici o negli atti legislativi certe
parole che non hanno uniformità di significato; tali sono le parole sudditanza e cittadinanza
[…] Non è però in mente del Governo, e credo che non sarà nel concetto della Camera, di
voler fare degli indigeni abitanti di Assab altra cosa che dei veri cittadini italiani, anziché
una classe di paria, inferiore e soggetta. Ma non per questo ne segue necessariamente che
essi debbono avere immediatamente l’esercizio di tutti i diritti politici. Questa conseguenza a
ragione si nega. Una legge può conferire a questi nuovi cittadini, per le speciali condizioni di
società e di civiltà in cui si trovano, una determinata misura di diritti politici per qualche
tempo: senza di ciò, e se dovessero ritenersi stranieri, o carenti di diritti, diverrebbe inutile la
legge che vi sta innanzi”.119

[…]

La legge per la colonia di Assab del 5 luglio 1882 n. 857120 venne approvata alla
Camera con 147 voti favorevoli e 74 contrari ed al Senato con 39 favorevoli e 32 contrari: era
ufficialmente nata la prima colonia italiana in Africa.

Nonostante tutto ciò, le maggiori mire italiane in materia coloniale restavano legate al
Mediterraneo e più precisamente alla costa libica, da sempre vista come “quarta sponda” dai
__________________________

118 I. Rosoni, La Colonia Eritrea – La prima amministrazione coloniale italiana (1880-1912), eum, Macerata, 2006, Pag.

114-117.
119
Ibidem, Pag. 117.
120 V. Documento 11.
39

vari governi succedutisi, e considerata la soluzione migliore per risolvere una volta per tutte i
perenni problemi di sovrappopolamento del mezzogiorno italiano. Quando nel 1883 la
Francia compì alcune mosse verso il Marocco, la diplomazia italiana ebbe la speranza di poter
effettuare un’azione su Tripoli, dato che, pensava, l’Inghilterra non avrebbe mai permesso che
l’equilibrio mediterraneo potesse venire alterato in maniera così rilevante in favore di Parigi.
Il rapido dissolvimento dell’azione francese obbligò l’Italia a bloccare i preparativi per una
spedizione in nord africa, lasciando ancora una volta la sensazione amara di un’occasione
mancata e costringendo il paese a guardare nuovamente al Corno d’Africa come valvola di
sfogo per le ambizioni tricolori.121

Inoltre, il governo italiano si rendeva perfettamente conto che il tornare sulla questione
tunisina a livello europeo non avrebbe fatto altro che creare nuove complicazioni
diplomatiche, ma sentiva anche il polso della nazione che non avrebbe accettato passivamente
qualsiasi ulteriore alterazione a suo danno dello status quo mediterraneo. Lo stesso cancelliere
tedesco Bismarck122, che pure aveva incoraggiato la Francia nelle sue azioni nord africane,
riteneva che l’Italia avesse a Tripoli degli interessi che i francesi non avrebbero dovuto
toccare. Così si rivolgeva, il 13 maggio 1883, all’ambasciatore francese a Londra
Waddington123: "Pour Tunis je regarde la question comme résolue; au fond les italiens en ont
pris leur parti ; toute l’Europe reconnaît aujourd’hui que celui qui est maître de l’Algérie
devait nécessairement étendre sa domination sur la Tunisie. Mais vous n’avez aucun intérêt à

_____________________________

121 N. Labanca, Oltremare. Storia dell’espansione coloniale italiana, Il Mulino, Bologna, 2002, Pag. 52.

122
Bismarck-Schönhausen, Ottone principe di. - Statista (Schönhausen 1815 - Friedrichsruh 1898). Fin dal 1847,
segnalandosi alla "dieta unita" di Berlino per la vigorosa politica antiliberale, si distinse come capo della destra junkerista, il
cui programma di rivendicazione dei privilegi nobiliari e delle corporazioni egli sostenne impetuosamente nella Camera di
revisione del 1849. Ambasciatore a Pietroburgo (1859), riuscì a neutralizzare il tentativo austriaco di trascinare la Russia
nella guerra contro il regno di Sardegna e l'impero francese. Presidente del consiglio dei ministri nel 1862, di fronte
all'opposizione della Camera alla legge sulle spese militari, B. - con un gesto incostituzionale - accoglieva e applicava la
legge, già approvata dalla Camera dei signori, nonostante l'opposizione del parlamento. Iniziava allora la sua azione intesa a
porre la Prussia alla testa del moto per l'unità tedesca. Poneva quindi le premesse della guerra del 1866 contro l'Austria
(incontro di Biarritz del 30 sett. 1865 con Napoleone III, che garantì la propria neutralità), dichiarata di fatto con l'alleanza
italo-prussiana dell'8 aprile di quell'anno. La vittoriosa battaglia di Sadowa (3 luglio 1866), seguita nel mese successivo dalla
pace di Praga, assicurò alla Prussia il predominio in Germania e segnò la fine della Confederazione tedesca con la
eliminazione dell'impero asburgico da una sfera d'azione politica tradizionale e plurisecolare. B. riuscì a rendere inevitabile
(dispaccio di Ems, 13 luglio 1870) la guerra contro la Francia (guerra che realizzò l'unità spirituale e politica della Germania
sotto la guida della Prussia) e, vinta la diffidenza degli stati meridionali, ottenne il conferimento a Guglielmo I della corona
del nuovo impero germanico proclamato a Versailles nel gennaio 1871. Nel giugno 1871 il sovrano creava B. principe. La
stipulazione della Triplice Alleanza, nel 1882, fra Germania, Italia e Austria-Ungheria, completava questo sistema, che
lasciava la Francia isolata in Europa. Ma la crisi bulgara del 1886, l'urto presto conseguitone fra Russia e Austria,
minacciarono alla base tutto il sistema. B. rimediò, sia contraendo con la Russia il trattato di "controassicurazione" (1887),
sia dando maggior valore alla Triplice Alleanza e, con ciò, rafforzando in essa la posizione dell'Italia (primo rinnovo della
Triplice, 1887). In campo internazionale, dunque, grazie al B., la Germania riuscì in quegli anni ad affermare il proprio
predominio politico e diplomatico in Europa (il B. si tenne sempre estraneo al settore della politica coloniale, se si eccettua
l'intervento africano in funzione anti inglese del 1884) con una politica costantemente rivolta al mantenimento della pace.

123 Waddington, William-Henry. - Uomo politico francese (Saint-Rémy-sur-Avre, Eure-et-Loire, 1826 – Parigi 1894) di
origine inglese; studiò a Cambridge; naturalizzato francese, s'interessò di epigrafia e numismatica e compì viaggi in Asia
Minore. Fu tra i fondatori della Scuola pratica delle Hautes-Études (1868). Deputato repubblicano dal 1870, fu ministro
dell'Istruzione nel gabinetto Thiers del 18-24 maggio 1875. Senatore dell'Aisne (1876), ministro dell'Istruzione nel gabinetto
Dufaure e ancora nel gabinetto Jules-Simon, fu poi ministro degli Esteri col nuovo gabinetto Dufaure (1877-79). Dopo la
caduta di Mac-Mahon (1879) formò un ministero, tenendo per sé gli Esteri (4 febbr. - 8 dic. 1879). Dal 1883 al 1893 fu
ambasciatore a Londra. Socio straniero dei Lincei (1883).
40

aller plus loin".124

D’altronde, che l’imperialismo fosse diventato un sistema vero e proprio venne


dimostrato pochi mesi dopo con la seconda Conferenza di Berlino (15 novembre 1884 – 26
febbraio 1885); dopo essere stati preceduti da alcune delegazioni scientifiche, i rappresentanti
diplomatici europei si riunirono nella capitale tedesca per definire le aree di influenza ed i
protettorati nei vari territori extra europei. Era ormai terminata quella fase di passaggio fra
l’età degli imperi informali e la corsa alla spartizione del mondo, nel nostro caso particolare
allo scramble for Africa125, nella quale si era gettata anche la Germania a partire dall’anno
precedente. Anche in quest’occasione l’Italia rischiò di essere lasciata fuori dalla conferenza,
ma, grazie all’intervento di Londra, poté partecipare e quindi usufruire di alcune importanti
aperture britanniche per l’eventuale insediamento a Beilul126 ed a Massaua.127

Le mosse italiane nel Corno d’Africa, che in questo periodo seguono spesso le
indicazioni britanniche, sono facilmente esplicabili attraverso l’indole del Ministro degli
esteri Mancini, il quale riflette gli ideali dei primi viaggiatori (Piaggia); autore il 22 gennaio
1851 della celebre teoria del Principio delle nazionalità128 (passerà il resto della sua vita a
cercare di evidenziare come il suo principio fosse compatibile con la sua politica coloniale),
Mancini riteneva che la colonizzazione dovesse essere intesa come opera di progresso, con il
massimo rispetto per le differenze religiose, i costumi e le tradizioni famigliari dei popoli non
ancora aperti alla civiltà. Pensava anche, come Negri, che tra la colonizzazione territoriale e
quella commerciale sarebbe sicuramente stata preferibile la seconda, ed era assolutamente
contrario ad un uso della forza. Riteneva inoltre che, dal punto di vista commerciale, il
governo dovesse semplicemente preparare il terreno e creare i mezzi necessari all’avviamento
delle attività private e non intervenire direttamente nelle questioni economiche. Dichiarava
infatti alla Camera il 27 gennaio 1885: “Il Governo non si fa speculatore, non può divenire
commerciante e industriale”. E’ quindi nei limiti di queste premesse che Mancini si propone
di agire in Africa nonostante le aspirazioni coloniali in Italia siano ancora, sul finire del 1884,
vaghe, confuse e contraddittorie.129

Dopo aver preparato diplomaticamente l’azione con l’appoggio della Gran Bretagna
(accordi informali prevedevano che quando il corpo italiano si fosse presentato a Massaua la
guarnigione egiziana non si sarebbe opposta ed il vice-governatore egiziano, pur protestando
________________________________
124
C. Zaghi, P. S. Mancini, l’Africa e il problema del Mediterraneo (1884-1885), Casini, Roma, 1955, Pag. 16.
125
Letteralmente “Corsa all’Africa”.
126
Accordo stipulato il 16 novembre 1884, occupazione effettuata il 25 gennaio 1885.
127 N. Labanca, Oltremare. Storia dell’espansione coloniale italiana, Il Mulino, Bologna, 2002, Pag. 52-53.
128 T. Scovazzi, Assab, Massaua, Uccialli, Adua. Gli strumenti giuridici del primo colonialismo italiano, Giappicchelli,
Torino, 1996, Pag. 77-83. Il “principio delle nazionalità” era stato espresso all’indomani dei rovesci del 1849 ed aveva un
duplice obiettivo: il primo di ridare impulso all’idea di unità del paese ed il secondo di dare alla medesima idea un
fondamento logico e giuridico. Sosteneva che la nazione fosse figlia della natura e che fosse costituita da alcune proprietà e
fatti costanti: le principali erano la regione, la razza, i costumi, la lingua, la storia, le leggi e le religioni. Secondo Mancini
nella genesi dei diritti internazionali è la nazione che rappresenta l’unità elementare e non lo stato; alla nazione spetta il
diritto di diventare uno stato, dandosi un governo proprio. Il principio di nazionalità costituì il presupposto politico e
giuridico su cui si fondò il risorgimento italiano.
129 C. Zaghi, P. S. Mancini, l’Africa e il problema del Mediterraneo (1884-1885), Casini, Roma, 1955, Pag. 12-14.
41

formalmente contro l’occupazione, avrebbe accolto amichevolmente le truppe italiane), il 17


gennaio 1885 partì da Napoli un corpo di spedizione che comprendeva anche quattro
compagnie di bersaglieri, una di artiglieria ed i servizi, comandato dal colonnello Tancredi
Saletta130, che arrivò nel porto di Massaua il 5 febbraio 1885. In seguito alle proteste della
Turchia, dalla quale almeno formalmente l’Egitto ancora dipendeva, la guarnigione egiziana
presente a Massaua non evacuò la città ed assistemmo da quella data fino al 2 dicembre 1885
al cosiddetto Condominio provvisorio italo-egiziano, durante il quale entrambe le bandiere dei
due paesi furono issate insieme ed i due stati coesistettero nella gestione dei pubblici poteri.
Prima di proseguire cronologicamente con il nostro studio, ci sembra fondamentale
soffermarci un momento su un argomento che acquisterà nel tempo sempre più importanza
nella storia del colonialismo italiano sia in positivo che in negativo. Abbiamo
precedentemente accennato alla rilevanza che, dalla seconda metà dell’800, comincia ad avere
la stampa anche in Italia, sia dal punto di vista puramente informativo che da quello politico-
propagandistico. Fino agli avvenimenti egiziani, la rivolta di Arabi Pascià, i giornali nazionali
si erano affidati a corrispondenti d’occasione come esploratori o diplomatici coloniali,
personaggi dai quali non ci si poteva aspettare che notizie parziali, infondate o comunque
interessate. Le testate più importanti sentirono quindi la necessità di sostituire queste
tradizionali fonti d’informazione con dei propri diretti rappresentanti. Emerse così per la
prima volta la figura dell’inviato speciale, nata da pochi anni, che verrà spedito direttamente
sul posto per raccontare, al netto di interessi particolari, le vicende africane.131
Questi primi cronisti non avevano ancora connotati precisi e non era infrequente che le
posizioni ideologiche e politiche dell’inviato non collimassero con quelle del giornale che lo
aveva assunto: ad esempio il giornale democratico “Secolo” inviò nel 1881 ad Assab Alberto
Pogliani, viaggiatore ed uno dei pochi milanesi a credere nell’avventura coloniale.
Naturalmente questi primi “professionisti” venivano presentati al pubblico in modo
estremamente enfatico, esaltandone il coraggio ed il senso del dovere nel rimanere in zone di
pericolo; la figura dell’inviato speciale comincia quindi a configurarsi nella forma di
giornalista-eroe, il quale sfida ogni insidia in nome della verità. Abbiamo ricordato in
precedenza che non sempre le ideologie della testata che aveva inviato il cronista veniva
confermata dai suoi articoli: Achille Bizzoni132, inviato dal giornale “Secolo” ad Alessandria
per difendere gli egiziani oppressi e perorare la causa anticolonialista ed antibritannica, dopo
essere stato testimone delle rovine e dei massacri compiuti dai rivoltosi, si lanciò in
un’accorata difesa degli inglesi mettendo in evidenza l’imbarazzante dissidenza tra la linea
politica della testata e quella dell’inviato.133
_________________________

130Saletta, Tancredi. - Generale (Torino 1843 – Roma 1909). Dopo aver partecipato all'assedio di Gaeta (1860-61) e alla
campagna del 1866, comandò il corpo di spedizione che occupò Massaua (1885). Tornato in patria (1888), nel 1896 fu
nominato capo di Stato Maggiore dell'esercito e nel 1900 senatore.

131
M. Pellegrino, I primi inviati speciali italiani in Africa (1881-1890), Nuova rivista storica, Vol. LXXIV (1990), Soc. Ed.
Dante Alighieri, Roma, Pag. 579.

132Bizzoni, Achille. - Giornalista e scrittore italiano (Pavia 1841 – Milano 1903). Direttore di giornali di orientamento
democratico e anticlericale, come il Gazzettino rosa edito a Milano dal 1867 al 1873, fu sostenitore di ideali di stampo
repubblicano e internazionalista. È autore di romanzi di argomento storico e psicologico, nei quali spesso narra esperienze
autobiografiche (Impressioni di un volontario all'esercito deiVosgi, 1874).

133
M. Pellegrino, op. cit. Pag. 582-83.
42

Tutto questo mette in evidenza un sistema di informazione, soprattutto per quanto


riguarda la politica internazionale, non ancora collaudato. Negli anni successivi, infatti,
verranno effettuate alcune correzioni, come quella di smettere di pubblicare articoli del
giornalista ancora in viaggio (che già descriveva realtà a lui ancora sconosciute), ma solo
quelli provenienti dai luoghi di destino.

Quando nel gennaio 1885 il contingente italiano diretto a Massaua lascia Genova, il
“Secolo” è il primo quotidiano italiano a mandare in Africa un inviato, Giacomo Gobbi-
Belcredi134, che segue la spedizione anche per la “Tribuna” di Roma. Si imbarca a Napoli su
un battello inglese per il Cairo e dopo due giorni è a Suez ed all’arrivo dell’ammiraglia
italiana tenta invano di imbarcarsi; nonostante tutti i suoi tentativi il comandante della nave
non vuole prendere a bordo giornalisti, mandando Belcredi su tutte le furie. Commenta che, a
confronto con le civili autorità inglesi, quelle italiane hanno una “medievale” diffidenza per la
stampa, che lo trattano come una spia e, se non lo fucilano, cercano di mettergli i più possibili
bastoni tra le ruote. Dopo essere stato costretto ad imbarcarsi su un altro battello britannico,
dopo aver toccato alcune colonie inglesi, arriva finalmente ad Assab ed a Massaua. La
cronaca dei primi giorni in città è deprimente, ed immediatamente le sue prime
corrispondenze rivelano come la spedizione sia stata organizzata con leggerezza e
superficialità.135 Difenderà sempre con forza la causa anticoloniale ed il coraggio con cui
sfiderà le autorità militari faranno di lui un personaggio estremamente inviso al Comando,
stimato dai colleghi ed amato dai lettori.136

Giulio del Valle è, al contrario, un convinto filo-colonialista, socio fondatore della


Società Africana di Napoli, africanista e viaggiatore, l’alter ego di Belcredi per quanto
riguarda l’ideologia che lo spinge a sostenere l’impresa africana dell’Italia. Scriverà per il
quotidiano fiorentino “L’Elettrico”, “Il Popolo Romano”, “La Nazione” ed il giornale
napoletano “Piccolo”. Paradossalmente, Del Valle sarà il primo redattore italiano espulso
dall’Africa, seguito poco dopo dallo stesso Belcredi. Tornato più volte in Africa, sarà più tardi
l’unico giornalista, tra i pochissimi presenti in Eritrea, ad essere coinvolto nella battaglia di
Adua: si unirà volontario alla brigata bersaglieri “Arimondi” e morirà sul campo. Le
espulsioni degli inviati erano essenzialmente di due tipi: quelle che colpivano i redattori
africanisti per ciò che facevano e quelli anticolonialisti per ciò che dicevano, poiché in
entrambi i casi mettevano in serio imbarazzo le autorità militari.137

___________________________

134
Gobbi-Belcredi, Giacomo. – Giornalista (Genova 1860 – 1919), laureato in legge, Belcredi-Gobbi (il cognome viene a
volte invertito, o si limita al solo Gobbi) acquisì notevole fama grazie ai suoi articoli “dal fronte”, in modo particolare nel
primo periodo coloniale italiano. Diresse il giornale La Patria degli italiani a Buenos Aires e fu caporedattore della Stampa a
Roma. Nel 1900 fondò la rivista L’Italia coloniale, dopo lo sbarco dei Bersaglieri dalla nave Gottardo; la testata pubblicò per
quattro anni. Il suo primo viaggio in Africa risaliva tuttavia al 1881, quando aveva raggiunto la remota Assab per presenziare
allo sbarco dei primi soldati italiani. Abile giornalista, Belcredi-Gobbi seguì lo sbarco ed il consolidamento della colonia di
Massaua sin dal febbraio 1885 per conto della Tribuna e del Secolo.

135 V. Documento 12.

136
M. Pellegrino, I primi inviati speciali italiani in Africa (1881-1890), Nuova rivista storica, Vol. LXXIV (1990), Soc. Ed.
Dante Alighieri, Roma, Pag. 583-85.

137 Ibidem, Pag. 585-86.


43

E’ bene sottolineare che non solo gli inviati criticavano la situazione presente a
Massaua, ma anche tra gli stessi militari l’ottimismo non era propriamente all’ordine del
giorno. L’ex capitano Manfredo Camperio138, viaggiatore e socio fondatore della Società di
esplorazione commerciale in Africa, già nel 1887 sosteneva che il problema di Assab,
Massaua e di tutta la costa del Mar Rosso era quello di trovarsi in un mare chiuso con gli
sbocchi in mano ad altre potenze (Inghilterra) e che nel caso di un conflitto avrebbero dovuto
essere abbandonate per forza.139 Criticava anche le polemiche in patria tra anti e filo
colonialisti oltre che l’operato del governo:

[…]

“Noi comprendiamo benissimo coloro che vanno ripetendo «stiamo a casa nostra,
siam troppo poveri e deboli per procurarci il lusso delle colonie», è questione di meschinità
di idee e non la disputiamo. Ma non comprendiamo chi vuole le colonie e non vuol
prepararcisi in seri studi, con numerose e ben condotte esplorazioni, sacrificando oggi dieci,
per non essere costretti a sacrificare cento domani a causa di errori commessi per ignoranza.
E’ triste dirlo, ma la serie di errori commessi fin dalla nascita del nuovo Ministero è da
attribuirsi unicamente alla nessuna conoscenza del paese ove siamo andati ad impiantarci:
ed è quanto dobbiamo evitare per il futuro.”140

[…]

Tornando al nostro racconto, contemporaneamente alla questione di Massaua sembrò


aprirsi per l’Italia un’ulteriore possibilità di espansione all’ovest: il 19 gennaio 1885 giunse a
Roma l’offerta britannica di collaborare con il governo inglese alla riconquista del Sudan ed
alla liberazione del generale Gordon141, assediato nella capitale Khartoum, mediante l’invio di
un corpo di spedizione di circa 6000 uomini da aggregare alla spedizione inglese. La proposta
venne avanzata, in modo confidenziale dall’ambasciatore britannico a Roma, sir John
Lumley-Savile142, suscitando un’attesa straordinaria sia all’interno del governo che, quando
diventò di dominio pubblico, nell’opinione generale del paese.

___________________________

138
Camperio, Manfredo. - Viaggiatore, scrittore, uomo politico (Milano 1826 - Napoli 1899); per aver partecipato ai moti
del 1848, esulò a Londra. Prese parte alle campagne del 1859 e del 1866 e fu per breve tempo deputato nel 1874. Dopo aver
visitato l'Australia, la Malesia, le Indie, fondò nel 1877 il periodico geografico L'Esploratore, che l'anno seguente divenne
l'organo della Società di esplorazione commerciale in Africa, da lui costituita. Tra i primi a studiare la Libia, visitò nel 1880
la Tripolitania e nel 1881 la Cirenaica. Nella metà degli anni ’80 si trovò a visitare Massaua ed Assab.

139 M. Camperio, Da Assab a Dogali – Guerre Abissine, Dumolard, Milano, 1887, Pag. 56-57.

140 Ibidem, Pag. 61.

141
Gordon, Charles George, detto Gordon Pascià. - Generale britannico (Woolwich 1833 - Kharṭūm 1885). Combattente in
Crimea, poi (1860-64) nella Cina orientale, contribuì in modo decisivo alla repressione del movimento insurrezionale dei
T'aip'ing. Nel 1874 entrò al servizio del chedivè d'Egitto, come governatore delle province equatoriali, distinguendosi per
illuminata energia. Fu poi incaricato di sottomettere il Sudan, dove si era scatenata la rivolta del Mahdī (1884). Assediato in
Kharṭūm, resistette dieci mesi: fu decapitato dai ribelli pochi giorni prima dell'arrivo dei soccorsi britannici.

142 Ambasciatore britannico in Italia dal 1883 al 1888.


44

I porti di Beilul e Massaua parvero briciole rispetto alle possibilità che si sarebbero
aperte nel grande paese africano e quando il 26 gennaio giunse la notizia della caduta di
Khartoum, il governo decise che se fosse pervenuta una formale richiesta di aiuto per la
riconquista del Sudan da parte delle autorità britanniche, l’Italia avrebbe accettato senza
esitare. La richiesta inglese però non arrivò mai e di nuovo il governo italiano si ritrovò ad
organizzare la situazione nel territorio di Assab e Massaua. Con lo sbarco nella città Eritrea e
con la mancata campagna a fianco dell’Inghilterra in Sudan si concluse la prima fase del
programma coloniale di Mancini, basato essenzialmente sulla solidarietà britannica.143

La seconda fase della politica coloniale di Ministro degli esteri, che risentì
dell’influenza di Antonio Cecchi144, cercò di essere più intraprendente: pur continuando a
presupporre un’identità di interessi con la Gran Bretagna, sfruttò il suo latente conflitto con la
Francia per arrivare alla realizzazione degli obiettivi africani dell’Italia. Cambiò anche il
carattere dell’impresa: da politica militare, come era la prima, a commerciale economica
attraverso un’opera di penetrazione e influenza che non ferisse le suscettibilità delle varie
potenze, senza violenze e soprattutto senza il pericolo di trascinare il paese in imprese
lontane, costose, lunghe e dall’esito incerto, oltre a evitare nel modo più assoluto il conflitto
con il Negus. Mancini fin dal primo momento tenne a rassicurare l’imperatore sul carattere
pacifico dello sbarco italiano a Massaua e gli garantì il rispetto delle clausole del trattato di
Hewett145. Questa era l’idea del Ministro, alla cui base vi era una pacifica convivenza con le
popolazioni indigene, ma tutto ciò andava a scontrarsi con l’idea di dominio del re dello
Scioa, Menelik146, il quale stava programmando il suo piano per sostituire l’imperatore
Yohannes al vertice dello stato etiopico. Nel 1885 la spinta di Menelik verso il sud del paese
era appena agli inizi ma procedeva sistematica ed inesorabile, grazie alle armi ed ai mezzi
forniti dagli europei, e per garantirsi ulteriori armi e munizioni da parte dell’Italia, oltre al suo
appoggio politico, tollerò anche le modeste velleità espansionistiche del governo romano.

___________________________

143 C. Zaghi, P. S. Mancini, l’Africa e il problema del Mediterraneo (1884-1885), Casini, Roma, 1955, Pag. 92-96.

144Cecchi, Antonio. - Esploratore italiano dell'Africa orientale (Pesaro 1849 - Lafolè 1896); si unì alla spedizione di O.
Antinori (1877) e proseguì insieme a G. Chiarini da Let Marefià verso S: imprigionato a Cialla dalla regina di Ghera (1879),
non fu liberato che dopo molti mesi. Scrisse una relazione di grande interesse (Da Zeila alle frontiere del Caffa, 1886-87).
Ebbe quindi incarichi politici tra cui quello di regio commissario per la Somalia Italiana (1896). Fu ucciso dagli indigeni
mentre tentava di penetrare da Mogadiscio nell'interno.

145 V. Documento n. 13.

146 Menelìk II. - Imperatore di Etiopia (Ancober 1844 – Addis - Abeba1913). Figlio di Hāyla Malakot negus dello Scioa, fu
catturato dall'imperatore d'Etiopia Teodoro II durante la sua campagna di conquista dello Scioa, e tenuto prigioniero per oltre
10 anni nella fortezza di Magdala. Tornato nello Scioa (1865), se ne proclamò negus; alla morte di Teodoro II (1868) dovette
rinunciare alle aspirazioni imperiali e sottomettersi a Giovanni IV. Ma con una duplice azione, militare e politica, ampliando
i possessi aviti dello Scioa e venendo in trattative con l'Italia, andò preparando la sua ascesa al trono imperiale che si compì
nel 1889, alla morte di Giovanni IV. Il trattato di Uccialli, che egli subito stipulò con l'Italia, parve implicare da parte di M.
l'accettazione del protettorato italiano; invece la controversa interpretazione dell'art. 17 condusse a uno stato di guerra fra
Italiani e Abissini, che dal 1894 si protrasse fino al 1896, allorché si concluse con la battaglia di Adua, alla quale Menelik
prese parte personalmente. Sbarazzatosi di ogni tutela italiana, Menelik proseguì l'ampliamento del suo Impero,
sottomettendo il territorio del Caffa e dei Galla Borana (1897-98). Dopo di che, definiti i confini d'Etiopia e forte del
riconoscimento degli stati europei, intraprese un'opera di modernizzazione del suo paese (ferrovia di Gibuti; creazione della
carica di ministro del governo; istituzione di una scuola di tipo europeo; ecc.). Nel 1909 proclamò erede al trono il nipote ligg
Iyäsu; sopravvisse ancora quattro anni, senza più poter prendere parte, per ragioni di salute, agli affari di stato. Fu
indubbiamente il consolidatore della indipendenza etiopica di fronte all'Europa. La qualifica di "secondo" aggiunta al suo
nome si spiega con il fatto che il primo Menelik, per la tradizione etiopica, è il leggendario figlio di re Salomone e della
regina di Saba, al quale tutti i regnanti di Etiopia si riallacciano, come appartenenti a un unico lignaggio.
45

Firmò trattati commerciali e di amicizia con Pietro Antonelli147 e fu larghissimo di promesse.


Ciò che Mancini non riescì a comprendere fu che la politica aggressiva etiopica nei confronti
anche di quei territori, di fatto res nullius148 ma considerati dal Negus come un naturale
prolungamento dell’Abissinia, avrebbe portato inesorabilmente ad un conflitto con l’Italia
anche per il solo fatto di essere presente a Massaua.149

Secondo un piano prestabilito, dalla metà del 1885 l’Italia incominciò una progressiva
espansione di fatto, occupando alcune località nell’entroterra di Massaua e questo portò alla
pronta protesta di Alula150, Ras di Asmara, già il 25 agosto 1885, avvertiva che l’Italia non
avrebbe potuto occupare un territorio che apparteneva all’imperatore di Abissinia. Nel
gennaio 1887 la tensione giunse al culmine quando un messaggio di Alula pervenne al
generale Genè151con la richiesta di evacuare le località di Uaà e di Saati, a circa 20 chilometri
da Massaua. A seguito della risposta negativa, il 25 gennaio 1887 gli armati di ras Alula, in
parte dotati di fucili, attaccavano il forte di Saati da cui dopo due ore di combattimento erano
respinti con forti perdite, grazie anche al fuoco di due pezzi d'artiglieria. Lo scontro, sebbene
_________________________

147
Antonelli, Pietro, conte. - Viaggiatore e diplomatico (Roma 1853 - 1901), nipote di Giacomo. Recatosi (1879) come
privato in Etiopia, nello Scioa, ospite della stazione di Lèt Marefilà, presso il marchese Antinori, soggiornò colà a lungo,
adoperandosi attivamente per stabilire rapporti di amicizia fra l'allora re dello Scioa (e poi re d'Etiopia), Menelik, e l'Italia,
che riuscirono a essere da lui concretati ufficialmente in un primo trattato di amicizia e commercio stipulato con quel re in
Ankobèr nel 1883. Questa politica, che mirava a legare Menelik e il suo paese permanentemente all'Italia, naufragò con il
malinteso sorto circa l'articolo 17 del trattato di Uccialli, negoziato e stipulato dallo stesso Antonelli nel 1889. Deputato dal
1890, fu sotto F. Crispi sottosegretario agli Esteri (1894), poi ministro a Buenos Aires (1895) e a Rio de Janeiro (1897). Morì
durante il ritorno in patria.

148Res nullius - locuz. lat. (propr. «cosa di nessuno»). – Espressione lat. del diritto romano, usata tuttora nel linguaggio
giur. per indicare cosa che non faccia parte di un patrimonio, su cui cioè nessuno abbia un diritto di proprietà: la res nullius
può essere acquistata per occupazione.

149 C.
Zaghi, P. S. Mancini, l’Africa e il problema del Mediterraneo (1884-1885), Casini, Roma, 1955, Pag. 109-118.

150
Alula. - Ras tigrino (m. 1897), originario del Tambien, ebbe il governo dello Hamasien; vincitore dei Dervisci a Kufit
(1885), avversò (1887) l'espansione italiana (assalto al forte di Saati e distruzione del battaglione De Cristoforis a Dogali,
arresto della spedizione Salimbeni). Contrario al convegno del Mareb, vi aderì (1891) ma dal dicembre 1892 si ribellò a
Mangascià e fu privato dei beni feudali; più tardi si avvicinò a Menelik col quale combatté ad Adua contro gli Italiani (1896).

151 Genè, Carlo. – Generale (Torino 1836 – Stresa 1890) Promosso maggior generale il 17 nov. 1883, fu nominato direttore
dell'Istituto geografico militare di Firenze, incarico che non dovette essere estraneo alla sua successiva nomina a comandante
superiore delle truppe italiane in Africa (decreto 6 ott. 1885). La carica, di nuova istituzione, era stata creata per riunire sotto
un solo comando le forze di terra e di mare dislocate nel Mar Rosso e, per questioni di natura politica, doveva dipendere dal
ministero degli Esteri. Nel 1886 qualche incidente di frontiera induceva il G. a rafforzare la guarnigione di Saati e a occupare
le località di Zula e di Uaà, in contrasto con le disposizioni che gli erano state impartite di "mantenere i punti occupati, ma
non occuparne altri". A metà gennaio 1887, nonostante le minacce e malgrado l'avvicinarsi in forze di ras Alula, il G. si
limitò a rinforzare i presidi minacciati, inviando per la prima volta a Saati anche alcuni reparti nazionali (due compagnie di
fanteria e una sezione d'artiglieria da montagna agli ordini del maggiore G. Boretti) in aggiunta ai sei buluk di irregolari
indigeni. Dopo la disfatta di Dogali, fatti sgombrare i presidi di Saati, Zula e Uaà, il G. si dispose a organizzare, anche con
l'appoggio della Marina, la resistenza, ma il nemico non si fece avanti. Vennero invece intavolate trattative con ras Alula per
la liberazione dei componenti della missione Salimbeni, che il ras voleva cedere in cambio degli 800-1000 fucili da lui
acquistati in Europa e poi bloccati dal G. a Massaua e dell'estradizione di alcuni suoi sudditi rifugiatisi in territorio sottoposto
all'Italia. Dopo qualche tergiversazione, a metà marzo il G. faceva consegnare ad Alula i fucili e i rifugiati - ma non il loro
capo - ottenendo che con l'eccezione del Savoiroux, liberato sei mesi più tardi, tutti i componenti della missione gli fossero
riconsegnati. Rimpatriato, prima di assumere il nuovo comando il G. fu sottoposto al giudizio di una commissione di quattro
generali per l'accertamento di eventuali responsabilità nella consegna dei fucili. La mancanza commessa - questo fu il
successivo giudizio della commissione - non era stata di natura e grado tali da rendere il G. immeritevole, neanche
momentaneamente, del comando della brigata. Che i comandi avessero ancora fiducia in lui lo dimostrava l'ulteriore
evolversi della sua carriera: dopo pochi mesi infatti gli era affidato, in Eritrea, il comando della I brigata (1° e 2° reggimento
cacciatori, una batteria da montagna e quattro buluk indigeni) assegnata alla spedizione guidata dal generale A. Asinari di
San Marzano, comando che gli avrebbe fatto ottenere una medaglia di bronzo e la promozione, dal 24 sett. 1888, a tenente
generale. Con questo grado, una volta rimpatriato, il G. era posto al comando della 24ª divisione militare di Messina,
comando che avrebbe esercitato per poco più di un anno prima di rassegnare le dimissioni dal servizio.
46

vittorioso, aveva però messo in difficoltà la guarnigione, che aveva quasi esaurito le
munizioni e che scarseggiava anche di viveri. Dietro richiesta telegrafica munizioni, viveri e
rinforzi vennero inviati il giorno successivo, per ordine del generale Genè, sotto il comando
del tenente colonnello Tommaso De Cristoforis152. I rinforzi, partiti in ritardo e costituiti da
soldati appena giunti dall'Italia, avanzarono senza troppe precauzioni e, una volta incontrato
nella piana di Dogali il nemico, lo affrontarono confidando anche nel volume di fuoco di due
mitragliere che avevano al seguito, ma che cessarono, invece, ben presto di funzionare.
Schiacciati dal numero, i soldati italiani, oltre cinquecento uomini, caddero quasi tutti sul
campo, salvo 84 feriti.

La sconfitta di Dogali ebbe una vastissima eco in patria; per la prima volta gli italiani
si resero conto che le imprese coloniali comportavano anche gravi rischi e nella memoria
collettiva entrò un desiderio di rivincita, alimentato da un senso del prestigio nazionale spesso
portato all’esasperazione, che fece dimenticare alla maggior parte del popolo italiano che era
stata l’Italia ad inviare le sue truppe ad occupare territori di altre nazioni. Tutto questo fece si
che la Camera respingesse un ordine del giorno presentato dal deputato Andrea costa:

[…]

“La Camera, convinta che la politica coloniale del Governo, incostituzionale nei suoi
primordi, è divenuta oggidì disastrosa e per le vite che ha costato e per l’erario;

che non si saprebbe concepire per quali ragioni si debba perseverare in un’impresa i
cui obiettivi sino ad ora sono ignoti, e che non fruttò che danni e dolori; e ciò in momenti in
cui l’Italia ha bisogno di convergere tutte le sue forze al suo sviluppo economico e morale ed
al miglioramento delle condizioni delle classi lavoratrici di città e di campagna;

che il prestigio militare e l’onore della bandiera sono i soliti pretesti con cui tutti i
governi cercano di far passare le loro imprese avventurose;

deplorando i poveri e forti figli d’Italia, caduti lontano dalla famiglia e dalla patria
per una causa che non è la loro, come non è quella della vera civiltà;

invita il Governo a richiamare nel più breve tempo e nel miglior modo possibile le
truppe italiane colà rimaste.”153

[…]

Dogali può essere vista come l’anticamera di Adua ma di questo argomento parleremo
più approfonditamente nel prossimo capitolo.

________________________

152
De Cristoforis, Tommaso. - Ufficiale (Casale Monferrato 1841 - Dogali 1887). Partecipò alla campagna del 1860 e a
quella del 1866, durante la quale fu capitano aggregato allo stato maggiore; nella prima campagna d'Africa cadde a Dogali,
combattendo gli Abissini di Ras Alula. Ebbe la medaglia d'oro alla memoria.

153 T. Scovazzi, Assab, Massaua, Uccialli, Adua. Gli strumenti giuridici del primo colonialismo italiano, Giappicchelli,

Torino, 1996, Pag. 99-103.


47

2.3. Il trattato di Uccialli e la “Colonia Primigenia”.

Nel marzo del 1887, due mesi dopo i fatti di Dogali, il generale Genè venne sostituito
con il generale Saletta154 al quale il Governo italiano diede il mandato di dichiarare e stabilire
lo stato di guerra con l’Abissinia. Nel novembre 1887, un corpo di spedizione di circa
diciassettemila uomini (compreso un gruppo indigeno) fu pronto in pieno assetto a Massaua,
agli ordini del generale di San Marzano155, il quale iniziò subito le operazioni belliche. Dopo
una lentissima e cauta avanzata, durata quattro mesi, il corpo italiano giunse a Saati dove
cominciò un lavoro di fortificazione. Quando tra il marzo e l’aprile 1888 l’esercito del Negus
Yohannes giunse sul posto vi trovò un fortilizio praticamente inespugnabile per le truppe
abissine, prive di cannoni e di macchine da assedio. Dopo una prima inutile scaramuccia, il
Negus, chiese di intavolare delle trattative di pace che portarono alla salvezza del suo esercito
(quello italiano rimase fermo all’interno delle fortificazioni) e culminarono con il termine di
quel breve periodo di guerra. L’occupazione di Saati rimase l’unico ricordo del conflitto ed il
grosso delle truppe italiane venne fatto rientrare in patria.156

Nel 1888 le relazioni fra l’imperatore Yohannes ed i suoi vassalli si trovarono al


minimo storico; sospettoso delle intenzioni di Menelik non aveva accettato la sua offerta di
assistenza durante la campagna di Saati ma lo aveva anzi inviato a Ambachara157, a sud di
Gondar, ad osservare i movimenti dei mahdisti sudanesi, contro i quali l’Etiopia era in
perenne conflitto. Menelik arrivò tardi per salvare Gondar da un ennesimo attacco mahdista
ma sulla via del ritorno si alleò con altri tre Negus per cospirare contro Yohannes.
L’imperatore, venuto a conoscenza del tradimento, decise di organizzare immediatamente una
devastante campagna punitiva contro il Gojjam patria di uno dei quattro rivoltosi. In seguito si
accinse a preparare una identica campagna contro lo Scioa di Menelik il quale si rivolse alla
popolazione esortandola a difendere il loro territorio e chiese una più stretta collaborazione
all’Italia. L’Etiopia era sull’orlo di una sanguinosissima guerra civile quando l’imperatore
cambiò idea, pensando di risolvere per prima la questione mahdista, che riteneva più
complicata, nel sud del paese ed in seguito la sua attenzione si sarebbe rivolta a Menelik ed
agli italiani. Il destino, però, aveva deciso diversamente poiché il 9 marzo 1889, durante la
battaglia di Metemma, Yohannes venne ferito ed il giorno dopo morì.158

________________________

154Saletta, Tancredi. - Generale (Torino 1843 – Roma 1909). Dopo aver partecipato all'assedio di Gaeta (1860-61) e alla
campagna del 1866, comandò il corpo di spedizione che occupò Massaua (1885). Tornato in patria (1888), nel 1896 fu
nominato capo di Stato Maggiore dell'esercito e nel 1900 senatore.
155Asinari di San Marzano, Alessandro. - Ufficiale (Torino 1830 – Roma 1906), partecipò alle campagne del 1848-49, di
Crimea (1855-56), del '59 e del '66 e alla presa di Roma; promosso generale nel 1877, ebbe (1887-88) il comando delle
truppe in Africa. Deputato (1872-76) e poi senatore (1894), fu ministro della Guerra nei gabinetti Rudinì (dic. 1897-giugno
1898) e Pelloux (giugno 1898-maggio 1899).
156 E. Cagnassi, I nostri errori – Tredici anni in Eritrea – Note storiche e considerazioni, F. Casanova, Torino, 1898, Pag. 37-

46.
157Secondo la storiografia italiana (Scovazzi, op. cit. pag. 114) Menelik, seguendo i suoi interessi, non unì le sue forze a
quelle dell’imperatore con pretesti vari ma al contrario concordò un piano con Pietro Antonelli che avrebbe dovuto portare
reciproci vantaggi.
158
B. Zewde, A History of modern Ethiopia 1855-1974, Addis Ababa Un. Press, Addis Ababa, 1991, Pag 59.
48

Dopo avere brevemente rivaleggiato con Ras Mangascià159, e dopo avere ricevuto il
sostegno dell’Italia (entrambi avevano richiesto l’appoggio italiano), il 22 marzo 1889
Menelik divenne Negus Neghesti d’Etiopia. Divenuto imperatore con il nome di Menelik
II160, il nuovo sovrano d’Etiopia, il 2 maggio 1889, firmò con l’Italia un trattato di amicizia e
commercio161, inteso a definire una volta per tutte i confini tra l’impero etiopico ed i
possedimenti italiani in Africa orientale. Da parte italiana l’idea del trattato era già chiara fin
dal settembre 1888 quando lo stesso presidente del Consiglio Francesco Crispi162, il giorno
12, scrisse una lettera a Menelik preannunciandogli una nuova missione di Antonelli:

[…]

“Il conte Antonelli in qualità di inviato di S.M. il Re d’Italia […] le presenterà questa
mia lettera ed informerà Vostra Maestà di tutto quello che si riferisce all’amicizia che il
governo italiano nutre verso il regno di Scioa.

E’ bene che fin d’ora Vostra Maestà sappia le nostre intenzioni sul possedimento di
Massaua ed a questo scopo Le sarà presentato un trattato di amicizia e commercio da
garantire alla Maestà Vostra la pace nel suo regno ed i mezzi per rendersi sempre più forte e
grande.

I territori che il mio re domanda non sono allo scopo di fare annessioni ma bensì per
avere un confine ben tracciato con l’Abissinia e per mantenere i nostri soldati in luoghi meno
caldi di Massaua.”163

[…]

La bozza del trattato venne presentata a Menelik il 20 febbraio 1889 il quale, pur
avendone un’impressione nel complesso positiva, non poteva non soffermarsi sul fatto che in
quel momento si stesse parlando di territori appartenenti ad altrui. Inoltre il re scioano aveva
problemi ben più gravi dato che il conflitto con Yohannes era ormai ad un passo e Menelik
_______________________

159Mangascià . - Ras del Tigrè (m. Ancober 1907). Figlio adulterino del negus Yohannes IV d'Etiopia, fu privato del trono a
opera di Menelik (1889). M. tentò di opporsi alla penetrazione italiana nel Tigrè ma, battuto da Baratieri a Coatif e Senafé
(1895), fu costretto a riavvicinarsi al negus, insieme al quale sconfisse gli Italiani ad Adua (1896). Arrestato (1899) per
essersi più volte ribellato a Menelik, morì in prigione.
160
La qualifica di "secondo" aggiunta al suo nome si spiega con il fatto che il primo Menelik, per la tradizione etiopica, è il
leggendario figlio di re Salomone e della regina di Saba al quale tutti i regnanti di Etiopia si riallacciano, come appartenenti a
un unico lignaggio.
161
V. Documento n. 14.
162 Crispi, Francesco. - Uomo politico italiano (Ribera, Agrigento, 1818 - Napoli 1901). Avvocato e patriota, ebbe un ruolo
decisivo nel convincere Garibaldi a compiere la spedizione dei Mille. Proclamata l'Unità d'Italia, abbandonò le posizioni
repubblicane, aderendo alla monarchia. Divenuto presidente del Consiglio (1887-91), fu fautore di una politica 'forte'
all'interno e all'estero, sostenne la Triplice Alleanza (con Germania e Austria) in chiave antifrancese e promosse l'espansione
coloniale. Tornò al governo nel 1893 e fronteggiò con durezza la protesta sociale (Fasci siciliani, moti in Lunigiana). Fu
travolto dal naufragio delle ambizioni coloniali nella sconfitta di Adua (1896).
163 T. Scovazzi, Assab, Massaua, Uccialli, Adua. Gli strumenti giuridici del primo colonialismo italiano, Giappicchelli,

Torino, 1996, Pag. 116.


49

temeva che avrebbe potuto contare solo sulle proprie forze nel prossimo scontro con
l’imperatore e dubitava che gli italiani si sarebbero mossi tempestivamente per occupare
Asmara ed il Tigrè164. Se Menelik poteva avere dubbi sulle mosse italiane in suo favore, in
Italia la situazione non poteva certo dirsi sotto stretto controllo; già dagli ultimi mesi del 1888
si andavano delineando due filoni di pensiero riguardo alla politica da attuare nei rapporti con
l’impero etiopico. Una prima visione, cosiddetta “scioana”, che vedeva come principali
sostenitori l’ispiratore Antonelli, Crispi, il Re Umberto e gli uomini del nascente Ufficio
coloniale, mirava ad un’alleanza con Menelik contro Yohannes, sperando di ottenere alcuni
territori settentrionali e di poter realizzare, nei tempi opportuni ed in accordo con il nuovo
imperatore, la penetrazione commerciale e politica in tutta l’Abissinia. La seconda visione,
definita “tigrina”, sostenuta dal generale Baldissera165, dai comandi militari e dal Ministero
della guerra, era invece contraria a qualsiasi azione diplomatica e confidava di annettere gli
stessi territori tramite una politica che fomentasse le discordie interne tra i vari ras della zona,
indebolendo così il fronte tigrino ed intervenendo direttamente una volta che i vari
contendenti si fossero così logorati. Il tempo avrebbe dimostrato che, a parte le riflessioni di
ordine morale, entrambe le politiche si sarebbero dimostrate errate, poiché non si tenne conto
del nazionalismo etiopico il quale, nonostante le rivalità, nei momenti critici sarebbe
riemerso. Infatti nonostante in alcuni casi le due opzioni venissero utilizzate
contemporaneamente, l’unico risultato ottenuto fu quello di riunire il fronte avverso.166

Una volta diventato imperatore, Menelik affrontò la questione del trattato con l’Italia e
questa volta il suo sguardo sul testo fu tutt’altro che superficiale: ogni articolo venne
sezionato e riscritto in modo che l’imperatore non perdesse nessuna delle sue prerogative.
Quello che più preoccupava Menelik era la questione dei confini e dei territori che l’Italia
richiedeva come compenso per l’aiuto fornito contro Yohannes; da questo punto di vista
l’imperatore fu irremovibile e pur concedendo agli italiani il primo gradino per salire verso
l’altopiano etiopico, egli non intese donare un metro in più del necessario. Respinse infatti
tutte le proposte di confine elaborate dal Ministero della guerra e fissò come località di
confine Arafali, Halai, Saganeiti, Asmara, Adi Nefas ed Adi Yohannes. Curiosamente restò
invariato l’art. 17, quello riguardanti le relazioni internazionali e che avrebbe portato alla
rottura anche se, a dire il vero, Menelik avrebbe voluto toglierlo completamente dato che il
sovrano etiopico non vedeva chi altri potesse aiutarlo, in caso di trattative con altri paesi
europei, se non il governo italiano. L’articolo venne mantenuto grazie ad un consiglio di
Antonelli il quale sostenne che l’Etiopia avrebbe avuto tutto l’interesse ad avere in Europa,
come rappresentante, un re amico. Ma veniamo ora ad analizzare il punto che creerà fin da
subito così gravi dissidi tra Italia ed Etiopia da sfociare dopo pochi anni in guerra aperta;
nella versione amarica del trattato l’articolo cita testualmente: «Per qualsiasi necessità di cui
abbia bisogno presso i sovrani d’Europa, all’imperatore d’Etiopia sarà possibile corrispondere

___________________________

164
Asmara sarà occupata dagli italiani il 3 agosto 1889

165 Baldissera, Antonio. - Generale (Padova 1838 – Firenze 1917). Militando nelle file dell'esercito austriaco, si distinse nelle

campagne del 1859 e del 1866. Entrato a far parte dell'esercito italiano nel 1866, fu nominato ten. generale nel 1892 e,
destinato in Africa (dove aveva già partecipato alle campagne del 1887-89), assunse (1896) i poteri civili e militari
dell'Eritrea dopo Adua. Nella colonia esplicò opera costruttiva di governatore e di comandante. Senatore del Regno dal 1904.

166 A. Del Boca, Gli italiani in Africa orientale – Dall’unità alla marcia su Roma, Laterza, Bari, 1976, Pag. 314.
50

con l’aiuto del governo italiano». La parola chiave è “sarà possibile” (amarico: icciollaccioàl)
che nel testo italiano viene tradotta con “consente” (è obbligato) a trattare i suoi affari con
l’assistenza dell’Italia. Peraltro nella versione italiana non sono citati solo i sovrani europei
ma tutte le potenze ed i governi del mondo.167

In pratica, quando in seguito Crispi andò a notificare alle altre potenze europee l’art.
17 del trattato di Uccialli, in virtù dell’art. 34 dell’atto generale di Berlino, l’Etiopia divenne
ufficialmente un protettorato italiano. Già all’epoca si levarono voci contro l’imbroglio ai
danni dello stato etiopico e A. del Boca, nella sua opera più importante, esamina con dovizia
di particolari tutti gli attori che parteciparono alla redazione ed alla firma del trattato
(Menelik, Maconnen, Antonelli, Negussié e Crispi) traendone le opportune conclusioni: se
escludiamo Menelik e Maconnen in quanto parte danneggiata e l’interprete Negussié il quale,
conoscendo molto meglio il francese dell’italiano non avrebbe certo potuto afferrare le
differenze filologiche, rimangono come imputati Antonelli e Crispi. Il primo sembra non aver
concordato direttamente la truffa, ma la faciloneria e le negligenze commesse durante la
stesura del trattato, unite ad un’ambizione infinita che gli creerà nemici sia in Etiopia che in
Italia, non lo assolvono da ogni colpa. Chi invece può essere definito senza ombra di dubbio il
vero artefice della truffa ai danni dell’Etiopia è Francesco Crispi, anche se, secondo Carlo
Giglio (L’articolo XVII del trattato di Uccialli, 1967) l’imbroglio non si verifica il 2 maggio
1889 con la firma del trattato ma l’11 ottobre, quando l’art. 17 viene notificato alle potenze
firmatarie dell’atto di Berlino. Infatti il già citato art. 34 dell’Atto non parlava di territori
all’interno del continente africano ma solamente delle coste ed è qui che Crispi è conscio di
poter barare dato che ritiene che le altre potenze non avrebbero certamente rifiutato di
riconoscere il protettorato italiano sull’Etiopia visto che si erano già prese la loro fetta
d’Africa con metodi più o meno ortodossi. Quindi è in quel momento che si consuma la truffa
anche perché, senza la notificazione non sarebbero sorti dissidi o per lo meno sarebbero stati
facilmente appianabili senza che l’Italia avesse il problema di salvare la faccia di fronte a tutta
l’Europa.168

Ciò nonostante, Antonelli al suo ritorno in patria, accompagnando Maconnen ed una


quarantina di dignitari etiopici venuti a ratificare il trattato, venne pesantemente messo sotto
accusa per aver fatto troppe concessioni a Menelik ed aver stravolto il trattato ministeriale. Gli
si rimproverò soprattutto di aver accettato il confine appena al ciglio dell’altopiano etiopico
che, secondo il Comando superiore di Massaua, era militarmente indifendibile. Dato che era
impossibile pensare di proporre a Maconnen un trattato completamente nuovo, venne redatta
una convenzione addizionale in 11 articoli169, centrata principalmente sulla modifica dei
confini. Questa nuova convenzione prevedeva di fissare i suddetti confini ai territori occupati
dagli italiani fino a quel momento. Pressato da Antonelli ed in seguito a pesanti discussioni,
Maconnen firmò la convenzione pensando che gli italiani fossero giunti solo ad Asmara
quando invece il generale Baldissera stava già occupando tutto l’Hamasèn, l’Acchele Guzai, il
_____________________________

167 A. Del Boca, Gli italiani in Africa orientale – Dall’unità alla marcia su Roma, Laterza, Bari, 1976, Pag. 347-49.

168
Ibidem, Pag. 352-53.

169 V. Documento n. 15.


51

Barca ed il Seraè fino a raggiungere la frontiera costituita dai fiumi Mareb-Belesa-Muna.


Dopo queste truffaldine annessioni l’Eritrea aveva quindi raggiunto i suoi confini definitivi
(anche se Menelik li contesterà) e Crispi poteva quindi dirsi soddisfatto dei risultati
ottenuti.170

Il 1° gennaio 1890 con il decreto reale n. 6592171 fu istituita la Colonia Eritrea,


raggruppante tutti i possedimenti italiani sul Mar Rosso con un’estensione di 110.000 km2 ed
una popolazione di circa 200.000 abitanti. Il regime della colonia divenne da militare a misto
(civile e militare) e venne affidato ad un governatore dipendente dai ministeri degli Esteri,
della Guerra e della Marina, mostrando così all’opinione pubblica italiana come i tempi delle
costose operazioni militari fossero definitivamente tramontati e che ormai bisognasse parlare
di sfruttamento della colonia alimentando il commercio e spedendovi coloni. Ma le
contraddizioni del nuovo regime non sfuggirono alla penna di E. Scarfoglio172, pur acceso
colonialista, che le criticò severamente già il 5 gennaio 1890:

[…]

“Il primo difetto, e il più grosso, dell’assetto che dà alla colonia il decreto reale, è
questo: che si è bensì costituito un governo civile, ma non si è abolito il governo militare. Se
si reputano ancora necessarie, alla sicurezza della colonia, tante forze militari da richiedere
il comando di un generale, che bisogno v’era di aggiungergli un corteo di proconsoli civili?
[…] Una colonia di carattere specialmente militare non può fare che la guerra. L’avere
aggiunto tre consiglieri civili al governo della colonia, non può certo mutarne l’indirizzo.
[…] L’accentramento in Massaua di tanti poteri militari, giuridici, fiscali, didattici, tecnici e
agricoli ci pare un non senso. Considerare Massaua come una prefettura, e munirla di tre
prefetti e d’un generale di brigata è, per noi, un non senso. Costoro prenderanno delle febbri,
sporcheranno della carta, seccheranno il mondo, e non concluderanno nulla.”173

[…]

_________________________

170
A. Del Boca, Gli italiani in Africa orientale – Dall’unità alla marcia su Roma, Laterza, Bari, 1976, Pag. 354-56.

171 V. Documento n. 16.

172
Scarfòglio, Edoardo. - Scrittore e giornalista (Paganica 1860 - Napoli 1917); fece gli studî di lettere a Roma, dove
cominciò a collaborare al Capitan Fracassa con scritti di critica e polemica letteraria, legandosi di amicizia con G.
D'Annunzio, C. Pascarella, C. De Titta, G. Salvadori, e con Matilde Serao, che sposò nel 1885. Il meglio di quelle prose fu
raccolto nel Libro di Don Chisciotte (1885), che, con le novelle di Il processo di Frine (1884), ambientate in un Abruzzo
selvaggio e "primitivo", gli diede fama di scrittore robusto e polemista scintillante. Con la Serao passò alla Tribuna (i suoi
articoli sono raccolti nel vol. In Levante e a traverso i Balkani: note di viaggio, 1890) e diede vita al Corriere di Roma (1886-
87) e quindi al Corriere di Napoli (1888), che subito rivaleggiò con la migliore stampa nazionale; nel 1891 ne uscì per
fondare, sempre a Napoli e con la Serao, Il Mattino, che diresse sino alla morte. Fu sostenitore della politica africana di F.
Crispi (la sua intensa attività giornalistica di quel periodo è rispecchiata nei volumi Le nostre cose in Africa, 1895; Itinerario
verso i paesi d'Etiopia, 1895-96; Il cristiano errante, 1897, frutto anche di viaggi), ma i rovesci del 1896, le accuse contro di
lui e la politica "domestica" dell'Italia dopo il 1898 lo portarono a un amaro scetticismo. Nel 1914 parteggiò per la Triplice
Alleanza, temendo un consolidamento dell'egemonia anglo-francese nel Mediterraneo.

173 A. Del Boca, Gli italiani in Africa orientale – Dall’unità alla marcia su Roma, Laterza, Bari, 1976, Pag. 359-60.
52

In effetti la colonia rimarrà a lungo una testa di ponte per nuove conquiste ed il
bilancio militare assorbirà la maggior parte dei fondi destinati al nuovo territorio. Peraltro
Crispi non sottopose quasi mai i suoi atti di politica coloniale né alla preventiva
autorizzazione né alle approvazioni formali del Parlamento italiano seguendo una sua curiosa
teoria riguardo ad una pretesa extrastatutarietà del territorio coloniale, aggirando quindi le
disposizioni dell’art. 5 dello Statuto che prevedeva l’assenso del Parlamento «per trattati che
importassero un onere alle Finanze, o variazioni al territorio dello Stato». A riguardo
ascoltiamo le parole del Presidente del Consiglio in un discorso alla Camera poco dopo
l’istituzione della Colonia Eritrea:

[…]

“Sono le colonie territorio dello Stato? Niente affatto, sono dipendenze dello Stato,
non ne fanno parte integrante; non sono nello Stato, ma sotto il dominio dello Stato. Quando
l’articolo 5 parla di territorio dello Stato, parla dello Stato nazionale, parla dello Stato che
impera, parla dell’Italia.”174

[…]

La questione non passò comunque sotto silenzio, e per due giorni vi fu un aspro
dibattito alla Camera sulla presunta violazione dell’art. 5 dello statuto e sulle condizioni
generali della colonia. Il deputato di estrema sinistra175 Luigi Ferrari176 presentò una mozione
nella quale invitava il Governo a sottoporre al Parlamento il regio decreto sulla costituzione
della Colonia Eritrea ma venne respinta. A questo punto si riaprì il dibattito sulle possibilità
che la nuova colonia potesse offrire al paese e questa volta non si discusse più su note di
viaggio di avventurieri, esploratori e commercianti ma su testimonianze dirette di deputati che

___________________________

174 A. Del Boca, Gli italiani in Africa orientale – Dall’unità alla marcia su Roma, Laterza, Bari, 1976, Pag. 360-61.

175 Naturalmente per estrema sinistra intendiamo quella storica, cioè formata da uomini con ideali più estremi come gli

anarchici od i repubblicani (all’epoca considerati di idee estremiste), pur lavorando nel rispetto delle regole comuni. Da non
confondersi quindi con le correnti estremiste degli ultimi 50 anni

176 Ferrari, Luigi. – Uomo politico (Rimini 1849 – 1895) Alle elezioni politiche del maggio 1880 il F. sostituì nel collegio di
Rimini Agostino Bertani che, seppure indeciso fino all'ultimo se restare o rinunciare, lo raccomandò ai suoi elettori. Il F.,
eletto anche con i voti degli internazionalisti e dei repubblicani, sedette in Parlamento negli scranni dell'Estrema Sinistra. Da
molti ritenuto un repubblicano autentico, egli sottolineò, davanti, ai "funesti dissidii" della Sinistra, di stare al di sopra delle
parti. Nelle vicende più propriamente politiche si distinse per l'opposizione alla politica coloniale chiedendo nel 1887, e a
causa del previsto estendersi dell'azione in Africa, che tale azione fosse posta sotto il controllo del Parlamento. In linea di
principio non era comunque contrario ad una politica coloniale tanto che sempre nel 1887 si pronunciò in favore - anche per
ragioni di prestigio - del mantenimento della stazione militare in Massaua. Riteneva poi che una politica coloniale potesse
essere intrapresa solamente da una nazione forte e sana per non distogliere le risorse economiche, finanziarie e morali dalla
costruzione dello Stato. Durante il governo Rudinì fece parte di una commissione reale d'inchiesta sulla colonia Eritrea,
istituita dal presidente del Consiglio dei ministri; non volle rendere pubblico il suo dissenso dalla relazione finale. Il F. venne
ucciso a Rimini il 10 giugno del 1895 durante un diverbio notturno con un gruppo di giovani.
53

visitarono direttamente l’Eritrea. Personaggi come Sidney Sonnino177 definirono l’Eritrea


come una terra abbondante, buona, e con un futuro roseo davanti a sé, a patto che ci si
mettesse al lavoro con metodo e costanza; Leopoldo Franchetti178 considerò le difficoltà che
si sarebbero poste per dei coloni in Africa ma sostenne che attraverso una giusta concessione
di terre ai contadini poveri si sarebbero potuti ottenere buoni risultati; infine Rocco de
Zerbi179, avendo delle perplessità sulla fertilità della terra eritrea, considerò con miglior favore
un avvenire commerciale per Massaua soprattutto se vista come sbocco del Sudan
meridionale più che dell’Abissinia.180

In conclusione Crispi credette di avere vinto la sua battaglia coloniale e di avere la


possibilità di detenere il potere per lungo tempo. Ma Menelik la pensava diversamente ed il
futuro avrebbe riservato sorprese non molto piacevoli per l’Italia, ma di questo parleremo più
approfonditamente nel prossimo capitolo.

__________________________

177 Sonnino, Sidney Costantino, barone. - Uomo politico italiano (Pisa 1847 – Roma 1922). Deputato della destra, ministro

delle Finanze e del Tesoro, risanò il bilancio statale. Fondatore della rivista Rassegna settimanale (1878-82), nel 1880 fu
eletto deputato e si schierò con la destra moderata. Dopo aver guidato l'opposizione liberal-conservatrice ai governi presieduti
da G. Zanardelli (1901-03) e G. Giolitti (1903-05), fu presidente del Consiglio per due brevi periodi (febbr. - maggio 1906;
dic. 1909 - marzo 1910). Ministro degli Esteri dall'ott. 1914, dopo aver inutilmente negoziato con l'Austria-Ungheria, in base
all'art. 7 della Triplice Alleanza, per ottenere compensi nelle terre irredente, portò l'Italia in guerra a fianco dell'Intesa con la
firma del Patto di Londra (26 apr. 1915): con tale accordo S. mirò a completare il processo di unificazione dell'Italia,
garantendole la sicurezza strategica, a nord come nell'Adriatico, mentre con una politica di moderazione verso il
Mediterraneo orientale puntò a mantenervi l'equilibrio con le altre grandi potenze. Lasciato il ministero degli Esteri con la
caduta del gabinetto Orlando (giugno 1919), si oppose nello stesso anno all'introduzione del sistema elettorale proporzionale,
ritirandosi poi dalla vita politica, nonostante nel 1920 fosse stato nominato senatore.

178 De Zerbi, Rocco. - Giornalista e uomo politico italiano (Reggio di Calabria 1843 – Roma 1894). Dopo aver preso parte
alle campagne del 1860-61 e del 1866, fondò in Napoli Il Piccolo (1868), quotidiano di tendenza moderata ma di tono
violento, che diresse fino al 1888. Vivace deputato di destra dal 1874 alla morte, oratore brillante, scrittore sovrabbondante,
polemista pronto a disputare di tutto (famosa la sua polemica col Carducci, su Tibullo), scrisse anche un romanzo
(L'avvelenatrice, 1884) e Il mio romanzo: confessioni e documenti (1884).

179
Franchetti, Leopoldo. - Pubblicista e uomo politico italiano (Firenze 1847 – Roma 1917); propugnò, insieme con S.
Sonnino, lo studio e la soluzione dei concreti problemi economici, sociali e politici della nuova Italia, contribuendovi con
inchieste personali (come quelle che diedero luogo a Condizioni economiche e amministrative delle Province napoletane,
1875, e La Sicilia nel 1876, 1877, compiuta insieme col Sonnino e di fondamentale importanza per l'impostazione del
problema del Mezzogiorno) e con la Rassegna settimanale (1878-1882), di tendenza conservatrice-illuminata, che riuscì
rivista politica assai pregevole e influente (tra i collaboratori: S. Sonnino, P. Villari, ecc.). Pioniere di una razionale attività
coloniale, compì una missione in Libia (La Missione Franchetti in Tripolitania, 1914). Deputato dalla 15a alla 22a legislatura
(1882-1909), fu poi nominato senatore.

180 A. Del Boca, Gli italiani in Africa orientale – Dall’unità alla marcia su Roma, Laterza, Bari, 1976, Pag. 362.
54

CAPITOLO III.

L’espansione dell’Italia liberale in Africa Orientale.


3.1. La Somalia.

Parlando di Corno d’Africa non possiamo certo dimenticare la parte meridionale,


quella che all’epoca veniva definita con l’appellativo di “Paese dei somali”, la quale sarebbe
dipesa, fino agli inizi degli anni ’80 del XIX secolo dal sultano di Zanzibar. Già nel 1858 il
governo sardo aveva cominciato a prendere in considerazione questi territori su consiglio di
G. Massaja, il quale aveva informato C. Negri sulla possibilità si stringere accordi con i
governi della parte orientale dell’Africa, attraverso alcuni missionari piemontesi capeggiati da
L. des Avanchères, già citato all’inizio si questo studio. I problemi legati all’unità del paese e
in seguito quelli relativi alla stabilità sociale, soprattutto nel sud Italia, obbligarono il governo
sabaudo prima e italiano poi a posticipare ogni intenzione di espansionismo coloniale fino al
1879, quando la pirocorvetta “Vettor Pisani”, con a bordo il duca di Genova Tommaso di
Savoia181, venne inviata a compiere una prima e rapida ricognizione di un tratto della costa
somala per poi puntare verso l’estremo oriente. Quindi, come per l’Eritrea e l’Etiopia, le
informazioni sul Paese dei somali erano scarse ed imprecise: ci si basava semplicemente sui
diari di viaggio di avventurieri stranieri come W. Christopher, C. von der Decken e G. Révoil.
Quando ormai l’Africa era quasi interamente divisa tra le varie potenze europee, tranne
qualche briciola di scarsissima importanza (territori desertici o di difficile accesso quale era la
Somalia che sarà occupata dagli italiani), nel 1884 il Ministro Mancini decise di inviare una
spedizione alle foci del Giuba182, guidata da A. Cecchi, con lo scopo di ottenere utili
informazioni e per verificare la possibilità di una presa di possesso di quelle zone o
perlomeno il potervi stabilire un protettorato.183

Dopo una sosta abbastanza lunga a Massaua, Cecchi raggiunse Zanzibar dove
concluse un accordo commerciale con il sultano (28 maggio 1885) ed in seguito si preparò ad
una spedizione che avrebbe dovuto risalire il fiume partendo da Chisimaio e che avrebbe
dovuto esplorare il Giuba almeno fino a Ganane. In realtà Cecchi si limitò ad una rapida
ricognizione della costa e della foce del fiume, lasciando alla successiva impresa del 1892-95,

________________________

181Savòia (Savoia-Genova), Tommaso Alberto di, duca di Genova – (Torino 1854 - ivi 1931) Figlio di Ferdinando duca di
Genova; sposò (1883) la principessa Isabella Luisa di Baviera. Ammiraglio, fu luogotenente generale del regno (1915-19),
sostituendo il sovrano recatosi al fronte.

182
Giuba - Fiume della Somalia (lungo 858 km; bacino di 196.000 km2), detto dai Somali Ganane. È formato dall’unione
del Genale (che deve considerarsi come il suo ramo principale, interrotto nel suo corso dalle cascate Baratieri) con l’Uebi
Gestro e poco più a valle, presso Dolo, con il Dawa (entrambi fiumi etiopi). Il G., che è il maggiore fiume della Somalia,
corre tortuosamente in direzione all’incirca meridiana, toccando Lugh (circondato da un caratteristico meandro), poi Bardera.
La larghezza è qui di 150-200 m; la valle, ben definita fino a Dujuuma (65 m s.l.m.), si apre poi in un’ampia pianura dove il
fiume è pensile, accompagnato da ristagni e orlato su entrambi i lati da foresta a galleria. La foce è ostacolata da una barra
sabbiosa, che si supera solo con difficoltà a marea alta. Il G. è in magra dalla fine di dicembre a metà aprile, in piena in
aprile, e poi da ottobre a metà dicembre (piena principale). È navigato da battelli fluviali sino a Bardera; più a monte solo da
piccole imbarcazioni che possono superare le rapide. L’esplorazione del bacino del G. è merito principalmente di viaggiatori
italiani, e soprattutto di V. Bottego.

183 A. Del Boca, Gli italiani in Africa orientale – Dall’unità alla marcia su Roma, Laterza, Bari, 1976, Pag. 232-35.
55

capitanata da Vittorio Bottego184, l’onere ed il merito della scoperta e dello studio del
fiume.185

Nell’ottobre del 1886 inglesi e tedeschi decisero di mettere fine ai loro attriti
ridisegnando le zone di influenza nell’area e facendo l’inventario dei territori che sarebbero
dovuti restare soggetti all’amministrazione del sultano di Zanzibar. Naturalmente la divisione
non fu certo favorevole al sovrano africano il quale, nel tentativo di ristabilire un certo
equilibrio politico nella zona, contattò il nuovo console d’Italia a Zanzibar, Vincenzo
Filonardi186, proponendogli la cessione della baia di Chisimaio e la regione del Giuba.
Nonostante il parere favorevole del console, il Ministero degli esteri italiano respinse l’offerta
con la scusa della non accertabilità dei confini della zona di Chisimaio ma in realtà per non
fare un dispiacere alla Germania che aveva appena risolto i suoi problemi con l’impero
britannico. Il Ministro di Robilant187, rinunciando a queste nuove acquisizioni avrebbe potuto
l’anno seguente rinnovare senza problemi la Triplice Alleanza, conservando all’interno dello
scacchiere europeo un’importante posizione.188

______________________________
184
Bottego, Vittorio. - Esploratore italiano (S. Lazzaro Parmense 1860 - Gobò 1897). Recatosi come ufficiale in Eritrea
(1887), percorse nel 1891 l'itinerario costiero Massaua-Assab, che nessun europeo aveva mai seguito. Organizzò quindi una
spedizione lungo il corso del Giuba e ne risalì il ramo principale battezzato Ganale Doria (1892; Il Giuba esplorato, 1895).
Altro viaggio fu volto all'esplorazione del corso dell'Omo (1895-97): da Lugh il B. coi compagni raggiunse il Lago
Margherita e quindi seguì il corso dell'Omo fino al Lago Rodolfo. Morì sulla via del ritorno, in territorio abissino, in una
imboscata. Medaglia d'oro al valor militare.

185 E.
de Leone, Le prime ricerche di una colonia e la esplorazione geografica politica ed economica, L’Italia in africa, Vol.
II, Ist. Poligr. dello Stato, Roma, 1955, Pag. 225-226.

186 Filonardi,
Vincenzo. – Militare e politico (Roma 1853 – ivi 1916) Con l'appoggio della Società italiana di commercio con
l'Africa, istituita nel 1881, poté armare un piccolo bastimento che gli permise di attivare i primi rapporti commerciali con
l'isola di Zanzibar, dove si trasferì in qualità di semplice agente per sostenere e sollecitare l'avvio di regolari scambi con
l'Italia. Nell'ag. del 1882 chiese al ministero degli Esteri di esservi nominato agente consolare, riuscendo ad ottenere
inizialmente solo la proposta dell'ufficio di console onorario. Fin dal suo arrivo a Zanzibar il F. si preoccupò di valutare le
opportunità e i vantaggi che si sarebbero potuti ricavare da una sistematica politica di penetrazione commerciale in quei
territori, cercando di dar vita a una casa commerciale. Ma solo il 26 apr. 1884 il notaio Venuti di Roma era in grado di
registrare la costituzione, sotto gli auspici del Banco di Roma, della società in accomandita semplice presentata dal F., con un
capitale ammontante a 60.000 lire, suddiviso in venti compartecipazioni di 3.000 lire ciascuna. Questa società, che
annoverava fra i suoi membri alcuni significativi esponenti dell'aristocrazia e dell'alta borghesia romane, oltre alla ditta Carlo
Erba di Milano, aveva come oggetto l'acquisto e la vendita di merci per commissione di terzi. Il 24 gen. 1893 il F. proponeva
al governo italiano di assumere in proprio l'amministrazione del Benadir, che venne concessa per tre anni alla Compagnia
Filonardi con un contratto di esercizio provvisorio stipulato l'11 maggio, entrato in vigore verso la metà di luglio.La
Compagnia italiana per la Somalia V. Filonardi e C. avrebbe riscosso i dazi doganali pagando un canone annuo di 160.000
rupie al sultano di Zanzibar e assumendo a suo carico sia l'amministrazione degli scali e dei territori interposti, sia il
pagamento degli onorari spettanti alle persone dipendenti a vario titolo dalla Società. Dopo aver insediato i responsabili della
Compagnia nelle città di Brava, Merca, Mogadiscio e Warscheik, il F., stabilitosi a Mogadiscio, si dedicò a definire una
precisa normativa per l'esazione delle imposte e per l'amministrazione della giustizia, impartendo adeguate disposizioni per
l'allontanamento degli elementi inutili e dannosi.

187Robilant, Carlo Felice Nicolis conte di. - Generale e uomo politico (Torino 1826 – Londra 1888). Partecipò alle guerre di
indipendenza. Inviato straordinario e ministro plenipotenziario a Vienna (1871-85), come ministro degli Esteri (1885-87)
rinnovò il trattato della Triplice Alleanza e firmò l'accordo italo-britannico (1887), volto a tutelare gli interessi italiani nel
Mediterraneo. Nel 1887 fu nominato ambasciatore a Londra.

188 A. Del Boca, Gli italiani in Africa orientale – Dall’unità alla marcia su Roma, Laterza, Bari, 1976, Pag. 237.
56

Quando nel 1888 Crispi salì al potere, la questione della baia di Chisimaio ritornò
all’ordine del giorno ed il governo italiano tornò a farsi sentire, per bocca di Filonardi il quale
aveva impiantato nella terra dei somali una ben avviata attività commerciale, ricordando al
nuovo sultano Said Khalifa le proposte fatte dal suo predecessore a proposito della baia
sull’oceano Indiano. Il 15 maggio il console italiano scrisse al sultano chiedendogli di poterlo
incontrare per consegnarli una lettera del Re d’Italia; era però tempo di Ramadan e gli
impegni politici venivano sospesi, ritardando così la risposta alla lettera di Umberto. Filonardi
interpretò il ritardo come un deliberato insulto rivolto al Re e quando il 6 giugno riuscì
finalmente ad incontrare il sultano, non accettò le spiegazioni e chiese l’immediata ed
incondizionata cessione di Chisimaio all’Italia come riparazione per chiudere pacificamente
l’incidente. Il sultano respinse la richiesta, non nascondendo di avere ricevuto pressioni dai
consoli inglese e tedesco e per tutta risposta Filonardi inviò un ultimatum di sei ore dopodiché
ruppe le relazioni diplomatiche con la richiesta di una riparazione. Il governo italiano aprì
però delle trattative con quelli inglese e tedesco ed il 3 agosto 1889 venne raggiunto un
compromesso: il sultano cedette in affitto alla IBEAC (Imperial British East Africa Company)
Chisimaio ed i quattro porti del Benadir189 la quale si impegnò a cedere la concessione
all’Italia. Il piano però divenne esecutivo solo dal 16 luglio 1893 non prima che l’Inghilterra
avesse esteso il suo protettorato su Zanzibar. Nella realtà, poi, avendo definito il Giuba come
linea di demarcazione tra le zone controllate dall’impero britannico e quelle italiane il porto di
Chisimaio rimase agli inglesi.190 A partire dal 1890 vennero organizzate dagli italiani diverse
spedizioni nella terra dei somali, come quelle di Luigi Robecchi Bricchetti191 e quelle di
Enrico Baudi di Vesme192 intraprese, per conto sia della Società africana d’Italia che della
Società geografica italiana, allo scopo di studiare il territorio sia dal punto di vista
commerciale che da quello scientifico.

Se per entrare in possesso delle zone benadiriane occorsero diversi anni, non così
successe per il resto della costa somala che non era amministrato dal sultano di Zanzibar ma
da alcuni capi locali. Spiccavano tra di loro, per il carisma, l’autorità e la vastità del territorio
controllato, Jusuf Alì e suo genero Osman Mahmud i quali erano rispettivamente i sultani di
________________________________

189 Benadir. - La costa della Somalia da Adale (Cadale) a Chisimaio, alla foce del Giuba e, per estensione, anche il retroterra
fino all’Uebi Scebeli. È una costa unita, orlata di dune alte fino a 150 m, coperte di boscaglie e macchie. Una scogliera
sottomarina, a tratti appena emergente, rende spesso difficile l’approdo. Frequenti i monsoni. I porti che hanno dato nome
alla regione sono: Adale (Cadale), Mogadiscio, Marka, Brava e Chisimaio.

190 A. Del Boca, Gli italiani in Africa orientale – Dall’unità alla marcia su Roma, Laterza, Bari, 1976, Pag. 413-15.

191Robecchi-Bricchetti, Luigi. - Esploratore italiano (Pavia 1855 - ivi 1926); compì (dopo il 1886) diversi viaggi in Africa
con intenti scientifici: nell'oasi di Siwa raccolse un importante insieme di materiali antropologici (All'oasi di Giove Ammone,
1890) e in un successivo viaggio penetrò nella regione di Harrar (1888), compiendo anche qui numerose osservazioni
(Nell'Harrar, 1896). Ma le sue più importanti spedizioni furono quelle condotte in Somalia, nei sultanati di Obbia e di
Migiurtinia (1890-91), attraverso regioni inesplorate, dove raccolse gran quantità di notizie geografiche ed etnologiche
(Somalia e Benadir, 1899; Dal Benadir, 1904).

192
Baudi di Vesme, Enrico. - Esploratore italiano (Torino 1857 - ivi 1931), figlio di Carlo; compì due viaggi da Berbera
verso l'interno della Somalia: nel primo si spinse fino ai confini dell'Ogaden (1889); nel secondo raggiunse (1891), con G.
Candeo, la regione di Imi sull'Uebi Scebeli (Un'escursione nel paradiso dei Somali, 1893; Le mie esplorazioni in Somalia,
post., 1944). Penetrato nell'Harrar, fu arrestato e ricondotto a Zeila.
57

Obbia193 e della Migiurtinia194. Per diversi motivi Jusuf Alì già alla fine del 1888 fece sapere
a Filonardi di essere disposto ad accettare il protettorato italiano che venne formalizzato l’8
febbraio 1889195 ed esattamente due mesi dopo, il 7 aprile 1889, al termine di lunghe e
laboriose trattative, anche il sultano migiurtino accettò il protettorato. Nel 1895, dopo otto
anni di intense trattative diplomatiche ed una spesa decisamente inferiore rispetto a quella
impiegata per aggiudicarsi l’Eritrea, oltre che un estremamente esiguo tributo di sangue,
l’Italia poteva dichiarare, almeno nominalmente il proprio controllo sul paese dei somali.
Nella realtà dei fatti, le cose non stavano proprio così: lo scarso interesse per il paese del
corno d’Africa, limitato spesso a consegnare ai vari capi la bandiera italiana, ed il controllo
non certo capillare del territorio, avrebbe invogliato i vari sultani a riprendere di tanto in tanto
la loro totale libertà d’azione con la conseguenza del compimento di atti ostili verso i presunti
colonizzatori. Anche dal punto di vista economico e sociale il territorio somalo non
presentava certo un’immagine da terra promessa anche se inguaribili ottimisti, come
Scarfoglio, così presentavano la nuova acquisizione:

[…]

“La Somalia a primo aspetto, specie a chi la contempli dal lato del mare, non si
presenta in parvenza troppo seducente […] Non bisogna lasciarsi ingannare dalle apparenze
né spaventare da una prima impressione sgradita: tutta la bassa valle del Giuba è uno
splendido paese denso di popolazione e ricco di colture, e il corso inferiore dell’Uebi, ove gli
indigeni dimostrano singolari tendenze all’agricoltura, si presta meravigliosamente a essere
colonizzato. […] Così, con una spesa insignificante, l’Italia fece in queste regioni il suo
dovere di potenza civile e i suoi interessi. Solidamente installata allo sbocco dei fiumi,
domando senza lotta la rozzezza e la ferocia degl’indigeni, spingendo grado a grado verso
l’interno il suo lavorio di penetrazione, ha gittato le basi d’una immensa colonia che un
giorno o l’altro darà ricetto a qualche milione di emigranti.”196

[…]

Naturalmente questi erano i sogni dei più infuocati colonialisti ma, ad onor del vero, i
flussi migratori che tra gli anni ’80 e ’90 del XIX secolo si erano ulteriormente ingrossati,
____________________________

193Obbia. - Regione della Somalia italiana, fino al 1926 sultanato sotto protettorato italiano compresa tra il commissariato
del Nogal a N., i territorî dell'Ogaden a O., il commissariato dell'Uebi Scebeli a S., mentre a E. si affaccia sull'Oceano
Indiano da El Cabobe a Capo Garad.

194 Migiurtinia. - Regione della Somalia che occupa la parte settentrionale della Penisola dei Somali, ossia il territorio,
all’incirca triangolare, compreso fra il Golfo di Aden, l’Oceano Indiano e il grande solco segnato dalla vallata del Uadi
Nugaal. È costituita da un tavolato che a N, verso il Golfo di Aden, presenta un orlo rilevato che raggiunge i 2200 m, mentre
a SE digrada verso l’Oceano Indiano, su cui si affaccia con una falesia alta circa 200 m. Capo Guardafui, estremità orientale
della regione, è il punto più orientale dell’Africa. La M. costituì un sultanato indipendente fino al 1889, quando l’Italia
impose il suo protettorato. Una serie di operazioni militari svolte tra il 1925 e il 1927 ridusse poi la regione sotto la diretta
amministrazione dell’Italia.

195 V. Documento n. 17.

196 A. Del Boca, Gli italiani in Africa orientale – Dall’unità alla marcia su Roma, Laterza, Bari, 1976, Pag. 416-18.
58

vedevano le loro mete restare quelle tradizionali (nord e sud America) e, salvo qualche rara
eccezione, i territori dell’Africa orientale non registravano quell’interesse che il governo
aveva sperato.

A questo punto ci sembra opportuno affrontare brevemente l’argomento della già


citata Compagnia Filonardi. Nel 1893 il governo italiano decise di adottare nel Benadir un
sistema di governo differente rispetto a quello esistente in Eritrea, considerando anche il
momento non favorevole dell’economia nazionale, ritenendo più conveniente affidare la
gestione della colonia ad una compagnia privata ed esercitando un controllo indiretto sulla
zona in questione.197 Tramite una convenzione (datata 11 maggio 1893) il governo cedette
quindi l’esercizio provvisorio dei porti e dei mercati interni alla Compagnia Filonardi
garantendogli inoltre una sovvenzione annua di trecentomila lire. In cambio la Compagnia si
impegnava a versare al sultano di Zanzibar il canone annuo di 160.000 rupie per l’affitto dei
porti di Mogadiscio, Merca, Brava e Uarscheich, pagare gli stipendi a tutti i governatori delle
città ed ai funzionari pubblici, gli appannaggi dei due sultani del nord, dei quali abbiamo già
parlato, e mantenere un gruppo di militari atti ad amministrare l’ordine pubblico e gestire la
sicurezza interna. Questa gestione dei territori poteva apparire, a prima vista, una soluzione
soddisfacente ma ciò che Roma non capì, per ignoranza e per incompetenza, fu che la
Compagnia non aveva né i capitali, né l’esperienza e neppure l’organizzazione per
amministrare una colonia; oltre che in buona parte ancora da esplorare, il territorio somalo
presentava turbolenze interne, dovute alla corruzione dilagante, il commercio degli schiavi
ancora ben vivo in questa zona dell’Africa orientale e lo scontro anche a Mogadiscio tra
l’etnia somala e quella araba da sempre in conflitto.198

Lo stesso Filonardi lamenterà, dopo poco tempo, di essere stato lasciato solo dal
governo italiano tanto che il 3 dicembre 1893 presenterà all’allora ministro degli esteri
Benedetto Brin199 le dimissioni da console a Zanzibar con la seguente motivazione:

[…]

“Per dare alla mia patria una colonia, sotto ogni aspetto invidiabile, ho rischiato
cento volte la vita, ho speso le mie forze, la mia gioventù, il mio denaro. Dal governo per
ricompensa ho ricevuto spesso delle umiliazioni, un incoraggiamento mai; tutto ho
sopportato fino ad ora soltanto per portare a termine l’opera con tanto amore e tanti sacrifici
___________________________

197
Il sistema non era certo nuovo, riprendeva infatti quello avviato dalla British East India Company che a partire dal 1670
ebbe dal Re Carlo II la licenza di acquisire nuovi territori, battere moneta e presidiare anche militarmente i possedimenti
britannici nel sub continente indiano e non solo. Naturalmente la Compagnia Filonardi non era neanche lontanamente
paragonabile alla sua corrispettiva inglese e la sua breve vita non fece che confermare questa enorme differenza in capitali,
esperienza e motivazione.

198 A. Del Boca, Gli italiani in Africa orientale – Dall’unità alla marcia su Roma, Laterza, Bari, 1976, Pag. 567-68.

199
Brin, Benedetto. - Uomo politico italiano (Torino 1833 – Roma 1898); economista, generale del genio navale, fu il
rinnovatore della nostra marina militare: creatore delle prime grandi corazzate moderne ("Duilio", 1873), progettista dei primi
incrociatori da battaglia ("Lepanto", 1885), fu ministro della Marina quattro volte, per circa dieci anni, e degli Esteri nel
1892-93; portò la flotta italiana al terzo posto fra le marine mondiali, e, nel 1878, istituì a Livorno l'Accademia navale;
promosse lo sviluppo dell'industria navalmeccanica (acciaierie di Terni, stabilimenti Armstrong di Pozzuoli, silurificio
Schwartzkopf di Venezia).
59

iniziata: oggi il mio compito è terminato: la Somalia è italiana finalmente. […]

I miei sacrifici hanno dato all’Italia una colonia atta a dar ricetto in un prossimo
avvenire alle migliaia di infelici che prendono la via dell’America per sobbarcarsi al penoso
lavoro che lo schiavo liberato rifiuta”200

[…]

Inoltre chiese al nuovo ministro degli esteri subentrato a Brin, Alberto Blanc201, che
gli fosse anticipata la sovvenzione per l’esercizio 1894/95 rendendosi conto di non poter
ottemperare agli obblighi assunti, ma il ministro, che vedeva con poca simpatia sia
l’avventura in Somalia che il Filonardi stesso, gliela negò esortandolo invece a confermare le
proprie dimissioni dal consolato. A sostituirlo venne inviato Cecchi con l’incarico di
controllare l’amministrazione della colonia ed il suo successivo rapporto fu impietoso: non
solo la Compagnia non aveva praticamente fatto nulla per la gestione dei nuovi possedimenti,
a causa della mancanza di mezzi e di un’assoluta mancanza di personale, ma aveva anche i
libri contabili in evidente disordine e per la società somala era soltanto un nome o poco più.
Cecchi raccomandò quindi al governo Crispi di rescindere il contratto con Filonardi e si
propose di fondare una nuova compagnia commerciale decisamente più solida e più attiva,
grazie anche alle proprie conoscenze e parentele nel mondo dell’industria lombarda. In realtà
le mire di Cecchi erano più ambiziose, egli pensava seriamente di trasformare quella serie di
protettorati e le zone che erano prese in affitto in una vera colonia ed acquisire territori anche
nell’entroterra somalo in modo da estendere l’influenza ed il controllo italiano in tutto il paese
dei somali. Nacque quindi nel 1896 la Società Anonima Commerciale per il Benadir,
composta dai più illustri esponenti della società milanese (G.B. Pirelli, F. Bocconi, C.
Erba,Visconti di Modrone ed altri) che venne investita, tramite un accordo preliminare del 15
aprile 1896 ed una convenzione firmata il 25 maggio 1898202, della gestione dei possedimenti
somali sostituendo la Compagnia Filonardi. Questa nuova società non entrerà però in
funzione che il 1° gennaio 1900 a causa di una serie di ritardi nell’approvazione della
convenzione dei due rami del parlamento ed i territori somali saranno gestiti fino ad allora da
due funzionari che dovranno principalmente risolvere i problemi di trasferimento dei poteri da
una compagnia all’altra; Cecchi, peraltro, non riuscì neppure a vedere realizzato il proprio
sogno dato che il 26 novembre 1896 venne ucciso da alcuni indigeni nei pressi di Lafolè
mentre cercava di raggiungere il sultano di Gheledi per concordare un’efficace azione di
difesa contro eventuali scorribande degli Amhara abissini in territorio somalo.203

_____________________________

200
A. Del Boca, Gli italiani in Africa orientale – Dall’unità alla marcia su Roma, Laterza, Bari, 1976, Pag. 569.
201
Blanc, Alberto. - Diplomatico e uomo politico (Chambéry 1835 - Torino1904), optò per la nazionalità italiana al momento
dell'annessione della Savoia alla Francia; educato alla scuola del Cavour, fu nel 1864, agli Esteri, capo di gabinetto di La
Marmora; nel 1870, quale ministro plenipotenziario, fu addetto al quartiere generale del gen. Cadorna. Salvo il triennio 1881-
83, in cui fu segretario generale agli Esteri, il B. dal 1870 al 1891 resse varie legazioni all'estero, fra cui quella di Madrid, e
nel 1886 raggiunse il grado di ambasciatore (Costantinopoli). Nominato senatore il 21 nov. 1892, nel 1893 entrò come
ministro degli Esteri nel gabinetto Crispi (fino al marzo 1896), e, benché amico del Crispi, non ne condivise l'entusiasmo
coloniale; conservatore per temperamento, fu convinto triplicista; mente equilibrata, fu apprezzato e stimato anche dai
governi esteri, che affidarono al suo arbitrato la risoluzione di spinose controversie.
202 V. Documento n. 18.

203
A. Del Boca, Gli italiani in Africa orientale – Dall’unità alla marcia su Roma, Laterza, Bari, 1976, Pag. 569-76.
60

Il periodo che andò dal 15 luglio 1896, scadenza della concessione Filonardi, al 1°
gennaio 1900, giorno della presa in carico della gestione somala da parte della Compagnia del
Benadir, fu un lasso di tempo decisamente ad alta tensione. Dopo la disfatta di Adua, il
processo formativo della nuova società si interruppe rendendo gli ambienti industriali
lombardi decisamente più esitanti riguardo all’avventura africana. In questo periodo
l’amministrazione dei possedimenti somali venne gestito direttamente dallo stato italiano,
lasciando temporaneamente Filonardi in colonia come Regio Commissario e supervisionato
da Cecchi in qualità di console. Il già citato eccidio di Lafolè204 rallentò la procedura di
perfezionamento della nuova convenzione ma incoraggiò il nuovo Presidente del Consiglio Di
Rudinì205 ad accelerare il più possibile i tempi affinché la nuova Compagnia cominciasse a
gestire il paese africano. La strategia era abbastanza chiara: scaricando tutti i rischi ed i costi
dell’operazione coloniale sulla Società milanese, il governo avrebbe ottenuto una specie di
“polizza di assicurazione” contro eventuali, e per nulla cercate in quel preciso momento
storico, nuove guerre coloniali.206

L’obiettivo principale della compagnia era quello di avviare una modernizzazione


dell’agricoltura somala, in particolar modo della coltivazione del cotone, che avrebbe
garantito all’industria tessile italiana quantità importanti di materia prima a prezzi inferiori
rispetto a quello corrente.207 Lo stesso Mylius dichiarava al riguardo:

[…]

“L’introduzione di queste macchine (ginning machines), assolutamente indispensabili,


_________________________

204
L’eccidio di Lafolè. - Nell'estate 1896 fu progettata dal governo italiano una spedizione nell'interno della Somalia con il
compito di esplorare la riva sinistra dell'Uebi, di farsi amiche le popolazioni e stringere con esse trattati ed accordi
commerciali. Il sultano diede il permesso di libero transito nella zona di Gheledi e fece avvertire che avrebbe accolto
amichevolmente la spedizione, ma invece si preparò ad assalirla. Alla spedizione, oltre il console generale Cecchi, che ne
assunse la direzione, parteciparono il capitano di fregata Ferdinando Maffei, comandante della R. Nave Staffetta, il capitano
di fregata Francesco Mongiardini, comandante della R. Nave Volturno, altri marinai ed alcuni ascari La spedizione partita da
Mogadiscio il 25 novembre, si accampò nella boscaglia di Lafolè. Verso l'una i somali assalirono all'improvviso
l'accampamento; gl'Italiani però tennero in rispetto gli assalitori fino all'alba. Si decise di far ritorno a Mogadiscio nella
certezza che durante il giorno i Somali non avrebbero osato di attaccare la carovana. All'alba la spedizione partì e marciò sino
alle sette senza essere molestata. Ma all'improvviso essa fu attaccata da tutte le parti. La spedizione continuò a difendersi
bene dagli assalitori mantenendoli a distanza, e poté proseguire e giungere fra i Mursala. Ma mentre stava per entrare nel
territorio di quelle tribù ritenute amiche, l'assalto si fece più intenso. Uno dopo l'altro caddero tutti i membri della spedizione;
soltanto alcuni ascari, il sottocapo Vianello, i marinai Gregante e Buonasera riuscirono a stento a raggiungere Mogadiscio.
Per vendicare l'eccidio di Lafolè, furono incendiati e distrutti i villaggi di Gellai, Res e Lafolè.

205 Rudinì, Antonio Starrabba marchese di. - Uomo politico (Palermo 1839 – Roma 1908). Laureatosi in legge a Palermo,
costretto all'esilio per aver preso parte ai moti insurrezionali antiborbonici dell'apr. 1860, nel 1864 fece ritorno nella sua città
e ne fu eletto sindaco. Distintosi per le sue capacità amministrative, l'aver fronteggiato con successo il movimento popolare
del sett. 1866 gli valse la nomina a prefetto di Palermo e poi di Napoli (1868). Ministro degli Interni e deputato della Destra
(1869), assunse un atteggiamento di opposizione nei confronti dei gabinetti Depretis e Crispi, succedendo a quest'ultimo nel
febbr. 1891. Deciso ad affrontare le gravi condizioni del bilancio, si dimise a causa dell'opposizione incontrata dalla sua
proposta di nuove imposte (maggio 1892). Tornato al governo nel marzo 1896, dopo la crisi seguita alla sconfitta di Adua, R.
si impegnò a sanare le conseguenze della politica estera crispina, concludendo la pace con l'Etiopia e riavvicinandosi alla
Francia. Sul piano interno affrontò la crisi sociale in atto nel paese facendo largo uso di misure repressive, ma fu costretto a
dimettersi in seguito alle manifestazioni popolari di Milano del maggio 1898. Risultato vano l'immediato tentativo di varare
un nuovo esecutivo, R. non ricoprì più incarichi di rilievo; negli anni successivi prese comunque posizione contro la politica
giolittiana.

206
F. Grassi, Le origini dell’imperialismo italiano: il «caso somalo» (1896 – 1915), Milella, Lecce, 1980, Pag. 30-31.
207Il prezzo del cotone somalo era di 25 cent. al Kg. (50 cent. importato in Italia) che era comunque inferiore ai 65 cent. che
costava in patria. (F. Grassi op. cit.)
61

e con un sistema di vendita regolato in modo più conforme agli usi moderni, non dubito che il
cotone del Benadir troverà smercio in Europa, e diventerà elemento di prosperità per la
colonia.”208

[…]

Al contrario si dimostrava meno ottimista sulle esportazioni italiane: «L’articolo


principale quasi esclusivo di importazione del Benadir, sono le cotonate indiane e americane
e queste sono vendute al prezzo così basso che la nostra industria non potrebbe sostenere la
concorrenza».209

A partire dalla fine del 1896 si verificarono comunque le prime avvisaglie di quella
che sarebbe stata una costante resistenza alla penetrazione italiana nel territorio somalo; oltre
alla strage di Lafolè agli inizi del 1897 venne ucciso il primo residente italiano Giacomo
Trevis. La resistenza trovò ben pesto il supporto di una coalizione di forze, padroni di terre
schiavisti, grandi mercanti arabo-indiani, borghesia mercantile e buona parte del clero
islamico. L’ostacolo principale che l’amministrazione italiana trovò davanti a sé fu quello
della schiavitù, usanza in vigore da secoli nel paese e importante nell’economia agricola
somala.210 La questione della tradizione schiavistica somala fu subito valutata come un
problema politico ed anche come un pericolo per la sicurezza nella colonia, mentre non
furono immediatamente avvertite le implicazioni socio-strutturali. Si deve tenere presente che
l’ambiente fisico della zona del Benadir, racchiusa tra due grandi fiumi, il Giuba e lo Uebi
Scebel, era l’unico che presentasse i caratteri giusti per essere coltivato da comunità stanziali.
Le tribù di somali di origine Sab211 conservavano una società in cui la stratificazione sociale
era legata a funzioni produttive ben definite ed era in questo contesto che si spiegavano sia
l’esistenza della schiavitù che quella della servitù domestica, schiavi ottenuti sia attraverso la
tratta, monopolizzata sino a metà del XIX secolo dal Sultano di Zanzibar, che attraverso tribù
soggiogate.212

Dobbiamo inoltre sottolineare un particolare fondamentale nel capire le problematiche


che gli italiani incontrarono una volta sbarcati sulle coste del paese dei somali: prima della
colonizzazione, la Somalia come entità statuale unitaria non esisteva. Il nome ufficiale
“Somalia” verrà dato dal governo coloniale italiano solo con il decreto legge n. 161 del 5
aprile 1908 ed unirà tutta una serie di tribù che nulla avevano a che fare, perlomeno
etnicamente, gli uni con gli altri. I gruppi tribali che vivevano nel sud del paese come i
Rahanweyn, i bantu ed i banaadiri non appartenevano al gruppo etnico dei somali e quindi
__________________________

208
F. Grassi, Le origini dell’imperialismo italiano: il «caso somalo» (1896 – 1915), Milella, Lecce, 1980, Pag. 16.

209
Ibidem, pag 17.

210
L. Goglia, F. Grassi, Il colonialismo italiano da Adua all’impero, Laterza, Bari, 1993, Pag. 102.
211 Le due etnie principali, erano i Sab ed i Samaale, entrambe in origine popolazioni nomadi. I Dighil ed i Rahanweyn erano
due clan Sab che conquistarono il paese abitato da tribù sedentarie di origine bantù e galla e finirono per assumerne oltre che
le abitudini culturali anche alcuni caratteri fisici. (F. Grassi op. cit.)

212 F. Grassi, Le origini dell’imperialismo italiano: il «caso somalo» (1896 – 1915), Milella, Lecce, 1980, Pag. 51-53.
62

utilizzare il nome di un solo gruppo per identificare una nazione suonò come una
provocazione. Sarebbe stato più opportuno utilizzare gli antichi nomi di Azania, Zingion
oppure Ophir ma data la scarsa conoscenza, per non dire la totale ignoranza, delle questioni
africane, venne utilizzato il nome più semplice e più facilmente riconoscibile.213

Anche per quanto concerne la schiavitù, uno storico africano vuole puntualizzare che,
non negando la presenza di schiavi in Somalia, egli sottolinea che non aveva l’importanza
economica che gli veniva attribuita dagli italiani e che, soprattutto nelle città della costa,
abitate principalmente da cittadini di discendenza araba, essa non aveva nessuna caratteristica
di crudeltà. Diversa era invece la situazione degli schiavi dei clan non arabi dell’entroterra,
dove erano spesso maltrattati ed ai quali venivano messi i ferri alle caviglie.214

Ad ogni modo, quando la lotta del governo coloniale contro la tratta si fece più
intensa, i mercanti di schiavi della costa del Benadir accettarono la situazione loro malgrado,
mentre le tribù nomadi dell’interno (Hawiya) cercarono di opporsi con ogni mezzo alla
politica dei colonizzatori. I resistenti cercarono di presentare il governo coloniale come
infedeli che erano contro la fede islamica e che stavano cercando di infiltrarsi tra le pieghe
della società somala con l’intento di convertirla alla cristianità. Se questa strategia si
prometteva di ottenere consensi alla lotta contro l’occupante anche da parte degli schiavi
affrancati e dagli indigeni delle coste fu un fallimento poiché venne semplicemente
considerata un tentativo di ristabilire la schiavitù ed il precedente status quo.215

Dato che il Commissario straordinario Sorrentino era sì il rappresentante del governo


nella colonia ma era anche l’espressione degli interessi espansionistici dei ceti militari,
progettò già nel 1897 un’azione di repressione contro la tribù degli Uadan216, autori
dell’eccidio di Lafolè, con il celato obiettivo di occupare Gheledi.217 Nel suo rapporto al
ministro degli affari esteri, Sorrentino punta molto sulla difficoltà che la resistenza degli
Uadan avrebbe incontrato nell’allearsi a quella di altre tribù e formare una guerriglia di
carattere nazionalistico. Il Commissario si esprimeva in questi termini: «Ho esaminato la
possibilità che vi possa essere di una coalizione tra le diverse tribù somale nel caso di
un’energica azione nostra contro i ribelli ed era cosa da escludersi; la storia di questi paesi è
tutto un seguito di lotte fra le diverse tribù, di assassini, di furti di bestiame, esistono tra essi
ragioni potenti di odi fondati nelle tradizioni, nelle diversità di origine e di interessi e prima
che si siano spenti dovranno passare molte generazioni».218

_______________________

213N. Hagi Scikei, Somalia: un’invenzione italiana, “Africana”, Rivista di Studi Extraeuropei, Vol. VII (2001), Edistudio,
Pisa, 2001, Pag. 95-96.

214 Ibidem, Pag. 102-103.

215
A. Kusow, Putting the Cart before the Horse: contested Nationalism and the Crisis of the Nation-state in Somalia, Africa
World Press, Asmara, 2004, Pag.144.

216 Uadan – Popolazione nomade del Benadir dedita alla pastorizia che fondava la propria società sullo schiavismo.

217 Gheledi – Zona della Somalia nella regione della Shabeellaha Hoose.

218 F. Grassi, Le origini dell’imperialismo italiano: il «caso somalo» (1896 – 1915), Milella, Lecce, 1980, Pag. 69-70.
63

Secondo Sorrentino l’attacco non avrebbe dovuto lasciare dubbi sul tipo di
pacificazione che si intendeva attuare nel Benadir: tutti i ribelli che avrebbero opposto
resistenza sarebbero stati passati per le armi, i villaggi bruciati, i pozzi inquinati, le donne e i
bambini, insieme agli uomini da sottoporre alle indagini sarebbero stati deportati a
Mogadiscio e trattenuti come ostaggi, gli schiavi sarebbero stati liberati ed impiegati nella
costruzione delle fortificazioni della città. Il 10 febbraio a mezzanotte la spedizione partì e
tutto si svolse come da copione.219

I problemi più sentiti dalla nuova società, non riguardavano la sicurezza, anche se
come abbiamo visto erano ben presenti, bensì il collasso del commercio e dell’agricoltura
nell’entroterra, causato dalle scorrerie etiopiche e dalla spedizione punitiva per vendicare
Lafolè, le quali avevano messo in crisi il già poco fiorente sistema benadiriano. Nonostante il
tentativo di migliorare la situazione costruendo un avamposto commerciale a Jesira già nel
1897, la scarsa disponibilità a finanziare, finché il futuro della concessione non fosse stato
deciso, un sistema di irrigazione tra Webi Shebelle e Brava, che avrebbe sicuramente
sviluppato l’agricoltura e che avrebbe favorito il successo della colonia, contribuì a peggiorare
la situazione.220

Quando il 24 dicembre 1899 venne ratificata la convenzione tra lo Stato italiano e la


Compagnia del Benadir, la situazione era tutt’altro che rosea. Il “regalo di Natale” non riuscì a
dare quell’entusiasmo del quale la Società aveva un infinito bisogno; infatti, a causa della
mancanza di dividendi, lo stesso segretario Carminati fu costretto ad ammettere che la
Compagnia non avrebbe avuto la possibilità di sviluppare le infrastrutture e l’economia della
regione vista la mancanza di denaro e che solo la fortuna avrebbe potuto aiutarli. Il successo
previsto della Compagnia non si materializzò, anzi si ripropose lo stesso problema già
evidenziatosi in Eritrea: il modello composto da piccoli appezzamenti di terreno dati a coloni
provenienti dalla madrepatria impossibilitati ad investire ingenti capitali nello sviluppo
dell’agricoltura africana fallì nuovamente. Dato quindi che l’unico introito della Compagnia si
rivelò il sussidio statale, peraltro insufficiente per poter anche solo pensare a degli
investimenti, il destino della nuova Società parve segnato.221

Tutto ciò fa pensare che l’adozione di un modello di colonialismo indiretto in un


periodo storico nel quale tutte le altre potenze coloniali l’avevano già abbandonato possa
essere dovuto alla forte miopia dei governanti italiani. Se però riflettiamo che all’inizio del
‘900 l’Italia era in una fase di decollo industriale e di conseguenza in una fase di transizione
da un colonialismo considerato tardivo ad un imperialismo strategico, mentre gli altri paesi
europei si trovavano già in una fase di colonialismo classico, possiamo trovare delle
giustificazioni all’adozione di un modello considerabile improprio, a causa dello sfasamento
________________________________

219 F. Grassi, Le origini dell’imperialismo italiano: il «caso somalo» (1896 – 1915), Milella, Lecce, 1980, Pag. 71-72.

220 S. Rhymer, The reluctant Imperialist: Italian Colonization in Somalia, S. Rhymer Publishing, Albuquerque, 2011, Pag.

83-84.

221 Ibidem, Pag. 86.


64

dello sviluppo economico italiano. Inoltre, per il governo nazionale, dare in gestione il
Benadir ad una società privata era la maniera più semplice per superare tutte le obiezioni
parlamentari che si sarebbero presentate in seguito ad una gestione diretta, quando era ancora
freschissimo il ricordo di Adua.222

I risultati dei tentativi di pacificazione del territorio somalo e dello sviluppo agricolo-
commerciale del paese furono decisamente deludenti. I continui contrasti tra
l’amministrazione civile e l’elemento militare, le numerose rivelazioni sulla complicità degli
amministratori italiani nel mantenimento della schiavitù, le voci sugli eccessi compiuti
durante le frequenti repressioni e le valutazioni negative relative alla gestione economica della
colonia, improntata più ad una politica speculativa piuttosto che imprenditoriale, scatenarono
nella primavera del 1903 una feroce campagna di stampa seguita da un dibattito parlamentare.
L’inchiesta Chiesi-Travelli223 non potette che comprovare la fondatezza di molte di queste
accuse e, dato che aveva ricevuto dal governo poteri non esclusivamente inquirenti ma anche
esecutivi, provvide a destituire il governatore della colonia. In seguito a questi fatti, il governo
Giolitti-Tittoni224 denunciò la convenzione del 1898 e la colonia passò ad una gestione diretta

_______________________________

222 F. Grassi, Le origini dell’imperialismo italiano: il «caso somalo» (1896 – 1915), Milella, Lecce, 1980, Pag. 107-108.

223
Dal nome dei due personaggi (G. Chiesi e E. Travelli) che furono incaricati dalla stessa Compagnia del Benadir di
indagare sulla questione del commercio degli schiavi e sulla correttezza dei funzionari nella colonia.

224
Giolitti, Giovanni. - Uomo politico e statista italiano (Mondovì 1842 - Cavour 1928). Segretario generale della Corte dei
Conti e poi Consigliere di stato, fu deputato (1882, 1924), ministro del Tesoro (1889-90) e degli Interni (1901-03), presidente
del Consiglio. Attivo nel gruppo dei liberali progressisti, seguì con impegno particolare la politica finanziaria, dal 1885 in
espressa polemica con il ministro del Tesoro A. Magliani, e nel 1887 sostenne il gabinetto Crispi. Dimessosi Magliani, fu G.
ad assumere il ministero del Tesoro (marzo 1889 - dic. 1890) divenendo il leader del partito delle economie nella sinistra
liberale. Ciò lo mise in una luce particolare per cui, caduto il governo Rudinì, la scelta del re, sollecitata da U. Rattazzi, cadde
su G. per l'incarico di presidente del Consiglio (maggio 1892). Sciolta la Camera e costituita una consistente maggioranza
con le elezioni del 1892, a segnare la fine del I gabinetto G. (nov. 1893) intervennero la battaglia parlamentare di Crispi e lo
scandalo della Banca Romana, nel quale il presidente del Consiglio venne accusato da un comitato di parlamentari, incaricato
di indagare sulle vicende dell'istituto di emissione, di irregolarità commesse allorché era ministro del Tesoro. Con l'inizio del
secolo G. prese a occupare un posto di grandissimo rilievo nel quadro politico, tanto che sovente gli storici del secondo
dopoguerra hanno parlato del periodo 1901-14 come dell'"età giolittiana": fu infatti ministro degli Interni del gabinetto
Zanardelli (1901-03), durante il quale fu in effetti l'ispiratore della politica governativa, poi presidente del Consiglio per tre
lunghi ministeri fino al 1914, interrotti dai gabinetti Tittoni, Fortis e Sonnino (1905-06), e dai gabinetti Sonnino e Luzzatti
(1909-11). La politica giolittiana fu orientata verso un "ordinato progresso civile", che comportava un prudente allargamento
delle basi del potere onde permettere una qual certa forma di partecipazione al movimento dei lavoratori; in questa
prospettiva egli accentuò il carattere liberale della linea governativa, cercando di porre lo stato in una posizione neutrale o
intermedia nei conflitti di lavoro. In ambito economico, G. tese a sostenere, con un cauto protezionismo, lo sviluppo
dell'industria pur difendendo il bilancio statale dalle pressioni dei privati. I punti dove maggiormente si diressero le
polemiche degli oppositori di sinistra furono la politica meridionale e la spregiudicata prassi elettoralistica, mentre da altri
settori gli veniva rimproverato l'abbandono del liberismo sul terreno della politica economica, e da settori industriali
l'acquiescenza nei confronti delle rivendicazioni sindacali. A suo favore G. ebbe la Corona, il socialismo riformista, alcuni
settori intellettuali e larghi strati della borghesia. Poté così costruire e mantenere un articolato sistema di potere i cui primi
segni di squilibrio si manifestarono verso la fine del primo decennio, allorché si profilò una crisi generale della società e dello
stato liberali, attraverso una serie di spostamenti politici significativamente centrifughi: il movimento operaio, posta in
minoranza la componente riformista, iniziò a pretendere un più sostanziale coinvolgimento nel potere, i cattolici
rivendicavano una presenza non più marginale nello stato, mentre alcuni settori politici e intellettuali ipotizzavano
un'organizzazione sociale di tipo corporativo e si diffondeva il movimento nazionalista. G. si rivolse allora al mondo cattolico
e strinse nel 1913 un accordo elettorale (patto Gentiloni) che gli avrebbe consentito maggiori spazî di manovra politica; ma
anche la Camera uscita dalle elezioni del 1913 gli rese difficile l'azione di governo e nel marzo 1914 G. preferì dimettersi.
Neutralista, restò ai margini della vita politica per il periodo bellico, ma venne chiamato nel giugno 1920 a costituire il suo
quinto ministero, in una situazione in cui il durissimo conflitto politico e sociale segnava la dissoluzione dello stato liberale,
rendendo pressoché inesistenti i margini della tradizionale mediazione giolittiana. Sciolta la Camera il responso delle urne gli
fu nuovamente avverso e nel giugno 1921 rassegnò le dimissioni ponendo termine alla carriera di statista. Come deputato
liberale, dal 1924 fu all'opposizione del governo Mussolini.
65

dello stato italiano.225

Questa fase venne definita “imperialismo strategico” cioè il consolidamento del


possesso dei territori coloniali nell’attesa che il capitalismo nazionale giungesse ad una
maturazione tale da poter effettuare gli investimenti necessari a promuoverne lo sviluppo.
Aspettando questo momento, si sarebbe dovuta cominciare una vera e propria penetrazione
pacifica del territorio somalo. Il Ministro degli Esteri Tittoni, affidò nel maggio del 1905 al
giornalista ed ex funzionario coloniale Luigi Mercatelli226 il compito di riorganizzare la
colonia. Egli cercò, infatti, di costruire un modello di colonia che lasciasse sopravvivere
alcune forme di gestione indiretta; introdusse una legislazione che si ispirasse ai principi del
diritto italiano ma non soppresse l’ordinamento consuetudinario la cui amministrazione
doveva spettare sempre ai tribunali indigeni ed ai loro capi (Cadì). Anche nei riguardi della
schiavitù procedette gradualmente, sopprimendola nelle aree urbane dove il primo capitalismo
mercantile aveva già creato una moderna forma di salario e tollerandola nelle aree agricole
dove la presenza servile era prevalente; cercò anche di bonificare l’amministrazione nel
tentativo di affermare il primato del governatore sull’elemento militare. Tutto questo però
fece convergere gli interessi di tutte le parti in causa (schiavisti, militari, mercanti, capitalisti),
le quali intentarono un affaire227 nei confronti del governatore in modo che fosse allontanato.
Nonostante nel maggio del 1906 il Consiglio del Ministero degli affari esteri assolvesse
Mercatelli, già nell’aprile dello stesso anno fu richiamato in patria e sostituito.228

Il vecchio governatore fu sostituito da un ufficiale della Regia Marina, Giovanni


__________________________________

224
Tittoni, Tommaso. - Uomo politico e diplomatico (Roma 1855 – Manziana 1931), figlio di Vincenzo. Deputato della
destra (1886-97), fu prefetto di Perugia (1898) e di Napoli (1900), quindi senatore (1902). Divenuto ministro degli Esteri
(1903-05), cercò di eliminare le tensioni nei rapporti con l'Austria-Ungheria alimentate dalla propaganda irredentista e al
tempo stesso di rafforzare la presenza dell'Italia nei Balcani. In politica interna fu il trait d'union fra conservatori e clericali,
adoperandosi nel 1904, in occasione delle elezioni politiche, per ottenere la partecipazione al voto dei cattolici. Ambasciatore
a Londra (1906) e nuovamente ministro degli Esteri (1906-09), dovette fronteggiare la difficile situazione internazionale
seguita all'annessione austriaca della Bosnia-Erzegovina (1908). Ambasciatore a Parigi (1910-16), fu ancora a capo della
Consulta dal giugno al nov. 1919, partecipando, come capo della delegazione italiana, alla Conferenza della pace di Parigi,
senza peraltro riuscire a migliorare la situazione diplomatica dell'Italia. Presidente del Senato (1920-29), socio nazionale dei
Lincei (1921), collare dell'Annunziata (1925), fu presidente dell'Accademia d'Italia (1929-30).

225 L. Goglia, F. Grassi, Il colonialismo italiano da Adua all’impero, Laterza, Bari, 1993, Pag. 102.

226 Mercatelli, Luigi. – Giornalista e funzionario coloniale (Alfonsine 1853 – Rio de Janeiro 1922). Dal padre il M. fu

avviato agli studi giuridici che completò a Ferrara, ma alla carriera forense preferì quella giornalistica. Apprezzato
collaboratore del Corriere di Napoli, dapprima, nel 1888, come corrispondente da Roma, poi, dal 1889 al 1891, come inviato
speciale in Africa, passò nel 1892 al Mattino di E. Scarfoglio seguendo soprattutto la cronaca parlamentare. La sua notorietà
come giornalista rimase tuttavia principalmente legata all’attività svolta alla Tribuna, dove il M. lavorò a partire dal 1883,
inizialmente come redattore, poi come corrispondente dall’Eritrea, infine, nel 1899, come condirettore insieme con F. Fabbri.
Nel marzo del 1896 fu uno dei primi giornalisti a incontrare, a Massaua, il generale O. Baratieri che rientrava da Asmara
dopo la sconfitta di Adua, della quale battaglia fornì un’appassionata descrizione nell’articolo La Waterloo africana (La
Tribuna, 13 marzo 1896).Per l’esperienza maturata come giornalista in Africa orientale, nel 1898 il M. venne chiamato in
Eritrea nel ruolo di capo di gabinetto dal neogovernatore della colonia F. Martini, al quale, l’anno precedente, era stato
affidato il compito di consolidare l’amministrazione civile dell’Eritrea. Il M. ebbe un ruolo importante nella politica coloniale
italiana in Somalia, in quanto si trovò a gestire il passaggio della colonia all’amministrazione diretta dello Stato. Nel marzo
1905 venne nominato commissario generale della Somalia italiana, con l’incarico di ricevere in consegna la colonia. Al M. si
deve la stesura del Progetto di ordinamento della Somalia italiana meridionale (Roma 1905), che costituisce il primo
tentativo di riorganizzare la presenza italiana nella regione.

227
Serie di accuse, spesso costruite ad arte, per eliminare o togliere da determinate posizioni avversari politici o militari.

228
L. Goglia, F. Grassi, Il colonialismo italiano da Adua all’impero, Laterza, Bari, 1993, Pag. 104.
66

Cerrina Feroni229, al quale venne data per un anno la reggenza della colonia. Si mise subito al
lavoro nel tentativo di modernizzare la colonia e di consolidare l’ancor precaria occupazione,
che ancora si limitava alla sola zona costiera, tentando di promuovere una politica di
penetrazione e di occupazione con mezzi pacifici. In questo periodo però, tra la fine del 1906
e l’inizio del 1907, alcune tribù Bimal, guidate dai loro capi religiosi, ripresero una guerriglia
di resistenza contro l’occupante bianco cercando di trasformarla in una “guerra santa”.
Spiccava tra di loro lo sceik Abdi Abibaker Gafle, il quale si mise in contatto con il Mad
Mullah230 proclamandosi vicario di costui e facendo credere di avere ottenuto una fornitura di
fucili da esso. L’obiettivo di Gafle era quello di formare una coalizione tra tutte le tribù dei
Bimal ed arrivare ad un modello di organizzazione religioso-militare sullo schema di quella
del Mullah. Peraltro la propaganda dello sceicco non faticò a farsi strada tra le varie tribù,
preoccupate dalle varie escursioni italiane che provenivano dalla costa. Si arrivò così, nella
notte tra il 9 ed il 10 di febbraio del 1907, allo scontro presso il villaggio di Danane tra un
piccolo corpo di spedizione italiano (circa 500 uomini) e le forze dei Bimal: le perdite dei
somali si aggirarono intorno ai 350 uomini (111 morti) mentre fra le truppe coloniali si
dovette registrare un morto e 24 feriti.232 L’assenza dei presunti fucili che i Bimal credevano
sarebbero arrivati dal Mullah segnò la sconfitta degli africani. Lo scontro di Danane diede
comunque uno scossone all’opinione pubblica italiana la quale tendeva a dimenticarsi della
colonia ed il governo oltre che inviare materiale bellico in Somalia prese la decisione più
importante e più fortemente invocata da Cerrina cioè la nomina di un comandante delle
truppe.231

____________________________________

229 Cerrina
Feroni, Giovanni. – Ammiraglio (Firenze 1866 – Roma 1952). Partecipò nel 1905 al congresso coloniale svoltosi
all'Asmara, e nel gennaio del 1906 venne nominato reggente il governo del Benadir - che tenne poco più di un anno - con il
compito di consolidare la precaria occupazione, limitata allora alla sola costa. Si occupò subito e con grande energia
dell'andamento e dello sviluppo della colonia e, nel marzo dello stesso anno, presentò al ministero degli Esteri una dettagliata
relazione sulle condizioni economiche e sociali del paese. Venivano richiesti mezzi per la penetrazione all'interno, dove si
sarebbero potute creare vaste risorse mediante l'irrigazione e la coltivazione razionale di foraggi, cotone e semi oleosi, e
veniva sottolineata la necessità di arrivare ad una sollecita definizione dei confini con l'Etiopia meridionale, per evitare le
frequenti scorrerie degli Abissini. Nel rapporto, che permette di mettere a fuoco le idee di politica coloniale del C., piuttosto
aperte ma anche un poco paternalistiche, si dichiarava convinto della necessità di uno sviluppo economico del territorio in
grado di promuovere, prima ancora che l'arricchimento della metropoli, il maggior benessere della popolazione indigena;
questo benessere avrebbe reso più facile la penetrazione e l'occupazione con mezzi pacifici. Non poté tuttavia realizzare le
sue intenzioni, e per la brevità del mandato, e perché dovette fronteggiare la tribù dei Bimal, poco disposti ad accettare la
supremazia italiana.

230 Mad Mullah ("il Mullah pazzo"). - Nomignolo dato dagli Inglesi al capo religioso e politico somalo musulmano,

appartenente alla confraternita aṣ-Ṣāliḥiyya, Muḥammad ῾Abdille Ḥasan (1864-1920). Nel 1899 proclamò contro i cristiani
stanziati in Somalia, soprattutto inglesi ed etiopici, il jihād, che durò fino al 1920, quando la riaffermazione del diretto
dominio italiano in Somalia e una energica campagna britannica costrinsero M. M. a rifugiarsi a Imi, in territorio etiopico,
dove morì. A M. M. va riconosciuto il merito di avere diffuso un forte spirito patriottico tra i Somali.

231
F. Grassi, Le origini dell’imperialismo italiano: il «caso somalo» (1896 – 1915), Milella, Lecce, 1980, Pag. 301-306.

232 Secondo M. Haji Mukhtar (Op. cit.), le forze in campo erano così strutturate: 2000 guerriglieri Bimal contro 1000 soldati
italiani appoggiati da 1500 mercenari arabi, eritrei e somali. Le perdite dei Bimal ammontarono a parecchie centinaia di morti
e di feriti ed anche fra le truppe italiane si registrarono forti perdite. La battaglia di Danane segnò la fine di una forte
resistenza indigena al colonialismo italiano nella regione anche se la Coalizione del Benadir, sotto lo guida di Gafle, rimase
fino agli anni ’20 la maggior oppositrice dell’infiltrazione tricolore nella regione dei fiumi.
67

Nel 1907 a sostituire Cerrina come commissario civile della colonia venne chiamato
Tommaso Carletti233, mossa necessaria per tornare ad avere un governatore civile a pieno
titolo che risolvesse la situazione di precarietà e di incertezza in cui si era venuta a trovare la
colonia a seguito della mancata approvazione del nuovo ordinamento. La nomina di Carletti
aveva anche una ragione politica in chiave nazionale: essendo egli un semplice borghese
(anche se di alto profilo), la sua designazione andava a spezzare quei vincoli di casta e
giuridici che fino ad allora avevano caratterizzato la diplomazia italiana. Fino a quel
momento, infatti, l’unica carriera diplomatica per un borghese era stata quella consolare
mentre i governatorati e tutte le cariche più alte della diplomazia erano riservati ai nobili. Il
nuovo governatore intraprese subito una serie di viaggi nel Benadir per comprendere se il
famoso sogno delle piantagioni di cotone, che continuava ad ossessionare governatori,
militari, commercianti ed industriali, fosse applicabile in quella povera zona dell’Africa
Orientale. Anche Carletti non riuscì però a comprendere che le numerose negatività che
ancora imperavano in quel lembo di terra africana (difficoltà tecniche, scarsità di bilancio,
indisponibilità di grandi capitali e soprattutto la diffusa ostilità delle popolazioni locali) non
consentivano ancora lo sviluppo dell’imprenditoria nazionale. Il nuovo governatore scambiò
anch’egli le manifestazioni diplomatiche dei capi tribù con i reali sentimenti di quelle genti.
Scrisse infatti al termine di un viaggio:

[…]

“La forma delle accoglienze da me ricevute, della benevolenza dimostrata alle


popolazioni tra cui ero passato, dell’interessamento spiegato per le persone addette al culto
mussulmano, contribuì a creare anche tra le tribù a noi più ostili uno stato d’animo, se non
subitamente a noi favorevole, che apparecchiava un terreno propizio ad una generale
pacificazione”234

[…]

L’ottimismo della nuova amministrazione venne comunque spento dall’ennesimo fatto


d’armi negativo e cioè la battaglia di Bahallé, dove i capitani Molinari e Bongiovanni
trovarono la morte assieme a 113 ascari nell’impari scontro contro un’orda Ahmara forte di
circa 3000 guerrieri, ennesimo esempio di impreparazione e pressapochismo
dell’amministrazione coloniale.235

Ad onta di ciò che è stato finora raccontato e nonostante la crisi economica che investì
l’Italia nel 1907, il parlamento nazionale ratificò il 5 aprile 1908 la legge organica n. 161 che

_____________________________

233
Carletti, Tommaso. – Diplomatico (Viterbo 1860 – 1919). Commissario generale del Benadir dal 1907 al 1908. Venne
nominato Governatore per la nuova Somalia italiana, che amministrò dal 1908 a luglio 1910. Nel luglio 1908 Carletti
cominciò la conquista della zona interna della Somalia. Attuò un approccio moderato nei confronti della popolazione somala
durante la fase iniziale della campagna, ma entrò spesso in conflitto con il comandante militare Antonino Di Giorgio che
compì una sanguinaria campagna nella regione dello Scebeli. Nel 1909 Carletti introdusse la rupia somala come moneta in
uso in Somalia, la quale rimase in corso fino al 1925. La rupia somala era divisa in bese.

234
F. Grassi, Le origini dell’imperialismo italiano: il «caso somalo» (1896 – 1915), Milella, Lecce, 1980, Pag. 308-319.

235 A. Del Boca, Gli italiani in Africa orientale – Dall’unità alla marcia su Roma, Laterza, Bari, 1976, Pag. 612.
68

faceva assumere definitivamente alla colonia il nome di Somalia Italiana, includendo anche i
protettorati della Somalia settentrionale (Sultanati di Obbia, del Nogal e dei Migiurtini).236

Nonostante gli sforzi di Carletti il panorama economico della nuova colonia restava
desolante e lo stesso governatore annotava nella sua relazione al parlamento del 1908:

[…]

“E’ doloroso constatare come la parte che l’Italia prende al movimento commerciale
del Benadir si riduca ad una cifra meschinissima. All’esportazione non figura affatto, e
all’importazione sopra un movimento complessivo di lire 2.260.944 l’Italia figura per lire
52.718; dall’Italia non si importa al Benadir che acqua minerale, generi alimentari (lire
27.505), vini (lire 22.052) e scarsissime quantità di cotonate di provenienza italiana siasi del
5 al 4% ridotto il diritto d’importazione”.237

[…]

Secondo lo stesso Carletti, riconsiderando il problema, i guai del Benadir derivavano,


oltre che dalla mancanza di una linea di navigazione (istituita nel 1908) e dall’assenza di un
sistema di pagamenti internazionale (anch’esso risolto,sempre nel 1908 con il servizio dei
vaglia) da uno scarso slancio degli imprenditori nazionali. Il governatore non considerava
però la situazione economica in patria dove, oltre alla crisi del 1907, la situazione delle aree
depresse del Mezzogiorno costituiva una sorta di mercato coloniale interno; il potere
d’acquisto di quest’area in un regime protezionistico aveva reso possibile l’assorbimento della
produzione industriale ed aveva impedito quella caduta del tasso di profitto che avrebbe
dovuto spingere gli investimenti nelle colonie.238

Inoltre, all’Italia mancava uno strumento indispensabile nel commercio coloniale,


quello delle grandi compagnie di tratta dati i fallimenti precedentemente citati. Non era da
sottovalutare neppure la resistenza della borghesia arabo-zanzibarita e indiana, la quale oltre
ad un collaudato collegamento con il piccolo commercio indigeno, aveva alle spalle grossi
gruppi finanziari anglo-indiani ed americani. Le spese militari per la pacificazione del
territorio completavano la situazione di deficit della colonia.239

A proposito di pacificazione, dobbiamo a questo punto evidenziare in questa fase


storica, il passaggio dalla politica di penetrazione pacifica a quella di un imperialismo forse
non ancora maturo ma non per questo meno aggressivo. Carletti faceva parte di quel ristretto
gruppo di funzionari intellettuali che aveva svolto un lavoro preparatorio per una successiva
espansione, senza cedere troppo ai ceti militari ma anche senza farsi eccessivi scrupoli di
usare la violenza verso civiltà diverse per aprire la strada al colonialismo italiano. Nonostante
la sua gestione avesse avuto dei punti positivi (il consolidamento della gestione diretta, la
riorganizzazione dell’amministrazione, il contenimento dell’invadenza militare ed i primi
___________________________
236
V. Documento n. 18.

237 F. Grassi, Le origini dell’imperialismo italiano: il «caso somalo» (1896 – 1915), Milella, Lecce, 1980, Pag. 399.

238 Ibidem, Pag. 399-401.

239
Ibidem, Pag. 402-04.
69

esperimenti di sviluppo capitalistico dell’agricoltura), la nuova politica imperialistica si


scontrava ora con il vecchio colonialismo militare e necessitava di una nuova figura che
Carletti non poteva impersonare, essendo lui un uomo di transizione, e cioè quella di Viceré.

Il personaggio verso il quale il Ministro degli esteri Guicciardini ed il parlamento


italiano decisero di puntare per la nuova carica fu Giacomo De Martino240, un politico con
un’autorità ed un prestigio tali che avrebbe potuto finalmente realizzare quel governo
pienamente civile che nessuno era riuscito ad imporre. Uomo della Destra moderata, De
Martino fu uno dei principali leaders del partito filo-colonialista ma con una conoscenza
superiore in materia rispetto a tutti altri. Il primo problema al quale sentì di dover dare una
risposta fu quello della diffusione della cultura coloniale e del consenso dell’opinione
pubblica italiana verso l’imperialismo; contemporaneamente affrontò un secondo problema
fondamentale e cioè quello di creare nuove istituzioni che sostenessero tale politica a livello
sia di stato che di società. Trasformò quindi l’ufficio coloniale in direzione degli affari e creò
un istituto coloniale; asseriva infatti sostenendo la necessità dell’Istituto Coloniale:

[…]

“L’espansione coloniale, o che sia diretta mercè le occupazioni o che sia indiretta, in
seguito all’avviamento verso determinate contrade dell’esuberante produzione, non è un
argomento astratto [… ] essa è, invece, risultante, da una parte, da una conoscenza esatta
non solo delle condizioni generali della produzione, ma altresì di una singola industria o
coltura nei rapporti con l’estero.”241

[…]

Lo scopo del nuovo istituto sarebbe stato, quindi, quello di unire e disciplinare
l’azione nel campo dell’espansione economica e coloniale e l’organizzazione
dell’emigrazione. L’opera di De Martino trovò un alleato nel nuovo ministro degli esteri,
marchese di San Giuliano, il quale durante tutto il suo mandato (fino alla morte sopravvenuta
nel 1914) diede alla politica coloniale italiana una stabilità senza precedenti. San Giuliano
creò nel 1911, tra le altre cose, un terzo ufficio nella Direzione centrale degli affari coloniali,
_________________________________

240
De Martino, Giacomo. - Uomo politico e colonialista italiano (Londra 1849 – Bengasi 1921). Fu per breve tempo nella
carriera diplomatica, poi deputato (1890-1904), sottosegretario ai Lavori pubblici (1896-98) e agli Esteri (1901), senatore dal
1905, fondatore nel 1906 dell'Istituto coloniale italiano; fu governatore della Somalia (1910), dell'Eritrea (1916-19) e dal
1919 della Cirenaica.

241 F. Grassi, Le origini dell’imperialismo italiano: il «caso somalo» (1896 – 1915), Milella, Lecce, 1980, Pag. 409-17.

242
San Giuliano, Antonino Paternò-Castello marchese di. - Uomo politico (Catania 1852 – Roma 1914); sindaco di Catania
(1879), deputato dal 1882, appoggiò la politica di Crispi divenendo in seguito sottosegretario all'Agricoltura (1892) e
ministro delle Poste (1898). Profondo conoscitore dei problemi internazionali, S. G. resse il ministero degli Esteri (1905-06),
le ambasciate di Londra (1906-09) e Parigi (1909-10), e, dal marzo 1910 fino alla morte, nuovamente il ministero degli
Esteri. Sostenitore dell'espansione economico-politica italiana in Africa e nel Mediterraneo orientale, portò a compimento
l'impresa libica con il conseguente insediamento italiano nel Dodecaneso, preoccupandosi poi di difendere e conservare
l'equilibrio mediterraneo. Nel 1912 rinnovò l'alleanza con gli Imperi centrali (che garantiva anche l'acquisizione italiana della
Libia), ma si oppose a una crescita dell'influenza austriaca nei Balcani e nell'Adriatico, ottenendo l'assenso di Vienna alla
creazione di uno stato albanese indipendente. Anche con le potenze dell'Intesa S. G. mantenne in generale buone relazioni,
aprendo, senza successo, trattative per un'intesa mediterranea. Allo scoppio della guerra mondiale, dichiarata la neutralità
dell'Italia, S. G. avviò negoziati prima con l'Austria, per la cessione dei territorî irredenti, e dall'agosto-settembre 1914 anche
con l'Intesa, in vista di un'entrata dell'Italia in guerra contro gli Imperi centrali. Scrisse le Lettere dall'Albania (1902).
70

denominato ufficio studi, adibito a raccogliere informazioni sulle politiche coloniali degli altri
paesi, pubblicare monografie e manuali di diritto coloniale e curare una biblioteca
specializzata. Chiese ed ottenne mezzi più adeguati da destinare alla stampa, la promozione
commerciale e l’assistenza dei lavoratori italiani all’estero.

San Giuliano provvide inoltre a regolare una volta per tutte il reclutamento dei
funzionari coloniali stabilendo incentivi, conservazione del posto e progressi di carriera.
Bisogna ricordare che tra il 1880 ed il 1912, anno di istituzione del Ministero delle Colonie, la
legislazione si era fondata su un principio di separazione dei ruoli coloniali
dall’amministrazione centrale riconoscendo una specificità dell’amministrazione coloniale.
Con la costituzione del ministero, però, il Governo stabilì di assumere, in modo non
permanente, impiegati di altri ministeri come funzionari del nuovo ente ed anche persone
estranee ai pubblici uffici che avessero “speciale attitudine per il servizio coloniale”. Questa
formula avrebbe permesso al ministero di funzionare fin da subito e rinviava la questione
della composizione e della professionalità del personale coloniale.243

Tornando al governatore De Martino, un'altra rottura con il vecchio apparato


coloniale, fu la nomina di giovani funzionari, scelti per le loro qualità professionali, e che
sapranno dimostrare, come Jacopo Gasparini,244 doti di giudizio e di professionalità non
comuni.245 Il Viceré attribuì infatti a Gasparini la preparazione legislativa che tra l’estate del
1910 e l’autunno del 1911 conferirono un quadro istituzionale definitivo alla colonia. Peraltro,
prima della sua partenza per la Somalia, Gasparini intraprese un percorso di studi sul
commercio coloniale, sulle abitudini, i costumi e la composizione etnografica del territorio,
oltre che lo studio del Corano e ad un interesse alle lingue somale. Si trattava di una
preparazione affrettata ma che lo metterà in condizione di dimostrare una disponibilità a
conoscere l’ambiente somalo. De Martino riconoscerà diversi meriti al suo, per così dire,
braccio destro sia come preparazione giuridica sia come uomo di governo. Secondo il viceré,

_______________________

243 C. Giorgi, L’Africa come carriera, Carocci, Roma, 2012, Pag. 69-70.

244
Gasparini, Iacopo. – Uomo politico (Volpago del Montello 1879 – Asmara 1941) Quando, il 28 apr. 1910, il senatore G.
De Martino fu nominato governatore della Somalia, lo volle con sé, come suo principale collaboratore, prima con l'incarico di
direttore degli Affari civili, poi con quello di segretario generale della colonia e infine come reggente interinale. Il G. non
tradì la fiducia del De Martino. Funzionario diligente e instancabile - la cui passione africana era, come ha ricordato R.
Cantalupo, "la sola della sua vita" -, egli coadiuvò De Martino nel conseguire tre importanti obiettivi: l'occupazione integrale
della Somalia meridionale sino agli incerti confini con l'Etiopia; la pacificazione del paese attraverso una paziente e
progressiva penetrazione politica; l'avvaloramento della colonia grazie all'istituzione dei primi organismi amministrativi, al
riordino del settore agricolo e a un valido programma di lavori pubblici. Il G. curò, infine, i non facili rapporti con i due
sultanati della Somalia settentrionale, sui quali l'Italia esercitava un protettorato soltanto nominale. Nel settembre del 1911,
per esempio, impedì che il sultanato di Obbia venisse spartito fra i cinque figli del defunto sultano Yūsuf 'Alī, appoggiando
con decisione il primogenito 'Alī Yūsuf e bloccando sul nascere una guerra fratricida. Con la stessa lealtà ed efficienza il G.
collaborò con il successore di De Martino, G. Cerrina Feroni, elaborando un ambizioso programma di sviluppo teso a
impedire che la cenerentola delle colonie italiane morisse per asfissia. Il 1° giugno 1923 fu nominato governatore
dell'Eritrea, incarico che tenne per cinque anni, durante i quali esercitò un'influenza benefica sulla colonia, provata dai due
terremoti del 1921 e che, sul piano economico, si trovava sull'orlo del collasso. Sua prima cura fu quella di ricostruire
Massaua e il suo porto, all'80% distrutti dai sismi. Contemporaneamente, provvedeva a migliorare le vie di comunicazione
della colonia per agevolare i traffici con l'Etiopia e con il Sudan anglo-egiziano; completava inoltre il tratto di ferrovia
Cheren-Agordat, di 86 km, e impostava il primo tronco della Agordat-Tessenei. Ma dove si distinse maggiormente fu nel
settore agricolo: nel 1924 fece sbarrare il fiume Gasc alla stretta di Togolel, creando così un comprensorio di bonifica
dell'estensione di 15 mila ettari nella pianura di Tessenei, quasi al confine con il Sudan.Rinnovate le strutture della colonia
"primogenita" e dato impulso alla sua languente economia, il G. curò molto anche i rapporti con le popolazioni dell'Eritrea.

245 F. Grassi, Le origini dell’imperialismo italiano: il «caso somalo» (1896 – 1915), Milella, Lecce, 1980, Pag. 433.
71

le conoscenze di Gasparini permisero di:

[…]

“Prendere conoscenza delle popolazioni, dei loro usi e costumi, stringere coi capi
relazioni ed ispirare ad essi fiducia e di smorzare man mano quel carattere di semplice
repressione armata che per necessità di cose, prevaleva nella prima occupazione
militare.”246

[…]

In definitiva Gasparini riuscì ad attuare nel Benadir quella politica indigena di vasto
respiro che fino a quel momento era rimasta semplicemente stampata sui manuali di diritto
coloniale. La sua felice politica venne riconosciuta anche post mortem da diversi studiosi tra i
quali ricordiamo Luigi Goglia, esperto di storia del colonialismo italiano, il quale a proposito
di Gasparini così osserva:

[…]

“Gasparini è una di quelle figure rare, di alto livello, nella storia coloniale (…) una
figura di colonialista molto comune nell’Impero britannico, in quello olandese, in quello
francese, certamente senza false e mistificatorie missioni di portatore di civiltà (…) con il
vivo senso della politica indigena vista come un’utilità di rapporti tra il dominatore coloniale
e la popolazione locale, come una necessità politica, perché egli non credeva che con il puro
esercizio della forza (…) vi potesse essere alcunché di costruttivo, alcun vantaggio
duraturo.”247

[…]

A dire il vero Gasparini non era un prodotto isolato ma il frutto di un clima culturale e
politico che si era sviluppato in Italia negli anni successivi ad Adua. Sono da ricordare anche
F. Trombi248, Guglielmo Ciamarra e Romolo Onor249, intellettuali che la politica di Giolitti
_____________________________

246 F. Grassi, Le origini dell’imperialismo italiano: il «caso somalo» (1896 – 1915), Milella, Lecce, 1980, Pag. 436-37.

247 Ibidem, Pag. 438.

248
Trombi, Ferruccio. - Generale (Modena, 1858 – Oslavia, 1915) Di antica famiglia finalese, accede alla Scuola Militare di
Modena nel 1874: nel 77 è nominato Ufficiale, nell'87 Capitano, nel 97 Maggiore e nel 1908 Colonnello. Nel 1911 viene
inviato nel Benadir dove riorganizza le truppe coloniali. Nel grado di Colonnello del 34° Fanteria, ai comandi del Generale
Ameglio, partecipa nel 1912 alla Guerra Italo-Turca, culminata nella conquista del Dodecaneso. Durante la Prima Guerra
mondiale, il Generale Trombi è richiamato al comando della Brigata Alessandria e il 21 agosto 1915 è ferito in un
combattimento sul Monte S.Michele. Non ancora guarito torna sul fronte al comando della Brigata Livorno, dove viene
colpito a morte in combattimento a Oslavia, presso Gorizia, meritando la Medaglia d’oro al valore militare assegnata nel
1916.

249
Onor, Romolo. - Agronomo (San Donà di Piave, 1880 – Genale, 1918) si iscrive alla Scuola Superiore di Agraria di Pisa
nell'autunno del 1898 laureandosi nel 1902 con il massimo dei voti e lode. Allo scopo di attuare trasformazioni agricole ed
economiche, nel 1910 il Governo Italiano gli affida l'incarico di consulente agrario in Somalia. A partire dal 1911, nella
località di Caitoi, Onor esegue indagini sulle proprietà fondiarie della popolazione somala e dà avvio a una serie di
esperimenti agricoli, introducendo nuove colture e tecniche di lavorazione. Nonostante le gravi difficoltà legate all'aridità del
terreno, al pericolo di parassiti e a problemi di ordine tecnico e organizzativo, nel 1912 Onor crea la Stazione Sperimentale
Governativa di Genale, dove negli anni successivi compie sperimentazioni sulle nuove specie vegetali introdotte.
72

aveva attratto sulle sponde del Mar Rosso.

Data la migliore stabilità della colonia, De Martino si lanciò in una serie di lavori di
pubblica utilità, principalmente strade (entro la fine del 1912 vennero costruiti circa 300 km.
di strade camionabili tramite lavoro volontario e forzato), ma anche la pulitura di canali per
evitare che l’eventuale straripamento dei fiumi andasse a rovinare i raccolti. Peraltro il
desiderio del Viceré di concludere nel più breve tempo possibile creò anche dei dissapori con
i capi tribù i quali non vedevano di buon occhio la fornitura di manodopera per lavori al di
fuori del loro territorio. Le prestazioni di lavoro gratuite erano obbligatorie in quanto servizi
legalmente imposti dall’autorità per l’esecuzione di lavori di pubblica utilità, ai quali non era
possibile opporsi senza ricadere nelle sanzioni previste dalla legislazione coloniale.
L’amministrazione coloniale, pur facendone, come si è visto, largo uso, cercò comunque di
resistere all’estensione di queste prestazioni “volontarie” sia per gli appaltatori privati sia
all’interno di concessioni. Infatti l’introduzione del lavoro forzato generalizzato non andava
d’accordo con gli ideali dell’Italia liberale, pur se utilizzata in tutte le altre colonie straniere.
Nel corso del 2° Congresso degli italiani all’estero la possibilità di imporre il lavoro forzato
nelle colonie venne rigettata ufficialmente:

[…]

“Non mancano coloro che ritengono necessari ed utili le applicazioni di speciali oneri
sull’indigeno o l’imposizione del lavoro remunerato o financo del lavoro forzato (…) quanto
al lavoro forzato, esso è una forma di imposta cui si deve ricorrere solo in casi estremi. Nel
Congo il lavoro forzato è in via di abolizione; al Madagascar fu istituito con legge 1900 (…)
furono tanti gli abusi cui si prestava la legge, che dopo poco fu ritirata. Ad ogni modo
l’imposizione del lavoro, anche quando sia remunerato, oltre che ripugnare al nostro
sentimento, non può rendere che poco in paesi a scarsa popolazione.”250

[…]

Naturalmente questa presa di posizione non veniva condivisa dalle imprese appaltatrici
di opere per conto del governo, che faticavano a trovare manodopera retribuita tra gli indigeni
e quei pochi che venivano reclutati, le aziende cercavano di far cadere il rapporto di lavoro
sotto la giurisdizione eccezionale dell’indigenato, in modo di avere campo decisamente più
libero verso i lavoratori. Peraltro le disposizioni legislative in materia si preoccupavano
principalmente di tutelare il prestigio dell’autorità politica e non la difesa delle opere; non era
quindi difficile trovare delle sentenze favorevoli agli operai indigeni che avevano
abbandonato il lavoro per screzi verso i responsabili privati.251 Dato che la forza lavoro
indigena era formata principalmente da liberti, da schiavi concessi in uso e da piccoli
coltivatori terrieri, assolutamente non abituati alla disciplina ed all’organizzazione del lavoro
in piantagioni moderne, non erano infrequenti assenteismo, defezioni, e parassitismo pur se i

______________________________

250
F. Grassi, Le origini dell’imperialismo italiano: il «caso somalo» (1896 – 1915), Milella, Lecce, 1980, Pag. 450.

251
Ibidem, Pag. 448-53.
73

salari erano al di sopra della linea di sussistenza e più alti rispetto a quelli applicati nelle
colonie inglesi e tedesche dell’Africa orientale.

Per risolvere il problema De Martino pensò ad una tutela pubblica dei contratti di
lavoro in modo da stabilire delle condizioni fissate dall’amministrazione. Si arrivò quindi a
definire un contratto con un minimo salariale mensile, un orario massimo di otto ore
giornaliere con un riposo di tre ore; al lavoratore veniva riconosciuto il diritto di avere un
giorno festivo in concomitanza con la festività religiosa della confessione a cui apparteneva
ed inoltre aveva diritto ad un alloggio. Per contro ogni infrazione sarebbe stata punita con
sanzioni pecuniarie o detentive nei casi più eclatanti; lo sciopero era proibito e si rischiava
l’arresto. Ma questi schemi di contratto non vennero accettati dai concessionari e gli stessi
indigeni si opposero alla stipulazione di contratti di lavoro nonostante gli sforzi
dell’amministrazione e questo finì per danneggiare principalmente i lavoratori e ad alimentare
contrasti tra gli stessi ed i concessionari. Ciononostante nei primi anni dieci del’900 diversi
scioperi presero piede in Somalia e la disciplina con la quale si svolsero lasciarono stupiti gli
stessi italiani. Lo stesso commissario della regione della Goscia252 informava De Martino che:

[…]

“potrebbe fornire argomento di molte considerazioni il fatto che tutte le forme di


sciopero, di ostruzionismo a fine di sabotaggio che sono state vantate come un segno di
peculiare evoluzione delle nostre classi operaie sono interamente cognite agli indigeni di
questa parte della colonia e messe ad effetto con disciplina veramente impressionante.”253

[…]

La sorpresa stava nel fatto che uomini divisi da rivalità tribali ed odi etnici riuscissero
a trovarsi d’accordo in questa forma di resistenza. Certo è che i primi esperimenti di
capitalismo coloniale, se non crearono una vera e propria coscienza di classe, fecero nascere
un sentimento di resistenza anti coloniale che spesso superò le vecchie divisioni etniche e
tribali creando vincoli di solidarietà e forme di aggregazione e di lotta al fine di difendersi
dallo strapotere europeo.254

Ma forza lavoro a parte, il grosso problema della colonia somala rimase la scarsa
produttività e il deficit commerciale che invece di diminuire aumentò fino al livello record del
1912-13 (Lit. 4.025.519) ed anche il tentativo di favorire gli interessi dell’industria
manifatturiera italiana. Soprattutto nel campo tessile la concorrenza straniera si rivelò accanita
e Gasparini fu costretto a chiedere una diminuzione di dazi per i prodotti provenienti
dall’Italia (dal 5 al 3%) ed un aumento al 10% per i prodotti esteri.

_____________________________

252
Goscia. – Regione molto fertile della Somalia occidentale che si estende lungo il fiume Giuba con capoluogo Chisimaio.

253
F. Grassi, Le origini dell’imperialismo italiano: il «caso somalo» (1896 – 1915), Milella, Lecce, 1980, Pag. 465.

254 Ibidem, Pag. 460-68.


74

In questo periodo si cercò anche di provvedere alla pacificazione del territorio


attraverso un miglioramento del Servizio Informazioni, riuscendo così a muoversi con
maggiore conoscenza all’interno delle cabile. Gasparini coordinò tutti i commissari regionali,
in modo che i vari commissariati estendessero la loro influenza tra i vari capi e rendessero
operante quel diritto “eccezionale” dell’indigenato, che reprimessero le razzie tra le varie
tribù, il contrabbando e gli atti di brigantaggio nei confronti del traffico carovaniero e, di
fondamentale importanza, impedissero l’estendersi della ribellione mullista nella nostra zona
d’influenza. Di recente creazione, venne utilizzata la polizia indigena per il controllo
dell’ordine pubblico e funzionalizzata alla politica di penetrazione pacifica. Infatti con il
riacquisito controllo territoriale vennero, per così dire, rianimate le istituzioni indigene e
l’autorità dei capi tradizionali in modo da creare una zona cuscinetto tra i territori occupati
dagli italiani e le popolazioni ancora ribelli. Nel 1911 venne occupata senza colpo ferire la
zona di Balad, testa di ponte verso quelle dello Scidle e del Mobilen; queste ultime vennero
raggiunte, senza incontrare il minimo ostacolo, il 1° marzo 1912 dalla colonna militare del
colonnello Alfieri.255 Raggiunte le truppe nel pomeriggio dello stesso giorno, De Martino
telegrafò entusiasticamente a San Giuliano:

[…]

“sono giunto a Mahaddei-Uen in forma ufficiale, ricevuto dalle truppe e acclamato


dalle popolazioni, in un magnifico Scir dove erano convenuti circa 20.000 abitanti di queste
regioni e genti dell’alto Scebeli, (…) che non avevano mai avuto relazioni con noi, Galgial,
Baddi Addo, Gavole, Abgal, Issa-Audle e capi e santoni di grande autorità e prestigio, ho
pronunciato un discorso nel quale ho accolto nel nome del Re questa gente sotto il diretto
governo e la diretta protezione dell’Italia.” 256

[…]

Venne istituito il commissariato dell’alto Scebeli e De Martino rimandò all’estate del


1913 la seconda fase della pacificazione, convinto che, primariamente, si dovesse pensare ad
una sistemazione politica e militare della zona occupata, oltre che attendere lumi da Roma
nell’attesa che fosse definita la formazione del nuovo Ministero delle Colonie. Dato però che
fino alla primavera del 1914 il nuovo ministero non fu in grado di funzionare e che comunque
fu assorbito dalla questione libica, la seconda fase della pacificazione dei nuovi territori subì
una battuta d’arresto. Nonostante il viceré ostentasse ottimismo la situazione nella Somalia
italiana non fu ancora così tranquilla e priva di imprevisti: restavano ancora nuclei di
dissidenza che portarono ad aperte ribellioni durante il primo periodo bellico ma di questo
parleremo nella parte finale di questo capitolo.257

_____________________________

255
F. Grassi, Le origini dell’imperialismo italiano: il «caso somalo» (1896 – 1915), Milella, Lecce, 1980, Pag. 470-510.

256 Ibidem, Pag. 532.

257 Ibidem, Pag. 530-50.


75

Prima di terminare il paragrafo ci sembra giusto, come abbiamo anticipato


nell’introduzione di questo studio, esaminare la posizione della chiesa cattolica nella
questione coloniale, in particolar modo in un paese musulmano come la Somalia.

Abbiamo parlato a lungo, in questo paragrafo, del problema dello schiavismo, la


problematica forse più sentita dalla popolazione somala che vedeva nell’abolizione della
schiavitù un’ingerenza non tollerabile da parte del governo coloniale nella tradizione delle
tribù africane. In Italia, il 24 aprile 1903, il primo congresso antischiavista italiano formulò il
voto da presentare alla sacra congregazione “De Propaganda Fide”258 che nella regione del
Benadir fossero inviati dei missionari di nazionalità italiana e della congregazione dei
trinitari.259 La Società antischiavistica d’Italia ricevette fin da subito l’appoggio morale ed
anche finanziario da parte del pontefice Leone XIII260 formando un legame che venne
considerato provvidenzialistico tra nazione italiana e civiltà cristiana e quindi anche tra
espansione coloniale ed attività missionaria. Un membro del Consiglio direttivo
dell’Associazione, Gennaro Angelini, così parlò delle missioni cattoliche in Somalia:

[…]

“Convinto che l’espansione coloniale in Africa sia un fatto provvidenziale per aprire
il continente nero alla civiltà cristiana e sottrarlo alla prevalente e funesta influenza islamita,
francamente mi dichiaro lieto che pure all’Italia, fedele ancora in maggioranza all’avita
religione, sia riserbata una parte in questa gloriosa crociata contro la barbarie, offrendo così
ai nostri valenti Missionari un estesissimo campo d’azione a pro della civiltà e della
Patria!”261

[…]

Peraltro il mondo missionario non era sfuggito tra la fine dell’800 e l’inizio del ‘900 a
quella visione di cliché stereotipati e pienamente accettati; la barbarie, l’inciviltà, l’indolenza,
_____________________________

258 Propaganda Fide, Sacra Congregazione de. - Dicastero della Curia romana, nel quale si concentrava il governo
generale dell’attività missionaria cattolica nel mondo. La sua fondazione risale a Gregorio XV, che la eresse con la
Costituzione Inscrutabili divinae providentiae (1622), dotandola subito di larghi privilegi e di autonomia finanziaria. In base
alle Costituzioni Regimini ecclesiae universae (1967) di Paolo VI e Pastor bonus (1988) di Giovanni Paolo II il dicastero ha
assunto il nome di Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli, mantenendo sostanzialmente le precedenti attribuzioni.
Alla congregazione sono collegate le pontificie opere missionarie.

259Trinitari.- Religiosi appartenenti all’Ordine religioso della Santissima Trinità, fondato da s. Giovanni de Matha e,
secondo la tradizione, da s. Felice di Valois. Approvato nel 1198, aveva lo scopo di riscattare i cristiani schiavi dei
musulmani.

260Leone XIII papa. - Vincenzo Gioacchino dei conti Pecci (Carpineto Romano 1810 – Roma 1903) fu eletto papa nel
1878. L'intervento più significativo del suo pontificato fu l'enciclica Rerum novarum (1891) che costituì il fondamento
teorico della dottrina sociale cattolica e rappresentò la risposta della Chiesa sulla questione operaia. Pur condannando le
dottrine socialiste, l'enciclica denunciava le ripercussioni sociali delle trasformazioni economiche provocate dall'espansione
del capitalismo industriale, sollecitava la formazione di associazioni sindacali operaie, nel quadro di rapporti con i datori di
lavoro improntati alla solidarietà cristiana, e affermava la necessità di un ruolo dello stato nei conflitti tra capitale e lavoro.

261
L. Ceci, Il vessillo e la croce. Colonialismo, missioni cattoliche e islam in Somalia (1903-1924), Carocci, Roma, 2006,
Pag. 30.
76

la persistenza di pratiche immorali quali la schiavitù e la poligamia reclamavano e


legittimavano un intervento non solo dei missionari ma anche dei conquistatori europei. Tutto
ciò avveniva nonostante dei settori significativi del mondo cattolico, ancora legati alla
questione romana, esprimessero dei giudizi totalmente negativi riguardo al colonialismo
italiano in Africa e che negassero decisamente un diritto della civiltà contro la barbarie. Certo
era che attraverso il sostentamento dei missionari, la Società aveva l’obiettivo di riavvicinare
la Santa Sede al Regno d’Italia, e di ottenere quindi una conciliazione, per così dire, su base
colonialista.262

Il 18 gennaio 1904 la nuova prefettura apostolica del Benadir venne formalmente


eretta e affidata all’ordine della Santissima Trinità. Il console a Zanzibar Mercatelli, convinto
assertore della laicità dello stato, scrisse al ministro Tittoni una lettera nella quale esternava le
proprie perplessità sulla possibile riuscita dei missionari nell’attività di conversione della
popolazione del corno d’Africa, poiché questa zona era abitata “dai più intolleranti e fanatici
dei mussulmani” e sarebbe stato quindi più facile, a parere del console, che i missionari si
convertissero all’islamismo che non il contrario. Politicamente poi, Mercatelli considerava le
conseguenze di questa iniziativa gravi e rischiose; a suo avviso l’occupazione del Benadir, in
mancanza di ingenti forze militari, avrebbe richiesto studio assiduo, tatto, accorgimenti sottili
e pazienza infinita onde evitare di far crescere nella popolazione locale il timore che gli
europei volessero imporre la propria religione. Nonostante tutto, il 24 marzo 1904 arrivò a
Mogadiscio padre Leandro263 incaricato dalla curia e dal pontefice Pio X264 in persona, di
governare la nuova prefettura apostolica del Benadir. Anche la Società Commerciale non fu
per niente convinta dell’opportunità dell’iniziativa e non essendo riuscita ad opporsi all’arrivo
di padre Leandro decise di fare buon viso a cattivo gioco. L’atteggiamento delle autorità
italiane riguardo alla missione trinitaria fu, in questa prima fase, ambivalente: se da un lato la
Società Commerciale ed il Ministero degli Affari esteri si mostrarono molto cauti, dall’altro
alcuni autorevoli esponenti del mondo cattolico italiano esercitavano pressioni sul ministro
affinché si affrettassero i tempi dell’iniziativa religiosa. Peraltro il Governo non poteva
esimersi dal garantire l’incolumità dei missionari in quanto firmatario degli atti del congresso
di Berlino che impegnavano le potenze coloniali a tutelare le iniziative missionarie, senza
distinzione di culto e di nazionalità, nei territori sui quali esercitavano la loro sovranità.265

________________________________

262
L. Ceci, Il vessillo e la croce. Colonialismo, missioni cattoliche e islam in Somalia (1903-1924), Carocci, Roma, 2006,
Pag. 27-42.
263Barile, Giovanni Antonio. – Religioso (Lecce de’ Marsi 1871 – Giumbo 1906). Entrato nell’ordine dei trinitari a 15 anni
venne ordinato sacerdote nel 1896. A partire dal 1903 aveva concentrato al sua azione sulle missioni ed il rilancio dell’attività
missionaria. Il suo disegno era quello riconvertire la propria attività a favore dei “poveri negri” e si saldava con le ambizioni
coloniali italiane.
264
Pio X papa, santo. – Giuseppe Melchiorre Sarto (Riese 1835 – Roma 1914). Fu eletto papa nel 1903, in una situazione
generale difficile per i rapporti tesi tra Chiesa e Stato in Francia e in Italia e per i fermenti sociali. Con l'enciclica Vehementer
nos (1906) condannò la separazione fra Chiesa e Stato, approvata dal Parlamento francese; in Italia attenuò (1909) il rigore
del non expedit (cioè la proibizione per i cattolici di partecipare alle consultazioni elettorali e in generale alla vita politica) e
permise il primo ingresso di deputati cattolici in Parlamento. Sul terreno dottrinale si oppose al modernismo con l'enciclica
Pascendi Dominici gregis (1907); intervenne anche nelle questioni dell'organizzazione del laicato con l'enciclica Il fermo
proposito (1905).
265L. Ceci, Il vessillo e la croce. Colonialismo, missioni cattoliche e islam in Somalia (1903-1924), Carocci, Roma, 2006,
Pag. 46-56.
77

Lo stesso padre Leandro, durante il suo primo viaggio nella città di Brava e nei
villaggi limitrofi, ebbe più di qualche dubbio sul futuro delle stazioni missionarie poiché
rimase colpito dai sentimenti religiosi delle popolazioni del luogo, sentimenti così forti ma
non fanatici da destare in lui pura ammirazione. Ciò nonostante padre Leandro, superato il
momento di sconforto, si mosse con grande determinazione per concretizzare il disegno
missionario. Il 30 maggio 1904 il religioso fu ammesso in udienza da papa Pio X il quale
suggerì al missionario una linea di condotta (a quanto risulta dal diario del trinitario) di netta
contrapposizione con le autorità coloniali e governative e di servirsi della stampa per
denunciare le manovre tese ad impedire l’attività missionaria; inoltre il pontefice assicurò al
missionario il più totale sostegno nella sua attività. Il 14 giugno il ricevette anche il sostegno
della regina madre, Margherita di Savoia, che gli assicurò il proprio appoggio fin dove avesse
potuto. Lo scontro con il console Mercatelli, che restava il più acerrimo avversario in
riferimento all’opera missionaria fu continuo e pesante tanto che, ad un certo punto, padre
Leandro elaborò una lettura alterata delle dinamiche in atto ed in lui si rafforzò l’idea di
complotto diabolico contro la sua missione. Il 27 gennaio 1905, in barba al divieto di sbarco
in Somalia, padre Leandro partì da Zanzibar diretto in Benadir ed il 4 febbraio sbarcò a Brava.
Dopo una serie di duri scambi epistolari padre Leandro arrivò a Mogadiscio ma non gli fu
permesso di sbarcare ed il 12 febbraio fu costretto per ripartire per Zanzibar dove vi giunse il
22 dello stesso mese. Questa volta l’ordine di impedire lo sbarco al religioso non arrivò da
Mercatelli ma dallo stesso ministro Tittoni, il quale non aveva digerito il mancato impegno di
non recarsi in Benadir senza le necessarie autorizzazioni. 266

Il 25 marzo 1905 padre Leandro giunse a Chisimaio nella Somalia britannica e


approfittando della buona accoglienza inglese cominciò ad orchestrare una campagna contro
le autorità coloniali italiane e soprattutto contro Mercatelli. Il 12 maggio 1906 le autorità
italiane accordarono ai missionari il permesso di entrare nella Somalia Italiana, fondare la
missione e cominciare l’opera evangelizzatrice nel corno d’Africa: padre Leandro potette però
godersi poco la vittoria dato che la tubercolosi lo uccise il 18 luglio 1906.267

La missione cattolica continuò comunque ad avere grossi problemi sul campo poiché,
come aveva precedentemente profetizzato padre Leandro, il sentimento religioso somalo era
talmente radicato che si oppose con forza al tentativo di conversione. Il rapporto tra i religiosi
e la popolazione non fu mai idilliaco ma al contrario i missionari venivano visti con scarsa
fiducia dato che molti capi religiosi musulmani avevano sparso la voce che i bianchi
avrebbero rubato i bambini alle proprie famiglie; fu proprio questa mancanza di fiducia,
soprattutto delle donne, un grave motivo di attrito tra popolazione e missionari.

_____________________________________

266 L. Ceci, Il vessillo e la croce. Colonialismo, missioni cattoliche e islam in Somalia (1903-1924), Carocci, Roma, 2006,

Pag. 60-90.
267
Ibidem, Pag. 92-119.
78

3.2. Dalla disfatta di Adua alla Grande Guerra.

Riprendiamo ora il filo del discorso che abbiamo abbandonato con Crispi presunto
vincitore della battaglia coloniale in Eritrea e Menelik presunto sconfitto. Abbiamo visto che
il 1° gennaio 1890 con l’istituzione della Colonia Eritrea, l’Italia otteneva finalmente una
colonia e poteva sedersi al tavolo delle potenze colonizzatrici europee. La partita con Menelik
sembrava per il momento giunta ad un punto fermo ma il territorio etiopico restava nelle mire
dei colonizzatori italiani. Esamineremo ora il periodo ed i fatti che portarono alla battaglia di
Adua ed al successivo turbolento periodo che si concluse con l’avvento della prima guerra
mondiale.

Per rifarci alla parte finale del primo paragrafo dove abbiamo visto gli scarsi risultati
dell’opera missionaria in Somalia, vogliamo buttare l’occhio alla situazione religiosa in
Abissinia; la questione era qui molto diversa dal punto di vista spirituale poiché l’Etiopia era
di religione cristiana fin dal IV secolo d.C., e questa situazione era vista positivamente sia
dalle gerarchie cattoliche che da quelle protestanti che intravedevano la possibilità di
utilizzare l’Abissinia come corridoio preferenziale per la cristianizzazione dell’intera Africa
nera. Se da un lato vi era un chiaro conflitto tra le istanze universalistiche del messaggio
cristiano e le aspirazioni egemoniche e discriminatorie dei vari colonialismi, oltre alla
posizione anticapitalista ed anti industriale della chiesa, dall’altro l’Abissinia diventò una
specie di laboratorio sperimentale in cui testare delle inedite relazioni tra Stato e Chiesa. In
Eritrea questo laboratorio sperimenterà questi nuovi rapporti nel settore dell’istruzione
pubblica.

Il sogno di porta verso l’Africa nera svanirà presto quando i missionari si renderanno
conto che il cristianesimo ortodosso etiope, centralissimo come religione e ideologia di stato,
si rivelerà ostile alla penetrazione missionaria. A ciò segue quindi un brusco cambiamento di
considerazione della popolazione locale che passa dal ricevere commenti entusiastici a
subirne di sprezzanti e malevoli. Inoltre a fronte di un invito alla tolleranza ed alla
comprensione delle differenze culturali dato dalle autorità missionarie, si ha un arroccamento
nelle certezze della superiorità europea. Vi è una totale condanna della religiosità indigena in
tutte le sue manifestazioni, e all’Islam viene riservata una condanna violenta e senza appello.
Nelle testimonianze missionarie vi è anche una vera e propria ossessione per la sessualità che
viene vista solo come sregolatezza e frenesia. La figura della donna viene divisa in due: donna
e femmina dove la donna è essere etereo, bianca e cristiana mentre la femmina è primordiale e
selvaggia quindi nera. Naturalmente il punto importante di questo discorso è che il ruolo
svolto dai missionari nella formazione dell’immaginario europeo relativo all’Africa ed agli
africani fu fondamentale.268 Torniamo ora alla parte politica del nostro capitolo.

Una delle problematiche che subito si presentarono fu la scelta dell’amministrazione


che si intendeva impiantare in colonia e cioè un modello di governo coloniale che fosse
_________________________

268 U.Chelati Dirar, Fra Cam e Sem. L’immagine dell’«Africa Italiana» nella letteratura missionaria (1857 – 1895), Nel nome

della razza. Il razzismo nella storia d’Italia (1870-1945), Il Mulino, Bologna, 1999, Pag. 183-200.
79

ottimale per strutture, mentalità e forme economiche e che coinvolgesse sia i territori occupati
che la madrepatria. Naturalmente il primo problema politico che si presentò fu quello di
garantire lo sfruttamento delle potenzialità economiche dei paesi conquistati ed il
mantenimento dell’ordine nelle società indigene. Bisogna tenere presente che il pensiero
predominante nella mentalità di tutti i paesi colonizzatori era quello di un’occupazione
perpetua dei paesi africani e di una sostanziale indifferenza delle problematiche indigene.
Tutto ciò considerando che, qualsiasi ideologia propugnassero in patria i colonizzatori, nelle
colonie diedero sempre per assodato il diritto di superiorità della razza bianca su tutte le altre
e quindi il diritto di dominare chiunque non fosse civilizzato come loro, almeno fino a quando
non avesse raggiunto un grado di civilizzazione ai loro occhi accettabile. Alcuni modelli di
amministrazione variavano a seconda della potenza coloniale che li gestiva: la Gran Bretagna,
ad esempio, adottò un modello di autonomia nei confronti delle colonie dandole
un’organizzazione politico-amministrativa che la rendesse in grado di limitare l’autorità della
madrepatria e che costruisse una rete di rapporti politici ed economici che portassero
reciproco vantaggio sia alla colonia sia alla metropoli. Questa politica portò verso un più
formale riconoscimento di tutti i diritti civili e politici dei sudditi coloniali ed allo sviluppo
delle prime forme di autogoverno. Non bisogna tuttavia confondere l’autonomia che il
governo britannico concesse alle colonie con una forma di libertà dei popoli: l’autonomia era
concessa ai governatori e non ai sudditi amministrati. Le colonie inglesi furono amministrate
in modo diverso a seconda fossero domini più antichi o più recenti anche se principalmente la
Gran Bretagna privilegiò il sistema del governo indiretto (indirect rule). Inoltre bisogna
ricordare che gli inglesi non parificarono mai, dal punto di vista dei diritti civili, i cittadini
della metropoli con i sudditi coloniali, e non pensarono nemmeno di imporre il loro stile di
vita e le loro istituzioni alle colonie in ragione della naturale superiorità della loro civiltà.269

Un altro modello di amministrazione fu quello dell’assimilazione, adottato


principalmente nelle colonie francesi, che prevedeva una società più somigliante possibile a
quella metropolitana (lingua, cultura, tradizioni, diritto, istituzioni) e quindi con
un’amministrazione locale parificata a quella della madrepatria. Il più importante esempio di
assimilazione venne ottenuto nel Senegal, diviso in quattro cantoni, e dove i nativi godettero
della piena cittadinanza ed inviarono a Parigi i loro deputati di colore. Anche in questo caso
però non era tutto oro quello che luccicava: la strada della naturalizzazione era infatti
vincolata ad una serie di condizioni (conoscenza della lingua francese, servizio militare
assolto, rinuncia allo statuto personale e sottomissione al diritto francese) e la domanda
doveva essere posta dall’amministrazione e non dal singolo. Quindi gli indigeni restarono
quasi sempre sudditi (sujets) e non si trasformarono quasi mai in cittadini.270

Passiamo ora al modello italiano applicato all’Eritrea: l’amministrazione italiana fu


condizionata oltre che dalla scarsa esperienza anche dalle limitate risorse, sia locali che
metropolitane, dall’esigenza quindi di governare con il massimo dell’efficienza e con il
minimo di spesa. Il modello italiano può essere identificato come dominio diretto: in questo

______________________________
269I. Rosoni, La Colonia Eritrea – La prima amministrazione coloniale italiana (1880-1912), eum, Macerata, 2006, Pag. 47-
53.
270
Ibidem, Pag. 53-55.
80

terzo sistema si combinarono elementi diversi, presi dai vari modelli che abbiamo già visto, a
volte difficilmente compatibili tra loro ma attuati più in ragioni di emergenze che non di vera
e propria programmazione. La macchina amministrativa italiana in colonia cercò, nei primi
anni, di studiare i modelli degli altri paesi già da tempo impegnati nella conduzione dei
possedimenti d’oltremare anche se, coloro i quali studiarono una via italiana alla
colonizzazione, si resero subito conto della necessità di arrivare a disegnare un modello
originale, tenuto conto delle varie differenze di tipo economico, tradizionale e di estensione di
territori, che esigeva una formula adatta ad una realtà decisamente più modesta. Dopo diversi
studi e relazioni, nel 1912 il prof. Angiolo Mori nell’opera “I corpi consultivi
dell’amministrazione coloniale negli Stati d’Europa” definì una volta per tutte il sistema
italiano come “dominio diretto”. Nello stesso periodo Santi Romano271 poteva descrivere in
questo modo l’amministrazione italiana delle colonie: «Le colonie sono paesi che, posti sotto
la sovranità dello Stato, a titolo di possedimenti, non costituiscono parti integranti dello Stato
medesimo». Quindi, secondo il giurista siciliano, la colonia non è uno stato a sé né parte di un
altro stato; non è un territorium nullius, da non confondersi con un protettorato coloniale ma
appartiene allo Stato ed è sottoposta alla potestà piena ed esclusiva ed alla sovranità dello
Stato medesimo. La colonia, a causa della “civiltà inferiore” costituisce quindi un paese
accessorio ed i suoi abitanti ed il suo governo si distinguono da quelli del Regno;
l’ordinamento giuridico dello Stato non vale per la colonia, salvo che non risulti il contrario, e
viceversa l’ordinamento della colonia non vale per il Regno. Gli abitanti della colonia non
partecipano all’esercizio dei poteri dello Stato, non sono garantiti contro di essi e non godono
di libertà locali se non nella misura concessa dagli organi statali della metropoli.272

Proprio il problema dell’impossibilità di effettuare azioni giudiziali contro la pubblica


amministrazione da parte di privati cittadini coloniali, dato che la legge n. 2248 del 20 marzo
1865 (legge sul contenzioso amministrativo) non era stata pubblicata in Eritrea e quindi non
vi aveva effetto, spinse la Corte di Cassazione di Roma nel 1894, tramite una sentenza emessa
il 3 marzo e pubblicata il 30 aprile, a “chiedere” una norma che introducesse nel diritto
coloniale la possibilità per il privato cittadino in Eritrea di ricorrere in tribunale contro
eventuali abusi dell’amministrazione pubblica. Il 22 maggio 1894, con l’art. 48 del R.D. 201,
vi fu un riordinamento dell’amministrazione della giustizia nella Colonia Eritrea, nella
direzione però opposta a quella auspicata dalla Corte di Cassazione: infatti il suddetto art. 48
stabiliva che i privati non disponevano del diritto di chiamare davanti alle autorità giudiziarie
sia il governo che la pubblica amministrazione in quanto per i rapporti giuridici di qualsiasi
natura sorti tra i privati e pubblica amministrazione (o governo) era utilizzabile
semplicemente una presentazione di reclamo in sede amministrativa. A seguito di numerosi
contenziosi ed alle relative sentenze del Tribunale di Massaua il quale aveva affermato che se
_______________________________

271Romano, Santi. – Giurista (Palermo 1875 – Roma 1947); ha insegnato diritto amministrativo e costituzionale nelle univ.
di Camerino, di Modena, di Milano e di Roma. Insegnò anche diritto ecclesiastico e internazionale. Fu presidente del
Consiglio di Stato (1928-44) e senatore del regno (dal 1934). Grande innovatore, ha rivolto lo studio a molteplici discipline
giuridiche ed ha elaborato una teoria generale del diritto nella quale emergono la concezione del diritto come istituzione e la
teoria del pluralismo giuridico. Ha fatto parte della scuola italiana di diritto pubblico. Particolarmente nota la sua costruzione
teorica dell’interesse legittimo.

272 I. Rosoni, La Colonia Eritrea – La prima amministrazione coloniale italiana (1880-1912), eum, Macerata, 2006, Pag. 60-
64.
81

il R.D. 48 vietava i ricorsi alla giustizia ordinaria della colonia da parte dei privati, così non si
poteva dire per eventuali ricorsi presentati presso i tribunali della madrepatria. Queste
sentenze scatenarono roventi polemiche in Italia nonostante la presa di posizione della Corte
di Appello di Ancona, ente competente per l’esame dei gravami contro le pronunce del
Tribunale di Massaua, che affermava la piena costituzionalità del R.D. 48 e ne dichiarava la
completa conformità alla Statuto del Regno. Ad ogni modo, il 9 febbraio 1902, con il R.D. 51
vi fu un riordinamento della giustizia nella Colonia Eritrea; venne anche istituito ad Asmara
un Tribunale d’Appello e venne creato un procedimento speciale per l’esame delle istanze
presentate dai privati nei confronti dell’amministrazione coloniale: prevedeva un doppio
grado di giudizio, il primo presentato governatore civile della colonia (tramite un giudice
regionale) ed il secondo affidato ad un collegio decidente del Tribunale di Appello di Asmara
e la cui decisione poteva essere soggetta unicamente ad un eventuale ricorso al sovrano.273

Una seconda problematica estremamente importante era quella di definire la politica


economica della nuova colonia e come sfruttare le non enormi risorse del territorio eritreo. Per
capire meglio la situazione, già nella metà del 1889, Leopoldo Franchetti era stato inviato da
Crispi per ottenere informazioni valide riguardo ad un possibile sfruttamento agricolo del
territorio. Franchetti, come abbiamo già accennato, era un fervido sostenitore del colonialismo
agricolo e dello spostamento di contadini dal territorio metropolitano a quello coloniale;
consigliava peraltro che i nuovi immigrati fossero scelti tra ex militari e che avessero potuto
ottenere del credito una volta arrivati nella nuova colonia. Suggeriva inoltre che ad ogni
famiglia di immigrati fossero destinati 30 ettari di terreno e le fossero elargite 2000 lire di
credito per la sussistenza e per il materiale necessario all’impresa agricola; questa cifra
sarebbe stata sufficiente, secondo Franchetti per mantenere famiglie composte da un massimo
di dieci individui. Questa ottimistica previsione non era però condivisa da Rocco De Zerbi, il
quale riteneva che, dopo avere appreso che la spartizione delle terre da parte dei nativi veniva
effettuata dai capi villaggio con concessioni per famiglia che duravano dai cinque ai sette anni
passati i quali le terre venivano re-distribuite, il non comprendere queste usanze avrebbe
potuto compromettere tutte le mire del colonialismo italiano. Inoltre De Zerbi sosteneva (non
certo a torto, ndr) che i contadini italiani che emigravano all’estero cercassero rendite migliori
e non diritti di possesso di terre; gli emigranti partivano nella speranza di fare fortuna ed in
seguito al temporaneo esilio ritornare nel loro paese con un capitale che gli permettesse di
mantenersi per il resto della loro vita. L’Africa, secondo De Zerbi, non prometteva tutto
questo e nella stessa direzione andava anche il pensiero di Plebano274, il quale sosteneva che
un emigrante partisse per ottenere un miglioramento della propria esistenza e non per avere
una vita identica a quella lasciata in patria. A dispetto di queste ultime due posizioni, il 5
___________________________

273M. Mazza, La risoluzione delle controversie fra i privati e la pubblica amministrazione nella Colonia Eritrea, Governare
l’Oltremare – Istituzioni, funzionari e società nel colonialismo italiano, Carocci, Roma, 2013, Pag. 31-40.

274 Plebano, Achille. Uomo politico – (Asti 1834 – Roma 1905). La stabilizzazione dei conti e l’armonizzazione della
fiscalità all’economia nazionale fu la questione centrale di tutta la sua vicenda scientifica, politica e pubblicistica. Semplici
economie di bilancio non l’avrebbero risolta in assenza di riforme miranti al decentramento e alla semplificazione
amministrativa. Rielaborando un’idea che fu del relatore della sua tesi di laurea, propose una riforma del pubblico impiego
che superasse la legislazione speciale mediante l’adozione dello schema privatistico della locazione d’opera. Nei diciotto anni
da deputato, la sua inflessibile aderenza ai principi liberisti e conservatori gli valse l’esclusione da qualsiasi incarico di
governo. Di tutte le componenti della grave questione economica che pendeva sull’avvenire del Regno, quella monetaria
ripeteva essere la dominante, la causa ultima di ogni principale fattore di arretratezza economica e finanziaria del Regno.
82

marzo 1890 Crispi annunciò alle Camere che la politica del governo sarebbe stata quella di
creare in Eritrea una colonia agricola ed incaricò Franchetti di sviluppare il programma.275
Il programma di colonizzazione agricola fallì dopo pochi anni e fra gli storici vi è
un’ampia divergenza di vedute sulle motivazioni che portarono al fallimento dell’impresa.
Secondo Richard Pankhurst (Italian settlement policy in Eritrea and its repercussions 1889-
1896, Boston University Papers on African History, vol. I, Benett, 1964) i motivi che
portarono al fallimento furono principalmente le difficoltà pratiche incontrate, l’inefficienza
dell’ufficio per l’agricoltura oltre alle condizioni climatiche poco idonee; per Romain Rainero
(I primi tentativi di colonizzazione agricola e di popolamento dell’Eritrea, Marzorati, 1960)
le motivazioni furono complesse ma tra loro emergono lo stesso sistema Franchetti, la politica
coloniale di Baratieri e la guerra contro l’Etiopia; l’opera enciclopedica “L’Italia in Africa”
vede nella guerra terminata con la battaglia di Adua il fattore determinante del collasso della
politica agricola; Tekeste Negash nel suo “Italian colonialism in Eritrea, 1882-1941”(op.cit.)
sostiene che oltre alla resistenza da parte della popolazione eritrea (che da sola non avrebbe
potuto determinare il fallimento della politica italiana), la politica agricola fallì poiché non fu
mai il movente principale dell’espansionismo coloniale italiano; Yemane Mesghenna sostiene
invece che la ragione principale che portò alla crisi del sistema rurale fu la mancata
comprensione da parte delle autorità italiane della relazione esistente in Eritrea tra uomo e
territorio, la stessa questione che aveva sollevato pochi anni prima De Zerbi.
Per sviluppare la sua politica, Franchetti dovette emanare dei provvedimenti che
vietavano ai nativi di ritornare nei loro precedenti possedimenti poiché, a partire dal 1892,
parecchi indigeni eritrei che erano emigrati nei paesi vicini a causa di carestie e di malattie
epidemiche, fecero ritorno in patria in seguito al miglioramento della situazione.
Naturalmente i divieti imposti dall’autorità coloniale riscaldò gli animi della popolazione
locale dato che il possesso delle terre andava ad intaccare il contesto sociale del paese. Il
possedimento terriero si divideva in due categorie: il Resti che era il massimo diritto di
possesso su un territorio, destinato ad una famiglia e che era di derivazione ereditaria; lo
Shehena che era invece del territorio definito di proprietà comune a tutti i membri del
villaggio (con il nostro metro la definiremmo zona di pubblica utilità). Nonostante gli
avvertimenti di De Zerbi, che ben conosceva le usanze e tradizioni territoriali eritree,
Franchetti procedette, come abbiamo visto, all’espropriazione del suolo ai nativi senza
pensare che questi avrebbero reagito anche con la forza in difesa dei loro diritti sul territorio.
Nel suo tentativo di colonizzazione agricola Franchetti sfruttò il concetto di terre abbandonate
(come abbiamo visto erano state abbandonate dagli indigeni per diversi motivi, ciononostante
gli emigranti non avevano perso i loro precedenti diritti) fino ad abusarne. Questa situazione
portò ad una azione di guerriglia da parte di alcuni capi eritrei che dopo alterne vicende si
trascinò oltre le dimissioni di Franchetti nel 1895 per concludersi con la battaglia di Adua del
1896.276
Il progetto di colonizzazione agricola fu peraltro messo in discussione ancora prima
del 1890 da altri ministeri del Regno come quello degli esteri, degli interni e quello della
________________________________

275
Y. Mesghenna, Italian Colonialism: A Case of Study of Eritrea 1869-1934, University of Lund, Lund, 1988, Pag.89-92.

276 Ibidem, Pag. 105-112.


83

guerra. Se da un lato si incitavano i poveri lavoratori italiani all’emigrazione verso il nuovo


territorio africano, tramite una campagna di stampa che mostrava la nuova colonia come una
ottima possibilità di riscatto sociale, dall’altra i governanti miravano alla chiusura dell’Africa
italiana agli emigranti. Infatti, pur se non con cifre iperboliche, più passava il tempo e
maggiori erano le richieste di emigrazione da parte di persone che cominciavano ad
intravedere la possibilità tramite il trasferimento, stagionale o stabile, in colonia come un
modo per superare le difficoltà economiche che trovavano in patria. A questo punto una
domanda sorge spontanea: ma quindi, dato che abbiamo già potuto evidenziare come l’arrivo
italiano in Africa sia stato dettato da motivazioni politiche e diplomatiche, per quali motivi si
decise di restare nel continente nero visto che gli interessi economici per lo stato erano
praticamente inesistenti ma anzi la gestione del paese africano portava unicamente la
madrepatria ad accollarsi ingenti spese ed oltretutto l’emigrazione era mal vista da parte di
numerosi esponenti governativi oltre che dall’amministrazione militare in colonia? In realtà il
famoso “cui prodest”277 latino trova una sua ragione d’essere anche in questa occasione: degli
interessi in Eritrea c’erano da parte di svariati soggetti, dalle piccole aziende metropolitane
che fornivano alla colonia i piccoli strumenti necessari per la vita quotidiana, ai grossi
industriali settentrionali (Breda, Pirelli, etc.) interessati alle forniture all’esercito. Inoltre
dobbiamo ricordare anche l’élite mercantile autoctona che lungi dall’opporsi all’occupazione
coloniale, aveva al contrario trovato il modo di far fruttare la loro collaborazione con le
autorità e l’esercito italiani. Interessate erano inoltre molte compagnie di trasporti (sia navali
che ferroviarie) le quali vedevano nel novo possedimento un probabile strumento di
guadagno.278
Abbiamo citato la battaglia di Adua, punto di partenza di questo nostro paragrafo ed è
giusto che ora si consideri anche cronologicamente, oltre che da un punto di vista politico,
tutte quelle situazioni e gli avvenimenti che si verificarono e che portarono al disastro
militare. Fin dall’inizio della nostra avventura coloniale ed a maggior ragione dopo la
creazione della Colonia Eritrea, fu subito chiaro che per realizzare tutti gli obiettivi, sia
diplomatici che politici che territoriali, l’unico strumento che il primo colonialismo italiano
possedeva era quello dell’esercito. Furono sempre assenti, o perlomeno insufficienti in
colonia, quegli interessi privati che avrebbero potuto dare una spinta autonoma al
colonialismo italiano: non ci furono significativi movimenti di commercianti ed industriali
verso il nuovo territorio e neppure le pur presenti società geografiche ed esplorative italiane
furono mai in grado di suscitare, rappresentare od organizzare iniziative private significative
ed autonome senza la presenza dello Stato. Tutto ciò metteva quindi in evidenza che l’esercito
italiano era l’unico strumento politico in Africa, oltre che caricarlo di responsabilità che altri
eserciti coloniali non avevano come la difesa del prestigio di grande potenza dell’Italia unita.
Questa situazione metteva i militari in condizione di poter chiedere sempre maggior
autonomia in Africa mettendo quindi le basi per le successive campagne che portarono dritte
alla disfatta di Adua.
Procedendo cronologicamente, già nel primo anno di vita la neonata Colonia dovette
affrontare due scandali che preoccuparono notevolmente anche la Camera ed il Governo
________________________________
277
Locuzione latina “a chi giova?” spesso utilizzata per capire da che parte stiano gli interessi in una situazione
apparentemente nebulosa.
278 N. Labanca, In marcia verso Adua, Einaudi, Torino, 1993, Pag. 150-164.
84

metropolitano, dovuti a due funzionari coloniali, Dario Livraghi ed Eteocle Cagnassi279,


accusati di gravissimi reati tra i quali svariati omicidi di indigeni, compiuti al fine di
arricchimento personale.280 Venne coinvolto nello scandalo anche il generale Baldissera,
comandante superiore in Africa, il quale alle prime avvisaglie dello scandalo decise di
rientrare in Italia per motivi di salute. Anche il suo successore, generale Orero venne
coinvolto nello scandalo ma solo di striscio. In patria lo scandalo venne subito percepito come
grave, grazie anche alla pubblicazione sulla stampa di un memoriale che riportava, seguendo
le parole dello stesso Livraghi, le esecuzioni segrete e le false accuse di tradimento mosse ai
capi villaggio da parte delle autorità militari italiane. Intervenne persino il già citato De Zerbi,
il quale dichiarò al presidente del Consiglio di voler procedere con una propria indagine
autonoma, pur dichiarando la massima fiducia nella commissione d’inchiesta inviata dal
Governo a Massaua nel 1891. La sentenza del tribunale di Massaua che fece seguito al
rapporto della commissione fu però scandaloso: il tribunale militare presieduto dal generale
Baratieri281 condannò i governatori e le alte cariche militari solo per eccesso di potere,
dichiarò che i presunti massacri non ebbero luogo o se qualcosa successe furono da ritenersi
dei casi isolati dovuti all’indole selvaggia dei soldati indigeni. Questa sentenza produsse
stupore e sdegno anche in Italia.282 Nel 1894 l’amministrazione coloniale, dopo quella che era
stata considerata la pacificazione della colonia attraverso l’eliminazione di una dozzina di
capi e di circa ottocento loro sodali283, si trovò a dover affrontare la più importante ribellione
dell’ultimo decennio del XIX sec. e cioè quella del Degiasmacc Bahta Hagos, fiero capo
eritreo. Dopo essere stato alleato degli italiani nel 1892 nella speranza di ottenere una certa
libertà per il suo paese, nel 1894, vista l’inutilità del suo intento e dopo essersi riappacificato
con Menelik dichiarò al suo popolo: “Gli italiani ci portano solo maledizioni e si appropriano
delle nostre terre: io voglio liberarvi… cacciamo gli italiani e torniamo padroni di noi
stessi”. Reclutò un esercito di 1600 uomini e si scontrò con il Regio esercito ad Halay il 19
dicembre 1894 ma gli insorti vennero sconfitti e Bahta Hagos ucciso in battaglia. Quel
rovescio segnò la fine di un’opposizione armata organizzata all’occupazione italiana
dell’Eritrea anche se non placò sporadiche ribellioni locali.284

All’inizio del 1894 vi fu un doppio riordinamento nella Colonia Eritrea, quello

_______________________________

279 Dario Livraghi, capo della polizia indigena, ed Eteocle Cagnassi, segretario degli Affari coloniali.

280G.Perticone, G.Guglielmi, La politica coloniale dell’Italia negli atti, documenti e discussioni parlamentari, L’Italia in
Africa, Vol. III, Ist. Polig. Dello Stato, Roma, 1965, Pag. 36.

281 Baratieri, Oreste. - Generale italiano (Condino, 1841 – Vipiteno, 1901). Partecipò alla spedizione dei mille e alla

campagna del 1866. Divenuto ufficiale dell'esercito regolare nel 1872, combatté dal 1887 in Africa, dove nel 1891 fu
nominato comandante in capo delle truppe e nel 1892 governatore della colonia Eritrea. La sconfitta di Adua (1896)
compromise la sua reputazione, anche se il tribunale militare dell'Asmara, cui il governo l'aveva denunciato per "omissioni,
negligenze e abbandono di comando in guerra", lo assolse per inesistenza di reato. Nel 1874 aveva partecipato alla spedizione
geografica Antinori in Tunisia. Deputato dalla XIII alla XVIII legislatura (1876-1895). Ha lasciato numerosi scritti di storia
militare, tattica e geografia e un vol. autobiografico sulla sua permanenza in Africa (Memorie d'Africa 1892-1896, 1898).

282
I. Rosoni, La Colonia Eritrea – La prima amministrazione coloniale italiana (1880-1912), eum, Macerata, 2006, Pag.
150-153.
283
T. Negash, No Medicine for the Bite of a white Snake. Notes on Nationalism and Resistance in Eritrea, 1890 – 1940,
University of Uppsala, Uppsala, 1986, Pag. 41.
284 A. Welde Giorgis, Eritrea at a Crossroads, Strategic Book Publishing, Houston, 2014, Pag. 35-36.
85

amministrativo e quello giudiziario: il giorno 18 febbraio con i Regi decreti n. 67 e 68 ed il 22


maggio con il R.d. n. 201. Il R.d. n. 67 istituiva il corpo degli ufficiali e commessi coloniali,
definendo le norme per le nomine e le promozioni, provvedimenti disciplinari e approvava i
quadri organici del personale per i singoli servizi ed uffici civili e quello del personale
relativo alle truppe coloniali. Il R.d. n. 68 “stabiliva l’ordinamento dei servizi civili e militari
nella Colonia Eritrea”: era composto da tre titoli che prevedevano l’organizzazione dei servizi
della colonia, il reclutamento e gli obblighi di servizio e competenze del personale e le norme
amministrative e contabili riferite ai vari servizi della colonia. Con il R.d. 201 venne istituito
nel distretto di Massaua e nel centro abitato di Archico un conciliatore, un giudice unico, un
tribunale civile e penale, un tribunale penale funzionante da corte d’Assise, l’ufficio del
Pubblico Ministero ed un tribunale militare. Per quanto riguarda le zone di Asmara e Cheren
la giustizia veniva amministrata, oltre che dai capi locali, da dei tribunali d’arbitrato e dai
tribunali militari, mentre ad Assab era amministrata dal commissario e dipendeva per i
procedimenti più importanti dal tribunale di Massaua.285
Ritornando al racconto principale, nel dicembre 1893 tornò al governo Crispi e ciò è
giusto metterlo in relazione con l’accelerazione delle mosse italiane in Eritrea. Abbiamo già
definito in precedenza la politica crispina nei riguardi dell’Africa ma è giusto sottolineare
come in quel particolare momento storico, periodo che vedeva l’Italia in una gravissima crisi
sociale ed economica, le azioni del presidente del Consiglio nei riguardi della Colonia e nei
rapporti con Menelik lo portarono a gettarsi, volente o nolente, nelle mani dei militari. Ciò
non toglie che la scelta della politica espansionistica fu assolutamente libera e consapevole e
quindi nessuna mossa fu “inevitabile” nonostante gli interessi in gioco ed i rapporti tesi con
l’amministrazione etiopica.286
Dal punto di vista di chi scrive è giunto il momento di fermarsi un attimo e di
considerare gli uomini ed il pensiero di quegli anni. Mario Isnenghi nella sua presentazione
agli studenti del convegno sul centenario della battaglia di Adua, svoltosi a Piacenza nel 1996,
descrive in maniera estremamente efficace le figure di Baratieri e Crispi, la loro mentalità e le
loro azioni tenendo ben presente il modo di pensare dell’epoca. Se un’azione è sbagliata oggi
non è detto che lo fosse anche allora (o perlomeno non veniva considerata tale). Per fare un
esempio, se non è assolutamente accettabile che nel 1980 una mia conoscente, nata ad
Asmara, potesse affermare “quando ero in Eritrea tutti i miei servi erano negri, d’altronde
cosa vuoi che facciano i negri se non servirci”, nel 1890 la cosa non avrebbe fatto sicuramente
scalpore (salvo per qualche mente illuminata), dato che persino la scienza dell’epoca tendeva
a differenziare le varie razze ed a legittimare la superiorità della razza bianca. Tornando ad
Isnenghi, giustamente mette in evidenza che, quando alla fine dell’800 si parla di grandezza
della Nazione e di onore nazionale, non si può non parlare di guerra. Bene fa inoltre, pur con
le dovute cautele, a sottolineare che persino durante il periodo fascista la mentalità e le azioni
che portarono alla guerra d’Etiopia non possono essere analizzate con i parametri odierni.287
_________________________________
285 I. Rosoni, La Colonia Eritrea – La prima amministrazione coloniale italiana (1880-1912), eum, Macerata, 2006, Pag.

161-164.

286
N. Labanca, In Marcia verso Adua, Einaudi, Torino, 1993, Pag. 306-307.

287 M.Isnenghi, Il Colonialismo di Crispi, Adua – Le ragioni di una sconfitta, a cura di A. Del Boca, Laterza, Bari, 1997, Pag.
71-78.
86

A il mio parere, il termine del secondo conflitto mondiale non si è rivelato uno spartiacque
solo dal punto di vista storico ma anche da quello per così dire del pensiero; si è passati da un
modo di pensare “nazionale” ad uno “globale” con i due blocchi contrapposti, quello
comunista e quello cosiddetto libero. Quasi tutte le ideologie precedenti il 1945 sono
scomparse e si è assistito ad un rapido cambiamento di usi e costumi, dovuto anche
all’avanzare della tecnologia che ci ha portato all’attuale situazione. Peraltro dobbiamo oggi
rilevare che molte ideologie nazionaliste, subito dopo la caduta del blocco sovietico, sono
tornate prepotentemente alla ribalta, partendo dalla divisione della Yugoslavia ed arrivando
agli attuali dissidi interni od esterni alla comunità europea (questione macedone e governi
prettamente nazionalisti dei paesi dell’ex blocco orientale detti “Gruppo di Visegrad”) oltre al
fiorire di numerosissimi partiti cosiddetti “populisti” nati nei paesi occidentali a causa della
sventurata gestione dei flussi migratori e di una comunità europea che non ha saputo
rispondere alle richieste più pressanti dei cittadini. Ma qui concludo poiché si rischia di
entrare in argomenti che non sono l’obiettivo di questo studio e soprattutto, come ho già
affermato nell’introduzione, i commenti personali saranno nella parte conclusiva di
quest’opera.

Passiamo ora alle ragioni che portarono al nuovo scontro tra Menelik ed il Regno
d’Italia ed alla descrizione di quella che sarebbe stata in assoluto la prima battaglia persa da
un esercito europeo contro uno africano e che avrebbe decretato in modo definitivo la caduta
del mito dell’invincibilità dell’uomo bianco. Come abbiamo accennato poc’anzi, Crispi si
ritrovò tra le mani dei militari poiché il governatorato della colonia rimase fino a lungo in
mano a generali del Regio Esercito; dopo Baldissera e Gandolfi288 fu la volta di Oreste
Baratieri il quale dal marzo 1892 resse le sorti della colonia fino alla disfatta di Adua. Il
nuovo scontro tra l’Italia e l’Etiopia ebbe fondamentalmente inizio con la già citata rivolta di
Bahta Hagos: una dissennata politica di indemaniamento delle terre (19.000 ettari nel 1893,
280.000 nel 1894, 113.000 nel 1895) anche se in termini assoluti non si presentava come una
gran cosa, fu più che sufficiente per scatenare allarme e scontento tra gli indigeni. L’errore fu
dovuto oltre che alla scarsa conoscenza delle caratteristiche della proprietà fondiaria eritrea
anche al pensiero che questo genere di attività non avrebbe incontrato alcuna resistenza.
_________________________________

288Gandolfi, Antonio. – Generale (Carpi 1835 – Bologna 1902). Uomo colto e fra i maggiori esperti di questioni militari, fu
per molti anni relatore del bilancio del ministero della Guerra in Parlamento. Non destò quindi alcuna meraviglia quando, nel
giugno del 1890, fu nominato governatore militare e civile dell'Eritrea, una colonia fondata da appena sei mesi e dalle
frontiere ancora incerte e contestate. Il G. giunse in Eritrea alla fine di giugno del 1890 con il preciso incarico, affidatogli da
Crispi, di praticare una politica leale nei confronti di Menelik per cercare di ammansirlo. Con il Rudinì si ritornò a praticare
la "politica tigrina". Una politica che il G. condivise subito e che, anzi, auspicò in forma ancora più radicale. Persuaso che
questa strategia si sarebbe rivelata vincente, il G. cominciò a preparare il terreno per realizzare con i capi tigrini, ras
Mangascià in testa, un solenne incontro al fiume Mareb. Ma questo convegno, tenuto dal 6 all'8 dic. 1891, si concluse non
con un trattato di alleanza, come si sperava a Roma, bensì con un semplice scambio di lettere e un generico impegno a
contrastare i nemici comuni. Si aggiunga che l'incontro tra il G. e ras Mangascià venne interpretato da Menelik come un
indubbio atto di ribellione da parte del suo vassallo e come un'ulteriore prova della malafede degli Italiani. L'incontro del
Mareb, quindi, giudicato dal G. un autentico capolavoro di diplomazia, costituì, invece, un grossolano errore. Non era la
prima volta, del resto, che il G. commetteva sbagli di enorme portata: nel marzo del 1891 aveva posto a capo delle province
di confine con l'Etiopia, occupate abusivamente dall'Italia, Bahta Hagos che, tre anni dopo, avrebbe organizzato
un'insurrezione in nome di Menelik, mettendo in pericolo l'esistenza stessa della colonia. Anche nell'amministrazione
dell'Eritrea il G. non diede una buona prova, soprattutto a causa del suo spiccato autoritarismo, che gli impediva di
collaborare con colleghi e sottoposti. A farne le spese furono soprattutto il colonnello O. Baratieri, che aveva le funzioni di
vicegovernatore e di comandante delle truppe, e il barone L. Franchetti, commissario per la colonizzazione, incaricato di
effettuare alcuni esperimenti agrari in Eritrea. Il suo sconsiderato comportamento fu aspramente criticato alla Camera anche
perché, proprio in quel momento, la colonia si trovava in stato di allarme in seguito alla diserzione di alcuni capi abissini al
soldo dell'Italia. Tali critiche, unitamente alle accuse di aver ordinato fucilazioni e incendi di villaggi durante i due anni di
governatorato, non arrecarono tuttavia alcun danno alla sua carriera.
87

Ricordiamo che in quegli anni (1889-1892) una paurosa carestia aveva obbligato i detentori
dei diritti sulle terre ad emigrare in Etiopia per sopravvivere; al loro ritorno, quando
finalmente cominciò la ripresa si videro privati dei loro diritti da parte dei colonizzatori e
questo non poté certo fargli piacere. In questo periodo venne coniata anche la frase che
rimase storica tra i nativi eritrei, “non c’è medicina contro il morso del serpente bianco”, frase
che non merita ulteriori commenti. Un altro aspetto poco gradito dagli autoctoni, forse poco
noto, fu quello della determinazione dei soggetti sui quali imporre un tributo; fino a quel
momento le popolazioni delle zone di frontiera tra Etiopia, Sudan ed Egitto erano abituate a
miti imposizioni di tributi ed alla non interferenza nelle gerarchie politiche e sociali dei vari
gruppi etnici: in sostanza si esigevano dei tributi ma si riconoscevano i capi locali. All’inizio,
il rapporto con le autorità coloniali italiane non cambiò ed anzi venne bene interpretato dai
capi locali come garanzia di protezione contro richieste altrui; le stesse autorità italiane non
mostrarono sulle prime l’intenzione di alzare tasse o tributi ed anche le lievi tasse imposte ai
commercianti di Massaua, dopo qualche protesta, vennero facilmente accettate. Tra il 1891-92
si cominciò a pensare seriamente ad una imposizione di tributi a tutta la Colonia Eritrea e per
fare ciò vennero stipulati, faticosamente o meno tutta una serie di protettorati con vari capi di
diverse etnie, Habab, AzteMariam, Beni Amer. L’errore di valutazione italiano fu quello di
sopravvalutare le proprie forze e sottovalutare la volontà da parte delle società tradizionali
locali nel voler mantenere una loro autonomia ed una loro dignità.289

Ma arriviamo quindi alle ragioni ultime che hanno portato alla battaglia vera e propria:
la conquista di Cassala290 e la rivolta di Bahta Hagos. La rivolta colse completamente di
sorpresa le autorità coloniali la cui risposta fu quella di riprendere in mano il piano
espansionista che prevedeva l’entrata delle forze militari italiane nella regione del Tigré e
l’annessione di Adua, pensando in questo modo di impressionare e spaventare Menelik II.
L’entusiasmo ancora vivo per l’annessione di Cassala e gli errori di valutazione che abbiamo
citato poc’anzi, portarono in realtà ad una situazione molto diversa da quella immaginata dalle
autorità italiane. Infatti la popolazione etiopica fu convinta del reale pericolo
dell’espansionismo bianco e lo stesso Negus decise una volta per tutte di eliminare il
fastidioso vicino. Nonostante l’ottimismo regnante, a volerle vedere le premesse per gli
italiani non erano certamente favorevoli: il 7 dicembre 1895 il presidio italiano dell’Amba
Alagi291 fu sopraffatto da soverchianti forze abissine e completamente distrutto; il successivo
assedio di Macallé292 costrinse le forze italiane, dopo un’eroica resistenza, ad abbandonare la
posizione ed a rientrare entro i confini della colonia. Peraltro il rientro della colonna dei

____________________________

289
N. Labanca, In Marcia verso Adua, Einaudi, Torino, 1993, Pag. 295-304.

290 Città del Sudan (234.622 ab. circa), capoluogo dello Stato omonimo (36.710 km2 con 1.789.806 ab. nel 2008); sorge a 530
m s.l.m. ai piedi del monte omonimo, sulla destra del fiume Gash (irrigazione). È centro commerciale e agricolo di una
regione coltivata intensamente a cotone (grandi piantagioni), cereali e frutta. Fondata dagli Egiziani nel 1834, durante
l’insurrezione mahdista fu assediata dai Dervisci (1883-85). In accordo con la convenzione anglo-italiana del 1891, un corpo
italiano agli ordini di O. Baratieri attaccò C. nel 1894: i Dervisci furono sconfitti e la città fu annessa al territorio eritreo fino
al 1897, quando fu restituita agli Anglo-Egiziani. Durante la Seconda Guerra Mondiale, fu occupata dalle truppe italiane
(1940-41), nel corso della campagna intesa a togliere agli Inglesi il possesso del Sudan.

291
Monte dell’Etiopia (3438 m).

292
8 dicembre 1895-21 gennaio 1896.
88

superstiti di Macallé fu sfruttato da Menelik utilizzando la fila dei militari italiani come scudo
per le sue truppe che arrivarono indisturbate fino agli avamposti italiani ed impedendo così a
Baratieri di effettuare quelle mosse strategiche, principalmente l’invio di rinforzi, che
avrebbero dato ossigeno alle truppe presenti nella piana di Adua.

Delle truppe di rinforzo erano arrivate a Massaua ma senza quadrupedi e salmerie e


ciò le rendeva praticamente inservibili; Baratieri subì all’inizio del 1896 due piccoli scacchi a
Seetà e ad Alequà che contribuirono alimentare i suoi dubbi nell’intraprendere una vera e
propria guerra contro il Negus. Si cominciava ormai a capire che l’esercito che Menelik aveva
messo in campo era tutt’altro che insignificante ed il governatore si rendeva ormai conto che
un’azione decisa contro l’avversario africano sarebbe stata quantomeno problematica. Ma le
pressioni dall’Italia aumentarono fino all’episodio della destituzione di Baratieri a favore di
Baldissera tenuta però rigorosamente segreta. Lo stesso Crispi non comunicò al governatore
la nuova situazione ma si limitò a spronarlo con un telegramma che rimane nel mito coloniale
nazionale:

[…]

“Codesta è una tisi militare, non una guerra: piccole scaramucce, nelle quali ci
troviamo sempre inferiori di numero dinanzi al nemico; sciupio di eroismo senza successo.
Non ho consigli a dare perché non sono sul luogo, ma constato che la campagna è senza un
preconcetto e vorrei fosse stabilito. Siamo pronti a qualunque sacrificio per salvare l’onore
dell’esercito ed il prestigio della monarchia.”293

[…]

Il 28 ed il 29 febbraio 1896 Baratieri tenne una riunione dei generali che avrebbe
dovuto decidere se ritirare le truppe dal fronte (a causa delle difficoltà logistiche che
avrebbero assicurato vitto solo per altri tre giorni) o la permanenza sul campo. Nessuno dei
generali ritenne opportuno arretrare e la cosa anche se oggi può apparire sorprendente è
assolutamente in linea con la mentalità dei militari coloniali dell’epoca.294 Naturalmente non
furono soltanto questioni militari a fare pendere la bilancia verso lo scontro ma anche
evidenze politiche e non ultime personali dato che l’idea di poter essere sostituito non poté
non essere passata dalla testa del generale. D’altronde la stampa nazionale non aveva certo
perso tempo nell’auspicare la sostituzione del governatore con il generale Baldissera e di
questo Baratieri non poteva non essere informato. Il famigerato “colpo di testa” del
governatore, tanto temuto da tenere secretata la sua destituzione, arrivò comunque e l’esercito
coloniale si preparò a scontrarsi con l’esercito di Menelik con 20.170 uomini (nazionali e
indigeni) oltre a 9215 uomini di stanza nei vari presidi contro più di 100.000 guerrieri
abissini. Dal punto di vista prettamente militare si può discutere sulla strategia di dividere il
corpo di spedizione italiano in tre colonne per un totale di circa 16.000 uomini più una

__________________________________

293
N. Labanca, In Marcia verso Adua, Einaudi, Torino, 1993, Pag. 352.

294 Ibidem , Pag. 343-353.


89

retroguardia di circa quattromila o su altre tattiche discutibili attuate dai generali italiani, ma
su una cosa non si può che essere tutti d’accordo e cioè sul fatto che una truppa così
sparpagliata e stanca al momento dello scontro non possa essere in grado di sostenere la furia
di un esercito con un rapporto di 1 a 6. E così fu; con questa situazione (truppa stanca,
munizioni scarse) e questi numeri, la battaglia non poteva che finire in un modo, con la
completa disfatta del corpo di spedizione italiano e disfatta fu. Dei quattro generali
comandanti presenti sul campo, Dabormida295, Arimondi296, Albertone297 ed Ellena298, i primi
due morirono sul campo, Albertone venne fatto prigioniero e solo Ellena, comandante della
retroguardia, riuscì a rientrare in Eritrea insieme a Baratieri. Non voglio dilungarmi sul
racconto militare della battaglia dato che fiumi d’inchiostro sono stati spesi in proposito e mi
limiterò a segnalare il numero delle perdite, sul quale peraltro non vi è concordanza di stime
tra i vari storici; facendo una media possiamo definire che tra i soldati nazionali ci furono
circa 6000 morti, 1500 feriti e 2000 prigionieri, tra gli ascari circa 2000 morti ed un numero
non definito di prigionieri che subirono gravi conseguenze, tra gli abissini ci furono tra i 5000
ed i 6000 morti e 9000 feriti. Un certo numero di prigionieri italiani riuscirono a tornare a
casa dopo diverse peripezie mentre ai prigionieri ascari fu inflitta una dura condanna: accusati
di tradimento, chi non venne giustiziato subì l’amputazione di una mano e di un piede come
punizione. In realtà, Menelik si dimostrò ancora una volta molto abile dal punto di vista
diplomatico poiché comprese subito che la salvaguardia dei prigionieri gli avrebbe portato
sicuramente dei vantaggi e si oppose quindi al vendicativo desiderio della moglie,
l’imperatrice Taytù, la quale, al contrario, avrebbe preferito sterminare tutti i sopravvissuti
nemici. La cosiddetta “prima guerra d’Africa” terminò ufficialmente il 26 ottobre 1896 con il
trattato di pace firmato ad Addis Abeba da Menelik II e dal ministro plenipotenziario Cesare
Nerazzini.299

Quali furono le conseguenze della battaglia di Adua? Dal punto di vista militare segnò
la prima vera sconfitta di un esercito europeo da parte di uno africano e ruppe una volta per
tutte quell’aura di invincibilità dei bianchi rispetto a tutti gli altri popoli. Sembra una cosa da
________________________________

295Dabormida, Vittorio. - Generale (Torino 1842 – Adua 1896). Figlio di Giuseppe. Nel 1896 comandava ad Adua una
brigata tra quelle che combatterono più ordinatamente; sopraffatto infine dal numero, il D. morì guidando un ultimo disperato
assalto. Medaglia d'oro alla memoria.

296 Arimondi, Giuseppe. - Generale (Savigliano 1846 - monte Rajo 1896). Nel dic. 1893, ad Agordat, inflisse una sconfitta ai
dervisci; si segnalò ancora ad Adi Ugri, Coatit e Senafè. Urtatosi col gen. Baratieri, chiese invano di essere rimpatriato. Nella
giornata di Adua, l'A., dopo aver cercato invano con la sua brigata di sottrarsi alla pressione soverchiante degli Abissini, morì
in combattimento. Medaglia d'oro alla memoria.

297
Albertone, Matteo Francesco. – (Alessandria 1840 – Roma 1919). Nel 1888 ebbe il comando del 1° reggimento cacciatori
del Corpo speciale d'Africa; poi, fino al 1890, il comando della piazza di Massaua. Rimpatriato, tornò in Africa nel 1895 col
grado di maggiore generale, e assunse il comando di una brigata di ascari eritrei, con la quale partecipò alla battaglia di
Adua.Nel consiglio di guerra precedente la battaglia, presieduto dal Baratieri, l'A. aveva consigliato l'attacco del campo
scioano e prospettato i pericoli di una ritirata. Il 1° marzo, alla testa degli indigeni (costituenti buona parte dell'ala sinistra,
con la loro brigata di 4 battaglioni con 14 cannoni), andò oltre gli ordini del comandante in capo e si distanziò troppo dalle
meno mobili truppe metropolitane, provocando un'azione tattica intempestiva e slegata, che fu una delle cause dell'esito
negativo della giornata. Fatto prigioniero, l'A. fu liberato dopo la firma della pace di Addis Abeba (26 ott. 1896) e decorato
con medaglia d'argento (altra aveva ottenuto nel 1864).

298 Ellena, Giuseppe. - Generale di cui non si hanno notizie se non che era artigliere, capitano nel 1874, probabilmente alla

scuola d’artiglieria e genio di Torino, avendo lasciato scritti adottati ai corsi. Ferito, ma sopravvissuto ad Adua.

299 V. Documento n. 20.


90

poco ma per l’epoca non lo fu affatto; per la prima volta dopo il cartaginese Annibale (circa
2000 anni prima), gli africani potettero godere di una vittoria che avrebbe cambiato per
sempre i rapporti tra paesi colonizzati e colonizzatori; molti circoli anticolonialisti nacquero
in diverse città del continente nero dopo la battaglia di Adua.300 In Italia, il governo Crispi
cadde non appena giunsero in patria le prime notizie della sconfitta. Data la situazione politica
e sociale del paese vi fu il rischio che la disfatta provocasse una crisi anche istituzionale
nonché scatenasse una bufera nella fascia più a rischio della popolazione cioè quella più
bisognosa. Per questo motivo venne formato un governo con a capo Rudinì con l’obiettivo di
evitare qualsiasi forma di agitazione e nel tentativo di riportare la situazione entro binari
facilmente controllabili. L’esecutivo messo in campo ebbe infatti un carattere particolarmente
autoritario ma anche moderato e mediatore della successione a Crispi che portò il paese, dopo
la terribile parentesi del maggio 1898 (i moti milanesi soffocati nel sangue da Bava Beccaris
ed altri tristi episodi), alla svolta liberale d’inizio secolo.301

Per circa un anno, dopo la firma del trattato di pace, il destino della giovane colonia
italiana rimase in forse, stretto tra coloro in patria che spingevano per un rapido abbandono
dei territori africani e chi invece continuava a pensare ad un loro sfruttamento. Il 21 novembre
1897 venne nominato Commissario civile straordinario, ossia governatore dell’Eritrea, il
deputato Ferdinando Martini302; questo personaggio, che aveva militato fino a pochi anni
prima nelle file degli antiafricanisti e che in seguito si era convertito al colonialismo, era stato
inviato in Africa con diversi obiettivi: in primo luogo avrebbe dovuto instaurare per la prima
volta in colonia una forte amministrazione civile, poi avrebbe dovuto ristabilire buoni rapporti
con Menelik e l’impero etiopico sulla base di una politica di raccoglimento e, certamente non
ultimo per importanza, doveva cercare di far pesare il meno possibile la colonia sul bilancio
statale attraverso una più intensa vita economica.303 Quando questi giunse in colonia, la sua
prima preoccupazione fu quella di creare uno staff di collaboratori da egli ritenuti affidabili e
competenti che lo affiancassero nell’amministrazione del paese. Naturalmente, fino a quel
momento, coloro i quali si sentivano depositari di una vera conoscenza coloniale erano i
militari e ciò bastava loro per sentire legittimato qualsiasi punto di vista sulla questione
Eritrea. Martini non era però disposto a farsi scavalcare da questi personaggi dei quali
_____________________________

300 A. Welde Giorgis, Eritrea at a Crossroads, Strategic Book Publishing, Houston, 2014, Pag. 36-37.

301 N. Labanca, In Marcia verso Adua, Einaudi, Torino, 1993, Pag. 360-361.

302
Martini, Ferdinando. - Scrittore e uomo politico italiano (Firenze 1841 - Monsummano, Pistoia, 1928). Giornalista e
insegnante, partecipò alla vita politica come militante dei liberali di sinistra: fu deputato, due volte ministro, senatore e
commissario civile della Colonia Eritrea. Scrisse, fra le molte cose, testi teatrali, saggi e libri di memorialistica, sempre
distinguendosi per finezza letteraria. Attratto quindi dalla vita politica, M. fu deputato al parlamento, sottosegretario (1884) e
poi ministro dell'Istruzione pubblica (1892-93), commissario civile della Colonia Eritrea (1897-1900) e più tardi ministro
delle Colonie (1915-16); nel 1923 fu nominato senatore. Dalle sue esperienze coloniali nacquero gli scritti: Nell'Africa
italiana, 1891; Cose africane, 1896; Relazione sulla colonia Eritrea, 1913. E tante esperienze giovarono largamente allo
scrittore, testimone e documentatore acuto e arguto del proprio tempo: si ricordano gli articoli e i saggi compresi in Fra un
sigaro e l'altro (1876), Di palo in frasca (1891), Al teatro (1895), Simpatie. Studî e ricordi (1900), Pagine raccolte (1912),
ecc., ma soprattutto i due volumi di memorie, Confessioni e ricordi (Firenze granducale) del 1922 e Confessioni e ricordi
(1859-1892), pubblicato nel 1928, dopo la sua morte, serie di disegni e di esemplari ricostruzioni della Firenze ottocentesca.

303
A. Aquarone, Dopo Adua: politica e amministrazione coloniale, Ministero per i beni culturali e ambientali, Roma, 1989,
Pag. 45.
91

riconosceva l’esperienza ma notava anche la loro mancanza di equilibrio e di tatto. Perciò la


sua politica fu inflessibile e chiunque si dimostrò poco avvezzo a comprendere la portata del
cambiamento venne in breve tempo rispedito in patria. Riguardo ai militari annotava infatti
nel suo diario:

[…]

“Quando la guerra ricomincerà, se vorranno ricominciarla, allora i vecchi d’Affrica


sarà utile farli tornare nell’Eritrea; ma in tempo di pace giova rimangano in Italia, perché
qui, un po’ per consuetudine tollerata, un po’ per le imprese che hanno compiuto e cui hanno
partecipato con maggiore o minore fortuna, si credono liberi di ogni vincolo: e padroni di far
ciò che loro meglio talenta. Elementi di dissoluzione dove c’è molto bisogno di ricomporre e
di stringere.”304

[…]

Inoltre se qualche militare poteva interessare Martini questi era un tenente giovane,
motivato, intelligente, ambizioso e che avesse un forte senso della gerarchia. Questi candidati
erano incoraggiati dallo stesso Martini a passare nelle fila civili della colonia, così il
commissario avrebbe potuto controllarli e plasmarli come avrebbe preferito, al contrario degli
ufficiali anziani.305

Una delle primissime problematiche sul campo fu quella della definizione dei confini
della colonia: l’Eritrea confinava con la Costa francese dei somali (Côte française des
Somalis) a sud, con il Sudan anglo-egiziano a nord e con l’Etiopia ad ovest, tutti confini che
creavano apprensione al governo coloniale ma è principalmente dell’ultimo citato, quello con
l’Etiopia, che tratteremo brevemente. La situazione politica che Martini trovò riguardo a
questo fondamentale argomento era estremamente ambigua: se da una parte il governo
lasciava credere all’opposizione parlamentare di volersi ritirare dall’altopiano di Kerbessa,
come previsto dalle richieste di Menelik nel 1897 ed accettate dal governo italiano ma non
ancora ratificate, dall’altra, spinto dal Re Umberto e dai militari cercava di non mollare la
presa sul suddetto altopiano poiché, come molti pensavano, se si fosse abbandonato Kerbessa
tanto valeva abbandonare l’intera colonia e ritornarsene in patria. Nonostante l’Italia
nicchiasse nel confermare le richieste territoriali di Menelik, non vi fu in questo periodo
nessuna pressione da parte etiope a causa di ciò che stava succedendo nella regione del Tigré;
il governatore della regione, Ras Mangascià, al termine della guerra vittoriosa contro gli
italiani, aveva mostrato una particolare insofferenza nei confronti dell’autorità imperiale
nonostante Menelik gli avesse data in moglie una nipote dell’imperatrice Taytù e l’avesse
riconfermato governatore. L’effetto collante della guerra contro gli europei era terminato ed il
Tigré tornò preda delle rivalità intestine dei suoi ras.306

_______________________________

304
M. Zaccaria, a cura di, Le note del commissario – Teobaldo Folchi e i cenni storico amministrativi sul commissariato di
Massaua, 1898, Franco Angeli, Milano, 2009, Pag. 15.
305 Ibidem, Pag. 14-16.
306
F. Guazzini, Le ragioni di un confine coloniale – Eritrea 1898 – 1908, L’Harmattan Italia, Torino, 1999, Pag. 24-26.
92

Se da parte del governo di Roma il problema principale era quello di non entrare in
conflitto con le autorità etiopiche, Martini si dimostrò, al contrario, non disposto a cedere per
quanto riguarda le contese territoriali ed a perseverare nel tentativo di non arretrare
dall’altopiano di Kerbessa. Quando nel 1898 un delegato di ras Makonnen, che sostituì ras
Mangascià come prossimo governatore della zona dell’altipiano, fu inviato a Massaua per
definire una volta per tutte la linea confinaria, Martini rispose comunicando le proprie
dimissioni. La questione della linea di confine era stata argomento di negoziazione tra il
Negus e l’inviato del governo italiano Federico Ciccodicola, diplomatico e militare, il quale
aveva ricevuto da Roma l’ordine di acconsentire alle richieste di Menelik e di definire la linea
di demarcazione tra Eritrea ed Etiopia al di là dell’altopiano; la mossa del governatore, che
avrebbe dovuto ratificare il nuovo assetto territoriale, servì dunque a forzare la mano al
governo metropolitano (il suo eventuale successore non sarebbe mai giunto in tempo per
incontrare l’inviato etiopico e questo avrebbe fatto crollare tutta l’impalcatura diplomatica
costruita fino ad allora) ed infatti il ministro degli Esteri Cappelli307 impartì l’ordine di riferire
a Menelik che l’Italia non avrebbe accettato l’intesa a causa delle pericolose conseguenze che
avrebbero potuto investire l’Eritrea in seguito al contrasto Mangascià – Makonnen, e soltanto
quando la situazione nel Tigré si fosse stabilizzata avrebbe potuto procedere alla
delimitazione confinaria. Una visita nel territorio dell’altopiano ed una serie di incontri con i
residenti, i militari e le autorità indigene, confermarono peraltro al governatore che
effettivamente una cessione del territorio all’Etiopia avrebbe gettato nel caos le popolazione
di Kebessa. Per evitare ripensamenti da parte del governo italiano, Martini promulgò un
decreto governatoriale che prevedeva la riorganizzazione delle circoscrizioni della colonia,
compresa quella del Seraè308 e dell’Achelè Guzai309 facenti parte dell’altopiano in questione
che rappresentava un passo significativo verso l’esercizio esclusivo di governo di date
zone.310
La posizione di Martini trovò conforto nell’avallo di Re Umberto anch’egli desideroso
di conservare i vecchi confini della colonia ed il 3 ottobre 1898 il governo di Roma prese
ufficialmente la decisione di recedere dalle intese stipulate con l’Etiopia per ottenere il
mantenimento dello statu quo. Nell’ottobre 1898 il Negus lanciò un ultimatum a Mangascià e
si mise in marcia alla testa di 30.000 uomini, oltre alle forze di Makonnen, ras Michael e ras
_____________________________

307
Cappelli, Raffaele. - Uomo politico italiano (S. Demetrio ne' Vestini 1848 – Roma 1921); avvocato, fu addetto
all'ambasciata di Londra e di Vienna e segretario a Berlino. Deputato dal 1880 al 1919, da C. F. di Robilant gli fu affidata la
segreteria generale degli Esteri (1885-87) e nel giugno 1898 fu ministro degli Esteri nel gabinetto Di Rudinì. Nel 1889 ebbe il
titolo di marchese, nel 1919 fu nominato senatore.

308Seraè. - Regione della colonia Eritrea, posta sull'altipiano a occidente dell'Hamasen e dell'Acchelè Guzai, a mezzogiorno
dei Beni Amer e dei Baria, limitata a S. dal fiume Mareb. Il capoluogo è Adi Ugri (m. 2022). La regione comprende a S. il
Seraè propriamente detto col Decchi Tesfà e il Dembelas che ne sono una naturale dipendenza, e a N. e NE. i due distretti
Tzellimà e Seffaà, che rientrerebbero geograficamente nell'Hamasen.

309 Acchelè Guzai. - Circoscrizione amministrativa (commissariato regionale) della Colonia Eritrea, situata nella parte SE.

dell'Eritrea propriamente detta (esclusa la Dancalia), confinante a sud con la provincia abissina dell'Agamè, ad occidente col
Seraè, a nord con l'Hamasèn e col commissariato di Massaua, a levante per breve tratto con la costa occidentale del golfo di
Zula, poi con la Dancalia settentrionale. Il commissariato dell'Acchelè Guzai comprende dunque, oltre la regione omonima,
lo Scimezana e la cosiddetta Alta Assaorta. Capoluogo è Adi Caieh. Il territorio dell'Acchelè Guzai abbraccia un notevole
tratto dell'altipiano, accidentato e vario, ricco di vallate, fertili e coltivate, le corrispondenti pendici orientali e un settore del
bassopiano, arido e riarso dal sole.

310
F. Guazzini, Le ragioni di un confine coloniale – Eritrea 1898 – 1908, L’Harmattan Italia, Torino, 1999, Pag. 31-36.
93

Oliè, verso il Tigré. Questioni interne, scoraggiare le ribellioni dei ras, ed internazionali, la
conquista britannica del Sudan, portarono Menelik alla decisione di ridiscutere i confini
etiopici-eritrei con il governo italiano. Inizialmente propose un accordo che avrebbe ratificato
sulla carta la linea precedentemente definita ma che, nella realtà, avrebbe riconosciuto
all’Italia il possesso sul Seraè e sull’Achelè Guzai a tempo indeterminato con la contropartita
di un aiuto indiretto italiano per riportare in maniera indolore il Tigré sotto il proprio
controllo. Mentre in Italia si discuteva di questa proposta la situazione nel Tigré arrivò ad una
conclusione: ras Mangascià si presentò a metà febbraio del 1899 nel campo imperiale per
sottomettersi: ma il confine eritreo-etiopico non era ancora stato definito.
La conferma di Makonnen a governatore del Tigré non aveva però placato le
turbolenze e le razzie praticate dai capi della zona ed il nuovo ras non era riuscito a
conservare il pieno controllo del territorio. I ribelli continuavano a lottare accanitamente
contro le autorità scioane al fine di ottenere l’autonomia della regione. Martini pressava
Makonnen perché riuscisse a rendere praticabili le rotte commerciali mentre il Ras
subordinava il tutto a dopo la ricezione degli aiuti concordati (fucili, munizioni, cereali e
denaro), ed allo stesso modo pretendeva solide garanzie di amicizia verso l’Etiopia prima di
ricominciare a parlare di linee di confine. Da parte sua Menelik non era così lapidario nel
pretendere l’attuazione della sua proposta inizialmente accettata dal governo italiano, ma
poiché la Francia e la Gran Bretagna esercitavano pressioni sull’Etiopia affinché fossero
rettificate alcune linee di confine che avrebbero strappato territori all’impero, il sovrano non
voleva dar vita ad un precedente che lo avrebbe indebolito al cospetto delle altre potenze
coloniali. Inoltre non bisogna dimenticare che diversi notabili, tra i quali abbiamo visto lo
stesso Makonnen, e soprattutto l’imperatrice Taytù erano assolutamente contrari a qualsiasi
cessione territoriale. Martini pretese che il negoziatore italiano inviato alla corte del Negus
fosse Ciccodicola e non Nerazzini come invece era propenso a fare il ministero degli Esteri,
poiché era convinto che il primo avrebbe seguito una idea di negoziazione più vicina alle idee
del governatore. Ciccodicola suggerì infatti alla Consulta di proporre a Menelik una cessione
del Kebessa a tempo determinato e limitato con la speranza che riprendendo il negoziato dopo
qualche anno l’Etiopia, nel frattempo andata incontro ad un fisiologico declino (così pensava
l’inviato italiano), non sarebbe più stata in grado di mettere bastoni fra le ruote alla piena
sovranità italiana sull’altipiano. Inoltre questa situazione avrebbe consentito
all’amministrazione italiana di attuare la valorizzazione economica del possedimento
verificando così, in termini inequivocabili il vero valore dell’Eritrea.311
Dopo una serie di proposte e controproposte, tutte fallite, di arrivare ad una
conclusione dell’impasse, fu lo stesso Menelik a prendere in mano la situazione e con un
linguaggio estremamente lontano da quello diplomatico spostò i termini ad un mero affare di
interessi; offrì all’Italia di stipulare un vero e proprio contratto di vendita, richiedendo una
somma di 200.000 talleri, da pagarsi in venti rate annuali, in cambio del Kebessa. Il Negus era
perfettamente cosciente che la cifra richiesta era nettamente superiore al valore attuale e
futuro del territorio ma giustificò la cifra con l’esigenza di placare le rimostranze dei vari ras
in seguito alla rinuncia del territorio con la conseguente accettazione della definitiva
spartizione etnica della popolazione tigrina.
_______________________________

311 F. Guazzini, Le ragioni di un confine coloniale – Eritrea 1898 – 1908, L’Harmattan Italia, Torino, 1999, Pag. 38-48.
94

A Roma non parve vero di poter finalmente risolvere la questione confinaria della
colonia; nonostante cercasse di giocare al ribasso sulla cifra del compenso, il governo
centrale era propenso ad accettare in massima la proposta etiopica. All’inizio di dicembre
1899 però, Menelik cambiò le carte in tavola: su pressione di Taytù comunicò che accettare
denaro significava vendere il paese e propose di cedere al re Umberto, senza alcun compenso,
una linea di frontiera (Mareb-Mai, Marettà-ciglio versante affluenti di sinistra del Mareb fino
ad Adì Cajè) che avrebbe tolto al controllo italiano due distretti dell’Achelè Guzai ma che
secondo il governatore “non sarebbe stata una gran perdita, sotto l’aspetto morale e politico
perlomeno”. Ma il ministro degli Esteri non era disposto a cedere, anche su pressione reale, e
respinse l’offerta etiope riproponendo la linea di confine originaria; per vincere le ultime
indecisioni della controparte, la diplomazia italiana andò a toccare un tasto particolarmente
sensibile di Menelik e cioè quello di non creare dispiacere al re Umberto. L’Italia fornì inoltre
rigorose garanzie di neutralità in caso l’Etiopia avesse avuto delle difficoltà con altre potenze,
e così, dietro compenso di cinque milioni di lire e l’assicurazione di non cedere territori ad
altre nazioni straniere fra l’aprile ed il giugno 1900 fu finalmente possibile accordarsi pe un
confine sulla linea idrografica Mereb-Belesa-Muna. Il 10 luglio 1900 fu siglato l’accordo tra
le due parti312 ed il confine tra Etiopia ed Eritrea sarebbe rimasto immutato fino alla guerra
del 1935-36.313
Il 24 gennaio 1900 l’Italia aveva già raggiunto un accordo con la Francia per quanto
riguardava il confine meridionale ed il 13 luglio del 1901 venne firmato un protocollo d’intesa
che prevedeva la linea divisoria partire dal promontorio di ras Dumeira, proseguire verso
Bissidiro e seguire il fiume Weima fino a Daddato ed al sultanato di Raheita annesso poi
dall’Italia nel 1935. La questione dei confini settentrionali con il Sudan anglo-egiziano fu
decisamente più travagliata a causa dei frequenti spostamenti delle popolazioni indigene alla
ricerca di buoni pascoli per il bestiame. Alla fine la linea confinaria tra i due paesi rimase più
o meno quella decisa il 15 aprile 1891 con piccole variazioni in seguito alle già citate
migrazioni delle popolazioni dell’area.
Se la questione confinaria si rivelò alla fine un successo della politica di Martini non si
può certo dire lo stesso per un altro argomento che in quegli anni vedeva principale interprete
l’Eritrea e cioè la ricerca dell’oro. Quando nell’aprile del 1897 giunse in Italia la notizia che
nei pressi di Asmara era stato rinvenuto un blocco di quarzo con una notevole quantità d’oro,
fu considerata la conferma alle voci che già da tempo circolavano riguardo alle ricchezze
minerarie del Corno d’Africa. Il primo a volerci vedere chiaro su queste voci fu naturalmente
il commissario Martini, il quale trascinato forse dal desiderio di cominciare finalmente ad
attirare capitali (“L’Eritrea chiede capitali e non braccia” scriveva un redattore del “Corriere
della Sera” nel 1906) per sviluppare l’economia della colonia, arrivò a sostenere fino alla fine
quella che si rivelò essere una mezza bufala. In realtà, non è che l’oro in Eritrea non ci fosse,
ma la dimensione dei filoni e la loro conformazione rendevano difficoltoso e a volte
antieconomico la sua ricerca. Inoltre se sommiamo a questo la cronica incapacità degli
imprenditori italiani di investire denaro in affari incerti e che possono non rendere
immediatamente, il quadretto è completo. Certo l’Eritrea non era né il Sudafrica né lo Yukon,
_______________________________
312
V. Documento n. 21
313 F. Guazzini, Le ragioni di un confine coloniale – Eritrea 1898 – 1908, L’Harmattan Italia, Torino, 1999, Pag. 40-68.
95

ma non si sarebbe rivelata quella bufala che si era creduto ad inizio secolo; cercando in
un’altra zona più a sud (e non nell’Hamasien dove si sono svolti i fatti che racconteremo in
seguito), nel 1937 verrà scoperto un giacimento a Ugarò che produrrà circa 30 kg. d’oro
mensili e che verrà sfruttato fino alla sua perdita per cause belliche nel 1941. In breve, cosa
successe nell’Hamasien? Da Martini, per la concessione di ricerca, si presentarono due
gruppi: uno capitanato dall’amico Beniamino Nathan e dal banchiere londinese Simon
Symons, l’altro era la Società italiana per il commercio con le colonie, che faceva riferimento
al principe Alfonso Doria Pamphili314, che in seguito si accordarono fondando una società su
basi paritetiche con il nome di “Società Eritrea per le miniere d’oro”. Questa società venne
agevolata in ogni modo dal governatore anche attraverso informazioni teoricamente riservate
tanto da essere considerata un’emanazione stessa del governo e non un’impresa privata. L’8
luglio 1900 la Società si aggiudicò una concessione trentennale per l’utilizzo di 30.000 ettari
di territorio ed in cambio il governo si riservava un diritto del 5% sui minerali estratti. Il
territorio concesso era suddiviso in due blocchi, in primo nell’Hamasien (circa 20.000 ettari)
ed il secondo, nella zona di Maldì, si trovava sulla strada per Cheren. Le zone erano state
scelte considerando la presenza di acqua, di combustibile, di manodopera e di vie di
comunicazione ma parve chiaro fin da subito che per quanto riguardava il combustibile e le
vie di comunicazione, i problemi non avrebbero tardato ad affacciarsi. Ma il grosso problema
dei filoni eritrei era che se in superficie erano estremamente visibili ed all’apparenza molto
ricchi, appena si cominciava a scavare ed a scendere di qualche metro i filoni si disperdevano
fino a sparire rendendo il lavoro di scavo assolutamente antieconomico. Ciononostante
Martini continuava ad essere ottimista, anche perché le notizie che gli arrivavano dalla
Società e da altri esperti nel frattempo giunti nella colonia comunicavano che “quasi
dappertutto fu accertata l’esistenza di formazioni aurifere più o meno promettenti”. Dato che
il capitale della Società era insufficiente per procedere allo sfruttamento vero e proprio delle
miniere (il capitale sociale versato, due milioni di lire, aveva previsto le semplici
esplorazioni), si decise di concentrarsi sul filone di Medrì Zien nella zona di Asmara. Altri
personaggi ottennero delle concessioni nella zona di Cheren ed a Barentù (comm. del Gash e
Serit), anche se queste piccole imprese, più o meno a conduzione familiare, non erano certo
gli investimenti di capitali che Martini si attendeva. D’altronde era vero che l’oro continuava
ad essere scoperto, ma mai nelle quantità sufficienti a garantirne lo sfruttamento poiché era
ormai chiaro a tutti che la fase ultima e risolutiva dell’impresa era quella di estrarre l’oro dal
quarzo. Per quanto riguarda la Società Eritrea per le miniere d’oro, invece che aumentare il
capitale sociale venne deciso di diminuirlo e nel 1907 la produzione non aveva ancora
raggiunto un livello remunerativo e nonostante nel 1909 furono estratti 50 chili d’oro e
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314
Doria Pamphili, Alfonso. – Politico (Roma 1851 – 1914), Dopo l'occupazione di Roma il D. prestò per qualche tempo
servizio militare volontario nell'Italia settentrionale. Rientrato nella capitale, svolse, come altri aristocratici romani, una
particolare funzione di collegamento e di mediazione fra il principe ereditario Umberto e la sua consorte Margherita con la
città sconosciuta. Nel 1906 divenne presidente dell'Opera nazionale a beneficio degli operai italiani morti d'infortunio sul
lavoro, che aveva contribuito a costituire nel 1896 in occasione delle nozze d'argento dei sovrani. Nel 1893 era entrato nel
Consiglio comunale; membro della Congregazione di carità, si dimise nel 1897: dei problemi della città, soprattutto
assistenziali, preferiva occuparsi, come era nella tradizione della aristocrazia romana, e specificatamente della famiglia, con
interventi diretti, mantenendo, "con un certo fare romanescamente arguto e popolare" (Mariani), una grande influenza nella
plebe. Lunga e vivace fu la sua lotta come presidente della Società italiana per il commercio colle colonie (1899;
vicepresidente era F. Scheibler) per ottenere in concessione lo sfruttamento dell'Eritrea: dalla produzione agraria a quella
mineraria, soprattutto aurifera, e allo sviluppo commerciale. Lo appoggiavano altri gruppi inglesi e varie banche,
specialmente la Hambro, ma in Inghilterra era anche il nucleo principale della concorrenza nella compagnia fondata dall'ing.
B. Nathan, fratello di Ernesto, con cui il D. finì per accordarsi, accontentandosi di una partecipazione alla Società eritrea per
le miniere d'oro, fondata nel 1900 da Nathan e da E. Talamo.
96

sembrava che finalmente si fosse trovato il filone giusto seppure a profondità decisamente più
importanti (75-100 mt.) nell’agosto del 1914 la Società venne messa in liquidazione. In
conclusione, il fallito sfruttamento delle risorse aurifere in Eritrea fu il primo di una serie di
fallimenti che nel giro di qualche anno finirono per minare la natura del progetto economico
che si voleva realizzare nella colonia primigenia.315
I primi anni del ‘900 furono comunque fondamentali per la colonia dato che Martini
ottenne diversi successi dal punto di vista organizzativo, come il nuovo ordinamento organico
della Colonia Eritrea (R.d. 11 febbraio 1900, n. 48) che restituiva al potere civile
l’amministrazione del territorio coloniale ed il primo segno del nuovo corso fu lo spostamento
della capitale ad Asmara, decisamente più salubre di Massaua. Anche con il successivo
ordinamento organico (R.d. 30 marzo 1902, n. 168), istituito con lo scopo di ridurre le spese
del personale, Martini riuscì ad ottenere che l’ordinamento diminuisse sensibilmente gli
organici militari e non quelli civili. A questo punto il governatore si sentì abbastanza forte da
poter proporre anche un nuovo ordinamento giudiziario (R.d. 9 febbraio 1902, n. 51) le cui
innovazioni potevano essere sintetizzate in quattro punti: l’uniformazione del sistema
giudiziario in tutta la colonia con l’istituzione del giudice unico, che risiedeva ad Asmara,
Massaua e Cheren; l’istituzione del tribunale di Appello ad Asmara che decideva sulle
impugnazioni delle sentenze del giudice unico; L’abolizione della giurisdizione dei tribunali
militari per gli speciali reati commessi da indigeni e coloni che sarebbero stati deferiti ai
giudici regionali od al tribunale d’Appello; il riconoscimento al governatore della facoltà di
rivedere i giudizi penali a carico degli indigeni. Con il R.d. 24 maggio 1903 l’ultimo
ordinamento organico proposto da Martini prese forma, andando a correggere quelle
imperfezioni che si erano presentate nell’anno precedente; fu ispirato da tre principi: una
migliore definizione dei poteri e delle attribuzioni del governatore, la concentrazione in un
unico ministero di tutte le facoltà e competenze coloniali e la sostituzione del Consiglio di
Stato con un nuovo organo consultivo che fosse più presente alle realtà africane e fosse
burocraticamente più snello.316 Il governatorato di Ferdinando Martini terminò nel marzo
1907 ed il suo posto fu preso da Giuseppe Salvago-Raggi317.
Il nuovo governatore si trovò in eredità un paese politicamente pacificato,
amministrativamente ordinato, ma dal punto di vista economico lontano da quel pareggio di
bilancio che Martini avrebbe voluto raggiungere. Un suo primo intervento importante fu
quello di decentrare amministrativamente la colonia attraverso un riordinamento delle
circoscrizioni territoriali guidate da dei commissari che dovevano essere dei piccoli
governatori nella loro giurisdizione; il nuovo ordinamento prevedeva otto commissariati
regionali (Hamasien, Seraè, Achelè Guzai, Gasc e Setit, Barca, Cheren, Massaua e Assab) e
ad ognuno di essi venne assegnato un bilancio amministrativo da parte del proprio
commissario, seguendo le direttive del governatore della colonia ma senza il suo consulto.
__________________________

315
M. Zaccaria, L’oro dell’Eritrea, 1897-1914, Africa: Rivista trimestrale di studi e documentazione dell'Istituto italiano per
l'Africa e l'Oriente, anno LX, n.1, Roma, 2005, Pag. 65-110.

316
I. Rosoni, La Colonia Eritrea – La prima amministrazione coloniale italiana (1880-1912), eum, Macerata, 2006, Pag.
200-207.

317Salvago-Raggi, Giuseppe. - Diplomatico (Genova 1866 - ivi 1946). Ministro plenipotenziario a Pechino (1900), difese la
legazione italiana durante la rivolta dei Boxers; fu poi ministro al Cairo, governatore dell'Eritrea (1907-15), ambasciatore a
Parigi (1916-17), delegato italiano alla conferenza della pace (1919). Nel 1918 fu nominato senatore.
97

Naturalmente un successivo decreto governatoriale (6 maggio 1908, n. 733) provvide a


redistribuire in modo più razionale, rispetto alle esigenze del decentramento, tutti i servizi
civili della colonia. Un’altra iniziativa particolarmente meritoria di Salvago-Raggi fu
certamente quella di assumere personale indigeno in tutti i settori dell’amministrazione, sia
pure nelle mansioni più modeste. A tal proposito riportiamo lo stupore di un inviato del
“Corriere della Sera” arrivato in Eritrea nel 1914:
[…]
“Il macchinista della locomotiva è un negro; il fuochista, un negro; i bigliettai e il
controllore sono pure negri. Non c’è da meravigliarsene. In Eritrea gli indigeni hanno
appreso una quantità di mestieri […]. Negli uffici troviamo degli scrivani abilissimi, dei
dattilografi veloci e precisi; anche alle poste, anche ai telegrafi vi sono degli impiegati
indigeni che disimpegnano con zelo le loro mansioni.”318
[…]
Con il R.d. 9 aprile 1908, n. 241 Viene creata la Direzione centrale degli Affari
coloniali che curerà gli interessi italiani nell’oltremare fino alla nascita del ministero delle
Colonie. Nel 1908 apparve anche un nuovo ordinamento giudiziario della colonia (R.d. 2
luglio 1908, n. 325) che ribaltava completamente quello voluto da Martini: la giustizia nei
riguardi degli indigeni veniva ora gestita da funzionari amministrativi, eliminava il tribunale
d’Appello di Asmara ed il procuratore del re veniva sostituito da un avvocato dello Stato
nominato dal governatore. Un deciso ridimensionamento della giustizia quindi, dovuto in
massima parte a ragioni di bilancio dell’Eritrea. Si arrivò quindi ad un autorità giudiziaria che
gestiva le cause riguardanti i cittadini italiani o gli stranieri ad essi assimilati e ad una autorità
amministrativa che gestiva le questioni degli indigeni o loro assimilati. Secondo questa nuova
visione, dato che la colonia è un territorio dipendente dallo Stato ma non parte integrante di
esso, i cittadini italiani che arrivano in colonia non trasferiscono tutti i diritti a loro
riconosciuti in madrepatria, ma sopportano le limitazioni dovute all’ordinamento giuridico
della colonia, che prevede che lo ius suffragi, lo ius honorum, lo ius tributi e lo ius militiae sia
loro consentito gradualmente, nella misura e nelle forme del regime politico coloniale. Gli
indigeni invece sono sudditi e godono solo dei diritti a loro concessi dalle leggi che li
riguardano le quali, in linea di massima, riconoscono efficacia alle consuetudini indigene.319
Il problema del regime fondiario fu una delle principali questioni che Salvago-Raggi
dovette risolvere una volta per tutte dato che anch’egli era convinto, come il suo predecessore,
che l’Eritrea non sarebbe mai diventata una colonia di popolamento. Il suo obiettivo primario
fu quello di restituire agli eritrei parte delle terre che le amministrazioni precedenti avevano
assegnato, senza successo, ai coloni bianchi. Il nuovo ordinamento prese vita con il R.d. 31
gennaio 1909, n. 378, con l’assunto che il territorio coloniale apparteneva allo Stato italiano
(Art.1) ma che sarebbero stati rispettati i diritti delle popolazioni indigene sulle terre da esse
godute in ottemperanza delle antiche consuetudini locali (Art.2). Il nuovo ordinamento
sottoponeva il territorio eritreo a tre regimi diversi: il demanio pubblico, il demanio
disponibile ed il demanio indigeno: del primo facevano parte le strade ferrate e rotabili
____________________________
318 I. Rosoni, La Colonia Eritrea – La prima amministrazione coloniale italiana (1880-1912), eum, Macerata, 2006, Pag. 240.
319 Ibidem, Pag. 237-250.
98

costruite dall’amministrazione, le vie carovaniere e quelle necessarie al transito della


pastorizia, il lido del mare, i porti, le insenature, le spiagge, le mura, le fortezze, le linee
telefoniche e telegrafiche, i beni destinati all’uso pubblico, i corsi d’acqua e le sorgenti
naturali; del secondo regime facevano parte quei terreni che, prima dell’occupazione italiana,
fossero riconosciuti spettanti a cessati governi, a tribù od a famiglie indigene estinte, terreni
dei villaggi abbandonati da più di tre anni (secondo l’uso indigeno), i terreni confiscati, i
boschi, le miniere, le saline e i gultì (concessioni feudali date a famiglie, particolari cariche o
enti di culto); al demanio indigeno appartenevano quei territori di proprietà privata
individuale o familiare (restì) e le proprietà private collettive o di villaggio (dessà).
Con i Regi decreti del 19 settembre 1909, n. 838 e 839, venne conferito un assetto
definitivo anche al personale civile della colonia. Il primo decreto ribadiva la distinzione in
personale civile e militare e prevedeva il reclutamento del personale civile in tre modi: con
personale di un nuovo ruolo organico, con personale di altre amministrazioni statali e con
impiegati assunti a contratto ed indigeni assunti a contratto mensile. Il secondo decreto
istituiva il nuovo ruolo dei funzionari coloniali divisi in due categorie: della prima facevano
parte 23 agenti coloniali e 5 aspiranti, tutti nominati per decreto reale; della seconda facevano
parte 30 funzionari divisi in due classi: gli ufficiali coloniali, nominati per decreto reale e gli
aiutanti, nominati dal governatore. I funzionari di prima categoria erano destinati a ricoprire le
cariche di capi ufficio, capi sezione o di commissari o vicecommissari; i funzionari di seconda
categoria erano destinati ai vari uffici.
Il governatore Salvago-Raggi restò in carica fino al 1915 quando presentò le sue
dimissioni in quanto desideroso di partire per il fronte lasciando alla guida della colonia il
capitano di vascello Giovanni Cerrina Feroni: un militare tornava quindi alla guida
dell’Eritrea.320
Nel 1915 un problema decisamente più grosso stava per travolgere la madrepatria: con
lo scoppio della prima guerra mondiale la questione coloniale prese un’altra strada e cioè la
possibilità di utilizzare truppe coloniali al fianco dell’esercito metropolitano. Dopo qualche
primo successo l’avanzata italiana si incagliò in riva al fiume Isonzo e lì l’esercito tricolore
rimase a combattere ben dodici sanguinosissime battaglie fino a quando, al termine della
dodicesima, la disfatta di Caporetto non riportò il fronte del conflitto sulle rive di un altro
fiume, il Piave. L’idea di impiegare truppe coloniali a sostegno delle forze armate nazionali
venne molto presto; il 12 luglio 1915 giungeva al comando supremo di Udine un progetto del
generale Tassoni321, governatore della Tripolitania (sostenuto in questa sua idea anche da
Ferdinando Martini, divenuto nel frattempo ministro per le colonie), inteso a formare una
legione libica di 3-4000 uomini da impiegare in combattimento sul fronte austriaco. Il
ministro della guerra, generale Zupelli322 si rivelò subito contrario alla proposta, sia da un
punto di vista ideologico (l’Italia stava combattendo una guerra nazionale contro lo straniero)
che su quello pratico (l’impiego di truppe coloniali avrebbe potuto essere interpretato come
______________________________
320 I. Rosoni, La Colonia Eritrea – La prima amministrazione coloniale italiana (1880-1912), eum, Macerata, 2006, Pag.

251-261.

321Tassoni, Giulio. - Generale (Montecchio 1859 – Roma 1942); durante la guerra italo-turca guidò (1913) la IV divisione
nelle operazioni per la conquista dell'altopiano centrale della Cirenaica; fu per qualche tempo governatore della Tripolitania.
Durante la prima guerra mondiale comandò successivamente il IV corpo d'armata, le truppe della Carnia, la 5a e la 7a armata;
senatore del regno (1919), generale d'armata (1923).
99

un’incapacità operativa delle truppe metropolitane), ma il comandante supremo, generale


Cadorna323, condivise in pieno il progetto di Tassoni, dicendo che, a suo parere, era legittimo
qualsiasi mezzo che accelerasse la fine della guerra. In realtà, data la tensione in Libia, lo
spostare degli uomini dal paese nordafricano insieme alle loro famiglie avrebbe consentito un
maggior controllo del territorio alle scarse truppe italiane rimaste oltremare. Uno studio
redatto nel marzo del 1916 faceva notare che l’impiego di truppe di colore sarebbe stato
redditizio poiché avrebbe creato una sorpresa nel nemico; la sicurezza delle colonie non ne
avrebbe risentito poiché la presenza di truppe nazionali era comunque sufficiente a garantirla;
considerata la disponibilità di uomini, si sarebbe potuta creare almeno una divisione di ascari
composta da tre brigate (2 eritree e 1 libica) più un gruppo d’artiglieria composto da 4
batterie da montagna (3 eritree e 1 libica). Alcuni reparti libici vennero portati in Sicilia per
l’addestramento e quelli eritrei vennero dislocati in Libia in attesa di essere spostati al fronte;
a maggio del 1916 dopo un’ispezione delle truppe in Sicilia, il comando supremo pensò che le
truppe coloniali avrebbero potuto essere impiegate solo in caso di sfondamento del fronte
austriaco, riuscendo in quel modo a sfruttare la loro velocità ed aggressività per scompaginare
le retrovie nemiche. Ma l’atteggiamento dei vertici militari, contrari all’utilizzo di truppe di
colore (escluso Cadorna) e la momentanea conclusione vittoriosa delle operazioni in trentino,
oltre al cambio degli uomini di governo, impose un riesame di tutta la questione. Sta di fatto
che da quel momento in avanti non si parlò più, per tutta la durata della guerra, di impiegare
truppe coloniali sul fronte italiano.324
_________________________

322 Zupelli, Vittorio Italico. – Generale (Capodistria 1859 – Roma 1945). Ebbe non pochi incarichi relativi allo studio delle

difese austro-ungariche lungo il confine con l’Italia come pure dell’organizzazione dell’esercito imperiale. Nel 1907 fu
nominato colonnello e nel 1909 divenne segretario del capo di Stato Maggiore dell’Esercito. Nel 1910 comandava il 22º
reggimento di fanteria Pisa, successivamente prese parte alla guerra di Libia e collaborò con il capitano Pietro Badoglio. Nel
1912 fu coinvolto in una missione segreta a Berlino per sondare in quale modo l’Italia, legata alla Triplice Alleanza, avrebbe
dovuto contribuire militarmente in caso di un conflitto. In seguito ebbe l’incarico di capo di Stato Maggiore del corpo
d’armata di Napoli, passò al comando della brigata Sassari e infine, con il grado di maggiore generale, fu alle dipendenze del
duca d’Aosta come capo di Stato Maggiore della IV armata. Nel 1914 il generale Cadorna lo convocò a Roma e fu proposto
sottocapo di Stato Maggiore dell’Esercito. Per iniziativa di Antonio Salandra, presidente del Consiglio dei ministri, fu
nominato ministro della Guerra; l’11 ottobre 1914 Zupelli prestò il suo giuramento alla presenza di Vittorio Emanuele III.
S’impegnò notevolmente dedicando l’attenzione al problema delle scorte di munizioni e viveri, dell’industria bellica e nel
gennaio del 1915 mise in moto la mobilitazione generale. Con l’entrata in guerra dell’Italia, ben presto emersero i contrasti
con Cadorna, relativi sia alla strategia adottata sul fronte sia all’organizzazione delle retrovie. Quando la situazione divenne
insostenibile decise di presentare le dimissioni, che dovette ritirare dopo l’intervento del sovrano, ma le ripresentò alla caduta
del Governo Salandra (giugno 1916) e in quell’occasione furono accolte. Fu ministro della Guerra anche nell’ultimo anno del
conflitto, carica che ricoperse per meno di un anno (20 marzo 1918-17 gennaio 1919).

323 Cadorna, Luigi. - Maresciallo d'Italia (Pallanza 1850 – Bordighera 1928). Nominato capo di stato maggiore nel luglio
1914, impose all'esercito una dura disciplina militare e fu destituito dopo la disfatta di Caporetto (nov. 1917). Senatore dal
1913, dopo la guerra fu collocato a riposo e nominato maresciallo d'Italia (1924). Nel luglio 1914 fu chiamato a sostituire il
gen. A. Pollio come capo di stato maggiore, durante i dieci mesi di neutralità si adoperò a restituire all'esercito l'efficienza
necessaria per partecipare, occorrendo, alla guerra. Entrata l'Italia in guerra (1915), C., perseguendo una tattica di
logoramento dell'avversario, si pose in difensiva dallo Stelvio al medio-alto Isonzo e passò all'offensiva nella regione
isontina. I principali successi ottenuti sotto il suo comando (caratterizzato peraltro da durissima disciplina e da scarsa
considerazione delle esigenze umane del soldato) furono: l'arresto dell'offensiva austriaca nel Trentino (primavera 1916), la
conquista di Gorizia, dovuta a un'improvvisa azione ad oriente, e la vittoria alla Bansizza (estate 1917). L'offensiva di
Caporetto (ott. 1917) costrinse C. a ordinare il ripiegamento dello schieramento orientale dell'esercito dietro il Piave. Lasciato
il comando l'8 nov. 1917 in seguito a questi avvenimenti e sostituito dal gen. A. Diaz, fu nominato membro del Consiglio
superiore di guerra interalleato di Versailles, ma nel febbr. 1918 fu richiamato in Italia, a disposizione della commissione
d'inchiesta sui fatti di Caporetto, e nel 1919 collocato a riposo. Senatore del Regno dal 1913, nel 1924 fu nominato
maresciallo d'Italia.

324N. Della Volpe, Truppe coloniali e prima guerra mondiale: studio di un mancato impiego, Fonti e problemi della politica
coloniale italiana, Atti del convegno Taormina-Messina,23-29 ottobre 1989, Vol. II, Minist. per i beni cult. e amb., Roma,
1996, Pag. 1168-1177.
100

CAPITOLO IV
Il ventennio fascista.
4.1. Dall’età liberale al regime.

Conclusosi vittoriosamente, perlomeno dal punto di vista bellico, il primo conflitto


mondiale, l’Italia si trovò a dover affrontare una situazione economica e sociale interna
disastrosa. La guerra aveva lasciato ampie tracce soprattutto nel nord-est italiano dove per tre
anni gli eserciti si erano fronteggiati in un lungo scontro di posizione terminato con la disfatta
di Caporetto e il successivo contrattacco vincente di Vittorio Veneto. Nel 1919 e nei primi
anni seguenti i problemi della madrepatria occuparono i governanti italiani a tal punto da
lasciare assolutamente a data da destinarsi tutte le questioni riguardanti le colonie. Neppure
l’avvento al potere di Mussolini325 cambiò la situazione dato che né lui né altri maggiori
dirigenti del fascismo avevano elaborato un programma politico coloniale da attuare in
seguito alla conquista del potere. Luigi Goglia e Fabio Grassi nella loro opera in bibliografia,
sostengono un’idea, che ritengo di poter condividere, che il periodo di governo fascista,
relativamente alle colonie, sia da dividere in tre fasi distinte:

1. 1922-1926: gli anni della transizione.


2. 1927-1936: gli anni della definizione.
3. 1936-1940: gli anni della maturità e dell’apogeo.326

Come abbiamo accennato nei primi quattro anni il governo fascista non modificò la
politica coloniale e le uniche novità furono un atteggiamento più duro del nuovo ministro
delle colonie, Luigi Federzoni327, nei confronti degli indigeni (senza contare il quadrumviro
_______________________________

325 Mussolini, Benito. - Uomo politico (Dovia di Predappio 1883 - Giulino di Mezzegra, Dongo, 1945). Socialista, si andò
staccando dal partito, fino a fondare i Fasci da combattimento (1919). Figura emergente nell’ambito del neoformato Partito
nazionale fascista, subito dopo la “marcia su Roma” (1922) venne incaricato dal re della formazione del governo, instaurando
nel giro di pochi anni un regime dittatoriale. In politica internazionale M. affrontò l’esperienza coloniale in Etiopia, si fece
coinvolgere dai buoni rapporti con la Germania di Hitler nella persecuzione degli Ebrei, fino poi alla partecipazione al
conflitto mondiale. I pessimi risultati bellici portarono il Gran Consiglio a votare la mozione Grandi presentata contro di lui
(1943). Arrestato, fu liberato dai Tedeschi e assunse le cariche di capo dello Stato e del governo nella neonata Repubblica
sociale. Alla fine della guerra fu catturato e fucilato dai partigiani per ordine del Comitato di liberazione nazionale. Dominò
la storia italiana per oltre un ventennio, divenendo negli anni del suo potere una delle figure centrali della politica mondiale e
incarnando uno dei modelli dittatoriali fra le due guerre.

326 L.Goglia, F. Grassi, Il colonialismo italiano da Adua all’impero, Laterza, Bari, 1993, Pag. 204.

327
Federzoni, Luigi. - Uomo politico e giornalista italiano (Bologna 1878 – Roma 1967). Collaboratore del Resto del
Carlino e del Giornale d'Italia, fu nel 1910 tra i fondatori del movimento nazionalista e nel 1911 dell'Idea nazionale, della
quale alcuni anni dopo fu direttore. Deputato nazionalista dal 1913, interventista e pluridecorato della prima guerra mondiale
dopo la fusione dei nazionalisti col Partito fascista ormai al potere, fu ministro delle Colonie, dell'Interno (1924) e
nuovamente delle Colonie (1926-1928). Senatore dal 1928, fu successivamente presidente del Senato (1929-39),
dell'Accademia d'Italia (1938-43), dell'Istituto della Enciclopedia Italiana (1938-43), cui è stato donato dagli eredi il suo
archivio. Dal 1931 al 1943 diresse la Nuova Antologia. Membro del Gran consiglio del fascismo dal 1923, aderì il 25 luglio
1943 all'ordine del giorno Grandi, per cui fu condannato a morte in contumacia dal tribunale fascista di Verona. Dopo la
liberazione, condannato all'ergastolo dall'Alta Corte di Giustizia nel 1945, fu amnistiato nel 1947.
101

De Vecchi328 il quale, nominato governatore della Somalia dal 1923 al 1928, si fece notare
per inutili e gratuiti atti di brutalità tanto da far dire allo stesso Mussolini, certo non
particolarmente tenero nei confronti dei sudditi africani, che «in Africa si diede ad occupare
con la forza territori che erano già nostri e compiè crudeli quanto inutili stragi») e
l’annessione dell’Oltre Giuba329, oltre alla riconquista della Tripolitania.

Se gli avvenimenti in Tripolitania escono dall’argomento di questo studio, la questione


dell’Oltre Giuba merita una breve disamina: il territorio ad ovest del fiume Giuba, fino a quel
momento governato dal protettorato inglese dell’East Africa, era abitato prevalentemente da
popolazioni nomadi di origine somala che nulla avevano a che fare con le popolazioni
stanziali del Kenya di origine bantù. Già ad est, l’Italia aveva inizialmente cercato di ottenere
sotto il suo controllo tutte le zone con popolazioni di origine somala quindi anche la Côte
française des Somalis (Djibouti) ed il Somaliland britannico ma le due potenze europee
avevano resistito ed erano rimaste al loro posto nelle due enclaves sul mar Rosso, per cui la
questione del piccolo territorio al confine occidentale della Somalia aveva ottenuto una certa
importanza per la propaganda del regime. In realtà, per i britannici le popolazioni somale nei
loro confini erano fonte di preoccupazione dato che già nel 1916 vi era stata una sollevazione
dei somali musulmani contro le autorità coloniali nello Jubaland. Nonostante le varie
incomprensioni diplomatiche, l’obiettivo dei due stati europei riguardo al destino dell’Oltre
Giuba convergeva: la Gran Bretagna voleva disfarsi di quel fazzoletto di territorio bellicoso e
ribelle e l’Italia gradiva espandere il proprio territorio coloniale e con esso il proprio prestigio
ed il proprio disegno imperialistico nell’Africa orientale. Con la convenzione italo-inglese del
15 luglio 1924 il territorio dell’Oltre Giuba passò formalmente all’Italia, in un primo tempo
governato direttamente dal Ministero delle Colonie tramite un alto Commissario e nel 1926
venne ufficialmente aggregato alla Somalia Italiana.330

Come abbiamo già evidenziato, in questo primo periodo il fascismo non modificò la
_____________________________

328 De Vecchi, Cesare Maria, conte di Val Cismon. - Uomo politico italiano (Casale Monferrato 1884 – Roma 1959);
decorato al valore nella guerra 1915-18, fu tra i promotori del fascismo piemontese. Deputato dal 1921, fu uno dei
quadrumviri della marcia su Roma e successivamente comandante generale della M.V.S.N. Per pochi mesi sottosegretario nel
primo governo Mussolini, fu poi governatore della Somalia (1923), dove estese l'effettivo dominio italiano a tutto il territorio,
ambasciatore presso la S. Sede (1929-35), ministro dell'Educazione nazionale (1935-36), governatore delle Isole dell'Egeo
fino al 1940. Fu nominato senatore del regno (1924) e insignito del titolo di conte di Val Cismon (1925). Accademico d'Italia
e presidente dell'Istituto per la storia del Risorgimento. Nel fascismo rappresentò la corrente più filomonarchica e, dopo le
vicende del 1922-23, il suo peso effettivo nel ristretto gruppo dirigente fascista fu piuttosto modesto. Nella seduta del Gran
consiglio del fascismo del 24-25 luglio 1943 votò l'ordine del giorno Grandi e fu perciò condannato a morte, in contumacia,
dalla R.S.I. nel processo di Verona (1944). In seguito all'emanazione delle norme per la repressione dei delitti fascisti fu
condannato (1947), in contumacia, a lieve pena.

329
Oltre Giuba - Regione della Somalia, comprendente l’area sulla destra del Giuba al confine con il Kenya. Il territorio
(90.000 km2 ca.) è coperto da steppe predesertiche; si praticano una magra agricoltura, la pastorizia nomade e la pesca. Il
centro principale è Chisimaio. Conteso da diversi gruppi etnici e solo nella seconda metà del 19° sec. occupato dai Somali,
nel 1870 fu considerato, nella sua zona litoranea, come facente parte dei domini di terraferma del sultano di Zanzibar.
Esplorate le coste nel 1885 da A. Cecchi, l’O. fu offerto con Chisimaio all’Italia dal sultano Barghash ibn Sa‛īd (1886).
Contrariamente alla convenzione di Londra (1889) che prevedeva l’occupazione comune italo-britannica di Chisimaio, il
protocollo Di Rudinì-Dufferin (24 marzo 1891) diede la regione alla Gran Bretagna, che ne assunse l’amministrazione nel
1895. L’O., riunito alla colonia inglese del Kenya, dopo la prima guerra mondiale fu ceduto all’Italia. Assunto pertanto il
nome di O., fu retto dapprima da un alto commissario alle dirette dipendenze del ministero delle Colonie; poi (30 giugno
1926) unito alla Somalia italiana, della quale ha seguito la sorte dopo la seconda guerra mondiale.

330
G.P. Calchi Novati, L’annessione dell’Oltregiuba nella politica coloniale italiana, Africa, anno 40, vol. 3, Roma, 1985,
Pag. 283-290.
102

politica coloniale italiana ma portò avanti il discorso della civilizzazione come avevano fatto i
governi liberali succedutisi dall’unità del paese fino a dopo la prima guerra mondiale. Il
nuovo regime non faticò neppure nell’inventarsi particolari teorie per istituzionalizzare il
razzismo nei domini coloniali, dato che poté attingere alle enormi risorse dell’antropologia
razziale otto-novecentesca che giustificavano le differenze tra colonizzatori e colonizzati. Il
fascismo esasperò la separazione tra gli indigeni ed i coloni bianchi e mise a tacere qualsiasi
velleità di avvicinamento del divario esistente tra i popoli “selvaggi” e quelli “civili”. Inoltre,
uno degli obiettivi del regime fascista fu quello di portare finalmente a compimento, tramite
la missione imperiale e civilizzatrice in Africa, quel processo di formazione di un’identità
nazionale dimostratasi molto fragile in patria, elemento questo che differenziava ancora
fortemente il colonialismo italiano da quello delle altre potenze colonizzatrici europee.331

Abbiamo precedentemente affermato che il fascismo non ebbe grosse difficoltà ad


istituzionalizzare il razzismo, dato che già precedentemente le teorie razziali avevano creato
nelle colonie africane, principalmente in Eritrea, situazioni particolari come quella del
“madamato”. Ma chi erano le madame? Per prima cosa dobbiamo fare una distinzione tra le
madame e le cosiddette sciarmutte332: le sciarmutte erano delle vere e proprie prostitute
mentre le madame erano donne che avevano delle relazioni esclusive con uomini italiani
stabilitisi in colonia, anche se non necessariamente convivevano con essi. Il madamato non
aveva per la legge italiana un’autorizzazione legale ed era considerato dai coloni qualcosa di
diverso dal matrimonio. Non ci sono abbastanza fonti per definire le madame dal punto di
visto etnico, sociale e di stato civile, ma raccogliendo la testimonianza di Alberto Pollera333

______________________________

331 C.
Giorgi, L’Africa come carriera. Funzioni e funzionari del colonialismo italiano, Carocci, Roma, 2012, Pag. 29-32.

332
Era l’italianizzazione del termine arabo sharm’ta, che identificava le prostitute.

333
Pollera, Adalberto. – Ufficiale coloniale ed etnografo.(Lucca 1873, Asmara 1939) Ottenuto il diploma, entrò
all’Accademia militare di Modena. Per sua esplicita richiesta nel dicembre 1894 fu inviato nella neonata Colonia Eritrea e
assegnato al 3° battaglione fanteria Africa di stanza a Massaua. Da Massaua dovette scortare una carovana fino ad Adigrat,
dove si trovava il presidio retto dal maggiore Pietro Toselli. Venne poi trasferito per un breve periodo a Cheren e
successivamente assegnato al 4° battaglione fanteria indigena di stanza ad Adi Ugri, al comando del maggiore Teobaldo
Folchi. Nel 1902 prese parte con il maggiore Martinelli alla missione italiana per una delimitazione definitiva dei confini
dell’Eritrea con il Sudan anglo-egiziano, che vennero fissati il 15 maggio nella zona del Setit, dove dall’anno successivo
Pollera iniziò la sua lunga carriera di funzionario civile. Nel 1905 fu inserito nei ruoli coloniali a disposizione del ministero
degli Esteri e nel marzo 1906 fu nominato ufficiale coloniale di prima categoria. Negli anni immediatamente precedenti,
mentre si trovava nella zona di Cheren, aveva incontrato Unesc Araià Capté, una giovane donna nata nelle vicinanze di
Axum, dalla quale il 1° aprile 1902 ebbe a Cheren il primogenito, Giovanni, e il 4 agosto il secondo figlio, Michele, nato a
Barentù. Nel 1912, aveva nel frattempo già conosciuto Chidan Menelik, nasceva invece ad Asmara, sempre da Unesc, un
altro figlio, Giorgio, appena tre mesi prima della nascita di Mario, il primo figlio di Chidan, che vide la luce ad Adi Ugri nel
marzo 1913. Nel marzo 1915 nacque Marta e nell’agosto 1916 Alberto. Nel 1928 venne però collocato a riposo per avere
raggiunto le quote necessarie per la liquidazione del massimo della pensione, secondo quanto previsto da un regio decreto
emanato all’inizio di quell’anno. Accettò tuttavia di prendere parte, occupandosi di tutti i preparativi logistici dell’impresa,
alla spedizione nella Dancalia organizzata da Raimondo Franchetti. Dopo essere tornato ad Asmara nell’aprile 1929, alla fine
di maggio era di nuovo in viaggio per raggiungere il 26 giugno Gondar, nel Goggiam, di cui, grazie anche all’interessamento
del duca degli Abruzzi, era stato nominato console. Esercitò l’incarico per due anni, nel periodo della rivolta di ras Gugsa
Oliè nei confronti di negus Tafari. Il 3 aprile 1930 questi venne incoronato imperatore con il nome di Hailè Selassiè,
conferendo a Pollera il grado di gran ufficiale della Stella d’Etiopia, anche se nella sua autobiografia lo avrebbe accusato di
avere spinto il ras a ribellarsi. Sostituito a Gondar nel 1932 da Raffaele Di Lauro,rientrò ad Asmara all’inizio del 1937 – dopo
che il 12 dicembre 1936 era morto il figlio Giorgio vicino al fiume Omo Bottego in un’azione per la quale gli venne attribuita
la medaglia d’oro al valore militare –, per occuparsi nuovamente della biblioteca governativa, venne assunto come
consigliere personale dal governatore Daodiace. Negli ultimi anni di vita si occupò a lungo della questione dei meticci che lo
riguardava direttamente per la sua situazione familiare. Indirizzò anche un accorato appello a Benito Mussolini e, con un atto
di contenuto altamente politico, sposò la sua compagna di trent’anni di vita il 3 agosto 1939.
103

possiamo perlomeno definire che le madame fossero principalmente abissine cristiane. Questa
testimonianza è confermata da due importanti fattori: il fatto che i coloni italiani vivessero in
buona parte nella zona di Asmara dove la presenza di abissini cristiani era preponderante,
inoltre l’abitudine dei musulmani di far pagare un prezzo per le donne date in moglie non
poteva essere soddisfatta in quanto le donne non venivano sposate e questo avrebbe creato un
grosso danno economico alla famiglia della aspirante madama. A favorire la ricerca dello
stato di madamato da parte delle donne indigene vi erano anche delle consuetudini locali che
davano uno straordinario valore alla “purezza di sangue”; questa era intesa non tanto dal
punto di vista etnico o razziale ma dallo stato sociale, cioè non vi doveva essere nell’albero
genealogico della sposa la presenza di schiavi, menestrelli e neppure fabbri od orafi questi
ultimi spesso associati alla stregoneria. Per le ragazze schiave o con schiavi fra i propri avi
non vi era nessuna speranza di matrimonio mentre per chi aveva bisavoli delle succitate
categorie l’unica speranza di matrimonio era con uomini del loro medesimo rango sociale.
Possiamo notare che fondamentalmente tutto il mondo è paese, non credete? Quante volte
abbiamo avuto occasione di notare, studiando i tempi passati od osservando alcune società
attuali, che certe dinamiche sociali sono riscontrabili più o meno in tutto l’orbe terraqueo. A
conferma di ciò un’altra importante precondizione per il matrimonio era la verginità della
fanciulla e questo spiega anche l’abitudine di organizzare matrimoni (era il padre a decidere a
chi dare in sposa la figlia) per ragazzine in età prepuberali, dai sette anni in avanti.
Da tutto quello che abbiamo fino ad ora messo in evidenza è chiaro come un nucleo di
donne nubili non più vergini o di sangue impuro costituisse una grossa base di candidate al
ruolo di madame e che quindi furono in molte coloro che approfittarono dell’opportunità
concessa dagli italiani. E’ doveroso notare che in Eritrea il divorzio, salvo per i matrimoni
religiosi, era possibile ed abbastanza comune anche se non era poi altrettanto facile trovare un
nuovo pretendente per un successivo matrimonio. Avere un discreto numero di figli non
invogliava certo un futuro marito a farsene carico, e se poi la ragazza viveva in campagna il
nuovo matrimonio veniva sempre organizzato dalla famiglia dato che la donna non aveva
occasione di conoscere altri uomini al di fuori del ristretto nucleo familiare. Da ciò si ricava
che le donne più fortunate si risposavano e le altre finivano con il diventare prostitute; con un
simile futuro davanti agli occhi non è poi così irragionevole aspettarsi che molte di coloro
destinate alla prostituzione sarebbero diventate madame. Certo c’era il rischio che le madame,
per qualsivoglia motivazione fossero rimaste da sole, potessero essere costrette a diventare
prostitute anche se prima di incontrare l’italiano non lo erano, ciò dovuto alle situazioni che
abbiamo precedentemente messo in evidenza, ma questo timore non frenava comunque il
desiderio di trovare un uomo anche se da concubine.334
Per quanto riguarda la legislazione italiana, il matrimonio tra italiani e stranieri era
permesso ed anche in Eritrea, dove vigevano le leggi metropolitane, non vi erano difficoltà
perlomeno fino al dicembre del 1914, quando troviamo una legge che sanciva la perdita
immediata del posto per gli ufficiali coloniali che sposavano donne indigene; questo ci fa
capire che se i matrimoni misti non erano proibiti di certo non venivano incoraggiati. Per una
buona maggioranza di italiani le donne indigene restavano comunque oggetti sessuali ma,
poiché attraverso il sesso possono nascere dei bambini, vediamo ora come venivano
__________________________
334 G. Barrera, Dangerous liaisons – Colonial Concubinage in Eritrea, 1890-1941, PAS working papers n. 1, Evanston,
Illinois, 1996, Pag. 14-30.
104

considerati questi meticci. Per quanto riguarda gli italiani, l’idea comune era che le ragazze
meticcie fossero inclini alla prostituzione mentre i mezzosangue maschi avessero particolari
tendenze alla criminalità. Ad ogni modo erano considerati di una razza inferiore rispetto agli
europei e ciò era ferocemente criticato da parte di uomini come Pollera e Ravizza che
ritenevano invece che i problemi dei meticci fossero di origine sociale. Vi è da considerare
infatti che il diritto consuetudinario eritreo prevedeva che la madre potesse attribuire la
paternità dei figli diritto che la legislazione italiana non prevedeva e tale ignoranza portasse le
donne indigene ad accettare più a cuor leggero il concubinato e ad essere abbandonate dai loro
amanti italiani non appena avessero dei figli. Da quel momento madre e figlio cadevano nella
più profonda povertà e questa, insieme al risentimento per essere stato abbandonato, spingeva
il meticcio fra le braccia della delinquenza. Altri personaggi come Lombroso335 insistevano
nell’affermare che i meticci fossero una razza inferiore e che fossero naturalmente inclini al
crimine. Ma se le teorie lombrosiane oggi ci appaiono ridicole e prive di qualsiasi fondamento
scientifico, su un particolare dobbiamo soffermarci e cioè che i meticci rappresentavano
effettivamente una violazione alla chiara divisione che esisteva tra i colonizzatori ed i
colonizzati creando quindi, secondo naturalmente la mentalità dell’epoca, un disordine
sociale. Altri autori come Ravizza pensavano, un po’ cinicamente se vogliamo ma dobbiamo
sempre considerare comunque un’idea razzista di fondo, che la posizione intermedia dei
meticci fosse vantaggiosa per i colonizzatori, poiché queste persone erano bianche abbastanza
per assimilare i valori della società cosiddetta civile ma non bianchi abbastanza da
considerarsi tali e reclamare diritti riservati ad essi; tutto questo li rendeva perfetti per
svolgere quei lavori pesanti e poco remunerati che necessitavano in colonia. Tuttavia, la teoria
che prevarrà sotto il regime fascista, dopo la conquista dell’Etiopia, sarà quella che i meticci
creavano disordine sociale e questo porterà all’imposizione della legislazione razziale. Nel
1933, quando il regime non aveva ancora cominciato a pensare in modo estremo alle razze,
venne emanato un Ordinamento organico per l’Eritrea e la Somalia nel quale la questione del
meticciato venne regolamentata una volta per tutte in questo modo:
• I meticci che venivano riconosciuti dai padri italiani diventavano automaticamente
cittadini italiani.
• Gli orfani che evidenziavano la chiara provenienza da genitori bianchi erano
considerati automaticamente cittadini italiani.
• Gli orfani che evidenziavano una chiara provenienza birazziale potevano diventare
cittadini italiani solo dopo essere stati valutati da un giudice, al quale dovevano
provare una perfetta educazione italiana, non essere poligami, non aver commesso
gravi reati ed aver frequentato con profitto la terza elementare.
_____________________________
335 Lombroso, Cesare. - Psichiatra e antropologo italiano (Verona 1835 – Torino 1909); docente di psichiatria a Pavia (1862),

direttore dell'ospedale psichiatrico di Pesaro (1871), fu ordinario a Torino di medicina legale e igiene pubblica (1876), di
psichiatria (1896) e infine di antropologia criminale (1905). Predilesse i temi di medicina sociale: le sue ricerche sul
cretinismo, sulla pellagra e in particolare gli Studi per una geografia clinica italiana (1865) furono fonte, tra le più
importanti, della legislazione sanitaria italiana; tuttavia gli studî che dettero a L. una notorietà tutta particolare furono quelli
di antropologia criminale, materia di cui è considerato l'iniziatore. L., partendo da una concezione materialista dell'uomo,
cercò di spiegare con anomalie fisiche (caratteri degenerativi lombrosiani) la degenerazione morale del delinquente. Le sue
idee ebbero larga diffusione specie fra sociologi e giuristi, favorendo la nascita della cosiddetta scuola positiva del diritto
penale. Le tesi di Enrico Ferri e di altri influenzarono poi lo stesso pensiero di L. che, accanto ai fattori individuali, sottolineò
nelle sue ulteriori ricerche l'importanza dei fattori sociali. Particolarmente nota la sua opera Genio e follia (1864).
105

Mussolini, in un celebre discorso del settembre 1934 in occasione dell’apertura della


Fiera del Levante a Bari, arrivò addirittura a criticare aspramente le teorie razziste della
Germania nazista ed a leggere queste parole si fatica a credere che solo tre, quattro anni dopo
il pensiero del regime muterà completamente:
[…]
“Noi possiamo guardare con un sovrano disprezzo talune dottrine d’oltralpe, di gente
che ignorava la scrittura con la quale tramandare i documenti della propria vita, in un tempo
in cui Roma aveva Cesare, Virgilio ed Augusto. Qua io dico a tutti e particolarmente ai
popoli dell’oriente, che è così vicino a noi, che noi conosciamo, col quale abbiamo avuto
contatti per tanti secoli, io dico a questi popoli: credete nella volontà di collaborazione
dell’Italia fascista, lavorate con noi, scambiamoci le merci e le idee.”336
[…]
Dopo la conquista dell’Etiopia le cose cambiarono radicalmente; dal 1937 in avanti la
politica razzista del regime divenne sempre più stringente raggiungendo il suo apice con le
leggi razziali del 1938 contro gli ebrei in Italia e contro gli africani nelle colonie. Il madamato
divenne un crimine tanto che il R.D. del 30 dicembre 1937 n. 2590 prevedeva da uno a cinque
anni di reclusione per qualsiasi cittadino italiano che tenesse relazioni d’indole coniugale con
sudditi dell’Africa Orientale Italiana o soggetti a loro affini per tradizioni, costumi e concetti
giuridico-sociali. In seguito vennero emesse ordinanze che proibivano ai bianchi di vivere in
quartieri neri, assoluta separazione nei luoghi di pubblico intrattenimento ed anche un regime
di segregazione nei trasporti pubblici. La prostituzione rimase legale ed anche occasionali
relazioni sessuali tra italiani ed indigeni vennero tollerate anche se l’obiettivo del regime
sarebbe stato quello di separare le razze anche in questi settori.
Concludiamo questo discorso sulle madame osservando quale fosse la considerazione
degli eritrei riguardo queste figure. Generalmente queste donne vennero ostracizzate e
marginalizzate dagli indigeni che le consideravano delle serve degli italiani. Le madri eritree
di bambini mezzosangue conducevano una vita dura e capitò che alcune ragazze rimaste
gravide da soldati italiani scegliessero di abortire lasciandovi anch’esse la vita. Lo stesso se
non peggio si può dire dei bambini meticci che si trovarono ad affrontare una vita
estremamente povera ed ai margini della società. Ancora nel 1949 Giovanni Pollera, uno dei
tanti figli di Alberto, lamentava che in Eritrea vi fossero circa 6000 bambini meticci non
riconosciuti dai padri che si trovavano in un estremo stato di bisogno.337
Anche per quanto riguarda l’argomento madamato abbiamo visto che ad un certo
punto intervenne il legislatore con il nuovo ordinamento organico per risolvere varie
problematiche che si erano verificate nelle colonie del corno d’Africa. Questo ci obbliga a
porci una domanda: ma la legislazione coloniale come cambiò con il passare degli anni e con
l’avvento del regime fascista? Come abbiamo già accennato l’ordinamento italiano nelle
colonie era vigente esclusivamente per i cittadini del Regno e non per i sudditi coloniali; per
questi ultimi era stato preparato un ordinamento speciale dalle caratteristiche particolari che
______________________________
336
www.istitutoluce.it
337 G. Barrera, Dangerous Liaisons – Colonial Concubinage in Eritrea, 1890-1941, PAS Working Papers n. 1, Evanston,

Illinois, 1996, Pag. 35-50.


106

riportava in voga lo ius singulare338 di medievale memoria. L’origine storica del diritto
coloniale è fondata su una condizione di svantaggi per gli indigeni ed una serie ed una serie di
privilegi per i colonizzatori. Lo storico Gennaro Mondaini339 nel suo articolo per “Rivista
Coloniale” intitolato “Il carattere di eccezionalità nella storia del diritto coloniale e le nuove
forme giuridiche di espansione territoriale nelle colonie” precisa che il diritto feudale
fornisce le basi all’ordinamento giuridico delle colonie. Possiamo affermare quindi che dal
punto di vista giuridico la colonizzazione rappresentò, senza ombra di dubbio, un ritorno al
passato; prendendo a scusante la solita mancanza di civilizzazione dei sudditi coloniali, agli
indigeni venivano negati i diritti politici ed altri diritti favorendo i colonizzatori e questo
succedeva non solo nelle colonie italiane ma in tutti i territori sottomessi a potenze europee.
L’unica differenza tra le condizioni giuridiche medievali e quelle coloniali era quella che se
nel medioevo le differenze delle persone stavano in relazione alle proprie convinzioni
religiose, classi sociali, sesso ed età o professioni, per i sudditi coloniali l’unico presupposto
era quello razziale. Questo è particolarmente evidente quando si considerano articoli del
progetto di codice civile per l’Eritrea (mai entrato in vigore) come il n. 74, che prevedeva il
divieto di nozze tra una cittadina italiana ed un suddito indigeno in quanto, oltre che
confermare l’inferiorità della donna rispetto all’uomo come in patria, tali nozze
danneggerebbero il prestigio dei cittadini italiani presso gli indigeni, evitando così alla donna
di scendere ad un inferiore livello di civiltà. Naturalmente queste regole venivano molto
spesso disattese, sia per la lontananza della madrepatria sia per la mancanza di controllori e
quando, dopo il 1936, le donne italiane presenti in Africa orientale non furono poche centinaia
ma molte di più, al legislatore non rimase che rendere il matrimonio misto un vero e proprio
reato punito con la reclusione da uno a cinque anni. Il motivo di questo inasprimento?
L’abbiamo già visto a proposito del madamato e cioè la presenza sempre più numerosa dei
meticci che creava imbarazzo al regime, primo sostenitore della superiorità della razza bianca
su quella nera.340

Abbiamo già notato che dall’inizio dell’avventura coloniale italiana fino al momento
della formazione dell’impero, vigevano nei territori sottoposti alla sovranità italiana due
legislazioni, una per i cittadini italiani che altro non era che quella della madrepatria, ed una
per gli indigeni che riprendeva il diritto tribale e consuetudinario presente nelle zone occupate
oltre al diritto applicato alle leggi del Corano per le tribù islamiche, sempre che questa
legislazione indigena non entrasse in conflitto con quella metropolitana. La presunta
superiorità del diritto italiano portò peraltro ad uno scarso approfondimento del diritto
indigeno ed il punto di riferimento ufficiale rimase affidato al materiale giurisprudenziale
prodotto dai magistrati coloniali, materiale mai pubblicato conosciuto solo tramite memorie
__________________________

338 Comprendeva le norme suggerite da utilità particolari e, in quanto tali, aventi carattere eccezionale.

339 Mondaini, Gennaro. - Storico italiano (Venezia 1874 – Roma 1948); prof. dapprima nelle scuole medie (a un suo

soggiorno a Potenza si deve il volume I moti politici del '48 e la setta dell'unità italiana in Basilicata, 1902), dal 1907 tenne
la cattedra di storia del commercio, poi di storia economica nell'univ. di Roma. Fu un pioniere, in Italia, degli studî di storia e
legislazione coloniale, iniziati con lavori sulla storia della società nordamericana (1898, 1904) e culminati nel Manuale di
storia e legislazione coloniale del Regno d'Italia (2 voll., 1924-27).

340L. Martone, Diritto d’oltremare – Legge e Ordine per le Colonie del Regno d’Italia, Giuffrè Editore, Milano, 2008, Pag.
1-25.
107

private. Si trattava quindi di materiale privo di qualsiasi valore scientifico, raccolto senza
alcuna metodologia e prodotto al solo fine di creare un diritto italiano adatto alle genti
africane.

Secondo Arnaldo Bertola341 fino al 1936 gli studi sul diritto coloniale erano stati scarsi
e di bassissimo valore e solo la conquista dell’impero aveva fatto in modo che l’importanza
degli studi giuridici delle colonie arrivasse a livelli che solo pochissimo tempo prima
sarebbero stati impensabili. Dopo la conquista dell’Etiopia e la proclamazione dell’impero, il
regime fascista giunse al suo apice quanto a consenso popolare e l’interesse dell’opinione
pubblica per il diritto coloniale aumentò; aumentarono quindi anche le speranze di quegli
italiani che, grazie alla propaganda di regime che aveva fortemente sopravvalutato i benefici
economici ed il prestigio internazionale, cercavano disperatamente di trovare, per dirlo con
una frase tipica dell’epoca, un posto al sole nei nuovi domini africani. Il diritto coloniale era
stato considerato fino a quel momento con discredito, facendo riferimento, come abbiamo
visto, al suo carattere dilettantesco ed improvvisatorio. Secondo Bertola, in un suo scritto del
1937 e ribadito sul primo numero della “Rivista di diritto coloniale”342, nelle colonie vi era un
vero e proprio deserto giuridico, dato che mancava la conoscenza delle fonti indigene ed i vari
argomenti erano trattati in maniera eccessivamente superficiale. Il poco tempo che separò la
proclamazione dell’impero dalla perdita delle colonie non consentì che venisse redatto un
vero e proprio diritto coloniale ma è curioso notare come i giuristi non fossero riusciti, nel
periodo che va dal 1882 al 1941, ad indicare i principi generali del diritto coloniale lasciando
il campo a sperimentazioni anacronistiche legate ad un sistema personale fondato su basi
razziali, e consentendo, come si direbbe ai giorni nostri, una situazione di perenne emergenza.
Altrettanto curioso è il fatto che le basi razziali su cui queste regole si fondavano, che
giustificavano qualsiasi cambiamento nel diritto comune, non furono mai dichiarate
esplicitamente anche in anni in cui la politica razziale era in vigore anche nel territorio
metropolitano, dove al contrario non vi fu la stessa ritrosia nel pubblicare una legislazione
chiaramente antiebraica.343 Tirando le somme il diritto coloniale rimase durante tutto il
periodo regio un tentativo di applicazione del diritto metropolitano attraverso adattamenti
relativi agli indigeni e possiamo quindi ritenerlo una legislazione a se stante contrassegnata
dal principio del diritto e della giustizia differenziale.

Con la conquista dell’Etiopia del 1936, argomento che tratteremo più in là in questo
capitolo, venne ufficialmente proclamato l’impero, ma le ulteriori velleità territoriali italiane
in Africa non derivavano semplicemente dall’ideologia del regime ma da volontà politiche
d’anteguerra. Con la stipula del patto di Londra del 1915, il governo italiano si attendeva, in
caso di vittoria, diversi benefici territoriali sia sul continente sia nelle zone coloniali africane.

___________________________

341 Bertola, Arnaldo. - Giurista italiano (Sostegno, Vercelli, 1889 – Torino 1965). Entrato in magistratura nel 1913, fu
presidente del tribunale di Rodi (1920-28), e prof. di diritto ecclesiastico (dal 1931) a Urbino, a Pavia e a Torino. Socio
nazionale dei Lincei dal 1964. Opere: Il regime dei culti in Turchia (1925); Lezioni di diritto coloniale (1929); Matrimonio
religioso (1936; 3a ediz., 1953); Lezioni di diritto canonico (1946); La Costituzione della Chiesa (3a ediz., 1958).

342 Rivista trimestrale di diritto coloniale pubblicata dal 1938 al 1942.

343
L. Martone, Diritto d’oltremare – Legge e Ordine per le Colonie del Regno d’Italia, Giuffrè Editore, Milano, 2008, Pag.
26-40.
108

Le mire italiane erano dirette sia all’ampliamento delle esistenti colonie che ad un’area di
influenza anche sull’impero etiopico, e Roma affidò le proprie chances alla Conferenza di
pace di Parigi del 1919. L’art. 13344 dell’accordo segreto di Londra prevedeva sommariamente
dei compensi per l’Italia nel caso Francia e Gran Bretagna si fossero spartite le ex-colonie
tedesche ma al momento della discussione in seno alla conferenza, le due potenze occidentali
si mostrarono molto meno accondiscendenti del previsto, in particolar modo dopo aver notato
che la diplomazia italiana oltre alla naturale richiesta di attuazione dell’art. 13 tentava anche
di inserirsi nella distribuzione delle ex-colonie tedesche. Inoltre, sia la Francia che la Gran
Bretagna non avevano alcuna intenzione di far cadere sotto la sola sfera d’influenza italiana
l’impero d’Etiopia.345 La conclusione fu una totale disfatta diplomatica che portò
semplicemente all’acquisizione del territorio dell’Oltre Giuba, di cui abbiamo già parlato. I
territori della Costa francese dei Somali ed il Somaliland, tanto anelati dal governo italiano,
restarono saldamente in mano ai rispettivi proprietari chiudendo così la porta alle
rivendicazioni italiane e anche in Europa tutte le promesse sulle concessioni territoriali che
erano state previste a favore dell’Italia non vennero mantenute; si formò così il pensiero di
“vittoria mutilata” che negli anni seguenti avrebbe portato funeste conseguenze al paese.

Cercheremo ora di evidenziare la politica italiana nel Corno d’Africa dalla fine del
1920 (anno di morte del Mullah pazzo in Somalia) al 1935 quando vennero ufficialmente
aperte le ostilità tra il regno d’Italia e l’impero d’Etiopia. Ci racconta Paolo Giudici, nella sua
monumentale Storia d’Italia, che la morte del Mullah pazzo nel dicembre del 1920, portò
all’amministrazione coloniale in Somalia diversi problemi, dato che fino ad allora la politica
coloniale aveva affrontato gli eventi ed i problemi che si succedevano alla giornata, cioè senza
una vera e propria organizzazione e coordinamento. Il ritorno ad una situazione territoriale
decisamente più tranquilla colse impreparata l’amministrazione coloniale, alla quale si posero
diverse problematiche: bisognava riportare le cabile, fatte spostare per necessità, nei territori
di loro appartenenza, si dovevano disarmare le popolazioni che erano state abbondantemente
armate dalla stessa amministrazione per difendersi dai ribelli, e bisognava sopprimere tutte
quelle bande armate che dopo essere state utili alla difesa ed all’offesa contro il mullah, ora
rischiavano di diventare pericolose per la sicurezza del territorio e per il prestigio della
madrepatria. Inoltre si doveva cercare di pacificare le varie etnie che avevano trovato una
tregua per il pericolo dei ribelli ma che sicuramente avrebbero ricominciato a discutere una
volta passata la paura, si dovevano eliminare i due sultanati del nord e definire una volta per
tutte la linea di confine con l’Etiopia, confine dal quale provenivano quasi tutte le razzie nel
territorio somalo. Naturalmente, gli scarsi mezzi a disposizione delle autorità italiane
rendevano decisamente ardue le risoluzioni ai problemi qui sopra elencati. Dal punto di vista
militare, le forze a disposizione del governatore Riveri (in carica dal 1920 al 1923) erano
minime, 80 ufficiali e 2860 uomini di truppa, e non in grado di affrontare la delicata questione

______________________________

344 “Qualora la Francia e la Gran Bretagna aumentassero i propri possedimenti coloniali in Africa a spese della Germania, le
due Potenze sono in linea di principio d’accordo che l’Italia può richiedere equo compenso, soprattutto per quanto riguarda la
soluzione a suo favore delle questioni relative alle frontiere delle colonie italiane in Eritrea, Somalia e Libia, e le colonie
vicine che appartengono alla Francia e alla Gran Bretagna”. (www.educational.rai.it)

345 G.P. Calchi Novati, Fra Mediterraneo e Mar Rosso. Momenti di politica italiana in Africa attraverso il colonialismo,
Istituto italo-africano, Roma, 1992, Pag. 45-57.
109

dei sultanati di Obbia e Migiurtinia, divisi tra loro da odi di razza e di interesse, che rischiava
di compromettere la sicurezza nella regione. Per quanto riguarda la definizione dei confini
con l’Etiopia, la convenzione del 16 maggio 1908 stabiliva che tale linea di demarcazione
dovesse partire da Dolo sul Giuba, assegnare alla Somalia tutto il territorio abitato dalla
popolazione dei Rahanuin346 e proseguire in linea retta fino al confine con il Somaliland
britannico. La linea confinaria era però astratta ed il nomadismo dei gruppi tribali rendeva
praticamente impossibile stabilire la reale demarcazione tra i due paesi. Inoltre le tribù
Rahanuin erano state spinte verso la costa dai dervisci e dagli abissini per mettersi sotto la
protezione italiana lasciando in mano agli etiopi diverse centinaia di chilometri di territorio.
Più o meno la stessa situazione si era verificata anche ai confini con il Somaliland dove
diverse tribù erano state spinte dai guerriglieri del mullah pazzo ed ora tra razzie, vendette ed
invasioni rischiavano di mettere in discussione le relazioni diplomatiche fra Italia ed
Inghilterra.347

Dal punto di vista economico le cose non andavano meglio, le continue razzie e le
epidemie del bestiame avevano causato gravi carestie che minacciavano di diventare croniche.
Il commercio era praticamente nullo anche a causa delle scarse possibilità di attracco alle
coste somale da parte di navi di medie e grandi dimensioni, per non parlare delle poche e
pericolose vie carovaniere che attraversavano il paese verso l’Etiopia. Anche dal punto di
vista agricolo le cose non andavano benissimo: le tribù di nobile stirpe consideravano il
lavoro dei campi un’attività da schiavi (abbiamo già visto le difficoltà incontrate dai primi
funzionari italiani nel tentativo di debellare il fenomeno schiavistico, molto insito nelle
tradizioni locali), ed a questi ultimi era riservata la coltivazione delle zone più vicine ai fiumi,
oltretutto utilizzando tecniche di agricoltura molto vicine a quelle primitive. Era chiaro quindi
che prima di chiedere qualcosa alla Somalia bisognava migliorare le condizioni di vita dei
nativi e non solo (a Roma si era arrivati a pensare che il territorio somalo sarebbe sempre
stato una colonia passiva, non adatta agli europei). Quando finalmente la situazione politica in
patria sembrò più tranquilla e di conseguenza le richieste di intervento militare ed economico
di Riveri furono in grado di essere perlomeno ascoltate, fu deciso un cambio improviso alla
guida della Somalia il cui governatorato venne affidato a Cesare Maria De Vecchi. Abbiamo
già notato come i metodi del nuovo governatore fossero decisamente duri e brutali ma le sue
idee erano estremamente chiare: De Vecchi avrebbe voluto rivoltare la Somalia come un
calzino, cominciando da un esercito ed una forza di polizia efficiente, costruendo delle
infrastrutture adeguate e demolendo tutte quelle soprastrutture, burocratiche e non, formatesi
in Somalia prima dell’avvento del fascismo. Per cominciare non esitò a rimpatriare alcuni
elementi considerati non desiderabili, anche tramite disposizioni sanitarie, tra i quali vi era
anche il venerabile della loggia massonica locale. Dal punto di vista agricolo era convinto, al
contrario di molti in patria, che le possibilità della colonia fossero enormi, a patto che
venissero studiate le migliori coltivazioni adatte al territorio. Aveva intenzione di riaprire i
campi sperimentali che erano stati chiusi negli anni precedenti, per fornire agli agricoltori
italiani la prova che determinate colture fossero attuabili in colonia. Dal punto di vista
militare trovò una situazione non soddisfacente e con un decreto del 24 dicembre 1924
_________________________________
346
Piccoli gruppi somali chiamati anche Rahanuin Gassar-Gudda che vivono sulla riva destra del Giuba di fronte a Lugh.

347 P. Giudici, Storia d’Italia, Vol. VII, Nerbini, Firenze, 1968, Pag. 403-405.
110

cancellò il vecchio ordinamento del corpo dei Carabinieri ed istituì il Corpo Zaptiè della
Somalia348 con un organico di 800 militari scelti con cura. Non mi soffermerò sulla storia di
questo corpo che, dal punto di vista militare, meriterebbe uno studio a sé stante, ma questo
reparto contribuì notevolmente alla pacificazione della Somalia settentrionale ed al disarmo
delle varie tribù in tutto il territorio somalo.349

Nella sua opera, De Vecchi giunse ad alcuni discreti successi soprattutto in campo
agricolo ed in quello commerciale350 ed anche dal punto di vista infrastrutturale le cose
migliorarono. Dal punto di vista militare il governatore intraprese diverse campagne che
durarono alcuni anni prima di sconfiggere le tribù ribelli, principalmente islamiche, che
avevano anche costituito dei veri e propri campi per la protezione dei ribelli e degli schiavi
scappati dalle piantagioni, campi che venivano chiamati Jama’a. Chi viveva all’interno di
queste comunità non doveva sottostare alle regole coloniali e poteva gestire il proprio destino
come meglio credeva. Queste comunità si erano sparse un po’ ovunque nel territorio somalo,
principalmente dove vi erano le più grosse piantagioni e questo creava non poche
problematiche al governo coloniale. Nonostante al termine delle campagne di De Vecchi nel
1926, fossero morti o imprigionati i più importanti capi di queste isole resistenziali, esse
continuarono a sopravvivere fino alla fine dell’occupazione italiana e continuarono ad essere
motivo di preoccupazione per le autorità coloniali.351 Il 1° giugno 1928 De Vecchi lasciò il
governatorato a Guido Corni352, inviato in Somalia con il compito primario di rimettere ordine
nella colonia dopo un periodo di innumerevoli conflitti e di guerriglia oltre che risistemare la
situazione finanziaria dopo che De Vecchi aveva praticamente svuotato le casse. Dopo di lui
nel 1931 arrivò Maurizio Rava353 e dal marzo 1935 al maggio 1936 venne designato come

_________________________________
348
Il Corpo, raggiunta nel 1927 la forza di 1500 militari indigeni, 72 militari metropolitani e sei subalterni dell'Arma, fu così
messo in condizioni di assolvere lodevolmente non solo i compiti di istituto, ma di eseguire numerose operazioni per imporre
alle inquiete popolazioni indigene il rispetto alle istituzioni ed alle leggi. Fra i più notevoli fatti d'arme nei quali gli zaptié
della Somalia ebbero a segnalarsi è sufficiente accennare a quelli avvenuti nel 1924 per procedere al disarmo delle cabile
Galgial e Baddi Addo, che si erano rifiutate di obbedire al Governo, ed alla spedizione eseguita nello stesso anno da 120
zaptié al comando di un ufficiale nella zona sino allora inesplorata di Dai-Dai. (www.carabinieri.it)

349 P. Giudici, Storia d’Italia, Vol. VII, Nerbini, Firenze, 1968, Pag. 407-410.
350 L’esportazione di prodotti agricoli salì da 700.000 ton. del 1919 a 1.200.000 ton. nel 1923 fino 2.900.000 ton. nel 1926.
351
A. Kusow, Putting the Cart before the Horse: contested Nationalism and the Crisis of the Nation-state in Somalia, Africa
World Press, Asmara, 2004, Pag. 81-84.
352 Corni, Guido. – Uomo politico e imprenditore (Stradella 1883 – Genova 1946) Fervido interventista, quando scoppiò la

prima guerra mondiale rifiutò l'esonero, al quale avrebbe avuto diritto come direttore di uno stabilimento ausiliario, e si
presentò volontario nell'aprile del 1915 con il grado di tenente di cavalleria. Destinato all'Albania, vi restò quasi tre anni
distinguendosi per le sue doti di organizzatore e di combattente e raggiungendo il grado di maggiore per meriti eccezionali di
guerra. Per le sue benemerenze fasciste, i trascorsi coloniali, la fama di organizzatore e di uomo d'azione, il 1° giugno 1928 il
C. fu nominato governatore della Somalia, subentrando nella carica al quadrumviro Cesare Maria De Vecchi di Val Cismon.
L'opera del C. in Somalia è ricordata soprattutto per due iniziative: il notevole impulso che egli diede all'agricoltura della
colonia e l'azione di sovversione e di penetrazione che condusse nel Sud dell'Etiopia. A suo merito, nel campo agricolo,
vanno ascritti il rilancio del comprensorio di bonifica nella vallata del Giuba; la costruzione dello sgranatoio per il cotone a
Vittorio d'Africa; alcune modifiche alla diga di sbarramento dell'Uebi Scebeli per poter consentire l'irrigazione su di una
superficie più vasta di terreno. Avversario della monocoltura del cotone, che infatti nel 1930 mise in ginocchio i coloni
italiani, il C., come ha ricordato anche il suo stretto collaboratore Rolandino Guidotti, impose la coltivazione anche di altri
prodotti, come le arachidi, la manioca, il banano, gli agrumi.

353 Rava, Maurizio. - Uomo politico (Milano 1878 – Roma 1941). Volontario nella campagna di Somalia (1908), partecipò

alla prima guerra mondiale. Fu tra i promotori del partito nazionalista e tra i fondatori del fascio di Roma, quindi governatore
della Somalia (1931-35).
111

governatore del paese africano il maresciallo d’Italia Rodolfo Graziani354.

La situazione dell’Eritrea all’inizio degli anni ’20 non era molto diversa da quella
somala: dal punto di vista agricolo, si faceva sentire il mancato intervento dello Stato italiano
nell’aiutare finanziariamente gli investimenti privati, non molti per la verità, o
nell’intraprendere opere pubbliche nel medesimo settore. A questo proposito il già citato
funzionario coloniale G. Corni lamentava, ancora nel 1933, “la borghesia finora assente in
questo campo è necessario che entri a sua volta come fattore importante del fenomeno
coloniale, sapendo assumersi il suo ruolo di classe dirigente”, mentre in campo pubblico un
altro funzionario, M. Rava, notava nel 1935: “La parola d’ordine del governo centrale ai
reggitori dell’Eritrea fu del resto sempre, da Adua in poi:«Fatevi dimenticare, non chiedete,
non dateci noie»”.355 Nel 1922 vi fu un primo tentativo di introduzione di un credito coloniale
per l’agricoltura che però concedeva mutui agevolati con bassi tassi d’interesse solo a
coltivazioni a carattere industriale con un estensione minima di 3000 ettari, tagliando fuori
così tutte le aziende agricole dell’altopiano che erano di dimensioni decisamente minori. Nel
1930 vennero stanziati dei fondi a favore dei coltivatori che avevano avuto i raccolti distrutti a
seguito di un’invasione di cavallette e finalmente nello stesso anno venne aperto un “Servizio
autonomo dei prestiti agrari” relativo a crediti con basso tasso d’interesse in favore delle
aziende rurali. Quest’ultimo fu il primo intervento statale che non fosse legato a particolari
contingenze, come carestie o calamità naturali, ma il credito rimaneva comunque ancora
basso anche rispetto alle altre colonie, considerando anche che le banche eritree, nel decennio
1931-1940 impiegarono il 18% dei depositi concedendo mutui dei quali solo una piccola parte
venne destinata al settore dell’agricoltura.356

Dal punto di vista finanziario, la situazione della colonia, anche a causa degli
scarsissimi investimenti pubblici, era sempre in perdita e le povere entrate, costituite
principalmente dalle tasse doganali ed ai tributi imposti alla popolazione indigena, non
bastavano certo a pareggiare i conti; lo stato italiano doveva quindi ogni anno stanziare un
contributo per riportare i bilanci in pareggio. Gli scarsi interessi privati portarono ad
investimenti pubblici minimi (al contrario della Somalia e della Libia) ed il fallito modello di
colonizzazione, che prevedeva una nutrita emigrazione di contadini dalla madrepatria che non
si verificò, mandò all’aria il progetto della colonia primogenita la quale avrebbe dovuto essere
autosufficiente per il futuro dell’espansione oltremare. Durante il regime fascista questa
situazione venne spesso mascherata attraverso cifre ritoccate dei bilanci coloniali in modo da

_____________________________

354
Graziani, Rodolfo. - Generale italiano (Filettino 1882 – Roma 1955). Dopo aver partecipato alla guerra del 1915-18, fu a
lungo in Libia, dove condusse la campagna per la riconquista della Tripolitania e della Cirenaica. Generale di corpo d'armata
dal 1932, nel 1935 fu nominato governatore della Somalia; quale comandante designato d'armata, nel conflitto italo-etiopico
comandò vittoriosamente le forze del fronte sud, guadagnando il grado di maresciallo d'Italia e il titolo di marchese di
Neghelli. Dal giugno 1936 al nov. 1937 fu viceré d'Etiopia, dopo il maresc. Badoglio, caratterizzando in senso dispotico il
suo governo. Nel 1939 divenne capo di Stato Maggiore dell'esercito; allo scoppio delle ostilità contro l'Inghilterra assunse il
comando delle operazioni nell'Africa settentr., e guidò le truppe fino a Sīdī el-Barranī (sett. 1940). Costretto alla ritirata
dall'offensiva del gen. A. P. Wavell, fu sostituito dal generale I. Gariboldi nel comando e nella carica di capo di S. M. (marzo
1941). Ritiratosi per circa due anni a vita privata, dopo l'armistizio dell'8 sett. 1943 assunse il ministero della Difesa della
Repubblica Sociale Italiana. Consegnatosi agli Alleati (1945), fu poi processato (1948) e condannato per collaborazionismo.
Liberato per l'amnistia (1950), partecipò alla vita politica come presidente onorario del MSI, dal quale però uscì nel 1954.

355 I. Taddia, L’Eritrea colonia 1890 – 1952, Franco Angeli, Milano, 1986, Pag. 279.
356
Ibidem, Pag. 286-87.
112

dimostrare come il nuovo governo avesse operato una svolta radicale nella politica delle
colonie rispetto al precedente governo liberale.

Un aspetto che nel primo periodo del regime fascista fu senza dubbio importante fu
l’arruolamento di numerosi soldati eritrei (i famosi ascari) da utilizzare non solo nel territorio
governato da Asmara ma anche in altre zone coloniali. In realtà abbiamo già visto come l’idea
di sfruttare il serbatoio militare eritreo fosse già venuta allo scoppio del primo conflitto
mondiale venendo poi lasciata cadere per questioni ideologiche e di prestigio; ma negli anni
’20 la situazione militare che più angustiava il regime era la questione libica, con il territorio
centro meridionale del paese in mano ai ribelli arabi. L’utilizzo ripetuto e duraturo che il
regime fece dei soldati eritrei nella campagna di “pacificazione” del paese nordafricano non
fu semplicemente per una questione economica (gli ascari erano meno costosi da equipaggiare
e da sostituire) ma soprattutto perché si rivelarono degli ottimi soldati e particolarmente adatti
al teatro di guerra nel deserto contro i nomadi locali. Secondo lo storico eritreo T. Negash,
non solo le posizioni italiane furono mantenute solo grazie all’aiuto dei soldati africani ma gli
ascari si rivelarono decisamente più efficienti delle truppe metropolitane nel combattimento
contro i rivoltosi libici. La questione militare divenne talmente importante che l’intera politica
italiana riguardante l’Eritrea si basò principalmente sul fare del paese una fucina di uomini
per le truppe coloniali tanto da far dichiarare nel 1930 al governatore Zoli357 che non ci
sarebbero stati problemi ad inviare ogni mese, per circa un anno, un battaglione di ascari di
circa mille uomini se quella fosse stata la funzione primaria della colonia.358

Nelle colonie dell’Africa orientale, una questione estremamente importante fu quella


educativa: in Eritrea, nel periodo che va dal 1897 al 1907, quello governato da Ferdinando
Martini, il problema non si pose giacché il pensiero del governatore era di non creare scuole
per i nativi poiché ciò avrebbe potuto creare delle basi di contrasto al potere coloniale e
minare il prestigio degli italiani. Secondo Martini, nulla doveva opporsi al dominio ed agli
interessi dei colonizzatori. Questo genere di politica cambiò radicalmente con il governatorato
di Salvago Raggi, il quale fondò delle scuole per nativi sul modello britannico adottato in
Egitto ed in Sudan. L’idea del nuovo governatore era quella di creare degli impiegati utili
all’amministrazione coloniale anche se i programmi scolastici non erano quelli della
madrepatria ed i nativi, a fine corso, sarebbero stati equiparati ai nazionali che avevano
frequentato solo i primi tre anni delle classi elementari. Anche nel primo periodo del regime
fascista le cose non cambiarono ed il prof. Mattia Mininni Caracciolo, esperto del Ministero
delle colonie, sostenne che l’educazione non avrebbe dovuto dare forza alla sovversione al
sistema ma, se controllata ed adattata alle esigenze degli indigeni, sarebbe stata un utile
strumento di penetrazione pacifica e di conquista morale. Dopo la conquista dell’impero
anche in questo campo le cose cambiarono e la questione razziale assunse nuovamente un
importanza primaria. In una conferenza organizzata nel 1938 dall’Accademia d’Italia,
_____________________________

357
Zoli, Corrado. - Uomo politico (Palermo 1877 - Roma 1951) Dotato di buona preparazione nel campo storico-politico e
militare, partecipò all'occupazione del Fezzàn, fu a Fiume con D'Annunzio (rettore degli affari esteri della Reggenza del
Carnaro), poi Alto Commissario per l'Oltregiuba (1923-26) e Governatore della Colonia Eritrea (1928-30). Tra il 1933 e il
1943 tenne la presidenza della Società geografica italiana. Per sua iniziativa furono inviate missioni nei possedimenti italiani
(soprattutto nel Fezzàn) e nei territori occupati nel corso della seconda guerra mondiale.

358T. Negash, Italian Colonialism in Eritrea, 1882 – 1941, Almqvist & Wiksell International, Stoccolma, 1997, Pag. 100-
101.
113

l’antropologo Lidio Cipriani359 tornò a dichiarare che gli africani avevano un ritardo mentale
nei confronti degli europei, in polemica contro la politica franco-britannica intesa a preparare
i nativi all’autonomia. Il ministro dell’educazione Giuseppe Bottai360 scrisse che gli indigeni
avrebbero dovuto ricevere più istruzioni che non educazione, al fine di creare degli esperti
lavoratori manuali che potessero rendere al massimo delle loro limitate capacità.

Il compito di istruire gli indigeni venne lasciato alla chiesa cattolica tramite i
missionari presenti in colonia dato che l’amministrazione vedeva accettabile il lavoro svolto
dalle missioni: apprezzabile era anche il fatto che i missionari erano particolarmente utili nel
consolidare il dominio coloniale. La questione della separazione tra chiesa e stato, tanto
foriera di divisioni in patria, era virtualmente inesistente in colonia. Entrambe enfatizzavano
la grandezza dell’Italia e la sua antica civiltà con la presunzione che gli eritrei dovessero allo
stato europeo obbedienza e gratitudine. Ad ogni modo la scuola in Eritrea rimase
un’istituzione d’élite accessibile a circa il 2% della popolazione totale, influendo quindi nella
vita degli indigeni in maniera irrisoria.361

Abbiamo dunque notato come nei primi anni del regime fascista la linea politica
italiana nei confronti delle colonie non abbia subito grosse variazioni rispetto a quella
esercitata durante il regime liberale. Al contrario con la costituzione dell’impero
l’atteggiamento cambiò rapidamente e sfociò in una politica apertamente razzista e
decisamente più dura nei riguardi dei nativi. C’è da sottolineare che con la conquista
dell’Etiopia cambiò anche il pensiero di colonia nel senso che in questo frangente, forse per la
prima volta nella storia africana dell’Italia, la propaganda di regime spinse molti concittadini
ad insediarsi in Etiopia. Emanuele Ertola, nel suo volume in bibliografia, sostiene che la
nuova conquista divenne da subito una colonia d’insediamento e non di sfruttamento, e questo
portò ad una politica di “apartheid” e di un tentativo di cancellazione dei nativi come si era
verificato nelle colonie spagnole e soprattutto britanniche delle americhe nei secoli precedenti
e questa teoria la trovo assolutamente condivisibile.

________________________
359 Cipriani, Lidio. - Antropologo ed esploratore italiano (Bagno a Ripoli 1892 – Firenze 1962), resse temporaneamente
l'Istituto e il Museo nazionale di antropologia ed etnologia di Firenze. Compì numerosi viaggi di ricerca, nel Sudafrica, in
Etiopia, nel Fezzan, in India, nei Carpazi, a Creta, nelle Andamane. Nel 1938 aderì al Manifesto degli scienziati razzisti.

360 Bottai, Giuseppe. - Uomo politico italiano (Roma 1895 - ivi 1959). Militante fascista, fu deputato (1924), due volte
ministro (1929-32 e 1936-43) e prof. di diritto corporativo nelle università di Pisa e Roma. Divenuto critico nei confronti
della politica mussoliniana, contrario all'intervento nella seconda guerra mondiale, fu tra i sostenitori dell’o. d. g. Grandi con
cui Mussolini venne esautorato dal Gran Consiglio. Partecipò alla guerra 1915-18 negli arditi. Tra i fondatori del Fascio di
combattimento di Roma, durante la marcia su Roma (1922) comandò la colonna abruzzese-marchigiana. Nel 1923 fondò il
quindicinale Critica Fascista che si affermò come la voce più significativa del "revisionismo fascista". Deputato nel 1924,
sottosegretario nel 1926 e ministro delle Corporazioni dal 1929 al 1932, ebbe parte notevole nella elaborazione della Carta
del Lavoro (1927) e del corporativismo fascista. Ministro dell'Educazione nazionale (1936-43), attuò una larga riforma del
sistema scolastico. Fu inoltre governatore di Roma (1935-36) e dal 1930 prof. di diritto corporativo a Pisa e quindi (dal 1936)
a Roma. Poco prima della guerra, la sua posizione, ormai di fronda, cominciò a costituire un punto di riferimento per gli
elementi fascisti critici, specie per i più giovani. In occasione della seduta del Gran Consiglio avvenuta fra il 24 e il 25 luglio
1943 fu tra i più attivi sostenitori dell'o. d. g. Grandi; per questo nel gennaio 1944 fu condannato a morte in contumacia dal
Tribunale fascista di Verona; sempre in contumacia, fu condannato all'ergastolo dall'Alta corte di giustizia di Roma nel 1945.
Nel frattempo B. si era arruolato nella Legione straniera. Amnistiato nel 1947, fece successivamente ritorno in Italia, dove
prese a pubblicare il quindicinale di critica A. B. C. (1953-59).

361 T. Negash, The ideology of colonialism: Educational policy and praxis in Eritrea, Italian Colonialism, Palmgrave

MacMillan, New York, 2005, Pag. 110-115.


114

4.2. Il sogno dell’Impero.

Cosa spinse l’Italia a cercare gloria in Africa, in un periodo storico in cui il “dominio
dell’uomo bianco” sui continenti più arretrati cominciava ad essere discusso sempre più
frequentemente ed ai più svariati livelli? Nonostante la crisi economica del 1929, che travolse
diversi paesi europei (in particolare la Germania), non avesse creato in Italia una situazione di
emergenza sociale, le problematiche legate alla disoccupazione ed altre difficoltà
aumentarono. In politica estera, la consacrazione del paese a grande potenza tardava ad
arrivare e le piccole compensazioni coloniali di cui abbiamo parlato precedentemente non
avevano certo aumentato il prestigio internazionale né della nazione né tanto meno del
fascismo. L’ascesa nazista degli inizi degli anni ’30 preoccupò particolarmente il regime che,
fra gli anni 1933 e 1935, tentò in diversi modi di rafforzare la posizione italiana come con la
proposta del “Patto a quattro”362 del 1933, dei protocolli di Roma363 del 1934 e del fronte di
Stresa364 del 1935 destinati però tutti al fallimento per la scarsa lungimiranza degli alleati
occidentali.365

Come ogni regime dittatoriale che si rispetti, il fascismo non poté certo accettare una
serie di smacchi così evidenti, oltretutto la situazione internazionale rischiava di ridurre
l’Italia ad un fattore marginale rispetto all’ascesa del nazismo. La soluzione avrebbe dovuto
restituire al paese ed al regime il rispetto delle altre potenze europee e questo non sarebbe
potuto succedere se non attraverso un rapido successo in politica estera; la conquista
dell’Etiopia, da questo punto di vista, dovette sembrare la mossa perfetta per raggiungere
questo scopo. Naturalmente una guerra coloniale nel 1935 sarebbe arrivata decisamente fuori
tempo per ciò che riguardava le politiche delle grandi potenze coloniali europee, che, al
contrario, negli anni tra le due guerre, cominciavano a concedere timide o più decise aperture
ai loro domini d’oltremare. Lo sviluppo di movimenti anticolonialisti in molti stati asiatici e
africani, oltre ad un cambiamento di modo di pensare che lentamente stava prendendo piede
in diversi circoli metropolitani, obbligò Francia e Gran Bretagna a rivedere i loro rapporti con
le colonie. Tutto questo era invece difficile da comprendere in Italia anche a causa che, se non
consideriamo l’Eritrea (comunque con una bassissima percentuale di abitanti di origine
italiana), un vero dominio su Somalia e Libia non si stabilì se non all’inizio degli anni ’30,
________________________________

362Patto proposto da Mussolini nel giugno del 1933; prevedeva che Francia, Gran Bretagna, Italia e Germania adottassero
una politica comune nelle questioni europee e coloniali e che potessero operare consensualmente una revisione dei trattati di
pace nell’ambito della Società delle Nazioni. Accolto favorevolmente da Germania e Gran Bretagna, fu osteggiato dai paesi
della Piccola Intesa e dalla Polonia che fecero pressioni sulla Francia per svuotare il progetto del suo reale contenuto politico.
Fu così firmato un semplice accordo di collaborazione, mai ratificato.
363Accordo siglato nel marzo 1934 da Italia, Austria e Ungheria: prevedeva una mutua cooperazione economica e difesa
militare in caso di attacco esterno. Trattato firmato principalmente in funzione anti-tedesca ed in difesa dell’ indipendenza
dell’Austria contro il previsto tentativo di annessione da parte della Germania.

364 Il fronte di Stresa fu un accordo, in funzione anti-tedesca, siglato tra il ministro degli esteri francese Pierre Laval, il
primo ministro britannico Ramsay MacDonald ed il capo del governo italiano Benito Mussolini, a seguito dell'incontro fra i
tre nell'omonima località piemontese sul lago Maggiore, fra l'11 e il 14 aprile 1935, presso il Palazzo Borromeo. Lo scopo
dell'accordo fu quello di riaffermare i principi degli Accordi di Locarno e di dichiarare che l'indipendenza dell'Austria
"avrebbe dovuto continuare ad ispirare la loro politica comune". Le tre parti, inoltre, si dichiararono pronte a reagire ad ogni
futuro tentativo da parte della Germania di modificare o violare il Trattato di Versailles.

365 N. Labanca, La guerra d’Etiopia 1935-1941, Il Mulino, Bologna, 2015, Pag. 28-30.
115

occupazione ancora molto recente quindi e questo non fece comprendere alla più parte degli
italiani che le cose stavano cambiando e che ormai le colonie cominciavano a mostrarsi come
anacronistici orpelli, come peraltro ancora più anacronistica sarebbe stata una guerra
coloniale. Agli occhi degli europei l’occupazione dell’Etiopia sarebbe stata una vera e propria
occupazione militare di uno stato sovrano più che una colonizzazione in stile ottocentesco.

Era già dalla fine del 1932 che il regime meditava un’azione militare contro l’Etiopia,
ma ciò che aveva frenato le ambizioni italiane in quel momento era stata l’impreparazione
militare ed il fresco trattato politico ed economico firmato con Addis Abeba il 2 agosto
1928366. Inoltre la posizione della Società delle Nazioni, e soprattutto quelle di Gran Bretagna
e Francia, inquietavano i sonni di Mussolini: una posizione nettamente sfavorevole delle due
potenze coloniali avrebbe costretto l’Italia a rivedere le sue iniziative espansionistiche. Per
quanto riguarda la Società delle Nazioni e la domanda del paese africano di entrare a farne
parte, l’Italia si era sempre espressa negativamente anche con i governi liberali e fu solo ad
una settimana dalla decisione definitiva della Lega, nel 1923, che Mussolini, con un gesto
apparentemente distensivo, fece esprimere all’Italia un voto favorevole.

Il piano d’invasione preparato dal quadrumviro De Bono367 nel 1932 fu oggetto di


aspre critiche da parte del capo di stato maggiore generale dell’esercito Pietro Badoglio368 il
quale riteneva che lo spiegamento di forze soddisfacente per una rapida vittoria dovesse
essere decisamente più ampio, tanto è vero che Mussolini stesso ritenne opportuno formare un
imponente corpo d’armata forte di 135.000 militari nazionali e di circa 80.000 ascari.369

_________________________

366 V.
Documento n. 22.

367 De Bono, Emilio. - Generale italiano (Cassano d'Adda 1866 – Verona 1944). Durante la prima guerra mondiale promosso
(1916) maggiore generale per merito di guerra, si distinse nella presa di Gorizia e più tardi nelle azioni di difesa e di offesa
(ott. 1918) sul Grappa. Collocato in posizione ausiliaria nel 1920, ebbe gran parte nell'organizzazione del movimento fascista,
nell'ottobre 1922 fu uno dei quadrumviri della "marcia su Roma " e successivamente capo della polizia e primo comandante
della MVSN. Nel 1925 governatore della Tripolitania e nel 1929 ministro delle colonie, dal gennaio 1935 in Eritrea, tenne il
comando delle operazioni nella prima fase della guerra contro l'Etiopia. Votò l'ordine del giorno Grandi (24 luglio 1943), così
che, alla ripresa fascista, fu condannato a morte dal tribunale di Verona e fucilato.

368 Badoglio, Pietro. - Generale italiano (Grazzano Monferrato 1871 - ivi 1956). Capitano di S. M. durante la guerra libica,

ten. col. all'inizio della guerra italo-austriaca, dopo la ritirata del nov. 1917 fu chiamato dal comando del 27º corpo d'armata
alla carica di sottocapo dello Stato Maggiore generale. Capo di S. M. dell'esercito nel 1919, fu poi (1924-25) ambasciatore in
Brasile; quindi (1925) capo di S. M. generale e (1926) maresc. d'Italia. Governatore della Libia dal 1929 al 1933, nel 1935-36
condusse rapidamente a termine, in qualità di Alto Commissario per le colonie dell'Africa Orientale, la campagna contro
l'Etiopia. Riassunte nel 1936 le funzioni di capo di S. M. generale, che giuridicamente non aveva mai lasciate, si dimise
durante la seconda guerra mondiale quando, espresso parere contrario alla guerra contro la Grecia, fu incolpato in seguito
dell'insuccesso. Dal 1937 al 1941 fu presidente del Consiglio nazionale delle ricerche. Ritornò sulla scena politica il 25 luglio
1943, allorché venne chiamato dal re a sostituire Mussolini. Costituito un ministero di funzionari, concluse con gli Alleati
l'armistizio di Cassibile (3 sett. 1943) e - reso noto questo dagli Alleati l'8 sett. - abbandonò la capitale trasferendosi col re e
le più alte autorità militari a Brindisi. Osteggiato per il suo passato e per la sua politica ambigua dalle forze antifasciste non
monarchiche, costretto ad accettare il 29 sett. il "lungo armistizio", ostile all'abdicazione del re, il B. dovette proseguire nel
sistema di un ministero tecnico (rimaneggiamento del 16 nov. 1943; gabinetto dell'11 febbr. 1944), finché il ritorno di P.
Togliatti dalla Russia e l'atteggiamento da questo assunto gli permisero il 22 apr. 1944 di costituire - accordatisi i partiti sulla
luogotenenza del principe Umberto - un nuovo gabinetto su più larga base, durato fino alla liberazione di Roma e alla
costituzione del ministero Bonomi (10 giugno 1944). Si ritirò allora a vita privata.

369 N. Labanca, La guerra d’Etiopia, 1935-1941, Il Mulino, Bologna, 2015, Pag. 46-47.
116

Alle 5.50 del 3 ottobre 1935 i primi carri armati italiani entravano in Etiopia dal
confine Eritreo e marciarono, senza incontrare difficoltà, verso Adua ed Adigrat che vennero
occupate dopo pochi giorni. Il giorno 11 dello stesso mese la Società delle Nazioni condannò
l’Italia come stato aggressore e raccomandò ai suoi membri l’adozione di sanzioni
economiche al fine di fermare l’avanzata militare. Questa situazione pesava molto sulla
direzione delle operazioni belliche: De Bono aveva una visione dell’avanzata ispirata dalla
cautela mentre a Mussolini serviva una vittoria rapida per accattivarsi l’opinione pubblica e di
veloci conquiste territoriali per poter in seguito intavolare trattative diplomatiche. Inoltre, dal
punto di vista del regime, se la mediocre personalità e l’altrettanto scarso prestigio del
quadrumviro avevano consentito in un primo tempo che qualsiasi ordine proveniente da Roma
venisse eseguito alla lettera, ciò avrebbe si consentito a Mussolini di prendersi tutti gli onori
dell’impresa, ma in caso di qualche insuccesso la colpa sarebbe inevitabilmente ricaduta sul
regime e non sul generale. Quindi il Duce del fascismo aveva assolutamente bisogno di
giocare una carta che potesse evitare le problematiche sopra elencate e questo jolly fu
individuato nel nome di Badoglio che venne nominato ispettore della situzione militare in
Etiopia. L’eventuale poi sostituzione di De Bono con il massimo esponente della gerarchia
militare avrebbe garantito l’appoggio degli ambienti tradizionali ed inoltre, se qualcosa fosse
andato storto, la colpa la si sarebbe potuta scaricare senza problemi sull’alto ufficiale senza
che il governo ne risentisse.

Il generale Badoglio si fermò in Africa orientale per dieci giorni (dal 17 al 27 ottobre)
per poi rientrare in Italia e redigere una relazione a Mussolini (3 novembre) riguardante la
situazione militare in Abissinia.370 Considerando che la tattica privilegiata del generale in
battaglia era sempre stata quella difensiva, le sue parole riguardo all’atteggiamento prudente
di De Bono suonano quanto meno disinvolte:

[…]

“ Tutto il Comando superiore AO [Africa Orientale] è saturato della speciale


psicologia eritrea […]; in tutti i vecchi eritrei è radicato il convincimento che non occorra la
battaglia per liquidare la partita abissina, ma che invece convenga sistemarsi su forti
posizioni e lasciare che il nemico, che non ha mai attaccato posizioni fortificate, esaurisca i
suoi mezzi logistici sempre limitati e sia poscia costretto ad una ritirata. Questo stato
d’animo si compendia nella frase arcinota: «in Eritrea per vincere bisogna stare fermi».

Di fatto, non appena io ho rappresentato a Sua Eccellenza De Bono la necessità


assoluta di avanzare sia per avere una più estesa occupazione in caso di accordi
internazionali, sia e più specialmente per la speranza di poter agganciare l’esercito abissino
e dargli una severa lezione, Sua Eccellenza Gabba [il capo di Stato maggiore di De Bono] mi
interruppe dicendo: «la battaglia non è assolutamente necessaria: il nemico non ci attacherà
mai. Noi possiamo su queste posizioni, che sono più forti di quelle da cui siamo partiti,
attendere che il nemico ci fronteggi e poi si ritiri per mancanza di viveri».

________________________________________

370 G.Rochat, Guerre italiane in Libia e in Etiopia – Studi militari 1921- 1939, Pagus, Padova, 1991, Pag. 100-102.
117

Sono subito intervenuto dichiarando che se Vostra Eccellenza avesse desiderato tale
linea di condotta avrebbe inviato in colonia al più tre divisioni di rinforzo e non l’equivalente
di otto, quante ne sono state finora sbarcate. Che l’enorme quantità di mezzi offensivi,
l’esercito di lavoratori per le strade, chiaramente indicavano il concetto di Vostra
Eccellenza, che era quello di ottenere una completa rivendicazione di Adua con una
indiscussa e grossa vittoria sulle forze abissine.
Mi parve che Sua Eccellenza De Bono annuisse a questo concetto. Purtroppo mi ero
sbagliato.”371
[…]
Da questo momento in poi, De Bono fu tempestato da telegrammi di Mussolini che
incitavano all’avanzata ed in seguito all’ennesima ingerenza del capo del Governo, la docilità
del generale lasciò il posto alla stizza portandolo a rispondere per le rime e chiedendo di
lasciarlo operare come meglio credeva e che il tempo avrebbe lavorato per l’Italia. In seguito
a questa risposta Mussolini offrì il 15 novembre a Badoglio il comando delle operazioni in
Africa Orientale: il maresciallo accettò preoccupandosi solamente di non dover subire le
stesse ingerenze che aveva subito De Bono ed il Duce gli garantì che nei limiti delle direttive
fissategli egli avrebbe avrebbe avuto la massima libertà d’azione.
Questa massa di uomini pesantemente armati e riforniti da circa 14.000 automezzi (per
l’epoca una concentrazione eccezionale), suddivisa in un’armata di 111.000 soldati nazionali
e 53.000 ascari attaccanti dall’Eritrea e 24.000 nazionali e 29.500 ascari attaccanti dalla
Somalia, si scontrarono con un esercito etiope organizzato come ai tempi di Menelik, diretto
da capi feudali e armato solo di fucili (solo la guardia imperiale era equipaggiata all’europea
ma non contava che poche migliaia di uomini), con poche mitragliatrici e cannoni pressoché
inservibili data l’inesistenza di una logistica moderna. I rifornimenti subivano dunque forti
ritardi ed in zona d’operazioni ogni soldato etiope poteva contare solo sul vettovagliamento e
le munizioni che riusciva a portare sulle spalle. Inoltre, la struttura e le tradizioni dell’impero
etiope spinsero l’esercito del Negus ad accettare spesso battaglie in campo aperto e questo
accelerò la disfatta degli abissini.372 La guerra non fu comunque una passeggiata per gli
italiani, tanto è vero che dovettero usare in maniera massiccia le forze aeree, utilizzando
anche bombe con gas asfissianti, ma comunque il 5 maggio del 1936, le truppe italiane con
alla testa il maresciallo Badoglio, entravano ad Addis Abeba ponendo termine al conflitto. A
Roma, quella stessa sera, Mussolini poteva trionfalmente annunciare:
[…]
“Non è senza emozione e senza fierezza che, dopo sette mesi di aspre ostilità,
pronuncio questa grande parola. Ma è strettamente necessario che io aggiunga che si tratta
della nostra pace, della pace romana, che si esprime in questa semplice, irrevocabile,
definitiva proposizione: l'Etiopia è italiana!”373
[…]
__________________________________
371 G.Rochat, Guerre italiane in Libia e in Etiopia – Studi militari 1921- 1939, Pagus, Padova, 1991, Pag. 102.
372
Ibidem, Pag. 104-108.
373
Corriere della Sera, 6 maggio 1936 Anno XIV, anno 61, n. 108, Milano.
118

Non mi soffermerò ora ad analizzare il conflitto dal punto di vista bellico, operazione
già svolta in maniera estremamente soddisfacente da diversi studiosi di storia militare (come
il citato Giorgio Rochat), ma vorrei evidenziare invece quella che fu la rapida esistenza di
questa “colonia” italiana e la vita dei suoi principali protagonisti, cioè gli autoctoni abissini e
quegli italiani (e non furono pochi) che credettero alla propaganda del regime e si trasferirono
in Etiopia pieni di sogni arricchimento e di rivalsa sociale. Non voglio contraddire ciò che ho
affermato nell’introduzione di questo lavoro e cioè che ritengo la conquista dell’Etiopia niente
di più di un’occupazione militare (a causa della sua brevità e della continua resistenza
autoctona che non consentì una completa pacificazione del territorio fino all’arrivo dei
britannici nel 1941), ma l’entusiasmo e la speranza con i quali diversi nostri concittadini
intrapresero quest’avventura africana, spesso destinata ad un epilogo quanto meno deludente,
meritano un’analisi più approfondita.
Dobbiamo innanzitutto ricordare che fino a quel momento l’emigrazione italiana,
nonostante i vari tentativi elencati precedentemente, si era rivolta prevalentemente verso il
nord ed il sud America. Va evidenziato che per quanto riguarda l’Africa e l’Asia, non vi fu
mai un’emigrazione europea paragonabile a quella diretta verso il nuovo mondo; anche negli
imperi coloniali decisamente più estesi del nostro come l’inglese, il francese ed anche il
portoghese, il trasferimento dalla madrepatria alle colonie fu molto relativo, se escludiamo i
“dominions” britannici come il Canada, l’Australia e la Nuova Zelanda e solo l’introduzione
negli Stati Uniti di restrizioni all’immigrazione alla fine della prima guerra mondiale,
convinse i migranti europei a scegliere altre destinazioni. Diamo ora qualche numero per
rendere più comprensibile il fenomeno migratorio europeo a partire dal 1815 fino al 1920:
• Gran Bretagna: circa 20 milioni di migranti dei quali solo il 30% diretto nelle
colonie e di questi meno dell’8% nelle colonie asiatiche e africane.
• Portogallo: la quasi totalità dei migranti si diresse verso il Brasile mentre solo il
3,5% scelse le colonie africane (Angola, Capo Verde e Mozambico).
• Francia: se escludiamo i paesi del Maghreb, da sempre meta di emigrazione
transalpina, le colonie francesi nell’Africa subsahariana ed in Asia (Indocina)
rispecchiano più o meno i numeri precedenti.
• Italia: tra il 1861 e la prima guerra mondiale lasciarono il paese circa 9 milioni di
persone delle quali solo l’1,7% scelse le colonie come destinazione.374

Se, al momento del suo insediamento, il regime fascista aveva lasciato più o meno le
cose inalterate, negli anni trenta la politica sull’emigrazione cambiò, nel tentativo di ridare
uno slancio economico e riguadagnare un certo prestigio internazionale. Ciononostante la
politica di colonizzazione demografica delle colonie ancora una volta non sortì gli effetti
desiderati anche se, come vedremo, in Etiopia furono molti gli italiani che vi migrarono in
cerca di fortuna.
La maggior parte dei coloni che si stabilirono in Etiopia scelsero le zone urbane, circa
il 50% si trasferì nella capitale, Addis Abeba, rispettando in questo la tendenza comune delle
________________________________
374 E. Ertola, In terra d’Africa – Gli italiani che colonizzarono l’impero, Laterza, Bari, 2017, Pag. 6-9.
119

altre colonie europee in Africa, e nonostante gli sforzi della propaganda che incitavano agli
insediamenti demografici principalmente contadini quasi il 90% dei nuovi migranti si
trasferirono nei sei più importanti centri urbani. Una caratteristica fino ad allora praticamente
quasi sconosciuta del fenomeno migratorio nel continente nero fu la presenza di numerose
donne; rispetto agli altri possedimenti italiani in Africa orientale, la presenza femminile
italiana in Etiopia non superò mai il 15% del totale dei coloni (contro il 36,9% in Libia, il
24,7% della Somalia, principalmente Mogadiscio ed il 21,5% di Asmara), una minoranza
quindi ma è il brevissimo lasso di tempo che passò tra la conquista e la perdita del territorio (5
anni) che lascia spiazzati. Normalmente in tutte le colonie europee di popolamento dovevano
passare decine di anni prima che un certo bilanciamento tra i sessi venisse raggiunto e
soprattutto nei primissimi anni delle occupazioni la presenza femminile era praticamente
inesistente.
Dal punto di vista della provenienza dei coloni non abbiamo statistiche ufficiali che
consentano di definire senza alcun dubbio le regioni d’origine, ma attraverso la consultazione
dei registri delle cosiddette “navi bianche”, vascelli che rimpatriarono i coloni durante la
seconda guerra mondiale, possiamo notare che un buon 50% era di provenienza settentrionale,
un 25% dell’Italia centrale ed un 25% dal meridione, più in linea quindi con la migrazione
italiana verso l’Europa (il 70% centro-settentrionale, mentre nei trasferimenti oltreoceano la
percentuale era la stessa ma di migranti meridionali e solo il 24% settentrionali). Inoltre
questa percentuale era in decisa controtendenza con gli abitanti delle colonie fino al 1930,
provenienti per più del 50% dalle regioni meridionali. Tornando alla questione femminile
possiamo dunque concludere che la quasi totalità delle donne in Etiopia fu di origine
settentrionale.375
La conquista dell’impero non si limitò a definire un cambiamento nella composizione
dei suoi abitanti ma anche la mentalità coloniale, che fino ad allora aveva permeato i viaggi in
Africa di avventura e mistero, sarebbe stata cambiata ideologicamente. Il regime soteneva che
un nuovo impero avrebbe dovuto essere popolato da un nuovo tipo di italiano:
[…]
“La colonia vecchio stile, la colonia di sfruttamento concepita secondo la mentalità
demo liberale aveva qualcosa di caotico e di avventuroso che ripugna alla nostra mentalità
fascista. La vita coloniale era allora breve parentesi nella vita di un uomo; si afferrava quello
che si poteva e quanto più si poteva, per tornare in Patria col proponimento di non ritornare
più in Africa […] Ben altra cosa è l’Impero Fascista […] Il “coloniale” di oggi non è più uno
spensierato e spavaldo procreatore di una progenie di meticci.”376
[…]
La colonia doveva diventare ora una replica del meglio della civiltà della madrepatria,
la nuova società coloniale avrebbe dovuto fondarsi su elementi giudicati adatti secondo
caratteristiche fisiche, politiche e morali. Vi era un forte controllo burocratico alle domande di
partenza ed i nulla osta arrivavano dopo che il richiedente aveva espletato un lungo iter; per
____________________________
375
E. Ertola, In terra d’Africa – Gli italiani che colonizzarono l’impero, Laterza, Bari, 2017, Pag. 15-19.
376 Ibidem, Pag. 22.
120

fare un esempio, chi intendeva impiantare un’attività nell’impero doveva fare domanda in
carta bollata descrivendo il tipo di attività ed in caso di accoglimento della stessa, una volta
giunto sul posto, avrebbe dovuto rivolgersi direttamente al Governo generale dell’A.O.I. il
quale gli avrebbe assegnato un posto cercando di venire incontro ai desideri del richiedente.
Naturalmente il passato dei futuri abitanti dell’impero doveva essere immacolato sia dal punto
di vista politico che da quello penale e la loro situazione finanziaria doveva essere tale da
garantirgli una buona autosufficienza economica. Anche i cosiddetti ricongiungimenti
familiari dovevano passare attraverso un lungo iter che terminava con il parere favorevole o
sfavorevole del Ministero dell’Africa Italiana. I soggetti che in qualche modo riuscivano a
raggiungere l’Etiopia senza i necessari requisiti, venivano arrestati in seguito a periodici
rastrellamenti della polizia coloniale e rispediti in patria. Comunque le possibilità per
trasferirsi nell’impero senza le necessarie qualifiche esistevano ed insieme alla corruzione ed
all’inefficienza del personale preposto alle verifiche, un sistema molto in voga era quello di
farsi mandare da un italiano compiacente residente in Africa una finta richiesta di assunzione.
Parlando ora dell’economia nel nuovo impero, la conquista etiopica portò una grossa
dissonanza con le situazioni economiche tipiche di altre strutture coloniali: la novità assoluta
fu il massiccio intervento dello stato nella costruzione di infrastrutture, praticamente assenti
prima dell’arrivo degli europei, con il quale il regime fascista investì somme considerevoli e
decisamente più alte di quanto il povero bilancio statale potesse sopportare. Ciò creò un
iniziale periodo di vacche grasse (chiamato da un diplomatico francese nell’Harar “età
dell’oro”) dove grazie ai fiumi di denaro provenienti dalla madrepatria diverse imprese
private, di costruzioni e soprattutto le grandi banche, si riversarono in Etiopia con l’idea di
arricchirsi facilmente ed in modo considerevole. Un’altra categoria di lavoratori che
inizialmente intravide nell’impero la possibilità di notevoli guadagni fu quella degli
autotrasportatori, grazie all’importanza strategica del loro ruolo. Già nel 1937 però le cose
cambiarono: a partire dal rimpatrio dei soldati già a partire dalla metà del 1936 fece seguito
un altro rientro, quello degli operai che venivano sostituiti da personale autoctono. L’assoluta
mancanza di un substrato economico con buone fondamenta e quindi il carattere di
estemporaneità del boom economico venne evidenziato fin dalla fine del 1937 e l’inizio del
1938: il citato rientro di una massa di operai ritenuti però stabili, mandò in crisi il commercio,
basato essenzialmente sul vettovagliamento e le forniture, con una situazione che
naturalmente con il passare del tempo peggiorò rapidamente. Con il 1938 si passò quindi ad
una nuova fase economica per l’Etiopia e cioè ad un’autarchia che puntava all’autosufficienza
del territorio, sia per ragioni finanziarie che politiche, cercando di incentivare l’agricoltura e
lo sfruttamento delle materie prime, limitando le importazioni e premiando gli esportatori.377
Già nel 1938 i costi dell’impresa africana si stavano mostrando insopportabili e stavano
trascinando l’impero sull’orlo del fallimento dopo nemmeno due anni di occupazione. Le
infrastrutture cominciavano a mostrare segni di cedimento ed anche il fiore all’occhiello del
regime, le famose e costosissime nonché celebratissime strade asfaltate, evidenziava come
l’utilizzo di diverse imprese costruttrici, non sempre controllate al meglio, avesse portato a
lavori realizzati non certo a regola d’arte ma con costi per lo stato da capolavori
rinascimentali.
______________________________
377 E. Ertola, In terra d’Africa – Gli italiani che colonizzarono l’impero, Laterza, Bari, 2017, Pag. 31-35.
121

A questo proposito citiamo uno stralcio di una lettera inviata a Mussolini da Roberto
Farinacci378 il 25 dicembre 1938:

[…]

“Checché ne dica il camerata Cobolli Gigli379, le migliaia e migliaia di chilometri di


strade asfaltate rappresentano una tremenda fregatura per l’erario […] Le strade permanenti
fatte unicamente perché potessero presentarsi al Duce e far dire all’autore: Ho fatto questo,
ho fatto quest’altro, oggi, dopo due anni appena, sono in gran parte in pessime condizioni,
non si dia la colpa alle piogge, perché sulla stessa strada che va dall’Asmara ad Addis
Abeba, ci sono dei lotti che hanno resistito e dei lotti no, a seconda delle imprese che hanno
costruito. Non è stato esercitato un serio controllo tecnico, e si son profusi miliardi con molta
facilità. […] troppa gente, troppe ditte succhiano criminalmente alle mammelle della madre
patria.”380

[…]

Un’altra problematica che i coloni desiderosi di impiantare un’impresa trovavano sulla


loro strada era la pesante burocrazia che, se possibile, era ancora più asfissiante che in patria;
a questo proposito citiamo una relazione di una fonte dell’OVRA381, che descrive in modo
assolutamente realistico la situazione in Africa Orientale:

[…]

“Il cittadino che arriva in A.O.I. con sani criteri e con idee buone di svolgere
un’attività nella quale è competente si vede preclusa ogni possibilità di lavoro da tutta una
impalcatura burocratica che lo tormenta e lo mette nell’impossibilità materiale di lavorare.
Esempio: il commerciante XY che desidera mettersi a lavorare seriamente (nella zona di
Dessiè supponiamo) per lo sfruttamento di un prodotto qualsiasi, che cosa deve fare?
Naturalmente presentare al Commissariato di Governo di Dessiè una domanda che il
_________________________________

378 Farinacci,Roberto. - Giornalista e gerarca fascista (Isernia 1892 – Vimercate 1945). Interventista nel 1914 e fondatore del
fascio di combattimento di Cremona (1919), fu tra i più violenti dirigenti dello squadrismo. Sostenitore dell'ala
"rivoluzionaria" del movimento, fondò (1922) e diresse il quotidiano Cremona nuova, poi Il Regime fascista e, deputato dal
1924, fu segretario del partito fascista dal febbraio 1925 al marzo 1926. Membro del Gran Consiglio del fascismo dal 1935, il
25 luglio 1943 si schierò contro l'ordine del giorno Grandi e ne patrocinò uno di fedeltà all'alleato tedesco; riparò poi in
Germania e militò nella RSI. Fu giustiziato dai partigiani.

379
Cobolli Gigli, Giuseppe. – Uomo politico (Trieste 1892 – Malnate 1987). Ingegnere, dopo aver combattuto da irredentista
nella prima guerra mondiale iniziò la carriera politica nel movimento fascista nel 1919, redigendo con lo pseudonimo di
Giulio Italico l'opuscolo "Trieste, fedele di Roma". Dal 5 settembre 1935 al 31 ottobre 1939 è stato Ministro dei Lavori
Pubblici nel Governo Mussolini, sovrintendendo alle grandi opere svolte nelle colonie italiane, argomento su cui poi scriverà
il libro Strade imperiali, pubblicato nel 1938. Si è occupato soprattutto dello sviluppo della rete stradale in Etiopia. Nel
territorio nazionale, è stato fra i proponenti del piano regolatore di Catanzaro e di La Spezia (il primo della città), e il primo
firmatario del progetto di completamento dell'ex Ospedale Busonera, a Venezia. Come ideologo fascista, Giuseppe Cobol
scrisse sulla rivista «Gerarchia»; nel settembre 1927, in un articolo dal titolo “Il fascismo e gli allogeni” in cui, secondo
quanto riportato da Giacomo Scotti, Cobolli Gigli teorizzava la Pulizia etnica della Venezia Giulia, attraverso la sostituzione
delle popolazioni «allogene» autoctone con coloni italiani provenienti da altre provincie del Regno.

380
E. Ertola, In terra d’Africa – Gli italiani che colonizzarono l’impero, Laterza, Bari, 2017, Pag. 36.

381 Opera di Vigilanza e Repressione Antifascista, per intenderci la polizia politica del regime.
122

Commissariato trova giusto appoggiare, per cui trasmette la pratica al Comando Gruppo
CC.RR. di Dessiè per le informazioni. Il Gruppo CC.RR. trasmette la richiesta di
informazioni al paese di nascita del Signor XY e attende che venga la risposta che potrà
arrivare, se tutto va bene, in circa due mesi. Avute le informazioni favorevoli, le trasmette al
Commissario di Governo, che annota favorevolmente la pratica e la trasmette al Governo di
Gondar, dove se tutto va bene e non si perde per strada, arriva in venti giorni. Il Governo di
Gondar chiede per conto suo informazioni ai CC.RR. in Italia e dopo altri due mesi ha la
risposta. Trasmette allora la domanda favorevolmente annotata al Governo centrale che la
trasmette al Ministero, il quale non può fare altro che dare la sua approvazione e mandarla
al Viceré che per via Gerarchica la fa arrivare a destinazione. Conclusione la domanda
ritorna dopo sei mesi, quando il povero XY, o è morto di travaso di bile, o è tornato in Italia
nauseato giurando a se stesso di non tornare più in A.O.I.”382

[…]

In un’altra fonte si poteva leggere che se un commissario di qualche governatorato


concedeva delle autorizzazioni prima di ricevere i nulla osta dall’Italia, in modo da assicurare
una crescita più rapida del tessuto economico della zona, riceveva «dei fulmini tali che egli
dovette fare di tutta forza macchina indietro». Le autorità italiane erano informate delle
lamentele ma ciononostante il Vicerè Graziani ed il ministro delle colonie Lessona383
__________________________

382 E.
Ertola, In terra d’Africa – Gli italiani che colonizzarono l’impero, Laterza, Bari, 2017, Pag. 44-45.

383 Lessona, Alessandro. – Uomo politico (Roma 1891 – Firenze 1991). Tenente allo scoppio della Grande Guerra e capitano
nel 1917, attraversò il conflitto passando su vari fronti, non sempre in prima linea. Si guadagnò comunque una medaglia
d'argento al valor militare a Monfalcone (15 maggio 1916). A settembre 1923 scivolò in posizione ausiliaria e poi in
aspettativa per riduzione quadri: l'Esercito si disfaceva di lui. Monarchico sempre, si avvicinò al movimento fascista. Fu tutto
sommato rapidamente che, fra 1923 e 1924, ottenne la candidatura a deputato nelle elezioni del 6 apr. 1924. Nel luglio 1928
arrivò l'occasione importante: fu nominato sottosegretario all'Economia nazionale dal ministro A. Martelli, che "lo vide
ragazzo a Pisa e a Firenze". Vi rimase con compiti vari, ma incerti, sino al settembre 1929, quando passò - sempre come
sottosegretario - al ministero delle Colonie, con E. De Bono; vi sarebbe rimasto sino al 1937, divenendone infine ministro e
legando il proprio nome all'impresa etiopica. L'ascesa politica del L. non era dovuta a sue specifiche competenze, ma si
inquadrava piuttosto nella trama dei legami personali interni alla classe dirigente fascista, nella complessa alchimia della
gestione mussoliniana del potere, nei bilanciamenti regionali interni al PNF. Difficile dire dei contenuti dell'attività politica
come sottosegretario alle Colonie: il L. non brillava di luce propria, né prese iniziative che caratterizzassero la sua gestione.
Al massimo, interpretò in senso radicale alcuni Leitmotive della politica del regime: in campo coloniale, si dichiarò a favore
della colonizzazione demografica della Libia e tenne a battesimo la nascita della rivista Azione coloniale di M. Pomilio; in
campo diplomatico firmò su Gerarchia articoli duri contro il pacifismo internazionalistico e la Società delle nazioni. Un
ruolo più spiccato ed evidente si configurò solo con l'avvio dell'impresa etiopica, in particolare quando (gennaio 1935) De
Bono lasciò le Colonie per assumere la carica di alto commissario per l'Africa Orientale e poi comandante in capo delle
truppe destinate alla guerra. Fu lo stesso De Bono a chiedere che il L. restasse come sottosegretario, con Mussolini quale
ministro. Nel 1935 e 1936 il L. prese in mano la preparazione amministrativa della spedizione in Etiopia. Ebbe contatti
frequenti con Mussolini; fu in realtà il ministro di fatto delle Colonie, in un ministero che peraltro conosceva da molti anni.
Era pur sempre stretto fra vasi di ferro: il dittatore, De Bono (sino alla sua defenestrazione nell'ottobre 1935), P. Badoglio
(sino alla conquista dell'Etiopia, 5-9 maggio 1936), R. Graziani; tuttavia si ricavò propri margini d'azione anche oscillando
fra poteri e personalità così spiccate. Al momento della conquista dell'Etiopia il L. non poteva non essere premiato: l'11
giugno 1936 divenne quindi ministro delle Colonie, mentre il suo ministero l'anno successivo veniva ridenominato
"dell'Africa Italiana". La guerra era finita ma l'Etiopia non era affatto conquistata, come dimostrato dall'attentato a Graziani
del febbraio 1937; finanziariamente l'AOI non solo non aiutava il Paese ma stava dilapidando le risorse del regime; la politica
razzista voluta da Mussolini e attuata dal L. metteva in evidenza tutti i suoi problemi; il corporativismo coloniale auspicato
dallo stesso L. ristagnava. Il L. fu infine allontanato il 19 nov. 1937 e ciò segnò la sua fine politica; il colpo fu appena attutito
dalle 100.000 lire provenienti dai fondi segreti di Mussolini e dalla nomina, richiesta e ottenuta, a professore ordinario di
storia e politica coloniale presso la facoltà di scienze politiche di Roma. Dopo il 25 luglio 1943 non lasciò Roma per Salò.
Sopravvisse quindi alla guerra e nel dopoguerra scampò ai processi politici dell'epurazione e uscì assolto da quelli per gli
illeciti profitti avvenuti durante il regime fascista. In verità l'Etiopia di Hailé Selassié aveva richiesto il giudizio contro il L.
per crimini di guerra compiuti nel 1935-36. Ma Addis Abeba fu lasciata sola dalla comunità internazionale e Roma stava
facendo di tutto per evitare di essere portata sul banco degli accusati di una possibile "Norimberga italiana": ciò giocò a
favore del L., che uscì quasi indenne nel passaggio dal fascismo alla democrazia.
123

non fecero altro che palleggiarsi le responsabilità. Pare che Graziani, ad una riunione con i
federali, abbia risposto in questo modo a chi lo interpellava chiamandolo “Vostra Eccellenza
Vicerè”: «Vicerè da operetta, perché se Lei non lo sa il mio potere arriva fino a dare il
permesso di aprire un casino, ma indigeno, perché se è bianco ci vuole il permesso del
Ministero delle Colonie». A tutto ciò si sommava una corruzione dilagante che certo non
favoriva la crescita economica della regione. Naturalmente la crisi degli imprenditori portò
anche ad una crisi dei residenti attraverso la cronica difficoltà a trovare un lavoro adeguato o
più semplicemente un lavoro.

Per quanto riguarda l’urbanistica, l’impero italiano non si distingueva particolarmente


da tutti gli altri imperi coloniali e cioè la distribuzione degli alloggi era severamente legata
alla questione razziale. Se in Eritrea ed in Somalia gli occupanti europei dovettero fare i conti
con realtà già da tempo cristallizzate e quindi l’adeguarsi fu la parola d’ordine, l’Etiopia
venne vista invece come una pagina bianca in cui ridisegnare i quartieri e le stesse città in
funzione della parte bianca dei residenti. Senza nessuna vena polemica, vorrei sottolineare che
se le leggi razziali in patria (rivolte contro i connazionali ebrei, bianchi) furono al termine del
conflitto mondiale (ed ancora ai giorni nostri) tacciate come il punto più basso e riprovevole
del regime fascista e di una società cosiddetta civile, ben poche furono le voci che si levarono
contro la discriminazione razziale che si attuò in Africa Orientale Italiana. Certo bisogna
ragionare con la mentalità dell’epoca e non con quella del nuovo millennio; negli anni degli
imperi coloniali la segregazione razziale veniva considerata addirittura fondamentale per la
salute pubblica (dei bianchi) ed esempi di apartheid non li troviamo esclusivamente in
Sudafrica ma in tutte le realtà extraeuropee dominate dai colonizzatori. Ma di questo
argomento tratterò brevemente nella conclusione di questa ricerca dato che, come ho
specificato nell’introduzione, vorrei cercare di raccontare la storia del colonialismo italiano
nel modo più neutro possibile. Qui mi limiterò semplicemente ad osservare che dopo
l’attentato al Viceré Graziani, ad Addis Abeba il 19 febbraio 1937, vennero trucidate migliaia
di persone oltre alla spedizione punitiva contro il clero copto etiope (ritenuto responsabile di
aver nascosto gli attentatori e di sobillare il popolo contro l’occupazione italiana) ed al
successivo massacro a Debrà Lebanòs, dove morirono più di 2500 persone ad opera di ascari
somali islamici; nonostante l’Etiopia, al termine del conflitto, abbia cercato di farsi
consegnare come criminali di guerra gli artefici di tali efferatezze, né le Nazioni Unite né
tantomeno l’Italia hanno mosso dito, neppure creando delle commissioni atte a vagliare
eventuali responsabilità. In generale non ci fu mai una “Norimberga italiana” cioè un processo
a quegli alti ufficiali italiani che si macchiarono di crimini di guerra su tutti i fronti del
conflitto (mi torna alla mente, ad esempio, la circolare 3 C384 che il generale Roatta385 fece
distribuire in Yugoslavia, commentando “Qui si ammazza troppo poco”), perlomeno verso le

_____________________________________

384 V. Documento n. 23.

385Roatta, Mario. - Generale italiano (Modena 1887 – Roma 1968). Partecipò alla prima guerra mondiale e fu poi addetto
militare a Varsavia, Riga, Tallinn, Helsinki. Comandò il corpo di spedizione italiano in Spagna (1936-39) e nel 1939 fu
inviato a Berlino come addetto militare. Capo di S.M. (1941), nel sett. 1943 seguì il re e Badoglio a Brindisi. Arrestato nel
1944 con l'accusa di aver sostenuto il fascismo dopo il 25 luglio 1943 e soprattutto di non aver difeso Roma, riuscì a evadere
e a rifugiarsi in Spagna. Fu condannato all'ergastolo in contumacia, ma la sentenza venne annullata nel febbraio 1948. Nel
1949, sottoposto a nuovo processo, fu prosciolto in istruttoria.
124

due figure che agirono con più virulenza contro i civili etiopici cioè Graziani ed il generale
Maletti386.

Tornando a parlare di edilizia, il piano per le “nuove” città etiopi fu subito chiaro:
vennero create delle nuove zone, dei nuovi “centri” abitati esclusivamente da bianchi ed i
vecchi abitanti indigeni vennero “invitati” (tramite anche un piccolo risarcimento) a spostare i
loro tucul387 nelle zone a loro riservate ma ben distinte e separate da quelle dei coloni europei.
Un grosso problema per i coloni fu che l’ordine delle nuove costruzioni privilegiava i palazzi
del potere ed all’edilizia abitativa ci si dedicò in ritardo e quasi esclusivamente in favore dei
funzionari dell’amministrazione coloniale; queste scelte determinarono conseguenze gravi per
i coloni che soffrirono sempre, nei cinque anni dell’impero, di carenza di alloggi. Se
consideriamo poi il quadro ideologico ed in seguito legislativo, che prevedeva la rigorosa
separazione razziale.388

Dal punto di vista della società civile, le regole non erano così strette come il regime
avrebbe voluto; a causa dei problemi definiti precedentemente (difficoltà lavorative e scarsità
di alloggi) la separazione tra indigeni e coloni non fu mai così netta come in altre società
coloniali (v. Sudafrica). Ci sono svariati esempi di famiglie italiane che vivevano a stretto
contatto con famiglie indigene nonostante i consigli prima ed i divieti dopo delle autorità.

______________________________________

386
Maletti, Pietro. – Generale (Castiglione delle Stiviere 1880 – Sidi el Barrani 1940). Dal libretto personale militare risulta
che era di altezza media (167 cm) e "ottimo marciatore"; giudicato "poco studioso", avrebbe riportato a lungo giudizi non
esaltanti; ma soprattutto, tra le annotazioni relative al periodo della Grande Guerra, si legge: "È ufficiale molto rigido nel
mantenimento della disciplina, che ottiene ricorrendo quasi sempre alla coercizione, pochissimo alla persuasione"; giunto in
colonia, dunque, ciò che gli era addebitato negativamente in patria diventò un merito: o forse, anche, il M. conobbe una
propria evoluzione. Il M. trascorse in colonia, salvo brevissime interruzioni, quasi diciassette anni, partecipando in prima
persona alla "riconquista", o più esattamente alla conquista, dell'interno della Libia, prima in Tripolitania e poi soprattutto in
Cirenaica, con superiori come R. Graziani, forgiando il proprio profilo di rigido ufficiale coloniale e acquisendo importanti
benemerenze presso il regime fascista. Circa dieci anni dopo il suo allontanamento dal Carso e all'epoca delle leggi
fascistissime (1925-26), il M. era ormai giudicato in colonia di "cultura generale e professionale notevolmente superiore a
quella dei parigrado" e nel 1928 fu definito addirittura "il più completo e il più sicuro dei nostri ufficiali coloniali". Nel 1935
il M. fu chiamato in Somalia ove Graziani, che così tanto lo aveva apprezzato in Libia era stato nominato governatore e
comandante in capo delle truppe, per la preparazione e poi per la conduzione della guerra all'Etiopia dal "fronte sud"; qui il
M. guidò il raggruppamento arabo-somalo. Anche se la versione ufficiale di alcuni combattimenti in cui furono impegnati il
M. e le sue truppe è elogiativa, gli storici sono stati più critici. Alla fine del conflitto il M. assunse il comando del presidio di
Dire Daua, quando ormai era in via di approvazione la sua nomina a generale di brigata per meriti di guerra. Con tale grado
concorse alla guerra di repressione del "brigantaggio" etiopico, cioè della resistenza anticoloniale e antifascista, nella quale il
M. fu, se possibile, ancora più efficiente e duro di quanto fosse stato in Libia: dapprima comandante del settore Giuba in
Somalia, partecipò alle operazioni di grande polizia coloniale nella "zona dei laghi"; condusse alcune sanguinose repressioni
e fu al comando delle truppe che, nel maggio 1937, perpetrarono le stragi di Dèbra Libanòs e di Engecha. Operazioni volute
dal viceré Graziani e condotte "a freddo", a distanza di mesi dall'attentato contro quest'ultimo del febbraio precedente. In ogni
caso, è difficile ridimensionare le personali responsabilità del M. in un'azione di sterminio che fece non 450 vittime circa,
come riportato dalla documentazione ufficiale, bensì, secondo alcuni recenti studi, fra le 1400 e le 2000 a Dèbra Libanòs e
circa 400-500 a Engecha. Non è possibile sapere se tali operazioni di "grande polizia coloniale" furono direttamente la causa,
ma certo a seguito di esse il M. ottenne la promozione a generale di divisione "per avanzamento straordinario per meriti
eccezionali" (2 giugno 1938). Dopo alcuni mesi di assenza, tornò in Eritrea ma vi rimase poco: forse il suo passato e il suo
tratto poco si confacevano al nuovo corso coloniale voluto da Amedeo di Savoia, duca d'Aosta, che aveva sostituito Graziani.
Nel maggio del 1940 passò dal comando del XII a quello del XVI corpo d'armata destinato all'Africa settentrionale, ancora
con Graziani. La guerra lo vide quindi per qualche mese in prima linea, al comando di uno speciale raggruppamento libico,
sino alla sua rapida fine.

387 Nome usato dagli Europei per indicare l’abitazione stabile, di forma cilindrica e con tetto conico di paglia, particolarmente

diffusa nell’Africa orientale e spesso riproposta altrove in villaggi di vacanze sul mare.

388 E. Ertola, In terra d’Africa – Gli italiani che colonizzarono l’impero, Laterza, Bari, 2017, Pag. 63-70.
125

Anche se la cosa che irritava di più era la presenza di nazionali che, per necessità o
semplicemente in cerca di migliore sorte, si dedicavano ad attività illecite o tiravano avanti
con mezzi di fortuna, nuocendo così all’immagine della società dominatrice portatrice di
benessere e di civiltà. A conferma di quanto sopra accennato riportiamo un brano di una
relazione della polizia coloniale di Harar del 1° maggio 1939:

[…]

“Non può certo tollerarsi nell’Impero la presenza di disoccupati nazionali i quali,


senza mezzi e senza proventi, sono indotti per necessità o per indole a commettere azioni
criminose o comunque lesive del prestigio e della dignità di razza”389

[…]

Abbiamo già visto come il numero delle donne in Etiopia fu da subito percentualmente
alto rispetto alle normali colonie di popolamento e questo fu dovuto anche
all’incoraggiamento dato dal regime al ricongiungimento familiare nel più breve tempo
possibile. Tutto ciò naturalmente non era fatto per fare un piacere ai coloni ma semplicemente
per evitare quello che veniva chiamato il “temuto inconveniente” e cioè la nascita di un
sempre maggiore meticciato. Di questo si preoccupò persino la Santa Sede dato che il
pontefice Pio XI390, in un colloquio con il ministro degli Esteri Ciano391, si premurò di
_________________________________

389 E. Ertola, In terra d’Africa – Gli italiani che colonizzarono l’impero, Laterza, Bari, 2017, Pag. 99.

390 Pio XI papa. - Ambrogio Damiano Achille Ratti (Desio 1857 - Città del Vaticano 1939). Dopo aver studiato a Desio,
quindi nei seminari diocesani di Milano e nel Seminario lombardo di Roma, dove fu ordinato prete il 20 dic.1879, si laureò in
teologia, in diritto canonico e in filosofia. Prof. per cinque anni di sacra eloquenza a Milano, tenne un corso speciale di
teologia nel Seminario maggiore; ammesso fra i dottori della Biblioteca Ambrosiana (1888), compì varî viaggi scientifici,
riordinò la biblioteca della Certosa di Pavia (1898), e tra il 1905 e il 1907 la Biblioteca e la Pinacoteca Ambrosiana e il
museo Settala. Ebbe l'incarico dal capitolo del duomo di Milano di recuperare e restaurare le pergamene e i codici
danneggiati, opera che portò a termine nel 1914. Nel 1918 fu nominato visitatore apostolico in Polonia e Lituania, e come
tale, in un periodo difficile, che vedeva il crollo degli Imperi centrali, svolse una proficua attività, ottenendo il
riconoscimento della Polonia da parte della Santa Sede (30 marzo 1919). Eletto pontefice, succedendo a Benedetto XV, il 6
febbr. 1922, assunse il nome di Pio XI, e nel giorno dell'elezione al pontificato si affacciò alla loggia esterna di S. Pietro che
era rimasta chiusa dal 1870, per impartirvi la benedizione urbi et orbi; ripeté il gesto in occasione dell'incoronazione (12
febbr.). La sua volontà di risolvere la questione romana, dopo lunghe trattative, portò alla stipulazione dei Patti Lateranensi,
comprendenti un concordato e un trattato, considerati da P. XI come inscindibilmente uniti. L'atteggiamento neutrale assunto
durante il conflitto etiopico (1935-36) fu oggetto di critica fuori d'Italia, ma dopo i provvedimenti razzisti approvati dal Gran
Consiglio del fascismo (6 ott. 1938) ci fu una sua ferma protesta. Fu artefice della sistemazione edilizia del nuovo Stato della
Città del Vaticano e, sostenitore delle ricerche scientifiche e dei progressi tecnici, affidò a G. Marconi la realizzazione della
Radio vaticana (che inaugurò il 12 febbr. 1931 con un solenne radiomessaggio) e ricostituì (28 ott. 1936) la Pontificia
accademia delle scienze.

391
Ciano, Galeazzo, conte di Cortellazzo. - Diplomatico e uomo politico italiano (Livorno1903 – Verona 1944); figlio di
Costanzo; console generale a Shanghai (1930), poi ministro plenipotenziario in Cina, divenne per il suo matrimonio con Edda
Mussolini (1930) uno degli uomini più in vista del regime fascista. Capo dell'ufficio stampa del capo del governo (1933),
sottosegretario per la Stampa e propaganda (1934), ministro per la Cultura popolare (1935), assunse (1936) il ministero degli
Affari Esteri. Passivo esecutore, di fatto, dei voleri del suocero (la responsabilità dell'invasione dell'Albania nel 1939 ricade
peraltro quasi interamente su di lui), ma desideroso di popolarità attraverso la fama di dissidente, C. si distaccò veramente
dalla politica di Mussolini solo nell'autunno 1942, di fronte all'aggravarsi della situazione italiana nella seconda guerra
mondiale. Dovette abbandonare gli Esteri il 5 febbr. 1943 per l'Ambasciata presso il Vaticano; nella seduta del Gran consiglio
del 24 luglio 1943 votò l'ordine del giorno Grandi che suonava sfiducia nei confronti di Mussolini. Rifugiatosi in Germania
(con la speranza di passare in Spagna), fu consegnato alla Repubblica Sociale Italiana. Condannato a morte dal tribunale
speciale fascista di Verona, fu fucilato.
126

consigliare al politico italiano di inviare in Africa il maggior numero di famiglie ed evitare


per quanto possibile di mandare uomini soli. La donna italiana dell’Impero avrebbe dovuto
avere diverse mansioni da soddisfare: doveva essere moglie, madre, custode della moralità e
garante della razza, ruoli peraltro ben delineati da un ampia pubblicistica e da veri e propri
corsi organizzati dal partito per preparare le italiane alla vita coloniale. Ciononostante il
problema del sesso, soprattutto per i giovani soldati che continuavano ad essere la percentuale
maggiore di maschi bianchi nell’Impero, rimaneva irrisolto. Le autorità sollecitarono più volte
il governo di Roma affinché inviasse in colonia il maggior numero di prostitute bianche
possibile in modo che i bordelli indigeni fossero destinati principalmente od esclusivamente a
maschi di colore. Il problema era talmente sentito che il fascismo ribaltò il concetto sociale
presente in altre esperienze coloniali. Se altrove la prostituta bianca era vista come un segno
di degrado della popolazione e quindi come una macchia al prestigio della razza e della
supposta superiorità morale della donna bianca, nell’Africa italiana era incentivata dal regime.

Come abbiamo accennato precedentemente, il rapporto tra coloni e colonizzati,


nonostante gli sforzi del regime, risultava molto diverso da caso a caso, con un’osservanza
delle regole oseremmo dire “all’italiana”; centinaia di segnalazioni mostrano come i nazionali
non rispettassero certo alla lettera le direttive imposte e di come la strada verso l’apartheid
dovette sembrare ancora molto lunga. Nel 1936 il governatore dell’Eritrea emanò una
circolare nella quale si deprecava:

[…]

“Lo spettacolo indegno che si verifica giornalmente dinanzi alle case malfamate delle
donne indigene, dove molti nazionali fanno ressa e schiamazzi per avere la precedenza
nell’ingresso, come son degradanti alcune manifestazioni cui si sono abbandonati taluni
giovani cittadini che si sono fatti vedere pubblicamente in pose di ridicola svenevolezza verso
donne indigene e, peggio, si sono fatti fotografare”.392

[…]

In altre testimonianze veniva osservato come i nazionali frequentassero gli indigeni sia
nei locali pubblici che a passeggio oppure andassero con loro su vetture o carrozze e dando,
secondo questi testimoni, troppa confidenza agli indigeni stessi. Ma quello che mandava
letteralmente in bestia le autorità era la condotta scorretta dei coloni che ledeva il prestigio e
risultava indegna per una schiatta di dominatori imperiali. Anche secondo il gerarca Farinacci
i modi di molti coloni italiani in Africa sono volgari, disgustosi o offensivi, ed elencava i
principali difetti dei connazionali:

[…]

“a) assoluta mancanza di comprensione e di rispetto per le consuetudini e i costumi


delle popolazioni; b) contegno pessimo da parte dei nazionali civili e militari nei confronti
_________________________________

392 E. Ertola, In terra d’Africa – Gli italiani che colonizzarono l’impero, Laterza, Bari, 2017, Pag. 152.
127

delle donne indigene; c) richieste di prestiti a indigeni benestanti; d) modo sguaiato di vivere
e di vestire che è in contrasto stridente al modo col quale si comportano e vestono
gl’indigeni”393

[…]

Al contrario di queste critiche vi erano molte testimonianze che asserivano che quando
non vi erano motivi di attrito tra le due comunità la vita trascorreva abbastanza
tranquillamente. Naturalmente dobbiamo sempre tenere presente la mentalità dell’epoca e le
dottrine pseudo-scientifiche che imbottivano le teste dei coloni e che portavano a considerare
gli indigeni sempre con uno sguardo perlomeno paternalistico.

Come ho accennato nell’introduzione di quest’opera, considero la conquista


dell’Etiopia più come un’occupazione militare che non come una vera e propria
colonizzazione (dovuta allo scarso tempo a disposizione, neanche cinque anni ed alla
disorganizzazione con la quale il territorio venne occupato), ma non posso negare che lo
sforzo del regime, soprattutto dal punto di vista economico, e le speranze con cui molti
connazionali partirono verso l’Africa Orientale, confermino una volontà di occupazione
stabile che terminò con l’invasione britannica durante la seconda guerra mondiale. Certo è che
il bilancio di quell’esperienza fu per molti italiani decisamente negativa, sia dal punto di vista
del lavoro che da quello della vita in colonia, ridotti a vivere in realtà estremamente lontane
da quelle della madrepatria (soprattutto per quanto riguarda le abitazioni); chi non riuscì a
sfruttare l’iniziale fiume di denaro che pervenne in colonia fu costretto ad arrabattarsi ed a
vivere di espedienti od a uniformarsi al modo di vivere degli indigeni. Non furono pochi,
quindi, coloro che al rientro in Italia commentarono la loro esperienza con un “maledetta
l’Africa ed il giorno che ci sono venuto”.

4.3. La catastrofe.

Il 10 giugno 1940, dopo 9 mesi e mezzo di cosiddetta non-belligeranza, l’Italia entrò


in guerra al fianco della Germania nazista. Il paese si unì al conflitto senza avere
minimamente colmato il gap industriale e militare con l’alleato tedesco.394 La Germania
poteva contare su un complesso industriale di prim’ordine, secondo solo a quello degli Stati
Uniti, sul possesso di diverse materie prime (tranne il petrolio ed il ferro che venivano però
garantiti dall’alleanza con la Romania il primo e dagli accordi con la neutrale Svezia il
secondo), sul possesso di armamenti all’avanguardia e di una élite di scienziati alcuni dei
quali sarebbero diventati ben noti al termine della guerra e non tutti per la loro adesione al

________________________________

393 E. Ertola, In terra d’Africa – Gli italiani che colonizzarono l’impero, Laterza, Bari, 2017, Pag. 153.

394
Secondo le stime più ottimistiche l’Italia sarebbe riuscita ad avvicinare la forza militare tedesca del 1939 solo nel 1943 e
secondo quelle più realistiche non prima del 1945.
128

nazismo (Von Braun395, Heisenberg396, tanto per citarne un paio). Al contrario l’Italia, paese
principalmente agricolo, con scarsissime risorse primarie e con un livello tecnologico non
ancora all’altezza o utilizzato in maniera errata (dal punto di vista bellico)397 si trovava
lontano anni luce dall’alleato teutonico.

In Etiopia dal momento della dichiarazione di guerra scoppiarono diverse rivolte


fomentate anche dall’Intelligence Service britannica che già da circa un mese era in contatto
con il Negus Hailé Selassié e le forze reali etiopiche. Lo sforzo britannico venne profuso
tramite l’invio di diversi agenti, denaro e massicci invii di armi, peraltro già in atto prima
dell’inizio delle ostilità sul suolo europeo. Il Negus, dopo un lungo viaggio via aereo, treno e
nave ritornò in Etiopia (con lo pseudonimo prima di Mr. Strong e poi di Mr. Smith) a metà
novembre del 1940 ed appena messo piede in patria emanò un proclama che dovrebbe ancora
oggi fare riflettere sull’idea di presunta civiltà superiore dei bianchi che, a tutt’oggi, non è
ancora scomparsa:

[…]

“Io vi raccomando di accogliere in modo conveniente e di prendere in custodia tutti


gli italiani che si arrenderanno, con o senza armi. Non rimproverate loro le atrocità che
hanno fatto subire alla nostra popolazione. Mostrate loro che siete dei soldati che possiedono
un senso dell’onore ed un cuore umano. Non dimenticate che durante la battaglia di Adua i
coraggiosi guerrieri che hanno condotto al loro imperatore i prigionieri italiani hanno

_________________________________

395 Braun,
Werner von. - Pioniere dell'astronautica (Wirsitz, Posnania, 1912 - Alexandria, Virginia, 1977); progettista di razzi
e studioso dei problemi relativi all'astronautica. Ha progettato il razzo V2 impiegato dai Tedeschi nella seconda guerra
mondiale. Dal 1952 negli USA, ha contribuito largamente alla riuscita dei primi lanci spaziali statunitensi. Direttore del
gruppo per lo sviluppo dei missili guidati dell'esercito degli USA, ha progettato il missile Jupiter C con il quale fu messo in
orbita l'Explorer I, il primo satellite americano, e tutti i missili della serie Saturno, impiegati nel programma Apollo.

396 Heisenberg, Werner Karl. - Fisico tedesco (Würzburg 1901 – Monaco di Baviera 1976). Dopo il conseguimento del
dottorato a Monaco (1923), H. iniziò un'intensa collaborazione con N. Bohr presso l'Istituto di fisica teorica di Copenhagen,
che si concluse nel 1927, anno in cui H. fu chiamato a ricoprire la cattedra di fisica teorica all'università di Lipsia. Nel 1932
gli fu conferito il premio Nobel per la fisica. Trasferitosi all'università di Berlino (1941) venne nominato direttore del Kaiser
Wilhelm Institut für Physik. Alla fine della guerra, sospettato d'aver assicurato la propria collaborazione alle autorità politico-
militari naziste, H. venne fatto prigioniero dalle forze alleate. Dal 1947 socio straniero dei Lincei. Dal 1952, divenuto
direttore del Max Planck Institut für Physik und Astrophysik a Monaco, H. si impegnò a fondo nella ricostruzione dei centri
di ricerca tedeschi ed europei; fu tra i principali promotori della creazione del CERN a Ginevra, dove ricoprì la carica di
presidente del Scientific policy committee. n Le indagini iniziali di H. presero le mosse dalla teoria quantistica dell'atomo di
idrogeno di Bohr (1913), nella quale confluivano l'ipotesi di quantizzazione dell'energia applicata da M. Planck allo studio
della radiazione di corpo nero e il modello d'atomo nucleare di Rutherford. H., anche in collaborazione con Born, contribuì a
una migliore comprensione delle leggi della spettroscopia atomica e ricercò, sulla base della regola di quantizzazione e del
principio di corrispondenza, un'interpretazione del cosiddetto effetto Zeeman anomalo. Ma, soprattutto, egli rimase sempre
attratto dai problemi filosofici ed epistemologici della meccanica quantistica, sui quali tornò fino alla fine con contributi di
notevole portata storica e filosofica.

397 Portiamo ad esempio il campo aeronautico nel quale l’Italia era stata all’avangurdia durante il primo conflitto mondiale:

grandi risorse furono utilizzate nel tentativo di realizzare inutili record di velocità (come la coppa Schneider) o di altitudine e
non di sviluppare velivoli adatti al conflitto che si stava preparando. Una mentalità vecchia, legata a concetti ormai obsoleti
uno dei quali era la completa predominanza del pilota rispetto al mezzo fece il resto: inoltre i successi nella guerra civile
spagnola contribuirono ad accreditare presso gli stati maggiori la teoria succitata. Anche decisioni industriali (la FIAT si
rifiutò sempre di produrre nei suoi stabilimenti aeroplani che non fossero di propria progettazione) estremamente discutibili
fecero si che, ancora nel 1944, in Italia si producessero antiquati biplani quando la Germania faceva uscire dalle proprie
fabbriche i primi jet (Me 262).
129

aumentato l’onore e nobilitato il nome dell’Etiopia”.398

[…]

Il Viceré d’Etiopia e comandante militare in Africa orientale era dal 1938 il duca
Amedeo d’Aosta399, uomo capace ed ottimo soldato, il quale si rese subito conto
dell’importanza strategica delle colonie italiane in quel settore in caso di evento bellico.
Sostenne infatti che il destino della guerra contro l’Inghilterra sarebbe stato deciso in Africa
orientale e non in Egitto o nel Mediterraneo. Domandò a Mussolini rifornimenti militari per
più di cinque miliardi di lire e le sue richieste teoricamente accettate ma non esaudite: gli
vennero inviati materiali per 900 milioni che però non arrivarono mai a causa
dell’interferenza inglese che non si faceva scrupoli a fermare e sequestrare mercantili di
nazioni neutrali. Qualche rifornimento riuscì ad arrivare in Somalia dal lontanissimo
Giappone (all’epoca neutrale) ma in numero non certo sufficiente ai fabbisogni dell’esercito
in Africa orientale. Gli ordini che il 9 giugno 1940 giunsero dal capo di Stato Maggiore
Generale, maresciallo Badoglio, stabilirono che il compito delle forze italiane in Africa
orientale fosse quello strettamente difensivo e che ci si dovesse preparare a violente reazioni
solo dopo essere stati attaccati. Badoglio aveva creduto ad uno dei più riusciti bluff
dell’Intelligent Service riguardo ad una presunta armata Weygand400 presente in Siria e
pronta a marciare contro i possedimenti italiani del Mar Rosso e si comportava di
conseguenza. Come abbiamo visto, però, l’idea strategica del duca d’Aosta era ben diversa;
concepì una tattica decisamente più aggressiva, basata su due direttrici d’attacco principali: la
prima prevedeva l’occupazione del Somaliland britannico e la seconda una decisa spinta
contro il Sudan, in modo da impegnare il maggior numero di truppe britanniche distogliendole
dal fronte libico-egiziano. Effettivamente questi attacchi riuscirono a sortire l’effetto sperato
tanto che il MEC401, nonostante la schiacciante vittoria a Sidi el Barrani402, fu costretto a
spostare diverse divisioni sul fronte sud e non sfruttare pienamente il successo403. Il mattino
del 4 luglio 1940 scattò l’attacco contro il Sudan, 6500 uomini mossero contro Cassala che
viene di lì a poco occupata; il mese successivo cominciarono le operazioni anche contro la
Somalia britannica, settore decisamente più importante di quello sudanese giacché avrebbe
consentito di sostituire 1050 chilometri di frontiera terrestre con 750 di frontiera marittima, la
_________________________________

398 E. Biagi, La seconda guerra mondiale – Uomini e fatti, testimoni e documenti, Vol. II, Fabbri, Milano, 1995, Pag. 530.

399Savoia, Amedeo di, duca d'Aosta. - Primogenito (Torino 1898 – Nairobi 1942) di Emanuele Filiberto e di Elena di
Francia. Dopo aver preso parte alla prima guerra mondiale, effettuò numerosi viaggi in Africa e comandò truppe sahariane
durante le operazioni volte a conquistare la Tripolitania (1928-30). Vicerè di Etiopia (1937), contribuì alla realizzazione di
ingenti opere pubbliche; partecipò poi alla seconda guerra mondiale in Africa Orientale, venendo insignito della medaglia
d'oro al valor militare. Costretto ad arrendersi agli Inglesi sull'Amba Alagi (maggio 1941), morì in prigionia.

400Weygand, Maxime. - Generale francese (Bruxelles 1867 – Parigi 1965). Dopo aver partecipato alla prima guerra
mondiale, nel 1940 fu nominato comandante supremo delle forze francesi, ma nulla poté fare per arginare l'offensiva tedesca.
Ministro della Difesa del governo di Vichy (1940) e governatore di Algeri (1941), fu internato in Germania fino al 1945. Nel
dopoguerra fu reintegrato nelle sue prerogative.

401
Middle East Command in seguito chiamato Middle East Land Forces (MEF).

402 Località egiziana a circa 95 km. dal confine libico.

403Dopo la vittoria egiziana le truppe inglesi conquistarono l’intera Cirenaica ed avrebbero avuto vita facile anche in
Tripolitania costringendo le truppe italiane ad asserragliarsi in Tunisia se non addirittura ad essere scacciate dal nord Africa.
130

quale, grazie alle nostre basi navali nell’area sarebbe stata più facile da sorvegliare ed avrebbe
consentito di recuperare vitali forze terrestri che non potevano giungere in sostegno dall’Italia.
Inoltre bisognava evitare che anche la Côte française des Somalis fosse invasa dagli inglesi e
che si ponesse come spina nel fianco delle forze italiane. Gli inglesi, dopo un’accanita
resistenza al varco di Tug Argan, consapevoli di poter essere accerchiati decisero di evacuare
il Somaliland ed il 19 agosto 1940 le truppe italiane entrarono a Berbera. Queste conquiste di
territori per circa centomila chilometri quadrati, deserti e quasi completamente disabitati,
furono le uniche vittorie italiane in Africa orientale prima della riscossa britannica.404

Secondo molti storici queste conquiste furono assolutamente inutili ma abbiamo già
visto che dal punto di vista tattico servirono per salvare la Libia dalla completa occupazione;
lo stesso Churchill405 commentò al termine del conflitto in riferimento agli scontri in Africa
orientale:

[…]

“Non ero affatto contento della condotta tecnica di questo episodio, che rappresenta
la nostra sola sconfitta ad opera degli italiani. In quel particolare momento, quando eventi
formidabili incombevano sull’Egitto e tante cose in tutto il mondo dipendevano dal nostro
prestigio, quella sconfitta ha rappresentato un danno di gran lunga superiore al suo valore
strategico.”406

[…]

___________________________

404 Biagi,
La seconda guerra mondiale – Uomini e fatti, testimoni e documenti, Vol. II, Fabbri, Milano, 1995, Pag. 532-546.

405
Churchill, Sir Winston Leonard Spencer. - Statista inglese (Blenheim Palace, Oxford, 1874 – Londra 1965), figlio di lord
Randolph. Ufficiale, in India e nel Sudan (1897-98), partecipò (1899-1902), dapprima come tenente di cavalleria e poi come
giornalista, alla guerra anglo-boera. Deputato conservatore (1900), passò poi al liberalismo; sottosegretario alle Colonie nel
1908-10, fu successivamente ministro del Commercio (1908-09), degli Interni e primo lord dell'Ammiragliato (1911-1915).
L'opera da lui compiuta in tale qualità per il rafforzamento della flotta si rivelò preziosa allo scoppio del conflitto mondiale.
Ch. fu l'ideatore della spedizione di Anversa e di quella dei Dardanelli, ma le disastrose vicende di quest'ultima lo costrinsero
a lasciare l'Ammiragliato. Dopo un periodo di guerra sul fronte francese, tornò al governo come ministro delle Munizioni
(1916). Ministro della Guerra e Aeronautica alla fine del conflitto (1919), propugnò l'intervento armato contro la Russia
sovietica. Nel 1921 fu ministro delle Colonie, ma cadde nelle elezioni del 1922. Rientrato (1924) nel partito conservatore,
nominato cancelliere dello Scacchiere sotto St. Baldwin (1924-29), si fece promotore di una dura politica deflazionistica.
Caduto il gabinetto Baldwin, fu all'opposizione per 10 anni, criticando la politica del disarmo unilaterale e la condotta del
governo laburista in India. Durante la crisi che sboccò nella seconda guerra mondiale, Ch. criticò aspramente la conciliante
politica estera di Baldwin e di N. Chamberlain nei riguardi di Hitler e di Mussolini, critica che si accentuò dopo Monaco. Il 3
sett. 1939 Chamberlain gli affidò l'Ammiragliato quale primo lord. Organizzò allora il blocco navale della Germania
cercando al tempo stesso un ravvicinamento con l'URSS. Fautore della guerra a oltranza e di una più energica coordinazione
degli sforzi militari, egli fu l'uomo sul quale si appuntarono gli sguardi di tutta la nazione quando, con l'invasione tedesca
della Norvegia e poi della Francia, la situazione divenne gravissima per l'Inghilterra. Capo di un governo di coalizione (10
maggio 1940), con la sua energia, con la popolarità che seppe conquistare, impersonò la volontà di resistenza della nazione e
di tutti gli altri popoli alleati contro la minaccia nazista nel difficilissimo periodo 1940-41. Dopo la vittoria sulla Germania e
la fine del ministero di coalizione, Ch. formò il 23 maggio 1945 un governo di transizione: ma l'esito delle elezioni del 5
luglio lo costrinse a dimettersi. Capo dell'opposizione, fu tra i primi a proporre una politica antisovietica e a propugnare
l'unione delle democrazie occidentali e l'unità europea. Nell'aprile 1955 si ritirò a vita privata.

406E. Biagi, La seconda guerra mondiale – Uomini e fatti, testimoni e documenti, Vol. II, Fabbri, Milano, 1995, Pag. 546-
547.
131

La tattica del viceré sembrò quindi funzionare, anche considerando il fatto che
nell’estate 1940 la Luftwaffe407 di Göring408 scatenò quella che sarebbe poi rimasta negli
annali come la battaglia d’Inghilterra la quale avrebbe dovuto anticipare l’operazione
Seelöwe409 cioè l’invasione terrestre della Gran Bretagna. A metà ottobre del 1940, a causa
delle forti perdite subite dalle squadriglie di bombardamento (KampfGeschwadern), Hitler
decise di rimandare a data da destinarsi l’invasione limitandosi ad ordinare alla
Kriegsmarine410 di cingere d’assedio, soprattutto con i mezzi sottomarini, le isole britanniche
in modo da toglierli la possibilità di essere rifornite e di prenderle per fame. Naturalmente
colui che si autodefiniva uno dei più grandi strateghi militari della storia germanica non
comprese o non si premurò di informarsi sulla reale situazione militare inglese: la RAF411 era
giunta ormai allo stremo delle forze ed un’ultima spallata avrebbe probabilmente aperto la
strada per Londra alle truppe del 3° Reich.412

La mancata apertura del fronte sul territorio metropolitano consentì naturalmente agli
inglesi di recuperare forze per altri obbiettivi ed uno dei primi, se non il primo fu proprio il
contrattacco in Africa orientale. Già nel novembre 1940 nella zona di Cassala vi fu il primo
scontro tra le forze britanniche e quelle italiane: i fortini di Gallabat e Metemma furono
attaccati il 6 di novembre da forze sudanesi, indiane ed inglesi, il forte di Gallabat fu occupato
ma poi abbandonato dagli stessi inglesi poiché indifendibile. Si trattò principalmente di un
attacco di prova per saggiare le difese italiane nell’area.413

Prima di proseguire con il racconto militare della perdita dell’Africa Orientale Italiana,

___________________________________

407 Aviazione
militare tedesca.

408
Göring, Hermann. - Uomo politico tedesco (Rosenheim 1893 – Norimberga 1946). Ufficiale di aviazione, si distinse
durante la 1a guerra mondiale; dal 1921 uno dei più autorevoli collaboratori di Hitler, fu organizzatore delle squadre
d'assalto. Dopo il Putsch di Monaco (nov. 1923), si rifugiò nel Tirolo, poi in Italia. Deputato nazionalsocialista nel 1928,
presidente del Reichstag nel 1932, con la conquista hitleriana del potere divenne ministro di Stato. Ministro degli Interni di
Prussia, riorganizzò la polizia e represse le agitazioni comuniste e i tentativi deviazionistici in seno al suo stesso partito (a
Berlino, nel 1934, il movimento guidato da E. Röhm). Nel 1936 gli fu affidata, con poteri eccezionali, l'esecuzione del piano
quadriennale. Maresciallo nel 1938, ebbe praticamente la responsabilità della condotta della guerra aerea tedesca durante la
2a guerra mondiale. Verso la fine del conflitto (aprile 1944) forse tentò di aprire trattative con gli alleati. Condannato a morte
dal tribunale di Norimberga, si uccise avvelenandosi la notte prima dell'esecuzione.

409
Leone marino.

410
Marina da guerra tedesca.

411 Royal Air Force, Regia aeronautica.

412 Nei quasi tre mesi di incursioni, i tedeschi avevano praticamente distrutto tutte le installazioni radar sulla costa
meridionale dell’Inghilterra ed anche i vari aeroporti a sud di Londra erano ormai ridotti a rovine fumanti, senza contare i
danni alle città (Coventry venne colpita così duramente che fu coniato un nuovo verbo “coventrizzare” come sinonimo di
città rasa al suolo). Inoltre la RAF scarseggiava anche di piloti in grado di affrontare con buone possibilità di vittoria gli
esperti aviatori tedeschi. Secondo diversi studiosi di storia militare, anche britannici, ancora una decina di giorni di attacchi
avrebbero costretto a terra ciò che restava dell’aviazione inglese ed avrebbero quindi consentito l’attuazione del piano “Leone
marino” e la conquista delle isole britanniche. L’esercito inglese era ancora gravemente scosso dopo la fuga da Dunkerque e
soprattutto le enormi quantità di materiale bellico che era stato costretto ad abbandonare in Francia non erano ancora state
sostituite; privato ora anche del sostegno aereo non sarebbe stato in grado di affrontare le potenti e rapide Panzerdivisionen
germaniche.

413 E. Biagi, La seconda guerra mondiale – Uomini e fatti, testimoni e documenti, Vol. II, Fabbri, Milano, 1995, Pag. 554.
132

mi sembra opportuno ricordare che la sconfitta militare nelle colonie non fu dovuta
esclusivamente ad una mancanza di uomini e materiali ma a questa dobbiamo aggiungere
anche la mentalità che da sempre, come abbiamo visto già più volte in questo studio,
considerava le colonie come territori di popolamento e di sviluppo commerciale. Al contrario
della Gran Bretagna ed in parte della Francia, l’ostinazione della politica coloniale italiana nel
vedere questi territori esclusivamente come simbolo di prestigio internazionale, non riuscendo
ad utilizzarle come teste di ponte militari ed importanti basi navali, fu il motivo principale del
disastro. Il crollo della Francia aveva creato una situazione a noi estremamente favorevole se
aavessimo saputo sfruttarla: le scarse forze coloniali britanniche sul continente africano non
avrebbero potuto sostituire quelle francesi nel controllo del territorio e se la marina italiana
avesse potuto avere delle basi importanti nei porti dell’Eritrea e della Somalia in modo da
poter bloccare il traffico sul Mar Rosso, le forze britanniche presenti in Africa orientale e
sudorientale avrebbero potuto essere rifornite solo tramite la circumnavigazione del
continente con tempi e rischi non sopportabili. Inoltre il blocco del Mar rosso avrebbe
costretto la Mediterranean Fleet presente ad Alessandria d’Egitto a togliersi dal Mediterraneo
orientale per non essere imbottigliata. Gli inglesi stessi, prevedendo questo mossa avevano
affondato due piroscafi carichi di cemento per bloccare il canale di Suez e non farlo utilizzare
dalle forze dell’Asse in caso di sconfitta in nord africa. Ma nulla di tutto questo si verificò a
causa del mancato utilizzo dei porti africani come fattore militare; persino la flotta presente ad
Alessandria fu solo blandamente attaccata in un porto alquanto scomodo e pericoloso dal
punto di vista strategico.414

L’unico a capire l’importanza del Mar Rosso e dell’Africa orientale fu il duca d’Aosta
ma come abbiamo potuto notare non venne affatto sostenuto dal governo di Roma ma quasi
sopportato. Peraltro al comando supremo in Italia ci si convinse, al contrario, che l’Africa
orientale non rappresentasse un vantaggio strategico ma un peso morto di cui disfarsi nel più
breve tempo possibile o di utilizzarlo come moneta di scambio. Dato che però non si poteva
cedere il territorio africano senza colpo ferire per qustioni politiche e di prestigio, venne
ordinato a tutti i comandanti dello scacchiere orientale di organizzare dei ridotti difensivi in
ciascuna delle più importanti zone dell’impero e di resistere ad oltranza con i propri mezzi.
Vennero abbandonate quindi tutte quelle zone pianeggianti che avrebbero consentito una
facile libertà di movimento ai mezzi corazzati nemici ed alle grandi unità alleate e ci si rintanò
in zone montagnose. Il primo attacco deciso alle forze italiane avvenne il 20 gennaio 1941
quando la 4° divisione indiana attaccò nella zona di Cassala ma venne respinta dopo tre giorni
di aspri combattimenti. Nonostante la vittoria il comando supremo decise di arretrare le forze
verso Agordat ed il bastione di Cheren ma i britannici approfittarono di questo ripiegamento,
riuscirono a dividere in due le forze italiane ed gli inflissero gravi perdite. Il 2 febbraio
cominciò l’attacco alla ridotta di Cheren, porta occidentale per arrivare ad Asmara, con gli
inglesi abbastanza convinti che avrebbero avuto vita facile contro i resti di quello che era il
corpo d’armata italiano nella zona: in effetti nel sistema difensivo italiano non venne lasciata
nemmeno una divisione integra, ma solo delle brigate miste, le quali, secondo gli strateghi
britannici, non avrebbero dovuto creare particolari problemi alle forze attaccanti. In verità,
come spesso accade, la realtà assunse contorni ben diversi da quelli ipotizzati dagli inglesi:
qualche giorno prima della battaglia l’alto comando italiano prese la decisione (una delle
_______________________________

414 F. Bandini, Gli italiani in Africa – Le guerre coloniali dal 1882 al 1943, Eredi Bandini, Milano, 2019, Pag. 446-448.
133

poche azzeccate della nostra guerra, ndr) di dare il comando delle truppe al generale
Carnimeo415, soldato di grande spirito combattivo nonché di un eccezionale senso tattico.416
Sotto il suo comando, granatieri, bersaglieri, alpini, artiglieri, ascari e cavalleria lottarono con
accanimento e ferocia per cinquantasei giorni contro forze soverchianti, scrivendo una delle
pagine più belle come valore e perizia militare dell’intera guerra e solo il 27 marzo 1941,
grazie all’intervento dello squadrone “B” del 4° Royal Tank Regiment417, il fronte italiano
venne sfondato, anche se più di un cedimento improvviso si potè parlare di una naturale
breccia dovuta all’ormai sottilissima linea difensiva. Al termine della battaglia di Cheren gli
italiani contarono 12.437 morti e 21.700 feriti, gli inglesi ebbero circa 5000 morti ed un
numero superiore di feriti.418

Da quel momento la strada per Asmara era aperta e la capitale dell’Eritrea fu occupata
il 31 marzo e Massaua il 7 aprile. Gli inglesi concessero l’onore delle armi agli eroici
difensori della Colonia Primigenia (un contentino, commentò acidamente Mussolini) e dall’11
aprile il Mar Rosso fu dichiarato navigabile per le navi statunitensi che portavano i
rifornimenti alle truppe britanniche in Egitto, proprio nel momento in cui Rommel419 stava
lanciando una potente controffensiva in Libia.

_________________________________

415
Carnimeo, Nicolangelo. – Generale e magistrato (Bari, 1887 – Napoli, 1965). Laureato in giurisprudenza, scienze
politiche e sociali, fu nominato ufficiale nel 1909. Combattente nella guerra italo turca e nella prima guerra mondiale, dal
1940 al 1941 fu comandante della seconda divisione Coloniale dell'Africa Orientale Italiana, nonché ufficiale del X Comando
di Difesa Territoriale. Fu artefice con il generale Orlando Lorenzini della difesa della colonia eritrea dagli attacchi britannici
del generale William Platt, nonostante la successiva capitolazione alle armi alleate durante la battaglia di Cheren. Il 27 marzo
1941 fu promosso, per merito di guerra, a generale di divisione. Catturato dagli inglesi, il generale Carnimeo fu internato in
una campo di concentramento. A posteriori gli stessi avversari inglesi ebbero parole di elogio per l'ottima condotta difensiva
della piazzaforte nei 56 giorni di accanito assedio, attuata in condizioni militari inferiori. A sua volta il generale Carnimeo
rese omaggio al valore delle truppe indiane. A tuttora, il Generale è considerato dagli storici, per quanto dimostrò nella difesa
di Cheren, uno dei migliori generali italiani della seconda guerra mondiale. Nel dopoguerra raggiunse il grado di generale di
corpo d’armata e dopo il congedo ricoprì la carica di consigliere di Stato addetto alla 3ª sezione consultiva di Roma. Il 28
novembre 1957 fu nominato Cavaliere di Gran Croce Ordine al Merito della Repubblica Italiana.

416 E. Biagi, La seconda guerra mondiale – Uomini e fatti, testimoni e documenti, Vol. II, Fabbri, Milano, 1995, Pag. 558-61.

417 I reggimenti carri britannici erano dotati, tra gli altri, del carro pesante Matilda II da 28 ton. dotato di una corazza

impenetrabile per le armi anticarro italiane, basate principalmente sul fucilone controcarri Breda da 20 mm. e dal cannone
controcarro 47/32 da 47 mm. nonché per le armi dei carri italiani L/3, L/6 e M/13. Lo stesso carro Matilda era già stato
artefice dello sfondamento britannico in Egitto a Sidi Barrani ed alla successiva avanzata britannica in Cirenaica nel 1940.

418 G. F. Ghergo, La battaglia di Cheren, Storia Militare n. 213 giugno 2011, Albertelli, Parma, 2011, Pag. 36-48.

419 Rommel, Erwin Johannes. - Generale tedesco (Heidenheim, Württemberg, 1891 – Ulma 1944). Partecipò alla prima
guerra mondiale, segnalandosi nelle campagne di Francia (1914-15), di Romania (1916), d'Italia (1917); aderì fin dall'inizio
al partito nazista e vi divenne membro delle sezioni d'assalto. Le sue moderne teorie sull'impiego dei carri gli valsero il
comando della scuola militare di Wiener Neustadt (1938). Nella seconda guerra mondiale partecipò alla campagna di Polonia
come colonnello addetto al quartier generale di A. Hitler; quindi (1940) comandò la 7a divisione corazzata che, dopo lo
sfondamento sulla Mosa, puntò direttamente su Abbeville, dividendo in due l'esercito francese. Inviato in Libia alla testa
dell'Afrika Korps (1941), vi si rivelò capo militare di grande talento tattico e audacia, nel corso delle offensive del gennaio e,
più ancora, del giugno 1942, quando fulmineamente conquistò Tobruch e portò gli Italo-Tedeschi ad el-῾Alamein, per cui fu
nominato feldmaresciallo; ma tale azione determinò, per l'allontanamento dalle basi, uno dei presupposti che, con la
superiorità degli uomini e dei mezzi, consentì la vittoriosa controffensiva del maresciallo Montgomery; dopo strenua
resistenza (23 ott. - 2 nov. 1942), R. dovette abbandonare l'Egitto e la Libia, ma effettuando assai abilmente il ripiegamento
fino in Tunisia. Rimpatriato, comandò le truppe che, dopo il 25 luglio 1943, invasero la Valle Padana; nel 1944 fu nominato
ispettore del Vallo atlantico, quindi comandante del gruppo d'armate B della battaglia di Normandia, durante la quale, il 17
giugno, fu gravemente ferito. Nel corso della guerra R. era diventato sempre più critico nei confronti della politica di Hitler
che, dopo l'invasione della Normandia, sollecitò a una pace separata con gli Alleati occidentali; dopo l'attentato al Führer, pur
trovandosi ancora convalescente in ospedale, fu sospettato di esserne coinvolto: costretto a scegliere il suicidio o il processo
pubblico, R. si uccise.
134

Se la conquista dell’Eritrea non venne considerata dagli inglesi una passeggiata di


salute, altrettanto non si potè affermare per quanto riguarda la Somalia; nonostante il viceré
Amedeo d’Aosta avesse preparato per anni un campo trincerato intorno a Chisimaio ed avesse
disposto di dividere le forze in due gruppi, uno a Chisimaio ed uno a Dolo in modo da poter
affrontare e colpire le forze inglesi nelle retrovie o obbligarle ad attaccare la bene attestata
guarnigione di Dolo, i generali Giulio De Simone (comandante della Somalia) ed il suo pari
grado Gino Santini decisero di abbandonare Chisimaio e di attestare la difesa lungo il fiume
Giuba, disposti su un fronte di 600 km. e con facili guadi sul fiume in quel periodo in secca.
Come prevedibile le forze attaccanti non ebbero alcun problema ad oltrepassare il fiume e ad
annientare la scarsa resistenza italiana, l’attacco venne lanciato il 20 gennaio ed il 25 febbraio
le prime avanguardie britanniche entrarono a Mogadiscio. Più a nord, in Etiopia, le
avanguardie inglesi entrarono ad Addis Abeba il 6 aprile ed Hailé Selassié vi rientra il 5 di
maggio; l’Africa Orientale Italiana è ormai persa ma gli italiani tentano di prolungare al
massimo la resistenza sia per le ripercussioni che un’efficace difesa può avere sugli altri fronti
e sia per questioni morali, di valore militare. Una sacca di resistenza si era formata
spontaneamente a Gondar, nell’Amhara, comandata dal generale Guglielmo Nasi420, una
seconda sacca venne formata nella regione dei Laghi ed una terza, per ordine dello stesso
viceré, sull’Amba Alagi. Quest’ultima ridotta, composta da circa 4000 uomini è la prima a
venire attaccata dalle forze britanniche il 1° maggio 1941 e dopo una rabbiosa quanto inutile
resistenza il duca d’Aosta si arrende la sera del 17 maggio per evitare ulteriori sofferenze ai
feriti ed ai pochi superstiti. Anche in questo caso gli inglesi concedono l’onore delle armi ai
difensori dell’Amba Alagi. La seconda sacca a cadere è quella della regione dei Laghi che
combatte fino al 10 di luglio, mentre la sacca di Gondar, quella più grande forte di circa
40.000 uomini ma che scarseggiano praticamente di tutto resistono stoicamente fino al 27
_________________________________

420 Nasi, Guglielmo. – Generale e politico (Civitavecchia, 1879 – Modena, 1971) Dopo l'entrata in guerra dell'Italia,
avvenuta il 24 maggio 1915, si distinse in forza all'artiglieria, in particolare nel corso del 1917, ed al termine del conflitto
risultava decorato con altre tre Medaglia d'argento al valor militare, ed aveva raggiunto il grado di tenente colonnello. Dopo
lo scoppio della guerra d’Etiopia, Nasi fu impegnato sul fronte sud al comando della 1° Divisione fanteria “Libia”, alle
dipendenze del generale Rodolfo Graziani. In questo frangente portò le sue truppe a scontrarsi con le truppe etiopi al
comando di Wehib Pascià, un generale turco al servizio dell'imperatore etiopico. Wehib cercò di attirare l'armata italiana in
una trappola facendola spingere il più possibile nel deserto dell'Ogaden. Ma nello svolgimento di tale operazione i reparti
italiani al comando di Nasi, e del generale Navarra, fecero fallire l'operazione infliggendo gravissime perdite agli abissini e
mettendo a repentaglio la stessa sopravvivenza dell'armata di Wehib Pascià. Al termine della campagna d'Etiopia fu nominato
governatore dell'Harar, ricoprendo tale incarico dal 1936 al 1939, quando assunse quello di governatore dello Scioà che
ricoprì fino al 1940 (cumulando anche la carica con quella di vice governatore dell'AOI). La sua politica di governo fu
caratterizzata da una forte azione moralizzatrice dell'amministrazione civile e militare. Si dimostrò anche un abile
diplomatico nella gestione delle relazioni con le diverse tribù indigene, alternando l'utilizzo della forza con la trattativa.
Sostenne, inoltre, il viceré Amedeo d’Aosta nella sua azione di collaborazione con i notabili, inclusi i dissidenti, e in quella di
avvicinamento alle popolazioni etiopi. Con l'entrata in guerra dell'Italia, avvenuta il 10 giugno 1940, venne inoltre nominato
comandante in capo dello scacchiere Est delle Forze Armate dell’A.O.I. In questo ruolo organizzò e guidò personalmente una
fortunata campagna contro il Somaliland britannico, impiegando gli ascari. L'ultima piazzaforte nell'Africa orientale italiana
fu completamente conquistata dagli inglesi a Gondar (Etiopia), Nel 1941 l'equilibrio delle forze nel corno d’Africa cambiò
decisamente costringendo le forze italiane ad assumere una posizione difensiva. Nasi, rimasto completamente isolato,
combatté la battaglia di Gondar. Il 27 novembre 1941 iniziò l'attacco finale degli inglesi diretto subito sull'aeroporto di
Azozo. Nella mattinata cadde Azozo e le truppe britanniche raggiunsero il castello di Fasilades. Alle 14.30 il generale
Guglielmo Nasi inviò in Italia l'ultimo dispaccio: «La brigata di riserva, lanciata sul fronte sud, non è riuscita a contenere
l'attacco. Il nemico ha già superato il reticolato e i mezzi blindati sono penetrati in città. Ritengo esaurito ogni mezzo per
un'ulteriore resistenza ed invio i parlamentari». Poco dopo il comando italiano di Gondar fu preso d'assalto e costretto alla
resa. Il 30 novembre deposero le armi gli italiani negli ultimi presidi che ancora resistevano. Guglielmo Nasi fu l'ultimo
comandante italiano ad arrendersi nell'Africa Orientale Italiana il 28 novembre 1941. Fatto prigioniero, fu inviato in un
campo di prigionia nel Kenya insieme al duca Amedeo d'Aosta, e quando costui morì, Nasi assunse la leadership dei circa
60.000 prigionieri italiani. Dopo l'armistizio dell'8 settembre 1943, si schierò con il governo del Maresciallo d’Italia Pietro
Badoglio. Gli fu consentito di rientrare in Italia solo nel novembre 1945 per presentarsi davanti all'Alta Corte di Giustizia e
difendersi dalla denuncia presentata contro di lui dall'Alto Commissario per le sanzioni contro il fascismo.
135

novembre. Con la perdita della piazzaforte di Gondar termina l’avventura italiana in Africa
orientale, l’impero è perduto ed il sacrificio di molti uomini coraggiosi non è neppure servito
ad evitare che ingenti quantità di rifornimenti e rinforzi giungano in Egitto. La strada che
porta diretta ad El Alamein421 è ormai già pronta; quando il 22 ottobre 1942 l’artiglieria
britannica inizierà a martellare le postazioni dell’Asse422 il rapporto di forze tra
Commonwealth e italo-tedeschi sarà di 10 a 1. La battaglia egiziana sarà insieme a quella di
Stalingrado423, più o meno contemporanea, il punto di non ritorno per le forze tedesche ed i
loro alleati in Europa.424

_________________________________

421El-‛Alamèin. Località del deserto egiziano, posta circa 80 km a O di Alessandria, dove tra il giugno e il novembre 1942 si
confrontarono le forze italo-tedesche guidate dal feldmaresciallo E. Rommel e quelle britanniche. Lo scontro decisivo
avvenne a partire dal 24 ottobre, quando l’offensiva lanciata dall’8ª Armata agli ordini del generale B. Montgomery riuscì a
vincere la resistenza nemica, aprendo definitivamente la strada verso la Libia.

422
È la politica d'intesa fra la Germania hitleriana e l'Italia fascista (1936-43), inaugurata dagli accordi di Berlino del 23
ottobre 1936 e sancita col "patto d'acciaio" del 22 maggio 1939.

423 Stalingrado. Una delle più importanti battaglie del fronte russo-tedesco durante la Seconda guerra mondiale, che ebbe
come teatro la città russa. Con l’attestamento delle armate tedesche sul Don (ag. 1942), S. aveva assunto un notevole valore
strategico, infatti con la sua conquista i tedeschi si sarebbero impadroniti della maggiore via acquea di rifornimento della
Russia e di una grande base per le operazioni in corso in Caucasia e nel Kuban′. Per i russi la perdita di S. avrebbe
rappresentato la fine dei rifornimenti di grano e di petrolio, nonché la realizzazione della manovra tedesca di accerchiamento
di Mosca. Nel sett. 1942, dopo violenti combattimenti, le truppe tedesche riuscirono a penetrare nella città e, malgrado
l’imponente sistema di fortificazioni approntate dai russi sulle alture intorno a S., l’avanzata tedesca proseguì. Tuttavia, non
riuscirono a conquistare Voronezh, che per la sua posizione li esponeva a un attacco da nord che li avrebbe tagliati dal grosso
delle forze tedesche. La controffensiva russa ebbe inizio in nov., riuscendo a compiere la manovra di accerchiamento delle
truppe tedesche, che furono costrette al ripiegamento. Ma Hitler vietò sia di ritirare la 6° armata dalla città sia di accettare
l’offerta di capitolazione e il 10 genn. 1943 il comando russo scatenò una massiccia offensiva che si concluse con la resa
delle forze tedesche ed enormi perdite. La battaglia di S. segnò la fine dell’impulso offensivo tedesco e l’inizio del tracollo
militare della Germania.

424 E.
Biagi, La seconda guerra mondiale – Uomini e fatti, testimoni e documenti, Vol. II, Fabbri, Milano, 1995, Pag. 562-70.
136

CAPITOLO V
Il dopoguerra, dalla perdita delle colonie all’A.F.I.S.
5.1. Via dall’Africa: i profughi e la situazione postbellica.

Al termine del secondo conflitto mondiale tutti i paesi titolari di colonie d’oltremare
rientrarono in totale possesso dei territori in questione, o meglio, tutti tranne l’Italia e il
Giappone (ma la questione coloniale del paese asiatico non è argomento di questo studio). Fu
evidente fin da subito che se i possedimenti europei le sarebbero stati immediatamente tolti
(restituzione della piena sovranità all’Albania e restituzione alla Grecia del Dodecanneso,
oltre alla ricostituzione territoriale della Yugoslavia alla quale sarebbero state anche cedute
l’Istria e la Dalmazia oltre a buona parte della Venezia Giulia), per le colonie africane il
discorso sarebbe stato un po’ più complesso. A questo punto bisogna fare un piccolo passo
indietro e valutare il pensiero delle grandi potenze già durante il conflitto: dal punto di vista
della questione coloniale gli ideali degli Stati Uniti (ed Unione Sovietica pur con motivazioni
differenti) non potevano essere più diversi rispetto a quelli di Gran Bretagna e Francia. Il
presidente Roosevelt425 fin dal suo primo incontro con Churchill (Argentia, 1941) affrontò la
questione coloniale richiedendo, in cambio dell’intervento in guerra a fianco della Gran
Bretagna (senza essere attaccati), l’abolizione delle barriere doganali ed una totale
liberalizzazione del commercio tramite la liquidazione degli imperi coloniali. Con la
dichiarazione comune della Carta atlantica il testo espresse decisamente il punto di vista
americano, affermando infatti che ogni popolo avesse il diritto di scegliersi la forma di
governo sotto la quale intendessero vivere. Naturalmente gli inglesi ne dettero
un’interpretazione restrittiva facendo credere che esso intendesse solo i paesi europei e che
l’idea non andasse certo estesa alle colonie. I britannici avrebbero voluto seguire la stessa
politica adottata alla fine della prima guerra mondiale: punire i nemici sconfitti togliendo loro
le colonie (ed appropriandosene come successe in Africa e Asia nel 1919). Naturalmente in
Europa l’unico paese nemico possessore di colonie d’oltremare era l’Italia e quindi la
discussione venne fatalmente rivolta ai nostri possedimenti africani (oltre ad alcune
concessioni in territorio cinese come Tientsin ed altre minuscole a Pechino e Shanghai). Un
memorandum inviato al presidente Roosevelt dal consigliere ed amico Harry Hopkins426
__________________________

425Roosevelt, Franklin Delano. - Uomo politico statunitense (New York, 1882 - Warm Springs, 1945). Fu presidente degli
Stati Uniti per quattro mandati consecutivi, dal 1933 al 1945. Governò il paese in due dei più difficili periodi della sua storia:
quello seguente la crisi economica scoppiata nel 1929 e la Seconda guerra mondiale. Con il suo programma di riforme
economiche (New deal ) e la sue capacità strategiche e diplomatiche si rivelò un grande leader che portò il suo Paese alla
posizione di superpotenza e di guida dell'Occidente.

426
Hopkins, Harry Lloyd. - politico statunitense (Sioux City, 1890 – New York, 1946). Fu il principale collaboratore del
presidente F. D. Roosevelt sia durante il New Deal come responsabile supremo dei programmi di sviluppo economico e di
lotta alla disoccupazione, sia durante la seconda guerra mondiale dove assunse il ruolo di consigliere del presidente in campo
politico, diplomatico e anche militare come responsabile della Legge Affitti e Prestiti e membro estremamente influente delle
delegazioni statunitensi alle grandi conferenze tra gli Alleati. Fautore di una stretta collaborazione con l'Unione Sovietica di
Stalin durante la guerra e di una prosecuzione dell'alleanza anche dopo il conflitto, continuò all'inizio della nuova
amministrazione Truman, nonostante fosse ormai gravemente malato, ad impegnarsi per raggiungere un accordo con Stalin
ed evitare la Guerra fredda.
137

descrisse molto bene la posizione statunitense riguardo alle colonie italiane:

1. Non si dovrebbero togliere territori all’Italia soltanto per punire un nemico sconfitto o
per ricompensare un alleato.
2. Gli aspetti etnici dovrebbero predominare, anche se saranno tenuti presenti quelli
economici e strategici.
3. Riguardo alle colonie la prima considerazione dev’essere il benessere delle
popolazioni indigene; gli altri imperi coloniali non devono ingrandirsi a spese delle
colonie italiane, e se le colonie italiane fossero messe sotto amministrazione
internazionale, ci si dovrebbe impegnare a sottoporre a simile amministrazione almeno
anche altri possessi coloniali.427

Questo appunto fa capire molto bene come le posizioni anticolonialiste degli


americani fossero rivolte principalmente contro i grandi imperi coloniali come la Francia e la
Gran Bretagna e dato che gli inglesi, in quel momento, occupavano le colonie italiane, un
aumento dell’influenza britannica in Africa trovava poca disponibilità se non aperta
opposizione da parte americana. Ma se la posizione statunitense prevedeva che l’Italia
avrebbe dovuto conservare, salvo piccole modifiche la propria integrità territoriale, quella
britannica era radicalmente opposta. Ancora prima dell’invasione dei balcani, all’inizio del
1941, il governo inglese aveva dichiarato a quello yugoslavo, per rafforzare la resistenza in
caso di penetrazione tedesca, che l’appartenenza dell’Istria avrebbe potuto essere ridiscussa;
nel 1942 circolò la voce di togliere all’Italia la Sicilia e la Sardegna oltre alle isole di
Lampedusa, Linosa e Pantelleria per la loro posizione strategica. Nei confronti delle colonie
poi il governo inglese era sempre stato chiaro nella contrarietà alla loro restituzione a Roma.
Nel marzo del 1944 il Foreign Office428 britannico preparò un documento riguardo alla
sistemazione delle colonie italiane nel quale si sosteneva di togliere all’Italia tutti i suoi
possedimenti africani, tranne la Tripolitania, territorio assolutamente improduttivo e quindi
non certo appetibile da altre potenze. Il documento prevedeva quindi di smembrare l’Eritrea
dividendola tra il Sudan e l’Etiopia, accorpare la Somalia italiana con quella inglese sotto
l’amministrazione inglese, dividere la Libia in tre con la Cirenaica autonoma sotto sovranità
egiziana, la Tripolitania all’Italia ed il Fezzan alla Francia (che in quel momento lo
occupava). Questo memorandum avrebbe dovuto rimanere segreto ma per un’incredibile
svista venne inviato al comando britannico in Algeria attraverso i canali del comando
unificato venendo quindi letto anche dagli americani. La risposta a stelle e striscie non si fece
attendere dichiarando che gli Stati Uniti non erano in grado di esprimere un’opinione in quel
momento o di prendere impegni di alcun tipo. Inoltre gli americani volevano essere liberi di
ascoltare eventuali richieste sovietiche in merito alle colonie italiane e queste arrivarono
puntualmente con la conferenza di Potsdam nel luglio del 1945 prospettando
un’amministrazione fiduciaria congiunta di Urss, Usa e Gran Bretagna per le ex colonie
italiane. Durante la suddetta conferenza vi fu un vivace scambio di battute polemiche tra

___________________________

427E.Aga Rossi, Il futuro delle colonie italiane nella politica inglese e americana durante la seconda guerra mondiale, Fonti e
problemi della politica coloniale italiana, Atti del convegno Taormina-Messina, 23-29 ottobre 1989, Vol. II, Minist. per i
beni cult. e amb., Roma, 1996, Pag. 781.

428
Ministero degli affari esteri di Gran Bretagna.
138

sovietici e inglesi riguardo alle ormai ex colonie italiane: Stalin429 chiese retoricamente che
sorte avrebbero avuto le colonie italiane e Churchill rispose che gli inglesi le avevano
conquistate con grosse perdite; a quel punto Stalin replicò che l’Armata Rossa aveva preso
Berlino subendo pesanti perdite ma non per questo l’aveva reclamata e la nuova replica di
Churchill sottolineò il fatto che la Gran Bretagna, nonostante le gravi perdite subite e la
situazione economica per niente florida non avesse fatto nessuna richiesta territoriale al
contrario dell’Unione Sovietica che oltre a riprendersi i territori a lei assegnati dal patto
Molotov430-Ribbentrop431 (Stati Baltici, la parte orientale della Polonia oggi parte della
Bielorussia e la Bessarabia, oggi Moldavia) si era impadronita anche della Prussia orientale. Il
problema economico-strategico britannico, l’apparizione della Russia nel Mediterraneo
avrebbe cambiato i rapporti di forze in quel settore da sempre dominio inglese, doveva quindi
essere discusso a bocce ferme e cioè alla fine del conflitto ed il Regno Unito finì con
l’accettare il piano americano che prevedeva una gestione congiunta delle ex colonie italiane
sotto l’egida delle Nazioni Unite. Una nuova richiesta sovietica di amministrazione della
Tripolitania fece si che le potenze occidentali rinviassero la soluzione del problema,
addirittura staccandola dalle conclusioni del trattato di pace di Parigi del 1947. Da parte
britannica si finì quindi con l’assicurarsi l’appoggio americano per formare un fronte
occidentale che si contrapponesse alle richieste sovietiche.432

La posizione dell’Italia era chiara fin dal luglio 1945 quando una lettera
dell’ambasciatore italiano negli Stati Uniti, Tarchiani, invitava il nuovo presidente americano

_________________________________

429
Stalin, Iosif Vissarionovič. - Pseudonimo del rivoluzionario e uomo di stato sovietico I. V. Džugašvili (Tiflis, 1879 -
Mosca 1953). Nel 1904, aderì al bolscevismo, partecipando poi agli avvenimenti rivoluzionarî del 1905. Da quest'epoca sino
al 1917 S. emerse sempre più dall'attività provinciale di partito nel Caucaso, per imporsi sul piano nazionale. Nel 1912 fu
chiamato a far parte del comitato centrale del partito; nel 1913 con il saggio Marksizm i nacional′nyj vopros ("Il marxismo e
il problema nazionale", 1913), nel quale svolse le idee di Lenin sul problema delle nazionalità, acquisì una certa notorietà
negli ambienti rivoluzionarî. Tornato a Pietrogrado nel marzo 1917, assunse con Kamenev la direzione della Pravda,
aderendo in aprile alle tesi rivoluzionarie di Lenin. Membro del Politbjuro dall'ott. 1917, dopo la rivoluzione fu commissario
del popolo alle Nazionalità (1917-23) e commissario del popolo all'Ispezione operaia e contadina (1919-23). Nel 1922
assunse la carica di segretario generale del comitato centrale, posizione di carattere più organizzativo che politico, che gli
permise di esercitare un crescente controllo sull'apparato del partito e dello stato. Dopo la morte di Lenin, S. intraprese
un'accanita lotta contro Trockij; base ideologica del contrasto fu la contrapposizione fra la teoria staliniana del "socialismo in
un solo paese", incentrata sull'autosufficienza della rivoluzione russa, e la visione rivoluzionaria di Trockij, che inseriva il
processo di edificazione del socialismo in un più ampio fenomeno di carattere internazionale.

430 Molotov, Vjačeslav Michajlovič. - Pseudonimo dell'uomo di stato sovietico V. M. Skrjabin (Kukarka, 1890 - Mosca
1986). Bolscevico dal 1906, più volte arrestato e confinato, dopo la rivoluzione d'ottobre ricoprì varie cariche nelle
organizzazioni di partito e dal 1921 al 1930 fu segretario del comitato centrale. Stretto collaboratore di Stalin, fu membro
supplente (1921-26) del Politbjuro e dal 1926 al 1952 membro effettivo. Presidente del consiglio dei commissarî del popolo
dal 1930 al 1941, come commissario del popolo agli Esteri (1939-49) firmò il patto di non aggressione con la Germania e i
successivi accordi sulla spartizione dell'Europa centro-orientale (ag.-sett. 1939) e partecipò alle conferenze di Teheran, Yalta
e Potsdam (1943-45).

431 Ribbentrop, Joachim von. - Uomo politico tedesco (Wesel 1893 – Norimberga 1946). Ministro degli Esteri (1938), operò

affinchè la politica espansionistica di A. Hitler fosse sostenuta da solide basi diplomatiche: nel 1939 concluse il Patto
d'acciaio con l'Italia e il patto di non aggressione tedesco-sovietico; nel 1940 siglò il Patto tripartito (Germania, Italia e
Giappone).

432E.Aga Rossi, Il futuro delle colonie italiane nella politica inglese e americana durante la seconda guerra mondiale, Fonti e
problemi della politica coloniale italiana, Atti del convegno Taormina-Messina, 23-29 ottobre 1989, Vol. II, Minist. per i
beni cult. e amb., Roma, 1996, Pag. 771-792.
139

Truman433, succeduto a Roosevelt dopo la morte di quest’ultimo nell’aprile 1945, a “non


colpire il modesto patrimonio africano dell’Italia in Africa” e nell’ottobre dello stesso anno
ricordava che “le sfavorevoli condizioni delle colonie italiane hanno richiesto grossi
investimenti. L’unico paese che abbia interesse a continuare quest’opera è l’Italia”.434

In occasione della conferenza tenutasi a Londra tra il settembre e l’ottobre 1945 la


posizione americana riguardo alla condizione delle colonie italiane cominciò a mutare in
seguito ad alcune evidenze:

• Le colonie italiane erano state utilizzate principalmente a scopi militari;


• L’enorme onere economico che le colonie avevano rappresentato per la madrepatria
non poteva certo essere ripristinato nel momento in cui, negli Stati Uniti, venivano
raccolti fondi per il soccorso dell’Italia;
• Per quanto concerne la Libia, non poteva essere sconfessato l’impegno preso dal
Governo britannico l’8 gennaio 1942.435

Il Segretario di Stato americano Byrnes436 dopo un iniziale appoggio alle richieste


italiane di restituzione delle colonie, dovette rivedere le proprie opinioni e presentare un
nuovo memorandum che prevedeva le seguenti proposte:

• La Libia sarebbe diventata indipendente nel giro di dieci anni, durante i quali sarebbe
stata amministrata fiduciariamente sotto l’egida dell’ONU:
• Stesso trattamento anche per l’Eritrea con la cessione all’Etiopia della baia di Assab in
modo da consentirle uno sbocco sul mare;
• Anche la Somalia sarebbe stata sottoposta ad una amministrazione fiduciaria
collettiva (dei paesi vincitori) senza una data fissata di indipendenza.437

__________________________

433 Truman, Harry Spencer. - Uomo politico statunitense (Lamar, 1884 – Kansas City, 1972). Democratico e vicepresidente

di F. D. Roosevelt (1944), ne fu il successore alla presidenza (1945). Fautore del "contenimento" del comunismo, formulò la
cd. dottrina T., che garantiva il sostegno degli Stati Uniti ai paesi che ne fossero minacciati, promuovendo il piano Marshall
per la ricostruzione dell'Europa. Rieletto (1948), promosse l'istituzione della NATO (1949) e l'intervento in Corea (1950),
evitando però l'allargamento del conflitto ad altri paesi.

434 G.P. Calchi Novati, Il Corno d’Africa nella storia e nella politica, SEI, Torino, 1994, Pag. 84.
435
In occasione della seconda occupazione britannica della Cirenaica, il Ministro degli Esteri britannico così si espresse in
parlamento: «Il Sayyd Idris el-Senusi prese contatto con le autorità britanniche in Egitto entro un mese dalla resa della
Francia, in un momento in cui la situazione militare in Africa era per noi sfavorevolissima. Un corpo senussita fu
conseguentemente arruolato tra quei suoi seguaci che erano sfuggiti all’oppressione italiana in vari tempi durante gli ultimi
vent’anni. Detto corpo ha svolto notevoli servizi ausiliari durante le recenti operazioni nel deserto occidentale nell’inverno
1940/41, e sta nuovamente svolgendo una parte utile nella campagna in corso. Colgo l’occasione per esprimere il vivo
apprezzamento del Governo di Sua Maestà per il contributo che il Sayyd Idris el-Senusi e i suoi seguaci hanno dato e stanno
dando allo sforzo di guerra britannico. Noi accogliamo di buon grado la loro collaborazione con le forze di Sua Maestà
nell’impresa di sconfiggere i nemici comuni. Il Governo di Sua Maestà ha deciso che alla fine della guerra i Senussi della
Cirenaica in nessun caso ricadano sotto la dominazione italiana». (G. Rossi, Alle origini dell’indipendenza libica: la
dichiarazione britannica dell’8 gennaio 1942 sulla Cirenaica, Africa, Anno 32, n. 4, Dicembre 1977).

436
Byrnes, James Francis. - Uomo politico statunitense (Charleston, 1879 - Columbia, 1972), deputato democratico al
Congresso per la Carolina del Sud (1910-24), poi senatore (1930), contribuì attivamente alla legislazione del New Deal
roosveltiano. Giudice della Corte Suprema nel 1941-42, direttore della mobilitazione di guerra (1943).

437
G. Rossi, L’Africa italiana verso l’indipendenza (1945 – 1949), Giuffrè, Roma, 1980, Pag. 110-111.
140

Prima di proseguire cronologicamente con il destino delle ormai ex colonie italiane,


analizziamo i motivi per cui una vera e propria decolonizzazione non si compì nei
possedimenti italiani in Africa e principalmente nei paesi del Corno. Escludendo l’Etiopia
che, come abbiamo già evidenziato, a causa dei pochissimi anni di occupazione (solo cinque,
anche se il regime tentò, come abbiamo visto precedentemente, in tutti i modi durante questo
breve periodo, di fare del paese del Negus una colonia modello), non necessitò di una fase di
decolonizzazione in quanto lo stesso Negus Hailè Selassiè venne rimesso al suo posto dai
britannici già nel 1941, la situazione in Eritrea ed in Somalia fu ben diversa. Come prima
considerazione dobbiamo notare che il Ministero dell’Africa Italiana, istituito con r.d. 8
dell’aprile 1937, n. 431, in sostituzione del precedente Ministero delle colonie e soppresso
con la legge n. 430 del 29 aprile 1953, rivendicò con forza fino al 1949 la restituzione delle
colonie all’Italia. Se consideriamo inoltre che il Ministro ad interim dell’Africa italiana fu
durante la Repubblica sempre il Presidente del Consiglio Alcide De Gasperi438, possiamo
facilmente capire quale fosse la posizione dell’intero Governo italiano riguardo alla questione
coloniale.
Dobbiamo evidenziare come il tentativo da parte del Governo italiano di riottenere le
colonie dai vincitori, volesse in primo luogo evitare che eventuali insuccessi in politica estera
portassero le conseguenze del 1919, generando quindi proteste nazionaliste e populiste dagli
esiti pericolosi. Non si cercò quindi di ottenere un ennesimo successo che avrebbe accresciuto
il prestigio diplomatico ma il tentativo di avvicinamento a Londra e Washington per ottenere
degli aiuti in tal senso non sortì gli effetti sperati. La posizione strategica dell’Eritrea e della
Somalia nel Mar Rosso e nell’Oceano Indiano nel nuovo scacchiere della guerra fredda
bloccò per sempre il ritorno di quei paesi alla madrepatria italiana. I numerosi circoli
colonialisti italiani ed il Governo che li appoggiava, non si resero conto di questa fase
completamente nuova della storia postbellica anche perché pochi nel governo italiano
avevano esperienza in questioni coloniali e chi ce l’aveva era stato funzionario o pubblicista
del regime e quindi poco affidabile.439 Proprio tra gli uomini che fecero parte
dell’amministrazione coloniale e del Ministero dell’Africa Italiana possiamo trovare un’altra
ragione della mancata decolonizzazione dei paesi africani; Il 27 luglio 1944 fu emanato il
decreto legislativo luogotenenziale n. 159: "Sanzioni contro il fascismo", che regolava
l'epurazione dell'amministrazione pubblica e, all'art. 40, istituiva l'"Alto Commissariato per le
Sanzioni contro il Fascismo". Vennero poi articolate le Delegazioni Provinciali. L'Alto
Commissariato aveva il compito di "dirigere e vigilare sull'operato di tutti gli organi che
irrogavano le sanzioni contro i fascisti" (art. 41). Questi processi vennero istituiti sia nelle
forze armate che nella pubblica amministrazione ed in conseguenza il Ministero dell’Africa
_______________________________
438 De Gàsperi, Alcide. - Statista (Pieve Tesino, 1881 - Sella di Valsugana 1954). Deputato del collegio di Fiemme nel 1911,
prese posizione per una sempre più completa autonomia trentina, finché il 25 ott. 1918, insieme con gli altri deputati italiani
al parlamento di Vienna, proclamò la volontà delle popolazioni trentine di essere annesse all'Italia. Dopo l'annessione egli, tra
i membri più in vista del Partito popolare italiano, fu deputato alla Camera (1921). Ostile al fascismo, dopo la marcia su
Roma sostituì L. Sturzo, andato in volontario esilio, alla direzione del partito e fu membro attivo del Comitato dell'Aventino;
fu condannato a 4 anni di carcere per antifascismo. In seguito fu impiegato nella Biblioteca Vaticana. Riorganizzò durante la
Resistenza il Partito popolare con il nome di Democrazia cristiana; dopo la liberazione di Roma, fece parte del ministero
Bonomi come ministro senza portafogli. Ministro degli Esteri nel secondo gabinetto Bonomi e in quello Parri (dic. 1944 - dic.
1945), fu poi ininterrottamente presidente del Consiglio fino all'ag. del 1953, governando dapprima insieme coi socialisti e
coi comunisti e, dopo il 31 maggio 1947, con la partecipazione soltanto dei partiti di centro. Tentò poi, nel breve ministero
del 16 luglio 1953, un governo di soli democristiani.
439 N. Labanca, Oltremare. Storia dell’espansione coloniale italiana, Il Mulino, Bologna, 2002, Pag. 429-434.
141

Italiana, con tutti i suoi dirigenti compromessi con le politiche imperialiste del regime, fu
quello che finì tra i primi sotto la lente dell’Alto Commissariato per le Sanzioni contro il
Fascismo.440 Nonostante i risultati iniziali si fossero dimostrati efficaci con il deferimento di
874 persone, gli esiti finali furono molto deludenti con 824 proscioglimenti e solo 49 dispense
dal servizio (con un procedimento in sospeso). Tra i deferiti persone di spicco comme l’ex
ministro Attilio Teruzzi441 o il vice governatore dell’A.O.I. Enrico Cerulli442 i quali, come
abbiamo visto precedentemente, vennero prosciolti come la maggior parte dei loro colleghi in
nome di una continuità del personale anche per ministeri assolutamente inutili come quello
dell’Africa Italiana. A questi uomini fu dovuta la principale mancanza per una
decolonizzazione dei paesi e cioè la mancata africanizzazione delle istituzioni e cioè
l’inserimento di elementi autoctoni all’interno della burocrazia amministrativa, oltre che alla
mancanza di una istuzione scolastica e formativa tipica di una interpretazione arcaica della
colonizzazione “civilizzatrice”. Inoltre il quasi completo disinteresse per la legislazione
tradizionale e l’interpretazione personale delle leggi e consuetudini locali portò i funzionari ad
essere degli antagonisti delle autorità centrali ed a condizionare i destini dei singoli contesti
locali. Tutto ciò non fece altro che creare situazioni non idonee in fase di decolonizzazione,
fase che avrebbe dovuto unificare un sistema già più o meno simile ma che nella realtà si
differenziava fortemente da regione a regione.443
Inoltre il trattato di pace del 10 febbraio del 1947 non andava certo a chiarire la
situazione e lasciava la soluzione definitiva a data da destinarsi. Leggiamo infatti all’art. 23
del trattato:
1. L’Italia rinuncia a ogni diritto e titolo sui possedimenti territoriali italiani in Africa e
cioè la Libia, l’Eritrea e la Somalia italiana.
2. I detti possedimenti resteranno sotto l’attuale loro amministrazione, finché non sarà
decisa la loro sorte definitiva.
3. La sorte definitiva di detti possedimenti sarà decisa di comune accordo dai Governi
____________________________
440
Tra le disposizioni previste dal decreto n. 159 si noti che:
- erano dispensati dal servizio tutti coloro che avevano partecipato attivamente alla vita politica del fascismo, conseguendo
nomine od avanzamenti per il favore del partito, anche nei gradi minori (art. 12);
- erano dispensati dal servizio i dipendenti delle amministrazioni che durante il ventennio fascista avevano rivestito cariche
importanti o che, dopo l'8 settembre 1943, erano rimasti fedeli al Governo della Repubblica Sociale Italiana (art.17); le stesse
disposizioni si applicavano ai dipendenti che avessero dato "prova di faziosita' fascista o dell'incapacita', o del malcostume
introdotti dal fascismo nelle pubbliche Amministrazioni" (art. 13);
- erano previste misure disciplinari di minore gravità per coloro che -pur rivestendo qualifiche fasciste- "non avessero dato
prova di settarietà e di intemperanza fascista" (art.14);
- chi, dopo l'8 settembre 1943, si era distinto nella lotta contro i tedeschi, poteva andare esente dalla dispensa e da ogni
misura disciplinare (art. 16). (Giorgi, 2012).

441Teruzzi, Attilio. - Uomo politico (Milano 1882 – Procida 1950). Ufficiale dell'esercito, dal 1920 aderì al movimento
fascista capeggiando squadre d'azione nella Pianura Padana. Vicesegretario del PNF nel 1921, sottosegretario all'Interno
(1925-26), governatore della Cirenaica (1927-28), fu quindi (1929-35) capo di S. M. della MVSN. Sottosegretario dal 1937 e
quindi, dal 1939 al 25 luglio 1943, ministro dell'Africa Italiana. Dopo di allora, visse appartato.

442
Cerulli, Enrico. - Orientalista italiano (Napoli 1898 – Roma 1988); direttore gen. al ministero dell'Africa Italiana (1936),
vicegovernatore gen. dell'AOI (1937); dal 1950 al 1954 ambasciatore a Teheran. Sia in Iran sia nel corso di viaggi ed
esplorazioni nella Somalia, nel Harar e nell'Etiopia occid., acquistò un'importante raccolta di manoscritti, poi donata alla
Biblioteca Vaticana. Le sue opere scientifiche non si limitano all'africanistica, ma si allargano ad argomenti di letteratura
comparata. Socio nazionale dell'Accademia dei Lincei (1951), della quale è stato anche presidente (1973-76).

443
C. Giorgi, L’Africa come carriera, Carocci, Roma, 2012, Pag.183-203.
142

dell’Unione Sovietica, del Regno Unito, degli Stati Uniti d’America e della Francia
entro un anno dall’entrata in vigore del presente Trattato e secondo i termini della
dichiarazione comune fatta dai detti Governi il 10 febbraio 1947, il cui testo è
riprodotto nell’allegato XI.

Se dal punto di vista prettamente coloniale l’articolo era abbastanza esplicito, nel
senso che i territori africani non avrebbero più fatto parte dei possedimenti italiani (l’Italia
perse praticamente tutti possedimenti all’estero compresi il Dodecaneso che tornò alla Grecia
ed anche e le concessioni in Cina), dal punto di vista amministrativo non lo era altrettanto e
nei successivi due anni il Governo italiano continuò a muoversi diplomaticamente ed a
sperare che per lo meno le amministrazioni dell’Eritrea e della Somalia restassero di
pertinenza italiana. Tutto ciò non fece che peggiorare la situazione in previsione di una
decolonizzazione ed unito agli argomenti che abbiamo trattato precedentemente, il processo in
questione mancò completamente in Eritrea e non fu portato a termine in modo egregio in
Somalia.
La posizione e le richieste del governo italiano riguardo alle colonie si poggiavano
però su argomenti ormai vecchi e poco incisivi: tornando da un viaggio a Londra e Parigi nel
settembre 1945, l’allora Ministro degli Esteri De Gasperi dichiarava in parlamento che il
problema coloniale non sarebbe stato per il paese una questione imperiale bensì sociale, dato
che le migliaia di italiani residenti in Africa avevano investito per più di cinquant’anni denaro
e lavoro, e che la situazione dell’emigrazione italiana all’estero avrebbe potuto beneficiare
ancora degli sbocchi africani oltre che cercarne degli altri per contribuire alla ricostruzione del
mondo.444 Questa linea di pensiero sarebbe stata mantenuta a lungo, oltre ad una continua
riproposizione del ruolo di nazione civilizzatrice in Africa, idea tardo ottocentesca ormai
rifiutata dalla maggior parte delle nazioni mondiali. La diplomazia italiana fu molto lenta nel
capire che i tempi erano cambiati e che l’epoca delle colonie era ormai giunta al tramonto.
In realtà, il numero degli italiani residenti nell’ex Africa orientale italiana era
diminuito considerevolmente già durante la guerra, in seguito ad un accordo italo-inglese
proposto dai britannici il 4 maggio 1941, un giorno prima del rientro del Negus Hailè Selassiè
ad Addis Abeba, tramite l’ambasciata americana a Roma. In quel momento l’impero africano
era già stato perduto, tranne per la presenza di qualche sacca di resistenza di cui abbiamo
parlato nel capitolo precedente, e gli inglesi avevano offerto al governo italiano la possibilità
di rimpatriare diversi civili (donne, uomini sopra i sessant’anni, bambini e ragazzi fino a
sedici anni e invalidi) per evitare, così diceva la nota americana, che diventassero vittime di
rappresaglie delle bande armate abissine che scorazzavano per il paese. Naturalmente la
questione era spinosa dal punto di vista politico, poiché l’abbandono dei territori africani da
parte di un cospicuo numero di italiani avrebbe potuto far pensare ad un definitivo abbandono
dell’idea di un ritorno nel continente nero oltre a costituire un atto che avrebbe favorito il
nemico, non obbligandolo a sobbarcarsi l’onere del mantenimento dei coloni italiani. Il
progetto venne comunque messo allo studio e su ordine diretto di Mussolini, venne intavolata
una trattativa tra il ministero degli Esteri italiano e la controparte britannica attraverso la
mediazione degli Stati Uniti e della Svizzera (all’entrata in guerra degli Stati Uniti restò solo
______________________________
444 A. De Gasperi, Scritti e discorsi politici, Vol. III, Tomo I, Il Mulino, Bologna, 2008, Pag. 189.
143

la Svizzera a fare da mediatore). Dato lo stato di guerra tra i due paesi non fu facile definire
tutti i termini dell’accordo ma dopo lunghe discussioni si giunse alla conclusione che un
convoglio navale avrebbe circumnavigato l’Africa per giungere sino a Berbera, nella Somalia
britannica, e si decisero i porti neutrali dove fermarsi a fare rifornimento ed altri dettagli.
Mentre venivano definiti gli ultimi particolari dell’accordo, furono selezionate quattro navi
transatlantiche (Saturnia, Vulcania, Caio Duilio e Giulio Cesare), attrezzate anche dal punto di
vista sanitario per poter effettuare il trasporto dei profughi nel miglior modo possibile e che
potevano imbarcare in totale circa 9500 persone. Chiamate “le navi bianche” a causa della
colorazione che gli venne imposta, portavano sulle fiancate delle enormi croci rosse oltre alla
bandiera nazionale, salparono una prima volta nell’aprile del 1942 per giungere dopo circa un
mese a destinazione, caricare i profughi e poi tornare in Italia. I viaggi duravano circa tre mesi
e ne vennero effettuati tre (aprile – giugno 1942, ottobre 1942 – gennaio 1943 e maggio –
agosto 1943) con circa 28.000 civili italiani rimpatriati. Nonostante le precauzioni sanitarie
prese, durante il primo viaggio della “Missione speciale in A.O.I.” (veniva chiamata così dal
Ministero dell’Africa italiana) ci furono, specialmente durante il primo viaggio alcuni decessi,
dovuti a malattie o colpi di sole (gli imbarchi venivano effettuati tra le 12 e le 17). Nei viaggi
successivi, a seguito di miglioramenti applicati alle navi e grazie all’esperienza acquisita, i
casi di morte furono decisamente inferiori. Ci furono diversi tentativi da parte di uomini
validi, quindi esclusi dalla possibilità di rientro in Italia, di viaggiare clandestinamente sulle
navi ma solo in rare occasioni sfuggirono alla vigilanza dei britannici e riuscirono
nell’impresa. I rapporti tra i passeggeri e le guardie inglesi (venivano imbarcate alla prima
fermata a Gibilterra e lì sbarcate al rientro dalla missione) furono in sostanza buoni
nonostante la guerra in corso e salvo qualche piccolo incidente, dovuto spesso allo stato di
ubriachezza dei militari britannici, i viaggi vennero compiuti senza incontrare particolari
difficoltà se non quelle dovute ad alcune intemperanze dei rimpatrianti a causa del
sovraffollamento delle navi. La cosa più difficoltosa da gestire per gli ufficiali della PAI
(polizia dell’Africa italiana) era il rapporto tra i vari passeggeri, che venivano definiti violenti,
rancorosi ed inclini alle delazioni.445 Questa la testimonianza di un ufficiale italiano al termine
del terzo viaggio:
[…]
“Tra i rimpatrianti, come già negli altri viaggi, avvampano odii violenti, rancori ed
inimicizie che trovano la loro radice nel passato. Quasi tutti cercano di crearsi meriti e
demoliscono ogni altro, amico e non amico, con le stesse armi della insinuazione o della
calunnia generica.”446
[…]
A questa missone se ne aggiunsero altre, numericamente molto più contenute, le quali
riportarono in Italia più di centomila coloni dall’Africa orientale (con quelli libici il numero di
rimpatri ammontò a circa duecentomila persone). Quando i profughi sbarcarono in Italia
vennero subito riconosciuti giuridicamente come “profughi dell’Africa Italiana” e come tali
ricevettero un sussidio da parte del ministero dell’Africa italiana e vennero ricoverati nei
_____________________________
445E. Ertola, Navi bianche. Il rimpatrio dei civili italiani dall’Africa Orientale, Passato e presente n. 91, F. Angeli, Milano,
2014, Pag. 127-38.
446 Ibidem, Pag. 138.
144

centri di raccolta profughi gestiti dal ministero dell’Assistenza post-bellica. Il reinserimento di


queste persone all’interno del tessuto sociale nazionale fu tutt’altro che facile poiché la
situazione materiale ed economica del paese appena uscito da una guerra mondiale e
l’impreparazione della classe dirigente ad affrontare l’emergenza non contribuirono a
velocizzare il ritorno ad una vita normale dei profughi così che ancora nel 1953 circa 40.000
persone vivevano di assistenza pubblica e circa 2500 alloggiavano nei campi profughi. Dal
punto di vista politico i profughi vennero fin da subito considerati dai partiti come un
importante serbatoio di voti e vari esponenti della destra e della sinistra italiana, ma anche da
parte del centro democristiano, cominciarono un’intensa opera di propaganda al fine di
attirare il maggior numero di rimpatriati dalla loro parte. I profughi, però, non si limitarono a
svolgere un ruolo passivo da semplice serbatoio ma seppero rivolgersi direttamente alle
istituzioni, non come singoli ma in quanto categoria; fecero infatti diverse richieste di
indennizzo per i beni che avevano dovuto lasciare in Africa anche se si rendevano conto che a
causa della burocrazia e della lentezza del ministero del Tesoro “nemmeno i nostri nipoti
beneficeranno di qualcosa”. Tra la fine degli anni ’40 e l’inizio degli anni ’50 sorsero nel
paese una moltitudine di associazioni di ex coloni due delle quali si imposero su tutte le altre
a livello nazionale: l’Associazione nazionale profughi d’Africa orientale (Anpao) e la
Federazione nazionale combattenti, profughi e italiani d’Africa (Fenpia) che si distinsero dalle
altre per il notevole numero degli iscritti e per le opposte iniziative, composizioni,
orientamento politico e linguaggio. L’Anpao si proponeva di affiancare lo stato, se non di
sostituirlo in caso di bisogno, nel sostegno all’emergenza dei profughi ed il suo obiettivo
politico primario era l’indennizzo dei coloni e l’eventuale ritorno di costoro in Africa
attraverso la pressione presso il governo italiano oltre che il fare dei profughi una categoria
coordinata verso obiettivi comuni. Lo statuto della Fenpia era invece molto diverso: pieno di
slanci retorici e con obiettivi politici generici, molto confusi ed espressi in modo superficiale.
Non trattava solo della questione coloniale (al contrario dell’Anpao) ma metteva sul piatto
rivendicazioni di ogni tipo comprese quelle territoriali ed in modi spesso brutali usando un
linguaggio offensivo, tanto che il sottosegretario all’Africa italiana Giuseppe Brusasca si
rifiutò di ricevere il suo leader, Generale Ugolini447, a causa di alcuni articoli sul giornale
della federazione. Nel 1950 l’Anpao si fuse con l’Associazione dei profughi della Libia dando
vita all’Associazione nazionale profughi d’Africa (Anpa) e fu la sola ad avere ufficialmente
personalità giuridica e quindi riconosciuta dalle istituzioni. Tra le due associazioni i rapporti
non furono tra i più cordiali anche perché l’Anpao si poneva come rappresentante di quegli ex
coloni benestanti come commercianti, professionisti o comunque persone abbienti, la Fenpia
si poneva invece come difensore di quei profughi che avevano perso tutto e che in Italia non
possedevano nulla insomma dei diseredati.448
__________________________
447 Ugolini, Augusto. – Generale italiano (Padova, 1887 – Roma, 1977) Dopo aver partecipato alla prima guerra mondiale e
alla guerra d’Etiopia, si distinse particolarmente durante la seconda guerra mondiale nel corso della Campagna dell’Africa
orientale italiana. Durante la battaglia di Culqualber diede prova di grande coraggio, tanto che il generale James, comandante
delle truppe sudafricane, gli concesse di portare la sua pistola durante tutto il successivo periodo in cui rimase prigioniero di
guerra. Decorato della Croce di Cavaliere dell’ordine Militare d’Italia, della Medaglia d’oro al valor militare a vivente, di due
Medaglie d’argento e due di bronzo al valor militare, e della Croce di Ufficiale dell’ordine della Corona d’Italia.
448
E. Ertola, Ritorneremo: le associazioni di profughi d’Africa nell’Italia del dopoguerra, Italia contemporanea n. 288, F.
Angeli, Milano, 2018, Pag. 11-25.
145

Entrambe le associazioni, ad ogni modo, fecero parte di quella lobby colonialista che
si spese a fondo nell’opera propagandistica della difesa degli interessi italiani in Africa ed il
conseguente diritto dell’Italia alla restituzione dei paesi del Corno d’Africa.
Tornando alla questione del trattato di pace, la situazione era in continua evoluzione
anche se i punti cardine sarebbero rimasti più o meno gli stessi. Fin dai primissimi giorni che
seguirono il termine del conflitto, i rapporti tra le potenze occidentali e l’Unione Sovietica
cominciarono a guastarsi (qualche crepa era in realtà già apparsa anche prima della fine della
guerra). Alla fine del 1945, quando De Gasperi incontrò i leader dei quattro paesi vincitori, la
speranza del diplomatico italiano era quella che lo stringere rapporti personali avrebbe potuto
migliorare le prospettive italiane. Nonostante gli incontri si rivelassero alquanto cordiali, le
posizioni dei quattro grandi rimasero invariate ed il consiglio di Londra si cocluse con il
rinvio di tutte le questioni riguardanti l’Italia. Solo un colloquio con il francese Bidault e con
il generale de Gaulle a Parigi rivelò che se la Francia non era disposta a fare grandi
concessioni rispetto al futuro trattato, sarebbe rimasta comunque aperta a discutere anche le
questioni più spinose come quelle relative alle colonie.449
Un brutto colpo alle speranze italiane venne inferto già nel dicembre 1945, quando a
Mosca i tre grandi più la Francia (ammessa anch’essa a decidere delle sorti dell’Italia) si
accordarono sul fatto che l’Italia sarebbe stata considerata esattamente come tutti gli altri
alleati minori della Germania e questo, oltre ad essere uno schiaffo all’onore nazionale,
avrebbe significato che il periodo di cobelligeranza con gli alleati non sarebbe stato preso in
considerazione. E così fu, dalle prime bozze dei trattati che furono licenziati all’inizio del
1946, l’Italia venne considerata paese aggressore, alla pari della Germania, ed aveva firmato
l’armistizio e la resa senza condizioni in seguito ai rovesci militari sul campo; la
cobelligeranza passò assolutamente in secondo se non in terzo o quarto piano.450
Sulla questione coloniale non ci furono passi avanti dopo che alla conferenza di Parigi
del 1946 i quattro grandi si fecero notare per “essere d’accordo sul non essere d’accordo”
come annotò con sottile ironia il senatore americano Vandenberg. L’unione Sovietica aveva
cominciato a mettere gli occhi sulle ex colonie italiane, principalmente la Libia, chiedendo la
partecipazione all’amministrazione del paese nordafricano e questo al blocco anglo-americano
non andava affatto bene. L’entrata sovietica in Africa avrebbe rischiato di rompere gli
equilibri dello scacchiere mediterraneo e questa per gli occidentali era una situazione da
evitare a tutti i costi. Quando nel 1947 venne ufficialmente pubblicato il trattato di pace con
l’Italia, come abbiamo visto precedentemente, l’articolo 23 che faceva riferimento alle colonie
e che abbiamo precedentemente riportato per intero, lasciava la questione aperta ad ogni
soluzione. Riguardo alla Libia, nel maggio del 1949 il patto Bevin-Sforza prevedeva di
dividere in tre il territorio e di istituire delle amministrazioni fiduciarie per le varie zone, con
il Fezzan assegnato alla Francia che già lo occupava militarmente, la Tripolitania all’Italia e la
Cirenaica alla Gran Bretagna, la Somalia sarebbe stata assegnata all’Italia e l’Eritrea divisa tra
l’Etiopia ed il Sudan. Ma le Nazioni Unite non approvarono il patto per un solo voto di scarto
(quello del rappresentante di Haiti), patto che sapeva ancora troppo di spartizione coloniale,
ed in conseguenza di questo rifiuto, il governo italiano optò per la richiesta di una immediata
__________________________
449 S. Lorenzini, L’Italia e il trattato di pace del 1947, Il Mulino, Bologna, 2007, Pag. 42.
450 Ibidem, Pag. 47.
146

indipendenza della Libia e dell’Eritrea e di una amministrazione fiduciaria per la Somalia tesa
alla preparazione dell’indipendenza anche per il paese del Corno d’Africa. Le Nazioni Unite,
il 21 novembre 1949 decisero finalmente il destino delle ex colonie italiane: la Libia sarebbe
diventata indipendente dal 1952, l’Eritrea sarebbe stata federata all’Etiopia dalla fine del 1950
e la Somalia sarebbe stata per dieci anni amministrata fiduciariamente dall’Italia fino alla
metà del 1960.451
Questo fu in breve il destino delle ex colonie italiane che nei prossimi due paragrafi
andremo ad analizzare nei dettagli ma prima di terminare questo paragrafo introduttivo ci
sembra giusto dare uno sguardo alla situazione politica generale del dopoguerra che andrà
inoltre a chiarire alcune posizioni dei vari contendenti anche in funzione di una guerra fredda
che, iniziata immediatamente dopo il secondo conflitto mondiale sarebbe durata per più di
quarant’anni fino al 1991 con la caduta del regime sovietico.
Anche se l’anticolonialismo era un punto cardine sia della politica americana che di
quella sovietica, le motivazioni erano ben diverse: mentre per gli statunitensi, ex colonia
britannica, il principio Wilsoniano dell’autodeterminazione era un diritto inderogabile per
qualsiasi popolo, per i sovietici i paesi strappati alle potenze coloniali (tutte occidentali)
sarebbero stati terreni fertili dove piantare i semi del socialismo reale e quindi ottenere aree di
influenza sempre più grandi. Nel 1947, durante le trattative per la stesura dei trattati di pace
con gli alleati minori dell’Asse, gli scontri tra occidentali e sovietici erano all’ordine del
giorno; quando nel maggio del 1947 il Segretario di Stato americano G. Marshall452 lanciò il
suo programma di aiuti ai paesi dell’Europa occidentale453 che durò quattro anni (1948 –
1952), oltre che essere probabilmente il più ambizioso programma di aiuti della storia aveva
delle chiarissime finalità nel contenimento del comunismo in Europa occidentale. Il
Presidente Truman lanciò nello stesso periodo il cosiddetto “point four”, tratto dal suo
discorso inaugurale, il quale sosteneva che si doveva perseguire «un nuovo ed audace
programma» per far si che «i benefici del nostro progresso scientifico e industriale permettano
lo sviluppo e la riabilitazione delle zone depresse» frase che sottintendeva un’accusa alla
filosofia del comunismo che, secondo lui, vedeva l’uomo come un essere incapace e che
quindi avrebbe dovuto essere indirizzato verso una vita predestinata da un entità superiore
come il partito. Naturalmente il punto di vista sovietico sugli aiuti americani era ben diverso
ed oltre che ritenere l’ERP ed il “point four” assolutamente complementari vedevano in questi
un semplice tentativo di espansionismo economico mascherato da anticomunismo.454
Non c’era ancora la cosiddetta “cortina di ferro” ma lo scontro tra occidente ed oriente
era già in fase di preparazione. In questo clima carico di nervosismo e di reciproca diffidenza
________________________________
451 S. Lorenzini, L’Italia e il trattato di pace del 1947, Il Mulino, Bologna, 2007, Pag. 137-38.

452 Marshall, George Catlett. - Uomo politico e generale statunitense (Unionstown, 1880 – Washington, 1959); partecipò in

Francia alla prima guerra mondiale. Capo di stato maggiore generale (1939-45), riorganizzò l'esercito e partecipò alle
conferenze interalleate di Casablanca, Jalta e Potsdam. Inviato speciale del presidente degli USA in Cina (1945) per un
tentativo di mediazione tra nazionalisti e comunisti, poi segretario di stato (1947), fu promotore del piano che porta il suo
nome; si dimise per motivi di salute nel genn. 1949. Il 12 sett. 1950 fu chiamato dal presidente H. Truman, in sostituzione di
L. B. Johnson, al ministero della Difesa. Recatosi a Tokyo, ispezionò la Corea nel giugno 1951. Si dimise il 13 sett. 1951.
Nel 1953 gli fu conferito il Premio Nobel per la pace.

453 European Recovery Program (ERP) meglio noto come Piano Marshall.

454 S. Lorenzini, Una strana guerra fredda, Il Mulino, Bologna, 2017,Pag. 45-52.
147

oltre ad una volontà punitiva (Gran Bretagna) verso gli sconfitti si svolsero le negoziazioni
del trattato di pace con l’Italia oltre alle seguenti questioni coloniali. In Effetti gli Stati Uniti,
che in un primo momento sembravano favorevoli ad un ritorno dell’Italia nelle ex colonie pre-
fasciste, seppur attraverso altre forme di governo, a causa della situazione internazionale si
allinearono alla posizione britannica. La stessa Unione Sovietica sembrò prima favorevole
alle istanze italiane ma poi si oppose cercando di ottenere dei vantaggi strategici attraverso la
richiesta di fare parte di amministrazioni fiduciarie. La Francia fu l’unica tra le quattro grandi
a sostenere le richieste italiane anche se la sua preoccupazione principale fu sempre quella di
limitare al minimo eventuali espansioni britanniche in territorio africano. La Gran Bretagna,
da quel punto di vista, fu probabilmente la più coerente; il governo di Sua Maestà riteneva
infatti che l’Italia andasse punita per farle capire che l’aggressione non paga, oltre che pensare
che dopo anni di pesanti sacrifici l’Inghilterra avesse il diritto di ricevere un risarcimento. Gli
ultimi anni del decennio non furono troppo fortunati per l’Italia, perché se è vero che la
diplomazia italiana spesso si mosse in modo maldestro e con argomenti assolutamente fuori
dal tempo, gli accadimenti politici che si susseguirono alla fine degli anni ’40 di certo non
aiutarono il paese. La scomunica di Stalin a Tito455 ed il conseguente riavvicinamento alleato
alla Jugoslavia decretarono in pratica la perdita totale della Venezia Giulia; perduta la loro
influenza nei balcani i sovietici si rivolsero altrove e videro nell’Africa un possibile obiettivo
per il loro espansionismo ideologico. Questa situazione, oltre alla partecipazione alla guerra di
Corea da parte dell’Etiopia ed il noto anticomunismo del Negus, spinsero gli Stati Uniti a
compensare Hailé Seilassié attraverso la cessione dell’Eritrea in forma federale. Ma di questo
parleremo nei prossimi due capitoli dove analizzeremo dettagliatamente il destino delle ultime
due ex-colonie italiane: l’Eritrea e la Somalia.
____________________________
455
Tito. - Pseudonimo dell'uomo politico e capo militare iugoslavo Josip Broz (Zagabria, 1892 – Lubiana, 1980). Dal 1939
segretario generale del Partito comunista iugoslavo, guidò la lotta di liberazione dall'invasore nazista e contro i fascisti croati
e italiani. Ebbe la responsabilità politica della repressione anti-italiana di Fiume, Istria, Dalmazia, attuata con l'eliminazione
fisica nelle foibe e con le espulsioni. Capo del governo della nuova Repubblica Iugoslava, adottò una via nazionale al
socialismo e di indipendenza da Mosca che portò, nel 1948, alla rottura definitiva con l'URSS. Presidente della Repubblica

dal 1953 alla morte, T. fu ispiratore e animatore del movimento dei paesi non allineati.
148

5.2. Il destino dell’Eritrea.

Escludendo la Libia (non è argomento di studio) e l’Etiopia (già ritornata


indipendente) , andremo ad analizzare ora la situazione degli ultimi due ex possedimenti che
il Governo italiano tentò invano di conservare pur in forma differente da quella di colonia. Il
governo britannico aveva fin dagli inizi idee molto chiare sul futuro delle due ex colonie
italiane: l’Eritrea sarebbe dovuta essere smembrata e ritornare una parte all’Etiopia (nel
frattempo legatasi a Londra) con il vitale sbocco sul Mar Rosso ed una parte essere inglobata
dal Sudan britannico; la ex Somalia italiana sarebbe stata unita all’ex Somalia britannica
insieme alla regione etiopica dell’Ogaden (regione dell’Etiopia a maggioranza somala che
venne annessa alla Somalia dopo la guerra italo-etiopica del 1935-36), formando così una
grande Somalia che sarebbe dovuta diventare una specie di protettorato britannico. A
proposito di questo, un dipendente del Foreign Office amico di Sylvia Pankhurst444, la quale
chiedeva spiegazioni in merito al comportamento del Governo di Sua Maestà nel piccolo
paese africano, ammetteva candidamente: «Let us remember that what we are doing in
Abyssinia is for our own benefit, not for that of the Abyssinians, and it is possible to imagine
circumstances in which it might suit us to throw them over»445. D’altronde gli inglesi
vedevano ancora tutti i paesi africani con l’occhiale del colonialista, quindi realtà da sfruttare
finchè possibile e poi andarsene lasciando più o meno terra bruciata. La stessa Pankhurst fu
testimone nel 1952 dello smantellamento del porto di Asmara da parte delle autorità
britanniche e dello smantellamento di ogni infrastruttura eritrea che avrebbe potuto essere
venduta o riutilizzata da possedimenti britannici in zona e tutto questo prima di cedere il
paese all’Etiopia (in realtà inizialmente l’Eritrea venne considerato un paese autonomo
federato all’impero Etiope ma venne poco a poco svuotato di ogni prerogativa e nel 1962
annesso definitamente).446 Ma quella che ho raccontato ora è la fine della storia dove l’Italia
ormai non aveva più alcuna voce in capitolo; vediamo invece come si svolsero tutte le
trattative che precedono questa situazione definitiva.

Il Governo italiano aveva portato, nelle varie conferenze che si erano tenute dopo il
conflitto, delle ragioni secondo le quali l’Eritrea e la Somalia avrebbero dovuto essere
restituite all’Italia, se non come colonie almeno come amministrazione in attesa di una
prossima indipendenza dei due stati africani: si faceva ancora leva sulla questione migratoria e

_______________________________

444 Pankhurst, Sylvia. –Viene più volte arrestata e imprigionata durante gli scioperi organizzati dalle suffragette. Fervente

pacifista, nel 1914 rompe i rapporti con la madre al contrario sostenitrice dello sforzo bellico e subito comincia ad
organizzare attività anti-conflitto a Londra. Le sue idee diventano sempre più rivoluzionarie tanto che nel 1919 incontra
anche Lenin ed è tra i fondatori del Partito Comunista Britannico 1920 anche se ne viene espulsa l’anno seguente per
l’eccessiva libertà di parola e di pensiero che essa pretende. Nel 1917 incontra un esule italiano dalle idee socialiste, Silvio
Corio, con il quale lavora da giornalista e condivide il pensiero politico; non solo, nel 1927 da alla luce il suo unico figlio,
Richard, naturalmente senza sposarsi con l’amante italiano. Diventa antifascista ed anticolonialista e quando l’Italia invaderà
l’Etiopia nel 1935 fonderà un giornale, il New Times and Ethiopian News sostenendo sempre le ragioni di Hailè Seilassiè
alla Lega delle Nazioni ed anche in seguito quando rientrerà in Etiopia nel 1941. Sylvia si opporrà fortemente ai piani
britannici di protettorato sull’Etiopia e supporterà l’unione tra Etiopia ed Eritrea.

445
«Ricordiamoci che quello che stiamo facendo in Abissinia è per un nostro vantaggio e non per gli abissini, ed è possibile
immaginare anche la circostanza in cui ci sarà utile liberarci di loro».

446 M. Wrong, I didn’t do it for you, Harper Millenial, London, 2005, Pag. 127-136.
149

sul lavoro e le opere degli italiani residenti nelle colonie; in maniera decisamente
anacronistica si cercava di far valere la missione “civilizzatrice” dell’Italia nel Corno d’Africa
ma tutto questo altro non fece che irritare i paesi vincitori che vedevano un paese sconfitto
pretendere delle concessioni alle quali, soprattutto i britannici, non avevano nessuna
intenzione di consentire. A questo punto è corretto fare una piccola sottolineatura della
situazione dell’Italia nel mondo uscito dalla seconda guerra mondiale: si sente dire a tutt’oggi
da molti uomini politici nostrani che grazie al periodo di cobelligeranza con gli alleati (dal 13
ottobre 1943 contro la Germania e dal 15 luglio 1945 contro il Giappone, fino alla fine della
guerra il 15 agosto 1945) e soprattutto grazie alla resistenza, il paese abbia contribuito alla
vittoria contro l’Asse, si sia liberata dalla tirannia e fondamentalmente abbia per così dire
“vinto” la guerra (che infatti non viene più chiamato conflitto mondiale bensì guerra di
liberazione). Non è così, l’Italia era un paese che aveva cominciato il conflitto al fianco della
Germania ed era stato sconfitto sul campo; a ben poco serviva il cambio di campo effettuato
l’8 settembre 1943 con la proclamazione dell’armistizio con gli alleati, per altro proposto e
sostenuto principalmente dagli Stati Uniti ed accettato mal volentieri dalla Gran Bretagna che
per tutta la durata del periodo di cobelligeranza fu sempre molto sospettosa nei confronti dei
nuovi “alleati” e tenne quasi sempre nelle retrovie le unità del cosiddetto Regno del Sud, oltre
ad avere un sentimento di rivalsa nei confronti dell’Italia (Churchill avrebbe voluto radere al
suolo diverse città della penisola come vendetta per la partecipazione italiana, seppur scarsa e
per nulla fondamentale, alla battaglia d’Inghilterra dell’estate 1940). Inoltre l’atteggiamento
volto a cancellare il ventennio fascista ed a considerare il paese del dopoguerra come un
popolo di antifascisti e quindi meritevole di ottenere, se non dei vantaggi, almeno la
conservazione dello status quo prebellico, era quantomeno illusorio e non aveva speranze di
venire accolto dai vincitori.

Tornando a noi, la situazione dell’Eritrea era particolarmente complicata per una serie
di concause che ora andremo ad analizzare. Come abbiamo già evidenziato, i piani britannici
per la sistemazione politica dell’Africa orientale erano ben chiari, una Grande Somalia con un
protettorato inglese e la sparizione dell’Eritrea suddivisa tra Sudan ed Etiopia. Nel dopoguerra
in Eritrea nacquero i primi partiti politici, autorizzati dagli inglesi in modo da approfondire le
divisioni tra la popolazione: il Partito unionista con lo scopo di favorire la riunificazione con
l’Etiopia e da questa abbondantemente approvvigionato di denaro ed armamenti, la Lega
Musulmana che si richiama a quella indiana che porterà alla formazione del Pakistan che è
contraria a qualsiasi smembramento del paese o annessione all’Etiopia e persegue
l’indipendenza, il Partito liberale progressista, principalmente cristiano che sostiene un’idea
politica identica alla Lega. A questi partiti si aggiungono delle associazioni come quella degli
italo-eritrei che si propone di raccogliere quella parte di popolazione nativa legata da vincoli
di parentela agli italiani e quella dei veterani e delle famiglie dei caduti formata dagli ex-
ascari e famiglie, promosse da esponenti della comunità italiana. Queste associazioni, insieme
al nuovo partito che nasce il 29 settembre 1947, il Partito Pro-Italia Nuova Eritrea, si danno
come programma e fine l’amministrazione fiduciaria italiana, che garantirebbe loro il
pagamento delle pensioni di guerra da parte di Roma, fondamentali in un momento in cui,
come abbiamo visto, i britannici stanno procedendo a smantellare tutte le infrastrutture eritree
causando una drammatica crisi economica. Gli italiani creano anche due organizzazioni, il
Comitato rappresentativo degli italiani in Eritrea (che opera alla luce del sole) ed il Comitato
di azione segreta (clandestino) oltre a costituire dei partiti che si richiamano a quelli attivi in
150

patria (comunista, socialista, democristiano, ecc.), tutti ovviamente con l’obiettivo di


ripristinare l’ammistrazione italiana nel paese.447

A parte il Partito unionista, tutte le formazioni politiche eritree sono contrarie ad una
riunificazione con l’Etiopia e questo non piace ad Addis Abeba, che nel frattempo aveva
continuato a rivendicare alle Nazioni Unite e presso gli alleati i suoi diritti storici sull’Eritrea.
Vengono quindi formati dei gruppi paramilitari, gli Shiftà448, per intervenire violentemente
contro gli indipendentisti e successivamente contro gli italiani, per creare un clima di
tensione, in vista della visita della commissione d’inchiesta delle quattro potenze vincitrici.

Tra i principali sostenitori dell’indipendenza eritrea merita di essere citato Woldeab


Woldemariam449 che riuscirà a vedere un paese finalmente libero solo al termine della propria
esistenza, dopo avere passato più di trent’anni in esilio in Egitto ed aver subito ben sette
attentati alla propria vita. Oltre che ad essere sponsorizzate dal Governo etiopico, queste
bande di fuorilegge erano tollerate anche dal governo militare britannico in quanto
consapevole che più la popolazione eritrea era divisa più era probabile la divisione del paese
come era nella speranza inglese. Ufficialmente il Governo di Sua Maestà era disposto a
presentare in maniera positiva il punto di vista italiano riguardo alle ex colonie agli incontri
dei vari ministri degli esteri chiedendo però di non essere troppo pressanti in merito, come
risulta da una lettera inviata al ministro degli esteri Sforza450 dall’ambasciatore inglese a
Roma, inviata il 22 giugno 1947.451

Per quanto concerneva la posizione italiana, oltre ai già citati problemi migratori, vi
erano anche forti problematiche economiche che spingevano il Governo a pressare il più
possibile i vincitori. In un promemoria segreto datato 28 maggio 1947, veniva segnalato che

______________________________

447 S.
Poscia, Eritrea colonia tradita, Edizioni Associate, Roma, 1989, Pag. 36-39.

448 Il termine scifthà o, in senso dispregiativo, t'era scifthà viene usato in diversi paesi dell'Africa orientale, e in particolare

Eritrea, Etiopia, Kenya e Somalia, per indicare coloro che si oppongono alle istituzioni ufficiali, sulla base di motivazioni
politiche, e che intraprendono di conseguenza una vita da ribelli e fuorilegge. Storicamente, venivano chiamate scifthà anche
le milizie che operavano nelle più remote zone rurali e montane del Corno d'Africa, dove le istituzioni sia coloniali che
postcoloniali avevano difficoltà a imporre il proprio controllo.

449 Woldemariam, Woldeab. – Politico e giornalista eritreo (Adi Zarna, 1905 – Asmara, 1995). Fu tra i primissimi sostenitori
dell'indipendenza eritrea, tanto da essere considerato fra i "padri" dello stesso paese, assieme a figure come I. Sultan Alì(con
cui collaborò attivamente).Di religione evangelica, lavorò per conto delle missioni svedesi come insegnante. Dopo
l'occupazione britannica nel 1941 si schierò apertamente contro l'ipotesi, poi realizzata, di un'unione politica fra l'Eritrea e
l'Etiopia. Mantenne la medesima posizione anche dopo l'istituzione della federazione nel 1951, subendo numerosi tentativi di
omicidio, ma continuando a sostenere l'indipendentismo tramite le organizzazioni di massa: fu il fondatore della
Confederazione dei lavoratori eritrei, primo sindacato del paese. Sostenne sempre posizioni patriottiche, invitando i
connazionali a superare le divisioni etnico-religiose fra cristiani e musulmani, guardando alla comune appartenenza al popolo
eritreo.

450 Sforza, Carlo. - Diplomatico e uomo politico italiano (Montignoso, 1872 – Roma, 1952), figlio dello storico Giovanni.
Quale ministro degli Esteri stipulò il Trattato di Rapallo con la Jugoslavia (1920). Fervente antifascista, nel 1927 lasciò
l'Italia, tornandovi solo nel 1943. Fu poi presidente della Consulta e deputato repubblicano alla Costituente. Di nuovo
ministro degli Esteri (1947-51), si impegnò per la ratifica del trattato di pace e per l'ingresso dell'Italia nella NATO.

451 V. Documento n. 24.


151

alcune note ed accreditate ditte industriali e commerciali italiane in Eritrea avevano richiesto
al Ministero dell’Africa Italiana di ottenere l’esenzione dai dazi di importazione in Italia di
determinati prodotti, ciò a causa delle restrizioni imposte dalle forze di occupazione che
avevano creato sofferenza alle imprese italiane. Riuscendo ad evitare questi problemi le
aziende avrebbero previsto diversi vantaggi:

• Impulso alle attività che languono;


• Riassorbimento di mano d’opera;
• Diminuzione dell’esodo di italiani verso la madrepatria che al contrario potessero
fornire una solida base per le nostre richieste d’amministrazione territoriale;
• Rilevanti disponibilità di fondi sul posto.452

Inoltre, in un altro memoriale diretto al ministero si segnalava come le autorità


d’occupazione cercassero di spingere l’Eritrea nel campo dell’organizzazione economica
inglese, ostacolando i contatti e gli scambi commerciali con altri paesi e principalmente con
l’Italia e le altre ex colonie.453 Dal luglio del 1948 pervengono al Sottosegretario di Stato per
gli affari esteri Giuseppe Brusasca454 diversi memorandum con la situazione politica ed
economica del paese che tutto era tranne che positiva sia per la popolazione che per
l’economia. E’ evidente da queste comunicazioni che l’amministrazione militare britannica
non solo non procede a mettere fine agli episodi di violenza ma è anzi complice delle
manovre degli shiftà.

[…]

“Nel solo mese di agosto e nei primi giorni di settembre, si sono verificate parecchie
aggressioni nelle quali tre italiani ci hanno rimesso la vita ed un’altra decina sono stati
completamente spogliati di ogni avere e bastonati a sangue, unitamente a qualche
commerciante arabo e cioè:

Al km. 30 circa della strada Asmara – Adi Ugrì un uomo ed una donna italiani ed un
commerciante arabo rapinati e denudati. (Banda Hagos);

____________________________
452 ACS AS 001-0000707, b. 2050, f. P1/5 bis.
453
ACS AS 001-0000707, b. 2081, f. P III.
454 Brusasca, Giuseppe. – Avvocato e politico italiano (Gabiano, 1900 – Milano, 1994). Dal 1923 al 1925 guida la

minoranza popolare contro i fascisti nel Consiglio comunale. Abilitatosi all'avvocatura, nel 1926 si trasferisce a Milano dove
frequenta gli ambienti dell'antifascismo cattolico. Dopo l’8 settembre s'impegna nella Resistenza, fondando la divisione
autonoma Patria attiva nel Monferrato. Con l'aiuto di sacerdoti amici (tra cui padre G. Sisto), salva in prima persona tre
famiglie ebree (i Foa di Casale Monferrato, i Sacerdote di Milano, e i Donati di Modena) a nascondersi e quindi a espatriare
in Svizzera. Per questo sarà riconosciuto come giusto tra le nazioni dall'Istituto Yad Vashem l'8 luglio 1969. Nell'aprile del
1945 fa da mediatore per le trattative poi fallite per la resa di Mussolini. Dopo la Liberazione, sostituisce A. Marazza come
vicepresidente del CLN Alta Italia.Membro del consiglio nazionale della Democrazia Cristiana dal 1945 al 1947 e della
Consulta Nazionale (1945-1946), nel giugno 1946 viene eletto alla Assemblea Costituente. Dapprima nominato (17 luglio
1946) Sottosegretario all'Industria e commercio nel secondo Governo De Gasperi, il 18 ottobre 1946 viene nominato
Sottosegretario agli Affari Esteri nello stesso Governo. Dopo una breve parentesi di tre come sottosegretario alla Difesa nel
terzo Governo De Gasperi, torna nel giugno 1947 al ministero degli Esteri sempre come sottosegretario nel quarto Governo
De Gasperi. Manterrà questo incarico anche nel quinto e sesto esecutivo diretti dallo statista trentino. Resta Sottosegretario di
Stato per gli affari esteri fino al luglio 1951. Intano nell'aprile 1948 è eletto deputato alla Camera nella circoscrizione di
Cuneo. Nel 1951 passa a ricoprire la carica di sottosegretario al ministero dell’Africa italiana nel penultimo dicastero De
Gasperi, ministero di cui De Gasperi ha l'interim, fino all'aprile 1953.
152

Al km. 27 della ferrovia Asmara – Cheren, tentato assalto alla littorina andato a
vuoto, subito dopo pochi minuti, aggressione nelle vicinanze di due operai italiani che
lavoravano sulla ferrovia e loro uccisione. (Banda Hagos);

1. Al km. 58 della strada Asmara – Cheren, aggressione ed uccisione di un autista


italiano. (Banda Hagos);
2. La sera stessa, dalle 21 alle 23, aggressioni sulle pendici orientali delle concessioni
agricole Alberto Matteola e Giannavola con spoliazione di sette italiani tra uomini,
donne ed un bambino. (Banda Hagos);
3. Nei giorni seguenti, aggressioni alle concessioni Matteo Matteola, Prati, Pizzallo,
Abdelcader, Chebiré. (Banda Hagos);
4. Sempre nei seguenti giorni aggressioni isolate nella zona di Merara, contro persone
isolate e pastori, con bastonature e spoliazioni. (Banda Hagos).”

[…]

“Questi fatti, che si susseguono con regolarità, anzi si intensificano, convivono in una
specie di connivenza reciproca di interessi e scopi. Gli shifta hanno grande libertà di azione e
possibilità di rapidi spostamenti, sono visti e segnalati da molte persone, ma mai l’autorità,
nonostante le numerose gite sportive che fa eseguire alla polizia ed alle truppe in ausilio alla
polizia, riesce non dico a prenderli ma neanche a vederli.”455

[…]

Questa era una testimonianza dal punto di vista dell’ordine pubblico, ma dal punto di
vista economico com’era la situazione? Da un altro memorandum diretto a Brusasca la
situazione non era certo rosea dato che gli operai e gli impiegati faticavano ad arrivare alla
fine del mese a causa del continuo aumento del costo della vita dovuto alla già citata
smobilitazione industriale e non solo, che cominciava a prendere piede nel paese. Per quanto
riguardava gli artigiani ed i negozianti, il loro numero continuava a declinare dato che erano
stati messi in condizioni di inferiorità rispetto a coloro di altre nazionalità arrivati a seguito
degli occupanti inglesi. I permessi di importazione ed esportazione dei prodotti venivano
concessi quasi esclusivamente agli stranieri mentre le poche concesse agli italiani erano
ostacolate continuamente con mille pretesti. Le attività italiane subivano una tassazione del 25
– 30 % su un reddito considerato da due a quattro volte quello effettivo portando così a
numerose chiusure e fallimenti. L’agricoltura che durante la guerra era in grado di fornire più
di un milione di persone, tra bianchi e indigeni, di quasi tutti i prodotti ortofrutticoli oltre a
tutti i vari allevamenti di bestiame, a causa delle continue aggressioni era ridotta, nel 1948 a
servire non più di quarantamila persone nonostante le considerate, dal memorandum, grandi
potenzialità di sviluppo. Dal punto di vista industriale, le più importanti erano la carta, la
birra, i pastifici, le ceramiche - vetrerie ed i bottonifici di madreperla, tutte (sempre secondo
il memorandum) ben avviate e che a causa dei divieti di esportazione (soprattutto nei paesi
limitrofi ed in Asia) sono ormai ridotte ai minimi termini.

_________________________

455 ASCM Fondo Brusasca, b. 19, f. 6.


153

Politicamente parlando, secondo il memorandum il 60 - 70% circa degli eritrei era


favorevole ad una amministrazione italiana fino all’indipendenza del paese. La commissione
d’inchiesta delle Nazioni Unite avrebbe solo ascoltato capi indigeni favorevoli al punto di
vista inglese mentre a quelli contrari alla linea britannica sarebbe stato impedito di parlare
anche con la forza. Intere popolazioni sarebbero state fatte attendere per giornate intere con la
promessa di poter esprimere il loro parere alla commissione ma invano. La politica britannica
di divisione della popolazione eritrea non farebbe che aumentare l’irritazione ed il nervosismo
in tutti e quella di lento soffocamento economico acuisce tutti i problemi. La disoccupazione
indigena sarebbe in continuo aumento anche a causa della partenza degli italiani ai quali erano
lavorativamente legati. Una cosa è sicura: il progetto che procede a gonfie vele è quello di
fare partire la maggior parte degli italiani dall’Eritrea dato che anche coloro che si erano fatti
una posizione e che avevano maggiori possibilità di altri sono ormai arrivati al limite e sono
anch’essi costretti a tornare in Italia per poter sopravvivere. Naturalmente i piani degli inglesi
e degli etiopi di dividere ed annettersi il paese procede senza particolari intoppi. Il
memorandum si conclude con un’esortazione al Governo italiano di cercare di imperdire
l’esodo dei connazionali dall’Eritrea in tutti i modi possibili con aiuti economici, anche
tramite l’amministrazione britannica per dare un po’ di respiro all’economia del paese
nell’attesa della decisione finale a proposito del destino dell’ex colonia.456

Una decisione finale che però tardava ad arrivare e dato che i quattro grandi non erano
riusciti a trovare una soluzione accettabile per tutti, la parola passò, come da trattato di pace,
alle Nazioni Unite. L’assemblea generale dell’ONU era quindi chiamata a svolgere un ruolo
determinante nel processo di decisione della sorte delle ex colonie italiane. Ovviamente il
giudizio dell’Assemblea avrebbe avuto carattere vincolante ma sarebbero state le quattro
potenze vincitrici a darvi esecuzione. Certamente la soluzione non si profilava comunque
molto facile giacché ci sarebbe voluta la maggioranza dei due terzi dell’Assemblea dei
cinquantotto stati membri ed oltretutto in discussione vi erano argomenti decisamente più
importanti come l’energia atomica, il disarmo, la questione palestinese, la guerra civile in
Grecia e la situazione in Corea. Mentre, come vedremo nel prossimo capitolo, inglesi ed
americani si impegnarono presso le varie capitali a sostenere il Trusteeship italiano in
Somalia, per l’Eritrea le posizioni delle due potenze anglosassoni restavano divergenti. Da
parte italiana si mantenne in questo caso un profilo basso con la richiesta
dell’amministrazione fiduciaria per la Somalia ed il rinvio del resto per non pregiudicare
nulla. I tentativi che la diplomazia italiana compì verso gli Stati Uniti si rivelarono effimeri
dato che Truman, anche dopo la sua rielezione (le speranze italiane si erano rovesciate sul
candidato repubblicano Dewey457 che aveva dichiarato, attirandosi le simpatie degli italo-
americani, di essere favorevole ad un’amministrazione fiduciaria italiana per tutte le ex
colonie, ma venne sconfitto alle elezioni), dichiarò che la questione delle colonie italiane non

__________________________

456
ASCM Fondo Brusasca, b. 20, f. 10.

457 Dewey, Thomas Edmund. - Uomo politico statunitense (Owosso, Michigan, 1902 – Miami Beach, 1971). Magistrato dello

stato di New York, divenne celebre per l'implacabile lotta che condusse contro la delinquenza dilagante dopo la crisi
economica del 1929. Governatore dello stato di New York (1942-53), avversò il New Deal e fu isolazionista, convertendosi
alla politica dell'intervento solo dopo l'aggressione di Pearl Harbour. Presentatosi come candidato repubblicano alle elezioni
presidenziali del 1944 e del 1948, fu battuto rispettivamente da Roosevelt e da Truman.
154

poteva essere inserita nel quadro politico degli Stati Uniti. Inoltre ai primi di novembre del
1948 il Dipartimento di Stato si convinse dell’opportunità di caldeggiare la cessione
all’Etiopia di gran parte dell’Eritrea e se gli Stati Uniti avessero potuto motivare tale
decisione con la richiesta etiopica di uno sbocco al mare e con i legami economici e razziali
che univano i due paesi, non era certo di secondaria importanza la conservazione della
stazione radio di Asmara e dell’uso di porti e di aeroporti nell’area compresa tra Asmara e
Massaua.

Il 5 ed il 6 maggio 1949, dopo che nel tempo si erano succedute diverse proposte tutte
fallite a causa di vari veti incrociati, Sforza si recò a Londra a trattare un compromesso con il
ministro degli esteri britannico Bevin458 e dopo molte ore di «drammatiche discussioni»
raggiunsero alfine un accordo che si presentava in questo modo:

Libia: a) La Cirenaica sarà posta in regime di trusteeship internazionale e la Gran


Bretagna ne sarà la potenza amministratrice; b) il Fezzan sarà posto sotto trusteeship
internazionale e la Francia ne sarà la potenza amministratrice; c) la Tripolitania sarà posta
sotto trusteeship internazionale alla fine del 1951 e l’Italia ne sarà la potenza
amministratrice. Nel periodo interinale continuerà l’amministrazione britannica, ma
questa sarà assistita da un Consiglio consultivo composto da Stati Uniti, Gran Bretagna,
Francia, Italia, Egitto (o altro stato arabo) e da un rappresentante della popolazione locale.
La competenza e i doveri del Consiglio consultivo, come pure la sua sede nonché la
procedura per il trapasso all’Italia dell’amministrazione, saranno definiti dai membri
del consiglio stesso in consultazione con l’autorità amministratrice.

• Eritrea: con l’eccezione delle province occidentali, l’Eritrea sarà ceduta all’Etiopia,
ma questa, mediante un trattato con le Nazioni Unite, darà garanzia di uno speciale
statuto per le città di Asmara e Massaua. I termini di tale garanzia saranno stabiliti
dalle Nazioni Unite in consultazione con l’Italia. Le province occidentali saranno
incorporate nel vicino Sudan.

• Somalia: sarà posta sotto trusteeship internazionale e l’Italia ne sarà la potenza


amministratrice.459

Quando l’accordo venne pubblicato, in Italia il conte Sforza fu accusato di avere


seguito una politica «stolta ed irresponsabile», e di avere accettato un compromesso che

__________________________

458
Bevin, Ernest. - Sindacalista e uomo politico inglese (Winsford, Someset, 1881 – Londra 1951); di famiglia poverissima,
esercitò i più umili mestieri; associato dal 1910 nell'organizzazione sindacale dei portuali, nel febbraio 1920 ne difese le
rivendicazioni salariali dinanzi al tribunale arbitrale acquistandosi grande notorietà. Fondò e diresse, quale segretario
generale, il potente sindacato degli addetti ai trasporti (1922) e divenne poi presidente dell'esecutivo della Confederazione
britannica del lavoro (1936-37). Deputato nel 1940 per il collegio di Wandiswarth (Londra), ministro del Lavoro nel
gabinetto di coalizione presieduto da Churchill durante la guerra (1940-45), organizzò la mobilitazione obbligatoria della
mano d'opera e l'arruolamento dei giovanissimi (Bevin's boys) per le miniere di carbone. Nel governo laburista Attlee (1945)
assunse il ministero degli Esteri. Dopo il convegno di Potsdam, adottò una politica di resistenza nei riguardi dell'URSS.
Favorì il superamento dell'impero e dell'imperialismo britannico sostenendo l'autogoverno in Birmania, in India, a Ceylon, a
Malta e a Terranova. Con il patto di Bruxelles collaborò all'avviamento verso l'unità dell'Europa occidentale. Si dimise il 13
marzo 1951 per malattia.

459
G. Rossi, L’Africa italiana verso l’indipendenza (1945 – 1949), Giuffrè, Roma, 1980, Pag. 455-56.
155

soddisfaceva tutte le richieste inglesi. Anche le testate più moderate sostenevano che il
compromesso fosse sostanzialmente punitivo e che la collaborazione europea dell’Italia
insieme alla firma del Patto Atlantico che avrebbero dovuto portare il paese al di fuori della
condizione di “vinto” non fossero servite a nulla. Dal canto suo, Sforza era convinto che
l’accordo fosse la migliore transazione che l’Italia potesse augurarsi anche se sia l’opinione
pubblica che le forze politiche di sinistra la consideravano troppo gravosa. D’altra parte erano
stati gli stessi governanti italiani ad incoraggiare nel paese l’illusione di una diversa
sistemazione della questione africana ed anche le stesse forze politiche avevano l’intima
convinzione circa la necessità, per l’Italia, di tornare in Africa, necessità economiche, di
prestigio e sentimentali. Giulio Andreotti460 raccontò così la dichiarazione di Sforza la
Consiglio dei ministri:

“Il 10 maggio Sforza riferì ad uno sbigottito consiglio dei ministri le linee di quello
che era stato il compromesso Sforza – Bevin….. Il brusco ed improvviso passaggio della tesi
del rinvio a quella ora accennata non era fatto per accendere di entusiasmo i membri del
nostro Gabinetto… Sforza aveva compreso negli ultimi colloqui a Washington e a Londra che
il rinvio era contro di noi e senza troppo indugiarsi si era buttato a salvare il salvabile.
Purtroppo le esigenze psicologiche di un popolo non consentono gesti di obiettiva
lungimiranza, e non mancò anche tra le persone più responsabili chi disse che era meglio
perdere tutto che accettare una soluzione di compromesso”.461

Lo stesso De Gasperi rimase molto perplesso non solo per dover accettare il fatto
compiuto ma anche perché l’accordo dovette sembrargli molto oneroso per l’Italia. Vi era
anche un’altra questione che faceva preoccupare il Governo italiano: l’accordo stipulato al di
fuori delle Nazioni Unite poteva subire degli emendamenti peggiorativi tali da falsarne la
sostanza e ridurne la portata. Erano preoccupazioni fondate poiché non appena si venne a
sapere dell’accordo, i paesi che avevano sostenuto l’Italia (principalmente centro e
sudamericani) non nascosero il loro disappunto per non essere stati almeno avvertiti e per la
procedura adottata. Il compromesso scatenò anche le ire dei paesi del blocco orientale che
accusarono la Gran Bretagna di aver addirittura violato il trattato di pace e la carta delle
Nazioni Unite. Nella tarda serata del 17 maggio 1949 si svolsero le votazioni ed i paragrafi
sulla Tripolitania e sulla Somalia furono bocciati, oltre al passaggio dell’annessione della
provincia occidentale dell’Eritrea al Sudan. La bocciatura dei due paragrafi comportò una tale
mutilazione dell’accordo da non poter essere più accettato dai paesi latino-americani i quali,
infatti, al momento del voto della risoluzione globale votarono contro e questa venne così
respinta. L’accordo non aveva retto alla prova dell’ONU ma, col senno di poi, non fu un gran
male per l’Italia che, dalla presenza in Tripolitania non aveva che da ricavarne grane e spese
sproporzionate ai vantaggi. A questo punto la politica italiana verso l’Eritrea e la Tripolitania
cambiò: ci si rese conto, anche con la collaborazione degli italiani residenti nei paesi africani,

______________________

460
Andreotti, Giulio. - Uomo politico italiano (Roma 1919 - ivi 2013). Deputato dal 1948, più volte ministro in diversi
dicasteri, sette volte presidente del Consiglio, tra il 1972 e il 1992, senatore a vita. Tra i fondatori della DC, fu delegato alla
Consulta e deputato all'Assemblea costituente; è stato eletto alla Camera in tutte le consultazioni, dal 1948 al 1987; nel 1991
è stato nominato senatore a vita.

461 G. Rossi, L’Africa italiana verso l’indipendenza (1945 – 1949), Giuffrè, Roma, 1980, Pag. 461.
156

che la sponsorizzazione dell’indipendenza delle due ex colonie avrebbe garantito una maggior
simpatia verso l’Italia da parte dei paesi arabi, assicurando così il successo della trusteeship in
Somalia; inoltre l’indipendenza dei due paesi grazie all’aiuto italiano sarebbe servito
sicuramente per sostenere una favorevole politica commerciale, oltre che dare della nuova
Italia del dopoguerra un’immagine di paese anticolonialista ed al passo con i tempi.462

La nuova presa di posizione italiana favorì, in Eritrea, l’unione di tutti i partiti che si
battevanono contro l’annessione all’Etiopia ed il 24 luglio 1949 venne ufficialmente
annunciata la costituzione del Blocco eritreo per l’indipendenza al quale aderirono la Lega
musulmana, il Partito liberale progressista, il Partito Nuova Eritrea, l’Associazione veterani di
guerra, l’Associazione italo-eritrei, il Partito nazionalista di Massaua ed il Partito Eritrea
indipendente, fondato a Cheren da un gruppo di ex unionisti. Il manifesto politico del Blocco
annunciò che «Le aspirazioni politiche del Popolo eritreo mirano all’indipendenza
immediata» nonché «il diritto di auto-decisione dei popoli, sancito e proclamato dalla carta
delle Nazioni Unite»; si ribadisce inoltre che «tutto il popolo dell’Eritrea, senza distinzione di
razza, religione e partito politico si oppone alla spartizione del territorio».

Il programma politico del Blocco venne così esposto:

1. Immediato raggiungimento dell’indipendenza dell’Eritrea;


2. Governo democratico;
3. Integrità territoriale entro i confini geografici esistenti attualmente;
4. Rigetto di ogni progetto di spartizione dell’Eritrea come era stato proposto dal
compromesso Bevin-Sforza, od annessione di parte di essa all’Etiopia o al Sudan.
Comunque contro ogni altro progetto di annessione a qualsiasi Paese o Nazione.

Questa situazione cominciò a preoccupare il Governo etiope che osservava un’ondata


di defezioni dal partito unionista, nonostante gli shiftà continuassero a terrorizzare ed
uccidere. Il 21 novembre 1949 l’Assemblea generale delle Nazioni Unite decise che la Libia
avrebbe dovuto diventare indipendente entro il 1° gennaio 1952 e che la Somalia venisse
sottoposta a dieci anni di amministrazione fiduciaria italiana dopodiché diventasse anch’essa
indipendente. Sull’Eritrea non si riuscì a trovare un accordo e venne quindi inviata nel paese
una commissione d’inchiesta con il compito di esaminare la questione riguardante il futuro
dell’Eritrea e preparare un rapporto per l’Assemblea generale e definire proposte che
potessero essere utili alla soluzione del problema. Nel frattempo inutilmente il Blocco
indipendentista e l’Italia chiesero per l’Eritrea l’indipendenza immediata mentre nel paese si
assistette ad una recrudescenza degli attacchi degli shiftà. La campagna portata avanti dai
terroristi unionisti spalleggiati dall’Etiopia, che non aveva alcuna intenzione di rinunciare
all’ex colonia italiana, avrebbe mietuto nel solo 1950 duecentotrentadue vittime (216 indigene
e 16 italiane) nel tentativo di mostrare alla Commissione ONU come il paese fosse diviso e
che quindi l’indipendenza si sarebbe risolta in un bagno di sangue.463

___________________________

462 Ibidem, Pag. 461-70.

463 S. Poscia, Eritrea colonia tradita, Edizioni Associate, Roma, 1989, Pag. 49-52.
157

Non c’era però solo l’Etiopia ad avere interesse ad indebolire il Blocco


indipendentista: anche la Gran Bretagna non aveva rinunciato ad annettere al Sudan la parte
occidentale dell’Eritrea e per fare ciò doveva cercare di dividere il partito più grande che
faceva parte del Blocco e cioè la Lega musulmana. Ci riuscirono nei primi mesi del 1950
quando alcuni notabili Beni Amer464 diedero vita alla Lega musulmana della provincia
occidentale che si caratterizzava per la richiesta di un’amministrazione fiduciaria inglese che
avrebbe dovuto preludere ad una successiva indipendenza. Al termine della sua inchiesta, la
Commissione delle Nazioni Unite non riuscì a trovare un accordo sulla soluzione da
presentare all’Assemblea generale per il futuro assetto del paese. Vennero quindi presentate, il
9 giugno 1950, tre ipotesi: la prima prevedeva un’annessione pura e semplice all’Etiopia, la
seconda una federazione tra Eritrea ed Etiopia come soluzione di compromesso, la terza con
l’indipendenza dell’Eritrea. Quando il 13 luglio il Comitato interinale dell’Assemblea
generale cominciò ad esaminare il rapporto della Commissione d’inchiesta, il dibattito parve
subito orientarsi verso la soluzione di compromesso, cioè la federazione tra i due paesi,
caldeggiata anche dagli Stati Uniti già dall’ottobre dell’anno precedente. L’Italia inizialmente
si oppose alla soluzione di compromesso poiché essa nascondeva in sostanza un’annessione
ma dopo che il 18 settembre il Comitato interinale sospese con un nulla di fatto i suoi lavori,
l’ipotesi della federazione finì con l’imporsi ed anche l’Italia la considerò alla fine quanto di
meglio si poteva ottenere. Quando l’8 novembre 1950 si aprì la quinta sessione
dell’Assemblea generale delle nazioni unite, sul tavolo giaceva una questione ben più grave
della situazione politica del Corno d’Africa: la guerra di Corea, scoppiata all’inizio dell’anno,
minacciava di trasformarsi in un confronto diretto tra gli Stati Uniti, che già combattevano
anche contro le truppe della Cina comunista, e l’Unione Sovietica. A questo punto Hailé
Selassié giocò il suo jolly: fin dal 1946 l’imperatore aveva fatto sapere a Washington che
l’Etiopia per tradizione si opponeva al comunismo e che per fronteggiarlo sul Mar Rosso era
necessario che l’Eritrea fosse restituita all’Etiopia, ed a rimarcare questa dichiarazione il
Negus decise di mandare a combattere in Corea, a fianco degli americani, il battaglione
Kagnew465, l’élite della guardia imperiale, accendendo un credito con gli Stati Uniti che gli
sarebbe stato presto rimborsato. La risposta americana arrivò a stretto giro di posta tramite le
parole del segretario di Stato Dulles alle Nazioni Unite: “Dal punto di vista della giustizia le
opinioni degli eritrei devono essere prese in considerazione. Tuttavia, gli interessi strategici
degli Stati Uniti nel bacino del Mar Rosso e considerazioni sulla sicurezza e la pace mondiali
rendono necessario che il paese sia legato all’Etiopia”. La soluzione di compromesso

_______________________________
464 Tribù eterogenea occupante la vasta vallata del Barca e dei suoi affluenti, dai contrafforti abissini del Dembelàs fino al
mare. Indubbiamente il nucleo fondamentale della tribù è di stirpe begia; molte frazioni parlano tuttora la lingua begia, e il
Seligman ravvisa appunto nei Beni Amer il più puro tipo etnico dei Begia. Ma, disseminate nel vasto territorio, si trovano
numerose frazioni originarie dell'altipiano stesso, immigrate nella vallata in momenti opportuni, passate poi sotto l'egemonia
dei Begia ma conservanti la lingua tigrè. La tribù prende nome da un leggendario ‛Amer ben Qunnù, e da tempo
immemorabile è costituita a regime aristocratico: frazioni vassalle e famiglie dominanti. A capo della tribù è un diglal; e
molto verosimilmente appunto un capo di Beni Amer era il re dei Begia, che qualche geografo arabo medievale rammenta
stabilito in Suachin. A fianco del diglal è un rappresentante dei nobili o nebtàb, chiamato con voce araba sheikh el-mashā'ikh.
La massima parte dei Beni Amer è nomade, e vive di pastorizia, vagando in piccoli accampamenti di tende di stuoie coi suoi
ricchi armenti di cammelli e di buoi; talune frazioni si sono stabilite definitivamente col diglal nel suo accampamento, che,
per opera degl'Italiani, è divenuto stabile presso Agordat, e si vanno volgendo all'agricoltura; alcune altre frazioni hanno
parimenti stabile sede alle pendici dell'altipiano, e anche esse coltivano il suolo, al quale proposito merita rilievo il fatto che
tra esse vi sono frazioni a stretto tipo begia e a lingua begia, insediatesi nell'estremo sud-est del territorio della tribù.
465
Kagnew: dal nome del cavallo da guerra del padre di Hailé selassié, Ras Makonnen, durante la guerra italo-etiopica del
1896
158

apparve quindi inevitabile ed al Sottosegretario agli esteri Brusasca non restò altro che cercare
di ottenere adeguate garanzie per l’autonomia dell’Eritrea nel quadro della futura federazione
con l’Etiopia. La questione era ormai decisa ed a nulla valsero gli interventi dei rappresentanti
eritrei in difesa dell’indipendenza; il 2 dicembre 1950 l’Assemblea generale delle Nazioni
Unite approvava la Risoluzione 390 A (V) la quale stabiliva che l’Eritrea costituisse un’unità
autonoma federata con l’Etiopia, sotto la sovranità della corona d’Etiopia, con un governo
eritreo dotato di poteri legislativi, esecutivi e giudiziari sul piano degli affari interni e che
venisse elaborata una Costituzione entro il 15 settembre 1952. Fino ad allora il paese sarebbe
rimasto sotto il governo degli inglesi.466

La reazione dei partiti eritrei alla pubblicazione della Risoluzione ONU la possiamo
giudicare in un ricordo di Woldeab Woldemariam diversi anni dopo: “Noi indipendentisti ci
trovavamo in grande difficoltà. Quando l’Italia aveva adottato la tesi federalista, eravamo
rimasti senza alcun appoggio. Non avevamo altra scelta che accettare la decisione delle
Nazioni Unite. Rifiutarla sarebbe equivalso ad un suicidio: l’Etiopia ci avrebbe attaccato, gli
inglesi si sarebbero disinteressati. Eravamo soli, abbandonati da tutti. Non c’era altro da
fare che accettare la Risoluzione. Ma noi l’accettammo in buona fede. L’Etiopia, invece, la
considerò soltanto come un primo passo verso l’annessione. In attesa dell’arrivo del
Commissario delle Nazioni Unite, proponemmo al Partito unionista una riunione di
riconciliazione, per portare la pace fra gli eritrei.”467

La “Riunione per la pace” venne convocata il 31 dicembre 1950 ad Asmara. Più di


tremila eritrei dei diversi partiti si riunirono al cinema Impero, alla presenza di rappresentanti
di Italia, Etiopia, Francia e Stati Uniti, oltre alle autorità delle varie comunità religiose (copta,
musulmana, cattolica e protestante). Venne letta una dichiarazione:

“Tutti i partiti dell’Eritrea, considerata la necessità di addivenire ad una grande


pacificazione alla luce della decisione dell’ONU sul futuro assetto dell’Eritrea, hanno deciso:

1. Di rispettare la decisione di federare l’Eritrea con l’Etiopia;


2. Di dare la massima collaborazione al Commissario dell’ONU per la formulazione
della costituzione dell’Eritrea;
3. Di facilitare il compito dell’amministrazione britannica per il mantenimento
dell’ordine pubblico;
4. Di impegnare tutte le forze congiunte per raggiungere rapidamente il progresso e la
prosperità.”

Le reazioni italiane furono diverse: se da un lato la diplomazia si rendeva conto che


non sarebbe stato possibile ottenere migliori condizioni, i partiti di opposizione, soprattutto le
sinistre consideravano la Risoluzione dell’ONU come una gravissima sconfitta del Governo
italiano. I giornali legati al Partito comunista accusarono il ministro Sforza e l’intero Governo

__________________________

466
S. Poscia, Eritrea colonia tradita, Edizioni Associate, Roma, 1989, Pag. 52-54.

467
Ibidem, Pag. 55.
159

di non aver saputo salvaguardare gli interessi italiani in Eritrea e soprattutto di non avere
negoziato con l’Etiopia la preferenza per il lavoro italiano nell’area. Per quanto riguarda
invece le reazioni degli italiani residenti in Eritrea, invito alla lettura del telespresso giunto da
Asmara il 17 dicembre 1950.468

La questione eritrea sembrava dunque finalmente conclusa ma in realtà, purtroppo, le


cose sarebbero presto cambiate ed avrebbero portato il paese nell’incubo di una guerra di
liberazione, durata circa trent’anni (1962 – 1993), fino a quando l’Eritrea non ebbe
riconosciuta la sua totale indipendenza dall’Etiopia.

____________________________

468 V. Documento n. 25.


160

5.3. La Somalia e l’A.F.I.S.

Se in Eritrea dal punto di vista politico, anche a causa delle rivendicazioni etiopi,
l’Italia non si era trovata a scontrarsi più di tanto neppure con i partiti apertamente
indipendentisti, in Somalia la situazione si presentò ben diversa. Quando nel 1941 arrivarono
gli inglesi, vi furono dei notevoli cambiamenti sia nel campo economico che sociale; venne
riconosciuto il diritto di associazione, vennero assunti somali nei ruoli della British Military
Administration e nella gendarmeria, oltre ad una maggiore libertà di stampa. Nel 1946 – 1947
venne inoltre abbozzata una riforma del sistema educativo il quale, insieme agli altri
cambiamenti, portò ad una maggiore coscienza di nazione e fu senza dubbio l’atto che più
rafforzò il nazionalismo somalo. Durante il periodo coloniale era concesso agli indigeni
frequentare solo i primi tre anni di scuola elementare (dal 1926 venne introdotto un quarto
anno), seguiti eventualmente da un biennio di educazione tecnica, mentre nel dopoguerra
vennero create 19 nuove scuole elementari e fu inaugurata a Mogadiscio la prima scuola
media aperta ai somali, oltre al Teachers’ Training College per la preparazione dei maestri.
Nel 1943 venne fondato il Somali Youth Club469, destinato a diventare il maggior partito
politico della Somalia ed a reggere le sorti del paese dall’indipendenza fino al colpo di Stato
di Mohamed Siyad Barre470 (1960 – 1969); di spirito socialista, pur all’interno dell’islam che
anzi il movimento sfruttò come collante per la realizzazione dell’unità nazionale. Anzi la fede
religiosa fu il vero collante per il nazionalismo somalo (la comunità dei credenti, la umma). Il
gruppo di persone che fondò la Lega era formato da commercianti, artigiani, impiegati e
funzionari specialmente della gendarmeria, quindi una leadership né troppo sofisticata né
troppo istruita. Prese il nome di Somali Youth League il 1° aprile 1947 innalzando l’età
massima degli iscritti da 32 a 60 anni e dotando il movimento di una struttura istituzionale
complessa: l’Assemblea generale si riuniva una volta all’anno per deliberare sull’indirizzo
politico organizzativo del partito e per eleggere i tredici componenti del Comitato centrale, il
quale era il vero centro decisionale del partito e che a sua volta eleggeva il presidente, il vice
presidente, il segretario generale, ecc. La lega aprì un gran numero di sezioni in tutta l’ex
Somalia italiana ed in tutti i territori somalofoni del Corno d’Africa ed addirittura una a
Manchester evidenziando la vicinanza al governo inglese. Le rivendicazioni della Lega non si
limitavano ai territori dell’ex Somalia italiana ma anche a tutte le altre zone somalofone del
Corno come la Somalia francese, il Somaliland britannico, l’Ogaden etiopico e la parte più
meridionale del paese che era stato inglobato dal Kenya all’interno del Northern Frontier
District. Considerando che un vero e proprio stato somalo non era mai esistito,
paradossalmente la partizione coloniale aveva si diviso ma anche unito i somali alla ricerca di

_______________________
469 Lega dei giovani somali (LGS).

470 Siyad Barre, Mohammed. - Politico somalo (Luq Gahane 1919-Lagos 1995). Sotto l’occupazione inglese entrò nella

polizia (1941). Viceispettore durante l’amministrazione fiduciaria italiana della Somalia, compì un periodo di addestramento
in Italia. Generale nel 1965, prese il potere nel 1969 instaurando un regime socialista scientifico. Introdusse i caratteri latini
per la scrittura del somalo (1972), ma aderì alla Lega araba (1974). Sconfitto nella guerra con l’Etiopia (1977-78) e perso
l’appoggio sovietico, represse nel sangue il tentato golpe del 1978, ricorrendo sempre più alla mobilitazione clanica per la
gestione del potere e dello Stato. Abbandonò il Paese (1991) ormai in preda alla guerra civile, rifugiandosi in Nigeria.
161

una nazione. La Lega era nata da somali ma godette fin da subito dell’appoggio britannico in
quanto progressista, cooperante con la AMB ed anti-italiana; per gli inglesi la Lega era un
ottimo referente locale e rispondeva perfettamente ai piani del governo britannico in relazione
al processo di riforma del sistema imperiale che il governo laburista a Londra considerava
vitale per proteggere gli interessi britannici a livello globale e nella lotta al comunismo. La
contropartita per la Lega era il cosiddetto Bevin’s Plan che, come abbiamo più volte ricordato
precedentemente, prevedeva la formazione di una Grande Somalia, sotto tutela inglese,
comprendente il Somaliland, ex Somalia italiana, l’Ogaden, l’Haud e la parte somale del
Kenya, in base ad un principio di omogeneità etnico-linguistica oltre ad un interscambio
economico e culturale che rimandava ad una comune identità nazionale. Certo è che la Lega
non fu mai completamente appiattita ai voleri britannici poiché i giovani somali vedevano
nella fine del colonialismo la liberazione da tutte le ingerenze ed influenze esterne mentre gli
inglesi parlavano di liberazione dal fascismo, malcelando l’intenzione di sostituirsi all’Italia
come potenza di riferimento nel Corno d’Africa.471

Naturalmente la liberalizzazione politica intrapresa dagli inglesi permise anche la


nascita di altri partiti, vicini alle posizioni italiane che entrarono in competizione con la Lega,
il maggiore dei quali fu l’Unione patriottica di beneficenza, formatasi nel 1944 a Mogadiscio,
e dopo di questo, in ordine di importanza il partito Hizbia digil mirifle somali (Hdms)
formatosi nel 1947 che difendeva i diritti della comunita dei rahanweyn472 vale a dire a quelle
genti che tradizionalmente sono considerate d'inferiore condizione etnica dai Somali del nord,
Darod e Hawiye, formanti il nerbo della Lega dei Giovani Somali. Sul finire del 1947, tutti i
partiti legati all’Italia confluirono nella Conferenza di Somalia (o dei partiti verdi) che si
opponeva al programma dei giovani somali quanto a modernità e unitarietà e si rifaceva ai
valori della tradizione e dei clan e che erano favorevoli ad un ritorno dell’Italia per liquidare
le pendenze, una volta ottenuta l’Amministrazione fiduciaria, verso i suoi ex dipendenti
somali e rimborsare il paese dei danni subiti dalla guerra.

All’inizio del 1948 era prevista a Mogadiscio la visita della Commissione


quadripartita d’inchiesta incaricata di studiare la situazione nelle ex colonie italiane. L’arrivo
della Commissione rappresentò per le tre forze contendenti (indipendentisti, filo-italiani ed
amministrazione britannica) un momento di vitale importanza: la Lega e gli indipendentisti
oltre a voler dimostrare come l’Italia non fosse la scelta più idonea per una amministrazione
fiduciaria, aveva assorbito buone dosi della propaganda britannica in riferimento alla
costituzione di una grande Somalia (Londra aveva ormai ufficialmente abbandonato l’idea
anche se si continuava a discuterne nelle corrispondenze interne) ed era solleticata dall’idea di
essere il partito dominante tra tutti i somali; i partiti filo-italiani ricevettero diversi aiuti da
parte di agenti del ministero dell’Africa italiana sotto forma di denaro ma anche di regalie,
trattamenti di favore e promesse elettorali (questo approccio alla politica fatto di favoritismi e

___________________________

471
A. Morone, L’ultima Colonia – Come l’Italia è tornata in Africa 1950-1960, Laterza, Bari, 2011, Pag. 10-20.

472
Il Rahanweyn è un clan somalo composto da due maggiori sotto-clan, i Digil ed i Mirifle. E’ uno dei più grandi clan
Somali del Corno d’Africa. I Digil siano prettamente contadini e vivono sulle coste mentre i Mirifle sono principalmente
pastori nomadi. Linguisticamente parlando i Somali si dividono in due grandi famiglie: quelle che parlano il Mai Terreh e
quelle che parlano il Maxaa Tiri. Del primo gruppo fanno parte i Rahanweyn, mentre tra quelli parlanti il Maxaa Tiri
troviamo i Darod e gli Hawiye.
162

privilegi sarebbe rimasto tipico della Somalia sia con l’amministrazione fiduciaria che una
volta divenuta indipendente) in modo da mobilitare il maggior numero di persone possibile
per le manifestazioni a favore del ritorno dell’amministrazione italiana; l’amministrazione
militare britannica voleva utilizzare invece l’arrivo della Commissione come test per per
mostrare l’efficacia e la reputazione dell’AMB.473

Non era certo un mistero che l’AMB avesse un occhio di riguardo verso la LGS,
diversi elementi della lega facevano parte della polizia dell’AMB, ma ci fu un episodio che
creò parecchio malumore tra le fila dei sostenitori dell’Italia e non solo: come interpreti
aggregati alla Commissione erano giunti da Aden due avvocati di origine somala ma da anni
al servizio degli inglesi Michael Mariano e Louis Salole, aperti sostenitori della LGS. Questa
evidente prova di scarsa imparzialità aveva inoltre contribuito ad inasprire le tensioni che
derivavano dalla politica discriminatoria del regime italiano, che perdurarono anche nei primi
anni del dopoguerra e che l’AMB si guardò bene dal modificare. Le interferenze dell’AMB si
mostrarono invece ben evidenti nella scelta dei personaggi che avrebbero dovuto incontrare la
Commissione, andando così ad inficiare la spontaneità dei nativi al contrario di quello che la
Commissione avrebbe voluto. Inoltre i frequenti legami personali tra i delegati delle quattro
potenze e gli appartenenti all’AMB non garantivano di certo una serena ed imparziale
discussione anche se l’atto che più portò il malumore tra le fila degli attivisti filo-italiani fu
l’arresto di alcuni importanti elementi del movimento, accusati di aver fomentato nell’ottobre
del 1947 alcune violenze nei confronti della comunità arabo yemenita di Mogadiscio che
avevano causato una ventina di morti e gravi danni alle proprietà, nonostante questi atti
fossero stati fin da subito ricondotti ad elementi estremisti della LGS.474

Nei giorni tra il 6 e l’8 di gennaio 1948 vennero organizzate diverse manifestazioni da
parte dei movimenti filo-italiani le quali si svolsero, tutto sommato, in maniera pacifica se
escludiamo fischi, insulti e sberleffi rivolti alle autorità dell’AMB. Il giorno 10 vi fu un
tentativo da parte della Lega di evitare che la manifestazione prevista per il giorno dopo non
venisse ostacolata dal fronte filo-italiano ma che, a causa dell’intervento di alcuni agenti del
Mai, preoccupati dal fatto che la sola manifestazione leghista il giorno dell’inaugurazione dei
lavori della Commissione avrebbe favorevolmente impressionato i membri della stessa
portandola a conclusioni contrarie alle aspettative italiane, si rivelò un fallimento.
L’eventualità che il giorno seguente potesse vedere lo scontro fisico tra le due fazioni era
nell’aria, tanto è vero che la comunità araba, già segnata dalle precedenti violenze, ed anche
diversi italiani si ritirarono in un quartiere fuori città per evitare di esserne coivolti. La mattina
dell’11 gennaio il vice capo delle forze di polizia dell’AMB tentò il tutto per tutto per evitare
che le due manifestazioni si svolgessero simultaneamente convocando i rappresentanti della
Conferenza ed anche tre rappresentanti italiani ma non venne raggiunto nessun accordo. Anzi,
le rassicurazioni fornite dagli italiani sul fatto che avrebbero convinto la Conferenza a
manifestare dopo la LGS senza creare problemi di ordine pubblico, dimostrarono quanto poco
inglesi e italiani conoscessero la mentalià somala e di come sopravvalutassero la loro
influenza nel paese.475
_________________________
473
A. Urbano, A. Varsori, Mogadiscio 1948, Il Mulino, Bologna, 2019, Pag. 87-88.
474
Ibidem, Pag. 89-92.
475 Ibidem, Pag. 100-104.
163

La ricostruzione di quella tragica giornata può essere fatta approssimativamente sulla


base delle diverse versioni: la manifestazione della Lega fu incrociata da una manifestazione
pro Italia non autorizzata, anzi sconsigliata dalle autorità, e non è chiaro quanti fossero i
dimostranti né chi fossero né quali fossero i loro propositi. Di certo ci fu un assalto alla sede
della Lega ed uno scontro fisico tra le due opposte fazioni. La reazione dei dimostranti della
Lega fu immediata (qualcuno sostenne che non fu l’incidente a scatenare la reazione ma
che sarebbe avvenuta comunque) e la loro furia si rivolse contro gli italiani colpendoli
singolarmente od attaccando le loro case. Le forze dell’ordine furono praticamente assenti ed
anzi tra gli aggressori ci furono anche molti membri della gendarmeria. Alla fine della
giornata si contarono tra le vittime italiane 52 morti e 48 feriti, tra i somali 14 morti e 43 feriti
e tra le forze dell’ordine solo due feriti leggeri. Restano margini di dubbio su alcuni punti:

1. Chi organizzò effettivamente le due manifestazioni contrapposte e con quali


intenzioni;
2. Quale fu la parte della comunità italiana;
3. Quale fu l’atteggiamento degli ufficiali inglesi prima e durante gli incidenti.

La stampa inglese tardò a dare notizia degli incidenti in un misto di censura, di


silenzio e di imbarazzo, il “Times” dopo aver riferito di seri incidenti coinvolgenti italiani e
somali il giorno 12, tornò sull’argomento solo il giorno 28 attribuendo gli scontri alle
preesistenti tensioni tra i due gruppi e che erano in quei giorni arrivati a Mogadiscio alcuni
elementi pro italiani ai quali il quotidiano addebitò la scintilla del disastro. In Italia la notizia
della strage arrivò via Kenya, trasmessa dal console Della Chiesa anche se c’era molta
confusione dato che le comunicazioni con Mogadiscio erano molto difficili; le cifre
arrivarono inferiori al vero e gli inglesi sostennero che i tumulti erano stati istigati ma il
console respinse le accuse. Il giorno 15 il Sottosegretario Brusasca inviò un messaggio a
italiani e somali parlando di “uan prova più dura” e di “ignobili provocazioni”. I rapporti tra
Italia e Gran Bretagna diventarono un po’ più tesi anche se gli inglesi declinarono ogni
responsabilità sui fatti accaduti. Il 19 gennaio gli inglesi istituirono una Commissione
d’inchiesta per fare luce sugli incidenti ma il rapporto conclusivo non fu mai pubblicato
(definito “privileged document” per riservarsi una decisione sulla sua utilizzazione) e le copie
o i brani che se ne trovano tra i documenti inglesi ed italiani non sono abbastanza ampi da
permetterci di riuscire ad ottenere una verità per lo meno un po’ più attendibile. L’unica cosa
che si può dire del rapporto, leggendo alcuni memorandum del Foreign Office, è che non
fosse lusinghiero per nessuno e cioè che se da parte italiana ci furono le provocazioni e
l’inosservanza agli avvertimenti, da parte inglese ci furono le deficienze del dispositivo di
sicurezza. Ufficialmente il rapporto non venne mai pubblicato perché non avrebbe migliorato
i rapporti tra Regno Unito e Italia anche se la tendenza del War Office fu quella di coprire
l’AMB ed il Foreign Office era molto preoccupato di uno scandalo politico dato che la
Commissione avrebbe ricavato conclusioni non certo benevole. L’azione dell’Italia in sede
diplomatica puntò in quattro direzioni: sostituzione dei funzionari politici e della polizia
indipendentemente dal loro comportamento, sostituzione dei tre funzionari italiani già
rimpatriati, nomina di un rappresentante italiano a Mogadiscio e indennizzo delle vittime.476
_______________________________
476
G.P. Calchi Novati, Fra Mediterraneo e Mar Rosso. Momenti di politica italiana in Africa attraverso il colonialismo,
Istituto italo-africano, Roma, 1992, Pag. 133-155.
164

Il 21 novembre 1949, con la Risoluzione 289 (IV), all’Italia viene affidata


ufficialmente l’Amministrazione fiduciaria del paese. Ma che cos’era l’Amministrazione
fiduciaria ed era mai stata utilizzata prima? Una prima risposta è si, era già stata utilizzata
in precedenza seppur con un nome diverso, quello di Mandato internazionale. Il regime dei
mandati era stato deliberato dal Consiglio delle principali potenze alleate (che avevano vinto
la prima guerra mondiale) già il 30 gennaio 1919 e poco dopo sarebbe diventato, dopo
lievissime modifiche, l’articolo 22 del Patto della Società delle Nazioni. Il nuovo regime
subiva però ancora diversi caratteri tipici delle amministrazioni coloniali e principalmente
vedeva ancora l’obiettivo di rendere indipendenti i paesi amministrati attaverso una “sacra
missione di civiltà”.477 Oltretutto, nonostante il tentativo della Società delle Nazioni di
rendere queste amministrazioni internazionali attive anche per le colonie delle potenze
vittoriose il progetto si infranse contro l’opposizione principalmente di Francia e Gran
Bretagna, le quali sostennero che i nuovi principi dovessero applicarsi solo ai territori degli
stati vinti, e l’amministrazione dei territori finì con l’essere affidata a singoli stati tenuti ad
esercitare i poteri di governo in nome della Società delle Nazioni. L’unico obbligo per il paese
mandatario era quello di inviare annualmente alla Società una relazione relativa
all’adempimento del mandato.478 In seguito alla seconda guerra mondiale, la nascita delle
Nazioni Unite e la messa in discussione del sistema coloniale, portarono all’evoluzione di
questo principio nazionale verso una nuova idea di responsabilità internazionale verso i
popoli che aspiravano all’indipendenza che si concretizzò nel Trusteeship delle Nazioni
Unite, come istituzione della società internazionale. Anche l’amministrazione fiduciaria
prevedeva l’amministrazione di territori in nome delle Nazioni Unite realizzando vantaggi per
le popolazioni locali e per la comunità internazionale e non per la nazione amministrante.
L’art. 76 della Carta delle Nazioni Unite prevedeva infatti che gli obiettivi principali delle
amministrazioni fiduciarie fossero:

a) Rinsaldare la pace e la sicurezza nazionale;


b) Promuovere il progresso politico, economico, sociale ed educativo degli abitanti dei
territori in amministrazione fiduciaria ed il loro progressivo avviamento alla
autonomia o all’indipendenza, tenendo conto delle particolari condizioni di ciascun
territorio e delle sue popolazioni, delle aspirazioni liberamente manifestate dalle
popolazioni interessate, e delle disposizioni che potranno essere previste da ciascuna
convenzione di amministrazione fiduciaria;
c) Incoraggiare il rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali per tutti senza
distinzione di razza, sesso, lingua o religione, ed incoraggiare il riconoscimento della
interdipendenza dei popoli nel mondo;
d) Assicurare parità di trattamento in materia sociale, economica e commerciale a tutti i
membri delle Nazioni Unite, ed ai loro cittadini e così pure uguaglianza di trattamento

__________________________

477
A questo proposito citiamo il 1° comma dell’art. 22 del Patto della Società delle Nazioni: “ I seguenti principi si
applicano alle colonie ed ai territori che in seguito alla guerra hanno cessato di trovarsi sotto la sovranità degli Stati che
prima li governavano e che sono abitati da popoli non ancora in grado di reggersi da sé nelle condizioni particolarmente
difficili del mondo moderno. Il benessere e lo sviluppo di questi popoli costituiscono una missione sacra di civiltà e conviene
incorporare nel presente Patto delle garanzie perl’adempimento di tale missione”. (Ambrosini, 1953).

478 G. Ambrosini, Mandati internazionali e amministrazione fiduciaria, Colombo, Roma, 1953, Pag. 7-9.
165

a questi ultimi nell’amministrazione della giustizia, senza pregiudizio per il


conseguimento dei sopra indicati obiettivi, e subordinatamente alle disposizioni dell’
articolo 80.479

L’ONU fu quindi incaricato di vigilare sull’applicazione del Trusteeship che fu inteso


quindi in un rapporto organico e funzionale con gli obiettivi di pace e sicurezza della Carta di
San Francisco480. Nella formulazione del Trusteeship prevalsero le linee di continuità con i
mandati internazionali anche se il Trusteeship Council ebbe un ruolo più propriamente
politico rispetto a quello che aveva la precedente Commissione della Società delle Nazioni,
attraverso le missioni di visita che l’organo poteva effettuare nei paesi sotto tutela e le
petizioni che le popolazioni locali potevano rivolgergli. La teoria del Trusteeship si poneva
quindi la questione in termini nuovi attraverso l’esperimento di un’amministrazione che non
si riducesse al dominio di una potenza straniera europea su altri popoli, ma che si proponesse
obiettivi di sviluppo, sotto la responsabilità delle Nazioni Unite, nell’interesse dell’ordine
internazionale e del popolo amministrato con il fine di prepararlo al conseguimento della
piena maturità politica, sociale ed economica entro un certo periodo di tempo. Naturalmente
vi erano dei limiti sia teorici che pratici allo sviluppo di questi organismi: dal punto di vista
teorico il limite più grande era quello che il Trusteeship non prevedeva per forza
l’indipendenza ma parlava, più ambiguamente di self-government or independence. Inoltre
l’idea di tutela esprime immediatamente un concetto che si basa sulla presunta incapacità od
immaturità del soggetto e quindi rappresentava pur sempre una perdita di libertà pur nella
prospettiva di un progresso futuro. Dal punto di vista pratico, scontava il fatto di essere un
istituto che rispondeva ad un’esigenza ancora prevalentemente imperiale, nel senso di colmare
un vuoto di potere che si era creato in seguito alla sconfitta in guerra di ex potenze coloniali.
Naturalmente doveva essere scartata a priori l’ipotesi di un’indipendenza degli ex
possedimenti nemici poiché avrebbe potuto alimentare rivendicazioni autonomiste anche da
parte di altri paesi colonizzati, quindi restava semplicemente un’alternativa: o l’annessione da
parte del vincitore del conflitto o l’internazionalizzazione. Nel 1941, con la Carta atlantica,
era stato previsto il principio di autodeterminazione dei popoli (di Wilsoniana memoria) ma
Churchill escluse immediatamente che tale diritto potesse essere esteso ai territori dell’impero
britannico, limitandone la sua applicazione ai territori soggetti al giogo nazista. La Carta delle
Nazioni Unite accolse, in via di principio, un diritto di autodeterminazione per tutti i popoli
del pianeta, ma di fatto procrastinò e subordinò l’indipendenza al raggiungimento di obiettivi
politici, economici e sociali intermedi sotto la guida dell’autorità amministrativa.

L’amministrazione fiduciaria della Somalia era particolare poiché per la prima volta
veniva concessa la tutela all’ex potenza coloniale sconfitta, che nel caso dell’Italia non era
nemmeno membro dell’ONU, ed era stata concessa principalmente come premio per la scelta

__________________________

479 G. Ambrosini, Mandati internazionali e amministrazione fiduciaria, Colombo, Roma, 1953,, Pag. 14-15.

480 La Carta di San Francisco è il manifesto delle Nazioni Unite, firmato dai 51 paesi aderenti il 26 giugno 1945 ed entrata in

vigore il 24 ottobre 1945. L’Italia sarebbe entrata nelle Nazioni Unite nel 1955 ratificando la Carta il 17 agosto 1957.
Trattandosi di un documento di 23 pagine non l’ho riportato tra i documenti allegati ma invito vivamente, chi ne fosse
interessato, a leggerlo attentamente. (http://www.altrenotizie.org/pdf/onucarta.pdf)
166

atlantica. Trattandosi di un mandato sui generis, all’amministrazione italiana vennero


applicate alcune clausole speciali come l’obiettivo unico dell’indipendenza, la scadenza
decennale (1° aprile 1950 – 30 giugno 1960), un allegato all’accordo di tutela che conteneva
una serie di principi costituzionali i quali avrebbero dovuto guidare l’opera della potenza
amministratrice e la costituzione di un organo con funzioni consultive, l’United Nations
Advisory Council of Somalia, con sede a Mogadiscio, organo che abbiamo già visto in
precedenza. I rapporti dell’Amministrazione italiana con l’Advisory council furono
sostanzialmente tranquilli anche se quello che l’Italia non accettò mai fino in fondo non
furono i nuovi compiti ed il periodo a termine con cui ritornò in Somalia, assolutamente
incontrovertibili, ma di essere soggetta ad una forma di controllo continua del suo operato. Il
modo in cui l’Amministrazione italiana risolse questo problema fu per una volta vincente:
invece di marginalizzare il Consiglio lo coinvolse attivamente nel processo decisionale del
Trusteeship, estendendo le sue competenze formali ed agendo sui suoi rappresentanti (e sui
loro contrasti) al fine di condizionare sul piano pratico le loro capacità operative e decisionali.
In questo modo si ottennero due vantaggi: l’inibizione dell’azione del Consiglio a livello
locale e la garanzia del suo parere conforme e favorevole a livello internazionale sulle
decisioni prese dall’amministrazione fiduciaria. La strategia italiana, che come abbiamo visto
si dimostrò vincente, portò durante i dieci anni di tutela ad ottenere l’appoggio del Consiglio
riguardo alle maggiori realizzazioni dell’amministrazione o quantomeno a sottometterle a
negoziazioni non particolamente impegnative. Questo non significò una totale assenza di
contrasto, specialmente su alcune questioni (l’irrisolta definizione del confine con l’Etiopia,
l’accoglimento e la valutazione delle petizioni, la garanzia dell’indipendenza del potere
giudiziario, la discussione relativa al piano di trasferimento dei poteri tra l’amministrazione
italiana ed il governo somalo nell’imminenza dell’indipendenza e l’assistenza economica alla
Somalia indipendente) le posizioni dell’UNACS furono particolarmente critiche.481

La conclusione dell’esperimento Amministrazione fiduciaria (non solo quella italiana)


ebbe un esito molto incerto e terminò più per cause legate a fattori esterni che non in forza
degli sviluppi propri del sistema. Se è vero che i territori sotto tutela fecero diversi passi verso
quell’obiettivo di preparazione all’indipendenza che sottintendeva il Trusteeship, è anche vero
che si riappropriarono definitivamente della loro autonomia solo in forza di un processo che
vide il progressivo collegamento della particolare vicenda fiduciaria alla più generale
questione dei territori non autonomi. Con la Risoluzione 1514 del 14 dicembre 1960,
l’Assemblea generale dell’ONU affermava che era necessario porre fine rapidamente ed
incondizionatamente al colonialismo (quindi anche alle amministrazioni fiduciarie), definito
come contrario allo statuto delle Nazioni Unite e ai diritti umani fondamentali, nonché di
pregiudizio alla pace e alla cooperazione mondiale, sulla base del diritto di
autodeterminazione dei popoli. Questo per dire in linea generale cosa fosse
un’amministrazione fiduciaria ed ora ci occuperemo nel dettaglio di quella italiana in
Somalia.

Bisogna affermare subito che la discussione al parlamento italiano riguardo al nuovo

____________________________

481
A. Morone, L’ONU e l’Amministrazione fiduciaria italiana in Somalia – Dall’idea all’istituzione del Trusteeship, Italia
Contemporanea, n. 242 marzo, Franco Angeli, 2006, Pag. 125-130.
167

impegno in Africa fu estremamente tesa poiché i partiti legati alle sinistre si opposero alla
nuova avventura italiana sia eticamente che dal punto vista economico, oltre ad una lunga
discussione (di cui non ci occuperemo) riguardo al fatto che il disegno di legge relativo
all’impegno italiano fosse stato presentato con la caratteristica di estrema urgenza quando il
nostro ordinamento avrebbe previsto un iter diverso. A parte il fatto che alla presentazione
del disegno di legge, il relatore Ambrosini482 affermava che l’Italia sarebbe tornata in Africa
per continuare a svolgere una missione di civiltà, dimostrando cioè, al contrario di quanto poi
asserito, che la mentalità con cui il paese si accingeva al nuovo ruolo non era poi molto
diversa da quella coloniale precedente, le tesi che sostenevano il ritiro totale italiano e quindi
la non accettazione della proposta di tutela erano svariate. Troviamo, da parte del deputato di
minoranza Dugoni una tesi, sostenuta già all’inizio del ’900 da Gaetano Salvemini483, in
occasione della guerra di Libia, riguardo allo spreco di risorse (venne richiesto lo
stanziamento di sei miliardi per la nuova logistica) che al contrario sarebbero servite molto
più urgentemente in patria, obiezione per altro condivisibile; un'altra tesi portata avanti dai
banchi delle sinistre fu quella che il nostro intervento in Somalia avrebbe rovinato i rapporti,
in fase di riallacciamento, con l’Etiopia e perso diverse possibilità commerciali con quel paese
(ricordiamo che il Negus avrebbe voluto annettersi anche la Somalia oltre all’Eritrea); il
deputato Pajetta484 tornò sull’antico discorso dell’emigrazione italiana e sulle possibilità
lavorative nel paese africano oltre alla scarsissima presenza di italiani in Somalia.485

Quello che c’è da valutare in maniera più approfondita è il modo in cui l’Italia tornò in
Africa attraverso cioè quale mentalità e quali persone l’amministrazione italiana si ripresentò
agli ex-sudditi coloniali. Dal punto di vista del personale inviato in Somalia dall’inizio
___________________________

482
Ambrosini, Gaspare. - Giurista (Favara 1886 – Roma 1985). Già magistrato, fu poi prof. di dir. ecclesiastico nell'univ. di
Messina (1911), di dir. costituzionale in quella di Palermo (1919), di dir. coloniale (1937) e quindi di dir. costituzionale
(1953) nell'univ. di Roma. Autore di numerose opere di diritto pubblico e di politica sociale. Deputato all'Assemblea
Costituente per la Democrazia cristiana, fu uno degli artefici della Costituzione repubblicana di cui elaborò lo schema
riguardante le regioni, le province e i comuni. Deputato alla Camera dal 1948 al 1953, nel 1955 fu eletto dal Parlamento
giudice della Corte Costituzionale, di cui fu presidente dal 1962 al 1967. Tra le sue opere principali, si segnalano: Partiti
politici e gruppi parlamentari dopo la proporzionale (1921), che anticipa la riflessione di Leibholz sullo Stato dei partiti, e
Lezioni di diritto costituzionale (1955).

483 Salvèmini, Gaetano. - Storico e uomo politico (Molfetta 1873 – Sorrento 1957). Iscritto al PSI, approfondì le sue
riflessioni sul nesso tra socialismo e questione meridionale, criticando la tendenza al protezionismo operaio settentrionale.
L'attenzione ai problemi del paese lo condusse a polemizzare con il governo di G. Giolitti. Diresse, con A. De Viti De Marco,
il settimanale L'Unità (1911-20), tramite il quale esercitò una profonda influenza sul dibattito politico. Interventista nel 1915,
fu deputato nel 1919. Nel 1925 fondò il quotidiano clandestino antifascista Non mollare!: arrestato, espatriò in Francia, dove
fu tra i fondatori di Giustizia e libertà, e poi negli Stati Uniti. Oppositore del fascismo, arrestato nel 1925 e processato per
aver fondato, con altri, il quotidiano clandestino Non mollare!, riuscì ad espatriare nell'agosto dello stesso anno. Rientrato in
patria, nel 1948 fu reintegrato nella cattedra di Firenze. Nel 1955 gli fu conferito il premio internazionale Feltrinelli per la
storia. Degli scritti, pubblicati in varie lingue durante l'esilio e negli ultimi anni, si ricordano: The fascist dictatorship in Italy
(1928); Mussolini diplomate (1932); Under the axe of fascism (1936) e Prelude to world war II (1953), pubblicati anche in
italiano, e La politica estera dell'Italia (1871-1914) (1944).

484
Pajetta, Giancarlo. - Uomo politico (Torino 1911 – Roma 1990). Militante comunista dal 1925, fu a lungo in carcere
durante il fascismo. Liberato nell'ag. 1943, partecipò alla lotta partigiana in Piemonte, Liguria e Lombardia; nel 1945 divenne
rappresentante del CLNAI presso il governo Bonomi. Membro della direzione del PCI, fu deputato alla Costituente e in tutte
le legislature repubblicane. Fu dirigente di primo piano del partito, particolarmente impegnato sul versante della politica
internazionale (ha diretto la commissione per gli affari internazionali del PCI dal 1970 al 1983). Tra i suoi scritti Le crisi che
ho vissuto (1982) e Il ragazzo rosso (1983).

485
A. Morone, La fine del colonialismo italiano fra storia e memoria, Storicamente – Laboratorio di Storia n. 12, Bologna,
2016. Pag. 21.
168

dell’amministrazione fiduciaria dobbiamo affermare che la continuità con il passato regime fu


abbastanza evidente: la scarsissima conoscenza delle questioni africane da parte della nuova
classe dirigente repubblicana, obbligò il governo di Roma a rimandare in Somalia funzionari
ex coloniali e spesso legati a doppio filo con il fascismo i quali erano gli unici a dare un
minimo di garanzia affinché gli obiettivi dell’amministrazione fiduciaria fossero raggiunti. Di
questa situazione si lamentarono con le Nazioni Unite i rappresentanti della Lega dei Giovani
Somali i quali facevano notare come, tranne per l’amministratore e pochi altri, i funzionari
dell’A.F.I.S. appartenessero tutti al Ministero dell’Africa italiana e di come l’assetto
dell’amministrazione in Somalia fosse identico a quello del regime fascista.486

Dal punto di vista della mentalità la continuità fu abbastanza evidente: fino agli inizi
degli anni ’50 il lessico utilizzato dai governanti italiani, o politici in generale, continuava ad
essere quello del periodo coloniale come possiamo vedere da questo stralcio di discorso di G.
Ambrosini « L’Italia ritorna in Africa per continuare a svolgere una missione di civiltà che è
consona al suo temperamento e alle sue tradizioni e vi torna a titolo diverso da quello
precedente». Quel verbo continuare ed il riferimento alle tradizione mostra senza alcun
dubbio che il pensiero del deputato democristiano restava legato al periodo coloniale ed alla
missione civilizzatrice dell’Italia in Africa. Ambrosini non era certo l’unico a pensarla in quel
modo dato che una vera autocritica del colonialismo non venne mai presa in considerazione
da nessun partito politico tranne quello comunista, dopo il 1950, critica comunque utilizzata
principalmente per motivi di politica nazionale. La buona amministrazione che ritorna in
Africa ricomincia a fare capolino nelle discussioni parlamentari e addirittura il solito
Ambrosini arrivò ad affermare che la politica scolastica in Somalia fu almeno allo stesso
livello delle colonie degli altri paesi, quando era ben noto che gli indigeni non potevano
andare oltre la terza elementare (la quarta dal 1926). Il riferirsi sempre al fascismo come
periodo negativo nella storia del paese e quindi anche delle colonie faceva sempre dimenticare
che vi era stato un colonialismo italiano precedente al regime di Mussolini il quale, nei suoi
caratteri essenziali non fu affatto diverso. In questo periodo si assiste quindi ad un tentativo di
rimozione più che di autocritica del periodo coloniale italiano, tentativo peraltro ottimamente
riuscito visto che solo dalla fine degli anni’90 è cominciato, perlomeno tra gli storici, un
dibattito critico sul periodo coloniale dai suoi esordi alla sua fine. Quindi la vera rottura con
l’esperienza coloniale avvenne tramite la perdita della memoria storica del periodo e ciò ha
causato il fiorire di leggende o presunte tali sui territori africani ex italiani.487

Tornando ora a parlare della situazione politica poco prima della concessione
dell’amministrazione fiduciaria, a livello di curiosità ma anche per far capire come spesso le
conoscenze reciproche in diplomazia non vadano oltre quelle personali, citiamo un
emendamento488 che un delegato filippino presentò durante la discussione relativa all’accordo
di tutela per la Somalia il 16 gennaio 1950: il delegato chiedeva all’Italia di non sottomettere
alla tortura o ad altre pene disumane e degradanti i carcerati od i sospettati di qualche
misfatto. La risposta italiana fu che la situazione di diritto descritta dal delegato filippino
____________________________
486
Ibidem, Pag.14-21.

487 Atti parlamentari – Dicussioni – Seduta di venerdì 3 febbraio 1950.

488 ACS AS 001-0000707, b. 2092, f. PIII – 116/1.


169

rispecchiava una situazione anteriore all’approvazione delle dodici tavole da parte dei
decemviri più di 2000 anni fa. Comunque anche i funzionari italiani non sempre erano
perfettamente al corrente di quelle che fossero le loro funzioni; a tal proposito ricordiamo un
documento489 del 17 luglio 1950 che cita l’Amministratore della Somalia Fornari, forse
desideroso di creare un clima pacifico sul territorio, il quale commise un errore molto grave:
concesse una totale amnistia per i reati politici compiuti durante e dopo il passaggio dei poteri
dall’amministrazione britannica all’A.F.I.S., ma questi poteri spettavano solo al Presidente del
Repubblica Italiana su delega del parlamento, al più l’Amministratore poteva concedere dei
singoli provvedimenti di grazia. La Corte di Cassazione annullò quindi il provvedimento.

Poco prima della presa di potere ufficiale dell’Amministrazione fiduciaria italiana, un


telespresso arrivato da Mogadiscio il 17 marzo 1950 indirizzato al ministero dell’Africa
italiana descriveva l’allora situzione politica nel paese:

[…]

“La situazione politica locale, nel suo complesso, può essere considerata buona. I
modesti incidenti successi a due notabili della S.Y.L. (Hagi Dirie Herzi e Hagi Mussa Beger)
hanno già formato oggetto di precedenti comunicazioni, e sono stati ormai ridotti alle loro
vere proporzioni. La S.Y.L., pure essendosi subito interessata per evitare il dilagarsi di azioni
di violenza, cerca di attribuire agli avvenimenti un carattere politico, allo scopo di potere poi
erigersi a pacere ed assumere quindi una posizione di eminenza, al di sopra di ogni contesa e
di ogni fazione. Ciò trova conferma anche nel desiderio espresso dalla S.Y.L., che la
Conferenza (la quale non risulta abbia avuto alcuna parte negli accennati incidenti) richieda
l’intervento della Lega stessa per un arbitrato ed una composizione. Un tale passo è
ovviamente sconsigliabile in quanto nessun partito, e tanto meno la S.Y.L., deve assumere una
supremazia nella nostra Amministrazione Fiduciaria, e comunque arrogarsi funzioni che
appartengono esclusivamente agli organi dell’amministrazione.
La conferenza, secondo il nostro consiglio, non ha ancora dato una risposta precisa
alla richiesta della S.Y.L. e cerca di differire ogni decisione e di temporeggiare, in attesa del
trapasso dei poteri e dello svolgersi della situazione.”
[…]
“La maggioranza dei somali non nasconde il suo atteggiamento di viva e fiduciosa
attesa della nostra Amministrazione: dipende da noi non deluderli. Abbiamo promesso molto
ed ora è necessario mantenere, per quanto possibile, le nostre promesse. Fra i provvedimenti
più attesi, e quindi più urgenti e necessari, sono quelli per l’incremento ed il miglioramento
delle colture agricole, il miglioramento e la protezione del patrimonio zootecnico,
l’assistenza sanitaria, l’istruzione scolastica e professionale, la compartecipazione dei somali
al governo. Se tali provvedimenti avranno una sollecita, se pur graduale, attuazione, potremo
contare sulla generale collaborazione dei somali, non dovremo temere incidenti di qualche
gravità e si potranno in conseguenza ridurre notevolmente le attuali ingenti spese militari.

__________________________

489
ACS AS 001-0000707, b. 2093, f. PIII – 116/13.
170

Si può oggi valutare che almeno il 95% dei somali è a noi favorevole; ma è
nota la mobilità di sentimenti dei nativi e la loro ricettività a voci tendenziose e
propagandistiche abilmente diffuse e basate su fatti o su carenza di azione. Se, pertanto, si
adotteranno al più presto i necessari provvedimenti, soprattutto nei campi sopraccennati,
nulla dobbiamo temere; se, invece nulla verrà fatto e non ci dimostreremo coerenti e pronti
nell’azione, è non solo possibile ma anche probabile qualche reazione, e comunque lo
slittamento verso altre correnti di idee di larghi strati di popolazione ora a noi favorevole.”
[…]
“Per quanto riguarda l’attività di partiti estremisti, essa è finora praticamente
inesistente. Tuttavia si cercherà di meglio chiarire gli scopi di alcuni informatori etiopici, nel
senso che oltre dirò. Per quanto riguarda i nazionali si rappresenta l’opportunità che, prima
di concedere dei lasciapassare per la Somalia, vengano assunte accurate informazioni, per
evitare che giungano qui elementi comunisti, come è di recente avvenuto per Urati e Di
Nunzio, i cui lasciapassare erano regolarmente rilasciati da codesto Ministero. E’ evidente
che, una volta arrivati in Somalia, la segnalazione della presenza di costoro non può
eliminare gli inconvenienti che essa comporta.”490

Il telespresso prosegue con dei consigli dal punto di vista economico:

[…]

“Lungi dalla mia mentalità di star sempre “sul chi vive” ma l’atteggiamento dei
britannici è, secondo me, quello che più va osservato e meditato. Attraverso la
fraternizzazione più assoluta e spinta, prendono forma alcune linee di un piano preordinato.
La possibilità di mantenere intanto con ogni mezzo un’influenza soprattutto economica nel
paese è certo uno dei loro principali obiettivi. Essi contano per questo sulla naturale
gravitazione dei traffici verso il Kenya, verso Aden e l’India e l’area della sterlina in genere.
Sanno che queste correnti tradizionali sono altresì i più convenienti, e che i prezzi delle
nostre industrie e dei nostri prodotti i più alti. Fanno comunque di tutto per lasciare
operatori affermati ed abili o per mimetizzarli o lasciare gestioni di stralcio con scorte
imponenti ed agenti italiani. Hanno al riguardo saturato tutti i contingenti export-import con
i loro permessi, che avranno quindi, per gli accordi di Londra, validità fino a sei mesi al
minimo.”

La situazione nel paese veniva quindi dipinta, se non completamente favorevole,


almeno come non ostile, a parte il discorso Lega: l’importante sarebbe stato agire prontamente
in modo da non deprimere gli indigeni, i quali, nonostante tutto, nutrivano ancora sentimenti
positivi nei confronti degli italiani. Una delle prime creazioni dell’AFIS furono i consigli di
residenza, che descriviamo qui nel dettaglio citando una relazione dell’epoca:

“I Consigli di Residenza, creati con circolare n. 22809 del 27 luglio 1950, oltre ad
essere il primo istituto democratico del Territorio in ordine di tempo, costituiscono la base
per la formazione e lo sviluppo degli altri istituti democratici che sono sorti e vanno sorgendo

__________________________
490
ASCM Fondo Brusasca, b. 33, f. 7.
171

ad iniziativa dell’Amministrazione nel quadro delle direttive indicate dalla Convenzione


Fiduciaria per il progresso politico dei somali.

Infatti le loro assemblee, benché soltanto consultive e non deliberanti, non


limitano la propria attività all’esame dei vari problemi concernenti le rispettive circoscrizioni
territoriali, ma sono state dall’Amministrazione investite anche del potere di designazione dei
membri tribali del Consiglio Territoriale, organo consultivo superiore entrato in funzione il
29 gennaio u.s., e delle Consulte Municipali, che entreranno in funzione col 1° luglio p.v..

A tali compiti i Consigli di Residenza (in totale 27) sono qualificati dalla loro stessa
composizione, che ne fa dei veri e propri organi rappresentativi delle popolazioni locali. Tutti
i Capi e i Notabili stipendiati della Residenza, i Capi Paese e i Capi Mercato anche se non
stipendiati, i Segretari di sezione dei Partiti Politici, fanno parte di diritto del Consiglio di
Residenza; inoltre il Commissario, su proposta del Residente, nomina quali membri del
Consiglio le Notabilità eminenti della circoscrizione. Se si considera che i Capi stipendiati,
che costituiscono il nucleo essenziale del Consiglio di Residenza, traggono la loro autorità
direttamente dalla tribù di cui l’Amministrazione si limita a sanzionare col proprio atto di
nomina la libera scelta avvenuta nei tradizionali “Scir”, si deve concludere che i Consigli di
Residenza, pur non essendo ancora dal punto di vista formale degli organismi elettivi in
senso democratico moderno, sono tuttavia organismi sostanzialmente popolari e
rappresentativi. E come tali hanno effettivamente funzionato in questo loro primo anno di
vita, perché i problemi più disparati, da quelli delle abbeverate e delle interpretazioni del
“Testur” a quelli dei mercati, a quelli assistenziali e commerciali e agricoli, sono stati
dibattuti in un clima di perfetta libertà democratica. Certo, in molte zone dell’interno rimane
ancora da fare i conti con la naturale diffidenza del nomade o seminomade verso tutto quello
che sa di nuovo e con la congenita apatia delle masse e la loro proverbiale ignoranza. Ma va
messo in rilievo come in questi ultimi mesi sia andato diventando sempre meno frequente il
caso di riunioni concluse con una rinuncia da parte dei Consiglieri a trattare gli argomenti
all’ordine del giorno: i Capi vanno realizzando che, per quanto illuminata possa essere
l’Amministrazione, i pareri sui singoli problemi debbono essere da loro espressi, e debbono
essere espressi non in separata sede ma nell’unica sede idonea ad un proficuo dibattito
generale: il Consiglio di Residenza.

Di ogni riunione dei Consigli di Residenza (in media ne sono state tenute tre in questo
primo anno) viene redatto regolare verbale. Se gli argomenti trattati rivestono carattere di
particolare importanza, detti verbali vengono trasmessi alla Segreteria del Consiglio
Territoriale, che ne espone poi il contenuto nel suo Bollettino Mensile. Così gli aspetti
essenziali dei problemi delle singole circoscrizioni, la sostanza e la modalità dei dibattiti
divengono di dominio pubblico nel Territorio, il che assicura il più efficace esplicarsi di
quella funzione di educazione politica che è tra le speranze fondamentali riposte
dall’Amministrazione in questi organismi autonomi di governo.”491

___________________________

491 ASCM Fondo Brusasca, b. 52, f. 12.


172

L’opera dell’A.F.I.S., che non tratteremo a fondo in questo studio poiché si andrebbe
un po’ fuori tema, è stata commentata in Italia, in modi diametralmente opposti, da politici e
storici. Angelo del Boca492 definì l’A.F.I.S. «un mediocre esame di riparazione ai mali della
politica italiana nei confronti dei paesi del Corno d’Africa», secondo Umberto Triulzi mancò
gravemente un’indipendenza economica del paese oltre a quella politica, per Luigi Gasbarri,
al contrario, il periodo dell’Amministrazione fiduciaria è da ricordare. Gasbarri ricorda che
oltre alle continue manifestazioni di stima e riconoscimenti da parte delle Nazioni Unite ad
ogni rapporto annuale che il Consiglio Consultivo stilava per il Consiglio di Tutela.
Nell’ultimo rapporto che il Consiglio inviò (gennaio – aprile 1960) all’ONU si leggeva
sinteticamente quanto segue:

“L’AFIS, il Governo ed il popolo somalo si sono bene adoperati per gettare le basi
politiche di un stato indipendente e per preparare il definitivo trasferimento di sovranità.

E lo hanno fatto in un periodo di tempo relativamente breve e con uno spirito di mutua
comprensione e collaborazione.

Il Consiglio Consultivo ci tiene a felicitarsi con l’AFIS e il Governo somalo


esprimendo le speranze che un altro problema, quello dei confini con l’Etiopia, possa
ugualmente essere risolto con la soddisfazione dei due paesi africani.

Sotto il regime di tutela il territorio ha fatto progressi considerevoli anche in campo


economico per cui potrà affrontare la maggior parte dei suoi bisogni essenziali con le proprie
risorse.

Per quanto attiene al progresso sociale e culturale il Consiglio Consultivo non esita a
prendere nota con soddisfazione che tanto è stato realizzato con tanto poco tempo nei
riguardi di un gran numero di persone.

Per il resto numerosi progressi sono stati realizzati con scuole pubbliche soddisfacenti
comprendenti l’insegnamento primario, secondario, tecnico professionale e superiore; il
tasso di anlfabetismo è stato assai ridotto; il diritto di voto è stato riconosciuto ad uomini e
donne; la donna (una volta riconosciuta soltanto come produttrice di figli e destinata a lavori
umili) è stata inserita attivamente nella vita professionale, sociale e politica della comunità;
le malattie endemiche della malaria e della tubercolosi sono state combattute con successo; i
servizi medici ed ospedalieri sono stati assai migliorati; i lavoratori sono protetti da un
Codice del Lavoro”493

_______________________

492
Del Boca, Angelo. – Storico, giornalista e scrittore (Novara, 1925). Considerato il maggiore storico del colonialismo
italiano. È stato il primo studioso italiano ad occuparsi della ricostruzione critica e sistematica della storia politico-militare
dell'espansione italiana in Africa orientale e in Libia, e primo fra gli storici a denunciare i numerosi crimini di guerra
compiuti dalle truppe italiane durante le guerre coloniali fasciste. Vive a Torino e dirige la rivista di storia contemporanea I
sentieri della ricerca.

493L. Gasbarri, L’AFIS (Amministrazione Fiduciaria Italiana della Somalia – 1950-1960): una pagina di storia italiana da
ricordare, Africa, 41/1, Roma, 1986, Pag. 80-81.
173

Dal punto di vista politico l’Amministrazione fiduciaria italiana fu dunque


considerata un successo, ma naturalmente non era tutto oro quello che luccicava e diversi
problemi non erano stati risolti, anche a causa della brevità del mandato; vi erano problemi
più tecnici, come la somalizzazione delle istituzioni che andava a rilento a causa di una
carenza di personale adeguatamente preparato ed al forse troppo utilizzo di personale del
Ministero dell’Africa Italiana o il decidere con che caratteri la lingua somala, diventata
ufficiale, avrebbe dovuto essere scritta. Una delle principali imposizioni dell’Onu nei
confronti dell’AFIS fu quella di garantire un sistema educativo che donasse una reale
emancipazione alla popolazione somala, presupposto indispensabile per l’indipendenza.
Venne studiato un “Piano quinquennale per lo sviluppo dell’istruzione in Somalia” il quale è
destinato a fornire un’istruzione primaria alla maggior parte della popolazione, ma dato che
l’Italia doveva garantire anche una formazione superiore ai giovani destinati a diventare
quadri tecnici e politici della nuova nazione, tra il 1952 ed il 1960 vennero istituite 711 borse
di studio che consentiranno a 531 studenti di concludere la loro formazione universitaria in
Italia. L’attuazione di questo programma, oltre a rispondere alle esigenze somale, doveva
anche creare, secondo le speranze italiane, una classe dirigente amica ed affidabile una volta
che la Somalia avesse raggiunto l’indipendenza. Quindi l’italianizzazione e la fidelizzazione
saranno i due obiettivi ispiratori del programma di formazione, soprattutto dopo che paesi
come l’Egitto, dopo la rivolta di Nasser494 nel 1952, eserciteranno una notevole attrazione nei
confronti delle popolazioni impegnate nelle lotte anticoloniali. Per questo motivo l’erogazione
delle borse di studio continuò anche nel decennio successivo. La maggior parte degli studenti
si laureò in legge e scienze politiche insieme a diverse professionalità come geometri, tecnici
agrari, operai specializzati, assistenti sanitari e soprattutto maestri i quali furono reinviati in
Somalia non appena ottenuta l’abilitazione. Durante il loro soggiorno in Italia gli studenti
vennero presi in carico dal neo costituito Centro di Studi Somalo di Roma, rimasero
controllati dalle questure per tutto il periodo di permanenza attraverso segnalazioni al
Governo riguardo soprattutto le loro idee politiche, dato che il partito comunista, in virtù della
campagna anticolonialista che porta avanti per tutti gli anni ’50, si accredita come il referente
politico più naturale per gli studenti somali. Una volta giunti alla fine del percorso di studi
vennero rimpatriati ed utilizzati dall’AFIS all’interno della struttura burocratica del paese.495

Gli studenti somali sono i primi ex sudditi coloniali che arrivano in Italia e sono anche
i primi a scontrarsi con i pregiudizi e talvolta il razzismo degli italiani. Inizialmente gli
episodi sono considerati dagli stessi studenti dettati dalla semplice ignoranza, diversa è invece
la loro risposta quando si trovano invischiati in risse con appartenenti alla destra italiana;
provocazioni di stile coloniale ed il comportamento non irreprensibile della polizia, che
spesso si limita a fermare solo gli studenti di colore, comincia a far dubitare l’assoluta
______________________________

494Nàsser. - Nome sotto cui è noto l'uomo politico egiziano Giamāl Ḥusain ῾Abd an-Nāṣir (Beni Mor 1918 – Il Cairo 1970).
Guidò il colpo di Stato (1952) contro re Faruq e fu presidente della Repubblica (dopo la destituzione di M. Nagib, 1955). Con
la nazionalizzazione del Canale di Suez (1956) N. si affermò come leader dell'anticolonialismo e del panarabismo. Dopo la
sconfitta egiziana nella cosiddetta guerra dei sei giorni, si dedicò alla ricerca di una soluzione diplomatica alla crisi
mediorientale.

495
V. Deplano, L’Impero colpisce ancora? Gli studenti somali nell’Italia del dopoguerra, Quel che resta dell'impero. La
cultura coloniale degli italiani, Milano, Mimesis, 2014, Pag. 331-46.
174

mancanza di razzismo da parte perlomeno di alcuni italiani. Comunque, l’idea che il “nero”
sia facilmente irritabile e sia refrattario alle norme del buon vivere resta ben fissa nel pensiero
comune italico. Viene quindi per la prima volta messo in dubbio l’assioma assolutorio del
“buon Italiano”, dubbio che verrà poi preso in considerazione dagli storici coloniali solo a
partire dalla metà degli anni ’90.496

Economicamente parlando, una delle prime problematiche che l’AFIS dovette


risolvere fu la questione del nuovo sistema monetario somalo. Vi erano tre possibili opzioni:

• L’estensione del sistema monetario italiano alla Somalia;


• L’introduzione di un sistema indipendente;
• L’introduzione di un sistema misto basato sulla creazione di una nuova moneta ma
legato a quello italiano.

L’analisi fatta doveva considerare il livello di sviluppo del paese, la produzione locale,
il commercio interno, il volume del mercato italo-somalo ed il volume del commercio con
l’estero. Lo studio effettuato dalla Banca d’Italia rivelò infine che un sistema indipendente
sarebbe stata la scelta migliore. Inoltre dare alla Somalia un proprio regime monetario fin
dall’inizio dell’Amministrazione Fiduciaria sarebbe stata la migliore risposta ai reali bisogni
economici del paese. La nuova moneta, il Somalo, venne istituita in regime di parità di
cambio con lo scellino in uso nell’Africa dell’est britannica. Dato che nel 1950 le condizioni
economiche del paese non permettevano la creazione di una banca centrale, venne creata la
Cassa per la Circolazione Monetaria della Somalia che si sarebbe dovuta occupare
dell’emissione e del controllo della moneta ed avesse anche una funzione di consigliere
governativo riguardo alle questioni monetarie. Nel 1959, con il Decreto Presidenziale n. 1131
del 2 dicembre 1958, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale l’8 gennaio dell’anno seguente, la
Cassa venne trasformata in Banca Nazionale della Somalia avente tutte le funzioni di una
banca centrale (depositi, emissione di assegni, emissione di denaro, investimenti pubblici,
operazioni valutarie, ecc.).497

Nel 1956 una missione dell’ONU incaricata di valutare se la Somalia fosse pronta a
diventare una nazione indipendente si espresse in questi termini:


La Somalia ha poche risorse disponibili e nessuna di queste può produrre un rapido
sviluppo;
• Il settore zootecnico può provvedere a reali possibilità di sviluppo ma solo nel lungo
periodo;
• L’agricoltura offre poche opportunità ed il suo sfruttamento richiede manodopera
qualificata;
• L’aiuto portato dall’Italia sotto forma di contributi finanziari annuali ed indiretto
tramite l’acquisto della produzione di banane a buon prezzo, contribuisce allo sviluppo
dell’educazione, sanitario, del benessere pubblico e dà al paese strade ed altri servizi
pubblici che il paese da solo non è in grado di darsi;
______________________________
496
V. Deplano, L’Impero colpisce ancora? Gli studenti somali nell’Italia del dopoguerra, Quel che resta dell'impero. La
cultura coloniale degli italiani, Milano, Mimesis, 2014, Pag. 346-51.
497
D. Strangio, The Reasons for Underdevelopment, Phisica-Verlag, Heidelberg, 2012, Pag. 15-22.
175

• La Somalia da sola non ha la capacità necessaria allo sviluppo di un reddito nazionale


in modo che raggiunga l’autonomia nei tempi previsti;
• I programmi implementati dall’AFIS erano considerati sufficientemente soddisfacenti
ed adeguati per i bisogni reali del paese.

Data la povertà del territorio e la difficoltosa crescita economica del paese un ulteriore
rapporto all’inizio del 1960 evidenziava come un’assistenza post indipendenza sarebbe stata
comunque necessaria:

• La collaborazione tra il governo italiano e quello somalo deve continuare alla ricerca
di una soluzione pratica;
• L’aiuto italiano deve continuare anche dopo il 1960;
• L’assistenza dalla Banca centrale e dal dipartimento di assistenza dell’ONU deve
continuare;
• Gli Stati Uniti possono fornire un’assistenza economica e finanziaria dopo il 1960
come parte di uno sforzo contro il comunismo nel mondo ed a favore dell’espansione
della democrazia.498

Restavano però problemi più prettamente politici, tra i quali il più grave e che si
sarebbe negli anni dimostrato portatore di immani disgrazie, era quello di stabilire una volta
per tutte i confini con l’Etiopia. Con l’indipendenza del 1° luglio 1960 la Somalia non era più
una colonia, si era tolta dal giogo delle potenze europee, ma pochi anni dopo si ritrovò nelle
mani di personaggi che avrebbero di nuovo portato alla fame il paese (Barre) o al centro di
guerriglie intestine (signori della guerra) che a tutt’oggi lo devastano riportandolo indietro nel
tempo, a epoche che si perdono nella nebbia della storia.

Prima di trattare l’ultimo argomento di questo studio, la questione della Regia Azienda
Monopolio Banane, vorrei analizzare un po’ più nel dettaglio quelli che furono gli obiettivi e
le proiezioni politiche e culturali dell’Italia nel periodo che coincise con una ormai prossima
fase di decolonizzazione nei continenti africano e asiatico. La crisi del sistema coloniale
venne avvertita dalla giovane dirigenza democristiana come epocale e irreversibile e,
all’interno di un quadro come la guerra fredda, alcuni esponenti di maggior spicco come il
sindaco di Firenze Giorgio La Pira499 cominciarono a costruire dei rapporti privilegiati con
vari leader dei paesi neoindipendenti del nordafrica e del medio oriente convinti che l’Italia
potesse assumere un ruolo di equilibrio e di dialogo tra le rive nord e sud del Mediterraneo.
Secondo La Pira, l’Italia avrebbe dovuto assumersi la responsabilità di fare da guida alle
giovani nazioni data la scarsa affidabilità (l’ateismo sovietico, la dittatura spagnola, il
secolarismo americano ed il compromesso coloniale franco-britannico) degli altri attori
presenti nell’area. Il tentativo di La Pira, alquanto utopistico, di mediare una pace tra il
governo provvisorio algerino e quello francese del 1958 venne sostenuto anche da un

________________________________
498
D. Strangio, The Reasons for Underdevelopment, Phisica-Verlag, Heidelberg, 2012, Pag. 46-48.
499La Pira, Giorgio. - Giurista e uomo politico italiano (Pozzallo 1904 – Firenze 1977), prof. di istituzioni di diritto romano
(dal 1933), ha insegnato nell'univ. di Firenze. Deputato democristiano alla Costituente, poi al parlamento; sottosegretario di
stato al ministero del Lavoro (1948-49); sindaco di Firenze (1951-57 e 1961-66). È noto in Italia e fuori per le sue tesi sociali
di chiara ispirazione evangelica e per iniziative di distensione e di pace, come quella che nel 1965 lo portò nel Vietnam del
Nord.
176

personaggio estremamente pragmatico come Enrico Mattei500. La decolonizazione precoce


che era stata vissuta con disagio dal paese nei primi anni del dopoguerra viene ora considerata
una spinta alla ricerca di un nuovo ruolo dell’Italia in Africa e nel mondo. Il movimento di
Bandung501 venne visto con simpatia dal nuovo ministro degli esteri Amintore Fanfani502
percepito come un movimento nuovo e non riducibile agli schemi della guerra fredda; il
politico italiano vide in esso un elemento di distensione nel quadro bipolare e nel
contenimento dell’espansione comunista. Anche Fanfani era convinto che l’Italia potesse
esercitare un nuovo ruolo di mediazione tra i paesi occidentali e le nuove realtà nazionali
uscite dal colonialismo. In un appunto del vice presidente della Commissione Esteri della
Camera, Giuseppe Vedovato503, al ministro degli Esteri Segni504 nel 1960, si nota il deciso
cambio di direzione rispetto al passato anche se sopravvive il tentativo di cancellare le colpe
del colonialismo attraverso delle azioni considerate meritorie:

[…]

“E’ un dato di fatto che l’Italia, nei cui confronti i molti anni trascorsi dalla fine del
periodo coloniale e l’opera particolarmente meritoria compiuta nell’edificazione
dell’indipendenza della Somalia, hanno ormai attenuato sino a quasi cancellarle del tutto, le
accuse di taccia colonialista anche presso i critici più intransigenti, gode al presente di un
sentimento di generale simpatia presso tutti i nuovi Stati africani, dove le nostre comunità
hanno generalmente saputo circondarsi di particolare stima e benevolenza, e dove i nostri
operai, i nostri artigiani ed i nostri tecnici sono tenuti nella più alta considerazione per le
loro riconosciute non comuni qualità e capacità. In questo momento particolarmente
sensibile e delicato della storia politica, sociale, economica ed evolutiva in genere

__________________________

500 Mattèi, Enrico. - Imprenditore e uomo politico italiano (Acqualagna 1906 - Bascapé 1962). Vicepresidente dell'AGIP

(1945) e deputato della DC, presidente dell'Eni (1953) promosse l'affrancamento energetico dell'Italia e la lotta allo
sfruttamento oligopolistico delle fonti di energia incentivando l'esplorazione del sottosuolo italiano e valorizzandone le
risorse.
501
Conferenza di Bandung, Incontro tra i rappresentanti di 29 Stati africani e asiatici tenutosi dal 18 al 24 aprile 1955 nella
città indonesiana. La conferenza fu promossa da India, Pakistan, Repubblica popolare cinese, Indonesia, Birmania e Ceylon,
al fine di inserire un cuneo nell’assetto rigidamente bipolare del mondo all’epoca della Guerra fredda, restituendo capacità e
spazi d’iniziativa ai cosiddetti «paesi terzi». In partic. gli scopi erano quelli di incentivare il processo di decolonizzazione e
consolidare il fronte dei Paesi ex-dipendenti, favorendone la cooperazione economica e politica nel quadro di una coesistenza
pacifica. Protagonisti della conferenza furono l’indiano Nehru, l’indonesiano Sukarno, il cinese Zhou Enlai, l’egiziano Nasser
e lo jugoslavo Tito. Nel documento finale furono enunciati dieci punti, passati alla storia come i «Dieci principi di B.», i più
importanti dei quali erano quelli di non ingerenza, autodeterminazione, rispetto dell’indipendenza dei popoli e della sovranità
dei Paesi, e neutralismo. Tali principi ispireranno il movimento dei «non allineati», che si costituirà formalmente con la
Conferenza di Belgrado (1961).
502 Fanfani,Amintore. - Uomo politico italiano (Pieve Santo Stefano 1908 – Roma 1999). Fu segretario della DC (1954-59 e
1973-75) e più volte presidente del Consiglio (1958-59; 1960-62; 1962-63; 1982-83; 1987). Schierò la DC contro il divorzio.
nel referendum abrogativo del 1974. Aderì infine al Partito popolare italiano (1994).
503 Vedovato, Giuseppe. - Studioso italiano di relazioni internazionali e di istituzioni giuridiche, uomo politico (Greci 1912 –

Roma 2012); prof. nelle univ. di Perugia (1952) e (dal 1963) di Roma; deputato (1953-72) e senatore (1972-76) per la DC.
504
Segni, Antonio. - Giurista e uomo politico (Sassari 1891 – Roma 1972). Consigliere nazionale del Partito popolare,
interruppe l'attività politica durante il fascismo. Tra gli organizzatori della DC in Sardegna dal 1943, nel 1946 fu eletto alla
Costituente. Deputato (1948-62), fu più volte ministro e due volte presidente del Consiglio (1955-57; 1959-60). Eletto nel
maggio 1962 presidente della Repubblica, fu costretto a dimettersi nel 1964 a causa delle sue condizioni di salute.
177

dell’Africa, l’Italia e forse quella delle nazioni europee che si trova nelle condizioni più
propizie per collaborare alla nuova fase di cooperazione e sviluppo economico di quel
Continente; ma per ottenere il possibile maggior vantaggio dalle enunciate favorevoli
premesse sembra opportuno ed urgente che il Governo italiano prenda l’iniziativa di attivare
maggiori contatti con i nuovi Stati africani, con l’obiettivo di studiarne e riconoscerne le
esigenze e le possibilità; di indagare e cercare di ovviare gli eventuali motivi di
preoccupazione delle comunità italiane presenti in ciascuno di essi e di sorreggerne
edincoraggiarne lo sviluppo e l’attività”505

[…]

Venne finalmente riconosciuto anche l’errore fondamentale del colonialismo


(perlomeno quello italiano) che era stato quello di credere di dover educare la gente ed
organizzare gli stati all’europea, come se l’ideale di tutti fosse quello di vivere e pensare
all’europea e non di farlo conforme ad un ambiente e ad una storia ben diversi. E qui ci
fermiamo dato che le successive mosse diplomatiche italiane riguardano gli anni ’60 ed oltre
ed esulano quindi dal contesto di questo studio.506

L’ultimo argomento del quale volevo trattare in questo studio è quello della questione
delle banane, faccenda che stimolò diverse discussioni parlamentari e che si trascinò fino al
1963 quando l’Azienda Monopolio Banane venne ufficialmente soppressa. La Regia Azienda
Monopolio Banane venne istituita sotto il controllo del Ministero delle Colonie con R. D. 2
dicembre 1935 n. 2085, pubblicati sulla Gazzetta Ufficiale n. 291 del 14 dicembre 1935.
Venne creata per il trasporto ed il commercio della produzione delle banane coltivate in
Somalia nelle concessioni agricole sorte in quegli anni in colonia, produzione che, dopo che la
crisi economica del 1929 aveva tagliato il prezzo del cotone del 50%, era diventata la più
importante fonte di reddito dell’economia coloniale somala. Dato che comunque il prodotto
somalo aveva bisogno di una particolare protezione per poter essere competitivo, il regime
fascista creò la succitata azienda in difesa del prodotto “nazionale” e collocandolo sul mercato
tramite una fitta rete di concessionari. Per il trasporto dei prodotti vennero persino costruite
quattro navi bananiere, più veloci e più capienti di quelle fino ad allora in uso alla marina
mercantile, chiamate (certo non con molta fantasia) RAMB I, II, III e IV, che ebbero poi
diversi destini. Delle tre unità, sopravvisse alla guerra solo la RAMB III che venne inglobata
dalla marina jugoslava come conto riparazioni, venne ribattezzata Galeb e divenne addirittura
la nave di rappresentanza del presidente Tito. Al termine della seconda guerra mondiale il
nuovo Governo italiano aveva deciso di sopprimere l’Azienda, anche perché in forte
perdita507, ma il decreto non venne convertito in legge poiché all’inizio del 1947 il Direttore
generale della Direzione Colonizzazione e lavoro del Ministero dell’Africa italiana inviò al
ministro questo memorandum:

___________________________________

505
P. Borruso, Le nuove proiezioni verso l’Africa dell’Italia postcoloniale, Studi Storici A. 54 n. 2, Carocci, Roma, 2013, Pag.
454.
506 Ibidem, Pag. 449-59.

507 V. Documento n. 27.


178

“In esecuzione delle direttive impartite dalla Presidenza del Consiglio ed intese alla
soppressione dell’Azienda Monopolio Banane col 31 dicembre 1946, questa Direzione
Generale ha in corso di elaborazione uno schema di provvedimento relativo alla
soppressione, sotto la data di cui sopra, dell’Azienda stessa, con conseguente istituzione di un
ufficio stralcio per il necessario adempimento delle operazioni relative.

Senonché il Commissario dell’Azienda, dr. Gianni Brielli, ha fatto ora presente di

avere iniziato con un gruppo finanziario privato trattative per la cessione delle attività e
dell’accorsatura dell’Ente, restando la continuazione del Monopolio affidata al gruppo
stesso, che si assumerebbe le passività dell’Azienda, valutate in circa 57 milioni contro un
attivo di L. 5 milioni. Le trattative in questione avrebbero riportato in linea di massima
l’adesione del Ministero del Tesoro.

Indubbiamente la soluzione proposta arrecherebbe al Tesoro l’immediato sollievo di


non doversi accollare il carico passivo della liquidazione dell’Azienda.

Questa Direzione Generale non può peraltro esimersi dal prospettare a V. E. i riflessi
– oltreché economici – di carattere politico, che deriverebbero dal fatto che la continuazione
del monopolio del trasporto e della vendita delle banane verrebbe ad essere esercitata – non
più dallo Stato – ma da un privato gruppo finanziario.

Roma, 30 gennaio 1947”508

Naturalmente, venuti a conoscenza delle trattative in corso per la cessione


dell’Azienda, i coltivatori italiani della Somalia chiesero al Ministero che potessero essere
loro stessi a subentrare allo Stato nella gestione del monopolio. Se il Ministero dell’Africa
Italiana ritenne che la domanda potesse essere accolta anche in segno di solidarietà verso i
connazionali che erano rimasti in Africa, i ministeri del Bilancio, delle Finanza e del
Commercio furono invece del parere che allo Stato non convenisse mantenere in vita sotto
nessuna forma il monopolio delle banane. Comunque, per venire incontro alle esigenze dei
coltivatori, venne concesso ai due consorzi che rappresentavano i coltivatori in Somalia,
S.A.C.A. e S.A.G., una licenza di importazione di 10.000 q.li di banane senza passare tramite
l’Azienda Monopolio. Poco dopo i due consorzi domandarono ancora una licenza per altri
60.000 q.li di banane ma a questo punto il Direttore dell’Azienda Monopolio, contattando
direttamente il Ministero per il Commercio estero e non il Ministero dell’Africa Italiana da
cui dipendeva, chiese che le successive importazioni venissero affidate esclusivamente
all’Azienda banane. Il Ministero dell’Africa, tramite il Sottosegretario Brusasca si oppose
dato che la situazione internazionale (con la decisione riguardo alle ex colonie italiane ancora
da prendere) e la situazione dell’Azienda, priva di capitali, navi e della quasi totalità delle sue
precedenti attrezzature, quest’ultima non fosse in grado di assicurare l’importazione e che
perciò, la cosa venisse affidata a privati salvo il pagamento di L. 50 per Kg. come contributo

__________________________

508 ASCM Fondo Brusasca, b. 74, f. 2.


179

per l’erario. Il ministero del Tesoro a questa proposta chiese al Ministero dell’Africa, che
subito accettò, di richiedere il parere del C.I.R. Nella seduta del C.I.R. il Ministero delle
finanze si dichiarò disponibile ad assumere insieme agli altri monopoli anche quello delle
banane ed il Ministero dell’Africa prese nota. Una licenza per l’importazione di 15.000 q.li di
banane fu subito rilasciata all’Azienda banane che riprese così ufficialmente l’attività.509

Quindi si continuava a parlare di soppressione dell’Azienda Monopolio banane ma nulla


succedeva, anzi ora sembrava ritornare in auge l’antico ente a scapito dei coltivatori. Persino i
due Ministeri, Africa Italiana e Tesoro, discussero sul destino dell’Azienda banane senza
trovare poi un accordo che facesse tutti contenti. Per la cronaca l’Azienda Monopolio Banane
sarà ufficialmente soppressa solo nel 1964 al termine di un altro scandalo politico.

I coltivatori non si dettero per vinti e nel gennaio del 1948, la Società Anonima
Cooperativa Agricola e la Società Agricoltori Giuba inviarono una lettera direttamente al
Presidente del Consiglio De Gasperi stimolando il suo intervento:

“Eccellenza,

In seguito ai delittuosi avvenimenti di Mogadiscio, gli agricoltori italiani della


Somalia sono stati concentrati con la scusante, da parte delle autorità occupanti, di
assicurare la loro incolumità.

Essi hanno pertanto dovuto abbandonare le loro aziende e ciò da modo ai predoni,
senza dubbio inviativi appositamente, di saccheggiare tutti i loro averi.

Questa perfida azione, pari a tante altre, non stupisce né gli italiani né gli indigeni
della Somalia: essi sanno di quanto siano capaci gli occupanti. Li stupisce invece quanto a
danno loro continua a non fare il Governo nostro tentennando su di una decisione circa la
cessione A.M.B. (Azienda Monopolio Banane).

Agli agricoltori della Somalia, in un secondo tempo, con lettera 923 del 20 giugno
1947, veniva offerta la gestione A.M.B.

Essi accettarono tutte le condizioni dettate. Essi dimostrarono conla recente


importazione di saper fare.

La pratica, che tanto rapidamente si voleva svolgere, si arenò quando si trattò di


cedere a coloro che avevano, con sacrifici, lavoro di tanti lustri, capacità costruttiva ed
organizzativa, data con la possibilità della creazione della A.M.B.

Pare che il Ministero del Tesoro voglia ora l’abolizione del monopolio. A prescindere
dal fatto che parlò sempre di cessione monopolio banane, e senza entrare nel merito della
questione, mi permetto far rilevare che in un momento come questo si potrebbe anche
approvare un provvedimento di favore, senza esserne ideologicamente convinti, pur di

________________________________

509
ASCM Fondo Brusasca, b. 74, f. 5.
180

apportare sollievo a gente che sempre combattette una dura battaglia e che non ha bisogno di
sentire che gli animi dei governanti vibrano all’unisono con i loro.

Sua Eccellenza Brusasca – che ci ha seguiti e sorretti – il giorno 15 c.m., davanti ad un


numeroso gruppo di africanisti, pregava V. E. di voler portare, appoggiandola, al Consiglio
dei Ministri, questa nostra pratica affinché si avesse una decisione e faceva presente a V. E.
che da mesi e mesi noi avevamo, con calma, pazienza, dignità e fiducia, atteso una
definizione.

Una quantità di gente si è destata a sentire parlare di banane e tutti vedono motivo di

speculazione, il Governo tentenna creando così ingente danno a coloro che oggi hanno – e
per la seconda volta in breve tempo – la rovina.

Non si tratta di aiutare una speculazione, si tratta di dare un doveroso semplice aiuto;
si tratta di dare la gestione A.M.B. a coloro ai quali il Governo stesso la offerse il 20 giugno
scorso; a coloro che la crearono; a quei vecchi pionieri, ormai troppo vecchi di anni
d’Africa, che sempre hanno tenuto alto il prestigio della Patria in quella lontanissima terra.

Ancora una volta – e credo sia l’ultima poiché mi vergognerei di insistere oltre – oso
chiedere al nostro Governo – e per Esso alla E. V. – che una decisione a noi favorevole sia
presa in merito alla cessione della A.M.B.

Le nobilissime parole di plauso, fede, incoraggiamento e solidarietà rivolte in questi


giorni agli agricoltori della Somalia dall’On.le Terracini, da S. E. Conte Sforza, da S. E.
Saragat, ed altri, nonché da V. E. stessa, siano tradotte in fatti.

Il momento particolarmente delicato e triste per i lutti della Somalia è pure


particolarmente adatto per una tempestiva decisione che non mancherà di dare finalmente la
sensazione che non si è completamente abbandonati come purtroppo è apparso fino ad ora.

Questa decisione – che va a favore degli italiani e dei somali – avrà sicuramente
benefica ripercussione sia nel campo morale che in quello politico.

Con fiducia e deferenza

(G.P. Basiglio)”510

La richiesta degli agricoltori non andò in porto ma la situazione andò migliorando e


quando l’Amministrazione fiduciaria italiana fu definita una volta per tutte, tutti i titolari delle
aziende agricole, direttamente o indirettamente, ripresero la loro attività ed accanto ad essi si
svilupparono e potenziarono diverse tenute agricole con colture di banane di proprietà di
somali che si dimostrarono degli ottimi imprenditori. La produzione crebbe nei seguenti dieci
anni di Amministrazione fiduciaria: nel 1950 gli ettari coltivati a bananeto erano 2800 in tutto
_________________________________

510
ASCM Fondo Brusasca, b. 74, f. 8.
181

gradimento CIF. In questo modo l’azienda aveva la possibilità di comprare in base al peso ed
il paese con un’esportazione di 176.079 quintali, nel 1960, alla fine dell’Amnministrazione
italiana, gli ettari sfruttati erano 7992 con un’esportazione di 769.537 quintali di banane
annui. L’A.M.B. acquistava la frutta utilizzando la seguente formula ibrida: acquisto FOB con
alle condizioni di arrivo della merce ai porti di sbarco. I prezzi di acquisto della frutta erano
superiori di quelli praticati in ambito internazionale dagli altri paesi produttori ma l’azienda
ottenne che essi si abbassassero gradualmente da L. 150 al Kg. del 1950 a L. 100/90 al Kg.
del 1960. L’aumentata esportazione consentì inoltre l’inserimento di numerosissimi lavoratori
agricoli, di dare agli imprenditori discreti profitti, di soddisfare qualificati bisogni civili
eumani di tutte le persone dedite direttamente od indirettamente alle attività agricole, di
bloccare la tendenza all’emigrazione dei lavoratori del Benadir e del basso Giuba verso le
grandi città Somale.511

Ritornando alla fine degli anni ’40, più precisamente al 9 febbraio 1949, quando in
seguito ad una furiosa campagna di stampa contro il Sottosegretario del Ministero dell’Africa
Italiana Giuseppe Brusasca decise di intervenire il parlamento, tramite una discussione sullo
“scandalo delle banane” (il primo poiché il secondo del 1963 porterà alla definitiva
soppressione dell’A.M.B.). Il deputato Ariosto512 pose un’interpellanza parlamentare per il
Sottosegretario Brusasca: Ariosto dopo aver notato l’enorme differenza dei prezzi delle
banane in Italia rispetto a quelli di altri paesi (cita la Francia) si rese conto che non si tratta di
tasse sul prodotto bensì di guadagni esorbitanti da parte degli importatori i quali lucravano sul
venduto anche venti volte il prezzo d’acquisto. Poiché la vendita delle banane era ancora
monopolio di Stato, il deputato si chiese come fosse possibile che una tale speculazione
avvenisse sotto gli occhi di chi doveva vigilare. Ricorda inoltre come il monopolo fosse stato
istituito negli anni ’30 per limitare proprio queste speculazioni, la vendita delle banane veniva
fatta al prezzo di costo ed il guadagno dell’Azienda Monopolio Banane era costituito dai noli
d’uscita che comunque avevano permesso la graduale costituzione di una flotta di ben sette
bananiere. Ciò che non piaque al deputato fu la citata licenza per l’importazione di 10.000 q.li
di banane rilasciata alle società private, dietro le quali si annidavano gli stessi speculatori
(secondo lui) che resero necessaria l’istituzione del monopolio banane. Secondo Ariosto,
Brusasca era stato ingenuo a credere che i pochi che erano in Italia a fare gli affari
rappresentassero gli interessi dei molti che erano in Somalia. Brusasca si difese sostenendo
che l’Italia non avesse più la sovranità sulla Somalia, che le cose erano cambiate dal 1935 e
che per esportare le banane occorreva anche il benestare delle autorità britanniche. Ricorda
che sia il Ministero del Tesoro che quello del Bilancio avrebbero voluto la cessazione
immediata dell’Azienda banane e che da quando era stata assegnata l’Amministrazione
fiduciaria all’Italia, lui avrebbe avuto il dovere di aiutare e sostenere le attività economiche in
Somalia. Afferma che non vedeva alternative dato che non si poteva cedere il monopolio ai
privati, qualcosa doveva pur fare per aiutare i coltivatori somali e che quindi sui profitti delle
__________________________

511R. Roncati, Aspetti e problemi della bananicoltura somala e del commercio bananiero, Africa, anno 29, Vol. 3, Roma,
1974, Pag. 469-71.

512Ariosto, Egidio. – Uomo politico (Casto, 1911 – Roma, 1998). Attivo nel Partito Socialista Democratico Italiano, più
volte deputato, senatore, e membro di vari governi.
182

licenze proprio non ci poteva fare nulla. La questione in realtà finì lì, Ariosto si dichiarò più o
meno soddisfatto delle risposte del Sottosegretario e non ci furono altre polemiche o
contestazioni, perlomeno in aula poiché la stampa tartassò ancora a lungo Brusasca ma
sempre in modo che lui non potesse reagire dal punto di vista giuridico e lo scandalo delle
banane proseguì per alcuni anni.513

Le cose cambiarono quando nel 1954 il direttore del giornale comunista “Il progresso”
attaccò frontalmente Brusasca con due articoli nei quali commise degli specifici reati di
diffamazione a mezzo stampa, l’accusato querelò immediatamente il giornalista
concedendogli la più ampia facoltà di prova. Comparso in giudizio, il Sig. Polidoro non portò
alcuna prova a sostegno delle sue accuse per cui il Pubblico Ministero chiese 13 mesi di
reclusione per diffamazione. 514

Nel 1963 si svolse il secondo e decisivo scandalo delle banane: l’Azienda Monopolio
Banane aggiudicava le concessioni per la vendita della frutta mediante asta pubblica ed i
partecipanti dovevano avanzare un’offerta che fosse più alta del termine fissato in segreto
dall’Azienda; chi avesse fatto l’offerta più alta si sarebbe aggiudicato la concessione.
L’Assobanane, che riuniva tutti i concessionari storici della Somalia riuscì a corrompere il
presidente dell’Azienda il quale rivelò loro in anticipo la quota d’asta fissata. All’apertura
delle buste si verificò l’assurda situazione che tutti gli aderenti all’Assobanane avevano
proposto un’offerta pari al limite fissato dall’Azienda Monopolio. Vistisi beffati in modo
evidentemente truffaldino, gli aspiranti concessionari minori inviarono al capo del Governo
italiano, all’epoca Amintore Fanfani, un telegramma di protesta che convinse l’AMB ad
annullare l’asta ed a indirne una seconda. Il presidente dell’Azienda, Bartoli Avveduti, fu
condannato a tre anni di reclusione ed altri 123 imputati se la cavarono con pene molto lievi.
Comunque nel febbraio 1964, a processo non ancora concluso, il nuovo Governo presieduto
da Aldo Moro, decretò il definitivo scioglimento dell’Azienda.515

Siamo nel 1964, da quattro anni ha avuto termine l’avventura italiana in terra d’Africa.
I due paesi del Corno avrebbero avuto davanti a loro un futuro a tinte spesso molto fosche. A
tutt’oggi buona parte dell’emigrazione africana in Europa proviene dall’Eritrea e dalla
Somalia. Tutta colpa del colonialismo italiano? Certo le eredità coloniali hanno spesso lasciti
tristi strascichi ma nel caso del Corno non bisogna dimenticarsi che Somalia ed Eritrea sono i
paesi più poveri di risorse di tutto il continente (il famoso detto dello scatolone di sabbia di
Salvemini riguardo alla Libia sarebbe stato decisamente più azzeccato in Africa orientale). I
nazionalisti sia eritrei che somali ci ringraziano per aver dato un senso di appartenenenza ai
loro concittadini, ma questo, purtroppo, non ha portato a sviluppi particolarmente positivi. Il
colonialismo in generale non ha portato benefici ai paesi dominati e se forse il termine usato
recentemente dal presidente francese Macron “il colonialismo è stato un crimine contro
l’umanità” può essere un po’ eccessivo ed usato, in Algeria, per fini politici, non ci troviamo
comunque molto lontano dalla realtà.

________________________

513 Atti parlamentari – Dicussioni – Seduta di venerdì 9 febbraio 1949.


514 ASCM Fondo Brusasca, b. 74, f. 15.
512 S. Salvi, Banane fasciste. Breve storia della banana italica ai tempi dell’autarchia, Affinità elettive, Ancona, 2017, Pag.

61-65.
183

CONCLUSIONE

La storiografia che si occupa del colonialismo italiano in Africa è oggi, sulle orme di
Angelo Del Boca e Nicola Labanca, impegnata molto spesso a combattere una battaglia
contro l’immagine degli italiani “brava gente” cercando in tutti i modi di mettere in evidenza
tutte le nefandezze compiute dai nostri connazionali nelle colonie africane, i massacri
compiuti in Libia durante la “pacificazione” del paese o quelli in Etiopia dopo l’attentato a
Graziani. Quello che ho cercato di fare in questo lavoro è stato di calarmi nella mentalità
esistente all’epoca, per evitare di un metro di giudizio attuale ad episodi accaduti in tempi
remoti. La prima domanda alla quale cercherò di dare una risposta è questa: il colonialismo
italiano è da ritenersi simile se non uguale a quello delle maggiori potenze europee? In realtà
il sentiero seguito dal pensiero coloniale italiano non è stato lineare e si è modificato nel
tempo anche a causa di avvenimenti successi al di fuori del continente africano.

Nel primo capitolo di questo studio cerco di mostrare come l’atteggiamento


paternalistico e l’idea di incivilimento, oltre al tentativo continuo di evitare scontri con i
nativi, rimase al primo posto almeno fino alla battaglia di Adua. Le ragioni che spinsero la
giovane nazione italiana a guardare oltremare furono in un primo tempo legate a questioni
economiche e di ordine pubblico (il rapido sviluppo del brigantaggio nel meridione indusse a
progetti di istituzione di colonie penali in luoghi lontani dall’Italia). I primi esploratori e
viaggiatori italiani, personaggi come Carlo Piaggia, Giovanni Miani e Romolo Gessi, furono
tutti, a loro modo, molto rispettosi dei costumi indigeni. Questo rispetto, a dire il vero, si
rivela inversamente proporzionale al livello culturale dei viaggiatori (sfatando in questo modo
il pensiero comune dei giorni nostri dove si ritiene che le persone più colte siano più
disponibili ad accettare gli usi ed i costumi di chi non segue le usanze occidentali). In questo
primo periodo assistiamo ad una vivace discussione sull’impostazione delle future colonie,
cioè se dovessero essere essenzialmente dei punti di riferimento puramente commerciali
(lasciando quindi ad altri l’amministrazione del territorio circostante) o se invece fosse
fondamentale l’acquisizione completa dei territorio in modo da creare delle colonie di
popolamento. Anche per quanto riguarda le colonie penali in un primo momento si pensò di
usufruire di piccole concessioni in territori altrui. Anche se l’idea di potenza ed il desiderio di
poter sedere al tavolo dei più alti consessi europei sarebbero affiorati abbastanza rapidamente
tra i governanti italiani, restava comunque il timore che dei movimenti troppo spinti nella
ricerca di territori in aree dominate da altre potenze coloniali avrebbero potuto infastidirle e
spinte a mettere i bastoni fra le ruote ai sogni italiani. A causa di queste preoccupazioni, il
governo di Sua Maestà decise di muoversi con i piedi di piombo ed al momento dell’acquisto
del primo possedimento italiano in Africa, la piccola baia di Assab, fece figurare come
proprietario la compagnia privata Rubattino e non lo Stato italiano. Peraltro, dopo circa due
mesi dall’acquisto e dopo la partenza degli italiani dalla baia, gli egiziani avrebbero
rioccupato Assab e sarebbero passati altri dieci anni prima che l’Italia potesse rientrare in
possesso di quel lembo di terra sempre attraverso la compagnia Rubattino.

Il decennio che seguì la prima effimera occupazione della baia di Assab da parte
italiana si fece notare per l’assoluto disinteresse per le questioni africane sia da parte dei
184

governi che si succedettero sia da parte dell’opinione pubblica. Nel 1871 venne istituita una
speciale commissione al fine di esaminare le eventuali possibilità di creare delle colonie
italiane ai fini di popolamento, commercio e deportazione, passando dall’Africa fino
all’Estremo oriente, ma dopo circa 18 mesi di sterili discussioni venne sciolta alla fine del
1872. In riferimento alla baia di Assab, si scontrarono due filoni di pensiero, il primo vedeva
l’assoluta inutilità di avventure africane visto che considerava la piccola baia di scarsissimo
valore e con limitate se non nulle possibilità di sfruttamento, mentre l’altro era più ottimista
sull’eventuale utilizzo di quel limitato lembo di terra sul Mar Rosso, soprattutto dal punto di
vista commerciale. La partecipazione dei partiti politici alla discussione fu inizialmente nullo
e così rimase fino alle prime sconfitte militari (Dogali, Amba Alagi ed in seguito Adua); la
Sinistra storica ritenne che per attirare consensi vi fossero decisamente più argomenti di
politica interna rispetto alla sterile polemica coloniale, mentre dalla Destra storica venne
un’opposizione dovuta a motivazioni economiche, poiché non vedeva nella baia africana
alcuna possibilità di ritorni che fossero andati a compensare lo sforzo fatto dalle casse statali
che avevano come al solito un non roseo bilancio. Da parte governativa vi era ancora il
dubbio se il piccolo possedimento, ed eventuali altri, dovessero essere utilizzati come
semplici avamposti commerciali o se effettivamente sfruttarli come colonie di popolamento e
cercare così di risolvere, almeno in parte, il problema dell’emigrazione dalla madrepatria. Le
stesse opinioni dei vari viaggiatori ed esploratori che visitarono la zona di Assab furono
estremamente differenti e questi contrasti così profondi furono spesso il frutto dell’ignoranza
geografica delle regioni abissine o di feroci rivalità personali. Inoltre il fatto che la natura
della penetrazione italiana in Eritrea fosse politica e laica e non morale e religiosa, tolse ad
essa anche il sostegno della destra cattolica, sempre legata al non-expedit di Pio IX.

Chi invece riuscì a vedere nella baia ed in un’eventuale penetrazione più profonda in
Abissinia motivo di forti interessi commerciali furono alcuni grandi industriali milanesi come
Carlo Erba, Francesco Gondrand e Giovan Battista Pirelli, i quali arrivarono a preparare, a
loro spese, una spedizione in Africa atta a confermare le idee positive su Assab per poter
ottenere il massimo sostegno da parte delle autorità italiane. I risultati di tale spedizione,
considerati positivi, convinsero il governo Cairoli a procedere con il definitivo acquisto della
baia di Assab sempre servendosi del prestanome Rubattino. Dal 30 dicembre 1879 al 5
novembre 1880 vennero firmate diverse convenzioni per l’acquisto di ulteriori zone limitrofe
che portarono il territorio ora italiano ad assumere uno sviluppo costiero di circa 60 km. ed
una superficie di 700 km2, decisamente più ampio del precedente.

Nel maggio del 1881, con il Trattato del Bardo, il governo francese ottenne il controllo
della Tunisia e questo fu un vero colpo di mano che prese completamente alla sprovvista il
governo italiano, che da sempre sperava di far passare un suo protettorato sul paese
nordafricano, grazie anche al notevole numero di cittadini italiani presenti nel territorio. Lo
scacco diplomatico causò lo scoppio di feroci polemiche nel paese che costrinsero il governo
Cairoli alle dimissioni (la caduta di un governo per questioni di politica estera è un caso
rarissimo nella storia d’Italia, compresa l’attuale epoca repubblicana). Ciò che contribuì
maggiormente alla caduta del governo fu una campagna di stampa che accusò Cairoli di
essere stato inerme di fronte al fatto compiuto. La stampa era un soggetto nuovo sulla scena
politica che si andava notevolmente sviluppando proprio in quegli anni, con la creazione degli
inviati speciali che informavano il lettore sugli eventi direttamente dal posto. Tutto ciò
185

convinse il nuovo governo a dare un colpo di acceleratore sulla questione nel Corno d’Africa
ed il 10 marzo 1882 la Compagnia Rubattino cedette allo Stato italiano la proprietà della baia
di Assab che diventò quindi la prima colonia definita “non geograficamente italiana ma
politicamente italiana” con condizioni amministrative, legislative e giudiziarie speciali; infatti
la colonia sarebbe dipesa direttamente dal governo e diretta attraverso decreti reali e
ministeriali. La nascita ufficiale della prima colonia fu il 5 luglio 1882 quando venne
approvata la prima legge di Assab.

Con la scusa di un tragico episodio che vide una spedizione italiana massacrata nel
nord dell’Eritrea, e dopo essersi accordato con la Gran Bretagna, il governo decise di inviare
un corpo militare ad occupare il porto di Massaua il 5 febbraio 1885 e nei mesi successivi
tutta la zona costiera verso sud fino al congiungersi con il territorio di Assab, costituendo così
il primo ampliamento ufficiale della colonia. L’idea di espandersi ulteriormente
nell’entroterra abissino avrebbe però creato forti attriti con l’imperatore d’Etiopia Johannes
IV il quale, dopo alcune vittorie militari contro le forze egiziane, già considerava tutta
l’Eritrea come il naturale sbocco dell’Etiopia al mare. A complicare le cose (o a facilitarle a
seconda dei punti di vista) vi era anche la tensione crescente tra il re dello Scioà, Menelik, e
l’imperatore, con la chiara intenzione di Menelik di detronizzare quest’ultimo e di prenderne
il posto. La diplomazia italiana considerò la questione come un’opportunità e si accordò con il
re scioano per una modesta espansione del territorio intorno a Massaua in cambio di aiuti
militari in armi e mezzi. Ma non tutte le cose andarono per il meglio: quando cominciò la
prima lenta espansione verso l’interno vi furono immediate le proteste di ras Alula,
governatore della zona di Asmara che portarono in seguito ad alcuni scontri armati fino al
1887 quando sopravvenne il disastro di Dogali. Nel 1888 il Negus intavolò delle trattative di
pace che culminarono con il termine del breve periodo di guerra ma il 9 marzo 1889 lo stesso
Negus morì in battaglia contro i Mahdisti sudanesi, acerrimi rivali degli etiopi, e Menelik lo
sostituì al vertice dell’impero. Il 2 maggio 1889 Menelik stipulò con l’Italia un trattato di
amicizia e commercio (trattato di Uccialli) concedendo anche delle piccole revisioni
territoriali come compenso per l’aiuto; di questo trattato il Negus sezionò e riscrisse ogni
articolo ma lasciò invariato l’art. n. 17 che riguardava la possibilità di ricorrere al re d’Italia in
caso di trattative con paesi europei (la versione aramaica lasciava appunto la possibilità di
servirsi del governo italiano mentre la versione italiana ne faceva obbligo). In realtà Menelik
avrebbe voluto togliere completamente l’articolo dato che non vedeva a chi altri avesse potuto
chiedere aiuto se non all’Italia, ma su consiglio del conte Antonelli decise di lasciarlo. La
versione italiana del trattato che come abbiamo visto faceva obbligo al Negus di passare
dall’Italia per trattare le sue questioni internazionali e di fatto faceva dell’Etiopia un
protettorato italiano, sarà la causa della successiva guerra tra i due paesi che terminerà con la
disfatta italiana di Adua.

Comunque il giorno 1° gennaio 1890 con il R.D. 6592 fu ufficialmente istituita la


Colonia Eritrea che raggruppava tutti i possedimenti italiani sul mar Rosso per una superficie
totale di 110.000 km2 e circa 200.000 abitanti.

La colonizzazione della Somalia avvenne nello stesso modo? In questo lavoro mostro
che già a partire dalla metà degli anni ’50 del XIX secolo il conte di Cavour, primo ministro
del Regno di Sardegna, venne pressato da alcuni missionari piemontesi (citiamo per tutti G.
186

Massaja e L. des Avanchères) ad interessarsi della parte meridionale del Corno d’Africa ma le
problematiche legate alla costruzione dell’unità italiana, quelle successive a proposito della
stabilità sociale oltre alla scarsezza di informazioni relative al Paese dei somali, convinsero lo
statista piemontese a rimandare qualsiasi proposito di colonizzazione. Alla metà degli anni
’80 erano rimaste in Africa poche briciole di territorio lasciate libere dalle grandi potenze
europee e generalmente prive d’importanza (perché desertiche o difficilmente accessibili,
come il Paese dei somali) ma, ciononostante, nel 1884 una spedizione italiana, guidata da
Antonio Cecchi, venne inviata alle foci del fiume Giuba per ottenere informazioni e per capire
se fosse possibile stabilirvi perlomeno un protettorato. A fine maggio del 1885 Cecchi
sottoscrisse un accordo commerciale con il sultano di Zanzibar dal quale il Paese dei somali
dipendeva. A questo punto torniamo alla domanda precedente: anche in Somalia la
diplomazia italiana si mosse con i piedi di piombo? La risposta che ho ricavato dal mio studio
è positiva anche se per motivi leggermente diversi: in quel periodo, in un’area che trovava i
suoi confini proprio nella zona del fiume Giuba, si scontrarono gli interessi coloniali di Gran
Bretagna e Germania le quali nel 1886 misero fine ai loro attriti ridefinendo le zone
d’influenza nei vari settori in discussione. Per evitare di rimanere schiacciato dalle due
superpotenze europee, il sultano di Zanzibar offrì al console italiano Filonardi la cessione
della baia di Chisimaio e della regione costiera del fiume Giuba. Poiché i confini delle varie
colonie in questa zona non erano ancora stati completamente chiariti e per evitare di
infastidire la Germania, con la quale nel 1887 sarebbe stata rinnovata la Triplice Alleanza, il
Ministero degli esteri italiano rifiutò l’offerta. Una volta però risolte tutte le questioni
diplomatiche europee, il Governo italiano, con il nuovo Primo Ministro Francesco Crispi, si
rifece vivo cercando di ottenere quanto le fosse stato offerto precedentemente e dopo lunghe
trattative, intraprese anche con i governi inglese e tedesco, riuscì nel 1893 ad ottenere diritti
sui quattro porti più importanti della zona del Benadir, compreso quello di Mogadiscio,
mentre il porto di Chisimaio restò di pertinenza britannica. Il resto della costa somala era
governata da altri due sultani, di Obbia e di Migiurtinia, i quali però già nel 1889 accettarono
il protettorato italiano. Nel 1895 dopo otto anni di intense trattative con i vari capi tribù, con
un tutto sommato scarso tributo di sangue e con una spesa decisamente inferiore a quella
impiegata in Eritrea, l’Italia poté dichiarare il proprio controllo sul Paese dei somali anche se,
specialmente nell’entroterra, il suddetto controllo restò solo nominale. Per quanto riguarda la
forma di governo nel nuovo possedimento, lo Stato italiano pensò di adottare nel Benadir un
sistema differente da quello vigente in Eritrea, affidando la gestione della colonia ad una
compagnia privata, la Compagnia Filonardi, capitanata dal console a Zanzibar. Ciò che
sembrò in un primo tempo una mossa intelligente, sgravando le già boccheggianti finanze
nazionali da ulteriori pesanti uscite, si rivelò essere al contrario un grave errore poiché la
Compagnia non aveva né i capitali, né l’esperienza e neppure l’organizzazione per
amministrare una colonia. Tutto ciò si tradusse in un continuo esborso statale, in
un’incapacità cronica dell’amministrazione Filonardi nell’autofinanziamento e nel costituire
una rete di infrastrutture che avrebbero giovato all’economia coloniale. Nel 1896 la
Compagnia Filonardi venne sostituita dalla Società Anonima Commerciale per il Benadir,
costituita da quegli industriali lombardi che abbiamo già nominato a proposito dell’Eritrea,
che però entrò in funzione ufficialmente solo dal 1900 a causa di ritardi nell’approvazione
della concessione. L’amministrazione da parte della società lombarda fu però di breve durata
perché a seguito di una campagna di stampa che l’accusò di una politica speculativa piuttosto
che imprenditoriale, oltre che alle malversazioni ed alle frequenti repressioni violente di
187

proteste indigene seguite da eccessi di ogni tipo, nel 1903 il governo Giolitti denunciò la
convenzione e la colonia passò ad una gestione diretta dello Stato. Nel 1908 la legge n. 161
fece assumere alla colonia la nuova denominazione di “Somalia italiana” comprendente il
Benadir e tutti i protettorati della Somalia settentrionale anche se i problemi economici e
quelli di ordine pubblico furono tutt’altro che risolti. Una delle problematiche più importanti
che si cercò di estirpare senza riuscirci fu quella della schiavitù, molto praticata soprattutto nei
piccoli villaggi dell’entroterra e radicata negli usi della popolazione locale; lo sforzo dei
missionari cattolici e dello stato per eliminarla finirono spesso per alienare le simpatie degli
indigeni che vedevano così minata la loro organizzazione. Anche dal punto di vista religioso,
il forte sentimento musulmano della popolazione, non consentì quella conversione di massa al
cattolicesimo che si era sperato.

In Eritrea, dopo la firma del trattato di Uccialli, sembrò che le cose si fossero
finalmente messe a marciare nella direzione voluta dal punto di vista italiano, ma cosa spinse
il governo italiano, oltre alle polemiche sul già citato art. 17 del trattato, a forzare
militarmente la mano per costringere Menelik a cedere ulteriori territori? Come dimostra la
documentazione raccolta, una prima spinta arrivò dalla chiesa cattolica, la quale dopo aver
sperato di ottenere un facile accesso in Etiopia grazie ai missionari, si rese conto che
l’ortodossia etiope (copta) e la forte religiosità indigena si rivelarono ostili. A questo punto
tutta la gerarchia cattolica si arroccò sulla certezza della superiorità bianca ed europea,
formando nell’immaginario nazionale un’idea negativa dell’Africa e degli africani. Rispetto
all’iniziale idea di colonizzazione, prese ora piede un pensiero coloniale più classico, cioè
quello dello sfruttamento massimo del territorio e del totale disinteresse per le problematiche
indigene. Il modello di amministrazione italiana si poté definire “diretto” all’interno del quale
però si combinarono elementi diversi agendo sempre in funzione di emergenze e mai di una
seria programmazione. Venne attuato un programma di colonizzazione agricola che fallì dopo
pochi anni per cause che sono a tutt’oggi molto dibattute fra gli storici sia italiani che africani.
Una sola cosa era sicura: l’unico strumento che il colonialismo italiano possedeva in Eritrea
per cercare di arrivare a qualsivoglia obiettivo era l’esercito; anche in seguito furono sempre
molto scarsi, per non dire assenti, quegli interessi privati che avrebbero potuto favorire lo
sviluppo della colonia senza il continuo intervento dello Stato. L’amministrazione militare
pensò quindi di risolvere i problemi di ordine pubblico semplicemente eliminando una
dozzina di capi tribù oltre ad ottocento sodali. Tutto questo, oltre alla dissennata politica di
distribuzione delle terre, portò alla rivolta di Bahta Hagos, fiero capo eritreo, che nel dicembre
del 1894 venne sconfitto ed ucciso in battaglia. In quel periodo l’Italia viveva una gravissima
crisi economica e sociale che portò, anche se non inevitabilmente, a lasciare la politica
coloniale totalmente nelle mani dei militari. In seguito alla rivolta di Bahta Hagos, la risposta
delle autorità militari fu quella di riprendere una politica espansionistica verso l’Etiopia che
prevedeva l’entrata delle truppe italiane nella regione del Tigré e l’annessione di Adua,
pensando in questo modo di spaventare Menelik. Nonostante alcuni piccoli scacchi militari,
oltre allo scontro che diventò famoso anche in letteratura, l’assedio di Macallé, avessero fatto
dubitare il governatore, generale Baratieri, sull’opportunità di un attacco in grande stile contro
l’esercito abissino, anche perché era ormai chiaro che le forze messe in campo dal Negus
fossero tutt’altro che scarse, le pressioni provenienti dall’Italia oltre ad una mentalità militare
dell’epoca molto diversa da quella odierna, costrinsero Baratieri a dare battaglia nella piana di
Adua in condizioni che potevano portare solamente alla sconfitta e così fu. A fine ottobre del
188

1896 il governo italiano fu obbligato a firmare un’umiliante pace ad Addis Abeba, ma Adua
rappresentò anche la prima sconfitta di un esercito europeo contro uno africano, sconfitta che
portò tutto il continente nero a realizzare che in definitiva i colonizzatori non fossero
invincibili ed a cominciare una sotterranea lotta al colonialismo che sarebbe esplosa alla fine
della seconda guerra mondiale. In Eritrea venne inviato un governatore civile, F. Martini, il
quale circondandosi di collaboratori capaci e molto meno ignoranti della realtà africana, cercò
di salvare il salvabile mantenendo la presenza italiana nel paese, evitando ulteriori conflitti
con l’Etiopia e mantenendo più o meno inalterati i confini di prima della guerra. Prima di
passare al periodo del regime fascista, vorrei rispondere ad una domanda che stranamente
pochi si pongono: perché, al contrario di tutte le altre potenze coloniali, l’Italia non mobilitò
truppe africane durante il primo conflitto mondiale? Nella mia ricerca sottolineo come
nonostante lo stesso comandante in capo, generale Cadorna, vedesse positivamente l’impiego
di truppe coloniali sui vari fronti, il ministro della guerra, generale Zuppelli, si oppose
fermamente sostenendo che il conflitto, impostato ideologicamente come guerra di
liberazione dallo straniero, dovesse essere combattuto solo da truppe metropolitane; inoltre
l’utilizzo di divisioni coloniali avrebbe potuto essere interpretato dal nemico come
un’incapacità operativa di quelle nazionali e tutto questo chiuse ermeticamente le porte a
qualsiasi ulteriore proposta di utilizzo di truppe africane.

Con l’avvento del regime fascista, cambiò la visione coloniale italiana? La mia ricerca
dimostra che in realtà i primi anni del fascismo non cambiarono la politica coloniale, anche
perché né Mussolini né i più importanti gerarchi fascisti elaborarono un programma da attuare
nelle colonie una volta giunti al potere. L’unico avvenimento di un certo peso che portò
all’ordine del giorno la questione coloniale fu l’accordo con la Gran Bretagna per la cessione
del territorio ad ovest del fiume Giuba, del quale gli inglesi volevano disfarsene a causa dei
problemi creati dagli abitanti della zona, di etnia diversa (somala) rispetto al resto del Kenya.
Da parte sua l’Italia vedeva con favore l’annessione di questo lembo di terra per ragioni di
prestigio e per espandere il proprio dominio coloniale. Il 15 luglio 1924 l’Oltre Giuba passò
formalmente all’Italia dapprima amministrato dal ministero delle Colonie ed in seguito
annesso alla Somalia italiana. Come abbiamo già evidenziato il fascismo non si scostò
inizialmente dalla politica coloniale precedente salvo nell’utilizzare l’idea di civilizzazione
come mezzo per portare a compimento il processo di formazione di un’unità nazionale ancora
molto fragile in patria. Anche per quanto riguarda la questione razzismo il fascismo non
dovette di certo inventarsi nulla, dato che all’epoca vi erano addirittura studi pseudo-
scientifici che decretarono l’assoluta superiorità della razza bianca su tutte le altre. Già una
legge del 1914 vietava agli ufficiali coloniali di sposare donne indigene ma quest’ostacolo
venne superato grazie alla figura delle “madame” cioè donne di colore che diventavano
concubine degli italiani. Le donne indigene erano pronte ad accettare il madamato anche
perché il loro diritto consuetudinario consentiva che la madre potesse attribuire la paternità ai
figli, diritto che la legislazione italiana non prevedeva, e tale ignoranza portò molte di loro ad
essere abbandonate non appena avessero avuto figli. Proprio riguardo ai figli tra donne
autoctone e cittadini italiani, chiamati meticci, si sviluppò una feroce polemica tra chi li
riteneva non bianchi e quindi inferiori e dediti alla malavita, e chi pensava invece (come
Pollera e Ravizza) che i problemi dei meticci fossero di origine sociale. Nel 1933, quando
ancora la questione razziale non era in testa ai pensieri del regime ma anzi Mussolini irrise in
un discorso la politica razzista della Germania, venne emanato un ordinamento che
189

regolamentò la questione meticciato: i meticci riconosciuti di padre italiano diventarono


cittadini italiani, gli orfani di genitori bianchi diventarono automaticamente cittadini italiani
mentre tutti gli altri furono valutati da un giudice ed dovettero avere determinate
caratteristiche per ottenere la cittadinanza italiana. Le cose cambiarono radicalmente dopo la
conquista dell’Etiopia del 1936 arrivando al loro culmine con le leggi razziali del 1938.

Uno dei grossi problemi di Eritrea e Somalia fu quello di non attirare investimenti
privati il quale, unito alle scarse risorse inviate dallo Stato ed alla mancanza di infrastrutture,
non permise uno sviluppo agricolo e commerciale delle colonie degno di questo nome. Tutto
ciò, insieme alla nutrita emigrazione di contadini dalla madrepatria, che non si verificò,
mandò all’aria il progetto di rendere autosufficienti le colonie. Con la conquista dell’Etiopia
l’atteggiamento del regime verso i territori d’oltremare cambiò; il fascismo cercò di creare in
Abissinia quella colonia di popolamento che non si era stabilita in Eritrea ed in Somalia, ed in
parte vi riuscì poiché furono in molti a scegliere l’Etiopia come obiettivo di emigrazione ed
istituendo una vera e propria politica di apartheid. Per quanto riguarda la politica coloniale in
Etiopia, peraltro colonia fuori tempo massimo dato che le altre potenze stavano cominciando
a rivedere i loro rapporti con i loro territori d’oltremare, tralasciando le questioni militari,
dobbiamo evidenziare alcune caratteristiche che furono estranee a Somalia ed Eritrea. Nella
terra abissina arrivarono molti emigranti e fra di essi anche molte donne (tante in percentuale
rispetto al periodo di occupazione), inizialmente assenti altrove, che si concentrarono nelle
città, in particolar modo Addis Abeba, nonostante gli sforzi della propaganda che incitava a
formare insediamenti agricoli. I vari coloni provenivano da tutte le parti d’Italia ma
principalmente dal settentrione (il 50% contro il 25% del centro ed il 25% del meridione) al
contrario dell’emigrazione d’oltreoceano (il 70% dal meridione). La creazione dell’impero
fece si che le colonie dovessero ora diventare una replica del meglio della civiltà della
madrepatria (per questo gli investimenti statali raggiunsero in Etiopia punte mai viste nelle
altre zone del Corno) e quindi vi fu un forte controllo burocratico sulle domande di partenza.
L’intervento massiccio dello Stato generò un’iniziale euforia tra banche e imprese private che
si riversarono nel paese africano con l’idea di ottenere facili guadagni. Ma il rimpatrio di
diversi soldati e di molti operai, sostituiti da manovalanza autoctona, minò subito quella
parvenza di età dell’oro danneggiando il commercio basato essenzialmente sul
vettovagliamento e sulle forniture e creando una condizione economica non particolarmente
brillante che peggiorò con il passare del tempo. Inoltre per chi volesse aprire un’attività in
proprio, la pesante burocrazia si rivelò più asfissiante che in patria, bloccando sul nascere
molte iniziative imprenditoriali. Dal punto di vista dell’ordine pubblico, dopo l’attentato al
viceré Graziani del 1937, vennero compiute alcune efferatezze come il masssacro di Debra
Lebanòs dove vennero trucidate più di 2500 persone, massacri che, oltre a portare
nell’immediato sentimenti di rivalsa nella popolazione indigena, non trovarono al termine
dell’avventura coloniale nessun colpevole, dato che per questioni politiche venne messa una
pietra sopra da parte delle potenze vincitrici del secondo conflitto mondiale, nonostante le
continue richieste del governo etiopico. Nonostante i divieti la separazione razziale non fu
mai così netta come in altre società coloniali e spesso e volentieri le autorità dovettero
intervenire per evitare situazioni lesive della presunta superiorità bianca. Per questioni
economiche e logistiche spesso i coloni vivevano fianco a fianco con gli autoctoni,
frequentavano gli stessi locali, utilizzavano gli stessi mezzi di trasporto e capitava che degli
190

italiani particolarmente in crisi chiedessero prestiti agli indigeni più benestanti causando le ire
dell’amministrazione coloniale.

Quando scoppiò il secondo conflitto mondiale lo stato maggiore italiano non considerò
mai la posizione strategica in Africa orientale come una base avanzata per creare problemi
alle forze nemiche ma adottò semplicemente una tattica difensivistica, creando diversi punti di
resistenza e diradando quindi le già poco numerose forze presenti, nel tentativo di distogliere
il maggor numero possibile di unità britanniche dal fronte libico attraverso una resistenza ad
oltranza delle varie ridotte. Una tattica che si sarebbe rivelata fallimentare e che avrebbe
portato nel giro di meno di un anno a perdere l’intero Corno d’Africa per mano britannica
quando anche l’ultima sacca di resistenza italiana dovette capitolare a Gondar il 27 novembre
1941.

Il quinto ed ultimo capitolo, che si concentra sulla situazione politica internazionale e


sul destino delle ex colonie italiane al termine del secondo conflitto mondiale, è anche quello
dove si sono particolarmente concentrate le mie ricerche d’archivio. Al termine della guerra
l’Italia perse immediatamente i suoi possedimenti europei (Dodecaneso, Albania, parte della
Yugoslavia) e dovette subire delle amputazioni del territorio metropolitano (Briga e Tenda,
Istria e Dalmazia), mentre per quanto riguarda le colonie africane il discorso fu un po’ più
complesso. Il pensiero anticoloniale di Stati Uniti ed Unione Sovietica (per motivi diversi)
non trovò naturalmente d’accordo la Francia e la Gran Bretagna ed inoltre i britannici ebbero
un atteggiamento decisamente più punitivo nei confronti dell’Italia e furono inizialmente
contrari ad un ritorno delle colonie in mano italiana. La loro idea iniziale fu quella di restituire
all’Italia la sola Tripolitania, territorio improduttivo e quindi poco appetibile, smembrare
l’Eritrea per dividerla tra Etiopia e Sudan, accorpare la Somalia britannica a quella italiana ed
imporre il loro protettorato sulla regione. Tutto ciò era dovuto anche al fatto che un’eventuale
pretesa sovietica sulle colonie italiane avrebbe cambiato i rapporti di forze in un settore da
sempre dominato dalla Gran Bretagna. Gli Stati Uniti proposero allora che la gestione delle ex
colonie italiane venisse affidata congiuntamente alle quattro potenze vincitrici sotto l’egida
delle Nazioni Unite. Il governo italiano tentò fin da subito di rientrare in possesso dei teritori
africani contando sull’iniziale benevolenza americana che però mutò nel tempo a causa del
sopravvenire della guerra fredda con i sovietici, avvenimento che in pochi in Italia
compresero nella sua reale importanza. Quando il 10 febbraio 1947 venne emanato il trattato
di pace, la questione coloniale venne rimandata a data da destinarsi e l’unico elemento chiaro
in proposito fu che l’Italia avrebbe dovuto rinunciare ad ogni diritto sulle ex colonie.

C’è da notare come le motivazioni con le quali il governo italiano perseguì l’obiettivo
di riottenere perlomeno alcuni dei suoi ex-territori d’oltremare fossero ormai obsolete ed
addirittura irritanti agli occhi dei vincitori. Si continuò a citare la questione dell’emigrazione
italiana (quando era sotto gli occhi di tutti come il numero di italiani presenti nelle colonie
fosse alquanto limitato) e fece la sua ricomparsa anche la missione civilizzatrice, di
ottocentesca memoria e di chiaro stampo coloniale, tutto ciò senza la presenza di autocritica
riguardo ai periodi precedenti ma anzi vantando il colonialismo attuato. Per quanto concerne i
coloni, c’è da sottolineare che già nel 1941 un accordo tra Italia e Gran Bretagna permise alle
cosiddette “navi bianche” di riportare, in seguito a diversi viaggi, parecchi connazionali in
patria e quindi il numero degli italiani in Africa fu ulteriormente diminuito.
191

Quando dopo la seconda guerra mondiale si discusse alle Nazioni Unite del destino
delle sue ex colonie, l’Italia cercò in tutti i modi di fare pressione sugli alleati per ottenere
l’amministrazione fiduciaria dell’Eritrea anche sulla spinta delle aziende italiane presenti nel
paese le quali lamentarono che gli inglesi stessero facendo di tutto per spingere l’ex colonia
nel sistema economico britannico. Anche dal punto di vista fiscale le imprese italiane vennero
tartassate in ogni modo ed anche l’agricoltura, un tempo decisamente più fiorente, fu ridotta ai
minimi termini. Dato che i quattro grandi non riuscirono a mettersi d’accordo sul destino del
piccolo paese africano, la palla passò, come prevedeva il trattato di pace, all’Assemblea
Generale dell’ONU. Nel 1949 il ministro degli Esteri Sforza arrivò ad un compromesso
segreto con il suo pari grado inglese Bevin sulle ex colonie italiane e riguardo all’Eritrea si
accordarono in questo modo: le province occidentali sarebbero state incorporate nel Sudan, il
resto del paese ceduto all’Etiopia con uno speciale statuto per le città di Asmara e Massaua
mediante un trattato con le Nazioni Unite. Quest’accordo avrebbe consentito all’Italia di
ottenere l’amministrazione fiduciaria della Somalia e della Tripolitania. Quando l’accordo
venne reso pubblico però, l’assemblea generale delle Nazioni Unite bocciò diverse sue parti
ed in seguito lo respinse totalmente. A questo punto la politica italiana verso le colonie
cambiò sponsorizzando una immediata indipendenza del paese ed attirandosi le simpatie dei
paesi arabi e di tutti i partiti eritrei contrari all’unificazione con l’Etiopia. Nel 1950 vennero
presentate all’assemblea generale dell’ONU tre ipotesi: annessione pura e semplice
all’Etiopia, una federazione tra Etiopia ed Eritrea o l’indipendenza del paese. A questo punto
il Negus aveva però già giocato il suo jolly: con lo scoppio della guerra di Corea l’Etiopia
inviò alcune truppe a sostegno degli Stati Uniti accendendo un credito che gli fu presto
rimborsato. Gli americani caldeggiarono alle Nazioni Unite la soluzione federativa e nel
dicembre 1950 con la risoluzione 390 si stabilì la federazione tra i due paesi. Naturalmente
all’epoca si era ben lontani dal pensare che quella decisione sarebbe stata fonte di immani
tragedie e di una trentennale guerra di liberazione che avrebbe portato l’Eritrea
all’indipendenza solo nel 1993.

In Somalia la situazione politica si presentò nel dopoguerra diversa da quella eritrea.


Gli inglesi effettuarono diversi cambiamenti sia in campo economico che sociale
principalmente nel sistema educativo e fu senz’altro quest’ultimo che rafforzò l’idea di
nazione ed il successivo nazionalismo somalo. Nel 1943 venne fondato il Somali Youth Club
che più tardi divenne la Lega dei giovani Somali (LGS) (Somali Youth League) destinata a
diventare il più importante partito politico che resse le sorti del paese dal primo giorno
dell’indipendenza fino al colpo di stato di Siyad Barre nel 1969. La Lega godette fin da subito
dell’appoggio britannico in quanto progressista ed anti-italiana ma naturalmente la
liberalizzazione voluta dagli inglesi permise la nascita di altri partiti più vicini alle posizioni
italiane come l’Unione patriottica di beneficenza fondata nel 1944. Sul finire del 1947 tutti i
partiti legati all’Italia si riunirono nella Conferenza di Somalia che si opponeva al programma
dei giovani somali e si rifaceva ai valori della tradizione. Quando all’inizio del 1948 venne
inviata in Somalia una Commissione quadripartita d’inchiesta per studiare la situazione, le
varie forze contendenti cercarono di sfruttare al massimo l’occasione per dimostrare quale
fosse la scelta più idonea per l’amministrazione del paese. L’amministrazione militare
britannica (AMB), che aveva un occhio di riguardo per la LGS, interferì non poco nella scelta
delle persone destinate ad incontrare la Commissione e questo provocò malumori e violenze
tra le varie fazioni. Il modo migliore per impressionare i commissari fu ritenuto quello della
192

manifestazione di massa e l’11 gennaio vennero organizzati due diversi cortei ma simultanei,
uno della LGS ed uno della Conferenza. Nonostante i tardivi tentativi dell’AMB di evitare lo
svolgimento di entrambi i cortei non è difficile immaginare come andò a finire quella triste
giornata: anche a causa della colpevole assenza dell’AMB (quando alcuni dei suoi elementi
non si unirono direttamente ai dimostranti della LGS), le due manifestazioni entrarono in
contatto scontrandosi; nel proseguo della giornata gli scontri si trasformarono in una caccia
all’italiano con il pazzesco risultato che alla fine di quella follia si contarono 52 morti tra gli
italiani e 14 tra i somali. Le vere motivazioni ed i veri colpevoli crediamo non verranno mai
alla luce poiché il Foreign Office britannico, dopo avere incaricato una commissione
d’inchiesta sui fatti accaduti non pubblicò mai i risultati perché, così sostenne, non avrebbero
migliorato i rapporti tra Italia e Gran Bretagna. Ciononostante nel novembre 1949 la
risoluzione n. 289 dell’ONU affidò ufficialmente all’Italia l’amministrazione fiduciaria del
paese; codesta amministrazione sarebbe durata dieci anni ed avrebbe dovuto condurre la
Somalia alla piena indipendenza. Naturalmente un Consiglio di Tutela delle Nazioni Unite
sarebbe stato presente a vigilare che gli obiettivi richiesti all’amministrazione italiana fossero
raggiunti, entrando anche a volte in conflitto con l’AFIS. La nuova avventura italiana in
Africa non scatenò particolari entusiasmi da parte delle sinistre che anzi, nelle varie
discussioni parlamentari, si dimostrarono contrarie al nuovo impegno in Somalia. Venne
criticato anche il fatto (anche da parte dei somali) che molti funzionari che andarono in
Somalia appartenessero al Ministero dell’Africa italiana e di come l’assetto
dell’amministrazione fosse identico a quello fascista. Il periodo dell’AFIS viene commentato
in modo diametralmente opposto a seconda dell’appartenenza politica ma dal punto di vista
delle Nazioni Unite, l’opera italiana in Somalia fu positiva. Dal punto di vista politico si può
imputare all’AFIS la crezione di un sistema istituzionale e burocratico forse troppo complesso
per quel paese, ma dal punto di vista economico, le stesse missioni inviate dall’ONU
ammisero che la scarsità di risorse presenti e le lunghe tempistiche necessarie per uno
sviluppo moderno della Somalia avrebbero obbligato l’Italia a sostenere il paese africano
anche dopo il termine del mandato. Lo studio si conclude con il racconto dello scandalo forse
più clamoroso esploso durante la permanenza italiana in Somalia e cioè quello dell’Azienda
Monopolio Banane nel quale fu coinvolto il Sottosegretario alle colonie Giuseppe Brusasca,
personaggio dal cui archivio personale ho ricavato parecchia documentazione, scandalo che
portò allo scioglimento dell’azienda nel 1964.
193

RINGRAZIAMENTI

Arrivati alle battute finali, vorrei ringraziare sentitamente la Prof.ssa Sara Lorenzini, mia
relatrice, la Prof.ssa Cinzia Lorandini per essersi prestata a farmi da correlatrice ed il Prof.
Gustavo Corni che mi hanno seguito e consigliato durante tutto il periodo della stesura di
questo studio, nella speranza di avere raggiunto tutti gli obiettivi che ci si era prefissati in fase
di pianificazione. Vorrei vivamente ringraziare i dipendenti dell’Archivio Centrale dello Stato
di Roma sempre molto gentili e disponibili durante il mio soggiorno nella capitale, i
dipendenti della biblioteca comunale di Riva del Garda e della biblioteca comunale di Trento.
Vorrei altresì ringraziare i dipendenti dell’Archivio Storico di Casale Monferrato per la loro
disponibilità e pazienza nel concedermi l’accesso all’interessantissimo fondo Giuseppe
Brusasca. Un ringraziamento particolare va a mia moglie Barbara per il supporto che mi ha
dato in questi anni di studio ed ai miei genitori Ida e Giancarlo, ai quali è dedicato questo
lavoro, per tutto ciò che hanno fatto e quello che ancora faranno per rendere la mia vita
migliore: spero di renderli orgogliosi del loro unico figlio.
194

DOCUMENTI
195

Documento n. 1

Dichiarazione sottoscritta da Giuseppe Sapeto

(2 ottobre 1869)1

Dichiaro primieramente che dal R. Governo Italiano ebbi incarico di comperare sulla
costa dell’Asia o dell’Africa quei terreni, spiagge, rade, porti o seni di mare che mi sembrino
adatti allo scopo indicatomi e che per le varie spese inerenti mi vennero dal Governo
medesimo somministrati i fondi necessari, essendomi stato aperto per tali compere un credito
di lire 80.000 sovra una casa bancaria di Alessandria d’Egitto. Conseguentemente mi obbligo
di fare le dette compere a conto e per mandato del Governo Italiano, dichiarando che ogni
terreno, spiaggia, ecc. che io acquisterò sarà ceduta in proprietà del medesimo, obbligandomi
ad immetterlo nel possesso di ogni cosa da me comprata ed a rinunziare ad ogni diritto di cui
venissi rivestito per effetto dei contratti di acquisto, i quali sebbene firmati da me si intendono
stipulati per incarico e conto del Governo non essendo io in ciò che un semplice mandatario.

Documento n. 2

Contratto di compravendita tra G. Sapeto e i sultani di Assab

(15 novembre 1869)2

Gloria a Dio.

Essendo il giorno di lunedì undicesimo del mese di sciaban dell’anno 1286 secondo il
computo degli islamiti e il giorno 15 del mese di novembre dell’anno 1869 secondo l’era
degli europei, Hassan-ben-Ahmad, Ibrahim-ben-Ahmad, fratelli, e il signor Giuseppe Sapeto,
resisi a bordo del Nasser-Megid, barca di Said-Auadh, e fatto atto di presenza, stipularono
quanto segue al cospetto dei testimoni:

2. I fratelli sopradetti Hassan-ben-Ahmad e Ibrahim-ben-Ahmad, sultani di Assab, hanno


venduto e vendono al signor Giuseppe Sapeto anzidetto il territorio compreso tra il
monte Ganga, il capo Lumah e i due suoi lati; perlocchè il dominio del detto territorio
apparterrà al signor Giuseppe Sapeto, tostoché questi ne avrà sborsato il prezzo,
avendoglielo essi spontaneamente venduto, volontariamente e con retta intenzione.
3. I fratelli suddetti giurano, sul Corano della Distinzione, che né essi né la gente loro
faranno perfidie agli europei che verranno ad abitare il paese proprietà del signor
Sapeto.

______________________________
1 T. Scovazzi, Assab, Massaua, Uccialli, Adua. Gli strumenti giuridici del primo colonialismo italiano, Giappicchelli, Torino,
1996, Pag. 6.

2 Ibidem, Pag. 9-10.


196

4. Il signor Giuseppe Sapeto compra il detto luogo per seimila talleri, lasciando perciò
duecentocinquanta talleri di caparra ai venditori, obbligandosi a pagare i rimanenti
cinquemila settecento cinquanta talleri fra cento giorni decorrendi dal primo di
ramadan fino ai dieci del mese di heggiah. Che se il signor Giuseppe Sapeto non
tornasse più, né altri venisse in sua vece nel tempo fissato, la caparra andrebbe
perduta. I fratelli poi soprannominati non potranno vendere ad altri il detto luogo,
avendolo già venduto al signor Giuseppe Sapeto ed accordatogli cento giorni al
pagamento del prezzo suo.

Questo è il contratto passato tra il signor Giuseppe Sapeto e i fratelli Hassan-ben


Ahmad ed Ibrahim-ben-Ahmad, alla presenza dei testimoni Mohamad-Abdi, Ahmad-Ali,
Said-Auadh, scrivano Abd-Allah-ben-Duran.

Accettato e sottoscritto dai contraenti:

Hassan-ben-Ahmad Giuseppe Sapeto

Ibrahim-ben-Ahmad

Documento n. 3

Contratto di compravendita tra Sapeto e Buzzolino e i sultani di Assab.

(11 marzo 1870)3

Gloria a Dio.

Nel giorno nove del mese dell’heggi dell’anno 1286 secondo l’era musulmana, agli
undici del mese di marzo 1870 secondo l’era volgare, il sultano Abdallah Sciahim e i sultani
Hassan-ben-Ahmad e Ibrahim-ben-Ahmad da una parte, e i signori Giuseppe Sapeto ed
Andrea Buzzolino, capitano del vapore l’Africa, dall’altra, radunatisi a bordo del vapore
medesimo, vennero alla stipulazione del seguente contratto:

I suddetti sultani vendono, come hanno venduto, ai signori Giuseppe Sapeto ed Andrea
Buzzolino il tratto di paese e di mare racchiuso tra Ras Lumah e la gola di mare chiamata
Alala e il monte Ganga, senza nessun onere né dipendenza da parte dei compratori, i quali
sborsano ai medesimi venditori, sopra nominati, il prezzo convenuto, consistenti in scudi o
talleri di Maria Teresa ottomila e cento.

Ma siccome i sultani Sciahim, Hassan ed Ibrahim suddetti non intendono essere pagati
in lire sterline, ma in talleri effettivi di Maria Teresa, così si contentano per il presente di
_____________________________

3
T. Scovazzi, Assab, Massaua, Uccialli, Adua. Gli strumenti giuridici del primo colonialismo italiano, Giappicchelli, Torino,
1996, Pag. 9-10.
197

Ricevere talleri di Maria Teresa seicento e rupie trecento ottantotto, dichiarando di aspettare il
pagamento totale dei talleri ottomila e cento al ritorno del vapore da Aden.

Intanto i suddetti Hassan e Ibrahim, figliuoli di Ahmad, dichiarano e riconfermano che


il signor Giuseppe Sapeto, secondo il contratto del 15 novembre 1869, venne, nel termine
assegnato, allo sborso del prezzo di Lumah e riconfermano di aspettare il pagamento totale
del nuovo territorio, che unitamente al sultano Abdallah Sciahim, vendono, come hanno
venduto, ai signori Giuseppe Sapeto e Andrea Buzzolino nei limiti sopradescritti, e ciò pel
tempo che tornerà il vapore che sarà mandato in Aden per ivi cambiare le lire sterline in talleri
di Maria Teresa; e confessano aver ricevuto l’acconto suddetto in talleri di Maria Teresa
seicento e rupie trecento ottantotto, lasciando ai nuovi possessori dei paesi comprati ampia ed
intera facoltà di ivi stabilirsi come credono meglio e di inalberarvi la loro bandiera nazionale
in segno della sovranità assoluta sul luogo.

Tanto fu stipulato dai sultani Abdallah Sciahim, Hassan ed Ibrahim, e dai signori
Giuseppe Sapeto ed Andrea Buzzolino, come rappresentanti dei signori R. Rubattino e C.

Questo contratto essendo stato tradotto letteralmente in arabo ai suddetti sultani, questi
ne hanno approvato il contenuto e la vendita stipulata, hanno apposto la loro firma e sigillo,
unitamente ai compratori Giuseppe Sapeto e Andrea Buzzolino, alla presenza degli infrascritti
testimoni, dichiarando aver stipulato il presente contratto in tutta buona fede, e di dargli
perciò tutto il valore legale ancorché non sia redatto nelle forme usate in atti consimili.

Infine Giuseppe Sapeto e Andrea Buzzolino, come rappresentanti dei signori R.


Rubattino e C., dichiarano che con questo contratto non intendono in nessun modo infirmare
gli accordi che prima dell’atto presente fossero passati tra il signor Giuseppe Sapeto e il
signor Raffaele Rubattino ed altri aventi causa o cointeressati.

In approvazione di quanto retro sottoscrivono, mancando di sigillo.

Hassan-ben-Ahmad Giuseppe Sapeto

Abdallah Sciahim Andrea Buzzolino

Ibrahim

Abdallah, testimonio

Aali Chesi, testimonio

Orazio Antinori fu presente alla lettura e traduzione del presente ed alle firme.

Carlo Grondona fu presente alla lettura e traduzione del presente ed alle firme.
198

Documento n. 4

Dispaccio comunicato in occasione dello sbarco di de Amezaga ad Assab.

(25 dicembre 1879)4

Accettansi, nell’interesse di una benemerita Società Nazionale e di quanti vogliono


seguirne l’esempio, le conseguenze giuridiche dei contratti d’acquisto che la Rubattino ha
fatto con chi fino a prova contraria vuolsi considerare come avente nel territorio di Assab, non
solo il diritto di proprietà privata ma anche di dominio sovrano; mentre dichiarasi di non voler
creare in Assab un centro di forza militare, chiedesi che non si turbino intanto le condizioni
attuali di possesso.

Documento n. 5

Convenzione firmata da Berehan Dini Sultano di Raheita e dal Prof. Sapeto


rappresentante dei signori Rubattino e C. per la cessione delle isole Omm el Bachar, Ras
er-Ramlaml e del gruppo delle Darmachie.

(Raheita, 30 dicembre 1879)5

Gloria a Dio.

Nel giorno sedici del mese di maharram dell’anno 1296 secondo l’era musulmana, ai
trenta del mese di dicembre 1879 secondo l’era volgare, io Berehan Dini, Sultano di Raheita,
riferendomi all’accordo stipulato il 16 marzo 1870 fra me e i rappresentanti dei signori
Rubattino e C., formulo le seguenti dichiarazioni:

2. Dichiaro di aver ricevuto dal signor Giuseppe Sapeto, rappresentante dei signori
Rubattino e C., la somma di talleri mille a saldo della locazione dei dieci anni passati
delle isole Omm el Bachar, Ras el-Raml e del gruppo Darmachiè;
3. Dichiaro di aver ricevuto dal signor Giuseppe Sapeto duemila rupie prezzo
dell’acquisto definitivo delle dette isole e località;
4. Dichiaro che, in seguito agli ora citati pagamenti, rinunzio da questo istante, tanto in
nome mio che dei miei successori, ad ogni diritto di proprietà e sovranità sulle isole
Omm-el-Bachar, Ras-el-Raml e sul gruppo Darmachiè summentovati, a tutto favore
del signor Giuseppe Sapeto, rappresentante come sopra, il quale, per il fatto stesso di
tale rinunzia, entra fin d’ora nel pieno ed intero possesso loro per disporne nel modo
che più gli piacerà e col conseguente diritto d’innalzarvi bandiera italiana;

_________________________________
4 T. Scovazzi, Assab, Massaua, Uccialli, Adua. Gli strumenti giuridici del primo colonialismo italiano, Giappicchelli, Torino,

1996, Pag. 16.


5 G.Perticone, G.Guglielmi, La politica coloniale dell’Italia negli atti, documenti e discussioni parlamentari, L’Italia in
Africa, Vol. III, Ist. Polig. Dello Stato, Roma, 1965, Pag. 179-180.
199

5. Dichiaro aver venduto, come vendo, i detti luoghi spontaneamente ed in forzadi un


mio diritto incontestato, fermo nel voler rispettare e far rispettare in ogni tempo e
luogo con ogni possibile mezzo la vendita di cui è caso.

Dichiaro in fine che il presente atto non può in nessun modo infirmare gli accordi che,
prima delle dichiarazioni precedenti, fossero passati tra il signor Giuseppe Sapeto ed i signori
Rubattino e C. ed altri aventi causa o cointeressati.

In fede di che, mi sottoscrivo alla presenza degl’infrascritti testimoni, giurando sul


Corano che ho di buona fede venduto, come vendo e cedo, quanto sopra è dichiarato.

Accetto quanto sopra, dettomi da Giuseppe Sapeto, scritto in arabo.

Sultano Berehan

Testimoni: Osman, Abdalla Duran, Giacomo Doria, figlio di Giorgio, Odoardo Beccari.

Documento n.6
Convenzione firmata da Berehan ben Mohamed Sultano di Raheita e dal professore
Sapeto, procuratore della ditta Rubattino per la cessione delle isole della baia di Assab e
del litorale fra i capi Ras Lumah e Ras Sintyar, assieme ad un tratto di terraferma.
(Sceik Duran, 15 marzo 1880)6
Gloria a Dio.
Sia noto a chi spetta che quest’oggi 15 del mese di marzo del 1880 e nel giorno 3 del
mese di rabiè-el-akhar dell’anno 1297 secondo l’era musulmana, io Berehan ben Mohammed,
Sultano di Raheita, sovrano, padrone assoluto e proprietario del territorio circostante al paese
di Assab, di proprietà italiana, in forza di un diritto tradizionale ed incontestato, dichiaro di
stipulare, con animo deliberato ed intera spontaneità, per mio conto e quello dei miei
successori da una parte, ed in favore del professore cav. Giuseppe Sapeto, per conto della
Ditta Rubattino e C. di Genova, di cui egli è rappresentante legale, dall’altra, sotto il suggello
della massima buona fede e solenne giuramento, il seguente contratto da avere valore legale,
come se fosse stato redatto da pubblico notaio.
Io prefato Berehan ben Mohammed dichiaro di vendere, come vendo, al prefato cav.
Giuseppe Sapeto, nella sua qualità di procuratore della Ditta Rubattino e C., tutte le isole,
niuna esclusa, che sono comprese nella gran baia di Assab e fra i paralleli di Ras Sintyar e
Ras Lumah, fra cui figurano principali le isole Fatmah, Darmabah, Makawa, Halem, Delkos,
Arukia, ecc., più tutto il litorale che si estende fra i due suddetti Ras (capi) Lumah e Sintyar,
assieme ad un tratto di terraferma il quale formi una zona di territorio larga due miglia marine
a monte a partire dal pelo del mare per tutto il percorso della costa dalla baia di Buja a Sceik
Duran, ed una zona di territorio larga quattro miglia marine a monte, a partire dal pelo del
_________________________
6G.Perticone, G.Guglielmi, La politica coloniale dell’Italia negli atti, documenti e discussioni parlamentari, L’Italia in
Africa, Vol. III, Ist. Polig. Dello Stato, Roma, 1965, Pag. 180-181.
200

mare per il percorso della costa da Sceik Duran a Ras Sintyar.


E con questa vendita rinunzio, per me ed i miei successori, a qualsiasi diritto di
proprietà e sovranità, investendo dell’un diritto e dell’altro il compratore sunnominato, con
conseguente facoltà d’inalberare sui luoghi venduti la bandiera nazionale italiana,
dichiarandomi fermo nel voler rispettare e far rispettare, in ogni tempo e modo, con ogni
possibile mezzo, la vendita medesima.
Il prof. cav. Giuseppe Sapeto, quale procuratore della Ditta Rubattino e C., in
corrispettivo della vendita di cui è caso nel presente contratto, in nome della ditta stessa
s’impegna a pagarmi la somma di talleri 13.000 (tredicimila), dei quali io Berehan ben
Mohammed, Sultano come sopra, dichiaro d’aver ricevuto in acconto e principio di
pagamento la somma di talleri 4000 (quattromila), restando inteso che il saldo mi sarà pagato
come segue: talleri 3000 (tremila) dopo tre mesi da oggi, ed il compimento in talleri 6000
(seimila) ad un anno, decorrendo dal giorno di questo secondo versamento.
In ultimo, le parti contraenti intendono che il presente atto non possa in alcun modo
infirmare gli accordi che, prima delle stipulazioni presenti, fossero passati tra i signori
Rubattino e C. ed il prof. cav. Sapeto, loro rappresentante, con altri aventi causa od
interessati, e dichiarano inoltre che nessuna contestazione né debba né possa essere messa in
campo per la forma con cui è stato redatto il presente contratto.
In fede di che, noi parti contraenti ci sottoscriviamo di proprio pugno ed in presenza
degli infrascritti testimoni, giurando solennemente rispettivamente sul Corano e sul Vangelo
di mantenere i patti qui sopra stipulati.
Così Dio ci aiuti.
Fatto e sottoscritto a Sceik Duran l’anno, mese e giorno di cui sopra.

Berehan ben Mohammed Giuseppe Sapeto


Sultano di Raheita Procuratore della Società Rubattino

Testimoni: Giuseppe Bienenfeld Rolph, G.M. Giulietti, Said Uridan, Massaud Nahbur.

Documento n. 7
Convenzione firmata dai capi Danachil fratelli Hassan Ibrahim e Raghé-ben-Ahmad (a
nome proprio ed a nome di altri interessati, specialmente di Abdallah Sciahim) e del
prof. Sapeto a nome della Ditta Rubattino e C., per la cessione dell’isola di Sennabor e
della regione continentale compresa tra Ras Darmah e Ras Lumah, dell’estensione di sei
miglia marine a partire dal mare.
(Assab, 15 maggio 1880)7

_________________________
7
G.Perticone, G.Guglielmi, La politica coloniale dell’Italia negli atti, documenti e discussioni parlamentari, L’Italia in
Africa, Vol. III, Ist. Polig. Dello Stato, Roma, 1965, Pag. 181-182.
201

Gloria a Dio.
Sia noto a chi spetta che quest’oggi quindici del mese di maggio dell’anno 1880
secondo l’era cristiana, e nel giorno sei del mese di giumadi-el-akhar dell’anno 1297 secondo
l’era musulmana, noi Hassan ben Ahmad, in forza di un diritto tradizionale ed incontestato,
dichiariamo di stipulare, con animo deliberato ed intera spontaneità, per nostro conto e quello
dei nostri successori e per gli aventi parte, e specialmente di Aled Allad Sciahim, di cui siamo
i legittimi rappresentanti, da un canto, ed in favore del prof. cav. Giuseppe Sapeto, per conto
della Ditta Rubattino e C. di Genova, di cui egli è rappresentante legale, dall’altro, sotto il
suggello della massima buona fede, e solenne giuramento, il seguente contratto da aver valore
legale, come ne fosse stato redatto da pubblico notaio.
Noi Hassan ben Ahmad, Ibrahim ben Ahmad e Raghè ben Ahmad dichiariamo di aver
venduto, come vendiamo, al prefato cav. Giuseppe Sapeto, nella sua qualità di procuratore
della Ditta Rubattino e C., l’isola di Sannabor, non che tutta la regione continentale compresa
tra Ras Darmah e Ras Lumah, dell’estensione a monte, a partire dal pelo del mare, di sei
miglia marine.
E con questa vendita rinunziamo, per noi, per i nostri successori e per gli aventi parte,
a qualsiasi diritto di proprietà e sovranità, investendo dell’un diritto e dell’altro il compratore
sunnominato, con conseguente facoltà d’inalberare sui luoghi venduti la bandiera nazionale
italiana, dichiarandoci fermi nel rispettare e far rispettare, in ogni tempo e luogo, con ogni
possibile mezzo, la vendita medesima.
Il prof. cav. Giuseppe Sapeto, quale procuratore della Ditta Rubattino e C., in
corrispettivo della vendita di cui è caso nel presente contratto, in nome della ditta stessa
s’impegna a pagare la somma di talleri 1500 (millecinquecento), dei quali noi Hassan ben
Ahmad, Ibrahim ben Ahmad e Raghè ben Ahmad dichiariamo di averne ricevute duecento
(200) quale principio di pagamento il giorno 22 aprile 1880 dell’era cristiana, ed il 12 di
giumadi-el- aual 1297 dell’era musulmana, talleri 300 (trecento) al momento della firma del
contratto, ed il compimento in talleri mille (1000) ad un anno da oggi stesso.
E, per aderire ad un desiderio espresso dai summentovati venditori, il prof. cav.
Giuseppe Sapeto, quale procuratore della Ditta Rubattino e C., a titolo di graziosa
concessione, tanto in suo che della Società Rubattino e C. ed altri aventi causa od interessati,
assume impegno di lasciare piena ed intera libertà di azione alle tribù Danakil, comprese nel
territorio nell’atto comperato, relativamente agli usi, costumi, consuetudini e tradizioni,
sempreché tale libertà di azione non intacchi mai in nulla i diritti e gl’interessi legittimi della
Società Rubattino summentovata, o di altri aventi causa od interessati.
In ultimo, le parti contraenti intendono che il presente atto non possa in alcun modo
infirmare gli accordi che, prima delle stipulazioni presenti, fossero passati tra i signori
Rubattino e C. ed il prof. cav. Giuseppe Sapeto, loro rappresentante, con altri aventi causa od
interessati; e dichiarano inoltre che nessuna contestazione né possa né debba essere messa in
campo per la forma con cui è stato redatto il presente contratto.
In fede di che, noi parti contraenti ci sottoscriviamo di proprio pugno, in presenza
degl’infrascritti testimoni, giurando solennemente rispettivamente su Corano e sul Vangelo di
mantenere i patti qui sopra stipulati.
Così Dio ci aiuti.
202

Fatto e sottoscritto ad Assab l’anno, mese e giorno di cui sopra.

Hassan ben Ahmad


Ibrahim ben Ahmad Giuseppe Sapeto
Raghè ben Ahmad Rappresentante la Società Rubattino
Testimoni: Abdulla Mohamed, Said Uridan, G. M. Giulietti, Giahdar.

Documento n. 8
Dichiarazione sottoscritta dal Sultano Abdallah Sciahim.
(5 novembre 1880)8
Io Abdallah Sciahim Sultano dichiaro sulla mia coscienza che ho acconsentito ed
accettato il contratto stipulato in nome mio e nel loro da Hassan, Ibrahim e Raghè ben Ahmad
col signor Giuseppe Sapeto, procuratore della Società Rubattino, ai 15 maggio dell’anno
1880, secondo l’era europea, e ai 6 di giumadi-el-akhar dell’anno 1297 secondo l’era araba,
per la vendita nel mio e nel loro nome al signor Giuseppe Sapeto dell’isola di Sennabor e del
continente da Lumah a Ras Faranah. Similmente è da me approvata la cessione del territorio
di Bar Assoli e Behetah fatta dai sopradetti nel mio nome e loro, con altro contratto in favore
del signor Giuseppe Sapeto. Confesso inoltre d’aver ricevuto dal signor Giuseppe Sapeto
cento talleri dei mille rimanenti al pagamento totale del prezzo dei luoghi comprati, e che egli
si è obbligato di sborsare nel termine stabilito nel contratto sopraccennato.
Assab, ai 5 del mese di novembre dell’anno 1880 secondo l’era cristiana, e 3 del mese
di el-eggeh dell’anno 1298, secondo il computo degli arabi.
Io Abdallah Sciahim confermo quanto sopra.

Documento n. 9

Ordinanza del capo della stazione navale italiana in Assab.


(16 febbraio 1880)9

L’agglomerazione di gente che ogni giorno più si fa maggiore, in Assab, nonché taluni
gravi fatti accaduti, esigono che, nell’interesse della pubblica sicurezza, il Sottoscritto,
chiamato dalla fiducia del Governo di S.M. a tutelare e proteggere efficacemente lo
Stabilimento Rubattino, situato in Assab stesso, emani le seguenti disposizioni:

__________________________________
8
T. Scovazzi, Assab, Massaua, Uccialli, Adua. Gli strumenti giuridici del primo colonialismo italiano, Giappicchelli, Torino,
1996, Pag. 24.
9
Ibidem, Pag. 30-31.
203

1. In difetto di ufficiale e definita organizzazione politica, e finché non venga altrimenti


provveduto dal prelodato Governo, lo Stabilimento di Assab, occupato da regnicoli e
posto sotto la tutela e protezione di navi da guerra di S.M. il Re d’Italia, deve
subordinatamente allo spirito ed alla lettera delle leggi nazionali considerarsi come un
prolungamento eventuale della nave da guerra del Comandante Superiore.
2. Pertanto, ogni e qualunque reato, col titolo di crimine o delitto commesso da ogni e
qualsiasi persona, nel recinto dello stabilimento accennato, verrà giudicato a norma
del vigente codice penale militare marittimo.
3. § 1 – I reati che la legge nazionale punisce con pene di polizia e che costituiscono la
contravvenzione, se commessi da indigeni (gente di colore) saranno giudicati dal Capo
dello stabilimento Rubattino, assistito da uno o due coloni italiani, nominati dal
sottoscritto, e da un indigeno, scelto, quest’ultimo, fra i più autorevoli.
§ 2 – Le decisioni di questo consesso saranno sempre notificate al sottoscritto per
l’ulteriore sanzione.
4. Per i reati di cui all’articolo precedente commessi da regnicoli, o da individui che
appartengono a nazioni che vivono in relazioni ufficiali col Governo di S.M., sarà
fatto ricorso, per analogia, alle disposizioni contenute nel codice di procedura civile
del Regno d’Italia.
5. Gli equipaggi delle navi di S.M. stazionarie in queste acque dovranno studiarsi di
ispirare la massima simpatia agli indigeni delle due costiere Arabica ed Africana del
mare Rosso e del Golfo di Aden; eppoiché codesto sentimento riposa anzitutto sul
reciproco rispetto degli usi, costumi e religioni, visto l’art. 26 del Reg. sul servizio
interno di bordo, Parte 1°, sarà osservato, con iscrupolo, l’accennato rispetto.
6. Rimarrà permanentemente, a terra, un picchetto armato, fornito dalle navi della
stazione, per la difesa delle persone e degli averi dello stabilimento, picchetto il quale
presterà man forte al Capo dello stabilimento medesimo, ogni quando necessità di
ordine pubblico impongano di ciò fare.
7. Questo picchetto regolerà il suo servizio a norma delle vigenti prescrizioni
regolamentari sul Servizio di Piazza del R. Esercito.
8. Il Comando militare superiore del picchetto rimarrà affidato all’Ufficiale di marina più
anziano, che si trova a terra, eventualmente, o in altro modo.
9. Le comunicazioni fra la terra e il bordo, saranno, per cura dei dipendenti del
sottoscritto, ed in ordine gerarchico, rese sempre facili; ed appositi lavori saranno
eseguiti,per raggiungere codesto intento assieme all’altro di conservare, in buone
condizioni, tutto il materiale di proprietà italiana, che trovasi a terra.
10. Nessun indigeno armato potrà trattenersi nel recinto dello stabilimento Rubattino, ad
eccezione dei capi tribù o personaggi ragguardevoli indigeni. Le armi saranno
consegnate al picchetto.
11. Nessun indigeno, senz’ordine speciale dell’autorità militare, potrà avvicinarsi alla
caserma del picchetto a meno di 30 passi.
204

12. Il prof. sig. cav. G. Sapeto procuratore della Società Rubattino in Assab è l’attuale
Capo dello stabilimento omonimo. Le doti di lui personali, la di lui posizione sociale,
gli daranno diritto ad ogni maggior deferenza e rispettoso affetto.
13. Lo sviluppo gradualmente progressivo dello stabilimento richiede che il prelodato
professore regoli, nella sfera delle sue attribuzioni commerciali, il modus vivendi fra
gli italiani di Assab e gli indigeni dei paesi circostanti e, sotto un tale rapporto, gli si
dovrà prestare ogni maggiore assistenza.

Documento n. 10
Convenzione firmata dai Ministri degli affari esteri, del tesoro, dell’agricoltura e
commercio e dalla Società R. Rubattino e C. per la cessione al Regio Governo del
possedimento di Assab.
(Roma, 10 marzo 1882)10

Tra le Loro Eccellenze i signori Ministri degli affari esteri, del tesoro e
dell’agricoltura, industria e commercio,nell’interesse del Regio Governo, e il signor cav.
Rodolfo Hofer, qual rappresentante legalmente la Società R. Rubattino e C.
Premesso che la Società R. Rubattino e C., con l’opera di speciali suoi mandatarii, e
con l’autorizzazione del regio Governo, acquistava fin dall’anno 1869, ed indi ampliava con
acquisti successivi stipulati con capi indigeni aventi la pienezza della politica indipendenza,
ogni ragione di privata proprietà e di assoluta sovranità sopra i territori attorno alla baia di
Assab, nella costa sud-occidentale del Mar Rosso, e fin d’allora dichiarava, consenziente il
regio Governo, che la sovranità su quei territori stessi si intendeva, con la presa di possesso da
parte della Società, acquisita a favore dello Stato italiano.
Pemesso, altresì, che il regio Governo, fin dal principio affermava, nei rapporti
diplomatici, la acquisita sovranità, e ne assumeva del pari l’effettivo esercizio, sia con la
protezione del territorio e dello stabilimento di Assab affidata a navi della real marina, sia con
la nomina di un regio commissario civile,
Essendo stata ora riconosciuta la mutua convenienza di procedere ad un regolare e
definitivo accertamento dei rapporti che la creazione dello stabilimento commerciale italiano
in Assab per opera della Società ha creato tra la Società stessa e il Governo,
Sono stati concordati e stipulati, salva l’approvazione del Parlamento, i patti
specificati negli articoli seguenti:
Art. 1. – Il signor cav. Rodolfo Hofer, nella qualità sua di rappresentante la Società R.
Rubattino e C., mentre formalmente riconosce e conferma che, per le speciali modalità e per i
precisi intenti dell’acquisto, da questa operato, dei territori che stanno attorno alla baia di
Assab, la sovranità sopra quei territori stessi passò di pieno diritto, e secondo la
giurisprudenza internazionale, allo Stato italiano, così dichiara, del pari, che la Società è ora

_________________________________
107G.Perticone, G.Guglielmi, La politica coloniale dell’Italia negli atti, documenti e discussioni parlamentari, L’Italia in
Africa, Vol. III, Ist. Polig. Dello Stato, Roma, 1965, Pag. 183-184.
205

Venuta nel proposito di fare effettiva cessione, come cede, aliena e trasferisce mediante la
presente convenzione al demanio italiano, salva la restrizione di cui è cenno al successivo art.
2, la proprietà privata degli anzidetti territori ed in genere tutte le regioni ad essa spettanti in
virtù dei seguenti contratti, cioè:
1. Contratto 15 novembre 1869 con Hassan ben Ahmad e Ibrahim ben Ahmad;
2. Contratto 11 marzo 1870 con Abdallah Sciahim, Hassan ben Ahmad e Ibrahim ben
Ahmad;
3. Contratto 30 dicembre 1879 con Berehan, Sultano di Raheita;
4. Contratto 15 marzo 1880 con Berehan, Sultano di Raheita;
5. Contratto 15 maggio 1880 con Hassan ben Ahmad, Ibrahim ben Ahmad e Raghè ben
Ahmad.
L’originale dei contratti qui sopra enumerati trovasi depositato presso il regio
Commissariato civile in Assab. Una copia autentica ne sarà alligata alla presente convenzione.
Il possedimento di Assab che si cede al governo italiano colla presente convenzione,
secondo che risulta formato per effetto dei suddetti contratti anteriori d’acquisto, è così
composto: 1° una zona della larghezza di sei miglia da Ras Dermach scendendo a Ras Lumah;
2° una zona della larghezza di due miglia da Ras Lumah a Sceik Duran; 3° una zona della
larghezza di quattro miglia da Sceik Duran a Ras Synthiar; 4° l’isola Sannabor rimpetto a Ras
Lumah; 5° le isole comprese tra i paralleli di Ras Lumah e Ras Synthiar.
Sono inclusi nell’ambito del possedimento, i villaggi di Margable, Alali e Maacaca,
con una popolazione indigena di circa mille abitanti.
Art. 2. – La Società R. Rubattino e C. si riserva la proprietà di un appezzamento, lungo
il lido del mare, nella baia detta di Buja, in un punto da determinarsi d’accordo tra la Società
stessa e il regio Governo, della lunghezza di cento metri e della larghezza di sessanta metri,
sotto la espressa condizione che tale appezzamento debba essere e rimanere costantemente ed
esclusivamente destinato agli usi attinenti al traffico marittimo da essa esercitato.
E’ inibito alla Società di alienare a terzi, senza il consenso del Governo,
l’appezzamento riservatosi e gli edifici sul medesimo costruiti. Il Governo si riserva inoltre
sull’uno e sugli altri un diritto di eventuale prelazione in ogni caso di alienazione.
Art. 3. – La Società R. Rubattino e C. dichiara che, essendo stato da essa già
integralmente saldato il prezzo d’acquisto degli accennati territori, come risulta dalle ricevute
depositate presso il Governo, il demanio italiano verrà ad essere immesso, per il combinato
effetto dei precedenti contratti e della presente convenzione salvo l’appezzamento riservato di
cui qui sopra è cenno all’art. 2, nel pieno, libero e incondizionato possesso di tutti quei
territori.
Art. 4. – La Società R. Rubattino e C., fa simultanea cessione al regio demanio italiano
di tutte le opere murarie ed altre, sì ultimate che in corso di costruzione, nello stato in cui esse
si trovano, e con le migliorie che vi saranno arrecate fino al 1° luglio 1882, data prescelta per
la immissione in possesso, rimanendo fino a quella data a carico della Società ogni spea di
ordinaria e straordinaria manutenzione.
206

Art. 5. – Tra il Governo e la Società è stato pattuito, in corrispettivo dei territori ed


opere vendute, e a tacitazione di tutte le ragioni della Società cedute al Governo con la
presente convenzione, il prezzo di lire 416.000. In questa somma si intendono integralmente
conteggiati così il costo degli acquisti come ogni spesa successiva d’opere e costruzioni,
nonché gl’interessi di somme erogate e finora infruttifere, o rimborsi al Governo dovuti, come
pure qualsiasi altra ragione di credito o possibile pretensione della Società R. Rubattino e C.
verso il Governo relativa al possedimento di Assab, per qualunque titolo o causa.
S’intende del pari convenzionalmente incluso e compenetrato nel prezzo pattuito ogni
compenso che dal Governo apparisse già dovuto alla Società R. Rubattino e C. per la
occupazione o l’uso, da parte di funzionari governativi e nel pubblico interesse, di edifizi e di
opere attualmente esistenti in Assab.
Il predetto prezzo di lire 416.000 sarà pagato alla Società in tre annue rate uguali,
senza interessi da scadere, rispettivamente il 1° luglio degli anni 1882, 1883 e 1884.
Art. 6. – Il cav. Rodolfo Hofer dichiara di intervenire nella presente convenzione,
nell’interesse non solamente della Società R. Rubattino e C. della quale è gerente munito
d’ogni necessario potere, ma benanche nell’interesse della nuova Società anonima risultante
dalla fusione delle due Società R. Rubattino e C., I. V. Florio e C., costituita con atto del 4
settembre 1881, ed attualmente in corso di legale formazione, sotto la denominazione
«Navigazione generale italiana», nell’attivo della quale verrà conferito in prezzo di lire
416.000, qui innanzi stabilito nell’art. 5, come pure ogni altra ragione nascente dalla presente
convenzione obbligandosi il cav. Rodolfo Hofer, a sola sovrabbondanza di cautela, di fornire,
con atto separato, nelle debite forme, e nel termine di due mesi, una formale ratifica ed
approvazione della presente convenzione da parte della detta nuova Società.
Art. 7. – Il diritto di registro per la presente convenzione, e per i contratti alla
medesima annessi, come pure il conferimento alla «Navigazione generale italiana» delle
ragioni nascenti per la Società R. Rubattino e C. dalla presente convenzione, rimane fissato
nella cifra di una lira.
Art. 8. – La presente convenzione sarà sottoposta all’approvazione del Parlamento.
In fede di che, è stata concordata e sottoscritta, in quattro esemplari, la presente
convenzione con l’assistenza dei testimoni che l’hanno anch’essi sottoscritta.
Pasquale Stanislao Mancini, Ministro degli affari esteri.
Agostino Magliani, Ministro delle finanze ad interim del tesoro.
Berti, Ministro di agricoltura e commercio.
Rodolfo Hofer
Testimoni: Gualtiero Danieli – Demetrio Silvani Loreni
207

Documento n. 11
Legge Concernente i provvedimenti per Assab.
(5 luglio 1882, n. 857, serie 3°)11

UMBERTO I
Per grazia di Dio e per volontà della nazione
RE D’ITALIA
Il senato e la camera dei deputati hanno approvato;
Noi abbiamo sanzionato e promulghiamo quanto segue:
Art. 1. - E’ stabilita sulla costa occidentale del Mar Rosso, una colonia italiana nel
territorio di Assab, sottoposto alla sovranità dell’Italia.
Il territorio anzidetto si compone:
2. di una zona della larghezza di sei miglia da Ras Dermah a Ras Lumah;
3. di una zona della larghezza di due miglia da Ras Lumah a Sceik Duran;
4. di una zona della larghezza di quattro miglia da Sceik Duran a Ras Synthiar;
5. dell’isola Sannabor, rimpetto a Ras Lumah;
6. delle isole adiacenti alla costa e comprese tra i paralleli di Ras Lumah e Ras Synthiar.
Art. 2. – E’ data facoltà al governo di provvedere con decreti reali, o ministeriali,
secondo l’importanza delle materie, all’ordinamento legislativo, amministrativo, giudiziario
ed economico della Colonia, con quelle norme che saranno convenienti alle condizioni locali,
e con potestà di variarle nella stessa forma secondo i risultati della esperienza.
La Colonia sarà sotto la diretta dipendenza del Ministero degli affari esteri, cui
spetterà emanare gli occorrenti provvedimenti, previo accordo coi Ministeri competenti nelle
rispettive materie.
Tra le facoltà accordate al Governo con la presente legge si comprendono le seguenti:
Regolare le attribuzioni al Commissario civile ivi istituito, non che dei funzionarii a
cui potrà essere commessa, sotto la dipendenza gerarchica del Commissario, la pubblica
Amministrazione in Assab, prescrivendo le norme a cui dovranno uniformarsi;
Concedere nel territorio di Assab l’esenzione dal pagamento di qualunque specie
d’imposte, dirette o indirette, per un trentennio;
Stabilire in Assab un porto franco, con piena esenzione da ogni tassa doganale
d’importazione, di esportazione o di transito, come pure dai diritti marittimi;
Accordare a Società od a privati, italiani, indigeni o stranieri, concessioni di terreni
demaniali o di qualsivoglia altra natura, nel possedimento di Assab, e determinare, con norme
__________________________
11
G.Perticone, G.Guglielmi, La politica coloniale dell’Italia negli atti, documenti e discussioni parlamentari, L’Italia in
Africa, Vol. III, Ist. Polig. Dello Stato, Roma, 1965, Pag. 185-187.
208

Generali, le condizioni;
Provvedere alle opere di pubblica utilità in corso di esecuzione, ed alle altre urgenti
nel territorio medesimo;
Stipulare coi sovrani e capi delle prossime regioni convenzioni di amicizia e di
commercio, e stabilire con essi patti di buon vicinato e per la sicurezza della Colonia italiana.
Sarà presentata al Parlamento nella sessione del 1884 una relazione, per esporre i
provvedimenti emanati, il primo ordinamento della Colonia, lo stato dei vari servizi ed i
rapporti della medesima con le vicine popolazioni. Una simile relazione sarà in seguito
presentata periodicamente al Parlamento in fine di ogni biennio.
Art. 3. – I codici e le leggi italiane avranno nel territorio di Assab la loro applicazione
agl’italiani del Regno, quanto ai rapporti di cittadinanza, di famiglia e di stato civile, alle
successioni, e generalmente in tutto quello a cui non sia derogato dalle speciali norme
legislative ed amministrative emanate per la Colonia di Assab; come altresì per regolare le
loro relazioni giuridiche e contrattazioni con gli indigeni o con individui di straniere
nazionalità, non che quelle tra stranieri, ovvero tra indigeni e stranieri.
Rispetto agli individui della popolazione indigena, saranno rispettate le loro credenze e
pratiche religiose. Saranno regolati con la legislazione consuetudinaria finora per essi vigente
il loro statuto personale, i rapporti di famiglia, i matrimoni, le successioni, e tutte le relazioni
di diritto privato, in quanto però quella legislazione non si opponga alla morale universale ed
all’ordine pubblico, né ad essa sia derogato da espresse disposizioni.
La giurisdizione sarà esercitata verso gl’indigeni in queste materie, e nei giudizi che
avranno luogo tra essi senza partecipazione od interesse di altre persone italiane o straniere,
da un magistrato dottore nella legge musulmana (cadì); questi però sarà nominato dal regio
Commissario, ed amministrerà la giustizia in nome del Re d’Italia.
Art. 4. – E’ approvata la convenzione stipulata nel 10 marzo 1882 tra il Governo e la
Società R. Rubattino e C. per la cessione di tutti i diritti e delle proprietà della Società
anzidetta al Governo, e per regolare reciprocamente i rapporti pecuniarii dipendenti
dall’acquisto e dalla creazione dello stabilimento commerciale di Assab.
Per il pagamento, ivi pattuito, a favore della Scietà Rubattino e C., di tre rate eguali di
L. 138.666,66 ciascuna, saranno stanziate le occorrenti somme nella parte straordinaria dei
bilanci del Ministero del tesoro per gli anni 1882, 1883, 1884, in apposito capitolo, sotto la
denominazione di Spese di acquisto in Assab.
Sarà stanziata in apposito capitolo del bilancio del Ministero degli affari esteri, nella
parte straordinaria per l’esercizio 1882, la somma di L. 60.000, per le spese del primo
ordinamento della Colonia, per la continuazione delle opere di pubblica utilità in corso di
esecuzione, non che per esplorazioni verso l’interno, con riserva di provvedere negli esercizi
ulteriori alle spese ordinarie e straordinarie occorrenti per il possedimento di Assab, mediante
regolari stanziamenti ne’ bilanci dei Ministeri degli affari esteri e dei lavori pubblici.
Con altra legge speciale sarà provveduto alla costruzione di un porto in Assab e di
altre opere ivi occorrenti.
209

Le spese per il personale del Commissariato (assegni, diarie, regalie,ecc.), per


ispezioni ad Assab, e per missioni relative alla Colonia di Assab, continueranno ad erogarsi
sul capitolo 9 (viaggi e missioni) del bilancio del Ministero degli affari esteri.
Ordiniamo che la presente, munita del sigillo dello Stato, sia inserta nella Raccolta
ufficiale delle leggi e dei decreti del Regno d’Italia, mandando a chiunque spetti di osservarla
e di farla osservare come legge dello stato.
Dato a Roma, addì 5 luglio 1882.
UMBERTO

Visto: Il Guardasigilli
G. Zanardelli
Mancini
Magliani
Berti

Documento n. 12
Articolo di Giacomo Gobbi-Belcredi sulla situazione di Massaua.12

Da Il Secolo, rubrica Nostra corrispondenza, marzo 1885.

Massaua, 17 febbraio.

Eccomi finalmente a Massaua. Vi arrivo dopo aver visitato la solitaria Assab.


Ma, al confronto, quanto perde questa vecchia città davanti alla nostra giovane colonia!
Massaua sarà uno sbocco eccellente dell’Abissinia, sarà un ottimo punto strategico, avrà,
finché volete, una rada e una specie di porto; ma Massaua è più fetida d’una cloaca, è
diroccata a metà dai continui terremoti, è malsana, è priva d’ogni comodità della vita.
Non una camera ove poter alloggiare, non una trattoria, di qualunque ordine, ove poter saziare
la fame, non un angolo ove respirare una boccata d’aria che non nausei e non soffochi.
In paragone Assab è l’oasi del deserto.
Là, case bianche, fresche, sane; là palmeti e restaurants, là una fabbrica di ghiaccio che ne
produce centinaia di chili al giorno, vie larghe e pulite, capanne alte e salubri; qui tutt’al
contrario.
In tutta Massaua, infangandomi per tutti i suoi luridi chiassuoli, non mi fu possibile di trovare
altro cibo che una scatola di sardelle fetenti come quest’aria che uccide…
Di Massaua voi avete già dato descrizioni e disegni. Non potrei quindi da questo lato
aggiungervi nulla. L’isola è unita al continente da due lunghissimi e stretti argini.
Il continente è triste quanto è sconcia la città.
I nostri soldati, tranne quei pochi che sono di guarnigione nella fortezza, e di guardia al
________________________
12 www.giornalismoscientifico.it
210

palazzo del governatore, sono tutti accampati in una piccola penisola detta Gevard.
Sono muniti di piccole tende coniche inadatte allo scopo, a quanto dicono coloro che sono
pratici di queste cose.
In fatti il numero degli ammalati è già rilevante. E badate che siamo d’inverno, in pieno
inverno anzi. Il cibo è inadatto e addirittura insufficiente.
Il comando locale fa quanto è umanamente possibile per migliorare questo 210strumento210
stato di cose, ma date le condizioni del paese gli riesce molto difficile.
Non è vero niente che i bersaglieri sieno stati muniti di casco inglese. Essi portano sempre il
loro simpatico sì, ma pesantissimo e piumato cappello cantato da Marenco.
E in questo paese bisogna notare che nello scorso anno si aveva una media di oltre trenta casi
al giorno d’insolazione o congestione cerebrale.
Quanto al vitto, fino da bordo si notò una deplorevole insufficienza.
Mentre ai marinai, abituati al mare, era servita una abbondante ed eccellente minestra, i nostri
poveri bersaglieri dovevano inghiottire una microscopica porzione di carne conservata, come
se i marinai ed i bersaglieri servissero due nazioni, due Stati diversi!
La più stomachevole taccagneria ha presieduto a questa spedizione. La cassa di questo corpo
di spedizione fu munita di 170 mila lire. Se ne spendono molte di più per le più meschine
finte battaglie. Tuttavia il contegno dei nostri soldati è ammirevole. Essi non si lagnano, non
hanno mai una parola di protesta, di osservazione e secondano l’esempio del 210strumento
che ricevono dai loro ufficiali e dal loro capo, il severo ma simpatico colonnello Saletta.
E davanti a questa nobile abnegazione, a me par quasi un delitto il rilevare l’insufficienza dei
provvedimenti presi dal governo; ma penso che altre numerose spedizioni sono prossime, ed
una parola franca detta in tempo potrà risparmiare molti patimenti, molte giovani vite.

Documento n. 13
Trattato di amicizia tra Gran Bretagna, Egitto ed Etiopia.13
Adua, 3 giugno 1884

Her Majesty the Queen of the United Kingdom of Great Britain and Ireland, Empress
of India, and His Majesty Johannis, made by the Almighty King of Sion Negoosa Negust of
Ethiopia and its dependencies, and His Highness Mahomed Tewfik, Khedive of Egypt, being
desirous of settling the differences which exist between the said Johannis, Negoosa Negust of
Ethiopia, and Mahomed Tewfik, Khedive of Egypt, and of establishing an everlasting peace
between them, have agreed to conclude a treaty for this purpose, which shall be binding on
themselves, their heirs, and successors; and Her Majesty the Queen of the United Kingdom of
Great Britain and Ireland, Empress of India, having appointed as her representative rear-
admiral Sir William Hewett, commander-in-chief of Her Majesty’s ships of war in the East
Indies, and His Majesty the Negoosa Negust of Ethiopia, acting on his own behalf, and His
Highness the Khedive of Egypt, having appointed as his representative his Excellency Mason
Bey, governor of Massowah, they have agreed upon and concluded the following articles:

____________________________

13 C. Rossetti, Storia diplomatica dell’Etiopia durante il regno di Menelik II, S.T.E.N., Torino, 1910, pag. 25-26.
211

Art. I. - From the date of the signing of this treaty there shall be free transit through
Massowah, to and from Abyssinia, for all goods, including arms and ammunitions, under
British protection.
Art. II. - On and after the 1st day of September 1884, corresponding to the 8th day of
Maskarram 1877, the country called Bogos shall be restored to His Majesty the Negoosa
Xegust; and when the troops of His Highness the Khedive shall have left the garrisons of
Kassala, Amedib, and Sanhit, the buildings in the Bogos country which now belong to His
Highness the Khedive, together with all the stores and munitions of war which shall then
remain in the said buildings, shall be delivered to and become the property of His Majesty the
Negoosa Negust.
Art. III. – His Majesty the Negoosa Negus engages to facilitate the withdrawal of the
troops of His Highness the Khedive from Kassala, Amedib, and Sanhit through Ethiopia to
Massowah.
Art. IV. – His Highness the Khedive engages to grant all the facilities which His
Majesty the Negoosa Negust may require in the matter of appointing Aboonas for Ethiopia.
Art. V. – His Majesty the Negoosa Negust and His Highness the Khedive engage to
deliver up, the one to the other, any criminal or criminals who may have fled, to escape
punishment, from the dominions of the one to the dominions of the other.
Art. VI. - His Majesty the Negoosa Negust agrees to refer all differences with His
Highness the Khedive which may arise after the signing of this treaty to Her Britannic
Majesty for settlement.
Art. VII. The present treaty shall be 211strumen by Her Majesty the Queen of Great
Britain and Ireland, Empress of India, and by His Highness the Khedive of Egypt, and the
ratification shall be forwarded to Adowa as soon as possible.
In witness whereof rear-admiral Sir W. Hewett, on behalf of Her Majesty the Queen of
Great Britain and Ireland, Empress of India, and His Majesty the Negoosa Negust on his own
behalf, and his Excellency Mason Bey on behalf of His Highness the Khedive of Egypt, have
signed and affixed their seals to this treaty, made at Adowa, the 3rd day of June 1884,
corresponding to the 27th day of Goonnet 1876.

(Sigillo Reale)

W. Hewett
Mason
212

Documento n. 14
Trattato di amicizia e di commercio sottoscritto dal conte Antonelli, rappresentante di
S.M. il Re d’Italia e da Menelik, Re dei Re d’Etiopia.
(Uccialli, 2 maggio 1889)14
Sua Maestà Umberto I Re d’Italia e Sua Maestà Menelik II Re dei Re di Etiopia, allo
scopo di rendere proficua e durevole la pace fra i due regni d’Italia e di Etiopia, hanno
stabilito di concludere un trattato di amicizia e di commercio.
E Sua Maestà il Re d’Italia avendo delegato come suo Rappresentante il conte Pietro
Antonelli, Commendatore della Corona d’Italia, Cavaliere dei SS. Maurizio e Lazzaro, suo
Inviato straordinario presso Sua Maestà il Re Menelik, i cui pieni poteri furono riconosciuti in
buona e debita forma, e sua Maestà il Re Menelik stipulando in proprio nome quale Re dei Re
d’Etiopia, hanno concordato e conchiudono i seguenti articoli:
Art. I. – Vi saranno pace perpetua ed amicizia costante fra Sua Maestà il Re d’Italia e
Sua Maestà il Re dei Re d’Etiopia e fra i loro rispettivi eredi, successori, sudditi e popolazioni
protette.
Art. II. – Ciascuna delle parti contraenti potrà essere rappresentata da un agente
diplomatico accreditato presso l’altra e potrà nominare Consoli, Agenti ed Agenti consolari
negli stati dell’altra.
Tali funzionari godranno di tutti i privilegi ed immunità secondo le consuetudini dei
Governi europei.
Art. III. – A rimuovere ogni equivoco circa i limiti dei territori sopra i quali le due
parti contraenti esercitano i diritti di sovranità, una Commissione speciale composta di due
delegati italiani e due etiopici traccerà sul terreno con appositi segnali permanenti una linea di
confine i cui capisaldi siano stabiliti come appresso;
a) la linea dell’altipiano segnerà il confine etiopico-italiano;
b) partendo dalla regione di Arafali: Halai Saganeiti ed Asmara saranno villaggi nel
confine italiano;
c) Adi Nefas e Adi Joannes saranno dalla parte dei Bogos nel confine italiano;
d) da Adi Joannes una linea retta prolungata da est ad ovest segnerà il confine italo-
etiopico.
Art. IV. – Il convento di Debra Bizen con tutti i suoi possedimenti resterà proprietà del
Governo etiopico che però non potrà mai servirsene per scopi militari.
Art. V. – Le carovane da e per Massaua pagheranno sul territorio etiopico un solo
diritto di dogana di entrata dell’8 percento sul valore della merce.
Art. VI. – Il commercio delle armi e munizioni da o per l’Etiopia attraverso Massaua
sarà libero per il solo Re dei Re d’Etiopia.
Ogni qualvolta questi vorrà ottenere il passaggio di tali generi dovrà farne regolare
__________________________
14 G.Perticone, G.Guglielmi, La politica coloniale dell’Italia negli atti, documenti e discussioni parlamentari, L’Italia in
Africa, Vol. III, Ist. Polig. Dello Stato, Roma, 1965, Pag. 179-180.
213

Domanda alle autorità italiane munita del sigillo reale.


Le carovane con carico di armi e munizioni viaggeranno sotto la protezione e con la
scorta di soldati italiani fino al confine etiopico.
Art. VII. – I sudditi di ciascuna delle due parti contraenti potranno liberamente entrare,
viaggiare, uscire coi loro effetti e mercanzie nel paese dell’altra e godranno della maggior
protezione del Governo e dei suoi dipendenti.
E’ però severamente proibito a gente armata di ambe le parti contraenti di riunirsi in
molti od in pochi e passare i rispettivi confini allo scopo di imporsi alle popolazioni e tentare
con la forza di procurarsi viveri e bestiame.
Art. VIII. – Gli italiani in Etiopia e gli etiopi in Italia o nei possedimenti italiani
potranno comprare o vendere, prendere o dare in affitto e disporre in qualunque altra maniera
delle loro proprietà non altrimenti che gli indigeni.
Art. IX. – E’ pienamente garantita in entrambi gli Stati la facoltà per i sudditi dell’altro
di praticare la propria religione.
Art. X. – Le contestazioni o liti fra italiani in Etiopia saranno definite dall’autorità
italiana in Massaua o da un suo delegato.
Le liti tra italiani ed etiopi saranno definita dall’autorità italiana in Massaua o da un
suo delegato e da un delegato dell’autorità etiopica.
Art. XI. – Morendo un italiano in Etiopia o un etiope in territorio italiano, le autorità
del luogo custodiranno diligentemente tutta la sua proprietà e la terranno a disposizione
dell’autorità governativa, a cui apparteneva il defunto.
Art. XII. – In ogni caso o per qualsiasi circostanza gl’italiani imputati di un reato
saranno giudicati dall’autorità italiana.
Per questo l’autorità etiopica dovrà immediatamente consegnare all’autorità italiana in
Massaua gli italiani imputati di aver commesso un reato.
Egualmente gli etiopi imputati di reato commesso in territorio italiano saranno
giudicati dall’autorità etiopica.
Art. XIII. – Sua Maestà il Re d’Italia e Sua Maestà il Re d’Etiopia si obbligano a
consegnarsi reciprocamente i delinquenti che possono essersi rifugiati, per sottrarsi alla pena,
dai dominii dell’uno nei dominii dell’altro.
Art. XIV. – La tratta degli schiavi essendo contraria ai principi della religione
cristiana, Sua Maestà il Re dei Re d’Etiopia s’impegna d’impedirla con tutto il suo potere in
modo che nessuna carovana di schiavi possa attraversare i suoi stati.
Art. XV. – Il presente trattato è valido in tutto l’impero etiopico.
Art. XVI. – Se nel presente trattato, dopo cinque anni dalla data della firma, una delle
due parti contraenti volesse far introdurre qualche modificazione potrà farlo; ma dovrà
prevenirne l’altra un anno prima, rimanendo ferma ogni e singola concessione in materia di
territorio.
Art. XVII. – Sua Maestà il Re dei Re d’Etiopia consente di servirsi del Governo di
S.M. il Re d’Italia per tutte le trattazioni di affari che avesse con altre potenze o Governi.
214

Art. XVIII. – Qualora Sua Maestà il Re dei Re d’Etiopia intendesse accordare privilegi
speciali a cittadini di un terzo Stato per stabilire commerci ed industrie in Etiopia, sarà sempre
data, a parità di condizioni, la preferenza agli italiani.
Art. XIX. – Il presente trattato essendo redatto in lingua italiana ed amarica e le due
versioni concordando perfettamente fra loro, entrambi i testi si riterranno ufficiali e faranno
sotto ogni rapporto pari fede.
Art. XX. – Il presente trattato sarà ratificato.
In fede di che il conte Pietro Antonelli, in nome di Sua Maestà il Re d’Italia, e Sua
Maestà Menelik, Re dei Re d’Etiopia, in nome proprio, hanno firmato e apposto il loro sigillo
al presente trattato, fatto nell’accampamento di Uccialli il 25 miazia – corrispondente al 2
maggio 1889.

(Bollo imperiale d’Etiopia) Per Sua Maestà il Re d’Italia


Pietro Antonelli

Documento n. 15
Convenzione addizionale al trattato di amicizia e commercio 2 maggio 1889, firmata dal
Ministro degli affari esteri del Re d’Italia e dall’ambasciatore dell’imperatore d’Etiopia.
(Napoli, 1 ottobre 1889)15
In nome della Santissima Trinità
Sua Maestà il Re d’Italia e Sua Maestà l’Imperatore di Etiopia, desiderando
concludere una Convenzione addizionale al trattato di amicizia e commercio firmato
nell’accampamento di Uccialli, il 2 maggio 1889 (25 mazzia 1881 della data etiopica) hanno
nominato a loro Plenipotenziarii:
Sua Maestà il Re d’Italia: il Cavaliere Francesco Crispi, Presidente del Consiglio dei
Ministri e suo Ministro segretario di Stato ad interim per gli affari esteri, e
Sua Maestà l’Imperatore di Etiopia: il Degiasmac Maconen suo Ambasciatore presso
S.M. il Re d’Italia;
I quali, muniti di pieni poteri, hanno stabilito quanto appresso.
Art. 1. – Il Re d’Italia riconosce Re Menelik Imperatore di Etiopia.
Art. 2. – Re Menelik riconosce la sovranità del Re d’Italia nelle colonie che vanno
sotto il nome di possedimenti italiani nel Mar Rosso.
Art. 3. – In virtù dei precedenti articoli sarà fatta una rettificazione dei due territori,
prendendo a base il possesso di fatto attuale, per mezzo dei delegati che a tenore dell’art. III
del trattato 2 maggio 1889 (25 mazzia 1881) saranno nominati dal Re d’Italia e
dall’Imperatore di Etiopia.

_________________________
15 G.Perticone, G.Guglielmi, La politica coloniale dell’Italia negli atti, documenti e discussioni parlamentari, L’Italia in
Africa, Vol. III, Ist. Polig. Dello Stato, Roma, 1965, Pag. 198-199.
215

Art. 4. – L’Imperatore di Etiopia potrà far coniare pei suoi Stati una moneta speciale di
un peso di un valore da stabilirsi di comune accordo. Essa sarà coniata nelle zecche del Re
d’Italia ed avrà corso legale anche nei territori africani posseduti dall’Italia.
Se il Re d’Italia conierà una moneta per i suoi possedimenti africani essa avrà corso
legale in tutti i regni dell’Imperatore di Etiopia.
Art. 5. – Un prestito di quattro milioni di lire italiane dovendo essere contratto
dall’Imperatore di Etiopia con una banca italiana, mercé la garanzia del Governo d’Italia,
resta stabilito che l’Imperatore di Etiopia dà di sua parte al Governo italiano, come garanzia
pel pagamento degli interessi e per l’estinzione della somma capitale, gli introiti delle dogane
di Harrar.
Art. 6. – L’Imperatore di Etiopia mancando alla regolarità del pagamento delle
annualità da convenirsi con la Banca che farà il prestito dà e concede al Governo italiano il
diritto di assumere l’amministrazione delle dogane suddette.
Art. 7. – Metà della somma, ossia due milioni di lire italiane, sarà consegnata in
moneta d’argento; l’altra metà rimarrà depositata nelle casse dello Stato italiano per servire
agli acquisti che l’Imperatore di Etiopia intende di fare in Italia.
Art. 8. – Resta inteso che i diritti fissi di dogana dell’art. 5 del sopracitato trattato fra
l’Italia e l’Etiopia si applicheranno non solo alle carovane da o per Massaua ma a tutte quelle
che saliranno o scenderanno per qualunque strada dove regna l’Imperatore d’Etiopia.
Art. 9. – Così pure resta stabilito che il 3° comma dell’art. XII del sopracitato trattato è
abrogato e sostituito dal seguente:
“Gli etiopici che commettessero un reato in territorio italiano saranno giudicati sempre
dalle autorità italiane”.
Art. 10. – La presente Convenzione è obbligatoria non solo per l’attuale Imperatore di
Etiopia ma anche pei suoi eredi e successori nella sovranità di tutto o di parte del territorio sul
quale Re Menelik ha dominio.
Art. 11. – La presente Convenzione sarà ratificata e le ratifiche saranno scambiate il
più presto possibile.
In fede di che il Cavaliere Francesco Crispi in nome di Sua Maestà il Re d’Italia e
Degiasmac Maconen in nome di Sua Maestà l’Imperatore di Etiopia hanno firmato e apposto
il loro sigillo alla presente Convenzione fatta in Napoli il 1° ottobre 1889 ossia il 22
mascarem 1882 della data etiopica.

Maconen Crispi

Nota. – Le ratifiche saranno effettuate a Roma il 25 febbraio 1890 e la sua esecuzione fu autorizzata con la legge n. 7016 del
16 luglio 1890.
216

Documento n. 16

Regio Decreto che istituisce una amministrazione civile nei possedimenti italiani nel Mar
Rosso con la denominazione di “Colonia Eritrea”.
(1 gennaio 1890, n. 6592, serie 3)16

UMBERTO I
per grazia di Dio e per volontà della nazione
RE D’ITALIA

Volendo dare un assetto stabile ai possedimenti ed ai protettorati italiani nel Mar


Rosso;
Visti i nostri decreti del 5 novembre 1885 e del 17 aprile 1887;
Sulla proposta del presidente del Consiglio, ministro ad interim degli affari esteri;
Udito il Consiglio dei ministri;
Abbiamo decretato e decretiamo:
Art. 1. – I possedimenti italiani del Mar Rosso sono costituiti in una sola colonia col
nome di Eritrea.
Art. 2. – La colonia avrà un bilancio ed una amministrazione autonomi. Il comando
generale e l’amministrazione della medesima sono affidate ad un governatore civile e militare.
Art. 3. – Il governatore ha il comando di tutte le forze di terra e di mare che sieno di
guarnigione nel Mar Rosso.
Art. 4. – Per tutto ciò che spetta all’amministrazione civile della colonia il governatore
dipende dal Ministero degli affari esteri. Per tutto ciò che concerne i servigi militari, egli
dipende dal Ministero della guerra. Per ciò che concerne il navilio, dipende dal Ministero
della marina.
Art. 5. – Il governatore nell’esercizio delle sue funzioni sarà coadiuvato da tre
consiglieri civili, uno per l’interno, uno per le finanze ed i lavori pubblici ed uno per
l’agricoltura ed il commercio.
Art. 6. – I tre consiglieri saranno nominati da Noi su proposta del ministro degli affari
esteri. Essi debbono essere cittadini italiani e non possono esercitare il commercio.
Art. 7. – I consiglieri coloniali sono equiparati nel grado e nello stipendio ai prefetti
del Regno. Saranno a carico del bilancio coloniale.
________________________________

16G.Perticone, G.Guglielmi, La politica coloniale dell’Italia negli atti, documenti e discussioni parlamentari, L’Italia in
Africa, Vol. III, Ist. Polig. Dello Stato, Roma, 1965, Pag. 200-201.
217

Art. 8. – Le attribuzioni del consigliere coloniale pe l’interno comprendono:


a) l’amministrazione civile;
b) l’amministrazione della giustizia;
c) la polizia e la sicurezza pubblica;
d) l’istruzione pubblica;
e) la polizia sanitaria;
f) le prigioni e gli altri luoghi di detenzione o relegazione;
g) i rapporti con le autorità dipendenti da governi esteri che hanno possedimenti
nel Mar Rosso o nel golfo di Aden.
Art. 9. – Le attribuzioni del consigliere coloniale per le finanze e i lavori pubblici
comprendono:
a) l’amministrazione finanziaria, le dogane, le tasse e contribuzioni diverse;
b) i lavori pubblici e la viabilità;
c) i porti, la costruzione e la manutenzione dei medesimi, la sorveglianza delle
spiagge, dei fari o segnali, l’iscrizione marittima, gli uffici di porto;
d) le poste, i telegrafi e le ferrovie;
e) le casse governative.
Art. 10. – Le attribuzioni del consigliere coloniale per l’agricoltura ed il commercio
comprendono:
a) il demanio pubblico;
b) la direzione e l’incoraggiamento dell’agricoltura, delle industrie e del
commercio;
c) la sorveglianza delle strade carovaniere, il transito a traverso le differenti tribù;
d) le relazioni con gli indigeni ed i loro capi, tanto all’interno che all’esterno della
colonia, la scelta e conferma in ufficio dei sultani, naib, sceik, cadi, scium,
kantibay, le trattative politiche con l’Etiopia;
Art. 11. – I tre consiglieri riuniti insieme e presieduti dal governatore costituiscono il
consiglio del Governo.
Art. 12. – Questo consiglio è convocato dal governatore. Sono di sua competenza tutti
gli affari più importanti che concernono la politica e l’amministrazione della colonia.
Art. 13. – Il consiglio coloniale delibera a pluralità di voti. In caso di parità prevale il
voto del governatore.
Nelle materie di grave interesse politico o amministrativo, il governatore può
sospendere le deliberazioni del consiglio, riferendone al Ministro degli affari esteri, il quale
deciderà.
Art. 14. – Ogni disposizione anteriore contraria al presente decreto è abrogata.
Art. 15. – Il presente decreto avrà vigore a partire dalla sua data.
218

Ordiniamo che il presente decreto munito del sigillo dello Stato, sia inserto nella
raccolta ufficiale delle leggi e dei decreti del Regno d’Italia, mandando a chiunque spetti di
osservarlo e di farlo osservare.
Dato a Roma, addì 1 gennaio 1890.

UMBERTO

V. Il Guardasigilli G. Zanardelli F. Crispi

Documento n. 17

Trattato di protettorato firmato a Obbia da Jusuf Alì Sultano di Obbia e dal Cav.
Filonardi, Console di S. M. il Re d’Italia.
(Obbia, 8 febbraio 1889)17
Obbia, questo giorno 7 del mese di giemad el euel 1306, corrispondente al giorno 8 del
mese di febbraio 1889.
Noi Sultano Jusuf Alì Jusuf, Sultano di Obbia e di tutti i paesi dipendenti da El Marek
a Ras Auad, abbiamo messo di nostra piena volontà con le nostre mani la nostra firma ed il
nostro sigillo in questo atto.
Noi abbiamo messo il nostro paese Obbia e tutte le sue possessioni, da El Marek a Ras
Auad, sotto la protezione e governo di S. M. il magnanimo Re d’Italia, Umberto I: ciò noi
facemmo per mezzo del nostro amico Filonardi, regio console d’Italia a Zanzibar.
Noi dichiariamo che la bandiera italiana resterà inalberata nel nostro paese ed in tutti i
nostri possedimenti, che i nostri sudditi e possedimenti sono sotto la protezione e governo
dell’Italia.
Dichiariamo inoltre che noi non faremo contratti o trattati con qualsiasi Governo o
persona senza il pieno consenso del Governo d’Italia.
Noi firmiamo quest’atto di nostra piena volontà e coscienza, e ciò che abbiamo firmato
resterà impegnativo per noi, i nostri figli, fratelli, sudditi e loro eredi.
Noi poniamo la nostra firma ed il nostro sigillo a quest’atto nella piena podestà delle
nostre facoltà di animo e di corpo.
JUSUF ALI JUSUF, Sultano di Obbia V. FILONARDI, Console di S. M. il Re d’Italia
Testimoni: Eduardo Ferrara, tenente di vascello Abubaker ben Aohod

________________________________
17G.Perticone, G.Guglielmi, La politica coloniale dell’Italia negli atti, documenti e discussioni parlamentari, L’Italia in
Africa, Vol. III, Ist. Polig. Dello Stato, Roma, 1965, Pag. 217-218.
219

Questo giorno 7 del mese di giemad el euel 1306, corrispondente al giorno 8 del mese
di febbraio 1889.
Noi Console Vincenzo Filonardi, come rappresentante di S.M. il Re d’Italia,
sottoscriviamo quest’atto.
Noi promettiamo al Sultano Jusuf Alì Jusuf, Sultano d’Obbia, un’annualità di talleri
mille duecento, come compenso del trattato oggi da esso stipulato e firmato in favore del regio
Governo italiano.
Questo nostro atto deve ottenere l’approvazione del regio Governo italiano, e viene da
noi firmato in Obbia.

V. FILONARDI, Console di S. M. il Re d’Italia

Nota. – Il trattato fu ratificato alle potenze firmatarie dell’atto di Berlino il 16 maggio 1889.

Documento n. 18

Convenzione fra il r. Governo e la Società Anonima Commerciale Italiana del Benadir.


(Roma, 25 maggio 1898)18
Premesso: che fra il regio Governo italiano e i signori cav. Giorgio Mylius, comm.
Dott. S. B. Crespi, cav. Angelo Carminati, quali delegati dai promotori della Società anonima
commerciale italiana del Benadir (Somalia italiana), interveniva, il 15 aprile 1896, un accordo
preliminare avente per oggetto la gestione del Benadir; che successivamente aveva luogo, con
219strumento in data 25 giugno 1896, approvato dal tribunale di Milano il 24 luglio 1896, la
costituzione della Società anzidetta, e che del suddetto accordo vuole ora farsi constare in
regolare atto tra il Governo e l’attuale rappresentanza legale della Società; fra il regio
Governo, rappresentato dal Presidente del Consiglio e dai Ministri degli affari esteri, delle
finanze, del tesoro e della marina, e i signori conte A. Sanseverino-Vimercati, presidente;
cav. Giorgio Mylius, vicepresidente; cav. Angelo Carminati, amministratore delegato; comm.
dott. S. B. Crespi, consigliere, componenti il Consiglio d’amministrazione della Società, si
conviene quanto segue:
Art. 1. – Il Governo si obbliga di immettere la Società anonima commerciale italiana
del Benadir (Somalia italiana), con sede in Milano, nella gestione delle città e dei territori del
Benadir, col rispettivo hinterland, sì e come la gestione stessa vi è di fatto dal Governo
esercitata; e ciò a rischio della Società e senza garanzia.
La convenzione avrà effetto dal 1° maggio 1898.
Da parte sua la Società si obbliga di provvedere all’incremento civile e commerciale
della Colonia, dando conto particolareggiato di questa sua azione al Governo italiano, che
___________________________
18
G.Perticone, G.Guglielmi, La politica coloniale dell’Italia negli atti, documenti e discussioni parlamentari, L’Italia in
Africa, Vol. III, Ist. Polig. Dello Stato, Roma, 1965, Pag. 237-241.
220

Avrà sempre il diritto di vigilare sull’operato della Società. Questa dovrà inoltre promuovere
nei modi più opportuni la vita economica dei paesi concessile, eseguendo a tal uopo tutte le
opere che crederà necessarie.
Il non essere prestabilito un programma particolareggiato dell’opera della Società,
valevole a raggiungere i fini sovra indicati, non menoma l’obbligo di fare quanto potrà essere
riconosciuto doveroso, avuto ad ogni cosa il debito riguardo, e ciò sotto le sanzioni di legge.
In caso di disaccordo, la controversia sarà risoluta nei modi e forme di cui all’art. 17.
Art. 2. – Il Governo pagherà alla Società dal 1° maggio 1898 al 20 aprile 1910 l’annua
somma di Fr. Oro 400.000 e dal 1° maggio 1910 al 16 luglio 1946 Fr. Oro 350.000 all’anno,
sia per il mantenimento delle stazioni esistenti come per quelle che la Società crederà di
fondare in seguito.
Art. 3. – Qualora il territorio di Lugh resti incluso nella zona d’influenza italiana, ed
ancora quando in conseguenza di futuri trattati dovesse passare ad altro Stato, restando
all’Italia il diritto di mantenervi una stazione commerciale, la gestione del territorio di Lugh
nel primo caso, e della stazione commerciale italiana di Lugh nel secondo caso, spetterà ed
incomberà con tutti i diritti ed oneri alla Società, come per le altre stazioni.
Art. 4. – Il Governo si varrà della Società, e farà tenere ad essa regolarmente la somma
occorrente pel pagamento delle annualità dovute ai Sultani di Obbia e di Alula, in talleri 3600
di M. T. complessivamente; e questo finché il governo avrà un tale obbligo verso i detti
Sultani.
Art. 5. – Il Governo applicherà, di fronte alla Società, l’articolo 3° del protocollo italo-
britannico del 24 marzo 1891.
Art. 6. – Il governo darà le miniere in libero e gratuito godimento alla Società, con
facoltà di trasferirne la concessione a terzi, previo consenso del Governo medesimo, se questi
fossero stranieri. Il detto godimento e la detta concessione a terzi non avranno una durata
superiore a quella della gestione della Società.
Il Governo darà pure alla Società la gratuita facoltà di occupare tutte le terre che
saranno riconosciute demaniali alla presa di possesso da parte della Società, e tutti quelli
immobili dei quali esso abbia ottenuto o sia per ottenere il godimento o l’uso dal Sultano di
Zanzibar. Delle dette terre la Società potrà fare concessioni in uso per una durata non
superiore a quella della sua gestione, a italiani, o a indigeni dipendenti o residenti nella
Colonia. Potrà altresì concederle a stranieri, purché con durata non eccedente il periodo della
sua gestione, e previa l’autorizzazione del Governo.
Le concessioni che eccedano per il tempo, la durata della gestione della Società, tanto
se da farsi a stranieri, come a italiani, spetteranno sempre al Governo, d’accordo con la
Società.
Art. 7. – La Società esigerà per proprio conto i diritti doganali in base ai vigenti
trattati, nonché le tasse in vigore; potrà anche applicare nuovi tributi o sopprimere quelli
esistenti, e diminuire i diritti doganali, previa l’approvazione del Governo.
Art. 8. – I prodotti originari dei paesi, cui si riferisce la presente convenzione, saranno
alla loro importazione nel regno soggetti allo stesso regime doganale di quelli della Colonia
Eritrea.
221

Art. 9. – La Società si obbliga:


a) ad inalberare la bandiera nazionale;
b) a pagare al Sultano di Zanzibar il canone annuo di rupie 120.000, o quella
minor somma che venisse in seguito convenuta;
c) a pagare le annualità dovute ai Sultani di Obbia e di Alula, come è detto all’art.
4;
d) a conservare in regolari condizioni di manutenzione i fabbricati tutti, che avrà
ricevuto in uso dal Governo;
e) a mantenere almeno 600 guardie per la sicurezza interna della Colonia;
f) ad amministrare la giustizia in base alle norme in vigore nelle città e nei
territori che le vengono concessi in gestione;
g) ad applicare gli atti generali di Berlino (26 febbraio 1885) e di Bruxelles (2
luglio 1890) per tutto quanto riguarda la tratta degli schiavi ed il commercio
delle armi da fuoco e delle bevande spiritose;
h) ad assumere il servizio postale in base alle condizioni stabilite dalla Unione
postale.
Art. 10. – Il Governo non assume verun obbligo contrattuale di difendere la Colonia da
attacchi esterni, ma si riserva piena libertà di azione per quei provvedimenti che crederà di
adottare nell’interesse generale.
Art. 11. – Su domanda del Governo, la Società sarà obbligata sia a sfrattare dalla
Colonia qualunque persona italiana o straniera, sia a consegnare ai funzionari del Governo
medesimo qualunque delinquente che vi si fosse rifugiato.
Art. 12. – Lo statuto della Società anonima commerciale italiana del Benadir (Somalia
italiana) è qui allegato come parte integrante della presente convenzione.
Niun cambiamento potrà essere introdotto in detto statuto, sotto pena di decadenza,
senza che prima abbia riportato l’assenso del Ministero degli affari esteri.
Art. 13. – Il Governo non assume responsabilità di sorta per qualsiasi operazione di
credito che la Società facesse anche nell’interesse della Colonia; e la Società, a garanzia di
siffatte operazioni, non potrà mai impegnare che le sue proprietà private o le sue ragioni di
credito.
Art. 14. – La presente convenzione, che andrà in vigore col giorno 1° maggio 1898,
durerà al 16 luglio 1946, e s’intenderà sciolta di pieno diritto, senza alcun bisogno di
reciproche intimazioni, allo scadere del termine sopra indicato. Sarà per altro in facoltà del
Governo di rescinderla il 16 luglio 1921, con preavviso di due anni, quando volesse esercitare
il proprio dominio ed amministrare direttamente la città e i territori contemplati nella presente
convenzione; od anche quando credesse di non più esercitare il suo diritto di opzione verso il
Sultano di Zanzibar, di cui alla convenzione 12 agosto 1892.
La facoltà di rescindere la presente convenzione è data anche alla Società, dopo dodici
anni, a decorrere dal 1° maggio 1898, mediante il preavviso di un anno.
222

Art. 15. – Le opere stabili costruite per iniziativa ed a spese della Società, e tali per la
loro natura da migliorare le condizioni dell’esercizio, saranno allo scadere del contratto
accettate dal Governo e pagate a prezzo di stima, sempreché l’esecuzione delle opere ed i
progetti relativi abbiano previamente riportata l’approvazione di esso, salvi sempre alla
Società, per le opere non accettate i suoi diritti verso i terzi.
Art. 16. – Quando la rescissione abbia luogo per volontà del Governo, dopo i ventitre
anni, ai termini dell’art. 14 della presente convenzione, la Società avrà diritto a percepire,
anche per le opere compiute senza autorizzazione del Governo, la minor somma tra lo speso e
il maggior utile per l’esercizio della Colonia, a giudizio degli arbitri.
Nessuna indennità sarà dovuta dal Governo, se la rescissione della presente
convenzione sarà dovuta a fatto o a colpa della Società.
Art. 17. – Il valore delle opere da rimborsarsi sarà determinato da tre arbitri. Ciascuna
delle parti nominerà un arbitro; i due arbitri così nominati sceglieranno il terzo, e, nel caso di
disaccordo nella scelta, questa sarà deferita al Presidente della Corte di Cassazione di Roma,
ove sarà la sede arbitrale.
Sarà del pari sottoposta al giudizio arbitrale qualunque contestazione di diritto privato
fosse per sorgere fra il Governo e la Società nella esecuzione o interpretazione della presente
convenzione.
Agli arbitri è data facoltà di giudicare anche come amichevoli compositori
inappellabilmente, e senza formalità di procedura.
Art. 18. – La Società dovrà rispettare le leggi dello Stato ed i trattati vigenti e quegli
altri trattati che il Governo credesse opportuno di concludere, o promulgare.
Nel caso di conflitti, liti, difficoltà, tra la Società e il Sultano di Zanzibar, o i capi delle
varie tribù, o le autorità inglesi del territorio limitrofo, la Società dovrà rimettersi, per quanto
la concerne, al giudizio del Ministero degli affari esteri.
Spetterà agli arbitri il giudicare, in caso di dissenso delle parti, se la convenzione abbia
patito alterazioni sostanziali a cagione dei nuovi trattati o della soluzione data agli eventuali
conflitti. Nel caso di responso affermativo, la Società avrà il diritto di chiedere la risoluzione
anticipata della convenzione col rimborso del valore delle opere fatte.
Art. 19. – L’atto di registrazione della Società sarà registrato con la tassa fissa di una
lira.
Saranno esenti da imposta di ricchezza mobile gli stipendi pagati dalla Società ai suoi
impiegati abitualmente residenti nella Colonia.
Art. 20. – La Società avrà facoltà di ritirare dai depositi governativi, e possibilmente
da quelli di Massaua, al prezzo di costo, le armi e munizioni che il Governo riconoscerà
strettamente necessarie per la sicurezza delle stazioni. Per altro alla Società stessa è vietato
qualsiasi commercio di armi.
Art. 21. – Il Governo procurerà di tenere uno stazionario sulla costa o nelle acque di
Zanzibar.
Art. 22. – La presente convenzione e i privilegi da essa rilevanti sono trasferibili dalla
Società a terzi.
223

Art. 23. – La presente convenzione sarà registrata con la tassa di una lira, e non sarà
valida se non dopo essere stata approvata per legge.
Roma, 25 maggio 1898.

Alfonso Sanseverino Vimercati Rudinì


Giorgio Mylius Visconti-Venosta
Dr. Silvio Benigno Crespi Branca
Angelo Carminati Luzzatti
A. Di San Marzano

Nota. – Come abbiamo visto la convenzione verrà approvata solamente il 24 dicembre 1899 con legge n. 466.

DOCUMENTO n. 19

Legge portante l’ordinamento della Somalia Italiana.


(5 aprile 1908, n. 161)19
VITTORIO EMANUELE III
Per grazia di Dio e volontà della nazione
RE D’ITALIA

Il Senato e la Camera dei deputati hanno approvato;


Noi abbiamo sanzionato e promulghiamo quanto segue:

Ordinamento della Somalia Italiana


Titolo I. – Del governo della colonia.

Art. I. – Le regioni dell’Africa orientale soggette alla sovranità dell’Italia, poste tra il
sultanato di Obbia ed il fiume Giuba e tra l’oceano indiano, l’Etiopia e la Somalia inglese,
sono riunite sotto un’unica amministrazione col nome di Somalia Italiana.
Art. 2. – La Colonia della Somalia italiana è retta da un governatore civile, nominato
con decreto reale, su proposta del ministro degli affari esteri, sentito il Consiglio dei ministri.
Il governatore esercita le sue funzioni a mezzo di un ufficio di governo e di residenti.
In caso di assenza del governatore, il ministro degli esteri indicherà il funzionario che ne
_________________________
19G.Perticone, G.Guglielmi, La politica coloniale dell’Italia negli atti, documenti e discussioni parlamentari, L’Italia in
Africa, Vol. III, Ist. Polig. Dello Stato, Roma, 1965, Pag. 252-256.
224

farà le veci.
Art. 3. – L’amministrazione dei protettorati del sultanato di Obbia, del territorio di
Nogal e del sultanato dei Migiurtini, conosciuti sotto il nome di Somalia settentrionale, è
affidata al Governo della Somalia Italiana.
Art. 4. – E’ data facoltà al Governo del Re:
a) di estendere alla Somalia Italiana, apportandovi le modificazioni richieste dalle
condizioni locali, purché non riguardino lo stato personale e le relazioni di
famiglia degli italiani, i codici, le leggi ed i regolamenti del Regno, e, sotto la
medesima riserva, di promulgarvi disposizioni legislative nuove, mantenendo
per gli indigeni in vigore le leggi e consuetudini locali tenuto conto dei principi
fondamentali delle leggi italiane;
b) di promulgare nella Colonia, tenuto conto delle condizioni locali, le
disposizioni relative all’ordinamento amministrativo giudiziario e militare;
c) di procedere all’accertamento di tutte le terre di libera disponibilità dello Stato,
rispettando le occupazioni attuali che possono costituire diritti secondo le
consuetudini;
d) di alienare fabbricati o terreni di proprietà demaniale o di provvedere alla loro
messa in valore, per mezzo di affitti o concessioni temporanee, o perpetue a
titolo oneroso o gratuito;
e) di provvedere intorno ai tributi indigeni, ai dazi doganali e alle imposte e tasse
aventi effetto anche su persone non residenti in Colonia;
f) di regolare il sistema e la circolazione monetaria;
g) di contrarre mutui ed accendere debiti per la Colonia, con esenzione di
qualsiasi imposta, allo scopo di provvedere ad opere di pubblica utilità, per
qualsiasi scopo. L’onere complessivo annuo del bilancio della Colonia, per
interessi e quote di rimborso non potrà superare una somma equivalente ai due
terzi delle entrate proprie ordinarie della Colonia computate sulla media
dell’ultimo quinquennio, e l’impegno di bilancio non dovrà durare oltre venti
esercizi finanziari.
Art. 5. – Il Governo del Re è autorizzato a delegare al governatore la facoltà di cui alle
lettere c) d) e) g) dell’art. 4.
Nel reale decreto di delega della facoltà di cui alla lettera g) dell’art. 4, dovranno
essere indicate le opere per provvedere alle quali tale facoltà è consentita al governatore.
Art. 6. – Le facoltà indicate negli articoli 4 e 5 sono esercitate dal Governo del Re con
decreti reali, sentito il Consiglio coloniale, istituito in virtù dell’art. 1 della legge 24 maggio
1903, n. 205, e sentiti i ministri direttamente interessati.
Art. 7. – Nei rispetti della Colonia della Somalia Italiana tutte le facoltà e tutte le
attribuzioni deferite al Governo del Re saranno esercitate per mezzo del ministro degli affari
esteri.
Art. 8. – Il governatore, nella sua qualità di rappresentante del Governo centrale, è
investito di tutte le facoltà che i ministri del Re possono delegare.
225

Art. 9. – Il governatore ha facoltà:


a) di variare i diritti doganali di uscita secondo la necessità del commercio;
b) di regolare il cambio;
c) di aumentare o diminuire, quando speciali circostanze lo richieggano, i tributi
indigeni, limitatamente all’esercizio in corso ed entro i limiti di un terzo;
d) di provvedere con suo decreto ai servizi delle residenze di pubblica sicurezza,
delle carceri, di porto, di posta e telegrafo, di contabilità di cassa, dei lavori
pubblici, della sanità pubblica, delle scuole, ecc.;
e) di emanare regolamenti per l’esercizio della caccia e della pesca, per la
razionale utilizzazione e la conservazione delle foreste e per la concessione di
terreni a scopo edilizio;
f) di tener sospesa l’applicazione delle pene e di interrompere la espiazione,
anche quando fosse cominciata, in quei casi eccezionali nei quali egli credesse
conveniente di proporre la grazia;
g) di condonare qualsiasi multa dovuta all’erario pubblico, salvo quelle
dipendenti da inadempimento di contratto;
h) di prendere, con ordinanza propria, i provvedimenti di sicurezza richiesti
dall’ordine pubblico e di farli eseguire, previo bando, dalla forza a sua
disposizione;
i) di stornare dall’uno all’altro articolo del bilancio, con suo decreto da
comunicarsi al ministro degli affari esteri, con le opportune giustificazioni,
fondi non destinati a spese d’ordine e obbligatorie;
Art. 10. – Tutte le facoltà accordate al governatore in virtù della presente legge, si
esplicano con suoi decreti da comunicarsi immediatamente al governo del Re.
Art. 11. – I residenti sono nominati dal governatore ed agiscono in suo nome nelle
regioni loro rispettivamente affidate. Essi esercitano funzioni amministrative, giudiziarie, di
stato civile e di polizia secondo gli speciali regolamenti, di cui alla lettera e) dell’art. 9 ed
hanno alla propria dipendenza, nei riguardi politici, le truppe della regione loro affidata.

Titolo II. – Dell’amministrazione della giustizia.

Art. 12. – I cittadini italiani e assimilati saranno soggetti alle leggi italiane, quali esse
sono applicate nella Colonia, giusta il disposto dell’art. 4, lettera a).
Art. 13. – I sudditi coloniali e assimilati saranno giudicati secondo le norme vigenti in
Colonia del diritto musulmano (sceria) e del diritto consuetudinario indigeno (testur),
secondo le varie prescrizioni religiose e secondo le varie consuetudini, giusta il disposto
dell’art. 4, lettera a).
Art. 14. – Le giurisdizioni civili e penali, le giurisdizioni speciali e le norme di
procedura degli organi della giustizia coloniale, saranno stabilite dal regolamento giudiziario,
di cui all’art. 4, lettera b).
226

Art. 15. – I sudditi coloniali e assimilati che non vogliano accettare le giurisdizioni
particolari per essi vigenti, possono adire, meno per le questioni riguardanti il loro stato
personale e le relazioni di famiglia, le giurisdizioni stabilite per gli italiani e saranno soggetti
alle leggi italiane quali sono applicate nella Colonia, giusta l’art. 4, lettera a).
Art. 16. – Ai decreti reali 2 maggio 1904, n. 311, e 26 gennaio 1905, n. 90, con i quali
il Governo del Re ha finora provveduto all’amministrazione della giustizia, in materia penale,
è riconosciuta piena efficacia per i procedimenti già incoati anteriormente all’attuazione della
presente legge.
E’ altresì riconosciuta piena efficacia al regolamento 6 gennaio 1906, n. 48, e al
decreto 19 aprile successivo n. 72, coi quali il Governo del Benadir ha provveduto in via
provvisoria anteriormente all’attuazione della presente legge all’ordinamento giudiziario della
Colonia, alle norme di procedura ed alla competenza per la cognizione in secondo grado delle
controversie decise in prima istanza dai residenti.

Titolo III. – Della difesa della Colonia.

Art. 17. – La difesa e la sicurezza della Colonia sono affidate al “regio corpo di truppe
coloniali della Somalia Italiana” composto di truppe indigene al comando di ufficiali italiani
tratti dal regio esercito; al “corpo di polizia della Somalia Italiana” composta di agenti
indigeni comandati da ufficiali e graduati dell’arma dei reali carabinieri; e alle regie navi che
si trovino di stazione o di passaggio nelle acque della Colonia.
Al governatore o a chi ne fa le veci spetta la facoltà d’ordinare le operazioni militari.
Il “corpo di polizia della Somalia Italiana” è alla diretta dipendenza del governatore o
di chi ne fa le veci.
Art. 18. – L’ordinamento militare della Colonia è stabilito dal Governo del Re su
proposta del governatore, il quale, tenuto conto della situazione politica della Colonia e delle
condizioni del bilancio coloniale, sottoporrà annualmente all’approvazione del Governo del
Re, previo il parere dell’ufficiale superiore in grado che unirà alle proposte, il contingente di
truppa da tenersi sotto le armi nei vari reparti, e gli organici militari.
Art. 19. – Per gli ufficiali italiani della Colonia della Somalia Italiana sono in vigore le
leggi ed i regolamenti del regio esercito, per i graduati ed i militari di truppa, i regolamenti
delle truppe indigene nella Colonia Eritrea, modificati secondo le speciali condizioni di
persone e di luoghi, con le formalità prescritte dall’art. 6.

Titolo IV. – Dell’amministrazione finanziaria.


Art. 20. – Il bilancio della Colonia verrà presentato al Parlamento, munito di una
particolare relazione illustrativa, nella quale si darà pure conto dei mutui contratti e delle
concessioni di varia natura fatte nel corso dell’esercizio finanziario.
Esso è formato sotto la direzione del governatore e secondo le sue istruzioni.
227

Entro la prima quindicina di ottobre, il governatore trasmette al Ministero degli affari


esteri il consultivo dell’esercizio precedente, da presentarsi al Parlamento, ed entro gennaio il
bilancio di previsione.
Al progetto del bilancio di previsione, sono ammessi gli organici civili e militari da
presentarsi al Parlamento, con il bilancio stesso.
Art. 21. – La Corte dei conti eserciterà il suo controllo sul rendiconto consuntivo e
sulle relative contabilità che le verranno sottoposte, per mezzo del Ministero degli affari
esteri, con tutti i documenti giustificativi necessari. La Corte dei conti giudicherà i conti degli
agenti dell’amministrazione della Somalia Italiana ed eserciterà sopra i funzionari stipendiati
della Colonia la giurisdizione di cui all’art. 67 del testo unico della legge 28 febbraio 1884, n.
2016.

Titolo V. – Disposizioni generali.

Art. 22. – Il ministro degli affari esteri presenterà annualmente al Parlamento, prima
della fine di novembre, una relazione sull’amministrazione, gestione e condizione della
Colonia, corredata dagli opportuni allegati.
Art. 23. – Tutti i decreti reali, concernenti la Colonia della Somalia Italiana, saranno
pubblicati nella Raccolta delle leggi e dei decreti del Regno ed avranno valore quindici giorni
dopo la loro pubblicazione sul Bullettino ufficiale della Somalia Italiana salvo speciali
disposizioni in contrario.
Gli atti del Governo della Colonia, pubblicati nel Bullettino predetto, saranno anno per
anno raccolti e presentati al Parlamento.
Art. 24. – Ogni disposizione generale o speciale, contraria alla presente legge, rimane
abrogata. La presente legge non potrà tuttavia essere invocata in alcuna sua parte contro diritti
acquisiti derivanti da disposizioni o sentenze emanate dalle competenti autorità, prima della
sua promulgazione.
La detta legge avrà vigore dal giorno della sua promulgazione e si intende promulgata
un mese dopo la sua pubblicazione nella sede del Governo della Colonia.
Art. 25. – La esenzione da qualsiasi imposta pei mutui e i debiti contratti allo scopo di
provvedere ad opere di pubblica utilità, per qualsiasi scopo, è estesa anche alla Colonia
Eritrea.
Ordiniamo che la presente munita del sigillo dello Stato, sia inserita nella raccolta
ufficiale delle leggi e dei decreti del Regno d’Italia, mandando a chiunque spetti di osservarla
e di farla osservare come legge dello Stato.

Data a Roma, addì 4 aprile 1908.


VITTORIO EMANUELE
v. Il Guardasigilli: Orlando Giolitti, Tittoni, Casana, Mirabello, Orlando,
Carcano.
228

DOCUMENTO n. 20

TRAITE’ DE PAIX
entre le Royaume d’Italie e l’Empire d’Ethiopie.20

Au nom de la Très-Sainte Trinité

Sa Majesté Humbert I, Roi d’Italie, e Sa Majesté Menilek II, Empereur d’Ethiopie,


désireux de mettre fin à la guerre et de faire revivre leur ancienne amitié ont stipulé le traité
suivant :
Pour conclure ce traité, Sa Majesté le Roi d’Italie a délégué, comme son envoyé
plénipotentiaire, le major docteur César Nerazzini, chevalier de Saints Maurice et Lazare,
officier de la couronne d’Italie. Les pleins pouvoirs du major Nerazzini ayant été reconnus en
bonne et due forme, Son Excellence le major Nerazzini, au nom de sa Majesté le Roi d’Italie,
et Sa Majesté, Menilek II, Empereur d’Ethiopie et des Pays Galla, en son propre nom, on
convenu et conclu les articles suivantes :
Art. I. – L’état de guerre entre l’Italie et l’Ethiopie a pris définitivement fin. En
conséquence il y aura paix et amitié perpétuelles entre Sa Majesté le Roi d’Italie e Sa Majesté
le Roi d’Ethiopie, ainsi qu’entre leurs successeurs et sujets.
Art. II. – Le traité conclu à Outchalé le 25 Miazia 1881 (correspondant au 2 mai 1889)
est et demeure définitivement annulé ainsi que ses annexes.
Art. III. – L’Italie reconnâit l’indépendance absolue et sans réserve de l’Empire
éthiopien comme Etat souverain et indépendant.
Art. IV. – Les deux puissances contractantes n’ayant pu se mettre d’accord sur la
question des frontières, et désireuses cependant de conclure la paix sans délais et d’assurer
ainsi à leurs pays les bienfaits de la paix, il a été convenu que dans le délais d’un an, à dater
de ce jour, des délégués de confiance de Sa Majesté le Roi d’Italie et de Sa Majesté
l’Empereur d’Ethiopie établiront, par une entente amicale, les frontières définitives. Jusqu’à
ce que ces frontières aient été ainsi fixées, les deux parties contractantes conviennent
d’observer le statu quo ante, s’interdisant strictement de part et d’autre de franchir la frontière
provisoire, déterminée par le cours des rivières Mareb, Belessa et Mouna.
Art. V. – Jusqu’à ce que le gouvernement italien et le gouvernement éthiopien aient
d’un commun accord fixé leurs frontières définitives, le gouvernement italien s’engage à ne
faire de cession quelconque de territoire à aucune autre puissance. Au cas où il voudrait
abandonner de sa propre volonté une partie du territoire qu’il détient, il en ferait remise à
l’Ethiopie.
_____________________________
20
G.Perticone, G.Guglielmi, La politica coloniale dell’Italia negli atti, documenti e discussioni parlamentari, L’Italia in
Africa, Vol. III, Ist. Polig. Dello Stato, Roma, 1965, Pag. 208-209.
229

Art. VI. – Dans le but de favoriser les rapports commerciaux et industriels


entre l’Italie et l’Ethiopie, des accords ultérieurs pourront être conclus entre les deux
gouvernements.
Art. VII. – Le présent traité sera porté à la connaissance des autres puissances par les
soins des deux gouvernements contractants.
Art. VIII. – Le présent traité devra être ratifié par le gouvernement italien dans le délai
de trois mois à dater de ce jour.
Art. IX. – Le présent traité de paix conclu ce jour sera écrit en amharigna et en
français, les deux textes absolument conformes, et fait en deux exemplaires, signés des deux
parties, dont un restera entre les mains de Sa Majesté le Roi d’Italie et l’autre entre les mains
de Sa Majesté l’Empereur d’Ethiopie.
Etant bien d’accord sur les termes de ce traité, sa Majesté Menilek II, Empereur
d’Ethiopie, en son propre nom, et Son Excellence le major docteur Nerazzini, au nom de Sa
Majesté le Roi d’Italie, l’ont approuvé et revêtu de leurs sceaux.
Fait à Addis-Abeba, le dix-sept Tekemt mil-huit-cent-quatre-vingt-neuf
(correspondant au 26 octobre 1896).

Maggiore Cesare Nerazzini


Inviato plenipotenziario di S.M. il Re d’Italia
(Sigillo di S. M. l’Imperatore Menilek II)

DOCUMENTO n. 21

TRATTATO ITALO-ETIOPICO
per la delimitazione della frontiera fra Eritrea ed Etiopia21

Sua Maestà Umberto I, Re d’Italia e Sua Maestà Menelik II, Re dei Re d’Etiopia,
desiderosi di regolare la questione di frontiera tra la Colonia Eritrea e l’Etiopia, rimasta aperta
fin dalla conclusione del trattato di pace di Addis Abeba del 26 ottobre 1896 (17 Tekemt
1889), d’accordo hanno conchiusa la seguente convenzione.
Art. I. – La linea Tomat-Mareb-Belesa-Muna, tracciata nella carta qui annessa, è
riconosciuta dalle due parti contraenti come confine tra l’Eritrea e l’Etiopia.
Art. II. – Il Governo italiano si obbliga a non cedere né vendere ad altra Potenza il
territorio compreso tra la linea Tomat-Todluc-Mareb-Mai Ambessa-Mai Feccia-Mai Marettà-
Mai Ha-Mahio-Piano delle galline di faraone e la linea Tomat-Todluc-Mareb-Belesa-Muna,
lasciato da Sua Maestà Menelik II, Re dei Re d’Etiopia, all’Italia.
________________________________
21G.Perticone, G.Guglielmi, La politica coloniale dell’Italia negli atti, documenti e discussioni parlamentari, L’Italia in
Africa, Vol. III, Ist. Polig. Dello Stato, Roma, 1965, Pag. 208-209.
230

Sua Maestà Menelik II, Re dei Re d’Etiopia, in suo proprio nome, per sé e per i
suoi successori, ed il capitano Federico Ciccodicola, in nome di Sua Maestà Umberto I, Re
d’Italia,per lui e pei suoi successori, con piacere ed accordo hanno scritto questa convenzione
in lingua italiana ed amarica, considerandole tutte e due come ufficiali (solo se vi è errore di
scrittura l’Imperatore Menelik si atterrà all’amarico) ed avendola approvata vi appongono i
loro sigilli.
Scritta nella città di Addis Abeba il 10 luglio 1900(3 Hamlié 1892, anno di Perdono).
(Sigillo di S. M. Menelik)
(L. S.) Capitano Federico Ciccodicola
Rappresentante di S. M. il Re d’Italia in Etiopia

DOCUMENTO n. 22

Trattato di amicizia tra italia ed Etiopia.22

Sua Maestà Vittorio Emanuele III Re d’Italia e sua Maestà Zauditù Imperatrice
d’Etiopia hanno voluto che l’amicizia dei Loro due Stati divenga più salda e durevole e che le
relazioni economiche tra i due Paesi vadano ampliandosi.
Perciò il Comm. Giuliano Cora, Ministro plenipotenziario del Regno d’Italia, in nome
di Sua Maestà Vittorio Emanuele III e suoi Successori, e Sua Altezza Imperiale Tafari
Maconnen, Erede del Trono e Reggente dell’Impero Etiopico, in nome dell’Imperatrice
Zauditù, in nome Suo personale e dei Loro Successori.
Hanno convenuto quanto segue:
Art. 1. – Vi sarà pace costante ed amicizia perpetua tra il Regno d’Italia e l’Impero
Etiopico.
Art. 2. – I due Governi si impegnano reciprocamente a non compiere, sotto alcun
pretesto, alcuna azione che possa nuocere o ledere l’indipendenza dell’altro, ed a
salvaguardare gli interessi dei loro rispettivi Paesi.

Art. 3. – I due Governi si impegnano ad ampliare ed a far prosperare il commercio


esistente fra i due Paesi.

Art. 4. – I cittadini, sudditi e protetti italiani al loro stabilimento in Etiopia e gli


etiopici al loro stabilimento in Italia e sue Colonie, per il loro commercio ed il loro lavoro,
necessità di vita e di sussistenza e per tutto ciò che riguarda l’esercizio delle loro professioni,

___________________________
22
G. Vedovato, Gli accordi italo-etiopici dell’agosto 1928, Rivista di Studi Politici Internazionali, Vol. 22, n. 4, Firenze,
1955, Pag. 630-31.
231

del loro commercio e del loro lavoro sono tenuti all’osservanza ed al rispetto delle leggi dello
Stato in cui dimorano.
Resta inteso che continueranno ad essere applicate ai cittadini sudditi e protetti italiani
in Etiopia le disposizioni dell’art. 7 del trattato tra l’Impero Etiopico e la Repubblica Francese
concluso il 10 gennaio 1908, fino a che quest’ultimo trattato resterà in vigore.
Art. 5. – I due Governi si impegnano a sottoporre ad una procedura di conciliazione o
di arbitrato le questioni che sorgeranno tra di loro e che non abbiano potuto essere risolte con
i normali mezzi diplomatici, senza aver ricorso alla forza delle armi. Tra i due Governi di
comune accordo saranno scambiate note circa il modo di scegliere gli arbitri.
Art. 6. – Il presente Trattato, da registrarsi alla Società delle Nazioni, sarà ratificato e
lo scambio delle ratifiche avrà luogo ad Addis Abeba il più presto possibile.
Art. 7. – Il presente Trattato avrà la durata di venti anni dallo scambio delle ratifiche.
Allo spirare di tale termine esso sarà rinnovabile di anno in anno.
Fatto in duplice copia e di identico tenore nelle due lingue ufficiali italiana ed amarica;
una delle copie resta nelle mani del Governo Italiano e l’altra nelle mani del Governo
Etiopico.
Addis Abeba, 2 agosto 1928 – Anno VI. (Il giorno 26 del mese di hamlé dell’anno
1901 della Misericordia).
L’erede del trono di Etiopia
(L.S.) Giuliano Cora (L.S.) Tafari Maconnen

DOCUMENTO n. 23

Essendo la circolare 3 C composta da 17 pagine non tutte inerenti all’argomento trattato,


riportiamo solo la parte relativa all’atteggiamento delle truppe verso la popolazione civile:

MISURE PRECAUZIONALI NEI CONFRONTI DELLA


POPOLAZIONE

15 – Quando necessario agli effetti del mantenimento dell’O.P. e delle


operazioni, i Comandi di G.U. possono provvedere:

a) - ad internare, a titolo protettivo, precauzionale o repressivo,


famiglie, categorie di individui della città o campagna, e, se
occorre, intere popolazioni di villaggi e zone rurali;

b) - a “fermare” ostaggi tratti ordinariamente dalla parte sospetta


della popolazione, e, - se giudicato opportuno – anche dal suo
complesso, compresi i ceti più elevati;
232

c) - a considerare corresponsabili dei sabotaggi, in genere, gli


abitanti di case prossime al luogo in cui essi vengono compiuti.

16 - Gli ostaggi di cui in b) possono essere chiamati a rispondere, colla


loro víta, di aggressioni proditorie a militari e funzionari italiani,
nella località da cui sono tratti, nel caso che non vengono identificati
– entro ragionevole lasso di tempo, volta a volta fissato – i colpevoli.

- Gli abitanti di cui in c), qualora non siano identificati – come detto
sopra – i sabotatori, possono essere internati a titolo repressivo; in
questo caso il loro bestiame viene confiscato e le loro case vengono
distrutte.

TRATTAMENTO DA USARE ALLE POPOLAZIONI ED AI


PARTIGIANI NEL CORSO DELLE OPERAZIONI.

251 – Il trattamento da usare alle popolazioni nelle circostanze comuni. È


regolato dalle disposizioni di cui alla Parte II della presente
circolare.

252 – Nel corso delle operazioni si applicano in più, le regole seguenti:

- gli individui trovati nella zona dove si è svolto o si svolge il


combattimento, e non abitanti nella stessa (fatto che lascia
presumere che siano al seguito dei partigiani),vengono arrestati,
sottoposti ad indagini, e trattati a seconda del risultato di esse;

- lo stesso trattamento viene usato verso gli individui sospetti di


favoreggiamento ai partigiani, siano essi abitanti, o meno, della zona
di cui trattasi.

253 – In casi particolari (grandi operazioni – ecc.) i comandi di C.d’A.


possono integrare – se necessario – le norme ordinarie, a quelle di
cui sopra, con altro, che vengono, per lo più, notificate a mezzo di
“ordinanze”.

EDIFICI E VILLAGGI

254 – All’infuori del caso previsto dal n.16, nel corso delle operazioni
vengono distrutti gli edifici dai quali partono offese alla nostre
truppe, e quelli in cui si rinvengono deposití di armi, munizioni ed
esplosivi.

- Alla distruzione di interi villaggi si procede solo nel caso che l’intera
popolazione o la massima parte di essa, abbia combattuto
materialmente contro le nostre truppe, dall’interno dei villaggi
stessi, e durante le operazioni in quel dato momento in atto.

255 – ln casi particolari (grandi operazioni – ecc.) i comandi di C.d’A.


possono integrare – se necessario – le norme di cui sopra con altre,
che vengono, per lo più, notificate a mezzo di “ordínanze”.
233

256 – I campi (logor), baracche ed apprestamenti dei partigiani vengono


sempre distrutti, tranne nel caso che possano servire alle nostre
truppe.

257 – (E’ inteso che si parla qui (N.254-256) di distruzione metodiche ed


intenzionali,. E non di danneggiamento e distruzione causati
dall’impiego operativo dei mezzi di offesa terrestri ed aerei, per il
quale non esiste altra norma che la necessità bellica contingente).

B E N I.

258 – Nel corso delle operazioni viene praticata la confisca (non per
iniziativa individuale, ma per disposizione dei comandi
responsabili) dei viveri, foraggi e bestiame esistenti negli edifici e
villaggi distrutti per le ragioni di cui sopra.

259 – Nelle abitazioni e villaggi trovati sgomberi, e nelle campagne


immediatamente adiacenti, vengono confiscati i viveri, foraggi ed il
bestiame (per disposizione, s’intende dei comandi responsabili), nel
caso gli abitanti risultino definitivamente partiti, o, molto lontani, o
quando – a parte tali circostanze – si debba ritenere che detti viveri,
ecc. possano appartenere alle formazioni partigiane, o cadere, se da
noi abbandonati – nelle loro mani.

260 – Quanto confiscato viene versato alla Sussistenza, meno ciò che sia
indispensabile alla vita immediata dei reparti operanti nella zona.

261 – Il saccheggio delle abitazioni, comprese quelle da distruggere, deve


essere impedito con misure preventive e, se occorre, con repressioni
draconiane.

DOCUMENTO n. 24

Lettera dell’ambasciatore inglese Charles al conte Sforza.24

British Embassy ROME


22nd June, 1947
My dear Count Sforza,
After our conversation yesterday evening I received a telegram from Mr. Bevin, who,
As a result of talks in London between members of the Italian Embassy and the Foreign
Office, appears to be rather concerned lest you may wish, during your forthcoming visit to
London, to press too hard for some concession in regard to the colonies.
___________________________
24
Arch. Pers. Polit. Carlo Sforza – ACS 0001 – 0004378, b. 3 fasc. 9.
234

Office, appears to be rather concerned lest you may wish, during your forthcoming visit to
London, to press too hard for some concession in regard to the colonies.
Mr. Bevin says that he is of course anxious to do what he can to strengthen the Italian
Governement’s position in Italian eyes and to this end he would naturally be prepared to
discuss with you any points you may wish to raise in connection with the present British
military administration insofar as this affects Italian nationals and interests in the territories,
and such subjects as trade between Italy and her former colonies. But as regards their final
disposal he is not in a position to give you any assurance regarding the British attitude
pending the report of the Four Power Commissionwhich will be dispatched to these territories
by the Deputies as soon as possible. The most he can do is to assure you that he will justify
the Italian point of view as that of an interested power to be heard as sympathetically as
possible by the Deputies and later by the Council of Foreign Ministers.
I am sure that you will realiseMr. Bevin’s position in a matter of this kind at the
present moment, namely, that it would not be possible for him to give you any assurance
which you could repeat on your return to Rome, to the effect that any particular solution had
been found for any one Italian colony.
Although I am just leaving by aeroplane for London, I have telegraphed urgently to
Mr. Bevin saying that on the strength of your talk with me last night I felt I could reassure
him that you have no intention of turning your visit to London into a serious negotiation but
that your great object was to help to re-establish those old ties of friendly co-operation which
you felt werw so necessary for both our countries. I added that you would naturally like to
discuss matters of onterest such as the colonies and the fleet but that although very important,
they would not be allowed to stand in the way of the main purpose. I hope you will approve of
my interpretation of your thoughts.
Believe me, my dear Count Sforza,
Yours very sincerely
Noel Charles
235

DOCUMENTO n. 25
Telespresso n. 3/6191, 17 dicembre 1950

Prime ripercussioni in Eritrea sulla Risoluzione adottata dalle N.U.25

Si trascrive, qui di seguito, quanto è stato comunicato, da fonte attendibile, in data 30


novembre 1950:
Il locale quotidiano in lingua italiana della B.A.E. è uscito il 20 corrente nell’edizione
straordinaria col testo della risoluzione adottata dal Comitato Politico. Le reazioni primissime
dell’opinione pubblica sono le seguenti:
• senso generale di soddisfazione, ritenendosi dai più che il lungo periodo d’incertezza e
di disagio sia prossimo a terminare;
• preoccupazione che la risoluzione non valga a migliorare le condizioni generali del
paese, in quanto gli inglesi avrebbero interesse a mantenerlo discorde;
• notevole delusione in quegli italiani che ancora ostinatamente speravano in miglior
soluzione;
• disorientamento (relativo) fra gli indipendentisti, che non vedono chiaro nella
promessa autonomia;
• soddisfazione (anche questa relativa) fra gli unionisti, perché “verrà la bandiera del
Negus.
In particolare, fra gli italiani, si osserva:
• è riconosciuta l’importanza, per l’Eritrea, che la cooperazione delle comunità straniere
(leggi italiani) per lo sviluppo economico del paese sia continuata;
• le stesse comunità non avrebbero però alcuna ingerenza nell’amministrazione del
paese, e nemmeno una rappresentanza nella costituente;
• anche i meticci potranno essere riconosciuti cittadini eritrei dopo l’avvento della
federazione, e pertanto non potranno avere alcuna parte nella preparazione della
Costituzione;
• il Governo italiano ha ottenuto notevoli miglioramenti rispetto al vecchio progetto
Muniz per la federazione; ha, tuttavia, dovuto mollare sul punto della difesa. In Eritrea
ci saranno truppe etiopiche;
• l’unione doganale con l’Etiopia dovrebbe portare ad un aumento dei traffici e di certe
attività (autotrasporti, ecc.);
• l’immissione progressiva di eritrei nell’Amministrazione (v. punto II) non meno il
licenziamento di quasi tutti i 2000 italiani attualmente ivi impiegati, il che causerà,
fatalmente, un sostanziale esodo di nostri connazionali.

___________________________
25
Arch. Pers. Polit. Carlo Sforza – ACS 0001 – 0004378, b. 34 fasc. 3.
236

• anche i meticci potranno essere riconosciuti cittadini eritrei dopo l’avvento della
federazione, e pertanto non potranno avere alcuna parte nella preparazione della
Costituzione;
• il Governo italiano ha ottenuto notevoli miglioramenti rispetto al vecchio progetto
Muniz per la federazione; ha, tuttavia, dovuto mollare sul punto della difesa. In Eritrea
ci saranno truppe etiopiche;
• l’unione doganale con l’Etiopia dovrebbe portare ad un aumento dei traffici e di certe
attività (autotrasporti, ecc.);
• l’immissione progressiva di eritrei nell’Amministrazione (v. punto II) non meno il
licenziamento di quasi tutti i 2000 italiani attualmente ivi impiegati, il che causerà,
fatalmente, un sostanziale esodo di nostri connazionali.
Nel testo italiano dell’art. 5 è detto che il Consiglio Federale avrà facoltà di
“deliberare” sui problemi ecc. Il testo inglese, invece, reca che lo stesso organo “shall advise”.
La differenza è fondamentale, e cambia tutta l’essenza della federazione. Sarebbe augurabile
che il Consiglio avesse effettivamente la competenza di deliberare, perché quella di
“suggerire” non servirà a nulla.

In linea generale gli italiani osservano ancora:


• non è certo che l’Italia abbia approvato la risoluzione in ogni suo particolare, e forse la
delegazione italiana otterrà ancora qualche miglioramento; in particolare, sarebbe
grandemente augurabile che tutti gli abitanti dell’Eritrea fossero ammessi alla
formazione della costituente. In particolare per i meticci, dato che costoro saranno
cittadini di diritto ed automaticamente (art. 6, lettera b), perché escluderli dalla
creazione del nuovo Stato?
• e per “Eritrei”, cosa s’intende? La “cittadinanza” eritrea non esiste oggi in senso
giuridico. Per esempio la tribù dei Rascisida, immigrata 80 anni or sono dall’Arabia, e
considerata eritrea dall’amministrazione italiana e da quella inglese, è veramente tale?
E se lo è, perché non lo sono anche altri, immigrati da molti decenni?
Particolarmente ancora, dicono gli italiani, bisogna che il Commissario da nominarsi
dall’Assemblea generale dell’ONU (art. 10) non ripeta il triste precedente del Commissario
per la Tripolitania, Pelt, noto strumento inglese. Che Brusasca cerchi di ottenere l’elezione di
un galantuomo imparziale.
Non si parla di giudici speciali per gli stranieri. Eppure questi funzionano persino ad
Addis Abeba. E’ augurabile che anche in Eritrea, in pratica, si arrivi a questo.
Tali le obiezioni e i commenti del primo momento, destinate a sfumare, a trasformarsi
e a radicarsi a seconda degli sviluppi che la situazione assumerà.
Su tutto l’ombra di un interrogativo: cosa faranno gli inglesi, in questi due anni che si
sono assicurati? Vorranno realmente realizzare la federazione, e quindi andarsene da tutta
l’Eritrea, e anche da quel Bassopiano Occidentale a cui tanto han mostrato di tenere? O non
provocheranno secessioni e decisioni separatiste, che potrebbero già oggi avere una premessa
di un eventuale rifiuto opposto alla soluzione federativa di Ibrahim Sultan26, attualmente a
Lake Success? E non cercheranno, questi ineffabili inglesi, di sistemare nell’Amministrazione
237

e di infiltrare nella costituente i “loro” elementi, costringendosi, così, per naturale legge di
difesa, a fare altrettanto, e di conseguenza a riprendere quella lotta politica (con tutti i suoi
effetti) che potrebbero invece cessare se si dimostrassero imparziali?

Ferve, intanto, il lavorio di “corridoio” per arrivare alla trasformazione del CRIE, che
nell’opinione di tutti, e in particolare degli Unionisti, è un organo politico e dedito alla
politica. Il CRIE, secondo il parere dei più illuminati, dovrebbe diventare, “Casa degli
Italiani” con scopi assistenziali, sportivi, ricreativi, culturali, ecc. e potrebbe svolgere
un’opera preziosa. Pare che taluni dirigenti siano, invece, recalcitranti alla trasformazione.

Un altro interrogativo è il seguente: è evidente, dal testo della risoluzione, che il


Governo italiano si è adoperato affinché quegli italiani che lo vogliano, possano acquistare
domani la cittadinanza eritrea. Orbene, è questo nell’interesse dell’Italia e della comunità
italiana? Ci darà suggerimenti in proposito il nostro Governo? O lascierà a noi soli la
responsabilità di una decisione? In particolare, nei confronti dell’Italia, resteremo cittadini
italiani anche assumendo la cittadinanza eritrea? A molte domande risponderanno i fatti, da
soli. Ma qui si vuole soltanto dare un’idea del fermento che la pubblicazione della risoluzione
ha suscitato, fermento che sembra essere l’inizio di un non breve periodo di dubbi e di
preoccupazioni per la collettività italiana dell’Eritrea. La quale si augura, per lo meno, che la
soluzione valga a migliorare le condizioni di sicurezza, l’ha pertanto accettata (ammesso che
sia già acquisita) con un senso di sollievo.

F.to Cellere

___________________________
26 Sultan, Ibrahim Ali. – Politico, imprenditore ed attivista eritreo (Cheren, 1909 – Il Cairo, 1987). È stato, assieme a
Woldeab Woldemariam, fra i primi sostenitori dell’indipendenza dell’Eritrea. Fu il fondatore della Lega Musulmana
dell’Eritrea. Dopo l’educazione in scuole islamiche ed italiane, lavorò dal 1922 al 1926 presso la Ferrovia eritrea come
capostazione. Parlava fluentemente il tigrino, l’arabo e l’italiano. Dal 1926 al 1941 fu il responsabile per gli Affari islamici
per conto dell’Amministrazione coloniale italiana, continuando a lavorare, per un breve periodo, per l’amministrazione
britannica. Fondò successivamente, a Tessenei, una moderna industria lattiero casearia, per diventare poi funzionario della
Camera di Commercio dell’Eritrea. Fondatore nel 1941 dell’Associazione patriottica (primo nucleo della futura Lega
Musulmana), s’impegnò per la liberazione dei servitori agricoli di etnia tigré. Fu, assieme a Woldeab Woldemariam e V. Di
Meglio, una delle figure centrali nella fondazione del Blocco Indipendenza (luglio 1949). Di fronte alle Nazioni Unite,
chiamate a pronunciarsi sul futuro del paese, intraprese una dura battaglia per sostenere le ragioni dell’indipendenza. Fondò
poi il Fronte Democratico Eritreo, di cui divenne Segretario Generale (gennaio 1951). Fu poi componente dell’Assemblea
Nazionale. Successivamente costretto all’esilio (1958), aderì al Fronte di Liberazione Eritreo, da cui poi uscì nel 1970 per
dare vita alle Forze di Liberazione Popolare, movimento precursore del Fronte di Liberazione del Popolo Eritreo, ritrovando
il vecchio alleato Woldeab Woldemariam. Rimase comunque critico verso ogni gruppo e frazione, facendo appello all’unità
di tutti gli eritrei. Morì al Cairo, dopo una lunga malattia, il 1º settembre 1987(giorno che, ironia della sorte, coincide con
quello in cui si celebra la Rivoluzione eritrea). Fu sepolto a Cassala il 5 settembre successivo.
238

DOCUMENTO n. 26

Paragrafo della Risoluzione ONU 289/A (IV) relativo alla Somalia.26

With respect to Italian Somaliland, recommends:


1. That Italian Somaliland shall be an independent sovereign State;
2. That this independence shall become effective at the end of ten years from the date of
the approval of a Trusteeship Agreement by the General Assembly;
3. That during the period mentioned in paragraph 2, Italian Somaliland shall be plced
under the International Trusteeship System with Italy as the Administering Authority;
4. That the Administering Authority shall be aided and advised by an Advisory Council
composed of representatives of the following States: Colombia, Egypt and the
Philippines. The headquarters of the Advisory Council shall be Mogadiscio. The
precise terms of reference of the Advisory Council shall be determined in the
Trusteeship Agreement and shall include a provision whereby the Trusteeship Council
shall invite the States members of the Advisory Council, if they are not members of
the Trusteeship Council, to participate without vote in the debates of the Trusteeship
Council on any question relating to this territory;
5. That the Trusteeship Council shall negotiate with the Administering Authority the
draft of a Trusteeship Agreement for submission to the General Assembly if possible
during the present session, and in any case not later than the fifth regular session;
6. That the Trusteeship Agreement shall include an annex containing a declaration of
constitutional principles guaranteeing the rights of the inhabitants of Somaliland and
providing for institutions designed to ensure the inauguration, developmentand
subsequent establishment of full self-government;
7. That in the drafting of this declaration the Trusteeship Council and the Administering
Authority shall be guided by the annexed text proposed by the Indian delegation;
8. That Italy shall be invited to undertake provisional administration of the territory
a) At a time and pursuant to arrangements for the orderly transfer of
administration agreed upon between Italy and the United Kingdom, after
the Trusteeship Council and Italy have negotiated the Trusteeship
Agreement;
b) On condition that Italy gives an undertaking to administer the territory in
accordance with the provisions of the Charter relating to the International
Trusteeship System and to the Trusteeship Agreement pending approval by
the General Assembly of a Trusteeship Agreement for the territory;
9. That the Advisory Council shall commence the discharge of its functions when the
Italian Government begins its provisional administration.
__________________________
26 G. Rossi, L’Africa italiana verso l’indipendenza (1945 – 1949), Giuffrè, Roma, 1980, Pag. 562-3.
239

DOCUMENTO n. 27

Decreto di soppressione dell’Azienda Monopolio Banane.27

IL CAPO PROVVISORIO DELLO STATO

VISTO il R. Decreto Legge 2 dicembre 1935, n. 2085, sull’istituzione del monopolio


statale delle banane convertito, con modificazioni, nella legge 6 aprile 1936, n. 899,
modificato dal R. Decreto Legge 7 gennaio 1938, n. 227, e convertito con modificazioni nella
legge 30 dicembre 1938, n. 2086;

VISTO il R. Decreto 27 luglio 1940, n. 1880 che approva il regolamento per i servizi e
il personale della R. Azienda Monopolio Banane;
VISTA la deliberazione del Consiglio dei Ministri;
SULLA PROPOSTA del Presidente del Consiglio, Primo Ministro Segretario di Stato,
Ministro ad interim per l’Africa Italiana di concerto con il Ministro per le Finanze e Tesoro;
Ha sanzionato e promulga:
Art. 1
L’Azienda Monopolio Banane è soppressa.
Il Ministro dell’Africa Italiana provvede, mediante una gestione di stralcio, alla
realizzazione degli elementi patrimoniali attivi della detta Azienda, alla sistemazione dei suoi
oneri ordinari e straordinari, ed a regolare, secondo le norme vigenti, la cessazione del
servizio del personale estraneo all’Amministrazione dello Stato.
Art. 2
Alla fine di ogni trimestre viene compilato e trasmesso alla Corte dei Conti il
rendiconto delle operazioni eseguite sul conto corrente unificato corredato dai documenti
relativi.
Art. 3
Nello stato di previsione della spesa del Ministero per l’Africa Italiana viene istituito
apposito capitolo “per memoria” sul quale sono imputate le spese conteggiate nel rendiconto
trimestrale di cui all’articolo precedente. In conformità alle risultanze del rendiconto
medesimo verranno disposte le analoghe assegnazioni di fondi. Nel bilancio generale
dell’entrate viene istituito apposito capitale per le entrate.
Art. 4
La cessazione del rapporto d’impiego del personale estraneo all’Amministrazione
dello Stato viene regolata in base al R.D. 27 luglio 1940, n.1880, ed alle norme attualmente in
__________________________
27
ASCM Fondo Brusasca, b. 74, f. 1.
240

vigore, secondo le esigenze del servizio della gestione di stralcio, e tenendo conto
della situazione del personale che si trova in territori oltre mare.
Il personale appartenente alle amministrazioni dello Stato viene restituito alle
amministrazioni di provenienza.
Il personale trattenuto in servizio per le esigenze della gestione di stralcio continua a
fruire, per tutta la durata del servizio, dello stesso trattamento finora goduto.
Art. 5
Nelle scritture contabili-amministrative della gestione di stralcio vengono incluse e
contabilizzate, con apposita annotazione, le operazioni attive e passive eseguite dall’inizio
dell’esercizio finanziario corrente 1946-47, fino alla data di cessazione effettiva dell’Azienda.
Il presente decreto entra in vigore nel giorno successivo della sua pubblicazione nella
Gazzetta Ufficiale della Rapubblica.
Il presente decreto munito del sigillo dello Stato sarà inserito nella raccolta ufficiale
delle Leggi e dei Decreti della Repubblica Italiana.
E’ fatto obbligo a chiunque spetti di osservarlo e di farlo osservare come legge dello
Stato.
Dato a Roma, addì 6 dicembre 1946
241

FONTI ARCHIVISTICHE.

Archivio centrale dello Stato – Roma.


Archivio personalità politiche - Fondo Carlo Sforza.
Atti parlamentari della Camera dei deputati – Discussioni.
Fondo del Ministero dell’Africa italiana.
Archivio storico del comune di Casale Monferrato (AL).
Fondo Giuseppe Brusasca.

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Articolo 13 del patto di Londra 1915
http://www.educational.rai.it/materiali/file_moduli/50959_635525232032919876.pdf
Articolo di Giacomo Gobbi-Belcredi sulla situazione di Massaua.
http://www.giornalismoscientifico.it
L’arma dei Carabinieri e gli Zaptiè Somali.
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Ricerca su riviste specializzate.
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Decolonizzazione in Somalia.
http://www.storicamente.org/fa/dossier-doss_imperi/morone_colonialismo_italiano_somalia

INDICE DELLE SIGLE.

AFIS – Amministrazione fiduciaria italiana della Somalia.


AMB – Amministrazione militare britannica (ingl. BMA – British Military Administration).
ANPA – Associazione nazionale profughi d’Africa.
ANPAO – Associazione nazionale profughi dall’Africa orientale.
AOI – Africa orientale italiana.
CC. RR. – Comando Reali Carabinieri.
FENPIA - Federazione nazionale combattenti, profughi e italiani d’Africa.
IBEAC – Imperial British East Africa Company.
LGS – Lega dei giovani somali (ingl. SYL – Somali Youth League).
MAI – Ministero dell’Africa Italiana.
OVRA – Opera di vigilanza e repressione antifascista.
RAF – Royal Air Force.
RAMB – Regia Azienda Monopolio Banane (poi AMB).
SACA – Società Anonima Cooperativa Agricola.
SAG – Società Agricoltori Giuba.
UNACS - United Nations Advisory Council of Somalia.

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