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COLLANA DI FILOSOFIA

Sergio

i rari"
non esiste
Prefazione di Gilberto Oneto
G) COLLANA DI FILOSOFIA

Sergio
SALVI

L'ITALIA
non esiste
Prefazione di Gilberto Oneto

Le CNARDCFACCC
EDITORE
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Presentazione e Autore

Prefazione

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Lista dei nomi e dei luoghi citati

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L’Italia non esiste

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INDICE DEI CONTENUTI

Copertina
Frontespizio
Colophon
Presentazione
Prefazione di Gilberto Oneto
1. L’Italia al naturale
Non c’è Italia che tenga
L’Italia à la carte
L’Italia contro natura
Italia che viene, Italia che va
L’Italia è mobile qual piuma al vento

2. Il popolo d’Italia
Italiani brava gente
L’Italia: il genio e il gene
Mamma Roma
Roma matrigna
How old is Italy?

3. I peli sulla lingua e il corpo della nazione


“Natio quia nata”?
La nazione in Francia e in Germania
Le nazioni in Italia
La lingua batte dove la nazione duole

Quante sono le lingue italiane?


Le piccole lingue crescono

4. L’Italia letteraria
La letteratura batte dove la lingua duole

Una regione, una lingua


I morti viventi
La piccola vedetta sarda

Lo straniero

5. Italia sì. Italiano


Un plebiscito al giorno...
Sei plebisciti di un giorno soltanto
Garibaldi, la Corsica e Ninco Nanco
La gabbia del Risorgimento

6. L’Italia di dentro
Le regioni annunciate

Regionamenti
L’Italia come Padania inconsapevole
Mezzogiorno di fuoco

7. L’Italia di fuori
Di Dalmazia il mare e il suol
En attendant Benito
Un fascio di muscoli e di idee
Irredenti veri e presunti
8. L’Italia in bilico
Venti anni dopo
La Sicilia se ne vuole andare
I confini naturali vacillano
Autonomia, federalismo, regioni

9. Finis Italiae?
Costituzione italiana e regione straniera
La guerra dei tralicci

Il risveglio delle periferie e il sonno del Sud


La sveglia padana

Progetti a vanvera, riforme a iosa


Ascesa e discesa della Lega Nord
Lo stato dello Stato
Che fare?

Lista dei nomi e dei luoghi citati


PRESENTAZIONE

Siamo proprio sicuri che la storia d’Italia è quella che ci hanno raccontato? Siamo
proprio sicuri che tutto l’ambaradan unitario e patriottico non sia una giustificazione
ideologica (dall’Ottocento a oggi) dell’esistenza di una nazione italiana e di una
identità risalente a Roma (quella antica)?
Salvi la vede molto diversamente. Vede che tutta la “truffa del Risorgimento” è basata
sulla ricostituzione di una entità che c’era e che – secondo la storia ufficiale – sarebbe
stata abbattuta e coartata da stranieri non meglio identificati, ma sicuramente incivili.
Così il Medioevo è stato trasformato in epoca oscura e nelle scuole del Regno e poi
della Repubblica si racconta che la luce di Roma (e d’Italia) si è spenta con la caduta
del patriottico e italico Impero romano e si è riaccesa quando i padri della Patria
hanno cacciato gli eredi di quegli antichi barbari teutonici.
Salvi vede nella storiografia di regime, refrattaria a qualsiasi revisionismo, la
narrazione di un passato zeppo di falsità e imprecisioni. Per questo vuole alzare il velo
che copre la vera storia del Bel paese.

***
SERGIO SALVI è nato nel 1932 a Firenze, dove vive. Ha debuttato come poeta e critico
letterario. Per anni ha diretto il Centro Mostre di Firenze. Affermato studioso dei
nazionalismi in Europa e nel mondo, su questi temi, e sulla tutela delle minoranze, ha
pubblicato diverse opere: Le nazioni proibite (1973), Le lingue tagliate (1975), Patria
e matria (1978), La disUnione sovietica (1990), La mezzaluna con la stella rossa.
Origini, storia e destino dell’Islam sovietico (1993), Tutte le Russie. Storia e cultura
degli Stati europei dell’ex Unione Sovietica (1994), Breve storia della Cecenia (Giunti,
1995). Occitania (1998), La lingua padana e i suoi dialetti (1999), Nascita della
Toscana (2001).
Prefazione
di Gilberto Oneto

La pianta del nostro autonomismo ha radici che risalgono al giorno


della formazione dello stato unitario, giacobino e questurino. Qua e
là nel tempo essa ha continuamente tentato di germogliare ma è stata
schiacciata dalla repressione italiana ma anche dalla propria
debolezza. Quest’ultima era essenzialmente il frutto di mancanza di
precisa consapevolezza identitaria, di sicuri riferimenti storici, di forti
elementi culturali: tutti strumenti che una pesante cappa di
italianizzazione, di omologazione e di disinformazione aveva tenuti
nascosti e inattivi. La grande, radiosa ed entusiasmante stagione del
risveglio identitario e autonomistico che ha riscaldato l’ultimo
decennio del Novecento è nata dal paziente e coraggioso lavoro di
pochi tessitori di verità che hanno tenuto in vita, rinvigorito e
portato alla luce le radici delle nostre libertà. Dobbiamo essere
riconoscenti a tutti quegli uomini e a quei gruppi che hanno
sostenuto la bandiera delle piccole patrie, delle autonomie locali,
delle aspirazioni alla libertà di comunità antiche e tenute legate e
imbavagliate e che, soprattutto attorno agli anni ’70 e ’80 hanno
ripreso a organizzarsi, a scrivere, stampare, diffondere idee e speranze.
Dobbiamo essere grati a quei pochi visionari che hanno – ad esempio
– presentato una lista “Libera Padania” alle elezioni del 1972, a Claus
Gatterer che registrava con puntiglio tutti i segni di conservazione e
di risveglio delle aspirazioni autonomiste consegnandole alla storia,
alla coraggiosa, gloriosa e amata rivista Etnie che, piccolo faro in una
profonda oscurità, cominciava a raccogliere attorno a sé i
sopravvissuti della lunga notte di buio tricolore e a trasformarli in
animatori e portatori di speranza. Ma dobbiamo soprattutto portare
grande affetto e gratitudine a due grandi uomini: a Gualtiero Ciola e
a Sergio Salvi.
Il primo ci ha riconsegnato un passato di cui essere orgogliosi, ci ha
fatto riscoprire i nostri veri antenati (i Celti e i Longobardi di quel
suo libro entusiasmante e liberatorio), ha fatto scendere dalla soffitta
polverosa della storia ufficiale il nostro vero album di famiglia, pieno
di volti famigliari, onesti, coraggiosi e sfortunati.
Sergio Salvi è il più costante, laborioso e tenace artigiano di
autonomia, di identità, di riscoperta storica. I suoi Le nazioni proibite
del 1973 e Le lingue tagliate del 1975 sono stati delle perle
miracolosamente ritrovate nell’immenso letamaio della pubblicistica
italiona, sono state il topicco (inciampo ndr) alla porta di Damasco
per moltissimi di noi, l’inizio di un percorso liberatorio e iniziatico
che ci ha portato alla Padania, Toscana, Sardegna e a tutte le altre
patrie negate e avviluppate dalla camicia di forza tricolore. Il percorso
che Salvi ci ha fatto fare ha risalito tutti i gradi di presa di coscienza
attraverso la conoscenza delle diversità e ricchezze linguistiche,
attraverso il valore fondamentale e fondante della lingua quale
collante identitario. Un percorso che lo ha portato (e ci ha portati)
nel 1999 al fondamentale La lingua padana e i suoi dialetti, vero
suggello della riscoperta della nostra padanità, vecchia di millenni e
nuovissima per rinnovato vigore.
Ma la sua opera migliore è sicuramente questo L’Italia non esiste che
viene qui ristampato grazie a un editore coraggioso e alla
testardaggine de La Libera Compagnia Padana.
Tutto l’ambaradan unitario e patriottico ha cercato e millantato
giustificazione ideologica (dall’Ottocento a oggi) nell’esistenza di una
nazione italiana, di una identità risalente a Roma (quella antica).
Tutta la truffa del Risorgimento (“come può esserci un Risorgimento
se non c’è mai stato un Sorgimento?” si chiede spesso proprio il Salvi)
è basata sulla riformazione di una entità che c’era e che – secondo la
storia ufficiale – sarebbe stata abbattuta e coartata da stranieri, poco
precisati ma sicuramente incivili: così il Medioevo è stato trasformato
in epoca oscura e nelle scuole del Regno e poi della Repubblica si
racconta che la luce di Roma (e d’Italia) si è spenta con la caduta del
patriottico e italico Impero romano (a opera di tognitti cattivoni) e si
è riaccesa quando i padri della Patria hanno cacciato gli eredi di
quegli antichi barbari teutonici, ovviamente rimasti cattivoni anche
loro. La baracca Italia ha trovato una sua pretestuosa giustificazione
in una colossale menzogna che Salvi smaschera, sbugiarda e
toscanamente sputtana.
In particolare si dedica a ribaltare il tavolino dove si pratica il gioco
delle tre tavolette attorno al nome Italia: una denominazione che
saltella da un capo all’altro della penisola e che nei secoli ha definito
parti diverse di territorio. Proprio su questo saltabeccare da tutte le
parti ha barato la retorica tricolore nel reclamare una (mai esistita)
unità “d’arme, di lingua, d’altare, di memorie, di sangue, di cor”.
Paraponziponzipò.
Voglio terminare con tre considerazioni.
La prima riguarda la provenienza ideologica di Salvi, che era
radicalmente opposta – ad esempio – a quella di Ciola e di molti
altri, ma proprio questo sta a significare che la voglia di libertà e
l’esigenza di spezzare la gabbia tricolore non sono incasellabili entro
etichette ideologiche. Ne è prova il fatto che il movimento
autonomista è stato fortissimo fino a che ha saputo stare
accuratamente lontano da tentazioni di classificazioni di destra e di
sinistra, e che si è rattrappito quando si è incautamente infilato in
una delle due tradizionali parrocchie con cui il sistema italiano fa
finta di dividersi.
La seconda riguarda la scarsa fortuna che ha avuto la prima edizione
di questo libro: stampato nel 1996, esso è rapidamente sparito sia nel
senso che le copie distribuite sono giustamente andate a ruba, sia nel
senso che il suo primo editore ha ritenuto più prudente (o politically
correct) evitare di rieditarlo. Eppure si tratta di un libro che avrebbe
dovuto essere stampato in milioni di copie e inviato a tutte le famiglie
da parte dei movimenti autonomisti (e c’è stato un momento in cui
avrebbero anche potuto agevolmente farlo invece di dedicarsi a
letterature e spettacoli d’altro genere), che avrebbe dovuto essere
obbligatoriamente imparato a memoria da chiunque aspirasse a una
cadrega o a una particina politica, nessuno (ma proprio nessuno)
escluso.
L’ultima è una triste precisazione. L’Italia in quanto entità identitaria
non esiste e Salvi lo dimostra. Ma esiste purtroppo in quanto entità
oppressiva e repressiva, in quanto motore di annientamento di libertà
e di autonomie: esistono l’Irpef, il modello Unico, la Digos, il Codice
Rocco, la Cartolina Precetto, il Manuale Cencelli, l’Inam. Esiste
tutto un parafernale raccattato dalla peggiore tragicomica
paccottiglia romano-imperiale, papalina, borbonica, giacobina,
burocratica, massonica, prefettizia, fascista, sindacalista, da tutte le
molteplici e ugualmente odiose maschere dietro cui si nasconde per
fare finta di esistere questo mostro untuoso, pelasgico e tracotante
che invece proprio non esiste.
1.
L’Italia al naturale

Non c’è Italia che tenga


L’Italia (o, meglio, l’idea dell’Italia) proprio non “tiene”. Da qualsiasi
parte la si sbirci, ci vengono incontro crepe, spiragli, varchi,
addirittura voragini. Eugenio Montale diceva della storia che “non si
snoda/come una catena/di anelli ininterrotta./In ogni caso/molti
anelli non tengono”. Forse la storia non esiste. È soltanto una
costruzione (abusiva) degli storici. Forse non esiste nemmeno l’Italia.
È soltanto una costruzione a posteriori di coloro che hanno, da un
po’ di tempo, cominciato a scrivere, a piene mani, le sempre più
numerose Storie d’Italia.
Del resto, un altro poeta del Novecento, Mario Luzi, ha appena
scritto: “L’Italia è un’illusione, anzi un miraggio, un oggetto del
desiderio”.
Non basta la fede (e non bastano nemmeno le opere) perché
un’entità immaginaria divenga reale anche se è stata immaginata da
una minoranza devota, lungo gran parte del XIX secolo, con indubbio
fervore: fino all’istituzione in suo nome, dovuta, è bene rammentarlo
sempre, alla volontà determinante di alcune grandi potenze europee,
di uno Stato fornito di tutti i crismi previsti dal diritto internazionale
(anche se dotato di scarso carisma).
Probabilmente, ci si accorge che l’Italia non c’è proprio perché c’è
“questo” Stato che si definisce, in maniera allo stesso tempo ingenua e
sfrontata, come “italiano”: nato nel 1861 per raccogliere entro i
propri confini due modelli di Italia virtuale (considerati, barando con
disinvoltura, uno solo), ha smarrito strada facendo la propria
motivazione originaria trasformandola in una sorta di peccato
originale e nascondendosi dietro di essa.
Dati entrambi, senza beneficio di inventario, come scontati e
addirittura coincidenti, questi due modelli (del tutto astratti) sono:
l’Italia-“regione naturale” e l’Italia-“nazione”. La prima sarebbe stata
creata dalla natura stessa entro confini ben definiti; la seconda dalla
millantata volontà della popolazione che abita all’interno di questi
confini di avere un’esistenza comune. Si tratta, purtroppo, di un
ircocervo, di una supposizione infondata cui non ha mai corrisposto
un sentimento, come si suole dire, “nazional-popolare” (cioè diffuso e
partecipato). Ne deriva soltanto una concezione che si potrebbe
definire, al massimo, “nazional-naturale”: la natura “creatrice” di
confini prevale così, di gran lunga, su ogni pretesa o presunta volontà
popolare. Il popolo latita, dunque: ma anche il territorio non è poi
così compatto come sembra. In realtà, come vedremo, è la somma di
cinque regioni geo-fisiche del tutto distinte, anche se non distanti tra
loro: una porzione dell’Europa continentale, una penisola, tre grandi
isole. Il tutto gabellato come “la Penisola” (il telegiornale disse, un
giorno d’agosto, che Palermo era stata quel giorno la città più calda
della penisola!). Così come, in realtà, il popolo italiano è la somma di
un pugno di popoli diversi sia pure, per loro sfortuna, tra loro
confinanti. Vedremo anche questo.
È facile constatare come all’Italia-Stato siano sempre sfuggite alcune
parti indispensabili di quest’Italia “nazional-naturale” (ieri Trento e
Trieste, oggi magari Pola e Tenda) posta a fondamento della sua
ragione di esistere. L’Italia-Stato è così soltanto una “frazione” di un
“intero”: di un intero (l’Italia nazional-naturale) che però, come
vedremo, con ogni probabilità non esiste. È, come dice Luzi, un
miraggio. Una frazione di zero è sempre uguale a zero. L’Italia-Stato
può apparire comunque un intero in quanto Stato (e non in quanto
Italia poiché parte di essa gli sfugge): ma non è preparata a prendere
atto di questa realtà sconcertante traendone le debite conseguenze.
Il suo comportamento in proposito è stato (ed è) schizofrenico. Nel
1863, Pietro Maestri, incaricato di redigere l’Annuario statistico
ufficiale del neonato e ancora smilzo Regno d’Italia, ritenne
opportuno raggruppare per “compartimenti topografici” i dati
raccolti. I compartimenti da lui individuati furono diciotto, ma quelli
attivati soltanto quattordici: quattro di essi rimasero, infatti, caselle
vuote, sia pure con la fondata fiducia che sarebbero state riempite al
più presto (cosa che del resto avvenne nell’arco di cinquantasette
anni). Si trattava del Veneto (annesso infatti dal regno nel 1866); del
Lazio (annesso nel 1870); della Rezia (in seguito Venezia Tridentina
e infine Trentino-Alto Adige) e della Giulia (annesse entrambe nel
1919-20).
Maestri si era direttamente ispirato all’elenco semiufficiale delle
“regioni italiche” stilato nel 1855 da Cesare Correnti, autore della
prima ricognizione esaustiva e accurata dell’Italia nazional-naturale
(una ricognizione eseguita alla corte sabauda sei anni prima
dell’istituzione dell’Italia-Stato). Maestri espunse, tuttavia,
dall’elenco correntiano due possibili compartimenti in esso indicati,
senza riservare loro nemmeno il rango di caselle vuote: la Corsica e
Malta.
Maestri non si peritò di irritare l’Austria, “padrona” di Veneto, Rezia
e Giulia, ma si guardò bene dall’apparire irriguardoso nei confronti
della Francia e del Regno Unito, che detenevano la sovranità su
Corsica e Malta e grazie ai quali l’Italia-Stato era appena sorta
(l’unica coraggiosa eccezione in proposito fu il Lazio, sotto la tutela
francese: ma nel Lazio sorgeva l’irrinunciabile Roma).
Il problema del rispetto verso gli alleati (o verso terzi) non si pose,
almeno formalmente, per altre porzioni di territorio nazional
naturale (indicate a chiare lettere da Correnti) in quanto sarebbero
potute finire, con un po’ di fortuna e senza dare troppo nell’occhio,
all’interno di compartimenti già istituiti: il Nizzardo (cui il re “sardo”
aveva però rinunciato in favore della Francia ancora prima di cingere
la corona d’Italia) e il Principato di Monaco, da convogliarsi
entrambi, eventualmente, nella Liguria; il Canton Ticino e la Val
Mesolcina, appartenenti alla Svizzera (destino eventuale: la
Lombardia), la Repubblica di San Marino (destino altrettanto
eventuale: l’Emilia). Va da sé che questi compartimenti erano
soltanto articolazioni di comodo, escogitate esclusivamente a fini
contabili, di uno Stato di destra sinistramente monolitico.
Stupisce, più della vicenda dei compartimenti, un comportamento
politico del tutto anomalo dell’Italia-Stato: mentre si era ritenuto
indispensabile privare, ad esempio, il Granducato di Toscana della
propria sovranità statuale ai fini supremi dell’unità nazional-naturale,
analogo ragionamento non è mai stato fatto a proposito di San
Marino (con buona pace dell’ottimo Correnti e dei suoi numerosi
predecessori) quasi fosse situata sui Carpazi. Forse si voleva una
minuscola eccezione per confermare una regola “ferrea”. Incamerare
San Marino sarebbe stato, del resto, uno scherzo: forse il Regno
d’Italia non amava scherzare. Ambiva, invece, per compiere l’unità
nazional-naturale, dedicarsi “seriamente” all’arte sottile della
diplomazia e, quando gli sembrava conveniente, a quella, ben più
grossolana, della guerra: purché sanguinosa e condotta all’ombra di
alleati forti e rassicuranti.
Nel 1882, come si sa, l’ingresso furtivo del regno nella Triplice
Alleanza, al fianco dell’Austria aborrita, spedì ufficialmente la Rezia e
la Giulia nello stesso deposito dove erano parcheggiate da vent’anni la
Corsica e Malta. Al contrario dei governi, i circoli irredentistici
continuarono vigorosamente a rivendicarle, costringendo
l’ipernazionalista Crispi a dichiarare più volte che quest’irredentismo
a senso unico gli sembrava pura farina del sacco anglo-francese e che
la Corsica e Malta non meritavano davvero di essere dimenticate e
sacrificate per Trento e Trieste. In realtà mirava all’Africa: ma si
trovava la strada sbarrata proprio dai francesi e dagli inglesi.
Grazie a un nuovo e repentino cambio di alleanze e alla vittoria
dell’Intesa nella prima guerra mondiale, anche la Rezia e la Giulia
vennero alla fine incorporate nell’Italia-Stato; la Corsica e Malta
rimasero invece (e non poteva essere altrimenti) sotto la sovranità
degli alleati di ritorno: Francia e Regno Unito. Per la Svizzera
“italiana”, ci si limitò sempre a tutelarne dal di fuori lingua e cultura.
Prima di annettersi Rezia e Giulia, lo Stato italiano aveva tuttavia
implicitamente tradito la propria ragione di esistere destinando fondi
ed energie (rilevanti), anziché al compimento della propria (anche se
supposta) “unità nazional-naturale”, alla contrastata conquista
d’alcune sparute e macilente colonie.
Mussolini, una volta approdato al potere, riprese con coerenza a
rivendicare, sia pure ufficiosamente, tutte le terre ancora irredente
comprese nella mappa profetica di Correnti (ma si accontentò
dell’istituzione di un regime fascista a San Marino) e, nel suo
inarrestabile delirio imperialista, mise contemporaneamente gli occhi
su molte regioni limitrofe e le mani sull’Albania e l’Etiopia. L’alleanza
con la Germania gli fu tuttavia fatale. Nonostante un nuovo cambio
d’alleanze escogitato fuori tempo massimo dal regno, la salutare
sconfitta suggellata dalla fine della seconda guerra mondiale portò
alla fine, oltre che di Mussolini, anche del regno stesso. E alla perdita
delle colonie, di buona parte della Venezia Giulia e di un sopracciglio
delle Alpi occidentali.
La nuova Costituzione repubblicana del 1948 sancì, con un barlume
di coscienza rinnovatrice (offuscato però da un impotente quanto
evidente rammarico), la rinuncia ad ogni sogno coloniale e ad ogni
rivendicazione irredentistica (escluso il Territorio libero di Trieste a
proposito del quale fu istituita, alla vecchia maniera di Maestri, una
casella sul momento vuota: la regione autonoma a Statuto speciale
Friuli-Venezia Giulia).
Da Stato concepito per tutti gli “italiani” (con la dubbia motivazione
che soltanto “uniti” sarebbero potuti divenire prosperi e “liberi” al
suo interno e “indipendenti” nei confronti dell’esterno), lo Stato
italiano si è dunque ridotto a essere lo Stato degli “italiani” divenuti e
rimasti fortunosamente nel tempo suoi cittadini (per giunta non
sempre liberi, non tutti prosperi e spesso nemmeno indipendenti sul
serio).
Da ciò emerge una contraddizione vistosa: alla rinuncia implicita a
compiere l’unità nazional-naturale secondo il programma iniziale, si
contrappone infatti la convinzione, sia pure mascherata, dello Stato
repubblicano di essere, nonostante tutto, la patria di “tutti” gli
“italiani”: compresi gli emigrati e gli irredenti. Lo afferma
implicitamente il secondo comma dell’articolo 51 della Costituzione
vigente quando stabilisce che ai “pubblici uffici” e alle “cariche
elettive” dello Stato sono ammessi, insieme ai “cittadini italiani”,
anche “gli italiani non appartenenti alla Repubblica”.
Nonostante nessuno pensi più al Ticino e alla Corsica, è forse per
questa pretesa costituzionale che qualcuno, approfittando del crollo
della Iugoslavia, ha di recente espresso alcuni pensierini lubrichi a
proposito dell’Istria ma anche della Dalmazia (che pure è
provvidenzialmente situata fuori dei confini eretti dalla “natura” a
presidio della “nazione”). Ma la ragione del fallimento dello Stato
italiano è un’altra ed è del tutto opposta.
Oltre a essere due cose diverse, l’Italia-regione naturale e l’Italia
nazione, assai probabilmente, non esistono se non come fantasie o
astrazioni: esistono invece, sicuramente, realtà concrete che non
trovano nell’Italia-Stato, così come si è strutturata e a prescindere dal
suo mancato compimento, un denominatore comune.
A quegli aspetti che gli studiosi definiscono lo “Stato-ordinamento” e
lo “Stato-apparato” (che pure esistono anche se inefficienti) non
corrisponde, infatti, uno “Stato-comunità” (che è già cosa diversa da
una nazione). Ad essi soggiacciono invece “comunità” (che
potrebbero anche essere nazioni) dall’identità propria e profonda,
magari stremate, che tuttavia rivelano insospettabili doti di resistenza
all’assorbimento: malgrado la loro scarsa consapevolezza culturale e
politica (e la loro omogeneizzazione non sarebbe certo, proprio da un
punto di vista allo stesso tempo culturale e morale, da considerarsi un
fatto positivo anche se fosse tecnicamente possibile).
Si può allora affermare che l’Italia-Stato non funziona perché
assomiglia ad una macchina composta di pezzi tra loro non
componibili, tenuti insieme dalla forza delle leggi a dispetto della
forza di gravità. Per questa ragione l’Italia come Stato è in stato
permanente di decomposizione. Lo Stato stesso sembra accorgersi,
tutte le volte che è costretto a guardarsi allo specchio, di girare a
vuoto.
Non è un caso se, pur proclamandosi ufficialmente “uno e
indivisibile”, riconosce ufficiosamente di essere diviso tra un “Sud” e
un “Nord” mai composti e sempre meno componibili. Ha dovuto
assumere, addirittura più di un secolo fa, la “questione meridionale”
quale propria lancinante ossessione sforzandosi in mille modi (tutti
costosissimi e inefficaci) di comporre il divario, impressionante, tra il
proprio Nord e il proprio difficile Sud. E sta assistendo, allibito,
mentre questo divario continua a crescere, alla nascita, per reazione,
di una “questione settentrionale” che ha segnato la rivolta improvvisa
del Nord fino al configurarsi di una vera e propria ipotesi
secessionista (l’unica davvero seria comparsa lungo il corso della sua
storia), per sua fortuna rientrata, almeno provvisoriamente.
I pezzi che, in teoria, compongono (e nella realtà scompongono)
l’Italia-Stato sono comunque più di due, anche se la presenza
quantitativamente troppo vistosa dei due principali (basta una
ondata di maltempo particolarmente intensa perché si interrompano
puntualmente le comunicazioni tra di essi) ne confonde la percezione
e perfino la vista.
Qualcuno dei pezzi minori, poi, mostra persistenti amitiés
dangereuses con realtà a essi omogenee situate oltre i confini di Stato e
talvolta ben al di là di quelli innalzati dalla “natura” (vedi il Tirolo).
Si può pertanto affermare che se l’Italia è a pezzi lo è per propria
natura e per le troppe “nazioni” che la compongono.
Va da sé che non basta riformare dall’alto e in superficie ordinamenti
e apparati per suscitare una comunità che non esiste, per rendere
“uno” (o anche soltanto armonioso) ciò che è invece molteplice (e
dissonante). Il difetto, come direbbero gli esperti in utensileria, è
tutto nel manico.
L’Italia à la carte
Lo Stato italiano è il prodotto di una Grande Illusione, del mito di
un Risorgimento che non poteva avvenire per la semplice ragione che
mancava qualsiasi precedente Sorgimento. Di più: mancavano le
condizioni per un Sorgimento qualsiasi. Eppure, per una serie di
coincidenze fortunate e irripetibili, gli sforzi generosi di una
minoranza di sognatori, sfruttati con abilità da una piccola potenza
locale (di origine transalpina e pertanto “innaturale”), hanno avuto
apparentemente successo.
Che il successo sia stato soltanto apparente lo dimostra l’insuccesso
di un’ingegneria statuale ottusa, originaria anch’essa di una regione
straniera (la Francia) e fondata su una premessa che, come s’è appena
detto, aveva la consistenza delle sabbie mobili: l’idea dell’Italia “una”
nel corpo (il territorio sancito dalla “natura”) e nell’anima (la
“nazione”) che doveva per forza e con forza realizzarsi nell’unità
politica più stretta ed efferata.
Nonostante l’impiego massiccio di bandiere e fanfare, nonostante
l’erezione frenetica di monumenti e l’apposizione forsennata di lapidi
e targhe, nonostante il coinvolgimento pressante dei media e della
scuola (compresa l’università), l’Italia-Stato ha fallito proprio in
quella operazione che gli studiosi considerano fondamentale per la
riuscita di ogni esperimento statuale: l’“invenzione di una tradizione”
(secondo la felice formula di Eric J. Hobsbawm e Terence Ranger)
comune a tutti i cittadini, nella quale questi potessero riconoscersi,
indipendentemente dalla sua verità, sacrificandosi stoicamente (o
magari spensieratamente) in suo nome, senza indifferenza, renitenze
e repentine inversioni di campo. I miti non devono essere veri ma
trainanti e, come si dice, partecipati.
A dire il vero, questa “tradizione” era già stata “inventata”, con
maggiore o minore coerenza, da quella minoranza di sognatori di cui
s’è parlato, ma era rimasta suo patrimonio pressoché esclusivo. Lo
Stato italiano ha soltanto, e grossolanamente, fallito nella gestione e
nella divulgazione di questa tradizione presunta. Molti prodotti
deludenti sono riusciti, con la pubblicità e la buona distribuzione, ad
imporsi sul mercato italiano; il prodotto Italia, no.
Oggi che si è consolidata nel mondo, oltre alla nuova “scienza”
dell’economia aziendale e dell’advertising, anche quella disciplina
accademica che indaga la formazione degli Stati nazionali e le vicende
dei nazionalismi (disciplina che, significativamente, non ha ancora
cultori in Italia nonostante la traduzione trafelata dei suoi piccoli
classici avvenuta negli ultimissimi anni: da Smith a Connor, da
Gellner a Hechter, da Tilly a Kellas, da Seton-Watson allo stesso
Hobsbawm), abbiamo a disposizione un lessico specializzato
attraverso il quale è possibile descrivere il fallimento. Lo Stato
italiano, durante le sue varie incarnazioni, non è mai riuscito a
proporsi come mythomoteur convincente perché si è stolidamente
perduto nelle secche di un’operazione puramente demagogica e
contraddittoria di nation-building, condotta così male da innescare,
alla fine, un processo di nation-destroying (nation sta qui per “Stato”).
Mussolini tentò addirittura una operazione di Empire State-building
(e tutti sanno il successo che gli arrise).
Il mito ha funzionato soltanto ampliando notevolmente (in termini
quantitativi) la minoranza dei suoi depositari storici, sempre meno
composta di sognatori e sempre più fitta di detentori, a vario titolo,
del potere (magari soltanto intellettuale). Per quanto riguarda la
maggioranza dei cittadini, il loro comportamento ormai storico nei
confronti del mito-base dello Stato può essere, al massimo, indicato
ricorrendo alla formula, assai deludente e scarsamente attendibile, del
silenzio-assenso (un silenzio rotto soltanto da poche grida e da molti
bisbigli). E questo è grave perché nessuno sa quando una
“maggioranza silenziosa” comincerà a parlare e che cosa riterrà di dire
in quel preciso momento.
Nell’Italia-Stato, i politici e gli intellettuali “che contano” mostrano
di contare ancora, in modo visibilmente concreto, sull’esistenza
astratta dell’Italia (anche se periodicamente ritengono di dover
“aggiustare” l’Italia concreta con astratte riforme per giustificarne la
permanenza e garantire la propria sopravvivenza al suo interno).
Questa fede è il più delle volte professata con candida buona fede e
deriva, come tutti i riflessi condizionati, dall’abitudine, dalla pigrizia
e da una superficialità culturale che varca spesso le soglie
dell’ignoranza. È un dogma che si tinge di superstizione, un tabù che
non va assolutamente violato. Anche soltanto discuterne è
considerato un peccato mortale che può spedire direttamente
all’inferno (e, secondo l’articolo 241 del Codice Penale, all’ergastolo:
è significativo ricordare che quest’articolo, mai revocato, è farina del
sacco fascista di Rocco e prevede ancora l’ergastolo anche per chi
mostri l’intenzione di distaccare una “colonia”, ad esempio l’Eritrea,
già del resto ampiamente distaccatasi, dalla “madrepatria”).
Appare sconcertante constatare che credono a questa Italia rituale
cattolici e laici, “destra” e “sinistra”, Scalfaro e Scalfari, Fini e Dini, il
Bassolino e la Mussolini. Perfino Bossi, quando rivendica l’identità
separata del “Nord”, afferma l’esistenza implicita dell’Italia; non
allude, infatti, alla Lapponia e nemmeno alla Svizzera ma all’Italia
settentrionale che è, come ognun sa, solo una porzione dell’Europa
più banalmente meridionale. Ogni esorcismo presuppone l’esistenza
del diavolo. Nello Stato italiano, credono nell’esistenza dell’Italia
anche coloro che credono di non dover credere in quella di Dio.
Politici e intellettuali di varia opinione (compreso quel trait-d’union
tra le due categorie che sono i politologi-opinionisti) sono convinti
che le prove dell’esistenza dell’Italia siano inoppugnabili, oppure che
ogni riflessione in merito appaia inutile e ormai superata (a loro basta
uno Stato che indossi la maschera della nazione). Una riflessione
aggiornata e non conformista ci rivela invece che queste prove sono
soltanto indizi. E sono indizi labili, facilmente smontabili uno per
uno.
Per esempio: dov’è Dio? Il vecchio catechismo rispondeva
speditamente: “In cielo, in terra e in ogni luogo”. L’Italia è invece solo
in terra, in una minuscola porzione della superficie terrestre. La
prima prova della sua esistenza è dunque una prova fisica. Purtroppo,
emergono dai fumi del linguaggio comune (e dell’idem sentire),
quando si parla dell’Italia, tre Italie fisicamente diverse: l’Italia-Stato,
l’Italia-regione geografica e l’Italia-nazione (per coloro che credono
nelle nazioni e che correttamente non le confondono con gli Stati).
Basta consultare un atlante scolastico per rendersi conto che queste
tre Italie non coincidono (o, meglio, coincidono solo in parte). La
carta dell’Italia politica ci dice, ad esempio, che San Marino ne è
esclusa. La carta dell’Italia fisica e quella dell’Italia etnolinguistica
(quest’ultima forse a torto) ci dicono invece che la repubblica del
Titano vi è compresa. Parliamo, per carità di patria, solo di San
Marino. Le discrepanze sono molte di più e assai più vaste e
scandalose, nell’un senso e nell’altro. Esistono, insomma, troppe
Italie à la carte.
Sembrerebbe che l’Italia-Stato fosse l’unica entità territoriale dotata
di un’esistenza tangibile, misurabile. Sulla scala dei decenni, l’Italia
Stato si presenta tuttavia come una realtà fin troppo variabile.
Misurava 248.000 kmq nel 1861 quando è nata, 286.000 nel 1871,
310.000 nel 1920. Oggi ne misura 301.000. E niente ci assicura che
rinuncerà a estendersi o a ritrarsi a fisarmonica, a seconda degli eventi
politici e militari nei quali può sempre incappare.
L’Italia-Stato, lo si ripete, è stata istituita (appena centoquarantadue
anni fa) nel nome dell’unità politica dell’Italia nazional-naturale:
un’unità, allora, ancora di là da venire (Roma era stata dichiarata
ufficialmente capitale anche se sfuggiva allo Stato), a proposito della
quale si è presentata a se stessa come consistente anticipazione
(nell’attesa dichiarata di tempi migliori). La prova dell’esistenza di
uno Stato che si chiama Italia non prova però l’esistenza dell’Italia
quale suo presupposto. Questo Stato potrebbe chiamarsi, forse a
maggior ragione, “Repubblica delle Alpi Meridionali, del Po,
dell’Appennino e del Mediterraneo centrale”. Oppure, rifacendosi
alla realtà politica sudamericana e alla repubblica “boliviana”,
Garibaldia.

L’Italia contro natura


L’esistenza fisica dell’Italia-Stato rimanda ineluttabilmente
all’eventuale esistenza di un’Italia ugualmente fisica ma un po’ più
vasta, nella quale credeva perfino Metternich quando ebbe a definirla
una semplice “espressione geografica”. All’Italia-Stato, partorita dagli
uomini, si è voluto e dovuto dare, come supporto indubitabile,
un’Italia partorita dalla natura: una prova provata, non una
tautologia.
La verità è che non esiste, secondo la geografia fisica (l’unica autorità
in grado di fornire una prova siffatta), una regione naturale chiamata
Italia. Essa esiste invece in letteratura: per esempio, nel sonetto del
Petrarca che la definisce “‘l bel paese/ch’Appennin parte, e ‘lmar
circonda e l’Alpe”. Nonostante il fatto che i manuali in uso per gli
italiani indichino l’Italia come una penisola “ben ritagliata” in quanto
“circoscritta dalle Alpi e dal mare” e quindi “una delle regioni
naturali meglio identificate dell’Europa”, l’unica penisola evidente in
natura è quella che si stacca dal contorno continentale più o meno
all’altezza dell’allineamento Magra-Rubicone (che ne costituisce il
“collo”) e che, come tale, può ben definirsi una regione naturale. I
geografi la chiamano Appenninia.
Le Alpi, che corrono all’interno del tronco continentale,
racchiudono una diversa regione naturale (chiamata Padania dai
geografi) che termina dove inizia la penisola (o viceversa). Sono
regioni naturali anche le tre grandi isole adiacenti alla penisola.
Dicendo questo, non pretendiamo certo di scoprire l’America e
nemmeno di coprire l’Italia. Uno dei padri fondatori della geografia
italiana (che è nata soltanto nel xx secolo), Renato Biasutti, lo ha
perentoriamente affermato nel 1947, nonostante molta prudenza
patriottica: “La regione italiana può essere considerata con
fondamento una buona regione geografica: non può ambire invece
alla qualifica di regione naturale”.
Torniamo alla penisola, che offre tuttavia qualche problema
d’identificazione.
Qual è la linea di collo di una penisola?
Abbiamo, in teoria, due linee possibili: una “geometrica” (la distanza
più breve tra i due punti estremi del collo stesso), e una che
s’identifica con un confine naturale (quando c’è). Nel secondo caso
sarebbe l’Appennino settentrionale (che si distacca dalle Alpi al Colle
di Cadibona, secondo la convenzione attuale) a segnare il confine fra
la Padania e l’Appenninia, fra il tronco continentale e la penisola. La
Liguria-regione amministrativa farebbe così parte dell’Appenninia.
Nel primo caso, invece, la Liguria sarebbe, anche dal punto di vista
fisico, parte di una Padania cui è legata del resto da caratteri
antropici, storici ed economici prevalenti.
Lo stesso discorso vale anche per la penisola iberica, il cui collo
geometrico corrisponde, grosso modo, all’attuale confine politico
franco-spagnolo mentre il confine identificabile con i Pirenei
porrebbe la costa settentrionale della Spagna paradossalmente fuori
della penisola: i Pirenei, nel loro tratto occidentale, si prolungano,
infatti, nella Cordigliera cantabrica. Altre penisole più fortunate, per
esempio la Florida e lo Yucatán (da non confondere con gli Stati
omonimi), hanno invece soltanto un collo possibile: quello
geometrico.
Comunque la si prenda per il collo, l’Italia-“espressione geografica”,
lungi dall’essere una regione naturale definita da comuni parametri
geomorfologici, idrografici, climatici (e così via), è in realtà la somma
di cinque regioni naturali (Padania, Appenninia, Sicilia, Sardegna e
Corsica) che soltanto la storia, la politica e soprattutto la letteratura
hanno aggregato in modi e in tempi sempre incredibilmente diversi.
Niente avrebbe, “naturalmente”, vietato una diversa aggregazione
storico-politico-letteraria di regioni naturali contigue dell’Europa
meridionale.
L’Italia geografica può essere allora, al massimo, considerata una
regione “convenzionale”: le convenzioni non sono sottoposte, per
loro natura, ad alcun criterio interno di verità. Sono tali quando
vengono accettate. E possono sempre essere revocate e sostituite.
Appare facile constatare come la prova dell’esistenza di un’Italia
“naturale” non esista. Da questo punto di vista, l’Italia può esistere
soltanto contro natura.
Andrebbe comunque tenuto presente che per la maggioranza dei
geografi non esiste più nemmeno la geografia generale (o integrale)
ipotizzata nel XIX secolo. Oggi esistono, ad esempio, una “geografia
fisica”, che riguarda i fenomeni naturali della terra, e una “geografia
umana”, a sua volta distinta in molte discipline o ambiti di ricerca. Il
maggiore geografo italiano contemporaneo, Lucio Gambi, nega del
resto la possibilità di indagare con un’unica metodologia i fenomeni
più diversi che si svolgono sulla terra.
La geografia fisica è inoltre divisa, al suo interno, in scuole
contrapposte. Alla fine del XIX secolo, la maggioranza degli studiosi di
questa disciplina si è accordata per far coincidere, dove possibile, le
regioni naturali con i grandi bacini idrografici ponendone i confini
lungo le linee di spartiacque (o displuviali) delle catene di monti.
L’accordo è stato ratificato dalla scuola e dall’università.
Non va però dimenticato che altri studiosi, non meno validi (per
esempio Elisée Reclus), considerano invece queste catene, quando
appaiono particolarmente vaste e diffuse, come regioni naturali in sé
e di per sé: non divisibili dunque per versanti. Esisterebbe, allora, una
regione fisica alpina (che lambirebbe ad ovest il Rodano, toccherebbe
a nord-est il Danubio e di cui farebbe parte perfino il Bosco viennese)
che sottrarrebbe pertanto il proprio versante meridionale alla regione
naturale padana. Questa regione alpina (senza le Prealpi) si estende
per ben 260.000 kmq (appena 41.000 kmq in meno dello Stato
italiano).
A proposito di cifre, è interessante rilevare come all’Italia-Stato
sfuggano, oggi, più di 21.000 kmq (corrispondenti all’incirca alla
superficie della Toscana) tra tutti quelli attribuiti all’Italia-regione
convenzionale dagli spartiacquisti. E che l’Italia-Stato si estende
casualmente per 767 kmq oltre tale regione.
All’Italia-Stato sfuggono, anzitutto, due enclaves incuneate nel suo
territorio: la Repubblica di San Marino (l’unico superstite degli Stati
pre-unitari) e lo Stato della Città del Vaticano (istituito nel 1929 in
conseguenza dei Patti Lateranensi). Per quanto riguarda le isole,
mancano all’appello la Corsica e l’arcipelago maltese.
Più complessa la situazione lungo l’arco alpino: sono “francesi” circa
200 kmq della porzione cisalpina occidentale ma sfuggono,
soprattutto, al destino “italiano” della regione padana i territori della
cosiddetta “Svizzera italiana” (che alcuni irredentisti locali
chiamavano “Italia svizzera”): l’intero Canton Ticino e quattro valli
del Canton Grigioni (Mesolcina, Calanca, Bregaglia e Poschiavo). È
grigione, e quindi Svizzera, anche la val Müstair (che è la valle
superiore dell’Adige).
Ad oriente, il confine naturale è più incerto: mentre la linea di cresta
corre sui Tauri ed è tutta compresa nel bacino danubiano, lo
spartiacque principale passa invece sulle Alpi Carniche e Giulie fino
all’Adriatico. Appartengono quindi al bacino padano-adriatico i
territori che vanno da questo spartiacque all’attuale confine di Stato
tra Italia ed ex Iugoslavia (Slovenia e Croazia), compresa l’Istria.
Le Alpi Marittime, come si sa, piegano a gomito all’interno della
costa, tra il Colle della Maddalena e il Colle di Cadibona, ed è quindi
impossibile stabilire un confine naturale sul mare se non come
prolungamento fino alla costa sottostante. Gli studiosi che lo fissano
al Varo sbagliano per eccesso: il Varo nasce dal versante transalpino,
come pure la Roia. Anche la Roia è, per le stesse ragioni, un confine
“naturalmente” contestabile. Appare tuttavia sostenibile in quanto,
saldandosi le Alpi Marittime con gli Appennini, il punto di
giunzione potrebbe essere il Col di Tenda, secondo la ripudiata
convenzione ottocentesca, giustificando così, proprio da questo
punto (non più soltanto di vista), un prolungamento fino al mare.
In mancanza di un confine naturale non contraddittorio, si potrebbe
far valere il confine linguistico che passa all’altezza di La Turbie
(prima di Nizza ma dopo Monaco). In questo caso, una buona
porzione della vecchia contea nizzarda e tutto il principato
monegasco apparterrebbero alla regione geografica
convenzionalmente italiana. Ma confondere i confini naturali con
quelli linguistici (“nazionali”) è pericoloso. Nel caso dell’Italia
continentale, poi, essi non coincidono quasi mai.
Appartengono invece all’Italia-Stato, ma sicuramente non alla
regione geografica italiana, circa 650 kmq disseminati lungo l’arco
alpino nonché le isole di Pantelleria, Linosa, Lampedusa e Lampione,
situate nello zoccolo africano.
Si è detto che lo Stato italiano, durante la sua breve storia, si è
espanso e si è ristretto a fisarmonica. Questo, per fortuna, non è
accaduto alla regione convenzionale posta a suo riferimento, che può
essere considerata relativamente stabile. Ma non eterna. Durante il
Pliocene la Pianura Padana poteva essere attraversata soltanto in
barca. Durante il periodo del massimo glaciale würmiano si poteva
invece andare a piedi da Pescara a Zara. Gli attuali contorni
dell’Italia-regione risalgono al 5000-3000 a. C. ma stanno ancora, sia
pure lentamente, modificandosi e addirittura spostandosi a causa dei
movimenti delle “zolle” che suddividono la crosta terrestre: Brindisi
sta infatti dirigendosi verso Valona, in Albania, alla velocità per
fortuna non preoccupante di otto millimetri all’anno.
Italia che viene, Italia che va
Il nome “Italia” (pronunciato Italía dai greci, Itàlia dai romani e
Itàglia da Mussolini), dal significato ancor oggi sconosciuto, è stato
coniato dai greci che si stabilirono nella penisola (e in Sicilia), a
partire dall’VIII secolo a.C., credendo a lungo di essersi insediati in
un’isola attigua alla Sicilia stessa (come questa di forma triangolare) il
cui vertice meridionale era collocato dove sorge Melito di Porto
Salvo.
La prima attestazione di questo nome da parte dei greci risale al vi
secolo a. C. ma designa soltanto l’odierna Calabria meridionale fino
all’allineamento golfo di Squillace-golfo di Santa Eufemia. Poi il
nome inglobò un territorio che si spostò, a tappe nemmeno troppo
forzate, sempre più verso nord.
Eccone l’itinerario.
IV secolo a. C.: l’Italia raggiunge l’allineamento Lao-Metaponto.
Erodoto vi comprende Taranto. Altri scrittori greci v’inseriscono
anche la costa tirrenica fino all’altezza di Cuma (è, in sostanza, la
Magna Grecia).
Fine del III secolo a. C.: i romani, dopo essersi impossessati del
termine greco, fanno giungere il limite settentrionale di quest’Italia,
da loro ormai ipotecata anche se non ancora conquistata, fino
all’allineamento Fine-Esino (Pisa, in questo momento, è situata
ancora fuori d’Italia). Si erano del resto già impossessati anche della
sua etimologia facendola derivare dal latino vitulus (“vitello”). Festo
sosterrà: “Italia dicta quod magnos italos, hoc est boves habeat: vituli
enim ab Italis itali sunt dicti”, inducendoci a confondere
l’Appenninia meridionale di allora con la Pampa argentina d’oggi.
Inizio del I secolo a. C.: l’Italia dei romani raggiunge l’allineamento
Arno-Rubicone unificando nel nome, per la prima volta, “quasi
tutta” la penisola (Pisa finalmente è “italiana” ma Lucca è ancora in
Gallia), nonostante le conquiste militari di Roma comprendano già
parti consistenti delle odierne Italia settentrionale, Francia
meridionale, Spagna, Africa settentrionale e regione balcanica.
L’Italia è, per i romani, soltanto un concetto geografico mentre la
confinante, vastissima Gallia, di là dalle ripartizioni provinciali, è già,
per loro (dall’Appennino fino all’Atlantico), un concetto
prevalentemente etnico.
Fine del I secolo a. C. – inizio del I secolo: la pianura padana (la
provincia della Gallia Cisalpina) viene inserita per la prima volta,
terminologicamente, nell’“Italia” romana (42 a. C.). Il termine
diventa, poco dopo, ufficiale e indica il prolungamento giuridico
amministrativo di Roma-Stato: a tutti gli abitanti di quest’Italia
viene, infatti, concessa la cittadinanza romana (e sono tutti esentati
dalla tassa sul suolo). Di là da essa vivono i sudditi delle province.
È il primo modello di “Italia unita” ed è sancito dalla riforma di
Augusto. Ma ad esso sfuggono, rispetto all’Italia-regione
convenzionale dei geografi generali del XIX secolo, buona parte del
versante meridionale delle Alpi (imputato alle province delle Alpi
Marittime, delle Alpi Cozie e della Rezia), la Sicilia, Malta, la
Sardegna e la Corsica.
Nonostante si siano ad esso ispirati, lungo i secoli, i fautori e gli
zelatori dell’unità, prima geografica e poi politica, dell’Italia, si tratta
di un modello di riferimento troppo approssimato per difetto per
costituire una tradizione valida. Il fatto che i romani ne escludano le
grandi isole e tendano a tenere uniti, fuori d’Italia, i due versanti
alpini, costituisce poi un antefatto significativo.
La sottile striscia costiera che corre sotto le Alpi Marittime prolunga,
a ovest, l’Italia augustea fino al Varo: ma Nizza, che è situata di qua
dal Varo, è assegnata da Augusto alla Gallia Narbonensis. Ad est,
l’Italia comprende soltanto due terzi dell’Istria: il confine con la
Dalmatia corre, infatti, sul fiume Arsia. L’Italia di Augusto è
comunque divisa in undici “regioni”, molte delle quali a
denominazione di origine etnica controllata (Liguria, Venetia,
Etruria, Umbria, Samnium, Campania, Lucania, Bruttium), a
dimostrare le diversità di base di quest’entità.
III secolo: l’impero romano diventa “universale”: nel 212 la
cittadinanza romana viene infatti estesa a tutti i suoi abitanti (esclusi
gli schiavi) e anche gli abitanti dell’Italia vengono assoggettati a
tributi (così come accadeva ai sudditi delle province). Nuove
divisioni territoriali dell’impero incombono.
Con la tetrarchia, l’impero sfoggia ben quattro capitali (Milano,
Treviri, Sirmio e Nicomedia), mentre Roma decade al ruolo di
capitale morale. Nel 297, Diocleziano divide l’impero in dodici
“diocesi”, tra le quali figura una diocesi “italiciana” (non “italica”)
formata dall’Italia augustea, dalle province di Sardegna e Corsica, di
Sicilia (con Malta), di Rezia (che giunge fino al Danubio) e da una
porzione della Pannonia (fino alla Sava). All’Italia augustea viene
sottratto un orlo territoriale situato nell’estremo occidente (Aosta
passa alla Gallia): nonostante questa riduzione, le aggiunte sono tali e
tante che anche questo secondo modello di Italia romana si rivela
ancora troppo approssimato (questa volta per eccesso) per costituire
un esempio valido. La sua capitale è comunque Milano. Al posto
delle undici regioni compaiono dodici province, che poi diventano
diciassette.
IV secolo: la diocesi italiciana viene divisa in due parti: l’“annonaria”
(corrispondente grosso modo alla regione continentale) e la
“suburbicaria” (quasi tutta la penisola). La situazione pre-augustea è
in qualche modo ripristinata. La parte annonaria prende il nome di
Italia tout-court, la suburbicaria è un’estensione dell’urbs.
L’Appennino centrale ritorna un confine.
Nel 330, l’impero viene riorganizzato in quattro prefetture: Italia e
Africa; Gallia; Illirico; Oriente. Il villaggio greco di Bisanzio muta il
nome in Costantinopoli e diviene, sviluppandosi urbanisticamente,
una credibile “seconda Roma”. Nel 395, l’impero si fa, da uno, bino:
nasce l’Impero romano d’Oriente, con Costantinopoli quale capitale.
La capitale di quello d’Occidente è Ravenna. La “prima” Roma
langue.
v-x secolo: nel 476 crolla l’Impero romano d’Occidente ad opera dei
“barbari”. Odoacre e poi Teodorico (re degli ostrogoti) reggono
l’Italia romana (escluse Corsica e Sardegna) fino al 553, quando
avviene la riconquista bizantina. Mentre la Sicilia viene amministrata
direttamente da Costantinopoli, la Sardegna e la Corsica vengono
assegnate da Costantinopoli alla nuova Prefettura d’Africa.
Nel 568, i longobardi iniziano a trasferire il loro regno dalla
Pannonia all’Italia-regione, che sottraggono progressivamente (anche
se non tutta) ai bizantini. Contrariamente a quanto hanno sostenuto
alcuni studiosi, il nome del nuovo Stato (con capitale Pavia) sarà
sempre quello di regno dei Longobardi e mai quello di regno d’Italia.
Anzi: per lungo tempo, gli “italiani” saranno conosciuti in Europa
come “lon(go)bardi” (vedi, a Londra, la Lombard street). I superstiti
domini bizantini nell’Italia-regione convenzionale (senza Sardegna e
Corsica) sono dapprima raggruppati nell’Esarcato. Poi, con la caduta
dell’Esarcato per mano longobarda (751), ciò che rimane del
dominio bizantino (nel Sud della penisola) assume, paradossalmente,
anch’esso il nome di “Tema di Longobardia”. Il nome d’Italia si
smarrisce anche quale connotazione meramente geografica. Nell’VIII
secolo, un celebre glossario che spiega alcuni termini divenuti
incomprensibili, informa che Italia significa Longobardia.
Nel 774, i franchi, alleati del papa, iniziano l’inserimento del regno
longobardo nel loro Stato. Nell’800, Carlomagno, ormai “re dei
franchi e dei longobardi”, viene incoronato dal papa “imperatore
romano”. Rinasce l’Impero d’Occidente, riconosciuto addirittura
dall’imperatore bizantino nell’812. L’Italia-regione convenzionale è
divisa tra i due imperi “romani”. Nell’827, la Sicilia è invasa dagli
arabi e sarà conquistata tutta nell’arco di poco più di un secolo.
Nell’887 crolla l’impero carolingio e dalla sua disgregazione nascono
quattro regni indipendenti: Francia, Germania, Borgogna e il vecchio
regno longobardo conquistato dai franchi che riprende il nome
d’Italia con un preciso riferimento alla defunta Italia annonaria. Si
estende infatti nell’Italia continentale anche se aggrega, nella penisola
vera e propria, la marca di Toscana, quella di Spoleto ed esercita l’alta
sovranità sul Patrimonium Beati Petri amministrato dal papa.
Tramite la Toscana, il regno comprende anche la Corsica. La Sicilia e
la Sardegna restano bizantine, così come la gran parte della penisola: è
un territorio assai vasto che nessuno considera ancora, e non
considererà a lungo, “italiano” (e nemmeno italico). Nel 962 il regno
d’Italia sarà di nuovo inserito da Ottone I, re di Germania,
nell’impero una volta carolingio. Rinasce il Sacrum romanum
imperium (dal xv secolo, esplicitamente, nationis germanicae).
Questo regno d’Italia è un altro esempio, di nuovo troppo
approssimato per difetto, che non può costituire un modello valido
per gli zelatori di una antica unità d’Italia. Incarna poi un autentico
paradosso storico: l’Italia del IV secolo a.C. corrispondeva soltanto
all’odierna Italia meridionale; quella del IX secolo soltanto all’Italia
settentrionale e poco più. È un paradosso che dovrebbe far riflettere i
mitografi dell’unità nazional-naturale sancita dalla storia: da Vittorio
Emanuele II a Carlo Azeglio Ciampi. Un particolare importante: il
regno è formato da due parti: la Lombardia (tutta la sua parte
continentale) e la Tuscia (la Toscana) e da due popoli principali: i
lombardi e i toscani. I meridionali e gli abitanti delle isole non ne
fanno parte.

L’Italia è mobile qual piuma al vento


XII-XIIIsecolo: questo “primo” regno d’Italia, divenuto un’appendice
del regno di Germania, il cui sovrano era anche imperatore, conduce
un’esistenza ormai soltanto formale. La conquista militare normanna
scaccia intanto i bizantini dalla penisola e gli arabi dalla Sicilia.
Nasce così, nel 1130, il Regno di Sicilia, esteso a tutta l’Italia
meridionale, che molti studiosi considerano il prototipo dello Stato
unitario moderno, soprattutto a partire dall’assetto istituzionale che
vi verrà promulgato da Federico II nel secolo successivo (parlamento,
costituzione, burocrazia centralizzata, catasto). Il confine tra il
sempre più evanescente regno d’Italia e il nuovo regno (“siciliano” e
non “italiano”) passa ben all’interno della penisola.
Le vicende dinastiche suddivideranno lo Stato siciliano in due regni
distinti: Napoli (nella penisola) e Sicilia. Ma Napoli conserverà per
un po’ il nome di regno di Sicilia e l’isola dovrà assumere quello di
regno di Trinacria. Gli aragonesi riuniranno, per pochi anni (1443
58), i due territori sotto il nome di regno delle Due Sicilie (l’isola è la
“Sicilia di qua del Faro”; la parte peninsulare, la “Sicilia di là” dello
stesso). Il regno si dividerà di nuovo per poi riunirsi
istituzionalmente nel XIX secolo (1816) riprendendo il nome di Due
Sicilie. La diversità tra questo Sud e il resto dell’Italia-regione
convenzionale si consolida, nel tempo, a livello istituzionale,
culturale, sociale ed economico.
L’unico altro regno istituito nella regione sarà quello “di Sardegna e
Corsica” (poi soltanto “di Sardegna”) istituito nel 1297: ma la sua
esistenza sarà spesso soltanto formale (e seguirà, fino al 1718, le
vicende politiche d’altre regioni europee). La facoltà di istituire regni
era una prerogativa dell’imperatore spesso usurpata dal papa, che ha
inoltre goduto precocemente di un proprio Stato nell’Italia-regione, a
cavallo tra la penisola e la Padania sud-orientale, sottraendosi alla
sovranità dell’impero. Il vecchio regno d’Italia si frammenterà in
nuove formazioni politiche: comuni e signorie territoriali, spesso in
lotta tra loro e con l’imperatore e il papa.
XIV-XVIII secolo: la lunga eclissi del nome Italia, riciclato per una parte
soltanto della regione convenzionale, finisce, anche se lentamente,
con i primi umanisti, i quali rilanciano questo termine recuperando
per via erudita un suo significato: quello assunto al tempo della
riforma di Augusto. I confini estremi di questa Italia recuperata sono
tuttavia imprecisati ed essa appare soltanto un contenitore di
“patrie”, una nozione meramente territoriale.
Gli unici esempi di una terminologia politica che abbia un
riferimento a quest’ambito territoriale saranno: la “Lega italica
universale”, un’alleanza militare stipulata nel 1389 tra alcuni Stati
dell’Italia settentrionale e centrale; la “Lega italica” (1454), istituita
anch’essa come alleanza militare per il mantenimento dello status
quo nella regione, tra Milano, Venezia e Firenze, cui si aggiungono in
seguito il papa e il re di Napoli (ma entrambe le leghe sono di breve
durata).
Gerhard Rohlfs rileva come la riscoperta del nome dimenticato fosse
dovuta agli eruditi e come questo nome sia rimasto sempre nella sua
forma latina: “In evoluzione popolare il nome Italia avrebbe dovuto
dare Itaglia (e nella zona padana Idaglia)”, così come il latino familia
ha dato famiglia.
Verso la fine del XIII secolo nasce comunque, in Francia, l’attributo
“italiano” per indicare gli abitanti e gli originari di questa regione
geografica ma stenta ad entrare nell’uso. L’attributo è un calco e il
modello è, paradossalmente, quello di “Sicilia-siciliano”. Una cronaca
del tempo ci dice, del resto, che i popoli italiani sono ritenuti essere
tre: “Nel 1266 Carlo d’Angiò, con un esercito composto da
Lombardi e da Toscani, conquistò l’Apulia (cioè il regno di Sicilia)”.
E tre, assai diversi tra loro, erano i volgari usciti dal grembo del latino
parlato nella tarda antichità. Questo concetto è ribadito su altre,
numerose cronache e appare su documenti incontrovertibili.
Tra gli idiomi neolatini parlati (e talvolta scritti) nell’Italia-regione
convenzionale, emerge il toscano che, a partire dal XIII secolo, assume
una dignità letteraria tale che, dopo una prima codificazione
avvenuta nel XVI secolo, diventa gradualmente la lingua culturale (e
talvolta franca) di gran parte della regione e perfino di alcune aree
situate al di fuori di essa (sostituendo il latino nell’uso pubblico). Gli
“italiani” continuano però a parlare (e qualche volta a scrivere) le loro
lingue, spesso, come s’è visto, assai diverse dal toscano (che comincia
però ad essere indicato come “lingua italiana” tout court).
Naturalmente, il nome Italia continua a indicare un territorio ancora
imprecisato, estese porzioni del quale si trovano sotto dominazioni
“straniere” (rispetto alla regione medesima).
A partire dalla fine del xv secolo, Francia e Spagna si affrontano in
armi nell’Italia-regione per il possesso del regno di Napoli. Ancora
prima, infatti (dal XIII al v secolo), il re d’Aragona era divenuto anche
re di Sicilia, di Sardegna e infine di Napoli (nel 1479 l’Aragona si
fonde con la Castiglia-León dando origine alla Spagna, che nel XVI
secolo ottiene il ducato di Milano, cui la Svizzera aveva sottratto
l’attuale canton Ticino e la repubblica delle Tre leghe, destinata a
confluire nella Svizzera, la Valtellina). Il ducato di Savoia,
transalpino, si estende intanto progressivamente nella Padania
occidentale. Al converso, la repubblica di Venezia si estende non
soltanto nella Padania orientale, ma anche ben oltre la regione, nella
penisola balcanica e nel Mediterraneo orientale.
I confini geografici, oltre che incerti, sono politicamente violati in un
senso e nell’altro. I principati vescovili di Trento e di Bressanone (poi
confluiti nella Contea del Tirolo), la Patria del Friuli (fino al 1420) e
poi la sua parte orientale (la Contea di Gorizia e una porzione
dell’Istria) rimangono appannaggio dell’impero.
L’Italia è incerta anche nella lingua. Il veneziano Marin Sanudo
scrive, nel 1483, in un toscano misto di veneto e di latino (oppure in
un veneto misto di latino e di toscano?): “Et fuora de la porta di
Cividal è una aqua chiamata el Rossiminian, va nel Nadixon, la qual,
ut dicitur, parte la Italia de la Schiavania; ergo in fino a la fin de
l’Italia son stado”. Cividal è Cividale nel Friuli, il Nadixon è il
Natisone e la Schiavania è la terra abitata dagli slavi: Trieste e l’Istria
sono pertanto considerate fuori d’Italia (in Schiavania).
E ad ovest? Nel 1665, Alessandro Segni viene apostrofato alla corte
sabauda di Torino con un esplicito “Voi italiani”. Nel XVIII secolo, i
valdostani definiscono la loro terra “patria intramontana” in quanto
la ritengono situata nel cuore delle Alpi e non sul versante poi
considerato geograficamente “italiano”. Anche l’Austria mette
sempre più piede (e poi entrambe le gambe) nella regione.
L’esplorazione delle Alpi, la nascita della geografia e della linguistica
moderne nonché il nuovo e propulsivo significato assunto dal
termine “nazione”, che avvengono tutti alla fine del secolo XVIII,
preparano intanto la nascita del mito dell’Italia nazional-naturale.
XIX-XX secolo: quale conseguenza delle invasioni napoleoniche, le
prime conquiste della geografia e della glottologia moderne (al
momento non ancora del tutto attendibili) e la nuova nozione di
nazione (equivoca ancora oggi) approdano nell’Italia-regione
convenzionale sulla punta delle baionette.
Molti Stati “regionali” diventano repubbliche “nazionali” à la mode
de Paris. Torna anche, dopo otto secoli d’eclissi totale, l’uso politico
amministrativo del nome Italia. Nel 1802, Napoleone si fa, infatti,
nominare, guarda caso a Lione, “presidente della [“prima”]
Repubblica Italiana” (che è però soltanto la nuova denominazione
assunta da una delle repubblichette napoleoniche: la Repubblica
Cisalpina) con capitale Milano; essa raccoglie a malapena poco più di
un terzo della Padania (nello stesso anno, l’odierno Piemonte e il
Ducato di Parma sono annessi dalla Francia). Napoleone aveva
comunque “restituito” alla Repubblica Cisalpina la Valtellina (escluse
quattro convalli) anche se non gli riesce di fare altrettanto con il
Ticino.
Nel 1805, la Repubblica Italiana si trasforma in Regno d’Italia (il
secondo?) e Napoleone, da un anno imperatore dei francesi, si fa
incoronare re a Pavia (la capitale di quel regno longobardo diventato
nell’880 il primo Regno d’Italia, nel senso dell’Italia annonaria di
romana memoria, privo cioè del Mezzogiorno, della Sicilia e della
Sardegna. Ne è tuttavia assai più piccolo in quanto la sua metà
occidentale era stata annessa dalla Francia).
Il Regno d’Italia incorpora, nove mesi dopo, il territorio della
Repubblica di Venezia (che era passato all’Austria) e si estende anche
su buona parte della Dalmazia (ma la Liguria è assegnata dal
Bonaparte alla Francia). Nel 1806, vi viene promulgato il Codice
Napoleonico, redatto in francese e in italiano. Sempre nel 1806,
Napoleone dà il Regno di Napoli a suo fratello Giuseppe e assegna
Parma alla Francia. Nel 1808, il Regno d’Italia annette un po’ di
penisola: le cosiddette Marche (sottratte al papa). Il resto del
dominio pontificio (con Roma) e la Toscana (senza Lucca) vengono
però annessi dalla Francia.
In sei (i primi ad essere annessi) dei quindici dipartimenti nei quali è
ora divisa questa Francia “di qua dalle Alpi”, il francese era stato
imposto come lingua ufficiale (con un decreto del 1803, valido anche
per i dipartimenti belgi e tedeschi); negli altri si mantiene l’italiano,
anche se il francese vi fa più che capolino.
Nel 1809, il Regno d’Italia rinuncia alle dépendances istriana e
dalmata. L’Italia-regione è, grosso modo, divisa tra l’Impero francese,
il Regno d’Italia e il Regno di Napoli (entrambi satelliti della
Francia); la Sicilia è rimasta ai Borbone e la Sardegna ai Savoia. La
Corsica era stata annessa dalla Francia nel 1768. Il Regno d’Italia è
davvero poca cosa: la sua esiguità e la sua “satellizzazione” gli
impediscono di presentarsi come un modello cui attingere, in seguito,
per esibire plausibili esempi di Stato “unitario”. Il regno si scioglie
comunque, nel 1814, come neve al sole.
I vincitori di Napoleone (1815: Congresso di Vienna) ripristinano in
parte la situazione pre-napoleonica dividendo l’Italia-regione in
undici Stati (più quattro Kronländer, i “paesi della corona”,
imperiali), molti dei quali sotto “tutela” (e uno sotto la sovranità)
straniera, nessuno dei quali riprende il nome d’Italia. La Francia è
ricacciata di là dalle Alpi (le rimane però la Corsica, acquisita prima
della nascita di Napoleone e responsabile involontaria di questa
nascita). È la Restaurazione.
Cresce (si fa per dire) intanto, nell’Italia-regione convenzionale (ma
non in tutta), il movimento nazionalista organizzato (anche se
organizzato in sette e gruppuscoli i più svariati): si tratta di una
minoranza sparuta ma ricca di dedizione e di spirito di sacrificio. La
geografia moderna gli ha finalmente permesso una definizione precisa
dei confini della supposta “patria naturale” italiana (dal “ciglione”
delle Alpi al mare) che esce così, per la prima volta, dal vago. Le
contemporanee riflessioni sulla lingua “italiana” sono purtroppo
avvolte dai fumi di una conoscenza ancora sommaria e imperfetta.
Per effetto delle due nozioni (sia pure gravate dal solito souvenir de
Rome), si sviluppa comunque, per la prima volta, un’idea chiara
(anche se non troppo forte) di “nazione italiana” (l’aberrante teoria
nazional-naturale). I portatori e gli zelatori di quest’idea sono i primi
veri nazionalisti italiani (nel senso moderno, tecnico, “all’inglese”, del
termine: nell’Italia-Stato permane ancora oggi l’equivoco un po’
provinciale, teorizzato paradossalmente dagli stessi nazionalisti,
spaventati dal proprio ardire, secondo cui il “nazionalismo” sarebbe
un male mentre il “patriottismo”, che è un modo distorto di
chiamare la stessa cosa, sarebbe invece un bene).
Si mette in moto quel processo chiamato, anch’esso (in maniera
distorta) Risorgimento. Durante una delle periodiche rivolte
nazionaliste si forma, nel 1831, uno Stato (che dura meno di un
anno) il quale assume il nome di “Province unite italiane” (anche se
raccoglie soltanto la parte pontificia dell’Emilia-Romagna).
Il Risorgimento porta, per una stupefacente concomitanza di fattori
internazionali favorevoli e dopo una nuova serie d’insurrezioni, due
“guerre d’indipendenza” di cui è protagonista il ripristinato Regno di
Sardegna e un’invasione semiufficiale del Regno delle Due Sicilie, alla
nascita di un nuovo Regno d’Italia (il terzo?).
È il primo, comunque, ad apparire abbastanza plausibile come tale
(raccoglie, infatti, il 77 per cento della regione geografica
convenzionale), anche se l’uso effettivo (sia scritto sia orale) della
lingua “italiana” è relativo ad una percentuale davvero minima della
sua popolazione (2,5 per cento secondo De Mauro, 9-10 per cento
secondo Castellani). Il suo uso orale è condiviso dai soli toscani (per
taluno anche dai romani) e la popolazione del regno è analfabeta al
78 per cento.
Prima che il secolo trascorra, il Regno d’Italia s’ingrandisce fino a
comprendere l’87 per cento della regione (nel 1866 il Veneto e nel
1870 Roma vengono finalmente annessi dall’Italia-Stato)
nell’intento di raggiungere al più presto i confini “naturali” della
“nazione” e addirittura di sorpassarli (non disdegna, infatti, di farsi
qualche colonia ben oltre tali confini). Grazie all’esito della prima
guerra mondiale, l’Italia-Stato raggiunge, nel 1920, il 96 per cento
della regione convenzionale (Trento e Trieste). Ha nel frattempo
aumentato (e, in seguito, aumenta ancora) il proprio (gradito)
fardello coloniale. Sembra in una botte di ferro ma stolidamente
vuole uscirne per ingrandirsi ancora (facendo però i propri conti
senza l’oste).
Dopo la seconda guerra mondiale, e la sconfitta, si trasforma, senza
soluzione di continuità, in Repubblica Italiana (la seconda?) E
costretta però (e le va ancora bene) a ridurre la propria superficie al
93 per cento di quella della regione convenzionale e a rinunciare a
porre gli occhi e le mani di là dai propri confini di Stato.
2.
Il popolo d’Italia

Italiani brava gente


L’Italia non è fatta soltanto di un nome e di alcuni territori (spesso
diversi) chiamati (in epoche diverse) con questo stesso nome: è fatta
anche (soprattutto) di uomini che si sono succeduti per un numero
enorme di generazioni sul complesso di questi territori.
L’Italia-regione convenzionale è, infatti, abitata da almeno un
milione d’anni: come altrove, all’Homo erectus vi è succeduto l’Homo
sapiens neanderthalensis e infine (35.000 anni fa) l’Homo sapiens
sapiens, anello della specie cui tutti noi apparteniamo. Soltanto a
partire da 5.000 anni fa, la lettura congiunta dei dati archeologici,
genetici e linguistici ci permette però di individuare chi ne fossero gli
abitanti. Possiamo così dedurne agevolmente che nessun gruppo della
popolazione di allora è specifico dell’Italia-regione.
Gli abitanti più antichi di cui possiamo parlare appartenevano, anche
linguisticamente, al vasto mondo “mediterraneo”: l’insediamento dei
(paleo)liguri andava dalla odierna Toscana nord-occidentale al
Rodano e interessava la Corsica; quello dei reti (comprensivo degli
euganei), dal Po (e addirittura, se vi si comprendono i nord-piceni,
dall’Esino) fino al lago di Costanza. Altri popoli, come gli etruschi (o
magari i loro antenati tirreni), caratterizzavano invece soltanto
limitate porzioni della penisola oppure, come i (proto)sardi e i sicani
(con gli elimi), le due isole maggiori. Chi troppo e chi troppo poco,
dunque.
Agli autoctoni (cioè ai primi “immigrati”: il popolamento della terra
è, come si sa, monocentrico) si sovrapposero, a partire dalla fine del
terzo millennio a. C., popoli che parlavano lingue indeuropee e
venivano dall’Europa centrale: è la mitica “discesa degli ariani”, un
evento fondamentale di là da ogni implicazione politico-esoterica
distraente quanto pericolosa. Più che una conquista militare, il loro
fu un lento irradiamento basato su una maggiore coesione sociale e
culturale (coesione e non “superiorità”).
Tra costoro si annoverano i latini e, tra i latini, i romani, destinati a
conquistare e a “romanizzare” tutta l’Italia-regione convenzionale (e
assai di più). Dai romani sarebbero poi direttamente scaturiti, com’è
stato sostenuto senza palesi rossori, gli italiani: ecco un altro indizio
ostentato dai padri della patria quale prova dell’antica unità e
dell’identità profonda della “stirpe”. Ma è un indizio fasullo.
Il solito Petrarca non è immune da colpe in proposito. Scrisse, infatti,
dei suoi contemporanei (e, si direbbe oggi, dei suoi “connazionali”)
che essi erano “non graeci, non barbari, sed itali et latini”
(considerando “itali” e “latini” come due facce di una stessa
medaglia). Niente di più affrettato, anche se le conoscenze del tempo
giustificavano ampiamente questa fretta, oggi peraltro inammissibile.
Vediamo allora come sono andate davvero le cose: andando, come si
dice, per gradi.
Va, anzitutto, tenuto distinto il popolamento indeuropeo della
penisola da quello, sia pure ugualmente indeuropeo, dell’area padano
alpina (così com’era accaduto per il popolamento mediterraneo). Ma
vanno rammentate altre distinzioni fondamentali che interessano
invece la sola penisola.
Fino a qualche decennio fa, per esempio, gli studiosi credevano,
infatti, che quegli indeuropei stanziati nella penisola e caratterizzati
dall’uso di idiomi affini al latino appartenessero allo stesso ceppo di
coloro che, anch’essi indeuropei e anch’essi insediati nella stessa
penisola, parlavano invece idiomi, per alcuni aspetti divergenti,
assegnati dagli studiosi alla “lingua” osco-umbra (per esempio i
sanniti): che fossero, insomma, tutti “italici” (“itali”), visto che erano
in qualche modo apparentati e popolavano l’Italia.
Nel 1931, Giacomo Devoto ha brillantemente dimostrato che non si
trattava di una stessa popolazione, magari differenziatasi in loco, ma
di due popoli diversi, già formatisi come tali prima di approdare
(entrambi dall’Adriatico e a distanza di molti secoli gli uni dagli altri)
nella penisola: una sorta di terra promessa che si sono disputati a
lungo, armi alla mano.
Il termine “italici”, che designava il complesso di questi due popoli
(così come accade d’abitudine per altri vasti gruppi etnici indeuropei
quali i germani, gli slavi, i celti, i greci e così via) ha da allora subito
una correzione vistosa. La prima popolazione, la più antica (che
taluno, costretto a distinguerla per alcuni aspetti divergenti,
chiamava “italica occidentale” oppure “latino-sicula”), ha ricevuto il
nome convenzionale definitivo di “protolatina” e soltanto la seconda
(giunta nel primo millennio a.C.) ha mantenuto quello di “italica”
(senza più bisogno di distinguersi, rispetto alla prima, come
“orientale” o “osco-umbra”).
Per evitare ogni possibile confusione in proposito, considerata la
miriade di tribù, sottotribù, popoli e sottopopoli più o meno “italici”
citati dagli antichi, cercheremo di mettere ordine raggruppandoli
nelle due entità maggiori.
Tra i protolatini vanno allora compresi: i siculi (che, prima di
sostituire nella Sicilia orientale i sicani mediterranei, sembra fossero
stanziati nel Lazio); gli itali propriamente detti; gli enotri; gli opici;
gli ausoni; i ben più radicati e resistenti latini; infine i falisci.
Tra gli italici vanno annoverati almeno due gruppi: gli oschi e gli
umbri. Sono d’idioma osco i sanniti o sabelli (distinti in pentri o
sanniti propriamente detti, carecini, irpini, caudini e infine frentani),
i sabellici (vestini, equi, marsi, peligni, ernici e marrucini), nonché
quei gruppi di popolazioni sannitiche che, dal VI al II secolo a. C.,
hanno invaso e conquistato le terre dei protolatini (abitate anche da
greci, che vi permangono, e, nel caso della Campania, da etruschi, che
invece scompaiono), dando origine a nuovi popoli: campani (cioè
“capuani”), sidicini, aurunci, alfaterni, lucani, apuli (costoro a spese
degli iapigi), bruzi e mamertini (questi ultimi nella Sicilia orientale).
Gli umbri, approdati nella penisola successivamente agli oschi, si
suddividono invece, a quanto se ne può sapere, in umbri
propriamente detti, sabini, volsci, picenti (e non piceni, che erano
preindeuropei) e pretuzi. I loro idiomi erano comunque strettamente
affini a quelli degli oschi, tanto da costituire con questi un’unica
lingua: l’osco-umbro, appunto.
Sempre dal mare sono giunti però, nella penisola, altri due popoli
indeuropei: gli iapigi (attorno al 1000 a. C. come gli oschi), di origine
illirica (distinti in dauni, peucezi, messapi, calabri e sallentini),
nell’odierna Puglia; e infine i greci (dall’VIII secolo a. C.) i quali, senza
abbandonare le loro sedi di partenza, si sono sparsi per tutto il
Mediterraneo. Anche gruppi di semiti (fenici e poi punici) si sono
stabiliti nell’Italia-regione (nelle isole) ma, al contrario dei greci, si
sono limitati a fondare colonie mercantili sulle coste senza dare adito
a insediamenti particolarmente numerosi ed estesi.
Enorme è stato l’influsso culturale esercitato dai greci sugli altri
popoli della penisola e della Sicilia, indeuropei o meno che fossero.
Tra i non indeuropei vanno comunque citati gli etruschi, non
classificabili certo come “barbari” e sicuri maestri di Roma (la quale,
peraltro, dal IV secolo a. C. si considerò, mentendo spudoratamente,
“città greca” per elevarsi di rango).
Va constatato che, ai tempi del Petrarca, questi greci, rinforzati o
magari reimpiantati dall’immigrazione bizantina del VII-XIX secolo,
popolavano il Salento, la Calabria meridionale e la Sicilia orientale.
Ancora oggi, 15.000 cittadini italiani (autoctoni) di lingua greca
testimoniano quest’ininterrotta (anche se sempre più ridotta)
continuità territoriale nella penisola.
Altri due popoli indeuropei, provenienti (per via di terra) dalla solita
Europa centrale, si sono insediati invece nell’Italia continentale, che
continua ad esibire una storia complessivamente diversa da quella
della penisola; i paleoveneti (nel 1000 a. C.) e soprattutto i celti:
questi ultimi nel corso di una migrazione vastissima che ha
interessato l’Europa occidentale fino all’Atlantico, comprese le isole
britanniche, senza disdegnare di compiere alcune sostanziose puntate
in Oriente. Un più antico popolamento celtico, quello dei le ponti, è
stato rinforzato, nel IV a. C., da una consistente migrazione di galli
transalpini.
I celti hanno popolato anche una porzione della penisola: il loro
insediamento giungeva, infatti, fino all’Esino. Si tratta, in questo
caso, dei galli senoni, il cui territorio venne del resto annesso da
Roma col nome di Agergallicus, ma incorporato proditoriamente da
Augusto nell’Umbria.
Per quanto concerne la regione padano-alpina, va rammentato che i
celti hanno ridotto il popolamento venetico a un cuneo inserito nel
cuore del loro territorio: a est dei paleoveneti, erano, infatti, stanziati
i celti carni (che popolavano il Friuli). A ovest dei paleoveneti, i celti
si sono mescolati, nelle aree periferiche, coi (paleo) liguri e i reti
dando così origine a popolazioni celto-liguri e celto-retiche.
I galli hanno anche scacciato gli etruschi dai loro insediamenti
padani. Va rammentato che gli etruschi sono stati l’unico popolo non
indoeuropeo peninsulare a estendersi nella Padania e a fondarvi le
prime città. Hanno compiuto il loro inserimento, del tutto pacifico,
almeno un millennio prima che avvenisse la conquista romana di
questa regione naturale dal destino così diverso da quello del resto
della regione convenzionale cui è stata aggregata.

L’Italia: il genio e il gene


Qualsiasi giornalista di lirica vena potrebbe facilmente obiettare che
molta acqua è passata sotto i ponti del Po, dell’Adige e dei loro
affluenti, che troppe ondate si sono infrante sulle rocce e riversate
sulle spiagge della penisola da quando si è formato il mosaico etnico
della regione convenzionale, oggi nota come Italia, per poterlo
ritenere tuttora significativo.
Tuttavia, gli si potrebbe rispondere con altrettanta facilità che appare
stupefacente osservare come questa pluralità originaria non sia stata
cancellata del tutto, nemmeno dal vigoroso colpo di spugna infertole
dalla conquista romana. Questa pluralità sopravvive in qualche
modo, magari simbolicamente, ancora oggi (perlomeno quale
sostrato) addirittura in quell’aspetto che ha resistito di meno (o non
ha resistito affatto): quello linguistico.
Se in larghe parti della penisola, negli attuali dialetti neolatini i
gruppi latini ND e MB si sono assimilati in NN e MM (quannu per
“quando”; tammurro per “tamburo”) lo si deve al sostrato italico; se,
nella maggioranza degli odierni idiomi padani, esistono le vocali
turbate (ü e ö), lo si deve al sostrato celtico. Alcuni studiosi, anche se
non tutti, sostengono perfino che la presenza delle consonanti
aspirate CH, PH e TH in alcuni dialetti toscani sia un fenomeno
“etrusco”.
Uno dei miti sui quali si fondano le “nazioni” moderne, quello
dell’origine comune, è del resto un’enorme sciocchezza: lo è
soprattutto nell’accezione “tedesca”, che teorizza un’impossibile
persistenza nel tempo di una razza incontaminabile e incontaminata.
Ma lo è anche nella versione, certo più cauta, che diremo “francese”
in quanto enunciata con garbo sospetto da Michelet, fondata invece
sulla “miscelazione omogenea” di componenti diverse. Secondo
Michelet, la “nazione francese” sarebbe sorta dalla “singolare
perfezione con la quale si è compiuta la fusione delle razze, lo
scambio e il matrimonio delle diverse popolazioni”.
Così come il vino Chianti risulta (splendidamente) dalla perfetta
fusione dei succhi di uve provenienti da vitigni diversi (70 per cento
di sangiovese, 20 per cento di canaiolo, 10 per cento di trebbiano e 10
per cento di malvasia), così la “nazione francese” risulterebbe
scaturita dalla presunta e perfetta fusione di liguri, iberi, celti, romani
e germani (franchi ma anche burgundi, visigoti, scandinavi e
alemanni). Tutti sappiamo che non è vero, come la Corsica, la
Bretagna e l’Alsazia dimostrano inequivocabilmente esibendo ancora
oggi una “fusione imperfetta”. Il caso “italiano” è, del resto, ancora
più confuso e complesso di quello francese.
Ritorniamo all’antico mosaico delle popolazioni “italiane” sul quale si
è abbattuta l’egemonia non soltanto politica di Roma. La conquista
romana ha indubbiamente cancellato in maniera irreversibile questo
mosaico attraverso la romanizzazione di tutti (o quasi) i molti popoli
che abbiamo diligentemente citato, così diversi tra loro e così
numerosi: sia pure nell’arco di circa mezzo millennio e con la
caratteristica di essere stata portata avanti, più che dai romani, dai
sempre più numerosi romanizzati. Ma questo fenomeno, certo
imponente e fondamentale, non è esclusivo e nemmeno specifico
dell’Italia-regione convenzionale.
Ha, infatti, caratterizzato larga parte dell’Europa, generando la
“Romània” degli studiosi (da non confondere con la Romanía-Stato
balcanico contemporaneo, che pure ne è parte) e perfino il resto
dell’impero.
Addirittura prima dell’inizio della romanizzazione di cospicue
porzioni dell’odierna Italia settentrionale, era in pieno svolgimento la
romanizzazione dell’Hispania e della Gallia Narbonensis. Non è un
caso se l’elogio rivolto a Roma da Rutilio Namaziano, nel 416
(“Fecisti patriam diversis gentibus unam”), non è scaturito dal
calamo di un italo o di un latino ma da quello di un gallo, oltretutto
transalpino.
Per “romanizzazione” si intende, ovviamente, la lenta conversione al
costume, alle leggi e soprattutto alla lingua di Roma (il latino): una
conversione che, tuttavia, proprio quando stava per compiersi
integralmente (nel IV secolo, gli idiomi autoctoni, perlomeno quelli
relativi all’Italia, erano tutti, escluso il greco, ormai estinti) dava i
primi segni di sfaldamento: un fenomeno anch’esso irreversibile che
ha prodotto un nuovo mosaico a tessere appena più larghe.
Va anche rammentato (il solito Devoto lo ha messo bene in evidenza)
che, già in “età predioclezianea”, la romanizzazione linguistica
appariva non più unitaria a causa della molteplicità dei centri
d’irradiazione. Si cominciava, infatti, a formare quello “spartiacque”
linguistico decisivo che ha diviso in seguito la Romània occidentale
da quella orientale. Tale spartiacque, allora ancora interno al latino,
passava proprio sul confine tra la Padania e l’Appenninia: cioè
all’interno dell’Italia-regione convenzionale, quasi a ribadire un
destino di separatezza (e, insieme, una sorta di unità prolungata della
Padania con la vasta romanità transalpina). Esso rinnovava l’antica
frattura tra Gallia cisalpina e Italia, riemersa con la divisione tra Italia
annonaria e Italia suburbicaria.
Con il crollo dell’impero, assistiamo a due fenomeni paralleli: la
“deromanizzazione” di alcune porzioni del territorio romano (parti
della Rezia e della Dalmazia, il Norico, la Pannonia, l’Africa) ad opera
dei “barbari”; e la frammentazione inesorabile del superstite
territorio romanizzato (la Romània, appunto) in entità linguistiche
ed etniche, segnalate dalla comparsa dei numerosi “volgari”, del tutto
nuove (ormai soltanto neolatine). Quest’evento rivoluzionario non
ha comunque seguito né le displuviali né tantomeno gli attuali
confini tra gli Stati. Ha dato invece origine a situazioni complesse,
solo in parte modificate dalla nascita degli antichi e moderni Stati
“nazionali” e dalla loro volontà di riaggregazione autoritaria.
Se dai dati più propriamente linguistici e culturali si passa a quelli
genetici, nell’ipotesi che questi conservino una loro importanza, la
situazione appare ancora più sorprendente. E stato, infatti,
dimostrato che la situazione dell’Italia-regione convenzionale, quale
appariva nel V secolo a. C., è rimasta ancora oggi sostanzialmente la
stessa (nonostante la sensibile immigrazione dal Sud della penisola e
dalle isole verso la Padania, avvenuta negli anni Sessanta del XX
secolo). L’indagine scientifica che va sotto il nome di Biological
History of European Population, in corso sotto l’egida della CEE, ha
rilevato che l’Italia meridionale e la Sicilia conservano
sorprendentemente un’impronta “greca”, quella settentrionale una
“celtica”, la Toscana una “etrusca”, la Sardegna una “sarda”. Ciò
significa che il mutamento linguistico, intervenuto nel corso del
tempo (i “greci” non parlano più il greco, né gli “etruschi” l’etrusco)
non rivela alcuna corrispondenza con un eventuale mutamento del
patrimonio genetico. I titolari di quest’indagine, Alberto Piazza
dell’Università di Torino e Paolo Menozzi dell’Università di Parma,
ne garantiscono la serietà, così come appare insospettabile
l’ispirazione agli studi compiuti, con risultati a dir poco brillanti, da
Luca Cavalli Sforza, autore del fondamentale The History and
Geography of Human Genes (1995), noto anche al pubblico
intellettuale italiano. Questi dati sono stati del resto confermati nel
1994 da uno studio della Società italiana di Immunoematologia.
Attraverso l’esame per campioni della frequenza di alcuni geni che
controllano i gruppi sanguigni (rilevati su resti inumati in epoca
antichissima e confrontati con quelli presenti in individui viventi
nella stessa zona) si è dimostrato che la loro distribuzione caratterizza
grandi aree territoriali geneticamente omogenee e diverse tra loro,
riconducibili a quelle di 2.500 anni fa.
Se è vero che il “carattere” di una persona deriva al 50 per cento dal
suo patrimonio genetico e al 50 per cento dall’ambiente (ivi
compresa la cultura), questo dato dovrebbe farci riflettere. Cavalli
Sforza sostiene che, a fianco della mutazione genetica, esiste anche un
diverso processo evolutivo che si esplica mediante i meccanismi della
trasmissione culturale di cui è strumento la lingua. Le lingue, cioè le
culture, sono cambiate molto nell’Italia-regione, mentre le
caratteristiche genetiche non hanno partecipato a questo
mutamento.
Comunque, per tornare al Petrarca, degli “itali” sono rimaste scarse
tracce (nell’Italia centro-orientale). Dei “latini”, poi, sembra
scomparsa ogni orma genetica. Anche se il loro genio ha certamente
segnato il destino dell’Italia, così come quello della Francia e della
Spagna (per limitarsi ai tre casi maggiori della Romània), il loro gene
vi appare del tutto ininfluente.
Questa constatazione non è un’affermazione “razzista”. Per “razza”
s’intende, infatti, convenzionalmente, un gruppo d’individui nei
quali compare una serie di caratteristiche esteriori comuni e
trasmissibili per via ereditaria quali il colore della pelle oppure la
presenza d’indici antropometrici specifici. Per “razzismo” si intende
invece l’atteggiamento che deriva dalla teorizzazione di una presunta
superiorità intellettuale o morale d’alcune razze rispetto alle altre. Il
DNA attraversa invece trasversalmente le diverse razze identificate

dall’antropologia fisica (e si trasforma attraverso la mescolanza dei


geni dovuta agli spostamenti e all’incrocio delle popolazioni).
Oltre ad appartenere tutti alla medesima “razza” europide, i “greci”
non sono intellettualmente o moralmente “superiori” ai “celti” o gli
“etruschi” ai “sardi”. I “sardi” portano però, iscritta nel loro DNA, una
vistosa predisposizione ad ammalarsi d’anemia mediterranea: una
predisposizione che non compare nel codice genetico di “greci”,
“celti” ed “etruschi”. Si tratta, allo stato attuale della ricerca, di un
dato oggettivo: ma non è certo un dato culturalmente discriminante.
Ciò che appare invece significativa in maniera evidente è una certa
corrispondenza che emerge dal raffronto tra i dati della geografia
fisica (le diverse regioni naturali di cui si compone l’Italia-regione
convenzionale) e i dati della genetica (cui corrispondono, come
vedremo tra poco, quelli della linguistica: le lingue sono, infatti,
cambiate ma le “nuove” lingue rispecchiano le differenze genetiche di
2.500 anni fa. Ed è un caso piuttosto raro nel panorama
dell’umanità). Si tratta, beninteso, di una corrispondenza prodotta
dalla storia e non certo dalla natura: da una storia tuttavia assai più
profonda (e assai meno nota) di quella divulgata dagli strenui
raccoglitori d’indizi a senso unico al solo scopo di dimostrare
l’esistenza dell’Italia nazional-naturale.
Sull’Italia nazional-naturale, grava del resto una pesante ipoteca, solo
in parte, come si è visto, giustificata: quella di Roma.

Mamma Roma
Secondo Giuseppe Prezzolini, “la differenza reale tra la civiltà italiana
e le altre consiste in ciò: la classe intellettuale italiana credeva che il
suo popolo non fosse solo il discendente naturale, autentico, ma in
verità il solo erede legittimo di Roma. Essa sperava in una
resurrezione in Italia dell’antico potere di Roma (...) Questa credenza
assunse una tale forza nelle classi colte dell’Italia che lasciò tracce nel
loro pensiero nel corso dei secoli”. In realtà, come si è detto, Roma è
la madre dell’intera Francia, Spagna, Portogallo, Romània, e non
soltanto la mamma d’Italia (e rimane aperta la ricerca dei padri).
Prezzolini ha messo il dito su una piaga che segna (e non soltanto a
livello folcloristico) anche l’ultima versione dello Stato italiano,
quella “democratica e repubblicana uscita dalla Resistenza” (non a
caso definita in molte occasioni “secondo Risorgimento”).
L’inno della repubblica, ripescato nel repertorio risorgimentale in
sostituzione dell’assai più maestosa Marcia reale (ed esplicitamente
intitolato ai “Fratelli d’Italia”), andrebbe mutato, come da più parti si
auspica, non soltanto perché è musicalmente infelice ma anche a
causa del testo, insopportabilmente retorico e perfino offensivo.
Offende soprattutto quell’“elmo di Scipio”, forgiato in esclusiva per i
“figli di Roma” (di una Roma cui Dio stesso avrebbe poco
cristianamente concesso in perpetua “schiavitù” la “vittoria”). Ogni
repubblica che si rispetti deve, infatti, rispetto agli sconfitti, dai quali
discendono poi (è il caso italiano) quasi tutti i suoi cittadini. I
“fratelli d’Italia” hanno insomma pieno diritto alla citazione
parallela, nel loro inno di riconoscimento statale, del diadema di
Porsenna (perlomeno coloro che risultano ancora imbottiti di geni
etruschi), della spada di Brenno (un omaggio davvero sportivo ai celti
sepolti in una parte di loro) e perfino dello specchio di Archimede
(un saluto ammirato alla memoria degli italioti e dei sicelioti i cui
discendenti condividono oggi la stessa cittadinanza legale degli
abitanti di Testaccio e di Trastevere).
Non può essere, infatti, dimenticata, in uno Stato mediamente
consapevole, la lunga, talvolta accanita resistenza dei popoli “pre
italiani” alla conquista e alla dominazione di Roma: a cominciare
dagli altri latini passando poi agli italici, agli etruschi, ai celti e così
via.
Purtroppo, di questa lotta si sa troppo poco.
Ha scritto in proposito E. T. Salmon, che soltanto “qualche
informazione […] è filtrata attraverso i pregiudizi e l’indifferenza dei
romani ed è sopravvissuta. Ma ciò è avvenuto attraverso una sorta di
filtro romano”. Salmon sintetizza così la ricetta degli annalisti della
città eterna: “Inventare e moltiplicare le vittorie dei romani e
sopprimere o attenuare le sconfitte, era per loro pratica sistematica,
automaticamente applicata”. Il “filtro romano” ha tuttavia
durevolmente accecato gli intellettuali e i politici del nostro e degli
altrui paesi: ieri come oggi (e forse domani).
Se il Risorgimento si chiama impropriamente così, lo si deve dunque
a Roma (una Roma bloccata dalla memoria all’epoca della sua ascesa e
del suo splendore, dimenticandone il lento declino e il degrado
inarrestabile): al seducente fasto della Roma imperiale che ha eccitato
i nazionalisti di “destra”, alle austere virtù della Roma repubblicana
che hanno folgorato quelli di “sinistra”, al fasto e alle virtù della
posteriore Roma dei papi che hanno irresistibilmente attratto i
clericali di “centro” (il mito di Roma cristiana si è infatti innestato su
quello della Roma pagana anche se si tratta, in entrambi i casi, di una
Roma caput mundi e non certo caput Italiae).
Lo stesso Mazzini teorizzava il futuro Stato italiano come “terza
Roma” (la seconda era quella dei papi) e considerava arbitrariamente,
con molte giustificazioni in meno del Petrarca, gli antichi romani
(quelli che avevano il vento in poppa) come i “nostri avi” tout-court
(nell’appello agli “italiani” rivolto all’atto della fondazione della
Giovine Italia, 1831).
Il mito di Roma non è però una prerogativa soltanto italiana. Ha
contagiato il mondo: ne sono vittime ed esponenti l’impero
bizantino e Mosca, anch’essa “Terza Roma” (in questo caso la
seconda Roma corrispondeva a Costantinopoli), a est; l’impero
carolingio, quello germanico, quello napoleonico (e la stessa
Repubblica Francese, il cui simbolo ufficiale è ancora oggi il fascio
littorio), a ovest; fino all’“impero” un po’ dubbio proclamato, con
romagnola impudenza, da Mussolini. Il folclore “romanista”, fatto (e
fitto) di fregi, cerimonie e alta terminologia (da imperatore a console,
da prefetto a Campidoglio) ha segnato per secoli (e segna da secoli) la
storia del mondo che conta.
Altri miti “italiani”, più pertinenti ma assai più settoriali, come quello
dei Comuni (che per altro non hanno interessato l’Italia meridionale
e le isole) o quello delle Repubbliche marinare (scarsamente
funzionante per la terraferma) hanno dovuto piegare la fronte di
fronte al mito di Roma anche di qua dalle Alpi.
La posizione geografica di Roma, situata non soltanto nell’Italia
regione convenzionale ma addirittura nella penisola, è stata fatale per
gli “italiani”.
Appare sintomatico il fatto che, all’interno del movimento
nazionalista italiano, una sua setta ottocentesca abbia proposto, per
l’“Italia unita” (ancora incerta su come denominarsi ad unificazione
avvenuta), il nome di “Rinascente Impero romano”. Ne fornisce
prova quello che è forse il primo progetto di Costituzione italiana,
pubblicato anonimo nel 1814 (un anno prima della Restaurazione).
Il progetto è stupefacente e sottilmente contraddittorio. Recita
infatti all’articolo 1: “Il territorio dell’Impero romano sarà formato
da tutto il continente dell’Italia e non potrà essere aggrandito”. Ciò
significa la rinuncia esplicita alle isole (esclusa l’Elba e vedremo
perché) e ad ogni doveroso “imperialismo” imperiale.
Roma-città non vi è poi trattata con il rispetto che ci si sarebbe
dovuto aspettare, considerato il nome scelto per il nuovo Stato
auspicato: la sede del Parlamento vi viene infatti fissata,
alternativamente ogni tre anni, con la seguente successione perpetua:
Roma, Milano e Napoli (articolo 47). Il corpo legislativo provvisorio
dell’“impero” vi è indicato come formato dai deputati del Regno
d’Italia, del Regno di Napoli e dell’Impero francese “pei dipartimenti
italiani riuniti” ad esso (articolo 63). Ad imperatore romano-italiano
è designato (articolo 3) Napoleone Bonaparte, ormai sconfitto e
“attual sovrano dell’isola d’Elba”. “In caso di estinzione” (articolo 6,
comma 2) il trono viene espressamente previsto per “il principe
Luciano Bonaparte, fratello dell’Imperatore Napoleone” e per la “sua
discendenza”.
Un progetto successivo di Costituzione italiana, redatto, a
Restaurazione avvenuta, negli ambienti assai più maturi della setta
mazziniana, dichiara invece, con perentoria asciuttezza, all’articolo 3:
“La capitale dell’Italia è Roma” (in corsivo nel testo), anche se lo
Stato auspicato assume il nome di “Repubblica italiana”
(abbandonando così ogni rêverie terminologica romano-imperiale). Il
progetto definisce con esattezza i confini dello Stato futuro e rifiuta
anch’esso, implicitamente, ogni suo “aggrandimento”. Ne parleremo
tra poco più distesamente perché si tratta di un progetto importante.

Roma matrigna
Ben diverso l’atteggiamento di Mussolini. Il fascismo italiano, che ha
enormemente “aggrandito” il mito “romanista”, voleva non soltanto
aggrandire l’Italia-Stato ma aggrandirsi: quando ha tentato, nel 1934,
di istituire un’Internazionale fascista per esportare la sua ideologia,
l’ha chiamata CAUR (Comitati d’azione per l’universalità di Roma),
suscitando le timide perplessità del nordico Quisling.
Ci sembra carino citare almeno una punta del delirio “romanista” dei
fascisti (che volevano trasformare gli “italiani” nei “Romani della
modernità”): “Non si domina in perpetuo se non in virtù di un’idea
immortale, se non con la forza di una civiltà inestinguibile. Ora
quest’eternità di una missione civilizzatrice e animatrice [...] non può
avere che un nome, perché solo questo nome vive e si perpetua nei
secoli [...]. È il nome del Passato e del Presente. È il nome del Futuro
e dell’Eterno. È il nome della Chiesa e dell’Impero. È ROMA!”
Va detto, tuttavia, che ci sono state, nel lungo corso della storia
italiana, alcune significative eccezioni.
La prima di queste è significativa in maniera eccezionale. Il singolare
episodio cui vogliamo riferirci è noto come “guerra sociale”
(Cicerone la definì però, correttamente, bellum italicum) e sembra un
apologo.
Nel 91 a. C., ben dodici popoli dell’Italia peninsulare (marsi, peligni,
vestini, marrucini, picenti, frentani, irpini, campani, lucani, apuli,
“venusini” e sanniti), tutti di lingua osco-umbra, ai quali era stata
promessa e poi negata la cittadinanza romana (che significava il
godimento dei diritti politici e la “liberazione” fiscale), insorsero in
armi contro Roma. Prima di insorgere, però, si dettero
un’organizzazione politica e militare compatta istituendo uno Stato
federale e assumendo un nome comune, sia pure desunto dai romani
(i quali lo avevano comunque desunto, a loro volta, dai greci):
decisero, infatti, di chiamarsi “italici”.
L’evento è fondamentale: per la prima volta nella storia, il nome
Italia venne fatto proprio da una parte almeno dei suoi abitanti.
Questa presa di coscienza terminologica avvenne in netta
contrapposizione con Roma. Italia contro Roma, dunque: ecco una
traccia per un possibile Risorgimento italico, purtroppo mai
avvenuto, dotato però di senso storico e filologicamente ineccepibile.
E. T. Salmon, lo storico dei sanniti (quelli che durante le numerose
guerre precedenti avevano costretto i romani alle forche caudine),
adombra perfino l’ipotesi che questo Stato italico, federale perché
rispettoso, magari forzatamente, delle identità in esso rappresentate,
presupponesse coscientemente un modello opposto a quello dello
Stato romano, prototipo invece di un centralismo ottuso e arrogante
anche se fortunato: una ipotesi valida, se non per tutta la regione
convenzionale, sicuramente per la penisola (Roma compresa); non
più “figli di Roma” ma “figli d’Italia”; non più “fratelli d’Italia” ma
“fratelli di Roma”.
Gli italici espressero un Senato di cinquecento membri i quali
scelsero dodici pretori (in osco pretur), uno per ciascun popolo, e due
consoli (meddíss), uno per la parte settentrionale e uno per quella
meridionale della federazione. Stabilirono la capitale comune a
Corfinio, città peligna il cui nome venne mutato in Italia. Fu
arruolato un esercito di 100.000 combattenti (che giurarono fedeltà
all’Italia federale) e vennero emesse alcune serie di monete sulle quali
compariva la scritta Italia (in latino) e Vitelio (in osco) ed era
raffigurato un toro (il simbolo totemico dei sanniti) nell’atto di
calpestare e di incornare un lupo (cioè la lupa di Roma).
L’esercito italico venne diviso in due armate autonome, quella
settentrionale (“marsica”), al comando del meddíss Poppedio Silone,
e quella meridionale (“sannita”), al comando del meddíss Papio
Mutilo (che, in quanto comandante militare, assunse il titolo di
embradur, il termine osco per imperator).
Le truppe italiche erano numerose, disciplinate e agguerrite.
Riportarono, all’inizio delle operazioni, grandi successi. Il console
romano Rutilio venne ucciso in battaglia e quando il suo corpo fu
portato a Roma per le esequie, un moto di panico scosse la città. La
guerra fu lunga e sanguinosa. Diodoro afferma che fu la più grande
fino allora affrontata da Roma, e Floro sostiene che nemmeno le
invasioni di Pirro e di Annibale causarono simili devastazioni:
l’embradur Papio Mutilo conquistò Sorrento, Stabia, Salerno,
Pompei e perfino Nola (cosa che nemmeno Annibale era riuscito a
fare).
Gli italici svolsero anche una sorta di politica estera. Il territorio che
li divideva da umbri ed etruschi, stabilmente in mano ai romani,
purtroppo impedì loro un’alleanza organica con questi due popoli. Il
loro esempio portò, comunque, alla fine del 90 a. C., all’insurrezione
degli umbri e degli etruschi, che i romani acquietarono subito con la
concessione immediata della cittadinanza.
L’anno 89 a. C. fu invece sfavorevole, sul piano bellico, agli italici.
Incalzati dai romani, furono costretti a trasferire la loro capitale
prima a Boiano e poi ad Isernia. La controffensiva romana, guidata da
Silla, si mostrò sempre più inesorabile. I più meridionali fra gli italici,
i lucani, concepirono allora un progetto grandioso che tuttavia non
ebbe successo: invasero il Bruzio (l’odierna Calabria) con l’intento di
sbarcare in Sicilia per sollevarla contro Roma e aprire così un nuovo
fronte.
Roma accettò, nell’87 a. C., di trattare con i ribelli cui venne
concessa, finalmente, l’agognata cittadinanza. Anche se mancava
l’assenso di Silla, lontano da Roma, la guerra sociale o italica ebbe
termine dopo quattro anni di accesi combattimenti. Si riattizzò
tuttavia nell’82 a. C., al momento della guerra civile tra Mario e Silla:
gli italici si schierarono, così come gli etruschi, dalla parte di Mario e
ne subirono le conseguenze.
Eccone alcuni esempi: i prigionieri sanniti, catturati nella battaglia di
Sacriportus, furono massacrati per ordine di Silla. Il loro numero non
c’è noto. Silla fece riunire anche i prigionieri dell’ultima battaglia,
quella di Porta Collina: scelse tra loro i sanniti e li fece uccidere tutti,
uno per uno. Questa volta si sa che il loro numero andava da 3.400
(secondo Strabone) a 8.000 (secondo Livio e Appiano). I sanniti, i
più combattivi tra gli italici, erano insomma considerati da Silla come
gli ebrei da Hitler. Purtroppo per Silla, la camera a gas, al contrario
delle terme, non era stata ancora inventata.
Una considerazione perlomeno curiosa: di tutti i popoli insediati
nell’Italia-regione, sono stati paradossalmente gli italici, i meno
lontani etnicamente dai romani, a contestarne radicalmente l’ascesa:
forse più degli etruschi, dei celti e dei greci, le cui diversità appaiono
ben più vistose. Non è un caso se proprio i sanniti hanno definito i
romani “raptores italicae libertatis”. Si dirà, giustamente, che non è il
caso di mitizzare oltre misura l’eroismo, magari sporadico, degli italici
e degli altri oppositori di Roma. Va tuttavia riconosciuto come la
retorica secolare e insopportabile degli “eroi di Roma”, ampiamente
diffusa a tutti i livelli, necessiti perlomeno di un contrappeso:
“inventare” una “tradizione” antiromana è, da questo punto di vista,
in Italia, un’opera meritoria. Tutte le “tradizioni” infatti, da un
punto di vista tecnico, si equivalgono. E conviene puntare su quelle
culturalmente più stimolanti, magari “inventando” un po’ di più.
Nonostante il loro “eroismo”, gli italici vennero sconfitti e poi
assimilati dai romani (ma si sono vendicati linguisticamente: a Roma
si dice oggi annamo per “andiamo” in quanto l’italico NN ha
spodestato il latino ND).
Un’altra testimonianza, assai più recente, che esibisce toni più da
commedia che da tragedia, scelta tra le molte forse possibili, contrasta
in Italia il mito di Roma.
Tra il 1540 e il 1560, uno Stato peninsulare in vena di espandersi, la
Toscana, cerca di inventarsi un’ininterrotta tradizione autoctona pre
romana ispirandosi agli etruschi (nonostante Firenze fosse stata
definita da Dante, Compagni e Villani, pretta “figlia di Roma”).
Cosimo I, duca di Firenze, si candida a Dux Etruriae e pilota questo
suo progetto politico attraverso la massima istituzione culturale del
suo Stato: l’Accademia fiorentina, cui affida l’“invenzione” di una
“tradizione” favorevole alla sua tesi. Un buon numero d’intellettuali a
lui fedeli, tra i quali Gianbattista Gelli e Pier Francesco Giambullari,
esprime allora pubblicamente la teoria, manifestamente infondata,
che l’idioma toscano derivi direttamente dall’etrusco invece che dal
latino e che l’etrusco derivi, a sua volta, insieme all’ebraico,
dall’aramaico. È, insomma, più antico e più nobile della lingua di
Roma. Santi Marmocchini divulga, nel 1542, un glossario
etimologico della “lingua toschana” raffrontata all’ebraico proprio
per opporla al latino, idioma straniero giunto in Toscana in seguito
alla colonizzazione romana.
Perfino il Vasari contribuisce al mito, teorizzando l’assoluta
originalità e il primato dell’arte etrusca rispetto a quella classica, greca
e romana.
Nel 1560, Cosimo I si allea col papa e mette la sordina a questa vera e
propria campagna di Stato da lui fomentata. Il papa ricambia il favore
nominandolo Magnus Dux Etruriae sibi subiectae. L’etruscomania si
sposta subito nel campo del collezionismo d’arte: un’altra vittoria di
Roma.
La retrocessione di Roma a capitale dello Stato italiano, e quindi a
simbolo del malessere di Stato, ha recentemente innescato un moto
di rigetto, non particolarmente nobile come motivazione ma
comunque significativo, che si esprime nello slogan, in altri tempi
inimmaginabile, di “Roma ladrona”: magari non italicae libertatis, ma
sicuramente padanicae opulentiae.
How old is Italy?
Nonostante tutti gli indizi fatti propri dalla classe intellettuale e
politica al potere, nel tentativo di giungere per accumulo alla prova
dell’esistenza dell’Italia, un indizio di segno contrario e dal peso non
trascurabile viene proprio dal cuore di questa classe: per rendersene
conto basta riflettere sulle difficoltà obiettive di collocare l’Italia non
solo nello spazio, ma anche nel tempo: basta riflettere a come è stato
implicitamente risposto, nell’Italia-Stato, da chi di dovere, a una
domanda semplicissima: quanti anni ha l’Italia?
Uno storico, giustamente dimenticato, della fine dell’Ottocento,
Licurgo Cappelletti, suggeriva più o meno l’età di 5.000 anni. La sua
Storia d’Italia cominciava, infatti, dalla preistoria, quando il nome
stesso d’Italia era di là da venire.
Un pertinace luogo comune, per fortuna rigettato dagli storici di
professione ma ostentato ancora oggi, con disinvolta imprudenza, da
alcuni celebri giornalisti in vena di divulgazione storica per le masse
assegna all’Italia l’età veneranda di 2.750 anni: la sua storia
comincerebbe nel 753 a. C., anno della supposta fondazione di
Roma. Quest’opinione giustifica paradossalmente la celebrazione del
Natale di Roma, di mussoliniana memoria.
Anche gli storici “veri” si mostrano in grave disaccordo tra di loro.
Luigi Salvatorelli assegna all’Italia un’età di quasi 2.200 anni. Ne fa,
infatti, cominciare la storia dal II secolo a. C., quando il protettorato
romano (ma non la cittadinanza) si estese nominalmente su buona
parte dell’Italia definita diciassette secoli dopo dai geografi generali
(ma, come sappiamo, non su tutta).
Per Gioacchino Volpe, storico ufficiale del regime fascista ma
studioso serio nei limiti delle proprie convinzioni, l’Italia ha invece
1.527 anni suonati: la sua storia comincia nel 476 (al momento del
crollo dell’Impero romano d’Occidente).
Per Benedetto Croce, infine (e possiamo trarre finalmente un sospiro
di sollievo), l’Italia ha 142 anni tondi.
La sua storia può cominciare soltanto nel 1861, al momento
dell’istituzione del Regno sabaudo d’Italia, il primo Stato “italiano”
degno di questo nome in quanto ragionevolmente esteso e
soprattutto unitario. Prima di questa data ci sono soltanto le storie
dei singoli Stati e dei singoli popoli che si sono spartiti nel tempo lo
spazio promulgato a posteriori dai geografi generali.
La disputa continua oggi sulle pagine delle molte e voluminose Storie
d’Italia pubblicate più recentemente (e su quelle in corso di stampa),
oscillando tra l’ipotesi Volpe e l’ipotesi Croce. E allora: Volpe o
Croce?
È facile osservare che, nel caso del Croce, più che di storia d’Italia si
tratta di storia dello Stato italiano (ma di quale altra Italia certa si
può onestamente parlare?).
Si può, tuttavia, intendere la storia dello Stato che oggi si denomina
“italiano” come la storia di uno Stato dinastico che muta durante i
secoli, espandendosi, la propria denominazione conservando una
continuità, appunto, dinastica. Questo Stato sarebbe la Savoia (o,
meglio, lo Stato familiare del nobile borgognone Umberto
Biancamano, i cui discendenti divennero duchi di Savoia) che nell’XI
secolo comincia a estendersi, oltre che di là, anche di qua dalle Alpi,
su parti sempre più vaste dell’Italia-regione convenzionale fino a
mutare, dal 1713 al 1718, per ragioni di peso e di rango relative allo
status del sovrano, la propria denominazione in Regno di Sicilia; dal
1718 al 1861, scambiata la Sicilia, in Regno di Sardegna; e, nel 1861,
in Regno d’Italia (mantenendo tuttavia, oltre alla dinastia, il proprio
Statuto “sardo” del 1848).
Il Regno di Sardegna aveva paradossalmente ceduto un anno prima
(1860) alla Francia il territorio originario da cui traeva il proprio
nome iniziale (la Savoia, appunto). Non è un caso se Vittorio
Emanuele continuò a denominarsi ii anche se fu il primo re d’Italia e
se il primo Parlamento italiano si numerò come ottavo. Il borbone
Ferdinando IV di Napoli e III di Sicilia fu più corretto: divenne, nel
1816, Ferdinando I delle Due Sicilie (avvicinandosi così allo zero).
Come si vede, mancando un’Italia appena probabile, le Italie possibili
sono davvero troppe.
Quanto abbiamo finora narrato, ancora non basta. Va, infatti, citata,
in extremis, anche l’opinione di Giovanni Spadolini: un’opinione
ancora oggi assai diffusa, in quanto questo storico recentemente
scomparso è stato soprattutto un influente uomo politico e
giornalista.
Per Spadolini, la nozione stessa d’Italia è affidata alla “nazione” e
pertanto alla lingua: l’Italia va intesa, di là dalle vicende politico
istituzionali e dalle definizioni della geografia fisica, “come comunità
di lingua e di cultura, con piena coscienza di se stessa, fiorita dopo
l’avvento del volgare e con il contributo decisivo di Dante”. Per
Spadolini, “in Italia, l’idea e la stessa realtà della nazione precedevano
di parecchi secoli l’idea dello Stato”. Questa Italia improbabile
avrebbe così, all’incirca, 700 anni. È un’età che non convince.
È facile infatti obiettare che: 1) la “piena coscienza di se stessa” in
Italia non è ancora oggi pienamente avvenuta; 2) la coscienza
acquisita in proposito da una minoranza (storicamente decisiva) della
presunta “comunità di lingua e di cultura” italiana è avvenuta
soltanto nel XIX secolo; 3) il concetto di “cultura” è troppo settoriale
(cultura occidentale, cultura del sospetto, cultura materiale, cultura
gay) e allo stesso tempo troppo vasto e onnicomprensivo (come
l’antropologia culturale insegna) perché riesca a definire qualcosa di
evidente in termini di presunte identità “nazionali” e “statali”,
oltretutto ipotizzate a posteriori e quindi tautologiche; 4) 1’“avvento
del volgare”, inteso come uso di massa della lingua “italiana” è, come
vedremo, ancora in corso di realizzazione; 5) il contributo di Dante è
stato “decisivo” per l’affermazione successiva del volgare toscano
quale volgare “italiano” ma non per la “coscienza” di cui sopra, se non
indirettamente (più che a un qualsiasi tipo di Stato italiano, Dante
pensava a una acconcia sistemazione nell’impero di egemonia
germanica inteso quale filiazione e restaurazione di Roma); 6) per
tutto quanto abbiamo indicato, la pratica dello Stato ha preceduto, in
Italia, se non l’idea, certamente la pratica della “nazione”, secondo la
nota massima coniata dal maresciallo Pilsudski a proposito della
Polonia, quando voleva riaggregarvi la Lituania, la Bielorussia,
l’Ucraina e un bel po’ di Germania: “È lo Stato che fa la Nazione” (e
purtroppo sappiamo in che modo ciò avviene ed è avvenuto
normalmente nel mondo).
Ad ogni modo, l’opinione di Spadolini c’è utile per affrontare
finalmente di petto, dopo l’Italia-regione, l’Italia-nazione. E, in
contemporanea, il concetto di nazione: fonte perenne di equivoci e di
malversazioni.
3.
I peli sulla lingua e il corpo della nazione

“Natio quia nata”?


Il 24 ottobre 1889, Francesco Crispi (che da nazional-naturalista si
era trasformato da tempo in nazional-imperialista poiché voleva le
colonie) pronunciò a Palermo le parole famose: “La nazione esiste per
virtù propria entro la cerchia dei suoi confini. Ora, nessuna nazione
al mondo ha confini così definiti e sicuri come l’Italia. Natio quia
nata”. Crispi teorizzava, ancora una volta e in maniera
inequivocabile, la supposta coincidenza dell’Italia-regione dei
geografi generali (intesa come “naturale”) con l’Italia-nazione e si
riprometteva di operare alacremente affinché anche l’Italia-Stato si
estendesse fino a toccare i confini prestabiliti. Il suo apparente
ripiegamento nazional-naturalista era del resto comprensibile: la
Francia gli aveva appena soffiato Tunisi e, in Africa, di colonie
disponibili ne restavano poche (anche se a quelle poche non aveva in
animo di rinunciare).
In realtà, niente impone ad una nazione e/o ad uno Stato di
coincidere con una regione naturale qualsiasi. In Italia, tuttavia, da
quando c’è lo Stato, si è sempre ritenuto opportuno prendere due
piccioni con una fava sola. È il retaggio di troppi secoli durante i quali
l’Italia è stata soltanto un concetto geografico (sia pure impreciso e
tecnicamente infondato) e dell’introduzione tardiva, e allo stesso
tempo troppo repentina e poco meditata, del concetto di nazione di
qua dalle Alpi.
Prima di parlare dell’Italia-nazione, non sarà inutile rammentare, per
l’ennesima volta, che quando si parla di “nazione” s’introduce una
nozione perlomeno equivoca, tali e tanti sono i significati assunti da
questa parola da quando è diventata l’essenza suprema di una nuova
religione laica e un motore indubitabile della storia: davvero troppi e
troppo spesso in opposizione tra loro. Gli studiosi contemporanei
della materia (rarissimi in Italia, dove la si ritiene, erroneamente, una
scienza compiuta sul modello dell’anatomia macroscopica umana),
hanno cercato di dirimere (o di mascherare) queste insopprimibili
divergenze (che crescono via via che il ricorso al termine,
contrariamente alle previsioni, diviene sempre più universale, con
una rincorsa che appare sempre più accelerata), esercitandosi in
terminologia e distinguendo, a seconda dei casi, tra nazioni
territoriali e nazioni culturali, nazioni politiche e nazioni etniche,
nazioni con Stato e nazioni senza Stato, nazioni storiche e nazioni
senza storia, nazioni forti e nazioni deboli, nazioni vecchie e nazioni
giovani, nazioni precoci e nazioni tardive, nazioni dominanti e
nazioni dominate, nazioni proprietarie e nazioni proletarie, nazioni
consapevoli e nazioni inconsapevoli, nazioni-demos e nazioni-ethnos,
nazioni felicemente partorite e nazioni infelicemente abortite.
Hanno, cioè, cercato di riempiere di nomi un vuoto (di senso) che è
rimasto tale (forse perché troppo pieno). Hanno escogitato perfino
numerose vie di mezzo quando la realtà non rientrava nei loro schemi
pur raffinati: hanno, ad esempio, inventato la “nazionalità” quale
tappa intermedia tra il “gruppo etnico” e la “nazione” (vedi la
dottrina ufficiale sovietica) oppure, in forma meno gerarchica, tra la
“regione” e la “nazione” (vedi la Costituzione spagnola del 1978,
articolo 2).
Nel linguaggio popolare (condiviso dai politici e dai giornalisti), la
“nazione” viene addirittura intesa come sinonimo di “Stato”: ma non
è affatto così. Soprattutto in Italia. Basta ricordare che il
Risorgimento ha “propugnato” l’esistenza di una nazione italiana
(priva di Stato proprio) per tradurla proprio in uno Stato (Spadolini
docet).
Il cittadino italiano medio chiama invece “nazione” tanto la Russia
sterminata (una federazione che riconosce ufficialmente al suo
interno almeno una cinquantina di nazioni di cui ventuno istituite in
repubbliche autonome) quanto il minuscolo Liechtenstein (la cui
popolazione non si distingue per nulla da quella dei villaggi
appartenenti agli Stati confinanti) così come chiama “artisti” tanto
Giorgio quanto Gianni Morandi, tanto Carlo quanto Raffaella
Carrà.
Stenta, è vero, per ragioni di prossimità fisica, a ritenere San Marino
una nazione, ma non batte ciglio (il cittadino italiano medio è un
grande appassionato di calcio) quando constata come San Marino
schieri una propria rappresentativa “nazionale” di calcio con i crismi
della FIFA e dell’UEFA. Non riflette invece sul fatto, clamoroso, che non
esiste una “nazionale” britannica e che, per uno stesso Stato,
scendano abitualmente in campo ben quattro “nazionali” (oltre tutto
acerrime rivali) tutte col marchio FIFA e UEFA: Inghilterra, Scozia,
Galles e Irlanda del Nord.
La colpa di quest’abitudine non è tutta sua: al contrario di FIFA e UEFA
A, la massima organizzazione internazionale di Stati si chiama, infatti,

ONU (o UNO) e non OSU (o USO od OEU), fornendogli così un alibi

prezioso. D’altronde, non è da oggi che molti Stati barano al gioco


presentandosi, al mondo e a se stessi, come nazioni. Il diritto
“interstatale” si chiama, infatti “diritto internazionale”, anche se è ad
“uso” esclusivo degli Stati.
Lo Stato italiano ha, come si sa, durante la sua ancora breve storia,
giocato d’anticipo con questa parola ambigua, definendosi
stentoreamente “nazionale” prima ancora di avere raccolto tra le sue
braccia tutta la nazione presunta (e raccogliendo brani di nazioni
presumibilmente “altre”). È passato, in corso d’opera, a definirsi
“nazione” tout court in quanto il termine garantiva una sacralità che
il semplice “Stato” non assicurava. L’Italia-nazione avrebbe tuttavia
continuato ad esistere anche se l’Italia-Stato non fosse mai nata. E,
secondo i principi risorgimentali, essa continua ad esistere, in alcune
sue parti, fuori dello Stato omonimo.
L’uso e l’abuso, lo sperpero si direbbe, del termine (che ha assunto la
valenza di un vero e proprio, salace doppio senso) e dei suoi derivati,
ha segnato in maniera indelebile il Regno d’Italia, raggiungendo in
periodo fascista vette retoriche sicuramente invalicabili.
Proprio per questa ragione, la repubblica “uscita dalla Resistenza”
contro il fascismo, ha lodevolmente attenuato le punte più deliranti
di un malcostume terminologico di Stato ritenuto ormai
inammissibile, imponendo di riflesso ai suoi dignitari e al seguito dei
propri intellettuali organici una maggiore cautela al riguardo.
Nella Costituzione del 1948, si parla così di “Nazione” soltanto tre
volte (quattro se si considera l’articolo 11, che parla però di
“Nazioni” in senso generale alternandole a “popoli” e “Stati”) e si
usano preferibilmente termini più neutri e meno presuntuosi quali
“Repubblica” (82 volte), “Stato” (37 volte), “Paese”, “Patria”,
addirittura “Italia” (2 volte ciascuno). Da allora, politici e giornalisti
non dicono quasi più “nazione” e si riempiono invece la bocca di
“paese”: un termine bonario, casalingo, affettuoso, emerso
prepotentemente nel secondo dopoguerra.
L’uso dell’attributo “nazionale” continua invece imperterrito (è
impiegato dieci volte anche nella carta costituzionale). Ma ciò deriva
forse dalle latitanze di un vocabolario dove gli aggettivi “statale”,
“statuale”, “patriottico”, “repubblicano”, “paesano” hanno un
significato del tutto diverso. E nessuno ha avuto finora il coraggio di
coniare l’attributo “paesale” che ci sembrerebbe l’unico adeguato al
nuovo costume terminologico.
Assai più smaliziato di Spadolini, lo storico Ruggiero Romano
sostiene che “è inutile cercare di tracciare una storia d’Italia che voglia
essere una storia della nazione italiana” [...]. Io credo poco nella
nazione e credo molto, invece, nel paese. La nazione è un’idea giovane
(poco più di due secoli). Il paese è invece un fatto antico”. Il nuovo
termine viene così omologato dal mondo della scienza e della cultura.
L’opinione di Romano c’è utile per continuare il nostro gioco sull’età
dell’Italia, nonostante alcune vistose oscillazioni di quest’autore in
proposito. Secondo il titolo del libro al quale affida la sua divertente
teoria (Paese Italia. Venti secoli di identità, 1994) sembrerebbe infatti
che l’Italia avesse 2.000 anni. Nel corso del libro, lo storico soggiunge
tuttavia che “alle nostre spalle abbiamo trenta secoli di una storia che
ci è comune”. I 2.000 anni diventano così, di botto e con grande
disinvoltura, 3.000 (ci si avvicina alla vetusta datazione di Licurgo
Cappelletti).
Qualche pagina dopo, Romano afferma però: “È certo che non v’è
alcuna possibilità di parlare di una storia d’Italia prima del V secolo.
La confusione che deriverebbe dall’inclusione della storia di Roma in
quella d’Italia sarebbe inutile e addirittura dannosa”. Eccoci così
all’indicazione di 1.500 anni (la stessa fornita da Volpe). Ma Romano
ama giocare con i numeri.
In realtà, per lui, l’Italia-paese avrebbe soltanto 150 anni (e nemmeno
compiuti). Volpe viene abbandonato, sia pure con un approccio assai
diverso, per Croce. Romano dice, infatti, nel medesimo libro, che il
collante della storia d’Italia “non può essere altro che quello che ho
chiamato il paese, vale a dire gli elementi di base di una certa
comunità italiana: il mangiare e il bere, le forme peculiari di
religiosità, di giochi, di socialità e d’altro ancora”. Orbene, proprio
secondo Romano, soltanto “negli ultimi centocinquanta anni” si è
sviluppato “un forte movimento [...] verso un’uniformazione” in
questo senso.
Parliamo allora di cibo. Romano è cosciente dell’antica dicotomia tra
una “Italia-paese dell’olio” e una “Italia-paese del burro e dello
strutto”, di una “Italia-paese della pasta” e di una “Italia-paese della
polenta e degli gnocchi” (paesi che corrispondono, guarda caso, alle
due principali regioni naturali e perfino “genetiche”: con il caso,
come al solito dubbio, della Liguria) che scompongono l’Italia-Stato.
Eppure testimonia, a garanzia dell’uniformazione finalmente
compiuta, che “oggi, nella lista di un qualsiasi ristorante italiano” si
trovano, affiancati, cibi d’origine siciliana e milanese, genovese e
napoletana, piemontese ed emiliana (e così via): “oggi”, ma non
centocinquanta anni fa, diciamo noi. E non sempre e non
dappertutto.
Le nostre obiezioni sono comunque di due tipi. La prima riguarda il
tempo. Soltanto nel secondo dopoguerra (e non centocinquanta anni
fa), ad esempio, la pizza (napoletana) è arrivata in forze a Firenze,
insieme al panettone (milanese) e all’albero di Natale (dall’Europa
centro-settentrionale e dall’America, colonizzando una “Italia-paese
del presepe” dove Babbo Natale ha sostituito, quale dispensatore di
doni, la Befana).
La seconda è relativa allo spazio: nonostante centoquarantadue anni
di Italia-Stato abbiano uniformato, anche se del tutto
superficialmente (le cucine regionali sono, infatti, in netta rimonta),
le abitudini culinarie dei cittadini italiani. Se si pensa alla rete ormai
universale delle pizzerie e delle spaghetterie, si deve convenire che
l’Italia-paese non esiste. Essa coincide ormai con il Mondo-paese (e
Napoli avrebbe battuto ai punti Roma quale caput mundi).
E che dire ancora, dopo avere riflettuto a fondo sullo straripare dei
ristoranti cinesi e sull’ascesa irresistibile degli “hot dog” e degli
“hamburger” anche nell’Italia-paese? Da questo punto di vista, il
“paese”, più che “italiano”, sarebbe diventato, come si diceva una
volta, “cosmopolita”. E ciò, da innumerevoli altri punti di vista, suona
falso. E falso è.

La nazione in Francia e in Germania


La parola “nazione” (dal latino nasci, “nascere”), fino almeno alla
metà del XVIII secolo, veniva usata sporadicamente (in Europa) per
indicare un gruppo di individui che vantavano un’origine comune,
provenivano da uno stesso luogo geografico di estensione variabile
oppure, per un’estensione, questa volta di significato, condividevano
un medesimo status sociale e culturale o addirittura una medesima
professione, arte o mestiere. Definiva insomma una categoria
all’interno di un contesto più vasto, fosse questo uno Stato dinastico,
l’Impero, la Chiesa, un’università degli studi, un consesso prestigioso
o una riunione, come si dice oggi, d’alto livello.
Quasi all’improvviso, nella seconda metà di quel secolo, le venne
affidato un nuovo (esplosivo) significato. Divenne l’idea-guida di un
nuovo e burrascoso corso della politica e della storia. Non conviene
certo ripetere quanto è stato detto e scritto abbondantemente in
proposito: è semmai utile rilevare subito come le attuali ambiguità
che connotano questa parola (piegandola ai significati più diversi,
spesso contrastanti fra loro) hanno avuto paradossalmente origine
proprio dal suo nuovo significato, assunto poco più di due secoli fa:
nuovo ma non univoco.
Gli studiosi di questo nuovo significato vi ravvisano la presenza
contemporanea di due filoni principali e distinti che lo impongono
sulla scena politico-istituzionale e dall’incrocio perverso dei quali
scaturisce quella gamma di motivazioni ideali e di comportamenti
pratici, altrettanto perversi, che hanno sconvolto (e ancora
sconvolgono) l’assetto della società e delle sue rappresentazioni
politiche e statuali. Questo non vuol dire però che gli assetti sconvolti
non fossero ancora più perversi. Anzi.
Il primo filone (la teoria “elettiva” o “volontaristica” della nazione)
nasce con la Rivoluzione francese: la “nazione” non è più identificata
in quella ristretta casta di dignitari (generalmente la nobiltà) che
coadiuvano il sovrano nella conduzione del potere assoluto.
“Nazione” diventa l’intero corpo dei cittadini ai quali spetta
l’esercizio della sovranità all’interno dello Stato (sottratto all’arbitrio
del re), definito “uno e indivisibile” (per sottrarlo all’appetito dei
sovrani vicini) e improntato ai principi della “libertà”,
dell’“uguaglianza” e della “fraternità”. A dire il vero, le cose non
furono, all’inizio, proprio così. Ma quasi.
La Costituzione francese del 1791, nello stabilire che la “sovranità è
della Nazione”, precisava, infatti, che il suo esercizio spettava agli
elettori, definiti “cittadini attivi”: cioè a quei cittadini di almeno
venticinque anni in grado di “pagare un’imposta diretta equivalente
al valore di tre giornate di lavoro, fornendone la ricevuta” (Tit. III,
cap. I, sez. II, art. 1). La nazione si era dunque assai estesa, ma non
coincideva ancora con la totalità dei cittadini e cioè con il “popolo”
(obiettivo che verrà raggiunto in un secondo tempo). Lo Stato
dinastico francese si trasforma comunque in “Stato nazionale” (nel
significato di cui si è detto). E nel 1792 diventa repubblica. La
Costituzione del 1793 sostituisce “nazione” con “popolo”, ma non
viene mai promulgata. “Stato”, “nazione” e “popolo” divengono,
comunque, nell’uso ufficiale, sinonimi sostanziali.
Il secondo filone (chiamato “teoria naturale della nazione”) nasce
invece in Germania, una “regione” divisa in una miriade di Stati di
taglia, di origine e di condizione diverse, quasi tutti ancora aggregati
formalmente nel moribondo Sacro romano impero della nazione
germanica, che si estende peraltro anche ad altre “regioni” (vivacchia
a Berlino come a Trento).
Questo filone deriva dalla riflessione d’intellettuali eccellenti: di
filosofi come Herder e Fichte, ma anche di linguisti come i fratelli
Schlegel (uno dei quali è glottologo e l’altro un po’ filologo) e
Humboldt (che è uno dei padri della linguistica storica comparata).
Per costoro, la “nazione” è una comunità di individui caratterizzati
da un’origine comune rivelata dall’uso di una stessa lingua: una lingua
il cui uso si estende su di un territorio precipuo, anche se soggetto alla
sovranità di Stati diversi. Questa definizione si attaglia
particolarmente bene al popolo tedesco, ma vale per tutti i popoli.
Fichte sostiene, infatti, che “chi parla la medesima lingua costituisce
un tutto che la natura ha legato fin dall’origine” e che “dovunque si
trovi una lingua distinta esiste una nazione separata che ha il diritto
d’autogovernarsi”. Da ciò deriva l’esigenza che a ogni nazione
corrisponda uno Stato: che ogni nazione si doti di uno Stato proprio
e per ciò “nazionale”. Lo “Stato nazionale” alla francese diventa così,
se interpretato alla tedesca, assai spesso uno Stato “plurinazionale”. E
non è un paradosso da poco.
In realtà, accanto al tedesco, esisteva in Germania un’altra lingua, il
“basso tedesco” (Niederdeutsch), una volta celebre in quanto lingua
“ufficiale” dell’Hansa ma regredito allo stato dialettale dopo che i
principi, i vescovi e gli intellettuali della Bassa Germania l’avevano
abbandonata spontaneamente. Uno dei dialetti di questa lingua è
comunque all’origine della lingua olandese. In Germania esistevano
dunque, a rigore, due “nazioni”, ma questo dato sfuggiva agli
intellettuali del tempo. In Francia, tuttavia, le “nazioni” erano
almeno otto.
Secondo i tedeschi, la nazione si riconosce, dunque, dalla lingua (la
lingua “materna” dei suoi membri, non quella ufficiale imposta ad
essi dagli Stati o quella “culturale” scelta da alcuni di loro per ragioni
di prestigio o di semplice comodità).
È, insomma, una Sprachgemeinschaft (una “comunità di lingua”). Il
primo Congresso internazionale di statistica (1875) deliberò che
l’unico carattere “misurabile” di una “nazione” era la “lingua”, dando
così ragione a Fichte.
La distanza tra le due concezioni della nazione non potrebbe essere
più abissale. La teoria “naturale” porta, nel tempo, ad alcune vistose
degenerazioni. Vi prendono, infatti, sempre più campo, accanto alla
lingua, altri due fattori ad essa indubbiamente collegati, riuniti nel
celebre motto Blut und Boden (“sangue e suolo”). A una lingua così
“pura” (non è stata nemmeno contaminata dalla romanizzazione)
come il tedesco (ma accanto al tedesco si comprendono tutte le
lingue germaniche: quelle scandinave, il basso tedesco e talvolta
perfino l’inglese), deve per forza corrispondere una “razza” (un
“sangue”) altrettanto pura.
Questa purezza dà a coloro che la possiedono il diritto di estendersi
territorialmente a spese d’altre nazioni, meno pure e meno vigorose.
Il “suolo” diventa allora lo “spazio vitale” (Lebensraum), sempre più
vasto, della prolifica razza dei portatori di questa lingua (o gruppo di
lingue strettamente imparentate). Si tratta comunque di
un’involuzione successiva dalla quale nascono “filosofie”
macronazionalistiche quali il pangermanesimo e, sulla sua scia, il
panslavismo, il panturchismo, il panarabismo...
Non è che le degenerazioni provocate dalla teoria “francese” siano
meno evidenti. La Francia non era, infatti, uno Stato da costruire ma
uno Stato già costruito (più o meno bene) da secoli, ai cui abitanti era
stato imposto dal re, in sostituzione del latino, l’uso pubblico della
lingua francese (con l’Editto di Villers-Cotterêts del 1539): una
lingua che era in realtà il “franciano”, cioè il dialetto dell’Ile-de
France, la regione attorno a Parigi e pertanto la lingua anche privata
del re.
Via via che il re di Francia aveva esteso i propri domini, il suo Stato
aveva però incorporato territori popolati da comunità di lingua
diversa dal francese e dai suoi vari dialetti: anzitutto quella,
vastissima, di lingua occitana (o “lingua d’oc”, individuata in tempi
non sospetti da Dante, che la riconosceva come uno dei tre rami nei
quali si era diviso il latino, dunque sullo stesso piano della “lingua
d’oil”, cioè del francese, e della “lingua del sì”, cioè dell’italiano). E
poi: di lingua olandese (fiamminga), di lingua tedesca, di lingua
celtica (bretone), di lingua basca (l’unico idioma preindeuropeo
sopravvissuto nell’Europa occidentale), di lingua catalana, perfino di
lingua italiana (i dialetti della Corsica). A tutti questi territori
allofoni era stato progressivamente imposto, dal re, il francese. Al
converso, sfuggivano allo Stato francese alcuni territori la cui lingua
materna era proprio il francese (o perlomeno uno dei suoi dialetti).
Oggi si parla, infatti, in Francia, di “esagono” e di “quadrato”.
L’esagono è il territorio attuale dello Stato francese, il quadrato il
territorio storico (europeo) della lingua francese. Si ottiene
aggiungendo all’esagono alcuni territori confinanti quali la Vallonia
belga, le isole britanniche della Manica, la Svizzera romanda e la Valle
d’Aosta, che ne modificano il contorno. Ovviamente, in Francia, si
definisce “francese” l’esagono per intero (a dispetto delle comunità
allofone che vi permangono numerose), mentre si definisce soltanto
“francofono” il quadrato (cui tuttavia Parigi dedica una tutela
particolare attraverso l’istituzione recente del Ministero per la
francofonia: tutela indirizzata anche nei confronti del Québec e delle
ex colonie extra-europee). Sono i trucchi di una terminologia di Stato
che esorcizza il fenomeno linguistico-nazionale.
La Repubblica Francese si proclamò, fino dal suo sorgere, “una e
indivisibile” anche nella lingua (“presso un popolo libero la lingua
deve essere una sola e la stessa per tutti”): forse per garantire il
principio dell’“uguaglianza” (anche linguistica) di tutti i suoi
cittadini, senza curarsi del fatto che in questo modo si calpestava la
loro “libertà” (linguistica) e la “fraternità” generale (proprio nel suo
aspetto linguistico, che avrebbe dovuto imporre l’uguaglianza di tutte
le lingue parlate nello Stato in quanto tutte sorelle).
La repubblica ereditò dal re sia lo Stato del re sia la lingua del re.
Considerava beninteso, in cuor suo, il francese una lingua superiore
culturalmente a tutte le altre, soprattutto a quelle, diverse, parlate
all’interno dello Stato (sorvolando sul fatto che i suoi cittadini
germanofoni avrebbero avuto dalla loro Goethe e quelli italofoni
avevano Dante).
Era convinta, soprattutto, che il francese avesse dalla sua la “purezza”
rivoluzionaria (una concezione assurda perché si trattava certamente
della lingua di Robespierre, ma anche di quella di Luigi Capeto).
Arrivò al punto di sostenere, per bocca del deputato Barrère (che era
paradossalmente di lingua materna occitana): “Il federalismo e la
superstizione parlano bretone, l’odio per la Repubblica parla tedesco,
la controrivoluzione parla italiano, il fanatismo parla basco” (Barrère
dimenticò di porsi una domanda: “Che lingua parlavano i
vandeani?”).
Essendo dunque il francese una lingua “rivoluzionaria”, ciò
giustificava il diritto d’espansione territoriale della Francia e della sua
lingua: l’obbligo addirittura morale di esportare e di diffondere i
nuovi principi “democratici” (che erano ormai alla base della nazione
e della lingua) per il bene dell’umanità intera. Il mondo sarebbe
divenuto uguale, libero e fraterno diventando francese. La Francia si
ritenne a lungo una Repubblica “universale”. Poi, dopo alcune
solenni batoste, si accontentò a malincuore di essere soltanto una
nazione tra le altre.
Anche la teoria “elettiva” o “volontaristica” ha comportato dunque la
trasformazione semantica del “suolo” in una sorta di Lebensraum (sia
pure con una motivazione diversa, anche se con una logica altrettanto
sgangherata).
Fedele ai propri preconcetti linguistici, la Repubblica francese si è
dedicata con zelo e costanza esemplari, fino dalla sua fondazione,
all’estirpazione delle lingue diverse dal francese presenti, come si è
visto, sul suo territorio in maniera massiccia, e all’impianto capillare
del francese su questo stesso territorio usando la scuola, le leggi e
qualche volta perfino le forze di polizia.
Questa politica linguistica ha avuto il risultato di ridurre in maniera
considerevole (oltre al numero degli allofoni in patria) le distanze tra
le due principali teorie della nazione.
Ai tedeschi, che avevano inventato lo slogan “Una lingua, una
nazione, uno Stato” (in quanto i futuri cittadini dello Stato auspicato
parlavano tutti un’unica lingua), i francesi hanno, infatti, risposto:
“Uno Stato, una nazione, una lingua” (affinché tutti i cittadini
presenti nello Stato parlassero un’unica lingua).
Le due concezioni, così diverse sulla linea di partenza, hanno coinciso
sulla linea d’arrivo: la lingua (unica), appunto.

Le nazioni in Italia
A parte sporadiche eccezioni (per esempio: Gian Francesco Galeani
Napione parla nel 1780 di “nazione italiana”, sia pure in un
significato non più “vecchio” ma non ancora “nuovo” del termine),
nell’Italia-regione il concetto di nazione arriva con le truppe di
Napoleone alla fine del Settecento (1796). Le repubblichette satelliti
istituite dai francesi su molte parti del territorio regionale vengono
dotate, da questo invasore filantropo, di Costituzioni che sono
fotocopie di quella francese (anche se sono scritte in italiano): oltre a
essere tutte “une e indivisibili”, queste Repubbliche sono anche, in
quanto Stati, tutte “nazioni”.
Ecco allora apparire ufficialmente, sulle rispettive carte costituzionali,
la “nazione ligure” (1797), la “nazione cisalpina”, la “nazione
romana” (1798) e anche la “nazione napoletana” (1799). Poi, molte
di esse, incorporate direttamente nell’impero francese, diventano
automaticamente parti della “nazione francese”.
Le Costituzioni della Repubblica Italiana e del successivo Regno
d’Italia, istituiti da Napoleone su altre porzioni dello stesso territorio,
non parlano mai (curiosamente) di “nazione italiana”.
La Restaurazione del 1815 ripristina, con qualche modificazione, i
vecchi Stati. La Costituzione del Regno delle Due Sicilie (1820) ne
approfitta per parlare di “nazione delle Due Sicilie”. Il Regno di
Sardegna, nel suo Statuto del 1848, non parla di “nazione sarda” ma
di “Nazione” tout court: nel preambolo, tuttavia, il re si appiglia
all’“Itala nostra corona” (e non è ipoteca da poco). La Costituzione
della sfortunata Repubblica Romana (1849), quella di Mazzini e di
Garibaldi, non parla di “nazione” ma di “popolo dello Stato romano”:
uno Stato che “rispetta ogni nazionalità” ma “propugna l’italiana”, al
punto di concedere la propria cittadinanza “agli altri italiani col
domicilio di sei mesi”.
I nazionalisti italiani avevano nel frattempo ampiamente compreso
(dal vivo) che il modello francese non si adattava al caso dell’Italia (se
non per i suoi contenuti “democratici”) cui bene si attagliava invece
la teoria naturale dei tedeschi (il Romanticismo aveva finalmente
valicato le Alpi). L’Italia cessa comunque, per loro, di essere una
regione geografica frazionata in nazioni politiche diverse e diventa
una nazione sola la cui esistenza postula conseguentemente la sua
trasformazione in un unico Stato (sul cui ordinamento fervono le
discussioni: monarchia o repubblica? Stato federale o Stato
centralizzato?).
Secondo i nazionalisti, l’Italia esibisce, oltre ad un territorio
“naturale”, una lingua propria (anche se purtroppo questa lingua è
ignorata dalla maggioranza dei suoi abitanti). L’entusiasmo
impedisce loro di scorgere i peli (simili a travi più che a festuche) che
spuntano dalla lingua degli “italiani”.
Emerge tuttavia, anche se con la scienza di poi, un’aporia rispetto al
modello tedesco. Mentre le nozioni di “sangue” (origine comune) e
di “lingua”, giuste o sbagliate che siano, sono le stesse in Germania e
in Italia, il concetto di “suolo” appare diverso. Esso si estende fin dove
si estendono (per le vicende della storia) i tedeschi (che si riservano in
pectore di estendersi ancora) nel primo caso; è indicato
perentoriamente dalla natura nel secondo. Viene insomma alla luce
una contraddizione che oscurerà in seguito troppo affrettate certezze.
Tra i presupposti della nazione, comunque, l’accento è chiaramente
posato, anche in Italia, sulla lingua. Secondo Mazzini, “una Nazione è
l’associazione di tutti gli uomini che per lingua, per condizioni
geografiche o per la parte assegnata loro dalla storia, formano un solo
gruppo”. E anche: la nazione è la “universalità dei cittadini parlanti la
stessa favella, associati con uguaglianza di diritti civili e politici”.
Mazzini ritiene pertanto necessario, affinché questa “associazione” o
“universalità” divenga operante, l’istituzione di “uno Stato per ogni
Nazione” nonché di “un unico Stato per l’intera Nazione”. La sua
posizione ha un indubbio colorito “democratico” (il suo programma
è repubblicano), nonostante sia avvolta nei fumi di un approccio
mistico ed esaltato (di tipo religioso), che manca alla teoria tedesca
(anche se questa ne rimane la base).
Il maggiore teorico italiano del principio di nazionalità, Pasquale
Stanislao Mancini, assai più coerente e tecnico di Mazzini, ebbe a
definire, nel 1851, sia pure con una sintassi straordinariamente
involuta, la nazione come “una società naturale d’uomini, da unità di
territorio, d’origine, di costumi e di lingua conformata a comunanza
di vita e di coscienza sociale”: una “società” che tuttavia doveva essere
vivificata dalla “coscienza della nazionalità” per proporsi come
“nazione” ed erigersi in Stato. Emerge così un elemento
volontaristico, presente nella teoria “elettiva” ma non in quella
“naturale” (per la quale esistono anche “nazioni inconsapevoli”).
Mancini sostiene comunque: “Ma di tutti i vincoli di nazionale unità
nessuno è più forte della comunanza del linguaggio”.
Va rammentato che quest’avvocato meridionale, esule a Torino,
venne gratificato nel 1850, dal re di Sardegna, con una cattedra
universitaria di Diritto internazionale (da lui inteso come insieme di
rapporti giuridici tra “nazioni” e non tra Stati). I Savoia, pur parlando
una lingua diversa da quella di Mancini e appartenendo quindi a una
diversa “comunanza del linguaggio” (e, secondo la teoria manciniana,
a una diversa “nazione”), puntavano ormai le loro fiches sulla
“nazione italiana” e l’alibi del napoletano Mancini faceva loro
“comodo assai”.
Un progetto di Costituzione per l’Italia fatta libera e indipendente,
datato 1835 ma pubblicato nel 1832 (lo abbiamo citato qualche
pagina addietro), appare indicativo ed esauriente a proposito dell’idea
di “nazione italiana” (anche se la forma istituzionale invocata sembra
fatta apposta per irritare il re “sardo”).
Il suo “articolo primo fondamentale” recita infatti: “Tutti i popoli
d’Italia e così tutti gli abitatori della penisola che, dal ciglione delle
Alpi incominciando all’ovest dal punto... al punto...[la
determinazione esatta dei punti è demandata a una misurazione
successiva] e circondata dai mari Adriatico e Mediterraneo nonché le
isole tutte adiacenti alla penisola italiana, parlanti la stessa lingua,
formano a perpetuità una Nazione sola, e si costituiscono in
Repubblica democratica una ed indivisibile [in corsivo nel testo]”.
Una nota precisa che questa Italia di là da venire è “descritta quale
esser dovrebbe” e che la Savoia, in quanto di là dalle Alpi e di lingua
francese non le appartiene, mentre le appartengono il Canton Ticino
e la Corsica in quanto di lingua italiana e situati all’interno dei
“confini che la natura stessa ha tracciati”. Si augura che una “franca e
leale diplomazia” possa portare a “trattati in virtù dei quali, i popoli
possano riunirsi a quella nazione, a cui li ha destinati la natura, pel
più facile soddisfacimento de’ sociali loro bisogni”.
Questo progetto anonimo proviene sicuramente da un ambito
mazziniano. Al contrario di questi suoi adepti così puntigliosi,
Mazzini non era purtroppo un esperto in geografia (sia pure
“generale”) e le sue continue oscillazioni in proposito lo dimostrano.
Nel 1860, con la “teoria del compasso”, indicò nell’Isonzo il confine
orientale “naturale” d’Italia escludendo così Gorizia, Trieste e l’Istria
da questo contesto. Nel 1866, s’indignò invece per il fatto che fossero
stati lasciati all’Austria proprio questi territori: aveva, infatti,
realizzato che l’Italia-regione arrivava sul crinale delle Alpi Giulie.
Nel 1870, rivendicò addirittura la necessità di superare i confini
“naturali” e di annettere Postumia e la Carniola (in pratica due terzi
dell’odierna Slovenia: annessi del resto, concretamente, anche se per
soli due anni, da Mussolini nel 1941).
Sempre nel 1866, Mazzini, in quel momento ancora aggrappato allo
spartiacque, aveva precisato che “nostro”, cioè italiano, era “il Tirolo
fino alla cinta delle Alpi Retiche [...] nostre sono le acque che ne
discendono a versarsi nell’Adige e nel golfo veneto”, pur dichiarando
di sapere che gli abitanti di questo Tirolo erano di “stirpe teutonica”.
Essi erano però, per lui, “facili ad italianizzare”. Con un brusco salto
di teoria, dalla Germania alla Francia, teorizzò implicitamente la
necessità di un genocidio linguistico sul tipo di quello praticato in
Francia dai francesi (e che sarà sperimentato, in seguito, da Mussolini
proprio in quello stesso Tirolo meridionale).
Va ricordato, a questo proposito, il disprezzo precedentemente
dichiarato dallo stesso Mazzini nei confronti dei “popoli-Napoleone”
che volevano annettersi e assimilare brandelli di nazionalità diverse
dalla propria. Non lo si può certo considerare un mostro di coerenza.
Il fatto che Mazzini comprendesse nella categoria della nazionalità,
come s’è appena visto, oltre agli uomini anche le “acque”, ce lo rende
francamente sospetto. Eppure non è stato il solo patriota di spicco a
confondere il diritto (sia pure enunciato mezzo secolo dopo)
all’autodeterminazione dei popoli con quello all’eterodeterminazione
della terra e delle acque (prive di volontà propria in proposito o
comunque della facoltà di esprimerla).
Già nel 1855, Cesare Correnti, il primo ricognitore approfondito
dell’Italia geografica, munito di un pedigree ineccepibile in quanto ex
combattente delle “Cinque giornate” di Milano, e anche lui esule a
Torino dove era stato ricompensato con alte cariche burocratiche
(finì poi ministro, come il Mancini, dell’Italia unita), aveva ad
esempio mostrato di sapere come l’“alta valle dell’Adige” e le
“convalli occidentali delle Alpi Giulie” fossero “paesi popolati da
genti alemanne o slave. Ma poiché l’Italia non è che un’espressione
geografica, non si dee badare all’etnografia e alla politica e [si deve]
seguire l’inviolabile diritto della terra e l’imparziale testimonianza dei
fiumi e delle montagne”.
Tra la “nazione” (la lingua) e la “natura”, ormai disgiunte, questo
“nazionalista” optò per la seconda e ripeté, paradossalmente e
pedissequamente, l’affermazione di Metternich che tanto scandalo
aveva suscitato tra i patrioti italiani.
La teoria indigena dell’Italia-nazione si mostrava sempre più
improvvisata e contraddittoria via via che si trovava costretta a fare i
conti con la realtà. Apparve presto chiaro a tutti i suoi sostenitori che
non tutti gli “abitatori” del territorio situato entro i confini della
regione fossero “parlanti la stessa lingua” (e nessuno sapeva ancora
che non si trattava soltanto di tedeschi e di slavi). Prima di affrontare
questa querelle, che non è questione da poco, dobbiamo però
rammentare un altro paradosso.
L’Italia-stato, come ha scritto Émile Chanoux, il martire antifascista
valdostano, “non si fece una secondo un moto spontaneo di unione,
ma mediante una serie di annessioni delle diverse regioni allo Stato
accentrato piemontese” (ufficialmente “sardo” e storicamente
savoiardo, che per il proprio tornaconto si era fatto sponsor dell’idea
dell’Italia-nazione).
Questo Stato era, a partire dagli editti ducali del 1560, 1561 e 1577,
bilingue: lingue ufficiali n’erano, infatti, il francese (in Savoia e nel
resto del territorio transalpino, ma anche nella Valle d’Aosta e in Val
di Susa; e in seguito nelle alte valli Chisone e Varaita e parzialmente
nelle valli valdesi) e l’italiano (in tutto il resto del territorio
cisalpino). Dal 1718 al 1764 fu addirittura trilingue: lo spagnolo
rimase, infatti, per quarantasei anni la lingua ufficiale della Sardegna
sabauda.
Il Regno sabaudo d’Italia, istituito nel 1861, dopo la perdita della
Savoia (e di Nizza), non si dotò del resto di una Costituzione propria
ma mantenne, senza cambiarvi nemmeno una virgola, lo Statuto
“sardo” del 1848 e, con l’articolo 62 di questo Statuto, l’uso del
francese quale lingua ufficiale del Parlamento per i “membri”
provenienti dai “paesi in cui questa è in uso” (e tale uso non fu mai
ufficialmente revocato anche se sempre più scoraggiato).
Il patriota Giovenale Vegezzi Ruscalla, che aveva sostenuto nel 1854
“essere l’uniformità di lingua il primo vero, unico ed essenziale
elemento della nazionalità o, per dirla in altre parole, essere identiche
lingua e nazione”, vergò subito un opuscolo fiammeggiante intitolato
Necessità di abrogare il francese come lingua ufficiale in alcune valli
della provincia di Torino. Passò subito, anche lui, dalla Germania alla
Francia: e auspicò una politica che piegasse la “natura” alle ragioni
della “nazione”.
L’Italia unita nacque, insomma, senza essere del tutto unita dalla
lingua ufficiale e, soprattutto, essendo del tutto disunita dalla lingua
parlata (a questa verità, assai più profonda della prima, i nazionalisti
non sono approdati nemmeno oggi). Non va dimenticato che,
nell’Italia ancora da unire, il tedesco era, con l’italiano, lingua
ufficiale (anche se era tale soltanto nell’uso interno della pubblica
amministrazione) nel Regno Lombardo-Veneto, nel Trentino, nella
Principesca Contea di Gorizia e Gradisca, a Trieste e nell’Istria:
nonché lingua ufficiale tout court nell’odierno Alto Adige (mentre lo
sloveno e il croato cominciavano ad avere un uso ufficiale nella futura
Venezia Giulia).

La lingua batte dove la nazione duole


Quando si parla di lingua in rapporto a una nazione o a uno Stato,
bisogna distinguere tra la lingua ufficiale (quella nella quale devono
essere redatti i documenti e gli atti pubblici pena la loro nullità) e la
lingua effettivamente parlata o, comunque, tradizionalmente parlata
fino a tempi recenti. Nella maggioranza dei casi, gli Stati hanno oggi
un’unica lingua ufficiale (ma non tutti: la Svizzera, in questo
momento, ne ha quattro, il Belgio tre, il nuovo Sudafrica undici),
mentre le nazioni, almeno secondo la teoria “naturale”, sono tali in
quanto appaiono caratterizzate da una stessa e unica lingua.
Tutte le lingue, ufficiali o meno, possono essere strumento di
espressione letteraria, anche se generalmente le lingue ufficiali
corrispondono a “lingue letterarie” particolarmente illustri (ma non è
sempre così: l’occitano ha originato, con i trovatori, una grande
letteratura e non è lingua ufficiale; l’albanese ha sviluppato una
letteratura modesta e lo è).
Le lingue ufficiali sono anche lingue “standard”, nel senso che sono
state codificate nell’ortografia, nel lessico, nella grammatica e nella
sintassi e vengono, almeno in parte, sottratte per tale via all’alea
dell’oralità. Le altre “lingue” possono essere (al limite) soltanto orali
(ma non in Europa, dove perfino l’idioma dei lapponi è oggi scritto),
oppure presentarsi prive di una norma univoca di scrittura.
Generalmente, assume lo status di lingua ufficiale una delle lingue
parlate nello Stato che ne impone l’ufficialità. Nel discorso comune
c’è la tendenza, erronea, a chiamare “lingue” soltanto gli idiomi che
abbiano prodotto una forma codificata, che siano ufficiali di uno
Stato o di una sua parte o, al limite, che abbiano espresso una grande
letteratura. Le altre sono liquidate come “dialetti” anche se le loro
caratteristiche interne appaiono dello stesso identico tipo delle prime
e possiedono le medesime capacità di sviluppo pur non essendo
investite della stessa funzione (per ragioni che sono esclusivamente
storiche e politiche). Le lingue ufficiali sono, del resto, all’origine,
soltanto dialetti che hanno avuto successo. Nessuna lingua è nata
ufficiale.
Va tuttavia rilevato come i dialetti non siano di per sé monadi
inconciliabili (quando lo sono, sono anche lingue tout court), ma
spesso appaiano raggruppabili in sistemi caratterizzati da una fascia di
caratteri comuni tale da farli considerare, magari a posteriori, quali
“varianti” di una medesima lingua.
In questo modo, ogni lingua ufficiale appare come la variante
standard di uno o più di questi sistemi: il suo dialetto storicamente e
politicamente più significativo sia pure integrato con qualche
apporto da dialetti diversi (è il caso del franciano per la Francia, del
castigliano per la Spagna, del toscano per l’Italia).
Da una lingua intesa come sistema di varianti provviste di tratti
caratteristici comuni (ovviamente misurabili), non sempre (e non
sempre nello stesso momento) è sorta una lingua standard o koiné
(che è la forma irrinunciabile di ogni lingua ufficiale). Quando questa
lingua è stata prodotta, ciò è accaduto non soltanto in tempi ma
anche in modi diversi. Si può tuttavia affermare che questo fenomeno
è, in teoria almeno, sempre possibile e che dipende esclusivamente da
fattori esterni alla lingua stessa. Per parlare dell’Italia-regione, basta
ricordare che il maltese è stato codificato ed è diventato una lingua
ufficiale soltanto nel 1934. Le lingue ufficiali europee più recenti,
sono il macedone, codificato nel 1952, e il basco, addirittura nel
1982.
Vittore Pisani ha chiarito autorevolmente questo rapporto tra la
lingua ufficiale (talvolta definita “nazionale”) e i dialetti appartenenti
al sistema dal quale proviene la lingua stessa, quando ha affermato
che l’assenza di una forma standard “non c’impedisce di parlare di
dialetti albanesi o rumeni e quindi d’unità linguistica albanese o
rumena anche prima che tale lingua sorgesse: cioè sulla base di un
certo numero d’isoglosse caratteristiche della totalità dei dialetti, che
nel loro complesso li distingue da altre unità [...] anche se alcune o
anche moltissime di dette isoglosse possono tornare singolarmente in
altre lingue, senza però integrarsi in un uguale complesso”.
Rammenteremo in proposito che il romeno (“rumeno”) è stato
codificato nella seconda metà del XIX secolo e l’albanese
cinquant’anni fa. Per venire a noi, si dirà che il sardo non è stato
ancora codificato: eppure, il complesso delle sue isoglosse lo
distinguerebbe nettamente da altre “unità” (per esempio l’italiano)
anche se qualcuna di esse “torna singolarmente in altre lingue” (per
esempio: “lingua” si dice limba tanto in sardo quanto in romeno).
Talvolta, una lingua viene codificata in assenza di uno Stato che possa
imporne l’uso (è il caso del catalano moderno, normalizzato nel
1932); altre volte viene codificata assai dopo l’istituzione di quello
stesso Stato (l’Albania diventò indipendente nel 1912).
La premessa è importante perché, come si è visto, la lingua è intesa,
dalla fine del XVIII secolo, come un elemento costitutivo della nazione
(e quindi anche dell’Italia-nazione). Molti Stati attuali sono sorti, a
torto oa ragione, nel nome di una nazione (e quindi di una lingua).
Tra questi c’è lo Stato italiano.
Ma di quale lingua si tratta? Non certo della lingua letteraria, più o
meno ufficiale, imposta da Stati preesistenti o scelta da una ristretta
cerchia di persone e divenuta ufficiale con l’istituzione ex novo di
uno Stato, ma di quella “materna”, reale, tradizionale, in altre parole
“parlata” davvero.
Vediamo allora la situazione linguistica dell’Italia-regione geografica
convenzionale come si configurava un secolo e mezzo fa (e che
corrisponde, sostanzialmente anche se non quantitativamente, a
quella d’oggi, nonostante l’imposizione forzata dell’italiano da parte
dell’Italia-Stato ai propri cittadini). Lasciamo da parte le lingue
ufficiali di cui s’è già detto e il caso del maltese, che è l’unica lingua
non indeuropea della regione (è una lingua semitica).
Nell’Italia-regione convenzionale si sono parlati e si parlano molti
“dialetti”, raggruppabili in sistemi propri e pertanto in lingue diverse.
Ne faremo un elenco diligente, raggruppandoli in ordine ad alcuni
fattori facili da individuare.
Lingue estranee alla romanizzazione. Alcuni dialetti sono varianti
locali di lingue indeuropee che non hanno avuto origine dal latino e
hanno assunto fuori della regione la loro moderna forma standard.
Sono caratteristici di comunità che discendono da quelle popolazioni
stabilitesi nella regione (generalmente in aree di confine) quando
Roma (o chi ne manteneva il prestigio culturale) aveva ormai perduto
la forza e la capacità di romanizzarle (com’era successo in extremis
anche a proposito di goti, longobardi e franchi o, al limite, dei loro
discendenti diretti, assorbiti alla fine anche dal punto di vista
linguistico): le “genti alemanne o slave” citate da Correnti, i cui
antenati avevano attraversato le Alpi nel VI-VII secolo insediandosi
stabilmente in porzioni del territorio cisalpino. I loro dialetti
confluiscono inevitabilmente nelle moderne lingue tedesca e slovena
(di cui condividono i caratteri principali) e i loro territori
prolungano, senza soluzione di continuità, quelli degli Stati dove
queste lingue sono oggi (e nel caso del tedesco non da oggi soltanto)
ufficiali. L’Italia-Stato riconosce oggi la coufficialità del tedesco
limitatamente alla provincia di Bolzano e, in maniera assai meno
completa, dello sloveno limitatamente alle province di Trieste e di
Gorizia (l’insediamento sloveno si prolunga in provincia di Udine).
Quest’atteggiamento le è stato imposto dai trattati di pace che ha
dovuto sottoscrivere in seguito alla conclusione della seconda guerra
mondiale. Nell’occasione, si è data un doppio alibi inserendo nella
Costituzione repubblicana l’articolo 6 (“La Repubblica tutela con
apposite norme le minoranze linguistiche”). L’alibi è, allo stesso
tempo, “democratico” e terminologico (le minoranze sono definite
“linguistiche” e non “nazionali”: l’Italia sarebbe così diventata, nel
1948, una “Nazione sola dotata di molte lingue”). L’articolo 6 non è
mai stato applicato se non nei casi previsti dai succitati accordi
internazionali, precedenti alla Costituzione stessa. La Repubblica
Italiana ha salvato la terminologia, ma ha inabissato la democrazia
linguistica. Sempre nel VII-IX secolo, si sono stabiliti nel Salento, in
Calabria e in Sicilia nuovi abitanti di lingua greca, sulle orme degli
italioti e dei sicelioti insediati quattordici secoli prima. Ne
rimangono due modesti insediamenti nella penisola. Dal XIV al XVIII
secolo, altri slavi meridionali (in questo caso serbocroati) e molti
albanesi hanno istituito nell’Italia meridionale e in Sicilia
insediamenti sparsi o “isole” (più di un centinaio), più o meno vasti e
ancora oggi in parte esistenti, separati tuttavia dalle rispettive
madrepatrie linguistiche e tra di loro. Lo stesso discorso vale per
alcune isole linguistiche tedesche sparse in Trentino, Friuli, Veneto e
Piemonte. L’Italia-Stato, per un secolo e mezzo, non ha riconosciuto
nessuna di queste minuscole comunità territoriali come “minoranze
linguistiche”.
Lingue derivate dalla romanizzazione ma non peculiari della regione.
Alcuni dialetti parlati nell’Italia continentale derivano invece,
chiaramente, dal latino. Ma appartengono a sistemi dialettali “non
peculiari della regione” (come diceva, poco più di un secolo fa, il
grande glottologo Graziadio Isaia Ascoli), in quanto sono
riconducibili, per le loro caratteristiche intrinseche, a lingue che
hanno assunto di là dalle Alpi la loro forma standard. Sono però
autoctoni in quanto si sono formati in loco infischiandosi della
preesistente linea di spartiacque e dei successivi confini di Stato. Sono
i dialetti francesi e occitani diffusi anche nel versante cisalpino
occidentale, i quali prolungano nella regione “italiana” le loro
madrepatrie linguistiche.
A proposito dei dialetti francesi, va ricordato che alcuni glottologi
hanno individuato, a cavallo delle Alpi, una presunta lingua
intermedia (il “franco-provenzale”) tra il francese e l’occitano cui
questi dialetti parlati nell’Italia-Stato (e regione) apparterrebbero. La
maggioranza dei linguisti, forti anche del fatto che i suoi parlanti
hanno scelto ormai da secoli, quale forma standard, il francese, la
ritiene tuttavia una sorta di sottosistema interno al sistema dialettale
francese.
Lo Stato italiano riconosce la coufficialità del francese limitatamente
alla Valle d’Aosta, disinteressandosi di una parte dei propri territori
francofoni e totalmente di quelli occitanofoni, così come di Alghero,
catalana dal XIV secolo.
Lingue derivate dalla romanizzazione e peculiari della regione. Ci
sono, poi, e sono la maggioranza, i dialetti neolatini “peculiari della
regione”. Tutti questi dialetti sono, tuttavia, “italiani” soltanto come
dislocazione geografica. Taluno li chiama, prudentemente, “italo
romanzi”. Gli studiosi li hanno divisi in tre gruppi principali.
a) Il primo è, ovviamente, costituito dai dialetti toscani, tra cui il
fiorentino (dal quale si è formata la “lingua italiana”), ma anche dal
corso settentrionale e orientale, nonché dalla stessa lingua italiana in
quanto può essere paradossalmente intesa come il dialetto “colto” del
sistema toscano.
b) Il secondo è formato da tutti quei dialetti (assai diversi tra loro)
che, pur discostandosi in misura spesso assai rilevante dal toscano,
sono stati ritenuti, almeno fino a tempi recenti e sulla base di
considerazioni quasi sempre extralinguistiche (con implicite
motivazioni patriottiche), tali da poter entrare a far parte di un
sistema dialettale più vasto comprendente anche il toscano e, quindi,
l’italiano standard. È il sistema definito convenzionalmente
“italiano” ed è oggi la categoria più controversa. Essa traballa sempre
di più via via che gli studi proseguono. È stato, infatti, appurato che i
dialetti di questo sistema non condividono alcun “tratto distintivo”
comune, nemmeno in senso negativo.
c) Ci sono infine quei sistemi dialettali che si staccano nettamente
dal toscano, ma non entrano nel precedente sistema “italiano” in
quanto, pur essendo autoctoni della regione, la loro identità è dello
stesso tipo di quella che caratterizza gli idiomi “non peculiari della
regione” (hanno, per esempio, i plurali in S) anche se, ovviamente,
presentano vistosi caratteri propri. Si tratta del sardo (che copre quasi
tutta l’isola, ma non tutta) e del retoromanzo (ladino dolomitico e
friulano) che però, a rigore, si estende per breve tratto anche di là
dalle Alpi, nel Cantone svizzero dei Grigioni (ladino engadinese e
romancio renano) dove è riconosciuto, dal 1938, lingua “nazionale”
e, dal marzo 1996, lingua “ufficiale”. Lo Stato italiano ha
riconosciuto soltanto alcuni diritti linguistici pubblici ai ladini,
limitatamente alla provincia di Bolzano, disinteressandosi degli altri
ladini dolomitici (in provincia di Trento e di Belluno) e dei friulani
nonché dei sardi (in dispregio, come è suo costume, dell’articolo 6
della propria Costituzione).

Quante sono le lingue italiane?


Così come l’identificazione delle regioni naturali è demandata alla
geografia fisica, l’identificazione delle lingue (nel senso di sistemi
dialettali dotati di un’identità comune di fondo) è compito della
linguistica: di una disciplina relativamente recente, anch’essa
sottoposta all’influenza di diverse “scuole di pensiero” e divisa in
settori di ricerca specifici, che adottano metodologie diverse (un po’
come accade in geografia). Nessun dubbio è mai apparso, nemmeno
in epoche politicamente sospettabili, a proposito dei “dialetti”
germanici, slavi, greci, albanesi e arabi (Malta) parlati all’interno
dell’Italia-regione. Essi non sono e non possono essere considerati
italiani. Ma qual è la situazione dei dialetti neolatini?
La prima classificazione autorevole delle lingue neolatine (o
romanze) risale al 1836-43 ed è opera di Friedrich Diez che distingue
sei lingue: italiano, francese, valacco (cioè romeno), spagnolo,
portoghese, provenzale (cioè occitano). Tre di queste lingue romanze
interessano l’Italia-regione convenzionale e l’Italia-Stato (italiano,
francese e occitano). L’attenzione di Diez è tuttavia condizionata
dall’influenza esercitata dalle lingue ufficiali e/o letterarie di
maggiore “visibilità”.
Nel 1890-1902 vede la luce una classificazione più accurata, eseguita
da Wilhelm Meyer-Lübke sulla base di una maggiore attenzione ai
sistemi dialettali. Le lingue romanze diventano nove. Alle sei
precedenti si aggiungono il sardo, il retoromanzo (detto anche
ladino) e il dalmatico (allora appena estinto). Le lingue neolatine che
interessano l’Italia-regione sono diventate cinque (si aggiungono il
sardo e il retoromanzo).
Nel 1939, con Walther von Wartburg, la classificazione è ormai
definitiva. Viene aggiunta una decima lingua, il catalano, svincolata
dall’occitano (e che interessa Alghero, in Sardegna). Tale
classificazione è ripresa da Heinrich Lausberg nel 1969 (che però vi
aggiunge l’“italiano settentrionale”).
Oggi si tende a tenere distinto il friulano dagli altri idiomi
retoromanzi.
Se, come sosteneva Vegezzi Ruscalla, vale il principio dell’“essere
identiche lingua e nazione”, il concetto indigeno di nazione italiana
appare definitivamente sgretolato dalla scienza linguistica. Se si passa
ad esaminare dall’interno il sistema dialettale considerato a lungo
“italiano” (quello che compare alla lettera b del nostro rapido
elenco), lo sgretolamento diventa una frana.
La disciplina linguistica che si occupa di quest’aspetto è la
dialettologia e il primo maldestro tentativo di classificazione dei
dialetti “italiani” risale appena al 1856 ed è dovuto a Bernardino
Biondelli, che non aveva però fatto in tempo a leggersi Diez (e si
sente). La prima classificazione seria è quella di Ascoli (1880) e da
essa abbiamo preso le nostre mosse. La “lingua italiana”, sbandierata
dal Risorgimento come carattere distintivo della “nazione”, appare
oggi una nozione arcaica, priva di fondamento in quanto ormai
revocata dalla scienza linguistica.
Basandosi esclusivamente sui dialetti e i loro sistemi (prescindendo
quindi del tutto dagli alibi delle lingue ufficiali e letterarie),
Wartburg aveva diviso, nel 1950, l’area complessiva nella quale sono
parlate le lingue romanze, in due grandi settori: la Romània
occidentale e quella orientale, all’interno delle quali raggruppa tutte
le lingue e i dialetti individuati. Lo “spartiacque” tra i due settori
aveva cominciato del resto a formarsi, come attesta Devoto, in tarda
epoca romana (all’incirca nel III secolo).
Lausberg riprende vent’anni dopo questa teoria di Wartburg,
approfondendola. I settori diventano tre: Romània occidentale,
Romània orientale e Sardegna (sottratta alla Romània occidentale). Il
confine tra la prima e la seconda passa, come per Wartburg, lungo la
stessa linea che separa la regione naturale padana (e comprende la
Liguria) dalla regione naturale appenninica (che comprende anche la
Sicilia). Qualcuno la definisce, per analogia, “linea gotica”.
I dialetti romanzi parlati nell’Italia-regione convenzionale appaiono
profondamente divisi dall’appartenenza ad uno dei tre settori.
Le lingue (nel significato di sistemi dialettali “omogenei”) romanze
occidentali sarebbero allora: il francese, l’occitano, il catalano, lo
spagnolo, il portoghese, il retoromanzo e... l’“italiano settentrionale”
(che qualcuno chiama “cisalpino” e qualche altro “padano”) il quale è
parlato anche nella Svizzera italiana, nella costa occidentale
dell’Istria, a San Marino e in piccole enclaves della Dalmazia e del
Quarnero, mentre risulta da poco estinto a Monaco, Biot e Vallauris.
Le lingue romanze orientali sarebbero invece il romeno, il dalmatico
(ormai estinto) e... l’“italiano peninsulare” (ivi compreso il siciliano).
Il sardo, lo ripetiamo, fa gruppo a sé, tante e tali sono le sue
indubitabili peculiarità: è semmai apparentabile con l’antico còrso
prima che venisse, nell’XI secolo, italianizzato (toscanizzato) e con il
neolatino della provincia romana di Africa (spazzato via dalla
conquista araba).
Tuttavia, un certo numero di studiosi assai attenti e conseguenti ha
già portato alle estreme conseguenze questo dato di fatto (senza
essere nemmeno sfiorato dalle conseguenze politiche delle sue tesi) e
considera i dialetti padani come titolari di un sistema dialettale
proprio, del tutto svincolato dal sistema italiano (anche se privo di
una forma standardizzata), al cui interno si può distinguere: un
sottosistema “gallo-italico” (comprendente i dialetti
tradizionalmente quanto impropriamente definiti come piemontese,
lombardo, trentino occidentale, ligure, lunigiano, emiliano,
romagnolo, marchigiano settentrionale); uno “veneto” (comprensivo
del trentino orientale, del triestino e dell’istriano); uno più
propriamente “istrioto” (in corso di estinzione). Anche i dialetti
peninsulari sono divisi in sotto-sistemi. O addirittura in sistemi? Il
tempo passa.
Altri linguisti ancora più coerenti, scientificamente incorruttibili e
tecnicamente ineccepibili, separano infatti il toscano (con il còrso
cismontano) dall’italiano centro-meridionale (esteso alla Sicilia),
ottenendo così altri due sistemi dialettali precipui e indipendenti: il
“toscano” e l’“italiano centro-meridionale”. Sono, tra gli altri, Giovan
Battista Pellegrini e Tullio De Mauro, come a dire il fior fiore della
linguistica italiana contemporanea.
Bastano queste loro fondatissime opinioni per invalidare ogni
elucubrazione passata e presente circa un’Italia “una di lingua” e
quindi l’idea stessa dell’Italia-nazione come è stata intesa nel
Risorgimento. La politica ha purtroppo preceduto la scienza di
troppi anni e non può più usarla come sostegno in quanto è stata
sorpassata dalla scienza medesima (magari senza accorgersene: e
questo la dice tutta sulla sua ignoranza di fondo).
Prendendo per buona la scienza linguistica più accreditata e recente,
prenderebbe, infatti, corpo l’idea non più peregrina di una Padania
nazione, di una Toscana-nazione, di un Mezzogiorno-nazione, di un
Friuli-nazione e di una Sardegna-nazione, situate all’interno dello
Stato italiano e attorniate da brandelli di altre nazioni (francese,
tedesca, slovena, croata, occitana, catalana, greca, albanese, ladina...)
estese soprattutto di là dai suoi confini: almeno secondo la stessa
logica risorgimentale che ha fatalmente condotto all’idea corrente
dell’Italia-nazione, partendo da una idea di lingua che si è purtroppo
rivelata, sulla linea d’arrivo, erronea del tutto. Senza parlare di altri
caratteri distintivi imputati tradizionalmente alla natura e alla storia
e che abbiamo già valutato.
La “questione meridionale” e quella “settentrionale” assumono allora
anche una caratteristica linguistica, finora trascurata, del tutto
evidente (insieme ad altre “questioni” meno appariscenti ma tuttavia
anch’esse presenti).
Varrebbe davvero la pena di rinunciare all’uso della parola “nazione”
e non soltanto a proposito del caso italiano (in tutta Europa, l’unica
coincidenza tra la regione naturale, il territorio dello Stato e quello
della lingua è relativa all’Islanda). Oppure, impiegarla in un senso più
proprio e coerente.

Le piccole lingue crescono


Gli Stati dovrebbero finalmente accettare di essere soltanto quello
che sono: Stati, appunto (all’interno dei quali si usano, generalmente,
lingue diverse, molte delle quali “clandestinamente”). Purtroppo,
anche così, si cadrebbe nelle trappole del vocabolario: gli Stati Uniti
d’America sono infatti una federazione, appunto, di Stati: e anche se
hanno lodevolmente resistito a lungo all’idea di considerarsi una
“nazione” nel senso europeo del termine (né si definiscono
ufficialmente così), non possono certo definirsi, per ragioni
terminologiche, Stato (anche se gli Stati di cui si compongono
sarebbero definiti, altrove, come “regioni”, “province”, “Länder”).
La situazione è complicata dal fatto che mai come in questo
momento, in tutto il mondo, comunità talvolta anche vaste, prive di
Stato proprio (ma non di una lingua che ne certifichi l’identità:
anche se talvolta allo stadio residuale), si proclamano con orgoglio
“nazioni” ed esprimono movimenti politici, talvolta assai forti (è il
caso dei baschi e dei catalani, degli scozzesi e dei gallesi, dei
fiamminghi e dei quebecchesi), che mettono in discussione le attuali
sovranità statuali proprio secondo un’ottica nazionale, la stessa che
ha portato, durante l’ultimo secolo e mezzo, all’istituzione dello Stato
italiano e di un altro centinaio di Stati sedicenti “nazionali”. Daniele
Petrosino ci conferma che “tali movimenti si autodefiniscono come
movimenti nazionali. E [...] si contrappongono a Stati che si
definiscono anch’essi nazionali”.
Un paradosso onomastico di questa situazione è quello relativo a
Jean-Marie Le Pen, il leader ipernazionalista del Fronte nazionale
francese (“nazionale” proprio nel senso della “nazione francese”) che
è, per propria sfortuna, bretone (e in Bretagna sono esistiti un Partito
nazionale bretone e addirittura un Fronte nazionale per la liberazione
della Bretagna, devoti invece all’idea della “nazione bretone” oppressa
dallo Stato francese). Orbene: in bretone, “testa” si dice penn e, in
francese, tête. Questo personaggio dovrebbe chiamarsi, allora, per
testimoniare nel nome la sua appartenenza volontaria alla Francia,
“una e indivisibile” anche nella lingua, Jean-Marie La Tète (e se
rivendicasse invece la propria “bretonità”, Yann-Vari Ar Penn).
Un’anagrafe rudimentale e inconsapevole ha dunque giocato ai suoi
avi, nel XVIII secolo, un tiro davvero mancino ma, al di là delle sue
idee, anche assai significativo a proposito della nazione “reale” cui
apparterrebbe secondo la teoria “naturale” della nazione.
Un’altra vittima illustre dell’onomastica (questa volta non
dell’anagrafe) è Mirko Tremaglia, esponente di spicco del partito
“post-fascista” dell’Alleanza Nazionale, ministro dell’attuale governo
e padrino degli italiani all’estero. Zelatore accanito dell’Istria e della
Dalmazia “italiane” (tramite l’eredità della Repubblica di Venezia),
anziché Marco, come il santo patrono della Serenissima, ostenta un
nome tipicamente slavo meridionale, con tanto di esotica K: Mirko,
appunto.
Va tenuto presente che la trasformazione (spesso maldestra) di molte
nazioni in Stati, cominciata nel XIX secolo (vedi il caso italiano) e che
aveva avuto, dopo la prima guerra mondiale, un boom davvero
appariscente, ha registrato una nuova e vigorosa ripresa in questi
ultimissimi anni.
Il crollo dell’impero sovietico ha, infatti, permesso la nascita (o la
rinascita) di Stati nazionali come quelli lituano, lettone, estone,
bielorusso, ucraino, ceco, slovacco, sloveno, croato, serbo, macedone
(per limitarsi all’Europa) e ha riattizzato, per analogia, le
rivendicazioni, del resto mai sopite, delle “nazioni senza Stato”
dell’Europa occidentale. L’unico Stato non nazionale emerso dal
ribaltone comunista è stato la Bosnia-Erzegovina. E non è un caso
che sia stato l’unico caso caratterizzato da una carneficina.
Accade allora, per fare soltanto un esempio tanto vicino quanto
significativo, che una parte almeno dei sostenitori della “nazione
basca” affrontino in armi (magari soltanto con gli esplosivi) gli
apparati della “nazione spagnola” (che pure appare all’avanguardia
nella terminologia e riconosce, dal 1978, baschi, catalani e galeghi
come “nazionalità” anche se non come “nazioni”). Ed è più facile che
alcuni Stati rinuncino a definirsi “nazioni” che i baschi (compresi
quelli che condannano il terrorismo dell’ETA e quelli che si
accontentano dell’autonomia) accettino di definirsi come semplice
“etnia”: un termine recentemente riproposto per definire, senza
offendere gli Stati, le innumerevoli “nazioni senza Stato” in cerca di
gloria o anche soltanto di sopravvivenza.
“Etnia” conserva infatti, nel linguaggio comune, un sapore troppo
naturalistico di “stirpe” e di “razza” (che “nazione” ha perduto): va
bene per i tutsi e gli hutu (i quali parlano la stessa lingua, il
kinyarwanda, parlata anche dai pigmei twa, e si distinguono invece
per l’aspetto fisico) ma non per i catalani o i gallesi, per i curdi o i
ceceni.
Talvolta si usa il termine “popolo” (e l’ONU parla di
“autodeterminazione dei popoli” in quanto le “nazioni” sono,
paradossalmente, gli Stati che la compongono), che è però ancora più
ambiguo del termine “nazione”. La Francia, che non è la Spagna, lo
ritiene addirittura troppo osé. Una proposta di legge in favore della
Corsica che parlava, con grande prudenza, di “popolo còrso
nell’ambito del popolo francese” è stata dichiarata “illegittima” dal
Conseil Constitutionnel (9 maggio 1991) con la motivazione che in
Francia esiste e può esistere soltanto un popolo (e non un ambito):
quello francese.
Del resto, anche nell’Italia-Stato (dove, in apparenza, “nell’ambito”
del popolo italiano, si riconoscono invece, senza problemi o patemi, il
popolo ciociaro, il popolo della notte e il popolo della sinistra),
esistono movimenti che si definiscono “nazionali” in netta
contrapposizione con l’Italia-nazione (ritenuta evidentemente “altra”
dalla loro): questi movimenti sono numericamente modesti, alla
stessa stregua di quello “italiano” dei primi decenni del XIX secolo, nel
caso dei gruppi più tradizionali (per esempio in Sardegna);
recentissimi eppure apparentemente assai consistenti nel caso della
Padania (in realtà ancora poco interessata alla lingua, cioè al proprio
sistema dialettale, ma non certo a quello economico e nemmeno alle
proprie radici culturali).
Certo, da questo punto di vista, l’Italia è più avanti della Francia ma
più indietro della Spagna. D’altronde il nazionalismo delle “nazioni
senza Stato” (e il Risorgimento italiano ne è un classico esempio)
passa sempre, secondo Miroslav Hroch (una vera autorità in
materia), attraverso tre fasi: la prima è soltanto culturale ed esalta le
“virtù” del territorio, della lingua, della letteratura e delle tradizioni
locali; la seconda registra la comparsa di una minorité agissante che
trasforma le istanze culturali in istanze politiche; la terza raggiunge
(quando ci riesce) il consenso di massa. Non è la fase raggiunta dal
nazionalismo sardo, ma nemmeno dal nazionalismo “italiano”.
Come abbiamo ripetuto più volte, le lingue delle “nazioni senza
Stato” sono spesso (ma non sempre prive di una forma standard
(proprio in quanto le nazioni di riferimento sono prive di Stato
proprio). Ma a tutto, come dice un celebre adagio, si può rimediare.
Sono, infatti, da tempo e dappertutto, all’opera gli esperti di
“ingegneria linguistica”: non sempre, a dire il vero, fortunati. Uno di
loro, E. Haugen, ha indicato le fasi “tecniche” da percorrere (e in
molti casi percorse) per raggiungere la “pari dignità” linguistica. Esse
sono: a) selezione della norma; b) codificazione della forma; c)
elaborazione della funzione; d) accettazione da parte della comunità.
In nessun caso si deve, infatti, partire da zero: il sistema dialettale
esiste e spesso è ancora vigoroso. Georg Bossong, prendendo spunto
dal sardo, precisa in proposito che un sistema dialettale è fatto di
“varietà non elaborate” orali e presenta sempre (almeno in Europa)
anche alcune “varietà letterarie non elaborate” scritte. Talvolta è
giunto perfino, con le proprie forze, a produrre una “varietà letteraria
elaborata”: una lingua letteraria comune che, in alcuni casi
testimoniati dalla storia (è il caso clamoroso dell’Occitania), si è
perduta. In altri casi, rappresenta invece la base della moderna lingua
standard (è il caso dell’Italia).
Oggi, il compito di un sistema dialettale che ambisce riconoscersi in
una lingua da usarsi come strumento, a tutti i livelli, di tutta la
comunità, è quello di produrre una “varietà non letteraria elaborata”,
servendosi con giudizio anche, quando c’è stata, della “varietà
letteraria elaborata” scomparsa (da tenere perciò presente durante la
“selezione della norma”): è il caso della lingua catalana moderna e del
neo-ebraico d’Israele.
Non è invece il caso dell’euskara batua (il “basco unificato”), messo a
punto da esperti universitari nel 1982, privo di letteratura
apprezzabile, dichiarato “ufficiale”, insieme al castigliano, nell’ambito
della Comunità autonoma basca del Regno di Spagna. Il calciatore
basco Goicoechea (che manteneva il proprio nome originario in
grafia castigliana) ha così ricevuto, dall’anagrafe spagnola, il nuovo
nome (in realtà lo stesso in grafia basca) di Goikoetxea. Nel 1982 è
stata progettata anche, in ambito accademico, e sta diffondendosi nel
Canton Grigioni, una koiné retoromanza denominata rumantsch
grischun (“romancio grigione”) che il governo svizzero raccomanda di
usare al posto degli attuali cinque “dialetti” scritti. Ed è nato, nel
1998, anche un ladin dolomitan, forma unitaria per le parlate ladine
comprese nello Stato Italiano.
Un caso paradossale, che ci riguarda più da vicino, è la
standardizzazione, in atto da una trentina d’anni, della “lingua còrsa”
che, in quanto tale, a livello glottologico almeno, non esiste: i còrsi
parlano, in maggioranza, dialetti appartenenti allo stesso sistema di
quelli toscani. Così, come dal toscano è sorta la lingua italiana (che
fino al 1850 è stata anche la lingua di cultura, straordinariamente
vicina ai loro dialetti, di tutti i còrsi), rischia oggi di sorgere, dallo
stesso sistema dialettale, anche una lingua còrsa, sia pure per ragioni
esclusivamente politiche.
Eccone un esempio: “A Corsica hè stata in a su storia indipendente
tre volte” (da una rivista “nazionalista” còrsa). E, in còrso, è l’articolo
femminile plurale ed equivale all’italiano “le”. La congiunzione “e” si
scrive allora è. Come notare, in maniera inequivocabile, la terza
persona singolare del presente indicativo del verbo “essere”, che gli
“italiani” scrivono “è”? Gli ineffabili còrsi scrivono allora hè, in
analogia con “ha” (voce del verbo “avere”) alla faccia dell’etimologia e
della ortoepia (la lettera H infatti non si pronuncia e il latino esse, al
contrario di habere, non presenta alcuna H iniziale).
Anche a Malta, la lingua italiana è stata a lungo la lingua di cultura e,
come in Corsica, la lingua scritta per antonomasia. Ma la lingua
parlata dei maltesi era (ed è) un dialetto arabo maghrebino, sia pur
farcito di parole italiane e siciliane. “Nazione” si dice nazzjoni ma
“Dio” si dice Alla. Un membro del governo maltese, laureato in
medicina, è sì un ministr (“ministro”) ma anche un tabib (“dottore”).
Gli inglesi hanno avuto buon gioco quando, nel 1934, hanno
sostituito, nell’arcipelago, l’italiano col malti (“maltese”)
standardizzato dagli eruditi locali. Da un punto di vista
coerentemente “nazionale” (secondo l’ottica risorgimentale) la loro
decisione appare inappuntabile.
Nel Canton Ticino e nelle quattro valli grigioni, dove si parlano
dialetti lombardi e pertanto “padani”, l’italiano, lingua tradizionale di
cultura ma anche lingua al contempo “nazionale” e “ufficiale” della
Svizzera moderna, è fruito nella sua forma standard, la stessa che è in
uso nello Stato italiano, con minime differenze lessicali in senso
paradossalmente patriottico (i collant femminili si chiamano
“ghette”). Ma la Svizzera non è la Francia e questo spiega la situazione
tragicomica della Corsica. Anche se, a dire il vero, qualcosa nell’isola
sta cambiando (la televisione italiana e il turismo vi hanno riportato
la conoscenza dell’italiano standard): nel 1993 ha iniziato le
pubblicazioni a Bastia la rivista “A viva voce”, il primo periodico in
lingua italiana scritto da còrsi, dopo oltre un secolo di silenzio
linguistico.
Come i ticinesi si comportano gli appartenenti alla superstite
minoranza “italiana” in Istria e in Dalmazia, anch’essi fedeli
all’italiano standard (anche se non dicono “ghette”).
4.
L’Italia letteraria

La letteratura batte dove la lingua duole


Sulla base di quanto abbiamo appurato nel capitolo precedente, c’è
anzitutto da ripristinare una verità che gli storici della lingua
“italiana” sembrano non avere ancora afferrato, mostrandosi
inconsapevolmente prigionieri di un’abitudine che è più politica che
linguistica. Questa verità è: nell’Italia-regione sono scaturiti, dal
latino, volgari diversi che sono alla base dei dialetti attuali e anche di
qualche tentativo di standardizzazione diversa da quella raggiunta dal
toscano. Bruno Migliorini aveva in parte subodorato questa verità
quando aveva affermato (nella sua fondamentale Storia della lingua
italiana, 1958) che considerava, “insieme all’area linguistica più
strettamente italiana, anche l’area sarda e quella ladina”,
convogliando i tre settori in una vasta “area italiciana”, da lui
chiamata così in riferimento “alla diocesi italiciana (dalla fine del III al
V secolo) che comprendeva anche la Sardegna e la Rezia”.
In realtà, come s’è visto, anche l’“area più strettamente italiana”,
proseguendo felicemente gli studi, si è a poco a poco trasformata in
un’area forse troppo largamente italiana in quanto comprensiva di tre
aree divergenti: la “toscana”, la “centro-meridionale” e la “padana”. E
una cosa è parlare di “storia della lingua italiana” e altra cosa
discorrere di una storia linguistica dell’Italia-regione quale procede da
un complesso di volgari diversi tra i quali è situato il toscano
(destinato all’egemonia). Una storia della lingua “di dopo” non può
annettersi la storia delle lingue “di prima” (soprattutto quando
queste continuano la loro vita, sia pure “clandestina”).
Gli storici della lingua dovranno riconoscere, da questo punto di vista
(l’unico non aprioristico), che i supposti primi documenti in volgare
dell’Italia-regione convenzionale (X secolo) non sono rappresentativi
dell’intera regione ma soltanto del minuscolo triangolo Cassino
Sessa-Teano e che, dei soli sei documenti in nostro possesso risalenti
ad un secolo dopo, ben tre sono in volgare sardo: appartengono
quindi ad una lingua diversa dall’italiano.
Gli storici della lingua, insieme a quelli della letteratura, appaiono poi
troppo frettolosi quando assegnano alla letteratura italiana tout court
le opere della celeberrima “scuola siciliana” (prima metà del XIII
secolo) che sono invece un esempio di koiné “meridionale”,
purtroppo abortita, che stava dotando il Regno di Sicilia (il quale si
estendeva anche su quasi due terzi della penisola) di una lingua
letteraria propria, fondata su di un sistema dialettale diverso dal
toscano (ma non esclusivamente siciliana e quindi non localistica) e
che sarebbe anche potuta diventare una lingua ufficiale diversa
dall’italiano: pertanto, meno “straniera in patria”.
Anche se Giacomo da Lentini, Guido delle Colonne e Cielo
d’Alcamo erano siciliani, Pier delle Vigne, Giacomino Pugliese e
Rinaldo d’Aquino erano “peninsulari”: e situati al di là e al di sopra
delle parti apparivano Federico II imperatore e re Enzo, che si
esprimevano tuttavia nello stesso “dialetto siciliano-pugliese misto di
provenzalismi” come ebbe a definirlo Lausberg, usato dai primi e dai
secondi. La fine della dinastia sveva e l’avvento di altre dinastie,
insensibili a una dimensione linguistica nazionale e responsabili della
ricorrente divisione del regno in due parti, ha troncato sul nascere lo
sviluppo di questa lingua letteraria, diversa dal toscano, di cui gli
stessi toscani hanno travisato la forma.
Gianfranco Contini ha mostrato, infatti, come il repertorio della
scuola siciliana sia giunto fino a noi “largamente e progressivamente
toscaneggiato dai copisti”: cioè tradotto in un altro volgare dell’Italia
regione, questo sì all’origine della lingua italiana. La
“toscaneggiatura” è, del resto, visibile ad occhio nudo: “avere” non
può rimare con “sentire”, ma aviri rima perfettamente con sintiri.
L’aspetto linguistico originale appare purtroppo soltanto dalla
canzone di Stefano Protonotaro Pir meu cori (l’unico testo
miracolosamente sfuggito alla “traduzione” toscana).
I copisti toscani, responsabili dell’annessione linguistica dei poeti
siciliani, non sono invece intervenuti (forse perché non lo
conoscevano) a proposito di un altro tentativo, avvenuto nello stesso
lasso di tempo nell’Italia-regione (magari meno illustre e rilevatosi
appena più duraturo) di una lingua letteraria padana, sorta dal
grembo di un altro sistema dialettale cosiddetto “italiano”. I testi di
questa lingua ci sono per fortuna pervenuti (quelli che ci sono
pervenuti) nella versione originale e qualcuno perfino col nome
“padano” del proprio autore: Girard Pateg (Gerardo Patecchio),
Uguçon de Laodho (Uguccione da Lodi), Bonvesin (Buonvicino) da
la Riva, Ugo di Pers, Pietro da Bersagapè, Iacomin (Giacomino) da
Verona. Si tratta di poeti lirici: ma esistono anche numerosi testi
spesso anonimi di prosa varia e perfino traduzioni in questa lingua,
che ne testimoniano un uso e una diffusione non trascurabili.
Sostiene Gerhard Rohlfs: “La stretta parentela esistente tra il tipo
linguistico occitano e quello della lingua lombarda degli italiani
settentrionali doveva conferire alla loro lingua un’aura naturale e
letteraria. Molto tempo prima dell’influsso poetico esercitato da
Dante e Boccaccio, nell’Alta Italia si era sviluppata una koiné padana
(di tipo lombardo-veneto) d’ampio uso letterario. Nel corso del
Duecento questa koiné era già sulla via di assurgere a lingua letteraria
nazionale (della “nazione” padana, evidentemente). Essa veniva già
sentita, e non di rado, come una lingua romanza indipendente, allo
stesso livello delle lingue francese e toscana”.
Va tenuto presente che i dialetti oggi considerati piemontesi erano, in
realtà, idiomi che potremmo chiamare “lombardi occidentali” (allora
il francese e l’occitano arrivavano quasi alle porte di Torino) e quelli
emiliani, “lombardi meridionali” (il veneto era, sulla terraferma, forse
più simile al lombardo che non al veneziano). Comunque, Rohlfs
parla della lingua padana di allora come di “koiné lombardo-veneta”
elevandola così ad un livello sopradialettale.
Purtroppo, come ha scritto Devoto (il “purtroppo” è nostro e non
suo), “l’Italia settentrionale non ebbe fino al pieno XII secolo [...]
l’aiuto di un potere politico sensibile al prestigio culturale”. E quando
questo potere si fu variamente consolidato in troppe e contrapposte
entità, le sue scelte di politica linguistica furono, sia pure
confusamente e per ragioni di comodità e di prestigio letterario, a
favore della “lingua toscana” e non di quella autoctona, da allora e per
questa ragione sempre più risospinta in dialetti di ritorno, tutti
comunque ancora visibilmente apparentati tra di loro.
L’uso scritto, colto, dei volgari è stato del resto e alungo sporadico in
tutta la Romània (e anche nelle altre aree dell’Europa colta). Come
ha mostrato Erich Auerbach, il latino “fino al xii secolo fu quasi
l’unico strumento della vita intellettuale e delle relazioni scritte e
anche in seguito perse soltanto a poco a poco questa sua posizione
dominante”. Nonostante il latino non venisse più parlato da secoli, le
lingue popolari sorte dal suo grembo svilupparono tardivamente, e
soltanto per determinati usi (predicazione religiosa rivolta ai più
umili, intrattenimento popolare, alcuni generi letterari colti ma
specifici) una forma scritta: “Le lingue popolari possono
contrapporvisi [al latino] soltanto gradualmente [...] e soltanto verso
la fine del XVI secolo [...] la lotta è definitivamente decisa a loro
favore” (anche se non per tutte). Il merito, si dice, fu della Riforma,
che sostituì le lingue popolari al latino nel colloquio dell’uomo con
Dio, fornendo così ai cattolici un cattivo quanto ineludibile esempio.
Non è un caso se, come scrive Salvatore Battaglia, Petrarca “impiega
esclusivamente il latino per esprimere il mondo della dottrina” e
Boccaccio “abiura alle sue opere in volgare per assorbirsi interamente
nell’erudizione latina”. Delle opere latine di Dante sappiamo tutti. Le
Tre Corone, alle quali si deve in fondo la promozione del volgare
toscano a “lingua italiana”, non hanno mai puntato
premeditatamente al successo politico della loro lingua materna,
avvenuto fortunosamente assai dopo il compimento della loro
avventura terrena.
Del resto, soprattutto in Padania, lo “scontro” delle nuove lingue con
il latino fu affidato, all’inizio, a volgari estranei alla gran parte della
regione stessa (ma non alla sua estremità occidentale, come si è visto)
che avevano il vantaggio di essersi consolidati di là dalle Alpi in forme
scritte da quasi due secoli e avevano già raggiunto un certo prestigio.
La lingua prediletta dalla poesia lirica fu, infatti, l’occitano. In
occitano scrivevano, oltre ad un paio di modesti trovatori di qua dalle
Alpi che lo avevano come lingua materna, i padani Sordello da Goito
(che, secondo Dante, scriveva però anche in “padano”), Rambertino
Buvalelli, bolognese, Lanfranco Cigala e Bonifacio Calvo, genovesi,
Bartolomeo Zorzi, veneziano.
Il francese era invece preferito nella prosa e il suo uso si estendeva
anche in Toscana. In francese scrisse il suo Tresor Brunetto Latini e
in francese venne redatto il Livre des merveilles du monde (noto come
Il Milione) a mezzadria tra il veneziano Marco Polo e Rustichello da
Pisa. Una sorta di francese maccheronico, del tutto scorretto,
chiamato “franco-italiano” o “franco-veneto” dagli studiosi, è stato
invece in Padania e relativamente a lungo, la lingua della poesia epica.
Gli studiosi spiegano la fortuna iniziale del francese e dell’occitano, le
due lingue letterarie di quella parte della Romània occidentale
chiamata Galloromania (le altre parti sono l’Iberoromania e la
Retoromania), con i rapporti culturali e linguistici privilegiati allora,
in parte, ancora esistenti tra la Padania e la Gallia transalpina. Scrive
autorevolmente Giovan Battista Pellegrini: “Fin verso il Mille e
anche dopo, l’Italia superiore, unitamente alla Retoromania e fino al
Picenum Annonarium [l’Ager gallicus di cui s’è parlato] rappresenta
un’appendice della grande Galloromania alla quale è collegata
attraverso una importante rete viaria, con conseguenze linguistiche
assai evidenti”. Italia superiore, Italia settentrionale, Alta Italia sono
modi per dire Padania.
Quest’antica unità derivava da molti altri fattori: il comune sostrato
(celtico ma anche ligure e, nella Padania orientale, venetico e retico),
l’ordinamento amministrativo romano (e la conseguente formazione
dello “spartiacque” linguistico sugli Appennini), le suddivisioni
ecclesiastiche (che scavalcavano ampiamente le Alpi),
l’organizzazione politico-amministrativa altomedievale (che
scavalcava anch’essa il confine convenzionale dell’Italia-regione), le
grandi scuole, ecclesiastiche e laiche, della Gallia transalpina.
Soltanto dopo il Mille, i dialetti padani si sarebbero svincolati dal
sistema galloromanzo e, sotto alcuni aspetti, progressivamente
avvicinati a quello toscano producendo un nuovo sistema tutto loro,
sperimentando una lingua letteraria propria e provocando una
separazione anche dall’area linguistica della Retoromania (il cui
sostrato è solo in parte retico, in parte norico ma soprattutto celtico),
non più collegata alla Gallia per loro tramite e sottoposta a un regime
politico e a un isolamento culturale particolari (i primi testi letterari
in lingua retoromanza ci giungeranno soltanto dal XIV secolo: da un
Friuli ancora sottoposto alla dittatura culturale del latino, ma anche a
quella del tedesco).
Nel frattempo, il toscano si era ancor più svincolato dall’“italiano
centro-meridionale” anche per una certa (sia pur minima) influenza
del padano proveniente soprattutto, secondo Lausberg, da Bologna. I
tre sistemi dialettali maggiori avevano ormai raggiunto quell’identità
che conservano ancora oggi e che li rende, da alcuni punti di vista, più
diversi tra di loro che non rispetto ad alcune lingue neolatine
sviluppatesi fuori della regione geografica convenzionale quali il
francese o lo spagnolo.

Una regione, una lingua


Resta una domanda: come ha fatto il volgare della Toscana a imporsi
a tutti gli altri volgari parlati e scritti nell’ambito dell’Italia-regione
convenzionale, senza avere dalla sua nessun potere politico e militare
come quelli del re di Francia e del re di Castiglia e senza nemmeno
appoggiarsi a una cancelleria centralizzata come quell’imperiale o a
un modello di lingua perentorio quale una traduzione di successo del
“libro sacro” per eccellenza, la Bibbia, come è accaduto in Germania e
in Inghilterra?
La risposta è arcinota: per via esclusivamente letteraria. Sarà perché
l’Italia è, per definizione, una “terra di poeti, d’eroi, di santi e di
navigatori”; sarà perché i poeti scrivono abitualmente assai più e
meglio dei navigatori, dei santi e degli eroi: sarà soprattutto perché
non tutti i poeti dell’Italia-regione hanno posseduto il genio di
Dante, del Petrarca e del Boccaccio, tutti toscani, comparsi in rapida
successione proprio nel momento cruciale del passaggio dal latino al
volgare nel mondo della scrittura.
I dialetti toscani hanno avuto, del resto, la fortuna di essere, tra tutti i
volgari neolatini, i meno lontani dal latino: paradossalmente perché
coloro che li parlavano discendevano direttamente da coloro che
avevano parlato l’etrusco, la lingua più lontana dal latino tra quelle
usate nell’Italia-regione; e avevano pertanto appreso il latino come
una lingua davvero straniera, senza poterlo contaminare con il loro
idioma abituale, radicalmente diverso, com’era accaduto invece agli
italici, ai paleoveneti, ai celti e agli altri popoli indeuropei o
indeuropeizzati che vivevano accanto a loro.
Questa somiglianza, sia pure relativa, con il latino permetteva al
toscano di essere inteso con una certa facilità da quella cerchia di laici
colti (giudici, notai, cancellieri, funzionari vari) presenti ormai in
tutta l’Italia-regione, i quali stavano sostituendosi ai clerici, fino
allora gli unici detentori del monopolio della cultura. Questi nuovi
intellettuali usavano, infatti, ognuno il proprio volgare particolare ma
conoscevano tutti il latino. E il toscano appariva loro il volgare meno
faticoso da comprendere e più facile da usare tra loro almeno a un
livello “alto”.
Approfittando di questa situazione favorevole e della propria
crescente influenza politica e soprattutto economica, Firenze (ma
anche altre città toscane) aveva precocemente sviluppato una fiorente
(per allora) industria culturale. Come ha messo in evidenza Devoto,
la nuova classe egemone dei mercanti, dei banchieri e degli artigiani
toscani aveva stimolato con indubbio acume la formazione di uno
stuolo di amanuensi che producevano, diffondevano, commerciavano
ed esportavano fuori di Toscana un numero considerevole di
manoscritti ai quali era consegnata la “gloria” futura della loro lingua
e svolgevano la stessa funzione, sia pure per pochi, dei romanzi a
stampa e poi degli sceneggiati televisivi in “lingua originale”.
È colpa dei copisti toscani se i testi dell’incipiente koiné
“meridionale” sono stati sempre più “toscaneggiati” e quindi derubati
della loro anima, cioè della loro lingua; è merito dei copisti toscani se
è stato preparato per tempo il terreno indispensabile per la
comprensione, in buona parte dell’Italia-regione, di quei giganti della
letteratura che sarebbero stati di lì a poco Dante, Petrarca e
Boccaccio: che hanno poi fatto il resto, imponendo la loro lingua per
il “diritto dei capolavori”. E imponendo il dialetto fiorentino a fronte
degli altri dialetti toscani (anche all’interno del sistema toscano
esistevano delle differenze: il latino glarea dava, infatti “ghiaglia” a
Lucca, “ghiara” a Siena e “ghiaia” a Firenze).
Più defilati, alcuni “pezzi” assai periferici dell’Italia-regione, a causa
della loro estraneità linguistica ai volgari neolatini, producevano una
propria letteratura di buon livello: è il caso del poeta sud-tirolese
Oswald von Wolkenstein, la cui opera appartiene alla Germania
letteraria a dispetto dello spartiacque alpino. E anche all’interno
dell’area di diffusione dei volgari neolatini, alcuni scrittori
preferirono esprimersi in lingue diverse: è il caso, tanto per non far
nomi, del friulano Tomasino “de Circlario” (Zirkläre) che scriveva in
tedesco.
Quando, con l’invenzione della stampa (1453), Venezia divenne la
capitale dell’industria culturale “italiana”, le prime opere a venire
stampate e ristampate furono, ovviamente, quelle delle Tre Corone
fiorentine. Le esigenze della stampa imposero una prima
codificazione, soprattutto grafica, della lingua di cui erano portatrici
e dettero adito alle prime discussioni in proposito. Si discuteva, ed è
indicativo, anche se questa lingua dovesse essere chiamata
“fiorentina”, “toscana” o “italiana”, in quanto si era ormai affermata
come l’unico “volgare illustre”, in grado di competere con il latino, di
tutta la regione. E siccome l’idea dell’Italia di allora era un’idea
soprattutto geografica (intesa per giunta entro i limiti della geografia
di allora) prevalse l’opzione di chiamare questa lingua “italiana” tout
court.
Non mancò, tuttavia, qualche protesta. Paradossalmente,
Gianbattista Gelli, che era, per dirlo con termini moderni, un
“nazionalista” toscano, s’indignò con quei toscani che avevano
acconsentito a snaturare la loro lingua chiamandola “italiana”. Molti
scrittori che non erano toscani lavoravano intanto in favore della sua
egemonia (e, tra gli altri, il “padano” Pietro Bembo si distinse in
questa missione con uno zelo particolare).
Furono così redatte le prime grammatiche e venne fondata a Firenze
l’Accademia della Crusca (1583), che pose mano al primo
vocabolario in qualche modo normativo (prima edizione: Venezia
1612).
Da un impiego strettamente letterario, l’uso del toscano-italiano si
estese presso le corti di alcuni Stati “regionali”, soprattutto a Roma,
dove alla corte del papa convenivano personaggi provenienti da tutta
l’Italia-regione (e alcuni grandi papi erano toscani). Accanto
all’ancora preminente latino, il toscano fece così la sua comparsa
anche presso le cancellerie, quale lingua franca che già cominciava a
godere di “pari dignità” col latino.
Il duca di Savoia, pur privilegiando il francese, lo impose, con un paio
d’editti, nell’uso giuridico e amministrativo di una parte dei suoi
domini subalpini (e, nel 1764, lo importò, paradossalmente, in
Sardegna). Altrove il latino durò invece, sempre paradossalmente,
assai più a lungo, mentre la dipendenza politica di vaste porzioni del
territorio nazional-naturale da Stati extraregionali impose l’uso
(talvolta sporadico ma in alcuni casi prevalente) non soltanto
amministrativo di lingue quali il catalano, il castigliano e, nelle terre
ancora direttamente legate all’impero, il tedesco. A parte alcuni
esempi vistosi genovesi, napoletani e siciliani, soltanto la Repubblica
di Venezia sperimentò a lungo, nell’uso burocratico, il proprio
“volgare”, in una forma però molto condizionata dal toscano e dal
latino. E non fu eccezione da poco, considerata la vastità del suo
territorio.
Coloro che erano in grado di maneggiare il toscano-italiano
apparivano una goccia nell’oceano della popolazione dell’Italia
regione: e quelli che lo possedevano pienamente, ancora di meno. In
una lettera eloquente, datata 1599, Bernardo Davanzati scriveva che
la lingua “comune italiana non si favella ma s’impara come le lingue
morte”. Il toscano aveva sostituito il latino anche nella sua estraneità
alle lingue parlate fuor di Toscana.
D’altronde, la parziale adozione, a livello colto, di questa lingua non
aveva minimamente scalfito l’uso anche scritto dei “dialetti”, che è
continuato rigoglioso non soltanto nei generi letterari meno illustri,
ma in una pratica popolare che è ingeneroso considerare soltanto
folcloristica. Aveva però fatto naufragare ogni ipotesi concreta di
lingue scritte comuni, relative ai sistemi dialettali diversi dal toscano,
ricacciando i singoli dialetti che li componevano nelle loro
dimensioni più strettamente locali.
Non aveva impedito nemmeno la nascita di alcune opere dialettali
d’autore: citeremo per tutte il Pentamerone di Giovanbattista Basile
(in realtà Lo cunto de li cunti) in dialetto napoletano, fonte
d’ispirazione preziosa per favolisti stranieri quali i fratelli Grimm e
Perrault, superiore forse per qualità letteraria al Novellino di
Masuccio Salernitano, lo scrittore che aveva invece abiurato più di un
secolo prima al proprio “volgare” (uno dei primi “rinnegati” letterari
del Sud), quasi contemporaneamente al bolognese Sabbadino degli
Arienti che, con le Porrettane, aveva rinnegato linguisticamente la
propria patria padana.
Nonostante la “lingua italiana” sia stata lo strumento di cui si sono
avvalsi in seguito grandi e meno grandi scrittori di molte parti
dell’Italia convenzionale e perfino di fuori (Tommaseo era dalmata,
Foscolo delle Isole lonie) e nel quale sono state composte opere di
altissima qualità letteraria, la pratica costante e diffusa di una
letteratura dialettale e perciò, in quanto tale, intesa purtroppo come
“minore”, ha espresso, nel tempo, autori non meno degni quali le
“Quattro Coroncine”: Carlo Goldoni (veneziano), Giovanni Meli
(siciliano), Carlo Porta (milanese), Giuseppe Gioacchino Belli
(romano). E, si ha ragione di supporre, con un esito di pubblico assai
vasto e vario, appartenente a tutti gli strati sociali.
Emerge, via via che proseguono le ricerche, un numero sterminato di
scrittori medi e piccoli, alcuni dei quali meritano un doveroso
riconoscimento anche se si sono espressi, spesso sapendolo, in un
linguaggio che chiudeva loro più ampi orizzonti. Ma quanti sono,
lungo i secoli, gli scrittori minimi e inutili in lingua italiana cui sono
stati dedicati saggi e tesi universitarie?

I morti viventi
L’uso della lingua italiana si è progressivamente affermato anche nella
letteratura scientifica e tecnica, e così nella pubblicistica. E cominciò
ad essere insegnato nelle scuole allora esistenti (poche e con pochi
studenti). Ma l’ambito della sua diffusione è rimasto sempre
incredibilmente limitato in quanto al numero dei suoi fruitori. Nel
1806, Alessandro Manzoni, in una lettera a Fauriel, confidava che
l’italiano “può dirsi quasi come lingua morta”. Confermava, più di
due secoli dopo, la spassionata testimonianza di Davanzati.
Del resto, è risaputo che catechismi, lunari, gazzette, manuali di
tecnica agraria e militare e perfino di ostetricia venivano
abitualmente pubblicati nelle diverse “lingue popolari” (soprattutto
in quelle dall’identità più vistosa quali il sardo e il friulano). E che
dire del teatro, dalla commedia dell’arte alle pièces vernacole, in
massima parte consegnato alle lingue popolari?
Un’improvvisa mobilitazione in favore della lingua italiana, avvenuta
non solo nell’ambito ristretto dei suoi fruitori, fu provocato
dall’arrivo dei francesi: anche se Napoleone aveva ricostituito a
Firenze, nel 1808, l’Accademia della Crusca (sciolta dal granduca di
Toscana nel 1783) proprio per vegliare sulla “purezza” dell’italiano.
Ciò che Napoleone dava con una mano, toglieva, infatti, con l’altra:
imponendo il francese in alcuni dipartimenti di quella parte d’Italia
annessa direttamente al suo impero e affiancandolo all’italiano negli
altri.
Come in Spagna e in Germania, il nazionalismo francese ha generato
anche nell’Italia-regione, sia pure in modo meno diffuso ed evidente,
un nazionalismo linguistico uguale e contrario, che aveva a
disposizione, quale segno distintivo di prestigio, solo la lingua
italiana. Nessuno pensò di rivolgersi a quelle lingue popolari, così
vigorose in Italia, che il Romanticismo stava disseppellendo in tutta
Europa e che in altri paesi furono alla base della scoperta della
nazionalità.
Senza farla troppo lunga, diremo che, secondo Tullio De Mauro, nel
1861, all’atto della nascita del Regno d’Italia, su una popolazione di
22.212.000 abitanti, la lingua italiana era posseduta soltanto da
630.000 persone di cui 400.000 toscani (per i quali soltanto era la
lingua materna).
Tutti gli altri “italiani” non erano per nulla italiani nella lingua: non
soltanto nella lingua di tutti i giorni, ma nemmeno in quella della
domenica. L’analfabetismo di massa (78 per cento) non giustifica
questa misconoscenza: meno del 10 per cento degli alfabetizzati
usava infatti abitualmente la lingua italiana. Secondo la nostra stima,
il numero degli italiani che usavano allora la lingua italiana è di poco
superiore a quello degli italiani che usano oggi, con la stessa
padronanza, la lingua inglese. Se l’Italia-Stato avesse deciso di
sponsorizzare una lingua diversa dall’italiano, la lingua di Dante
sarebbe rimasta sospesa nel limbo dove gli studiosi compiono le loro
ricerche e sarebbe magari rivendicata, come lingua ingiustamente
“oppressa”, dai toscani, divenuti una minoranza linguistica.
Un parallelo, leggermente diacronico, con la situazione francese può
apparire indicativo. Nel 1790 (a duecentocinquantuno anni di
distanza dall’Editto di Villers-Cotteréts, che aveva reso obbligatorio
con la spada l’uso del francese in tutto il territorio di quello Stato),
secondo l’inchiesta dell’abbé Grégoire, soltanto 14.000.000 su
26.000.000 di cittadini francesi parlavano abitualmente la lingua
francese; 6.000.000 la intendevano a fatica e la parlicchiavano a
stento; 6.000.000 la ignoravano del tutto e parlavano altre (le loro)
lingue. Solo il 53 per cento dei cittadini era dunque in grado di usare
a tutti i livelli la lingua ufficiale: sembra poco ma è molto in
confronto al 2,5 per cento di cittadini italiani in grado, settantuno
anni dopo, secondo le stime di De Mauro, di fare lo stesso con la
lingua italiana.
Va tenuto presente che il francese è la forma standard di un sistema
dialettale comprendente molti dialetti (non soltanto il franciano ma
anche il normanno, il vallone, il piccardo, il borgognone, l’angioino, il
pittavino...), parlati “naturalmente”, allora, da 11.000.000 di persone,
le quali potevano riconoscersi in esso senza fatica e da 3.000.000 di
“convertiti” (alla sua forma standard). L’italiano sarebbe invece,
secondo le teorie più recenti, la forma standard di un sistema di
dialetti parlati allora, naturalmente, soltanto da 400.000 toscani e,
come tale, da 160.000 convertiti sparsi per tutta la regione
convenzionale (con in mezzo 70.000 romani: i còrsi, che avrebbero
potuto, anche se pochi, elevare il numero degli italofoni “naturali”,
erano cittadini della Francia-Stato e non dell’Italia-Stato).
Dopo un secolo di tentativi, di restrizioni e di incoraggiamenti, tutti
parzialmente falliti, lo Stato francese sferrò l’offensiva decisiva per la
francesizzazione integrale dei suoi abitanti soltanto nel 1881, quando
Jules Ferry impose per legge la scuola dell’obbligo con l’obbligo
dell’insegnamento in francese per tutte le materie: e, per essere più
sicuro, statalizzò nel 1884 tutte le scuole primarie. E applicò metodi
polizieschi per il rispetto di queste leggi.
In Francia, lo Stato-apparato è sempre stato efficiente: ma anche se
tutti i cittadini francesi sono oggi in grado di usare il francese in
(quasi) tutte le occasioni, si calcola che, su 57.000.000 d’abitanti
considerati “autoctoni” (escludendo gli immigrati, numerosissimi),
almeno 10.000.000 conoscano ancora, e talvolta usino, la loro lingua
materna, che è del tutto diversa dal francese. E molti ne rivendicano
un uso ufficiale.
In Italia, lo Stato-apparato è invece, come sappiamo,
tradizionalmente inefficiente. De Mauro ha calcolato che, “verso il
1955”, dopo quasi un secolo di esperimenti, di divieti e di lusinghe, di
scuola più o meno dell’obbligo, di leva militare e di mass-media,
parlava abitualmente italiano “non più dell’11-12 per cento della
popolazione, a cui si aggiungeva un 17-18 per cento che sapeva un po’
parlare italiano, ma parlava anche dialetto. Due terzi della
popolazione non sapevano parlare altro che il proprio dialetto, erano
completamente estranei all’uso di quella che nei libri si chiama la
lingua nazionale italiana, la lingua della patria”. Verrebbe da
aggiungere: alla faccia dell’Italia “una di lingua” del Risorgimento! Va
anche tenuto presente che questi dialetti appartengono a propri
sistemi che sono vere e proprie lingue prive di forma standard.
Nel censimento del 1951, quando ricomparve la voce “analfabeti”
che Mussolini aveva soppresso nei censimenti precedenti, il 12 per
cento dei cittadini si dichiarò ancora analfabeta.
Sarà stato per il benefico effetto della televisione oltre che per la
maggiore frequenza scolastica, ma oggi, sempre secondo De Mauro,
“c’è un 40 per cento di noi che parla sempre italiano”. Ma c’è anche
“un 46 per cento di persone che sanno parlare l’italiano più o meno
bene, ma continuano a tenersi stretto il loro dialetto”. Ne risulta che
“il 14 per cento ha difficoltà a parlare italiano (...) e parla solo il
proprio dialetto”. È un bilancio ignoto ai politici e ai giornalisti, e
nemmeno “lo sanno gli storici italiani, perché ritengono il fatto non
interessante”.
Ci piace riportare un aneddoto che può integrare quanto ha rilevato
De Mauro. Durante le olimpiadi invernali di Lillehammer (1994),
l’“International Herald Tribune” intervistò un’atleta “italiana”,
Gerda Weissensteiner. Alla domanda se conoscesse qualche lingua
straniera, l’ineffabile Gerda, altoatesina, rispose: “Parlo una sola
lingua straniera: l’italiano”. È un’affermazione che vale non soltanto
per la provincia di Bolzano.
D’altronde è ripreso, in questo secolo, l’uso colto del dialetto, inteso
addirittura quale “lingua d’arte” (ricorderemo soltanto i poeti Biagio
Marin e Albino Pierro). E friulani e sardi sperimentano alacremente,
ormai da decenni, le loro lingue popolari, nonostante la grafia
malcerta, nella narrativa, nella saggistica, nella prosa tecnica, nel
giornalismo anche radiotelevisivo e perfino nella musica rock.
E che dire dell’uso ininterrotto del napoletano, da Salvatore Di
Giacomo a Pino Daniele?

La piccola vedetta sarda


A giudicare da quanto si è appena narrato, non è davvero un caso se
gli italiani, almeno fino a tempi recenti, non si sono mai capiti, nel
senso fisico della parola, tra loro. Lo testimoniano innumerevoli
aneddoti soprattutto di genere militare fino a quello, paradigmatico,
relativo alla prima guerra mondiale, che vede protagonista la
sentinella della Brigata Sassari costretta ad apostrofare, perché si
faccia da lui riconoscere, una figura indistinta che si aggira intorno al
suo posto di scolta: “Si ses italianu, faedda sardu!” (Se sei italiano,
parla sardo!).
Il fantaccino sardo ignorava che, tra i suoi nemici, militavano molti
“italiani” (trentini, friulani, triestini, istriani) richiamati alle armi
dallo Stato di cui allora erano cittadini, che conoscevano l’italiano
meglio di lui anche se erano, in realtà (secondo la scienza di poi),
padani o addirittura retoromanzi.
D’altra parte, il nostro fantaccino era “italiano” soltanto legalmente e
l’unica lingua che era in grado di parlare lo dimostrava ampiamente.
Una situazione condivisa dalla maggioranza dei soldati italiani, anche
se soltanto una minoranza di loro era, come lui, sarda.
Il “nemico” appariva, comunque, assai più garantito di lui
nell’esercizio dei propri diritti linguistici. L’impero austroungarico si
era dovuto rassegnare (almeno nella sua parte austriaca: gli “ungarici”
si mostravano renitenti) alla propria multinazionalità. La
Costituzione austriaca del 1867 recitava, all’articolo 19: “Tutte le
Volksstämme (etnie, stirpi) dello Stato sono equiparate
giuridicamente e hanno il diritto inviolabile alla conservazione e alla
tutela della loro lingua. Lo Stato riconosce parità di diritti nelle
scuole, negli uffici e nella vita pubblica per tutte le lingue usate
abitualmente. Nei Kronländer [le province, autonome in quanto
dotate di dieta propria, delle quali si componeva l’Austria] abitati da
più Volksstämme, l’ordinamento delle scuole pubbliche garantirà ad
ogni Volksstamm l’istruzione nella propria lingua, senza costringere
nessuno all’apprendimento di una seconda lingua”.
Paradossalmente, gli italiani (e assimilati) che erano cittadini
austriaci godevano pienamente dei loro diritti linguistici mentre i
sardi cittadini italiani non potevano fare altrettanto. Tutti i
“regnicoli” erano, infatti, per lo Stato italiano, “italiani” e basta:
anche se, nei censimenti, alcuni di loro, i più “esotici”, potevano
dichiarare, con qualche libertà, la loro “lingua materna” quando era
ritenuta, dallo Stato, diversa dalla lingua di Stato (e il loro numero
non destava preoccupazioni). I vari censimenti dettero i risultati che
qui trascriviamo.
1861: 42.113 albanesi, 7.036 catalani, 20.268 greci, 3.649 tedeschi
(non poterono però dichiararsi di lingua “altra” né i sardi né gli
occitani né i francesi né i croati del Molise).
1901 (per famiglie anziché per “anime”): 21.554 albanesi; 2.055
catalane; 1.047 croate; 18.958 francesi; 7.362 greche; 5.734 slovene;
2.272 tedesche (furono ancora esclusi dalla dichiarazione croati,
occitani e, per la prima volta in quanto annessi parzialmente nel
1866, friulani).
1911 (sempre per famiglie): 19.091 albanesi; 2.552 catalane; 1.069
croate; 19.646 francesi; 6.905 greche; 6.250 slovene; 2.201 tedesche
(furono ancora esclusi i sardi, gli occitani e i friulani).
Se i sardi, gli occitani e i friulani (retoromanzi) erano considerati di
“lingua italiana” (e le loro lingue semplici dialetti di questa lingua) in
dispregio della scienza linguistica contemporanea, figuriamoci se
poteva esistere una distinzione tra padani, toscani e italiani centro
meridionali, del resto, allora, non ancora enunciata. Ma la protervia
nazionalista risorgimentale agiva anche fuori dei confini del regno,
paradossalmente proprio nell’Austria, così linguisticamente liberale,
prodiga di tutela culturale verso i suoi cittadini considerati “italiani”.
Quando, nel 1906, il governo di Vienna, scosso da nuove lotte
nazionalistiche, presentò in Parlamento un progetto di riforma
elettorale che consentiva a tutte le Volksstämme dell’impero di
eleggere direttamente, su base territoriale, i propri rappresentanti,
l’istituzione di una circoscrizione per i ladini dolomitici, finalmente
riconosciuti come retoromanzi sulla base delle indicazioni della
scienza linguistica, venne bocciata dai deputati trentini (“padani”) i
quali, al grido di “I ladini sono italiani!”, convinsero l’assemblea a
votare contro. L’arroganza abituale dei nazionalisti italiani, anche di
quelli ancora irredenti, ebbe partita vinta. Soltanto nel 1910,
l’Austria riconobbe questi ladini come Volksstamm e li censì, per la
prima volta, in quanto tali, svincolandoli da ogni presunta italianità.
L’Austria riconobbe, in extremis, durante la prima guerra mondiale,
anche i friulani rimasti sotto la sua sovranità, i quali appartenevano
linguisticamente alla stessa famiglia retoromanza dei ladini
dolomitici. Il loro riconoscimento portò al solito paradosso italiano:
il Regno d’Italia li considerò, infatti, di lingua non italiana, nel
censimento del 1921. Poterono però dichiarare la loro lingua
materna soltanto i friulani orientali in quanto ex sudditi austriaci
annessi nel 1920. La maggioranza dei friulani, annessa nel 1866, non
venne ammessa alla dichiarazione della propria lingua.
Il paradosso non ebbe modo di riproporsi. Mussolini abolì, infatti,
nei censimenti successivi, la voce “lingua materna” così come fece con
la voce “analfabeti”. Da allora, per l’Italia-Stato, tutti gli italiani
parlano soltanto l’italiano: la Repubblica “uscita dalla Resistenza”
contro il fascismo ha, infatti, mantenuto, nei suoi censimenti, lo
“stile” fascista (che era molto di più e molto di peggio di un semplice
stile).
Nonostante la sua Costituzione le imponga di tutelare le “minoranze
linguistiche”, mancando ogni domanda linguistica nei suoi
censimenti, può dichiarare la sua impossibilità di obbedire alle
proprie leggi in quanto non sa, ufficialmente, niente in proposito.
Soltanto nella provincia di Bolzano esiste (dal 1953) il censimento
linguistico (a tutela dei tedeschi e dei ladini) perché imposto
implicitamente dal trattato di pace (e non in applicazione della
Costituzione).
La tradizionale mancanza di rispetto dell’Italia-Stato nei confronti
dei suoi cittadini ha penalizzato, per la solita storia dell’inadempienza
nei confronti delle proprie leggi, fin dalla nascita del regno, anche
coloro che potremmo definire la Volksstamm cui apparteneva Sua
Maestà il re d’Italia: quella francese.
Il tradimento iniziò quando Vittorio Emanuele II era soltanto re di
Sardegna. Affinché i francesi di Francia gli permettessero di farsi re
d’Italia, rinunciò, come si è detto più volte, alla propria culla
dinastica, la Savoia (e a Nizza). Non mancarono certo le proteste per
queste auguste decisioni: tuttavia i nazionalisti italiani erano ormai
abituati all’idea, una delle poche giuste tra le molte ostentate, che la
Savoia non facesse parte dell’Italia nazional-naturale proprio perché
di lingua francese e, soprattutto, perché situata di là dalle Alpi. In
questo modo Vittorio Emanuele permise alla Savoia, cambiando
Stato, di mantenere la propria lingua.
Per quanto riguarda Nizza (la patria di Garibaldi), la sua cessione
venne giustificata da Cavour al Parlamento di Torino con argomenti
ineccepibili desunti dalla scienza linguistica: anche se la contea di
Nizza aveva come lingua ufficiale l’italiano, “l’idioma nizzardo
presenta solo una lontana parentela con l’italiano” (appartiene,
infatti, alla lingua occitana). I nazionalisti non gli credettero. Quando
lo Stato voleva, si mostrava, comunque, informato. Peccato che,
all’interno dei propri confini, rifiutasse ogni informazione che
potesse fargli ombra.
Il tradimento di Vittorio Emanuele si compì, sostanzialmente, nei
confronti di quel brandello della propria Volksstamm rimasto sotto la
sua sovranità, situato di qua dalle Alpi e tutelato linguisticamente dai
suoi predecessori fino dal 1561 e dallo Statuto albertino del 1848
(rimasto in vigore come Statuto del Regno d’Italia).
Già nel 1860, l’insegnamento del francese era del resto stato abolito
nelle scuole superiori della Valle d’Aosta. Con l’istituzione del regno,
le leggi e gli atti ufficiali cominciarono a venire redatti soltanto in
italiano. Nel 1868, un avvocato di Aosta fece tradurre in francese e
pubblicare in Francia a proprie spese il Codice Civile, per offrire ai
valdostani un testo a loro comprensibile. Nel 1880, l’italiano divenne
l’unica lingua ammessa nei tribunali della Valle. Tra il 1880 e il 1910
avvenne la graduale abolizione del francese in tutte le scuole
elementari ad eccezione di una sola ora settimanale. Si può dire che
Mussolini, quando prese il potere, trovò, almeno in Valle d’Aosta,
ormai quasi tutto fatto.

Lo straniero
In Italia, sia nella regione geografica sia nello Stato, il confine tra
“italiani” e “stranieri” è, è sempre stato, e continuerà ad essere,
intimamente labile. Eppure, il Leitmotiv dello “straniero” ne ha
ricamato, nell’ultimo secolo e mezzo, la storia.
Un celebre refrain patriottico recitava (anzi, cantava) in proposito:
“Va’ fuori d’Italia, va’ fuori, o stranier!” L’Italia-Stato è stata
realizzata proprio per scacciare dal suo territorio ogni straniero
possibile, nell’ignoranza del fatto che questo territorio era (e ancor
più si sarebbe rivelato in seguito) in larghissima parte “straniero”.
Il costume pre-risorgimentale intendeva come straniero chiunque
fosse suddito di un sovrano diverso dal proprio (sia che reggesse uno
Stato “italiano” sia che fosse alla testa di uno qualsiasi degli Stati
costituitisi fuori dell’Italia-regione). Sembra che il popolo più minuto
non fosse invece succubo di tale concezione: nemmeno quando
questa interessava gli Stati più lontani: “Franza o Spagna/purché se
magna”.
Agli inizi del XIX secolo, con la nascita del nazionalismo indigeno, lo
straniero si precisò in maniera più sottile come appartenente ad una
nazione diversa da quella ritenuta italiana (non soltanto Austria, ma
perfino “Croazia” e “Boemme”).
A rigore, ogni cittadino di uno qualsiasi degli Stati nei quali si
suddivideva allora la regione geografica convenzionale avrebbe
dovuto essere ritenuto (e spesso lo era) “straniero”, rispetto a ogni
cittadino di qualsiasi altro Stato della regione medesima. Esisteva
tuttavia, tra gli intellettuali nazionalisti “italiani”, la coscienza di una
fraternità, appunto “nazionale”, che li univa di là degli Stati che li
dividevano e delle lingue che parlavano abitualmente: Stati i quali
erano del resto tutti formalmente indipendenti o comunque
largamente autonomi, compreso il Lombardo-Veneto, il cui re era sì
l’imperatore austriaco ma che godeva, come hanno mostrato recenti
studi storici, di un’autonomia davvero sostanziale e fu sempre
governato da italiani (Pietro Verri e Cesare Beccaria non furono
dunque eccezioni).
Appariva invece, almeno giuridicamente, diversa la situazione del
Trentino (che era parte del Tirolo), della Contea di Gorizia e
Gradisca, di Trieste e dell’Istria, parti integranti della corona
austriaca; come a dire semplici Kronländer (ma erano anche zeppi di
tedeschi e di slavi).
I nazionalisti consideravano però stranieri, quando miravano in alto,
non soltanto l’imperatore d’Austria (che aveva sicuramente le mani
in pasta su gran parte dell’Italia-regione) ma anche i sovrani di molti
Stati italiani in quanto membri di dinastie di origine estera, imposti
ai popoli da congressi e trattati internazionali e sottoposti al gioco
politico determinato dalle grandi potenze (tra le quali,
preponderante, l’odiatissima Austria, dipinta sempre più con i colori
dell’antagonista nazionale unico).
In realtà, come aveva osservato il patriota Galeani Napione nel 1791,
gli unici due Stati italiani dotati di “sovrani naturali” (cioè autoctoni)
erano in quel momento lo Stato pontificio e la Repubblica di
Venezia. Poi, caduta Venezia, ne rimase uno solo (e oggi il papa è
polacco).
Galeani Napione sapeva bene che anche i Savoia erano stranieri al
pari dei Borbone e degli Asburgo-Lorena (anche se meno “illustri”).
Nel 1796, aveva partecipato a un celebre concorso di Milano (indetto
dagli occupanti francesi) sul destino politico dell’Italia, presentando
un progetto di confederazione tra undici repubbliche “italiane”, nel
quale aveva definito “tiranni” tanto i Savoia quanto gli Asburgo
(ponendoli sullo stesso piano). I nazionalisti risorgimentali finsero
poi di ignorare, o comunque di dimenticare, questa realtà per loro
amarissima.
La Giovine Italia di Mazzini si era rivelata, del resto, velleitaria,
inefficiente, astratta: la sua azione politica, fallimentare. I patrioti,
delusi (con Daniele Manin e Garibaldi in testa), si erano rifugiati,
realisticamente, sotto le ali della Società Nazionale, messa su a Torino
nel 1857 con dovizia di mezzi per abbinare gli interessi dell’Italia
unita con quelli della monarchia sabauda. L’ala federalista, priva di
braccia anche se folta di teste, si trovò fuori dal gioco, come quella, in
origine più forte di braccia e più vuota di testa, dei repubblicani
unitari.
Fatto ancora più grave: mentre molti sovrani stranieri avevano il
proprio Stato nella regione, i Savoia mantenevano il cuore (anche se
non la testa e il resto del corpo) nei loro domini di là dalle Alpi.
Ufficialmente bilingui, la loro lingua di cultura e di famiglia era il
francese.
Mentre Franceschiello e Canapone parlavano speditamente, sia pure
con un colorito locale forse eccessivo, l’italiano standard (e ne
rimangono saporite testimonianze), Vittorio Emanuele ebbe a
congratularsi con i suoi ufficiali, dopo la battaglia di San Martino,
con le spontanee parole, riportate da Umberto Eco: “Aujourd’hui,
nous avons donné aux Autrichiens une belle raclée”.
Il francese era la lingua della corte e del governo sabaudi. Lamarmora
non imparò mai l’italiano. Cavour e perfino Garibaldi avevano
difficoltà a scriverlo e l’ultimo cittadino “italiano” di lingua materna
francese, alla testa di un governo italiano, fu Pelloux (1898-1900).
D’altra parte, il fatto che uno Stato sia retto da una dinastia straniera
rappresenta la regola e non un’eccezione di per sé riprovevole o
addirittura dannosa. Lo sanno bene gli inglesi che hanno avuto come
sovrani i Plantageneti (francesi), i Tudor (gallesi), gli Stuart
(scozzesi), gli Orange (olandesi) e gli Hannover (tedeschi). Giorgio I,
col quale gli Hannover esordirono sul palcoscenico londinese, non si
preoccupò mai di imparare la lingua inglese e si privò
volontariamente di ogni dialogo con i propri sudditi (senza con
questo tradire una patria acquisita con indubbi e personali vantaggi).
Un altro paradosso della storia d’Italia è che l’Italia-Stato, motivata
dall’ansia di “liberarsi dallo straniero”, è sorta proprio grazie alle armi
dello straniero. Essa deve la propria nascita e il proprio
consolidamento a Napoleone III, di professione Empereur e a
Guglielmo I, di professione Kaiser.
Le tappe d’avvicinamento dello Stato sabaudo (in versione sempre
più italiana) ai confini stabiliti dai geografi generali, si devono, infatti,
soprattutto al “fattore S” (Bismarck definì l’Italia il paese delle “tre
S”).
Con la vittoria di Solferino (1859), dovuta ai francesi, l’Austria fu
costretta a cedere la Lombardia alla Francia che la girò al re di
Sardegna. Con la vittoria prussiana di Sadowa sugli austriaci (1866),
Vienna, che pure aveva sconfitto l’Italia, cedette alla Francia il
Veneto, che venne anch’esso graziosamente girato allo stesso re
(divenuto nel frattempo d’Italia). Con la vittoria prussiana di Sedan
(1870), i francesi sconfitti permisero finalmente ai bersaglieri di
agganciare Roma (privata bruscamente della tutela di Parigi)
all’Italia-Stato, attraverso la breccia di Porta Pia.
Un paradosso ulteriore: afferma Denis Mack Smith che l’Italia-Stato
“indipendente” fu “un modesto satellite della Francia” fino al 1870:
così come lo era stato il Ducato di Modena nei confronti dell’Austria
e assai più di quanto non fosse mai stato il Regno delle Due Sicilie nei
confronti della Spagna, dell’Austria e dell’Inghilterra (che pure non si
peritavano di intervenire costantemente nella sua politica estera e
interna).
In quanto alla percezione popolare degli stranieri, si rammenterà che
i “meridionali” sono spesso sentiti, dagli “altri italiani”, dopo l’unità
d’Italia e soprattutto a partire dal secondo dopoguerra, come tali
(“terroni”).
5.
Italia sì. Italia no

Un plebiscito al giorno...
La teoria “naturale” e quella “elettiva” della nazione vennero a
scontrarsi sul campo di battaglia durante la guerra franco-prussiana
del 1870 (quella che permise all’Italia-Stato di annettersi Roma, la
capitale designata e agognata, approfittando della sconfitta francese).
La vittoria prussiana portò all’annessione dell’Alsazia-Lorena da
parte dell’incipiente secondo Reich germanico di cui la Prussia
appariva ormai come magna pars.
L’Alsazia (con una parte della Lorena) era una terra
indubitabilmente di lingua tedesca, finita però nelle mani del re di
Francia durante il xvii secolo. Un secolo dopo, la Repubblica francese
“una e indivisibile” se la trovò dentro i propri confini. In omaggio ai
propri principi linguistici “democratici”, tentò subito di estirparvi la
lingua materna: quella lingua tedesca che perfino il re, nonostante il
vecchio Editto di Villers-Cotterets, aveva tollerato facendo buon viso
a cattivo gioco.
Il 17 dicembre 1793, il temibile Comitato di salute pubblica emanò
un decreto col quale interdisse l’uso della lingua tedesca in tutta
l’Alsazia-Lorena. Diramò conseguenti istruzioni perché ciò avvenisse
nel più breve tempo possibile. Il 3 marzo 1794, il prefetto del Basso
Reno, disperato, informò Parigi che in tutta l’Alsazia non era riuscito
a trovare un solo maestro o istruttore qualsiasi che conoscesse la
lingua francese. Gli unici che la conoscevano (ecclesiastici e
aristocratici, e nemmeno tutti) erano proprio tutti ennemis du peuple:
come avrebbero potuto insegnare al popolo alsaziano la sua “vera”
lingua?
La Repubblica francese fece di necessità virtù e si accontentò di un
blando regime provvisorio di bilinguismo. Il francese riuscì così,
durante un periodo di settant’anni, ad imporsi parzialmente presso
una cerchia d’intellettuali, d’imprenditori e, soprattutto, d’impiegati
pubblici (che dovevano alla conoscenza della lingua di Stato il loro
impiego): alla borghesia alsaziana era necessario, d’altronde, il
mercato francese, e la retorica patriottarda aveva nel tempo fatto
breccia in una parte della pubblica opinione. La maggioranza degli
alsaziani rivendicava invece quell’autonomia di cui aveva goduto per
secoli, nell’ultimo anche sotto il re di Francia. Gli irredentisti
tedeschi erano invero pochissimi.
La Francia considerò la perdita dell’Alsazia-Lorena come un affronto
alla propria “unità nazionale”.
Il Reich considerò l’acquisizione dell’Alsazia-Lorena come un altro
passo in avanti sulla via della propria “unità nazionale”.
Ne nacque una polemica puntigliosa che riverberò anche in Italia.
Crispi si schierò dalla parte dei tedeschi, ricorrendo alle stesse
argomentazioni che erano state alla base del Risorgimento, ma una
buona parte dell’opinione pubblica italiana militò invece a favore
della posizione francese. L’Italia era ormai uno Stato e l’intangibilità
dei confini esistenti stava diventando per molti l’ossessione
preminente. E poi, la Francia era sempre una repubblica
“democratica” e il Reich un appannaggio “semifeudale” del Kaiser
(anche se il Kaiser aveva accordato all’Alsazia un’autonomia formale,
tutelandovi perfino la lingua francese, che Parigi non aveva mai
concesso).
L’Alsazia-Lorena tornò alla Francia soltanto nel 1918, dopo la
sconfitta degli Imperi centrali nella prima guerra mondiale, e non
poté godere dei “benefici” della francesizzazione forzata pilotata da
Ferry. Durante i quarantotto anni di “separazione”, il nazionalismo
francese non mancò di tenere desta la questione alsaziana. Questa
mobilitazione permanente fornì alla teoria “elettiva” della nazione un
contributo teorico-demagogico importante, dovuto all’abilità
oratoria di Ernest Renan (il quale credeva in buona fede, come quasi
tutti i francesi e i loro supporter sparsi per il mondo, anche in Italia,
che esistesse davvero in Alsazia-Lorena un vigoroso irredentismo
francofilo).
In un celebre discorso, pronunciato alla Sorbona nel 1882 (Qu’est-ce
qu’une nation?), Renan coniò una definizione tanto retorica quanto
commovente: “L’uomo è un essere razionale e morale prima di
parlare una lingua o l’altra [...]. Una nazione è una grande solidarietà
creata dal sentimento dei sacrifici comuni che sono stati fatti e che
siamo disposti a fare in futuro, il desiderio chiaramente espresso di
continuare la vita in comune. L’esistenza di una nazione è un
plebiscito di tutti i giorni”.
Sorvoliamo pure sul calcolo dei “sacrifici comuni” fatti o da fare, e
soffermiamoci invece sul “plebiscito di tutti i giorni”: si può barare
sui sacrifici, ma non sui plebisciti. I plebisciti vanno fatti, infatti, per
davvero, anche se non “tutti i giorni”: ancora oggi, con la rivoluzione
telematica in atto, ciò sarebbe tecnicamente impossibile (figuriamoci
nel 1882).
Per apparire credibile, Renan avrebbe dovuto sostenere, senza tradire
il suo stesso punto di vista (che non ammetteva “nazioni
inconsapevoli”), che “l’esistenza di una nazione è un plebiscito da
tenersi ogni due (o quattro o anche cinque) anni”. E senza dare per
scontato il suo risultato, come invece aveva fatto senza ricorrere
nemmeno a uno straccio di sondaggio o di exit-poll.
Le opinioni degli uomini mutano, come si sa, nel tempo, ed è saggia
norma verificarle periodicamente (è il succo stesso della democrazia).
La Francia, riconquistata con le armi l’Alsazia-Lorena, si guardò bene
dall’indirvi un referendum, sia pure di un giorno solo, per rendersi
conto della reale volontà degli alsaziani in proposito. Il risultato fu la
nascita di un vigoroso movimento autonomista, sempre più intinto
di pangermanesimo, che portò, durante l’occupazione militare
tedesca (avvenuta una ventina d’anni dopo nel corso della seconda
guerra mondiale), ad un collaborazionismo diffuso che vide, tra i suoi
protagonisti, persino la federazione alsaziana del Partito comunista.
Il discorso sul plebiscito interessa anche l’Italia-Stato, che ha fatto
finta di nascere proprio attraverso il ricorso a questo strumento
(inventato dai francesi) e proprio per questa ragione, considerati i
quesiti referendari proposti, qualifica tecnicamente l’“unità (al solito)
nazionale” come una pura e semplice annessione al Regno di
Sardegna (che era, lo ripetiamo, lo Stato meno “italiano” di tutti).
Diremo, come premessa alla democrazia referendaria sabauda e senza
spingerci troppo indietro nel tempo, che la povera Lombardia venne
annessa nel 1859, senza alcun plebiscito e in virtù di un “dono”
(contrattato con la cessione della Savoia e del Nizzardo) da parte
della Francia (che aveva sconfitto l’Austria) all’alleato “sardo” in
occasione della cosiddetta “seconda guerra di indipendenza”.
Aleggiava tuttavia, sull’annessione, un tenue precedente.
Undici anni prima, era avvenuta l’insurrezione milanese nota come le
“Cinque giornate”. Uno dei leader dell’insurrezione fu Carlo
Cattaneo, convinto federalista le cui fortune di pensatore politico,
dopo un oscuramento di Stato promosso ed esercitato dal regno
sabaudo e dal fascismo, stanno rinascendo oggi nell’Italia-stato a
causa della pur modesta ondata neo-federalista.
Cattaneo, suddito per nascita e residenza del Regno Lombardo
Veneto, il cui sovrano era l’imperatore austriaco, aveva studiato in un
liceo “italiano” (Sant’Alessandro di Milano), insegnato in un altro
liceo “italiano” (Santa Marta di Milano), collaborato ad un giornale
“italiano” (“Il Conciliatore” di Milano), si era laureato presso
l’Università “italiana” di Pavia, aveva collaborato con l’editore “in
lingua italiana” Lampato di Milano, aveva fondato e diretto a Milano
un periodico “italiano” importantissimo e giustamente famoso (“Il
Politecnico”), era membro della più prestigiosa istituzione culturale
(“italiana”) del regno di cui era suddito: l’Istituto, appunto,
Lombardo-Veneto.
La sua biografia testimonia, se non altro, il rispetto enorme
dell’imperatore nei confronti della lingua di cultura dei suoi sudditi
lombardo-veneti (italiani di nome ma forse, chissà, padani di fatto).
Tuttavia, l’imperatore era e rimaneva un sovrano, per molti aspetti,
assoluto.
Cattaneo ritenne opportuno partecipare all’insurrezione (scaturita
alla notizia dell’insurrezione “democratica” di Vienna) per strappare
all’imperatore la libertà di stampa, il servizio militare dei lombardo
veneti in casa propria e un riconoscimento ufficiale della Volksstamm
“italiana” dell’impero (frazionata in istituzioni politico
amministrative diverse: lo stesso Regno Lombardo-Veneto era
formato da due regioni autonome, la Lombardia e il Veneto) quale
componente unica e unita di un’Austria federale. Un’Italia per il
momento “austriaca” da allargarsi poi, in forme nuove, al resto della
supposta nazione italiana, al limite (e negli auspici) svincolandosi
dall’Austria medesima ed entrando a far parte di una “Federazione
italiana”.
Cattaneo diffidava profondamente del re di Sardegna, che riteneva
un tiranno al pari dell’imperatore (e il cui Stato aveva condannato,
giustiziato, imprigionato tanti nazionalisti italiani) e delle sue mire
espansionistiche. Carlo Alberto aveva, del resto, promesso ben
40.000 fucili agli insorti senza mandarne nemmeno uno. Gli insorti
tuttavia cacciarono gli austriaci con le loro sole forze.
Il giorno dopo la loro vittoria, il re di Sardegna approfittò
dell’occasione favorevole (e di qualche altro focolaio insurrezionale
sparso per l’Italia-regione) per dichiarare guerra all’Austria. Il suo
esercito ricevette perfino l’aiuto d’alcuni contingenti toscani,
pontifici e “bisiciliani” (un aiuto in realtà scarso, contraddittorio e
infine revocato) che testimoniava se non altro una motivazione
panitaliana. L’ipotesi prevalente era, infatti, in quel momento, quella
di un’unione politica, di tipo confederale, tra gli Stati “italiani”.
Il 26 marzo, l’esercito “sardo” entrò in Milano. Il governo provvisorio
milanese, di cui era segretario generale quel Correnti più volte citato
su queste pagine, rifiutò la dedizione immediata della città al re di
Sardegna e prese tempo per discutere i modi di un’eventuale
annessione contrattata. Il 31 marzo, Cattaneo, contrario a qualunque
annessione, si dimise dal Consiglio di guerra e si ritirò nel Canton
Ticino.
Il 10 maggio, il Consiglio del governo provvisorio della Lombardia
decise di “porre la votazione sulla fusione della Lombardia col
Piemonte in un solo Stato in modo da formare una monarchia con la
dinastia di Savoia, ritenuto però che una sola assemblea debba
regolare le basi della futura Costituzione della Monarchia dell’Italia
Superiore”. Si noti bene che non si parlava di unità d’Italia ma solo di
unità dell’Italia Superiore (ciò che oggi si chiama Padania).
Il 12 maggio, fu varata la legge di indizione di un referendum
attraverso il quale il popolo decidesse per la fusione immediata
oppure per una fusione differita nel tempo, referendum che si tenne
l’8 giugno. Vinse la fusione immediata (su 661.000 aventi diritto,
561.000 scelsero questa opzione). La fusione immediata venne così
dichiarata dal Consiglio lombardo con l’avvertimento che,
contestualmente, venissero sciolte le Camere piemontesi; fossero
indette nei due Stati elezioni a suffragio universale per un’assemblea
generale costituente la quale stabilisse “le basi e le forme di una nuova
Monarchia Costituzionale con la dinastia dei Savoia”; e fosse formato
immediatamente un governo misto residente a Milano che gestisse
queste elezioni.
Il 25 luglio, quando, dopo essere stato sconfitto a Custoza, Carlo
Alberto abbandonò Milano tra l’ostilità della popolazione furente e
delusa, Correnti, insieme con Maestri (l’inventore dei
“compartimenti statistici” del futuro Regno d’Italia), ritenne
opportuno seguirlo a Torino.
Quando, nel 1859, col nuovo re Vittorio Emanuele II in testa (anche
se al fianco dell’alleato vincente, Napoleone III, imperatore dei
francesi), le truppe “sarde” rientrarono a Milano, la Lombardia (fino
al Mincio) venne annessa dai Savoia senza un nuovo plebiscito e
senza alcuna Costituzione concordata (secondo quanto era stato
stabilito dal plebiscito lombardo del 1848, ormai sbiadito e di sicuro
non più valido).
Lungi dal trasferire la capitale a Milano e di eleggere un nuovo
parlamento che varasse una nuova Costituzione, il Regno di Sardegna
vi estese immediatamente il proprio ordinamento amministrativo e le
proprie leggi: un’eredità ricevuta da Napoleone e sostanzialmente
mantenuta nonostante la Restaurazione.
Dal suo esilio, Cattaneo scrisse poco dopo, con cognizione di causa,
che “il Piemonte, pur addensando in sei mesi i progressi d’un secolo
(era) inferiore in diritto penale alla Toscana, in diritto civile a Parma,
in ordinamenti comunali alla Lombardia”. Con queste premesse,
sostenne Cattaneo, il “vituperio” non era “che il popolo preferisse le
leggi austriache alle italiane”, ma che “le leggi italiane potessero
apparire peggiori delle austriache”. E purtroppo era davvero così. O
meglio: così sembrava.
Il diritto comunale lombardo (validissimo e avanzato), promulgato
dagli austriaci con un editto del 1755, era, infatti, opera del toscano
Pompeo Neri e quindi “di fonte prettamente italiana”, mentre
l’ordinamento che il re di Sardegna impose alla Lombardia era di
marca, altrettanto prettamente, “francese” (come Cattaneo non perse
l’occasione di rilevare).

Sei plebisciti di un giorno soltanto


Il 21 luglio 1858, si svolse a Plombières un convegno segreto nel
corso del quale Napoleone III si impegnò ad un’alleanza militare in
caso di aggressione austriaca allo Stato sabaudo. Si stabilì, in quella
riunione, di aggregare i numerosi Stati italiani in tre regni soltanto: il
regno dell’Alta Italia (la Padania) da assegnare al nuovo re sabaudo
Vittorio Emanuele II; il regno dell’Italia centrale da conferire a
Gerolamo Bonaparte detto Pon-Pon oppure ai Lorena; il regno
dell’Italia meridionale, da lasciare ai Borbone, oppure da assegnare a
Luciano Murat. In cambio, Vittorio Emanuele II avrebbe ceduto a
Napoleone III la Savoia e, se del caso, la contea di Nizza. L’idea di una
Grande Italia non fu nemmeno proposta a riprova del fatto che si
trattava ancora di una illazione. I Savoia si accontentarono di buon
grado di allungare le zampe su di una Piccola Italia (cioè di un più
grande Piemonte). Ne scaturì una proposta ragionevole che, se
realizzata, avrebbe salvato il futuro Stato italiano dalla sua
contraddizione di fondo: essere uno senza riconoscersi trino.
L’anno successivo la guerra con l’Austria scoppiò davvero (i Savoia
riuscirono a farsi “aggredire” mettendocela tutta). Nonostante le
cocenti sconfitte di Vittorio Emanuele II la guerra fu presto vinta dal
suo potente alleato francese.
Più o meno in contemporanea con la “seconda guerra
d’indipendenza”, una serie fortunata di piccoli colpi di Stato,
congiure di palazzo e manifestazioni di piazza, pilotata con sagacia
dal governo di Torino ed eseguita da una élite di golpisti e, nel caso
dei sudditi pontifici, di “secessionisti” in piena regola (secondo la
terminologia attuale), cacciò i governi legittimi, anche se sicuramente
reazionari, insediati nella Toscana e in quella che oggi è l’Emilia
Romagna (i “ducati” e le “legazioni”). L’élite nazionalista, salita al
potere, reclamò l’annessione immediata nell’intento di avviare
concretamente il processo d’unificazione nazional-naturale.
Per legittimarla, e per dotarsi di un alibi indispensabile (in assenza di
precedenti, sia pure labili e ormai improponibili in quanto “scaduti”,
come quello milanese), Torino decise di indire in questi territori un
plebiscito aperto a tutti i cittadini maschi di età superiore ai ventuno
anni. Il plebiscito si tenne nel marzo del 1860 con una strepitosa
quanto farsesca vittoria degli annessionisti.
Nonostante avesse ceduto, proprio nel marzo, col Trattato di Torino,
il Ducato di Savoia e la Contea di Nizza alla Francia, il re di Sardegna
indisse nell’aprile (sempre del 1860), un analogo plebiscito rivolto a
quelle popolazioni: una farsa ancora più indecorosa in quanto non
c’era ormai più nulla da decidere. Ad ogni modo, per la fortuna del re,
savoiardi e nizzardi decisero (fu fatto in modo che decidessero) per la
Francia.
L’annessione dello Stato toscano al regno sabaudo fu ottenuta con
risultati stupefacenti: 366.471voti per l’annessione contro appena
19.869 per il mantenimento dell’indipendenza. Ma furono anche
risultati “drogati”. Soltanto la comunità di Castiglion Fibocchi votò,
sintomaticamente, a maggioranza per l’indipendenza della Toscana: e
questa fu una imperdonabile trascuratezza dell’apparato che pilotava
il plebiscito. Un libro di “rivelazioni” dovuto a un agente segreto del
regno di Sardegna, tale J. A. (in realtà Filippo Curletti), stampato a
Bruxelles (senza data) e poi ristampato, ancora senza data né
indicazione del luogo di edizione, in Italia, intitolato La verità
intorno agli uomini e alle cose del regno d’Italia, ci ragguaglia con
dovizia di particolari su questo plebiscito. In prossimità del
referendum, il Curletti fu inviato, in Emilia e a Firenze, da Torino
“con ottanta carabinieri travestiti” per prepararlo. “Noi ci eravamo
fatti consegnare i registri delle parrocchie per formare le liste degli
elettori, indi preparammo tutti i polizzini [cioè le schede per la
votazione]”. Constatato come soltanto “un piccolo numero di
elettori si presentò” ai seggi, Curletti racconta che “noi, nel momento
della chiusura delle urne, vi gettammo i polizzini (naturalmente nel
senso piemontese) di quelli che s’erano astenuti”. Va detto che le
schede venivano consegnate aperte e infilate nell’urna dei SÌ e in
quella dei NO dagli elettori, sotto gli occhi di tutti: racconta il Curletti
che “avanti l’apertura del suffragio, carabinieri e agenti di polizia
travestiti riempivano le sale dello scrutinio”. Il travestimento derivava
dal fatto che si trattava di “piemontesi”. Parma, Modena e Toscana
disponevano infatti, ancora, di propri gendarmi, i quali non furono
impiegati nell’occasione. “In alcuni collegi, l’immissione nelle urne
dei polizzini degli astenutisi (chiamiamo ciò completare il voto), si
fece con tanta trascuratezza e sì poca attenzione, che lo spoglio dello
scrutinio diede un maggior numero dei votanti, di quello che lo
fossero gli elettori iscritti. In siffatti casi si rimediò al mal fatto con
una rettificazione al processo verbale”. Tralasciamo di parlare della
campagna di propaganda e di intimidazione messa in atto in
quell’occasione dal “governatore della Toscana” (che aveva preso in
mano il governo locale all’atto della cacciata del granduca legittimo):
il barone Bettino Ricasoli. Lo stesso atteggiamento fu tenuto dal
“dittatore” (per conto di casa Savoia) di Parma e di Modena, il
generale Farini.
Quando Garibaldi, coi suoi Mille e con l’appoggio dei siciliani che
volevano liberarsi dalla sovranità di Napoli, aveva fortunosamente
conquistato l’isola e stava dilagando nella penisola, l’esercito “sardo”,
con il permesso straordinario dei francesi, invase lo Stato pontificio,
occupò le Marche e l’Umbria e si fece consegnare da Garibaldi, a
scanso d’equivoci, il Regno delle Due Sicilie, da lui ormai conquistato
quasi per intero.
Le condizioni per inaugurare un’anticipazione di “Italia unita”, sotto
lo scettro e le leggi “sarde”, c’erano ormai tutte. E il re indisse un
plebiscito, nell’ottobre dello stesso 1860, anche per il popolo delle
Due Sicilie; e il mese successivo per gli umbri ei marchigiani.
Tutti i quesiti proposti nei plebisciti dimostrano che si cercò di
legittimare formalmente un’annessione pura e semplice. I toscani e i
futuri emiliani furono interrogati sull’“annessione alla monarchia
costituzionale di Re Vittorio Emanuele ii oppure per un regno
separato”, senza soluzioni intermedie o addirittura diverse. E Vittorio
Emanuele era, in quel momento, re di Sardegna e non d’Italia.
I “meridionali” vennero invece interpellati così: “Volete l’Italia una e
indivisibile con Vittorio Emanuele Re costituzionale e i suoi legittimi
discendenti?” E qui, perlomeno, era enunciata, accanto a quella
dinastica, anche una motivazione “nazionale”: motivazione che
scomparve nell’asciutto referendum umbro-marchigiano: “Volete far
parte della monarchia costituzionale di Re Vittorio Emanuele II?”
Ogni opzione repubblicana, oppure federalista, venne resa
impossibile dalla formulazione scelta dal re e dal governo di Torino,
nonostante una larga fetta dello stesso movimento nazionalista fosse
tradizionalmente schierata su posizioni antimonarchiche e
anticentraliste, come il “pensiero” del Risorgimento dimostra
ampiamente (Mazzini era centralista ma repubblicano; Cattaneo
repubblicano ma federalista).
Con la loro impostazione-imposizione, i “sardi” ruppero, per
esempio, le uova già stipate nel paniere dei siciliani, che erano un
popolo di lunghe tradizioni parlamentari. Il glorioso Parlamento
siciliano (nel senso di “regno” e non di “isola”) si era, infatti, riunito
per la prima volta nel 1129 (a Salerno, con Ruggero il Normanno) e
una seconda nel 1240 (a Foggia, con Federico II). Le sue riunioni
erano continuate, addirittura nell’isola, fino al 1812.
In quell’anno, una rivolta contro Napoli dotò la Sicilia di una nuova
Costituzione redatta sul modello “inglese” (un’eccezione a fronte di
tante Costituzioni “francesi”) e di un nuovo Parlamento “alla
Westminster”, che continuò la tradizione parlamentare del regno. La
sua ultima seduta nella nuova versione avvenne nel 1815: un anno
dopo, il ricostituito Regno delle Due Sicilie si dette, infatti, un
Parlamento unico con sede a Napoli. Con la rivoluzione del 1848, il
Parlamento siciliano venne ripristinato ma durò soltanto un anno.
Il 5 ottobre 1860, forte di questo retaggio ideale, il prodittatore
Mordini, cui Garibaldi aveva lasciato il potere nell’isola quando s’era
buttato alla conquista della penisola, indisse, in perfetta buona fede, i
comizi per eleggere i deputati del Parlamento siciliano (che voleva
ripristinare in omaggio alla democrazia e alla tradizione), che avrebbe
dovuto deliberare, in nome del popolo, le modalità dell’annessione
allo Stato italiano in procinto di nascere.
Cavour, alla notizia, si sentì rabbrividire. Abile com’era, riuscì a
convincere Garibaldi (che era davvero un buon uomo), il quale riuscì
a convincere Crispi che, in extremis, convinse Mordini ad annullare i
comizi appena indetti e ad indirne al più presto di nuovi per il
referendum-diktat disposto dal re di Sardegna.
Appare evidente che questi plebisciti (ai quali soltanto risale la
legittimità dello Stato italiano) furono predeterminati nei loro esiti
istituzionali e che, tecnicamente (non cesseremo di ripeterlo), furono
predisposti per annettere alcune cospicue porzioni dell’Italia-regione
al Regno di Sardegna (e non all’Italia-Stato ancora di dà da venire).
Risulta altrettanto evidente che non furono un libero esercizio di
democrazia referendaria (come oggi tanto spesso si dice) e di libera
espressione della volontà popolare.
Per rendersene pienamente conto, conviene riportare alcuni articoli
del Decreto ufficiale per la regolamentazione delle votazioni nell’ex
Regno delle Due Sicilie: “Il voto sarà espresso per SÌ e per NO col
mezzo di un bullettino stampato” (articolo 1); “Si troveranno nei
luoghi destinati alla votazione, su di un apposito banco, tre urne, una
vuota nel mezzo, e due laterali, in una delle quali saranno preparati i
bullettini col SÌ e nell’altra quelli del NO, perché ciascun votante
prenda quello che gli aggrada e lo deponga nell’urna vuota” (articolo
4). Così, sotto gli occhi di tutti.
Cesare Cantù ci racconta come si svolgevano le operazioni di voto a
Napoli: “Il plebiscito giungeva fino al ridicolo, poiché oltre a
chiamare tutti a votare sopra un soggetto dove la più parte erano
incompetenti, senza tampoco accertare l’identità delle persone e fin
votando i soldati, si deponevano in urne distinte i “sì” e i “no”, lo che
rendeva manifesto il voto; e fischi e colpi e coltellate a chi lo desse
contrario. Un villano gridò: ‘Viva Francesco II!’ e fu ucciso
all’istante”.
Non è un caso se i plebisciti sfiorarono la percentuale “bulgara” del
99 per cento di SÌ (rispetto ai votanti, perché interi villaggi, specie
nelle Due Sicilie, s’imboscarono e non parteciparono alla votazione).
Nella civile Toscana, il massimo fautore dell’annessione, il barone
Bettino Ricasoli, grande proprietario terriero e nazionalista italiano
convinto, impartì le disposizioni seguenti (ovviamente “fermissime”):
“Gli intendenti agricoli, a capo dei loro amministrati, il più influente
proprietario rurale a capo degli uomini della sua parrocchia, il
cittadino più autorevole a capo degli abitanti di una strada, di un
quartiere (...) ordineranno e condurranno gli elettori alle urne della
Nazione”. E, a scanso di equivoci, aveva minacciato i suoi operai
agricoli di licenziamento con le celebri parole: “Chi non vota non
pota!”
Per farla breve: voto pubblico e non segreto; registri elettorali
maltenuti e talvolta inesistenti; mancanza di ogni controllo di
identità dei votanti; sorveglianza delle operazioni di voto ed
esecuzione fraudolenta degli scrutini affidati a pubblici ufficiali che
avevano già prestato giuramento di fedeltà a Vittorio Emanuele II.
Dulcis in fundo: mancava del tutto ogni simulacro di “par condicio”.
I legittimisti, fedeli ai vecchi Stati, erano in prigione o in esilio e i
giornali di opposizione venivamo imbavagliati (anche se si trattava di
una censura forse inutile in un paese col 78 per cento di analfabeti,
buoni ad eleggere ma non a leggere). Così fu fatta, democraticamente,
l’Italia.
La terra rivelatasi la meno annessionista fu la Toscana e registrò
“soltanto” il 95 per cento di SÌ. La prassi dei plebisciti non terminò
nel 1860, anche se il 17 marzo del 1861, il Parlamento di Torino
proclamò Vittorio Emanuele II, “primo” re d’Italia “per grazia di Dio
e volontà della Nazione” (dieci giorni dopo, lo stesso parlamento
proclamò Roma, ancora in mano al papa, capitale del Regno”).
Nell’ottobre del 1866, dopo la vittoria prussiana nella “terza guerra di
indipendenza” italiana e per “decidere” l’annessione del Veneto e
della provincia di Mantova (a distanza di venti giorni da quando
l’annessione era stata ratificata col Trattato di Vienna attraverso una
semplice partita di giro tra la Francia, che aveva ottenuti questi
territori dall’Austria, e l’Italia), l’Italia indisse un nuovo plebiscito
farsa. I sì furono addirittura il 99,99 per cento. A fronte di 791.414 SÌ
si registrarono appena 96 NO (di cui 36 provenienti in blocco dal
comune di Coseano). Che cosa aveva mai fatto il re d’Italia ai
cittadini di Coseano? Nessuno ha ancora risposto a quest’angosciosa
domanda.
Nell’ottobre del 1870, annessa Roma e le “province romane”, si tenne
l’ultimo plebiscito (il sesto). Il quesito fu lo stesso sottoposto quattro
anni prima ai veneti: “Dichiariamo la nostra unione con il Regno
d’Italia sotto il governo monarchico costituzionale di re Vittorio
Emanuele Il e dei suoi discendenti”. I romani furono però meno
entusiasti dei veneti: i SÌ furono “appena” il 98,9 per cento.
Quando, nel 1919-20, il Regno d’Italia compì l’annessione del Tirolo
meridionale e della cosiddetta Venezia Giulia, dove tedeschi e slavi
erano più che numerosi, si guardò bene dal continuare a recitare la
farsa dei plebisciti. I plebisciti vennero beninteso richiesti, a gran
voce, dagli abitanti di questi territori: ma lo Stato italiano si rifiutò di
concederli. Sapeva bene che, questa volta, i NO sarebbero stati la
maggioranza (in molti luoghi assoluta). La coscienza della mancata
coincidenza tra la “nazione” presunta e l’altrettanto presunta
“regione naturale” era ormai alla portata di tutti.

Garibaldi, la Corsica e Ninco Nanco


Se Garibaldi riuscì a conquistare la Sicilia tanto rapidamente il
merito fu anche, come s’è detto, del massiccio sostegno dei siciliani: i
quali, beninteso, più che “unirsi” con gli “italiani”, volevano
sbarazzarsi dei napoletani e colsero al volo, proprio quando una loro
ennesima rivolta era appena fallita, quest’occasione.
Alla secessione da Napoli miravano soprattutto i nobili e i borghesi (e
l’unità d’Italia appariva un ottimo pretesto): i contadini volevano
semplicemente liberarsi dal servaggio feudale. Garibaldi li lusingò e
poi li tradì, ritirando alcuni decreti che, sulle ali dell’entusiasmo,
aveva emanato in loro favore. Mise in guardia i suoi uomini contro i
contadini; e i suoi uomini, magari contro la sua volontà, compirono
gli eccidi, tristemente noti, di Biancavilla e di Bronte. Sciolse
addirittura le squadre dei volontari siciliani, che avevano rimpolpato
le sue scarne truppe in modo decisivo e gli avevano permesso di
sconfiggere l’esercito borbonico presente nell’isola.
La Sicilia, pur distinguendosi per l’astio secolare nei confronti di
Napoli, era stata, fino al 1850, del tutto impermeabile ad ogni
sollecitazione patriottica in senso “italiano”. La sua rivoluzione del
1848 aveva avuto un preciso significato indipendentista. Ne è prova
la Costituzione approvata dalla risorta assemblea siciliana che
stabiliva, all’articolo 2: “La Sicilia sarà sempre Stato indipendente”.
Paradossalmente diversa è stata a lungo la situazione politica in
un’altra isola dell’Italia-regione: la Corsica. In quest’isola,
perennemente in rivolta contro i suoi occupanti (genovesi o francesi
che fossero), gli ideali del Risorgimento italiano avevano, fino dal
loro nascere, sedotto un certo numero degli abitanti, scontenti della
dominazione in corso, quella francese. I “pinnuti” (pipistrelli), cioè
gli aderenti alla Carboneria, erano, nell’isola, non pochi: e
contrastavano alacremente, non soltanto a parole, i “pinzuti” (i
francesi, detti così a causa del loro copricapo militare a punta: a
pinza). Alcuni còrsi credevano nella concreta possibilità dell’isola di
raggiungere l’“Italia unita”, una volta realizzata, attraverso una
permuta con la Savoia. Si offrivano insomma come moneta di
scambio. D’altronde, il primo periodico risorgimentale (1790) era
stato proprio “Il giornale patriottico di Corsica”, diretto da Filippo
Buonarroti.
Le ragioni di questa scelta di campo erano comprensibili: nel 1829,
per esempio, i còrsi erano un quarto del totale degli studenti
dell’Università di Pisa. La Toscana era a due passi dall’isola e la
Francia lontana. Bastia era la capitale culturale dell’“italianità” corsa.
Il libraio e tipografo bastiaccio Fabiani corrispondeva, con abituale
intensità, con le librerie e le biblioteche toscane, con Le Monnier e
con Vieusseux, importava e diffondeva riviste, giornali e libri italiani.
L’isola era poi zeppa d’esuli politici “italiani” (e fu avviata da
Tommaseo allo studio del suo folclore).
In Corsica, la Giovine Italia, sostituitasi ai “pinnuti”, fece oltre mille
aderenti: assai di più che nel cosiddetto Mezzogiorno, in Sicilia e in
Sardegna messi insieme. Mazzini stesso studiò uno sbarco di duemila
còrsi in Toscana per abbattervi il granduca: un disegno abbandonato
per mancanza di fondi.
Nel 1846, l’editore còrso Fabiani stese un contratto con Le Monnier
in base al quale gli era possibile eseguire la ristampa delle opere messe
al bando, in Italia, dai governi reazionari, che Le Monnier avrebbe
smerciato clandestinamente sul continente. A Bastia uscivano del
resto giornali in italiano, diffusissimi, come “La Corsica” e “Guida del
popolo”, che durò fino al 1880. L’italiano era, senza ombra di dubbio,
la lingua colta e scritta dell’isola (e in italiano furono redatte le leggi e
la Costituzione di Pasquale Paoli). L’ultimo scrittore italiano di
Corsica fu Gian Battista de Pietri e l’ultimo libro italiano stampato
nell’isola furono le sue Poesie varie (1896). I primi scrittori còrsi in
lingua francese esordirono ad Ajaccio negli anni Quaranta del XIX
secolo: erano pochi, modesti (come quelli italiani, del resto) e quasi
per nulla letti.
Soltanto nel 1850, la pressione del francese nell’isola si fece palpabile.
La maggior parte delle (poche) famiglie còrse che mandavano a scuola
i loro figli, li tolsero allora dalle scuole pubbliche francesi e li
mandarono in quelle italiane clandestine, aperte nei boschi dai preti e
dai frati. Poi, lentamente (e infine rapidamente a partire dalla riforma
di Ferry), la Corsica perse la lingua italiana standard e le rimase,
ghettizzato nell’uso familiare e locale, soltanto il dialetto, così vicino
al toscano.
A dispetto del “plebiscito di tutti i giorni”, oggi la Corsica si ritrova
parte integrante della Francia-Stato mentre la Sicilia e la Sardegna
fanno parte dell’Italia-Stato.
Torniamo a Garibaldi. Così come gli era successo quando era
sbarcato in Sicilia, il suo approdo nella penisola trovò l’appoggio delle
bande contadine, in endemica rivolta contro lo Stato napoletano
anche se prive di ogni motivazione politica, rinforzate nell’occasione
dai disertori dell’esercito borbonico e da malviventi comuni. Si
arruolarono tutti nelle file garibaldine. Alla fine della sua campagna
militare, Garibaldi poteva contare su 52.839 uomini, 31.000 dei quali
erano volontari “meridionali”.
Quando il governo di Torino (nel novembre del 1860) decise di
liquidare l’esercito garibaldino, assunse 20.000 dei suoi uomini, i più
fidati, nell’esercito “sardo” e ne rimandò a casa il resto (che
comprendeva quasi tutti i “meridionali”). Cominciò così, per
reazione spontanea, la rivolta armata dei “meridionali” al Regno
d’Italia, ancora prima che questo regno si fosse ufficialmente
costituito. Una rivolta che attinse al serbatoio inesauribile dei
contadini, dei braccianti agricoli e dei pastori.
Il re delle Due Sicilie, Francesco II, assediato e braccato a Gaeta,
puntò tutto su questa rivolta, ripudiò nobili e borghesi e appoggiò, a
parole, la causa contadina. E i ribelli “meridionali”, delusi da
Garibaldi e soprattutto dai “piemontesi”, ai quali Garibaldi stesso li
aveva consegnati, si convertirono, sia pure in ritardo, alla causa della
“nazione delle Due Sicilie”.
Quello che in Italia è noto come “brigantaggio”, potrebbe forse essere
meglio classificato come guerra di resistenza all’occupazione
straniera: una vera e propria lotta, anche se sfortunata, di “liberazione
nazionale” da parte di un popolo che vedeva la propria patria
occupata militarmente da un altro popolo. Fra il gennaio e il marzo
del 1861, in concomitanza con la proclamazione del Regno d’Italia,
caddero Gaeta e Messina e Francesco II si rifugiò a Roma, presso il
papa. Ma non mancò di continuare ad incoraggiare la guerra
condotta in suo nome dai suoi ex sudditi. Civitella del Tronto
continuò per alcuni mesi la resistenza all’invasore venuto dal Nord e
ne fu l’ultimo ridotto. Alcune migliaia di prigionieri di guerra
borbonici vennero deportati in Piemonte, nelle fortezze di
Fenestrelle e di San Maurizio, dove furono sottoposti a una
rieducazione “nazionale” forzata, tra stenti e sofferenze indicibili.
Che si sia trattato di guerra appare evidente dal numero delle forze in
campo: 80.000 “briganti” contro la metà dell’esercito italiano:
120.000 uomini. Soltanto per il 1863, i dati ufficiali parlano di 2.413
“briganti” uccisi in combattimento, di 2.768 fatti prigionieri e,
secondo le leggi di guerra, di 1.038 “meridionali” trovati in possesso
d’armi e fucilati, per presunta sedizione, all’istante. È altrettanto
evidente che questa guerra ha avuto un aspetto prevalente di
guerriglia considerando le condizioni obiettive nelle quali si svolgeva.
È stato tuttavia dimostrato che ha prodotto da sola molte più vittime
delle prime tre “guerre d’indipendenza”, interpretate secondo il
copione classico delle battaglie campali: “produsse” infatti,
complessivamente, 20.000 morti.
L’epiteto di “briganti” aveva, del resto, alcune giustificazioni: se non
morali e politiche, sicuramente professionali. Le biografie dei
capibanda più leggendari lo dimostrano.
Carmine Crocco era un pastore. Divenuto soldato, disertò e si dette
alla macchia (insieme con un altro celebre ribelle, Ninco Nanco) in
seguito ad un delitto d’onore da lui commesso per vendicare il
tentato stupro della sorella. Si arruolò nell’esercito garibaldino e si
batté con onore per l’unità d’Italia. Appena il suo antico delitto
venne a galla, disertò di nuovo e organizzò una delle bande meglio
addestrate e combattive, convertendosi alla causa della “nazione
meridionale”. La sua biografia è simile a quella del suo amico Ninco
Nanco e d’altri capibanda celebri come Chiavone, Pietro Monaco,
Caruso, Coppa, Gisetti.
Diversa la biografia di Pasquale Romano. Figlio, anche lui, di pastori,
si arruolò e diventò sergente dell’esercito borbonico. Congedato
dopo la sconfitta e privo di qualsiasi precedente penale, si dette alla
macchia per ragioni ideali e organizzò la sua banda secondo i metodi
di un esercito regolare. Una certa militarizzazione delle bande era, del
resto, radicato costume dei “briganti”.
Nella sua autobiografia, il ben più estemporaneo Crocco scrive:
“Avevo un piccolo esercito con quadri completi, un capitano, un
tenente, un medico, sergenti maggiori, caporali, tutti appartenenti al
disciolto esercito borbonico. Avevo seicento soldati di tutti i corpi,
cioè cacciatori, cavalleria, artiglieria, volteggiatori, zappatori,
granatieri”. Va da sé che il grosso delle bande era costituito da
braccianti agricoli privi d’ogni istruzione militare, rinforzati da evasi
dalle non più “patrie” galere, da molte donne coraggiose e indomabili
e da alcuni cappellani spregiudicati.
Esclusa forse la formazione di Romano, il brigante-gentiluomo, la
palese contraddizione tra la disciplina militare e l’anarchia
guerrigliera che correva all’interno di tutte le bande con l’indubbia
prevalenza della seconda, frustrò gli sforzi di Francesco II di dirigere
in modo efficace la “guerra di liberazione” dei suoi sudditi oppressi.
Il “brigante” Chiavone, ad esempio, alla testa di una banda di 400
uomini, accettò volentieri da Francesco II la patente di capitano e i
sussidi in armi e denaro. Ma quando fu raggiunto dal generale
borbonico Tristany, si rifiutò di obbedire al suo ordine di
abbandonare la guerriglia sui monti per occupare le città della
pianura. I contrasti tra i due portarono il generale ad eliminare, alla
chetichella, Chiavone: privando la causa, di cui erano entrambi
sostenitori, di un combattente abilissimo, vera spina nel fianco
dell’esercito “piemontese”.
Francesco Ilarruolò in Spagna un ufficiale di provata esperienza, un
professionista dalla reputazione magari un po’ dubbia, José Borjes, e
lo fece sbarcare, nel settembre del 1861, in Calabria, alla testa di
diciassette veterani carlisti, allo scopo di raggiungere le bande e di
organizzarle. Ma le piccole bande locali si rifiutarono di unirsi a
Borjes.
Alla fine, Borjes riuscì a mettersi in contatto con Crocco, che
comandava il raggruppamento più numeroso, col grado di generale
concessogli dal re in esilio. Crocco accettò di unirsi a quest’alleato
imprevisto, ma la condotta abituale dei suoi “briganti”, dediti al
saccheggio dopo ogni combattimento, irritò lo spagnolo.
L’irritazione crescente di Borjes irritò a sua volta Crocco, che perse la
pazienza, troncò con lui ogni rapporto, sequestrò le armi al gruppo
dei mercenari spagnoli che lo scortavano e lo piantò in asso. Borjes
cercò di riparare nello Stato pontificio, ma venne catturato dai
bersaglieri e fucilato.
L’ex sergente Romano, che operava alla testa di 300 uomini, tutti
montanti a cavallo, col grado di maggiore (concessogli al solito dal re)
e che aveva inflitto continue e pesanti perdite alle truppe italiane,
tentò di convincere, nel 1862, Crocco ad unirsi a lui per occupare
Brindisi e lanciarsi su Bari. Crocco rifiutò, preferendo continuare ad
operare per agguati e rapidi assalti. Romano, sorpreso dai cavalleggeri
di Saluzzo durante un bivacco, venne ucciso e il suo corpo esposto
alla “pubblica indignazione” nella piazza di Gioia del Colle.
I suoi resti martoriati vennero pietosamente sepolti, di nascosto, due
giorni dopo. Come dicono le cronache, “tutti gli abitanti del paese
vollero contemplare un’ultima volta questi resti irriconoscibili
dell’eroico brigante; si veniva là come ad un pellegrinaggio santificato
dal martirio; gli uomini si scoprivano il capo, le donne si
inginocchiavano, quasi tutti piangevano”.
Un anno dopo, le bande di Crocco e di Ninco Nanco attaccarono,
tra Melfi e Venosa, uno squadrone di cavalleggeri di Saluzzo e ne
fecero una carneficina. Tagliarono la testa al tenente Bianchi e la
esposero sul tetto di una masseria con un cartello che diceva:
“Vendicato Romano”. Come si vede, gli ingredienti di un’epopea
nazional-meridionalista ci sono tutti.
Con la Legge Pica del 1863, il governo italiano istituì, nel Meridione
occupato, appositi tribunali militari che giudicarono veri e supposti
“briganti” e fiancheggiatori, dettero molto lavoro ai plotoni
d’esecuzione e inviarono al domicilio coatto, si dice, ben 12.000
persone. Un nuovo corpo di spedizione giunse intanto nel Meridione
portando a 200.000 i militari impiegati. Nel 1865, il brigantaggio era
ormai agonizzante anche se alcune piccole bande continueranno a
“operare” fino al 1870. Quell’anno, l’applicazione del Codice di
guerra verrà infine revocata.
Nel 1866, si ribellò la Sicilia, evidentemente così scontenta dell’unità
italiana da far echeggiare, per la prima volta nell’isola, il grido di “Viva
Francesco II!” (l’odiato monarca napoletano). Questa rivoluzione,
detta del “Sette e mezzo” fu stroncata, in sette giorni e mezzo, con
mano fermissima e con truppe fresche, dal generale Raffaele Cadorna.

La gabbia del Risorgimento


Non è certo il caso di tentare una storia, sia pure condensata, del
Controrisorgimento: è sufficiente che balugino alcuni fatti, alcuni
dati, alcuni indizi tali da sconvolgere la visione di parte alla quale i
cittadini italiani sono stati abituati.
Come ha rilevato un finissimo storico, specialista proprio del
Risorgimento, Umberto Levra, tutta la storia di quell’entità, per noi
tuttora metafisica e sfuggente, chiamata Italia è stata (ed è ancora)
intesa come “il convergere di tutto verso l’obbligato esito unitario”. Si
è insomma cercato di “ingabbiare ad ogni costo il ‘prima’ e il
‘durante’ in funzione del ‘dopo’ con conseguenze talvolta di
strabismo culturale”. Il “durante” è, ovviamente, il Risorgimento. Il
“prima” giunge, come si è visto, nella migliore delle ipotesi, fino alla
caduta dell’Impero romano d’Occidente; nelle peggiori, alla
fondazione di Roma o addirittura alla preistoria. Il “dopo” giunge
fino a noi: è paradossalmente quello che si vive oggi, all’insegna dello
scontro irriducibile tra “questione meridionale” irrisolta e “questione
settentrionale” imprevista, entrambe drammaticamente incombenti
sul destino dell’Italia-Stato.
Il dogma dell’“unità nazionale” del “paese” vacilla. S’insinuano, nelle
menti più aperte della Repubblica (purtroppo assai poche), quesiti
impertinenti quali: e se il “paese” andasse meglio se tornasse
“disunito”? E se invece di un “paese” ce ne fossero in realtà due (o
più)? In questo deprecabile caso, sarebbe meglio o peggio per tutti se i
“paesi” fossero “uniti” in modo radicalmente diverso oppure separati
de iure, visto che lo sono de facto? Riemergono dunque interrogativi
pesanti cui non si può più rispondere in modo rituale. Come
purtroppo si continua a fare per forza d’inerzia.
Il rito viene officiato attraverso la ripetizione ossessiva e salmodiante
dei luoghi comuni connessi col mito alimentato dal Risorgimento
ufficiale: che ha portato, come nota Levra (magari da un punto di
vista assai diverso dal nostro) alla “voluta rimozione ideologica,
divenuta in seguito storiografica” di quelle posizioni “niente affatto
‘nazionali’ e unitarie oppure riformatrici ma filo-borboniche, filo
austriache e via dicendo”.
Il risultato di questa visione “strabica” è stato così “il travaso diretto,
nella storiografia, dove sono rimasti sino ad oggi, d’interpretazioni e
di stereotipi derivanti dalla lotta politica ottocentesca”. Una lotta che
ha sancito la vittoria di una sola delle parti in lizza, a spese di tutte le
altre: una vittoria ottenuta non soltanto contro le posizioni
antinazionali e antiunitarie, riformatrici o meno, di cui parla Levra,
ma anche contro quelle federaliste, interne al Risorgimento stesso;
come prova il numero incredibilmente elevato di pensatori di quel
filone fertilissimo i cui testi non sono stati mai, o raramente,
ristampati durante i centoquarantadue anni di vita dell’Italia-Stato
(compreso il periodo repubblicano) e condannati all’oblio.
Una conseguenza, dannosissima, di questa vittoria di parte, è stata
l’utilizzazione, in senso negativo, ininterrotta fino ai nostri giorni (è
sempre Levra che parla), della “categoria di ‘municipalismo’,
impiegata per indicare ciò che non rientrava in tale schema
teleologico: il ‘sicilianismo’, il municipalismo napoletano, quello
bolognese, quello dei toscani che si aggrappavano alle falde dell’abito
del granduca, quello dei lombardi ostili all’annessione, quello dei
piemontesi che volevano piuttosto il ‘grande Piemonte’ che non
l’Italia unita e che nel 1864 tumultuarono contro il trasferimento
della capitale”.
I falsi perpetrati dalla mitologia risorgimentale sono d’altronde
innumerevoli. Forse il più significativo è quello della
supervalutazione del numero e soprattutto della qualità intellettuale
di quella minorité agissante che ha fornito lo spartito suonato dal re
di Sardegna (per sua fortuna insieme a grandi orchestre straniere
“ospiti”: la francese, la prussiana, la britannica e così via). Ad una
manodopera sicuramente fiera e coraggiosa, che ha versato lacrime e
sangue con abnegazione crescente, ma composta, almeno in larga
parte, di studentelli, scrittorucoli, poetastri, ufficialetti, bottegai,
nobilucci, mediconzoli, avvocaticchi e piccoli preti, con qualche
baldo artiere di sostegno e alcune dame devote, si è cercato di
affiancare uno scelto manipolo d’intellettuali professionisti d’alto
livello che si sarebbero amalgamati, in senso “nazionale”, durante i
celebri nove Congressi degli scienziati, convenuti da tutta l’Italia
nazional-naturale, avvenuti nell’Italia-regione convenzionale nel
periodo 1839-47 (con il presunto scopo segreto di fomentare l’unità
della “patria” sotto la scusa di parlare di scienza).
Levra ci rivela che, al Congresso degli scienziati di Torino del 1840,
“il 70,5 per cento proveniva dal Regno sardo e solo il 13 per cento dal
Lombardo-Veneto, mentre quelli delle Due Sicilie erano tanti quanti
quelli del Brasile e della Svezia, cioè 1, e i sudditi del papa e dei duchi
di Modena e di Lucca erano assai meno degli 11 francesi e degli
altrettanti svizzeri”.
A questo punto, ci corre l’obbligo di un risarcimento perlomeno
morale nei confronti dei sardi (quelli veri) e del loro regno
sfortunato, istituito una prima volta dall’imperatore nel 1164 e
ritagliato su misura per il “giudice” di Arborea, il sardo Barisone: il
quale venne sì incoronato ma perse subito la corona poiché non
possedeva la somma di 4.000 marche d’argento (che ne era il prezzo)
e non gli riuscì di racimolarla in tempo debito. E, per i sardi almeno,
la corona fu persa per sempre.
Il regno venne, infatti, istituito, una seconda volta, dal papa, nel
1239, col nome di Regnum Sardiniae et Corsicae ma riservato ad
Enzo, figlio illegittimo di Federico II. Nemmeno Enzo ne entrò mai
in possesso. Il titolo venne addirittura restituito, in seguito, a papa
Bonifacio VIII che, nel 1297, lo concesse al re di Aragona (purché
restituisse la Sicilia agli angioini di Napoli). L’accettazione da parte
del re d’Aragona fu, all’inizio, soltanto formale: ci vollero molti anni,
infatti, perché gli aragonesi si decidessero a sbarcare nell’isola
(rinunciando però alla Corsica, che rischiò di finire, come regno
separato, nelle mani del granduca di Toscana nel XVI secolo).
I sardi, da tempo in armi contro gli “italiani” (genovesi e pisani),
lottarono in seguito accanitamente, per preservare la loro libertà,
anche contro gli aragonesi. Ma, alla fine, li accettarono (anche se si
ribellarono ancora molte volte). Il regno era del resto un’entità
politica formalmente sovrana (anche se il suo re risiedeva a
Barcellona), dotata di Parlamento, di moneta, di milizie, di leggi, di
tribunali propri (che giudicavano in base al codice della Carta de logu,
in lingua sarda, promulgata da Eleonora d’Arborea nel 1388): anche
se, a partire dalla seconda metà del XV secolo, lingua ufficiale dell’isola
diventò il catalano e, subito dopo, il castigliano.
Nel 1718, per effetto del Trattato di Londra, il Regno di Sardegna fu
inopinatamente assegnato al duca di Savoia, del Monferrato e di
Aosta, nonché conte di Nizza e di molti altri luoghi assai meno
conosciuti, che aveva regnato per appena cinque anni sulla Sicilia in
virtù della Pace di Utrecht (quella che aveva trasferito la Lombardia
dalla Spagna all’Austria: 1713). Le due isole vennero, insomma,
scambiate per i soliti giochi politici tra le grandi potenze.
Il sovrano sabaudo, per non tornare soltanto “duca e conte” e
mantenere quindi un titolo regale qualsiasi, acconsentì, sia pure a
malincuore, allo scambio. Riuscì però ad impossessarsi della sua
nuova isola soltanto due anni dopo, grazie alla Pace dell’Aia: e vi
mantenne, per qualche tempo, l’autonomia tradizionale compreso lo
strapotere dei feudatari spagnoli, limitandosi ad esercitare una
pressione fiscale crescente. Poi cominciò a erodere i privilegi del
regno e a trattare l’isola come fosse una colonia. Impose l’italiano
quale lingua ufficiale nel 1764.
Nel 1793, i francesi sbarcarono nell’isola con l’intento di istituirvi la
“Repubblica sarda una e indivisibile”. Tra di essi c’era il giovane
Napoleone Bonaparte. Il Parlamento sardo, che non era mai stato
riunito dal re sabaudo, si autoconvocò e, obbedendo ai suoi ordini, le
milizie sarde ributtarono a mare i francesi. Fiero di questo successo
militare, il Parlamento chiese al re, che stava a Torino, di riunirlo
almeno una volta ogni dieci anni, di riservargli la nomina dei vescovi
nelle diocesi dell’isola, di permettere ai sardi di ricoprire, nella loro
patria, le maggiori cariche pubbliche esclusa quella di viceré, di
istituire un Ministero per gli affari sardi a Torino e un Consiglio di
Stato a Cagliari.
Il re rifiutò tutte le proposte. Il Parlamento ricorse allora, di nuovo,
alle proprie milizie, e cacciò dall’isola i rappresentanti del re. Era il 28
aprile 1794.
Per venire ad oggi, si dirà che cinque anni fa, in un soprassalto
d’orgoglio e di dignità isolani, la Regione autonoma della Sardegna ha
dichiarato il 28 aprile Sa die de sa Sardigna (“Il giorno della
Sardegna”), una sorta di 14 luglio ad uso dei sardi.
Torniamo al 1794. Purtroppo, la “rivoluzione sarda” finì presto e
male. Coloro che, uniti, avevano cacciato i sabaudi, si divisero subito
e si affrontarono in armi. Il leader dei “democratici”,
l’indipendentista Giovanni Maria Angioi (che voleva istituire la
Repubblica sarda), dopo avere sconvolto tre quarti dell’isola alla testa
di un esercito di contadini e di pastori, venne sconfitto dalle milizie
speditegli contro dal Parlamento di Cagliari, impaurito dalla sua
predicazione sociale e sobillato dai grandi feudatari e dai vescovi
tramite i quali si era messo, nel frattempo, in contatto col re (che
aveva acconsentito al perdono).
Paradossalmente, nel 1799, cacciato dalla sua Torino da Napoleone,
che ne incamerò il tesoro, il re si rifugiò nell’isola dove rimase per
dodici anni, a spese di questi suoi sudditi ombrosi ma, in fondo,
generosissimi.
I Savoia, una volta rimessi in sella a Torino, dimenticarono ogni
gratitudine e ripresero ad interferire nelle vicende dell’isola (nel
1815, con la Restaurazione, avevano ottenuto anche la Repubblica di
Genova e si sentivano sempre più forti). Nel 1820, emanarono
l’Editto delle chiudende col quale venne disposta la recinzione, a
favore dei proprietari, dei pascoli fino allora lasciati liberi per le
esigenze dei pastori.
I proprietari si guardarono bene dal coltivare queste tancas (“recinti”)
e le lasciarono, però affittandole a caro prezzo, al godimento (si fa per
dire) dei soliti pastori.
Nel 1827, venne abrogata la Carta de logu, il monumento giuridico
del popolo sardo, che aveva regolato la vita dell’isola, nella sua lingua
materna, per trecentoventinove anni. Caddero di conseguenza anche
i diritti allo sfruttamento delle terre comuni da parte dei contadini e
dei pastori. Ciò portò alla sanguinosa rivolta detta de su connotu (“del
conosciuto”).
Nel 1847, alla vigilia della “prima guerra di indipendenza” italiana,
una delegazione di notabili sardi, priva di ogni investitura (fosse essa
parlamentare o popolare), chiese al re che il regno venisse abolito. Lo
fece nell’intento di fruire dei diritti commerciali e fiscali concessi agli
“Stati sardi” di terraferma (Savoia, Aosta, Piemonte, Nizza e Genova)
e dai quali l’isola era stata esclusa.
Carlo Alberto accettò di buon grado. Con una vera e propria rapina
giuridica, che prese il nome di “fusione perfetta”, il Parlamento di
Cagliari (che il re, in centotrenta anni, non aveva mai riunito) venne
sciolto. L’isola perse così gli ultimi due “privilegi” che le erano
rimasti: quello di battere moneta e quello dell’esenzione dal servizio
militare dei suoi abitanti.
Il Regno di Sardegna, lungi dallo scomparire (i Savoia non volevano
rinunciare al titolo di re), venne trasferito fisicamente in Piemonte. E
in suo nome vennero compiute quelle regie annessioni che portarono
al ripudio del nome stesso. Il re restò re: ma d’Italia. I sardi
riottennero così l’uso esclusivo del loro nome ma restarono le prime
vittime (le più innocenti e inconsapevoli) del Risorgimento,
rischiando seriamente di apparirne i protagonisti.
Appare, a questo punto, affascinante (almeno sul piano della
fantastoria e della fantapolitica) rammentare che il granduca di
Toscana avrebbe potuto precedere di un secolo e mezzo il piccolo
duca di Savoia nella cattura di una corona regale (sempre nell’ambito
dell’Italia-regione): quella connessa alla metà del Regnum Sardiniae et
Corsicae lasciata perdere dal re di Aragona.
Sampiero Ornano di Bastelica, uno dei due babbi di a patria còrsa
(l’altro è l’assai più noto Pasquale Paoli), vecchio compagno d’armi di
Giovanni dalle Bande Nere, era riuscito nel 1564 a cacciare i genovesi
da quasi tutta l’isola e aveva offerto a Cosimo I di Toscana il regno in
cambio di un immediato aiuto militare. Il granduca, sedotto
dall’offerta, s’informò subito presso l’imperatore e il papa ma
ricevette il consiglio perentorio di non farne di nulla.
Nel 1567, morto Sampiero, il figlio Alfonso ripeté l’offerta a nome
del Consiglio rivoluzionario della Corsica. Cosimo, che si vedeva
ormai re, ricominciò il suo giro d’informazioni presso le principali
corti europee e cercò di ottenere l’indispensabile consenso
adducendo motivi d’immediato pericolo: era, infatti, previsto un
attacco in forze da parte degli ottomani alla Corsica. La Spagna fece
cadere questo pretesto dicendosi pronta ad assumersi la difesa
dell’isola e lo diffidò, formalmente e fermamente, di farvi sbarcare
l’armata toscana. L’ordine europeo, faticosamente raggiunto a
Cateau-Cambrésis, non poteva, in quel momento, venire alterato per
nessuna ragione.
Cosimo rinunciò a malincuore. Finì così una vicenda mai cominciata
che avrebbe cambiato radicalmente il corso degli avvenimenti
“italiani”. Se Napoleone fosse nato cittadino “còrso” (cioè toscano)
anziché “francese”, che cosa mai sarebbe successo del Risorgimento?
6.
L’Italia di dentro

Le regioni annunciate
“Fatta l’Italia bisogna fare gli italiani”. Politici, giornalisti e studiosi
vari attribuiscono, abitualmente, questa frase, così sintomatica, al
povero Massimo d’Azeglio. In realtà, fu pronunciata da Ferdinando
Martini, nel 1896, all’indomani della sconfitta d’Adua, e conteneva
un’esortazione pedagogica di carattere soprattutto militare. Possibile
che l’esercito di uno Stato che si riteneva già una grande potenza e si
era buttato a capofitto, sia pure con grave ritardo, su quel poco di
Africa che rimaneva ancora da conquistare, fosse riuscito a prenderne
tante, e tanto sode, dagli “indigeni”? Bisognava fare, al più presto,
degli italiani un popolo di veri combattenti.
D’Azeglio aveva pronunciato una frase simile, ma sostanzialmente
diversa, all’indomani stesso della proclamazione del Regno d’Italia:
“Purtroppo s’è fatta l’Italia ma non si fanno gli italiani”. Si era
accorto delle differenze enormi che esistevano tra le varie popolazioni
appena aggregate: differenza d’idiomi, di carattere, di mentalità,
d’abitudini, di storia, d’origine, di prospettive. Dove era nascosto il
tanto conclamato “carattere nazionale” degli italiani, quello che
avrebbe dovuto non soltanto giustificare ma soprattutto garantire
l’istituzione di uno Stato proprio?
Questo “carattere” proprio non c’era: e, visto che ci si era ormai
spenzolati fin troppo e ci si trovava oggettivamente aggrappati
all’orlo di un baratro, bisognava costruirlo al più presto, questo
carattere: per non precipitare. Bisognava “fare” gli italiani (e non gli
indiani). In realtà, non c’era nemmeno l’Italia (e abbiamo visto come
e perché) e, anche se ci fosse stata, ne mancavano ancora troppi pezzi
da raccogliere in fretta (prospettiva, da questo punto di vista,
tutt’altro che allegra in quanto avrebbe ingigantito la mancanza di
un’identità di fondo).
Giovanni Antonio Ranza, che non era uno sprovveduto, aveva
provveduto ad avvertire per tempo, già nel 1796 (esattamente un
secolo prima): “L’Italia, al contrario della Francia, è divisa in molti
Stati da parecchi secoli, Stati diversi di costume, di massime, di
dialetti, di interessi; Stati che nutrono vicendevolmente
un’avversione gli uni agli altri. Ora il voler unire questi Stati [...] in un
solo governo, in un solo Stato, con una sola Costituzione, è lo stesso
che cercare il moto perpetuo e la pietra filosofale”. I nazionalisti
avevano, col loro entusiasmo, sorvolato su queste “piccole” difficoltà.
Per unire ciò che appariva, ad Italia-Stato appena fatta e perfino ad
occhio nudo, troppo diverso e diviso, s’imponeva l’uso immediato di
un collante a presa rapida e, soprattutto, tenace. Ma erano necessari
artigiani provetti, in grado di spalmarlo a regola d’arte.
Il mastice era comunque già stato importato in dosi massicce: erano
le leggi e l’ordinamento amministrativo della Francia. Ma era un
mastice che, col clima italiano, non dava garanzie né di presa né di
durata (e lo si sarebbe constatato in seguito). Conveniva, infatti,
imitare la Germania, che proprio in quegli anni avrebbe raggiunto la
propria unità nazionale attraverso la via, realistica e sorniona, della
confederazione tra gli Stati esistenti. I nazionalisti italiani, che
avevano imitato la Germania nella loro idea di nazione, imitarono
invece, una volta al governo, la Francia (per altro già realizzata) nei
modi di realizzarla.
Deciso irrevocabilmente l’impiego del mastice francese, ci furono,
almeno all’inizio, alcune perplessità su come spalmarlo. Le tessere del
mosaico “italiano” andavano ricoperte con uno strato spesso e
impenetrabile oppure conveniva lasciarle “respirare”,
assecondandone i movimenti di assestamento, con uno strato leggero
ed elastico?
Cavour, in cuor suo, preferiva la seconda ipotesi di lavorazione.
Nell’ottobre del 1860, aveva scritto una lettera al siciliano Giacinto
Carini nella quale diceva: “Il Parlamento, che accoglierà i deputati di
tutte le popolazioni italiane, non disconoscerà certo i bisogni di
ciascuna di esse [...]. La Sicilia può fare affidamento sul ministero
onde promuovere l’adozione di un sistema di larghissimo
discentramento amministrativo. Abbiamo introdotto il sistema delle
regioni, sta al Parlamento il fecondarlo”.
Ecco enunciato, forse per la prima volta, l’alibi terminologico del
“regionalismo”, inteso come semplice “discentramento
amministrativo” e non come regime di autonomie: un regionalismo
che non fu mai fatto dal regno ma che permise, un secolo dopo, alla
repubblica, realizzandolo, di mantenere l’assetto centralistico dello
Stato (anche se le regioni repubblicane saranno dotate di consigli
elettivi e di minime quanto ridicole competenze legislative del tutto
secondarie).
Al parlamento di Torino, questo cosiddetto “sistema delle regioni” fu
comunque presentato dal ministro Minghetti tempestivamente: nel
marzo del 1861, durante il primo mese della legislatura unitaria. Ma
non fu mai preso sul serio e venne presto dimenticato. In realtà, a
rileggerlo, appare subito per quello che era: un’ipotesi per il miglior
funzionamento della macchina dello Stato centralista quale doveva
realizzarsi a tappe forzate.
Si andava, infatti, avanti col mastice francese: il territorio iniziale
cominciò a essere diviso in 59 province (sostanzialmente le stesse
esistenti negli Stati pre-unitari) sul rigido modello dei primi 83
dipartimenti francesi, e a capo di ognuna di esse fu posto (e imposto)
un prefetto (anche se si dovrà aspettare il 1865 per un’organizzazione
più meticolosa). Secondo Minghetti, si trattava di congegnare un
meccanismo in grado di impartire in modo efficace le disposizioni del
governo e della burocrazia centrale alla burocrazia periferica, a dire il
vero un po’ troppo lontana e dispersa, nonché per controllarla più da
vicino, attraverso il perno intermedio delle regioni, a capo delle quali
era, infatti, previsto un governatore. Si voleva insomma applicare il
principio della “region di Stato” e non quello delle ragioni dei popoli
ormai sottomessi.
La morte repentina di Cavour, avvenuta nel giugno del 1861, segnò
la fine del progetto Minghetti. A Cavour successe, infatti, il barone
Bettino Ricasoli, quello che aveva mandato per file indiane affiancate
i contadini toscani a votare “per la Nazione” ai tempi del plebiscito.
Per colmo di sventura, il “barone di ferro” (questo il soprannome che
si era guadagnato prima nei campi e poi sul campo) si trovò subito
alle prese col “brigantaggio” meridionale. Ad un falso Risorgimento
non ancora compiuto, si contrapponevano possibili (e assai più
attendibili) risorgimenti degli Stati appena soppressi e ingoiati.
Ricasoli prese paura e sciolse perfino le “luogotenenze” che, nella
prospettiva più biecamente unitaria, erano state istituite nei territori
fagocitati per gestire una transizione complessa. Addio regioni: e giù
col mastice, fino a cercare di nascondere ogni interstizio, ogni crepa,
ogni minima incrinatura.
D’altronde, come succede sempre in Italia, si volevano fare alcune
cose senza nemmeno sapere che cosa fossero. È il caso delle regioni
minghettiane (e sarà il caso delle regioni promulgate dalla
Costituzione repubblicana del 1948).
A dire il vero, il significato della parola “regione” appare così vasto e
vario che il termine “nazione”, al confronto, rischia di apparirci
chiarissimo. Ci sono, infatti, regioni dappertutto: in medicina c’è la
regione toracica, e in filosofia, almeno secondo il pensiero di Edmund
Husserl, c’è la regione ontologica. Perfino in geografia c’è la regione
dell’Europa meridionale al cui interno (in un gioco di scatolette
cinesi) è collocata la regione dell’Italia che contiene la regione della
Toscana che contiene a sua volta la regione del Mugello.
Il termine latino regio (da regere, “dirigere”, da cui anche rex) venne
inteso e impiegato dai romani in senso territoriale per indicare alcune
divisioni amministrative: le 14 regioni nelle quali era divisa Roma e le
11 regioni nelle quali era divisa l’Italia ai tempi di Augusto; oppure le
12 (poi 17) province nelle quali era divisa la diocesi italiciana di
Diocleziano. L’Italia di Augusto, tramite queste regioni, venne divisa
secondo criteri che si direbbero oggi “nazionali”, sia pure interpretati
in maniera grossolana e con qualche eccezione maliziosa. E allora: gli
etruschi nella regio VII Etruria, i liguri nella regio IX Liguria, i galli
transpadani nella regio XI (Gallia) Transpadana e quelli cispadani (o
almeno la loro parte più consistente) nella regio VIII Aemilia
(preferendo al loro nome etnico quello della strada imperiale che ne
attraversava il territorio). E così via.
Perduta ogni divisione amministrativa romana, le tracce di queste
regioni restarono a lungo nella memoria degli intellettuali. Nel XVI
secolo, due autori che si dilettavano di geografia, Flavio Biondo e
Leandro Alberti, cercarono invano di ravvisarne l’eredità sul
territorio: l’Italia-regione aveva smarrito le sue regioni romane per
dividersi in Stati che ne scavalcavano gli antichi confini. Dopo la fine
della romanizzazione, la nascita dei volgari e dei dialetti aveva poi
prodotto nuove divisioni linguistiche, in parte condizionate dai
vecchi idiomi (che vi rimanevano come sostrati), che non
corrispondevano però né alle vecchie “regioni” né ai nuovi Stati.
Corrispondevano però a comunità territoriali, non soltanto culturali
ma anche economiche: le lingue sorgono e si compattano, secondo
Lausberg, per le esigenze del mercato.
Furono al solito i francesi, con la loro mania dei bacini idrografici, a
dare il cattivo esempio e a riportare di moda la parola in Italia.

Regionamenti
Accadde così che Carlo Frilli, nel 1834, individuasse 21 “clivi” o
“versanti” e riuscisse a cavarne 14 “regioni naturali”, escludendo le
isole. Ma la via degli spartiacque, come fu subito chiaro ai pochi che si
dilettavano di questi problemi, non avrebbe portato lontano.
Cesare Correnti era ormai pronto ad offrire il suo contributo
decisivo. Tentò di contemperare i bacini idrografici con la storia, le
tradizioni, l’economia e perfino (pur sapendone poco) i dialetti.
Benché esule a Torino, riuscì a pubblicare nel 1852, a Milano,
sull’almanacco “Nipote di Vesta verde”, i primi risultati della sua
ricognizione ad ampio raggio.
Fu un evento fondamentale, del quale nessun politico e storico
mostra di essersi accorto (i geografi lo conoscono invece benissimo),
dal quale discende, pur con qualche aggiustamento successivo,
l’attuale ordinamento regionale (e “regionalista”) dello Stato italiano.
Sotto il titolo Fisonomia delle regioni italiche fu dunque pubblicato
un primo elenco di regioni (erano sedici) i cui nomi appaiono oggi
perlomeno bizzarri. Accanto a Sicilia, Sardegna, Corsica e Istria,
apparvero Pedemontana (Piemonte), Transpadana (Lombardia),
Cispadana (Emilia), Adriatica (Veneto) e così via, fino a Bipenisola
estrema (Calabria).
Nel 1855, sempre sullo stesso almanacco, Correnti presentò un
nuovo e più ponderato elenco, all’interno di un saggio intitolato Cosa
nostra. Le regioni erano diventate diciannove ed erano avvenuti
accorpamenti, scissioni e nuove ipotesi in quanto ai nomi da
assegnare. Rimasero le tre isole e ne comparve, come regione, una
quarta: Malta, scorporata dalla Sicilia. L’Istria fu invece inserita nella
“Frontiera orientale”. Al posto della Transpadana comparve una
“Media valle alpino-eridania” (in alternativa, “Terra dei laghi”). E
così via, con nomi di fantasia sempre più elaborati.
Come il precedente, l’elenco del 1855 era relativo all’Italia nazional
naturale intesa nel suo complesso: la Dalmazia e la Savoia (ancora
appartenente al Regno di Sardegna) non vi erano comprese mentre vi
comparivano Nizza, Monaco, il Canton Ticino, la Val Mesolcina
(ma non le valli Calanca, Bregaglia e Poschiavo), l’alta valle
dell’Adige, Gorizia, Trieste e San Marino. Era questa, secondo i
nazionalisti convertiti alla causa sabauda (ma anche per quasi tutti gli
altri), l’Italia “da fare” che non fu mai fatta (per intero).
Quando il ministro Minghetti, sei anni dopo, fatta ormai l’Italia che
allora si poteva fare, presentò alla Camera lo sfortunato progetto
regionalista preannunciato da Cavour, le sue idee in proposito
apparvero tuttavia assai meno chiare che in Correnti. Il progetto era
preceduto da una “presentazione” che sembrava una pièce del “teatro
dell’assurdo”. Pur ribadendo la necessità assoluta di istituire subito le
“regioni”, vi si affermava anche che non si sapeva ancora quali, quante
e dove fossero, ad esclusione della Sicilia e della Sardegna. Tuttavia
non c’era da preoccuparsi troppo in quanto l’articolo 24 affermava
perentoriamente: “L’individuazione delle regioni dovrà essere
compiuta entro un anno dall’entrata in vigore della legge”.
Come avremo tutto l’agio e la sorpresa di apprendere, l’Assemblea
Costituente della Repubblica Italiana, ottantasette anni dopo,
reclamata la necessità d’introdurre finalmente l’ordinamento
regionale, si trovò nelle stesse condizioni di Minghetti e si comportò
peggio perché “fece” le regioni senza aver saputo, nel frattempo,
quante, che cosa e dove fossero.
L’equivoco nacque proprio nel 1861, quando Maestri, l’“eroe” delle
“Cinque giornate” di Milano, rifugiato da tempo a Torino insieme al
compare Correnti (dopo che entrambi avevano “tradito”
l’intransigente Cattaneo), fu incaricato di redigere gli Annuari
statistici del Regno d’Italia. Si trovò costretto, in un paio d’anni, ad
inventare un quadro di riferimento territoriale da usarsi come
strumento tecnico per raggruppare, in modo leggibile e non troppo
frammentato, i dati statistici che gli sarebbero venuti dalle province.
Maestri aveva, sotto una mano, le province già istituite, e, sotto
l’altra, le regioni di Correnti. Fuse le due cose istituendo i
“compartimenti”, meri raggruppamenti di province confinanti tra
loro. Non aveva, del resto, nessun obbligo di ripartire, da un punto di
vista politico e amministrativo, il territorio del regno, come era
accaduto invece al povero Minghetti. Maestri doveva soltanto
raccogliere ed etichettare molti numeri.
A scanso d’equivoci, sentì il bisogno di dichiarare pubblicamente che
i suoi compartimenti non corrispondevano né volevano
corrispondere a nessuna “definizione scientifica e definitiva del
territorio nazionale, resa impossibile dall’arretratezza degli studi”.
Lanciò, tra le righe, l’esortazione (che rimarrà purtroppo inascoltata):
“Italia, conosci te stessa!”
L’ispirazione all’“arretrato” Correnti era comunque evidente, anche
se la Corsica e Malta vennero espunte per ragioni di diplomazia
internazionale. Le diciassette regioni rimastegli furono tradotte in
diciotto compartimenti attraverso una maggiore suddivisione della
penisola (comparvero l’Umbria e la Basilicata) e l’accorpamento della
“Media valle appennino-eridania” e del “Triangolo Po-Adriatico
Appennino” nell’Emilia.
Come si vede, Maestri cominciò a dotare di nomi meno complessi e
cervellotici i suoi compartimenti, ispirandosi sia pure a vanvera alle
regioni romane dell’Italia augustea: Liguria, Emilia, Umbria,
Campania, Puglia (Apulia), Lazio, Venezia, Rezia e l’inedita Giulia
(negli ultimi quattro casi giocò d’anticipo col destino). Accettò
alcuni nomi coniati dai precedenti Stati, quali Abruzzi e Calabria
(che nell’Italia augustea e dioclezianea designava il Salento e non il
Bruttium).
Al termine latino di Lucania preferì quello greco di Basilicata. Seguì
l’Austria, e non Correnti, accettando il nome Lombardia. Usò un
termine soltanto descrittivo per il Piemonte. Preferì Toscana
(nonostante il granducato si chiamasse così) ad Etruria e a Tuscia.
Coniò il plurale Marche per designare ciò che una volta era stata una
marca di confine del “primo” Regno d’Italia (la cui capitale
marchionale aveva però oscillato tra Fermo, Ancona e Camerino).
Lasciò intatto il nome delle due isole.
Il glottologo Ascoli fu di grande aiuto ai successori di Maestri quando
lanciò, nel 1863, l’ipotesi di dividere, ad unificazione avvenuta, la
“Venetia et Histria” romana in Venezia propria o euganea, Venezia
retica o tridentina e Venezia giulia.
A partire dal 1863, gli annuari statistici dell’Italia-Stato hanno
riportato, puntualmente, i loro bravi dati incolonnati sotto questi
nomi e sotto il titolo generale di “compartimenti”. Via via che l’unità
procedeva, si aggiungevano i compartimenti giudiziosamente previsti.
Poi, un improvviso fulmine a ciel sereno. L’annuario del 1912
presentò inopinatamente, in luogo della dizione “compartimenti”, la
dizione “regioni”. I motivi di questa rivoluzione terminologica sono
stati attribuiti, dal geografo Gambi, a “ministeriale confusione e
ignoranza” e i responsabili individuati soltanto nella burocrazia
governativa. La nuova dizione sfuggì ai più, non venne mai revocata e,
col tempo, si diffuse purtroppo nell’uso comune, con crescente
scandalo dei geografi che si stavano allora già accapigliando sulla
divisione “scientifica” dell’Italia in regioni naturali plausibili e si
trovarono sotto gli occhi una divisione casuale, raffazzonata e
inammissibile.
Purtroppo, sempre per inammissibile “confusione e ignoranza”, i
nostri padri costituenti, quando decideranno la “regionalizzazione”
dello Stato (per ribadirne l’assetto centralista e rigettare ogni chimera
o medusa federalista, all’insegna della continuità sostanziale col
fascismo e la monarchia), assumeranno proprio queste regioni
compartimenti statistici quali soggetti del nuovo ordinamento
autonomistico. Di qui le comprensibili, acute proteste della
corporazione dei geografi (che aveva abbandonato le regioni
“naturali” e cercava di inviduarne invece di “funzionali”), le loro
grida, i loro precipitosi interventi e convegni che rimarranno
purtroppo inascoltati.
Se abbiamo indugiato a lungo sui compartimenti e i loro nomi, lo
abbiamo fatto perché il cittadino italiano medio, così come crede
nelle nazioni confondendole con gli Stati, crede anche nelle regioni
che si trova oggi davanti agli occhi, come se fossero sempre esistite
(nei loro attuali confini e con questi nomi) e fossero investite di
un’identità perlomeno storica che, assolutamente, non possiedono.
Sono, infatti, semplici accozzaglie, oltre tutto recenti, di province
(anch’esse, del resto, accozzate con poco criterio e soltanto
amministrativo). Per fortuna, il cittadino italiano medio, anche se
crede nella finzione giuridica delle regioni, non se ne lascia
coinvolgere emotivamente.
Da tutto quanto abbiamo raccolto finora, a proposito dei dati offerti
dalla geografia fisica, dalla storia, dalla genetica e dalla linguistica (cui
si possono aggiungere i dati dell’economia e della società civile)
emerge invece, chiaramente, una divisione reale dell’Italia-Stato che
non corrisponde a ciò che viene abitualmente definito come
“regione”. Ed è di qui che bisogna partire per comprendere la crisi
vera, e profonda, dello Stato italiano: per cercare di uscirne nell’unico
modo (forse non più) possibile.
Del resto, perfino alcuni “pensatori” del Risorgimento avevano
subodorato questa realtà profonda usando in proposito la categoria,
certo impropria e magari subalterna, della “subnazionalità”.
Nel 1846, per esempio, Giacomo Durando, nel suo saggio Della
nazionalità italiana, aveva scritto: “Noi siamo quasi sette nazioni o se
meglio vi piace sette sub-nazionalità”. Senza dubbio, Durando
confondeva la subnazionalità con l’appartenenza agli Stati pre
unitari, così come Raffaello Busacca quando scrisse, in pieno 1848:
“Il sentimento nuovo è quello della nazionalità italiana [ma] il
sentimento di subnazionalità, lungi dallo svanire [...] si è dirozzato”,
lasciando forse intendere qualcosa d’altro.
Perfino l’ineffabile Correnti usò il termine “subnazionalità” e, pur
frammentando l’Italia nazional-naturale in regioni di piccola taglia
per ragioni in fondo politiche (più si divide e più si comanda),
espresse qualche dubbio sul suo stesso operato: “La gran valle del Po
costituisce una regione organica e complessiva, le cui divisioni sono
politiche e storiche più che naturali: e però molti scrittori non
dividono l’Italia che in continentale e peninsulare”. Un parere
davvero azzeccato.
Ad ogni modo, il Regno d’Italia non istituì mai né le regioni (anche
se nel 1870 Stefano Jacini e il conte Ponza di San Martino le
riproposero invano, sempre come soggetti del decentramento
amministrativo) né, tantomeno, le subnazioni o in che altro modo
potessero essere chiamate le grandi aree culturali, territoriali e
linguistiche delle quali appariva oggettivamente composto.

L’Italia come Padania inconsapevole


La “gran valle del Po”, cioè la Padania, gode dunque di un’identità
propria: non soltanto dal punto di vista della geografia fisica, che è
indiscutibile (come aveva riconosciuto perfino Correnti), ma anche,
come si è scoperto in seguito, da quello della linguistica (escluse
alcune frange estremo-orientali ed estremo-occidentali) e perfino da
quello della genetica. Anche la sua storia è, in fondo, sia pure
paradossalmente, una storia unitaria: nonostante il lungo periodo di
divisione politica che ha reso questa “unità relativa” assai poco
visibile.
Nel momento storico fondamentale della formazione delle nuove
identità etniche, conseguente alla crisi della romanizzazione, la
Padania (insieme a una parte dell’Italia centrale) ebbe, infatti, un
proprio Stato comune anche se non unitario: il “primo” Regno
d’Italia (dall’888 al 1054), nell’ambito del quale si acclimatarono
definitivamente le nuove istituzioni feudali (una vera e propria
rivoluzione socio-economica). E, a parte le estremità occidentale
(preda precoce di rapaci feudatari transalpini) e nord-orientale (dove
si formarono Stati ecclesiastici alle dipendenze dell’impero
germanico), la Padania (insieme all’Italia centrale) fu il “brodo di
coltura” della gloriosa esperienza comunale: di quel particolarismo
cittadino che dette poi l’avvio a Stati più vasti quali la Repubblica di
Genova, il Ducato di Milano (che si estendeva, a un certo momento,
su buona parte dell’Emilia, del Piemonte e del Veneto attuali) e la
Repubblica di Venezia.
Nonostante queste vicende in apparenza frantumatrici (e tutte le
ingarbugliatissime vicende successive, che non è certo il caso di
ripetere), si è formata nel tempo una sorta di “carattere” di fondo,
comune a tutti i padani, che ha attraversato i secoli.
Del tutto diversa la storia dell’altra grande regione naturale chiamata
Appenninia (legata però intimamente alla Sicilia).
La maggior parte del suo territorio si trasformò, come si è detto, con
la conquista normanna, in uno Stato unitario (il Regno di Sicilia)
abbandonando d’un colpo l’ancien régime bizantino (con grosse aree
interne longobarde) che sussisteva nella penisola, e la situazione
derivata dalla dominazione araba nell’isola. Con la dinastia sveva,
questo regno divenne il primo degli Stati moderni attraverso
l’istituzione di un apparato centrale efficiente e l’introduzione di un
regime feudale particolare.
Ruggiero Romano ha mostrato la differenza profonda che esiste tra il
feudalesimo padano e quello meridionale. Nel primo caso abbiamo,
paradossalmente, in un regno franco, il feudo iure Langobardorum:
nel secondo (dove i franchi non avevano invece mai messo il naso ma
furono posteriormente rappresentati dai normanni), quello iure
Francorum. Nel primo caso, ciò che conta è il privilegio concesso dal
sovrano (e il feudo è divisibile); nel secondo, chi conta è il sovrano,
che concede il beneficio (e il feudo è indivisibile). Accadde così che i
feudi e i comuni padani accelerarono la morte e la frammentazione
politica del regno d’Italia mentre quelli, assai posteriori, del Sud
mantennero l’unità statuale, permettendo il formarsi e il perdurare di
una invidiabile omogeneità culturale e sociale.
Anche se le vicende dinastiche portarono alla frequente divisione del
regno meridionale in due parti (ma soltanto in due: e ciò provocò il
ricorrente risentimento siciliano nei confronti di Napoli) non vi fu
mai una separazione significativa in senso sociale, culturale ed
economico, a parte un prolungato rancore istituzionale. Di qui il
comportamento “unitario” dei “meridionali”, rilevato da Robert
Putnam a proposito della loro “tradizione civica” (che continua
ancora oggi all’interno dell’Italia-Stato) del tutto difforme dal resto
dell’Italia-regione.
Ovviamente, le città “meridionali” furono una cosa ben diversa dai
liberi comuni centro-settentrionali. E anche questa diversità ha il suo
peso, misurabile ancora oggi. Tutto ciò spiega le difficoltà
d’inserimento dei “meridionali” nel “terzo” regno d’Italia (il
“secondo” fu, come s’è detto, quello napoleonico, del quale non
fecero parte): un regno, così come il “primo”, che può anche apparire
oggi come una creazione politica e istituzionale in fondo soltanto
padana (ispirata, per giunta, se non ai franchi, ai francesi). Esso fu
“fatto” da uno Stato semi-francese e semi-“italiano”, su istigazione
politico-culturale di altri padani (sia pure sudditi di Stati diversi e alla
testa di un codazzo non trascurabile di toscani e perfino di un gruppo
di “meridionali”).
A proposito di Toscana, si dirà che essa fu precocemente unita in una
marca che durò dal IX al XII secolo, che i suoi comuni sorsero in
contrapposizione al marchese (e con l’aiuto dell’imperatore) e non
contro i vescovi e l’imperatore stesso come accadde alla Padania, che
in essa il feudalesimo ebbe scarso peso, che i suoi signori erano
proprietari terrieri a titolo personale e privato e non feudale. A
proposito del Friuli si dirà che fu invece un feudo imperiale, presto
concesso al patriarca di Aquileia. E la Sardegna fu un’altra cosa
ancora e il feudalesimo vi giunse dalla Spagna. Ogni subnazione
“italiana” ha dunque propri caratteri storici, istituzionali, sociali ed
economici. Furono però tutte unite, a forza, dai padani.
Non è un caso se tutti e tre gli “apostoli” del Risorgimento furono
padani (con venature transalpine): Mazzini, Garibaldi (nato a Nizza
occitana ma di fresca origine ligure) e Benso di Cavour (anche se la
parte nobiliare del suo nome denuncia un’origine topografica
occitana). Se vogliamo, possiamo aggiungere un quarto padre:
Vittorio Emanuele II di Savoia. Parlavano e scrivevano tutti (escluso
Mazzini) prevalentemente in francese. Ed erano padani anche i loro
rivali ideologici Cattaneo e Gioberti (che non poterono “fare” l’Italia
e l’avrebbero fatta sicuramente meglio). Era padana perfino la
maggioranza dalla “manodopera” risorgimentale. Tra i 1.089
garibaldini della spedizione in Sicilia, i padani erano 798.
Trascorse rapidamente le loro secolari divisioni politiche (in fondo
superficiali), liguro-piemontesi, lombardo-veneti ed emiliano
romagnoli gestirono il nuovo regno come cosa loro (e,
secondariamente, dei toscani). E siccome erano convinti di essere
“italiani”, fecero dell’Italia “unita” una sorta di Grande Padania
inconsapevole. Non potendo tuttavia estendere una “padanità”
culturale, sociale ed economica, che era loro esclusiva prerogativa,
fecero del Meridione un possedimento: una dépendance vastissima
(spesso senza rendersene conto).
Il paradosso “italiano” sta tutto qui: anche se l’impero “britannico”
(in realtà inglese) si è giovato del contributo massiccio degli scozzesi,
e in misura assai minore, di quello di gallesi e irlandesi (e le colonie
francesi devono molto ai bretoni e agli occitani e quelle spagnole ai
baschi e ai catalani), il caso “italiano” si rivela unico in quanto a
coscienza nazionale trasferita. Il paradosso appare ingigantito da un
altro paradosso. Londra ha costruito la Grande Inghilterra
(chiamandola accortamente Gran Bretagna) con la lingua inglese.
Parigi ha costruito la Francia con il francese. La “Padania
inconsapevole” ha costruito l’Italia con l’italiano (cioè col toscano e
non con una lingua scaturita dal proprio sistema dialettale),
suscitando contraddizioni ulteriori di cui appariva completamente
all’oscuro, ma che hanno generato incomprensioni gigantesche
proprio sul piano della comunicazione, così essenziale per uno Stato
moderno. L’Italia “una” ha mostrato, nascendo e crescendo, di essere
formata da almeno due parti tra loro ben distanti e distinte. Ma le
parti erano più di due: come abbiamo rapidamente mostrato.
Nella bipartizione fondamentale dell’Italia- Stato non è possibile,
infatti, inserire la Toscana, che mostra un’identità specifica non
riducibile a nessuna delle due entità principali. L’Appennino e lo
Stato della Chiesa l’hanno protetta territorialmente da ogni
“annessione” culturale e socio-economica riduttrice della sua identità
profonda. Lo Stato pontificio non è riuscito invece a fare delle sue
popolazioni un’entità, nonostante la propria storia secolare. La sua
parte padana si è riconosciuta subito nel Nord dello Stato: quella
centro-meridionale nel Sud. La Sardegna è sempre rimasta un’altra
cosa, così come le frange “alloglotte” che orlano, a nord, il confine
nazional-naturale.
Noi non crediamo troppo (e siamo coscienti di apparire, anche in
questo caso, contro tendenza) all’economia come chiave della storia e
come unica signora del mondo e del destino dei popoli e degli Stati. Il
sottotitolo di un libro recente dell’economista Sergio Ricossa
(Maledetti economisti. Le idiozie di una scienza inesistente, 1996) ci è
stato di grande conforto. Noi preferiamo, infatti, mettere al primo
posto i dati della storia e della lingua (anche perché la lingua e la
storia si presentano, fino ad un certo punto, come “prodotti”
dell’economia). Anche se la storiografia e la linguistica sono “scienze”
del tutto aperte e apertamente contraddittorie, perlomeno a
determinati livelli, la “scienza” dell’economia lo è certamente molto
di più e a tutti i livelli.
Anche da un punto di vista prettamente economico, tuttavia,
l’inserimento del Regno delle Due Sicilie nel Regno d’Italia fu un
disastro, percettibile subito ad occhio nudo. Le interpretazioni degli
economisti appaiono, in proposito, discordi: e non potrebbe essere
altrimenti. C’è chi ha sostenuto con dovizia di cifre il sottosviluppo
endemico del Sud (o del Mezzogiorno, che sono i nomi coi quali
l’Italia-Stato ha battezzato questa parte di sé tanto riluttante ad
entrare nei suoi schemi, appunto, di Stato). E c’è chi, con i dati
(dell’economia) alla mano, sostiene invece che ciò non è vero: nel
1861, il “Sud” sarebbe stato, nella via obbligata
dell’industrializzazione, alla pari almeno col Nord.
La prima ferrovia, la prima nave a vapore, il primo ponte in ferro
inaugurati nell’Italia-regione, lo furono, infatti, nel Regno delle Due
Sicilie, prova di una precocità industriale, anche se relativa a una
piccola parte del suo territorio, presto perduta in favore del Nord
annessionista. E il 51 per cento degli operai “italiani” era, nel 1861,
formato da “meridionali” e, soprattutto, era dislocato nel Sud. Sul
territorio dello Stato italiano attuale, il maggiore complesso
industriale era allora lo stabilimento di Pietrarsa, in Campania. E il
maggior cantiere navale era quello di Castellammare di Stabia. Anche
l’agricoltura meridionale appariva, più o meno, allo stesso livello del
Nord (nonostante la mancanza di dati omogenei di comparazione).
È stato l’inserimento nel Regno d’Italia a condannare i “meridionali”
al sottosviluppo permanente (o, meglio, ad uno sviluppo “ineguale” a
tutto vantaggio del Nord). E questo lo si può affermare con dati
finalmente certi. È probabile che il panorama economico e
produttivo del Sud, oltre a risentire di una specificità culturale,
giuridica e di costume assai spiccata, dovuta alla storia e ai caratteri
della società, fosse assai più contraddittorio di quello del Nord,
alternando, a vaste sacche di miseria e di produzione per
l’autoconsumo, aree innegabilmente assai sviluppate (anche a livello
industriale) per intervento diretto dello Stato e del capitale straniero.
Due dati appaiono comunque indubitabili: la ricchezza finanziaria
del Regno delle Due Sicilie e il suo sistema fiscale “di sogno”: mite,
razionale, semplice e soprattutto efficace nell’imposizione e nella
riscossione. È il parere unanime degli storici e degli economisti. Ed è
un dato sul quale i “padanisti” d’oggi dovrebbero riflettere a lungo.
Del resto, è colpa dei “padani inconsapevoli” di allora se il Regno di
Sardegna, indebitato fino all’osso e dissanguato dalle guerre
“nazionali”, appena divenuto Regno d’Italia, evitò la bancarotta
attingendo ai “tesori” degli Stati fagocitati. All’atto dell’unificazione
delle monete circolanti, nell’ex Regno delle Due Sicilie furono ritirati
443 milioni, pari al 65,7 per cento della moneta circolante nel nuovo
Stato: e i “meridionali” erano soltanto il 36,5 per cento della sua
popolazione.
Uno dei primi atti del governo unitario fu poi l’unificazione del
sistema fiscale. Il sistema “meridionale”, collaudato ed efficiente, fu
sostituito con un sistema tecnicamente più arretrato e soprattutto
rapace ai limiti dell’inverosimile: più rapace al Sud che al Nord in
quanto al Sud era attribuito il 27 per cento della ricchezza nazionale,
ma il 32 per cento delle imposte relative.
L’istituzione del corso forzoso (1866), operazione intrapresa per
salvare dal fallimento la Banca Nazionale, portò al drenaggio delle
enormi riserve auree del Sud. L’industria locale cominciò, in
contemporanea, a venire “soffocata” a vantaggio di quella del Nord e,
in un trentennio, praticamente distrutta. A ciò contribuirono la
rapina finanziaria e la politica dei lavori pubblici e delle infrastrutture
che privilegiarono scopertamente il Nord. Secondo il “lungimirante”
progetto dello Stato, il Nord avrebbe dovuto vendere al Sud (in
eterno) i propri manufatti e comprare (sempre in eterno) dal Sud
alcuni prodotti agricoli (in entrambi i casi a prezzi fissati dall’Italia
Stato, cioè dal Nord).
Nonostante l’aumento sconsiderato della pressione fiscale, che
costrinse i contadini meridionali a sottrarre al loro fabbisogno gran
parte dei loro prodotti per destinarli al mercato e ricavarne il denaro
occorrente per pagare le tasse, l’agricoltura del Sud fu protagonista di
una grande rivoluzione tecnica ed economica: la riconversione delle
colture con la rinuncia parziale alla produzione di cereali e
l’intensificazione delle colture mediterranee: vite, ulivo e agrumi
(anche se ciò volle dire l’abbandono di troppe terre fertili).
Anche se il grano per il pane doveva essere importato dal Nord, il Sud
si arricchì con l’esportazione, al Nord ma soprattutto all’estero (e
particolarmente in Francia), del vino, dell’olio e delle arance. Ma
l’Italia unita era, come si è detto, una “Padania inconsapevole”. Il
colpo definitivo all’agricoltura meridionale fu, così, inferto proprio
dal governo “italiano”, nel 1887, con la guerra doganale contro la
Francia e il conseguente regime di ferreo protezionismo. Bisognava
proteggere la nascente industria manifatturiera “italiana” (ormai
dislocata quasi soltanto nel Nord) dalla concorrenza straniera: e ciò
volle dire la rovina dell’agricoltura del Sud: di un Sud che non aveva
più un’industria in grado di essere salvata (e nemmeno distrutta).
Un’interpretazione canonica dell’arretramento del Sud e delle
condizioni di vita, sempre peggiori, dei contadini meridionali, è stata
a lungo quella della perversa “alleanza di classe” fra la grande
industria del Nord e i grandi proprietari terrieri del Sud: che furono
invece rovinati proprio dall’“alleanza nazionale” tra gli industriali e
gli agrari padani (i quali avevano in pratica il monopolio del grano e
del riso della “nazione”) e dalla politica estera di un governo
interamente nelle loro mani (anche se vi cominciava a sedere un
numero crescente di “meridionali”).
I contadini e i braccianti “meridionali” reagirono al loro disagio
sempre più insostenibile riattizzando qualche focolaio di
“brigantaggio”, ma soprattutto ricorrendo all’emigrazione. Tra il
1861 e il 1915, un terzo della popolazione del Sud, cioè 5.000.000 di
persone, emigrò all’estero (l’80 per cento dell’emigrazione “italiana”
di questo periodo).
Fu una vera e propria “deportazione economica”, un genocidio
“bianco” di dimensioni incredibili. Ci sembra davvero il caso di
rammentare quanto avevano auspicato i nazionalisti risorgimentali
nel loro progetto di Costituzione del 1832-35: che i popoli “italiani”
potessero “riunirsi a quella nazione, a cui li ha destinati la natura, pe’l
più facile soddisfacimento de’ sociali loro bisogni”. Non ci sembra il
caso dei “meridionali” (“italiani” o meno che fossero).

Mezzogiorno di fuoco
Il vero alleato “meridionale” del grande capitale del Nord non furono
gli agrari (come sostenne Gramsci) ma il ceto medio: o almeno una
sua parte consistente. Fu grazie alla sua collaborazione che lo Stato
italiano passò sopra alla propria divisione reale e ne attutì perfino
l’evidenza. I ceti medi “meridionali” furono sedotti dal mito
dell’Italia-nazione e della patria comune e caddero nella trappola
dell’apparente uguaglianza giuridica di tutti i cittadini di fronte allo
Stato e alle leggi. E siccome lo Stato era altrove, volsero altrove i loro
sguardi. Anziché dedicarsi a una lotta di “liberazione” (che non
poteva essere soltanto economica) del loro habitat naturale e
culturale cercarono, nel collaborazionismo di Stato, anche la loro
personale sopravvivenza e fortuna.
Nel Sud, ed è anche questo un retaggio del costume, della cultura e
della società così come vi si erano storicamente formati, le professioni
liberali e gli impieghi pubblici avevano assunto, in epoca moderna, lo
stesso ruolo che l’abito talare e la cavalleria possedevano nel
Medioevo. E, in più, avevano acquisito anche un grande ascendente
politico in quanto esercitavano la gestione dell’opinione pubblica.
Alleandosi col governo “nazionale”, svolsero la funzione di
preservarne l’unità politica dalle spinte interne che la minacciavano e
si prepararono coscienziosamente a occupare lo Stato nei suoi gangli
vitali. Non certo per il Sud ma “per l’Italia” e per loro.
Nonostante tutto, la situazione “meridionale” era tale che alcuni suoi
nodi non potevano non venire al pettine: perlomeno a qualche
pettine non infilato ad arte, come mero ornamento, nelle elaborate
acconciature culturali dei politici e degli intellettuali di Stato.
Nacque così la “questione meridionale” e nacquero la nuova
professione di “meridionalista” e il “meridionalismo” come scienza
inesatta. Nonostante fossero irrazionalmente prigionieri del mito
unitario, alcuni “meridionalisti” (molti erano anche “meridionali”)
rivendicheranno talvolta perfino l’autonomia politica del Sud,
guardandosi tuttavia bene anche soltanto dallo scalfire, con questa
loro rivendicazione, il tabù dell’unità nazionale. Provocheranno
comunque una caterva di inchieste parlamentari e faranno lavorare a
vuoto innumerevoli commissioni.
Francesco Saverio Nitti, nel 1891, denunciò pubblicamente una
situazione ormai sempre più insostenibile: per lui, la progressiva
riduzione del Sud a “colonia di consumo” derivava dalla politica
fiscale, finanziaria, doganale, dei lavori e delle spese pubbliche
condotta dallo Stato durante i primi trent’anni della sua esistenza. Le
Italie, insomma, erano due: ma, essendo l’Italia “una” per definizione,
bisognava unificarla al più presto anche sul piano sociale ed
economico, riparando in fretta al male compiuto. Nitti fu, sia pure
distrattamente, ascoltato. Di qui l’inizio ufficiale di una politica
governativa di “interventi speciali” nel Mezzogiorno, a dire il vero
non troppo convinti, che avrebbero dovuto portare i due “paesi” reali
a un’unità non più soltanto virtuale.
Si consolidò, paradossalmente, l’idea nefasta di un’unica Italia
nazional-naturale, purtroppo divisa provvisoriamente al suo interno
da un’incresciosa diversità di struttura economica e produttiva.
Diversa era però l’opinione di un gruppo di “scienziati” (più o meno
dediti all’antropologia), tra i quali ricorderemo Ferri, Lombroso,
Sergi e Niceforo: tutti nomi eccellenti.
Alfredo Niceforo scrisse, nel 1898: “Oggi l’Italia è divisa in due zone
abitate da due razze diverse, gli ARII al Nord e fino alla Toscana, i
mediterranei al Sud. E gli attuali ARII dell’Italia settentrionale, vale a
dire i piemontesi, i lombardi, i veneti, i romagnoli – che
appartengono a quella stirpe che venne ad invadere l’Europa
primitiva – sono perciò, antropologicamente, fratelli dei tedeschi,
degli slavi, dei francesi celti. Gli attuali mediterranei dell’Italia del
Sud invece – che appartengono alla stirpe mediterranea venuta
dall’Africa – sono antropologicamente fratelli degli spagnoli, dei
francesi del Sud, dei greci [...]. Gli arii hanno un sentimento di
organizzazione sociale più sviluppato di quel che non sia presso i
mediterranei”, dediti, secondo lui, alla pratica sfrenata
dell’individualismo.
Il livello scientifico di Niceforo appare molto basso e il suo
“razzismo” appare, per ragioni opposte, sullo stesso piano
dell’“antirazzismo” professato oggi in Italia dai politici e dai
giornalisti. Si confondono, infatti, in entrambi i casi, i dati
dell’antropologia fisica con quelli della linguistica, come farà in
seguito Hitler da par suo. L’arianesimo (“ariano” significa
“indeuropeo”) è una categoria relativa ad un gruppo di lingue che
condividono precisi caratteri comuni, indipendentemente dal colore
della pelle di coloro che le parlano (così come il semitismo).
L’antisemitismo non può essere considerato un atteggiamento
razzista (ma qualcosa magari di peggio) quando è rivolto contro gli
ebrei (che solo recentemente hanno ricominciato, in Israele, a usare il
neo-ebraico, lingua semitica) in quanto la maggioranza degli ebrei
parla, nel mondo, lingue indeuropee ed è pertanto “ariana”. I veri
semiti sono oggi gli arabi in quanto l’arabo, da loro mai dismesso, è
una lingua, appunto, semitica. Ma non ha niente a che fare con la
razza (così come nel caso degli ebrei, che non sono oltre tutto titolari
di una razza specifica nemmeno nell’ambito dell’antropologia fisica
descrittiva).
Per tornare a Niceforo, si dirà che i mediterranei sono scomparsi, da
tutta l’Italia-regione, da tempo: che l’abitavano tutta, a sud come a
nord, e sono stati assorbiti tutti dagli arii, che li hanno “convertiti”
alle loro lingue. E che “meridionali” e “settentrionali”, pur parlando
idiomi appartenenti a sistemi dialettali diversi, sono tutti “arii” in
quanto i loro idiomi, neolatini, sono indeuropei allo stesso titolo e a
tutti gli effetti. I dati della genetica, che pure li differenziano, sono
inoltre fondamentalmente estranei alle razze e alle lingue. E
nemmeno i codici genetici producono di per sé comportamenti
diversi sul piano dell’organizzazione sociale e del sentimento relativo.
Con Niceforo prende comunque campo l’idea di un’unica Italia
nazional-naturale divisa però al suo interno in due razze distinte:
un’idea che perdura ancora oggi, più o meno mascherata, ed è fonte
di comportamenti mentali e perfino politici aberranti.
Il comportamento politico degli “italiani”, anziché dividersi in senso
orizzontale, cioè territoriale, constatata l’esistenza di due o più aree
distinte e distanti, come appariva logico, si è diviso verticalmente a
seconda delle ideologie e delle opinioni professate. Già il
Risorgimento, quello vittorioso, era stato traghettato nello Stato
unitario diviso in due tronconi: i moderati, devoti alla monarchia e
ad alcuni miti “costituzionali” connessi alla monarchia stessa, che
conducevano lo Stato; e i radicali, i democratici, i repubblicani,
insomma i superstiti del garibaldinismo e del mazzinianesimo
(all’interno dei quali era compresa una frangia di indomiti federalisti)
che tutti insieme volevano, a parole, fare uno Stato diverso ma erano
tutti, nei fatti, succubi dello stesso mito e indossavano la livrea
dell’“opposizione di Sua Maestà”.
Restavano fuori, per il momento, i cattolici, che erano la maggioranza
e non partecipavano ai riti di uno Stato che si era costituito
oltraggiando non solo il papa-re (e non era cosa da poco), ma lo stesso
cattolicesimo: appariva, infatti, fondato su valori laici integrali, venati
di molto anticlericalismo.
Stava anche per nascere il movimento socialista, destinato (insieme ai
cattolici, quando si sarebbero finalmente decisi, dopo tanto
tergiversare, a partecipare alla lotta politica) a cambiare le carte sul
tavolo dello Stato (ma non lo Stato), approfittando dell’estensione
del voto e del suffragio universale maschile (quando sarebbero
venuti).
D’altra parte, l’Italia non era ancora stata “fatta” tutta. Anche se gli
“italiani” che già c’erano apparivano, a qualcuno, irrimediabilmente
divisi dalla razza (o, a seconda delle preferenze, dall’economia),
c’erano, fuori dagli angusti confini dello Stato, altri “italiani” cui
riservare magari la stessa sorte. Ma c’erano anche da imitare altri
Stati-nazione, più vecchi e più ricchi, con una politica di espansione
che non tenesse conto soltanto della lingua e della geografia, ma
anche delle esigenze di sviluppo globale della “nazione”.
La “questione meridionale” poteva aspettare ancora. Il nazionalismo
di Stato, da nazional-naturale, si farà geopolitico. E diventerà
colonialista e imperialista.
La piaga dell’emigrazione fu vista addirittura come l’imperialismo
spontaneo di un popolo il cui Stato rifiutava una saggia politica
coloniale. E siccome la piaga dell’emigrazione era la caratteristica del
Sud, si ritenne che la “questione meridionale” sarebbe stata risolta
con l’istituzione delle colonie, dove i “meridionali” avrebbero trovato
lavoro e ricchezza, per loro e per la patria tutta, senza essere costretti a
disperdersi per il mondo e a contribuire alla ricchezza degli altri.
Crispi, vecchia volpe del Risorgimento, fu l’interprete di questa
nuova prospettiva. Non a caso, lo storico J. L. Miège appare convinto
che “è al Risorgimento che bisogna attribuire una parte del
dinamismo che fa volgere lo sguardo lontano dai limiti della
penisola”. Appare chiaro che il Miège confonde la penisola con
l’Italia-regione geografica convenzionale: eppure, a sua insaputa,
l’azzecca.
Fuori della penisola, anche se tenacemente aggrappata ad essa nello
stesso Stato come una sanguisuga, c’è, infatti, la Padania, una parte
della quale era, allora, ancora irredenta: e non soltanto l’Africa e
l’Asia. Un gruppo di reduci mazziniani e garibaldini fondò infatti, nel
1877, l’Associazione Pro Italia irredenta proprio per rivendicare ad
alta voce l’annessione del Trentino, del Goriziano, del Triestino e
dell’Istria che riteneva più importante dell’Africa. Del resto, anche
all’interno di questi territori esistevano gruppi agguerriti, anche se
non maggioritari, di “nazionalisti italiani”, che si collegarono con
quest’associazione e ne crearono di nuove, diffondendole nel Regno
d’Italia: la Pro Patria e la Lega Nazionale, cui la patria rispose con la
Società Dante Alighieri.
L’attività di queste associazioni, in attesa dell’annessione, si dedicò
soprattutto alla “difesa dell’italianità” attraverso una vasta attività
culturale e scolastica. Una parte dell’opinione pubblica spingeva
comunque per il compimento dell’unità nazionale da farsi prima (o
in luogo) d’ogni avventura coloniale. Nelle terre irredente, il partito
nazionalista italiano, grazie alla liberalità austriaca, deteneva il potere
locale e poteva essere la “quinta colonna” del regno.
Che fare? Il governo italiano scelse la via del colonialismo
imperialista rimandando a tempi migliori il compimento dell’unità
“nazional-naturale”: anche se la “natura” non bastava più ad alcuni
fautori della “nazione”, devoti alla lingua e alla storia, che costruirono
addirittura il mito di una Dalmazia irredenta, situata fuori dai
confini “regional-naturali” ma, secondo loro, dentro quelli “nazional
storico-linguistici”.
Nonostante tutto, e nonostante la fresca esperienza risorgimentale,
che aveva incanalato l’odio di Stato esclusivamente contro l’Austria,
l’Italia-Stato aderì, nel 1882, alla Duplice Alleanza esistente tra
Austria e Prussia trasformandola in Triplice. Sperava, con le spalle
coperte dagli Imperi Centrali, di espandersi in Africa eludendo la
guardia anglo-francese e magari di ottenere qualcosa, a titolo di
benevolenza, da Vienna: magari soltanto il Trentino. Nel 1889 fu
così inaugurata la prima colonia, l’Eritrea, e nel 1893 la seconda, la
Somalia. La terza colonia, l’Etiopia, sfuggì invece alla “terza Roma”:
l’esercito italiano venne, infatti, clamorosamente sconfitto a Adua
(1896).
Quando, nel 1910, l’atteggiamento nazionalista dette vita a un
partito politico che si chiamò appunto così (Associazione
Nazionalista Italiana), finanziato dagli industriali padani e folto di
intellettuali anche se scarso di manodopera, questo partito (che
confluì poi nel fascismo), agitò lo slogan dell’irredentismo
coniugandolo sapientemente col compito di “richiamare gl’Italiani al
sentimento e alla conoscenza di Roma e dell’Impero” (come scrisse
Enrico Corradini). Convenne col governo che appariva opportuno
battere per prima cosa la strada (i marciapiedi) dell’espansione
coloniale. Il suo congresso di fondazione affermò, infatti, che un
“irredentismo sano e fecondo” avrebbe dovuto mirare, per il
momento, a tutelare l’italianità culturale delle aree politicamente
irredente “per ritrovare poi le nostre regioni intatte di lingua e di fede
nel giorno in cui le nostre rinnovate energie consentano la loro
redenzione”. E conquistare nel frattempo quante più colonie fosse
possibile.
A un livello intermedio fra terre irredente e colonie si situava la
regione adriatica orientale: Dalmazia, Albania e Isole lonie.
Nel 1912, l’Italia si fece la sua terza colonia africana, la “Libia”: e i
nuovi nazionalisti, consci malgrado tutto della “questione
meridionale”, sostennero che “risolvere la questione del Mezzogiorno
e occupare la Tripolitania non sono due azioni opposte” in quanto la
seconda avrebbe risolto automaticamente la prima. Sostennero,
inoltre: “L’occupazione della Tripolitania sarà il primo atto di un
nuovo Risorgimento”.
Peggio di così, l’Italia-Stato, che era nata tanto male, non avrebbe
proprio potuto crescere.
7.
L’Italia di fuori

Di Dalmazia il mare e il suol


Resta da indagare il mito della Dalmazia “italiana”: un territorio mai
compreso negli elenchi primo-ottocenteschi dell’Italia nazional
naturale ma proditoriamente inserito, nella seconda metà del secolo
XIX, tra le terre irredente da alcuni zelatori spregiudicati della nazione
italiana.
Si dirà in proposito che la Dalmazia romana, ormai bizantina, era
stata occupata e ripopolata, nel VII secolo, dagli slavi. Alcune isole e
una decina di città costiere rimasero tuttavia escluse da
quest’avvicendamento di popolazioni. In esse si formò una lingua
neolatina particolare, il dalmatico, che in qualche modo copriva
l’interruzione, allo stesso tempo linguistica e territoriale, esistente tra
l’Italia prossima e la futura Romania danubiano-balcanica. Sembra
però che gli slavi fondassero il Regno di Croazia proprio sulla costa
dalmata, a Zaravecchia. Le principali città costiere rimasero
comunque la culla dell’incipiente nazione dalmatica.
La Repubblica di Venezia, durante la sua espansione mercantile verso
Oriente, entrò in contrasto con i pirati croati della Dalmazia e il
doge, dopo averli battuti, assunse, nel Mille, il titolo, del tutto
millantato, di “duca di Dalmazia”. Nel 1065, ripristinata la propria
potenza navale, il sovrano croato assunse il titolo, ugualmente
millantato, di “re di Dalmazia”, che passò poi al re di Ungheria. Dal
1113 al 1420 si contarono ventun guerre tra Venezia e l’Ungheria per
il possesso della Dalmazia (il possesso della Dalmazia significava, per
Venezia, la sicurezza delle rotte orientali).
La città di Ragusa/Dubrovnik approfittò della contesa per dichiararsi
indipendente e la sua repubblica mantenne la propria indipendenza
fino all’arrivo di Napoleone. Zara, occupata dai veneziani, si ribellò
quattro volte. Alla fine del XIV secolo, Venezia fu costretta a
rinunciare alla Dalmazia. Nel 1409, però, il pretendente al trono
ungherese vendette i propri diritti sulla Dalmazia, per 100.000
ducati, proprio a Venezia. I veneziani s’impossessarono, nel 1420,
soltanto di un’esigua striscia costiera e dovettero difenderla
strenuamente dagli attacchi degli ottomani, che avevano conquistato
il retroterra. Intanto, gli slavi (croati) si erano introdotti sempre più
numerosi anche nelle città della costa.
Venezia introdusse, in questa sua nuova provincia, un regime
coloniale vigilato da un provveditore generale con sede a Zara e
insediò in ogni città un provveditore locale, ponendolo alla testa di
una ristretta oligarchia. Mentre sviluppò egregiamente l’arte e
l’architettura dando la propria impronta a questa regione, strangolò
l’economia locale. Come racconta lo storico H. C. Darby, lo fece “per
impedire la concorrenza col commercio veneto; così un monopolio
sul sale soffocò l’industria della conservazione del pesce e, abbattendo
gli ulivi e i gelsi, si cercò deliberatamente di far fallire le industrie
locali dell’olio e della seta”. Soltanto la Repubblica di Ragusa, che si
mantenne indipendente pagando tributi sia a Venezia sia al sultano
ottomano, riuscì a raggiungere uno sviluppo economico e culturale di
tutto rispetto.
Intanto, la lingua dalmatica, simbolo di una nazionalità propria, era
declinata vertiginosamente, sostituita dal serbocroato nel retroterra e
dal veneto (e dall’italiano) nelle città e in alcune isole. Zara perse la
propria lingua materna già verso la fine del XIV secolo, Ragusa agli
inizi del XVI secolo. L’ultima persona in grado di esprimersi
abitualmente in dalmatico fu tuttavia Burbur (Antonio Udina),
morto a Veglia nel 1898: segno che il declino, in alcune aree
appartate, non fu così rapido.
L’italianità originaria della Dalmazia si rivela comunque una favola.
Non così un’italianità (linguistica e culturale) acquisita tramite la
dominazione veneziana della quale furono però partecipi soltanto i
ristretti ceti egemonici cittadini, composti da autoctoni
dedalmaticizzati, da immigrati veneziani e da slavi italianizzati.
Dopo il declino economico e politico di Venezia, la Dalmazia passò
nel 1797 all’Austria, nel 1805 alla Francia e nel 1815 di nuovo
all’Austria. L’Austria affidò questa provincia al governo locale dei ceti
dominanti italianizzati. La Dieta dalmata, eletta col sistema
censitario delle curie, ebbe 26 deputati “italiani” (su 15.672 abitanti
di “lingua italiana”, quasi tutti elettori) e 15 deputati slavi (per una
fascia di elettori slavi di ben 140.000 persone: ma gli slavi privi di
diritti elettorali erano molti di più).
Conscio di questa situazione, lo scrittore Niccolò Tommaseo, che era
e si sentiva “italiano”, scrisse anche in croato per testimoniare la
propria complessa dalmaticità. Accanto ad alcuni dalmati presso i
quali attecchirono gli ideali del Risorgimento italiano, cominciarono
però ad esprimersi, culturalmente e politicamente (ed erano assai più
numerosi), anche i primi zelatori del “Risorgimento” croato. E gli
austriaci non poterono rimanere sordi alle istanze del loro
nazionalismo che rivendicava i diritti della grande maggioranza della
popolazione dalmatica.
Mentre gli slavi crescevano quantitativamente e qualitativamente, il
numero degli “italiani” di Dalmazia cominciò a decrescere in maniera
vistosa. Una parte di loro andò a fare il funzionario amministrativo
nel Regno Lombardo-Veneto; un’altra parte, composta di slavi
italianizzati, si rislavizzò. Il risultato fu che, al censimento austriaco
del 1910-11, la popolazione della Dalmazia era così composta:
serbocroati 610.699; italiani 18.028; tedeschi 3.081; altri 3.077. Gli
“italiani” erano insomma meno del 3 per cento. Né la “natura” né la
“nazione” giustificavano il mito della Dalmazia “italiana”.
Sarà opportuno, a questo punto, esaminare la reale situazione delle
altre terre irredente (queste sì chiaramente inserite nell’Italia
regione) ancora sottoposte alla sovranità austriaca, approfittando dei
dati offerti dal censimento citato.
A proposito del Tirolo, bisogna distinguere tra il Trentino e la zona
compresa tra la stretta di Salorno e il Brennero. In Trentino, gli
“italiani” (magari padani) insieme ai pochi ladini (sicuramente
retoromanzi) costituivano il 93,5 per cento della popolazione e i
tedeschi appena il 6,5 per cento. Da Salorno al Brennero, i tedeschi
erano invece il 91 per cento, i ladini il 6 per cento e gli “italiani”
appena il 3 per cento; una percentuale davvero minima, come in
Dalmazia. Con la differenza che, in Dalmazia, gli “italiani” erano
almeno la maggioranza (72,5 per cento) a Zara e, per passare al
Quarnero, a Fiume (52 per cento).
Nel Triestino, gli “italiani” erano il 62 per cento, gli sloveni il 30 per
cento, i tedeschi il 6 per cento, gli “altri” il 2 per cento. In Istria, gli
“italiani” erano il 38 per cento ma i croati detenevano la maggioranza
relativa col 43,5 per cento, gli sloveni erano inoltre il 14,3 per cento, i
tedeschi il 3,3 per cento, gli “altri” appena lo 0,9 per cento (tra di essi
un ramo dei romeni, detti istroromeni dagli studiosi ma che si
definivano, curiosamente, “cicci” e “ciribiri”). Nella Contea di
Gorizia e Gradisca, infine, gli “italiani” (cioè i friulani, non italiani e
nemmeno padani ma retoromanzi) erano il 36 per cento (ma erano la
maggioranza relativa a Gorizia città), gli sloveni ben il 62 per cento, i
tedeschi il 2 per cento.
A proposito di tutti questi “italiani” irredenti, si ripeterà che si
trattava, con ogni probabilità, di padani (cui le recenti teorie
linguistiche accordano, come abbiamo narrato, un’identità precipua)
e di neolatini non italiani (ladini e friulani) in quanto retoromanzi; e
infine di retoromanzi italianizzati (o meglio venetizzati e quindi
padanizzati) recentemente.
A Trieste, il dialetto neolatino della città è stato, fino alla metà
(abbondante) del XVIII secolo, il “tergestino” (un dialetto friulano) e
l’oligarchia cittadina era composta da lis tredis ciasadis (“le tredici
famiglie”), spia della sua neo-latinità ma anche della sua non italianità
originaria. Fu l’Austria, estendendo e ripopolando la città per farne il
porto dell’impero, ad importarvi il veneto e ad imporvi l’italiano.
Un’operazione riuscita al punto che oggi (e non da oggi) il dialetto
della città è divenuto il triestino (una sorta di veneto coloniale).
La stessa cosa è accaduta a Muglia (il “muglisano” era il dialetto
friulano della città). Più controversa la questione dell’“istrioto”,
l’idioma neolatino originale dell’Istria (i linguisti dibattono ancora il
problema della sua appartenenza: padano, retoromanzo, dalmatico o
lingua a sé?), già ridotto cinquant’anni fa all’estremità meridionale
della penisola e sostituito sul resto della costa dal veneto coloniale (e
nell’interno, da molti secoli ormai, dal croato e dallo sloveno).
Per quanto riguarda invece la “coscienza della nazionalità”, si può
affermare che i voti degli “italiani” irredenti (rimasti all’Austria dopo
il 1866) avevano inviato al Parlamento di Vienna, nelle ultime
elezioni, 19 deputati: 4 del Partito nazional-liberale, che era
nazionalista italiano, ma 5 socialisti e 10 popolari, che erano di
tutt’altro avviso: come del resto nell’Italia-Stato, dove i socialisti si
erano opposti con forza, anche se con scarso successo, all’opzione
colonialista e alla guerra di Libia.
Alla vigilia della prima guerra mondiale, l’Italia-Stato, ormai bloccata
dalla sconfitta abissina nel suo programma d’espansione africana e
ancora irritata per l’espansione dell’alleato austriaco nei Balcani
(culminata con l’annessione della Bosnia-Erzegovina: 1908), pensò di
riconvertire in direzione nazional-naturale i propri appetiti
territoriali. Le conveniva, allora, restare neutrale o buttarsi
nell’imminente conflitto? E da che parte? Al fianco degli alleati della
Triplice oppure delle potenze dell’Intesa? Il governo di Roma iniziò
cauti sondaggi.
A guerra ormai iniziata, Roma aprì trattative segrete con l’Intesa. Col
Patto di Londra (26 aprile 1915), l’Italia-Stato strappò un prezzo
davvero conveniente: avrebbe ottenuto, entrando in guerra al fianco
dei nuovi alleati, tutto il Tirolo cisalpino (fino al Brennero), Trieste,
Gorizia e Gradisca, l’Istria e, contrariamente ai propri principi
nazional-naturali originari, anche la Dalmazia e il porto di Valona in
Albania (con una sorta di protettorato su tutta l’Albania).
Analoghi sondaggi con Vienna, dopo un lungo tira e molla,
portarono (9 maggio 1915) alle seguenti concessioni possibili:
cessione immediata del Trentino (quindi del Tirolo “italiano”, fino a
Salorno) e della parte del Friuli a occidente dell’Isonzo, rimasta
all’Austria dopo il 1866, nonché di Valona, col conseguente
riconoscimento del “protettorato” sull’Albania. L’Austria avrebbe
trasformato Trieste in “città libera” e, dopo la fine della guerra,
avrebbe ceduto all’Italia anche Gorizia e Gradisca e perfino una parte
dell’Istria (a questo proposito fu presentata una garanzia scritta della
Germania).
L’Italia-Stato scelse la prima opzione, più conveniente; e, venti giorni
prima della discesa in campo a fianco dell’Intesa, “disdettò” la sua
appartenenza alla Triplice Alleanza. Sono eventi che si commentano
da soli. L’opinione pubblica italiana era stata intanto violentata dal
ciclone irredentista: con la guerra all’Austria, l’unità della nazione
avrebbe compiuto un consistente passo in avanti e i “martiri” del
Risorgimento sarebbero stati ulteriormente vendicati. Perfino i
nazionalisti ufficiali si convinsero, sedotti anche dal mito della
“guerra purificatrice”. Si opposero strenuamente, insieme a qualche
“liberale” e a molti cattolici, i socialisti, internazionalisti e pacifisti
(ma una parte di loro, con Mussolini, divenne irredentista): non
riuscirono, però, come al solito, a spuntarla. E l’Italia entrò in guerra
al fianco dei suoi concorrenti coloniali.
A guerra conclusa (l’Intesa vinse anche per lei), l’Italia cercò di
compiere tutte le annessioni che riteneva le fossero ormai dovute.
Trovò però un osso duro e imprevisto nell’America del presidente
Wilson, che si era aggiunta al novero degli alleati (proprio quando
l’Italia era stata battuta e travolta a Caporetto) e aveva largamente
contribuito alla vittoria finale dell’Intesa. Il Patto di Londra venne
rimesso in discussione. Wilson credeva nell’autodeterminazione dei
popoli e sollecitava confini “giusti”: cioè “nazionali”, quindi
linguistici. I suoi celebri “quattordici punti” cozzavano, in molti
punti, con le richieste italiane.
Dopo estenuanti trattative, l’Italia-Stato riuscì ad impadronirsi di
tutto il Tirolo cisalpino (1919), di Gorizia e Gradisca, di Trieste e
dell’Istria (1920), centrando quasi tutti i suoi obiettivi: realizzando,
ad est, l’Italia nazional-naturale per intero o, per essere più precisi,
l’Italia-regione convenzionale integrale (passando però sopra,
brutalmente, al rispetto del principio di nazionalità). Della Dalmazia
ottenne soltanto l’enclave di Zara con alcune isole: ma anche il
diritto alla cittadinanza italiana per i residenti che l’avessero richiesta
(e quindi la loro annessione “morale”).
Nel 1924, dopo una serie di piroette innescata da Gabriele
D’Annunzio, l’Italia-Stato ottenne anche Fiume (che non era
austriaca, ma “ungarica”). Nonostante questi successi innegabili, i
nazionalisti ebbero il coraggio di parlare di “vittoria mutilata”.
I dati del censimento italiano del 1921, ad annessione compiuta,
segnalarono la brutalità di quest’annessione. L’Italia-Stato
raccoglieva, a quella data (i neo-annessi sono in corsivo): 80.282
albanesi; 12.236 catalani; 162.800 croati; 90.700 francesi; 19.672
greci; 1.644 romeni (i “cicci” e i “ciribiri” di cui si è parlato); 37.475
“slavi” (gli sloveni dell’Udinese e i croati del Molise); 258.944
sloveni; 208.170 tedeschi; 14.584 ladini dolomitici; 50.589 friulani
(quelli del Goriziano, riconosciuti in extremis come retoromanzi
dall’Austria). Gli “italiani” redenti furono almeno 750.000 ma i “non
italiani”, annessi a forza da uno Stato per loro sicuramente straniero,
furono quasi 700.000: una proporzione iniqua.

En attendant Benito
I sud-tirolesi di lingua tedesca, gli sloveni e i croati dell’imminente,
ormai, Venezia Giulia, che avevano un senso dell’identità nazionale
sviluppato almeno quanto quello degli “italiani” (e si sentivano in
odore di annessione) chiesero invano al governo di Roma e alle
potenze vincitrici, confidando soprattutto nel presidente americano
Wilson, il diritto all’autodeterminazione (quello che una volta si
chiamava “plebiscito”).
I sud-tirolesi desideravano ardentemente entrare a far parte della
nuova Repubblica austriaca (appena proclamata sulle ceneri ancora
fumanti dell’impero) insieme ai nord-tirolesi e agli est-tirolesi, i quali
risiedevano fortunatamente oltre uno spartiacque che pure non li
aveva mai, prima di allora, separati dai loro fratelli meridionali ma
che ora li proteggeva dalle mire di Roma. Anche i ladini richiesero
insistentemente di condividere la sorte dei sud-tirolesi di lingua
tedesca.
Gli sloveni (Trieste e Gorizia erano, dalla fine del XIX secolo, insieme
a Lubiana, centri culturali e politici dell’irredentismo sloveno) e i
croati volevano invece raggiungere i loro connazionali, appena
riuniti, per la prima volta nella loro storia, in uno Stato proprio (il
Regno dei serbi, dei croati e degli sloveni, in seguito Iugoslavia). Ma la
loro volontà, così come quella dei sud-tirolesi, cozzò contro la
volontà dell’Italia-Stato che si mostrò irremovibile: nonostante una
spiccata simpatia per la causa di tutti i neo-annessi espressa, come al
solito invano, perfino in Parlamento (attraverso un nobilissimo
discorso di Filippo Turati) dai soliti socialisti.
La volontà dei neo-annessi, in mancanza del referendum auspicato, fu
comunque espressa chiaramente nelle elezioni politiche del 15
maggio 1921. Tutti e quattro i seggi della circoscrizione sud-tirolese
furono infatti conquistati dal Deutscher Verband (“Lega tedesca”),
per il quale votarono anche i ladini. Tutti e cinque i seggi della
circoscrizione goriziana furono ugualmente appannaggio dei
candidati sloveni (quattro esponenti della Lega nazionale slovena e
un comunista).
Nella circoscrizione di Trieste, invece, a causa delle intimidazioni e
dei pestaggi eseguiti dai fascisti con grande sfoggio di muscoli (e sotto
gli occhi compiacenti e talvolta compiaciuti delle autorità e delle
forze di polizia), dei dieci seggi in palio uno soltanto venne
conquistato da un candidato croato (in Istria).
Alla seduta inaugurale della nuova Camera dei Deputati, il deputato
sud-tirolese Wilhelm von Walther intervenne con parole cortesi ma
decise: “È la prima volta che l’Italia in terra ferma si è mossa per
portare innanzi i suoi confini non da liberatrice dei propri fratelli ma
da conquistatrice di un popolo ad essa estraneo (...). Il Tirolo
meridionale, nel diniego del proprio diritto di autodecisione, non
può vedere che un atto di soppressione contro cui i suoi
rappresentanti, entrando nel parlamento di Roma, sono obbligati a
presentare le loro esplicite riserve di diritto. D’altro canto, però, non
potremo mai rinunciare al diritto di rivolgerci allo stesso popolo
italiano, cui l’idea nazionale fu sempre la suprema legge morale, per
domandargli il restauro della nostra libertà nazionale [...]. Onorevoli
colleghi, l’indirizzo che oggi sta in discussione non prende atto della
nostra situazione speciale; non vi si parla che di popolazioni
felicemente ricongiunte alla famiglia italiana; e siccome tale modo di
espressione non può riferirsi né al nostro territorio né alla nostra
popolazione, non siamo in grado di votare l’indirizzo proposto”
(l’indirizzo proposto venne comunque votato e approvato, a
maggioranza, alla fine della seduta).
Prese poi la parola il deputato sloveno Josip Vilfan. Il suo discorso fu
una coraggiosa pronuncia d’appartenenza nazionale distinta da quella
statale: “Per noi, lo Stato non è il supremo ente: per noi il supremo
ente è il popolo, è la nazione in senso etnico, storico”. Un punto di
vista, come si vede, rigorosamente “risorgimentale”.
Vilfan precisò il suo nazionalismo (non diverso da quello di
Garibaldi) contrapponendolo a quello italiano, che “non è
nazionalismo, non è amore del proprio popolo, ma è imperialismo: è
odio, non amore”, ribadendo che lo Stato italiano aveva annesso una
parte degli sloveni e dei croati “contro la loro volontà nazionale e
contro le loro aspirazioni” e che quest’annessione appariva
particolarmente dolorosa in quanto avveniva nel momento che
vedeva la nascita del nuovo Stato degli slavi meridionali. Vilfan offrì
tuttavia la lealtà degli slavi nei confronti dello Stato italiano purché
venissero riconosciuti i loro diritti.
Purtroppo, disse, “viene vietato l’uso della nostra lingua, che è stata
bandita dagli uffici. L’attività delle nostre associazioni viene
ostacolata in tutti i modi. Perfino associazioni innocue come le
nostre società corali sono state sciolte o almeno è stata impedita la
loro attività”.
Si può dire che gli esiti della prima guerra mondiale avevano
introdotto, nell’Italia-Stato, i germi pericolosi del nazionalismo non
italiano: in uno Stato dove i germi del nazionalismo italiano non
avevano mai infettato la maggioranza della popolazione.
La prima guerra mondiale aveva paradossalmente risvegliato anche il
sentimento d’identità d’alcune comunità che facevano parte del
Regno di Sardegna assai prima che questo si trasformasse in Regno
d’Italia.
I valdostani, minacciati nell’uso pubblico della loro lingua al
momento della nascita dell’Italia-Stato, avevano fondato, nel 1909, la
Ligue valdôtaine per la difesa della lingua materna, che aveva
finanziato e realizzato una rete imponente di “scuole di villaggio”.
Nel 1919, la Ligue fece pervenire, al Congresso della pace di Parigi,
una petizione “per le rivendicazioni etniche e linguistiche della Valle
d’Aosta”. Va ricordato che, al censimento del 1921, il 91,4 per cento
dei valdostani si dichiarò francofono e soltanto il 9,6 per cento
italofono.
La guerra fece nascere, soprattutto, il “sardismo” (e, date le
condizioni ormai secolari dell’isola, quest’evento appare tutt’altro che
imprevedibile: stupisce semmai la mancata insorgenza di un
altrettanto vigoroso movimento nel Mezzogiorno continentale).
Le esigenze belliche avevano infatti portato alla istituzione della
famosa Brigata Sassari, composta, si può dire, da tutti i sardi validi, di
età compresa tra i 18 ei 45 anni, e comandata da ufficiali sardi. I
contadini ei pastori dell’isola vennero arruolati con la promessa della
distribuzione della terra a guerra conclusa.
La brigata si batté coraggiosamente al grido di Fortza paris! (“Forza
insieme!”). Lo stato maggiore permise perfino che i fanti della Sassari
si eccitassero al canto dell’Himnu sardu nationale, naturalmente in
limba sarda, composto un secolo prima per i Savoia (ma in quanto re
di Sardegna).
I sardi lasciarono sul Carso 30.000 morti. Quando la “vittoria” venne
finalmente conseguita e i reduci tornarono in Sardegna, la terra
promessa non venne però loro distribuita. I 50.000 reduci
organizzati, non riconoscendosi in nessuna delle forze politiche
“italiane” presenti nell’isola, decisero allora, il 17 aprile 1921, di
costituirsi in partito politico: nacque così il Partito sardo d’azione.
Il Partito sardo conquistò subito la maggioranza dei comuni isolani. I
risultati delle elezioni politiche del 1921 furono, in Sardegna, i
seguenti: 6 deputati al Blocco nazionale, formato dai notabili che
appoggiavano il governo (qualsiasi governo) di Roma attraverso la
corruzione e la pratica del voto di scambio; 4 al Partito sardo, 1 ai
socialisti, 1 ai popolari.
Il Partito sardo appariva diviso, al suo interno, tra un atteggiamento
ufficiale dichiaratamente federalista nell’ambito dello Stato italiano e
un’opzione secessionista più o meno consapevole. La strategia
politica dei sardisti privilegiava comunque la lotta nell’ambito dello
Stato. Identificava, lucidamente, il nemico da battere nel blocco
d’interessi che univa, di là dalle apparenti dispute sia pure violente, i
capitalisti e gli operai della Padania, implicitamente solidali nel
saccheggio obiettivo della ricchezza del Sud e delle isole.
I dirigenti del Partito sardo chiamarono invano a raccolta le forze
politiche e sociali del Sud dello Stato: riuscirono soltanto a innescare
un partito gemello nel Molise. Il fenomeno dell’occupazione delle
terre nell’Italia meridionale e in Sicilia, a opera degli ex combattenti,
fu negli anni Venti davvero imponente ma non portò, come in
Sardegna, alla nascita di una forza politica in grado di dedicarsi al
riscatto e alla riscoperta dell’identità.
Nel Partito sardo si sviluppò intanto anche un’ideologia di tipo
nazionalista. Nel 1920, un suo leader, Camillo Bellieni, scrisse,
infatti, senza mezzi termini: “Che noi non siamo etnicamente e
linguisticamente italiani è un dato di fatto incontrovertibile. Noi
neghiamo quest’astratta italianità. Noi vogliamo riconoscerci sardi.
Provenza [cioè Occitania] e Catalogna si trovano nei nostri stessi
rapporti con Francia e Spagna [...]. Spiccatissime analogie sono poi
nei rapporti di Sardegna e Irlanda con i rispettivi stati dominanti:
Italia e Inghilterra”.
Nel 1921, Emilio Lussu, deputato del Partito sardo, portò a Roma,
alla Camera dei Deputati, il caldo saluto dei sardi al nuovo “Stato
libero d’Irlanda” ribadendo le analogie tra Irlanda e Sardegna e
suscitando le scomposte proteste dei fascisti. Il discorso di Lussu
venne duramente criticato anche dal comunista Palmiro Togliatti,
sull’“Ordine nuovo”, con un articolo intitolato Le Irlande italiane.
Al secondo congresso del Partito sardo (1922), Bellieni lanciò la
proposta di un accordo organico con i movimenti autonomistici
dell’area mediterranea che portasse all’istituzione di un nuovo Stato:
una federazione politica che fosse un ponte anche culturale tra
l’Europa e l’Africa. Quest’ipotesi federalista cominciò a prendere le
proprie dimensioni specifiche, raggruppando nel suo progetto
Catalogna, Baleari, Corsica, Sardegna, Sicilia e Creta. L’Italia-Stato
venne così scavalcata, almeno nei sogni.
Il sardista Luigi Battista Puggioni scrisse sul “Solco”, il quotidiano del
Partito, il 24 marzo 1922, un articolo intitolato Saluto ai fratelli di
Catalogna (che avevano appena ottenuto una modesta autonoma
nell’ambito dello Stato spagnolo). Mussolini, furente, citò
quest’articolo alla Camera dei Deputati, nel suo discorso
d’investitura del 18 novembre 1922, come la prova certa di un vasto
complotto secessionista contro la “Nazione italiana”, che stava
tessendo le proprie reti proprio in Sardegna. D’altra parte, proprio
nel Parlamento italiano, si stava formando una certa consuetudine
politica tra sardisti, sud-tirolesi e slavi “giuliani”: 14 deputati in tutto.
L’Italia aveva davvero di che tremare.

Un fascio di muscoli e di idee


Nonostante un’idea della nazione che era, tutto sommato, troppo
sopra le righe per il cittadino italiano medio, per non dire di quello
basso, il fascismo, giunto al potere con la complicità della monarchia,
ritenne suo dovere usare capillarmente lo Stato per convincere i
cittadini a sentirsi finalmente “italiani”: tutti e senza alcuna
eccezione.
Sull’esistenza della nazione italiana, i fascisti non avevano mai avuto
dubbi nemmeno quando Mussolini sfidava pubblicamente Dio a
dimostrargli la Sua esistenza con un colpo apoplettico e auspicava di
gettare il tricolore nell’immondizia. Il fascismo professava quello che
lo storico Emilio Gentile ha definito, con acutezza, “nazionalismo
modernista”: un atteggiamento “che si distacca” da quello
risorgimentale “privilegiando, rispetto al problema dell’indipendenza
e dell’uguaglianza delle nazioni, il problema della loro affermazione
in termini di potenza e d’espansione” (con in più un marcato stile
“futurista”).
Niente di nuovo (se non nello stile) rispetto alle teorie e alla prassi di
Crispi e di Corradini: soltanto un vigore forse maggiore
nell’enunciazione e un impegno sicuramente spropositato
nell’esecuzione di una politica che, a partire dal 1925, non doveva
fare più nessun conto con l’opposizione (sia pure di Sua Maestà),
messa definitivamente al bando dopo essere stata stesa al tappeto.
Purtroppo, il fascismo ottenne una sorta di legittimazione da parte
della Chiesa cattolica, cui concesse il Concordato (che pose fine ad
una disputa durata più di mezzo secolo) e, contravvenendo al
principio dell’unità e dell’indivisibilità territoriale della nazione, ben
0,44 kmq di territorio italiano.
L’identificazione tra la “nazione” e lo “Stato” divenne totale. Lo Stato
era “l’incarnazione giuridica della nazione” e, attraverso lo Stato, la
nazione aveva il compito di porsi come “l’anima e la base fisica
dell’impero italiano”, così come Roma era stata l’anima e la base fisica
dell’Impero romano. Fin dove avrebbe dovuto estendersi questo
nuovo impero? Mussolini non pose limiti a quella provvidenza che
aveva tanto arrogantemente sfidato in gioventù: cominciò addirittura
a credere nella divina provvidenza in funzione, come soleva dire,
“itagliana”. E a sognare un impero “in funzione universale”.
Anche il fascismo, a ben vedere (e il suo culto dell’“Itaglia” ne è una
spia evidente), può essere considerato, almeno all’inizio, come un
movimento inconsciamente padano. Nacque a Milano, venne
foraggiato in misura generosissima dal grande capitale finanziario e
industriale del Nord, fu al soldo dei grandi agrari padani e i suoi
primi accoliti venivano in maggioranza da quelle terre che pure
godevano di ben altra tradizione, assai più luminosa (e purtroppo
anche dalla Toscana). Mussolini stesso era padano: magari un padano
meridionale (non era di Sondrio ma di Predappio), ma
incontestabilmente padano.
La “marcia su Roma” provvide comunque a diradare le nebbie
sansepolcriste e il manipolo degli adepti si ingrossò fino a diventare
coorte, centuria e infine legione: e la legione cominciò a sfilare sotto
quel sole che sorgeva “libero e giocondo” in quanto non avrebbe visto
mai “nessuna cosa al mondo/maggior di Roma”.
Perché l’impero sorgesse su basi solide, era necessario che la nazione
fosse consapevole di sé oltre ogni ragionevole dubbio e che tutti i
cittadini officiassero il “culto della patria”. Di qui una doppia
politica. Bisognava compiere l’“unità nazionale”, senza tenere però
soverchio conto delle lingue e dei confini naturali: estendendosi, in
terraferma, se non proprio fin dove si era esteso l’Impero romano
(Mussolini non pensò mai di raggiungere il Vallo Antonino che
segnava il confine romano in Britannia lasciando la futura Scozia
fuori della “civiltà”), almeno fin dove si erano estesi i Savoia a ovest e
a nord, e la Serenissima a est. E, al contempo, espandendosi in quelli
che oggi si definiscono terzo e quarto mondo.
Il fatto che 700.000 “italiani”, annessi da meno di un quinquennio,
fossero di “lingua straniera” e che una parte di loro officiasse in cuor
suo un culto dedicato ad alcune nazioni “straniere” (per giunta
confinanti), mandò i fascisti fuori dei gangheri. E Mussolini iniziò,
prima ancora della battaglia del grano, la battaglia della lingua. Il
paradosso fu che lui, oltre che Itaglia, dicesse anche “nassione”, come
fanno purtroppo, ancora oggi, Prodi, Fini e Casini.
Il suo debutto fu sfortunato. Prima che “ascendesse” al potere, la
persistente estraneità dei cittadini italiani alla loro lingua “nazionale”
era, infatti, giunta all’orecchio del governo e i pedagogisti di Stato
avevano cominciato a interrogarsi su come fosse possibile porvi
rimedio. I loro sforzi giunsero, paradossalmente, ad una conclusione
proprio nell’anno successivo all’avvento al potere di Mussolini. La
Riforma Lombardo Radice venne così attuata nel 1923 (sotto il
ministro Gentile): consisteva nell’applicazione del metodo “dal
dialetto alla lingua”, da seguirsi in tutte le scuole primarie del regno.
Era, del resto, l’unico modo possibile per insegnare l’italiano agli
“italiani”.
I dialetti e le lingue di minoranza venivano obliquamente a godere di
un’esistenza in qualche modo pubblica, anche se con lo scopo del
tutto strumentale di giungere alla loro rapida estinzione attraverso il
loro impiego massiccio. Quando, due anni dopo, il fascismo divenne
regime, pose fine immediata a questo paradosso col decreto legge 22
novembre 1925 n. 2191, imponendo l’uso obbligatorio della sola
lingua italiana per tutte le materie e per tutte le scuole d’ogni ordine e
grado (con risultati facilmente immaginabili). L’italiano “per tutti”
sarebbe forse nato un po’ dopo, ma i dialetti sarebbero certamente
morti prima.
Questo provvedimento colpì soprattutto le scuole tedesche, slovene e
croate che ancora esistevano nei territori annessi di recente e dette il
colpo di grazia anche alla superstite ora settimanale di francese nelle
scuole valdostane. Ma l’italianizzazione forzata bandì le lingue
materne, oltre che dalla scuola, anche dalle amministrazioni locali,
dalle istituzioni culturali, dalla stampa, perfino dalle chiese (col
compiacente avallo delle autorità ecclesiastiche).
Un aspetto ridicolo di questa campagna, in realtà drammatica, fu la
“riduzione” dei nomi “alloglotti” ad una forma italiana: dei nomi di
luogo e dei nomi di persona. Ne daremo qualche esempio per
l’edificazione del lettore.
Prendiamo la Valle d’Aosta. Courmayeur diventò, per legge,
Cormaiore; La Thuile, Porta Littoria; Quart, Quarto Praetoria. E
così via, implacabilmente, per tutta la valle e per la Valle di Susa. I
cognomi valdostani erano però 18.000 e la burocrazia di Stato, anche
quando indossa la camicia nera, è lenta nelle sue riforme, perfino in
quelle più utili per il “paese”. Monsieur Blanc diventò il signor
Bianchi: ma il fascismo cadde prima che l’intera riforma potesse
venire compiuta.
Prendiamo ora il Sud-Tirolo. Qui, chi si occupò di persona della
restaurazione dei nomi fu il famigerato Ettore Tolomei, un trentino
di Rovereto, “esule” nel Regno d’Italia agli inizi del secolo e
irredentista di professione. Deciso ad ascendere, per la prima volta in
assoluto, il punto più settentrionale dell’Italia nazional-naturale,
aveva finto di arrampicarsi, nel 1904, sulla cima del Klockenkarkopf,
ribattezzandola nell’occasione Vetta d’Italia. In realtà, questa vetta
era già stata scalata, da un gruppo di tedeschi, nel 1896. E poi non era
il punto più settentrionale dell’Italia. Questo punto era (ed è) lo
Zwillingsköpfel (Testa gemella occidentale). Il nome “Vetta d’Italia”,
comunque, entrò nell’uso e compare oggi su tutti gli atlanti italiani.
Tolomei era, come si direbbe nel gioco del calcio, un fantasista.
Ridusse in italiano, con colossali fraintendimenti e ricorrendo a
etimologie da lui stesso inventate sui due piedi, tutti i toponimi:
fanno ancora bella mostra di sé per tutto il Sud-Tirolo, dove il regime
della doppia denominazione di ogni luogo è ufficiale. Inutile
rammentarne qualcuno. Per quanto riguarda i cognomi, Tolomei
“ridusse” correttamente Stein in Pietri ma non resistette all’idea di
ribattezzare Herr Perathoner, signor Pierantoni e Herr Kofler, signor
Colfiori. Per loro fortuna i cognomi erano, in Tirolo, oltre 35.000.
Tolomei non ce la fece proprio a cambiarli tutti.
Anche per cambiare quelli sui quali riuscì a intervenire, ebbe bisogno
della burocrazia locale. E la burocrazia, come si sa, è sempre stupida,
anche in camicia nera. Accadde così che i quattro fratelli ladini
Ploner, che risiedevano in quattro comuni limitrofi, si ritrovarono
quattro cognomi diversi: Piana, Piazza, Perani e (per una
disattenzione che omise la “riduzione” di legge)... Ploner.
La stessa cosa avvenne nella Venezia Giulia. I tre fratelli sloveni Sirk,
quando ricevettero dall’Italia-Stato i loro nuovi cognomi, appresero
di chiamarsi così: quello che abitava a Trieste, Sirca; quello di
Gorizia, Sirtori; e quello di Capodistria, Serchi. Intanto, il villaggio di
Zabče diventò Villa Bosco e quello di Boršt, chissà perché,
Sant’Antonio Bosco. Mai gli americani avrebbero ribattezzato Los
Angeles, The Angels: una “riduzione” almeno fedele.
Ma la situazione non era allegra come sembra. I fascisti non se la
presero soltanto con i nomi, ma anche con le persone: ad onta dei
nomi, vecchi o nuovi, che portavano.
Compiremo una carrellata rapidissima dei provvedimenti più
strabilianti, limitandoci al Sud-Tirolo. Chi fosse stato sorpreso a fare
uso del proprio cognome tedesco, qualora questo fosse già stato
“ridotto” in italiano, era punibile con una ammenda da 500 a 5.000
lire (decreto ministeriale del 5 agosto 1924); l’unica lingua ammessa
nei tribunali divenne l’italiano (regio decreto legge 15 ottobre 1925,
n. 1796) e chi non lo conosceva ne avrebbe subito tutte le
conseguenze; l’uso della lingua tedesca fu vietato nelle lapidi dei
cimiteri e tutte le lapidi redatte in tedesco avrebbero dovuto venire
rimosse a cura delle autorità competenti ma a spese del cittadino
colpevole (decreto prefettizio del 16 novembre 1927, n. 7622).
Anche il nome “Tirolo” fu bandito da ogni uso pubblico e privato.
Chi se lo lasciava scappare di bocca o di penna era punito con 30
giorni di prigione e una multa da 20 a 300 lire (decreto prefettizio del
29 maggio 1923, n. 12637). E dire che Tirol viene dal latino Tiriolis e
la sua origine è pertanto tutt’altro che tedesca (anche se Dante lo
aveva “ridotto”, poeticamente, in “Tiralli”). Al suo posto, venne
imposto il nome “Alto Adige”, inventato da Napoleone ai tempi del
“secondo” Regno d’Italia: i francesi, si sa, avevano l’ossessione degli
idronimi. Ma Tolomei, il quale pure aveva ossessioni diverse, lo aveva
ripreso e imposto tale e quale.
Coloro che si ribellavano a queste (e alle molte altre) imposizioni,
farsesche ma dolorose, erano oggetto di persecuzione giudiziaria da
parte dello Stato e, soprattutto, di aggressioni fisiche da parte delle
squadracce fasciste.
Gli sloveni e i croati, contro i quali l’accanimento fisico era
particolarmente efferato, cominciarono a capire che nell’Italia-Stato
non tirava, per loro almeno, aria buona. Tra il 1922 e il 1940,
105.000 di loro emigrarono volontariamente: 70.000 nella
madrepatria (cioè in Iugoslavia), 30.000 in America, 5.000 in Francia
e in Belgio. Gli italiani videro di buon occhio quest’emigrazione (che
favoriva una doverosa “pulizia etnica”). La società di navigazione
Cosulich offrì condizioni vantaggiosissime e prezzi di favore a quegli
sloveni “italiani” che volevano stabilirsi in Argentina (e Cosulich era,
in realtà, Kozulič: cioè un discendente di quegli slavi italianizzati da
tempo che formavano paradossalmente il nerbo dell’irredentismo
italiano quando Trieste apparteneva all’Austria: ricorderemo in
proposito quello sfortunato sloveno dal nome tedesco di Oberdank,
da lui stesso venetizzato in Oberdan senza arrivare all’italianizzazione
completa che poteva essere soltanto Oberdano, Oberdone oppure
Oberdana).
A slavo che va, italiano che viene. A Trieste, nel 1936, il 20 per cento
della popolazione era ormai composto di italiani nati nel Regno
d’Italia quando Trieste dipendeva ancora da Vienna. Certo, alla
protesta etnica, si sommavano motivazioni economiche.
Anche l’emigrazione valdostana s’intensificò sotto il fascismo. Negli
anni Trenta, Parigi divenne la maggiore città valdostana del mondo:
vi risiedevano 14.000 valdostani. Ad Aosta, dove vent’anni prima i
valdostani erano 30.000, ne rimanevano 8.000. Il resto della
popolazione cittadina veniva dal “resto d’Italia”. E non si stabiliva
soltanto in città: Mussolini aveva provvidenzialmente imposto ai
dirigenti della Cogne di non assumere maestranze locali.
Succede però che nasca, all’improvviso, un certo irredentismo
filofrancese nella valle. Gli immigrati parigini provvedono ad inviarvi
clandestinamente il loro giornale: la “Vallée d’Aoste”, che mostra un
certo disprezzo nei confronti dell’Italia-Stato e sogna l’annessione
all’esagono. L’opposizione (antifascista ma anche anti-italiana)
comincia ad organizzarsi. Il 13 aprile 1925, nasce l’associazione
autonomista Jeune Vallée d’Aoste dove si fa le ossa Émile Chanoux.
Sempre nel 1925, nasce a Trieste l’organizzazione rivoluzionaria
sloveno-croata TIGR (“Tigre”: ma sono anche le iniziali di Trst-Istra
Gorica-Rijeka, cioè Trieste, Istria, Gorizia e Fiume). Il TIGR progetta e
compie attentati: ne fallisce uno, nel 1925, contro Gabriele
D’Annunzio; ne compie un altro, sanguinoso, alla stazione ferroviaria
di Prestranek nel 1926.
Quello stesso anno contò il suo primo caduto: il croato Vladimir
Gortan. Nel 1930, nell’assalto al quotidiano fascista “Il popolo di
Trieste”, quattro membri del commando, tutti sloveni, vengono
catturati, processati, condannati a morte e fucilati. Gli slavi sono
l’osso più duro che l’Italia fascista si trovi di fronte.
Il TIGR è il braccio armato di un partito politico irredentista, il
Movimento nazionale rivoluzionario degli sloveni e dei croati della
Venezia Giulia, che entra in contatto con gli antifascisti italiani
riuniti nella Concentrazione antifascista di Parigi e, nel 1936,
sottoscrive un patto d’unità d’azione col Partito comunista d’Italia:
che s’impegna a lottare “in ogni momento per il riconoscimento e
l’applicazione del diritto all’autodeterminazione delle popolazioni
slave della Venezia Giulia, compreso quello della separazione dallo
Stato italiano”. Su 978 processi celebrati dal Tribunale Speciale
contro gli antifascisti italiani, 131 sono dedicati a sloveni e croati; su
4.596 condanne, 476 sono a carico di sloveni e croati; su 27.727 anni
di carcere comminati, 4.893 sono inflitti a sloveni e croati; su 42
condanne a morte, 33 riguardano sloveni e croati.
Mussolini si fa intanto anche l’impero. Conquista, nel 1936,
l’Etiopia, lavando l’onta di Adua e facendone dono al suo re, che
diventa così anche imperatore, imitando Cecco Beppe e facendo
dell’Italia una sorta di seconda Cacania. Nel 1939, Vittorio
Emanuele III cinge (o calza?) anche la corona di Albania. L’“impero
italiano” comincia, alzando sempre di più la testa, ad intravedere le
stelle.
Ma Mussolini si allea con Hitler e non sa che così facendo progetterà
la sua fine. Insieme al nuovo alleato, progetta però l’atto finale
dell’eliminazione dei sud-tirolesi, che né la scuola italiana
obbligatoria, né l’immigrazione massiccia e programmata di italiani
in Alto Adige, né le aggressioni della polizia di Stato(-partito), né i
decreti prefettizi, né i decreti ministeriali e nemmeno i regi decreti
legge erano riusciti a “italianizzare”.
Nel 1939, viene infatti sottoscritto il celebre accordo Mussolini
Hitler: i sud-tirolesi devono scegliere subito se trasformarsi davvero
in “italiani” rinunciando seriamente alla loro nazionalità e alla loro
lingua materna oppure se mantenere lingua e nazionalità proprie ma
trasferirsi in Germania e nelle nuove terre che il Terzo Reich ha
intenzione di conquistare al più presto nell’Europa centrale e
orientale (espellendone gli abitanti e ripopolandole con tedeschi
veraci): 185.085 sud-tirolesi di lingua tedesca optano per
l’abbandono della loro terra (anche se ne partiranno soltanto 77.772
per ragioni logistiche e militari che ne ostacolarono il “libero”
deflusso); 85.900 optano invece per la loro trasformazione etnico
linguistica “volontaria” (in realtà vogliono rimanere nel loro paese).

Irredenti veri e presunti


Nonostante la tardiva quanto fraterna ed esaltante amicizia col
Führer, il Duce era stato a lungo un nemico giurato della Germania e
dell’espansionismo tedesco. Aveva perfino schierato al Brennero le
sue divisioni perché Hitler non compisse l’annessione dell’Austria
(annessione che fu soltanto rimandata).
Il 24 aprile 1921, un pacifico corteo di sud-tirolesi, radunatisi in
occasione dell’annuale Fiera campionaria di Bolzano, venne assalito a
bastonate da un gruppo di fascisti venuti da fuori al comando di
Achille Starace. Una bomba venne lanciata da una finestra sul corteo
e provocò un morto, un giovane maestro di musica sud-tirolese che si
chiamava Franz Innerhofer. I reali carabinieri non intervennero e il
procuratore del re non aprì nessuna inchiesta e, comunque, non
incriminò mai nessuno.
Il 21 giugno, alla Camera dei Deputati, Mussolini dichiarò: “Vengo ai
fatti del 24 aprile quando una bomba fascista giustamente collocata e
per la quale rivendico la mia responsabilità morale, segnò il limite al
di là del quale il fascismo non intende che vada l’elemento tedesco”.
Colse l’occasione, nello stesso discorso, per denunciare il pericolo
tedesco che incombeva su tutta la nazione italiana e chiese in
proposito l’annessione immediata del Canton Ticino “che è
lentamente tedeschizzato e imbarbarito” con la complicità attiva del
governo svizzero e l’indifferenza complice del governo italiano.
I fascisti non cessarono mai, quando giunsero al potere, di guardare
alle terre rimaste irredente anche dopo la prima guerra mondiale: al
Canton Ticino e alla Corsica che, secondo la logica risorgimentale,
appartenevano all’Italia “linguistica”, ma anche a Nizza e a Malta che,
secondo la stessa logica, facevano parte soltanto dell’Italia “naturale”.
E perfino alla Savoia e al Canton Vallese, per ragioni dinastico
storiche, e all’intero Canton Grigioni, di cui soltanto quattro
modeste vallate erano riconducibili all’Italia nazional-naturale. Ma
anche alla Dalmazia, alla Carniola e alle Isole Ionie (con Zante, la
“Zacinto” di Foscolo, e l’indispensabile Corfù, che nel 1923 venne
occupata e subito abbandonata con molte scuse per l’intervento
piuttosto seccato delle grandi potenze “demoplutocratiche”).
L’Albania e il Dodecaneso erano già (o in procinto di essere, nel caso
albanese) preda italiana e l’impero più propriamente coloniale si stava
espandendo.
Pur adottando la necessaria cautela diplomatica, il governo fascista
finanziò con dovizia di fondi e a fondo perduto i gruppi irredentistici
presenti in questi territori. Il suo alibi era la difesa dell’“italianità”
linguistica (che spesso, però, mancava: come nel caso di Malta, dove si
parlava una lingua semitica ei rapporti col Partito nazionalista locale
cominciarono a raffreddarsi quando Londra concesse l’uso pubblico
del maltese che sgominò rapidamente la pratica colta della lingua
italiana).
Gli sforzi più consistenti furono diretti verso la Svizzera (che era, in
fondo, un piccolo paese, timoroso di “urtare” l’Italia: ma che
riconosceva l’italiano come lingua propria del Canton Ticino e, dal
1938, come propria lingua “nazionale” e “ufficiale”).
La denominazione Canton Ticino era, al solito, farina del sacco di
Napoleone e della sua mania degli idronimi: divenuto “moderatore
della Confederazione svizzera”, Napoleone la costrinse a elevare
quelli che erano allora sette “baliaggi” alle dipendenze dirette d’alcuni
cantoni tedeschi (che se li governavano a rotazione), più la Val
Leventina, appannaggio del cantone tedesco di Uri, in un unico
cantone autonomo, i cui abitanti vennero dotati per la prima volta
dei diritti politici (da Napoleone e non dalla “libera” Svizzera).
Napoleone tentò anche di aggregare il Ticino alla Repubblica
cisalpina: ma gli stessi ticinesi, che pure si erano dati stolidamente agli
svizzeri nel XV secolo, dopo esserne stati militarmente conquistati, per
sfuggire alla “tirannia” del duca di Milano, rifiutarono per il timore
che la loro fede cattolica venisse offesa dal “libero pensiero” in voga a
Milano.
Napoleone ebbe più fortuna con la Valtellina (anch’essa una volta
sotto il duca di Milano), allora alle dirette dipendenze della
repubblica delle Tre leghe (non ancora inserita nella Confederazione
svizzera come canton Grigioni), che riuscì a traghettare nella
Repubblica Cisalpina ad eccezione delle quattro convalli più volte
citate.
Un certo sentimento d’italianità (se non politico, culturale) si era, col
tempo, sviluppato nel Ticino: che era in fondo un lembo di
Lombardia, con la quale manteneva uno scambio costante di rapporti
e di persone. Questa piccola Svizzera italiana era però, in un certo
senso, condizionata dal peso politico e culturale crescente della più
vasta e ricca Svizzera tedesca e cominciava a temere per la propria
sopravvivenza culturale.
Il Ticino aveva dato i natali ad un linguista celebre, Carlo Salvioni,
divenuto, a una certa età, assertore convinto dell’italianità linguistica
del cantone. La “lingua padana” non era stata ancora “scoperta” e
Salvioni era addirittura convinto che nemmeno il retoromanzo
esistesse: “I dialetti ladini si devono [...] aggregare come nuclei
periferici agli altri dialetti italiani”. Anche la linguistica, come tutte le
scienze, non può prescindere da una certa ispirazione politica. Del
resto, Salvioni aveva creduto a lungo nella lingua ladina: fino al
momento della morte sul campo dei suoi figlioli, irredentisti
convinti, che si erano arruolati volontari nell’esercito italiano.
Salvioni fu l’ispiratore della rivista “Adula”, portavoce
dell’irredentismo culturale ticinese ma, nelle intenzioni, anche
grigione: il monte Adula sovrasta sia la valle del Ticino che la val
Mesolcina. La rivista cominciò le sue pubblicazioni nel 1921.
Attorno ad “Adula” si formò un movimento italofilo, che da
culturale divenne, nel 1920, anche politico e si espresse, sia pure a
mezza voce, per l’annessione del Ticino e dei Grigioni all’Italia. Assai
più forte appariva, nella Svizzera tedesca, il Volksbund (“Lega
popolare”) che rivendicava, anch’esso a mezza voce, l’annessione alla
Germania. Nemmeno la Svizzera romanda (di lingua francese)
appariva tranquilla. È solo grazie alla sua politica di assoluta
neutralità, assai conveniente anche da un punto di vista economico,
che la confederazione (definita da Alfred Cobban una “associazione
multinazionale funzionante”) ha impedito ogni lacerazione tra le sue
componenti etniche: lacerazione che sarebbe puntualmente avvenuta
se la Svizzera si fosse schierata a fianco della Germania oppure della
Francia in qualcuno degli scontri che hanno frequentemente opposto
in armi questi due Stati.
Dal 1923, “Adula” mostrò una costante, acritica, “mistica” adesione
alla nuova Italia fascista e a Mussolini. Ebbe in cambio finanziamenti
cospicui dal governo di Roma e una specie d’immunità diplomatica.
Ciò spiega la politica cauta e abilissima di Giuseppe Motta, il
ministro degli Esteri elvetico (che era ticinese), nei confronti di
Roma e degli irredentisti indigeni. Motta riuscì a mantenere a lungo
in equilibrio una situazione difficile, complicata dal fatto che
risiedevano, nel Canton Ticino, 30.000 lavoratori immigrati italiani,
con le loro sezioni “all’estero” del Partito fascista (che compirono
perfino una storica “marcia su Bellinzona” in difesa dei loro diritti di
“ospiti” minacciati).
I ticinesi erano, in maggioranza, antifascisti. Soltanto i liberali di
destra appoggiavano in parte le rivendicazioni di “Adula”. Mussolini
finanziava poi anche il Partito fascista svizzero del colonnello
Fonjallez, che era “nazionalista elvetico” e contrario ad ogni
irredentismo interno, compreso quello dei ticinesi.
Nonostante questa, e numerose altre, contraddizioni, Roma pilotava
l’irredentismo italiano nel mondo attraverso una rete di organismi, di
accademie e di riviste “culturali” e la sua protezione spingeva
addirittura gli irredenti a un’arroganza immotivata.
I retoromanzi svizzeri (romanci renani e ladini engadinesi: l’1 per
cento dei cittadini della confederazione e il 30 per cento dei grigioni)
premevano da tempo per il riconoscimento, da parte del governo
elvetico, della loro lingua, ormai ufficializzata dal parere della
maggioranza dei glottologi, ma che era riconosciuta soltanto nel
Canton Grigioni (a partire dal 1794, quando il Parlamento della
Repubblica delle Tre leghe l’aveva resa ufficiale, in due diverse
varianti scritte, insieme al tedesco e all’italiano).
Gli italiani irredenti sono sempre stati una brutta bestia per i
retoromanzi: i trentini austriaci si erano opposti, come abbiamo
raccontato, al riconoscimento dei ladini dolomitici da parte
dell’Austria. Si opposero anche, nel 1915, guidati da Alcide De
Gasperi, allora deputato austriaco, durante l’ultima seduta del
Parlamento di Vienna, al riconoscimento dei friulani come
Volksstamm richiesto dal deputato goriziano Giuseppe Bugatto,
anche lui del Partito popolare. Gli irredentisti ticinesi si opposero
puntualmente alle rivendicazioni dei retoromanzi grigioni che, per
loro, erano italiani purissimi, così come lo erano i friulani per De
Gasperi.
Dalla costola di “Adula” uscì, nel 1931, una nuova rivista, “Raetia”,
che cercò di convincere i grigioni della loro “italianità”. I fascisti
italiani, dal canto loro, fondarono a Milano, nel 1934, il Comitato
d’azione irredentista per la Rezia, il Ticino e il Vallese (anche se il
Vallese c’entrava come il cavolo a merenda). Intanto, nel 1935, il
Codice Penale svizzero venne modificato con l’accoglimento di
nuove norme “per la repressione degli attentati contro
l’indipendenza della confederazione”.
Il 9 agosto di quell’anno, Berna ebbe finalmente gli strumenti legali
per sopprimere “Adula” e per arrestare due leader del movimento
irredentista (adulatori senza pudore anche se in buona fede di
Mussolini), sui quali aleggiava perfino un sospetto di spionaggio (ma
che restarono comunque in carcere per meno di sei mesi).
Nonostante l’opposizione forsennata degli irredentisti ticinesi e dei
fascisti italiani, il 20 febbraio 1938 si tenne in tutta la Svizzera il
referendum popolare sul riconoscimento del retoromanzo come
quarta lingua “nazionale” della confederazione. I sì furono 574.991 e
i no 52.827. In quell’occasione fu riconosciuto anche l’italiano, che
era già la terza lingua “nazionale”, come lingua “ufficiale” della
Svizzera.
Il linguista italiano Carlo Battisti (noto al grande pubblico come
attore in quanto interprete principale del film di Vittorio De Sica
Umberto D: ma la colpa è del grande pubblico), allievo di Salvioni,
aveva sostenuto invano che “non v’ha [...] stacco tra le varietà ladine e
le italiane ma una zona di transizione variabile di fonema in fonema”.
Il popolo svizzero non gli credette.
I suoi colleghi glottologi gli risposero implicitamente con A. Varvaro
quando questi scrisse, nel 1963: “Se per limite dialettale si deve
intendere una linea matematica in cui coincidono con precisione
fenomeni linguistici, allora bisogna [...] rispondere che tali limiti non
esistono; ma se il limite dialettale si definisce [...] come una zona, uno
spazio relativamente piccolo, in cui le caratteristiche linguistiche
subiscono mutamenti che per numero e per significato superano di
gran lunga quelli che si riscontrano nelle restanti parti del territorio
linguistico in questione, allora si può affermare che questi limiti
esistono”. È un’opinione che taglia la testa al toro.
Nel 1958, il linguista retoromanzo A. Schorta, aveva del resto
scherzosamente affermato che se le cose stavano davvero com’era
stato sostenuto da Salvioni e Battisti, i dialetti italiani (perlomeno
quelli padani) andavano immediatamente annessi dalla “lingua”
retoromanza, che aveva mantenuto intatti nel tempo alcuni caratteri
fondamentali smarriti invece da questi suoi presunti dialetti
“meridionali”.
Purtroppo, l’opinione dei due eminenti linguisti “nazionalisti
italiani” aveva confortato, con l’alibi della scienza, Tolomei e
Mussolini nella loro negazione oltraggiosa delle identità ladina
dolomitica e friulana. Dispute linguistiche a parte, si dirà che i
principali “adulatori” ticinesi si rifugiarono, durante la guerra, in
territorio italiano (in Lombardia), testimoniando dignitosamente la
loro fede nell’Italia nazional-naturale, una fede sicuramente sincera e
perfino coraggiosa anche se assai mal riposta.
In Corsica, le cose andarono sicuramente peggio. La lingua italiana
non era certo, come in Svizzera, assurta al livello dell’“ufficialità di
Stato”: era stata invece bandita ed era duramente perseguitata dallo
Stato francese. E i còrsi non erano padani ma “quasi toscani” e quindi
“italiani” tout court. Mussolini fece di tutto (e ci riuscì) per non farli
più nemmeno sentire tali.
Va detto che, in Corsica, l’irredentismo indossava i panni
dell’autonomismo e del regionalismo e si esprimeva in “dialetto”.
Non poteva non essere così, se si pensa a quanto scriveva il corso
Viale al Vieusseux, già nel 1858 (prima dell’inaudita repressione
linguistica scatenata da Ferry): “Nel seminario di Ajaccio vi è un
tribunale (che) condanna ogni scolaro che abbia parlato in italiano ad
una multa pecuniaria in ragione d’un centesimo per ogni parola”.
L’autonomismo còrso si espresse attraverso tre celebri riviste
dialettali: nel 1896, con “A Tramuntana” (“La tramontana”); nel
1914, con “A Cispra” (“Il calcio del fucile”), che venne pubblicata
nell’immediata vigilia di una guerra che costrinse a morire, “per la
Francia”, 20.000 corsi (il 15 per cento della popolazione).
Negli anni Venti, l’esempio del Partito sardo portò alla fondazione di
un Partito còrso d’azione: che divenne, poi, Partito còrso
autonomista e i cui esponenti collaborarono alla terza rivista in
dialetto, la più coraggiosa e politicizzata di tutte: “A Muvra” (la
femmina del “muflone”; una capra selvatica che esiste soltanto in
Corsica e in Sardegna). “A Muvra” indirizzò i suoi appelli anche ai
còrsi emigrati in Francia, che cominciavano ad essere assai di più di
quelli rimasti in patria e ingolfavano già la pubblica amministrazione
in quanto facevano i piccoli impiegati, i gendarmi, i postini, i
doganieri (anche se qualcuno aveva intrapreso con successo la
professione di gangster a Parigi e a Marsiglia).
La vita politica dell’isola era in mano ai cosiddetti “clan”: due gruppi
tradizionali di notabili, a base familiare, che manipolavano i voti,
concedevano i favori possibili e assegnavano i posti di lavoro
disponibili, schierandosi, rispettivamente, con la “destra” e con la
“sinistra” governative: ovviamente per il loro tornaconto. Non c’era
spazio per il Partito còrso, che denunciava invece l’alienazione
dell’isola e la sua imbelle sottomissione a Parigi (e che contava
soltanto su un centinaio d’aderenti). Una parte degli autonomisti
cominciò a prestare ascolto alla sirena italiana, che la corteggiava
discretamente, e diventò, a partire dal 1936, apertamente
irredentista. Mal gliene incolse.
Durante la seconda guerra mondiale, a Francia battuta, l’Italia non
ebbe nemmeno il coraggio di annettere la Corsica, come fece invece
con la Dalmazia e con la Carniola. Eppure aveva occupato l’isola con
ben 80.000 soldati, pari alla metà della popolazione residente. Gli
alleati tedeschi, che trescavano col maresciallo Pétain, non glielo
avrebbero, del resto, permesso. Gli irredentisti irriducibili (pochi e
sfortunati) si “sporcarono” le mani aderendo a un’Italia ideale che,
nel momento più favorevole, li ignorò. Ciò li costrinse, per sfuggire
alla repressione, a rifugiarsi in una madrepatria indifferente. Scelsero
la Toscana (Livorno e Firenze) cercando d’alimentare, con una
retorica naïve, una fiammella che la loro scelta di campo aveva
irrimediabilmente condannato a spegnersi. Neofascisti e post-fascisti,
così “generosi” con l’Istria e la Dalmazia, hanno sempre ignorato la
Corsica.
La Francia vittoriosa ebbe facile gioco nel condannare gli irredentisti
come “fascisti” e “traditori della patria”. L’autonomismo isolano
riuscì a risollevare la testa soltanto negli anni Sessanta, da posizioni
iniziali d’estrema sinistra, senza più nessun riferimento, nemmeno
ideale, all’Italia.
Divenne rapidamente nazionalista ma soltanto “còrso” e si gettò a
capofitto nella rivendicazione della lingua còrsa, improbabile simbolo
di una nazione còrsa altrettanto improbabile. Tuttavia, dopo l’IRA e
l’ETA, il “terrorismo” còrso è oggi il più tenace e attivo movimento di
lotta armata contro gli Stati sedicenti “nazionali” dell’Europa
occidentale.
8.
L’Italia in bilico

Venti anni dopo


Dei centoquarantadue anni di vita dell’Italia-Stato, appena una
ventina sono stati occupati dal fascismo che, pur lasciando intatto lo
Statuto sabaudo, riuscì a svuotarlo di tutti quei contenuti
“costituzionali” (nel senso della “libertà” e della “democrazia”
formali) che erano stati uno dei pochi valori acquisiti dalle
popolazioni “italiane” con l’istituzione del regno. Allo stesso tempo,
il fascismo accentrò ancora di più lo Stato. Eppure, nonostante una
propaganda ossessiva, condotta senza risparmio di mezzi e di energie,
fallì nel suo tentativo di nazionalizzazione delle masse.
Il culto della patria, così come era venuto, se ne andò in maniera
repentina, appena caduto il regime, senza avere cementato, nel
frattempo, la nazione presunta: che rimase profondamente divisa.
Come dice Salvatore Scarpino, “il fascismo non aveva risolto i
problemi del Mezzogiorno, li aveva soltanto rimossi evitando che
diventassero oggetto di specifico dibattito”. La politica dello struzzo,
perseguita dal governo di Mussolini, può essere misurata, all’interno
della “questione meridionale”, dal tanto conclamato
“annientamento” della mafia per mano del prefetto Mori: caduto il
fascismo, la mafia era ancora lì, più salda e forte di prima. Nemmeno
l’impero, racimolato con troppa fretta, aveva minimamente
contribuito al riscatto del Sud, prima di svanire in un lampo e con un
turbinello appena di polvere.
Anche gli “alloglotti”, così duramente perseguitati, riemersero, alla
caduta del Duce, intatti di lingua e di fede, con la stessa voglia di
secessione e di plebiscito, “attentando” con successo (sia pure
parziale) agli stessi confini naturali della patria che era stata loro
imposta così controvoglia.
Non è un caso se, con ogni probabilità, il primo raggruppamento
partigiano a costituirsi nell’Italia-Stato fu il Comité de liberation
valdôtain, organizzato da Chanoux fin dal luglio del 1941. Un mese
prima, tre sloveni della Venezia Giulia, esuli in Iugoslavia, erano
tornati clandestinamente nel paese di origine per organizzarvi la
resistenza, che riuscirono però a rendere sporadicamente operante
soltanto alla fine dell’anno. Addirittura nel 1939, i sud-tirolesi
avevano fondato la Lega Andreas Hofer, un’organizzazione
clandestina che nel 1944 partecipò alla guerra partigiana salvando
l’onore antifascista dei sud-tirolesi, nella loro maggioranza facile
preda della medusa nazista.
L’antenato immediato del CLN, il Comitato delle opposizioni, nacque
soltanto nel settembre del 1942 e il CLN venne fondato nel settembre
del 1943. Va detto subito che i “resistenti” sloveni erano nazionalisti,
appunto, “sloveni”; e che i “resistenti” valdostani erano autonomisti,
cioè “federalisti”: ma raccoglievano una frangia non minuscola di
annessionisti alla Repubblica Francese.
Nel periodo tra l’8 settembre 1943 e il 25 aprile 1945, si consumò
una divisione politico-militare e istituzionale del paese che, ad onta
delle circostanze nelle quali era avvenuta, appariva in linea (almeno
territoriale) con la reale divisione del paese stesso: il Nord, fino al
1945, rimase sotto l’occupazione tedesca; il Sud (con le isole), sotto
quella anglo-americana. Il Centro, che esiste soltanto come luogo
geometrico, stette un anno “sotto” i tedeschi e un anno “sotto” gli
anglo-americani: cui il re d’Italia, a guerra persa, era riuscito ad
allearsi abbandonando il precedente alleato (e dai quali era stato
mantenuto in sella).
Il Sud continuò l’esistenza formale del regno mentre il Nord, insieme
alla Toscana, sperimentò quella che taluno ha chiamato l’“epopea
partigiana” (un fenomeno anch’esso soprattutto padano) o anche il
“secondo Risorgimento” e qualcun altro soltanto una dolorosa
“guerra civile”. Ma fu anche la sede fisica di un nuovo Stato italiano,
sia pure fantoccio (ma era tale anche il regno superstite), che prese il
nome di Repubblica sociale italiana (la “seconda repubblica”, dunque,
dopo quella napoleonica) e venne fondato nel settembre 1943 da
Mussolini (imprigionato dal re ma liberato e rimesso in sella dai
tedeschi).
A un certo momento, il fronte militare si stabilizzò, profeticamente,
proprio sul confine etnico, linguistico e naturale che correva tra
Appenninia e Padania: la “linea gotica”, divenuta anche confine tra
due Stati (in realtà assai poco “sovrani”), di cui uno, secondo il diritto
internazionale, appariva pienamente legittimo e l’altro si era
inventato da solo ed era stato riconosciuto soltanto dalla Germania
nazista.
Entrambi gli Stati “italiani” fecero grande uso dei termini “patria” e
“onore nazionale”, dandone interpretazioni diametralmente opposte.
La guerra civile tra “partigiani” e “repubblichini” si svolse, al Nord e
in Toscana, come è stato recentemente affermato con molta
verosimiglianza dagli storici “revisionisti”, soltanto tra due
minoranze: la maggioranza della popolazione rimase, infatti, sul
piano operativo, pur in condizioni di estremo disagio, indifferente.
Siamo convinti che, in cuor suo, parteggiasse per la Resistenza: il
fascismo era obiettivamente impresentabile e i “repubblichini”
avevano, insieme ai tedeschi, la tendenza irrefrenabile al massacro
facile. La maggioranza dei cittadini italiani si guardò bene, tuttavia,
dallo spargere, se non per cause di forza maggiore nelle quali rimase
impigliata, una sola goccia di sangue (anche se di sangue ne fu sparso
tanto).
L’antifascismo più dottrinario, quello “professionale” che languiva
nelle carceri del regime oppure era riuscito a rifugiarsi all’estero per
tessere le trame della riscossa, aveva, durante il ventennio, riflettuto
sullo Stato italiano e sulla sua struttura tradizionale: e aveva
cominciato ad esprimere ragionevoli dubbi sul suo assetto
centralistico (che aveva oltretutto favorito l’avvento di Mussolini).
D’altronde, essendo composto di protagonisti, al momento appartati,
del “secondo Risorgimento”, non poteva sfuggire ai lacci ideali e
insieme ideologici del “primo”: l’Italia era e doveva rimanere “una”
ma avrebbe dovuto aprirsi, a Duce morto, ad un sano regime di
“autonomie” per la tutela “democratica” dei territori e delle
popolazioni che vi risiedevano. Si andava da un’opzione moderata di
decentramento neocavurriano ad un’opzione radicale di rinnovato
“federalismo” alla Cattaneo. Particolarmente inclini a un vago
regionalismo erano i cattolici, che tuttavia, per il momento, non si
facevano vedere (né sentire troppo).
Il Partito Comunista d’Italia aveva approvato, nel suo quarto
congresso clandestino (svoltosi nell’aprile del 1931 tra Colonia e
Düsseldorf) un “programma d’azione” che diceva, tra l’altro: “allo
scopo di accelerare lo sviluppo economico del Mezzogiorno, della
Sicilia e della Sardegna [...] la rivoluzione proletaria promuoverà la
costituzione di repubbliche socialiste e soviettiste autonome del
Mezzogiorno d’Italia, della Sicilia e della Sardegna nella Federazione
delle repubbliche socialiste e soviettiste d’Italia. La rivoluzione
proletaria darà alle minoranze nazionali il diritto di disporre di se
stesse sino alla separazione”. Gramsci aveva del resto riconosciuto alla
“questione meridionale” un’“identità territoriale” che considerava un
aspetto rilevante di una “questione nazionale” latente. La linguistica
non aveva ancora “scoperto” l’indipendenza dei dialetti padani e
centro-meridionali dal toscano-italiano.
Gramsci, in una lettera scritta da Ustica, dove esisteva una colonia di
“coatti”, aveva rilevato, dal loro comportamento, che “quattro
divisioni fondamentali esistono: i settentrionali, i centrali, i
meridionali (con la Sicilia) e i sardi”. Gli sfuggirono i friulani (che
magari non erano rappresentati nella colonia coatta) e i toscani, da lui
annegati in una “centralità” geografica indistinta. Il centro non è un
concetto etnico, culturale e linguistico come non lo sono, del resto, il
nord e il sud, considerati di per sé. Comunque, dimostrò di avere una
discreta vista.
A lui si deve la teoria, divenuta ufficiale nel partito comunista,
secondo la quale, constatata la perdurante disparità tra i vari popoli
della “Penisola” (formata in realtà, come si è detto, da una penisola
vera e propria, da alcune isole e da un troncone dell’Europa
continentale malamente accozzati tra loro), era d’uopo riconoscere
che il Risorgimento era fallito: era però fallito in quanto prodotto
dall’alleanza dei “capitalisti” industriali del Nord con i grandi agrari
del sud a dispetto dell’interesse dei rispettivi popoli, soprattutto di
quello meridionale. Che fare? Anziché separare istituzionalmente
l’Italia-regione, il compito dei comunisti dell’Italia-Stato doveva
essere quello di compiere finalmente l’unità nazionale ancora
latitante attraverso l’alleanza degli operai nel Nord con i contadini
del Sud. E in questo modo si ribadì una separazione endemica,
ritenuta epidemica e pertanto curabile nell’ambito di uno stesso
Stato.
Il sardista Emilio Lussu pubblicò nel 1933, su “Giustizia e libertà”
(organo di quel movimento politico, così importante e così effimero,
che si chiamò poi Partito d’Azione e che portò sulle proprie spalle,
insieme ai comunisti, quasi tutto il peso della Resistenza e della
guerra partigiana) alcune riflessioni significative. “Non basta più dire
‘autonomie’, bisogna dire ‘federazione’ [...] Dicendo dunque
‘federazione’ noi intendiamo [...] uno Stato federale centrale a
responsabilità limitata, che è il risultato dell’unione d’altri Stati locali,
sovrani anch’essi ma in forma minore”. Purtroppo, l’“autonomia”
resterà l’alibi preferito del centralismo endemico dello Stato anche
dopo il suo superficiale rinnovamento.
Il 19 novembre 1943, mentre infuriava nella “regione statistica”
denominata Piemonte la guerra partigiana (e gli esponenti del cln,
giunti in Valle d’Aosta per impiantarvi la resistenza scoprirono che la
resistenza era già attiva, agli ordini del Comité de liberation
valdôtain), Chanoux (che aveva aderito al Partito d’Azione) riunì a
Chivasso un gruppo d’esponenti antifascisti valdostani e delle valli
valdesi che si definirono “rappresentanti delle popolazioni delle
vallate alpine occidentali” e approvarono un documento dove
auspicarono una “repubblica federale italiana” che sorgesse dalle
ceneri del fascismo con un vasto programma di autonomie politiche,
amministrative, culturali e scolastiche all’insegna della libertà di
lingua e di culto. Un documento, venuto dalla periferia, che vale più
di tutti gli studi e i progetti astratti escogitati dai partiti in fase di
riorganizzazione sotto i rispettivi vertici “nazionali”.
Il 19 maggio 1944, Chanoux venne arrestato dalla polizia fascista,
portato in questura, torturato a morte e lasciato spirare in cella. Le
formazioni partigiane valdostane assunsero il suo nome e passarono
sotto il comando del leggendario Mésard (César Ollietti) che era un
convinto assertore dell’annessione alla Francia. Le formazioni
Chanoux operarono indisturbate nell’alta valle lasciando ai
garibaldini e alle formazioni di Giustizia e libertà la media e la bassa
valle. Va detto che, ispirandosi scopertamente al “primo”
Risorgimento e al suo eroe più popolare, le formazioni comuniste
avevano assunto dappertutto il nome di Garibaldi (che era per altro
un assertore e un difensore dei diritti di tutti i popoli, nessuno
escluso). Anche nella Venezia Giulia. A questo proposito va ricordato
che, nel 1934, era stata emessa una dichiarazione congiunta dei
partiti comunisti di Iugoslavia, Italia e Austria nella quale si
affermava che “i comunisti delle nazioni dominanti (serbi, italiani e
austriaci) concentreranno la loro lotta attorno al problema sloveno
[...] per la liberazione e l’unificazione incondizionata del popolo
sloveno oppresso”.
Il nazionalismo sloveno fu in seguito, almeno in parte, convinto da
Tito all’idea di un federalismo iugoslavo che rompesse il tradizionale
predominio dei serbi. E i partigiani sloveni confluirono nel Consiglio
antifascista di liberazione della Iugoslavia, fino dal novembre del
1942. Le prime formazioni Garibaldi della Venezia Giulia, istituite
nel settembre del 1943, operarono congiuntamente ai partigiani
sloveni (e in seguito a quelli croati dell’Istria). Di qui le polemiche col
cln che non voleva rinunciare ai confini nazional-naturali
(ovviamente non riconosciuti dagli sloveni) mentre i comunisti, per
non dividere il fronte antifascista, rimandavano a dopo la fine della
guerra ogni discussione relativa ai problemi di confine.

La Sicilia se ne vuole andare


Intanto, in Sicilia, si era formato un movimento antifascista
clandestino, “Sicilia e libertà”, attorno ad Antonio Canepa, un
docente universitario che professava il “nazionalismo siciliano” ed era
stato un fervente fascista. Antonio Canepa aveva organizzato, da
giovanissimo, con il fratello e un pugno d’amici, addirittura nel 1933,
un’occupazione simbolica di San Marino per decretare la
trasformazione dell’antica e gloriosa repubblica in uno staterello
fascista satellite.
Scoperto dalla polizia, non riuscì a realizzare il suo piano. Venne
rinchiuso per qualche tempo in una clinica psichiatrica e infine
perdonato (mentre il fratello e gli amici furono condannati a dieci
anni di reclusione). Fu nominato addirittura cattedratico di mistica
fascista all’Università di Catania proprio nel momento in cui divenne
antifascista e passò dal nazionalismo italiano a quello siciliano: fu un
travestimento geniale che gli permetteva di fare l’antifascista di
professione. Si arruolò, infatti, nel 1943, come agente in Sicilia,
nell’Intelligence Service britannico.
Il 10 giugno 1943, durante lo sbarco anglo-americano, Canepa
assaltò con i suoi l’aeroporto di Gerbini e diresse un paio d’operazioni
contro alcune basi tedesche nell’isola. Aderì al Movimento per
l’indipendenza della Sicilia (MIS) che venne fondato il 23 luglio 1943.
Un mito persistente della storiografia di sinistra è che il MIS fosse lo
strumento politico dei reazionari, dei grandi agrari e della mafia per
“sfruttare” i lavoratori siciliani, privandoli della protezione
istituzionale dello Stato (che abbiamo visto quale fosse).
I siciliani, comunque, avevano offerto agli invasori anglo-americani lo
stesso appoggio che avevano offerto ottantatré anni prima a
Garibaldi. Si ricordarono della loro Costituzione del 1848 (“La
Sicilia sarà sempre Stato indipendente”) e si rivoltarono contro Roma
(come avevano fatto tante volte in passato contro Napoli),
confidando nell’appoggio degli occupanti. Sembra che il movimento
indipendentista raggiungesse presto i 400.000 iscritti (quando la DC
ne aveva, nell’isola, 40.000 e il Partito comunista 30.000). I dirigenti
del MIS erano, in maggioranza, notabili di destra, spesso relitti politici
dello Stato pre-fascista, coronati dall’adesione unanime della vecchia
nobiltà isolana. Ma Canepa, con un contorno, tutt’altro che
trascurabile, d’intellettuali, di piccoli e medi professionisti e di molti
studenti, vi capeggiava vigorosamente la sinistra.
Gli anglo-americani posero gli indipendentisti a capo di molti
comuni dell’isola e l’opinione pubblica americana guardò con
simpatia a questi “secessionisti”, considerandoli romantici e idealisti.
Impauriti dal consenso di massa ottenuto dai separatisti, i partiti
italiani dell’isola (DC, PCI, PSI, Pd’A) resero pubblico, il 24 luglio 1943,
un manifesto dove auspicarono una Repubblica federativa italiana:
un manifesto che cadde nel dimenticatoio e fu sconfessato dalle
direzioni centrali di quei partiti.
Durante il suo primo Congresso “nazionale” (20 ottobre 1944), il MIS
si pronunciò per una “repubblica indipendente siciliana federata con
gli altri Stati italiani”, preconizzando in realtà una confederazione.
Lo stesso giorno tornò in Sicilia Antonio Canepa, che aveva seguito
le truppe inglesi nell’invasione della penisola e aveva partecipato alla
liberazione di Firenze. Il leader del partito, Andrea Finocchiaro
Aprile, lo incaricò in gran segreto di organizzare una formazione
militare indipendentista. I tempi si erano fatti critici e bui.
Il 9 dicembre 1943, Finocchiaro Aprile aveva, infatti, indirizzato
invano un’ennesima supplica agli alleati (“risparmiateci di
consegnarci all’Italia”). Ma aveva ormai compreso che ragioni
ineluttabili di politica internazionale avrebbero posto fine ai suoi
sogni. L’11 febbraio 1944, infatti, il governo militare alleato aveva
consegnato l’isola all’amministrazione italiana.
Roma vi nominò un Alto Commissario. Le amministrazioni
comunali in mano al MIS vennero smantellate e scoppiarono, in tutta
l’isola, gravi incidenti. La mafia scese (o rimase) in campo dalla parte
dei separatisti, sia pure con l’abituale cautela. Canepa, che aveva
costituito l’EVIS (Esercito volontario per l’indipendenza della Sicilia),
venne ucciso, vicino a Randazzo, insieme a due studenti, in un
agguato dei carabinieri, all’alba del 17 giugno 1945. Gravemente
ferito, fu lasciato morire dissanguato. L’anima democratica del
separatismo venne così soffocata.
Concetto Gallo, un avvocato di Catania, anche lui esponente della
sinistra, divenne il nuovo comandante dell’EVIS. Combatté, nel 1946,
la sua prima e ultima battaglia campale a San Mauro di Sopra, vicino
a Caltagirone: 5.000 soldati “italiani” contro 56 “soldati” siciliani. La
battaglia durò sei ore. Vinsero gli italiani e Gallo fu catturato. L’EVIS
venne allora rimpolpata, sconsideratamente, con le forze del
banditismo comune sotto la guida di Salvatore Giuliano. La causa del
“separatismo” s’intorbidò così del tutto. Lo Stato italiano, via via che
si eclissavano gli ideali iniziali dei separatisti”, aveva vita sempre più
facile in tutta l’isola. Anche la mafia puntava ormai su di lui (come si
è visto bene in seguito).
Intanto, nell’aprile del 1945, le sedi del MIS erano state assalite e
distrutte su ispirazione del governo italiano e il 1° ottobre dello stesso
anno, Finocchiaro Aprile e altri due leader del MIS, erano stati
arrestati e inviati al confino nell’isola di Ponza. La grande fiammata
del “separatismo” si stava spegnendo. Il 15 maggio 1946, il governo di
Roma, con un decreto legislativo, concesse alla Sicilia uno Statuto
d’ampia autonomia che placò molte delle aspirazioni isolane
togliendo al MIS, di sotto i piedi, il suo stesso terreno.
Alle elezioni per l’Assemblea Costituente, il MIS raccolse in Sicilia
soltanto l’8,7 per cento dei voti. Finocchiaro Aprile, che era stato
liberato dal confino alla vigilia delle elezioni, venne eletto deputato.
Fu eletto anche Gallo, che poté così uscire dal carcere di Palermo. In
tutto, i “separatisti” ottennero quattro deputati.
La Sardegna, così determinata e animosa nel primo dopoguerra,
apparve assai più cauta della Sicilia nel secondo. Il Partito sardo
d’azione, risorto dalle sue ceneri, optò per un’autonomia “spinta” nel
quadro di un’Italia federale e repubblicana, lasciando aperti soltanto
alcuni spiragli separatisti nel caso che quest’autonomia non venisse
concessa nella misura più ampia possibile. La corrente
indipendentista venne, infatti, sconfitta, anche se di poco, nel
congresso dell’agosto 1944. Un nuovo partito indipendentista, la
Lega sarda (che offrì ai Savoia la corona dell’isola nel caso avessero
perduto la terraferma) si sciolse prima di essere riuscito a
organizzarsi.
Sorse perfino un Partito comunista di Sardegna che, venuto a
conoscenza di una svolta in senso “nazionalista italiano” del Partito
comunista, voleva continuare a lottare per la Repubblica sarda
nell’ambito della “Repubblica federativa e soviettista d’Italia”, ma fu
riassorbito, dopo undici mesi, dai comunisti ufficiali, con la promessa
dell’“autonomia regionale”.
Nelle elezioni per l’Assemblea Costituente, il Partito sardo d’azione
fu il secondo partito dell’isola, dopo la DC, e ottenne due deputati.
All’isola era stato promesso dal governo di Roma, che era
rappresentato, come in Sicilia, da un Alto Commissario (in pratica
un governatore) uno Statuto d’autonomia sul modello siciliano e
molte ansie si stavano placando.

I confini naturali vacillano


Prima del 25 aprile 1945 (a quella data i tedeschi abbandoneranno la
Padania anche se capitoleranno soltanto tre giorni dopo), i partigiani
valdostani avevano già liberato Cogne e Valsavaranche mentre quelli
francesi premevano al confine. I partigiani del CLN, preoccupati di
mantenere l’Italia “una e indivisibile”, si precipitarono su Aosta, che
occuparono il 28. I francesi passarono subito il confine e occuparono
alcune località dell’alta valle. Dietro di loro c’era De Gaulle.
Il 19 maggio, anniversario dell’assassinio di Chanoux, ventimila
valligiani scendono ad Aosta e chiedono il plebiscito. Se fosse stato
concesso, avrebbe quasi sicuramente sancito l’annessione alla Francia.
Nonostante i suoi desideri, De Gaulle si fa convincere dagli americani
e i partigiani francesi ripassano il confine. La Francia mostra di
accontentarsi di Briga e Tenda e di piccoli ritocchi di confine. Ma
non si sa mai.
Il governo italiano, terrorizzato, si muove tempestivamente e, il 7
settembre (con un decreto luogotenenziale), concede alla valle un
regime d’autonomia che la maggioranza dei valdostani ritiene
conveniente e pertanto convincente. La lingua francese torna nella
Valle con uno status di co-ufficialità con l’italiano.
Dopo la Sicilia, la Sardegna e la Valle d’Aosta, in qualche modo
placate, vediamo che cosa sta succedendo nei territori più riottosi:
quelli annessi con la forza delle armi nel 1919-20. I tedeschi,
occupando l’Italia l’8 settembre 1943, avevano, in modo obliquo,
annesso al Reich le province di Bolzano, di Trento e di Belluno,
costituendole in “zona di operazioni prealpina”. I sud-tirolesi,
optanti o meno che fossero per la Germania, da minoranza oppressa
si trasformano all’istante, almeno in provincia di Bolzano, in
maggioranza: fanno ormai parte del nuovo popolo eletto, quello
tedesco. Soltanto la minuscola Lega Andreas Hofer conduce la sua
brava guerriglia partigiana in Val Passiria. I sud-tirolesi in età di leva
sono infatti arruolati, in quanto tedeschi, nella Wehrmacht (e alcuni
di loro si arruolano nelle SS).
Non è però che i partigiani “italiani”, che li affrontano, siano, almeno
a parole, meno “fascisti” (in senso culturale e morale). Un documento
del CLN di Belluno (1945) afferma, infatti, testualmente: “Il confine
del Brennero, precisato da Dante, consacrato da 600.000 morti, è il
confine posto dalla natura a schermo dello straniero”. Niente, per
questi patrioti in armi, può giustificare “una rettifica della frontiera ai
danni di un popolo che continua l’antica e indistruttibile stirpe
latina”.
Il 25 aprile permette allo Stato italiano di riprendere possesso della
“zona d’operazioni prealpina”, formalmente appartenente alla
Repubblica sociale italiana ma che la Germania si era annessa
militarmente. Di là dalle Alpi, rinasce la Repubblica austriaca (che
era stata ingoiata da Hitler nonostante l’iniziale appoggio di
Mussolini). Il Tirolo può essere riunificato. La Lega Andreas Hofer si
trasforma in Südtiroler Volkspartei (SVP “Partito popolare sud
tirolese”) e la sua ideologia cattolica non le impedisce di raccogliere
tutti i sud-tirolesi (clericali, laici, socialisti, liberali o nazisti che
fossero) uniti nella difesa dei diritti della Heimat.
La SVP richiede agli alleati, nell’agosto del 1945, un referendum per
riunire il Sud-Tirolo alla nuova Austria indipendente (e alle due parti
del Tirolo situate di là dalle Alpi). Il vescovo di Bressanone scrive
personalmente, appoggiando la richiesta, a Winston Churchill.
Il nuovo governo austriaco chiede a sua volta, ufficialmente,
l’annessione del Sud-Tirolo (presentando contestualmente una
petizione corredata da 150.000 firme di sud-tirolesi), offrendo ampie
garanzie per la minoranza italiana (che dopo un quarto di secolo di
dominazione italiana era stata, si può dire, “creata” ex novo e
alimentata a più non posso dal Duce). Lo Stato italiano rifiuta di
restituire anche un solo palmo di terra.
Gli alleati mediano con accortezza una situazione difficile. Alternano
blandizie a minacce. Costringono il capo del governo italiano, Alcide
De Gasperi, ad incontrarsi col premier austriaco Gruber. Il 5
settembre 1946, i due sottoscrivono un accordo che riconosce i
confini esistenti e un’amplissima autonomia all’“Alto Adige” e
costituirà l’allegato iv del trattato di pace.
Anche i sud-tirolesi di lingua tedesca vengono così, almeno
parzialmente, placati: come i ladini, che si erano anch’essi rivolti agli
alleati, chiedendo di seguire il destino del Sud-Tirolo. E il Sud-Tirolo
resta all’Italia-Stato, con ampie garanzie di un’autonomia sostanziale
e l’uso ufficiale della lingua tedesca e perfino delladino.
Assai più difficile la situazione sul confine orientale. I tedeschi vi
avevano costituito la “zona d’operazioni del litorale adriatico”,
annettendo in pratica l’intera Venezia Giulia (che comprendeva,
grazie a Mussolini, anche la neo-provincia di Lubiana). Gli “italiani”
antifascisti ingrossano immediatamente le formazioni partigiane
(tanto le garibaldine, quanto quelle del CLN) mentre alcuni “italiani”
fascisti, considerata la presenza soltanto simbolica della Repubblica
sociale, non trovano di meglio che arruolarsi nelle SS. La Repubblica
sociale manda nella regione alcuni reparti della X Mas per presidiarvi
segretamente l’“italianità”, minacciata dagli slavi ma anche dai
invisi al CLN
tedeschi. ) lancianoaddirittura
Avverranno la parola d’ordine
contatti dell’insurrezione
fra il CLN e la X generale.
Mas per
questa difesa. Gran parte delle province di Lubiana, Fiume, Pola e la
Dalmazia erano state già “liberate” dai partigiani iugoslavi.
Il 25 aprile, sia i partigiani iugoslavi sia quelli italiani (ma, come
abbiamo visto, i garibaldini combattono insieme agli iugoslavi e sono

Con una manovra a tenaglia, gli iugoslavi arrivano a Trieste, il cui


centro viene però occupato dalle forze del CLN; che sono tuttavia
costrette dagli iugoslavi a ritirarsi. La vendetta slava, già sperimentata
in Istria nel 1943, è terribile. Senza curarsi troppo di distinguere tra
fascisti, antifascisti e indifferenti, alcune migliaia di italiani vengono
massacrate: molti sono gettati, taluno ancora vivo, nelle terribili
foibe. Il numero degli infoibati, compresi gli istriani del 1943, oscilla
da 3.000, probabili, a 30.000, accertati da fonti fasciste e pertanto
sospette. Insospettabili storici italiani hanno però, sulla base di
documenti ineccepibili, stabilito che durante il periodo
dell’occupazione italiana della Slovenia (1941-1943), 12.000 sloveni
morirono a causa dei crimini compiuti dall’esercito dell’Italia fascista
(3.000 civili fucilati, 900 resistenti catturati e passati per le armi, 84
morti sotto tortura, 7.000 persone uccise dagli stenti nei campi
italiani di concentramento – e si trattava di donne, di bambini e di
anziani).
Gli iugoslavi intanto dilagano: conquistano Gorizia e giungono fino
nel cuore della pianura friulana. Il governo di Roma invia in fretta
una colonna celere del suo esercito appena ricostituito: ma gli anglo
americani la bloccano all’altezza di Venezia. Si profila comunque, agli
occhi degli anglo-americani, un conflitto sanguinoso tra i nuovi
alleati, gli italiani, ei più vecchi e sperimentati alleati iugoslavi.
Occuperanno allora tutta la Venezia Giulia, Istria compresa,
costringendo gli iugoslavi a ritirarsi e liberando dal loro “terrore” quei
territori. Il terrore non può mai, in alcun modo, essere giustificato.
Tuttavia, se gli italiani non avessero compiuto, a viva forza, l’errore di
annettersi troppi slavi nel 1920, e di averli perseguitati così
crudelmente per più di vent’anni, questo terrore forse non ci sarebbe
stato (o almeno non sarebbe stato così abnorme ed enorme).
Va rammentata, a questo punto, la brusca e paradossale giravolta
compiuta dal Partito comunista “italiano” (che si chiamava ormai
così dal 1943, dichiarando terminologicamente la propria novella
fede “nazionalista” in quanto, secondo la prassi terzinternazionalista,
la qualificazione “d’Italia” assumeva un riferimento esplicito allo
Stato ma non alla nazione).
Le istanze federative, espresse con tanto coraggio dal quarto
congresso, erano ormai state dimenticate e sepolte. Il quinto
congresso del Partito (Roma, dicembre 1945-gennaio 1946)
approverà una dichiarazione addirittura sfrontata: “Preoccupato di
difendere e di rinsaldare l’unità politica e morale della nazione, il
Partito è contrario a ogni forma di organizzazione federativa dello
Stato, poiché vede in essa un pericolo per l’unità così difficilmente e
tardi conquistata”. Il culto della patria aveva, come si vede,
paradossalmente contaminato i più eroici e determinati avversari del
regime fascista. Non era dunque fallito del tutto, almeno a livello di
élite. Il PCI riconobbe e auspicò, in quel documento, soltanto
“un’ampia autonomia regionale della Sicilia e della Sardegna”,
nonché “particolari autonomie per determinate zone di frontiera”.
Era tuttavia impelagato nella Venezia Giulia, dove non poteva
oggettivamente presentarsi come paladino dell’“italianità”,
considerato che combatteva da tempo, e con valore, a fianco degli
iugoslavi; i quali stavano rivelando un appetito pari e contrario a
quello esibito dagli italiani ai tempi della prima guerra mondiale: non
rivendicavano soltanto Trieste, Gorizia, Fiume e l’Istria ma anche il
Friuli fino al Tagliamento. Gli “italiani” di questi territori, a loro
volta in odore d’annessione, chiesero allora, paradossalmente, il
plebiscito.
Al PCI non rimaneva altro che tenere un atteggiamento
ipernazionalista a proposito del Sud-Tirolo. L’organo ideologico del
Partito, “Rinascita”, scrisse, infatti, nel 1946: “Sulla base di un
plebiscito, l’Alto Adige sarebbe per noi irrimediabilmente perduto.
In cambio si potrebbero ottenere soltanto alcune cittadine
dell’Istria”. Nonostante il “valore nazionale” delle appena citate
“cittadine”, “questo non è paragonabile nemmeno da lontano al
valore dell’Alto Adige, fonte energetica indispensabile per l’industria
settentrionale e base, quindi, della potenza industriale italiana. E a
questo aggiungesi [...] l’interesse nazionale decisivo di mantenere al
Brennero la linea di difesa strategica”. Sono argomenti, come si vede,
rigorosamente “di classe” e soprattutto d’ispirazione
internazionalista.
Sempre nel 1946, Palmiro Togliatti, imbarazzatissimo, propone, a
nome del PCI, di cedere Gorizia alla Iugoslavia in cambio di Trieste. Il
PCI preferisce insomma le città più grandi alle cittadine e, magari, le

cittadine ai villaggi e questi ai casolari sparsi. Viene accusato, dagli


altri partiti del CLN, di minare l’unità della nazione: “così
difficilmente e tardi conquistata”, secondo le parole, stentoree, del
documento approvato proprio dal suo quinto congresso.
Gli alleati mettono fine alle dispute. Il 10 febbraio 1947 viene
sottoscritto da tutte le parti in causa il trattato di pace. La Venezia
Giulia, per l’Italia-Stato, è perduta. Anche se la città di Gorizia resta
italiana (tranne alcuni sobborghi che assumono il nome di Nova
Gorica), circa 200.000 sloveni e oltre 100.000 croati passano, con
7.659 kmq di territorio, alla Iugoslavia. La displuviale delle Alpi
Giulie si allontana dall’Italia-Stato. Se ne potranno soltanto scorgere,
in lontananza, le cime corrusche e magari innevate.
Trieste, con una piccola porzione dell’Istria, forma un nuovo Stato, il
Territorio libero di Trieste, a popolamento misto e diviso in due
zone: una, col capoluogo, amministrata dagli anglo-americani; e
l’altra dagli iugoslavi.
Trieste a parte, la nuova divisione non è perfetta: 50.000 sloveni
(annessi nel 1920) restano nell’Italia-Stato mentre oltre 350.000
italiani passano alla nuova Iugoslavia federale e comunista. Molti di
loro, dopo tanto “terrore” e con la paura, addirittura fisica, del
comunismo addosso (e la certezza della perdita d’ogni loro
proprietà), decidono di abbandonare le loro terre e di rifugiarsi nella
madrepatria. Comincia così un esodo doloroso: ai profughi (oltre
300.000, forse addirittura 350.000) è concesso di portare con sé
soltanto 20.000 lire e 50 kg di bagaglio. E questo dà la misura
dell’evento e svela il suo significato punitivo. Soltanto poco più di
30.000 italiani diverranno volontariamente cittadini iugoslavi
rifiutando l’esodo.
D’altro canto, alcune migliaia di italiani, per ragioni soltanto
ideologiche (non sono né si sentono sloveni oppure croati), decidono
di abbandonare a loro volta la madrepatria e di diventare iugoslavi: si
tratta di 3.000 operai comunisti di Monfalcone, che non hanno la
pazienza di aspettare in sede l’avvento del comunismo, e di qualche
decina di idealisti del resto del paese, tra i quali ricorderemo lo
scrittore calabrese Alessandro Damiani e lo scrittore napoletano
Giacomo Scotti: che faranno fortuna, diventando esponenti culturali
di spicco della “comunità italiana” del loro nuovo paese.
Placate le rappresaglie, Tito riesce, infatti, a realizzare in Iugoslavia
un modello di Stato federale davvero multinazionale, riconoscendo
tutte le nazionalità che lo abitano. I diritti culturali del superstite
“gruppo nazionale italiano” sono tutelati con vigore (in fondo, si
tratta anche di un ottimo alibi). Il “gruppo” viene dotato di scuole,
riviste, organismi rappresentativi, perfino di un quotidiano. Gli è
infine permesso di sventolare, nelle occasioni ufficiali, il tricolore
italiano (sia pure munito di stella rossa).
Purtroppo, i neo-iugoslavi volontari di Monfalcone non riusciranno
mai ad inserirsi: subiranno qualche persecuzione (anche perché,
quando Tito romperà con Stalin, si schiereranno dalla parte di
Stalin) e se ne torneranno, con la coda tra le gambe, nell’Italia-Stato,
dopo un prolungato soggiorno in alcune galere nemmeno troppo
ospitali.
L’Italia-Stato si comporta comunque, con i suoi sloveni, assai peggio
di quanto non faccia la Iugoslavia con i suoi italiani. E costretta, dal
trattato di pace, a mantenere le scuole slovene riaperte dagli anglo
americani, durante la loro occupazione, in ciò che resta della
provincia di Gorizia: ma vessa con arroganza, sia pure solo
burocratica, i poveri sloveni della provincia di Udine, annessi nel
1866; i più incolpevoli, pacifici e appartati componenti del “mondo
slavo” (di cui tanto si teme la crudeltà e l’arroganza). L’Italia ha
comunque perduto, col trattato di pace, tutti i suoi croati e perfino i
suoi “cicci” e i suoi “ciribiri”.
Autonomia, federalismo, regioni
Due giorni dopo il 25 aprile, era uscito a Milano il primo numero di
una rivista, intitolata “Il Cisalpino”, che aveva offerto un contributo
profetico (purtroppo inascoltato e subito dimenticato) alla
situazione italiana. La rivista si dichiarò “federalista” e si rivolse ai
militanti della Democrazia Cristiana, che si era riorganizzata sulle
orme del Partito popolare di don Luigi Sturzo, rinforzato dopo il
1920 dal contributo determinante dell’appena redento De Gasperi
(che con un moto di vanità aveva trasformato così, con una particola
nobiliare, il cognome originario Degasperi che i suoi fratelli
continuarono a portare prima e dopo l’annessione: si mormorava
addirittura che, al Parlamento di Vienna, si fosse spacciato per Von
Gasperi).
La DC aveva appena assorbito il Movimento guelfo di Pietro
Malvistiti, che perseguiva gli ideali giobertiani della confederazione
italiana sotto il “primato”, sia pure modernizzato, del papa. Anche se
la DC era ancorata al regionalismo di Sturzo, quelli del “Cisalpino”
speravano di venire ascoltati proprio dai regionalisti di quel partito.
Tommaso Zerbi scrisse, sul primo numero: “L’insidia più pericolosa
per l’idea federalista è il cosiddetto decentramento amministrativo
regionale più o meno promosso da alcuni partiti”: soprattutto perché
si trattava soltanto di “decentramento amministrativo”, ma anche
perché insisteva sull’equivoco “regionale”.
Il fascismo aveva, infatti, trasferito, sui libri scolastici, le “regioni
statistiche” dei successori di Maestri, lasciandole ovviamente del
tutto prive di valore legale ma accreditandole di un’esistenza storica
che non possedevano: cercando di sostituirle però, come fatto di
memoria, ai vecchi Stati pre-unitari (il cui ricordo poteva turbare
ancora gli “italiani”). Il CLN, da parte sua, si era organizzato, durante
la lotta, proprio su questa base regionale astratta, intesa come
“gruppo di province” tali da fornire una congrua base d’operazioni.
“Il Cisalpino” sostenne che le realtà territoriali concrete non erano le
“regioni” ma i “cantoni”. Scoprì per primo la Padania, chiamandola
“Cantone Cisalpino”: “L’Italia settentrionale nel suo insieme
costituisce un’armonica unità geografica, economica, etnica e
spirituale, ben degna di governare se stessa: sarà il Cantone Cisalpino
[...] il cantone campione che rimorchierà l’Italia intera sull’erta del
risorgimento nazionale”. Questo “risorgimento”, con l’iniziale
minuscola, era dunque la strada indicata per azzerare gli errori
innescati dal Risorgimento con l’iniziale maiuscola. “Ligi al principio
democratico, i federalisti cisalpini rispetteranno la piena libertà dei
fratelli peninsulari di ordinare i rispettivi cantoni nel modo che essi
riterranno migliore”: un modo “democratico” per lavarsi le mani a
proposito del resto del “paese”, che poteva anche essere un “paese”
diverso. Era comunque presente la verità geofisica di una Penisola
disgiunta dall’Italia continentale (la Padania).
Sempre nel 1945, si erano formati altri movimenti, di maggior
seguito rispetto ai “cisalpini”, che rivendicavano invece l’autonomia
regionale, sia pure intesa come autogoverno: l’ASAR (Associazione di
studi per l’autonomia regionale) nel Trentino e l’Associazione per
l’autonomia friulana che, ostentando il motto di bessoi (“da soli”),
voleva ricostituire, come “regione autonoma”, il territorio della
vecchia e gloriosa Patrie dal Friûl, diviso a lungo tra Venezia e
Austria e poi, nello Stato italiano, tra due province (e due regioni
statistiche) distinte. Ancora oggi, il Friuli viene confuso, nel
linguaggio comune (che è anche quello dei politici e dei giornalisti)
all’interno di un indistinto e abusivo “Triveneto”: anche se il suo
sostrato è celtico e non venetico e la sua identità appare irriducibile a
chi abbia un occhio appena un po’ esercitato sul campo.
Questo lembo nord-orientale della Padania naturale non ha infatti
mai fatto parte della Padania etnico-linguistica ed è tutta un’altra
cosa. Esibisce ancora la sua bella lingua retoromanza (che, all’interno
della famiglia ladina, mostra un’individualità non diversa da quella
del catalano rispetto all’occitano). Ed esibisce una storia
completamente diversa da quella del resto della Padania: e questo
secondo carattere spiega anche il primo. Secondo Giuseppe
Francescato, “il friulano si è formato tra il IX e il XIII secolo come
parlata [...] del tutto esclusa dalle correnti linguistico-culturali che
percorrevano in quei secoli l’Italia settentrionale [...]. Ed è in questi
secoli che il friulano [...] ha assunto una fisionomia particolare che
ancora oggi ne fa qualcosa di unico nella Romània”.
A quest’identità linguistica “fa riscontro anche l’affermazione
d’ordinamenti politici interni i quali rappresentano un caso unico in
Italia e hanno pochi paralleli in quell’epoca nella storia europea.
Un’istituzione come il Parlamento friulano rappresenta il punto
culminante di un certo tipo di organizzazione. Più ancora, il
Parlamento è l’espressione di quella unità di dominio che, grazie ai
Patriarchi, poté dare al Friuli [...] il senso di una unità nazionale, di
una ‘patria’ [...]. La parlata friulana ci appare oggi come la
testimonianza più esplicita e più direttamente percepibile di tale
singolarità”.
Il Parlamento friulano fu istituito nell’XI secolo (quasi cento anni
prima di quello siciliano) e nel 1366 promulgò il monumentale
codice giuridico che va sotto il nome di Costituzioni della Patria del
Friuli. Ma cerchiamo di dire qualcosa di più di questa piccola “unità
geografica, economica, etnica e spirituale” che la storia ha reso così
spiccata.
Il Friuli medievale, che fu il primo e l’ultimo ducato longobardo
nell’Italia continentale, ha fatto parte del “primo” Regno d’Italia e
poi venne assegnato alla Baviera e alla Carinzia. A partire dal X secolo,
l’imperatore cominciò a concedere al patriarca di Aquileia un
numero sempre maggiore di territori, possessi e feudi i quali,
fondendosi, coprirono quasi tutta l’area del ducato.
Nel 1077, il patriarca fu nominato, dall’imperatore, duca del Friuli:
nacque lo Stato friulano noto come Patria, con capitale a Cividale. A
fianco del patriarca, sedeva, come suo “avvocato” e come “difensore
della Patria”, il conte di Gorizia. La capitale fu poi spostata a Udine. I
patriarchi furono in maggioranza tedeschi.
Nel 1420, Venezia si impadronì del Friuli occidentale e centrale. Vi
nominò un proprio luogotenente per governarlo, ma vi mantenne il
parlamento e le Costituzioni della Patria.
Il Friuli orientale (la contea di Gorizia) passò di lì a poco all’Austria e
divenne Kronland. Nel 1797, anche il Friuli occidentale e centrale fu
annesso dall’Austria insieme a tutte la Repubblica di Venezia. La sua
autonomia politica e giuridica venne però bruscamente abolita. Il
Parlamento della Patria si riunì per l’ultima volta il 10 agosto 1805.
Nel 1815, il Friuli “veneziano” fu destinato al Regno Lombardo
Veneto mentre il Friuli orientale mantenne il proprio status di
Kronland.
Riunito tutto il Friuli nell’Italia-Stato soltanto nel 1920, la sua
identità linguistica venne parzialmente riconosciuta. Perfino il
fascismo si limitò, almeno all’inizio, a controllare bonariamente la
Società filologica friulana (fondata nel 1921), che curava la tutela
volontaria della marilenghe (“madrelingua”) suggerendo, tuttavia, ai
suoi soci, per doverosa prudenza, di “scriverla da italiani”.
Abbiamo indugiato sulle richieste di autonomia regionale e di
federalismo provenienti “dal basso”, cioè dal cuore dei territori e delle
popolazioni “italiane” (perlomeno da quelle dotate di identità
irriducibili), proprio perché i numerosi studi sull’argomento, che
stanno spuntando da qualche anno come funghi in tutto il “paese”,
privilegiano i pareri e i progetti in proposito quali scaturirono allora
dal seno dei partiti “italiani”: riuscendo in questo modo a
centralizzare anche un tema tanto squisitamente “anticentralista”.
Ad ogni modo, si dirà che, tra i partiti “italiani” del CLN (i quali si
sostituirono, quasi con la stessa logica, al “partito unico”, occupando
lo Stato e il governo dopo la caduta del fascismo), soltanto il Partito
d’Azione e, in minor misura, la Democrazia cristiana, erano
autonomisti convinti. Esistevano componenti autonomistiche e
regionaliste anche nel Partito liberale (Luigi Einaudi) e nella
Democrazia del lavoro.
Paradossalmente, i nemici giurati del regionalismo erano il Partito
comunista (che voleva l’autonomia soltanto per la Sicilia, la Sardegna
e limitate “zone di confine”) e quello socialista. Partecipò alla
spartizione “democratica” dello Stato e del governo anche il Partito
repubblicano (che non fece mai parte del CLN per non intrattenere
alcun rapporto formale con la monarchia). Era anch’esso
autonomista, con punte addirittura federaliste (così come punte
federaliste acuminate apparivano nel Partito d’Azione).
Il 2 giugno 1946, gli “italiani” votarono per il nuovo assetto
istituzionale dello Stato: come al solito, i “paesi” risultarono almeno
due: il Nord votò per la repubblica (che vi ottenne il 64,8 per cento
dei suffragi) e il Sud per la perpetuazione del regno (che ve ne
ottenne il 67,4 per cento). Il comportamento elettorale del
cosiddetto “Centro” permise l’instaurazione della repubblica e il
regno uscì di scena in punta di piedi.
Contemporaneamente al referendum istituzionale, si tennero le
elezioni per l’Assemblea Costituente, che doveva finalmente dotare il
“paese”, per la prima volta nella sua storia, di una Costituzione
propria: fino ad allora si era retto con lo Statuto “sardo” del 1848;
anche per questo, forse, appariva tanto malfermo sulle gambe.
Il trattato di pace non era stato ancora firmato e non poterono
partecipare alle operazioni di voto gli abitanti della provincia di
Bolzano e nemmeno quelli delle province aggregate nella regione
statistica della Venezia Giulia, la cui appartenenza statuale non era
stata ancora decisa. Si trattava di un’area significativa, la volontà della
cui popolazione non poté emergere: e si trattava di un’occasione che
avrebbe, in seguito, interessato direttamente almeno una parte di
loro.
Torniamo all’Assemblea Costituente. Al suo interno, i federalisti
convinti erano soltanto i due sardisti, il rappresentante valdostano e il
repubblicano Oliviero Zuccarini (che s’ispirava ancora a Cattaneo).
A loro possono essere aggiunti i quattro indipendentisti siciliani (che
si erano pronunciati per una “confederazione”). Ma i costituenti
erano ben 556.
Le appartenenze consapevoli all’interno dell’assemblea furono, come
al solito, quasi soltanto “verticali”. Le ideologie e le militanze
partitiche prevalsero sulle provenienze territoriali che, come abbiamo
visto, non erano prive di un significato che andava di là dal territorio
stesso. Questa realtà di comportamento nascose ancora una volta le
spaccature profonde che segnalavano, nella realtà dei fatti,
l’inesistenza di un “paese” solo. Mancavano insomma, tranne pochi
casi, i rappresentanti coscienti delle “società globali” (secondo la
definizione di Max Weber) esistenti, mentre abbondavano quelli
delle “società parziarie” (fedi, partiti, ceti, categorie, “classi sociali”,
gruppi d’interesse trasversali).
Tutti d’accordo sulla necessità di abbattere l’ordinamento
rigidamente centralistico dello Stato, i partiti “italiani” dell’assemblea
s’interrogarono a lungo su come costruire al suo posto un regime
d’autonomie locali: senza avere, dell’autonomia, un’opinione comune
(e alcuni nemmeno un’opinione qualsiasi) e senza conoscere
nemmeno le reali “località” del “paese”.
Il 25 giugno 1946, l’Assemblea apri i suoi lavori. Fu deciso di istituire
una commissione di 75 membri per preparare il progetto della nuova
Costituzione, da discutere poi tutti insieme. Il 25 luglio, la
commissione decise di dividersi in tre sottocommissioni, una delle
quali (la seconda) fu incaricata di studiare l’organizzazione
costituzionale dello Stato. In essa, su 36 membri, soltanto due (Lussu
e Zuccarini) erano federalisti: tutti gli altri apparivano autonomisti e
regionalisti generici. L’ipotesi federalista venne subito accantonata
dai suoi stessi sostenitori in quanto realisticamente impraticabile.
Erano, del resto, già state concesse le autonomie regionali alla Valle
d’Aosta e alla Sicilia, ne era stata promessa una simile per la Sardegna
e l’accordo De Gasperi-Gruber indicò, proprio durante l’inizio dei
lavori, un’altra soluzione autonomistica regionale obbligata. La strada
da percorrere era rimasta soltanto quella di raggiungere il “massimo
d’autonomia locale consentito nel quadro dello Stato unitario”: un
quadro che appariva intoccabile.
L’autonomia locale avrebbe dovuto incentrarsi sui comuni e sulle
regioni (da istituire ex novo). Alla fine, rimasero in piedi anche le
province, che molti volevano abbattere e alla testa delle province
rimase la figura del prefetto, l’occhio spietato del governo, che il CLN e
Einaudi volevano abolire. Via via che passava il tempo, i furori iniziali
trascorsero. La formula escogitata fu quella di varare lo “Stato
regionale” come un terzo tipo di Stato, distinto sia dallo Stato
unitario che da quello federale. Qualcuno lo voleva quasi-federale, la
maggioranza quasi-unitario. Risultò unitario (cioè centralista) del
tutto. Ma procediamo, rapidamente, con ordine.
9.
Finis Italiae?

Costituzione italiana e regione straniera


In pratica, tutto il lavoro della seconda sottocommissione e
dell’intera Assemblea Costituente, a proposito delle regioni, fu
dedicato alle attribuzioni da conferire: purtroppo, i costituenti erano,
almeno per un terzo, avvocati, esperti di diritto, o comunque laureati
in legge. Fu come invitarli a nozze.
Si dedicarono con lena inesausta ad azzeccare ogni garbuglio
preventivo possibile.
Discussioni sottili s’intrecciarono, con sottile eleganza, su quale
“potestà legislativa” le “regioni” dovessero possedere: “potestà
legislativa primaria o esclusiva” (che però sapeva troppo di
federalismo), oppure “potestà legislativa delegata o integrativa” (che
avrebbe fatto loro alzare un po’ meno la cresta), oppure soltanto
“potestà legislativa concorrente” (che le avrebbe imbalsamate nel
ruolo di “filiali” o “succursali” locali dello Stato)? Alla fine prevalse,
per tutte le regioni ordinarie e perfino per qualcuna cui riconoscere
uno status di autonomia speciale, l’ultima formula: e il sogno di
un’autonomia reale svanì durante la rincorsa verso la formula meno
compromettente per l’unità dello Stato.
La limitatezza delle attribuzioni e delle competenze legislative (quale
risulta dall’articolo 117 della Costituzione) e il controllo
onnipotente da parte del governo (articolo 127) fecero dello “Stato
regionale” una variante impercettibile dello “Stato accentrato”. Ma
non anticipiamo troppo gli eventi.
L’asino cadde quando si dovette compilare l’elenco delle regioni: di
quelle ordinarie, da sistemare alla svelta senza troppa fatica, ma che
non si sapeva ancora quali e quante fossero. Nessun problema sorse,
infatti, a proposito delle regioni cui andava riconosciuta
un’autonomia speciale imposta dalle circostanze e talvolta
conseguente alla sconfitta bellica (anche se mascherata da “co
vittoria” al fianco dell’alleato dell’ultimo istante):
Valle d’Aosta, Sicilia e Sardegna: fu deciso semplicemente di munire
quelle tra di esse che ancora non li possedevano, di Statuti speciali da
approvare in seguito con leggi costituzionali ad hoc.
A proposito del Sud-Tirolo, l’abilissimo De Gasperi escogitò un
trucco col quale eluse, almeno in parte, l’accordo appena concluso
con Gruber. Fabbricò un “mostro” (le leggi le emanava allora il
governo e non certo l’Assemblea Costituente) tenendo unita la
provincia di Trento, a maggioranza italiana, con quella di Bolzano
(cui aggiunse, per fortuna, alcuni comuni trentini di lingua tedesca),
ottenendo così la “regione autonoma a Statuto speciale” Trentino
Alto Adige, che ribadiva la regione statistica della Venezia
Tridentina.
Mantenne così, a livello regionale, una maggioranza di due terzi di
lingua italiana (e indicò Trento come capitale regionale) quando gli
accordi di Parigi stabilivano (all’articolo 2) che “alla popolazione
delle zone sopraddette” [chiaramente indicate all’articolo 1 come la
“provincia di Bolzano” e i “vicini comuni bilingui della provincia di
Trento”] sarà concesso l’esercizio di un potere legislativo ed esecutivo
autonomo nell’ambito delle zone stesse”.
Lo stesso trucco venne ripetuto a proposito del confine orientale: si
finse di ascoltare le rivendicazioni friulane e si scorporò il Friuli
occidentale e centrale dalla regione statistica della Venezia Euganea
per aggiungergli in prospettiva tutto quanto sarebbe stato possibile
trattenere della Venezia Giulia a pace firmata, attraverso l’istituzione
della “regione autonoma a Statuto speciale” Friuli-Venezia Giulia.
Per il resto, però, buio pesto. Nessuno sapeva niente delle “regioni a
Statuto ordinario” da istituire. La formazione quasi soltanto giuridica
dei costituenti ne faceva degli autentici incompetenti in materie
fondamentali quali la storia, la geografia, la linguistica e l’economia,
così necessarie per un’identificazione corretta. Purtroppo, il “paese”
(cioè i “paesi”) era in mano a questi volenterosi incompetenti che
avevano deciso lo Stato regionale senza sapere nemmeno quali fossero
i soggetti del loro ostentato regionalismo. È, questo, il paradosso più
paradossale della storia paradossale di uno Stato paradossale.
Nel maggio del 1947 avvenne una crisi politica epocale. Il fronte dei
vincitori della “guerra antifascista” si era tragicamente spezzato: da
una parte l’URSS; dall’altra ciò che restava degli alleati d’antan i quali
(dopo che Churchill aveva denunciato la caduta, sul palcoscenico del
mondo, di una spietata “cortina di ferro”) agiranno sotto le insegne
del “mondo libero”. Anche i partiti che avevano occupato l’Italia
Stato, si divisero di conseguenza.
Il PCI e il PSI furono estromessi dal governo. Divennero
immediatamente “regionevoli”, mentre la DC non ebbe più bisogno di
dedicarsi ad una riforma dello Stato da intraprendersi “a region
veduta”.
Fino ad allora, la DC pensava, infatti, in caso di una possibile sconfitta
elettorale, di mantenere almeno il controllo del Sud, del Veneto e
delle isole, dove era fortissima, proprio attraverso le regioni. La
sinistra voleva invece cogliere, in caso di vittoria, tutto il “paese”
come un sol frutto.
Calata la “cortina di ferro”, la DC si sentiva ormai garantita dal
“mondo libero” nel possesso di tutto lo Stato e le regioni
cominciarono ad apparirle inutili. Il PCI poteva invece evitare
un’emarginazione totale soltanto rimanendo aggrappato a qualcuna
delle regioni che si andavano prospettando. Togliatti accettò
finalmente un ordinamento regionale che non avesse soltanto
funzioni amministrative. Ma imperniato su quali regioni?
Erano pervenute intanto, ai costituenti, angosciose richieste da parte
di molte porziuncole del “paese”, in pura chiave campanilistica. Si
domandava l’elevazione a regione della Sabina, del Molise, del
Sannio, della Valtellina, della Daunia, del Cilento, della Marsica,
dell’Irpinia, del Salento, della Tuscia (Alto Lazio), della Romagna... E
ognuna di queste richieste aveva, nell’assemblea, i suoi zelatori
autorevoli. Le discussioni furono strenue.
L’ignoranza dei costituenti, quale emerse dai dibattiti, regnò sovrana.
Ha scritto Paola Bonora: “I criteri utilizzati dai costituenti nel
definire regione e regionalità non hanno matrice culturale univoca e
tantomeno disciplinare, ma derivano da un coacervo di vaghissime e
imprecise informazioni, d’origine per lo più microscolastica,
imbellettate per l’occasione con discorsi di reboante retorica”.
La DC cominciò ad orientarsi, per pigrizia, verso il “ritaglio” statistico
di Maestri (che perlomeno esisteva) pur ignorandone la genesi: era
convinta che si trattasse di “regioni storiche” (Mussolini l’aveva
gabbata). Alcune richieste, che venivano dai campanili, le poche
fondate, erano state comunque accettate dalla seconda
sottocommissione.
Nel progetto di Costituzione presentato il 31 gennaio 1947,
comparvero ex novo, rispetto al ritaglio statistico, le regioni del
Salento e del Molise, mentre la regione statistica dell’Emilia venne
divisa in due: Emilia-Romagna (in sostanza, le vecchie legazioni
pontificie, rivolte all’Adriatico) e “Emiliano-lunense” (in sostanza, i
vecchi “ducati”, con la Lunigiana, di dialetto affine, che assicurava
uno sbocco sul Tirreno). Queste proposte vennero comunque
bocciate.
I comunisti e i socialisti aderirono, stremati da tanti discorsi
inconcludenti, all’ipotesi opportunista della DC. Venne così
approvato a maggioranza un ordine del giorno perentorio:
“L’Assemblea Costituente delibera che [...] siano costituite le Regioni
storico-tradizionali di cui alle pubblicazioni ufficiali statistiche”.
L’errore di Maestri venne paradossalmente riconosciuto come verità
dai costituenti, a corto di opinioni e ormai anche di pazienza,
nonostante Maestri avesse posto le mani avanti incolpando delle sue
scelte (riconosciute da lui stesso arbitrarie) l’“arretratezza degli
studi”. Si presero insomma per “regioni storico-tradizionali” alcuni
raggruppamenti di province spesso privi d’ogni storia comune, di
qualsiasi omogeneità di fondo e risalenti appena a settantacinque
anni prima.
Si salvarono, da questa soluzione insensata, soltanto la Valle d’Aosta,
che aveva raggiunto da tempo la propria nuova “regionalità” ed era
stata svincolata dal Piemonte “statistico” e il Friuli, che era stato
scorporato dalla Venezia Euganea per ricevere quel poco di Venezia
Giulia che il trattato di pace, finalmente firmato, aveva lasciato allo
Stato italiano e, soprattutto, in attesa di accogliere Trieste.
La Costituzione, approvata dall’assemblea il 22 dicembre 1947,
venne promulgata dal capo dello Stato cinque giorni dopo ed entrò in
vigore il 1° gennaio 1948. Il risultato fu che nacquero, sulla carta
costituzionale, diciannove regioni molte delle quali prive d’ogni
fondamento: e tutte prive d’ogni reale autonomia. L’articolo 5 della
Costituzione, nel recitare che “la Repubblica, una e indivisibile,
riconosce e promuove le autonomie locali”, è come se avesse detto di
riconoscere tutte le vergini in quanto madri: a condizione che
restassero vergini guardandosi bene dal partorire.
Il 26 febbraio 1948 vennero, con legge costituzionale, approvati gli
Statuti speciali della Valle d’Aosta, della Sardegna e del Trentino
Alto Adige, regioni con le quali non si poteva, in ragione degli
accordi e dei trattati internazionali, scherzare poi troppo. La Sicilia
era già stata accontentata nel 1946. Il Friuli-Venezia Giulia rimase in
lista di attesa e in attesa di eventi. Tutte le regioni a Statuto ordinario
rimasero invece sulla carta, appunto, costituzionale.
La DC, nella nuova situazione politica, soprattutto dopo la grande
vittoria elettorale del 18 aprile 1948, non sentì alcun bisogno di
rispettare quanto era stato disposto, col suo contributo
determinante, dalla Costituzione e rimandò alle calende greche
l’attuazione dell’ordinamento regionale (che avrebbe dovuto essere
realizzato, secondo la Costituzione, un anno dopo la promulgazione
della Costituzione stessa), infischiandosi di riconoscere e di
promuovere le (sia pure sedicenti) autonomie locali.
Nemmeno la Corte Costituzionale venne istituita. Agì al suo posto la
Corte di Cassazione che, in assenza di ogni controllo costituzionale,
introdusse, in maniera del tutto arbitraria, una distinzione tra
“norme costituzionali precettive” e “norme costituzionali
programmatiche” che giustificava i mancati adempimenti della DC (e
dei suoi alleati di governo) in materia regionale. La Corte
Costituzionale, finalmente istituita nel 1956, con la sua prima
sentenza annullerà, perché incostituzionale, proprio questa
distinzione. Ma la DC continuò ad ignorare l’autonomia locale e le
regioni.
La realtà fu che, alla cattiva volontà, al disinteresse o meglio agli
interessi della DC, faceva da sponda la burocrazia dello Stato, passata
in toto dalla monarchia costituzionale al fascismo negli anni Venti e
rimasta al suo posto durante il passaggio dal fascismo alla repubblica,
approfittando di “amnistie” concesse dalla repubblica con tale
frequenza e liberalità da risultare pleonastiche.
A dire il vero, per ragioni soltanto elettoralistiche, la DC fece in modo
di intervenire sull’ordinamento regionale promuovendo, nel 1963, a
regione il Molise (passando sopra all’articolo 132 della Costituzione
che imponeva una soglia relativa al numero degli abitanti necessario
per la creazione di nuove regioni e che il Molise non raggiungeva). Si
trattava del resto, almeno al momento, di un riconoscimento del
tutto onorifico.
A tenere desta l’istanza regionalista fu, paradossalmente, proprio
l’avversario così tenace della prima ora: il PCI. Erano, allora, tempi di
dibattito rude e di contrapposizioni frontali e irriducibili: le regioni
ne pagarono tutto lo scotto.
Nel 1954, intanto, l’Italia-Stato aveva ottenuto di amministrare la
zona A del Territorio libero di Trieste (con la città “martire” tanto
agognata). Dovette però riconoscere i diritti della popolazione
slovena stabiliti nel memorandum d’intesa siglato a Londra il 5
ottobre di quell’anno. La regione autonoma a Statuto speciale Friuli
Venezia Giulia fu istituita comunque soltanto il 31 gennaio 1963.
Sempre nel 1963, con la nascita del primo governo di centro-sinistra,
le contrapposizioni politiche si attenuarono e caddero, via via, molte
preclusioni. Cambiarono soprattutto le strategie (anche quelle
internazionali). Nel 1968, il governo e il Parlamento dettero
finalmente il via libera alle regioni ordinarie, che si costituiranno nel
1970 con le prime elezioni regionali (ovviamente tenute sulla base di
collegi corrispondenti alle province e anche questo fu un grosso
limite) e si doteranno, l’anno dopo, di propri Statuti, nell’ambito di
quel poco di competenze che era stato loro riconosciuto dalla carta
costituzionale.
Il momento dell’entusiasmo era però ormai passato. Alla scarsezza
delle competenze attribuite e al controllo ossessivo esercitato dal
governo si sommarono processi di realizzazione che furono una
stanca replica della filosofia organizzativa dello Stato e portarono ad
un’inefficienza ancora maggiore.
Queste “accozzaglie di province”, montate senza criterio oltre un
secolo prima per tutt’altri scopi, non raccolsero mai (e non
raccolgono nemmeno oggi) la partecipazione e il coinvolgimento dei
cittadini.
Un’inchiesta (1995), curata dalla Lega delle autonomie locali ne dà, a
distanza d’altri venticinque anni, una conferma sconvolgente.
Soltanto il 7,3 per cento dei cittadini italiani interpellati in
proposito, ha dichiarato di sentirsi “soprattutto cittadino della sua
regione”, contro il 44,9 per cento (e non è davvero molto) che si sente
“soprattutto italiano”, il 33,5 per cento “europeo” e il 13,7 per cento
“cittadino del suo comune”. La regione è dunque, per gli “italiani”,
una “regione straniera”. Perché i romagnoli finiti con i loro comuni
nelle Marche o in Toscana dovrebbero sentirsi cittadini di queste
regioni anziché della Romagna (sia pure aggregata all’Emilia)? Perché
i lombardi della provincia di Novara, annessi con la forza dal Regno
di Sardegna nel 1738-48, dovrebbero sentirsi piemontesi? Domande
di questo tipo potrebbero essere almeno un centinaio.
I “nuovi geografi”, già nemici della scelta storico-tradizionale
compiuta nel 1948, si scagliarono contro l’attuazione di quelle
regioni che avevano sempre combattuto in quanto casuali e insensate
e che, durante il periodo dell’ibernazione costituzionale, erano
divenute, dal loro punto di vista, ancora più irrazionali e sorpassate,
fino a contrastare con le esigenze di pianificazione economica dello
Stato, ostacolandole con i loro confini anacronistici e le loro sfere di
competenza burocratica.
Ai geografi si aggiunse la nuova categoria (così perniciosa) dei
tecnocrati, dei sociologi, degli urbanisti, degli esperti di
comunicazioni, degli economisti di Stato. Si chiese a gran voce
l’abolizione delle regioni appena istituite per sostituirle con “regioni
funzionali” (cioè ritagliate sulle esigenze economiche del momento),
a nostro avviso altrettanto abusive e sicuramente effimere.
Lo Stato italiano stava vivendo ancora il proprio lungo momento di
benessere (che era cominciato negli anni Cinquanta): il cosiddetto
“miracolo economico”. Il centro-sinistra aveva ormai innescato il
“compromesso storico”: quello che in seguito sarà definito, in termini
negativi, “consociativismo”.
Sull’orizzonte internazionale, la “guerra fredda” si era trasformata in
una pace tiepida. Maggioranza e opposizione erano tornate a spartirsi
lo Stato italiano e le sue istituzioni senza eccessivi pregiudizi (si
consolidò in questo modo la “partitocrazia”).
In questo clima politico e culturale in apparenza disteso, i “paesi”
reali sembravano assopiti (e si stavano invece risvegliando). Era il
momento dei tecnocrati e delle “regioni funzionali” e “dinamiche”,
per fortuna mai realizzate. Il “clima”, infatti, registrò presto un
brusco cambiamento. E più che le regioni dovettero essere ridisegnati
i piani di intervento e di sviluppo, le meticolose (e sballatissime)
programmazioni e le tanto strombazzate politiche del territorio (che
consideravano il territorio come semplice e uniforme campo di
esperimenti). La crisi economica mise in dubbio le stesse “magnifiche
sorti e progressive” che sembravano poter fare a meno del rapporto
storico dell’uomo (che non è soltanto un animale economico) con la
propria “terra”: un rapporto che neppure le regioni ormai esistenti,
beninteso, garantivano; anzi, negavano con i loro accorpamenti e le
loro separazioni artificiose.

La guerra dei tralicci


Abbiamo parlato a lungo delle sciagurate regioni ordinarie. Non è,
tuttavia, che le cose andassero troppo bene nemmeno nelle regioni
autonome a Statuto speciale, istituite fino dal 1948. Il governo e la
burocrazia centrale facevano di tutto per minarne l’autonomia reale.
I valdostani erano irrequieti per il mancato rispetto del loro Statuto
da parte del governo di Roma: ma scalpitava soprattutto il Trentino
Alto Adige. E non soltanto la comunità di lingua tedesca. Perfino i
trentini erano scontenti: dicevano che “c’era più autonomia quando
l’autonomia non c’era” e avevano, già nel 1948, nelle prime elezioni
regionali, convogliato il 17 per cento dei loro voti sul nuovo Partito
autonomista trentino tirolese, fondato da “italiani” che, trent’anni
dopo, rimpiangevano ancora l’Austria e si dichiaravano tirolesi al pari
dei tedeschi e dei ladini (un altro successo del “culto della patria”
officiato da Mussolini): fu il secondo partito della provincia dopo la
DC (una provincia che mantiene ancora oggi la sua vocazione
autonomistica). Nella provincia di Bolzano, la SVP ottenne la
maggioranza assoluta.
Chi soffriva di un’autonomia soltanto virtuale erano soprattutto i
tedeschi: i quali lamentavano, giustamente, la palese violazione
dell’accordo De Gasperi-Gruber che era contenuta perfino nella
lettera dello Statuto (e che non era limitata alla truffaldina unione
con il Trentino e a un potere regionale insediato, non soltanto
fisicamente, a Trento). Ne faremo soltanto un esempio.
Mentre l’accordo De Gasperi-Gruber parlava dell’“uso su di una base
di parità, della lingua tedesca e della lingua italiana” (nel testo inglese:
parification of the German and Italian Languages) l’articolo 84 dello
Statuto diceva soltanto che “fermo restando il principio che nella
regione la lingua ufficiale è l’italiana, l’uso della lingua tedesca nella
vita pubblica viene garantito da quanto in materia dispongono le
norme contenute nel presente Statuto e nelle leggi speciali della
repubblica”. E norme e disposizioni, contenute o meno, garantivano
poco: soprattutto non garantivano quanto chiaramente contenuto
nell’accordo di Parigi tra De Gasperi e Gruber.
Soltanto ventidue anni dopo, con la modifica dello Statuto
conseguente all’approvazione del cosiddetto “pacchetto”, sarà, infatti,
correttamente enunciata, nello Statuto regionale, “la parificazione
nella Regione della lingua tedesca a quell’italiana che è la lingua
ufficiale dello Stato”.
Il 14 dicembre 1955, Italia e Austria furono ammesse all’ONU:
l’Austria ne approfittò per dichiarare che l’accordo di Parigi non era
stato ancora applicato. E l’Italia non riuscì a spiegare perché, ad
esempio, l’articolo 14 dello Statuto regionale, che prevedeva il
passaggio per delega dalla regione alle province e ai comuni di
determinati e consistenti poteri, non era ancora operante: perché
Trento detenesse un potere che era anche di Bolzano.
Alcuni sud-tirolesi, intanto, affidarono la loro protesta a una sorta di
terrorismo “spontaneo”: circoli italiani, tralicci della rete elettrica e
rotaie ferroviarie cominciarono a saltare in aria a partire dal 1956 con
un crescendo impressionante.
La SVP indisse, nell’autunno del 1957, una grande e pacifica
manifestazione popolare di protesta. A Castelfirmiano, davanti a
30.000 sud-tirolesi eccitati, venne lanciato lo slogan: Los von Trient!
(Via da Trento!)
Nel gennaio del 1958, i deputati della SVP presentarono alla Camera
un progetto di legge che prevedeva la separazione della provincia di
Bolzano da quella di Trento e l’istituzione di una regione autonoma
sud-tirolese: la Camera dei Deputati non si degnò nemmeno di
discuterlo.
Comparve allora un’organizzazione clandestina, il Befreiungs
Anschuss Südtirol (BAS: “Comitato di liberazione del Tirolo
meridionale”) che diffuse volantini nei quali si chiedeva senza mezzi
termini la separazione del Sud-Tirolo dallo Stato italiano. Dopo il
“brigantaggio” meridionale e il “separatismo” siciliano, ebbe inizio,
col “terrorismo” sud-tirolese, il terzo momento della protesta armata
contro lo Stato da parte di suoi cittadini.
Il 6 luglio 1960, l’Austria presentò un ricorso alle Nazioni Unite sulla
situazione altoatesina. L’Italia vi venne descritta come uno Stato
oppressore che violava i diritti umani di una minoranza
internazionalmente riconosciuta costringendola a ricorrere all’uso del
tritolo. Ma l’ONU si limitò ad invitare Italia e Austria ad
intraprendere negoziati diretti per dirimere la questione.
I sud-tirolesi si mostrarono delusi e il “terrorismo” passò dalla fase
spontanea a quella organizzata. Il culmine venne raggiunto la notte
dell’11 giugno 1961, quando 37 bombe esplosero simultaneamente
in ben 37 luoghi diversi.
Nel Tirolo meridionale erano state nel frattempo trasferite ingenti
forze militari e di polizia e la popolazione si sentiva di nuovo sotto un
regime d’occupazione. Molti terroristi (e, soprattutto, molti presunti
tali) vennero incarcerati senza guardare troppo per il sottile. Si
sparsero subito voci allarmanti sulle sevizie inflitte dagli “italiani” ai
detenuti sud-tirolesi.
Due detenuti morirono, infatti, nel carcere di Bolzano in circostanze
sospette. Il vescovo di Bolzano denunciò pubblicamente, con una
pastorale, la violenza poliziesca italiana. Roma, preoccupata, istituì
una commissione di studio sulla questione altoatesina mentre in
tutto l’Alto Adige continuava l’indiscriminata caccia al terrorista. I
sud-tirolesi, in quanto di lingua tedesca, venivano intanto dipinti
all’opinione pubblica italiana e internazionale come nazisti incalliti,
dediti al culto della Grande Germania e nemici giurati della giovane
“democrazia” italiana.
Nel BAS militava, sicuramente, una frazione neonazista e l’intera
organizzazione era finanziata dai circoli revanscisti austriaci e
tedesco-occidentali. Ma il problema altoatesino esisteva ed era la
“democrazia” italiana a fornire ai pangermanisti un così ampio spazio
di manovra.
Del resto, nel 1963, la magistratura italiana fu costretta a celebrare un
processo contro dieci carabinieri, incriminati per “sevizie”. Fu un
processo-lampo che durò appena dieci giorni. Otto carabinieri
vennero assolti con formula piena, due per intercorsa amnistia.
Questo processo fu giudicato un po’ troppo “disinvolto”
dall’opinione pubblica internazionale che cominciò, in parte almeno,
a parteggiare per i “terroristi”.
Intanto, il BAS passò al terrorismo “sull’uomo”: i suoi commandos
attaccarono alcune caserme situate nella provincia mentre attentati
“alle cose” ebbero luogo perfino a Milano e in altre località della
Lombardia. La situazione si faceva sempre più preoccupante. Nel
settembre del 1964, un carabiniere venne ucciso all’interno della sua
caserma: gli venne sparato con un fucile a cannocchiale da 150 metri
di distanza. Fu la prima vittima italiana della guerriglia.
A questa condotta criminale, l’Italia rispose purtroppo in maniera
sospetta. Un certo Christian Kerbler attirò in un’imboscata i due
presunti leader del BAS: la notte del 16 settembre 1964, il Kerbler, che
si fingeva da tempo loro compagno d’arme e di fede, sparò sui due
guerriglieri addormentati in una malga della Val Passiria. Luis
Amplatz rimase ucciso sul colpo mentre Georg Klotz restò ferito.
Kerbler venne catturato dalla polizia italiana, ma riuscì
misteriosamente a fuggire dalla jeep che lo stava traducendo in
caserma.
Fu subito sospettato (e il sospetto si rivelò tutt’altro che infondato)
di essere un sicario assoldato da uno dei tanti servizi italiani di
sicurezza. Nel 1990, alcune inchieste saranno, infatti, avviate dalla
magistratura italiana proprio su quest’evento e su altri scottanti
episodi avvenuti in quel periodo. Nel 1992, il presidente della
Commissione stragi della Camera dei Deputati, Libero Gualtieri,
dichiarerà che le strutture dello Stato italiano avevano, troppo spesso,
agito, in Alto Adige, non per reprimere il terrorismo “ma per
alimentarlo e aggravarlo”.
Con l’assassinio di Amplatz, il BAS ebbe a propria disposizione, grazie
al comportamento dello Stato italiano, perfino un “martire”. E il
prestigio internazionale dell’Italia-Stato risentì clamorosamente di
quest’operazione spregiudicata. L’inefficienza del corpo di
repressione del terrorismo era stata, d’altronde, subito evidente:
mancava, infatti, al solito, ogni cooperazione tra i vari corpi. Esercito,
carabinieri, poliziotti, guardie di Finanza, operavano ciascuno per
proprio conto. Il risultato fu che la popolazione apparve visibilmente
terrorizzata, i terroristi godettero di grande popolarità e le forze della
repressione non riuscirono a reprimere alcunché.
Il BAS attaccò, nel 1966, una caserma e uccise tre guardie di Finanza,
una delle quali era un sud-tirolese. L’opinione pubblica apparve
scossa: la stessa popolazione sud-tirolese cominciò a revocare la
propria simpatia fino allora totale, ai guerriglieri. Il governo austriaco,
nel cui territorio i terroristi si rifugiavano abitualmente a missione
compiuta, fu costretto a processarne quindici. Ma li assolse tutti col
pretesto che si trattava di “patrioti”: anche la magistratura austriaca
apparve un po’ troppo disinvolta. E anche il suo comportamento
venne valutato negativamente negli ambienti internazionali.
Intanto, la Commissione italiana istituita nel 1961 per lo studio della
questione altoatesina (e che aveva lavorato con saggezza, onestà e
diligenza) aveva presentato, nel 1964, i suoi suggerimenti, che
accoglievano molte delle richieste sud-tirolesi. Cominciarono
incontri trilaterali tra Italia, Austria e SVP e l’Italia-Stato riconobbe,
una volta tanto coraggiosamente, che l’accordo De Gasperi-Gruber
non era stato applicato “nel migliore dei modi”.
Mentre la situazione andava chiarendosi e un accordo politico
appariva ormai vicino, il BAS scatenò una serie nutrita d’attacchi
indiscriminati e soprattutto ingiustificati. Nel 1967, quattro militari
italiani morirono in un agguato in Cadore. Una serie
immediatamente successiva di assalti simultanei contro alcune
caserme mostrò che quest’organizzazione era decisa a sabotare ogni
accordo.
Ma i tentativi d’accordo continuarono. Il “pacchetto” delle offerte
italiane fu accettato dalla SVP. Anche l’Austria apparve disposta ad
accettarlo purché lo si ancorasse a un controllo internazionale: poi,
lasciò cadere questa pregiudiziale. Il testo della “quietanza
liberatoria”, concordato nel 1969 da Moro e da Waldheim, considerò
così il “pacchetto” una questione interna italiana, salvo il
riconoscimento finale, da parte dell’Ausiria, dell’adeguata tutela dei
diritti dei sud-tirolesi.
I terroristi erano ormai fuori gioco: l’ultimo attentato, compiuto
soltanto per onore di firma, avvenne, infatti, nell’ottobre del 1969. Il
nuovo Statuto, approvato con legge costituzionale il 10 novembre
1971, entrò in vigore il 20 gennaio del 1972. Ma cominciò a venire
applicato con una lentezza così esasperante che molti sud-tirolesi
dubitarono che venisse mai integralmente attuato.
I suoi contenuti apparivano, comunque, rivoluzionari. La regione
Trentino-Alto Adige rimase (gli italiani, si sa, sono formalisti) ma si
trasformò, in pratica, in una “federazione” di due “province
autonome” (non previste dalla Costituzione: ma lo Stato italiano,
quando vuole, è capace di tutto) e venne trasferita, dalla regione alle
singole province, quella competenza primaria in molte materie, fino
allora saldamente detenuta da Trento. Il momento più intenso della
crisi era, per fortuna, ormai superato.
Bisognerà invece aspettare il 1975 perché, col trattato di Osimo tra
Italia e Iugoslavia, l’ex zona A del Territorio libero di Trieste
diventasse italiana de iure oltre che de facto. S’imponeva una
revisione dello Statuto della regione autonoma Friuli-Venezia Giulia
e una sorta di “pacchetto” tale da stroncare sul nascere ogni dissidio e
ogni insidia. Una commissione mista, creata sul modello di quella che
aveva brillantemente operato a proposito dell’Alto Adige, non riuscì
però a concludere nulla a causa delle reciproche diffidenze.
I disegni di legge governativi elaborati da Roma per applicare alla
minoranza slovena gli accordi del trattato di Osimo, furono di
conseguenza assai deludenti: così deludenti che il 20 gennaio 1982 la
Corte Costituzionale constatò che il mancato adempimento degli
impegni assunti dallo Stato in proposito avevano creato una
“situazione di carenza di cui è doveroso sottolineare la gravità”. Per
fortuna, nessun movimento terroristico sloveno cercò di “rimediare”,
a modo suo, a quella carenza.
I ritardi nell’attuazione del nuovo Statuto della regione Trentino
Alto Adige portarono, invece, nel 1986, a un rigurgito di
“terrorismo” per mano di un nuovo gruppo clandestino, Ein Tirol
(“Un Tirolo”: nel senso di un Tirolo solo, che comprendesse la parte
italiana e le due austriache del vecchio Kronland). Nel 1988, grazie
all’intervento congiunto della polizia italiana e austriaca, anche
questo rigurgito ebbe fine.
Quello stesso anno si formò però un nuovo partito politico,
apertamente irredentista, la Union für Südtirol, che contestò la
lentezza burocratica nell’applicazione del nuovo Statuto di
autonomia, che considerava per giunta ormai sorpassato. Perfino una
parte della SVP si dichiarò d’accordo. Soltanto il 5 giugno 1992,
tuttavia, il nuovo Statuto sarà interamente attuato dopo un accordo
raggiunto in extremis tra il governo italiano (che aveva bisogno dei
voti della SVP per uscire da una crisi politica), quello austriaco e la SVP
stessa. L’Union für Südtirol non ci stette e cominciò a reclamare
l’autodeterminazione e la riunificazione dei tre Tiroli (attraverso
imponenti manifestazioni di massa).

Il risveglio delle periferie e il sonno del Sud


Si può dire che, in tutte le periferie dello Stato italiano dotate di
un’identità spiccata, la lotta per la conservazione (e, se possibile, lo
sviluppo) di quest’identità, anche durante i cinquant’anni della
repubblica, non sia mai cessata. Spesso, questa lotta, che è globale in
quanto è, insieme, difesa della lingua, della cultura, dell’economia,
della società e soprattutto di prospettive autonome di sviluppo non
necessariamente coincidenti (spesso, anzi, discordanti) con i progetti
e gli intenti dello Stato stesso, ha potuto appoggiarsi ad una forza
politica propria dal consistente peso elettorale.
È il caso dell’Union Valdôtaine e della SVP nel Tirolo meridionale che
(col tempo nel primo caso e da sempre nel secondo) si sono assestate
come partito di maggioranza locale; e hanno potuto incidere in
qualche modo (molto poco in verità) nella politica dello Stato
attraverso i loro esponenti parlamentari, molte alleanze di comodo e
qualche compromesso fruttifero.
Nelle altre “periferie”, la lotta politica per la sopravvivenza globale è
avvenuta attraverso strumenti politici diversi. Gli sloveni, ad
esempio, hanno cercato di tutelarsi attraverso i partiti “italiani” della
sinistra (soprattutto il PCI), tutt’altro che insensibili alle loro
rivendicazioni e a cui hanno fornito costantemente personale
politico di buon livello e soprattutto voti. Diverso il comportamento
della frangia cattolico-liberale che ha agito, invece, a livello soltanto
regionale, attraverso il piccolo partito della Slovenska Skupnost
(Unione slovena).
I sardi, ottenuta un’autonomia piuttosto carente se paragonata a
quella siciliana, si sono mostrati, per un po’, inspiegabilmente
appagati. Il Partito sardo si è lentamente spento (soprattutto dopo la
scissione della “sinistra”, guidata da Lussu, che avvenne nel luglio
1948) nei meandri del piccolo cabotaggio clientelare all’ombra prima
della DC e poi del PCI, senza ottenere grandi risultati. I sardi si sono
risvegliati all’improvviso, e impetuosamente, a cavallo degli anni
Settanta, attraverso quel movimento d’opinione, assai combattivo e
variegato, che va sotto il nome di “neo-sardismo”, protagonista di
rivendicazioni ad ampio raggio, dall’affermazione dell’identità
linguistica alla denuncia della condizione di colonia economica e
culturale imposta all’isola da parte dello Stato. Significativa apparve
la formazione del movimento “anticolonialista” Su populu sardu,
ispirato ai temi e allo stile della sinistra extraparlamentare italiana ma
di fede nazionalista sarda, sia pure di rito “terzomondista”. Il neo
sardismo produsse numerosi giornali bilingui, animò radio private
che trasmettevano in limba, provocò la nascita di Sardenya i llibertat,
partito allo stesso tempo catalanista e sardista di Alghero (a cui
appartenne un sindaco della città).
Questo fiorire d’iniziative culminò, nel 1977, con la fondazione del
Comitadu pro sa limba il quale raccolse, in un anno, 15.360 firme
(quando lo Statuto d’autonomia ne prevedeva 10.000) per la
presentazione, in Consiglio regionale, di una proposta di legge
d’iniziativa popolare per l’introduzione del bilinguismo sardo
italiano nell’isola (proposta che, purtroppo, il Consiglio regionale
insabbiò più per titubanza e timore nei confronti dello Stato italiano
che per reale disinteresse, per due anni: e quando la fece pervenire al
governo italiano fu di nuovo insabbiata da Roma per sempre).
Il Partito sardo d’azione, che era sceso, nelle elezioni regionali del
1979, al minimo storico di voti (appena l’1,9 per cento) decise di
rinnovarsi e cambiò strategia accogliendo nelle sue file quasi tutti gli
esponenti e gli animatori del neo-sardismo (una piccola parte del
quale fondò invece il Partito sardo indipendentista). Anche il Partito
sardo d’azione lanciò la parola d’ordine dell’indipendenza e teorizzò a
piena voce l’esistenza della “nazione sarda” e la necessità del suo
riconoscimento. Nelle elezioni regionali del 1984, ottenne così il 13,8
per cento dei voti e divenne il terzo partito dell’isola, dopo la DC e il
PCI.

Quando la nuova legge sulle autonomie locali (giugno 1990) ingiunse


a tutti i comuni italiani di munirsi di un proprio Statuto, su
ispirazione del Partito sardo la metà dei comuni dell’isola vi previde
l’uso pubblico della lingua sarda. Il comune di Bitti andò oltre: il suo
Statuto affermava, infatti, che “la comunità di Bitti fa parte del
popolo sardo e il suo territorio e i suoi cittadini appartengono alla
nazione sarda nel più ampio contesto dello Stato italiano”.
Il Partito sardo s’invischiò presto, di nuovo, nei giochi di potere, a
fianco dei partiti “italiani” della sinistra, e smarrì quello slancio che lo
aveva rianimato. Fu comunque grazie al suo contributo se il
Consiglio regionale approvò, a larghissima maggioranza, il 7 ottobre
1993, una legge regionale sulla “tutela e valorizzazione della lingua e
della cultura sarda” che, nell’arco di tre anni, prevedeva la
coufficialità nell’isola del sardo e la sua introduzione nelle scuole.
Il governo di Roma respinse questa legge (con i poteri concessigli
dall’articolo 127 della Costituzione) per ragioni di “dubbia
costituzionalità” e di “opportunità finanziaria”. Il Consiglio regionale
sardo ridusse la spesa prevista nella legge respinta e ribadì il
provvedimento con un decreto legge. Il governo di Roma ricorse alla
Corte Costituzionale che, con sentenza n. 290 del 13 luglio 1994, gli
dette ragione con la motivazione che, insegnando il sardo in
Sardegna, si sarebbe leso “il diritto sociale all’istruzione in condizioni
d’uguaglianza” riconosciuto a tutti i cittadini italiani
indipendentemente dal luogo di residenza. Sembra proprio di
sognare. Come mai, infatti, la tutela costituzionale della lingua
tedesca nel Sud Tirolo e di quella francese in Val d’Aosta non
avrebbero leso il “diritto” mentovato stabilendo de iure una
disuguaglianza linguistica tra cittadini dello stesso Stato?
Non diversa dalla situazione sarda appare quella friulana. In
mancanza di un partito “etnico” tradizionale sul tipo del Partito
sardo, la lotta per la difesa dell’identità si è svolta principalmente sul
piano culturale. Nel 1947, tuttavia, sorse un Movimento popolare
friulano che, nel suo progetto di Statuto, prevedeva l’uso pubblico
della lingua friulana. Al movimento aderì Pier Paolo Pasolini, che
viveva allora in Friuli, autore di raffinate poesie e di testi teatrali in
lingua friulana.
Il movimento scomparve nel 1953. Al suo posto venne fondato, nel
1966, il più noto Movimento Friuli (MF) che nelle elezioni regionali
del 1968 ottenne il 5,1 per cento dei suffragi. Nel 1973, trasformò il
proprio autonomismo regionalista in autocoscienza della “nazione
friulana”. I suoi voti si stabilizzarono al livello, che rimase
tradizionale, del 3 per cento. Era appoggiato da una consistente fascia
di sacerdoti, devoti al ricordo del glorioso patriarcato di Aquileia e
del vecchio rito patriarchino, organizzati sotto l’insegna di Glesie
furlane (“Chiesa friulana”). Con il Movimento Friuli collaborarono
anche alcuni gruppi della sinistra extraparlamentare.
Nel 1984, MF e “nuova sinistra” chiesero, senza successo, in Consiglio
regionale, la separazione del Friuli da Trieste, sull’esempio delle due
province autonome nelle quali era stato diviso il Trentino-Alto
Adige: una separazione etnico-linguistica chiara e netta ovviamente
respinta dalle autorità istituzionali.
Anche la piccola Ladinia dolomitica e l’appena meno piccola
Occitania italiana si risvegliarono politicamente nel periodo situato a
cavallo degli anni Settanta. Particolarmente significativa la presenza,
nelle valli occitane, del Movimento autonomista occitano (MAO),
fondato nel 1968 quale filiale nello Stato italiano del Partito
nazionalista occitano, che agiva nell’assai più grande Occitania
francese.
A partire dal 1979, tutti i partiti “etnici” dello Stato italiano si sono
presentati insieme in occasione delle elezioni per il Parlamento
europeo, dove hanno sempre ottenuto un deputato, instaurando
rapporti preferenziali di lavoro con i rappresentanti dei baschi, dei
galeghi, dei catalani, dei fiamminghi, dei gallesi e degli scozzesi,
insieme ai quali venne costituito il gruppo Arcobaleno. Va tuttavia
precisato che il maggiore dei partiti “etnici” dello Stato italiano, la
SVP, forte del suo monopolio politico tradizionale e dei rapporti

privilegiati con la DC, non ha mai partecipato a questa lista, che aveva
assunto il nome di “Federalismo” e comprendeva l’Union Valdôtaine
e il MAO, i friulanisti, la Slovenska Skupnost e il Partito sardo d’azione.
Partecipava invece alla lista, dal 1984, per i sud-tirolesi, la piccola e
neonata Union für Südtirol.
Era presente, in questa lista, anche il microscopico Movimento
meridionale: un segnale del risveglio politico del Sud che, purtroppo,
è rimasto tale nonostante apparisse allora portatore di una novità
sconvolgente. Purtroppo, il risveglio globale del Sud, non è ancora
avvenuto, anche se le condizioni perché sorgesse ci fossero (e da assai
più di un secolo) ormai tutte.
Malgrado la politica dello Stato nella sua versione repubblicana, che
aveva puntato molto sul riscatto del Sud attraverso un impegno
capillare quanto fantasioso e scoordinato, di “interventi speciali”
reiterati, di “piani di rinascita”, pressoché ininterrotti, di massicci
aiuti economici per le aree depresse (e il Mezzogiorno era tutto
compreso in un’unica, vastissima “area depressa”), attraverso perfino
la realizzazione di strutture finanziarie gigantesche e specifiche quali
la Cassa per il Mezzogiorno, il divario tra i due principali “paesi” (dei
quali l’Italia-Stato si componeva) appariva, via via che scorrevano gli
anni, sempre maggiore. Era addirittura ricominciata, subito dopo la
guerra, l’emigrazione di massa dei meridionali. Va notato come lo
Stato italiano, avvolto nei fumi della propria concezione centralistica,
non ha mai riconosciuto l’unità etcnico-territoriale del suo
Mezzogiorno: conquistato il Regno delle Due Sicilie lo ha
frammentato in province, poi in regioni. Amministrativamente, la
Lombardia sta alla Campania come la Campania sta alla Puglia e la
Lombardia al Piemonte. Tuttavia, lo Stato ha dovuto riconoscere, per
via extra-istituzionale, un certo accorpamento sovraregionale del Sud
in ordine a caratteristiche ritenute temporanee, che hanno dato
luogo, come si è detto, a organismi quale la Cassa del Mezzogiorno e,
abolita la Cassa, ad altri marchingegni sostitutivi.
Nel periodo 1950-70, quasi 6.000.000 meridionali, un quarto della
popolazione complessiva, furono costretti ad abbandonare di nuovo
la propria terra in cerca di una possibilità di vita più dignitosa quando
non della stessa sopravvivenza. Più della metà di questi emigranti era
diretta, questa volta, nella Padania felix (soprattutto nella sua
porzione nord-occidentale, il “triangolo Torino-Milano-Genova”,
dov’era concentrata l’industria italiana fino dai tempi
immediatamente successivi all’unità politica) che era la sede precipua
del miracolo economico italiano quale stava avvenendo sull’onda di
una congiuntura favorevole.
La manodopera meridionale fu essenziale per l’industria padana e
alleviò la stessa “questione meridionale” alleggerendo il Sud di molti
dei suoi abitanti. Nonostante questa brutale semplificazione, i
problemi del Sud, ovviamente, rimasero tutti.
Lo Stato credette di rimediarvi, come si è detto, in molti modi: anche
con una riforma (del tutto parziale) della proprietà fondiaria, con la
costruzione di infrastrutture faraoniche e spesso inutili e con
l’installazione delle famigerate “cattedrali nel deserto”: cioè, come
dice Carlo M. Cipolla, di “impianti industriali che pur costando al
‘paese’ somme enormi non riuscirono a smuovere l’ambiente in cui
erano sorti e rimasero oasi non competitive, incapaci di trainare il
resto della regione”. Non creavano indotto e occupavano poco
manodopera locale. E saranno poi chiuse quasi tutte perché
“antieconomiche”.
Lo sperpero fu colossale. La presenza, alacre e costante, del nuovo
ceto degli urbanisti, dei tecnocrati, dei sociologi, degli economisti, dei
pianificatori di Stato si fece le ossa sul campo fracassando le ossa ad
ogni possibile rinascita del Mezzogiorno (che poteva avvenire
soltanto su basi diverse e più consone alla sua specificità produttiva e
culturale).
Uno dei risultati dell’impegno dello Stato fu, sempre secondo
Cipolla, “il potenziamento delle associazioni criminose che hanno
saputo appropriarsi di una buona fetta delle somme spese dal governo
nelle aree da loro dominate” (si va dalla mafia siciliana alla “fibbia”, in
calabrese ‘ndrangheta, alla camorra napoletana, alla corona salentino
pugliese). Eppure, finché durò il periodo delle vacche grasse, nel resto
del “paese” le cose sembrava dovessero andare sempre meglio.
Il risentimento, vivace, di un certo numero di meridionali rimasti in
loco si coagulò, paradossalmente, attorno ai partiti della destra extra
costituzionale. I guai prodotti dall’Italia unita dalla dinastia sabauda
furono imputati all’Italia riunita dopo la caduta del fascismo e la
cacciata della dinastia. Un caso di strabismo davvero macroscopico.
Ne trassero consistenti benefici elettorali i neofascisti e i
veterofascisti nonché un paio di consistenti partitelli monarchici di
impianto napoletano (però di fede sabauda e non borbonica, come
sarebbe apparso, tutto sommato, meno scioccante e soprattutto non
contraddittorio). Questo vasto risentimento, punteggiato di proteste
isolate, culminò nella grande rivolta spontanea di Reggio Calabria,
subito gestita dall’MSI: una vera insurrezione che rivelò un invidiabile
e inaspettato appoggio popolare. Questa sorta di prolungata abiura
locale di massa dell’unità “nazionale” si svolse dunque sotto l’egida
politica degli eredi ideologici di una ormai malfamata unità.
Attorno agli anni Settanta, un gruppo di intellettuali meridionali,
soprattutto economisti di formazione marxista e militanti della
sinistra extraparlamentare, comprese finalmente che la “questione
meridionale” andava impostata su altre basi. Faremo i nomi di alcuni
di questi coraggiosi neo-meridionalisti di qualità culturale
ineccepibile: Nicola Zitara (autore di L’unita d’Italia: nascita di una
colonia, 1971), Edmondo M. Capecelatro e Antonio Carlo (autori di
Contro la questione meridionale, 1972) e la storica Maria Rosa
Cutrufelli (autrice di L’unita d’Italia: guerra contadina e nascita del
sottosviluppo del Sud, 1974). Il nuovo clima di ricerca e di sintesi
politica era stato preparato dalla rivista “Quaderni calabresi” diretta
da Francesco Tassone.
Per spiegare la situazione, Zitara riprese la vecchia categoria
ottocentesca della subnazionalità (tutt’altro che peregrina) e parlò di
“una sub-nazione meridionale conquistata, colonizzata e sfruttata
dalla sub-nazione settentrionale, nella quale soltanto si ritrovano i
caratteri salienti della società italiana, e che pertanto sarebbe più
coerente chiamare Italia, indicando il resto del paese, il quale presenta
caratteri fondamentalmente diversi, con un altro nome”. La rinuncia
al nome “Italia” appare significativa. Ma che nome dare allora al
Mezzogiorno o Meridione o Sud, che non sia quello di un punto
cardinale? In Francia il Midi aveva appena riscoperto il proprio nome
storico: Occitania. Nell’Italia-Stato questa scoperta non è ancora
avvenuta.
Mettendo il dito sulla piaga vera, Zitara scrisse: “Probabilmente, una
evoluzione autonoma verso l’economia mercantile e poi verso la
produzione industriale [avrebbe salvato la sub-nazione meridionale]
dal sottosviluppo e dalla subordinazione coloniale [...] Allume di tali
esperienze, si può dire veramente che l’Italia è un solo paese, e che è
un paese sviluppato? Di fronte al problema italiano, l’affermazione
più giusta è che i paesi sono due”.
Si rinfocolò una polemica con la sinistra italiana ufficiale, ormai
“consociata” al potere. Zitara, dichiaratamente marxista sia pure non
ortodosso (ma ortodossi non erano più, da tempo, nemmeno i
dirigenti e i quadri del PCI), riscoprì nel 1971 quello che il Partito
sardo d’azione aveva teorizzato cinquant’anni prima (cercando
invano di comunicarlo a livello politico ai “fratelli” meridionali): “Gli
interessi del proletariato settentrionale, nella prassi attuale, come in
quella di ieri, sono inconciliabili con quelli del proletariato
meridionale (che) non ha ricavato e non può ricavare che male
dall’impianto unitario della lotta di classe in Italia”.
Purtroppo, il movimento “sub-nazionalista” fondato da Tassone e da
Zitara, con il nome poco attraente di Movimento dei contadini e dei
proletari del Mezzogiorno e delle isole, non riuscì ad attecchire e
racimolò sempre pochissimi voti, anche quando cambiò nome e si
limitò a definirsi soltanto Movimento meridionale. I meridionali
apparivano insensibili ai loro stessi problemi: troppi di loro si
accontentavano miseramente del “pizzo”, delle minuscole prebende
concesse a titolo personale, del posto fisso presso lo Stato-apparato,
delle pensioni facili, degli sgravi e delle smemoratezze fiscali, degli
occhi chiusi da parte delle autorità al cospetto di una criminalità che
offriva, in fondo, anch’essa posti di lavoro sicuri (ed era l’attività
economica più redditizia di una parte almeno del Mezzogiorno).
I più svegli e fortunati tra loro avevano ormai, del resto, occupato
quasi tutto lo Stato-apparato, al Sud come al Nord: la burocrazia, la
polizia, l’esercito, la magistratura, la scuola e perfino il governo erano
per tre quarti appannaggio tradizionale e costante dei meridionali. “È
in grazia dei deputati meridionali, quasi tutti eternamente
ministeriali, che si regge l’attuale ordinamento politico” aveva scritto
Gaetano Salvemini, addirittura nel 1900.
Come si poteva pensare che il Mezzogiorno avrebbe potuto seguire il
minuscolo Movimento meridionale nella sua solitaria, intelligente
ma disperata azione politica?

La sveglia padana
In contemporanea con la nuova impostazione, sia pure scarsamente
condivisa in loco, della “questione meridionale”, si ponevano le basi
di quella che sarebbe stata definita, in seguito, “questione
settentrionale”: che non può essere introdotta meglio di quanto non
facciano le parole del neo-meridionalista Zitara che seguono e che
risalgono al 1973.
“A partire dagli anni Cinquanta, la funzione di colonia di consumo
delle merci protette della grande industria padana, assolta dal
Mezzogiorno, è andata deteriorandosi. Divenuta competitiva a livello
mondiale, l’industria italiana si è potuta procurare altri sbocchi ai
flussi crescenti delle sue merci. A questo punto, il Mezzogiorno si è
trasformato, da area di consumo, in area assistita [...]. Ma come area
d’assistenza, il Mezzogiorno è divenuto una palla di piombo al piede
non solo dello sviluppo italiano, ma anche del benessere italiano, cioè
settentrionale”.
L’“obbligo degli alimenti” nei confronti del parente povero era
destinato ad irritare sempre di più i parenti ricchi, che dovevano
rinunciare a diventare un poco più ricchi senza che il loro sacrificio
facesse diventare i parenti poveri un po’ meno poveri. In questo
paradosso è racchiuso tutto il corso degli avvenimenti successivi.
Va da sé che l’arrivo in massa, dal Sud nel Nord, di tanti “parenti
poveri”, aveva posto a diretto e stridente contatto, in uno stesso
spazio, due culture, due mentalità, due lingue, due tradizioni diverse.
E ciò fu fonte d’incomprensioni e di conflitti, perfino di derisioni
ingenerose.
Anche se lo sviluppo del Nord, quale stava avvenendo in quegli anni,
derivava, in misura non trascurabile, dall’opera di questi parenti
poveri che erano approdati nella parte ricca del paese per diventare
un po’ meno poveri, rimanevano da risolvere i problemi di coloro che
erano rimasti nel Mezzogiorno (ed erano ancora tanti e si
riproducevano con ritmi elevati).
La maledizione fu, come ha notato Cipolla, che, almeno a partire dal
secondo dopoguerra, il “ritardo imposto al Nord, cui venivano tolti
capitali che il Nord avrebbe potuto far fruttare, per investirli al Sud,
dove venivano per lo più bruciati” non poteva non rendere ancor più
evidente una contraddizione insanabile che dilaniava l’Italia-Stato
fino dalla sua troppo disinvolta istituzione.
Che il Nord costituisse a sua volta un’unità organica fu una
riscoperta che cominciò a trapelare proprio in quegli anni. Il merito
fu dei comunisti emiliani e del loro leader Guido Fanti, presidente
della Regione. Ovviamente, in questo caso nessuno parlò di
“subnazione settentrionale”. Ci si limitò a constatare che concreti
interessi economici e un comune retaggio culturale univano le regioni
del Nord e che lo Stato unitario non ne teneva conto, tutto preso
come era nell’affrontare, sia pure in modo da aggravarla, la
sempiterna questione meridionale. Questa sì valutata in chiave
interregionale.
Fanti propose che le regioni del bacino padano si coordinassero in un
progetto comune di valorizzazione del territorio. La sua proposta
venne appoggiata dagli organismi ufficiali della regione Emilia
Romagna. Venne però subito indetta un’allarmata riunione della
direzione “nazionale” del PCI e su esplicita richiesta di alcuni
esponenti meridionali del partito, Fanti venne messo sotto processo e
dimesso nel modo consueto: venne infatti celermente promosso
deputato e costretto ad abbandonare la sua regione. Finì così una
promettente carriera politica. E i comunisti emiliano-romagnoli
furono ricondotti a forza nei ranghi loro assegnati dall’alto che non
prevedevano autonomie sovraregionali né a livello di Stato né a livello
di partito.
Intanto, il risveglio, sia culturale sia politico, delle “periferie” in
possesso di un’identità specifica e in qualche modo riconosciuta (che
aveva fatto confluire il Movimento meridionale nella lista
“Federalismo”) aveva anche, bizzarramente, cominciato a
contaminare alcuni irrequieti “giovanotti” settentrionali (di un’area
del paese considerata a torto priva di una propria specificità
culturale), sparsi su tutto il territorio padano, non connessi con
l’esperimento emiliano e assai meno intellettualmente dotati dei neo
meridionalisti anche se forniti di un fiuto politico assai più
sviluppato.
A contatto con i limitrofi “nazionalisti” friulani, alcuni veneti (al
seguito di Franco Rocchetta) cominciarono a rivendicare i diritti di
un’ipotetica nazione veneta, caratterizzata da una lingua veneta,
altrettanto ipotetica: analogo discorso facevano alcuni piemontesi (al
seguito di Roberto Gremmo) che, a contatto con gli occitani di casa,
cominciarono a teorizzare una nazione e una lingua piemontesi.
Nacque anche il “nazionalismo” autonomista lombardo (con
Umberto Bossi, allora pregevole poeta in “lingua lombarda”). La
prima fase del “leghismo” stava per cominciare.
Anziché “subnazionalisti”, come i neo-meridionalisti, questi
“leghisti” settentrionali della prima ora si presentavano, talvolta, assai
disinvoltamente, come “nazionalisti” tout court (anche se si
riferivano a “micronazioni” improbabili, che coincidevano con le
improbabili regioni ufficiali da poco istituite proprio dallo Stato
italiano nella maniera così artificiosa di cui s’è detto). L’idea di una
comune identità padana era ancora di là da venire (e non l’aveva
avuta, sia chiaro, nemmeno Fanti). Piemonte, Lombardia e Veneto
erano considerati monadi che apparivano tuttavia legate in egual
misura all’oppressione dello Stato a indirizzo “meridionalista” e
sottoposte al saccheggio delle loro risorse da parte di questo Stato.
Il culto della “patria italiana” non aveva più nessun fascino per questi
micronazionalisti, magari pochi e sparuti, che si ispiravano talvolta al
Terzo mondo, insorgevano contro il “colonialismo interno” europeo
esercitato dagli Stati nei confronti dei popoli, senza con questo
peritarsi di agitare sempre più frequentemente slogan di “destra” e di
ostentare atteggiamenti razzisti. Alle motivazioni più “nobili” si
aggiungeva, infatti, un antimeridionalismo diffuso: si temeva (in
parte a ragione) che l’invasione “terrona” minacciasse le identità che
si andavano riscoprendo e fosse la quinta colonna dello Stato
omogeneizzatore (anche se questa “invasione”, che aveva
drammaticamente posto a confronto due diversi “modi di vita” si era
ormai esaurita).
È un peccato che i giornalisti, i politologi, gli storici italiani non
abbiano carpito l’importanza, da questo punto di vista fondamentale,
del periodo a cavallo degli anni Settanta e non l’abbiano pertanto
capito. Anche un movimento, in qualche modo di massa, cattolico
estremista, quello giovanile di “Comunione e Liberazione”,
cominciava infatti ad agitare temi antirisorgimentali, a rivalutare le
cosiddette “insorgenze” (sanfedisti, “viva Maria” ecc.) recuperando le
ragioni di un’opposizione anche ideologica alle motivazioni che,
partendo dalla rivoluzione francese, erano approdate all’istituzione
del regno sabaudo d’Italia, “massonico” e “giacobino”, affossatore
delle prerogative del “papa-re” e di una più giusta “Italia unita” in
grado di rispettare i popoli che ne abitavano i territori e avrebbe
potuto sorgere in un contesto ideologico diverso. L’importanza della
nascita degli strampalati micronazionalismi settentrionali fu invece
intuita subito dall’Union Valdôtaine (UV), che non aveva rinunciato
agli ideali del federalismo preconizzato da Chanoux sull’intero
territorio statuale, ma non sapeva come fare per realizzarli su di una
scala tanto vasta.
L’azione politica delle “frange a identità spiccata” (Valle d’Aosta,
Tirolo meridionale ecc.) che caratterizzavano l’Italia-Stato, era
destinata, sul piano dei numeri, all’insuccesso: soltanto il 5 per cento
dei cittadini italiani viveva infatti nelle “frange”. Un accordo con i
nuovi movimenti che stavano sorgendo nelle vaste e popolose regioni
settentrionali poteva offrire, invece, una prospettiva plausibile. Nel
Veneto, si enunciavano, sempre più freneticamente, i valori connessi
alla serenissima repubblica di Venezia che si volevano restaurare. In
Lombardia, ci si rifaceva un po’ al regno Lombardo-Veneto, di
austriaca e venerata memoria, un po’ al ducato di Milano e molto,
anzi moltissimo, all’età d’oro della Lega Lombarda e dei liberi comuni
in essa raccolti. In Piemonte, allo Stato sabaudo in versione
subalpina; in Liguria alla repubblica di Genova. E così via. E si
blaterava concordemente, dappertutto, contro lo Stato italiano,
affossatore delle antiche libertà patrie. Il terreno per dotare di una
base elettorale diffusa il progetto federalista dei valdostani avrebbe
potuto essere arato con qualche prospettiva di successo.
Un dirigente dell’UV, Bruno Salvadori, offrì, nel 1979, il simbolo del
suo partito alle varie “leghe” su base regionale fondate dai
micronazionalisti perché potessero partecipare alle competizioni
elettorali senza bisogno di estenuanti raccolte di firme. I risultati
furono modestissimi.
Con la morte prematura di Salvadori, questo rapporto si troncò e la
diffidenza dei vecchi autonomisti nei confronti dei nuovi venuti, così
confusi e sgrammaticati a proposito delle tematiche etniche (non si
poteva presentare l’identità sud-tirolese negli stessi termini di quella
veneta o di quella romagnola), ebbe il sopravvento.
Andò meglio, per i micronazionalisti su base regionale, nel 1983,
quando la Lega Veneta, raccogliendo il 4 per cento dei voti regionali
nelle elezioni politiche, mandò in parlamento un deputato e un
senatore. Nelle elezioni politiche del 1987, nonostante aumentasse i
propri suffragi, questi stessi suffragi risultarono troppo dispersi tra le
diverse circoscrizioni e la Lega Veneta perse i propri rappresentanti a
Roma. Fu invece la Lega Lombarda, col 3 per cento dei voti espressi
in Lombardia, a mandare a Roma un deputato e un senatur (Bossi).
Nel 1988, le varie “leghe” si accorparono nella Lega Nord, una sorta
di partito nuovo il cui scopo dichiarato fu la lotta “per la pacifica
trasformazione dello Stato italiano in un moderno Stato
confederale”. Questo raggruppamento rinunciò progressivamente
alla difesa esclusiva delle singole identità che sosteneva di
rappresentare. Bossi, che era il tessitore della confluenza e il leader
sempre più incontrastato di tutti i leghismi, enunciò presto, con
grande fiuto politico, il passaggio dalla tutela delle “identità etniche”
alla “comunione di interessi” (e di struttura economica) che univa
l’intera Italia settentrionale (il Nord) di là dalle presunte divisioni
interne fino allora millantate. Oltretutto, i leghisti ignoravano che i
dialetti parlati nel Nord non erano che varianti magari vistose di una
stessa lingua, sia pure priva di una forma standard, di una koiné: e si
distinguevano, ancora più vistosamente, in blocco, dal resto dei
dialetti abusivamente considerati italiani.
Venne scoperta, insomma, politicamente la Padania come “insieme”
omogeneo, di là dalle regioni amministrative nelle quali appariva
divisa: anche se ancora non la si chiamò così e la si scoprì soltanto
nella sua dimensione economica. A questa scoperta si affiancò la
denuncia virulenta dell’oppressione burocratica e fiscale e si teorizzò
il rifiuto di continuare a versare gli “alimenti” al solito Sud: di subire
ancora il salasso delle risorse del Nord compiuto troppo
disinvoltamente da uno Stato inefficiente e corrotto, identificato con
Roma in quanto centro fisico del potere. Soltanto una
trasformazione federale dello Stato, secondo i leghisti, avrebbe
“liberato” il Nord dai lacci romani e addirittura permesso al Sud di
gestire, in piena autonomia, le proprie, magari modeste, risorse: per
tentare, almeno, uno sviluppo basato sulle proprie caratteristiche,
sulle proprie vocazioni e sulla propria macilenta struttura economica,
liberata dall’assistenzialismo di Stato che ne salvaguardava una stanca
sopravvivenza ma ne impediva ogni prospettiva congeniale di
sviluppo.
Era, in pratica, la stessa posizione del neo-meridionalismo. Soltanto
che, mentre il neo-meridionalismo, così intellettualmente rigoroso,
era fallito sul piano politico ed elettorale, la Lega Nord, nonostante la
propria visione culturalmente approssimativa, era destinata di lì a
poco ad affermarsi, proprio su questo piano (in fondo, l’unico
visibile), con un crescendo davvero vertiginoso. Aveva a disposizione
un brodo di coltura impareggiabile.
L’Italia-Stato era, da assai più di un decennio, avvolta nelle spire di
una grave crisi economica, che costringeva i governi di Roma a
brusche politiche di risanamento e imponeva prelievi fiscali forzosi e
ricorrenti senza però ottenere nessun risultato. La Lega Nord cavalcò
la protesta dei cittadini settentrionali contro le pretese del fisco e gli
intralci burocratici. Era in corso anche una trasformazione
economica che interessava tutta la Padania.
La grande industria del Nord-ovest era entrata in crisi insieme allo
Stato; l’emigrazione meridionale era, del resto, cessata da tempo.
Nel Nord-est, invece, stava avvenendo una rivoluzione produttiva
fondata sulla piccola e media industria manifatturiera diffusa: che
non godeva, come la grande industria nord-occidentale, dell’aiuto
diretto e della connivenza finanziaria dello Stato, eppure registrava
una crescita impetuosa. I suoi protagonisti erano così numerosi che
formavano una nuova “classe” sociale del tutto imprevista.
Questa “classe” mal tollerava una pressione fiscale punitiva e
scriteriata e una palese insufficienza d’infrastrutture (va notato che,
dal 1954 e per una ventina d’anni, queste zone, sedi improvvise di un
secondo miracolo economico, erano considerate aree depresse e
fruivano d’interventi statali, sia pure modesti rispetto a quelli
riversati nel Mezzogiorno: un altro paradosso del “paese”).
Va, del resto, riconosciuto che il crescente malcontento delle
popolazioni settentrionali (nel cui seno le seconde generazioni di
immigrati meridionali si erano ormai fuse completamente) appariva
giustificato e che esse non erano, né si sentivano, direttamente
responsabili della vecchia progettazione politica dell’Italia-Stato che
pur aveva deliberatamente privilegiato il loro territorio provocando
la spaccatura dello Stato stesso: “uno e indivisibile” sulla carta,
“molteplice e diviso”, a tutto svantaggio del Sud, e con qualche
svantaggio per il Nord, nella realtà. La Lega Nord trovò insomma il
suo elettorato.
Le sue richieste di trasformazione in senso federalistico dello Stato si
fecero sempre più intense. Lo Stato dei partiti era, d’altronde, in
piena crisi; il debito pubblico aveva raggiunto vette che apparivano
insormontabili eppure continuavano ad essere sormontate. I partiti
stessi, responsabili dello sperpero di Stato, cominciavano a venire
delegittimati dall’opinione pubblica. La Cassa per il Mezzogiorno era
stata abolita, per mancanza di fondi e insieme di fiducia.
Quando la corruzione, elevata tacitamente a sistema di Stato, venne
clamorosamente a galla, nei primi mesi del 1992, con l’inizio di quella
vasta operazione giudiziaria che ha preso il nome di “Mani pulite” e
con gli innumerevoli scandali che cominciavano a emergere, una
intera epoca si chiuse bruscamente e senza rimpianti. I principali
partiti di governo, la DC e il psi, si apprestarono a scomparire, cosa che
avvenne puntualmente di lì a poco.
Le elezioni politiche del 1992 fecero diventare la Lega Nord, che
raccoglieva i suoi voti soltanto nelle regioni settentrionali, il quarto
partito italiano. E la Lega insisteva sempre più sul federalismo: anche
se non aveva ancora identificato i soggetti della federazione da
istituire.
Una prima proposta venne da un “esterno” alla Lega (con la quale si
trovava però in ottimi rapporti), Gianfranco Miglio, che da giovane
aveva frequentato il gruppo del “Cisalpino”. Miglio ha avuto il
merito di ripudiare senza infingimenti le regioni burocratiche
esistenti e di avere sempre pensato a grandi aggregazioni organiche di
più regioni che chiamò, nell’occasione, “macroregioni”, reputando
che dovessero essere proprio queste i soggetti della federazione
auspicata. Le macroregioni furono provvisoriamente identificate con
i nomi “neutri” di Nord, Centro e Sud.
Purtroppo, le opinioni di Miglio apparivano in bilico tra quelle dello
storico Ruggiero Romano (secondo Miglio “la base d’aggregazione di
quest’assetto neo-federale [...] è la comune civiltà, il modo di
comportarsi, di vivere, di mangiare”) e quelle dell’antropologo
razzista Niceforo. Ad onore del vero, Miglio, più che dal “sangue” (la
“razza”), appariva infatuato dal “suolo” (il “clima”): “Il mondo civile è
nell’area temperata: se ci spostiamo dove fa molto freddo, ci
imbattiamo negli slavi tonti; se puntiamo verso sud, incrociamo
popoli straniti dal calore, un po’ come quei messicani che
sonnecchiano sotto il sombrero”.
A proposito degli “slavi tonti” non si può non ricordare che,
approfittando della crisi iugoslava, Gianfranco Fini, allora neofascista
e non ancora post-fascista, aveva chiesto di sorpresa, alla CEE, nel
luglio del 1991, in qualità di parlamentare europeo, il rispetto del
“principio della futura ricongiunzione alla madrepatria delle terre e
delle popolazioni artificiosamente inglobate nell’ex-Iugoslavia”: un
principio del tutto controvertibile. Un articolo del giornale del suo
partito precisò in proposito che “l’Istria e la Dalmazia dovranno
essere restituite alla Madrepatria”.
Fini stesso, per eccitare gli umori e sollecitare i voti dei profughi
istriani e dalmati, compì in seguito un raid marinaro nelle acque
istriane affidando alle onde alcuni ardenti messaggi tricolori sigillati
entro canoniche bottiglie. Vogliamo sperare che, se vi fosse stata una
dissoluzione contemporanea della Francia, avrebbe tenuto lo stesso
comportamento circumnavigando il Capo Còrso e bordeggiando le
Bocche di Bonifacio. Ma la Corsica era stata inspiegabilmente
dimenticata.
Torniamo alla crisi dell’assetto istituzionale dello Stato. Anche il
“ceto” ormai straripante e vezzeggiatissimo dei tecnocrati, dei
pianificatori, degli urbanisti, dei sociologi e degli economisti (non
necessariamente di Stato) si impegnò a fondo nella riforma con
progetti in apparenza spregiudicati. La Fondazione Agnelli, in un
convegno del 1993, propose un “regionalismo spinto”, fondato su un
diverso assetto regionale da compiersi, beninteso, nel “quadro
dell’unità nazionale”: un progetto che avrebbe permesso di evitare il
federalismo, in prospettiva considerato ancora troppo pericoloso.
Il mito economicista appariva chiaramente dall’intento dichiarato di
“dare più forza ai sistemi economici e territoriali italiani, rendendoli
più competitivi in Europa”. Anche il “rito” seguito nell’indagine
propedeutica al progetto era quello socio-economico-amministrativo
che potremmo definire, con una metafora massonica, “antico e
accettato”. Confrontando e interpretando esclusivamente “tassi di
copertura finanziaria”, “ipotesi di azzeramento del disavanzo
primario”, “andamenti del valore aggiunto” e altri dati ritenuti
fondamentali, si arrivò all’ipotesi dell’istituzione di dodici
“mesoregioni”, ottenute mediante l’accorpamento delle regioni
esistenti (o, in ipotesi estrema, con la spartizione di alcune di esse,
fermi restando i confini delle province, confini che, oltretutto,
apparivano oggettivamente altrettanto contestabili).
La lingua (cioè i sistemi dialettali), la storia, le tradizioni comuni, il
sentimento di appartenenza, le culture vennero disinvoltamente
considerati “accidenti” del tutto trascurabili e furono coerentemente
trascurati. Si passò sopra anche ai trattati internazionali e alle lotte
cruente (e ancora fresche) in difesa dell’identità che avevano portato
ad alcune realtà istituzionali difficilmente rettificabili, sancite e
tutelate dall’ONU. Il Trentino-Alto Adige fu aggregato, nel progetto,
con disinvolta indifferenza, al Veneto e al Friuli-Venezia Giulia; la
Valle d’Aosta a Piemonte e Liguria.

Progetti a vanvera, riforme a iosa


Nemmeno la Lega Nord aveva le idee troppo chiare su quel
federalismo che pure richiedeva con tanto insistenza. Eppure lo
voleva al più presto, e ad ogni costo. Il suo “cervello” istituzionale era
ancora il professor Miglio il quale, ad onta delle proprie idee sul
clima, era l’unico tecnico serio del federalismo e l’unico “specialista”
non estemporaneo dell’argomento esistente nell’Italia-Stato: uno
studioso dotato di competenza giuridica specifica e di esperienza
internazionale.
La “richiesta di federazione” aveva nel frattempo spaventato a morte i
partiti superstiti e l’intera classe politica italiani (per non dire dei
giornalisti e degli opinionisti al loro seguito), i quali decisero di
aderire a parole agli ideali federalisti per evitare più gravi
conseguenze, senza sapere bene di che cosa si trattasse (sapendone,
sull’argomento, addirittura meno dell’ultimo ingenuo-balordo
simpatizzante della Lega Nord che pure non ne sapeva pressoché
nulla): confondendo, soprattutto, il federalismo con un più vasto e
intenso decentramento amministrativo (il quale, una volta riveduto e
corretto, avrebbe, secondo loro, assicurato automaticamente una
maggiore efficienza, appunto, amministrativa, senza intaccare il
dogma dell’“unità nazionale”).
Contemporaneamente, fu deciso di officiare di nuovo, in pompa
magna, il rito della patria “una e indivisibile”, valore supremo e
àncora di salvezza dal disfacimento morale e perfino da quello
economico del “paese” (o della nazione, a seconda delle preferenze
terminologiche): un disfacimento provocato proprio dal modo con
cui era stata realizzata la sua presunta “unità” e che continuava a non
essere minimamente compreso. Un manipolo d’intellettuali si
specializzò nel supportare questa ripresa del culto della patria con
argomenti che mostrassero anche un certo peso critico e culturale,
superando così l’inevitabile ricorso alla retorica fino ad allora
abituale.
Un allarmatissimo politologo, Gian Enrico Rusconi, scrisse, nel
1993, un pamphlet di successo (Se cessiamo di essere una nazione), non
privo di intelligenza dialettica, confondendo però, ancora una volta,
sia pure in buonissima fede, la “nazione” con lo “Stato”, la
“cittadinanza” con la “nazionalità” e, passo ulteriore, quest’ultima
con la “democrazia” e la “lealtà costituzionale”: come se l’esistenza di
una nazione dipendesse dal suo regime politico e l’Italia, qualora lo
fosse stata (e “coscienza nazionale” a parte), avesse smesso di essere
tale all’avvento del Duce per ritornare ad esserlo dopo la caduta di
Mussolini.
Rusconi riconobbe l’importanza del “fatto linguistico”, a suo avviso
troppo trascurato dagli zelatori dello Stato unitario, ma mostrò,
proprio del “fatto linguistico”, una conoscenza davvero sommaria,
confondendo e mescolando le “regioni etno-culturali” a base
linguistica (che taluno chiama “nazioni”) con le semplici “regioni”
amministrative e, addirittura, con gli Stati pre-unitari scomparsi:
secondo lui, era “insensato pertanto stabilire analogie dirette tra la
Bretagna, la Corsica e il Lombardo-Veneto o la Romagna papalina”.
Anche per noi. Sarebbe come confondere le mele con le castagne
volendo parlare soltanto di mele. E Rusconi non era un botanico.
Il vero e buon botanico sosterrebbe infatti che bisogna confrontare
sempre e soltanto insiemi omogenei: la mela, l’arancia e il mandarino
fanno parte, a un determinato livello di discorso, dell’insieme
“frutta”. A un diverso livello, la mela sta da una parte mentre l’arancia
e il mandarino si collocano, insieme, da un’altra parte in quanto sono
entrambi agrumi, mentre la mela non lo è. Le castagne sono, poi, una
cosa ancora diversa.
La Sardegna è una regione come la Sicilia e la Calabria. La Sardegna e
la Sicilia sono isole mentre la Calabria non lo è. Ma la Sardegna (e
questo è il punto che interessa un’eventuale “dimensione” nazionale)
ha un proprio sistema linguistico (spia di una realtà assai più
profonda) mentre la Sicilia e la Calabria, per bocca dei loro abitanti,
appartengono entrambe, insieme ad ancora altre regioni, a un diverso
sistema linguistico che le accomuna (e dal quale la Sardegna è
esclusa).
Mentre l’avanzata della Lega Nord proseguiva d’elezione in elezione e
scomparivano dalla scena politica i partiti tradizionali, al federalismo
naïf si cercò di contrapporre perfino un neo-nazionalismo di Stato,
addirittura polemicamente antifederalista, da parte soprattutto di
esponenti di quella categoria intermedia tra i politologi e i giornalisti
che è, come si è detto, quella formata dagli opinionisti di professione:
i quali esprimono le opinioni della classe politica dirigente in una
foggia ritenuta più elegante e profonda.
Angelo Panebianco scrisse, nel 1993, su una rivista di geopolitica,
uscita da una costola della sinistra, “Limes”, che sponsorizza
addirittura gli “interessi nazionali” italiani “nel mondo” (e sostiene le
stesse cose sostenute dalla rivista fascista “Geopolitica” pubblicata a
Trieste nel 1939, sia pure senza la retorica imperiale di allora): “La
latitanza della cultura nazionale perdura. Basta vedere come l’Italia si
muove e non si muove sulla questione dell’Istria e della Dalmazia. Il
fatto è che dopo il 1945 parlare di nazione era di destra ed era quindi
inaccettabile per noi intellettuali”.
Sulla stessa rivista, Ernesto Galli della Loggia rincarò la dose: “La
questione orientale è stata l’esempio più clamoroso di abdicazione
agli interessi nazionali. Tutta la cultura dell’Italia è coinvolta in
questa rimozione, da Togliatti che ordina ai comunisti di uscire dal
CLN triestino perché Trieste va lasciata a Tito, ai governi centristi e

poi di centro-sinistra”. Galli della Loggia identificò addirittura, in


una sede più meditata (La morte della patria, 1996), la fine della
coscienza dell’identità nazionale con l’8 settembre 1943: sorvolando
sul fatto che questa coscienza non era mai nata (a livello, beninteso,
di massa) e che, se era quella sponsorizzata dal fascismo, la sua fine fu
un evento davvero positivo.
L’unica vera conquista terminologica ottenuta dalla repubblica,
quella di sostituire spesso l’equivoca “nazione” con il bonario “paese”,
corse il rischio di dissolversi a causa di questi opinionisti scatenati.
Per fortuna, Gianfranco Fini (che pure si era “mosso”, per mare e per
terra, attorno all’Istria, secondo i desideri di Panebianco) divenne
ragionevole e, trasformando il movimento neofascista in partito
ormai dichiaratamente post-fascista, smise di arringare la “nazione” e
cominciò a rivolgersi al “paese”. Divenne perfino, cautamente,
“federalista” e si proclamò, magari obliquamente, erede di Gramsci.
Mentre tutti diventavano federalisti, l’11 dicembre 1993, Miglio
presentò, con la Lega Nord, il “progetto di Assago”. Venne disegnata
una “Unione italiana” formata da tre “repubbliche” e dalle cinque
“regioni autonome a Statuto speciale”.
Le “repubbliche” erano: la Padania (ex Nord), l’Etruria (ex Centro) e
il Sud (che rimase tale). Il progetto era intelligente e ben articolato
dal punto di vista tecnico e giuridico: si basava, infatti, sul concetto di
“libera associazione” tra le varie entità e non più sull’ipotesi del solito
decentramento un po’ più “decentrato”.
Le pseudo-regioni esistenti venivano finalmente ripudiate (anche se
rimanevano all’interno delle repubbliche), le province, con i prefetti,
abolite: ed emergevano, in tutta la loro profonda identità, sia la
Padania (immotivatamente amputata però dal Trentino) sia il Sud
(anch’esso immotivatamente privato della Sicilia).
Purtroppo, per il principio del rifiuto della “taglia minima”, la “terza
forza” etnico-linguistico-culturale, cioè la Toscana, venne aggregata
alle Marche, all’Umbria e al Lazio, sotto il nome di Etruria (ma gli
etruschi avevano popolato il territorio tra il Tevere e l’Arno e, anche
se si erano insediati in Padania e in Campania, non si erano mai
spinti sull’Adriatico, nonostante il clima, quello invocato da Miglio,
fosse, probabilmente, loro favorevole).
Fu intanto cambiato, dal Parlamento, il sistema elettorale, mediante
una riforma cervellotica che mescolò il vecchio sistema proporzionale
col sistema maggioritario uninominale ritenuto taumaturgico.
Le elezioni politiche del 1994 presentarono un panorama partitico
nuovo. DC, PSI, PRI, PLI erano scomparsi senza rimpianti dell’elettorato.
Le opposizioni, risparmiate da “Mani pulite”, avevano fiutato il vento
e cambiato nome: il PCI era diventato PDS e lo MSI, AN. La Lega Nord
aveva ben attecchito dalle Alpi al Po e si era spinta in Toscana, in
Umbria e nelle Marche sia pure con scarso successo. Era soprattutto
sbucato, all’improvviso, un partito di matrice aziendale, Forza Italia,
che un magnate dell’industria della comunicazione, non alieno da
altri interessi economici, Silvio Berlusconi, aveva “creato” dal nulla
raccogliendo gli avanzi della DC e del psi, facendosi allo stesso tempo
interprete delle esigenze antiburocratiche, antifiscali e “liberali”
tipiche del leghismo.
Per opporsi al “comunismo”, presunto in quanto ripudiato, del PDS e
profittando del nuovo sistema elettorale, “Forza Italia” si apparentò,
al Sud, con AN e, al Nord, con la Lega (che non voleva allearsi con i
post-fascisti e a Sud non esisteva) ribadendo inconsciamente la
divisione del “Paese” in due “paesi” diversi. Il PDS dette vita a un polo
di centro-sinistra che prese il nome di “Ulivo”. Il polo di centro
destra vinse le elezioni ed espresse il nuovo governo al suo interno. La
Lega aveva ottenuto l’8,4 per cento dei voti, quasi soltanto a Nord:
un buon successo. Il leghista Maroni divenne il nuovo ministro
dell’Interno e altri due suoi colleghi di partito furono ministri. Si
guardarono però bene tutti e tre di intraprendere un’azione concreta
per la trasformazione federalista dello Stato italiano.
Miglio se n’era andato perché non aveva ottenuto la carica di
ministro preposto alla riorganizzazione territoriale dello Stato (e si
sentì) e al posto da lui invocato era subentrato un aitante ministro
leghista di molta fede ma di confuse letture, Francesco Speroni, che
affossò il progetto di Assago, sostituendolo con un progetto proprio,
fatto approvare dall’assemblea della Lega alla fine del 1994.
L’auspicata “Unione italiana” diventò così la “Repubblica federale
italiana” e si presentò “composta” di nove “Stati”, a loro volta
articolati nelle venti regioni esistenti, senza più distinzione tra regioni
ordinarie e regioni a Statuto speciale. Le province furono
reintrodotte in tutto il loro presunto fulgore.
Il progetto era, in pratica, una brutta copia del progetto
mesoregionalista della Fondazione Agnelli, con alcune lepidezze in
più. Restò, per fortuna, sulla carta.
Lo “Stato n. 7”, ad esempio, era formato (articolo 6) dalla Campania
e dalla Calabria (perché non chiamarlo allora Cacania?) e non godeva
pertanto di continuità territoriale (la Basilicata tirrenica lo
interrompeva dividendolo bizzarramente in due monconi). Il
presidente della Repubblica, anziché la federazione, rappresentava
“l’unità della Nazione italiana” (articolo 87). Gli “italiani non
appartenenti alla Repubblica” sia pur “federale”, continuavano ad
essere “parificati ai cittadini italiani” (articolo 51). La “lingua ufficiale
della Repubblica federale italiana” diventava “l’Italiano” (articolo
12): imposizione che formalmente manca nella costituzione vigente e
che la stessa Francia, nonostante la coppia Barrère-Ferry, ha inserito
(a proposito, ovviamente, del francese) per la prima volta nella sua
storia, nella costituzione semiautoritaria della Quinta Repubblica nel
1958 (con l’articolo 2). Si trattò, insomma, di un progetto davvero
indisponente per ogni federalista che avesse lo scrupolo di ritenersi
tale. Gli alleati del governo se ne infischiarono e i leghisti non
insistettero. Per colmo di sventura, la Lega uscì dal governo dopo
appena sette mesi: aveva litigato non per il “federalismo” ma per
alcuni provvedimenti economici che riguardavano l’intera “nazione”
italiana, giudicati antipopolari e di destra. L’opposizione, grata, parlò
allora della Lega come di una “costola della sinistra”. Ma Bossi non se
ne dette per inteso.
Il governo cadde e la sinistra, attraverso una serie di espedienti
progressivi del tutto legittimi anche se extra-elettorali, ne approfittò
per insediarsi al governo. La Lega riacquistò la propria indipendenza
di azione politica e si incattivì. Approfittò del suo isolamento per
rigenerarsi ed acquistare nuova lena.
Abbandonò progressivamente la propria recentissima fede nella
nazione italiana, sia pure “federale”, e cominciò addirittura ad
ipotizzare l’esistenza di una “Nord-nazione” che avrebbe dovuto
rendersi indipendente. Il nome Italia, ripudiato dai meridionalisti nel
1970, fu ripudiato, venticinque anni dopo, anche da questi
settentrionalisti. Con un crescendo di iniziative politiche di disturbo,
anche se meramente simboliche, quali il “Parlamento del Nord”,
insediato a Mantova il 24 luglio 1995, la Lega provvide a condurre
un’efficace “guerra dei nervi” contro il governo italiano. Si inventò
anche un governo in esilio sul proprio territorio, continuando a
punzecchiare il governo reale e il parlamento reale di Roma dove
sedevano i suoi rappresentanti.
In prossimità delle nuove elezioni politiche, alle quali decise
coraggiosamente di partecipare da sola contro i cartelli elettorali del
Polo e dell’Ulivo, proclamò apertamente l’esistenza della “nazione
padana” (la cui nascita fu annunciata da Bossi, proprio al
“parlamento” di Mantova, nel marzo del 1996). E da federalista
qual’era divenne apertamente secessionista.
Anche l’attribuzione del nome stesso di Padania alla “Nord-nazione”
(il Nord è, in realtà, soltanto un punto cardinale e, sia pure con un
suffisso, aveva già dato nome alla nazione norvegese) apparve sofferta.
Era, del resto, quello assegnato dai geografi, all’inizio del XX secolo,
all’Italia continentale.
La Lega pensò addirittura, sia pure per la frazione di un attimo, a un
referendum da indire tra i fedelissimi proponendo quattro nomi
alternativi: Padania, Alpadania (ma il versante padano delle Alpi è già
compreso nella regione naturale padana), Eridania (coniato con un
altro nome storico del Po, ma che aveva il torto di essere anche il
nome di una nota società produttrice, fra l’altro, di zucchero ricavato
dalla barbabietola), infine Celtia (che è però il nome collettivo
assunto dai celti “veri”, quelli che non sono stati romanizzati
indelebilmente a livello linguistico fin dalla tarda antichità come è
successo ai padani: irlandesi, scozzesi, gallesi e bretoni).
Il nome Padania, comunque, venne adottato con tempestività
passando sopra ai dubbi e alle incertezze. Bossi comprese (nonostante
la latitanza sulla questione linguistica) che la Padania era qualcosa di
più di un territorio dotato di una propria dimensione economico
strutturale specifica: ritenne che fosse la sede storica di un’identità
più vasta, culturale e perfino spirituale ed enunciò questa sua
improvvisa scoperta con le celebri parole “l’uomo non è una
bistecca”, magari rozze ma efficaci (anche se continuò a battere
soprattutto sul tasto del fisco e dell’economia).
Il suo punto debole fu la manifesta ignoranza circa i confini di questa
Padania. L’accezione leghista del termine “nazione” appariva tale da
sgomentare: anche se “nazione” era tutta la Padania, erano “nazioni”
anche le regioni amministrative in essa comprese, dal Piemonte a
Trieste. Per volgari esigenze elettorali e finanziarie inserì in Padania
anche la Toscana, l’Umbria e le Marche: pur non avendo niente a che
vedere col Po, servivano a raggiungere la superficie necessaria per
godere dei benefici del calcolo dei resti e del finanziamento pubblico
dei partiti previsti dalla legge elettorale. La Lega insediò proprie
sezioni anche in Val d’Aosta, nel Trentino-Alto Adige e nel Friuli
Venezia Giulia a dispetto dei partiti autonomistici locali che avevano
tradizioni e proposte assai più radicate e meno improvvisate. Entrò in
contrasto con queste forze, in loco elettoralmente consistenti, e le
sospinse tra le braccia dell’Ulivo.
Ricca di questo confusissimo bagaglio teorico e pratico, la Lega si
presentò alle elezioni del 1996: da sola, senza appoggi mediatici, ricca
soprattutto di buona volontà e addirittura esorcizzata per il suo
proclamato secessionismo. Aveva di contro i due schieramenti, sulla
carta fortissimi, di centro-sinistra e di centro-destra. Vinse, sia pure di
poco, il centro-sinistra, ribaltando il risultato di due anni prima. Ma
torniamo alla disfida elettorale.
I risultati furono sconvolgenti per i devoti alla causa dell’unità
nazionale. La Lega Nord, che aveva incentrato, lo ripetiamo, la
propria campagna elettorale proprio sull’indipendenza della Padania,
correndo da sola (e soltanto nelle regioni padane e in qualche regione
del centro) otteneva il 10,4 per cento di voti per il Senato e il 10,1 per
cento nella proporzionale per la Camera dei Deputati. Ma è un dato
che inganna: in Padania, la Lega ottenne, infatti, il 20,5 per cento
risultando, nella proporzionale per la Camera, il primo partito. Un
dato davvero clamoroso. Ma i guai per l’unità nazionale, venuti a galla
con questa tornata elettorale, non furono soltanto questi (che pure
interessavano almeno 25.000.000 di cittadini).
Nel Tirolo meridionale, il partito “indipendentista” radicale della
Union für Südtirol (guidato da Eva Klotz, la figlia del leader del BAS)
raggiunse, sempre nella proporzionale per la Camera, il 19,3 per
cento dei voti (nel 1992 ne aveva raccolti il 3,7 per cento). La SVP,
assai più moderata, che nell’uninominale si presentava con l’Ulivo,
scese, nella proporzionale, al 27,9 per cento di consensi (nel 1994
aveva raggiunto il 60,1 per cento).
In Sardegna, dove il Partito sardo d’azione si era presentato
all’interno dell’Ulivo, Sardigna natzione, lista indipendentista
formatasi attorno a un minuscolo Partito sardo indipendentista,
fuori dai due poli, ottenne il 5,1 per cento dei suffragi nelle
proporzionali per la Camera. Nelle elezioni regionali del 1995 aveva
ottenuto meno della metà: circa il 2 per cento.
Se si tiene presente che, nella Valle d’Aosta, la lista collegata con l’UV
ottenne, come al solito, la maggioranza assoluta e che, perfino in
Sicilia, numerose piccole liste autonomiste e indipendentiste, una
delle quali promossa da Teresa Canepa, la figlia del comandante
dell’EVIS, raccolsero il 3,1 per cento, sembrò proprio che la voglia di
secessione stesse disgregando davvero buona parte dello Stato.
D’altronde, che i “paesi” compresi nel paese-Italia siano almeno due,
è un dato ormai certo del tutto: anche se, a occhio nudo, lo si vede
soltanto a livello economico e sociale. Un candidato sicilianista
osservò pubblicamente che il semplice “io ho” del toscano-italiano
corrispondeva in Sicilia a “iu aiu” e in Veneto a “mi go”: una spia
ineludibile di lingue e di nazioni diverse. Ma torniamo all’economia.
L’Italia è, in Europa, lo Stato con il maggior divario interregionale nel
reddito pro capite, che al Nord è quasi il doppio che al Sud. Un
divario così enorme non giustifica l’attribuzione ad uno stesso
“paese” di dati così radicalmente diversi e contrastanti. Nell’Italia
Stato, il tasso di disoccupazione era, ad esempio, nel 1995, del 12 per
cento: in realtà era del 6 per cento al Nord e del 21 per cento al Sud.
La crescita del PIL è stata, sempre nel 1995, del 3,8 per cento al Nord e
dell’1,8 per cento al Sud. La pressione fiscale era del 47 per cento al
Nord e del 27 per cento al Sud.
E il divario continuava a crescere, in tutti i settori, nonostante
l’assistenzialismo a fondo perduto continuasse imperterrito (la “legge
64” aveva sostituito la vecchia Cassa del Mezzogiorno). La questione
economica del Sud poteva essere risolta soltanto mettendo in moto
un meccanismo propulsivo che ponesse, al posto della “pubblica
assistenza”, uno sviluppo autonomo ed autogestito, con tutti i rischi e
i sacrifici che questa “ripartenza” può comportare. Del resto, la
recente dissoluzione della Cecoslovacchia ha mostrato come gli
slovacchi hanno deciso di diventare più poveri per essere slovacchi
senza la mediazione di uno Stato prevalentemente ceco.

Ascesa e discesa della Lega Nord


La Lega Nord, primo partito dell’Italia settentrionale e ben
impiantata su quel territorio, svincolata ormai da ogni alleanza
elettorale o di governo con il centro-destra e il centro-sinistra, si
dedicò con fede cocciuta e con forsennata determinazione alla
costruzione di una “coscienza nazionale padana”. Per ottenere questo
risultato puntò molte carte sull’immaginario storico collettivo e
sull’“invenzione di una tradizione”. A fianco dell’ingenua mitologia
medievale che l’aveva distinta alla nascita (i “liberi” comuni della Lega
Lombarda, il giuramento di Pontida, la battaglia di Legnano, Alberto
da Giussano), curiosamente e inconsapevolmente condivisa con
l’ideologia risorgimentale e con quella fascista contro cui avrebbe
dovuto combattere, si impegnò ancora di più nella riscoperta della
tradizione celtica e di quella longobarda, intese quali fondatrici
dell’identità storica e perfino genetica di un popolo conquistato dai
romani e fino dalla tarda antichità privato così di larga parte della
propria anima: un atteggiamento di nuovo mitico e, talvolta,
addirittura mistico.
A questa riscoperta, che divenne aperta rivendicazione, si ispirarono
infatti alcuni riti di massa quali, nel settembre 1996, la raccolta
dell’acqua del Po, imbottigliata alla sorgente del Monviso in una sorta
di ampolla sacra portata in processione lungo tutto il corso del fiume
e dissigillata a Venezia, dove il “preziosissimo” liquido venne riversato
nell’Adriatico durante una manifestazione conclusa da Bossi con una
reboante “dichiarazione d’indipendenza della Padania”:
dichiarazione del tutto virtuale ma che accese gli animi dei
partecipanti ed allarmò il governo e l’opinione pubblica.
Continuando nel gioco della parodia, la Lega tenne, nel maggio del
1997, un referendum in qualche modo privato ma aperto al pubblico
per l’approvazione dell’indipendenza appena dichiarata. Inutile dire
che questa indipendenza virtuale fu approvata dal voto “popolare”.
Venne formato un nuovo governo padano: un governo-ombra che
prese però, spiritosamente, il nome di governo-sole.
Lo Stato virtuale padano si dotò di una bandiera propria (il sole delle
Alpi), di un proprio inno (il Va’ pensiero verdiano), di una guardia
nazionale in camicia verde, di una nazionale di calcio e decise di
eleggere un proprio parlamento. A queste elezioni parteciparono liste
contrapposte (che erano poi le correnti con cui fu divisa dall’alto la
Lega stessa: una di destra, una di centro-sinistra, una cattolica, una
libertaria e perfino una di comunisti padani). Il parlamento uscito da
queste elezioni tenutesi nell’ottobre 1997 (i cui seggi elettorati erano
costituiti da gazebo febbrilmente installati in tutti i luoghi possibili)
si mise subito all’opera nell’intento di varare al più presto una
costituzione padana. Si scelse dunque la via della parodia istituzionale
a tutto campo.
Il gioco delle parti della Lega si svolse comunque su più livelli: dura
opposizione al parlamento di Roma, dove sedevano i suoi deputati e
senatori, e instaurazione di un potere fittizio, anche se molto urlato,
in Padania, dove pure contava su sindaci, presidenti di provincia,
consiglieri comunali, provinciali e regionali eletti regolarmente e non
nei gazebo. Alcuni sindaci leghisti vennero destituiti dai prefetti per
comportamento illegale e molti esponenti furono denunciati per
vilipendio delle istituzioni canonicamente vigenti: anche se lo Stato
non infierì mai, oltre misura, su questi secessionisti in pectore ma
scatenati.
La Lega si era dotata intanto di un quotidiano, di un settimanale, di
una radio e di una televisione, aveva dato vita a un sindacato padano,
a un embrione di scuola padana, a un concorso di bellezza femminile
padana e a tutta una serie di organizzazioni parallele (alpini padani,
motociclisti padani, cacciatori padani, pompieri padani, gay padani...)
di dimensioni modeste ma amplificate dalla propaganda del partito.
Per la prima volta, comunque, nello Stato italiano il dogma dell’unità
nazionale prese a vacillare con una certa intensità e su di un territorio
assai vasto: i secessionisti padani rappresentavano una minaccia assai
più consistente dei separatisti siciliani d’antan. Se la Padania avesse
lasciato l’Italia, l’Italia stessa sarebbe scomparsa. Negli ambienti della
Lega e sui suoi media si parlava apertamente, del resto, di un popolo
padano distinto e contrapposto a quello italiano, che “popolava” il
centro e il sud del “paese”. La Lega prese ufficialmente il nome di
“Lega Nord per l’indipendenza della Padania”.
La gestione dispotica di Bossi, gelosissimo e invidioso di molti dei
suoi proconsoli, determinò, a questo punto, l’espulsione e
l’allontanamento della sinistra interna, dei federalisti non convinti
della secessione, di settori che dubitavano della dottrina celtista. La
Lega, che era cresciuta troppo, cominciò a perdere colpi. La “furbizia”
di Bossi venne sconfitta dalle turbe caratteriali di Bossi stesso.
Per rimpiazzare i vuoti, Bossi, sempre più megalomane, si circondò di
nuovi venuti: soprattutto di opportunisti (o meglio di qualunquisti)
in cerca di carriera politica o giornalistica; ma anche di alcuni neo
nazisti che avevano voglia di imprimere le loro stigmate sulla confusa
ideologia leghista, seguiti da stuoli di cattolici tradizionalisti seguaci
di monsignor Lefèvre, da nani e da ballerine (sempre di serie B).
Bossi, uomo fino allora dotato di un certo fiuto politico ma autentico
analfabeta culturale, favorì la cottura di questo polpettone ignorando
le caratteristiche e le prospettive dei nuovi venuti e in questo modo
condannò la Lega alla rinuncia ad uno sviluppo coerente. Il
parlamento padano venne liquidato alla fine del 1998 perché ormai
inutile. I non pochi leghisti consapevoli, che credevano seriamente
nella prospettiva secessionista e la supportavano con argomenti validi
e non corrivi, furono progressivamente emarginati ed accantonati.
Oppure se ne andarono. Anche se in maniera contraddittoria e spesso
strampalata, un certo “patriottismo” padano era ormai nato.
Contornato da nuovi e irresponsabili giullari, Bossi si impegnò, con
grande sprezzo del ridicolo più che del pericolo, in una politica
nazionale e internazionale suicida, schierandosi alla rinfusa contro la
fecondazione artificiale e l’intervento americano nel Kossovo, contro
l’Europa degli Stati in nome dell’Europa dei popoli e delle regioni, in
favore della famiglia monogamica tradizionale e contro l’aborto e il
divorzio: condannò il globalismo consumistico e un presunto
progetto massonico di conquista del mondo occidentale attraverso
l’immigrazione islamica, trovando così una consonanza marcata con
la destra “italiana” più reazionaria. Poco tempo dopo si schiererà
contro la prostituzione di strada e a favore di quella in appartamento
(purché gli appartamenti fossero dislocati in città superiori ai
100.000 abitanti) e diventerà fedelissimo di Bush, americano sì,
globalista e consumista sì, ma nemico vero dell’Islam “terrorista”. La
cessazione dell’immigrazione dal Mezzogiorno e l’ormai avvenuta
padanizzazione dei figli degli immigrati costrinse infatti lo stato
maggiore leghista a sostituire i terroni (quale bersaglio visibile
attorno al quale coagulare rancori e pregiudizi di bassa lega) con gli
extracomunitari di religione islamica, i cui flussi migratori si stavano
facendo ingenti e che presentavano un retroterra preoccupante. Allo
stesso tempo mise la sordina al “secessionismo” e ricominciò a parlare
di “federalismo”. Il risultato di questa condotta dissennata si misurò
attraverso i risultati delle elezioni europee del 1999 e di quelle
regionali del 2000: la Lega perse quasi la metà dei suffragi raccolti nel
1996.
La pesante sconfitta aguzzò il presunto fiuto politico di Bossi. Si
avvicinò di nuovo a Forza Italia e ad AN fino a confluire, con i resti
delle Lega (ancora considerevoli ed utili a Berlusconi), nel nuovo
polo di centro-destra chiamato Casa delle Libertà, in approntamento
per le elezioni politiche del 2001. Rinunciò definitivamente alla
secessione, accettò l’“unità del paese”, sia pure riservandosi di
screziarla con qualche riforma “federalistica”, cambiò il nome del suo
partito togliendo il riferimento così sostanziale all’indipendenza in
cambio di posti sicuri in parlamento e dell’inserimento, nel
programma di governo, della cosiddetta devolution, ispirata al
modello britannico, che altro non è se non un decentramento
accentuato “sulla via del federalismo”. Bossi non aveva infatti
compreso che la devolution era stata promossa a favore della Scozia e
del Galles, entità sovraregionali e dotate di identità storica e culturale
proprie, e non a favore delle regioni amministrative inglesi del Devon
o del Kent oppure di quelle scozzesi del Lothian o del Galloway. Lui
era sempre fermo alle regioni amministrative italiane, così deludenti
come ripartizioni territoriali dotate di senso.
Nonostante questo repentino cambiamento, di ideali oltre che di
rotta, i risultati elettorali del 2001 sancirono il declino della Lega che
raccolse appena il 3,9 per cento dei voti a livello statale perdendo, in
Padania, più della metà dei suffragi raccolti nel 1966, quando la Lega,
pur così confusa, era secessionista e non “devoluzionaria”.

Lo stato dello Stato


Torniamo indietro di qualche anno. Il centro-sinistra dell’Ulivo, una
volta insediato al governo del paese, di fronte al crescendo leghista di
allora e alla minaccia della “secessione” annunciata da Bossi, dovette
riesaminare la propria posizione. Non poteva più arroccarsi sul
centralismo arrogante e conservatore che aveva sempre caratterizzato
la gestione e la filosofia dello Stato. La costruzione dell’unità politica
europea stava del resto procedendo a ritmo spedito ed aveva imposto
consistenti rinunce alla tradizionale sovranità dell’Italia-Stato in
campo economico e finanziario. Già nel 1993 era stata fondata
l’Unione Europea con l’intento di creare una comune cittadinanza
europea e una collaborazione sempre più intensa tra gli Stati che
avrebbe portato all’istituzione della moneta unica.
Non ci si poteva più rifiutare di concedere alcune quote di sovranità
anche verso il basso. I partiti autonomisti tradizionali della “frange”
(SVP, UV, PSdA...), con i quali la Lega non aveva mai tentato nessuna
alleanza (ed anzi ne rifiutavano l’ideologia), erano ormai divenuti
alleati stabili dell’Ulivo. Alcune regioni a statuto speciale non tutelate
linguisticamente si erano del resto mosse per proprio conto in favore
della tutela e della promozione della loro identità culturale: è in
questa ottica nuova che si inserirono la legge regionale n. 15 del 1996
del Friuli-Venezia Giulia a proposito della lingua e della cultura
friulana (e di quelle delle minoranze presenti sul territorio della
regione) e quella n. 26 del 1996 della regione Sardegna a proposito
della lingua e della cultura sarde (e di quelle delle minoranze) che
prevedeva addirittura la co-ufficialità della lingua sarda nell’isola. E
questa volta la Corte costituzionale dette via libera al provvedimento.
Le rivendicazioni di tipo linguistico sono del resto la spia di
rivendicazioni globali nonché il termometro del risveglio a tutto
campo di specificità irriducibili compresse dalla politica e dalla storia.
Il parlamento di Roma, dal canto suo, dibatteva da anni una legge per
l’applicazione dell’art. 6 della Costituzione, relativo alla tutela delle
minoranze linguistiche su tutto il territorio statuale, e si stava
avvicinando la conclusione di un provvedimento indispensabile al
completamento della democrazia culturale.
Le forze di governo rispolverarono il loro timido e confuso
orientamento “federalista” e decisero che era giunto il momento di
mettere mano a una cauta riforma istituzionale. Si misero d’accordo
con l’opposizione di centro-destra e la coinvolsero in una
commissione bilaterale per modificare la Costituzione “in senso
federalista”. Ovviamente, i soggetti della federazione ipotizzata
indicati furono le regioni amministrative esistenti. Erano finiti i
tempi della progettazione a ruota libera di mesoregioni, di
macroregioni e anche soltanto di regioni più coerenti.
Cercando la quadratura del cerchio e cioè la conciliazione tra la
repubblica “una e indivisibile” e nuovi poteri da delegare alle regioni,
si cercò di concedere qualche sovranità anche ai comuni, considerati
come contro-altare delle regioni (che avrebbero potuto diventare,
con la riforma auspicata, troppo potenti). Il pretesto “storico”
invocato fu quello secondo il quale ogni barlume di federalismo
“avrebbe dovuto tenere conto di quel vincolo municipale che è
vecchio come l’Italia stessa”.
A parte ogni congettura sull’età dell’Italia, si finse di dimenticare
ancora una volta (come era successo durante il cosiddetto
Risorgimento) che quasi la metà del paese, quella meridionale e
insulare, non aveva vissuto, nel medioevo, la stagione comunale. E
che in parti cospicue della stessa Italia settentrionale, alcune signorie
territoriali avevano avuto una importanza storica tutt’altro che
trascurabile (sul territorio dell’attuale Piemonte, il vasto e potente
marchesato del Monferrato, per non dire del ducato di Savoia, la
vinceva sul debole e labile comune di Torino, per esempio).
Purtroppo, la commissione bilaterale fallì. Il centro-sinistra si assunse
allora la piena responsabilità della riforma.
Accadde così che, nei primi mesi del 1998, il parlamento di Roma
approvò, sia pure con una maggioranza di appena cinque voti, una
legge relativa alla modifica del Titolo v della costituzione (“Le
Regioni, le Provincie e i Comuni”) messa a punto dalla maggioranza
di centro-sinistra e presentata come “di ispirazione federalista”. La
repubblica vi venne definita come composta da quattro entità
paritetiche: “Stato, regioni, città metropolitane (una sorta di
superprovince), province (dove non si istituivano le “città
metropolitane) e comuni”. Anche se si attribuivano maggiori
autonomie alle tre entità fino allora gerarchicamente subordinate, la
prima di esse, lo Stato, compariva due volte, prima come repubblica e
poi come Stato: era, allo stesso tempo, il tutto e una parte del tutto.
Tuttavia, un certo passo avanti fu compiuto rispetto alla legislazione
precedente, dove si precisavano soltanto le competenze, del tutto
marginali, delle entità subordinate e si lasciava tutto il resto (cioè
tutto ciò che aveva rilevanza) allo Stato-repubblica senza nemmeno
darsi la pena di elencarlo. Questa volta furono invece elencate le
competenze statali (quelle per le quali lo Stato godeva di legislazione
esclusiva), limitandole alla politica estera, alla difesa, alla giustizia, alla
sicurezza, alle norme generali relative alla pubblica istruzione,
all’immigrazione, alla direzione della politica economica e finanziaria
e a poco altro. Le regioni (quelle esistenti, per molti aspetti
inadeguate) furono investite di competenza legislativa concorrente
(con quella dello Stato) nei settori dell’istruzione, della sanità e del
commercio estero. E di competenza legislativa esclusiva in tutte
quelle materie “non espressamente riservate alla legislazione dello
Stato”. Il passo avanti sulla via del decentramento fu sensibile ma non
aveva ancora niente a che fare col federalismo. Ciò nonostante, il
centro-destra e la Lega si opposero: la Lega denunciò addirittura il
provvedimento come un trucco per aggirare ogni ipotesi di “vero
federalismo” (la “secessione” si avviava ad essere messa in cantina). E
in questo modo ribadì lo Stato centralista quale era prima della
riforma, rinunciando all’uovo certo per una improbabile futura
gallina.
Altra carne fu posta sul fuoco dal centro-sinistra. Appena un anno
dopo, nel dicembre 1999, il parlamento di Roma approvò la legge
costituzionale 482 con la quale, dopo ben cinquantuno anni, si
precisarono e si attuarono le norme indicate nell’art. 6 della
Costituzione del 1948 relative alle minoranze linguistiche (che era
l’unico termine ammesso nell’Italia-Stato per designare quelle
minoranze che in altri Stati sono definite “etniche” o addirittura
“nazionali” e che sono “maggioranze” nell’ambito del loro territorio
storico). Per la prima volta, le minoranze stesse vennero indicate per
nome e per dislocazione storico-territoriale. E vennero, per la prima
volta, definiti come appartenenti a minoranze linguistiche i sardi ei
friulani, fino allora considerati “italiani” tout court, insieme a tante
altre comunità più piccole, più esotiche e più isolate (greci, albanesi,
occitani, catalani e così via). Restarono fuori dal provvedimento i
padani, i toscani e i centromeridionali, cioè coloro che parlavano
idiomi appartenenti ai tre principali sistemi dialettali del “paese” e
che distavano tra di loro più dello spagnolo dal francese. Ma i toscani
erano in pratica tutelati dalla lingua italiana, basata sul toscano, e i
padani si condannarono da soli per l’insipienza dei parlamentari
leghisti i quali si batterono a lungo per il riconoscimento del
piemontese, del lombardo, del veneto e così via come lingue tout
court mentre, inserendo il termine “lingua padana”, avrebbero
ottenuto lo scopo in quanto, mancando di standard, la lingua padana
sarebbe stata tutelata e promossa nelle singole varianti locali senza
bisogno di elencare nella legge un numero esorbitante di idiomi (e le
“lingue” meridionali perché mai avrebbero dovuto essere escluse dalla
tutela?). Era successo in Francia, addirittura nel 1951, con la legge
Deixonne, dove modestissime tutele vennero concesse alle “lingue
regionali”, tra cui la “lingua occitana” che, priva di standard e
frammentata in molti dialetti, voleva dire il coinvolgimento paritario
del provenzale, del guascone, del limosino, dell’alverniate, del
linguadociano e del gavotto nella tutela.
Ovviamente, la legge 482 fu soltanto un primo passo verso la parità
delle lingue parlate nello Stato italiano, affidata com’era a una
complicata gestione da parte di comuni, province e regioni e
subordinata, per molti settori, alla richiesta da parte dei singoli
cittadini, sia pure su base territoriale, di essere ammessi ai suoi
“privilegi”: in primo luogo scolastici ma anche mediatici,
istituzionali, toponomastici e perfino onomastici (il ripristino dei
nomi storici delle famiglie e delle località).
Nel 2001 vennero emanate anche le norme di attuazione della legge
482 con una rapidità davvero impensabile.
Più laborioso l’iter della riforma del Titolo v della costituzione. Fu
infatti deciso di sottoporre il provvedimento, attraverso referendum,
alla volontà popolare. Il “popolo” lo approvò, nell’ottobre 2001, col
64,4 per cento dei suffragi espressi da coloro che ne avevano diritto
ma di cui soltanto il 39,9 per cento si dette la pena di pronunciarsi in
merito.
L’opposizione di centro-destra, cui si era aggregata la Lega Nord col
suo programma di devolution fatto proprio dall’intera coalizione,
gridò allo scandalo. La legge fu definita una caricatura del
“federalismo”. Le elezioni politiche del 2001 avevano del resto reso la
Lega forza di governo.
La sedicente “Casa delle libertà” riuscì a congelare l’attuazione della
riforma del Titolo V ma congelò anche, per almeno un anno, il
progetto “devolutivo” e alternativo di Bossi. Lo stesso Bossi preferì
l’approvazione di provvedimenti assai meno importanti ed urgenti
(dal suo punto di vista) facendo scavalcare il suo progetto da un buon
numero di leggi che interessavano quasi esclusivamente gli “affari” del
presidente del Consiglio, Berlusconi, da lui precedentemente,
pubblicamente e globalmente, aborrito proprio per la rilevanza
abnorme dei suoi “affari”.
Si accordò con Fini, il post-fascista anch’esso precedentemente
aborrito, per far precedere la devolution anche da una legge redatta in
combutta con l’ex-nemico, contro l’immigrazione clandestina degli
extracomunitari. Il suo delirante e demenziale anti-islamismo aveva
ormai conquistato il primo posto nel suo cuore. Soltanto al secondo
posto veniva per lui la devolution, la riforma dello Stato dedicata alla
“liberazione” dei “popoli” padani.
Ma il cane non può essere menato per l’aia troppo a lungo e Bossi
non poteva perdere la faccia di fronte ai suoi elettori. Alla fine di
novembre 2002 il disegno di legge sulla devolution venne finalmente
presentato in parlamento. Aveva, strada facendo, perduto molti dei
suoi connotati federalisti: una corte costituzionale eletta su base
regionale e la trasformazione del senato della repubblica in camera
delle regioni. Forza Italia, i post-fascisti ei post-democristiani erano
ancora troppo devoti al dogma dell’“unità nazionale” per permettere
queste due sostanziose modifiche. Il disegno di legge constò di un
solo, smilzo articolo che si limitava ad assegnare alle regioni la
competenza legislativa esclusiva (e non più concorrente) a proposito
di organizzazione scolastica (con la facoltà di inserire nei programmi
scolastici riferimenti specifici alle storie e alle culture “regionali”), di
sanità e di polizia locale. Un altro passettino in avanti, rispetto alla
riforma costituzionale del centro-sinistra, ma ancora sulla via del
decentramento e non su quella del federalismo, venne comunque
compiuto.
Nonostante la modestia del disegno di legge, il centro-sinistra insorse
come un solo uomo: con questo unico articolo si voleva spaccare
l’Italia. E gracchiò come un’aquila romana o perlomeno quanto le
oche del Campidoglio.
Non riteniamo necessario commentare questa insurrezione verbale
che si commenta da sé (“troppo rumore per nulla”). Anche settori
cospicui del centro-destra, nemmeno sotto sotto, temevano qualcosa
di analogo e pensavano di inserire in questo articolo un
emendamento “salva-patria”. Convinsero intanto Bossi della
necessità di collegare la devolution a un passo successivo: la
trasformazione dello Stato in repubblica presidenziale quale garanzia
del mantenimento dell’“unità nazionale”. Ionesco avrebbe fatto
certamente meglio. A proposito di Italia unita, va ricordato che non
c’è proprio nulla da “spaccare” se non un assioma insensato e un
dogma pericoloso. L’Italia non è mai stata “una” se non sulla carta
(costituzionale). All’Italia-Stato non si attaglia proprio la nozione di
“unità”: semmai il concetto di “dualismo”, definito dagli studiosi “la
caratteristica di quei sistemi composti di due parti differenti per
struttura, meccanismi di funzionamento e crescita economica. Il
dualismo è territoriale se nel sistema tali differenze si concentrano in
due aree regionali distinte”.
La realtà è infatti che nel Mezzogiorno (secondo i dati del 2001) il
tasso di disoccupazione è ancora quattro volte più alto che in Padania
e che il PIL meridionale è la metà di quello padano. E che le autostrade
sono gratuite nel Mezzogiorno e a pagamento nel resto dell’Italia
Stato: il quale Stato contraddice così un postulato dell’“unità”, cioè
l’“uguaglianza” dei suoi cittadini.
Del resto, nella finanziaria del 2002, la regolamentazione delle risorse
e dei sostegni economici e finanziari distingue “aree di obbiettivo 1”
privilegiate (il Mezzogiorno) da “aree di obbiettivo 2” (il resto del
“paese”). È una nuova incarnazione della Cassa per il Mezzogiorno.
Anche uscendo dall’economia, conviene riflettere sul fatto già
menzionato che in Sicilia si continua a dire “iu aiu” e nel Veneto “mi
go”: una differenza nettamente superiore a quella che intercorre tra la
Francia e la Spagna dove, nelle rispettive lingue standard, si dice “j’ai”
e “yo he”. L’economia va dunque d’accordo con la lingua, la cultura e
la storia.
Il “dualismo” non è tuttavia ancora sufficiente a spiegare la mancanza
di una qualsiasi unità sostanziale. In Italia, le parti in gioco sono assai
più di due. In Toscana si dice “io ho” tanto in lingua quanto in
“dialetto” ma in Friuli si dice “jo o ai” e, in Sardegna, “deo apo”.
L’unità nazionale arrogantemente enunciata è soltanto millantata in
quanto uno dei suoi presupposti fu la presenza di una lingua comune
che storicamente non esiste. E non esiste nemmeno una storia
comune. Eppure si continua a millantarla, questa unità, senza pudore
e senza ritegno.
Ignaro di questa verità amara, il presidente della repubblica, Carlo
Azeglio Ciampi, si impegna personalmente da molti mesi in una
campagna di promozione di due simboli, piuttosto esterni, di questa
presunta unità nazionale: l’inno e la bandiera. L’inno è musicalmente
osceno (al suo confronto giganteggia la vecchia marcia reale); le sue
parole sono di una retorica insopportabile. Si è constatato, con finta
costernazione, che nemmeno i giocatori della nazionale di calcio lo
cantano. Ci si sforza allora, con la parola e con l’esempio, di farlo
cantare, non soltanto dai calciatori ma da tutti; non soltanto sui
campi di calcio ma dappertutto. I risultati di questa campagna sono
modesti. Soltanto alcune pavide scolaresche ne sono vittima e preda.
I tedeschi, del resto, lo chiamano “italienisch zum-pa-ra-pa”.
Nonostante il suo vilipendio sia un reato, anche la bandiera non
appare un valore incontrovertibile e il suo legame con l’eventuale
nazione di riferimento è storicamente labile. La Germania, durante i
centotrenta e rotti anni di “unità nazionale” ha cambiato quattro
bandiere senza che la sua unità nazionale ne venisse scompaginata. La
bandiera italiana, altrettanto recente (è ovvio: prima del cosiddetto
Risorgimento, l’Italia-Stato non esisteva) dovrebbe obbiettivamente
apparire, agli occhi degli stessi patrioti italiani, assai poco “nazionale”
nel senso di autoctona. È infatti una imitazione palese, appena una
variante, della bandiera francese: una variante minima nella quale il
verde ha preso il posto del turchino (due colori che nelle antiche
lingue celtiche presentano un unico nome in quanto si confondono
l’uno nell’altro). Ed è, tecnicamente, reprensibile. I francesi, che la
sanno lunga, sanno che una stessa superficie, a seconda del colore col
quale viene coperta, cambia di dimensione alla percezione
dell’occhio. Accade così che il loro tricolore, perché appaia formato
da tre parti uguali quando sventola, viene realizzato secondo la
prescrizione seguente: 30 per cento di turchino, 33 per cento di
bianco, 37 per cento di rosso.
Gli italiani sono sempre stati pessimi imitatori dei francesi, presi a
modello nella costruzione dello Stato unitario. L’art. 12 della
Costituzione (immotivatamente inserito nei principi fondamentali
nonostante la futilità del suo argomento) prescrive infatti: “La
bandiera della Repubblica è il tricolore italiano: verde, bianco e rosso,
a tre bande verticali di eguali dimensioni”. Perduto dietro le proprie
illusioni unitarie, lo Stato italiano ignora il peso reale che possiede il
fenomeno dell’illusione ottica. Guardare la sua bandiera quando
sventola, per credere: le sue tre bande appaiono, innegabilmente,
incostituzionalmente, diseguali e il bianco vi divora tanto il rosso
quanto il verde. Oltre tutto, la repubblica italiana, quale colore
nazionale privilegiato, anziché ricorrere ad uno dei tre presenti nel
suo vessillo, ne ostenta disinvoltamente un quarto: l’azzurro di casa
Savoia.
Oltre che da alcune innegabili spinte centrifughe presenti al suo
interno, anche se ancora quantitativamente modeste (più per
indifferenza, però, che per il fervore unitario della maggioranza), il
mito dell’Italia “una e indivisibile” e della sua sovranità,
“imprescrittibile” ed “inalienabile”, sta subendo colpi decisivi
dall’esterno e dall’alto con il procedere implacabile dell’Unione
europea. Dal gennaio 2001 esiste ormai la moneta unica; tra poco
sarà emanata una costituzione europea; le leggi e i regolamenti vigenti
in Europa sono destinati ad unificarsi a tappe forzate.
In conseguenza di questo processo inarrestabile e ormai perfino
accettato dall’opinione pubblica (ancora una volta più per
indifferenza che per reale coinvolgimento) i nostri uomini politici si
sono divisi tra euro-entusiasti ed euro-scettici. Il centro-destra è,
tutto sommato, euro-scettico. Ancora una volta il comportamento
politico più paradossale è quello della Lega Nord.
Dopo aver puntato le proprie fiches su un’Europa dei popoli e contro
ogni ipotesi di Europa degli Stati, la Lega si è recentemente e
improvvisamente schierata a favore di una Europa degli Stati
nazionali (Italia compresa) denunciando la minaccia per i popoli
europei di un’Europa accentrata e globalista in mano a
turbocapitalisti e a tecnoburocrati omogeneizzatori e senza rispetto
alcuno per le “differenze” antropiche. Insieme ai suoi alleati Fini e
Berlusconi, l’ineffabile Bossi, per paura di uno Stato europeo
centralista, si schiera così a favore del mantenimento dell’Italia
centralista (nel pieno esercizio delle sue funzioni, sia pure corrette
dalla devolution). Almeno per ora: non è detto che cambi parere
uscendo dal governo e producendo nuove contraddizioni. Resiste
infatti, nonostante la progressiva “italianizzazione” della Lega, uno
zoccolo duro di ex-militanti e di simpatizzanti-antipatizzanti che
credono ancora nella secessione ed ai quali restano affidati, almeno in
parte, i destini elettorali del Carroccio. Del tutto privi di capacità
elettorali si mostrano invece i loro omologhi del Mezzogiorno e della
Sicilia nonostante il proliferare di gruppuscoli finalmente neo
borbonici (e non più filo-sabaudi) che testimoniano se non altro la
crescita di una coscienza storica antiunitaria ancora politicamente
informe ma sicuramente vivace.

Che fare?
In attesa che lo Stato italiano si renda conto di essere ormai
impigliato nella tenaglia delle rivendicazioni più o meno coerenti e
diffuse provenienti dal basso (magari in attesa di nuove formulazioni
e di un seguito più incisivi) e della prospettiva europea di una
dismissione progressiva della propria sovranità residua, appare
opportuno riflettere sul suo futuro.
La nostra opinione è che soltanto una sua trasformazione in senso
davvero federale possa risolvere quei problemi che la sua stessa
formazione storica ha creato.
Ovviamente, per “federalismo” intendiamo una federazione vera,
basata sulla sovranità delle sue componenti, un po’ sul modello di
quella ipotizzata da Gianfranco Miglio, nella quale i soggetti della
federazione prevista ricevano dallo Stato esistente tutti i poteri e
contestualmente decidano quali di essi devolvere all’incipiente Stato
federale: il tutto regolato da una nuova Costituzione che i soggetti
federandi dovranno approvare singolarmente tramite le loro
assemblee elettive. Va da sé che nessuno di essi dovrebbe essere
obbligato a federarsi qualora non lo desiderasse: e che la nuova
Costituzione dovrebbe essere “a tempo” (cioè rinnovabile
periodicamente visto che il mondo cambia a rotta di collo) e
prevedere l’inalienabile diritto alla secessione (che equivale al
divorzio nel diritto di famiglia). È ovvio che i soggetti della
federazione dovrebbero essere le regioni reali, anziché le attuali
regioni amministrative: soggetti cioè a identità forte, vale a dire la
Padania, l’“Appenninia” con la Sicilia (nel 1848 Silvio Spaventa
ipotizzava “un’Italia federale nella quale il Regno delle Due Sicilie si
allargava a comprendere anche i territori pontifici” intendendo una
più vasta identità culturale e linguistica), la Toscana, la Sardegna e il
Friuli nonché le piccole aree etniche che svolgerebbero il ruolo di
collegamento diretto, transfrontaliero, con i popoli europei di cui
sono soltanto appendici. Ciò ci sembra opportuno proprio nel
quadro di una vera Europa dei popoli, da costruire con analoghe
riforme federali da promuovere negli altri Stati. E non ci si
intestardisca, in proposito, nella prosecuzione del mito della “taglia
unica”: la Padania sì, perché le sue dimensioni sono “sufficienti”; altre
entità no, perché sono troppo piccole.
Bisogna, infatti, come ammoniscono i cartelli nei giardini pubblici,
“rispettare le piante”. Tutte le piante: i tulipani come le sequoie (che
il buon Dio ha voluto creare di dimensioni tra loro tanto diverse ma
che fanno entrambe parte, allo stesso titolo, del miracolo della
creazione e possiedono una identità indipendente dalla loro misura).
E non si deve mai confondere un tulipano intero con un ramoscello
appena di sequoia per metterli sullo stesso piano col pretesto della
“taglia unica”. Soprattutto, non bisogna confondere le piante “vere”
con quelle di plastica (le regioni attuali).
Va infine compreso che i cittadini, le comunità, i popoli, le
subnazioni, le nazioni possono essere tenuti insieme a lungo in uno
stesso Stato soltanto se e quando lo desiderano, nella speranza che
continuino a desiderarlo a lungo.
Siamo paradossalmente propensi a credere che, in questo momento,
la maggioranza dei cittadini italiani (padani compresi) voglia
rimanere, a torto oa ragione, “unita”: magari più per forza d’inerzia e
per paura dell’“ignoto” che per convinzione profonda. Perché non
saggiarne allora la volontà con un referendum, permettendo a
quest’istituto, talvolta perfino opportuno, uno svolgimento che la
Costituzione vigente purtroppo non consente (mostrandosi ancora
una volta inadeguata).
È quanto fanno le democrazie quando sono mature, quando sono
davvero moderne. E quanto ha fatto il Canada, a proposito del
desiderio di secessione della popolazione del Québec, nell’ottobre del
1995. Certo, un analogo referendum “italiano” non potrebbe essere
indetto “per subito”. Ci vogliono anni di “par condicio” reale
nell’opera di persuasione e di propaganda politica che dovrà scaturire
dalla diatriba tra gli eversori ei conservatori dell’“unità” a tutti i costi:
nell’eventualità, però, che possano esprimersi, nel frattempo, anche i
fautori di una possibile “unità nelle diversità” oppure delle “diversità
nell’unità” in grado di presentare un progetto appetibile e seducente,
tale da permettere un approdo in Europa che appaia non umiliante.
Talvolta, i quiz sono perfino meglio dei plebisciti: danno, infatti,
maggiori possibilità di scelta per individuare la soluzione più adatta.
Siamo del resto convinti che “solo l’abbandono del concetto di Stato
nazione a favore di uno Stato che governi le differenze sulla base
dell’uguaglianza dei diritti”, anche di quelli collettivi delle comunità
storicamente esistenti, come ha scritto il balcanologo Stefano
Bianchini, possa anche (soprattutto) nell’Italia-Stato, garantire, allo
stesso tempo, l’unità se non altro morale dello Stato e lo sviluppo
delle eventuali “nazioni” (o in che altro modo si vogliano chiamare)
che lo compongono. L’ex-presidente della repubblica Francesco
Cossiga, nell’esercizio della sua solitaria ma lucidissima “follia”, ha
offerto un contributo prezioso in questo senso quando ha presentato
in Senato, nel maggio 2002, un disegno di legge costituzionale per la
trasformazione della Sardegna in “comunità autonoma e nazione
distinta” nell’ambito dello Stato italiano, sul modello della Catalogna
in Spagna. E ha redatto il suo disegno di legge in italiano e in lingua
sarda in omaggio alle “due lingue ufficiali” dell’isola oggi finalmente
riconosciute dalla regione autonoma di Sardegna e dallo Stato
italiano.
LISTA DEI NOMI E DEI LUOGHI CITATI

Su ciascun numero è attivo un link che porta all’occorrenza del termine.

A
Abruzzi 1
Adige 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 11, 12
Adua 1,2
Adula 1, 2
Africa 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9
Aia 1
Ajaccio 1, 2
Albania 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7
Alberti, Leandro 1
Alghero 1, 2, 3
Alighieri, Dante 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7
Alpi 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 11, 12, 13, 14, 15, 16, 17, 18, 19
Alpi Carniche 1
Alpi Cozie 1
Alpi Giulie 1
Alpi Marittime 1, 2, 3
Alpi Meridionali 1
Alpi Retiche 1
Alsazia-Lorena 1, 2, 3
Alto Adige 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 11, 12, 13, 14, 15, 16
America 1, 2, 3, 4
Amplatz, Luis 1
Ancona 1
Angioi, Giovanni Maria 1
Annibale 1
Annuario statistico ufficiale 1
Aosta 1, 2, 3, 4, 5, 6
Appenninia 1, 2, 3, 4, 5, 6
Appennino 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8
Apulia 1, 2
Aquileia 1, 2
Aragona 1, 2, 3
Argentina 1
Arno 1, 2
Arsia 1
Asburgo 1,2
Ascoli, Graziadio Isaia 1,2
Asia 1
Auerbach, Erich 1
Augusto 1, 2, 3
Austria 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 11, 12, 13, 14, 15, 16, 17, 18, 19, 20, 21, 22,
23, 24, 25, 26, 27

B
Balcani 1
Baleari 1
Barcellona 1
Bari 1
Barisone di Arborea 1
Barrère, Camille 1
Basile, Giovanbattista 1
Basilicata 1
Bassolino, Antonio 1
Bastia 1, 2, 3
Battaglia di San Martino 1
Battaglia, Salvatore 1
Battisti, Carlo 1, 2
Baviera 1
Beccaria, Cesare 1
Belgio 1, 2
Bellieni, Camillo 1, 2
Belli, Giuseppe Gioacchino 1
Bellinzona 1
Belluno 1, 2
Bembo, Pietro 1
Berlino 1
Berlusconi, Silvio 1
Berna 1
Bersagapè, Pietro da 1
Biancavilla, eccidio 1
Biasutti, Renato 1
Biondo, Flavio 1
Biot 1
Bipenisola esterna 1
Bisanzio 1
Bitti 1
Boccaccio, Giovanni 1, 2
Bocche di Bonifacio 1
Boemme 1
Bologna 1
Bolzano 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10
Bonaparte, Gerolamo 1
Bonaparte, Napoleone 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 11, 12, 13, 14, 15
Bonifacio VIII 1
Bonora, Paola 1
Bonvesin da la Riva 1
Borgogna 1
Borjes, José 1
Bosco viennese 1
Bosnia 1, 2
Bossi 1
Bossi, Umberto 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9
Bossong, Georg 1
Brasile 1
Bregaglia 1,2
Brennero 1, 2, 3
Bressanone 1, 2
Bretagna 1,2
Briga 1
Brigata Sassari 1, 2
Brindisi 1, 2
Britannia 1
Bronte, Eccidio di 1
Bruttium 1
Bruxelles 1
Bruzio 1
Bugatto, Giuseppe 1
Buonarroti, Filippo 1
Buvalelli, Rambertino 1

C
Cadore 1
Cadorna, Raffaele 1
Cagliari 1
Calabria 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9
Caltagirone 1
Calvo, Bonifacio 1
Camerino 1
Campania 1, 2, 3, 4, 5, 6
Campidoglio 1
Canada 1
Canepa, Antonio 1, 2, 3
Canepa, Teresa 1
Cantone Cisalpino 1
Cantone di Uri 1
Canton Ticino 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7
Canton Vallese 1
Cantù 1
Capo Còrso 1
Capodistria 1
Caporetto 1
Cappelletti, Licurgo 1,2
Carini, Giacinti 1
Carinzia 1
Carlo Alberto 1, 2, 3
Carlo d’Angiò 1
Carniola 1, 2, 3
Carpazi 1
Carso 1
Casini, Pier Ferdinando 1
Cassino 1
Castelfirmiano 1
Castellammare 1
Castellani, Arrigo 1
Castiglia 1,2
Catalogna 1, 2, 3
Catania 1, 2
Cateau Cambrésis 1
Cattaneo, Carlo 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7
Cavalli Sforza, Luca 1
Cavour, Camillo Benso di 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7
Cecoslovacchia 1
Celti 1
Celtia 1
Chanoux, Émile 1, 2, 3, 4, 5, 6
Churchill, Winston 1
Ciampi, Azeglio Carlo 1, 2
Cigala, Lanfranco 1
Cilento 1
Ciola, Gualtiero 1
Cipolla, Carlo M. 1, 2, 3
Cispadania 1
Città del Vaticano 1
Cividale del Friuli 1
Civitella del Tronto 1
Cobban, Alfred 1
Codice Rocco 1
Cogne 1, 2
Col di Tenda 1
Colle della Maddalena 1
Colle di Cadibona 1,2
Colonia 1
Connor, Walker 1
Contini, Gianfranco 1
Cordigliera cantabrica 1
Corfinio 1
Cormaiore 1
Corradini, Enrico 1
Correnti, Cesare 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7
Corsica 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 11, 12, 13, 14, 15, 16, 17, 18, 19, 20, 21, 22,
23, 24, 25, 26
Coseano 1
Cosimo I 1, 2
Cossiga, Francesco 1
Costantinopoli 1
Costanza 1
Costituzione della Repubblica italiana 1
Cosulich 1
Courmayeur 1
Creta 1
Crispi, Francesco 1, 2, 3, 4, 5
Croazia 1, 2
Crocco, Carmine 1, 2, 3
Croce, Benedetto 1, 2
Cuma 1
Curletti, Filippo 1

D
D’Alcamo, Cielo 1
Dalmazia 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 11, 12, 13, 14, 15, 16
Damasco 1
Damiani, Alessandro 1
D’Annunzio, Gabriele 1, 2
Danubio 1, 2
D’Aquino, Rinaldo 1
d’Arborea, Eleonora 1,2
Darby, Henry Clifford 1
Daunia 1
Davanzati, Bernardo 1, 2
D’Azeglio, Massimo 1
De Gasperi, Alcide 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7,8
De Gaulle, Charles 1
Delle Colonne, Guido 1
De Mauro, Tullio 1, 2, 3, 4, 5
De Pietri, Gian Battista 1
De Sica, Vittorio 1
Devon 1
Devoto, Giacomo 1, 2, 3, 4, 5
Diez, Friedrich 1
Digos 1
Dini, Lamberto 1
Dodecaneso 1
Dubrovnik 1
Durando, Giacomo 1
Düsseldorf 1

E
Eco, Umberto 1
Einaudi, Luigi 1, 2
Elisée Reclus, Jacques 1
Emilia Romagna 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 11, 12
Eritrea 1,2
Erodoto 1
Erzegovina 1, 2
Esarcato 1
Esino 1, 2, 3
Etiopia 1, 2, 3
Etruria 1, 2
Europa 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 11, 12, 13, 14, 15, 16, 17, 18, 19, 20, 21, 22,
23

F
Fanti, Guido 1, 2
Federico II 1, 2, 3
Fenestrelle, Fortezza di 1
Ferdinando i delle Due Sicilie 1
Ferdinando IV di Napoli e III di Sicilia 1
Fermo 1
Ferry, Jules 1, 2
Fichte, Johann Gottlieb 1, 2
Fini, Gianfranco 1, 2, 3, 4
Finocchiaro Aprile, Andrea 1,2
Firenze 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8
Fiume 1, 2, 3, 4
Florida 1
Foggia 1
Fondazione Agnelli 1
Fortezza di San Maurizio 1
Francescato, Giuseppe 1
Francesco Giuseppe I d’Austria 1
Francesco II, re delle Due Sicilie 1, 2, 3
Francia 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 11, 12, 13, 14, 15, 16, 17, 18, 19, 20, 21, 22,
23, 24, 25, 26, 27, 28, 29, 30, 31, 32, 33, 34, 35, 36, 37, 38, 39, 40, 41, 42, 43,
44, 45, 46
Frilli, Carlo 1
Friuli 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 11, 12, 13, 14
Friuli-Venezia Giulia 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8

G
Gaeta 1
Galeani Napione, Gian Francesco 1, 2
Galles 1, 2
Gallia 1, 2, 3, 4, 5
Galli della Loggia, Ernesto 1
Gallo, Concetto 1
Galloway 1
Gambi, Lucio 1, 2
Garibaldia 1
Garibaldi, Giuseppe 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 11, 12, 13, 14
Gatterer, Claus 1
Gelli, Gianbattista 1, 2
Gellner, Ernest 1
Genova 1, 2, 3, 4
Gentile, Emilio 1
Gentile, Giovanni 1
Gerbini 1
Germania 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 11, 12, 13, 14, 15, 16, 17, 18
Giacomo da Lentini 1
Giambullari, Pier Francesco 1
Gioberti, Vincenzo 1
Gioia del Colle 1
Giorgio I di Gran Bretagna 1
Giovanni dalle Bande Nere 1
Giuliano, Salvatore 1
Giulia (regione) 1, 2, 3
Giussano, Alberto da 1
Goethe, Johann Wolfgang 1
Goldoni, Carlo 1
Gorizia 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 11, 12, 13, 14, 15
Gortan, Vladimir 1
Gradisca 1, 2, 3, 4, 5
Gramsci, Antonio 1, 2
Granducato di Toscana 1
Gruber, Karl 1, 2, 3, 4, 5, 6
Gualtieri, Libero 1
Gualtiero Ciola 1
Guglielmo I di Germania 1

H
Haugen, Einar 1
Hechter, Michael 1
Herder, Johann Gottfried 1
Hitler, Adolf 1, 2, 3
Hobsbawm, Eric J. 1, 2
Hofer, Andreas 1, 2
Humboldt, Friedrich Wilhelm 1
Husserl, Edmund 1

I
Impero romano 1
Inghilterra 1, 2, 3, 4
Innerhofer, Franz 1
Intesa 1
Irlanda 1,2
Irpef 1
Irpinia 1
Isernia 1
Islanda 1
Isonzo 1
Israele 1, 2
Istria 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 11, 12, 13, 14, 15, 16, 17, 18, 19, 20, 21
Iugoslavia 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 11

J
Jacini, Stefano 1

K
Kellas, James G 1
Kent 1
Kerbler, Christian 1
Klotz, Eva 1
Klotz, Georg 1
Kossovo 1

L
Lampedusa 1
Lampione (isola) 1
Lapponia 1
Latini, Brunetto 1
Lausberg, Heinrich 1
Lazio 1, 2, 3, 4, 5
Legnano 1
Le Monnier, Felice 1
Le Pen, Jean Marie 1
Levra, Umberto 1, 2, 3
Libera Padania 1
Libia 1
Liguria 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8,9
Lillehammer, XVII Giochi olimpici invernali di 1
Linosa 1
Lione 1
Lombardia 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 11, 12, 13, 14, 15, 16, 17
Lombroso, Cesare 1
Londra 1, 2, 3, 4, 5, 6
Longobardi 1
Lorena 1, 2, 3, 4, 5
Los Angeles 1
Lothian 1
Lubiana 1, 2
Lucania 1, 2
Lucca 1, 2, 3, 4
Lussu, Emilio 1, 2, 3
Luzi, Mario 1, 2

M
Maestri, Pietro 1, 2, 3, 4
Magna Grecia 1
Magra 1
Malta 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8
Malvistiti, Pietro 1
Mancini, Pasquale Stanislao 1
Mancini, Stanislao 1
Manica 1
Manin, Daniele 1
Mantova 1, 2
Manuale Cencelli 1
Manzoni, Alessandro 1
Mar Adriatico 1, 2, 3, 4, 5, 6
Marche 1, 2, 3, 4, 5, 6
Marin, Biagio 1
Mar Mediterraneo 1, 2, 3, 4
Marmocchini, Santi 1
Maroni, Roberto 1
Marsica 1
Marsiglia 1
Mar Tirreno 1
Masuccio Salernitano 1
Mazzini, Giuseppe 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9
Medioevo 1
Melfi 1
Meli, Giovanni 1
Melito 1
Menozzi, Paolo 1
Messina 1
Metaponto 1
Metternich, Klemens von 1
Meyer Lübke, Wilhelm 1
Michelet, Jules 1
Miège, Jean Louis 1
Miglio, Gianfranco 1, 2, 3
Milano 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 11, 12, 13, 14, 15, 16, 17, 18
Mincio 1
Minghetti, Marco 1, 2, 3
Modena 1, 2, 3, 4
Molise 1, 2, 3, 4, 5
Monaco, Pietro 1
Monfalcone 1, 2
Monferrato 1,2
Montale, Eugenio 1
Monviso 1
Mordini, Antonio 1
Mori, Cesare 1
Mosca 1
Motta, Giuseppe 1
Mugello 1
Muglia 1
Murat, Luciano 1
Mussolini, Benito 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 11, 12, 13, 14, 15, 16, 17, 18, 19,
20, 21, 22

N
Napoli 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 11, 12, 13, 14, 15
Neri, Pompeo 1
Niceforo, Alfredo 1,2
Nicomedia 1
Ninco Nanco 1, 2
Nitti, Saverio 1
Nizza 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 11
Nola 1
Nova Gorica 1
Novara 1
Novecento 1, 2

O
Occitania 1, 2, 3, 4
Oceano Atlantico 1, 2
Odoacre 1
Olietti, César 1
Osimo 1
Ottocento 1
Ottone I di Sassonia 1

P
Padania 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 11, 12, 13, 14, 15, 16, 17, 18, 19, 20, 21, 22,
23, 24, 25, 26, 27, 28, 29, 30, 31, 32, 33, 34
Palermo 1, 2, 3
Panebianco, Angelo 1
Pannonia 1
Pantelleria 1
Paoli, Pasquale 1,2
Papio Mutilo 1,2
Parigi 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8,9
Parma 1, 2, 3, 4
Pasolini, Pier Paolo 1
Patti Lateranensi 1
Pavia 1, 2
Pellegrini, Giovan Battista 1,2
Pelloux, Luigi 1
Pescara 1
Petrarca, Francesco 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7
Petrosino, Daniele 1
Pianura Padana 1
Piazza, Alberto 1
Piemonte 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 11, 12, 13, 14, 15
Pier della Vigne 1
Pierro, Albino 1
Pietrarsa 1
Pirenei 1
Pirro 1
Pisa 1, 2, 3
Pisani,Vittore 1
Pliocene 1
Plombières 1
Po 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8
Pola 1, 2
Polo, Marco 1
Pompei 1
Ponza 1, 2
Porsenna 1
Porta, Carlo 1, 2, 3
Porta Collina 1
Porta Littoria 1
Porta Pia 1
Portogallo 1
Porto Salvo 1
Postumia 1
Prealpi 1
Predappio 1
Prestranek 1
Prezzolini, Giuseppe 1
Principato di Monaco 1, 2, 3, 4
Prodi, Romano 1
Protonotaro, Stefano 1
Provenza 1
Prussia 1, 2
Puggioni, Luigi Battista 1
Puglia 1, 2, 3
Pugliese, Giacomino 1
Putnam, Robert 1
Q
Quarnero 1, 2
Quart 1
Quarto Praetoria 1
Québec 1, 2
Quisling, Vidkun 1

R
Ragusa 1,2
Randazzo 1
Ranger, Terence 1
Ranza, Giovanni Antonio 1
Reggio Calabria 1
Regione adriatica 1
Regno Unito 1,2
Renan, Ernest 1
Repubblica di San Marino 1
Rezia 1, 2, 3, 4
Rezia 1, 2, 3
Ricasoli, Bettino 1, 2, 3
Ricossa, Sergio 1
Risorgimento 1,2
Rocco, Alfredo 1
Rodano 1,2
Rohfls, Gerhard 1
Roia 1
Roma 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 11, 12, 13, 14, 15, 16, 17, 18, 19, 20, 21, 22, 23,
24, 25, 26, 27, 28, 29, 30, 31, 32, 33, 34, 35, 36, 37, 38, 39, 40, 41, 42, 43, 44,
45, 46, 47, 48, 49, 50, 51, 52, 53
Romania 1
Romano, Pasquale 1
Romano, Ruggiero 1, 2, 3, 4, 5, 6
Rovereto 1
Rubicone 1, 2
Ruscalla, Vegezzi 1, 2
Rusconi, Gian Enrico 1
Rustichello da Pisa 1
Rutilio Namaziano 1

S
Sabbadino degli Arienti 1
Sabina 1
Sadowa 1
Salento 1, 2, 3, 4, 5
Salernitano, Mausuccio 1
Salerno 1, 2
Salmon, Edward Togo 1,2
Salorno 1
Salvadori, Bruno 1
Salvatorelli, Luigi 1
Salvemini, Gaetano 1
Salvioni, Carlo 1
Sampiero di Bastelica 1
San Marino 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8
San Mauro di Sopra 1
Sannio 1
Santa Eufemia 1
Sardegna 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 11, 12, 13, 14, 15, 16, 17, 18, 19, 20, 21, 22,
23, 24, 25, 26, 27, 28, 29, 30, 31, 32, 33, 34, 35, 36, 37, 38, 39, 40, 41, 42, 43,
44, 45, 46, 47, 48, 49, 50, 51, 52, 53, 54, 55, 56
Sassari 1, 2
Sava 1
Savoia 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 11, 12, 13, 14, 15, 16, 17, 18, 19, 20, 21, 22, 23,
24, 25, 26, 27
Scalfari, Eugenio 1
Scalfaro, Oscar Luigi 1
Scarpino, Salvatore 1
Scotti, Giacomo 1
Scozia 1, 2, 3
Sedan 1
Segni, Alessandro 1
Serchi 1
Sessa 1
Seton-Watson, Robert William 1
Sicilia 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 11, 12, 13, 14, 15, 16, 17, 18, 19, 20, 21, 22, 23,
24, 25, 26, 27, 28, 29, 30, 31, 32, 33, 34, 35, 36, 37, 38, 39, 40, 41, 42, 43, 44,
45, 46
Silla 1
Sirca 1
Sirtori 1
Slovenia 1, 2, 3
Smith, Denis Mack 1, 2
Solferino 1
Somalia 1
Sondrio 1
Sorbona 1
Sorgimento 1, 2
Sorrento 1
Spadolini, Giovanni 1
Spagna 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 11, 12, 13, 14, 15, 16
Speroni, Francesco 1
Spoleto 1
Squillace 1
Stabia 1, 2
Stalin, Iosif 1
Starace, Achille 1
Strabone 1
Sturzo, Luigi 1
Sud Tirolo 1, 2, 3, 4, 5
Svezia 1
Svizzera 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 11, 12, 13, 14
Svizzera italiana 1

T
Taranto 1
Tassone, Francesco 1
Tauri 1
Teano 1
Tenda 1, 2, 3
Teodorico 1
Testaccio 1
Tevere 1
Thuile, La 1
Ticino 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9
Tilly 1
Tirolo 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 11, 12, 13, 14, 15, 16, 17, 18, 19, 20, 21, 22
Tito, Josip Broz 1, 2, 3
Togliatti, Palmiro 1
Tolomei, Ettore 1
Tommaseo, Niccolò 1
Torino 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 11, 12, 13, 14, 15, 16, 17
Toscana 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 11, 12, 13, 14, 15, 16, 17, 18, 19, 20, 21, 22,
23, 24, 25, 26, 27, 28, 29, 30, 31, 32
Trastevere 1
Tremaglia, Mirko 1,2
Trentino Alto Adige 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 11, 12, 13, 14, 15, 16
Trento 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 11
Treviri 1
Trieste 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 11, 12, 13, 14, 15, 16, 17, 18, 19, 20, 21, 22,
23, 24
Triplice Alleanza 1
Tripolitania 1
Triveneto 1
Tunisi 1
Turati, Filippo 1
Turbie, La 1
Tuscia 1, 2, 3

U
Udina, Antonio 1
Udine 1, 2
Umbria 1, 2, 3, 4, 5, 6
Ungheria 1
Ustica 1
Utrecht 1

V
Val di Mesolcina 1, 2, 3
Val di Müstair 1
Val di Susa 1
Valle d’Aosta 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 11, 12, 13, 14
Valle del Chisone 1
Valle di Calanca 1,2
Valle di Canton Grigioni 1, 2, 3, 4
Valle di Poschiavo 1, 2
Valle Varaita 1
Val Leventina 1
Vallo Antonino 1
Vallonia belga 1
Val Mesolcina 1
Valona 1, 2
Val Passiria 1, 2
Valsavaranche 1
Valtellina 1, 2, 3, 4
Varo 1, 2
Varvaro, Alberto 1
Vasari, Giorgio 1
Veglia 1
Veneto 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 11, 12, 13, 14, 15, 16, 17, 18, 19
Venezia 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 11, 12, 13, 14, 15, 16, 17, 18, 19, 20, 21, 22,
23, 24, 25, 26, 27, 28, 29, 30, 31, 32, 33, 34, 35
Venezia Giulia 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 11, 12
Venezia Tridentina 1,2
Venosa 1
Verona 1
Verri, Pietro 1
Vienna 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10
Vilfan, Josip 1
Villers Cotteréts, Editto di 1,2
Vittorio Emanuele II di Savoia 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 11, 12
Volpe, Gioacchino 1

W
Walther, Wilhelm 1, 2
Wartburg, Walther 1,2
Weissensteiner, Gerda 1
Westminster 1
Wilson, Woodrow 1, 2

Y
Yucatán 1

Z
Zabče 1
Zante 1
Zara 1, 2, 3, 4, 5
Zaravecchia 1
Zerbi, Tommaso 1
Zitara, Nicola 1, 2
Zorzi, Bartolomeo 1
Zuccarini, Oliviero 1

***
Le 20 occorrenze più frequenti
Lemma N. occorrenze

Sardegna 56

Roma 53

Francia 46

Sicilia 46

Venezia 35

Padania 34

Toscana 32

Austria 27

Savoia 27

Corsica 26

Trieste 24

Europa 23

Mussolini, Benito 22

Tirolo 22

Istria 21

Alpi 19
Veneto 19

Germania 18

Milano 18

Lombardia 17
goWare “e-book” team
goWare è una startup costituita da autori, editor, redattori e sviluppatori che
condividono la visione sul futuro delle nuove tecnologie e la passione per
l’editoria.
Raccogliere, selezionare e organizzare i contenuti allo scopo di renderli a
portata di touch è la sfida quotidiana di goWare come casa editrice digitale.
Operativamente goWare è costituita da due team: goWare “app” team, che
si occupa di concepire e sviluppare applicazioni per iPhone e iPad e goWare
“e-book” team, specializzato in editoria digitale, creazione di ebook,
consulenza e formazione in campo editoriale. Il goWare team è composto da
Marco Arrighi, Roberto Avanzi, Elisa Baglioni, Stefano Cipriani, Valeria Filippi,
Giacomo Fontani, Mirella Francalanci, Patrizia Ghilardi, Mario Mancini, Alice
Mazzoni, Alessio Orlando, Lorenzo Puliti, Maria Concetta Ranieri.
Manifesto di goWare
Il contenuto in digitale è un’altra cosa
Pensiamo che i contenuti digitali siano differenti da quelli distribuiti attraverso
i media tradizionali, diversi nel formato, nel design, nel pubblico che li fruisce.
Lavoriamo per valorizzare questa diversità, curando nel dettaglio la
realizzazione di ebook ed enhanced book pensati per un’esperienza di lettura
autenticamente digitale.

“Surpass the print experience”


Non c’è bisogno di tradurlo, le parole del team iBooks della Apple suonano
come l’11° comandamento. La chiave è la generosità. Ci sono tanti piccoli
grandi accorgimenti per migliorare la lettura dell’ebook. Per esempio non c’è
più il vincolo della foliazione, si può essere generosi con l’interlinea, gli spazi,
le paragrafature, i colori: la costipazione è finita, coloriamo le parole e
arieggiamo la pagina! È il vero trionfo della volontà sulla necessità.

Abbasso il piombo!
Gli ebook di goWare sono progettati e realizzati per vivere in un ecosistema
digitale. Ci ispiriamo a Wikipedia: la lettura digitale ha bisogno di link per
farci spaziare da un contesto a un altro. È inoltre sincopata: la
cementificazione del testo è finita! Abbasso il piombo, viva il link. La
partecipazione distratta non ci spaventa.

Il valore di un ebook non sta solo nel contenuto ma nella relazione


All’interno di un ecosistema digitale, il valore economico di un libro non sta
più soltanto nella quantità di copie che il suo editore/produttore riesce a
vendere a un prezzo massimizzato, quanto nelle idee e nella relazione che
riesce a creare con il proprio pubblico e i media sociali; lavoriamo su questa
relazione in modo che diventi il veicolo per costruire il rapporto economico.

Siamo nomadi
Sia i nativi che gli immigrati digitali non sono per niente stanziali, sono
nomadi, si spostano continuamente da un dispositivo all’altro e da una
piattaforma all’altra. I nostri contenuti sono pensati per spostarsi con loro.
Dillo subito, e con una narrazione possibilmente visuale
Curati, interessanti e veloci da leggere, gli ebook di goWare vanno al sodo e
non contemplano solo il testo: la narrazione visuale e quella musicale sono
parte integrante della progettazione.

Dove stiamo andando?


«Where we going man? I don’t know, but we gotta go» scrive Jack Kerouac in
On the road. Il team di goWare ha sempre in mente queste parole da cui ha
tratto anche parte del suo nome. Innumerevoli sono le incognite che gravano
sul presente e sul futuro dell’editoria digitale: nessuno sa bene dove
approderemo, per ora occorre andare e occorre sperimentare.

Salve, lettore globale


I nostri ebook sono rivolti ai lettori italiani esigenti che pensano globalmente,
convinti che siamo tutti parte di un medesimo insieme economico, culturale
se non ancora linguistico: il mondo. La rivoluzione digitale significa prima di
tutto questo. Tutte le opinioni sono un patrimonio, meglio se differenti, ancor
meglio se fuori dal coro.

Detto altrimenti...
... cioè con le parole della poetessa inglese Ruth Padel
Di’ addio al potrebbe-esser-stato [...]
vai perché sei vivo,
perché stai morendo o sei, forse, già morto
Vai perché devi.
goWare – meme. Filosofia

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