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Presentazione

«Tra le popolazioni barbare e le civili non ci sono abissi


ma trapassi: in questi trapassi è l’essenza del folklore, che
diventa scienza quando si integra con l’etnologia». Prima
che uno statuto disciplinare riuscisse a catturare l’«indole»
del folklore, ed etnologi e folkloristi insigni come Giuseppe
Cocchiara perimetrassero l’oggetto dei loro studi,
dirimendone le combattute relazioni con mitologia, storia
delle religioni, letteratura e filologia, dovettero trascorrere
secoli di travaglio di pensiero e ricerche. Irriducibile
all’esotico o al pittoresco di maniera, il grande alveo delle
tradizioni popolari – fiabe, leggende, proverbi, canti, ma
anche costumi, usi, credenze – cominciò a svelare il segreto
del suo «continuo morire per un eterno rivivere», ossia
della sua perenne rielaborazione, quando l’Europa acquisì
consapevolezza storico-critica di se stessa nel confronto
sconvolgente con il Nuovo Mondo appena scoperto. Da
allora, l’identità culturale europea si cimentò con quanto
«di più intimo» potesse racchiudere, ossia il «primitivo a
casa propria». Cocchiara risale instancabilmente lungo le
infinite diramazioni che da Montaigne arrivano a Tylor, da
Vico a Frazer, dai romantici a Pitrè. Accorpa, distingue,
illumina genealogie, e soprattutto mette in rapporto la
riflessione sul folklore con le correnti filosofiche,
scientifiche e letterarie che si sono susseguite. Un lavoro
immane, riconosciuto da autorità della statura di Propp ed
Eliade e divenuto fin da subito un classico, un’opera che nel
Novecento non ha uguali negli studi sul folklore.

Giuseppe Cocchiara (1904-1965), tra i maggiori


etnologi del Novecento, si perfezionò a Londra con
Bronisław Malinowski e a Oxford con Robert Ranulph
Marrett, e insegnò presso l‘Università di Palermo prima
Letteratura delle tradizioni popolari (1934-43), poi Storia
delle tradizioni popolari (dal 1946) e Antropologia sociale
(dal 1948). Continuò gli studi inaugurati in Sicilia da
Giuseppe Pitrè, curando il riordinamento del Museo
Etnografico palermitano da lui fondato. Grazie a Cocchiara,
Museo e Università fecero allora di Palermo il centro di
riferimento nazionale per le discipline folkloriche. Fu
autore di un’opera vastissima, in cui si segnalano Storia
degli studi delle tradizioni popolari in Italia (1947), Genesi
di leggende (1949), Il paese di Cuccagna e altri studi di
folklore (1956) e Le origini della poesia popolare (1966).
Tra le riedizioni più recenti: L‘eterno selvaggio (2000) e
Popolo e letteratura in Italia (2004). È disponibile presso
Bollati Boringhieri Il mondo alla rovescia (2015).
www.bollatiboringhieri.it

www.facebook.com/bollatiboringhierieditore

www.illibraio.it

© 1952, 1971 e 2016 Bollati Boringhieri editore


Torino, corso Vittorio Emanuele II, 86
Gruppo editoriale Mauri Spagnol

ISBN 978-88-339-7450-7

Immagine di copertina: Ivan Bibilin, tavola per Vassilissa la bella (1899), fiaba
raccolta da Aleksandr N. Afanasev.

Prima edizione digitale gennaio 2016


Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore.
È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata
Saggi

Storia
Storia del folklore in Europa
Prefazione alla nuova edizione (1971)

Giuseppe Bonomo*

Nell’attività di folklorista ed etnologo svolta da Giuseppe


Cocchiara durante l’arco non lungo della sua vita (nato a
Mistretta nel 1904, morì a Palermo nel 1965) è possibile
distinguere due fasi, eguali rispetto all’impegno dello
studioso ma dissimili quanto a validità scientifica, delle
quali una coincide con i suoi anni più verdi, l’altra con
quelli della maturità.
Cocchiara fece i suoi studi a Palermo laureandosi in
giurisprudenza, tuttavia fin dagli anni universitari fu
attratto da quel settore di ricerca al quale poi avrebbe
dedicato senza risparmio il suo lavoro fino agli ultimi
giorni. Nella scelta delle tradizioni popolari influirono la
provenienza da un paese ricco di folklore, l’ammirazione
per i folkloristi siciliani dell’Ottocento e segnatamente per
Pitrè, che aveva operato e insegnato a Palermo.
Nella cultura siciliana dei primi decenni di questo secolo
il filone più vivo era ancora costituito dalla ricerca
folklorica, alla quale Giuseppe Pitrè, tra il 1870 e il 1916,
aveva dato un contributo di lavoro rilevante per mole e
importanza. Negli anni successivi alla morte di Pitrè, le
ricerche di tradizioni popolari in Sicilia non riuscivano a
sollevarsi dal generico dilettantismo; scarsa conoscenza
dell’avanzamento degli studi folklorici e malposto amore
per la propria terra ostacolavano le indagini serie nell’isola.
I cultori del folklore regionale si ostinavano a vedere la
poesia popolare avvolta dalla suggestiva luce romantica, e
da essa abbagliati non cessavano di levare alle stelle
presunti tesori di poesia tradizionale. Lo stesso Pitrè da
giovane aveva sbandierato «tesori di vergine poesia
tradizionale siciliana». Ma in seguito i suoi entusiasmi,
confortati da presupposti romantici del primo Ottocento, si
erano affievoliti, ed egli, pur non rinunciando a certe
opinioni contraddette in modo irrefutabile da puntuali
ricerche filologiche e storiche di altri studiosi, aveva
accantonato gli studi di poesia popolare per indagini più
proficue in altri settori folklorici.
L’esperienza pitreiana non era stata raccolta in Sicilia, e
Cocchiara abbracciò anche lui le vecchie formule
romantiche fatte proprie da Pitrè. E non sembrandogli
adeguate alla tradizione degli studi folklorici siciliani le
ricerche condotte in quegli anni, asseriva che «bisognava
assolutamente rientrare nella via tracciata da Pitrè». Infatti
con la prima opera giovanile di qualche impegno, Popolo e
canti nella Sicilia d’oggi (1923), Cocchiara si rifa a Pitrè
degli anni ’870. Di poesia nel suo libro ce n’è poca e di
popolare ancora meno, e il discorso è incentrato su moduli
romantico-risorgimentali di ispirazione pitreiana: la «musa
analfabeta», «l’arte del popolo che è arte dell’anima» e via
discorrendo. Il libro però è interessante se guardato con
una diversa angolazione. Cocchiara dà un saggio del suo
fervore di studioso, dell’amore per la sua terra e
dell’ammirazione profonda per Pitrè, alla cui memoria il
lavoro è dedicato. Al maestro ideale rivolgerà la sua
attenzione in età più matura, sviluppando sull’uomo e lo
studioso un ampio discorso nel libro Pitrè, la Sicilia e il
folklore (1951), nella Storia del folklore in Europa (1952), e
in Popolo e letteratura in Italia (1959). La stessa
abbondanza di cuore del volumetto del 1923 si ritrova nei
lavori su Tommaso Aversa e il teatro sacro in Sicilia, pure di
quell’anno, e nelle Vastasate (1926). Su un piano più
prossimo al rigore scientifico si pongono invece i lavori
Folklore, Gli studi delle tradizioni popolari in Sicilia, e
L’anima del popolo italiano nei suoi canti, pubblicati nel
1927-28. In quest’ultimo libro di largo respiro emergono la
tendenza storiografica dell’autore e il proposito di
accostarsi responsabilmente alla problematica folklorica.
Negli Studi delle tradizioni popolari in Sicilia afferma che:
«In Italia si è pensato ad essere folkloristi, ma dai problemi
del folklore e dalla scienza siano stati sempre un po’
lontani. Ben altri metodi e ben altri orizzonti si profilano
per la scienza.»
Negli anni 1930-32 Cocchiara, sollecitato da Pettazzoni,
si trasferisce in Inghilterra per frequentare i corsi di
Malinowski e di Marett nelle Università di Londra e di
Oxford. I primi frutti dei suoi studi inglesi si colgono nelle
ricerche sulla Leggenda di Re Lear, in un saggio sui canti
popolari The Lore of the Folk-Song, e nel volume Il
linguaggio del gesto (1932), nel quale cosi scrive: «Sarebbe
assurdo se volessimo studiare il gesto tenendo conto delle
popolazioni civili e trascurando le società primitive. La
moderna etnologia, così intimamente legata alla storia, ci
insegna che tra le popolazioni barbare e le civili non ci sono
abissi ma trapassi: in questi trapassi è l’essenza del
folklore, che diventa scienza quando si integra con
l’etnologia.» In questa lucida dichiarazione di metodo si
riflette l’influenza operata sull’autore dall’evoluzionismo e
dal comparativismo, che costituiscono i caratteri salienti
dell’antropologismo inglese, del quale Marett, pur
accogliendo concezioni storicistiche, era l’ultimo
rappresentante di rilievo.
L’applicazione delle idee evoluzionistiche allo studio della
poesia popolare, porta Cocchiara a considerare il canto
popolare soprattutto espressione etnografica, cioè
documento di vita e di costumi del popolo, e i fatti culturali
in esso contenuti come sopravvivenza di prodotti culturali
di civiltà arcalche o del mondo primitivo. La ferma
convinzione che la poesia popolare non è dissociabile dal
contesto della cultura popolare induce Cocchiara ad
affiancare alla «lettura letteraria» dei testi poetici una
«lettura etnografica» (sono espressioni di Alberto Cirese)
per poterli più correttamente intendere e valutare. I
risultati del suo lavoro in questa direzione sono contenuti
nel volume Il linguaggio della poesia popolare (1942; 2a ed.
1951), rifatto, con ulteriori ampliamenti, col titolo Le
origini della poesia popolare e apparso nel 1966, dopo la
sua morte. Lo stesso tipo di analisi, con le stesse
prospettive, è applicato da Cocchiara all’illustrazione di
temi narrativi della tradizione popolare (per esempio nel
volume Genesi di leggende, tre edizioni dal 1940 al 1949).
La fedeltà all’impostazione evoluzionistica degli studi
folklorici e l’impegno di stabilire legami sempre più stretti
tra etnologia e folklore sono preminenti nei suoi scritti fino
alla seconda guerra mondiale. Nel dopoguerra, le opere di
Croce e il libro di De Martino, Naturalismo e storicismo
nell’etnologia, promuovono l’accostamento di Cocchiara
allo storicismo idealistico, come è documentato dalla sua
produzione di quegli anni, della quale fanno parte le opere
più significative: Storia delle tradizioni popolari in Italia
(1947); Il mito del buon selvaggio (1948); Storia del
folklore in Europa (1952); Il paese di Cuccagna (1956);
Popolo e letteratura in Italia (1959); L’eterno selvaggio
(1961); Il mondo alla rovescia (1963).
Tra queste opere, tutte di notevole impegno,
caratterizzate da abbondanza di letture e di spogli e dalla
viva partecipazione dell’autore ai temi trattati, delle quali
qui non è possibile discorrere (come non è possibile dire
del molto lavoro di Cocchiara come docente, preside di
facoltà, direttore del Museo etnografico Pitrè di Palermo e
degli «Annali del Museo Pitrè»), due soprattutto segnano
una tappa sfavillante nel cammino di Cocchiara: la Storia
del folklore in Europa, e L’eterno selvaggio. Nella
traduzione russa della Storia, apparsa a Mosca nel 1960, la
nota introduttiva si apre con queste parole: «Il libro dello
scienziato italiano colma le lacune sostanziali esistenti nella
letteratura del folklore mondiale». E in una rivista sovietica
di etnografia di quell’anno si coglie questa esclamazione:
«Ecco finalmente il libro di un occidentale che ha qualcosa
da insegnarci.» In effetti il libro è stato curato con
l’impegno di chi realizza un’opera guida. Cocchiara
descrive minutamente il sorgere nei vari centri di cultura
europei di problemi e metodi che in seguito costituirono la
scienza del folklore, e proiettandole su un ampio sfondo
storico-culturale esamina le teorie etnologiche-folkloriche
in connessione con i presupposti filosofici dei vari studiosi.
Egli è consapevole che non è possibile scrivere la storia del
folklore isolandola dalla storia dei principali movimenti di
idee e dalle correnti letterarie e scientifiche che hanno
caratterizzato il progresso del pensiero europeo negli
ultimi quattro secoli, e dentro queste grandi correnti
riconosce e segue il filone specifico del folklore, che spesso
ha rappresentato uno dei tratti più significativi di
movimenti filosofici o letterari. La storia del folklore non si
presenta quindi come un susseguirsi meccanico di
concezioni e di scuole, ma come un’intensa lotta ideologica.
Se la Storia del folklore in Europa colloca Cocchiara tra i
più illustri folkloristi del dopoguerra, L’eterno selvaggio,
che giustamente Antonino Buttitta considera l’opera più
matura e organica di Cocchiara etnologo, lo fa annoverare
tra i più avvertiti studiosi di etnologia. In questo lavoro, la
tesi che il selvaggio è «il protagonista della nostra cultura»,
svolta dall’autore con suggestivi accostamenti, fa assumere
all’etnologia, che nella prassi della ricerca è storia delle
civiltà primitive, la dimensione di storia delle civiltà. «Sotto
questo profilo – soggiunge Buttitta – vengono ad essere
identificate etnologia e scienza del folklore, risultandone
anche esteso topograficamente il concetto espresso nella
Storia del folklore in Europa a proposito della storicità
delle tradizioni popolari.»
Nella ricerca senza verità precostituite, con la storia
come riferimento costante, consiste il senso più alto
dell’insegnamento di Giuseppe Cocchiara: «Una storia –
egli ha scritto – che è la storia di tutti, di dominatori e di
dominati, di accademici e di contadini. E in questa storia,
che è la storia dell’uomo, l’esigenza della scoperta del
primitivo e del popolare non è un fatto esterno: è un dato
stesso della nostra coscienza, che in quella esigenza
acquista esperienze nuove ed originali.»

1971
* Giuseppe Bonomo (1923-2006), etnologo, insegnò Storia
delle tradizioni popolari presso l’Università di Palermo.
Premessa

La scienza del folklore e il suo soggetto. Che cos’è il popolo dei folkloristi. La
storia del folklore, storia dei dominati. Il folklore come aspetto ineliminabile
della storia della cultura e della civiltà. La storiografia del folklore come parte
integrante della storia della storiografia. L’Europa alla ricerca di se stessa.

Nelle sue Lezioni di storia della filosofia lo Hegel ebbe a


osservare che non è possibile scrivere un’introduzione alla
storia della filosofia senza mettere prima in luce il concetto
stesso di filosofia, tanto più che questa «ha la caratteristica
e, se si vuole, lo svantaggio di prestarsi sin da principio alle
più svariate opinioni circa il proprio concetto, ciò che essa
possa e debba fare». Non è possibile, allo stesso modo,
esporre la storia del folklore, senza prima vedere qual è il
concetto che deve animare questa disciplina, le cui
definizioni sono spesso quanto mai contrastanti.
Nato allo scopo di raccogliere e di studiare le varie
manifestazioni della vita popolare quale essa si articola
nelle civiltà storicamente formate, il folklore appare infatti
a molti suoi cultori come una scienza autonoma con leggi e
metodi propri. Appare ad altri invece come una scienza
sussidiaria, la quale prende le sue leggi e i suoi metodi
dall’etnografia, dall’etnologia, dalla psicologia o comunque
dalla sociologia. Il che comporta spesso certe interferenze
naturalistiche fra il folklore e queste discipline che pur
hanno in comune molti problemi. Né infine mancano gli
studiosi i quali ritengono che il folklore si risolve in filologia
quando raccoglie e interpreta i canti popolari, le fiabe, le
novelle, le leggende ecc.; in storia dell’arte, quando studia
l’architettura rustica, le ceramiche popolari, i manufatti
ecc.; in storia delle religioni quando studia gli spettacoli e
le feste; in storia dell’etnografia quando studia le
costumanze, gli usi ecc. E così via.
Il folklore sarebbe insomma l’insieme di vari elementi, il
cui studio si risolverebbe nelle varie discipline menzionate.
In effetti però ciò che pone dei limiti a una disciplina altro
non è che il proprio soggetto. Se si dovesse considerare
infatti il folklore come filologia, etnografia, sociologia,
psicologia, noi potremmo esporre soltanto la sua storia
filologica, quella etnografica o psicologica, non la storia del
folklore, il quale invece, perché si possa studiare come tale,
deve porre un suo particolare problema. Ma qual è,
dobbiamo domandarci, tale problema?
Prima di rispondere a questa domanda, dobbiamo
osservare che in realtà la storia del folklore ci è stata
spesso presentata sotto l’aspetto di un vero e proprio
mostro che vive in sé e per sé come certi protagonisti delle
favole nordiche. Ma non è questo il modo d’intendere il
folklore e tanto meno la scienza del folklore. Si sono create,
altre volte, sul folklore delle facili teorie, contro le quali è
poi comodo battagliare, forse perché, in tal modo, si crede
anche di poter distruggere il soggetto stesso del folklore,
che è quanto dire il popolo. Questo, che è un modo
peggiore del primo, non solo disorienta gli studiosi, ma
discredita una disciplina alla cui sistemazione hanno
lavorato generazioni di scienziati.
Si aggiunga ancora che la stessa disciplina del folklore si
è svolta, in mezzo a dubbi e a incertezze, su due linee che
procedono l’una accanto all’altra, spesso ignorandosi a
vicenda, onde ecco da una parte le tradizioni orali,
esplorate con intenti filologici o estetici, e dall’altra le
tradizioni oggettive, le cui ricerche sono collegate a
interessi storici o storico-etnologici. La letteratura popolare
ci dà, è vero, dei testi individui, i quali come tali possono
anche rivendicare la loro natura artistica. Ma quei testi,
così considerati, non sono che brani di letteratura, quando
invece per il popolo, da cui provengono, essi fanno parte
inscindibile di quel retaggio dove si riflettono
istintivamente, ma unitariamente, i molteplici valori dello
spirito umano. Da qui l’unità fra la letteratura popolare e
l’etnica tradizionale, tanto più che le stesse produzioni
popolari orali (canti, leggende, proverbi ecc.) rimangono
spesso organismi senza vita, quando non vengono
illuminate dal costume, dall’uso, dalla credenza che le
armonizza, le vivifica e spesso le spiega.
Così pertanto – per riattaccarci di nuovo allo Hegel –
come non è possibile scrivere la storia della filosofia se
esistono intorno a essa diversi concetti, perché, dati
concetti fra loro diversi, si danno più filosofie, onde quella
dell’una escluderebbe quella dell’altra, allo stesso modo è
impossibile esporre una storia degli studi delle tradizioni
popolari, se intorno ad essa si hanno diversi concetti (ecco,
dunque, perché si verrebbe in questo caso a esporre la
storia filologica o etnografica o sociologica degli studi delle
tradizioni popolari). In realtà la storia degli studi delle
tradizioni popolari, perché possa essere effettivamente
scritta, deve essere guidata da un problema, che gli altri
assommi e accomuni, e la cui risoluzione dipenda dal suo
stesso soggetto, vale a dire dalle tradizioni popolari, le
quali presuppongono non solo una tradizione, ma una
tradizione che sia popolare.
Si afferma, è vero, che l’unità del folklore si deve perciò
ricercare nell’unità del suo soggetto, che è quanto dire nel
retaggio dei cosiddetti volghi dei popoli civili (ravvisati, in
genere, nelle classi strumentali). È un errore però, a nostro
avviso, rinchiudere il folklore, cioè la materia del folklore,
nel cerchio di quei volghi, cui a torto o a ragione i
folkloristi danno il nome di popolo. E ciò perché il concetto
di popolo, anche se esso possa e debba rispecchiarsi
principalmente nel vulgus, non è esclusivamente
sociologico. Il termine popolo può assumere i significati più
diversi: il sociologo, lo storico, l’uomo politico parlano
infatti di un popolo che risponde sempre per essi a qualche
cosa di particolare, a certi interessi etici o spirituali che
sono il fine del loro fare o del loro pensare. Lo studioso
delle tradizioni popolari si rivolge sì a determinate classi,
ma per lui il popolo non è soltanto l’insieme di queste
classi. Il popolo è l’espressione di una certa quale visione
della vita, di certi atteggiamenti dello spirito, del pensiero,
della cultura, del costume, della civiltà che si presentano
con caratteri propri, specifici, determinati. E qui è la natura
stessa del folklore, il quale, come ben ammoniva il Gramsci,
e tale ammonimento ha pur sempre la sua validità,
specialmente in Italia, «non va concepito come una
bizzarria o una stranezza o come un elemento pittoresco,
ma come una cosa che è molto seria e da prendere sul
serio», tanto più che esso si risolve in una «concezione del
mondo e della vita».
Un popolo, del resto, è pur sempre quello che la sua
storia l’ha fatto: storia non soltanto politica, ma vita storica
in tutte le sue manifestazioni, dalla lingua all’economia, dal
diritto alle costumanze. È vero che la storia del folklore è
viziata, a volte, da premesse che sono la negazione stessa
della storia e dell’estetica, onde si insiste, ad esempio, sugli
assurdi concetti di una storia minore rispetto a una storia
maggiore, di una letteratura o di un’arte minore rispetto a
quella maggiore. Ma è pur vero che le tradizioni popolari,
quali esse siano, sono sempre delle formazioni storiche, né
più né meno come la lingua, l’economia, il diritto. Né è
possibile che esse, fatti spirituali, documenti di vita, di
pensiero o di arte, vivano al di fuori (o al di sopra) della
storia, la quale non è fatta soltanto dai dominatori, ma
anche e soprattutto dai dominati. La storia è la loro vita e
la loro anima.
Ma allora, se le tradizioni popolari vanno considerate
come formazioni storiche, il problema fondamentale che,
data la loro natura, esse pongono, è un problema di
carattere storico. E il compito dello studioso delle tradizioni
popolari è quello di vedere come esse si sono formate,
perché si conservano, quali sono stati e quali sono i bisogni
che ne determinano non solo la conservazione, ma quella
continua, e direi naturale, rielaborazione, dov’è il segreto
stesso della loro esistenza, che è un continuo morire per un
eterno rivivere.
È qui, d’altra parte, in questa continua rielaborazione,
che il folklore si distingue per un suo determinato
atteggiamento espressivo che lo rende inconfondibile. In
realtà gli studiosi di folklore si sono spesso affannati a
favoleggiare, ad esempio, dei misteriosi nascimenti della
letteratura popolare. Ma il nascere non può essere qui
qualcosa di distinto dall’essenza stessa e dal peculiare
carattere di quel dato storico, di quel particolare fenomeno
letterario, che come ogni altro sorge spontaneo in noi per
originalità e libertà dell’atto creativo, né può ripetere le
sue cause fuori di sé: il che però non toglie che le sue radici
si affondino nella tradizione di un ambiente di cultura caso
per caso diverso.
In questo senso il problema del folklore è quello di
definire quei caratteri, di definire cioè quel che sia da dire
popolare e quello che invece non lo sia. Indubbiamente
bisogna considerare popolare tutto ciò che dal punto di
vista creativo ci si presenta come qualcosa di elementare,
di ingenuo, come un’adesione diretta al reale, al sensibile,
a quanto con evidenza e immediatezza solleciti la nostra
sensibilità ed emotività. Non è possibile tuttavia
considerare ciò che è popolare senza animarlo coi valori
che sono insiti nella tradizione, che è quanto dire nella
continua vitalità e presenza del passato. E perciò bisogna
vedere nel concetto di popolare la tendenza, il bisogno e
l’esigenza dell’individuo che vive con gli altri, pensa, per
così dire, con un’anima che è la sua anima e quella degli
altri, del piccolo vasto mondo che lo circonda e in cui si
concludono la sua realtà e la sua storia.
Dal concetto di popolo e di popolare così inteso deriva un
concetto più chiaro di ciò che noi chiamiamo folklore, e
quindi una comprensione più precisa dei rapporti che
intercorrono fra il folklore e la filologia in senso lato, fra il
folklore e la storia delle religioni e quindi della mitologia
ecc. Né diverso è il concetto che deve richiamarci il
termine primitivo nel quale spesso si converte il primo. È
vero che il primitivo è stato inteso, a volte, come un prima
cronologico e come tale ravvisato fra i cosiddetti popoli
selvaggi, fra popoli diversi cioè da quelli delle civiltà
occidentali. Ed è vero altresì che il primitivo così inteso è
stato quanto mai fecondo nella storia del folklore. Ma di
cos’altro si tratta anche qui, come del resto avevano ben
compreso gli storici del Settecento, e in particolare il Vico,
se non di un dato ideale della nostra coscienza e del nostro
essere, un dato da cui noi siamo passati o passiamo e che
vive e rivive in noi?
L’etnologia, che è quanto dire lo studio dei popoli
primitivi, non può non avere tuttavia, così come li ha il
folklore, i suoi confini empirici, dentro i quali sono legittime
le relative comparazioni. Sta di fatto, però, che tanto
l’etnologia che il folklore non sono altro, e non possono
essere altro, che uno specifico campo di possibili ricerche
storiche, destinate a chiarirsi e illuminarsi a vicenda, per
chiarire e illuminare le nostre stesse civiltà. Si è detto, e
giustamente, che in caso contrario l’etnologia rimarrebbe
un campo ozioso. Ma è forse diversa la posizione del
folklore? E possiamo noi pertanto esporre la storia del
folklore senza abbinarla a quella della etnologia, anche se
non sempre il folklore, per essere studiato, richiede il suo
ausilio?
Così stando le cose, a noi sembra dunque che il problema
che investe il folklore non è un problema filologico,
sociologico, psicologico, etnografico ecc., ma è un
problema essenzialmente storico, che tutti gli altri
assomma e trasfigura. Non si vuol negare con ciò la validità
che nel campo del folklore assumono le varie discipline
filologiche o naturalistiche di cui, ove e quando sia il caso,
il folklo-rista si deve avvalere con la consapevolezza di non
scambiare gli strumenti di lavoro col proprio lavoro. È
compito del folklorista infatti non isolare quelle ricerche,
ma vivificarle l’una con l’altra, tanto più che nel campo del
folklore l’intrinseco interferire delle varie discipline è pur
sempre dominato dalla natura stessa del folklore, che è
quanto dire dal concetto di ciò che si dice popolare.
E questo compito del folklorista è e deve essere, a nostro
avviso, il compito dello storico del folklore, il quale,
naturalmente, nella sua narrazione non può non ricorrere a
determinati limiti cronologici, per quanto questi, in fondo,
altro non siano che punti di riferimento per la nostra
mente, tanto più che, ove noi vogliamo effettivamente
comprendere l’indole di una disciplina, è necessario vedere
qual è il momento particolare in cui essa nasce come
ricerca autonoma.
È noto ora, in proposito, che nel ricercare le radici da cui
il folklore, inteso come disciplina autonoma, trae il suo
nascimento scientifico, gli studiosi si sono quasi sempre
dichiarati concordi nel ritenere che esso, per quanto
riguarda l’etnica tradizionale (usi, costumi, credenze ecc.),
si rifaccia al movimento filosofico dei secoli XVII e XVIII,

mentre, per quanto riguarda la letteratura popolare (canti,


leggende, proverbi ecc.), si ricolleghi al Romanticismo. E di
recente anche Thomas Mann ebbe ad affermare che lo
stesso Romanticismo non solo trasse «dalla profondità del
passato i tesori delle fiabe e delle canzoni», ma anche «fu
un grande protettore della scienza del folklore che nella
sua luminosità variegata ci appare come una derivazione
dell’esotismo».
Il momento in cui la scienza del folklore comincia ad
acquistare consapevolezza, critica e storica, di se stessa,
non può però, a nostro avviso, farsi risalire né al
movimento filosofico dei secoli XVII e XVIII, e tanto meno al
Romanticismo, che da quel movimento trasse la linfa che in
parte lo alimenta. E di ciò si è accorto appunto un acuto
folklorista francese, il Saintyves, il quale è dell’avviso che
le scoperte geografiche del secolo XVI, e in particolar modo
quelle del Nuovo Mondo, obbligarono gli studiosi del tempo
a riproporsi molti problemi inerenti alla storia delle
istituzioni e potenziarono un mezzo di indagine, quello
della comparazione, onde nacque così l’etnografia
moderna, e con essa il folklore.
È dopo la scoperta dell’America, peraltro, che si fa
sempre più viva nella coscienza europea la lotta contro i
vincoli e le eredità di una cultura che sembra politicamente
e socialmente come la negazione dello spirito e di ogni
originaria libertà. Ed è allora altresì che si viene formando
e sviluppando una letteratura etnografica, che se spazia nei
confini dell’esotico si insinua pure nella cultura europea
come stimolo di ricerca. L’Illuminismo, il Preromanticismo,
il Romanticismo, il Positivismo, l’Evoluzionismo ecc., non
sono che le tappe di questa ricerca, la quale subirà le varie
modificazioni della storiografia, inserendosi in quella
evoluzione generale che si va compiendo nello stesso
spirito europeo. Ed è qui, in tale ricerca, che lo studio del
folklore assume un suo aspetto particolare, legato com’è,
fra l’altro, a una fitta rete di miti e di messaggi, in cui si
inverano esperienze politico-sociali, filosofiche e artistiche.
Questi miti e questi messaggi finiscono, d’altra parte,
con l’unire l’Europa legandola in una ideale unità, mentre
assumono una loro validità nei loro stessi errori. In questo
senso: che quegli errori sono, a loro volta, uno stimolo
necessario e costante per il progresso della nostra
disciplina. Si tratta, in fondo, di miti e di messaggi in cui
ciascuna nazione dà o crede di dare il meglio di se stessa e
che coincidono con l’avvento della ragione, con la teoria del
contratto sociale, con l’idoleggiamento e la missione dei
popoli e delle nazioni, con la formazione della classe
operaia. Non solo: ma anche col rinnovamento della poesia,
della letteratura, della musica che dalle tradizioni dei
popoli traggono nuovi impulsi.
Gli studi del folklore, che sarebbe ingenuo isolare da
tutte queste esperienze che danno loro vita, non vanno
dunque considerati come tanti tessuti ciascuno a sé stante,
bensì come un unico tessuto nel quale i vari fili
s’intrecciano, è vero, ma non per darci altri fili, bensì il
tessuto stesso. Lo storico che vuole peraltro indagare
l’origine e lo sviluppo degli studi del folklore europeo deve
convertire i cosiddetti metodi che li hanno a mano a mano
caratterizzati non in una serie di ricette a carattere magico
– «fai questo e avrai quest’altro» –, ma in una somma di
esperienze e di interpretazioni personali. È ovvio quindi
concludere che la storia del folklore non è, e non può
essere, che la storia degli indirizzi di pensiero che tali
esperienze hanno promosso, nel loro vario concretarsi e
individuarsi nella personalità e nel mondo della cultura dei
singoli studiosi, la cui opera va giudicata non solo per quel
che valse ma anche e soprattutto per quel che vale.
È alla luce di questi criteri che io mi accingo a studiare
come si sia formata in Europa una coscienza del folklore e
come da essa sia nata poi la scienza del folklore. La mia
indagine pertanto è, e vuole essere, una storia interna, o
meglio direi in senso vichiano, ideale di tutto un movimento
di studi che porta l’Europa alla ricerca di se stessa in ciò
che essa ha di più intimo. Come tale essa ha la sua unità e
il suo centro vitale nella cultura europea. E come tale deve
necessariamente riguardare soltanto quegli studiosi che
vissero e pensarono nel clima storico di quella cultura e in
funzione di essa si posero i problemi di cui si occuparono.
Debbo dire infine che, come termine ad quem della mia
narrazione, se pur ho ritenuto opportuno esaminare la fase
più recente degli studi folkloristici, tuttavia ho limitato il
mio esame a quelle figure la cui opera è o può considerarsi
conclusa. E ciò non perché dell’immediato passato non
possa farsi storia. È questo un luogo comune smentito da
tutta la storia della storiografia antica e nuova. Ma perché
in particolare quando si tratta di teorie e dottrine spesso,
come è inevitabile, controverse, qualche volta di ipotesi
quanto si voglia acute e geniali, che però attendono una
conferma scientificamente fondata, di spunti interpretativi
che potrebbero dare luogo a un ulteriore svolgimento, di
polemiche infine o accenni polemici che offrono o
potrebbero offrire ai singoli studiosi la possibilità di
chiarire a se stessi e al lettore, il proprio pensiero, l’opera
tutta quanta di ciascuno di noi è come un libro in cui non si
è ancora pervenuti all’ultimo capitolo, al capitolo
conclusivo. Per il rispetto che dobbiamo all’intenso fervido
lavoro di coloro che oggi rappresentano la scienza del
folklore ho preferito non scrivere l’ultimo capitolo di questo
libro.
Parte prima
Alle fonti di un nuovo umanesimo:
lo studio dei popoli
1. La «scoperta del selvaggio»

1. Una nuova provincia del sapere

La scoperta dell’America alimenta, in Europa, un nuovo


umanesimo, il quale aggiunge allo studio del mondo
classico, lo studio dei popoli e delle civiltà più lontane. Ed è
l’epoca, soprattutto, dell’uomo primitivo il quale non viene
cercato, come nel Medioevo e nello stesso Rinascimento,
nella tradizione di Adamo e quindi collegato all’idea della
colpa originaria, bensì fra le foreste lontane dell’America
dove il duro dominio europeo non spegne il fondamentale
carattere di colui che verrà, ormai, considerato come il
rappresentante della natura e che sarà chiamato, di volta in
volta, primitivo, barbaro, selvaggio.
Nella prefazione con cui si apre la seconda edizione del
Golden Bough, il Frazer osserva che «la scoperta delle
antiche letterature fu per gli umanisti una rivelazione, che
schiuse davanti ai loro occhi abbagliati una splendida
visione del mondo antico, quale non era stata immaginata,
nei suoi sogni, dal monaco medievale, all’ombra taciturna
del chiostro, sotto il tintinnio solenne delle campane».
Ebbene, la vita dei popoli primitivi, egli aggiunge,
«spiegherà davanti al nostro sguardo uno studio che tende
a familiarizzarci con la fede e con le pratiche, con le
esperienze e con gli ideali non soltanto di due razze
particolarmente dotate, bensì dell’umanità intera; che ci
permette di seguire l’uomo nel suo lungo cammino, nella
sua lenta e audace ascesa. E così come l’eremita della
Rinascenza trovava nei manoscritti polverosi del passato,
oltre che un alimento nuovo per il suo pensiero, un campo
di lavoro inesplorato; allo stesso modo, nella massa dei
materiali, che a noi provengono da tutto il mondo, bisogna
ravvisare una nuova provincia del sapere, la cui
affermazione esige il lavoro di innumerevoli generazioni di
studiosi».
Nella gara – cui allude il Frazer –, la scoperta
dell’America, se da una parte pone i suoi cronisti e i suoi
storici in una particolare posizione, in quanto sugli Indiani
dell’America nulla avevano potuto dire gli scrittori
dell’antichità, dall’altra crea e potenzia un mito che sarà
quanto mai fecondo nella storia della cultura europea: il
mito del buon selvaggio. I più acuti interpreti della vita
indiana d’America, come, ad esempio, Pietro Martire, Jean
de Léry e Bartolomé de Las Casas, non solo difendono
infatti i primitivi americani, scagionandoli dalle accuse che,
in genere, li avevano avviliti, ma li esaltano per le loro
particolari virtù, facendo coincidere – si noti bene – la loro
primitività con la loro bontà. Il che è la nota dominante non
solo delle innumerevoli Collezioni dei viaggiatori, edite in
diverse lingue e contenenti i dettagli più piccanti sulle
credenze, sui miti e sui costumi delle popolazioni
americane, ma anche delle Relazioni della Nuova Francia e
delle Lettere edificanti, dovute ai missionari e dedicate, in
gran parte, allo studio dei popoli primitivi. Nasceva, così,
un uomo-primitivo che era l’ideale stesso dell’umanità, ma
di un’umanità migliore di quella in mezzo a cui si viveva. E
nasceva, contemporaneamente, una nuova provincia del
sapere, dove lo studio dei popoli non era più una curiosità
erudita.

2. Il selvaggio come documento storico

In tal modo il primitivo diventa un documento. E,


diciamolo pure, un documento storico. Ma, come tale, egli
sarà anche un motivo di polemica. I viaggiatori, i
missionari, gli storici degli Indiani di America, dotati come
sono quasi sempre di una cultura classica, che è poi uno dei
legami che forma l’unità stessa della civiltà occidentale,
non solo idealizzano i popoli lontani che descrivono o che
studiano – nel che seguono la tendenza, così viva
nell’antichità greco-romana, di ricordare i popoli lontani
non corrotti dalla civiltà – ma nobilitano il loro eroe, il
selvaggio, paragonandolo ai Greci e ai Romani. Essi ci
ricordano, inoltre, come è stato bene osservato, «quei poeti
dell’età augustea che avevano cantato le lodi della vita
rustica e sognato prossima l’età dell’oro». Con questa
differenza: che per essi l’età dell’oro non è un sogno, ma
una realtà. Intendiamoci: non si vuol dire con ciò che il
mito dell’età dell’oro formulato dall’età classica coincida
(come crede, ad esempio, il Gottard) col mito del buon
selvaggio. Si vuol soltanto porre un termine di paragone. Il
mito del buon selvaggio, quali che possano essere i suoi
antecedenti diretti o indiretti, nasce con la scoperta
dell’America, nasce con l’etnografia o meglio con quelle
tendenze geografico-politiche le quali si insinuano
decisamente nella storia della etnografia moderna.
Né va dimenticata, in proposito, l’opera che a favore di
tali tendenze svolse uno degli spiriti più acuti e penetranti
che siano vissuti alla fine del Cinquecento, il Montaigne, il
quale, in maniera profonda, sente l’interesse non solo per
la vita popolare delle nazioni europee, ma anche per quella
dei selvaggi. Egli, ad esempio, intuisce il problema della
poesia popolare che per lui (evidentemente quando è
poesia) è poesia d’arte:

«La poesia popolare ha tale grazia e ingenuità per cui si può paragonare a ciò
che di più bello possa darci la poesia d’arte; come si vede nelle villanelle di
Guascogna e nelle canzoni importate dalle nazioni che non hanno coscienza
d’alcuna scienza e nemmeno di scrittura» (Essais, libro I, cap. LIV).

Ma intuisce soprattutto il valore umano che assumono


quelle nazioni le quali, com’egli dice, non hanno né scienza
né scrittura. «Io ho avuto, – egli afferma, – presso di me un
uomo, il quale era stato dieci o dodici anni in quell’altro
mondo che è stato scoperto nel secolo nostro e dove
Villegagnon prese terra che denominò Francia Antartica».
E dopo avere notato che dovrebbe essere compito di
ciascun scrittore «scrivere quello che egli sa e quanto egli
ne sa», lancia i suoi strali contro la «boria delle nazioni
civili».

«Ora io trovo che nulla c’è di barbaro e di selvaggio in questa nazione [cioè nel
Brasile] a quanto me ne fu riferito, se non che ognuno chiama barbaro ciò che è
fuori della sua consuetudine. Come infatti noi non abbiamo altra pietra di
paragone della verità e della ragione che l’esempio e l’idea delle opinioni o
delle usanze del paese dove viviamo, che qui è per noi la perfetta religione, la
perfetta politica, il perfetto uso di tutte le cose. Essi [i Brasiliani] sono selvaggi
alla stessa maniera che noi chiamiamo selvaggi i frutti che la natura ha
spontaneamente prodotto: mentre, a dire il vero, sono quelli alterati da noi con
il nostro artificio e sviati dall’ordine naturale che dovremmo chiamare piuttosto
selvaggi. In quelli sono vive e vigorose le vere e più utili naturali virtù e
proprietà, le quali noi nei nostri abbiamo imbastardite e accomodate al piacere
del nostro gusto corrotto» (Essais, libro I, cap. XXXI).
Suggestivo e poetico è, quindi, il quadro che il
Montaigne traccia di quei selvaggi, «Vi è qualcuno dei
vecchi, – egli osserva, ad esempio, – che la mattina prima
che ci si metta a mangiare predica in comune nella
capanna, passeggiando da un capo all’altro, e dicendo una
medesima sentenza più volte, finché egli abbia finito il suo
andare… Egli non raccomanda se non due cose: il valore
contro i nemici e l’amore verso le loro donne». Sembra
addirittura un quadro biblico. E commentando infine una
loro canzone, egli, se da una parte avvicina qualche
immagine di essa a un’anacreontica, dall’altra vi nota «un
linguaggio dolce, che ha il suono grato e che tira alle
terminazioni greche. Questo è l’animo con cui il Montaigne
si avvicina al mondo dei primitivi. E quasi a riaggruppare le
fila del suo discorso aggiunge:

«Diceva Epicuro che nello stesso tempo in cui le cose sono qui come noi le
vediamo, esse sono tutte parallele e nella stessa maniera in parecchi altri
mondi. E in quanti esempi noi, oggi, non vediamo similitudini e rassomiglianze
fra questo nuovo mondo delle Indie occidentali e il nostro?
In verità, considerando ciò che è venuto a nostra conoscenza del corso di
questa civiltà, mi sono spesso meravigliato di vedere a grande distanza di
tempo l’incontro di un gran numero di opinioni popolari mostruose e credenze
selvagge. Lo spirito umano è un grande operatore di miracoli» (Essais, libro II,
cap. XII).

Il Montaigne, così, non solo dà vigore e risalto al metodo


comparativo, ma immette nel circolo della cultura europea
un documento che era valido allora soltanto nei libri dei
viaggiatori o comunque nelle storie dei popoli lontani. Si è
detto che, in fondo, il Montaigne guarda il mondo dei
primitivi con una certa punta di umorismo. Ma quel suo
umorismo non colpisce i selvaggi del tempo tanto quanto i
suoi contemporanei ? E quell’altro mondo, com’egli lo
chiama, non costituisce già per lui una nuova e raffinata
emozione?

3. I selvaggi negli Essais di Montaigne

Nell’avvicinarsi ai primitivi, a questi homines Dei


recentes, il Montaigne sentì soprattutto il fascino di
un’opera che segna nel campo dell’etnografia un passo
decisivo: l’Histoire d’un voyage fait en la terre du Brésil,
autrement dite Amérique, narrata, nel 1568, da Jean de
Léry. Il quale non si contenta, come aveva fatto il Martire
(cui dobbiamo le Decades de Orbe Novo, pubblicate fra il
1511 e il 1530, che pur assumono un posto preminente fra
le esposizioni contemporanee della scoperta dell’America)
di osservare che gli Indiani d’America vivono contenti dei
doni della natura, ma va oltre: li scagiona da tutte le accuse
che più cominciavano a pesare su di loro, e, per quanto le
sue ricerche siano limitate al Brasile, egli, se da una parte
riconosce che i suoi selvaggi non sono meno barbari di
quanto molte volte lo siamo noi, dall’altra non esita ad
apostrofare, con l’imprecazione stessa di un selvaggio, gli
incivilitori europei:

«Voi siete dei grandi pazzi. Occorrono, dunque, tante ricchezze a voi e ai vostri
figli o a quelli che verranno dopo di voi? La terra che vi ha nutriti non sarà
ugualmente sufficiente per nutrirli?»

C’è nel Léry lo stesso atteggiamento, impetuoso ed


eroico, di un Las Casas, il quale non è affatto un esacerbato
che giustifica l’odio per il prossimo (cioè per gli Spagnuoli)
con l’amore verso gli stranieri (cioè gli Indiani
dell’America), ma un lottatore che non esita a mettere in
subbuglio i suoi contemporanei perché sappiano quale
civiltà essi portano a dei popoli che non ne hanno affatto
bisogno. La sua Historia de las Indias, che uscì fra il 1552 e
il 1561, è l’opera di un anticonquistatore che non tralascia
occasione alcuna per elogiare la vita dei selvaggi americani
che gli appaiono, come al Léry, pazienti, astuti, obbedienti,
industriosi, giusti, ecc. I conquistatori spagnuoli, intenti a
far degli Indiani d’America degli schiavi, mal sopportavano,
del resto, la stessa opera dei missionari. Dice fra Bartolomé
de Las Casas in una sua famosa lettera del 1555 che «gli
encomenderos giustificavano la loro tirannia con la scusa di
insegnare l’avemaria agli indiani encomendados». E
aggiunge: «Figurarsi che dottrina per gente che non
sapeva se l’avemaria è legno o pietra o roba da mangiare o
da bere».
Il Montaigne comunque, pur utilizzando l’opera del Léry,
è piuttosto sulla linea di un Martire che difende, sì, i
selvaggi, ma soltanto per quello che essi possono
insegnarci. La polemica relativa alla conquista e allo
sfruttamento dei selvaggi d’America si stempera tuttavia in
lui in una serena contemplazione, che è al tempo stesso
un’evasione e una soluzione, l’una e l’altra comunque poste
sul terreno politico-sociale inerente al mondo occidentale.

«Le leggi naturali, meno imbastardite delle nostre, comandano i selvaggi. Ma


questa è una tal purità che io sento qualche volta dispiacere che la conoscenza
non ne sia venuta piuttosto in tempo quando vi erano degli uomini che ne
avrebbero saputo giudicare meglio di noi. E mi dispiace che Licurgo e Platone
non l’abbiano avuta, perché mi sembra che quello che noi vediamo per
esperienza in codeste nazioni [cioè fra i selvaggi d’America] sorpassi non solo
tutte le pitture di cui la poesia ha abbellito l’età dell’oro e tutte le invenzioni da
essa fatte per rappresentare una felice condizione umana, ma ancora la
concezione e l’ispirazione stessa della filosofia: essi non hanno potuto
immaginar un’ingenuità così pura e semplice come noi la vediamo per
esperienza; né hanno potuto credere che la nostra società si possa mantenere
con così poco d’artificio e di saldatura umana. C’è una nazione, direi io a
Platone, nella quale non c’è alcuna specie di traffico, nessuna conoscenza di
lettere, nessuna conoscenza di numeri, nessun nome di magistrato né di
autorità politica, nessun uso di verità, di ricchezza o di povertà, non contratti,
non successioni, non divisioni, non occupazioni se non oziose, non rispetto o
parentela se non comuni, non vesti, non agricoltura, non metallo, non uso di
vino o di biade: ignote le parole stesse che significano menzogna, tradimento,
dissimulazione, avarizia, invidia, calunnia, perdono» (Essais, libro I, cap. XXXI).
Il mondo dei primitivi nel Montaigne è pur sempre quello
dei viaggiatori e dei missionari che si erano spinti fra gli
Indiani di America. Bisogna, tuttavia, osservare che la
natura quale egli la concepisce non è più quella, ad
esempio, di un Marsilio Ficino. E di ciò si accorse un amico
e discepolo del Montaigne, lo Charron, quando nel suo libro
De la Sagesse, che uscì nel 1601, e che non senza
significato apre il secolo XVII, affermò decisamente che
l’uomo è naturalmente buono.

4. Un etnografo-folklorista: Lescarbot

Il Montaigne nella cui voce e nel cui spirito risuona


ancora l’idea classica – ma un’idea classica già travasata
nell’altro mondo – chiude, dunque, il Cinquecento. Ma la
sua polemica, o meglio il suo messaggio (dove, quali che
siano le sue fonti, si compendia l’esperienza vissuta dai
missionari e dai viaggiatori che si erano spinti fra gli
Indiani d’America) sarà accolta in pieno dal secolo
successivo, durante il quale, anzi, i confronti fra noi, uomini
civili, e i selvaggi, nuovo acquisto della cultura europea,
assumono sempre più il carattere di una rivolta politica e
culturale.
Così, ad esempio, nel 1609 esce a Parigi una Histoire de
la Nou-velle France, narrata da Marc Lescarbot che è un
estroso avvocato parigino oltre che un buon poeta. Ebbene,
egli si preoccupa, è vero, di darci un rapporto sugli «usi
della Nuova Francia, comparati con quelli degli antichi
popoli» ma questa comparazione è fine a se stessa? Nel
descriverci il modo di pensare dei selvaggi americani, quale
esso si articola in tutta la loro vita, nella maniera di
vestirsi, nella vita familiare, nelle istituzioni cui si adagia,
nei riti e nelle cerimonie cui partecipa, il Lescarbot ricorre
continuamente a Erodoto, a Plinio o a Tertulliano.
Stravaganti, tuttavia, le sue spiegazioni. Una tribù ha l’uso
di bruciare i mobili e le cose di colui che muore. Ecco una
lezione per gli avari europei. C’è di più: Lescarbot non si
contenta di paragonare gli usi dei primitivi con quelli dei
Greci o dei Romani. Egli fissa anche il suo sguardo sulle
tradizioni popolari della Guascogna. E anche qui i suoi
confronti sono piuttosto mnemonici, vaghi. Non importa: è
la sua una delle prime opere dove lo studio dei popoli
primitivi si incontra, sia pur timidamente, con quello dei
volghi dei popoli civili.
Il Lescarbot nelle sue comparazioni è, in fondo, sulla
stessa via dei Gesuiti. Egli compara i primitivi ai Greci e ai
Romani per nobilitarli. E anche lui, che pur non ha
preoccupazioni teologiche da sostenere, insiste su quella
comunità di origine fra primitivi e Greci che era stata una
delle tesi sulla quale di più avevano dissertato gli stessi
Gesuiti. Senonché, quando a noi sembra che il Lescarbot
voglia riportarci con la sua idealizzazione del selvaggio in
un’Arcadia di maniera, ecco che la sua comparazione
investe due mondi, il nostro e quello dei selvaggi. A
discapito del primo, naturalmente. Volete sapere, egli si
domanda, perché i selvaggi sono felici e vivono
effettivamente nell’età dell’oro? Perché in essi non esiste
né il mio né il tuo. Noi Europei siamo sempre in disaccordo,
tutti, su tutto. Nei selvaggi, invece, la concordia è il fattore
predominante della vita. Gli spiriti europei sono tutti
tormentati dalla vanità e dall’ambizione: i selvaggi non
conoscono questo tarlo, e sono felici.
La comparazione fra gli usi dei primitivi e i nostri si
trasferiva pertanto, nel Lescarbot, su un piano sociale. E su
tale piano si porrà, quasi a concludere un altro secolo di
esperienze inerenti ai viaggi fra gli Indiani d’America, il
barone de La Hontan: un tipo violento come il Las Casas,
ma estroso come il Lescarbot.

5. Dialogo fra un Hurone e un Europeo, ovverossia la


polemica politico-sociale del barone de La Hontan

Vissuto a lungo fra gli Indiani d’America – spirito


avventuroso, egli combattè anche contro i buoni Irochesi –
il barone de La Hontan, ritornato a Parigi, sentì
profondamente il fascino dei paesi lontani dove gli si era
maturata una nuova coscienza culturale. I suoi Voyages e i
suoi Mémoires, usciti nel 1708, sono il riflesso di questo
stato d’animo. E i suoi selvaggi sono quelli stessi dei missio-
nari, del Léry, soprattutto del Lescarbot. Aprite, ad
esempio, il Nouveau voyage dans l’Amérique
Septentrionale, comprenant plusieurs relations de
différents peuples qui l’habitent. Ecco come vi vengono
incontro i suoi selvaggi: «Vivono felici»; «Sono un esempio
per noi»; «Fra essi non vi è né mio né tuo»; «Vivono in una
specie di eguaglianza conforme ai sentimenti della natura».
I suoi libri che tanto appassionarono i contemporanei sono,
comunque, inchieste lavorate, ricche di dettagli, massicce.
Ma qual è il loro succo? Ce lo dirà il Gueudeville nei
Dialogues de Monsieur de la Hontan et d’un Sauvage dans
l’Amérique, edito ad Amsterdam nel 1704. Il selvaggio che
il Gueudeville mette in iscena è un Hurone il quale ha
visitato l’Europa e può, quindi, riviverla nei colloqui che
egli ha col barone. Personaggio immaginario quell’Hurone,
vero: ma egli non esce dai Voyages e dai Mémoires del suo
interlocutore, di cui accoglie, senz’altro, le immagini e i
ragionamenti, gli impeti e il furore?
E il dialogo fra il selvaggio e il barone è vivo, mosso,
drammatico. In esso sono affrontati i problemi più vivi del
tempo, a ciascuno dei quali se non è data, certo, una
soluzione, è data un’impostazione che è il messaggio di
nuove speranze. Sentite. L’Europa si vanta di possedere
nella Bibbia una pagina mirabile di umanità. Il selvaggio gli
contrappone le sue religioni naturali, dove non vi sono
imposture, dove tutto è chiaro, luminoso. L’Europeo si vanta
di possedere la migliore legislazione del mondo. Basti, in
proposito, l’eredità di Roma. Bene: ma gli Europei hanno le
leggi e non le applicano. I selvaggi non hanno leggi, ma
hanno in cambio una morale naturale, la quale ha il valore
di una legge. Ma di una legge che si osserva. L’Europeo ha
una civiltà? Quale? Vedetelo l’Europeo, vi dirà il selvaggio:
è una maschera carnevalesca con abito blu, cappello nero,
piuma bianca, nastri verdi. In cambio, il selvaggio è un
efebo al sole. Vero: il selvaggio non sa leggere. Ma, in
cambio, egli evita un mare di guai. Morale: solo i selvaggi
possono aiutarci a ritrovare la libertà, la giustizia,
l’eguaglianza.
Uomo della natura con le sue religioni e con le sue leggi
naturali, il selvaggio che conversa col barone de La Hontan
par che esca dalla Sorbona dove ha letto Montaigne. Non è
un selvaggio, il suo. È un elegante filosofo, il quale
riassume e potenzia gli ideali che già vengono sempre più
affermandosi nella coscienza del tempo, la quale invoca
disperatamente un mondo migliore: quello stesso, cioè, che
in fondo era stato immaginato nelle utopie, dalla
Repubblica di Platone (cui si era già rivolto il pensiero del
Montaigne) alla Utopia di Tommaso Moro, sul cui schema
sono impostati i Dialogues del Gueudeville. Questi, più
tardi, nel 1714, tradusse appunto quel libro che non è
soltanto uno scherzo, ma anche un testo di letteratura
religiosa, in cui è dato rilievo alla forza e alla nobiltà della
religione naturale (anche se essa rimane subordinata alla
Rivelazione). La Repubblica di Platone, dopo aver prodotto,
osserva a proposito il Salvemini, «la Utopia di Tommaso
Moro, la Città del Sole di Campanella, la Nuova Atlantide di
Bacone, aveva continuato a servir di modello a consimili
scritti. E anche la seconda metà del secolo XVII aveva avuto
nella Storia dei Sevarambi (1677) di Varaisse d’Alais, in
alcune parti del Telemaco di Fénelon e in altri romanzi
dello stesso genere, le sue descrizioni apologetiche di paesi
debitori della loro felicità alla eguaglianza economica e alla
mancanza della proprietà individuale». Bene: il
Gueudeville, con l’aiuto del barone de La Hontan innesta,
con violenza, il mito del buon selvaggio di America su quel
tronco.
6. La «lezione» del selvaggio

Così la scoperta dell’America dà una nuova visione del


mondo in mezzo a cui si vive. La comparazione fra noi civili
e gli Indiani d’America ha posto dei problemi, nella cultura
e nella politica, che gli altri popoli primitivi non avevano
mai sollevato. Ecco: i missionari – insegni soprattutto il
caso di Padre Lejeune, autore delle notevoli Relations de
ses voyages de 1632 à 1661 – si erano preoccupati e si
preoccupavano sempre più di amare i selvaggi e di
considerarli come figli di Dio e nostri fratelli, si sforzavano
di «sopportare la loro imperfezione senza dire parola» e di
dare, quindi, alla colonizzazione un carattere umano. Essi,
in fondo, come ben nota il Cerbi, si erano altresì
preoccupati e si preoccupavano di elogiare la mitezza
evangelica dei selvaggi per sottrarli all’avidità dei mercanti
e alla tirannia dei governatori. Ma pensarono mai che le
loro idealizzazioni dovessero diventare argomenti quanto
mai validi contro le istituzioni del loro tempo? Contro
quella stessa religione che era cara al loro cuore e per la
cui diffusione si erano spinti lontano affrontando sacrifici e
patimenti?
I missionari non sempre erano stati cauti nel considerare
la religione dei popoli primitivi. Alcuni, armati di sacro
furore, vedevano in essa un ammasso di superstizioni
pagane. Ma altri, e furono i più intelligenti, non amavano
trasferire negli Indiani dell’America gli stessi caratteri del
primitivo cristiano? Così, ad esempio, ecco quanto Padre
Lallemand, in una Relation des Jésuites del 1648, afferma a
proposito dei selvaggi di quel Canada, caro al cuore del
barone de La Hontan:

«A dir vero, nessuna conoscenza di un dio è stata tramandata a questi popoli


dai loro padri, sì che prima che noi mettessimo piede nel loro paese, non
possedevano altro che vane favole sull’origine del mondo. Nondimeno, selvaggi
come erano, albergava nel loro cuore il sentimento segreto di una divinità, di
un principio primo, autore di tutte le cose, che essi pur non conoscendo
invocavano. Nelle foreste, a caccia, sull’acqua, nei pericoli della tempesta, essi
lo chiamavano in loro aiuto».

Ed era una presa di posizione chiara, netta, categorica.


Senonché, nonostante le caute osservazioni di un Martire o
quelle, più decise, di un Lallemand, la teoria dei popoli
primitivi come popoli atei prendeva piede e si affermava.
L’aveva diffusa per gli Indiani d’America il Pigafetta il
quale, a proposito delle Isole Marianne, aveva annotato:
«Non adorano nulla». Ebbene, ci si domanda, come fece il
Pigafetta a saper ciò, se egli, come confessa, in quelle Isole
si è fermato soltanto poche ore? Ma più tardi verrà il Léry il
quale, smentendo Cicerone, affermerà che, in questi ultimi
tempi, siamo nel 1609, si son scoperte delle nazioni in cui
non si trova nessun sentimento religioso. Egli si riferisce
soprattutto al Brasile, dove, però subito aggiunge, si crede
nell’al di là (come se ciò non costituisse un sentimento
religioso).
Comunque stessero le cose, ci fosse o no una religione
fra gli Indiani d’America, sta di fatto che coi libri di viaggio
dedicati ai popoli primitivi, se pur si insinua sempre più
nella coscienza del tempo il dubbio, vi si insinua anche il
concetto della natura come antidoto dei mali. In una sua
favola il La Fontaine ci parla dell’uomo che corre dietro la
fortuna e dice di lui:

… Les mers étaient lasses


de le porter: et tout le fruit
qu’il tira de ses longues voyages
ce fut cette leçon que donnent les sauvages;
«Demeure en ton pays par la nature instruit».

Così il dubbio e la natura si intrecciano fra di loro. Ma la


lezione che i selvaggi danno agli Europei è ormai chiara. E
anche un poeta come La Fontaine – l’aveva preceduto
Montaigne – l’ha fatta sua.

7. Da Oroonoko a Robinson Crusoe

Il mito del buon selvaggio, intanto, dalla Francia (che in


un certo senso l’ha importato dalla Spagna e soprattutto
dal Las Casas) passa in Inghilterra. Ma qui assume un
aspetto, direi, romantico. Le requisitorie del Las Casas, del
Léry, del Lescarbot in Inghilterra si sono stemperate in una
patetica storia uscita fin dal 1688: l’Oroonoko di Aphra
Behn, dove si narra di un giovane commerciante inglese
che si imbarca a Londra per trafficare nelle Indie
Occidentali. I suoi compagni sono massacrati in un’isola.
Ma egli viene salvato da una selvaggia, Yoriko, per amore.
Quando finalmente il giovane commerciante può salire a
bordo di un vascello, si porta Yoriko che lo segue umile e
sottomessa. Ma il giovane – finita la festa gabbato lo Santo
– sul suo vascello, che è quanto dire sulla sua terra, riflette
meglio sul tempo perduto e sugli affari andati a monte. E
vende come schiava la sua amante. Ecco l’Europeo: vile e
infame. Ed ecco la selvaggia: anima nobile e generosa.
Si tratta di una storia – l’amore di un europeo e di una
selvaggia – che l’Inghilterra conosceva fin dal 1624,
quando, cioè, nella sua General History of Virginia il
capitano Smith, che ne era l’autore, narrò la famosa
avventura che aveva avuto con una indiana, Pacahoantos.
Ma, nella Behn, quella storia non è soltanto una pagina di
letteratura, è anche un motivo di polemica politico-sociale.
Il che costituirà l’ossatura, salda e robusta, di un’altra
opera che si affaccerà sulla scena della vita letteraria dello
stesso paese: Robinson Crusoe. Il suo autore, Daniel Defoe,
era vissuto in mezzo a un ambiente dal quale non aveva
saputo raccogliere che la disperazione. Era andato avanti
con dei libelli politici. Ma a sessant’anni egli sente la
nostalgia che era stata, e che era, nell’animo degli utopisti
e dei viaggiatori. E da buon inglese, visto il passivo delle
sue azioni, punta su quella nuova esperienza come a un
probabile attivo.
Si parlava molto, allora, in Inghilterra, delle avventure
capitate a un marinaio scozzese, Alexander Selkirk, che, dal
capitano della nave sulla quale si trovava, era stato
abbandonato in una isola deserta, dov’era rimasto, solo,
quattro anni. Questa storia fu narrata nella seconda
edizione di un libro del Rogers intitolato A Cruising Voyage
round the World. Da essa il Defoe trasse, appunto,
l’ispirazione per scrivere, nel 1719, il volume The Life and
Strange Surprising Adventures of Robinson Crusoe, of
York, Mariner. Ma quel volume – che pur dette l’avvio a
tutta una serie di robinsonate, per quanto nessuna
raggiungesse, poi, il colore e il calore della prima – non era
già, per suo conto, sulla stessa via già percorsa da tutta
una letteratura che aveva amato descrivere dei paesi felici,
lontani nel tempo e nello spazio, non ancora corrotti dalla
civiltà? Pensate, per la Francia, alla già citata Histoire des
Sevarambes di Varaisse d’Alais, che è del 1677, e al
Télémaque del Fénelon, che è del 1698. Oppure ancor
meglio, ai Voyages et aventures de Jacques Massé,
pubblicati nel 1710 dal Tyssot de Patot. Ma qual era, ci si
deve ora domandare, lo spirito di questi scritti? Quale
quello del Defoe? C’era indubbiamente nei Francesi una
esigenza da far valere: evadere verso un nuovo mondo,
immaginario che fosse, dal quale vedere il loro mondo.
C’era già in essi, precursore o epigono, il barone de La
Hontan, e, insieme a lui, c’era l’ansia di voler vivere
secondo natura, in mezzo alla natura.
Il Robinson Crusoe codifica, potremmo dire, la stessa
ansia. Ma è già un’altra via. Gli utopisti-romanzieri
francesi, descrivendo la vita avventurosa del loro eroe,
dogmatizzano contro tutti i dogmi; non solo, ma fanno del
suo naufragio – che è, in genere, la nota dominante delle
loro fantasie – il naufragio della civiltà occidentale. Il
naufragio di Robinson è sì liberazione dalla società, ma è al
tempo stesso un avvicinarsi a Dio. Robinson nell’isola dove
è naufragato non è solo. È con la natura che pensa a lui, lo
salva e lo redime. Ma per lui, la natura è Dio.
Sarebbe suggestivo, forse, applicare l’interpretazione
calvinistica del mito di Adamo ed Eva al racconto del Defoe.
Robinson è un Adamo senza Eva. Anche lui alla conquista –
pratica – del mondo. D’un mondo, cioè, da costruire dal
nulla. Ma, quali che possano essere gli echi che noi
possiamo oggi ravvisare nel Robinson Crusoe, sta di fatto
che in esso il punto cruciale è costituito dall’incontro di
Robinson con Venerdì, ch’egli salva dai cannibali. Venerdì,
il selvaggio dai lineamenti da efebo, generoso e leale come
di rado sono gli Europei, è il ritorno stesso alla civiltà,
quando questa è stata conquistata non fuori di sé ma
dentro di sé.
Questo è il messaggio di Robinson, il quale, nell’isola
dove approda, non incontra né re né pastori come avviene
nel mito, diffuso un po’ dovunque, dall’Italia alla Grecia, del
fanciullo abbandonato sulla riva; e, tanto meno, delle
streghe come il protagonista della Tempesta; né, infine,
quei savi che predicano la morale agli occidentali lontani,
insoddisfatti dei loro governi e delle loro monarchie; bensì
la sua coscienza d’uomo, quella coscienza che, invano, egli
aveva cercato nel seno della sua civiltà e del suo mondo.
Robinson, dopo ventotto anni, ritorna nella sua terra. Ma
quando Defoe ritorna alla sua civiltà, non saprà vedere che
delinquenti e prostitute.

8. Di alcune mediazioni del mito del buon selvaggio nella


coscienza europea
La civiltà e il mondo del Defoe non sono, infatti, l’Eden –
ormai rimasto lontano –, ma sono l’Europa. La quale, come
ben osserva il Dawson, dopo il rapido progredire della
evangelizzazione delle terre di oltre Atlantico, cessa di
essere un continente cristiano e perde una sua
caratterizzazione tipica ed esclusiva – anche se essa
conserva ancora la sua fedeltà alla tradizione classica e al
suo umanesimo. È vero, aggiunge lo stesso Dawson, che la
società nel suo complesso rimane dominata dalle idee
religiose, così com’era stata nel Medioevo e che «ci si può
persino domandare se la religione abbia mai destato un
interesse più appassionato che durante il secolo che va dal
1560 al 1660, l’epoca dei puritani e dei Giansenisti, di
santa Teresa e di san Vincenzo di Paola». Ma in mezzo a
questa società non v’è già tutto un ribollire di idee, di
anticipazioni, di intuizioni che sono destinate a travolgere e
a rinnovare la società futura e a cui certo non è né sarà
estraneo il mito del buon selvaggio? Questo mito medierà, è
vero, nella coscienza europea una problematica che cambia
con le fasi storiche in cui si verrà articolando. Si può
senz’altro affermare però che esso fin dalla sua
formulazione, se da una parte ravvisa nel selvaggio
l’autentico uomo di natura (con le sue leggi e con la sua
religione naturale), dall’altra potenzia l’interesse per tutto
ciò che appartiene all’uomo e che è umano.
Il selvaggio è ormai una pietra di paragone su cui si
misura il mondo classico e il mondo moderno – il che
costituisce il germe della storia del folklore soprattutto
quand’essa si innesta sull’etnologia. Il suo mito contiene
peraltro l’affermazione di un nuovo valore da cui quella
storia trarrà un impulso vigoroso: l’affermazione, cioè, di
tutto ciò che è semplice ed elementare in opposizione a
tutto ciò che è artificioso e voluto.
2. Il messaggio dell’Oriente

1. Gli Stranieri-Simboli

In Europa, dopo la scoperta dell’America, si ha


indubbiamente l’impressione di vivere in un mondo nuovo
che è, al tempo stesso, insoddisfatto e ribollente. Il mito del
buon selvaggio è servito, fra l’altro, a contrapporre gli
stessi Europei agli Indiani d’America (come appunto ci
documentano il Las Casas, il Léry, il Montaigne e il barone
de La Hontan). Senonché, dobbiamo aggiungere, in tale
contrapposizione, dove il metodo comparativo ha la sua
prima applicazione, sia pure ingenua ma generosa, quanti
altri miti non si uniscono a quello del selvaggio, e lo
accompagnano, lo completano, potremmo dire lo
perfezionano? E tuttavia essi sono il portato non più di una
civiltà elementare, qual è quella degli Indiani d’America,
ma di civiltà raffinate, quali sono quelle orientali, che pur
ebbero uno svolgimento storico fin da quando l’Europa non
possedeva nemmeno una sua unità culturale.
Un acuto ed elegante pensatore francese, l’Hazard, ebbe
già ad osservare che insieme al mito del buon selvaggio
arrivarono allora in Europa gli Stranieri-Simboli. E
aggiunge: «Arrivarono con le loro usanze, le loro leggi, i
loro valori originali: e s’imposero all’attenzione di
un’Europa avida d’interrogarli sulla loro storia e la loro
origine. Diedero le risposte richieste: ciascuno la propria».
Il che dunque non era e non voleva essere soltanto
interesse erudito per le usanze, le leggi e per i valori
spirituali, dove si inverava la vita di quegli Stranieri-
Simboli, ma anche, e soprattutto, approfondimento della
coscienza europea. È un errore, quindi, ritenere che
l’Europa, dal Cinque al Seicento, abbia considerato gli
Stranieri-Simboli come espressione di popoli inferiori, quali
che essi fossero. È vero, anzi, il contrario, in quanto, se da
un lato quella contrapposizione pose l’interesse non solo
sui popoli primitivi ma anche sui popoli orientali, vale a
dire su dei popoli che nell’un caso o nell’altro erano lontani
dall’Occidente, dall’altro fece sentire agli stessi Europei
una nuova coscienza etica.
È noto che fin dal Medioevo l’Europa aveva avuto una
letteratura che faceva suo oggetto l’Oriente; né questa
fioritura venne interrotta durante il Rinascimento; sicché,
in tal modo, le civiltà dell’antico Oriente – dell’Arabia
soprattutto e dell’India – erano state più o meno presenti
alla coscienza europea. Ma dopo la scoperta dell’America
l’Oriente si dispiega non soltanto a coloro che alimentano i
traffici e che, ritornando in patria, si intrattengono, con
interessi vari e molteplici, sui paesi visitati, ma anche ai
missionari la cui attenzione si rivolgerà ancora una volta
all’Oriente, stimolata dalla speranza di diffondervi il
Cristianesimo. E i commentari degli uni e degli altri non
rimangono lettera morta, curiosità; ma, come già avvenne
per i popoli primitivi, si immettono nella cultura del tempo,
di cui rappresentano uno degli aspetti più inquietanti.
In questa nuova fase di rinnovata scoperta dell’Oriente
non si tratta, però, come ben osserva un nostro acuto
arabista, il Gabrieli, «di un contatto diretto e irriflesso
come nel Medioevo, ma di un consapevole protendersi dello
spirito occidentale verso mondi lontani nel tempo e nello
spazio: la conoscenza ed esplorazione scientifica
corrisponde ad esigenze intellettuali e morali di tutta una
società e un’epoca che non possono essere adeguatamente
studiate se non indagando tutto il fenomeno del
filorientalismo». Il quale dunque ci denunzia e ci rivela
tutto un mondo che, se pure è pieno di esotiche realtà,
costituisce, come quello dei primitivi, un altro acquisto
della rinnovantesi cultura europea.
2. L’Oriente come vivaio di forze, di ideali e di religioni

L’Oriente, quale appare ai viaggiatori dopo la scoperta


dell’America, non è più dunque soltanto un rigido termine
di paragone in base al quale, come avvenne nel Medioevo,
Oriente significa qualcosa di radicalmente diverso dal
costume e dalle credenze dell’Occidente. È qualcosa di più:
un vivaio di forze, di esperienze, di ideali, di religioni.
L’atteggiamento di coloro che si recano in Oriente,
infatti, è in genere quello di osservatori cauti che cercano
di rendersi conto di quelle forze, far tesoro di quelle
esperienze, lumeggiare quegli ideali. Apriamo infatti le
relazioni Delle navigazioni et viaggi che raccolse un
geografo, il Ramusio, e che uscirono fra il 1550 e il 1606.
Oppure: la raccolta di Richard Hakluyit, Principal
Navigations, Voyages and Descovers, edita nel 1589.
L’Oriente non è più il vago paese dell’utopia. Ma si scinde
nei suoi popoli. E ciascun popolo ha una sua fisonomia, la
quale non è chiusa in se stessa, lontana e impenetrabile,
ma vicina allo spirito di chi l’osserva per penetrarlo e
capirlo.
C’è, indubbiamente, nelle relazioni dei viaggi raccolti dal
Ramusio e dallo Hakluyit un indomabile spirito di
avventura. Ma c’è spesso, nei loro autori, l’ansia di
apprendere. L’Oriente si dischiude, quindi, a coloro che
l’hanno visitato con molteplici interessi, soprattutto con
quello etnografico. Il che, comunque, forse in nessun altro
viaggiatore fu così penetrante come, più tardi, nel Della
Valle, i cui Viaggi descritti in 54 lettere familiari, editi per
la prima volta a Roma, fra il 1650 e 1658, furono tradotti in
francese, in tedesco, in inglese, in olandese e raggiunsero
una popolarità non comune.
Il Della Valle non ha interessi commerciali da soddisfare,
tranne quello di acquistare una serie di manoscritti
orientali, conservati ancor oggi alla Vaticana. Egli è un
pellegrino di amore, cui l’Oriente appare «come un mondo
favoloso, per molti aspetti ancora primitivo e selvaggio»,
che tuttavia custodisce delle «vestigie ed echi delle più
antiche e gloriose civiltà europee». Da qui i suoi confronti
fra le feste, ad esempio, che si svolgono in Persia, in
Turchia, in India e quelle europee. Ma, con le feste, è tutta
la vita orientale che egli mette in rapporto con quella
occidentale. E le sue osservazioni sono acute, giudiziose,
animate da uno stile dove insieme al dotto umanista si
sente uno spirito moderno che ha vivo l’interesse scientifico
dell’etnografia.

3. «Di Dio è l’Oriente, di Dio è l’Occidente»


Lo stesso interesse fu sentito da un altro italiano,
Daniello Bartoli, il quale, a differenza del Della Valle, non fu
mai in Oriente, ma di esso seppe darci un quadro
appassionato attraverso le relazioni e le lettere dei suoi
confratelli gesuiti. Avuto l’incarico di scrivere una Istoria
della Compagnia di Gesù, la divise in sezioni secondo il
criterio consigliatogli dalla ramificazione degli istituti di cui
narrava le vicende e, per quanto egli parli dei suoi
confratelli «intenti a convertire idolatri» o di popoli
«ancora barbari» (come egli, in fondo, considera gli
Indiani) fatto è che anch’egli si ferma, con acume, sugli usi
e sui costumi dei popoli che descrive. Il Bartoli ha, è vero, i
suoi pregiudizi, ma questi si trasformano in letteratura
edificante. E comunque fra quei pregiudizi, l’apostolato dei
suoi confratelli assume toni epici che ricordano i quadri
dell’epoca. I suoi missionari non domandano a volte che di
spargere il loro sangue per la salute delle anime. Ma il più
delle volte sono dei pionieri che, ancora una volta, e sia
pure con interessi religiosi, collegano l’Oriente con
l’Occidente.
Il Bartoli nella stesura delle sue opere sulla Cina e sul
Giappone (che seguirono quelle sull’Asia e che furono
pubblicate fra il 1653 e il 1661) si avvalse molto delle
lettere e delle relazioni di Matteo Ricci, – soltanto in questi
ultimi tempi rese di pubblica ragione, come, del resto, molti
altri documenti di viaggiatori –. Ma egli seppe
comprendere, in fondo, l’apostolato di quel dotto
missionario? Il Ricci aveva tollerato, insieme ai suoi
compagni di fede, le pratiche nazionali dei suoi neofiti,
anche se egli le riteneva esempi di superstizioni e di
idolatria. E in ciò fu seguito, per l’India, da Padre De Nobili,
che non fu alieno dal fare certe concessioni ai costumi e
alle idee locali. Da qui le critiche più acerbe rivolte ai due
missionari che vennero accusati di praticare, addirittura, il
paganesimo. Da qui la polemica che suscitarono i cosiddetti
riti cinesi e malabarici, e che divampò tanto in Oriente
quanto in Occidente. Con questo risultato: che essa, se da
una parte servì a stabilire il carattere superstizioso di quei
riti (rispetto al Cristianesimo), dall’altra rivelò lo spirito di
civiltà cui si informavano. Ma da qui, anche, e di ciò si
sente un’eco lontana in alcune pagine dello stesso Bartoli,
la comprensione che i missionari (specialmente i Gesuiti)
sentirono per l’altezza morale, anche se di entità naturale,
e non soprannaturale, di alcune religioni, specialmente
asiatiche, e quindi per il problema della religione naturale,
pur sempre degna di rispetto, anche se incompleta di
fronte alla Rivelazione. Ecco: l’orientale sarà stato, com’era
ritenuto da quei missionari, un idolatra e un superstizioso.
Ma era un’anima di Dio. «Di Dio – dirà più tardi Goethe, – è
l’Oriente, di Dio è l’Occidente». Buono, in fondo, come il
selvaggio, quell’orientale!

4. Il Turco e il Persiano danno lezioni all’Europa

Né egli, l’orientale, era soltanto buono. Era saggio, pieno


di freschezza nonostante i millenni che portava sulle sue
spalle, capace di insegnare qualcosa agli Europei. I
viaggiatori e i missionari avevano cercato di vedere quanto
dell’Occidente fosse in Oriente e quanto dell’Oriente fosse
in Occidente. Ma ecco che, a un certo punto, un orientale
entra sulla scena europea per criticare le bizzarrie e i
pregiudizi dell’Europa. L’orientale vuole, ormai, il
sopravvento. E lo avrà.
Così, ad esempio, nel 1684, esce un interessante lavoro
del genovese Giovanni Paolo Marana, l’Espion du Grand
Seigneur, dove si parla, è vero, della Turchia ma ancor più
dell’Europa. Né qui il Turco è quello che aveva ritratto, per
burla, il Routrou nella Sœur (1645). Egli, se mai, par che
esca da certe pagine del Rycaut di cui il Briot, nel 1671,
aveva pubblicato l’Histoire de l’État présent de l’Empire
Ottoman (edito per la prima volta in inglese nel 1666).
Oppure dall’atmosfera che gli aveva creato il Tavernier, il
quale, nel 1676, aveva pubblicato un libro che costituì,
appunto, una delle più appassionanti letture dei francesi: i
Six Voyages en Turquie, en Perse et aux Indes.
Gli intenti del Marana non sono quelli che si erano
prefissi il Rycaut e il Tavernier. Il suo Turco, infatti, non è in
Turchia ma è in Francia, a Parigi, da dove invia delle
relazioni segrete al Divano di Costantinopoli. Né è senza
significato che una delle numerose edizioni dell’Espion,
quella del 1710, porti l’aggiunta: dans les Cours des
Princes Chrétiens. Le corti, soprattutto quella di Parigi,
sono il suo osservatorio. E le sue lettere sono brevi,
stringate, piene di fatti. Egli è un libero pensatore che
giudica i cristiani senza animosità. Si preoccupa comunque
più della morale che del dogma. Vorrebbe conciliare tutte
le religioni, poiché in esse v’è sempre qualcosa di buono. I
costumi dell’Europa lo interessano. Ma dopo tutto la
Turchia, con le sue tradizioni più semplici, non è da
preferire a questa complicatissima Europa?
Due anni dopo la pubblicazione dell’Espion, nel 1686,
appaiono in Francia i Voyages de M. le Chevalier Chardin
en Perse et autres lieux de l’Orient. Lo Chardin, anch’egli
indirizzato al commercio delle gemme (come lo fu il
Tavernier), è un tipo estroso. Non è cattolico. Protestante
pieno di fervore, sente come i suoi predecessori il fascino
dei paesi lontani. La patria del suo cuore comunque è la
Persia, i cui abitanti non hanno nulla da invidiare agli
Europei, per quanto i loro costumi siano diversi. Egli si
propone nelle sue relazioni, qua e là prolisse, ma a volte
piene di aria e di luce, di istruire se stesso per istruire i
suoi lettori «di tutto quello che poteva meritare l’interesse
della intera Europa, intorno a un paese che noi possiamo
chiamare un altro mondo sia per la distanza dei luoghi, sia
per la differenza dei costumi e delle massime». E aggiunge:
«Il clima, il clima di ogni popolo è sempre, mi sembra, la
causa principale della inclinazione dei costumi dei popoli».
Egli pertanto, se da una parte giustifica la differenza dei
costumi fra gli Europei e i Persiani, dall’altra finisce col
considerare la Persia come un paese che non ha nulla da
invidiare all’Europa.

5. L’Egitto, fonte di giovinezza

Ai Cinesi, ai Giapponesi, agli Indiani (dell’India storica),


al Turco e al Persiano, si aggiungono, intanto, altri
protagonisti: l’Egiziano, il Siamese e l’Arabo maomettano.
Così, ad esempio, lo stesso Marana, l’inventore del Turco,
pubblica, nel 1696, un romanzo: gli Entretiens d’un
philosophe avec un solitaire sur plusieurs matières de
moral et d’érudition, il cui protagonista, un novantenne, è
«più fresco e più roseo di una fanciulla», perché è vissuto
in Egitto, un paese, questo, dove si impara la «vera
filosofia, che non ha nulla di cristiano». Ma l’Egitto era
soltanto una fonte di freschezza fisica? O non era anche
una fonte di freschezza intellettuale? In una antica opera
edita nel 1551 e dedicata alla Mythologiae sive
explicationum fabularum un umanista italiano, Nicola
Conti, aveva sostenuto l’idea che le favole dell’antichità
sono dei prodotti artificiali, destinati a trasmettere gli
insegnamenti della filosofia. Egli era convinto, però, che le
conoscenze dei patriarchi ebrei sarebbero passate in Egitto
e dall’Egitto in Grecia. È vero: molti studiosi, come, ad
esempio, il celebre gesuita Adam Kircker, il cui Oedipus
Aegyptiacus fu edito a Roma nel 1652, ritenevano che
l’idolatria, sotto l’influenza del demonio, venisse dall’Egitto
(tesi ripresa poi nel 1711 dal Banier, che nella sua
Explication des fables identificava quell’idolatria nel culto
del sole). Ma ecco che nel 1670 un altro commerciante di
gemme, il Bernier, nella sua Histoire de la dernière
révolution des États du Grand Mogol fa sua un’idea che era
comune ad altri viaggiatori: e che cioè in Egitto si debba
ricercare l’origine della musica e della geometria. E c’è di
più. Nel 1681 esce il Discours sur l’Histoire universelle del
Bossuet, il quale, sulle orme di sant’Agostino, segue il
cammino dell’umanità immaginandola sotto la guida
possente e trionfale di Dio. Ebbene, fra i popoli che egli
descrive, uno di quelli di cui sente maggiormente il fascino
è l’egiziano. Il Bossuet conosce, naturalmente, Erodoto e
Strabone, ma egli ha anche altri testi a sua disposizione: i
racconti dei missionari cappuccini. In base alle
testimonianze che gli offrono queste fonti, egli si rifiuta di
credere che l’Egitto possieda una filosofia antica (o nuova).
Possiede, però, un’architettura che può essere una fonte di
ispirazione. E si augura che Tebe risorga:

«Se i nostri viaggiatori si fossero spinti sino al luogo dove sorgeva quella città,
avrebbero certamente trovato ancora qualcosa d’incomparabile nelle sue
rovine, perché le opere degli Egiziani erano fatte per resistere al tempo… Oggi
che il nome del Re si è diffuso sin nelle parti più sconosciute del mondo e che
questo sovrano spinge altrettanto lontano le ricerche delle più belle opere della
natura e dell’arte, non sarebbe un oggetto degno di questa nobile curiosità
quello di scoprire le bellezze che la Tebaide racchiude nei suoi deserti e di
arricchire con le invenzioni dell’Egitto la nostra architettura?»

Si aggiunga a tutto ciò che nel 1685 un teologo


anglicano, lo Spencer, pubblica la sua vasta opera De
legibus Hebraeorum ritualibus et earum rationibus dove, se
da una parte si afferma, di contro al Bossuet, che la
religione mosaica non era tutta fondata sulla Rivelazione,
dall’altra si sostiene l’influenza decisiva che gli Egiziani
avevano avuto sulla legge, sui precetti e sui riti. E si avrà,
indubbiamente, un’idea di quel che allora rappresentasse
l’Egitto.
Il Marana non era né un erudito né un filosofo. È
probabile che egli non conoscesse tutte le opere che, prima
di lui, erano state dedicate all’Egitto. Sta di fatto,
comunque, che egli ci dà un Egiziano che, se giudica
l’Europa quasi come l’ha giudicata il Turco, può farlo,
«grazie a Dio» con «titolo di nobiltà», egli figlio di una terra
pagana e pur benedetta.
Le stesse pretese dell’Egiziano ha il Siamese, che scende
in campo accompagnato da un arguto spirito francese, il
Dufresny, il quale, nel 1699, nelle sue Amusements sérieux
et comiques, un romanzetto che, in molte pagine, ricorda
gli Entretiens del Marana, si propone di allearsi con un
Siamese, pieno di freschezza e di saviezza, per criticare, un
po’ alla maniera del La Bruyère (cui dobbiamo le più belle
pagine scritte sui contadini francesi), i costumi del tempo.
Il Siam era allora in onore. Pensate. Nel 1684 i Parigini
videro arrivare i primi Mandarini. Nell’85, nell’86, nell’87
missioni francesi si erano recate nel Siam. Dal Siam erano
quindi venute le relazioni scritte soprattutto dagli studiosi
ecclesiastici del tempo. In base a queste relazioni si potè
accertare che i Siamesi pur avendo una religione ridicola
hanno costumi puri ed austeri. E sono tolleranti, savi.
Ebbene: il Dufresny si impossessa di queste idee e le
divulga abilmente, mentre egli, già edotto dei segreti della
corte francese, si ribella contro i rammolliti costumi del suo
tempo.
Né poteva mancare, in mezzo a questo fluire di interessi
che di giorno in giorno si moltiplicavano, la presenza
dell’Arabo. Egli non persuade in un primo momento. Ma poi
si insinua violentemente nella coscienza del mondo
europeo. E più che il Corano lo terrà a battesimo un’opera
destinata a suscitare un’enorme impressione: i Contes
Arabes tradotti da Antoine Galland, discepolo e successore
al Collegio Reale di Parigi dell’Herbelot, che già tanto
aveva contribuito a una maggiore conoscenza della civiltà
orientale, fondando, fra l’altro, nel 1697, la Bibliotheca
Orientalis.

6. I conti di fata e l’Oriente

I Contes escono a Parigi dal 1704 al 1717. Escono, cioè,


in un’epoca in cui continuava, in Francia, l’ammirazione e
la commozione per un genere, i cui personaggi erano
abituati a vivere in mezzo ai tuguri, fra la povera gente, per
la gioia dei bimbi che non hanno altri sogni. Madame
d’Aulnoy aveva dato inizio a quella moda che fu seguita non
soltanto da Mademoiselle Le Force, da Madame de Murat,
dal cavaliere di Mailly, ma soprattutto da Charles Perrault,
il quale nel 1697 pubblicava appunto sotto il nome di suo
figlio, P. D’Armancour, che allora aveva dieci anni, le
Histoires ou Contes du temps passé. Per questi spiriti ecco
dunque come appare il passato: in un’atmosfera di sogno e
di poesia.
Nell’introduzione, con la quale il figlio, o meglio il
Perrault, dedica «a la Grande Mademoiselle» le sue
Histoires (che portano il sottotitolo di Contes de ma mère
l’Oye), egli dice: «On ne trouvera pas étrange qu’un enfant
ait pris plaisir à composer les contes de ce Recueil». E
sembra leggere La Fontaine:

… et moi-méme
si Peau d’âne m’était conté
j’y prendrais un plaisir extrême.

Il Perrault tuttavia riconosceva utile quella pubblicazione


perché le sue fiabe «renferment toute une morale très
sensée». Ed egli le rievocava, in prosa e in versi, con
eleganza e finezza, animandole in mezzo a un’atmosfera
mattinale. I protagonisti delle sue fiabe appartengono a
tutte le categorie sociali; vivono, a volte, nella realtà,
investendola, però, di un meraviglioso significato
soprannaturale; e la loro morale si invera nella virtù, nella
lotta contro il vizio e contro il male.
Il Perrault, come gli altri favolisti dell’epoca, attinge la
sua materia dal popolo. Le sue Histoires anzi, sotto questo
aspetto, continuano quella tradizione che, in Italia, era
stata già in auge, nel Cinquecento, con lo Straparola e un
secolo dopo col Basile, dal cui Cunto di li Cunti la stessa
Madame d’Aulnoy aveva tratto una buona parte dei suoi
Contes de fées, usciti fra il 1682 e il 1690. Si è accennato a
rapporti e derivazione fra i favolisti italiani e i francesi. Il
che è incontestabile. Il fatto, però, è che gli uni e gli altri
attingono in genere a una fonte, che era loro comune, e che
essi non sono certo folkloristi, ma scrittori o poeti, la cui
opera, tuttavia, interessa il folklorista, perché documenta in
una determinata epoca e in un determinato ambiente la
diffusione di quei motivi novellistici che, fecondi e vigorosi,
respirano in mezzo al popolo.
È vero, d’altro lato, che i favolisti francesi vestirono
qualche volta le fate alla francese, facendole parlare come
se fossero state addirittura delle dame di Versailles. Ma che
cosa erano queste favole? Da dove venivano? Nel 1668 il La
Fontaine, che già aveva ascoltato con rapimento una favola
come Peau d’âne, pubblica la prima edizione delle sue
Fables choisies mises en verses (che, poi, diverranno i
celebri Contes). Due anni dopo, – né è senza significato che
ricordiamo queste date – un erudito francese, il vescovo
Huet – il quale per tutta la sua vita cercò di dimostare che
gli dèi dei Fenici, degli Egiziani, dei Persiani, ecc.,
discendono da Mosè, convinto com’era che sotto le più
diverse affabulazioni si debba pur ricercare la figura unica
di Dio – in un suo curioso Traité de l’origine des Romans,
edito per la prima volta nel 1670, è dell’avviso che le fiabe
sono il prodotto inventivo dello spirito umano, ma che,
tuttavia, comune a tutti i popoli e a tutti i tempi è lo spirito
di imitazione. Non v’è dubbio quindi, egli aggiunge, così
stando le cose, che molte fiabe abbiano avuto la loro
origine in Oriente, «E quando io dico Oriente, – egli
conclude, – intendo gli Egiziani, i Persiani, gli Indiani, i
Siriaci, gli Arabi». Vero è che i tempi erano immaturi per
l’impostazione di un problema di quel genere. Ma già
l’Huet lo vedeva. E lo vedrà, qualche anno più tardi, lo
stesso La Fontaine, il quale nella prefazione del 1678 che
precede una nuova edizione delle sue Fables, afferma: «Io
debbo una gran parte delle mie fiabe a Pilpay, saggio
indiano».

7. Le Mille e una notte

In questa atmosfera, già creata da una parte dai libri di


viaggio dedicati all’Oriente e dall’altra dall’interesse per le
fiabe che quei libri avevano potenziato, si comprende e si
giustifica il successo dei Contes del Galland. Ma che cosa
sono questi Contes? Sono i racconti delle Mille e una notte,
un libro, cioè, dove noi sentiamo parlare le civiltà
dell’India, della Persia, dell’Iraq, dell’Egitto, e che è il
prodotto di un lento e laborioso processo di formazione,
inveratosi «in un’area di diffusione e di trasmigrazione che
valica di gran lunga l’ambiente di una vita umana e di un
determinato paese».
Il Galland, come ha notato il Gabrieli, «non fu né un
traduttore scientifico con scrupoli di letteralità e
completezza, né dall’altra parte un rifacitore e falsificatore
dei suoi originali; ma un letterato ed erudito del gran
secolo che nei suoi viaggi in Oriente aveva osservato quel
mondo con l’obiettivo e lucido interesse di un Della Valle e
che rivelava l’esotico tesoro narrativo capitatogli fra le
mani senza abbandoni romantici, con vigile coscienza delle
esigenze storiche e morali da salvaguardare per rendere
l’opera accetta ai suoi contemporanei». I quali, bisogna
aggiungere, s’interessarono subito di quei Contes, dove la
vita popolare delle metropoli orientali è vivificata dalle cose
più straordinarie e incalcolabili. Ci si vuol divertire, ma al
tempo stesso si vuole imparare. Le Mille e una notte
s’aprono come un poema, con una invocazione a Maometto.
Ma a quella invocazione segue subito la premessa:
«Lode a Dio, Signore dei mondi, benedizione e salute al Principe dei Profeti, al
nostro Signore e Patrono Maometto, cui Dio doni benedizione e salute continue,
incessanti, fino al giorno del giudizio. Le gesta degli antichi servano da esempio
alle generazioni seguenti, affinchè l’uomo vegga gli eventi ammonitori capitati
agli altri e ne tragga ammonimento, e leggendo la storia delle genti passate, ne
ricavi un freno salutare. Lode a Colui che delle storie degli antichi ha fatto un
esempio ai posteri. Di tali narrazioni esemplari sono i racconti detti Mille e una
notte con le meravigliose avventure e gli apologhi in esse contenuti».

Nessun’altra parola si trova, nelle Mille e una notte,


prodigata quanto quella di meraviglioso. Le storie sono
tutte meravigliose, «Si meraviglia del racconto» ogni
ascoltatore. Le Mille e una notte sono il tempio delle
meraviglie. In quel tempio sfilano tutte le classi: i re, le
regine, i principi, i ministri, i cortigiani, i visir, i fachiri, i
sarti, i mercanti. Tutti, per usare una frase di quel libro,
amano «la poesia e il parlar sentenzioso e ammonitore». Le
vicende, a volte, non hanno nulla di straordinario: sono
vicende di tutti i giorni e di tutti i tempi. Ma ecco che esse
sono poi investite dal soprannaturale, dal meraviglioso,
onde accanto ai re troviamo gli uccelli che leggono, accanto
alle schiave i dèmoni che si cambiano in leoni ecc. ecc.
Volano geni e folletti. La magia, bianca o nera, sovrasta con
la religione, sulle vicende umane, in un innesto d’una
potenza suggestiva.
Lo stile popolaresco in cui si articolano le vicende
passate che pur mantengono una loro realtà, – qui i re,
infatti, hanno sempre un regno; questa realtà che pur si
delizia, dentro un’atmosfera allucinante, di prodigi e di
geni; lo sfondo in cui si animano le vicende, che è quanto
dire quell’Oriente che, poi, è anche un po’ Occidente; –
tutto ciò fa delle Mille e una notte un’opera prodigiosa.

8. Noi e gli Orientali: differenze e concordanze

Il filorientalismo in tal modo, se da una parte coi viaggi


affermava dei valori non cristiani, alimentando, con l’amore
per l’esotico, l’idea che già aveva proposto il mito del buon
selvaggio, e cioè l’idea di una religione naturale; dall’altra
favoriva indubbiamente con lo studio delle lingue, la
formazione di una nuova coscienza filologica. La quale,
peraltro, dava anche l’avvio a una storia delle religioni,
come appunto, ad esempio, ci dimostrano le citate opere
del Kircker e dello Spencer. Si pensi che il primo,
compiendo un’opera enciclopedica, collega le credenze
della Cina e del Giappone a quelle degli Indiani americani,
mentre il secondo cerca, con vigore di metodo, di stabilire i
rapporti fra gli usi degli Ebrei e quelli degli altri popoli
semitici.
Si afferma in genere che l’etnografia teorica e, di
conseguenza, il metodo comparativo non siano stati
influenzati dall’orientalismo. Ma in verità si può accogliere
questa tesi? L’orientalismo ha, a nostro avviso, tanto per
l’etnografia teorica quanto per il metodo comparativo che
l’accompagna e la guida, un’importanza notevole in quanto
presenta le stesse istanze suscitate dal mito del buon
selvaggio. Se noi diamo uno sguardo retrospettivo a tutti i
libri di viaggi dedicati all’Oriente, ci accorgiamo, è vero,
che molti viaggiatori si fermano soltanto a tutto ciò che è
bizzarro e nuovo, alla maniera di Marco Polo; ma ci
accorgiamo anche che altri vanno ben oltre (come, ad
esempio, un Della Valle o un Chardin), mostrando chiaro il
loro intento di valutare gli istituti dei paesi orientali. Il che
inevitabilmente promuove la ricerca tanto delle
concordanze fra quegli istituti e i nostri quanto delle
differenze. Le concordanze a loro volta suscitano
indubbiamente quei principi di umanità e di fraternità che
già aveva posto il mito del buon selvaggio. Le differenze,
invece, fanno comprendere come le credenze e le pratiche
ecc. debbano essere collocate nel loro clima storico, perché
possano svelarci la loro natura, che non è mai spregevole o
ridicola. Nell’un caso o nell’altro, comunque, in quel sentire
le voci altrui non più come curiosità ma con interessi
contingenti e attuali, è la forza del filorientalismo che
mediò, nella coscienza del tempo, quegli stimoli che
daranno allo studio dei popoli una nuova organizzazione,
nel senso che ormai in quello studio saranno compresi gli
usi, le credenze, le superstizioni, tutto ciò insomma che, se
non è tutta la tradizione dei popoli, è una parte, e
ineliminabile, di essa.
I popoli orientali, come i primitivi, saranno, insomma,
anch’essi una pietra di paragone con cui si potrà saggiare
la vita popolare europea. Ma, intanto, in mezzo a quale
travaglio si svolgeva tale vita?
3. L’Europa fra religione e superstizione

1. La lotta contro l’errore

A mano a mano che in Europa si fa sempre più vivo


l’amore per i libri di viaggi, per i paesi lontani, per le civiltà
e le culture più dissimili, assistiamo a un fenomeno quanto
mai interessante: all’esame, cioè, che la stessa Europa fa di
se stessa e quindi della sua tradizione, la quale viene in
parte ravvisata nella sopravvivenza di residui ingenui della
vita medievale. A mettere il dito su quelle piaghe erano già
stati gl’Indiani d’America e i popoli orientali (gli Stranieri-
Simboli) per bocca dei viaggiatori, dei missionari, degli
osservatori-filosofi, dei romanzieri. Ma il loro era stato, in
fondo, un esame retrospettivo. Era necessario porre
quell’esame su altre basi. E ciò – strano a dirsi – verrà
compiuto con fermezza non soltanto da quegli spiriti ribelli
che vedono nella Chiesa cattolica e nei suoi dogmi l’arresto
di ogni civiltà, ma anche da spiriti pii che, pur militando
nella Chiesa, la vogliono libera da quei pregiudizi che ne
inceppano e ne compromettono l’autorità. Gli uni e gli altri
iniziano, così, una lotta alle credenze tradizionali, o meglio
a determinate credenze tradizionali – che è fondata su
principi e su scopi opposti eppure convergenti. Ma qual è,
dobbiamo anzitutto domandarci, l’origine stessa di tale
lotta? Quali le correnti spirituali che l’animano?
La scoperta dell’America, le conquiste scientifiche e la
Riforma costituiscono le tappe fondamentali che hanno
dato impulso alla lotta contro le credenze tradizionali in
mezzo a cui viveva la coscienza europea. In effetti, però, se
noi vogliamo chiarire l’origine di quella lotta, o meglio il
suo svolgimento, dobbiamo anche tener conto della
Controriforma e soprattutto di quelle correnti che
costituiscono l’avvento stesso del pensiero moderno, sia
che ci richiamino all’osservazione o all’esperienza
(Bacone), sia che prospettino l’autonomia della scienza
rispetto alla fede (Galileo), sia che siano animate dal dubbio
metodico (Cartesio), sia che vogliano conciliare la fede con
la scienza identificando Dio con la natura (Spinoza), sia che
indichino un nuovo pensamento della religione (Locke).

2. La Riforma e la comparazione fra il meraviglioso


cristiano e il meraviglioso pagano
La Riforma era stata animata da quello spirito critico
che, parallelamente al movimento umanistico, voleva rifarsi
alle fonti, alle origini prime, ai documenti e alle
testimonianze autentiche della fede. Così come gli umanisti
e in particolare la storiografia umanistica – e basterebbe
qui ricordare il Valla e il suo De falso credita Constantini
donatione – cercano di aprire gli occhi su tutto quanto era
l’eredità di vecchie leggende o di antiche tradizioni,
ciecamente e passivamente accettate di generazione in
generazione; i riformatori del Cinquecento, i Lutero, i
Calvino, gli Zuinglio, ecc. si pongono innanzi i testi, per
accettare solo ciò che, in materia di fede, in essi sia
esplicitamente contenuto. Tutto il resto viene decisamente
respinto. Non si tratta evidentemente di una
razionalizzazione della religione, il che sarà opera dei
secoli seguenti. La Riforma accoglie i dogmi, ma
criticamente ne accoglie solo alcuni. In questo dobbiamo
vedere la fecondità di tale movimento nei riguardi di quello
che sarà l’ulteriore processo della cultura europea. Ma
bisogna anche notare un altro aspetto della Riforma, per il
quale, però, piuttosto che al Luteranesimo dobbiamo
riferirci al Calvinismo: l’individualismo, il fatto che l’uomo
viene a trovarsi come solo dinanzi a Dio. Mentre, infatti,
Lutero considera la religione come di pertinenza dello
Stato, né ammette che il suddito di un principe riformato
possa professare una religione diversa; per Calvino, le
comunità politiche (come le religiose) sono una libera
espressione dell’individuo. E qui appunto dobbiamo vedere
le prime origini di quello che sarà, nella dottrina e nella
prassi politica, il liberalismo europeo.
È noto inoltre che se l’Umanesimo ci appare, almeno in
certi aspetti, come l’esaltazione della natura umana sotto
l’ispirazione di un paganesimo classicheggiante, la Riforma
invece ravvisa nel paganesimo la corruzione radicale
dell’uomo. Da qui la lotta che essa intraprende contro
l’idolatria romana, impregnata appunto di paganesimo e
ravvisata in una massa di riti, di culti esteriori cui
soprattutto si uniformava la vita popolare.
Accolta dal popolo, almeno in un primo momento, in
quanto essa significava non solo ribellione al clero ma
anche all’autorità di Roma (è noto poi invece come lo stesso
Lutero si scagliasse contro il ladresco ed assassino
tumultuare del contadinume), la Riforma in fondo riprende
una polemica già iniziata dal Cristianesimo bizantino fin dal
secolo VI contro gli idoli, le immagini che muovono la testa,
le cure miracolose ecc., di cui i monaci erano stati i più
zelanti assertori. Vi aggiunge il culto dei Santi e la
venerazione di Maria Vergine. Ma nel riprendere questa
polemica, la quale si fonde con quella dedicata al pagano-
papismo e che è accompagnata dalla critica della teologia
papista, la Riforma che cosa fa se non un inventario di
quelle credenze?
Di questo atteggiamento critico il monumento più
significativo saranno gli atti dei famosi Centuriatores
Magdeburgi, i quali riprendono in esame tutta la vasta
materia della martirologia cristiana, dei miracoli, delle
leggende ecc. Né bisogna, a questo riguardo, dimenticare
gli intimi rapporti tra Erasmismo e Riforma, poiché
indubbiamente lo spregiudicato umanesimo di Erasmo, se
non è da confondere con la rigida teologia di Lutero, apre
la via alle nuove tendenze del secolo.
L’inventario, e con esso lo studio delle credenze
tradizionali, non è, peraltro, fine a se stesso, ove si pensi
che gli scrittori protestanti hanno una meta ben decisa:
quella di ravvisare nelle filosofie e nelle religioni antiche le
superstizioni che compongono la liturgia romana e che il
popolo naturalmente accoglie e fa sue. Così la polemica
contro l’idolatria romana, se da una parte potenzia lo
studio dei testi biblici, alimentando lo studio delle lingue
semitiche, dall’altra avvia la comparazione dei culti e, con
essa, lo studio della loro antichità, riprendendo
quell’indagine già iniziata, con curiosità di dilettanti, dagli
umanisti (come, ad esempio, il Boccaccio, il Pictorius, il
Sardi e il Conti) i quali avevano rivolto le loro attenzioni
alle leggende, alle credenze e ai riti del mondo classico.
Nascono, così, dalla comparazione del meraviglioso
cristiano con quello pagano tutta una serie di summe
dedicate alle religioni comparate, alle mitologie, ai riti ecc.,
anche se non di rado si tratti, come la definisce il Fueter, di
una vera e propria storiografia di partito.
Non minore importanza ebbe da questo punto di vista la
Controriforma cattolica. È noto infatti che il Concilio di
Trento si scagliò, ad esempio, contro le consuetudines non
laudabiles, e in special modo contro le credenze nel
diavolo, contro la stregoneria ecc. Ma, a dire il vero, questa
lotta fu sostenuta tanto dalla Riforma quanto dalla
Controriforma, che continua a vedere nella stregoneria
qualcosa che si avvicina all’eresia.

3. Il Malleus Maleficarum e la letteratura demonologica

La lotta contro la stregoneria trova una delle sue


principali fonti nel Malleus Maleficarum dello Sprenger e
dello Institoris, che uscì per la prima volta nel 1487 e
costituì un vero e proprio vangelo per i tribunali
dell’Inquisizione. La mentalità dello Sprenger (sotto il cui
nome va in genere il Malleus) era identica in fondo a quella
di Lutero. Eppure lo Sprenger era un dotto domenicano il
quale si muoveva fra la Bibbia e le opere di san Tommaso
come a casa sua. Egli è, contemporaneamente, come lo ha
ben definito il Michelet, «il buon senso e la negazione del
buon senso». Ma, prescindendo da queste sue qualità, c’è
una ragione che ci spinge a ricordare il suo Malleus: e cioè
che esso è la più ricca enciclopedia, che noi abbiamo
intorno ai pregiudizi del secolo XV e non soltanto della
Germania. Si direbbe che lo Sprenger il quale, con eroico
fervore, dispensò il rogo a tante povere ammalate, abbia
avuto una preoccupazione: quella del folklorista che
accoglie le superstizioni del suo tempo, le paragona tra di
loro, le immette nel passato da cui provengono e, infine
(canonisti e glossatori in mano), le considera come
fenomeni ereticali contro cui lancia la sua inesorabile
condanna. Sotto questo aspetto il Malleus è un’opera che
interessa in maniera considerevole lo studioso delle
tradizioni popolari. Ma c’è di più: ove si pensi che in esso ci
sono anche quegli elementi che poi verranno presi non solo
dalle cosiddette Fontes, Marteaux, Fourmuliers,
Fustigationes, Lanternae, ma anche dalle varie
Disquisitiones (come, ad esempio, quelle famosissime di
Martino Del Rio), le quali costituiscono tutta quella
letteratura demonologica dove i pregiudizi sul diavolo, sulle
streghe, sulle tregende sono sottoposti a un esame
sconcertante o meglio a un concitato dialogo con il diavolo.
Né erano soltanto gli inquisitori i protagonisti principali
di quel dialogo. Il diavolo suggestiona un po’ tutti. E a
proposito quanto mai istruttiva è l’opera che il Bodin
pubblicò nel 1580: la Demonomanie des sorciers. Assertore
di una religione naturale che egli considera innata
nell’anima umana e perciò anteriore a tutte le forme
storiche, ammiratore della religione giudaica perché in
essa è la semplicità stessa della religione primitiva, in
antitesi con l’utopismo del tempo ove si pensi, come
giustamente nota lo Chauviré, che ogni sua concezione
parte dalla famiglia e dal rispetto del diritto naturale, il
Bodin, quando si delineò in Francia la lotta fra i cattolici e
gli ugonotti, appartenne a quel partito dei politici che
volevano conciliare le esigenze degli uni e degli altri
sostenendo, come strumento di pacificazione, la tolleranza
religiosa. Spirito aperto, dunque, il suo. Ma di fronte alle
streghe, di fronte ai pregiudizi che le riguardano (e di cui
egli si occupa con quella stessa serietà che mette negli
argomenti politico-dottrinali) non ha la minima tolleranza.
Nella sua Demonomanie – anteriore comunque
all’Heptaplomeres, dove egli si occupa appunto della
religione e del diritto naturale – il Bodin non solo afferma,
come Lutero, che la persecuzione della stregoneria è sacra
e indispensabile – non dice le stesse cose, del resto, anche
Bacone? – ma va addirittura in collera contro coloro che a
quella stregoneria non credono o credono «fino a un certo
punto». Convinto che per rendere tranquilla la Francia si
dovesse far piazza pulita di tutte le streghe che in essa
vivevano, il Bodin non vuol sentire ragioni. Anche Aristotele
lo annoia. E con lui tutti coloro che si appellano alle leggi
della natura e della ragione:

«Ora non è quasi minore empietà dubitare se è possibile che vi siano dei
sortilegi che revocare in dubbio se c’è Iddio. Ma il cumulo di questi errori è
provenuto perché coloro che hanno negato la possanza degli spiriti e le azioni
delle streghe hanno voluto disputare fisicamente delle cose soprannaturali e
metafisiche, che è una indecenza notabile».

4. Bodin e le streghe

Ma c’è di più. Tutta l’Europa era allora in balìa ai


cosiddetti malefici, tutta l’Europa era piena di streghe e di
roghi. Bene: per il Bodin quei malefici vengono dall’Italia,
la quale, nemmeno a farlo apposta, in materia di
stregoneria, era stata la più scettica, ove si metta in
raffronto con le altre nazioni. La stregoneria, come è noto,
è la parte deteriore della magia. Ora il Rinascimento, come
ci dimostrano i suoi maggiori rappresentanti, si preoccupò
molto poco della prima, mentre alla seconda cercò sempre
di dare un carattere scientifico. È vero che ciò non impedì a
molti di credere, ad esempio, agli auspici o agli auguri. Il
che era il frutto stesso di una tradizione classica (la greco-
romana), rinvigorita dalla diffusione che lo stesso
Umanesimo aveva dato alle scienze caldaiche, ebraiche,
neoplatoniche ecc. Sta di fatto tuttavia (la tradizione
deteriore della magia sarà violentemente interrotta da
Galileo) che il Rinascimento butta molta cenere sulle
infocate vampe del diavolo.
Ma che cosa importa tutto ciò al Bodin? Egli ha un
bersaglio sicuro da colpire: l’Alciato, il quale, se pur
credeva alle streghe, chiedeva per esse un po’ di buon
senso di contro al cieco furore che le investiva di fiamme. E
poiché l’Alciato è italiano, ecco che l’Italia è responsabile
anche di questo delitto: di scagionare le streghe. Le quali,
in verità, alcuni anni dopo trovarono un abile difensore (è
noto però che in Italia anche il Galateo, al secolo Antonio
De Ferraris, aveva relegato, nel suo De Situ Iapygiae, che è
del 1511, le credenze delle stregonerie nel campo delle
allucinazioni) in un dotto gesuita tedesco, lo Spee, la cui
Cautio Criminalis, edita nel 1631 e scritta in un latino agile
e svelto, è il controaltare tanto del Malleus quanto della
Demonomanie: un controaltare, anzi, che nella storia della
procedura si può mettere accanto al libro del Beccaria Dei
delitti e delle pene.
Lo Spee, che fu anche un delicato poeta, aveva assistito a
molti processi e non sopportava la spettacolosità che, tanto
in Germania quanto in Ispagna, avevano assunto le
esecuzioni per stregoneria; s’era fatto un’idea precisa delle
credenze e dei pregiudizi collegati a quei processi. Si
aggiunga che egli aveva un temperamento di studioso, direi
di folklorista; non gli dispiace inoltre di interrompere la sua
prosa per intercalarla di aneddoti: come quello del frate e
del principe che è il miglior commento alla sua Cautio. Un
principe tedesco, riferisce in esso lo Spee, chiede a un frate
se una persona, denunciata da dodici streghe e che aveva
partecipato a una tregenda, potesse essere arrestata.
Risponde il frate: «Certamente». E il principe allora ribatte:
«Benissimo, reverendo, lei deve essere arrestato perché è
stato denunciato non da dodici ma da quindici streghe».

5. Anticipatori dell’Illuminismo: Browne

I tempi, comunque, non erano del tutto maturi perché la


Cautio criminalis spazzasse via l’infausta persecuzione alle
streghe. Né quindi deve fare meraviglia se uno spirito colto
e raffinato come Thomas Browne, uno dei maggiori saggisti
che ci abbia dato l’Inghilterra, creda alle streghe. Anche in
Inghilterra la stregoneria, del resto, non era stata soltanto
un espediente letterario nelle mani di Shakespeare, tanto è
vero che essa cadeva sotto l’impero della common law.
Elisabetta aveva fatto suoi i capitoli degli statuti di Enrico
VII inerenti alla condanna di chi pratica le stregonerie. E,
più tardi, Giacomo I nella sua Daemonology chiama
addirittura in causa il maggiore responsabile di quelle
stregonerie, il diavolo, onde non aveva esitato a legificare
che:

«Chi userà, praticherà o eserciterà invocazione o scongiuro di uno spirito


maligno o cattivo; o consulterà, farà patto, avrà al servizio o impiegherà, darà
salario o ricompensa a uno spirito maligno o cattivo, per e a qualunque scopo e
proposito; e trarrà qualche morto, uomo, donna o fanciulla, dal suo o dal loro
sepolcro o altro luogo in cui riposi il cadavere, o la pelle, le ossa o altra parte di
un morto, perché sia impiegato e usato in qualunque modo di stregamento,
fattura, incanto o incantesimo – tali trasgressori, debitamente o legalmente
convinti e sentenziati per giuria, patiranno la morte».

Il Browne, il quale appartenne alla Chiesa riformata, ha


sotto i suoi piedi un terreno molto fertile. È vero che, in
Inghilterra, il periodo peggiore di quell’orribile mania
s’ebbe durante il regno di Giacomo I (1603-25); ma il
Browne non è meno credulo di Giacomo, prova ne sia che
nella sua Religio Medici non esita ad affermare:

«Per conto mio, io ho sempre creduto, e ora so di certo, che ci sono streghe:
coloro che ne dubitano non solo negano l’esistenza di quelle, ma anche
l’esistenza degli spiriti, e di conseguenza, in modo indiretto, sono una specie
non di infedeli, bensì di atei. Coloro che perché la loro incredulità sia confutata,
desiderano di vedere apparizioni, senza dubbio non ne vedranno alcuna, né
avran potere di diventare sia pure della natura delle streghe; il diavolo li tiene
già con una eresia altrettanto capitale quanto la stregoneria; e il fatto di vedere
apparizioni equivarrebbe per essi a una conversione».

Nel 1646 il Browne, in un suo volume intitolato


Pseudoxia Epidemica, non esita ad affrontare alla luce
dell’esperienza quelli che egli chiama gli errori comuni e
volgari. Adopera più volte la parola ragione; ma purtroppo
osserva che, «per quanto la moltitudine venga talvolta
adulata con l’aforismo che voce di popolo è voce di Dio»,
nessuna verità essa può darci. Il Browne è convinto che i
libri non possono correggere il popolo. Egli scrive infatti
soltanto per coloro che «primeggiano nella via della
conoscenza e del sapere». Pagine estrose e curiose le sue,
dettate con finezza e con gusto. Ma il Browne, se pur ci dà
un certo inventario degli errori e dei luoghi comuni, cui
crede il suo popolo, e con il popolo anche la gente colta, in
fondo non si impegna né sulla loro origine, né sul loro
carattere, che considera da un punto di vista esteriore. C’è
in lui il moralista più che lo storico. Ma c’è già un’esigenza,
che è quella di rivolgersi, con la sua morale, a un pubblico
colto, direi a una classe specifica, quella a cui lui
appartiene. Il che non esclude che in materia di stregoneria
egli sia popolo.
Né meno violenta è la lotta che in materia di errori
compie qualche anno dopo un teologo inglese,
appartenente alla cosiddetta Chiesa alta, Thomas Sprat, il
quale era poi destinato a diventare vescovo di Rochester.
Egli è più vicino allo Spee anziché al Browne. Ma del
Browne ha, tuttavia, l’amore per l’esperienza e quindi per
la scienza. La sua Storia della Società reale, edita nel 1667,
è il tentativo energico e coraggioso di conciliare la
religione con la scienza. Egli, nota il Trevelyan, «come
faranno pochi anni di poi Locke e Newton, concede agli
antichi miracoli dei tempi biblici il passaporto di fenomeni
privilegiati, di insolite interferenze di Dio nel corso della
sua creazione», ma sta di fatto, egli subito aggiunge, che
«miracoli moderni non se ne dovevano invece più aspettare
nel clima protestante e anglicano». «Il corso delle cose, –
afferma Sprat, – se ne va quieto, scendendo per il suo
chiaro letto di naturali cause ed effetti». Il mondo di
Shakespeare, aggiunge con santa ingenuità, quel mondo
dove vivono le fate e le streghe, i filtri e gli incantesimi, è
passato. Ecco che cosa sono per lo Sprat le fate e le
streghe: false chimere. Di lui, certo, Lord Shaftesbury non
poteva scrivere quel che nel 1707 scriveva ancora a Lord
Somers: «Potrei ricordare a Vossignoria un prelato
eminente, colto e vero cristiano, che vi avrebbe potuto
spiegare a puntino la sua credenza nelle fate». Ma in
quanto alle streghe bisogna aspettare fino al 1736 perché il
Parlamento inglese abolisca la legge (sia pure da tempo,
ormai, lettera morta) che puniva le streghe.

6. Bekker e Thomasius

Su una via molto diversa di quanto non siano i due


Thomas, il Browne e lo Sprat, sono invece due spiriti ribelli:
l’olandese Bekker e il tedesco Thomasius. Anch’essi lottano
per l’errore. Anche essi sono contro l’errore. Ma non
hanno, né l’uno né l’altro, preoccupazioni teologiche da
servire. Il primo, sconfessato dalla sua Chiesa, rinnega, sì,
Spinoza, il quale nel suo Tractatus theologico-politicus,
aveva messo sotto processo le credenze tradizionali, ma è
un cartesiano convinto, tanto che nel 1668 pubblicò una
sua Admonitio sincera et candida de philosophia
cartesiana. Il secondo, pur essendo stato educato nei rigidi
canoni del protestantesimo luterano, non ha né vuole avere
legami che lo inceppino.
Il Bekker ha un avversario da colpire: il diavolo. E lo
colpisce, senza attenuanti, senza appelli, senza sottintesi,
in un suo grosso libro pubblicato nel 1691: De Betoovete
Wered (tradotto in tutte le lingue europee). Il suo è,
potremmo dire, il primo tentativo scientifico in cui la storia
del diavolo non è condotta attraverso i testi della Bibbia,
ma anche attraverso le tradizioni e le credenze che i vari
popoli hanno intorno al diavolo. In quanto alla prima parte,
egli è convinto che la Sacra Scrittura, cui si fa sempre
appello per la credenza del diavolo, «considerata nella sua
sostanza e senza prevenzione, non attribuisce al diavolo
quella potenza e quelle operazioni che i pregiudizi dei
commentatori e dei traduttori gli attribuiscono». In quanto
alla seconda, egli ritiene che la credenza nel diavolo, che
egli segue un po’ in tutti i paesi europei, è di origine
pagana e perciò ha inquinato il Cristianesimo. Anche il suo
è un continuo colloquio col diavolo: ma quel colloquio è
un’indagine attenta e scrupolosa contro tutti i pregiudizi,
nei quali sono da ravvisare le fandonie di gente corrotta,
che non ha nessuna relazione col diavolo e che è, quindi,
inumano condannare per questa pretesa relazione.
Dello stesso parere sarà qualche anno dopo il Thomasius,
il quale, riattaccandosi allo Spee, combattè con violenza i
processi alle streghe, l’uso delle pene infamanti e della
tortura. Una delle opere maggiori del Thomasius, in cui si
sentono gli echi del Bekker, è appunto il De Crimine
Magiae. Ma l’opera cui va legato il suo nome è,
indubbiamente, quella dedicata ai Fundamenta juris
naturae et gentium, pubblicata nel 1705. In quest’opera
egli non solo considera il diritto come un fenomeno sociale;
ma, com’è stato ben osservato, di contro ai politici italiani
(a cominciare da san Tommaso) che avevano distinto il
diritto dalla morale, distacca nettamente la morale dal
diritto. Egli si fa, così, assertore di quel diritto naturale che
già aveva combattuto nelle sue Institutiones
jurisprudentiae e che già aveva trovato, dopo il Bodin, i
suoi rappresentanti più illustri nell’Altusio, in Alberigo
Gentile e in Ugo Grozio.
Colui che aveva avuto la prima cattedra di diritto
naturale, Samuel Pufendorf, rifacendosi a quei
predecessori, aveva pubblicato nel 1673 il De jure naturae
et gentium, nel quale i suoi concetti non sono certo legati
alla monarchia imperante (Bodin) e all’intransigenza
confessionale (Altusio) e tanto meno alla convinzione che
«il diritto naturale viene imposto e voluto da Dio che è
autore della natura» e che «nella Bibbia debba ricercarsi
l’unica fonte del diritto». Il Pufendorf, osserva l’Hazard,
«non nega la potenza divina, ma la relega in un altro piano:
c’è il piano della ragione pura e quello della Rivelazione; il
piano del diritto naturale e quello della teologia morale, il
piano dei doveri che s’impongono a noi perché la retta
ragione naturale ce li fa giudicare necessari alla
conservazione della società umana in generale, e il piano
dei doveri che si impongono a noi perché Dio ce li ha
prescritti nella Sacra Scrittura». Era la separazione netta
fra il diritto naturale e quello divino. Thomasius legge
Pufendorf; la laicizzazione degli studi lo attrae e lo seduce
e le sue ricerche prendono così un’altra via:

«Mai più nessuna credenza accolta dogmaticamente; quando esaminerò una


dottrina non mi domanderò più di quale reputazione goda o quale sia l’autorità
che la sostiene, ma quale grado di evidenza presenti; studierò i vari argomenti
pro e contro; e mi deciderò secondo i miei propri lumi. Invece di restare il
suddito obbediente dei dittatori del pensiero, sarò come quegli eroi
dell’antichità che impugnavano le armi contro il tiranno che prima aveva
servito per il trionfo della libertà».

E come un eroe dell’antichità egli si arma di corazza ed


elmo, pronto a scendere in battaglia. I suoi nemici sono i
pregiudizi, fonte di tutti i mali. La ragione è la fede per cui
combatte. E quella fede diventa in lui insaziabile amore per
la società e per l’umanità.

7. Il deismo e la religione naturale

Non meno vivo era, intanto, negli studiosi del tempo il


desiderio di dare una sistemazione alla religione naturale.
Né, in proposito, si deve dimenticare l’opera di Herbert of
Cherbury, intitolata De Veritate, che è del 1624, e che è
considerata come il manifesto di quella corrente di
pensiero, così viva fra il Sei e il Settecento, denominata
deismo. Il Cherbury rigetta nella maniera più viva il
concetto della Rivelazione. Non esiste, egli dice, che la
religione naturale, la quale non ha bisogno di pratiche
superstiziose. Il Cherbury nega l’esistenza di un Dio, vale a
dire del Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe. Ma crede in
Dio. È assurdo, egli osserva, che l’uomo per seguire una
morale debba aver bisogno della Rivelazione. L’uomo si può
governare benissimo con la sola ragione. Ecco ciò che
veramente interessa a Dio: che noi seguiamo i sentimenti di
religione e di morale che egli ha impresso nella nostra
anima. A che vale credere alla Rivelazione e poi non
seguire tali sentimenti?
Più cauto nei riguardi della Rivelazione è
apparentemente il Toland, il quale nel 1696 pubblica un
libro, Christianity not mysterious, dove afferma che il
mistero non esiste e che la Rivelazione è, sì, indubbiamente
«una fonte di informazione», non però un «fondamento»
che solo la ragione è competente a darci e che la ragione è
per sempre superiore alla Rivelazione «nello stesso senso
in cui una grammatica greca è superiore al Nuovo
Testamento, perché noi facciamo uso di essa per intendere
il linguaggio, come della ragione per comprendere il senso
di quel libro».
Prescindendo, comunque, da queste discussioni di
carattere più o meno teologico, sta di fatto che il Cherbury
e soprattutto il Toland, ci hanno lasciato, sommersa nelle
loro disquisizioni, la descrizione di usi, di costumi, di modi
di vivere che illuminano la vita popolare del tempo. Nelle
Letters to Serena, indirizzate alla regina Sofia di Prussia e
che sono del 1704, il Toland si occupa, infatti, della forza
che hanno i pregiudizi e osserva:

«La levatrice che ci aiuta a venire al mondo compie sopra di noi cerimonie
superstiziose, e le brave donne che assistono al parto hanno un’infinità di
sortilegi che credono atti a procurare al neonato la buona ventura o a tener
lontani da lui i guai. Hanno ridicoli presagi, in base ai quali pretendono di
conoscere la sorte futura. In alcuni paesi il prete è altrettanto svelto di quelle
comari: s’impossessa prontamente del bambino per renderlo schiavo, lo inizia
ai suoi misteri pronunciando formule che somigliano a degli incantesimi;
applicando del sale, dell’olio o dell’acqua o anche, come in alcuni paesi,
applicandogli il ferro o il fuoco, dichiara che prende possesso di lui e gli fa
portare i segni della signoria che eserciterà su di lui».

Ma il Toland non fa soltanto un inventario dei pregiudizi


o comunque delle credenze in genere in mezzo a cui vive,
nauseato dal fatto che anche nelle scuole si parli di geni, di
ninfe, di metamorfosi, responsabili i poeti e i professori. Va
oltre: cerca di vedere qual è l’origine di quelle credenze; e
qui il suo esame diventa acuto anche se le sue conclusioni
offrono il fianco a critiche troppo aperte. Valga un esempio.
Nelle stesse Letters il Toland si propone di spiegare
l’origine dell’idea di una sopravvivenza individuale. Questa
credenza si è ormai incorporata nel patrimonio della gente
rozza e incolta. Essa, però, secondo il Toland, proviene
dall’Oriente e più precisamente dall’Egitto dove fu
collegata coi culti funerari.
In queste ricerche, per quanto ancora ingenue, dobbiamo
tuttavia vedere il valore che assume il deismo, i cui
rappresentanti in un modo o nell’altro si preoccuparono
soprattutto di liberare la religione da tutta l’impalcatura
dogmatica e dalle superstizioni che la accompagnano. Il
Cherbury e il Toland credono in fondo ai miracoli. Ma non li
guardano già con occhio critico? Essi sono convinti che i
culti e i riti sono un’impostura dei preti.
Di contro al deismo non solo si appuntò la satira dello
Swith, ma anche la critica di numerosi eruditi (per quanto
qualcuno lo abbia considerato nient’altro che una
deviazione). Né sono mancate le ricerche su di esso, intese
a determinarne i precedenti storici, i quali, di volta in volta,
si sono ravvisati in determinate correnti di pensiero (la
filosofia religiosa del Rinascimento italiano) oppure in
opere di determinati autori (come, ad esempio, nell’Utopia
del Moro, nell’Heptaplomeres del Bodin, nella
Reasonableness of Christianity del Locke ecc.). Ma non è
più esatto, come già risulta dalle nostre indagini dedicate
agl’Indiani d’America e ai popoli orientali, ritenere che
l’avvio alle soluzioni deistiche è stato sollevato dalle
indagini che i viaggiatori (direttamente) e gli stessi
missionari (indirettamente) condussero sulle religioni,
primitive o orientali che fossero, le quali avevano una loro
morale, anche se di entità naturale?

8. Teologismo folkloristico

Non bisogna dimenticare d’altro lato che la


superstizione, contro la quale si lottava, era annidata
soprattutto nelle case di campagna, nei villaggi, dove i
parroci erano d’accordo con i Gesuiti, i quali «accoglievano
come buone pratiche esteriori anche le superstizioni di
sapore pagano», perché «le consideravano utile base di vita
religiosa». Da qui, del resto, la persistente sostituzione dei
riti pagani con quelli cristiani, anche se in tale sostituzione
cambiava lo spirito che aveva animato i precedenti
protagonisti. E da qui anche la reazione determinantesi in
seno al movimento giansenistico e le aspre critiche alla
morale dei Gesuiti, che ebbero la più famosa espressione
nelle Lettres provinciales del Pascal.
Vi sono tuttavia, in Francia, due teologi, il Thiers e il Le
Brun, che non condividono affatto quelle opinioni. Essi, al
contrario del Browne, vogliono educare il popolo,
liberandolo da tutti quei pregiudizi che ne inceppano la vita
dello spirito. Anche essi, come lo Sprenger, il Bodin e il
Browne, credono alle streghe. Il Thiers, infatti, nel 1679
pubblica un ampio Traité des superstitions ed è dell’avviso:
1, che una cosa è superstizione e illecita quando è
accompagnata da certe circostanze che non hanno virtù
naturali per produrre gli effetti che si vorrebbero; 2, che la
superstizione rovina la fede della Chiesa e il culto della
divinità; 3, che essa è il frutto di un patto fra l’uomo e il
demonio. Né da meno è il Le Brun, cui dobbiamo una
Histoire critique des pratiques superstitieuses qui ont
séduit les peuples et embarassé les savants edito per la
prima volta nel 1702.
Il Thiers e il Le Brun non mancano nei loro lavori di
accennare all’opera svolta contro le superstizioni da parte
dei concili, specialmente quello di Trento. Si fermano –
soprattutto il Thiers – sui concetti che i Santi Padri e gli
scrittori ecclesiastici ebbero nei riguardi della
superstizione. Ma la loro opera non si esaurisce qui, Essi
vogliono scoprire le pratiche e le credenze, le quali non
sono altro che resti di paganesimo, eresie, deviazioni e
degenerazioni introdotte dal popolo (par les rustres, dice il
Thiers) in seno alla religione (meglio sarebbe stato dire:
resti di religioni scomparse). Relegano così le superstizioni
e le credenze nel regno dell’errore. E l’errore – lo avevano
detto anche il Bodin e il Browne – non è forse figlio del
demonio?
Il Van Gennep ha recentemente osservato che le opere
del Thiers e del Le Brun si riattaccano, per il loro
contenuto, alla letteratura demonologica. Ma qui è meglio
precisare. Non v’è dubbio che le opere del Thiers e del Le
Brun siano in fondo, per quanto riguarda il loro contenuto,
sulla stessa linea in cui sono lo Sprenger o il Bodin, i quali
tuttavia ebbero il merito di porre il problema degli errori
popolari. Ma in quanto al loro metodo, vale a dire con la
raccolta sistematica delle tradizioni, essi non concludono e
perfezionano l’opera di un Browne, di uno Spee, di un
Bekker, di un Toland, i quali, se pur si debbono includere
fra gli anticipatori e gli iniziatori dell’Illuminismo, sono
indubbiamente i veri precursori del folklore europeo? Un
Browne, un Bekker, un Toland non si contentano di
inventariare, di raccogliere i materiali inerenti ai culti, ai
riti ecc.; ma, come più tardi il Thiers e il Le Brun, vogliono
rendersene conto. Ed è appunto per questo che noi
possiamo considerare le opere di questi due teologi
francesi come quelle che hanno soprattutto spianato la via,
ad esempio, alle Antiquitates vulgares, or the Antiquities of
the common people del Bourne, edite nel 1725 (e
ristampate poi con molte aggiunte dal Brand nel 1776),
dove non solo noi vediamo formulato con chiarezza il
concetto di antichità per tutto ciò che è popolare (è noto,
peraltro, che già Bacone aveva incluso nelle Antiquitates le
tradizioni popolari e le etimologie ecc.), ma dove sono
anche rievocate con accenti poetici le feste, le credenze del
popolo inglese, che ancor oggi costituiscono un punto di
sicuro riferimento per gli studiosi di folklore.
4. L’errore alla luce della ragione

1. Un precursore del folklore europeo: Bayle

La lotta che l’Europa, dopo la scoperta dell’America,


aveva ingaggiato contro le credenze tradizionali e che noi
abbiamo seguito nelle sue manifestazioni più tipiche,
assume nel secolo XVIII un suo particolare aspetto nella
Francia cattolica, vale a dire nella Francia di un Thiers e di
un Le Brun, per opera dell’Illuminismo, il cui capo
spirituale è Pierre Bayle. Questi, se pur si muove fra
Spinoza e Cartesio, ha vivo l’interesse per i viaggiatori e
per i missionari, e con essi per gli Indiani d’America e i
popoli orientali, oltreché per i deisti e di conseguenza per il
loro naturalismo.
L’epoca in mezzo a cui il Bayle vive è piena ormai di
deisti e di liberi pensatori. E c’è, egli aggiunge subito nella
sua opera contro la revoca dell’editto di Nantes:

«… chi se ne meraviglia. Io invece mi meraviglio a maggior ragione che non ce


ne siano di più, se considero le devastazioni che la religione compie dovunque
nel mondo e la distinzione di ogni moralità che pare ne sia la conseguenza
inevitabile in quanto per assicurare il proprio benessere temporale la religione
favorisce tutti i delitti immaginabili, l’assassinio, la rapina, l’esilio e ogni atto
violento; delitti che hanno per conseguenza un numero infinito di altri errori
come l’ipocrisia, l’esercizio eretico ecc.».

C’è un episodio, un trascurabile episodio se vogliamo,


che spinge il Bayle a scendere in lotta contro quelle
devastazioni. Nel «Journal des Savants» del 1° gennaio del
1681 si poteva leggere questo annunzio:

«Tutti parlano della cometa, la più importante novità del principio di


quest’anno. Gli astronomi ne osservano il corso e il popolo ne fa presagire mille
calamità».

Passa appena un anno da quell’annunzio e il Bayle


indirizza una Lettre à M. L. A. D. C., docteur de Sorbonne.
Où il est prouvé par plusieurs raisons tirées de la
Philosophie et de la Théologie que les comètes ne sont
point le présage d’aucun maleur. Ma non gli basta, e nel
1683 incalza con le Pensées diverses écrites a un docteur
de Sorbonne; nel ’94 con una Addition aux Pensées; e infine
nel 1705 con una Continuation alle stesse Pensées. Né per
lui la cometa è un argomento specifico di trattazione.
L’argomento della sua trattazione è più vasto; e se da una
parte esso coinvolge il concetto generale della credulità,
dall’altra, ed è ciò che a noi particolarmente interessa,
investe quel concetto nel suo interno, ove si pensi che la
superstizione della cometa, legata com’era alle credenze
pagane, offriva già una felice occasione per affrontare lo
studio dei pregiudizi, e con essi quello della tradizione.
Ma che cos’è, si domanda anzitutto il Bayle, questa
tradizione? Eccola: «l’affermazione di due o tre persone
ripetuta dalla folla innumerevole delle persone credule». E
aggiunge: «Volete collegare la tradizione all’astrologia?
Ebbene che cos’è, dopo tutto, l’astrologia, che pur è stata
la causa e la fonte di tanti pregiudizi, se non una cosa
veramente risibile?» Volete ricorrere ad altre fonti, quali
sono i racconti dei poeti e le narrazioni degli storici? Bene:
eccovi subito dimostrato che tanto i poeti quanto gli storici
sono dei professionisti di menzogna. Egli ride di tutto. Ma
la sua macchina ormai è in movimento. L’interesse, direi
scientifico, in nome del quale è sceso in campo, gli si
tramuta fra le mani. Non gli basta arrivare alla conclusione
che l’opinione sulle comete va relegata in quel vasto
patrimonio di superstizioni insinuatosi nel Cristianesimo (il
che contemporaneamente era oggetto di studio da parte di
un Thiers e di un Le Brun); ma arriva oltre, più oltre,
ond’egli rivolge a se stesso una domanda: «Vogliamo
ammettere che la cometa sia veramente un presagio di
sventura?» La risposta è precisa, inequivocabile,
dogmatica: «In questo caso Dio compierebbe dei miracoli
per confermare l’idolatria del mondo». E qui egli opera su
un tavolo anatomico, mentre la sua indagine si fa più
minuta, intesa com’è a sezionare pezzo a pezzo l’idolatria,
che è ancora peggiore di quell’ateismo di cui lo si accusa e
che egli, anche qui coi libri dei viaggiatori del suo tempo in
mano, pone sul trono se non della glorificazione almeno
della considerazione.

2. La superstizione come elemento di potere

Le Pensées del Bayle costituiscono un vasto e utile


repertorio delle credenze popolari del tempo. Spogliate
dalla polemica, in mezzo alla quale pur vibrano d’una loro
vita, le Pensées ci offrono delle indagini acute intese a
penetrare il segreto stesso del pregiudizio. Ma, oltre che in
questi lavori, è nelle voci del Dictionnaire historique et
critique, la forma più adatta forse alla sua mentalità, che
bisogna ricercare il Bayle folklorista, il quale anche qui non
esita a combattere l’errore con quella consapevolezza
critica che ormai la sua conoscenza dei pregiudizi gli
permette. Il Bayle ritiene che la menzogna rende sempre
cattivi servizi alla verità. Ma leggete, ad esempio, la voce
Takiddin:

«La sorte dell’uomo è così disgraziata che le cognizioni che lo liberano da un


male lo precipitano in un altro. Distruggete l’ignoranza e la barbarie e
distruggerete così la superstizione e la stolta credulità del popolo tanto utile ai
suoi capi, i quali abusano del loro potere per sprofondare nell’ozio e nelle
dissolutezze: ma, rivelando agli uomini tali disordini, ispirerete loro il desiderio
di tutto esaminare: essi indagano e sottilizzano talmente che non trovano più
nulla che appaghi la loro miserabile ragione».

Anche Plutarco, a dire il vero, aveva già concesso alla


superstizione una sola attenuante: che essa, ad esempio,
nelle mani di un uomo di stato può essere uno strumento di
dominazione. Il Bayle non ha davanti ai suoi occhi gli dèi di
Plutarco. Egli sente in sé un Dio cui non si può imputare
l’origine di quelle religioni che hanno il germe delle guerre
o delle stragi. Ma quel Dio vive nella religione cattolica del
suo tempo, nella Francia di Luigi il Grande? O essa stessa,
anzi, è fonte di errori? Nel suo Commentaire philosophique
sur ces paroles de l’Evangile: Contrains les d’entrer,
attaccando i dogmi della Chiesa, di alcuni dei quali tuttavia
riconosce la validità, afferma:

«Bisogna di necessità ammettere che qualsiasi dogma particolare – sia che


venga presentato come contenuto nella Scrittura, sia che venga presentato
altrimenti – è falso, quand’è confutato dalle nozioni chiare e distinte del lume
naturale, principalmente della morale».

Ecco: la morale. Ma egli non sa forse quel che Spinoza,


riprendendo Plutarco, aveva affermato, e che cioè le
superstizioni religiose sono utili ai re per soffocare
soprattutto il popolo? Le superstizioni tuttavia hanno pur
sempre un innegabile fascino. E l’uomo, questo «boccone
più difficile da digerire che si presenti a tutti i sistemi»,
come egli lo definisce nella sua Réponse aux questions d’un
provinciale non è forse, aggiunge, «uno scoglio di vero e di
falso»?

3. Fontenelle e la sua Histoire des oracles

La polemica del Bayle è continuata e ripresa, con grande


abilità, da uno degli spiriti più penetranti che ci abbia dato
l’Illuminismo: dal Fontenelle, il quale, a differenza del
Bayle, era vissuto in un ambiente cattolico, educato
com’era stato dai Gesuiti.
Nel Discours preliminare che apre l’Encyclopédie si
afferma che «senza avere l’ambizione pericolosa di
strappare le bende dagli occhi dei contemporanei, il
Fontenelle preparava, da lontano, nell’ombra e nel silenzio,
la luce da cui il mondo doveva essere rischiarato a poco a
poco». Il che è vero fino a un certo punto, poiché egli, se fu
molto più cauto in rapporto ai dogmi e alla religione
rivelata di quanto non lo sia stato lo stesso Bayle, in cambio
seppe mascherare le sue distruzioni con un sorriso
mondano che andava diritto allo scopo. Né si può dire che
la sua Histoire des oracles, edita nel 1686, sia passata
nell’ombra o nel silenzio, ove si pensi che essa fu attaccata
violentemente dai cattolici, e specialmente dai Gesuiti. Si
propose anzi che egli in seguito alla pubblicazione
dell’Histoire venisse rinchiuso nella Bastiglia. E nel 1707,
per quanto il Fontenelle fosse riinasto sempre appartato
forse per far dimenticare quanto aveva scritto, il Padre
Baltus pubblicava una Réponse a l’histoire des oracles,
dove accusava l’Histoire del Fontenelle come un’opera
detestabile ed empia che andava considerata come una
delle sorgenti più importanti dell’anticlericalismo del
secolo xviii (giudizio questo che poi un acuto critico del
Fontenelle, il Maigron, farà suo).
Nella prefazione con cui si apre l’Histoire des oracles, il
Fontenelle ci dice espressamente com’egli sia stato spinto a
scrivere quell’opera:

«Tempo fa mi capitò fra le mani un libro latino sugli Oracoli dei pagani, scritto
recentemente da Van Dale, dottore in medicina e stampato in Olanda. Mi parve
che l’Autore demolisse con un certo vigore tutto ciò che comunemente si crede
sugli oracoli resi dai demoni e sulla loro scomparsa totale con l’avvento di Gesù
Cristo, e tutta l’opera mi parve ricca d’una larga esperienza dell’antichità e di
una vasta erudizione. Pensai di tradurlo, affinchè le donne e anche quegli
uomini che non leggono agevolmente il latino non fossero privati di lettura
tanto gradevole e utile. Ma poi riflettei che una traduzione del libro non
avrebbe avuto l’effetto che io volevo. Van Dale ha scritto soltanto per i letterati
e ha avuto ragione nel tralasciare quegli abbellimenti e quelle bellurie che per
essi non avrebbero grande importanza. Egli riporta un gran numero di brani e
li cita assai fedelmente, in versioni eccellenti, quando son tradotti dal greco;
discute su molti brani di argomenti di critica e di esegesi, talora poco
necessari, ma sempre curiosi. Ecco quel che occorre ai dotti… Inoltre Van Dale
non si perita affatto di interrompere spesso il filo del discorso per introdurvi
qualche altro argomento, e in quella parentesi insinua un’altra parentesi che
non sempre è l’ultima… Io ho dunque deposto il pensiero di tradurlo e ho
viceversa opinato che valesse meglio, conservando il contenuto e la materia
principale dell’opera, darle tutt’altra forma. Confesso che non si può spingere
questa libertà più lungi di quanto io abbia fatto; ho mutata tutta la disposizione
del libro: ho tolto tutto ciò che mi è parso poco utile in se stesso ovvero troppo
poco elegante per compensare la scarsa utilità; ho aggiunto non soltanto tutti
gli ornamenti che mi sono parsi più opportuni, ma anche parecchie cose che
rafforzano o danno maggior rilievo al tema…».

L’opera del Van Dale, cui allude il Fontenelle, era uscita


ad Amsterdam nel 1683 e portava il seguente titolo: De
oraculis ethnicorum dissertationes duae, quarum prior de
ipsorum duratione ac defectu, posterior de eorundem
auctoribus. Fu tradotta in inglese dal Behn nel 1699. Il
Fontenelle non si distacca molto da essa per quel che
riguarda la trattazione fondamentale dell’argomento. L’uno
e l’altro, infatti, si preoccupano di dimostrare che gli
oracoli pagani non venivano resi dai demoni, ma erano
effetto della volontà dei potenti e dell’impostura dei preti.
Continua così la polemica dei riformatori e dei deisti. Ma
laddove il Van Dale si ferma a quella polemica, è chiaro
invece che il Fontenelle investe criticamente il problema
tutto dell’errore o meglio della superstizione.

4. Carattere degli oracoli

Nella Histoire, dove si assommano le sue migliori qualità


di letterato e di volgarizzatore scientifico, il Fontenelle,
come aveva già fatto il Van Dale, non esita a trasferire il
suo giudizio dal paganesimo al cristianesimo. Ma la sua
presa di posizione è più categorica:

«Di sua natura la questione degli oracoli, di carattere religioso per i pagani, lo
è divenuta senza necessità presso i cristiani: e da tutte le parti pregiudizi
hanno reso oscure chiarissime verità».

E subito dopo aggiunge:

«Tuttavia questi pregiudizi che inficiano la vera religione, trovano, per così
dire, modo di confondersi con essa e di cattivarsi quella devozione che a sé ella
sarebbe dovuta. Non si osa confutarli nel timore di offendere qualche cosa di
sacro. Non rimprovero punto questo eccesso di religiosità, anzi esso è lodevole,
ma, per lodevole che sia, non si può non convenire che non sia più ragionevole
distinguere l’errore dalla verità, piuttosto che rispettare l’errore confuso con la
verità».

Il Fontanelle è preoccupato, egli dice: «di difendere gli


interessi autentici del Cristianesimo». Ma egli difende
davvero questi interessi? Il Fontenelle sa bene, come il
Bayle, quale forza abbia la consuetudine. Essa, egli infatti
osserva, «ha su gli uomini una forza che non ha per niente
bisogno di essere appoggiata dalla ragione». Eppure
afferma deciso:

«Consultando la ragione umana non si ha bisogno di demoni né per far


pervenire l’azione di Dio sino agli uomini, né per mettere fra Dio e noi qualche
cosa che si approssimi a lui più di quanto noi lo possiamo».
Così la Histoire des oracles si ricollega alle Pensées del
Bayle, in quanto essa non solo tende a eliminare il miracolo
dalla storia, ma rende sospetta una qualsiasi religione che
creda nei miracoli, «Il pensiero del Fontenelle, – osserva in
proposito l’Hazard, – profondo sotto le sue apparenze
superficiali, raggiunge quello del Bayle sulle comete. È
facile rilevarne la parentela. È lo stesso appello a un
pubblico più vasto di quello dei filosofi e dei teologi,
congiunto alla volontà di denunciare la debolezza della
natura umana, causa prima dell’errore, e la cecità della
tradizione, la quale raccoglie l’errore, lo rafforza e lo rende
quasi invincibile». Le comete del Bayle sono insomma gli
oracoli del Fontenelle. Tutti e due credono ai «miracoli»,
ma soltanto, per usare un’espressione di Leibniz, a quelli
della ragione.

5. L’Origine des fables: contributo alla storia degli errori


degli antichi

Ma il Fontenelle non si fermò soltanto sugli oracoli. Uno


dei suoi saggi maggiori, anzi, è precisamente l’Origine des
fables, che egli scrisse allo scopo di dimostrare che anche
le favole vanno considerate come una pagina della storia
degli errori degli antichi. C’è nel Fontenelle un
atteggiamento nettamente negativo rispetto alle favole che
pur, con il loro fascino, investirono nei popoli classici la
poesia, il teatro, le arti plastiche. Le favole di cui parla il
Fontenelle non sono, in fondo, che i miti (da lui ampiamente
studiati tra i Gesuiti, soprattutto sulla celebre Mitologia del
nostro Conti). Vi sono tuttavia nel suo saggio dei brani, i
quali ci dimostrano che il suo sguardo è rivolto anche a
quelle favole che già correvano in Francia. Così, ad
esempio, egli afferma che «ancor oggi gli arabi riempiono
le loro storie di prodigi e di miracoli per lo più ridicoli e
grotteschi». Né, d’altro canto, gli sono ignoti i cosiddetti
racconti devoti del suo paese, come la storia dell’albero a
cui si impiccò Giuda (raccolti poi dal Luzel).
Di questi racconti egli sente, è vero, un certo fascino. Ma
quale? Quello che suscita in genere l’errore stesso. Nei suoi
Dialogues des Morts antiques et modernes. Omero aveva
detto a Esopo:

«Che lo spirito umano non cerchi che il vero, disingannatevi. Lo spirito umano
e l’errore simpatizzano enormemente. Se volete dire la verità farete molto bene
ad avvolgerla nelle favole e piacerà molto di più. E se vorrete raccontare delle
favole esse potranno piacere anche se non contengono alcuna verità. Così il
vero deve trasfigurarsi nell’errore per essere accolto gradevolmente dallo
spirito umano; ma l’errore vi entra invece così com’è, perché quello è il luogo
della sua nascita e della sua dimora abituale, mentre la verità vi è estranea».

E nell’Origine des fables riprende quel concetto, lo


sviluppa e lo elabora per concludere che il motivo che
favorisce gli errori e quindi le favole, si deve al rispetto che
noi abbiamo verso l’antichità. I nostri padri l’hanno
creduto? Pretendiamo forse noi di essere più saggi di loro?
Il Fontenelle è convinto che, se ancor oggi si mette un
popolo sulla terra, le sue prime storie saranno delle favole,
indipendentemente dal clima. Ma è convinto, altresì, che
anche col divenire dell’umanità – è noto che in lui il
concetto di progresso è molto più vivo che non nel Bayle –
le storie vere si mescolano con le antiche, e il meraviglioso
sopraffa il vero, come ci dimostrano, egli aggiunge, non
solo i miti degli Egiziani, dei Fenici, dei Greci, ma anche i
fatti che gli storici ci hanno raccontato dei tempi di
Augusto.
In ciò egli evidentemente è d’accordo con il Bayle, il
quale nel suo Dictionnaire (voce Pheron) non esitava a
mettere in mora tanto le leggende eroiche della Grecia
quanto quelle dei primi re di Roma. Oppure col Saint-
Evremond, il più tipico rappresentante dei libertini
francesi, il quale nelle sue Réflexions sur les divers génies
du peuple romain, dans les différents temps de la
République aveva annotato: «Io detesto le ammirazioni
fondate su favole o sorte per l’errore di giudizi falsi. Ci
sono tante cose vere da ammirare nei Romani, che favorirli
con delle favole è un far loro torto». Ma non lo è invece, ad
esempio, con il suo compagno di lotta, il Perrault. L’uno e
l’altro si erano scagliati contro tutto ciò che è antico. Il
Fontenelle nel 1688 aveva infatti pubblicato la Digression
sur les Anciens et les Modernes, quasi a rafforzare le idee
che in proposito aveva manifestato in Italia il Tassoni fin dal
1620. E il Perrault nel 1690 pubblica i Parallèles des
anciens et des modernes, dove sostiene che il mezzo
migliore per gareggiare con gli antichi è quello di ispirarsi
ai costumi e alle usanze del proprio tempo. Il Perrault sa
bene, però, che anche l’antico può farsi moderno, attuale. Il
Fontenelle nella sua cieca confutazione del mondo antico,
dove vede dappertutto falsità, si mette su una falsa strada,
non solo perché egli è portato a vedere dell’ignoranza
laddove invece c’è freschezza ed ingenuità, ma perché
confonde tutto ciò che oggi è superstizione con ciò che alle
sue origini superstizione non era. Senza poi dire che vedere
soltanto l’errore laddove è la vita, quale che essa sia e
comunque si svolga, significa annullare la vita stessa. Gli
sfugge inoltre il valore etico delle favole, le quali hanno una
loro verità anche nei loro errori; ma gli sfugge soprattutto
il valore estetico che esse man mano assumono non solo
nella letteratura dotta ma anche in quella popolare.

6. L’Origine des fables: soprattutto incunabolo etnografico


Il valore dell’Origine des fables non va ricercato,
comunque, in questo atteggiamento negativo che il
Fontenelle assume rispetto alle favole. Anche a lui, come al
Bayle, l’errore serve a scoprire delle verità, sia pure in
altro senso. E sotto questo aspetto, anzi, l’Origine des
fables può considerarsi come il primo tentativo in cui lo
studio delle favole sia impostato come un problema di
carattere etnografico.
Il Fontenelle è convinto che le favole non sono soltanto
fantasia. Esse, a suo avviso, e qui è già in nuce il problema
etnografico delle favole, sono il risultato di tutto ciò che i
padri narrano ai figli. E i padri che cosa narrano ai figli se
non ciò che essi stessi hanno fatto e hanno veduto? In
questa indagine bisogna stabilire, quindi, un punto di
partenza. Bisogna cioè ricorrere ai nostri primi antenati, ai
primi uomini che popolarono la terra. Ma qui, aggiunge
subito il Fontenelle, è necessario precisare. I primi uomini
cui egli si rivolge non sono i Cafri, i Lapponi, gli Irochesi. È
vero che questi sono popoli antichi, ma, appunto perché
tali, essi saranno necessariamente pervenuti a qualche
grado di civiltà che i primi uomini non avevano. Il che è
un’altra prova, fra l’altro, del suo concetto sul progresso.
Quando uscì il saggio del Fontenelle, erano in verità già
uscite due opere, nelle quali per la prima volta si erano
sostenute, a proposito dei selvaggi, delle teorie che pur
passarono quasi inosservate. Così, ad esempio, nel 1702
Padre Tournemine, che al Fontenelle fu legato da viva
amicizia, in un suo ampio e coraggioso Projet d’un ouvrage
sur l’Origine des Fables, edito nei Mémoires de Trévoux,
affermava che, se noi vogliamo iniziare il vero studio
comparativo delle favole, dobbiamo ricorrere ai costumi dei
selvaggi d’America e alle Avventure dei mercanti che hanno
scoperto i nuovi popoli. Due anni dopo, invece, comparve,
anonima, un’opera di Padre La Créquinière, la Conformité
des coutumes des Indiens orientaux avec celles des Juifs et
des autres peuples de l’antiquité, dove l’autore, se pur
aveva stranamente dichiarato che egli rinunziava a studiare
le religioni degli Indiani perché assurde, affermava che, se
noi vogliamo trovare qualche vestigia dell’antichità,
dobbiamo ricorrere ai popoli non civili.
Ora noi sappiamo, è vero, che l’Origine des fables
apparve per la prima volta nel 1724. Ma non è facile
accertare se essa fu effettivamente composta nel 1680,
come pensa il Carré (le cui pezze di appoggio peraltro non
persuadono molto), oppure fra il 1691 e il 1699, come
pensava il Troublet. Sta di fatto, però, che abbia o no
conosciuto queste fonti, il Fontenelle andò oltre quelle
semplici enunciazioni, le quali, peraltro, furono da lui
impostate con consapevolezza critica.

7. Le fiabe sono soltanto fantasia?

La novità, infatti, su cui il Fontenelle insiste (e che poi


sarà immensamente feconda tanto nel campo
dell’etnografia quanto in quello del folklore) è che il grado
di civiltà dei nostri primi antenati, cioè dei veri creatori di
favole, noi possiamo determinarlo a ritroso, immaginandoci
cioè un état d’esprit per cui sono passati tutti i popoli e che
oggi non si è interamente spento in mezzo a noi. Così egli,
se da una parte da valore scientifico ai rapporti fra noi e i
selvaggi, dall’altra invece non da nessun peso al mito del
buon selvaggio. Il Fontenelle pone anzi alle nostre origini
un uomo rozzo il quale, al par dell’Indiano dell’America,
non ha nemmeno nel suo vocabolario le parole di giustizia e
di libertà. E ciò, evidentemente, è tutta una invenzione. Ma
a quell’uomo egli attribuisce una sua filosofia, anzi,
com’egli dice, dei sistemi di filosofia, i quali si combinano
con quei fatti che le favole poi narrano. Il Fontenelle non
nega che anche in quel passato lontano sono gli uomini che
hanno un po’ di genio coloro che cercano la causa di tutto
ciò che vedono (e che narrano). Ma sia a tutti ben chiaro,
egli afferma, che la nostra ricerca non deve essere condotta
perché ci si possa riempire la testa delle stravaganze dei
Fenici o dei Greci. Si tratta di ben altro: si tratta di vedere
che cosa ha condotto i Greci o i Fenici a queste
stravaganze.
Ora, in quanto alla prima ipotesi, non v’è dubbio, egli
osserva, che i primi selvaggi che hanno abitato il mondo
fermarono la loro attenzione sulle cose che non potevano
fare: lanciare i fulmini, scatenare i venti, agitare i flutti del
mare. Tutto ciò era al di sopra del loro potere, ed ecco che
essi allora immaginano degli esseri più potenti di loro,
capaci di creare quei fenomeni. Era necessario che quegli
esseri agissero come se fossero degli uomini. Quale altra
figura essi potevano avere? Dal momento che essi hanno
una figura umana, l’immaginazione attribuisce loro tutto
ciò che è umano. Così, con le divinità nascono i prodigi; ma
i prodigi non sono il lievito stesso delle favole, le quali fin
dalla loro origine accusano la loro natura che è permeata di
errori? O meglio di erronee credenze che sono il
fondamento di quella natura?
Qui, dunque, ciò che noi chiamiamo la filosofia dei primi
secoli si trova legata con la storia stessa dei fatti. Esempio.
Un giovane è caduto in un fiume e nessuno può ripescare il
suo corpo. Che cosa è avvenuto? La filosofia del tempo (ma
leggi le credenze del tempo) insegna che vi sono delle
divinità (veramente il Fontenelle dice: des jeunes filles) che
governano quel fiume. Esse hanno preso il giovane. E ciò è
naturale. Ma per portarlo dove? Ecco: nel palazzo che è
sotto il fiume e che di conseguenza è inaccessibile.
Avviene quindi, e siamo poi alla seconda ipotesi, che
l’immaginazione umana, la quale non va mai d’accordo con
la ragione, si accende davanti al suo soggetto, lo
ingrandisce, vi aggiunge ciò che gli manca per renderlo
ancora più meraviglioso, lusingati come siamo
dall’ammirazione che possiamo suscitare negli ascoltatori.
La favola così si rinnova, ma conserva i suoi segreti, che le
epoche successive accolgono e tramandano. Da qui la
conformità veramente impressionante, ad esempio, tra le
favole dei diversi paesi, le quali però possono anche essere
il frutto di uno stesso, com’egli lo chiama, état d’esprit:

«Gli Americani inviavano le anime dei peccatori in certi laghi, così come i Greci
le inviavano sulle rive dello Stige e dell’Acheronte. Gli Americani credevano
che la pioggia venisse prodotta da una fanciulla che, giuocando fra le nuvole
col suo fratellino, rompesse la sua brocca piena d’acqua. E non somiglia a
quelle Ninfe delle fontane che versano l’acqua delle loro anfore? Secondo le
tradizioni del Perù, l’Ynca Manco Guyna Capac, figlio del Sole, convinse con la
sua eloquenza gli abitanti del paese, che vivevano in maniera primitiva, a
vivere sotto leggi ragionevoli. Ebbene: Orfeo, anch’egli figlio del Sole, fece
altrettanto con i Greci. Il che mostra che i Greci furono, durante un certo
tempo, dei selvaggi per lo meno tanto quanto lo furono gli Americani, e che essi
uscirono dallo stato di barbarie con i medesimi mezzi, e che le immaginazioni di
questi due popoli così lontani si sono incontrate nel credere figlio del Sole colui
che aveva un talento straordinario. E poiché i Greci con tutto il loro esprit,
quando erano ancora un popolo giovane, non pensavano più ragionevolmente
dei barbari d’America (che erano secondo tutte le apparenze un popolo
abbastanza giovane allorché furono scoperti dagli Spagnuoli), vi è ragione di
credere che gli Americani sarebbero pervenuti infine a pensare altrettanto
ragionevolmente che i Greci, se ne avessero avuto il tempo».

Il Fontenelle in questo modo da al mondo primitivo,


anche s’egli lo considera un prima cronologico, un valore
universale ed eterno. E come tale lo immette nel folklore,
ove si pensi, egli aggiunge, che le vecchie idee sono sempre
latenti nella vita presente e un loro ritorno alla
superstizione è sempre possibile. Questo il suo grande
merito. Ma c’è di più: perché è la prima volta in un periodo
in cui tutta la mitologia è piena di interpretazioni
allegoriche, che una interpretazione invece parta dai popoli
primitivi e venga collegata con le loro credenze. Il Lang,
che pur riconosce al Fontenelle questo pregio, avrebbe
voluto che la sua indagine non si fosse limitata soltanto alle
credenze antropomorfiche, ma avesse anche investito
quelle zoomorfiche, e con esse le operazioni magiche. Vero:
ma questo non è un pretender troppo?

8. Storicismo e antistoricismo del Bayle e del Fontenelle

La ricerca della verità, che poi era la ricerca stessa della


storia, costituisce dunque per un Bayle e per un Fontenelle
un programma di lavoro, tanto è vero che la ricerca
dell’errore diventa in essi la storia dell’errore. L’uno e
l’altro hanno infatti un concetto sacro della verità. Ma
hanno anche un concetto sacro della storia.
Nel suo Dictionnaire (voce Husson) il Bayle afferma in
maniera inoppugnabile:

«Chi conosce le leggi della storia sarà d’accordo con me nell’ammettere che
uno storiografo fedele al suo compito deve sbarazzarsi dello spirito di
adulazione e di maldicenza. Egli deve, per quanto possibile, mettersi nelle
condizioni di chi non è agitato da nessuna passione. Insensibile a tutte le altre
cose, egli deve badare soltanto agli interessi della verità, e per amore di questa
deve sacrificare la sensibilità per un torto che gli sia fatto, la memoria di un
beneficio ricevuto e persine l’amor di patria. Deve dimenticare che appartiene
a un dato paese, che fu educato a una data fede, che deve riconoscenza a
questo e a quello, che questi o quelli sono i suoi genitori, i suoi amici. Uno
storico, in quanto tale, è come un Melchisedech senza padre, senza madre e
senza discendenza. Se gli si domanda di dove viene, deve rispondere: non sono
né francese, né tedesco, né inglese, né spagnuolo: sono cosmopolita; non sono
né al servizio dell’imperatore, né al servizio del re di Francia, ma
esclusivamente al servizio della verità: questa è la mia unica regina, alla quale
ho prestato giuramento di obbedienza».

E in questo senso il Bayle non solo, come osserva il


Cassirer, anticipa l’idea di una (ipotetica) storia universale
dal punto di vista cosmopolitico, ma in un secolo
rigidamente razionalistico diventa il primo positivista
convinto e logico, il quale «non rivolge il dubbio contro il
fatto storico, ma se ne serve come di un organo per
scoprire la verità stessa». E qui non v’è soltanto un nuovo
concetto storiografico, anche se poi la storia per lui si
risolve in un cumulo di macerie, di imposture, di falsità, ma
c’è una nuova presa di posizione: quella di considerare
quelle macerie, quelle imposture, quelle falsità in cui si
articolano le credenze, i pregiudizi ecc. come pagine vive e
palpitanti della storia dello spirito umano, il quale è verità,
si, ma anche errore.
Né meno significativa in proposito è la lezione del
Fontenelle. Anch’egli è convinto che non è possibile
ricercare la verità senza conoscere l’errore. Anch’egli ha
un concetto cosmopolitico della storia, che anzi fa iniziare
in un passato di solito trascurato e negletto qual è quello
dei primitivi. Ma quelle sue ansie non si placano, forse,
nell’impostazione decisa di un problema qual è quello
dell’origine della religione e dei miti?
Bisogna pur dire, d’altra parte, che la ricerca della verità
per il Bayle e per il Fontenelle non è soltanto un
programma di lavoro scientifico, ma è anche, e soprattutto,
un programma politico e sociale, tanto è vero che tutti e
due si propongono, in fondo, di rinnovare la società in
modo che in essa si inverino una nuova fede e una nuova
volontà. Il che appunto li porta da un lato ad attaccare in
nome della libertà dello spirito l’errore, ma dall’altro ad
allargare il loro esame ai popoli tutti della terra, ciascuno
dei quali, positivamente o negativamente, ha qualcosa da
insegnare ai riformatori stessi della società. E c’è
indubbiamente in tale atteggiamento una premessa falsa:
quella, cioè, di identificare indiscriminatamente la
superstizione con la tradizione, come se fosse possibile
considerare il passato soltanto come passato, e quindi la
religione cattolica, contro cui si appuntano in gran parte gli
strali dell’Illuminismo, indipendentemente dall’influenza
che essa ha esercitato nelle varie epoche storiche. Ma
nonostante questa premessa, si può negare al Bayle e al
Fontenelle quell’anelito di rinnovare la società, l’anelito
stesso di richiamare l’attenzione sugli usi e i costumi dei
popoli?
5. Incontri di popoli e di civiltà

1. Un nuovo mondo che nasce: Montesquieu e Voltaire,


storici dell’umanità

L’idea di una storia universale condotta da un punto di


vista cosmopolitico, quale fu intuita da un Bayle e da un
Fontenelle, fu attuata da due spiriti liberi, il Montesquieu e
il Voltaire, i quali ebbero indubbiamente un concetto
quanto mai alto della storia, anche se, come il Bayle e il
Fontenelle, di più il Voltaire, meno il Montesquieu, non
seppero poi inserirvi i valori della tradizione o meglio delle
cosiddette credenze tradizionali, che essi in gran parte
ravvisavano in quelle provenienti dalla religione cattolica.
L’uno e l’altro, come il Bayle, hanno, è vero, l’amore per i
piccoli fatti, per le curiosità, per l’inedito; ma tutti e due
fanno coincidere lo spirito dei fatti con quello delle leggi o
dei costumi.
Nella prefazione con cui si apre l’Esprit des lois, il
Montesquieu come a tracciare il programma del suo lavoro
avverte:

«Io ho incominciato con l’esaminare gli uomini e ho creduto che nell’infinita


varietà delle loro leggi e delle loro costumanze non siano guidati soltanto
dall’arbitrio o dal capriccio. Ho constatato i principi e ho trovato che tutti i casi
particolari vi si adattano quasi da sé, di maniera che la storia di tutte le nazioni
ne è soltanto la successione e ogni legge particolare è collegata con un’altra
universale e dipende da questa».

Il Voltaire, nel suo Essai sur les moeurs, protesta


anzitutto contro il concetto che si è avuto nel passato della
storia, la quale è stata considerata come un avvicendarsi di
avvenimenti politici, di re, di battaglie e di distruzioni. Le
parole homo sum, aggiunge, avrebbero dovuto essere
l’insegna di ogni storiografo degno di questo nome. E
continua, ormai sceso nel fervore della mischia:

«Invece di ammucchiare un cumulo di fatti, dei quali gli uni sono sempre
distrutti e annullati dagli altri, si dovrebbe scegliere soltanto i più importanti e
i più accertati per offrire al lettore un filo direttivo e metterlo in grado di farsi
un giudizio dell’estensione, della rinascita e dei progressi dello spirito umano e
per fargli vedere il carattere dei popoli e dei loro costumi».

Il Montesquieu e il Voltaire sono dunque convinti, come il


Bayle e il Fontenelle, che la ragione, la quale presiede allo
studio della natura, deve presiedere anche a quello della
storia. Tutti e due hanno la massima fede in quelle che
sarebbero le leggi universali e pur sempre valide della
ragione da cui derivano il loro ottimismo. Questo ottimismo
poi si spiega con la fede del razionalismo in un progresso
indefinito dell’umanità, il quale però non è il processo
dialettico della storia, ma il risultato quasi meccanico delle
cognizioni acquistate attraverso i secoli.
Eppure, osserva a proposito il Cassirer, mentre per il
Montesquieu gli eventi politici sono il centro del mondo
storico e lo Stato è l’unico vero oggetto della storia
universale, onde lo spirito della storia coincide con lo
spirito delle leggi, per il Voltaire invece il concetto dello
spirito acquista un’estensione più vasta e comprende
l’insieme dei mutamenti attraverso cui deve passare
l’umanità, prima che possa giungere a una vera coscienza
di se stessa. Il che non può essere dedotto dal divenire
politico, ma dal divenire della religione, dell’arte, della
scienza, della filosofia, onde si designa in questo modo un
quadro totale di tutte le singole fasi che lo spirito umano
dovette percorrere e superare per giungere alla sua forma
presente. Senonché, potremmo obiettare al Cassirer, nel
divenire politico il Montesquieu non include anche quello
della religione, dell’arte, della scienza? E il Montesquieu e
il Voltaire, se pur prediligono delle determinate forme
statali, tutti e due non vedono la storia in funzione di
civiltà, e questa come un accordo in cui si incontrano
l’uomo e il progresso?
2. Le Lettres Persanes e la loro polemica

È in nome di questa civiltà infatti che Montesquieu, se da


una parte espelle, come il Bayle e il Fontenelle, ogni
considerazione teologica della storia, dall’altra dà risalto a
quei popoli che già si erano imposti all’attenzione europea
per colpire l’assolutismo, i dogmi ecc., e nei quali di volta
in volta erano state ravvisate la natura e la ragione o
meglio una vita vissuta secondo leggi naturali. Si leggano
le sue Lettres Persanes, edite nel 1721. In esse, è vero, egli
par che voglia correggere il Marana, il barone de La
Hontan, lo stesso Dufresny. È troppo orgoglioso del suo
paese, è troppo orgoglioso di essere francese per non
riconoscere che egli vive in un grande secolo in cui l’arte,
la filosofia, le scienze hanno raggiunto un posto
preminente. Ma poi come il Marana, come il barone de La
Hontan, come il Dufresny, egli, osserva bene il Sorel,
«sente dissolversi intorno a sé le istituzioni sociali vecchie
di più secoli: le credenze, le consuetudini, i costumi che
avevano sostenuto la monarchia francese». E la sua
polemica è inesorabile, recisa, pungente.
Nelle Lettres egli immagina che due persiani Rica e
Usbek, in viaggio per l’Europa, si siano fermati a Parigi, da
dove inviano ai loro amici le loro impressioni. Così dopo il
selvaggio dei missionari, dei viaggiatori e del barone de La
Hontan, dopo l’Egiziano del Marana, dopo il Siamese del
Dufresny, era la volta di quel Persiano che già era stato
messo sugli altari da un Bernier, da uno Chardin e da un
Tavernier.
E il Persiano non è da meno dei suoi colleghi, tanto è
vero che egli non ha peli sulla lingua e colpisce diritto e a
fondo, tutto e tutti. Sentite. Il re, a Parigi, è un uomo che
«fa pensare ai sudditi quel che vuole». Simile a lui è il papa
che sta a Roma e che è capace «di far credere che tre più
tre non fanno più d’uno» e che «il pane che si mangia non è
pane». Non parliamo poi dei preti: sono una «setta di avari
che prendono sempre e non danno mai». Oppure delle
donne, la cui moda è tanto capricciosa che se una donna
lascia Parigi per passare qualche tempo in campagna,
quando torna e vuole indossare i suoi abiti, è già come se
venisse da un altro mondo. Ora la maniera di vivere dei
Francesi è come la loro moda: cambiano i costumi secondo
l’età del loro sovrano, il quale potrebbe riuscire anche a
rendere la sua nazione più seria, se lo volesse. Ma che cosa
volete da una nazione?
Così in una serie di quadri e di ritratti che ricordano
l’arte di un La Bruyère, ci sfila la vita di una società e di un
popolo. E mentre le voci dei salotti e dei cortigiani si
uniscono alle voci e alle grida di Rue Quincapoix, ecco di
contro la vita idealizzata dei Persiani, le massime sul
governo e sulla politica, le dissertazioni più o meno ampie
sulla popolazione della terra, sull’origine delle repubbliche,
sul governo dei Goti. Né mancano nelle Lettres degli spunti
vivi e mossi sulle tre forme di governo (dispotismo,
monarchia, democrazia), le quali costituiranno poi il perno
stesso dell’Esprit des lois.
Le Lettres vogliono colpire, nel suo intimo, l’anima stessa
dei Francesi. Vogliono distruggere una determinata società.
L’Esprit si propone di ricrearla. Ma così, come lo storico
vagheggiato dal Bayle, egli non scrive quell’opera soltanto
per i Francesi, per quanto allora, per gli illuministi, la
Francia fosse l’Europa ed europeo tutto ciò che era
francese (sul che c’era una certa punta di malignità ma
anche di verità, ove si pensi come la Francia riusciva a
penetrare in tutte le classi europee, con la moda, con l’arte,
con le sue causeries ecc. ecc.). La sua opera è, e vuole
essere, una preghiera universale rivolta agli uomini di
buona volontà.

3. Del metodo comparativo in Montesquieu

Anche nell’Esprit des lois non mancano naturalmente i


raffronti e i confronti con i popoli lontani, compresi i
primitivi. Un sociologo francese, l’Hervé, il quale ha
indagato le fonti etnografiche del Montesquieu, ebbe a
osservare che, ancor prima di estendere il piano dell’Esprit,
il Montesquieu si era deliziato alla lettura delle relazioni di
viaggi, nonché a quella dei cosiddetti viaggi immaginari.
Sarebbe meglio però dire che egli, se mai, continuò con
passione quella lettura, poiché la documentazione
etnografica delle Lettres è tutt’altro che nulla, come sulle
orme dell’Hervé crede lo stesso Van Gennep. Si aggiunga
che il Montesquieu dal 1728 al 1731 visitò l’Austria,
l’Ungheria, l’Italia, la Svizzera, l’Olanda e infine
l’Inghilterra: paesi tutti questi da cui trasse delle
osservazioni personali quanto mai utili per una sua
documentazione etnografica.
Da queste letture e da questi viaggi rimasero al
Montesquieu non solo i termini di comparazione, quali
appunto gli erano stati proposti dalle diverse società, ma
anche il concetto che le differenti società civili possono
trovare un punto di riferimento in quelle primitive. È vero
infatti che il metodo comparativo è dal Montesquieu
applicato soprattutto a dei fatti appartenenti alle grandi
civiltà, come quelle della Persia, già cara al suo cuore, della
Cina, alla cui storia egli dedica pagine ancora attuali, del
Messico e dei Mongoli. Ma è anche vero, come dice
l’Hervé, che se i fatti dei selvaggi sono da lui raramente
citati, quando lo sono, il mondo primitivo gli si dispiega
come un modello di saggezza e di virtù. I suoi primitivi,
insomma, sono quelli dei missionari e dei viaggiatori. Così,
ad esempio, dopo avere affermato che tutte le nazioni
hanno un diritto delle genti, aggiunge: anche gli Irochesi
che pur mangiano i loro prigionieri. Né egli nasconde la sua
ammirazione per la colonia del Paraguay istituita dai
Gesuiti. Il che, anzi, gli suggerisce la seguente massima:
«Sarà sempre bello governare gli uomini rendendoli felici».
E questo, appunto, è il compito che egli assegna alle
leggi. Si può dire e dimostrare che le sue fonti non sono
sempre esatte. Oppure che egli mette sullo stesso piano
tutte le descrizioni dei viaggi. Sta di fatto, ad ogni modo,
che la comparazione per il Montesquieu non è altro che un
pretesto e uno stimolo per approfondire meglio le
istituzioni giuridiche dei vari popoli, che egli considera
come forme sociali, le quali hanno una norma che le guida
e le dirige, anche se poi quella norma sia in contrasto con
quei casi singoli dove si invera l’esistenza empirica delle
leggi.

4. L’Esprit des lois


Convinto che le leggi non siano altro che dei rapporti
necessari desunti dalla natura delle cose, il Montesquieu è
dell’avviso che esse siano in rapporto soprattutto con la
natura stessa degli uomini, influenzati dalla natura del
suolo e da quella del clima. Così, ad esempio, parlando in
genere dei popoli orientali, egli osserva:

«Se a quella debolezza d’organi che fa ricevere ai popoli orientali le


impressioni più forti del mondo, unite una certa pigrizia dello spirito, legata
naturalmente con quella del corpo, la quale faccia si che questo spirito non sia
capace d’alcuna azione, d’alcuno sforzo, d’alcuna contesa, comprenderete
come l’anima, che ha ricevuto a volte delle impressioni, non possa più
cambiarle. Per questo le leggi, i costumi, le massime, anche quelle che
sembrano indifferenti come la foggia del vestire, sono oggi in Oriente come
erano mille anni fa».

La sua ammirazione comunque va per i legislatori cinesi,


i quali

«furono più sensati, quando, considerando gli uomini non più nello stato
pacifico in cui saranno un giorno o l’altro, ma nell’azione atta a far sì che
adempiano ai doveri della vita, fecero la loro religione, la loro filosofia, le loro
leggi tutte pratiche».

Né mancano, nella sua indagine intenta a scoprire


l’esprit delle leggi punti di riferimento ancora più diretti
alle credenze dei popoli: come, ad esempio, quella relativa
alla metempsicosi, che egli ritiene si addica al clima degli
Indiani:
«L’eccessivo calore brucia tutte le campagne; il bestiame costituisce una
nutrizione molto relativa; si è sempre in pericolo che esso manchi per la
coltivazione della terra; i buoi non sono prolifici; sono soggetti a molte malattie;
e una legge religiosa che li conserva è molto conveniente alla salute del paese.
Durante il periodo che le praterie sono bruciate, il riso e i legumi vi crescono in
abbondanza per le acque che sono state conservate: e una legge religiosa la
quale comanda questo nutrimento è utile agli uomini che vivono in questo
clima».

È chiaro pertanto che il Montesquieu non fa del clima un


fattore esclusivo, assoluto, statico; ma lo collega a delle
cause spirituali, le quali sono quelle appunto che reggono
tanto le leggi quanto i costumi. Non ogni terreno né ogni
clima, egli anzi specifica, è adatto a una data norma statale
o a una determinata costituzione. Egli ammira infatti la
costituzione inglese, ma si guarda dal volerla applicata in
tutto il mondo. È compito comunque del legislatore non
restare impigliato in mezzo a queste cause, poiché, egli
afferma decisamente, «se è vero che il carattere dello
spirito e le passioni del cuore sono diversi sotto diversi
cieli, le leggi devono tener conto di queste differenze di
carattere e di passioni e adattarsi ad esse». Bisogna
aggiungere inoltre che per il Montesquieu le leggi si
collegano ai costumi, ma non sono i costumi. Egli, che pure
voleva riformare i costumi del suo tempo, non esita ad
avvertire in maniera categorica:
«Quando si conquista un popolo, non è necessario lasciargli le sue leggi. Può
essere necessario invece lasciargli i costumi, perché un popolo conosce, ama e
difende molto di più i suoi costumi anziché le sue leggi».

Le leggi insomma per il Montesquieu, come i costumi,


non sono il portato di un arbitrio o di una convinzione, ma
sono qualcosa di vivo e di fecondo. Sono soggette, è vero, a
delle condizioni esterne. Ma non sono soltanto quelle
condizioni esterne che le formano (come pensano alcuni
frettolosi lettori del Montesquieu). Egli in tal modo si
appellava alla ragione facendo del diritto un prodotto della
ragione. Ma in quella ragione non si inverava già
l’esperienza, che è un dato fondamentale delle leggi? Ed
egli, è vero, era portato a generalizzare e a creare piuttosto
una tipologia sociologica; il grande pregio di questa
tipologia non è quello di aver favorito proprio quelle
indagini che egli considerava accessorie, cioè le indagini
particolari, le quali così investono le leggi e i costumi?

5. Voltaire e il fanatismo

L’interesse vivo e profondo che il Montesquieu ebbe per


le leggi e per i costumi fu pienamente condiviso dal
Voltaire, il quale nelle sue Lettres écrites de Londres sur
les Anglais et autres sujects, pubblicate nel 1774, se da una
parte idealizza l’Inghilterra del tempo, come Montesquieu
aveva idealizzato la Persia, dall’altra parte la ritrae nelle
sue attività industriali, nelle sue istituzioni, nei suoi
costumi. È nelle Lettres che si trova già questa
affermazione: e cioè che la libertà coincide con i diritti
dell’uomo. Ma le Lettres non si ammirano ancor oggi per le
massime di questo genere, ma anche perché, come nelle
Lettres Persanes, ogni capitolo è una polemica contro la
vita e i costumi della Francia.
La stessa polemica continua in Le siècle de Louis XIV,
edito nel 1739, dove già la storia del commercio, delle
finanze, delle faccende ecclesiastiche si integra con quella
delle arti e soprattutto degli abbigliamenti e dei costumi,
anche se in ultima analisi in quest’opera, che pur non è una
delle solite compilazioni del tempo, il Voltaire si lasci
sedurre dalla stessa tipologia sociologica cara al
Montesquieu.
Prescindendo dagli accenni diffusi nel suo Dictionnaire
philosophique, nei dialoghi, nelle tragedie e nelle operette
cosiddette minori, che sono poi le sue cose più vive, l’opera
maggiore dove il Voltaire più particolarmente rivolge la sua
attenzione ai costumi, oltre che alle leggi e alle costituzioni,
è l’Essai sur les mœurs, di cui alcuni brani uscirono fra il
1745 e il 1748, e che, edito nel 1758, apparve, né ciò è
senza significato, col titolo di Essai sur les mœurs et
l’esprit des nations, et sur les principaux faits de l’histoire,
depuis Charlemagne jusqu’à Louis XIII.
Al Voltaire non tutti gli usi e i costumi si dispiegano in
quella che è la loro effettiva tradizione, tanto è vero che
egli, preoccupato della sua polemica, allarga la sua visione
storica a tutti i popoli, e di questi si preoccupa di
descriverci le opinioni religiose e morali. Ma con uno
scopo: quello cioè, come ha notato un fine critico del
Voltaire, il Craveri, di mettere in luce la storia della
religione e della morale naturale contro le degenerazioni
del fanatismo.
Convinto che sono gli uomini a formare la società, il
Voltaire, a cui la storia dell’uomo appare dunque in
funzione della storia dell’umanità, ferma la sua attenzione
tanto sulla morale quanto sulla religione. Ma che cosa sono
l’una e l’altra? Il Voltaire ritiene che, così come il
fondamento della morale è identico presso tutti i popoli, vi
sono anche degli usi civili comuni a tutta la terra. Il che
dipende da quella eguaglianza degli spiriti, il cui teorico
era stato l’Helvétius. Sta di fatto però, aggiunge, che, se
tutto ciò che dipende dalla natura si rassomiglia, lo stesso
non può dirsi per tutto ciò che dipende dal costume. Le
rassomiglianze del costume, anzi egli specifica, sono dovute
al caso. Nel riassunto con cui si conclude il suo Essai egli,
che pur ha messo in luce con acume alcune di queste
rassomiglianze fra noi e i selvaggi, fra noi e i Giapponesi
ecc., inerenti agli auguri di primo d’anno o dei giudizi di
Dio, alle arti ecc., afferma:

«Risulta da questo lavoro che tutto ciò che è intimamente legato alla natura
umana si rassomiglia da un capo all’altro dell’universo: che tutto ciò che può
dipendere dal costume è differente e, se si rassomiglia, è dovuto al caso.
L’impero del costume è ben più vasto di quello della natura: esso si estende su
tutte le credenze, su tutti gli usi, diffonde la varietà sulla scena del mondo; la
natura che diffonde l’unità stabilisce dappertutto un piccolo numero di principi
invariabili: così il fondo è dappertutto lo stesso, mentre la cultura produce i
fatti diversi».

Così come il Montesquieu distingueva i costumi dalle


leggi, egli li distingue dalla natura, riportandone le
somiglianze al caso, dimenticando in tal modo che allora
nessuno può essere chiamato responsabile dei suoi propri
costumi. È anche al costume, d’altro lato, che il Voltaire
attribuisce il male che si diffonde nel mondo. E in quanto
alla natura, è vero che per lui è sempre la stessa, ma è pur
vero che essa – e qui siamo nello stesso piano del
Montesquieu – è perfettibile. Ora è a questa perfezione che
deve tendere la morale. In quanto alla religione bisogna
subito aggiungere, egli osserva, che essa dovrebbe
insegnare la stessa morale a tutti i popoli:

«Io dico solamente che non vi è nel mondo alcuna società religiosa, né alcun
rito istituiti allo scopo di incoraggiare gli uomini al vizio. Ci si è serviti in tutta
la terra della religione per fare del male, ma essa è stata istituita da tutti per
far del bene. E se il dogma e il fanatismo portano alla guerra, la morale ispira
dappertutto alla concordia».

Conclusione: riducete la legge naturale in principi


positivi, e avrete la religione e la morale che si addicono a
un popolo civile, il quale così non crederà a quelle furberie
di preti che sono gli oracoli, i sacrifici umani e i miracoli,
compresi quelli dei re di Francia, che facevano guarire gli
ammalati (credenze queste di cui il Voltaire si occupa
specialmente nei capitoli XVII, XXXII, XXXVI). Egli insomma sa
di combattere contro tutti gli errori, soprattutto, come ha
già promesso ai suoi lettori, nel discorso preliminare
dell’Essai, contro una «folla di favole assurde che
continuano a infettare la gioventù». Questa irrisione delle
favole, termine, com’è evidente, adoperato qui in senso
generico, non toglie che egli altrove non mostri una viva
nostalgia del felice tempo delle favole:

O l’heureux temps que celui de ces fables


Des bons démons, des esprits familiers
Des farfadets aux mortels secourables!
On écoutait tous ces faits admirables,
Dans un château, près d’un large foyer:
Le père et l’oncle, et la mère et la fille,
Et les voisins et toute la famille,
Ouvrait l’oreille a monsieur l’aumônier,
Qui leur faisait des contes de sorcier.
On a banni les démons et les fées;
Sous la raison les grâces étouffées
Livrent nos cœurs à l’insipidité;
Le raisonneur tristement s’accrédite.
On court, hélas! après la vérité
Ah! croyez-moi, l’erreur a son mérite!

Sembrano versi di Perrault, ma sono di Voltaire, e ci


ricordano una bellissima pagina di Alessandro Verri, il
quale, commentando il Saggio sugli errori popolari degli
antichi che il Leopardi scrisse sotto l’influenza diretta
dell’Illuminismo, annotava: «Vantiamo tanto la ragione e
dobbiamo le più grandi cose all’errore. L’entusiasmo, le
passioni sublimi sono per lo più figlie di lui, e con questo si
fanno le imprese grandi…».

6. Voltaire e i selvaggi

E figlie di lui, dell’errore, cioè della storia dell’errore,


sono appunto le indagini che il Voltaire veniva compiendo
sugli usi e sui costumi di tutti i popoli, allargando così il
compito stesso della storiografia. Gli storici, fino ad oggi,
cioè fino ai suoi tempi, egli dice nel suo Essai sur les
mœurs, hanno dimenticato tre quarti della terra. Ed ecco
che egli, nella sua narrazione, accanto alla Francia,
all’Inghilterra, alla Spagna, alla Svezia ecc., di cui ci dà
quadri rapidi e mossi, mette a cultura non solo gli Indiani
d’America ma anche i popoli orientali tutti, sfruttando e
utilizzando le ricerche che i missionari e i viaggiatori
avevano compiuto e venivano compiendo.
Così, ad esempio, nell’Essai gli Indiani d’America ci
appaiono, sì, come dei popoli che non hanno l’idea di un
Dio unico. Ma, tuttavia, essi non sono quali li aveva cantati
nell’Alzire?

L’Américain farouche en sa simplicité


Nous égale en courage et nous passe en bonté.

Negli schizzi che precedono l’Essai (e che sotto forma di


Advis des éditeurs apparvero per la prima volta
nell’edizione di Kiel), egli traccia invece un quadro gustoso
dei popoli primitivi in genere, soprattutto di quelli
dell’Africa e dell’Asia. Conclusione:

«Le popolazioni d’America e d’Africa sono libere, e noi non abbiamo nemmeno
l’idea di libertà. Esse conoscono l’onore, di cui i selvaggi d’Europa pare non
abbiano inteso parlare. Esse hanno una patria, la amano e la difendono; esse
fanno dei trattati, si battono con coraggio e parlano spesso con energia eroica.
Vi è una risposta più bella di quella che un capo canadese diede al
rappresentante di una nazione europea, che gli proponeva di cedergli il suo
patrimonio? Noi siamo nati su questa terra, i nostri padri sono incivili. Diremo
noi alle ossa dei nostri padri: Levatevi e venite con noi in una terra straniera?»

Al Voltaire piacciono questi episodi gustosi. Egli qui


unisce Montaigne al barone de La Hontan. Ma da buon
borghese, se pur ricorre ai selvaggi per mettere in berlina
gli Europei, questi Giudei senza prepuzio, com’egli altra
volta li chiama, è ben lontano però dal ritenere che nel
patrimonio dei primitivi non esista né il tuo né il mio. Anche
la proprietà è un diritto naturale. Lo aveva detto Locke, il
quale, come Voltaire, pensava anche che soltanto l’azione
conforme alla legge può esprimere la libertà umana. Né in
proposito si può dimenticare quanto egli scrisse nel suo
dialogo Un Sauvage et un bachelier:

«Se qualcuno, quando i lotti sono già ripartiti, chiederà la sua parte di
cinquanta iugeri sui cinquantamila milioni da distribuire tra un miliardo di
uomini, gli si risponderà che, da noi, le parti sono già fatte e che egli può
andare a farsi la sua tra gli Ottentotti. Ma anche tra quei popoli vi è chi
possiede e chi non possiede. Un baccelliere domanda al selvaggio: – Chi ha
fatto le leggi nel vostro paese? – Il selvaggio risponde: – L’interesse pubblico.
Tutto ciò che ho visto nel mio paese mi insegna che non vi è altro spirito delle
leggi».

7. Voltaire e il mondo orientale

Identico è l’atteggiamento che il Voltaire assume nei


riguardi dei popoli orientali, ciascuno dei quali è invocato
per la sua tolleranza religiosa, per i suoi costumi e per le
sue leggi naturali. Ecco la sua opinione, ad esempio, sulle
cerimonie asiatiche:

«Le cerimonie asiatiche sono bizzarre, le credenze assurde, ma i precetti giusti.


Invano qualche viaggiatore e qualche missionario ci ha rappresentato i preti di
Oriente come dei predicatori della iniquità. Non è possibile che ci sia una
società religiosa costituita per inventare il delitto».
Quand’egli, prima di scrivere l’Essai, si era rivolto a quel
mondo per trarre spunti inventivi, si disse che i suoi
personaggi orientali erano vestiti secondo la moda
francese. Era la stessa accusa che si era fatta al Galland
quando aveva tradotto le Mille e una notte. Ma, vestiti o no
alla francese, dell’Oriente che cosa interessava al Voltaire
se non ciò che poteva appunto potenziare la sua polemica
contro il fanatismo religioso? E l’Oriente, anche per lui,
continuava così a essere il paese dell’utopia come lo era
quello dei selvaggi. L’Oriente insomma era per Voltaire un
complesso di popoli che si possono paragonare, in date
epoche, alle nostre vicende storiche. Così egli afferma che
nel Medioevo noi Europei rassomigliavamo ai Cinesi e che
l’India del secolo XVIII fu governata come l’Europa nei
grandi Stati feudali. Ma era anche un complesso di civiltà,
dove non esistevano privilegi feudali. Era la benevolenza e
la libertà. Ma soprattutto ecco quel che esso era nel suo
complesso, o meglio ecco quel che non era: non era
Cristianesimo. Anche Maometto diventa quindi un despota
illuminato, come si conveniva alla sua concezione politica.
Senonché, come ben osserva il Gerbi, «quelle deformazioni
non sono errori, ma desideri, la cui realtà ed efficienza si
rividero molti anni dopo. Ogni ritocco alla realtà della Cina
esprimeva la volontà di un simile ritocco alla realtà
dell’Europa». «In Oriente non vi sono Bastiglie» voleva dire
infatti: «Distruggiamo la Bastiglia».

8. Dalla ricerca dello spirito delle nazioni alla distinzione


fra borghesia e popolo

In tal modo il Voltaire continuava quella polemica


politico-sociale che si era tenuta viva dal Cinque al
Seicento. Ma, al di là della polemica e dei desideri che essa
esponeva, sta di fatto che quell’incontro di popoli e di
civiltà, immesso nella storia, dimostrava, fra l’altro, che
non è possibile azzardare una teoria, quale che essa sia,
limitandosi a una ristretta visione di campanile. A ciò, e a
nient’altro, tendeva per il Voltaire la ricerca dello spirito
delle nazioni, il quale, come per il Montesquieu lo spirito
delle leggi, rimane un concetto empirico se si guarda ai
suoi fattori esterni e naturalistici, ma che è quanto mai
fecondo se di volta in volta esso viene considerato in
rapporto a quelle che sono le espressioni concrete della
storia, di cui tuttavia non sempre il Voltaire colse lo spirito
che tutto informa di sé la civiltà dei singoli popoli presi in
esame.
È stato osservato che già nel 1665 il Saint-Evremond,
che aveva letto il Sarpi nel suo Discours sur les historiens
français, dopo aver ricordato che Cesare nei Commentarii
non aveva perduto l’occasione di parlare degli usi, dei
costumi, della religione dei Galli, lodava Grozio «per essere
penetrato nelle cause più nascoste della guerra, nello
spirito del governo degli Spagnuoli, nella disposizione dei
popoli della Fiandra», per «essere entrato nel vero genio
delle nazioni» e per «aver colto il giusto carattere della
società e delle persone principali e per avere spiegato i
differenti stati della religione». Il Montesquieu e il Voltaire,
coi loro pregi e i loro difetti, sono su quella linea. Ma, per
loro, la nazione, che essi definiscono una collettività di
popolo caratterizzata da determinati tratti spirituali o
morali, comprende il cosiddetto popolo, il popolo minuto?
Il Bayle e il Fontenelle erano convinti che il popolo, e la
loro allusione era rivolta al popolo minuto, è la vittima di
tutti. Il Montesquieu afferma decisamente che «non è
indifferente che il popolo sia illuminato». Ma il Voltaire non
è affatto di questo avviso, tanto è vero che nel Siècle de
Louis XIV aveva ammonito che «vi è nella nazione un
popolo il quale è inaccessibile alla ragione». Egli,
nonostante ammetta l’universalità della ragione, è ben
lontano, del resto, dal reclamare l’eguaglianza di tutti i
cittadini. Il Browne aveva affermato che non vai la pena di
illuminare il popolo. Ma il Voltaire va oltre. Illuminate il
popolo e avrete la rivoluzione. E lui era troppo
borghesemente pacifico per volere la rivoluzione. Il suo
Illuminismo si ferma sull’honnête homme, si ferma cioè sul
borghese, il quale in lui ha il ritratto ideale:

J’aime le luxe, et même la mollesse,


Tous les plaisirs, les arts de tonte espèce,
La propreté, le goût, les ornaments.
Tout honnête homme a de tels sentiments.

Siamo in un’epoca, d’altro lato, in cui la borghesia


prende coscienza di se stessa. E la borghesia vuol
distinguersi nettamente da quei ceti che le sono o che essa
ritiene inferiori, dal popolo (come diceva Voltaire) il quale
credeva fermamente a tutto ciò che gli illuministi volevano
cancellare. Ed è stato di recente un acuto storico, il
Groethuysen, a mettere in luce questo dissidio, il quale
alimenterà appunto la distinzione di quelle due classi.
Il Groethuysen si avvale nel suo esame soprattutto di un
materiale che, di rado, entra nelle ricerche storiche: delle
prediche dei curati di campagna. Attraverso queste
prediche noi possiamo seguire il popolo, quello dei borghi e
della campagna, il popolo degli umili, il quale fa i suoi
pellegrinaggi e le sue feste, attaccato com’è alle sue
credenze tradizionali. Il borghese insomma, per affermare
la sua personalità, sente il bisogno di farsi incredulo.
Tuttavia, come ben osserva il Groethuysen, «se la religione
è buona per il popolo, e magari necessaria, egli potrà farne
a meno, pur restando quel che è: un perfetto honnête
homme. La distinzione fra le due classi, borghesia e popolo,
è un fatto acquisito: ed è l’atteggiamento di esse di fronte
alla religione che ha permesso di distinguerle». E
aggiunge: «Ciò non significa che ogni borghese sia
necessariamente un incredulo. Significa che, se il borghese
ha conservato qualcosa della vecchia fede, ha fatto ciò
come individuo non già come borghese».
L’Illuminismo che aveva guadagnato allo studio della
storia gli usi e i costumi dei popoli, non aveva certo
trascurato, sia pure per criticarli, quelli appartenenti a una
classe cui ora per un malinteso politico e polemico si
rivolgeva con disprezzo, perché in essa vive e non può
vivere altro che l’errore. Ma intanto in quella distinzione
fra borghesia e popolo l’Illuminismo pone la sua attenzione
precisamente sul popolo, che non è più la nazione, ma una
parte della nazione. Questa si dispiega fra gli umili, fra le
cosiddette classi inferiori, che hanno un loro patrimonio
morale e intellettuale, che gli illuministi non intendono, ma
di cui nel segreto del loro cuore sentono un segreto fascino.
Parte seconda
La ricerca delle «origini» fra Illuminismo e
Preromanticismo
6. L’uomo e la storia

1. Verso una nuova «scienza dei costumi»

Nello stesso periodo di tempo in cui l’Illuminismo


formula i suoi dogmi e li esalta, si vanno affermando nella
storia del pensiero europeo alcune tendenze spirituali, le
quali si caricano di quelle forze irrazionali che gli
illuministi respingono o comunque ritengono dannose. Lo
studio dei popoli primitivi e di quelli orientali, la
comparazione degli usi e dei costumi di tali popoli con
quelli occidentali, la lotta all’errore che finiva col diventare
l’indagine (critica) degli errori o meglio delle
manifestazioni spirituali ritenute tali; tutto ciò può
considerarsi indubbiamente come l’avvio deciso alla
formazione di una scienza dei costumi. L’Illuminismo, quali
che siano state le sue preoccupazioni di carattere
contingente, ha avuto il merito di porre nel campo della
storia i problemi delle origini delle idee, della società, delle
religioni, dello stato, molto spesso rifacendosi alla vita dei
popoli primitivi. Dal Bayle al Fontenelle, dal Montesquieu al
Voltaire, gli illuministi francesi si preoccupano di dare alla
vita di quei popoli – i quali considerati in blocco sono come
una fornace dove è possibile fondere tutto – un contenuto
essenzialmente razionalistico.
Non tutti però erano stati o erano dello stesso avviso.
Insegni, ad esempio, l’opera di un dotto Gesuita, la quale si
può considerare come il primo documento dell’etnologia
moderna: le Mœurs des Sauvages Amériquains, comparées
aux mœurs des premiers temps. Il Fontenelle non cita mai,
e si spiega, quest’opera. Né la cita lo stesso Montesquieu,
che pur amava ricercare nella letteratura etnografica del
suo tempo gli stimoli per i suoi pensamenti politico-sociali.
Nell’Avant-Propos che fu poi aggiunto all’Essai, il Voltaire
non solo dimostra invece di conoscere Lafitau ma ne traccia
un estroso profilo:

«Lafitau fa venire gli Americani dagli antichi Greci ed ecco le sue ragioni. I
Greci avevano le loro favole e anche gli Americani le hanno. I primi Greci
andavano a caccia e gli Americani fanno lo stesso. I primi Greci avevano gli
oracoli e gli Americani hanno i maghi. Si danzava durante le feste della Grecia
e si danza in America. Bisogna convenire che queste ragioni sono convincenti».

Senonché il Lafitau è davvero quel che il Voltaire


dipinge? Non c’è dubbio, diciamolo subito, che leggendo le
Mœurs si scopre un etnografo attento e scrupoloso cui il
mondo dei primitivi si dispiega con interessi molteplici. Il
Lafitau sente quel mondo dal lato umano ed egli, perciò, vi
s’interna con la coscienza dello studioso, il quale, se pur
accusa la sua particolare preparazione di teologo cristiano,
riesce a manifestare con schiettezza le sue personali
opinioni.
Il Lafitau era stato a lungo, come missionario, nel
Canada, dove aveva avuto la fortuna di essere guidato nello
studio dei selvaggi da un vecchio confratello, Padre Julien
Garnier, che, dopo sessanta anni di permanenza in quei
posti, conosceva la lingua algonchina, la urona e i cinque
dialetti irochesi. Lontano dai suoi selvaggi, il Lafitau però
non si contenta di descriverli come avrebbe fatto un
comune viaggiatore; la sua ambizione, come egli dichiara, è
quella di dare col suo esame un abbozzo a quella «scienza
degli usi e dei costumi dei diversi popoli», la quale ha
«qualcosa di così utile e così interessante che anche Omero
ne fece oggetto di un intero poema», vale a dire l’Odissea,
che, secondo lui, si deve considerare come la prima opera
etnografica. E pertanto nulla gli sfugge su quanto è stato
scritto sui popoli primitivi. Il Martire, Las Casas, Gómara,
Léry, de la Vega: queste sono le fonti cui il Lafitau ricorre di
buon grado. Ma sarebbe erroneo pensare che egli si fermi
soltanto su quelle personalità che hanno un riconosciuto
valore scientifico. Gli piace ricorrere anche, ove capiti, al
Lescarbot. Né trascura, sia pure con intento polemico, le
amabili disquisizioni del barone de La Hontan. Il Lafitau
insomma ha già davanti a sé un quadro preciso di quanto si
era scritto nel campo dell’etnografia a proposito della vita
dei selvaggi. Ma egli ha anche la sua esperienza diretta. E i
suoi selvaggi par che escano da un affresco, il cui sfondo è
animato ma non sommerso dalla natura. Egli li segue passo
passo: dalla nascita alla morte, nelle loro occupazioni e nei
loro svaghi, in tutti i particolari della loro vita. E c’è
un’ansia in lui, il bisogno continuo di internarsi in un
mondo che non è il nostro, ma che al nostro ci richiama. Il
mondo dei selvaggi, o meglio dei suoi selvaggi, per il
Lafitau non è fatto di bizzarrie. È un mondo come il nostro,
dove vivono anime e non cose, uomini e non oggetti di
curiosità. Prima del Lafitau, il primitivo, il nobile selvaggio,
non era stato soltanto studiato, ma era stato anche
inventato. Senonché, ove noi lo studiamo, e per studiarlo è
necessario conoscere le lingue in cui si articola il suo
pensiero, non ci accorgiamo forse, si domanda il Lafitau,
che i suoi fondamentali costumi, come i nostri, sono
appunto la religione, il culto degli spiriti e dei morti,
l’organizzazione sociale?
2. Lafitau e le sue Mœurs des Sauvages Amériquains

Le Mœurs sono in sostanza l’indagine più attenta e acuta


che all’inizio dell’Illuminismo sia stata dedicata alla
religione dei primitivi. Eravamo in un’epoca in cui i deisti e
gli atei avevano fatto del primitivo in genere, ma
soprattutto dell’Indiano d’America, un deista o un ateo. Il
Lafitau è convinto che l’ateo in fondo ha le sue buone pezze
di appoggio, quando, passando in rassegna quella
letteratura etnografica che sosteneva resistenza di popoli
che non hanno religione, conclude che la religione è un
artificio dei legislatori, i quali «l’hanno inventata per
condurre i popoli con la paura, madre della superstizione».
Ma dove sta, egli si domanda, la verità?
La verità sta proprio in mezzo ai suoi selvaggi, ai suoi
Americani, che egli ha studiato per anni e che invece tanto
i deisti quanto gli atei conoscevano spesso in base a
informazioni affrettate. Il Lafitau infatti fin dalle prime
pagine delle Mœurs avverte:

«Io ho visto a malincuore come coloro che nelle loro relazioni si occupano dei
selvaggi, li dipingono come gente che non ha nessun sentimento di religione,
nessuna conoscenza del divino, un qualche oggetto cui si renda un culto; come
gente che non ha né leggi, né disciplina esteriore, né forma di governo, in una
parola come uomini che hanno dell’uomo soltanto la figura. È questo un errore
di cui sono responsabili molte persone…» (1, 5).
E subito dopo, quasi a tracciare un quadro ideale:

«Essi [i selvaggi] hanno l’animo buono, l’immaginazione viva, il pensiero facile,


la memoria ammirevole. Tutti hanno più o meno delle tracce di una religione
antica ed ereditaria e una forma di governo… E hanno il cuore alto e fiero, un
coraggio a tutta prova, un valore intrepido, una forza nei tormenti che è
eroica… un rispetto per i loro vecchi, una deferenza per i loro eguali, il che ha
veramente qualche cosa di sorprendente» (1, 97).

La religione viene quindi considerata dal Lafitau come un


fenomeno spirituale ma anche sociale, che lega assieme la
vita dei suoi selvaggi, accompagnandoli dalla nascita alla
morte e consacrandone tutti i momenti solenni della vita. In
alcuni di essi non manca la stessa idea di un Grande Spirito
o meglio di un Essere Supremo (1, 111-17). Numeroso
comunque l’olimpo degli spiriti, che a loro volta collegano
la mitologia con la religione in una fitta rete di culti e di
riti, i quali hanno per fondamento la concezione del mondo
e della vita. Gli spiriti dominano la natura. Ed è qui in
questo dominio, che va inserita la credenza di un’anima
separabile dal corpo.

«L’anima per gli Americani [egli osserva] è ben più indipendente dal loro corpo
che non sia la nostra, e gode maggior libertà. Essa si separa dal corpo per
prendere l’avvio e fare delle escursioni dove vuole. I grandi viaggi non
l’impressionano; essa si trasferisce nell’aria, passa i mari, penetra nei luoghi
più incredibili. Essi [i selvaggi] si persuadono che effettivamente la loro anima,
vedendo il corpo immerso nel sonno, ne profitti per andare a passeggio, dopo di
che ritorna nella sua dimora. Al loro risveglio credono che l’anima ha vissuto
realmente ciò che è passato nei loro sogni e agiscono di conseguenza» (1, 132).
Si vede chiaramente in tal modo come nel Lafitau si
trovino i germi che costituiranno più tardi il travaglio
dell’etnologia moderna. Il Lafitau dalle sue osservazioni
non trae però conseguenze di rigido carattere teorico. Per
lui infatti il primitivo d’America non è né un monoteista, né
un animista ecc. Ma è insieme, se mai, tanto un monoteista
quanto un animista ecc., il quale ha anche il culto per i
morti, come, ad esempio, si può osservare presso gli
Irochesi che in onore del morto gettano una certa quantità
di frumento davanti alla porta della capanna.
Né manca infine al primitivo d’America una rigida
organizzazione sociale, dove in genere i capi più assoluti
son considerati come padri dei loro popoli e hanno quindi il
diritto di applicare la più rigorosa giustizia. Anche
l’organizzazione sociale del resto non è che un aspetto della
religione. Insegni soprattutto la famiglia. «Va ricordato, –
notava di recente il de Jouvenel, – che sin dal 1724 il Padre
Lafitau aveva osservato presso gli Irochesi il fenomeno
della filiazione uterina e rilevato che, in conseguenza di ciò,
la donna era il centro della famiglia del popolo. Egli aveva
compiuto il raccostamento con quel che Erodoto riferisce
intorno ai Lici». Ma anche qui il Lafitau è ben lontano dal
teorizzare o, comunque, dal generalizzare (come faranno
poi Bachofen e Morgan). Apriamo infatti le Mœurs:
«Nei costumi degli Irochesi si trovano dei gradi di parentela un poco differenti
in verità di quelli degli Ebrei e dei Caldei ma a cui si collegano in questo punto:
che essi sono causa di equivoci a cagione dei loro termini… Bisogna sapere che
presso gli Irochesi e gli Huroni, tutti i ragazzi di una tribù considerano come
loro madri tutte le sorelle delle loro madri e come loro zii tutti i fratelli delle
loro madri; per la stessa ragione essi danno il nome di padri a tutti i fratelli dei
loro padri… Tutti i ragazzi che discendono dalla madre e dalle sue sorelle, dal
padre e dai suoi fratelli, si considerano fra di loro come fratelli e sorelle; ma
considerano cugini i figli dei loro zii e delle loro zie, vale a dire i figli dei fratelli
delle loro madri e delle sorelle dei loro padri, benché sia identico il grado della
loro parentela. Alla terza generazione tutto ciò cambia: e gli zii e le zie dei
genitori diventano nonni e nonne» (2, 243).

Il Lafitau esclude quindi che il matrimonio possa


considerarsi soltanto come un fenomeno naturale. Egli
collega infatti il matrimonio con la religione. E questa non è
per lui, comunque si articoli nella vita dei selvaggi, un peso
morto, ma una trama i cui fili, sottili come l’aria ma duri
come l’acciaio, finiscono con l’avvolgere tutte le istituzioni
sociali. Il Lafitau non nasconde che anche fra i selvaggi vi
siano delle forme inferiori di pensiero come, ad esempio, la
magia (così egli erroneamente la giudica). Ed è, sì,
dell’avviso che i selvaggi, come gli antichi, hanno errato a
volte nell’obietto della fede e del culto che hanno reso a
Dio. Questa premessa tuttavia non gli impedisce di
giustificare quella religione, di spiegarla, di intenderla. Il
che sarà appunto uno dei risultati del suo comparativismo.

3. Etnografia e storia
Ci si accorge subito, leggendo le Mœurs, che ci troviamo
di fronte a un narratore piacevole e al tempo stesso
robusto. La lettura delle Mœurs ci richiama, appunto per
questo, quella di un Martire, l’autore delle Decades de
Orbe Novo. Anche il Lafitau, come il Martire, è un umanista
che sente il mondo classico, il quale gli si schiude in tutte le
sue istituzioni, nelle sue pratiche, nelle sue credenze.
Omero, Erodoto, Varrone, Diodoro Siculo, Strabone,
Plutarco, Plinio il Vecchio, Tacito, Cesare: queste sono le
fonti dalle quali egli trae le sue informazioni, che lo portano
con sicurezza in quel mondo la cui conoscenza fu sempre
indispensabile alla preparazione e alla formazione
spirituale dei Gesuiti. E i Gesuiti, come già abbiamo visto,
vivendo in mezzo ai selvaggi e pieni di ammirazione
com’erano per l’antichità classica, si entusiasmavano per le
analogie che i selvaggi presentavano con i popoli della
Grecia o di Roma. Né quei confronti o quei richiami sono
privi di significato, ove si pensi che essi tendevano a
dimostrare due tesi: l’una inerente allo stesso mondo
classico e l’altra inerente al mondo primitivo. In questo
senso: che se da una parte i riferimenti al mondo classico
costituivano un titolo di nobiltà per i selvaggi, dall’altra essi
stabilivano fra i selvaggi e gli antichi Greci o gli antichi
Romani una presupposta comunità di origine, la quale
demoliva, per usare una frase del Van der Leeuw, il muro
che li aveva separati.
Ma il Lafitau poneva quei rapporti in maniera del tutto
esterna, come avevano fatto i suoi predecessori, del che
appunto lo accusa il Voltaire, oppure c’erano in lui già altre
esigenze? Il dotto Gesuita, a dire il vero, non esita a
dichiarare fin dall’inizio della sua opera:

«Io non mi contento di conoscere il carattere dei selvaggi e di rendermi conto


dei loro costumi e delle loro pratiche. Io ho cercato in queste pratiche e in
questi costumi le vestigia delle antichità più arretrate. Ho letto con particolare
attenzione gli autori più antichi che hanno trattato dei costumi, delle leggi e
degli usi dei popoli di cui avevamo qualche conoscenza; ho fatto la
comparazione fra questi costumi e confesso che, se gli autori antichi mi hanno
dato dei chiarimenti per suffragare alcune facili congetture inerenti ai selvaggi,
i costumi dei selvaggi m’hanno dato dei chiarimenti per intendere più
facilmente e per spiegare parecchie cose di cui parlano gli autori antichi» (1,
3).

In altri termini il selvaggio non è soltanto il presente da


cui egli muove, ma è anche, in un certo senso, il passato in
cui si può avere la spiegazione di molti riti, di molti usi, di
molte istituzioni che non appartengono soltanto al mondo
dei selvaggi, ma a quello della civiltà classica e quindi
anche al nostro. Il Lafitau non si contenta d’altro lato di
porre le sue indagini sui Greci e sui Romani, ma le
trasferisce anche sui popoli dell’antica Europa, sui Galli,
sui Traci, sugli Sciti. E tutti questi popoli, ai quali egli
richiama il nostro modo di intendere e di concepire,
riferendosi anche, a volte, sia pure sulle orme del
Lescarbot, ai volghi dei popoli civili, specialmente ai
contadini della Francia (ch’egli ricorda a proposito della
covata e dei lamenti funebri ecc.), gli appaiono in fondo
come riuniti sotto un comune denominatore che li collega.
Sicché egli, ad esempio, non esita ad affermare che:

«… non solamente i popoli che si chiamano barbari hanno una religione, ma


questa religione ha dei rapporti di un’impressionante uniformità con quella dei
primi tempi, con quelle che nell’antichità si chiamavano le orgie di Bacco e
della Madre degli Dèi, i misteri di Iside e di Osiride… In materia di religione noi
non abbiamo nulla di più antico, nell’antichità profana, di questi misteri e di
queste orgie che componevano tutta la religione dei Frigi, degli Egiziani, dei
primi Cretesi, i quali si considerarono essi stessi come i primi popoli del mondo
e i primi autori di quel culto agli dèi che da essi era passato a tutte le nazioni e
si era diffuso in tutto il mondo» (1, 7).

Ne consegue che tanto le religioni dei barbari quanto


quelle dei pagani hanno lo stesso fondo e gli stessi principi.
È noto che il Fontenelle, il quale – ad ammettere che la sua
Origine des fables sia anteriore alle Mœurs del Lafitau –
ammonisce che anche i Greci furono un tempo dei selvaggi,
ricercava questo fondo e questi principi nella natura umana
o meglio nella ragione. E ciò sarà ripetuto da tutti gli
illuministi, ai quali gli stessi missionari non poche volte
avevano offerto i materiali, perché essi potessero mettere a
raffronto i dati della religione naturale con quella rivelata.
Ma anche qui per il Lafitau la verità è diversa. Quel fondo e
quei principi infatti, egli afferma, sono propri della
religione cattolica. Ed essa sarà chiamata a spiegarli.

4. La Scienza Nuova

La ricerca acuta e coscienziosa dedicata al mondo dei


primitivi e a quello delle antiche civiltà europee si
trasferisce, così, nel Lafitau, sul piano strettamente
teologico. Anche su tale piano egli non dimentica però di
essere un etnografo, il quale sa bene che «la materia dei
costumi è una materia molto vasta», che «collega le cose
più disparate». La sua opera è tutta una serie di indagini e
di ragguagli, intesa a dimostrare che non vi è un solo
esempio dei costumi dei selvaggi che non abbia il suo
parallelo fra i popoli dell’antichità. Ma anche qui è lontano
dalla generalizzazione, tanto è vero che i suoi studi lo
portano a questa conclusione: che, cioè, nella vasta materia
degli usi, bisogna distinguere ciò che, conforme alla natura
umana, è tale perché si deve far risalire alla Rivelazione, da
ciò invece che si deve considerare come dovuto a un
rapporto di contatti o di migrazioni fra i popoli.
Il compito del Lafitau è quello, sì, di spiegarci la civiltà
classica mediante i paralleli con i selvaggi, ma è anche
quello di spiegarci i selvaggi con la Bibbia, con la
Rivelazione, con la volontà di Dio. La polemica di Bossuet si
trasferisce nel campo dell’etnografia. E il Lafitau, da buon
teologo, inizia la storia dell’umanità con la Rivelazione, cui
egli non solo riattacca gli usi più generali (come,
evidentemente, la stessa credenza dell’Essere Supremo, i
sacrifici, le iniziazioni ecc.), ma anche gli elementi comuni
che noi troviamo tanto nel Cristianesimo quanto nelle
religioni pagane. Il che, fra l’altro, significa far cominciare
l’umanità non con l’errore (come volevano gli illuministi)
bensì con la verità, la quale fin dalle sue prime origini si
articola tanto nella religione quanto nella mitologia. Ma c’è
di più, ove si pensi che per il Lafitau la Rivelazione stessa
non è quella fatta da Dio a Mosè, bensì al primo uomo. «Lo
studio che io ho fatto, – egli pertanto afferma, – sulla
mitologia pagana mi ha aperto il cammino a un altro
sistema e mi ha fatto risalire al di là dei tempi di Mosè, per
far risalire ai nostri primi Padri, Adamo ed Eva, ciò che si è
fatto risalire a Dio». Né egli esclude con ciò che i legislatori
posteriori a Mosè si siano serviti dell’ignoranza degli
uomini per creare nuovi usi. Ma ove noi rimontiamo ad
Adamo ed Eva vediamo, egli aggiunge:

«una religione pura e santa in se stessa e nel suo principio, una religione voluta
da Dio che la trasmise ai nostri primi padri. Non può esservi infatti che una
religione, e questa religione, essendo per gli uomini, deve essere cominciata
con loro e deve sopravvivere quanto loro. Ecco ciò che la fede ci insegna e ciò
che la ragione ci detta» (1, 13).

Alteratasi la religione col tempo e con gli uomini, è in


questa trasformazione che vanno ricercati molti usi, i quali,
se sono errori, lo sono tanto fra i selvaggi quanto fra i Greci
e i Romani. Egli ammette infatti che a volte fra i selvaggi
non mancano le superstizioni rozze e criminali. Eppure,
subito dopo osserva:

«Sono forse più rozze e più criminali di quelle dei Greci e dei Romani, che
avendo portato la scienza e le arti alla più alta perfezione, non hanno tratto dai
loro lumi e da tutta la loro filosofia altro frutto che quello di avere guastato la
religione con una moltitudine di favole quanto mai ridicole e insipide?» (2,
157).

Ridicole e insipide che siano quelle favole, esse hanno


avuto una funzione storica, una loro natura e un loro
ufficio. Compito dello storico è quello di vedere appunto
quali siano stati – nel tempo – questa natura e questo
ufficio. L’umanità può certo nel suo cammino avere dei
momenti che si identificano nell’errore e con l’errore; ma
tuttavia anche le deviazioni vanno studiate senza
recriminazioni razionalistiche, perché, anche quando sono
forme viziate e mostruose della religione, quel che conta in
esse è pur sempre la ricerca della verità, anche se a noi
possa sembrare ridicola e disgustosa (il che anzi, lega
quelle stesse deviazioni alla religione rivelata).
La fede religiosa da impulso, così, nell’opera del Lafitau,
a una teoria che potremmo chiamare storico-etnografica. E
ciò che importa, come ben osserva il Van Gennep, non è il
fatto che il Lafitau abbia collegato, sia pure con cautela e
con prudenza, i suoi paralleli a una teoria ortodossa
tradizionale, contro cui si appuntavano gli strali degli
illuministi, bensì quello di avere intuito con maggiore
chiarezza di quanto non avessero fatto i suoi predecessori,
un metodo di investigazione che gli appartiene in proprio,
proponendo, possiamo aggiungere, una comparazione
chiamata a chiarire nessi e processi che altrimenti
resterebbero celati. Anche se poi in tale comparazione non
è ben determinato quando l’abbozzo di un’idea, quale si
possa trovare fra i selvaggi, diventi nel mondo classico un
consapevole svolgimento.
È merito comunque del Lafitau quello di avere studiato le
religioni pagane come segni della religione rivelata, onde a
lui, come già al Fontenelle in altro senso, si schiude il
valore delle sopravvivenze. Merito suo l’avere anche intuito
i rapporti fra etnologia e folklore. Ma è merito suo
soprattutto quello di aver trasportato, in maniera decisa, e
qui è la vera importanza del suo metodo che poi passerà
tanto negli studi di etnologia quanto in quelli di folklore,
l’etnografia nella storia e di aver concepito la prima non
solo come uno strumento di lavoro, ma anche come criterio
per una nuova interpretazione della storia. Il che sarà
oggetto di meditazione da parte di un pensatore italiano, G.
B. Vico, il quale, un anno dopo che uscirono le Mœurs,
pubblicò a Napoli un’opera che portava il seguente titolo:
Principi di una Scienza Nuova.

5. Vico e il mondo primitivo

La Scienza Nuova, sotto questo aspetto, è anzi una vera e


propria macchina, la quale, anche se non è perfetta in tutti
i suoi congegni, è un potente strumento di assalto. Vico
nella storia del pensiero europeo rappresenta una voce
nuova, come nuova vuole essere la sua scienza. Non vi sono
per lui confini nell’indagine. Egli ha lo stesso animo, lo
stesso fervore, direi la stessa voce degli illuministi, cui lo
collegano innumerevoli interessi. Ma di contro agli
illuministi egli sente il valore della tradizione, che è da lui
considerata come un elemento vivo e fecondo della storia.
Egli aborre, e anche in ciò è vicino agli illuministi, l’idea di
una storia miracolistica. Ma di contro agli illuministi o
comunque di contro a molti di essi, rivendica alla storia i
miti, le favole, i proverbi, gli aneddoti ecc., che non
vengono da lui certo considerati come già li aveva
considerati il Fontenelle, cioè errori dello spirito umano. Né
egli ritiene che possano esistere delle religioni nate
dall’impostura altrui. Se esse sono nate, lo sono per la
stessa credulità degli uomini. E l’uomo in lui è il termine
stesso della storia, della storia che è storia degli uomini e
quindi scienza dello spirito, il quale studia i prodotti di
quella spiritualità umana di cui soltanto esso è artefice.
La scienza nuova, la scienza che servirà a porre il
problema stesso delle origini dell’umanità su un piano
diverso da quanto fino allora non si fosse fatto, ha nel Vico
questo preciso compito: convertire il certo (che è prova
filologica) nel vero (che è prova filosofica). Nella Scienza
Nuova il Vico avverte:

«Infelice cagione di ciò ella è stata perché ci è mancata finora una scienza la
quale fosse, insieme, istoria e filosofia dell’umanità. Imperciocché i filosofi han
meditato sulla natura umana incivilita già dalle religioni e dalle leggi, dalle
quali, e non d’altronde, erano essi provenuti filosofi, e non meditarono sulla
natura umana, dalla quale eran provenute le religioni e le leggi, in mezzo alle
quali provennero essi filosofi. I filologi, per lo comun fato dell’antichità, che, col
troppo allontanarsi da noi, si fa perdere di veduta, ne han tramandato le
tradizioni volgari, così svisate, lacere e sparte che, se non si ristituisce loro il
proprio aspetto, non se ne ricompongono i brani e non si allogano a’ luoghi
loro, a chi vi mediti sopra con alquanto di serietà sembra essere stato affatto
impossibile aver potuto esse nascere tali, nonché nelle allegorie che loro sono
state appiccate, ma negli stessi volgari sentimenti co’ quali ben lunga età, per
mano di genti rozze e ignoranti affatto di lettere, esse ci sono pervenute»
(Scienza Nuova prima, ed. Nicolini, § 23).
E da questo nuovo orizzonte che allarga e precisa
sempre più nelle altre redazioni della Scienza Nuova (la
quale fu rielaborata prima nel 1730 e poi nel 1744), il Vico
vede la storia stessa dell’umanità, la storia delle nazioni e
degli uomini, del passato che gli si fa presente. Egli non ha
davanti a sé né il problema dell’etnologia, né quello del
folklore. Dell’uno e dell’altro egli avverte però in maniera
decisa la presenza e le istanze. Senonché che cos’è per il
Vico il mondo dei primitivi, quel mondo cioè che il Lafitau
aveva posto decisamente nel campo della storia?
Lo storicismo del Vico rimane indubbiamente
incomprensibile o comunque non chiaro, se esso non viene
alimentato da quel documento di cui il Vico si servi per
animarlo: il bestione, che è appunto l’uomo primitivo con la
sua corpulenta fantasia. Questo bestione, questo primitivo,
per il Vico non è però soltanto una determinazione
cronologica; è una determinazione ideale, tanto è vero che
il mondo primitivo non solo può essere in noi, ma anche
continuamente ritornare in noi. Questa la sua scoperta
(avvertita peraltro dallo stesso Lafitau, ma svolta dal Vico
su ben altro piano).
Il Vico parla, più volte, nella sua opera, dello sforzo
costante che ha dovuto fare per internarsi in quel mondo,
dato che a noi è «ora naturalmente negato di potere
entrare nella vasta immaginativa di quei primi uomini, le
menti dei quali di nulla erano spiritualizzate, perché erano
tutte nei sensi, tutte seppellite nei corpi», onde «appena
intender si può come pensassero i primi uomini sulla
terra». Ma il mondo di cui egli parla, il mondo di cui egli si
interessa, il mondo che egli cerca di intendere e perciò di
capire in tanto ha, e può avere, una sua voce, in quanto
esso è fatto di un primitivo che si invera nel civile e che
perciò si fa veramente storia nella concezione dello
svolgimento dello spirito universale, il quale accoglie nella
sua umanità tanto il civile quanto il selvaggio. I confronti
fra noi e i primitivi, che man mano dopo la formulazione del
mito del buon selvaggio si erano riempiti di polemiche
sociali, si innalzano a una visione storica. È la nostra mente
che parte alla ricerca di quel mondo, che si interna in esso,
che lo fa suo. Anche egli, come il Lafitau, sente quale
interesse offra lo studio della religione per capire il mondo
dei primitivi. Anch’egli, come il Lafitau, non crede che vi
possano essere popoli senza religione. La sua polemica
contro il Bayle e i libertini non è in proposito meno ferma di
quanto non fosse quella del Lafitau:

«Né ci accusino di falso in primo i moderni viaggiatori, i quali narrano che


popoli del Brasile, di Cafra e altre nazioni del mondo nuovo (e Antonio Arnaldo
crede lo stesso degli abitatori dell’isole chiamate Andile) vivano in società
senza alcuna cognizione di Dio; da’ quali forse persuaso, Bayle afferma nel
Trattato delle comete che possano i popoli senza lume di Dio vivere con
giustizia; che tanto non osò affermare Polibio, al cui detto da taluni s’acclama;
che, se fussero al mondo filosofi che ’n forza della ragione non delle leggi
vivessero con giustizia, al mondo non farebber uopo religioni. Queste sono
novelle di viaggiatori, che proccurano smaltimento a’ loro libri con mostruosi
ragguagli» (Scienza Nuova seconda, ed. Nicolini, § 334).

E in questo quadro il Vico si mostra, come si vede, ben


informato di alcune tendenze etnografiche del suo tempo.
Ma che cos’è per lui la religione primitiva se non una forma
dello spirito umano o meglio della fantasia? È la fantasia
che crea, col mito, le religioni. E il bestione, il primitivo,
non diventa forse subito uomo quando con timore, ma si
badi bene anche con meraviglia, alza gli occhi e avverte il
cielo, vale a dire quando trasferisce in se stesso il mondo
che lo circonda e ne fa parte della sua vita mentale?
Le religioni in tal modo sono sempre presenti, e in
maniera positiva, nella storia dell’umanità e quindi nelle
sue stesse forze organizzative, come, ad esempio, il
matrimonio. Ma le lingue, la cui etimologia gli serve per
scoprire i significati degli stessi miti che sono il momento
ineliminabile di ogni religione, le stesse lingue che cosa
sono se non dei documenti, dei frantumi, i quali ci svelano
tutto ciò che ha colpito la fantasia stessa degli uomini
dando origine al nome delle cose?
La stessa natura delle religioni è riportata, peraltro, dal
Vico a quella del linguaggio (poetico). E ciò, osserva il
Nicolini, serve «a mostrare che nel sistema vichiano le
religioni non possono avere se non quel carattere non
divino ma perfettamente umano che hanno le lingue». Ma il
divino, tutto ciò che è divino, non si cela, nel Vico, appunto
nell’umanità o meglio nell’umano che storicizza il divino?

6. Alle origini, la poesia

Riportato così il mondo dei bestioni, dei primitivi in un


mondo che è esso stesso opera della fantasia, cioè di una
sapienza poetica, il Vico considera il linguaggio poetico,
cioè metaforico delle passioni e dei sensi, come il
linguaggio naturale del primitivo, l’espressione unica e
propria di quell’animo perturbato e commosso, che
interpreta a suo modo l’oscuro problema del mondo. E il
mondo dell’umanità, che è quanto dire la storia, non
conosce prima la ragione (che egli non nega e a cui, anzi, fa
spesso appello), bensì la fantasia. In questo senso: che
anche nella ragione la fantasia costituisce un precedente
che eternamente si rinnova. Quando poeteggia, quando
canta, lo stesso uomo razionale non torna fanciullo, e
perciò arazionale?
In queste premesse – sia pure erronee, in quanto non v’è
uomo che non sia insieme ragione e fantasia – è la
formulazione netta di quel mito della poesia primitiva e
barbara che è indubbiamente una delle più geniali
intuizioni della Scienza Nuova. Vi era in tale formulazione,
osserva giustamente il Fubini, il riconoscimento della
poesia come forma primigenia, anteriore alla riflessione,
onde la poesia stessa tanto più vicina è alle origini e perciò
meno minacciata dalla riflessione, tanto essa è più poesia,
poesia per eccellenza. Ma vi era anche un motivo polemico,
ove si pensi che il Vico non solo sovvertiva il concetto
stesso della poesia classica, ma considerava, ad esempio,
Omero poeta barbaro che canta costumi rozzi ma fieri,
trasfigurando gli istinti più elementari della vita.
La poesia, che è la più valida opera della fantasia, per il
Vico non solo si pone quindi contro la ragione; non solo
fiorisce e si spiega soprattutto nelle età essenzialmente
barbariche; ma ci spiega l’inizio stesso della storia, di
quella storia cioè che è stata alle origini narrata proprio dai
poeti, le cui allegorie devono contenere i significati storici
dei primi tempi. Come il Lafitau, Vico è contrario a una
qualsiasi esegesi allegoristica. Ma di contro al Lafitau, egli
pone un rapporto preciso tra realtà e mito, e questo
considera come uno specchio dove si riflette intera la storia
stessa dell’umanità. Si potrebbe dire, in fondo, che nessuno
aveva sentito la grandezza del mito come la sentirà il Vico.
E il mito, come la lingua e la poesia, è uno specchio per lui:
uno specchio dove si riflettono i popoli primitivi con le loro
religioni, coi loro costumi, con le loro tradizioni. Il mito
diventa così elemento di storia che lo storico deve
interpretare.
Né egli, lo storico, può e deve trascurare quelle
tradizioni volgari che gli illuministi avevano respinto o
comunque respingevano. A queste tradizioni infatti egli
ricorre con compiacimento come a «pubblici motivi di
vero». E gode dei cantastorie della sua città, che gli
ricordano i rapsodi dei poeti omerici; si bea di fronte a
quelle favole che il suo concittadino Basile aveva
rielaborato letterariamente; la mitologia del focolare gli
ricorda le costumanze del ceppo dei tempi del Boccaccio.
Gli uomini del popolo, i volghi dei popoli civili, egli li vede
ancora, è vero, stupiti (come vedeva i suoi bestioni) dinanzi
a un’eclissi o a una calamità; ma per lui non esistono
imposture o allegorie. O meglio non sono le imposture o le
allegorie che hanno fatto i linguaggi, le religioni, i costumi,
le tradizioni. La fantasia è la loro materia. Il che, dopo
tutto, significa porre la creatività dell’uomo come
fondamento stesso di quella storia che è parte dell’umanità
di ogni uomo.
È vero che il Vico, riportando la fantasia a un momento
perenne dell’attività umana, non solo, è stato osservato,
confonde la poesia, che ha un valore fantastico, col mito,
che invece ha un carattere pratico; ma confonde anche
l’autonomia stessa della poesia con quella che potremmo
chiamare la sua attività mitologizzante. È noto infatti che
egli chiama la poesia a una funzione educatrice del volgo –
quanto diverso in ciò dagli illuministi? – poiché essa ha
appunto questo fine:

«ritrovare favole sublimi confacenti all’intendimento popolaresco, e che


perturbi all’eccesso, per conseguir il fine, ch’ella si ha proposto, di insegnar il
volgo a virtuosamente operare» (Scienza Nuova seconda, ed. Nicolini, § 376).

Ma il Vico confonde veramente il mito con la poesia?


Oppure la poesia gli serve per intendere il mito, che (come
la religione) nella sua fase primigenia è assorbito dalla
poesia, mentre a sua volta la formulazione del mito-poesia
gli serve a spiegare l’origine stessa della vita spirituale?
Prescindendo da queste distinzioni, sta di fatto che il
Vico ha tenuto presente nella sua opera tanto il mondo
primitivo quanto le tradizioni popolari. I paria della società
(i primitivi da un lato e i volghi dei popoli civili dall’altro)
irrompono nella Scienza Nuova non come cose ma come
persone. Come persone cioè della storia. E la storia per lui
non è un procedere ad finitum, ma un avvicendarsi di corsi
e di ricorsi, dove a volte non ci si rifa barbari per
ragionamento, ma perché la barbarie è quel momento in
cui lo spirito si riversa nel mondo e lo anima con una
indomabile potenza.

7. Vico, le nazioni barbare e le civili

È alla luce di questi concetti che il Vico vede le istituzioni


umane, le quali, appunto perché tali, vanno considerate
senza pregiudizi tanto fra le nazioni civili quanto fra quelle
barbare. È alla luce di questi concetti che egli riempie i
fatti che già erano stati predominio dell’etnografia
descrittiva con idee, con principi, con corollari. E così
animato sorge il mondo stesso della storia, che è storia di
nazioni barbare e civili:

«Osserviamo tutte le nazioni così barbare come umane, quantunque, per


immensi spazi di luoghi e tempi tra loro lontane, divisamente fondate, custodire
questi tre umani costumi: che tutte hanno qualche religione, tutte contraggono
matrimoni solenni, tutte seppelliscono i loro morti; né tra nazioni, quantunque
selvagge e crude, si celebrano azioni umane con più ricercate cerimonie e più
consagrate solennità che religioni, matrimoni e seppolture. Ché per la Degnità
che “idee uniformi, nate tra popoli sconosciuti tra loro, debbon aver un
principio comune di vero”, dee essere stato dettato a tutte: che da queste tre
cose incominciò appo tutte l’umanità, e per ciò si debbano santissimamente
custodire da tutte perché ’l mondo non s’infierisca e si rinselvi di nuovo. Perciò
abbiamo presi questi tre costumi eterni e universali per tre primi principi di
questa Scienza» (Scienza Nuova seconda, ed. Nicolini, § 333).

Il Vico ammette pertanto che l’uniformità dei costumi


debba essere riportata a quelle che sono le tendenze
universali dello spirito umano. Ma abituato com’è a vedere
di ogni medaglia il diritto e il rovescio, quando si pone il
quesito dell’origine delle lingue, che egli riattacca come la
poesia e il mito, alla fase eroica, cioè primitiva,
dell’umanità, aggiunge che:

«pur rimane la grandissima difficultà: come, quanti sono i popoli, tante sono le
lingue volgari diverse? La qual per isciogliere, è qui da stabilirsi questa grande
verità: che, come certamente i popoli per la diversità de’ climi han sortito varie
diverse nature, onde sono usciti tanti costumi diversi; così dalle loro diverse
nature e costumi sono nate altrettante diverse lingue: talché, per la medesima
diversità delle loro nature, siccome han guardato le stesse utilità o necessità
della vita umana con aspetti diversi, onde sono uscite tante per lo più diverse
ed alle volte tra lor contrarie costumanze di nazioni; così e non altrimente son
uscite in tante lingue, quant’esse sono, diverse. Lo che si conferma ad evidenza
co’ proverbi, che sono massime di vita umana, le stesse in sostanza, spiegate
con tanti diversi aspetti quante sono state e sono le nazioni, come nelle Degnità
si è avvisato» (Scienza Nuova seconda, ed. Nicolini, § 445).

Il problema delle origini umane diventa in tal modo il


problema stesso del suo storicismo. Il Vico, come il Lafitau,
sente vivo e profondo il senso di tutto ciò che è umano.
Sente il fascino che esercitano per la nostra fantasia le
epoche più remote. Ma esistono fatti come quelli che si
erano presentati agli etnografi? O esistono, invece, atti,
cioè processi storici, i quali vanno giudicati nel loro farsi
che è insieme genesi e svolgimento? La Scienza Nuova è un
mirabile tempio il quale potrebbe portare questa iscrizione,
che è poi una delle più solenni e austere:

«Natura di cose altro non è che nascimento di esse in certi tempi e con certe
guise, le quali sempre che sono tali, indi tali e non altre nascon le cose»
(Scienza Nuova seconda, ed. Nicolini, § 147).

Il pensatore che è stato sempre circondato da un


«oceano di dubbiezze», qui non ha «dubbiezze». In quella
sua Degnità egli individua infatti quella che è l’essenza
stessa della storia, in quanto conoscere la natura delle cose
vuoi dire già percepirle nel loro nascimento e quindi
storicizzarle. E qui è il valore della Scienza Nuova, dove gli
istituti umani trovano una loro comprensione e una loro
giustificazione.

8. Le Antiquitates del Muratori

Né è senza significato che quasi contemporaneamente il


Muratori si accingeva a dare agli Annali, dove è trattata
soltanto la storia politica, un completamento storico-
culturale con le Antiquitates Medii Aevi. Edite fra il 1732 e
il 1742, le Antiquitates costituiscono un’indagine dotta e
acuta che interessa anche, e soprattutto, il folklore.
Avvalendosi delle pergamene, delle cronache, delle
legislazioni barbariche, il Muratori ama ricostruire le fogge
del vestire, le usanze nuziali, gli spettacoli, i giuochi, in
altre parole le tradizioni volgari del popolo italiano. Ma
quale valore hanno queste sue ricostruzioni?
In Italia il Vico aveva già affermato che per studiare le
parole e le cose era necessario conoscere le cose stesse, e
che pertanto nella storia non hanno valore soltanto le
guerre e i commerci, ma anche i costumi sia barbari che
civili. Lo avevano seguito, in un certo senso, il Giannone e il
Troya. E ancor prima che il Voltaire rendesse popolare quel
concetto (cui peraltro si erano attenuti gli antichi storici da
un Erodoto a un Cesare e a un Tacito), ecco che il Muratori
ricostruisce le costumanze del Medioevo italiano.
Nelle Antiquitates comunque non v’è soltanto un sommo
erudito e un grande filologo, ma v’è anche uno storico che
ripensa il passato. E quel passato non è fatto soltanto di
superstizioni, che egli giudica a volte soltanto nel loro
carattere esterno, considerandole come prodotto
dell’ignoranza (il che lo pone su un piano illuministico); non
è fatto soltanto di vecchie usanze, delle quali (come egli
dirà nella Diss. LIX) «dura tuttavia il nome ma non già il
fatto» (il che dimostra come egli abbia anche intuito il
concetto di sopravvivenza); ma è il frutto stesso di un
patrimonio collettivo, di una mentalità umana, che i
documenti ci ricostruiscono, ma che esclusivamente il
nostro pensiero deve mediare e giudicare. Le Antiquitates,
insomma, anche se vengono considerate come un portato
dell’erudizione, vogliono essere un ampliamento dei confini
della storia, il completamento stesso degli Annali d’Italia
dove già il Medioevo gli si configura come un’epoca non del
tutto barbara. A proposito di Odoacre, osserva che «i Latini
e i Greci chiamavano barbaro chiunque non era della loro
nazione», mentre bisogna riconoscere che «vi sono stati
barbari più prudenti e puliti che gli stessi Latini e Greci».
Nelle Antiquitates (Diss. XXIX) egli finiva, del resto, con
identificare la barbarie con la semplicità. E qui
evidentemente egli è sullo stesso piano del Vico, insieme al
quale comprende anche il valore della poesia popolare, ove
si pensi che egli riunisce i mimi e gli histriones sotto il
nome di poeti popolari.
7. Natura, civiltà e progresso

1. Rousseau e l’apologia del selvaggio

Le vicende esterne delle Mœurs del Lafitau e della


Scienza Nuova del Vico non furono tali, nel Settecento, da
intaccare le costruzioni dell’Illuminismo. Lo scisma, in quel
secolo, è tuttavia rappresentato soprattutto da J.-J.
Rousseau, il quale non solo sentì il mito del primitivo, del
barbaro, dell’ingenuo, come lo avevano già sentito il Lafitau
e il Vico – nelle cui opere sia pure in maniera diversa si
conclude il lavorio etnografico dei secoli precedenti –, ma
contribuì, forse come nessun altro, a diffonderlo, a
popolarizzarlo, a renderlo familiare in tutta l’Europa.
Nel «Journal Encyclopédique» del 1° gennaio 1768 (il
quale un anno prima aveva riportato sul Lafitau lo stesso
giudizio che aveva dato Voltaire), è detto in maniera decisa
che G. B. Vico è stato il primo pensatore che ha osato
pretendere che «originariamente gli uomini vivevano
esattamente come bestie». E subito dopo: «L’uomo più
fecondo in paradossi, l’eloquente Rousseau di Ginevra, ha
esteso questa idea nel suo Discours sur l’origine et les
fondements de l’inégalité parmi les hommes». È vero
invece, e lo abbiamo già visto, il contrario; il Vico al mondo
della natura contrappone quello della storia, la quale non
conosce bestie, bensì uomini coi loro istituti e coi loro
costumi. Ma per il Rousseau – che pur ebbe tanto col
Lafitau quanto col Vico dei lati in comune – esistono
davvero bestie in luogo di uomini, o invece tutta la sua
opera non è che un programma inteso a dare dignità
all’uomo, liberandolo dalle soprastrutture della società, per
ridarlo alla società stessa puro e incontaminato?
In questo suo programma il primitivo, il barbaro,
l’ingenuo è innalzato indubbiamente a un paradigma della
scienza e della coscienza umana. Il Rousseau trasporta la
ragione – che gli illuministi avevano riempito di un suo
particolare contenuto razionale – in un mondo lontano che
non è il greco-romano, bensì quello dei popoli primitivi,
dove egli trova appunto uno stato di grazia che faceva
uomo l’uomo, prima che fosse corrotto dalla società, dal
progresso delle scienze e delle arti.
Il selvaggio del Rousseau s’impone così alla nostra
attenzione dentro una cornice che sembra fatta per
racchiudere un idillio del Gessner o meglio una tela del
Greuze. È un selvaggio il suo che è la perfezione stessa
dell’umanità, spogliato non solo da tutti i doni
soprannaturali, ma anche da quelle facoltà artificiali che
egli ha potuto acquistare soltanto mediante un lungo
progresso. È l’uomo insomma, com’egli spesso afferma,
quale è uscito, o meglio quale è dovuto uscire dalle mani
della natura. Ed egli lo vede «che si riposa sotto una
quercia, si disseta al primo ruscello, trova il suo letto ai
piedi dello stesso albero che gli ha fornito il pasto». Lo
segue nella sua vita che, esposta alle intemperie del clima e
al rigore delle stagioni, gli dà una costituzione robusta e
quasi inalterabile. Né in questa apologia del selvaggio, che
in lui si fa sempre più aggressiva e incalzante, mancano
punti di riferimento precisi, come, ad esempio, quando
ricorda i Caraibi del Venezuela che vivono nella più
assoluta tranquillità, oppure gli Ottentotti di Buona
Speranza che a occhio nudo scoprono dei bastimenti in
altomare tanto lontani che soltanto gli Olandesi riescono a
scoprire con il cannocchiale, o ancora i selvaggi d’America,
così cari a tutta la letteratura del suo tempo, che sentono
gli Spagnuoli al fiuto come avrebbero potuto fare i migliori
segugi. Il Rousseau comunque ama risalire dai fatti
particolari a quelli generali. E il suo selvaggio, che è
quanto di meglio vi sia in tutti i selvaggi, è pur sempre
l’uomo abbandonato dalla natura al suo istinto e al suo
sentimento. Di contro agli illuministi che ne avevano fatto
un filosofo il quale ragionava con la loro testa, il Rousseau
vuole vederlo com’è: «errabondo nelle foreste, senza
industria, senza favella, senza domicilio, senza guerre e
senza amicizie, senza aver bisogno dei suoi propri simili e
senza avere alcun desiderio di nuocere loro, forse persino
incapace di riconoscerne individualmente qualcuno;
soggetto a poche passioni e bastante a se stesso, non aveva
che i sentimenti e i lumi propri a questo stato».
Più si riflette, del resto egli osserva:

«più si trova che questo stato era il meno soggetto a rivoluzioni, il migliore per
l’uomo, il quale non ne deve essere uscito che per qualche caso funesto il
quale, per il bene comune, non sarebbe mai dovuto accadere. L’esempio dei
selvaggi che sono stati trovati quasi tutti a questo punto sembra confermare
che il genere umano fosse fatto per restarvi per sempre, che questo stato è la
vera giovinezza del mondo e che tutti i progressi ulteriori sono stati in
apparenza altrettanti passi verso la perfezione dell’individuo, ma in realtà verso
la decrepitezza della specie».

E aggiunge, quasi compiaciuto e disperato al tempo


stesso – da qui la sua angoscia –, che, finché gli uomini si
accontentarono delle loro rustiche capanne e vissero senza
quelle arti che avevano bisogno di parecchie mani, essi
vissero liberi, buoni, sani, felici. Ma, ahimè:

«dal momento che un uomo ebbe bisogno dell’aiuto di un altro, dal momento
che era utile ad uno solo di avere provviste per due – da quel momento
l’eguaglianza disparve, si introdusse la proprietà, il lavoro divenne necessario e
le vaste foreste si cambiarono in ridenti campagne che bisognò innaffiare col
sudore degli uomini e nelle quali presto si videro germogliare e crescere con le
messi la schiavitù e la miseria».

Il mondo dei primitivi, dei selvaggi non era un mondo


dove c’era, come voleva il Voltaire, il tuo e il mio. Era
invece lo stesso mondo del Las Casas, del Léry, del barone
de La Hontan. Ma in fondo che cosa era per lui questo
mondo primitivo che egli rievoca con accenti così commossi
nel Discours sur l’origine et les fondements de l’inégalité
parmi les hommes, che è del 1755 e che conclude o meglio
documenta le conclusioni cui egli era arrivato, quattro anni
prima, nel primo Discours sur les Sciences et les Arts?

2. Noi e i primitivi

Nella prefazione del suo secondo Discours il Rousseau


avverte che lo stato di natura, quello stato, cioè, in cui egli
aveva immobilizzato il suo primitivo, «non esiste più», e
«forse non è mai esistito». Di esso tuttavia, egli aggiunge,
«è necessario avere nozioni esatte per giudicare bene del
nostro presente». Dunque, è il presente, la civiltà in mezzo
a cui vive e che egli combatte in nome di un’altra civiltà,
che spinge il Rousseau alla sua indagine. Senonché è
possibile avere nozioni esatte di uno stato di natura che
non è mai esistito e che forse non esisterà mai? La risposta
ce la dà apparentemente lo stesso Rousseau, quando
osserva nel Discours sur l’inégalité:

«O uomo, di qualunque paese tu sia, quali che siano le tue opinioni, ascolta:
ecco la tua storia, quale ho creduto di leggere non nei libri dei tuoi simili che
sono menzognieri, ma nella natura che non mente mai. I tempi di cui parlerò
sono lontanissimi: quanto sei cambiato da com’eri! È, per così dire, la vita della
tua specie che sto per descriverti secondo le qualità che hai ricevuto e che la
educazione e le tue abitudini hanno potuto corrompere, ma non distruggere.
C’è – lo sento – un’epoca nella quale l’individuo vorrebbe fermarsi: cercherai
l’epoca alla quale desidereresti che la tua specie si fosse fermata».

Oppure quando, dopo aver delineato alcuni quadri sulla


vita dei primitivi, par che riprenda lo stesso discorso:

«Mi sono esteso così a lungo nella rappresentazione ipotetica di questo stato
primitivo, perché, dovendo distruggere dei vecchi errori e dei vecchi pregiudizi
inveterati, ho creduto di dovere scavare fino alle radici e mostrare nel quadro
del vero stato di natura che la disuguaglianza, anche quella naturale, è ben
lontana dall’avere in tale stato la realtà e l’influenza che pretendono i nostri
scrittori».

È chiaro comunque che il mondo dei primitivi o meglio il


mondo primitivo quale egli lo rappresenta, sia pure
mescolando relazioni etnografiche – è noto l’uso che egli
fece, ad esempio, dell’Histoire générale des voyages – con
utopie di viaggi immaginari, non è per lui un dato storico,
come lo era stato per il Lafitau, bensì, come è stato bene
osservato, la ricostruzione razionale della condizione in cui
gli uomini si sarebbero trovati se la loro pura natura umana
non fosse stata alterata. Come tale, quindi, il mondo
primitivo è per lui, come lo era stato per il Vico, un dato
ideale, una pietra di paragone su cui veniva misurata
l’umanità stessa.
Il bestione del Vico, l’uomo primitivo tutto senso e
fantasia, si anima pertanto nel Rousseau non solo di quegli
stessi elementi irrazionali che il Vico aveva posto come
fondamento della poesia, del mito, della religione, ma
anche di una libera individualità, che è il fondamento stesso
dello stato di natura. Il quale, a sua volta, è il presupposto
del contratto sociale. Con questa differenza, se mai: che
mentre lo stato di natura è per il Rousseau la ricerca di ciò
che Kant chiamò il fondamento filosofico della libertà
umana, il contratto sociale è la ricerca del fondamento
filosofico del diritto pubblico. Ecco perché per lui lo stesso
diritto naturale – che nel concetto del divino trovava la sua
purezza e il suo limite – non è più il dono che Dio fa
all’uomo appena nato, ma è «l’individuo stesso in potenza».
Il che significava rimuovere le vecchie idee
giusnaturalistiche, le quali anche per il Vico erano state
quanto mai feconde.
La ricerca della libertà umana, che è quanto dire della
nostra vita morale, è il deus ex machina di tutta l’opera del
Rousseau, quale essa ci si presenta con tutti i suoi
paradossi, che pur si illuminano e si risolvono nella sua
stessa opera. Il Rousseau insomma trova nella natura
l’antidoto a tutti i mali. Ma vi trova anche quell’ideale di
libertà che è, o gli sembra, l’insegna stessa della vita del
selvaggio, il quale non è contrapposto, si noti bene, al civile
in quanto è dominato da una vita naturale, ma in quanto
domina la natura in forza al suo impulso genuino a operare
e a vivere liberamente.
Questa, rispetto ai suoi predecessori, la grande
innovazione del Rousseau, il quale sulle esperienze dei due
Discours si propose appunto di compiere un’opera di
restaurazione nei riguardi della società, ristabilendo i
rapporti fra lo Stato e gli individui (Le contrat social); nella
famiglia, potenziando l’amore e la fedeltà dei coniugi (La
Nouvelle Héloïse); nell’individuo, con una educazione che
lo lasci sviluppare liberamente secondo natura (Emile).
Ma in tale innovazione circola un’idea vichiana: che il
mondo primitivo vive pur sempre in noi o comunque può
tornare in noi. Al Vico certo questo mondo e i rapporti che
esso stabiliva con l’uomo interessava su un piano
strettamente storico. Il Rousseau è su un’altra via. A lui non
interessa la storia. Ma quella stessa storia, che a lui non
interessa, non gli dà tuttavia l’idea vichiana del ricorso?
Che cosa fa infatti il Rousseau, se non eleggere il mondo
primitivo, l’uomo naturale, corn’egli lo chiama con
espressione certo un po’ equivoca, a nostra guida? Non si
tratta di aspettare che quel mondo ritorni in noi. Si tratta
invece di farlo ritornare in noi, riscoprendolo e
incrementandolo, onde gli uomini ritrovino – allo stesso
modo di quel Robinson Crusoe che egli predilige – la loro
via. Né il Rousseau, quando parla di uomini, esclude dal
concetto, che quel termine implica, le plebi, gli umili, i
paria della società, tanto è vero che egli, di contro
all’Illuminismo, che era ben lontano dal reclamare
un’eguaglianza per tutti gli uomini, mette questa
eguaglianza come fondamento della vita morale (e quindi
anche sociale) dei popoli. Così l’honnête homme è servito.

3. La tradizione popolare come fattore umano e nazionale

Le plebi sono del resto molto più care al cuore del


Rousseau di quanto non lo siano le altre classi. Il cittadino
di Ginevra odia Parigi e la sua società smidollata e corrotta,
con quell’impeto istintivo che il selvaggio aveva messo nei
suoi lunghi colloqui con l’Europeo. Il Rousseau però non ha
bisogno di ricorrere alla finzione di un selvaggio che sappia
vedere quel che non vede Parigi e il vecchio mondo
europeo. Si fa egli selvaggio. E il selvaggio che gli è servito
per conoscere l’uomo, che gli è servito come stimolo per le
sue teorie politiche e pedagogiche, ecco che egli lo sente
vivo e palpitante in mezzo alle campagne fra gli umili, nei
quali non è morto né il sentimento né la poesia.
Il Rousseau ci ha lasciato pagine commosse sui paesaggi
che predilige: le colline che fra i raggi del sole morente si
specchiano sui laghi, i campi con le ombre degli alberi e dei
poggi, i boschi che invitano al sogno, al sogno, si badi bene,
che è un’evasione ma anche un ritrovare se stessi. L’antitesi
natura-civiltà, che era stata il motivo dominante della sua
epoca, diviene nella sua opera una forza-idea. Ma quell’idea
si trasforma a volte in poesia, che non è mai lirismo
scomposto e tanto meno pastorelleria arcadica, bensì
affermazione e celebrazione di un sentimento
profondamente umano.
Vi sono, nel Rousseau, delle pagine dove la natura par
che esca animata così com’egli la vede, quasi gustandola in
un lontano passato:

«Durante le prime età… gli astri, i venti, le montagne, i fiumi, gli alberi, i
villaggi, le case stesse, tutto aveva un’anima, il suo Dio, la sua vita. Le statuette
grottesche di Laban, gli spiriti dei selvaggi, i feticci dei Negri, tutte le opere
della natura e degli uomini sono state le prime divinità dei mortali: il politeismo
è stata la loro prima religione» (Emile, libro IV).

La natura, resa quasi elemento di religione, è la misura


dell’uomo semplice, la fonte della sua energia morale, la
fede che lo spinge a ben operare. Il selvaggio rivive, così,
nel contadino, nel pastore. E il Rousseau non manca, a
volte, di riunire l’uno con l’altro:

«Emilio, che è stato educato con tutta la libertà dei giovani contadini e dei
giovani selvaggi, crescendo, deve cambiare e formarsi come loro. Tutta la
differenza è che, invece di agire solo per giocare o per nutrirsi, egli nei suoi
lavori e nei suoi giochi ha imparato a pensare» (Emile, libro IV).

Ma in questo imparare a pensare quale valore assumono,


per il Rousseau, quelle che Vico chiama le tradizioni
volgari? Da Ginevra, dalla sua piccola patria che non
conosceva le corruzioni di Parigi e dove la vita aveva
ancora un suo agreste sapore, il Rousseau, come ben
osserva il Vossler, par quasi che ammonisca i suoi
concittadini:

«Rimanete fedeli ai vostri usi patri, ai vostri costumi patri, allo spirito del
vostro paese. Pensate al vostro carattere ginevrino e non scimmiottate i
Francesi. Siate orgogliosi di essere ginevrini. Magnifichino pure i Francesi la
loro tanto ammirata cultura, essi però non sono liberi, sono schiavi dei loro
signori, mentre noi ginevrini nel nostro piccolo e modesto Stato, nel nostro
proprio Stato siamo liberi e cittadini».

E Ginevra vuole essere – come già il mondo primitivo –


un punto di riferimento, anche se essa ci appare.– come, ad
esempio, nelle Lettres sur les spectacles – un vero e
proprio paese di Cuccagna, una specie di Bengodi. Al
Rousseau interessa, si, Ginevra, ma interessano, dovunque
essi siano, gli usi patri, i costumi patri, la devozione verso il
proprio paese. È con lui anzi che queste forze entrano
decisamente a far parte del patrimonio politico di una
nazione con quella dignità che in sede storica aveva già
dato loro il Vico, e che il Rousseau accentua come pensiero
e volontà nazionali.
Il Rousseau è convinto – si veda il suo primo Discours –
che le antiche usanze, quelle usanze cui è collegato il
nostro cuore e il nostro sentimento, sono un vero e proprio
tesoro che, una volta perduto, non si ritrova più. È convinto
altresì – ed è questo l’ammonimento che egli rivolge ai
Polacchi nelle sue Considérations sur le gouvernement de
Pologne et sur sa réformation projetée, uscite postume, che
un popolo, per essere tale, deve anzitutto avere
un’educazione che gli permetta di apprezzare la forza che
le tradizioni hanno nella vita nazionale. Sono esse, infatti,
che cementano la vita e la fanno degna di essere vissuta. Il
Rousseau ricorda quindi ai Polacchi in qual misura i poemi
omerici, le tragedie di Eschilo, di Sofocle (ma leggendo
quelle pagine il nostro ricordo va soprattutto alla
Repubblica di Platone) abbiano influito sull’educazione dei
Greci, i quali in quelle opere ritrovavano se stessi, con le
loro credenze e con le credenze che erano state dei loro
padri, ad esse legati come l’albero alla terra. E si compiace
con loro, coi Polacchi, perché conservano il costume
nazionale, che è il simbolo stesso della loro patria.
Si può osservare al Rousseau, è vero, che le tradizioni
popolari, 0 nazionali com’egli le chiama, in tanto hanno un
valore in quanto sono profondamente sentite; e che, se
invece muoiono, bisogna la sciarle morire, poiché non
rispondono più a quello stato di necessità che ne fa una
forma sociale e al tempo stesso una determinata forma
storica di pensiero. Sta di fatto però che il Rousseau
contava su queste forze sociali: il che era una lezione data
all’Illuminismo. Si vede anzi, come bene aggiunge in
proposito il Vossler, «da queste proposte, d’una modernità
che sorprende, come il Rousseau non sia prigioniero delle
proprie astrazioni, ma possieda un finissimo senso del
modo onde svegliare e rafforzare nella realtà l’ideale della
comunità, la volontà nazionale, la volonté générale, ossia
come ben conosca i legami che uniscono la volontà morale
dell’autonomia personale con i beni culturali, diciamo
popolari, di una nazione».
Così come Emilio doveva trovare in se stesso la forza
della sua educazione; un popolo, il popolo, può e deve
trovare in sé quel suo Io naturale che si riflette nei suoi usi
e nei costumi. Il Vico aveva già ammonito che la poesia
ammaestra il volgo a virtuosamente operare. Il Rousseau va
oltre: quella poesia che egli sentiva nella natura tutta, nei
boschi e nelle colline, in un albero o in un lago, la trasfonde
nel tesoro tradizionale di un popolo. E il popolo, a
differenza della borghesia che vive nelle alte metropoli,
abita soprattutto nelle campagne, nelle piccole città, dove
l’uomo è ancora natura, natura di Dio.

4. Goguet e l’origine dell’umanità

Preoccupato di studiare l’avvenire dell’uomo, il Rousseau


guarda al passato, e con esso alla tradizione, come a un
elemento umano. Si afferma che il Rousseau nega il
progresso. Ma in verità in lui il progresso non è sostituito
dalla sua fede nella natura umana, dal senso stesso della
perfettibilità di quella natura? Il concetto del progresso che
ebbero un Bayle, un Fontenelle o un Voltaire non coincide
certo con quello del Rousseau. Con essi egli ha in comune,
è vero, il senso ottimistico della vita. Ma, di contro ad essi,
crede che il progresso va ricercato dentro di noi, mentre in
fondo per l’Illuminismo il progresso risulta da una
sovrapposizione di acquisizioni successivamente
accumulatesi e conservate per il futuro. Senonché tale idea
del Rousseau fu condivisa da quei suoi contemporanei che
affrontavano lo studio degli usi e dei costumi passati e
presenti? Oppure essi la elusero?
La sensazione esatta di quel che apparve subito l’idea del
Rousseau può darcela indubbiamente un’opera che uscì nel
1758, qualche anno dopo, cioè, che videro la luce i due
Discours. È dovuta ad Antoine-Yves Goguet e s’intitola: De
l’Origine des lois, des arts, des sciences et de leurs progrès
chez les anciens peuples. In essa sono convogliate le
esperienze dell’Encyclopédie, la quale aveva pur sempre
cercato di penetrare nell’esprit di quelle manifestazioni
sulle orme di un Bayle, di un Fontenelle, di un Montesquieu
o di un Voltaire. Eppure, in mezzo a quelle esperienze le
quali si concludono nella fiducia in un progresso illimitato
del genere umano, il che è lo scopo stesso di una civiltà,
circola nell’opera del Goguet un’aria nuova. In questo
senso: che egli non solo non mette in ridicolo il passato, ma
vi si avvicina trepidante, con quel senso di pietas che aveva
mosso un Lafitau, un Vico, un Rousseau a ricercare in esso
la vita delle nostre istituzioni. Né in proposito è senza
significato che egli cita più volte l’opera del Lafitau, anche
se non ricorda il nome dell’autore. Il Goguet, nell’indagare
l’origine delle leggi, delle arti, e delle scienze, non solo
ferma la sua attenzione sui popoli primitivi, ma li considera
inoltre come un dato di fatto fondamentale, come un mondo
a cui è necessario rivolgersi, se vogliamo renderci conto
della nostra civiltà. E ciò egli dice esplicitamente:
«Appena io mi son trovato quasi interamente privo di fonti, specialmente per le
prime età, ho consultato ciò che gli scrittori tanto antichi quanto moderni ci
fanno conoscere sui popoli selvaggi. Io credo che la condotta di queste nazioni
ci possa dare dei lumi sicuri e giusti sullo stato in cui si saranno trovati i primi
popoli immediatamente dopo la confusione delle lingue e la dispersione delle
famiglie. Le relazioni sull’America mi sono state particolarmente utili» (1, pp.
XXX-XXXI).

Sembra di sentire Lafitau, ma nel suo lavoro il Goguet è


ben lontano da considerare quel primo momento
dell’umanità come lo considerano il Lafitau, il Vico e il
Rousseau. Ecco: quel mondo è stato semplice. Ma quel
semplice che cos’è per lui se non sinonimo di rozzezza e
ignoranza, come egli stesso specifica? Potremmo dire che
in lui il Lafitau è corretto da un’idea che gli illuministi, dal
Bayle al Montesquieu, avevano già immesso nella storia del
pensiero: quella del progresso dal basso in alto, sicché
tutto ciò che è all’origine rappresenta uno stadio di
inferiorità, anche se risponde a un concetto della vita che
bisogna guardare senza le prevenzioni illuministiche.
Anche i popoli classici, del resto, egli aggiunge, hanno
attraversato un periodo selvaggio ai tempi della loro prima
esistenza. Ma qui riappare Fontenelle. Né soltanto lui:
anche Lafitau.
L’opera del Goguet, che trae luce da questi confronti e
che questi confronti pone a volte in termini suggestivi, si
può considerare come uno dei primi trattati di etnografia
generale, un’amplificazione, la chiama giustamente il Van
Gennep, delle Mœurs del Lafitau. Ma le Mœurs di
un’Europa vista illuministicamente. Né mancano in essa
delle indagini acute e penetranti sui costumi, sulle
credenze e sulle cerimonie collegate alle diverse epoche
storiche. È qui anzi il pregio dell’opera, di cui in Francia si
fecero parecchie edizioni e che fu tradotta anche in
Inghilterra e in Italia. Ma qui il suo difetto: che egli non sa
vedere né costumi, né credenze, né cerimonie senza
collegarli all’idea di un progresso ascendente. Rousseau, in
lui, è passato come acqua sul mare. Vico non conta. Conta
il progresso: o meglio una determinata idea che egli si è
fatta del progresso.
Bisogna tuttavia osservare che il Goguet condivide
invece col Lafitau (e in parte col Vico) l’opinione che il
diluvio sia stato una realtà storica. E le sue indagini sono in
parte collegate a questa sua credenza. Ma il progresso
delle leggi, delle arti e delle scienze, quale egli può
osservarlo nel suo secolo illuminato, lo rende pensoso. Non
vuole compromettersi in materia religiosa, egli che si
muove fra la Bibbia e Voltaire, fra Lafitau e Montesquieu. E
questa è una delle ragioni per cui nelle sue indagini
l’origine delle arti, dei costumi, delle credenze è vista
soltanto nei suoi caratteri esterni.
5. Una nuova fenomenologia religiosa: il feticismo

Le credenze religiose studiate dal Lafitau, dal Vico e dal


Rousseau – i quali avevano dimostrato come la religione è
un momento essenziale dello spirito umano – saranno
invece riprese con grande ardimento da Charles de Brosses
nel suo saggio Du culte des dieux fétiches, ou parallèle de
l’ancienne religion de l’Egypte avec la religion actuelle de
Nigritie, edito per la prima volta nel 1760 (era stato
presentato e respinto nel 1758 dall’Académie des
Inscriptions. Il Brosses crede naturalmente, da buon
illuminista, al progresso. Ma non crede, come il Goguet, a
un progresso assolutamente uniforme. Il Goguet aveva
affermato che i costumi di una nazione non sono corrotti
(come credeva Rousseau) dal progresso delle scienze e
delle arti, ma se mai perfezionati. Il Brosses invece nega
quel rapporto comunque posto. Col Goguet, e quindi col
Lafitau, egli condivide invece la credenza nel diluvio. Dopo
il quale, afferma, i popoli dovettero partire per quel loro
viaggio che li condusse dalla barbarie alla civiltà. Il che
tuttavia, egli aggiunge, non esclude che in mezzo alle
cosiddette nazioni civili sia rimasto quello stato uniforme
che si chiama barbarie. Non è necessario insomma, per il
Brosses, andare fra i barbari o meglio fra coloro che noi
chiamiamo barbari per trovare ciò che è primitivo. Si potrà
cercare in alcuni spiriti che son vissuti o che vivono nei
secoli più illustri, fra le nazioni più civili. Ed è questa
un’idea feconda di quel concetto inerente alle
sopravvivenze già intuito dal Fontenelle. Il Brosses non
manca inoltre di collegare quella barbarie allo stato
dell’infanzia. E questa era una ipotetica teoria già
sostenuta (oltre che dal Vico e dal Rousseau, i quali però
ebbero del barbaro un concetto tanto diverso da quello che
ebbe il Fontenelle) dal Locke, quando egli nel Saggio
sull’intelletto umano paragona i selvaggi ai bambini.
Lo stesso Brosses ricorda peraltro, procedendo nella sua
indagine, che «uno scrittore straniero», dal quale egli ha
preso «parte delle sue affermazioni», aveva osservato che
l’uomo si eleva, sì, dal basso in alto, dall’inferiore al
superiore, ma che tuttavia può dar forma a idee perfette
procedendo da ciò che perfetto non è. E tale scrittore è
l’Hume, il più energico sostenitore della religione naturale,
il quale nei suoi volumi, come, ad esempio, nell’History of
natural religion, amava fermarsi anche sui costumi e sulle
superstizioni popolari.
Pensatore libero e uomo di spirito – il suo saggio ha la
stessa freschezza delle Lettres sur l’Italie e della
Correspondance, dove si può raccogliere tutta una miniera
di notizie inerenti agli usi e ai costumi dell’Italia, della
Francia ecc. –, il Brosses per il suo metodo d’indagine si
collega in gran parte al Lafitau, che egli più volte cita e
critica. Bisogna tuttavia osservare che egli irrigidisce quel
metodo soltanto in una determinata fenomenologia
religiosa. Dal Lafitau il Brosses prende la massima che «il
medesimo modo di agire può corrispondere al medesimo
modo di pensare». Dal Lafitau, l’idea stessa che anima il
suo libro: e cioè che «un’opinione la quale si trova diffusa
in tutti i climi barbari la si trovi anche in tutti i secoli della
barbarie». Laddove però il Lafitau è sempre cauto
nell’illustrare tale idea, egli la irrigidisce portandola alle
estreme conseguenze.
Il Brosses ammette, è vero, la Rivelazione, alla quale non
manca di riattaccare molte assurdità dei tempi, ma,
diversamente dal Lafitau, l’ammette soltanto per il popolo
ebraico, convinto com’è che le civiltà dei popoli si debbono
far risalire a una barbarie postdiluviana, che non aveva
ancora avuto la Rivelazione. A questa civiltà egli collega
l’Egitto. E nell’Egitto lo colpiscono i culti rivolti agli
animali, i quali culti vanno considerati come una specie di
feticismo, vale a dire come una fenomenologia che egli
ritiene di carattere religioso e che ai suoi tempi egli trovava
viva e attuale fra gli indigeni delle colonie portoghesi
dell’Africa.
Comunque la preoccupazione maggiore del Brosses è
questa: ricercare l’origine della religione, la quale è da lui
ricondotta a quella sua supposta fenomenologia, che non è
un sistema organizzato di culti e di credenze, bensì
un’attitudine particolare dello spirito, manifestatasi
mediante atti e gesti particolari da per tutto uguali. A suo
avviso, tutti i popoli sono passati da quello stato di spirito,
per usare un’espressione del Fontenelle, che va ravvisato
nell’uniformità costante che il selvaggio ha con se stesso,
onde, per paura, popola la natura di geni e di spiriti (tesi
questa che alcuni anni dopo verrà ripresa dal Bergier nella
sua opera Les Dieux du paganisme).
Il feticismo sarebbe così, per il Brosses, la prima forma
dell’idolatria e perciò della religione, la quale non va
ravvisata nei dogmi della fede rivelata, ma in quegli
elementi inferiori di carattere religioso che costituiscono il
fondo comune a tutte le religioni. Il che è una costruzione
del tutto arbitraria, se non altro perché il feticismo che il
Brosses, paragonando gli dèi egiziani coi feticci africani,
estendeva, per rendere valida la sua ipotesi, «a tutti i
popoli rozzi dell’universo, a tutti i tempi e a tutti i luoghi»,
non si ravvisa nemmeno in tutti i popoli primitivi.
Ad ogni modo, quali che siano o possano essere le
osservazioni che inficiano la fenomenologia creata dal
Brosses, si deve osservare che il suo parallelismo, pur
essendo una deviazione dal metodo del Lafitau, ne è anche,
sotto alcuni aspetti, un perfezionamento, in quanto basa
quel parallelismo su un procedimento più sistematico. E
quel suo metodo, quel suo feticismo, sarà come un’insegna
sotto la quale l’etnologia e il folklore inizieranno il loro
stesso travaglio alla ricerca del prima e del poi.

6. Boulanger e l’antichità svelata

Il feticismo non era servito al Brosses soltanto per


ricercare la prima forma del pensiero dell’umanità. Gli era
servito anche per animare l’origine delle arti, delle scienze
e delle istituzioni. Le quali saranno invece riportate al
diluvio, vale a dire a un’emozione collettiva dell’umanità,
da uno dei più sottili ingegni che abbia avuto la Francia, N.
A. Boulanger, la cui opera principale, l’Antiquité dévoilée,
fu pubblicata postuma in tre volumi nel 1766.
Illuminista – di lui abbiamo una gustosa biografia
dedicatagli dal Diderot –, egli fa in quest’opera il processo
all’Illuminismo, ripensando da cima a fondo il problema
dell’origine della religione. E allora, come ben nota il
Venturi, che è il suo biografo più attento, «la superstizione
che appariva già a molti della sua generazione come un
ostacolo immediato, atto ormai unicamente a ritardare lo
sviluppo dei lumi, assume di nuovo», in quell’opera,
«un’importanza centrale». Di contro al Goguet (e in ciò
quanto mai vicino tanto al Lafitau quanto al Vico e al
Brosses), egli ritiene che soltanto la religione ha modellato
nei secoli tutte le istituzioni umane. Da qui l’importanza
che assegna non solo ai culti e ai riti, ma anche alla
mitologia, alle favole ecc.
In una sua opera precedente, nelle Recherches sur
l’origine du despotisme oriental il Boulanger aveva
affermato che è assurdo ritenere le favole antiche come
ridicole, in quanto alla loro origine esse si basano su dei
principi che fanno onore all’umanità. E ora nell’Antiquité,
che si può considerare, come egli dice, una mitologia
generale del genere umano, specifica:

«La parte più utile della storia non è la conoscenza arida degli usi e dei fatti: è
quella che ci mostra lo spirito che ha dato nascita a questi usi e le cause che
hanno determinato gli avvenimenti. Tutti gli usi hanno dei motivi e questi
motivi sono posti sopra le semplici opinioni o sopra dei fatti; queste opinioni
d’altro lato hanno avuto dei fatti per principio o per causa. Se pur sembra
qualche volta che vi siano degli usi senza motivi è perché questi motivi sono
stati dimenticati e che gli usi si sono talmente sfigurati che essi non hanno
nulla conservato dei loro motivi… Ciascun uso ha dunque la sua storia
particolare, o almeno la sua favola; ciascun uso appartiene e rimonta a un fatto
particolare: può darsi che vi sia un legame segreto e comune che lega la massa
generale di tutti gli usi con quella di tutti i fatti. La storia degli usi e del loro
spirito non è che un nuovo principio per fare la storia degli uomini».
E sarà appunto questa l’idea dalla quale partirà, qualche
anno più tardi, nel 1776, un giovane indagatore, il
Demeunier, il quale nel suo libro L’esprit des usages et des
coutumes des différents peuples non solo allarga la sua
indagine a molte manifestazioni della vita popolare del
tempo, ma insiste su un concetto: che i costumi vanno
giudicati non solo per quel che oggi rappresentano, ma
anche e soprattutto per quel che essi rappresentavano.

7. Forme e spirito delle feste

L’opera del Boulanger, soprattutto l’Antiquité dévoilée,


suggerì ad alcuni suoi contemporanei l’idea che egli abbia
conosciuto la Scienza Nuova di G. B. Vico. Il Francese,
scriveva ad esempio l’Abate Galiani al Tanucci, «ha rubato
da G. B. Vico e non lo ha citato». Si potrà dire però (come
già diceva il Finetti) che l’uno e l’altro partono dallo stato
ferino e che per tutt’e due è oggetto di meditazione il
diluvio. E si potrà aggiungere (come ben osserva il Venturi)
che le ricerche del Boulanger sullo spirito primitivo o sulla
logica dei miti o sull’origine religiosa delle forme politiche
umane ecc. andavano nello stesso senso verso cui
tendevano quelle del Vico. Sta di fatto però che il
Boulanger non ha nulla in comune col Vico nella
formulazione dei problemi che quelle ricerche comportano.
Le ricerche del Boulanger, per quanto non si possano
paragonare a quelle del Vico (né a quelle del Rousseau),
segnano comunque un progresso rispetto a quelle del
Goguet, e sono per la loro importanza etnografica sullo
stesso piano di quelle del Brosses. Anche il Boulanger,
come i suoi predecessori più immediati, è convinto che
soltanto gli usi dei selvaggi potranno «spiegarci quelli degli
antichi in base alla conformità che noi vediamo in essi». Da
qui i suoi confronti fra i Messicani e i Greci, ad esempio,
oppure fra i Peruviani e i Cristiani. Ma che cosa sono i
primitivi per lui? Essi sono «i discendenti di quelle orde di
uomini che scamparono al diluvio, ma che furono incapaci
di formarsi in nazioni e di dar nascita alla civiltà». Il che
però non esclude che quelle orde avessero avuto, germe e
frutto di una loro originaria purezza, la credenza in un dio
onnipotente (credenza questa in cui è il nucleo primitivo di
ogni religione). Le società primitive, anche se vinte dal
diluvio, vissero insomma per il Boulanger con gli occhi
rivolti al cielo. Né è senza significato che tale modo di
vivere si ritrovi, egli aggiunge, tra gli ultimi selvaggi
d’America. In essi, del resto, non è da escludere nemmeno
un’idea di progresso. Quando fra i selvaggi, infatti, la fede
cominciò ad affievolirsi, essi conservarono gli usi della loro
primitiva società ma non lo spirito. È allora anzi che nasce
quello stato selvaggio che si può ricercare tanto fra i
selvaggi quanto fra noi civili.
Collegata a questa impostazione è, quindi, la
classificazione che il Boulanger fa delle feste e dei miti, i
quali, in base al ricordo suscitato dal diluvio, sono pervasi
da un particolare esprit:

«Nel primo libro esamino le istituzioni create dai differenti popoli della terra
per rintracciare la memoria del diluvio: il che costituisce nella società ciò che si
può chiamare il suo spirito commemorativo. Nel secondo libro si proverà che
tutte le feste e le istituzioni antiche hanno un carattere lugubre di tristezza, il
quale penetra anche nelle solennità più gaie e più dissolute: è ciò che io chiamo
lo spirito funebre. Nel terzo libro io mi proverò a esaminare i criteri più antichi
e di scoprire i veri motivi di questi enigmi nascosti ai popoli: è ciò che io
chiamo lo spirito misterioso, e io ritengo che questi misteri non hanno avuto
altro oggetto che nascondere al volgo dei dogmi pericolosi alla sua tranquillità.
Nel quarto libro io considero i motivi che hanno causato l’attaccamento dei
popoli a certe idee particolari che si riferiscono a cambiamenti di secoli e di
periodi; ed è ciò che io chiamo lo spirito ciclico. Nel quinto libro esamino la
natura delle feste, delle cerimonie istituite in occasione degli anni, dei mesi e
dei giorni, ed è ciò che io chiamo lo spirito liturgico» (1, 39-40).

E in una nota, a chiarire ancor meglio la natura delle


feste cicliche, aggiunge:

«Io chiamo in quest’opera feste cicliche tutte quelle che erano attaccate alla
fine o al rinnovamento dei mesi, delle stagioni, degli anni, dei secoli, o di
tutt’altro periodo. La parola ciclico sarà un epiteto generale per indicare tutte
le feste periodiche, soprattutto se il loro oggetto si riferisce a una fine o a un
rinnovamento di periodo. Se gli antichi non avessero portato nelle loro feste
una così grande confusione che ne ha corrotto lo spirito e i motivi, sarebbe
facile fare questa distinzione. Una festa che celebra la fine di un periodo è
triste e funebre; quella di un rinnovamento è consacrata al piacere e
all’allegria; ma come la fine e il ritorno di un ciclo si toccano e come le feste
che consacrano i due estremi di un periodo si toccano anch’esse e si seguono,
ciò ha originato questa confusione di cui noi abbiamo mille esempi. Quando noi,
d’altro lato, conoscendo lo spirito degli usi, potremo conoscere il vero spirito di
queste feste, allora chiameremo eno-ciclici quelle che hanno rapporto con i
periodi conclusivi e neocicli quelle che hanno rapporto con i periodi iniziali».

In queste classificazioni il Boulanger, che è stato


indubbiamente influenzato dal Lafitau per i problemi
inerenti alla religione e alla mitologia, si avvicina al
Montesquieu che poneva la vertu, l’honneur et la crainte
alla base delle varie forme politiche. Ma, osservava il
Venturi, «come già nel Montesquieu (per cui il Boulanger
dimostrò sempre rispetto e ammirazione) una tale
posizione sociologica è trasformata da un interesse
vivissimo per i fenomeni descritti, da una forza di simpatia
che modifica questi primi schemi di classificazione». I quali
si concludono in un’ampia visione, da cui risulta, e qui è
evidente un certo influsso del Rousseau, che il vero
progresso non ha avuto inizio quando l’uomo ha posto
l’azione in cielo, ma in se stesso.

8. L’idea del progresso come elemento filosofico

Così, dunque, se nel Boulanger, come già nel Goguet e


nel Brosses, predomina come un elemento propriamente
filosofico l’idea del progresso (di contro a un Vico o a un
Rousseau, nei quali questo principio va ravvisato, per il
primo nella mente umana e per il secondo nel sentimento
dell’Io naturale) fatto è che le sue ricerche gettano una
luce viva non solo sugli usi e sui costumi dei vari popoli, ma
soprattutto sulle loro sopravvivenze, anche se le
testimonianze che le riguardano non sempre sono esatte,
tolte come sono dal loro contesto generale. Così, ad
esempio, quando il Boulanger nella sua Antiquité affermava
che anche la diffamata astrologia poneva, sia pure in modo
che noi riteniamo superstizioso, l’uomo a contatto con il
cosmo, e aggiungeva che a lui interessava rintracciare le
origini delle credenze in un principio ragionevole e non
certo nella follia o nella stupidità degli uomini; egli faceva
suo un orientamento che già si opponeva all’Illuminismo, e
che in pieno Illuminismo veniva dettato, come nel Goguet e
nel Brosses, da una nuova esigenza: l’esigenza etnografica
sentita non in funzione esclusiva della ragione, ma come
emancipazione dalla ragione. In questo senso: che ormai,
per merito dell’etnografia, non si dà importanza soltanto
alla ragione, ma anche alla fantasia umana, la quale non va
considerata come un regresso rispetto al progresso, bensì
come un fatto eterno dello spirito. E questo era stato
appunto l’insegnamento del Lafitau, del Vico e del
Rousseau.
8. Rivolta della poesia

1. Gusto del popolare e mediazione dell’Ossian

Nel 1760 – lo stesso anno cioè in cui uscivano a Parigi La


Nouvelle Héloïse del Rousseau e i Dieux fétiches del
Brosses – apparvero in Inghilterra i Fragments of Ancient
Poetry collected in the Highlands of Scotland and
translated from the Gaelic or Erse language, i quali non
erano che dei saggi di poesia lirico-epica attribuiti a un
antico bardo, tradotti da un anonimo e provenienti da un
gruppo di manoscritti che andavano dal secolo XII al secolo
XVI. Il loro successo spinse l’anonimo presentatore, vale a
dire James Macpherson, a pubblicare nel 1762, questa
volta col suo nome, un antico poema in sei libri, il Fingal,
insieme al quale apparve, tra l’altro, il principio di un altro
poema intitolato Temora (edito per intero col nome del
traduttore, un anno dopo). Nel 1765 infine i Fragments, il
Fingal e Temora apparvero insieme, preceduti da alcune
dissertazioni dovute in parte allo stesso Macpherson (che
già le aveva pubblicate nel Fingal, per stabilire l’autenticità
dei canti che presentava) e al dottor Blair che ne
valorizzava i pregi.
Nasceva così un nuovo poeta: Ossian. Siamo in un’epoca
in cui l’Europa è scossa da quel continuo e incessante
travaglio mediante il quale si vogliono chiarire i problemi
inerenti alla origine delle idee, della poesia, della società,
della religione, dei costumi. L’Illuminismo è come una forza
che stimola, dirige e accompagna la impostazione di quei
problemi. Il mito del primitivo si collega ormai con quello
della storia del genere umano. E l’uomo è il centro stesso di
una ricerca dove sembra rispecchiarsi e placarsi
l’inquietudine del tempo. E su questo sfondo, nell’ampiezza
di questo quadro europeo che ha le sue luci e le sue ombre,
in un’Inghilterra dove la borghesia si è venuta arricchendo
coi suoi traffici e coi suoi commerci, legata, sì, al mondo
classico, ma anch’essa ansiosa del nuovo, di un nuovo però
che sia al tempo stesso antico, ecco che i canti di Ossian, di
questo vecchio bardo camuffato, risuonano come una voce
che si innalza nel coro inneggiante al primitivo. Il che non
esclude che l’Ossian nel momento stesso in cui pone tale
ritorno non ne media ancora un altro, il ritorno, cioè, al
patrimonio nazionale.
2. Significato e valore di una «burla»

Nella sua dissertazione, premessa all’edizione


dell’Ossian del 1765, il Blair non esitava a paragonare
questo nuovo bardo, che dalla Scozia si affacciava sulla
scena della poesia e della cultura europea, a Omero. Né, a
dire il vero, quel paragone mancava di avere un suo
significato, ove si pensi che il Macpherson con la sua
raccolta non si proponeva soltanto di offrire ai suoi
connazionali una poesia antica, una poesia che poneva la
Scozia nel novero di quelle nazioni che in tempi lontani
avevano avuto la loro poesia, ma voleva anche metterli a
contatto con una poesia fresca, vergine, fatta, come
avrebbe detto Vico, per necessità di natura e in cui la
natura assumeva la funzione di un personaggio poetico.
Il Macpherson sa bene che i suoi tempi non si prestano a
riconoscere in un nuovo poeta un poeta che possa
paragonarsi a Omero. Bisogna dunque inventarlo questo
nuovo Omero, ponendolo decisamente contro un Pope, la
cui poesia, specchio della classe dominante, è perfetta,
precisa, ben martellata, come si conviene a una poesia
classica che si ispira a determinati modelli, ma che in quei
modelli rimane chiusa e imprigionata. È vero che allora,
quasi a contrastare il severo dominio del Pope, si era alzata
una voce che sembrò veramente nuova, quella del
Thomson, il quale nelle sue Seasons canta con accenti
commossi la vita umile e grandiosa dei contadini scozzesi e
inglesi. E c’è in lui indubbiamente l’ansia di liberarsi dalla
solita rievocazione di un mondo che ormai si era esaurito
nell’opera del Pope e dei suoi seguaci. Ma il Thomson, che
pur sentì prima del Rousseau i valori della natura sotto i
suoi vari aspetti, non rimase anch’egli, per l’espressione,
legato alla poetic diction?
Contemporaneamente un altro poeta Thomas Gray,
ribellandosi alla poesia permeata di classicismo, immette
nella poesia inglese i motivi di quel mondo celtico che gli
apparirà, come un mondo barbarico senza artificio e senza
convenzionalità. Questo il messaggio delle sue traduzioni
dall’antica poesia nordica (cara anche al cuore di William
Temple). Questo il messaggio della sua ode The Bard che è
del 1755. Notate: è il bardo, l’antico poeta, il vecchio
rapsodo cantore del popolo, che torna. E torna quando lo
Young si rifugia nel regno della malinconia notturna,
portandovi un’espressione profonda di sentito dolore. Ma il
bardo ha ora un suo nome chiaro e squillante. Si chiama
Ossian. E Ossian nasce dall’incontro di questi aneliti,
prodotto, sì, com’è stato chiamato, di una burla, ma di una
burla generosa, mediante la quale il Macpherson richiama
l’attenzione dell’Inghilterra, e con essa quella dell’Europa,
su quei poemetti gaelici cui egli si ispira per creare il suo
Ossian, dal quale emerge come i popoli nordici avessero
una loro personalità e civiltà originali. È insomma la
valorizzazione della propria epopea nazionale.
Le lunghe polemiche fatte prò o contro la buona fede del
traduttore nei riguardi del Macpherson trascuravano un
dato fondamentale: che l’Ossian poteva essere una buona o
cattiva opera tanto se creata dal Macpherson quanto
dall’antico bardo gaelico. Un altro dato fondamentale
veniva tuttavia trascurato: che quest’opera voleva
costituire un’Iliade nazionale, a portata di mano, un’Iliade
che bisognava scoprire e non creare. Ossian infatti voleva
essere il cantastorie di un patrimonio che ha, sì, valore
poetico, ma anche e soprattutto nazionale, in quanto egli
coi suoi canti voleva riportare la Scozia e l’Inghilterra alle
fonti della propria storia e della propria tradizione. In tal
modo il Medioevo, ritenuto dagli illuministi come un’epoca
di oscurantismo, ritornava, tramite l’Ossian, in un momento
in cui sorgeva, vivo, l’amore per le cattedrali gotiche. Il
Medioevo che già per il Vico costituiva un’età eroica
diviene così l’età eroica degli Inglesi.
Ben torni Omero, dunque: ma un Omero come l’aveva
immaginato Vico, cioè primitivo e barbaro. O meglio, per
rimanere a casa propria, un Omero i cui eroi siano freschi
ed elementari, come appunto l’aveva visto il Blackwell in
quel suo libro, dedicato appunto, nel 1735, a Omero, che il
Winckelmann definirà «uno dei più bei libri del mondo».
Insomma torni, per usare una felice espressione di Madame
de Staël, un Omero del Nord. E con lui – ecco quel che
importa – una poesia che si rifaccia alle sagre e ai canti
gaelici. In altre parole: una poesia che ritorni alle fonti
nazionali, alle origini.

3. L’Ossian e la scoperta di un nuovo «mondo poetico»

L’Ossian è indubbiamente l’indice di una sensibilità


raffinata la quale attraverso il primitivo e la barbarie vuole
imporre i valori istintivi dello spirito umano. I suoi canti
infatti sembrano tuffarci immediatamente in quelle sorgenti
irrazionali della vita in cui il Vico riponeva l’origine stessa
della poesia. E quando più violenta è la polemica per lo
stato di natura, ecco che l’Ossian (non si dimentichi che la
Britannia era stata la patria del deismo) ci riconduce ai
sentimenti primitivi dell’uomo, ci fa sentire la grandiosità
dei fenomeni naturali, e con essi un vivo e profondo
sentimento religioso.
Uno dei più colti spiriti di Europa, che sentì il fascino
dell’Ossian e che tradusse in italiano questi canti, il
Cesarotti, ebbe a dire:

«Ossian è il genio della natura selvaggia: i suoi poemi somigliano ai boschi


sacri degli antichi suoi Celti: spirano orrore, ma vi si sente ad ogni passo la
divinità che vi abita» (Poesie di Ossian, 1, 10, Pisa, 1801).

È la natura come la vedevano il Rousseau o il Brosses.


Ma il Rousseau e il Brosses, nei canti di Ossian, sembra che
siano passati dalle brillanti pagine del Burke, il quale già
nel 1757 aveva pubblicato il suo breve trattato, intitolato
appunto Philosophical Enquiry into the Origin of our Ideas
of the Sublime and Beautiful.
Il sublime domina infatti nei canti di Ossian come la
meraviglia nelle Mille e una notte. È un mondo incantato il
suo, dove il Thomson viene ravvivato da una capacità
creativa maggiore. E dentro quel mondo si agitano, con
malinconica purezza, i sogni dei guerrieri, le loro speranze,
i loro amori. Né certo si ingannava lo stesso Cesarotti (nei
cui commenti ai canti dell’Ossian è sempre richiamato
Omero a torto e a ragione, ma più a torto che a ragione),
quando, in una lettera che nel 1763 inviò al Macpherson,
non solo individuava i caratteri di cui si riveste il sublime
dell’Ossian, ma ne tracciava, in un certo senso, il gusto e la
sensibilità che da esso derivavano:

«Permettetemi a nome dell’Italia che io mi feliciti della fortunata scoperta che


voi avete fatto di un nuovo mondo poetico e dei preziosi tesori di cui avete
arricchito la letteratura. Morven è diventato il mio Parnaso e Lora il mio
Ippocrene… tutto questo spettacolo grandioso e fosco ha più fascino ai miei
occhi che non l’isola di Calipso e i giardini di Alcinoo. Si è disputato a lungo e
forse con più asprezza che buona fede sulla preferenza da accordare alla poesia
antica o alla moderna. Ossian io credo darà causa vinta alla prima, senza che i
fautori degli antichi vi guadagnino molto. Bisogna vedere dietro il suo esempio
come la poesia di natura e di sentimento è al disopra della poesia di riflessione
e di esprit, che sembra essere il patrimonio dei moderni. Ma se si dimostra la
superiorità della poesia antica, bisognerà sentire i difetti degli antichi poeti
meglio che tutte le critiche. La Scozia ci ha mostrato un Omero che non
sonnecchia, né balbetta, che non è mai volgare, né languido, bensì sempre
grande, semplice, rapido, preciso, eguale e variato» (trad. dal francese,
Epistolario, 1, 7-8, Firenze, 1811).

Commenta il Binni, che ha studiato con finezza la


mediazione dell’Ossian, tramite il Cesarotti, nella poesia
italiana: «Il Cesarotti toccava il punto giusto quando
affermava che Ossian se veniva a dar ragione ai partigiani
degli antichi, faceva anche vedere i difetti degli antichi:
cioè che, se faceva accettare quelle qualità di sublime
ritrovate negli antichi (e in realtà nate dal travaglio di una
disputa comune più che da una delle due tesi), mostrava
anche che quel sublime era ben diverso da quello
realmente isolabile nei classici». L’Ossian convogliava
insomma i desideri di una nuova età. E quei desideri si
articolavano in un linguaggio che è quello di un nuovo
Omero, il quale ha sciacquato i panni fra i Celti. Un
linguaggio simile si poteva ancora ritrovare nella Bibbia.
Ed infatti nel 1753 un dotto professore di Oxford, Robert
Lowth, in un suo lavoro intitolato De Sacra poesia
Hebraeorum aveva mostrato come la poesia degli Ebrei
fosse fiorita in singole individualità «su di un popolo di
contadini e di pastori». Il che significava storicizzare la
Bibbia stessa. E ora ecco che da un popolo di guerrieri-
contadini-pastori viene Ossian, il cui linguaggio solenne fa
rivivere quello di Omero e quello della Bibbia.
In realtà non si può negare che il Macpherson ci abbia
dato nell’Ossian delle pagine vive e commosse. Ma l’enfasi
di certi passaggi stride ai nostri orecchi, anche se alcuni
critici del suo tempo scambiarono questa enfasi per vero
impeto creativo. L’Ossian, comunque, non va giudicato
soltanto per il suo valore poetico (quale che esso sia), ma
anche per tutto ciò che mediò nella poesia del tempo, ove si
pensi che esso non alimentò soltanto il gusto di una nuova
poesia, ma anche il gusto della poesia popolare.

4. Alla ricerca della poesia popolare

Non erano mancati, a dire il vero, prima che uscisse


l’Ossian, voci che avevano inneggiato a tale poesia. Questo
era appunto già avvenuto in Spagna. Fin dal 1511
Hernando del Castillo aveva pubblicato un Cancionero
general, in cui erano stati raccolti alcuni vecchi romances
tramandati dalla tradizione orale. La raccolta di questi
romances fu continuata, nel 1550, da Estéban de Nájera
nella Silva de varios romances, un anno dopo da Lorenzo
Sepúlveda nei Romances sacados de historias antiguas e
nel 1655 da un Anonimo nel Cancionero des Romances. E
tale raccolta fu continuata man mano con ritmo crescente,
finché nel 1700 uscì il primo Romancero general a cura di
Pedro Flores. Si trattava, come ben osserva il De Lollis, di
«una poesia di popolo, per quanto d’un popolo grave e
severo che per sette secoli non depose mai maglia e
scudo». E aggiunge: «Furono poeti dotti che rinnovarono il
genere. Ma tutti dimenticarono di essere poeti colti, perfino
Góngora, l’autore delle Soledades delle quali senza il
commento non si capirebbe nulla». Ma quella epopea che
risuonava squillante fra le mura della vecchia Spagna che
cos’era, per chi la raccoglieva, se non una epopea senza
Omero? Essa tuttavia rimaneva allora legata al proprio
paese, patrimonio di un popolo che in essa vedeva il suo
retaggio morale e spirituale.
Lo stesso avveniva per la Gran Bretagna, dove la vita
della poesia popolare si articolava soprattutto in una serie
di poemetti composti su temi diversissimi, alcuni dei quali
potevano anche farsi risalire al secolo XI. Ristretta all’alto
ceto la poesia dotta, il ceto rurale e quello medio si erano
deliziati sempre a
le ballate affisse al muro
di Giovanna di Francia e di Moll l’inglese
di Rosmunda la Bella e di Robin Hood
e dei piccoli fanciulli del bosco.

Queste ballate, a cominciare dal secolo XVII, erano state


in parte raccolte dal Selden, dal Roxburghe e dal Wood. Ma
il primo che pose una attenzione critica su di esse fu
indubbiamente l’Addison, il quale nel 1711 in due numeri
consecutivi del suo «Spectator», e precisamente nei numeri
70 e 71 (corrispondenti al 21 e al 25 maggio), non solo
segnalava ai suoi lettori due di quelle ballate, e
precisamente Chevy Chase e The Children of the Wood, le
quali sono le preferite, come egli diceva, del common
people of England, ma ne paragonava alcuni passi con
altrettanti di Omero e di Virgilio. Si afferma: lo faceva per
giustificare il suo gusto per quelle ballate. Ma la ragione
era diversa: ed era quella di dare cittadinanza a quella
poesia, o meglio a quel genere di old ballads. Non così la
pensarono i suoi contemporanei, tanto è vero che quelle
sue comparazioni furono parodiate in un opuscolo che ebbe
allora grande successo: A Comment of the History of Tom
Tumb, apparso anonimo nel 1711. Il che fece meditare
l’Addison, il quale, quando pubblicò lo Spectator in volume,
mitigò quelle sue espressioni; ma rimase fermo, questo sì,
nel sentire la profonda e intensa poesia del contadino che
torna dal lavoro e modula il suo canto naturale, semplice ed
efficace.
Le stesse considerazioni venivano fatte nella prefazione
che precede la Collection of the Old Ballads, edite in tre
volumi fra il 1723 e il 1725. L’anonimo raccoglitore non
esitava a paragonare i suoi ignoti cantori a Omero:

«E lo stesso principe dei poeti, il nostro Omero, non era altro che un
cantastorie cieco che compose qualche canto sull’assedio di Troia e le
avventure di Ulisse… finché alla sua morte ci fu qualcuno che ritenne
opportuno di raccogliere le sue ballate e, messele un poco insieme, ci ha dato
l’Iliade e l’Odissea» (1, 3).

L’anonimo raccoglitore dava maggior rilievo alla


tradizione orale rispetto a quella scritta (opinione questa
che sarà pienamente condivisa dal Macpherson). Anch’egli
vedeva nell’antichità e nella naturalezza di quelle ballads il
loro pregio e il loro valore. E in ciò lo seguiva
contemporaneamente un delicato poeta scozzese, Allan
Ramsay, il quale in una sua antologia (The Evergreen, 2
voll., Edimburgo, 1724) insieme ai suoi e a quelli dei suoi
contemporanei non manca di raccogliere gli antichi cauti
popolari inglesi e scozzesi: primo esempio di un’antologia
dove la poesia popolare non fa la figura di una parente
povera. Anche il Ramsay tira in ballo Omero. A queste
ballate egli però toglie e aggiunge versi con la pazienza di
un orafo che si fa poeta laddove doveva rimanere soltanto
raccoglitore.
È merito comunque di queste prime raccolte l’averci dato
la visione di un Medioevo patrio che si rivelava in una
rappresentazione poetica efficace e ricca di immagini. Né
va dimenticato il fine a cui tendevano i raccoglitori: quello
di contrapporre la freschezza ingenua di questa poesia
popolare alla poesia classicheggiante. In proposito
l’Addison osservava che la poesia popolare è, sì, una copia
della natura, ma «priva di tutti gli ausili e ornamenti
dell’arte». Ecco pertanto che cosa significava per questi
primi raccoglitori lo studio della poesia popolare. Essi sono
i veri precursori del Macpherson, nel cui Ossian peraltro
rivivono gli stessi miti delle ballate care al cuore
dell’Addison. Piaceva in queste ballate il tono rude e
arcaico. E se i loro autori non avevano un nome, come
l’aveva Ossian, anch’essi erano il prodotto di quei
menestrelli che avevano cooperato a creare l’Ossian. Bene:
Ossian ricambia ora il dono ricevuto. E con lui ecco che in
Inghilterra la poesia popolare esce dallo «Spectator»
dell’Addison e si fa viva e attuale. Non è più una curiosità,
sia pure piena di stimoli, ma comincia a diventare un
problema poetico e culturale.
5. Le Reliques del Percy

Si comprende, in questa atmosfera, il successo che


dovevano avere le Reliques of Ancient English Poetry di
Thomas Percy, dove in tre volumi, diviso ciascuno in tre
parti, venivano raccolte ballate inglesi e scozzesi. Le
Reliques uscirono per la prima volta nel 1765 (quando cioè
vedeva la luce l’edizione completa dell’Ossian), precedute
da una prefazione in cui il raccoglitore insisteva sulla
originalità di questa poesia popolare, che considerava come
il relitto dell’arte dimenticata degli antichi scaldi (da qui
l’importanza accordata alla tradizione orale). Nel primo
volume, in un suo excursus dove parla degli antichi
menestrelli inglesi – ecco Ossian dietro le spalle –, il Percy
osserva:

«Le antiche ballate cantate dai menestrelli sono in dialetto settentrionale,


abbondano di vocaboli e locuzioni antiche, sono estremamente scorrette e
presentano nella maggior parte le più grandi licenze metriche; esse hanno un
carattere ugualmente primitivo ed esprimono il vero spirito della cavalleria».

Il Percy non manca inoltre di notare, ove capiti, il


carattere nazionale che quelle ballate conservano. Agli eroi
magniloquenti dell’Ossian si antepongono ormai Chevy
Chase e Robin Hood. Ma chi è Robin Hood, come già aveva
notato l’anonimo raccoglitore della Collection of Old
Ballads, se non un tipico eroe nazionale, a cui la fantasia
popolare ha dato un carattere ideale e leggendario di
amore per il popolo stesso? Il Percy, nella prefazione con la
quale presentava le sue ballate, non esitava naturalmente a
riconoscere i pregi di quella poesia insieme vecchia e
nuova:

«In un secolo illuminato come il nostro, io so che molte di queste reliquie


dell’antichità hanno bisogno di una grande indulgenza a loro favore. Esse
presentano tuttavia, per lo più, una dolce spontaneità, oltre che delle grazie
senza artificio, le quali nell’opinione di critici di valore sono state giudicate
capaci di compensare la mancanza di bellezze d’ordine più elevato. Se esse non
possono abbagliare l’immaginazione, quasi sempre invece toccano il cuore».

Il Percy è convinto dunque che queste ballate, anche se


estremamente scorrette, sono piene di grazia. Quale
metodo adotterà quindi perché risalti il loro valore
artistico?

6. Nasce la moda delle ballate

Le Reliques furono raccolte dal Percy soprattutto con lo


scopo di dimostrare quale fosse la genuina voce del popolo
inglese dei secoli precedenti. Da qui il titolo della sua
raccolta. Non gli fu estranea la polemica, allora in voga,
sull’origine del romanzo cavalieresco. Reliques erano le
sue. Ed egli aveva cominciato anche col raccogliere le
vecchie broadsides, le quali in fondo erano venute a
integrare la tradizione orale. «Le prime stampe popolari», è
stato giustamente osservato in proposito, «fra gli
ultimissimi del Quattrocento e i primi del Cinque,
trascrivono ballate popolari appena riadattate (per
esempio, la Gest of Robin Hood); ma il lavoro di
rielaborazione si fa sempre più profondo e lo scrittore di
ballate, il ballad-writer, elisabettiano, riassumendo in sé gli
echi delle due correnti, di quella popolare quattrocentesca
e di quella sua contemporanea della nuova cultura, li
riversa nella ballata di broadside». Le ballate delle
broadsides si possono paragonare in fondo a quelle nostre
stampe popolari e fogli volanti, dove però ben di rado brilla
una luce di vera poesia. Era logico quindi che il Percy si
proponesse di ricorrere alle fonti, ai manoscritti, che
conservavano quelle ballate. Oppure alla tradizione orale,
dove la materia delle broadsides veniva trasformata,
riadattata, resa veramente popolare. Lo avevano aiutato in
quella ricerca David Dalrymple e Thomas Warton. Né certo
egli risparmiò cure e fatiche per vedere le vecchie raccolte
di manoscritti esistenti nelle biblioteche del suo paese. Ma
un giorno ecco che nella casa di un suo amico, Humphrey
Pitt, egli si accorge che la fantesca incaricata di accendere
il fuoco nel camino strappa dei fogli da un vecchio
manoscritto. Il Percy vuol vedere di che si tratta. È un
manoscritto che contiene quasi duecento ballate (inglesi e
scozzesi), dettate da un cantastorie del Lanchshire alla
metà del Seicento. Non erano soltanto ballate della più
pura tradizione quattrocentesca, ma anche ballate
provenienti da broadsides del tempo (esse si
accompagnavano ad altre composizioni non popolari, ma
giunte tuttavia alla tradizione orale).
Le Reliques non sono che una scelta di questi vari
materiali, molti dei quali guastati col volgere del tempo. Da
qui l’intervento del Percy. Nella prefazione con la quale si
apre il primo volume della sua antologia (dove, fra l’altro,
non mancano qua e là accenni a poesie popolari di altri
popoli), il Percy osserva che ritiene suo dovere (di editore)
correggere quei testi che gli sembrano guasti. E non son
pochi peraltro nella sua collezione i testi preceduti da una
avvertenza: given some corrections. Aneh’egli seguiva,
dunque, il Ramsay. Ma fino a qual punto egli aveva questo
diritto?
Un acuto filologo del tempo, il Ritson, attaccò con
violenza il Percy, contestandogli persino l’esistenza del
famoso manoscritto (fu pubblicato poi invece dal Child) e
denunciando l’improntitudine del contraffattore. Il Ritson,
preludiando e individuando quelle che sono le esigenze
filologiche della poesia popolare, era per l’assoluta fedeltà
dei testi. Ma il Percy rimarrà fedele alle sue premesse. E
nell’avvertenza alla quarta edizione delle Reliques osserva
convinto:

«Adesso questi libri vengono presentati al pubblico con quelle correzioni e


miglioramenti che sono necessari: e il testo, in particolare, è stato emendato in
molti punti con il ricorrere agli antichi esemplari. I diversi tipi delle varianti,
essendo spesso molto semplici, non sempre sono stati notati in margine; ma
l’alterazione non è stata fatta senza una giusta ragione: specialmente in quei
passi che sono derivati direttamente dall’in folio, così spesso menzionato nelle
seguenti pagine… L’in folio è un lungo e stretto volume contenente 195 tra
sonetti, ballate, canzoni storiche e romanze in versi o interamente o in parte,
per il fatto che molte di esse sono molto mutilate e imperfette. Il primo e
l’ultimo foglio sono mancanti, e la metà di ogni pagina al principio è stracciata
o deturpata alla fine; e anche dove i fogli non presentano nessun danno, la
trascrizione è talvolta molto scorretta, essendo in tal caso probabilmente
ricavata da esemplari difettosi o dalla difettosa imperfetta dizione dei cantori
illetterati».

Così presentate, le innovazioni del Percy non sono più


tali. Il Percy, se così fosse, si sarebbe attenuto alla
ricostruzione (sia pure discutibile nel campo della poesia
popolare, dove ogni testo è pur sempre una creazione a
nuovo). Ma non si era egli scoperto, quando nella prima
edizione delle Reliques aveva scritto che la poesia delle
ballate è «come una giovane donna che viene dalla
campagna coi capelli spettinati», la quale è da lui però resa
«adatta alla società inglese»? La verità è che nelle
Reliques, se pur vi sono delle ballate sottoposte a quel
genere di raffinamento, ve ne sono altre indubbiamente
fedeli.
7. Della loro importanza nella storia del gusto poetico

Le Reliques, nonostante i loro difetti, ebbero un grande


merito: quello di richiamare decisamente l’attenzione degli
studiosi sulla poesia popolare, su quella poesia, cioè, che
correva in mezzo al popolo e che del popolo era e doveva
essere considerata come un patrimonio veramente sacro.
Non è un’opera filologica quella del Percy. Ma, nella stessa
Inghilterra, non avviò egli quella ricerca, cui contribuirono
in primo luogo David Herd con le sue Ancient and Modern
Scottish Songs, che furono pubblicate nel 1776, e
soprattutto lo stesso Ritson con le sue numerose raccolte
che vanno dal 1783 al 1795? Né le Reliques furono di
stimolo soltanto agli studiosi. Grande infatti fu
l’impressione che esse suscitarono fra i poeti del tempo. E
il Gosse ben a ragione potè dire che esse aprono addirittura
un’era nuova non solo nella letteratura inglese, ma anche
in quella europea.
Le Reliques appunto per questo vanno considerate come
l’espressione di un gusto, il quale, se da una parte si
rivolgeva verso la poesia popolare come a una vera poesia,
dall’altra tendeva ormai a valorizzare tutto ciò che era
creduto antico e popolare. La poesia popolare è una fonte
cui possono ricorrere i veri poeti. E l’insegnamento, prima
che il Romanticismo lo firmasse come canone, veniva allora
anche da un grande poeta inglese, dal Burns, la cui poesia
si era, per così dire, abbeverata a quella fonte.
L’Eckermann, in uno dei suoi colloqui col Goethe, ha in
proposito una pagina bellissima:

«Prenda ora Burns. Perché egli riuscì grande se non perché le vecchie canzoni
dei predecessori vivevano nella bocca del popolo, e furono cantate, per così
dire, presso la sua culla; se non perché da ragazzo crebbe fra quelle canzoni e
visse in sé quei modelli eccellenti, ed ebbe in esse un fondamento dal quale
potè muovere e progredire? E anche: perché riuscì egli grande se non perché le
sue canzoni trovarono, a loro volta, nel suo popolo orecchie parimente ricettive,
e i falciatori e le mietitrici gliele riecheggiavano dai campi, e fu salutato nelle
osterie dai lieti compagni? Ciò dovette significare pure qualcosa…» (Colloqui
con Goethe, trad. T. Gnoli, 562, Firenze, 1947).

C’è insomma qualcosa di nuovo che viene ormai avvertito


e sentito dagli spiriti più sensibili dell’Inghilterra; e in
questo qualcosa si annida, nella sua primigenia formazione,
quel che sarà più tardi il mito stesso della poesia popolare.
E la poesia popolare, a sua volta, ecco che è qui chiamata a
rinsanguare e a rinfrescare quella poesia che popolare non
è. Il mutamento degli spiriti inoltre si rivelava persino nella
trasformazione del valore della parola gotico, che, mentre
fino alla prima metà del secolo era stata intesa come
sinonimo di barbaro in senso peggiorativo, veniva ora a
rappresentare quei tempi in cui si erano formate e
affermate queste ballate, come a esprimere un determinato
indirizzo d’arte.

8. Il posto dell’Inghilterra nella storia del Preromanticismo

È stato ed è, a nostro avviso, un errore affermare che le


esaltazioni della primitività hanno creato in Inghilterra una
moda dilettantesca. Né certo è esatto affermare che
l’Ossian e le Reliques suscitarono un interesse
esclusivamente estetico per la poesia popolare. V’è in tali
opere, che quella primitività affermarono, una polemica di
carattere nazionale e sociale che non bisogna dimenticare.
E questo carattere non si addice certo a una moda, se noi a
questa parola diamo un significato ristretto nel tempo e che
cambierà col cambiare degli umori.
E seppure l’Illuminismo del tempo con la sua ferrea
legge della ragione sembra non partecipare a questo vivo e
sentito movimento che irrompe dal passato, tanto che noi
vediamo e sentiamo uno dei suoi maggiori esponenti, lo
Hume, dichiarare che l’Inghilterra con l’Ossian ha fatto
ridere l’Europa, tuttavia si scorge l’Europa prendere
conoscenza di tutto questo fervore del passato, accettarlo,
e trarne nuove e fresche energie. L’amore per le cose
lontane, ma lontane nello spazio, quell’amore da cui gli
stessi illuministi avevano tratto tante suggestioni, ecco che
si fa in Inghilterra amore per le cose lontane nel tempo, e
specialmente per quelle leggende nordiche che sanno
creare un nuovo alone di poesia. Alla ragione filosofante si
contrappone il sentimento della tradizione.
«Il pieno diritto, – osserva il Meinecke, – di parlare di un
movimento preromantico non solo inglese ma europeo del
secolo XVII lo dà soltanto il fatto che dietro il giuoco e il
trastullo si moveva talora qualcosa che può valere
realmente come preludio all’autentico romanticismo: la
reazione dell’irrazionale contro il razionalismo gelido e la
civiltà affinata e raffinata dell’epoca». E aggiunge: «In
Francia, questi moti preromantici condussero un’esistenza
secondaria accanto all’Illuminismo imperante. In
Inghilterra si conquistarono, accanto a questo, dalla metà
del secolo in poi, un’esistenza quasi di pari diritto. Non
produssero, è vero, come lo fece la storia dell’Illuminismo,
figure della grandezza di Hume e Gibbon, ma una serie di
bellissimi ingegni medi che si diedero ad approfondire con
diletto e amore, con fantasia e sensibilità, il già evidente
vagheggiamento dei valori del passato». Conclude:
«L’Inghilterra fu comunque fino al 1765 guida e pioniera
del movimento preromantico europeo».
Di questo movimento i rappresentanti più energici sono,
a dire il vero, il Vico e il Rousseau (oltre a una serie di
ingegni che come abbiamo visto vanno dal Lafitau al
Goguet, dal Brosses al Boulanger). Ma all’Inghilterra spetta
indubbiamente questo merito: che, laddove quegli studiosi
avevano posto la loro attenzione sulle ricerche speculative,
gli Inglesi invece mettono in luce i documenti stessi cui
quelle ricerche, direttamente o indirettamente, si appel
lavano. La loro battaglia non è condotta infatti in nome
della etnografia o della filosofia. È condotta in nome della
poesia, o meglio in nome della poesia popolare.
L’Inghilterra pertanto, nel momento stesso in cui
rivalutava quella semplicità e quel sentimento che erano
stati individuati dal Macpherson nell’Ossian e dal Percy
nelle Reliques, si faceva banditrice di un nuovo credo,
mediante il quale fra l’altro non solo rivalutava la
tradizione quale essa ci appare nei suoi aspetti più
suggestivi, ma ammoniva i filosofi illuministi, insegnando
loro che il bello è un dato dello spirito e non del progresso.
E nell’apparente atmosfera dell’idillio, nell’apparente
giuoco della ricerca del proprio passato, essa preludiava
allo Sturm und Drang.
9. Poesia e tradizione

1. Il «primitivo» a casa propria

All’esplosione dello Sturm und Drang, che dalle


tranquille rive dell’Inghilterra si spostava verso il cielo
della Germania, contribuì soprattutto una piccola nazione
attorniata da culture diverse e che a quelle culture
partecipò con una sua ansia di rinnovamento: la Svizzera.
Era stato un inflessibile e austero cittadino di Berna, un
discepolo del Saint-Evremond, Béat-Louis de Muralt, non
solo ad annunziare nelle sue celebri Lettres sur les Anglois
et les François (dalle quali poi prese in parte le mosse il
Voltaire nelle sue Lettres dedicate appunto agli Inglesi) la
grandezza nascente dell’Inghilterra, che egli opponeva alla
crescente decadenza della Francia, ma anche, e
soprattutto, a indagare il carattere e l’individualità del suo
paese, di cui esaltò le origini.
In tal modo, se da una parte il Muralt si mette su quella
via che già da lungo tempo, e in special modo durante il
Rinascimento, aveva portato i filosofi e gli storici a
considerare il carattere dei popoli – l’affermazione che le
sue Lettres si debbano considerare come il primo e il più
famoso esempio dedicato ai caratteri di vari popoli non ha
alcun senso –, dall’altra egli si pone sullo stesso piano di
quegli aulori che, nella speranza di ravvisare quel
carattere, avevano messo a raffronto l’Europeo col
selvaggio, il Francese con l’Egiziano o col Persiano, come
in quegli anni avevano fatto appunto il barone de La
Hontan, il Marana e lo stesso Montesquieu. Con questa
differenza: che nel Muralt lo studio dei caratteri dei popoli
diviene già coscienza dell’unità dei popoli, mentre il mito
del buon selvaggio gli serve per foggiare il mito delle
origini del suo paese. Insomma laddove era chiamato in
sede polemica il selvaggio e l’Europeo, l’Egiziano e il
Francese ecc., ora, pur sempre di contro alla Francia,
vengono chiamati gli Inglesi e gli Svizzeri. Non è
necessario percorrere i mari, internarsi fra gli Indiani
d’America o i selvaggi in genere, riscoprire l’Egitto o la
Persia, per dare una lezione alla Francia. E con essa ai suoi
miti. Basta guardarsi attorno.

2. Muralt e Haller
Alle Lettres, che apparvero per la prima volta nel 1727, il
Muralt aggiunse una Lettre sur les voyages, che sembra sia
stala scritta alcuni anni prima. Bene, in quella Lettre (che è
un po’ la chiave stessa delle Lettres), egli non solo deplora
l’influsso che la moda francese comincia a esercitare sugli
animi degli Svizzeri, ma pospone la raffinata civiltà
francese alla civiltà conladina del suo paese, a quella
civiltà, cioè, in cui predomina una mentalità che è rimasta
fedele alle sue montagne, e quindi alle sue tradizioni. La
Svizzera, la sua Svizzera, non conosce i morbi della
Francia:

«Sembra che la Provvidenza che governa il mondo abbia voluto che tra le
nazioni ve ne fosse una dritta e semplice. Essa ha voluto ricompensare in noi un
resto d’ordine, conservato alla vista di tutta la terra, un carattere perduto tra le
nazioni opulente e voluttuose… Una felice oscurità, un genere di vita lontano
da ogni ostentazione e mollezza ci dovrebbe attaccare alle nostre montagne».

Il Muralt tuttavia non si contenta di anteporre


all’Illuminismo nascente il senso di una felice oscurità, che
è quello delle tradizioni avite e delle vecchie libertà, ma va
oltre:

«Da quando l’uomo ha perduto la propria occupazione e la propria dignità, è


andata perduta altresì la conoscenza di quel che lo concerne; e nel disordine in
cui ci troviamo, non sappiamo in che consistano la nostra occupazione e la
nostra dignità. Poiché soltanto l’ordine può procurarci tale conoscenza, io
penso che ci sia un solo mezzo di restare nell’ordine: seguire l’istinto che è in
noi, l’istinto divino che è forse quel che solo ci resta dello stato originario
dell’uomo, e che ci è stato lasciato per ricondurci a esso. Tutti gli esseri viventi
a noi noti hanno ciascuno il proprio istinto, che non li inganna. L’uomo, che è il
più elevato tra tutti, non avrà il proprio, che si estenda su tutto il suo carattere,
e che sia altrettanto sicuro che esteso?»

Non era possibile, osserva in proposito l’Hazard, far


risentire più chiaramente, ancor prima che risuonasse la
voce del Rousseau, il ritorno al primitivo. Ma quel primitivo
irrazionale che cosa è, che cosa vuol essere per il Muralt,
se non un anelito a sentire la propria nazione con tutto ciò
che ne forma o ne deve formare il suo carattere originale?
Da qui il collegamento che egli fa delle antiche tradizioni
con le sue montagne. Da qui il concetto stesso di tradizione
collegato a quello di nazione. Né è senza significato che tre
anni dopo la pubblicazione di quelle Lettres sia uscito il
poemetto Die Alpen di un altro patrizio di Berna, Albrecht
von Haller. Commenta l’Antoni: «Che Haller fosse sotto
l’influenza del Muralt è indubbio. Egli aveva letto poco
prima le Lettres… Però, a differenza del suo maestro, egli
scrive in tedesco, nella lingua che solamente da alcuni
anni, un altro Muralt, Johannes, aveva preso ad adoperare
per modesti scopi letterari ed insieme sociali. All’idea del
«carattere» nazionale si aggiunge, come elemento
integrante, quella della lingua… L’appello del moralista al
ritorno alle prische virtù, alla sobria e felice vita dell’antica
nazione, si allarga nelle Alpi a principio universale: la
civiltà corrompe gli uomini e l’innocente vita dello stato di
natura è la vera felicità. Ma il motivo idillico provoca, nel
clima del secolo filosofico, degli echi in profondità. L’idea
del felice stato di natura, della virtù impressa nei cuori
dalla saggia e benefica legislatrice, si rivela ben più
essenziale della mera nostalgia di Arcadia. È la negazione
dei vecchi dogmi cristiani, della Caduta e della Grazia, la
nuova etica d’una virtù e d’una felicità terrene, sgorganti
dalla stessa natura umana». È il trionfo insomma, ancora
una volta, del mito del buon selvaggio (che è divenuto
ormai uno stimolo poetico in Haller, così come più tardi
sarà stimolo filosofico-politico in Rousseau che era
anch’egli uno svizzero, attaccato, come abbiamo visto, alle
sue montagne e alle sue tradizioni).
Lo Haller, come il Muralt, ricerca dunque il primitivo a
casa sua, fra i contadini e i pastori, nei quali si rispecchia
l’anima stessa della natura con le sue albe e i suoi tramonti.
Viaggiando tra gli alpigiani, egli aveva più volte esclamato:
«o popolo felice, che l’ignoranza preserva dai mali...» Ed
egli sente il fascino dei suoi luoghi con l’anima semplice di
un contadino. La sua mitologia è lì, fra quelle montagne
casalinghe che sono i pilastri stessi della natura, della
libertà e della felicità:
«Oh! ciechi mortali che fino alla tomba l’avarizia, l’onore e la voluttà
trattengono con vane lusinghe, che avvelenate con sempre nuove cure e vane
fatiche il dono esattamente contato dei brevi giorni, che sdegnate la quieta
felicità di una mezzana fortuna e più esigete dal destino che la natura non esige
da voi e che vi fate un bisogno delle brame della follia. Oh! credetelo, non è già
il nastro di un ordine che rende felici; nessun gioiello di perle fa ricchi! Mirate
un popolo spregiato, tutto allegro nel lavoro e nella povertà. La ragionevole
natura soltanto può fare felice».

E lo Haller canta appunto questa mitologia, quasi


interpretando il pensiero del Muralt, che nella Lettre sur
les voyages faceva appello a «un genere di vita lontano da
ogni mollezza», che «ci dovrebbe attaccare alle nostre
montagne». Il suo poemetto Die Alpen, comunque, non è
soltanto il canto rivolto all’ideale e felice stato di natura. È
la glorificazione di un popolo la cui natura è in parte una
forma stessa del suo carattere. È l’inizio di una nuova
poesia. Ma quella poesia gli Svizzeri la cercavano anche
altrove. E la trovarono.

3. Bodmer e il folklore della Svizzera

Nel porre la sua attenzione alle vecchie libertà locali, il


Muralt s’incontrava ancora una volta con gli Inglesi in un
comune desiderio: quello di rivalutare il Medioevo, che
anche per gli Svizzeri era l’età eroica. Il che significava in
fondo ravvivare quelle ricerche infondendo loro un ideale
storiografico. Ma questo carattere non è il centro da cui
muove, ad esempio, un altro grande Svizzero, Jakob
Bodmer?
Ancor prima che uscissero le Lettres del Muralt, il
Bodmer, in collaborazione col Breitinger, aveva fondato un
giornale, i «Discourse der Mahlern», il quale si proponeva
di seguire l’esempio che l’Addison aveva dato
all’Inghilterra col suo «Spectator». Nei «Discourse» (che
poi come lo «Spectator» furono raccolti in volume) i
compilatori infatti volevano intrattenersi soprattutto «sulle
diverse specie di conversazioni, sui vestiti, su ciò che i
signori, i borghesi, i cittadini, le donne hanno per
divertimenti, sulle cerimonie di fidanzamenti e di nozze, sui
riti che si osservano nelle sepolture…» E man mano essi
illustravano queste cose con un gusto del particolare,
dell’inedito, che ricorda Bayle o Fontenelle (per quanto
diverse fossero le loro mire).
I «Discourse» uscirono tra il 1721 e il 1723. Ma l’attività
del Bodmer assunse in seguito un respiro più largo. Nel
1727, due anni dopo cioè la pubblicazione delle Lettres del
Muralt, egli fondò a Zurigo una società di storia patria, la
Helvetische Gesellschaft, la quale, una delle prime se non
la prima del genere, pubblicò una serie di fonti, curando fra
l’altro il Thesaurus Historiae Helvetiae. Promosse più tardi,
col fedele Breitinger, la Helvetische Bibliothek. Nel 1739
uscirono i suoi quattro volumi di Historische und kritische
Beiträge zu der Historie der Eidgenossen. Ma a che cosa
mirano queste sue ricerche, le quali rievocano in piccoli
quadri quella civiltà contadina che era stata idealizzata dal
Muralt e cantata dallo Haller?
Convinto com’è che uno storico debba pensare anche alla
vita e alla storia dei contadini, «perché sono essi i soli, cui
la natura confidi il suo linguaggio», nei «Discourse» il
Bodmer, parlando degli Svizzeri, esclama con lo stesso
impeto del Muralt e dello Haller: «Che maniere selvagge
ma naturali! Che contadini, ma quanto magnanimi! Che
gloria, che magnificenza!» E questa gloria, questa
magnificenza il Bodmer la ricerca in quelle che allora si
chiamavano le Antiquitates locali e che venivano studiate
un po’ dappertutto.
Erano state illustrate, come abbiamo visto, in Inghilterra
ad opera del Browne e del Brand. Le avevano illustrate
nella Francia il Thiers e il Le Brun. Da qualche anno, prima
cioè che uscissero i Beiträge del Bodmer, le veniva
illustrando in Italia il Muratori. Ma quale fu
l’atteggiamento del Bodmer rispetto alle sue Antiquitates?
Da quale pietas egli era mosso nel giudicarle e farne
elemento e monumento di storia, o meglio di storia
nazionale? E fino a quale punto le sue ricerche possono
veramente interessare la storiografia del folklore? Le
ricerche di un Browne, di un Thiers, di un Le Brun non
erano uscite in fondo dal campo dell’erudizione, anche se,
come quelle del Le Brun e del Thiers, erano animate da un
interesse religioso (cattolico). Più distaccato il Brand, il
quale di fronte alle tradizioni del suo popolo aveva assunto
un atteggiamento, direi, contemplativo. Di ben altra natura
invece erano state le ricerche del Muratori, anche se questi
relegava le ricerche compiute nelle sue Antiquitates nel
campo di quell’erudiziene che egli animava del suo «buon
gusto» che molte volte, anzi il più delle volte, è gusto
filologico-storico. Ed è al Muratori che si attacca il Bodmer.
Anche lui nelle ricerche intese a illuminare il folklore del
suo paese parte dai documenti archivistici. Anche lui si
avvale di vecchie cronache e di vecchie pergamene. Ma egli
nei riguardi di quelle Antiquitates ha un atteggiamento che
non è quello contemplativo del Bodmer o quello storico-
erudito del Muratori. La contemplazione dei vecchi
costumi, delle vecchie usanze, delle vecchie libertà del suo
paese è e diviene in lui un principio politicamente attivo. Le
Antiquitates in genere, e le costumanze in ispecie, sono le
colonne stesse su cui si regge il passato del suo paese.
Sono le colonne su cui deve reggersi il suo avvenire. C’è
qui, in lui, il futuro Rousseau delle Considérations sur le
gouvernement de Pologne. Ma ci sono soprattutto dietro le
sue spalle Muralt e Haller.

4. Poesia e sentimento nazionale

Non meno appassionanti sono le ricerche del Bodmer


dedicate alla poesia (che è poi la sua attività più apprezzata
e conosciuta). È noto, ad esempio, che il suo Von dem
Einfluss und Gebrauche der Einbildungs-Krafft, scritto nel
1727 in collaborazione del Breitinger, se da una parte
risente dei saggi che l’Addison aveva scritto sullo
«Spectator» intorno ai piaceri dell’immaginazione, dove
egli sosteneva il ritorno alla natura che in lui altro non
voleva essere se non il ritorno alla sincerità poetica,
dall’altra si rifà all’insegnamento di un Muratori, di un
Gravina e di un Calepio, i quali avevano dissertato sui
diritti di quella fantasia che gli illuministi volevano regolata
dalla ragione. Ma quel lavoro, il quale peraltro rivelava una
violenta polemica contro il Gottsched, fermo alle regole
aristoteliche e ai modelli francesi, che cosa rappresenta per
il Bodmer se non un’evasione nel campo dell’estetica
(parola questa che qualche anno dopo sarà adoperata per
la prima volta dal Breitinger), per affermare i diritti di tutto
ciò che è «originale» e che è «caratteristico», di
quell’originale, insomma, e di quel caratteristico che egli
aveva trovato nelle usanze paesane che sono il modello
stesso della semplicità e della natività?
Da qui evidentemente la idealizzazione che egli faceva di
poeti come Omero, come Dante ecc., in cui ravvisa, sì, una
semplicità e una natività di ispirazione, ma di cui faceva i
rappresentanti di una età eroica. E quei poeti egli non solo
li immette nella storia del loro tempo, ma li considera come
forze operanti nella vita delle loro nazioni. Anche egli, così
come Vico, ritorna alla età della fiera e virtuosa barbarie. È
qui anzi, su questo terreno, che la sua concezione, la quale
ha l’addentellato più diretto nel Blakwell, lo porta, come è
stato ben osservato, a capovolgere l’orgoglio illuministico.
Il Bodmer, così come aveva congiunto le usanze paesane
con la storia di una nazione, estende ora quel concetto alla
poesia. Anche la poesia fa parte integrante della storia di
una nazione. E ogni nazione deve riconoscersi nei suoi
poeti. Ma Dante e Omero, così intesi, lo portano oltre. Nel
’32, infatti, egli traduce Milton, di cui più tardi nella sua
Kritische Geschichte des Verlorenen Paradieses, che è del
1754, non esita a scrivere:

«Nei moti che la nazione inglese provocò contro Carlo I, Milton si dimostrò un
avvocato di tutti i generi di libertà, della libertà religiosa, della libertà
domestica e della libertà civile, per mezzo di molti scritti, che diede alla luce in
loro difesa… Era in tutto un repubblicano, e pensava della cosa pubblica come
un greco o un romano, dei quali aveva perfetta conoscenza».
5. Le scoperte del Bodmer

Ma le sue grandi scoperte sono ben altre: sono il Parsifal,


il Minnesang e i Nibelunghi. È vero che egli si appassionò
anche alle Reliques del Percy, che tradusse, sia pure senza
individuarne il carattere, e dove vedeva riflettersi l’ideale
di quel fiabesco che egli aveva messo a fondamento della
sua estetica. Ma egli era soprattutto portato all’epopea. In
quella stessa Svizzera dove il ginevrino Mallet elogiava il
mondo nordico dell’Edda e della mitologia scandinava,
rievocandolo brillantemente nell’Introduction a l’histoire de
Dannemarc, che è del 1755, o nei Monuments de la
mythologie et de la poésie des Celtes, che sono del 1756 (e
che nel 1770 furono tradotti in Inghilterra dallo stesso
Percy sotto il titolo di Northern Antiquities), il Bodmer si
rivolge al Parsifal, al Minnesang e ai Nibelunghi come ai
testi di una vera poesia, dove egli non solo trova una
evasione dalle regole dettate dal Gottsched, ma anche un
senso austero e solenne della vita che fa tutt’uno con la
semplicità e la sincerità del dettato. Il Bodmer era convinto
inoltre di trovare in quei testi i documenti di una antica
poesia che è il riflesso della rivolta dei tedeschi, onde
«scuotere il giogo di Roma, nel pieno e illimitato
sentimento della libertà, nell’autonomia dei piccoli Stati di
allora, nel violento spirito guerriero, per cui anche il
linguaggio aveva dovuto esprimere sentimenti forti e
ardimentosi».
Il Bodmer sentì odore di falsità davanti all’Ossian; ma
quando egli, quasi concludendo la sua difesa sui rapporti
fra poesia e nazione, affermava che i Nibelunghi sono
l’Iliade tedesca, non precorreva di alcuni anni lo stesso
Macpherson nel concepire come nazionale l’antica poesia
del proprio paese? La poesia per il Bodmer è insomma lo
specchio stesso dei costumi. Da qui il suo valore storico.
Ma è anche il patrimonio sacro di una nazione. Né diversa è
in fondo l’opinione di Justus Möser, quando, esaltando la
poesia del Minnesang, lamenta che purtroppo in
quell’epoca la Germania si sia messa a imitare i poeti
stranieri, dimenticando le sue stesse fonti. Né il Möser è da
meno nel sentire il fascino delle tradizioni popolari, anche
se egli non provi mai un abbandono, ad esempio, per la
poesia e in genere per la letteratura popolare. Egli fa sua la
polemica degli Svizzeri. E la sua Svizzera sarà però la
Westfalia.

6. L’opera storiografica del Möser

L’opera cui è maggiormente collegato il nome di Justus


Möser è indubbiamente la sua Osnabrückische Geschichte,
che è del 1768. In essa l’autore non esalta il Medioevo
cavalieresco, ma le autonomie locali poggianti sulle
comunità rurali, nelle quali la consuetudine ha valore di
legge. Anche il Möser, commenta in proposito l’Antoni, è
come i suoi predecessori svizzeri, «un patriota», anche lui
vuole difesa l’originalità del carattere nazionale dalla moda
francese; anche lui è un campione delle antiche libertà
contro ogni dispotismo. L’advocatus patriae ha l’occhio
rivolto ai contadini della sua Westfalia, le cui condizioni
«erano diverse da quelle dei servi della gleba dei grandi
latifondi delle regioni orientali», poiché essi «erano
proprietari, semiproprietari, affittuari». E qui, fra questi
contadini, egli non solo vede la chiave della storia tedesca,
che ravvisa nell’istituto terriero fondamentale, nel mansus,
e che gli si dispiega in modo che l’homo œconomicus
partecipa della «gloria della nazione», ma sente l’umanità
stessa, la quale deve essere preservata dal razionalismo
invadente. E quella umanità è il centro delle sue ricerche
intese a far luce sulle «antichità tedesche», finché essa gli
appare nelle sue stesse fonti, vale a dire nella sua purezza
originaria, per quanto in tale costruzione non poche volte la
storia gli appaia come una continua decadenza.
Si spiega pertanto la difesa continua e appassionata che
egli fece sempre di quelle tradizioni dove ravvisava la
purezza stessa della storia. Né questa difesa, come del
resto quella del Bodmer, era soltanto rivolta alla ricerca
dello spirito originale del suo popolo. Era anche difesa
dell’arte tedesca. Nei suoi saggi editi nel «Hannöverisches
Wochenblatt» e poi riuniti in volumi nel 1747 sotto il titolo
Versuch einiger Gemälde der Sitten unserer Zeit, vi sono
già in nuce queste sue convinzioni, alimentate in parte dai
«Discourse» del Bodmer e Breitinger. Due anni dopo,
nell’introduzione dell’Arminius, egli non solo ci dà un
vivace e colorito excursus sulla Germania di Tacito, non
solo deplora che siano stati i ceti più alti germanici ad
accogliere la moda romana, ma afferma che i rudi
protagonisti di quel libro non sono morti, perché essi
rivivono nei contadini basso-sassoni, in quei contadini, cioè,
che i suoi predecessori avevano idealizzato e che egli aveva
imparato a conoscere e ad apprezzare giorno per giorno
nella sua città natale, a Osnabrück, dove faceva l’avvocato.
Vi sono nel Möser, come negli Svizzeri, dei forti interessi
di carattere estetico. Nei Gemälde egli confessa di aver
prediletto la poesia di Haller, ed esalta la nobile semplicità
della vera e grande poesia. Nel suo Harlekin, che è del
1761, rifiuta la semplicistica estetica dell’imitatio naturae.
Nei Gemälde è la prima presa di posizione contro le regole
della poetica francese. E l’Harlekin non è, e non vuole
essere, appunto una risposta, oltre che al Gottsched, a quel
Voltaire cui egli anni prima aveva indirizzato una Lettre sur
le caractère du Dr. Luther et sa reformation? È noto che il
Gottsched voleva che le maschere fossero bandite dal
popolo. È noto che il Voltaire voleva che fossero bandite
dalla tragedia. Il Möser parte invece da questa premessa:
«anche negli antichi usi popolari vi sono degli elementi
comici e grotteschi, onde non può essere ammesso, come
volevano le regole illuministiche, bandire il rozzo buffone
dalle scene, dove peraltro aveva avuto un posto di onore».
Ma al di là di tale premessa c’è nel suo Harlekin
un’affermazione categorica, precisa, e cioè che salvando
dal razionalismo, quale esso sia e dovunque esso sia, la vita
dei contadini, si salva con essi la ricchezza stessa di tutto
ciò che può essere una vita spontanea vissuta al contatto
della natura.
La difesa delle maschere è nel Möser la difesa stessa del
popolo, al quale (egli aggiunge in un altro suo Schreiben an
dem Herrn Vicar in Savoyen, indirizzato nel 1765 al
Rousseau) bisogna avvicinarsi con lo scopo di intenderlo e
di comprenderlo, perché non v’è un solo uso che non abbia
ragione di essere. Il Möser riconosce che al popolo sia
necessaria una religione, tanto è vero, dice, che ogni
fondatore di società ha dovuto «prendere un Dio in aiuto, o
fornicare con una dea; far ingravidare sua madre da un
Ercole e far cadere le sue leggi dal cielo; e abbattere a
colpi di fulmine gli insorti». E par quasi di sentire in lui la
voce di Voltaire. Ma subito dopo aggiunge: «La religione è
una politica, la politica di Dio nel suo regno tra gli uomini».
E ancora, quel che più conta, osserva che, giudicando così
la religione, bisogna accettare le superstizioni popolari, i
miracoli, gli spettri. Egli non vuole essere, e lo dice
espressamente, un teologo; vuole essere un giurista che
difende il suo popolo con le sue superstizioni, coi suoi
miracoli, coi suoi spettri. Il che a volte serve anche a
portarlo lontano fra gli usi degli altri paesi, onde egli,
mettendo a profitto le relazioni dei vecchi cronisti o dei
viaggiatori, non esita a giustificare le pene più atroci, come
l’annegamento nel sacco, cui le infanticide erano
condannate «dai nostri antenati che non giudicavano
secondo teorie, ma si facevano guidare dall’esperienza».
Da qui la relatività stessa delle istituzioni. Nell’Harlekin
il Möser osserva che «la natura genera forme inesauribili
con cui prodiga i suoi incanti agli occhi bramosi; e i costumi
e le passioni sono altrettanto molteplici quanto i diversi
volti degli uomini». E nelle Patriotische Phantasien che
uscirono prima nel 1766 negli «Intelligenz-blätter» della
sua città e che poi nel 1784 furono raccolte dalla figlia,
aggiunge, quasi a esemplificare, che «da quando Voltaire
ha trovato ridicolo che un tale avesse perduto un processo
secondo il diritto di un villaggio, mentre lo avrebbe
guadagnato secondo quello di un vicino», d’allora fu data
via libera «al dispotismo che vuol tutto costringere secondo
poche regole». Si aggiunga che in queste Phantasien,
ammiratissime da Goethe, vi è una descrizione della casa
dei contadini della Westfalia che è uno dei più importanti
documenti folkloristici del tempo.
È la difesa degli usi che sta a cuore al Möser, cui si
potrebbe obiettare tuttavia che egli, nel combattere il
razionalismo, non si accorgeva che, dando una ragione a
tutte le forze irrazionali, ne limitava la loro funzione nello
svolgimento storico. Al Möser spetta tuttavia questo merito,
che è poi la novità stessa della sua opera di folklorista e di
etnografo: di aver visto nella variopinta varietà delle
tradizioni popolari una loro unità.

7. Müller e il colore locale

Su un altro piano di quanto non siano il Bodmer e il


Möser, i quali hanno molti punti in contatto, anche se
diverso è il loro concetto di nazione, è uno storico svizzero:
Johannes Müller. Egli sentirà infatti quel che il Bodmer e il
Möser non sentirono: e cioè il fascino della letteratura
popolare. Si potrebbe dire che tutto ciò che il Bodmer e il
Möser videro in funzione di un’epica o meglio di un’epopea,
il Müller lo vide in funzione di una epico-lirica. Le sue
Geschichten der Schweizer, di cui la prima edizione uscì
nel 1780 (mentre la seconda edizione completamente
rifatta comparve in più volumi dal 1786 al 1808), non solo
sono la esaltazione della sua terra, ma costituiscono una
rievocazione pittoresca, un affresco paesano, dove ci sfila la
vita dei cavalieri e dei contadini dei secoli XIV e XV. Sembra
davvero che qui prenda corpo una acuta osservazione del
Möser: e cioè che nell’antichità medievale la Svizzera aveva
fuso insieme il cavaliere e il contadino. Ma siamo anche qui
davanti a un contadino che è insieme piccolo proprietario o
artigiano, e vive nella libertà dei comuni proprietari-
fondiari. Senonché, mentre il Möser era e rimaneva un
giurista anche nelle sue rievocazioni pittoresche, onde egli
finiva sempre col trattare con un linguaggio giuridico le
stesse questioni di carattere estetico, il Müller fu
virtualmente un poeta che rivisse, con senso commosso, le
tradizioni del suo paese.
Nel rievocare in modo pittoresco le libertà svizzere, nel
porre la sua attenzione sulla validità delle tradizioni
popolari e sulla loro conservazione, anche se il tempo possa
cambiarle, il Müller adopera un linguaggio che ricorda
quello del Rousseau. Il Müller vede l’unità stessa della
Svizzera nello sviluppo dei singoli Cantoni. Con questa
aggiunta forse: che essi sono passati attraverso il mondo
del suo Mallet, per ritornare ad essere quel che il Muralt li
immaginava: gli Svizzeri-selvaggi (ma selvaggi nel senso
che a questo termine avevano dato i missionari e i
viaggiatori).
Dalle pagine del Müller, che ha fuso questi miti, escono
intanto le narrazioni più pittoresche e le leggende più
avventurose. La sua storiografia ha una base: la leggenda.
Ma quella leggenda è vissuta in funzione di verità. Ecco
perché a volte noi dimentichiamo in lui lo storico e
scopriamo uno scrittore il quale, se pur arcaicizza la
Svizzera, ce la presenta con quel suo colore locale che ce la
rende calda e appassionata. Qui è il segreto stesso della
sua «sublime poetica antiquaria», come ben la definì in un
frammento dell’«Athe-naeum» lo Schlegel.
Nelle sue Conversazioni con Goethe, l’Eckermann
ricorda quel che gli narrò Goethe, dopo aver visitato la
Svizzera:

«Io visitai… i piccoli villaggi intorno al lago dei Quattro Cantoni: e quella
natura piena di incanti, di magnificenza e di grandiosità mi fece nuovamente
una tale impressione, che mi sedusse l’idea di rappresentare in un poema la
verità e la ricchezza di quell’impareggiabile paese. Ma per conferire alla mia
rappresentazione più attrattiva, interesse e vita, giudicai bene di animare
quello sfondo e quel suolo altamente significativi con figure umane di
altrettanto significato, e mi venne in mente la leggenda di Guglielmo Tell come
quella che appunto mi ci voleva. Io immaginai Tell come un eroe umano di una
forza originaria, tranquillo in sé e fanciullescamente inconsapevole, il quale,
come portatore di carichi, va da un cantone all’altro, dovunque conosciuto,
dovunque amato e soccorrevole, dovunque pieno di affetto per la moglie e per il
figliuolo, senza badare affatto chi sia il padrone e chi il servo» (Colloqui cit.,
514-515).

Questa era la Svizzera del Müller, nel quale le


Antiquitates si erano colorite col gusto e col sapore di una
leggenda, dove, come nella realtà, era necessario «vivere e
morire liberi con onore». È noto che il dramma progettato
dal Goethe fu compiuto dallo Schiller, il quale, come egli
stesso ricorda, si avvalse per il suo dramma dello stesso
Müller. E quel dramma cosa sia stato e cosa rappresenti, ce
lo dice il De Sanctis, quasi ricordandoci quel che il Goethe
aveva detto della Svizzera, quando afferma che in esso
«tutto è Svizzera, tutto è colore locale», mentre «la
congiura non è in uno solo, ma è in tutti; e Tell non è
semplice cospiratore ma espressione del popolo», tanto è
vero che «quel che vuole lui lo vogliono tutti». Bene: quel
che il De Sanctis dice del Guglielmo Tell dello Schiller noi
potremmo dirlo appunto delle Geschichten schweizerischer
Eidgenossenschaft (cioè la seconda edizione delle
Geschichten der Schweizer), dove, com’è noto, la scuola
romantica trovò una serie di fatti patetici.
8. La mediazione della storiografia svizzera nella storia del
folklore europeo

Così, dunque, dal 1726 al 1780 assistiamo tanto nella


Svizzera (francese e tedesca) quanto in Germania a una
presa di posizione, la quale ha interesse non soltanto per i
valori che media nella storia della storiografia, ma anche, e
soprattutto, per l’importanza che assume nella storia del
folklore. I miti che abbiamo visto prorompere dall’anima
inglese trovano infatti nel Muralt, nel Bodmer, nel Möser e
nel Müller interpreti vivi e appassionati. Con questa
differenza: che essi, se pur sentono, come gli Inglesi, il
potere delle virtù nazionali, animano quei miti in nome
dell’etnica tradizionale, di cui cercano, in un modo o
nell’altro, di fare la storia. È con essi peraltro che dalle
ricerche dedicate alla poesia popolare o consacrate con
gusto erudito alle Antiquitates passiamo a una vera e
propria indagine storica, che non è da meno di quella
ingegnosissima di un Voltaire, di un Hume, di un
Robertson. Ecco perché la mediazione dell’Inghilterra non
serve soltanto alla Svizzera come elemento di contrasto. Gli
Svizzeri e il Möser si oppongono insomma a un’etica che
era quella dello spirito francese, di quello esprit che
consisteva, come dice il Muralt, nell’arte di far valere delle
bagatelles; ma si oppongono anche a un’estetica, che era
quella del Boileau e del Gottsched, fatta appunto per
valorizzare un mortificante accademismo.
Nel 1739 il Gottsched scriveva al Bodmer: «Sembra che
gli Inglesi stiano per cacciare dalla Germania i Francesi.
Potrebbe darsi purché non si radichi per essi una stima così
cieca quale domina per i primi presso tutta la nostra gente
di corte e i grandi signori». È noto infatti che nella placida
Germania settecentesca, nelle cui innumerevoli corti
principesche impera la moda di Versailles, le grida che
provengono dalla Svizzera scuotono la gioventù tedesca. È
noto inoltre che il re di Prussia scrisse il celebre saggio,
edito nel 1780, De la littérature allemande, dove erano del
tutto dimenticati i nomi di un Klopstock e di un Lessing,
che invece erano così cari al cuore di Bodmer. Bene:
scenderà in campo contro di lui il Möser in nome, appunto,
dell’arte tedesca. Era stato Goethe a salutare nello Haller il
primo poeta nazionale. Il Bodmer, quasi alla fine della sua
vita, in una lettera indirizzata al Gleim aveva scritto: «Nel
fiore dei miei anni la poesia non c’era! Poi essa nacque
sull’istmo dell’età di Saturno! Hagedorn, Gleim, Klopstock
vennero, e con loro l’età dell’argento: poi la primavera di
una età dell’oro!». E ora ecco il Möser: «Un linguaggio
poetico non l’avevamo quasi affatto e non lo avremmo, se i
valorosi Svizzeri non avessero vinto Gottsched». Haller,
continua, fu il primo poeta tedesco, e accanto a lui pone
Gleim, Klopstock, Wieland (vale a dire i discepoli del
Bodmer).
Il Möser, più che a Milton come il Bodmer, guarda a
Cervantes e a Shakespeare, mentre Omero gli dà
l’impressione di «scendere in bettola», come egli stesso
aveva fatto a Londra. Ma, quali che siano le sue preferenze,
anche a lui, come al Bodmer, è il sentimento nazionale che
sta a cuore. Con lui la letteratura tedesca si fa nazionale.
Né era solo la letteratura a farsi nazionale. Con Muralt, con
Bodmer, con Möser e con Müller si fa nazionale anche il
folklore, la tradizione popolare, la vita popolare, ravvisata
in quel che essa ha di suo, di caratteristico, di particolare.
In tal modo, mentre risuonano le voci nazionali di un
Lessing, di un Klopstock, di un Wieland e mentre la
Germania si va unificando sul piano linguistico, ecco che si
vien facendo sempre più urgente e imperiosa la
formulazione del concetto di un’anima popolare
coscientemente nazionale. Contemporaneamente si sente
sempre più viva l’aspirazione a vagliare (e a salvaguardare)
i costumi della propria patria. S’è detto che questa idea
sentimentale abbia in fondo rinsaldato il regionalismo
tedesco. Ma si tratta di una tesi insostenibile, ove si pensi
che la tradizione popolare è un elemento vivo e fecondo
della storia, perché della storia è un fattore vivo e valido.
S’è detto inoltre che quel tradizionalismo, se pur giunge a
riconoscere il pregio delle tradizioni, lo fa, perché le trova
già morte. Ma anche questa tesi è insostenibile, perché
tanto gli storici svizzeri quanto il Möser, se pur guardano
con nostalgia alle tradizioni del passato, in cui pongono le
loro origini, non dimenticano che esse hanno una loro vita
dove sono impegnati il cuore e il sentimento,
l’immaginazione e l’umanità. Né infine va accolta la tesi
secondo la quale tanto gli storici svizzeri quanto il Möser
considerarono la civiltà contadina soltanto come una civiltà
ricettiva. Assai chiaro in proposito è anzi il pensiero del
Möser, il quale non esita ad affermare «che il contadino
afferra abbastanza rapidamente le innovazioni utili e che lo
si accusa a torto, quando si afferma che egli preferisce
lunghi anni di esperienza a proposte mal sicure. Le utili
patate si son diffuse più rapidamente dei gelsi; e finché la
coltivazione del lino gli darà buon pane, non desidererà
produrre seta per mangiar castagne».
Il fatto vero è questo: che in un’epoca in cui l’Illuminismo
considerava le tradizioni popolari come errori dello spirito
umano, gli storici svizzeri e il Möser le vedono come il farsi
stesso dell’umanità, onde l’esigenza di immetterle nella
storia e di farne il fondamento stesso del carattere
originario e fondamentale di ogni nazione. Ma c’è di più,
ove si pensi che, mentre tra gli illuministi il popolo era in
genere concepito come una moltitudine condannata
all’ignoranza e al fanatismo, gli Svizzeri e il Möser non solo
si oppongono, come gli Inglesi, alle regole e ai vincoli
d’ogni precettistica chiedendo ispirazione alla natura e alla
vita, ma diffondono per il popolo, che è insieme vita e
natura, quell’amore che era stato già vivo in pensatori
come Vico e Rousseau.
Bisogna osservare tuttavia che tanto negli Svizzeri
quanto nel Möser, il popolo, l’anima popolare, si identifica
nella nazione, in quanto questa nazione si articola in una
civiltà di contadini quale è quella in fondo della Svizzera e
della Westfalia. È noto invece, e lo ha notato egregiamente
il Meinecke, che già da tempo in Germania il concetto di
nazione aveva un significato di maggiore distinzione che la
parola popolo usata di preferenza per i più umili, per gli
strati cosiddetti inferiori delle popolazioni (il che del resto
avveniva anche in Francia, in Inghilterra e in Italia). Ed è
appunto da questo contrasto, reso ancor più vivo e acuto
dall’Illuminismo francese, che partirà lo Herder non solo
per riempire il concetto di Volk (di popolo, ceto dei
contadini ecc.) di una vita etico-sentimentale che si esprime
nei canti, nelle leggende, negli usi, ma anche, e soprattutto,
come ha ben notato lo stesso Meinecke, per fondere
l’anima nazionale del suo popolo con qualcosa che è
semplice e originaria qual è appunto la vita stessa del Volk.
Ed ecco, nel ciclo della Germania, lo Sturm und Drang.
10. Herder o dell’umanità

1. Il mito dell’anima delle nazioni

È stato giustamente osservato che lo Sturm und Drang,


se pur è permeato dei precedenti motivi, è animato da un
nuovo, possente, soggettivo ardore di vita, sia pure esso
nutrito da vecchie speranze come, ad esempio, il pietismo.
E il Meinecke, cui si deve questa osservazione, aggiunge
che appunto per questo in Germania si continuò a gettare
lo sguardo a epoche e popoli che parevano aver posseduto
un’umanità tutta fresca, naturale e indomita. Herder è al
centro di questa nuova rivolta. E la sua battaglia si svolge
su due fronti, animata com’è da due ideali: combattere da
un lato l’Illuminismo, che vedeva nelle forze della
tradizione un simbolo di ignoranza o di fanatismo, e
dall’altro la letteratura e l’arte del suo tempo che invece di
rinnovarsi andavano dietro a modelli stranieri, soprattutto
ai Francesi, che allora erano in Germania come a casa
propria. In quanto alla sua prima battaglia è ovvio
osservare che dietro di lui c’erano Vico e Rousseau, gli
Inglesi dal Macpherson al Percy, dal Blackwell al Wood, gli
storici svizzeri dal Bodmer al Müller. Si aggiunga che egli
ha di contro nel suo paese una nuova grande forza che si
veniva sempre più affermando, il Winckelmann, il quale non
concepiva e non vedeva nulla al di là della Grecia.
Senonché, gli obietterà lo Herder, per raggiungere i Greci
c’è una sola via: invece di imitarli – era il tempo in cui
solevano paragonarsi Klopstock con Omero e Gleim con
Anacreonte –, essere originali come loro. Si è detto che la
battaglia dello Herder non è rivolta soltanto contro il
classicismo, ma in particolar modo contro Roma nemica del
genere umano, il cui impero estesosi in tutto il mondo
allora conosciuto aveva tutto bruciato e inaridito. Era in
fondo, per quanto non più contenuta ma gridata, la stessa
battaglia che avevano combattuto gli Illuministi francesi,
gli Inglesi, un Bodmer e un Möser. Ma al di là di tale
polemica questo era il messaggio dello Herder: che i
Tedeschi imparassero a non essere né dei falsi Greci né dei
falsi Romani, ritornando – ed ecco Bodmer e Möser filtrati
attraverso il pietismo – alle loro origini schiette e primitive.
E qui è lo spirito dei suoi Fragmente über die neuere
deutsche Literatur, che sono del 1767 e dove egli denuncia
l’imitazione dei classici e dei Francesi come un ostacolo
allo sviluppo di una vera lingua e di una vera arte tedesca.
Nel Settecento, già da un pezzo, osserva acutamente
l’Antoni, «si parlava di spiriti e geni dei popoli, ma nessuno
si era proposto il problema della loro penetrabilità. Gli
Svizzeri avevano proclamato il dovere della fedeltà verso la
maniera di pensare nazionale, ma avevano inteso tale
fedeltà in senso politico-moralistico, come fedeltà a una
virtuosa e libera umanità. Herder sente il dovere verso la
nazione come dovere verso un dato di fatto naturale, verso
una particolarità, che, virtualmente, sovverte il
presupposto dell’etica stoica e cristiana e quindi della
civiltà dell’Occidente». Ma al di là della nazione è ansioso,
com’egli stesso dirà, di raccogliere nella sua anima lo
spirito di ogni popolo. E così, conclude l’Antoni, nasce in lui
il mito dell’anima delle nazioni in opposizione alla dottrina
illuministica dei caratteri nazionali. In questo senso: che
per lo Herder i caratteri nazionali si riempiranno, appunto,
soprattutto di quelle forze che gli illuministi avevano
inesorabilmente respinto. La sua opera, audace ed
esuberante, fatta di sfoghi e di scatti, è dedicata
soprattutto a determinare questi caratteri ch’egli considera
da due punti di vista diversi: uno nazionale e uno
cosmopolitico. Ma quale sarà in lui il legame che li unisce?
Quale il procedere della sua stessa opera? Ed egli rimase
sempre fermo nei suoi atteggiamenti?

2. Sul «primitivismo» dello Herder

Si può indubbiamente dire dell’opera dello Herder quel


che lo Hebbel disse, con acume, di una delle più suggestive
opere del Goethe, Dichtung und Wahrheit: «In principio è
un punto che adagio adagio fa un circolo, ma crescendo
finisce con l’abbracciare il mondo». E nella stessa Dichtung
und Wahrheit il Goethe, ricordando lo Herder di cui nella
giovinezza subì il fascino e con cui collaborò, dice: «Or ecco
che ad un tratto attraverso lo Herder venivo a conoscere
tutto lo sforzo e il fermento moderno e tutti gli indirizzi che
esso sembrava prendere». Ed ecco quel che c’era appunto
nello Herder: lo sforzo e il fermento moderno intesi a
tramutare per palingenesi, come gli dirà lo stesso Goethe in
una lettera a lui indirizzata nel maggio 1775, la spazzatura
della storia in una pianta viva, non «estraendo
semplicemente l’oro dall’immondizia, ma facendo nascere
dalle immondizie stesse un germoglio di vita».
In questa palingenesi il punto che adagio fa un circolo è
costituito anzitutto dal mondo dei primitivi, dei selvaggi,
che gli si apre con il fascino che egli sente, del resto, per
tutto ciò cui si può applicare il prefisso Ur, e che considera
come un punto ideale (nel che è sullo stesso piano del
Rousseau e del Vico). Nel suo paese, il Winkelmann, il
Lessing, lo stesso Schiller non si erano mai interessati di
quel mondo cui fa appello invece, fin dal 1762, il suo amico
e maestro Hamann, il quale era dell’avviso che l’uomo
originario, cioè il primitivo, possedeva soltanto i sensi, e
che quindi non poteva comprendere se non per immagini
(tesi questa che concilia Vico con Locke). Lo Herder è al
corrente di tutto ciò che era stato fatto nel campo
dell’etnografia. Ammiratore di Montaigne, egli sa bene che
i cosiddetti popoli selvaggi vanno considerati con la stessa
imparzialità degli Europei. Ma quale significato egli dà al
termine selvaggio, quando lo applica ai fenomeni artistici?
Nel Journal meiner Reise im Jahre 1769 lo Herder
afferma: «Dai piccoli popoli selvaggi, quali furono un tempo
i Greci, nascerà una nazione civile…» E sembra di sentire i
vecchi Padri Gesuiti con a capo Lafitau. Dirà inoltre, nel
1773, nel suo saggio sull’Ossian (il quale insieme a quello
su Shakespeare uscì nella miscellanea Deutscher Art und
Kunst con scritti di Möser e di Goethe), che «quanto più
selvaggio, cioè barbaro vivo e liberamente operante, è un
popolo tanto più selvaggi, cioè vivi e liberi, debbono essere
i suoi canti». E qui, ancora una volta, è il mito del buon
selvaggio che si fa mito della poesia popolare. In questo
senso: che il termine selvaggio verrà preso per animare un
concetto estetico (già pure esso sorto sul tronco
dell’etnografia). Lo Herder parte da questa premessa: che
il carattere originario dell’arte si deve ravvisare nella
barbarie. Ma quella barbarie, per lui, non è soltanto un
termine di riferimento etnologico, in quanto egli, se da una
parte ravvisa nel primitivo tutto ciò che è bello e sincero,
nel popolare ravvisa tutto ciò che è vergine e vero. Dice il
Gerbi: «Il mito di natura è ancora, palesemente, dietro
quelle due equazioni». Ma si tratta di due equazioni? O
invece l’idoleggiamento della poesia non è esso stesso un
aspetto di quell’idoleggiamento del primitivo, insegni il
Muralt, che già si è cercato a casa propria?
Si sente, insomma, nello Herder l’eco del Rousseau; ma,
come ha ben osservato il Venturi, «il primitivismo di Herder
non aveva il valore rivoluzionario del selvaggio
rousseauiano», tanto è vero che «esso tendeva
naturalmente, e man mano sempre più consciamente, a
trasporsi su di un piano che non era più sociale ma
estetico», o meglio filosofico, essendo la «sua ricerca
dell’Ur non volontà di purezza sociale, ma anzi di una
emozione sentimentale o poetica». Il fatto è che Herder può
rimanere colpito dai Discours e soprattutto dalle
Considérations. Ma il Rousseau del Contrat non lo seduce.
Anzi, lo spaventa. E di ciò è prova il concetto che egli aveva
della libertà, tanto è vero che fin dal 1765, nel suo scritto
Haben wir noch jetzt das Publikum und Vaterland der
Alten?, egli si augurava soltanto di «poter essere un uomo
onesto e di possedere in pace all’ombra del trono la propria
capanna e la propria vigna e godere il frutto del proprio
sudore, di essere l’artefice della propria felicità e
comodità».
Il potente dramma che viveva nell’animo del Rousseau si
scioglie in lui in un tenero idillio. Ma a quell’idillio, nel
quale, di contro al celebrato Sturm und Drang, affiora
un’espressione piccolo-borghese, lo Herder dà tuttavia uno
sfondo potente: il popolo, il Volk, il quale non solo è
considerato come un concetto elementare e originario, ma
è chiamato a mediare l’arte e la storia, rivissute in funzione
di loro elementi primitivi e selvaggi, in funzione, cioè, di
quegli elementi che egli ritiene come gli strumenti stessi
dell’arte e della storia, e in cui ravvisa i caratteri nazionali.
Da qui la grande importanza che in lui assumono le
religioni, i costumi, i canti. Ma soprattutto la lingua,
mediante la quale egli collega la nazione e l’umanità, e
nelle cui manifestazioni vede l’attuarsi dell’una e dell’altra.

3. Lingua e nazione
Convinto pertanto che nel linguaggio è la chiave stessa
della umanità, lo Herder si pone anzitutto un problema: che
cosa esso sia. Questo è il problema che lo appassionerà per
tutta la sua vita. Nel 1764, in un suo scritto Über den Fleiss
in mehreren gelehrten Sprachen c’è l’abbozzo di una teoria
della monogenesi linguistica. E, oltre tale abbozzo, c’è
l’intenzione di porre la lingua sul piano dei caratteri
nazionali. Le sue idee, comunque, sul problema della lingua
troveranno una più concreta sistemazione nell’Abhandlung
über den Ursprung der Sprache, premiato nel 1771 in un
concorso su tale tema bandito dall’Accademia di Berlino. In
tale saggio lo Herder affronta il problema dell’origine della
lingua, che egli fa scaturire da tutto l’essere umano come
una necessità della sua più intima natura. Il linguaggio
umano, infatti, com’egli stesso dirà:

«… non è effetto di organizzazione della bocca, perché anche colui che è muto
per tutta la vita, se riflette, ha in sé linguaggio; non è grido della sensazione,
perché esso non fu trovato da una macchina respirante, ma da una creatura
riflettente; non è cosa d’imitazione, perché l’imitazione della natura è un
mezzo, e qui si tratta di spiegare il fine; molto meno è convenzione arbitraria: il
selvaggio nella solitudine del bosco avrebbe dovuto creare il linguaggio per se
medesimo, quand’anche non lo avesse parlato. Il linguaggio è l’intesa
dell’anima con se stessa, altrettanto necessaria quanto che l’uomo sia uomo».

Eravamo in un’epoca, in cui il problema del linguaggio


costituiva, come si è ben detto, un πολυθρύλητον della
cultura europea. Erano state già preparate delle
grammatiche logiche e generali, dove predominava però
l’idea che il linguaggio fosse una cosa meccanica. Si era
discusso sulla formazione delle lingue (e avevano
partecipato soprattutto alla discussione il Vico e il Lafitau,
il Rousseau e il Brosses). Si era ripreso il problema
inerente all’origine umana o divina del linguaggio (dallo
stesso Rousseau al Monboddo). E lo Herder, ritornando su
quel problema, se da una parte dava un avvio concreto alla
filologia, dall’altra certo non si può dire che egli sia riuscito
a definire in modo nuovo il linguaggio. Si suole ricorrere al
Vico, per vedere com’egli, in fondo, sia sul suo stesso piano.
Il vero è che mentre il Vico considera il linguaggio umano
come già formato, in quanto esso è una creazione estetica,
onde linguaggio e poesia nascono contemporaneamente;
per lo Herder invece il linguaggio nasce da un’intesa
dell’anima con se stessa, nasce cioè dal bisogno che ha
l’uomo di concretare in espressioni il suo pensiero. Lo
Hamann, che di contro allo Herder riteneva il linguaggio di
origine divina, nella sua Aesthetica in nuce non aveva
esitato a collegare il linguaggio con la poesia (per quanto
egli a questa identità sia giunto attraverso il Goguet). Con
le sue stesse parole:

«La poesia è la lingua madre del genere umano, come il giardinaggio è più
antico della agricoltura, la pittura della scrittura, il canto della declamazione, le
parabole delle deduzioni e lo scambio del commercio».

Nello Herder l’uomo crea però la poesia soltanto dopo


aver creato il linguaggio. La poesia, insomma, è per lui una
manifestazione dell’uomo che cresce su se stesso. Il che
non gli impedisce, ed è qui se mai che egli si avvicina al
Vico (per quanto in ciò gli sia stato di guida il Blackwell), di
ritenere che il linguaggio nei popoli primitivi sia la forza
poetica per eccellenza, e che tale forza a sua volta si ritrovi
tanto nella poesia quanto nel canto (l’una e l’altro spesso
collegati). Ma la poesia, per essere veramente tale, non
deve essere popolare nel senso che essa – espressione
completa dell’uomo che si fa io e al tempo stesso Popolo –
rivela quel che di primitivo e di selvaggio vi è nella natura
umana? Ecco, dunque, per la prima volta affacciarsi l’idea
di un’anima collettiva, intesa a spiegare lo stesso sviluppo
letterario ed artistico. E di quell’anima collettiva ecco
l’espressione più genuina: la poesia popolare.

4. La poesia come poesia popolare

Nei suoi Fragmente, cioè fin dal 1767, lo Herder aveva


sostenuto che la poesia popolare rappresenta nel modo più
preciso il carattere di un popolo, di cui è la più alta
espressione. Questa idea venne da lui ripresa nel suo
saggio sull’Ossian. Era il tempo in cui l’Ossian cominciava a
conquistare il mondo. E l’Ossian rappresentava per Herder
l’espressione più tipica della poesia popolare che si oppone
alla poesia artificiosa. Era, cioè, una voce della natura. Si
trattava di un concetto che già gli Inglesi avevano intuito.
Ma nello Herder quella voce assume un valore apocalittico.
Egli è convinto, inoltre, che soltanto l’Ossian e i canti dei
selvaggi, degli scaldi, le romanze e i Lieder ecc. possano
portare gli stessi poeti tedeschi «su una via migliore». Né,
certo, è senza significato che nello stesso anno esce la
Lenore del Bürger.
Allo Herder che auspicava una poesia nazionale, questa
gli si identificava in quella popolare in quanto, essendo «la
parte più genuina e intatta il popolo, questo doveva essere
l’interprete autentico dell’anima nazionale». Anche il
Bürger è dello stesso avviso. Herder, inoltre, nel suo Ossian
concepisce Omero come un poeta di ballate, cioè un poeta
popolare, e seguendo l’abate d’Aubignac, che egli aveva
letto, credeva che i canti omerici fossero stati improvvisati.
Bürger ritiene addirittura che tanto l’Iliade quanto
l’Odissea siano dei poemi popolari, formatisi con la raccolta
di vecchie ballate: tesi questa, com’è noto, che sarà ripresa
dal Wolf nei suoi Prolegomena ad Homerum e dal
Lachmann nei suoi Über die ursprünglische Gestalt des
Gedichts von der Nibelungen Noth.
La Lenore vuole essere ora un avvio alla scoperta di un
nuovo mondo poetico nazionale – e al tempo stesso il primo
esempio di una poesia tedesca concepita come poesia
popolare. La Lenore esce da una saga diffusa tra i popoli
germanici e slavi, di cui il Bürger aveva udito alcuni versi.
Il Lied originario, che era documento di vera poesia
popolare, gli si tramuta in epos. Ed ecco che la sua
speranza è quella stessa dello Herder: e che cioè dalle
romanze e dalle ballate possa sorgere un’epopea nazionale.
Il che richiede delle ovvie precisazioni, ove si pensi che non
sono gli argomenti che fanno l’arte ma il modo come essi
sono rivissuti, e che l’arte non sarà mai popolare per i suoi
argomenti. La poesia popolare, insomma, può essere uno
stimolo all’artista come ritenevano gli Inglesi. Ma quello
stimolo è un punto di partenza, non d’arrivo.
Nel Bürger come nello Herder si fondevano (e si
confondevano) queste varie proposizioni. In essi, è vero, il
concetto di poesia si convertiva in quello di poesia
popolare, onde poeti popolari diventano, in quanto creatori
di una poesia fedele all’anima del popolo cui appartengono,
Omero, Dante, Shakespeare, ecc. Ma da questo concetto
non nasceva l’esigenza di rintracciare gli sparsi motivi delle
letterature nazionali e popolari, il che era un invito allo
studio stesso di tali letterature, le quali così venivano
chiamate a spezzare quell’unità culturale che un tempo era
stata tenuta dalla tradizione classica? In base al concetto di
poesia, intesa questa come poesia popolare, non solo si
veniva a distinguere la poesia dalla non poesia; ma la
poesia popolare, quella che cioè era vera poesia popolare,
si veniva a porre sullo stesso piano di quella di un Omero,
di un Dante, di un Shakespeare ecc. Cioè: se ne
riconosceva la validità estetica. Ma c’è di più: ed è (lo disse
Goethe, e nessuno poteva dirlo meglio di lui) che in quel
modo si concepì la poesia come un patrimonio che
appartiene al mondo e ai popoli e non come un privilegio
ereditario e privato di alcuni pochi raffinati e colti. La
rivolta della poesia si è trasformata in rivoluzione. E
l’esempio di Percy e dei suoi predecessori si trasforma in
grido di battaglia.

5. Voci dei popoli

La raccolta dei Lieder diveniva, in tal modo, un dovere di


carattere nazionale. Il Bürger, che aveva cara la raccolta
del Percy, aveva raccomandato ai suoi connazionali
l’impegno di salvare il patrimonio più sincero che essi
possedessero. Due anni dopo, egli in una raccolta dei suoi
poemi vi include, tradotte, alcune ballate inglesi pubblicate
dal Percy. Il Goethe, che nel Werther esalterà Ossian, il
quale nel suo cuore ha preso il posto di Omero, in una
lettera che invia nel novembre del 1777 a Charlotte von
Stein, si entusiasma per la silenziosa virtù dei contadini
dello Harz, di «questa classe di uomini che si chiama
inferiore, ma che invece per Dio è certo la più alta». Né
egli, più tardi, disdegnerà di raccogliere personalmente i
canti popolari dell’Alsazia.
Ma su queste e altrettali voci si fa sentire, potente,
quella dello Herder. Nessuno come lui sa l’importanza che
ha il canto popolare, il Lied, il vero canto popolare. E, in
proposito, fresche e originali rimangono le osservazioni che
egli ci ha lasciato, ad esempio, nel suo saggio, edito nel
1777, Von Ähnlichkeit der mittlern englischen und
deutschen Dichtkunst, sulla natura e sull’ufficio della
letteratura popolare:

«I canti popolari, le fiabe, le leggende… sono sotto un certo aspetto il risultato


delle credenze di un popolo, della sua sensibilità, delle sue facoltà, del suo
sforzo: si crede poiché non si sa, si sogna perché non si vede, ci si agita con la
propria anima, intera, semplice, e non ancora sviluppata. Vi è qui un grande
argomento per lo storico dell’umanità, per il poeta, per il critico, per il filologo.
L’antica mitologia germanica nella misura in cui essa vive ancora nella
tradizione e nei canti popolari, accolta con semplicità e contemplata con animo
sereno, sarà realmente un tesoro per il poeta e per il difensore del proprio
popolo, per il moralista e per il filosofo… Tutti i popoli non civilizzati cantano
ed agiscono; i loro canti sono gli archivi del popolo, il tesoro della sua scienza e
della sua religione, della sua teogonia e della cosmogonia, dei fatti dei suoi
antenati e degli avvenimenti della sua propria esistenza, il riflesso del suo
cuore, l’immagine della sua vita domestica, nel dolore e nella gioia, dalla culla
alla bara. Una piccola raccolta di simili canti, tolti dalle labbra di ciascun
popolo e nel suo proprio linguaggio, ben compresi, ben esposti, accompagnati
dalla relativa musica: ecco che noi daremo delle conoscenze più precise di quei
popoli del cicaleccio dei viaggiatori».

E lo Herder, com’è noto, fece di tutto per dare alla


Germania un’opera che potesse stare accanto alle Reliques.
Lo aiutarono Bürger, Goethe, Lessing. Il suo piano fallì,
perché i Lieder raccolti furono pochi e tali da non
legittimare l’opera che egli si proponeva di compiere. Ma in
cambio lo Herder ci diede, in due volumi, una raccolta di
canti popolari provenienti da nazioni e luoghi diversi. Le
nazioni maggiormente rappresentate sono l’Inghilterra con
le Reliques raccolte dal Ramsay e dal Percy e la Spagna con
le romanze tratte soprattutto dal Cancionero de Romances.
Non mancano, però, poeti che certo non sono (per noi)
popolari: come, ad esempio, il Chiabrera e il Meli che
rappresentano la poesia popolare italiana insieme a un
antico inno religioso. Né mancano con l’Ossian pagine
dell’Edda. I Volkslieder uscirono dal 1778 al 1779, e in essi
lo Herder rimane fermo al concetto di poesia popolare
intesa come poesia nazionale. Dice infatti Herder: «È fuor
di dubbio che la poesia e specialmente il Lied siano stati in
principio di tono assolutamente popolare, vale a dire lievi,
semplici, tutte cose ed espressioni nella lingua della
moltitudine comune della ricca e a tutti sensibile natura». E
tale natura gli si dispiega in quella stessa poesia d’arte,
quand’essa sa rendere con freschezza la maniera popolare.
Ecco dunque la poesia: vera e autentica voce del genere
umano. Nessuna voce gli è ignota, tutte entrano nel suo
cuore e dal suo cuore escono come una sinfonia. Si sa bene
quel che sono le traduzioni: commenti, pretesti, sfoghi; ma
le traduzioni dello Herder sono bellissime, perché quasi
sempre egli trova il tono giusto. Anche Chevy Chase
indossa abiti stranieri. E li porta bene. I Volkslieder sono
Stimmen der Völker, come li chiamerà Jean de Müller (il
quale, nel 1807, ne curò, con quest’ultimo titolo, una buona
edizione). Così, del resto, li aveva intesi lo Herder. Il che
significava che i canti, se da una parte avevano un fondo
comune all’umanità, dall’altra conservavano anche un loro
carattere. E qui, nei Volkslieder, sembravano acquetarsi le
ansie stesse dello Herder, nel quale il concetto della
nazione e del cosmopolitismo in tanto accusa la stessa
origine, in quanto lo Herder vedeva le nazioni così come
vedeva i canti popolari: come patrie, cioè, unite nel
sentimento stesso dell’umanità che tutte le comprende. E
qui è la chiave per comprendere l’opera dello Herder, il
quale, nel dare rilievo alla poesia popolare come a una voce
che sia universale (per il suo fondo) e nazionale (per le sue
varie articolazioni), metteva in moto la stessa idea che lo
aveva guidato nello studio del linguaggio, onde linguaggio,
poesia e nazione vanno da lui considerati, per usare
un’espressione del Cassirer, come un’unità che si attua
nella totalità del molteplice.

6. Voci di Dio

Nella sua Romantische Schule, Heinrich Heine osserva


che lo Herder considerava l’intera umanità come una
grande arpa nella mano del gran Maestro (Dio), mentre
ciascun popolo gli appariva come una corda, avente una
destinazione particolare, di quella arpa gigantesca. Il fatto
è che noi, a questo proposito, dobbiamo distinguere due
Herder: il primo, quello delle «selve» e dei «fogli volanti»,
che è quanto dire lo Herder il quale sostiene l’origine
umana del linguaggio; e l’altro, il secondo, il quale rifiuta,
direi quasi spaventato, quella idea che pure era stata al
centro della sua speculazione. Fin dal 1774, infatti, nel suo
saggio Auch eine Philosophie der Geschichte zur Bildung
der Menscheit, sente che la sua teoria sull’origine del
linguaggio non è che un peccato di superbia. Ripiega quindi
su se stesso. E in quel ripiegamento incontra Dio.
Di grande importanza, in questa conversione, sono altri
due suoi saggi. Il primo è intitolato Briefe, das Studium der
Theologie betreffend, ed è del 1780. L’altro, più ampio ma
incompleto, porta il titolo Vom Geist der Ebräischen Poesie,
ed è del 1783. È noto che Madame de Staël considera
quest’ultimo lavoro come l’opera più felice e più
appassionante dello Herder, anche perché in esso si attua il
tentativo di una storia letteraria nazionale della poesia
ebraica. Allo Herder, e qui siamo sempre però al primo
Herder, la Bibbia non appare come un poderoso trattato
teologico, ma come una raccolta di saghe dove si invera,
intero, lo spirito religioso di un popolo. Lo Herder conosce
e apprezza Lowth, che in quelle saghe aveva intuito il
carattere di un sano primitivismo. Ma laddove il Lowth si
atteneva alla Sacra Scrittura nel senso più rigido, lo Herder
non esita a vedere favole immaginose, tanto è vero, ad
esempio, che per lui le vicende di Adamo ed Eva
costituiscono «il più caro racconto per fanciulli sull’origine
della specie umana». Lo Herder aveva cercato di creare
nello Studium der Theologie, «un’archeologia dell’Oriente»,
analoga in fondo, com’è stato notato, alla scienza
dell’antichità classica, creata dal suo amico Christian
Heyne, il quale spingeva lo studio di quell’antichità tra i
selvaggi di Padre Lafitau e dei missionari, allo scopo di
intendere la vita degli antichi Greci. Lo Herder è appunto
sullo stesso piano. Egli vuole che la Bibbia, questo libro
divino, venga studiato come un libro scritto da uomini per
uomini. In altre parole: della Bibbia egli, come ben nota
l’Antoni, fa una storia poetica nazionale, mentre, bisogna
aggiungere, la religione gli si dispiega come un linguaggio
poetico. Ma affinché una tale riduzione non significasse una
profanazione, occorreva che la storia stessa delle nazioni
acquistasse dignità di storia sacra, si elevasse colma di
contenuto divino sul piano della Rivelazione. La nazione,
nella sua chiusa individualità, doveva essere perciò inserita
in un ordine universale. E qui c’è già il secondo Herder. Gli
era stato caro Shaftesbury col suo panteismo. Ora egli è, se
mai, vicino a un Bossuet. Ed è con tale spirito che egli
scriverà appunto le sue Ideen zur Philosophie der
Geschichte der Menscheit, che vogliono completare la
costruzione già iniziata nell’Auch eine Philosophie.

7. Le Ideen e il loro significato

Nelle Ideen, pertanto, quel che domina non è l’uomo


artefice di se stesso e della sua storia. All’uomo si è
sostituito definitivamente Dio. Lo Herder sente, con questa
nuova sua opera, di dar fondamento a tutto il sapere
umano. E le Ideen, sotto questo aspetto, ci richiamano
spesso l’Essai di Voltaire. Ma il suo è un nuovo ampio Essai,
dove le idee del Voltaire (e degli illuministi) sono in gran
parte capovolte, tanto è vero che per lo Herder un popolo
non è un agglomerato di individui separati, bensì un’unità
spirituale in base alla quale i suoi componenti esistono;
mentre ciascuna civiltà non è un’unità astratta, bensì «un
bene particolare che è, dovunque, qualcosa di organico,
frutto del clima, della tradizione e degli usi». Il che richiede
una precisazione. Nelle Ideen, infatti, lo Herder non solo
sostiene che la religione è la tradizione più antica e la più
santa della terra, non solo sostiene che la civiltà e la
scienza non sono in origine che delle tradizioni religiose,
ma sostiene altresì che il sentimento religioso è anteriore
alla stessa logica e alla stessa ragione. È vero, dunque, che
egli vede la storia dell’umanità come una «pura storia
naturale» delle forze e delle tendenze umane che operano
secondo i luoghi e i tempi; ed è vero che, in tal modo, egli
dà il carattere di tradizione non solo alla religione ma
anche alla lingua, alla poesia, alle arti, ecc.; ma ove
vogliamo comprendere il secondo Herder, bisogna che noi
vediamo di quale significato egli riempia la parola natura.
Nessuno, dice egli stesso, confonda l’uso che io faccio della
parola natura. La natura non è un essere per sé stante, ma
è Dio tutto intero nelle sue opere. E aggiunge che, se a
qualcuno sembra che la parola natura sia stata parafrasata
e spogliata di ogni senso da molti scrittori contemporanei,
la sostituisca egli, nel suo pensiero, con quelle di
onnipotenza, di bontà, di saggezza, e dica dentro l’anima
sua il nome dell’essere invisibile che nessuna lingua
terrestre riesce a esprimere.
Lo Herder vede dappertutto, in tutto il mondo, non
soltanto degli uomini che creano la loro civiltà e la loro
storia, ma, come egli stesso dice, degli Hommes de Dieu.
Questa la ragione per cui egli considera la storia stessa
dell’umanità come un insegnamento cui deve ricorrere il
genere umano. Egli crede in uno sviluppo progressivo, cui,
secondo luoghi e tempi, va soggetta l’umanità; non si
nasconde, sotto l’influsso del Montesquieu, l’efficacia che il
clima può avere sulla tradizione; ma il suo ideale non è
quello illuministico, tanto è vero che il suo concetto
inerente allo sviluppo progressivo non si riempie di una
ragione matematica e astratta, ma di un valore, comunque
esso sia concepito, schiettamente storico (il che lo avvicina
al Lessing, il quale riteneva che la mèta cui tende il
processo storico è quella appunto dell’umanità).
Anche nelle Ideen lo Herder non ha idee preconcette sui
cosiddetti popoli di natura, che egli considererà né più né
meno come tutti gli altri popoli. È dell’avviso che il
selvaggio, avendo una sua lingua e una sua organizzazione,
ha come noi una civiltà. La sua legislazione gli appare
addirittura un’opera d’arte. Né esita, inoltre, a porre il
selvaggio «al di sopra del moderno Europeo dal cuore
fangoso e dal grugno cosmopolitico». E qui c’è, ancora, la
vecchia polemica sociale del selvaggio contrapposto al
civile. Non dà il minimo peso al colore degli uomini. Tutti i
popoli sono da lui affratellati in nome della tradizione,
com’egli la concepisce. Il cosmopolitismo degli illuministi si
trasforma in lui in un sereno umanitarismo. Nel sentimento
dell’umanità anche egli cercherà l’umanità stessa. E negli
ampi quadri che dipinge, portandoci fra i popoli più
disparati, sempre preoccupato più a giustificare che a
condannare, egli non solo rivendica la forza della
tradizione, la quale in tanto ha un suo valore in quanto
cambia col tempo e nel tempo, ma la immette nella storia e
ne fa la storia.
In un suo lavoro, che si proponeva di presentare a
Caterina di Russia, inteso a determinare gli elementi della
civiltà di un popolo aveva scritto: «Per l’amore del cielo,
che tutto non divenga legge scritta, ma sia impulso vivente,
consuetudine, natura». C’era, in queste parole, l’eco
dell’insegnamento del Möser. Ma quell’insegnamento vibra
nel corpo stesso delle Ideen, dove, forse per la prima volta,
le costumanze dei popoli sono chiamate ad affratellare i
popoli stessi. In lui la teologia si veniva trasformando in
una antropologia educativa. Ma il filosofo che non voleva
riconoscere nessuna superiorità di un popolo rispetto
all’altro, cadrà purtroppo nell’idoleggiamento di una
missione tedesca. Le voci di popoli son diventate voci di
Dio. Ma Dio – ed è qui il limite dello Herder – si farà
tedesco, tanto è vero che fra i vari miti da lui creati c’è
quello del ringiovanimento del mondo antico ad opera dei
popoli germanici, poiché in essi si nascondevano non
solamente delle forze intatte, ma anche dei costumi
«selvaggi, forti e buoni». Si giungeva, in tal modo, al
nazionalismo, parola che è stata foggiata da lui. E quel
nazionalismo che viveva nel proprio e del proprio passato si
ammantava di un esotismo che lo rendeva più affascinante
e più selvaggio. L’arpa aveva lasciato cadere la sua
teutonica corda. E quella corda si era trasformata essa
stessa in arpa, per quanto lo Herder ammonisca
decisamente che una patria, quale che essa sia, debba
vivere immacolata da ogni peccato di politica, perché la
pace e non la guerra è lo stato dell’umanità, la quale non
può ammettere «lotte cruente di patria contro patria».

8. L’umanità in rivolta
Le Ideen dello Herder uscirono fra il 1784 e il 1791. Nel
frattempo scoppia la Rivoluzione francese. Alcuni anni
prima lo Herder aveva predetto: «Germinano dovunque
Libertà, Socialità, Uguaglianza, e gli inferiori salgono al
posto degli avvizziti, inutili e orgogliosi aristocratici». Ma di
fronte alla Rivoluzione che immette nella politica e nella
storia i ceti inferiori, cui era andata tutta la sua simpatia,
rimane atterrito. E nel 1794, anzi, nei Briefe zur
Beförderung der Humanität non solo afferma che ormai si è
al margine di un abisso, ma impreca addirittura contro gli
orrori di quella Rivoluzione che invece era apparsa a un
Kant, a un Hegel e a un Goethe come l’avvento di una
nuova èra.
Lo Herder così, dunque, come non aveva inteso lo spirito
rivoluzionario del Rousseau, non intende ora lo spirito della
Rivoluzione. O meglio, ne intende i lati negativi.
L’importanza che assumeva nella storia della civiltà
europea la dichiarazione dei diritti dell’uomo gli sfugge. Né
sa vedere quello che è lo spirito nuovo della Rivoluzione nei
riguardi di quelle «voci dei popoli» che erano state care al
suo cuore. È vero, infatti, che la Rivoluzione francese è
piena di infatuazioni contro la religione cattolica, il che
spaventa il teologo Herder; è vero che, davanti ai suoi
altari, cadono i paramenti stessi della Chiesa; ma qual è lo
spirito di quella distruzione? In un decreto del Comitato di
Salute Pubblica è esplicitamente detto che il popolo deve
distruggere, ormai, le sue abitudini e i suoi pregiudizi. Ed
ecco che la Rivoluzione vuole distruggere appunto quelle
abitudini e quei pregiudizi che sono collegati a tutte le
attività di carattere religioso. È questo il momento in cui
tutto il Cattolicismo fu posto in quella stessa posizione in
cui i teologi avevano posto le credenze, gli atti e i costumi
ritenuti come avanzi del paganesimo. La rivoluzione vuole
però anch’essa la sua religione, i suoi miti e i suoi simboli.
Ma in quei miti e in quei simboli non ritornano i culti e i
miti stessi del popolo? Così, durante la Rivoluzione,
Guglielmo Tell diviene, ad esempio, il precursore degli
immortali principi dell’89. E a cominciare dall’anno dopo,
l’albero della libertà non sarà costituito, appunto, da
quell’albero di Maggio attorno a cui si muovono le allegre
brigate primaverili?
Nello stesso anno, nel 1790 cioè, apparve, un giorno,
davanti all’Assemblea un bizzarro corteo dove si vedono i
rappresentanti di tutte le nazioni, un Cinese, uno
Spagnuolo, un Inglese, un Austriaco, un Negro, e perfino
un Caldeo, con a capo il barone alsaziano Anacharsis
Cloots. È stata chiamata una mascherata. Ma quel corteo
che cosa voleva essere se non il simbolo stesso del genere
umano, dell’umanità, che veniva in Francia per poter
partecipare alla festa della libertà e della fratellanza?
Anche il selvaggio, nato libero ma reso schiavo dalle
conquiste coloniali, doveva ritornare ormai quel che era
stato. Si spezzino dunque, nel nome di Rousseau, le catene.
E la religione si temperi nei culti della Rivoluzione!
Bisogna tuttavia osservare che in un documento della
Rivoluzione, riportato dal Groethuysen, si legge: «Ecco
come parlano ai loro parrocchiani i degni pastori: – Ahimè,
fratelli, dicon loro nell’amarezza del loro animo, nelle città
non vi è più fede né religione; sforziamoci dunque di
conservare nelle nostre campagne questo sacro deposito
affidatoci da Dio». Sicché la religione cattolica non appare
più ormai come uno strumento di dominio della classe
feudale, in quanto tale classe è stata distrutta. Ritorni,
quindi, essa alle sue origini. E la Rivoluzione stessa del
resto che cos’era stata se non un’azione che, in nome di un
principio umano, aveva adottato gli insegnamenti morali
della Chiesa, cancellando il diritto feudale e creando il
suffragio universale?
In tal modo la Rivoluzione francese aveva unito la
borghesia e il popolo. E in quella unione che comporta una
comune eguaglianza civile e politica, la borghesia non può
più assumere verso il popolo l’atteggiamento di un Voltaire.
Il popolo, il ceto dei contadini e degli operai, aveva fatto
con la borghesia la Rivoluzione. Era stato lanciato in prima
linea, dove aveva dimostrato che le cosiddette forze
irrazionali valgono tanto quanto quelle della ragione,
poiché nelle une e nelle altre è l’uomo intero, il quale può
dare alle sue tradizioni un nuovo significato, ma non mai
cancellarle dal suo spirito, dato che esse sono parte della
sua stessa umanità. La ragione voleva controllare gli
impulsi di tutto ciò a cui si crede e che si sogna. La
Rivoluzione francese aveva dimostrato che bisogna credere
anche ciò che si sogna.
Nella Rivoluzione si erano acquietate le ansie e le
aspirazioni di ceti fino allora disprezzati. E qui è uno dei
più grandi meriti di essa. La Rivoluzione non convoglia
soltanto i filoni dell’Illuminismo. In essa, sia pure
indirettamente, agiscono, prepotenti, i filoni stessi del
Protoromanticismo. Ed ecco allora una nuova epoca, nella
quale, se da una parte il popolo continuerà a essere un
simbolo politico-sociale, dall’altra la sua vita sarà oggetto
di una nuova ed efficace problematica. È tempo ormai che
ci si avvicini al popolo non più come a una classe inferiore,
il cui patrimonio è da considerare soltanto un
sottoprodotto. La via è aperta. E il bon sauvage è diventato
ormai il bon peuple.
Parte terza
Il folklore come strumento di politica e di
dignità nazionale nel Romanticismo
11. Umanità della Germania

1. Il «tesoro dell’umanità»

Destinato sempre più a trasformarsi in una forza


culturale e politica il mito del bon peuple, collegato a quello
delle origini nazionali, assume un aspetto particolare in
Germania durante il Romanticismo. Si afferma che in
Germania la prima generazione dei romantici, la
generazione di un Novalis, di un Tieck, dei fratelli Schlegel
ebbe meno importanza per la germinazione del pensiero
herderiano inerente al folklore, di quanto invece ne abbia
avuto la seconda inaugurata da Arnim e Brentano. Ma è
questa una tesi che si possa completamente accettare?
Bisogna anzitutto osservare che anche il Romanticismo
tedesco si pone per antitesi polemica contro l’Illuminismo.
Nel formulare pertanto, di recente, una netta distinzione
tra i due movimenti, il Cassirer ebbe ad affermare che fra
essi v’è un profondo iato per quanto riguarda la storia. I
romantici, secondo il Cassirer, amano il passato per il
passato, che per loro non è un fatto ma uno degli ideali più
alti, tanto è vero che per essi ogni cosa diventa
comprensibile non appena si possa far risalire alle proprie
origini, mentre questo atteggiamento era del tutto ignoto ai
pensatori del secolo XVIII, che, preoccupati com’erano
dell’avvenire dell’umanità e quindi della nascita di un
ordine nuovo, consideravano lo studio della storia come
necessario, ma non come fine a se stesso.
È vero però che per i romantici la storia e l’arte si
riempiono di quei significati che l’Illuminismo aveva
respinto; ed è vero altresì che i romantici torneranno tanto
sui luoghi (Oriente, Grecia) quanto sugli eventi
(Cristianesimo, Medioevo) su cui si era già rivolta
l’indagine degli illuministi; ma quali sono le effettive
ragioni di questi loro interessi? I romantici amano in fondo
ciò che gli illuministi avevano odiato, almeno prima che si
giungesse alla Rivoluzione francese. Ma in questo loro
amore, se il passato è la cima del monte da cui essi
guardano il mondo, il monte è costituito dal proprio
passato, a cui essi si rivolgono come a un ideale rifugio che
ha valore universale. Il passato, per i romantici, non è
quindi soltanto contemplazione di epoche lontane, ma
insegnamento per l’avvenire; e in quell’avvenire è
impegnato tutto il senso della loro umanità, la quale,
ricercando le proprie origini, non può non incontrarsi con i
miti che si inverano nelle tradizioni popolari, di cui si erano
già interessati, con spiccata simpatia, i preromantici.
Erano stati i preromantici inglesi, scoperti e ammirati
dallo Herder, dal Goethe e dal Bürger, a porre la loro
attenzione sulla poesia popolare dove ritrovarono, in gran
parte, il loro bel Medioevo. Ma i Märchen, si
domanderanno i romantici tedeschi, non sono anch’essi,
come aveva ammonito lo stesso Herder, poesia popolare? E
quel concetto di poesia, applicato in genere all’arte, non
darà vita a una nuova e decisiva reazione contro l’estetica
classicistica, di cui l’ultimo esponente era il Nicolai?
La Volkspoesie, a dire il vero, è per i romantici tedeschi –
e questo è un passo avanti rispetto ai preromantici – la
decisiva scoperta che essi compiono dell’anima moderna,
dove ravvisano quel senso di infinito che è pervaso di
mistero e che lo distingue dal mondo classico che è il
mondo del finito. E qui, in questa scoperta, si nasconde la
rinnovata esigenza di valorizzare il Lied e il Märchen, quali
vivono in mezzo al popolo, che è la genuina voce
dell’umanità.
Nel nome di questa umanità i primi romantici auspicano
appunto un mondo migliore. E in ciò essi raccolgono le
stesse istanze degli illuministi. Ma in questo mondo quale
parte verrà assumendo la Germania? E il germanesimo, già
in nuce nell’opera di un Lessing o di un Herder, non ha nei
primi romantici una formazione la quale, letteraria quanto
si voglia, accusa nel suo seno quello spirito nazionale che,
come sosteneva la filosofia idealista del tempo, (si pensi
soprattutto ai lavori giovanili dello Hegel) costituiva il
tesoro di tutta l’umanità?

2. Novalis, il Medioevo tedesco, e il Märchen

Notevole è in proposito l’atteggiamento di uno dei primi


romantici, il Novalis, il quale era convinto che il
germanesimo, come la grecità, la romanità, l’anglicità, non
è limitato a uno stato particolare, perché esso comprende
dei caratteri particolari universali. In una lettera che
scrisse nel 1797 ad A. W. Schlegel egli osserva:
«Germanesimo è cosmopolitismo unito all’individualità più
spiccata». E ciò evidentemente significava che il Novalis,
come lo Herder, riempiva del concetto di umanità tanto il
germanesimo quanto il cosmopolitismo. Il che era appunto
l’opinione di quel gruppo che si riuniva attorno allo Schiller
e allo Humboldt: solo, come osserva il Meinecke, che il
Novalis seppe dare a questo concetto una nuova
colorazione romantica.
Né meno romantica è nel Novalis la colorazione che egli
ci dà del Medioevo, come appunto ci dimostra il suo saggio,
edito nel 1799, Die Christenheit oder Europa, dove
troviamo un rapido ma incisivo abbozzo della cultura
cristiana dell’Europa, che era e voleva essere un
programma per l’avvenire. In tale programma, il Novalis, in
opposizione alla riforma luterana, ci parla con accenti
commossi della religione cristiana o meglio della
cristianità; ne gusta, direi, i valori mitici ed estetici, ma si
augura che la cristianità prepari una nuova èra in cui
ritorni un Medioevo cattolico rinnovato nelle sue forme,
foriero di quella pace perpetua che era stata auspicata
dallo Herder. Il Novalis non nasconde infine la passione per
l’Oriente e soprattutto per l’India. Ma che cosa è per lui il
lontano Oriente se non la luce che deve riscaldare il
romantico?
L’amore per il passato, e nel caso specifico per la società
cristiana medievale, è tutt’altro, dunque, nel Novalis che
fine a se stesso. La posizione illuministica di fronte ai valori
della tradizione cristiana è in lui certo capovolta, e perciò
la storia stessa del Cristianesimo assume una nuova luce;
ma nel rivalutare il Medioevo dandogli quei caratteri di
nobiltà che l’Illuminismo gli aveva negato, egli non è sulle
orme dei preromantici?
Considerato il Medioevo come epoca di cristianità, anzi
come l’epoca ideale della cristianità che in Germania aveva
acquistato il suo splendore, è ovvio osservare che il Novalis
aveva avuto l’intuizione romantica, per usare una felice
espressione del Walzel, non solo del Medioevo, ma anche
del Germanesimo. Nel concepire questa fusione, egli fu
stimolato da una parte dallo Schleiermacher e dall’altra dal
Wackenroder. Il primo, soprattutto con il suo lavoro Über
die Religion, gli aveva insegnato che la religione è un
sentimento universale che l’uomo trova ed accoglie quando
trova ed accoglie in sé l’infinito; e ciò gli farà scoprire il
lato simbolico di quel Cristianesimo che, fra i protestanti,
soltanto Jakob Böhme, cui il Novalis rende omaggio, aveva
compreso. Ma gli aveva anche insegnato, insieme allo
Schiller e al Fichte, che «dalla primitiva monotona Armonia
si procede alla Disarmonia per procedere infine a una
Totalità». L’armonia era allora ricercata nella Grecia. Il
Novalis sostituirà alla Grecia il Medioevo tedesco, la cui
disgregazione per altro fu necessaria per lo sviluppo della
civiltà. Il Wackenroder invece lo aveva avvicinato non solo
al gotico che in Germania era stato scoperto dal Goethe,
ma anche all’antica letteratura tedesca.
In base a questi insegnamenti il Novalis si preoccupa
perciò di formulare i principi di quella nuova arte e di
quella nuova poesia cui deve dar vita il romantico; ed ecco
che tale arte, tale poesia, gli si dispiega come un linguaggio
fatto di simboli, di geroglifici, di riti. Di tale linguaggio
l’espressione più tipica è per lui il Märchen:

«… è come una visione nel sogno, priva di coerenza. Essa è un insieme di cose
e di avvenimenti straordinari, come, ad esempio, una fantasia musicale, gli
accordi armonici di un’arpa eolia, la stessa natura… Tutta la natura deve
essere mescolata in un modo meraviglioso con lo spirito mondiale; deve essere
il tempo dell’anarchia generale, della mancanza di leggi, della libertà, dello
stato naturale della natura, del tempo anteriore al mondo… Il mondo della
favola è il mondo completamente opposto a quello della verità, e appunto
perciò è ad essa tanto simile, quanto il caos alla creazione perfetta»
(Fragmente, nn. 414-415).

Né è senza significato che il Novalis abbia animato la


trama dei suoi romanzi, come, ad esempio, l’Heinrich von
Ofterdingen e i Lehrlinge zu Sais con dei Märchen, alcuni
dei quali furono da lui isolatamente rielaborati con finezza
di gusto. Ricordate Fiorellin di rosa: «Viveva in tempi
lontani, verso Occidente, un giovane molto buono, ma pure
molto stravagante». E il mondo dei Märchen ritorna come
un sogno veramente vissuto.

3. Tieck e l’antica letteratura tedesca

Gli stessi interessi del Novalis furono pienamente


condivisi da altro delicato poeta, Johann Ludwig Tieck, che
aveva già fatto apprezzare al Novalis il Wackenroder. Dal
Wackenroder il Tieck trasse infatti l’amore per l’antica
letteratura tedesca che era già stata preminente nello
Herder, di cui è noto altresì l’amore per i Lieder e i
Märchen.
«In una regione dell’Harz abitava un cavaliere
comunemente chiamato il biondo Erberto». Così comincia il
Blonde Eckbert. E in Eckart invece, dopo aver riportato un
vecchio Lied che narra del nobil duca di Borgogna,
aggiunge: «La voce di un vecchio contadino che narrava
questa cosa si percoteva all’intorno fra le rocce». È il
mondo incantato del Märchen e del Lied che gli si dispiega
in un’atmosfera di estasi e di sogno. E il Tieck rielabora con
gusto i vecchi motivi di quella letteratura popolare dove
egli trova le fonti stesse della poesia – come già avevano
fatto, sia pure con altri scopi, il Basile e il Perrault –, e in
esse la stessa concezione romantica che egli ha della vita.
Questa concezione, osserva il Walzel, può essere fissata
in una formula che rimane costante in lui: e cioè che «tra
l’uomo e la natura non esiste nessun muro divisorio che sia
insuperabile: nella natura domina un’attività sentimentale
che è affine a quella dell’uomo, nell’uomo vive un pezzo di
natura». E il Märchen diventa poesia, anzi contemplazione
della poesia.
Era intenzione del Tieck, appunto per soddisfare questo
suo amore per la poesia, pubblicare dei vecchi testi
tedeschi, tanto è vero che egli pensava, tra l’altro, di
modernizzare i Nibelunghi. Ma di questi suoi progetti non
ci rimane che il lavoro sui Minnelieder aus dem
schwäbischen Zeitalter, che egli pubblicò nel 1803. Di essi
ci avevano già dato un’edizione paleografica il Bodmer e il
Breitinger; ma quell’edizione non era maneggevole,
destinata come era agli studiosi. Il Tieck volle invece dare
ai suoi contemporanei un testo ammodernato. E la sua,
pertanto, non è che una scelta dei Minnelieder, i quali a
suo modo di vedere rispecchiano «una delle epoche più
serene, delle più nobili e delle più luminose del Medioevo».
Il che egli cerca di dimostrare nella sua lunga prefazione
dove è l’interesse vivo del libro, se si pensa che in essa il
Tieck non solo considera la poesia come la più alta
espressione dell’animo umano, ma considera altresì la
poesia medievale come la poesia romantica per eccellenza.

4. La poesia dei Minnelieder

Posta in questo quadro che egli illumina con la rapida


trattazione di tutta la letteratura del Medioevo, la poesia
dei Minnelieder viene considerata come una poesia
congeniale alla vita collettiva, dove la nobiltà e il popolo
sono una sola cosa. I Minnelieder, egli aggiunge, hanno, è
vero, dei modelli provenzali; ma così come i preromantici
hanno tratto dall’oblio poeti come Shakespeare e Milton,
riconsegnandoli al patrimonio dell’umanità, non conviene
ora fare lo stesso con le vecchie epopee alemanne, di cui,
ad esempio, i Nibelunghi sono un’espressione perfetta? Egli
paragona i Nibelunghi all’Odissea e all’Iliade. Ritiene –
l’insegnamento del Wolf era vivo – che tutti quei poemi non
possono avere un autore unico. Confronta le epopee
eroiche coi poemi cavaliereschi di Artù; considera questi
ultimi come una forma tardiva adattata; ma le une e gli
altri, egli conclude, riposano su un medesimo fondo; ed è
questo fondo che ha dato origine a un grande organismo
poetico che si è sparso per tutta l’Europa, unendo la
mitologia del Nord con le favole meravigliose dell’Oriente.
La cavalleria, egli infatti scrive:

«… univa allora tutte le nazioni d’Europa, i cavalieri andavano dai più lontani
paesi del Settentrione fino alla Spagna e all’Italia, le Crociate resero questa
unione ancora più stretta e diedero origine a mirabili rapporti fra l’Oriente e
l’Occidente; dal Settentrione e dall’Oriente venivano leggende che si
confondevano con quelle locali, grandi avvenimenti di guerra, corti splendide,
principi e imperatori che avevano il gusto della poesia, una Chiesa trionfante
che canonizzava gli eroi: tutte quelle favorevoli circostanze si collegavano per
creare alla libera nobiltà indipendente e alla ricca borghesia una vita
splendida, nella quale le ridestatesi aspirazioni spontaneamente si sposano con
la Poesia, per riconoscere con maggiore chiarezza e purità la realtà circostante
che in essa si rispecchia. Credenti cantavano della fede e dei suoi miracoli,
amanti dell’amore, cavalieri descrivevano imprese e lotte cavalieresche, e
cavalieri pieni di amore e di fede erano i loro eletti uditori».

Il Tieck non solo rivalutava così l’epopea nazionale della


sua Germania, dove, a suo avviso, era la fonte della lingua
nazionale, ma creava un suo Medioevo. Il Medioevo
tedesco, certo, è ben diverso da quel che egli dipinge; ma è
proprio dei romantici trasfigurare tutto ciò che è lontano
nel tempo. La prefazione dei Minnelieder, d’altro lato, non
vuole essere soltanto l’esaltazione del Medioevo tedesco;
essa è la giustificazione della stessa opera poetica del
Tieck, che, non bisogna dimenticarlo, rivaluta con la poesia
i valori (Medioevo, Cristianesimo, folklore) della vecchia
Germania. La sua Genoveva, tratta da una leggenda
popolare, è infatti un’opera drammatica, dove egli sogna il
ritorno alle pure fonti del Cristianesimo, cui l’avevano
condotto da una parte la meditazione delle opere del
Böhme e dello Schleiermacher e dall’altra la lettura dei
drammaturghi spagnuoli. Cristianesimo e Medioevo a loro
volta sono per lui quel che erano stati per il Novalis. E in
tale apoteosi del Medioevo tedesco, per quanto non ci sia
l’ombra di un interesse politico, è implicito il
riconoscimento della grandezza della Germania.

5. Romanticismo e antichità classica


A differenza di quelli del Novalis e del Tieck i primi
interessi di Friedrich Schlegel furono rivolti all’antichità
classica. Egli è, certo, più filologo di quanto non siano stati
il Novalis e il Tieck, ma, come loro, ha il gusto della cultura.
In alcune pagine che scrisse fra il 1795 e il 1798 lo
Schlegel si preoccupò anzitutto di addestrarsi nel campo
della filologia. Zur Philologie si intitolano quelle pagine. E
in esse egli parla con ammirazione dello Herder: «L’amore
di Herder per gli antichi, è amore soprattutto per la civiltà,
sia essa progressiva o classica o anche barbarica e perfino
fanciullesca». Esalta F. A. Wolf che gli era stato maestro: «I
Prolegomena di Wolf sono unici nel loro genere grazie allo
spirito storico». E animato com’è da questo spirito osserva:
«Insistere sulla filologia naturale». Il che significava che
egli aderiva in pieno al concetto che della filologia
diffondevano allora Christian Heyne e lo stesso Wolf, per
merito dei quali la filologia astratta era diventata la
concreta scienza dell’antichità. Aggiunge: «L’esistenza di
una vera filologia è prova della civiltà di un popolo». E
conclude che «se il fine della filologia è la storia, lo storico
deve filosofare».
Questo è in fondo lo scopo della Geschichte der Poesie
der Griechen und Römer, che è del 1798, e dove egli, fra
Paltro, sostiene che un popolo arriva ad avere un suo
carattere soltanto: «quando tende all’universalità e
completezza dei propri sviluppi, con senso cosmopolitico e
senza rifiutarsi di ammettere elementi esterni suscettibili di
trasformarlo». La Grecia offre a lui, appunto per questo, lo
spettacolo di una vita nazionale. E in ciò egli accetta
l’ammo nimento dello Herder che già fin dai suoi
Fragmente über die neuere deutsche Literatur aveva
osservato che così come la Grecia e l’antica Roma avevano
fondato la loro arte e il loro teatro sulle proprie credenze e
sulle proprie tradizioni, allo stesso modo queste dovevano
costituire l’essenza della nuova letteratura tedesca. I
preromantici, e con essi lo Herder, odiarono, si noti bene, il
classicismo, ma non odiarono mai i classici, di cui anzi
accoglievano gli ideali. Né diverso era il concetto dello
Humboldt, il quale, anche egli, è portato dallo studio
commosso della Grecia all’intelligenza del fattore
nazionale.
Lo Schlegel è sulla stessa via; e a lui, come già allo
Herder e allo Humboldt, è attraverso l’indagine del popolo
greco che balenano i desideri e gli ideali che coltiva per la
sua nazione, cui augura uno stato individuale pervaso di
vita nazionale e insieme di universalismo politico, anche se
questo suo universalismo più che con il Medioevo
teocratico del Novalis vuoi conciliarsi con le idee
cosmopolitiche della Rivoluzione francese. La situazione
politica degli anni dopo il 1801 lo porta, però, verso una
costruzione politica che concorda pienamente con la
rigidezza ecclesiastica del sistema cattolico; ed è allora che
egli, ammiratore e studioso del Böhme e dello
Schleiermacher, farà sue le istanze del Novalis, onde, se
pur si adagia all’ideale romantico di un impero universale,
nel seno di quell’impero egli colloca naturalmente la
Germania. In una delle sue Ideen lo Schlegel afferma:

«Lo spirito degli antichi eroi dell’arte e della scienza tedesca deve restare il
nostro, finché rimaniamo tedeschi. L’artista tedesco o non ha alcun carattere o
ha quello di un Albrecht Dürer, di un Keplero, di un Hans Sachs, di un Lutero,
di un Jakob Böhme. E questo carattere è diritto, aperto, solido, preciso e
profondo, e insieme ingenuo e un po’ sgraziato. Solo i Tedeschi hanno come
caratteristica nazionale quella di venerare come divine l’arte e la scienza solo
per amore dell’arte e della scienza» (trad. Santoli, 150).

Caratteristica nazionale, dunque, il rendere onore


all’arte e alla scienza, soprattutto quando sono tedesche.
Ma in un frammento del Lyceum c’è di più: «Nel modello
della germanicità che alcuni grandi scopritori patri hanno
costruito non si può biasimare altro che la falsa posizione.
Questa germanicità non giace dietro di noi ma davanti a
noi». Ed era come dire: Germania risorgi con le tue epopee,
coi tuoi canti, coi tuoi Lieder, coi tuoi Märchen e fa’ si che
essi diventino carne della tua carne! Né è senza significato
che egli, nel suo saggio su Goethe, considera i Lieder come
il più ricco patrimonio della poesia nazionale.

6. F. Schlegel, fra Oriente e Occidente

È noto inoltre che lo Schlegel fu tra i primi studiosi


tedeschi che affrontarono lo studio dell’Oriente che già era
stato caro al cuore dello Herder. Ma che cos’è per lui
questo Oriente? Quali valori media nella coscienza del suo
paese? Nella Gespräch über die Poesie, edita per la prima
volta nell’«Athenaeum» del 1800, lo Schlegel aveva già
parlato con accento commosso dell’epica germanica e
dell’influsso che essa ebbe dall’Oriente:

«Coi Germani un’incontaminata pura sorgente di una nuova epica eroica dilagò
per l’Europa, e quando la rude forza della poesia gotica s’incontrò, sotto
l’influenza degli arabi, con un’eco delle leggiadre fiabe orientali, sulla costa
meridionale che dà sul Mediterraneo, fiorì una gaia arte di trovatori di canti
soavi e di storie strane; e, ora in quest’ora in quella forma, insieme alla
leggenda sacra latina si diffuse anche la romanza profana che cantava di amore
e di armi» (trad. Santoli, 175).

È lo stesso concetto che verrà poi ripreso dal Tieck, ma


lo Schlegel non si ferma a quella constatazione. E convinto
com’è che la poesia e la mitologia siano tutt’una cosa, si
augura l’avvento di una nuova mitologia che colleghi
l’antico col moderno:
«La nuova mitologia deve venire tratta dalla più remota profondità dello spirito;
deve essere la più artistica delle opere d’arte perché deve compendiare tutte le
altre, un nuovo letto e un nuovo vaso per la antica eterna primigenia sorgente
della poesia… E che altro è la mitologia se non un’espressione geroglifica della
circostante natura in questa trasfigurazione di fantasia e di amore…? Perché
non volete sollevarvi a ravvivare queste splendide figure della grande
antichità?… Ma anche le altre mitologie devono venir ridestate secondo la
misura del loro senso profondo, della loro bellezza e della loro forma per
affrettare la nascita della nuova mitologia. Ci fossero i tesori dell’Oriente così
accessibili come quelli dell’antichità! Quale nuova sorgente di poesia potrebbe
sgorgarci dall’India, se alcuni artisti tedeschi, coll’universalità e la profondità
del sentire, col genio del tradurre che son loro propri, possedessero l’occasione
di cui una nazione che diviene sempre più ottusa e brutale poco sa profittare.
Nell’Oriente noi dobbiamo cercare ciò ch’è più altamente romantico; e quando
potremo attingere alla fonte, l’apparenza di meridionale ardore, che tanto ora
ci attrae nella poesia spagnola, ci sembrerà forse a sua volta occidentale e
modesta» (trad. Santoli, 199).

Lo Schlegel, se ravvisa pertanto nella mitologia la


rivelazione della natura, guarda fin d’allora all’Oriente – e
in ciò egli segue il Novalis – come a un ideale
romanticamente poetico. Bisogna tuttavia aspettare il
programma che premise alla sua rivista «Europa» per
vedere come egli considera l’Oriente e soprattutto l’India,
cui egli dedicherà nel 1808 il saggio Über die Sprache und
Weisheit der Indier che non solo è un manifesto di
quell’orientalismo, cui già le ricerche del Sacy e dello Jones
avevano aperto nuove vie, ma anche un manifesto dove si
annunzia, auspice il sanscrito, la linguistica storica. Ma,
prescindendo da questo saggio (il cui studio coinvolge
problemi di altra natura dei nostri), è nel programma della
rivista «Europa» che egli mette in rapporto l’antichità
classica con la moderna epoca romantica.
Gli Illuministi avevano considerato l’Oriente, e con esso
l’India, come un vivaio di forze da opporre al Cristianesimo.
Ma quell’annullamento di se medesimi che è nel
Cristianesimo non si trova, osserverà lo Schlegel, insieme
al materialismo della religione greca nella stessa India?
Così, osserva il Walzel, egli respinge quella divisione tra
classico e romantico, che in un primo momento aveva
invece accettata; pensa anzi che un’unione del classico col
romantico sia ben possibile; e conclude che soltanto la
religione cattolica ha fatto suoi lo splendore, la verità e la
bellezza poetica della mitologia e delle consuetudini
greche. Ecco perché dall’Oriente doveva venire una
rivoluzione: «Noi non possiamo dimenticare donde c’è
giunta finora ogni religione e ogni mitologia, cioè i principi
della vita, le radici dei concetti». Senonché dove, se non già
nel Medioevo tedesco, si erano fusi – ed ecco di nuovo
Novalis – l’eroismo germanico con la Chiesa romana?

7. A. W. Schlegel e la poesia popolare

Le teorie del Novalis, del Tieck e di Friedrich furono


riprese da August Wilhelm Schlegel, cui si attribuisce, e
non a torto, il merito di averle in buona parte divulgate. Di
qui l’importanza che hanno per noi le Vorlesungen über
schöne Literatur und Kunst, dove sono raccolte le lezioni
che tenne a Berlino tra il 1801 e il 1804 (e che bisogna
integrare con le Vorlesungen über dramatische Kunst und
Literatur pronunziate a Vienna tra il 1806 e il 1808).
Lo Schlegel sente anzitutto il valore della storia che gli si
spiega come un infinito progresso. La storia, come per lo
Herder, è per lui la filosofia del genere umano, dove
l’individuale accusa sempre la presenza universale. Ed egli,
preoccupato com’è, soprattutto nelle prime Vorlesungen, di
stabilire se sia possibile una storia dell’arte, formula queste
premesse: che «nella creazione degli individui» si deve
ravvisare «il segreto che la natura s’è riservata», ma che
tuttavia «in ciascun genio si riflette il genio dell’umanità»,
e che in ciò risiede appunto la «magia stessa della storia».
È chiaro che egli fa sua la celebre teoria del genio, su cui
tanto si era discusso nel Settecento; ma è chiaro altrettanto
che egli accusa una concezione panteistica dove la
consapevolezza dell’uomo genera la fiducia in se stesso
determinando uno slancio creativo.
Queste teorie gli servono comunque a dare lo sfondo a
quella poesia romantica che egli fin dalle prime
Vorlesungen, e precisamente in una lezione che tenne nel
1803, fa coincidere con lo spirito romantico del Medioevo.
E qui sono evidenti gli influssi del Novalis e del Tieck. Così
– ma questo concetto sarà ripreso e sviluppato nelle
seconde Vorlesungen – la poesia romantica gli appare
nettamente distinta dalla classica, in quanto la poesia
romantica è nata, egli dice, nel Medioevo sotto l’influsso
del Cristianesimo, mentre la «qualità del romantico nasce
dall’unione dello spirito nordico con quello cristiano». Né
egli tanto nelle prime quanto nelle seconde Vorlesungen
attenua, come si ritiene, il quadro che del Medioevo ci
avevano dato il Novalis e il Tieck. Il Medioevo tedesco
anche a lui appare come la più grande epoca della storia.
Nega che le migrazioni germaniche siano il frutto di
un’invasione compiuta da barbari. E qui il termine barbari
assume un ben altro significato di quel che gli avevano dato
la storiografia e la critica dei suoi predecessori.
In questa poetica riabilitazione del Medioevo tedesco si
inserisce il concetto stesso che lo Schlegel manifesta sulla
poesia popolare che limita soltanto a «quei canti che sono
stati espressamente creati per le classi inferiori o nati fra
esse». Omaggio al Tieck, commenta il Tonnelat. Ma i
Märchen del Tieck erano mai diventati popolari, o piuttosto
non costituivano l’esempio di una letteratura raffinatissima,
tutt’altro che popolare? È evidente comunque che a lui,
almeno qui, non interessa dare eccessivo peso alla sua
intuizione, che stabilisce peraltro due punti essenziali: che
la poesia popolare possa essere fatta dal popolo o per il
popolo. A lui interessa constatare che la Germania non ha
una letteratura, se con questo termine si vuole intendere
non un catalogo ma un insieme di opere dove si riflette
un’anima nazionale, e che invece una letteratura così
concepita la possiede soltanto il suo popolo. Basterà ora,
egli conclude, che i Lieder e i Märchen siano toccati da un
vero poeta perché possano riapparire nella loro
magnificenza.
Né d’altro lato è senza significato che nelle sue seconde
Vorlesungen egli avverta la necessità di vivificare la poesia
tedesca attingendo nuova forza dalla poesia popolare così
come in passato essa era stata rinverdita e rinvigorita dalla
civiltà orientale. Questo era stato il compito che alla nuova
poesia tedesca avevano affidato lo Herder, il Bürger, il
Novalis e il Tieck. Questo il compito che gli affida lo
Schlegel, il quale partito alla ricerca di una definizione da
dare al Romanticismo, ci dà, sia pure indirettamente, una
brillante definizione del Germanesimo.

8. Romanticismo e Germanesimo

Ma quale valore ha questo germanesimo nella cultura del


tempo e quali sono i rapporti che esso ha col Romanticismo
con cui in fondo coincide, anche se il Romanticismo ha
naturalmente un significato più vasto? In realtà i primi
romantici parlano sempre in nome dell’umanità e
dell’Europa. Ma la terra del loro vivere e del loro sognare è
pur sempre implicitamente la Germania, nella cui civiltà
essi finiscono per scoprire gli elementi stessi del
Romanticismo.
È noto che nelle sue linee generali il Romanticismo
esalta l’individuo, l’individualità, la persona umana, il
genio; ma non v’è al di sopra delle singole personalità, ed
ecco il germanesimo, la personalità della propria stirpe, la
quale ha la sua lingua, le sue tradizioni, i suoi costumi, che
non sono certo forme astratte, ma momenti dello spirito
spontanei e creativi? Il Romanticismo è inoltre un nuovo
modo di intendere la vita in quel che essa ha di più
inquietante, di misterioso, di nostalgico, di assoluto; e
fonde insieme la scienza, la religione, la satira, l’arte,
perché più netta risulti la visione stessa della vita. Il
germanesimo, in questa visione, include i valori della vita
tedesca, dell’Urmensch, e trae allora da questa fusione
nuove suggestioni e nuovi miraggi.
Il Romanticismo alimenta la passione e la nostalgia per
l’Oriente, che è la terra della magia, dei sogni, delle favole.
Il germanesimo cercherà questa magia, questi sogni e
queste favole in quella sua antica letteratura che, come la
classica, si basa sulle proprie credenze e sulle proprie
tradizioni, e che appunto per questo ci dà la più pura
visione di un Medioevo cristiano, meraviglioso come una
risplendente cattedrale gotica. Né diverso è il significato di
quell’amore che un Tieck o gli Schlegel ebbero per le
letterature romanze, dove essi vedono realizzarsi un sogno
di poesia.
La poesia appare ai romantici quanto di più alto abbia
prodotto lo spirito umano, ed essi cercano di individuare
qual è lo spirito stesso della poesia romantica che (ove si
escluda Friedrich Schlegel, il quale ne fa in un secondo
momento un eterno atteggiamento dello spirito)
rintracciano nel Medioevo cristiano. Il medievale romantico
era per lo Herder il contrapposto dell’antico chiamato a
designare la Naturpoesie. I primi romantici danno a
quell’opposizione una corposità vigorosa. Ma intanto quale
poesia più romantica di quella popolare, della poesia che
ancor oggi vive nei Märchen, nei Lieder, nell’anima del
popolo?
In tal modo, auspice il germanesimo, il Romanticismo
pone in Germania la sua attenzione in maniera definitiva
non solo sulla letteratura del Medioevo che si vuole
risuscitare, ma anche sui Lieder, sui Märchen che ne sono
la diretta continuazione, onde lo studio delle proprie origini
andrà sempre di pari passo con quello delle tradizioni
popolari viventi. E queste, cui si era già rivolta la
penetrante attenzione di un Vico, di un Rousseau, di un
Möser ecc., ecco che saranno considerate non soltanto
come forme storiche di arte o di pensiero, ma anche, e
soprattutto, come fattori di dignità nazionale. L’invasione
napoleonica e la sconfitta di Jena le trasformeranno in
strumenti di lotta politica.
12. Dal cosmopolitismo al nazionalismo

1. La «nazione» politica

L’invasione napoleonica e la sconfitta di Jena non sono


per la Germania soltanto una vicenda politica, ma sono
anche l’inizio di una nuova rinascita. I primi romantici, o
meglio i romantici che vissero fra il 1796 e il 1805, erano
lieti di innalzare la cultura sulle colonne degli ideali
universali, per quanto in questi ideali non venisse mai
meno l’ansia di acquistare la coscienza del proprio passato.
Quando Napoleone, però, con la sua invasione spegne i loro
ideali e rende impossibile la convivenza di quei vari
nazionalismi che Herder aveva auspicato, i romantici
sentono che è necessario assumere un atteggiamento più
deciso e più realistico di fronte alla propria nazione. E i
primi a passare da una cittadinanza universale all’idea di
una nazione politica sono gli stessi Schlegel, i quali si
rifiutarono di accettare quel livellamento culturale e
politico che era implicito nel piano dell’espansione
napoleonica. Quale forza poteva e doveva pertanto opporsi
a quel livellamento se non il concetto di nazione? Ma
questa nazione, a sua volta, che cosa rappresentava nella
coscienza dei romantici della seconda generazione? E quali
sono i fattori che la determinano?
In una delle sue Philosophische Vorlesungen, che tenne a
Vienna fra il 1804 e il 1806, Friedrich Schlegel aveva
ammonito che la grandezza di una nazione si misura
dall’attaccamento che essa dimostra nei riguardi della sua
lingua, della sua religione, dei suoi usi, dei suoi costumi,
dei suoi modi di pensare e di vivere, poiché, come egli
stesso dice, «quanto più antico e puro è il ceppo, tanto più
lo sono i costumi; e quanto più lo sono i costumi, tanto
maggiore e più vero è l’attaccamento ad essi, tanto più
grande sarà la nazione» (ed. Windischmann, D, 385). Il
concetto non era nuovo, tanto è vero che l’attaccamento ai
propri costumi – di cui il Vico aveva individuato il carattere
storico – era stato proclamato come simbolo di nazionalità
dal Rousseau, dagli storiografi svizzeri, dal Möser e dallo
stesso Herder. Era stato quest’ultimo anzi a osservare nelle
Ideen che dall’idea dell’individualità di un popolo ciascun
popolo trae il proprio spirito nazionale. Ma ora quel monito
riecheggerà nella coscienza dei romantici della nuova
generazione addirittura come una presa di posizione
culturale e politica. Essi infatti, abbiano o no della nazione
una concezione folkloristica, sono concordi nel ritenere che
la nazione, se è il sacrario dove l’uomo può ritrovare quella
libertà che presiede alla formazione stessa degli individui, è
anche il simbolo vivente delle costumanze di un popolo.
Anzi, sono quest’ultime – nel più largo significato del
termine – che in essa convergono e in essa si organizzano
creandola. Ecco perché il temprarsi in questa forza
significa acquistare un’autocoscienza, che è la coscienza
del proprio passato e quindi di una concreta realtà storica.
L’esigenza di studiare in maniera sempre più dettagliata
la vita popolare in tutti i suoi aspetti accresce, così, quella
Rettungsgedanke che avevano auspicata il Lessing, lo
Herder e gli stessi Schlegel: la sollecitudine, cioè, di
salvare il patrimonio popolare che sembrava sommergersi e
sparire. Ed è a questa sollecitudine che si deve la
pubblicazione del Des Knaben Wunderhorn dovuto a
Ludwig Achim von Arnim e a Klemens Brentano.

2. Arnim, Brentano e il Wunderhorn

Non v’è dubbio che l’Arnim e il Brentano quando si


accinsero a compilare il Des Knaben Wunderhorn lo fecero
per arrivare dove non era arrivato lo stesso Herder. La loro
raccolta di canti popolari aveva uno scopo: mantenersi
esclusivamente nel proprio ambiente linguistico e culturale.
Non i Volkslieder del mondo erano l’oggetto della loro
ricerca, ma i Volkslieder del loro paese.
Dei due, il Brentano aveva per la Volkspoesie gli stessi
interessi che avevano animato un Novalis o un Tieck. Anche
egli pensava di utilizzare per la sua opera artistica le
vecchie favole e gli antichi Lieder. E già, fin dal 1802, nella
seconda parte del Godwi aveva inserito dei Lieder, di cui
era riuscito a fare un’importante collezione. È probabile
che August Wilhelm Schlegel pensasse a lui quando, nelle
Vorlesungen del 1803-1804, augurava alla Germania un
Percy. Ma il Brentano, a dire il vero, aspirava a ben altro
dall’essere un Percy. Aspirava cioè ad essere, e lo fu, un
artista. È noto, d’altra parte, che egli nella sua opera, non
solo si ispirò ai Lieder e ai Märchen del suo paese, ma
anche – si pensi che egli era figlio di padre italiano – al
Pentamerone del Basile e alle Favole del Gozzi. E i suoi
Märchen, protagonisti spesso gli animali, esprimono i più
delicati e raffinati sentimenti umani, e sono fra le cose più
belle che ci abbia dato il Romanticismo. Commenta con
acume il Maione: «Brentano è senza dubbio il re dei
favolisti romantici, nel canto del Märchen egli tocca l’animo
del fanciullo, si rifà fanciullo e questo gli rida un attimo di
felicità. Il suo romanticismo è in quel trasportarsi nel sogno
e abbandonarsi come nel proprio regno e farne
un’atmosfera di vita come e più della realtà, unica sua
realtà».
Fu l’Arnim che lo spinse a utilizzare la sua raccolta di
Lieder e compilarne, insieme a lui, un’antologia con
l’aggiunta di altri materiali, che furono attinti un po’ da per
tutto, dalla viva fonte della tradizione orale come dalle
antiche stampe. Può darsi che in un primo momento tanto
l’Arnim quanto il Brentano avessero pensato a un’opera di
più largo respiro. E di ciò è prova un annuncio che l’Arnim
pubblicò nel 1805 e dove, nel nome della comune patria,
invitava «gli uomini di buona volontà» a raccogliere «le
vestigia letterarie del proprio passato» ancor prima che
fosse tardi. Diceva quell’annuncio:

«Che ciascuno si lasci guidare, nella scelta di tutto ciò che crede di
comunicarci, dal suo gusto personale; il mio mi porta, riordinando la mia
pubblicazione, a comprendere e a servire tutti; io divento sempre più avido,
vedendo ogni giorno accrescersi le mie riserve; alle raccolte che seguiranno
saranno aggiunte melodie, disegni, particolarmente riproduzioni di vecchie
incisioni in legno e paesaggi, antiche leggende trasmesse oralmente e racconti;
così noi potremo riannodare un gran numero di fili nel vasto tessuto in cui la
nostra storia è raffigurata e che è nostro dovere continuare ad arricchire
sempre più».

L’Arnim ha dunque la coscienza di compiere raccogliendo


le tradizioni popolari del suo paese un’opera storica e
patriottica. Ma quando insieme al Brentano egli mette in
ordine la vasta materia del Des Knaben Wunderhorn, che è
limitata ai Lieder, si mantiene fedele ai testi raccolti? I due
collaboratori, e lo dichiareranno esplicitamente, non
vogliono fare opera di sapienti o di restauratori, bensì di
vivificatori. Da qui i loro geniali rifacimenti. Il primo
volume del Des Knaben Wunderhorn uscì nel 1806. Gli altri
due nel 1808. E grande, com’è noto, fu il successo di
quest’opera che apparve a tutta una generazione come la
fonte pura e fresca, cui attingeranno, a piene mani, la loro
ispirazione poeti (Eichendorff, Uhland, Hoffmann von
Fallersleben, Mörike, ecc.), musicisti (Schubert, Schumann
e Brahms) e pittori (si pensi soprattutto a Moritz von
Schwind). Sembrava che fosse stata dissotterrata una
nuova fonte di giovinezza alla lirica e alla musica.
Il Des Knaben Wunderhorn fu dedicato a Goethe come a
colui che aveva intuito il valore dei canti popolari,
facendone poi fonte dei suoi Lieder; e il Goethe fu uno dei
primi a salutare quel libro con simpatia, «In questi Lieder, –
egli osservò, – dovrebbero i Tedeschi fuori della loro nebbia
del presente confortarsi per ciò che attinge la natura dal
tempo in cui furono composti, ma che è proprio di tutti i
tempi». Né meno efficace, alcuni anni dopo, fu il giudizio
che ne diede Heinrich Heine, il quale non fu certo molto
tenero con i romantici del suo paese: «Io non posso fare
abbastanza l’elogio di questo libro. Esso contiene i più
leggiadri fiori dello spirito tedesco, e chi vuole imparare a
conoscere il popolo tedesco da un lato assai amabile deve
leggere questi canti popolari. In questo momento io ho sul
mio tavolo questo libro e mi sembra di sentire il profumo
dei tigli tedeschi… Il tiglio rappresenta una parte
principale di questi canti, alla sua ombra si carezzano la
sera gli amanti, è il loro albero prediletto, ed è forse per
questa ragione che la foglia del tiglio ha forma del cuore
umano». Ma i tigli e gli amanti, se pur interessavano il
Brentano, per quanto anch’egli avesse vivo e profondo il
sentimento della patria, lasciavano indifferente l’Arnim, il
quale traeva il suo concetto di nazionalità tedesca dalla
storia tedesca, da quella storia, cioè, che egli cercava di
ricomporre con i fili della tradizione orale e popolare.

3. Fondamenti per una letteratura popolare educativa

L’interesse scientifico del Des Knaben Wunderhorn è


ancor oggi costituito tuttavia dalla dissertazione dell’Arnim
che chiude il primo volume della raccolta e che è intitolata:
Von Volksliedern. È in essa, infatti, che noi vediamo non
solo ragionato il concetto di poesia popolare, ma anche il
concetto di popolo. È in essa che troviamo, forse per la
prima volta, il termine di Volkskunde (che più tardi il Riehl
assumerà per indicare il nome di Scienza delle antichità
tedesche) e che poi prenderà in Germania il posto che
altrove avrà il termine folklore (per quanto l’uno e l’altro
saranno a volte riempiti di significati diversi). Ed è in essa,
infine, che ci appare quale valore l’Arnim abbia dato tanto
alla poesia popolare quanto al popolo come mediazione per
una letteratura educativa.
L’Arnim non esita, raccogliendo le istanze dello Herder e
dei primi romantici, a opporre la poesia popolare a quella
delle classi più alte. Il popolo, a sua volta, gli appare come
una forza sana e istintiva, di contro alle classi borghesi
infiacchite e modernizzate. Poeta, il popolo. Di cattivo gusto
e impoetica la borghesia. E il popolo per lui è già un
concetto sociologico, vale a dire una determinata classe,
quella dei contadini e degli artigiani, i quali, parte viva e
integrante della nazione, hanno anch’essi il dono della
poesia, solo che la loro poesia, a differenza di quella delle
classi colte, è anonima. Ma anonima per lui, si badi bene,
non significa impersonale. Anzi egli va oltre, e aggiunge
che anche il poeta popolare anonimo ha pur sempre una
sua coscienza artistica.
Questo però non è che uno degli aspetti del Volkslied, il
quale, a suo avviso, si impone, come tutto ciò che è
popolare, per la sua forma e per la sua beltà interiore. Era
stato A. W. Schlegel a distinguere la poesia del popolo dalla
poesia fatta per il popolo. Ma l’Arnim, in proposito, vuole
essere più chiaro e più preciso. Egli infatti ritiene che una
poesia adottata, amata e cantata dal popolo, diviene
popolare, chiunque sia l’autore, e che pertanto diviene
popolare tutto ciò che si è diffuso in mezzo al popolo, tutto
ciò che vive nel popolo, quale che sia la fonte da cui derivi.
Ecco perché, egli aggiunge, noi dobbiamo considerare
come poesia popolare anche il Fischer di Goethe che il
popolo accoglie, ripete e canta ignorando però chi sia
l’autore. In altri termini un Lied diffuso fra il popolo è
popolare ove manchi nel popolo la coscienza dell’autore
che l’ha creato. Era la sua indubbiamente un’intuizione, la
quale stabiliva che la poesia popolare va ricercata non nella
sua origine bensì nel suo carattere. Ma l’Arnim considerava
popolari anche Lutero e Lorenzo il Magnifico, nel che è
evidente l’influsso dello Herder e del Bürger. E in base a
questo concetto non si sentiva egli stesso uno di quei poeti
le cui parole, ispirate dal popolo, possono diventare la voce
di tutto un popolo?
I rimaneggiamenti che egli ha fatto dei Lieder vogliono
avere questo specifico scopo: creare quella che è, o deve
essere, la vera letteratura popolare. Lo Herder aveva già
ammonito: educa e forma il tuo spirito sullo spirito del
popolo, diventa l’imitatore del suo stesso spirito. E A. W.
Schlegel: che un poeta ritocchi con la sua fantasia la poesia
del popolo e sarà egli stesso il migliore poeta. Bene:
l’impegno dell’Arnim sarà quello di educare il suo spirito
sul popolo per diventare egli stesso poeta del popolo. E i
canti del popolo sono chiamati a diventare i canti della
nazione.
L’Arnim riteneva che un canto popolare, un Lied, è pur
sempre qualcosa di elastico, una forma che continuamente
si rinnova. Il che è già una chiara e netta intuizione del
concetto che la poesia popolare in tanto è tale in quanto è
soggetta a una continua elaborazione. Ora se il popolo
trasforma continuamente i suoi canti, non tocca al
raccoglitore fissarne la forma definitiva e creare così una
letteratura popolare?
Nello stesso anno in cui uscì il primo volume del Des
Knaben Wunderhorn, l’Arndt pubblicava il suo Geist der
Zeit, dove concepiva lo spirito segreto del popolo come una
forza primigenia immutabile che, in condizione di civiltà,
appare soltanto in uomini eccezionali. Ma questa tesi, in
fondo, non coincide appunto con l’idea che, nel campo della
letteratura, avevano lo A. W. Schlegel e l’Arnim quando
affidavano a uomini eccezionali il potere di esprimere nei
Lieder o meglio nei loro rimaneggiamenti lo stesso spirito
del popolo?
L’Arnim aveva ben chiara la coscienza di sacrificare la
filologia allo spirito popolare. Ma qui è in gran parte la
differenza del Des Knaben Wunderhorn con le opere di un
Novalis, di un Tieck e dello stesso Brentano. Nel
rielaborare i Märchen della loro terra (o di altre terre)
costoro si erano serviti del popolo e della sua letteratura
come di un medium per una buona letteratura, ma per una
buona letteratura che non poteva certo andare in mezzo al
popolo. E in ciò, nota il Vincenti, essi erano in fondo
seguaci dei preromantici inglesi, che, risalendo al passato,
tendevano ad alimentare la sorgente della poesia e della
letteratura. Il Des Knaben Wunderhorn invece, se pur vuole
imporre il gusto per la poesia popolare, e con essa i suoi
miti, vuole soprattutto costituire un testo di letteratura
popolare educativa.
Questo lo scopo dei geniali rimaneggiamenti dell’Arnim e
del Brentano, i quali, nel ricreare quella letteratura,
pensavano che da essa il popolo, tutto il popolo o meglio
tutta la nazione, potesse trarre coscienza della propria
nazionalità. E di ciò ben si accorse il ministro prussiano von
Stein quando raccomandò «questo libro di poemi unico per
la sua importanza» come «atto a suscitare nel Volk il
patriottismo per la liberazione dai francesi». Il che, d’altro
lato, costituì anche il programma della «Zeitung für
Einsiedler», la quale, diretta dall’Arnim, si proponeva il
compito di risvegliare l’amore per tutto ciò che riguarda i
rapporti fra l’individuo e il popolo.

4. Görres, o della poesia popolare

Collaboratore della «Zeitung» dell’Arnim fu Joseph


Görres, il quale condivise con l’Arnim e col Brentano il
culto del Medioevo tedesco e della sua letteratura. Il
Görres, appunto per questo, si accinse a studiare quei
Deutsche Volksbücher che erano stati cari al Tieck e al
Brentano. Ed è in questo suo lavoro, edito nel 1807, che
egli esalta la letteratura popolare come strumento della
nazionalità tedesca.
Il Görres, prima di accingersi a studiare la poesia
popolare, si era occupato soprattutto di studi mitologici, cui
era pervenuto sotto l’influsso delle teorie romantiche e
orientalistiche. Ed è del 1805 uno suo arruffato, ma acuto e
geniale lavoro, Glauben und Wissen, dove egli, se da una
parte sostiene l’idea che i miti e le leggende si debbano far
risalire a un unico mito, dall’altra sostiene che per la prima
volta questo mito fu rivelato ai popoli dell’India, da dove si
propagò come fuoco sacro a tutti i popoli, compreso il
germanico. Il che in fondo significava restringere soltanto
all’India le idee già manifestate in proposito dallo Huet fin
dal 1700. È noto peraltro che cinque anni dopo il Gorres
ritornò sul problema delle origini inerenti alla mitologia e
alla religione nella sua ampia Mythengeschichte, dove egli,
dopo aver compiuto un vasto esame della storia delle
religioni, conclude che ciascuna religione è identica nei
suoi tratti fondamentali a una religione unica (in cui è
predominante il culto della natura e le cui vestigia o meglio
le cui sopravvivenze si trovano in tutti i popoli moderni). Il
Gorres finiva quindi con l’ammettere che tutta l’attività
intellettuale dell’uomo non è che il rapporto stesso fra il
divino e l’umano. E ciò era stato già ampiamente affermato
anche dal Kanne nel suo Pantheum der ältesten
Naturphilosophie, che è del 1809. Né su questo punto sarà
diversa la conclusione cui giunge un altro mitologo del
tempo, il Creuzer, il quale nella sua Symbolik, che uscì in
quattro grossi volumi dal 1810 al 1812, sostiene,
riattaccandosi così al Lafitau, che anche la mitologia dei
pagani non è che la deformazione della rivelazione fatta da
Dio al popolo.
Il lavoro del Gorres sui Deutsche Volksbücher uscì nel
periodo di tempo che corre fra la compilazione del Glauben
e della Mythengeschichte. Ma che cosa sono per lui questi
Volksbücher se non uno dei migliori patrimoni che possiede
la Germania letteraria e che perciò bisogna mettere in luce
e studiare come simbolo delle sue aspirazioni? Nella
prefazione dei Volksbücher il Görres distingue come
Herder la Naturpoesie dalla Kunstpoesie, e non esita ad
affermare che le canzoni popolari si debbono considerare
non come opere d’arte, bensì come opere della natura. Ma
la sua affermazione contrasta con tutto ciò che egli
immediatamente sostiene quando investe in pieno la
problematica della poesia popolare.
Il Görres infatti, e in ciò è vicino tanto ad A. W. Schlegel
quanto all’Arnim, è dell’avviso che la poesia popolare, cui
peraltro si riattaccano i libretti popolari, vale a dire i
Volksbücher, è composta dal popolo o per il popolo; ma che
tuttavia nell’un caso e nell’altro in tanto essa è popolare in
quanto è diffusa fra il popolo di cui testimonia le qualità. E
il popolo – si noti bene – per lui è formato da quegli
individui che hanno il cuore puro e lo spirito nobile.
Questa premessa lo porta ad affermare che anche i
Volksbücher sono opera di poeti e perciò di individui
particolari. E per quanto, come afferma il Tonnelat, le sue
concezioni sulla poesia popolare, restino spesso fluttuanti e
contraddittorie, egli tuttavia rimane fermo su un punto: che
la poesia popolare ha carattere sacro. Né del resto la
concezione che egli ha della poesia popolare ha altro senso,
aggiunge il Tonnelat, se non quello che i romantici come
Novalis e Tieck le avevano dato quando consideravano la
natura pur sempre come la suprema creatrice della poesia,
dell’arte e della bellezza.
Questa presa di posizione nei riguardi della poesia
popolare fu sostenuta dal Görres anche nei numerosi
articoli che egli pubblicò nel «Rheinischer Merkur»,
definito da Napoleone come la «quinta grande potenza dei
suoi nemici». Ma è nella prefazione e nelle note con cui
commenta i quarantanove Volksbücher, da lui presi in
esame, che il Görres sostiene energicamente l’interesse
che la Germania ha, e deve avere, per la poesia popolare, la
quale, per quanto semplice e ingenua, non perciò è
inferiore alla Kunstpoesie. Né egli esita ad affermare che la
stessa letteratura colta acquista non solo un altro
carattere, ma anche una maggiore vitalità, quando dallo
«stretto cerchio delle classi superiori discende nel popolo,
diventando tutt’una con esso»: il che da appunto un
particolare carattere alla letteratura popolare. Ecco, egli
aggiunge, perché «la grande repubblica delle lettere può
avere anch’essa una Camera bassa, dove la nazione stessa
è direttamente rappresentata». Ed egli, come l’Arnim, non
si nasconde quale impulso da quella poesia può trarre la
nuova letteratura, la quale in quel tempo – ed ecco il
legame fra la poesia e la politica – non poteva essere che
nazionale e patriottica, e quindi ancora una volta contraria
a tutto ciò che era e poteva essere francese. Così come il
popolo basso – e qui il termine basso è evidente che ha
soltanto un carattere distintivo – è necessario alla nazione,
allo stesso modo per il Görres era necessaria alla nazione la
letteratura che esprimeva le aspirazioni di questo popolo. E
la nazione, allora, ecco che non è più l’insieme di classi,
opposte l’una all’altra, bensì un’unione di classi che si
compenetrano e si completano creando un unico e solo
carattere nazionale.

5. Babbo Jahn, fra Rousseau e Fichte

Questo stesso concetto fu espresso allora, anzi per usare


l’espressione più esatta fu gridato, da Friedrich L. Jahn, il
quale nel libro Das deutsche Volkstum sostituisce
addirittura i termini di Nation e Nationalität, di cui son
piene le pagine dell’Arnim e del Görres con quelle di Volk e
di Volkstum. Egli sostiene energicamente che il Volk è
l’insieme di tutte le classi sociali, mentre il Volkstum,
parola da lui coniata per la prima volta, è in sostanza quel
pensiero e quel sentimento popolari che costituiscono la
fede comune di un popolo, che è quanto dire lo spirito
popolare. Da qui, a sua volta, l’altro termine di
Volkstumskunde che sarebbe la scienza della nazionalità
cui lo Jahn voleva dare un fondamento ben saldo.
Das deutsche Volkstum uscì nel 1810. Dal 1807 al 1808
erano state tenute dal Fichte le Reden an die deutsche
Nation. Ma l’opera del Fichte, osserva il Viereck, non
poteva, data l’astruseria della sua metafisica, rivolgersi che
a un numero ristretto di persone, mentre il libro di Jahn
offriva un programma più pratico in uno stile così colorito e
demagogico che il generale Blücher, uno dei vincitori di
Napoleone, lo chiamò addirittura «il più tedesco cannone
verbale». Senonché, quali sono in effetti i rapporti fra i due
libri che pur si propongono lo stesso fine?
Nelle Reden il Fichte si preoccupa anzitutto di formulare
il concetto di un’organizzazione statale. Ma questa
organizzazione poteva ormai basarsi su quel concetto dello
stato nazionale, quale era stato preconizzato dalla
Rivoluzione francese e a cui egli in un primo momento
aveva aderito? Oppure essa doveva fondarsi sul concetto
stesso del popolo tedesco, che è il popolo primordiale per
eccellenza (l’Urvolk) con una sua lingua aborigena
originale (l’Ursprache), onde, per esso, ricevere dal di fuori
è corrompersi e venir meno alla sua funzione sociale?
I romantici della prima generazione, e con essi il Görres,
non erano stati alieni dal riconoscere quanto si fosse
avvantaggiata degli imprestiti la loro letteratura delle
origini. E ciò era stato uno dei loro meriti. Ma Fichte è su
un piano diverso, tanto è vero che a lui interessa il popolo
originario, il popolo che non ha attributi e in cui, tuttavia, si
invera l’uomo che fonda la sua fede su un determinato
ordine di cose. Come egli stesso afferma:

«Un tale ordine è quella speciale natura spirituale dell’ambiente umano, che
esiste realmente anche se non può essere compresa in un concetto: quella
natura, dico, da cui egli stesso discende con la sua azione, col suo pensiero e
con la sua fede nell’eternità, cioè il popolo dal quale ha origine, in mezzo al
quale egli fu educato e divenne ciò che è ora» (Reden, VIII).

Il Fichte sente per il Medioevo tedesco quello stesso


amore, chiuso e violento, che ebbero un Novalis, un Tieck,
gli Schlegel, un Arnim e un Görres. Di più egli, ispirandosi
a quel gruppo di romantici che si raccoglievano intorno a
Schiller e a Humboldt, non solo auspica l’idea di una
missione universale della nazione tedesca, ma la esaspera
portandola alle più estreme e pericolose conseguenze. Ma
il popolo, cui egli affida tale missione, non deve appunto
per questo sottoporsi a una educazione che lo elevi nel
regno della ragione e in quello della libertà del mondo?
Questa in effetti la tesi delle Reden del Fichte, dove il
nazionalismo assume gli stessi caratteri del cosmopolitismo
e dove l’analisi stessa di quel nazionalismo-cosmopolitismo,
chiamato a reggere la nuova organizzazione sociale, lo
porta a riscoprire nello spirito dei popoli l’humus di una
società spirituale che da significato al nostro fare. E la tesi
suggestiona certo lo Jahn per quanto riguarda la missione
del popolo tedesco, cui egli augura non solo l’unione, ma la
forza di espandersi, onde cristianizzare, fra l’altro, gli Slavi.
Ma lo Jahn non è un pensatore, è un agitatore; ed egli
dell’educazione di cui ha bisogno un popolo, perché in esso
nasca il sentimento della nazionalità, ha un concetto molto
diverso da quello del Fichte. Direi, ha un concetto
esclusivamente folkloristico. Spirito ricettivo e assimilatore
ben di rado egli esprime opinioni sue, ma le esprime con la
convinzione che siano sue. E in fondo la sua stessa rozzezza
non è, come ben osserva il Treitschke, l’arte raffinata di chi
sa ipnotizzare e convincere?
Nemico dichiarato della Francia e dei Francesi, lo Jahn è
il rappresentante tipico di un giacobinismo che si riveste di
panni teutonici. E il suo Deutsche Volkstum non è solo
improntato, in un certo senso, agli stessi ideali della
Rivoluzione francese ma trova le sue pezze d’appoggio più
dirette nelle Considérations sur le gouvernement de
Pologne del Rousseau.
Giovane, ancora studente, lo Jahn si era ritirato a vivere
in una grotta in spregio alla società del suo tempo,
«smidollata» e «franciosizzata». Ed egli, è evidente, in ciò
credeva di realizzare ingenuamente il mito del buon
selvaggio postulato dal Rousseau. Quando Napoleone
invase il suo paese andò subito però come volontario nelle
crociate contro i Francesi. E tale, crociato della libertà e
della indipendenza tedesca, rimase nel periodo che va dal
1806 al 1813, durante cui egli, nemico di ogni
cosmopolitismo, si fece banditore del più acceso
nazionalismo prussiano e costituì delle società ginnastiche,
le quali altro non erano che, in maniera ridotta, delle
adunanze popolari. Ma queste non erano state nelle
Considérations già auspicate dal Rousseau? I ginnasti dello
Jahn avevano inoltre un unico costume in modo che essi
apparissero e fossero tutti uguali. E a un costume
nazionale, a un costume tedesco, penserà più tardi lo Jahn
come al più puro simbolo della nazionalità tedesca.
Il credo dello Jahn risiede anzitutto nel popolo che crea
tutta la sua storia. Ma che cos’è, a sua volta, questo popolo
se non l’artefice di quelle caratteristiche manifestazioni che
lo formano, onde egli ha il dovere di essere puro, in quanto
più puro è un popolo – ecco Friedrich Schlegel – tanto è
migliore? «Solamente l’unione delle masse con lo Stato, –
proclama, – può rivestire lo scheletro dello Stato con la
calda carne e il sangue del popolo». Ed ecco che egli, da
buon giacobino tedesco, non esita a proclamare l’abolizione
delle classi feudali e dei loro privilegi, la libera proprietà
della terra, una pubblica istruzione elementare che
accomuni i bimbi di tutte le classi sociali: idee che lo Stein
fece in parte sue e che furono liberamente applicate nello
Stato prussiano.
Per creare l’unità fra lo Stato e il popolo, lo Jahn non
esita, quindi, a proporre di nazionalizzare l’arte. Nelle
adunate ginnastiche egli non aveva esitato ad infiammare i
giovani leggendo i Nibelunghi. Ed era e fu sempre
dell’avviso che le antologie dei giovani avrebbero dovuto
contenere i Lieder tedeschi, i Märchen, le leggende degli
eroi tedeschi, i frutti della sapienza popolare.
Un acuto folklorista tedesco, Adolf Spamer, ha
recentemente affermato che lo Jahn vide per primo negli
usi e nei costumi popolari, nei canti, nella lingua, nei
giochi, nell’arte i mezzi più sicuri per «un rinnovamento,
approfondimento e rafforzamento della vita di un popolo».
Ma la verità è diversa, ove si pensi che l’Arnim e il Görres
avevano già considerato la letteratura popolare come uno
strumento atto ad inculcare il sentimento nazionale, e che
lo Jahn, quando allarga quel concetto, estendendolo a tutte
le tradizioni, ritorna in fondo al Möser. In realtà, mentre
per un Arnim o per un Görres, come del resto per A. W.
Schlegel, le produzioni popolari sono individuali per la
creazione e collettive per la loro diffusione, allo Jahn tali
produzioni interessano in quanto sono l’espressione di
un’anima collettiva con cui si può educare il Volk, cioè il
popolo. È il popolo insomma che educa sé con se stesso. Ma
qui ecco che lo Jahn si pone nella stessa posizione di un
Arnim o di un Görres, in quanto è lui stesso a farsi tramite
di quella educazione, dove la tradizione non è delimitata
dalla ragione come nel Fichte, ma da se stessa, che è
quanto dire dalle sue forze collettive e istintive.

6. Savigny e la «fabbrica delle leggi»

Di ben altra natura è, qualche anno dopo, quando già la


figura dello Jahn cominciava a rappresentare la parte di
una comparsa, il richiamo che nel 1814 Friedrich K. von
Savigny fa a queste forze istintive e popolari. Il Thibaut
aveva allora avanzato la proposta di unificare la
legislazione tedesca e di creare un codice civile. E ciò,
secondo lui, per salvare le istituzioni liberali che Napoleone
aveva introdotto nel suo paese. Senonché creare un codice
che potesse livellare tutte le regioni, senza tenere conto del
loro modo di vivere e di pensare, non significava, obietterà
il Savigny, riconoscere la validità di quel codice
napoleonico che egli stesso considerava come un
monumento di orgoglio, frutto delle astruserie dei filosofi e
degli ideologi?
Era convincimento del Savigny invece, ed egli aveva già
espresso questo convincimento fin dal 1803 nel suo lavoro
Das Recht des Besitzers, che il diritto non dovesse restare
immutabile, e che l’opera dei legislatori dovesse essere non
di creatori ma di scribi intelligenti, volti a comprendere lo
spirito dei tempi. Da qui il valore che egli, come già il
Möser, attribuisce alle consuetudini e quindi
implicitamente a quel diritto popolare che, pur convivendo
nel seno delle consuetudini giuridiche, si invera in quelle
innumerevoli forme rituali o abitudinarie le quali sono
espresse anche dai gesti, dai proverbi, dalle sentenze, dai
canti ecc., e che coinvolge il diritto familiare, il possessivo,
il contrattuale e il punitivo. Questo, egli ammoniva, è il
linguaggio delle istituzioni popolari, le quali localmente –
ecco ancora Möser contro Voltaire – sono rette da
determinati usi, e perciò da fatti che servono a determinare
il diritto stesso. Anche un discepolo del Vico, il Cuoco,
aveva detto in Italia che ciò che va bene a Parigi non va
bene a Napoli. E si può pretendere, allo stesso modo, che
ciò che giuridicamente va bene per la Westfalia vada bene
per l’Assia? Né in proposito erano mancate in Germania
delle ricerche particolari come quelle, ad esempio, del
Reitemer, del Biener e del Martens, i quali avevano
appunto indagato le varie consuetudini popolari tedesche:
lavoro questo che sarà poi completato e portato alla
perfezione, anche per quanto riguarda il diritto popolare,
da un fedele discepolo del Savigny, il Puchta.
Studioso impareggiabile del diritto romano – è a tutti
nota la sua Geschichte des römischen Rechts im Mittelalter
– il Savigny sapeva che nell’antica Roma esisteva accanto a
un jus scriptum un jus non scriptum, che era quanto dire un
diritto consuetudinario. Sapeva altresì quale valore avesse
avuto il diritto consuetudinario non solo fra gli antichi
Germani, ma anche, ad esempio, in Italia, dove gli statuti
avevano codificato delle norme consuetudinarie. Ed egli
pertanto non solo si richiama a quella traduzione, ma la
romanticizza. Dallo Schelling il Savigny, cognato del
Brentano, aveva imparato che un’opera d’arte come un
principio di diritto, è pur sempre l’opera di una intelligenza
incosciente e impersonale. E tale massima era stata di
guida, fra l’altro, al Niebuhr, il quale, pubblicando nel 1810
la sua Römische Geschichte, considerava la vita della
nazione romana come il frutto del genio popolare (mentre,
d’altro canto, si rifaceva al Möser e al suo concetto delle
comunità agrarie per dare fondamento alla primitiva storia
di Roma, sempre investita della luce di un epos nazionale,
concepito secondo gli schemi del Wolf).
Il Savigny, forte di queste istanze culturali, non solo,
come osserva il Meinecke, giustifica perciò e sanziona
«tutti gli istituti e le forme tradizionali di vita richiamandosi
al genio del popolo, che crea volontariamente, ma
condanna di conseguenza ogni arbitraria ingerenza nella
vita degli stati in quanto è violazione di un ordine di cose
creatosi naturalmente». Ma questa condanna è veramente,
come si crede, condanna del presente, nel senso che il
Savigny auspica soltanto un ritorno al vecchio diritto
germanico, oppure essa in tanto ha un valore in quanto non
vuole intaccare quella continuità di sviluppo che è insita nel
diritto stesso?

7. Valore della scuola e del diritto consuetudinario

Nel suo celebre saggio edito nel 1814 Von Beruf unserer
Zeit für Gesetzgebung und Rechtswissenschaft, il Savigny
ammonisce che «ogni diritto nasce per opera di forze
interiori che agiscono in silenzio e non per l’arbitrio del
legislatore». Né diverso è, qualche anno più tardi, il
concetto che egli esprime sul diritto nel tracciare il
programma della «Zeitschrift für geschichtliche
Rechtswissenschaft», dove sostiene che la scuola storica
suppone che la materia del diritto sia data da tutto il
passato della nazione. Tale materia potrebbe essere questa
o quella indifferentemente, sempre che scaturisca
dall’intimità stessa della nazione. Non esiste pertanto
nessun momento isolato dell’esistenza umana, in quanto
ogni uomo è tale perché in lui convergono la storia e
l’umanità. Con le sue stesse parole:

«Se questo è vero, ogni tempo non trae fuori arbitrariamente il suo mondo, ma
lo trae in indissolubile connessione con tutto il passato. Allora ogni età deve
riconoscere qualcosa di dato, che è insieme necessario e libero; necessario in
quanto non dipende dall’arbitrio del presente, libero perché non procede da un
estraneo arbitrio, ma dalla più elevata natura del popolo, come un tutto in via
di sviluppo. Di questo tutto, anche l’età presente è un membro che vuole e
capisce in esso e con esso, in modo che ciò che da quest’ultimo è dato, anche
da quello può essere liberamente prodotto. La storia è, in tal caso, non una
raccolta di esempi, ma l’unica via della vera conoscenza della nostra
situazione».

L’appello al passato della nazione non è tale comunque


da determinare nel Savigny il culto esclusivo del passato.
Dice il Sorel che nella scuola storica non v’è posto per il
diritto futuro. Ma contro questa tesi sta il concetto stesso
che il Savigny ebbe del diritto consuetudinario, il quale fu
da lui paragonato a tutti gli altri istituti che appunto perché
tali, sono sempre in una fase di continua trasformazione. La
vita del diritto non è differente, insomma, da quella dei
Lieder come l’aveva visto l’Arnim. Oppure, come afferma il
Savigny, della lingua. Esso, il diritto, è perciò un momento
della storia ed è alla storia che bisogna chiedere la ragione
delle sue esigenze, tanto più che esso vive nella pratica,
che è quanto dire nella consuetudine, la quale è
l’espressione immediata della coscienza giuridica popolare.

«Correva allora [osserva lo Jhering nel commentare questa teoria del Savigny]
per la nostra poesia il periodo romantico. E chi non si spaventa di questa
applicazione del concetto romantico alla giurisprudenza e voglia prendersi la
pena di paragonare fra loro gli indirizzi corrispondenti nei due campi, forse non
mi darà torto se affermo che la scuola storica potrebbe, con egual diritto, esser
chiamata romantica. In realtà, è una rappresentazione veramente romantica,
cioè a dire, basata su una falsa idealizzazione di passate cognizioni, quella,
secondo la quale il diritto s’andrebbe formando senza stento né sforzo e senza
attività, proprio come il fungo del campo. La cruda realtà ci insegna appunto il
contrario».

Nessun insegnamento in effetti noi possiamo trarre dalla


teoria del Savigny, ove noi non la consideriamo su due piani
ben distinti: uno inerente alla nascita del diritto, l’altro alla
sua applicazione. Ora in quanto alla nascita del diritto, che
è quanto dire alle sue fonti, quale valore ha la coscienza
popolare? E questa, si obietta, non è già qualcosa di
misterioso e di inafferrabile, onde, un diritto così concepito,
un diritto cioè che deriva dalla stessa coscienza giuridica di
un popolo, pone se mai un problema di carattere
psicologico, non storico? Il fatto vero è che le origini del
diritto si risolvono nella vita stessa del diritto, e che la
coscienza di un popolo non è che la coscienza dei propri
singoli. C’è, indubbiamente, una lotta per il diritto, ma c’è
anche una adesione al diritto che è frutto della propria
tradizione, la quale non è solo il nostro passato, ma anche,
con tutte le sue innovazioni, il nostro avvenire. E il merito
del Savigny consiste in ciò: nell’avere da una parte
richiamato l’attenzione degli studiosi al Gemeinsame
Bewusstsein als gemeinsame Aberzeugung des Volks quale
sorgente del diritto – il che era una efficace protesta non
solo contro ogni arbitrio legislativo e quindi contro le
posizioni statiche del giusnaturalismo – ma soprattutto
nell’aver postulato questo programma: che non è possibile
legiferare senza tener in conto le consuetudini popolari che
sono la vita del diritto. Il fatto di sapere qual è l’origine del
diritto è una questione filosofica come lo è il problema di
tutte le origini. Ma v’era nella scuola storica, ed ecco
perché essa è storica oltre che romantica, l’esigenza di
promuovere lo studio del fatto storico del diritto,
considerando il sorgere di esso in relazione alle condizioni
particolari di ciascun popolo.
Il problema del diritto consuetudinario si presenta infatti
oggi come un problema a sé, come un problema, cioè,
inteso a scoprire il diritto stesso in un’unità che è di
volontà insieme universale e particolare. E perciò la
consuetudine, quando rimane ancora fluida, assume spesso
il valore di un fatto normativo cui lo stesso legislatore si
rivolge e che ogni nazione ha il dovere di conoscere. Ma di
ciò non dobbiamo esser grati al Savigny?

8. Il Volk come organismo umano e umanitario

È chiaro dunque che i romantici della seconda


generazione, cui si attacca il Savigny, sentano il Volk, il
popolo, tutto il popolo (di cui la classe umile è parte viva)
come un organismo dove a parità di diritti, si incontrano
tutte le classi e perciò tutte le culture. Capace di avvertire
la stessa coscienza nazionale, in quanto in esso si
conservano, pure e intatte, le forme dello spirito creatore
che presiede alla propria stirpe, il Volk, vivaio di forze
conservatrici, sarà chiamato tuttavia a una funzione
eminentemente rivoluzionaria. Assumerà il carattere del
bon sauvage del Rousseau. Ma con questa notevole
differenza che è stata acutamente sottolineata dal Walzel:
che il Romanticismo tedesco rinunzierà a voler ricondurre
l’uomo a una dubbia felicità di un mondo incolto, e
cercherà di ridurlo invece a un’unica superiore perfezione
spirituale di cultura. Il Volk insomma darà vita al concetto
di nazione, e attraverso la nazione allo Stato, ma sarà
anche chiamato a meditare una educazione nazionale che
sarà il frutto del suo stesso patrimonio intellettuale. Né al
raggiungimento di questa educazione tenderanno soltanto
la filosofia, la letteratura, il diritto, il folklore. Vi tenderà
anche la musica: insegni Weber, la cui opera, in gran parte,
non è che un’interpretazione della natura o meglio
dell’anima tedesca, e la cui influenza, sotto certi aspetti,
arriverà fino a Wagner, almeno, come bene osserva il Mila,
fino al Tannhduser.
Il Volk, il popolo, appunto per questo non è soltanto un
concetto culturale, anche se la letteratura è il campo
principale del suo essere e del suo sentire; ma è
contemporaneamente un concetto umano, tanto è vero che
le espressioni cui ricorrono gli stessi romantici della
seconda generazione, quali quelle di genio di un popolo o
meglio di spirito di un popolo, rimarrebbero senza
significato, se si volessero restringere nei loro termini
naturalistici.
Quando lo Hegel cercò di chiarire a se stesso quelle
espressioni o meglio l’ultima (che già era stata adoperata
dall’Arnim, dall’Arndt e dal Savigny) non esitò infatti a
considerare lo Stato come una forza intimamente collegata
con l’arte, la religione, la filosofia. Ed era a questa sostanza
che egli si appellava per definire il Volksgeist. Nello spirito
di un popolo, egli ammonisce, vive un principio unitario che
si realizza uniformemente in tutte le sue manifestazioni ed
aspirazioni. È noto che lo Hegel considerava lo spirito come
un essere che è soltanto in quanto diviene, e che la sua
storia è tutto ciò che in esso si raccoglie in perfetta dignità.
E bene, come egli dirà nella sua Philosophie der Geschichte
(IX, § 44):

«Lo Spirito agisce per sua essenza, egli si fa ciò che è in sé: propria azione,
propria opera. Così avviene anche per lo spirito di un popolo; il suo agire
significa il suo divenire in un mondo esistente che esiste anche nello spazio. La
sua religione, il suo culto, la sua morale, i suoi usi, la sua arte, la sua
costituzione, le sue leggi politiche, tutto quanto abbraccia le sue istituzioni, le
sue vicende e azioni, tutto ciò è opera sua, e tutto ciò è questo popolo».

È vero che questo spirito, il quale peraltro trova la sua


incarnazione nello Stato prussiano, è affine, ma non
identico, ritiene il Meinecke, a quello dei romantici e del
Savigny. Nell’uno e negli altri, i popoli sono comunque ciò
che sono le loro opere con la loro eredità spirituale. E fra
queste opere quelle prodotte dalla vita popolare, dal
folklore, vanno considerate come il frutto di una
rinnovantesi eredità spirituale che produce appunto gli usi,
i culti, i Lieder, i Märchen, ecc., in una parola le tradizioni
popolari, dove la nazione riflette e rispecchia il meglio di se
stessa. E in ciò i romantici avranno magari esagerato: ma
essi, o meglio anch’essi sulla via tracciata dai preromantici,
danno al folklore l’importanza di una idea-forza che, fra
l’altro, da un nuovo e pregnante impulso alla germanistica,
la quale, ormai intimamente collegata col mito del
Volksgeist, avrà i suoi più attivi rappresentanti nei fratelli
Grimm.
13. I fratelli Grimm

1. La poesia popolare come miracolo

Si può senz’altro affermare che la germanistica dei


fratelli Grimm si basa soprattutto sul mito della poesia
popolare; ma questo mito è quello che i loro predecessori,
sulle orme del preromanticismo, avevano forgiato, o invece
esso assume in loro un nuovo aspetto, una nuova funzione?
Convinti che la poesia popolare debba considerarsi come
un fattore della vita nazionale, i Grimm sono in ciò sulla
stessa via di un Herder, di un Brentano, di un Arnim, di un
Görres, i quali però riconobbero sempre, pur dando un
legittimo riconoscimento al valore della collettività, che la
poesia popolare è il frutto di determinate individualità
poetiche. Ben altra invece è la tesi dei Grimm, i quali
ritengono che la poesia popolare non solo è una poesia
anonima, impersonale e collettiva, ma che essa, come la
lingua di cui è espressione, e come la mitologia a cui si
collega, è di origine essenzialmente divina.
In un suo celebre saggio pubblicato nella rivista
dell’Arnim, la «Zeitung für Einsiedler», il fratello maggiore,
Jacob, nel 1808, non solo sostiene energicamente questa
tesi che capovolge le precedenti conquiste romantiche
inerenti al mondo della poesia popolare, ma, nel porre in
relazione la Naturpoesie e la Kunstpoesie, osserva che
quest’ultima è una poesia riflessa e perciò di origine
umana, dovuta a gente dotta. Non si vuol dire con ciò,
aggiunge, che, nei suoi ulteriori sviluppi, la poesia popolare
non abbia anch’essa i suoi autori. Ma questi si annullano
pur sempre nell’anonimato, o meglio nella collettività, di
cui raccolgono le ansie e le aspirazioni; e ove comparissero
ci accorgeremmo che appartengono a una categoria di
gente semplice e comunque poco istruita.
«Noi vorremmo avere la prova di questi fatti»,
commentava l’Arnim in una nota che accompagnava
l’articolo di Jacob. L’Arnim infatti non si sentiva affatto un
ignorante, eppure nel Des Knaben Wunderhorn aveva
voluto dimostrare che anche un poeta dotto può fare della
poesia popolare, ove egli, appunto, si metta in quello stato
di grazia che è proprio del poeta popolare. Ma quel suo
commento non si poteva a sua volta estendere alle
considerazioni che, nello stesso 1808, Wilhelm, a proposito
dei Nibelunghi, veniva facendo negli Studien, diretti dal
Daub e dal Creuzer?
Meno dogmatico del fratello, ma anch’egli preoccupato
del problema delle origini, Wilhelm è dell’avviso che la
poesia popolare nasce coi suoi poeti, sicché egli sembra
opporsi al fratello e riattaccarsi ai convincimenti che in
proposito avevano gli altri romantici: ma subito dopo
ritorna sui suoi passi e conclude che quei poeti sono tali
involontariamente, e che la loro opera non è stata né
cosciente né riflessa.
Nel recensire, qualche anno dopo, nel 1811, un libro del
Nyerup, lo stesso Wilhelm, se da una parte afferma che il
canto popolare nasce in maniera incosciente, dall’altra
identifica questa «maniera incosciente» in una «forma
mistica». In altri termini, la poesia popolare è una
manifestazione umana del divino. «Essa è nuda», egli dirà
nel 1811 nella acuta prefazione degli Altdänische
Heldenlieder. O meglio: «È nuda, e porta in se stessa
l’immagine di Dio». Né egli immobilizza con ciò la poesia,
che, se pur ha un’unità fondamentale, ha tuttavia un
proprio carattere nazionale:

«Il divino, lo spirito della poesia è lo stesso presso tutti i popoli e non ha che
una stessa sorgente; ed ecco perché si vedono apparire dappertutto delle
rassomiglianze, una corrispondenza anteriore, una parentela segreta, di cui il
principio generatore s’è perduto, ma che lascia pensare a un antenato comune;
infine vi è uno sviluppo analogo; ma le condizioni e le differenze esteriori sono
differenti. Ecco perché troviamo a fianco di questo accordo intimo una
differenza nella conformazione esteriore».

La poesia popolare appare pertanto ai due fratelli come il


prodotto di un’anima collettiva, il che spiega il suo
anonimato. Né essi si preoccupano di distinguere la
creazione di quella poesia (che è pur sempre un fatto
individuale) dalla sua diffusione (che da l’anonimato alla
poesia). Per loro esiste soltanto il popolo poetante, che è il
contrapposto stesso dell’artista e che non è «somma o
aggregato di individui», bensì «concrescimento e
compenetrazione del loro spirito». Il popolo, per i Grimm,
acquista così «caratteri fisici propri», e come tale esso è
poeta, che è quanto dire creatore della Naturpoesie.
«Io ho spesso supposto come definita la differenza tra la
Naturpoesie e la Kunstpoesie», dirà più tardi Jacob nella
prefazione del suo lavoro Über den altdeutschen
Meistergesang, edito nel 1811. E ciò perché quella
distinzione è per lui, come per il fratello, un dato di fatto
che è un’intuizione, una verità che è un dogma. Alla
giudiziosa osservazione dell’Arnim, il quale gli fa notare
che nessuna poesia può essere priva di un poeta e che
anche il poeta anonimo per essere tale deve avere nel suo
cuore una scintilla d’arte, Jacob non risponde. O meglio gli
risponde capovolgendo le posizioni e facendogli una
predica. Jacob, infatti, nel rispondere a quelle lettere,
riafferma la sua simpatia per i vecchi poemi epici
germanici, che egli ritiene di origine sovrumana, e sostiene
che soltanto l’antica poesia (di cui i Lieder e i Märchen non
sono che il passato vivente) è tutta innocenza e purezza,
nata com’è spontaneamente. Né gli dispiacciono, in tali
rievocazioni, le immagini prese dalla natura, tanto è vero,
ad esempio, che il canto del popolo egli lo paragona al
canto di un uccello, mentre il mistero della poesia collettiva
gli ricorda il mistero delle acque che si riuniscono in un
fiume. Ma, poi, quando dovrebbe affrontare direttamente il
problema che l’Arnim gli sottopone, mette il suo
interlocutore davanti alla sua stessa coscienza. E in una
sua lettera del giugno 1811 lo ammonisce:

«Se tu credi con me che la religione è nata d’una rivelazione divina, che il
linguaggio ha un’origine anch’essa del tutto meravigliosa e che esso non è stato
creato dall’Invenzione umana, è necessario che tu creda e senta che anche
l’antica poesia e le sue forme, che la sorgente della rima e dell’allitterazione, è
apparsa verosimilmente tutta insieme…»

La poesia popolare assume così i caratteri del miracolo e


il miracolo o si respinge o si accetta, non si discute. È qui il
limite della teoria dei Grimm inerente alla poesia popolare,
alla quale, del resto, non erano già mancati onori e
riconoscimenti. I Grimm la pongono sugli altari. Come i re
costituzionali, essa era investita dalla grazia divina.

2. Poesia, epopea e storia

Identica la loro posizione per quanto riguarda l’origine


dell’epopea, la quale in essi è tutt’uno col problema delle
origini della poesia popolare (il che, in parte, era stato
sostenuto anche dallo Herder e dal Bürger). Ma quali sono
le ragioni cui essi si appellano per affermare che nelle
origini l’epopea di una nazione non è che la sua poesia
popolare? Non si trattava più, ormai, di affermare, come
avevano fatto i preromantici, che la poesia popolare è una
forma dell’epopea nazionale; né si trattava di far diventare,
alla maniera di Herder, popolari gli stessi grandi poeti
come Omero o Dante. I Grimm si incontrano nella loro
valutazione della Naturpoesie col concetto del Vico che
riteneva la poesia come la prima voce dell’umanità. Né essi
si discostano dallo Herder che aveva considerato la
Naturpoesie come una poesia che è tutta natura. Ma questa
poesia che è fatta di natura, vale a dire (essi aggiungono,
quasi a integrare lo stesso Herder), di natura divina, come
si invera nell’epopea che in origine ciascun popolo
esprime?
La teoria che i Grimm sostengono in proposito, si articola
nelle seguenti proposizioni: 1, che la forma primitiva di
ciascuna poesia è l’epopea, la quale canta le imprese degli
dèi e degli eroi, esprimendo i pensieri e le aspirazioni della
collettività; 2, che l’epopea si identifica in gran parte con la
mitologia; 3, che l’una e l’altra sono forme della poesia
popolare. È difficile dire, anche per la comunità stessa del
loro sodalizio, quale parte abbiano avuto nella formulazione
di tale teoria i due fratelli, per quanto Jacob fosse portato
molto più di Wilhelm a generalizzare. È vero infatti che
Wilhelm, fin dal 1808, occupandosi, nei citati Studien, dei
Nibelunghi, aveva sostenuto che anche l’epopea nasce
spontaneamente non dall’uomo, ma dall’anima collettiva
del popolo. Ma è pur vero che egli allora si preoccupava
soprattutto di estendere ai Nibelunghi la teoria del Wolf
(che, più tardi, agli stessi Nibelunghi sarà applicata dal
Lachmann). Più dogmatico, anche qui, Jacob, il quale nella
prefazione del suo Meistergesang, riecheggiando quanto
aveva scritto nella «Zeitung für Einsiedler», sostiene con
rinnovata energia che l’epopea è la più antica storia del
passato, e che questa storia, la quale si esprime spesso nel
mito, si identifica con la poesia stessa di quel passato.
I Grimm in sostanza non solo identificano la poesia con
l’epopea che, per loro, sgorga inizialmente in canti brevi e
rapidi, ma in quelle identificazioni vedono il rapporto fra la
poesia e la storia. L’epopea viene quindi da loro ricondotta
a una forza interna e necessaria, il cui protagonista è il
popolo poetante, dove l’individuo si annulla. Ritorna in essi,
vivo e operoso, il genio della nazione, impersonato,
diciamolo pure, nell’opera della stirpe considerata come un
solo individuo (concetto questo che sarà poi svolto nella
Philosophie der Kunst dello Schelling). Ma quel genio ormai
è vivificato dalla sua origine divina, e poiché è il popolo che
crea l’epopea, è ovvio per loro che l’epopea non solo sia
tutta ingenuità e purezza, ma anche l’espressione di una
verità storica.
A questa teoria, che i Grimm colorarono di un particolar
fascino, non mancarono nemmeno allora delle critiche
aspre. Così, ad esempio, A. W. Schlegel, il quale aveva
proclamato il valore individuale della poesia popolare negli
«Heidelbergische Jahrbücher» del 1815, respinge
senz’altro la tesi che un’epopea, sia pur essa collocata alle
origini, possa nascere spontaneamente, o meglio, come dirà
poi il Renan con un’espressione felice, ancor prima di esser
fatta. È vero, egli osserva, che la vera origine di molti
poemi, nati da un semplice germe e poi sviluppatisi nel
corso dei secoli, si perde nell’oscurità dei tempi. Ma ciò
significa che un poema epico non abbia l’autore? Si
ammetta pure, aggiunge, che la poesia e la leggenda
popolari, fondamento dell’epopea, siano stati la proprietà
comune di secoli e di popoli. Ma le opere dello spirito
possono nascere da una creazione comune, ove questa
creazione non venga intesa come un portato di determinate
creazioni individuali? Né lo persuadeva, naturalmente, il
rapporto fra la storia e l’epopea, per quanto egli
ammettesse che «la tradizione orale, diventata tradizione
poetica, può conservare dei tratti che la verità storica
tace».
Le osservazioni dello Schlegel, che completavano quelle
dell’Arnim, non persuasero naturalmente i Grimm per
quanto riguarda l’origine dell’epopea. Anche qui essi erano
per il miracolo, che, d’altro lato, per loro doveva avere
necessariamente due facce, data l’identità che ponevano
fra poesia ed epopea. E qui è ancora una volta il loro limite.
Lo Schlegel ebbe comunque un merito: quello, come ben
osserva il Tonnelat, di far sì che i Grimm epurassero lo
spirito stesso dei loro lavori, dove accanto alle astruserie
metafisiche (di cui è facile sgombrare, oggi, il terreno, ma
che ebbero, nella loro epoca, un loro mordente) si trovano
delle prese di posizioni in cui si manifesta una piena
consapevolezza critica.
3. I Kinder- und Hausmärchen e il tono della letteratura
popolare

Così, ad esempio, sono stati indubbiamente i Grimm a


intuire con chiarezza il carattere semplice ed elementare
della poesia popolare o meglio della Naturpoesie, la quale
perciò si distingue dalla Kunstpoesie, che permette al cuore
umano di aprirsi fino in fondo e di effondersi con la piena
dei suoi sentimenti. E quell’idea non passò inosservata ai
loro contemporanei, tanto è vero che il Diez, nel 1826, nel
suo saggio giovanile Die Poesie der Troubadours ritiene che
il carattere della poesia popolare si debba ravvisare nella
semplicità tanto della rappresentazione quanto della forma
metrica, mentre più tardi, nel 1838, lo Hegel nei suoi
Vorlesungen über Ästhetik riafferma, sì, il carattere
individuale della poesia popolare (che identifica a sua volta,
col canto), ma sostiene che essa non ha bisogno «di molto
contenuto, di un’interiore grandezza e altezza, che al
contrario dignità, nobiltà, purità di pensieri sarebbero solo
di ostacolo al piacere di esprimersi immediatamente». È
vero che per i Grimm l’esprimersi immediatamente non era
affatto in contrasto con l’interiore grandezza della
Naturpoesie. Ma da questa loro premessa non doveva
scaturire un principio metodologico, vale a dire la fedeltà
assoluta del testo folkloristico?
Nel commentare invece di recente il valore che, sotto
questo aspetto, ha l’opera più celebre dei Grimm, Lutz
Mackensen ebbe a fare queste osservazioni: «Un caso felice
ha riportato in luce poco tempo fa la redazione primitiva
dei Kinder- und Hausmärchen: il manoscritto di Oelenberg,
cosiddetto dal luogo dove è stato scoperto. Possiamo così
seguir bene l’origine e la formazione di questa
importantissima raccolta. Iniziata in principio da Jacob
Grimm nell’intenzione di fornire nuovo materiale alla storia
e alla interpretazione del mito germanico, l’opera passò poi
sempre più esclusivamente nelle mani, artisticamente
esperte, di Wilhelm. Mentre Jacob si interessava al
contenuto delle fiabe, Wilhelm vuol trarne anche l’elemento
poetico; in mancanza di modelli immediati, connettendo ciò
che ha udito e che ha scelto, egli dà alla sua opera un suo
proprio stile fiabesco, vale a dire rende le fiabe nella forma
in cui, a suo parere, dovrebbero essere raccontate. Per
riottenere l’autentico contenuto egli combina spesso
versioni differenti della stessa fiaba, tratte sia dalla
tradizione popolare sia da libri, sì da formare un’unità
nuova, servendosi, per raggiungere lo stile schietto, delle
più svariate formule ricavate dal passato e dal presente.
Sorge così lo stile fiabesco che dai Grimm in poi domina
largamente i nostri libri di fiaba». E i Kinder- und
Hausmärchen infatti sono oggi universalmente considerati
come uno dei maggiori libri dell’infanzia. Ma i Grimm sono,
con quell’opera, sullo stesso piano di un Basile o di un
Perrault? Oppure in essi prevalgono le stesse
considerazioni che avevano animato l’Arnim e il Brentano
nel rielaborare i materiali del Des Knaben Wunderhorn?
Il fatto è che non era necessaria la scoperta del
cosiddetto manoscritto di Oelenberg per determinare il
metodo di lavoro seguito dai Grimm nella raccolta e nella
elaborazione dei loro materiali. Basta leggere le prefazioni
o le note che sono contenute nelle sette edizioni, da loro
curate, di quei volumi, per rendersene conto. E tale
indagine, minuta e precisa, era stata fatta, del resto, ancor
prima che si scoprisse il manoscritto di Oelenberg, dal
Tonnelat, il quale era già venuto alle stesse conclusioni di
Lutz Mackensen. Il che però richiede alcune precisazioni.
È necessario osservare anzitutto che l’intento iniziale dei
Grimm non fu quello di darci un libro per l’infanzia. Né
tanto meno un rimaneggiamento che risentisse del Des
Knaben Wunderhorn, per il quale Jacob aveva raccolto, del
resto, le prime novelle che vi furono escluse, data l’indole
di quel lavoro ristretto alla sola poesia popolare. I Grimm,
con i Kinder- und Hausmärchen, si proponevano, anzi, di
dare alla luce una autentica e genuina opera di letteratura
popolare. E perciò, come espressamente dichiarano, la loro
preoccupazione nel raccogliere quelle fiabe era l’esattezza
e la verità. «Non abbiamo nulla aggiunto, – commentavano,
– non abbiamo abbellito alcun motivo, né alcun tratto del
racconto». Ma anche allora l’Arnim che pur si intendeva di
rimaneggiamento, scriveva a Jacob: «Voi non mi farete
credere, Wilhelm e tu, anche se lo crediate voi stessi, che i
racconti sono stati trascritti da voi come li avete intesi». I
Grimm, in verità, avevano la coscienza di aver raccolto con
fedeltà i loro testi; ma – ecco il punto – che cosa essi
intendevano per fedeltà del testo?

4. Un’opera d’arte nata da un errore metodologico

Nel raccogliere i Kinder- und Hausmärchen, i quali, nelle


varie edizioni si vennero sempre più accrescendo, i Grimm
si avvalsero soprattutto della tradizione orale, vale a dire
dei novellatori e delle novellatrici del popolo. Ed è con
commozione, ad esempio, che essi ricordano una contadina
di Niederzwehren che contribuì ad arricchire i loro
materiali:

«Noi abbiamo avuto la fortuna di conoscere, al villaggio di Niederzwehren,


presso Cassel, una contadina alla quale dobbiamo i più bei racconti del nostro
secondo volume. Era la donna di un piccolo allevatore di bestie: essa era
ancora piena di vigore e non aveva più di cinquant’anni… Essa conserva queste
vecchie storie nella sua memoria e in ciò ella ha un dono che il mondo non
accorda a tutti. Essa racconta prendendo gioia al racconto e, se lo si desidera,
in modo che si possa scrivere sotto dettato».

E i Grimm, in effetti, fissarono le fiabe che andavano


raccogliendo sotto dettato. Ma quando essi ebbero davanti
quei racconti cominciarono i loro dubbi metodologici. In un
programma-premessa, apparso negli stessi Kinder- und
Hausmärchen, i Grimm insistono sempre sulla loro pretesa
fedeltà, ma aggiungono subito:

«Abbiamo dato delle fiabe la sostanza così come l’abbiamo ricevuta. Si


comprenderà, d’altro lato, che la maniera di dire e di narrare i particolari è
principalmente dovuta a noi. Ci siamo tuttavia sforzati di riportare qualsiasi
cosa che abbiamo ritenuta caratteristica, in modo che noi possiamo dare questa
collezione sotto il suo aspetto vero e naturale. Colui, del resto, che si interessa
a un’opera di questo genere, sa che non ci si può occupare di codeste cose con
un metodo da collezionista indifferente o senza senno, ma che, al contrario, si
richiede una grande attenzione nel distinguere la lezione del racconto più
semplice, la più pura e la più completa, dalla lezione falsificata. Ovunque noi
abbiamo trovato che le varianti di un racconto si completano l’una con l’altra le
abbiamo date come una sola storia. Ma quando differiscono abbiamo dato la
preferenza a quella che è la migliore e abbiamo riportato le altre nelle note».

In tal modo sfuggiva ai Grimm non solo la personalità del


novellatore che rende popolare una favola, ma sfuggiva
loro il carattere stesso delle varianti ciascuna delle quali è
pur sempre una creazione a nuovo. Ancora una volta
l’Arnim fa notare a Jacob che il racconto popolare è nella
sua perpetua trasformazione e che esso non solo si adatta
in maniera lenta alle epoche successive, ma che nella bocca
di ciascun narratore subisce dei cambiamenti, tanto è vero
che anche il fanciullo non ripete mai allo stesso modo il
racconto che gli ha narrato la propria madre. E i Grimm
non negarono, è vero, questo apporto personale che al
racconto dà il narratore; ma sostenevano la tesi che, se pur
un racconto subisce delle modificazioni, in esso il fondo
resta immutabile e che il valore delle varianti consiste in
ciò: che ciascuna di esse conserva alcuni elementi
essenziali. Cambia dunque nel racconto l’espressione
letteraria di secolo in secolo (e meglio sarebbe dire: di
autore in autore). Ma non si ha il diritto di correggere,
varianti alla mano, questa espressione perché rimanga in
ciascun racconto il fondo primigenio?
I Grimm insomma ricercavano nel racconto popolare il
fondo comune e impersonale. Questa la sostanza che
attribuivano al racconto. E da qui il concetto
dell’elaborazione che in loro era e voleva essere soltanto
una restaurazione di testi. Era certo un mistero come si
potesse – questo il loro scopo – fare un’opera impersonale
con quella restaurazione. Ma la loro opera personale ebbe
questo risultato: narrare le fiabe tedesche con quella
ingenuità ed elementarità che corrisponde allo stesso
linguaggio popolare. E tale stile poteva non soddisfare il
Brentano che lo definiva puerile; ma piacque agli Schlegel
e all’Arnim, e soprattutto piacque a Goethe che
raccomandava i Kinder- und Hausmärchen alla signora
Stein come un libro che faceva felici i bambini.
In tal modo, se da una parte l’interesse per il folklore ha
dato alla letteratura infantile, e non solo ad essa, uno dei
più bei libri che la storia della letteratura possegga,
dall’altra è stato proprio l’impegno filologico della
restaurazione dei testi a creare quella elaborazione
artistica che è l’incanto dei Kinder- und Hausmärchen. I
quali sono, sì, sullo stesso piano del Wunderhorn, ma con
questa differenza: che essi sono ancor più aderenti
all’anima popolare e conservano prodigiosamente quel tono
che è proprio della poesia popolare. I Grimm erano convinti
di aver trovato il linguaggio popolare. In verità avevano
trovato il loro linguaggio. E da un impegno filologico, che
era un errore di metodo, era nata una opera d’arte.

5. I racconti popolari come epopea nazionale

I Kinder- und Hausmärchen non volevano essere tuttavia


soltanto un’opera d’arte. Nella prima edizione i due volumi,
editi rispettivamente nel 1812 e nel 1815, contengono delle
note in cui i Grimm accennano ai rapporti fra il racconto
popolare e la leggenda epica, fra il racconto e il mito. Ma,
man mano che le edizioni di quei volumi si susseguono, a
cominciare soprattutto dall’edizione del 1819, che è la
seconda, i racconti si presentano al lettore in una nuova
stesura, la quale, ad opera di Wilhelm, ma con il consenso
di Jacob, si viene sempre affinando. E ciò si spiega col
successo incontrato dal loro lavoro che dal campo degli
scienziati, cui era destinato, era arrivato nelle mani dei
bimbi.
I Grimm pensarono allora di dedicare ai primi un terzo
volume che accogliesse la bibliografia, le note, le
osservazioni, ecc.; e questo volume, affidato a Wilhelm, uscì
nel 1822, quando essi avevano già curato la raccolta delle
Deutsche Sagen, edita in due volumi, il primo nel 1816 e il
secondo nel 1818. Anche in quest’altra raccolta i Grimm
avevano seguito il loro metodo: eliminare le invenzioni
individuali, restituire alla leggenda il testo primigenio,
conservare il linguaggio popolare. «Le saghe che noi
abbiamo raccolto, – scriveva Jacob all’Arnim nel 1815,
quando col fratello stendeva le Deutsche Sagen, –
contengono i frammenti della leggenda eroica germanica».
Ma questa leggenda non era in nuce nei Kinder- und
Hausmärchen?
Nelle varie note della prima edizione di quest’opera, e
soprattutto nella prefazione che precede la seconda, i
Grimm avevano già sostenuto l’idea che le fiabe non vanno
considerate soltanto come opera della fantasia, ma come
documenti di alto valore storico. E per loro la storia non era
– ecco la risposta a A. W. Schlegel – soltanto quella che
narra i fatti cronologicamente avvenuti, ma tutto ciò che il
popolo pensa e sogna, comunque lo pensi e lo sogni. Le
fiabe popolari ci parlano infatti di un’età dell’oro, di un’età
in cui la natura stessa è piena di vita. È l’età in cui gli
uccelli e le piante parlano, mentre nelle acque dormono le
ninfe, e la luna e le stelle frequentano gli uomini. È un
mondo incantato che esprime, nei suoi aspetti, un’anima
universale, la quale però ha sentito il tocco magico del
paese che l’accoglie.
Ma ora, nel terzo volume dei Kinder- und Hausmärchen,
queste osservazioni verranno riprese e discusse. In esso
Wilhelm traccia, anzitutto, sia pure rapidamente, la storia
di quel particolare genere che è la fiaba, la quale non è
altro che un racconto semplice ed elementare. E acute sono
le sue osservazioni sul Pentamerone (che i Grimm
pensavano di tradurre, ma che sarà tradotto più tardi nel
1846 dal Liebrecht), sul Perrault, sulla celebre collezione
Cabinet des Fées, ecc. Vasta la conoscenza che egli
dimostra della novellistica orientale, araba, germanica,
indù, ecc. Ma non è in quell’excursus il valore del suo libro.
È soprattutto nell’aver determinato i rapporti fra il mito e il
racconto. E qui i suoi rapporti sono decisi, onde tutto il
mondo germanico, il mondo del mito, si sveglia,
rifugiandosi nella favola popolare. La bella addormentata
nel bosco sarà, quindi, per lui, Brunilde. Sigfrido eccolo
invece, in molte favole, sotto forma di cacciatore il quale,
avendo mangiato il cuore di un uccello favoloso, possiede la
facoltà di comprendere il linguaggio degli animali.
Cenerentola, a sua volta, è lo stesso personaggio mitico che
impersona Gudrun. E così via. In quel mondo Wilhelm trova
la fede dei suoi antenati, i loro miti che pur si credevano
obliati e dispersi, la loro religione, che è quanto dire un
paganesimo vivo e animato, fuso e confuso con il
Cristianesimo.
I Kinder- und Hausmärchen avevano quindi questo
valore: conservarci le credenze degli antichi popoli
germanici e ricomporle in poesia, onde quelle fiabe
appariranno come i frammenti di una poesia primitiva. In
questa indagine, che riprende il metodo delle
sopravvivenze già intravedute dal Fontenelle e dal Lafitau,
Wilhelm si preoccupa di spiegare da erudito quel che egli
aveva intuito da artista. Ma in quella spiegazione egli,
come il fratello, dimostrava che la Naturpoesie non può
essere considerata soltanto da un punto di vista estetico,
ma lo deve essere anche da un punto di vista etnografico. Il
racconto popolare, insomma, come il canto è (o meglio,
aggiungiamo noi, può essere) un’opera validamente
estetica. Ma in essa si racchiudono credenze, superstizioni
che vanno indagate e studiate ove si voglia considerare il
racconto stesso nella sua intima struttura; il che non solo
non toglie nulla al valore estetico delle novelle, ma serve
anzi a spiegarci significati non sempre comprensibili.

6. Poesia, diritto e mitologia

Questa, del resto, fu la via su cui si era incamminato


Jacob, cui dobbiamo un’opera veramente imponente: le
Deutsche Rechtsaltertümer, edita nel 1828. I Grimm, in
vari saggi, avevano considerato il diritto alla stessa stregua
del mito, e quest’ultimo alla stessa stregua del linguaggio.
Il popolo, a loro avviso, sente oscuramente il carattere della
santità delle leggi tradizionali, e questa è la ragione per cui
nel diritto consuetudinario vi è qualche cosa di irriducibile,
che lo spirito è stato incapace di produrre e che è l’apporto
evidente di una volontà superiore, onde il diritto e la poesia
accusano la medesima origine. Lo studio dei frammenti
giuridici, quali si ritrovano nei documenti del diritto
consuetudinario (nascosti, in genere, in mezzo ai riti e agli
usi), doveva pertanto rimettere in luce l’antica saggezza
germanica. Ed è su queste fondamenta che Jacob pone
appunto la sua Deutsche Rechtsaltertümer. In un suo
saggio Poesie im Recht Jacob aveva già osservato con
compiacimento:

«È ormai da molto tempo che si è riconosciuto come uno dei tratti principali
della nostra nazione l’attaccamento agli usi dei nostri padri, nonché la
ripugnanza a disfarsene; e se non fosse stato così, noi non possederemmo,
ancor oggi, una poesia che la sua antichità e il suo valore rendono comparabile
alla sola poesia greca; ancor oggi, i costumi, i modi di parlare e le abitudini dei
contadini non si sono interamente distaccati né dalla antica leggenda né dalla
franca natura delle leggi antiche».

E quel patrimonio ecco che avrà la sua più alta


consacrazione in un’altra opera di Jacob: la Deutsche
Mythologie, edita nel 1835. I grandi poemi, cui i due fratelli
avevano dedicato le loro appassionate indagini, l’Edda e i
Nibelunghi, costituiscono, qui, i loro maggiori punti di
riferimento. Ma l’indagine non si ferma a quei poemi e
quindi alle credenze che essi ci tramandano a documentare
il mito della vecchia Germania. Jacob si avvale anche delle
cronache del Medioevo e dell’agiografia, e partito
dall’antichità germanica arriva alle sopravvivenze che il
folklore ci conserva in tutte le sue manifestazioni (riti, usi,
proverbi, modi di dire, canzoni, leggende, ecc.). Qui il
valore della sua Mythologie – e in ciò egli è sullo stesso
piano delle Deutsche Rechtsaltertümer – dove la
problematica del folklore è affrontata con larghezza di
vedute, tanto più che Jacob non si ferma agli accostamenti
fra i miti e i riti, fra i racconti e le credenze, ecc., ma cerca
sempre di approfondire il valore di quelle manifestazioni, di
vagliarle criticamente e di interpretarle.
È ovvio oggi osservare che in queste opere il Grimm
attribuisce a una remota antichità manifestazioni a essa
estranee, mentre si abbandona ad accostamenti arditi e
geniali, ma puramente casuali e fallaci, onde, come ben
osserva il Sokolov, egli confonde ciò che è identico con ciò
che è analogo. Ma prescindendo da questa osservazione, si
può negare a Jacob il merito di averci dato in queste sue
opere una prima sistemazione scientifica del folklore? E gli
si può negare l’altro merito di averci dato una rievocazione
pittoresca di quel paganesimo – cristianesimo germanico,
già genialmente adombrato nei Kinder- und Hausmärchen e
nelle Deutsche Sagen? Si aggiunga che Jacob è uno
scrittore massiccio, ma immaginoso, e che il suo linguaggio
sa creare delle atmosfere dentro cui il lettore finisce col
rimanere stordito e abbagliato. Ed eccoci allora giustificata
la ragione del suo successo. Piace a Jacob, come al fratello,
vagare spesso fra le nuvole come le protagoniste delle sue
fiabe; e gli piace, altresì, recarsi alla tregenda del passato
germanico a cavallo di una scopa; ma dalle nuvole quante
volte egli non scende sulla terra, dove cammina con passo
sicuro e deciso?

7. La Grammatik

Camminare, d’altra parte, sul terreno che costituiva il


suo campo specifico di studio, significava per Jacob
affrontare anche il problema della lingua in cui si inverano i
canti, le fiabe, le novelle, i miti, ecc. Nei citati
«Heidelbergische Jahrbücher», A. W. Schlegel aveva già
invitato i Grimm allo studio della grammatica tedesca per
una più esatta interpretazione dei testi folkloristici. E quel
problema li aveva indubbiamente assillati man mano che
essi curavano anche le opere dell’antica letteratura
alemanna.
L’opera maggiore comunque, anche in questo campo, fu
assunta da Jacob, che nel 1819 aveva già pubblicato la
Deutsche Grammatik, dove egli seguì la formazione e lo
svolgimento della lingua tedesca, comparando fra di loro gli
idiomi dello stesso ceppo. Il Grimm nella sua Grammatik
segue da un lato gli insegnamenti del Savigny (cui la
Grammatik è dedicata), il quale era dell’avviso che le
funzioni particolari dei popoli, attraverso cui essi diventano
individui, sono soprattutto la lingua e il diritto. E Jacob, se
è convinto, come lo erano stati lo Hamann e il secondo
Herder, dell’origine divina del linguaggio, è anche
dell’avviso che fra lingua e diritto esiste una profonda
analogia, in quanto ambedue sono nella loro essenza vecchi
e giovani, e ambedue hanno una storia.
È noto che in un suo celebre saggio, edito nel 1812, lo
Humboldt aveva considerato l’umanità come una pianta
mostruosa le cui ramificazioni si estendono su tutta la
terra. Era tempo perciò, egli ammoniva, di ricercare la
parentela multipla delle nazioni e delle loro influenze, tanto
più che la differenza delle nazioni si esprime nella lingua.
In questo saggio mancano dei principi per determinare i
gradi di parentela delle lingue già intuite dallo Jones e da
Friedrich Schlegel. Li stabilirà con certezza qualche anno
dopo il Bopp, cui dobbiamo la celebre Über das
Coniugationssystem der Sanscritsprache in Vergleichung
mit jenem der griechischen, lateinischen, persichen und
gotischen Sprache, dove è ampiamente dimostrata la
parentela del sanscrito col greco, col latino, ecc., che è
quanto dire la parentela degli idiomi indo-europei. Così
nasceva la linguistica comparata, e con essa la glottologia
indo-europea. E questo era, a sua volta, il battesimo stesso
della Grammatik di Jacob, il quale, se da una parte accoglie
la teoria di un tronco comune di tutte le lingue indo-
europee, dall’altra vede scaturire dallo studio delle stesse
varietà dialettali, in cui si articola la lingua tedesca,
l’esistenza di una lingua germanica primitiva, «Nessun
popolo sulla terra, – egli dirà allora, – ha una lingua la cui
storia si possa paragonare a quella dei Tedeschi».
Bisogna osservare d’altra parte che i Grimm erano
rimasti sempre affascinati dall’idea romantica di una civiltà
in cui si invera l’originario e il primitivo, sia pure nel senso
che Herder dava a questi due termini. E quel fascino essi
videro, fin dai primi lavori, nel patrimonio folkloristico del
loro paese, che è quanto dire nel veicolo della propria
tradizione nazionale.

8. Il patriottismo dei Grimm

E l’opera dei Grimm ha uno scopo preciso: illustrare


questa tradizione, onde essi continuano appunto quel moto
nazionale che nel passato vedeva la libertà del presente.
Educati alla scuola storica del Savigny, di cui furono
discepoli, i Grimm condivisero col Maestro l’idea che «ogni
processo storico non nasce da un’intenzione cosciente e
individuale, ma porta in sé una propria vita organica che si
svolge per effetto di forze inaccessibili alla ragione».
Sensibili a tutte le correnti che le tendenze romantiche
venivano imponendo, amici degli Schlegel, dell’Arnim, del
Brentano e del Görres, i Grimm furono portati allo studio
del folklore dall’amore del loro Medioevo, che anche ad essi
si era schiuso, fin dal loro noviziato filologico e letterario,
come l’epoca della libertà del loro paese, come la tappa
essenziale della loro civiltà, che è una civiltà originaria e
primitiva, in cui si fondono popolo e nazione. È noto, infatti,
con quale trepidazione il maggiore dei fratelli, Jacob, si sia
avvicinato ancor giovane alla raccolta di Minnelieder del
Bodmer, che egli trovò nella ricca biblioteca del Savigny e
che lesse venti volte da cima a fondo. Ed è noto altresì
quale impressione egli più tardi ebbe dalla lettura della
prefazione che il Tieck aveva premesso a una scelta di
quella raccolta. Né diversi furono i primi interessi di
Wilhelm.
È naturale che i due fratelli abbiano sentito, perciò, il
loro passato in funzione nazionale e lo abbiano idealizzato,
anzi addirittura divinizzato. E il loro patriottismo è vivo,
fervoroso, impaziente, come appunto ci dimostra, fra
l’altro, l’impegno con cui essi, animati da quella
Rettungsgedanke che nel loro paese diveniva sempre più
attuale, si accinsero alla raccolta delle fiabe, delle
leggende, dei miti, dei proverbi, delle credenze, che
venivano da loro considerati come l’emanazione dell’anima
germanica.
Il primo volume dei Kinder- und Hausmärchen uscì, come
è noto, alla vigilia della battaglia di Lipsia, quando essi si
sentivano umiliati di avere davanti, come dirà Jacob, un
nemico orgoglioso e sarcastico. Né era senza significato
che Wilhelm, un anno prima, nel pubblicare il suo libro
Altdänische Heldenlieder, Balladen und Märchen avesse già
osservato che:

«i racconti meritano una maggiore attenzione di quel che per ora abbiano
avuto, non soltanto per la loro forma poetica che ha un fascino particolare e
che ha lasciato in ciascuno di coloro che li hanno intesi nella loro infanzia un
prezioso insegnamento insieme con un dolce ricordo, ma anche perché fanno
parte della nostra poesia nazionale».

La loro attività ebbe perciò, sia pure nella sua rigida


compostezza, il carattere di una sfida nazionale. E questo
fu l’atteggiamento politico cui i Grimm improntarono
sempre la loro vita, tanto è vero che essi, spiriti aperti e
liberali, non esitarono nel 1837 a firmare la celebre
protesta redatta dallo storico Dahlman contro il governo di
Hanno ver per aver violato la costituzione. In cambio Jacob,
che già da sette anni insegnava all’Università di Gottinga,
fu espulso. Ma ciò gli servì a dedicarsi maggiormente a
quell’attività che ormai più l’interessava fra tutte le altre
che egli aveva pur coltivato; la lingua e i dialetti della sua
Germania. Imponente era già, fin dal 1837, la mole di
lavoro che i Grimm avevano messo insieme. Ma ora ecco
che essi nel 1855 si accingeranno alla compilazione di un
Wörterbuch der deutschen Sprache, mentre già nel 1848
Jacob aveva pubblicato, appendice alla sua grammatica, i
due volumi della Geschichte der deutschen Sprache.
Queste opere erano in un certo senso il frutto della
germinazione della Deutsche Grammatik, la quale, come
ben commenta il Terracini, composta nel fervore della
riscossa tedesca, è uno dei vangeli della glottologia, mentre
la Geschichte der deutschen Sprache, ricercando la
preistoria linguistica del germanesimo, esprime l’ansia e il
sentimento nazionale del ’48 tedesco. Il che si può anche
dire del Wörterbuch, che conclude un’attività di ricerche e
di studi maturati fra il 1812 e il 1848, e che è una miniera
di notizie folkloriche.
I Grimm, insomma, nulla trascurarono perché la
Germania potesse finalmente avere accanto ai Monumenta
Germaniae Historica, dovuti all’iniziativa dello Stein, un
suo Corpus dove il passato si fondesse col presente, e dove
presente e passato potessero dare l’idea precisa e unitaria
del loro popolo. Era desiderio dei Grimm mettere o
rimettere in luce, convenientemente illustrati, i testi della
vecchia letteratura germanica, che già tanto entusiasmo
avevano suscitato nei loro predecessori; ma era,
soprattutto, loro interesse ricostruire, per mezzo degli
elementi che offriva loro il folklore vivente, quel che di più
sacro conservava la tradizione. E la loro opera si svolge su
due piani: da una parte le ricerche particolari con la
raccolta e la pubblicazione dei testi; dall’altra le ampie
sintesi con le costruzioni generali inerenti alla lingua, al
diritto, alla novellistica, alla mitologia, all’epopea, ecc. Non
sempre, come abbiamo visto, i due fratelli collaborarono
insieme, per quanto, anche collaborando insieme, si
dividessero sempre il compito del loro lavoro. Ma unico fu,
pur sempre, il loro fine: elevare il mondo germanico a un
organismo poetico e politico concluso in se stesso, che
assumesse ancor di più il valore eterno di un simbolo per il
popolo stesso cui si ispiravano. E il popolo – lo aveva
espressamente dichiarato Wilhelm – «è un concetto dove si
riassumono perfettamente le facoltà dello spirito».
L’opera dei Grimm, appunto per questo, aveva dominato
in gran parte la cultura germanica, infondendole con la
ricerca scientifica una idea-forza di carattere nazionale.
Ma, nel frattempo, quale era stato e qual era
l’atteggiamento che nei confronti del folklore aveva assunto
il Romanticismo negli altri paesi d’Europa? E quale, in essi,
l’influsso dei Grimm e dei loro predecessori?
14. Ritorno alle origini

1. Aspetti del Romanticismo inglese: Wordsworth e


Coleridge

Si ritiene in genere che il Romanticismo, quale si articola


nei paesi dell’Europa occidentale, abbia avuto i suoi
principali documenti: per l’Inghilterra nelle Lyrical Ballads,
per la Francia nel-l’Allemagne, per l’Italia nella Lettera
semiseria di Grisostomo. Accettiamo pure questi dati. Ma il
Romanticismo, dobbiamo subito domandarci, nei paesi
dell’Europa occidentale si manifesta nello stesso modo e
con gli stessi caratteri quali si son visti in Germania?
Non v’è dubbio che il Romanticismo tedesco, quali che
siano le precedenti esperienze europee da cui ha tratto i
suoi ideali, ha pur sempre il suo fondamento in un suo
particolare sostrato filosofico, e che quindi, come tale, esso
è un potente organismo in cui sono convogliate quelle
precedenti esperienze. E ciò si spiega date le condizioni in
cui si trovava in quegli anni la Germania. Negli altri paesi
dell’Europa occidentale, il Romanticismo, pur congeniale
com’è a ciascun paese che lo esprime, è invece una
germinazione dei precedenti moti preromantici, su cui si
innesta la sistemazione stessa di quei valori che sono
propri del Romanticismo tedesco.
Ed è questo anzitutto il caso dell’Inghilterra, dove le
Lyrical Ballads vogliono riproporre, com’è espressamente
dichiarato nel programma che le precede, il ritorno a quelle
tradizioni popolari già promosso dall’Ossian, dalle Reliques
e da altre opere preromantiche. Il che richiede una
precisazione. Dovute infatti al Wordsworth e al Coleridge –
è noto che il loro viaggio in Germania fu suscitatore per
loro di rivelazioni e di fermenti –, le Lyrical Ballads
vogliono cantare, come gli stessi autori dichiarano, «gli
argomenti di ogni giorno in modo da dare impressione di
cosa romantica e soprannaturale» (Wordsworth) e «gli
argomenti romantici soprannaturali in modo da dare
impressione di realtà» (Coleridge). Fatto è però, sia pure
con queste premesse, che le Lyrical Ballads riprendono in
fondo una tradizione nazionale che aveva dato i suoi frutti
con il Thomson e con il Gray. Il Coleridge e il Wordsworth
cercano però anche un nuovo linguaggio, il loro linguaggio,
lontano dalle regole della poetic diction. E questa è la
ragione per cui il primo si abbandona agli arcaismi che gli
servono a creare la stessa atmosfera del passato, mentre il
secondo usa allo stesso scopo quelle espressioni che si
ritrovano non solo nel linguaggio dei bimbi, ma anche in
quello del popolo.
Nella seconda edizione delle Lyrical Ballads il
Wordsworth appunto per questo ricorda l’insegnamento
delle Reliques che egli oppone all’Ossian:

«Contrasta l’effetto della pubblicazione del Macpherson con quello delle


Reliques del Percy; così modesto questo, quanto pretenzioso l’altro. Io ho già
constatato quanto la Germania debba al primo, e per quel che riguarda il
nostro paese l’opera del Macpherson è stata completamente riabilitata da
quella del Percy. Penso che non vi possa esser oggi nessun poeta che non sia
fiero di mostrare il suo riconoscimento alle Reliques. Ed io so che molti altri
sono del mio parere, mentre per quanto riguarda me sono felice di farne
pubblico riconoscimento».

Il Wordsworth – si pensi al Prelude – predilige


soprattutto le ballate del Nord, che egli aveva sentito da
piccolo; e tale predilezione si accompagna con l’amore che
egli mitre per la natura e in particolar modo per la vita
rustica, dove tutto è semplice e naturale e dove si sente la
voce stessa di Dio. Da ciò il suo stupore per i bambini, per i
vagabondi, per le spigolatrici ecc., dove il sentimento
individuale si annulla nell’affermazione dei valori collettivi.
E questa è anche la ragione per cui mentre nel Coleridge,
che pur sente il fascino per le classi umili e per le ballate, il
popolo non è, quando lo è, che materia d’arte; nel
Wordsworth invece esso è anche espressione di quel
desiderio di accomunamento di tutti gli uomini
nell’abbraccio infinito della natura.
«Questo accomunamento, – osserva tuttavia il Caudwell,
– in Wordsworth assume l’aspetto di ritorno all’uomo
naturale proprio come avviene in Shelley. Wordsworth,
profondamente influenzato, come Shelley, dalla corrente
francese che parte da Rousseau, la libertà, la bellezza –
tutto quello che ora nell’uomo non c’è per via dei suoi
rapporti sociali – le cerca nella natura». In questo senso
però: che il bambino e il contadino, l’uno e l’altro vicini alla
natura, gli richiamano il divino, da cui hanno tutti la loro
origine. Il Wordsworth, insomma, non pensa a una libertà
che proviene da una ribellione. La libertà per lui è il
risultato dell’unione stessa della natura-uomo-Dio.
L’idea di una umanità migliore d’altro lato non può essere
disgiunta dall’idea della libertà. Ma la libertà, poco dopo
l’uscita delle Lyrical Ballads, non si chiamerà, in
Inghilterra, lotta contro Napoleone? Vero è che Napoleone
è fuori i confini della patria; ma è un pericolo; ed ecco che,
mentre evangelici e metodisti predicano che non è tempo di
pensare a livellamenti sociali, anche le idee del Wordsworth
si andranno sempre più placando in un moralismo
didattico-sociale, impregnato sì di quel feroce puritanesimo
(contro cui combatterà invece il Byron), ma tuttavia
sensibile ai valori della vita emotiva e tradizionale in cui è
la sorgente del proprio essere e del proprio divenire.

2. Scott folklorista e romanziere

Né diverso sarà in fondo l’atteggiamento che verrà


assumendo Walter Scott, su cui, come sul Wordsworth,
profonda fu l’impressione che suscitarono le Reliques del
Percy. Com’egli stesso ci attesta nella sua Autobiography:

«… io feci allora, in primo luogo, la conoscenza con le Reliques del vescovo


Percy. Ricordo bene il luogo dove lessi questo volume per la prima volta. Stavo
sotto un grande platano… Il giorno estivo passò così presto che, nonostante il
gagliardo appetito dei tredici anni, dimenticai l’ora del pranzo e misi in
pensiero i miei familiari, finché non venni trovato nel mio intellettuale
boschetto. Leggere e fantasticare era in quei momenti la stessa cosa, e da quel
momento non lasciai in pace i miei compagni e tutti coloro che avevano la forza
di ascoltarmi con le drammatiche letture delle ballate del Percy. Appena poi
potei raggranellare un po’ di denaro, che mi si dava per i miei minuti bisogni, io
stesso comprai una copia di questi volumi che mi stavano tanto a cuore, e io
non credo che abbia mai letto un libro così spesso e con tanto entusiasmo».

E fu questo entusiasmo che lo portò, appena trentenne,


alla compilazione di una raccolta di ballate scozzesi, la
quale, quattro anni dopo l’apparizione delle Lyrical Ballads,
uscì con il titolo di Min-strelsy of the Scottish Border. Un
suo biografo, il Lockhart, ci narra come, per sette anni di
seguito, lo Scott si aggirasse fra le rovine dei castelli delle
regioni vicine al confine scozzese e com’egli in quelle
regioni si preoccupasse di studiare tutte le manifestazioni
inerenti alla vita popolare. Lo Scott guardava già al folklore
con l’interesse dell’antiquario e dello storico, ma anche
dell’artista. E nel Minstrelsy questi suoi interessi si
avvicendano, tanto è vero che egli, se da una parte
raccoglie, pur a volte modificandole, le ballate storiche e
romantiche – contribuendo così a tener sempre più vivo
l’amore per il Medioevo e per le tradizioni popolari locali e
nazionali –, dall’altra non esita a comporne delle sue.
Non poche delle ballate raccolte furono utilizzate dallo
Scott nei suoi romanzi, dove egli rese popolare quella
teoria del colore locale che era implicita in tutto il
Romanticismo e che già aveva avuto un caldo interprete nel
Müller. Romanzi storici, quelli dello Scott. Ma quale
concezione della storia vi si rivela? Lo Scott si preoccupa
certamente della realtà storica e di tutti i problemi
connessi ad essa. E al riguardo un suo ammiratore,
Maurice de Guérin, afferma che «è in lui che si deve
studiare la storia». E aggiunge: «La insegnerà lui la storia
meglio di tutti gli storici, perché costoro non raccontano
che i fatti generali e le azioni pubbliche, mentre lui entra
nei particolari della vita e nei suoi dialoghi così naturali e
ingenui fa conoscere tutte le classi della società e i costumi
del tempo». Ma ad osservare bene nella storia quale viene
vista dallo Scott, tutto, i particolari, i dialoghi ecc.
sembrano dar vita a una immaginosa e romantica favola.
Qui il segreto della sua opera che non poche volte ci
ricorda quei romantici tedeschi che egli aveva amato e
tradotto.
I romantici tedeschi – si metta a confronto un romanzo
dello Scott con quello di un Tieck – si preoccupavano però
di vedere da quali bisogni erano nate le varie condizioni di
civiltà e quindi le varie forme del costume cui essi si
richiamavano come a una materia nazionale-educativa. Allo
Scott mancavano invece proprio tali interessi. E la stessa
materia storico-nazionale-educativa cui ricorreva si
spegneva in lui in una pittoresca contemplazione del
passato, quando non si trasformava addirittura in una
costruzione sua ideale, che di storico aveva soltanto i
caratteri esterni.
Si deve tuttavia riconoscere che lo Scott ci ha lasciato,
nella sua vasta opera, una pittoresca galleria di antichità
popolari dove fra l’altro risplende di una sua luce
particolare la vita del popolo scozzese e che completa
quelle che già ci erano state presentate dal Brand, dal
Bourne e dal Browne, quasi a tracciare un folklore ideale di
tutta la Gran Bretagna. Queste antichità assumono in lui il
colore di quegli stessi Tales of a Grand-Father che egli
narrava ai suoi nipoti. E Wilhelm Grimm non senza ragione
nelle sue note ai Kinder- und Hausmärchen segnalava lo
Scott come colui che aveva saputo raccogliere l’eredità
dell’Ossian e delle Reliques.

3. Aspetti del Romanticismo francese: ritorno alla natura e


all’uomo naturale

Ma qual è invece l’eredità raccolta dal Romanticismo


francese? L’Inghilterra aveva avuto l’Ossian e le Reliques.
La Francia invece aveva avuto Rousseau. E Rousseau è
indubbiamente il preannunciatore stesso del Romanticismo
francese, il quale tuttavia ha un chiaro documento
nell’Essai sur l’art dramatique di Sébastien Mercier, edito
nel 1777.
In questo suo lavoro – che per molti aspetti si collega da
una parte allo Harlekin del Möser e dall’altra alle Lettres
sur les spectacles del Rousseau – il Mercier riferendosi in
generale alla letteratura del suo tempo, ma in particolare al
teatro, rivolge a quest’ultimo l’accusa di non riprodurre la
vita, quale si svolge dinanzi ai nostri occhi, e ciò per un
doppio ordine di cause, perché non ci si è saputo
allontanare dalla servile imitazione degli antichi e perché si
è creduto che solo i grandi della terra fossero degni di
essere portati sulle scene. La vita non è d’altro lato né tutta
tragica né tutta comica, così che se ne possa derivare la
materia per una tragedia o una commedia, in tutto
riducibili entro gli schemi consueti. Da ciò la necessità di
una forma drammatica più conforme ai nuovi tempi, per
l’appunto il dramma, serio o tragico e comico a un tempo,
libero da regole prestabilite, libero ugualmente di attingere
la sua ispirazione dal popolo e dalle classi più umili.
Come si vede, in questo saggio, a torto dimenticato e
trascurato, abbiamo in germe, oltre che i motivi che erano
stati comuni alla querelle degli antichi e dei moderni,
alcuni tra quelli che saranno i presupposti fondamentali del
programma romantico, e in primo luogo l’esigenza di
un’arte che non si rivolga alle fonti consuete e
accademiche. Anche il grottesco, in cui Victor Hugo vedrà,
nella famosa prefazione del Cromwell, l’aspetto essenziale
della maggiore complessità dell’arte cristiana su quella
pagana, è implicitamente preannunziato dal Mercier. E
anche il laido e l’orrido, avrebbe invero affermato l’Hugo,
hanno o possono avere la loro propria bellezza. Ma non
bisogna vedere qui l’esigenza di una letteratura più vera e
quindi più vicina al popolo? Di una letteratura, per altro
verso, in più intimo contatto con la natura?
Di questa natura, considerata e contemplata nel miracolo
infinitamente vario delle creature, dal fiore alla montagna,
dagli organismi più semplici ai più complessi e all’uomo
stesso, abbiamo l’immagine entusiastica nell’opera di un
naturalista quale il Buffon e in quella di un poeta scienziato
quale Bernardin de Saint-Pierre delle Études e delle
Harmonies de la nature. È noto, d’altro lato, che Bernardin
de Saint-Pierre si collega al Rousseau – di cui fu
ammiratore e discepolo e a cui dedicò un ampio saggio –
anche nell’esaltare lo stato naturale dell’uomo primitivo:
questo lo sfondo di Paul et Virginie. Ed è noto altresì che
egli forma un punto di passaggio fra lo stesso Rousseau e lo
Chateaubriand.
Nell’Essai historique, politique et moral sur les
révolutions, edito un anno prima delle Lyrical Ballads, lo
Chateaubriand, dopo avere esaltato l’Ossian come una delle
più potenti voci della poesia moderna, ricorda con
struggente nostalgia quegli Indiani d’America che erano
stati così cari al cuore dei Francesi. Ed esclama:

«Quando io provo la noia di vivere e mi sento il cuore rattristato a contatto


degli uomini, piego la testa e volgo uno sguardo di rimpianto. Meditazioni
incantate! Fascino segreto e ineffabile d’una anima contenta di se stessa! È in
mezzo agli immensi deserti dell’America che vi gusto a lunghi sorsi».

E più tardi, quando quelle meditazioni si sono


trasformate in opere come l’Atala, René e I Natchez
aggiunge:
«Nel primo volume dei Natchez si troverà il meraviglioso, e il meraviglioso di
tutte le specie, il meraviglioso cristiano, il meraviglioso mitologico, il
meraviglioso indiano: vi si incontreranno muse, angeli, demoni, geni,
combattimenti, personaggi: la Fama, il Tempo, la Notte, l’Amicizia. Questo
volume offre invocazioni, sacrifici, prodigi, comparazioni, le une brevi, le altre
lunghe, alla maniera di Omero…»

Sarebbe stato più esatto dire: alla maniera di un Omero


travestito a guisa di Ossian. I selvaggi americani dello
Chateaubriand parlano e agiscono infatti come gli eroi del
bardo scozzese; onde a volte si ha proprio l’impressione
che Ossian e Fingal abbiano preso il nome di Sciactas e
d’Outougamiz. Ma quale che sia stato il suo stile, è certo
che nello Chateaubriand il fascino del lontano e dell’ignoto
si tramuta non solo nell’ansia di un mondo migliore, ma
anche nel sentimento di una vita semplice e ingenua. In
altre parole: nel gusto di quell’eterno momento primitivo
che è dell’umanità. Ed è lo stesso gusto che egli sente per i
culti del Cristianesimo, da lui esaltato nei suoi valori sociali
ed estetici; è lo stesso gusto con cui egli rievoca le foreste
dell’antica Gallia che avvicina all’architettura gotica del
suo paese; lo stesso che sente per le varie manifestazioni
della vita popolare in cui è, in gran parte, il passato stesso
della Francia.

4. Da Madame de Staël al Fauriel


La ricerca di questo passato, dopo i tentativi di un Thiers
o di un Le Brun, era stata patrocinata, a dire il vero, anche
da Napoleone – fu un suo ministro, il Cretet, a fare una
prima circolare perché venissero salvati quei documenti
che conservavano gli idiomi popolari –. Ma, nello stesso
periodo di tempo, quanto mai feconda fu in proposito
l’attività dell’Accademia Celtica, fondata nel 1804 e
trasformatasi poi in Società degli Antiquari. In un suo
discorso inaugurale il segretario generale, lo Johanneau,
rilevava l’importanza delle tradizioni popolari, in Francia
«generalmente neglette», e consigliava la raccolta dei canti
e delle novelle. Raccomandava inoltre ai soci di consultare
il popolo, «di cui tutta la scienza è tradizionale e di cui le
stesse espressioni non sono che parole consacrate». Esse,
le tradizioni, possono far vedere ai Francesi quel che
sopravvive in loro di antico e di gallico. Ma – ecco quel che
conta – possono insegnare agli stessi Francesi a non essere
né Greci né Romani.
L’appello non rimase lettera morta, tanto è vero che
l’Accademia Celtica, ad opera del Dulaure e del Mangourit,
inviò qualche anno dopo un questionario – il primo che sia
stato compilato – ai suoi soci e ai prefetti di provincia allo
scopo di inventariare le feste, le cerimonie, le pratiche
superstiziose, i documenti tutti della vita materiale e
spirituale del popolo. E fra i quattro paragrafi del
questionario il terzo comincia: «Quali sono i giuochi
particolari di ciascun paese, i canti, le arie? Sono essi tristi
o gai? Quali sono le danze e gli strumenti di musica? Vi
sono dei canti che sembrano appartenere a un’alta
antichità?»
Il Dulaure, nel 1805, aveva pubblicato, avvalendosi delle
esperienze del Lafitau e soprattutto del Brosses, un suo
volume Des divinités génératrices ou du culle du phallus
chez les anciens et les modernes, dove si trova già una
sistemazione dei fatti folkloristici (come, ad esempio, le
testimonianze sui riti fallici in uso nell’Italia moderna).
Nessuno sapeva quindi meglio di lui quel che significa
raccogliere quel materiale. Ma nel 1810 uno studioso che si
affannava a cercare le etimologie delle parole inerenti agli
usi della Borgogna, Girault d’Auxonne, scriveva al
segretario generale dell’Accademia: «Io confesso che sono
sorpreso di vedere come molti si limitano alla semplice
enumerazione degli usi senza penetrarne il senso nascosto,
senza cercarne le cause, senza tentare di risalire alle
origini».
Nello stesso anno Napoleone faceva bruciare, perché
ritenuto poco francese, un bellissimo libro che Madame de
Staël aveva dedicato all’Allemagne o meglio al
Romanticismo tedesco. Dieci anni prima in un saggio De la
littérature considérée dans ses rapports avec les
institutions sociales la stessa Madame de Staël aveva già
annotato che bisogna studiare la letteratura di una nazione
in rapporto a quel che è la nazione stessa nei suoi lati più
intimi e segreti e che essa, la letteratura, è pur sempre
l’espressione di una determinata epoca storica. Il libro De
l’Allemagne, ripubblicato nel 1814, da maggior vigore a
tale istanza, tanto è vero che la Staël, se da una parte
mette in risalto i caratteri nazionali della poesia germanica,
dall’altra la contrappone a quella francese che è la sola,
pur essendo la più classica di tutte le poesie moderne, a
non essere diffusa tra il popolo. E ciò, a suo avviso, appunto
perché non è nazionale.
Nel rievocare la Lenore del Bürger, la Staël osserva
quindi che «le superstizioni popolari hanno sempre una
analogia con la religione dominante», onde «non si
comprende perché si dovrebbe avere sdegno ad
adoperarle». Shakespeare, aggiunge, «ha conseguito effetti
mirabili con gli spettri e con la magia». E subito dopo:
«L’arte non potrebbe essere popolare, se disprezza ciò che
signoreggia così gagliardamente la fantasia della
moltitudine». Ed era come dire: ritorniamo, noi Francesi,
contro cui si è combattuto in nome non solo di Napoleone
ma anche della letteratura, a quelle fonti spontanee e
immediate cui già hanno ricorso e ricorrono i Tedeschi e gli
Inglesi, presso i quali il mito della poesia popolare è stato
la sorgente stessa di una nuova poetica e di una nuova
poesia.
Si deve tuttavia osservare in proposito che il valore della
poesia popolare in Francia era stato già affermato dal
Montaigne – che lo Herder aveva citato in testa ai suoi
Volkslieder – e dallo stesso Rousseau. Dobbiamo al Fauriel
però il merito di aver destato, in maniera decisa,
quell’interesse con la pubblicazione dei Chants populaires
de la Grèce, che cominciarono d’allora a offrire un vivo
interesse agli studiosi del folklore. Il primo volume di
quest’opera fu pubblicato nel 1824, nello stesso anno, cioè,
in cui in nome della indipendenza greca, moriva Byron. E i
Chants non solo rappresentano la voce di quella nazione,
ma sono anche la voce di una nuova epopea oltre che di
una nuova poetica (si pensi all’influsso che la poesia
popolare esercitò sull’iniziatore della poesia neo-ellenica, il
Solomos).
Nel presentare i Chants populaires de la Grèce, il Fauriel
afferma che essi costituiscono l’Iliade della Grecia
moderna, frutto com’essi sono di un’epopea in
fermentazione. Il Fauriel è dell’avviso che quell’epopea sia
l’effusione diretta del genio popolare. E aggiunge subito
che «il genio incolto dell’uomo è uno dei fenomeni, uno dei
prodotti della natura».
Tre anni dopo, traducendo le Ideen dello Herder,
arrivava alle stesse conclusioni il Quinet, il quale, dopo
aver attribuito allo Herder il merito di avere associato al
«genio della storia», quei «monumenti» che vi erano
esclusi, rievocava con commozione i canti che «formano il
legame del popolo con il passato». L’uno e l’altro, il Fauriel
e il Quinet, conoscevano in gran parte le opere dei
romantici tedeschi che già la Staël aveva diffuso. La
prefazione dei Chants è uno dei frutti di quella conoscenza.
Ma il Fauriel va oltre. In una sua serie di corsi – tenuti alla
Sorbona e poi in parte riuniti nella sua Histoire de la poésie
provençale – egli applica le teorie del Wolf, del Lachmann e
dei Grimm alla poesia epico-eroica di tutti i popoli. Anche il
Ramayana e il Mahâbhârata entrano in questo suo esame.
Vi entrano pure i canti popolari delle diverse nazioni: tutti,
piccole Iliadi.
Nel 1812, in Germania, un filologo-poeta, l’Uhland (cui
dobbiamo fra l’altro una fra le più belle sillogi di poesia
popolare tedesca) aveva già osservato che la vita eroica di
Carlomagno ha dovuto pur ispirare la poesia, e che
leggende, romanzi, canti di guerra si andarono certamente
formando a poco a poco finché, amplificati, non furono
riaggruppati dai chierici nelle composizioni giunte fino a
noi. E l’idea, naturalmente, seduce il Fauriel il quale, dopo
averla accennata nella prefazione dei Chants, la svolge con
un rigore che sembra davvero persuasivo.
Nel 1837 viene per la prima volta pubblicata
integralmente da F. Michel che l’ha tratta da un codice
della Bodleiana di Oxford la più poetica di quelle
composizioni: la Chanson de Roland. La Francia, che aveva
un’idea vaga della sua epopea, sente tutto il valore della
scoperta. Qualche anno prima era venuta alla luce anche
una cantilena: Le Chant des Escualdunacs, cui lo stesso
Michel diede poi il posto d’onore in testa alle appendici
della sua edizione principe della Chanson. Il Fauriel ha, o
meglio par che abbia, partita vinta. Anche la Chanson de
Roland ha dunque alle sue basi i canti brevi, le cantilene
popolari, dove tutto è freschezza, ingenuità e purezza.

5. La Francia e il suo romancero

Nel clima che creano queste ricerche, i canti popolari


assumono un’importanza decisiva. Da qui il successo che
ebbe allora una raccolta di canti popolari brettoni che uscì
nel 1839 e che, intitolata Barzaz-Breiz, era dovuta alle
ricerche di Hersart de La Villemarqué, il quale aveva
raccolto, dalla bocca di una cantante che mendicava, i canti
di quei Derniers Bretons, di cui tre anni prima, il Souvestre,
per «caprice amoureux» aveva descritto gli usi e i costumi.
Ma il La Villemarqué ebbe un’altra ambizione. Egli
conosceva le opere del Wolf, dei Grimm, dello Scott e del
Fauriel e volle dare ai suoi connazionali i resti dell’epopea
brettone. Nella prefazione, con cui presenta la sua raccolta,
non esita a dichiarare che i suoi testi sono in gran parte il
risultato di un suo personale rifacimento. In questo senso:
che laddove in un testo vi è una espressione impoetica egli
la sostituisce con l’espressione poetica trovata in altro
testo. «Tale è stato il metodo di Walter Scott: e io non
potevo non seguire il metodo migliore». Avrebbe potuto
aggiungere: tale è stato il metodo dei Grimm nei Kinder-
und Hausmärchen. Ma egli non aveva il gusto dello Scott,
tanto meno quello dei Grimm, e gli mancava inoltre
l’impeto di un Macpherson.
Non si può negare che il La Villemarqué, interpolando
abilmente dei versi, riesca a collegare i suoi canti con
avvenimenti del tutto estranei ai canti originali. Ma si vide
subito in fondo che si trattava di una mistificazione da stare
a pari con quella che nel 1827 aveva fatto il Mérimée, La
Guzla, ou choix de poésies illyriques recueillies dans la
Dalmatie, la Bosnie, la Croatie et l’Herzégovine. Né aveva
torto quindi un delicato poeta del tempo, Gerard de Nerval,
quando nel 1842 in un suo commento a Les vieilles ballades
françaises osservava:

«Prima di scrivere, ciascun popolo ha cantato: tutta la poesia si ispira a queste


sorgenti native, e la Spagna, l’Inghilterra, la Germania, ciascuna con orgoglio,
hanno il loro romancero. Perché la Francia non ha il suo?»

Un anno dopo però anche la Francia aveva il suo


romancero, tanto è vero che nel 1843 apparve una delle
maggiori sillogi che siano state dedicate alla poesia
popolare francese: i tre volumi, con musiche, di Dumersan
e Colet, Chants et chansons populaires de la France (1858-
593). Nel 1852, per ordine del nuovo imperatore francese,
Napoleone III, vengono diffuse alcune intelligenti e
preziose Instructions relatives aux poésies populaires de la
France, dovute a J.-J. Ampère. Ma quelle Instructions (di cui
si serviranno poi studiosi come Rolland, Tiersot, Doncieux,
Coirault ecc.) erano state in parte intuite dal Dumersan e
dal Colet.
La poesia popolare appariva ormai anche ai Francesi così
come era apparsa allo Herder: la voce della propria
nazionalità. Ma nel frattempo, fra i due imperi, con questi
nuovi e rinnovati interessi non erano andati di pari passo la
letteratura e la storiografia, l’una e l’altra investite appunto
da una nuova forza di rinnovamento? Scrittori reazionari,
come un De Maistre o un De Bonald – è noto come in
quest’ultimo il mito del buon selvaggio si divinizzi –
avevano affermato durante la Restaurazione che la
borghesia è un’astrazione dell’Enciclopedismo, mentre il
popolo è la storia viva (anche se ciò, per loro, non
escludeva il diritto divino del principe). Dirà più tardi la
Sand: «Il popolo è il solo storico, potremmo dire, che a noi
rimane dei tempi preistorici». E quel popolo entrava, sì,
allora, quasi a convivere idealmente con la borghesia – il
che era stato l’auspicio di Saint-Simon – nell’opera stessa
della Sand; ma entrava, con maggiore irruenza, in quella di
un Victor Hugo. Le stesse opere di un Thierry, di un
Michelet e di un Guizot, edite in quel periodo, non si
spiegano certo senza l’influsso dello Chateaubriand e dello
Scott. Ma non si spiegano senza il mito del Volksgeist,
quale era stato foggiato in Germania e che i Grimm, molto
più dello Hegel, avevano reso familiare agli studiosi
francesi dai quali non poco trassero i romantici italiani. Gli
interessi per la vita popolare si affermarono infatti in
costoro mentre cercavano di risuscitare la coscienza
nazionale.
6. Aspetti del Romanticismo in Italia: dalla Lettera
semiseria di Grisostomo alle Vecchie romanze spagnuole

L’Italia aveva cominciato il suo Romanticismo con Vico.


Muratori aveva insegnato agli Italiani come fosse
necessario raccogliere le Antiquitates. E in ciò lo avevano
seguito il Carmeli e il Leopardi il primo dei quali aveva
compilato, sulle tracce del Thiers, una Storia di vari
costumi sacri e profani fino a noi pervenuti, edita nel 1750,
mentre l’altro, sulle orme del Browne, aveva scritto nel
1815 un Saggio sopra gli errori popolari degli antichi. Né
erano mancati sotto Napoleone dei tentativi di raccogliere,
con una certa organicità le manifestazioni del folklore
vivente: come, ad esempio, gli Usi e costumi dei contadini
di Romagna del Placucci, che illustrano i risultati di una
inchiesta sui costumi e i dialetti italiani promossa appunto
fra il 1809 e il 1811 da Napoleone.
È merito del Berchet però l’aver promosso in Italia con la
sua Lettera semiseria di Grisostomo al suo figliuolo (1816)
l’interesse per la poesia popolare. Il Berchet si riferisce al
Vico, (che però intende a suo modo), cita anche il Platone in
Italia del Cuoco, oltre che, fra gli stranieri, il Burke, il
Lessing, lo Schiller, il Bouterwek e Madame de Staël. E
attraverso questa filiazione ideale, che dal Vico va fino al
Cuoco, noi possiamo dunque vedere chiaro in lui ij processo
di formazione del Romanticismo italiano.
In che senso si può parlare di una popolarità della
poesia? Popolare è per il Berchet ciò che è conforme a
natura. Ma la definizione di natura e naturale, piuttosto che
da una particolare categoria di sentimenti, immagini, stati
d’animo, considerati più poetici di certi altri, perché più
ingenui e più rozzi, deriva dalla considerazione di ciò che
sia comune alla maggior parte degli uomini. Secondo il
Berchet, è in tutti innata una facoltà poetica, che nei più
rimane passiva o ricettiva, mentre solo in pochissimi spiriti
eletti, nei poeti, si manifesta come attività creatrice di
poesia. Ci sono bensì quelli che egli chiama gli Ottentoti,
incapaci per naturale ottusità di intendere la poesia, ma c’è
un’altra categoria di lettori, quella dei Parigini, di coloro
cioè che l’estrema raffinatezza e civiltà ha reso frigidi e
frivoli. Il popolo dunque, il vero popolo, sta tra gli uni e gli
altri, tra i Parigini e gli Ottentoti, venendo così a costituire
come la categoria media e comune dei lettori.
È già evidente in queste istanze il carattere del
Romanticismo italiano, quale meglio andrà definendosi nel
buon senso o nell’umorismo manzoniano. In Italia non si
possono accettare le esagerazioni dell’audace scuola
boreale. Perciò il Leopardi, in una lettera che avrebbe
dovuto essere pubblicata dalla «Biblioteca italiana», e poi
nello Zibaldone e nel Discorso di un italiano intorno alla
poesia romantica, accusa i romantici di «sviare… la poesia
dal commercio dei sensi». «Naturale» è per il grande poeta
ciò che possa rappresentarsi sensibilmente. L’intelletto è il
grande nemico della poesia, avendo gli uomini «una
irrepugnabile inclinazione al primitivo e al naturale
schietto e illibato». Cosicché sotto questo riguardo la
frigidità dei Parigini e l’intelletto del Leopardi coincidono.
Nella Lettera, d’altro lato, il Berchet sostiene che la
nuova poesia italiana dovrà rispecchiare i sentimenti e le
credenze attuali, ove essa voglia tuffarsi nella concretezza
stessa della realtà. Né è senza significato che proprio
allora, in omaggio a quella realtà, entreranno nella storia
della letteratura italiana coloro che avevano rappresentato,
se mai, una parte di fianco nella commedia: gli umili, la
gente del popolo. Così Renzo e Lucia, come è stato ben
osservato, irrompono romanticamente nel regno della
poesia, mentre la quotidianità dei loro casi «è riscattata
dall’assunto educativo che son chiamati a servire».
Manzoni riabilita Walter Scott. E intanto ecco che rifiorisce
in Italia la poesia dialettale che non ha nulla in comune, è
vero, con la poesia popolare, trattandosi di una poesia
riflessa, ma che è la più adatta ad esprimere i sentimenti
stessi del popolo.
Il concetto di poesia popolare, quale era stato formulato
dai romantici tedeschi, si tramuta pertanto nel Berchet in
un altro concetto anch’esso formulato da quei romantici, e
in particolar modo dell’Arnim: che la poesia popolare debba
essere un mezzo di educazione per il popolo. In realtà
mentre per l’Arnim il popolo era il maestro, per il Berchet,
come ben osserva il Croce, esso sarà l’alunno. Ma con ciò il
Berchet nega, come si ritiene, il valore della poesia
popolare?
A questa domanda risponde lo stesso Berchet
nell’introduzione alle Vecchie romanze spagnuole, edite nel
1841, quando egli, fuori d’Italia, a contatto più diretto con
certi ambienti romantici stranieri, aveva ormai potuto
sviluppare e chiarire il suo pensiero.

«La poesia popolare – e per tale intendo quella che è interamente prodotta, e
non soltanto gradita dal popolo – non mette fuora opere materialmente
immobili come la poesia d’arte; non le raccomanda, come questa alla scrittura;
ma le affida al canto transitorio, alla parola fugace: cammina, cammina libera e
viva; e ad ogni passo che fa lascia un vezzo e ne piglia uno nuovo, senza per
questo cessar d’esser quello ch’ell’era, senza mutare la sembianza che da
principio ella assumeva. Sorge uno e trova una canzone: cento l’ascoltano e la
ridicono. Le cantilene udite da’ suoi parenti, la madre le ricanta a’ suoi figliuoli;
questi le insegnano ai nipoti. Quando viene l’uomo letterato, e se le fa ripetere,
e le ferma in caratteri scritti, chi può dire per quante bocche sieno già passate
quelle cantilene? chi riconoscere tutte le modificazioncelle che vi possono
avere apprestate?»
Nell’accingersi a tradurre queste romanze, il Berchet
aveva avuto non pochi precursori: il Perey, lo Herder, il
Cesarotti, il Diez ecc. Ed è noto che anche Jacob Grimm
aveva raccolto una Silva de romances viejos. La Spagna
proprio in quegli anni, d’altra parte, dopo aver combattuto
l’imperialismo francese e napoleonico con le sue forze
popolari, veniva riscoprendo i suoi romances che più tardi,
nel 1849, trovarono il loro monumento nel Romancero
general del Duran. I romances costituivano anche per il
Berchet l’ideale di quella poesia nazionale patriottico-
popolare cui egli, poeta con un linguaggio tutt’altro che
popolare, voleva adeguarsi. Ma nel presentarli, ora, ai
lettori italiani – ai quali voleva offrire anche una traduzione
di poesie popolari danesi – egli, ancora una volta, è lontano
dell’accettare il concetto di poesia popolare che avevano i
Grimm. È merito suo infatti l’aver intravisto quel concetto
di elaborazione popolare che già era stato intuito da A. W.
Schlegel e dall’Arnim, da cui peraltro si allontanava nel
considerare la poesia popolare soltanto come direttamente
prodotta dal popolo, cioè da un determinato ceto. È essa, la
poesia popolare, egli comunque aggiunge, una serra di
semplici fiori che il lettore può godere facendosi «pusillo».
Ma in tal modo il Berchet non individuava appunto nella
poesia popolare quel carattere elementare che proprio i
romantici tedeschi avevano scoperto?

7. Tommaseo e il folklore italiano

«Poesia semplice», quella popolare; ma poesia nazionale.


Otto anni prima dell’uscita delle Vecchie ballate spagnuole,
che il Berchet aveva traducendole ricreato, un archeologo
italiano, P. E. Visconti in un suo Saggio de’ canti popolari
della provincia di Marittima e Campagna (che è la migliore
raccolta fra quelle che allora, Italiani e stranieri, fecero
della nostra poesia popolare) osservava:

«I canti popolari, strettamente legati all’indole nazionale, alle condizioni de’


luoghi, allo stato del costume, al grado di civiltà, meritano l’attenzione del
filosofo. In essi sono i vecchi segreti del cuore umano. Osservabili per quella
espressione che viene spontanea a chi sia veramente commosso, danno a
vedere un misto sempre interessante di comune e di insolito, d’ordinario e di
nuovo. Ispirati interamente dal cuore, ne palesano i due potenti affetti, l’amore
e lo sdegno. E li esprimono con quella energia che fa uno il sentire e lo
esprimere… Né infruttuosa inchiesta sarebbe quella di chi tutti raccogliesse
canti siffatti. Di cari e preziosi modi, e locuzioni, e parole; di bei versi tutti
genuina purità; di produzioni nate con la nostra favella, feconda riuscirebbe la
sua ricerca. E forse questa dolcissima madre nostra, privilegiata nutrice di ogni
bellezza, ne apparirebbe coronata di un nuovo serto non indegno ai venerato
suo capo».

E il voto del Visconti non doveva restare inappagato. Nel


1841 il Tommaseo pubblicò infatti una raccolta di Canti
popolari toscani, che può considerarsi non solo come uno
dei documenti più schietti della poesia popolare italiana,
ma anche una delle sillogi più insigni che ci abbia dato la
filologia del tempo. Il Tommaseo ammira
incondizionatamente quei canti, dove egli è lieto di
ritrovare «cari e preziosi modi e locuzioni» nati «con la
nostra favella». Non manca di considerarli come «fiori di
serra», prodotti però «di agresti e libere nienti». E
ammonisce: «Chiunque non venera il popolo come poeta e
ispirator di poeti non ponga costui l’occhio su questa
raccolta». Anch’egli considera il popolo come sorgente di
poesia. E la sua raccolta, appunto per questo, non si ferma
ai canti toscani. Un secondo volume è dedicato ai Canti del
popolo corso. E qui vivo è anche l’interesse etnografico
ch’egli dimostra per il popolo corso e per le sue abitudini.
Un terzo, sulle orme del Fauriel, è dedicato ai Canti del
popolo greco. Un quarto infine ai Canti popolari illirici.
Miracolo di gusto, le sue traduzioni. E anche con esse egli
si rivolgeva ai poeti perché avessero a loro disposizione
«nuove sorgenti di poesia», mentre egli sapeva che i canti
popolari sono un aspetto della propria coscienza nazionale.

8. Nazionalismi, primati e missioni

Non v’è dubbio, dunque, che lo studio delle tradizioni


popolari tragga nell’Europa occidentale nuovi stimoli e
nuove suggestioni dal Romanticismo tedesco, il quale ha
avuto il merito di porre, in maniera decisa, quello studio su
una base nazionale e storicistica. Quando la Germania,
senza rinnegare l’universalismo dell’ideale romantico,
veniva considerando la nazione come il mezzo che lo
esprime, due grandi Stati nazionali, l’Inghilterra e la
Francia, erano in grado di manifestare un ideale che si
identificasse con la propria cultura e la propria civiltà, che
è quanto dire con la propria coscienza storica. Era logico,
quindi, che in essi il folklore fosse chiamato non a creare
quella coscienza, ma a rafforzarla, diremmo, a ricrearla.
La nazione nella sua forma moderna – si afferma peraltro
– nacque in Inghilterra fin dai Tudor. Ma l’Inghilterra riesce
a individuare con maggiore consapevolezza i suoi caratteri
nazionali nell’Ossian e nelle Reliques. Ci si riferisce invece
per la Francia alla difesa della Rivoluzione contro il re. Ma,
a sua volta, non era stata la Francia a far del culto della
nazione e della patria quella religione laica che la stessa
dominazione napoleonica fini col creare e col risuscitare
non solo in quei paesi che invase ma anche in quelli che
pretendeva di invadere? E tale religione non dominerà in
Europa tutti i susseguenti moti di indipendenza nazionale
che esprimono, per quanto vari e diversi, l’istanza della
propria nazionalità, la quale affonda le radici nel proprio
passato?
Su questo passato, il Guizot innestava gli ideali di un
nuovo primato francese, il quale risultava dalla tradizione
culturale per cui la Francia sarebbe stata in ogni tempo
maestra all’Europa. Ugualmente ai valori storici del
passato si riferisce in Italia il Gioberti, il quale però pone al
centro della sua concezione la missione civile e religiosa
del papato. E potremmo in proposito anche ricordare il
Mazzini che si richiama alla grandezza della civiltà italiana
nei secoli, alle glorie dell’antica Roma, al Rinascimento ecc.
C’è un’aria nuova, insomma, che circola in tutti questi
pensatori ai quali il primato o la missione della propria
patria si dispiega come una realtà feconda e operosa. E la
nazione, intanto, anche con essi e per essi – come per i
romantici tedeschi – non è più un dato naturalistico, ma un
fattore storico.
15. Insegnamenti del folklore

1. Aspetti del Romanticismo in Russia

Paesi di alta tradizione culturale, l’Inghilterra, la Francia,


l’Italia e la Spagna non mancano di smettere quella boria
che durante il Romanticismo ad alcuni dei loro
rappresentanti faceva considerare il folklore come una
«scienza plebea». E in proposito le voci di uno Scott, di un
Fauriel, di un Tommaseo o di un Berchet sono certo quanto
mai significative. Si deve tuttavia osservare che in questi
paesi il folklore, se pur contribuì a rinnovare la letteratura
e la cultura, non ebbe lo slancio politico-nazionale o meglio
nazionale-popolare che aveva assunto in Germania.
È significativo d’altra parte, come nota il Gramsci, che in
Francia il termine nazionale ha un significato in cui quello
di popolare «è già elaborato politicamente, perché legato al
concetto di sovranità»; che in Italia tale termine ha un
significato molto ristretto ideologicamente, e che in ogni
caso non coincide con quello di popolare; e che invece
completamente diverso è il rapporto di questi due termini
in russo e in genere nelle lingue slave, dove nazionale e
popolare sono sinonimi.
C’è un altro fattore però che sembra unire la Russia alla
Germania, se si pensa che in Russia, dove fin all’inizio del
regno di Alessandro I non esisteva una forma moderna di
sentimento nazionale, questo sentimento fu ridestato da
Napoleone. «Napoleone fece irruzione in Russia», dirà uno
dei rivoluzionari del tempo, il Bestužev-Marlinskij, «e allora
si destò in tutti i cuori il senso dell’indipendenza». Lo
stesso Alessandro I sembrò ai popoli come il Messia della
lotta contro il dominio napoleonico. E più tardi «le fiamme
di Mosca» appariranno a Benjamin Constant come
«l’aurora della libertà del mondo». Ma quelle fiamme
intanto non illuminano il definitivo ingresso della Russia
nella compagine europea?
È vero che il folklore – a differenza di quel che avviene in
Germania – in Russia, vinto Napoleone, incontrerà difficoltà
non lievi per affermarsi. Tuttavia anche in Russia, quando
esso si affermerà, sarà qualcosa di più che una sporadica
vicenda della cultura come in fondo era avvenuto in
Inghilterra, in Francia e anche in Italia. Gli Italiani, gli
Inglesi e i Francesi potevano vantare Dante, Petrarca,
Boccaccio, Chaucer, Shakespeare, Milton, Corneille, Racine
ecc. Ma per i Russi, con un patrimonio letterario ancora
troppo modesto, la letteratura popolare costituiva invece
un ricchissimo patrimonio intellettuale, morale e sociale,
che era insieme il documento delle loro costumanze e il
monumento della loro lingua.
Si spiega così la reazione che nel 1836 suscitarono le
celebri Lettere filosofiche del Čaadaev, il quale, se da una
parte fa appello ai valori della Chiesa cattolica, dentro il cui
grembo dovrebbe entrare la Chiesa ortodossa per un
avvenire migliore del mondo slavo – il che potrebbe
ricordare il Novalis –, dall’altra sostiene decisamente che i
Russi, rannicchiati com’erano nelle loro «casupole di travi e
di stoppie», così come non avevano dato un solo pensiero al
tesoro delle idee umane, nulla avevano nel campo della
letteratura che potesse parlare al loro cuore. Due slavisti di
grande valore, i fratelli Kireevskij, Pëtr e Ivàn, educati in
Germania e ammiratori entusiasti dei Grimm, scesero
allora in campo, pronti a dimostrare al Čaadaev che egli
era completamente fuori strada, perché al cuore dei Russi
aveva parlato e parlava una grande letteratura: la
letteratura popolare. E ai fratelli Kireevskij non mancavano
le pezze di appoggio, delle quali le più valide erano proprio
quelle inerenti alla poesia popolare, cui alcuni anni prima
aveva dato dignità uno studioso cosacco: Kirša Danilov. È
con lui infatti che la poesia popolare russa esce dal museo
delle belle curiosità dove era stata relegata.

2. La lezione di Danilov

È noto che in Russia molte testimonianze ci attestano la


esistenza di canti e di cantori popolari fin dal secolo XII. Ed
è noto altresì che il celebre Canto di Igor che si ritiene del
secolo XII ma la cui scoperta coincide con la pubblicazione
dell’Ossian, è pieno di riecheggiamenti di poesia popolare.
Le prime trascrizioni di tale poesia – ove si escludano
quelle di due inglesi, lo James e il Collins, fatte nel Seicento
– risalgono comunque alla seconda metà del secolo XVIII e al
primo decennio del secolo successivo. La poesia popolare
era rimasta fino ad allora su un piano di assoluta inferiorità
rispetto alla cultura, dominata in un primo tempo dalla
tradizione chiesastica e poi, ai tempi di Pietro il Grande, dal
classicismo francese. Ora invece essa, se pur rimane
fedelmente custodita nel cuore dei contadini, dei mercanti,
dei pellegrini, non solo raggiunge, insieme alla musica che
l’accompagna, le sale aristocratiche, ma arriva addirittura
nella reggia degli zar. Da qui i canzonieri e le sillogi dovute
al Čulkov (1770-1776), al Lvov (1790), al Popov (1792), al
Sacharov (1830), dove però i testi trascritti sono epurati,
corretti e rielaborati.
E a questo indirizzo si era assuefatto anche il Danilov in
una raccolta di canti russi pubblicata nel 1804. L’invasione
napoleonica, più tardi, non suscitò certo in lui le istanze
che aveva suscitato in un Arnim o in un Brentano. Il Danilov
tuttavia vede il popolo cui appartenevano quei canti in
maniera diversa da come lo avevano visto i suoi
predecessori. La stessa lotta contro Napoleone aveva già
avvicinato ufficiali e soldati, aristocrazia e popolo. E nel
momento stesso in cui viene scoperta l’anima del contadino
e il valore nazionale della sua personalità, il Danilov si
rimette al lavoro; comprende che ogni canto popolare è un
soffio di quella personalità; e in omaggio a questi principi
da nel 1818 una raccolta di canti popolari russi che è la
migliore del tempo e che è la precisa documentazione di
quel che era, in parte, l’epica o meglio l’epopea stessa del
popolo russo. I canti, che il Danilov considerava come una
pagina in cui si inverava lo sviluppo della civiltà nazionale,
avevano pertanto il diritto di porsi accanto alle epopee
delle altre nazioni, accanto all’Iliade e all’Odissea, ai
Nibelunghi.
È vero che allora, in Russia, questa epopea fu
riconosciuta a un solo patto: che essa non dovesse
intaccare la Chiesa ufficiale e la politica del governo,
contraria, dopo la vittoria su Napoleone, a qualsiasi riforma
interna. Così, ad esempio, quando il Puškin, attirato dai
canti popolari che rievocavano l’epica figura di Stenka
Razin, pensò di farne una raccolta, il conte Benkendorf, suo
amico, lo sconsigliò scrivendogli: «Le canzoni su Stenka
Razin, quale che sia il loro valore poetico, hanno un
contenuto che le rende non adatte alla pubblicazione. La
Chiesa maledice Razin». I motivi che ispiravano questi
canti erano la sofferenza dei contadini russi, le loro lotte
contro i feudatari, le angherie, i soprusi. Razin in lotta
contro tutte le ingiustizie era la voce stessa della ribellione
contro i torti patiti, la fiducia nella giustizia, l’appello alla
vita. E, per la stessa ragione, nemmeno al Dal fu permesso
pubblicare, sotto Nicola II, quella raccolta di proverbi che
doveva aprire nuove vie allo studio della paremiografia.
Queste limitazioni, o meglio epurazioni, non impedirono
che i valori della vita popolare venissero giustamente
apprezzati. E i fratelli Kireevskij nulla tralasciarono per
conseguire questo risultato. La stessa polemica col
Čaadaev, d’altro canto, fu di stimolo a uno dei fratelli, a
Pëtr, per intensificare quella raccolta di stariny (o meglio,
come da allora cominciavano a chiamarsi, di byliny), che
verrà pubblicata, sì, dopo la sua morte, dal 1862 al 1874,
ma che, resa nota molto prima attraverso dei saggi ch’egli
era andato pubblicando qua e là, doveva costituire, insieme
alla raccolta del Danilov, il primo nucleo del Corpus delle
canzoni di gesta del popolo russo.
Al quale peraltro un grande scrittore del tempo aveva
chiesto stimoli e suggestioni soprattutto per il
rinnovamento della lingua letteraria: N. M. Karamzin. La
Russia, già dal tempo di Caterina II, aveva mostrato un vivo
interesse per i problemi linguistici, ed è noto quale
interesse la stessa Caterina abbia mostrato per un’opera
che fu così cara ai preromantici francesi e in particolar
modo al Senancour: Le monde primitif, analysé et comparé
avec le monde moderne di Court de Gebelin. D’allora si
lavorò molto sulle regole della lingua. Ma anche qui c’era
un limite: la lingua dei Russi, la lingua della letteratura
russa, non poteva non essere che la slavo-ecclesiastica. Le
antologie dei canti popolari rivelavano però che accanto a
quella lingua ce n’era un’altra, più semplice e più
immediata. E di ciò s’accorse appunto il Karamzin, il quale,
nel proporre la riforma della lingua, l’accompagnò con uno
studio attento, rivolto non solo alle antiche carte, ma anche
ai canti popolari. È in questi ultimi anzi, egli affermava, che
noi troviamo la lingua più adatta a esprimere la tenera
semplicità, le voci del cuore e della sensibilità.
E di questa lingua lo stesso Karamzin si avvalse nei
romanzi, nelle ballate, nei racconti, dove non poche volte
esalta la vita dei contadini insieme a quella che era la vita
stessa dei padri:

«Chi di noi non ama quei tempi in cui i Russi erano Russi, quando si vestivano
dei propri abiti, camminavano a modo loro, vivevano secondo i loro usi,
parlavano la loro lingua e secondo il loro cuore, cioè parlavano come
pensavano? Io, almeno, amo quei tempi. Amo sulle rapide ali
dell’immaginazione volare nella loro lontana oscurità, all’ombra degli olmi
vecchissimi e cadenti, cercare i miei barbuti antenati, conversare con loro
intorno agli avvenimenti dell’antichità, intorno al carattere del glorioso popolo
russo» (Natalja, trad. Lo Gatto).

E a illustrare questo carattere, a chiarirlo, contribuirà


anche uno dei migliori favolisti che abbia avuto la Russia, il
Krylov, il quale, amante come il Karamzin del buon tempo
dei vecchi padri, non esitò a ravvivare la sua prosa con
forme del linguaggio popolare, sicché i suoi animali, se pur
sono quelli di tutta la favolistica, il lupo, la cornacchia, la
scimmia, l’aquila, ecc., sanno darci tuttavia quel che è,
nella sua essenza, lo spirito popolare russo. Il che
significava, «parlare con la propria lingua e con il proprio
cuore».
Le stesse esigenze furono, nel primo ventennio
dell’Ottocento, presenti anche nell’opera di un poeta che
senti le aure fresche del Romanticismo europeo, V. A.
Žukovskij, il quale tradusse la Lenore del Bürger,
ispirandosi ad essa in due sue celebri ballate dove cercò di
utilizzare al massimo la lingua popolare. E ciò mentre egli,
cantore come il Gray dei bardi, ma dei bardi russi,
traduceva frammenti del Mahâbhârata, episodi dell’Iliade,
brani dell’Odissea.

3. Da Puškin a Glinka

La riforma del Karamzin fu accolta da un poeta il quale


seppe interrogare la lingua popolare russa, e con essa il
folklore, come nessun altro aveva fatto: il Puškin. Non v’è,
si può dire, grande esperienza poetica occidentale (da
Shakespeare al Macpherson e al Byron) che egli non abbia
fatto sua. O meglio, che non abbia fatto russa. E la
soluzione, come osserva il Lo Gatto, egli la trovò appunto
«introducendo nella creazione poetica la lingua popolare,
alla quale nel secolo XVIII si era rivolta così poca
attenzione». E il Lo Gatto aggiunge: «Con la lingua
entrarono nella sua arte anche elementi riferentisi al
popolo, che trasformarono e unificarono il magistero
dell’arte, come, dal punto di vista esteriore, la descrizione
della natura russa in contrapposizione con le descrizioni di
maniera degli scrittori pseudo-classici, sentimentalistici e
romantici, e dal punto di vista intcriore, la
caratterizzazione dello spirito o più genericamente
dell’anima russa».
Il Puškin si avvalse in molte sue opere di motivi e di
spunti folkloristici. Rifece in parte gli stessi
rimaneggiamenti che il Merimée ci aveva dato dei canti
serbi, cui impresse la sua forte personalità di poeta.
Laddove però egli si fece veramente eco fedele del popolo
fu nelle sue favole. E rievocando i racconti che la sua
nutrice Arina Rodionovna gli aveva fatto gustare fin da
bambino, esclama: «Quale incanto è in essi! Ciascuno di
essi è un poema». Di questi racconti esisteva già un’ampia
raccolta del Čulkov (1766-83). Nessuno era stato, però,
registrato nella sua forma autentica. Vero: anche
l’Afanasev, più tardi, rielaborerà le novelle raccolte, spinto
in ciò, come egli stesso dichiarerà, dall’esempio dei Grimm
(dei quali condivide l’idea che in esse quel che conta sono
le tracce dell’antica mitologia). Ma l’Afanasev, la cui
raccolta uscì fra il 1855 e il 1866, ha, se non come i Grimm,
una finezza di gusto non comune. Rielabora, cioè annulla la
personalità degli autori di cui raccoglie i testi, ma sa
infondere a quelle nuove elaborazioni un calore umano.
Nulla invece aveva fatto di tutto ciò il Čulkov (seguito in ciò
anche dal Bronnitsyn e dal Sacharov). Il che, intendiamoci,
non esclude il valore di quelle collezioni, le quali ci
documentano i temi e i motivi novellistici che correvano
allora in mezzo al popolo russo.
Era logico quindi che il Puškin ricordasse piuttosto la sua
nutrice, essa stessa secondo la sua ingenua fantasia
rielaboratrice di favole, che il Čulkov. In lui d’altro canto,
ed è ovvio, non vi sono esigenze scientifiche da soddisfare.
A lui la fiaba si dischiude come già ai romantici tedeschi, a
un Novalis, a un Tieck, a un Brentano, ai Grimm. È materia
d’arte. O meglio è un sentimento che egli rivive, che fa suo,
che gli diventa linguaggio. Ecco perché le favole del
Puškin, che pur si era servito in tutta la sua opera
precedente di motivi e di spunti folkloristi, creano fra
l’artista e il popolo, o meglio lo spirito del popolo, una
fusione che poi troveremo, in parte, in molti poeti e
narratori russi: nel Lermontov, in Gogol, nel Turgenev, in
Tolstoj, in Dostoevskij ecc. Né d’altra parte è senza
significato che qualche anno dopo anche l’opera musicale si
ispirerà alle sorgenti del popolo. In questo campo sarà
Glinka che darà l’avvio.
Ma c’è di più: che così come furono i primi folkloristi
russi a indicare vie nuove agli artisti, saranno ora gli artisti
che agevoleranno il movimento folkloristico. Il popolo esce
culturalmente dal suo servaggio. Non è l’alunno, l’essere
inferiore, ma già il maestro (come per i romantici tedeschi).
Dirà Gogol, cui dobbiamo tra l’altro una squisita raccolta di
leggende ucraine da lui rivissute: «Mia vita, mia gioia, o
vecchie canzoni, come vi amo!» E quelle canzoni, come le
favole, come i proverbi, saranno il richiamo alla sincerità,
alla spontaneità, al farsi popolo per diventare artisti.
Anche un archeologo e un latinista come Snegirëv si era,
nel frattempo, dedicato alla raccolta di quei proverbi che il
Puškin considerava come una miniera d’oro per la lingua. E
più tardi, nel 1838, egli ci darà un’ampia sintesi dove
descrive le feste del popolo russo. Abituato alla ricerca
scientifica, lo Snegirëv va oltre, però, la descrizione: e
acute sono le sue riflessioni sul paganesimo in cui è
coinvolta la vita del contadino. Nel 1848 si avvia a queste
ricerche un altro slavista: il Tereščenko. Ma imponente fu,
allora, soprattutto l’opera del Buslaev, il quale, da buon
discepolo dei Grimm, dopo aver studiato con larghezza di
vedute la letteratura e l’arte popolare russa, sostenne che il
popolo, e soltanto il popolo, possiede i fondamenti morali
della sua nazionalità nella sua lingua e nella sua mitologia,
l’una e l’altra in intimo rapporto con la poesia, con il diritto
e con il costume, e che tutte le idee morali che un popolo
possiede fin dalla sua epoca primitiva, costituiscono una
tradizione sacra, un’antichità venerabile, la sublime eredità
degli antenati.

4. Folkloristi cechi e polacchi


E a questa eredità si appelleranno i Cechi della Boemia e
della Moravia oltre agli Slovacchi, i quali furono i più tenaci
assertori di quella missione slava che il Mazzini
profetizzerà fatale tanto per l’Austria quanto per la
Turchia. Nel 1781 i Cechi avevano ottenuto dall’Austria
l’abolizione della servitù della gleba. In compenso avevano
avuto l’obbligo di considerare come ufficiale la lingua
tedesca. E ciò fu il primo segno di battaglia. La lotta
divampò cocente, quando il Romanticismo pose il problema
dell’anima nazionale. Ed ecco che noi assistiamo allora a un
movimento inteso a determinare le caratteristiche comuni
dei popoli slavi, quali esse vengono denunziate
dall’archeologia e dall’etnografia, ma soprattutto dalla
linguistica. Anche i Cechi vogliono avere i loro Monumenti.
E li avranno ad opera del Dobrovsky, che in latino ci dà una
impareggiabile ricostruzione del mondo slavo primitivo;
dello Joungmann, che in quel mondo inserisce la storia
della letteratura ceca; del Palatsky, che nel tracciare la
storia della Boemia lancia un manifesto di indipendenza
nazionale. Con queste e altrettali ricerche va di pari passo
l’ansia di creare una poesia nazionale che si rifaccia alle
origini e che possa ridestare nel popolo la coscienza
nazionale. Il che fu appunto l’intento non solo dello stesso
Joungmann, ma anche di J. Kollár e di F. L. Čelakowsky. È a
quest’ultimo anzi che dobbiamo una silloge di canti
popolari cechi, dove però l’impegno filologico del
raccoglitore è non poche volte sacrificato al gusto del
poeta. Vi è in questi canti la fonte stessa in cui viveva e
riviveva la lingua dei propri padri – quella lingua, cioè,
contro cui si era voluto cospirare –; ma vi è anche, la
documentazione di quel passato leggendario sul cui sfondo
era stata animata la poesia dello Joungmann, del Kollár, e
dello stesso Čelakowsky. Ed ecco che, nel nome di questo
passato leggendario, sarà proprio il Kollár, uno slovacco, a
formulare in un suo poema l’augurio che la Russia possa
formare una sola patria non solo coi Polacchi ma anche coi
Serbi e coi Croati. Senza dire che l’augurio del Kollár sarà
accolto alcuni anni dopo, nel 1848, dal Ciezkowski, il quale,
nuovo Fichte slavizzato, misticizza, si, l’idea di una
missione slava, ma a un patto: che essi, gli Slavi, siano
guidati in quella missione dai Polacchi, i quali peraltro
avevano vissuto tutte le esperienze letterarie
dell’Occidente ed erano in grado di poter affratellare tutti i
popoli slavi.
La realtà era però molto diversa, ove si pensi che la
Polonia, dopo essere stata incorporata in gran parte, dopo
il congresso di Vienna, dalla Russia, fu sempre mantenuta
dai Russi in uno stato di soggezione. Le stesse insurrezioni
polacche, quella del 1830 o ancora più tardi quella del ’63,
ebbero soltanto l’effetto di far sì che gli zar russificassero
sempre più le province polacche, nonostante che in Russia
non tutti approvassero la politica zarista. In un suo celebre
lavoro, la Russkaja Pravda, P. I. Pestel, capo di
quell’associazione meridionale che svolse una proficua
attività politica fra il 1821 e il 1825, si era dichiarato, è
vero, contrario al diritto di nazionalità di paesi troppo
piccoli – come l’Estonia, la Finlandia, la Lettonia ecc. –, ma
era dell’avviso che bisognava riconoscere alla Polonia una
indipendenza nazionale.
Ed è questa auspicata indipendenza che investirà di sé la
poesia polacca del tempo. Basti pensare al Niemcewicz e al
Lenartowicz. Ma è anche in nome di essa che verranno
fatte le prime raccolte di poesia popolare: quali, ad
esempio, quelle del Lipinski e del Muzzbach, ai cui testi
ricorreranno legioni di educatori per inculcare l’amore
della patria. Toccherà al Kolberg però studiare in una serie
di volumi la vita popolare polacca. E sarà lui a porre
l’accento su un’arte di cui poco si era parlato: l’arte
popolare, quell’arte, cioè, che si esprime negli intagli, nei
manufatti, nei ricami ecc., e costituisce oltre tutto anche un
modo di pensare. E ciò, mentre a Parigi un patriota
polacco, Chopin, faceva rivivere nelle sue mazurche e nelle
sue polacche la voce popolare e nazionale della patria
lontana, alimentando un nazionalismo musicale che è, come
è stato ben osservato, la perfezione stessa del
Romanticismo.

5. Karadžić e la poesia serbo-croata

I Polacchi, la cui anima forse da nessuno è stata mai


espressa e cantata come da Chopin, non avevano, in fondo,
una poesia epica che si potesse paragonare a quella dei
Russi, dei Cechi, degli Slovacchi. C’è nella loro poesia un
germe epico, ma l’epica manca. Il che invece non può dirsi
degli Slavi meridionali, i quali durante l’epoca del
Romanticismo furono travagliati da varie lotte. Assoggettati
sino al 1830 all’impero turco, i Serbi videro infatti in quel
l’anno avverarsi il loro sogno: diventarono cioè un
principato sotto la protezione russa. Era stata la Croazia,
specialmente quando essa dal 1803 al 1813 soggiacque al
dominio napoleonico, a iniziare un movimento di rinascita
slavo-nazionale. Ed è noto che fu proprio la disfatta serba
del 1813 a fare emigrare Vuk Stefanović Karadžić a Vienna
dove conobbe un dotto filologo sloveno, il Kopitar, il quale
lo incitò a pubblicare i canti serbo-croati.
E il Karadžić accolse quell’appello. La sua prima raccolta
di canti serbo-croati uscì fra il 1814 e il 1815, e suscitò
subito fra l’altro l’ammirazione dei Grimm, i quali vedevano
in essa affermate e confermate le loro teorie sulla poesia
popolare. Lo stesso Karadžić non esitava a paragonare quei
canti all’Odissea e all’Ossian, e il suo atteggiamento di
fronte ad essi era di chi ama con devozione e
incondizionatamente tutto ciò che il popolo canta. Egli ha
raccolto quei canti dai loro cantori. Ma questi ultimi – sulla
cui tradizione si eserciterà, invece, in avvenire l’impegno
della filologia – non suscitano in lui alcun particolare
problema. Per lui, come per i Grimm, chi dice poesia dice
popolo. Ed è il popolo che crea.
Il Karadžić non si fermò, d’altra parte, a quella sua prima
fatica, tanto è vero che continuò sempre con la stessa cura
a raccogliere i canti delle popolazioni cui si sentiva
strettamente legato. E se, fra il 1823 e il 1824, egli
ripubblica la sua raccolta con molte aggiunte, alcuni anni
dopo, fra il 1841 e il 1846, le sue Srpske narodne pjesme
comprenderanno ben sei volumi (i quali, con le aggiunte,
diverranno nove nell’edizione nazionale edita fra il 1891 e il
1902).
Rimaneggiata e falsificata dal Mérimée (cui si rifecero
non solo il Puškin, ma anche l’inglese Bowring e il tedesco
Gerhard), la raccolta trovò una buona traduttrice in Elise
Voiart, la quale nel 1834 pubblicò a Parigi, i Chants
populaires des Serviens recueillis par Vuk Stephanovitch et
traduits d’après Talvj. Né la Talvj (questo il suo
pseudonimo) si contentò di tradurre quei canti soltanto in
francese, ma li tradusse anche in tedesco. Di ben altro tono
furono però le traduzioni che ne fece il Tommaseo nel suo
volume dedicato ai Canti illirici. In base a queste traduzioni
i canti del popolo serbo-croato apparvero a tutti gli studiosi
come una voce schiettamente e potentemente nazionale. E
con gli occhi suoi, con gli occhi del Ka-radzic, guardarono
allora, osserva il Cronia, alla poesia popolare serbo-croata
non solo il Goethe, lo Herder, i Grimm, la Talvj e il
Tommaseo, ma l’Eckermann, l’Humboldt, la Staël, il Nodier,
lo Scott. Quei canti costituivano l’elemento più importante
della letteratura nazionale serbo-croata, l’unica forma
moderna, anzi, di quella letteratura. E il Karadžić, nel
raccoglierli, sapeva qual era il compito che lo attendeva.
Egli si preoccupava infatti, è vero, di offrire agli studiosi
testi di autentica poesia, ma non dimenticava che quei testi
gli servivano a mettere in onore una nuova lingua
nazionale. L’amore vivo e intenso che egli ebbe, comunque,
per i suoi testi, non gli impedì a volte di rifarli e di
correggerli per portarli alla perfezione metrica: arbitrio
questo, che nel 1852 fu seguito, ad esempio, in Romania,
da un buon poeta, l’Alexandri, che nel rifare i canti del suo
paese perché fossero meglio accolti dai letterati del tempo
e servissero ad essi come una «fonte classica», si appellerà
all’autorità del Karadžić. Il quale, prescindendo da questi
arbitri (quanto mai fecondi, peraltro, nel campo letterario),
ebbe il merito di non isolare i documenti raccolti, ma di
considerarli come un aspetto di quella che è la tradizione
poetica dell’Europa orientale. L’epica che il Karadžić aveva
raccolto costituiva ed era, sì, una voce nazionale, ma quella
voce faceva parte di un coro che non era possibile
trascurare. Essa, si domandava infatti il Karadžić, non
illumina la stessa poesia popolare greca, oltre che la
rumena, la bulgara, l’albanese ecc.? I Greci gli risposero
che era anche possibile invertire quella proposizione. E il
problema, è ovvio, in tal modo non era posto nemmeno,
perché noi possiamo determinare soltanto la tradizione di
un determinato gruppo di canti. Bisogna tuttavia
riconoscere che il Karadžić fu uno di quei folkloristi europei
che ebbero vedute larghe e a cui la poesia popolare
apparve come un problema essenziale di vita e di cultura
nazionale.

6. Nasce il Kalevala

Lo stesso impegno che il Karadžić dimostrò per la poesia


popolare serbo-croata, alla cui raccolta egli attese con la
fedeltà di un missionario e di un apostolo, veniva
contemporaneamente assunto per la poesia popolare della
Finlandia da un modesto medico: Elias Lönnrot. La
Finlandia era allora sotto il dominio russo. Nel 1809 le era
stata garantita l’autonomia dallo Zar divenuto granduca di
Finlandia; ma in Finlandia, come già in Polonia, quella
garanzia si risolse in una politica energica di intensa
russificazione. Era legittimo quindi che la Finlandia, la
quale peraltro non aveva nulla in comune con gli Slavi, si
rifugiasse sempre più con maggiore accanimento nel
mondo spirituale delle sue tradizioni. Dal 1776 al 1788,
sull’esempio del Macpherson, un dotto filologo finnico, E.
G. Porthan, aveva messo insieme i frammenti della antica
poesia del suo popolo. Era stato il Topelius però, padre del
poeta dello stesso nome, a rivelare quale tesoro possedesse
il popolo finnico nei suoi vecchi runi. Nel 1831 fu fondata
intanto la Società di Letteratura finnica, la quale ebbe
appunto il merito di assecondare le ricerche di un giovane,
che comprese in pieno il valore del messaggio lasciato dal
Topelius. Il Lönnrot, ancora studente, aveva mostrato un
grande interesse per la medicina popolare dei Finni, cui
dedicò poi un’ottima indagine. Quella medicina non era, in
fondo, che un ricettario di precetti magici. Ma quei precetti
non vivevano, o meglio non rivivevano, anche nei runi, in
quei canti epico-lirici che il popolo finlandese si
tramandava di generazione in generazione?
Vestito da contadino, il Lönnrot cominciò a questo scopo
la raccolta dei runi. Nelle sue mani, i runi si moltiplicarono;
ognuno di essi aveva le sue varianti, e ogni variante era già
come un canto a sé. Il Lönnrot, comunque, non si accinse a
pubblicare quel materiale come avevano fatto i suoi
predecessori. Che cosa erano infatti, egli si domandava,
tutti quei runi, se non l’epopea del popolo finnico? E allora
egli pensa di dare ai Finni il loro poema: il Kalevala. Il
Lönnrot aveva cercato di ricostruire un poema combinando
insieme i runi e dando loro un’unità con l’aiuto delle
varianti. E in quel lavoro, com’egli affermava, nulla vi era di
suo, perché tutto apparteneva al popolo. Si è detto: è come
chi voglia ricostruire dai cocci un vaso. Ma non è immagine
esatta, ove si pensi a dei cocci che già formavano quel vaso.
Qui si trattava di creare un vaso nuovo con i cocci di altri
vasi. Ecco perché i ventiduemila versi che compongono il
poema sono ben lontani dal costituire un’opera organica.
Dice un runo:

Mi diceva versi il freddo


E la pioggia lunghi canti:
Mi portava strofe il vento,
Me ne dava il mar con l’onde;
Vi aggiungevan voci gli uccelli
E canzoni gli alberelli.
Un gomitolo ne feci…

Bene, il Kalevala è proprio il gomitolo cui accenna il


cantore: e come tale esso è l’opera di un dotto cui non
manca un raffinato gusto poetico, di un Wolf insomma che
rifa il Macpherson, servendosi di un patrimonio poetico
popolare e fluttuante, il patrimonio cioè dei cantori finnici,
dei laulajat. Ma il Kalevala è soltanto il prodotto dell’amore
per l’epica o meglio delle teorie romantiche sull’epica? O
non è anche amore per la propria patria e per la propria
letteratura, vale a dire per una letteratura nazionale, che è
insieme una nuova conquista e una nuova affermazione?
Abbandonati a se stessi, quei runi non avrebbero
oltrepassato l’interesse degli specialisti. Riuniti in un unico
poema, essi conquistarono l’Europa. Il Kalevala fu tradotto
infatti in tutte le lingue europee; creò un nuovo e rinnovato
interesse per la poesia popolare; e i runi ebbero il merito di
offrirci una poesia fresca e ingenua, dove, come è stato ben
notato, l’elegia domestica si fonde con un commosso
rispetto per tutto ciò che è mite e gentile, e dove tutte le
cose care al cuore dei poeti che le cantano, anche le «terre
tristi» e le «povere contrade», si trasfigurano per venirci
riconsegnate in una dolce atmosfera crepuscolare.
Qui è l’incanto inconfondibile del Kalevala. Dietro il suo
esempio anche gli Estoni si accinsero più tardi a creare un
loro Kalevipoeg, che comprende ben diciannovemila versi e
che è opera di un altro medico, il Kreutzwald, il quale aveva
utilizzato più di ventimila canti raccolti non soltanto da lui,
ma anche dal Fahlmann e dal Neus. Ma è un’opera questa
di altro tono, ben lontana dalla freschezza del Kalevala.

7. Del folklore nei paesi scandinavi

Non meno intenso era intanto il lavoro che si veniva


facendo per salvare e valorizzare il patrimonio folkloristico
nei paesi scandinavi, vicini geograficamente ai paesi slavi,
ma culturalmente legati in gran parte alla Germania. La
mitologia medievale scandinava – insieme alla letteratura
in cui si articola – era stata già ampiamente divulgata, in
Europa, dal Mallet nello stesso periodo di tempo in cui
nascevano l’Ossian e le Reliques. È però merito dei
romantici tedeschi, e soprattutto dei Grimm, quello di
averne fatto oggetto di indagine storica e critica. In un
articolo edito nel 1808 negli «Studien», Jacob Grimm aveva
decisamente affermato che la «poesia medievale dei popoli
scandinavi non è né generatrice né dipendente della poesia
medievale tedesca» e che pertanto «tutte e due sono nate
nello stesso periodo di tempo sotto l’influsso degli stessi
avvenimenti sviluppandosi parallelamente senza agire l’una
sull’altra». E in ciò egli, pur riconoscendo che dalla
Scandinavia venivano le più antiche popolazioni della
Germania, era coerente con la sua idea di quel fondo
comune cui si appellava in nome della poesia popolare. Né
diverso era il concetto che in proposito aveva Wilhelm, cui
dobbiamo la traduzione di una raccolta di canti eroici
danesi, già editi in Danimarca sin dal 1591 e ripartiti in
quattro gruppi diversi. Nella sua opera Altdänische
Heldenlieder, Balladen und Märchen, che accoglie appunto
tale traduzione, preceduta da una notevole prefazione, il
Grimm divide la materia in due gruppi: da una parte i canti
eroici e dall’altra i canti e le ballate. E ciò perché i primi, a
suo avviso, anteriori agli stessi Nibelunghi e resti autentici
di antiche cantilene primitive, appartengono all’epoca del
paganesimo, mentre i canti e le ballate sono impregnate
delle idee del Cristianesimo. Gli uni e gli altri non erano
però (ed è questo quel che contava per lui) che poesia
popolare.
Gli Altddnische Heldenlieder uscirono nel 1811. Tre anni
dopo si iniziava la pubblicazione di un’ampia silloge,
intitolata Swenka Folkvesiror, dovuta a E. I. Geijer ed A. A.
Afzelius, che comprende quattro volumi. Il Geijer, poeta e
storico, aveva voluto affrontare questa fatica con lo stesso
impegno dei grandi folkloristi del tempo. E l’Afzelius lo
aveva impareggiabilmente coadiuvato. Di notevole
interesse, in questa collezione, i motivi musicali che
accompagnano molti canti. Il Geijer era convinto che quanti
più poeti una lingua possiede, tanto meno il popolo canta. E
per il popolo svedese è noto, come ben osserva il Ker, che la
ballata era la poesia nazionale. Ma la tesi del Geijer, cui
egli perveniva dato il posto che la ballata occupava nel suo
paese, non va corretta in altro senso: e cioè che in un paese
il quale ha molti poeti colti la poesia popolare finisce col
passare in seconda linea? Anche in Danimarca come nella
Svezia, aggiunge il Ker, «la vita immaginativa è tutta del
genere che vien detto popolare». Ed è qui che respirerà
l’opera stessa dell’Andersen, il quale, dietro l’esempio dei
Grimm, se non raccolse delle fiabe popolari, si servì in gran
parte di esse per farne delle rielaborazioni di squisita
fattura.
L’opera più imponente però, che nel campo del folklore ci
venne allora dai paesi scandinavi fu quella di Svend
Grundtvig il quale dal 1853 al 1899, in sette volumi,
raccolse le Danmarks gamle Folkeviser. In Danimarca
esistevano già raccolte dello stesso genere dovute al Vedel
(1591), al Syv (1695), al Rahbech (1812-14). La raccolta dei
canti popolari del Grundtvig (completata da Axel Olrik) è
però su un altro piano. Opera insigne per sicurezza di
metodo e per ricchezza di dottrina, è stata definita. E in
effetti bisogna pur dire che il Grundtvig iniziò con questa
raccolta un metodo di lavoro che sarà quanto mai fecondo
nel campo della filologia folkloristica. In lui operano, si può
dire, le esperienze dei raccoglitori precedenti. I romantici
tedeschi avevano avuto indubbiamente il merito di
individuare il valore delle varianti. Ad essi avevano fatto
appello il Karadžić e soprattutto il Lönnrot. Ma per il
Grundtvig – come, più tardi, per il Bugge che raccolse con
gli stessi criteri i canti popolari norvegesi (Gamle norske
Folkeviser, Cristiania 1858) –, quelle varianti non sono
chiamate a determinare soltanto la popolarità del canto, ma
a dichiararne la tradizione. Si trattava di disegnare le linee
di svolgimento di un canto, di un gruppo di canti, di vedere
come rivive un patrimonio in cui la saga nordica si fonde
con la materia eroica germanica. E qui è indubbiamente il
merito del Grundtvig, cui dobbiamo inoltre le raccolte,
filologicamente perfette, delle saghe, le Danske Sagen
(1854-61), e delle novelle popolari, le Danske
Folkeaeventyr (1876-84).

8. Insegnamento romantico del folklore: «pensare in


europeo»
Concludendo, possiamo senz’altro affermare che anche
nei paesi slavi come nei paesi scandinavi, mentre si
affermava il concetto moderno della propria nazionalità, il
contatto col popolo faceva scoprire nuovi tesori di vita e di
arte. La Germania offre certo le sue armi filologico-
folkloristico-nazionali anche alla Russia. E le offre – curiosa
vicenda dei primati e delle missioni – anche alla Polonia. È
il pangermanesimo del resto che ha suscitato e creato il
panslavismo. In una sua lettera a Strauss, Renan scriveva:
«La filologia comparata che voi avete trasportato, e a torto,
sul terreno politico, vi giocherà forse dei malvagi tiri: gli
slavi vi si appassionano». Vero: ma se la filologia non si
fosse appoggiata sul terreno politico e sociale, ci avrebbe
dato quei frutti fecondi che essa ci ha dato appunto nel
nome della patria, della indipendenza, delle proprie
rivendicazioni nazionali? Diceva il Burcke: chi non ama i
propri antenati, non ama i propri discendenti. E il folklore,
lo studio delle sue varie manifestazioni, la valutazione e la
rivalutazione dei suoi valori, segnava appunto il ponte di
passaggio fra il passato e l’avvenire.
Non si può negare che lo studio del folklore portò sempre
ad un superamento dei confini spirituali e culturali di ogni
singolo popolo per raggiungere alla fine il riconoscimento
di una comunanza più vasta: quella cioè che unisce i popoli
fra di loro. Sembrava davvero così che nel campo del
folklore si fosse realizzato l’augurio dello Herder, ripreso in
Russia dal Čaadaev: e cioè che ogni nazione dovesse vivere
armoniosamente con le altre in nome delle voci dei suoi
popoli che sono le voci stesse della umanità. I popoli
insomma che la politica divideva, erano chiamati allo studio
della propria individualità (il che è il fattore preminente
della stessa intelligenza storica), ma erano chiamati a non
soffocarsi in essa. La gara generosa – di cui noi non
abbiamo dato che un esempio –, intesa a salvare quanto di
più intimo ha ciascun popolo e ciascuna nazione, è
promossa, sì, da un sentimento nazionale; ma quel
sentimento non era il prodotto stesso di una comune
missione nazionale ed europea? Il concetto stesso di
Europa, cioè il nuovo concetto di Europa, è vano e vuoto,
ove esso non si inserisca decisamente nel cerchio di quei
fattori culturali e morali che il folklore ha contribuito a
creare. Il folklore infatti spingeva gli studiosi a pensare in
tedesco, in inglese, in francese, in russo o altrimenti, ma li
spingeva anche contemporaneamente, per usare
un’espressione di Madame de Staël, a «pensare in
europeo».
Parte quarta
Il folklore tra filologia e storia durante il
Positivismo
16. Nel «laboratorio» di Max Müller

1. Valore del mondo ariano

Il Romanticismo, a dire il vero, non aveva, auspice la


filologia, insegnato soltanto a pensare in europeo, ma
anche in indo-europeo. È noto che lo Hegel considerò la
scoperta della parentela linguistica del sanscrito col greco,
col latino ecc., come la scoperta di un nuovo mondo. Ed è
noto altresì che tale scoperta fu di stimolo alla ricerca di
una comune cultura indo-europea. Dal problema
grammaticale, il principio dell’unità delle lingue ariane si
volle insomma estendere al problema d’una mitologia
ariana, d’una religione ariana, comune a tutte le tribù
ariane prima della loro diffusione e riconoscibile nella
letteratura dei loro discendenti.
L’eco di questo principio si trova già nella interessante
prefazione che nel 1834 Jacob Grimm premise al Reinhart
Fuchs, dove, trasferendo le istanze della linguistica nel
campo della novellistica, sosteneva che la comunanza di
alcuni antichi Lieder tedeschi con le favole esopiche
suppone una comune origine indo-europea. Né va
dimenticato che, più tardi, Wilhelm nel terzo volume dei
Kinder- und Hausmärchen, quasi riprendendo il discorso
del fratello, aggiungeva decisamente che «gli Ariani,
emigrando dalle sedi primitive in contrade dell’Asia e
dell’Europa, dovettero portare con sé i germi delle novelle
e delle favole, che poi si schiusero e foggiarono
indipendentemente presso ciascun nuovo centro etnico». E
questa, a suo avviso, era la ragione per cui gli stessi
Kinder- und Hausmärchen si dovevano far risalire nei loro
motivi all’epoca della diaspora di quei popoli ariani che, nel
frattempo, non solo erano stati chiamati a mediare una
(eventuale) comunanza fra lingue e folklore, ma anche una
(ipotetica) comunanza fra lingua e razza.
Era naturale perciò che, nel ricercare questa nuova unità
genetica, la quale in Germania trasformò il germanesimo
nella più pura espressione dell’arianesimo, il primitivo
dell’etnologia, sul quale era stato foggiato il mito del buon
selvaggio, fosse sostituito non dall’Ariano dei linguisti, che
era un Ariano storico, ma da un Ariano primitivo,
originario, sul quale veniva adottato il mito stesso delle
nostre origini. E ciò durante l’epoca stessa del Positivismo,
il quale, accogliendo le istanze preilluministiche,
illuministiche e romantiche, non disdegnò, insieme col vivo
interesse per le scienze sperimentali e i problemi sociali, la
fenomenologia inerente ai popoli primitivi.
Nel 1832 uno dei fondatori del Positivismo, Auguste
Comte, nell’iniziare la pubblicazione del Cours de
philosophie positive, era dell’avviso che la storia
dell’umanità si possa individuare, nel suo svolgersi, in tre
stadi, il primo dei quali, il teologico, è dominato
dall’intervento di forze o di esseri soprannaturali. Il Comte,
inoltre, nel tempo stesso in cui sulle orme del Brosses
riteneva che il feticismo si dovesse considerare come il
primo stadio della religione, era dell’avviso che il cammino
dell’umanità si dovesse far iniziare con quello dei popoli
primitivi.
Ma i primitivi, i selvaggi, anzi, come allora venivano
chiamati, sono qualcosa di più di ciò che appartiene al
mondo animale? Questa la domanda che, qualche anno
dopo, si rivolgeva, nella stessa Francia, Arthur de Gobineau
nel suo Essai sur l’inégalité des races humaines. Ed è
evidente che in tal modo egli, che pur si sentiva etnologo,
dimostrava di non avere la minima idea di ciò che fossero i
popoli primitivi. Né, d’altro lato, il Gobineau (pur facendo
suoi alcuni insegnamenti che veniva divulgando la Società
di Etnologia, costituita a Parigi nel 1839 da W. Edwards) si
sforzò di comprendere quei popoli. A lui la storia
dell’umanità gli si spiegava con l’avvento stesso degli
Ariani o, meglio, della primigenia razza ariana. Prima erano
le tenebre.
Dotata delle qualità migliori, questa ipotetica razza era
ritenuta dal Gobineau come il nucleo originario di tutte le
successive civiltà, il lievito stesso delle antiche civiltà
classiche come la greca e la romana. Culla di questa razza
pura e incontaminata: l’Asia centrale. Gli Ariani, diramatisi
da questo unico ceppo, si sarebbero poi sparsi, acquistando
nuovi caratteri, nelle varie sedi, e dando origine non solo ai
diversi linguaggi, ma anche alle diverse civiltà (sedi e
civiltà queste, che, qualche anno dopo, saranno oggetto di
acute ma affrettate indagini del Pictet).
Il Gobineau era quindi dell’avviso – ecco un altro aspetto
di quell’arianesimo che si fa germanesimo – che i più diretti
e attuali rappresentanti di quell’antico ceppo si dovessero
considerare i Germani, la cui razza, come quella dei loro
padri, veniva considerata esente da ogni mescolanza. Era il
germanesimo che aveva così addirittura il suo battesimo di
sangue, mentre, attraverso una ridda di parentele e di
linguaggi, la storia veniva abbassata a un puro
procedimento naturalistico. Ma in mezzo a quel
naturalismo rimaneva una luce: l’Ariano, o meglio l’Ariano
primitivo. Bene: questa luce illuminerà un campione di pura
razza ariana che è ben lontano però dal razzismo del
Gobineau: Max Müller.

2. Positivismo del Müller

Allievo dello Schelling e del Bopp, il Müller si recò fin dal


1848 in Inghilterra e precisamente a Oxford per attendere
alla pubblicazione del più antico monumento che ci abbiano
conservato gli antichi padri ariani: i Veda (già rivelati alla
cultura europea da un amico dello Jones, A. de Polier). E
Oxford fu e rimase la rocca-forte, la cittadella, dalla quale
egli annunzio le sue teorie in una serie di saggi, in cui la
vivacità dello stile si accoppiava a una felice esposizione
degli argomenti presi in esame.
Raccolti poi in volumi che ebbero facile voga, questi
saggi comparvero in parte sotto il titolo di Chips from a
German Workshop. Schegge dunque le sue, e per giunta di
un laboratorio tedesco. Questo del resto il carattere che
hanno anche le sue varie Lectures e Contributions, dove
egli, procedendo sempre a scatti, affrontò i vari problemi
inerenti alla «scienza del linguaggio», alla «scienza del
mito», alla «scienza delle religioni». Più organica la sua
History of Ancient Sanskrit Literature, edita nel 1859 e
seguita dalla collezione dei testi sacri dell’Oriente in
traduzione inglese: The Sacred Books of the East.
In questi volumi, che assunsero vari titoli nelle
innumerevoli traduzioni europee, il Müller dimostra di
possedere le stesse conoscenze dei suoi predecessori:
linguistiche, religiose, folkloristiche. Inoltre egli fa sue
anche le contemporanee esperienze del Positivismo. È del
Positivismo la pretesa, pienamente accolta dal Müller, di
ridurre i fatti a un sistema di classificazioni, sicché la
stessa storia viene assumendo le caratteristiche di una
scienza naturalistica. Ed è del Positivismo, come è del
Müller, procedere dall’osservazione del caso singolo alla
considerazione del tutto. Ma c’è di più, ove si pensi che
anche nel Müller, come nel Positivismo, le precedenti
istanze illuministiche si fondono continuamente con quelle
romantiche. Senonché, qual è il concetto che ha il Müller
intorno ai rapporti fra il linguaggio e il mito? Quali le
sopravvivenze che il mito stesso ha lasciato nel folklore?

3. Interpretazioni linguistico-metodologiche del mito

Lo studio dei Veda aveva dato al Müller questo


convincimento: che non è possibile studiare il mito come un
fenomeno isolato e che non è possibile interpretare il mito
stesso staccandolo dal linguaggio. Ma ancor prima che
venissero scoperti i Veda, questo parallelismo non era stato
individuato, ad esempio, dal Vico?
Il Vico non solo considerò il mito come un’espressione
del linguaggio, ma nel ricercare l’origine (teorica) della
religione, la trovò nel cielo che fulmina, nei bestioni che
stupiscono e temono, onde in essi si forma la prima idea di
Dio. Il bestione, l’uomo primitivo dell’etnologia, che era il
primitivo del Lafitau e del Rousseau, è tutto assorto,
inoltre, ritiene il Vico, in un suo sogno interiore che egli
proietta negli oggetti naturali: sicché nello stormire delle
foglie egli avvertirà un certo segno della volontà degli dèi;
nel fluire limpido e tranquillo del ruscello i rispecchiati
profili di ninfe; nella continua vicenda delle stagioni la
pietosa storia di Proserpina e di Cerere ecc. Quando la
Scienza Nuova era uscita da alcuni anni, apparvero due
opere di un francese, il Dupuis: il Mémoire sur l’origine des
constellations et sur l’explication de la Fable par
l’astronomie, che è del 1781, e l’Origine de tous les cultes,
che è del 1795. Il Vico, pur non avversando l’indirizzo
evemeristico allora predominante, aveva affermato in fondo
che le favole, di cui si servono i miti, non sono alterazioni di
storie reali, ma intrinsecamente storie. In questo senso: che
la loro pretesa alterazione è la loro verità stessa. Bene: il
Dupuis cercherà questa verità nel culto della natura che
egli considera come un comune bisogno da cui nascono le
lingue, le leggi, le arti. È questo culto che si deve porre, a
suo avviso, alla base della religione primitiva. E poiché, egli
aggiungeva, gli elementi fondamentali della natura sono
due, la luce e le tenebre, ecco che il fondo comune di tutti i
miti va ravvisato nel sorgere e nel calare del sole, onde, ad
esempio, Cristo non può non rappresentare che il sole,
mentre lo stesso mito cristiano non è altro che un mito
solare.
Il mito, anche per il Dupuis, veniva così considerato
come la proiezione della vita storica dei popoli. E questo, in
Germania, fu il principio cui si attenne il Creuzer, il quale,
nella sua Symbolik, sostenne che la prima idea religiosa è il
prodotto dell’animazione della natura, la quale avrebbe
dato origine a un linguaggio tutto pieno di personificazioni
simboliche. Né va dimenticato che il Creuzer, per
dimostrare questo assunto, si era avvalso delle etimologie,
sia pure in maniera del tutto arbitraria. Lo aveva seguito in
gran parte il Görres. Ma con più acume s’era messo sulla
stessa via K. O. Müller, il quale però, per quanto le sue
ricerche rimanessero limitate alla Grecia, aveva promosso
quell’intelligenza storica del mito cui aveva fatto appello
soprattutto il Vico. I Grimm completarono in un certo senso
questo processo, ove si pensi che essi accolsero l’idea del
Vico, e cioè che i miti sono delle immagini poetiche che
esprimono dei fenomeni naturali – per quanto il loro
concetto di poesia non coincidesse con quello del Vico –. Gli
stessi Grimm si possono considerare come i più agguerriti
rappresentanti della mitologia comparata, tanto è vero che
in essi la comparazione tende sempre a far coincidere il
mito con il linguaggio, mentre, com’è stato ben osservato,
fu Jacob, nella seconda edizione della sua Mythologie, ad
esprimere l’idea che gli esseri divini della mitologia siano i
prototipi di un’unità originaria così come i suoni delle varie
lingue i derivati da un unicum. La differenza fra le diversità
mitologiche corrisponderebbe alle diversità dialettali. Ai
Grimm, tuttavia, cui interessava soprattutto vedere come i
germi delle favole, che sono sopravvivenze di miti, si erano
chiusi e sviluppati in uno speciale centro etnico, qual era
quello della Germania, era mancata una preziosissima
fonte: i Veda, dei quali invece si avvarrà soprattutto un loro
grande ammiratore, il Kuhn. Questi, unificando anch’egli i
suoi interessi linguistici con quelli della storia delle
religioni, non solo sostituì il primitivo dell’etnologia con
quello della filologia, ma affermò che il carattere
elementare degli dèi, cioè degli dèi del mondo ariano, si
riattacca ai fenomeni passeggeri delle nuvole, delle
tempeste ecc. (indirizzo questo che fu seguito anche dallo
Schwartz). E qui, su queste basi, mentre i caratteri del
bestione venivano trasferiti all’Ariano storico, ecco
costruite le sue opere principali come, ad esempio, Die
Herabkunft des Feuers und des Göttertranke, che è del
1859, e Über Entwicklungsstufen der Mythenbildung, che è
del 1873.
Nel saggio Comparative Mythology il Müller considera il
Kuhn come uno dei suoi più diretti ispiratori. E al Kuhn egli
infatti si riattacca nel ricondurre i nomi propri delle varie
divinità ariane a una radice indo-europea, ricostruendo così
un loro valore primitivo ipotetico, e quindi il loro significato
originario. Il significato che il Müller dà a quelle divinità, ci
riporta però piuttosto al Dupuis o, meglio, a un Dupuis
riveduto, corretto e aggiornato dalla filologia tedesca. Al
sole o, meglio, al sorgere e al tramontare del sole come
fonte ispiratrice della mitologia, il Kuhn aveva sostituito il
temporale, la tempesta, l’uragano. Il Müller rimetterà il
sole al suo posto. E nel far ciò, egli combina, sì, le vedute
del Vico con quelle del Dupuis, del Creuzer con quelle del
Kuhn; ma, a differenza di quest’ultimo, non si contenta di
porre il suo esame sugli Ariani storici e lo estende agli
Ariani primitivi. Ai padri, insomma, che la diaspora doveva
poi dividere.
4. Il linguaggio generatore dei miti

Nacque in tal modo la sua teoria filologico-linguistica


intesa a chiarire il problema dei rapporti fra linguaggio e
mito. Il Müller fin dal suo saggio Comparative Mythology
afferma che la filologia comparata gli offre un «telescopio
di una tale potenza» che laddove prima si vedevano delle
nuvole confuse egli vedrà ora delle forme e dei contorni
ben distinti. Essa, la filologia comparata, lo riporterà in
un’epoca in cui il sanscrito e il greco non esistevano
ancora, perché tutte e due, come le altre lingue ariane,
erano contenute in una lingua comune. Gli farà intendere,
inoltre, le testimonianze contemporanee che quell’epoca ci
ha lasciato nel linguaggio, mentre, di pari passo, gli darà
modo di rievocare lo stato primigenio del pensiero, della
religione, della civiltà.
La filologia comparata, egli pertanto aggiunge, non ci
fornirà solamente la prova che questo periodo ariano
primitivo è esistito, ma ci darà dei dati sullo stato
intellettuale della famiglia ariana avanti la sua dispersione.
Inoltre è alle stesse lingue romanze che egli domanderà la
formula magica che gli aprirà gli archivi della più antica
storia della razza ariana. Così, ad esempio, se noi troviamo
in tutti i dialetti romanzi una parola come pont, in italiano
ponte, in spagnuolo puente, in valacco pod, noi abbiamo il
diritto, dopo aver tenuto conto delle particolarità nazionali,
di dire che la parola pont era conosciuta prima che le
lingue si separassero.
Durante questo periodo anteriore alla formazione delle
nazionalità distinte ogni parola era, secondo il Müller, un
mito. Ogni nome, nell’originario linguaggio ariano, è
pertanto, egli incalza, un’immagine; ogni sostantivo una
persona; ogni proposizione un piccolo dramma. Senonché,
aggiunge, per lo scadimento fonetico, quei nomi perdono la
loro primigenia vitalità e diventano nomi propri di persona,
mentre a tali nomi-persone verranno attribuite tutte quelle
azioni drammatiche che riproducono la vita, la morte e il
rinnovamento giornaliero della natura. Questa la ragione
per cui molti dèi pagani, indiani, greci ecc., non sono che
nomi poetici, i quali assunsero una divina personalità, non
mai contemplata dai loro inventori. Nomina, numina. E
questi nomina-numina ecco che a loro volta saranno il
soggetto stesso della mitologia nella quale predominano
questi elementi: il sorgere e il tramontare del sole, il
combattimento tra la luce e l’oscurità. Il che è, a sua volta,
un vero e proprio dramma che con tutti i suoi particolari si
rappresenta ogni giorno, ogni mese, ogni anno.
Il Müller capovolge così il rapporto fra mito e linguaggio
quale lo avevano posto il Vico e gli stessi filologi tedeschi. Il
mito non è più infatti per il Müller una potente realtà del
sentimento, ma è un inganno filologico. Afferma in
proposito il Cassirer: «Certo il Müller non vede più nel mito
una semplice invenzione arbitraria, la marioleria di
un’astuta classe sociale. Ma è d’accordo nel riconoscere
che il mito, dopo tutto, altro non è che una grande illusione,
un inganno inconsapevole, ma inconscio». E il mito, la più
suggestiva e la più potente espressione del linguaggio,
diventa addirittura una malattia del linguaggio. Di quel
linguaggio cioè che egli considera come una scienza
naturalistica e di cui vuoi rivendicare la natura, l’origine e
lo sviluppo. Né diversamente dal mito gli si presenterà la
religione, almeno in alcuni dei suoi aspetti.

5. Alle fonti della religione

Nel 1873, nella sua Introduction to the Science of


Religion il Müller, parafrasando la frase del Goethe «Chi
conosce una sola lingua non ne conosce nessuna»,
affermava che «Chi conosce una sola religione non ne
conosce nessuna». Le religioni, tuttavia, che egli predilige
e a cui si rivolge come termine di riferimento per far la
storia delle religioni, o comunque di altre religioni, sono le
indiane. E i Veda, anche sotto questo aspetto, gli saranno
preziosissimi. In un suo saggio (poi accolto nelle Lectures
on the Science of Language, 2, 138, London, 1861-63) il
Müller, nel chiarire a se stesso il dramma con cui egli aveva
animato la mitologia, ebbe a osservare:

«Penso che la stessa idea delle potenze divine ebbe origine dalla meraviglia,
onde gli antenati della gente ariana contemplavano le potenze luminose (deva)
che nessuno poteva dire donde venissero e dove andassero, che non
appassivano né morivano, che erano chiamate immortali, cioè a dire che non
passavano, e ciò per distinguerle dalla debole e peritura progenie degli uomini.
Questa loro immortalità trova il suo stesso antecedente nel regolare ritorno dei
fenomeni della natura, rivissuti dalla magica psicologia mitologica».

Il Müller d’altro canto, se pur non ammette una


originaria rivelazione esterna, crede a una indeterminata
rivelazione interna o, meglio, a un’influenza dell’infinito
sull’anima. Anzi, a suo avviso, è la percezione stessa
dell’infinito che dà in origine l’impulso al «pensiero», al
«linguaggio» della religione, tanto è vero che in origine gli
uomini non furono affascinati dagli oggetti del loro
ambiente, ma dallo spettacolo della natura preso nel suo
insieme. Così il Müller nel tempo stesso in cui attribuiva
alle prime età le teorie dei romantici e dei simbolisti,
respingeva la teoria del feticismo, allora in auge presso il
Positivismo. E ciò perché quella teoria era in
contraddizione con i Veda.
Nelle celebri Hibbert Lectures, iniziate a Oxford nel
1878, il Müller distinse comunque tre tipi di oggetti
religiosi: 1, gli afferra-bili, come le pietre, le conchiglie; 2, i
semiafferrabili, come gli alberi, i fiumi, i monti; 3, gli
inafferrabili, come il cielo, il sole, le stelle. E concluse che
non al primo tipo, ma agli altri due sarebbero stati dedicati
gli inni dei più antichi poeti. Questa la religione fisica. Le
relazioni sociali dell’uomo avrebbero portato alla religione
antropologica che porta alla venerazione di Dio. Ma l’uomo
ha in sé la sua coscienza, il suo io. E questo io avrebbe
portato l’uomo alla religione naturale.
Convinto inoltre che linguaggio e pensiero sono
inseparabili, onde una malattia del linguaggio è anche una
malattia del pensiero, il Müller affermava che:

«… il Dio supremo come un essere che ordina ogni genere di delitti, che viene
sconfitto dagli uomini, che si arrabbia con la moglie e che maltratta i figli, è
una prova sicura di una malattia, di una particolare disposizione del pensiero,
ossia, per parlare più chiaro, di vera e propria pazzia… Ed è un caso di
patologia mitologica. Il linguaggio antico era uno strumento difficile da
maneggiare, specialmente per scopi religiosi. Nel linguaggio umano è
impossibile esprimere idee astratte se non sotto metafora… Di qui una sorgente
continua di equivoci, molti dei quali si sono conservati nella mitologia e nella
religione del mondo antico» (Contributions to the Science of Mythology, 1, 68,
London, 1897).

Ed ecco pertanto che anche il linguaggio, portandoci con


i suoi errori al culto degli oggetti concepiti come persone,
faceva della religione un equivoco. Il Romanticismo era
spazzato via, e la costruzione del Müller ritornava al punto
da cui egli era partito per spiegare i rapporti fra linguaggio
e mito: vale a dire, al razionalismo e all’intellettualismo.

6. Nell’incantato mondo del folklore

Né questa costruzione rimase fuori del campo del


folklore, da cui, anzi, il Müller fu sempre attratto con
particolare interesse. Quasi a integrare quanto Wilhelm
Grimm aveva scritto in proposito, egli infatti non solo era
convinto che la nazione resta attaccata con mirabile
tenacia ai Märchen, e che i germi onde essi sono usciti
appartengono al periodo anteriore alla dispersione della
razza ariana, ma era dell’avviso che:

«…quei popoli i quali, emigrando verso il nord e verso il sud, portarono i nomi
del sole e dell’aurora così come le credenze nelle splendide divinità del cielo,
possedevano già nella loro lingua stessa, nella loro fraseologia mitologica e
proverbiale, i semi, più o meno sviluppati, che dovevano necessariamente far
nascere le stesse piante o piante assai simili in qualunque secolo e sotto
qualunque cielo».

Nell’affrontare lo studio scientifico della novellistica


popolare, il primo compito da assolvere deve essere perciò,
ritiene il Müller, di far rimontare ciascun racconto moderno
a una leggenda più antica e ciascuna leggenda a un mito
primitivo. Si deve rilevare, comunque, che, se pur in
origine i nostri racconti erano delle riproduzioni di
leggende più antiche, nel corso del tempo si è sviluppato un
gusto per il meraviglioso, onde dei nuovi racconti sono stati
inventati dalle nostre nonne e dalle nostre nutrici. Nei
racconti di pura immaginazione si possono scoprire tuttavia
delle analogie con dei racconti più primitivi. E allora ecco,
precisa, che bisogna per ciascun racconto rimontare alla
forma più primitiva o, meglio, più semplice; esaminare e
analizzare questa forma, osservando rigorosamente le
regole della filologia comparata; e infine, quando si scopre
la concezione semplice e originale del mito, vedere come la
stessa concezione e lo stesso mito si sono gradualmente
sviluppati e come si sono rivestiti di forme differenti sotto il
cielo brillante dell’India e nelle foreste della Germania.
Ritenuti così gli attuali Märchen come un ammasso di
detriti lasciatici dalla primitiva mitologia, è ovvio che per il
Müller i Veda diventino il deus ex machina per la loro
interpretazione. Commenta in proposito il De Gubernatis,
che del pensiero del Müller fu il più tenace divulgatore:

«Il Rigveda ci offre i soli miti: l’uomo nota, vede le vicende celesti e non le
narra ancora; ma, se pure io noi volessi, mettendo ora insieme questi vari miti
appartenenti al ciclo dell’aurora, mi trovo bella e fatta una intiera leggenda,
anzi, meglio, una intiera serie di leggende, che riesce quindi agevole il
comparare con le altre epopee e con le altre leggende… Che cos’è l’aurora
negli inni vedici? È una fanciulla che appare sulla punta della montagna; ha la
veste luminosa; ha il corpo luminoso; è guardiana di vacche; ha una sorella, la
nera, ossia la brutta, mentre essa è la splendida, ossia la bella; è la migliore,
ossia la sorella buona; disperde la tenebra della sorella, rimove indietro la
sorella; uccide il nero mostro; è figlia della nera… Leghiamo insieme questi miti
e spieghiamoli; ne uscirà fuori a un dipresso il seguente racconto: Una volta
era una donna brutta e mostruosa, una strega, aveva due figlie; l’una simile a
lei, ossia brutta e cattiva; l’altra dissimile, ossia bella e buona. La donna amava
la brutta come propria figlia, odiava la bella, essendole matrigna. Essa
mandava la bella a pascere le vacche; ritornando questa sul far del giorno, in
cima al monte, la circondò un grande splendore; essa si adornò di una veste
d’oro e le spuntò sul fronte una stella fulgentissima» (Le novelline di S.
Stefano, 6-7, Torino, 1869).

Con questo idolo ecco intanto che Psiche adombrerà


l’aurora che si nasconde quando il sole spunta;
Cenerentola, l’aurora che sboccia tra le nuvole; le Belle
imprigionate e liberate da un principe, la primavera che si
libera dall’inverno; l’uccisore del mostro che libera la
Principessa dai capelli d’oro, l’eroe solare. E così via. Né ai
Veda il Müller ricorre soltanto per spiegare i Märchen.
Anche i costumi dei popoli trovano in essi la loro fonte:

«Se noi troviamo lo stesso costume nell’India e nella Grecia, noi siamo spinti a
supporre che esso ha una sorgente comune e siamo quindi portati ad attribuire
la sua origine ai tempi che hanno preceduto la separazione ariana… Uno dei
principali incanti che noi troviamo nello studio dei costumi è il piacere che
proviamo a seguirne lo sviluppo, a notarne la loro straordinaria tenacità…».

E nei suoi saggi il Müller non mancò di seguire lo


sviluppo di alcune costumanze, di cui si interessò anche il
suo maggiore interprete, il De Gubernatis. Questi non solo
affrontò lo studio della Zoological Mythology e della
Mythologie des Plantes, ma compì fra l’altro una serie di
storie comparate dedicate agli Usi funebri e agli Usi
natalizi nell’intento di:

«Ricostruire quasi per intero, almeno per la razza indo-europea, la logica


tradizionale, la quale, se non è precisamente conforme alle logiche dei filosofi,
offre all’osservatore un interesse maggiore di quelle, ed è forse meno
capricciosa e ribelle» (Storia comparata degli usi funebri indo-europei, 6, ed.
1875).

E però, nonostante quell’intento, i lavori del De


Gubernatis altro non sono che dei cataloghi passati al
vaglio del Müller, il quale, nell’un campo e nell’altro, in
quello della mitologia e in quello dei costumi, ebbe un
influsso notevolissimo. Molti furono infatti i suoi seguaci
nella sua patria di adozione oltre che in quella di origine, in
Italia, in Francia e soprattutto in Russia. La filologia
comparata emergeva dovunque, insomma, così come può
emergere il sole dalle nuvole. E col sole – quand’esso,
ahimè!, non fu sostituito dal fuoco o dall’acqua –
accompagnava il cammino stesso del folklore nei suoi vari
aspetti; costumi, miti, racconti, leggende, fiabe, Lieder,
byline, eccetera.

7. Critiche e polemiche sul Müller


Ma la filologia non si fermò con il Müller e con i suoi più
diretti seguaci. Man mano che il Müller veniva costruendo
il suo edificio, il mito indo-europeo aveva subito
spostamenti e adattamenti inerenti al suo stesso centro di
diffusione. Si pensi soprattutto all’opera del Geiger che
poneva la culla del primitivo mondo ariano nel centro della
Germania. Oppure a quella del Poesche che poneva come
un dogma l’assimilazione dei biondi nordici con gli Ariani
pretendendo di trovare nell’ovest della Russia le condizioni
favorevoli alla nascita e allo sviluppo di questo tipo etnico.
Ipotetica d’altro lato, quali che fossero stati questi
spostamenti e adattamenti, appariva l’originaria civiltà
ariana costruita e immaginata dal Müller, tanto più che la
geologia aveva ormai dimostrato che l’Europa era stata
abitata fin da tempi immemorabili. Gli stessi Feda, sui quali
il Müller aveva trasferito il mito della poesia popolare,
quale lo avevano foggiato i Grimm, apparvero agli studiosi
quel che effettivamente erano: e cioè degli inni sacerdotali,
i quali nulla avevano a che fare con la poesia popolare. Ma
c’è di più, ove si pensi che non meno antichi dei racconti
indiani contenuti nei Veda apparvero i racconti egiziani o,
ancor meglio, gli assiro-babilonesi. La filologia comparata
era costretta inoltre a riconoscere che la stessa derivazione
della mitologia dalle desinenze dei generi non può
costituire un dogma, in quanto la mitologia è espressa
anche da popoli che non conoscono generi grammaticali e
che la stessa teoria del Müller inerente alle desinenze
(nomina-numina) poteva essere valida soltanto in qualche
identificazione.
Accusato di non rendersi conto dei particolari dei miti,
oltre che della somiglianza dei miti fra linguaggi diversi, il
Müller ebbe anche il torto di basare il suo sistema
sull’incertezza delle desinenze, senza dire poi che dalla
stessa unilateralità della spiegazione etimologica non
poteva non derivare che l’uniformità delle interpreta-zioni.
Dirà il Dumézil: «Bisogna riconoscere che la filologia
comparata [del Müller] aveva cercato la sua disgrazia». E
nello stesso anno in cui il Müller moriva, nel 1900, uno dei
suoi maggiori critici, il De Visser dichiarava di non aver
imparato nulla dai mitologisti alla Müller, perché essi non
comparavano nulla.
Il De Visser ebbe inoltre a osservare che ridurre la
mitologia a una semplice parafrasi lirica o epica di
fenomeni celesti significa porre male il problema stesso
della religione, in quanto il dio è altra cosa o più cose che
la personificazione pura e semplice (insegni Vico,
potremmo aggiungere) d’un fenomeno celeste. Perché un
nome, quale che sia, diventi nume, è necessario, d’altro
lato, che l’oggetto al quale prima era applicato, apparisse
già alla coscienza popolare come dotato di virtù divina, per
cui, malgrado l’accrescersi del suo primitivo concetto,
rimanesse come segno confuso di certe nozioni ideali, più o
meno elevate, distinte e razionali. Senza questa intuizione
religiosa, osserva giustamente il Kerbaker, che pure fu in
gran parte favorevole alla scuola del Müller, non si può
comprendere in qual modo la semplice osservazione dei
fenomeni naturali abbia potuto trasformarsi in una storia
poetica, ispirare l’entusiasmo dei cantori, eccitare
l’ammirazione popolare, tramandarsi alle successive
generazioni come il fine dell’umana sapienza.
Né bisogna dimenticare che queste e altrettali critiche
furono precedute dall’arma più terribile con cui si può
colpire un sistema, una teoria, un uomo: la satira. Al Müller
toccò in Inghilterra la stessa sorte che in Francia era
toccata, un secolo prima, al Dupuis. Enorme infatti fu in
Francia il successo che, fra il 1836 e il 1840, ebbe un
estroso libretto di cui si fecero ben tredici edizioni: Comme
quoi Napoléon n’a jamais existé, e in cui si sosteneva, con
le stesse teorie del Dupuis, una verità incontestabile: che
Napoleone non era mai esistito e ch’egli, Napoleone, altro
non era che il riflesso e la sopravvivenza di un mito solare.
Bene: fin dal 1870, quando cioè il Müller era in auge, gli
studenti di Oxford pubblicavano un opuscolo, dedicato a un
suo seguace, G. A. Cox, dove, coi Veda alla mano,
dimostravano che anche Max Müller era un mito solare
(tesi questa che, alcuni anni dopo, nella stessa Inghilterra,
verrà applicata a Cesare e a Gladstone). Nel rievocare
queste polemiche, il Gaidoz ricorda alcuni versi di Victor
Hugo:

O temps évanouis! O splendeurs éclipsées!


O soleil descendu derrière l’horizon!

E il sole anche per il Müller si era ecclissato; ma, critiche


e polemiche a parte, possiamo noi, in effetti, rinchiudere la
sua opera in una formula e giudicarla soltanto in base ad
essa? Dice il Sokolov, e dice bene: «Sarebbe ingiusto
limitare con questo epiteto [cioè di solare dato alla sua
mitologia] il sistema scientifico elaborato dal Müller che è
vasto, complesso e sorretto da una formidabile eru-
dizione». È vero che il Müller si abbandona, osserva il
Terracini, a «quella fantasia scientifica che complica fin
dove è possibile la portata dei risultati ottenuti»,
confondendo «la ipotesi di lavoro con ciò che è realmente
provato». Ma è vero altresì che le sue ipotesi di lavoro non
furono né vane né oziose, e che se pur la sua teoria solare
altro non è che un interessante episodio nella storia degli
studi mitologici, non è certo un episodio l’atteggiamento
che egli assunse di fronte a molti problemi inerenti alla
mitologia, alla religione e al folklore. Vi sono, nella sua
vasta opera, delle pagine che ancor oggi si leggono con
vivo interesse. Il teorico, in quell’opera non conta più: in
essa rimane l’impareggiabite orientalista di larghe vedute,
il ricercatore acuto, lo scrittore elegante.

8. Validità del suo insegnamento

È merito del Müller, d’altro lato, l’aver distribuito il suo


lavoro secondo un procedimento in cui le manifestazioni
etniche venivano considerate in rapporto a determinati
gruppi di popoli. Merito suo l’aver dichiarato che il mondo
ariano non era per lui un sapere ozioso, ma un sapere dov’è
lo specchio «della nostra famiglia, o per meglio dire, di noi
stessi». Merito suo, infine, l’aver dichiarato, quando si era
internato in quel mondo, che un «etnologo il quale parlasse
di razza ariana, di sangue ariano, di occhi e capelli ariani
commetterebbe lo stesso madornale errore di un linguista
che parlasse di vocabolario dolicocefalo o di grammatica
brachicefala». E in questo senso la sua filologia, che pur
rimaneva impregnata di positivismo, assumeva
indubbiamente un orientamento storico fecondo di risultati.
Commenta in proposito il Pettazzoni: «Il fatto linguistico,
con cui essa [la scuola del Müller] spiegava il fatto mitico-
religioso, era il più atto a far risaltare per via delle
comparazioni, le differenze spirituali fra popolo e popolo, e
quindi l’individualità delle singole genti e nazioni: fattore di
capitale importanza per l’intelligenza della storia (e quindi
anche della storia religiosa)… D’altra parte la filologia era
pur qualche cosa di più che la scienza del linguaggio e che
la scienza del mito fondata sul linguaggio (vergleichende
Mythologie): al di là del dato fonetico e dell’astrazione
semasiologica era il testo, sia letterario sia comunque
documentario, che si imponeva per se stesso all’attenzione
dello studioso, il testo nella sua concretezza e dunque nella
sua precisa determinatezza storica».
La immaginosa e poetica ricostruzione, in cui il Müller
aveva avvolte le varie manifestazioni del folklore, era stata
peraltro un nuovo e potente stimolo, perché quelle
manifestazioni, a cui si riconosceva una preminente
dignità, venissero dovunque raccolte con maggiore fedeltà.
In una lettera che il Müller scrisse al Pitrè perché servisse
come introduzione all’«Archivio per lo studio delle
tradizioni popolari» si leggono queste parole:

«Mio caro signore, desidera che io Le dica le mie idee circa il giornale “Archivio
per lo studio delle tradizioni popolari” che Ella intende pubblicare insieme ad
alcuni suoi amici: ed io sento delle difficoltà a far questo. Lo studio delle
tradizioni popolari d’Europa e di tutto il mondo ha fatto sì giganteschi passi in
quest’ultimo ventennio che io non possedendo per conto mio un paio dei famosi
stivali fatati non potrei se non stare a guardare da una ben rispettabile
distanza. Anni addietro quando questo studio era se non dispregiato per lo
meno ignorato io mi dichiarai con tutte le mie forze contro i suoi detrattori. Ora
che comincio a sentirmi vecchio e stanco vedo gli alberi, che già concorsi a
piantare, crescere a sì gran foresta…».

E in quel fervore di ricerche, egli fissava i canoni con cui


consigliava al Pitrè il metodo per la raccolta delle novelle,
che, fra i vari prodotti del folklore, aveva di più amato e
curato:

«Il raccogliere novelle popolari è un compito difficilissimo o facilissimo… Prima


di tutto non ogni novella che una vecchia può raccontare merita di venire
scritta e stampata. Le novelle genuine nate in casa o, se così mi posso
esprimere, autoctone, mandano una peculiare fragranza terrestre… la quale
noi dobbiamo imparare a riconoscere prima di poter dire se una novella è
antica o recente, genuina o spuria, se viene dalla foresta o dalla serra. È tutta
una questione di gusto… In secondo luogo la stessa novella, tutte le volte che
ciò è possibile, dovrebbe venire raccolta da sorgenti differenti e da differenti
località e gli elementi che sono comuni a tutte le versioni dovrebbero venire
diligentemente distinti da quelli che sono peculiari a una o più soltanto. In
terzo luogo tutti i raccoglitori dovrebbero informarsi dei risultati già ottenuti
nella classificazione delle novelle, al fine di vedere e di dire a un tempo a quale
gruppo appartiene la novella raccolta… In quarto luogo, la novella dovrebbe
darsi, per quanto è possibile, con le ipsissima verba del narratore. Questa sarà
una precauzione contro quella immoralità di collezioni di novelle, della quale
abbiamo tanto sofferto. Egli è fuor di dubbio che un collettore, il quale ritocchi
e abbellisca una novella, andrebbe frustato».

In tal modo il Müller non avrebbe esitato a frustare


anche i Grimm, di cui fu sempre fervente ammiratore; ma i
Grimm, ed egli lo sapeva, avevano fatto un’opera d’arte
personale; mentre al Müller interessavano i testi di ciò che
è il vero, l’autentico folklore. Né d’altro canto era senza
significato il monito di raccogliere le novelle con le
ipsissima verba del narratore, ove si pensi che la
novellistica soltanto così raccolta ci documenta anche il
tesoro dei dialetti:

«Questo studio dei dialetti, io ne sono pienamente sicuro, è ricco di promesse e


io ritengo sempre con la massima convinzione che, per conoscere che cosa e il
linguaggio, noi dobbiamo studiare la reale vita naturale del linguaggio».

E con tale augurio il maestro, vecchio e stanco, come egli


si definiva, lasciava agli studiosi delle tradizioni popolari il
suo testamento spirituale, mentre dal suo insegnamento, da
tutta la sua opera, si veniva rafforzando un’idea che era
stata cara ai preromantici e ai romantici: e cioè che le
singole filologie in tanto hanno un valore in quanto mettono
capo alle storie rispettive dei singoli paesi.
17. Sulle orme del Benfey

1. L’India come dogma

Quando il Müller e i suoi seguaci accoppiavano il sole,


l’aurora e il crepuscolo con la grammatica comparata, un
altro orientalista tedesco, anch’egli educatosi alla scuola
del Bopp, Theodor Benfey, dava allo studio della novellistica
popolare una sua particolare sistemazione, scendendo,
come egli stesso amava confessare, dalle nuvole sulla terra.
Di contro al Müller, il quale aveva cercato di spiegare il
problema inerente all’origine della mitologia e quindi della
novellistica popolare, il Benfey prescinde da tale problema,
poiché per lui lo studio della novellistica popolare si basa
soprattutto sull’esame dei veicoli letterari o popolari,
mediante i quali si propaga una novella, una favola, un
racconto ecc.
È vero d’altro lato che l’uno e l’altro, il Müller e il Benfey,
hanno gli occhi rivolti all’India. Ma l’India del Benfey non
ha nulla in comune con quella degli antichi padri Ari, sulle
cui lontane migrazioni egli rimase sempre scettico. L’India
del Benfey è l’India storica, l’India che si può ben collocare
non solo nel tempo ma anche nello spazio. È noto che i
Veda sono per il Müller il deus ex machina, da cui egli parte
per creare un idillico mondo primitivo (ariano) che poi man
mano gli si rivela nel mondo contemporaneo. Il Benfey
invece si appella a un altro testo indiano, al Panciatantra,
che egli considera come una delle principali fonti che abbia
alimentato la novellistica popolare europea. E questo è il
nucleo attorno a cui si svolge l’ampia introduzione o meglio
l’ampio trattato – contiene infatti ben seicento fitte pagine –
che il Benfey premise, nel 1859, alla sua traduzione in
tedesco del Panciatantra.
In tale trattato, il quale nello studio della novellistica
popolare ha lo stesso mordente del terzo volume dei
Kinder- und Hausmärchen, il Benfey non solo ci dà la
misura degli interessi che lo animano, ma ci dimostra come
il suo sia un temperamento completamente opposto a
quello del Müller. Brillante e geniale, quest’ultimo.
Massiccio e rigido, il Benfey. Il Müller è l’artista che sa
infondere calore alle sue ricerche e alle sue sintesi, quali
che esse siano. Il Benfey non ha né lo stile né l’incanto del
Müller. I Veda sono la fucina dell’immaginazione del Müller.
Il Panciatantra è per il Benfey una fonte da cui scaturiscono
teoremi, assiomi, equazioni. Chiaro il Müller. Complicato il
Benfey. E il Keller, che è stato uno dei suoi maggiori critici,
appunto per questo non esita ad affermare che manca nel
Benfey un principio decisamente espresso e poi sostenuto
attraverso tutta l’opera. Il che non esclude, osserva di
rincalzo il Ribezzo, che se il Benfey «emette qua e là giudizi
e osservazioni isolate che non sempre sono d’accordo fra di
loro» tuttavia «spigolando i vari passi e passando sopra alle
parziali contraddizioni è possibile inquadrarli e congegnarli
più organicamente».

2. Il Panciatantra e l’origine indiana delle favole

Nel tentare questo organizzamento è necessario rifarsi a


uno studioso francese, al Loiseleur Deslongchamps, il quale
nel 1848 aveva pubblicato a Parigi un Essai sur les fables
indiennes et sur leur introduction en Europe. Il Loiseleur
Deslongchamps si era assunto il compito di allargare le
ricerche che il suo maestro, Silvestre de Sacy, aveva
compiuto su una redazione collaterale del Panciatantra,
vale a dire il romanzo di Calila e Dimna. Edita nel 1816, la
memoria del Sacy portava questo titolo: Calila et Dimna, ou
les Fables de Bidpai en arabe. E il titolo stesso ci dice
chiaramente che c’era già nel Sacy il proposito di studiare
la novellistica dal punto di vista della sua stessa
propagazione. Non si trattava di stabilire una comune e
lontana fonte ariana da cui, come Venere dal mare, fossero
scaturite le novelle, i racconti e le fiabe popolari. Il lavoro
era diverso e consisteva nello stabilire, con una presunta
concretezza di dati, la loro propagazione. Né la ricerca del
Sacy si esauriva nello stabilire questo rapporto. Egli, nel
rivolgere il suo sguardo alla letteratura sacra buddistica,
pensava alla enorme massa di favole, di massime, di
proverbi di cui si servivano i predicatori per giungere
all’anima del popolo. Dopo la caduta del buddismo i
Bramini accolsero questa eredità, uno dei cui frutti fu
appunto il Panciatantra, composto allo scopo di educare i
tre figliuoli di un re di Mihiralopia, di nome Amarasacti, dal
Savio Visnusarma, come appunto è detto nel proemio:

Raccogliendo pel mondo tutto il succo


D’ogni moral dottrina, in cinque parti
Questo suo libro dottrinal che il core
Tocca e rapisce, Visnusarma fece.

Nulla sappiamo di questo Savio che intermezzò con rara


abilità i suoi precetti morali con racconti, novelle e
apologhi di una finezza non comune. Sappiamo però che la
prima traduzione del suo libro fu fatta nel secolo VI dell’era
volgare da un dotto che viveva alla corte di Persia,
Buzurcimihr, e che su di essa, nel secolo VIII, un persiano
recentemente convertito alla religione di Maometto, cioè
Abdallah Ibn ul-Muqaffa, adoperando la lingua dei
conquistatori, curò in arabo una sua traduzione nota sotto
il nome di Calila e Dimna.
Nel pubblicare il testo arabo di questo prodigioso libro
della cui traduzione in pehlevico, andata perduta, ci parla
lo stesso Abdallah, il Sacy iniziò lo studio della sua
diffusione e delle sue ramificazioni. Il Sacy aveva
comunque limitato la sua ricerca al mondo orientale. Il
Loiseleur Deslongschamps l’estenderà al mondo
occidentale. Ed è allora che a lui si presentano le istanze di
un Huet e di un La Fontaine inerenti alla diffusione delle
novelle indiane in Europa. Con questa differenza: che egli,
testi alla mano, pone con una composta ricerca filologica la
questione dell’origine indiana di ogni tipo di apologo.
Le ricerche di questo tipo furono continuate qualche
anno dopo dal Wagener, il quale in un suo Essai sur les
rapports qui existent entre les apologues de l’Inde et les
apologues de la Grèce, edito nel 1852, formula con
maggiori dettagli il problema della propagazione storica
delle favole, e sostiene l’idea che la favola s’è diffusa non
per attività individuale ma collettiva. Da qui la sua
persuasione che Esopo non era esistito e che la tradizione
la quale si riannoda a lui «come a un centro ideale» si
spiega con la propagazione stessa delle favole dall’interno
dell’Asia nelle colonie ioniche e in Grecia.
Il Wagener, dopo aver messo in raffronto alcune favole
greche con altre indiane, spigolate in parte nel
Panciatantra, credette di scoprire questo dato di fatto: e
che cioè «man mano che nelle due favolistiche si risale
dalle versioni più tarde alle più primitive del mito, l’affinità
dei particolari cresce ancora», e che pertanto si deve
ammettere che i Greci avevano ricevuto in blocco le loro
favole dagli Indiani. La tesi del Wagener riusciva all’intento
contrario di quel che voleva dimostrare, anche se «le stesse
prove, da lui addotte per mostrare che la favola non era di
origine greca, contenevano dati che non avevano fatto che
dimostrarne comunque la remota antichità». E su ciò basa
le sue aspre critiche un altro dotto filologo del tempo, il
Weber, il quale in alcuni suoi saggi pubblicati negli
«Indische Studien» del 1856, sostiene invece l’assoluta
inverosimiglianza di una introduzione delle favole indiane
in Grecia.
Il Wagener, nel documentare la sua tesi si basava non
solo sull’antichità del Panciatantra, che egli faceva risalire
al secolo IV, ma anche alla localizzazione delle favole
greche, le quali si riferiscono complessivamente a direzioni
tutte approdanti all’Oriente dell’Europa. È evidente che il
Weber abbia avuto buon gioco riguardo a questi dati di
fatto, ove si pensi che, se non rimaneva provata la supposta
antichità del Panciatantra, restava dimostrata quella delle
favole esopiche, citate da autori vissuti in un periodo
anteriore a quello in cui egli suppone avvenuta la
trasmissione di quel libro (200-150 a. C.). Inoltre il
riferimento a un determinato luogo, quale si ritrova in una
novella, poteva essere un espediente del suo creatore.
Senonché il Weber camminava forse su un terreno più
solido di quello del Wagener? E quali stimoli trarrà il
Benfey da questi antecedenti?

3. La teoria storico-orientalista del Benfey

Non v’è dubbio che il Benfey, come del resto egli stesso
dichiara, sia rimasto suggestionato dalle ricerche sul
Panciatantra del Sacy. A lui interessano le traduzioni del
Panciatantra, le sue ramificazioni e filiazioni. Ma in tale
indagine minuta e precisa, un capolavoro di filologia
orientalistica, egli può trascurare la diffusione che le
novelle del Panciatantra ebbero nella letteratura popolare?
Ed è allora che il Benfey, riprendendo la tesi del Loiseleur
Deslongchamps sull’origine indiana dell’apologo, formula
una vasta teoria la quale non si limita a determinare
l’origine dell’apologo, ma abbraccia in parte le produzioni
della narrativa popolare (novelle, racconti, enigmi ecc.).
«Le mie ricerche, – dirà infatti lo stesso Benfey, – mi
hanno portato alla convinzione che un gran numero di
Märchen e di altri racconti popolari si è diffuso dall’India in
tutto il mondo». Egli è dell’avviso che tale diffusione abbia
avuto inizio nel secolo X d. C. con le favole, gli apologhi, che
vennero conosciuti attraverso le redazioni e le traduzioni
del Panciatantra, rese note dai viaggiatori o mercanti che si
spingevano in Oriente. Ed è evidente quindi che per il
Benfey il primo veicolo della propagazione delle novelle
dall’India in Europa sia rappresentato dalla tradizione
orale. Ad essa seguì però un’altra tradizione: quella
letteraria. E il Benfey ecco come ne traccia l’avvento:

«Col secolo X cominciò, con gli attacchi e le conquiste dei Musulmani in India,
una sempre crescente conoscenza dell’India. Da quel momento in poi la
tradizione orale divenne meno importante di quella scritta. I lavori narrativi
dell’India vennero tradotti in persiano e in arabo e, in un tempo relativamente
breve, si diffusero – quando non si diffuse soltanto il loro contenuto, cioè la
trama narrativa – nelle terre occupate dai Musulmani in Asia, in Africa, in
Europa, e, a causa delle frequenti relazioni di questi popoli con i Cristiani,
anche in tutto l’Occidente cristiano. In quest’ultimo campo i punti principali di
contatto furono l’impero bizantino, la Spagna e l’Italia».

Si deve tuttavia osservare, aggiunge subito dopo, che


insieme alla letteratura buddistica le favole, le parabole, le
leggende si erano diffuse sin dal secolo I d. C. in Cina e
subito dopo nel Tibet. Né qui si era fermato il loro viaggio:

«Dai Tibetani quelle composizioni [le favole, le parabole ecc.] giunsero, insieme
al buddismo, tra i Mongoli, e sappiamo con la massima certezza che costoro
tradussero i racconti dell’India nella loro lingua. È ovvio aggiungere: con molte
modifiche e cambiamenti riguardanti i dettagli… I Mongoli, com’è noto,
dominarono l’Europa per duecento anni e anch’essi quindi contribuirono alla
diffusione delle novelle indiane in Europa».

Il Benfey documentava questa diffusione con le varie


traduzioni e riduzioni che si erano fatte del Panciatantra, il
quale, dopo essere stato tradotto dall’antico persiano in
arabo (secolo XII), fu tradotto dall’arabo in ebraico (secolo
XII), dall’ebraico in latino (secolo XIII) e infine dal latino in
francese, in tedesco, in italiano ecc. E quasi a completare il
quadro ammette una reciproca interferenza della tradizione
orale con quella letteraria o comunque da lui ritenuta tale:

«Nella letteratura europea i racconti appaiono soprattutto in Boccaccio e i


Märchen in Straparola. Dalla letteratura furono presi dal popolo ed essendo
stati cambiati da questo, essi di nuovo rientrarono nella letteratura; poi di
nuovo nel popolo. E così molti racconti assunsero, specialmente mediante
questa attività alternata di spirito nazionale e individuale, quel carattere di
verità nazionale e di unità individuale che imprime loro un grande valore
poetico» (Panciatantra, 1, 150).

Il Benfey affermava decisamente dunque un dato di fatto:


che il popolo europeo ha riprodotto, sì, dei temi e dei motivi
provenienti dall’India, ma che al tempo stesso, mediante i
suoi rielaboratori, esso ha saputo anche creare dei nuovi
racconti validamente artistici. E con questo dato di fatto
egli, pur preoccupato come era dallo studio della
propagazione delle novelle, intuiva, sia pur in maniera
vaga, che al di là degli antecedenti o precedenti letterari, il
filologo deve anche tener d’occhio la genesi estetica di un
racconto, il momento creativo della rielaborazione di una
novella in una nuova novella.

4. Propagazione e creazione delle novelle popolari

Nel riprendere in discussione la ipotesi del Wagener e


del Weber sull’origine della novellistica, il Benfey del resto
non aveva esitato a riconoscere che, se molte favole si
debbono al genio inventivo degli Indiani, molte si debbono
invece a quello dei Greci. E con ciò, è evidente, egli
conciliava il Wagener col Weber. Ma tale sua presa di
posizione voleva esprimere soltanto una tesi conciliativa?
Dice lo stesso Benfey:

«È chiaro che in generale la maggior parte delle favole di animali ebbero


origine in Occidente e sono, in grado maggiore o minore, trasformazioni delle
cosiddette favole di Esopo. Tuttavia alcune di esse danno l’impressione di avere
un’origine nell’India… La differenza fra le une e le altre consiste in generale
nel fatto che, mentre lo scrittore esopico faceva agire i suoi animali con le loro
caratteristiche, la favola indiana tratta gli animali senza riguardo alla loro
speciale natura, come se essi fossero veramente uomini mascherati in forma di
animali» (Panciatantra, 1, 250).
È evidente pertanto che anche qui egli non si preoccupa
soltanto della propagazione delle novelle, ma anche della
loro genesi artistica. Il Weber era convinto in proposito che,
ove di una produzione narrativa si voglia cercare la
versione originale, bisogna rintracciarla nella forma che ci
si presenta la più valida artisticamente. Ma a questo
criterio estetico ecco che il Benfey ne oppone un altro:

«La bellezza, la perfetta congruenza dell’idea e della forma si dimostra come il


prodotto di una lunga, continua, e, in certo modo, riflessiva e critica
trasformazione, a cui il popolo prende parte più giudicando che operando; e se
si potesse seguire la storia di tutte le favole sino alla loro prima origine, noi
conosceremmo che le più belle creazioni che noi possediamo sono uscite da ben
rozzi e informi principi, che solo con lunga elaborazione nella corrente della
vita popolare si sono tornite in una forma omogenea e che sol per questo
raggiunsero la loro più alta perfezione, perché alcune di esse, espressioni
viventi dello spirito popolare, vennero nelle mani di qualche personalità di
genio e furono improntate dallo stampo di un’alta individualità» (Panciatantra,
1, 325).

Nessuno potrà certo contestare al Benfey il principio che


«nelle mani di qualche personalità di genio» un racconto
possa diventare un’opera d’arte. Ma il problema del Weber
era un altro. E se quest’ultimo aveva il torto di considerare
come forma originaria di racconto la sua migliore
redazione, il Benfey in fondo non fa che rovesciare quel
postulato, ricollegandosi al Wolf. Fatto è, ad ogni modo, che
il Benfey, anche se si contraddice, anche se non sempre il
suo linguaggio è chiaro, riconosce, si, che l’India è stata
l’immenso serbatoio della novellistica europea, ma non
esclude a priori che tale novellistica possa essere d’altro
lato influenzata dalla fantasia di chi riprende quei temi e
quei motivi.

5. Köhler, Landau e Cosquin

La teoria storico-orientalistica del Benfey sulla


cosiddetta origine della novellistica popolare è meno rigida
pertanto di quanto in genere si voglia fare apparire. O
meglio di quanto l’hanno fatta apparire i suoi stessi
epigoni, fra i quali ebbe grande voga in Germania il Köhler.
Nel suo ampio saggio Über die europaischen
Volksmärchen, edito nel 1865, quest’ultimo, sulle orme del
maestro, afferma che «il più grande numero dei racconti
popolari europei, come anche molte delle novelle che si
sono diffuse verso la fine del Medioevo nelle letterature
occidentali, sono o direttamente indiani oppure suggeriti
dalla letteratura indiana». E subito dopo, senza che per lui
avesse nessuna importanza quel che significavano le ultime
frasi di ciò che veniva affermando, aggiunge:

«Il punto di vista del Benfey sull’origine e la propagazione dei racconti popolari
europei è, come dice egli stesso, una questione di fatto, che sarà
completamente risolta soltanto il giorno in cui tutti i racconti o quasi tutti
saranno ricondotti al loro originale indiano».
Da qui le sue lunghe liste di riscontri – pazientemente
ricavate sulle raccolte di novelle popolari che si venivano
allora pubblicando in Europa – le quali pur portavano senza
eccezione a un’unica fonte: l’India. Né sotto questo aspetto,
nella stessa Germania, sarà meno ortodosso Marcus
Landau, il quale nel 1869 pubblicò un ampio saggio
intitolato Die Quellen des Dekameron. Il Landau non si
limita a dei riscontri puri e semplici, come in gran parte
faceva il Köhler, le cui ricerche non uscivano dalla forma
del catalogo ragionato. È, o meglio vuole essere, più agile.
Sicché, ad esempio, nell’esaminare la novella boccaccesca
di Federigo degli Alberighi, dopo aver menzionato una
leggenda buddista in cui Budda si trasforma in colombo e si
lascia arrostire per sfamare la famiglia di un uccellatore,
ricorda un analogo racconto del Panciatantra dove un
colombo si caccia nel fuoco per servire da pasto a un
cacciatore. Conclusione:

«In Boccaccio, Federico degli Alberighi non ha niente da offrire alla donna
amata che viene a visitarlo. Si trova dunque nella stessa condizione del
colombo del Panciatantra. Egli sacrifica non il proprio corpo, ma il suo tesoro
più caro, il suo unico falcone e riceve in compenso il più grande dei beni:
l’amore di colei che egli ama».

Il Landau ebbe in Francia un fedele seguace nel Lévêque


il quale, in un suo lavoro edito nel 1880, ricercò Les mythes
et les légendes de l’Inde et de la Perse in Aristofane,
Platone, Ovidio, Tito Livio, Dante, Boccaccio, Ariosto,
Rabelais, Perrault, La Fontaine. E ciò naturalmente con la
massima ingenuità. Ma in Francia lo studioso che
maggiormente contribuì a irrigidire la tesi orientalistica del
Benfey fu Emmanuel Cosquin, benemerito raccoglitore
peraltro delle novelle popolari del suo paese. I suoi Contes
populaires de Lorraine, editi nel 1886, ciascuno dei quali è
riportato a un archetipo indiano, portano una lunga
introduzione sull’origine e la propagazione dei racconti
popolari europei. E su questa origine-propagazione sono
imperniate le sue innumerevoli «piccole monografie»,
disseminate dal 1886 in poi in vari periodici e poi raccolte
nel 1922 nei Contes indiens et l’Occident e nelle Études
Folkloriques.
Il Cosquin, per il quale l’India è davvero un indiscutibile
dogma, ricorre spesso alle stesse istituzioni o credenze
indiane per spiegare l’origine delle novelle popolari diffuse
in Europa. Così, ad esempio, egli era convinto che la fede
nella metempsicosi abbia enormemente favorito il sorgere e
il diffondersi di favole e di novelle. Ma era convinto anche
di un altro fatto: che la metempsicosi fosse soltanto una
caratteristica indiana. E di contro al Benfey, ma sulla linea
del Köhler e del Landau, egli non esitava ad affermare che
una novella era di origine indiana se in India era stata
trovata in epoca attuale una novella che narrava lo stesso
tema.
Era logico che un altro studioso francese, il Gaidoz, gli
facesse osservare: che la credenza della metempsicosi è
tanto indiana quanto è contemporaneamente africana,
americana od oceanica; e che una lezione popolare raccolta
ai nostri tempi non prova niente nei riguardi della sua
antichità. Senza dire che la somiglianza di un tema
novellistico non è affatto somiglianza di quel che più conta
in una novella: la sua forma artistica. Il Cosquin, incurante
di queste e altrettali critiche, riproponendo il problema
dell’origine delle novelle europee, non solo lo poneva in
maniera più categorica di quanto avesse fatto il maestro,
ma ammassava dei paralleli isolandoli arbitrariamente,
onde dimostrare che l’India era una specie di eden, dove
zampillava, fresca ed eterna, la fontana stessa delle fiabe.

6. Genesi della scuola storica russa: Miller e Veselovskij

Né soltanto delle fiabe, aggiungeranno altri studiosi,


bensì di altre produzioni popolari, come, ad esempio, le
byline russe. È noto infatti che la Russia, almeno in un
primo momento, aveva accolto le istanze della teoria
orientalista con piena adesione, tanto più che il Benfey
veniva a rafforzare le ricerche che in proposito aveva già
fatto il Pypin. Si aggiunga che, nello stesso periodo di
tempo in cui uscì il Panciatantra tradotto dal Benfey, alcuni
studiosi russi (lo Schiffner e il Radlov, ad esempio) venivano
pubblicando delle raccolte di produzioni popolari,
provenienti dalla parte orientale del paese, e rimanevano
colpiti della perfetta somiglianzà fra i canti mongolici e i
turchi.
È nel 1868 però che un filologo di larga preparazione, V.
V. Stasov, pubblica un saggio sull’origine delle byline, dove
egli, dopo aver respinto tutte le teorie della scuola
mitologica, – il che costituisce l’indispensabile premessa
dei seguaci della teoria orientalista, – dimostra, o crede di
dimostrare, che in Russia non c’è bylina la quale non sia di
origine schiettamente orientale. Così, ad esempio, egli non
esita a riportare il racconto russo dell’Uccello di fuoco alle
recite indù su Somadeva e la leggenda di Jeruslan
Lazarevič a un episodio che si riscontra nel Libro dei Re di
Firdusi.
Ma è questa una tesi, si domanderà allora un altro
grande filologo del tempo, O. F. Miller, che si possa
accettare? Il Miller in un suo lavoro, dedicato a Iljà
Múromec e pubblicato nel 1869, sosteneva già l’idea che il
valore di una produzione non si misura dal suo soggetto e
che per lui rimaneva pur sempre valida la teoria mitica
sostenuta dai Grimm e dal Müller, e cioè che non v’è
imprestito senza rimaneggiamento e che questo
rimaneggiamento fa nazionale una letteratura, quali che
siano le sue fonti. Ecco, egli aggiunge, perché il poemetto
di Iljà Múromec si deve considerare nazionale così come si
deve considerare nazionale tutta l’epopea russa.
Alla polemica suscitata dal saggio dello Stasov
parteciparono altri studiosi, preoccupati di scoprire nelle
produzioni popolari il riflesso delle idee del tempo.
Notevole in proposito l’attività di un altro Miller, Vsevolod,
il quale da vigore e impulso a quella critica intesa a
identificare nelle byline i personaggi e le ragioni, onde
cercare all’epopea una «base storica». Ed è a lui infatti che
si attribuisce in Russia la data di nascita di quella scuola
storica che sarà merito di A. Veselovskij ravvivare
infondendole quel gusto estetico che in genere ad essa
mancava.
Slavofilo e occidentalista al tempo stesso, il Veselovskij è
soprattutto un umanista a cui si dispiegano con vivo
interesse tanto le letterature nazionali europee quanto le
orientali, dove egli include, parte viva e vitale di esse, le
produzioni folkloristiche. Il Veselovskij unisce in sé la calda
passione di un Herder o dei Grimm con la dottrina di un
Müller e di un Benfey. Studioso infaticabile e geniale,
aperto a tutte le correnti spirituali del suo tempo, anch’egli
in un primo momento è influenzato dal Benfey, di cui
comunque è ben lontano dall’accogliere la tesi orientalista
così come l’avevano irrigidita i suoi discepoli.
Nella sua tesi di dottorato, edita nel 1872 e dedicata ai
rapporti fra i racconti slavi di Salomone e Kitovras, il
Veselovskij dimostra infatti che, se l’Oriente aveva
influenzato l’Occidente, anche l’Occidente a sua volta aveva
esercitato la stessa azione sull’Oriente (e non soltanto per
le favole greche o per qualche caso sporadico, come
ammetteva il Benfey). È convinto, d’altro lato, che Bisanzio
ha avuto un’influenza sulla letteratura popolare russa, ma
che questa, dotata di una sua varietà e di una sua
inconfondibile caratteristica, era stata di legame tra lo
stesso Oriente e l’Occidente. E in tali indagini, minute e
precise, non ridotte mai a schemi di catalogo, il Veselovskij
non solo porta una dottrina non comune, ma ci dà la misura
del suo equilibrio e del suo buon senso.
Alla sua tesi, che nelle edizioni successive divenne un
vero e proprio trattato sui rapporti fra l’Oriente e
l’Occidente, l’uno aperto all’altro nelle stesse proporzioni, il
Veselovskij fece seguire tutta una serie di monografie
dedicate alla storia e allo sviluppo della leggenda cristiana,
alle poesie religiose russe, alle byline, ai racconti relativi a
Ivàn il Terribile ecc. E in esse, come in altri suoi
innumerevoli saggi, egli, osserva il Sokolov, si preoccupò di
«ritrovare le sorgenti delle produzioni letterarie, sorgenti
nazionali o straniere, orali o scritte», onde «stabilire la
relazione dei fenomeni della cultura spirituale con le
tendenze filosofiche, religiose e sociali». Le tradizioni del
benfeysmo si sposano insomma in lui coi principi che allora
in Francia veniva applicando alle sue opere il Taine.
Il Veselovskij non si ferma, comunque, su queste
posizioni. E quasi a tirare le somme delle sue ricerche, egli
sostiene, si, l’utilità di questo lavoro, il quale finiva col
dargli la conoscenza dettagliata degli stessi generi poetici
(epopea, poesia, lirica, dramma) quali si articolano
esternamente nelle loro forme e nelle loro varietà;
riconosce altresì che la storia letteraria di una nazione, e
quindi anche quella popolare, sono in continuo divenire;
ma, appunto per quest’ultima sua presa di posizione, egli
finirà col sostenere in maniera decisa che, ove si voglia
giudicare un’opera d’arte, un grande romanzo o una bylina,
una novella d’autore o una novella popolare, il filologo non
deve fermarsi soltanto sui temi trattati, ma vedere quali
idee sociali essi esprimono e di quali forme artistiche si
rivestono.
Studioso delle fonti, il Veselovskij dava alle fonti stesse
un valore puramente documentario. E in lui quel che già in
Benfey era stata una questione di dettaglio, vale a dire la
creazione artistica, assumeva il carattere di una
problematica che era insieme di storia e di estetica. Si
pensi, d’altra parte, che già fin dal 1871 era avvenuta nel
folklore russo una vera e propria rivoluzione, quando lo
Hilferding aveva pubblicato più di trecento byline non più
per generi ma per autori, inaugurando un metodo di ricerca
che tendeva a rivalutare la personalità del poeta-popolare
(cantore, narratore ecc.).
Il valore di una produzione popolare, come di una
produzione artistica, quale che essa sia, non si misura,
osservava il Veselovskij, dal suo soggetto. Esiste, del resto,
un soggetto, un solo soggetto, che non sia stato ripetuto?
Ed è legittimo dare esclusiva importanza alla somiglianza
dei temi quando invece in una letteratura nazionale quello
che conta è l’opera artistica già formata?
Non si trattava insomma di negare l’importanza delle
fonti. Si trattava di attribuir loro un giusto valore. E data
questa premessa il Veselovskij, se da una parte considerava
la poesia popolare come la prima fase di tutta l’evoluzione
letteraria, dall’altra, eliminata l’ipotesi d’una origine
collettiva dei canti popolari, riconosceva nelle byline, e non
solo in esse, l’aspetto di opere poetiche formate
nell’ambiente stesso dei cantori. Egli, pertanto, era
dell’avviso che le tradizioni popolari possono irradiarsi, si,
da un determinato centro, ma che esse rappresentano pur
sempre il lavoro continuo dell’immaginazione in tutti i
tempi e in tutti i luoghi.

7. La scuola finnica e il metodo storico-geografico

È da quest’ultima premessa, a sua volta, che partirà il


fondatore della scuola finnica, Julius Krohn, il cui metodo
sarà perfezionato dal figlio Kaarle. Poeta e novelliere, Julius
Krohn affrontò con grande dottrina lo studio del Kalevala.
La composizione di quel poema nazionale lo attrasse infatti
fin dalla sua giovinezza. Né bisogna dimenticare che fin dal
1884 egli, in un suo interessante lavoro dedicato alla
genesi del Kalevala, osservava:

«Prima di venire a una qualsiasi conclusione (sulla genesi di un canto) io


sistemo le redazioni in ordine geografico e cronologico: soltanto in tal modo è
possibile distinguere in esse quelli che sono gli elementi originali da quelli che
vi si sono aggiunti».

Questo è il metodo che il Krohn applicherà, con risultati


eccellenti, nella sua dotta pubblicazione Kalevalan
Toisinnot, edita nel 1888, dove egli dà rilievo al valore delle
varianti che formano la popolarità di un testo popolare. Il
Krohn non dimentica inoltre di farci conoscere i poeti e i
cantori cui è affidata la rinnovantesi epopea del Kalevala. E
le varianti di quel poema egli le ordinerà, sì, secondo il loro
contenuto, ma anche secondo il luogo di provenienza.
Spentosi immaturamente, egli lasciò dei vasti materiali che
pur servivano a dimostrare la bontà della sua tesi. E fu su
di essi che lavo il figlio pubblicando col nome del padre dei
lavori che rimangono fondamentali nello studio del folklore:
come, ad esempio, i volumi dedicati al culto pagano della
stirpe finnica o quelli, ancor più interessanti, rivolti al
Kanteletar e quindi alla lirica popolare finnica.
Nell’applicare ai suoi lavori il metodo storico-geografico,
Julius Krohn, se da un lato si riattaccava alle ricerche del
Grundtvig, dall’altro si appellava a un’ipotesi di lavoro che
era stata individuata in Germania fin dal 1854 dal Riehl,
quando poneva come fondamento della storia naturale del
popolo tedesco il binomio paese e abitanti, e che nel campo
della mitologia aveva trovato un assertore nello Schwartz,
il quale nel 1877 aveva studiato, delineandone la diffusione
storico-geografica, le tradizioni che dell’epoca pagana
sopravvivevano nelle campagne. Ma qual era, o meglio,
quale fu il suo atteggiamento nei riguardi del Benfey?
Il Krohn non esitava ad affermare che il suo metodo
respingeva tutto ciò che vi è di assoluto e di esclusivo nella
teoria del Benfey e dei suoi seguaci, in quanto, egli
affermava, se è vero che molti racconti provengono in
Occidente dall’India, altri giungono dall’Occidente in India
e che fra le zone creatrici vanno annoverate anche, ad
esempio, l’Asia minore e l’Europa centrale. Insomma cum
grano salis tutto per lui era possibile. Ma secondo lui
l’errore del Benfey, e in parte del primo Veselovskij,
consisteva nell’avere dato grande importanza alle redazioni
di un testo letterario e un valore del tutto secondario ai
testi popolari più recenti. Essi, il Benfey e il Veselovskij,
erano stati concordi nel riconoscere il valore della
tradizione orale. Bisognava fare un passo avanti: metterla
alla pari di quella letteraria. È evidente del resto, egli
aggiungeva, che le varianti di un canto, espressione della
fedele memoria conservatrice del popolo, mostrano spesso
forme antichissime. E quel che vale per i canti non vale
anche per le novelle? Senonché, nel ricercare quelle forme,
il Krohn non si preoccupa anch’egli del problema che
assillava appunto il Benfey, quello cioè di scoprire il testo
primigenio di una determinata produzione poetica?
Sarà utile in proposito leggere quanto ebbe a dire il figlio
Kaarle in una seduta del Congresso Internazionale di
Folklore che si tenne a Parigi nel 1889. In quel congresso il
figlio richiamava anzitutto l’attenzione degli ascoltatori
sull’opera del padre:

«L’opera capitale di mio padre è lo studio comparativo del Kalevala che


compone la prima parte della sua storia della letteratura finnica… Le ricerche
del Kalevala sono di un certo interesse per i legami che si trovano fra i canti
epici finnici da un lato, e dall’altro i vecchi canti scandinavi, russi, lituani… Ma
d’un interesse ancora più grande è probabilmente l’opera di mio padre che io
ho seguito con l’interpretazione dei canti finnici comparati con le tradizioni
similari di tutti i paesi del mondo».

E dopo aver reso questo omaggio all’opera paterna, egli


aggiunge: 1, che il carattere internazionale di un racconto
(come di un canto) consiste non soltanto in una comune
idea generale, bensì nella complicazione e nello
scioglimento dell’azione, nel tema tutto intero; 2, che
questo tema si articola in determinati motivi; 3, che per
trovare la forma primitiva di un’avventura è necessario
riunire tutte le varianti; 4, che queste varianti vanno
ordinate secondo un criterio storico, se le fonti letterarie ce
lo permettono, o geografico, se invece sono raccolte dalla
viva voce del popolo; 5, che per poter intraprendere
quest’ultimo lavoro, è necessario avere le varianti di
ciascun paese, di ciascuna provincia, di ciascun comune. La
conoscenza di queste varianti – la signorina Cox per prima
ci diede nel 1893 ben trecentocinquanta versioni di
Cinderella –, pubblicate o inedite, ci porta ali’accertamento
degli archetipi aventi ciascuno un proprio autore. Ma chi
può negare, ad esempio (ecco l’appunto al Benfey e al
primo Veselovskij), che nell’Europa settentrionale alcune
varianti si sono conservate in forma più antica che,
mettiamo caso, la stessa leggenda di Polifemo? Ed ecco, a
sua volta, che il testo più antico verrà ravvisato in quello
più naturale. È l’idea della semplicità del Keller, osserva lo
stesso Krohn; ma sarebbe più esatto dire che è l’idea della
nascita dell’epopea come la concepivano i romantici e come
il Weber l’aveva già applicata alla novellistica. All’inizio,
per i Krohn è la forma più semplice, si, ma la più perfetta. Il
Krohn figlio è dell’avviso tuttavia che la scoperta della
forma primitiva di una leggenda, di un racconto ecc. non è
certo la «cosa più interessante» che offre lo studio
geografico-storico di quelle produzioni. È importante invece
vedere quali cambiamenti ha subito quella prima forma e
come essa attraverso le sue varianti si sia articolata nel
tempo e nello spazio. Il che, tuttavia, non gli impedirà –
ecco l’errore – di considerare quelle varianti tutte alla
stessa stregua e con lo stesso criterio.
Rielaborati nei suoi vari lavori di novellistica comparata,
e in particolar modo nelle sue indagini sulle fiabe dell’uomo
e della volpe, questi principi furono applicati da Kaarle
anche nei suoi studi sul Kalevala e sui canti popolari estoni.
Né è senza significato che il codice cui egli affidò il suo
credo o meglio il credo paterno da lui aggiornato, il Die
folkloristische Arbeitsmethode, edito nel 1926, altro non è
che il ripensamento dei suoi Kalevalan kysmyksiä, che sono
del 1910. Altra sua opera magistrale: il Kalevalan opas,
edito nel 1932.

8. Strumenti di lavoro

Non sono mancate al metodo finnico critiche aspre e


risolute. Così, ad esempio, si è rimproverato ai Krohn che il
loro metodo poteva pur dirsi geografico, ma che non aveva
nulla di storico, in quanto i loro aggruppamenti risultavano
in genere arbitrari o meccanici e statici. E, di recente,
anche uno studioso svedese, che pur aveva iniziato i suoi
lavori secondo quel metodo, C. W. von Sydow, ebbe a
osservare che la scuola finnica si basa spesso su delle
premesse non controllate, quando esse non sono
addirittura false. Bisogna pur dire che la scuola finnica ha
avuto tuttavia un grande merito: quello di averci offerto
una serie di strumenti di lavoro che sono indispensabili a
chi voglia affrontare lo studio della novellistica popolare. Si
pensi infatti all’opera di un discepolo dei Krohn, Antti
Aarne, il quale nel 1910 pubblicò il notevole volume
Verzeichnis der Märchentypen, dove per la prima volta ci
vien dato un elenco dei temi e dei motivi novellistici con la
relativa bibliografia. Quel saggio è il terzo di una collezione
(Folklore Fellows Communications) che, nata nel 1907 sotto
gli auspici della Confederazione Internazionale dei
Folkloristi, fu tenuta a battesimo dal Krohn, dal Sydow e da
Axel Olrik.
Alcuni anni prima un folklorista francese, il Gaidoz,
aveva affermato che se un giorno un erudito coraggioso
avesse compilato un indice dei racconti (comprendente i
temi e i motivi), lo studio dei racconti avrebbe fatto un
rapido progresso. E la collezione sopra citata (nei suoi
volumi che contengono più di cento lavori) non accolse
soltanto cataloghi-indici che, sulle orme dello Aarne,
vennero fatti per i vari paesi d’Europa; accolse anche acute
monografie inerenti allo studio di particolari problemi
novellistici dovuti, oltre che agli stessi fondatori della
Società, a V. Tille, R. Th. Christiansen, W. Anderson, A. N.
Andreev ecc.; e servirono, quel che più conta, a stabilire
una collaborazione internazionale quanto mai feconda per i
folkloristi non solo d’Europa ma anche d’America.
Altro indispensabile strumento di lavoro, dovuto in gran
parte all’esempio del Köhler, ma anche e soprattutto alle
suggestioni della scuola finnica, è l’opera, edita fra il 1913
e il 1935 in cinque volumi, di J. Bolte e G. Polivka,
Anmerkungen zu den Kinder- und Haus- märchen der
Brüder Grimm. Il primo, uno dei più valorosi studiosi di
folklore che abbia avuto la Germania, fu direttore fra l’altro
dopo il Weinhold della «Zeitschrift für Volkskunde», cui
diede notevole impulso. Il secondo, uno dei più agguerriti
folkloristi che la Russia abbia avuto nel campo della
novellistica, seguì, sì, le orme del Benfey, ma ritenne che
nelle novelle popolari bisogna distinguere le caratteristiche
nazionali. E dalla loro collaborazione nacque appunto
questo Thesaurus della novellistica comparata, iniziato e
compíto nel nome del Grimm e dove ciascuna novella
narrata dai Grimm respira nel mondo.
La scuola finnica, preoccupata com’era di svolgere le sue
indagini nel campo specifico della letteratura popolare, fini
però col limitare in quel campo le ricerche stesse del
folklore. È vero che i Krohn, quando ricercarono nelle
novelle o nei canti le vestigia del passato, le vestigia della
mitologia e della magia, si posero su un piano storico. La
scuola che prende il nome dalla loro patria rimase legata
però in fondo a un lavoro che potremmo chiamare
geografico-cartografico. Ed è noto, ad esempio, che essa
escluse deliberatamente dal campo del folklore, il che era
proprio un controsenso, anche la musica popolare, di cui
nei riguardi della stessa Finlandia ci ha lasciato pagine
notevolissime un altro figlio di Julius, Ilmari, (mentre una
delle figlie, Aino [Kallas], si avvalse del folklore finnico
nella sua opera di fine narratrice). Ma, quali che siano i
suoi difetti, è merito della scuola finnica d’aver rivendicato
la bontà di un metodo che dentro i suoi limiti ha il suo
indiscusso valore e di aver considerato il problema della
letteratura popolare non come un problema minore di
letteratura, ma come un problema che interessa la storia
della civiltà.
18. Nel mondo romanzo

1. Nasce la filologia romanza. Dal Diez al Paris

Il mito ario-europeo, quali che siano i suoi particolari


sviluppi, suggerì un’ampia concezione inerente alla
comunanza storica non solo delle nostre origini etniche, ma
anche delle letterature. E queste ultime allora, in tanto
sembrarono veramente degne di essere studiate, in quanto
si potevano seguire fin dai loro inizi. In fondo però, anche
se i confini della ricerca non oltrepassavano mai il mondo
ariano, tale comunanza continuava a riproporre il mito del
primitivo quale esso, in senso estetico, era stato formulato
dallo Herder. Anche per il Müller, come per il Benfey,
l’India, preistorica o storica che fosse, era pur sempre
dotata di una sua potente arcaicità che le conferiva un
categorico attributo primitivo. E di tale attributo si
arricchirà appunto, come già era avvenuto alla
germanistica e alla slavistica, una nuova e giovane
disciplina che si affaccia all’orizzonte della cultura del
secolo XIX: la filologia romanza.
Destinata a limitare e a caratterizzare uno specifico
campo di studi, la filologia romanza, – prescindendo dai
suoi inizi che pur contano un Vico e un Muratori –, si
costituì infatti in un vero e proprio sistema scientifico per
merito di un tedesco, autore fra l’altro di due opere
fondamentali: la Grammatik der romanischen Sprachen che
fu edita fra il 1836 e il 1844 e l’Etymologisches Wörterbuch
der romanischen Sprachen. È con queste opere che
Friedrich Diez inserisce il mondo romanzo nel più vasto
mondo ariano. Limitare le ricerche al mondo romanzo per
lui tuttavia non significa chiudere quel mondo in se stesso,
facendone un mondo separato. Gli imprestiti non lo
allarmavano. Anzi gli erano di stimolo, perché egli sapeva
infonder loro un carattere nazionale. E come ai Grimm e al
Müller un problema gli era particolarmente caro: quello
della poesia popolare, la quale per lui, come per i
romantici, comprendeva tutte le produzioni orali che vivono
in mezzo al popolo e che pertanto era necessario illustrare,
anche per vedere quali rapporti esse hanno con la poesia e
la letteratura dotta.
In alcuni suoi lavori giovanili, e particolarmente nel Die
Poesie der Troubadours, il Diez aveva già formulato un
principio che era insieme, o voleva essere, di carattere
storico ed estetico: e cioè che in Francia, o meglio in
Provenza, le origini della poesia lirica si debbono ricercare
nei poeti popolari anteriori a Guglielmo II e che un nuovo
elemento, la cavalleria, aveva fatto di quei poeti vaganti dei
veri e propri trovatori. Quando il giullare, che per il Diez è
il vero artefice della poesia popolare, non era più bastato ai
nobili, era nata allora una poesia aristocratica, più colta: la
lirica cortese. E in tal modo ecco che venivano posti l’uno
di fronte all’altro due tipi di poesia, diciamolo pure, due
generi: la poesia giullaresca che era poesia popolare, e la
poesia trovadorica che era poesia dotta e costituiva un
ingentilimento della prima. Si istituiva così dall’una all’altra
un processo ascendente. I romantici, in particolar modo i
romantici tedeschi, pur ammettendo una categorica
distinzione fra Volkspoesie o Naturpoesie e la Kunstpoesie
non potevano ammettere che la prima potesse ingentilirsi,
perché essa stessa era la poesia per eccellenza. Coi
romantici tedeschi il Diez aveva però in comune due tesi:
che, se la poesia popolare è pur sempre fonte di poesia, in
origine, anzi alle origini, la prima poesia che fa sentire la
sua voce è quella popolare.
Ed è da queste tesi che prenderà le mosse in Francia uno
dei suoi primi discepoli, Gaston Paris, nella cui vasta opera
si ritrovano spesso delle istanze che lo riattaccano al
Romanticismo, per quanto, come è stato ben notato,
soltanto una critica superficiale ritrova in lui la ripetizione
delle idee ammesse dopo il Wolf dai Grimm e dal Fauriel.
Ancor giovane, il Paris si era opposto alla interpretazione
mitica della Chanson de Roland, la quale sarà per la
filologia romanza quel che sono i Veda per il Müller e il
Panciatantra per il Benfey. Più che al Müller, di cui tuttavia
condivise l’idea che un racconto può anche essere la
traduzione di un mito – questo il nucleo del suo saggio su
Le Petit Poucet et le Grand Ours, edito nel 1875 –, le
simpatie del Paris andarono però al Benfey, al suo metodo
di ricerca, alla sua teoria delle migrazioni. Ma quali che
siano stati gli influssi che su di lui esercitavano le correnti
del tempo, fatto è che il Paris, romantico per la predilezione
dei temi scelti e trattati, seppe imprimere alle sue ricerche
il segno di una forte e inconfondibile personalità.

2. Nazionalità e letteratura francesi

In queste ricerche grande fu anzitutto l’interesse che il


Paris ebbe per il popolo, il quale fu da lui considerato come
una fucina di interessi letterari e culturali. Grande
l’interesse per la poesia popolare, cui riattacca le canzoni
di gesta, per i fabliaux, per le Vite dei Santi, creati dai
chierici per il popolo ecc. La stessa letteratura francese
delle origini rimaneva per lui monca, ove non venisse
arricchita da quei monumenti, il cui amore gli era stato
trasmesso dal padre, il quale gli aveva anche ispirato la
gioia dell’esplorazione che prende l’indagatore dei testi
medievali. Ma, a differenza del padre, l’interesse che egli
ebbe per i vecchi monumenti letterari della dulce France
non fu soltanto un amore per le fonti nazionali della propria
letteratura, in quanto in essi egli vedrà svolgersi anche i fili
di una vita e di una storia che interessano l’umanità, «Noi
Francesi non abbiamo avuto dei Grimm», egli lamentava
nei primi anni della sua attività. Ed ecco che di Jacob egli
avrà la diligenza e la sapienza, mentre di Wilhelm avrà la
finezza dell’esposizione, il gusto artistico. Leggete le sue
pagine: il Paris è veramente l’artista non dell’erudiziene ma
del gusto dell’erudiziene. Semplice, chiaro, lineare, c’è
tutto un mondo che si agita nella sua prosa: il mondo dei
prodi cavalieri, di cui ogni fatto è atto di fede.
Né diverso è l’impegno che egli mette nella sua opera,
atto e fatto di fede anch’essa, dove l’artista si fa sapiente,
mentre il nazionalista diviene cosmopolita in nome della
sua scienza. È noto che in una sua memorabile lezione
tenuta l’8 dicembre del ’70 alla Sorbona, quando Parigi era
stretta in un cerchio di ferro e di fuoco, egli aveva scelto
per argomento la Chanson de Roland. E in quella lezione,
ricorda Ernesto Monaci, egli «volle mostrare quanto in
quell’argomento c’era di interesse nazionale e anche di
attualità, spiegando come lo studio di simili opere letterarie
è quello che meglio ci addentra nella storia di un popolo, ci
fa penetrare nel suo spirito, ci svela i suoi segreti e come
tale studio è necessario, affinchè la coscienza della nazione
non s’offuschi e non s’estingua il suo valore, quando
sopravvengono prove mortali. Studiando quella vecchia
epopea, i Francesi potevano risalire alle origini della
propria nazionalità, potevano scernerne i vari coefficienti,
riconoscerne la molta parte che la poesia ebbe in quella
formazione, vedere quel che distingue l’organismo vitale di
una nazione dal meccanismo inerte dell’impero, ritrovare
ciò che la nazione ha di più indistruttibile e che mette la
vita sua al disopra degli avvenimenti e dei colpi di fortuna,
facendo riacquistare la patria anche quando la terra nativa
fu perduta».
Due anni dopo, quasi a riprendere quel discorso, il Paris
insieme a Paul Meyer, fondava una rivista, la «Romania»,
che era destinata a diventare il vivaio stesso della filologia
romanza. L’accompagnavano i versi dell’antico troviero
normanno:
Pur remebrerer des ancessurs
Les dits et les faiz et les murs.

E nel prospetto, pubblicato poco prima, il Paris avvertiva


che l’idea di quella rivista non era nuova e che non era
stata messa in atto a causa dei funesti avvenimenti della
sua patria. La sua rivista voleva avere pertanto un
carattere nazionale. E ciò perché egli, col Meyer, aveva la
ferma convinzione che «la rottura troppo brusca e troppo
radicale della Francia col suo passato, l’ignoranza delle
nostre vere tradizioni, l’indifferenza generale del nostro
paese debbono essere considerate come le cause del nostro
disastro». Ma subito dopo aggiunge che egli «non voleva
fare opera tendenziosa» e che lo scopo della sua rivista
doveva essere innanzi tutto scientifico. Conclusione: «Per i
popoli come per gli individui, il primo motto della saggezza,
la prima condizione di tutta l’attività ragionata, la base
della vera dignità è ancora il vecchio detto: conosci te
stesso».
Il Paris, come si vede, segnava qui il principio di quel
legame che unirà la sua stessa opera: il legame cioè fra la
storia letteraria e la civile. Si è detto che la filologia
romanza, finché rimase chiusa in Germania, fu una statua
senz’anima, e che in terra latina, se vi fu uno studioso che
animò quella statua, fu appunto il Paris. E in realtà il Paris
accoglie, si, nel suo petto il grande amore della Francia, ma
gli infonde quel carattere romantico che aveva appunto
diretto tanto la germanistica quanto la slavistica. Egli crede
insomma che le tradizioni di un popolo sono la vita più
intima della sua storia; non immobilizza però quella storia
né la isola. Il Paris non esita, ad esempio, ad affermare
l’origine indiana di molte produzioni popolari francesi
medievali e in particolar modo dei fabliaux. Prendete
tuttavia alcuni fra i suoi saggi più suggestivi, raccolti poi in
volumi sotto il titolo de La poésie du Moyen Age e di
Poèmes et légendes du Moyen Age. Oppure il suo aureo
manuale, La littérature française au Moyen Age. L’origine
indiana dei temi e dei motivi di alcune produzioni francesi
non gli fa certo dimenticare che una letteratura toccando
un suolo diverso acquista i caratteri di esso. E anche la
nazionalità della letteratura francese sarà per lui un atto di
fede: la sua fede.

3. L’origine dell’epopea francese e la teoria delle cantilene

Alla luce di questo concetto si chiarisce la sua opera


maggiore, l’Histoire poétique de Charlemagne, edita per la
prima volta nel 1865, e nella quale, se pur non manca di
internarsi nella letteratura germanica, scandinava,
spagnuola, italiana ecc., si preoccupa soprattutto di
spiegarsi il problema delle origini dell’epopea francese. Ed
è per questa ragione che egli non si contenta di riempire
quelle origini con la vaga nozione delle età primitive, ma
vuol dare ad esse delle date precise e con esse, diciamolo
pure, un’area di diffusione.
Il Paris accoglie, sì, la teoria germanica inerente alle
cantilene come antecedenti delle canzoni di gesta, e
rinverdita in Francia dal Fauriel. Per lui però queste
cantilene non sono affatto il prodotto dell’istinto creatore
delle folle, bensì il frutto di determinati autori, i quali
poetarono dal secolo VII al secolo X. È evidente quindi che il
Paris – come del resto il Diez –, se pur fa suo sotto tale
aspetto il mito della poesia popolare, non ricalca il mito
stesso dei Grimm, bensì quello di un Görres, di un Arnim,
degli Schlegel, i quali erano convinti che dietro ciascuna
poesia vi fosse un poeta.
È vero d’altro lato – tornando alla Francia – che nei
Cahiers de jeunesse (1845-46, p. 133 dell’ed. 1906) il
Renan, il quale non esitava a considerare il primitivismo
come la più grande scoperta del secolo XIX, dopo avere
assistito a una lezione dell’Ozanam, affermava che nella
Chanson de Roland si deve ricercare lo spirito della nazione
e del suo genio; ma egli, il Renan, non aggiungeva subito
dopo che il poeta è l’eco armoniosa che scrive sotto il
dettato del popolo e che ne racconta i sogni? Si aggiunga:
quei sogni che per il Vico e per i Grimm erano in parte la
verità stessa della storia.
E questo fu il concetto di coloro che per primi, in
Francia, sterrarono il campo della filologia romanza:
l’Ampère, il Monin. Il popolo, per costoro, come già per i
romantici contrari ai Grimm, ha una voce in quanto si
risolve nell’individuo, nel poeta. E se quel poeta si
chiamerà popolo, ciò vuol dire che esso esprime i
sentimenti di tutti, con la sua voce che è voce di tutti, con il
suo spirito che è spirito di tutti. Renan immolava Turoldo
allo spirito del popolo. E con questo? Si è voluto dare un
senso reale a quelle parole che ne hanno soltanto uno
metaforico. Il Renan con quelle sue espressioni non voleva
affatto negare alla Chanson de Roland un poeta, il suo
poeta, ma voleva categoricamente affermare che dietro
quel poeta c’è la nazione, la famiglia, la vita civile della
Francia. Né altro significato aveva l’espressione del Paris, e
che cioè l’autore della Chanson si chiama legione.
Un ignoto poeta per consolare i compagni di Orlando
(chiarirà infatti lo stesso Paris nel suo celebre saggio
Roncevaux) celebrò in un canto il suo coraggio. Bene, egli
aggiunge:
«La Francia era allora in piena attività epica. Gli avvenimenti e i personaggi
che colpivano la fantasia degli appartenenti alla classe guerriera divenivano
immediatamente l’argomento di canti che subito si diffondevano grazie ai
giullari – gli aedi dell’età media – dal loro punto d’origine a tutto quanto il
paese, adattandosi ai diversi dialetti, aumentando nel loro cammino come le
onde prodotte da un urto vanno allargandosi intorno al loro centro… I nuovi
canti, che apparivano di continuo, non facevano dimenticare gli antichi, quando
questi per qualche particolare circostanza meritavano di sopravvivere: le
generazioni se li trasmettevano l’una all’altra, modificandoli e ampliandoli più o
meno felicemente. La canzone dedicata a Orlando… attraversò tutta l’età
carolingia. Nel secolo XI esisteva sotto forme diverse, tutte naturalmente
parecchio lontane dalla prima» («Revue de Paris», 15 settembre 1901).

Nell’affermare che un testo poetico diffuso tra il popolo è


sempre in continua rielaborazione, il Paris intuiva quindi il
problema di quella elaborazione popolare che fa veramente
popolare una produzione poetica. E se egli d’altro lato
riteneva che la poesia popolare è la sorgente di ogni vera
poesia, fu sempre dell’avviso che era assurdo stabilire un
rapporto fra la poesia popolare e quella dei chierici perché
la prima non ha avuto alcuna influenza su quella dei
secondi che la disdegnavano.
Convinto altresì che il popolo un avvenimento storico o lo
canta subito o non lo canta più, e che la tradizione orale
accoglie questo patrimonio, il quale continuamente si
trasforma per l’opera stessa dei poeti, il Paris sostiene che
le prime cantilene non possono essere che contemporanee
agli avvenimenti che narrano. Ed è allora che la sua
indagine diventa sottile, intesa com’è a determinare che,
seppure le cantilene primitive su Carlomagno erano state
cantate dagli stessi guerrieri di Carlo fin dal secolo VIII,

avvenne poi che quei canti isolati furono aggruppati


attorno a un’idea e a un eroe.
La tesi del Paris riguardo alla poesia popolare, posta alle
origini dell’epopea, anch’essa da lui considerata come
espressione di tale poesia, fu applicata allora ad altri generi
letterari. E così, ad esempio, lo Jeanroy ricercò nel 1889
Les origines de la poésie lyrique en France au Moyen Age
sulla base dei refrains, mentre il Tiersot tracciò, nello
stesso anno, una Histoire de la Chanson populaire en
France, dove sosteneva fra l’altro che le lasse per
assonanza delle canzoni di gesta furono cantate sul modello
delle odierne formule melodiche. Sulle stesse orme, il
Cesareo compose nel 1894 quell’aureo libretto sulle Origini
della poesia lirica in Italia, dove egli affermerà l’esistenza
di una poesia popolare siciliana anteriore alla scuola
poetica normanno-sveva e di cui quella scuola seguiva le
tracce. E se dal campo della poesia passiamo a quello della
novellistica, ecco che nel 1904 quei principi vengono
applicati dal Delehaye nel suo bel libro Les légendes
hagiographiques.
Il Paris, abituato com’era a dedicare alle novità librarie
di qualche importanza delle recensioni che poi si
risolvevano in vere e proprie monografie, prenderà nel
«Journal des Savants» del 1891 lo spunto dalle Origines
dello Jeanroy per avanzare l’ipotesi di una ininterrotta
tradizione popolare latina, indipendente dalla tradizione
letteraria, onde una poesia popolare romana dei canti
primaverili è posta da lui come antecedente necessario
della lirica cortese provenzale ed è fatta derivare dai canti
popolari di Calendimaggio.
I due mondi, quello dei giullari e quello dei chierici,
vengono così sempre più nettamente separati. Ma, nel
frattempo, un altro filologo, un italiano, Pio Rajna,
scendeva nell’agone della filologia romanza e riprendeva
alcune delle maggiori tesi del Paris per illuminarle con la
sua critica e col suo acuto giudizio.

4. Rajna, indagatore di fonti

Anch’egli romantico nella predilezione dei suoi temi, Pio


Rajna fece dell’epopea francese il suo specifico campo di
battaglia. Vi è fra la sua scrittura e quella del Paris la
stessa differenza che vi è fra quella del Müller e quella del
Benfey. Tutti e due, il Paris e il Rajna, hanno il culto per il
testo, per il documento, per i codici, E le loro edizioni
critiche sono e rimarranno modelli del genere. Ma i testi, i
documenti, i codici non esauriscono i loro interessi. Sono
una premessa della loro opera, il loro fondamento. È
l’interpretazione di quei documenti che li attrae e li
suggestiona. Essi vivono in un tempo in cui la scienza è
considerata una vera e propria religione. In una sua bella
pagina, preludendo nel 1870 al suo saggio su Rinaldo di
Montalbano, il Rajna afferma in maniera categorica:

«Il secolo XIX che tanto fece e ancor fa per il progresso delle scienze
sperimentali seppe dare altresì un novello e vigoroso impulso agli studi
letterari e avviarli per vie non battute in addietro. A lui solo si appartiene infatti
la gloria di aver posto le fondamenta di una vera e propria scienza della
letteratura, la quale, spoglia, per quanto è possibile, da ogni pregiudizio di
scuola, ricerchi e studi i documenti del passato, allarghi lo sguardo ad ogni
luogo e ad ogni tempo e riaccostando l’uno e l’altro tutti i fenomeni simigliami,
faccia che a vicenda si illustrino e si chiariscano. Essa si compiace soprattutto
di indagare le origini non tanto delle varie forme letterarie, quanto delle
singole invenzioni; e seguitandone pazientemente il corso attraverso a popoli e
paesi ne osserva con occhio sagace le differenze per iscoprire di poi le cagioni
e le leggi della graduale loro trasformazione».

E questo è appunto il suo credo scientifico, in omaggio al


quale egli studia nel 1872 I Reali di Francia, dove indaga
con rigore di metodo il passaggio dell’epopea cavalieresca
francese in Italia. Nella sua Histoire poétique il Paris aveva
ritenuto che I Reali di Francia fossero una raccolta,
tradotta in prosa toscana, di diversi poemi franco-italiani,
nei quali la materia cavalieresca doveva aver ricevuto quel
carattere che egli considera come principale innovamento
portato dall’Italia in questo genere di composizione. Ma di
quali altri racconti, si domanda il Rajna, si compongono i
Reali? Queste le sue premesse:

«Mi reca meraviglia, se mi volgo addietro, il numero dei testi di cui l’Autore
dovette far uso. Ben intendo ora la forza di quelle parole che stanno in capo
all’edizione principe modenese: Secondo molte lezende che io ho attrovate e
raccolte insieme. Se mai ad alcuno si conviene il nome di compilatore egli è
appunto, chi compose i Reali. I suoi fonti si possono distinguere in cinque
categorie: 1, canzoni di gesta venute dalla Francia; 2, cantari franco-italiani; 3,
cantari veneti; 4, romanzi in prosa italiani; 5, cantari in ottava rima. Fra queste
categorie la terza e la quinta dovevano essere le più numerose».

Non vi è dubbio, come aveva notato il Paris, che il


compilatore dei Reali si debba ravvisare in un solo autore,
la cui compilazione aderisce perfettamente all’animo
popolare. E questi, secondo il Rajna, sarebbe l’autore
stesso dell’Aspromonte, il quale anche nei Reali degradò
una materia che in origine aveva ben altra attrattiva:

«Molte narrazioni assai belle per se stesse, le avventure di Fiorio e di


Fioravante, le lunghe peripezie di Drusiana e di Berta, gli amori di Mainetto, la
fanciullezza di Orlando, perdono molte delle loro attrattive nella nostra
compilazione. Erano leggende altamente poetiche, frutto spontaneo della
fantasia popolare, e solo abbisognavano di una veste convenevole; il nostro
autore le spogliò del verso, le ridusse in una prosa snervata e prolissa, badò a
comprimere ogni ardimento, a far sì che potessero scambiarsi per istoria vera,
e, affine di soddisfare alla ragione, violò i diritti santissimi della fantasia».

Nel 1872, indagando Le fonti dell’Orlando Furioso il


Rajna, che pur aveva distinto le forme letterarie dalle
singole invenzioni, dimentica tuttavia i diritti santissimi
della fantasia e afferma che, se «messer Ludovico avesse
inventato da se medesimo il moltissimo che ebbe da altri,
alla corona della sua gloria se ne aggiungerebbe più che
una foglia di alloro». Era una affermazione che soltanto il
peggiore discepolo del Benfey avrebbe potuto fare. Ecco
infatti una affermazione che il Paris non avrebbe mai fatto,
convinto com’era che una cosa è la materia bruta di cui si
serve l’artista e un’altra cosa l’opera d’arte che egli ne
ricava. Né è senza significato che contro un tale assunto il
primo a protestare sia stato proprio un indagatore di
origini: il Cesareo. Il Rajna era convinto invece che le fonti
hanno un valore artistico maggiore dell’opera derivata per
l’idea sottintesa che la poesia delle origini si viene
spegnendo a poco a poco nelle opere successive. Al
principio, il testo migliore. Era la tesi del Wagener, che il
Milá y Fontanals aveva già applicato ai romances spagnuoli
e che sarà condivisa dalla scuola finnica. E questa è la
ragione per cui egli nella sua opera maggiore sulle Origini
dell’epopea francese, edita nel 1884, pone a fondamento di
tale epopea delle vere e proprie canzoni germinali, perfette
nel loro genere, già vere e proprie canzoni di gesta
insomma, presso a poco contemporanee agli avvenimenti
che narrano e per giunta in lingua tedesca.
L’idea, almeno nel suo nucleo essenziale, non era nuova.
L’aveva in un certo senso codificata l’Uhland, quando sulle
orme di A. W. Schlegel aveva affermato fin dal 1812 che
l’epopea francese è lo spirito germanico in una forma
romanza. Ed è noto, ad esempio, che tale idea fu condivisa
da uno dei maggiori studiosi dell’epopea francese: il
Gautier. Di contro, il Meyer era dell’avviso che «la nostra
epopea appartiene tutta alla nostra letteratura». E se il
Paris invece era disposto a concedere una certa influenza
germanica sull’epopea francese, egli non riusciva a
spiegarsi come canti tedeschi potessero essere divenuti
canti romanzi. Il Rajna fa di tutto per dimostrarglielo,
immaginando un periodo di bilinguismo in cui i poeti che
cantavano alla corte dei principi e dei signori franchi si
indirizzavano a due diverse popolazioni, l’aristocrazia
germanica e la popolazione romanza. In quanto alle date
egli riconosce poi che i temi che si ritrovano nelle
narrazioni di Gregorio di Tours sono identici a quelli delle
canzoni di gesta; che questi ultimi non hanno motivi
comuni coi poemi eroici germanici; e che le canzoni di
gesta del secolo XII costituiscono la sopravvivenza
dell’epopea merovingia, ereditiera dell’epopea franca.
Così il Rajna, per quanto non condividesse molte ipotesi
del Paris e per quanto ammettesse che i guerrieri di
Carlomagno avessero prima narrato le loro avventure
finché un poeta di mestiere non le mise in versi,
riconosceva tuttavia e riaffermava la preistoria delle
canzoni di gesta. E il Paris, che pur rimase fermo alla sua
teoria delle cantilene, fini con l’accettare nel suo insieme la
ricca dimostrazione del Rajna, convinto in fondo, come lo
era stato l’Uhland, che l’origine germanica delle canzoni di
gesta non diminuisce per nulla l’originalità dei poemi
francesi.

5. Bédier e la Francia del secolo XI

Di contro al Paris e al Rajna toccherà a un discepolo


dello stesso Paris, Joseph Bédier mettere lo studioso
dell’epopea francese su altre vie. Scrittore elegante come il
suo maestro, ragionatore insinuante come il Rajna, il
Bédier affronta infatti lo studio di tale epopea nelle duemila
pagine delle sue Légendes épiques, edite dal 1907 al 1914,
con lo scopo di smantellare e distruggere quanto il Paris e
il Rajna avevano pazientemente costruito e a cui anch’egli
in un primo momento aveva aderito. Si può dire senz’altro
che egli ha il gusto di rovesciare le affermazioni sostenute
da quei due insigni studiosi. È vero che più volte essi
avevano dichiarato che la loro ricostruzione dell’epopea
francese era un tentativo onde rappresentare i fatti
dell’epopea come essi si erano svolti. Ma il Bédier non da,
almeno in teoria, diritto di cittadinanza a simili tentativi.
Esistono effettivamente delle cantilene brevi e brusche
come le immaginava il Paris, contemporanee ai fatti che
narrano? Ed esistono delle canzoni di gesta come le
immaginava il Rajna? Nessun testo ci rimane delle une e
delle altre.
Il Paris e il Rajna avevano pensato alla loro esistenza per
animare di un proprio passato le stesse canzoni di gesta del
secolo XII. E con ciò essi avevano dimostrato di amare il
documento rimastoci per tutti i documenti perduti, traendo
dal primo le relative induzioni e illazioni. Ma per il Bédier
l’assenza di un documento è documento. E con tale
premessa – che è per sua natura una premessa antistorica –
egli vuole distruggere i vincoli che legano la rotta di
Roncisvalle con le canzoni di gesta che la cantano e
distruggere quindi la tesi che l’epopea francese sia coeva
degli avvenimenti che narra.
Per avvalorare questa tesi, il Rajna e il Paris si erano
basati soprattutto sulla tradizione orale, la quale,
riconosciuta valida da tutti i folkloristi del tempo, era
chiamata a conciliare la storia con la poesia. Il Bédier,
preoccupato com’è invece di togliere al disastro pirenaico
l’impressione immediata che esso ha potuto suscitare, e ciò
perché nessuna fonte scritta coeva ce lo attesta di tanta
gravità, parte da un’altra premessa, non meno antistorica
di quella inerente all’assenza del documento: che la
tradizione orale non elabora mai avvenimenti storici.
Questo assunto circolava già nel suo lavoro sui Fabliaux,
edito nel 1894, dove egli affermava che le leggende
storiche, create per un’epoca e per un popolo, non
interessavano le successive generazioni. E ora, di rincalzo,
nelle Légendes épiques (3, 127 sgg.) aggiunge che, se i
popoli hanno delle tradizioni storiche, ciò si deve alla
scrittura che ce le conserva, tanto è vero che quando il
ricordo di un uomo o di un fatto si collega a un campo di
battaglia, a invasioni, cambiamenti di dinastia ecc., esso
nella memoria popolare diventa un residuo informe. Il
folklore insomma per lui non ci conserva che canti
meravigliosi, canti di animali, favole cosmogo-niche ecc.
Mai delle tradizioni storiche.

6. I Fabliaux e le Légendes épiques

È difficile pensare a quali fonti si sia rivolto il Bédier. Egli


si appellava in realtà alle raccolte di tradizioni popolari
compiute in tutti i paesi nell’ultimo secolo; ma poiché
quelle raccolte gli avrebbero detto il contrario – si pensi ai
romances della Spagna, ai canti epico-lirici dell’Europa
orientale, alle byline russe –, egli si guarda dal citarne
soltanto una. Allo stesso modo egli non tiene in nessun
conto tutto ciò che a proposito della memoria dei popoli
collegata a guerre, a invasioni, a personaggi storici
avevano scritto i preromantici, i grandi folkloristi
dell’epoca romantica e tanto meno i folkloristi del suo
tempo.
È sulla base di un folklore puramente immaginario che il
Bédier nega quindi ogni valore alla tradizione orale
collegata agli avvenimenti storici. Si potrebbe obiettare, è
vero, che questi avvenimenti storici possono essere
tramandati dal popolo anche a distanza di tempo. Ma anche
in tal caso quella contemporaneità ideale non è sorretta
dalla tradizione orale, dalla memoria popolare?
C’è inoltre davanti al Bédier uno spettro: l’epopea
francese contaminata da influenze germaniche. Il Bédier, si
è scritto, trasportando la nascita dell’epopea francese nel
secolo XII vuol affermare che la Francia non ha avuto eroi
nazionali e quanto meno un’epopea nazionale. Questo
l’appunto che gli fa il Fawtier, il quale, sulla via già
tracciata dal Gabotto e dal Lot, ha dimostrato ancora una
volta quanto siano validi i rapporti tra la storia e le canzoni
di gesta. Ma la verità è diversa. Ed è, come ha ben
osservato il Foscolo-Benedetto, il quale di recente ha dato
vigore e impulso ai vecchi presupposti teorici
ottocenteschi, che il Bédier si preoccupa di dimostrare
«che l’epica francese è un prodotto francese, che essa è
nata quando già c’era una Francia nel senso odierno della
parola, non prima quindi del secolo XI». Le sue ricerche,
appunto per questo, «si assommano nel bel mito – motivo
melodico ritornante nella sua opera – del grande miracolo
del secolo XI: la Francia che si afferma d’improvviso
creatrice geniale in tutti i campi dello spirito e che si mette
alla testa del mondo civile. Quel miracolo deve restare
puramente francese».
La tesi del Bédier, per quanto sorretta da una indagine
poderosa, è, e rimarrà pertanto, una tesi nazionalistica.
Anche quella del Paris lo era. Ma mentre il nazionalismo di
quest’ultimo riposava su un concetto umano e umanistico,
quello del Bédier finisce col rimanere chiuso in se stesso,
anche se esso ci si presenta con due volti: uno di carattere
estetico, l’altro storico-culturale.

7. Esiste una «memoria popolare»?

Nei suoi Fabliaux – i quali uscirono nello stesso periodo


in cui in Italia vedevano la luce i primi lavori di estetica di
Benedetto Croce – il Bédier non aveva trascurato, e a
ragione, di dare spicco e rilievo al concetto dell’arte come
rappresentazione dell’individuale. In questo lavoro egli
aveva cercato anzitutto di ridurre nei suoi giusti limiti la
teoria benfeyana sull’origine delle novelle. Su
centoquarantasette Fabliaux solo undici ammettevano
possibilità comparative con l’India. Ma quelle somiglianze,
egli si domandava, non spettano soltanto alle linee
costitutive e generiche del racconto? E la patria dei
racconti è quella dove essi sono nati o è quella invece dove
essi si trovano, nel senso che la loro vera realtà sta nell’atto
in cui sono ricreati o meglio creati?
Era ovvio che, considerata sotto questo aspetto, la
monogenesi dei racconti si risolvesse in una poligenesi e
quindi in un legittimo problema estetico. Ma al di là di quel
problema non esiste una storia della cultura che si rivela
feconda, ove la migrazione dei racconti si consideri nei suoi
rapporti con la civiltà cui ha aderito? E il Bédier non sarà
egli stesso prigioniero della teoria inerente alle fonti nelle
sue Légendes épiques?
Il Bédier non manca certo di studiare anche queste
légendes secondo i dettami dell’estetica. In uno dei passi
più celebri delle Légendes (3, 149 sgg.) egli afferma, ad
esempio, che «un’opera d’arte comincia col suo autore e
finisce con lui». E tale, in alcune sue pagine poetiche e
brillanti, egli considera appunto la Chanson de Roland. E
questa è la ragione, aggiunge subito, per cui è vano
appellarsi «alle teorie che vogliono mettere dappertutto
delle forze collettive al posto dell’individuo».
Ma c’è di più. È inutile infatti, conclude lo stesso Bédier,
supporre che siano occorsi dei secoli alla formazione della
leggenda orlandiana e che cantori innumerevoli si siano
susseguiti. È bastato un attimo, «l’attimo sacro in cui il
poeta, sfruttando forse qualche romanzo, abbozzo
grossolano del suo tema, ha concepito l’idea di un conflitto
tra Oliviero e Orlando». Vero: è bastato quell’attimo. Ma le
ricerche del Bédier, tutte le sue ricerche, non tendono a
vedere come si formi quel romanzo, il che d’altro lato nulla
toglie alla validità estetica dell’opera, quale è stata formata
dal poeta individuo? A lui comunque interessa far
coincidere quella formazione col secolo XI. E allora, soltanto
allora, egli che giucca con i suoi argomenti come se fossero
i pezzi di una scacchiera, è disposto a farci tutte le
concessioni possibili anche se poi pentito vi ritorna sopra
per respingerle.
Non v’è dubbio comunque – per quanto sia difficile
trovare nel Bédier una linea direttiva –, che tanto i Fabliaux
quanto le Légendes épiques vanno considerate sotto due
angoli visuali: il primo di estetica, il secondo di storia della
cultura. È vero che il Rajna aveva confuso l’uno con l’altro
a proposito dell’Ariosto. Ma è vero altresì che spesso li
confonde anche il Bédier, il quale tuttavia con la sua opera
dimostrò che le ricerche di storia della cultura – e quindi
delle fonti – sono tanto legittime quanto quelle di carattere
estetico, dove quelle fonti possono avere anche il loro peso
per spiegare il testo poetico.

8. Bédier fra Romanticismo e Antiromanticismo

Dopo aver distrutto, o meglio dopo aver creduto di


distruggere i legami fra la storia e la leggenda, o meglio
ancora dopo aver tolto alle origini dell’epopea il suo valore
romantico, il Bédier passa subito alla ricostruzione della
leggenda orlandiana formatasi, secondo lui, nel secolo XI. E
poiché, smantellata la tesi di un’epopea che sorge
contemporanea ai fatti storici per sublimarla nella poesia,
rimanevano pur sempre nelle canzoni di gesta quei fatti
storici cui essi si ispiravano, il Bédier riprende una tesi che
qualche anno prima era stata ampiamente discussa dal
Becker: e che cioè le canzoni di gesta del secolo XII non si
spiegano se non si ricorre alle strade dei santuari e ai
pellegrini quali veicoli di propagazione della materia epica
e quindi della leggenda orlandiana. Anche il Rajna aveva
già ammesso a proposito di tale propagazione che «lungo le
vie dei pellegrinaggi l’epopea oltre che lasciare prendeva».
Ma questa tesi sarà svolta dal Bédier con tale ricchezza di
particolari e con tale sottigliezza di postulati da destare se
non altro l’ammirazione del lettore.
Il Bédier ritiene a proposito delle più belle e antiche
leggende epiche che alla loro formazione hanno contribuito
«laici e chierici, mercanti, borghesi, poeti di mestiere,
gente di popolo e gente di chiesa». Però aggiunge subito:
«Nella chiesa, attorno la chiesa». In preparazione, è ovvio
dirlo, delle crociate d’Oriente, e «senza che sia possibile
discernere l’apporto di ciascuno».
Sembra in effetti un ritorno alle posizioni della critica
tradizionale di un Paris e di un Rajna. Ma mentre questi
studiosi avevano considerato l’epopea francese come un
documento dovuto all’affermarsi di una spiritualità laica e
popolare che si era svolta al di fuori della tradizione latina,
il Bédier la considerava invece come il prodotto di una
cultura, e perciò di una collaborazione, se mai, clerico-
popolare. Alle origini era la poesia popolare, avevano
affermato il Paris e il Rajna. Alle origini è la strada
disseminata di santuari, esclamerà il Bédier. Ed è allora che
egli, dopo avere accennato all’itinerantismo medievale, fa
un inventario delle strade più famose e più frequentate del
secolo XI, dove si avvicendavano mercanti, cavalieri,
chierici e pellegrini. È su queste strade che c’erano dei
santuari celebri. E poiché tutte le canzoni di gesta
«conoscono bene le strade di pellegrinaggio e solo quelle»,
mentre, a loro volta, le chiese disseminate in quelle strade
conservano tombe e reliquie degli eroi dell’epopea, ecco
che si viene a chiarire il clima spirituale da cui e in cui
nacquero le canzoni di gesta del secolo XII.

In altri termini, secondo il Bédier, prima della canzone di


gesta, si formò la leggenda, la leggenda locale, la leggenda
della chiesa. I monaci sarebbero stati gli informatori dei
giullari. E da queste informazioni – ecco chiarito il miracolo
– nacquero nel secolo XII le canzoni di gesta. Lo stesso
Bédier riconosce, quindi, che i poeti delle canzoni di gesta
erano – si noti bene – poco letterati, perché a stento era
loro possibile desumere i loro temi dalle fonti letterarie e
latine, quali si trovavano nei santuari; ma è altresì
dell’avviso che essi erano venuti in possesso della
tradizione letteraria e scolastica col sussidio dei chierici. È
ovvio quindi osservare che per lui, senza questa
distinzione, non si possono concepire i poeti delle canzoni
di gesta.
In un suo lavoro su Les plus anciennes danses françaises,
che è del 1906, il Bédier affermava che il popolo non ha mai
creato nulla; e che esso, se mai, non fa che riprendere e
imitare ciò che creano i centri di civiltà; e che pertanto le
canzoni popolari sono imitazioni più o meno alterate di
forme letterarie. In tal modo il Bédier dava vita a una
costruzione non meno artificiosa di quella dei suoi
predecessori, ove si pensi, come gli rimproverava il Lot,
che è un assurdo pensare che alla genesi di una canzone
siano necessari un santuario, dei monaci e il trascorrere di
lunghi anni, né meno assurdo è il presupporre che le
canzoni di gesta abbiano avuto soltanto fonti clericali. Il
Bédier, inoltre, non solo dimostrava di non avere nemmeno
quel gusto per la poesia popolare che, quali che siano i suoi
rapporti con le canzoni di gesta, era stato uno stimolo così
fecondo nella storia della poesia, ma negava agli umili il più
grande dono che essi posseggono: quello di poter creare
anche loro una loro poesia.
19. Vita del folklore letterario

1. Dal Child al Nigra

Il problema della elaborazione popolare, intuito


dall’Arnim e via via affrontato dai folkloristi svedesi, russi,
finnici ecc. non mancò di suscitare un vivo interesse anche
nel campo della filologia romanza, la quale, preoccupata
com’era di chiarire le origini dell’epica e della lirica, non
solo utilizzò le ricerche folkloristiche del tempo, ma
contribuì al loro arricchimento e approfondimento. Si
aggiunga che la filologia romanza, progredendo con il
generale progresso filologico, mantenne vivo nei paesi
neolatini il fascino della letteratura popolare – anche se i
suoi valori verranno ora meglio determinati – e richiamò
sempre più l’attenzione degli stessi folkloristi sui problemi
metodologici.
Di notevole interesse furono in tal senso le ricerche e i
contributi dei filologi-folkloristi italiani, fra i quali, in primo
luogo, va ricordato Costantino Nigra, la cui formazione
culturale coincide appunto con la formazione stessa della
filologia romanza. Uomo veramente europeo, amico e
collaboratore del Cavour, il Nigra seppe, nonostante le altre
sue occupazioni politiche, avvicinarsi agli studi del folklore
letterario con una preparazione filologica che gli servì a
illuminare e a chiarire i difficili problemi da lui trattati. Egli
infatti, se da un lato rinnovò in Italia il metodo di raccolta
dei canti popolari, dall’altro non limitò certo la sua attività
a questo solo compito. Da qui la validità dei suoi Canti
popolari del Piemonte, che uscirono in edizione completa
nel 1888, ma di cui lo stesso autore aveva pubblicato
numerosi saggi fin dal 1854.
È stato osservato che il Nigra fu addirittura il primo a
trarre delle deduzioni storiche dall’area di diffusione dei
canti popolari. E ciò è vero limitatamente al campo
romanzo, o meglio celto-romanzo, che fu quello da lui
preferito. Lo stesso Nigra nella breve prefazione con cui si
aprono i suoi Canti popolari del Piemonte, afferma:
«Dacché i canti sono raccolti e sinceramente raccolti è
tempo che si cerchi di sapere come nacquero, donde
vengono, che cosa significano». Ma subito dopo aggiunge
che «fuori del dominio celto-romanzo, le indagini [sulla
poesia popolare] si proseguirono con incessante alacrità e
non senza successo»; prova ne sia «che i lavori del
Grundtvig, di Bugge, di Child e di altri ancora, dimostrano
che ormai le ricerche sulla genesi della poesia popolare non
soltanto sono possibili, ma sono sempre proficue anche
quando non sono fortunate».
Anche il Nigra (come del resto i Krohn o il Veselovskij) si
riattacca quindi alla tradizione dei Grundtvig e dei Bugge,
da cui peraltro, nel campo della filologia inglese, discende
direttamente il Child, il quale, dal 1882 al 1898, aveva
pubblicato quelle sue English and Scottish Popular Ballads
destinate a rimanere un modello nel campo degli studi sulla
poesia popolare.
Nel Child si concludeva, potremmo dire, tutto il lavorio
filologico che per quasi due secoli gli studiosi di tutta
l’Europa avevano dedicato alla poesia popolare. Si veda
infatti nell’ultimo suo volume la bibliografia delle ballate
popolari. È difficile trovare una bibliografia così esatta e
così precisa. Anche l’indice dei titoli delle varie ballate
europee dimostra la sua assoluta padronanza in quel campo
particolare di ricerche.
È con solerte preparazione che il Child affrontò lo studio
delle ballate inglesi e scozzesi, ciascuna delle quali fu da lui
seguita in rapporto alla tradizione che determinava. Il
corpus childiano è in un certo senso il complemento delle
Reliques del Percy. È massimo merito del Child, nota però
giustamente il Baldi, «l’avere riunito e ordinato i documenti
quasi inaccessibili delle prime fonti manoscritte; di avere
esplorato le vecchie collezioni di broadsides (le stampe a
foglio volante del Cinque e Seicento); di avere pubblicato
con esattezza filologica i manoscritti rimasti, da quello
famosissimo del Percy agli altri dello Herd, del Motherwell,
del Buchan, dello Scott, e così via;… e di avere scelto,
coordinato e commentato il tutto con una dottrina e con un
amore che in questo studio non hanno ancora avuto
l’eguale».
La dottrina e l’amore del Child erano in realtà la dottrina
e l’amore del Grundtvig e del Bugge. E lo stesso può
affermarsi del Nigra, il quale ravvisò nello studio della
poesia popolare non soltanto un problema filologico oltre
che estetico, ma anche un problema di storia civile.

2. I Canti popolari del Piemonte

La prima istanza, comunque, che si fa valere nei Canti


popolari del Piemonte è quella di determinare
geograficamente l’area di diffusione che hanno i canti
popolari in Italia. E sotto questo aspetto è noto che il Nigra
divide l’Italia in due grandi zone: l’Italia settentrionale, il
cui particolare genere di poesia è costituito dai canti lirico-
narrativi (le ballate del Child); l’Italia media e inferiore, la
cui poesia popolare è quella degli strambotti e degli
stornelli. Quando era già avanti nello studio comparativo
dei Canti popolari del Piemonte, vale a dire nel 1876, il
Nigra scrisse per la «Romania» del Paris un saggio su La
poesia popolare italiana, «destinato», come poi fu, «a
servire di introduzione ad una raccolta di canti popolari del
Piemonte». E in quel saggio egli, se da un lato riconosce
che i canti lirico-narrativi sono «in parte comuni a
popolazioni romanze non italiche», dall’altro sostiene la tesi
che gli strambotti e gli stornelli costituiscono «una poesia
originale schiettamente italica».
Per avvalorare questa tesi, il Nigra parte da un principio:
che «nella poesia popolare, come in ogni altra
manifestazione dell’arte, la forma fa parte, e parte
principale, della cosa stessa». Con le sue stesse parole:

«Un dato tema poetico, una data materia poetica possono passare con facilità
da un paese all’altro e trasmettersi successivamente a popoli di lingua e di
razza diversi… Così accadde, per esempio, d’una serie considerevole di favole,
d’apologhi, di racconti o di novelle, che dall’ultimo Oriente vennero in Europa,
o dall’Europa andarono in Oriente, fin da tempi molto remoti, sotto forme
diverse. Ma quando la materia poetica è fissata dal verso, dalla strofa, dalla
composizione, quando essa fu modellata in uno stampo determinato, foggiata in
una forma più o meno precisa, il novum opus che ne risulta non si trasmette
più, di regola generale, in questa sua forma, se non a popolazioni omoglotte,
parlanti cioè idiomi identici o molto simili, e tali in sostanza da poter essere
compresi senza grande difficoltà da ognuna di esse».
Formulato questo principio di evidente ispirazione
benfeyana, il Nigra non manca di indagare l’epoca di
formazione delle canzoni, le storiche eccettuate:

«Il periodo genetico ha sempre qualcosa d’occulto, forse perché, fino a quando
l’una e l’altra manifestazione dello spirito umano non sono fissate dalla
scrittura e dalla letteratura, v’è luogo ad una genesi continua. [Ed è così] che
molte canzoni nacquero e morirono e quelle che ci pervennero subirono
numerose, profonde e continue modificazioni...»

Le varianti sono chiamate quindi a tracciare le linee di


questa tradizione, attraverso la quale egli crede di
ravvisare il testo migliore in quello che è già il frutto di
parecchie rielaborazioni:

«Quando dai nostri contadini si compone una canzone, si comincia a fissare la


melodia, e questa è tolta ordinariamente da una canzone anteriore. La melodia
determina il metro. Intere frasi e interi versi, e spesso il principio della
composizione, sono mutuati a canzoni già esistenti. Ciò che si aggiunge di
nuovo è spesso scorretto, rozzo e talora confuso; a poco a poco, passando per
molte bocche, si modifica, si purifica, si compie; nuove idee si aggiungono; le
espressioni scorrette sono esclusivamente eliminate o sostituite da altre più
corrette; queste a loro volta passando per altre bocche, e trovandosi in
ambienti meno propizi, si corrompono di nuovo, si oscurano, per rinnovarsi di
poi… Nel trasmettersi di bocca in bocca il proprio canto, il popolo lo rinnova e
lo modifica costantemente nelle forme dialettali e nel contenuto, e finalmente
anche in parte nella melodia e nel metro, e queste continue modificazioni
costituiscono in realtà una perpetua creazione della poesia popolare; creazione
che passa per molte e varie fasi, e le di cui condizioni di vita e di perfezione o di
degenerazione e di oblio sono intimamente legate con quelle del popolo autore
e conservatore».

C’è in questa pagina la falsa premessa che un canto per


essere validamente estetico debba via via perfezionarsi. Ma
c’è un concetto quanto mai preciso di ciò che è la
rielaborazione popolare, la quale non soltanto conserva e
tramanda, ma anche crea. In base al concetto di tale
elaborazione il Nigra è convinto che molti canti epico-lirici
sono esclusivamente piemontesi, mentre altri sono comuni
ai popoli cello-romanzi della Francia, della Provenza e della
Catalogna.
Quando uscirono i Canti popolari del Piemonte, dove
questi rapporti venivano maggiormente esemplificati, il
Paris gli obiettò che il Portogallo doveva essere staccato dal
gruppo celto-romanzo per essere riunito alla Castiglia, e
avvicinò il tesoro epico-lirico della Francia, del Piemonte e
della Catalogna al tesoro epico-lirico della Spagna, dei
paesi germanici, della Grecia, delle genti slave e
dell’Ungheria. Si trattava, insomma, di determinare una
tradizione di trame e di forme; in altre parole: la vitalilà
geografica e storica di un genere. E di contro al Nigra che
non esitava ad assegnare la canzone di Donna Lombarda al
secolo VI, convinto com’era che quasi sempre il canto fosse
coevo al fatto narrato, lo stesso Paris, che pur aveva
sostenuto quella tesi per l’origine dell’epopea francese, gli
faceva osservare che le canzoni del lipo di Donna Lombarda
erano identiche alle canzoni narrative francesi, la cui
origine non poteva farsi risalire che al secolo XV. Ma, quali
che fossero le linee di queste elaborate costruzioni che
allora si rivelarono ardite, sia di fatto che il Nigra fu il
primo in Italia a comprendere che la tradizione dei canti
popolari ha anche un valore per se stessa, intesa com’è a
determinare le trame stesse della poesia, i suoi umori e le
sue diaspore.

3. Aree di diffusione e centri di irradiazione

Nel dividere l’Italia in due determinate zone poetiche, il


Nigra partiva d’altro lato da un assunto cui egli fu sempre
fedele: e cioè che i canti epico-lirici, gli strambotti e gli
stornelli rispondessero «alla diversa indole dei dialetti delle
due parti d’Italia» e quindi al «substrato di due razze
distinte». In altri termini, com’egli stesso dichiara:

«Il fondo lessicale e le forme grammaticali dei dialetti dell’Italia superiore e dei
dialetti dell’Italia inferiore (come di tutti gli idiomi romanzi) procedono
sostanzialmente dalla lingua latina ed hanno quindi una base sostanzialmente
identica. Ma se nei due rami dialettali della penisola, la parte lessicale e la
grammaticale sono sostanzialmente identiche, la parte fonologica e la sintassi
offrono invece notevoli differenze. La ragione di questo fatto deve cercarsi nella
diversità originaria delle due razze che prevalsero nelle due parti della
penisola. Le popolazioni, che all’epoca del dominio romano abitavano l’Italia
inferiore, appartenevano, in proporzione prevalente, al gran ceppo italico, di
cui i Latini stessi erano il ramo più vigoroso. Per contro l’Italia superiore era
popolata da Galli e da altre razze celtiche, o strettamente affini alle celtiche,
che, prima di subire il dominio romano, parlavano i propri idiomi».

E, quasi a riallacciare le fila delle sue indagini, aggiunge:


«Ma la poesia popolare, al pari della lingua, è una creazione spontanea,
essenzialmente etnica. Razza, lingua e poesia popolare sono tre forme
successive della medesima idea e seguono nella loro genesi e nel loro sviluppo
un procedimento analogo. Con ciò noi non vogliamo escludere la possibilità del
passaggio della poesia popolare da una nazione all’altra. Quello che accadde
della lingua potè accadere della poesia popolare. In tal caso sarà compito della
storia il cercare le ragioni del fatto, e il discernere in questa poesia mutuata la
parte originaria e la parte che potè esservi aggiunta di proprio dalla nazione
che l’adottò e che seppe assimilarla. Però si può stabilire per principio
generale, che la poesia popolare è creazione spontanea della razza che la
canta, risponde al sentimento poetico ed estetico proprio di questa razza e
costituisce un carattere etnico speciale della medesima. Applicando questo
principio all’Italia, siccome noi trovammo nelle due parti della penisola il
substrato di due razze distinte e due tronchi dialettali diversi, così noi
dobbiamo trovarvi e vi troviamo, perfettamente corrispondenti, due specie di
poesia popolare nettamente separata».

Queste osservazioni sono in special modo applicabili alla


poesia cantata e profana, perché, a suo avviso, la recitata
(giuochi, indovinelli, rime infantili, ninne nanne, proverbi) e
la religiosa (preghiere, giaculatorie, leggende) hanno un
carattere meno etnico e più generale, e seguono nella loro
origine uno sviluppo in parte distinto. Ecco pertanto il suo
assunto: dimostrare il carattere della poesia popolare e il
carattere etnico di essa. Ora non v’è dubbio che il Nigra si
riattaccava in proposito al Cattaneo, il quale credeva
appunto che le lingue «possono farsi e disfarsi» e che
«nessuna di esse è necessaria», essendo esse tutte «opera
umana e sociale come i costumi, le leggi e la città». Nel
collegare la poesia a un determinato substrato, il Nigra
tuttavia faceva suo un falso concetto naturalistico, che era
quello in fondo del Gobineau, ove si pensi che la distinzione
di due zone con particolari strati etnici presuppone
appunto l’idea di due razze pure e incontaminate.
Nel Nigra, però, quel concetto naturalistico finiva col
riempirsi di una sua natura storica. È vero infatti che egli
collega il concetto di poesia a quello di razza, ma è vero
altresì che per lui il concetto stesso di razza contempla
esclusivamente quelle che sono le attitudini naturali,
morali, intellettuali ed artistiche di un popolo. E qui è la
validità del suo assunto. Ma c’è di più: ed è che, nonostante
le sue premesse essenzialmente naturalistiche, egli
riconosceva – riattaccandosi allora a una tradizione di studi
che andava dai Grimm al Müller e che aveva trovato
un’ampia eco nella scuola storica russa e in quella finnica –
che la poesia popolare, come la novellistica, è pur sempre
una creazione della popolazione che la canta e di cui
riflette il sentimento poetico ed estetico. C’è nel Nigra
l’esigenza della classificazione, ma c’è in lui il ricercatore
attento e scrupoloso, il quale intuisce con chiarezza il
valore che può avere, e ha, nello studio della poesia
popolare, l’accertamento e culturalistico, che è quanto dire
la diffusione di un canto o di un gruppo di canti in una
determinata area, da cui può passare in altre aree,
stabilendo un circolo di imprestiti, ma anche di
rielaborazioni. E quest’ultima è la ragione per cui un canto
popolare deve essere giudicato anche nella sua
rinnovantesi forma di opus novum.

4. Rubieri e la Storia della poesia popolare italiana

Lo stesso Nigra non aveva esitato ad affermare nella


prefazione ai suoi Canti popolari del Piemonte che il suo
studio sarebbe stato «meno incompleto», se egli avesse
potuto esaminare anche «il valore estetico e morale dei due
grandi rami della poesia popolare italiana». Eppure tale
esame in Italia era stato già fatto, o per meglio dire
iniziato, da un altro studioso risorgimentale: Ermolao
Rubieri, autore di un’ampia Storia della poesia popolare
italiana, edita nel 1877. In essa il Rubieri metteva a frutto
le ampie raccolte che si erano fatte in Italia un po’
dappertutto in base alla tradizione orale. Ma erano quelli i
tempi in cui si proclamava che bisognava entrare nelle
biblioteche e negli archivi per respirare nuove aure. E da
quelle biblioteche e da quegli archivi non pochi canti
popolari erano già stati disseppelliti. Uno dei primi, se non
il primo, a dare questo esempio era stato un poeta, Giosue
Carducci, il quale, se pur ebbe della poesia popolare un
concetto vago, ebbe il merito di pubblicare nel ’66 un
manipolo Di alcune poesie popolari bolognesi, mentre nel
’71 compilò una gustosa antologia, Cantilene e ballate,
strambotti e madrigali nei secoli XIII e XIV, dove imponente
era la raccolta dei canti popolari di antica provenienza.
Il Rubieri, nel riprendere in esame i canti popolari che
erano stati già raccolti e disseppelliti, si dimostra buon
filologo; ma non è soltanto filologico lo scopo con cui egli
scrisse il suo libro, che voleva essere, e fu soprattutto, un
messaggio rivolto al popolo italiano che soltanto allora era
giunto alla sua unità. A differenza del Nigra, il Rubieri evita
di appellarsi a quei criteri razzistici che gli ricordavano, fra
l’altro, il Gioberti da lui odiato a morte. Per lui esisteva il
popolo italiano, il quale in ciascuna sua regione esprime nel
canto i suoi caratteri, le sue tendenze, i suoi umori. Il
Rubieri è convinto che la poesia è fra le creazioni umane la
«prima» e la «elettissima»; ritiene, quindi, che la poesia
popolare precedette la letteraria; né egli dimentica di
mettere in luce i rapporti fra quelle due forme di poesie.
Esempio:

«Nei secoli XV e XVI, la poesia letteraria, sulle orme di Dante che le aveva
tracciata la via, cercò di segregarsi dalla poesia popolare, ma non vi riuscì. La
maggiore sorella esercitava sempre un’invincibile attrattiva sulla minore; e la
minore, non potendo staccarsene, prese a contraffarla. Credeva di burlarsene,
e la onorava. Infatti tutti i migliori poeti del secolo XV, il Medici, il Pulci, il
Poliziano, e alcuni del secolo XVI, il Machiavelli, il Bronzino, il Berni, non ne
colsero che la parte più comica e la esagerarono; alcuni, come il Poliziano, ne
sfiorarono la parte più gentile e la raffinarono; pochissimi, sovrano il Bronzino,
la presero tal quale e la plasmarono. Ma fra tutti, o in un modo o nell’altro,
salvarono sufficienti materiali da servire alla ricostruzione di un bel
monumento».

Questo non significa però che il Rubieri rimane di fronte


alla poesia popolare in un atteggiamento di assoluta
devozione, tanto è vero che egli non poche volte rivela
1’inesistenza artistica di certi componimenti popolari. Vero:
ma nel campo stesso della letteratura popolare ciò che non
è poesia non è pur sempre, egli si domanda, un documento
sociale, psicologico, storico? Un popolo che canta, egli
perciò afferma, è pur sempre un popolo che si confessa. E
di rincalzo:

«Chi lo segua nelle idee e ne’ sentimenti che più comunemente si rivelano nelle
ritmiche sue parole, e osserva se queste siano o caste o licenziose, o frivole o
assennate, o ingenue o maligne, o miti o feroci, o generose o codarde, o
patriottiche o filautiche, difficilmente si ingannerà argomentandone che l’indole
o almeno lo stato di quel popolo è corrispondente o alle virtù o ai vizi che
traspirano da’ canti suoi. È beato ma raro quel popolo, da’ cui canti traspirano
virtù non solo domestiche, non solo pubbliche, ma pubbliche e domestiche a un
tempo…»

5. Poesia popolare e poesia tradizionale nel concetto del


Rubieri

Il Rubieri ritiene inoltre che in Italia i canti popolari, pur


rivelando i caratteri delle varie regioni, si debbono
considerare, in tanta varietà di dialetti, come l’espressione
di una unità linguistica. E non soltanto linguistica: ma
anche politica. Egli considera quindi la poesia popolare
italiana sotto tre aspetti diversi: ritmica, psicologica e
morale. E tutti e tre questi aspetti sono chiamati a
inquadrare la vita nazionale di un popolo che dalla sua
unità dovrà trarre la forza stessa del suo avvenire.
È vero d’altra parte che il Rubieri, pur affrontando con
perizia filologica l’esame minuto e particolare di quegli
aspetti – sul cui fondo si muove anche la poesia popolare
dei paesi stranieri –, non poche volte si impiglia in formule
naturalistiche (come, ad esempio, quando considera le
qualità meccaniche del metro come una naturale
conseguenza delle qualità fisiologiche). Ma bisogna anche
riconoscere che egli ci da attraverso la poesia popolare un
quadro di quelli che erano appunto i valori ideali dello
spirito popolare italiano. In altri termini: i valori di ciò che
il Nigra aveva chiamato spirito etnico. E del Nigra che già
fin d’allora si era imposto all’attenzione degli studiosi
italiani (e del resto, non soltanto italiani) il Rubieri
apprezza l’opera geniale, affermando senz’altro che questi:

«… distinse le canzoni della sua raccolta [della raccolta, cioè, di cui erano già
usciti alcuni estratti nella «Rivista Contemporanea»] in due serie, delle storiche
e delle romanzesche, che rispondono con una logica esattezza ai due generi di
poesia popolare effettivamente più comuni nel popolo subalpino, perché più
confacenti alla seria e cavalleresca sua indole».
Il Rubieri è d’accordo con il Nigra nel ritenere che i
Piemontesi hanno il primato della poesia narrativa a
differenza dei Siciliani che l’hanno invece nella
madrigalesca. Aggiunge però subito che il primato dei
Piemontesi «non è pieno e assoluto». E di ciò si rende
conto, studiando con risultati eccellenti la diffusione che ha
in Italia il canto epico-lirico. Né diverso è il problema
inerente alla poesia degli strambotti e degli stornelli, la
quale prevale in Sicilia, ma che si diffonde dovunque. Il
Rubieri insomma attenua la tesi delle due zone sostenuta
dal Nigra, ma, di contro al Nigra, egli ritiene che
l’elaborazione popolare ha un ufficio molto modesto anche
in quella poesia che egli considera come tradizionale:

«Col nome di tradizionale è da distinguersi quella specie di poesia popolare che


tende a trasmettere per lunghe età, di generazione in generazione e di secolo
in secolo, con nissuna o poca alterazione, qualunque popolare componimento…
I prodotti di questa poesia in origine possono essere stati tanto inventati pel
popolo ma non dal popolo, quanto inventati e talora anche improvvisati da
esso».

E la poesia tradizionale, si noti bene, per lui è quella


poesia che maggiormente si diffonde e si propaga,
stabilendo emigrazioni e contatti fra regioni e regioni. La
poesia popolare, per il Rubieri, ha insomma carattere di
stabilità. E questo fu il suo limite dovuto in gran parte
all’indole stessa della sua indagine, dove il canto popolare è
studiato in fondo soltanto come documento di arte o di
costume.

6. D’Ancona

Un anno dopo l’uscita della Storia della poesia popolare


italiana videro la luce alcuni studi di Alessandro D’Ancona,
raccolti sotto il titolo: La poesia popolare italiana. Il
D’Ancona, anch’egli uomo risorgimentale, aveva certo una
preparazione del tutto differente da quella del Rubieri. Egli
era il filologo puro, lo storico della letteratura, il
ricercatore di testi: preciso, minuzioso, impareggiabile
nelle sue ricerche. E queste doti l’attaccavano da un lato
alla tradizione erudita del Settecento italiano e dall’altro
alla tradizione a lui più vicina di un Benfey o meglio di un
Veselovskij, di cui peraltro fu amico e ammiratore.
Nei suoi studi sulla Poesia popolare italiana anche il
D’Ancona sostiene come il Rubieri che l’unità della poesia
popolare italiana va ravvisata nella sua varietà. Fatto è
però che mentre il Rubieri vuoi delineare una storia tutta
interna della poesia popolare italiana, il D’Ancona invece
cerca le origini delle forme esterne, dei generi. Nel 1906,
quando ripubblicò il suo lavoro sulla Poesia popolare, egli
stesso osservava:
«Alla prima edizione andava innanzi un Avvertimento, nel quale affermavo che i
miei Studi nulla dovevano alla Storia della poesia popolare italiana di Ermolao
Rubieri, pubblicata quando già tutto avevo scritto e consegnato all’editore e
buona parte del mio lavoro era stampata, sicché non esisteva plagio da parte
mia là dove andavamo d’accordo, né coperta confutazione là dove
discordavamo… Ma ora, come potrà vedere il lettore, ho creduto di potermi
valere dell’opera del defunto amico, citandola ogni qual volta mi fosse dato
confortarmi dell’autorità sua, o dovessi dissentirne».

Il D’Ancona nei suoi studi si propone soprattutto di


indagare i rapporti fra la poesia popolare e la dotta. Ed è
allora che egli ravvisa «accanto alle poesie imitate dai
modelli dell’antichità o dai recenti esempi degli stranieri,
una maniera tutta popolare e ingenua», convinto com’è
che, se non tutti i monumenti da lui citati possono a «rigore
dirsi nati fra il popolo, o dal popolo fatti propri, certo è che
debbono il lor nascimento a forme di sentire ben diverse da
quelle cui ispiravasi la poesia dei dotti e dei cortigiani…».
Egli non esita quindi a far sua la tesi del Nigra: vedere,
cioè, dove i canti nascono e si diffondono. E in proposito
non ha esitazioni:

«Noi crediamo, e il lettore cortese e attento deve aver già più volte intraveduto
quel che diremo, che il Canto popolare italiano sia nativo di Sicilia. Né con
questo intendiamo asserire che le plebi delle altre provincie sieno prive di
poetica facoltà, e che non vi sieno poesie popolari sorte in altre regioni italiane,
e ivi cresciute e di là anche diramate attorno. Ma crediamo che, nella maggior
parte de’ casi, il Canto abbia per patria d’origine l’Isola, e per patria di
adozione la Toscana: che, nato con veste di dialetto in Sicilia, in Toscana abbia
assunto forma illustre e comune, e con siffatta veste novella sia migrato nelle
altre provincie. Però se questo è il caso generale, esso non esclude le
eccezioni».
La teoria, come si vede, è malposta, in quanto il
D’Ancona limita il canto popolare italiano agli strambotti,
agli stornelli e comunque alla poesia lirica, di cui localizza
la patria d’origine in Sicilia. E la poesia narrativa? È presto
detto:

«Venendo poi più su, s’incontrano volghi di maggior cultura, ne’ quali la forza
poetica è quasi spenta o si estrinseca ormai soltanto in improvvisazioni
sgarbate, se non in semplici rimpasti dell’antico tesoro di Canti… E chi salisse
ancor più su, ai paesi di popolazioni cello-romana, troverebbe la strofa sicula
scarsa in numero… Ivi la poesia indigena e tradizionale ha relazione non col
Mezzogiorno d’Italia, ma con altre popolazioni e altri idiomi, stendendosi alla
Provenza, alla Francia, alla Catalogna, al Portogallo…»

È noto, però, che a proposito della distinzione posta dal


Nigra, e cioè che v’è una forma lirica consona all’indole
dell’Italia inferiore e un’altra narrativa consona all’Italia
superiore, il D’Ancona rimane sempre fedele a quanto
aveva scritto nella sua recensione ai Canti popolari del
Piemonte, poi raccolta nei suoi Saggi di letteratura
popolare, e cioè che si tratta «di un’ipotesi ingegnosa che
forse contiene del vero, ma che dovrebbe essere
fiancheggiata da più salde prove».
Il D’Ancona non ebbe comunque soltanto un vivo
interesse per la poesia popolare, cui egli riconobbe quel
prestigio che in Italia le avevano già riconosciuto un
Berchet o un Tommaseo. Le sue attenzioni furono rivolte
anche alla letteratura popolareggiante o meglio alla
letteratura a stampa. Da qui i suoi Poemetti popolari
italiani, che sono del ’98 e che costituiscono un esempio di
quella letteratura comparata da cui il folklore trae un suo
particolare fascino. In questo volume, la Storia di San
Giovanni Boccadoro, il Trattato della Superbia e morte di
Senso, Attila Flagellimi Dei, la Storia di Ottinello e Giulia
sono indagate nelle loro diaspore. Anche a lui, a volte,
l’Oriente si rivela come la loro fonte. Ma in ciò egli è
sempre cauto e prudente. Né va dimenticata infine l’opera
che il D’Ancona dedicò alle Origini del teatro popolare,
dove mette in rilievo i maggi, le befanate, le zingaresche e
tutte quelle produzioni popolari cui egli si era rivolto con
spirito di romantico, convinto che di tutti i poeti il popolo
fosse pur sempre il maggiore. Studioso della letteratura
italiana, indagatore di fonti, artefice anch’egli di ardite
costruzioni, il D’Ancona con la sua opera e con la sua
attività vuole dimostrare che accanto alla cosiddetta
letteratura dotta ne esiste un’altra che merita di essere
studiata e vagliata con la stessa serietà della prima. E per
quanto in Italia il culto della letteratura dotta fosse tale da
non agevolare la considerazione e l’avvento dell’altra, egli
spianò in queste ricerche la via a tutta una schiera di
valenti e agguerriti discepoli, fra i quali si deve soprattutto
ricordare Francesco Novali, che approfondi, fra l’altro, lo
studio della poesia popolareggiante oltre che
dell’iconografia ad essa inerente, portando nelle sue
ricerche una finezza di gusto non comune.

7. Comparetti

Nella stessa Pisa, e più precisamente nella Scuola


Normale, il D’Ancona intanto aveva trovato un grande
collaboratore in un suo collega, Domenico Comparetti, il
quale, allievo del Weber, se pur coltivò con grande
preparazione le letterature classiche e le moderne, sentì
vivo, come parte integrante di esse, l’amore per tutto ciò
che è popolare. Un suo biografo, Giorgio Pasquali, dice
infatti di lui a proposito del secondo volume su Virgilio nel
Medioevo, la cui prima edizione uscì nel 1872, che in esso
si sente l’influsso del D’Ancona, «col quale il Comparetti
visse appunto in strettissimo sodalizio». E aggiunge:

«Nei primi anni pisani cadono i lavori di filologia romanza, romantica e


folkloristica, gli studi sui dialetti neo-greci dell’Italia meridionale, il libretto su
Edipo e la mitologia comparata, nel quale si dimostra come la fantasia greca
riversasse in motivi novellistici una sua idea morale; e molt’altro. Già prima, nel
1862, nel suo più antico lavoro di epigrafia, greca, il Comparetti formula il
problema del sincretismo religioso greco-orientale. La collaborazione col
D’Ancona è anche esternamente evidente: con il D’Ancona egli si associa nella
faticosa pubblicazione, durata tredici anni, di una antica raccolta di rime
italiane, contenuta in un codice vaticano. Il D’Ancona pubblica una redazione
italiana del libro di Sindibâd, il cosiddetto libro dei Sette Savi di Roma. Il
Comparetti ne traccia la tradizione; particolarmente… quella greca, ma stampa
in appendice anche una redazione spagnola antica. Ancora nel ’75 il
Comparetti pubblica in una serie diretta dal D’Ancona una raccolta di Novelline
popolari italiane».

La serie del D’Ancona cui accenna il Pasquali è la


collezione Canti e racconti del popolo italiano, che il
D’Ancona fondò e diresse con la collaborazione dello stesso
Comparetti allo scopo di compiere un’opera nazionale che
unificasse ed elevasse «il pensiero dei volghi delle diverse
provincie italiane». Ma oltre a questo scopo la collezione ne
aveva un altro più concreto: offrire agli studiosi del folklore
italiano degli autentici documenti. Il primo volume della
collezione uscì nel 1871. Dieci anni dopo si iniziarono a
Parigi due collezioni: la Collection des chansons et des
contes populaires e Les littératures populaires de toutes les
nations (destinate ad accogliere un centinaio di volumi di
grande interesse documentario). Le Novelline popolari
italiane, edite nella collezione che il Comparetti dirigeva
col D’Ancona, volevano essere un contributo alla narrativa
italiana. Ma come concepiva egli questa narrativa? In una
lettera del 24 aprile del 1870, il Comparetti scriveva a
Giuseppe Pitrè:

«Come Ella sa bene la poesia popolare della nostra nazione varia assai in certe
zone del nostro paese e si mostra in queste per indole e per forme differenti.
Quindi per quanto concerne i canti popolari non v’ha dubbio che si possa, anzi
si convenga, dare in volumi separati quelli di ciascuna provincia od anche di
più ristretta località. Non così per quanto concerne i racconti. Ormai è cosa di
cui non si può più dubitare che una quantità di quei racconti che i tedeschi
chiamano Märchen ritrovasi diffusa presso tutti i popoli d’Europa (senza dire di
altri extraeuropei) e si ritrovano di certo o probabilmente anche tutti
ugualmente diffusi presso tutto il popolo italiano. Quindi, come Ella intende
bene, volendo pubblicare raccolte locali come per i canti, si corre il rischio,
anzi si ha la certezza, di dare molti volumi contenenti tutti un materiale
narrativo nella massima parte identico… La meglio, dunque, sarebbe di fare
una raccolta generale intitolata Conti (o novelline) popolari italiani, dando nel
testo la versione migliore, più completa, di ciascun racconto tra quelle raccolte
in varie parti d’Italia da ciascun collaboratore e nelle note le varianti più degne
di attenzione. Così hanno fatto i Grimm per i racconti tedeschi e l’Afanasev per
i russi».

E tre anni dopo, il 1° gennaio 1873, ribadiva in un’altra


lettera al Pitrè quella sua convinzione a proposito delle sue
Novelline popolari italiane:

«La mia raccolta si comporrà di tre volumi dei quali il primo si comincerà a
stampare fra un mese. Le novelline saranno tutte ridotte in lingua comune
salvo una o due per ciascuna provincia che saranno pubblicate in dialetto. Darò
le illustrazioni in fondo alla raccolta nell’ultimo volume e queste conterranno le
notizie su ciascuna novella e i confronti con le corrispondenti italiane e
straniere. Darò anche un saggio di bibliografia delle novelline di vari paesi
pubblicate fin qui. Questa raccolta di Novelline italiane è compiuta con uno
scopo e con un metodo che deve distinguerla dalle raccolte parziali di novelline
lombarde, venete, sicule».

8. Poesia e novellistica popolare

Di questa progettata raccolta uscì soltanto il primo


volume. Ma in esso il Comparetti segue davvero il metodo
dei Grimm e dell’Afanasev? Questi ricostruivano il testo di
una novella in base alle sue varianti. Il Comparetti invece ci
da delle varianti di un racconto quella che ritiene la
migliore. Egli è fedele al testo, insomma: ma, come il
D’Ancona, il quale con candida ingenuità rimproverava
all’Imbriani (uno dei raccoglitori più seri e più scrupolosi
che abbia avuto in Italia il folklore poetico) di aver
trascritto i racconti della sua Novellata milanese
stenograficamente, non comprende che il materiale
narrativo delle diverse regioni può essere identico nei suoi
temi, nei suoi motivi, non nella sua forma espressiva,
anch’essa di volta in volta opus novum. Il che, secondo lui,
si noti bene, avviene invece nella poesia popolare. Nel suo
lavoro Il Kalevala e la poesia dei Finni, edito nel 1892, il
Comparetti ecco infatti come caratterizza quella poesia,
che è poesia popolare per eccellenza:

«Il cantore, il laulaja ripete e crea ad un tempo; la massa dei canti che ha nella
mente considera e sente come cosa di tutti e sua; è quella il suo sapere, il suo
esemplare, la sua maniera e ad un tempo il suo ordigno nell’opera propria.
Versi di un canto che noi diremmo lirico ei contesse con un canto che diremmo
epico o magico, e fa anche l’inverso: ei procede in ciò liberamente come chi
impiega per varie occasioni le parole, le frasi, le formule di un linguaggio che è
proprietà di tutti e da tutti inteso. Per questo diritto che i cantori sentono di
avere, e assai usano, per la naturai vicenda pure che deve subire una poesia
commessa alla memoria e propagantesi solo oralmente, grandissimo è il
numero delle varianti che ciascun canto presenta, non solo differendo da
cantore a cantore, ma anche un cantore stesso non mai ripetendo due volte lo
stesso canto in modo precisamente uguale, o anche dando oggi legati assieme e
combinati in uno canti che ieri dava separati e distinti. Così, l’assieme di tutti i
canti fin qui raccolti colle infinite loro varianti, appare come una massa di versi,
di creazioni poetico-fantastiche fluttuanti quasi e in istato perenne di
trasformazione, di scomposizione e ricomposizione. È questa la vera condizione
naturale della poesia popolare di proprio nome…».

Ed è ovvio qui osservare che egli in gran parte faceva


sue le idee di Julius Krohn, cui fu legato da viva amicizia e
di cui fu il primo in Italia a far conoscere le opere. Ma la
condizione naturale della poesia popolare non è la stessa di
quella della novellistica, che egli peraltro non fu alieno
dallo studiare secondo la teoria delle migrazioni e degli
imprestiti?
Filologo preciso, scrittore raffinato, mente larga e
aperta, anche il Comparetti fu suggestionato dal fascino
che si provava nel seguire di paese in paese un racconto
popolare, per trovarlo poi in un testo sanscrito, in una
redazione persiana, in una traduzione siriaca o greco-
bizantina. E da questi interessi nacquero le sue Ricerche
intorno al libro di Sindibâd, edite nel 1870, dove egli
traccia la tradizione di quel libro, indagandone oltre le
redazioni occidentali quelle orientali che sono da lui
ricondotte a un testo arabo del secolo X. In queste ricerche
il Comparetti, pur riconoscendo l’influenza che quelle
redazioni ebbero sulla novellistica popolare, sostiene però
decisamente che la tradizione popolare può tramutare il
contenuto di qualsiasi libro. Né va dimenticato che in un
altro saggio, Edipo e la mitologia comparata, pubblicato
qualche anno prima, aveva affermato, opponendosi alle
teorie mitiche di un discepolo del Müller, il Bréal:

«Il dire che per esprimer questi [concetti morali] la fantasia popolare siasi
limitata a modificare, rimodellandoli in senso morale, i miti originati dal mondo
sensibile, e non abbia nulla espressamente creato, è un assurdo che ha contro
di sé il buon senso e i fatti. Le forze della fantasia umana, particolarmente nelle
epoche di minor cultura, sono ben lungi dall’essere condannate a quella
meschina parsimonia di produzione a cui taluni mitologi ridurrebbero quella
mirabile facoltà dell’uomo che Goethe ha giustamente chiamato mobile in
sempiterno e sempre nuova».

Ma se queste furono le sue sagge premesse, il


Comparetti nella prima edizione del suo Virgilio nel
Medioevo fu dell’avviso che l’Italia scarseggiasse di
produzione fantastica – tesi questa che fu poi condivisa dal
Graf nei suoi saggi folkloristici e in gran parte dal Di
Francia nel suo libro sulla Novellistica –, dimenticando così,
come bene osservava il Neri, che anche in quel libro egli
aveva affermato che la leggenda di Virgilio «nacque a
Napoli» e di là «si era divulgata in ogni parte d’Europa». È
vero, d’altro lato, che tale indagine è viziata nel Comparetti
da un difetto d’origine: dal presupporre cioè napoletana
una leggenda, la cui esistenza egli ritiene documentata fin
dal secolo XII, mentre sembra che essa invece sia
un’invenzione di chierici inglesi e tedeschi del secolo XIV, i
quali hanno trasportato a Napoli e a Roma dei motivi
novellistici altrove diffusi. Senonché, quali che siano le
fonti, si può negare che tale leggenda, comunque e
dovunque inventata, appartiene anche al folklore
napoletano? Il Comparetti non esita in proposito ad
affermare, con pieno convincimento, che «il popolare si
distingue dal letterario anzitutto per la natura e l’indole sue
e dei vari elementi suoi, sia qualsivoglia la condizione di chi
lo riferisce o vi crede o anche lo idea» e che pertanto una
leggenda «sarà popolare, quand’anche si riesca a provare
che scaturì dalla fantasia di un chierico che la scrisse». E
allora non sarà popolare anche tutto ciò che il popolo
accoglie, purché lo accolga?
Vi saranno nel Comparetti, come vi sono, dubbi,
incertezze, errori di prospettiva. Ma fatto è che egli tanto
nelle sue opere minori quanto in quelle maggiori – il
Virgilio e il Kalevala sono dei grandi affreschi, dove si
muovono nell’uno la vita popolare italiana e nell’altro, sullo
sfondo delle epopee, la vita popolare finnica – seppe
avvicinarsi al folklore con lo slancio di un grande maestro.
Con questo risultato: che a lui, come del resto al Nigra, al
Rubieri e al D’Ancona, tocca il merito di avere affiatato la
cultura italiana con la cultura europea, realizzando
quell’ideale che era stato proprio dei romantici.
20. La lezione del Pitrè

1. Fede nel popolo

Nello stesso periodo in cui si svolgeva la fervida attività


di un Nigra, di un Rubieri, di un Comparetti, quando la
problematica folkloristica era tutta in fermento per il
contributo che ad essa avevano recato e recavano un
Müller, un Benfey e un Paris, uno studioso italiano, di cui
abbiamo già più volte incontrato il nome, Giuseppe Pitrè,
non solo partecipava a tale attività di studi, ma ne diveniva
il massimo artefice. In lui, uomo risorgimentale come il
Nigra, il Rubieri e il D’Ancona, si ritrovano la fede
commossa di un Percy, di un Herder e di un Arnim per le
voci dei popoli; la consapevolezza storica di un Bodiner e di
un Möser nei confronti di quelle formazioni spirituali cbe
sono le tradizioni popolari; l’impeto patriottico e al tempo
stesso umanitario con cui, unendo alla fede commossa la
consapevolezza storica, i Grimm affrontarono lo studio del
folklore del proprio paese. E come i Grimm, anche il Pitrè,
per quanto diverse siano state le condizioni storiche dei
rispettivi paesi, è dominato dalla medesima
Rettungsgedanke, di cui lo Herder aveva fatto un
programma di lavoro per le generazioni successive.
Frutto di tale Rettungsgedanke è l’opera principale del
Pitrè, la Biblioteca delle tradizioni popolari siciliane, la
quale ci dimostra come anche il Pitrè seppe essere siciliano
e italiano, italiano ed europeo. Il che, si noti bene, avveniva
allora in altri campi, ove si pensi, ad esempio, che molti
scrittori e letterati a lui contemporanei fecero materia della
loro arte le regioni e il popolo, riuscendo ad essere
contemporaneamente siciliani e italiani, piemontesi e
italiani, toscani e italiani, ma soprattutto italiani ed
europei.
Nel 1879, quando già erano state pubblicate le storie
della poesia popolare del Rubieri e del D’Ancona, in una
sua conferenza su Zola e l’Assommoir il De Sanctis
ammoniva:

«Le lingue dotte, le lingue comuni, trattate dall’arte e quasi esaurite, sentono
anch’esse il bisogno di ritemprarsi nelle lingue del popolo più vicine alla
natura, che ha passioni più vive, che ha impressioni più immediate e che deriva
il suo linguaggio non da regole, ma dalle sue impressioni. L’artista cercherà e si
approprierà tutto quel tesoro di immagini, di movenze, di proverbi, di sentenze,
tutta quella maniera accorciata, viva, spigliata, rapida, che è nei dialetti».
È questo, si è detto, in un certo senso, il manifesto
letterario e la carta profetica dell’arte di Verga e dei suoi
epigoni. Ma in quel manifesto – le stesse idee sono espresse
dal De Sanctis in uno dei capitoli della sua Giovinezza – che
cosa c’è di diverso da quanto avevano affermato in
Germania lo Herder, in Francia Madame de Staël, in Russia
il Karamzin, nella stessa Italia il Berchet, e così via? Erano
stati i romantici a immettere nella poesia e nella narrativa
il popolo, come protagonista di storia. Erano stati i
romantici, dai Grimm a Puškin, da Wordsworth a Glinka, a
servirsi del linguaggio, della letteratura o della musica
popolare per ravvivare e creare il loro linguaggio. E se in
Italia tale letteratura – di cui allora mancava peraltro una
valida documentazione – non fu tenuta in considerazione
dal Manzoni, ecco invece, e le coincidenze non avvengono
mai per caso, che essa dominerà, dominata, la narrativa di
un Verga: o meglio la sua epopea, dove il popolo è, come
nella Biblioteca delle tradizioni popolari del Pitrè, il
protagonista corale della sua fede e della sua disperazione.
Lo stesso naturalismo dello Zola – cui a torto si riattacca
il verismo di un Verga – non si spiega se non alla luce
stessa del Romanticismo, rinvigorito, in alcuni dei suoi miti,
dal Positivismo. I bassi centri della vita urbana – il ventre
delle grandi città – erano stati portati sulla ribalta dal
secondo Romanticismo. E lo Zola, preciso nella ricerca
delle sue fonti quanto lo era nel campo dell’antica
letteratura il Paris, con la sua opera, se da un lato aggiunge
alla pagina gloriosa dell’epopea francese l’umile tragedia
della plebe abbrutita delle grandi città, dall’altro si propone
di sollevare quella plebe a dignità vera di popolo. Le fonti
del Verga sono diverse. Eppure quei due scrittori, così
distanti l’uno dall’altro (medicale-prosastico, il primo, come
l’ha definito il Russo, epico-lirico il secondo), non hanno in
comune un’unica fede?
Non v’è dubbio, infatti, che così come il naturalismo di
uno Zola e il verismo di un Verga proseguono il culto del
vero professato dei romantici, egualmente i miti che si
vanno affermando nel campo delle lotte politiche e sociali
riflettono la medesima esigenza di un radicale
rinnovamento dell’uomo, di una umanità migliore, la
medesima fede nell’uomo e nella sua perfettibilità, che può
vedersi nei pili fervidi apostoli del periodo romantico. E
sotto questo aspetto che cosa si propone di darci il
socialismo, il socialismo anche del Marx – si pensi
all’insistente motivo del denaro nell’opera dello Zola e a
quello della roba nell’opera del Verga – se non ciò che
deriva dai suoi presupposti scientifici?
La storiografia romantica produceva insomma i suoi
frutti più saporosi in tutti i campi. Anche in quello della
musica. Si pensi infatti a Wagner, il quale faceva musica,
canto e poesia di quei miti che erano stati cari al cuore
degli Schlegel e dei Grirnm, del Müller e del Benfey. In una
lettera a un suo amico pittore, che è del giugno del ’75, il
musicista russo Mussorgskij esclamava: «Il popolo, ecco ciò
che voglio rappresentare». E lo rappresentava, lo cantava,
con la fede commossa di un Puškin, rinnovando il
messaggio di Glinka, come Wagner rinnovava quello di
Weber, di Schubert e di Schumann. Né si deve dimenticare
infine, per tacere degli altri paesi, che in Italia nelle opere
di un Bellini e di un Verdi si incontrano spesso dei temi che,
pur rilevando l’impronta tipicamente originale del loro
genio, accusano una origine schiettamente popolare.
Il mito del popolo continua ad essere una fede, insomma.
Questa fede si esprimeva ugualmente come continuazione,
anche in questo campo, di quella che era stata la
fondamentale esigenza antiletteraria, e cioè antiretorica,
del Romanticismo. Perché il popolo era pur sempre, contro
i convenzionalismi vieti e abusati, il simbolo della verità e
della virtù, del lavoro e del progresso: anche del progresso,
di questo mito che di sé informa tutto il corso dei secoli XVIII

e XIX. Ma nello stesso tempo deve osservarsi che in tanto si


rivalutava il mito del popolo e di ciò che è da intendersi per
popolare, in quanto in realtà tramontato e superato era
nella coscienza dei più, nella nuova cultura, intendiamo, e
nelle diverse esigenze sociali, politiche, economiche, quel
mondo che era chiuso nei limiti della provincia o nei più
ristretti limiti di una tradizione remota o lontana. E così a
esso si guardava con nostalgia e con rimpianto e con
l’accorato amore di chi l’avrebbe voluto migliore, in quanto
veramente lo si sentiva diverso e lontano: diverso e lontano
dalle diverse grandi correnti di una cultura e di una vita
che ormai procedeva e non poteva non procedere per altre
vie, che non fossero quelle del passato. Così il mito della
provincia costituisce in un certo modo il superamento della
provincia. E questa è la ragione per cui un Verga – come il
Pitrè – non può non concepirsi se non in una cultura che
non è siciliana, bensì italiana ed europea.

2. Le opere maggiori del Pitrè: la Biblioteca, l’«Archivio»,


le Curiosità

La Biblioteca delle tradizioni popolari – atto di nostalgia


e di fede – comprende venticinque volumi e fu pubblicata
dal 1871 al 1913. Mezzo secolo di lavoro. Pitrè non era un
letterato, anche s’egli, giovane, amò scrivere una serie di
Profili biografici dedicati a illustri personalità del tempo.
Non era un filologo, uscito da una severa disciplina
accademica. Era un medico. Come Zola. Eppure questo
medico, il quale aveva iniziato la sua professione nei
quartieri popolari di Palermo mentre infuriava il colera,
seppe essere insieme letterato e filologo, tanto è vero, ad
esempio, che Giovanni Verga non esitava a esaltare le sue
pagine che rievocavano la vita popolare siciliana, mentre
Ernesto Monaci lo poneva accanto ai maggiori filologi
italiani del tempo.
Nella sua Biblioteca, il Pitrè è fedelissimo nella raccolta
dei materiali. Oculata la sua classificazione. Ampio il suo
campo di indagine. La Biblioteca, cui spetta il merito di
aver salvato uno fra i più ricchi patrimoni tradizionali che
un popolo possa possedere, è però qualcosa di più di una
raccolta: è il punto di incontro dove sono convogliate le
esperienze e le conquiste che si erano fatte nel campo del
folklore europeo. Pitrè, iniziando le sue raccolte, vuol
conoscere anzitutto quanto si era fatto o si veniva facendo
in Europa su ogni argomento oggetto della sua stessa
raccolta. Le sue prefazioni non si limitano comunque a
tracciare lo stato attuale degli studi. Egli interviene nella
discussione dei vari problemi che essi suscitano. E le sue
prefazioni, riunite insieme, costituiscono un vero e proprio
trattato in cui i molteplici problemi folkloristici sono passati
al vaglio del suo giudizio e direi anche del suo buon senso.
Ad affiancare l’opera della Biblioteca, il Pitrè, nel 1882,
si accinse a dirigere, insieme a Salvatore Salomone-Marino,
l’«Archivio per lo studio delle tradizioni popolari». Dice, fra
l’altro, il programma:

«I recenti progressi della Mitologia comparata e della Demopsicologia, e


l’interesse ogni dì crescente per le tradizioni popolari, fanno ormai sentire il
bisogno di una Rivista, nella quale gli studiosi delle varie Nazioni si raccolgano
ed abbiano un mezzo di comunicarsi e diffondere i loro studi e le loro raccolte.
Modesto nei suoi intendimenti, l’«Archivio» si propone di illustrare e mettere in
evidenza le svariate forme della letteratura popolare e le molteplici
manifestazioni della vita fisica e morale de’ popoli in genere e dell’Italia in
ispecie… Una rivista ed un bullettino bibliografico renderanno conto delle
nuove pubblicazioni sull’argomento; e nulla sarà trascurato perché i lettori
abbiano piena informazione del movimento contemporaneo degli studi delle
tradizioni del popolo».

Ma l’«Archivio», a dire il vero, fu tutt’altro che modesto


nella sua realizzazione, ove si pensi che esso, mettendo in
contatto gli studiosi per l’approfondimento di un comune
lavoro, costituì un’attiva palestra dove furono dibattuti tutti
i problemi del folklore. Si aggiunga che i bollettini
bibliografici del Pitrè, se da un lato venivano completando
le prefazioni della sua Biblioteca, dall’altro costituivano una
vera e propria introduzione alla storia del folklore europeo,
criticamente vagliata.
Nel 1885 il Pitrè, ansioso di dare il massimo sviluppo ai
suoi studi, fonda inoltre, con la collaborazione di un altro
folklorista siciliano, Gaetano Di Giovanni, la collezione delle
Curiosità popolari tradizionali, che comprende sedici
volumi, ciascuno dei quali reca un notevole contributo allo
studio delle tradizioni popolari. E la Biblioteca,
l’«Archivio», le Curiosità, prescindendo dalle sue molte
altre opere (ad esempio: le Novelle popolari toscane e
l’esemplare Bibliografia delle tradizioni popolari italiane),
sono come le colonne di un tempio da cui il Pitrè profuse,
con la voce del popolo, il suo insegnamento inteso a darci
una chiara visione intorno alla natura del folklore.

3. Il folklore come storia nel concetto del Pitrè

Punto di partenza di tale insegnamento: la Sicilia e il suo


folklore, ma soprattutto il concetto che lo stesso Pitrè ebbe
della storia. Ancor giovane, fin dal 1864, quando aveva
scritto i Profili biografici contemporanei, il Pitrè aveva
infatti osservato:

«La storia non dovrebbe essere un elenco di uomini, dove si registrano le date
delle loro strepitose azioni, ma la rivelazione delle idee, delle passioni, dei
costumi e degli interessi civili, insomma della vita di un popolo, di una
nazione».
E qualche anno dopo, nel suo Studio critico sui canti
popolari siciliani, aggiungeva:

«La storia del popolo si è confusa con quella dei dominatori…; della sua storia è
voluta farsene una cosa stessa con la storia dei suoi governi, senza tener
presente che egli ha memorie ben diverse di quelle che così spesso gli si
attribuiscono si dal lato delle sue istituzioni e sì da quello degli sforzi
prepotenti da lui durati a sostegno dei suoi diritti. Il tempo di ricercare quelle
memorie, di studiarle con pazienza, di fecondarle con amore è venuto anche
per noi. Il filosofo, il legislatore, lo storico, che cercano di conoscere intero
questo popolo, sentono oggimai il bisogno di consultarlo nei suoi canti, nei suoi
proverbi, nelle sue fiabe, non meno che nelle frasi, nei motti, nelle parole.
Accanto alla parola sta sempre il suo significato, dietro il senso letterale viene
il senso misto e l’allegorico: sotto la strana e diversa veste della fiaba si troverà
adombrata la storia e la religione dei popoli e delle nazioni».

È evidente che qui il Pitrè si riattacca al concetto che


della storia aveva divulgato il Voltaire e che già nel campo
specifico del folklore era passato sui banchi di prova del
Bodmer, del Möser, dello Herder, e soprattutto dei Grimm.
Ciascun volume della Biblioteca vive appunto alla luce di
tale concetto che ne rischiara il programma. Esaurito il
quale, il Pitrè non esita a rivendicare a sé il merito di
storico che si era appunto imposto, tanto è vero che
nell’ultimo volume della Biblioteca, vale a dire ne La
famiglia, la casa e la vita del popolo siciliano, egli esclama
commosso:

«Un paese che fino ad ieri visse in sé e per sé, sotto dominazioni straniere, a
contatto solo di non sempre gradita gente, ciascuna delle quali lasciò tracce
vivissime del suo passaggio e delle sue fermate; un paese, dove civiltà si
sovrapposero a civiltà (se pure furono tutte degne di questo nome) e dove si
formarono come tanti strati di tradizioni, storia parlata e non mai scritta,
questo paese offre materia non ordinaria d’indagine e di critica. Chi avrà
vaghezza di seguire, uno per uno, gli argomenti qui trattati, potrà darsi ragione
di certe forme che resterebbero, altrimenti, mute e isolate. Sono, a chi ben
guardi, tanti anelli di una catena di costumi, di pratiche, di credenze, onde
spirito e materia si esplicano insieme».

Nel compilare la sua Biblioteca il Pitrè aveva avuto


dunque uno scopo: cercare la storia della Sicilia dove
nessuno l’aveva ancora cercata. Bisognava salvare anche in
Sicilia – ecco l’essenza stessa della sua Rettungsgedanke –
tutto un patrimonio che andava scomparendo, il patrimonio
del popolo. E ciò, in un momento in cui la Sicilia entrava in
una compagine più vasta, l’Italia, serviva a dimostrare
l’individualità storica della Sicilia stessa. Né v’è dubbio,
sotto questo aspetto, che della Sicilia il Pitrè fu
l’appassionato filologo, ma soprattutto lo storico, il geniale
illustratore di tutto un mondo, nel quale si riflettono gli
echi delle pili antiche civiltà.
Può sembrare strano, tuttavia, che egli, quasi alla fine
della sua carriera, abbia finito col battezzare la sua
disciplina con un termine che abbiamo già incontrato nel
programma dell’«Archivio»: quello di demopsicologia. Ma
la demopsicologia, come la concepì il Pitrè, fu in effetti
qualcosa di diverso da ciò che noi chiamiamo o possiamo
chiamare storia delle tradizioni popolari?
4. La poesia popolare come problema

Chiarita, d’altro lato, la natura storica del folklore


siciliano – il che era e voleva essere anche una presa di
posizione per intendere la materia stessa del folklore
dovunque esso viva –, il Pitrè man mano che procedeva nel
suo lavoro, si assunse il compito di chiarire a se stesso la
capacità creativa di quegli individui che formano il popolo e
che sono, insomma, i veri creatori del folklore. Ed è qui che
le sue ricerche, se pur si muovono apparentemente su gli
stessi binari di un Nigra, di un D’Ancona o di un
Comparetti, riescono tuttavia a illuminare più vivamente
molti problemi inerenti alla letteratura popolare.
Così, per quanto riguarda la nascita e la diffusione del
canto popolare, egli precisa:

«L’avviso più comune è che i canti popolari traggono nascimento da questo o


quel poeta rustico, che nei paesi e nei villaggi mancano di rado: ma né il loro
nome, né il quando, il dove, né il perché del canto ci si conserva. Questa
oscurità che pare un difetto è la vera ragione per cui il canto diviene popolare.
Se il popolo conoscesse l’autore di una canzone, forse non l’imparerebbe,
peggio se sa di persona dotta. Il quando e il dove nasca un canto se non si
deduce da qualche suo accenno non può indovinarsi. Il canto di un solo diventa
il canto di tutti, perché nascendo trovasi nelle condizioni più favorevoli a lunga
esistenza; vi rimane perché risponde agli affetti naturali, ai costumi, alle
tradizioni del popolo. Un bel giorno in mezzo ad una piazza, o nel fondo oscuro
di un chiasso, o all’aperto dei campi, si alza una bella canzone non mai fino
allora udita. Chi l’ha fatta? Chi l’ha potuta fare? Nessuno lo sa, nessuno cerca
di saperlo; l’autore rinunzia volentieri alla compiacenza di essere conosciuto
come poeta; il popolo che ne rispetta la modestia, ne premia il merito col
ritenere per sé, col tramandare ad altri simili canti» (Studio sui canti popolari,
113).

Né impostato in tal modo il problema, il Pitrè si


preoccupa di vedere qual è la cosiddetta origine della
poesia popolare come essa veniva concepita da un
D’Ancona. La teoria del D’Ancona sull’origine della poesia
popolare italiana gli sembra prematura. Egli non nega che
effettivamente le comunicazioni, le guerre, i pellegrinaggi e
le feste abbiano potuto determinare la diffusione di un
notevole numero di canti. Opera utilissima, perciò, egli
afferma, quella di chiarire se un canto sia venuto in Sicilia
dalla Toscana o se abbia fatto il cammino inverso, ma ancor
più utile vedere se questo canto risponda al sentire dei
siciliani o dei toscani. I canti popolari, commenta
poeticamente il Pitrè, «trapiantati fuor del suolo natale
sono degli ospiti che s’invitano al focolare della famiglia
dopo di averli vestiti d’altre vestimenta».
Allo stesso modo, e per le stesse ragioni, egli crede assai
poco all’origine letteraria dei canti popolari. Per lui, come
dice nei suoi Studi di poesia popolare:

«Canto popolare… è quello che, nato in mezzo al popolo, porta il marchio


dell’assoluta ignoranza dell’autore, quello che nella sua forma non ha concetto,
non verso, non frase, non parola che esca dalla mente, dalla metrica e dal
vocabolario della bassa e indotta gente, quello che corre infine anonimo e
tradizionale».
E nello stesso volume, dopo avere compiuto un rapido
raffronto fra la poesia di Antonio Veneziano e alcuni
strambotti siciliani, aggiunge:

«Secondo ci è dato raccogliere da ottocento e più ottave siciliane stampate, la


poesia amorosa del Veneziano si lascia a bella prima notare per la grandezza di
stile, acutezza di concetto, dolce espressione di affetti, nobiltà e novità di
immagini. Di profondi pensieri filosofici non ha difetto, e con rara felicità d’arte
li associa alle vaghe e gentili grazie della immaginativa… Parrai poi di dir tutto
intorno alla forma estrinseca di lui, dicendo che essa è della elevatezza voluta
dal concetto, non avendo parole per quanto siciliane, che possano appuntarsi di
comunale o di plebeo…»

È un mistero, egli perciò si domanda, come tale poesia


possa essere ritenuta fonte degli strambotti popolari
siciliani. Nel suo Studio critico sui canti popolari ecco
invece come gli era apparsa l’autentica poesia popolare:

«Parto di vergine fantasia, cui le scuole non degnano d’uno sguardo, ma che le
scuole non sanno fare, essi [i canti popolari] racchiudono tanto tesoro di affetti,
tanta copia di pensieri e di immagini che a saperli parcamente imitare ogni
studioso, dal men facile verseggiatore al più ispirato poeta, ne ritrarrebbe
bellezze inestimabili… Schietto linguaggio nell’amore, nella gelosia, nel
dispetto, nella gioia tra le pareti domestiche, sotto estraneo tetto, in mezzo a’
ceppi dell’ergastolo, e in qualunque stadio di fortuna o stato dell’animo o
condizione della vita: il canto è la più vera, la più sentita espressione dell’indole
del popolo…»

E in queste sue parole si risente certo l’eco di teorie


preroman-tiche e romantiche. C’è tuttavia nel Pitrè (come,
del resto, c’è nel D’Ancona, nel Rubieri e nel Comparetti) il
tentativo di definire, con un criterio che diremmo
psicologico, la differenza, da lui ritenuta essenziale, fra le
due forme di poesia. E ciò perché, a suo avviso, la poesia
popolare, quali che siano le sue origini, costituisce una
forma di letteratura in cui tutto acquista e ha un carattere
particolare.

5. Portatori e creatori del folklore

In tal modo il Pitrè sentiva il problema della poesia


popolare come un problema essenzialmente estetico. Né
diverso è per lui il problema della novellistica, in merito
alla quale anzi si pone in netto contrasto tanto col
D’Ancona quanto col Comparetti. In una lettera, inviata a
Ernesto Monaci nel dicembre del 1873, par quasi che egli
voglia rispondere in particolar modo a quei suoi illustri
compagni di lavoro. E le sue affermazioni non lasciano
dubbi:

«Ora mi trovo altri e non meno preziosi materiali di novelle siciliane… Che
bellezza, amico mio! Bisogna capire e sentire il dialetto siciliano per capire e
sentire le squisitezze delle fiabe che son riuscito a cogliere di bocca a una tra le
varie mie narratrici. Questa è Agatuzza, una di quei tipi che si incontrano di
rado: io mi sento annichililo di fronte a lei. – Il suo fraseggio è il fraseggio
siciliano modello, e la sua parola così ricca e propria, che non v’è arte o
mestiere o condizione di vita cui essa non sappia trattare o ritrarre con voce
adatta. Tutto questo poi mi fa ammirarla, ma mi pone in grande imbarazzo
incontrandomi a ogni pie sospinto in vocaboli e frasi nuove affatto a’ voca-
bolari nostri…»
E nella prefazione delle Fiabe, novelle e racconti popolari
siciliani aggiunge, sempre in merito alla Messia (Agatuzza):

«Della mimica nelle narrazioni… è da tener molto conto, e si può esser certi,
che a farne senza, la narrazione perde metà della sua forza ed efficacia.
Fortuna che il linguaggio resta qual è, pieno di inspirazione naturale, a
immagini tutte prese agli agenti esterni, per le quali diventano concrete le cose
astratte, corporee le soprasensibili, vive e parlanti quelle che non ebbero mai
vita o l’ebbero solo una volta».

L’apporto vivo ed efficace delle donne nella


rielaborazione novellistica veniva riconosciuto allora anche
da un infaticabile studioso del folklore francese, Paul
Sébillot, il quale, nel 1892, in un suo saggio pubblicato
nella «Revue des traditions populaires», che egli dirigeva,
affermava:

«La letteratura orale ha, passando sulle bocche delle donne, un fascino e una
ingenuità, a volte una forma felice, che gli uomini raggiungono più raramente.
Quasi tutti i grandi raccoglitori di racconti constatano che le migliori e le più
helle versioni sono state trasmesse loro da donne: i fratelli Grimm, F. Luzel
riconoscono che i racconti più completi e più felici sono dovuti a delle popolane
e che la sicurezza della loro memoria, come la forma della loro narrazione, è
superiore a quella degli uomini. Una lunga esperienza fatta con le narratoci
dell’alta Bretagna conferma quanto sopra».

La differenza fra i Grimm e il Pitrè consiste nel fatto che


il Pitrè non si limitava al riconoscimento di quell’apporto,
ma seguendo il sistema già inaugurato in Russia dallo
Hilferding, trascriveva e quindi pubblicava il testo con la
massima esattezza. Nel caso specifico, il testo dialettale.
Sembrava, del resto, al Pitrè che, traducendo, come voleva
il Comparetti, i testi dialettali delle novelle, si annullava o
comunque si trasformava la personalità stessa dei
narratori. Egli intuì con chiarezza che una novella, se è
popolare, lo è anzitutto perché, pur svolgendosi in una
cornice tradizionale, in mezzo a luoghi comuni, rivela la
personalità (popolare) del narratore, il quale trasforma le
sue stesse fonti.

6. Sull’origine delle fiabe e degli indovinelli

Anche l’esame di queste fonti è affrontato, inoltre, dal


Pitrè con la massima serenità di giudizio. Nel Discorso che
precede la raccolta delle Fiabe egli osserva:

«Le nostre fiabe sono documenti della parentela tra le razze indo-europee e tra’
diversi rampolli di codeste razze, documento che tanti secoli, tanti popoli e
tante generazioni non hanno finora distrutto od attenuato, ma che anzi il
volgere dei tempi ha reso più solido e più duraturo. Fatto memorabile codesto
nella storia dell’Umanità, che mentre popoli e nazioni intere sono quasi
scomparsi… e le fredde ali del tempo hanno perduta persino la memoria delle
gesta più clamorose, queste novelline infantili vivono a testimoniare
un’antichità fuori d’ogni calcolo remota».

Così ecco, anche davanti a lui, da una parte il Müller e


dall’altra il Benfey. È vero, egli però subito aggiunge, che in
molte fiabe noi troviamo avanzi di miti primitivi, ma questo
non significa che in ogni racconto del popolo vi debba
essere la continuazione di un mito, ove si pensi che «il voler
riconoscere dappertutto ciò che coscienziose indagini
potrebbero provare solo per un numero di fiabe è un errore
fatale agli studi, i quali vogliono procedere senza
preoccupazioni e senza preconcetti».
Il Pitrè non è alieno dal credere che un certo numero di
fiabe possa avere avuto un’origine orientale. In questo caso
bisogna riconoscere che tanto i maomettani quanto i
buddisti propagarono le novelle indiane nell’Africa,
nell’Asia e nell’Europa: che la fonte di questa
«propaganda» è dovuta non solo ai libri, ma anche alla
tradizione orale; e che le novelle, apparse nella letteratura
europea, passarono nel popolo e, da questo trasformate, di
nuovo nella letteratura, e quindi nel popolo, e così via,
come una fiumana che nessun argine potrà mai fermare nel
loro corso violento e tempestoso. La Sicilia, per la sua
stessa posizione geografica, doveva aver accolto
indubbiamente racconti e leggende della Persia, della
Grecia, e dell’Arabia per trasmetterli anche al continente
europeo; ma ciò – bisogna chiedersi – esclude che in Sicilia,
come altrove, questi racconti e queste leggende non
abbiano ricevuto qualcosa dalla fantasia dei narratori? E
questo qualcosa – ecco il concetto della rielaborazione
popolare affacciarsi continuamente alla mente del Pitrè –
non è in fondo il loro stesso farsi, che è quanto dire la loro
effettiva concretezza storica?
Identico il problema per quanto riguarda i proverbi.
Nell’introduzione al primo volume dedicato ai Proverbi
siciliani il Pitrè osserva anzitutto che i caratteri esterni di
tali componimenti sono: la brevità, la popolarità, il metro,
la rima, l’allitterazione. Nessuna indagine già compiuta è
da lui trascurata per stabilire quei caratteri che si ritrovano
nelle civiltà classiche e nelle odierne popolazioni civili. Ma
la sua indagine assume un carattere nuovo e originale
quando egli esamina il metro e la rima dei proverbi:
indagine che lo conduce alle forme stesse del proverbio
rese valide esteticamente.
Dopo aver passato in rassegna la rima con la quale il
proverbio si riveste, il Pitrè osserva: «L’inclinazione verso la
rima finisce talora in una semplice assonanza, come nei
proverbi portoghesi e spagnuoli». Così, ad esempio, egli
ammette, per quanto il suo linguaggio sia tutt’altro che
preciso, «che l’espressione poetica, caratteristica per le sue
ellissi, per il suo laconismo, è forma relativamente artistica,
che lo spirito popolare, in certe occasioni naturalmente
innalzato, trovò e sostituì all’espressione ordinaria».
Nell’intuire queste forme, sempre più chiara appare al
Pitrè l’origine delle produzioni popolari; sicché egli osserva
a proposito dei proverbi, che «la locuzione primitiva» la
quale «condusse al proverbio» fu individuale, e «non già di
quell’ente collettivo che si chiama popolo, il quale di sua
natura non è inventore». Ricordando un proverbio greco:
La parola esce da un sol labbro e arriva a mille, conclude:
«Solo qualche individuo meglio dotato degli altri è
creatore, inventore, iniziatore»; ma «il nome di questi
autori di proverbi si è perduto, perché del fattore d’un
proverbio il popolo non tiene il conto che gli eruditi
tengono del fattore di una sentenza».
Gli stessi concetti troviamo espressi o meglio ribaditi nel
suo volume sugli Indovinelli dubbi, scioglilingua del popolo
siciliano. «L’origine di certi enigmi», egli scrive in questo
volume, «è un enigma esso stesso che non ha, ma forse
potrà avere, il suo Edipo; giacché le vie per le quali essi
poterono, per popoli e per razze diverse, per meati occulti e
ignoti, diffondersi, sono ancora di là da indagarsi, se pur
indagate si riuscirà a rintracciarle». Senonché,
augurandosi questo nuovo lavoro, ammoniva: «Qui non si
tratta già di pura e semplice curiosità scientifica, e molto
meno di un passatempo da gente sfaccendata: si tratta di
monumenti di archeologia – mi si passi la parola – del
pensiero del popolo; i quali sono anche documenti di
letteratura e di storia sociale contemporanea, perché
tradizione viva e palpitante».
Era la prima volta, in Italia, che i proverbi e gli
indovinelli venivano considerati come qualcosa di più che
semplici documenti linguistici. Essi sono, si, documenti di
letteratura; ma non dimentichiamo, aggiunge subito il
Pitrè, che sono anche documenti di storia sociale. Come i
canti, così le favole. E in tal modo la letteratura popolare
diventava parte integrante della stessa etnica tradizionale.

7. Unità del folklore

Nello studiare i prodotti della letteratura popolare, il


Pitrè senti subito che questo studio non poteva essere fine
a se stesso. L’opera che in quel campo avevano svolto un
Nigra, un Rubieri, un D’Ancona, così ricca di insegnamenti
e di conquiste, aveva un limite: cioè rimaneva circoscritta
dentro i confini di quella letteratura popolare che allora, in
un modo o in un altro, era indagata in funzione della
mitologia, della letteratura comparata e della filologia. È
vero che un Nigra e un Rubieri avevano dato al folklore
letterario un ampio respiro che già ne rivendicava
l’autonomia. Ed è vero altresì che anche il D’Ancona e il
Comparetti riconobbero, senza dubbi e incertezze, gli
ineliminabili valori che il folklore dichiara. In effetti però
essi, seguendo la stessa via percorsa da un Diez, da un
Paris, da un Rajna, si erano allontanati nel campo del
folklore da quella tradizione di studi che aveva già trovato i
suoi massimi esponenti nei fratelli Grimm. Per costoro il
folklore s’era posto si come un problema di filologia che si
risolveva nella letteratura e nella storia del proprio paese,
ma aveva anche rappresentato un fenomeno unitario, in cui
letteratura popolare ed etnica tradizionale si integravano a
vicenda per chiarirci molti aspetti di quella letteratura e
per darci un quadro completo di quella storia.
È a questa tradizione, invece, che in Italia si riattacca il
Pitrè, il cui merito non sta soltanto nell’avere rivendicato la
natura storica e poetica dei componimenti popolari, ma
nell’aver compreso che canti, novelle, proverbi, indovinelli
rimangono organismi senza vita, pezzi filologici, rami
stroncati dall’albero, se non vengono inseriti nel costume
che tutti li armonizza e li vivifica. Lo stesso Pitrè nel suo
Studio critico sui canti popolari aveva detto esplicitamente:

«Io parto dal principio che ogni genere di poesia popolare debba andar preso
qual rivelazione del sentire speciale dell’individuo del popolo da una parte, e
dall’altra dell’incivilimento dell’individuo e del popolo che la rivela. I canti
popolari, disse Herder, sono gli archivi del popolo, il tesoro della sua scienza,
della sua religione, della teogonia e cosmogonia sua, della vita dei suoi padri,
dei fasti della sua storia; l’espressione del suo cuore, l’immagine del suo
interno, nella gioia e nel pianto, presso il letto della sposa e accanto il sepolcro.
Laonde non è a maravigliare se Diodoro Siculo e Plutarco versi di poeti rapsodi
avessero citato a testimonio di costumi-e di consuetudini antiche; e se Paolo
Diacono delle tradizioni dei suoi conterranei avesse fatto suo prò per la storia
primitiva dei Longobardi; né da biasimar poi coloro che nel dettar quindi
innanzi la storia, ogni fatto, ogni avvenimento cercano illustrare colla storia
della vita del popolo, colle leggi, colle usanze, coi dialetti, coi proverbi della
nazione».

E nella seconda edizione (1891) dei Canti popolari


precisava ancor meglio:

«Nei canti…, osservandoli attentamente, vi si trovano ascosi tesori inestimabili.


Il canto è altra sorgente di tradizioni rivelando, nello stretto significato del
vocabolo, costumi ed usanze particolari».

E questo fu sempre il suo specifico metodo di lavoro: non


considerare mai la letteratura popolare in se stessa. Egli,
del resto, e ciò lo testimonia la sua Biblioteca, comprese
che per narrare la storia e la civiltà del popolo siciliano era
necessario studiare non solo le produzioni poetico-
letterarie, ma abbracciare la vita tutta di esso. Il popolo
insieme coi suoi canti, ha i suoi costumi, insieme con le sue
novelle le sue feste, insieme coi suoi proverbi le sue
credenze: anelli che reciprocamente si legano, foglie di un
albero che affonda le sue radici nel passato e dal passato
trae la linfa del suo avvenire.
La «storia parlata e non mai scritta» della sua Isola
sarebbe rimasta però «monca», così egli stesso scrive
nell’avvertenza che precede il volume Spettacoli e feste
popolari siciliane, «se non corroborata e arricchita dalla
tradizione siciliana quale corse e fu raccolta ne’ secoli
passati si possa comprovarne la continuità per riportarla
alla sua origine e ai tempi lontani». In questo volume il
Pitrè ci fa conoscere che le fonti alle quali egli ha attinto
per le sacre rappresentazioni sono la tradizione, i libri e i
manoscritti, mentre per le feste s’è servito, ancora una
volta, delle tradizioni orali «in tutta l’accezione del
vocabolo: leggende, fole, canti, proverbi, usi, credenze,
superstizioni; elementi tutti, per chi li consideri, della vita
popolare e manifestazioni di essa».
Anche nello studio di tutti questi documenti il Pitrè è
attento e scrupoloso. Testi orali, ricerche di archivio:
padronanza assoluta del metodo storico-filologico. Ma si
esaurisce in ciò tutto il suo lavoro? In realtà il metodo
storico-filologico in ogni ricerca del Pitrè fu un mezzo e non
un fine, tanto è vero, ad esempio, che mentre negli studi
stessi del D’Ancona sul teatro si stabiliscono schemi spesso
a carattere evoluzionistico, il Pitrè non si preoccupa affatto
di tali schemi. A lui la rappresentazione sacra, oltre che
come documento poetico o comunque letterario, interessa
come azione spettacolare, che è quanto dire come
tradizione oggettiva. Questa è la ragione per cui egli fa
della sacra rappresentazione un preludio delle feste e degli
spettacoli, attraverso i quali cerca di penetrare nell’anima
del suo popolo, di chiarirla e di approfondirla in tutti i suoi
aspetti.
Il Pitrè vide chiaramente l’unità delle tradizioni popolari.
Nel primo volume degli Usi e costumi, credenze e
pregiudizi del popolo siciliano, afferma:

«Una distinzione di usi e costumi, di credenze e pregiudizi non è facile quando


si voglia illustrarsi, come io mi son proposto, la vita fisica e morale del popolo.
L’uso molte volte si confonde e si perde nella credenza, e la superstizione
spesso è il risultato ultimo di una costumanza. Provatevi a descrivere gli usi
nuziali, i natalizi, i funebri, e vi troverete di fronte ubbie che non potrete da
quelli staccare senza crederle monche e sfigurate».

Così lo studio delle tradizioni popolari si spogliava dei


caratteri particolari o comunque particolaristici dentro i
quali era stato contenuto. Ciascuna produzione popolare
fino allora era stata studiata, in fondo, per conto suo. Il
Pitrè ne rileva l’errore. Ed è con lui, pertanto, che in Italia
lo studio delle tradizioni popolari, di tutte le tradizioni
popolari, raggiunge una sistemazione totale e organica.

8. Pitrè e il metodo comparativo

In questo studio, a cui è di base una metodologia


storicistica che rivendica la personalità dei portatori del
folklore, il Pitrè non ci nasconde il grande valore che
assume la comparazione. Nelle sue pagine corre insistente
una premessa: che le tradizioni siciliane sono l’eco di
antiche civiltà, monumenti archeologici del pensiero,
reliquie del passato. Ma quando da queste affermazioni egli
passa alla effettiva comparazione in modo da vedere fino a
qual punto le tradizioni popolari sono reliquie, qual è il suo
atteggiamento?
Nell’affrontare l’indagine della letteratura popolare
siciliana, in special modo della novellistica, dei proverbi e
degli indovinelli il Pitrè mette spesso in rilievo, sia pure con
molta prudenza, quale valore ebbero nel mondo antico le
tradizioni popolari, istituendo così un cauto parallelismo tra
la vita popolare antica e quella contemporanea. Il mondo
pagano gli si rivela soprattutto quand’egli affronta le
tradizioni oggettive. Senonché le comparazioni istituite dal
Pitrè sono veramente efficaci? Oppure esse rimangono allo
stato di abbozzo come lo sono, peraltro, nei volumi delle
Fiabe, dei Proverbi e degli Indovinelli?
In una sua lettera del luglio 1876 un illustre mitologo,
l’Usener, aveva scritto al Pitrè:

«Non saprei come abbastanza caldamente raccomandarle, data la particolare


condizione nella quale ella è incontrastato padrone di raccogliere tutto da ogni
campo e di trarre lutto nel cerchio della sua osservazione, anche quelle cose
che lei facilmente potrebbe mettere da parte perché navigano alla superficie
del popolino come, per esempio, le diverse manifestazioni di superstizioni e le
locali forme del culto religioso. A tal riguardo si può comprendere che in quasi
tutte le località si sono conservati notevoli istruttivi riti di paganesimo».
Ed ecco che il Pitrè, il quale tutto aveva raccolto e veniva
raccogliendo, riprende quel discorso sugli Spettacoli e
feste:

«Fu detto e ripetuto che la maggior parte delle credenze e degli usi popolari di
oggi sono né più né meno credenze e usi antichissimi venuti a noi con le
teogonie di Grecia e di Roma… Vuoisi che la festa della Circoncisione coincida
con quella latina delle Ciurmali in onore di Giano, con cui si apriva il mese di
gennaio; che la Candelora ricordi i Lupercali, cerimonia romana de’ primi di
febbraio, di cui una parte di usi romani passò addirittura in quelli del
Carnevale, benché siavi chi la ritenga una continuazione della festa di
Proserpina… Noi meniamo in giro la vecchia strega, la vecchia Befana, la
Carcavecchia, la vecchia di Natale, e la inseguiamo, e i romani nella vigilia
degli Idi menavano per Roma cacciandolo per fuori le mura Mamurio Veturio, il
vecchio inverno, sotto forma di un uomo coperto di pelli».

Le stesse considerazioni egli farà qualche anno più tardi


nel volume sui Giuochi fanciulleschi siciliani, «Non è da
meravigliare», egli infatti osserva, «che molti giuochi
tradizionali dei nostri bimbi siano avanzi di riti, di
cerimonie e usanze antichissime perdute o scomparse dalla
memoria dei volghi, ma che in generale si rapportano ai tre
fatti più grandi della vita: la nascita, il matrimonio e la
morte». Eppure «non è sempre agevole, anzi è talvolta
estremamente difficile, il saper leggere dentro a codesti
fatti e l’indovinare il senso recondito per riportarli al loro
significato primitivo», poiché «vi si oppongono le
modificazioni incontrate dalla tradizione passando da
popolo a popolo e le mistificazioni che le parole consacrate
nel giuoco hanno dovuto subire dopo tanti secoli».
Nel volume e nella prefazione con la quale si apre il libro
sulla Medicina popolare siciliana, aggiunge: «La medicina
popolare è un complesso di fatti curiosi e diversi, che nel
loro tutto appariscono come un’aberrazione dello spirito
umano, e nei particolari sono reliquie di civiltà e di popoli
scomparsi. Tutto è rappresentato in essa, dalle sacre e
misteriose pratiche di sacerdoti antichissimi a quelle empie
delle maliarde d’oggi, dalla medicina teurgica dei Persiani,
degli Assiri, degli Egiziani a quella iatro-fisica dell’ultimo
cinquantennio del secolo scorso». E conclude: «Avanzi di
riti scomparsi, di cerimonie dimenticate, di pratiche
smesse. E quello che di esse ti colpisce è la sopravvivenza
simultanea di usi disparati, i quali per noi equivalgono a
strati geologici rivelatori delle varie epoche».
Il Pitrè, onde chiarire meglio il carattere di questi avanzi,
non manca inoltre di estendere il suo sguardo anche a quei
popoli primitivi, cui invece poca o nessuna importanza
avevano dato i suoi predecessori italiani. E qui egli però
non va al di là di un Lescarbot, di un Lafitau, di un Voltaire.
Così, ad esempio, si rifà a un etnologo inglese, il Lubbok,
autore di una superficiale Origin of Civili-zation, secondo il
quale «il selvaggio è paragonabile al fanciullo». Per il
Lubbok «la condizione primitiva dell’individuo indica quella
della razza, e la miglior prova dell’affinità di una specie
sono gli stadi per cui essa è passata; onde la vita di ciascun
individuo è un capitolo della storia della razza e il graduato
sviluppo di un fanciullo illustra quello della specie». Ma
questa teoria, precisa il Pitrè, non è da accettare senza
grandi riserve e con le debite osservazioni di Max Müller
circa la somiglianza dei selvaggi coi fanciulli.
E ai selvaggi, o meglio ai primitivi, egli ritorna spesso nei
suoi confronti. È chiaro, però, che quei confronti, se pur
non l’impegnano, gli indicano che una nuova via si apre agli
studi del folklore. Nell’ultimo volume della Biblioteca
afferma anzi che, per mettere in luce le analogie che
offrono le varie manifestazioni del folklore, si deve tener
conto non solo dell’antichità classica, ma anche «dei
selvaggi moderni, nei quali il passato è rimasto
cristallizzato», sebbene «nessuno inferirà che nei popoli
primitivi siano da ricercarsi le origini e la provenienza di
certe credenze e superstizioni siciliane».
Lo studio di queste analogie, comunque e dovunque
fatte, non chiudono però il Pitrè dentro le maglie di un
passato fine a se stesso, «Il passato non è morto. Il passato
vive in noi e con noi». E a lui interessa soprattutto mettere
in luce questo: che quel passato è, sotto molti aspetti, la
stessa storia contemporanea della Sicilia. Il Pitrè è
dell’avviso, insomma, che le tradizioni popolari sono il
frutto del passato, ma vivono perché il presente,
rinnovandole, le ha fatte proprie. Egli è convinto, inoltre,
che l’etnologia deve ormai incontrarsi col folklore per dare
al folklore stesso un più saldo fondamento storico. Con vivo
interesse aveva seguito nelle prefazioni della sua Biblioteca
e nei bollettini dell’«Archivio», l’opera che, in tal senso,
avevano svolto e venivano svolgendo il Tylor, il Frazer, il
Lang, l’Hartland, i Gomme. E ora, pur pago della sua parte,
indicava ai suoi successori quel nuovo metodo di lavoro, dal
quale gli studi del folklore potevano trarre nuovo vigore e
nuovo impulso.
Parte quinta
La scuola antropologica inglese e il suo influsso
negli studi delle tradizioni popolari
21. Tylor e la Primitive Culture

1. L’antropologia come «discorso nell’uomo»

Nel 1871, quando cioè le teorie del Müller e del Benfey si


contendevano il campo nello studio del folklore, uscì in
Inghilterra un libro rimasto fondamentale anche in tale
campo di studi: la Primitive Culture. È in questo libro che il
suo autore, Edward B. Tylor, ripropone i rapporti fra
etnologia e folklore in base ai quali egli da, potremmo dire,
una nuova sistemazione scientifica a tali discipline.
Non v’è dubbio che, nel legare il folklore all’etnologia, il
Tylor si riattacca a quella tradizione che aveva trovato nel
mito del buon selvaggio un’idea-forza. Nella sua opera
ritornano, infatti, le istanze che già si erano affacciate, sia
pure in maniera diversa, nel Montaigne, nel Lescarbot, nel
barone de La Hontan, nel Fontenelle, nel Vico, nel
Rousseau, nel Goguet, nel Brosses, nel Boulanger. Con
questa differenza: che nel Tylor il comparativismo fra i
popoli primitivi e i volghi dei popoli civili sarà sorretto da
una più robusta e scaltrita indagine filologica, la quale
esclude peraltro quella polemica politico-sociale cui aveva
dato luogo lo stesso mito del buon selvaggio.
Eravamo in un’epoca in cui tanto gli studi etnologici
quanto quelli folkloristici andavano sotto il nome generico
di una disciplina, l’antropologia, che pretendeva di
affrontare lo «studio comprensivo di tutto l’uomo» e che in
realtà affondava le sue radici in un terreno naturalistico. Lo
stesso termine di antropologia, adoperato per la prima
volta da Aristotele nel senso letterale di discorso dell’uomo,
serviva allora a indicare la storia naturale dell’uomo: che
era quanto dire una storia dove continuava a inverarsi
quella dannosa confusione fra nazione, razza e gruppo
linguistico in cui erano caduti il Gobineau e, in un primo
momento, anche il Müller.
È vero che il Tylor già fin dalle sue Researches into the
Early History of Mankind, che sono del 1865, era arrivato a
questa conclusione: e che cioè era necessario studiare
l’homo sapiens non dal punto di vista zoologico, bensì dal
punto di vista mentale, onde sotto tale aspetto
l’antropologia assumerà l’aggettivo di culturale o sociale.
Ma il Tylor, che fu appunto il maggior pioniere di tale
antropologia, rimase immune da quei procedimenti
naturalistici che i suoi predecessori avevano introdotto
nello studio dell’uomo e che la teoria dell’evoluzione
porterà alle estreme conseguenze? Oppure in lui c’è già
una esigenza storica che riscatta quegli stessi
procedimenti? La scienza madre, insomma, dove affondano
le radici l’etnologia del folklore, è per il Tylor l’antropologia
stessa? Oppure è la storia senz’altri aggettivi?

2. Premesse della scuola antropologica inglese

Si deve anzitutto osservare che la cosiddetta scuola


antropologica inglese – la quale nella Primitive Culture ha il
suo autentico certificato di nascita – si basa su un metodo
che già aveva avuto larga applicazione nella cultura
europea: il metodo comparativo. Il Tylor nell’applicare tale
metodo si serve, si, del mondo ariano come di una provincia
del sapere, ma non come della provincia del sapere. Si può
affermare anzi, in proposito, che egli fu, in gran parte,
portato sulle vie maestre dell’etnologia dall’insoddisfazione
che gli studi del mondo ariano lasciavano a chi concepiva la
storia dell’uomo come storia dell’umanità, di tutta
l’umanità, la quale comprende non solo il civile, ma anche il
selvaggio: quel selvaggio da cui in verità, per una
rinnovantesi boria nazionale, si erano allontanati i Grimm,
il Müller e i loro seguaci.
Si aggiunga che un tedesco poteva ben tenere il suo
sguardo rivolto alle popolazioni ariane, alla loro religione,
alla loro mitologia, al loro folklore; non un inglese, il quale
non poteva non essere particolarmente interessato allo
studio di quei selvaggi che popolano i vasti possedimenti
coloniali. E la Primitive Culture – nata anch’essa nella
cittadella cara al cuore del Müller, a Oxford, – appunto per
questo, se da un lato si interna nel mondo dei selvaggi per
darci la loro presunta problematica, dall’altro vuoi farci
vedere come quel mondo non sia chiuso in se stesso, ma
persiste nelle tradizioni popolari, negli usi, nei costumi, in
tutto ciò che costituisce il retaggio dei popoli. In questo
esame il Tylor non trascura, certo, né i popoli dell’antichità
classica né le civiltà orientali, antiche e moderne. La sua
meta comunque è precisa: identificare alcune leggi che a
suo modo di vedere regolano la storia dell’umanità e vedere
in essa quali sono i legami che uniscono il passato al
presente.
Non v’è dubbio che il Tylor sia ansioso di porre le sue
ricerche etnologico-folkloristiche su un piano storico. Il
fatto stesso che egli considera come cultura primitiva quel
complesso di manifestazioni della vita materiale e spirituale
dei popoli selvaggi e dei volghi dei popoli civili, ci dice già
chiaramente che in lui operano quelle stesse esigenze che
già in periodo illuministico avevano messo in primo piano,
soprattutto per opera del Montesquieu e del Vol-taire, i
sentimenti, le credenze, gli istituti non solo delle varie
classi sociali (europee), ma anche dei popoli primitivi. Ma
c’è di più; ed è che per il Tylor il termine cultura ha lo
stesso significato che, ad esempio, per il Vico aveva il
termine civiltà» Come egli stesso dice nella Primitive
Culture:

«La parola cultura o civiltà, presa nel senso etnografico, designa quel
complesso che abbraccia le scienze, le credenze, le arti, la morale, i costumi e
le altre facoltà e abitudini acquistate dall’uomo nel suo stato sociale».

È chiaro infatti che quel complesso sia dominio tanto


della cultura quanto della civiltà: termini questi che
risalgono al Settecento e la cui identificazione si deve nel
Tylor alla stessa terminologia inglese, la quale, come la
tedesca, confonde i termini civilisation e culture, quando
invece per noi la cultura è un aspetto della civiltà che è la
spiritualità totale di un’epoca o dell’umanità intera (a
differenza dell’incivilimento che è l’attuarsi della civiltà).
Nella sua Primitive Culture il Tylor afferma inoltre che il
miglior mezzo per studiare le leggi del pensiero e
dell’attività umana è quello di ricercare il grado di civiltà
dei diversi gruppi umani. E aggiunge:
«Si deve allora riconoscere, da una parte, una uniformità quasi costante che
può essere guardata come l’effetto uniforme di cause uniformi: dall’altra, la
corrispondenza dei differenti gradi di civiltà e dei periodi di sviluppo o di
evoluzione, di cui ciascuno è il prodotto di un’epoca anteriore e ha il compito di
preparare l’epoca futura. Studiare queste due grandi leggi dell’etnografia è il
compito di quest’opera».

Ma in questo compito, che per lui si concludeva appunto


nel comparare la civiltà dei popoli inferiori con quella delle
nazioni più avanzate, quali erano le premesse del Tylor? E
quale l’atteggiamento ch’egli assumeva rispetto ai suoi
stessi predecessori?

3. L’homo sapiens come natura

È stato giustamente osservato che il Tylor, se pur subì


l’influenza del razionalismo del secolo XVIII, si formò
tuttavia alla disciplina delle scienze della natura e
dell’evoluzionismo, subendo le influenze del positivismo
comtiano. Nella prefazione, con cui si apre la Primitive
Culture, egli stesso ricorda due opere che, in un certo
senso, lo aiutarono nelle sue ricerche: l’una,
l’Anthropologie der Naturvölker del Waitz, che è del 1859 e
che si può considerare come il primo trattato di etnologia
dove è giudicata e valutata nel suo complesso la mentalità
primitiva; l’altra, il Mensch in der Geschichte, che il
Bastian pubblicò nello stesso anno e dove troviamo
rigorosamente applicata la teoria dell’evoluzione a quella
mentalità. Il Waitz gli offre una larga e minuta conoscenza
di tutto ciò che si era fatto nel campo etnografico non solo
dal punto di vista filologico, che è quanto dire della raccolta
dei materiali, ma anche direi storico, che è quanto dire
della interpretazione di quei materiali. Il Bastian gli offrirà
qualcosa di più: la chiave con cui egli crede di aprire le
porte del mondo primitivo perché esso si faccia e diventi
criterio di interpretazione per alcuni particolari aspetti che
ci conservano tuttora le civiltà occidentali.
Il secolo XVIII aveva caldeggiato (dal Fontenelle
all’Helvétius, dal Voltaire al Buffon) l’idea che lo spirito
umano fosse identico dappertutto. Il Bastian, nel riprendere
tale idea, se da una parte sostenne che «i popoli possiedono
come fondo psicologico primitivo della loro cultura le stesse
idee elementari», dall’altra era dell’avviso che «in uno
stadio ulteriore di sviluppo si manifestano differenze, con
l’apparizione di idee proprie ai singoli popoli». Da queste
premesse nasceva tuttavia una conseguenza che fu
pienamente accolta dal Tylor: e cioè che il selvaggio non è
affatto un essere diverso dall’uomo civile. Secondo il Tylor –
come già per il Bastian – non v’è, insomma, nessuna
differenza essenziale tra la mente del selvaggio e la mente
dell’uomo civile, anche se i pensieri del primo possono, a
prima vista, sembrare alquanto strani. Da qui, pertanto, il
rapporto che esiste fra i volghi dei popoli selvaggi e i volghi
dei popoli civili. Da qui la possibilità stessa di comparare
gli uni con gli altri.
La comparazione nel Tylor va oltre però quel legittimo
assunto. Riconosciuta infatti l’identità fra il pensiero dei
selvaggi e quello dei popoli attuali, egli si dimostra
convinto che le rassomiglianze che esistono fra i diversi
costumi non vanno attribuite a contatti tra le varie civiltà,
bensì alla stessa identità della mente umana. Le istituzioni
umane, scrive lo stesso Tylor:

«… si sono stratificate tanto rigorosamente quanto la terra su cui l’uomo vive.


Esse si succedono l’una all’altra in una serie praticamente uniforme in tutto il
globo, indipendentemente dalla diversità più che altro superficiale della razza e
della lingua, plasmate dall’identica natura umana che agisce, in mezzo al
variare delle circostanze, nella vita selvaggia, barbarica, civilizzata».

Nella storia di queste stratificazioni v’è però un prima


cronologico assoluto: il mondo primitivo. E in ciò il Tylor è
sulla via del Lafitau, il quale non solo aveva considerato i
primitivi come i nostri antenati, ma aveva anche affermato
che nei popoli primitivi attuali si possono conservare
tuttora le fasi primordiali dello sviluppo della umanità. In
realtà il Tylor, come già avevano fatto il Brosses e il Comte,
irrigidisce però quella tesi allo scopo di vedere fino a qual
punto le opinioni e gli atti delle nazioni moderne riposano
sul terreno solido delle conoscenze moderne ben
determinate, e fino a qual punto invece riposano su
conoscenze imperfette, le sole che esistono nelle fasi
primitive della civiltà.
Il Tylor è quindi dell’avviso che «la storia nel suo
dominio» insieme all’«etnografia che ha un dominio più
vasto», concorrono a mostrarci che le istituzioni più solide
del mondo hanno sostituito le meno durevoli e che il
risultato di questo conflitto incessante è il corso generale
della civiltà. Egli ammette inoltre che nel largo campo delle
concezioni e delle abitudini umane si vede che la civiltà, se
pur è obbligata a combattere non solamente la persistenza,
con la quale si mantengono le vestigia d’uno stato inferiore,
ma le degenerazioni che si producono nel suo seno, finisce
sempre col trionfare. Senonché le vestigia dello stato
inferiore appariranno sempre al Tylor davvero come
apparvero agli illuministi? E l’etnografia, termine questo da
lui adoperato per indicare quella disciplina che noi
chiamiamo oggi etnologia, non si risolverà, proprio in lui, in
storia della civiltà?

4. La superstizione come sopravvivenza


Delineato, sia pure a rapidi tratti, il progresso della
civiltà, il Tylor affronta quindi un problema che già si era
affacciato, ad esempio, al Fontenelle: quello delle
sopravvivenze. Come egli stesso afferma:

«Quando un uso, un’arte, un’opinione sono ben avviati nel mondo, le influenze
perturbatrici possono influenzarle così poco che essi possono tenersi in vita da
una generazione all’altra, come un corso d’acqua che una volta messo nel suo
letto vi scorrerà per secoli. Questa non è che una semplice permanenza
culturale: e ciò che stupisce è che i cambiamenti e le rivoluzioni delle cose
umane abbiano lasciato andar tanto lontano i suoi deboli rivoletti. Nelle steppe
tartare, sei secoli fa, era un’offesa posare il piede sulla soglia o toccare le corde
nell’entrare in una tenda, e così è tuttora. Diciotto secoli fa Ovidio ricordava la
popolare avversione romana per i matrimoni in maggio, che non senza ragione
attribuiva alla ricorrenza in quel mese dei riti funebri, detti Lemurie.
Sopravvive ancora in Inghilterra il detto che i matrimoni in maggio sono
sfortunati; e questo è un esempio sorprendente di come un’idea, il cui
significato è perito con gli anni, può continuare a esistere semplicemente
perché è già esistita. Ora vi sono migliaia di casi simili che sono divenuti, per
così dire, punti di riferimento nel corso della civiltà. Quando nella storia di un
popolo è avvenuto un cambiamento generale, è usuale, tuttavia, trovare delle
manifestazioni che non ebbero origine nel nuovo stato di cose, ma che
semplicemente sono durate in esso. In forza di queste sopravvivenze, diviene
possibile dichiarare che la civiltà del popolo, tra cui sono osservate, deve
essere derivata da uno stato più antico, nel quale tali sopravvivenze ebbero la
vera patria e il significato più proprio: e questa è la ragione per cui simili fatti
vanno trattati come documenti di scienza storica».

Questa la premessa con cui si apre uno dei capitoli più


discussi e fondamentali, il secondo, della Primitive Culture.
Né è senza significato che in tale premessa il Tylor
consideri le sopravvivenze come documenti di scienza
storica. Il che significa che esse non possono essere
trattate che con la stessa metodologia della storia. E la
storia non può assolverle o condannarle – come in parte
voleva lo stesso Tylor –, ma considerarle in quanto
fenomeni in cui è imperniata la concezione della vita e del
mondo. È vero che il Tylor, nel considerare le
sopravvivenze, ci da a volte l’impressione di voler porre
indiscriminatamente la teoria dell’origine (selvaggia) della
civiltà come base della scienza del folklore. Ed è vero
altresì che allora egli considera le sopravvivenze come dei
fatti immobili che rimangono in mezzo ai volghi dei popoli
civili per forza di inerzia, documentandoci le fasi
primordiali della vita e del pensiero dei selvaggi:
monumenti, insomma, a cui la storia della civiltà deve
chiedere se la civiltà stessa di un popolo è derivata da uno
stadio inferiore.
Dice il Tylor: molte superstizioni che vivono àncor oggi
fra i volghi dei popoli civili non sono altro che dei fatti
trasportati da un ambiente a un altro, sicché essi, in questa
migrazione, hanno perduto il significato che avevano,
rimanendo come prova ed esempio di uno stato culturale
più antico, fuori del quale se ne è sviluppato uno nuovo. E
qui è, a suo modo di vedere, lo spirito della sopravvivenza,
la quale molte volte non è che superstizione. Senonché lo
stesso Tylor, nel considerare le sopravvivenze in un
ambiente che non è più il loro, non ne riconosce la validità?
E questa validità quale importanza potrebbe avere, se
quell’ambiente che le accoglie lo fa soltanto con lo spirito
del geologo che colleziona dei fossili? La verità è che un
fatto non è mai uguale a un altro che lo ha preceduto,
perché di un fatto quel che conta non è soltanto la nascita,
ma anche l’adattamento. Compito del folklorista perciò
deve essere appunto quello di cercare non solo le
concordanze, ma le differenze: la diversità nell’apparente
uniformità.

5. Sopravvivenze e rinascite

Lo stesso Tylor, del resto, non esita ad affermare che


spesso si vedono delle vecchie idee e delle pratiche
abbandonate raffiorare in una società che le credeva morte:
nel quale caso v’è, egli chiarisce, rinascita, non
sopravvivenza. Il che, sotto certi aspetti, può anche essere
vero, ma a un patto: che si guardi a quelle due espressioni –
la cui terminologia può avere una giustificazione soltanto
empirica – come al risultato di una concreta vita popolare
piena di cambiamenti. I quali, in fondo, altro non sono che
le varianti della filologia folkloristica. Ed è qui, davanti a
queste rinascite, che il Tylor si domanda fino a qual punto
noi siamo creatori o comunque modificatoli dell’eredità dei
secoli scorsi. Con le sue stesse parole:

«Come le menti degli uomini mutano col progredire della civiltà, così i vecchi
costumi e le vecchie opinioni svaniscono a poco a poco in un’atmosfera
eterogenea e passano in stadi più adatti alla nuova vita con cui si trovano a
contatto. Ma ciò è così lungi dall’essere una legge senza eccezioni, che una
visione rigorosa della storia può spesso far sembrare non essere per nulla una
legge. Poiché la corrente della civiltà ritorna su se stessa, e quello che sembra
una brillante corrente di progresso può in un successivo ricorso girare in un
turbine stridente o impelagarsi in una palude oscura e pestilenziale. Studiando
con larga visione il corso dell’opinione umana, possiamo individuare proprio nel
suo perno il passaggio della sopravvivenza passiva alla rinascita attiva».

L’evoluzionista, il quale pur crede alla storia della civiltà


come a una «marcia in avanti», si sente allora perplesso
davanti a questi fenomeni. Ed ecco che si sveglia in lui lo
storico, preoccupato soltanto di vedere nei fatti
(sopravvivenze o rinascite che siano) la probabile catena
genetica dei fenomeni. L’impegno storico del Tylor, appunto
per questo, si deve ricercare proprio nell’esame con cui
egli avvicina le credenze e le costumanze dei popoli
selvaggi con quelle dei popoli civili. Ma in questo esame
riappaiono quelli che sono i limiti stessi del Tylor sociologo,
il quale nelle sue ricerche, se pur è animato da una grande
pietas storica, che lo fa internare nel mondo dei primitivi
con larghezza di vedute, si mantiene tuttavia legato a degli
aggruppameli psicologici ed empirici, i quali, come tali, non
possono costituire dei veri e propri criteri storici. È vero
che egli si preoccupa sempre di trasformare quegli schemi
in concetti. Ma quando quei concetti sono piegati a una tesi
fondamentale che li sorregge, vale a dire alla tesi che tutta
l’umanità è sottomessa alle stesse leggi di sviluppo e che
essa è passata dappertutto per gli stessi stadi analoghi di
evoluzione, è evidente che il Tylor dimentica che l’uomo,
ovunque viva, fra i primitivi o fra i volghi dei popoli civili,
non è mai il prodotto della natura, bensì della civiltà che lo
ha formato e lo forma.
Il Tylor, comunque, quali che siano le sue premesse, dopo
averci dato un quadro vivace e brillante dei corsi e dei
ricorsi storici in cui si avvicendano le varie civiltà, passa a
delinearci, con maggiore precisione, quella che a lui appare
la primigenia: cioè quella dei popoli primitivi, o meglio,
com’egli ancora li chiama, dei selvaggi. La sua
preoccupazione rimane anche allora identica: legare la
barbarie della civiltà, il mondo delle sopravvivenze e delle
rinascite, che era quanto dire il mondo del folklore, con la
civiltà dei barbari, che è un ineliminabile momento dello
stesso attuarsi della civiltà. E poiché non v’è civiltà senza
religione, ecco che egli cercherà appunto di vedere qual è
la religione dei primitivi, senza la quale a suo avviso non si
spiegano né la mitologia, né gli usi, né i costumi.
6. Mitologia e religione

In uno dei capitoli più vivaci della Primitive Culture il


Tylor afferma senz’altro a proposito della mitologia che
questa, di contro a quel che riteneva il Müller, nacque
quando l’uomo era allo stato selvaggio e che essa pertanto
appartiene, nei suoi primi sviluppi, allo stadio primordiale
della vita dell’uomo. Ed è allora che nella sua opera prende
consistenza un concetto destinato ad avere la stessa
fortuna di quello che egli formulò in merito alle
sopravvivenze: vale a dire il concetto dell’animismo. Si può
dire, in un certo senso, che il Tylor trae dal Müller una
massima che peraltro era stata già affermata dal
Fontanelle: e cioè che l’uomo narra quel che vede. Ma, per
il Tylor, quel che vede l’uomo, cioè l’uomo primitivo, è
completamente diverso da quel che vedeva l’antico ariano
del Müller. I miti, per il Tylor, sono infatti, si, la proiezione
di determinate esperienze giornaliere, in cui si invera la
vita stessa del primitivo, del selvaggio. Ma – si badi – del
selvaggio il quale crede all’animazione dell’intera natura,
così com’essa si presenta a lui, preceduta dagli spiriti e dai
geni. Ecco perché le stesse analogie, le quali per noi
possono rappresentare se mai dei semplici prodotti
dell’immaginazione, erano per i nostri antenati una realtà.
Per chiarire appunto questa realtà, il Tylor affronta allora
un problema di vasta portata e di grande interesse:
l’origine stessa della religione. È noto che il Comte, sulle
orme del Brosses, aveva caratterizzato l’evoluzione della
storia delle religioni in tre gradi: il feticismo, il politeismo,
il monoteismo. Il Tylor accetta senz’altro questo schema.
Con questa differenza: che per lui il primo grado
dell’evoluzione non doveva ricercarsi nel feticismo, bensì
nell’animismo, dove si invera appunto l’infanzia della
religione. Da qui la stessa definizione che egli ci da della
religione.

«Quando si tratta di studiare le religioni delle razze inferiori, il punto


essenziale preliminare da chiarire e da precisare è ciò che s’intende per
religione. Se si vuol fare rientrare in questa definizione la credenza in una
divinità suprema in un giudizio dopo la morte, o l’adorazione di idoli e la
pratica del sacrificio, o altri riti e dottrine diffuse qua e là, senza alcun dubbio
un certo numero di tribù si troverà allora escluso dal mondo religioso. Ma
questa definizione troppo limitata ha il difetto di identificare la religione con
alcuni suoi sviluppi particolari, laddove è opportuno considerarla nel suo
movente iniziale e nel suo elemento essenziale. Meglio vale, per quel che
sembra, risalire direttamente alla fonte e porre semplicemente come
definizione minima della religione la credenza in esseri spirituali».

E subito dopo aggiunge, proponendo una definizione


minima dell’animismo:

«Sotto il nome di animismo io mi propongo di studiare la dottrina


profondamente radicata degli esseri spirituali, credenza che è l’essenza stessa
della filosofia spiritualistica… Studiando nei suoi particolari la dottrina
dell’anima, noi vedremo quanto giustamente questo termine designi la prima
forma evolutiva delle idee teologiche dell’umanità… La parola spiritualismo,
comunque possa essere adoperata, ha per noi il difetto evidente di indicare
oggi una ben determinata corrente moderna, le cui teorie si appoggiano, è
vero, sulle entità soprannaturali, ma che non possono essere peraltro prese
come tipo universale di questo genere di concezioni. La credenza a esseri
spirituali: questo è, nella sua più larga accezione, il senso della parola
spiritualismo, è nello stesso senso che noi adoperiamo il termine animismo».

Il Tylor è convinto, e questa anzi è la premessa da cui


egli parte e su cui fonda la sua costruzione, che il
selvaggio, sin dalle sue origini, avrebbe ricavato il concetto
dell’anima dallo spettacolo mal compreso della vita, quale
questa gli appariva nello stato di veglia e durante il sonno.
Quando sogna di essere in un paese lontano, il selvaggio
crede di essere già li. E ciò perché in lui esistono due
esseri: l’uno, fatto dal suo corpo, che è rimasto coricato e
che egli ritrova, svegliandosi, nello stesso posto; l’altro,
che, durante lo stesso periodo di tempo, s’è mosso
attraverso lo spazio. I due esseri hanno una certa differenza
fra loro, poiché l’anima è più mobile, tanto che può
percorrere in un istante vaste distanze. Ma l’anima, si
domanda il Tylor, è uno spirito? Attaccata a un corpo, di cui
non esce che eccezionalmente, essa può diventare spirito a
un patto: trasformandosi. La semplice applicazione delle
idee precedenti al fenomeno della morte produce questa
metamorfosi.
Per un’intelligenza rudimentale la morte non si distingue
dal sonno prolungato. Sembra anzi che la morte consista in
una separazione dell’anima dal corpo, simile a quella che si
può produrre durante la notte. Quando ci si accorge però
che il corpo non si rianima più, nasce l’idea di una
separazione senza limiti di tempo. E quando il corpo è
distrutto – e i riti funebri hanno la funzione di accelerare
questa distruzione – la separazione è definitiva. Ecco
dunque gli spiriti distaccati dal loro organismo e lasciati in
libertà attraverso lo spazio. Il loro numero aumenta col
tempo, mentre si forma nel seno stesso della popolazione
vivente una popolazione di anime. Le quali ultime, a loro
volta, hanno bisogni e passioni umane. Esse infatti, data la
loro estrema fluidità, possono entrare in un corpo umano e
causare tutti i disordini possibili (possessioni, malattie) o al
contrario riportargli la vitalità.
L’anima, in tal modo, si è trasformata. Da semplice
principio vitale, animante un corpo umano, essa è diventata
uno spirito, un genio buono o malvagio, una divinità,
secondo l’importanza degli effetti che le sono attribuiti. Ma
poiché è la morte che ha operato questa metamorfosi, è in
definitiva ai morti, alle anime degli antenati, che si è
indirizzato il primo culto dell’umanità, tanto è vero che i
primi sacrifizi altro non sono che delle offerte elementari
destinate ai defunti.
Né qui si ferma la dogmatica costruzione del Tylor, ove si
pensi che l’idea così acquisita degli spiriti puri viene
applicata alla natura, onde i selvaggi, convinti che siano gli
spiriti a ravvivare i singoli elementi della natura, adorano i
fiumi, gli alberi, i boschi ecc. Così in origine furono
attribuite alle cose, a tutte le cose, vita e sentimento. E se
un fiume scorreva e se una fonte sussurrava e se un albero
stormiva ciò avveniva perché quei fenomeni erano animati
da esseri invisibili. E così avveniva anche per le nubi, per la
pioggia, per il vento ecc. Soltanto più tardi – e saremo
allora sulla via del monoteismo – i fenomeni della natura
furono attribuiti a un dio (della pioggia, dell’acqua, del
vento ecc.). L’idea stessa della divinità, del resto, per il
Tylor, altro non è, nelle popolazioni primitive, che il
risultato chiaro e coerente dell’animismo e insieme anche
un completamento altrettanto chiaro e coerente della
religione politeista.
Ma l’animismo, si domanda il Tylor, è soltanto una
manifestazione religiosa, la prima che si riscontra nel
mondo primitivo? O tale manifestazione invece domina
tuttora, sia pure sotto forma di superstizione e quindi di
sopravvivenza, la vita stessa dei volghi dei popoli civili?
Pensate, ad esempio, alle innumerevoli superstizioni che
tuttora si legano ai geni, agli spiriti, ai fantasmi o
comunque ai vari esseri che dalle varie regioni dell’aria,
dell’acqua, delle foreste e del sottosuolo si muovono a
favorire con la loro influenza il cielo, la terra, gli uomini, gli
animali, le piante; fissate il vostro sguardo nelle loro radici,
ed ecco che in quelle radici si annida precisamente
l’animismo, il quale, religione dei popoli primitivi, si è
ormai fatto superstizione nei volghi dei popoli civili. Il
legame fra i due mondi è ormai saldo. E l’animismo non
conterà quindi soltanto per quello che è stato, ma anche
per quello che è.

7. Animismo, infanzia della religione?

Questa costruzione – pur sorretta com’è da un’analisi


profonda e acuta, da una comparazione che ha
indubbiamente il suo incanto, da una scrittura ricca ed
elegante – accusa una concezione intellettualistica che la
infirma. In tale concezione si fondano e si confondono il
positivismo francese e l’empirismo inglese. All’origine era
l’uomo primitivo… Ma quell’uomo non è un vero e proprio
filosofo, un ragionatore perfetto, un pensatore che sa trarre
le debite conseguenze da tutte le premesse che la vita gli
pone? Non si vuol negare, intendiamoci, che nella teoria
animistica del Tylor vi siano dei lati di vero. L’animismo, sia
pure nelle varie forme in cui esso si articola, è
indubbiamente una espressione della vita dei popoli
primitivi. Lo è anche fra i volghi dei popoli civili. Ma come
possiamo noi sostenere che esso apre veramente la storia
della civiltà? E poi ha esso veramente fra gli stessi primitivi
quel carattere universale che il Tylor gli assegnava?
Si è affermato che il Tylor, cui interessavano i selvaggi
quali sono e non quali furono, si era preoccupato di
scrivere la storia dell’umanità religiosa, senza redigerne
tuttavia la prefazione. La quale invece, qualche anno dopo
la pubblicazione della Primitive Culture, fu dettata dallo
Spencer. È noto infatti che questi postulò una teoria, in cui
la radice della religione veniva ricercata nella venerazione
degli antenati, termine questo che egli userà nel senso più
lato in modo da comprendervi tutte le forme di venerazione
di defunti, siano essi consanguinei o meno. L’uno e l’altro,
comunque, come già prima di loro il Brosses e il Comte,
partono da una premessa: cioè che, come ben osserva lo
Schmidt, la successione cronologica e la connessione
reciproca dei fatti si basa unicamente sulla ideata
possibilità psicologica di tale successione o connessione,
onde questa plausibilità appare di regola giustificata
dall’assioma che le cose semplici hanno preceduto le cose
complicate. È vero che l’animismo è tutt’altro che una cosa
semplice. Il che può anche dirsi del manismo dello Spencer.
Ma è vero altresì che tutti e due, il Tylor e lo Spencer, se
pur si preoccupano di definire evoluzionisticamente la
religione nel suo minimo, assumono questo minimo come
inizio. E in ciò è l’errore pili grave delle due teorie, alle
quali sono stati piegati gli stessi documenti etnologici.
Non si comprende d’altro lato, in base a tali documenti,
per quale ragione il Tylor abbia considerato come
universale il fatto che l’idea dell’anima sia scaturita dal
sogno. Né si comprende come il Tylor possa aver pensato
che l’anima dopo la morte possa sempre cambiare la sua
natura. Rimane la terza tesi: la trasformazione degli spiriti
in culto della natura. Ma possiamo noi ammettere come
universale questa trasformazione, la quale, se non altro,
presuppone la priorità stessa e assoluta del culto degli
spiriti su quello degli antenati (o viceversa per Spencer)?
Sta di fatto che l’etnologia ci ha dimostrato che il culto
delle anime dei morti non è tanto primitivo quanto
ritenevano il Tylor e lo Spencer e che tutt’altro che
primitivo è l’antropomorfismo religioso. Ma c’è di più. Ed è
che l’animismo non ha affatto quella diffusione universale
che il Tylor gli attribuiva – il che può anche dirsi del
manismo –, facendo dei selvaggi un selvaggio, dei volghi
dei popoli civili un unico volgo che pensa allo stesso modo.
L’animismo, appunto per questo, se va respinto nella sua
architettura, fatta di passaggi dogmatici da una forma
all’altra, va accolto invece, ove venga ristretto alla
valutazione delle sue determinate forme, ciascuna delle
quali è pur sempre però il risultato non di un fenomeno
biologico, bensì spirituale. E come tale esso può
effettivamente vivere fra i selvaggi come fra i volghi dei
popoli civili. Il che, ed è ovvio, non esclude che tanto nelle
tradizioni degli uni quanto in quelle degli altri gli spiriti
della terra, del mare, del vento e del fuoco possano anche
essere stati direttamente personificati, senza passare per le
vie obbligate dell’animismo.

8. Naturalismo e storicismo del Tylor

Questo l’ampio affresco che il Tylor ci ha dato nella sua


Primitive Culture. E vi sono in tale opera, come abbiamo
visto, inciampi naturalistici, errori di prospettiva,
procedimenti aprioristici. Il Tylor vuol costruire
un’antropologia nel senso aristocratico della parola: ma la
sua antropologia è spesso riferita all’essere e non al farsi
dell’uomo. Gli si può perciò obiettare che il suo
determinismo causale è pur sempre fuori della storia, dove
è attrice soltanto la volontà dell’uomo. Gli si potrebbe
obiettare inoltre che non esiste, né può esistere, una storia
universale, la quale come tale non può individuare ciò che
conta in un popolo: la sua individualità storica. Oppure: che
i suoi confronti sono fatti senza limiti di tempo e di spazio.
È noto infatti che per il Tylor la somiglianza è fine a se
stessa. Ma se così fosse essa non perderebbe il carattere
che le assegnava lo stesso Tylor, il quale, come già il Vico,
era appunto convinto che ogni somiglianza deve trovare il
suo vero incontro nella nostra mente?
Il merito principale del Tylor, comunque, consiste in ciò:
che egli, nonostante tutte le sue premesse naturalistiche,
nel legare il folklore all’etnologia, fece di quest’ultima una
storia contemporanea che immise nella stessa storia del
folklore. E questa è la ragione per cui in molte sue pagine,
quelle che rimangono tuttora più vive e che sembrano
assumere un sapore viehiano, egli si libera dagli stessi
schemi che gli son serviti per costruire la sua storia della
civiltà (l’animismo come prima forma della religione, quella
religione come primo attuarsi del pensiero umano, il
pensiero dei primitivi come prima pagina della storia
universale ecc.).
Leggete le sue minute analisi che egli dedica ai proverbi,
ai giuochi fanciulleschi, agli usi e alle credenze popolari.
Osservate come egli lega il canto all’uso, il proverbio alla
costumanza, la novella alla credenza. Cioè: osservate come
egli da impulso e vigore allo studio del folklore considerato
nella sua unità. C’è in lui allora l’ansia e il respiro di un
Herder, dei Grimm o di un Pitrè che in quella natura
vedevano argomenti profondi per il filosofo. Ed ecco
pertanto che il Tylor, filosofo egli stesso di tale materia, ha
una sola preoccupazione: vedere, indipendentemente dalle
determinazioni cronologiche, quanto in noi c’è e rimane di
primitivo.
«Il buon storico, – è stato osservato, – somiglia all’orco
della fiaba. Ovunque fiuti carne umana, lì è la sua
selvaggina». Si è aggiunto che, quando nella storia sorge o
si rinnova la coscienza dell’antico e del primitivo, v’è
ragione allora di credere che ciò è uno stimolo incessante
per l’intelligenza storica. È con questa coscienza che il
Tylor si internò nel mondo dei primitivi e in quello dei
volghi dei popoli civili. Con questo risultato: che egli,
positivista-evoluzionista, trovò a volte inconsapevolmente il
suo riscatto in uno storicismo quale già lo aveva concepito
il Vico.
22. All’insegna dell’animismo

1. Filologia classica, etnologica e folklore

Accolta con successo nel campo specifico della storia


delle religioni, la teoria animistica del Tylor dominò quel
campo quasi incontrastata per più di un trentennio.
L’animismo sembrò allora la vera «semente della religione»;
e come tale apparve nelle varie introduzioni alla «scienza
delle religioni» oltre che nelle innumerevoli «storie remote
della civiltà». Il Tylor insieme a quella teoria aveva
proposto però anche una metodologia, nella quale la stessa
storia delle religioni, e quindi della mitologia, veniva
collegata, mediante lo studio delle sopravvivenze, alla
storia del folklore, per il principio già da lui sottinteso che
la religione di una generazione è destinata a diventare la
superstizione-sopravvivenza di un’altra. E l’una e l’altra, la
sua teoria dell’animismo e la sua metodologia folkloristica,
ecco che troveranno il consenso più immediato e aperto in
un paese, la Germania, dove predominanti erano stati gli
interessi per la mitologia della natura. È in Germania, si
può dire, che il Tylor ebbe ancor prima che negli altri paesi
la sua consacrazione ufficiale. È in Germania che la sua
Primitive Culture fu di stimolo agli stessi cultori di quella
mitologia. Nota a proposito lo Schmidt:

«Nella corrente sempre più forte dell’animismo del Tylor venne a incanalarsi,
per strana coincidenza, anche una corrente minore, sorta già tra i seguaci della
teoria della mitologia della natura della Germania e dei popoli indogermanici,
la quale volle ora applicare i risultati delle ricerche linguistiche relative ai
popoli indogermanici anche alle scoperte fatte dagli etnologi per i popoli di
natura».

Ma è davvero una corrente minore quella che in


Germania utilizza la teoria e la metodologia del Tylor per
applicarle allo studio del folklore germanico, immettendolo,
ove e quando sia il caso, non soltanto nella storia
dell’etnologia, ma anche in quella delle civiltà classiche? E
questa utilizzazione è poi del tutto passiva?
L’opera del Tylor, in realtà, in Germania, non ha dato
origine a una corrente minore: né rispetto all’animismo, di
cui anzi vuole essere un completamento, né rispetto al
folklore, di cui chiarisce nuovi aspetti e nuovi problemi. Ma
c’è di più: ed è che tale corrente non è affatto il frutto di
una strana coincidenza, bensì di una consapevolezza
critica.
La prova di quanto diciamo ce l’offre infatti il mitologo
che più di tutti ebbe tale consapevolezza: Wilhelm
Mannhardt. Le sue prime opere non escono dai binari
tracciati dai Grimm e dal Müller. E ciò è ovvio ove si pensi,
ad esempio, che i suoi Germanische Mythen sono del 1858,
mentre il suo lavoro Die Götterwelt der deutschen und
nordischen Völker è del 1860. Non v’è dubbio, e lo ammette
lo stesso Mannhardt, che egli fu spinto a cambiare le sue
idee intorno alla mitologia quando questa gli si configurò
nelle concezioni stesse del popolo, vale a dire nelle
tradizioni popolari e in particolar modo negli usi, nelle
credenze, nei giuochi fanciulleschi. Di grande rilievo
furono, in proposito, le inchieste che egli stesso aveva
compiuto a Danzica presso i prigionieri austriaci, danesi e
francesi. Nei suoi lavori Roggenwolf und Roggenhund e Die
Korndämonen – che sono del ’65 e del ’67 – si avverte già
che egli è sotto l’influsso dello Schwartz, il quale credeva
appunto di riconoscere gli elementi più stabili della
mitologia nel folklore. Nel 1875 esce però la sua ampia
opera: Der Baumkultus der Germanen. Due anni dopo: i
Wald- und Feldkulte (di cui peraltro il Der Baumkultus
rappresenta la prima parte). Ebbene: è qui che il distacco
del Mannhardt dal Müller è chiaro, netto, decisivo. Lo sarà
di più in un volume che fu pubblicato quattro anni dopo la
sua morte e che può considerarsi come la terza parte dei
Wald- und Feldkulte: le Mythologische Forschungen (edite
a cura del Patzig nel 1884 e precedute da due dotte
prefazioni dovute a K. Müllenhoff e W. Scherer). In queste
opere, o meglio in questa opera, il Mannhardt cita poche
volte il Tylor. Ma egli è sotto la sua più diretta influenza,
tanto è vero che i Wald- und Feldkulte non solo
ripropongono, sotto molti aspetti integrandola, la stessa
metodologia del Tylor, ma applicano la teoria animistica a
una serie di culti e di riti cui lo stesso Tylor non aveva dato
eccessivo peso: i culti e i riti della vegetazione.

2. Mannhardt e i Monumenta mythica Germaniae

Punto di partenza anche in queste indagini è per il


Mannhardt il mito. Ma in che modo vedrà ora egli questo
mito, che nelle sue prime opere gli era apparso soltanto
come una proiezione e una spiegazione degli splendenti
fenomeni della natura? Nel Vorwort con cui si aprono i
Wald- und Feldkulte, il Mannhardt osserva anzitutto che le
mitologie si presentano come qualcosa di assai più
complicato e irregolare che non i fenomeni linguistici. La
scuola mitologica del Müller, egli incalza, «voleva
costringere a forza i miti indo-europei entro un modello
fabbricato sopra le concezioni indiane, senza indagare i
rapporti immediati con l’ambiente da cui erano nati».
Questa la ragione, egli aggiungerà subito, per cui la
mitologia deve farsi un suo metodo, il quale consiste
anzitutto nel lavoro naturalistico di classificazione e di
raccolta di vari fenomeni. Il che serve poi a stabilire i tipi.
Di questo lavoro naturalistico il Mannhardt aveva dato
già prova nel terzo volume della sua «Zeitschrift für
deutsche Mythologie und Sittenkunde», che egli pubblicò
dal 1853 al 1859. Fu in quel volume che apparvero infatti,
per la prima volta, delle regolari inchieste demologiche. Si
aggiunga che era allora sua intenzione pubblicare una
collana intitolata Monumenta mythica Germaniae, la quale
avrebbe dovuto raccogliere e illustrare non solo i Lieder
mitici e magici del suo paese, ma anche e soprattutto le
usanze popolari che si collegano al calendario delle feste, i
costumi e le superstizioni agricole, il cerimoniale nuziale
ecc. È per questa ragione, anzi, che nel 1854 egli fonda
insieme a J. W. Wolf, una società per l’incremento e lo
studio delle tradizioni popolari. Ed è per questa ragione
che egli, fedele al suo assunto, vuole integrare le sue
inchieste personali con un questionario qual è quello, ad
esempio, che egli, in centocinquantamila copie, riuscì a far
stampare alcuni anni dopo. Tale questionario, il quale
riguardava gli usi germanici della mietitura, era formato da
quattro paginette contenenti ventitré domande. Le
domande, però, non si riferivano soltanto agli usi
germanici, ma anche a quelli corrispondenti degli altri
paesi. Ed ecco come lo stesso Mannhardt, in una sua
conferenza tenuta nel 1865, vale a dire nello stesso anno in
cui uscì il suo questionario, si rivolgeva in proposito ai suoi
collaboratori:

«Non resta che una via: quella di distribuire dei foglietti volanti che
contengano un saggio delle indicazioni richieste, e condensino tutta la materia
presa in esame in un certo numero di domande ben determinate, precise.
Queste domande devono essere formulate con accorgimento e sicura
conoscenza della materia, in maniera che basti un cenno per richiamare senza
indugio alla mente di chi deve rispondere tutte quelle cose che si desiderano
sapere da lui, e che si eviti, oltracciò, ch’egli, rispondendo alle domande
genericamente con un si o un no, si limiti a dare indicazioni vaghe e
superficiali, laddove importano invece distinzioni rigorose e ragguagli minuti
sui particolari. Si cercherà pertanto, progredendo il lavoro, di migliorare e
modificare di tempo in tempo le domande alla stregua delle esperienze
psicologiche e delle osservazioni fatte circa l’effetto da esse prodotto su chi
deve rispondere, nonché in base alla più profonda conoscenza della materia
acquisita con l’aumento del materiale. Il contenuto delle domande ha da
rimanere lo stesso per tutto lo spazio geografico su cui si estende la raccolta;
ma è necessario dare ad esso, per determinate zone, una forma particolare».

Questo l’intento del Mannhardt: dare al suo futuro


collaboratore delle norme sicure. Chi domanda deve sapere
anzitutto che cosa domandare. E il Mannhardt, come ben
osserva il Röhr, non solo voleva procurare al folklore
tedesco i materiali da lungo tempo desiderati per un lavoro
più fruttuoso, ma pensava anche di separare i fatti
omogenei ed equivalenti da quelli occasionali, perché si era
fin d’allora capito che senza una tale discriminazione si
sarebbe stati impotenti di fronte allo stesso materiale
raccolto. Lo stesso Mannhardt nella sua conferenza, dove
illustrava la bontà dei que-stionari, aveva ammonito:

«Il materiale raccolto vien sistemato in serie etnograficamente e


geograficamente distinte, mettendo al primo posto, per ogni regione, l’aspetto
prevalente e la forma principale della tradizione, con l’indicazione dei luoghi
dove è attestata. Sono poi registrate tutte le variazioni della tradizione
studiata, con l’indicazione precisa, anche per esse, dei luoghi dove sono state
osservate».

I Monumenta mythica Germaniae rimasero nello stato di


progetto, nonostante le duemila risposte che al Mannhardt
pervennero. Da quel progetto nacquero però i Wald- und
Feldkulte. Ed è qui che egli riprende le tesi già avanzate
nel 1865. Lo studio del folklore, osserverà ora il
Mannhardt, ove voglia penetrare nella loro essenza i
materiali raccolti, deve essere fondato sulla comparazione.
Questa, – egli però subito aggiunge, – non deve proceder
mai secondo un metodo prestabilito – e qui l’allusione a
Tylor è evidente –, ma distinguere le semplici analogie dalle
vere e proprie congruenze. In altri termini, com’egli stesso
dirà:

«Ogni tradizione è da spiegarsi primariamente da se stessa e dal suo ambiente


più prossimo; solo quando non risulta in questo campo, può essere ricercata
progressivamente in uno stadio sempre più lontano e più profondo… Dove si
presenti una tradizione popolare si deve tendere, secondo la possibilità, a una
determinazione cronologica e a una ricostruzione della forma originaria da
ragioni interne per la via dell’analisi e con l’aiuto dell’analogia, che siano
esaminate acutamente secondo il contenuto e il valore».

È stato osservato che l’idea del Mannhardt, il quale cerca


la spiegazione di un determinato fenomeno folkloristico,
riposa su un evoluzionismo volgare. Ma l’ambiente, così
come lo concepisce il Mannhardt, che altro è se non la
civiltà stessa in seno a cui una tradizione vive? E ove
questa tradizione con tutte le sue varianti – vale a dire con
le varianti che la fanno vivere – non sia collegata alla civiltà
che la esprime, possiamo noi cogliere il suo significato
attuale?
In una sua lettera del 18 novembre 1876 inviata al Pitrè,
lo stesso Mannhardt affermava che nei Wald- und Feldkulte
egli:

«… prendendo come base la tradizione popolare del Nord Europa ha cercato di


dimostrare in maniera evidente una serie di similitudini tra usanze e immagini
del mondo antico e quelle dei popoli del Nord Europa… Come lei vedrà dai miei
recenti trattati, al centro delle mie aspirazioni sta un’ampia raccolta e
spiegazione delle usanze provenienti dal mito riguardante la cultura dei
campi».

Ma – ecco il punto – come vede dunque il Mannhardt


questa cultura dei campi? E quale posto egli le assegna
nella storia stessa della civiltà?
3. Culti e riti agrari

Nel primo volume dei Wald- und Feldkulte, vale a dire nel
Der Baumkultus der Germanen, il Mannhardt inizia
anzitutto il suo esame trattando il culto degli alberi quale si
articola presso i Germani e i popoli vicini. Ed è allora che
egli si pone questo problema: vedere come l’agricoltura
riveli, attraverso i suoi riti e i suoi culti, il mistero stesso
della rigenerazione vegetale. Il Mannhardt non esita a
porre come fondamento di quei riti e di quei culti la
credenza, tuttora viva nel folklore, secondo cui l’uomo vive
nella pianta (cui attribuisce, come alla natura, un’anima)
unita a lui da un legame simpatico e segreto. Da qui
l’affinità di natura fra l’uomo e la pianta, l’uno e l’altra
dotati di un proprio spirito.
Il Mannhardt, quasi a chiarire questa affinità, passa
quindi a illustrare la concezione che i Germani avevano
intorno all’anima dell’albero. E da qui, da tale concezione,
ecco che egli vede emergere gli spiriti della foresta e i loro
vari tipi, mentre l’anima stessa dell’albero gli si dispiega
come lo spirito della vegetazione. Particolare luce ricevono
in proposito gli usi comuni a tale credenza, quali, ad
esempio, le processioni primaverili che si svolgono
nell’Europa moderna e dove lo spirito della vegetazione è
spesso rappresentato dal maggio e per di più da un uomo
vestito di verdi foglie. Come egli stesso osserva:

«È lo stesso spirito che anima l’albero e le piante inferiori… Con perfetta


coerenza si suppone pure che lo spirito manifesti la sua presenza nel primo
fiore della primavera e si riveli tanto in una fanciulla rappresentante la rosa
canina, quanto, come dispensatore di messi, nella persona del Walber. La
processione di questi rappresentanti della divinità si supponeva che producesse
sulle galline, sugli alberi da frutto e sopra il raccolto, gli stessi benefici effetti
della presenza della stessa divinità. In altre parole la maschera era considerata
non come l’immagine, ma come l’attuale rappresentante dello spirito della
vegetazione».

L’esistenza di uno spirito dell’albero, che è il nucleo


essenziale attorno a cui si svolge la costruzione animistica
del Mannhardt, si basa su quattro fattori che di recente
l’Eliade ha così sintetizzato: 1, la tendenza generale (del
mito) di comparare il cosmo e l’uomo a un albero; 2, l’uso
di legare il destino di un uomo alla vita di un albero; 3, la
credenza primitiva che l’albero non è solamente la dimora
dello spirito della foresta, ma anche l’abitazione di altri
geni, benigni o maligni, alcuni dei quali hanno la loro vita
organicamente unita alla vita dell’albero; 4, l’usanza di
punire i criminali su un albero.
Così in questa indagine il Mannhardt vede nettamente
profilarsi di fronte agli Dei alti – di cui si compiacevano
soprattutto i suoi predecessori – le figure di un’altra
mitologia, di una mitologia, ch’egli, non senza ironia,
chiama «bassa», dove predominano le fate, i geni, gli
spiriti. Ma questa mitologia è davvero, egli si domanda, il
detrito di una mitologia superiore, come volevano i suoi
predecessori? O è invece il nucleo stesso da cui si è svolta
la stessa mitologia superiore? Il Mannhardt propende per
quest’ultima ipotesi. All’origine è il popolo, dirà egli
romanticamente. Ma va oltre; e mentre la sua indagine si fa
più incalzante, ecco che egli vede già profilarsi l’idea che i
miti e i culti della vegetazione, quali vivono nell’Europa
settentrionale e centrale, siano stati influenzati dall’Europa
meridionale. Tuttavia gli antichi popoli romani, offrendoci
un’idea più esatta dei tempi arcaici, si rivelano spesso
come intermediari fra i due stadi di civiltà. La bassa
mitologia dei Germani potrebbe essere, insomma, se non
nella sua totalità almeno in parte, un prodotto di
importazione. Da qui l’utilità di comparare i miti e i culti
agrari dell’Europa con quelli dei tempi classici, onde essi
reciprocamente si chiariscano, dimostrandoci la loro genesi
interna.
Questo il nucleo attorno a cui si svolge la continuazione
del Baumkultus der Germanen. Nei Wald- und Feldkulte, il
Mannhardt estende infatti il suo esame ai culti
dell’antichità classica, comparandoli con le credenze e i
culti agrari del folklore nord-europeo. Driadi, Centauri,
Ciclopi e Satiri vengono allora paragonati con le
corrispondenti figure tedesche, francesi, scandinave, russe
ecc. Il Mannhardt domina, da maestro, la mitologia
classica. E studiata la saga greco-romana, ecco che egli
esaminerà poi le feste classiche in rapporto con gli spiriti
della vegetazione, gli spiriti personali della vegetazione
(Adone, Attis) quali si manifestano nelle feste annuali e così
via. Esame minuto, preciso, filologicamente attento; ma un
esame, il suo, nel quale i culti e i riti della vegetazione
ricevono una loro essenziale sistemazione, a cui fa da
sfondo il potente dramma della vegetazione e della
fecondità, quale si articola nelle sue periodiche vicende,
«Annualmente la vegetazione muore; annualmente la sua
morte è seguita da un rinnovamento della vita feconda;
mentre la periodica scomparsa e riapparizione della vita
vegetale sono per la religione agraria morte, occultamento
e resurrezione del dio agrario». Le piante, gli animali,
l’uomo vengono pertanto investiti da una medesima
potenza fecondatrice e vivificatrice. Si pensi, ad esempio,
fra l’altro, all’azione stimolatrice che nei riti degli sponsali
assumono gli alberi. La potenza vegetativa passa così, o
meglio può passare, da una sede all’altra. E questa è la
ragione per cui l’animale sacrificato incarnerà il Dio,
mentre le parti stesse dell’animale-Dio, sparse nella
campagna, saranno come una potenza, da cui trarrà
vantaggio la terra e i partecipanti stessi al rito. Ma il Dio
risorge – così come risorgono i mesi, le stagioni, gli anni ai
quali è legato il ritmo stesso dell’agricoltura.

4. Naturalismo e storicismo nel Mannhardt

È chiaro, dunque, che in questa sua ricostruzione della


civiltà agraria, intesa come una pagina della storia della
civiltà, il Mannhardt risente spesso dell’orientamento
associativo dell’epoca. Il Mannhardt, inserendo nel culto
della natura, quale in fondo lo aveva ravvisato il Tylor, i riti
agrari, presuppone da una parte lo spirito dell’albero e
dall’altra quello della foresta. Nel Tylor il concetto
dell’anima produce quello dello spirito. Allo stesso modo
per il Mannhardt lo spirito dell’albero da origine allo spirito
della foresta, il quale, a sua volta, da vita allo spirito
generale della vegetazione.
Nessun fatto, però, gli osserva giustamente il
Liungmann, ci autorizza a stabilire questa «totalizzazione
degli spiriti individuali». Inoltre il Mannhardt afferma, ad
esempio, che il genio vegetale, inteso come demone della
vegetazione e incarnato in un albero, si trasforma in una
personificazione della Primavera e dell’Estate. Ma in realtà
tutte queste strutture si possono dedurre analiticamente
l’una dall’altra o ciascuna di esse dipende invece da un
rituale specifico? Lo stesso Liungmann non esita a proporre
al posto di ciò che il Mannhardt chiama demone della
vegetazione una forza sacra insita nella stessa vegetazione.
E in quanto ai sacrifici compiuti per la vegetazione è
possibile, egli si domanda, non pensare all’Egitto, quando,
invece, è proprio qui che si trovano in proposito le
testimonianze più antiche?
La costruzione del Mannhardt, appunto per questo, è
spesso rigida, mentre del tutto affrettate ci appaiono certe
sue conclusioni. Rimane in lui, tuttavia, un impegno,
rimane in lui il desiderio di storicizzare una materia in cui
egli senti il senso della verità. In realtà il Mannhardt non
manca, a volte, com’egli stesso dichiara, di ricorrere ai
«metodi di ricerca che aveva richiesto l’indagine della
natura del suo tempo». Ma non c’è in lui, come c’era in
Tylor, lo sforzo di ridurre il folklore a una pregnante storia
della civiltà, nella quale il materiale raccolto si fa giudizio,
accusandoci i bisogni, le affezioni e le illusioni degli
uomini?
Era la prima volta, dopo i tentativi del Boulanger, del
Dulaure e dei Grimm, che i miti e i riti della vegetazione – il
Mannhardt da anche un notevole rilievo ai riti fallici –
ricevevano una sistemazione storica, ove si pensi che il
Mannhardt non paragona i culti e i riti arbitrariamente,
affidando quei paragoni a una comune mentalità primitiva,
ma vuoi rendersi conto di come e dove un culto nasce,
come e dove si diffonde, a quali esperienze obbedisce. È
vero che egli, a volte, fini nelle sue indagini col perdere di
vista quell’ambiente a cui in sede teorica si era appellato.
Ma è vero altresì che, altre volte, lo studio di questo
ambiente gli si rivelò di una grande importanza per
comprendere la varietà e l’importanza delle tradizioni
agricole, le quali tuttavia non sempre si possono spiegare,
collegandole all’antico culto della fertilità.
Dice di lui lo Scherer: «Uno dei fenomeni più significativi
e curiosi della scienza contemporanea è che l’etnografia è
sul punto di trasformare la filologia classica. L’iniziatore di
questa rivoluzione fu il Mannhardt, il quale mori quasi
sconosciuto nel 1880». A dire il vero, la rivoluzione cui
accenna lo Scherer era stata iniziata da tutta una schiera di
studiosi che vanno dal Lafitau al Tylor. Il Mannhardt le
diede un impulso e un vigore fecondi di risultati.

5. Dalla Cité antique a Psyche

Insegni, fra l’altro, l’esempio di Erwin Rohde, il quale nel


suo volume intitolato Psyche non solo si collega al Tylor, ma
anche al Mannhardt. È vero che egli cita le opere di questi
due studiosi soltanto in qualche nota marginale. Ma è vero
altresì che, ove noi leggiamo attentamente la sua opera,
sentiamo subito che tanto le concezioni animistiche del
Tylor quanto i legami fra la terra e il sottoterra, quali li
aveva intravisti il Mannhardt, dominano lo scenario in cui si
muovono le ricche e suggestive ricostruzioni del Rohde.
Da qui il netto distacco di Psyche da un’altra opera che la
precedette: La cité antique di Fustel de Coulanges. Diceva
questi nel 1865: «Anche negli ultimi tempi della storia della
Grecia e di Roma, si vede persistere nel volgo un insieme di
idee e di usi che rimontano certamente ad un’epoca molto
remota, per mezzo dei quali noi possiamo conoscere quale
fosse l’opinione primitiva dell’uomo sulla propria natura,
sull’anima e sulla morte». E aggiungeva, sotto l’influsso del
Müller: «Per quanto si risalga nella storia della razza
indoeuropea, di cui le popolazioni greche e italiche sono
due rami, non si trova mai che essa abbia pensato che dopo
la morte tutto fosse finito per l’uomo». Ecco, dunque,
predominare nelle ricerche storico-filologiche non soltanto i
grandi poeti e i grandi pensatori, bensì anche il volgo con i
suoi costumi, con le sue idee, col suo pensare.
E il Rohde, il cui libro uscì dal ’91 al ’94, par quasi che
riprenda quel discorso, quando appunto afferma che «le
credenze popolari intorno al perdurare delle anime dei
defunti, credenze basate sul culto delle anime e
concresciute con alcune accezioni della dottrina omerica
delle anime, rimangono sostanzialmente immutate di forza
in tutti i secoli della vita greca».
Eppure, nonostante la comunità di questi interessi, il
Rohde procede su una via ben diversa da quella tracciata
da Fustel de Coulanges. Lo stesso Rohde in una sua nota
avverte:

«Si dovrebbe qui menzionare un libro geniale e ricco di idee, La Cité antique di
Fustel de Coulanges, in cui si tenta di dimostrare che il culto degli antenati è la
radice di tutte le più alte forme della religione dei Greci. Non si viene però a
disconoscere in nessun modo la fecondità della tesi del libro, se si ammette che
la sua idea fondamentale – per ciò che concerne la Grecia – non è potuta
divenire più che un’intuizione che potrebbe essere giusta e vera, ma che
rimane indimostrabile».

È noto che Fustel de Coulanges, nel concepire il culto


degli antenati come elemento primigenio della religione e
della società greca, aveva precorso in un certo senso lo
Spencer, che porrà quel culto all’origine della civiltà. E il
Rohde, a dire il vero, non manca di ricordare lo stesso
Spencer a proposito della dualità dell’uomo:

«Naturalmente riesce a noi assai singolare che si possa concepire un uomo


vivente, pienamente animato, in cui abiti un ospite straniero, un suo duplicato
più debole, un altro io come sua psiche. Ma questa è appunto la fede dei
cosiddetti “popoli primitivi” di tutta la terra, come ha dimostrato molto
acutamente sovrattutto Herbert Spencer. Non sorprende affatto vedere che
anche i Greci partecipino a quel modo di concepire che è così naturale allo
spirito della umanità primitiva».

E a questa umanità primitiva egli ricorre spesso come a


una pietra di paragone, tanto è vero, ad esempio, che
altrove osserva:

«I popoli primitivi sogliono attribuire alle anime separate dai corpi una
grandissima potenza, tanto più terribile in quanto invisibile; anzi in un certo
modo fanno derivare dalle anime tutte le forze occulte e si adoperano
ansiosamente e di continuo ad accattivarsi la benevolenza di questi spiriti».

Ma qui, dietro questa concezione, c’è davvero Spencer?


O c’è invece, come c’è, Tylor? Aggiunge del resto lo stesso
Rohde che «Omero non conosce invece nessuna influenza
delle anime sul mondo visibile e perciò nessun culto di
esse». Senonché, egli si domanda, nella poesia di Omero
non abbiamo noi dei rudimenti che indirettamente possono
testimoniarci quella influenza? I dotti inglesi chiamano quei
rudimenti, egli precisa, survivals. Ed ecco un’altra volta
Tylor.
Il Rohde è dell’avviso, è vero, che i popoli primitivi, se
pur hanno un passato, non hanno una storia. Ma quale che
fosse il suo concetto, è certo che, partendo dai primitivi,
egli senti in modo nuovo l’antico mondo greco. Con questo
risultato: che il Rohde, pur muovendosi in un campo
consacrato a determinati metodi – è nota fra l’altro la
polemica che egli ebbe col Wilamowitz in difesa del Die
Geburt der Tragödie del Nietzsche –, riuscì a illuminare di
una vita propria un mondo spirituale, che è indubbiamente
il meno appariscente nelle fonti letterarie, ma non perciò il
meno degno di studio. Si potrà rimproverare al Rohde di
non aver tenuto conto, nello studiare il folklore dell’antica
Grecia, di quello della Grecia moderna (il che sarà poi
argomento di indagini da parte del Lawson). Sta di fatto
che, nonostante gli studi ulteriori dedicati all’argomento, il
libro del Rohde rimane un’opera fondamentale.

6. Usener

Né meno fondamentale – per ritornare ai problemi che


più direttamente interessano la mitologia – rimane
un’opera che, edita nel 1896, cercò di conciliare le esigenze
della mitologia comparata con quelle della metodologia
folkloristico-etnologica: i Götternamen di Hermann Usener.
In questo suo libro, l’Usener si propone anzitutto di
ricostruire la formazione e l’evoluzione dei concetti
religiosi espressi nei nomi degli dèi. Egli ritorna, in
sostanza, allo studio del linguaggio per indagare la
formazione dei miti. A differenza del Müller egli, com’è
stato ben osservato, si giova del mito unicamente in quanto
esso è il solo mezzo che ci consente di introdurci nel mondo
culturale, a cui appartiene la mitologia di un dato popolo.
Nel mettere in rilievo il parallelismo tra linguaggio e mito,
l’Usener arriva infatti a questa conclusione: che da
principio l’uomo crede a uno sterminato numero di dèi
spontanei o momentanei, nati per i singoli momenti e azioni
dell’esistenza quotidiana (gli Augenblicksgötter). Questi, a
loro volta, non sono che una classe speciale dei
Sondergötter, i quali presiedono a determinati fatti e
fenomeni. È soltanto dopo la creazione di questi dèi che si
arriva infine alla concezione di dèi più generali e personali,
mentre allora gli stessi Sondergötter diventano appellativi.
L’uomo primitivo, insomma, per l’Usener riceve in un
primo momento delle sensazioni singole che si tramutano
in rappresentazioni singole (non l’idea dell’albero
predomina, ad esempio, in queste rappresentazioni, ma
quella di un albero). Poi quella prima rappresentazione
acquista valore permanente, finché «con l’irrobustirsi del
pensiero si procede verso concetti più generali».
Grande rilievo hanno inoltre nella sua ingegnosa
ricostruzione i culti e i riti agrari, cui presiede una
determinata divinità. Qui egli utilizza Mannhardt. Ma, a
differenza di Mannhardt, si fa spesso guidare da etimologie
che risultano del tutto arbitrarie. Come il Mannhardt, egli
però si interna nei misteri della mitologia classica. E qui è
la parte più viva del suo esame. Di notevole interesse sono
inoltre le sue indagini sulla mitologia degli Slavi
meridionali. Né mancano in lui dei riferimenti al folklore
italiano. Esempio: «A Rocca Pia, negli Abruzzi, si pratica
quest’uso: quando il grano è secco, i coloni formano un
fantoccio di paglia che è collocato sopra un carro carico di
sacchi di grano, e con grandi grida di giubilo e canti questo
fantoccio viene trasportato fino alla casa e posto nella
cucina dove si offrono cibo e bevande». Siamo in presenza,
per adoperare il termine del Mannhardt, del demone del
grano. Ma questo demone è per l’Usener il protettore di un
determinato campo, non di tutti.
Commenta in proposito il Pettazzoni:

«Con la sua legge dello svolgimento dei nomi divini, che rappresentava una
scoperta atta a fare della mitologia la «scienza del mito», Usener veniva a
incontrarsi, in sostanza, con la teoria evoluzionistica, che, indipendentemente
da ogni indagine linguistica, era giunta a concepire lo svolgimento dell’idea di
Dio attraverso tre gradi: l’animismo, il politeismo, il monoteismo. Infatti la
quantità sterminata dei numi istantanei (Augenblicksgötter) corrisponde al
numero sterminato degli spiriti della fede animistica; alla pluralità dei
Sondergötter corrisponde un animismo più ridotto, o polidemonismo, mentre la
formazione degli dèi personali, con la implicita riduzione delle figure divine,
rappresenta il politeismo destinato a sboccare nel monoteismo».

E lo stesso Pettazzoni aggiunge che l’Usener, quando


vuoi spiegare gli dèi personali come antichi dèi di
categoria, il cui nome è divenuto eccezionalmente un nome
proprio per ragioni puramente estrinseche, non tiene conto
del fattore spirituale che operò in questo senso, cioè
dell’opera della poesia. Ma più che nella sua ricostruzione
delle origini della religione è nei dettagli, nei suoi
innumerevoli excursus dedicati alla vita popolare degli
antichi e dei moderni che va ricercata la vitalità stessa
della sua opera.
Di notevole interesse sono inoltre una serie di saggi che
egli, prendendo quasi sempre lo spunto da un motivo
mitico, venne scrivendo a varie riprese e che in gran parte
furono raccolti nei suoi Kleine Schriften. Molti di essi
potrebbero portare il titolo di un libro che allora ebbe in
Germania un vivo successo: gli Ethnographische Parallelen
und Vergleiche di Richard Andree. Né soltanto il titolo,
tanto fra i due studiosi è identico il taglio e la composizione
del saggio. L’uno e l’altro, l’Usener e l’Andree, subirono
indirettamente e direttamente l’influsso del Tylor oltre che
quello del Mannhardt. E tutti e due rimasero sempre
convinti che, se la storia delle religioni e quindi della
mitologia si deve estendere a tutti i popoli antichi, essa
tuttavia rimane monca, ove non venga integrata dai
documenti che ci offre il folklore attuale, il folklore vivente.

7. Dieterich
E in questo senso lavorò un altro filologo tedesco, Albert
Dieterich, il quale, nipote dell’Usener, ci ha dato una serie
di opere dove i materiali raccolti sono sottoposti a una
critica serrata e penetrante. Lavoratore infaticabile, egli ci
ha lasciato, fra l’altro, due opere molto discusse: l’una
intitolata Eine Mithrasliturgie e l’altra Nekya. Di notevole
interesse sono anche gli Studien zur Religions-geschichte.
L’opera che l’impegnò maggiormente e che più interessa lo
studio del folklore è la Mutter Erde, edita nel 1905.
In quest’opera (di cui abbiamo una recente edizione
curata e completata da uno studioso tedesco, E. Fherle), il
Dieterich studia le credenze e i riti classici inerenti alla
Terra concepita come Terra-Madre. A differenza
dell’Usener, egli non abbraccia quindi l’esame di tutte le
divinità, bensì di una sola. E qui egli, naturalmente, non
può non essere che in vantaggio rispetto al nonno Usener.
Il Dieterich è anch’egli sulla via tracciata dal Tylor e
l’animismo è, si può dire, al centro stesso delle sue
ricostruzioni. In queste si sente, però, l’influsso anche del
Mannhardt, tanto è vero che egli nell’indagare la genesi e
lo svolgimento della concezione secondo cui la terra viene
appunto concepita come Madre, o meglio come la Madre di
tutti, centra il suo esame sulle rappresentazioni
concernenti la riproduzione delle specie animali e la
fertilità del suolo, considerate come parallele e analoghe
con la generazione umana.
Il Dieterich in tale esame si ferma anzitutto su tre
costumi che erano in uso nell’antichità classica: 1, la
deposizione del fanciullo appena nato sulla terra; 2,
l’inumazione dei fanciulli; 3, il toccamento degli ammalati e
degli agonizzanti che, per guarire, vengono posti sulla nuda
terra. Ne indaga, quindi, le innumerevoli concordanze che
esistono fra i popoli primitivi. E da questi – per quanto il
procedimento a volte sia inverso – si interna nella vita del
folklore germanico in particolare ed europeo in generale, e
non soltanto europeo, per animare con senso storico le sue
ricostruzioni. Così, ad esempio, dopo aver ricordato l’uso
abruzzese di porre il bambino sulla terra, ritiene che tale
uso si debba considerare come la sopravvivenza di un rito
secondo il quale nell’antichità il figlio era consacrato alla
Madre Terra. Da qui a sua volta la credenza dei bambini
venuti dalla terra (o comunque dagli alberi o dalle rocce
che sono pur sempre ad essa legati).
Il Dieterich considera insomma la terra come un essere
vivente, come un’anima piena di anime. Essa, la terra, è
vivente perché è fertile. Da qui il binomio homo-humus, cui
si appellano le stesse credenze popolari. Da qui la
solidarietà esistente fra la fecondità dei campi e quella
della donna, il che ha dato origine a un’altra serie di
credenze, le quali comportano anche l’identificazione del
lavoro agricolo con l’atto generatore (e quindi
l’identificazione del fallo con l’aratro).
In effetti molte tesi del Dieterich sono state attaccate non
soltanto dal Goldmann nel suo Cartam levare ma anche dal
Nilson nella sua recente Geschichte der griechischen
Religion. Bisogna tuttavia riconoscere, come ben nota
l’Eliade, che la Mutter Erde rimane – con la Psyche del
Rohde – un libro veramente classico.

8. Il costume come culto religioso della vita

Uno studioso francese, il Pinard de la Boullaye, ha


definito il gruppo di questi scienziati che sulle orme del
Tylor e del Mannhardt hanno ravvivato gli stessi studi della
filologia classica come i «filologi dell’etnologia» o meglio,
se si vuole, gli «etnologi della filologia». Essi, continua
infatti il Pinard, se da un lato collegano la scuola filologica
intenta a valutare i valori del mito con la scuola
antropologica che, nello studiare quei valori, aveva
allargato la sua indagine, dall’altro utilizzano, a servizio di
quest’ultima, un nuovo metodo di lavoro. Da qui un
ricambio di idee che fu quanto mai benefico per l’una
quanto per l’altra disciplina non solo, ma anche per il
folklore, il quale così veniva a godere di un più ampio e
consapevole respiro. Non era stato facile in realtà
rimuovere un campo, così chiuso e consacrato, direi
canonico, qual era quello della filologia classica, con le
suggestioni vive e feconde che suscitarono tanto l’etnologia
quanto il folklore. Eppure alla luce di quelle nuove ricerche
quante volte gli stessi testi classici non acquistarono un
nuovo senso che li illuminava?
Nel sottolineare la bontà di queste ricerche, una notevole
importanza ebbe allora l’«Archiv für
Religionswissenschaft», la cui direzione, tenuta prima
dall’Hardy, fu assunta dallo stesso Dieterich, il quale, nel
tracciare il nuovo programma, affermò decisamente che, se
gli etnologi possono molto imparare dai filologi, questi a
loro volta molto si possono avvalere dell’aiuto dei primi.
Poiché, egli aggiungeva, l’etnica tradizionale è il terreno
antichissimo, sì, ma anche eterno e contemporaneo di tutti
gli avvenimenti della storia.
È con questa consapevolezza che egli adoperò infatti il
metodo comparativo, raggiungendo quei risultati che pur
già erano stati individuati dal Mannhardt e in un certo
senso anche dall’Usener e dal Rohde. Si pensi che allora in
Germania il metodo comparativo veniva usato senza
nessuna discriminazione nel campo di una nuova disciplina:
l’etnologia giuridica, la quale, soprattutto ad opera del
Post, pretendeva, attraverso lo studio dei popoli primitivi,
di investigare l’origine ultima e profonda del diritto. Il che,
com’è stato giustamente osservato, non poteva non essere
che un abbaglio gnoseologico. Il metodo comparativo servi
invece al Dieterich – né diverso può essere il suo compito
nell’etnologia giuridica – per approfondire la conoscenza
storica degli istituti, oggetto del suo esame. Si pensi inoltre
che anche il Wundt era nello stesso ordine di idee del Post.
Nella sua opera Mythus und Religion, i cui tre volumi
apparvero dal 1905 al 1909, il Wundt sottoponeva, è vero,
l’animismo del Tylor a un radicale rinnovamento, dove non
era estranea l’influenza dello stesso Mannhardt, ove si
pensi appunto che per lui l’anima e lo spirito creano il
demone, il quale possiede il potere sovrumano di giovare o
di nuocere. Incagliato nelle secche del naturalismo, egli
accumulava i fatti di tutte le civiltà senza vedere qual è il
concatenamento dei fatti stessi in ciascuna di queste
civiltà. E dimenticava, come ammoniva il Dieterich, che un
fatto può essere spiegato diversamente a seconda dell’
ambiente in cui si manifesta.
Questa la ragione per cui nell’«Archiv» diretto dal
Dieterich si formarono alcuni fra i migliori etnologi e
folkloristi tedeschi. Nota infatti a proposito lo Spamer:
«Quando, un quarto di secolo fa, Paolo Sartori diede alle stampe il suo grande
trattato sugli usi e costumi popolari tedeschi, era fatto un passo decisivo nella
indagine delle usanze popolari. In tre grandi sezioni che trattano della nascita,
delle nozze e della morte, della vita e del lavoro a casa e fuori, delle stagioni e
delle feste dell’anno, precedute da osservazioni generali sulla terminologia, da
considerazioni sull’origine e lo sviluppo degli usi e costumi, e da tentativi di
una loro interpretazione, il Sartori raccoglieva e ordinava, con una anche
troppo minuziosa citazione delle fonti, un materiale di ricchezza sbalorditiva».

E lo Spamer subito dopo aggiunge:

«Nell’aver riconosciuto che la maggior parte delle usanze ha radice nella


religione, il Sartori, che chiama in un certo senso il costume culto religioso
della vita quotidiana, mostra il forte influsso delle indagini di storia comparata
delle religioni che fin dal 1898 avevano trovato nell’“Archiv für
Religionswissenschaft” un centro di notevole importanza».

Ma c’è di più: ed è che quelle indagini si venivano


incontrando ormai con gli stessi risultati cui, dopo Tylor,
perveniva la scuola antropologica inglese. In Dieterich
l’animismo è già sostituito a volte dalle istanze magiche. E
dietro quelle istanze ecco apparire la forte personalità di
uno studioso inglese: James G. Frazer, il quale nel suo
Golden Bough non mancò di tenere nella debita
considerazione le teorie del Mannhardt.
23. Frazer, l’avvocato del diavolo

1. L’opera del Frazer

È stato più volte osservato che l’opera svolta da James


George Frazer nel campo della etnologia e del folklore si
può paragonare a quella che nel campo della storiografia
svolse in Italia Ludovico Antonio Muratori. Al Muratori il
Frazer si avvicina infatti per la straordinaria capacità di
lavoro, per l’infaticabile alacrità di ricerche, per la
ricchezza stessa della sua opera. Con questa differenza,
tuttavia: che mentre il campo della indagine muratoriana
rimane l’Italia, quello del Frazer è il mondo. E il mondo
visto nei suoi aspetti più misteriosi e inquietanti, quali sono
appunto le credenze e le superstizioni, alla cui natura si
rifanno le istituzioni, i miti, le leggende.
Il metodo di indagine di cui il Frazer si serve per
internarsi in quel mondo è quello stesso del Tylor: il
comparativo. Egli si muove in mezzo a una cultura
dominata e impregnata di positivismo. Vi si sente a suo
agio. Ha la passione di un Fontenelle, di un Lafitau, di un
Tylor e di un Mannhardt per le letterature classiche. Il
mondo dei selvaggi – così, come il Tylor, egli chiama i
primitivi – gli si dispiega con molteplici interessi. E coi
selvaggi, sulle orme stesse del Tylor, lo interessa la vita
spirituale, quale essa vive o sopravvive fra i volghi dei
popoli civili. Sotto questo aspetto, anzi, egli non solo
completa Tylor, di cui accoglie il concetto di sopravvivenza,
ma dà al folklore stesso, cioè alla sua materia, un
organizzamento più metodico di quanto non avesse fatto lo
stesso Tylor. Gli sarà di esempio Mannhardt.
Così attraverso le credenze, le istituzioni e le
superstizioni il Frazer collega le civiltà classiche coi popoli
primitivi e questi coi volghi dei popoli civili, per quanto nei
suoi collegamenti risulti poi una scala, il cui primo gradino
è costituito precisamente dai popoli primitivi, dalle civiltà
classiche il secondo, dal folklore l’ultimo. Né il Frazer si
limita a raccogliere le varie testimonianze. Che anzi questa
è la sua preoccupazione: non imbalsamare quelle
testimonianze, ma renderle vive e suggestive perché le sue
pagine si possano articolare in una scrittura omogenea e
compatta. Si direbbe, leggendo le sue opere, che gli
etnologi e i folkloristi d’Europa abbiano tutti lavorato per
lui. Ma lui ricambierà il dono ricevuto, tanto è vero che
nelle sue pagine anche gli etnologi e i folkloristi più rigidi e
irsuti diventano scrittori letterariamente apprezzabili e
piacevoli. Il Frazer avvicenda quindi tali testimonianze con
le pagine più suggestive delle letterature classiche o anche
orientali. Riporta, con compiacimento, pagine di letterati,
brani di poeti. La sua cultura profondamente umanistica si
innesta su una cultura moderna, sensibilissima e raffinata.
E le sue pagine, e di pagine egli ne ha scritto migliaia, non
affaticano né stancano, ma spingono il lettore a seguirlo.
Anche quando l’autore integra la sua analisi descrittiva con
le interpretazioni date ai vari elementi costitutivi di una
tradizione, di un uso, di un rito.
Si aggiunga che quasi tutte le sue opere sono il frutto di
una elaborazione continua, di un impegno ch’egli ritiene di
avere assolto sempre a metà e nel quale si sente la forza di
un temperamento volitivo. Così, ad esempio, il primo lavoro
etnologico pubblicato dal Frazer si intitola Totemism ed è
del 1884. Nel 1892 egli ritorna sull’argomento. Ma
dobbiamo arrivare al 1912 per vedere quel tema svolto, con
ricchezza di particolari, nei quattro volumi dell’opera
Totemism and Exogamy. Né meno laboriosa è stata la
compilazione del lavoro più popolare del Frazer: il Golden
Bough. Pubblicato in due volumi nel 1890, esso fu
ristampato nel 1900 con un volume in più. Ma le sue
ricerche, già ben avviate in quelle prime edizioni, si
dirameranno in direzioni sempre più numerose finché dal
1911 al 1915 il Golden Bough uscirà in dodici volumi.
È questa la più suggestiva opera nella quale gli interessi
del Frazer si sommano, illuminandosi gli uni con gli altri.
Gli Inglesi l’hanno definita «la Bibbia dei tempi moderni».
In essa il letterato si accompagna all’etnologo, l’etnologo al
folklorista. E l’uno e l’altro, l’etnologo e il folklorista,
rimangono sempre più ammirati della cultura e della civiltà
classica. Le quali – ancor giovane, nel 1884, il Frazer aveva
curato il Bellum Jugurthinum di Sallustio – sono state
affrontate dal Frazer ancora più direttamente in quei
mirabili monumenti che sono i sei volumi di Pausanias’s
Description of Greece e i cinque dei Fasti of Ovid, dove le
feste, le credenze, le istituzioni e le superstizioni dell’antica
Grecia e dell’antica Roma vengono spiegate, illuminate e
chiarite col vivificante contributo dell’etnologia e del
folklore.
Sullo stesso piano di questi lavori che segnano il più
deciso e decisivo incontro tra l’etnologia, la filologia
classica e il folklore, si articola l’opera in tre volumi
dedicata al Folklore in the Old Testament. Né qui si ferma
l’attività del Frazer, ove si pensi, senza tener conto dei suoi
lavori di carattere letterario, che egli dal 1913 al 1924
pubblicò i tre volumi, di interesse prevalentemente
etnologico, The Belief in Immortality and the Worship of the
Dead; nel 1926 i due volumi The Worship of Nature; nel
1930 l’ampio saggio Myths of the Origin of Fire; nel 1933,
ormai ottantenne, il volume The Fear of the Dead in
Primitive Religion. Di notevole interesse, per quanto si
tratti di materiali non elaborati, i tre volumi Anthologia
Anthropologica, editi fra il 1938 e il 1939.
A riassumere alcune conclusioni, cui era giunto nella sua
vasta opera, il Frazer pubblicò fin dal 1908 una serie di
saggi che allora presero il titolo di Psyche’s Task. Nel 1927,
nel ripubblicare tale volume – cui, nello stesso anno,
aggiungeva la vivace antologia tratta dalle sue opere, Man,
God and Immortality –, il Frazer volle cambiargli titolo. E lo
chiamò, non senza significato: The Devil’s Advocate.
Laureatosi in legge a Cambridge, il Frazer fu ammesso
verso il ’75 al foro di Londra. Era destino però che i suoi
clienti dovessero essere ben diversi da quelli che si
incontravano in quel foro. Questa la ragione per cui egli
volle ribattezzare col titolo di Devil’s Advocate il suo libro
Psyche’s Task. E quell’avvocato, l’avvocato del diavolo,
difenderà, sì, nel lungo corso della sua vita, dei clienti, ma
questi, come egli stesso afferma in quel suo libro, saranno
le credenze, le istituzioni, le leggende. E in particolar modo
– ecco il cliente più pericoloso – le superstizioni, nelle quali,
se non vi è tutta la storia dell’umanità, vi è indubbiamente
una parte di quella storia.

2. Sulle orme del Re del Bosco

Con questo intento il Frazer si accinse alla compilazione


del Golden Bough, nel quale egli si preoccupa anzitutto di
vedere quale sia stato effettivamente il primo stadio del
pensiero umano. Convinto, come il Tylor, che l’etnologia è
un criterio di interprelazione per il folklore, egli è
dell’avviso che per applicare questo principio è anzitutto
necessario respingere il concetto che il Tylor aveva
dell’animismo. Al principio era l’animismo, aveva detto
Tylor. Al principio era la magia, dirà invece il Frazer. E lo
stesso Golden Bough porta appunto per questo il
sottotitolo: Magic and Religion.
Partito, pellegrino e rapsodo per le vie del mondo, da
Nemi, o meglio dal Santuario di Diana Nemorensis, dove
nell’antichità era stata osservata una legge inesorabile,
quella del Re del Bosco, che era stato al tempo stesso un
sacerdote e un assassino – in quanto poteva aspirare a
quell’ufficio soltanto chi avesse ucciso il suo predecessore –
il Frazer, nell’indagare la genesi di quell’usanza, si accorse
subito che anche nelle società primitive il re è spesso non
solo un sacerdote, ma anche un mago, il quale ottiene il
potere per una supposta perizia nell’arte magica. Come il
Re del Bosco di Nemi, anche il re primitivo deve sottostare
a tutta una serie di divieti da cui dipende il suo ufficio e la
sua vita. Il fatto che la legge del Re del Bosco non trovava
riscontro nell’antichità classica aveva spinto il Frazer a
spingersi assai lontano, fra i selvaggi. Senonché, com’egli
stesso avverte:

«per comprendere l’evoluzione della regalità e il carattere sacro di cui


quest’ufficio è stato comunemente investito agli occhi dei popoli barbari e
selvaggi è essenziale avere qualche conoscenza dei principi della magia».

Così, come se compisse una sosta, il Frazer affronta uno


dei problemi più difficili cui sia collegata la storia del
pensiero primitivo. Da questa sua sosta dipenderà il suo
orientamento. Ammiratore e discepolo del Tylor, il Frazer
avrebbe potuto trovare tale orientamento nell’animismo.
Fin dal suo piccolo libro sul Totemism, egli si era però
trovato a tu per tu con le credenze magiche che legano la
vita del selvaggio dentro una catena di ferro. Ma qual è,
egli si domanderà, il carattere, la natura, l’ufficio di queste
credenze?
Nel 1890, nella prima edizione del Golden Bough, il
Frazer si era limitato a constatare che ai selvaggi il mondo
appare dotato e diretto non soltanto da esseri personali, ma
anche da forze impersonali, che è quanto dire da leggi
naturali, nell’ambito delle quali si sarebbe svolta la magia.
Nella seconda, in quella del 1900, egli mette in maggior
rilievo quelle concezioni. Il che verrà poi ribadito, con
maggior impegno oltre che con una più scaltrita dialettica,
nella terza edizione del Golden Bough, nel cui primo
volume egli cerca di determinare l’origine stessa della
magia, classificandone i principi e i mezzi.
Nell’intervallo intercorso, fra le varie edizioni del Golden
Bough, nel 1892, era uscita intanto in Inghilterra un’opera
dove venivano affrontate le varie questioni inerenti alla
magia dei primitivi. Dovuta a J. A. King, quell’opera si
intitolava The Supernatural, its Origin, Nature and
Evolution. Anche il King, in fondo, è sullo stesso piano del
Frazer, quale questi ci appare fin dalla prima edizione del
Golden Bough. Il King però non solo si mostra decisamente
convinto che la magia non sia affatto il risultato di
determinate forze, le quali non hanno nulla a che fare con
l’animismo, ma va oltre. Le usanze magiche, egli avverte, si
sono formate quando il corso naturale delle cose venne
interrotto da qualche fatto straordinario, che il selvaggio
identificò in una forza buona o cattiva che portava fortuna o
sfortuna e che perciò provocava desiderio o paura. Così per
il King la magia può effettivamente comprendersi e
spiegarsi, ove si tenga presente che essa nasce dalla
visione di cose nuove e straordinarie-soprannaturali, messe
in rapporto con le altre cose conosciute. È proprio allora,
secondo il King, che subentra nel selvaggio uno stato di
agitazione che provoca delle associazioni di idee, le quali
alla loro volta pongono l’oggetto in rapporto con altre cose,
sia come causa, sia come effetto, sia come causa ed effetto.
Ora è appunto su questa associazione di idee che il
Frazer, fin dalla seconda edizione del Golden Bough, fonda
l’origine della magia – per quanto noi non sappiamo s’egli
conoscesse o no l’opera del King che ad ogni modo non
cita. Ecco quindi che cosa saranno, per lui, le credenze
magiche: dei giudizi ai quali fa da leva l’istinto casuale.

3. I principi della magia formulati dal Frazer

Considerata la magia come una falsa scienza che è


insieme una falsa arte, il Frazer illustra, quindi, i principi
che la reggono. E questi, a suo avviso, sono due: 1, che il
simile produce il simile o che l’effetto rassomiglia alla
causa; 2, che le cose che siano state una volta a contatto
continuano ad agire l’una sull’altra, a distanza, dopo che il
contatto fisico sia finito. Il primo principio, egli aggiunge,
può chiamarsi legge di similarità. Il secondo, legge di
contatto o di contagio. Questi principi a loro volta, egli
incalza, non sono che due cattive e diverse applicazioni
delle associazioni delle idee. La magia omeopatica (o
imitativa) è fondata sulla associazione di idee per
similarità. La magia contagiosa sull’associazione per
contiguità. In pratica, però:

«… i due principi sono spesso combinati; o per essere più esatti, mentre la
magia omeopatica o imitativa può essere praticata da sola, si troverà che la
magia contagiosa implica generalmente un’applicazione del principio
omeopatico o imitativo. Effettivamente queste forme di pensiero sono ambedue
estremamente semplici ed elementari. E difficilmente non potrebbe non esser
così, dal momento che sono familiari in concreto, sebbene non certo in astratto,
alla rozza intelligenza non solo del selvaggio, ma delle persone ignoranti e
ottuse, dovunque. Tutti e due i rami della magia, l’omeopatica e la contagiosa,
si possono giustamente comprendere sotto il nome generale di Magia
Simpatica, perché ambedue affermano che le cose agiscono l’una sull’altra a
distanza, per mezzo di una segreta simpatia, mentre l’impulso è trasmesso
dall’una all’altra per mezzo di quel che possiamo concepire come una specie di
etere invisibile, non troppo diverso da quello che è postulato dalla scienza
moderna per uno scopo del tutto simile, per spiegare cioè come mai le cose
possono influenzarsi fisicamente attraverso uno spazio che appare vuoto».

L’applicazione più familiare del primo principio – il simile


produce il simile – consiste, ad esempio, nel credere che si
possa distruggere o danneggiare un nemico, danneggiando
o distruggendo la sua immagine; nel guarire o prevenire le
malattie trasferendole alla terra, a un albero, a una pietra
ecc.; nel ritenere che le cose della stessa specie si
attraggono l’una con l’altra per mezzo dei loro spiriti;
nell’aiutare, o anzi meglio, nel far si che, mediante le
cerimonie che li riproducono, sia abbondante il raccolto, la
pesca, la caccia ecc. Il sistema della magia simpatica,
tuttavia, non è composto soltanto di precetti positivi, ma
comprende un gran numero di precetti negativi, cioè
proibizioni. Insomma:

«… non vi dice soltanto quel che dovete fare, ma anche quel che non dovete. I
precetti positivi sono gli incantesimi, quelli negativi sono i tabu. Effettivamente
tutta la dottrina del tabù, o in ogni caso la maggior parte di essa, non sembra
essere altro che un’applicazione speciale della magia simpatica con le sue due
grandi leggi della similarità e del contatto… La magia positiva, o incantesimo,
dice: “ Fa’ questo perché possano accadere le tali cose”. La magia negativa, o
tabù, dice: “Non far questo affinchè non accadano le tali cose”. Lo scopo della
magia positiva, o incantesimo, è di produrre un evento desiderato; lo scopo
della magia negativa, o tabù, è di evitarne uno cattivo. Ma tutte e due le
conseguenze, quella buona e quella cattiva, fono supposte accadere per leggi di
similarità e contatto… I due fenomeni [i tabù e gli incantesimi] sono
semplicemente i due lati opposti o i poli di una grande e disastrosa illusione, di
una errata concezione dell’associazione delle idee. Di questa illusione
l’incantesimo è il polo positivo, il tabù quello negativo».

L’esempio più familiare invece della magia contagiosa,


osserva il Frazer, è la simpatia magica che si crede esista
tra un uomo e le parti del suo corpo separate, come, ad
esempio, i capelli e le unghie, così che chiunque venga in
possesso di capelli e unghie può fare quel che vuole, a
qualsiasi distanza, sulla persona da cui furono tagliati.
Altro esempio: la connessa simpatia che può esistere tra
l’uomo e Tarma che l’ha ferito. La magia contagiosa può
essere inoltre esercitata su un uomo anche per mezzo delle
impronte lasciate dal suo corpo sulla sabbia o sulla terra.
L’una e l’altra di queste forme, sia pure nel loro continuo
intrecciarsi, possono essere praticate a beneficio di un
privato, ma anche a beneficio della comunità. Ed è in
quest’ultimo caso che il mago diventa un funzionario
pubblico, una personalità. Commenta il Frazer:

«Lo sviluppo di una tal classe di funzionari è di grande importanza per


l’evoluzione tanto politica quanto religiosa della società: poiché, quando si
suppone che il benessere della tribù dipende dall’esecuzione di certi riti magici,
il mago si innalza a una posizione di grande influenza e reputazione e può
facilmente acquistare il grado e l’autorità di capo e di re. Il risultato generale è
che a questo stadio dell’evoluzione sociale il supremo potere tende a cadere
nelle mani di uomini dalla più acuta intelligenza».

Questa la sosta del Frazer, il quale nel primo volume del


Golden Bough, intitolato non senza ragione The Magic Art
and the Evolution of Kings, pone un netto distacco fra la
magia, che, a suo modo di vedere, è una forma elementare
del pensiero (la più elementare anzi che esista e perciò
secondo i dettami dell’evoluzione la più antica) rispetto alla
religione, che invece di quel pensiero rappresenta una
forma più complessa. Né soltanto per questo: ma anche
perché il dio del mago è una forza impersonale, mentre il
dio della religione è una forza personale, alla cui volontà il
credente si sottomette (a differenza del mago che invece
impone la sua volontà). Nella stessa Magic Art ecco come il
Frazer sintetizza il suo pensiero:

«In primo luogo le nozioni fondamentali della magia e della religione ci fanno
pensare che la magia è più antica delle religioni nella storia dell’umanità.
Abbiamo visto che la magia è un’errata applicazione dei più semplici ed
elementari processi mentali, cioè dell’associazione delle idee per virtù di
somiglianza e contiguità e che d’altra parte la religione ammette l’azione di
agenti personali e consci superiori all’uomo, al di là dello schermo visibile della
natura. Evidentemente la concezione di esseri soprannaturali è più complessa
che una semplice intuizione della similarità e della contiguità delle idee; e una
teoria che ammette che il corso della natura sia determinato da agenti consci è
più astrusa e recondita e richiede per la sua comprensione un grado molto più
alto di intelligenza e di riflessione, che non l’idea che le cose si succedano l’una
dopo l’altra semplicemente a causa della loro contiguità e somiglianza».

Né il Frazer si allontanò mai da questi principi che


divennero i veri protagonisti delle sue opere. Lo stesso
invece non può dirsi di un’altra fenomenologia, il
totemismo, in cui egli finisce col riconoscere i caratteri
stessi della magia.

4. Il totemismo come magia

Il primo studioso che si è occupato con criteri scientifici


del totemismo è indubbiamente Mac Lennan, cui spetta il
merito di averci rivelato la struttura dell’esogamia: cioè il
divieto imposto ai membri dei clan, che hanno lo stesso
totem, di sposare fra loro. Il Mac Lennan aveva pubblicato
fin dal 1866 un saggio: Primitive Marriage, che poi insieme
ad altri dello stesso genere fu incluso negli Studies in
Ancient History, che sono del 1876. Ed è al Mac Lennan
che si riferiva il Frazer fin dal suo piccolo lavoro sul
Totemism.
Il Mac Lennan in quegli Studies completava nel campo
della religione quelle ricerche che, iniziate in un campo
speciale, e specificamente in quello della famiglia, lo
avevano portato appunto alla scoperta del totemismo, di cui
allora si avevano scarse e sporadiche notizie, ma che già si
presentava come un sistema di credenze che aveva
influenzato la formazione della parentela umana, in quanto
quelle credenze consistevano nell’attribuire una parentela
tra le famiglie e determinate specie di animali, piante ecc.
L’aspetto sociale che il totemismo assume, non vieta al Mac
Lennan di vedere in esso una forma di religione, nella quale
si invera il culto degli antenati associato al culto degli
animali e delle piante: una forma di religione, ad ogni
modo, cui egli fa risalire i culti zoolatrici e fito-latrici
esistenti tra i popoli dell’antichità classica.
Questa tesi era stata respinta dal Tylor, il quale, pur
riconoscendo l’importanza dei fatti totemici, riteneva che
questi si dovessero collegare all’animismo. Anche per il
Tylor però il totemismo sarebbe una forma del culto degli
antenati, ma collegato alla dottrina della reincarnazione, la
quale costituirebbe il punto di passaggio tra il culto stesso
degli antenati e il totemismo. Il che non è accolto dallo
Spencer, il quale fa del totemismo una specifica forma del
culto degli antenati. È evidente, in tal modo, che tanto il
Tylor quanto lo Spencer avevano inserito il totemismo nel
loro sistema religioso.
A sviluppare le vaghe ipotesi del Mac Lennan, ecco che
interviene un suo discepolo: W. Robertson Smith. Il quale,
nel 1889, nelle sue ampie Lectures on the Religion of
Semites ritiene che il totemismo si debba giudicare come il
fondamento tanto della religione semita quanto di quella
araba. E ciò: 1, perché, presso i popoli i quali praticano
quelle religioni, certe tribù hanno il nome di un animale; 2,
perché in essi si ritrova il culto della natura (astri, pietre,
fonti ecc.), oltre al divieto di determinati cibi e all’uso delle
immagini di animali poste sui vessilli di guerra. La prova,
però, a cui egli da maggior peso, e che è la leva su cui si
reggono le sue costruzioni, è il sacrificio, il quale, per lui,
non è un’offerta fatta alla divinità per placarla, bensì un
atto di vita sociale, in cui si invera la comunione fra i fedeli
e il dio. Ora, per lo Smith, l’animale del sacrificio sarebbe
stato in origine l’animale totem.
Questo, a larghe linee, lo stato degli studi sul totemismo
quando il Frazer riprese quell’argomento nei suoi volumi
Totemism and Exogamy. Nel suo primo lavoro sul
Totemism, egli si era mostrato dell’avviso che il totemismo
è un fenomeno in parte religioso (in quanto presuppone dei
rapporti tra l’uomo e il totem) e sociale (in quanto
presuppone degli obblighi fra i membri dello stesso clan).
Ma questa definizione, che è del 1887, nel 1910 non lo
soddisfa più, tanto è vero che egli considera allora il
totemismo soltanto come una forma di organizzazione
sociale. In questa sua nuova conclusione giocava la sua
teoria – già formulata nella seconda edizione del Golden
Bough – sull’origine della magia, la quale cronologicamente
precede la religione.
E nel Golden Bough, nella stessa Magic Art chiarifica:

«In nessun luogo la teoria della magia simpatica è messa in pratica per
mantener la riserva di cibo più sistematicamente che nelle sterili regioni
dell’Australia Centrale. Quivi le tribù sono divise in un certo numero di clan
totemici, ognuno dei quali è incaricato di moltiplicare i suoi totem per il bene
della comunità, per mezzo di cerimonie magiche. La maggior parte dei totem
sono animali e piante commestibili, ed il risultato generale che si suppone
ottenuto da queste cerimonie è quello di provvedere la tribù del cibo e delle
altre cose necessarie. Spesso i riti consistono in un’imitazione dell’effetto che il
popolo vuoi produrre: in altre parole la loro magia è omeopatica o imitativa».

Osserviamo, del resto, le stesse cerimonie che il


totemismo comporta. Si ha in esse la rievocazione del
passato, si rivive in esse la storia del clan, e quel passato e
quella storia sono lo spirito della famiglia. Ma questo
passato non si rivive in senso utilitario, e per di più con una
serie di gesti che riproducono gli atti dell’antenato stesso?
Fai questo perché succeda quest’altro: ecco la massima di
quelle cerimonie. Le quali presuppongono la presenza
stessa del totem. Il che comporta nei suoi riguardi l’altro
precetto magico: non fare questo perché non succeda
quest’altro. E non a te, uomo singolo, ma a tutto il clan di
cui fai parte. Osserviamo inoltre i miti o le leggende che si
legano al totemismo. Esse sono sempre la narrazione dei
rapporti che passano fra il clan e il totem stesso, i
particolari dell’origine del gruppo totemico, i prodigi della
metamorfosi del totem in essere umano. In altre parole
l’uomo primitivo crede. E mentre i riti e i culti sono, come
nella magia, le forme operanti del suo pensiero, allo stesso
modo i miti e le leggende ne saranno le forme parlate. Ma
fra quelle due forme non vi sono né abissi né distacchi:
soltanto trapassi.

5. Il folklore nel concetto del Frazer

Concepita dunque la magia, in cui rientra il totemismo,


come un tessuto di errori, essa viene assunta come criterio
di interpreta-zione per chiarire e illuminare i culti, i miti e i
riti dell’antichità classica. A volte, in tal caso, le sue note
sono rapide, direi alla Lafitau. Così, ad esempio, parlando
della magia contagiosa osserva:

«Possiamo ora comprendere perché una massima di Pitagora diceva di toglier


via l’impronta lasciata dal corpo quando ci si alza dal letto. Il precetto non era
che una precauzione contro la magia, facente parte di un intero codice di
massime superstiziose che l’antichità attribuiva a Pitagora, sebbene senza
alcun dubbio fossero familiari ai progenitori barbarici dei Greci, molto prima
dei tempi di quel filosofo».

Ma, altre volte invece, i suoi excursus sulle civiltà


classiche sono vere e proprie trattazioni in cui la magia fa
da quadro generale. Insegni il caso stesso del Re del Bosco,
che è insieme il coro e la voce dominante del Golden
Bough. Ma insegni anche il Folklore in the Old Testament,
oltre i commentari di Ovidio e di Pausania. Sembra che il
Frazer voglia dire come Lafitau: i vostri Greci, i vostri
Romani non erano poi tanto lontani dal pensare come la
pensavano i barbari. E i suoi quadri ecco, poi, quasi di
rincalzo, che si animano del folklore, vale a dire delle
sopravvivenze che tuttora rimangono nel seno delle nostre
civiltà. È allora, si può dire, che il folklore viene assunto
come controprova stessa delle sue asserzioni. Con questa
differenza, rispetto al Tylor: che in quei quadri il folklore
finirà col diventarne l’anima. Il Frazer, nella sua immensa
opera, così come non ha trascurato un culto, un mito, una
credenza dell’antichità classica, allo stesso modo ha avuto
presenti quasi tutte quelle espressioni che allo Herder
apparivano, ed erano davvero, voci dell’umanità. Il folklore
europeo si ricompone infatti nelle sue opere, dandoci
appunto l’espressione dell’umanità stessa: un’umanità
ricca, immaginosa, viva, calda, che si effonde nelle
credenze, palpita nei suoi spettacoli, si esprime nei suoi
racconti e nelle sue leggende.
Nel Golden Bough il Frazer è costretto, tra l’altro, ad
affrontare un campo di indagini su cui aveva lungamente
arato il Mannhardt: il culto degli alberi. Si è detto che il
Frazer popolarizzò in maniera suggestiva le teorie esposte
nei Wald- und Feldkulte (che pur era stato di stimolo a tanti
altri studiosi). Ed è vero. Ma il Frazer – che pur riconosce
quanto deve al Mannhardt – è veramente sulla stessa linea?
Nella prefazione con cui egli presenta l’edizione ridotta del
Golden Bough avverte:

«Se nel presente lavoro ho indugiato alquanto sopra il culto degli alberi, ciò
non dipende, confido, perché io esageri la sua importanza nella storia delle
religioni ed anche meno perché io ne voglia dedurre un intero sistema di
mitologia. È semplicemente perché non posso passare sotto silenzio questo
soggetto cercando di spiegare il significato di un sacerdote che porta il titolo
del Re del Bosco e di cui una delle funzioni era di strappare un ramo – il Ramo
d’oro – da un albero sacro. Ma sono talmente lontano dal considerare la
venerazione degli alberi come cosa di suprema importanza nella evoluzione
delle religioni, che io la considero subordinata ad altri fattori».
Questa evidentemente è una messa a punto con la quale
egli riduce a giuste proporzioni la teoria del Mannhardt.
Non v’è dubbio però che egli, ove quel culto venga
circoscritto, accoglie in fondo molte premesse dello stesso
Mannhardt. Si legga, ad esempio, il suo esame dedicato
alle vestigia del culto degli alberi nell’Europa moderna. Si
tratta di vere e proprie escursioni in cui lo stesso folklore ci
si presenta sotto uno dei suoi aspetti più poetici. Ebbene: è
qui che egli senz’altro fa sue le opinioni del Mannhardt, e
cioè che nelle processioni primaverili lo spirito della
vegetazione è spesso rappresentato dall’albero. Oppure si
leggano le sue pagine dedicate all’uccisione dello spirito
dell’albero. Anche qui egli chiede l’alto appoggio del
Mannhardt. E nel Golden Bough, in sostanza, il Mannhardt
è pur sempre presente. Con questa innovazione, però: che,
s’egli accetta il Mannhardt, lo piega pur sempre al suo
sistema, in base a cui il culto degli alberi non è che un
aspetto della magia, la quale ancor oggi domina
incontrastata nella vita dei volghi dei popoli civili.

6. Magia e religione

Ogni tradizione che vive in questi volghi viene quindi


ricondotta dal Frazer a un rito, il rito a una credenza, la
credenza a un sistema di idee. E il folklore par quasi che
assuma il corso di un fiume che nessuna civiltà può
arginare, perché in fondo anch’esso è un aspetto di quella
civiltà. Questa la conclusione del Frazer: ma qual è la via
attraverso cui egli vi è giunto? E attraverso quale
travaglio?
Nel seguire le vie di questo corso, la prima via che si
dischiude al Frazer è quella dei popoli primitivi. Comte,
allora, è sempre presente nella sua opera. Anche lui, come
Tylor, è convinto che i selvaggi di oggi sono tali in senso
relativo e non in senso assoluto. Eppure lì, fra i selvaggi, è
il suo prima cronologico. Nel chiarire i rapporti fra
etnologia e folklore lo stesso Frazer osserva che «i nostri
predecessori furono una volta dei selvaggi i quali avrebbero
trasmesso ai loro discendenti le loro idee e le istituzioni». E
in proposito osserva:

«Il disprezzo, il ridicolo, la ripugnanza, il biasimo sono troppo spesso il solo


riconoscimento concesso al selvaggio e ai suoi costumi. Tuttavia, tra i
benefattori che siamo tenuti a commemorare con riconoscenza, molti, e forse i
più, sono i selvaggi. Perché, in fin dei conti, le nostre somiglianze con i selvaggi
sono ben più numerose che le differenze: e quello che abbiamo in comune con
loro, e che riteniamo vero e utile, lo dobbiamo ai nostri progenitori selvaggi che
acquistarono lentamente con l’esperienza e ci tramandarono in eredità quelle
idee apparentemente fondamentali che siamo portati a considerare come
originali e intuitive. Noi siamo come gli eredi di una fortuna tramandata da
tanti secoli che si è perduta la memoria di quelli che l’hanno costruita, sicché i
possessori del momento la considerano come un possesso originale e
inalterabile della razza umana».
Il Frazer vuole evocare questa memoria. E il mondo dei
selvaggi, quel mondo che i teorici dell’Illuminismo avevano
esaltato, diventa così lo stesso mondo del Frazer, il quale in
esso vede il passato. E nel passato l’importanza assunta
dalla magia, che pur di quel passato non è che un aspetto
particolare. Senonché come vede egli questa magia? Lo
abbiamo notato: come un tessuto di errori, di false
associazioni di idee, frutto di ignoranza. La sua è una
conclusione induttiva, la quale convoglia in sé la premessa
che la magia sia una forma elementare rispetto alla
religione, che è una forma superiore. C’è in lui insomma
l’illuminista che si è convcrtito alla religione. Ma
giudicando in quel modo la magia, egli non si mette nella
posizione di quei dotti che vorrebbe condannare?
È ovvio infatti osservare che la magia, se per noi può
costituire un errore, una superstizione, non lo è affatto per
i selvaggi, per i quali essa è una forma storica di pensiero
nella quale si avvicendano idee, paure, angoscie, fughe,
patimenti ecc. Lo stesso Frazer considera la magia come un
tentativo inteso a estendere i confini della propria facoltà di
fare o di produrre qualcosa. Bene: ma allora come può egli
conciliare quel tentativo, che è appunto l’attività di un
essere cosciente e intelligente, con la sua medesima
condanna, la quale sentenzia che il selvaggio sarebbe
soggetto a far uso soltanto della categoria di contiguità?
Il Frazer, ligio ai suoi principi evoluzionistici, secondo i
quali ciò che è semplice è prima nel tempo, colloca la
magia all’inizio del pensiero umano. Ma chi ci dirà mai se
per l’uomo veramente primitivo non sia stata più semplice
la concezione di un Dio, anziché quella di un potere
magico? E se effettivamente nel passaggio dalla magia alla
religione – quale lo suppone il Frazer – avesse agito una
causa psicologica, dovuta allo spirito dell’uomo,
esisterebbero oggi in mezzo alle nostre società tutte quelle
credenze di carattere squisitamente magico di cui è ricco
non solo il folklore, ma tutta la nostra vita?
Il fatto è che la magia non può porsi come un prima che
porta ad assumere arbitrariamente un momento o aspetto
del corso storico, né come la condizione necessaria (e la
sola necessaria) del resto, e tanto meno, come si è poi
obbiettato al Frazer, come un dopo. Ammettiamo,
senz’altro, che la magia vada nettamente distinta dalla
religione. Ma l’una e l’altra non sono, né possono non
esserlo, che due gradi di pensiero. E soltanto, come tali, del
pensiero storico. Pertanto è vano ricercare in essi una
minore (magia) o maggiore (religione) intelligenza, una
maggiore o minore elementarità dello spirito. Magia e
religione sono in tali casi concetti empirici, classificazioni
che indicano un più o un meno rispetto al prevalere di una
determinata concezione del mondo e dei rapporti di esso
con l’uomo. Religione è la divinità concepita libera rispetto
all’uomo. Magia è una forza assoggettabile all’azione
costruttiva dell’uomo. E magia e religione nascono e si
sviluppano dall’esperienza del primitivo, e cioè da un
atteggiamento dello spirito, il quale, secondo determinate
condizioni storiche, si invera nell’una o nell’altra, oppure
prevale nell’una anziché nell’altra.
La verità può anche nascere da un errore. Ma a un patto:
che l’errore venga considerato come un atto logico. È vero
che la storia può nascere anche da un’illusione. Ma a un
patto: che quell’illusione sia appunto il portato di una
esperienza umana. Del negativo, è evidente, non si fa
storia.

7. «Domandare altri primi»

In realtà però il Frazer, pur considerando la magia come


un tessuto di errori, vuoi fare di essa non solo la storia, ma
il comincia-mento della storia. Un buon avvocato deve
sapere accusare anche il suo cliente per passar poi meglio,
e con più credito, alla sua difesa. E la sua difesa consiste in
ciò. Egli ritiene, sì, che la magia è un tessuto di errori, di
concezioni assurde, una forma di superstizione; ma ritiene
altresì che da quegli errori, da quelle concezioni, da quella
superstizione è derivata una grande utilità alla vita umana.
Nel Devil’s Advocate il Frazer riprende infatti i concetti
da lui sostenuti nelle sue varie opere. E afferma: 1, che
presso certi popoli e certe razze la superstizione ha
consolidato il rispetto del governo, contribuendo allo
stabilimento dell’ordine sociale; 2, che presso certe razze e
in certe epoche la superstizione ha consolidato il rispetto
della proprietà privata, contribuendo ad assicurarne il
godimento; 3, che presso certe razze e in certe epoche la
superstizione ha consolidato il rispetto del matrimonio,
contribuendo anche a una maggiore osservanza delle
regole della morale sessuale; 4, che presso certe razze e
certi popoli la superstizione ha consolidato il rispetto della
vita umana.
Queste istituzioni (governo, proprietà, matrimonio,
rispetto della vita umana) sono, aggiunge il Frazer, la vita
stessa della società umana. Distrutti quei pilastri, cade la
società. E qui, almeno apparentemente, siamo sullo stesso
piano del Vico, il quale, come è noto, fondava la civiltà
stessa su tre umani costumi. Senonché, mentre nel Vico
quelle istituzioni si collegano al processo della storia, dove
si avvicendano corsi e ricorsi, nel Frazer quel processo si
identifica col postulato della teoria dell’evoluzione
organica, la quale sostiene che per sapere che cosa sia
l’uomo bisogna anzitutto conoscere la sua origine. Come se
l’origine dell’uomo non fosse insita nello sviluppo stesso
delle sue istituzioni. Il Vico ricercava la genesi dei fatti
nell’mtimo della loro stessa natura, la quale è la sola che ci
da le «guise del conoscimento». E ammoniva: «Quello che
fece il mondo delle nazioni fu per niente, perché il fecero
gli uomini con intelligenza; non fu fatto perché il fecero con
elezione; non caso perché con perpetuità, sempre così
facendo meno le medesime cose». Ecco perché, conosciuta
la natura eterna delle cose, è «stolta curiosità domandare
altri primi».
Il Frazer invece è alla ricerca disperata di questi primi,
del prima e del poi, l’uno e l’altro attribuiti, nel campo dei
primitivi, a una mentalità indifferenziata, alla quale si
assimila l’anima stessa dei volghi dei popoli civili. Così
come egli crede al progresso illimitato, crede anche a una
comparazione dedotta esclusivamente dalla uniformità
umana. E stabilite queste premesse, ecco la sua ambizione:
spalancare le porte a una storia universale dell’umanità.
Questa l’ambizione stessa della sua opera, la quale rimane
inficiata dal falso concetto di una filosofia della storia, che
nel caso specifico altro non era che quello dell’evoluzione;
da quello di una sociologia che collega Comte con Tylor
attraverso Bastian; infine da quello di una storia universale
in cui si inverano tanto la filosofia della storia quanto la
sociologia.

8. Stimoli e suggestioni dell’opera frazeriana

Eppure, nonostante questi e altri difetti, può dirsi


dell’opera del Frazer quel che egli stesso pensava della
magia, la quale dai suoi errori fa scaturire tanta utilità.
Distaccate i quadri che ci dipinge il Frazer dal contesto
delle sue teorie, dal prima e dal poi; considerate gli istituti
che egli ci rappresenta, animandoli di una propria vita nella
loro natura, che è poi la loro effettiva natura storica;
esaminate i suoi excursus nell’impeto potente delle
atmosfere che si sanno creare: ed ecco che allora avrete un
Frazer, il quale non manca di darci delle pagine, egli
naturalista, di interesse strettamente storico. Si direbbe
anzi che il Frazer diventa storico quando dimentica di voler
essere tale.
Non mancano infatti nella sua opera interpretazioni felici
su vari problemi etnologici, messe a punto penetranti,
accostamenti che, pur posti sul terreno dalla natura,
rivelano di per se stessi una natura storica. Come quelle del
Tylor, come quelle del Mannhardt, le pagine del Frazer che
hanno un profondo interesse storico sono quelle in cui egli
lega in senso ideale le credenze dei volghi dei popoli civili
con quelle dei popoli primitivi, onde l’etnologia e il folklore
si fanno allora veramente storia contemporanea. È allora
che quelle tradizioni si ravvivano e diventano vita stessa
della storia. Vero: egli è dell’avviso che le tradizioni
popolari sono dei fossili per l’idea primitiva che possono
contenere. Ma poi con quale e con quanta cura egli ne
indaga la natura! Lo stesso Frazer del resto osserva quelle
tradizioni nelle loro varianti, nelle loro somiglianze, ma
anche nelle loro differenze. Ed ecco allora che egli si
impone alla nostra attenzione per la finezza stessa con la
quale collega i materiali nell’ambito di determinate
connessioni culturali e soprattutto per la disposizione di
animo, virtualmente poetica, con cui egli lumeggia quelle
connessioni. È qui che il Frazer porta non solo una
sensibilità più raffinata rispetto ai suoi predecessori, ma
direi la civetteria di una intelligenza che fa dello scienziato
un poeta.
Partito, insomma, con la missione dello storico alla
ricerca della storia dell’umanità, il Frazer non sempre
assolve felicemente questo compito, ma in ogni caso rivela
qualità eccezionali di letterato, di artista, di poeta. Egli
stesso, d’altro lato, negli ultimi anni della sua vita, e ciò sia
detto a suo onore, comprese che in cambio della storia
dell’umanità ci aveva dato piuttosto i documenti di essa:

«Se non ci inganniamo, i fatti da noi accumulati assumeranno col tempo un


valore e un pregio che le nostre teorie non conosceranno mai. Noi pensiamo
dunque che, se le nostre opere troveranno posto nelle biblioteche dei nostri
posteri, ciò avverrà per le costumanze e le credenze strane che vi sono
descritte, anziché per le teorie da noi costruite per interpretarle».

Ma non è questa, a dire il vero, l’epigrafe che si addice al


Frazer. Nella sua opera in cui sono affrontati i problemi che
affliggono l’umanità – e al tempo stesso la illuminano,
perché le danno uno scopo e una dignità, quali che siano –,
egli ha saputo darci non solo degli ammaestramenti tuttora
utili, sia per lo studio dell’etnologia sia per quello del
folklore, ma è riuscito a creare una fitta rete di interessi
culturali, i quali coinvolgono tutte le discipline storiche e
morali. Il Frazer completa insomma Lafitau, Fontenelle,
Rousseau con Herder, coi Grimm e col Pitrè. E le sue
teorie, tutte, possono passare tramontare e morire, come è
avvenuto di alcune di esse, o per lo meno di quelle che egli
stesso riteneva fondamentali. Ma questo tramonto non le
priva di una forza suggestiva che si irradia nel pensiero di
chi torna a meditarle. E l’avvocato, appunto per questo, ha
vinto la sua causa.
24. Il primitivo che è in noi

1. Lang e il metodo del folklore

La Primitive Culture e il Golden Bough si possono


considerare come i pilastri fondamentali su cui si regge la
scuola antropologica inglese, la quale ebbe indubbiamente
il merito, anche per l’influsso che essa esercitò in tutti i
paesi europei, di promuovere in maniera ormai decisa e
decisiva l’allargamento e l’approfondimento della cultura,
mediante la mediazione dell’etnologia e del folklore. Si
aggiunga che l’opera del Mannhardt aveva dato a tale
scuola un nuovo impulso. E così come il Frazer si era
avvalso della metodologia, se non della problematica del
Tylor, rinverdendola con le nuove idee del Mannhardt, allo
stesso modo noi vediamo che questi studiosi furono
presenti nell’opera dei loro compagni di lavoro o dei loro
successori, i quali si accinsero, con fervore di intenti, a
porre la loro fede e la loro attività al servizio di quella
disciplina che essi chiamavano antropologia sociale, ma che
altro non era se non un particolare campo di possibili
ricerche storiche.
È il caso, ad esempio, di Andrew Lang, il cui noviziato si
svolse sotto l’influsso del Tylor in netta opposizione al
Müller. Poeta di una certa raffinatezza, studioso e
traduttore di Aristotele e di Omero, storico della sua
Scozia, il Lang, in quel suo noviziato, ebbe uno scopo
precipuo: studiare la mitologia. E la mitologia, coi vari
problemi che essa comporta, sarà appunto il nucleo attorno
a cui convergeranno le sue ricerche, nelle quali anch’egli
collegherà gli interessi inerenti alle civiltà classiche con
quelli che nella sua mente susciteranno l’etnologia e il
folklore.
Lo stesso Lang, del resto, parlando appunto del folklore,
in un suo saggio di notevole interesse The Method of
Folklore (raccolto nel volume Custom and Myth, che è del
1884) non mancò di esporre il suo credo. E il suo credo è
questo: 1, che, ove si voglia studiare il folklore, bisogna
applicare il metodo antropologico; 2, che il folklore non
comprende soltanto le credenze e i costumi, ma anche le
leggende e i canti, ove si pensi che tanto le leggende
quanto i canti possono rivelarci delle sopravvivenze; 3, che
il folklore per studiare se stesso ha bisogno dell’etnologia;
4, che, applicando allo studio del folklore le ricerche
etnologiche, noi stabiliamo dei confronti; 5, che da tali
confronti risultano delle grandi somiglianze non solo tra i
volghi dei popoli civili e le civiltà classiche o comunque
ariane, ma con tutto il mondo, e quindi anche coi popoli
primitivi (o selvaggi, come anch’egli li chiama); 6, che per
comprendere tali confronti e tali somiglianze non è
necessario che i popoli, fra cui le somiglianze vengono
constatate, siano della stessa origine o siano stati in
rapporto con loro, perché condizioni simili di mentalità
producono credenze e pratiche simili; il che non deve
impedire al folklorista, prima di accogliere
indiscriminatamente tale spiegazione, di vedere se vi sia
stata in un popolo l’effettiva importazione di qualche tema
etnico.
Convogliati i suoi interessi nello studio del mito e quindi
della fiaba, il Lang si preoccupò soprattutto di vedere quale
fosse la natura etnologica di queste produzioni. Esiste, egli
si domanda col Tylor, una mentalità in cui i miti sembrano
davvero delle cose credibili e naturali? E come il Tylor
risponde: esiste, ma fra i selvaggi. Né quella risposta lo
appaga. In un altro suo saggio (raccolto poi nel primo
volume della sua opera Myth, Ritual and Religion, che è del
1887) il Lang non è infatti alieno dall’ammettere che il
selvaggio d’oggi, il selvaggio di cui noi abbiamo una
documentazione filologica e storica, sia tutt’altro che il vero
primitivo. A lui non importa comunque conoscere quale sia
stata la vera condizione primitiva dell’uomo –
atteggiamento questo che ricorda Rousseau. Gli importa
constatare una legge: e cioè che tutti gli antenati delle
razze attuali siano passati da uno stato analogo a quello dei
selvaggi. Ora lo stato selvaggio, aggiunge, è uno stadio che
tutte le società hanno attraversato, o almeno uno stato
sociale da cui tutte le società hanno avuto dei prestiti. È
evidente perciò, egli incalza, che nei selvaggi si debba
trovare la chiave stessa per l’interpretazione dei miti e di
conseguenza la confutazione più evidente contro la teoria
mitologica del Müller. A distruggere tale teoria, d’altra
parte, gli era bastato il Mannhardt. A creare la sua gli
bastava Tylor, per quanto sarebbe meglio dire Fontenelle
riveduto dal Tylor. In realtà, però, mentre nella trattazione
del Tylor il mito e la favola non erano che cornice, nel Lang
diventano quadro. Il Lang insomma raccoglie i fili dispersi,
li vivifica, li ravviva, ne fa un tessuto compatto e omogeneo.
E dentro questo tessuto ecco il mito, il quale, pertanto, non
si spiega con se stesso e tanto meno con le sue parole o con
le radici di queste parole, bensì con lo studio comparato
delle istituzioni, delle leggi e dei costumi, quali si ritrovano
oggi fra i selvaggi e che hanno per fondamento determinate
credenze. Ora per il selvaggio il mito non è che la
proiezione di queste credenze. Ecco perché esso è una cosa
credi bile e naturale. Ecco perché esso si riattacca a un
pubblico motivo di vero. Si potrebbe dire in tal senso che
egli fa sua una massima del Vico e cioè che idee uniformi
nate tra popoli sconosciuti, tra loro debbono aver un
principio di vero. Senonché queste idee uniformi, che per il
Vico altro non sono se non le tendenze universali del nostro
spirito, vengono sostituite dal Lang con la uniformità della
vita dei primitivi, onde in lui il prima ideale del Vico si
converte in un primo cronologico come appunto era
avvenuto nel Comte e dopo di lui nel Tylor e nel Frazer.

2. Fiabe, miti e costumi

Composto ad ogni modo il quadro, il Lang passa alla


esemplificazione. E qui è il contributo personale che egli
porta allo studio del mito e della favola. Punto di partenza
anche qui: Tylor. O meglio, l’animismo del Tylor. Accolta
infatti la teoria della concezione degli spiriti, egli, come il
Tylor, ma ancora una volta aiutato dal Mannhardt, la
estende alle fate, alle streghe, agli animali che parlano. Il
Lang sente, con tutto il suo fascino, il mondo della fiaba. È
noto che egli stesso nel 1888 iniziò la pubblicazione di
quelle strenne che ogni anno, per Natale, alimentava con
nuove fairy tales e romances. Ed è noto altresì con quanta
cura egli attese alla traduzione dei Contes di Perrault e dei
Märchen dei Grimm. Contemporaneamente i protagonisti di
quelle fiabe, di quei Märchen, ch’egli faceva vivere nella
loro vita fantastica, nei saggi del suo Custom and Myth e in
quelli più numerosi di Myth, Ritual and Religion, vengono
riportati lontani nel tempo e nello spazio, anatomizzati
nell’atto stesso del loro presunto nascimento.
Alla base di questo nascimento è il mondo dei primitivi,
le loro credenze, la loro fede, il loro sperare. Si era detto
che Psiche, per riferirci a un esempio classico,
simboleggiava l’aurora che si nasconde all’apparire del
sole. Ma qual è il tema principale di quel racconto che sotto
forme diverse noi troviamo un po’ da per tutto? Eccolo: è il
tema della sposa colpevole di aver veduto nudo lo sposo.
Bene: non è più logico ravvisare in esso la proiezione di un
tabù che è comune a molti popoli primitivi oltre che agli
Spartani e ai Malesi dell’antichità? Secondo tale tabù era
proibito agli sposi di vedersi nudi. Conseguenza: è in quel
tabù il nascimento stesso di quel tema. Le nostre favole,
come i nostri miti, son pieni di oggetti che parlano. Il che
per noi è inspiegabile, tranne che non facciamo appello alla
fantasia. Ma i selvaggi, in base alle loro concezioni
animistiche, non credono davvero che gli oggetti parlano?
Nelle nostre favole noi incontriamo uomini che si
trasformano in animali, animali che si trasformano in
uomini. Anche qui fantasia per noi. Ma fra i primitivi quelle
trasformazioni non sono il risultato stesso delle loro
credenze totemiche? È pacifico, pertanto, osservare in base
a questi esempi che il fondo delle fiabe (i luoghi comuni,
diremmo noi) riposa in antiche usanze o credenze che noi
più non intendiamo, ma che intendono i primitivi. Anche
nello studio della fiaba è valido dunque il concetto di
sopravvivenza. Frutto di una determinata fase del pensiero,
la fiaba è l’espressione stessa di quel pensiero. Ma,
emigrando, essa perde il significato che l’animava. Lo ha
perduto, in gran parte, nelle stesse civiltà classiche. Lo
perderà a maggior ragione fra i volghi dei popoli civili.
Senonché – ecco il punto – l’Artemide dei popoli selvaggi
sarà quella dei popoli classici?
Non si può certo negare che nelle fiabe, come nei miti, si
possono effettivamente riscontrare dei temi e dei motivi
che noi sotto forma di credenze troviamo fra i selvaggi. E
come tale la ricerca è pienamente valida. Ma a un patto:
che essa sia contenuta dentro i suoi legittimi confini, i quali
nulla tolgono o aggiungono al mito e alla fiaba in sede
artistica. In realtà nel ricercare fra i selvaggi l’origine dei
miti, delle credenze ecc., il Lang forzò un po’ la mano,
nonostante l’ultimo articolo del suo credo folkloristico. Si
deve osservare tuttavia che egli stesso, nella prefazione
con cui presentava la Cinderella della Cox, ebbe ad
affermare che la genealogia delle fiabe popolari può essere
così distinta: 1, fiaba o mito, di origine probabilmente
selvaggia; 2, fiaba degli odierni volghi dei popoli civili; 3,
mito eroico dell’antica letteratura; 4, versione di moderna
letteratura. Dunque: una fonte, non la fonte. Né con ciò il
Lang, letterato e poeta, intendeva minimamente intaccare
l’apporto personale che ai temi o ai motivi novellistici può
portare il poeta che racconta i miti o il narratore che
rielabora le fiabe. A lui, ricercatore di fonti, come in altro
senso lo erano stati il Benfey, il Paris e il Rajna, interessa
ravvisare nelle credenze, nei miti o nei riti l’evoluzione
delle idee dal barbaro al civile (quand’egli invece avrebbe
dovuto fermarsi, se mai, allo studio di quelle idee). Gli
interessa però affermare, e qui la validità delle sue
ricerche, la poli-genesi del mito e della fiaba. In fondo egli
giungeva così in sede etnografica alle stesse conclusioni cui
il Bédier giungerà in sede estetica. Né è senza significato
che fu proprio lo stesso Bédier a concedere alla teoria
antropologica della novellistica popolare delle possibilità
interpretative.
3. Alla ricerca della fede primitiva

È chiaro che queste possibilità rimanevano collegate


all’interpre-tazione stessa dei fatti etnologici. Ma questi
fatti sono veramente dominati dal Lang col suo pensiero?
Nel presentare la traduzione francese di Myth, Ritual and
Religion, un noto storico delle religioni, il Marillier, ebbe a
osservare che tale opera «porta lo stampo del tempo in cui
fu composta come quello del temperamento dello stesso
Lang». E aggiungeva:

«L’autore l’ha scritta non tanto per determinare a quali leggi siano soggetti
nella loro genesi e nel loro sviluppo le cerimonie e i miti, quanto per mostrare
la fragilità dei fondamenti sui quali è stata edificata una teoria ch’egli a buon
diritto giudicava falsa. Non per esse e in esse egli studia le credenze dei
selvaggi, ma per le analogie che tale o tal’altra leggenda offre con qualcuno dei
grandi miti dell’antichità; e s’egli paragona tra loro queste due serie di fatti non
è tanto per ridurli più intelligibili, quanto per provare la vanità di un metodo di
interpretazione».

Né si può negare che in questa osservazione vi sia del


vero, per quanto in effetti lo sforzo del Lang fu appunto
inteso a rendere intelligibile tanto la genesi quanto lo
sviluppo delle novelle (anche se poi quella genesi e quello
sviluppo venivano contaminati da una polemica vivace, si,
ma troppo insistente). È certo però che egli si avvaleva
allora delle credenze selvagge così come le trovava nella
descrizione dei viaggiatori o nelle speculazioni degli
etnologi. La prefazione del Marillier è del 1896. Non
passeranno molti anni, e il Lang scenderà invece in campo
per studiare «le credenze dei selvaggi in esse e per esse».
Da qui i suoi volumi: The Making of Reli-gion, che è del
1898; Magic and Religion, che è del 1901; Social Origins,
che è del 1903; The Secret of Totem, che è del 1905. Nei
suoi primi volumi, nei volumi vale a dire del suo noviziato, il
Lang si era occupato dei miti non ariani sulla origine del
mondo e dell’uomo per vederne le origini. E gli dèi
occupano la maggior parte dei capitoli della sua opera
Myth, Ritual and Religion. Basta vedere i titoli stessi dei
capitoli: Miti greci relativi all’origine del mondo e
dell’uomo; Miti cosmogonici greci; Miti dei selvaggi relativi
agli Dei; Gli Dei delle razze inferiori; I miti degli Dei
dell’America; e così via. Ma allora egli si appagava dell’idea
che la religione fosse nata dall’animismo. Ora invece, e
questo è il nucleo della sua opera The Making of Religion,
egli sarà in netto contrasto con quella teoria. Non già nella
forma come lo era stato direttamente col Müller e
indirettamente col Benfey e col Cosquin. Tylor per lui era
sempre il Maestro; e la Primitive Culture il suo vangelo.
Ma in quel vangelo vi sono delle pagine che egli non
esita a staccare e distruggere. La Primitive Culture aveva
un’anima: l’animismo. Egli sa bene quale valore ha quella
teoria. Ma come conciliare con essa le testimonianze,
sempre più numerose, raccolte dagli etnografi, secondo le
quali anche fra i primitivi veniva accertata l’idea di quegli
esseri supremi che il Tylor aveva considerato come il
risultato di influenze missionarie?

4. Etnologia teologica

La teoria animista, osserverà pertanto il Lang nella sua


opera The Making of Religion, insegna che l’idea di spirito
sia sorta dai fenomeni del sonno, del sogno, della morte.
Senonché nell’essere supremo, quale questi appare fra i
primitivi, si può veramente ravvisare uno spirito? O
semplicemente un essere? E di rincalzo aggiunge:

«Non appena l’uomo ebbe l’idea di cose che si possono fare, egli potè
immaginare che qualcuno doveva aver fatto quelle cose che egli non arerà fatto
e non poteva fare. Questo fattore egli lo immaginò quindi come un uomo
grande, ma naturale… Concepita questa idea, divenne anche possibile idearne
la potenza, e la fantasia potè rivestire Colui che aveva fatto cose tanto utili di
certi altri attributi morali come quello della paternità, della bontà e della
vigilanza sulla moralità dei propri figli… In tutto ciò non vi è nulla di mistico e
nulla che, a quanto io vedo, superi le limitate facoltà mentali di esseri che
meritano il nome di uomini».

Nessun sensus numinis, dunque, secondo il Lang,


nessuna rivelazione divina in quel concetto. Commenta
però in proposito il Pettazzoni:
«La coincidenza con le dottrine teologiche c’era, ed era tale che doveva
apparire ad evidenza; e fu appunto essa il tratto che fu colto prima di ogni altro
nella nuova ipotesi del Lang e ad ogni modo quella da cui dipese la sua fortuna.
Conviene dire che a farlo più appariscente, a dargli risalto, il Lang stesso aveva
deliberatamente contribuito; che cedendo forse alla tendenza letteraria e
all’indole romantica del suo spirito non si era peritato di applicare alle
credenze selvagge una terminologia evangelica, citando san Paolo e i Padri
della Chiesa, e confrontando, per esempio, j. precetti tribali praticati dalle
società australiane, promulgate – secondo la credenza – dall’essere supremo,
con i comandamenti del Decalogo».

È vero, d’altra parte, che il Lang non volle mai dare una
risposta definitiva alla questione dell’origine della
religione. A lui bastava constatare il fatto – e ciò quando la
teoria dell’evoluzione imperava – che non era necessario
elaborare un nuovo concetto sulla religione, come aveva
fatto il Tylor, per trovare fra i primitivi la religione. Gli
bastava affermare, quindi, il principio che la credenza in un
Essere Supremo è presso i primitivi tanto antica quanto
l’animismo stesso. E ciò, a sua volta, lo portava a
respingere la precedenza della magia rispetto alla
religione, mentre egli non era alieno dal considerare nella
magia stessa delle forze che né il Tylor né il Frazer avevano
valutato: le forze, cioè, extranormali.
Alla luce di queste nuove idee egli rivide in gran parte i
suoi vecchi lavori. Li sveltì, attenuò la parte polemica,
diede loro un apparato etnologico più imponente. È del
1901 la ristampa di Myth, Ritual and Religion, mentre è del
1904 la ripubblicazione di Custom and Myth. La nuova
concezione che egli aveva manifestato intorno alla religione
non modificò tuttavia alcune sue vecchie affermazioni: e
cioè che le favole della mitologia erano nate in un
determinato stadio della vita umana, attraversato da tutti i
popoli e vissuto tuttora in gran parte dai popoli primitivi:
uno stadio in cui le cose che a noi sembrano prodigi erano
il prodotto di una fede sincera e commossa.

5. Hartland e i suoi studi sulla novellistica

Né diverso sarà l’atteggiamento che assumerà nei


riguardi di tale stadio un altro rappresentante della scuola
antropologica inglese, E. S. Hartland, i cui interessi
coincidono con quelli del Lang. Anche allo Hartland, infatti,
il mondo del folklore si dispiega col mito, con la favola.
Anche per lo Hartland il metodo valido per studiarne quelle
produzioni è il comparativo. Anche per lui tale metodo
presuppone la conoscenza più dettagliata dell’etnologia e
quindi dei suoi problemi.
È vero, d’altra parte, che lo Hartland – il quale fin dal
1898 aveva respinto l’idea dell’Esser Supremo, senza però
approfondirla – finirà più tardi, fra il 1905 e il 1908, col
riconoscere che l’animismo non si regge come teoria
generale, in quanto è il sentimento di ammirazione che ha
soggiogato il primitivo, e che magia e religione sono le due
facce di una stessa medaglia. Si deve osservare però che le
sue opere di largo respiro si muovono tutte fra le maglie
dell’animismo tyloriano e soprattutto della magia, quale
l’aveva concepito il Frazer.
E queste teorie, l’animismo e la magia, lo guidano nel
mondo delle fiabe. The Science of Fairy Tales si intitola un
trattato, edito per la prima volta nel 1891, che si propone
di dare un fondamento più saldo e più organico al problema
(etnologico) della novellistica popolare. Ma come imposta
egli questo problema? E come procede nel suo lavoro?
Nella sua The Science of Fairy Tales lo Hartland non solo si
dimostra buon filologo ma abbraccia lo studio della
novellistica con una visione quanto mai ampia, anche se poi
non mancheranno in lui delle incertezze. Egli afferma
infatti che il problema della novellistica popolare interessa
la tradizione e non la letteratura. Irrigidisce cioè un
principio per cui s’è detto, e a torto, che la scuola
antropologica inglese, così come ignora nello studio della
novellistica il problema della migrazione, allo stesso modo
ignora l’originalità fantastica e individuale. Si potrebbe
obiettare che questo può essere un aspetto della scuola
antropologica inglese, ma non il solo suo aspetto. Basta del
resto continuare a leggere lo stesso Hartland: ed ecco che
egli ricorda subito l’apporto che alle fiabe siciliane aveva
portato, ad esempio, Agatuzza Messia. E ne traccia un
commosso ritratto. Più avanti si ferma sui vari modi di
raccontare le storie di fate, che variano da popolo a popolo,
e ne esamina i temi e i motivi che riconduce alle credenze
animistiche, magiche o totemiche. Le fate diventano quindi
i protagonisti del suo colloquio. E in quel colloquio,
condotto alla maniera del Lang e del Frazer, noi vediamo
comparirci le fate che donano, ma anche quelle che rubano
i bambini o li sostituiscono. La fata: uno spirito di volta in
volta benigno o maligno. L’animismo è il suo atto di nascita.
La magia la sua vita. E in mezzo a quella vita si riflettono le
usanze più lontane, le credenze dei nostri antenati, il
nostro mondo stesso, non più vissuto, ma sognato.

6. La novellistica come tradizione

A completare il quadro stesso della novellistica popolare


lo Hartland scrisse altri due libri, il primo The Legend of
Perseus, edito fra il 1894 e il 1890, e l’altro, edito nel 1909,
Primitive Paternity, che illustra un altro mito: The Myth of
Supernatural Birth in Relation to the History of the Family.
È in queste opere che lo Hartland dimostra la sua
competenza non solo nel campo dell’etnologia e del
folklore, ma anche in quello della filologia classica. È in
queste opere che i suoi stessi confronti assumono
un’evidenza più persuasiva, mentre c’è in lui l’impegno di
dominare criticamente la materia trattata. Nel presentare
la prima opera, che contiene tre ampi volumi, osserva:

«In questi volumi io ho voluto tentare un esame del mito con principi scientifici
[cioè coi principi della scuola antropologica]. I primi tre capitoli del seguente
volume sono dedicati a una narrazione come essa ci vien data dai poeti e dagli
storici dell’antichità e come risulta dal folklore moderno. Esaminerò dapprima i
quattro motivi di quella narrazione. I capitoli successivi comprendono
un’inchiesta sulle forme analoghe della nascita miracolosa, quali esse ci
vengono documentate nella favola e nel costume in tutto il mondo. Seguiranno
quindi altre inchieste sui motivi connessi alla liberazione di Andromeda e alla
ricerca della testa della Gorgone. Analizzati così i temi e determinata, come
meglio mi è stato consentito dai mezzi di cui posso disporre, qual è la loro base,
posta nella credenza e nel costume e perciò in gran parte nella concezione
della vita dei selvaggi, io tornerò alla narrazione nel suo insieme e,
considerandola come opera d’arte, vedrò se mi sarà possibile di accertare quale
sia stata la sua forma primitiva, dove abbia avuto origine e come si sia diffusa
in Oriente».

Lo stesso metodo – che poi è quello del Golden Bough –


lo Hartland seguirà per l’altro suo volume. Nel primo egli ci
da un’ampia illustrazione intorno al concepimento,
all’origine del concepito e quindi all’incarnazione. E in ciò
ancora una volta egli è sulla via del Frazer. Ma più tardi, in
Primitive Paternity ritorna su quell’argomento che lo
impegna in una ricerca complessa, dove egli, se da un lato
esamina le leggende delle nascite soprannaturali, dall’altro
affronta le pratiche magiche dei primitivi intorno alla
concezione. Il quadro in tal modo gli si allarga, inteso
com’esso è ad illustrare i problemi stessi della famiglia,
della paternità, della discendenza quali essi nella loro
complessità, si presentano nel mondo dei primitivi. Di
particolare interesse sono infatti, nei due volumi, le ampie
indagini che compie sui riti matrimoniali oltre che sulle
differenti forme dell’unione coniugale: argomenti questi
che erano stati già affrontati fin dal 1891 dal Westermarck
nella sua History of Human Marriage e che verranno poi
ripresi, ma con ben altro impegno, dal Crawley nella sua
suggestiva opera, edita nel 1902, The Mystic Rose. Il
primo, un finlandese maturatosi in seno alla scuola
antropologica inglese, finirà però col riportare a stati
emozionali tutti i concetti morali cui si adeguano le stesse
istituzioni. E questo sarà il nucleo della sua opera The
Origin and Development of the Moral Ideas, edita fra il
1906 e il 1908: opera ricchissima per i materiali raccolti, di
grande utilità per la loro classificazione, ma inficiata da un
psicologismo che va al di là dei fini che si proponeva la
stessa scuola antropologica inglese. Il che non può dirsi del
Crawley, il quale in un altro suo lavoro, The Idea of Soul,
aveva ritenuto che l’animismo era un’idea troppo difficile
per i popoli primitivi.
La conoscenza dei riti matrimoniali, oltre che delle varie
forme di unioni coniugali (coi relativi tabù), quale si poteva
desumere in base alla vita di quei popoli, chiariva uno dei
lati più caratteristici del cosiddetto diritto popolare, il quale
aveva avuto dei buoni trattatisti nel russo Bogišč e
soprattutto nello spagnolo Costa. È evidente però che nello
Hartland gli usi e i riti nuziali si risolveranno in tanti temi
etnici da cui scaturivano altrettanti temi novellistici.
Sicché, anche per lui, il mito e la fiaba diventano, come nei
suoi predecessori, i veicoli che lo portano nel mondo dei
primitivi. E si dirà magari ch’egli, pur riconoscendo il
valore dei narratori, finisce per dimenticare qual è la vera
natura (artistica) di un mito o di una favola, i quali, intesi
come opere d’arte, non hanno altra fonte se non nell’animo
di chi li ricrea. Ma quando limita le sue ricerche ai temi
come tali – che è quanto dire ai temi come riflesso di usi, di
costumi ecc. –, non rende veramente più salde quelle
maglie già tese dal Lang e dal Frazer?
Vi saranno anche in lui, è vero, dei dommatismi. Il
quadro della novellistica popolare è comunque da lui
delineato con caratteri netti, precisi, persuasivi. Né si
discosterà molto da quel quadro un suo compagno di
lavoro. J. A. Mac Culloch, cui dobbiamo una brillante e
pittoresca trattazione, The Childood of Fiction, edita nel
1905, dove vengono ordinati in quindici gruppi (secondo i
temi, come, ad esempio, quello dell’anima separata dal
corpo, del sacrificio del figlio minore ecc.) i tratti
caratteristici di quelle favole che possono porsi in relazione
coi costumi e le credenze primitive.

7. A. B. Gomme e i giuochi fanciulleschi

Nello studiare il mondo della favola, che è poi il mondo


dei bimbi dove si ritrovano i grandi, gli antropologi inglesi
erano stati concordi nell’affermare che l’uomo racconta di
preferenza quel che vede. Né diverso si presentava per loro
il problema inerente ai giuochi fanciulleschi e alle
canzoncine che ai giuochi si riattaccano, anche se qui il
raccontare è anche un operare. L’uomo si affaccia appena
all’alba della vita. Eppure i suoi giochi non sembrano, a
volte, riportarci in una società primitiva, mentre le sue
canzoncine ne documentano credenze e ideali? Lo stesso
Tylor, che nella Primitive Culture si era occupato della
natura etnologica dei giuochi fanciulleschi, aveva scritto
nel 1879 un nutrito saggio The History of Games
(pubblicato in «The Fortnigthly Review») per chiarir meglio
quella natura. Lo avevano seguito il Lang e lo Hartland. Ma
c’era di più. Nel 1869 Louis Becq de Fouquières aveva
scritto un’opera Les jeux des anciens, dove dimostrava
come molti giuochi fanciulleschi ancora viventi nel folklore
(e già illustrati, ad esempio, dal Claudius, dall’Arwidson
ecc.), dovevano risalire all’antichità classica. Alcuni anni
dopo, nel 1889, un francese, Edouard Fournier, aveva
scritto una Histoire des jouets et des jeux d’enfants, dove
riaffermava che non sarebbe stato possibile scrivere una
storia completa della civiltà senza inserirvi un capitolo sui
giuochi e sui giocattoli.
È merito di Alice B. Gomme l’avere abbozzato questo
capitolo, dove ella, se da una parte si mostra filologa
intelligente e precisa nella raccolta dei testi, dall’altra
rianima quei testi applicando al loro studio i principi della
scuola antropologica inglese. La sua opera intitolata
Traditional Games of British Children, edita fra il 1894 e il
1897, vuole essere anzitutto una raccolta di testi. E come
tale la raccolta ha una classificazione razionale, la
descrizione dei giuochi è chiara, imponente il numero delle
varianti di cui l’autrice comprende l’interesse, accurata la
trascrizione dei motivi musicali che accompagnano le
cantilene dei bimbi o le filastrocche. Le si può
rimproverare, come fece il Pitrè, che essa limiti la sua
raccolta alle isole britanniche. Il che contrasta con il suo
scopo, che è quello di vedere nei giuochi la genesi, le
parentele, le analogie, il senso recondito. E ciò perché,
aggiungeva il Pitrè, «la diagnosi di un giuoco, di una fiaba,
di un indovinello non può farsi definitiva col sussidio di soli
due, tre popoli». Ma alla Gomme interessa stabilire un
panorama dove si possano poi inserire delle visioni
particolari. Di più le interessa vedere il giuoco in quella che
è o può essere la sua origine etnologica.
È allora che vediamo ricomporsi nel giuoco fanciullesco il
dramma stesso della vita, quale esso apparve non solo ai
popoli delle antiche civiltà classiche, ma anche e
soprattutto ai popoli primitivi. Anche il giuoco nasce dal
culto. Anch’esso è la proiezione di particolari costumanze.
Anch’esso rievoca i misteri del matrimonio, della morte ecc.
Ecco un bimbo che giuoca, innocente, con la sua trottola.
Dice un commentatore di Shakespeare, Steevens, che
questo giocattolo, un tempo di considerevole dimensione,
serviva nei villaggi «perché i contadini, quando faceva
freddo, si potessero riscaldare frustandolo, onde essere
così sottratti agli stravizi nelle ore d’ozio». Strumento di
utilità pubblica, dunque. Ma non è possibile, si domanda la
Gomme, che nel lancio della trottola rivivano invece usi
religiosi o magici? Secondo la sua opinione, pertanto, «la
trottola cui si imprime il movimento, facendola girare fra le
mani, sarebbe il prototipo di tutte le trottole più
complicate». E poiché «questo semplice trottolino è ancora
usato nei giuochi d’azzardo, nella roulette, per esempio, è
probabile che a somiglianza di molti altri giuochi abbia
servito di strumento in passato agli indovini e agli
stregoni». In realtà la prima ipotesi non esclude l’altra. Ma
ecco che in un altro villaggio un gruppo di ragazzi giuoca a
fare il mulinello, vale a dire a far circolare un fiammifero
acceso finché esso non si spenga nelle mani di un giocatore
che pagherà un pegno. Tylor aveva creduto di ravvisare in
quella pratica fanciullesca «un’atrocità dei Manichei… i
quali si divertivano a sgozzare un infante, che passava in
circolo di mano in mano, ricevendo una pugnalata da ogni
membro finché la piccola vita si spegneva sulle braccia di
uno dei crudeli eretici». La Gomme non esita invece a
riferirsi «all’antico uso di mandare ai clan, come segnale di
guerra, una croce di fuoco che era ansiosamente
sorvegliata da ciascuno perché non si spegnesse nel
proprio villaggio o nella propria casa». Né è improbabile,
ella aggiunge, che il pegno, in questo come in altri giuochi,
or risvegli l’idea di antiche cerimonie rituali, in cui ogni
infrazione al rito tradizionale fedelmente eseguito era
punita».
L’indagine di questi raffronti fra gli usi antichi e i giuochi
moderni non mancò di suscitare un vivo interesse fra gli
studiosi delle altre nazioni. Così, ad esempio, è del 1897 un
ampio trattato di F. Magnus Böhme, Deutsches Kinderlied
und Kinderspiel, dove le conclusioni della scuola
antropologica vengono temperate (per quanto il Böhme,
anche nell’altro suo lavoro Geschichte des Tanzes in
Deutschland, inclini a riportare tutto al periodo delle
origini germaniche). Più persuasivo e più completo, il
lavoro di uno studioso svedese, Yrjö Hirn, autore appunto
di un bel libro, Barnlek, edito nel 1916 (e tradotto in
italiano con il titolo: I giuochi dei bimbi), dove egli cercò di
allargare le indagini iniziate dalla Gomme con «alcuni
capitoli intorno a canzoni, danze e teatrini». Lo Hirn spirito
più sottile della Gomme (e anche più preparato, data la
enorme letteratura di cui poteva disporre), è molto più
abile nel mettere in luce la derivazione di determinati
giuochi da forme antiche del culto. Egli segue però soltanto
in parte la scuola antropologica inglese, cui si rifa per il
concetto pedagogico del giuoco. Lo Hirn, senza diminuire
infatti l’importanza dei giuochi pedagogici introdotti negli
asili e nei giardini d’infanzia, deplora che queste nuove
creazioni concorrano a far cadere in oblio gli antichi
giuochi. Senonché in questi giuochi non v’è appunto, come
osserva la Gomme, quanto v’è di più semplice nella natura
umana? Anche i bambini in quei vecchi giuochi sapevano
rivivere quel che di primitivo è in noi. E questo fu lo scopo
per cui la Gomme pubblicò nel 1894 i due preziosi
volumetti Children Singing Games. Questo lo scopo per cui,
alcuni anni più tardi, Edith Harwood trasse dall’opera
Traditional Games una serie di Old English Singing Games
per educare i bambini nordici.

8. L. B. Gomme, teorico del folklore

L’opera Traditional Games of British Children della


Gomme forma i primi due volumi di un progettato
vocabolario del folklore britannico con cui il marito,
Laurence B. Gomme, volle coronare la sua attività di
organizzatore degli studi di folklore in Inghilterra. Né, a
dire il vero, soltanto di organizzatore. Ligio rappresentante
della scuola antropologica inglese, il Gomme fin dal 1878
era stato l’anima, potremmo dire, di quella Folklore Society
che insieme al Tylor, al Frazer, al Lang e allo Hartland
raccoglieva tutti gli innumerevoli studiosi che allora si
erano rivolti, in Inghilterra, allo studio del folklore (per
quanto alcuni di essi, ad esempio, il Clodd, il Nutt e il
Ralston non oltrepassassero i limiti della divulgazione).
Organo di tale società il «Folklore Record», sostituito nel
1883 dal «Folklore Journal» e nel 1890 dal «Folklore»
(tuttora in vita). La società compilò allora un manuale che
lo stesso Gomme pubblicò nel 1887, l’Handbook of
Folklore, le cui linee furono rigidamente seguite anni dopo
dalla Bourne in un altro manuale che porta lo stesso titolo.
Il Gomme e la Bourne si rifanno in fondo al primo teorico
inglese del folklore, a William Thoms, il quale, quando nel
1847, ancora suggestionato dalla lettura della seconda
edizione della Mythologie del Grimm, coniò la parola
«folklore», aveva in mente la cultura tradizionale dei
contadini d’Europa. Con questa differenza: che il Gomme e
la Bourne (e questo fu ed è il programma di «Folklore»)
collegarono quella cultura col mondo dei primitivi. Chiarirà
il Gomme: «il folklore è la scienza che si occupa delle
sopravvivenze, delle credenze, dei costumi arcaici nei
tempi moderni». E in quella chiarificazione è il limite stesso
della scuola antropologica inglese. Era ovvio infatti, che
secondo quella definizione non potevano fare parte del
folklore né una credenza formatasi ai tempi nostri, né un
canto, né una novella sgorgati spontanei dall’anima di un
contadino di oggi. Il che era come dire: esaminiamo un
costume, vediamo se è una sopravvivenza e se lo è
possiamo dire che appartiene al folklore. Ma se non lo è, un
costume popolare cessa di essere tale? Il Gomme non si
pose la domanda; a lui interessava il passato del presente.
E questo metodo egli illustrò non solo in un vivace
volumetto, Ethnology in Folklore, edito nel 1892, ma anche
nel suo libro più celebre, vale a dire nel Folklore as an
Historical Science, edito nel 1908.
In quest’ultimo libro, e qui è la sua parte vitale, il
Gomme non ha, né vuole avere, che un programma:
dimostrare che il folklore è «una definitiva sezione della
disciplina storica»; tanto è vero, osserva, e qui egli è sulla
stessa linea che va da Voltaire a Pitrè, che «in molti punti la
pura storia vive intimamente legata al folklore». È vero che
il Gomme da questa sua premessa non trae tutte le
conseguenze; ed è vero altresì che egli ha della storia un
concetto positivistico; fatto è, però, che il suo libro è, e vuoi
essere, un chiaro ammonimento. Folklore as an Historical
Science. Ma non si tratta, in realtà, di dire soltanto che il
folklore è storia, bensì che esso va studiato col metodo
della storia.
25. Immortalità del folklore

1. L’Inghilterra e i suoi etnologi della filologia classica

A completare il quadro dentro cui si muove la scuola


antropologica inglese è necessario ora ricordare l’opera
svolta da quegli studiosi i cui interessi furono rivolti al
campo specifico delle civiltà classiche. È loro merito,
infatti, l’aver portato a frutto le ricerche che in quel campo,
auspice l’etnologia e il folklore, avevano compiuto o
venivano compiendo nella stessa Inghilterra, il Tylor, il
Frazer, il Lang, lo Hartland e i Gomme; e in Germania il
Mannhardt, il Rhode, l’Usener, il Dieterich.
Nel 1903 una studiosa vivace e brillante, J. E. Harrison,
nei suoi Prolegomena to the Study of Greek Religion
affermava:

«La religione greca come è esposta nei manuali popolari, e persino in certi
trattati di maggior pretesa, è soprattutto una questione di mitologia, e per di
più di mitologia così come la si può vedere attraverso il mezzo della
letteratura… Non si è fatto nessun tentativo serio per esaminare il rituale
greco. Eppure, è più facile accertare in modo definito i fatti del rituale; essi
sono più permanenti, e per lo meno altrettanto significativi. Ciò che un popolo
fa in rapporto ai suoi dèi deve sempre costituire una traccia, e forse la più
sicura, per giungere a capire ciò che pensa. Il primo preliminare per qualunque
comprensione scientifica della religione greca deve essere costituito da un
minuto esame del suo rituale».

Questo lo scopo dei Prolegomena, oltre che degli altri


libri della Harrison come, ad esempio, Themis, che è del
1912, e Ancient Art and Ritual, che è del 1913. Né diverso
è lo scopo che assolvono E. T. Farnell e A. B. Cook, al primo
dei quali dobbiamo l’opera The Cultes of the Greek States,
edita fra il 1896 e il 1909, mentre al secondo dobbiamo
l’opera Zeus, edita fra il 1914 e il 1919. L’uno e l’altro, il
Farnell e il Cook, affrontarono l’esame dei culti e dei riti
greci come dei fatti concreti prodottisi in una determinata
civiltà. Nel Farnell e nel Cook c’è l’impegno, però, di
chiarire culti e riti con l’apporto della comparazione. E
questa ecco che s’inserisce come metodo di lavoro non solo
nel campo dell’etnologia, ma anche in quello del folklore.
Altrettanto si può dire di un’altra opera, meno vasta ma
più geniale delle precedenti, la Origin of Tragedy di W.
Ridgeway, edita nel 1910 (e seguita da un’ampia appendice,
che costituirà il volume, edito qualche anno dopo, The
Drams and Dramatic Dances of Non-european Races).
Erano stati il Rohde e il Dieterich ad avanzare l’ipotesi che
la tragedia greca si dovesse far risalire, contro il parere di
Aristotele, ai misteri. Il Ridgeway andrà oltre. Per lui infatti
l’origine della tragedia si collega alle danze mimiche in
onore degli eroi (morti illustri, divinizzati). Il che ha le sue
controprove: da una parte le danze dello stesso tipo che si
svolgono fra i popoli primitivi; dall’altra le sopravvivenze
che rimangono nel carnevale moderno della Francia e della
Tessaglia. È la celebrazione di un morto, di un eroe morto e
divinizzato, che ha creato, insomma, la tragedia, la quale
soltanto più tardi si sarebbe innestata sul culto di Dioniso.
E la tesi del Ridgeway può essere integrata in questo
senso: che quel culto costituiva un aspetto dell’origine della
tragedia, non l’origine; ma è certo che essa fu, come
riconosce il Pickard-Canv bridge (autore di un’altra ben
nota opera, Dithyramb, Tragedy and Comedy, edita nel
1927) una pietra miliare posta nel campo della filologia
classica, la quale veniva, ancora una volta, a beneficiare del
contributo non solo dell’etnologia, ma anche del folklore, e
in particolar modo del folklore della Grecia moderna.
Ora è appunto in questa corrente di studi, che si
inserisce l’opera di uno studioso francese: Salomon
Reinach. Con questa differenza: che mentre i nuovi etnologi
della filologia ricorsero ai totem e ai tabù con abilità, con
discrezione e sempre dentro i limiti di una comparazione
chiamata a illustrare gli istituti presi singolarmente in
esame, il Reinach fece di tutto ciò che toccava dei totem e
dei tabù, trovandoli anche e soprattutto dove essi non
erano. Si aggiunga che mentre quei nuovi etnologi della
filologia richiamavano il passato non soltanto per sé, ma
anche e soprattutto per quel che aggiunge al presente, il
Reinach lo richiamava quasi come se proiettasse un’ombra
paurosa e immobile.

2. Reinach e le religioni

Scrittore vivace e impulsivo, il Reinach venne


pubblicando fin dal 1903 tutta una serie di saggi nella
«Revue Archéologique» allo scopo di dimostrare come il
totemismo, il tabù e la magia siano i fenomeni costitutivi di
tutte le religioni. Raccolti in sei volumi che egli intitolò
Cultes, Mythes et Religions (lo stesso titolo con cui era
stata tradotta in Francia l’opera del Lang, Myth, Ritual and
Religion) e che furono pubblicati fra il 1905 e il 1920, i
saggi ebbero un’appendice nel volume Orpheus. Varia è in
essi la materia trattata, ottime le pagine dedicate ai grandi
pionieri del folklore quali il Tylor, il Mannhardt, il Frazer, il
Lang; comprensivo il suo atteggiamento nei riguardi della
loro opera che ammira, che esalta e che giudica con spirito
sereno, sgombro da pregiudizi. Eppure nonostante ciò,
unica è la sua meta, anche se essa è in contrasto con quella
dei suoi predecessori ai quali egli non lesina lodi: porre,
per richiamarci a una frase del Frazer, nel disprezzo e nel
ridicolo tutte le religioni, tutti i culti, tutte le tradizioni, per
quanto egli ne riconosca la validità in determinati periodi
storici.
Convinto che tutta la storia dell’umanità è la storia di
una laicizzazione progressiva, il Reinach si propone, in
fondo, di ultimare questo progresso laico, annunciando la
buona novella delle religioni svelate. Scrive nell’Orpheus:

«Io sento profondamente la responsabilità che mi assumo esponendo per la


prima volta in un quadro di insieme le religioni considerate puramente e
semplicemente come fenomeni naturali. Se lo faccio, è perché credo che i
tempi siano ormai cambiati e che in questo, come negli altri campi, la religione
laica debba rivendicare i suoi diritti».

Il Reinach vuole dunque occuparsi di queste religioni da


storico. Ma uno storico può considerare le religioni come
fenomeni naturali? Lo stesso Reinach, d’altro lato, dopo
aver definito la religione come un insieme di scrupoli che
impediscono il libero esercizio delle nostre facoltà,
aggiunge:

«Ho cercato di stabilire che l’animismo da un lato e i tabù dall’altro possono


essere considerati come gli elementi principali della religione e della mitologia.
Ma non sono i soli: ve ne sono degli altri, i quali, pur essendo meno primitivi,
non hanno per questo avuto una efficacia meno generale… L’istinto sociale
dell’uomo primitivo, come quello del fanciullo, valica volentieri i confini, oltre
che della specie, anche del mondo organico al quale egli appartiene. L’illusione
dell’animismo lo riduce a riconoscere dappertutto spiriti simili al suo: così egli
annoda relazioni con loro, se ne fa degli amici e degli alleati. Questa tendenza
universale dello spirito umano si manifesta nel feticismo, che non è, come
credeva il Brosses, il culto di oggetti materiali, ma il commercio amichevole
dell’uomo con gli spiriti che crede vi abitino dentro. Ancor fanciullo, quando di
feticismo io non avevo sentito parlare, possedevo una conchiglia di colore
azzurro chiaro, che era per me un feticcio vero e proprio, perché, nel mio
pensiero, vi credevo allogato uno spirito protettore… Appena l’uomo primitivo
cede così alla tendenza di allargare quasi indefinitamente la cerchia delle sue
relazioni, siano esse vere o supposte, è ben naturale che egli vi comprenda
dentro certi animali e certi vegetali… Ben presto un medesimo scrupolo
protegge uomini e totem contro i suoi capricci e la sua violenza e sembra
attestare, per gli uni e gli altri, una comunanza di origine».

In tal modo tenta di conciliare Brosses con Tylor, mentre


al Tylor aggiunge Frazer. Ma si tratta di una conciliazione
più apparente che reale, ove si pensi, ad esempio, che lo
stesso Frazer non solo aveva nettamente distinto la magia
dalla religione, ma aveva considerato il tabù come un
aspetto particolare della magia. Il Reinach parte inoltre da
una premessa: il tabù è uno scrupolo non motivato. Ma,
come gli fece osservare il Loisy, il tabù non è proprio il
contrario? E poi con quale diritto si può considerare la
magia un fenomeno secondario rispetto al tabù stesso?
In realtà, come animismo, magia e tabù non bastano a
spiegare le religioni che sono il particolare campo di studio
del Reinach, allo stesso modo quei fenomeni – tutt’altro che
universali – non sono nemmeno sufficienti a spiegare il
concetto superstizione-sopravvivenza. È vero, d’altra parte,
che egli nello stesso Orpheus ammette:
«Se la teoria dei tabù e quella dei totem spiegano molte cose nelle religioni e
nelle mitologie tanto antiche quanto moderne, bisogna guardarsi dal credere
ch’esse spiegano tutto».

Ma se poi leggiamo i saggi raccolti nei Cultes, Mythes et


Religions, troviamo che egli vede dappertutto totem e tabù.
Nella stessa Francia le teorie della scuola antropologica
inglese avevano trovato ampia applicazione nei lavori del
Gaidoz e in quelli del Bérenger-Féraud. Ed è a quest’ultimo
anzi che nel primo volume delle sue Superstitions et
survivances, edito a Parigi nel 1895, si deve questa
definizione della sopravvivenza:

«Quando una pratica, un’idea, una formula è introdotta nel numero delle
conoscenze umane comuni, subisce un modificarsi incessante ed infinito senza
che perciò scompaia completamente».

Il Reinach è invece, e rimarrà sempre, in un


atteggiamento mentale completamente opposto. Le
modificazioni, in fondo, per lui non contano. Vi sono, ed è
ovvio, in seno alle civiltà, delle usanze delittuose ed è il
lavorio stesso della civiltà che le fa scomparire. Ma ve ne
sono altre che sono soltanto una fonte di eterna giovinezza
e di universale poesia. E ciò era ormai pacifico. Lo avevano
riconosciuto del resto gli stessi razionalisti a cui il Reinach
sembra attaccarsi, ma che non intende né apprezza, egli
che vuoi essere un Voltaire senza averne la statura. Per il
Reinach tutto ciò che è tradizione va collocato dentro lo
stesso tempio. E in esso, in nome dell’umanità, tutto va
sacrificato: anche le tradizioni popolari, che egli in fondo
non esita a considerare un ciarpame ingombrante. Come il
Bédier aveva cancellato la letteratura popolare dicendo che
non la conosceva, così il Reinach vuoi cancellare l’etnica
tradizionale dicendo che la conosceva troppo bene. Ma in
ciò egli non andava oltre i compiti stessi della scuola
antropologica inglese? E le sue stesse ricerche nel valutare
le sopravvivenze seguono i principi di quella scuola?

3. Reinach e la scuola antropologica inglese

Non v’è dubbio che il Reinach accoglie il rigido concetto


di sopravvivenza formulato dal Tylor. Con questa differenza
però: che egli non da in fondo nessun peso a ciò che il
grande antropologo inglese chiamava rinascita. Gli sono di
guida inoltre, soprattutto nelle ricerche di mitologia, il
Frazer, il Lang e lo Hartland. Ma a differenza di questi
studiosi, egli è dogmatico; non discute, sentenzia. Così, ad
esempio, in una pagina del suo Orpheus afferma
categoricamente:

«Il culto degli animali, come degli alberi, delle piante, si riscontra, allo stato di
sopravvivenza, in tutte le società antiche: anzi vi ha dato origine a quelle favole
che si chiamano metamorfosi. Quando i Greci ci raccontano che Giove-Zeus si è
trasformato in aquila o in cigno, bisogna vedere nel racconto un mito narrato a
rovescio. Il dio aquila e il dio cigno cedettero il posto a Zeus, quando gli dèi dei
Greci furono adorati sotto la forma umana: per cui, senza contare che gli
animali sacri sono restati gli attributi o i compagni degli dèi, i quali talvolta
riprendono la forma animale, le metamorfosi degli dèi non sono se non un
ritorno allo stato primitivo. Così il mito della trasformazione di Giove in cigno
per piacere a Leda, significa che in tempi remotissimi una tribù greca aveva
per dio un cigno sacro e che essa credeva aver questo cigno accesso presso i
mortali. Più tardi il cigno venne sostituito da un dio con forma umana, Giove;
ma la favola non fu punto dimenticata e si fantasticò che questo Giove si fosse
trasformato in cigno per generare Elena, Castore, Polluce, i figli del cigno
divino e di Leda».

Né diverso è l’atteggiamento che il Reinach assume nei


saggi dei Cultes, dove non esita a riconoscere vestigia
totemiehe non solo nelle leggende di Orfeo, di Atteone, di
Ippolito, di Marsia, di Fetonte e di Adone, ma anche nei
culti, come, ad esempio, in quello di Dioniso. È vero che
questi collegamenti erano stati in uso nella stessa scuola
antropologica inglese. Il torto del Reinach è quello di
ritenere le sopravvivenze prive di modificazioni, che è
quanto dire prive di vita. E con questo assunto egli muove
alla scoperta non solo dei Greci e dei Romani, ma anche dei
Semiti, degli Ebrei, dei Celti. Ultima tappa: il
Cristianesimo, il quale per lui è un insieme di totem e di
tabù, tanto è vero che attribuisce a questi due fenomeni
l’origine dei sacramenti e dei misteri cristiani (come
l’Eucarestia, il Battesimo, la benedizione dell’acqua).
Ma erano questi gli assunti che doveva proporsi uno
storico? La questione non era di vedere se nelle religioni da
lui esaminate vi sono o no degli elementi totemici o magici.
Si trattava piuttosto di caratterizzare il rapporto fra
l’elemento totemico o magico e la concezione complessiva
dell’universo. Si trattava di vedere se in quelle religioni
l’elemento totemico o magico resta o no in funzione
secondaria di una concezione (non totemica né magica)
dell’universo. Il Reinach è ben lontano da questi problemi, i
quali invece in un modo o nell’altro avevano tormentato gli
antropologi inglesi.
Né sorte migliore hanno le tradizioni popolari, dove egli,
e qui è vicino al Gomme, vede soltanto totemismo, magia,
tabù. Il Reinach non misura mai i paragoni, non vede le
esigenze di quei fenomeni e tanto meno la ragione del loro
perpetuarsi. Ed è vano cercare perciò un pensiero che guidi
le connessioni da lui stabilite. Queste, anche quando si
risolvano soltanto in paralleli etnografici, erano state
animate nella scuola antropologica inglese da due forti
interessi: l’interesse del primordiale che è in noi e
l’interesse per tutto ciò che è umano, dovunque si trovi. È
vano cercare nel Reinach questi interessi. Vano cercare in
lui lo sforzo di intendere perché il primitivo che è in noi sia
una materia ideale sempre viva.
È stato osservato che se il Reinach avesse fatto quel che
facevano gli antropologi inglesi, se si fosse cioè sforzato di
intendere la mentalità primitiva quale essa ci si presenta
nella sua incessante ricerca protesa pur sempre alla verità,
alla sua verità, egli avrebbe visto nei totem e nei tabù la
disciplina intima di una volontà, una profonda ragione. Il
Reinach è ben lontano però anche dall’immaginare questa
ricostruzione spirituale, che è la sola a farci intendere la
mentalità dei popoli primitivi in rapporto a quella delle
civiltà occidentali. Egli accumula fatti su fatti, curiosità,
aneddoti. La vasta bibliografia con cui li accompagna può
ingannare. Ma in effetti la scuola antropologica inglese non
poteva avere un peggiore discepolo.

4. L’ultimo classico di tale scuola: Marett

E ciò ci verrà mostrato appunto da uno dei più acuti


rappresentanti di quella stessa scuola: R. R. Marett, la cui
opera, se da un lato è la condanna più aperta ai «castelli in
aria» del Reinach, dall’altra è la legittima conclusione di
tutto un movimento di studi, il quale dalle maglie del
naturalismo tenta di sollevarsi a un proficuo e fecondo
storicismo.
In una commossa commemorazione dedicata ad Andrew
Lang, il Marett ci fa conoscere quale e quanto interesse
suscitò in lui la lettura del volume Custom and Myth, il
quale non era che una presa di posizione a favore di
quell’indirizzo antropologico che il Tylor aveva allora
imposto al mondo degli studiosi. E il Tylor, anche per il
Marett, sarà una guida spirituale. Le polemiche del Lang, la
sua irruenza, il suo modo di concepire l’etnologia e il
folklore come protagonisti di un dramma che egli
direttamente viveva, quel farsi contemporaneo all’antico:
ecco quel che del Lang piaceva al Marett.
Queste sue prime simpatie gli aprirono le porte tanto
dell’etnologia quanto del folklore. Anzi i suoi primi interessi
furono prevalentemente etnologici. Quand’egli si avvicinò
al folklore, era quindi già passato da quel noviziato. Gli
aveva giovato anche lo studio dei filosofi antichi, moderni e
contemporanei. E nelle sue opere scritte con la
compostezza di un classico, si risente appunto questa sua
preparazione, animata anche da quel senso di verità che gli
avevano dato, come egli stesso diceva, le litterae
humaniores.
Il Marett, a differenza dei suoi predecessori, non scrisse
mai un’opera di vasta mole. I suoi volumi – di libri nati
come tali egli non scrisse che l’Anthropology – non sono
che raccolte di saggi. E come saggista, vicinissimo in ciò al
Lang, egli si riattacca a quella tradizione inglese da cui era
uscito Thomas Browne. Notevole, per lo studio
dell’etnologia, il volume, edito nel 1909, dove egli raccolse
fra l’altro tre saggi ormai celebri: il primo, Preanimistic
Religion, pubblicato originariamente nel «Folklore» del
1900; il secondo, From Spell to Prayer, nella stessa rivista
il 1904; il terzo, Is Taboo a Negative Magic?, negli
Anthropological Essais presentati a E. B. Tylor in onore del
suo settantacinquesimo anno. Fondamentale per lo studio
del folklore il volume Psychology and Folklore, edito nel
1920, dove è raccolto un saggio, scritto già nel 1914, che fa
vivere tutto il libro: The Interpretation of Survivals. Altre
raccolte di saggi che interessano tanto il folklore quanto
l’etnologia: Faith, Hope and Charity in Primitive Religion,
edita nel 1932; Sacraments of simple Folk, edita nel 1933;
Head, Heart and Hands in Human Evolution, edita nel
1935.
In queste opere il Marett non si allontana, in realtà, da
un concetto, direi, tradizionale dell’antropologia sociale,
quale è la «storia dell’uomo infiammata e pervasa dall’idea
dell’evoluzione», mentre, ed è ovvio, l’intera storia
dell’uomo non è evoluzione ma svolgimento di vita, e in
ogni suo attimo caduta e risorgimento. Egli tuttavia era
convinto che l’antropologia «è scienza allo stesso modo
come è scienza la storia, che non è filosofia, sebbene debba
conformarsi alle sue esigenze». E questo è, rispetto ai suoi
predecessori, un notevole passo avanti, ove si pensi che il
Marett, influenzato dal concetto che della storia aveva già
ragionato lo Hegel, della storia cioè che è tutt’uno con la
filosofia, non confonde la filosofia con la storia
evoluzionistica dell’uomo. La differenza fra il Marett e i
suoi predecessori consiste, infatti, appunto in questo: che
la teoria dell’evoluzione è per lui effettivamente e
semplicemente un’ipotesi di lavoro. Si aggiunga che per lui
non esiste un genere di storia. Egli ritiene pertanto che la
storia delle religioni, l’etnologia e il folklore non debbono
avere altra mira se non la ricerca della verità. E afferma:
l’antropologo deve essere uno storico. Né inganni l’uso che
egli fa della parola antropologo. In mezzo al confluire di
questi problemi, il Marett, ritornando sui rapporti fra storia
e scienza, rimane imprigionato, è vero, tra le maglie
dell’ambiguità del termine scienza. Era di moda allora
discutere se la scienza fosse la base della storia o se la
storia fosse la base della scienza, e si dimenticava che
soltanto se la scienza si intende come filosofia, essa è la
base della storia e quindi della etnologia. E in questa
dimenticanza è anche il difetto del Marett almeno per
quanto riguarda il campo specifico di studi che egli
predilesse: quello della storia delle religioni.
5. Concetto del preanimismo

Il nome del Marett è legato alla teoria del preanimismo,


secondo la quale nella mentalità primitiva v’è qualche cosa
di più indeterminato e di psicologicamente anteriore
all’animismo consistente «in certi sentimenti e nell’idea di
forze misteriose, non ancora spiriti, ma piuttosto volontà e
personalità indeterminate indicate col nome generico di
mana, di orenda ecc.». E qui, è evidente, ci troviamo di
fronte allo stesso atteggiamento mentale del Tylor, del
Frazer, del Lang. Anch’egli si preoccupa dell’anteriorità di
un fenomeno rispetto all’altro. E come il Tylor (ma si
potrebbe dire: come il Brosses, il Comte, lo Spencer),
anch’egli è preoccupato di dare una definizione minima
della religione.
Questo è il motivo per cui egli, pur non negando la
vitalità dell’animismo, mette in rapporto il mana col tabù, il
quale, a sua volta, non si spiega col concetto meccanico di
magia negativa, ma con quello stesso di mana. Il che
significa che la magia non è un tessuto illusorio e tanto
meno una pura e semplice associazione di idee, bensì una
creazione dello spirito in cui è impegnata la volontà di
credere o di fare. Il colpo era diretto al Frazer. Né egli era
solo in questa battaglia, perché contemporaneamente
anche la scuola antropologica francese, fondata da Emile
Durkheim, si era impegnata da una parte a far crollare la
teoria dell’animismo del Tylor e dall’altra a distruggere la
tesi, peraltro attenuata dallo stesso Frazer nel corso della
sua opera, che la mentalità primitiva sia imbevuta soltanto
di associazioni illusone.
Il Durkheim aveva iniziato la pubblicazione dell’«Année
Soeio-logique» fin dal 1892. È del 1912, però, la
pubblicazione del suo ampio volume Les formes
élémentaires de la vie religieuse, dove egli, basandosi su
ampie informazioni etnografiche, formula un suo concetto
sull’origine della religione. La quale, egli dice, coincide nel
suo primo attuarsi con il totemismo. E il concetto, a dire il
vero, non è nuovo. Né era nuovo quel miscuglio totemismo-
religione-magia, che fra l’altro si poneva sullo stesso piano
del preanimismo, considerato dal Marett come un misto di
religione e magia. Il Durkheim aveva riempito tuttavia di
quel concetto la prima fase sociale della storia
dell’umanità.
E l’uno e l’altro, il Marett e il Durkheim, in tal modo, se
da un lato non avevano esitato a porre la magia e la
religione su uno stesso piano spirituale – abolendo rispetto
all’una e all’altra il prima e il poi – dall’altro concordavano
nel ritenere che un istituto non poteva reggersi sulla
menzogna. Ma non era questo un altro colpo diretto al
Frazer, il quale tuttavia in quella menzogna aveva pur
intuito elementi di verità?
È evidente però che tanto il Marett quanto il Durkheim,
nel porsi il problema dell’origine della religione, ricadono
poi in quella ricerca del prima e del poi, di cui si erano
liberati nei riguardi della magia rispetto alla religione e
viceversa. La loro ricerca si conclude, appunto per questo,
su un piano astratto e classificatorio, non certo speculativo
e storiografico come era nelle loro intenzioni. All’uno e
all’altro sfugge, in fondo, l’essenza stessa della religione.
Senza poi dire, come ammoniva Hegel, che chi procede in
cerca del minimo, e quindi verso il passato del genere
umano, finisce con l’abbandonare lo stesso mondo umano.
Il Marett e il Durkheim hanno il difetto di aver fatto
assurgere la ricerca psicologica (il primo) e la sociologica
(il secondo) a fasi storiche. Il Durkheim era stato posto
infatti su falsa strada da una sociologia che escludeva il
contributo, quale che potesse essere, della psicologia. Il
Marett parte invece dalla psicologia che inclina inoltre a
confondere con la filosofia. Eppure, se fu proprio la
psicologia – non certo la filosofia e quindi la storia – a fargli
porre in maniera antistorica il problema della religione,
sarà proprio la psicologia a essergli di stimolo per
comprendere il concetto di sopravvivenza.

6. La sopravvivenza di fronte al giudizio storico

La scuola antropologica inglese aveva fatto di tale


concetto un vero e proprio strumento di lavoro. Non si deve
dimenticare, è vero, che il Tylor, quando aveva posto la
rinascita, come egli la chiamava, accanto alla
sopravvivenza, voleva già sottolineare il carattere
immortale del folklore. Il Tylor e i suoi successori
dimenticarono spesso di valutare però quel che è la
sopravvivenza nel suo odierno attuarsi. Non si vuole
negare, intendiamoci, che nel folklore vi siano molte
sopravvivenze e che esse siano in effetti dei residui o
meglio, per usare un termine linguistico, dei detriti di un
mondo scomparso o comunque a noi lontano. Il fatto che le
sopravvivenze siano detriti di un mondo scomparso, toglie
che siano la realtà dell’oggi che viviamo? Sarebbe, in
questo caso, come dire che la fantasia, la religione e la
morale degli uomini contemporanei non siano la loro
fantasia, la loro religione, la loro morale, ma quelle dei loro
antenati.
È appunto per difendere questo concetto che scenderà in
campo il Marett. E la sua, nel campo dell’antropologia
sociale, se pur non è una voce nuova, ha indubbiamente
una forza che s’impone. Gli stessi antropologi inglesi
muovevano, del resto, alla ricerca di fossili, di cose morte.
E cammin facendo ritrovavano cose piene di vita. Si
aggiunga che fin dal 1900 due autorevoli rappresentanti
della scuola sociologica francese, l’Hubert e il Mauss, nella
loro Etude sommaire de la représentation du temps dans la
magie et la religion avevano sostenuto la tesi che nel
campo del folklore, se pur vi sono delle tradizioni che
muoiono, altre ve ne sono, per usare il loro termine, che
ringiovaniscono. Il che rende il folklore immortale, come
immortale è la vita di cui esso è espressione eterna e
universale.
I sociologi francesi, impegnati soprattutto nelle ricerche
etnolo-giche, non esitavano comunque a considerare il
folklore come una appendice dell’etnografia o meglio
dell’etnologia. Ed è a questa idea che il Marett anzitutto si
ribella. In una pagina del suo volume Psycology and
Folklore egli osserva:

«Quando ci troviamo davanti a strani frammenti della cultura contemporanea


che ci sembrano più o meno fuori di luogo nel nostro mondo civile, cerchiamo
di indagarne le origini riferendole a un passato più o meno remoto, passato che
noi ricostruiamo attraverso le supposte analogie con i più rozzi popoli odierni,
presso cui tali costumi o credenze si trovano in piena efficienza. Ma se il
folklore si limitasse a ciò non sarebbe che un’appendice dell’etnografia, mentre
in realtà non è così; potendo il folklore illuminare l’etnografia nella stessa
proporzione con cui ne è illuminato».

Questa idea era stata già espressa dal Mannhardt e


discussa anche dal Frazer. Ma non è questa la ragione per
cui il folklore non è un’appendice dell’etnografia o meglio
dell’etnologia. Il folklorista fa oggetto delle sue indagini,
che è quanto dire del suo giudizio, un determinato fatto
folkloristico. Da questo egli muove. Il che significa, in altri
termini, che muove da un interesse della vita presente, il
quale può spingerlo a indagare un fatto passato che
tuttavia si fa presente nella sua stessa mente. Identico il
compito dell’etnologo, anche se egli parte da un fatto
etnologico, il quale poi rivivrà nella sua coscienza come
parte di essa. Si potrà dire allora che tanto il folklore
quanto l’etnologia si debbono considerare appendici della
storia? Evidentemente no, ove si pensi che la storia è lo
specchio, diciamo così, di tutta la vita spirituale in cui non
vi sono appendici, ma parti vive che si integrano a vicenda.
Il folklorista non studia che una parte di questa vita. È
necessario però che egli, affrontando lo studio di un
costume, di una credenza, di una superstizione veda
anzitutto quale è la nuova vita che quel costume, quella
credenza e quella superstizione si sono creati.
Il compito del folklorista, aggiunge pertanto il Marett,
non è soltanto quello di vedere il vecchio, come volevano i
suoi predecessori e come avevano dogmatizzato il Gomme e
la Bourne, bensì l’intrecciarsi del vecchio col nuovo. La
domanda che il folklorista deve porsi non è quella di
considerare la sopravvivenza in sé come passato – che tutto
il presente contiene il passato, mentre il presente di oggi
tende anch’esso a farsi passato –, ma vedere dove e come
una sopravvivenza vive. Si aggiunga che nessun giudizio
storico può poggiare sul principio di identità. E ciò perché
la coscienza che accoglie un fatto attuale, lo vive nelle
condizioni attuali, le quali fanno si che ogni sopravvivenza
sia in atto una rinascita. È vero che un fatto può anche
trovare i suoi precedenti nella coscienza antica che lo ha
vissuto. Ma è vero altresì che esso, per continuare a vivere,
trova un adattamento, e perciò una sua propria vita, nella
coscienza di chi lo rivive.
È ovvio osservare, d’altra parte, che nel campo del
folklore tutto ciò che muore rivive sotto altra forma per poi
a sua volta, compiuto il proprio ciclo, dare vita a nuove
forme. Ma c’è di più: che quando una superstizione (=
sopravvivenza) ha perduto il suo significato originario, essa
assume un suo nuovo significato, senza di che la
sopravvivenza non vive. È vano illudersi, come faceva
soprattutto il Gomme, che un uomo compia un determinato
gesto per abitudine e che quell’abitudine costituisca
sopravvivenza (inconsapevole) di un culto totemico. Lo
sarà, ripetiamolo pure, ma se l’uomo crede in quel gesto
vuoi dire che ha fede in esso. Ed è quella fede che deve pur
contare.

7. Valore dell’individuo nell’etnologia

Partito dalla psicologia, il Marett arriva così a uno dei più


importanti principi che regolano la vita del folklore e che il
folklorista non può trascurare interpretando e quindi
giudicando il folklore stesso. Né, a dire il vero, si ferma
soltanto qui l’interesse storico che il Marett dimostra nei
riguardi del folklore. La scuola sociologica francese nel suo
incessante lavorio aveva posto il suo accento sulle forze
collettive che governano la società. Erano stati in Germania
il Lazarus e lo Steinthal a sostenere energicamente: 1, che
a nulla vale affermare la dipendenza dell’individuo
dall’ambiente, se non si ha conoscenza di quell’ambiente; 2,
che per far ciò è necessario attingere le informazioni su
tutti i campi della attività umana; 3, che pertanto è
necessario, ove si vogliano comprendere l’arte, la
letteratura, il linguaggio, la religione, considerare queste
manifestazioni come collettive. È da queste premesse che
partirà più tardi il Wundt, il quale, se da una parte
restringe il compito della Völkerpsychologie allo studio del
linguaggio, del mito e del costume, dall’altra collega il
Bastian e il Waitz col Lazarus e lo Steinthal per costruire
una psicologia collettiva destinata a chiarire gli sviluppi
storici e sociali. Il Wundt esclude che l’individuo possa
essere causa veramente agente dell’evoluzione sociale.
Bene: il Durkheim andrà oltre, convinto com’è che
l’induzione psicologica sia insufficiente a spiegare i fatti
sociali e quindi le arti e i costumi, i quali hanno una loro
caratteristica, tanto è vero che non risultano da una somma
di apporti della coscienza individuale, ma da una sintesi in
cui è la somma degli elementi stessi che la compongono. E
su queste basi fu affrontato lo studio della mentalità
primitiva (Lévy-Bruhl) cui i sociologi francesi si rifecero per
studiare la religione e la magia (Hubert, Mauss, Hertz), il
diritto (Davy, Huvelin), l’arte (Guyau) ecc.
Di contro alle conclusioni cui giungevano i sociologi
francesi, i quali in gran parte rinnovavano e salvavano i
resti della filosofia comtiana alla luce di un rinnovato
Volksgeist, la scuola antropologica inglese aveva lavorato in
fondo sugli schemi di una psicologia individuale,
accogliendo implicitamente quella tradizione in cui si
inverava lo spirito individuale della civiltà occidentale
(cristiana e umanistica). Il Tylor e il Frazer non avevano
mai negato l’apporto che il selvaggio come individuo da alla
sua società con le sue invenzioni, con le sue creazioni, col
suo prestigio. Lo stesso Frazer aveva ammonito inoltre che
non bisogna mai escludere a priori la spiegazione che un
contadino può darci di un uso, essendo essa pur sempre il
frutto di una interpretazione personale. Non si voleva
negare, insomma, il valore della società, tanto nel campo
dell’etnologia quanto in quello del folklore. Si tendeva però
a riaffermare che la coscienza collettiva e quella
individuale sono immanenti l’una nell’altra.
È a questo principio che si riattacca il Marett. Nella sua
Anthro-pology egli scrive:

«L’uomo di alta individualità, l’uomo eccezionale, l’uomo di genio, sia egli


l’uomo di pensiero, l’uomo di sentimento, l’uomo di azione, non possono essere
trascurati dalla storia. Al contrario, quell’uomo è in gran parte il costruttore
della storia e come tale dovrebbe essere trattato con il dovuto rispetto dallo
storico. Lo “scheletro” della storia, le sue medie, stanno tutti benissimo nel
proprio modo, ma corrispondono alla verità superficiale che la storia si ripete…
Quindi l’antropologia non deve disprezzare ciò che potrebbe chiamarsi il merito
del racconto storico. Studiare l’intreccio senza studiare i caratteri non darà mai
l’idea del dramma della vita umana».

Il concetto che il Marett aveva formulato intorno alle


sopravvivenze non esclude la società, ma non esclude
nemmeno l’individuo. Il suo atteggiamento è qui parallelo a
quello dei filologi che rivendicarono, e a diritto, l’origine
delle canzoni, delle fiabe, delle novelle ecc. a singoli
individui. Si aggiunga che per lui l’apporto individuale
all’etnica tradizionale dava ad essa un perenne senso di
creatività. In ciò i contadini europei sono sullo stesso piano
dei primitivi. È questa, forse, una delle ragioni che gli fece
rifiutare le conclusioni cui allora giungeva il Lévy-Bruhl, il
quale, a differenza della scuola antropologica inglese e
della scuola sociologica francese, aveva rimesso in dubbio
quel carattere unitario della forma logica del pensiero, che
è tanto dell’uomo colto quanto del primitivo.

8. Marett contro Reinach

Le conclusioni cui giunge il Marett costituiscono,


dunque, i lati positivi della scuola antropologica inglese.
Così come quelle del Reinach ne proiettano i lati negativi. Il
che dimostra che, pur partendo dalle stesse premesse, le
teorie della scuola antropologica inglese e quelle dei suoi
epigoni non possono essere ricondotte a un comune
denominatore.
Nel suo libro Naturalismo e storicismo nell’etnologia il
De Martino ha giustamente osservato:

«La vecchia etnologia, ispirandosi al lucreziano “Tantum religio potuit suadere


malorum”, nascondeva un sottinteso polemico, più o meno esplicito, contro le
aberrazioni delle superstizioni, e intendeva concorrere, per ciò che le spettava,
a sgombrare le menti da tanta nebbia, e a far rifulgere la luce della “science”.
Talora è possibile sorprendere i nuovi illuminati del positivismo nel compiaciuto
atteggiamento del navigante dantesco che dalla riva sicura “guata l’acqua
perigliosa”, cioè, fuor di metafora, nell’atteggiamento di adoratori della
“Raison” e di spregiatori di quel tessuto di illusioni e di errori di quella vicenda
di patologici atteggiamenti dello spirito che fu l’umanità primitiva».

E questo, come abbiamo visto, fu appunto


l’atteggiamento di un Reinach. Gli altri antropologi, il Tylor,
il Frazer, il Lang, i Gomme, il Marett, anche se partivano da
quelle premesse, giunsero a risultati completamente
opposti. E ciò perché essi, pur considerando l’animismo, la
magia, il preanimismo ecc. come il fondamento della
religione o come l’attuarsi di determinati poteri, finivano
col vedere nelle tradizioni dei popoli la fonte stessa della
moralità, del diritto, dell’arte. Si aggiunga, per usare una
frase del Vico, che a loro, nel frattempo, si dispiegava il
processo (storico) per cui i figli di Polifemo si erano fatti
Scipioni Africani (i maghi, re; la magia, scienza; il
totemismo, arte; e così via).
Questa la ragione per la quale la scuola antropologica
offri al folklore stesso, considerato come storia, le carte più
valide della sua navigazione. E se è vero, come lo è in
parte, che gli antropologi inglesi non valutarono la natura
poetica della letteratura popolare, è pur vero che essi
videro con chiarezza i problemi più inquietanti del folklore,
con una visione larga e ampia. Umanisti per educazione e
illuministi per tendenza, essi, potremmo dire,
romanticizzarono, senza volerlo, i popoli primitivi, le civiltà
classiche, i volghi dei popoli civili. E nel loro slancio per
abbracciare non più l’Europa ma il mondo, non soltanto la
civiltà ariana ma anche quella dei popoli primitivi – e tutto
ciò in nome della nostra stessa civiltà nel cui avvenire
ponevano tutta la loro fiducia –, essi, cittadini di un impero
coloniale, credevano di poter realizzare la formazione di un
veritiero internazionalismo al quale ciascun popolo, senza
distinzione di razza e di colore, era chiamato a partecipare
in nome dell’umanità.
Parte sesta
Aspetti del folklore nell’ultimo cinquantennio
26. La lotta della storia

1. La scuola storico-culturale

Non v’è dubbio che la scuola antropologica inglese, quale


che siano stati i suoi schemi evoluzionistici, tentò (a volte
riuscendovi) di storicizzare non solo l’etnologia, ma anche il
folklore. Questo compito fu assunto tuttavia, con maggiore
impegno, da un’altra scuola che ormai va sotto il nome di
storico-culturale.
Un nostro folklorista, il Vidossi, ebbe recentemente a
notare:

«Questa scnola che riconosce quali suoi precursori e maestri Fr. Ratzel, L.
Frobenius, W. Foy, e F. Graebner, autore d’un molto apprezzato Trattato di
metodologia etnologica, muove dal concetto dell’origine unica e della
successiva propagazione degli elementi culturali per effetto di rapporti di
cultura, deducendone la necessità di stabilire l’area geografica d’ogni elemento
per riconoscere obiettivamente la stratificazione cui appartiene, e ricercarne
quindi la cronologia. Casi di poligenesi, di conseguenze indipendenti da contatti
culturali, sono possibili, qualche volta anche probabili. Ma l’ipotesi d’una
origine multipla dei fenomeni, a cui contrasta, nell’ambito storico, l’esperienza
e manca, di regola, la dimostrabilità non può mai essere assunta come principio
metodologico o esimere dall’obbligo di ricerche storico-geografiche in senso
opposto. Quel che vale nel campo etnologico vale tanto più nel campo
demologico, dove elementi presunti primitivi s’intrecciano variamente con altri
di derivazione letteraria, sicché la ricerca sarebbe in ogni caso indispensabile,
se non altro, per districarli».

Il Vidossi si rifa qui alla prefazione che W. Foy fa


precedere alla Methode der Ethnologie del Graebner, edita
nel 1911, e considerata come il programma della stessa
scuola storico-culturale. In questa prefazione-programma il
Foy avverte infatti che le norme della scuola storico-
culturale non sono valide soltanto per l’etnologo, ma anche
per il folklorista. E su ciò lo stesso Foy ebbe occasione di
insistere recensendo un anno dopo il volume Geburt,
Hochzeit und Tod di E. Santer.
Convinto che la Kulturgeschichte, sul cui concetto allora
tanto si insisteva, ha per oggetto tutte le forme di vita
spirituale e istituzionale dei popoli, il Foy, pur rimanendo
impigliato negli schemi di una storia universale, faceva suoi
in fondo gli insegnamenti di un Droysen. Era stato merito di
quest’ultimo l’aver affermato che nel suo lavoro
sotterraneo lo storico deve tener conto degli avanzi e che
fra essi vanno collocati gli usi e i costumi, i quali altro non
sono che i prodotti della storia. E questo era il suo
ammonimento: studiare il folklore col metodo stesso
dell’etnologia, che era quanto dire con il metodo della
storia. Senonché, ci si deve domandare, fino a qual punto la
scuola storico-culturale può essere utile al folklorista? E
fino a qual punto la scienza del folklore ha percorso o ha
utilizzato le vie tracciate da tale scuola?

2. Il suo precursore: Ratzel

La scuola storico-culturale si basa su due postulati


essenziali: 1, risoluzione della storia nell’ordinamento
spaziale, temporale e casuale dei fatti: 2, superamento
della vecchia etnologia evoluzionistica, mercé la
elaborazione di un metodo di ricerca accurato in tutti i suoi
particolari.
Il primo avvio alla formulazione di questi postulati fu
dato da un geografo umanista: Friedrich Ratzel. Il quale
nella sua celebre Anthropogeographie si era proposto di
rinnovare l’indirizzo della etnografia «conducendola a
considerare i movimenti dell’uomo sulla superficie della
terra». In più egli sottolineava allora un fatto importante: e
cioè che le influenze dell’ambiente sull’uomo non debbono
farci dimenticare che anche l’uomo influenza l’ambiente.
Questo il nucleo attorno a cui si svolge uno dei suoi saggi
più importanti, intitolato Geschichte, Völkerkunde und
historische Perspektive. Convinto che l’uomo è pur sempre
una parte della terra e che la geografia deve pur sempre
guidarci nelle ricerche etnografiche o folkloristiche, il
Ratzel in questo saggio non solo si ribella ai criteri della
scuola antropologica inglese, ma sostiene energicamente
che anche nell’etnologia bisogna cercare i collegamenti
storici delle varie civiltà e che soltanto le aree di
propagazione spiegano le modificazioni. Con la scuola
antropologica inglese egli tuttavia concorda in un punto
essenziale: cioè che è assurdo considerare i primitivi al di
fuori della storia, come avevano sostenuto non solo il
Bastian, ma anche lo Hegel.
Il Ratzel, ammesso questo principio, collega quindi la
geografia con la storia, in modo che la ricerca etnografica
proceda su queste due linee parallele. Era in fondo il
metodo cui, attraverso il Riehl, erano già arrivati nel campo
della filologia folkloristica tanto lo Schwartz quanto i
Krohn. Né va dimenticato che, nel campo dell’etnica, a quel
metodo si era già avvicinato il Mannhardt nei suoi Wald-
und Feldkulte.
In questo campo quel metodo trovò il suo più efficace
sostenitore in Wilhelm Pessler, il quale nel 1906 pubblicò
un lavoro rimasto fondamentale, Das altsächsische
Bauernhaus im seiner geographischen Verbreitung, dove
egli nello studiare l’architettura rustica della Bassa
Germania, completò la ricerca geografica con l’appoggio di
carte che ne rilevavano nello spazio la diffusione. Il Pessler
sostenne e applicò quel metodo anche in una serie di
interessanti volumi: come, ad esempio, i Beiträge zur
vergleischenden Volkskunde Niedersachsens, che sono del
1910, o il Plattdeutscher Wortatlas von
Nordwestdeutschland, che è del 1928.
Ma con quali risultati? Dice di lui uno dei più autorevoli
critici del folklore tedesco, il Röhr:

«Il Pessler ha esposto le sue idee in un saggio sulla Deutsche


Volkstumsgeographie; nel quale, però, egli tratta piuttosto del profitto che si
può trarre dalle carte per la conoscenza dei fatti che della “vita”, se possiamo
dire così, propria della rappresentazione cartografica di ampie raccolte di
materiali; mentre solo dalla conoscenza di tale “vita” è possibile ricavare i
presupposti metodici e le garanzie necessarie per una interpretazione integrale
di carte demologiche».

In altri termini non si vuoi negare il valore della


cartografia e quindi delle aree di diffusione. Lo storico però
deve andare oltre. Ritenere che quello sia un campo di
studi e non uno dei metodi di cui quello studio si serve,
significa dimenticare, come giustamente rileva il Rohr, che
la geografia non è, né potrà mai essere storia.

3. La Methode del Graebner

Lo stesso Ratzel, del resto, – sempre allo scopo di


collegare la geografia con la storia, – aveva già avvertito i
limiti della teoria del Bastian, secondo la quale presso tutti
i popoli debbono ritrovarsi come fondo psicologico
primitivo della loro cultura le stesse idee elementari. È
necessario, si domandava il Ratzel, che si arrivi a uno
stadio avanzato di sviluppo perché si manifestino differenze
e interferenze? Oppure tali differenze e interferenze
esistono anche presso i primitivi che il Bastian riteneva al
di fuori della storia? È vero, d’altra parte, che tra i primitivi
non esistono fonti scritte, ma esiste una cultura materiale.
Interroghiamola. In un suo studio, dedicato agli archi
africani, il Ratzel nel 1887 era venuto a questa conclusione:
che oggetti della stessa natura, trovati in zone territoriali
molto discoste, presuppongono un rapporto storico-
genetico.
Da qui il suo criterio della qualità, che un suo discepolo,
il Frobenius, indagando nel 1898 l’origine di quella civiltà
africana che doveva poi costituire il campo dei suoi studi,
completò con quello della forma. Il Ratzel si era infatti
preoccupato di ricercare le dipendenze delle forme del
pensiero da una sorgente comune. Il Frobenius è
dell’avviso che quella relazione si estenda a un intero
complesso di fenomeni culturali, quali questi si inverano
negli elementi materiali, sociali, mitologici ecc.
E da queste fonti partirà appunto il Graebner, il quale, da
buon storico, dopo aver considerato l’etnologia come una
disciplina dello spirito, non solo rivendica ad essa il valore
dell’individuo, ma tenta, contemporaneamente, di
mantenere distinto il campo storico da quello delle scienze
naturali. Osserva in proposito lo Schmidt:

«Se l’etnologia è una scienza dello spirito, anche il suo metodo deve essere
quello delle scienze dello spirito, non quello delle scienze naturali. Essa deve
avere l’efficacia di rendere e apprezzare persona, individuo, volontà libera,
elementi che nella massa appaiono tanto spesso come sommersi, mentre in
essa agiscono in realtà efficacemente i talenti e i geni nel contenuto, come
altrettanto fanno i capi nella forma. Questo metodo deve poter concepire
insieme al collettivo anche il singolo, l’individuale, e non fermarsi al tipico o al
medio; deve essere ideografico, e pensato per questo e per questo corredato,
cioè per concepire e valorizzare il singolare».

Il Graebner respinge così in pieno la problematica che in


proposito era stata elaborata, in opposizione alla stessa
scuola antropologica inglese, dalla scuola sociologica
francese. E l’individuo è a suo avviso non solo artefice della
società, nel caso specifico della società primitiva, ma anche
della storia. E ciò sarà in effetti l’insegna della scuola
storico-culturale, la quale, bisogna aggiungere, non mancò
di porsi in aperto contrasto con la scuola antropologica
inglese o meglio con i suoi principi evoluzionistici.
È assurdo, nota peraltro lo stesso Graebner, affermare
che lo sviluppo dell’umanità vada, in tutti i campi,
dall’inferiore al superiore; che lo sviluppo umano si
presenti sempre in linea ascendente; che i giudizi se
qualcosa sia inferiore o superiore siano in gran parte dei
giudizi di valore, tanto soggettivi da infirmare la coscienza
dello storico. E qui vi è magari confusione di termini, ma
v’è indubbiamente l’anelito dello storico il quale considera
la storia l’unica forma di conoscenza.
In realtà la scuola antropologica inglese si era servita di
quegli schemi, o forse sarebbe meglio dire, di quella
filosofia, per stabilire dei processi ascendenti: il
monoteismo che nasce dall’umanismo, la magia che
precede la religione ecc. Sarebbe assurdo, però, e lo
abbiamo visto, immobilizzare la scuola antropologica
inglese dentro quegli schemi i quali, peraltro, furono uno
stimolo al suo fecondo lavoro.
È vero, d’altra parte, che la scuola antropologica, per
quanto non le si possano attribuire indiscriminatamente
tutti i difetti che le attribuisce il Graebner, aveva costruito i
suoi sistemi basandosi su una mentalità primitiva
indifferenziata. Senonché, si domanda con insistenza il
Graebner, quell’umanità è poi veramente tale? O esistono
anche fra i popoli primitivi, che ancor oggi vivono sulla
terra, strati diversi di civiltà (cicli) che caratterizzano la
cultura di quei popoli?

4. Filologia etnologica
Per potere determinare la varietà di questa vita, per
poter cioè chiarire ancor meglio il problema dei cicli
culturali già posto dal Ratzel e dal Frobenius, il Graebner
pone tutta una precettistica, mediante la quale egli offre
all’etnologo gli strumenti di lavoro o meglio le ipotesi di
lavoro per internarsi nel mondo dei primitivi, onde stabilire
i vari cicli culturali, le fasi di sviluppo di un determinato
elemento dentro quei cicli, le forme più antiche di un
oggetto o di una credenza rispetto ad altre.
Vasta e complessa non solo nella sua formulazione, ma
anche nei suoi dettagli è questa precettistica. Il Graebner,
infatti, ci espone anzitutto i criteri dell’accertamento delle
aree culturali coesistenti nel tempo e nello spazio:

«Quando due zone culturali di carattere diverso si incontrano, esse potranno


sovrapporsi l’una all’altra nelle zone di contatto e creare così delle forme miste,
oppure potranno entrare soltanto in rapporti marginali, creando dei fenomeni
di contatto… Alle volte i singoli elementi culturali formano, in una determinata
zona particolare, una combinazione organica molto omogenea, rendendo anche
facilmente riconoscibili le somiglianze con altre zone particolari… Altre volte
certi elementi culturali, che non appaiono intimamente connessi, si presentano
tuttavia costantemente, anche in zone diverse, in unione più o meno intima. Si
tratta allora di cicli culturali di data più antica».

Ed è con quest’ultimo criterio che si è potuto passare


all’esame dei cicli culturali coesistenti nello spazio. Il
Graebner insomma tende a creare una vera e propria
filologia che sostituisca i documenti scritti della storia. C’è
una ragione, osserva giustamente il De Martino, per cui:

«la scuola storico-culturale ha ben meritato dell’etnologia, ed è la grande


esattezza filologica che essa ha instaurato in tali ricerche. Sebbene l’esattezza
filologica non sia storia, tuttavia essa costituisce un bene prezioso, una
garanzia solida opposta ai giuochi dell’immaginazione e agli arbitri del
sentimento. Nessuno può contestare che, in tale ambito, l’esattezza delle
informazioni etnologiche sia ora di molto progredita rispetto al passato.
Restituire l’esatta lezione di un lesto, dichiarare le interpolazieni, fissare le
attribuzioni e le provenienze, ricostruire le genealogie, distinguere le redazioni
successive di un’opera, determinare l’ordine cronologico di successione di una
serie di testi, in una parola esercitare con acribia una rigorosa critica testuale
esterna è fatica indispensabile, eurisi necessaria».

5. Interpretazioni etnologiche

Ora, la filologia folkloristica non ha nulla da imparare dal


Graebner. Anzi sotto molti aspetti la filologia etnologica ne
è il prolungamento. Si deve osservare inoltre che, a
differenza dell’etnologo, il folklorista si muove in ambienti
storici già determinati. È vero che egli ha ben altri
strumenti di lavoro a sua disposizione. L’accertamento dei
cicli, che è quanto dire delle aree di diffusione, è servito a
stabilire un fatto che già la scienza del folklore viene
illustrando: e cioè che un costume può assumere un
carattere animistico nel seno di una civiltà, totemico in
un’altra, magico nel seno di una terza, o nulla di tutto ciò in
una quarta. Non è affatto giustificato, ammonisce il
Graebner, sostenere che «fenomeni eguali debbono avere
eguali significati». E in proposito egli sarà categorico
nell’affermare che compito dello storico (e quindi si può
aggiungere col Foy: non solo dell’etnologo, ma anche del
folklorista) deve essere di interpretare i fatti senza
preconcetti di sorta. Cioè, come aveva detto Droisen,
comprendere indagando. E aggiunge:

«In ogni interpretazione si presenta in grande misura una prudente acuta


critica. In primo luogo la testimonianza, in base alla quale segue la spiegazione,
dev’essere accertata in pieno criticamente. Inoltre il fatto così provato deve
essere tanto affine formalmente o idealmente a quello da interpretarsi, che un
passo in fallo non sia possibile o almeno non sia verosimile; soprattutto devono
essere chiari i punti di comparazione… Più dati raggiungono il più alto grado di
capacità di interpretazione soltanto quando appartengono alla stessa unità
culturale di luogo e di tempo».

Anche qui il colpo è tirato alla scuola antropologica


inglese. Lo stesso Graebner, tuttavia, dopo aver battagliato
contro il Frazer, riconosce lealmente che «dove le sue
spiegazioni si tengono, coscientemente o incoscientemente,
nell’ambito di determinate connessioni culturali, i risultati
possono avere diritto a maggiore o minore fiducia». Bene:
ma quel che egli dice per il Frazer non si può applicare, sia
pure dentro certi limiti, ai rappresentanti tutti della scuola
antropologica inglese? E in realtà è poi sempre necessario
spiegare le analogie con i loro reciproci influssi, senza
ammettere che esse possono anche, per così dire,
manifestarsi spontaneamente?

6. Padre Schmidt, etnologo e storico del folklore

La rappresentazione del Graebner, scrittore massiccio


ma difficile, fu ripresa sia pure con minor senso speculativo
da Wilhelm Schmidt, destinato a diventare il maggiore
rappresentante della scuola storico-culturale. Etnologo, e
fra i maggiori che abbia l’Europa, egli infatti affrontò con
rinnovata energia i problemi dei cicli culturali, il loro
accertamento, la loro validità storica secondo i criteri del
tempo e dello spazio. Né in tale indagine egli dimenticò la
problematica folkloristica, come appunto ci dimostrano il
suo saggio Die kulturhistorische Methode in der
Ethnologie, che egli pubblicò nel 1911 in «Anthropos» –
una rivista che ha dato notevole impulso tanto agli studi di
etnologia quanto a quelli di folklore –, e in particolar modo
il suo Handbuch der Methode der kulturhistorische
Ethnologie, edito nel 1937 (preceduto peraltro dall’opera
scritta in collaborazione con il Koppers, Völker und
Kulturen, che è del 1924).
In questi lavori, di carattere teorico, lo Schmidt ha
sempre dichiarato che la scuola storico-culturale è sorella o
meglio figlia della storia; che essa come fine principale ha
la certezza storica; che la sua metodologia è quella della
storia. Queste affermazioni categoriche non gli
impediscono però di porre delle distinzioni fra le fonti, le
quali, a suo avviso, rispetto alle origini possono essere
immediate o derivate, mentre rispetto al loro valore
gnoseologico sono reali o parlanti. Né gli impediscono
inoltre di affermare che l’etnologia ha pur le sue
caratteristiche:

«Poche scienze dispongono, come ha già rivelato Graebner, di un metodo così


ben perfezionato come la storia. Ora ciò naturalmente va a beneficio anche
dell’etnologia, la quale però, come speciale ramo della scienza storica totale,
non manca in nessun modo di proprie caratteristiche che poi richiedono in
relazione al metodo la loro considerazione…»

Lo Schmidt è convinto inoltre che il metodo di conoscere


della filosofia è da distinguersi da quello della conoscenza
storica. E sentiamo la ragione: perché la filosofia procede,
tra l’altro, anche dai fatti di esperienza, forniti dalla natura
e dalla storia, ma preferendo alle loro cause prossime e
concrete quelle remote e generali. Marett era andato oltre.
E, forse prima di lui, oltre erano andati gli stessi
antropologi inglesi, ai quali la filosofia, che era nel caso
specifico la storia della filosofia e non quella
evoluzionistica, aveva insegnato che ogni teoria in tanto
vale in quanto è pensata e che il pensiero non può vivere al
di fuori della filosofia.
Lo Schmidt, dopo aver battagliato con quella scuola – nel
che, a dire il vero, non va oltre il Graebner –, prende quindi
di mira il Mannhardt. Uno studioso austriaco, serio e ben
preparato storicamente, A. Haberlandt, nel suo volume
Volkskunde und Völkerkunde, non aveva esitato ad
affermare che il Mannhardt aveva anticipato «una buona
parte del fondamento metodologico del folklore e
dell’etnologia comparata, vale a dire del metodo etnologico
del Graebner». E lo Schmidt commenta indignato, egli che
in genere è così cavalieresco nel passare in rassegna le
teorie altrui: «Sarebbe stato straordinario se il folklore
avesse conosciuto tanto presto il metodo storico-culturale».
Continuando le sue indagini in tal proposito, egli accenna ai
lavori dello Spamer, del Maurer e dello Schier, editi
nell’ampia raccolta curata dallo stesso Spamer e intitolata
Die deutsche Volkskunde. E aggiunge in una nota: «Il ramo
geografico culturale con l’applicazione eccellente della
cartografia viene creato in modo speciale da W. Pessler». È
vero che l’attività di quest’ultimo si inizia nel 1906, quando
cioè non era ancora uscita la Methode del Graebner. Il
saggio del Ratzel Geschichte, Völkerkunde und historische
Perspektive era stato pubblicato però nel 1893. E il Pessler
rientra quindi nei quadri.
Lo stesso Schmidt tuttavia non esita a riconoscere:

«L’indagine storica ha raggiunto ben presto una considerevole altezza


specialmente a causa di favorevoli condizioni. Questo frutto maturò nelle
ricerche dei dotti finlandesi sull’origine della loro epopea nazionale, il Kalevala.
Mentre i ricercatori più antichi come Lönnrot, J. Krohn e altri ricevettero
l’eredità di un punto di vista evoluzionista-naturalistico nella spiegazione della
medesima, l’indagine si perfezionò già sotto J. Krohn e più ancora sotto K.
Krohn in una indagine pienamente storica, su una via di transizione da un modo
di lavorare geografico-cartografico a uno puramente storico. Essi poterono poi
anche dimostrare che il Kalevala nella sua forma attuale non è nato nel tempo
preistorico pagano, ma in un periodo di transizione che sta fra il paganesimo e
il cristianesimo».

È strano che lo Schmidt non faccia per Julius Krohn


quelle riserve che aveva manifestato per il Mannhardt. Il
che significa che allo Schmidt sfugge un particolare: e cioè
che, se la scuola storico-culturale ha per metodo la storia,
non era necessario che venisse fuori la scuola storico-
culturale, perché la storia si facesse criterio
d’interpretazione per il folklore. E questa infatti è la
ragione per cui la storia, cioè il metodo della storia, aveva
dato vita e vigore alle opere dei Grimm, di un Pitrè, di un
Mannhardt, di un Dieterich.
Lo Schmidt è convinto infine che «gli strati inferiori del
popolo corrispondono in gran parte ai popoli primitivi». Da
qui il principio da lui sottinteso: cioè che essendo
l’etnologia un criterio di interpretazione del folklore, è
legittimo che essa sia portata al suo grado di pensiero
storico. Insomma: se la metodologia del folklore è la storia
e se l’etnologia è essa pure storia, possiamo trascurare i
risultati cui, nel campo specifico dell’etnologia stessa, ci ha
portato la scuola storico-culturale?

7. La credenza nell’Essere Supremo

Nessuno potrà ora negare che questa scuola coi suoi


accertamenti etnologici ci ha dato in effetti una nuova
visione del mondo primitivo. Si pensi alla grande opera
dello stesso Schmidt, Der Ursprung der Gottesidee, le vera
Bibbia dei popoli primitivi. Ed eccoci ai suoi risultati.
Esistono oggi, egli afferma, dei popoli primitivi, la cui
cultura ci documenta la più remota antichità dell’uomo
sulla terra. Cioè: dell’uomo veramente primitivo. Ebbene, in
questi popoli esiste la credenza dell’Essere Supremo.
Quindi abbiamo, alle origini, la credenza dell’Essere
Supremo. Ed ecco dove condurranno quelle caratteristiche
dell’etnologia che lo Schmidt aveva rilevato rispetto alla
storia.
Si tratta, come si vede, di una teoria la quale,
rovesciando le precedenti costruzioni sull’origine della
religione e collegandosi alle posizioni teistiche, respinte dal
Tylor, dal Frazer e dal Durkheim, pone in origine una
credenza puramente religiosa e religiosamente pura: quella
dell’Essere Supremo. Ma possiamo noi, in effetti, affermare
che in origine esista una credenza isolata dell’Essere
Supremo? E l’Essere Supremo è davvero, come lo
immagina lo Schmidt, il prodotto di un pensiero logico
casuale?
Lo Schmidt, sotto questo aspetto, completa il secondo
Lang. Questi, a dire il vero, aveva esitato a qualificare iddii
gli Esseri Supremi. Lo farà lo Schmidt il quale anzi osserva
che l’Essere Supremo, fra i popoli etnologicamente più
antichi, è anche creatore, onnipotente, onniveggente. Né va
dimenticato che per lo Schmidt – come per il Lang – la
religione in questa sua forma arcaica, in questo suo
inverarsi cioè nella credenza dell’Essere Supremo, è una
forma essenzialmente diversa dal mito, perché essa è
collegata alla sfera dell’attività razionale, in quanto
l’Essere Supremo degli ultraprimitivi risponde a una
concezione razionale della causa. «Il bisogno di una
ragionevole causa», osserva lo Schmidt, «è soddisfatto
dalla certezza di un Essere Supremo creatore del mondo e
dell’uomo».
Ora è merito indubbiamente dello Schmidt quello di aver
accertato fra i popoli primitivi la credenza dell’Essere
Supremo. E in ciò lo ha seguito, con risultati eccellenti, la
scuola storico-culturale. Nessuno del resto potrà mettere in
dubbio che il momento religioso appare variamente
atteggiato nella coscienza dell’uomo di tutti i tempi e di
tutti i luoghi. Ma quale aspetto abbia assunto in origine
questo momento rimane e rimarrà un’ipotesi. O comunque
un atto di fede. E ciò perché non è possibile assumere a
giudizio storico la tesi del prima cronologico che porta ad
assumere arbitrariamente un momento od aspetto del corso
storico come la condizione necessaria (e la sola necessaria)
del resto. Un fatto è stabilire come una concezione si sia
diffusa sulla terra; ma del tutto diverso è affermare che
quella determinata concezione stia proprio alla base
dell’istituto al quale va unita.
Nel porre la credenza dell’Essere Supremo alle origini
della religione in cambio del feticismo, dell’animismo, del
preanimismo, lo Schmidt cade in quegli stessi schemi
evoluzionistici contro cui egli era sceso in campo. Ma il suo
in fondo è un evoluzionismo alla rovescia. Egli, per dare
vigore a quell’accertamento, parte dalla premessa che vi
sono sulla terra delle culture cronologicamente primitive. È
ovvio invece osservare che la più bassa e rudimentale
civiltà, se noi vogliamo considerarla storicamente, non può
non apparirci che come un prodotto di successive
trasformazioni.
Di fatto, la scuola storico-culturale ha studiato
determinati cicli, li ha messi in luce, così come si
potrebbero mettere in luce la civiltà egiziana o quella
ebraica o quella maomettana. E qui è il suo merito. Ma poi
è andata oltre, assegnando loro una priorità cronologica e
necessaria così come potrebbe fare lo storico della civiltà
egiziana, dell’ebraica, o maomettana che volesse poi
considerare una di quelle civiltà come la prima del mondo.
Nulla ci dice, d’altra parte, che una cultura
etnologicamente più antica sia quella cronologicamente più
antica.

8. La scuola antropologica inglese e la scuola storico-


culturale

È chiaro pertanto che un’etnologia così concepita rimane


sullo stesso piano di quella che precedentemente era
servita agli antropologi per le loro interpretazioni. Vale a
dire: un’etnologia viziata dal prima e dal poi, dal
persistente concetto di storia universale, di una storia che
si fa psicologia. Che, in fondo, il risultato cui in gran parte
giungono i cultori della scuola storica quando si internano
nel mondo del prima e del poi è questo: che essi partono
dallo storicismo per arrivare al più categorico naturalismo.
Nessuno vuol negare che essi hanno buone ragioni per
criticare la scuola antropologica inglese. Ma hanno un
torto: quello di non riconoscere che ai rappresentanti di
questa scuola era successo in gran parte proprio l’opposto
di quel che era successo a loro: e cioè che, partendo dal più
categorico naturalismo, essi erano talora arrivati a uno
storicismo che li riscattava e li poneva come sentinelle
avanzate nel campo degli studi.
Gli antropologi inglesi erano arrivati a un sano
storicismo quando, liberandosi dai loro schemi
evoluzionistici, avevano finito per considerare il mondo
primitivo come una pagina di storia contemporanea in cui
si risolvevano le sopravvivenze; quando a quel mondo essi
avevano assegnato il compito di illuminare un aspetto della
nostra civiltà occidentale e con essa la consapevolezza del
nostro essere. La scuola storico-culturale, invece, è rimasta
ferma fra i primitivi, onde fra i suoi studiosi sono venuti a
mancare appunto quegli stimoli. Ma c’è di più. È vero che
la scuola antropologica eludeva, a volte, non solo il tempo,
ma anche lo spazio. Ed è vero altresì, invece, che la scuola
storica volle in proposito portare una maggiore
concretezza. Sta di fatto però che quest’ultima ha il torto,
come ha ben osservato il De Martino, di considerare lo
spazio, il tempo, non come schemi pratici aventi valore
euristico, ma come categorie del procedimento storico. In
più essa, riducendo i fatti alle loro cause, ha seguito il
procedimento inverso della storiografia.
In cambio, è merito della scuola storico-culturale l’averci
dato delle norme precise per stabilire l’area di diffusione
delle tradizioni identiche, mentre ha rinvigorito negli
studiosi dell’etnica tradizionale il senso filologico. E se noi
non diremo con Padre Schmidt che con tale scuola deve
ricominciare una novella storia del folklore; diremo invece
che tocca a un Ratzel, a un Graebner e a uno Schmidt il
merito di aver riproposto, con efficacia, la metodologia
della storia come metodologia del folklore.
27. Fra storia e sociologia

1. L’opera del Van Gennep

A cavaliere della scuola antropologica inglese e della


scuola storico-culturale, quando la metodologia della storia
tende sempre più a farsi metodologia del folklore, c’è in
Francia uno studioso, Arnald Van Gennep, il quale, almeno
in sede teorica, si oppone a quella metodologia, ch’egli
stesso, però, finirà col seguire dopo essersi accinto a
studiare le tradizioni popolari della Francia.
Educatosi alla scuola antropologica inglese, ingegno
fervido e sottile, lavoratore di tempra eccezionale – è stato
chiamato, e non a torto, il Pitrè della Francia – il Van
Gennep inizia il suo noviziato con alcuni lavori di carattere
etnologico che lo rivelano studioso attento, scrupoloso,
geniale: Tabou et totémisme à Madagascar, che è del 1904;
Mythes et légendes d’Australie, che è del 1906; Les rites de
passage, che è del 1909. A una sua ampia dissertazione di
filologia classica, La question d’Homère (1909), segue
l’anno dopo La formation des légendes, un lavoro
divulgativo che tuttavia rivela nel suo autore un notevole
buon senso. Dal 1908 al 1914 escono i cinque volumi
intitolati Religions, mœurs et légendes: studi, recensioni,
prese di posizioni, che interessano contemporaneamente
tanto l’etnografia quanto il folklore. E all’etnografia
saranno dedicate le sue Études d’ethnographie algérienne,
edite fra il 1911 e il 1914 (che ebbero una sintesi nel
volumetto: En Algérie). Due anni dopo, nel 1916, esce un
suo volume di folklore francese: En Savoie: du berceau à la
tombe. E d’allora il folklore francese costituirà il suo
prediletto campo di studi. Dal 1932 al 1936 egli pubblica
infatti le seguenti opere: Le folklore du Dauphiné; Le
folklore de la Bourgogne; Le folklore de la Fiandre et du
Hainaut; Le folklore de l’Auvergne et du Velay. E a queste
ne seguirà un’altra, la più vasta che egli abbia compiuto, il
Manuel de folklore français contemporain, di cui sono già
usciti parecchi volumi e che è una vera e propria
«biblioteca delle tradizioni popolari francesi».
Opera di etnologo, dunque, la sua, ma anche e
soprattutto di folklorista. E in ciò egli è sulla stessa linea
degli antropologi inglesi coi quali condivide l’interesse per
le civiltà classiche. Si aggiunga che il Van Gennep passa
agli studi etnologici dalla storia medievale. Il che lo
avvicina al Graebner. A differenza degli antropologi inglesi
e del Graebner, il Van Gennep vuol però riportare la scienza
del folklore nell’ambito della biologia. E valga come punto
di partenza, onde documentare questo suo assunto, il
saggio dedicato allo sviluppo storico dell’etnografia ed
edito nel secondo volume di Religions, mœurs et légendes.
In questo saggio egli distingue, anzitutto, il metodo
storico da quello comparativo, il primo dei quali, a suo
avviso, considera i fenomeni nel loro ordine cronologico e
utilizza i documenti scritti e figurati, mentre il secondo non
solo fa astrazione dalle condizioni di tempo e di luogo, ma
utilizza anche i documenti orali. E aggiunge: il fatto che
l’oggetto di studio non è lo stesso nei due casi prova la
legittimità dell’uno e dell’altro metodo. Ora, egli incalza,
non v’è dubbio che i fenomeni di cui si occupa il folklorista
sono fenomeni vivi, mentre quelli di cui si occupano gli
storici sono morti. Da qui l’appello che fa alla biologia come
alla scienza che deve rinnovare lo studio del folklore.
E noto, d’altro lato, che fu il Lamprecht, e sappiamo con
quali risultati, a sostenere l’idea che bisognava ridurre la
storiografia a scienza esatta, applicandovi le leggi
biologiche. Il Van Gennep va oltre. E convinto com’è che
anche la maggior parte dei folkloristi non sono bravi
osservatori, perché si sono contentati d’imporre al folklore
il metodo storico o comunque quello psicologico, sostiene
che tutta la scienza del folklore ha ormai bisogno di un
nuovo metodo: quello dell’ osservazione diretta.

2. Folklore e biologia

In un suo volumetto sul Folklore (1924) il Van Gennep


cercherà di chiarire queste idee. In fondo, però, egli rimane
fermo al suo punto di partenza:

«Il folklore utilizza in primo luogo il metodo d’osservazione, e ciò perché… esso
si occupa di fatti viventi e attuali. Inoltre, un fatto attuale ha i suoi antece
denti, i quali non possono essere spiegati che col metodo storico… Questa
teoria è ben nota… Ma su un fatto bisogna insistere: che il folklore non è
unicamente storico e che non è una sezione della storia. È a poco a poco, del
resto, che si comincia a guarire dalla malattia del secolo XIX, malattia che si
può chiamare mania storica, secondo la quale tutto ciò che è attuale non conta
che in rapporto al passato, onde, secondo il tema di un romanzo celebre, i
Viventi non contano che in rapporto ai Morti… Questa malattia psichica e
metodologica s’è così dif fusa che poche persone istruite evitano dinanzi a un
oggetto o a un’azione di stimarne solamente il valore archeologico-storico…
Chiunque vuole interessarsi del folklore deve abbandonare l’attitudine storica
per adottare l’attitudine degli zoologi e dei botanici che studiano gli animali e
le piante nella loro vita e nel loro ambiente anch’esso vivente; dunque
sostituire al metodo storico il metodo biologico».

E nell’introduzione generale che precede il primo volume


del Manuel de folklore français contemporain, il Van
Gennep non manca di trarre da quella definizione la norma,
cui, a suo avviso, ciascun folklorista deve obbedire nella
raccolta del materiale:
«Poiché il folklore è una scienza biologica, la raccolta dei documenti non può
farsi che con un impiego esatto e metodico della tecnica dell’osservazione come
l’hanno elaborata le scienze naturali… Questa tecnica è qui sottomessa a certi
ampliamenti da una parte, a certe limitazioni dall’altra. L’ampliamento consiste
in questo: che nessun fatto può essere preso isolatamente poiché fa parte di un
tutto complesso e questo tutto e mutevole. Lo studioso si trova così forzato a
notare nello stesso tempo parecchi fatti di dettaglio raggruppati attorno ad un
nucleo centrale; ma ciascuno di questi dettagli può in altre condizioni servire a
sua volta da nucleo centrale. Questa difficoltà scoraggia all’inizio i principianti,
i quali confessano volentieri che non sanno come raccapezzarsi e si disperano
di rimanere annegati nei fatti. La soluzione sarà che bisogna andare dal più
facile al più difficile, cioè dalle manifestazioni esteriori alle credenze… Nella
pratica folkloristica non bisogna sottomettere i testimoni a un interrogatorio
metodico, come sarebbe quello di un giudice; ma bisogna lasciarle prendere
l’abbrivo e farli abbandonare ai ricordi».

I consigli che il Van Gennep dà, nelle sue varie opere, ai


folkloristi sono sempre utili. Ma è necessario ricorrere alla
biologia per animarli? Nella introduzione già citata, il Van
Gennep non cambia il suo atteggiamento nei riguardi della
storia. Lo modifica, però, nei riguardi della biologia:

«Io non prendo qui il termine di biologia nel senso trasformista o evoluzionista
come sembra lo abbia compreso qualche critico, ma nel senso preciso di “ciò
che concerne la vita”. Non è questa una immagine per rappresentare lo stato o
la società come un organismo vivente sottomesso alle leggi naturali da cui
dipendono tutti gli organismi: di crescita, di maturità, di vecchiaia e di morte.
Io dico solamente – e ciò mi sembra di una evidenza inconfutabile – che, dal
momento che gli uomini sono degli esseri viventi, parzialmente liberi di
decidersi in un senso o nell’altro, di muoversi sulla superficie della terra ed al
giorno d’oggi anche nel ciclo e di abbandonarsi, ma solo in certi limiti che essi
stessi si sono imposti, ai loro sentimenti ed alle loro passioni, i loro rapporti
debbono essere esaminati e valutati come rapporti viventi biologici e non come
rapporti di oggetti inanimati o rapporti di esseri morti. Non si tratta qui d’una
teoria né di un sistema ma di un angolo visuale che fa vedere i fatti folkloristici
ed etnografici in modo assolutamente diverso che se li si consideri da un angolo
visuale meccanicistico oppure storico e che permette di subordinare migliaia e
migliaia di dettagli apparenti, morfologici, allo studio degli agenti viventi e
delle funzioni sociali».

3. Folklore senza storia

Da queste sue affermazioni si vede chiaramente come il


Van Gennep abbia della storia un concetto assolutamente
erroneo. Basta a denunciarcelo quell’infelice
accoppiamento di termini «meccanicistico oppure storico».
Il Van Gennep è convinto che la storia non sia altro che
erudiziene, qualcosa di esterno insomma, la catalogaziene
schematica e, si potrebbe dire, anagrafica e cronologica di
fatti. E convinto com’è di ciò, aggiunge senz’altro:

«La migliore definizione del folklore, quella di cui, tutto considerato, ci si può
contentare è: studio metodico, quindi scienza, degli usi e costumi. È inutile
aggiungere popolari, perché gli usi e i costumi sono fenomeni collettivi
generali, che si possono discernere indipendentemente dalla razza, dal tipo di
civiltà, dalla classe sociale o in certi paesi dalle caste professionali. Usi
significa: modi di vivere senza alcuna valutazione politica né etica. Costumi
significa: modi di vivere conformemente a regole non scritte o scritte, ammesse
dal consenso generale dal basso in alto, spontaneamente e senza coercizione
statale o di governo, spesso anche, a seconda delle epoche o dei paesi,
nonostante o contro questa coercizione, essa stessa giustificata, non da
principio ma dopo, da una o più leggi necessariamente sempre in ritardo
sull’evoluzione progressiva o regressiva dei costumi…»

Il Van Gennep, è evidente, si attarda qui in posizioni


rigidamente positivistiche. La biologia, sia pure assunta ad
angolo visuale, dovrebbe permettere al folklorista di
formulare delle leggi generali in mezzo al caos dei dettagli
fra i quali si muove. E in nome di queste leggi, ecco il suo
concetto del folklore, il quale, così com’è da lui concepito,
altro non sarebbe che una catalogazione metodica dei fatti,
ciascuno dei quali è collegato a una legge. Il Van Gennep è
ben lontano dall’escludere dal folklore i canti, le novelle, le
leggende, i proverbi ecc. – che anzi egli ha del folklore un
concetto unitario. La sua definizione del folklore è tale,
però, che essa esclude quelle produzioni. In più egli non
esita a riconoscere un folklore marinaro, un folklore rurale,
un folklore operaio ecc. E allora com’è possibile non
precisare se gli usi stessi e le consuetudini siano o no
popolari?
Si aggiunga che il Van Gennep nel definire il folklore, e
nel proporne quindi la metodologia, parte, come abbiamo
già detto, da una premessa: che il folklore è lo studio di
fatti attuali e viventi a differenza della storia che è lo studio
dei fatti morti. È ovvio, però, osservargli che i fatti attuali e
viventi fanno pure essi parte della storia e che non si può
escludere dal campo di indagini del folklorista quegli usi e
quei costumi che appartengono a tempi lontani senza
continuarsi sino a noi. Ad esempio: lo studioso che si
occupa, poniamo, del folklore del periodo della Rinascenza
non può per questo a buon diritto chiamarsi folklorista?
Lo storico, inoltre, non valuta i fatti a seconda che siano
scritti oppure orali, ma soltanto perché sono pensati. Lo
stesso metodo comparativo, infine, che il Van Gennep
antepone a quello storico, se pur accusa a volte un
procedimento naturalistico, va considerato come una
ricerca euristica che lo storico deve elevare a storia,
rigenerandola in una compiuta qualificazione.

4. Individuo e collettività nel pensiero del Van Gennep

La formulazione di leggi generali non impedisce al Van


Gennep di riconoscere nelle tradizioni dei popoli, che è
quanto dire nei fenomeni collettivi come egli li chiama,
l’apporto individuale. Come egli stesso osserva
nell’introduzione del suo Manuel:

«Ogni individuo ha dunque delle relazioni sociali multiple e gli è sempre lecito,
nei limiti fissati dalla tradizione, di reagire ai rapporti stabiliti: nella famiglia
con la scelta della sposa e la limitazione delle nascite dei figli; come soldato con
un’azione di eroismo; come elettore col voto; e così via di seguito. In altre
parole, per comprendere il meccanismo della vita sociale globale, è
dall’individuo che bisogna partire e non dalla collettività; questa non è che
un’astrazione o, tutt’al più, una prospettiva, come una fotografia presa da un
aereo».

Il Van Gennep, in tal modo, è sulla stessa linea di quei


folklo-risti che hanno messo in luce l’elemento individuo
come la fonte stessa del folklore. È evidente, però, che egli
– mentre si collega in questo campo a un A. W. Schlegel o a
un Pitrè – si pone contemporaneamente contro se stesso. Il
riconoscimento che egli fa dell’individuo nella problematica
folkloristica, annulla infatti quelle leggi generali di cui egli
si era fatto propugnatore. Vi sono, del resto, com’egli
stesso specifica, gli individui A e B che possono anche
sottostare a un determinato ambiente, ma vi è l’individuo C
che vi si ribella. Ed è allora che questo individuo può
diventare modifi-catore o inventore di determinati fatti
folkloristici.

5. Riti e sequenze

Ancor prima, del resto, di valutare nel folklore il valore


dell’individuo, il Van Gennep aveva già tentato tale
valutazione nel campo dell’etnologia. Nell’introduzione dei
Mythes et légendes d’Australie, riferendosi alle
modificazioni cui vanno soggette le tribù australiane,
osserva:

«Gli agenti di queste modificazioni sono, nei casi conosciuti con precisione, un
individuo o un piccolissimo gruppo di individui. Questo elemento individuale,
che il Durkheim trascura, sostiene una parte importante nelle società
australiane. Talora un individuo, dotato di immaginazione più vivace, è favorito
dagli esseri soprannaturali che gli indicano il cambiamento da introdurre».

E questo atteggiamento storicistico è alla base del suo


volume su La formation des légendes, dove egli, se pur
accoglie la teoria antropologica dell’origine delle fiabe, non
si nasconde l’apporto che a ciascuna fiaba da ciascun
narratore. Nei Rites de passage, invece, egli, come il
Boulanger cui in proposito si riattacca, indugia sugli
schemi, sulle leggi, sui valori della collettività, mentre la
vita individuale, qualunque essa sia, è biologicamente
ridotta al passaggio da un’età all’altra o da un’occupazione
all’altra. Così, com’egli osserva:

«Ogni cambiamento nella situazione di un individuo porta seco azioni e reazioni


tra il profano e il sacro, azioni e reazioni che debbono essere regolamentate e
sorvegliate, affinchè alla società generale non arrechino né molestia né danno.
È il fatto stesso di vivere che comporta vari e successivi passaggi da una
società speciale ad un’altra e da una situazione sociale ad un’altra; di maniera
che la vita individuale consiste in una successione di tappe i cui fini e i cui
principi formano però un insieme da porre sullo stesso piano: nascita, pubertà
sociale, matrimonio, paternità, avanzamento di classe, specializzazione
d’occupazione, morte, ecc. E a ciascuno di questi insiemi si riferiscono delle
cerimonie, il cui scopo è sempre uguale; fare passare l’individuo da una
situazione determinata ad un’altra situazione, anch’essa ben determinata;
essendo uguale lo scopo, è anche necessario che i mezzi per ottenerlo siano, se
non identici nei dettagli, almeno analoghi, anche perché l’individuo si è a mano
a mano modificato poiché ha dietro di sé parecchie tappe e ha superato
parecchie di queste frontiere. Da ciò la rassomiglianza generale delle cerimonie
della nascita, dell’infanzia, della pubertà sociale, del fidanzamento, del
matrimonio, della gravidanza, della paternità, della iniziazione alle società
religiose e dei funerali. Inoltre né l’individuo né la società sono indipendenti
dalla natura e dall’universo il quale è anch’esso sottomesso a dei riti che hanno
il loro contraccolpo sulla vita umana. Anche nell’universo vi sono tappe e
momenti di passaggio, marcie in avanti e stati di arresto relativo, di sosta. Così
si devono riattaccare alle umane cerimonie di passaggio quelle che si
riferiscono ai passaggi cosmici: ad esempio i passaggi da un mese all’altro
(cerimonie del plenilunio), d’una stagione all’altra (solstizi, equinozi), da un
anno all’altro (Capodanno ecc.). Mi sembra dunque logico raggnippare insieme
tutte queste cerimonie secondo uno schema la cui elaborazione dettagliata
però è ancora impossibile».

Si tratta, come si vede, di un aggruppamelo meccanico di


cui lo stesso Van Gennep sente il limite. Egli sa, del resto,
che non è possibile porre dentro un rigido schema ciò che
per sua definizione è vivente e perciò naturale. E questa,
anzi, è la ragione per cui egli negli stessi Rites de passage
pone l’accento sulle sequenze:

«Le sequenze [dei riti di passaggio] non sono state quasi esaminate, mentre lo
studio di certi rituali moderni che sono conosciuti molto dettagliatamente
(Australia, Indiani Pueblos)… prova che sempre per le grandi linee e talvolta
per i minimi dettagli l’ordine col quale i riti si susseguono e debbono essere
adempiti è di per se stesso di già un elemento magico religioso di portata
essenziale. Lo scopo principale di questo libro è precisamente di reagire contro
il procedimento “folkloristico” o “antropologico” che consiste nell’estrarre da
una sequenza diversi riti – siano essi positivi o negativi – considerandoli poi
isolatamente, togliendo loro così la stessa ragione d’essere principale e la loro
situazione logica nell’insieme dei meccanismi».

Questa esigenza è sentita ed espressa dal Van Gennep


nel primo volume del suo Manuel, quando egli,
esaminando, nel tomo primo, gli istituti folkloristici, che
raggruppa sotto il titolo Du berceau à la tombe, sente il
bisogno di ritornare sulla fenomenologia dei riti di
passaggio. In questo volume, però, come del resto negli
altri che lo seguono, gli schemi costituiscono soltanto uno
strumento di lavoro o meglio un mezzo per raggruppare dei
fatti che sono poi esaminati da un punto di vista storico.
6. Van Gennep e il metodo cartografico

Dalle sue prime monografie dedicate al folklore francese


fino al Manuel – che di tutte quelle ricerche è la summa – il
Van Gennep si dimostra raccoglitore impareggiabile. I suoi
questionari diramati per raccogliere quel vasto materiale
sono modelli del genere. E in base a tali questionari egli è
stato in grado di uscire dal vago e dall’approssimativo, e di
documentarci in quali comuni un determinato uso vive o è
scomparso. Ecco perché egli ha sempre insistito sulla
grande utilità che il folklorista può trarre anche dalle
risposte negative. Né il Van Gennep inizia mai una raccolta
senza prima avere una documentazione bibliografica
precisa sull’argomento che affronta. Nel suo Manuel una
parte considerevole (voll. 3 e 4) è dedicata alla Bibliografia
degli studi delle tradizioni popolari francesi. E tale
bibliografia – esemplare come quella che il Pitrè ha
dedicato all’Italia – lo accompagna man mano che egli
classifica e presenta i nuovi fatti raccolti.
Il Van Gennep, allo scopo di presentare sempre più e
meglio tali fatti, ha sostenuto, fra l’altro, l’utilità del
metodo cartografico. È del 1904, anzi, una sua ampia
recensione dedicata al primo volume Le folklore de France
del Sébillot, dove egli dice:
«Perché Sébillot non aggiunge delle carte indicanti le aree di questa o
quell’altra credenza o costumanza determinata per quei luoghi dove non sono
state iniziate inchieste speciali?»

E quel che il Sébillot non fece – o fece soltanto in parte –


fu e rimase la preoccupazione principale del Van Gennep, il
quale in un saggio programmatico Contribution a la
méthodologie du folklore (pubblicato anche in Italia, in
«Lares» del 1934), dopo aver delineato la storia del metodo
cartografico, dal Ratzel al Pessler, affermò categoricamente
che tale metodo, combinato con le altre sue idee direttrici
chieste alla biologia, gli aveva imposto una preparazione
scientifica molto più accurata di quanto non avessero
richiesto i suoi studi storici, linguistici, economici, politici.
Il metodo cartografico, comunque, egli aggiunge, in tanto
è valido in quanto ci permette di tener conto di tutti gli
elementi che determinano la persistenza o la scomparsa del
fenomeno studiato. E aggiunge che con esso egli non si è
mai proposto di fare sopravvivere delle superstizioni, ma di
definire i legami che determinano quella coesione delle
collettività locali che in definitiva formano la nazione. Il
metodo cartografico è una ricerca euristica. E come tale ha
la sua utilità; ma che altro non sia, né possa essere, ci è
dimostrato dalla stessa opera del Van Gennep, nella quale
egli ha utilizzato, si, tutte le sue esperienze di folklorista,
ma appunto perché dietro quelle esperienze c’era lo
studioso scaltrito dei fenomeni storici, linguistici, politici,
economici ecc.
Così, ad esempio, per ritornare al suo Manuel, è vero che
in esso la rappresentazione cartografica accompagna
l’esposizione stessa della materia e che le varietà regionali
e locali, su cui egli si ferma con particolare compiacimento,
danno vivacità e colore ai suoi aggruppamenti. Nel Van
Gennep, però, la raccolta – e ciò non va detto soltanto per il
suo Manuel, ma anche per le altre sue opere dedicate al
folklore francese – non è mai fine a se stessa. Egli
raccoglie, si, i fatti del folklore, ma per interpretarli. Ed è
qui che l’impacciato teorico del folklore si trasforma quasi
sempre in storico del folklore francese, preoccupato com’è
allora di un solo scopo, o meglio di una sola metodologia:
quella di dispiegare i fatti folklori ci in determinate forme
storiche. Egli stesso afferma infatti che, se si vuole studiare
il folklore della Francia, è necessario avere davanti allo
spirito la complessità dei fattori che hanno dato vita alla
formazione stessa di questa nazione. E allora, si potrebbe
aggiungere, qual è il compito del folklorista se non quello
di individuare le tradizioni stesse di un popolo le quali, in
quanto tali, seguono un processo che è il generarsi stesso
della storia?
7. Van Gennep storico del folklore francese

È appunto per questo, d’altro lato, che il Van Gennep non


si contenta di esaminare un fatto folkloristico così come
egli lo scopre e lo fa oggetto della sua attenzione,
portandolo, per ripetere le sue parole, davanti al suo
spirito; ma va oltre: cerca di vedere questo fatto – quale
che esso sia – nei vari aspetti che ha assunto nel corso dei
secoli. E con questa indagine egli intende meglio il fatto,
perché in esso distingue i nuovi motivi e i nuovi significati
che lo hanno arricchito o impoverito. In altri termini: egli
supera sul piano della ricerca quella che è la sua stessa
definizione del folklore in sede teorica. E la supera poiché
davanti a lui non vi sono fatti biologici, ma documenti dello
spirito umano. Leggete le sue indagini sul battesimo o sul
matrimonio. Oppure, nella seconda parte che porta
anch’essa il titolo Du berceau à la tombe, i suoi saggi sul
matrimonio e sui funerali. Ancora: le altre parti del tomo
primo dedicate alle Cérémonies périodiques cycliques e
quindi al Carnevale, alla Quaresima, alla Pasqua, alle feste
di maggio, ai fuochi di san Giovanni, alle cerimonie agricole
e pastorali d’estate. Il teorico finisce ancora una volta con
lo scomparire. E davanti a noi ecco che rimane lo storico,
attento, acuto, sicuro, del folklore francese.
Valga un esempio. Nella prima parte del primo tomo il
Van Gennep esamina l’usanza dei padrini di battesimo, i
quali, in molte zone della Francia, vengono scelti fra i
nonni. Ora, come egli aggiunge, si deve notare:

«… che questo insieme giuridico-folkloristico non può spiegarsi con la teoria


delle sopravvivenze, ma deve essere considerato come una invenzione
autonoma che si è formata e a poco a poco sviluppata a partire dall’alto
Medioevo o più esattamente a partire dal momento in cui il battesimo degli
adulti fu sostituito da quello dei fanciulli, ciò che non ebbe luogo dappertutto
nella stessa epoca in Europa. Il cristianesimo non si stabilì in tutte le campagne
della Francia che verso la fine del periodo merovingio, più o meno rapidamente
secondo la pressione dei missionari e dei vescovi. Bisognò allora sostituire i
padrini dei catecumeni adulti, le cui obbligazioni civili erano limitate, con altri
garanti di maggiore responsabilità e questo non solamente nella liturgia, ma
anche nei costumi. Proprio a tal punto cominciarono a entrare in gioco in una
maniera sempre più generalizzata i meccanismi degli onori e dei loro compensi,
delle obbligazioni di consanguineità e di vicinanza e sono state inventate una
infinità di credenze connesse di carattere magico-religioso, il cui scopo
essenziale è sempre stato e resta ancora il conseguimento di un appoggio
psichico, sociale ed economico in favore di quell’essere debole per eccellenza
che è il neonato».

E qui ancora una volta i fatti attuali hanno la loro


spiegazione in base ai fatti morti, i quali, in realtà, morti
non si possono considerare in quanto si sono soltanto
modificati e adattati. Senza dire che, con quell’esame, il
biologo si è fatto storico. Né il Van Gennep, infine, può fare
a meno di ricorrere al concetto di sopravvivenza che
nell’astratta formulazione del folklore aveva esclusa.

8. Pregi e difetti della sua problematica


In tutta la sua opera assistiamo a una revisione totale di
tutte le teorie mediante le quali l’etnologia ha cercato di
spiegare il folklore. Punto di partenza: una determinata
credenza, un particolare uso, un qualche rito che egli ha
precedentemente raccolto e classificato. Punto di arrivo: la
revisione di quella determinata teoria mediante la quale
quel fatto si è spiegato.
Non mancano certo in lui dei preconcetti, i quali lo
pongono su false strade. «Io non ho il diritto, – egli scrive
nella sua Contribu-tion à la méthodologie du folklore, – di
ricostruire il passato utilizzando delle teorie, come quella
della sopravvivenza, che si fondano sulla valutazione di ciò
che si chiama primitivo». E dimentica che non si tratta di
ricostruire il passato come egli l’intende, bensì di
illuminare e spiegare il presente. In più, è vero che egli nel
Manuel eviterà di parlare di quei primitivi, cari al suo cuore
nella gioventù; ma è vero altresi che davanti a lui c’è tutta
la problematica suscitata appunto dal mondo dei primitivi.
Così, ad esempio, egli non nega l’utilizzazione magica dei
falò. Ma senza l’interpretazione etnologica dei falò
saremmo noi arrivati al concetto che essi implicano di
utilizzazione magica? E la magia, quale essa fu codificata
dal Frazer, non lo guida nelle sue varie interpretazioni? È
vero che egli, a volte, si ribella alle teorie «belle e fatte».
Ma quando afferma che nelle cerimonie di maggio, quali si
svolgono in Francia, convien vedere un riflesso sessuale
anziché una sopravvivenza del culto dell’albero o del culto
del grano, che cosa fa egli se non seguire il metodo stesso
della scuola antropologica inglese?
Anche in questa reazione, che reazione poi non è, non
mancano osservazioni persuasive. Spesso, però, egli è
perentorio. E in proposito acute sono le osservazioni
fattegli dal Toschi:

«La reazione del Van Gennep è utile, è necessaria, ma si avverte più di una
volta il pericolo ch’essa esageri. Per il ciclo di maggio, se è difficile
documentare il rapporto e il prolungamento delle feste pagane nel folklore
medievale e attuale, è ancor più difficile, almeno per l’Italia, ammettere che fra
le feste floreali e della dea Maja e i nostri calendimaggi documentati fin dal
Medioevo ci sia una netta separazione. Mutamenti, dovuti al naturale evolvere
degli usi, al cambio della religione, alle invasioni barbariche, si; ma vero e
proprio distacco, no, tanto più che la dedicazione del mese di maggio a Maria
Vergine è di data relativamente recente. Così per il san Giovanni, l’esistenza
(nelle credenze di quel giorno) di personaggi più o meno mitici in Paesi
dell’Europa settentrionale, come Balder per la Norvegia, Ligo per la Lettonia,
Kupalo per la Russia e le relative usanze, specie nelle regioni, come quelle
baltiche, ove il Cristianesimo arrivò tardi e non potè agire in profondità, ci
fanno pur pensare a una grande festa stagionale pre-cristiana. Occorre tener
conto anche della vastita dell’area in cui le principali di queste usanze ci si
presentano. Insomma, guardiamoci dallo scambiare la mancanza dei documenti
con la mancanza dei fatti».

Il folklorista fa suo, in quei casi, il concetto della storia


che è in fondo quello da lui espresso in sede teorica. Ma si
tratta di premesse, di divagazioni, di spunti che nulla
tolgono al suo Manuel, il quale, se pur abbonda di pagine
che hanno il loro limite in quello che è il limite stesso della
sociologia, nel suo insieme è un esempio di metodologia
storicistica, in cui noi ritroviamo proprio quello storico che
egli voleva espellere da se stesso. Il torto del Van Gennep è
quello di ritenere che sia possibile considerare il metodo
biologico, e quindi l’osservazione, come qualcosa che sia o
possa essere fuori e prima del pensiero. Da qui, del resto,
la raccolta del materiale che precede la sua
interpretazione, quando invece l’una e l’altra avrebbero
potuto convivere assieme. È merito suo, però, l’averci
dimostrato che in lui, e tale è il Van Gennep migliore,
l’osservazione non è che uno stimolo al suo pensiero. E
quest’ultima è la ragione per cui egli si può considerare
come una delle figure più rappresentative della scienza
folkloristica europea.
28. Apologia del folklore

1. Dietro Saintyves, il Modernismo

Insieme al Van Gennep un’altra figura di studioso che in


Francia ha dominato, nell’ultimo cinquantennio, il campo
della scienza del folklore, è quella di Pierre Saintyves. Ligio
ai canoni della scuola antropologica inglese, egli affrontò
con crescente padronanza, il problema etnologico del
folklore. I suoi interessi furono sempre rivolti direttamente
o indirettamente alle tradizioni di carattere magico-
religioso. E dietro questi suoi interessi, a dire il vero, non ci
sono soltanto Tylor e Frazer, Lang e Hartland, ma ci sono
anche i maggiori rappresentanti di quella corrente di studi
che, battezzata col nome di Modernismo, cercò, tra la fine
dell’Ottocento e gli inizi del nostro secolo, di applicare i più
rigidi principi del metodo storico non solo alle istituzioni
della Chiesa, ma anche alla sua dottrina tradizionale.
Un modernista inglese, il Tyrrell, non si nascondeva i
pericoli di questo metodo:
«Riconosco senza esitazione che la coscienziosa indagine storica intorno alle
origini cristiane e intorno alla evoluzione ecclesiastica, vulnera in radice
parecchi dei nostri principi fondamentali per tutto ciò che concerne i dogmi e le
istituzioni. Riconosco senza esitazione che il dominio del miracolo si restringe
ogni giorno di più, data la possibilità sempre più vasta di ridurne le proporzioni
a cause naturali constatatoli. Io so e sento sempre più il valore di queste
obiezioni, il quale potrebbe però cadere se potessimo in compenso appellare
trionfalmente all’ethos cristiano della Chiesa, a un incomparabile spirito
religioso in essa e da essa alimentato, e se invece noi non trovassimo negli
scritti approvati dei suoi maestri di ascesi e di morale, nelle pratiche abituali
dei suoi confessori e dei direttori di coscienza, nelle biografie liturgicamente
adoperate dei suoi santi canonizzati… molte cose che ripugnano a quel nostro
senso morale e religioso a cui essa dovrebbe invece innanzi tutto rivolgersi…»

E tuttavia aggiungeva, con fede:

«Il cattolicesimo non è innanzi tutto una teologia e meno ancora un corpo
sistematico di prescrizioni pratiche, sostenuto da tale teologia. Il cattolicesimo
è innanzi tutto vita, e la Chiesa è un organismo spirituale, alla vitalità del quale
noi partecipiamo».

Questo il nucleo attorno cui si impernia la sua Lettera


(che, si noti bene, era diretta) a un professore di
antropologia. L’antropologia, che era quanto dire la scuola
antropologica inglese, fu uno stimolo per il Modernismo, o
meglio per alcuni dei suoi rappresentanti. Insegni per tutti
il caso del Loisy, il quale in molti suoi lavori si è avvalso non
solo dell’etnologia, ma anche, sia pure in minor misura, del
folklore. E del Loisy il Saintyves fu seguace, amico ed
anche editore. Poiché Pierre Saintyves altri non era che
Emile Nourry, proprietario di quella Libreria Critica che a
Parigi fu uno dei centri più vivi del Modernismo.
Di questo movimento il Saintyves fu indubbiamente il
rappresentante laico più agguerrito. Egli, anzi, potrebbe
definirsi il modernista del folklore. O ancor meglio, il
folklorista del Modernismo. E come folklorista si avvalse, si,
delle conquiste che il Modernismo veniva facendo anche
nel campo della etnologia, ma la sua mira fu sempre
identica: internarsi nella selva delle tradizioni popolari con
quello spirito che aveva dominato le ricerche di un Tyrrell e
di un Loisy.
Nel 1887, appena diciassettenne, egli ebbe a notare in
una pagina del suo diario: «Spero di poter sempre praticare
le seguenti regole: avere per guida il cuore e l’amore nelle
cose dello spirito; istruirmi affinchè possa essere utile ed
esserlo in maniera sempre più efficace; sforzarmi di
produrre opere utili alla scienza». E la sua scienza fu il
folklore, al quale egli dedicò, per usare la sua espressione
giovanile, il suo cuore e il suo amore.
Scrittore abile, il Saintyves ebbe un’intelligenza curiosa
e viva che gli permise di affrontare i vari argomenti da lui
trattati con immediatezza e con simpatia. E questa è la
ragione per cui i suoi libri si leggono sempre con interesse,
ancbe quando essi trattano argomenti tutt’altro che facili.
Egli è in ciò un po’ il Frazer della Francia. E, come quella
del Frazer, vasta è la sua produzione scientifica, alla quale
fa da sfondo il concetto stesso che egli ebbe della natura
del folklore.

2. Il folklore fra naturalismo e storicismo

Convinto che il folklorista deve possedere le qualità del


naturalista e quelle dello storico, il Saintyves è ben lontano
dal considerare il folklore come una scienza biologica. In
un suo ampio lavoro su L’astrologie populaire, edito nel
1937, di contro al Van Gennep, egli ebbe infatti a notare:

«Si è parlato di applicare al folklore il “metodo biologico”. I folkloristi


dovrebbero, ci si è detto, rivolgere tutta la loro attenzione al fatto vivente, al
fatto attuale, come se l’analisi del fatto vivente potesse, da sola, rivelarci le cue
cause. Notiamo innanzi tutto che il folklore discende essenzialmente dalla
tradizione e che questa non è un fatto biologico, ma propriamente psicologico e
sociale. Vi è dunque qui un equivoco – e al tempo stesso una deprecabile
confusione: l’intelligenza e le sue manifestazioni per apparire nell’essere
vivente non costituiscono per questo dei fatti che non si saprebbe confondere
con quelli biologici: essi appartengono essenzialmente alla psicologia generale
o a quella collettiva. L’introspezione e l’interrogazione non sono, che io sappia,
di competenza della biologia; ora il folklore riposa, quasi tutto, su delle
inchieste che sono il frutto di interrogazioni dirette o indirette… Il fatto vivente
che noi eludiamo, essendo un fatto tradizionale, ha dietro di sé altri cento fatti,
da cui esso dipende strettamente e che non possono essere studiati se non coi
metodi della storia. Né con ciò si vuoi dire che la vita popolare non offre mai
nulla di originale; si vuoi dire invece che la vita intellettuale del popolo si
evolve tutta intera nel quadro della tradizione. La natura stessa del fatto
folklorico – intendete tradizionale – non permette di dimenticare che esso è
quasi sempre profondamente radicato nel passato».

E questo è l’atteggiamento che egli conserva nel suo


Manuel de Folklore, di cui è uscito nel 1933 il primo
volume, che è un po’ il suo testamento spirituale,
specialmente se si integra coi frammenti del secondo (già
in parte pubblicati nel primo fascicolo dei Cahiers Pierre
Saintyves). Si è detto che in questa opera ben di rado si
trova quel che si cerca in un manuale: e cioè idee chiare,
sobriamente esposte e in modo accessibile a tutti. Ed è vero
che il Manuel – il cui titolo in effetti può ingannare il lettore
– fu scritto per i novizi. A tal fine le sue osservazioni, ad
esempio, sui questionari, intorno ai quali aveva dissertato,
con ben altra esperienza, il Van Gennep. In realtà però il
Saintyves ci ha dato un trattato dove è affrontata, con
intenti scientifici, non certo divulgativi, la problematica del
folklore o, per meglio dire, quella problematica come egli
l’intendeva.
Nel suo Manuel si rispecchia infatti la sua stessa opera e
quindi i criteri che l’hanno guidata. E così come nella sua
opera anche nel Manuel, il Saintyves riesce veramente un
grande folklorista laddove si fa storico. Anche in lui,
tuttavia, come nel Van Gennep, non mancano abbandoni
sociologici. E nel Manuel de Folklore, come nella sua opera,
ecco perché un facile naturalismo si avvicenda a un
consapevole storicismo.

3. I fatti folklorici e la comparazione


Dalla stessa definizione che egli da del folklore possiamo
desumere che il Saintyves è ancorato, come il Van Gennep,
al concetto della causalità della storia. E ciò lo porta a
stabilire delle leggi, secondo le quali è possibile, a suo
avviso, spiegare la vita stessa delle tradizioni popolari.
Così, ad esempio, egli, pur ammettendo che la tradizione
non è soltanto il passato ma anche il presente, è
dell’opinione che essa possa trasmettersi senza un’azione
volontaria. Né manca quindi di rilevare il valore che
assumono nella diffusione delle tradizioni popolari il
contagio o la suggestione. Queste leggi, a loro volta, lo
inducono a considerare il folklore come una scienza
psicologica, e quindi come una storia naturale dell’uomo.
Da qui la confusione che egli fa della metodologia storica
con quella sociologica. Ma in effetti che cosa è per lui la
psicologia se non un angolo visuale come lo è la biologia
per il Van Gennep? E anche quando egli, ad esempio,
riduce il folklore a sociologia, non c’è in lui il tentativo
costante di ridurre a storia la sociologia stessa?
Lo stesso Saintyves, d’altro lato, se pur da alle scienze
storiche un carattere che esse non possono avere, è
persuaso che queste hanno in comune con le scienze
naturali il metodo comparativo. Compito del folklorista, egli
però incalza subito dopo, è soprattutto quello di spiegare la
natura dei fatti folkloristici. Ed ecco in tal senso quanto egli
dirà in uno dei frammenti del secondo volume del Manuel:

«Il confronto deve mettere in luce non solamente le somigliarne ma anche le


differenze, non si deve dimenticare che la chiave della spiegazione ci può
essere offerta da qualche particolarità… La comparazione non può farsi che
stabilendo delle serie sistematiche, tenendo anche conto delle circostanze
essenziali di tempo e di luogo. Non si tratta di riunire in immensi repertori
schede attinte a tutte le fonti antiche e moderne…, ma di procedere a una
raccolta metodica, atta a facilitare una comparazione veramente scientifica».

E c’è anche qui, se si vuole, una certa imprecisione di


termini, ma c’è la consapevolezza storica di chi vuole
affrontare le tradizioni popolari, considerandole non come
espressioni biologiche, bensì come fatti dello spirito umano
che la tradizione convoglia e rinnova. Com’egli stesso dice,
del resto, in un altro dei suoi frammenti, quasi a concludere
la definizione del folklore:

«Il folklore studia la tradizione e deve quindi, dopo aver raccolto e ordinato i
fatti che la compongono, fornire spiegazione della loro natura o della loro
essenza tradizionale… La tradizione popolare non si potrebbe comparare a un
tesoro sepolto: è un flusso di ricchezze di ogni ordine, una trasmissione senza
fine di migliaia e migliaia di invenzioni umane di cui il popolo beneficia nelle
nazioni civili. La catena d’oro della tradizione non riposa immobile in uno
scrigno sigillato, ma realizza, come gli astri, il miracolo del movimento
perpetuo».

È evidente ora che quella natura deve essere investigata


colla metodologia della storia. E il Saintyves ha un merito:
quello di avere individuato la ricerca storica nello studio
delle differenze etniche. Ha un torto però: quello di
ritenere che gli schemi psicologici o sociologici debbano
servire allo storico per intendere la dialettica dello spirito,
quando essi invece gli servono soltanto a preparare la sua
orientazione conoscitiva.

4. Paganitas

Né, in effetti, i primi lavori del Saintyves escono dai


confini di questa orientazione conoscitiva. È vero che anche
fin dalla loro compilazione il Saintyves ebbe chiaro questo
concetto: cioè che una tradizione va studiata anzitutto nel
momento della sua formazione; poi nel corso della sua
esistenza; infine nel momento della sua scomparsa. Ma è
vero altresì che i momenti di questo studio rimangono
allora in lui staccati l’uno dall’altro. Dice di questi volumi il
Van Gennep: «raccolte di materiali». E in fondo ha ragione,
per quanto in essi ci sia sempre un’idea centrale attorno a
cui questi materiali convergono.
Così nel volume Les Saints successeurs des dieux, edito
nel 1907, il Saintyves si propose di dimostrare che il culto
dei Santi continua il culto pagano dei morti. Questa la
ragione, per cui molte leggende attribuite ai Santi non sono
che l’interpretazione di epitaffi e di iscrizioni. Ma c’è di più:
ed è che il calendario religioso va considerato, a suo avviso,
non come una semplice lista di feste, ma come una
sistemazione rituale e ciclica delle leggende essenziali di
ciascun culto.
Si tratta di una tesi che integra quella del Delehaye, il
quale nelle sue Légendes agiographiques, edite tre anni
prima, pur riconoscendo nel culto dei Santi l’eco di
sopravvivenze pagane (il che, del resto, era stato
ampiamente dimostrato dall’Usener, dal Frazer, dal
Dieterich, dal Lang ecc.), faceva nascere il culto dei Santi
da quello dei martiri. In realtà, però, l’indagine dello
storico non può limitarsi a constatare che nel culto di un
Santo sopravvive quello di un dio pagano. Si tratta di
vedere qual è, invece, lo spirito che anima questi due culti,
i quali non sono né possono essere storicamente identici. E
questa indagine manca nel Saintyves, il quale in numerosi
saggi ulteriori ha approfondito il carattere delle
sopravvivenze pagane nel culto dei Santi. Esemplare in
proposito il suo saggio Saint-Christophe successeur
d’Anubis, d’Hermès et d’Héraclès, edito nel 1935 in quella
«Revue d’Anthropologie» dove egli pubblicò alcuni dei suoi
saggi più fini.
Più ampia di quanto non sia nel volume sui Saints
successeurs des dieux è la cornice dell’operetta Les
Vierges Mères, la quale, edita nel 1909, sembra un capitolo
aggiunto all’opera The Legend of Perseus dello Hartland. In
essa il Saintyves si occupa del culto delle pietre
fecondatrici, delle teogmie acquatiche e del culto delle
acque, dei totem vegetali, delle nascite miracolose dovute
all’azione simultanea nelle piante e delle acque sacre, delle
fecondazioni meteorologiche, delle teogonie solari. Cauti ed
efficaci i suoi confronti, dove, come negli antropologi
inglesi, lo studio dei primitivi si avvicenda con quello delle
civiltà classiche e dei volghi dei popoli civili. Né è senza
significato che egli apra l’ultimo capitolo, dedicato alla
idealizzazione della nascita di Cristo, con due passi del
Loisy.
E al Loisy egli si rifa in altre opere: come, ad esempio, Le
Di-scernement du Miracle, Les Reliques et les Images
légendaires, La Simulation du Merveilleux, edite fra il 1909
e il 1912. In queste opere il Saintyves, esaminando le
immagini che aprono e chiudono gli occhi, le reliquie
corporali di Cristo, i talismani e le reliquie cadute dal cielo,
le guarigioni miracolose ecc., si preoccupa di determinare
la filiazione di quelle pratiche o di quei culti dalle credenze
più antiche dell’umanità. Inoltre egli si avvale delle
conquiste a cui contemporaneamente arrivavano l’etnologia
e la critica biblica.
5. La religione come magia

A dire il vero, nei suoi primi volumi il Saintyves ben di


rado approfondisce i fatti etnologici che gli servono nel suo
lavoro comparativo. Mano mano che i suoi scavi si fanno
più profondi, egli sente però il bisogno di riproporsi molti
problemi che già erano stati lungamente esaminati dai suoi
predecessori. E di ciò sono prova alcuni suoi volumi: La
guérison des verrues, La force magique, Les origines de la
médecine e L’éternuement et le bâillement dans la magie,
l’ethnographie et le folklore, editi tra il 1914 e il 1915.
Il Saintyves in queste opere si preoccupa anzitutto di
vedere come la magia medica dei popoli primitivi abbia
condotto l’umanità alla psicoterapia e come nel concetto
che tali popoli ebbero del mona ci sia già un nucleo che
prepara la scienza. Il Saintyves fa sua, in tal modo, la tesi
del Frazer: e cioè che la magia sia una falsa scienza dalla
quale è nata poi la vera. Egli, però, la completa e l’integra,
considerando la magia qualcosa di più di una falsa scienza.
Al Saintyves, comunque, oltre che i rapporti fra magia e
scienza (sui quali ha scritto pagine acutissime) interessa
notare il carattere magico della religione. Ed è qui ancora
una volta che egli si incontra col Loisy. In una sua nota
pagina del volumetto A propos d’histoire des religions lo
stesso Loisy ebbe a scrivere:

«Noi possiamo congetturare uno stato sociale imperfettissimo in cui magia e


religione sono ancora confuse in qualche cosa che, a parlare con proprietà, non
può dirsi né magia né religione, ma tiene il posto dell’una e dell’altra… Ciò che
fa nascere, possiamo dire simultaneamente, sebbene non d’un solo tratto, la
religione e la magia, è il progressivo differenziarsi che si opera nella massa
primitiva in conseguenza dello sviluppo sociale, intellettuale e morale dei primi
gruppi umani… Il distinguersi della magia e della religione, la scelta delle loro
rispettive pratiche, il loro crescente conflitto gravitano attorno ad un principio
sociale: la religione è un culto ufficiale e pubblico; la magia è una specie di
rituale privato, spesso malvisto e anche proibito».

Il Loisy è quindi dell’avviso che mentre la magia opera in


modo ingenuo passando per le vie più brevi, la religione
compie il suo cammino in modo più scaltrito e raffinato. E
questa, diciamolo pure, identificazione, la quale
riecheggiava la tesi del preanimismo, non era altro per il
Loisy che una congettura o meglio un’ipotesi di lavoro. Il
Saintyves è sulla stessa linea. A lui il mondo magico gli si
schiude per intender meglio la religione, per vedere come
l’una e l’altra convivono nei culti, nelle pratiche
tradizionali, nell’etnica popolare. È qui che va ricercato il
suo costante impegno di chiarire a se stesso i problemi
della magia e della religione, che gli sono di guida costante
nella sua opera di folklorista.

6. Il folklore biblico
In quest’opera il Saintyves si avvale anche di un altro
strumento di lavoro: la critica biblica, quale essa ormai si
era imposta nel mondo degli studiosi. Costante infatti in lui
è l’esigenza di riferirsi al Vecchio o al Nuovo Testamento. E
tale esigenza dominerà in pieno nei suoi Essais de Folklore
biblique, i quali, editi nel 1922, vengono spesso considerati
come un’integrazione del Folklore in the Old Testament del
Frazer. In realtà gli Essais cominciarono ad uscire, prima di
essere raccolti in volumi, fin dal 1909 (il Folklore in the Old
Testament del Frazer è invece del 1918). Né si deve
dimenticare che essi segnano nella stessa attività del
Saintyves un punto di arrivo.
In questi saggi il Saintyves esamina tutta una serie di
temi che già, in parte, lo avevano attirato nei suoi
precedenti volumi; il fuoco che discende dal cielo, il
bastone che rinverdisce, il miracolo dell’acqua cambiata in
vino, il miracolo della moltiplicazione dei pani, il cammino
sulle acque. Temi impegnativi come si vede. E a legarli, se
da un lato c’è la Bibbia, dall’altro vi sono le credenze e le
pratiche popolari. Con questo risultato: che la
comparazione non è più, come a volte lo è nei suoi
precedenti volumi, fine a se stessa, ma è chiamata a
illuminare il concreto fatto storico da lui preso in esame.
Gli Essais portano questo sottotitolo: magia, miti e miracoli
nell’Antico e nel Nuovo Testamento. E lo stesso Saintyves
in una nota preliminare avverte:

«Noi non abbiamo affrontato un tema del Nuovo Testamento senza ricercare
con cura tutto ciò che lo prepara nell’Antico, e inversamente non abbiamo
trattato un tema della storia sacra di Israele senza indicare le repliche o le
applicazioni che ne fornisce il Nuovo Testamento. Reimarus presentiva di già il
compito della Tradizione, quando vedeva nel sogno di Daniele un’imitazione del
sogno di Giuseppe e nella stella dei Magi una specie di adattamento della
colonna di fuoco e di nuvole del racconto mosaico. Così anche questa specie di
catena non è stata rotta passando dall’una all’altra raccolta e noi non abbiamo
creduto di potere trattare del cammino di Gesù sulle acque senza parlare del
passaggio del Mar Rosso. I due fatti sono legati non soltanto dalla confessione
degli autori del Nuovo Testamento e di Paolo in particolare ma evidentemente
non sono che due varianti dello stesso tema tradizionale tra i Giudei. Lo si
ritrova in effetti non solo nelle vite di Giosuè, di Elia e di Eliseo allo stato di
miracolo, ma nei profeti e nei salmi sotto forma di tratto poetico».

E in quanto al suo metodo di lavoro, dopo avere notato


che i temi biblici si riattaccano a dei miti, osserva:

«Conoscere le origini di un tema folklorico costituisce certamente un prezioso


contributo per impadronirsi del senso primitivo che si può chiamare il
significato magico. Ma questo non basta. Per il fatto che un tema è utilizzato in
un libro religioso è da presumere che si è dovuto includervelo più o meno
coscientemente per dar forza a un insegnamento spirituale e dargli
conscguentemente uno o più significati simbolici. La trasformazione dell’acqua
in vino alle nozze di Cana prefigura o simbolizza l’Eucaristia e quel canto dei
salmi che ci mostra tutta la natura turbata all’avvicinarsi di Javeh tende non
soltanto a glorificare il suo potere ma a farlo concepire come un demiurgo o
anche come l’anima del mondo. La scuola di Creuzer… è oggi caduta in un
totale discredito ed è una spiacevole esagerazione. La mitologia simbolica era
molto meno lontana dalla verità che il puro razionalismo che ha disseccato e
falsato certe parti della storia religiosa. Le magie e le religioni elementari sono
naturalmente cariche di simbolismo. Il principio della somiglianza che spiega il
miracolo della trasformazione dell’acqua in vino e il rito magico che deve
procurare l’abbondanza dell’uva è egualmente alla base delle trasmutazioni
spirituali e conseguentemente delle loro spiegazioni simboliche. Il dominio
spirituale non è separato presso i primitivi dal dominio materiale e la stessa
operazione magica che deve assicurare la trasformazione della linfa della vigna
assicurava per essi quella dei sentimenti. L’iniziato partecipava alla vita
cosmica ed è grazie a questa partecipazione che si operava la sua
trasformazione. Per loro l’influsso magico mal si distingue dall’influsso divino,
esso spiega insieme l’azione del sole sulle piante e quella dell’anima del mondo
sui cuori. Si concepisce bene che possa venire un tempo in cui non si crederà
più all’azione del principio magico nel dominio materiale e in cui si continuerà
ad accettare l’azione di un principio analogo nel dominio spirituale».

E per quanto il Saintyves finisca col calcare la mano


nell’identificazione magia-religione, oltrepassando anche i
confini dentro cui lo stesso Loisy l’aveva posto, c’è in lui, si,
l’ansia del modernista, ma c’è, come c’era del resto negli
stessi modernisti, l’ansia di avvalersi del metodo storico per
spiegare quei fatti folkloristici la cui linfa è già nella Bibbia.
Gli si potrà rimproverare la sua concezione simbolica del
mito che spesso ha un carattere esterno. Non v’è dubbio,
però, che nel Saintyves è l’impegno costante di collegare i
miti ai riti, mettendoli in rapporto con le emozioni che li
fanno nascere, mentre mito e rito diventano
contemporaneamente fatti storici che lo storico è chiamato
a interpretare. Negli Essais troviamo appunto per questo
un Saintyves più scaltrito nell’indagine storica, un
Saintyves insomma la cui ricerca è intesa a determinare la
dialettica delle tradizioni da lui prese in esame. E queste
doti le ritroviamo in uno dei suoi libri più celebri e discussi:
Les Contes de Perrault.

7. Les Contes de Perrault: il libro più fascinoso del


Saintyves

Nell’esaminare i temi dei racconti di Perrault – è


evidente che il suo è soltanto un punto di riferimento – il
Saintyves completa le ricerche che in quel campo avevano
condotto il Lang, lo Hartland, il Mac Culloch. In più egli,
come già negli Essais, cerca di conciliare, pur rimanendo
nell’atmosfera della scuola antropologica inglese, la teoria
simbolica e la evemeristica, convinto com’è che i racconti
popolari sono spesso compendi e commentari di primitivi
rituali, la cui eco si attarda anche nelle pratiche e nelle
credenze dei volghi dei popoli civili.
In un suo lavoro edito nel 1919, Rondes enfantines et
quêtes saisonnières, il Saintyves aveva già messo in rilievo
l’importanza che assumono le antiche liturgie popolari alle
quali si collegano le danze fanciullesche. E queste liturgie
altro non erano, in gran parte, che le cerimonie stagionali.
Queste, a loro volta, eccole come fondamento stesso di
alcuni racconti narrati dal Perrault: Le fate, La Bella
addormentata nel bosco, Cenerentola, Pelle d’asino,
Cappuccetto rosso. Il primo racconto infatti, a suo avviso, è
la proiezione stessa di quella credenza secondo la quale era
necessario offrire bevande e cibi alle fate. Nel secondo
domina l’interdizione del filare che cade all’epoca del
nuovo anno. Gli altri tre sono il commento di quei costumi
che precedono e preparano il nuovo anno, onde
Cenerentola è la Regina delle Ceneri; Pelle d’asino, la
Regina del Carnevale; Cappuccetto rosso, la Piccola Regina
di maggio.
Alle cerimonie iniziatiche si riattaccano invece, a suo
modo di vedere, altri racconti narrati dal Perrault, come ad
esempio, Pollicino, Barbablù, Richetto, Il gatto con gli
stivali. È vero che tali racconti, egli osserva, richiedono una
interpretazione più delicata e più sottile. Si può tuttavia
affermare che il racconto di Pollicino ci rivela il rito
mediante il quale il fanciullo veniva iniziato ai segreti
dell’età adulta. La favola di Barbablù ci darebbe un altro
aspetto del rito: l’iniziazione della donna alla vita
coniugale. In Richetto avremmo la proiezione
dell’apprendimento delle leggi nuziali. E Il gatto con gli
stivali ci darebbe la conclusione cui porta
quell’apprendimento: l’uomo che, ormai consapevole del
suo stato, del suo stato di uomo cioè, lo realizza col
matrimonio.
Un terzo gruppo, infine, che egli chiama dei Fabliaux o
Apologhi, sono il riflesso di precetti religiosi il cui
insegnamento fa parte delle cerimonie sacre. E questo è il
caso di Griselda. Né è senza significato che il Saintyves
concluda, nella premessa del suo libro, l’esame di questo
gruppo, affermando:

«Il senso del sacro che presiede alla nascita di tutte le nostre idee morali e
religiose non può mancare di costituire una sorgente di racconti e di fiabe, e
noi, del resto, ne abbiamo una prova mirabile nelle meravigliose parabole che
illuminano e profumano con la loro freschezza tutto il Vangelo».

Il suo volume dedicato a Les contes de Perrault è sotto


questo aspetto la continuazione degli Essais. E nell’uno e
nell’altro vi sono delle generalizzazioni. È certo però che i
paralleli etnografici sono da lui ravvivati sempre con gusto
e con finezza. Ed è certo altresì che, se molte sue ipotesi
sono ardite, altre ve ne sono invece persuasive. Un
folklorista russo, il Propp, che di recente ha messo in
rilievo l’eco dei riti iniziatici quale si rifrange in molti
racconti popolari, si è servito dei Contes de Perrault del
Saintyves come di un costante punto di riferimento per le
sue ricerche. E lo stesso può dirsi di uno studioso belga, H.
Jeanmaire, il quale ha indagato i riti iniziatici in rapporto
ad alcuni miti dell’antichità classica.
8. Il folklore e il dogma della fratellanza umana

L’opera complessiva del Saintyves ha, dunque, è vero, i


suoi lati deboli. E questa è una delle ragioni per cui è stata
sottoposta a una critica spieiata ma talvolta giusta. Essa, di
contro, ha però i suoi pregi. E questa è la ragione per cui è
stata ed è suscitatrice di suggestioni nel campo del
folklore. È un’opera la sua che si impone d’altro lato alla
nostra attenzione non solo come quella di uno scrittore che
sa incantarci anche per la scelta dei suoi temi, sempre
interessanti, ma anche per i risultati raggiunti nella loro
trattazione.
Coi suoi pregi e coi suoi difetti l’opera del Saintyves
documenta la forte personalità di uno studioso, il quale
affronta i suoi temi con larghezza di vedute, con profondità
di intenti, con la coscienza di chi ricerca esclusivamente la
verità. Pare a volte di risentire in lui la voce di un Thiers o
di un Le Brun, l’uno e l’altro intenti alla ricerca delle
sopravvivenze pagane. Con questa differenza però: che il
Saintyves, se, fedele ai canoni del Modernismo, si propone
di spogliare, poniamo, il culto dei Santi dalle incrostazioni
popolari, si avvicina a queste non per condannarle ma per
comprenderle e per spiegarle. Allo stesso modo egli da
buon modernista metterà in discussione la base storica del
miracolo in omaggio alle scienze naturali e fisiche o in
omaggio ai risultati del progresso scientifico. Ma ciò nulla
toglierà alla validità del miracolo in sede religiosa
etnografica: del miracolo che riflette voti ed aspirazioni del
popolo.
Ansioso, come lo erano i modernisti, di fare del dogma
una cosa viva, suscettibile di sviluppo e di adeguamento
alle esigenze della mentalità moderna, il Saintyves credette
a un dogma: quello della fratellanza umana. E credette
altresì che di tale dogma fosse espressione la scienza del
folklore, «disciplina d’amore», la quale insegna che la
«comprensione dell’anima umana non è possibile senza
l’amicizia delle anime».
In un suo saggio intitolato Apologie du Folklore il
Saintyves ebbe a scrivere che il metodo stesso del folklore
obbliga i folkloristi a mettere in prima luce il dogma della
fratellanza umana. Questo dogma già formulato, in nome
del folklore, dallo Herder si era irrobustito in lui attraverso
la scuola antropologica inglese e il Modernismo. Ed esso è
la nota preponderante, umana e umanistica, della sua
opera.
29. Crisi di una poetica

1. Il noviziato di Benedetto Croce

Nello stesso periodo di tempo in cui il problema


etnologico del folklore viene sempre più affermandosi e
chiarendosi, anche le nuove correnti estetiche e filologiche
fanno sentire la loro rinnovata efficacia soprattutto nel
campo del folklore letterario. Con questo risultato: che
anche in tale campo di studi assistiamo a un alternarsi di
istanze che ripropongono, in termini più precisi, il dominio
dell’estetica o quello della filologia o ancor meglio la loro
convivenza.
Di grande importanza, nel campo dell’estetica, è l’opera
di Benedetto Croce, il quale, com’è noto, ha sempre
dimostrato un interesse vivo e profondo per il popolo
napoletano. Il futuro studioso del Vico – destinato a partire
da lui per le sue scoperte filosofiche ed estetiche – iniziò
infatti la sua attività storico-culturale collabo-rando alla
rivista di un modesto folklorista napoletano, il Molinaro Del
Chiaro, cui dobbiamo fra l’altro una raccolta di canti
napoletani. È in questa rivista, intitolata a «Giambattista
Basile», che noi, dal 1883 al 1895, incontriamo spesso il
nome del Croce, il quale, se da una parte ci da dei proverbi
e delle poesie popolareggianti che egli viene scovando in
vecchi codici, dall’altra ci dà la trascrizione di canti e
novelle ch’egli stesso viene raccogliendo dalla viva voce del
popolo. Pregevole è in proposito una raccoltina di canti
popolari del Vomero, che egli considera «affatto comuni,
ovvero varianti e ripetizioni di canti conosciuti», il che è «di
un certo merito da non disprezzarsi». Ed è in essa che egli
alla fine di un canto il quale ha fra l’altro questi due versi:

Caru Cupidu fammi ’nu favuri


Caru Cupidu ca me lo può fari

commenta:

«Ora Cupido è diventato un personaggio del mondo popolare, e il trovarlo


nominato nei canti non è sempre indizio di origine letteraria. E perché? Perché
il popolo crede in buona fede che Cupido sia stato un valente compositore di
canzoni. La popolana che mi dettava questo canto aggiungeva per prova che
quando lei, giovinetta, guastava le canzoni, la madre la sgridava col dirle: «Eh!
Cupido ha faticato tanto per farle e tu le sciupi».

È vero che la vita del canto popolare riposa appunto in


quel rinnovarsi che non sempre, come credeva la popolana
del Vomero, è un guasto. Ma è vero altresì che il Croce si
preoccupava evidentemente di chiarire già i rapporti fra il
mondo letterario e il popolare. Gli piaceva vivere il mondo
di quelle popolane. «Raccolta da una popolana del
Vomero», egli annota ai margini della favola L’uorco e
l’orca. E attraverso quel mondo egli sentirà, vibrante, la
vita stessa della sua Napoli. E quindi della sua storia, la
quale, com’egli poi dirà nell’introduzione alla sua
Rivoluzione napoletana del 1799, non è soltanto quella dei
dominatori, ma anche quella dei dominati (anche se egli
poi, nella sua opera specifica di storico, darà rilievo
soltanto alla prima).
Dalla raccolta di quei materiali che soddisfacevano in lui
l’ansia del ricercatore, il Croce passò subito allo studio
delle varie manifestazioni popolari. E sotto questo aspetto
l’indagine che egli dedicò alla Leggenda di Cola Pesce
costituisce il suo primo tentativo di approfondire la ricerca
erudita. Al Graf che allora gli faceva notare com’egli fosse
poco informato di talune fonti inerenti a quella leggenda,
rispondeva: «Per quanto il Graf abbia sminuite le mie
asserzioni, egli non ha potuto cogliermi in un fallo di giudizi
logici e di ragionamenti e io ho la debolezza di tenere
moltissimo alla logica e un po’ meno alla conoscenza di
Gervasio di Tilbury». Ma in effetti, nei suoi lavori dedicati
non solo alla letteratura popolare, ma anche alle varie
manifestazioni popolari, egli mostrò di tenere tanto alla
precisione filologica quanto alla logica. Né è senza
significato che lo stesso Croce nello scritto che ha intitolato
Contributo alla critica di me stesso abbia osservato su quei
lavori quanto segue:

«Io ora scorgo alcuni aspetti positivi; e in primo luogo nel compiacimento onde
rievocavo quelle immagini del passato, uno sfogo alla giovanile fantasia,
bramosa di sogni poetici e di esercitazioni letterarie; e in secondo luogo nelle
assidue e faticose ricerche, una formale disciplina che mi venivo dando alla
laboriosità in servizio della scienza».

In tutta la sua opera quelle ricerche sono come un’oasi di


pace, come un riposo. Si potrebbe dire: l’otium del Croce. E
il popolo, il popolo napoletano con le sue leggende, coi suoi
lazzari, con le sue maschere, coi suoi giuochi, coi suoi
briganti, coi suoi costumi, eccolo protagonista principale o
di fianco nei Teatri di Napoli, nelle Storie e leggende
napoletane, ne La Spagna nella vita italiana durante la
Rinascenza; in molte ricerche dei suoi Aneddoti di vita
letteraria; in alcuni dei primi e dei secondi Saggi sulla
letteratura italiana del Seicento, oltre che in alcune
dissertazioni di Uomini e cose della vecchia Italia.

2. Croce folklorista
Dobbiamo inoltre allo stesso Croce una bellissima
traduzione del Pentamerone del Basile, di cui egli pubblicò
le prime due giornate nel 1892, mentre la traduzione
integrale uscì nel 1925. E l’una e l’altra edizione portano
delle prefazioni in cui egli ritorna, con compiacimento ma
con scetticismo, ai problemi della novellistica popolare.
Così, ad esempio, nella prefazione del 25, raccolta poi nella
Storia dell’età barocca in Italia, il Croce è dell’avviso che le
fiabe tradizionali:

«così com’esse sono d’ordinario narrate dal popolo, hanno smarrito, quando
pur l’ebbero, la loro vita poetica originaria, l’afflato che potè dar loro chi prima
immaginò e compose questa o quella di esse; e somigliano agli scialbi e
materiali riassunti, coi quali si espone il «fatto» di una novella o di un romanzo.
Da ciò l’insipidezza ordinaria delle fiabe stenograficamente raccolte dai
folkloristi o demopsicologi: documento bensì di dialetti, di costumi, e, se si
vuole, di miti, ma ben di rado opera di poesia; e, in effetto, quelle raccolte non
sono diventate mai libri di lettura, salvo che non siano state più o meno
rielaborate o ritoccate con artistico sentimento».

In tal modo risuona evidentemente nel Croce, anche se


attenuato, il vecchio motivo di quegli epigoni del Benfey, i
quali ritenevano che la fiaba popolare non fosse che il
raffazzonamento di un testo di origine dotta ormai privo di
interesse artistico; tesi questa che è stata successivamente
sostenuta dallo Jolles nel suo volume Einfache Formen, che
è del 1929, e dal Wesselski nel suo saggio Versuch einer
Theorie des Märchens, che è del 1932: e alla quale si è
opposto che anche nell’arte popolare, se vi sono artisti
buoni o meno buoni, ve ne sono anche di grandi. Il Croce
d’altra parte riconosce che la questione dell’origine delle
fiabe è da convertire ormai nella storia di esse. Bene: ma in
tal caso l’afflato poetico non può anche ritornare, come
ritorna spesso, in chi non ha immaginato per primo la
fiaba?
Nel saggio premesso alla traduzione integrale del
Pentamerone lo stesso Croce avverte:

«Ho tralasciato, invece, affatto l’illustrazione comparativistica delle fiabe,


quantunque mi sarebbe stato agevole dar compimento per lo meno alla “tavola
dei riscontri”, che aggiunsi alle prime due giornate nella mia edizione del 1892.
Con siffatta sorta di illustrazione si sarebbe trasferito l’attenzione all’astratta
materia del libro del Basile, trattandolo come documento di demopsicologia, e
non più nel suo intrinseco carattere di opera d’arte. Che cosa può importare al
lettore al quale io indirizzo questa traduzione, di sapere, per esempio, che la
Mortella del Basile risponde alla Rosmarino delle fiabe siciliane del Pitrè e alla
Mela delle fiabe toscane dello stesso, e a Die Nelke della raccolta dei Grimm?…
Non solo non può importar nulla, ma servirebbe solo a infastidirlo».

Ma anche qui il fatto non era quello di misurare il


Pentamerone con l’inclinazione del suo lettore. Il fatto era
un altro. Il Pentamerone è indubbiamente un’opera d’arte.
Ma non è nel tempo stesso un documento, per usare la
frase del Croce, di demopsicologia? Il Croce ha avuto il
merito di chiarire, con un’assoluta precisione di termini,
come la genesi esterna di un’opera d’arte non abbia nulla a
che fare coll’opera già formata e come sia assurdo mutare
le ricerche delle fonti in giudizi estetici. Ma passando in
altro campo, che è quello della storia della cultura, lo
stesso Croce non ha ammesso che il metodo comparativo ci
serve tuttavia a individuare lo svolgimento dell’epos o del
dramma sacro presso un dato popolo? E perché non della
novellistica, ove questa, prescindendo dalle creazioni a
nuovo che essa di volta in volta riesce a darci, si vuole
individuare nella sua stessa storia, che è fatta di temi e di
motivi, è vero, ma anche, per usare le stesse parole del
Croce, di costume, se si vuole, di miti?
Queste incertezze che il Croce ha sempre avuto nel
campo specifico della novellistica popolare non hanno
tuttavia infrenato in lui l’interesse per tutto ciò che è
popolare. E può bastare ad esempio una delle più belle
pagine che nel suo volume Poesia e non poesia egli dedica a
Fernán Caballero, la quale ecco – con le parole del Croce –
come risponde alla sfida che i novatori, i liberali e i libero-
pensatori facevano al passato:

«Voi, illuminati nemici di superstizioni, voi che irridete le pratiche popolari, i


santuari, le pitture miracolose, gli ex-voto, i tatuaggi sacri e simili, avete mai
penetrato lo spirito di siffatte pratiche, le avete intese quali sono, simboli di
vita morale, che infrenano, minacciano, consolano, e ispirano gentilezza di
sentimenti e azioni buone? Schernite le goffe chiese spagnuole, dove le
immagini dei santi sono incrostate di lamine d’argento e di altri ornamenti di
cattivo gusto: ma forseché quelle chiese sono musei per artisti e non case di
Dio, nelle quali semplici devoti vanno per pregare?»

E tale risposta ai detrattori del folklore non è tanto


quella della Caballero quanto quella stessa del Croce, il
quale ha pur sempre avuto un suo particolare amore per
tutto ciò che è popolare, ma soprattutto per ciò che in
stretto senso è poesia popolare, di cui egli ha sempre
ammirato «l’immediatezza con cui essa ricostruisce un
ambiente, da carattere a una località, anima le opere che
rimangono come testimonianza del passato». Frutto di
questo amore – è proprio vero che nella maturità si ritorna
a tutto ciò che ci è stato caro nella giovinezza, – l’ampio
saggio sulla Poesia popolare e poesia d’arte, che uscì ne
«La Critica» nel 1929 e fu pubblicato in volume nel 1933.

3. Poesia popolare e poesia d’arte

In questo saggio il Croce parte da una premessa: il tono


semplice ed elementare della poesia popolare rispetto a
quello mediato e riflesso della poesia d’arte. Ed è questa, lo
abbiamo visto, una premessa di carattere romantico. Il
Croce non ricorda quanto in proposito avevano detto i
Grimm, l’Arnim e il Diez, ma ricorda lo Hegel; e
riattaccando il suo pensiero appunto a quello di
quest’ultimo, accolto del resto anche dal Paris e dal Pitrè,
precisa che la poesia popolare esprime moti dell’anima che
non hanno dietro di sé, come precedenti immediati, grandi
travagli di pensiero. Per il Croce insomma:

«… la poesia popolare non si allarga per così ampi giri e volute per giungere al
segno, ma vi giunge per via breve e spedita. Le parole e i ritmi in cui essa
s’incarna sono affatto adeguati ai suoi motivi, come adeguati ai motivi della
poesia d’arte sono le parole e i ritmi a lei propri, di cui ciascuno è grave di
sottintesi che mancano nell’altra».

Ma il fatto che la poesia popolare venga individuata in un


particolare tono, che è quanto dire in un determinato
atteggiamento espressivo, vuoi dire che essa non sia una
poesia d’arte? Il Croce ha avuto il merito di lumeggiare il
divario che passa tra la poesia d’arte e la poesia popolare.
Ma quel divario è da lui concepito su un piano del tutto
diverso da quello su cui l’avevano concepito gli stessi
romantici, i quali non solo amavano contrapporre la poesia
popolare alla poesia d’arte, ma la ritenevano, anche e
soprattutto, la poesia per eccellenza. Il divario che esiste
fra l’una e l’altra invece, per il Croce non è di carattere
estetico, bensì di carattere psicologico. C’è, osserva il
Croce:

«… una poesia popolare bella e una brutta (non-poesia), come ce n’è in quella
d’arte; e non è detto che le bruttezze, le goffaggini, le freddure, i prodotti
meccanici siano minori nella cerchia della prima, nella quale si trova anche,
come nell’altra, molta e varia versificazione gnomica, parenetica, aneddotica,
giocosa, che non è, e non vuole essere, propriamente poesia. Ma, dove la poesia
popolare è poesia, non si distingue da quella d’arte, e, nei suoi modi, rapisce e
delizia. La differenza, dunque, da cercare, e la corrispettiva definizione, sarà
soltanto… psicologica, ossia di tendenza o di prevalenza e non già di essenza, e
riuscirà utile, in questi limiti, ai fini della critica».

4. Ancora della elaborazione popolare

Ammessa quindi l’identità di ogni atto poetico, il Croce


osserva che la poesia popolare deve avere un’effettiva
pietra di paragone la quale è o deve essere estetica. Ed
ecco perché, a suo avviso, conviene tradurre il termine
primitivo che in genere si da alla poesia popolare in
schiettamente poetico.
Il Croce riconosce peraltro che lo stesso poeta d’arte può
essere popolare e che quindi la poesia popolare può fiorire
dovunque. Con le sue stesse parole:

«Sia pure che la poesia popolare fiorisca di solito nell’ambiente popolare, non
perciò si rinchiude in questo: il suo tono si fa udire per ogni dove sorgano animi
così disposti, e perciò anche in ambienti non popolari e da uomini non
popolani… Comunque, perché quel tono risuoni, occorre soltanto che alcuni
uomini, ancorché colti, siano rimasti, verso la vita o certi aspetti della vita, in
quella semplicità o ingenuità di sentimento o vi ritornino in certi momenti».

Così il Croce, ammettendo che anche la poesia popolare


può essere poesia d’arte, restituisce alla prima la sua
dignità. Egli non mira più, com’è stato bene osservato, a
illustrare come si formi o possa formarsi la poesia popolare
e per quali tramiti essa derivi dalla poesia letteraria o cólta;
la sua preoccupazione è quella di cogliere dall’intrinseco il
particolarissimo accento o tono della poesia popolare che
permane sempre uguale, quale che sia l’origine. E questo è
appunto il suo merito, ove si pensi che con quel tono si
pongono ormai su ben altre basi i rapporti fra poesia d’arte
o poesia popolare.
Senonché, chiarito in sede estetica il concetto di poesia
popolare, possiamo poi dimenticare che essa in tanto è tale
in quanto subisce una continua elaborazione da parte del
popolo? In realtà, nel riprendere la celebre questione
dell’origine della poesia popolare, il Croce afferma quanto
segue:

«Senza negare che nuovi canti popolari pur sorgono qua e là presso i volghi
d’Italia, e senza negare quelli che vennero per altre vie e gli altri che si
composero dopo il Cinquecento e che rimasero nella tradizione, e, soprattutto,
senza negare che molti canti furono via via trasformati e molti altri si
composero per imitazione o seguendo gli antichi schemi – negar ciò varrebbe
negare cose evidenti – a me pare che risponda sostanzialmente al vero la teoria
che riporta l’origine della grande massa originale degli strambotti, delle ottave,
dei rispetti raccolti nell’Ottocento, alla toscana del Tre e Quattrocento, e, in
buona parte, attraverso la Toscana, alla Sicilia, culla della nuova poesia
volgare».

E con ciò indubbiamente il Croce si ricollega, sia pure


con molta cautela, al D’Ancona. Egli però nella sua
indagine indubbiamente chiarificatrice ha trascurato
l’importanza che nella poesia popolare assume
l’elaborazione.

5. Barbi folklorista

Era questo, come abbiamo già visto, un problema già


affrontato dalla filologia folkloristica dei paesi europei e a
cui aveva portato, in Italia, un deciso contributo Costantino
Nigra. E dal Nigra prenderà le mosse uno dei maggiori
rappresentanti della filologia moderna: Michele Barbi, il
quale, discepolo del D’Ancona, visse, nella sua giovinezza,
lo stesso clima storico in cui si era maturato il Croce.
Il Barbi, fin dal 1895, in un suo saggio sulla Poesia
popolare pistoiese, pubblicato nell’«Archivio» del Pitrè,
dopo aver passato in rassegna le raccolte della regione,
proponeva di sostituire a quelle sillogi:

«… per un rispetto o per un altro imperfette, una raccolta fatta con maggior
larghezza di criteri e con più continuata pazienza di ricerche per procurarsi
tanto le varie lezioni di una stessa canzone, necessarie a ristabilirne, fra le
alterazioni dovute alle trasmissioni orali, il testo primitivo nelle sue linee
sostanziali, quanto i dati di fatto che servano a illustrare i canti nella loro
origine, nel loro contenuto e nella loro forma, in relazione a quella con quelli
delle altre regioni d’Italia e, occorrendo, delle nazioni vicine».

Nel 1911, in un altro suo lavoro programmatico Per la


storia della poesia popolare italiana, pubblicato nella
miscellanea dedicata a Pio Rajna, il Barbi ritorna però su
quell’argomento con una maggiore consapevolezza critica:

«La poesia popolare è sempre in vita: accetta, trasforma, lascia cadere; ci sono
forme che si trovano a certi momenti, e non più a certi altri; alcune rimangono
locali, altre trasmigrano da una regione all’altra, e spesso, dovendo adattarsi
ad usi diversi, ricevono notevoli modificazioni. Sta al nostro studio riconoscere,
fra tante varietà, le forme vere, notarne i caratteri, le relazioni, l’estensione sia
nel tempo che nello spazio; ma son tutte forme ugualmente legittime. Si può
ricercare la forma primitiva di un dato canto, ma non la forma primitiva e
genuina della poesia popolare che, nel suo complesso, va considerata come un
essere in perpetuo stato di trasmutazione».

Per lui pertanto:

«la storia della poesia popolare non è la storia della canzone epico-lirica e dello
strambotto villeresco soltanto: è popolare tutto ciò che il popolo fa suo nelle
forme da lui via via accettate e preferite. Ci sono forme più o meno popolari, ci
sono canti che rimangono più a lungo e canti che rimangono meno a lungo
nella tradizione, ma ciascuna di quelle forme, e ciascuno di quei canti, per quel
grado di popolarità che ha avuto, ha diritto di entrare in una storia della poesia
popolare».

E in una nota chiarificatrice aggiunge:

«Che lo strambotto, con lo stornello, e la canzone epico-lirica, le filastrocche, le


canzoni iterative ed enumerative, siano la poesia popolare per eccellenza,
questo sì che si può dire; perché essendo da un pezzo affidata quasi
esclusivamente alla memoria, ed essendo abbastanza facile, o per la brevità del
canto, o per la sua stessa composizione, introdur varianti, più ha avuto luogo di
manifestarsi la elaborazione, lenta ma continua, della massa. Ma come ogni
canto in se stesso, e anche le varietà più notevoli, hanno, pur in questi generi,
sempre il loro autore, sia esso un poeta letterario o un poeta rustico; così in
ogni altro canto divenuto popolare si hanno varianti, e tanto più notevoli
quanto maggiore è stata la diffusione».
Nel concepire come popolare ciò che ha ottenuto un
grado di popolarità, il Barbi si riattacca al concetto che in
proposito aveva espresso A. W. Schlegel. A lui, al Barbi,
interessa però documentare questo grado di popolarità. E
se il Nigra, come ben osserva il Santoli, «aveva appuntato
lo sguardo a intendere la diversità delle forme principali
dei canti neolatini e la loro varia distribuzione», ecco che
dal Barbi «i canti popolari furono studiati dal punto di vista
della più rigorosa filologia formale, per la quale,
naturalmente, esistono soltanto testi singoli e tradizioni da
ricostruire col sussidio del più ampio possibile numero di
versioni». Più che la ricerca del testo primigenio, al Barbi
interessa la popolarità del canto, la documentazione delle
cui varianti è la documentazione stessa di quella popolarità.
È chiaro quindi, si può desumere, che un canto sia
veramente popolare quando abbia in effetti questi due
elementi: il tono, di cui parla il Croce, oltre le varianti, cui
si appella il Barbi. Eppure, il Barbi fu ben lontano dal trarre
questa conseguenza. Anzi, in uno dei saggi che
compongono il suo volumetto intitolato Poesia popolare
italiana, edito nel 1939, ammoni:

«Occorre diffondere un concetto più esatto della poesia popolare e un’idea più
rispondente al vero della sua storia. Non si tratta di fissare un nuovo e più
appropriato concetto teorico di quella poesia come si provò a fare alcuni anni fa
Benedetto Croce; ormai è prevalso nell’uso un dato concetto empirico, e non si
può di punto in bianco mutar nome alle cose».

E in quell’ammonimento è il limite stesso, anche se


voluto, del Barbi, il quale dimentica che i concetti empirici
rimangono sempre tali, cioè pseudo-concetti, senza poi dire
che il «mutar nome alle cose» è proprio del lavoro
scientifico e del suo progresso.

6. Filologia senza estetica

Nel suo volume su La nuova filologia e l’edizione dei


nostri scrittori, da Dante al Manzoni, il Barbi, d’altro lato,
osserva:

«Troppo oggi si parla di critica allotria; e invece, non tra critica allotria e
critica estetica sarebbe da far distinzione, ma tra critica vana e critica buona,
fra improvvisazioni d’ignoranti e ricerche meditate e nuove, quale che sia il
loro genere… Innanzi alla critica estetica e alla critica filologica vien fatto di
ripetere le parole del Manzoni: «Che bisogno c’è di scegliere? L’una e l’altra
alla buon’ora… son due cose come le gambe, che due vanno meglio che una
sola».

Né v’è dubbio che sia così come appunto ci ha dato


prova, almeno in parte, lo stesso Barbi nella sua opera di
critico letterario. Si aggiunga ch’egli riconosce che il canto
popolare italiano fa parte «dell’arte nostra e dell’anima
nazionale». Questa l’esplicita dichiarazione che egli fa nella
prefazione del suo volumetto Poesia popolare italiana. È
questa, indubbiamente, la ragione per cui si accinse a una
monumentale raccolta di canti popolari toscani, e non solo
toscani, di cui si attende ancora l’edizione critica.
Il Barbi valuta in pieno, inoltre, l’importanza che la
musica ha per lo studio della stessa poesia popolare:

«Grave danno per lo studio e la valutazione della poesia popolare è stato


l’averla sempre considerata disunita dalla melodia. Non esiste poesia
propriamente popolare senza canto; e le stesse questioni più strettamente
filologiche, come la struttura delle strofe, spesso non si risolvono senza tener
conto della parte musicale. È uno studio, quello della musica, che presenta
gravissime difficoltà… La triste condizione in cui si trova questa parte dei
nostri studi lamentano con accorate parole due maestri che in questi ultimi
tempi hanno atteso alla musica popolare: Giulio Fara con L’anima musicale
d’Italia, e Francesco Ballila Pratella col suo Saggio di gridi, canzoni, cori e
danze del popolo italiano».

In più egli sottolinea il valore etnografico della poesia


popolare:

«Tutti abbiamo cantato nella nostra infanzia:

– Ecco gli ambasciatori…


– Che cosa volete?…
– Vogliamo una figlia…
– Che cosa li darete?…

Ma quanti sanno che il giuoco e il canto infantile ci conservano la


testimonianza di una vera cerimonia per richiesta di nozze in uso in certe
regioni della Francia (e là soltanto?) della quale è una minuta descrizione
anche nella Mare au diable di Georges Sand? La canzone oltre che nel Berry è
diffusa in tutto il Nevernese, e il Triersot ce ne da anche la melodia».
È con questo procedimento rapido, ma che sa rievocare e
collegare, che il Barbi ci da anche le linee programmatiche
della storia della poesia popolare italiana. Ed egli, sia pure
di sfuggita, nulla trascura di quanto possa essere utile e
fecondo in questo campo di studi. Ma allora, ci si domanda,
perché il Barbi, pur non avendo preconcetti sulla critica
estetica, convinto com’era anzi che anche la poesia
popolare potesse essere arte, non diede poi nessun peso a
questa sua convinzione?
La prevalenza, anzi il dominio assoluto che il Barbi volle
dare al problema filologico della poesia popolare rispetto a
quello estetico, è, a nostro avviso, di carattere
essenzialmente polemico. In questo senso: che alla
contemplazione della poesia popolare egli vuole anteporre
la fredda indagine sul canto. Il che gli fa dimenticare che
nello studio della poesia popolare il problema filologico non
esclude quello estetico. È vero, infatti, a sua volta, che il
problema estetico non può né deve essere isolato – ecco
l’effettiva obiezione al Croce – dalla tradizione dei canti. Ma
è vero altresì – e qui eccoci al Croce – che la loro vita non è
soltanto una vita meccanica, di luoghi comuni, di formule
comuni, di aree ecc., ma è anche, o meglio può essere, una
vita poetica.
7. Menéndez Pidal

Questo, infatti, è l’assunto che si è imposto uno studioso


spa-gnuolo in cui par quasi che convergano gli interessi del
Croce e quelli del Barbi: Ramón Menéndez Pidal. Così come
Croce e Barbi discendono in fondo dalla tradizione del
Nigra, del D’Ancona, del Comparetti, il Menéndez Pidal
discende da quella del Paris, del Rajna e del Bédier.
Il Menéndez Pidal, però, nella sua opera, non solo
imposta con maggiore precisione di termini la simbiosi
popolo-poesia popolare, ma sa anche riproporsi i vari
problemi inerenti all’epopea con uno slancio in cui l’erudito
si fa poeta. Per lui esiste anzitutto il popolo spagnuolo
quale lo aveva rappresentato, ad esempio, una Fernán
Caballero: cattolico e guerriero, saggio e realista. E un
popolo per il Menéndez Pidal, come per la Fernán
Caballero, in tanto è tale in quanto ha delle sue
determinate caratteristiche che lo distinguono.
Da qui quell’entusiasmo nazionale che è la nota
fondamentale di tutta l’opera del Menéndez Pidal, il quale
dalla Leyenda de los Infantes de Lara, che è del 1896, alla
España del Cid, che è del 1930, se da un lato si propone di
dimostrare che la poesia epica spagnuola è una poesia
essenzialmente storica di carattere realistico, dall’altra
vuoi porre l’accento sulle speciali condizioni storiche del
popolo spagnuolo. Egli non nega gli imprestiti o i residui.
Ma limita l’influsso arabo sull’epopea spagnuola soltanto ai
riflessi delle costumanze; riduce l’azione francese nel
formarsi di quell’epopea; e, se accoglie in proposito la tesi
dell’azione germanica, lo fa con molta cautela, convinto
com’è che ogni natura poetica sia sempre diversa dalle
altre.
Si accusa il Menéndez Pidal che egli pensi soltanto per
categorie nazionali. Ma non è questo suo pensare che lo
porta alle grandi costruzioni, le quali allo Spitzer, cui
dobbiamo tali accuse, ricordano quelle dei Grimm? O
meglio, si potrebbe aggiungere, quelle del Bédier, se si
pensa che la España del Cid è, come le Légendes épiques,
un’opera verso cui converge tutta la storia nazionale di un
popolo e in cui il Cid diventa, appunto per questo, l’eroe
esemplare di un popolo?
Il Menéndez collaziona cronache e romances. Ma le une
e gli altri sono per lui documenti vivi di vita nazionale. Egli
riconduce cronache e romances ad una comune fonte di
interessi e di ispirazioni, convinto com’è che i romances
non sono antichissimi canti epico-lirici, anteriori ai
cantares, ma frutti di questi, nati, quando, modificandosi le
condizioni storiche della Spagna, all’antica poesia
cavalieresca, cantata nei castelli e pervasa di spirito
guerriero, segui una poesia più agile che «nella battuta di
pochi versi fosse capace di riassumere vecchie leggende».
E il Menéndez Pidal non nega che questi romances abbiano
avuto dei poeti colti, ma afferma che anche in tal caso
furono adoperati le forme e i ritmi in cui si esprimevano
recitadores e contadini.
È stato giustamente affermato che non c’è anima più
disposta della sua ad accogliere e far rivivere l’intima forza
di quella poesia. Si veda infatti la sua antologia Flor nueva
de romances viejos, dove egli ha fuso antichi romances con
i romances che ci conserva la tradizione orale. E ciò non
per fare il Villemarqué della Spagna, ma per il desiderio di
diventare lui stesso uno dei recitadores del suo popolo, i
quali in quanto tali «accettano, rifanno, ricompongono». I
romances, del resto, egli prima di trovarli nei codici, prima
di approntarne quelle edizioni critiche che sono dei
miracoli filologici, li aveva sentiti in mezzo al popolo, dalla
bocca dei contadini, dai recitadores. E allo stesso modo egli
aveva sentito le altre forme della lirica popolare che, in una
sua conferenza sulla Poesia araba y poesia europea, letta
nel 1937, rievocò con animo commosso:

«Le moderne danzatrici andaluse, che, al suono squillante delle castagnette,


lanciano ai quattro venti della popolarità le strofette delle sevillanas, o delle
malagueñas, o delle rondeñas, o delle peteneras o di non so quante altre, ci
appaiono come una discendenza etnico-culturale di quelle fanciulle di Cadice –
puellae gaditanae – che, come le descrive Giovenale, agitando i fianchi lascivi e
scuotendo i crotali di bronzo, diffondevano molto lontano, nella Roma di Tito e
di Traiano, le graziose strofe di Cadice – cantica gaditana –, che i giovani
Romani alla moda non si stancavano di ripetere».

E in questo quadro, che potrebbe anche sembrare un po’


oleografico, è tutto l’amore del Menéndez Pidal per il suo
popolo: amore che è stato la leva della sua stessa opera. Il
Menéndez Pidal si è preoccupato di chiarire il concetto
della poesia popolare considerando quest’ultima come il
prodotto di una rielaborazione. Questa è la ragione per cui
egli distingue la poesia popolare dalla tradizionale, la prima
delle quali accoglie quelle creazioni che incontrano il
grande favore del pubblico, ma che il pubblico ripete senza
alterarle, mentre la seconda vive per mezzo delle sue
varianti. In altri termini egli, di contro a quanto aveva
scritto in proposito il Rubieri, propone di chiamare
tradizionale la poesia popolare. E in tal caso ecco, ad
esempio, quanto scrive a proposito di alcune canzoni
giullaresche nel suo limpido saggio La primitiva poesìa
lirica espanola, che rimonta al 1919:

«Queste canzoni sono popolari, senza dubbio, ma non tradizionali. La maggior


parte sono opera di poeti colti, ben conosciuti; e nonostante la loro
fondamentale semplicità, hanno sapore di artificio, né rivelano un’elaborazione
veramente popolare. Qualcuna tuttavia giunge a noi in varianti che ci attestano
quel lavorio di elaborazione, per il quale appunto un argomento di poesia vive
la sua vita tradizionale sulla bocca del popolo».

8. Poesia popolare e poesia tradizionale nel concetto del


Menéndez Pidal

Il Menéndez Pidal non esita, d’altra parte, per lo studio


di tale poesia, a riproporre l’applicazione di quel metodo
storico-geografico che già tanti eccellenti risultati aveva
conseguito non solo nel campo del folklore letterario e
dell’etnica tradizionale, ma anche e particolarmente in
quello della linguistica: esempio l’Atlas linguistique de la
France del Gilliéron e dell’Edmont, edito fra il 1902 e il
1910. Da qui il suo saggio Sobre geografía folklorica, che
egli pubblicò nel 1920 nella sua «Revista de Filologia
Espanola» (che è, fra l’altro, una miniera di contributi
folklorici) col sottotitolo di Ensayo de un método. E il
metodo consiste appunto nel determinare le varietà
regionali e le particolarità stilistiche di un canto popolare o
di un gruppo di canti, quali si rilevano nella tradizione orale
d’oggi; nel tracciare le aree geografiche dove tale
tradizione attraverso le sue varianti si è mantenuta salda o
invece si è venuta dissolvendo; nello stabilire quindi quali
sono i centri di irradiazione e le correnti di espansione; nel
darci infine l’idea precisa dell’evoluzione storica che ha
condotto alla differenziazione attuale. È stato notato che,
nel precisare filologicamente il termine «popolare», il
Menéndez Pidal dimette la questione del «popolare» come
«originato dal popolo» per intendere quell’aggettivo come
«elaborato dal popolo». Vero: ma in quel concetto di
«rielaborato» non è implicito in senso estetico quello di
«creato» o meglio, se si vuole, di «ricreato»? Lo stesso
Menéndez Pidal riconosce che anche nella poesia
tradizionale il popolo riproduce, ma, in tal caso, egli
incalza: quante volte quei rifacimenti sono veri e propri atti
di creazione, nei quali si inverano la immaginazione e la
commozione dei poeti individui? Nel Romancero, dove egli
nel 1927 raccolse alcuni dei suoi più importanti lavori di
carattere teorico, lo stesso Menéndez Pidal, del resto, è
quanto mai chiaro ed esplicito a proposito della
elaborazione popolare:

«Di fronte alla moderna affermazione che una poesia tradizionale è anonima,
semplicemente perché si è dimenticato il nome del suo autore, si deve
riconoscere che è anonima perché è il risultato di molteplici creazioni
individuali che si sommano e si incrociano: il suo autore non può avere un
nome determinato, il suo nome è legione. Ma in questa poetica creazione
collettiva non vi è nulla di abituale, di insormontabile e misterioso. Il miracolo
della poetizzazione in comune si spiega pianamente e semplicemente col solo
riconoscere che le varianti non sono accidente inutile per l’arte. Sono parte
dell’invenzione poetica: la cima più alta di bellezza, di valore estetico, può
essere toccata non solo dal primo cantore, ma da qualsiasi altro recitatore del
canto».
E con queste affermazioni, – mentre egli conciliava le
teorie che sul valore del testo primigenio avevano avuto il
Wagener, il Benfey e i Krohn, – il Menéndez Pidal, spirito
romantico come il suo popolo, si collegava al Paris, il quale
nello studio dell’epopea s’era appunto appellato alla
elaborazione popolare. Si è rimproverato, è vero, al
maestro spagnolo di considerare questa elaborazione come
un processo meccanico. E in qualche sua indagine
particolare ciò è indubbiamente avvenuto. Ma quand’egli
afferma esplicitamente che la bellezza più alta di un canto
può essere conquistata non solo dal primo, ma anche dal
suo ultimo recitatore, è ovvio che per lui il processo
imitativo non si esaurisce in un atto di antologista, ma in
una creazione poetica. E ciò, è ovvio, toglie alla poesia
stessa il mistero della sua nascita per trovarla, eterna, in
una particolare forma di vita sempre rinnovantesi.
Il Menéndez Pidal – e in ciò egli è sulla stessa linea del
Croce – contribuì così a mettere in crisi quella poetica del
primitivismo che negli studi della poesia popolare si era
accoppiata a una feconda inclinazione estetico-
sentimentale. Ma in quella crisi, ecco il rinnovamento
stesso degli studi delle letterature popolari.
30. Poetica di un mito

1. Meier e la sua Rezeptiontheorie

La tesi del Croce sul concetto di poesia popolare fu


formulata in un periodo in cui, in tutta l’Europa, si veniva
riproponendo con insistenza non solo il problema dei
rapporti fra poesia popolare e poesia d’arte, ma anche
quello dei caratteri principali della elaborazione popolare.
Insegni il caso di Menéndez Pidal. Ma al Menéndez Pidal si
può aggiungere una schiera di studiosi, i quali, per vie
opposte, non solo si avvicinano al concetto del Croce, ma
direi lo completano.
Viene primo, in questa schiera, John Meier, uno dei più
acuti studiosi che abbia avuto in questi ultimi tempi il
folklore tedesco e a cui dobbiamo fra l’altro due notevoli
opere: la prima, Kunstlied und Volkslied in Deutschland,
che è del 1898; la seconda, Kunstlieder im Volksmunde, che
è del 1906. In questi saggi – e negli altri che egli dopo il
1928 venne pubblicando nello «Jahrbuch für
Volksliedforschung» – il Meier si propose di illustrare il
processo discendente della poesia popolare o meglio la
cosiddetta tradizione letteraria della poesia popolare. Da
qui la sua indagine, minuta e particolare, dedicata a più di
un migliaio di Lieder, che egli ha compiuto con una
erudiziene non comune. In lui, di temperamento
antiromantico, il metodo benfeyano inerente alla ricerca
delle fonti, viene rinverdito con le istanze che ormai poneva
la filologia del Bédier. Il Meier, però, di contro al Bédier,
non sottovaluta l’importanza della poesia popolare, alla
quale anzi riconosce un notevole peso non solo nella storia
della cultura, ma anche della storia civile. E ciò era logico,
dato il diverso ambiente da cui provenivano i due studiosi.
Il Meier in quei suoi saggi arriva comunque a questa
conclusione: e cioè che nella massima parte i canti popolari
discendono dalla poesia colta di cui conservano i temi
specifici. E tale è appunto il nucleo della sua teoria, ormai
celebre sotto il nome di Rezeptiontheorie, in base alla quale
egli mette a raffronto dei temi piuttosto che dei canti,
cadendo spesso negli stessi errori in cui erano caduti il
Benfey e soprattutto i suoi epigoni. Con questa attenuante,
però, almeno rispetto a quegli epigoni: che egli riconosceva
alle forze popolari, che è quanto dire a determinati
individui, non soltanto capacità ricettive, ma anche facoltà
creatrici.
Nei suoi più recenti lavori, e soprattutto nella sua ampia
opera Das Deutsche Volkslied, edita fra il ’35 e il ’36, lo
stesso Meier del resto ha cercato di chiarire meglio come si
manifestano nel popolo queste facoltà, mentre i rapporti fra
poesia d’arte e poesia popolare venivano assumendo nella
sua visione un altro valore. Le conclusioni, cui era giunto in
quest’opera, sono riassunte e completate in un suo ampio
saggio intitolato L’organizzazione, i compiti, i mezzi, gli
scopi degli studi sul canto popolare, scritto per un numero
speciale, dedicato al folklore tedesco, del periodico «Lares»
(1939). Ed è qui che egli, dopo aver passato in rassegna il
lavorio filologico e critico cui erano state sottoposte, in
Germania, le varie raccolte di canti popolari, pone anzitutto
l’accento sulla individualità della poesia popolare. In questo
senso: che egli, come il Croce, attribuisce i canti popolari a
singole personalità poetiche. Autore del canto è, insomma,
per lui, un individuo, non una collettività come ritenevano i
Grimm. Né a lui importa – ecco un altro motivo che lo
avvicina al Croce – indagare a quale strato sociale l’autore
appartenga o s’egli sia o no poeta o compositore
popolaresco oppure poeta e musicista educato all’arte.
Com’egli stesso dirà:
«Essenziale è soltanto che il canto da individuale si muti in collettivo e che
prenda così radice tra il popolo, ossia che diventi (per usare il termine tedesco)
volkläufig; del che è segno l’apparire, così nel testo come nella melodia, di
certe forme stilistiche proprie del canto popolare e provenienti dallo «stile
orale».

2. Essenza della poesia popolare

Ma qui, è evidente, il Meier va oltre il Croce. In altri


termini, per il Meier, perché un canto popolare sia
veramente tale deve arrivare alla collettività. Ma questa
collettività egli come la intende? E di quali attributi la
riveste?
Nel suo lavoro Kunstlied und Volkslied in Deutschland, il
Meier, nel riproporsi il problema della poesia e della poesia
d’arte, aveva già ammesso che, se una contadina intende
recitare il Lied «In einem kühlen Grunde», con la
consapevolezza che si tratti di un Lied dell’Eichendorff,
allora quel Lied è da considerare poesia d’arte; e che, se
invece in essa manca quella coscienza, lo stesso Lied è da
considerare opera di poesia popolare. E in ciò egli non
faceva che ripetere l’Arnim, il quale, come abbiamo visto, si
era posto appunto quel problema a proposito di un Lied del
Goethe. Ma il Lied del Goethe o quello dell’Eichendorff,
appena arrivati al popolo, appena arrivati alla bocca della
contadina, conservano il loro testo – così com’è d’uso nella
poesia d’arte – oppure subiranno quei mutamenti, quegli
adattamenti, o diciamolo pure, quei guasti che sono
caratteristici della poesia popolare? È chiaro che il tono
popolare, proposto dal Croce come criterio di distinzione
psicologica fra la poesia popolare e la poesia d’arte, colga
maggiormente nel segno di quanto non faccia la tesi del
Meier. Si deve tuttavia osservare in proposito che anche il
Croce, ammesso quel tono, dimentica però ciò che
veramente conta nella poesia popolare e a cui invece si
appella il Meier: la circolazione popolare. Il Croce infatti
considera come poeta popolare il Berchet. Ma
prescindendo dal fatto che egli sia o non sia tale, la poesia
del Berchet rimase in mezzo al popolo come vi rimane un
vero e proprio componimento popolare? Oppure quella
poesia ebbe soltanto una determinata popolarità come può
averla un qualsiasi altro testo dotto orecchiabile o
comunque di tono popolaresco?
Lo stesso Meier peraltro non manca, e in ciò è in
vantaggio rispetto al Croce, di mettere in rilievo la
elaborazione popolare che non è da confondersi, come fa il
Croce, con la semplice trasmissione che è ben altra cosa di
quel «ritoccare o rifare» che si riscontra nella poesia
d’arte. A questa elaborazione partecipa appunto, secondo il
Meier, il popolo con i suoi poeti. Anzi com’egli stesso
osserva:
«… quando noi riusciamo a scoprire la versione originale di un canto popolare,
ci rendiamo conto di avere scoperto non il “canto popolare”, bensì il “canto
individuale”, da cui quello si è svolto. In chiusa alle canzoni del secolo XV e XVI
si trovano spesso accenni ai loro autori (“un giovane e baldo cavalleggero, il
figlio di un ricco contadino, un giovane minatore, due bravi lanzichenecchi,
l’uno giovane e l’altro vecchio”); ma si tratta generalmente di finzioni senza
fondamento di verità. Quasi sempre questi presunti autori non hanno fatto altro
che “ricantare nuovamente” la canzone di cui si attribuiscono la paternità».

È allora, quindi, che i temi, i quali possono avere


caratteri internazionali, si trasformano continuamente in
canti. Ed è allora che, quali che possano essere le
migrazioni di quei temi, il canto popolare, opera
individuale, diventa opera collettiva:

«Così ogni qualvolta si prende a cantare una canzone, essa risente di


atteggiamenti nuovi, ed è per questo che la stessa canzone, come nel campo
linguistico la stessa frase, non verrà mai, per quanto breve sia l’intervallo,
cantata o parlata in modo uguale anche se manca l’intenzione di mutare. Stato
d’animo, freschezza o stanchezza, influssi che emanano da una compagnia
allegra e dal modo com’essa è composta (di uomini soli, oppure di ragazze e di
giovanotti, o solo di ragazze), il luogo stesso dove si canta (casa privata oppure
osteria): tutto influisce sul testo; sulla forma melodica e ritmica del canto, e
sulla sua esecuzione…»

La poesia popolare ricorda insomma al Meier quei sottili


fili di ragnatela che il popolo chiama della Madonna e che
in autunno portati nell’aria dal vento si posano qua e là e
poi si staccano senza difficoltà per andarsi a posare altrove
e formare sempre nuovi e diversi intrecciamenti. Il Meier,
nel caratterizzare questi intreccia-menti, si appella quindi a
un determinato stile, le cui forme rispondono a un bisogno
dell’aedo e mirano a facilitargli il suo compito. Ma queste
forme, quali risultano dal suo esame, sono del tutto
esterne? Egli è dell’avviso che esiste sempre un canto «che
si dovrà dire popolare per l’intima sua essenza e per il
modo di vivere». Traducete quell’essenza in tono popolare.
Traducete quel modo di vivere in elaborazione popolare. Ed
ecco che l’ultimo Meier ci appare sulla stessa linea del
Croce riveduto da Menéndez Pidal.

3. Naumann e i valori culturali abbassati

La Rezeptiontheorie del Meier fu irrigidita e trasportata


dal campo specifico dei Lieder a tutte le produzioni
popolari da un altro studioso tedesco: Hans Naumann, cui
dobbiamo, per ricordare soltanto le sue opere maggiori, la
Primitive Gemeinschaftskultur, edita nel ’21, e la
Grundzüge der deutschen Volkskunde, che è del ’22.
Nel riproporsi i problemi inerenti alle origini del folklore,
il Naumann stabilisce anzitutto tre fasi attraverso cui
sarebbe passata l’umanità: la prima, ch’egli chiama
primordiale, in cui l’uomo è un «frammento» inconsapevole
della natura; la seconda collettiva, in cui l’uomo partecipa
alla vita sociale; la terza, individuale, in cui l’uomo ha già
una sua personalità. E su questa base sociologica, che gli fa
immaginare un anthropos a compartimenti stagni – il
Naumann è ben lontano infatti dal dare all’uomo
primordiale quella natura che gli dava il Vico, mentre la sua
distinzione fra individuo e collettività è del tutto fragile, se
si pensa che nell’uomo si rispecchia pur sempre la
collettività come nella collettività si rispecchia l’individuo –
egli formula due principi, che sono, a suo modo di vedere, i
principi stessi che danno fondamento al folklore. Primo
principio: quello della cosiddetta cultura primitiva che è
propria delle società agricole e delle società contadinesche,
le quali, prive come sono di vere e proprie differenziazioni,
hanno un proprio patrimonio, dove ciascuna manifestazione
parte da un qualsiasi singolo individuo. Secondo principio:
quello dei valori culturali abbassati o meglio della materia
colta decaduta, secondo il quale il Naumann fa del popolo
una potente forza recettiva, cui giungono tutte le
produzioni nate fra le classi dirigenti. Compito del
folklorista pertanto è quello di vedere come questi due
mondi confluiscono l’uno nell’altro, onde distinguere poi
nel popolo gli elementi importati, gli imprestiti, dagli
elementi originari.
Il Naumann in questa sua costruzione si avvaleva di un
concetto che già era stato ragionato da un folklorista
svizzero: E. Hoffmann-Krayer, alla cui iniziativa si deve non
solo la pubblicazione del periodico «Schweizerisches Archiv
für Volkskunde»; la fondazione della «Volkskundliche
Bibliographie» (continuata dal Geiger, che gli successe
anche nella direzione della rivista); l’organizzazione
dell’Handwörterbuch des deutschen Aberglaubens, che è
ormai un indispensabile strumento di lavoro nel campo
dell’etnica tradizionale e che egli diresse con l’aiuto di H.
Bächtold-Stäubli. Ora fin dal 1932, Hoffmann-Krayer aveva
tratto le più rigide conseguenze su quello spirito popolare
come già lo aveva concepito W. H. Riehl. Nel suo lavoro Die
Volkskunde als Wissenschaft Hoffmann-Krayer aveva infatti
sostenuto l’idea a cui, del resto, rimarrà in parte sempre
legato; che il cosiddetto strato inferiore dell’organismo
popolare è meno differenziato di quanto non sia lo strato
superiore. Da qui quell’uniformità che è nelle stesse
personalità popolari. Da qui a sua volta il principio stesso
del Naumann, per il quale nel folklore collettivo, nel
folklore genuino, ciò che è di uno può anche essere
dell’altro. Il che in fondo non è che ciò che gli altri
folkloristi chiamano spirito comune. O ancor meglio: i
luoghi comuni della tradizione. Senonché la tradizione vive
soltanto di questi luoghi comuni? E negli scambi sono
questi che determinano i vari processi della poesia
popolare?
4. Fonti del suo «sistema»

A questa domanda – divenuta quanto mai impellente


dopo le ricerche del Naumann – rispose lo Hoffmann-
Krayer nel saggio, Individuelle Triebkräfte im Volksleben,
edito nel 1930 in «Archives Suisses des Traditions
Populaires», rivista da lui diretta e a cui si affianca
un’interessante collezione di studi folkloristici. In questo
saggio Hoffmann-Krayer, che pure aveva nei suoi primi
lavori sostenuto l’idea che il popolo più che creare
riproduce, non solo allarga la sua concezione del folklore –
ristretta in un primo momento alla formula vulgus in
populo, – ma esamina anche con larghezza di vedute come
si debba intendere la stessa individualità popolare. In
quanto alla concezione del folklore egli par quasi che si
adegui al Barbi sostenendo: 1, che è popolare tutto ciò che
coscientemente o incoscientemente circola in mezzo al
popolo; 2, che il fatto essenziale da vedere nel folklore non
è solo tutto ciò che esso accoglie, ma soprattutto quel che
utilizza. Ed ecco qui allora il rinnovarsi stesso del folklore
in cui, egli afferma, è difficile discriminare gli elementi
superiori da quelli inferiori, appellandosi agli impulsi
individuali che dovrebbero caratterizzare i primi e agli
impulsi collettivi che dovrebbero caratterizzare i secondi. È
ovvio, egli dice, con uno spiccato senso estetico e
storiografico, controbattere che nelle une come nelle altre
manifestazioni l’attore principale non è il popolo, ma il
singolo più dotato. Commenta, anzi, in proposito il Vidossi,
delineando la posizione di Hoffmann-Krayer rispetto al
Croce:

«Quando il Croce, parlando di poesia popolare, scrive: “nessuna poesia è


collettiva nell’origine, richiedendosi nel suo sorgere la persona di un poeta, e
ogni poesia si diffonde o può diffondersi più o meno largamente nella società in
cui nasce”, sorvola appunto sul fatto di questa diffusione, che può sembrare
estraneo all’assunto estetico, ma che per lo studioso di tradizioni popolari non è
stato forse mai d’interesse così capitale come oggi. Per il Hoffmann-Krayer la
diffusione avviene per assimilazione, che è per lui il principio regolatore d’ogni
formazione di gruppi. E centro di questa assimilazione… è sempre l’individuo
più forte, che da il tono ai più deboli».

5. Confutazioni

La materia assimilata, secondo Hoffmann-Krayer, non


rimane insomma mai tale, ma si modifica e si adatta al
gusto prevalente. E se è vero che allo Hoffmann-Krayer
mancò il criterio di interpreta-zione di quei due mondi,
letteratura dotta e letteratura popolare, quale lo aveva già
concepito il Croce, egli certo si faceva garante di
un’esperienza che peraltro maturava contemporaneamente
anche nella coscienza di molti altri studiosi, i quali si
preoccupavano di riproporsi il problema dei rapporti fra la
poesia popolare e la poesia d’arte.
Così, ad esempio, per rimanere nel campo particolare
della poesia popolare, non mancarono degli studiosi che
cercarono di conciliare le prime posizioni del Meier con le
teorie del Naumann. E fra questi meritano di essere
ricordati il Dessauer, cui dobbiamo una interessante
monografia che uscf nel 1929, intitolata Das Zersingen, e la
Funk, autrice di un saggio, Die Rolle des künstlichen
Bearbeitung in der Textgeschichte der alten deutschen
Volksballaden, edito nel 1931. In queste opere viene
esaminato lo sfaldamento di alcuni canti popolari tedeschi.
E non v’è dubbio che gli autori riescono a dimostrarci come
molti canti letterari si degradino passando in mezzo al
popolo. Legittime ricerche queste. Ma possiamo noi trarre
delle conseguenze generali da determinati casi speciali?
È chiaro quindi che in proposito abbia avuto buon giuoco
un geniale folklorista francese, Patrice Coirault, il quale
nelle Recherches sur notre ancienne chanson populaire
traditionnelle, edite fra il 1927 e il 1932, aveva appunto
dimostrato: 1, che è assurdo porre il problema dei rapporti
fra la poesia popolare e la poesia d’arte in una serie di
discese e di degradazioni; 2, che fra i due gradi di cultura
vi sono anche gradi assolutamente intermedi, senza
soluzione di continuità; 3, che la creazione popolare è pur
sempre legata alla elaborazione popolare.
Di particolare importanza è inoltre l’analisi che il
Coirault dedica alla creazione e alla elaborazione
commesse vanno intese non solo nella poesia popolare, ma
anche nella poesia d’arte. E la sua tesi, come ben la
riassunse il Toschi, è questa: che i due termini non sono poi
così distanti come apparirebbero nella estetica crociana,
perché, così come nella letteratura dotta esiste una
creazione dentro la tradizione stilistica, non ci è possibile
spiegare la poesia popolare se non dentro una sua
particolare tradizione.
Convinto che la caratteristica essenziale della poesia
popolare sia «l’inimitabile semplicità di mezzi,
dell’espressione del fondo» – il che per lui è erroneamente
assenza di individualità, – il Coirault ritiene che tale
caratteristica in molti casi potrebbe costituire non un
carattere innato, bensì acquisito. E con ciò, se egli mette
sulla via giusta i rapporti fra poesia popolare e poesia
d’arte, riduce la prima a un genere in cui l’inimitabile
semplicità è assenza di individualità. C’è, comunque, nel
Coirault, conclude il Toschi, l’esigenza d’una poetica
accanto a una poesia. Il Coirault s’incontra anche in molti
punti col Croce. Con questa differenza: che il concetto di
elaborazione popolare gli offre un criterio più largo per
interpretare il problema stesso della poesia popolare.
Nel campo della danza, invece, un allievo del Naumann,
Paul J. Bloch, ha cercato di dimostrare nel suo ampio lavoro
Der deutsche Volkstanz, che è del 1926, che a prescindere
da quelle danze che derivano dagli antichi culti «non esiste
alcuna vera danza popolare» ma soltanto «forme derivate
dalle danze del palcoscenico e di salotto». Gli ha risposto,
però, il Wolfram, il quale in un suo saggio, Lo studio della
danza popolare in Germania, pubblicato nel citato fascicolo
di «Lares», afferma:

«Nel mio lavoro Volkstanz nur gesunkenes Kulturgut? io ho confutato questi


errori… Ho cercato di chiarire, colFaiuto delle ricerche sulle “isole linguistiche”
il caso tipico delle nostre danze amorose: Ländler, Steirischer e Schuhplattler,
che il Bloch voleva far derivare dalle danze di palcoscenico dell’Ottocento. Tra
gli emigranti, che già avevano lasciato la Patria da un secolo e da allora erano
senza collegamento con il loro territorio d’origine, io trovai infatti anche i
Ländler che essi dovevano aver portato seco loro fin dal 1730. Il legame con le
danze “saltate” dal Medioevo, come pure la “gagliarda”, prova la notevole
antichità, come anche l’origine popolare delle nostre danze amorose».

E in quanto all’arte popolare, la quale nel campo del


folklore è stata fino ad oggi la meno studiata (per quanto i
musei etnografici sorti da per tutto in Europa possano
costituire, in proposito, dei veri laboratori di studio),
notevoli sono le osservazioni di Kon-rad Hahm nella sua
ampia monografia Deutsche Volkskunde, edita nel 1932. Lo
stesso Hahm nel suo saggio Indagine dell’arte popolare in
Germania, pubblicato pure in «Lares», osserva:
«Per la loro importanza generale sono da menzionare [sull’arte popolare] i
lavori e le ricerche di Michael e Arthur Haberlandt, Otto Lehmann e Adolf
Spamer. L’opera di Karl Spiess, Bauernkunst, ihre Art und ihr Sinn... contiene
importanti pensieri cui si può attribuire il valore di guida di tali studi».

Fatto è che questi autori sono concordi nel respingere la


tesi del Nauniann, anche se qualcuno di essi (lo Spamer, ad
esempio) in un primo momento l’abbia accolta. E ciò
perché l’arte popolare, per essere tale, deve aver appunto
quel tono semplice ed elementare che modifica e trasforma
le sue stesse fonti. In altri termini: quel che vale per la
poesia popolare vale per l’arte figurativa popolare.

6. La preghiera del Gorkij

Di contro al Naumann si pose inoltre un folklorista che è


un vero e proprio maestro delle nuove generazioni russe:
Jurij Sokolov, il quale, educatosi alla scuola storica del
Veselovskij, sentì, come il suo maestro, l’interesse vivo e
profondo per i vari problemi che in Europa si venivano
dibattendo intorno alla metodica e alla problematica
folkloristica.
In un primo momento anch’egli, come il Meier e lo
Hoffmann-Krayer nei loro primi lavori, accolse la tesi del
popolo che riceve dall’alto il proprio patrimonio: il che in
Russia, ancora prima che uscissero i lavori del Naumann,
era stato sostenuto dal Keltuyala e dal Miller, i quali
sentirono e subirono l’influsso del Bédier. E questa fu la
tesi che lo stesso Sokolov sostenne nel suo saggio sulle
byline, che pubblicò nel 1929 nella Grande Enciclopedia
Russa. Alcuni anni dopo egli, però, a proposito della
novellistica impostava in maniera molto diversa il problema
dei cosiddetti valori decaduti. E in un suo saggio, dedicato
al folklore narrativo, osserva:

«Le favole che si usa chiamare magiche, ad esempio sul principe Ivàn che
conquista la Car-devica [reginetta], l’uccello di fuoco o qualche altra
meraviglia, sono evidentemente nate nell’epoca del feudalismo e, dobbiamo
pensare, non nell’ambiente contadino, bensì in quello dei boiardi e dei principi,
oppure in quello dei mercanti. Soltanto in un secondo momento esse furono
elaborate dai contadini secondo i loro gusti e rappresentazioni di classe».

Si veniva a creare così quell’ala sinistra – come


giustamente la chiamano L. Hippius e V. Čičerov – della
scuola storica, la quale è la più agguerrita nel combattere
le teorie del Naumann, dei suoi predecessori e dei suoi
epigoni. E di quest’ala il maggiore rappresentante sarà
appunto il Sokolov, il quale troverà un collaboratore tenace
nel fratello Borís. I Sokolov sono oggi i Grimm della Russia.
Ed è in gran parte per loro merito se il problema della
creazione individuale-popolare è stato sottoposto ad una
più serrata critica intesa a discriminare il folklore che non
riesce a farsi arte da da quello invece che è arte. Era stato
il Veselovskij a dimostrare come la fonte viene assorbita dai
nuovi creatori del folklore. E i Sokolov esemplificarono
questo concetto. Era stato Hilferding, in Russia, a valutare
l’individualità creativa dei portatori del folklore. E ad
Hilferding si riattaccarono, nel seguire quel sistema, i
Sokolov quando nel 1915 pubblicavano un’ampia silloge di
fiabe e canzoni della regione del Lago Bianco.
È su queste basi che lavoreranno inoltre con rinnovata
energia i folkloristi russi dopo la Rivoluzione. Ed è allora
che da quell’anonimato, in cui in genere si teneva il
folklore, usciranno delle vere e proprie individualità
poetiche, le quali appartengono alle file del popolo e alle
quali sono state dedicate delle monografie accurate.
Alla scoperta di queste individualità contribuirono
soprattutto le ampie ricerche folkloristiche cui, dopo la
Rivoluzione, presiedette Maksim Gorkij, il quale fu in ciò
aiutato da Jurij Sokolov. Il Gorkij, conoscitore profondo del
folklore letterario russo, ch’egli rievoca in parecchie sue
opere, specialmente quelle dedicate alla sua vita, nel 1934
al congresso degli scrittori russi, dopo aver messo in luce
come il folklore concilii armoniosamente la ragione e
l’intuizione, il pensiero e il sentimento, aveva ammonito:

«Permettetemi di dare un consiglio amichevole, che potrebbe essere


considerato come una preghiera, ai rappresentanti delle nazionalità del
Caucaso e dell’Asia Centrale. Un’impressione immensa ha suscitato in me e
non soltanto in me l’“asciug” Sulejman Stalkij: io ho visto come questo
vegliardo analfabeta ma saggio, seduto alla presidenza del congresso, veniva
creando i propri versi e com’egli, Omero del secolo XX, li ha poi recitati
meravigliosamente. Abbiate cura di uomini, capaci di creare tesori poetici come
quelli di Sulejman. Ripeto: Vinizio dell’arte della parola si trova nel folklore,
raccogliete il vostro folklore, studiatelo, elaboratelo. Esso offre vasto materiale
sia a noi che a voi, poeti e scrittori dell’Unione Sovietica».

Allo stesso Gorkij si deve inoltre l’iniziativa della


pubblicazione di un’opera che porta un titolo significativo:
La creazione dei popoli dell’U.R.S.S. Con questo metodo:
che in quelle ricerche, cui contribuirono anche i Sokolov,
non si tenne conto soltanto delle campagne ma anche dei
cantieri, delle fabbriche ecc. Il che dimostrò la vitalità di un
folklore operaio, ma soprattutto la fallacia di quella teoria,
avanzata del resto anche dallo Herder e peraltro così
feconda di risultati, che il folklore muore e che quindi
bisogna subito raccoglierlo e salvarlo. Era stato il Gorkij a
porre già l’accento sulla tesi che il folklore non muore, ma
che anzi esso è in via di continuo sviluppo. Il che del resto
nella stessa Russia era stato già pienamente intuito da un
Puškin e da un Dobroljubov. È merito comunque di Jurij
Sokolov d’aver dato un fondamento scientifico a quel
concetto che egli sintetizzò in una forma piana, ma decisa e
decisiva. E la formula è questa: che il folklore è, si, la voce
del passato, ma è anche la voce potente del presente.
È la coscienza contemporanea, insomma, che illumina il
folklore. E questa contemporaneità del folklore (studiata
anche con molto acume da M. K. Azadovskij, il quale ne
indagò i precedenti mettendo in luce l’opera di Hilferding,
di Puškin, di Dobroljubov) costituisce la nuova concezione
del folklore russo secondo cui il problema centrale non è
più quello di ricercare le origini dei generi tradizionali, ma
di vedere come questi generi vivano oggi, com’essi, cioè, si
facciano poesia attuale e come in tale poesia lo stesso
popolo trovi la sua propria letteratura educativa. È un
ritorno al Romanticismo in fondo: ma questo nuovo
Romanticismo non tende soltanto a mettere in luce i valori
nazionali, bensì a riempirli di un contenuto sociale.

7. Il folklore poetico nel concetto del Sokolov

Nel riproporre la validità delle ricerche folkloristiche, gli


studiosi russi della nuova generazione non si sono
preoccupati, ad ogni modo, soltanto di vedere a quale
funzione sociale obbediscono gli stessi portatori del
folklore, ma anche e soprattutto hanno voluto indagare la
«personalità artistica». E, in proposito, di notevole
interesse sono le conclusioni cui giunge Jurij Sokolov nel
suo libro dedicato al folklore letterario russo, edito a
Leningrado nel 1938.
In questo libro il Sokolov mette anzitutto in rilievo
quanto sia meccanica la distinzione tra poesia d’arte e
poesia popolare (o meglio, per adoperare i suoi termini, fra
la «poesia naturale» e quella «artificiale»), in quanto tanto
l’una quanto l’altra sono, o meglio possono essere, delle
«manifestazioni autentiche dell’arte letteraria». E qui il
Sokolov è pienamente d’accordo con il Croce che egli non
cita e probabilmente non conosce. Di contro al Croce – e
questa è la conseguenza delle ricerche russe dedicate al
folklore intese a determinare le personalità che lo creano –
il Sokolov da però rilievo e spicco proprio ai popolani e agli
operai. Aveva scritto il Croce che la poesia popolare è
dovuta in gran parte a letterati o semiletterati e assai poco
a popolani ignoranti, di un’ignoranza circa la quale ci
sarebbe molto da distinguere e da ridire. Dirà invece il
Sokolov che i popolani o gli operai acquistano una capacità
creativa dopo una conoscenza varia e approfondita del
folklore poetico, narrativo ecc. della propria nazione. Il che
costituisce la loro cultura. L’ignoranza dei popolani o degli
operai non è in fondo che la nostra ignoranza, ove appunto
si pensi che noi siamo abituati a misurare tutto
esclusivamente in base alle nostre conoscenze,
disprezzando ciò che non riteniamo nostro o della nostra
classe.
Si aggiunga, conclude il Sokolov, che anche fra i poeti e i
narratori ecc. noi abbiamo delle vere e proprie scuole, le
quali si distinguono per il loro repertorio, per il loro stile,
per l’esecuzione stessa delle loro opere – tesi questa che è
pienamente condivisa dal von Sydow e in un certo senso
anche da un nostro studioso, il Baldi, per quanto l’uno e gli
altri siano arrivati indipendentemente alle stesse
conclusioni. Fatto è ad ogni modo che i migliori
componimenti popolari rivelano una vera e propria
«maestria artistica» e che – ecco un altro punto in cui il
Sokolov concorda col Croce – il processo della creazione è
nel folklore poetico e narrativo identico a quello che è nella
letteratura dotta.
Lo stesso Sokolov, dopo aver riconosciuto a ciascuna
variante la validità di una produzione a nuovo – ciascuna
variante, egli dice, deve essere considerata un fatto
artistico, – non si nasconde la potenza stessa della
tradizione in cui va ravvisato il lavoro stesso della
collettività. Dirà concordando pienamente col Coirault:

«Qui interviene un elemento, la tradizione, che alcuni studiosi considerano


come il tratto essenziale che distingue il folklore dalla letteratura. Ripetiamo
ancora una volta che la distinzione fra i due domini è più quantitativa che
qualitativa. Senza tradizione, in effetti, lo sviluppo della letteratura non si
potrebbe concepire e, se la potenza della tradizione è più forte nel folklore, ciò
è dovuto al fatto che la produzione poetica, non fissata dalla scrittura, ha
dovuto, per una pratica secolare, elaborare dei mezzi mnemotecnici che ne
assicurano la trasmissione orale. Lo studio minuzioso della poetica popolare
mostrerà a qual punto i procedimenti di stile e di composizione, stabiliti da una
lunga tradizione, contribuiscono a mantenere i testi nella memoria degli
esecutori e, d’altra parte, a permettere a questi ultimi di modificarli e di
improvvisarne dei nuovi… Non si potrebbe ridurre il folklore alla sola
tradizione, sarebbe vedere in esso soltanto pratica, ristagno, conservatorismo».

Non si vuol negare, insomma, il valore della tradizione


che ci attesta la popolarità di un canto; ma quando un
canto riesce a realizzarsi esteticamente, non è bene che noi
lo stacchiamo dalle lezioni che lo hanno potuto generare e
da quelle che potrà generare per contemplarle
esclusivamente come un fatto artistico?

8. Popolo e chiericato

Così, dunque, la filologia si è venuta sempre più


animando con l’aiuto dell’estetica e quindi con la
formulazione stessa dei suoi principi, mentre la stessa
simbiosi poesia-popolo ha avuto in base a tali principi una
formulazione più chiara è soprattutto più persuasiva. Si era
creduto che il mito della poesia popolare fosse morto. In
realtà esso è più vivo di prima.
Nel porre i rapporti fra la poesia popolare e la poesia
d’arte il Romanticismo era già stato chiaro, conseguente e
categorico, ove si pensi appunto che esso aveva attribuito
al popolo i temi lirici, le invenzioni narrative, i miti ecc., dai
quali era poi partita la letteratura dotta. Più tardi, a mano a
mano che la filologia positivistica aveva proceduto nelle sue
ricerche, nei suoi scandagli, nei suoi scavi, si era ammesso
fra le due forme un conto corrente che si risolveva non solo
nel dare – e in ciò è il Romanticismo stesso che continua il
suo prodigioso lavorio –, ma anche nell’ avere. E nell’avere,
non nel senso in cui questo termine era stato adoperato dai
Grimm o dal Müller e che sarà meglio chiarito dal
Menéndez Pidal – nel senso, cioè, di imprestiti
completamente rinnovati e ricreati –, ma nel senso che gli
aveva dato il Benfey, il quale, pur facendo convivere
insieme una letteratura dotta con una popolare, riteneva
che quest’ultima spesso non fosse che la trascrizione della
prima. O ancor meglio il Bédier, il quale, impostando dei
rapporti sotto forma di popolo e chiericato, aveva fatto del
popolo un’astrazione che era non meno arbitraria di quella
del chiericato. Ma di contro al Benfey – e quando il Bédier
non aveva ancora formulato la sua tesi –, il Paris poneva
invece fra le due forme, la letteratura popolare e la dotta,
un netto distacco. E questo distacco era accentuato dal
D’Ancona, dal Comparetti e dal Pitrè, i quali erano e
rimasero sempre convinti che quelle due forme
rispondessero a due particolari modi di sentire.
Si trattava appunto ormai di chiarire con la massima
decisione di termini questi due modi, di vedere quale fosse
la loro natura, la loro essenza. Il Menéndez Pidal converti
lo spirito nazionale dei romantici in un sentire comune,
attribuendo quel sentire comune alla poesia popolare o
meglio, come egli dirà, tradizionale. È evidente: di contro
alla poesia dotta che rimaneva in un’altra sfera. Il Bédier,
nel porre la sua antitesi popolo-chiericato, aveva eluso quel
problema, perché così come i romantici avevano attribuito
tutto al popolo, il Bédier attribuiva tutto al chiericato. E il
colloquio rimaneva ancora aperto e sembrava a volte
risolversi in una vera lotta di classe: o col popolo, o contro
il popolo.
Il Croce, quasi a rispondere a questo colloquio,
staccherà, è vero, la poesia popolare da quella d’arte, ma
senza intaccarne la sua natura artistica. Il concetto di
elaborazione popolare, quale esso è stato sempre più e
meglio approfondito, ci dirà però che quel tono è
veramente vivo in mezzo al popolo, col popolo e nel popolo.
Fatta da letterati, difficilmente una poesia, per quanto
elementare, raggiunge il popolo, che ha, per adoperare una
frase del Sokolov, le sue scuole da cui e in cui si istruisce. E
se vi giunge ecco che essa non rimarrà mai come è partita.
Le opere dei poeti, delle personalità poetiche, dei cantori
come dei narratori, non vanno tuttavia, aggiungerà il
Sokolov, studiate soltanto per tracciare una tradizione, ma
anche come fatti artistici.
Non si vuoi negare d’altro lato, e sarebbe assurdo
negarlo – da qui la validità delle ricerche del Meier – che la
letteratura popolare possa essere come la vita sotterranea
di tanta letteratura dotta. O viceversa. È un errore infatti
considerare il popolo come una parte chiusa in se stessa.
Quando la letteratura dotta è divenuta popolare – cioè,
quando i motivi della prima rivivono nella seconda –, essa,
come aveva del resto ben intuito, primo fra tutti, il Görres,
dimentica la sua fonte e fa parte di una specifica
letteratura che deve essere rivendicata a se stessa. Così
come la poesia d’arte non va ricercata in un presupposto
ingentilirsi della poesia popolare, né questa in un
degradamento della prima, allo stesso modo quindi la
poesia popolare, quando si fa poesia dotta, aulica, cioè
riflessa, non è più tale. E viceversa. Non si tratta perciò di
negare l’una forma rispetto all’altra, ma di dare vita
concreta all’una e all’altra. La poesia popolare e la poesia
d’arte, o meglio riflessa, – dato, ripetiamo, che anche la
poesia popolare può essere poesia d’arte – si possono
considerare come due linee parallele, le quali anche
quando sembrano convergere l’una verso l’altra finiscono
sempre per restare staccate.
Il Bédier aveva tolto agli umili, ai poeti popolari, il dono
della poesia. La filologia e la critica estetica sono, ormai,
concordi nel riconsegnarglielo. E mentre ciò avviene, a noi
sembra di sentire riecheggiare la preghiera di Maksím
Gorkij: «Raccogliete il folklore, studiatelo, elaboratelo». È
vero che il folklore, parte insein-dibile della storia della
civiltà e della cultura, non sempre viene ancora oggi
considerato in tale storia (nonostante l’esempio che oggi ci
viene da un Huizinga o da un Bloch). Ed è vero altresì che
la storia del folklore è quasi del tutto trascurata dalla storia
della storiografia europea cui appartiene. Ma queste e
altrettali diffidenze, chiamiamole pure così, se sono
destinate sempre più a sparire, non sono, e non possono
non essere, per chi coltiva questi studi, che un incitamento
a continuare l’opera dei suoi predecessori, cui va il merito
di aver spianato le vie e di averle costruite, aprendo a noi
un nuovo cammino.
Note e notizie bibliografiche

Le note che seguono non pretendono di essere una compiuta bibliografia della
nostra Storia. Le bibliografie o comprendono indistintamente tutto ciò che è
stato scritto su un argomento o seguono un criterio di scelta conforme al
metodo che l’autore ha seguito nella sua opera. È a quest’ultimo criterio che
abbiamo voluto attenerci per quei lettori che vogliono in qualche modo
approfondire i singoli capitoli da noi trattati.
Premessa

Dobbiamo a uno studioso spagnuolo, A. Guicot y Sierra,


un’ampia Historia del folklore. Orígines en todos los países
hasta 1890. Desarrollo en España hasta 1921 (Madrid,
1922). Si tratta però di un catalogo di antiquariato privo di
qual-siasi interesse storico e critico. Di ben altra natura è
invece il saggio dedicato alla storiografia folkloristica
europea da J. M. Sokolov, Russian Folklore, 3-156 (New
York, 1950) [ed. in russo, Leningrado, 1938: esiste di
questo lavoro una ridotta traduzione francese, priva fra
l’altro anche delle note bibliografiche]. Per le bibliografie di
carattere internazionale inerenti al folklore, per i manuali e
i trattati generali, per le raccolte comparative, ecc. si veda
A. Van Gennep, Manuel de folklore français contemporain,
3, 98-113, e 4, 559-60, 596-97, 621-23, 655-60, 717-62,
769-805, 815-18, 853-91, 893-94, 939-49, 1012-16 (Paris,
1937-38). Avremo agio di citare alcuni di questi trattati.
Intanto per altre notizie bibliografiche dello stesso tipo si
vedano: A. H. Krappe, The Science of Folklore, (London,
1930) (utilissimo per la bibliografia con cui si chiude
ciascun capitolo); G. Jungebauer, Geschichte der deutschen
Volkskunde (Praga, 1931); A. Haberlandt, Die deutsche
Volkskunde (Halle, 1935); R. Corso, Folklore (Napoli,
19432); e P. Toschi, Guida allo studio delle tradizioni
popolari (Roma, 19482). Sulla natura storica del folklore e
sui problemi che essa comporta si veda G. Cocchiara,
Storia degli studi delle tradizioni popolari in Italia
(Palermo, 1947). Da integrare, per quanto riguarda i
rapporti fra folklore ed etnologia, con E. De Martino,
Naturalismo e storicismo nell’etnologia (Bari, 1941).
Rimandi: P. Saintyves, Les origines de la méthode
comparative et la naissance du folklore, «Revue de
l’Histoire des Religions», 45 sgg. (1932); e A. Gramsci,
Letteratura e vita nazionale, 140 sgg. (Torino, 1951).

PARTE PRIMA
Capitolo primo
1. Sulla origine e sulla formazione del mito del buon
selvaggio esiste ormai tutta un’ampia letteratura, la quale
di recente è stata passata in rassegna da G. Cocchiara, Il
mito del buon selvaggio (Messina, 1948). Si aggiungono: N.
H. Fairchild, The Noble Savage (New York, 1928), e A.
Gerbi, Viejas polemicas sobre el Nuevo Mundo (Lima,
1946). È merito del Fueter, Storia della storiografia
moderna, trad. Spinelli, 1, 350 (Napoli, 1944), l’aver messo
in risalto l’opera del Martire. Sul de Léry si veda invece R.
Allier, Le non-civilisé et nous (Paris, 1927 sgg.). Discordanti
ancor oggi i pareri intorno alla attività di Bartolomé de Las
Casas. Sul quale si vedano, ad esempio, E. B. Teran, La
nascita dell’America, trad. Doria (Bari, 1939) (che gli è
favorevole) e R. Menéndez Pidal, Poesia araba e poesia
europea, trad. Ruggero (Bari, 1949) (che gli è stranamente
contrario). Rimandi: J. G. Frazer, The Golden Bough, 1: The
Magic Art and the Evolution of Kings, p. XXV (London,
1911).

2-4. L’opinione che il mito del buon selvaggio coincida con


quello dell’età dell’oro è stata formulata dal Gonnard, La
legende du bon sauvage (Paris, 1946). Il Clerc, Le voyage
de Jean de Léry et la découverte du «bon sauvage», «Revue
de l’Institut de Sociologie» (Bruxelles, 1927), se da una
parte mette in rilievo i rapporti fra Léry e Montaigne,
dall’altra ritiene che il mito del buon selvaggio sia stato
formulato dallo stesso Léry. Ma si tratta di una pretesa
senza fondamento, poiché se i selvaggi americani sono
ritenuti buoni e pacifici dallo stesso Colombo o soprattutto
dal Gonneville (1503-1505), il loro mito è già formulato
chiaramente in pensatori come il Martire e il Las Casas. Si
veda in proposito il bel libro Les François en Amérique
pendant le première moitié du XVI e siècle, a cura di C. A.
Julien, R. Herval, T. Beauchesne (Paris, 1946). Sul concetto
che il Montaigne ebbe intorno ai selvaggi si vedano: G.
Chinard, L’exotisme américain dans la littérature française
au XVI e siècle (Paris, 1911), e L’Amérique et le rêve
exotique (Paris, 1934); G. Atkinson, Les nouveaux horizons
de la Renaissance Française (Paris, 1935); G. Toffanin,
Montaigne e l’idea classica (Bologna, 1942); e G. Lawson,
Les «Essais» de Montaigne, 150 sgg. (Paris, 1948). Al
Lescarbot dedica pagine un po’ aspre A. Bros, L’ethnologie
religieuse, 129 sgg. (Paris, 19382).

5. Sul barone de La Hontan si vedano le gustose pagine di


P. Hazard, La crisi della coscienza europea, trad. Serini, 13
sgg. (Torino, 1946), e La pensée européenne au XVIII e

siècle, 2, 126 sgg. (Paris, 1946). Sulle utopie esiste tutta


una letteratura che di recente è stata passata in rassegna
da C. curcio, Utopisti italiani del Cinquecento, scelti ed
annotati, 30-32 (Roma, 1944). Sulla Utopia di Tommaso
Moro ritenuto come testo religioso ha buone osservazioni
M. Petrocchi, L’uomo e la Storia, 7 sgg. (Bologna, 1944). Si
veda anche F. Battaglia, Saggi sull’Utopia di Tommaso
Moro, 43 sgg. (Bologna, 1949). Da tenere presente infine le
acute pagine di A. Gramsci, Il Risorgimento, 217 sgg.
(Torino, 1949). Il Gramsci è dell’avviso che «dalle utopie
sarebbe derivata la moda di attribuire a popoli stranieri le
istituzioni che si desidererebbero nel proprio paese», e
ritiene inoltre che «tutta questa letteratura ha avuto non
piccola importanza nella storia della diffusione delle
opinioni politiche e sociali fra determinate masse, e quindi
nella storia della cultura». Rimandi: G. Salvemini, La
Rivoluzione francese, 58 (Milano, 19473).

6-7. Sull’atteggiamento dei primi missionari in rapporto


alla religione dei primitivi si cfr., per tutti, A. bros, op. cit.,
27 sgg., e G. Koppers, La religione dell’uomo primitivo, 20
sgg. (Milano, 1947). Su Pigafetta si veda C. Manfroni, in
Pigafetta, Il primo viaggio intorno al mondo, 117 sgg.
(Milano, 1939). Da tenere presente l’opera di F. Mazzei,
Recherches historiques et politiques sur les Etats-Unis de
l’Amérique, 3 (Paris, 1788), dove è riportato un
interessantissimo opuscolo del condorcet, Influence de la
Révolution de l’Amérique sur l’Europe, in cui si discorre
con acume dei vantaggi e degli svantaggi che la scoperta
dell’America arrecò all’Europa. Rimandi: A. Gerbi, La
politica del Settecento, 50 (Bari, 1934).

8. Sul concetto di Europa inteso come individualità storica


chiari e penetranti i saggi di F. Chabod, L’idea di Europa,
«La Rassegna d’Italia», 4, 4 sgg. (1947), e di C. Morandi,
L’idea dell’unità politica d’Europa nel XIX e XX secolo
(Milano, 1948). È nota la tesi dell’Eliot, Notes towards the
definition of Culture, 123-24 (London, 1948), il quale
ritiene che le basi della cultura europea vanno cercate,
oltre che nel mondo classico e nei testi dell’antica
Rivelazione, nella moderna idea dell’uomo. Rimandi: C.
Dawson, La formazione dell’unità di Europa dal secolo V al
secolo XI, trad. Pavese, 3 sgg. (Torino, 1939); e Progresso e
religione, trad. Foà, 193 (Milano, 1948).
Capitolo secondo

1. Per conoscere quale importanza abbiano assunto,


nell’Europa del Cinque e Seicento, i viaggi compiuti in
Oriente, si cfr. G. Dugat, Histoire des Orienta-listes de
l’Europe du XII e au XIX e siècle (Paris, 1868-1870). Sempre
utilissimo: P. Martino, L’Orient dans la littérature française
au XVII e et au XVIII e siècle (Paris, 1906). Si aggiunga, per
qualche utile richiamo: W. Schubart, L’Europa e l’anima
dell’Oriente, trad. Gentilli (Roma, 1947), e G. Tucci, Italia e
Oriente (Milano, 1949). Rimandi: P. Hazard, La crisi della
coscienza europea, trad. Serini, 13 sgg. (Torino, 1946); e F.
Gabrieli, Storia e civiltà musulmana, 73 sgg. (Napoli,
1947).

2. Esiste su Pietro della Valle una interessante Vita


premessa da G. B. Bellori all’ed. 1658-1663 dei Viaggi.
Buone osservazioni sulle sue attitudini di etnografo in G.
Pennisi, P. della V. e i suoi viaggi in Turchia, Persia e India,
«Boll. Soc. Geogr. It.» (nov.-dic. 1890); e in L. Bianconi, che
ha curato P. della Valle, Viaggio in Levante (Firenze, 1942).
Dei numerosi manoscritti che il Della Valle portò
dall’Oriente alcuni furono conosciuti dal Kirker (come, ad
esempio, la prima grammatica e il primo dizionario copto)
che ne fece tesoro nel suo Prodromus Coptus sive
Aegyptiacus (Roma, 1636).

3. Il Bartoli fino ad oggi è stato soprattutto considerato


come un prosatore, mai come un etnografo da tavolino. Su
di lui si veda G. Marzot, Premessa a D. Bartoli, La missione
al gran Mogor (Milano, 1946). Si veda pure L. Anceschi, La
poetica di una «certa beatitudine del gusto», nel suo libro
Civiltà delle lettere (Milano, 1945). Sul Ricci: H. Cordier,
Histoire générale de la Chine, 3, 318 sgg. (Paris, 1920);
Opere storiche di P. Matteo Ricci, a cura del P. Tacchi
Venturi (Macerata, 1911-13). Sul De Nobili è sempre utile
l’opera del Bertrand, Mém. hist. sur les missions des ordres
relig., 286 sgg. (Paris, 18622). Per la polemica dei riti
malabarici e cinesi si vedano i lavori di H. Pinard de la
Boullaye, L’étude comparée des religions, 1, 184 (Paris,
1922), e di V. Pinot, La Chine et la formation de l’esprit
philosophique en France, 1640-1740 (Paris, 1932).

4. Al Marana ha dedicato pagine vive P. Toldo, «Giornale


Storico della Letteratura Italiana», 46 sgg. (1897). Sul
Chinard si veda, invece, il recente lavoro di G. L. von
Roosbroeck, Persian Letters before Montesquieu (New
York, 1932). Altre notizie nel saggio del Dodds, Les récits
de voyages. Sources de l’Esprit des Lois de Montesquieu
(Paris, 1929).

5. L’importanza che l’Egitto assume nel campo


dell’etnografia è stata messa in luce dal Pinard de la
Boullaye, op. cit., 1, 232 sgg. Altre notizie in J. Reville, Les
phases successives de l’histoire des religions (Paris, 1909).
6. Alla moda francese dei conti di fata e ai suoi precedenti
storici ha dedicato un bel libro M. E. Storer, La mode des
contes des fées (Paris, 1928). Sull’Huet si veda, invece, A.
Dupront, P.-D. Huet et l’exégèse comparatiste au XVII e

siècle (Paris, 1931). Sui novellisti italiani (Straparola,


Basile ecc.) si veda G. Cocchiara, Genesi di leggende, 10
sgg. (Palermo, 19493).

7. Uno dei saggi più limpidi che siano stati dedicati alle
Mille e una notte è quello di F. Gabrieli, Storia e civiltà
musulmana, 99 sgg. (rielaborato e ripubblicato nella prima
trad. italiana delle Mille e una notte, a cura dello stesso
Gabrieli, Torino, 1949).

8. Sulle varie storie delle religioni, nate dall’incontro degli


studi orientali con quelli primitivi e comunque dovute
all’affinamento degli stessi studi orientali, si veda Pinard de
la Boullaye, op. cit., 1, 170 sgg. Lo Spencer è stato
considerato come il fondatore della storia comparata della
religione da Robertson Smith, Lectures on the Religion of
Semites (London, 18942). Contro: G. Schmidt, Manuale di
storia comparata delle religioni, trad. Bugatto, 42 (Brescia,
1934). Rimandi: A. Van Gennep, L’exotisme dans la
littérature française du XVI e au XVIII e siècle, in Religions,
Mœurs et Légendes, 5, 100 (Paris, 1914).
Capitolo terzo

1. Sulla lotta contro gli errori, quale venne affrontata dopo


la conquista del l’America, è sempre utile consultare il
lavoro di J. L. Castilhon, Essai sur les erreurs et les
superstitions (Paris, 1765). Il problema è trattato con ben
altro criterio da P. Hazard, La crisi della coscienza europea,
trad. Serini, 125-229 (Torino, 1946).

2. In genere non si da molta importanza all’influsso che la


Riforma ha esercitato nel campo del folklore. Ad ogni modo
chi voglia dare il necessario sfondo a tale ricerca può
ricorrere al lavoro di E. Troeltsch, Il protestantesimo nella
formazione del mondo moderno, trad. it. (Firenze, 1929).
Da integrare coi saggi di F. Battaglia, Lo spirito politico
della Riforma, «La Cultura» (1928), e di C. Morandi,
Problemi storici della Riforma, «Civiltà Moderna», 1, 668
sgg. (1929) (dove è citata la bibl. essenziale
dell’argomento). Sui rapporti fra la Riforma e gli studi di
storia delle religioni, si veda Pinard de la Boullaye, L’étude
comparée des religions, 1, 151 sgg. (Paris, 1922); e G.
Schmidt, Manuale di storia comparata delle religioni, trad.
Bugatto, 42 sgg. (Brescia, 1934) (dove si hanno cenni
anche dell’opera degli umanisti citati). Sul Vossio si veda A.
Bros, L’ethnologie religieuse, 23-24 (Paris, 19382). È da
notare che la teoria naturistà del Vossio fu seguita da un
celebre avversario del Bossuet, Jurieu, autore di una
bizzarra Histoire critique des dogmes et des cultes de
l’Eglise depuis Adam jusqu’à Jésus-Christ (Amsterdam,
1704).

3. Sulla Controriforma si veda G. Gothein, L’età della


controriforma, trad. Thiel (Venezia, 1928). Da integrare con
B. Croce, Storia dell’età barocca in Italia (Bari, 19413), e
per quanto riguarda la credenza nelle streghe con S. A.
Nulli, I processi delle streghe (Torino, 1939). Del Malleus ci
ha dato recente mente una buona traduzione inglese,
purtroppo in pochi esemplari, un dotto folklorista inglese, il
Montague-Summers (London, 1928). Altre notizie sul
Malleus in G. Bonomo, Il Malleus Maleficarum, «Annali del
Museo Pitrè», 1 (Palermo, 1950). Rimandi: J. Michelet, La
sorcière, 31 (Paris, 18782).

4-5. Una delle più penetranti ricerche dedicate al Bodin è


quella di A. Garosci, J. Bodin (Milano, 1934). Di particolare
interesse sono comunque per il concetto che il B. ebbe
intorno al diritto e alla religione naturale: G. del Vecchio, Il
concetto di natura e il principio del diritto (Bologna,
19222); e G. Radetti, Il problema della religione nel
pensiero di G. Bodin, «G. critico della filosofia italiana», 19,
267-268 (1938). Il Bodin, come può immaginarsi, compare
in tutti i trattati di demonologia che uscirono dopo la sua
Démonomanie des sorciers. Altre notizie in G.
Santonastaso, La sovranità del Bodin, in Le Dottrine
politiche da Lutero a Suarez, 3 (Milano, 1946). Sullo Spee
si veda S. A. Nulli, op. cit., 20 sgg. Sul Browne si veda, per
tutti, M. Praz, Studi e svaghi inglesi, 3 sgg. (Firenze, 1937).
Sullo Sprat: G. M. Trevelyan, Storia della società inglese,
trad. Morra, 329 sgg. (Torino, 1948). Curiose e interessanti
notizie sulla credenza nelle fate si trovano nel vecchio libro
del Maury, Les fées du moyen âge (Paris, 1843).

6. Al Bekker e al Thomas dedica pagine vivaci P. Hazard,


op. cit., 179 sgg. Per maggiori particolari si vedano l’agile
monografia di W. P. C. Knuttel, Balthasar Bekker (den Haag,
1906); e il vivace studio di F. Battaglia, C. Thomas, filosofo
e giurista (Roma, 1935). Sui precedenti del diritto naturale
può essere sempre utile G. Montemayor, Storia del diritto
naturale (Palermo, 1911). Con maggiore impegno: E.
Restivo, La filosofia del diritto di natura (Palermo, 1902); e
O. Gierke, G. Althusius e lo sviluppo storico delle teorie
politiche giusnaturalistiche, a cura di A. Giolitti (Torino,
1943); e G. Corsano, Ugo Grozio (Bari, 1948).
7. Sul Cherbury si veda A. Carlini, Herbert di Cherbury e la
scuola di Cambridge, «Rend. Accademia Lincei» (1917); e
G. de Ruggiero, Storia della filosofia, parte III:
Rinascimento, riforma e controriforma, 2, 260 sgg. (Bari,
19372). Sul deismo si vedano L. Stephen, History of English
Thought in the 18th Century, 1, 200 sgg. (London, 19022);
E. Troeltsch, Deismus, in Ges. Schrif., 4, 429 sgg.; E.
Cassirer, La filosofia dell’Illuminismo, trad. Pocar, 246 sgg.
(Firenze, 19452); e C. Dentice D’Accadia, Il preilluminismo,
«G. critico della filosofia italiana» (1928). Sull’antideismo è
opportuno consultare la nota monografia del Butler, The
Analogy of Religion, Natural and Revealed, to the
Constitution and Course of Nature (London, 1736). M.
Petrocchi, «Riv. Storica It.», 61, 142 (1949), è dell’avviso
che bisogna ravvisare l’avvio delle soluzioni deistiche nel
rispetto che hanno avuto molti missionari, specialmente i
gesuiti, per alcune religioni naturali (il che gli fa ricordare
la questione dei riti malabarici).

8. Sul Thiers e su Le Brun si vedano A. Van Gennep,


Folklore, 13 sgg. (Paris, 1924) e Manuel de folklore français
contemporain, 1, 6 sgg. (Paris, 1937-38). Sui precursori
inglesi si veda T. Davidson, Le folklore en Angleterre, «La
Tradition», 4, 5-8, 33-36 (1890).
Capitolo quarto

1. Esiste del Bayle tutta una vasta letteratura, la quale però


molto di rado ha messo in luce quanto debbono a lui gli
studi del folklore. Fra i saggi più interessanti si vedano L.
Lévy-Bruhl, Les tendences générales de Bayle et de
Fontenelle, «Revue d’Histoire de la Philosophie» (gennaio-
marzo 1927); H. E. Haxo, Pierre Bayle et Voltaire avant les
lettres philosophiques (pubblicazione della Modern
Languages Association of America, New York, 1931); e B.
Magnino, Lo scetticismo di P. Bayle, «Giornale critico della
filosofia italiana» (1941) (ripreso in parte nel libro della
stessa A., Alle origini della crisi contemporanea, Roma,
1946). Sull’atteggiamento che il Bayle ha assunto nei
rignardi dei popoli primitivi ha belle pagine il devolvè,
Essai sur P. B., religion, critique et philosophie positive,
395 sgg. (Paris, 1906). A titolo di curiosità si veda H.
Robinson, The Great Comet of 1860. An Episode in the
History of Rationalism (Northfield, 1916).

2. Sul concetto di superstizione come elemento di potere si


veda G. Cocchiara, Sul concetto di superstizione, 20 sgg.
(Palermo, 1945). L’argomento è trattato anche dal
Robinson, Bayle the Sceptic, 50 sgg. (London, 1931).
3-4. Al Fontenelle ha dedicato un lavoro dotto e vivace ma
unilaterale J.-R. Carré, La philosophie de Fontenelle (Paris,
1931) (dove è citata la vasta bibliografia dell’argomento).
La migliore ediz. critica dell’Histoire des Oracles è quella
di L. Maigron (Paris, 1908). Dell’Histoire abbiamo una
trad., di cui ci siamo avvalsi, a cura di G. Falco (Milano,
1947). Rimandi: L. Maigron, Fontenelle, l’homme, l’œuvre,
l’influence, 42, 287 (Paris, 1906); e P. Hazard, La crisi della
coscienza europea, trad. Serini, 175 (Torino, 1946).

5-7. Dobbiamo al Carré una recente edizione critica del De


l’origine des fables (Paris, 1932), troppo imbottita e irsuta
forse, ma quanto mai utile per i vasti riferimenti che
l’accompagnano. Il Carré nelle sue note si sforza di
dimostrare che le idee manifestate in questo saggio si
erano venute formando nel Fontenelle fin dal 1680. Il che
gli permette di considerare il Fontenelle come il primo
precursore del comparativismo, avendo egli così preceduto
il Bayle, il Tournemine ecc. Fatto è però che il
comparativismo aveva già avuto tutta una schiera di
anticipatoli (dal Léry al Vossio). Sulle fonti che hanno
portato il Fontenelle a darci un’interprelazione falsa del
mondo primitivo, convincenti le considerazioni del Carré
alle pp. 52-54. Rimandi: A. Lang, Myth, Ritual and Religion,
2, 321 sgg. (London, 1887).

8. È stato primo il Dilthey, in Gesammelte Schriften, 2 e 3


(Tübingen, 1921 e 1927), a dichiarare faible convenne
l’antistoricismo del «secolo dei lumi». Più cauti il Fueter,
Storia della storiografia moderna, trad. Spinelli, 2, 1 sgg.
(Napoli, 1944); e B. Croce, Teoria e storia della storiografia,
50 sgg. (Bari, 1925).
Capitolo quinto

1. Ai lavori citati nell’ultimo paragrafo si aggiunga: M.


Roustan, Les philosophes et la société française au XVIII e

siècle (Paris, 1911); e C. Seignobos, Essai d’une histoire


comparée des peuples d’Europe (Paris, 1925). Rimandi: E.
Cassirer, La filosofia dell’Illuminismo, trad. Pocar, 294 sgg.
(Firenze, 19452).

2. Per le Lettres Persanes vedi l’acuta introd. di E.


Carcassonne, nell’ed. critica da lui curata (Paris, 1929).
Nelle pp. XXXV-XXXVI il Carcassonne ricorda tutta una serie di
lettere che, per bocca di uno straniero, avevano già
tracciato un quadro dei costumi europei. Lo straniero a
volte era un selvaggio, ma spesso era un Turco, un Cinese,
un Indiano ecc.
3-4. Sull’Esprit des lois si veda soprattutto il lavoro di
Faguet, La politique comparée de Montesquieu, Rousseau
et Voltaire (Paris, 1902). Uno dei libri più suggestivi
dedicati al Montesquieu rimane però quello del Sorel,
Montesquieu (Paris, 1887). Vi è molto di più di quanto il
titolo non prometta in E. Carcassonne, Montesquieu et le
problème de la constitution française (Paris, 1927). È noto
come il Montesquieu costituisca un punto di riferimento
indispensabile per tutti coloro che si occupano dell’origine
del diritto o delle dottrine politiche. Si vedano comunque
per tutti: G. Solari, La scuola del diritto naturale nelle
dottrine etico-giuridiche dei secoli XVII e XVIII (Torino, 1904);
e G. Mosca, Storia delle dottrine politiche, 150 sgg. (Bari,
1942). Si aggiunga l’opera recente e tanto utile di L. M.
Leroy, Histoire des idées sociales en France. 1: De
Montesquieu à Robespierre (Paris, 1946). Rimandi: G.
Hervé, «Revue de l’Ecole d’Anthropologie», 337 (1907)
(riassunto da A. Van Gennep, La méthode ethnographique
en France au XVIIIe siècle, in Religions, Mœurs et Légen-
des, 5, 135-39 (Paris, 1914); e A. Gerbi, La politica del
Settecento, 150 (Bari, 1934).

5. È sempre utile per i nostri riferimenti ricorrere ancor


oggi all’opera di G. Desnoiresterres, Voltaire et la société
au XXVIII e siècle (Paris, 1867-76). Altre monografie di
rilievo: G. Lanson, Voltaire (Paris, 1906); e R. Aldington,
Voltaire (London, 1926). Rimandi: R. Craveri, Voltaire
politico dell’Illuminismo, 163 (Torino, 1936) (dove è citata
la più ampia bibliografia sul Voltaire, comprese le opere
generali sull’Illuminismo). Il passo cit. del Verri è tolto dal
contesto di un Commentariolo di un galantuomo di
malumore che ha ragione, sulla massima l’uomo è un
animale ragionevole, edito originariamente nel «Caffè» e
rip. negli Scritti vari, a cura di G. Carcano, 1, 100 sgg.
(Firenze, 1854).

6-7. Sulle tendenze etnografiche del Voltaire imprecise e


monche le notizie dell’Hervé, loc. cit., 225 sgg. Cenni: in E.
Fueter, Storia della storiografia moderna, trad. Spinelli, 2,
28 sgg. (Napoli, 1944); e in G. Cocchiara, Il mito del buon
selvaggio, 17 sgg. (Messina, 1948). Rimandi: A. Gerbi, op.
cit., 134 (dove a pp. 121 sgg. è un rapido quadro, di quel
che rappresentò l’Oriente per l’Illuminismo; da integrare,
soprattutto per il concetto che dell’Oriente aveva lo Hegel,
con l’opera di K. Löwith, Da Hegel a Nietzsche, 63 sgg.,
Torino, 1949).

8. Sul concetto dello spirito delle nazioni si veda per tutti il


bel libro di F. Meinecke, Cosmopolitismo e Stato nazionale,
trad. Oberdorfer (Firenze, 1930). Rimandi: (a proposito
della citaz. di Saint-Evremond) C. Antoni, La lotta contro la
ragione, 8 (Firenze, 1942); e B. Groethuysen, Origini dello
spirito borghese in Francia, trad. Forti, 52 (Torino, 1949).

PARTE SECONDA

Capitolo sesto

1-4. Nel Fueter, Storia della storiografia moderna, trad.


Spinelli (Napoli, 1944), manca un qualsiasi accenno
all’opera del Lafitau, alla quale invece ha dedicato la sua
attenzione il Meinecke, Die Entstehung des Historismus
(Ber-lin, 1936). Il M. mette soprattutto in rilievo
l’impressione suscitata in Europa dalle notizie del Lafitau
inerenti al mondo primitivo. Ma non è qui che va ricercata
la validità dell’opera del Lafitau, ampiamente illustrata da
Padre G. Schmidt, Semaine de l’Ethnologie religieuse
(Paris, 1913) (il quale però immobilizza il Lafitau in quella
che è la sua opinione più discutibile, e che cioè i selvaggi
sono ancor oggi quel che erano ieri); dal Bros, L’ethnologie
religieuse, 120 sgg. (Paris, 19382); dal Saintyves, Les
origines de la méthode comparative, et la naissance du
folklore, «Revue de l’Histoire des Religions», 57 sgg.
(1932); e dal Pinard de la Boullaye, L’étude comparée des
religions, 1, 182 sgg. (Paris, 1922). Rimandi: B. de Juvenel,
Il potere, trad. Serini, 7 (Milano, 1947); G. Van der Leuw,
La religion dans son essence et ses manifestations, trad.
Marty, 672 (Paris, 1948); e A. Van Gennep, Religions,
Mœurs et Légendes, 5, 130 sgg. (Paris, 1914).

5-7. La bibliografia vichiana è stata passata recentemente


in rassegna dal Croce e dal Nicolini nei due voll.
Bibliografia vichiana (Napoli, 1948). In essa sono anche
citati i contributi sull’apporto che il Vico ha dato tanto
all’etnologia quanto al folklore. Il lettore che vuole
approfondire questo contributo vichiano può comunque
vedere: B. Croce, La Filosofia di G. B. Vico (Bari, 1922); A.
Corsano, Umanesimo e religione in G. B. Vico (Bari, 1935);
E. Paci, Sylva ingens (Milano, 1949); e G. Villa, La filosofia
del mito secondo G. B. Vico (Milano, 1949). In quest’ultimo
lavoro (sul quale si vedano i rilievi di N. Badaloni,
«Società», 5, 561-62 (1949)), v’è un saggio, Il Problema
filosofico dell’arte popolare con particolare riferimento alla
Romania, 81-107, dove l’A. sulle orme dello Jorga, distingue
nettamente la poesia popolare dal folklore: il che è
un’opinione gratuita. Il Villa ritiene inoltre, ad esempio, che
l’arte popolare viva al di fuori della storia: il che significa
non avere un concetto né della storia né dell’arte. Rimandi:
M. Fubini, Stile e umanità di G. B. Vico, 203 sgg. (Bari,
1946) (rec. di R. Spongano, La prosa di Galileo e altri
scritti, 117 sgg., Messina, 1949) e F. Nicolini, La religiosità
di G. B. Vico, 170 sgg. (Bari, 1949).

8. Sull’ampio apporto dato agli studi delle tradizioni


popolari dal Muratori si veda G. Cocchiara, Storia degli
studi delle tradizioni popolari in Italia, 34-41 (Palermo,
1947). Si aggiunga: B. Brunello, Il pensiero politico del
Settecento, 100 sgg. (Milano, 1942); L. salvatorelli, Il
pensiero politico italiano dal 1700 al 1870, 90 sgg. (Torino,
19492); e G. Bonomo, Il contributo di L. A. Muratori allo
studio delle tradizioni popolari, in Miscellanea di studi
muratoriani (Modena, 1951).
Capitolo settimo

1-3. Manca uno studio completo che illustri e documenti


l’interesse del Rousseau tanto per l’etnologia quanto per il
folklore. Si vedano comunque su di lui i recenti lavori dello
Schinz, La Pensée de J.-J. Rousseau, 50 sgg. (Paris, 1929);
del Wrighter, The Meaning of Rousseau (Oxford, 1929). Sul
Rousseau etnologo: G. Cocchiara, Il mito del buon
selvaggio, 15 sgg. (Messina, 1948). Buone pagine, sempre
sullo stesso argomento, in G. Ferretti, L’uomo nell’infanzia
(Città di Castello, s. d.); L. Grosso, Leopardi, Stendhal e
Nietzsche, 151 sgg. (Napoli, 1933); e C. Dawson, Progresso
e Religione, trad. Foà (Milano, 1948). Per le fonti
etnografiche: A. Van Gennep, Religions, Mœurs et
Légendes, 5, 141-47 (Paris, 1914). Rimandi: E. Cassirer,
Das problem J.-J. Rousseau, «Arch. f. Gesch. der
Philosophie», 42 (1930); e O. Vossler, L’idea di Nazione dal
Rousseau al Ranke, trad. Federici Airoldi, 13-39 (Firenze,
1949).

4. Del Goguet traccia un brillante profilo il Van Gennep, op.


cit., 5, 154-156. R. Schmidt, L’anima dei primitivi, trad. it.,
12 (Roma, 1931), avvicina, e non senza ragione, il
Condorcet dell’Esquisse al Goguet. Il Sébillot, Le
Paganisme contemporain chez les peuples celto-latins, 50
(Paris, 1908), ebbe già ad osservare che gli enciclopedisti
non fecero entrare nel ciclo dello loro ricerche lo studio
delle superstizioni e della «mitologia rustica». Sul che si
veda anche A. Van Gennep, Manuel de folklore français
contemporain, 1, 12-13 (Paris, 1937-38). Un esame attento
rivela infondata l’osservazione del Sébillot. Si veda, ad
esempio, in proposito: F. Venturi, Le origini
dell’Enciclopedia, 103 sgg. (Firenze, 1946).

5. Ampia invece la bibl. su Charles de Brosses il cui nome è


ricordato in tutte le storie degli studi di religione. Si veda,
ad esempio, G. Schmidt, Manuale di storia comparata delle
religioni, trad. Bugatto, 85-91 (Brescia, 1934). Inesatta la
notizia del Bros, L’ethnologie religieuse, 149 (Paris, 19382),
il quale ritiene che il Brosses non conosca Lafitau.

6-8. Sul Boulanger si veda, per tutti, il bel libro di F.


Venturi, L’antichità svelata e l’idea del progresso in N. A.
Boulanger (Bari, 1947) (in particolar modo le pp. 124-140,
dove è ricordata tutta la bibl. dell’argomento). Si aggiunga
A. Van Gennep, op. cit., 5, 179-201. Ivi 3, 21-32, un saggio
sul Demounier. Rimandi: G. F. Finetti, Difesa dell’autorità
della Sacra Scrittura contro G. B. Vico, dissertazione del
1768, con intr. di B. Croce, 21 (Bari, 1936); e Lettere
inedite di B. Tanucci a F. Galiani, a cura di F. Nicolini,
«Arch. storico per le provincie napoletane», 30, 233 sgg.
Capitolo ottavo

1-3. Sul movimento preromantico in genere quale esso ci si


presenta soprattutto nei suoi caratteri letterari si vedano i
tre volumi di P. Van Tieghem, Le Préromantisme. Etudes
d’histoire litt. européenne (Paris, 1948). Da integrare con il
libro di H. A. Beers, A History of English Romanticism in
the Eigtheenth Century (London, 1926) (dove il lettore
troverà, fino a quell’anno, la più completa bibliografia
inerente all’Ossian e alle Reliques). Fra la vasta bibliografia
cui ha dato luogo l’opera del Macpherson fondamentali i
lavori di R. tombo, Ossian in Germany (New York, 1902); e
del Van Tieghem, Ossian en France (Paris, 1917) (dello
stesso A. si veda, però, l’importante saggio – ora incluso
con il titolo modificato nel cit. Préromantisme, 1, 197-277 –
Ossian et l’Ossianisme dans la littérature européenne au
XVIII e siècle (den Haag, 1920). Da consultare anche, ma con
molta cautela, A. Farinelli, Il romanticismo nel mondo
latino (Torino, 1927). Sull’influsso che l’Ossian ha
esercitato sulla poesia inglese, si veda inoltre il recente e
acuto saggio di J. Lindsay, The Modern Quarterly
Miscellany No. 1 (London, 1948). Per l’influsso che l’Ossian
esercitò in Italia, oltre il Marzot, Il gran Cesarotti (Firenze,
1949), si veda l’acuto volume di W. Binni, Preromanticismo
italiano, 40 sgg. (Napoli, 1948).

4. Le prime raccolte di poesia popolare fatte in Inghilterra


sono passate in rassegna dal Child, English and Scottish
Popular Ballads (Boston, 1882-98). Lavori critici, fra i più
importanti: S. B. Hustvedt, Ballad Criticism in Scandinavia
and Great Britain during the 18th Century (New York,
1916); E. B. Reed, Addison and the Old English Ballads,
«Modera Philology», 6, 186 sgg. (1908-09); e E. A. H.
Broadus, Addison’s Influence on the Development of
Interest in Folk-poetry of the 18th Century, «Modern
Philology», 8, 50 sgg. (1910). Per le raccolte di poesia
popolare spagmiola si veda invece, per tutti, A. Duran,
Romancero General, 1, p. LXVII (Madrid, 1849). Rimandi:
C. de Lollis, Saggi sulla forma poetica dell’Ottocento, a
cura di B. Croce, 52 (Torino, 1929).

5-8. Alle Reliques sono stati dedicati ampi studi. Fra i più
importanti: M. Willinski, Bishof Percy’s Bearbeitung des
Volksballaden und Kunstgedichte seines Folio-Manuscriptes
(Leipzig, 1932); e C. V. H. Marwell, Thomas Percy, Diss.
Gottingen (1934). Per maggiori dettagli si veda, però, la
ricca bibl. che in proposito ci da il Baldi, Studi sulla poesia
popolare d’Inghilterra e di Scozia (Roma, 1949). Rimandi:
S. Baldi, ibidem, 42-58, 67; e F. Meinecke, Senso storico e
significato della storia, trad. Mandalari, 158 (Napoli, 1948).
La frase del Wordsworth è tolta dalla appendice che segue
la prefazione delle Lyrical Ballads quali apparvero nella
seconda ediz. L’immagine della poesia popolare che viene
chiamata a rinsanguare e a rinfrescare la poesia senza
aggettivi è del De Sanctis, il quale nella sua Giovinezza
(cap. XXV) ha questa pagina quanto mai significativa:
«Parlai della poesia solenne e della poesia popolare.
Mostrai che il cammino delle forme poetiche è determinato
dalla civiltà, e si va sempre verso la maggiore libertà di
congegno e verso la maggiore popolarità. A quel modo che
la lingua, arricchendosi, va sempre più rompendo i suoi
nativi confini, e si va sempre più accostando alle forme
popolari del dialetto; a quello stesso modo la poesia
produce con più libertà nelle sue forme, e si rinfresca e si
rinsangua dell’immaginazione popolare».
Capitolo nono

1. Sull’azione mediatrice della Svizzera, oltre ai citati lavori


del Van Tieghem, si veda l’acuto saggio di F. Ernst, La
tradition médiatrice de la Suisse au XVIII e siècle et au XIX e

siècle, «Revue de Liner. Comp.», 6, 549-60 (1926). Su B. de


M.: F. Meinecke, Die Entstehung des Historismus, 1, 2 sgg.
(Berlin, 1936); e C. Antoni, La lotta contro la ragione, 7-12
(Firenze, 1942). La tesi che B. de M. ci abbia dato il primo
e famoso esempio di esegesi inerente al carattere dei
popoli è di M. Fubini, Stile e umanità di G. B. Vico, 171
(Bari, 1946).

2. Allo Haller ha dedicato un ampio saggio il Farinelli, A. v.


H., in L’opera di un maestro, 224-25 (Torino, 1920). Altre
notizie in C. Antoni, op. cit., 16-19 (dove si trova una ampia
bibliografia sull’argomento). Si aggiunga per il fascino che
le Alpi hanno esercitato sui poeti e sugli scrittori: J. Grand-
Carteret, La montagne à travers les âges (Grenoble, 1903-
04). Rimandi: P. Hazard, La crisi della coscienza europea,
trad. Serini, 438 (Torino, 1946).

3-5. Il Bodmer è noto da noi soprattutto come precursore


dell’estetica moderna. Si vedano, per tutti, B. Croce,
L’efficacia dell’estetica italiana sulle origini dell’estetica
tedesca, in Problemi di estetica, 374-93 (Bari, 19232), e La
poesia di Dante, 177 (Bari, 1929). Al Bodmer storico ha
dedicato di recente un buon saggio l’Antoni, op. cit., 19-33
(cui rimando per la bibl.). Altre notizie in R. Feller, Die
schweizerische Geschichtschreibung im 19. Jahrhundert,
mit Beiträgen von G. Zoppi e J. R. Salis (Ziirich, 1938) (dove
si trova anche un’ampia trattazione del Mallet). Cenni
vaghi in R. Weiss, Volkskunde der Schweiz, 395 (Zürich,
1946). Il Weiss considera come fondatore del folklore
svizzero R. Cysat (1545-1614).

6. La più recente monografia dedicata al Möser è quella di


P. Klassen, Justus Möser (Frankfurt a. M., 1936), recensita
in Italia dall’Antoni, Considerazioni su Hegel e Marx, 285
sgg. (Napoli, 1946). Allo stesso Klassen dobbiamo
un’accurata antologia degli scritti del Möser, Deutsche
Staatskunst und Nationalerziehung (Leipzig, 1939),
recensita da A. Omodeo, Il senso della storia, 464 sgg.
(Torino, 1949). Altre notizie in A. Gerbi, La politica del
romanticismo, 20 sgg. (Bari, 1932). Da integrare con C.
Antoni, op. cit., 64-97.

7. Sul Müller, oltre al Feller, op. cit. (che lo mette in


rapporto col Mallet e col Sismondi), si veda soprattutto E.
Fueter, Storia della storiografia moderna, trad. Spinelli, 2,
47 (Napoli, 1944). Il giudizio del De Sanctis sullo Schiller è
nei Saggi critici, e precisamente nel saggio dedicato a
Giambattista Niccolini.

8. Sulla distinzione fra popolo e nazione si veda, per tutti, J.


Meinecke, Cosmopolitismo e Stato nazionale, trad.
Oberdorfer, 1, 22 sgg. (Firenze, 1930). Sul «genio dei
popoli» si veda E. Restivo, Il genio dei popoli e il fattore
predominante nella loro storia (Trani, 1910).
Capitolo decimo

1. Esiste sullo Sturm und Drang una vasta letteratura che


nel 1923 è stata passata in rassegna da V. Santoli in
appendice alla sua traduzione di O. Walzel, Il Romanticismo
tedesco (Firenze, 1923). Si integri però con la bibliografia
più recente che ci da L. Bäte, J. G. Herder (Stuttgart,
1948). Dello Herder si vedano Sämtliche Werke, a cura di
B. Suphan (Berlin, 1877-1910, 32 Bd.). Opere principali
sullo Herder, di cui abbiamo tenuto conto: C. Joret, H. et la
Renaissance littéraire de l’Allemagne (Paris, 1875); K.
Stadelmann, Der historische Sinn bei Herder (Halle, 1928);
W. Kohlschmidt, Herder-Studien (Berlin, 1929); A. Gillies,
Herder und Ossian (Berlin, 1933). Riferimenti: F. Meinecke,
Senso storico e significato della storia, a cura di Mandalori,
60 (Napoli, 1948); e C. Antoni, La lotta contro la ragione,
152 (Firenze, 1942).

2. Sul primitivismo dello Herder si veda G. Cocchiara, Il


mito del buon selvaggio, 15 sgg. (Messina, 1948).
Riferimenti: A. Gerbi, La politica del romanticismo, 158
sgg. (Bari, 1932); F. Venturi, L’antichità svelata e l’idea del
progresso in N. A. Boulanger, 146 (Bari, 1947) (dove si
trova anche un acuto ragguaglio fra lo Herder e il
Boulanger). Sui rapporti fra Herder e Goethe si vedano,
oltre il lavoro dello stesso Goethe, Poesia e verità, in Opere,
a cura di L. Mazzucchetti, 1, 967-72 (Firenze, 1943); i
Colloqui con Goethe dello Eckermann, s. v. Herder. La
citata lettera del Goethe a Herder è in Goethe, Briefe, 2,
262 (ed. Weimar) (cit. in parte dal Cassirer, La filosofia
dell’Illuminismo, trad. Pocar, 187, Firenze, 19452).

3. Sullo Herder studioso della lingua si vedano B. Croce,


Estetica (Bari, 1941); e A. Pagliaro, Sommario di linguistica
ario-europea, 1, 35 sgg. (Roma, 1930). Sui rapporti fra
Herder e Vico si veda K. Vossler, Lingua e Nazione in Italia
e in Germania, 21 sgg. (Firenze, 1936). Il de Ruggiero nella
sua Storia della filosofia, parte IV: La filosofia moderna, 4:
L’età del Romanticismo, 83 (Bari, 1943), non esita ad
anteporre lo stesso Herder a Humboldt, che è dai più
considerato come il fondatore della linguistica moderna».
Di contro il lupi (in J. G. Hamann, Scritti e frammenti
d’estetica, intr., vers. e note, Firenze, 1938), rivendica tale
merito allo Hamann. Sta di fatto, però, che il problema sul
l’origine della lingua posto tanto dallo Herder quanto dallo
Hamann era un problema quanto mai vivo nella loro epoca.
Non si può negare tuttavia che lo Hamann l’abbia posto su
un piano diverso di quanto non abbiano fatto i suoi
predecessori, tanto è vero che egli fu il primo non solo a
classificare i linguaggi del mondo ma a ridurli ad alcune
classi fondamentali. Not. bibl.: si veda, per tutti, E.
Cassirer, Saggio sull’uomo, trad. Pavolini, 179 sgg. (Milano,
1949).

4-5. Sul concetto che lo Herder ebbe della poesia popolare


e sulle raccolte che precedono i suoi Volkslieder, si veda la
importantissima introduzione di E. Meyer in Herder,
Stimmen der Völker, a cura dello stesso Meyer (Stuttgart,
1887). Si aggiunga: B. Croce, La forma primitiva della
poesia secondo Hamann e Herder, in Conversazioni
critiche, 1, 53-58 (Bari, 19242). Dello stesso Croce (anche
per i riferimenti al Bürger) si veda pure Poesia popolare e
poesia d’arte, 14 sgg. (Bari, 1938). Sui rapporti fra Herder
e Wolf, si vedano le acute considerazioni di M. Bréal, Pour
mieux connaître Homère (Paris, 1906), e di P. Levy,
Geschichte des Begriffes Volkslied (Berlin, 1911). Da
integrare con B. Croce, Il Vico e la critica omerica, in
Saggio sullo Hegel, 263, 76 (Bari, 19273). Per altre notizie:
la prefazione di A. Galletti a G. Berchet, Lettera semiseria
di Grisostomo (Lanciano, 1913). Riferimenti: E. Cassirer,
Philosophie der symbolischen Formen, 1: Die Sprache, 123
sgg. (Berlin, 1923).

6-7. Sul concetto che lo Herder ha intorno alla tradizione,


intesa questa in senso religioso, si veda, per tutti, G. Van
der Leeuw, La religion dans son essence et ses
manifestations, trad. Marty, 676 sgg. (Paris, 1948). Sulla
metamorfosi herderiana ha ottime pagine C. Antoni, op.
cit., 171 sgg. Sui rapporti fra nazione e umanità quali
furono intesi dallo Herder si veda A. Farinelli, Herder e il
concetto della razza nella storia dello spirito, in Franche
parole alla mia nazione (Torino, 1949). Sulla missione del
popolo tedesco: R. Mondolfo, Il primo assertore della
missione germanica, «Riv. d. nazioni latine» (giugno 1918).
Da integrare con H. O. Ziegler, Die Moderne Nation, 50
sgg. (Tübingen, 1931); e P. Viereck, Dai romantici a Hitler,
trad. Astrologo e Pintor, 67 sgg. (Torino, 1948). Il Viereck è
convinto che senza lo Herder «il culto nazista e wagneriano
del popolo organico e istintivo non avrebbe potuto
esistere», ma aggiunge che «nella Germania di Hitler lo
Herder sarebbe stato imprigionato come un pacifista e un
internazionalista» (p. 69). Il fatto è che questi rapporti sono
sempre vaghi e superficiali in quanto non tengono conto di
un principio: cioè che gli ideali di un’epoca possono
degenerare in un’altra. Si vedano in, proposito le
considerazioni di G. Barbagallo, Come si generò il nazismo,
«Nuova Rivista Storica», 2 sgg. (1944-1945). Riferimenti: la
Romantische Schule di H. Heyne fu pubblicata nel 1836;
trad. it., 41 sgg. (Roma, 1927). Su Christian Heyne si veda,
per tutti, A. Bernardini e G. Righi, Il concetto di filologia e
di cultura classica nel pensiero moderno, 233 sgg. (Bari,
1947). È noto per altro che fin dal 1765 lo Heyne, in De
studii historici ad omnes disciplinas utilitate, necessitate ac
praestantia, ammoniva che una disciplina, la quale viva
appartata non può essere illuminata da quella luce né vista
in quelle feconde attinenze che le vengono dall’affinità con
le altre. Sui rapporti fra Herder e Lessing si veda N.
Černyševskij, Lessing nella storia del popolo tedesco,
«Società», 4, 40 (1948).

8. Sui rapporti fra la Rivoluzione francese e il nuovo


atteggiamento che la borghesia assume nei riguardi del
folklore, si vedano i lavori del Mathiez, Les origines des
cultes révolutionnaires (Paris, 1904); del Tiersot, Les fétes
et les chants de la Révolution française (Paris, 1904); e del
Dror, L’Allemagne et la Révolution française (Paris, 1944).
Rimandi: B. Groethuysen, Origini dello spirito borghese in
Francia, 1: La Chiesa e la borghesia, trad. Forti, 47 (Torino,
1949).

PARTE TERZA

Capitolo undicesimo

1. Una vasta bibliografia sul Romanticismo tedesco è in A.


Farinelli, Il Romanticismo in Germania, 93-185 (Bari,
19232). Fondamentale la bibliografia del Santoli in
appendice alla trad. di O. Walzel, Il Romanticismo tedesco
(Firenze, 1923). Le più recenti pubblicazioni in materia
(Spirito, Vinciguerra, Croce ecc.) sono passate in rassegna
da G. de Ruggiero, Storia della filosofia, parte IV: La
filosofia moderna, 4: L’età del Romanticismo, 413-36 (Bari,
1933). Da integrare con le numerose e aggiornate notizie
bibliografiche che ci dà il Viereck, Dai romantici a Hitler,
trad. Astrologo e Pintor, 34 nota 1, 56 (Torino, 1948).
Rimandi: H. Heine, Die Romantische Schule, 52 (Roma,
1927); E. Cassirer, Il mito dello Stato, trad. Pellizzi, 270-73
(Milano, 1950).

2. Sul Novalis bibl. cit. in Walzel-Santoli, 203. Monografie:


E. Spenlé, Novalis. Essai sur l’idéalisme romantique en
Allemagne (Paris, 1904); e H. Simon, Der magische
Idealismus (Heidelberg, 1906). Sui rapporti fra il Novalis,
lo Schleiermacher e il Wackenroder, fondamentali le pagine
del Dilthey, Das Erlebnis u. d. Dichtung, 120 sgg. (Leipzig,
19203). Altre notizie in S. Lupi, Il Romanticismo tedesco
(Firenze, 1936); e in A. Van Tieghem, L’ère romantique.
L’influence romantique sur les littératures européennes
(Paris, 1948). Rimandi: F. Meinecke, Cosmopolitismo e
Stato nazionale, trad. Oberdorfer, 1, 49 sgg. (Firenze,
1930).

3. Sul Tieck si vedano B. Steiner, L. T. und die Volksbücher


(Berlin, 1893); e W. Steinert, L. T. und das Farben
empfinden der romantischen Dichtung (Dortmund, 1910).
Sui rapporti fra Wackenroder e Tieck si veda L. Mittner,
Wackenroder e Tieck (Venezia, 1942). Sugli influssi
esercitati sul T. dal Bohme e dei drammaturghi spagnuoli,
si vedano E. Edertheimer, J. Böhme und die Romantiker
(Heidelberg, 1904); e soprattutto E. Tonnelat, Les frères
Grimm, 23 sgg. (Paris, 1923). Rimandi: O. Walzel, op. cit.,
137-53.

4. È noto che le opere della maturità di F. Schlegel non


hanno più l’interesse di quelle giovanili. Si veda a
proposito, ma con cautela, G. de Ruggiero, op. cit., 494-
502. Altre notizie per gli interessi folkloristici di F. Schlegel
in F. Tonnelat, op. cit., s. v. Le citazioni da noi riportate
sono state prese da F. Schlegel, Frammenti critici e scritti
di estetica, introd. e versione di V. Santoli (Firenze, 1937).
Dello stesso Santoli, Filologia, storia e filosofia nel pensiero
di F. Schlegel, «Civiltà moderna», 2, 18 sgg. (1930). Si
vedano pure in proposito G. Pasquali, Filologia e storia
(Firenze, 1920); e A. Bernardini e G. Righi, Il concetto di
filologia e di cultura classica nel pensiero moderno, 234
sgg. (Bari, 1947). Rimandi: O. Walzel, op. cit., 128.

5. Delle Vorlesungen über schöne Literatur und Kunst


abbiamo una ottima ediz. a cura del Minor (Heilbronn,
1884) (in 3, 18, l’elogio alla poesia popolare). Sul
contributo che G. A. Schlegel ha dato agli studi del folklore
si veda E. Tonnelat, op. cit., 34-35.

6. Sull’atteggiamento dei romantici per il mondo classico


ha una pagina brillantissima G. Berchet, Lettera semiseria,
a cura di A. Galletti, 30 sgg. (Lanciano, 1913).
Fondamentale: W. Jaeger nella Einführung della sua rivista
«Die Antike», 1, (1925). Rimandi: H. Heine, op. cit., 91 sgg.

7. Sull’orientalismo dei primi romantici si veda, per tutti, P.


T. Haffmann, Der indische und deutsche Geist von Herder
bis zur Romantischer, 50 sgg. (Tübingen, 1915). Altre
notizie, soprattutto per gli studi mitologici, in A. Pinard de
la Boullaye, L’étude comparée des religions, 1, 260 (Paris,
1922) (dove è cit. la nota bibl. dell’argomento). Per gli studi
linguistici si vedano A. Pagliaro, Sommario di linguistica
aria-europea, 1 sgg. (Roma, 1930); G. Nencioni, Idea lismo
nella scienza del linguaggio, 108 sgg. (Firenze, 1946); B.
Terracini, Guida allo studio della linguistica storica, 1:
Profilo storico-critico, 14 sgg. (Roma, 1949).

8. Il problema dei rapporti fra romanticismo e


germanesimo è stato affrontato da G. A. Borgese, Italia e
Germania (Milano, 19292); da G. Manacorda, La selva e il
tempo (Firenze, 19332); e soprattutto da L. Mittner,
Romanticismo e germanesimo (Venezia, 1946). Sul
patriottismo dei primi romantici si vedano F. Meinecke, op.
cit., 50 sgg., e con prudenza, P. Viereck, op. cit., 56 sgg. Sul
concetto di romantico-medievale e sull’evoluzione della
parola «romantico» in genere si veda M. Praz, La carne, la
morte e il diavolo, 12 sgg. (Torino, 19422).
Capitolo dodicesimo

1. Il trapasso dal cosmopolitismo al nazionalismo nel


periodo romantico è stato ampiamente delineato dal
Meinecke, Cosmopolitismo e Stato nazionale, trad.
Oberdorfer, 1, 79-263 (Firenze, 1930). Molte conclusioni
del Meinecke sono state respinte dal binder, La fondazione
della filosofia del diritto, trad. Giolitti, 51-52 (Torino, 1934).
Altre indicazioni in G. de Ruggiero, Storia del liberalismo
europeo, 223-42 (Bari, 19452) (dove nelle pp. 487-88 è cit.
una vasta bibl. sull’argomento); in O. Vossler, L’idea di
Nazione dal Rousseau al Ranke, trad. Federici-Airoldi, 70
sgg. (Firenze, 1949); e in B. Russell, Storia delle idee del
secolo XIX, trad. Maturi-Egidi, 397 sgg. (Torino, 1950).

2-3. Fondamentale: R. Steig, Achim von Arnini und Clemens


Brentano (Stuttgart, 1894). Sul Des Knaben si vedano: H.
Lohre, Von Percy zum Wunderhorn (Berlin, 1902); F. Riese,
Des Knaben Wunderhorn und seine Quellen (Dortmund,
1908); K. Bode, Die Bearbeitung der Vorlagen in Des
Knaben Wunderhorn (Berlin, 1909); H. Schewe, Neue Wege
zu den Quellen des Wunderhorns, «Jahrbuch für
Volksliedforschung», 3, 120-30 (1932); e I. Maione, Profili
della Germania romantica, 100 sgg. (Padova, 1939).
Rimandi: Tieck, Novalis, Brentano, Fiabe romantiche, a
cura di I. Maione (Torino, 1945) (dove, p. IX, è il giudizio
sui Märchen del Brentano) e L. Vincenti, I Brentano, 121
sgg. (Torino, 1932). Altri rimandi: F. Tonnelat, Les frères
Grimm, 90 (Paris, 1923); e H. Heine, Die romantische
Schule, 164 (Roma, 1927). L’avviso dell’Arnim è in R. Steig,
op. cit., 224 sgg.

4. Sul Görres si veda l’ottima monografia di F. Schultz, Jos.


Görres als Herausgeber, Literarhistoriker, Kritiker, im
Zusammenhange mit der jüngerem Romantik (Berlin,
1902). Altre preziose indicazioni in F. Tonnelat, op. cit., s. v.

5. Vastissima la bibl. cui ha dato luogo il credo di Babbo


Jahn (che i nazisti hanno rimesso a nuovo e rispolverato,
sappiamo bene con quali conse guenze). Di essa da un
ampio ragguaglio il Viereck, Dai romantici a Hitler, trad.
Astrologo e Pintor, 79-104 (Torino, 1948). È interessante
vedere come le idee dello Jahn furono poi riprese dallo
hauer, Deutsche Gottschau (Stuttgart, 1934). Ma su ciò si
veda E. De Martino, Intorno a una storia del mondo
popolare subalterno, «Società», 5, 417-18 (1949). Rimandi:
H. von Treitschke, Deutsche Geschichte im 19.
Jahrhundert, 3, 7 (Berlin, 1886-95); e A. Spamer, Usi e
credenze popolari, «Lares», 10, 289-90 (1939).

6-7. Fondamentale, per i precedenti della scuola storica, il


lavoro del lands-berg, Geschichte der deutschen
Rechtswissenschaft (Berlin, 1910). Monografie di notevole
interesse: S. Ennecerus, Fr. K. von Savigny und die
Richtung der neueren Rechtswissenschaft (Marburg,
1879); e A. Stoll, Fr. K. von Savignys sächsische
Studienreise 1799 und 1800 (Cassel, 1890). Per la bibl. it.,
anch’essa vastissima, si veda B. Brugi, Introduzione
enciclopedica alle scienze giuridiche e sociali nel sistema
della giurisprudenza, 55 sgg. (Milano, 19074); e G. del
Vecchio, Lezioni di filosofia del diritto, 101 sgg. (Milano,
19465). Sul valore del diritto popolare si veda il recente
libro di E. Sauer, Grundlehre des Völker-rechts (Köln,
19482). Sul valore della consuetudine come fatto normativo
(cui si appella la nostra legislazione) si veda per tutti: N.
Bobbio, La consuetudine come fatto normativo (Padova,
1942). Rimandi: G. Sorel, Les illusions du progrès, 33 sgg.,
(Paris, 1908); R. Jhering, La lotta per il diritto, trad.
Mariano, 24 sgg. (Bari, 1935); e F. Meinecke, op. cit., 265.

8. Sul concetto di Volksgeist si veda per tutti la chiara


monografia di V. Fazio-Allmayer, Il concetto di «Missione
dei popoli» nell’interprelazione filosofica della storia, «G.
critico d. filosofia italiana», 22, 121-29 (1941). Rimandi: M.
Mila, Breve storia della musica, 187 (Milano, 1948) (lavoro
questo dove i rapporti fra musica e folklore sono studiati
con sensibilità e senza pregiudizi).
Capitolo tredicesimo

1-2. Sull’opera dei Grimm esistono diverse monografie.


Ricordiamo: W. Scherer, Jacob Grimm (Berlin, 18852); A.
Duncker, Die Brüder Grimm (Kassel, 1884), e soprattutto F.
Tonnelat, Les frères Grimm (Paris, 1923) (opera,
quest’ultima, limitata all’esame dell’opera giovanile dei due
fratelli). Opere di carattere generale: si veda, in particolar
modo, H. Paul, Grundriss der Germanischen Philologie, 1,
56 sgg. (Strassburg, 1891). Per il concetto che i Grimm
ebbero della poesia popolare, giudizi e notizie in P. Levy,
Geschichte des Begriffes Volkslied, 97 sgg. (Berlin, 1911); e
in J. Meyer, L’organizzazione degli studi sul canto popolare
tedesco, «Lares», 10, 307 sgg. (1939) (e la bibl. ivi citata).
Per il concetto, invece, che ebbero sull’epopea si veda J.
Bédier, Les légendes épiques, 3, 217 sgg. (Paris, 1921). Sui
rapporti fra i Grimm e l’Arnim si veda R. Steig, Achim von
Arnim und J. und W. Grimm (Stuttgart, 1904). Sui rapporti
fra i Grimm e G. A. Schlegel si veda F. Tonnelat, op. cit.,
233 sgg. Sul concetto del Croce inerente alla poesia
popolare, da lui espresso nel vol. Poesia popolare e poesia
d’arte (Bari, 1927), si veda G. Cocchiara, Il linguaggio della
poesia popolare, 7-20 (Palermo, 19512).

3-5. L’edizione più recente dei Kinder- und Hausmärchen è


stata curata nel 1936 da Otto Ubbelohde. In Italia: trad.
integrale (dei primi due volumi) a cura di Giara Bovero
(Torino, 1951). Monografie notevoli: R. Steig, Zur
Entstehungsgeschichte der Märchen und Sagen der Brüder
Grimm, «Arch. f. das Studium der neueren Sprachen», 107,
277 sgg. Dello stesso: Zu Grimms Märchen, ibidem, 118, 17
sgg. Altre notizie e giudizi in F. Tonnelat, Les contes des
frères Grimm; études sur la composition et le style du
recueil des Kinder- und Hausmärchen (Paris, 1912); in I.
Lefftz, Märchen der Brüder Grimm (Heidelberg, 1927); e in
S. Thomson, The Folktale, 367 sgg. (New York, 1946) (dove
è ricordata la più recente bibl. dell’argomento). La lista dei
riscontri iniziata da W. Grimm è stata continuata, con
risultati eccellenti, da J. Bolte e G. Polivka, Anmerkungen
zu den Kinder-Hausmärchen der Brüder Grimm (5 Bd.,
Leipzig, 1913-32). Si aggiunga: L. Mackensen,
Handworterbuch des deutschen Märchens unter
besonderer Mitwirkung von J. Bolte (Leipzig, 1930-36).
Rimandi: L. Mackensen, Gli studi sul patrimonio narrativo,
«Lares», 10, 364 (1939) (utilissimo anche per la bibliografia
citata). Sulle saghe si veda S. Aschner, Die deutschen
Sagen der Brüder Grimm (Berlin, 1909),

6. Sull’apporto dato da J. Grimm allo studio del diritto si


vedano H. Hübner, J. Grimm und das deutsche Recht
(Göttingen, 1895); e E. Landsberg, Geschichte der
deutschen Rechtswissenschaft (Berlin, 1910). Per i suoi
studi di mitologia si veda: F. Strich, Die Mythologie in der
deutschen Literatur von Klopstock bis Wagner (Halle,
1910).

7. Sulla teoria di J. Grimm inerente alla lingua e dei suoi


rapporti col Bopp e il Rask, si veda per tutti il lavoro di B.
Terracini, Guida allo studio della linguistica storica, 1:
Profilo storico-critico, 71-72 (Roma, 1949). La teoria indo-
europeista che servì di base anche allo studio della
novellistica, è illustrata, con ricchezza di particolari, da J.
W. Spargo, Linguistic Science in the Nineteenth Century
(Cambridge, Mass., 1931). Altre notizie e giudizi in
Pagliaro, Sommario di linguistica ario-europea, 1, s. v.
Bopp, Grimm ecc. (Roma, 1930).

8. Sul patriottismo dei Grimm si vedano i volumi citati nelle


bibl. del § 1. Si veda, pure, il penetrante saggio di J.
Huizinga, Sviluppo e forme della coscienza nazionale in
Europa sino alla fine del secolo decimonono, in Civiltà e
storia, trad. Chiaruttini, 255-56 (Modena, 1946) (dove è
esaminato il discorso di J. Grimm, De desiderio patriae).
Rimandi: B. Terracini, op. cit., 1, 72.
Capitolo quattordicesimo

1. Sul cosiddetto periodo etico del Romanticismo è molto


utile confrontare D. Busk, Mythology and the Romantic
Tradition in English Poetry (Oxford, 1926); e B. I. Evans,
Tradition and Romanticism in English Poetry from
Chaucher to Yeats (London, 1940). Rimandi: C. Caudwell,
Illusione e realtà, trad. Puccini, 119 sgg. (Torino, 1950).

2. Sullo Scott folklorista si veda A. Lang, Sir Walter Scott


and the Border Minstrelsy (London, 1910). Sulla validità
delle sue antiquitates: B. Croce, Poesia e non poesia, 59-70
(Bari, 1916). Sullo Scott storico: E. Fueter, Storia della
storiografia moderna, trad. Spinelli, 2, 131 sgg. (Napoli,
1944) (di cui però non condivido l’idea che il primo a
formulare la teoria locale sia stato lo Chateaubriand e che
lo Scott abbia sviluppato sistematicamente le suggestioni
del romantico francese). Rimandi: J. G. Lockhart, Memoirs
of the Life of Sir W. Scott, 1, 50 sgg. (London, 1837-38).
3. Sul preromanticismo francese note e notizie
bibliografiche in G. Cocchiara, Il mito del buon selvaggio,
20 sgg. (Messina, 1948). Si aggiunga: A. Pizzorusso,
Senancour (Messina, 1950). Sarà utile consultare, sia pure
a scopo polemico, L. Reynaud, Le Romantisme. Les origines
anglo-germaniques (Paris, 1929), che considera il
Romanticismo francese addirittura come un’infezione. Sugli
inizi del folklore francese si veda il saggio di H. Tronchon,
Quelques notes sur le premier mouvement folkloriste en
France, Mélanges Baldensperger No. 2, 296 sgg. (Paris,
1930). Ma soprattutto: A. Van Gennep, Manuel de folklore
français contemporain, 1, 32 sgg. (Paris, 1937-38) (in 3, 12
sgg. è riprodotto il questionario Dulaure-Mangourit). Nel
Recueil Centenaire Soc. nationale Antiquaires France,
1804-1904, vi è un notevole articolo del Gaidoz, De
l’influence de l’Académie celtique sur les études de
folklore, dove è segnalato l’influsso che le ricerche
dell’Accademia ebbero su J. Grimm quando si recò a Parigi
nel 1804. Altre notizie in M.-J. Durry, L’Académie celtique et
la chanson populaire, «Revue de Littérature Comparée», 9,
62-73 (1929). Sui vari contributi pubblicati nelle varie
annate dei «Mémoires de l’Académie Celtique» (poi «Mém.
Soc. Antiquaires France») si veda A. Van Gennep, op. cit.,
3, 4, s. v. Bourquelot, Maury ecc.
4. Note e giudizi su Fauriel in J. Bédier, Les légendes
épiques, 3, 201 sgg. (Paris, 1912).

5. Sul La Villemarqué si veda F. M. Luzel, De l’authenticité


des chants du Barzaz Breiz (Paris, 1872). Utilissimo perché
ricerca i canti, le melodie, le usanze popolari ecc., quali si
ritrovano nei romanzieri e poeti francesi: J. Tiersot, La
Chanson populaire et les écrivains romantiques (Paris,
1931). Da integrare con J. Marsan, La bataille romantique,
II sèrie, 125 sgg. (Paris, s. a.). Sulla storiografia romantica
francese si veda, per tutti, il Fueter, op. cit., sotto le voci
corrispondenti. Riferimenti: G. de Nerval, Les vieilles
ballades françaises, «La Sylphide», 6 (1842), rist. a cura di
A. Loquin sotto il titolo: Chansons et ballades populaires du
Valois (Paris, 1885).

6-7. Sul Berchet e sul Tommaseo notizie e giudizi in G.


Cocchiara, Storia degli studi delle tradizioni popolari in
Italia, s. v. (Palermo, 1947). Riferimenti: U. Bosco,
Preromanticismo e romanticismo, in Questioni e correnti di
storia letteraria, 597-657 (Milano, 1949); B. Croce, Poesia
popolare e poesia d’arte, 27 (Bari, 1938).
Sull’atteggiamento del Manzoni nei riguardi degli umili si
veda anche A. Gramsci, Letteratura e vita nazionale, 72
sgg. (Torino, 1951).
8. Si veda, per tutti, il saggio di C. Morandi, L’idea
dell’unità politica d’Europa nel XIX e XX secolo (Milano,
1948), dove è ampiamente citata la bibl. dell’argomento,
cui si aggiunga B. Russell, Storia delle idee del secolo XIX,

trad. Maturi-Egidi, 393-423 (Torino, 1950). Sfugge


completamente al Morandi e al Russell il valore che ha
assunto per la formazione della coscienza nazionale il mito
della poesia popolare. Il che non può dirsi del Croce, Storia
d’Europa nel secolo decimonono, 134 sgg. (Bari, 1932).
Capitolo quindicesimo

1. Sulla partecipazione della Russia alla compagine


europea si vedano le belle pagine di C. Morandi, L’idea
dell’unità politica d’Europa nel XIX e XX secolo, 42 sgg.
(Milano, 1948); e F. Chabod, L’idea di Europa, «La
Rassegna d’Italia» 4, 28 sgg. (1947). Le Lettere filosofiche
del Čaadaev sono state recentemente tradotte da A.
Tomborra (Bari, 1950), precedute da una introduzione dello
stesso traduttore. Bibl.: 79-80. Rimandi: A. Gramsci,
Letteratura e vita nazionale, 105 (Torino, 1951).

2-3. Sui primi folkloristi russi e sugli autori russi che si


sono ispirati al folklore si veda l’interessantissima opera di
A. Pypin, Istorija russkoj etnografii (4 T., Petersburg, 1890-
91). Notizie bibl. più aggiornate in J. M. Sokolov, Russian
Folklore, 20-21, 30-31 (New York, 1950). Da integrare con
D. Zelenin, Russische Volkskunde, 15-50 (Berlin, 1927), e
per la parte letteraria con E. Lo Gatto, Storia della
letteratura russa, 1, 44 sgg. (Firenze, 19443). Rimandi: M.
Mila, Breve storia della musica, 264 (Milano, 1948).

4. Sul panslavismo dei Cechi si vedano, per tutti, L.


Dumont-Wilden, L’évolution de l’esprit européen, 101-04
(Paris, 1937); e W. Giusti, Due secoli di pensiero politico
russo (Firenze, 1943) (specialmente per quanto riguarda il
Pèstel). Per il folklore: J. Horach, Les études
ethnographiques en Tchécoslovaquie, «Revue des Études
Slaves», 1 (1921). Per inquadrare il movimento folkloristico
polacco è utile: G. Maver, Alle fonti del romanticismo
polacco (Roma, 1928). Altre notizie in M. de Smircrodki, Le
folklore en Pologne, «La Tradition», 3, 265 sgg. (1889); ma
soprattutto in A. Ficher, Etnografia slowiánska (Lwow,
1934). Su Chopin si consulti, per tutti, M. Mila, op. cit., 202
sgg.

5. Sulla poesia popolare serbo-croata si vedano,


particolarmente M. Murko, La poésie populaire épique en
Yougoslavie au début du XXe siècle (Paris, 1929); e A.
Cronia, Poesia popolare serbo-croata (Padova, 1949) (dove
è ricordata l’ampia bibliografia inerente al Karadžić). Sullo
Alexandri si veda O. Densusianu, Il folklore come deve
intendersi, trad. dal rumeno e saggio introduttivo di I.
Onciulescu, «Folklore», 3, nn. 3-4, 6 dell’estratto (Napoli,
1949).

6. Sui primi folkloristi finlandesi si veda K. Krohn, Histoire


du traditionnisme en Finlande, «La Tradition», 4, 45-49, 72-
73, 103-07 (1890). In Italia il Kalevala fu tradotto da P. E.
Pavolini (Palermo, 1909). Avremo agio di ricordare gli studi
dedicati a questo poema. Da notare la messa a punto che a
proposito della trad. del Pavolini fece G. A. Borgese, La Vita
e il libro, serie Il, 175-178 (Bologna, 1928).

7. Sull’antica poesia e mitologia dei paesi scandinavi si


veda P. van Tiechem. Le Préromantisme. Etudes d’histoire
litt. européenne, 1, 77-193 (Paris, 1948). Sui primi
folkloristi dei paesi scandinavi si veda l’ottimo lavoro del
Paul, Grundriss der germanischen Philologie, 2
(Strassburg, 1893); e in particolar modo H. Schuck,
Histoire de la littérature suédoise (Paris, 1923). Rimandi:
W. P. Ker, cit. da V. Santoli, I canti popolari italiani, 40
(Firenze, 1940) (dove pure a pag. 84 è un giudizio sul
Grundtvig).

8. Sul panslavismo si vedano i lavori citati nel § 4. Rimandi:


la lettera di Renan è riportata in L. Dumont-Wilden, op. cit.,
102.

PARTE QUARTA

Capitolo sedicesimo

1. La più ricca bibliografia del Müller e sul Müller è in H.


Pinard de la Boullaye, L’étude comparée des religions, 1,
341-50 (Paris, 1922). Si aggiungano per altre notizie i
seguenti lavori: L. Garello, La morte di Fan (Torino, 1908);
L. Salvatorelli, Introduzione bibliografica alla scienza delle
religioni (Roma, 1914); e M. Eliade, Traité d’histoire des
religions, s. v. (Paris, 1948).

2. Sul problema degli ariani si veda, oltre il Pinard de la


Boullaye, op. cit., 1, 342, 352, il recente volume di G.
Poisson, Les Aryens (Paris, 1934) (dove è citata la vasta
bibliografia dell’argomento). Al Gobineau e al suo recente e
nefasto influsso hanno dedicato di recente notevoli pagine
il Cassirer, Il mito dello Stato, trad. Pellizzi, 327 sgg.
(Milano, 1950); e P. Viereck, Dai romantici a Hitler, trad.
Astrologo e Pintor, 108 sgg. (Torino, 1948).

3-4. Sulla interpretazione meteorologica del mito e sugli


influssi che sul Müller esercitarono i suoi predecessori si
vedano, per tutti, il vecchio ma pur sempre utile lavoro del
Sayce, The Principles of Comparative Philology (Lon-don,
1875); e R. Pettazzoni, Nozioni di mitologia (Roma, 1949).
Altre notizie in L. Spence, An Introduction to Mythology
(London, 1921); e in A. K. Krappe, La genèse des mythes, s.
v. (Paris, 1938). Riferimenti: E. Cassirer, op. cit., 44.

5. Sul posto che al Müller spetta nella storia delle religioni


si veda R. Pettazzoni, Svolgimento e carattere della storia
delle religioni (Bari, 1934). Altre notizie in J. Reville, Les
phases successives de l’histoire des religions, s. v. (Paris,
1909); A. Bros, L’ethnologie religieuse, 48 sgg. (Paris,
19382); e G. Schmidt, Manuale di storia comparata delle
religioni, trad. Bugatto, 59-65 (Brescia, 1934).

6. In Inghilterra i più operosi seguaci del Müller furono: G.


W. Cox, S. Baring-Gould. In Germania: W. Schwartz, W. H.
Roescher, E. H. Meyer. In Italia, oltre il De Gubernatis, S.
Prato e G. Ferrare. In Francia: M. Bréal, Ch. Ploix, H.
D’Arbois de Joubainville. In Russia: A. N. Afanasev, O. F.
Miller, A. A. Kotljarevskij. Per la bibl. e per altre notizie si
vedano: W. A. Clouston, Popular Tales and Fictions, I
(Edinburgh, 1887); J. Bédier, Les Fabliaux, 23-30 (Paris,
1893); A. Van Gennep, Manuel de folklore français
contemporain, 4, 656-58 (Paris, 1937-38); G. Cocchiara,
Storia degli studi delle tradizioni popolari in Italia, 167-83
(Palermo, 1947); e J. M. Sokolov, Russian folklore, 56-75
(New York, 1950).
7. Sulle varie critiche dedicate al Müller si veda il bel
saggio di P. Ehrenreich, Die allgemeine Mythologie
(Leipzig, 1910). Altre notizie, anche per il ritorno di certi
atteggiamenti mulleriani, in R. Grossens, Notes de
mythologie indo-européenne, «La nouvelle Clio», 1, 1-22
(Bruxelles, 1949). Sulle satire contro il Depuis e il Müller si
veda J. Gaidoz, Comme quoi M. Müller n’a jamais existé,
«Mélusine», 2, col. 73 sgg. (1884-85). Dello stesso A.,
Comme quoi Napoléon n’a jamais existé, ibidem, col. 145
sgg. Riferimenti: G. Dumézil, Le festin d’immortalité, 5
(Paris, 1892); M. W. De Visser, De Graecorum diis non
referentibus speciem humanam, 22 sgg. (Lugduni
Batavorum, 1900); M. Kerbaker, Savìtri ed Alcesti, «G. Nap.
di Filosofia e Lettere», 1, 1 sgg. (1871); J. M. Sokolov, op.
cit., 50; B. Terracini, Guida allo studio della linguistica
storica, 1: Profilo storico-critico, 77 (Roma, 1949).

8. Sui rapporti fra il Müller e il Pitrè si veda G. Cocchiara,


Pitrè, la Sicilia e il folklore, 70-74 (Messina, 1951).
Riferimenti: R. Pettazzoni, Svolgimento e carattere cit., 12-
13.
Capitolo diciassettesimo

1-4. Sui rapporti fra il Benfey e il Müller si veda il saggio


dello stesso Müller sulla migrazione delle favole, pubblicato
per la prima volta nella «Contemporary Review» del luglio
1870. Sulla teoria orientalista si vedano, anche per i
numerosi richiami bibliografici ivi contenuti, i lavori del
Bédier, Les Fabliaux, 40-44 (Paris, 1893); di A. H. Krappe,
The Science of Folklore, 10 sgg. (London, 1930); e S.
Thomson, The Folktale, 376 sgg. (New York, 1946). Sulle
grandi raccolte orientali – è noto che il Panciatantra in
Italia fu tradotto dal Pizzi (Torino, 1896) – da un ragguaglio
rapido ma preciso S. Battaglia, Contributi alla storia della
novellistica (Napoli, 1947). Rimandi: V. Keller, Über die
Geschichte der Griechen Fabeln, 333 (Leipzig, 1870); e F.
Ribezzo, Nuovi studi sulla origine e sulla propagazione
delle favole indo-elleniche, 10-20 (Napoli, 1901) (dove sono
discusse le teorie del Benfey e dei suoi avversari).

5. Gli innumerevoli saggi del Köhler nei quali egli


dimostrava di conoscere davvero l’intero patrimonio
novellistico europeo sono stati adunati da un suo fedele
discepolo, J. Bolte, e pubblicati con il titolo: Kleinere
Schriften (3 Bd., Weimar, 1898-1900). Lo stesso Bolte, in
collaborazione con E. Schmidt, curò anche il lavoro del
Köhler, Über Märchen und Volkslieder (Berlin, 1894). Bibl.
sul Cosquin in A. Van Gennep, Manuel de Folklore français
contemporain, 4 s. v. (Paris, 1937-38).
6. Sull’apporto dei folklorisli russi alla problematica del
folklore si vedano le chiare pagine del Sokolov, Russian
Folklore, 78-90, 100-123 (New York, 1950). Altre notizie in
E. Lo Gatto, Storia della letteratura russa, 1, 46-92
(Firenze, 19443).

7-8. Sulla scuola finnica si vedano soprattutto Krappe, op.


cit., 10, 42 sgg.; e Thomson, op. cit., 394 sgg. Sulle origini
del melode sierico geografico si veda F. Kruger, Geographie
des traditions populaires en France, 4 sgg.
(Mendoza,1950). Su Kaarle Krohn si veda il commosso
saggio di P. E. Pavolini, «Lares», 4, 3 sgg. (1933). Il
calalogo dell’Aarne è slalo perfezionato da uno dei più
grandi folkloristi che abbia l’America, Stith Thompson (cfr.
The Types of The Folktale di A. Aarne, trad. e ampl., da
Stith Thompson, Folklore Fellows Communications No. 74,
Helsinki, 1928). Allo stesso Thompson dobbiamo oggi
inoltre il più ricco repertorio dei temi e dei motivi
novellistici, Motif-Index of Folk-Literature. A Classification
of Narrative Elements in Folktales, Ballads, Myths, Fables,
Medieval Romances, Exempla, Fabliaux, Jestbooks and
Local Legends (6 voll., FF. C. Nos. 106, 109, 116, 117,
Helsinki, 1932-36). Per le critiche rivolte a tale scuola si
veda J. M. Sokolov, op. cit., 90 sgg.; e A. Van Gennep, op.
cit., 1, 28 sgg. Riferimenti: K. Krohn, La méthode de M.
Jules Krohn, Congr. Internat. des Traditions Populaires -
Paris 1889, 64-68 (Paris, 1891); e E. Morote Best,
Elementos de folklore, 245 sgg. (Cuzco, 1950). Si veda pure
l’acuta comunicazione di C. W. von Sydow, Circulations des
contes populaires, Trav. Ier Congr. Inlernal. de Folklore, 132
sgg. (Tours, 1938).
Capitolo diciottesimo

1-3. Sulle origini della filologia romanza è sempre utile il


vecchio lavoro di G. Grober, Grundriss der romanischen
Philologie, 1 (Strassburg, 1904-062). Allre nolizie in A.
Monteverdi, Introduzione allo studio della filologia romanza
(Roma, 1943). Dello stesso A. si veda il saggio Neolatine, in
Saggi neolatini, 3-22 (Roma, 1945). Si vedano anche L.
Sorrento, Medievalia (Brescia, 1944); e G. Tagliavini, Le
origini delle lingue neo-latine (Bologna, 1949). Sull’apporto
dei romantici ledeschi allo sludio della filologia romanza si
veda G. Bertoni, Le origini della letteratura romanza nel
pensiero dei romantici tedeschi (Leipzig, 1928). Per una
puntuale bibliografia inerente alle varie questioni
dell’epopea francese si vedano J. Bédier, Les légendes
épiques, 3, 200-88 (Paris, 1912); A. Viscardi, Le origini
(Milano, 1939); e I. Siciliano, Le origini delle canzoni di
gesta (Padova, 1940). Dello stesso Viscardi, Posizioni
vecchie e nuove della storia letteraria romanza (Milano,
1944) e Storia della letteratura d’oc e d’oil (Milano, 1952).
Di notevole interesse sul Paris rimangono i saggi di F.
Novati, «Emporium» (1903), e di P. Rajna, «Atti R. Accad.
della Crusca» (1904). Si veda pure, nonostante i dissensi, J.
Bédier, Hommage a G. Paris (Paris, 1904). Riferimenti: E.
Monaci, G. Paris, «Nuova Antologia» (1° aprile 1903).
Sull’origine della lirica romanza si veda per la vasta bibl.
dell’argomento G. Errante, La lirica romanza delle origini
(New York, 1943). Dello stesso: Marcabru e le fonti sacre
dell’antica lirica romanza (Firenze, 1946).

4. Sul Rajna si vedano gli ottimi saggi di M. Casella,


«Marzocco» (7 dicembre 1930); e di G. Vandelli, «Atti
Accad. degli Arcadi», 7, 8 (Firenze, 1931). Preciso, A.
Schiaffini, Pio Rajna ricercatore di origini, «Ulisse» (1°
maggio 1947). Altre notizie per la sua attività di folklorista:
G. Cocchiara, Storia degli studi delle tradizioni popolari in
Italia, 185-89 (Palermo, 1947).

5-8. Bibl. degli scritti dedicati all’epopea francese, in A


Critical Bibliography of French Literature, I: The Medieval
Period, a cura di U. T. Holmes jr., nn. 548-83 (Syracuse,
1947); e nel recente R. Bossuat, Manuel bibliographique de
la litt. franç. du Moyen Age (Melun, 1951). Sulla memoria
popolare, che è una fonte storica in quanto un documento
non è tale perché è scritto od orale ma perché pensato, si
vedano, per tutte, le pagine di M. Bloch, La società feudale,
trad. Cremonesi, 420 sgg. (Torino, 1949). Sul Bédier e sul
suo atteggiamento nei riguardi dell’origine germanica
dell’epopea francese si veda G. Bertoni, La «Chanson de
Roland», 93-95 (Firenze, 1936). Dice il Bertoni: «L’epopea
di Francia è certamente francese (come vuole il Bédier), ma
è espressione artistica e poetica dello spirito germanico».
Sul Bédier si veda il bel saggio di G. Contini, Ricordo di
Bédier, in Un anno di letteratura, 114 sgg. (Firenze, 1942).
Il Contini accetta incondizionatamente le posizioni del
Bédier. Rimandi: R. Fawtier, La Chanson de Roland, 50 sgg.
(Paris, 1933); e L. Foscolo-Benedetto, L’epopea di
Roncisvalle, 124, 144, 200 (Firenze, 1941) (dove le teorie
del Bédier sono invece ridotte alle loro giuste proporzioni).
Capitolo diciannovesimo

1-2. Not. e bibl. sul Child in S. Baldi, Studi sulla poesia


popolare d’Inghilterra e di Scozia, 21-37 (Roma, 1949). Il
Santoli, I canti popolari italiani, 90 (Firenze, 1940), osserva
giustamente che «il passaggio dell’antico modo di
raccogliere e di pubblicare canti popolari alla nuova
maniera iniziata dai Grundtvig e dai Nigra è in certa guisa
paragonabile al passaggio dalla grammatica empirica o
astratta o puristica alla linguistica comparata e storica».
Sul Nigra si veda G. Cocchiara, Storia degli studi delle
tradizioni popolari in Italia, s. v. (Palermo, 1947). Alla bibl.
ivi citata si aggiunga ora V. Santoli, Gli studi di letteratura
popolare, estr. da Cinquant’anni di vita intellettuale italiana
1896-1946. Scritti in onore di B. Croce, 2 (Napoli, 1950).
Riferimenti: S. Baldi, op. cit., 14.

3-8. Notizie bibliografiche sui vari autori trattati: G.


Cocchiara, op. cit., s. v. e V. Santoli, Gli studi di letteratura
popolare cit., s. v. Per lo studio delle norme areali e della
loro applicazione negli atlanti linguistici note bibliografiche
in V. Santoli, I canti popolari cit., 54. Riferimenti: G.
Pasquali, in D. Comparetti, Virgilio nel Medio Evo, a cura di
G. P., 1, p. XXI (Firenze, 1937); e F. Neri, Storia e poesia, 15
sgg. (Torino, 1936).
Capitolo ventesimo

1-8. Sull’opera di G. Pitrè si veda G. Cocchiara, Pitrè, la


Sicilia e il folklore, (Messina, 1951) (dove il lettore troverà
un’ampia bibliografia sull’argomento). Sulle riviste di
folklore che allora sorsero un po’ dovunque in Europa e che
affiancarono o completarono l’opera svolta nell’«Archivio»
si veda R. Corso, Folklore, 175-179 (Napoli, 19432).
Rimandi: L. Russo, Giovanni Verga, 90 sgg. (Bari, 19504).

PARTE QUINTA

Capitolo ventunesimo

1-8. Note e notizie bibliografiche sul Tylor in G. Cocchiara,


Il mito del buon selvaggio, 61-92 (Messina, 1948). Di
particolare interesse: P. Radin, Primitive Man as
Philosopher (London, 1927); e R. H. Lowie, The History of
Ethnological Theory (London, 1937).
Capitolo ventiduesimo

1-4. La lettera che il Mannhardt inviò al Pitrè è tuttora


inedita e si trova presso la Biblioteca Pitrè (Museo
Etnografico Siciliano, Palermo). Dell’opera Wald- und
Feldkulte esiste una nuova edizione curata da W. Heuschkel
(Berlin, 1904-05). Altre notizie bio-bibliografiche in M.
Eliade, Traité d’histoire des religions, 309-13 (Paris, 1948)
(anche per la vasta bibl. ivi ricordata). Del Liungman si
veda l’interessante volume Traditions-Wanderungen:
Euphrat-Rhein, 1, 336 sgg. (Helsinki, 1937). Da integrare
con A. W. Ratansalo, Der Ackerbau im Volksaberglauben
der Finnen und Esten mit entsprechenden Gebräuchen der
Germanen verglichen (FF. C. Nos. 30, 31, 32, 55, 62,
Helsinki, 1919-25). Si aggiunga: J. J. Meyer, Trilogie
altindischer Mächte und Feste der Vegetation (Leipzig,
1937). Di notevole interesse è il saggio di C. W. von Sydow
dedicato alle teorie del Mannhardt e raccolto nei suoi
Selected Papers on Folklore (Copenhagen, 1948). Rimandi:
G. Schmidt, Manuale di storia comparata delle religioni,
trad. Bugatto, 205 (Brescia, 1934). Dello stesso: Manuale di
metodologia etnologica, trad. Vannucelli, 270 (Milano,
1949). Utilissimo il saggio di E. Rohr, Geografia demologica
tedesca, «Lares», 10, 269-288 (1939).

5. Sul Rohde si veda l’utile monografia di O. Crusius, E.


Rohde (Tübingen, 1902). Sugli studi posteriori cui hanno
dato luogo le sue ricerche si vedano le note di R. Mondolfo
in E. Zeller, La filosofia dei Greci nel suo sviluppo storico,
trad. e aggiornamento di R. M., 1, 141 sgg. (Firenze, 1932).
Il libro del Lawson è intitolato Modern Greek Folklore and
Ancient Greek Religion (Cambridge, 1910). Per le altre
notizie si veda la nota al cap. 25, § 1.

6. Sull’Usener si vedano i saggi del Farnell, del Wissowa e


del Kroll cit. da H. Pinard de la Boullaye, L’étude comparée
des religions, 1, 356 (Paris, 1922). Rimandi: R. Pettazzoni,
Nozioni di mitologia, 37 sgg. (Roma, 1949).

7. Sul Dieterich si veda M. Eliade, op. cit., s. v. Sugli scopi e


i confini del l’etnologia giuridica acute le osservazioni di F.
Battaglia, Diritto e filosofia della pratica, 20 sgg. (Firenze,
1932). Alla bibl. ivi citata si aggiunga l’aureo lavoro del
Vinogradov, Outlines of Historical Jurisprudence (Oxford,
1920).

8. L’opera del sartori è intitolata Sitte und Brauch (Leipzig,


1910-14) (e fa parte della collana «Handbücher zur
Volkskunde» dell’editore Heims, il quale nella stessa
collezione fra il 1908 e il 1909 pubblicò i seguenti volumi:
1. K. Wehrhan, Die Sage; 2. A. Thimme, Das Märchen; 3. O.
Schell, Das Volkslied; 4. K. Wehrhan, Kinderlied und
Kinderspiel. I voll. del Sartori corrispondono ai nn. 5, 6, 7,
8). L’opera del Sartori fu integrata da P. Geiger, Deutsches
Volkstum im Sitte und Brauch (Berlin, 1936). Rimandi: H.
Pinard de la Boullaye, op. cit., 1, 356; e A. Spamer, Usi e
credenze popolari, «Lares», 10, 294 (1939). Lo Spamer
passa inoltre in rassegna le ricerche di Lily Weiser, di Otto
Höfler, di R. Wolfram, di L. Rütimeyer e di Karl Meuli, dove
si sente l’influsso della corrente di studi che abbiamo
esaminato.
Capitolo ventitreesimo

1-2. Nella sua ultima edizione il Golden Bough comprende i


seguenti volumi: parte I, The Magic Art and the Evolution
of Kings, 2 voll.; parte II, Taboo and the Perils of the Soul, 1
vol.; parte III, The Dying God, 1 vol.; parte IV, Adonis, Attis,
Osiris, 2 voll. pubblicati per la prima volta come lavoro a sé
nel 1903; parte V, Spirits of the Corn and the Wild, 2 voll.;
parte VI, The Scapegoat, 1 vol.; parte VII, Balder the
Beautiful: The Fire-Festivals of Europe and the Doctrine of
the External Soul, 2 voll.; vol. XII, Bibliography and General
Index. Ancor prima che il Frazer traesse da quest’opera
l’editio minor: The Golden Bough, a Study in Magic and
Religion (London, 1925), fu pubblicata un’antologia, Leaves
from the «Golden Bough», curata da Lady Frazer. Dell’edito
minor esiste un’accurata traduzione di De Bosis, con
prefazione di G. Cocchiara (Torino, 1950). Si veda pure: J.
G. Frazer, Introduzione all’antropologia sociale. Saggi
scelti, tradotti e annotati da G. Cocchiara (Palermo, 1945).
Nel 1934, quando il Frazer compì ottant’anni, fu pubblicata
una bibl. completa dei suoi scritti che comprende 266 nn.
Fra questi non va dimenticato il volume The Gorgon’s Head
and Other Literary Pieces, with a preface by A. France
(London, 1927), dove accanto a dei saggi di vivo interesse
umanistico, come, ad esempio, quello sulla vita romana nel
tempo di Plinio il Giovane oppure quello gustosissimo della
vita londinese nel tempo di Addison, si trovano alcune sue
delicate poesie insieme ad alcune traduzioni da poeti
francesi.
3-8. Sulle teorie del Frazer si vedano, per tutti: G. Davy,
Sociologues d’hier et d’aujourd’hui (Paris, 1931); R. H.
Lowie, The History of Ethnological Theory (London, 1937),
e G. Cocchiara, Il mito del buon selvaggio (Messina, 1948).
Si aggiunga, specialmente per il concetto sulla magia, E.
De Martino, Il mondo magico (Torino, 1948). Un’ampia
rassegna critica che in fondo comprende quanto di più
notevole si sia pubblicato nel campo della storia delle
religioni pro e contro Frazer si trova in G. Schmidt, Der
Ursprung der Gottesidee, 1, s. v. (Münster, 1926). Dello
stesso autore: Manuale di storia comparata delle religioni,
trad. Bugatto, 165-280 (Brescia, 1934). Altre notizie in
Pinard de la Boullaye, L’étude comparée des religions, 1,
352-89 (Paris, 1922); e in C. Dawson, Progresso e religione,
trad. Foà, 58 sgg. (Milano, 1948). Buona la monografia di
R. H. Downie, James George Frazer, a Portrait of a Scholar
(London, 1940). Sugli interessi che l’opera del Frazer ha
suscitato non solo nel campo della psicologia, ma anche in
quello della filosofia (dal Delacroix al Brunschvieg, dal
Freud al Róhein, dallo Jung all’Aldrich, dal Bergson al
Boutroux e soprattutto al Cassirer) si vedano C. Delacroix,
La mentalité primitive (Paris, 1926), e R. Cantoni, I
primitivi (Milano, 1941). Si aggiunga che non sarebbe
possibile capire l’atmosfera che creano certe poesie dello
Eliot o alcune pagine del Mann e del Lawrence senza
conoscere il Golden Bough. Né ha torto, quindi, lo stesso
Eliot, quando afferma che il Golden Bough ha esercitato
un’influenza notevolissima sulla sua generazione. Si veda in
proposito T. S. Eliot, Collected Poems 1909-1935 note a The
Waste Land (London, 1936).
Capitolo ventiquattresimo

1-4. Sul Lang si veda il bel saggio di R. R. Marett, Andrew


Lang, «Folklore», 23 (1912). Si aggiunga Salvatorelli,
Andrew Lang, «Lares» 1 (1912). Dello stesso Salvatorelli,
Introduzione bibliografica della scienza delle religioni, s. v.
(Roma, 1914). Sul Lang, studioso della novellistica
popolare, si veda R. Corso, Folklore, 80 sgg. (Napoli,
19432). Sul Lang, storico delle religioni è sempre utile il
lavoro di S. Reinach, Andrew Lang et l’histoire des
religions, in Cultes, Mythes et Religions, 5, 13 sgg. (Paris,
1923). Da integrare con G. Schmidt, Manuale di storia
comparata delle religioni, trad. Bugatto, s. v. (Brescia,
1934); e, per quanto riguarda lo studio della magia, E. De
Martino, Il mondo magico, 207 sgg. (Torino, 1948).
Rimandi: J. Bédier, Les Fabliaux, 20 sgg. (Paris, 1893), e R.
Pettazzoni, Dio. Formazione e sviluppo del monoteismo
nella storia delle religioni, 42 (Roma, 1922).
5-6. Sul Pensiero del Mac Culloch, uno dei più acuti
interpreti di quel mondo celtico cui allora dedicava ampie
ricerche anche il Rhys, si consulti l’ampia opera di O.
Dähnhardt, Natursagen. Eine Sammlung naturdeutender
Sagen, Märchen, Fabeln und Legenden (Leipzig, 1907
sgg.). Il D. non solo ci ha dato un’ampia classificazione di
temi novellistici (fra i soggetti: la natura, gli animali, le
piante), ma ci ha mostrato anche come la favola, se è
un’interpretazione di esperienze passate, lo è anche di
esperienze presenti. Il che, del resto, qualche anno dopo
verrà riaffermato dal von der Leyen nel suo bel libro Das
Märchen (Leipzig, 19253). Si collega direttamente al Mac
Culloch e attraverso lui al Lang e all’Hartland la Weston,
cui dobbiamo due ottimi lavori: The Legend of Sir Perceval
(London, 1909), e From Ritual to Romance (Cambridge,
1920). Non è altro che un riassunto del Mac Culloch il libro
di Macleod Yearsley, The Folklore of Fairy-Tale (London,
1924) (manchevole anche nella parte bibliografica). Per
quanto riguarda gli usi nuziali, si tengano presenti i lavori
di H. Baechtold, Die Gebräuche bei Verlobung und
Hochzeit (Basel, 1942); e di R. Corso, Patti di amore e
pegni di promessa (S. Maria Capua Vetere, 1925).
7. Sulla Gomme e sul lavorio critico intorno al problema
etnologico dei giuochi fanciulleschi di notevole interesse
sono le note, gli escursi e le citazioni che accompagnano il
libro dello Hirn, I giuochi dei bimbi, trad. Faggioli, 227 sgg.
(Venezia, 1929). Dello stesso Hirn merita di essere
ricordato il volume The Origins of Art (London, 1902). Per
lo studio delle relazioni fra canto, danza e giucco ha
bellissime pagine F. B. gummere, The Beginning of Poetry,
337-46 (New York, 1901). Riferimenti: G. Pitrè, «Archivio
per lo studio delle tradi zioni popolari», 18, 143 (1899).

8. Sulla teoria del Gomme inerente alla natura del folklore,


si vedano: W. Crooke, Scientific Aspects of Folklore,
«Folklore», 23, 14 sgg. (1912); oltre i vari indirizzi
presidenziali pubblicati in «Folklore» (1895 sgg.). Contro:
si vedano C. Knortz, Was ist Volkskunde und wie studiert
man dieselbe?, 212 sgg. (Jena, 1900); G. Pitrè, Per
l’inaugurazione del Corso di Demopsicologia nella R.
Università di Palermo, «Atti R. Accad. Se. Leu. ed Arti», 7
sgg. del l’estratto (1911); R. Corso, op. cit., 35 sgg. (dove il
lettore potrà trovare altri rimandi). Sulla Folklore Society
notizie bibl. in A. Guichot y Sierra, Historia del folklore, 35
sgg. (Madrid, 1922).
Capitolo venticinquesimo
1. Sull’apporto che gli studi di etnologia e di folklore hanno
dato agli studi di filologia classica è assai utile il saggio di
H. J. Rose, Modern Methods in Classical Mythology
(London, 1930). Note e notizie nelle opere A. Gudeman,
Grundriss zur Geschichte der Klassischen Philologie
(Leipzig, 19092); e di J. E. Sandys, History of Classical
Scholarship (Cambridge, 19213). Si deve tuttavia osservare
che questo apporto è spesso dimenticato o misconosciuto
dagli storici della filologia classica. Così, ad esempio, in G.
Funaioli, Lineamenti d’una storia della filologia attraverso i
secoli, in Studi di letteratura antica, 1, 185-365 (Bologna,
1946), i nomi di Mannhardt, Tylor, Frazer ecc. non sono
nemmeno ricordati. Il che ci fa ricordare una celebre
recensione del Toutain dedicata al Wissowa e pubblicata
nella «Revue de l’Histoire des Religions», 25, 273 (Paris,
1904), dove si denunziava il partito preso di quei filologi
che, chiusi nelle loro torri, non volevano vedere o fingevano
di non vedere quel che si muoveva intorno a loro. Anche
oggi, del resto, sconcertante è, a volte, l’accoglienza che
ricevono le ricerche degli studiosi di filologia classica che
sanno bene quale sia il valore dell’etnologia e del folklore:
due discipline che, in realtà, non tutti i filologi vogliono
studiare e che, dopo tutto, è molto comodo ignorare.
2-3. Sul Reinach storico delle religioni si vedano G.
Schmidt, Manuale di storia comparata delle religioni, trad.
Bugatto, s. v. (Brescia, 1934); e A. Bros, L’ethnologie
religieuse, s. v. (Paris, 19382). Particolarmente contrastata
la tesi del Reinach sulla sopravvivenza di un totemismo
preistorico agli albori della civiltà greca. Si veda, in
proposito, il lavoro di O. Kern, Die Religion der Griechen, 1,
11 sgg. (Berlin, 1926). Altre notizie bibliografiche in O.
Falsirol, Il totemismo (Napoli, 1941); e in G. Thomson,
Eschilo e Atene, trad. Fuà (Torino, 1950).

4-8. Sull’attività del Marett si veda la collezione di saggi,


Custom is King, presentatagli dai suoi amici nel 1936 per il
suo settantesimo anno. Ve in questa raccolta un’accurata
bibliografia di tutti gli scritti del Marett, comprese le
innumerevoli recensioni. Per altre indicazioni si vedano G.
Cocchiara, in R. R. Marett, Introduzione allo studio
dell’uomo, trad. G. Cocchiara (Palermo, 1944); H. Hubert e
M. Mauss, L’étude sommaire de la représentation du temps
dans la magie et la religion, in Mélanges d’histoire des
religions (Paris, 19122), trad. A. De Martino nel vol.
Durkheim, Hubert, Mauss, Le origini dei poteri magici
(Torino, 1951).

PARTE SESTA
Capitolo ventiseiesimo

1-8. Note e notizie sulla scuola storico-culturale in H.


Pinard de la Boullaye, L’étude comparée des religions, 1,
397 sgg.; 2, 254 sgg. (Paris, 1922). Da aggiungere E. De
Martino, Naturalismo e storicismo nell’etnologia, 125-28,
207-23 (Bari, 1941). Si veda pure E. Morote Best,
Elementos de folklore, 247 sgg. (Cuzco, 1950). Rimandi: G.
Vidossi, Nuovi orientamenti nello studio delle tradizioni
popolari., Atti III Congr. Arti e Tradizioni popolari, 172-73
(Roma, 1936).
Capitolo ventisettesimo

1-8. Sul Van Gennep e sul suo sistema si veda R. Corso,


Folklore, 97-180 (Napoli, 19432) e la bibliografia ivi citata.
Contro le sue pretese biologiche si veda anche quanto
scrive A. Varagnac, Définition du folklore, 18 nota 1 (Paris,
1938). Lo stesso Varagnac si ferma anche sulla
insufficienza del metodo psicoanalitico col quale qualche
studioso (ad esempio il Rhoeim) ha cercato di svelarci il
mistero delle tradizioni popolari. Le posizioni del Van
Gennep sono state irrigidite da uno studioso belga, A.
Marinus, il quale nel volumetto La causalité folklorique
(Bruxelles, 1942), ha affermato che il folklore è una
disciplina essenzialmente sociologica, la quale deve essere
studiata coi metodi della psicologia e non con quelli della
storia. La scienza del folklore, egli aggiunge, si deve
disimpegnare dalla «concezione puramente storica dei
fatti» chiamata com’è ad affrontare l’analisi degli «strati
psicologici» ecc. Il Corso, op. cit., 100, giudica l’opera del
Marinus, di cui ci dà una compiuta bibl., come quella di un
animoso che è all’avanguardia del movimento nel Belgio e
che ha fatto meritare alla sua dottrina il nome di neo-
folklore. In realtà, il Marinus è uno studioso completamente
sprovveduto di una qualsiasi preparazione storica e
filosofica, e le sue conclusioni sul folklore dimostrano
soltanto questo: che egli non solo non distingue quali sono i
confini della psicologia e quelli della storia, ma è fermo a
quella che potrebbe chiamarsi l’archeologia della storia.
Ben diversa la preparazione di S. Erixon, Ethnologie
régionale ou folklore, «Laos», 1, 9 sgg. (Stockholm, 1951),
il quale pur affermando che il folklore deve tener conto di
certi aspetti etnologici e psicologici, è dell’avviso che esso
presuppone un’indagine storica e comparativo-storica della
cultura tradizionale. La recensione del Van Gennep al
Folklore français del Sébillot è nella «Revue de l’Histoire
des Religions», 25, 407 (1904). Rimandi: P. Toschi, rec. in
«Lares», 16, 129-330 (1950).
Capitolo ventottesimo
1-8. Sulla storia del Modernismo si veda in particolar modo
A. Houtin, Histoire du Modernisme catholique (Paris,
1913); ed E. Bonaiuti, Storia del Cristianesimo, 3, 651 sgg.
(Milano,1943). Si aggiunga, soprattutto, per le pagine
dedicate al Loisy, G. Martini, Storicismo e modernismo
(Napoli, 1951). Bibliografia del Saintyves: nel vol. dello
stesso A., L’astrologie populaire, 452-57 (Paris, 1937). Da
integrare con A. Van Gennep, Manuel de folklore français
contemporain, s. v. (Paris, 1937-38) (in 4, 663, sono
ricordati i dissensi manifestati contro i Contes de Perrault).
Non condividiamo il parere che del Saintyves esprime il
Thomson, The Folktale, 386 (New York, 1916). Sul
Saintyves si vedano i giudizi di R. Maunier, di J. Menand, di
A. Marinus, di P. Rivet ecc. nel vol. miscellaneo Les Cahiers
Pierre Saintyves (Paris, 1940).
Capitolo ventinovesimo

1-4. Not. bibliografiche dell’attività folkloristica del Croce


in G. Cocchiara, Storia degli studi delle tradizioni popolari
in Italia, s. v. (Palermo, 1947). Si aggiungano i saggi del
corsi, Il pensiero giovanile di B. Croce «Ann. Scuola
Normale di Pisa», (2) 17 (1948); e del Navacco, Appunti su
Benedetto Croce, studioso delle tradizioni popolari
napoletane, «Belfagor», 5, n. 5 (1950). Sul concetto del
Croce sulla poesia popolare si vedano P. Toschi,
Fenomenologia del canto popolare, 65 sgg. (Roma, 1951);
L. Russo, La critica letteraria contemporanea, 1, 227 sgg.
(Bari, 1942).

5-6. Sul Barbi folklorista si veda G. Cocchiara, op. cit., s. v.


(e la bibliografia ivi citata). Sulla sua raccolta inedita di
canti popolari si veda V. Santoli, I canti popolari italiani,
177-200 (Firenze, 1940). Rimandi: V. Santoli, Gli studi di
letteratura popolare, nella miscellanea Cinquant’anni di
vita intellettuale italiana 1896-1946, 2, 7 dell’estratto
(Napoli, 1950).

7-8. Bibliografia degli scritti del Menéndez Pidal in H. Seris


e G. Arteta, Bibliografica Hispanica (New York, 1935). Si ha
pure la miscellanea Homenaje a Menéndez Pidal (Madrid,
1925). Il lettore che voglia avere un quadro preciso delle
teorie del Menéndez Pidal può vedere l’introduzione
premessa all’Historia general de las literaturas hispanicas,
pubblicata sotto la dir. di G. Díaz Plaja (Barcellona, 1949).
Contro alcune di queste teorie si veda E. R. Curtius,
Europäische Literatur und Lateinisches Mittelalter, 173 e
passim (Bern, 1948). Il Baldi, Studi di poesia popolare
d’Inghilterra e di Scozia, 51 (Roma, 1949), ritiene che il
Menéndez Pidal, Romancero, 28 sgg. (Madrid, 1927), pur
illustrando «un bellissimo caso di rielaborazione per
contaminazione», sembrerebbe «voler far supporre che la
rielaborazione stesse tutta in quella inconscia selezione».
Altre notizie in S. Battaglia, Poema del mio Cid (Roma,
1943); G. Guerrieri-Crocetti, L’epopea spagnuola (Milano,
1944); E. Li Gotti, El cantar de mio Cid, cantar del buen
vassallo, estr. da «Letterature moderne» (Milano, 1951)
(ricchissima la bibl.). Riferimenti: L. Spitzer, «Modern
Language», 4, 420-21 (1943).
Capitolo trentesimo

1-2. Sul Meier e sullo sviluppo degli studi dedicati in


Germania alla poesia popolare nell’ultimo cinquantennio si
veda A. Haberlandt, Die deutsche Volkskunde (Halle, 1935).
Altre notizie in P. Toschi, Nuovi orientamenti nello studio
della poesia popolare, «Lares», 16, 2 sgg. (1950).

3-4. Sul neofolklorismo del Naumann esiste una vastissima


bibliografia. Si vedano per tutti: A. H. Krappe, The Science
of Folklore, 105, 189 (London, 1930); S. Thomson, The
Folktale, 40, 87 (New York, 1946); R. Corso, Folklore, 104-
07 (Napoli, 19432); G. Vidossi, Nuovi orientamenti nello
studio delle tradizioni popolari, Atti III Congr. Arti e
Tradizioni popolari, 175 (Roma, 1936). Numerose le
critiche al suo sistema: si vedano, ad esempio, J. M.
Sokolov, Russian Folklore, s. v. (New York, 1950); R.
Wolfram, Lo studio della danza popolare in Germania e C.
Hahm, L’indagine sull’arte popolare in Germania, «Lares»
10, rispettivamente 341 sgg., 384 sgg. (1939).

5. Dell’Hoffman-Krayer, autore fra l’altro di dotti lavori sul


folklore svizzero, si veda soprattutto il vol. Kleine Schriften
zur Volkskunde a cura di P. Geiger (Basel, 1946). La
formula vulgus in populo è in Die Volkskunde als
Wissenschaft (Zürich, 1902). Per altre notizie sulla sua
attività cfr. R. Weiss, Volkskunde der Schweiz, 1 sgg.
(Zürich, 1946). Rimandi: G. Vidossi, op. cit., 169.

6-8. Sugli sviluppi del folklore russo si cfr. soprattutto J. M.


Sokolov, op. cit., 30-92. Altre notizie in M. Azadovskij,
Elude du folklore en URSS (1918-32), «V.O.K.S.» [Organo
della Società per le relazioni culturali tra l’URSS e
l’estero], 40-65 (1933); e in A. Marinus, Ethnographie,
folklore et archéologie en Russie soviétique, «Bull. Soc.
Roy. Belge d’Anthropologie et Préhistoire», 49, 177-86
(1934). Informatissimo e preciso il saggio di L. Hippius e V.
Čičerov, Trent’anni di studi sovietici sul folklore, «Rassegna
della Stampa Sovietica», nn. 4-5 (1949). Da integrare con
E. De Martino, Etnologia e folklore nella Unione Sovietica,
in Scienza e cultura nell’URSS (Roma, 1950). Riferimenti: P.
Toschi, rec. alla trad. francese del cit. libro del Sokolov in
«Lares», 15, 105 (1949); C. W. von Sydow, Circulation des
contes populaires, Trav. Ier Congr. Internat. de Folklore,
132 sgg. (Tours, 1938); S. Baldi, Studi sulla poesia popolare
d’Inghilterra e di Scozia, 55 sgg. (Roma, 1949).
Indice dei nomi

Aarne A.
Abdallah Ibn ul-Muqaffa
Addison J.
Afanasev A.
Afzelius A. A.
Alais (d’) V.
Alciato A.
Alexandri V.
Altusio
Ampère J.-J.
Anacreonte
Andersen H. C.
Anderson W.
Andree R.
Andreev A. N.
Antoni C.
Ariosto L.
Aristofane
Aristotele
Arnaldo A.
Arndt E. M.
Arnim (von) L. A.
Arwidson A. J.
Aulnoy (de) M.-G.
Azadovskij M. K.

Bachofen J. J.
Bächtold-Stäubli H.
Bacone F.
Baldi S.
Baltus (Padre)
Banier A.
Barbi M.
Bartoli D.
Basile G. B.
Bastian A.
Bayle P.
Becker Ph.-A.
Becq de Fouquières L.
Bédier J.
Behn A.
Bekker B.
Bellini G.
Benfey T.
Berchet G.
Bérenger-Féraud L.-J.-B.
Bernier F.
Bestužev-Marlinskij A. A.
Binni W.
Blackwell F. T.
Blair R.
Bloch M.
Bloch P. J.
Blücher G. L.
Boccaccio G.
Bodin J.
Bodmer J.
Böhme F. M.
Böhme J.
Boileau N.
Bolte J.
Bonald (de) L.-G.-A.
Bopp F.
Bossuet J.-B.
Boulanger N.-A.
Bourne H.
Bouterwek F.
Bowring J.
Brahms J.
Brand J.
Bréal M.
Breitinger J. J.
Brentano K.
Bronnitsyn B.
Bronzino
Brosses (de) C.
Browne T.
Buchan G.
Buffon (de) G.-L.-L.
Bugge S.
Bürger G. A.
Burke E.
Burns R.
Byron G.

Čaadaev P. Ja.
Caballero F.
Calepio
Calvino
Campanella T.
Carducci G.
Carmeli M.
Carré J.-R.
Cartesio
Cassirer E.
Castillo (del) H.
Cattaneo C.
Caudwell C.
Čelakowsky F. L.
Cervantes M.
Cesare
Cesareo G. A.
Cesarotti M.
Chardin
Charron P.
Chateaubriand (de) F.-R.
Chaucer G.
Chauviré R.
Cherbury (of) H.
Chiabrera G.
Child J. J.
Chopin F.
Christiansen R. T.
Cicerone
Čičerov V.
Ciezkowski A.
Claudius M.
Clodd E.
Cloots A.
Coirault P.
Coleridge S. T.
Colet H.-R.
Collins W.
Comparetti D.
Comte A.
Constant B.
Conti N.
Cook A. B.
Corneille P.
Cosquin E.
Costa G.
Cox G. A.
Craveri R.
Crawley E.
Cretet E.
Creuzer F.
Croce B.
Cronia A.
Čulkov M. P.
Cuoco V.

Dahlman F. C.
Dalrymple D.
D’Ancona A.
Danilov K.
Dante
D’Armancour P.
Daub K.
Davy G.
Dawson C.
De Ferraris A. (Galateo)
Defoe D.
De Gubernatis A.
Delehaye H.
Della Valle P.
De Lollis C.
Del Rio M.
De Martino E.
Demeunier J.-N.
De Nobili R.
De Sanctis F.
Dessauer R.
De Visser M. W.
Diderot D.
Dieterich A.
Diez F.
Di Francia L.
Di Giovanni G.
Diodoro Siculo
Dobroljubov N. A.
Dobrovsky V. N.
Doncieux G.
Dostoevskij F.
Droysen T.
Dufresny Ch.
Dulaure J.-A.
Dumersan Th. M.
Dumézil G.
Dupuis C.-F.
Duran A.
Durkheim E.

Eckermann J. P.
Edmont E.
Edwards W.
Eichendorff J.
Eliade M.
Epicuro
Erodoto
Esopo

Fara G.
Farnell E. T.
Fauriel C.
Fawtier R.
Fénelon
Fherle E.
Fichte G.
Ficino M.
Finetti G. F.
Flores P.
Fontenelle (de) B.
Foscolo-Benedetto L.
Fournier E.
Foy W.
Frazer J. G.
Frobenius L.
Fubini M.
Fueter E.
Fustel de Coulanges N.-D.

Gabotto F.
Gabrieli F.
Gaidoz H.
Galateo (vedi De Ferraris A.)
Galiani F.
Galileo
Galland A.
Garnier J.
Gautier L.
Gebelin (de) C.
Geiger P.
Geijer E. I.
Gentile A.
Gerbi A.
Gerhard E.
Giannone P.
Gibbon E.
Gilliéron J.
Gioberti V.
Gladstone W. E.
Gleim J. W. L.
Glinka M. I.
Gobineau (de) A.
Goethe W.
Gogol N.
Goguet A.-Y.
Gomme A. B.
Gomme L. B.
Góngora (de) L.
Gorkij M.
Görres J.
Gottsched J. C.
Gozzi G.
Graebner F.
Graf A.
Gramsci A.
Gravina G. V.
Gray T.
Gregorio di Tours
Grimm J.
Grimm W.
Groethuysen B.
Grozio U.
Grundtvig S.
Guérin (de) M.
Guizot F.

Haberlandt A.
Haberlandt M.
Hagedorn F.
Hahm K.
Hakluyit R.
Haller (von) A.
Hamann J. B.
Hardy T.
Harrison J. E.
Hartland S. E.
Harwood E.
Hazard P.
Hegel G.
Heine H.
Helvétius C.-A.
Herd D.
Herder J. G.
Heyne C. G.
Hilferding A. F.
Hippius L.
Hirn J.
Hoffmann-Krayer E.
Hubert H.
Huet P. D.
Hugo V.
Huizinga J.
Humboldt W.
Hume D.
Huvelin P.

Imbriani V.
Institoris H.

Jahn F. L.
Jeanmaire H.
Jeanroy A.
Jhering C.
Jolles A.
Jones W.
Jouvenel (de) B.

Kallas (Krohn) A.
Kant I.
Karadžič V. S.
Karamzin N. M.
Keller A.
Keltuyala V. S.
Ker W. P.
Kerbaker M.
King J. A.
Kircker A.
Kireevskij I.
Kireevskij P.
Klopstock F. S.
Köhler R.
Kolberg O.
Kollár J.
Kopitar J.
Koppers W.
Krohn I.
Krohn J.
Krohn K.
Krylov I. A.
Kuhn A.

La Bruyère (de) J.
Lachmann K.
La Créquinière (Padre)
Lafitau J.-F.
La Fontaine (de) J.
La Hontan (de) A.-L.
Lallemand C.
Lamprecht K.
Landau M.
Lang A.
Las Casas B.
La Villemarqué H.
Lawson J. C.
Lazarus M.
Le Brun (Padre)
Le Force (M.lle)
Lehmann O.
Leibniz G. W.
Lejeune (Padre)
Lenartowicz I.
Leopardi G.
Lermontov M. J.
Léry (de) J.
Lescarbot M.
Lessing H. E.
Lévy-Bruhl L.
Licurgo
Liebrecht F.
Liungmann W.
Livio
Locke G.
Lo Gatto E.
Loiseleur-Deslongchamps A.
Loisy A.
Lönnrot E.
Lopez de Gómara F.
Lorenzo il Magnifico
Lot F.
Lowth R.
Lubbok J.
Lutero
Luzel F.

Machiavelli N.
Mac Culloch J. A.
Mackensen L.
Mac Lennan J. F.
Macpherson J.
Maione I.
Maistre (de) X.
Mangourit M.
Mann T.
Mannhardt W.
Manzoni A.
Maometto
Marana G. P.
Marett R. R.
Marillier L.
Martens F. F.
Martire P.
Marx K.
Mauss M.
Mazzini G.
Meier J.
Meinecke F.
Meli G.
Menéndez Pidal R.
Mercier S.
Mérimée P.
Messia A.
Meyer P.
Michel F.
Michelet J.
Mila M.
Milá y Fontanals M.
Miller O. F.
Milton J.
Molinaro del Chiaro L.
Monaci E.
Monboddo J. B.
Montaigne (de) M.
Montesquieu (de) C.-L.
Morgan L. H.
Mörike E.
Moro T.
Mosè
Möser J.
Müllenhoff K.
Müller J.
Müller (de) J.
Müller M.
Muralt (von) B. L.
Muralt J.
Murat (M.me de)
Muratori L. A.
Mussorgskij M. P.

Nájera (de) E.
Napoleone
Naumann H.
Neri F.
Nerval (de) G.
Newton I.
Nicolai F.
Niebuhr B. G.
Niemcewicz J. U.
Nietzsche F.
Nigra C.
Nilson M. P.
Nodier C.
Novalis H. F.
Novali F.
Nutt A.
Nyerup C.

Olrik A.
Omero
Ovidio
Ozanam A. F.

Paolo Diacono
Paris G.
Pascal B.
Pasquali G.
Percy T.
Perrault C.
Pessler W.
Pestel P. I.
Pettazzoni R.
Petrarca F.
Pickard-Cambridge A.
Pictet A.
Pictorius L.
Pigafetta M.
Pinard de la Boullaye H.
Pitagora
Pypin A. N.
Pitrè, G.
Pitt H.
Placucci M.
Platone
Plinio il Vecchio
Plutarco
Polier (de) A.
Polivka G.
Poliziano A.
Polo M.
Pope A.
Propp V. Ja.
Puchta G. F.
Pufendorf S.
Pulci L.
Puškin A. S.

Quinet E.

Rabelais F.
Racine J.-B.
Rajna P.
Ralston W. R. S.
Ramsay A.
Ramusio
Ratzel F.
Razin S.
Reinach S.
Renan E.
Ribezzo F.
Ricci M.
Ridgeway W.
Riehl W. H.
Robertson Smith W.
Rodionovna A.
Rohde E.
Röhr E.
Rolland R.
Rousseau J.-J.
Rubieri E.
Russo L.

Sacy (de) S.
Sacharov I. P.
Saint-Pierre (de) B.
Saint-Simon (de) L.
Saintyves E. (E. Nourry)
Salomone-Marino E.
Salvemini G.
Sand G.
Santer E.
Santoli V.
Sarpi P.
Sartori P.
Savigny (von) F. K.
Schelling F. W.
Scherer W.
Schiller F.
Schlegel A. W.
Schlegel F. W.
Schleiermacher F.
Schmidt W.
Schubert F.
Schumann R.
Schwartz W.
Schwind (von) M.
Scott W.
Sébillot P.
Sénancour E.-P.
Sepulveda L.
Shaftesbury A. A. C.
Shakespeare W.
Shelley P. B.
Sokolov B.
Sokolov J. M.
Sorel G.
Souvestre E.
Spamer A.
Spee F.
Spencer H.
Spiess K.
Spinoza B.
Spitzer L.
Sprat T.
Sprenger J.
Staël (de) A.-L.-G.
Stasov V. V.
Stein (von) H. F. K.
Steinthal H.
Strabone
Straparola G. F.
Sydow (von) C. W.

Tacito
Taine H.
Talvi (vedi Voiart E.).
Tassoni A.
Tavernier J.-B.
Temple W.
Tereščenko A.
Terracini B.
Tertulliano
Thibaut A. F. J.
Thierry A.
Thiers J.-B.
Thomasius
Thoms W.
Thomson J.
Tieck J. L.
Tiersot J.
Tille V.
Toland J.
Tolstoj L.
Tommaseo N.
Tommaso d’Aquino
Tonnelat E.
Topelius Z.
Toschi P.
Tournemine (Padre)
Treitschke (von) H.
Trevelyan G. M.
Troya C.
Turgenev I. S.
Tylor E. B.
Tyrrel G.
Tyssot de Patot

Uhland L.
Usener H.

Valla L.
Van der Leeuw G.
Van Gennep A.
Varrone
Vega (de la) G.
Veneziano A.
Venturi F.
Verdi G.
Verga G.
Verri A.
Veselovskij A.
Vico G. B.
Vidossi G.
Viereck P.
Vincenti L.
Virgilio
Visconti P. E.
Voiart E.
Voltaire
Vossler C.

Wackenroder E.
Wagener A.
Wagner R.
Waitz T.
Walzel A.
Warton T.
Weber A.
Weinhold F. A.
Westermarck E.
Wieland C. M.
Wilamowitz (von) U.
Winckelmann J. J.
Wolf F. A.
Wolf J. W.
Wolfram R.
Wood R.
Wordsworth W.
Wundt G.

Young E.

Zola E.
Zuinglio
Žukovskij V. A.
Indice

Storia del folklore in Europa


Prefazione alla nuova edizione (1971) di Giuseppe Bonomo

Premessa

Parte prima. Alle fonti di un nuovo umanesimo: lo studio dei


popoli

1. La «scoperta del selvaggio»


1. Una nuova provincia del sapere
2. Il selvaggio come documento storico
3. I selvaggi negli Essais di Montaigne
4. Un etnografo-folklorista: Lescarbot
5. Dialogo fra un Hurone e un Europeo, ovverossia la polemica politico-sociale
del barone de La Hontan
6. La «lezione» del selvaggio
7. Da Oroonoko a Robinson Crusoe
8. Di alcune mediazioni del mito del buon selvaggio nella coscienza europea

2. Il messaggio dell’Oriente
1. Gli Stranieri-Simboli
2. L’Oriente come vivaio di forze, di ideali e di religioni
3. «Di Dio è l’Oriente, di Dio è l’Occidente»
4. Il Turco e il Persiano danno lezioni all’Europa
5. L’Egitto, fonte di giovinezza
6. I conti di fata e l’Oriente
7. Le Mille e una notte
8. Noi e gli Orientali: differenze e concordanze

3. L’Europa fra religione e superstizione


1. La lotta contro l’errore
2. La Riforma e la comparazione fra il meraviglioso cristiano e il meraviglioso
pagano
3. Il Malleus Maleficarum e la letteratura demonologica
4. Bodin e le streghe
5. Anticipatori dell’Illuminismo: Browne
6. Bekker e Thomasius
7. Il deismo e la religione naturale
8. Teologismo folkloristico

4. L’errore alla luce della ragione


1. Un precursore del folklore europeo: Bayle
2. La superstizione come elemento di potere
3. Fontenelle e la sua Histoire des oracles
4. Carattere degli oracoli
5. L’Origine des fables: contributo alla storia degli errori degli antichi
6. L’Origine des fables: soprattutto incunabolo etnografico
7. Le fiabe sono soltanto fantasia?
8. Storicismo e antistoricismo del Bayle e del Fontenelle

5. Incontri di popoli e di civiltà


1. Un nuovo mondo che nasce: Montesquieu e Voltaire, storici dell’umanità
2. Le Lettres Persanes e la loro polemica
3. Del metodo comparativo in Montesquieu
4. L’Esprit des lois
5. Voltaire e il fanatismo
6. Voltaire e i selvaggi
7. Voltaire e il mondo orientale
8. Dalla ricerca dello spirito delle nazioni alla distinzione fra borghesia e
popolo
Parte seconda. La ricerca delle «origini» fra Illuminismo e
Preromanticismo

6. L’uomo e la storia
1. Verso una nuova «scienza dei costumi»
2. Lafitau e le sue Mœurs des Sauvages Amériquains
3. Etnografia e storia
4. La Scienza Nuova
5. Vico e il mondo primitivo
6. Alle origini, la poesia
7. Vico, le nazioni barbare e le civili
8. Le Antiquitates del Muratori

7. Natura, civiltà e progresso


1. Rousseau e l’apologia del selvaggio
2. Noi e i primitivi
3. La tradizione popolare come fattore umano e nazionale
4. Goguet e l’origine dell’umanità
5. Una nuova fenomenologia religiosa: il feticismo
6. Boulanger e l’antichità svelata
7. Forme e spirito delle feste
8. L’idea del progresso come elemento filosofico

8. Rivolta della poesia


1. Gusto del popolare e mediazione dell’Ossian
2. Significato e valore di una «burla»
3. L’Ossian e la scoperta di un nuovo «mondo poetico»
4. Alla ricerca della poesia popolare
5. Le Reliques del Percy
6. Nasce la moda delle ballate
7. Della loro importanza nella storia del gusto poetico
8. Il posto dell’Inghilterra nella storia del Preromanticismo

9. Poesia e tradizione
1. Il «primitivo» a casa propria
2. Muralt e Haller
3. Bodmer e il folklore della Svizzera
4. Poesia e sentimento nazionale
5. Le scoperte del Bodmer
6. L’opera storiografica del Möser
7. Müller e il colore locale
8. La mediazione della storiografia svizzera nella storia del folklore europeo

10. Herder o dell’umanità


1. Il mito dell’anima delle nazioni
2. Sul «primitivismo» dello Herder
3. Lingua e nazione
4. La poesia come poesia popolare
5. Voci dei popoli
6. Voci di Dio
7. Le Ideen e il loro significato
8. L’umanità in rivolta

Parte terza. II folklore come strumento di politica e di


dignità nazionale nel Romanticismo

11. Umanità della Germania


1. Il «tesoro dell’umanità»
2. Novalis, il Medioevo tedesco, e il Märchen
3. Tieck e l’antica letteratura tedesca
4. La poesia dei Minnelieder
5. Romanticismo e antichità classica
6. F. Schlegel, fra Oriente e Occidente
7. A. W. Schlegel e la poesia popolare
8. Romanticismo e Germanesimo

12. Dal cosmopolitismo al nazionalismo


1. La «nazione» politica
2. Arnim, Brentano e il Wunderhorn
3. Fondamenti per una letteratura popolare educativa
4. Görres, o della poesia popolare
5. Babbo Jahn, fra Rousseau e Fichte
6. Savigny e la «fabbrica delle leggi»
7. Valore della scuola e del diritto consuetudinario
8. Il Volk come organismo umano e umanitario

13. I fratelli Grimm


1. La poesia popolare come miracolo
2. Poesia, epopea e storia
3. I Kinder- und Hausmärchen e il tono della letteratura popolare
4. Un’opera d’arte nata da un errore metodologico
5. I racconti popolari come epopea nazionale
6. Poesia, diritto e mitologia
7. La Grammatik
8. Il patriottismo dei Grimm

14. Ritorno alle origini


1. Aspetti del Romanticismo inglese: Wordsworth e Coleridge
2. Scott folklorista e romanziere
3. Aspetti del Romanticismo francese: ritorno alla natura e all’uomo naturale
4. Da Madame de Staël al Fauriel
5. La Francia e il suo romancero
6. Aspetti del Romanticismo in Italia: dalla Lettera semiseria di Grisostomo
alle Vecchie romanze spagnuole
7. Tommaseo e il folklore italiano
8. Nazionalismi, primati e missioni

15. Insegnamenti del folklore


1. Aspetti del Romanticismo in Russia
2. La lezione di Danilov
3. Da Puškin a Glinka
4. Folkloristi cechi e polacchi
5. Karadžić e la poesia serbo-croata
6. Nasce il Kalevala
7. Del folklore nei paesi scandinavi
8. Insegnamento romantico del folklore: «pensare in europeo»
Parte quarta. II folklore tra filologia e storia durante il
Positivismo

16. Nel «laboratorio» di Max Müller


1. Valore del mondo ariano
2. Positivismo del Müller
3. Interpretazioni linguistico-metodologiche del mito
4. Il linguaggio generatore dei miti
5. Alle fonti della religione
6. Nell’incantato mondo del folklore
7. Critiche e polemiche sul Müller
8. Validità del suo insegnamento

17. Sulle orme del Benfey


1. L’India come dogma
2. Il Panciatantra e l’origine indiana delle favole
3. La teoria storico-orientalista del Benfey
4. Propagazione e creazione delle novelle popolari
5. Köhler, Landau e Cosquin
6. Genesi della scuola storica russa: Miller e Veselovskij
7. La scuola finnica e il metodo storico-geografico
8. Strumenti di lavoro

18. Nel mondo romanzo


1. Nasce la filologia romanza. Dal Diez al Paris
2. Nazionalità e letteratura francesi
3. L’origine dell’epopea francese e la teoria delle cantilene
4. Rajna, indagatore di fonti
5. Bédier e la Francia del secolo XI
6. I Fabliaux e le Légendes épiques
7. Esiste una «memoria popolare»?
8. Bédier fra Romanticismo e Antiromanticismo

19. Vita del folklore letterario


1. Dal Child al Nigra
2. I Canti popolari del Piemonte
3. Aree di diffusione e centri di irradiazione
4. Rubieri e la Storia della poesia popolare italiana
5. Poesia popolare e poesia tradizionale nel concetto del Rubieri
6. D’Ancona
7. Comparetti
8. Poesia e novellistica popolare

20. La lezione del Pitrè


1. Fede nel popolo
2. Le opere maggiori del Pitrè: la Biblioteca, l’«Archivio», le Curiosità
3. Il folklore come storia nel concetto del Pitrè
4. La poesia popolare come problema
5. Portatori e creatori del folklore
6. Sull’origine delle fiabe e degli indovinelli
7. Unità del folklore
8. Pitrè e il metodo comparativo

Parte quinta. La scuola antropologica inglese e il suo


influsso negli studi delle tradizioni popolari

21. Tylor e la Primitive Culture


1. L’antropologia come «discorso nell’uomo»
2. Premesse della scuola antropologica inglese
3. L’homo sapiens come natura
4. La superstizione come sopravvivenza
5. Sopravvivenze e rinascite
6. Mitologia e religione
7. Animismo, infanzia della religione?
8. Naturalismo e storicismo del Tylor

22. All’insegna dell’animismo


1. Filologia classica, etnologica e folklore
2. Mannhardt e i Monumenta mythica Germaniae
3. Culti e riti agrari
4. Naturalismo e storicismo nel Mannhardt
5. Dalla Cité antique a Psyche
6. Usener
7. Dieterich
8. Il costume come culto religioso della vita

23. Frazer, l’avvocato del diavolo


1. L’opera del Frazer
2. Sulle orme del Re del Bosco
3. I principi della magia formulati dal Frazer
4. Il totemismo come magia
5. Il folklore nel concetto del Frazer
6. Magia e religione
7. «Domandare altri primi»
8. Stimoli e suggestioni dell’opera frazeriana

24. Il primitivo che è in noi


1. Lang e il metodo del folklore
2. Fiabe, miti e costumi
3. Alla ricerca della fede primitiva
4. Etnologia teologica
5. Hartland e i suoi studi sulla novellistica
6. La novellistica come tradizione
7. A. B. Gomme e i giuochi fanciulleschi
8. L. B. Gomme, teorico del folklore

25. Immortalità del folklore


1. L’Inghilterra e i suoi etnologi della filologia classica
2. Reinach e le religioni
3. Reinach e la scuola antropologica inglese
4. L’ultimo classico di tale scuola: Marett
5. Concetto del preanimismo
6. La sopravvivenza di fronte al giudizio storico
7. Valore dell’individuo nell’etnologia
8. Marett contro Reinach, 445

Parte sesta. Aspetti del folklore nell’ultimo cinquantennio


26. La lotta della storia
1. La scuola storico-culturale
2. Il suo precursore: Ratzel
3. La Methode del Graebner
4. Filologia etnologica
5. Interpretazioni etnologiche
6. Padre Schmidt, etnologo e storico del folklore
7. La credenza nell’Essere Supremo
8. La scuola antropologica inglese e la scuola storico-culturale

27. Fra storia e sociologia


1. L’opera del Van Gennep
2. Folklore e biologia
3. Folklore senza storia
4. Individuo e collettività nel pensiero del Van Gennep
5. Riti e sequenze
6. Van Gennep e il metodo cartografico
7. Van Gennep storico del folklore francese
8. Pregi e difetti della sua problematica

28. Apologia del folklore


1. Dietro Saintyves, il Modernismo
2. Il folklore fra naturalismo e storicismo
3. I fatti folklorici e la comparazione
4. Paganitas
5. La religione come magia
6. Il folklore biblico
7. Les Contes de Perrault: il libro più fascinoso del Saintyves
8. Il folklore e il dogma della fratellanza umana

29. Crisi di una poetica


1. Il noviziato di Benedetto Croce
2. Croce folklorista
3. Poesia popolare e poesia d’arte
4. Ancora della elaborazione popolare
5. Barbi folklorista
6. Filologia senza estetica
7. Menéndez Pidal
8. Poesia popolare e poesia tradizionale nel concetto del Menéndez Pidal

30. Poetica di un mito


1. Meier e la sua Rezeptiontheorie
2. Essenza della poesia popolare
3. Naumann e i valori culturali abbassati
4. Fonti del suo «sistema»
5. Confutazioni
6. La preghiera del Gorkij
7. Il folklore poetico nel concetto del Sokolov
8. Popolo e chiericato

Note e notizie bibliografiche


Premessa
PARTE PRIMA
1. La «scoperta del selvaggio»
2. Il messaggio dell’Oriente
3. L’Europa fra religione e superstizione
4. L’errore alla luce della ragione
5. Incontri di popoli e di civiltà
PARTE SECONDA
6. L’uomo e la storia
7. Natura, civiltà e progresso
8. Rivolta della poesia
9. Poesia e tradizione
10. Herder o dell’umanità
PARTE TERZA
11. Umanità della Germania
12. Dal cosmopolitismo al nazionalismo
13. I fratelli Grimm
14. Ritorno alle origini
15. Insegnamenti del folklore
PARTE QUARTA
16. Nel «laboratorio» di Max Müller
17. Sulle orme del Benfey
18. Nel mondo romanzo
19. Vita del folklore letterario
20. La lezione del Pitrè
PARTE QUINTA
21. Tylor e la Primitive Culture
22. All’insegna dell’animismo
23. Frazer, l’avvocato del diavolo
24. Il primitivo che è in noi
25. Immortalità del folklore
PARTE SESTA
26. La lotta della storia
27. Fra storia e sociologia
28. Apologia del folklore
29. Crisi di una poetica
30. Poetica di un mito

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