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Prefazione di Gilberto Oneto
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Presentazione e Autore
Prefazione
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INDICE DEI CONTENUTI
Copertina
Frontespizio
Colophon
Presentazione
Prefazione di Gilberto Oneto
1. L’Italia al naturale
Non c’è Italia che tenga
L’Italia à la carte
L’Italia contro natura
Italia che viene, Italia che va
L’Italia è mobile qual piuma al vento
2. Il popolo d’Italia
Italiani brava gente
L’Italia: il genio e il gene
Mamma Roma
Roma matrigna
How old is Italy?
4. L’Italia letteraria
La letteratura batte dove la lingua duole
Lo straniero
6. L’Italia di dentro
Le regioni annunciate
Regionamenti
L’Italia come Padania inconsapevole
Mezzogiorno di fuoco
7. L’Italia di fuori
Di Dalmazia il mare e il suol
En attendant Benito
Un fascio di muscoli e di idee
Irredenti veri e presunti
8. L’Italia in bilico
Venti anni dopo
La Sicilia se ne vuole andare
I confini naturali vacillano
Autonomia, federalismo, regioni
9. Finis Italiae?
Costituzione italiana e regione straniera
La guerra dei tralicci
Siamo proprio sicuri che la storia d’Italia è quella che ci hanno raccontato? Siamo
proprio sicuri che tutto l’ambaradan unitario e patriottico non sia una giustificazione
ideologica (dall’Ottocento a oggi) dell’esistenza di una nazione italiana e di una
identità risalente a Roma (quella antica)?
Salvi la vede molto diversamente. Vede che tutta la “truffa del Risorgimento” è basata
sulla ricostituzione di una entità che c’era e che – secondo la storia ufficiale – sarebbe
stata abbattuta e coartata da stranieri non meglio identificati, ma sicuramente incivili.
Così il Medioevo è stato trasformato in epoca oscura e nelle scuole del Regno e poi
della Repubblica si racconta che la luce di Roma (e d’Italia) si è spenta con la caduta
del patriottico e italico Impero romano e si è riaccesa quando i padri della Patria
hanno cacciato gli eredi di quegli antichi barbari teutonici.
Salvi vede nella storiografia di regime, refrattaria a qualsiasi revisionismo, la
narrazione di un passato zeppo di falsità e imprecisioni. Per questo vuole alzare il velo
che copre la vera storia del Bel paese.
***
SERGIO SALVI è nato nel 1932 a Firenze, dove vive. Ha debuttato come poeta e critico
letterario. Per anni ha diretto il Centro Mostre di Firenze. Affermato studioso dei
nazionalismi in Europa e nel mondo, su questi temi, e sulla tutela delle minoranze, ha
pubblicato diverse opere: Le nazioni proibite (1973), Le lingue tagliate (1975), Patria
e matria (1978), La disUnione sovietica (1990), La mezzaluna con la stella rossa.
Origini, storia e destino dell’Islam sovietico (1993), Tutte le Russie. Storia e cultura
degli Stati europei dell’ex Unione Sovietica (1994), Breve storia della Cecenia (Giunti,
1995). Occitania (1998), La lingua padana e i suoi dialetti (1999), Nascita della
Toscana (2001).
Prefazione
di Gilberto Oneto
Mamma Roma
Secondo Giuseppe Prezzolini, “la differenza reale tra la civiltà italiana
e le altre consiste in ciò: la classe intellettuale italiana credeva che il
suo popolo non fosse solo il discendente naturale, autentico, ma in
verità il solo erede legittimo di Roma. Essa sperava in una
resurrezione in Italia dell’antico potere di Roma (...) Questa credenza
assunse una tale forza nelle classi colte dell’Italia che lasciò tracce nel
loro pensiero nel corso dei secoli”. In realtà, come si è detto, Roma è
la madre dell’intera Francia, Spagna, Portogallo, Romània, e non
soltanto la mamma d’Italia (e rimane aperta la ricerca dei padri).
Prezzolini ha messo il dito su una piaga che segna (e non soltanto a
livello folcloristico) anche l’ultima versione dello Stato italiano,
quella “democratica e repubblicana uscita dalla Resistenza” (non a
caso definita in molte occasioni “secondo Risorgimento”).
L’inno della repubblica, ripescato nel repertorio risorgimentale in
sostituzione dell’assai più maestosa Marcia reale (ed esplicitamente
intitolato ai “Fratelli d’Italia”), andrebbe mutato, come da più parti si
auspica, non soltanto perché è musicalmente infelice ma anche a
causa del testo, insopportabilmente retorico e perfino offensivo.
Offende soprattutto quell’“elmo di Scipio”, forgiato in esclusiva per i
“figli di Roma” (di una Roma cui Dio stesso avrebbe poco
cristianamente concesso in perpetua “schiavitù” la “vittoria”). Ogni
repubblica che si rispetti deve, infatti, rispetto agli sconfitti, dai quali
discendono poi (è il caso italiano) quasi tutti i suoi cittadini. I
“fratelli d’Italia” hanno insomma pieno diritto alla citazione
parallela, nel loro inno di riconoscimento statale, del diadema di
Porsenna (perlomeno coloro che risultano ancora imbottiti di geni
etruschi), della spada di Brenno (un omaggio davvero sportivo ai celti
sepolti in una parte di loro) e perfino dello specchio di Archimede
(un saluto ammirato alla memoria degli italioti e dei sicelioti i cui
discendenti condividono oggi la stessa cittadinanza legale degli
abitanti di Testaccio e di Trastevere).
Non può essere, infatti, dimenticata, in uno Stato mediamente
consapevole, la lunga, talvolta accanita resistenza dei popoli “pre
italiani” alla conquista e alla dominazione di Roma: a cominciare
dagli altri latini passando poi agli italici, agli etruschi, ai celti e così
via.
Purtroppo, di questa lotta si sa troppo poco.
Ha scritto in proposito E. T. Salmon, che soltanto “qualche
informazione […] è filtrata attraverso i pregiudizi e l’indifferenza dei
romani ed è sopravvissuta. Ma ciò è avvenuto attraverso una sorta di
filtro romano”. Salmon sintetizza così la ricetta degli annalisti della
città eterna: “Inventare e moltiplicare le vittorie dei romani e
sopprimere o attenuare le sconfitte, era per loro pratica sistematica,
automaticamente applicata”. Il “filtro romano” ha tuttavia
durevolmente accecato gli intellettuali e i politici del nostro e degli
altrui paesi: ieri come oggi (e forse domani).
Se il Risorgimento si chiama impropriamente così, lo si deve dunque
a Roma (una Roma bloccata dalla memoria all’epoca della sua ascesa e
del suo splendore, dimenticandone il lento declino e il degrado
inarrestabile): al seducente fasto della Roma imperiale che ha eccitato
i nazionalisti di “destra”, alle austere virtù della Roma repubblicana
che hanno folgorato quelli di “sinistra”, al fasto e alle virtù della
posteriore Roma dei papi che hanno irresistibilmente attratto i
clericali di “centro” (il mito di Roma cristiana si è infatti innestato su
quello della Roma pagana anche se si tratta, in entrambi i casi, di una
Roma caput mundi e non certo caput Italiae).
Lo stesso Mazzini teorizzava il futuro Stato italiano come “terza
Roma” (la seconda era quella dei papi) e considerava arbitrariamente,
con molte giustificazioni in meno del Petrarca, gli antichi romani
(quelli che avevano il vento in poppa) come i “nostri avi” tout-court
(nell’appello agli “italiani” rivolto all’atto della fondazione della
Giovine Italia, 1831).
Il mito di Roma non è però una prerogativa soltanto italiana. Ha
contagiato il mondo: ne sono vittime ed esponenti l’impero
bizantino e Mosca, anch’essa “Terza Roma” (in questo caso la
seconda Roma corrispondeva a Costantinopoli), a est; l’impero
carolingio, quello germanico, quello napoleonico (e la stessa
Repubblica Francese, il cui simbolo ufficiale è ancora oggi il fascio
littorio), a ovest; fino all’“impero” un po’ dubbio proclamato, con
romagnola impudenza, da Mussolini. Il folclore “romanista”, fatto (e
fitto) di fregi, cerimonie e alta terminologia (da imperatore a console,
da prefetto a Campidoglio) ha segnato per secoli (e segna da secoli) la
storia del mondo che conta.
Altri miti “italiani”, più pertinenti ma assai più settoriali, come quello
dei Comuni (che per altro non hanno interessato l’Italia meridionale
e le isole) o quello delle Repubbliche marinare (scarsamente
funzionante per la terraferma) hanno dovuto piegare la fronte di
fronte al mito di Roma anche di qua dalle Alpi.
La posizione geografica di Roma, situata non soltanto nell’Italia
regione convenzionale ma addirittura nella penisola, è stata fatale per
gli “italiani”.
Appare sintomatico il fatto che, all’interno del movimento
nazionalista italiano, una sua setta ottocentesca abbia proposto, per
l’“Italia unita” (ancora incerta su come denominarsi ad unificazione
avvenuta), il nome di “Rinascente Impero romano”. Ne fornisce
prova quello che è forse il primo progetto di Costituzione italiana,
pubblicato anonimo nel 1814 (un anno prima della Restaurazione).
Il progetto è stupefacente e sottilmente contraddittorio. Recita
infatti all’articolo 1: “Il territorio dell’Impero romano sarà formato
da tutto il continente dell’Italia e non potrà essere aggrandito”. Ciò
significa la rinuncia esplicita alle isole (esclusa l’Elba e vedremo
perché) e ad ogni doveroso “imperialismo” imperiale.
Roma-città non vi è poi trattata con il rispetto che ci si sarebbe
dovuto aspettare, considerato il nome scelto per il nuovo Stato
auspicato: la sede del Parlamento vi viene infatti fissata,
alternativamente ogni tre anni, con la seguente successione perpetua:
Roma, Milano e Napoli (articolo 47). Il corpo legislativo provvisorio
dell’“impero” vi è indicato come formato dai deputati del Regno
d’Italia, del Regno di Napoli e dell’Impero francese “pei dipartimenti
italiani riuniti” ad esso (articolo 63). Ad imperatore romano-italiano
è designato (articolo 3) Napoleone Bonaparte, ormai sconfitto e
“attual sovrano dell’isola d’Elba”. “In caso di estinzione” (articolo 6,
comma 2) il trono viene espressamente previsto per “il principe
Luciano Bonaparte, fratello dell’Imperatore Napoleone” e per la “sua
discendenza”.
Un progetto successivo di Costituzione italiana, redatto, a
Restaurazione avvenuta, negli ambienti assai più maturi della setta
mazziniana, dichiara invece, con perentoria asciuttezza, all’articolo 3:
“La capitale dell’Italia è Roma” (in corsivo nel testo), anche se lo
Stato auspicato assume il nome di “Repubblica italiana”
(abbandonando così ogni rêverie terminologica romano-imperiale). Il
progetto definisce con esattezza i confini dello Stato futuro e rifiuta
anch’esso, implicitamente, ogni suo “aggrandimento”. Ne parleremo
tra poco più distesamente perché si tratta di un progetto importante.
Roma matrigna
Ben diverso l’atteggiamento di Mussolini. Il fascismo italiano, che ha
enormemente “aggrandito” il mito “romanista”, voleva non soltanto
aggrandire l’Italia-Stato ma aggrandirsi: quando ha tentato, nel 1934,
di istituire un’Internazionale fascista per esportare la sua ideologia,
l’ha chiamata CAUR (Comitati d’azione per l’universalità di Roma),
suscitando le timide perplessità del nordico Quisling.
Ci sembra carino citare almeno una punta del delirio “romanista” dei
fascisti (che volevano trasformare gli “italiani” nei “Romani della
modernità”): “Non si domina in perpetuo se non in virtù di un’idea
immortale, se non con la forza di una civiltà inestinguibile. Ora
quest’eternità di una missione civilizzatrice e animatrice [...] non può
avere che un nome, perché solo questo nome vive e si perpetua nei
secoli [...]. È il nome del Passato e del Presente. È il nome del Futuro
e dell’Eterno. È il nome della Chiesa e dell’Impero. È ROMA!”
Va detto, tuttavia, che ci sono state, nel lungo corso della storia
italiana, alcune significative eccezioni.
La prima di queste è significativa in maniera eccezionale. Il singolare
episodio cui vogliamo riferirci è noto come “guerra sociale”
(Cicerone la definì però, correttamente, bellum italicum) e sembra un
apologo.
Nel 91 a. C., ben dodici popoli dell’Italia peninsulare (marsi, peligni,
vestini, marrucini, picenti, frentani, irpini, campani, lucani, apuli,
“venusini” e sanniti), tutti di lingua osco-umbra, ai quali era stata
promessa e poi negata la cittadinanza romana (che significava il
godimento dei diritti politici e la “liberazione” fiscale), insorsero in
armi contro Roma. Prima di insorgere, però, si dettero
un’organizzazione politica e militare compatta istituendo uno Stato
federale e assumendo un nome comune, sia pure desunto dai romani
(i quali lo avevano comunque desunto, a loro volta, dai greci):
decisero, infatti, di chiamarsi “italici”.
L’evento è fondamentale: per la prima volta nella storia, il nome
Italia venne fatto proprio da una parte almeno dei suoi abitanti.
Questa presa di coscienza terminologica avvenne in netta
contrapposizione con Roma. Italia contro Roma, dunque: ecco una
traccia per un possibile Risorgimento italico, purtroppo mai
avvenuto, dotato però di senso storico e filologicamente ineccepibile.
E. T. Salmon, lo storico dei sanniti (quelli che durante le numerose
guerre precedenti avevano costretto i romani alle forche caudine),
adombra perfino l’ipotesi che questo Stato italico, federale perché
rispettoso, magari forzatamente, delle identità in esso rappresentate,
presupponesse coscientemente un modello opposto a quello dello
Stato romano, prototipo invece di un centralismo ottuso e arrogante
anche se fortunato: una ipotesi valida, se non per tutta la regione
convenzionale, sicuramente per la penisola (Roma compresa); non
più “figli di Roma” ma “figli d’Italia”; non più “fratelli d’Italia” ma
“fratelli di Roma”.
Gli italici espressero un Senato di cinquecento membri i quali
scelsero dodici pretori (in osco pretur), uno per ciascun popolo, e due
consoli (meddíss), uno per la parte settentrionale e uno per quella
meridionale della federazione. Stabilirono la capitale comune a
Corfinio, città peligna il cui nome venne mutato in Italia. Fu
arruolato un esercito di 100.000 combattenti (che giurarono fedeltà
all’Italia federale) e vennero emesse alcune serie di monete sulle quali
compariva la scritta Italia (in latino) e Vitelio (in osco) ed era
raffigurato un toro (il simbolo totemico dei sanniti) nell’atto di
calpestare e di incornare un lupo (cioè la lupa di Roma).
L’esercito italico venne diviso in due armate autonome, quella
settentrionale (“marsica”), al comando del meddíss Poppedio Silone,
e quella meridionale (“sannita”), al comando del meddíss Papio
Mutilo (che, in quanto comandante militare, assunse il titolo di
embradur, il termine osco per imperator).
Le truppe italiche erano numerose, disciplinate e agguerrite.
Riportarono, all’inizio delle operazioni, grandi successi. Il console
romano Rutilio venne ucciso in battaglia e quando il suo corpo fu
portato a Roma per le esequie, un moto di panico scosse la città. La
guerra fu lunga e sanguinosa. Diodoro afferma che fu la più grande
fino allora affrontata da Roma, e Floro sostiene che nemmeno le
invasioni di Pirro e di Annibale causarono simili devastazioni:
l’embradur Papio Mutilo conquistò Sorrento, Stabia, Salerno,
Pompei e perfino Nola (cosa che nemmeno Annibale era riuscito a
fare).
Gli italici svolsero anche una sorta di politica estera. Il territorio che
li divideva da umbri ed etruschi, stabilmente in mano ai romani,
purtroppo impedì loro un’alleanza organica con questi due popoli. Il
loro esempio portò, comunque, alla fine del 90 a. C., all’insurrezione
degli umbri e degli etruschi, che i romani acquietarono subito con la
concessione immediata della cittadinanza.
L’anno 89 a. C. fu invece sfavorevole, sul piano bellico, agli italici.
Incalzati dai romani, furono costretti a trasferire la loro capitale
prima a Boiano e poi ad Isernia. La controffensiva romana, guidata da
Silla, si mostrò sempre più inesorabile. I più meridionali fra gli italici,
i lucani, concepirono allora un progetto grandioso che tuttavia non
ebbe successo: invasero il Bruzio (l’odierna Calabria) con l’intento di
sbarcare in Sicilia per sollevarla contro Roma e aprire così un nuovo
fronte.
Roma accettò, nell’87 a. C., di trattare con i ribelli cui venne
concessa, finalmente, l’agognata cittadinanza. Anche se mancava
l’assenso di Silla, lontano da Roma, la guerra sociale o italica ebbe
termine dopo quattro anni di accesi combattimenti. Si riattizzò
tuttavia nell’82 a. C., al momento della guerra civile tra Mario e Silla:
gli italici si schierarono, così come gli etruschi, dalla parte di Mario e
ne subirono le conseguenze.
Eccone alcuni esempi: i prigionieri sanniti, catturati nella battaglia di
Sacriportus, furono massacrati per ordine di Silla. Il loro numero non
c’è noto. Silla fece riunire anche i prigionieri dell’ultima battaglia,
quella di Porta Collina: scelse tra loro i sanniti e li fece uccidere tutti,
uno per uno. Questa volta si sa che il loro numero andava da 3.400
(secondo Strabone) a 8.000 (secondo Livio e Appiano). I sanniti, i
più combattivi tra gli italici, erano insomma considerati da Silla come
gli ebrei da Hitler. Purtroppo per Silla, la camera a gas, al contrario
delle terme, non era stata ancora inventata.
Una considerazione perlomeno curiosa: di tutti i popoli insediati
nell’Italia-regione, sono stati paradossalmente gli italici, i meno
lontani etnicamente dai romani, a contestarne radicalmente l’ascesa:
forse più degli etruschi, dei celti e dei greci, le cui diversità appaiono
ben più vistose. Non è un caso se proprio i sanniti hanno definito i
romani “raptores italicae libertatis”. Si dirà, giustamente, che non è il
caso di mitizzare oltre misura l’eroismo, magari sporadico, degli italici
e degli altri oppositori di Roma. Va tuttavia riconosciuto come la
retorica secolare e insopportabile degli “eroi di Roma”, ampiamente
diffusa a tutti i livelli, necessiti perlomeno di un contrappeso:
“inventare” una “tradizione” antiromana è, da questo punto di vista,
in Italia, un’opera meritoria. Tutte le “tradizioni” infatti, da un
punto di vista tecnico, si equivalgono. E conviene puntare su quelle
culturalmente più stimolanti, magari “inventando” un po’ di più.
Nonostante il loro “eroismo”, gli italici vennero sconfitti e poi
assimilati dai romani (ma si sono vendicati linguisticamente: a Roma
si dice oggi annamo per “andiamo” in quanto l’italico NN ha
spodestato il latino ND).
Un’altra testimonianza, assai più recente, che esibisce toni più da
commedia che da tragedia, scelta tra le molte forse possibili, contrasta
in Italia il mito di Roma.
Tra il 1540 e il 1560, uno Stato peninsulare in vena di espandersi, la
Toscana, cerca di inventarsi un’ininterrotta tradizione autoctona pre
romana ispirandosi agli etruschi (nonostante Firenze fosse stata
definita da Dante, Compagni e Villani, pretta “figlia di Roma”).
Cosimo I, duca di Firenze, si candida a Dux Etruriae e pilota questo
suo progetto politico attraverso la massima istituzione culturale del
suo Stato: l’Accademia fiorentina, cui affida l’“invenzione” di una
“tradizione” favorevole alla sua tesi. Un buon numero d’intellettuali a
lui fedeli, tra i quali Gianbattista Gelli e Pier Francesco Giambullari,
esprime allora pubblicamente la teoria, manifestamente infondata,
che l’idioma toscano derivi direttamente dall’etrusco invece che dal
latino e che l’etrusco derivi, a sua volta, insieme all’ebraico,
dall’aramaico. È, insomma, più antico e più nobile della lingua di
Roma. Santi Marmocchini divulga, nel 1542, un glossario
etimologico della “lingua toschana” raffrontata all’ebraico proprio
per opporla al latino, idioma straniero giunto in Toscana in seguito
alla colonizzazione romana.
Perfino il Vasari contribuisce al mito, teorizzando l’assoluta
originalità e il primato dell’arte etrusca rispetto a quella classica, greca
e romana.
Nel 1560, Cosimo I si allea col papa e mette la sordina a questa vera e
propria campagna di Stato da lui fomentata. Il papa ricambia il favore
nominandolo Magnus Dux Etruriae sibi subiectae. L’etruscomania si
sposta subito nel campo del collezionismo d’arte: un’altra vittoria di
Roma.
La retrocessione di Roma a capitale dello Stato italiano, e quindi a
simbolo del malessere di Stato, ha recentemente innescato un moto
di rigetto, non particolarmente nobile come motivazione ma
comunque significativo, che si esprime nello slogan, in altri tempi
inimmaginabile, di “Roma ladrona”: magari non italicae libertatis, ma
sicuramente padanicae opulentiae.
How old is Italy?
Nonostante tutti gli indizi fatti propri dalla classe intellettuale e
politica al potere, nel tentativo di giungere per accumulo alla prova
dell’esistenza dell’Italia, un indizio di segno contrario e dal peso non
trascurabile viene proprio dal cuore di questa classe: per rendersene
conto basta riflettere sulle difficoltà obiettive di collocare l’Italia non
solo nello spazio, ma anche nel tempo: basta riflettere a come è stato
implicitamente risposto, nell’Italia-Stato, da chi di dovere, a una
domanda semplicissima: quanti anni ha l’Italia?
Uno storico, giustamente dimenticato, della fine dell’Ottocento,
Licurgo Cappelletti, suggeriva più o meno l’età di 5.000 anni. La sua
Storia d’Italia cominciava, infatti, dalla preistoria, quando il nome
stesso d’Italia era di là da venire.
Un pertinace luogo comune, per fortuna rigettato dagli storici di
professione ma ostentato ancora oggi, con disinvolta imprudenza, da
alcuni celebri giornalisti in vena di divulgazione storica per le masse
assegna all’Italia l’età veneranda di 2.750 anni: la sua storia
comincerebbe nel 753 a. C., anno della supposta fondazione di
Roma. Quest’opinione giustifica paradossalmente la celebrazione del
Natale di Roma, di mussoliniana memoria.
Anche gli storici “veri” si mostrano in grave disaccordo tra di loro.
Luigi Salvatorelli assegna all’Italia un’età di quasi 2.200 anni. Ne fa,
infatti, cominciare la storia dal II secolo a. C., quando il protettorato
romano (ma non la cittadinanza) si estese nominalmente su buona
parte dell’Italia definita diciassette secoli dopo dai geografi generali
(ma, come sappiamo, non su tutta).
Per Gioacchino Volpe, storico ufficiale del regime fascista ma
studioso serio nei limiti delle proprie convinzioni, l’Italia ha invece
1.527 anni suonati: la sua storia comincia nel 476 (al momento del
crollo dell’Impero romano d’Occidente).
Per Benedetto Croce, infine (e possiamo trarre finalmente un sospiro
di sollievo), l’Italia ha 142 anni tondi.
La sua storia può cominciare soltanto nel 1861, al momento
dell’istituzione del Regno sabaudo d’Italia, il primo Stato “italiano”
degno di questo nome in quanto ragionevolmente esteso e
soprattutto unitario. Prima di questa data ci sono soltanto le storie
dei singoli Stati e dei singoli popoli che si sono spartiti nel tempo lo
spazio promulgato a posteriori dai geografi generali.
La disputa continua oggi sulle pagine delle molte e voluminose Storie
d’Italia pubblicate più recentemente (e su quelle in corso di stampa),
oscillando tra l’ipotesi Volpe e l’ipotesi Croce. E allora: Volpe o
Croce?
È facile osservare che, nel caso del Croce, più che di storia d’Italia si
tratta di storia dello Stato italiano (ma di quale altra Italia certa si
può onestamente parlare?).
Si può, tuttavia, intendere la storia dello Stato che oggi si denomina
“italiano” come la storia di uno Stato dinastico che muta durante i
secoli, espandendosi, la propria denominazione conservando una
continuità, appunto, dinastica. Questo Stato sarebbe la Savoia (o,
meglio, lo Stato familiare del nobile borgognone Umberto
Biancamano, i cui discendenti divennero duchi di Savoia) che nell’XI
secolo comincia a estendersi, oltre che di là, anche di qua dalle Alpi,
su parti sempre più vaste dell’Italia-regione convenzionale fino a
mutare, dal 1713 al 1718, per ragioni di peso e di rango relative allo
status del sovrano, la propria denominazione in Regno di Sicilia; dal
1718 al 1861, scambiata la Sicilia, in Regno di Sardegna; e, nel 1861,
in Regno d’Italia (mantenendo tuttavia, oltre alla dinastia, il proprio
Statuto “sardo” del 1848).
Il Regno di Sardegna aveva paradossalmente ceduto un anno prima
(1860) alla Francia il territorio originario da cui traeva il proprio
nome iniziale (la Savoia, appunto). Non è un caso se Vittorio
Emanuele continuò a denominarsi ii anche se fu il primo re d’Italia e
se il primo Parlamento italiano si numerò come ottavo. Il borbone
Ferdinando IV di Napoli e III di Sicilia fu più corretto: divenne, nel
1816, Ferdinando I delle Due Sicilie (avvicinandosi così allo zero).
Come si vede, mancando un’Italia appena probabile, le Italie possibili
sono davvero troppe.
Quanto abbiamo finora narrato, ancora non basta. Va, infatti, citata,
in extremis, anche l’opinione di Giovanni Spadolini: un’opinione
ancora oggi assai diffusa, in quanto questo storico recentemente
scomparso è stato soprattutto un influente uomo politico e
giornalista.
Per Spadolini, la nozione stessa d’Italia è affidata alla “nazione” e
pertanto alla lingua: l’Italia va intesa, di là dalle vicende politico
istituzionali e dalle definizioni della geografia fisica, “come comunità
di lingua e di cultura, con piena coscienza di se stessa, fiorita dopo
l’avvento del volgare e con il contributo decisivo di Dante”. Per
Spadolini, “in Italia, l’idea e la stessa realtà della nazione precedevano
di parecchi secoli l’idea dello Stato”. Questa Italia improbabile
avrebbe così, all’incirca, 700 anni. È un’età che non convince.
È facile infatti obiettare che: 1) la “piena coscienza di se stessa” in
Italia non è ancora oggi pienamente avvenuta; 2) la coscienza
acquisita in proposito da una minoranza (storicamente decisiva) della
presunta “comunità di lingua e di cultura” italiana è avvenuta
soltanto nel XIX secolo; 3) il concetto di “cultura” è troppo settoriale
(cultura occidentale, cultura del sospetto, cultura materiale, cultura
gay) e allo stesso tempo troppo vasto e onnicomprensivo (come
l’antropologia culturale insegna) perché riesca a definire qualcosa di
evidente in termini di presunte identità “nazionali” e “statali”,
oltretutto ipotizzate a posteriori e quindi tautologiche; 4) 1’“avvento
del volgare”, inteso come uso di massa della lingua “italiana” è, come
vedremo, ancora in corso di realizzazione; 5) il contributo di Dante è
stato “decisivo” per l’affermazione successiva del volgare toscano
quale volgare “italiano” ma non per la “coscienza” di cui sopra, se non
indirettamente (più che a un qualsiasi tipo di Stato italiano, Dante
pensava a una acconcia sistemazione nell’impero di egemonia
germanica inteso quale filiazione e restaurazione di Roma); 6) per
tutto quanto abbiamo indicato, la pratica dello Stato ha preceduto, in
Italia, se non l’idea, certamente la pratica della “nazione”, secondo la
nota massima coniata dal maresciallo Pilsudski a proposito della
Polonia, quando voleva riaggregarvi la Lituania, la Bielorussia,
l’Ucraina e un bel po’ di Germania: “È lo Stato che fa la Nazione” (e
purtroppo sappiamo in che modo ciò avviene ed è avvenuto
normalmente nel mondo).
Ad ogni modo, l’opinione di Spadolini c’è utile per affrontare
finalmente di petto, dopo l’Italia-regione, l’Italia-nazione. E, in
contemporanea, il concetto di nazione: fonte perenne di equivoci e di
malversazioni.
3.
I peli sulla lingua e il corpo della nazione
Le nazioni in Italia
A parte sporadiche eccezioni (per esempio: Gian Francesco Galeani
Napione parla nel 1780 di “nazione italiana”, sia pure in un
significato non più “vecchio” ma non ancora “nuovo” del termine),
nell’Italia-regione il concetto di nazione arriva con le truppe di
Napoleone alla fine del Settecento (1796). Le repubblichette satelliti
istituite dai francesi su molte parti del territorio regionale vengono
dotate, da questo invasore filantropo, di Costituzioni che sono
fotocopie di quella francese (anche se sono scritte in italiano): oltre a
essere tutte “une e indivisibili”, queste Repubbliche sono anche, in
quanto Stati, tutte “nazioni”.
Ecco allora apparire ufficialmente, sulle rispettive carte costituzionali,
la “nazione ligure” (1797), la “nazione cisalpina”, la “nazione
romana” (1798) e anche la “nazione napoletana” (1799). Poi, molte
di esse, incorporate direttamente nell’impero francese, diventano
automaticamente parti della “nazione francese”.
Le Costituzioni della Repubblica Italiana e del successivo Regno
d’Italia, istituiti da Napoleone su altre porzioni dello stesso territorio,
non parlano mai (curiosamente) di “nazione italiana”.
La Restaurazione del 1815 ripristina, con qualche modificazione, i
vecchi Stati. La Costituzione del Regno delle Due Sicilie (1820) ne
approfitta per parlare di “nazione delle Due Sicilie”. Il Regno di
Sardegna, nel suo Statuto del 1848, non parla di “nazione sarda” ma
di “Nazione” tout court: nel preambolo, tuttavia, il re si appiglia
all’“Itala nostra corona” (e non è ipoteca da poco). La Costituzione
della sfortunata Repubblica Romana (1849), quella di Mazzini e di
Garibaldi, non parla di “nazione” ma di “popolo dello Stato romano”:
uno Stato che “rispetta ogni nazionalità” ma “propugna l’italiana”, al
punto di concedere la propria cittadinanza “agli altri italiani col
domicilio di sei mesi”.
I nazionalisti italiani avevano nel frattempo ampiamente compreso
(dal vivo) che il modello francese non si adattava al caso dell’Italia (se
non per i suoi contenuti “democratici”) cui bene si attagliava invece
la teoria naturale dei tedeschi (il Romanticismo aveva finalmente
valicato le Alpi). L’Italia cessa comunque, per loro, di essere una
regione geografica frazionata in nazioni politiche diverse e diventa
una nazione sola la cui esistenza postula conseguentemente la sua
trasformazione in un unico Stato (sul cui ordinamento fervono le
discussioni: monarchia o repubblica? Stato federale o Stato
centralizzato?).
Secondo i nazionalisti, l’Italia esibisce, oltre ad un territorio
“naturale”, una lingua propria (anche se purtroppo questa lingua è
ignorata dalla maggioranza dei suoi abitanti). L’entusiasmo
impedisce loro di scorgere i peli (simili a travi più che a festuche) che
spuntano dalla lingua degli “italiani”.
Emerge tuttavia, anche se con la scienza di poi, un’aporia rispetto al
modello tedesco. Mentre le nozioni di “sangue” (origine comune) e
di “lingua”, giuste o sbagliate che siano, sono le stesse in Germania e
in Italia, il concetto di “suolo” appare diverso. Esso si estende fin dove
si estendono (per le vicende della storia) i tedeschi (che si riservano in
pectore di estendersi ancora) nel primo caso; è indicato
perentoriamente dalla natura nel secondo. Viene insomma alla luce
una contraddizione che oscurerà in seguito troppo affrettate certezze.
Tra i presupposti della nazione, comunque, l’accento è chiaramente
posato, anche in Italia, sulla lingua. Secondo Mazzini, “una Nazione è
l’associazione di tutti gli uomini che per lingua, per condizioni
geografiche o per la parte assegnata loro dalla storia, formano un solo
gruppo”. E anche: la nazione è la “universalità dei cittadini parlanti la
stessa favella, associati con uguaglianza di diritti civili e politici”.
Mazzini ritiene pertanto necessario, affinché questa “associazione” o
“universalità” divenga operante, l’istituzione di “uno Stato per ogni
Nazione” nonché di “un unico Stato per l’intera Nazione”. La sua
posizione ha un indubbio colorito “democratico” (il suo programma
è repubblicano), nonostante sia avvolta nei fumi di un approccio
mistico ed esaltato (di tipo religioso), che manca alla teoria tedesca
(anche se questa ne rimane la base).
Il maggiore teorico italiano del principio di nazionalità, Pasquale
Stanislao Mancini, assai più coerente e tecnico di Mazzini, ebbe a
definire, nel 1851, sia pure con una sintassi straordinariamente
involuta, la nazione come “una società naturale d’uomini, da unità di
territorio, d’origine, di costumi e di lingua conformata a comunanza
di vita e di coscienza sociale”: una “società” che tuttavia doveva essere
vivificata dalla “coscienza della nazionalità” per proporsi come
“nazione” ed erigersi in Stato. Emerge così un elemento
volontaristico, presente nella teoria “elettiva” ma non in quella
“naturale” (per la quale esistono anche “nazioni inconsapevoli”).
Mancini sostiene comunque: “Ma di tutti i vincoli di nazionale unità
nessuno è più forte della comunanza del linguaggio”.
Va rammentato che quest’avvocato meridionale, esule a Torino,
venne gratificato nel 1850, dal re di Sardegna, con una cattedra
universitaria di Diritto internazionale (da lui inteso come insieme di
rapporti giuridici tra “nazioni” e non tra Stati). I Savoia, pur parlando
una lingua diversa da quella di Mancini e appartenendo quindi a una
diversa “comunanza del linguaggio” (e, secondo la teoria manciniana,
a una diversa “nazione”), puntavano ormai le loro fiches sulla
“nazione italiana” e l’alibi del napoletano Mancini faceva loro
“comodo assai”.
Un progetto di Costituzione per l’Italia fatta libera e indipendente,
datato 1835 ma pubblicato nel 1832 (lo abbiamo citato qualche
pagina addietro), appare indicativo ed esauriente a proposito dell’idea
di “nazione italiana” (anche se la forma istituzionale invocata sembra
fatta apposta per irritare il re “sardo”).
Il suo “articolo primo fondamentale” recita infatti: “Tutti i popoli
d’Italia e così tutti gli abitatori della penisola che, dal ciglione delle
Alpi incominciando all’ovest dal punto... al punto...[la
determinazione esatta dei punti è demandata a una misurazione
successiva] e circondata dai mari Adriatico e Mediterraneo nonché le
isole tutte adiacenti alla penisola italiana, parlanti la stessa lingua,
formano a perpetuità una Nazione sola, e si costituiscono in
Repubblica democratica una ed indivisibile [in corsivo nel testo]”.
Una nota precisa che questa Italia di là da venire è “descritta quale
esser dovrebbe” e che la Savoia, in quanto di là dalle Alpi e di lingua
francese non le appartiene, mentre le appartengono il Canton Ticino
e la Corsica in quanto di lingua italiana e situati all’interno dei
“confini che la natura stessa ha tracciati”. Si augura che una “franca e
leale diplomazia” possa portare a “trattati in virtù dei quali, i popoli
possano riunirsi a quella nazione, a cui li ha destinati la natura, pel
più facile soddisfacimento de’ sociali loro bisogni”.
Questo progetto anonimo proviene sicuramente da un ambito
mazziniano. Al contrario di questi suoi adepti così puntigliosi,
Mazzini non era purtroppo un esperto in geografia (sia pure
“generale”) e le sue continue oscillazioni in proposito lo dimostrano.
Nel 1860, con la “teoria del compasso”, indicò nell’Isonzo il confine
orientale “naturale” d’Italia escludendo così Gorizia, Trieste e l’Istria
da questo contesto. Nel 1866, s’indignò invece per il fatto che fossero
stati lasciati all’Austria proprio questi territori: aveva, infatti,
realizzato che l’Italia-regione arrivava sul crinale delle Alpi Giulie.
Nel 1870, rivendicò addirittura la necessità di superare i confini
“naturali” e di annettere Postumia e la Carniola (in pratica due terzi
dell’odierna Slovenia: annessi del resto, concretamente, anche se per
soli due anni, da Mussolini nel 1941).
Sempre nel 1866, Mazzini, in quel momento ancora aggrappato allo
spartiacque, aveva precisato che “nostro”, cioè italiano, era “il Tirolo
fino alla cinta delle Alpi Retiche [...] nostre sono le acque che ne
discendono a versarsi nell’Adige e nel golfo veneto”, pur dichiarando
di sapere che gli abitanti di questo Tirolo erano di “stirpe teutonica”.
Essi erano però, per lui, “facili ad italianizzare”. Con un brusco salto
di teoria, dalla Germania alla Francia, teorizzò implicitamente la
necessità di un genocidio linguistico sul tipo di quello praticato in
Francia dai francesi (e che sarà sperimentato, in seguito, da Mussolini
proprio in quello stesso Tirolo meridionale).
Va ricordato, a questo proposito, il disprezzo precedentemente
dichiarato dallo stesso Mazzini nei confronti dei “popoli-Napoleone”
che volevano annettersi e assimilare brandelli di nazionalità diverse
dalla propria. Non lo si può certo considerare un mostro di coerenza.
Il fatto che Mazzini comprendesse nella categoria della nazionalità,
come s’è appena visto, oltre agli uomini anche le “acque”, ce lo rende
francamente sospetto. Eppure non è stato il solo patriota di spicco a
confondere il diritto (sia pure enunciato mezzo secolo dopo)
all’autodeterminazione dei popoli con quello all’eterodeterminazione
della terra e delle acque (prive di volontà propria in proposito o
comunque della facoltà di esprimerla).
Già nel 1855, Cesare Correnti, il primo ricognitore approfondito
dell’Italia geografica, munito di un pedigree ineccepibile in quanto ex
combattente delle “Cinque giornate” di Milano, e anche lui esule a
Torino dove era stato ricompensato con alte cariche burocratiche
(finì poi ministro, come il Mancini, dell’Italia unita), aveva ad
esempio mostrato di sapere come l’“alta valle dell’Adige” e le
“convalli occidentali delle Alpi Giulie” fossero “paesi popolati da
genti alemanne o slave. Ma poiché l’Italia non è che un’espressione
geografica, non si dee badare all’etnografia e alla politica e [si deve]
seguire l’inviolabile diritto della terra e l’imparziale testimonianza dei
fiumi e delle montagne”.
Tra la “nazione” (la lingua) e la “natura”, ormai disgiunte, questo
“nazionalista” optò per la seconda e ripeté, paradossalmente e
pedissequamente, l’affermazione di Metternich che tanto scandalo
aveva suscitato tra i patrioti italiani.
La teoria indigena dell’Italia-nazione si mostrava sempre più
improvvisata e contraddittoria via via che si trovava costretta a fare i
conti con la realtà. Apparve presto chiaro a tutti i suoi sostenitori che
non tutti gli “abitatori” del territorio situato entro i confini della
regione fossero “parlanti la stessa lingua” (e nessuno sapeva ancora
che non si trattava soltanto di tedeschi e di slavi). Prima di affrontare
questa querelle, che non è questione da poco, dobbiamo però
rammentare un altro paradosso.
L’Italia-stato, come ha scritto Émile Chanoux, il martire antifascista
valdostano, “non si fece una secondo un moto spontaneo di unione,
ma mediante una serie di annessioni delle diverse regioni allo Stato
accentrato piemontese” (ufficialmente “sardo” e storicamente
savoiardo, che per il proprio tornaconto si era fatto sponsor dell’idea
dell’Italia-nazione).
Questo Stato era, a partire dagli editti ducali del 1560, 1561 e 1577,
bilingue: lingue ufficiali n’erano, infatti, il francese (in Savoia e nel
resto del territorio transalpino, ma anche nella Valle d’Aosta e in Val
di Susa; e in seguito nelle alte valli Chisone e Varaita e parzialmente
nelle valli valdesi) e l’italiano (in tutto il resto del territorio
cisalpino). Dal 1718 al 1764 fu addirittura trilingue: lo spagnolo
rimase, infatti, per quarantasei anni la lingua ufficiale della Sardegna
sabauda.
Il Regno sabaudo d’Italia, istituito nel 1861, dopo la perdita della
Savoia (e di Nizza), non si dotò del resto di una Costituzione propria
ma mantenne, senza cambiarvi nemmeno una virgola, lo Statuto
“sardo” del 1848 e, con l’articolo 62 di questo Statuto, l’uso del
francese quale lingua ufficiale del Parlamento per i “membri”
provenienti dai “paesi in cui questa è in uso” (e tale uso non fu mai
ufficialmente revocato anche se sempre più scoraggiato).
Il patriota Giovenale Vegezzi Ruscalla, che aveva sostenuto nel 1854
“essere l’uniformità di lingua il primo vero, unico ed essenziale
elemento della nazionalità o, per dirla in altre parole, essere identiche
lingua e nazione”, vergò subito un opuscolo fiammeggiante intitolato
Necessità di abrogare il francese come lingua ufficiale in alcune valli
della provincia di Torino. Passò subito, anche lui, dalla Germania alla
Francia: e auspicò una politica che piegasse la “natura” alle ragioni
della “nazione”.
L’Italia unita nacque, insomma, senza essere del tutto unita dalla
lingua ufficiale e, soprattutto, essendo del tutto disunita dalla lingua
parlata (a questa verità, assai più profonda della prima, i nazionalisti
non sono approdati nemmeno oggi). Non va dimenticato che,
nell’Italia ancora da unire, il tedesco era, con l’italiano, lingua
ufficiale (anche se era tale soltanto nell’uso interno della pubblica
amministrazione) nel Regno Lombardo-Veneto, nel Trentino, nella
Principesca Contea di Gorizia e Gradisca, a Trieste e nell’Istria:
nonché lingua ufficiale tout court nell’odierno Alto Adige (mentre lo
sloveno e il croato cominciavano ad avere un uso ufficiale nella futura
Venezia Giulia).
I morti viventi
L’uso della lingua italiana si è progressivamente affermato anche nella
letteratura scientifica e tecnica, e così nella pubblicistica. E cominciò
ad essere insegnato nelle scuole allora esistenti (poche e con pochi
studenti). Ma l’ambito della sua diffusione è rimasto sempre
incredibilmente limitato in quanto al numero dei suoi fruitori. Nel
1806, Alessandro Manzoni, in una lettera a Fauriel, confidava che
l’italiano “può dirsi quasi come lingua morta”. Confermava, più di
due secoli dopo, la spassionata testimonianza di Davanzati.
Del resto, è risaputo che catechismi, lunari, gazzette, manuali di
tecnica agraria e militare e perfino di ostetricia venivano
abitualmente pubblicati nelle diverse “lingue popolari” (soprattutto
in quelle dall’identità più vistosa quali il sardo e il friulano). E che
dire del teatro, dalla commedia dell’arte alle pièces vernacole, in
massima parte consegnato alle lingue popolari?
Un’improvvisa mobilitazione in favore della lingua italiana, avvenuta
non solo nell’ambito ristretto dei suoi fruitori, fu provocato
dall’arrivo dei francesi: anche se Napoleone aveva ricostituito a
Firenze, nel 1808, l’Accademia della Crusca (sciolta dal granduca di
Toscana nel 1783) proprio per vegliare sulla “purezza” dell’italiano.
Ciò che Napoleone dava con una mano, toglieva, infatti, con l’altra:
imponendo il francese in alcuni dipartimenti di quella parte d’Italia
annessa direttamente al suo impero e affiancandolo all’italiano negli
altri.
Come in Spagna e in Germania, il nazionalismo francese ha generato
anche nell’Italia-regione, sia pure in modo meno diffuso ed evidente,
un nazionalismo linguistico uguale e contrario, che aveva a
disposizione, quale segno distintivo di prestigio, solo la lingua
italiana. Nessuno pensò di rivolgersi a quelle lingue popolari, così
vigorose in Italia, che il Romanticismo stava disseppellendo in tutta
Europa e che in altri paesi furono alla base della scoperta della
nazionalità.
Senza farla troppo lunga, diremo che, secondo Tullio De Mauro, nel
1861, all’atto della nascita del Regno d’Italia, su una popolazione di
22.212.000 abitanti, la lingua italiana era posseduta soltanto da
630.000 persone di cui 400.000 toscani (per i quali soltanto era la
lingua materna).
Tutti gli altri “italiani” non erano per nulla italiani nella lingua: non
soltanto nella lingua di tutti i giorni, ma nemmeno in quella della
domenica. L’analfabetismo di massa (78 per cento) non giustifica
questa misconoscenza: meno del 10 per cento degli alfabetizzati
usava infatti abitualmente la lingua italiana. Secondo la nostra stima,
il numero degli italiani che usavano allora la lingua italiana è di poco
superiore a quello degli italiani che usano oggi, con la stessa
padronanza, la lingua inglese. Se l’Italia-Stato avesse deciso di
sponsorizzare una lingua diversa dall’italiano, la lingua di Dante
sarebbe rimasta sospesa nel limbo dove gli studiosi compiono le loro
ricerche e sarebbe magari rivendicata, come lingua ingiustamente
“oppressa”, dai toscani, divenuti una minoranza linguistica.
Un parallelo, leggermente diacronico, con la situazione francese può
apparire indicativo. Nel 1790 (a duecentocinquantuno anni di
distanza dall’Editto di Villers-Cotteréts, che aveva reso obbligatorio
con la spada l’uso del francese in tutto il territorio di quello Stato),
secondo l’inchiesta dell’abbé Grégoire, soltanto 14.000.000 su
26.000.000 di cittadini francesi parlavano abitualmente la lingua
francese; 6.000.000 la intendevano a fatica e la parlicchiavano a
stento; 6.000.000 la ignoravano del tutto e parlavano altre (le loro)
lingue. Solo il 53 per cento dei cittadini era dunque in grado di usare
a tutti i livelli la lingua ufficiale: sembra poco ma è molto in
confronto al 2,5 per cento di cittadini italiani in grado, settantuno
anni dopo, secondo le stime di De Mauro, di fare lo stesso con la
lingua italiana.
Va tenuto presente che il francese è la forma standard di un sistema
dialettale comprendente molti dialetti (non soltanto il franciano ma
anche il normanno, il vallone, il piccardo, il borgognone, l’angioino, il
pittavino...), parlati “naturalmente”, allora, da 11.000.000 di persone,
le quali potevano riconoscersi in esso senza fatica e da 3.000.000 di
“convertiti” (alla sua forma standard). L’italiano sarebbe invece,
secondo le teorie più recenti, la forma standard di un sistema di
dialetti parlati allora, naturalmente, soltanto da 400.000 toscani e,
come tale, da 160.000 convertiti sparsi per tutta la regione
convenzionale (con in mezzo 70.000 romani: i còrsi, che avrebbero
potuto, anche se pochi, elevare il numero degli italofoni “naturali”,
erano cittadini della Francia-Stato e non dell’Italia-Stato).
Dopo un secolo di tentativi, di restrizioni e di incoraggiamenti, tutti
parzialmente falliti, lo Stato francese sferrò l’offensiva decisiva per la
francesizzazione integrale dei suoi abitanti soltanto nel 1881, quando
Jules Ferry impose per legge la scuola dell’obbligo con l’obbligo
dell’insegnamento in francese per tutte le materie: e, per essere più
sicuro, statalizzò nel 1884 tutte le scuole primarie. E applicò metodi
polizieschi per il rispetto di queste leggi.
In Francia, lo Stato-apparato è sempre stato efficiente: ma anche se
tutti i cittadini francesi sono oggi in grado di usare il francese in
(quasi) tutte le occasioni, si calcola che, su 57.000.000 d’abitanti
considerati “autoctoni” (escludendo gli immigrati, numerosissimi),
almeno 10.000.000 conoscano ancora, e talvolta usino, la loro lingua
materna, che è del tutto diversa dal francese. E molti ne rivendicano
un uso ufficiale.
In Italia, lo Stato-apparato è invece, come sappiamo,
tradizionalmente inefficiente. De Mauro ha calcolato che, “verso il
1955”, dopo quasi un secolo di esperimenti, di divieti e di lusinghe, di
scuola più o meno dell’obbligo, di leva militare e di mass-media,
parlava abitualmente italiano “non più dell’11-12 per cento della
popolazione, a cui si aggiungeva un 17-18 per cento che sapeva un po’
parlare italiano, ma parlava anche dialetto. Due terzi della
popolazione non sapevano parlare altro che il proprio dialetto, erano
completamente estranei all’uso di quella che nei libri si chiama la
lingua nazionale italiana, la lingua della patria”. Verrebbe da
aggiungere: alla faccia dell’Italia “una di lingua” del Risorgimento! Va
anche tenuto presente che questi dialetti appartengono a propri
sistemi che sono vere e proprie lingue prive di forma standard.
Nel censimento del 1951, quando ricomparve la voce “analfabeti”
che Mussolini aveva soppresso nei censimenti precedenti, il 12 per
cento dei cittadini si dichiarò ancora analfabeta.
Sarà stato per il benefico effetto della televisione oltre che per la
maggiore frequenza scolastica, ma oggi, sempre secondo De Mauro,
“c’è un 40 per cento di noi che parla sempre italiano”. Ma c’è anche
“un 46 per cento di persone che sanno parlare l’italiano più o meno
bene, ma continuano a tenersi stretto il loro dialetto”. Ne risulta che
“il 14 per cento ha difficoltà a parlare italiano (...) e parla solo il
proprio dialetto”. È un bilancio ignoto ai politici e ai giornalisti, e
nemmeno “lo sanno gli storici italiani, perché ritengono il fatto non
interessante”.
Ci piace riportare un aneddoto che può integrare quanto ha rilevato
De Mauro. Durante le olimpiadi invernali di Lillehammer (1994),
l’“International Herald Tribune” intervistò un’atleta “italiana”,
Gerda Weissensteiner. Alla domanda se conoscesse qualche lingua
straniera, l’ineffabile Gerda, altoatesina, rispose: “Parlo una sola
lingua straniera: l’italiano”. È un’affermazione che vale non soltanto
per la provincia di Bolzano.
D’altronde è ripreso, in questo secolo, l’uso colto del dialetto, inteso
addirittura quale “lingua d’arte” (ricorderemo soltanto i poeti Biagio
Marin e Albino Pierro). E friulani e sardi sperimentano alacremente,
ormai da decenni, le loro lingue popolari, nonostante la grafia
malcerta, nella narrativa, nella saggistica, nella prosa tecnica, nel
giornalismo anche radiotelevisivo e perfino nella musica rock.
E che dire dell’uso ininterrotto del napoletano, da Salvatore Di
Giacomo a Pino Daniele?
Lo straniero
In Italia, sia nella regione geografica sia nello Stato, il confine tra
“italiani” e “stranieri” è, è sempre stato, e continuerà ad essere,
intimamente labile. Eppure, il Leitmotiv dello “straniero” ne ha
ricamato, nell’ultimo secolo e mezzo, la storia.
Un celebre refrain patriottico recitava (anzi, cantava) in proposito:
“Va’ fuori d’Italia, va’ fuori, o stranier!” L’Italia-Stato è stata
realizzata proprio per scacciare dal suo territorio ogni straniero
possibile, nell’ignoranza del fatto che questo territorio era (e ancor
più si sarebbe rivelato in seguito) in larghissima parte “straniero”.
Il costume pre-risorgimentale intendeva come straniero chiunque
fosse suddito di un sovrano diverso dal proprio (sia che reggesse uno
Stato “italiano” sia che fosse alla testa di uno qualsiasi degli Stati
costituitisi fuori dell’Italia-regione). Sembra che il popolo più minuto
non fosse invece succubo di tale concezione: nemmeno quando
questa interessava gli Stati più lontani: “Franza o Spagna/purché se
magna”.
Agli inizi del XIX secolo, con la nascita del nazionalismo indigeno, lo
straniero si precisò in maniera più sottile come appartenente ad una
nazione diversa da quella ritenuta italiana (non soltanto Austria, ma
perfino “Croazia” e “Boemme”).
A rigore, ogni cittadino di uno qualsiasi degli Stati nei quali si
suddivideva allora la regione geografica convenzionale avrebbe
dovuto essere ritenuto (e spesso lo era) “straniero”, rispetto a ogni
cittadino di qualsiasi altro Stato della regione medesima. Esisteva
tuttavia, tra gli intellettuali nazionalisti “italiani”, la coscienza di una
fraternità, appunto “nazionale”, che li univa di là degli Stati che li
dividevano e delle lingue che parlavano abitualmente: Stati i quali
erano del resto tutti formalmente indipendenti o comunque
largamente autonomi, compreso il Lombardo-Veneto, il cui re era sì
l’imperatore austriaco ma che godeva, come hanno mostrato recenti
studi storici, di un’autonomia davvero sostanziale e fu sempre
governato da italiani (Pietro Verri e Cesare Beccaria non furono
dunque eccezioni).
Appariva invece, almeno giuridicamente, diversa la situazione del
Trentino (che era parte del Tirolo), della Contea di Gorizia e
Gradisca, di Trieste e dell’Istria, parti integranti della corona
austriaca; come a dire semplici Kronländer (ma erano anche zeppi di
tedeschi e di slavi).
I nazionalisti consideravano però stranieri, quando miravano in alto,
non soltanto l’imperatore d’Austria (che aveva sicuramente le mani
in pasta su gran parte dell’Italia-regione) ma anche i sovrani di molti
Stati italiani in quanto membri di dinastie di origine estera, imposti
ai popoli da congressi e trattati internazionali e sottoposti al gioco
politico determinato dalle grandi potenze (tra le quali,
preponderante, l’odiatissima Austria, dipinta sempre più con i colori
dell’antagonista nazionale unico).
In realtà, come aveva osservato il patriota Galeani Napione nel 1791,
gli unici due Stati italiani dotati di “sovrani naturali” (cioè autoctoni)
erano in quel momento lo Stato pontificio e la Repubblica di
Venezia. Poi, caduta Venezia, ne rimase uno solo (e oggi il papa è
polacco).
Galeani Napione sapeva bene che anche i Savoia erano stranieri al
pari dei Borbone e degli Asburgo-Lorena (anche se meno “illustri”).
Nel 1796, aveva partecipato a un celebre concorso di Milano (indetto
dagli occupanti francesi) sul destino politico dell’Italia, presentando
un progetto di confederazione tra undici repubbliche “italiane”, nel
quale aveva definito “tiranni” tanto i Savoia quanto gli Asburgo
(ponendoli sullo stesso piano). I nazionalisti risorgimentali finsero
poi di ignorare, o comunque di dimenticare, questa realtà per loro
amarissima.
La Giovine Italia di Mazzini si era rivelata, del resto, velleitaria,
inefficiente, astratta: la sua azione politica, fallimentare. I patrioti,
delusi (con Daniele Manin e Garibaldi in testa), si erano rifugiati,
realisticamente, sotto le ali della Società Nazionale, messa su a Torino
nel 1857 con dovizia di mezzi per abbinare gli interessi dell’Italia
unita con quelli della monarchia sabauda. L’ala federalista, priva di
braccia anche se folta di teste, si trovò fuori dal gioco, come quella, in
origine più forte di braccia e più vuota di testa, dei repubblicani
unitari.
Fatto ancora più grave: mentre molti sovrani stranieri avevano il
proprio Stato nella regione, i Savoia mantenevano il cuore (anche se
non la testa e il resto del corpo) nei loro domini di là dalle Alpi.
Ufficialmente bilingui, la loro lingua di cultura e di famiglia era il
francese.
Mentre Franceschiello e Canapone parlavano speditamente, sia pure
con un colorito locale forse eccessivo, l’italiano standard (e ne
rimangono saporite testimonianze), Vittorio Emanuele ebbe a
congratularsi con i suoi ufficiali, dopo la battaglia di San Martino,
con le spontanee parole, riportate da Umberto Eco: “Aujourd’hui,
nous avons donné aux Autrichiens une belle raclée”.
Il francese era la lingua della corte e del governo sabaudi. Lamarmora
non imparò mai l’italiano. Cavour e perfino Garibaldi avevano
difficoltà a scriverlo e l’ultimo cittadino “italiano” di lingua materna
francese, alla testa di un governo italiano, fu Pelloux (1898-1900).
D’altra parte, il fatto che uno Stato sia retto da una dinastia straniera
rappresenta la regola e non un’eccezione di per sé riprovevole o
addirittura dannosa. Lo sanno bene gli inglesi che hanno avuto come
sovrani i Plantageneti (francesi), i Tudor (gallesi), gli Stuart
(scozzesi), gli Orange (olandesi) e gli Hannover (tedeschi). Giorgio I,
col quale gli Hannover esordirono sul palcoscenico londinese, non si
preoccupò mai di imparare la lingua inglese e si privò
volontariamente di ogni dialogo con i propri sudditi (senza con
questo tradire una patria acquisita con indubbi e personali vantaggi).
Un altro paradosso della storia d’Italia è che l’Italia-Stato, motivata
dall’ansia di “liberarsi dallo straniero”, è sorta proprio grazie alle armi
dello straniero. Essa deve la propria nascita e il proprio
consolidamento a Napoleone III, di professione Empereur e a
Guglielmo I, di professione Kaiser.
Le tappe d’avvicinamento dello Stato sabaudo (in versione sempre
più italiana) ai confini stabiliti dai geografi generali, si devono, infatti,
soprattutto al “fattore S” (Bismarck definì l’Italia il paese delle “tre
S”).
Con la vittoria di Solferino (1859), dovuta ai francesi, l’Austria fu
costretta a cedere la Lombardia alla Francia che la girò al re di
Sardegna. Con la vittoria prussiana di Sadowa sugli austriaci (1866),
Vienna, che pure aveva sconfitto l’Italia, cedette alla Francia il
Veneto, che venne anch’esso graziosamente girato allo stesso re
(divenuto nel frattempo d’Italia). Con la vittoria prussiana di Sedan
(1870), i francesi sconfitti permisero finalmente ai bersaglieri di
agganciare Roma (privata bruscamente della tutela di Parigi)
all’Italia-Stato, attraverso la breccia di Porta Pia.
Un paradosso ulteriore: afferma Denis Mack Smith che l’Italia-Stato
“indipendente” fu “un modesto satellite della Francia” fino al 1870:
così come lo era stato il Ducato di Modena nei confronti dell’Austria
e assai più di quanto non fosse mai stato il Regno delle Due Sicilie nei
confronti della Spagna, dell’Austria e dell’Inghilterra (che pure non si
peritavano di intervenire costantemente nella sua politica estera e
interna).
In quanto alla percezione popolare degli stranieri, si rammenterà che
i “meridionali” sono spesso sentiti, dagli “altri italiani”, dopo l’unità
d’Italia e soprattutto a partire dal secondo dopoguerra, come tali
(“terroni”).
5.
Italia sì. Italia no
Un plebiscito al giorno...
La teoria “naturale” e quella “elettiva” della nazione vennero a
scontrarsi sul campo di battaglia durante la guerra franco-prussiana
del 1870 (quella che permise all’Italia-Stato di annettersi Roma, la
capitale designata e agognata, approfittando della sconfitta francese).
La vittoria prussiana portò all’annessione dell’Alsazia-Lorena da
parte dell’incipiente secondo Reich germanico di cui la Prussia
appariva ormai come magna pars.
L’Alsazia (con una parte della Lorena) era una terra
indubitabilmente di lingua tedesca, finita però nelle mani del re di
Francia durante il xvii secolo. Un secolo dopo, la Repubblica francese
“una e indivisibile” se la trovò dentro i propri confini. In omaggio ai
propri principi linguistici “democratici”, tentò subito di estirparvi la
lingua materna: quella lingua tedesca che perfino il re, nonostante il
vecchio Editto di Villers-Cotterets, aveva tollerato facendo buon viso
a cattivo gioco.
Il 17 dicembre 1793, il temibile Comitato di salute pubblica emanò
un decreto col quale interdisse l’uso della lingua tedesca in tutta
l’Alsazia-Lorena. Diramò conseguenti istruzioni perché ciò avvenisse
nel più breve tempo possibile. Il 3 marzo 1794, il prefetto del Basso
Reno, disperato, informò Parigi che in tutta l’Alsazia non era riuscito
a trovare un solo maestro o istruttore qualsiasi che conoscesse la
lingua francese. Gli unici che la conoscevano (ecclesiastici e
aristocratici, e nemmeno tutti) erano proprio tutti ennemis du peuple:
come avrebbero potuto insegnare al popolo alsaziano la sua “vera”
lingua?
La Repubblica francese fece di necessità virtù e si accontentò di un
blando regime provvisorio di bilinguismo. Il francese riuscì così,
durante un periodo di settant’anni, ad imporsi parzialmente presso
una cerchia d’intellettuali, d’imprenditori e, soprattutto, d’impiegati
pubblici (che dovevano alla conoscenza della lingua di Stato il loro
impiego): alla borghesia alsaziana era necessario, d’altronde, il
mercato francese, e la retorica patriottarda aveva nel tempo fatto
breccia in una parte della pubblica opinione. La maggioranza degli
alsaziani rivendicava invece quell’autonomia di cui aveva goduto per
secoli, nell’ultimo anche sotto il re di Francia. Gli irredentisti
tedeschi erano invero pochissimi.
La Francia considerò la perdita dell’Alsazia-Lorena come un affronto
alla propria “unità nazionale”.
Il Reich considerò l’acquisizione dell’Alsazia-Lorena come un altro
passo in avanti sulla via della propria “unità nazionale”.
Ne nacque una polemica puntigliosa che riverberò anche in Italia.
Crispi si schierò dalla parte dei tedeschi, ricorrendo alle stesse
argomentazioni che erano state alla base del Risorgimento, ma una
buona parte dell’opinione pubblica italiana militò invece a favore
della posizione francese. L’Italia era ormai uno Stato e l’intangibilità
dei confini esistenti stava diventando per molti l’ossessione
preminente. E poi, la Francia era sempre una repubblica
“democratica” e il Reich un appannaggio “semifeudale” del Kaiser
(anche se il Kaiser aveva accordato all’Alsazia un’autonomia formale,
tutelandovi perfino la lingua francese, che Parigi non aveva mai
concesso).
L’Alsazia-Lorena tornò alla Francia soltanto nel 1918, dopo la
sconfitta degli Imperi centrali nella prima guerra mondiale, e non
poté godere dei “benefici” della francesizzazione forzata pilotata da
Ferry. Durante i quarantotto anni di “separazione”, il nazionalismo
francese non mancò di tenere desta la questione alsaziana. Questa
mobilitazione permanente fornì alla teoria “elettiva” della nazione un
contributo teorico-demagogico importante, dovuto all’abilità
oratoria di Ernest Renan (il quale credeva in buona fede, come quasi
tutti i francesi e i loro supporter sparsi per il mondo, anche in Italia,
che esistesse davvero in Alsazia-Lorena un vigoroso irredentismo
francofilo).
In un celebre discorso, pronunciato alla Sorbona nel 1882 (Qu’est-ce
qu’une nation?), Renan coniò una definizione tanto retorica quanto
commovente: “L’uomo è un essere razionale e morale prima di
parlare una lingua o l’altra [...]. Una nazione è una grande solidarietà
creata dal sentimento dei sacrifici comuni che sono stati fatti e che
siamo disposti a fare in futuro, il desiderio chiaramente espresso di
continuare la vita in comune. L’esistenza di una nazione è un
plebiscito di tutti i giorni”.
Sorvoliamo pure sul calcolo dei “sacrifici comuni” fatti o da fare, e
soffermiamoci invece sul “plebiscito di tutti i giorni”: si può barare
sui sacrifici, ma non sui plebisciti. I plebisciti vanno fatti, infatti, per
davvero, anche se non “tutti i giorni”: ancora oggi, con la rivoluzione
telematica in atto, ciò sarebbe tecnicamente impossibile (figuriamoci
nel 1882).
Per apparire credibile, Renan avrebbe dovuto sostenere, senza tradire
il suo stesso punto di vista (che non ammetteva “nazioni
inconsapevoli”), che “l’esistenza di una nazione è un plebiscito da
tenersi ogni due (o quattro o anche cinque) anni”. E senza dare per
scontato il suo risultato, come invece aveva fatto senza ricorrere
nemmeno a uno straccio di sondaggio o di exit-poll.
Le opinioni degli uomini mutano, come si sa, nel tempo, ed è saggia
norma verificarle periodicamente (è il succo stesso della democrazia).
La Francia, riconquistata con le armi l’Alsazia-Lorena, si guardò bene
dall’indirvi un referendum, sia pure di un giorno solo, per rendersi
conto della reale volontà degli alsaziani in proposito. Il risultato fu la
nascita di un vigoroso movimento autonomista, sempre più intinto
di pangermanesimo, che portò, durante l’occupazione militare
tedesca (avvenuta una ventina d’anni dopo nel corso della seconda
guerra mondiale), ad un collaborazionismo diffuso che vide, tra i suoi
protagonisti, persino la federazione alsaziana del Partito comunista.
Il discorso sul plebiscito interessa anche l’Italia-Stato, che ha fatto
finta di nascere proprio attraverso il ricorso a questo strumento
(inventato dai francesi) e proprio per questa ragione, considerati i
quesiti referendari proposti, qualifica tecnicamente l’“unità (al solito)
nazionale” come una pura e semplice annessione al Regno di
Sardegna (che era, lo ripetiamo, lo Stato meno “italiano” di tutti).
Diremo, come premessa alla democrazia referendaria sabauda e senza
spingerci troppo indietro nel tempo, che la povera Lombardia venne
annessa nel 1859, senza alcun plebiscito e in virtù di un “dono”
(contrattato con la cessione della Savoia e del Nizzardo) da parte
della Francia (che aveva sconfitto l’Austria) all’alleato “sardo” in
occasione della cosiddetta “seconda guerra di indipendenza”.
Aleggiava tuttavia, sull’annessione, un tenue precedente.
Undici anni prima, era avvenuta l’insurrezione milanese nota come le
“Cinque giornate”. Uno dei leader dell’insurrezione fu Carlo
Cattaneo, convinto federalista le cui fortune di pensatore politico,
dopo un oscuramento di Stato promosso ed esercitato dal regno
sabaudo e dal fascismo, stanno rinascendo oggi nell’Italia-stato a
causa della pur modesta ondata neo-federalista.
Cattaneo, suddito per nascita e residenza del Regno Lombardo
Veneto, il cui sovrano era l’imperatore austriaco, aveva studiato in un
liceo “italiano” (Sant’Alessandro di Milano), insegnato in un altro
liceo “italiano” (Santa Marta di Milano), collaborato ad un giornale
“italiano” (“Il Conciliatore” di Milano), si era laureato presso
l’Università “italiana” di Pavia, aveva collaborato con l’editore “in
lingua italiana” Lampato di Milano, aveva fondato e diretto a Milano
un periodico “italiano” importantissimo e giustamente famoso (“Il
Politecnico”), era membro della più prestigiosa istituzione culturale
(“italiana”) del regno di cui era suddito: l’Istituto, appunto,
Lombardo-Veneto.
La sua biografia testimonia, se non altro, il rispetto enorme
dell’imperatore nei confronti della lingua di cultura dei suoi sudditi
lombardo-veneti (italiani di nome ma forse, chissà, padani di fatto).
Tuttavia, l’imperatore era e rimaneva un sovrano, per molti aspetti,
assoluto.
Cattaneo ritenne opportuno partecipare all’insurrezione (scaturita
alla notizia dell’insurrezione “democratica” di Vienna) per strappare
all’imperatore la libertà di stampa, il servizio militare dei lombardo
veneti in casa propria e un riconoscimento ufficiale della Volksstamm
“italiana” dell’impero (frazionata in istituzioni politico
amministrative diverse: lo stesso Regno Lombardo-Veneto era
formato da due regioni autonome, la Lombardia e il Veneto) quale
componente unica e unita di un’Austria federale. Un’Italia per il
momento “austriaca” da allargarsi poi, in forme nuove, al resto della
supposta nazione italiana, al limite (e negli auspici) svincolandosi
dall’Austria medesima ed entrando a far parte di una “Federazione
italiana”.
Cattaneo diffidava profondamente del re di Sardegna, che riteneva
un tiranno al pari dell’imperatore (e il cui Stato aveva condannato,
giustiziato, imprigionato tanti nazionalisti italiani) e delle sue mire
espansionistiche. Carlo Alberto aveva, del resto, promesso ben
40.000 fucili agli insorti senza mandarne nemmeno uno. Gli insorti
tuttavia cacciarono gli austriaci con le loro sole forze.
Il giorno dopo la loro vittoria, il re di Sardegna approfittò
dell’occasione favorevole (e di qualche altro focolaio insurrezionale
sparso per l’Italia-regione) per dichiarare guerra all’Austria. Il suo
esercito ricevette perfino l’aiuto d’alcuni contingenti toscani,
pontifici e “bisiciliani” (un aiuto in realtà scarso, contraddittorio e
infine revocato) che testimoniava se non altro una motivazione
panitaliana. L’ipotesi prevalente era, infatti, in quel momento, quella
di un’unione politica, di tipo confederale, tra gli Stati “italiani”.
Il 26 marzo, l’esercito “sardo” entrò in Milano. Il governo provvisorio
milanese, di cui era segretario generale quel Correnti più volte citato
su queste pagine, rifiutò la dedizione immediata della città al re di
Sardegna e prese tempo per discutere i modi di un’eventuale
annessione contrattata. Il 31 marzo, Cattaneo, contrario a qualunque
annessione, si dimise dal Consiglio di guerra e si ritirò nel Canton
Ticino.
Il 10 maggio, il Consiglio del governo provvisorio della Lombardia
decise di “porre la votazione sulla fusione della Lombardia col
Piemonte in un solo Stato in modo da formare una monarchia con la
dinastia di Savoia, ritenuto però che una sola assemblea debba
regolare le basi della futura Costituzione della Monarchia dell’Italia
Superiore”. Si noti bene che non si parlava di unità d’Italia ma solo di
unità dell’Italia Superiore (ciò che oggi si chiama Padania).
Il 12 maggio, fu varata la legge di indizione di un referendum
attraverso il quale il popolo decidesse per la fusione immediata
oppure per una fusione differita nel tempo, referendum che si tenne
l’8 giugno. Vinse la fusione immediata (su 661.000 aventi diritto,
561.000 scelsero questa opzione). La fusione immediata venne così
dichiarata dal Consiglio lombardo con l’avvertimento che,
contestualmente, venissero sciolte le Camere piemontesi; fossero
indette nei due Stati elezioni a suffragio universale per un’assemblea
generale costituente la quale stabilisse “le basi e le forme di una nuova
Monarchia Costituzionale con la dinastia dei Savoia”; e fosse formato
immediatamente un governo misto residente a Milano che gestisse
queste elezioni.
Il 25 luglio, quando, dopo essere stato sconfitto a Custoza, Carlo
Alberto abbandonò Milano tra l’ostilità della popolazione furente e
delusa, Correnti, insieme con Maestri (l’inventore dei
“compartimenti statistici” del futuro Regno d’Italia), ritenne
opportuno seguirlo a Torino.
Quando, nel 1859, col nuovo re Vittorio Emanuele II in testa (anche
se al fianco dell’alleato vincente, Napoleone III, imperatore dei
francesi), le truppe “sarde” rientrarono a Milano, la Lombardia (fino
al Mincio) venne annessa dai Savoia senza un nuovo plebiscito e
senza alcuna Costituzione concordata (secondo quanto era stato
stabilito dal plebiscito lombardo del 1848, ormai sbiadito e di sicuro
non più valido).
Lungi dal trasferire la capitale a Milano e di eleggere un nuovo
parlamento che varasse una nuova Costituzione, il Regno di Sardegna
vi estese immediatamente il proprio ordinamento amministrativo e le
proprie leggi: un’eredità ricevuta da Napoleone e sostanzialmente
mantenuta nonostante la Restaurazione.
Dal suo esilio, Cattaneo scrisse poco dopo, con cognizione di causa,
che “il Piemonte, pur addensando in sei mesi i progressi d’un secolo
(era) inferiore in diritto penale alla Toscana, in diritto civile a Parma,
in ordinamenti comunali alla Lombardia”. Con queste premesse,
sostenne Cattaneo, il “vituperio” non era “che il popolo preferisse le
leggi austriache alle italiane”, ma che “le leggi italiane potessero
apparire peggiori delle austriache”. E purtroppo era davvero così. O
meglio: così sembrava.
Il diritto comunale lombardo (validissimo e avanzato), promulgato
dagli austriaci con un editto del 1755, era, infatti, opera del toscano
Pompeo Neri e quindi “di fonte prettamente italiana”, mentre
l’ordinamento che il re di Sardegna impose alla Lombardia era di
marca, altrettanto prettamente, “francese” (come Cattaneo non perse
l’occasione di rilevare).
Le regioni annunciate
“Fatta l’Italia bisogna fare gli italiani”. Politici, giornalisti e studiosi
vari attribuiscono, abitualmente, questa frase, così sintomatica, al
povero Massimo d’Azeglio. In realtà, fu pronunciata da Ferdinando
Martini, nel 1896, all’indomani della sconfitta d’Adua, e conteneva
un’esortazione pedagogica di carattere soprattutto militare. Possibile
che l’esercito di uno Stato che si riteneva già una grande potenza e si
era buttato a capofitto, sia pure con grave ritardo, su quel poco di
Africa che rimaneva ancora da conquistare, fosse riuscito a prenderne
tante, e tanto sode, dagli “indigeni”? Bisognava fare, al più presto,
degli italiani un popolo di veri combattenti.
D’Azeglio aveva pronunciato una frase simile, ma sostanzialmente
diversa, all’indomani stesso della proclamazione del Regno d’Italia:
“Purtroppo s’è fatta l’Italia ma non si fanno gli italiani”. Si era
accorto delle differenze enormi che esistevano tra le varie popolazioni
appena aggregate: differenza d’idiomi, di carattere, di mentalità,
d’abitudini, di storia, d’origine, di prospettive. Dove era nascosto il
tanto conclamato “carattere nazionale” degli italiani, quello che
avrebbe dovuto non soltanto giustificare ma soprattutto garantire
l’istituzione di uno Stato proprio?
Questo “carattere” proprio non c’era: e, visto che ci si era ormai
spenzolati fin troppo e ci si trovava oggettivamente aggrappati
all’orlo di un baratro, bisognava costruirlo al più presto, questo
carattere: per non precipitare. Bisognava “fare” gli italiani (e non gli
indiani). In realtà, non c’era nemmeno l’Italia (e abbiamo visto come
e perché) e, anche se ci fosse stata, ne mancavano ancora troppi pezzi
da raccogliere in fretta (prospettiva, da questo punto di vista,
tutt’altro che allegra in quanto avrebbe ingigantito la mancanza di
un’identità di fondo).
Giovanni Antonio Ranza, che non era uno sprovveduto, aveva
provveduto ad avvertire per tempo, già nel 1796 (esattamente un
secolo prima): “L’Italia, al contrario della Francia, è divisa in molti
Stati da parecchi secoli, Stati diversi di costume, di massime, di
dialetti, di interessi; Stati che nutrono vicendevolmente
un’avversione gli uni agli altri. Ora il voler unire questi Stati [...] in un
solo governo, in un solo Stato, con una sola Costituzione, è lo stesso
che cercare il moto perpetuo e la pietra filosofale”. I nazionalisti
avevano, col loro entusiasmo, sorvolato su queste “piccole” difficoltà.
Per unire ciò che appariva, ad Italia-Stato appena fatta e perfino ad
occhio nudo, troppo diverso e diviso, s’imponeva l’uso immediato di
un collante a presa rapida e, soprattutto, tenace. Ma erano necessari
artigiani provetti, in grado di spalmarlo a regola d’arte.
Il mastice era comunque già stato importato in dosi massicce: erano
le leggi e l’ordinamento amministrativo della Francia. Ma era un
mastice che, col clima italiano, non dava garanzie né di presa né di
durata (e lo si sarebbe constatato in seguito). Conveniva, infatti,
imitare la Germania, che proprio in quegli anni avrebbe raggiunto la
propria unità nazionale attraverso la via, realistica e sorniona, della
confederazione tra gli Stati esistenti. I nazionalisti italiani, che
avevano imitato la Germania nella loro idea di nazione, imitarono
invece, una volta al governo, la Francia (per altro già realizzata) nei
modi di realizzarla.
Deciso irrevocabilmente l’impiego del mastice francese, ci furono,
almeno all’inizio, alcune perplessità su come spalmarlo. Le tessere del
mosaico “italiano” andavano ricoperte con uno strato spesso e
impenetrabile oppure conveniva lasciarle “respirare”,
assecondandone i movimenti di assestamento, con uno strato leggero
ed elastico?
Cavour, in cuor suo, preferiva la seconda ipotesi di lavorazione.
Nell’ottobre del 1860, aveva scritto una lettera al siciliano Giacinto
Carini nella quale diceva: “Il Parlamento, che accoglierà i deputati di
tutte le popolazioni italiane, non disconoscerà certo i bisogni di
ciascuna di esse [...]. La Sicilia può fare affidamento sul ministero
onde promuovere l’adozione di un sistema di larghissimo
discentramento amministrativo. Abbiamo introdotto il sistema delle
regioni, sta al Parlamento il fecondarlo”.
Ecco enunciato, forse per la prima volta, l’alibi terminologico del
“regionalismo”, inteso come semplice “discentramento
amministrativo” e non come regime di autonomie: un regionalismo
che non fu mai fatto dal regno ma che permise, un secolo dopo, alla
repubblica, realizzandolo, di mantenere l’assetto centralistico dello
Stato (anche se le regioni repubblicane saranno dotate di consigli
elettivi e di minime quanto ridicole competenze legislative del tutto
secondarie).
Al parlamento di Torino, questo cosiddetto “sistema delle regioni” fu
comunque presentato dal ministro Minghetti tempestivamente: nel
marzo del 1861, durante il primo mese della legislatura unitaria. Ma
non fu mai preso sul serio e venne presto dimenticato. In realtà, a
rileggerlo, appare subito per quello che era: un’ipotesi per il miglior
funzionamento della macchina dello Stato centralista quale doveva
realizzarsi a tappe forzate.
Si andava, infatti, avanti col mastice francese: il territorio iniziale
cominciò a essere diviso in 59 province (sostanzialmente le stesse
esistenti negli Stati pre-unitari) sul rigido modello dei primi 83
dipartimenti francesi, e a capo di ognuna di esse fu posto (e imposto)
un prefetto (anche se si dovrà aspettare il 1865 per un’organizzazione
più meticolosa). Secondo Minghetti, si trattava di congegnare un
meccanismo in grado di impartire in modo efficace le disposizioni del
governo e della burocrazia centrale alla burocrazia periferica, a dire il
vero un po’ troppo lontana e dispersa, nonché per controllarla più da
vicino, attraverso il perno intermedio delle regioni, a capo delle quali
era, infatti, previsto un governatore. Si voleva insomma applicare il
principio della “region di Stato” e non quello delle ragioni dei popoli
ormai sottomessi.
La morte repentina di Cavour, avvenuta nel giugno del 1861, segnò
la fine del progetto Minghetti. A Cavour successe, infatti, il barone
Bettino Ricasoli, quello che aveva mandato per file indiane affiancate
i contadini toscani a votare “per la Nazione” ai tempi del plebiscito.
Per colmo di sventura, il “barone di ferro” (questo il soprannome che
si era guadagnato prima nei campi e poi sul campo) si trovò subito
alle prese col “brigantaggio” meridionale. Ad un falso Risorgimento
non ancora compiuto, si contrapponevano possibili (e assai più
attendibili) risorgimenti degli Stati appena soppressi e ingoiati.
Ricasoli prese paura e sciolse perfino le “luogotenenze” che, nella
prospettiva più biecamente unitaria, erano state istituite nei territori
fagocitati per gestire una transizione complessa. Addio regioni: e giù
col mastice, fino a cercare di nascondere ogni interstizio, ogni crepa,
ogni minima incrinatura.
D’altronde, come succede sempre in Italia, si volevano fare alcune
cose senza nemmeno sapere che cosa fossero. È il caso delle regioni
minghettiane (e sarà il caso delle regioni promulgate dalla
Costituzione repubblicana del 1948).
A dire il vero, il significato della parola “regione” appare così vasto e
vario che il termine “nazione”, al confronto, rischia di apparirci
chiarissimo. Ci sono, infatti, regioni dappertutto: in medicina c’è la
regione toracica, e in filosofia, almeno secondo il pensiero di Edmund
Husserl, c’è la regione ontologica. Perfino in geografia c’è la regione
dell’Europa meridionale al cui interno (in un gioco di scatolette
cinesi) è collocata la regione dell’Italia che contiene la regione della
Toscana che contiene a sua volta la regione del Mugello.
Il termine latino regio (da regere, “dirigere”, da cui anche rex) venne
inteso e impiegato dai romani in senso territoriale per indicare alcune
divisioni amministrative: le 14 regioni nelle quali era divisa Roma e le
11 regioni nelle quali era divisa l’Italia ai tempi di Augusto; oppure le
12 (poi 17) province nelle quali era divisa la diocesi italiciana di
Diocleziano. L’Italia di Augusto, tramite queste regioni, venne divisa
secondo criteri che si direbbero oggi “nazionali”, sia pure interpretati
in maniera grossolana e con qualche eccezione maliziosa. E allora: gli
etruschi nella regio VII Etruria, i liguri nella regio IX Liguria, i galli
transpadani nella regio XI (Gallia) Transpadana e quelli cispadani (o
almeno la loro parte più consistente) nella regio VIII Aemilia
(preferendo al loro nome etnico quello della strada imperiale che ne
attraversava il territorio). E così via.
Perduta ogni divisione amministrativa romana, le tracce di queste
regioni restarono a lungo nella memoria degli intellettuali. Nel XVI
secolo, due autori che si dilettavano di geografia, Flavio Biondo e
Leandro Alberti, cercarono invano di ravvisarne l’eredità sul
territorio: l’Italia-regione aveva smarrito le sue regioni romane per
dividersi in Stati che ne scavalcavano gli antichi confini. Dopo la fine
della romanizzazione, la nascita dei volgari e dei dialetti aveva poi
prodotto nuove divisioni linguistiche, in parte condizionate dai
vecchi idiomi (che vi rimanevano come sostrati), che non
corrispondevano però né alle vecchie “regioni” né ai nuovi Stati.
Corrispondevano però a comunità territoriali, non soltanto culturali
ma anche economiche: le lingue sorgono e si compattano, secondo
Lausberg, per le esigenze del mercato.
Furono al solito i francesi, con la loro mania dei bacini idrografici, a
dare il cattivo esempio e a riportare di moda la parola in Italia.
Regionamenti
Accadde così che Carlo Frilli, nel 1834, individuasse 21 “clivi” o
“versanti” e riuscisse a cavarne 14 “regioni naturali”, escludendo le
isole. Ma la via degli spartiacque, come fu subito chiaro ai pochi che si
dilettavano di questi problemi, non avrebbe portato lontano.
Cesare Correnti era ormai pronto ad offrire il suo contributo
decisivo. Tentò di contemperare i bacini idrografici con la storia, le
tradizioni, l’economia e perfino (pur sapendone poco) i dialetti.
Benché esule a Torino, riuscì a pubblicare nel 1852, a Milano,
sull’almanacco “Nipote di Vesta verde”, i primi risultati della sua
ricognizione ad ampio raggio.
Fu un evento fondamentale, del quale nessun politico e storico
mostra di essersi accorto (i geografi lo conoscono invece benissimo),
dal quale discende, pur con qualche aggiustamento successivo,
l’attuale ordinamento regionale (e “regionalista”) dello Stato italiano.
Sotto il titolo Fisonomia delle regioni italiche fu dunque pubblicato
un primo elenco di regioni (erano sedici) i cui nomi appaiono oggi
perlomeno bizzarri. Accanto a Sicilia, Sardegna, Corsica e Istria,
apparvero Pedemontana (Piemonte), Transpadana (Lombardia),
Cispadana (Emilia), Adriatica (Veneto) e così via, fino a Bipenisola
estrema (Calabria).
Nel 1855, sempre sullo stesso almanacco, Correnti presentò un
nuovo e più ponderato elenco, all’interno di un saggio intitolato Cosa
nostra. Le regioni erano diventate diciannove ed erano avvenuti
accorpamenti, scissioni e nuove ipotesi in quanto ai nomi da
assegnare. Rimasero le tre isole e ne comparve, come regione, una
quarta: Malta, scorporata dalla Sicilia. L’Istria fu invece inserita nella
“Frontiera orientale”. Al posto della Transpadana comparve una
“Media valle alpino-eridania” (in alternativa, “Terra dei laghi”). E
così via, con nomi di fantasia sempre più elaborati.
Come il precedente, l’elenco del 1855 era relativo all’Italia nazional
naturale intesa nel suo complesso: la Dalmazia e la Savoia (ancora
appartenente al Regno di Sardegna) non vi erano comprese mentre vi
comparivano Nizza, Monaco, il Canton Ticino, la Val Mesolcina
(ma non le valli Calanca, Bregaglia e Poschiavo), l’alta valle
dell’Adige, Gorizia, Trieste e San Marino. Era questa, secondo i
nazionalisti convertiti alla causa sabauda (ma anche per quasi tutti gli
altri), l’Italia “da fare” che non fu mai fatta (per intero).
Quando il ministro Minghetti, sei anni dopo, fatta ormai l’Italia che
allora si poteva fare, presentò alla Camera lo sfortunato progetto
regionalista preannunciato da Cavour, le sue idee in proposito
apparvero tuttavia assai meno chiare che in Correnti. Il progetto era
preceduto da una “presentazione” che sembrava una pièce del “teatro
dell’assurdo”. Pur ribadendo la necessità assoluta di istituire subito le
“regioni”, vi si affermava anche che non si sapeva ancora quali, quante
e dove fossero, ad esclusione della Sicilia e della Sardegna. Tuttavia
non c’era da preoccuparsi troppo in quanto l’articolo 24 affermava
perentoriamente: “L’individuazione delle regioni dovrà essere
compiuta entro un anno dall’entrata in vigore della legge”.
Come avremo tutto l’agio e la sorpresa di apprendere, l’Assemblea
Costituente della Repubblica Italiana, ottantasette anni dopo,
reclamata la necessità d’introdurre finalmente l’ordinamento
regionale, si trovò nelle stesse condizioni di Minghetti e si comportò
peggio perché “fece” le regioni senza aver saputo, nel frattempo,
quante, che cosa e dove fossero.
L’equivoco nacque proprio nel 1861, quando Maestri, l’“eroe” delle
“Cinque giornate” di Milano, rifugiato da tempo a Torino insieme al
compare Correnti (dopo che entrambi avevano “tradito”
l’intransigente Cattaneo), fu incaricato di redigere gli Annuari
statistici del Regno d’Italia. Si trovò costretto, in un paio d’anni, ad
inventare un quadro di riferimento territoriale da usarsi come
strumento tecnico per raggruppare, in modo leggibile e non troppo
frammentato, i dati statistici che gli sarebbero venuti dalle province.
Maestri aveva, sotto una mano, le province già istituite, e, sotto
l’altra, le regioni di Correnti. Fuse le due cose istituendo i
“compartimenti”, meri raggruppamenti di province confinanti tra
loro. Non aveva, del resto, nessun obbligo di ripartire, da un punto di
vista politico e amministrativo, il territorio del regno, come era
accaduto invece al povero Minghetti. Maestri doveva soltanto
raccogliere ed etichettare molti numeri.
A scanso d’equivoci, sentì il bisogno di dichiarare pubblicamente che
i suoi compartimenti non corrispondevano né volevano
corrispondere a nessuna “definizione scientifica e definitiva del
territorio nazionale, resa impossibile dall’arretratezza degli studi”.
Lanciò, tra le righe, l’esortazione (che rimarrà purtroppo inascoltata):
“Italia, conosci te stessa!”
L’ispirazione all’“arretrato” Correnti era comunque evidente, anche
se la Corsica e Malta vennero espunte per ragioni di diplomazia
internazionale. Le diciassette regioni rimastegli furono tradotte in
diciotto compartimenti attraverso una maggiore suddivisione della
penisola (comparvero l’Umbria e la Basilicata) e l’accorpamento della
“Media valle appennino-eridania” e del “Triangolo Po-Adriatico
Appennino” nell’Emilia.
Come si vede, Maestri cominciò a dotare di nomi meno complessi e
cervellotici i suoi compartimenti, ispirandosi sia pure a vanvera alle
regioni romane dell’Italia augustea: Liguria, Emilia, Umbria,
Campania, Puglia (Apulia), Lazio, Venezia, Rezia e l’inedita Giulia
(negli ultimi quattro casi giocò d’anticipo col destino). Accettò
alcuni nomi coniati dai precedenti Stati, quali Abruzzi e Calabria
(che nell’Italia augustea e dioclezianea designava il Salento e non il
Bruttium).
Al termine latino di Lucania preferì quello greco di Basilicata. Seguì
l’Austria, e non Correnti, accettando il nome Lombardia. Usò un
termine soltanto descrittivo per il Piemonte. Preferì Toscana
(nonostante il granducato si chiamasse così) ad Etruria e a Tuscia.
Coniò il plurale Marche per designare ciò che una volta era stata una
marca di confine del “primo” Regno d’Italia (la cui capitale
marchionale aveva però oscillato tra Fermo, Ancona e Camerino).
Lasciò intatto il nome delle due isole.
Il glottologo Ascoli fu di grande aiuto ai successori di Maestri quando
lanciò, nel 1863, l’ipotesi di dividere, ad unificazione avvenuta, la
“Venetia et Histria” romana in Venezia propria o euganea, Venezia
retica o tridentina e Venezia giulia.
A partire dal 1863, gli annuari statistici dell’Italia-Stato hanno
riportato, puntualmente, i loro bravi dati incolonnati sotto questi
nomi e sotto il titolo generale di “compartimenti”. Via via che l’unità
procedeva, si aggiungevano i compartimenti giudiziosamente previsti.
Poi, un improvviso fulmine a ciel sereno. L’annuario del 1912
presentò inopinatamente, in luogo della dizione “compartimenti”, la
dizione “regioni”. I motivi di questa rivoluzione terminologica sono
stati attribuiti, dal geografo Gambi, a “ministeriale confusione e
ignoranza” e i responsabili individuati soltanto nella burocrazia
governativa. La nuova dizione sfuggì ai più, non venne mai revocata e,
col tempo, si diffuse purtroppo nell’uso comune, con crescente
scandalo dei geografi che si stavano allora già accapigliando sulla
divisione “scientifica” dell’Italia in regioni naturali plausibili e si
trovarono sotto gli occhi una divisione casuale, raffazzonata e
inammissibile.
Purtroppo, sempre per inammissibile “confusione e ignoranza”, i
nostri padri costituenti, quando decideranno la “regionalizzazione”
dello Stato (per ribadirne l’assetto centralista e rigettare ogni chimera
o medusa federalista, all’insegna della continuità sostanziale col
fascismo e la monarchia), assumeranno proprio queste regioni
compartimenti statistici quali soggetti del nuovo ordinamento
autonomistico. Di qui le comprensibili, acute proteste della
corporazione dei geografi (che aveva abbandonato le regioni
“naturali” e cercava di inviduarne invece di “funzionali”), le loro
grida, i loro precipitosi interventi e convegni che rimarranno
purtroppo inascoltati.
Se abbiamo indugiato a lungo sui compartimenti e i loro nomi, lo
abbiamo fatto perché il cittadino italiano medio, così come crede
nelle nazioni confondendole con gli Stati, crede anche nelle regioni
che si trova oggi davanti agli occhi, come se fossero sempre esistite
(nei loro attuali confini e con questi nomi) e fossero investite di
un’identità perlomeno storica che, assolutamente, non possiedono.
Sono, infatti, semplici accozzaglie, oltre tutto recenti, di province
(anch’esse, del resto, accozzate con poco criterio e soltanto
amministrativo). Per fortuna, il cittadino italiano medio, anche se
crede nella finzione giuridica delle regioni, non se ne lascia
coinvolgere emotivamente.
Da tutto quanto abbiamo raccolto finora, a proposito dei dati offerti
dalla geografia fisica, dalla storia, dalla genetica e dalla linguistica (cui
si possono aggiungere i dati dell’economia e della società civile)
emerge invece, chiaramente, una divisione reale dell’Italia-Stato che
non corrisponde a ciò che viene abitualmente definito come
“regione”. Ed è di qui che bisogna partire per comprendere la crisi
vera, e profonda, dello Stato italiano: per cercare di uscirne nell’unico
modo (forse non più) possibile.
Del resto, perfino alcuni “pensatori” del Risorgimento avevano
subodorato questa realtà profonda usando in proposito la categoria,
certo impropria e magari subalterna, della “subnazionalità”.
Nel 1846, per esempio, Giacomo Durando, nel suo saggio Della
nazionalità italiana, aveva scritto: “Noi siamo quasi sette nazioni o se
meglio vi piace sette sub-nazionalità”. Senza dubbio, Durando
confondeva la subnazionalità con l’appartenenza agli Stati pre
unitari, così come Raffaello Busacca quando scrisse, in pieno 1848:
“Il sentimento nuovo è quello della nazionalità italiana [ma] il
sentimento di subnazionalità, lungi dallo svanire [...] si è dirozzato”,
lasciando forse intendere qualcosa d’altro.
Perfino l’ineffabile Correnti usò il termine “subnazionalità” e, pur
frammentando l’Italia nazional-naturale in regioni di piccola taglia
per ragioni in fondo politiche (più si divide e più si comanda),
espresse qualche dubbio sul suo stesso operato: “La gran valle del Po
costituisce una regione organica e complessiva, le cui divisioni sono
politiche e storiche più che naturali: e però molti scrittori non
dividono l’Italia che in continentale e peninsulare”. Un parere
davvero azzeccato.
Ad ogni modo, il Regno d’Italia non istituì mai né le regioni (anche
se nel 1870 Stefano Jacini e il conte Ponza di San Martino le
riproposero invano, sempre come soggetti del decentramento
amministrativo) né, tantomeno, le subnazioni o in che altro modo
potessero essere chiamate le grandi aree culturali, territoriali e
linguistiche delle quali appariva oggettivamente composto.
Mezzogiorno di fuoco
Il vero alleato “meridionale” del grande capitale del Nord non furono
gli agrari (come sostenne Gramsci) ma il ceto medio: o almeno una
sua parte consistente. Fu grazie alla sua collaborazione che lo Stato
italiano passò sopra alla propria divisione reale e ne attutì perfino
l’evidenza. I ceti medi “meridionali” furono sedotti dal mito
dell’Italia-nazione e della patria comune e caddero nella trappola
dell’apparente uguaglianza giuridica di tutti i cittadini di fronte allo
Stato e alle leggi. E siccome lo Stato era altrove, volsero altrove i loro
sguardi. Anziché dedicarsi a una lotta di “liberazione” (che non
poteva essere soltanto economica) del loro habitat naturale e
culturale cercarono, nel collaborazionismo di Stato, anche la loro
personale sopravvivenza e fortuna.
Nel Sud, ed è anche questo un retaggio del costume, della cultura e
della società così come vi si erano storicamente formati, le professioni
liberali e gli impieghi pubblici avevano assunto, in epoca moderna, lo
stesso ruolo che l’abito talare e la cavalleria possedevano nel
Medioevo. E, in più, avevano acquisito anche un grande ascendente
politico in quanto esercitavano la gestione dell’opinione pubblica.
Alleandosi col governo “nazionale”, svolsero la funzione di
preservarne l’unità politica dalle spinte interne che la minacciavano e
si prepararono coscienziosamente a occupare lo Stato nei suoi gangli
vitali. Non certo per il Sud ma “per l’Italia” e per loro.
Nonostante tutto, la situazione “meridionale” era tale che alcuni suoi
nodi non potevano non venire al pettine: perlomeno a qualche
pettine non infilato ad arte, come mero ornamento, nelle elaborate
acconciature culturali dei politici e degli intellettuali di Stato.
Nacque così la “questione meridionale” e nacquero la nuova
professione di “meridionalista” e il “meridionalismo” come scienza
inesatta. Nonostante fossero irrazionalmente prigionieri del mito
unitario, alcuni “meridionalisti” (molti erano anche “meridionali”)
rivendicheranno talvolta perfino l’autonomia politica del Sud,
guardandosi tuttavia bene anche soltanto dallo scalfire, con questa
loro rivendicazione, il tabù dell’unità nazionale. Provocheranno
comunque una caterva di inchieste parlamentari e faranno lavorare a
vuoto innumerevoli commissioni.
Francesco Saverio Nitti, nel 1891, denunciò pubblicamente una
situazione ormai sempre più insostenibile: per lui, la progressiva
riduzione del Sud a “colonia di consumo” derivava dalla politica
fiscale, finanziaria, doganale, dei lavori e delle spese pubbliche
condotta dallo Stato durante i primi trent’anni della sua esistenza. Le
Italie, insomma, erano due: ma, essendo l’Italia “una” per definizione,
bisognava unificarla al più presto anche sul piano sociale ed
economico, riparando in fretta al male compiuto. Nitti fu, sia pure
distrattamente, ascoltato. Di qui l’inizio ufficiale di una politica
governativa di “interventi speciali” nel Mezzogiorno, a dire il vero
non troppo convinti, che avrebbero dovuto portare i due “paesi” reali
a un’unità non più soltanto virtuale.
Si consolidò, paradossalmente, l’idea nefasta di un’unica Italia
nazional-naturale, purtroppo divisa provvisoriamente al suo interno
da un’incresciosa diversità di struttura economica e produttiva.
Diversa era però l’opinione di un gruppo di “scienziati” (più o meno
dediti all’antropologia), tra i quali ricorderemo Ferri, Lombroso,
Sergi e Niceforo: tutti nomi eccellenti.
Alfredo Niceforo scrisse, nel 1898: “Oggi l’Italia è divisa in due zone
abitate da due razze diverse, gli ARII al Nord e fino alla Toscana, i
mediterranei al Sud. E gli attuali ARII dell’Italia settentrionale, vale a
dire i piemontesi, i lombardi, i veneti, i romagnoli – che
appartengono a quella stirpe che venne ad invadere l’Europa
primitiva – sono perciò, antropologicamente, fratelli dei tedeschi,
degli slavi, dei francesi celti. Gli attuali mediterranei dell’Italia del
Sud invece – che appartengono alla stirpe mediterranea venuta
dall’Africa – sono antropologicamente fratelli degli spagnoli, dei
francesi del Sud, dei greci [...]. Gli arii hanno un sentimento di
organizzazione sociale più sviluppato di quel che non sia presso i
mediterranei”, dediti, secondo lui, alla pratica sfrenata
dell’individualismo.
Il livello scientifico di Niceforo appare molto basso e il suo
“razzismo” appare, per ragioni opposte, sullo stesso piano
dell’“antirazzismo” professato oggi in Italia dai politici e dai
giornalisti. Si confondono, infatti, in entrambi i casi, i dati
dell’antropologia fisica con quelli della linguistica, come farà in
seguito Hitler da par suo. L’arianesimo (“ariano” significa
“indeuropeo”) è una categoria relativa ad un gruppo di lingue che
condividono precisi caratteri comuni, indipendentemente dal colore
della pelle di coloro che le parlano (così come il semitismo).
L’antisemitismo non può essere considerato un atteggiamento
razzista (ma qualcosa magari di peggio) quando è rivolto contro gli
ebrei (che solo recentemente hanno ricominciato, in Israele, a usare il
neo-ebraico, lingua semitica) in quanto la maggioranza degli ebrei
parla, nel mondo, lingue indeuropee ed è pertanto “ariana”. I veri
semiti sono oggi gli arabi in quanto l’arabo, da loro mai dismesso, è
una lingua, appunto, semitica. Ma non ha niente a che fare con la
razza (così come nel caso degli ebrei, che non sono oltre tutto titolari
di una razza specifica nemmeno nell’ambito dell’antropologia fisica
descrittiva).
Per tornare a Niceforo, si dirà che i mediterranei sono scomparsi, da
tutta l’Italia-regione, da tempo: che l’abitavano tutta, a sud come a
nord, e sono stati assorbiti tutti dagli arii, che li hanno “convertiti”
alle loro lingue. E che “meridionali” e “settentrionali”, pur parlando
idiomi appartenenti a sistemi dialettali diversi, sono tutti “arii” in
quanto i loro idiomi, neolatini, sono indeuropei allo stesso titolo e a
tutti gli effetti. I dati della genetica, che pure li differenziano, sono
inoltre fondamentalmente estranei alle razze e alle lingue. E
nemmeno i codici genetici producono di per sé comportamenti
diversi sul piano dell’organizzazione sociale e del sentimento relativo.
Con Niceforo prende comunque campo l’idea di un’unica Italia
nazional-naturale divisa però al suo interno in due razze distinte:
un’idea che perdura ancora oggi, più o meno mascherata, ed è fonte
di comportamenti mentali e perfino politici aberranti.
Il comportamento politico degli “italiani”, anziché dividersi in senso
orizzontale, cioè territoriale, constatata l’esistenza di due o più aree
distinte e distanti, come appariva logico, si è diviso verticalmente a
seconda delle ideologie e delle opinioni professate. Già il
Risorgimento, quello vittorioso, era stato traghettato nello Stato
unitario diviso in due tronconi: i moderati, devoti alla monarchia e
ad alcuni miti “costituzionali” connessi alla monarchia stessa, che
conducevano lo Stato; e i radicali, i democratici, i repubblicani,
insomma i superstiti del garibaldinismo e del mazzinianesimo
(all’interno dei quali era compresa una frangia di indomiti federalisti)
che tutti insieme volevano, a parole, fare uno Stato diverso ma erano
tutti, nei fatti, succubi dello stesso mito e indossavano la livrea
dell’“opposizione di Sua Maestà”.
Restavano fuori, per il momento, i cattolici, che erano la maggioranza
e non partecipavano ai riti di uno Stato che si era costituito
oltraggiando non solo il papa-re (e non era cosa da poco), ma lo stesso
cattolicesimo: appariva, infatti, fondato su valori laici integrali, venati
di molto anticlericalismo.
Stava anche per nascere il movimento socialista, destinato (insieme ai
cattolici, quando si sarebbero finalmente decisi, dopo tanto
tergiversare, a partecipare alla lotta politica) a cambiare le carte sul
tavolo dello Stato (ma non lo Stato), approfittando dell’estensione
del voto e del suffragio universale maschile (quando sarebbero
venuti).
D’altra parte, l’Italia non era ancora stata “fatta” tutta. Anche se gli
“italiani” che già c’erano apparivano, a qualcuno, irrimediabilmente
divisi dalla razza (o, a seconda delle preferenze, dall’economia),
c’erano, fuori dagli angusti confini dello Stato, altri “italiani” cui
riservare magari la stessa sorte. Ma c’erano anche da imitare altri
Stati-nazione, più vecchi e più ricchi, con una politica di espansione
che non tenesse conto soltanto della lingua e della geografia, ma
anche delle esigenze di sviluppo globale della “nazione”.
La “questione meridionale” poteva aspettare ancora. Il nazionalismo
di Stato, da nazional-naturale, si farà geopolitico. E diventerà
colonialista e imperialista.
La piaga dell’emigrazione fu vista addirittura come l’imperialismo
spontaneo di un popolo il cui Stato rifiutava una saggia politica
coloniale. E siccome la piaga dell’emigrazione era la caratteristica del
Sud, si ritenne che la “questione meridionale” sarebbe stata risolta
con l’istituzione delle colonie, dove i “meridionali” avrebbero trovato
lavoro e ricchezza, per loro e per la patria tutta, senza essere costretti a
disperdersi per il mondo e a contribuire alla ricchezza degli altri.
Crispi, vecchia volpe del Risorgimento, fu l’interprete di questa
nuova prospettiva. Non a caso, lo storico J. L. Miège appare convinto
che “è al Risorgimento che bisogna attribuire una parte del
dinamismo che fa volgere lo sguardo lontano dai limiti della
penisola”. Appare chiaro che il Miège confonde la penisola con
l’Italia-regione geografica convenzionale: eppure, a sua insaputa,
l’azzecca.
Fuori della penisola, anche se tenacemente aggrappata ad essa nello
stesso Stato come una sanguisuga, c’è, infatti, la Padania, una parte
della quale era, allora, ancora irredenta: e non soltanto l’Africa e
l’Asia. Un gruppo di reduci mazziniani e garibaldini fondò infatti, nel
1877, l’Associazione Pro Italia irredenta proprio per rivendicare ad
alta voce l’annessione del Trentino, del Goriziano, del Triestino e
dell’Istria che riteneva più importante dell’Africa. Del resto, anche
all’interno di questi territori esistevano gruppi agguerriti, anche se
non maggioritari, di “nazionalisti italiani”, che si collegarono con
quest’associazione e ne crearono di nuove, diffondendole nel Regno
d’Italia: la Pro Patria e la Lega Nazionale, cui la patria rispose con la
Società Dante Alighieri.
L’attività di queste associazioni, in attesa dell’annessione, si dedicò
soprattutto alla “difesa dell’italianità” attraverso una vasta attività
culturale e scolastica. Una parte dell’opinione pubblica spingeva
comunque per il compimento dell’unità nazionale da farsi prima (o
in luogo) d’ogni avventura coloniale. Nelle terre irredente, il partito
nazionalista italiano, grazie alla liberalità austriaca, deteneva il potere
locale e poteva essere la “quinta colonna” del regno.
Che fare? Il governo italiano scelse la via del colonialismo
imperialista rimandando a tempi migliori il compimento dell’unità
“nazional-naturale”: anche se la “natura” non bastava più ad alcuni
fautori della “nazione”, devoti alla lingua e alla storia, che costruirono
addirittura il mito di una Dalmazia irredenta, situata fuori dai
confini “regional-naturali” ma, secondo loro, dentro quelli “nazional
storico-linguistici”.
Nonostante tutto, e nonostante la fresca esperienza risorgimentale,
che aveva incanalato l’odio di Stato esclusivamente contro l’Austria,
l’Italia-Stato aderì, nel 1882, alla Duplice Alleanza esistente tra
Austria e Prussia trasformandola in Triplice. Sperava, con le spalle
coperte dagli Imperi Centrali, di espandersi in Africa eludendo la
guardia anglo-francese e magari di ottenere qualcosa, a titolo di
benevolenza, da Vienna: magari soltanto il Trentino. Nel 1889 fu
così inaugurata la prima colonia, l’Eritrea, e nel 1893 la seconda, la
Somalia. La terza colonia, l’Etiopia, sfuggì invece alla “terza Roma”:
l’esercito italiano venne, infatti, clamorosamente sconfitto a Adua
(1896).
Quando, nel 1910, l’atteggiamento nazionalista dette vita a un
partito politico che si chiamò appunto così (Associazione
Nazionalista Italiana), finanziato dagli industriali padani e folto di
intellettuali anche se scarso di manodopera, questo partito (che
confluì poi nel fascismo), agitò lo slogan dell’irredentismo
coniugandolo sapientemente col compito di “richiamare gl’Italiani al
sentimento e alla conoscenza di Roma e dell’Impero” (come scrisse
Enrico Corradini). Convenne col governo che appariva opportuno
battere per prima cosa la strada (i marciapiedi) dell’espansione
coloniale. Il suo congresso di fondazione affermò, infatti, che un
“irredentismo sano e fecondo” avrebbe dovuto mirare, per il
momento, a tutelare l’italianità culturale delle aree politicamente
irredente “per ritrovare poi le nostre regioni intatte di lingua e di fede
nel giorno in cui le nostre rinnovate energie consentano la loro
redenzione”. E conquistare nel frattempo quante più colonie fosse
possibile.
A un livello intermedio fra terre irredente e colonie si situava la
regione adriatica orientale: Dalmazia, Albania e Isole lonie.
Nel 1912, l’Italia si fece la sua terza colonia africana, la “Libia”: e i
nuovi nazionalisti, consci malgrado tutto della “questione
meridionale”, sostennero che “risolvere la questione del Mezzogiorno
e occupare la Tripolitania non sono due azioni opposte” in quanto la
seconda avrebbe risolto automaticamente la prima. Sostennero,
inoltre: “L’occupazione della Tripolitania sarà il primo atto di un
nuovo Risorgimento”.
Peggio di così, l’Italia-Stato, che era nata tanto male, non avrebbe
proprio potuto crescere.
7.
L’Italia di fuori
En attendant Benito
I sud-tirolesi di lingua tedesca, gli sloveni e i croati dell’imminente,
ormai, Venezia Giulia, che avevano un senso dell’identità nazionale
sviluppato almeno quanto quello degli “italiani” (e si sentivano in
odore di annessione) chiesero invano al governo di Roma e alle
potenze vincitrici, confidando soprattutto nel presidente americano
Wilson, il diritto all’autodeterminazione (quello che una volta si
chiamava “plebiscito”).
I sud-tirolesi desideravano ardentemente entrare a far parte della
nuova Repubblica austriaca (appena proclamata sulle ceneri ancora
fumanti dell’impero) insieme ai nord-tirolesi e agli est-tirolesi, i quali
risiedevano fortunatamente oltre uno spartiacque che pure non li
aveva mai, prima di allora, separati dai loro fratelli meridionali ma
che ora li proteggeva dalle mire di Roma. Anche i ladini richiesero
insistentemente di condividere la sorte dei sud-tirolesi di lingua
tedesca.
Gli sloveni (Trieste e Gorizia erano, dalla fine del XIX secolo, insieme
a Lubiana, centri culturali e politici dell’irredentismo sloveno) e i
croati volevano invece raggiungere i loro connazionali, appena
riuniti, per la prima volta nella loro storia, in uno Stato proprio (il
Regno dei serbi, dei croati e degli sloveni, in seguito Iugoslavia). Ma la
loro volontà, così come quella dei sud-tirolesi, cozzò contro la
volontà dell’Italia-Stato che si mostrò irremovibile: nonostante una
spiccata simpatia per la causa di tutti i neo-annessi espressa, come al
solito invano, perfino in Parlamento (attraverso un nobilissimo
discorso di Filippo Turati) dai soliti socialisti.
La volontà dei neo-annessi, in mancanza del referendum auspicato, fu
comunque espressa chiaramente nelle elezioni politiche del 15
maggio 1921. Tutti e quattro i seggi della circoscrizione sud-tirolese
furono infatti conquistati dal Deutscher Verband (“Lega tedesca”),
per il quale votarono anche i ladini. Tutti e cinque i seggi della
circoscrizione goriziana furono ugualmente appannaggio dei
candidati sloveni (quattro esponenti della Lega nazionale slovena e
un comunista).
Nella circoscrizione di Trieste, invece, a causa delle intimidazioni e
dei pestaggi eseguiti dai fascisti con grande sfoggio di muscoli (e sotto
gli occhi compiacenti e talvolta compiaciuti delle autorità e delle
forze di polizia), dei dieci seggi in palio uno soltanto venne
conquistato da un candidato croato (in Istria).
Alla seduta inaugurale della nuova Camera dei Deputati, il deputato
sud-tirolese Wilhelm von Walther intervenne con parole cortesi ma
decise: “È la prima volta che l’Italia in terra ferma si è mossa per
portare innanzi i suoi confini non da liberatrice dei propri fratelli ma
da conquistatrice di un popolo ad essa estraneo (...). Il Tirolo
meridionale, nel diniego del proprio diritto di autodecisione, non
può vedere che un atto di soppressione contro cui i suoi
rappresentanti, entrando nel parlamento di Roma, sono obbligati a
presentare le loro esplicite riserve di diritto. D’altro canto, però, non
potremo mai rinunciare al diritto di rivolgerci allo stesso popolo
italiano, cui l’idea nazionale fu sempre la suprema legge morale, per
domandargli il restauro della nostra libertà nazionale [...]. Onorevoli
colleghi, l’indirizzo che oggi sta in discussione non prende atto della
nostra situazione speciale; non vi si parla che di popolazioni
felicemente ricongiunte alla famiglia italiana; e siccome tale modo di
espressione non può riferirsi né al nostro territorio né alla nostra
popolazione, non siamo in grado di votare l’indirizzo proposto”
(l’indirizzo proposto venne comunque votato e approvato, a
maggioranza, alla fine della seduta).
Prese poi la parola il deputato sloveno Josip Vilfan. Il suo discorso fu
una coraggiosa pronuncia d’appartenenza nazionale distinta da quella
statale: “Per noi, lo Stato non è il supremo ente: per noi il supremo
ente è il popolo, è la nazione in senso etnico, storico”. Un punto di
vista, come si vede, rigorosamente “risorgimentale”.
Vilfan precisò il suo nazionalismo (non diverso da quello di
Garibaldi) contrapponendolo a quello italiano, che “non è
nazionalismo, non è amore del proprio popolo, ma è imperialismo: è
odio, non amore”, ribadendo che lo Stato italiano aveva annesso una
parte degli sloveni e dei croati “contro la loro volontà nazionale e
contro le loro aspirazioni” e che quest’annessione appariva
particolarmente dolorosa in quanto avveniva nel momento che
vedeva la nascita del nuovo Stato degli slavi meridionali. Vilfan offrì
tuttavia la lealtà degli slavi nei confronti dello Stato italiano purché
venissero riconosciuti i loro diritti.
Purtroppo, disse, “viene vietato l’uso della nostra lingua, che è stata
bandita dagli uffici. L’attività delle nostre associazioni viene
ostacolata in tutti i modi. Perfino associazioni innocue come le
nostre società corali sono state sciolte o almeno è stata impedita la
loro attività”.
Si può dire che gli esiti della prima guerra mondiale avevano
introdotto, nell’Italia-Stato, i germi pericolosi del nazionalismo non
italiano: in uno Stato dove i germi del nazionalismo italiano non
avevano mai infettato la maggioranza della popolazione.
La prima guerra mondiale aveva paradossalmente risvegliato anche il
sentimento d’identità d’alcune comunità che facevano parte del
Regno di Sardegna assai prima che questo si trasformasse in Regno
d’Italia.
I valdostani, minacciati nell’uso pubblico della loro lingua al
momento della nascita dell’Italia-Stato, avevano fondato, nel 1909, la
Ligue valdôtaine per la difesa della lingua materna, che aveva
finanziato e realizzato una rete imponente di “scuole di villaggio”.
Nel 1919, la Ligue fece pervenire, al Congresso della pace di Parigi,
una petizione “per le rivendicazioni etniche e linguistiche della Valle
d’Aosta”. Va ricordato che, al censimento del 1921, il 91,4 per cento
dei valdostani si dichiarò francofono e soltanto il 9,6 per cento
italofono.
La guerra fece nascere, soprattutto, il “sardismo” (e, date le
condizioni ormai secolari dell’isola, quest’evento appare tutt’altro che
imprevedibile: stupisce semmai la mancata insorgenza di un
altrettanto vigoroso movimento nel Mezzogiorno continentale).
Le esigenze belliche avevano infatti portato alla istituzione della
famosa Brigata Sassari, composta, si può dire, da tutti i sardi validi, di
età compresa tra i 18 ei 45 anni, e comandata da ufficiali sardi. I
contadini ei pastori dell’isola vennero arruolati con la promessa della
distribuzione della terra a guerra conclusa.
La brigata si batté coraggiosamente al grido di Fortza paris! (“Forza
insieme!”). Lo stato maggiore permise perfino che i fanti della Sassari
si eccitassero al canto dell’Himnu sardu nationale, naturalmente in
limba sarda, composto un secolo prima per i Savoia (ma in quanto re
di Sardegna).
I sardi lasciarono sul Carso 30.000 morti. Quando la “vittoria” venne
finalmente conseguita e i reduci tornarono in Sardegna, la terra
promessa non venne però loro distribuita. I 50.000 reduci
organizzati, non riconoscendosi in nessuna delle forze politiche
“italiane” presenti nell’isola, decisero allora, il 17 aprile 1921, di
costituirsi in partito politico: nacque così il Partito sardo d’azione.
Il Partito sardo conquistò subito la maggioranza dei comuni isolani. I
risultati delle elezioni politiche del 1921 furono, in Sardegna, i
seguenti: 6 deputati al Blocco nazionale, formato dai notabili che
appoggiavano il governo (qualsiasi governo) di Roma attraverso la
corruzione e la pratica del voto di scambio; 4 al Partito sardo, 1 ai
socialisti, 1 ai popolari.
Il Partito sardo appariva diviso, al suo interno, tra un atteggiamento
ufficiale dichiaratamente federalista nell’ambito dello Stato italiano e
un’opzione secessionista più o meno consapevole. La strategia
politica dei sardisti privilegiava comunque la lotta nell’ambito dello
Stato. Identificava, lucidamente, il nemico da battere nel blocco
d’interessi che univa, di là dalle apparenti dispute sia pure violente, i
capitalisti e gli operai della Padania, implicitamente solidali nel
saccheggio obiettivo della ricchezza del Sud e delle isole.
I dirigenti del Partito sardo chiamarono invano a raccolta le forze
politiche e sociali del Sud dello Stato: riuscirono soltanto a innescare
un partito gemello nel Molise. Il fenomeno dell’occupazione delle
terre nell’Italia meridionale e in Sicilia, a opera degli ex combattenti,
fu negli anni Venti davvero imponente ma non portò, come in
Sardegna, alla nascita di una forza politica in grado di dedicarsi al
riscatto e alla riscoperta dell’identità.
Nel Partito sardo si sviluppò intanto anche un’ideologia di tipo
nazionalista. Nel 1920, un suo leader, Camillo Bellieni, scrisse,
infatti, senza mezzi termini: “Che noi non siamo etnicamente e
linguisticamente italiani è un dato di fatto incontrovertibile. Noi
neghiamo quest’astratta italianità. Noi vogliamo riconoscerci sardi.
Provenza [cioè Occitania] e Catalogna si trovano nei nostri stessi
rapporti con Francia e Spagna [...]. Spiccatissime analogie sono poi
nei rapporti di Sardegna e Irlanda con i rispettivi stati dominanti:
Italia e Inghilterra”.
Nel 1921, Emilio Lussu, deputato del Partito sardo, portò a Roma,
alla Camera dei Deputati, il caldo saluto dei sardi al nuovo “Stato
libero d’Irlanda” ribadendo le analogie tra Irlanda e Sardegna e
suscitando le scomposte proteste dei fascisti. Il discorso di Lussu
venne duramente criticato anche dal comunista Palmiro Togliatti,
sull’“Ordine nuovo”, con un articolo intitolato Le Irlande italiane.
Al secondo congresso del Partito sardo (1922), Bellieni lanciò la
proposta di un accordo organico con i movimenti autonomistici
dell’area mediterranea che portasse all’istituzione di un nuovo Stato:
una federazione politica che fosse un ponte anche culturale tra
l’Europa e l’Africa. Quest’ipotesi federalista cominciò a prendere le
proprie dimensioni specifiche, raggruppando nel suo progetto
Catalogna, Baleari, Corsica, Sardegna, Sicilia e Creta. L’Italia-Stato
venne così scavalcata, almeno nei sogni.
Il sardista Luigi Battista Puggioni scrisse sul “Solco”, il quotidiano del
Partito, il 24 marzo 1922, un articolo intitolato Saluto ai fratelli di
Catalogna (che avevano appena ottenuto una modesta autonoma
nell’ambito dello Stato spagnolo). Mussolini, furente, citò
quest’articolo alla Camera dei Deputati, nel suo discorso
d’investitura del 18 novembre 1922, come la prova certa di un vasto
complotto secessionista contro la “Nazione italiana”, che stava
tessendo le proprie reti proprio in Sardegna. D’altra parte, proprio
nel Parlamento italiano, si stava formando una certa consuetudine
politica tra sardisti, sud-tirolesi e slavi “giuliani”: 14 deputati in tutto.
L’Italia aveva davvero di che tremare.
privilegiati con la DC, non ha mai partecipato a questa lista, che aveva
assunto il nome di “Federalismo” e comprendeva l’Union Valdôtaine
e il MAO, i friulanisti, la Slovenska Skupnost e il Partito sardo d’azione.
Partecipava invece alla lista, dal 1984, per i sud-tirolesi, la piccola e
neonata Union für Südtirol.
Era presente, in questa lista, anche il microscopico Movimento
meridionale: un segnale del risveglio politico del Sud che, purtroppo,
è rimasto tale nonostante apparisse allora portatore di una novità
sconvolgente. Purtroppo, il risveglio globale del Sud, non è ancora
avvenuto, anche se le condizioni perché sorgesse ci fossero (e da assai
più di un secolo) ormai tutte.
Malgrado la politica dello Stato nella sua versione repubblicana, che
aveva puntato molto sul riscatto del Sud attraverso un impegno
capillare quanto fantasioso e scoordinato, di “interventi speciali”
reiterati, di “piani di rinascita”, pressoché ininterrotti, di massicci
aiuti economici per le aree depresse (e il Mezzogiorno era tutto
compreso in un’unica, vastissima “area depressa”), attraverso perfino
la realizzazione di strutture finanziarie gigantesche e specifiche quali
la Cassa per il Mezzogiorno, il divario tra i due principali “paesi” (dei
quali l’Italia-Stato si componeva) appariva, via via che scorrevano gli
anni, sempre maggiore. Era addirittura ricominciata, subito dopo la
guerra, l’emigrazione di massa dei meridionali. Va notato come lo
Stato italiano, avvolto nei fumi della propria concezione centralistica,
non ha mai riconosciuto l’unità etcnico-territoriale del suo
Mezzogiorno: conquistato il Regno delle Due Sicilie lo ha
frammentato in province, poi in regioni. Amministrativamente, la
Lombardia sta alla Campania come la Campania sta alla Puglia e la
Lombardia al Piemonte. Tuttavia, lo Stato ha dovuto riconoscere, per
via extra-istituzionale, un certo accorpamento sovraregionale del Sud
in ordine a caratteristiche ritenute temporanee, che hanno dato
luogo, come si è detto, a organismi quale la Cassa del Mezzogiorno e,
abolita la Cassa, ad altri marchingegni sostitutivi.
Nel periodo 1950-70, quasi 6.000.000 meridionali, un quarto della
popolazione complessiva, furono costretti ad abbandonare di nuovo
la propria terra in cerca di una possibilità di vita più dignitosa quando
non della stessa sopravvivenza. Più della metà di questi emigranti era
diretta, questa volta, nella Padania felix (soprattutto nella sua
porzione nord-occidentale, il “triangolo Torino-Milano-Genova”,
dov’era concentrata l’industria italiana fino dai tempi
immediatamente successivi all’unità politica) che era la sede precipua
del miracolo economico italiano quale stava avvenendo sull’onda di
una congiuntura favorevole.
La manodopera meridionale fu essenziale per l’industria padana e
alleviò la stessa “questione meridionale” alleggerendo il Sud di molti
dei suoi abitanti. Nonostante questa brutale semplificazione, i
problemi del Sud, ovviamente, rimasero tutti.
Lo Stato credette di rimediarvi, come si è detto, in molti modi: anche
con una riforma (del tutto parziale) della proprietà fondiaria, con la
costruzione di infrastrutture faraoniche e spesso inutili e con
l’installazione delle famigerate “cattedrali nel deserto”: cioè, come
dice Carlo M. Cipolla, di “impianti industriali che pur costando al
‘paese’ somme enormi non riuscirono a smuovere l’ambiente in cui
erano sorti e rimasero oasi non competitive, incapaci di trainare il
resto della regione”. Non creavano indotto e occupavano poco
manodopera locale. E saranno poi chiuse quasi tutte perché
“antieconomiche”.
Lo sperpero fu colossale. La presenza, alacre e costante, del nuovo
ceto degli urbanisti, dei tecnocrati, dei sociologi, degli economisti, dei
pianificatori di Stato si fece le ossa sul campo fracassando le ossa ad
ogni possibile rinascita del Mezzogiorno (che poteva avvenire
soltanto su basi diverse e più consone alla sua specificità produttiva e
culturale).
Uno dei risultati dell’impegno dello Stato fu, sempre secondo
Cipolla, “il potenziamento delle associazioni criminose che hanno
saputo appropriarsi di una buona fetta delle somme spese dal governo
nelle aree da loro dominate” (si va dalla mafia siciliana alla “fibbia”, in
calabrese ‘ndrangheta, alla camorra napoletana, alla corona salentino
pugliese). Eppure, finché durò il periodo delle vacche grasse, nel resto
del “paese” le cose sembrava dovessero andare sempre meglio.
Il risentimento, vivace, di un certo numero di meridionali rimasti in
loco si coagulò, paradossalmente, attorno ai partiti della destra extra
costituzionale. I guai prodotti dall’Italia unita dalla dinastia sabauda
furono imputati all’Italia riunita dopo la caduta del fascismo e la
cacciata della dinastia. Un caso di strabismo davvero macroscopico.
Ne trassero consistenti benefici elettorali i neofascisti e i
veterofascisti nonché un paio di consistenti partitelli monarchici di
impianto napoletano (però di fede sabauda e non borbonica, come
sarebbe apparso, tutto sommato, meno scioccante e soprattutto non
contraddittorio). Questo vasto risentimento, punteggiato di proteste
isolate, culminò nella grande rivolta spontanea di Reggio Calabria,
subito gestita dall’MSI: una vera insurrezione che rivelò un invidiabile
e inaspettato appoggio popolare. Questa sorta di prolungata abiura
locale di massa dell’unità “nazionale” si svolse dunque sotto l’egida
politica degli eredi ideologici di una ormai malfamata unità.
Attorno agli anni Settanta, un gruppo di intellettuali meridionali,
soprattutto economisti di formazione marxista e militanti della
sinistra extraparlamentare, comprese finalmente che la “questione
meridionale” andava impostata su altre basi. Faremo i nomi di alcuni
di questi coraggiosi neo-meridionalisti di qualità culturale
ineccepibile: Nicola Zitara (autore di L’unita d’Italia: nascita di una
colonia, 1971), Edmondo M. Capecelatro e Antonio Carlo (autori di
Contro la questione meridionale, 1972) e la storica Maria Rosa
Cutrufelli (autrice di L’unita d’Italia: guerra contadina e nascita del
sottosviluppo del Sud, 1974). Il nuovo clima di ricerca e di sintesi
politica era stato preparato dalla rivista “Quaderni calabresi” diretta
da Francesco Tassone.
Per spiegare la situazione, Zitara riprese la vecchia categoria
ottocentesca della subnazionalità (tutt’altro che peregrina) e parlò di
“una sub-nazione meridionale conquistata, colonizzata e sfruttata
dalla sub-nazione settentrionale, nella quale soltanto si ritrovano i
caratteri salienti della società italiana, e che pertanto sarebbe più
coerente chiamare Italia, indicando il resto del paese, il quale presenta
caratteri fondamentalmente diversi, con un altro nome”. La rinuncia
al nome “Italia” appare significativa. Ma che nome dare allora al
Mezzogiorno o Meridione o Sud, che non sia quello di un punto
cardinale? In Francia il Midi aveva appena riscoperto il proprio nome
storico: Occitania. Nell’Italia-Stato questa scoperta non è ancora
avvenuta.
Mettendo il dito sulla piaga vera, Zitara scrisse: “Probabilmente, una
evoluzione autonoma verso l’economia mercantile e poi verso la
produzione industriale [avrebbe salvato la sub-nazione meridionale]
dal sottosviluppo e dalla subordinazione coloniale [...] Allume di tali
esperienze, si può dire veramente che l’Italia è un solo paese, e che è
un paese sviluppato? Di fronte al problema italiano, l’affermazione
più giusta è che i paesi sono due”.
Si rinfocolò una polemica con la sinistra italiana ufficiale, ormai
“consociata” al potere. Zitara, dichiaratamente marxista sia pure non
ortodosso (ma ortodossi non erano più, da tempo, nemmeno i
dirigenti e i quadri del PCI), riscoprì nel 1971 quello che il Partito
sardo d’azione aveva teorizzato cinquant’anni prima (cercando
invano di comunicarlo a livello politico ai “fratelli” meridionali): “Gli
interessi del proletariato settentrionale, nella prassi attuale, come in
quella di ieri, sono inconciliabili con quelli del proletariato
meridionale (che) non ha ricavato e non può ricavare che male
dall’impianto unitario della lotta di classe in Italia”.
Purtroppo, il movimento “sub-nazionalista” fondato da Tassone e da
Zitara, con il nome poco attraente di Movimento dei contadini e dei
proletari del Mezzogiorno e delle isole, non riuscì ad attecchire e
racimolò sempre pochissimi voti, anche quando cambiò nome e si
limitò a definirsi soltanto Movimento meridionale. I meridionali
apparivano insensibili ai loro stessi problemi: troppi di loro si
accontentavano miseramente del “pizzo”, delle minuscole prebende
concesse a titolo personale, del posto fisso presso lo Stato-apparato,
delle pensioni facili, degli sgravi e delle smemoratezze fiscali, degli
occhi chiusi da parte delle autorità al cospetto di una criminalità che
offriva, in fondo, anch’essa posti di lavoro sicuri (ed era l’attività
economica più redditizia di una parte almeno del Mezzogiorno).
I più svegli e fortunati tra loro avevano ormai, del resto, occupato
quasi tutto lo Stato-apparato, al Sud come al Nord: la burocrazia, la
polizia, l’esercito, la magistratura, la scuola e perfino il governo erano
per tre quarti appannaggio tradizionale e costante dei meridionali. “È
in grazia dei deputati meridionali, quasi tutti eternamente
ministeriali, che si regge l’attuale ordinamento politico” aveva scritto
Gaetano Salvemini, addirittura nel 1900.
Come si poteva pensare che il Mezzogiorno avrebbe potuto seguire il
minuscolo Movimento meridionale nella sua solitaria, intelligente
ma disperata azione politica?
La sveglia padana
In contemporanea con la nuova impostazione, sia pure scarsamente
condivisa in loco, della “questione meridionale”, si ponevano le basi
di quella che sarebbe stata definita, in seguito, “questione
settentrionale”: che non può essere introdotta meglio di quanto non
facciano le parole del neo-meridionalista Zitara che seguono e che
risalgono al 1973.
“A partire dagli anni Cinquanta, la funzione di colonia di consumo
delle merci protette della grande industria padana, assolta dal
Mezzogiorno, è andata deteriorandosi. Divenuta competitiva a livello
mondiale, l’industria italiana si è potuta procurare altri sbocchi ai
flussi crescenti delle sue merci. A questo punto, il Mezzogiorno si è
trasformato, da area di consumo, in area assistita [...]. Ma come area
d’assistenza, il Mezzogiorno è divenuto una palla di piombo al piede
non solo dello sviluppo italiano, ma anche del benessere italiano, cioè
settentrionale”.
L’“obbligo degli alimenti” nei confronti del parente povero era
destinato ad irritare sempre di più i parenti ricchi, che dovevano
rinunciare a diventare un poco più ricchi senza che il loro sacrificio
facesse diventare i parenti poveri un po’ meno poveri. In questo
paradosso è racchiuso tutto il corso degli avvenimenti successivi.
Va da sé che l’arrivo in massa, dal Sud nel Nord, di tanti “parenti
poveri”, aveva posto a diretto e stridente contatto, in uno stesso
spazio, due culture, due mentalità, due lingue, due tradizioni diverse.
E ciò fu fonte d’incomprensioni e di conflitti, perfino di derisioni
ingenerose.
Anche se lo sviluppo del Nord, quale stava avvenendo in quegli anni,
derivava, in misura non trascurabile, dall’opera di questi parenti
poveri che erano approdati nella parte ricca del paese per diventare
un po’ meno poveri, rimanevano da risolvere i problemi di coloro che
erano rimasti nel Mezzogiorno (ed erano ancora tanti e si
riproducevano con ritmi elevati).
La maledizione fu, come ha notato Cipolla, che, almeno a partire dal
secondo dopoguerra, il “ritardo imposto al Nord, cui venivano tolti
capitali che il Nord avrebbe potuto far fruttare, per investirli al Sud,
dove venivano per lo più bruciati” non poteva non rendere ancor più
evidente una contraddizione insanabile che dilaniava l’Italia-Stato
fino dalla sua troppo disinvolta istituzione.
Che il Nord costituisse a sua volta un’unità organica fu una
riscoperta che cominciò a trapelare proprio in quegli anni. Il merito
fu dei comunisti emiliani e del loro leader Guido Fanti, presidente
della Regione. Ovviamente, in questo caso nessuno parlò di
“subnazione settentrionale”. Ci si limitò a constatare che concreti
interessi economici e un comune retaggio culturale univano le regioni
del Nord e che lo Stato unitario non ne teneva conto, tutto preso
come era nell’affrontare, sia pure in modo da aggravarla, la
sempiterna questione meridionale. Questa sì valutata in chiave
interregionale.
Fanti propose che le regioni del bacino padano si coordinassero in un
progetto comune di valorizzazione del territorio. La sua proposta
venne appoggiata dagli organismi ufficiali della regione Emilia
Romagna. Venne però subito indetta un’allarmata riunione della
direzione “nazionale” del PCI e su esplicita richiesta di alcuni
esponenti meridionali del partito, Fanti venne messo sotto processo e
dimesso nel modo consueto: venne infatti celermente promosso
deputato e costretto ad abbandonare la sua regione. Finì così una
promettente carriera politica. E i comunisti emiliano-romagnoli
furono ricondotti a forza nei ranghi loro assegnati dall’alto che non
prevedevano autonomie sovraregionali né a livello di Stato né a livello
di partito.
Intanto, il risveglio, sia culturale sia politico, delle “periferie” in
possesso di un’identità specifica e in qualche modo riconosciuta (che
aveva fatto confluire il Movimento meridionale nella lista
“Federalismo”) aveva anche, bizzarramente, cominciato a
contaminare alcuni irrequieti “giovanotti” settentrionali (di un’area
del paese considerata a torto priva di una propria specificità
culturale), sparsi su tutto il territorio padano, non connessi con
l’esperimento emiliano e assai meno intellettualmente dotati dei neo
meridionalisti anche se forniti di un fiuto politico assai più
sviluppato.
A contatto con i limitrofi “nazionalisti” friulani, alcuni veneti (al
seguito di Franco Rocchetta) cominciarono a rivendicare i diritti di
un’ipotetica nazione veneta, caratterizzata da una lingua veneta,
altrettanto ipotetica: analogo discorso facevano alcuni piemontesi (al
seguito di Roberto Gremmo) che, a contatto con gli occitani di casa,
cominciarono a teorizzare una nazione e una lingua piemontesi.
Nacque anche il “nazionalismo” autonomista lombardo (con
Umberto Bossi, allora pregevole poeta in “lingua lombarda”). La
prima fase del “leghismo” stava per cominciare.
Anziché “subnazionalisti”, come i neo-meridionalisti, questi
“leghisti” settentrionali della prima ora si presentavano, talvolta, assai
disinvoltamente, come “nazionalisti” tout court (anche se si
riferivano a “micronazioni” improbabili, che coincidevano con le
improbabili regioni ufficiali da poco istituite proprio dallo Stato
italiano nella maniera così artificiosa di cui s’è detto). L’idea di una
comune identità padana era ancora di là da venire (e non l’aveva
avuta, sia chiaro, nemmeno Fanti). Piemonte, Lombardia e Veneto
erano considerati monadi che apparivano tuttavia legate in egual
misura all’oppressione dello Stato a indirizzo “meridionalista” e
sottoposte al saccheggio delle loro risorse da parte di questo Stato.
Il culto della “patria italiana” non aveva più nessun fascino per questi
micronazionalisti, magari pochi e sparuti, che si ispiravano talvolta al
Terzo mondo, insorgevano contro il “colonialismo interno” europeo
esercitato dagli Stati nei confronti dei popoli, senza con questo
peritarsi di agitare sempre più frequentemente slogan di “destra” e di
ostentare atteggiamenti razzisti. Alle motivazioni più “nobili” si
aggiungeva, infatti, un antimeridionalismo diffuso: si temeva (in
parte a ragione) che l’invasione “terrona” minacciasse le identità che
si andavano riscoprendo e fosse la quinta colonna dello Stato
omogeneizzatore (anche se questa “invasione”, che aveva
drammaticamente posto a confronto due diversi “modi di vita” si era
ormai esaurita).
È un peccato che i giornalisti, i politologi, gli storici italiani non
abbiano carpito l’importanza, da questo punto di vista fondamentale,
del periodo a cavallo degli anni Settanta e non l’abbiano pertanto
capito. Anche un movimento, in qualche modo di massa, cattolico
estremista, quello giovanile di “Comunione e Liberazione”,
cominciava infatti ad agitare temi antirisorgimentali, a rivalutare le
cosiddette “insorgenze” (sanfedisti, “viva Maria” ecc.) recuperando le
ragioni di un’opposizione anche ideologica alle motivazioni che,
partendo dalla rivoluzione francese, erano approdate all’istituzione
del regno sabaudo d’Italia, “massonico” e “giacobino”, affossatore
delle prerogative del “papa-re” e di una più giusta “Italia unita” in
grado di rispettare i popoli che ne abitavano i territori e avrebbe
potuto sorgere in un contesto ideologico diverso. L’importanza della
nascita degli strampalati micronazionalismi settentrionali fu invece
intuita subito dall’Union Valdôtaine (UV), che non aveva rinunciato
agli ideali del federalismo preconizzato da Chanoux sull’intero
territorio statuale, ma non sapeva come fare per realizzarli su di una
scala tanto vasta.
L’azione politica delle “frange a identità spiccata” (Valle d’Aosta,
Tirolo meridionale ecc.) che caratterizzavano l’Italia-Stato, era
destinata, sul piano dei numeri, all’insuccesso: soltanto il 5 per cento
dei cittadini italiani viveva infatti nelle “frange”. Un accordo con i
nuovi movimenti che stavano sorgendo nelle vaste e popolose regioni
settentrionali poteva offrire, invece, una prospettiva plausibile. Nel
Veneto, si enunciavano, sempre più freneticamente, i valori connessi
alla serenissima repubblica di Venezia che si volevano restaurare. In
Lombardia, ci si rifaceva un po’ al regno Lombardo-Veneto, di
austriaca e venerata memoria, un po’ al ducato di Milano e molto,
anzi moltissimo, all’età d’oro della Lega Lombarda e dei liberi comuni
in essa raccolti. In Piemonte, allo Stato sabaudo in versione
subalpina; in Liguria alla repubblica di Genova. E così via. E si
blaterava concordemente, dappertutto, contro lo Stato italiano,
affossatore delle antiche libertà patrie. Il terreno per dotare di una
base elettorale diffusa il progetto federalista dei valdostani avrebbe
potuto essere arato con qualche prospettiva di successo.
Un dirigente dell’UV, Bruno Salvadori, offrì, nel 1979, il simbolo del
suo partito alle varie “leghe” su base regionale fondate dai
micronazionalisti perché potessero partecipare alle competizioni
elettorali senza bisogno di estenuanti raccolte di firme. I risultati
furono modestissimi.
Con la morte prematura di Salvadori, questo rapporto si troncò e la
diffidenza dei vecchi autonomisti nei confronti dei nuovi venuti, così
confusi e sgrammaticati a proposito delle tematiche etniche (non si
poteva presentare l’identità sud-tirolese negli stessi termini di quella
veneta o di quella romagnola), ebbe il sopravvento.
Andò meglio, per i micronazionalisti su base regionale, nel 1983,
quando la Lega Veneta, raccogliendo il 4 per cento dei voti regionali
nelle elezioni politiche, mandò in parlamento un deputato e un
senatore. Nelle elezioni politiche del 1987, nonostante aumentasse i
propri suffragi, questi stessi suffragi risultarono troppo dispersi tra le
diverse circoscrizioni e la Lega Veneta perse i propri rappresentanti a
Roma. Fu invece la Lega Lombarda, col 3 per cento dei voti espressi
in Lombardia, a mandare a Roma un deputato e un senatur (Bossi).
Nel 1988, le varie “leghe” si accorparono nella Lega Nord, una sorta
di partito nuovo il cui scopo dichiarato fu la lotta “per la pacifica
trasformazione dello Stato italiano in un moderno Stato
confederale”. Questo raggruppamento rinunciò progressivamente
alla difesa esclusiva delle singole identità che sosteneva di
rappresentare. Bossi, che era il tessitore della confluenza e il leader
sempre più incontrastato di tutti i leghismi, enunciò presto, con
grande fiuto politico, il passaggio dalla tutela delle “identità etniche”
alla “comunione di interessi” (e di struttura economica) che univa
l’intera Italia settentrionale (il Nord) di là dalle presunte divisioni
interne fino allora millantate. Oltretutto, i leghisti ignoravano che i
dialetti parlati nel Nord non erano che varianti magari vistose di una
stessa lingua, sia pure priva di una forma standard, di una koiné: e si
distinguevano, ancora più vistosamente, in blocco, dal resto dei
dialetti abusivamente considerati italiani.
Venne scoperta, insomma, politicamente la Padania come “insieme”
omogeneo, di là dalle regioni amministrative nelle quali appariva
divisa: anche se ancora non la si chiamò così e la si scoprì soltanto
nella sua dimensione economica. A questa scoperta si affiancò la
denuncia virulenta dell’oppressione burocratica e fiscale e si teorizzò
il rifiuto di continuare a versare gli “alimenti” al solito Sud: di subire
ancora il salasso delle risorse del Nord compiuto troppo
disinvoltamente da uno Stato inefficiente e corrotto, identificato con
Roma in quanto centro fisico del potere. Soltanto una
trasformazione federale dello Stato, secondo i leghisti, avrebbe
“liberato” il Nord dai lacci romani e addirittura permesso al Sud di
gestire, in piena autonomia, le proprie, magari modeste, risorse: per
tentare, almeno, uno sviluppo basato sulle proprie caratteristiche,
sulle proprie vocazioni e sulla propria macilenta struttura economica,
liberata dall’assistenzialismo di Stato che ne salvaguardava una stanca
sopravvivenza ma ne impediva ogni prospettiva congeniale di
sviluppo.
Era, in pratica, la stessa posizione del neo-meridionalismo. Soltanto
che, mentre il neo-meridionalismo, così intellettualmente rigoroso,
era fallito sul piano politico ed elettorale, la Lega Nord, nonostante la
propria visione culturalmente approssimativa, era destinata di lì a
poco ad affermarsi, proprio su questo piano (in fondo, l’unico
visibile), con un crescendo davvero vertiginoso. Aveva a disposizione
un brodo di coltura impareggiabile.
L’Italia-Stato era, da assai più di un decennio, avvolta nelle spire di
una grave crisi economica, che costringeva i governi di Roma a
brusche politiche di risanamento e imponeva prelievi fiscali forzosi e
ricorrenti senza però ottenere nessun risultato. La Lega Nord cavalcò
la protesta dei cittadini settentrionali contro le pretese del fisco e gli
intralci burocratici. Era in corso anche una trasformazione
economica che interessava tutta la Padania.
La grande industria del Nord-ovest era entrata in crisi insieme allo
Stato; l’emigrazione meridionale era, del resto, cessata da tempo.
Nel Nord-est, invece, stava avvenendo una rivoluzione produttiva
fondata sulla piccola e media industria manifatturiera diffusa: che
non godeva, come la grande industria nord-occidentale, dell’aiuto
diretto e della connivenza finanziaria dello Stato, eppure registrava
una crescita impetuosa. I suoi protagonisti erano così numerosi che
formavano una nuova “classe” sociale del tutto imprevista.
Questa “classe” mal tollerava una pressione fiscale punitiva e
scriteriata e una palese insufficienza d’infrastrutture (va notato che,
dal 1954 e per una ventina d’anni, queste zone, sedi improvvise di un
secondo miracolo economico, erano considerate aree depresse e
fruivano d’interventi statali, sia pure modesti rispetto a quelli
riversati nel Mezzogiorno: un altro paradosso del “paese”).
Va, del resto, riconosciuto che il crescente malcontento delle
popolazioni settentrionali (nel cui seno le seconde generazioni di
immigrati meridionali si erano ormai fuse completamente) appariva
giustificato e che esse non erano, né si sentivano, direttamente
responsabili della vecchia progettazione politica dell’Italia-Stato che
pur aveva deliberatamente privilegiato il loro territorio provocando
la spaccatura dello Stato stesso: “uno e indivisibile” sulla carta,
“molteplice e diviso”, a tutto svantaggio del Sud, e con qualche
svantaggio per il Nord, nella realtà. La Lega Nord trovò insomma il
suo elettorato.
Le sue richieste di trasformazione in senso federalistico dello Stato si
fecero sempre più intense. Lo Stato dei partiti era, d’altronde, in
piena crisi; il debito pubblico aveva raggiunto vette che apparivano
insormontabili eppure continuavano ad essere sormontate. I partiti
stessi, responsabili dello sperpero di Stato, cominciavano a venire
delegittimati dall’opinione pubblica. La Cassa per il Mezzogiorno era
stata abolita, per mancanza di fondi e insieme di fiducia.
Quando la corruzione, elevata tacitamente a sistema di Stato, venne
clamorosamente a galla, nei primi mesi del 1992, con l’inizio di quella
vasta operazione giudiziaria che ha preso il nome di “Mani pulite” e
con gli innumerevoli scandali che cominciavano a emergere, una
intera epoca si chiuse bruscamente e senza rimpianti. I principali
partiti di governo, la DC e il psi, si apprestarono a scomparire, cosa che
avvenne puntualmente di lì a poco.
Le elezioni politiche del 1992 fecero diventare la Lega Nord, che
raccoglieva i suoi voti soltanto nelle regioni settentrionali, il quarto
partito italiano. E la Lega insisteva sempre più sul federalismo: anche
se non aveva ancora identificato i soggetti della federazione da
istituire.
Una prima proposta venne da un “esterno” alla Lega (con la quale si
trovava però in ottimi rapporti), Gianfranco Miglio, che da giovane
aveva frequentato il gruppo del “Cisalpino”. Miglio ha avuto il
merito di ripudiare senza infingimenti le regioni burocratiche
esistenti e di avere sempre pensato a grandi aggregazioni organiche di
più regioni che chiamò, nell’occasione, “macroregioni”, reputando
che dovessero essere proprio queste i soggetti della federazione
auspicata. Le macroregioni furono provvisoriamente identificate con
i nomi “neutri” di Nord, Centro e Sud.
Purtroppo, le opinioni di Miglio apparivano in bilico tra quelle dello
storico Ruggiero Romano (secondo Miglio “la base d’aggregazione di
quest’assetto neo-federale [...] è la comune civiltà, il modo di
comportarsi, di vivere, di mangiare”) e quelle dell’antropologo
razzista Niceforo. Ad onore del vero, Miglio, più che dal “sangue” (la
“razza”), appariva infatuato dal “suolo” (il “clima”): “Il mondo civile è
nell’area temperata: se ci spostiamo dove fa molto freddo, ci
imbattiamo negli slavi tonti; se puntiamo verso sud, incrociamo
popoli straniti dal calore, un po’ come quei messicani che
sonnecchiano sotto il sombrero”.
A proposito degli “slavi tonti” non si può non ricordare che,
approfittando della crisi iugoslava, Gianfranco Fini, allora neofascista
e non ancora post-fascista, aveva chiesto di sorpresa, alla CEE, nel
luglio del 1991, in qualità di parlamentare europeo, il rispetto del
“principio della futura ricongiunzione alla madrepatria delle terre e
delle popolazioni artificiosamente inglobate nell’ex-Iugoslavia”: un
principio del tutto controvertibile. Un articolo del giornale del suo
partito precisò in proposito che “l’Istria e la Dalmazia dovranno
essere restituite alla Madrepatria”.
Fini stesso, per eccitare gli umori e sollecitare i voti dei profughi
istriani e dalmati, compì in seguito un raid marinaro nelle acque
istriane affidando alle onde alcuni ardenti messaggi tricolori sigillati
entro canoniche bottiglie. Vogliamo sperare che, se vi fosse stata una
dissoluzione contemporanea della Francia, avrebbe tenuto lo stesso
comportamento circumnavigando il Capo Còrso e bordeggiando le
Bocche di Bonifacio. Ma la Corsica era stata inspiegabilmente
dimenticata.
Torniamo alla crisi dell’assetto istituzionale dello Stato. Anche il
“ceto” ormai straripante e vezzeggiatissimo dei tecnocrati, dei
pianificatori, degli urbanisti, dei sociologi e degli economisti (non
necessariamente di Stato) si impegnò a fondo nella riforma con
progetti in apparenza spregiudicati. La Fondazione Agnelli, in un
convegno del 1993, propose un “regionalismo spinto”, fondato su un
diverso assetto regionale da compiersi, beninteso, nel “quadro
dell’unità nazionale”: un progetto che avrebbe permesso di evitare il
federalismo, in prospettiva considerato ancora troppo pericoloso.
Il mito economicista appariva chiaramente dall’intento dichiarato di
“dare più forza ai sistemi economici e territoriali italiani, rendendoli
più competitivi in Europa”. Anche il “rito” seguito nell’indagine
propedeutica al progetto era quello socio-economico-amministrativo
che potremmo definire, con una metafora massonica, “antico e
accettato”. Confrontando e interpretando esclusivamente “tassi di
copertura finanziaria”, “ipotesi di azzeramento del disavanzo
primario”, “andamenti del valore aggiunto” e altri dati ritenuti
fondamentali, si arrivò all’ipotesi dell’istituzione di dodici
“mesoregioni”, ottenute mediante l’accorpamento delle regioni
esistenti (o, in ipotesi estrema, con la spartizione di alcune di esse,
fermi restando i confini delle province, confini che, oltretutto,
apparivano oggettivamente altrettanto contestabili).
La lingua (cioè i sistemi dialettali), la storia, le tradizioni comuni, il
sentimento di appartenenza, le culture vennero disinvoltamente
considerati “accidenti” del tutto trascurabili e furono coerentemente
trascurati. Si passò sopra anche ai trattati internazionali e alle lotte
cruente (e ancora fresche) in difesa dell’identità che avevano portato
ad alcune realtà istituzionali difficilmente rettificabili, sancite e
tutelate dall’ONU. Il Trentino-Alto Adige fu aggregato, nel progetto,
con disinvolta indifferenza, al Veneto e al Friuli-Venezia Giulia; la
Valle d’Aosta a Piemonte e Liguria.
Che fare?
In attesa che lo Stato italiano si renda conto di essere ormai
impigliato nella tenaglia delle rivendicazioni più o meno coerenti e
diffuse provenienti dal basso (magari in attesa di nuove formulazioni
e di un seguito più incisivi) e della prospettiva europea di una
dismissione progressiva della propria sovranità residua, appare
opportuno riflettere sul suo futuro.
La nostra opinione è che soltanto una sua trasformazione in senso
davvero federale possa risolvere quei problemi che la sua stessa
formazione storica ha creato.
Ovviamente, per “federalismo” intendiamo una federazione vera,
basata sulla sovranità delle sue componenti, un po’ sul modello di
quella ipotizzata da Gianfranco Miglio, nella quale i soggetti della
federazione prevista ricevano dallo Stato esistente tutti i poteri e
contestualmente decidano quali di essi devolvere all’incipiente Stato
federale: il tutto regolato da una nuova Costituzione che i soggetti
federandi dovranno approvare singolarmente tramite le loro
assemblee elettive. Va da sé che nessuno di essi dovrebbe essere
obbligato a federarsi qualora non lo desiderasse: e che la nuova
Costituzione dovrebbe essere “a tempo” (cioè rinnovabile
periodicamente visto che il mondo cambia a rotta di collo) e
prevedere l’inalienabile diritto alla secessione (che equivale al
divorzio nel diritto di famiglia). È ovvio che i soggetti della
federazione dovrebbero essere le regioni reali, anziché le attuali
regioni amministrative: soggetti cioè a identità forte, vale a dire la
Padania, l’“Appenninia” con la Sicilia (nel 1848 Silvio Spaventa
ipotizzava “un’Italia federale nella quale il Regno delle Due Sicilie si
allargava a comprendere anche i territori pontifici” intendendo una
più vasta identità culturale e linguistica), la Toscana, la Sardegna e il
Friuli nonché le piccole aree etniche che svolgerebbero il ruolo di
collegamento diretto, transfrontaliero, con i popoli europei di cui
sono soltanto appendici. Ciò ci sembra opportuno proprio nel
quadro di una vera Europa dei popoli, da costruire con analoghe
riforme federali da promuovere negli altri Stati. E non ci si
intestardisca, in proposito, nella prosecuzione del mito della “taglia
unica”: la Padania sì, perché le sue dimensioni sono “sufficienti”; altre
entità no, perché sono troppo piccole.
Bisogna, infatti, come ammoniscono i cartelli nei giardini pubblici,
“rispettare le piante”. Tutte le piante: i tulipani come le sequoie (che
il buon Dio ha voluto creare di dimensioni tra loro tanto diverse ma
che fanno entrambe parte, allo stesso titolo, del miracolo della
creazione e possiedono una identità indipendente dalla loro misura).
E non si deve mai confondere un tulipano intero con un ramoscello
appena di sequoia per metterli sullo stesso piano col pretesto della
“taglia unica”. Soprattutto, non bisogna confondere le piante “vere”
con quelle di plastica (le regioni attuali).
Va infine compreso che i cittadini, le comunità, i popoli, le
subnazioni, le nazioni possono essere tenuti insieme a lungo in uno
stesso Stato soltanto se e quando lo desiderano, nella speranza che
continuino a desiderarlo a lungo.
Siamo paradossalmente propensi a credere che, in questo momento,
la maggioranza dei cittadini italiani (padani compresi) voglia
rimanere, a torto oa ragione, “unita”: magari più per forza d’inerzia e
per paura dell’“ignoto” che per convinzione profonda. Perché non
saggiarne allora la volontà con un referendum, permettendo a
quest’istituto, talvolta perfino opportuno, uno svolgimento che la
Costituzione vigente purtroppo non consente (mostrandosi ancora
una volta inadeguata).
È quanto fanno le democrazie quando sono mature, quando sono
davvero moderne. E quanto ha fatto il Canada, a proposito del
desiderio di secessione della popolazione del Québec, nell’ottobre del
1995. Certo, un analogo referendum “italiano” non potrebbe essere
indetto “per subito”. Ci vogliono anni di “par condicio” reale
nell’opera di persuasione e di propaganda politica che dovrà scaturire
dalla diatriba tra gli eversori ei conservatori dell’“unità” a tutti i costi:
nell’eventualità, però, che possano esprimersi, nel frattempo, anche i
fautori di una possibile “unità nelle diversità” oppure delle “diversità
nell’unità” in grado di presentare un progetto appetibile e seducente,
tale da permettere un approdo in Europa che appaia non umiliante.
Talvolta, i quiz sono perfino meglio dei plebisciti: danno, infatti,
maggiori possibilità di scelta per individuare la soluzione più adatta.
Siamo del resto convinti che “solo l’abbandono del concetto di Stato
nazione a favore di uno Stato che governi le differenze sulla base
dell’uguaglianza dei diritti”, anche di quelli collettivi delle comunità
storicamente esistenti, come ha scritto il balcanologo Stefano
Bianchini, possa anche (soprattutto) nell’Italia-Stato, garantire, allo
stesso tempo, l’unità se non altro morale dello Stato e lo sviluppo
delle eventuali “nazioni” (o in che altro modo si vogliano chiamare)
che lo compongono. L’ex-presidente della repubblica Francesco
Cossiga, nell’esercizio della sua solitaria ma lucidissima “follia”, ha
offerto un contributo prezioso in questo senso quando ha presentato
in Senato, nel maggio 2002, un disegno di legge costituzionale per la
trasformazione della Sardegna in “comunità autonoma e nazione
distinta” nell’ambito dello Stato italiano, sul modello della Catalogna
in Spagna. E ha redatto il suo disegno di legge in italiano e in lingua
sarda in omaggio alle “due lingue ufficiali” dell’isola oggi finalmente
riconosciute dalla regione autonoma di Sardegna e dallo Stato
italiano.
LISTA DEI NOMI E DEI LUOGHI CITATI
A
Abruzzi 1
Adige 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 11, 12
Adua 1,2
Adula 1, 2
Africa 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9
Aia 1
Ajaccio 1, 2
Albania 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7
Alberti, Leandro 1
Alghero 1, 2, 3
Alighieri, Dante 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7
Alpi 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 11, 12, 13, 14, 15, 16, 17, 18, 19
Alpi Carniche 1
Alpi Cozie 1
Alpi Giulie 1
Alpi Marittime 1, 2, 3
Alpi Meridionali 1
Alpi Retiche 1
Alsazia-Lorena 1, 2, 3
Alto Adige 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 11, 12, 13, 14, 15, 16
America 1, 2, 3, 4
Amplatz, Luis 1
Ancona 1
Angioi, Giovanni Maria 1
Annibale 1
Annuario statistico ufficiale 1
Aosta 1, 2, 3, 4, 5, 6
Appenninia 1, 2, 3, 4, 5, 6
Appennino 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8
Apulia 1, 2
Aquileia 1, 2
Aragona 1, 2, 3
Argentina 1
Arno 1, 2
Arsia 1
Asburgo 1,2
Ascoli, Graziadio Isaia 1,2
Asia 1
Auerbach, Erich 1
Augusto 1, 2, 3
Austria 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 11, 12, 13, 14, 15, 16, 17, 18, 19, 20, 21, 22,
23, 24, 25, 26, 27
B
Balcani 1
Baleari 1
Barcellona 1
Bari 1
Barisone di Arborea 1
Barrère, Camille 1
Basile, Giovanbattista 1
Basilicata 1
Bassolino, Antonio 1
Bastia 1, 2, 3
Battaglia di San Martino 1
Battaglia, Salvatore 1
Battisti, Carlo 1, 2
Baviera 1
Beccaria, Cesare 1
Belgio 1, 2
Bellieni, Camillo 1, 2
Belli, Giuseppe Gioacchino 1
Bellinzona 1
Belluno 1, 2
Bembo, Pietro 1
Berlino 1
Berlusconi, Silvio 1
Berna 1
Bersagapè, Pietro da 1
Biancavilla, eccidio 1
Biasutti, Renato 1
Biondo, Flavio 1
Biot 1
Bipenisola esterna 1
Bisanzio 1
Bitti 1
Boccaccio, Giovanni 1, 2
Bocche di Bonifacio 1
Boemme 1
Bologna 1
Bolzano 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10
Bonaparte, Gerolamo 1
Bonaparte, Napoleone 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 11, 12, 13, 14, 15
Bonifacio VIII 1
Bonora, Paola 1
Bonvesin da la Riva 1
Borgogna 1
Borjes, José 1
Bosco viennese 1
Bosnia 1, 2
Bossi 1
Bossi, Umberto 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9
Bossong, Georg 1
Brasile 1
Bregaglia 1,2
Brennero 1, 2, 3
Bressanone 1, 2
Bretagna 1,2
Briga 1
Brigata Sassari 1, 2
Brindisi 1, 2
Britannia 1
Bronte, Eccidio di 1
Bruttium 1
Bruxelles 1
Bruzio 1
Bugatto, Giuseppe 1
Buonarroti, Filippo 1
Buvalelli, Rambertino 1
C
Cadore 1
Cadorna, Raffaele 1
Cagliari 1
Calabria 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9
Caltagirone 1
Calvo, Bonifacio 1
Camerino 1
Campania 1, 2, 3, 4, 5, 6
Campidoglio 1
Canada 1
Canepa, Antonio 1, 2, 3
Canepa, Teresa 1
Cantone Cisalpino 1
Cantone di Uri 1
Canton Ticino 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7
Canton Vallese 1
Cantù 1
Capo Còrso 1
Capodistria 1
Caporetto 1
Cappelletti, Licurgo 1,2
Carini, Giacinti 1
Carinzia 1
Carlo Alberto 1, 2, 3
Carlo d’Angiò 1
Carniola 1, 2, 3
Carpazi 1
Carso 1
Casini, Pier Ferdinando 1
Cassino 1
Castelfirmiano 1
Castellammare 1
Castellani, Arrigo 1
Castiglia 1,2
Catalogna 1, 2, 3
Catania 1, 2
Cateau Cambrésis 1
Cattaneo, Carlo 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7
Cavalli Sforza, Luca 1
Cavour, Camillo Benso di 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7
Cecoslovacchia 1
Celti 1
Celtia 1
Chanoux, Émile 1, 2, 3, 4, 5, 6
Churchill, Winston 1
Ciampi, Azeglio Carlo 1, 2
Cigala, Lanfranco 1
Cilento 1
Ciola, Gualtiero 1
Cipolla, Carlo M. 1, 2, 3
Cispadania 1
Città del Vaticano 1
Cividale del Friuli 1
Civitella del Tronto 1
Cobban, Alfred 1
Codice Rocco 1
Cogne 1, 2
Col di Tenda 1
Colle della Maddalena 1
Colle di Cadibona 1,2
Colonia 1
Connor, Walker 1
Contini, Gianfranco 1
Cordigliera cantabrica 1
Corfinio 1
Cormaiore 1
Corradini, Enrico 1
Correnti, Cesare 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7
Corsica 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 11, 12, 13, 14, 15, 16, 17, 18, 19, 20, 21, 22,
23, 24, 25, 26
Coseano 1
Cosimo I 1, 2
Cossiga, Francesco 1
Costantinopoli 1
Costanza 1
Costituzione della Repubblica italiana 1
Cosulich 1
Courmayeur 1
Creta 1
Crispi, Francesco 1, 2, 3, 4, 5
Croazia 1, 2
Crocco, Carmine 1, 2, 3
Croce, Benedetto 1, 2
Cuma 1
Curletti, Filippo 1
D
D’Alcamo, Cielo 1
Dalmazia 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 11, 12, 13, 14, 15, 16
Damasco 1
Damiani, Alessandro 1
D’Annunzio, Gabriele 1, 2
Danubio 1, 2
D’Aquino, Rinaldo 1
d’Arborea, Eleonora 1,2
Darby, Henry Clifford 1
Daunia 1
Davanzati, Bernardo 1, 2
D’Azeglio, Massimo 1
De Gasperi, Alcide 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7,8
De Gaulle, Charles 1
Delle Colonne, Guido 1
De Mauro, Tullio 1, 2, 3, 4, 5
De Pietri, Gian Battista 1
De Sica, Vittorio 1
Devon 1
Devoto, Giacomo 1, 2, 3, 4, 5
Diez, Friedrich 1
Digos 1
Dini, Lamberto 1
Dodecaneso 1
Dubrovnik 1
Durando, Giacomo 1
Düsseldorf 1
E
Eco, Umberto 1
Einaudi, Luigi 1, 2
Elisée Reclus, Jacques 1
Emilia Romagna 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 11, 12
Eritrea 1,2
Erodoto 1
Erzegovina 1, 2
Esarcato 1
Esino 1, 2, 3
Etiopia 1, 2, 3
Etruria 1, 2
Europa 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 11, 12, 13, 14, 15, 16, 17, 18, 19, 20, 21, 22,
23
F
Fanti, Guido 1, 2
Federico II 1, 2, 3
Fenestrelle, Fortezza di 1
Ferdinando i delle Due Sicilie 1
Ferdinando IV di Napoli e III di Sicilia 1
Fermo 1
Ferry, Jules 1, 2
Fichte, Johann Gottlieb 1, 2
Fini, Gianfranco 1, 2, 3, 4
Finocchiaro Aprile, Andrea 1,2
Firenze 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8
Fiume 1, 2, 3, 4
Florida 1
Foggia 1
Fondazione Agnelli 1
Fortezza di San Maurizio 1
Francescato, Giuseppe 1
Francesco Giuseppe I d’Austria 1
Francesco II, re delle Due Sicilie 1, 2, 3
Francia 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 11, 12, 13, 14, 15, 16, 17, 18, 19, 20, 21, 22,
23, 24, 25, 26, 27, 28, 29, 30, 31, 32, 33, 34, 35, 36, 37, 38, 39, 40, 41, 42, 43,
44, 45, 46
Frilli, Carlo 1
Friuli 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 11, 12, 13, 14
Friuli-Venezia Giulia 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8
G
Gaeta 1
Galeani Napione, Gian Francesco 1, 2
Galles 1, 2
Gallia 1, 2, 3, 4, 5
Galli della Loggia, Ernesto 1
Gallo, Concetto 1
Galloway 1
Gambi, Lucio 1, 2
Garibaldia 1
Garibaldi, Giuseppe 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 11, 12, 13, 14
Gatterer, Claus 1
Gelli, Gianbattista 1, 2
Gellner, Ernest 1
Genova 1, 2, 3, 4
Gentile, Emilio 1
Gentile, Giovanni 1
Gerbini 1
Germania 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 11, 12, 13, 14, 15, 16, 17, 18
Giacomo da Lentini 1
Giambullari, Pier Francesco 1
Gioberti, Vincenzo 1
Gioia del Colle 1
Giorgio I di Gran Bretagna 1
Giovanni dalle Bande Nere 1
Giuliano, Salvatore 1
Giulia (regione) 1, 2, 3
Giussano, Alberto da 1
Goethe, Johann Wolfgang 1
Goldoni, Carlo 1
Gorizia 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 11, 12, 13, 14, 15
Gortan, Vladimir 1
Gradisca 1, 2, 3, 4, 5
Gramsci, Antonio 1, 2
Granducato di Toscana 1
Gruber, Karl 1, 2, 3, 4, 5, 6
Gualtieri, Libero 1
Gualtiero Ciola 1
Guglielmo I di Germania 1
H
Haugen, Einar 1
Hechter, Michael 1
Herder, Johann Gottfried 1
Hitler, Adolf 1, 2, 3
Hobsbawm, Eric J. 1, 2
Hofer, Andreas 1, 2
Humboldt, Friedrich Wilhelm 1
Husserl, Edmund 1
I
Impero romano 1
Inghilterra 1, 2, 3, 4
Innerhofer, Franz 1
Intesa 1
Irlanda 1,2
Irpef 1
Irpinia 1
Isernia 1
Islanda 1
Isonzo 1
Israele 1, 2
Istria 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 11, 12, 13, 14, 15, 16, 17, 18, 19, 20, 21
Iugoslavia 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 11
J
Jacini, Stefano 1
K
Kellas, James G 1
Kent 1
Kerbler, Christian 1
Klotz, Eva 1
Klotz, Georg 1
Kossovo 1
L
Lampedusa 1
Lampione (isola) 1
Lapponia 1
Latini, Brunetto 1
Lausberg, Heinrich 1
Lazio 1, 2, 3, 4, 5
Legnano 1
Le Monnier, Felice 1
Le Pen, Jean Marie 1
Levra, Umberto 1, 2, 3
Libera Padania 1
Libia 1
Liguria 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8,9
Lillehammer, XVII Giochi olimpici invernali di 1
Linosa 1
Lione 1
Lombardia 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 11, 12, 13, 14, 15, 16, 17
Lombroso, Cesare 1
Londra 1, 2, 3, 4, 5, 6
Longobardi 1
Lorena 1, 2, 3, 4, 5
Los Angeles 1
Lothian 1
Lubiana 1, 2
Lucania 1, 2
Lucca 1, 2, 3, 4
Lussu, Emilio 1, 2, 3
Luzi, Mario 1, 2
M
Maestri, Pietro 1, 2, 3, 4
Magna Grecia 1
Magra 1
Malta 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8
Malvistiti, Pietro 1
Mancini, Pasquale Stanislao 1
Mancini, Stanislao 1
Manica 1
Manin, Daniele 1
Mantova 1, 2
Manuale Cencelli 1
Manzoni, Alessandro 1
Mar Adriatico 1, 2, 3, 4, 5, 6
Marche 1, 2, 3, 4, 5, 6
Marin, Biagio 1
Mar Mediterraneo 1, 2, 3, 4
Marmocchini, Santi 1
Maroni, Roberto 1
Marsica 1
Marsiglia 1
Mar Tirreno 1
Masuccio Salernitano 1
Mazzini, Giuseppe 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9
Medioevo 1
Melfi 1
Meli, Giovanni 1
Melito 1
Menozzi, Paolo 1
Messina 1
Metaponto 1
Metternich, Klemens von 1
Meyer Lübke, Wilhelm 1
Michelet, Jules 1
Miège, Jean Louis 1
Miglio, Gianfranco 1, 2, 3
Milano 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 11, 12, 13, 14, 15, 16, 17, 18
Mincio 1
Minghetti, Marco 1, 2, 3
Modena 1, 2, 3, 4
Molise 1, 2, 3, 4, 5
Monaco, Pietro 1
Monfalcone 1, 2
Monferrato 1,2
Montale, Eugenio 1
Monviso 1
Mordini, Antonio 1
Mori, Cesare 1
Mosca 1
Motta, Giuseppe 1
Mugello 1
Muglia 1
Murat, Luciano 1
Mussolini, Benito 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 11, 12, 13, 14, 15, 16, 17, 18, 19,
20, 21, 22
N
Napoli 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 11, 12, 13, 14, 15
Neri, Pompeo 1
Niceforo, Alfredo 1,2
Nicomedia 1
Ninco Nanco 1, 2
Nitti, Saverio 1
Nizza 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 11
Nola 1
Nova Gorica 1
Novara 1
Novecento 1, 2
O
Occitania 1, 2, 3, 4
Oceano Atlantico 1, 2
Odoacre 1
Olietti, César 1
Osimo 1
Ottocento 1
Ottone I di Sassonia 1
P
Padania 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 11, 12, 13, 14, 15, 16, 17, 18, 19, 20, 21, 22,
23, 24, 25, 26, 27, 28, 29, 30, 31, 32, 33, 34
Palermo 1, 2, 3
Panebianco, Angelo 1
Pannonia 1
Pantelleria 1
Paoli, Pasquale 1,2
Papio Mutilo 1,2
Parigi 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8,9
Parma 1, 2, 3, 4
Pasolini, Pier Paolo 1
Patti Lateranensi 1
Pavia 1, 2
Pellegrini, Giovan Battista 1,2
Pelloux, Luigi 1
Pescara 1
Petrarca, Francesco 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7
Petrosino, Daniele 1
Pianura Padana 1
Piazza, Alberto 1
Piemonte 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 11, 12, 13, 14, 15
Pier della Vigne 1
Pierro, Albino 1
Pietrarsa 1
Pirenei 1
Pirro 1
Pisa 1, 2, 3
Pisani,Vittore 1
Pliocene 1
Plombières 1
Po 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8
Pola 1, 2
Polo, Marco 1
Pompei 1
Ponza 1, 2
Porsenna 1
Porta, Carlo 1, 2, 3
Porta Collina 1
Porta Littoria 1
Porta Pia 1
Portogallo 1
Porto Salvo 1
Postumia 1
Prealpi 1
Predappio 1
Prestranek 1
Prezzolini, Giuseppe 1
Principato di Monaco 1, 2, 3, 4
Prodi, Romano 1
Protonotaro, Stefano 1
Provenza 1
Prussia 1, 2
Puggioni, Luigi Battista 1
Puglia 1, 2, 3
Pugliese, Giacomino 1
Putnam, Robert 1
Q
Quarnero 1, 2
Quart 1
Quarto Praetoria 1
Québec 1, 2
Quisling, Vidkun 1
R
Ragusa 1,2
Randazzo 1
Ranger, Terence 1
Ranza, Giovanni Antonio 1
Reggio Calabria 1
Regione adriatica 1
Regno Unito 1,2
Renan, Ernest 1
Repubblica di San Marino 1
Rezia 1, 2, 3, 4
Rezia 1, 2, 3
Ricasoli, Bettino 1, 2, 3
Ricossa, Sergio 1
Risorgimento 1,2
Rocco, Alfredo 1
Rodano 1,2
Rohfls, Gerhard 1
Roia 1
Roma 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 11, 12, 13, 14, 15, 16, 17, 18, 19, 20, 21, 22, 23,
24, 25, 26, 27, 28, 29, 30, 31, 32, 33, 34, 35, 36, 37, 38, 39, 40, 41, 42, 43, 44,
45, 46, 47, 48, 49, 50, 51, 52, 53
Romania 1
Romano, Pasquale 1
Romano, Ruggiero 1, 2, 3, 4, 5, 6
Rovereto 1
Rubicone 1, 2
Ruscalla, Vegezzi 1, 2
Rusconi, Gian Enrico 1
Rustichello da Pisa 1
Rutilio Namaziano 1
S
Sabbadino degli Arienti 1
Sabina 1
Sadowa 1
Salento 1, 2, 3, 4, 5
Salernitano, Mausuccio 1
Salerno 1, 2
Salmon, Edward Togo 1,2
Salorno 1
Salvadori, Bruno 1
Salvatorelli, Luigi 1
Salvemini, Gaetano 1
Salvioni, Carlo 1
Sampiero di Bastelica 1
San Marino 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8
San Mauro di Sopra 1
Sannio 1
Santa Eufemia 1
Sardegna 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 11, 12, 13, 14, 15, 16, 17, 18, 19, 20, 21, 22,
23, 24, 25, 26, 27, 28, 29, 30, 31, 32, 33, 34, 35, 36, 37, 38, 39, 40, 41, 42, 43,
44, 45, 46, 47, 48, 49, 50, 51, 52, 53, 54, 55, 56
Sassari 1, 2
Sava 1
Savoia 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 11, 12, 13, 14, 15, 16, 17, 18, 19, 20, 21, 22, 23,
24, 25, 26, 27
Scalfari, Eugenio 1
Scalfaro, Oscar Luigi 1
Scarpino, Salvatore 1
Scotti, Giacomo 1
Scozia 1, 2, 3
Sedan 1
Segni, Alessandro 1
Serchi 1
Sessa 1
Seton-Watson, Robert William 1
Sicilia 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 11, 12, 13, 14, 15, 16, 17, 18, 19, 20, 21, 22, 23,
24, 25, 26, 27, 28, 29, 30, 31, 32, 33, 34, 35, 36, 37, 38, 39, 40, 41, 42, 43, 44,
45, 46
Silla 1
Sirca 1
Sirtori 1
Slovenia 1, 2, 3
Smith, Denis Mack 1, 2
Solferino 1
Somalia 1
Sondrio 1
Sorbona 1
Sorgimento 1, 2
Sorrento 1
Spadolini, Giovanni 1
Spagna 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 11, 12, 13, 14, 15, 16
Speroni, Francesco 1
Spoleto 1
Squillace 1
Stabia 1, 2
Stalin, Iosif 1
Starace, Achille 1
Strabone 1
Sturzo, Luigi 1
Sud Tirolo 1, 2, 3, 4, 5
Svezia 1
Svizzera 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 11, 12, 13, 14
Svizzera italiana 1
T
Taranto 1
Tassone, Francesco 1
Tauri 1
Teano 1
Tenda 1, 2, 3
Teodorico 1
Testaccio 1
Tevere 1
Thuile, La 1
Ticino 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9
Tilly 1
Tirolo 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 11, 12, 13, 14, 15, 16, 17, 18, 19, 20, 21, 22
Tito, Josip Broz 1, 2, 3
Togliatti, Palmiro 1
Tolomei, Ettore 1
Tommaseo, Niccolò 1
Torino 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 11, 12, 13, 14, 15, 16, 17
Toscana 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 11, 12, 13, 14, 15, 16, 17, 18, 19, 20, 21, 22,
23, 24, 25, 26, 27, 28, 29, 30, 31, 32
Trastevere 1
Tremaglia, Mirko 1,2
Trentino Alto Adige 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 11, 12, 13, 14, 15, 16
Trento 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 11
Treviri 1
Trieste 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 11, 12, 13, 14, 15, 16, 17, 18, 19, 20, 21, 22,
23, 24
Triplice Alleanza 1
Tripolitania 1
Triveneto 1
Tunisi 1
Turati, Filippo 1
Turbie, La 1
Tuscia 1, 2, 3
U
Udina, Antonio 1
Udine 1, 2
Umbria 1, 2, 3, 4, 5, 6
Ungheria 1
Ustica 1
Utrecht 1
V
Val di Mesolcina 1, 2, 3
Val di Müstair 1
Val di Susa 1
Valle d’Aosta 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 11, 12, 13, 14
Valle del Chisone 1
Valle di Calanca 1,2
Valle di Canton Grigioni 1, 2, 3, 4
Valle di Poschiavo 1, 2
Valle Varaita 1
Val Leventina 1
Vallo Antonino 1
Vallonia belga 1
Val Mesolcina 1
Valona 1, 2
Val Passiria 1, 2
Valsavaranche 1
Valtellina 1, 2, 3, 4
Varo 1, 2
Varvaro, Alberto 1
Vasari, Giorgio 1
Veglia 1
Veneto 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 11, 12, 13, 14, 15, 16, 17, 18, 19
Venezia 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 11, 12, 13, 14, 15, 16, 17, 18, 19, 20, 21, 22,
23, 24, 25, 26, 27, 28, 29, 30, 31, 32, 33, 34, 35
Venezia Giulia 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 11, 12
Venezia Tridentina 1,2
Venosa 1
Verona 1
Verri, Pietro 1
Vienna 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10
Vilfan, Josip 1
Villers Cotteréts, Editto di 1,2
Vittorio Emanuele II di Savoia 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 11, 12
Volpe, Gioacchino 1
W
Walther, Wilhelm 1, 2
Wartburg, Walther 1,2
Weissensteiner, Gerda 1
Westminster 1
Wilson, Woodrow 1, 2
Y
Yucatán 1
Z
Zabče 1
Zante 1
Zara 1, 2, 3, 4, 5
Zaravecchia 1
Zerbi, Tommaso 1
Zitara, Nicola 1, 2
Zorzi, Bartolomeo 1
Zuccarini, Oliviero 1
***
Le 20 occorrenze più frequenti
Lemma N. occorrenze
Sardegna 56
Roma 53
Francia 46
Sicilia 46
Venezia 35
Padania 34
Toscana 32
Austria 27
Savoia 27
Corsica 26
Trieste 24
Europa 23
Mussolini, Benito 22
Tirolo 22
Istria 21
Alpi 19
Veneto 19
Germania 18
Milano 18
Lombardia 17
goWare “e-book” team
goWare è una startup costituita da autori, editor, redattori e sviluppatori che
condividono la visione sul futuro delle nuove tecnologie e la passione per
l’editoria.
Raccogliere, selezionare e organizzare i contenuti allo scopo di renderli a
portata di touch è la sfida quotidiana di goWare come casa editrice digitale.
Operativamente goWare è costituita da due team: goWare “app” team, che
si occupa di concepire e sviluppare applicazioni per iPhone e iPad e goWare
“e-book” team, specializzato in editoria digitale, creazione di ebook,
consulenza e formazione in campo editoriale. Il goWare team è composto da
Marco Arrighi, Roberto Avanzi, Elisa Baglioni, Stefano Cipriani, Valeria Filippi,
Giacomo Fontani, Mirella Francalanci, Patrizia Ghilardi, Mario Mancini, Alice
Mazzoni, Alessio Orlando, Lorenzo Puliti, Maria Concetta Ranieri.
Manifesto di goWare
Il contenuto in digitale è un’altra cosa
Pensiamo che i contenuti digitali siano differenti da quelli distribuiti attraverso
i media tradizionali, diversi nel formato, nel design, nel pubblico che li fruisce.
Lavoriamo per valorizzare questa diversità, curando nel dettaglio la
realizzazione di ebook ed enhanced book pensati per un’esperienza di lettura
autenticamente digitale.
Abbasso il piombo!
Gli ebook di goWare sono progettati e realizzati per vivere in un ecosistema
digitale. Ci ispiriamo a Wikipedia: la lettura digitale ha bisogno di link per
farci spaziare da un contesto a un altro. È inoltre sincopata: la
cementificazione del testo è finita! Abbasso il piombo, viva il link. La
partecipazione distratta non ci spaventa.
Siamo nomadi
Sia i nativi che gli immigrati digitali non sono per niente stanziali, sono
nomadi, si spostano continuamente da un dispositivo all’altro e da una
piattaforma all’altra. I nostri contenuti sono pensati per spostarsi con loro.
Dillo subito, e con una narrazione possibilmente visuale
Curati, interessanti e veloci da leggere, gli ebook di goWare vanno al sodo e
non contemplano solo il testo: la narrazione visuale e quella musicale sono
parte integrante della progettazione.
Detto altrimenti...
... cioè con le parole della poetessa inglese Ruth Padel
Di’ addio al potrebbe-esser-stato [...]
vai perché sei vivo,
perché stai morendo o sei, forse, già morto
Vai perché devi.
goWare – meme. Filosofia