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ISBN 978-88-339-7450-7
Immagine di copertina: Ivan Bibilin, tavola per Vassilissa la bella (1899), fiaba
raccolta da Aleksandr N. Afanasev.
Storia
Storia del folklore in Europa
Prefazione alla nuova edizione (1971)
Giuseppe Bonomo*
1971
* Giuseppe Bonomo (1923-2006), etnologo, insegnò Storia
delle tradizioni popolari presso l’Università di Palermo.
Premessa
La scienza del folklore e il suo soggetto. Che cos’è il popolo dei folkloristi. La
storia del folklore, storia dei dominati. Il folklore come aspetto ineliminabile
della storia della cultura e della civiltà. La storiografia del folklore come parte
integrante della storia della storiografia. L’Europa alla ricerca di se stessa.
«La poesia popolare ha tale grazia e ingenuità per cui si può paragonare a ciò
che di più bello possa darci la poesia d’arte; come si vede nelle villanelle di
Guascogna e nelle canzoni importate dalle nazioni che non hanno coscienza
d’alcuna scienza e nemmeno di scrittura» (Essais, libro I, cap. LIV).
«Ora io trovo che nulla c’è di barbaro e di selvaggio in questa nazione [cioè nel
Brasile] a quanto me ne fu riferito, se non che ognuno chiama barbaro ciò che è
fuori della sua consuetudine. Come infatti noi non abbiamo altra pietra di
paragone della verità e della ragione che l’esempio e l’idea delle opinioni o
delle usanze del paese dove viviamo, che qui è per noi la perfetta religione, la
perfetta politica, il perfetto uso di tutte le cose. Essi [i Brasiliani] sono selvaggi
alla stessa maniera che noi chiamiamo selvaggi i frutti che la natura ha
spontaneamente prodotto: mentre, a dire il vero, sono quelli alterati da noi con
il nostro artificio e sviati dall’ordine naturale che dovremmo chiamare piuttosto
selvaggi. In quelli sono vive e vigorose le vere e più utili naturali virtù e
proprietà, le quali noi nei nostri abbiamo imbastardite e accomodate al piacere
del nostro gusto corrotto» (Essais, libro I, cap. XXXI).
Suggestivo e poetico è, quindi, il quadro che il
Montaigne traccia di quei selvaggi, «Vi è qualcuno dei
vecchi, – egli osserva, ad esempio, – che la mattina prima
che ci si metta a mangiare predica in comune nella
capanna, passeggiando da un capo all’altro, e dicendo una
medesima sentenza più volte, finché egli abbia finito il suo
andare… Egli non raccomanda se non due cose: il valore
contro i nemici e l’amore verso le loro donne». Sembra
addirittura un quadro biblico. E commentando infine una
loro canzone, egli, se da una parte avvicina qualche
immagine di essa a un’anacreontica, dall’altra vi nota «un
linguaggio dolce, che ha il suono grato e che tira alle
terminazioni greche. Questo è l’animo con cui il Montaigne
si avvicina al mondo dei primitivi. E quasi a riaggruppare le
fila del suo discorso aggiunge:
«Diceva Epicuro che nello stesso tempo in cui le cose sono qui come noi le
vediamo, esse sono tutte parallele e nella stessa maniera in parecchi altri
mondi. E in quanti esempi noi, oggi, non vediamo similitudini e rassomiglianze
fra questo nuovo mondo delle Indie occidentali e il nostro?
In verità, considerando ciò che è venuto a nostra conoscenza del corso di
questa civiltà, mi sono spesso meravigliato di vedere a grande distanza di
tempo l’incontro di un gran numero di opinioni popolari mostruose e credenze
selvagge. Lo spirito umano è un grande operatore di miracoli» (Essais, libro II,
cap. XII).
«Voi siete dei grandi pazzi. Occorrono, dunque, tante ricchezze a voi e ai vostri
figli o a quelli che verranno dopo di voi? La terra che vi ha nutriti non sarà
ugualmente sufficiente per nutrirli?»
4. Un etnografo-folklorista: Lescarbot
1. Gli Stranieri-Simboli
«Se i nostri viaggiatori si fossero spinti sino al luogo dove sorgeva quella città,
avrebbero certamente trovato ancora qualcosa d’incomparabile nelle sue
rovine, perché le opere degli Egiziani erano fatte per resistere al tempo… Oggi
che il nome del Re si è diffuso sin nelle parti più sconosciute del mondo e che
questo sovrano spinge altrettanto lontano le ricerche delle più belle opere della
natura e dell’arte, non sarebbe un oggetto degno di questa nobile curiosità
quello di scoprire le bellezze che la Tebaide racchiude nei suoi deserti e di
arricchire con le invenzioni dell’Egitto la nostra architettura?»
… et moi-méme
si Peau d’âne m’était conté
j’y prendrais un plaisir extrême.
«Ora non è quasi minore empietà dubitare se è possibile che vi siano dei
sortilegi che revocare in dubbio se c’è Iddio. Ma il cumulo di questi errori è
provenuto perché coloro che hanno negato la possanza degli spiriti e le azioni
delle streghe hanno voluto disputare fisicamente delle cose soprannaturali e
metafisiche, che è una indecenza notabile».
4. Bodin e le streghe
«Per conto mio, io ho sempre creduto, e ora so di certo, che ci sono streghe:
coloro che ne dubitano non solo negano l’esistenza di quelle, ma anche
l’esistenza degli spiriti, e di conseguenza, in modo indiretto, sono una specie
non di infedeli, bensì di atei. Coloro che perché la loro incredulità sia confutata,
desiderano di vedere apparizioni, senza dubbio non ne vedranno alcuna, né
avran potere di diventare sia pure della natura delle streghe; il diavolo li tiene
già con una eresia altrettanto capitale quanto la stregoneria; e il fatto di vedere
apparizioni equivarrebbe per essi a una conversione».
6. Bekker e Thomasius
«La levatrice che ci aiuta a venire al mondo compie sopra di noi cerimonie
superstiziose, e le brave donne che assistono al parto hanno un’infinità di
sortilegi che credono atti a procurare al neonato la buona ventura o a tener
lontani da lui i guai. Hanno ridicoli presagi, in base ai quali pretendono di
conoscere la sorte futura. In alcuni paesi il prete è altrettanto svelto di quelle
comari: s’impossessa prontamente del bambino per renderlo schiavo, lo inizia
ai suoi misteri pronunciando formule che somigliano a degli incantesimi;
applicando del sale, dell’olio o dell’acqua o anche, come in alcuni paesi,
applicandogli il ferro o il fuoco, dichiara che prende possesso di lui e gli fa
portare i segni della signoria che eserciterà su di lui».
8. Teologismo folkloristico
«Tempo fa mi capitò fra le mani un libro latino sugli Oracoli dei pagani, scritto
recentemente da Van Dale, dottore in medicina e stampato in Olanda. Mi parve
che l’Autore demolisse con un certo vigore tutto ciò che comunemente si crede
sugli oracoli resi dai demoni e sulla loro scomparsa totale con l’avvento di Gesù
Cristo, e tutta l’opera mi parve ricca d’una larga esperienza dell’antichità e di
una vasta erudizione. Pensai di tradurlo, affinchè le donne e anche quegli
uomini che non leggono agevolmente il latino non fossero privati di lettura
tanto gradevole e utile. Ma poi riflettei che una traduzione del libro non
avrebbe avuto l’effetto che io volevo. Van Dale ha scritto soltanto per i letterati
e ha avuto ragione nel tralasciare quegli abbellimenti e quelle bellurie che per
essi non avrebbero grande importanza. Egli riporta un gran numero di brani e
li cita assai fedelmente, in versioni eccellenti, quando son tradotti dal greco;
discute su molti brani di argomenti di critica e di esegesi, talora poco
necessari, ma sempre curiosi. Ecco quel che occorre ai dotti… Inoltre Van Dale
non si perita affatto di interrompere spesso il filo del discorso per introdurvi
qualche altro argomento, e in quella parentesi insinua un’altra parentesi che
non sempre è l’ultima… Io ho dunque deposto il pensiero di tradurlo e ho
viceversa opinato che valesse meglio, conservando il contenuto e la materia
principale dell’opera, darle tutt’altra forma. Confesso che non si può spingere
questa libertà più lungi di quanto io abbia fatto; ho mutata tutta la disposizione
del libro: ho tolto tutto ciò che mi è parso poco utile in se stesso ovvero troppo
poco elegante per compensare la scarsa utilità; ho aggiunto non soltanto tutti
gli ornamenti che mi sono parsi più opportuni, ma anche parecchie cose che
rafforzano o danno maggior rilievo al tema…».
«Di sua natura la questione degli oracoli, di carattere religioso per i pagani, lo
è divenuta senza necessità presso i cristiani: e da tutte le parti pregiudizi
hanno reso oscure chiarissime verità».
«Tuttavia questi pregiudizi che inficiano la vera religione, trovano, per così
dire, modo di confondersi con essa e di cattivarsi quella devozione che a sé ella
sarebbe dovuta. Non si osa confutarli nel timore di offendere qualche cosa di
sacro. Non rimprovero punto questo eccesso di religiosità, anzi esso è lodevole,
ma, per lodevole che sia, non si può non convenire che non sia più ragionevole
distinguere l’errore dalla verità, piuttosto che rispettare l’errore confuso con la
verità».
«Che lo spirito umano non cerchi che il vero, disingannatevi. Lo spirito umano
e l’errore simpatizzano enormemente. Se volete dire la verità farete molto bene
ad avvolgerla nelle favole e piacerà molto di più. E se vorrete raccontare delle
favole esse potranno piacere anche se non contengono alcuna verità. Così il
vero deve trasfigurarsi nell’errore per essere accolto gradevolmente dallo
spirito umano; ma l’errore vi entra invece così com’è, perché quello è il luogo
della sua nascita e della sua dimora abituale, mentre la verità vi è estranea».
«Gli Americani inviavano le anime dei peccatori in certi laghi, così come i Greci
le inviavano sulle rive dello Stige e dell’Acheronte. Gli Americani credevano
che la pioggia venisse prodotta da una fanciulla che, giuocando fra le nuvole
col suo fratellino, rompesse la sua brocca piena d’acqua. E non somiglia a
quelle Ninfe delle fontane che versano l’acqua delle loro anfore? Secondo le
tradizioni del Perù, l’Ynca Manco Guyna Capac, figlio del Sole, convinse con la
sua eloquenza gli abitanti del paese, che vivevano in maniera primitiva, a
vivere sotto leggi ragionevoli. Ebbene: Orfeo, anch’egli figlio del Sole, fece
altrettanto con i Greci. Il che mostra che i Greci furono, durante un certo
tempo, dei selvaggi per lo meno tanto quanto lo furono gli Americani, e che essi
uscirono dallo stato di barbarie con i medesimi mezzi, e che le immaginazioni di
questi due popoli così lontani si sono incontrate nel credere figlio del Sole colui
che aveva un talento straordinario. E poiché i Greci con tutto il loro esprit,
quando erano ancora un popolo giovane, non pensavano più ragionevolmente
dei barbari d’America (che erano secondo tutte le apparenze un popolo
abbastanza giovane allorché furono scoperti dagli Spagnuoli), vi è ragione di
credere che gli Americani sarebbero pervenuti infine a pensare altrettanto
ragionevolmente che i Greci, se ne avessero avuto il tempo».
«Chi conosce le leggi della storia sarà d’accordo con me nell’ammettere che
uno storiografo fedele al suo compito deve sbarazzarsi dello spirito di
adulazione e di maldicenza. Egli deve, per quanto possibile, mettersi nelle
condizioni di chi non è agitato da nessuna passione. Insensibile a tutte le altre
cose, egli deve badare soltanto agli interessi della verità, e per amore di questa
deve sacrificare la sensibilità per un torto che gli sia fatto, la memoria di un
beneficio ricevuto e persine l’amor di patria. Deve dimenticare che appartiene
a un dato paese, che fu educato a una data fede, che deve riconoscenza a
questo e a quello, che questi o quelli sono i suoi genitori, i suoi amici. Uno
storico, in quanto tale, è come un Melchisedech senza padre, senza madre e
senza discendenza. Se gli si domanda di dove viene, deve rispondere: non sono
né francese, né tedesco, né inglese, né spagnuolo: sono cosmopolita; non sono
né al servizio dell’imperatore, né al servizio del re di Francia, ma
esclusivamente al servizio della verità: questa è la mia unica regina, alla quale
ho prestato giuramento di obbedienza».
«Invece di ammucchiare un cumulo di fatti, dei quali gli uni sono sempre
distrutti e annullati dagli altri, si dovrebbe scegliere soltanto i più importanti e
i più accertati per offrire al lettore un filo direttivo e metterlo in grado di farsi
un giudizio dell’estensione, della rinascita e dei progressi dello spirito umano e
per fargli vedere il carattere dei popoli e dei loro costumi».
«furono più sensati, quando, considerando gli uomini non più nello stato
pacifico in cui saranno un giorno o l’altro, ma nell’azione atta a far sì che
adempiano ai doveri della vita, fecero la loro religione, la loro filosofia, le loro
leggi tutte pratiche».
5. Voltaire e il fanatismo
«Risulta da questo lavoro che tutto ciò che è intimamente legato alla natura
umana si rassomiglia da un capo all’altro dell’universo: che tutto ciò che può
dipendere dal costume è differente e, se si rassomiglia, è dovuto al caso.
L’impero del costume è ben più vasto di quello della natura: esso si estende su
tutte le credenze, su tutti gli usi, diffonde la varietà sulla scena del mondo; la
natura che diffonde l’unità stabilisce dappertutto un piccolo numero di principi
invariabili: così il fondo è dappertutto lo stesso, mentre la cultura produce i
fatti diversi».
«Io dico solamente che non vi è nel mondo alcuna società religiosa, né alcun
rito istituiti allo scopo di incoraggiare gli uomini al vizio. Ci si è serviti in tutta
la terra della religione per fare del male, ma essa è stata istituita da tutti per
far del bene. E se il dogma e il fanatismo portano alla guerra, la morale ispira
dappertutto alla concordia».
6. Voltaire e i selvaggi
«Le popolazioni d’America e d’Africa sono libere, e noi non abbiamo nemmeno
l’idea di libertà. Esse conoscono l’onore, di cui i selvaggi d’Europa pare non
abbiano inteso parlare. Esse hanno una patria, la amano e la difendono; esse
fanno dei trattati, si battono con coraggio e parlano spesso con energia eroica.
Vi è una risposta più bella di quella che un capo canadese diede al
rappresentante di una nazione europea, che gli proponeva di cedergli il suo
patrimonio? Noi siamo nati su questa terra, i nostri padri sono incivili. Diremo
noi alle ossa dei nostri padri: Levatevi e venite con noi in una terra straniera?»
«Se qualcuno, quando i lotti sono già ripartiti, chiederà la sua parte di
cinquanta iugeri sui cinquantamila milioni da distribuire tra un miliardo di
uomini, gli si risponderà che, da noi, le parti sono già fatte e che egli può
andare a farsi la sua tra gli Ottentotti. Ma anche tra quei popoli vi è chi
possiede e chi non possiede. Un baccelliere domanda al selvaggio: – Chi ha
fatto le leggi nel vostro paese? – Il selvaggio risponde: – L’interesse pubblico.
Tutto ciò che ho visto nel mio paese mi insegna che non vi è altro spirito delle
leggi».
«Lafitau fa venire gli Americani dagli antichi Greci ed ecco le sue ragioni. I
Greci avevano le loro favole e anche gli Americani le hanno. I primi Greci
andavano a caccia e gli Americani fanno lo stesso. I primi Greci avevano gli
oracoli e gli Americani hanno i maghi. Si danzava durante le feste della Grecia
e si danza in America. Bisogna convenire che queste ragioni sono convincenti».
«Io ho visto a malincuore come coloro che nelle loro relazioni si occupano dei
selvaggi, li dipingono come gente che non ha nessun sentimento di religione,
nessuna conoscenza del divino, un qualche oggetto cui si renda un culto; come
gente che non ha né leggi, né disciplina esteriore, né forma di governo, in una
parola come uomini che hanno dell’uomo soltanto la figura. È questo un errore
di cui sono responsabili molte persone…» (1, 5).
E subito dopo, quasi a tracciare un quadro ideale:
«L’anima per gli Americani [egli osserva] è ben più indipendente dal loro corpo
che non sia la nostra, e gode maggior libertà. Essa si separa dal corpo per
prendere l’avvio e fare delle escursioni dove vuole. I grandi viaggi non
l’impressionano; essa si trasferisce nell’aria, passa i mari, penetra nei luoghi
più incredibili. Essi [i selvaggi] si persuadono che effettivamente la loro anima,
vedendo il corpo immerso nel sonno, ne profitti per andare a passeggio, dopo di
che ritorna nella sua dimora. Al loro risveglio credono che l’anima ha vissuto
realmente ciò che è passato nei loro sogni e agiscono di conseguenza» (1, 132).
Si vede chiaramente in tal modo come nel Lafitau si
trovino i germi che costituiranno più tardi il travaglio
dell’etnologia moderna. Il Lafitau dalle sue osservazioni
non trae però conseguenze di rigido carattere teorico. Per
lui infatti il primitivo d’America non è né un monoteista, né
un animista ecc. Ma è insieme, se mai, tanto un monoteista
quanto un animista ecc., il quale ha anche il culto per i
morti, come, ad esempio, si può osservare presso gli
Irochesi che in onore del morto gettano una certa quantità
di frumento davanti alla porta della capanna.
Né manca infine al primitivo d’America una rigida
organizzazione sociale, dove in genere i capi più assoluti
son considerati come padri dei loro popoli e hanno quindi il
diritto di applicare la più rigorosa giustizia. Anche
l’organizzazione sociale del resto non è che un aspetto della
religione. Insegni soprattutto la famiglia. «Va ricordato, –
notava di recente il de Jouvenel, – che sin dal 1724 il Padre
Lafitau aveva osservato presso gli Irochesi il fenomeno
della filiazione uterina e rilevato che, in conseguenza di ciò,
la donna era il centro della famiglia del popolo. Egli aveva
compiuto il raccostamento con quel che Erodoto riferisce
intorno ai Lici». Ma anche qui il Lafitau è ben lontano dal
teorizzare o, comunque, dal generalizzare (come faranno
poi Bachofen e Morgan). Apriamo infatti le Mœurs:
«Nei costumi degli Irochesi si trovano dei gradi di parentela un poco differenti
in verità di quelli degli Ebrei e dei Caldei ma a cui si collegano in questo punto:
che essi sono causa di equivoci a cagione dei loro termini… Bisogna sapere che
presso gli Irochesi e gli Huroni, tutti i ragazzi di una tribù considerano come
loro madri tutte le sorelle delle loro madri e come loro zii tutti i fratelli delle
loro madri; per la stessa ragione essi danno il nome di padri a tutti i fratelli dei
loro padri… Tutti i ragazzi che discendono dalla madre e dalle sue sorelle, dal
padre e dai suoi fratelli, si considerano fra di loro come fratelli e sorelle; ma
considerano cugini i figli dei loro zii e delle loro zie, vale a dire i figli dei fratelli
delle loro madri e delle sorelle dei loro padri, benché sia identico il grado della
loro parentela. Alla terza generazione tutto ciò cambia: e gli zii e le zie dei
genitori diventano nonni e nonne» (2, 243).
3. Etnografia e storia
Ci si accorge subito, leggendo le Mœurs, che ci troviamo
di fronte a un narratore piacevole e al tempo stesso
robusto. La lettura delle Mœurs ci richiama, appunto per
questo, quella di un Martire, l’autore delle Decades de
Orbe Novo. Anche il Lafitau, come il Martire, è un umanista
che sente il mondo classico, il quale gli si schiude in tutte le
sue istituzioni, nelle sue pratiche, nelle sue credenze.
Omero, Erodoto, Varrone, Diodoro Siculo, Strabone,
Plutarco, Plinio il Vecchio, Tacito, Cesare: queste sono le
fonti dalle quali egli trae le sue informazioni, che lo portano
con sicurezza in quel mondo la cui conoscenza fu sempre
indispensabile alla preparazione e alla formazione
spirituale dei Gesuiti. E i Gesuiti, come già abbiamo visto,
vivendo in mezzo ai selvaggi e pieni di ammirazione
com’erano per l’antichità classica, si entusiasmavano per le
analogie che i selvaggi presentavano con i popoli della
Grecia o di Roma. Né quei confronti o quei richiami sono
privi di significato, ove si pensi che essi tendevano a
dimostrare due tesi: l’una inerente allo stesso mondo
classico e l’altra inerente al mondo primitivo. In questo
senso: che se da una parte i riferimenti al mondo classico
costituivano un titolo di nobiltà per i selvaggi, dall’altra essi
stabilivano fra i selvaggi e gli antichi Greci o gli antichi
Romani una presupposta comunità di origine, la quale
demoliva, per usare una frase del Van der Leeuw, il muro
che li aveva separati.
Ma il Lafitau poneva quei rapporti in maniera del tutto
esterna, come avevano fatto i suoi predecessori, del che
appunto lo accusa il Voltaire, oppure c’erano in lui già altre
esigenze? Il dotto Gesuita, a dire il vero, non esita a
dichiarare fin dall’inizio della sua opera:
4. La Scienza Nuova
«una religione pura e santa in se stessa e nel suo principio, una religione voluta
da Dio che la trasmise ai nostri primi padri. Non può esservi infatti che una
religione, e questa religione, essendo per gli uomini, deve essere cominciata
con loro e deve sopravvivere quanto loro. Ecco ciò che la fede ci insegna e ciò
che la ragione ci detta» (1, 13).
«Sono forse più rozze e più criminali di quelle dei Greci e dei Romani, che
avendo portato la scienza e le arti alla più alta perfezione, non hanno tratto dai
loro lumi e da tutta la loro filosofia altro frutto che quello di avere guastato la
religione con una moltitudine di favole quanto mai ridicole e insipide?» (2,
157).
«Infelice cagione di ciò ella è stata perché ci è mancata finora una scienza la
quale fosse, insieme, istoria e filosofia dell’umanità. Imperciocché i filosofi han
meditato sulla natura umana incivilita già dalle religioni e dalle leggi, dalle
quali, e non d’altronde, erano essi provenuti filosofi, e non meditarono sulla
natura umana, dalla quale eran provenute le religioni e le leggi, in mezzo alle
quali provennero essi filosofi. I filologi, per lo comun fato dell’antichità, che, col
troppo allontanarsi da noi, si fa perdere di veduta, ne han tramandato le
tradizioni volgari, così svisate, lacere e sparte che, se non si ristituisce loro il
proprio aspetto, non se ne ricompongono i brani e non si allogano a’ luoghi
loro, a chi vi mediti sopra con alquanto di serietà sembra essere stato affatto
impossibile aver potuto esse nascere tali, nonché nelle allegorie che loro sono
state appiccate, ma negli stessi volgari sentimenti co’ quali ben lunga età, per
mano di genti rozze e ignoranti affatto di lettere, esse ci sono pervenute»
(Scienza Nuova prima, ed. Nicolini, § 23).
E da questo nuovo orizzonte che allarga e precisa
sempre più nelle altre redazioni della Scienza Nuova (la
quale fu rielaborata prima nel 1730 e poi nel 1744), il Vico
vede la storia stessa dell’umanità, la storia delle nazioni e
degli uomini, del passato che gli si fa presente. Egli non ha
davanti a sé né il problema dell’etnologia, né quello del
folklore. Dell’uno e dell’altro egli avverte però in maniera
decisa la presenza e le istanze. Senonché che cos’è per il
Vico il mondo dei primitivi, quel mondo cioè che il Lafitau
aveva posto decisamente nel campo della storia?
Lo storicismo del Vico rimane indubbiamente
incomprensibile o comunque non chiaro, se esso non viene
alimentato da quel documento di cui il Vico si servi per
animarlo: il bestione, che è appunto l’uomo primitivo con la
sua corpulenta fantasia. Questo bestione, questo primitivo,
per il Vico non è però soltanto una determinazione
cronologica; è una determinazione ideale, tanto è vero che
il mondo primitivo non solo può essere in noi, ma anche
continuamente ritornare in noi. Questa la sua scoperta
(avvertita peraltro dallo stesso Lafitau, ma svolta dal Vico
su ben altro piano).
Il Vico parla, più volte, nella sua opera, dello sforzo
costante che ha dovuto fare per internarsi in quel mondo,
dato che a noi è «ora naturalmente negato di potere
entrare nella vasta immaginativa di quei primi uomini, le
menti dei quali di nulla erano spiritualizzate, perché erano
tutte nei sensi, tutte seppellite nei corpi», onde «appena
intender si può come pensassero i primi uomini sulla
terra». Ma il mondo di cui egli parla, il mondo di cui egli si
interessa, il mondo che egli cerca di intendere e perciò di
capire in tanto ha, e può avere, una sua voce, in quanto
esso è fatto di un primitivo che si invera nel civile e che
perciò si fa veramente storia nella concezione dello
svolgimento dello spirito universale, il quale accoglie nella
sua umanità tanto il civile quanto il selvaggio. I confronti
fra noi e i primitivi, che man mano dopo la formulazione del
mito del buon selvaggio si erano riempiti di polemiche
sociali, si innalzano a una visione storica. È la nostra mente
che parte alla ricerca di quel mondo, che si interna in esso,
che lo fa suo. Anche egli, come il Lafitau, sente quale
interesse offra lo studio della religione per capire il mondo
dei primitivi. Anch’egli, come il Lafitau, non crede che vi
possano essere popoli senza religione. La sua polemica
contro il Bayle e i libertini non è in proposito meno ferma di
quanto non fosse quella del Lafitau:
«pur rimane la grandissima difficultà: come, quanti sono i popoli, tante sono le
lingue volgari diverse? La qual per isciogliere, è qui da stabilirsi questa grande
verità: che, come certamente i popoli per la diversità de’ climi han sortito varie
diverse nature, onde sono usciti tanti costumi diversi; così dalle loro diverse
nature e costumi sono nate altrettante diverse lingue: talché, per la medesima
diversità delle loro nature, siccome han guardato le stesse utilità o necessità
della vita umana con aspetti diversi, onde sono uscite tante per lo più diverse
ed alle volte tra lor contrarie costumanze di nazioni; così e non altrimente son
uscite in tante lingue, quant’esse sono, diverse. Lo che si conferma ad evidenza
co’ proverbi, che sono massime di vita umana, le stesse in sostanza, spiegate
con tanti diversi aspetti quante sono state e sono le nazioni, come nelle Degnità
si è avvisato» (Scienza Nuova seconda, ed. Nicolini, § 445).
«Natura di cose altro non è che nascimento di esse in certi tempi e con certe
guise, le quali sempre che sono tali, indi tali e non altre nascon le cose»
(Scienza Nuova seconda, ed. Nicolini, § 147).
«più si trova che questo stato era il meno soggetto a rivoluzioni, il migliore per
l’uomo, il quale non ne deve essere uscito che per qualche caso funesto il
quale, per il bene comune, non sarebbe mai dovuto accadere. L’esempio dei
selvaggi che sono stati trovati quasi tutti a questo punto sembra confermare
che il genere umano fosse fatto per restarvi per sempre, che questo stato è la
vera giovinezza del mondo e che tutti i progressi ulteriori sono stati in
apparenza altrettanti passi verso la perfezione dell’individuo, ma in realtà verso
la decrepitezza della specie».
«dal momento che un uomo ebbe bisogno dell’aiuto di un altro, dal momento
che era utile ad uno solo di avere provviste per due – da quel momento
l’eguaglianza disparve, si introdusse la proprietà, il lavoro divenne necessario e
le vaste foreste si cambiarono in ridenti campagne che bisognò innaffiare col
sudore degli uomini e nelle quali presto si videro germogliare e crescere con le
messi la schiavitù e la miseria».
2. Noi e i primitivi
«O uomo, di qualunque paese tu sia, quali che siano le tue opinioni, ascolta:
ecco la tua storia, quale ho creduto di leggere non nei libri dei tuoi simili che
sono menzognieri, ma nella natura che non mente mai. I tempi di cui parlerò
sono lontanissimi: quanto sei cambiato da com’eri! È, per così dire, la vita della
tua specie che sto per descriverti secondo le qualità che hai ricevuto e che la
educazione e le tue abitudini hanno potuto corrompere, ma non distruggere.
C’è – lo sento – un’epoca nella quale l’individuo vorrebbe fermarsi: cercherai
l’epoca alla quale desidereresti che la tua specie si fosse fermata».
«Mi sono esteso così a lungo nella rappresentazione ipotetica di questo stato
primitivo, perché, dovendo distruggere dei vecchi errori e dei vecchi pregiudizi
inveterati, ho creduto di dovere scavare fino alle radici e mostrare nel quadro
del vero stato di natura che la disuguaglianza, anche quella naturale, è ben
lontana dall’avere in tale stato la realtà e l’influenza che pretendono i nostri
scrittori».
«Durante le prime età… gli astri, i venti, le montagne, i fiumi, gli alberi, i
villaggi, le case stesse, tutto aveva un’anima, il suo Dio, la sua vita. Le statuette
grottesche di Laban, gli spiriti dei selvaggi, i feticci dei Negri, tutte le opere
della natura e degli uomini sono state le prime divinità dei mortali: il politeismo
è stata la loro prima religione» (Emile, libro IV).
«Emilio, che è stato educato con tutta la libertà dei giovani contadini e dei
giovani selvaggi, crescendo, deve cambiare e formarsi come loro. Tutta la
differenza è che, invece di agire solo per giocare o per nutrirsi, egli nei suoi
lavori e nei suoi giochi ha imparato a pensare» (Emile, libro IV).
«Rimanete fedeli ai vostri usi patri, ai vostri costumi patri, allo spirito del
vostro paese. Pensate al vostro carattere ginevrino e non scimmiottate i
Francesi. Siate orgogliosi di essere ginevrini. Magnifichino pure i Francesi la
loro tanto ammirata cultura, essi però non sono liberi, sono schiavi dei loro
signori, mentre noi ginevrini nel nostro piccolo e modesto Stato, nel nostro
proprio Stato siamo liberi e cittadini».
«La parte più utile della storia non è la conoscenza arida degli usi e dei fatti: è
quella che ci mostra lo spirito che ha dato nascita a questi usi e le cause che
hanno determinato gli avvenimenti. Tutti gli usi hanno dei motivi e questi
motivi sono posti sopra le semplici opinioni o sopra dei fatti; queste opinioni
d’altro lato hanno avuto dei fatti per principio o per causa. Se pur sembra
qualche volta che vi siano degli usi senza motivi è perché questi motivi sono
stati dimenticati e che gli usi si sono talmente sfigurati che essi non hanno
nulla conservato dei loro motivi… Ciascun uso ha dunque la sua storia
particolare, o almeno la sua favola; ciascun uso appartiene e rimonta a un fatto
particolare: può darsi che vi sia un legame segreto e comune che lega la massa
generale di tutti gli usi con quella di tutti i fatti. La storia degli usi e del loro
spirito non è che un nuovo principio per fare la storia degli uomini».
E sarà appunto questa l’idea dalla quale partirà, qualche
anno più tardi, nel 1776, un giovane indagatore, il
Demeunier, il quale nel suo libro L’esprit des usages et des
coutumes des différents peuples non solo allarga la sua
indagine a molte manifestazioni della vita popolare del
tempo, ma insiste su un concetto: che i costumi vanno
giudicati non solo per quel che oggi rappresentano, ma
anche e soprattutto per quel che essi rappresentavano.
«Nel primo libro esamino le istituzioni create dai differenti popoli della terra
per rintracciare la memoria del diluvio: il che costituisce nella società ciò che si
può chiamare il suo spirito commemorativo. Nel secondo libro si proverà che
tutte le feste e le istituzioni antiche hanno un carattere lugubre di tristezza, il
quale penetra anche nelle solennità più gaie e più dissolute: è ciò che io chiamo
lo spirito funebre. Nel terzo libro io mi proverò a esaminare i criteri più antichi
e di scoprire i veri motivi di questi enigmi nascosti ai popoli: è ciò che io
chiamo lo spirito misterioso, e io ritengo che questi misteri non hanno avuto
altro oggetto che nascondere al volgo dei dogmi pericolosi alla sua tranquillità.
Nel quarto libro io considero i motivi che hanno causato l’attaccamento dei
popoli a certe idee particolari che si riferiscono a cambiamenti di secoli e di
periodi; ed è ciò che io chiamo lo spirito ciclico. Nel quinto libro esamino la
natura delle feste, delle cerimonie istituite in occasione degli anni, dei mesi e
dei giorni, ed è ciò che io chiamo lo spirito liturgico» (1, 39-40).
«Io chiamo in quest’opera feste cicliche tutte quelle che erano attaccate alla
fine o al rinnovamento dei mesi, delle stagioni, degli anni, dei secoli, o di
tutt’altro periodo. La parola ciclico sarà un epiteto generale per indicare tutte
le feste periodiche, soprattutto se il loro oggetto si riferisce a una fine o a un
rinnovamento di periodo. Se gli antichi non avessero portato nelle loro feste
una così grande confusione che ne ha corrotto lo spirito e i motivi, sarebbe
facile fare questa distinzione. Una festa che celebra la fine di un periodo è
triste e funebre; quella di un rinnovamento è consacrata al piacere e
all’allegria; ma come la fine e il ritorno di un ciclo si toccano e come le feste
che consacrano i due estremi di un periodo si toccano anch’esse e si seguono,
ciò ha originato questa confusione di cui noi abbiamo mille esempi. Quando noi,
d’altro lato, conoscendo lo spirito degli usi, potremo conoscere il vero spirito di
queste feste, allora chiameremo eno-ciclici quelle che hanno rapporto con i
periodi conclusivi e neocicli quelle che hanno rapporto con i periodi iniziali».
«E lo stesso principe dei poeti, il nostro Omero, non era altro che un
cantastorie cieco che compose qualche canto sull’assedio di Troia e le
avventure di Ulisse… finché alla sua morte ci fu qualcuno che ritenne
opportuno di raccogliere le sue ballate e, messele un poco insieme, ci ha dato
l’Iliade e l’Odissea» (1, 3).
«Prenda ora Burns. Perché egli riuscì grande se non perché le vecchie canzoni
dei predecessori vivevano nella bocca del popolo, e furono cantate, per così
dire, presso la sua culla; se non perché da ragazzo crebbe fra quelle canzoni e
visse in sé quei modelli eccellenti, ed ebbe in esse un fondamento dal quale
potè muovere e progredire? E anche: perché riuscì egli grande se non perché le
sue canzoni trovarono, a loro volta, nel suo popolo orecchie parimente ricettive,
e i falciatori e le mietitrici gliele riecheggiavano dai campi, e fu salutato nelle
osterie dai lieti compagni? Ciò dovette significare pure qualcosa…» (Colloqui
con Goethe, trad. T. Gnoli, 562, Firenze, 1947).
2. Muralt e Haller
Alle Lettres, che apparvero per la prima volta nel 1727, il
Muralt aggiunse una Lettre sur les voyages, che sembra sia
stala scritta alcuni anni prima. Bene, in quella Lettre (che è
un po’ la chiave stessa delle Lettres), egli non solo deplora
l’influsso che la moda francese comincia a esercitare sugli
animi degli Svizzeri, ma pospone la raffinata civiltà
francese alla civiltà conladina del suo paese, a quella
civiltà, cioè, in cui predomina una mentalità che è rimasta
fedele alle sue montagne, e quindi alle sue tradizioni. La
Svizzera, la sua Svizzera, non conosce i morbi della
Francia:
«Sembra che la Provvidenza che governa il mondo abbia voluto che tra le
nazioni ve ne fosse una dritta e semplice. Essa ha voluto ricompensare in noi un
resto d’ordine, conservato alla vista di tutta la terra, un carattere perduto tra le
nazioni opulente e voluttuose… Una felice oscurità, un genere di vita lontano
da ogni ostentazione e mollezza ci dovrebbe attaccare alle nostre montagne».
«Nei moti che la nazione inglese provocò contro Carlo I, Milton si dimostrò un
avvocato di tutti i generi di libertà, della libertà religiosa, della libertà
domestica e della libertà civile, per mezzo di molti scritti, che diede alla luce in
loro difesa… Era in tutto un repubblicano, e pensava della cosa pubblica come
un greco o un romano, dei quali aveva perfetta conoscenza».
5. Le scoperte del Bodmer
«Io visitai… i piccoli villaggi intorno al lago dei Quattro Cantoni: e quella
natura piena di incanti, di magnificenza e di grandiosità mi fece nuovamente
una tale impressione, che mi sedusse l’idea di rappresentare in un poema la
verità e la ricchezza di quell’impareggiabile paese. Ma per conferire alla mia
rappresentazione più attrattiva, interesse e vita, giudicai bene di animare
quello sfondo e quel suolo altamente significativi con figure umane di
altrettanto significato, e mi venne in mente la leggenda di Guglielmo Tell come
quella che appunto mi ci voleva. Io immaginai Tell come un eroe umano di una
forza originaria, tranquillo in sé e fanciullescamente inconsapevole, il quale,
come portatore di carichi, va da un cantone all’altro, dovunque conosciuto,
dovunque amato e soccorrevole, dovunque pieno di affetto per la moglie e per il
figliuolo, senza badare affatto chi sia il padrone e chi il servo» (Colloqui cit.,
514-515).
3. Lingua e nazione
Convinto pertanto che nel linguaggio è la chiave stessa
della umanità, lo Herder si pone anzitutto un problema: che
cosa esso sia. Questo è il problema che lo appassionerà per
tutta la sua vita. Nel 1764, in un suo scritto Über den Fleiss
in mehreren gelehrten Sprachen c’è l’abbozzo di una teoria
della monogenesi linguistica. E, oltre tale abbozzo, c’è
l’intenzione di porre la lingua sul piano dei caratteri
nazionali. Le sue idee, comunque, sul problema della lingua
troveranno una più concreta sistemazione nell’Abhandlung
über den Ursprung der Sprache, premiato nel 1771 in un
concorso su tale tema bandito dall’Accademia di Berlino. In
tale saggio lo Herder affronta il problema dell’origine della
lingua, che egli fa scaturire da tutto l’essere umano come
una necessità della sua più intima natura. Il linguaggio
umano, infatti, com’egli stesso dirà:
«… non è effetto di organizzazione della bocca, perché anche colui che è muto
per tutta la vita, se riflette, ha in sé linguaggio; non è grido della sensazione,
perché esso non fu trovato da una macchina respirante, ma da una creatura
riflettente; non è cosa d’imitazione, perché l’imitazione della natura è un
mezzo, e qui si tratta di spiegare il fine; molto meno è convenzione arbitraria: il
selvaggio nella solitudine del bosco avrebbe dovuto creare il linguaggio per se
medesimo, quand’anche non lo avesse parlato. Il linguaggio è l’intesa
dell’anima con se stessa, altrettanto necessaria quanto che l’uomo sia uomo».
«La poesia è la lingua madre del genere umano, come il giardinaggio è più
antico della agricoltura, la pittura della scrittura, il canto della declamazione, le
parabole delle deduzioni e lo scambio del commercio».
6. Voci di Dio
8. L’umanità in rivolta
Le Ideen dello Herder uscirono fra il 1784 e il 1791. Nel
frattempo scoppia la Rivoluzione francese. Alcuni anni
prima lo Herder aveva predetto: «Germinano dovunque
Libertà, Socialità, Uguaglianza, e gli inferiori salgono al
posto degli avvizziti, inutili e orgogliosi aristocratici». Ma di
fronte alla Rivoluzione che immette nella politica e nella
storia i ceti inferiori, cui era andata tutta la sua simpatia,
rimane atterrito. E nel 1794, anzi, nei Briefe zur
Beförderung der Humanität non solo afferma che ormai si è
al margine di un abisso, ma impreca addirittura contro gli
orrori di quella Rivoluzione che invece era apparsa a un
Kant, a un Hegel e a un Goethe come l’avvento di una
nuova èra.
Lo Herder così, dunque, come non aveva inteso lo spirito
rivoluzionario del Rousseau, non intende ora lo spirito della
Rivoluzione. O meglio, ne intende i lati negativi.
L’importanza che assumeva nella storia della civiltà
europea la dichiarazione dei diritti dell’uomo gli sfugge. Né
sa vedere quello che è lo spirito nuovo della Rivoluzione nei
riguardi di quelle «voci dei popoli» che erano state care al
suo cuore. È vero, infatti, che la Rivoluzione francese è
piena di infatuazioni contro la religione cattolica, il che
spaventa il teologo Herder; è vero che, davanti ai suoi
altari, cadono i paramenti stessi della Chiesa; ma qual è lo
spirito di quella distruzione? In un decreto del Comitato di
Salute Pubblica è esplicitamente detto che il popolo deve
distruggere, ormai, le sue abitudini e i suoi pregiudizi. Ed
ecco che la Rivoluzione vuole distruggere appunto quelle
abitudini e quei pregiudizi che sono collegati a tutte le
attività di carattere religioso. È questo il momento in cui
tutto il Cattolicismo fu posto in quella stessa posizione in
cui i teologi avevano posto le credenze, gli atti e i costumi
ritenuti come avanzi del paganesimo. La rivoluzione vuole
però anch’essa la sua religione, i suoi miti e i suoi simboli.
Ma in quei miti e in quei simboli non ritornano i culti e i
miti stessi del popolo? Così, durante la Rivoluzione,
Guglielmo Tell diviene, ad esempio, il precursore degli
immortali principi dell’89. E a cominciare dall’anno dopo,
l’albero della libertà non sarà costituito, appunto, da
quell’albero di Maggio attorno a cui si muovono le allegre
brigate primaverili?
Nello stesso anno, nel 1790 cioè, apparve, un giorno,
davanti all’Assemblea un bizzarro corteo dove si vedono i
rappresentanti di tutte le nazioni, un Cinese, uno
Spagnuolo, un Inglese, un Austriaco, un Negro, e perfino
un Caldeo, con a capo il barone alsaziano Anacharsis
Cloots. È stata chiamata una mascherata. Ma quel corteo
che cosa voleva essere se non il simbolo stesso del genere
umano, dell’umanità, che veniva in Francia per poter
partecipare alla festa della libertà e della fratellanza?
Anche il selvaggio, nato libero ma reso schiavo dalle
conquiste coloniali, doveva ritornare ormai quel che era
stato. Si spezzino dunque, nel nome di Rousseau, le catene.
E la religione si temperi nei culti della Rivoluzione!
Bisogna tuttavia osservare che in un documento della
Rivoluzione, riportato dal Groethuysen, si legge: «Ecco
come parlano ai loro parrocchiani i degni pastori: – Ahimè,
fratelli, dicon loro nell’amarezza del loro animo, nelle città
non vi è più fede né religione; sforziamoci dunque di
conservare nelle nostre campagne questo sacro deposito
affidatoci da Dio». Sicché la religione cattolica non appare
più ormai come uno strumento di dominio della classe
feudale, in quanto tale classe è stata distrutta. Ritorni,
quindi, essa alle sue origini. E la Rivoluzione stessa del
resto che cos’era stata se non un’azione che, in nome di un
principio umano, aveva adottato gli insegnamenti morali
della Chiesa, cancellando il diritto feudale e creando il
suffragio universale?
In tal modo la Rivoluzione francese aveva unito la
borghesia e il popolo. E in quella unione che comporta una
comune eguaglianza civile e politica, la borghesia non può
più assumere verso il popolo l’atteggiamento di un Voltaire.
Il popolo, il ceto dei contadini e degli operai, aveva fatto
con la borghesia la Rivoluzione. Era stato lanciato in prima
linea, dove aveva dimostrato che le cosiddette forze
irrazionali valgono tanto quanto quelle della ragione,
poiché nelle une e nelle altre è l’uomo intero, il quale può
dare alle sue tradizioni un nuovo significato, ma non mai
cancellarle dal suo spirito, dato che esse sono parte della
sua stessa umanità. La ragione voleva controllare gli
impulsi di tutto ciò a cui si crede e che si sogna. La
Rivoluzione francese aveva dimostrato che bisogna credere
anche ciò che si sogna.
Nella Rivoluzione si erano acquietate le ansie e le
aspirazioni di ceti fino allora disprezzati. E qui è uno dei
più grandi meriti di essa. La Rivoluzione non convoglia
soltanto i filoni dell’Illuminismo. In essa, sia pure
indirettamente, agiscono, prepotenti, i filoni stessi del
Protoromanticismo. Ed ecco allora una nuova epoca, nella
quale, se da una parte il popolo continuerà a essere un
simbolo politico-sociale, dall’altra la sua vita sarà oggetto
di una nuova ed efficace problematica. È tempo ormai che
ci si avvicini al popolo non più come a una classe inferiore,
il cui patrimonio è da considerare soltanto un
sottoprodotto. La via è aperta. E il bon sauvage è diventato
ormai il bon peuple.
Parte terza
Il folklore come strumento di politica e di
dignità nazionale nel Romanticismo
11. Umanità della Germania
1. Il «tesoro dell’umanità»
«… è come una visione nel sogno, priva di coerenza. Essa è un insieme di cose
e di avvenimenti straordinari, come, ad esempio, una fantasia musicale, gli
accordi armonici di un’arpa eolia, la stessa natura… Tutta la natura deve
essere mescolata in un modo meraviglioso con lo spirito mondiale; deve essere
il tempo dell’anarchia generale, della mancanza di leggi, della libertà, dello
stato naturale della natura, del tempo anteriore al mondo… Il mondo della
favola è il mondo completamente opposto a quello della verità, e appunto
perciò è ad essa tanto simile, quanto il caos alla creazione perfetta»
(Fragmente, nn. 414-415).
«… univa allora tutte le nazioni d’Europa, i cavalieri andavano dai più lontani
paesi del Settentrione fino alla Spagna e all’Italia, le Crociate resero questa
unione ancora più stretta e diedero origine a mirabili rapporti fra l’Oriente e
l’Occidente; dal Settentrione e dall’Oriente venivano leggende che si
confondevano con quelle locali, grandi avvenimenti di guerra, corti splendide,
principi e imperatori che avevano il gusto della poesia, una Chiesa trionfante
che canonizzava gli eroi: tutte quelle favorevoli circostanze si collegavano per
creare alla libera nobiltà indipendente e alla ricca borghesia una vita
splendida, nella quale le ridestatesi aspirazioni spontaneamente si sposano con
la Poesia, per riconoscere con maggiore chiarezza e purità la realtà circostante
che in essa si rispecchia. Credenti cantavano della fede e dei suoi miracoli,
amanti dell’amore, cavalieri descrivevano imprese e lotte cavalieresche, e
cavalieri pieni di amore e di fede erano i loro eletti uditori».
«Lo spirito degli antichi eroi dell’arte e della scienza tedesca deve restare il
nostro, finché rimaniamo tedeschi. L’artista tedesco o non ha alcun carattere o
ha quello di un Albrecht Dürer, di un Keplero, di un Hans Sachs, di un Lutero,
di un Jakob Böhme. E questo carattere è diritto, aperto, solido, preciso e
profondo, e insieme ingenuo e un po’ sgraziato. Solo i Tedeschi hanno come
caratteristica nazionale quella di venerare come divine l’arte e la scienza solo
per amore dell’arte e della scienza» (trad. Santoli, 150).
«Coi Germani un’incontaminata pura sorgente di una nuova epica eroica dilagò
per l’Europa, e quando la rude forza della poesia gotica s’incontrò, sotto
l’influenza degli arabi, con un’eco delle leggiadre fiabe orientali, sulla costa
meridionale che dà sul Mediterraneo, fiorì una gaia arte di trovatori di canti
soavi e di storie strane; e, ora in quest’ora in quella forma, insieme alla
leggenda sacra latina si diffuse anche la romanza profana che cantava di amore
e di armi» (trad. Santoli, 175).
8. Romanticismo e Germanesimo
1. La «nazione» politica
«Che ciascuno si lasci guidare, nella scelta di tutto ciò che crede di
comunicarci, dal suo gusto personale; il mio mi porta, riordinando la mia
pubblicazione, a comprendere e a servire tutti; io divento sempre più avido,
vedendo ogni giorno accrescersi le mie riserve; alle raccolte che seguiranno
saranno aggiunte melodie, disegni, particolarmente riproduzioni di vecchie
incisioni in legno e paesaggi, antiche leggende trasmesse oralmente e racconti;
così noi potremo riannodare un gran numero di fili nel vasto tessuto in cui la
nostra storia è raffigurata e che è nostro dovere continuare ad arricchire
sempre più».
«Un tale ordine è quella speciale natura spirituale dell’ambiente umano, che
esiste realmente anche se non può essere compresa in un concetto: quella
natura, dico, da cui egli stesso discende con la sua azione, col suo pensiero e
con la sua fede nell’eternità, cioè il popolo dal quale ha origine, in mezzo al
quale egli fu educato e divenne ciò che è ora» (Reden, VIII).
Nel suo celebre saggio edito nel 1814 Von Beruf unserer
Zeit für Gesetzgebung und Rechtswissenschaft, il Savigny
ammonisce che «ogni diritto nasce per opera di forze
interiori che agiscono in silenzio e non per l’arbitrio del
legislatore». Né diverso è, qualche anno più tardi, il
concetto che egli esprime sul diritto nel tracciare il
programma della «Zeitschrift für geschichtliche
Rechtswissenschaft», dove sostiene che la scuola storica
suppone che la materia del diritto sia data da tutto il
passato della nazione. Tale materia potrebbe essere questa
o quella indifferentemente, sempre che scaturisca
dall’intimità stessa della nazione. Non esiste pertanto
nessun momento isolato dell’esistenza umana, in quanto
ogni uomo è tale perché in lui convergono la storia e
l’umanità. Con le sue stesse parole:
«Se questo è vero, ogni tempo non trae fuori arbitrariamente il suo mondo, ma
lo trae in indissolubile connessione con tutto il passato. Allora ogni età deve
riconoscere qualcosa di dato, che è insieme necessario e libero; necessario in
quanto non dipende dall’arbitrio del presente, libero perché non procede da un
estraneo arbitrio, ma dalla più elevata natura del popolo, come un tutto in via
di sviluppo. Di questo tutto, anche l’età presente è un membro che vuole e
capisce in esso e con esso, in modo che ciò che da quest’ultimo è dato, anche
da quello può essere liberamente prodotto. La storia è, in tal caso, non una
raccolta di esempi, ma l’unica via della vera conoscenza della nostra
situazione».
«Correva allora [osserva lo Jhering nel commentare questa teoria del Savigny]
per la nostra poesia il periodo romantico. E chi non si spaventa di questa
applicazione del concetto romantico alla giurisprudenza e voglia prendersi la
pena di paragonare fra loro gli indirizzi corrispondenti nei due campi, forse non
mi darà torto se affermo che la scuola storica potrebbe, con egual diritto, esser
chiamata romantica. In realtà, è una rappresentazione veramente romantica,
cioè a dire, basata su una falsa idealizzazione di passate cognizioni, quella,
secondo la quale il diritto s’andrebbe formando senza stento né sforzo e senza
attività, proprio come il fungo del campo. La cruda realtà ci insegna appunto il
contrario».
«Lo Spirito agisce per sua essenza, egli si fa ciò che è in sé: propria azione,
propria opera. Così avviene anche per lo spirito di un popolo; il suo agire
significa il suo divenire in un mondo esistente che esiste anche nello spazio. La
sua religione, il suo culto, la sua morale, i suoi usi, la sua arte, la sua
costituzione, le sue leggi politiche, tutto quanto abbraccia le sue istituzioni, le
sue vicende e azioni, tutto ciò è opera sua, e tutto ciò è questo popolo».
«Il divino, lo spirito della poesia è lo stesso presso tutti i popoli e non ha che
una stessa sorgente; ed ecco perché si vedono apparire dappertutto delle
rassomiglianze, una corrispondenza anteriore, una parentela segreta, di cui il
principio generatore s’è perduto, ma che lascia pensare a un antenato comune;
infine vi è uno sviluppo analogo; ma le condizioni e le differenze esteriori sono
differenti. Ecco perché troviamo a fianco di questo accordo intimo una
differenza nella conformazione esteriore».
«Se tu credi con me che la religione è nata d’una rivelazione divina, che il
linguaggio ha un’origine anch’essa del tutto meravigliosa e che esso non è stato
creato dall’Invenzione umana, è necessario che tu creda e senta che anche
l’antica poesia e le sue forme, che la sorgente della rima e dell’allitterazione, è
apparsa verosimilmente tutta insieme…»
«È ormai da molto tempo che si è riconosciuto come uno dei tratti principali
della nostra nazione l’attaccamento agli usi dei nostri padri, nonché la
ripugnanza a disfarsene; e se non fosse stato così, noi non possederemmo,
ancor oggi, una poesia che la sua antichità e il suo valore rendono comparabile
alla sola poesia greca; ancor oggi, i costumi, i modi di parlare e le abitudini dei
contadini non si sono interamente distaccati né dalla antica leggenda né dalla
franca natura delle leggi antiche».
7. La Grammatik
«i racconti meritano una maggiore attenzione di quel che per ora abbiano
avuto, non soltanto per la loro forma poetica che ha un fascino particolare e
che ha lasciato in ciascuno di coloro che li hanno intesi nella loro infanzia un
prezioso insegnamento insieme con un dolce ricordo, ma anche perché fanno
parte della nostra poesia nazionale».
«La poesia popolare – e per tale intendo quella che è interamente prodotta, e
non soltanto gradita dal popolo – non mette fuora opere materialmente
immobili come la poesia d’arte; non le raccomanda, come questa alla scrittura;
ma le affida al canto transitorio, alla parola fugace: cammina, cammina libera e
viva; e ad ogni passo che fa lascia un vezzo e ne piglia uno nuovo, senza per
questo cessar d’esser quello ch’ell’era, senza mutare la sembianza che da
principio ella assumeva. Sorge uno e trova una canzone: cento l’ascoltano e la
ridicono. Le cantilene udite da’ suoi parenti, la madre le ricanta a’ suoi figliuoli;
questi le insegnano ai nipoti. Quando viene l’uomo letterato, e se le fa ripetere,
e le ferma in caratteri scritti, chi può dire per quante bocche sieno già passate
quelle cantilene? chi riconoscere tutte le modificazioncelle che vi possono
avere apprestate?»
Nell’accingersi a tradurre queste romanze, il Berchet
aveva avuto non pochi precursori: il Perey, lo Herder, il
Cesarotti, il Diez ecc. Ed è noto che anche Jacob Grimm
aveva raccolto una Silva de romances viejos. La Spagna
proprio in quegli anni, d’altra parte, dopo aver combattuto
l’imperialismo francese e napoleonico con le sue forze
popolari, veniva riscoprendo i suoi romances che più tardi,
nel 1849, trovarono il loro monumento nel Romancero
general del Duran. I romances costituivano anche per il
Berchet l’ideale di quella poesia nazionale patriottico-
popolare cui egli, poeta con un linguaggio tutt’altro che
popolare, voleva adeguarsi. Ma nel presentarli, ora, ai
lettori italiani – ai quali voleva offrire anche una traduzione
di poesie popolari danesi – egli, ancora una volta, è lontano
dell’accettare il concetto di poesia popolare che avevano i
Grimm. È merito suo infatti l’aver intravisto quel concetto
di elaborazione popolare che già era stato intuito da A. W.
Schlegel e dall’Arnim, da cui peraltro si allontanava nel
considerare la poesia popolare soltanto come direttamente
prodotta dal popolo, cioè da un determinato ceto. È essa, la
poesia popolare, egli comunque aggiunge, una serra di
semplici fiori che il lettore può godere facendosi «pusillo».
Ma in tal modo il Berchet non individuava appunto nella
poesia popolare quel carattere elementare che proprio i
romantici tedeschi avevano scoperto?
2. La lezione di Danilov
«Chi di noi non ama quei tempi in cui i Russi erano Russi, quando si vestivano
dei propri abiti, camminavano a modo loro, vivevano secondo i loro usi,
parlavano la loro lingua e secondo il loro cuore, cioè parlavano come
pensavano? Io, almeno, amo quei tempi. Amo sulle rapide ali
dell’immaginazione volare nella loro lontana oscurità, all’ombra degli olmi
vecchissimi e cadenti, cercare i miei barbuti antenati, conversare con loro
intorno agli avvenimenti dell’antichità, intorno al carattere del glorioso popolo
russo» (Natalja, trad. Lo Gatto).
3. Da Puškin a Glinka
6. Nasce il Kalevala
«Penso che la stessa idea delle potenze divine ebbe origine dalla meraviglia,
onde gli antenati della gente ariana contemplavano le potenze luminose (deva)
che nessuno poteva dire donde venissero e dove andassero, che non
appassivano né morivano, che erano chiamate immortali, cioè a dire che non
passavano, e ciò per distinguerle dalla debole e peritura progenie degli uomini.
Questa loro immortalità trova il suo stesso antecedente nel regolare ritorno dei
fenomeni della natura, rivissuti dalla magica psicologia mitologica».
«… il Dio supremo come un essere che ordina ogni genere di delitti, che viene
sconfitto dagli uomini, che si arrabbia con la moglie e che maltratta i figli, è
una prova sicura di una malattia, di una particolare disposizione del pensiero,
ossia, per parlare più chiaro, di vera e propria pazzia… Ed è un caso di
patologia mitologica. Il linguaggio antico era uno strumento difficile da
maneggiare, specialmente per scopi religiosi. Nel linguaggio umano è
impossibile esprimere idee astratte se non sotto metafora… Di qui una sorgente
continua di equivoci, molti dei quali si sono conservati nella mitologia e nella
religione del mondo antico» (Contributions to the Science of Mythology, 1, 68,
London, 1897).
«…quei popoli i quali, emigrando verso il nord e verso il sud, portarono i nomi
del sole e dell’aurora così come le credenze nelle splendide divinità del cielo,
possedevano già nella loro lingua stessa, nella loro fraseologia mitologica e
proverbiale, i semi, più o meno sviluppati, che dovevano necessariamente far
nascere le stesse piante o piante assai simili in qualunque secolo e sotto
qualunque cielo».
«Il Rigveda ci offre i soli miti: l’uomo nota, vede le vicende celesti e non le
narra ancora; ma, se pure io noi volessi, mettendo ora insieme questi vari miti
appartenenti al ciclo dell’aurora, mi trovo bella e fatta una intiera leggenda,
anzi, meglio, una intiera serie di leggende, che riesce quindi agevole il
comparare con le altre epopee e con le altre leggende… Che cos’è l’aurora
negli inni vedici? È una fanciulla che appare sulla punta della montagna; ha la
veste luminosa; ha il corpo luminoso; è guardiana di vacche; ha una sorella, la
nera, ossia la brutta, mentre essa è la splendida, ossia la bella; è la migliore,
ossia la sorella buona; disperde la tenebra della sorella, rimove indietro la
sorella; uccide il nero mostro; è figlia della nera… Leghiamo insieme questi miti
e spieghiamoli; ne uscirà fuori a un dipresso il seguente racconto: Una volta
era una donna brutta e mostruosa, una strega, aveva due figlie; l’una simile a
lei, ossia brutta e cattiva; l’altra dissimile, ossia bella e buona. La donna amava
la brutta come propria figlia, odiava la bella, essendole matrigna. Essa
mandava la bella a pascere le vacche; ritornando questa sul far del giorno, in
cima al monte, la circondò un grande splendore; essa si adornò di una veste
d’oro e le spuntò sul fronte una stella fulgentissima» (Le novelline di S.
Stefano, 6-7, Torino, 1869).
«Se noi troviamo lo stesso costume nell’India e nella Grecia, noi siamo spinti a
supporre che esso ha una sorgente comune e siamo quindi portati ad attribuire
la sua origine ai tempi che hanno preceduto la separazione ariana… Uno dei
principali incanti che noi troviamo nello studio dei costumi è il piacere che
proviamo a seguirne lo sviluppo, a notarne la loro straordinaria tenacità…».
«Mio caro signore, desidera che io Le dica le mie idee circa il giornale “Archivio
per lo studio delle tradizioni popolari” che Ella intende pubblicare insieme ad
alcuni suoi amici: ed io sento delle difficoltà a far questo. Lo studio delle
tradizioni popolari d’Europa e di tutto il mondo ha fatto sì giganteschi passi in
quest’ultimo ventennio che io non possedendo per conto mio un paio dei famosi
stivali fatati non potrei se non stare a guardare da una ben rispettabile
distanza. Anni addietro quando questo studio era se non dispregiato per lo
meno ignorato io mi dichiarai con tutte le mie forze contro i suoi detrattori. Ora
che comincio a sentirmi vecchio e stanco vedo gli alberi, che già concorsi a
piantare, crescere a sì gran foresta…».
Non v’è dubbio che il Benfey, come del resto egli stesso
dichiara, sia rimasto suggestionato dalle ricerche sul
Panciatantra del Sacy. A lui interessano le traduzioni del
Panciatantra, le sue ramificazioni e filiazioni. Ma in tale
indagine minuta e precisa, un capolavoro di filologia
orientalistica, egli può trascurare la diffusione che le
novelle del Panciatantra ebbero nella letteratura popolare?
Ed è allora che il Benfey, riprendendo la tesi del Loiseleur
Deslongchamps sull’origine indiana dell’apologo, formula
una vasta teoria la quale non si limita a determinare
l’origine dell’apologo, ma abbraccia in parte le produzioni
della narrativa popolare (novelle, racconti, enigmi ecc.).
«Le mie ricerche, – dirà infatti lo stesso Benfey, – mi
hanno portato alla convinzione che un gran numero di
Märchen e di altri racconti popolari si è diffuso dall’India in
tutto il mondo». Egli è dell’avviso che tale diffusione abbia
avuto inizio nel secolo X d. C. con le favole, gli apologhi, che
vennero conosciuti attraverso le redazioni e le traduzioni
del Panciatantra, rese note dai viaggiatori o mercanti che si
spingevano in Oriente. Ed è evidente quindi che per il
Benfey il primo veicolo della propagazione delle novelle
dall’India in Europa sia rappresentato dalla tradizione
orale. Ad essa seguì però un’altra tradizione: quella
letteraria. E il Benfey ecco come ne traccia l’avvento:
«Col secolo X cominciò, con gli attacchi e le conquiste dei Musulmani in India,
una sempre crescente conoscenza dell’India. Da quel momento in poi la
tradizione orale divenne meno importante di quella scritta. I lavori narrativi
dell’India vennero tradotti in persiano e in arabo e, in un tempo relativamente
breve, si diffusero – quando non si diffuse soltanto il loro contenuto, cioè la
trama narrativa – nelle terre occupate dai Musulmani in Asia, in Africa, in
Europa, e, a causa delle frequenti relazioni di questi popoli con i Cristiani,
anche in tutto l’Occidente cristiano. In quest’ultimo campo i punti principali di
contatto furono l’impero bizantino, la Spagna e l’Italia».
«Dai Tibetani quelle composizioni [le favole, le parabole ecc.] giunsero, insieme
al buddismo, tra i Mongoli, e sappiamo con la massima certezza che costoro
tradussero i racconti dell’India nella loro lingua. È ovvio aggiungere: con molte
modifiche e cambiamenti riguardanti i dettagli… I Mongoli, com’è noto,
dominarono l’Europa per duecento anni e anch’essi quindi contribuirono alla
diffusione delle novelle indiane in Europa».
«Il punto di vista del Benfey sull’origine e la propagazione dei racconti popolari
europei è, come dice egli stesso, una questione di fatto, che sarà
completamente risolta soltanto il giorno in cui tutti i racconti o quasi tutti
saranno ricondotti al loro originale indiano».
Da qui le sue lunghe liste di riscontri – pazientemente
ricavate sulle raccolte di novelle popolari che si venivano
allora pubblicando in Europa – le quali pur portavano senza
eccezione a un’unica fonte: l’India. Né sotto questo aspetto,
nella stessa Germania, sarà meno ortodosso Marcus
Landau, il quale nel 1869 pubblicò un ampio saggio
intitolato Die Quellen des Dekameron. Il Landau non si
limita a dei riscontri puri e semplici, come in gran parte
faceva il Köhler, le cui ricerche non uscivano dalla forma
del catalogo ragionato. È, o meglio vuole essere, più agile.
Sicché, ad esempio, nell’esaminare la novella boccaccesca
di Federigo degli Alberighi, dopo aver menzionato una
leggenda buddista in cui Budda si trasforma in colombo e si
lascia arrostire per sfamare la famiglia di un uccellatore,
ricorda un analogo racconto del Panciatantra dove un
colombo si caccia nel fuoco per servire da pasto a un
cacciatore. Conclusione:
«In Boccaccio, Federico degli Alberighi non ha niente da offrire alla donna
amata che viene a visitarlo. Si trova dunque nella stessa condizione del
colombo del Panciatantra. Egli sacrifica non il proprio corpo, ma il suo tesoro
più caro, il suo unico falcone e riceve in compenso il più grande dei beni:
l’amore di colei che egli ama».
8. Strumenti di lavoro
«Il secolo XIX che tanto fece e ancor fa per il progresso delle scienze
sperimentali seppe dare altresì un novello e vigoroso impulso agli studi
letterari e avviarli per vie non battute in addietro. A lui solo si appartiene infatti
la gloria di aver posto le fondamenta di una vera e propria scienza della
letteratura, la quale, spoglia, per quanto è possibile, da ogni pregiudizio di
scuola, ricerchi e studi i documenti del passato, allarghi lo sguardo ad ogni
luogo e ad ogni tempo e riaccostando l’uno e l’altro tutti i fenomeni simigliami,
faccia che a vicenda si illustrino e si chiariscano. Essa si compiace soprattutto
di indagare le origini non tanto delle varie forme letterarie, quanto delle
singole invenzioni; e seguitandone pazientemente il corso attraverso a popoli e
paesi ne osserva con occhio sagace le differenze per iscoprire di poi le cagioni
e le leggi della graduale loro trasformazione».
«Mi reca meraviglia, se mi volgo addietro, il numero dei testi di cui l’Autore
dovette far uso. Ben intendo ora la forza di quelle parole che stanno in capo
all’edizione principe modenese: Secondo molte lezende che io ho attrovate e
raccolte insieme. Se mai ad alcuno si conviene il nome di compilatore egli è
appunto, chi compose i Reali. I suoi fonti si possono distinguere in cinque
categorie: 1, canzoni di gesta venute dalla Francia; 2, cantari franco-italiani; 3,
cantari veneti; 4, romanzi in prosa italiani; 5, cantari in ottava rima. Fra queste
categorie la terza e la quinta dovevano essere le più numerose».
«Un dato tema poetico, una data materia poetica possono passare con facilità
da un paese all’altro e trasmettersi successivamente a popoli di lingua e di
razza diversi… Così accadde, per esempio, d’una serie considerevole di favole,
d’apologhi, di racconti o di novelle, che dall’ultimo Oriente vennero in Europa,
o dall’Europa andarono in Oriente, fin da tempi molto remoti, sotto forme
diverse. Ma quando la materia poetica è fissata dal verso, dalla strofa, dalla
composizione, quando essa fu modellata in uno stampo determinato, foggiata in
una forma più o meno precisa, il novum opus che ne risulta non si trasmette
più, di regola generale, in questa sua forma, se non a popolazioni omoglotte,
parlanti cioè idiomi identici o molto simili, e tali in sostanza da poter essere
compresi senza grande difficoltà da ognuna di esse».
Formulato questo principio di evidente ispirazione
benfeyana, il Nigra non manca di indagare l’epoca di
formazione delle canzoni, le storiche eccettuate:
«Il periodo genetico ha sempre qualcosa d’occulto, forse perché, fino a quando
l’una e l’altra manifestazione dello spirito umano non sono fissate dalla
scrittura e dalla letteratura, v’è luogo ad una genesi continua. [Ed è così] che
molte canzoni nacquero e morirono e quelle che ci pervennero subirono
numerose, profonde e continue modificazioni...»
«Il fondo lessicale e le forme grammaticali dei dialetti dell’Italia superiore e dei
dialetti dell’Italia inferiore (come di tutti gli idiomi romanzi) procedono
sostanzialmente dalla lingua latina ed hanno quindi una base sostanzialmente
identica. Ma se nei due rami dialettali della penisola, la parte lessicale e la
grammaticale sono sostanzialmente identiche, la parte fonologica e la sintassi
offrono invece notevoli differenze. La ragione di questo fatto deve cercarsi nella
diversità originaria delle due razze che prevalsero nelle due parti della
penisola. Le popolazioni, che all’epoca del dominio romano abitavano l’Italia
inferiore, appartenevano, in proporzione prevalente, al gran ceppo italico, di
cui i Latini stessi erano il ramo più vigoroso. Per contro l’Italia superiore era
popolata da Galli e da altre razze celtiche, o strettamente affini alle celtiche,
che, prima di subire il dominio romano, parlavano i propri idiomi».
«Nei secoli XV e XVI, la poesia letteraria, sulle orme di Dante che le aveva
tracciata la via, cercò di segregarsi dalla poesia popolare, ma non vi riuscì. La
maggiore sorella esercitava sempre un’invincibile attrattiva sulla minore; e la
minore, non potendo staccarsene, prese a contraffarla. Credeva di burlarsene,
e la onorava. Infatti tutti i migliori poeti del secolo XV, il Medici, il Pulci, il
Poliziano, e alcuni del secolo XVI, il Machiavelli, il Bronzino, il Berni, non ne
colsero che la parte più comica e la esagerarono; alcuni, come il Poliziano, ne
sfiorarono la parte più gentile e la raffinarono; pochissimi, sovrano il Bronzino,
la presero tal quale e la plasmarono. Ma fra tutti, o in un modo o nell’altro,
salvarono sufficienti materiali da servire alla ricostruzione di un bel
monumento».
«Chi lo segua nelle idee e ne’ sentimenti che più comunemente si rivelano nelle
ritmiche sue parole, e osserva se queste siano o caste o licenziose, o frivole o
assennate, o ingenue o maligne, o miti o feroci, o generose o codarde, o
patriottiche o filautiche, difficilmente si ingannerà argomentandone che l’indole
o almeno lo stato di quel popolo è corrispondente o alle virtù o ai vizi che
traspirano da’ canti suoi. È beato ma raro quel popolo, da’ cui canti traspirano
virtù non solo domestiche, non solo pubbliche, ma pubbliche e domestiche a un
tempo…»
«… distinse le canzoni della sua raccolta [della raccolta, cioè, di cui erano già
usciti alcuni estratti nella «Rivista Contemporanea»] in due serie, delle storiche
e delle romanzesche, che rispondono con una logica esattezza ai due generi di
poesia popolare effettivamente più comuni nel popolo subalpino, perché più
confacenti alla seria e cavalleresca sua indole».
Il Rubieri è d’accordo con il Nigra nel ritenere che i
Piemontesi hanno il primato della poesia narrativa a
differenza dei Siciliani che l’hanno invece nella
madrigalesca. Aggiunge però subito che il primato dei
Piemontesi «non è pieno e assoluto». E di ciò si rende
conto, studiando con risultati eccellenti la diffusione che ha
in Italia il canto epico-lirico. Né diverso è il problema
inerente alla poesia degli strambotti e degli stornelli, la
quale prevale in Sicilia, ma che si diffonde dovunque. Il
Rubieri insomma attenua la tesi delle due zone sostenuta
dal Nigra, ma, di contro al Nigra, egli ritiene che
l’elaborazione popolare ha un ufficio molto modesto anche
in quella poesia che egli considera come tradizionale:
6. D’Ancona
«Noi crediamo, e il lettore cortese e attento deve aver già più volte intraveduto
quel che diremo, che il Canto popolare italiano sia nativo di Sicilia. Né con
questo intendiamo asserire che le plebi delle altre provincie sieno prive di
poetica facoltà, e che non vi sieno poesie popolari sorte in altre regioni italiane,
e ivi cresciute e di là anche diramate attorno. Ma crediamo che, nella maggior
parte de’ casi, il Canto abbia per patria d’origine l’Isola, e per patria di
adozione la Toscana: che, nato con veste di dialetto in Sicilia, in Toscana abbia
assunto forma illustre e comune, e con siffatta veste novella sia migrato nelle
altre provincie. Però se questo è il caso generale, esso non esclude le
eccezioni».
La teoria, come si vede, è malposta, in quanto il
D’Ancona limita il canto popolare italiano agli strambotti,
agli stornelli e comunque alla poesia lirica, di cui localizza
la patria d’origine in Sicilia. E la poesia narrativa? È presto
detto:
«Venendo poi più su, s’incontrano volghi di maggior cultura, ne’ quali la forza
poetica è quasi spenta o si estrinseca ormai soltanto in improvvisazioni
sgarbate, se non in semplici rimpasti dell’antico tesoro di Canti… E chi salisse
ancor più su, ai paesi di popolazioni cello-romana, troverebbe la strofa sicula
scarsa in numero… Ivi la poesia indigena e tradizionale ha relazione non col
Mezzogiorno d’Italia, ma con altre popolazioni e altri idiomi, stendendosi alla
Provenza, alla Francia, alla Catalogna, al Portogallo…»
7. Comparetti
«Come Ella sa bene la poesia popolare della nostra nazione varia assai in certe
zone del nostro paese e si mostra in queste per indole e per forme differenti.
Quindi per quanto concerne i canti popolari non v’ha dubbio che si possa, anzi
si convenga, dare in volumi separati quelli di ciascuna provincia od anche di
più ristretta località. Non così per quanto concerne i racconti. Ormai è cosa di
cui non si può più dubitare che una quantità di quei racconti che i tedeschi
chiamano Märchen ritrovasi diffusa presso tutti i popoli d’Europa (senza dire di
altri extraeuropei) e si ritrovano di certo o probabilmente anche tutti
ugualmente diffusi presso tutto il popolo italiano. Quindi, come Ella intende
bene, volendo pubblicare raccolte locali come per i canti, si corre il rischio,
anzi si ha la certezza, di dare molti volumi contenenti tutti un materiale
narrativo nella massima parte identico… La meglio, dunque, sarebbe di fare
una raccolta generale intitolata Conti (o novelline) popolari italiani, dando nel
testo la versione migliore, più completa, di ciascun racconto tra quelle raccolte
in varie parti d’Italia da ciascun collaboratore e nelle note le varianti più degne
di attenzione. Così hanno fatto i Grimm per i racconti tedeschi e l’Afanasev per
i russi».
«La mia raccolta si comporrà di tre volumi dei quali il primo si comincerà a
stampare fra un mese. Le novelline saranno tutte ridotte in lingua comune
salvo una o due per ciascuna provincia che saranno pubblicate in dialetto. Darò
le illustrazioni in fondo alla raccolta nell’ultimo volume e queste conterranno le
notizie su ciascuna novella e i confronti con le corrispondenti italiane e
straniere. Darò anche un saggio di bibliografia delle novelline di vari paesi
pubblicate fin qui. Questa raccolta di Novelline italiane è compiuta con uno
scopo e con un metodo che deve distinguerla dalle raccolte parziali di novelline
lombarde, venete, sicule».
«Il cantore, il laulaja ripete e crea ad un tempo; la massa dei canti che ha nella
mente considera e sente come cosa di tutti e sua; è quella il suo sapere, il suo
esemplare, la sua maniera e ad un tempo il suo ordigno nell’opera propria.
Versi di un canto che noi diremmo lirico ei contesse con un canto che diremmo
epico o magico, e fa anche l’inverso: ei procede in ciò liberamente come chi
impiega per varie occasioni le parole, le frasi, le formule di un linguaggio che è
proprietà di tutti e da tutti inteso. Per questo diritto che i cantori sentono di
avere, e assai usano, per la naturai vicenda pure che deve subire una poesia
commessa alla memoria e propagantesi solo oralmente, grandissimo è il
numero delle varianti che ciascun canto presenta, non solo differendo da
cantore a cantore, ma anche un cantore stesso non mai ripetendo due volte lo
stesso canto in modo precisamente uguale, o anche dando oggi legati assieme e
combinati in uno canti che ieri dava separati e distinti. Così, l’assieme di tutti i
canti fin qui raccolti colle infinite loro varianti, appare come una massa di versi,
di creazioni poetico-fantastiche fluttuanti quasi e in istato perenne di
trasformazione, di scomposizione e ricomposizione. È questa la vera condizione
naturale della poesia popolare di proprio nome…».
«Il dire che per esprimer questi [concetti morali] la fantasia popolare siasi
limitata a modificare, rimodellandoli in senso morale, i miti originati dal mondo
sensibile, e non abbia nulla espressamente creato, è un assurdo che ha contro
di sé il buon senso e i fatti. Le forze della fantasia umana, particolarmente nelle
epoche di minor cultura, sono ben lungi dall’essere condannate a quella
meschina parsimonia di produzione a cui taluni mitologi ridurrebbero quella
mirabile facoltà dell’uomo che Goethe ha giustamente chiamato mobile in
sempiterno e sempre nuova».
«Le lingue dotte, le lingue comuni, trattate dall’arte e quasi esaurite, sentono
anch’esse il bisogno di ritemprarsi nelle lingue del popolo più vicine alla
natura, che ha passioni più vive, che ha impressioni più immediate e che deriva
il suo linguaggio non da regole, ma dalle sue impressioni. L’artista cercherà e si
approprierà tutto quel tesoro di immagini, di movenze, di proverbi, di sentenze,
tutta quella maniera accorciata, viva, spigliata, rapida, che è nei dialetti».
È questo, si è detto, in un certo senso, il manifesto
letterario e la carta profetica dell’arte di Verga e dei suoi
epigoni. Ma in quel manifesto – le stesse idee sono espresse
dal De Sanctis in uno dei capitoli della sua Giovinezza – che
cosa c’è di diverso da quanto avevano affermato in
Germania lo Herder, in Francia Madame de Staël, in Russia
il Karamzin, nella stessa Italia il Berchet, e così via? Erano
stati i romantici a immettere nella poesia e nella narrativa
il popolo, come protagonista di storia. Erano stati i
romantici, dai Grimm a Puškin, da Wordsworth a Glinka, a
servirsi del linguaggio, della letteratura o della musica
popolare per ravvivare e creare il loro linguaggio. E se in
Italia tale letteratura – di cui allora mancava peraltro una
valida documentazione – non fu tenuta in considerazione
dal Manzoni, ecco invece, e le coincidenze non avvengono
mai per caso, che essa dominerà, dominata, la narrativa di
un Verga: o meglio la sua epopea, dove il popolo è, come
nella Biblioteca delle tradizioni popolari del Pitrè, il
protagonista corale della sua fede e della sua disperazione.
Lo stesso naturalismo dello Zola – cui a torto si riattacca
il verismo di un Verga – non si spiega se non alla luce
stessa del Romanticismo, rinvigorito, in alcuni dei suoi miti,
dal Positivismo. I bassi centri della vita urbana – il ventre
delle grandi città – erano stati portati sulla ribalta dal
secondo Romanticismo. E lo Zola, preciso nella ricerca
delle sue fonti quanto lo era nel campo dell’antica
letteratura il Paris, con la sua opera, se da un lato aggiunge
alla pagina gloriosa dell’epopea francese l’umile tragedia
della plebe abbrutita delle grandi città, dall’altro si propone
di sollevare quella plebe a dignità vera di popolo. Le fonti
del Verga sono diverse. Eppure quei due scrittori, così
distanti l’uno dall’altro (medicale-prosastico, il primo, come
l’ha definito il Russo, epico-lirico il secondo), non hanno in
comune un’unica fede?
Non v’è dubbio, infatti, che così come il naturalismo di
uno Zola e il verismo di un Verga proseguono il culto del
vero professato dei romantici, egualmente i miti che si
vanno affermando nel campo delle lotte politiche e sociali
riflettono la medesima esigenza di un radicale
rinnovamento dell’uomo, di una umanità migliore, la
medesima fede nell’uomo e nella sua perfettibilità, che può
vedersi nei pili fervidi apostoli del periodo romantico. E
sotto questo aspetto che cosa si propone di darci il
socialismo, il socialismo anche del Marx – si pensi
all’insistente motivo del denaro nell’opera dello Zola e a
quello della roba nell’opera del Verga – se non ciò che
deriva dai suoi presupposti scientifici?
La storiografia romantica produceva insomma i suoi
frutti più saporosi in tutti i campi. Anche in quello della
musica. Si pensi infatti a Wagner, il quale faceva musica,
canto e poesia di quei miti che erano stati cari al cuore
degli Schlegel e dei Grirnm, del Müller e del Benfey. In una
lettera a un suo amico pittore, che è del giugno del ’75, il
musicista russo Mussorgskij esclamava: «Il popolo, ecco ciò
che voglio rappresentare». E lo rappresentava, lo cantava,
con la fede commossa di un Puškin, rinnovando il
messaggio di Glinka, come Wagner rinnovava quello di
Weber, di Schubert e di Schumann. Né si deve dimenticare
infine, per tacere degli altri paesi, che in Italia nelle opere
di un Bellini e di un Verdi si incontrano spesso dei temi che,
pur rilevando l’impronta tipicamente originale del loro
genio, accusano una origine schiettamente popolare.
Il mito del popolo continua ad essere una fede, insomma.
Questa fede si esprimeva ugualmente come continuazione,
anche in questo campo, di quella che era stata la
fondamentale esigenza antiletteraria, e cioè antiretorica,
del Romanticismo. Perché il popolo era pur sempre, contro
i convenzionalismi vieti e abusati, il simbolo della verità e
della virtù, del lavoro e del progresso: anche del progresso,
di questo mito che di sé informa tutto il corso dei secoli XVIII
«La storia non dovrebbe essere un elenco di uomini, dove si registrano le date
delle loro strepitose azioni, ma la rivelazione delle idee, delle passioni, dei
costumi e degli interessi civili, insomma della vita di un popolo, di una
nazione».
E qualche anno dopo, nel suo Studio critico sui canti
popolari siciliani, aggiungeva:
«La storia del popolo si è confusa con quella dei dominatori…; della sua storia è
voluta farsene una cosa stessa con la storia dei suoi governi, senza tener
presente che egli ha memorie ben diverse di quelle che così spesso gli si
attribuiscono si dal lato delle sue istituzioni e sì da quello degli sforzi
prepotenti da lui durati a sostegno dei suoi diritti. Il tempo di ricercare quelle
memorie, di studiarle con pazienza, di fecondarle con amore è venuto anche
per noi. Il filosofo, il legislatore, lo storico, che cercano di conoscere intero
questo popolo, sentono oggimai il bisogno di consultarlo nei suoi canti, nei suoi
proverbi, nelle sue fiabe, non meno che nelle frasi, nei motti, nelle parole.
Accanto alla parola sta sempre il suo significato, dietro il senso letterale viene
il senso misto e l’allegorico: sotto la strana e diversa veste della fiaba si troverà
adombrata la storia e la religione dei popoli e delle nazioni».
«Un paese che fino ad ieri visse in sé e per sé, sotto dominazioni straniere, a
contatto solo di non sempre gradita gente, ciascuna delle quali lasciò tracce
vivissime del suo passaggio e delle sue fermate; un paese, dove civiltà si
sovrapposero a civiltà (se pure furono tutte degne di questo nome) e dove si
formarono come tanti strati di tradizioni, storia parlata e non mai scritta,
questo paese offre materia non ordinaria d’indagine e di critica. Chi avrà
vaghezza di seguire, uno per uno, gli argomenti qui trattati, potrà darsi ragione
di certe forme che resterebbero, altrimenti, mute e isolate. Sono, a chi ben
guardi, tanti anelli di una catena di costumi, di pratiche, di credenze, onde
spirito e materia si esplicano insieme».
«Parto di vergine fantasia, cui le scuole non degnano d’uno sguardo, ma che le
scuole non sanno fare, essi [i canti popolari] racchiudono tanto tesoro di affetti,
tanta copia di pensieri e di immagini che a saperli parcamente imitare ogni
studioso, dal men facile verseggiatore al più ispirato poeta, ne ritrarrebbe
bellezze inestimabili… Schietto linguaggio nell’amore, nella gelosia, nel
dispetto, nella gioia tra le pareti domestiche, sotto estraneo tetto, in mezzo a’
ceppi dell’ergastolo, e in qualunque stadio di fortuna o stato dell’animo o
condizione della vita: il canto è la più vera, la più sentita espressione dell’indole
del popolo…»
«Ora mi trovo altri e non meno preziosi materiali di novelle siciliane… Che
bellezza, amico mio! Bisogna capire e sentire il dialetto siciliano per capire e
sentire le squisitezze delle fiabe che son riuscito a cogliere di bocca a una tra le
varie mie narratrici. Questa è Agatuzza, una di quei tipi che si incontrano di
rado: io mi sento annichililo di fronte a lei. – Il suo fraseggio è il fraseggio
siciliano modello, e la sua parola così ricca e propria, che non v’è arte o
mestiere o condizione di vita cui essa non sappia trattare o ritrarre con voce
adatta. Tutto questo poi mi fa ammirarla, ma mi pone in grande imbarazzo
incontrandomi a ogni pie sospinto in vocaboli e frasi nuove affatto a’ voca-
bolari nostri…»
E nella prefazione delle Fiabe, novelle e racconti popolari
siciliani aggiunge, sempre in merito alla Messia (Agatuzza):
«Della mimica nelle narrazioni… è da tener molto conto, e si può esser certi,
che a farne senza, la narrazione perde metà della sua forza ed efficacia.
Fortuna che il linguaggio resta qual è, pieno di inspirazione naturale, a
immagini tutte prese agli agenti esterni, per le quali diventano concrete le cose
astratte, corporee le soprasensibili, vive e parlanti quelle che non ebbero mai
vita o l’ebbero solo una volta».
«La letteratura orale ha, passando sulle bocche delle donne, un fascino e una
ingenuità, a volte una forma felice, che gli uomini raggiungono più raramente.
Quasi tutti i grandi raccoglitori di racconti constatano che le migliori e le più
helle versioni sono state trasmesse loro da donne: i fratelli Grimm, F. Luzel
riconoscono che i racconti più completi e più felici sono dovuti a delle popolane
e che la sicurezza della loro memoria, come la forma della loro narrazione, è
superiore a quella degli uomini. Una lunga esperienza fatta con le narratoci
dell’alta Bretagna conferma quanto sopra».
«Le nostre fiabe sono documenti della parentela tra le razze indo-europee e tra’
diversi rampolli di codeste razze, documento che tanti secoli, tanti popoli e
tante generazioni non hanno finora distrutto od attenuato, ma che anzi il
volgere dei tempi ha reso più solido e più duraturo. Fatto memorabile codesto
nella storia dell’Umanità, che mentre popoli e nazioni intere sono quasi
scomparsi… e le fredde ali del tempo hanno perduta persino la memoria delle
gesta più clamorose, queste novelline infantili vivono a testimoniare
un’antichità fuori d’ogni calcolo remota».
«Io parto dal principio che ogni genere di poesia popolare debba andar preso
qual rivelazione del sentire speciale dell’individuo del popolo da una parte, e
dall’altra dell’incivilimento dell’individuo e del popolo che la rivela. I canti
popolari, disse Herder, sono gli archivi del popolo, il tesoro della sua scienza,
della sua religione, della teogonia e cosmogonia sua, della vita dei suoi padri,
dei fasti della sua storia; l’espressione del suo cuore, l’immagine del suo
interno, nella gioia e nel pianto, presso il letto della sposa e accanto il sepolcro.
Laonde non è a maravigliare se Diodoro Siculo e Plutarco versi di poeti rapsodi
avessero citato a testimonio di costumi-e di consuetudini antiche; e se Paolo
Diacono delle tradizioni dei suoi conterranei avesse fatto suo prò per la storia
primitiva dei Longobardi; né da biasimar poi coloro che nel dettar quindi
innanzi la storia, ogni fatto, ogni avvenimento cercano illustrare colla storia
della vita del popolo, colle leggi, colle usanze, coi dialetti, coi proverbi della
nazione».
«Fu detto e ripetuto che la maggior parte delle credenze e degli usi popolari di
oggi sono né più né meno credenze e usi antichissimi venuti a noi con le
teogonie di Grecia e di Roma… Vuoisi che la festa della Circoncisione coincida
con quella latina delle Ciurmali in onore di Giano, con cui si apriva il mese di
gennaio; che la Candelora ricordi i Lupercali, cerimonia romana de’ primi di
febbraio, di cui una parte di usi romani passò addirittura in quelli del
Carnevale, benché siavi chi la ritenga una continuazione della festa di
Proserpina… Noi meniamo in giro la vecchia strega, la vecchia Befana, la
Carcavecchia, la vecchia di Natale, e la inseguiamo, e i romani nella vigilia
degli Idi menavano per Roma cacciandolo per fuori le mura Mamurio Veturio, il
vecchio inverno, sotto forma di un uomo coperto di pelli».
«La parola cultura o civiltà, presa nel senso etnografico, designa quel
complesso che abbraccia le scienze, le credenze, le arti, la morale, i costumi e
le altre facoltà e abitudini acquistate dall’uomo nel suo stato sociale».
«Quando un uso, un’arte, un’opinione sono ben avviati nel mondo, le influenze
perturbatrici possono influenzarle così poco che essi possono tenersi in vita da
una generazione all’altra, come un corso d’acqua che una volta messo nel suo
letto vi scorrerà per secoli. Questa non è che una semplice permanenza
culturale: e ciò che stupisce è che i cambiamenti e le rivoluzioni delle cose
umane abbiano lasciato andar tanto lontano i suoi deboli rivoletti. Nelle steppe
tartare, sei secoli fa, era un’offesa posare il piede sulla soglia o toccare le corde
nell’entrare in una tenda, e così è tuttora. Diciotto secoli fa Ovidio ricordava la
popolare avversione romana per i matrimoni in maggio, che non senza ragione
attribuiva alla ricorrenza in quel mese dei riti funebri, detti Lemurie.
Sopravvive ancora in Inghilterra il detto che i matrimoni in maggio sono
sfortunati; e questo è un esempio sorprendente di come un’idea, il cui
significato è perito con gli anni, può continuare a esistere semplicemente
perché è già esistita. Ora vi sono migliaia di casi simili che sono divenuti, per
così dire, punti di riferimento nel corso della civiltà. Quando nella storia di un
popolo è avvenuto un cambiamento generale, è usuale, tuttavia, trovare delle
manifestazioni che non ebbero origine nel nuovo stato di cose, ma che
semplicemente sono durate in esso. In forza di queste sopravvivenze, diviene
possibile dichiarare che la civiltà del popolo, tra cui sono osservate, deve
essere derivata da uno stato più antico, nel quale tali sopravvivenze ebbero la
vera patria e il significato più proprio: e questa è la ragione per cui simili fatti
vanno trattati come documenti di scienza storica».
5. Sopravvivenze e rinascite
«Come le menti degli uomini mutano col progredire della civiltà, così i vecchi
costumi e le vecchie opinioni svaniscono a poco a poco in un’atmosfera
eterogenea e passano in stadi più adatti alla nuova vita con cui si trovano a
contatto. Ma ciò è così lungi dall’essere una legge senza eccezioni, che una
visione rigorosa della storia può spesso far sembrare non essere per nulla una
legge. Poiché la corrente della civiltà ritorna su se stessa, e quello che sembra
una brillante corrente di progresso può in un successivo ricorso girare in un
turbine stridente o impelagarsi in una palude oscura e pestilenziale. Studiando
con larga visione il corso dell’opinione umana, possiamo individuare proprio nel
suo perno il passaggio della sopravvivenza passiva alla rinascita attiva».
«Nella corrente sempre più forte dell’animismo del Tylor venne a incanalarsi,
per strana coincidenza, anche una corrente minore, sorta già tra i seguaci della
teoria della mitologia della natura della Germania e dei popoli indogermanici,
la quale volle ora applicare i risultati delle ricerche linguistiche relative ai
popoli indogermanici anche alle scoperte fatte dagli etnologi per i popoli di
natura».
«Non resta che una via: quella di distribuire dei foglietti volanti che
contengano un saggio delle indicazioni richieste, e condensino tutta la materia
presa in esame in un certo numero di domande ben determinate, precise.
Queste domande devono essere formulate con accorgimento e sicura
conoscenza della materia, in maniera che basti un cenno per richiamare senza
indugio alla mente di chi deve rispondere tutte quelle cose che si desiderano
sapere da lui, e che si eviti, oltracciò, ch’egli, rispondendo alle domande
genericamente con un si o un no, si limiti a dare indicazioni vaghe e
superficiali, laddove importano invece distinzioni rigorose e ragguagli minuti
sui particolari. Si cercherà pertanto, progredendo il lavoro, di migliorare e
modificare di tempo in tempo le domande alla stregua delle esperienze
psicologiche e delle osservazioni fatte circa l’effetto da esse prodotto su chi
deve rispondere, nonché in base alla più profonda conoscenza della materia
acquisita con l’aumento del materiale. Il contenuto delle domande ha da
rimanere lo stesso per tutto lo spazio geografico su cui si estende la raccolta;
ma è necessario dare ad esso, per determinate zone, una forma particolare».
Nel primo volume dei Wald- und Feldkulte, vale a dire nel
Der Baumkultus der Germanen, il Mannhardt inizia
anzitutto il suo esame trattando il culto degli alberi quale si
articola presso i Germani e i popoli vicini. Ed è allora che
egli si pone questo problema: vedere come l’agricoltura
riveli, attraverso i suoi riti e i suoi culti, il mistero stesso
della rigenerazione vegetale. Il Mannhardt non esita a
porre come fondamento di quei riti e di quei culti la
credenza, tuttora viva nel folklore, secondo cui l’uomo vive
nella pianta (cui attribuisce, come alla natura, un’anima)
unita a lui da un legame simpatico e segreto. Da qui
l’affinità di natura fra l’uomo e la pianta, l’uno e l’altra
dotati di un proprio spirito.
Il Mannhardt, quasi a chiarire questa affinità, passa
quindi a illustrare la concezione che i Germani avevano
intorno all’anima dell’albero. E da qui, da tale concezione,
ecco che egli vede emergere gli spiriti della foresta e i loro
vari tipi, mentre l’anima stessa dell’albero gli si dispiega
come lo spirito della vegetazione. Particolare luce ricevono
in proposito gli usi comuni a tale credenza, quali, ad
esempio, le processioni primaverili che si svolgono
nell’Europa moderna e dove lo spirito della vegetazione è
spesso rappresentato dal maggio e per di più da un uomo
vestito di verdi foglie. Come egli stesso osserva:
«Si dovrebbe qui menzionare un libro geniale e ricco di idee, La Cité antique di
Fustel de Coulanges, in cui si tenta di dimostrare che il culto degli antenati è la
radice di tutte le più alte forme della religione dei Greci. Non si viene però a
disconoscere in nessun modo la fecondità della tesi del libro, se si ammette che
la sua idea fondamentale – per ciò che concerne la Grecia – non è potuta
divenire più che un’intuizione che potrebbe essere giusta e vera, ma che
rimane indimostrabile».
«I popoli primitivi sogliono attribuire alle anime separate dai corpi una
grandissima potenza, tanto più terribile in quanto invisibile; anzi in un certo
modo fanno derivare dalle anime tutte le forze occulte e si adoperano
ansiosamente e di continuo ad accattivarsi la benevolenza di questi spiriti».
6. Usener
«Con la sua legge dello svolgimento dei nomi divini, che rappresentava una
scoperta atta a fare della mitologia la «scienza del mito», Usener veniva a
incontrarsi, in sostanza, con la teoria evoluzionistica, che, indipendentemente
da ogni indagine linguistica, era giunta a concepire lo svolgimento dell’idea di
Dio attraverso tre gradi: l’animismo, il politeismo, il monoteismo. Infatti la
quantità sterminata dei numi istantanei (Augenblicksgötter) corrisponde al
numero sterminato degli spiriti della fede animistica; alla pluralità dei
Sondergötter corrisponde un animismo più ridotto, o polidemonismo, mentre la
formazione degli dèi personali, con la implicita riduzione delle figure divine,
rappresenta il politeismo destinato a sboccare nel monoteismo».
7. Dieterich
E in questo senso lavorò un altro filologo tedesco, Albert
Dieterich, il quale, nipote dell’Usener, ci ha dato una serie
di opere dove i materiali raccolti sono sottoposti a una
critica serrata e penetrante. Lavoratore infaticabile, egli ci
ha lasciato, fra l’altro, due opere molto discusse: l’una
intitolata Eine Mithrasliturgie e l’altra Nekya. Di notevole
interesse sono anche gli Studien zur Religions-geschichte.
L’opera che l’impegnò maggiormente e che più interessa lo
studio del folklore è la Mutter Erde, edita nel 1905.
In quest’opera (di cui abbiamo una recente edizione
curata e completata da uno studioso tedesco, E. Fherle), il
Dieterich studia le credenze e i riti classici inerenti alla
Terra concepita come Terra-Madre. A differenza
dell’Usener, egli non abbraccia quindi l’esame di tutte le
divinità, bensì di una sola. E qui egli, naturalmente, non
può non essere che in vantaggio rispetto al nonno Usener.
Il Dieterich è anch’egli sulla via tracciata dal Tylor e
l’animismo è, si può dire, al centro stesso delle sue
ricostruzioni. In queste si sente, però, l’influsso anche del
Mannhardt, tanto è vero che egli nell’indagare la genesi e
lo svolgimento della concezione secondo cui la terra viene
appunto concepita come Madre, o meglio come la Madre di
tutti, centra il suo esame sulle rappresentazioni
concernenti la riproduzione delle specie animali e la
fertilità del suolo, considerate come parallele e analoghe
con la generazione umana.
Il Dieterich in tale esame si ferma anzitutto su tre
costumi che erano in uso nell’antichità classica: 1, la
deposizione del fanciullo appena nato sulla terra; 2,
l’inumazione dei fanciulli; 3, il toccamento degli ammalati e
degli agonizzanti che, per guarire, vengono posti sulla nuda
terra. Ne indaga, quindi, le innumerevoli concordanze che
esistono fra i popoli primitivi. E da questi – per quanto il
procedimento a volte sia inverso – si interna nella vita del
folklore germanico in particolare ed europeo in generale, e
non soltanto europeo, per animare con senso storico le sue
ricostruzioni. Così, ad esempio, dopo aver ricordato l’uso
abruzzese di porre il bambino sulla terra, ritiene che tale
uso si debba considerare come la sopravvivenza di un rito
secondo il quale nell’antichità il figlio era consacrato alla
Madre Terra. Da qui a sua volta la credenza dei bambini
venuti dalla terra (o comunque dagli alberi o dalle rocce
che sono pur sempre ad essa legati).
Il Dieterich considera insomma la terra come un essere
vivente, come un’anima piena di anime. Essa, la terra, è
vivente perché è fertile. Da qui il binomio homo-humus, cui
si appellano le stesse credenze popolari. Da qui la
solidarietà esistente fra la fecondità dei campi e quella
della donna, il che ha dato origine a un’altra serie di
credenze, le quali comportano anche l’identificazione del
lavoro agricolo con l’atto generatore (e quindi
l’identificazione del fallo con l’aratro).
In effetti molte tesi del Dieterich sono state attaccate non
soltanto dal Goldmann nel suo Cartam levare ma anche dal
Nilson nella sua recente Geschichte der griechischen
Religion. Bisogna tuttavia riconoscere, come ben nota
l’Eliade, che la Mutter Erde rimane – con la Psyche del
Rohde – un libro veramente classico.
«… i due principi sono spesso combinati; o per essere più esatti, mentre la
magia omeopatica o imitativa può essere praticata da sola, si troverà che la
magia contagiosa implica generalmente un’applicazione del principio
omeopatico o imitativo. Effettivamente queste forme di pensiero sono ambedue
estremamente semplici ed elementari. E difficilmente non potrebbe non esser
così, dal momento che sono familiari in concreto, sebbene non certo in astratto,
alla rozza intelligenza non solo del selvaggio, ma delle persone ignoranti e
ottuse, dovunque. Tutti e due i rami della magia, l’omeopatica e la contagiosa,
si possono giustamente comprendere sotto il nome generale di Magia
Simpatica, perché ambedue affermano che le cose agiscono l’una sull’altra a
distanza, per mezzo di una segreta simpatia, mentre l’impulso è trasmesso
dall’una all’altra per mezzo di quel che possiamo concepire come una specie di
etere invisibile, non troppo diverso da quello che è postulato dalla scienza
moderna per uno scopo del tutto simile, per spiegare cioè come mai le cose
possono influenzarsi fisicamente attraverso uno spazio che appare vuoto».
«… non vi dice soltanto quel che dovete fare, ma anche quel che non dovete. I
precetti positivi sono gli incantesimi, quelli negativi sono i tabu. Effettivamente
tutta la dottrina del tabù, o in ogni caso la maggior parte di essa, non sembra
essere altro che un’applicazione speciale della magia simpatica con le sue due
grandi leggi della similarità e del contatto… La magia positiva, o incantesimo,
dice: “ Fa’ questo perché possano accadere le tali cose”. La magia negativa, o
tabù, dice: “Non far questo affinchè non accadano le tali cose”. Lo scopo della
magia positiva, o incantesimo, è di produrre un evento desiderato; lo scopo
della magia negativa, o tabù, è di evitarne uno cattivo. Ma tutte e due le
conseguenze, quella buona e quella cattiva, fono supposte accadere per leggi di
similarità e contatto… I due fenomeni [i tabù e gli incantesimi] sono
semplicemente i due lati opposti o i poli di una grande e disastrosa illusione, di
una errata concezione dell’associazione delle idee. Di questa illusione
l’incantesimo è il polo positivo, il tabù quello negativo».
«In primo luogo le nozioni fondamentali della magia e della religione ci fanno
pensare che la magia è più antica delle religioni nella storia dell’umanità.
Abbiamo visto che la magia è un’errata applicazione dei più semplici ed
elementari processi mentali, cioè dell’associazione delle idee per virtù di
somiglianza e contiguità e che d’altra parte la religione ammette l’azione di
agenti personali e consci superiori all’uomo, al di là dello schermo visibile della
natura. Evidentemente la concezione di esseri soprannaturali è più complessa
che una semplice intuizione della similarità e della contiguità delle idee; e una
teoria che ammette che il corso della natura sia determinato da agenti consci è
più astrusa e recondita e richiede per la sua comprensione un grado molto più
alto di intelligenza e di riflessione, che non l’idea che le cose si succedano l’una
dopo l’altra semplicemente a causa della loro contiguità e somiglianza».
«In nessun luogo la teoria della magia simpatica è messa in pratica per
mantener la riserva di cibo più sistematicamente che nelle sterili regioni
dell’Australia Centrale. Quivi le tribù sono divise in un certo numero di clan
totemici, ognuno dei quali è incaricato di moltiplicare i suoi totem per il bene
della comunità, per mezzo di cerimonie magiche. La maggior parte dei totem
sono animali e piante commestibili, ed il risultato generale che si suppone
ottenuto da queste cerimonie è quello di provvedere la tribù del cibo e delle
altre cose necessarie. Spesso i riti consistono in un’imitazione dell’effetto che il
popolo vuoi produrre: in altre parole la loro magia è omeopatica o imitativa».
«Se nel presente lavoro ho indugiato alquanto sopra il culto degli alberi, ciò
non dipende, confido, perché io esageri la sua importanza nella storia delle
religioni ed anche meno perché io ne voglia dedurre un intero sistema di
mitologia. È semplicemente perché non posso passare sotto silenzio questo
soggetto cercando di spiegare il significato di un sacerdote che porta il titolo
del Re del Bosco e di cui una delle funzioni era di strappare un ramo – il Ramo
d’oro – da un albero sacro. Ma sono talmente lontano dal considerare la
venerazione degli alberi come cosa di suprema importanza nella evoluzione
delle religioni, che io la considero subordinata ad altri fattori».
Questa evidentemente è una messa a punto con la quale
egli riduce a giuste proporzioni la teoria del Mannhardt.
Non v’è dubbio però che egli, ove quel culto venga
circoscritto, accoglie in fondo molte premesse dello stesso
Mannhardt. Si legga, ad esempio, il suo esame dedicato
alle vestigia del culto degli alberi nell’Europa moderna. Si
tratta di vere e proprie escursioni in cui lo stesso folklore ci
si presenta sotto uno dei suoi aspetti più poetici. Ebbene: è
qui che egli senz’altro fa sue le opinioni del Mannhardt, e
cioè che nelle processioni primaverili lo spirito della
vegetazione è spesso rappresentato dall’albero. Oppure si
leggano le sue pagine dedicate all’uccisione dello spirito
dell’albero. Anche qui egli chiede l’alto appoggio del
Mannhardt. E nel Golden Bough, in sostanza, il Mannhardt
è pur sempre presente. Con questa innovazione, però: che,
s’egli accetta il Mannhardt, lo piega pur sempre al suo
sistema, in base a cui il culto degli alberi non è che un
aspetto della magia, la quale ancor oggi domina
incontrastata nella vita dei volghi dei popoli civili.
6. Magia e religione
«L’autore l’ha scritta non tanto per determinare a quali leggi siano soggetti
nella loro genesi e nel loro sviluppo le cerimonie e i miti, quanto per mostrare
la fragilità dei fondamenti sui quali è stata edificata una teoria ch’egli a buon
diritto giudicava falsa. Non per esse e in esse egli studia le credenze dei
selvaggi, ma per le analogie che tale o tal’altra leggenda offre con qualcuno dei
grandi miti dell’antichità; e s’egli paragona tra loro queste due serie di fatti non
è tanto per ridurli più intelligibili, quanto per provare la vanità di un metodo di
interpretazione».
4. Etnologia teologica
«Non appena l’uomo ebbe l’idea di cose che si possono fare, egli potè
immaginare che qualcuno doveva aver fatto quelle cose che egli non arerà fatto
e non poteva fare. Questo fattore egli lo immaginò quindi come un uomo
grande, ma naturale… Concepita questa idea, divenne anche possibile idearne
la potenza, e la fantasia potè rivestire Colui che aveva fatto cose tanto utili di
certi altri attributi morali come quello della paternità, della bontà e della
vigilanza sulla moralità dei propri figli… In tutto ciò non vi è nulla di mistico e
nulla che, a quanto io vedo, superi le limitate facoltà mentali di esseri che
meritano il nome di uomini».
È vero, d’altra parte, che il Lang non volle mai dare una
risposta definitiva alla questione dell’origine della
religione. A lui bastava constatare il fatto – e ciò quando la
teoria dell’evoluzione imperava – che non era necessario
elaborare un nuovo concetto sulla religione, come aveva
fatto il Tylor, per trovare fra i primitivi la religione. Gli
bastava affermare, quindi, il principio che la credenza in un
Essere Supremo è presso i primitivi tanto antica quanto
l’animismo stesso. E ciò, a sua volta, lo portava a
respingere la precedenza della magia rispetto alla
religione, mentre egli non era alieno dal considerare nella
magia stessa delle forze che né il Tylor né il Frazer avevano
valutato: le forze, cioè, extranormali.
Alla luce di queste nuove idee egli rivide in gran parte i
suoi vecchi lavori. Li sveltì, attenuò la parte polemica,
diede loro un apparato etnologico più imponente. È del
1901 la ristampa di Myth, Ritual and Religion, mentre è del
1904 la ripubblicazione di Custom and Myth. La nuova
concezione che egli aveva manifestato intorno alla religione
non modificò tuttavia alcune sue vecchie affermazioni: e
cioè che le favole della mitologia erano nate in un
determinato stadio della vita umana, attraversato da tutti i
popoli e vissuto tuttora in gran parte dai popoli primitivi:
uno stadio in cui le cose che a noi sembrano prodigi erano
il prodotto di una fede sincera e commossa.
«In questi volumi io ho voluto tentare un esame del mito con principi scientifici
[cioè coi principi della scuola antropologica]. I primi tre capitoli del seguente
volume sono dedicati a una narrazione come essa ci vien data dai poeti e dagli
storici dell’antichità e come risulta dal folklore moderno. Esaminerò dapprima i
quattro motivi di quella narrazione. I capitoli successivi comprendono
un’inchiesta sulle forme analoghe della nascita miracolosa, quali esse ci
vengono documentate nella favola e nel costume in tutto il mondo. Seguiranno
quindi altre inchieste sui motivi connessi alla liberazione di Andromeda e alla
ricerca della testa della Gorgone. Analizzati così i temi e determinata, come
meglio mi è stato consentito dai mezzi di cui posso disporre, qual è la loro base,
posta nella credenza e nel costume e perciò in gran parte nella concezione
della vita dei selvaggi, io tornerò alla narrazione nel suo insieme e,
considerandola come opera d’arte, vedrò se mi sarà possibile di accertare quale
sia stata la sua forma primitiva, dove abbia avuto origine e come si sia diffusa
in Oriente».
«La religione greca come è esposta nei manuali popolari, e persino in certi
trattati di maggior pretesa, è soprattutto una questione di mitologia, e per di
più di mitologia così come la si può vedere attraverso il mezzo della
letteratura… Non si è fatto nessun tentativo serio per esaminare il rituale
greco. Eppure, è più facile accertare in modo definito i fatti del rituale; essi
sono più permanenti, e per lo meno altrettanto significativi. Ciò che un popolo
fa in rapporto ai suoi dèi deve sempre costituire una traccia, e forse la più
sicura, per giungere a capire ciò che pensa. Il primo preliminare per qualunque
comprensione scientifica della religione greca deve essere costituito da un
minuto esame del suo rituale».
2. Reinach e le religioni
«Quando una pratica, un’idea, una formula è introdotta nel numero delle
conoscenze umane comuni, subisce un modificarsi incessante ed infinito senza
che perciò scompaia completamente».
«Il culto degli animali, come degli alberi, delle piante, si riscontra, allo stato di
sopravvivenza, in tutte le società antiche: anzi vi ha dato origine a quelle favole
che si chiamano metamorfosi. Quando i Greci ci raccontano che Giove-Zeus si è
trasformato in aquila o in cigno, bisogna vedere nel racconto un mito narrato a
rovescio. Il dio aquila e il dio cigno cedettero il posto a Zeus, quando gli dèi dei
Greci furono adorati sotto la forma umana: per cui, senza contare che gli
animali sacri sono restati gli attributi o i compagni degli dèi, i quali talvolta
riprendono la forma animale, le metamorfosi degli dèi non sono se non un
ritorno allo stato primitivo. Così il mito della trasformazione di Giove in cigno
per piacere a Leda, significa che in tempi remotissimi una tribù greca aveva
per dio un cigno sacro e che essa credeva aver questo cigno accesso presso i
mortali. Più tardi il cigno venne sostituito da un dio con forma umana, Giove;
ma la favola non fu punto dimenticata e si fantasticò che questo Giove si fosse
trasformato in cigno per generare Elena, Castore, Polluce, i figli del cigno
divino e di Leda».
1. La scuola storico-culturale
«Questa scnola che riconosce quali suoi precursori e maestri Fr. Ratzel, L.
Frobenius, W. Foy, e F. Graebner, autore d’un molto apprezzato Trattato di
metodologia etnologica, muove dal concetto dell’origine unica e della
successiva propagazione degli elementi culturali per effetto di rapporti di
cultura, deducendone la necessità di stabilire l’area geografica d’ogni elemento
per riconoscere obiettivamente la stratificazione cui appartiene, e ricercarne
quindi la cronologia. Casi di poligenesi, di conseguenze indipendenti da contatti
culturali, sono possibili, qualche volta anche probabili. Ma l’ipotesi d’una
origine multipla dei fenomeni, a cui contrasta, nell’ambito storico, l’esperienza
e manca, di regola, la dimostrabilità non può mai essere assunta come principio
metodologico o esimere dall’obbligo di ricerche storico-geografiche in senso
opposto. Quel che vale nel campo etnologico vale tanto più nel campo
demologico, dove elementi presunti primitivi s’intrecciano variamente con altri
di derivazione letteraria, sicché la ricerca sarebbe in ogni caso indispensabile,
se non altro, per districarli».
«Se l’etnologia è una scienza dello spirito, anche il suo metodo deve essere
quello delle scienze dello spirito, non quello delle scienze naturali. Essa deve
avere l’efficacia di rendere e apprezzare persona, individuo, volontà libera,
elementi che nella massa appaiono tanto spesso come sommersi, mentre in
essa agiscono in realtà efficacemente i talenti e i geni nel contenuto, come
altrettanto fanno i capi nella forma. Questo metodo deve poter concepire
insieme al collettivo anche il singolo, l’individuale, e non fermarsi al tipico o al
medio; deve essere ideografico, e pensato per questo e per questo corredato,
cioè per concepire e valorizzare il singolare».
4. Filologia etnologica
Per potere determinare la varietà di questa vita, per
poter cioè chiarire ancor meglio il problema dei cicli
culturali già posto dal Ratzel e dal Frobenius, il Graebner
pone tutta una precettistica, mediante la quale egli offre
all’etnologo gli strumenti di lavoro o meglio le ipotesi di
lavoro per internarsi nel mondo dei primitivi, onde stabilire
i vari cicli culturali, le fasi di sviluppo di un determinato
elemento dentro quei cicli, le forme più antiche di un
oggetto o di una credenza rispetto ad altre.
Vasta e complessa non solo nella sua formulazione, ma
anche nei suoi dettagli è questa precettistica. Il Graebner,
infatti, ci espone anzitutto i criteri dell’accertamento delle
aree culturali coesistenti nel tempo e nello spazio:
5. Interpretazioni etnologiche
2. Folklore e biologia
«Il folklore utilizza in primo luogo il metodo d’osservazione, e ciò perché… esso
si occupa di fatti viventi e attuali. Inoltre, un fatto attuale ha i suoi antece
denti, i quali non possono essere spiegati che col metodo storico… Questa
teoria è ben nota… Ma su un fatto bisogna insistere: che il folklore non è
unicamente storico e che non è una sezione della storia. È a poco a poco, del
resto, che si comincia a guarire dalla malattia del secolo XIX, malattia che si
può chiamare mania storica, secondo la quale tutto ciò che è attuale non conta
che in rapporto al passato, onde, secondo il tema di un romanzo celebre, i
Viventi non contano che in rapporto ai Morti… Questa malattia psichica e
metodologica s’è così dif fusa che poche persone istruite evitano dinanzi a un
oggetto o a un’azione di stimarne solamente il valore archeologico-storico…
Chiunque vuole interessarsi del folklore deve abbandonare l’attitudine storica
per adottare l’attitudine degli zoologi e dei botanici che studiano gli animali e
le piante nella loro vita e nel loro ambiente anch’esso vivente; dunque
sostituire al metodo storico il metodo biologico».
«Io non prendo qui il termine di biologia nel senso trasformista o evoluzionista
come sembra lo abbia compreso qualche critico, ma nel senso preciso di “ciò
che concerne la vita”. Non è questa una immagine per rappresentare lo stato o
la società come un organismo vivente sottomesso alle leggi naturali da cui
dipendono tutti gli organismi: di crescita, di maturità, di vecchiaia e di morte.
Io dico solamente – e ciò mi sembra di una evidenza inconfutabile – che, dal
momento che gli uomini sono degli esseri viventi, parzialmente liberi di
decidersi in un senso o nell’altro, di muoversi sulla superficie della terra ed al
giorno d’oggi anche nel ciclo e di abbandonarsi, ma solo in certi limiti che essi
stessi si sono imposti, ai loro sentimenti ed alle loro passioni, i loro rapporti
debbono essere esaminati e valutati come rapporti viventi biologici e non come
rapporti di oggetti inanimati o rapporti di esseri morti. Non si tratta qui d’una
teoria né di un sistema ma di un angolo visuale che fa vedere i fatti folkloristici
ed etnografici in modo assolutamente diverso che se li si consideri da un angolo
visuale meccanicistico oppure storico e che permette di subordinare migliaia e
migliaia di dettagli apparenti, morfologici, allo studio degli agenti viventi e
delle funzioni sociali».
«La migliore definizione del folklore, quella di cui, tutto considerato, ci si può
contentare è: studio metodico, quindi scienza, degli usi e costumi. È inutile
aggiungere popolari, perché gli usi e i costumi sono fenomeni collettivi
generali, che si possono discernere indipendentemente dalla razza, dal tipo di
civiltà, dalla classe sociale o in certi paesi dalle caste professionali. Usi
significa: modi di vivere senza alcuna valutazione politica né etica. Costumi
significa: modi di vivere conformemente a regole non scritte o scritte, ammesse
dal consenso generale dal basso in alto, spontaneamente e senza coercizione
statale o di governo, spesso anche, a seconda delle epoche o dei paesi,
nonostante o contro questa coercizione, essa stessa giustificata, non da
principio ma dopo, da una o più leggi necessariamente sempre in ritardo
sull’evoluzione progressiva o regressiva dei costumi…»
«Ogni individuo ha dunque delle relazioni sociali multiple e gli è sempre lecito,
nei limiti fissati dalla tradizione, di reagire ai rapporti stabiliti: nella famiglia
con la scelta della sposa e la limitazione delle nascite dei figli; come soldato con
un’azione di eroismo; come elettore col voto; e così via di seguito. In altre
parole, per comprendere il meccanismo della vita sociale globale, è
dall’individuo che bisogna partire e non dalla collettività; questa non è che
un’astrazione o, tutt’al più, una prospettiva, come una fotografia presa da un
aereo».
5. Riti e sequenze
«Gli agenti di queste modificazioni sono, nei casi conosciuti con precisione, un
individuo o un piccolissimo gruppo di individui. Questo elemento individuale,
che il Durkheim trascura, sostiene una parte importante nelle società
australiane. Talora un individuo, dotato di immaginazione più vivace, è favorito
dagli esseri soprannaturali che gli indicano il cambiamento da introdurre».
«Le sequenze [dei riti di passaggio] non sono state quasi esaminate, mentre lo
studio di certi rituali moderni che sono conosciuti molto dettagliatamente
(Australia, Indiani Pueblos)… prova che sempre per le grandi linee e talvolta
per i minimi dettagli l’ordine col quale i riti si susseguono e debbono essere
adempiti è di per se stesso di già un elemento magico religioso di portata
essenziale. Lo scopo principale di questo libro è precisamente di reagire contro
il procedimento “folkloristico” o “antropologico” che consiste nell’estrarre da
una sequenza diversi riti – siano essi positivi o negativi – considerandoli poi
isolatamente, togliendo loro così la stessa ragione d’essere principale e la loro
situazione logica nell’insieme dei meccanismi».
«La reazione del Van Gennep è utile, è necessaria, ma si avverte più di una
volta il pericolo ch’essa esageri. Per il ciclo di maggio, se è difficile
documentare il rapporto e il prolungamento delle feste pagane nel folklore
medievale e attuale, è ancor più difficile, almeno per l’Italia, ammettere che fra
le feste floreali e della dea Maja e i nostri calendimaggi documentati fin dal
Medioevo ci sia una netta separazione. Mutamenti, dovuti al naturale evolvere
degli usi, al cambio della religione, alle invasioni barbariche, si; ma vero e
proprio distacco, no, tanto più che la dedicazione del mese di maggio a Maria
Vergine è di data relativamente recente. Così per il san Giovanni, l’esistenza
(nelle credenze di quel giorno) di personaggi più o meno mitici in Paesi
dell’Europa settentrionale, come Balder per la Norvegia, Ligo per la Lettonia,
Kupalo per la Russia e le relative usanze, specie nelle regioni, come quelle
baltiche, ove il Cristianesimo arrivò tardi e non potè agire in profondità, ci
fanno pur pensare a una grande festa stagionale pre-cristiana. Occorre tener
conto anche della vastita dell’area in cui le principali di queste usanze ci si
presentano. Insomma, guardiamoci dallo scambiare la mancanza dei documenti
con la mancanza dei fatti».
«Il cattolicesimo non è innanzi tutto una teologia e meno ancora un corpo
sistematico di prescrizioni pratiche, sostenuto da tale teologia. Il cattolicesimo
è innanzi tutto vita, e la Chiesa è un organismo spirituale, alla vitalità del quale
noi partecipiamo».
«Il folklore studia la tradizione e deve quindi, dopo aver raccolto e ordinato i
fatti che la compongono, fornire spiegazione della loro natura o della loro
essenza tradizionale… La tradizione popolare non si potrebbe comparare a un
tesoro sepolto: è un flusso di ricchezze di ogni ordine, una trasmissione senza
fine di migliaia e migliaia di invenzioni umane di cui il popolo beneficia nelle
nazioni civili. La catena d’oro della tradizione non riposa immobile in uno
scrigno sigillato, ma realizza, come gli astri, il miracolo del movimento
perpetuo».
4. Paganitas
6. Il folklore biblico
In quest’opera il Saintyves si avvale anche di un altro
strumento di lavoro: la critica biblica, quale essa ormai si
era imposta nel mondo degli studiosi. Costante infatti in lui
è l’esigenza di riferirsi al Vecchio o al Nuovo Testamento. E
tale esigenza dominerà in pieno nei suoi Essais de Folklore
biblique, i quali, editi nel 1922, vengono spesso considerati
come un’integrazione del Folklore in the Old Testament del
Frazer. In realtà gli Essais cominciarono ad uscire, prima di
essere raccolti in volumi, fin dal 1909 (il Folklore in the Old
Testament del Frazer è invece del 1918). Né si deve
dimenticare che essi segnano nella stessa attività del
Saintyves un punto di arrivo.
In questi saggi il Saintyves esamina tutta una serie di
temi che già, in parte, lo avevano attirato nei suoi
precedenti volumi; il fuoco che discende dal cielo, il
bastone che rinverdisce, il miracolo dell’acqua cambiata in
vino, il miracolo della moltiplicazione dei pani, il cammino
sulle acque. Temi impegnativi come si vede. E a legarli, se
da un lato c’è la Bibbia, dall’altro vi sono le credenze e le
pratiche popolari. Con questo risultato: che la
comparazione non è più, come a volte lo è nei suoi
precedenti volumi, fine a se stessa, ma è chiamata a
illuminare il concreto fatto storico da lui preso in esame.
Gli Essais portano questo sottotitolo: magia, miti e miracoli
nell’Antico e nel Nuovo Testamento. E lo stesso Saintyves
in una nota preliminare avverte:
«Noi non abbiamo affrontato un tema del Nuovo Testamento senza ricercare
con cura tutto ciò che lo prepara nell’Antico, e inversamente non abbiamo
trattato un tema della storia sacra di Israele senza indicare le repliche o le
applicazioni che ne fornisce il Nuovo Testamento. Reimarus presentiva di già il
compito della Tradizione, quando vedeva nel sogno di Daniele un’imitazione del
sogno di Giuseppe e nella stella dei Magi una specie di adattamento della
colonna di fuoco e di nuvole del racconto mosaico. Così anche questa specie di
catena non è stata rotta passando dall’una all’altra raccolta e noi non abbiamo
creduto di potere trattare del cammino di Gesù sulle acque senza parlare del
passaggio del Mar Rosso. I due fatti sono legati non soltanto dalla confessione
degli autori del Nuovo Testamento e di Paolo in particolare ma evidentemente
non sono che due varianti dello stesso tema tradizionale tra i Giudei. Lo si
ritrova in effetti non solo nelle vite di Giosuè, di Elia e di Eliseo allo stato di
miracolo, ma nei profeti e nei salmi sotto forma di tratto poetico».
«Il senso del sacro che presiede alla nascita di tutte le nostre idee morali e
religiose non può mancare di costituire una sorgente di racconti e di fiabe, e
noi, del resto, ne abbiamo una prova mirabile nelle meravigliose parabole che
illuminano e profumano con la loro freschezza tutto il Vangelo».
commenta:
«Io ora scorgo alcuni aspetti positivi; e in primo luogo nel compiacimento onde
rievocavo quelle immagini del passato, uno sfogo alla giovanile fantasia,
bramosa di sogni poetici e di esercitazioni letterarie; e in secondo luogo nelle
assidue e faticose ricerche, una formale disciplina che mi venivo dando alla
laboriosità in servizio della scienza».
2. Croce folklorista
Dobbiamo inoltre allo stesso Croce una bellissima
traduzione del Pentamerone del Basile, di cui egli pubblicò
le prime due giornate nel 1892, mentre la traduzione
integrale uscì nel 1925. E l’una e l’altra edizione portano
delle prefazioni in cui egli ritorna, con compiacimento ma
con scetticismo, ai problemi della novellistica popolare.
Così, ad esempio, nella prefazione del 25, raccolta poi nella
Storia dell’età barocca in Italia, il Croce è dell’avviso che le
fiabe tradizionali:
«così com’esse sono d’ordinario narrate dal popolo, hanno smarrito, quando
pur l’ebbero, la loro vita poetica originaria, l’afflato che potè dar loro chi prima
immaginò e compose questa o quella di esse; e somigliano agli scialbi e
materiali riassunti, coi quali si espone il «fatto» di una novella o di un romanzo.
Da ciò l’insipidezza ordinaria delle fiabe stenograficamente raccolte dai
folkloristi o demopsicologi: documento bensì di dialetti, di costumi, e, se si
vuole, di miti, ma ben di rado opera di poesia; e, in effetto, quelle raccolte non
sono diventate mai libri di lettura, salvo che non siano state più o meno
rielaborate o ritoccate con artistico sentimento».
«… la poesia popolare non si allarga per così ampi giri e volute per giungere al
segno, ma vi giunge per via breve e spedita. Le parole e i ritmi in cui essa
s’incarna sono affatto adeguati ai suoi motivi, come adeguati ai motivi della
poesia d’arte sono le parole e i ritmi a lei propri, di cui ciascuno è grave di
sottintesi che mancano nell’altra».
«… una poesia popolare bella e una brutta (non-poesia), come ce n’è in quella
d’arte; e non è detto che le bruttezze, le goffaggini, le freddure, i prodotti
meccanici siano minori nella cerchia della prima, nella quale si trova anche,
come nell’altra, molta e varia versificazione gnomica, parenetica, aneddotica,
giocosa, che non è, e non vuole essere, propriamente poesia. Ma, dove la poesia
popolare è poesia, non si distingue da quella d’arte, e, nei suoi modi, rapisce e
delizia. La differenza, dunque, da cercare, e la corrispettiva definizione, sarà
soltanto… psicologica, ossia di tendenza o di prevalenza e non già di essenza, e
riuscirà utile, in questi limiti, ai fini della critica».
«Sia pure che la poesia popolare fiorisca di solito nell’ambiente popolare, non
perciò si rinchiude in questo: il suo tono si fa udire per ogni dove sorgano animi
così disposti, e perciò anche in ambienti non popolari e da uomini non
popolani… Comunque, perché quel tono risuoni, occorre soltanto che alcuni
uomini, ancorché colti, siano rimasti, verso la vita o certi aspetti della vita, in
quella semplicità o ingenuità di sentimento o vi ritornino in certi momenti».
«Senza negare che nuovi canti popolari pur sorgono qua e là presso i volghi
d’Italia, e senza negare quelli che vennero per altre vie e gli altri che si
composero dopo il Cinquecento e che rimasero nella tradizione, e, soprattutto,
senza negare che molti canti furono via via trasformati e molti altri si
composero per imitazione o seguendo gli antichi schemi – negar ciò varrebbe
negare cose evidenti – a me pare che risponda sostanzialmente al vero la teoria
che riporta l’origine della grande massa originale degli strambotti, delle ottave,
dei rispetti raccolti nell’Ottocento, alla toscana del Tre e Quattrocento, e, in
buona parte, attraverso la Toscana, alla Sicilia, culla della nuova poesia
volgare».
5. Barbi folklorista
«… per un rispetto o per un altro imperfette, una raccolta fatta con maggior
larghezza di criteri e con più continuata pazienza di ricerche per procurarsi
tanto le varie lezioni di una stessa canzone, necessarie a ristabilirne, fra le
alterazioni dovute alle trasmissioni orali, il testo primitivo nelle sue linee
sostanziali, quanto i dati di fatto che servano a illustrare i canti nella loro
origine, nel loro contenuto e nella loro forma, in relazione a quella con quelli
delle altre regioni d’Italia e, occorrendo, delle nazioni vicine».
«La poesia popolare è sempre in vita: accetta, trasforma, lascia cadere; ci sono
forme che si trovano a certi momenti, e non più a certi altri; alcune rimangono
locali, altre trasmigrano da una regione all’altra, e spesso, dovendo adattarsi
ad usi diversi, ricevono notevoli modificazioni. Sta al nostro studio riconoscere,
fra tante varietà, le forme vere, notarne i caratteri, le relazioni, l’estensione sia
nel tempo che nello spazio; ma son tutte forme ugualmente legittime. Si può
ricercare la forma primitiva di un dato canto, ma non la forma primitiva e
genuina della poesia popolare che, nel suo complesso, va considerata come un
essere in perpetuo stato di trasmutazione».
«la storia della poesia popolare non è la storia della canzone epico-lirica e dello
strambotto villeresco soltanto: è popolare tutto ciò che il popolo fa suo nelle
forme da lui via via accettate e preferite. Ci sono forme più o meno popolari, ci
sono canti che rimangono più a lungo e canti che rimangono meno a lungo
nella tradizione, ma ciascuna di quelle forme, e ciascuno di quei canti, per quel
grado di popolarità che ha avuto, ha diritto di entrare in una storia della poesia
popolare».
«Occorre diffondere un concetto più esatto della poesia popolare e un’idea più
rispondente al vero della sua storia. Non si tratta di fissare un nuovo e più
appropriato concetto teorico di quella poesia come si provò a fare alcuni anni fa
Benedetto Croce; ormai è prevalso nell’uso un dato concetto empirico, e non si
può di punto in bianco mutar nome alle cose».
«Troppo oggi si parla di critica allotria; e invece, non tra critica allotria e
critica estetica sarebbe da far distinzione, ma tra critica vana e critica buona,
fra improvvisazioni d’ignoranti e ricerche meditate e nuove, quale che sia il
loro genere… Innanzi alla critica estetica e alla critica filologica vien fatto di
ripetere le parole del Manzoni: «Che bisogno c’è di scegliere? L’una e l’altra
alla buon’ora… son due cose come le gambe, che due vanno meglio che una
sola».
«Di fronte alla moderna affermazione che una poesia tradizionale è anonima,
semplicemente perché si è dimenticato il nome del suo autore, si deve
riconoscere che è anonima perché è il risultato di molteplici creazioni
individuali che si sommano e si incrociano: il suo autore non può avere un
nome determinato, il suo nome è legione. Ma in questa poetica creazione
collettiva non vi è nulla di abituale, di insormontabile e misterioso. Il miracolo
della poetizzazione in comune si spiega pianamente e semplicemente col solo
riconoscere che le varianti non sono accidente inutile per l’arte. Sono parte
dell’invenzione poetica: la cima più alta di bellezza, di valore estetico, può
essere toccata non solo dal primo cantore, ma da qualsiasi altro recitatore del
canto».
E con queste affermazioni, – mentre egli conciliava le
teorie che sul valore del testo primigenio avevano avuto il
Wagener, il Benfey e i Krohn, – il Menéndez Pidal, spirito
romantico come il suo popolo, si collegava al Paris, il quale
nello studio dell’epopea s’era appunto appellato alla
elaborazione popolare. Si è rimproverato, è vero, al
maestro spagnolo di considerare questa elaborazione come
un processo meccanico. E in qualche sua indagine
particolare ciò è indubbiamente avvenuto. Ma quand’egli
afferma esplicitamente che la bellezza più alta di un canto
può essere conquistata non solo dal primo, ma anche dal
suo ultimo recitatore, è ovvio che per lui il processo
imitativo non si esaurisce in un atto di antologista, ma in
una creazione poetica. E ciò, è ovvio, toglie alla poesia
stessa il mistero della sua nascita per trovarla, eterna, in
una particolare forma di vita sempre rinnovantesi.
Il Menéndez Pidal – e in ciò egli è sulla stessa linea del
Croce – contribuì così a mettere in crisi quella poetica del
primitivismo che negli studi della poesia popolare si era
accoppiata a una feconda inclinazione estetico-
sentimentale. Ma in quella crisi, ecco il rinnovamento
stesso degli studi delle letterature popolari.
30. Poetica di un mito
5. Confutazioni
«Le favole che si usa chiamare magiche, ad esempio sul principe Ivàn che
conquista la Car-devica [reginetta], l’uccello di fuoco o qualche altra
meraviglia, sono evidentemente nate nell’epoca del feudalismo e, dobbiamo
pensare, non nell’ambiente contadino, bensì in quello dei boiardi e dei principi,
oppure in quello dei mercanti. Soltanto in un secondo momento esse furono
elaborate dai contadini secondo i loro gusti e rappresentazioni di classe».
8. Popolo e chiericato
Le note che seguono non pretendono di essere una compiuta bibliografia della
nostra Storia. Le bibliografie o comprendono indistintamente tutto ciò che è
stato scritto su un argomento o seguono un criterio di scelta conforme al
metodo che l’autore ha seguito nella sua opera. È a quest’ultimo criterio che
abbiamo voluto attenerci per quei lettori che vogliono in qualche modo
approfondire i singoli capitoli da noi trattati.
Premessa
PARTE PRIMA
Capitolo primo
1. Sulla origine e sulla formazione del mito del buon
selvaggio esiste ormai tutta un’ampia letteratura, la quale
di recente è stata passata in rassegna da G. Cocchiara, Il
mito del buon selvaggio (Messina, 1948). Si aggiungono: N.
H. Fairchild, The Noble Savage (New York, 1928), e A.
Gerbi, Viejas polemicas sobre el Nuevo Mundo (Lima,
1946). È merito del Fueter, Storia della storiografia
moderna, trad. Spinelli, 1, 350 (Napoli, 1944), l’aver messo
in risalto l’opera del Martire. Sul de Léry si veda invece R.
Allier, Le non-civilisé et nous (Paris, 1927 sgg.). Discordanti
ancor oggi i pareri intorno alla attività di Bartolomé de Las
Casas. Sul quale si vedano, ad esempio, E. B. Teran, La
nascita dell’America, trad. Doria (Bari, 1939) (che gli è
favorevole) e R. Menéndez Pidal, Poesia araba e poesia
europea, trad. Ruggero (Bari, 1949) (che gli è stranamente
contrario). Rimandi: J. G. Frazer, The Golden Bough, 1: The
Magic Art and the Evolution of Kings, p. XXV (London,
1911).
7. Uno dei saggi più limpidi che siano stati dedicati alle
Mille e una notte è quello di F. Gabrieli, Storia e civiltà
musulmana, 99 sgg. (rielaborato e ripubblicato nella prima
trad. italiana delle Mille e una notte, a cura dello stesso
Gabrieli, Torino, 1949).
PARTE SECONDA
Capitolo sesto
5-8. Alle Reliques sono stati dedicati ampi studi. Fra i più
importanti: M. Willinski, Bishof Percy’s Bearbeitung des
Volksballaden und Kunstgedichte seines Folio-Manuscriptes
(Leipzig, 1932); e C. V. H. Marwell, Thomas Percy, Diss.
Gottingen (1934). Per maggiori dettagli si veda, però, la
ricca bibl. che in proposito ci da il Baldi, Studi sulla poesia
popolare d’Inghilterra e di Scozia (Roma, 1949). Rimandi:
S. Baldi, ibidem, 42-58, 67; e F. Meinecke, Senso storico e
significato della storia, trad. Mandalari, 158 (Napoli, 1948).
La frase del Wordsworth è tolta dalla appendice che segue
la prefazione delle Lyrical Ballads quali apparvero nella
seconda ediz. L’immagine della poesia popolare che viene
chiamata a rinsanguare e a rinfrescare la poesia senza
aggettivi è del De Sanctis, il quale nella sua Giovinezza
(cap. XXV) ha questa pagina quanto mai significativa:
«Parlai della poesia solenne e della poesia popolare.
Mostrai che il cammino delle forme poetiche è determinato
dalla civiltà, e si va sempre verso la maggiore libertà di
congegno e verso la maggiore popolarità. A quel modo che
la lingua, arricchendosi, va sempre più rompendo i suoi
nativi confini, e si va sempre più accostando alle forme
popolari del dialetto; a quello stesso modo la poesia
produce con più libertà nelle sue forme, e si rinfresca e si
rinsangua dell’immaginazione popolare».
Capitolo nono
PARTE TERZA
Capitolo undicesimo
PARTE QUARTA
Capitolo sedicesimo
PARTE QUINTA
Capitolo ventunesimo
PARTE SESTA
Capitolo ventiseiesimo
Aarne A.
Abdallah Ibn ul-Muqaffa
Addison J.
Afanasev A.
Afzelius A. A.
Alais (d’) V.
Alciato A.
Alexandri V.
Altusio
Ampère J.-J.
Anacreonte
Andersen H. C.
Anderson W.
Andree R.
Andreev A. N.
Antoni C.
Ariosto L.
Aristofane
Aristotele
Arnaldo A.
Arndt E. M.
Arnim (von) L. A.
Arwidson A. J.
Aulnoy (de) M.-G.
Azadovskij M. K.
Bachofen J. J.
Bächtold-Stäubli H.
Bacone F.
Baldi S.
Baltus (Padre)
Banier A.
Barbi M.
Bartoli D.
Basile G. B.
Bastian A.
Bayle P.
Becker Ph.-A.
Becq de Fouquières L.
Bédier J.
Behn A.
Bekker B.
Bellini G.
Benfey T.
Berchet G.
Bérenger-Féraud L.-J.-B.
Bernier F.
Bestužev-Marlinskij A. A.
Binni W.
Blackwell F. T.
Blair R.
Bloch M.
Bloch P. J.
Blücher G. L.
Boccaccio G.
Bodin J.
Bodmer J.
Böhme F. M.
Böhme J.
Boileau N.
Bolte J.
Bonald (de) L.-G.-A.
Bopp F.
Bossuet J.-B.
Boulanger N.-A.
Bourne H.
Bouterwek F.
Bowring J.
Brahms J.
Brand J.
Bréal M.
Breitinger J. J.
Brentano K.
Bronnitsyn B.
Bronzino
Brosses (de) C.
Browne T.
Buchan G.
Buffon (de) G.-L.-L.
Bugge S.
Bürger G. A.
Burke E.
Burns R.
Byron G.
Čaadaev P. Ja.
Caballero F.
Calepio
Calvino
Campanella T.
Carducci G.
Carmeli M.
Carré J.-R.
Cartesio
Cassirer E.
Castillo (del) H.
Cattaneo C.
Caudwell C.
Čelakowsky F. L.
Cervantes M.
Cesare
Cesareo G. A.
Cesarotti M.
Chardin
Charron P.
Chateaubriand (de) F.-R.
Chaucer G.
Chauviré R.
Cherbury (of) H.
Chiabrera G.
Child J. J.
Chopin F.
Christiansen R. T.
Cicerone
Čičerov V.
Ciezkowski A.
Claudius M.
Clodd E.
Cloots A.
Coirault P.
Coleridge S. T.
Colet H.-R.
Collins W.
Comparetti D.
Comte A.
Constant B.
Conti N.
Cook A. B.
Corneille P.
Cosquin E.
Costa G.
Cox G. A.
Craveri R.
Crawley E.
Cretet E.
Creuzer F.
Croce B.
Cronia A.
Čulkov M. P.
Cuoco V.
Dahlman F. C.
Dalrymple D.
D’Ancona A.
Danilov K.
Dante
D’Armancour P.
Daub K.
Davy G.
Dawson C.
De Ferraris A. (Galateo)
Defoe D.
De Gubernatis A.
Delehaye H.
Della Valle P.
De Lollis C.
Del Rio M.
De Martino E.
Demeunier J.-N.
De Nobili R.
De Sanctis F.
Dessauer R.
De Visser M. W.
Diderot D.
Dieterich A.
Diez F.
Di Francia L.
Di Giovanni G.
Diodoro Siculo
Dobroljubov N. A.
Dobrovsky V. N.
Doncieux G.
Dostoevskij F.
Droysen T.
Dufresny Ch.
Dulaure J.-A.
Dumersan Th. M.
Dumézil G.
Dupuis C.-F.
Duran A.
Durkheim E.
Eckermann J. P.
Edmont E.
Edwards W.
Eichendorff J.
Eliade M.
Epicuro
Erodoto
Esopo
Fara G.
Farnell E. T.
Fauriel C.
Fawtier R.
Fénelon
Fherle E.
Fichte G.
Ficino M.
Finetti G. F.
Flores P.
Fontenelle (de) B.
Foscolo-Benedetto L.
Fournier E.
Foy W.
Frazer J. G.
Frobenius L.
Fubini M.
Fueter E.
Fustel de Coulanges N.-D.
Gabotto F.
Gabrieli F.
Gaidoz H.
Galateo (vedi De Ferraris A.)
Galiani F.
Galileo
Galland A.
Garnier J.
Gautier L.
Gebelin (de) C.
Geiger P.
Geijer E. I.
Gentile A.
Gerbi A.
Gerhard E.
Giannone P.
Gibbon E.
Gilliéron J.
Gioberti V.
Gladstone W. E.
Gleim J. W. L.
Glinka M. I.
Gobineau (de) A.
Goethe W.
Gogol N.
Goguet A.-Y.
Gomme A. B.
Gomme L. B.
Góngora (de) L.
Gorkij M.
Görres J.
Gottsched J. C.
Gozzi G.
Graebner F.
Graf A.
Gramsci A.
Gravina G. V.
Gray T.
Gregorio di Tours
Grimm J.
Grimm W.
Groethuysen B.
Grozio U.
Grundtvig S.
Guérin (de) M.
Guizot F.
Haberlandt A.
Haberlandt M.
Hagedorn F.
Hahm K.
Hakluyit R.
Haller (von) A.
Hamann J. B.
Hardy T.
Harrison J. E.
Hartland S. E.
Harwood E.
Hazard P.
Hegel G.
Heine H.
Helvétius C.-A.
Herd D.
Herder J. G.
Heyne C. G.
Hilferding A. F.
Hippius L.
Hirn J.
Hoffmann-Krayer E.
Hubert H.
Huet P. D.
Hugo V.
Huizinga J.
Humboldt W.
Hume D.
Huvelin P.
Imbriani V.
Institoris H.
Jahn F. L.
Jeanmaire H.
Jeanroy A.
Jhering C.
Jolles A.
Jones W.
Jouvenel (de) B.
Kallas (Krohn) A.
Kant I.
Karadžič V. S.
Karamzin N. M.
Keller A.
Keltuyala V. S.
Ker W. P.
Kerbaker M.
King J. A.
Kircker A.
Kireevskij I.
Kireevskij P.
Klopstock F. S.
Köhler R.
Kolberg O.
Kollár J.
Kopitar J.
Koppers W.
Krohn I.
Krohn J.
Krohn K.
Krylov I. A.
Kuhn A.
La Bruyère (de) J.
Lachmann K.
La Créquinière (Padre)
Lafitau J.-F.
La Fontaine (de) J.
La Hontan (de) A.-L.
Lallemand C.
Lamprecht K.
Landau M.
Lang A.
Las Casas B.
La Villemarqué H.
Lawson J. C.
Lazarus M.
Le Brun (Padre)
Le Force (M.lle)
Lehmann O.
Leibniz G. W.
Lejeune (Padre)
Lenartowicz I.
Leopardi G.
Lermontov M. J.
Léry (de) J.
Lescarbot M.
Lessing H. E.
Lévy-Bruhl L.
Licurgo
Liebrecht F.
Liungmann W.
Livio
Locke G.
Lo Gatto E.
Loiseleur-Deslongchamps A.
Loisy A.
Lönnrot E.
Lopez de Gómara F.
Lorenzo il Magnifico
Lot F.
Lowth R.
Lubbok J.
Lutero
Luzel F.
Machiavelli N.
Mac Culloch J. A.
Mackensen L.
Mac Lennan J. F.
Macpherson J.
Maione I.
Maistre (de) X.
Mangourit M.
Mann T.
Mannhardt W.
Manzoni A.
Maometto
Marana G. P.
Marett R. R.
Marillier L.
Martens F. F.
Martire P.
Marx K.
Mauss M.
Mazzini G.
Meier J.
Meinecke F.
Meli G.
Menéndez Pidal R.
Mercier S.
Mérimée P.
Messia A.
Meyer P.
Michel F.
Michelet J.
Mila M.
Milá y Fontanals M.
Miller O. F.
Milton J.
Molinaro del Chiaro L.
Monaci E.
Monboddo J. B.
Montaigne (de) M.
Montesquieu (de) C.-L.
Morgan L. H.
Mörike E.
Moro T.
Mosè
Möser J.
Müllenhoff K.
Müller J.
Müller (de) J.
Müller M.
Muralt (von) B. L.
Muralt J.
Murat (M.me de)
Muratori L. A.
Mussorgskij M. P.
Nájera (de) E.
Napoleone
Naumann H.
Neri F.
Nerval (de) G.
Newton I.
Nicolai F.
Niebuhr B. G.
Niemcewicz J. U.
Nietzsche F.
Nigra C.
Nilson M. P.
Nodier C.
Novalis H. F.
Novali F.
Nutt A.
Nyerup C.
Olrik A.
Omero
Ovidio
Ozanam A. F.
Paolo Diacono
Paris G.
Pascal B.
Pasquali G.
Percy T.
Perrault C.
Pessler W.
Pestel P. I.
Pettazzoni R.
Petrarca F.
Pickard-Cambridge A.
Pictet A.
Pictorius L.
Pigafetta M.
Pinard de la Boullaye H.
Pitagora
Pypin A. N.
Pitrè, G.
Pitt H.
Placucci M.
Platone
Plinio il Vecchio
Plutarco
Polier (de) A.
Polivka G.
Poliziano A.
Polo M.
Pope A.
Propp V. Ja.
Puchta G. F.
Pufendorf S.
Pulci L.
Puškin A. S.
Quinet E.
Rabelais F.
Racine J.-B.
Rajna P.
Ralston W. R. S.
Ramsay A.
Ramusio
Ratzel F.
Razin S.
Reinach S.
Renan E.
Ribezzo F.
Ricci M.
Ridgeway W.
Riehl W. H.
Robertson Smith W.
Rodionovna A.
Rohde E.
Röhr E.
Rolland R.
Rousseau J.-J.
Rubieri E.
Russo L.
Sacy (de) S.
Sacharov I. P.
Saint-Pierre (de) B.
Saint-Simon (de) L.
Saintyves E. (E. Nourry)
Salomone-Marino E.
Salvemini G.
Sand G.
Santer E.
Santoli V.
Sarpi P.
Sartori P.
Savigny (von) F. K.
Schelling F. W.
Scherer W.
Schiller F.
Schlegel A. W.
Schlegel F. W.
Schleiermacher F.
Schmidt W.
Schubert F.
Schumann R.
Schwartz W.
Schwind (von) M.
Scott W.
Sébillot P.
Sénancour E.-P.
Sepulveda L.
Shaftesbury A. A. C.
Shakespeare W.
Shelley P. B.
Sokolov B.
Sokolov J. M.
Sorel G.
Souvestre E.
Spamer A.
Spee F.
Spencer H.
Spiess K.
Spinoza B.
Spitzer L.
Sprat T.
Sprenger J.
Staël (de) A.-L.-G.
Stasov V. V.
Stein (von) H. F. K.
Steinthal H.
Strabone
Straparola G. F.
Sydow (von) C. W.
Tacito
Taine H.
Talvi (vedi Voiart E.).
Tassoni A.
Tavernier J.-B.
Temple W.
Tereščenko A.
Terracini B.
Tertulliano
Thibaut A. F. J.
Thierry A.
Thiers J.-B.
Thomasius
Thoms W.
Thomson J.
Tieck J. L.
Tiersot J.
Tille V.
Toland J.
Tolstoj L.
Tommaseo N.
Tommaso d’Aquino
Tonnelat E.
Topelius Z.
Toschi P.
Tournemine (Padre)
Treitschke (von) H.
Trevelyan G. M.
Troya C.
Turgenev I. S.
Tylor E. B.
Tyrrel G.
Tyssot de Patot
Uhland L.
Usener H.
Valla L.
Van der Leeuw G.
Van Gennep A.
Varrone
Vega (de la) G.
Veneziano A.
Venturi F.
Verdi G.
Verga G.
Verri A.
Veselovskij A.
Vico G. B.
Vidossi G.
Viereck P.
Vincenti L.
Virgilio
Visconti P. E.
Voiart E.
Voltaire
Vossler C.
Wackenroder E.
Wagener A.
Wagner R.
Waitz T.
Walzel A.
Warton T.
Weber A.
Weinhold F. A.
Westermarck E.
Wieland C. M.
Wilamowitz (von) U.
Winckelmann J. J.
Wolf F. A.
Wolf J. W.
Wolfram R.
Wood R.
Wordsworth W.
Wundt G.
Young E.
Zola E.
Zuinglio
Žukovskij V. A.
Indice
Premessa
2. Il messaggio dell’Oriente
1. Gli Stranieri-Simboli
2. L’Oriente come vivaio di forze, di ideali e di religioni
3. «Di Dio è l’Oriente, di Dio è l’Occidente»
4. Il Turco e il Persiano danno lezioni all’Europa
5. L’Egitto, fonte di giovinezza
6. I conti di fata e l’Oriente
7. Le Mille e una notte
8. Noi e gli Orientali: differenze e concordanze
6. L’uomo e la storia
1. Verso una nuova «scienza dei costumi»
2. Lafitau e le sue Mœurs des Sauvages Amériquains
3. Etnografia e storia
4. La Scienza Nuova
5. Vico e il mondo primitivo
6. Alle origini, la poesia
7. Vico, le nazioni barbare e le civili
8. Le Antiquitates del Muratori
9. Poesia e tradizione
1. Il «primitivo» a casa propria
2. Muralt e Haller
3. Bodmer e il folklore della Svizzera
4. Poesia e sentimento nazionale
5. Le scoperte del Bodmer
6. L’opera storiografica del Möser
7. Müller e il colore locale
8. La mediazione della storiografia svizzera nella storia del folklore europeo