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FILOLOGIA

&
CRITICA
rivista quadrimestrale
pubblicata sotto gli auspici del centro pio rajna
direzione: bruno basile, renzo bragantini, roberto fedi,
enrico malato (dir. resp.), matteo palumbo

ANNO XXXVII · 2012

SALERNO EDITRICE
ROMA
Direzione
Bruno Basile, Renzo Bragantini, Roberto Fedi,
Enrico Malato, Matteo Palumbo

Consiglio di Direzione
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Andrea Mazzucchi, María de las Nieves Muñiz Muñiz,
Manlio Pastore Stocchi, Emilio Russo

Direttore responsabile
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Redazione
Massimiliano Malavasi

I saggi pubblicati nella Rivista sono vagliati e approvati


da specialisti del settore esterni alla Direzione (Peer reviewed )

Autorizzazione del Tribunale di Roma n. 16065 del 13.10.1975


L’annata viene stampata con un contributo
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uso e con qualsiasi mezzo effettuati, senza la preventiva autorizzazione scritta della
Salerno Editrice S.r.l. Ogni abuso sarà perseguito a norma di legge.
La figura dell’angelo sterminatore
nella narrativa italiana del disincanto
postunitario (Zola, Pirandello,
De Roberto, Borgese)*

Quella notte l’angelo del Signore venne


e colpí negli accampamenti degli Assiri
centottantacinquemila uomini.
(4 Reg., 19 35)

– Sai cosa hanno sempre sostenuto gli anarchici.


– Sí.
– Dimmelo, – disse lei.
– L’impulso di distruzione è un impulso creativo.
(Don DeLillo, Cosmopolis, trad. it., Torino, Einaudi, 2003, p. 80)

1. Zola e l’anti-mito di Roma

In Rome di Zola – romanzo fluviale, secondo della trilogia Les trois villes
che comprende Lourdes e Paris –, pubblicato nel 1896 in contemporanea in
Francia e in Italia,1 appare nelle ultime pagine una figura inquietante: un
ragazzo dall’aria tranquilla e i propositi feroci, un anarchico bombarolo, al­
meno nei sogni e nei discorsi, intenzionato a distruggere con i suoi com­
pagni la “terza Roma” per poterla ricostruire daccapo, su nuove fondamen­
ta.
Siamo nel 1894.2 Il suo nome è Angiolo Mascara. È il nipote ventenne di

* Ringrazio Gianni Maffei e Matteo Palumbo che hanno letto una prima stesura di queste
pagine, scritte per una miscellanea in memoria di Serge Vanvolsem che vedrà la luce nel
prossimo anno.
1. E. Zola, Rome, Paris, Charpentier, 1896; in Italia il romanzo apparve a puntate (in ver­
sione ridotta) su « La Tribuna » prima di uscire in volume (Roma, traduzione di G. Palma [alias
Emilia Luzzatto], Roma, Stab. tip. della Tribuna, 1896). È dei mesi scorsi una riproposta del
romanzo, in traduzione italiana, preceduta da una non memorabile prefazione (cinque pagi­
ne) di Emanuele Trevi (Roma, Bordeaux, 2012). L’editore ripropone la versione otto­centesca
della Luzzatto (senza nominarla), precisando che è stata « rivisitata » sul testo ori­ginale. Le tap­
pe della composizione del romanzo (con l’inevitabile dossier di documenti, co­me da regola per
Zola e dintorni) sono tracciate da J. Noiray nella Préface (pp. 7-43) e nella Notice (pp. 900-29)
che corredano la sua recente edizione del romanzo (Paris, Gallimard, 1999), da cui cito d’ora
in poi indicando direttamente a testo le pagine.
2. Zola lavorò alla stesura del romanzo tra il 1894 (quando effettuò anche un soggiorno di

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claudio gigante

uno dei Mille, morto in Sicilia mentre combatteva insieme a Orlando Pra­
da. Prada è un vecchio patriota, un ottuagenario milanese che ha partecipa­
to a tutte le fasi del Risorgimento riuscendo a coronare il suo impegno – in
bilico tra gli ideali mazziniani della giovinezza, la militanza garibaldina e la
fede acquisita verso la nuova casa regnante – con l’ingresso trionfale a Ro­
ma tra i bersaglieri attraverso la breccia di Porta Pia. Ventiquattro anni sono
passati da quel giorno: è il tempo del secondo governo Crispi; una stagione
di crisi non soltanto per le conseguenze degli scandali finanziari legati alla
Banca Romana e per le infuocate tensioni sociali esistenti in diverse aree
del Paese, ma anche per i dubbi sulla tenuta della stessa Unità.3
Prada vive da tempo paralizzato, colpito da apoplessia, in un appartamen­
to di via XX settembre della nuova capitale: una strada che dovrebbe piú
di ogni altra ricordare il valore morale, per chi credette nel Risorgimento,
della conquista della città; ma che ora, divenuta sede del Ministero delle Fi­
nanze (« les toitures du colossal Ministère des Finances étalaient des steppes
désastreuses, infinies et blafardes, d’une cruelle laideur », p. 205), è il simbo­
lo dell’altra faccia della medaglia: il mito di Roma – la convinzione ch’essa
sia, per dirla con le parole di Carlino Altoviti, « il nodo gordiano » dei « de­
stini » della nazione –,4 coltivato dalle generazioni precedenti, è stato dis­solto
dalle nuove classi dirigenti, dalla religione del danaro e della speculazione;
un credo micidiale e assai piú contagioso del tradito amor di patria.5

due mesi nella capitale) e la primavera del 1896. Cfr. G. Luciani, Zola visiteur de Rome ou du
bon usage du ‘Baedeker’, nel vol. Il terzo Zola. Émile Zola dopo i ‘Rougon-Macquart’, a cura di G.C.
Menichelli, Napoli, Ist. Universitario Orientale, 1990, pp. 173-89.
3. Ricordo che Crispi, nel colloquio che ebbe con Umberto I in vista della formazione del
nuovo governo, rivelò al sovrano che c’erano fondati timori di una secessione repubblicana
nel Nord: si sarebbe parlato, addirittura, di una nuova Cisalpina. Cfr. Ch. Duggan, Creare la
nazione. Vita di Francesco Crispi, trad. it., Roma-Bari, Laterza, 2000, pp. 760-64; F. Cammarano,
Storia dell’Italia liberale, ivi, id., 2011, p. 168.
4. I. Nievo, Le confessioni d’un Italiano, a cura di S. Casini, Parma, Guanda, 1999, cap. xvi, p.
1007. E il vecchio Orlando esclama: « [Rome] elle seule était le lien, le symbole vivant de no­
tre unité » (Zola, Rome, cit., p. 838). Sul mito di Roma basti il rinvio, tra tanta messe bi­
bliografica, all’ormai classico P. Treves, L’idea di Roma e la cultura italiana del XIX secolo, Mi­
lano-Napoli, Ricciardi, 1962.
5. Sulla figura di Prada nel romanzo vd. S. Guermès, Fiction et diction du Risorgimento dans la
littérature de langue française, de Charles Didier à Émile Zola, nel vol. Il romanzo del Risorgimento, a
cura di C. Gigante e D. Vanden Berghe, Bruxelles, P.I.E. Peter Lang, 2011, pp. 211-27, in
partic. pp. 217-18; in un’ottica diversa, dove sono sfiorati anche argomenti di cui si tratta nelle
prime pagine del presente contributo (compresa la riformulazione di qualche periodo), C.
Gigante, Effetti dell’unificazione tra entusiasmo, disincanto, delusione (Cattaneo, d’Azeglio, Nievo, Zo­
la, Carpi), nel vol. Pre-sentimenti dell’Unità d’Italia nella tradizione culturale dal Due all’Ottocento. At­ti

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la figura dell’angelo sterminatore nella narrativa italiana

Il protagonista di Rome, Pierre Froment, un prete francese giunto in Ita­


lia per tentare di difendere un suo libro dalla condanna all’Indice6 (condan­
na che puntualmente arriverà, malgrado il colloquio che egli riesce a otte­
nere da papa Leone XIII),7 incontra il vecchio Orlando Prada due volte
(capp. iv e xvi). Costretto all’immobilità, inchiodato alla sua poltrona, Or­
lando può solo contemplare dalla sua “cella” di milite a riposo il panorama
di Roma, che simboleggia tutto quello che ha desiderato nella sua vita; si
abbevera di questa visione quasi a volere cercare un sostegno capace di con­
ferirgli un nuovo orizzonte ideale, di fronte alla devastazione morale del
presente: che non è soltanto dovuta alla corruzione del mondo politico, che
pure ha un suo peso, ma alla scoperta che l’Unità è ancora da farsi (non man­
ca il richiamo a d’Azeglio, p. 223); che i cittadini del Nord e del Sud han­
no alle spalle secoli di culture differenti e continuano a restare moralmente
distanti (l’opposizione è, prevedibilmente, tra il Nord formato da uomini
onesti e laboriosi e il Sud popolato da gente parolaia, ingenua e disonesta).
È una visione di maniera, fondata in larga parte sulle asserzioni presenti in
un articolo di Alfred Berl,8 su cui ho già avuto modo di soffermarmi altro­
ve.9 L’idea di fondo, irritante quanto inesatta, è che l’Unità sia dovuta all’i­
dealismo operoso del Nord; fatta l’Italia, coronata l’epopea nazionale con la
conquista di Roma, sono arrivati i meridionali, privi di orizzonti ideali ma
pronti a fare affari, organizzare speculazioni, impadronirsi della gestione

del Convegno di Roma, 24-27 ottobre 2011, a cura di C. Gigante e E. Russo, Roma, Salerno
Editrice, 2012, pp. 397-423.
6. Il destino accomuna questo libro immaginario a Rome e agli altri romanzi zoliani, tutti
messi all’Indice (cfr. S. Disegni, Émile Zola all’Indice, in « Esperienze letterarie », a. iv 2008, pp.
47-78).
7. L’episodio, insieme ad altri aspetti, sarà imitato ne Il santo di Fogazzaro: cfr. L. Morbiato,
Zola e Fogazzaro: le « soldat de la vérité » e il cavaliere dello spirito, nel vol. Antonio Fogazzaro, num.
mon. di « Filologia Veneta », a. iv 1993, pp. 51-86; F. Romboli, Zola e Fogazzaro: paragrafi per un
confronto, in F.eC., a. xxviii 2003, pp. 350-71; L. Curreri, De Bruges à Rome. ‘Il Santo’ d’Antonio
Fogazzaro, in Les Villes du Symbolisme. Actes du Colloque de Bruxelles, 21-23 octobre 2003, edi­
tée par M. Quaghebeur, Bruxelles, P.I.E. Peter Lang, 2007, pp. 111-22, alle pp. 113-14.
8. Cfr. A. Berl, Les deux Rome en 1894, in « La revue de Paris », a. i 1894, to. v pp. 541-74, a
p. 551: « L’Italien du nord, calme, brave, industrieux, robuste, instruit, économe et intègre,
apporte dans la vie publique ces qualités solides et foncières. Le Méridional est tout autre
d’esprit, de caractère, de tempérament. Impressionnable et mou, facile et spirituel, prompt
d’esprit et d’imagination, moqueur et pétulant, il est aussi d’une ignorance profonde, d’un
individualisme effréné, incapable d’effort […] et surtout, en matière politique, sans scrupules
et sans moralité ». E vd. anche R. Bazin, Les Italiens d’aujourd’hui, in « Revue des deux mondes »,
a. lxiii 1893, vol. cxviii pp. 47-94 e 524-71, partic. pp. 86-87. I due articoli sono stati da tempo
segnalati dalla critica zoliana (cfr. Noiray, Notice, cit., pp. 903-5).
9. Cfr. Gigante, Effetti dell’unificazione, cit., pp. 414-19.

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della cosa pubblica. Secondo Berl, riecheggiato senza alcuna sfumatura nel
pensiero che Zola attribuisce al suo personaggio Prada, la grave malattia
che affligge la capitale, e quindi l’Italia, nasce dalla meridionalizzazione del­
la politica; il parlamento è nelle mani dei deputati che vengono dal Sud: gen­
te che si è dedicata a una spoliazione sistematica delle pubbliche finanze.
Nel romanzo, odiato dal vecchio milanese Prada, è il napoletano Sacco (un
cognome non scelto a caso: in lui « l’Italie du Mi­di flambait avec sa rage d’ap­
pétits continuelle », p. 209) che incarna il tipo del­l’affarista sbarcato a Ro­ma,
lanciatosi – anche grazie a un’annunziata nomina ministeriale – alla con­qui­
sta del potere.
Ma non è solo un problema Nord-Sud: c’è anche – vivissima –, come
accennavo piú sopra, la questione generazionale. Il vecchio Orlando Prada,
malgrado le condizioni fisiche, è uno di quei vecchi che restano « plus virils,
plus passionés que les jeunes » (p. 222). Il figlio Luigi, allevato da Orlando
nel mito della costruzione nazionale, è divenuto invece uno dei piú intri­
ganti affaristi della nuova capitale; avido e senza scrupoli (« le fils du héros
que la conquête a gâté, qui mange à dents pleines la moisson coupée par
l’épée glorieuse du père », p. 216), ammira il padre ma non riesce a farsi con­
tagiare dalla sua passione né dai suoi ideali, anche se non manca a suo mo­
do di una visione lucida sull’avvenire di Roma: che potrà divenire una ca­
pitale moderna come Parigi e Berlino soltanto se saprà trovare una nuova
vita, senza rassegnarsi a essere un « musée croulant » (ibid.).
I « vecchi » muoiono e non c’è un « giovane » che ne prenda il testimo­
ne ideale, grida Orlando (p. 208). L’ardore dei « vecchi » per la conquista del­
l’Unità e di Roma, desiderata come e piú di una donna, anche la piú amata
(« Moi, je l’ai aimée et voulue plus qu’aucune femme », p. 204), si è trasfor­
mato nei « giovani » non soltanto in sete di affari, ma anche in una sorta di
abulia di ideali, quasi un tragico contrappasso delle passioni dei « vecchi ».
Se il vecchio Orlando Prada ancora spera nella grandezza di Roma (« Ro­
me a beau être lourde à nos épaules, elle n’en est pas moins le sommet que
nous avons voulu », pp. 839-40) e nell’Unità dell’Italia, la sua speranza è rap­
presentata come una lontana futura utopia, che non ha alcun rapporto con
il presente, ma è soltanto nutrita da un’incrollabile fede nell’Idea di nazione
che un giorno darà i suoi frutti (« L’Italie renaîtra dans sa glorie ancienne,
dès que le grand peuple de demain aura poussé de terre! », p. 847); mentre
nei pochi « giovani » in cui sono ancora vivi i semi dell’ideale inizia a serpeg­
giare un desiderio di anarchia e distruzione. Ed è qui che il discorso ci inte­
ressa piú da vicino.
Angiolo Mascara, di cui si diceva in apertura, è un ventenne imberbe

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la figura dell’angelo sterminatore nella narrativa italiana

dal­­l’aspetto innocuo, addirittura femminile (« Sur son visage imberbe, d’u­


ne beauté de fille blonde, les moindres émotions passaient en rougeurs
soudaines », p. 849); è un giovane incontaminato, a suo modo un visionario
come il vecchio Prada, che sogna di distruggere Roma « à coups de bom­
bes » (p. 848) per poterla riedificare:
« Je la reconstruirais », répéta l’enfant debout, d’une voix tremblante de prophète
inspiré, « je la reconstruirais, oh! si grande, si belle, si noble! Ne faut-il pas pour l’u­
niverselle démocratie de demain, pour l’humanité enfin libre, une cité unique, l’ar­
che d’alliance, le centre même du monde? Et n’est-ce pas Rome qui est désignée,
que les prophéties ont marquée comme l’éternelle, l’immortelle, celle en qui s’ac­
compliront les destinées des peuples? Mais, pour qu’elle devienne le sanctuaire dé­
finitif […], on doit la purifier d’abord par le feu, ne rien laisser en elle des souillures
anciennes. Ensuite, quand le soleil aura bu les pestilences du vieux sol, nous la re­
bâtirons dix fois plus belle, dix fois plus grande qu’elle n’a jamais été […] » (p. 849).

Dalle ceneri della terza Roma nascerà la quarta, prospera e vigorosa: il fuo­
co purificatore degli anarchici permetterà di cancellare l’ignominioso pre­
sente, segnato dalla corruzione e dal cinismo, e di dar vita a una nuova ca­
pitale, capace di rinnovare il mito antico nel segno di una rinascita morale.
Il romanzo di Zola non concede altro spazio al giovane anarchico; vale
notare che il suo rapido apparire non è legato propriamente a una volontà
di distruzione, tema affiorante anche altrove nella letteratura fin de siècle. Si
tratta di un’apocalissi costruttiva, di un fuoco che si vuole palingenetico:
una delle prime rappresentazioni di quel desiderio di un “bagno di sangue
rigeneratore” che troverà il suo culmine – retorico e poi tragicamente fat­
tuale – in una certa visione della Grande Guerra. È un tema che, attraverso
altre figure di angeli sterminatori, proverò a rintracciare in tre romanzi di
tre autori siciliani di generazioni diverse, che a loro modo si posero il pro­
blema della degenerazione e della possibile rigenerazione nazionale.

2. Un vendicatore inetto ne I vecchi e i giovani

Nell’immaginario dei lettori pirandelliani Antonio Del Re è poco piú


di una comparsa. Un « giovinotto alto, smilzo, a cui le lenti serrate in cima
al naso, congiungendo le folte sopracciglia, davano un’aria di cupa e rigi­
da tenacia »; e poi, immancabilmente, è di aspetto « pallidissimo », talvolta
addirittura « cereo ».10 Ne I vecchi e i giovani – nella cui genesi, a mio avvi­

10. L. Pirandello, I vecchi e i giovani, in Id., Tutti i romanzi, a cura di G. Macchia, con la

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claudio gigante

so,11 Rome di Zola ha svolto un ruolo non secondario (ipotesi che si adatte­
rebbe bene, fra l’altro, alla recente proposta, fondata sul reperimento di due
foglietti autografi conservati alla Houghton Library, di anticipare al 1896,
cioè proprio all’anno di pubblicazione di Rome, l’inizio della gestazione del
romanzo di Pirandello) –12 il diciottenne Del Re sarebbe, secondo un’intui­
zione di Leonardo Sciascia, una proiezione autobiografica dell’autore non
soltanto per le note corrispondenze tra album di famiglia e romanzo:13 in­
carnerebbe anche lo sdegno di Pirandello « per il “sistema” […] che permet­
teva fosse pubblicamente infangata la classe dirigente che aveva fatto l’uni­
tà d’Italia ».14 È un’indicazione preziosa, anche se da non sopravvalutare: è
sin troppo nota l’abitudine pirandelliana di disseminare tra i suoi personag­
gi frammenti della propria identità, senza che per questo essi guadagnino il
diritto di essere considerati “autobiografici” a tutto tondo.
Come tutti i principali personaggi de I vecchi e i giovani, Antonio Del Re
è proiettato da Girgenti verso Roma. La sua natura di « inetto », nel senso
sveviano divenuto comune, è chiara sin dall’inizio: la sua rabbia, covata con
sdegno, non perviene a produrre in lui alcuna energia costruttiva, al mas­
simo qualche smorfia nervosa (« un fremito nelle labbra e nel naso », dopo
avere scoperto l’articolo sull’« Empedocle » che infama la memoria del non­
no garibaldino Stefano Auriti, condito con un tono di voce « vibrante » e un
atteggiamento « sprezzante », p. 91). Piú tardi lo troviamo, prima in Sicilia
poi nella capitale, alle prese con la sua fidanzata Celsina, figlia di Nocio Pi­
gna. Celsina è un po’ la cartina al tornasole che consente di capire Del Re.
È spigliata, ha studiato brillantemente nelle scuole e studierebbe ancora, ha
un’intelligenza vivace, non pensa – come l’ambiente crede (a cominciare
dal padre e dalle sorelle) e vuole forse farle credere – di essere condannata
« a funghir lí, in quel paese marcio, d’ignoranti » (p. 178). Antonio non vor­
rebbe che Celsina avesse un ruolo visibile, da conferenziera, nel movimen­
to dei Fasci organizzato dal padre e da Luca Lizio. È in fondo un desiderio

collaborazione di M. Costanzo, Milano, Mondadori, 1973, vol. ii pp. 3-515, a p. 90. Cito
sempre da questa edizione, indicando d’ora in poi le pagine direttamente a testo.
11. Ho discusso di questa ipotesi in un contributo in corso di stampa: C. Gigante, I “vecchi”
e i “giovani” di Zola. Un’ipotesi per Pirandello, nel vol. Armonia e conflitti: dinamiche familiari nella
narrativa italiana otto-novecentesca, a cura di I. De Seta, Bruxelles, P.I.E. Peter Lang.
12. Cfr. O. Frau, Per un manoscritto de ‘I vecchi e i giovani’, in « Ariel », a. xviii 2003, fasc. 1 pp.
123-51; A.R. Pupino, Pirandello o l’arte della dissonanza. Saggio sui romanzi, Roma, Salerno Editrice,
2008, pp. 190-97.
13. Com’è noto, Antonio Del Re, nipote di Roberto Auriti (fratello di sua madre), è figura
largamente ispirata a uno zio di Pirandello, Rocco Ricci Gramitto.
14. L. Sciascia, Pirandello e la Sicilia, Milano, Adelphi, 1996, p. 80.

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la figura dell’angelo sterminatore nella narrativa italiana

tutt’altro che difficile da capire, finanche banale quando si consideri il tem­


po e il luogo. Ma Celsina è piú avanti: gli dà pubblicamente del « Mamma­
lucco! » (p. 182); epiteto che denota la sua “passività” (forse pure la sua “ar­
retratezza”: anche se è Celsina a essere oltre il comune sentire del proprio
milieu): l’incapacità di Antonio Del Re di partecipare attivamente al gioco
della vita e nel contempo la sua gelosia verso chi è capace di andare oltre
una sterile indignazione.
La subordinazione morale di Antonio nei confronti di Celsina – subor­
dinazione che inverte i ranghi sociali dei due (la ragazza, già di umile con­
dizione, è a Girgenti disonorata irrimediabilmente a causa della “perdizio­
ne” di sua sorella Rosa) – non riguarda solo i rispettivi comportamenti nei
confronti del mondo esterno: è una dinamica caratteriale che è visibile nel
loro stesso rapporto di coppia. Al momento della partenza di Antonio per
Roma, Celsina prova a convincere il fidanzato a cercarle un’occupazione
nella capitale. Antonio, che consente senza convinzione, pensa solo a im­
plorare qualche altro bacio (« Antonio non si reggeva piú; ebro, perduto,
non poteva piú staccarsi da lei; le cercò la bocca, com’arso di sete, per un
altro bacio, che le penetrasse nel fondo piú fondo dell’anima; un altro bacio
smanioso, cocente, infinito, col quale darle tutto se stesso e prendersela tut­
ta, nello spasimo del piú violento desiderio », p. 249), incapace, si direbbe, a
forza di ridicole smancerie, di cercare la strada maggiore, la sola che farebbe
di lui un uomo, del possesso.
Antonio Del Re è un parente non lontano dello sveviano Alfonso Nitti,
che deve la sua audacia improvvisa all’imbeccata inopinata di Francesca, co­
lei che sarebbe in teoria chiamata a vigilare sulla condotta di Annetta (« Non
capisce che le carezze senza conseguenze tolgono ogni influenza su noi don­
ne agli uomini che le fanno? Baciucchiare! Ma è proprio il modo per non
arrivare a baciare mai! »).15 Celsina, carattere deciso e pragmatico, guarda co­
struttivamente al futuro, crede in fondo nella mobilità sociale quale con­
quista potenziale del mondo moderno; di fronte a lei, determinata a ricor­
dargli l’incarico di trovarle un lavoro qualunque a Roma, Antonio può sol­
tanto decantare il copione di un elegiaco addio, coronato dalla confessione
di dormire abbracciato a una bambola, dono beffardo (« Tieni; questa è per
te! Questa tu puoi amare! », p. 184) della stessa impertinente fidanzata:
– Non ridere, non ridere. […] Me la porto con me.

15. I. Svevo, Una vita, in Id., Romanzi e “continuazioni”, a cura di N. Palmieri e F. Vittorini,
intr. di M. Lavagetto, Milano, Mondadori, 2004, pp. 3-396, a p. 207.

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claudio gigante

– Ragazzo…
– Sai? stanotte è stata con me, abbracciata con me, a letto. E sempre…
– Ma va’! Non sono io, quella, sai!
– Lo so; ma è tua, è stata tua… Non l’hai baciata tu?
– Tanto, da bambina…
– E dunque…
– Va’, va’, Nino. Mi richiamano. Addio. Ricordati, sai? Scrivimi! Addio (p. 250).

Carattere introverso, studioso (« studiava anche troppo, con nocumento


finanche della salute », p. 264), miope, soffocato dall’affetto della madre ve­
dova (« Tutto il suo mondo, tutta la sua vita, da anni e anni, erano raccolti
nell’amore e nelle cure per quel suo unico bene », p. 263), Antonio (detto
anche Niní, Nino o Ninuccio) si appassiona solo a certi esperimenti di fisi­
ca imparati a scuola, all’Istituto Tecnico, grazie alla guida di un buon inse­
gnante: « e ora, andando a Roma, si proponeva di dedicarsi a essa [allo stu­
dio della fisica] interamente » (p. 267). Si vedrà con quali propositi.
Nipote di uno dei Mille morto in Sicilia, proprio come il nonno dell’An­
giolo Mascara di Zola, Antonio Del Re, giunto a Roma, può toccare con
mano, anche osservando la vita sregolata dello zio Roberto Auriti – garibal­
dino all’età di dodici anni, rimasto onesto nell’animo ma gravemente com­
promesso per il suo sodalizio con Corrado Selmi, a cui ha fatto per amicizia
(ma senza alcun profitto personale) da prestanome per ottenere danaro
dalla Banca Romana –, come la disfatta morale ch’egli aveva percepito sin
dalla remota Girgenti sia anche peggiore del presentito: sono coinvolti in
questa decadenza personaggi “degenerati” di ogni risma; non soltanto gli
approfittatori e i politicanti, che al solito finiranno per cavarsela, ma anche
persone, come Roberto Auriti, intimamente oneste. Per l’aria di Roma pu­
re l’esuberanza di Celsina – che è giunta nella capitale grazie al viaggio pa­
gato da Lando Laurentano ai rappresentanti dei Fasci siciliani diretti al con­
gresso politico di Reggio Emilia – si trasforma, almeno agli occhi di Anto­
nio Del Re, in potenziale perdizione, tanto piú plausibile visti i trascorsi
familiari (« Tu ti perderai! – le gridò [Antonio] tra i denti », p. 357).16
Roma, come in altri testi corrosivi coevi (a cominciare dal romanzo di
Zola), è la « putrida carogna », il « cadavere immane », la « cloaca » (pp. 274 e
423) che inghiotte danari e uccide speranze (similmente De Roberto, in
una lettera del 1909: « L’Italia è una putredine, e Roma è il cancro che la di­

16. Profezia che parrebbe avverarsi: verso la fine del romanzo si legge che due sorelle di
Celsina, Mita e Annicchia, si recano per disperazione « alla Posta a riscuotere un po’ di denaro
che Celsina aveva mandato da Roma, e di cui non sapevano che pensare… » (p. 451).

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la figura dell’angelo sterminatore nella narrativa italiana

strugge »);17 il solo contatto con la capitale è sufficiente non solo per spen­
gere ogni virtú ma anche per addormentare ogni passione. Nel caso di Pi­
randello, siamo parecchio oltre l’immagine, pure efficace, dell’acquasantie­
ra-posacenere del Mattia Pascal.18
Per la Roma politica sono, nel romanzo, i giorni dello scandalo della
Banca Romana: Roberto Auriti, Corrado Selmi, il ministro d’Atri, protago­
nisti loro malgrado e a vario titolo della « bancarotta patriottica », vantano
tutti dei trascorsi eroici, addirittura leggendari nel caso di Auriti (il fu « gio­
vinetto dalla camicia rossa », p. 84), e un presente ricco di non onorevoli com­
promessi. Sono tutti « impeciati », per dirla con le parole del ministro d’Atri
(« Tutti impeciati, ti dico! Tutti… tutti… Muojo di schifo… Il fango, fino
qua! »), che misura sulla sua pelle la lunga deriva: « da Quarto… ah, da quel­
la notte a questa, che baratro! » (p. 287).19
Resta solo una lugubre fantasia, per Antonio, il sogno già carezzato in
Sicilia di vendicare con la « mano armata » i torti della “malaunità”:
Educato alla scuola d’un dolor cupo e fiero, che sdegnava di sfogarsi a parole, d’una
rinunzia ancor piú fiera, che sdegnava ogni bassa invidia, se egli si fosse gettato
nella lotta, spezzando ogni legame ideale coi suoi, non avrebbe né proferito una
parola, né cercato compagni: a testa bassa, coi denti serrati e la mano armata, subito
all’atto si sarebbe avventato (p. 187).

A Roma la fantasia adolescenziale assume forme piú ambiziose; Antonio


progetta addirittura di emulare, ai danni del Parlamento, il talento bomba­
rolo del giovane Crispi – che del romanzo pirandelliano, al di là della pro­
babile parziale proiezione nel ministro d’Atri, è il vero sottaciuto grande
vecchio:20
L’idea gli era balenata, sentendo una sera a tavola discorrere del modello delle bom­

17. F. De Roberto, Lettere a donna Marianna degli Asmundo, a cura di S. Zappulla Muscarà,
Catania, Tringale, 1978, p. 151.
18. L. Pirandello, Il fu Mattia Pascal, in Id., Tutti i romanzi, cit., vol. i pp. 317-578, a p. 445: « I
papi ne avevano fatto – a modo loro, s’intende – un’acquasantiera; noi italiani ne abbiamo
fatto, a modo nostro, un portacenere. D’ogni paese siamo venuti qua a scuotervi la cenere del
nostro sigaro […] ». Su Roma « città morta » vd. G. Macchia, Pirandello o la stanza della tortura,
Milano, Mondadori, 1981, pp. 66-67.
19. Sulla simbologia del fango, della pece, della creta cfr. N. Merola, Il romanzo del­l’in­
fatuazione, saggio introduttivo all’ed. a sua cura de I vecchi e i giovani, Firenze, Giunti, 1994, pp.
xxv-xxxvi.
20. Sul modello delle « bombe Orsini », importato da Crispi in Sicilia nell’estate del 1859,
vd. Duggan, Creare la nazione, cit., pp. 179-80.

339
claudio gigante

be recate da Francesco Crispi in Sicilia alla vigilia della Rivoluzione del 1860 e della
preparazione di esse. Corrado Selmi aveva detto che ne aveva preparate alcune an­
che lui, di notte, nel magazzino preso in affitto da Francesco Riso presso il conven­
to della Gancia. Forte delle sue nozioni di chimica moderna, s’era messo a ridere e
aveva dimostrato quanto fosse puerile quella preparazione, e come adesso si sareb­
bero potuti ottenere effetti piú micidiali con ordigni di molto piú piccolo volume.
– Ecco! – aveva esclamato allora Corrado Selmi. – Per fare un po’ di festa, biso­
gnerebbe buttare dalle tribune uno di questi giocattolini nell’aula del Parlamento!
D’improvviso [Antonio Del Re] s’era sentito prendere e predominar tutto da
quest’idea. […] Sí, sí, questa sarebbe la giusta vendetta, questo lo sfogo di tutte le
amarezze, che avevano attossicato la sua vita e quella dei suoi; e a quei suoi compa­
gni là, di Sicilia, cianciatori, avrebbe dimostrato che lui solo sapeva far quello che
loro tutti insieme non avrebbero mai saputo (pp. 349-50).

Ma chiuso nella sua rabbia, non reattivo, per fatto personale o onore di
famiglia, Del Re sembra nella realtà capace soltanto di minacciare di morte
con un coltello un uomo politico, Corrado Selmi, che sta già morendo sui­
cida per i fatti suoi e che trova il tempo, prima di venir meno (ha assunto
del veleno), di sbeffeggiare il suo aspirante attentatore: « Impara a ridere, gio­
vanotto… Va’ fuori: oggi è una bellissima giornata » (p. 398).
Da anarchico potenziale, Antonio Del Re torna a essere un ventenne at­
tardato, votato all’implosione e all’inazione: se altri giovani del romanzo so­
no moralmente “degenerati”, Del Re è un giovane “degenerato” di altro ti­
po, una di quelle figure fin de siècle incapaci di agire e di uscire da una dimen­
sione immaginativa dell’esistenza, su cui si esercitava la sinistra ermeneutica
sociale di Nordau.21 La coscienza dell’irrimediabile morte di ogni ideale po­
litico, il riverbero sinistro dello scandalo della Banca Romana sulla sua fami­
glia (a lungo illusoriamente considerata impoverita per la presunta sua pu­
rezza), l’attentato ridicolo e incompiuto ai danni di Selmi, annichiliscono del
tutto il serioso vendicatore. Che è destinato a tornare indietro, in Sicilia, in
una condizione di oblio, « folgorato lo spirito » (p. 426), con alle spalle uno
sterminio mancato e davanti a sé un’esistenza definitivamente vuota.

3. La parabola di Federico Ranaldi nell’Imperio di De Roberto

La composizione accidentata e mai portata a termine de L’Imperio di


Federico De Roberto, pubblicato postumo nel 1929, ha inizio all’indomani

21. Cfr. ora S. Acocella, Effetto Nordau. Figure della degenerazione nella letteratura italiana tra
Ottocento e Novecento, Napoli, Liguori, 2012.

340
la figura dell’angelo sterminatore nella narrativa italiana

dell’apparizione de I Viceré, avvenuta nel 1894: nello stesso clima di scan­


dali e tradimenti ideali, dunque, che ha ispirato Zola per Rome e Pirandel­
lo per I vecchi e i giovani. La lunga gestazione dell’Imperio,22 che conosce una
nuova fase di scrittura durante il soggiorno romano dell’autore iniziato al­
la fine del 1908 e proseguito, con interruzioni, sino ai primi mesi del 1913,
s’incrocia con la pubblicazione dei due terzi del romanzo pirandelliano av­
venuta durante il 1909 (da gennaio a novembre) sulla « Rassegna contem­
poranea » e forse anche, se De Roberto non aveva lasciato del tutto perdere,
con l’edizione in volume del 1913 (Milano, Treves).23
Del romanzo di De Roberto interessa qui la figura, pur essa in parte
moralmente autobiografica (a giudicare dal nome), del deuteragonista Fe­
derico Ranaldi: anch’egli dalla provincia (dal Salernitano) giunge a Roma;
anch’egli – come ad esempio il vecchio Mauro Mortara de I vecchi e i giovani
– parte con un bagaglio di storia ideale che viene annichilito dal disvela­
mento delle condizioni effettive di abominio della politica romana. Siamo
tra Risorgimento tradito e romanzo parlamentare, condizione che rende L’Im­
perio prossimo a tematiche di sensibilità ancora attuale: il glorioso “connu­
bio” del decennio di preparazione cavouriano è divenuto vergognoso tra­
sformismo; la riforma elettorale del 1882 ha allargato il suffragio senza avvi­
cinare il Parlamento ai bisogni del popolo; quanto alla Destra e alla Sinistra,
appaiono sempre piú divisioni puramente nominali. Federico Ranaldi, da
poco a Roma (siamo nel 1883), fervente sostenitore della Destra, il partito
storico che ai suoi occhi aveva avuto i meriti maggiori nella costituzione del
Regno e nella gestione del primo difficilissimo quindicennio unitario, si me­
raviglia di vedere entrare l’avvocato Satta, deputato della Sinistra, nella re­
dazione del giornale di destra l’« Italiano »: « Egli [Federico] credeva che gli av­
versari politici non si potessero incontrare se non sul terreno della lotta ».24
Spetta a Satta spiegargli che i tempi sono cambiati:
Due partiti che da anni ed anni si combattono, si dilaniano, si calunniano, adesso,
guardandosi bene in faccia, cominciano a pensare che forse, in fondo, non c’è tra
loro nessuna differenza. Quando la Sinistra non aveva ancor fatto l’esperimento del
potere, era difficile, sí, che quest’idea venisse in mente a qualcuno; ma ora? I con­

22. Le tappe della composizione sono ricostruite da N. Zago nell’Introduzione all’ed. del
romanzo a sua cura (Milano, Rizzoli, 2009), pp. 5-13.
23. Per la storia editoriale de I vecchi e i giovani vd. M. Costanzo, Nota ai testi e varianti, in
Pirandello, Tutti i romanzi, cit., vol. ii pp. 905-7.
24. F. De Roberto, L’Imperio, in Id., Romanzi, novelle e saggi, a cura di C.A. Madrignani,
Milano, Mondadori, 1984, pp. 1105-388, a p. 1199. Cito sempre da questa edizione, indicando
d’ora in poi le pagine direttamente a testo.

341
claudio gigante

servatori che temevano il finimondo dall’opera dei progressisti, si sono accorti che
il mondo durerà quanto ha da durare; e se noi fossimo stati al governo durante la
formazione del regno, diciamola tra noi, avremmo poi fatto molto diversamente da
quelli contro i quali gridavamo?… (p. 1203).

Il disincanto di Federico è progressivo ma inarrestabile: se gli studi all’u­


niversità di Napoli avevano lasciata intatta la fede nella Destra e piú in ge­
nerale nell’ordinamento albertino trasfuso nel nuovo Regno, il contatto con
la capitale e la consuetudine, da giornalista, con gli uomini di potere (fra cui
il protagonista Consalvo Uzeda, il rampollo dei Viceré) prosciugano in lui
ogni empito passionale. Il punto terminale della conversione di Federico,
da credente nella causa politica a scettico demotivato, è la conferenza con­
tro il socialismo che Consalvo Uzeda decide di tenere dopo avere a lungo
esitato: ogni suo atto politico è mero figlio del suo opportunismo.
Consalvo si è fatto eleggere al Parlamento anche giovandosi del voto po­
polare (« l’assetto della sovranità popolare e il benessere delle classi laborio­
se debbono essere scopo precipuo dei legislatori – aveva affermato fra l’al­tro
durante il suo comizio elettorale, nelle ultime pagine dei Viceré –, sarà im­
possibile raggiungerlo se non verranno a sedere alla Camera i piú legit­ti­
mi, i piú diretti rappresentanti del popolo. Lasciatemi quindi augurare che
molti candidati operai riescano eletti »);25 arrivato a Roma, si è rapidamente
posizionato a destra « tra i piú rigidi conservatori » (p. 1262) ma coltivando
anche posizioni intermedie, di dialogo con tutti; a questo scopo ha con altri
dato vita e finanziato il giornale « La Cronaca » (su cui scrive il giovane Ra­
naldi) che dovrebbe dare voce al credo “trasformista”, inteso, almeno per
chi vuole crederlo, come il superamento degli schieramenti tradizionali a
beneficio dei presunti supremi interessi della nazione.
Privo di orizzonti ideali, Consalvo è in realtà a un certo punto tentato da
un passaggio di campo a sinistra, non senza avere vagheggiato, addirittura,
un possibile sodalizio con esponenti repubblicani e socialisti. Non è certo
il credo egualitario ad averlo contagiato (« Tutta la sua educazione e tutta la
sua piú intima persuasione protestavano contro questa eguaglianza; egli
non ammetteva che fossero sinceri neppure quelli che la predicavano con
fervore di apostoli », p. 1263), ma l’irritazione per non avere ricevuto signi­
ficativi benefici dagli schieramenti politici tradizionali sino ad allora soste­
nuti. Per qualche tempo i repubblicani, ch’egli considera d’indole oppor­
tunistica (secondo un modo di valutare tipico ancora oggi del politico cor­

25. F. De Roberto, I Viceré, in Id., Romanzi, novelle e saggi, cit., pp. 411-1103, a p. 1087.

342
la figura dell’angelo sterminatore nella narrativa italiana

rotto: la convinzione che tutti, alla fin fine, coltivino i soli propri interessi),
sono valutati con ammirazione: « Hanno ragione coloro che fanno i repub­
blicani! Se viene la rivoluzione si trovano dalla parte del manico, e se non
viene, per la paura che venga, i nostri buoni amici li tengono da conto, li
accarezzano e li piaggiano » (ibid.). Se poi Consalvo accetta la proposta di
tenere una conferenza contro il socialismo, è solo perché si convince che si
tratti di un’occasione propizia per guadagnare notorietà anche al di là della
società romana.
Il discorso di Consalvo Uzeda, ricco di prevedibili facezie condite da
triviale buon senso, segna il punto finale del percorso di Federico Ranaldi,
presente al teatro Valle tra gli spettatori del comizio: l’egoismo del deputa­
to Uzeda e la facilità con cui ha dimostrato a un pubblico compiacente l’i­
neluttabilità della miseria e dello sfruttamento dei lavoratori, quasi si trat­
tasse del prodotto necessario di una legge di natura, tolgono a Federico quel­
la quota residuale di idealismo politico e di fedeltà al partito conservatore
che ancora coltivava; inizia paradossalmente a considerare per la prima vol­
ta con occhio diverso le teorie progressiste (« Da quella conferenza contro
il socialismo egli sentiva d’essere uscito socialista », p. 1301). D’altro canto,
Consalvo ottiene con il comizio l’effetto sperato: il suo nome è sulla boc­
ca di tutti; la sua fama è inoltre accresciuta dall’attentato che subisce il gior­
no stesso pur senza gravi conseguenze.26
È nel nono e ultimo capitolo de L’Imperio ambientato, a quel che è dato
di capire, all’indomani della disfatta di Adua (siamo dunque nel 1896), cau­
sa nel romanzo delle dimissioni del ministro Consalvo (qui chiaramente
controfigura di Francesco Crispi), che Federico Ranaldi, tornato a tempo
indeterminato a Salerno con alle spalle una conoscenza ormai profonda e
disincantata della politica italiana, è contagiato sia pure solo mentalmente
dal sogno di una distruzione innestata da un attentato dinamitardo.
Vale ricordare che il capitolo segue, nella cronologia interna del romanzo,
un lungo vuoto temporale mai colmato dall’autore (nulla sappiamo dell’e­
volversi dei vari filamenti narrativi interrotti nel capitolo precedente).27 Tor­
nato dunque in provincia, Federico Ranaldi ha assunto un profilo caratteria­

26. È una zona del testo particolarmente disagiata che avrebbe avuto piú di altre bisogno
della revisione dell’autore: alla fine del cap. vii si parla di « due colpi di revolver » (p. 1301), al­
l’inizio del cap. viii della « lama d’un pugnale » (p. 1305).
27. Alla lacuna temporale del romanzo corrisponde probabilmente la piú lunga inter­ru­
zione della sua composizione. Incongruenze nella trama, ugualmente imputabili a fasi dif­
ferenti di stesura mai rese del tutto omogenee da una revisione, sussistono anche tra i pri­mi
cinque capitoli e i tre successivi.

343
claudio gigante

le assai simile a quello del pirandelliano Antonio Del Re: si è chiuso, incu­
pito, in se stesso, meditando un suicidio che sembrerebbe il suggello piú
prevedibile alla sua personale discesa dall’Olimpo del patriottismo ideale
agli inferi della lunga permanenza nella capitale (« vent’anni di pandemonio
politico », p. 1376).28 Il suo desiderio di distruzione – il sogno che si formi un
partito di « biofobi » e di « geoclasti » che faccia « saltare a pezzo a pezzo il
mondo » (pp. 1375-76) – è stato autorevolmente apparentato ad altre visioni
apocalittiche coeve, con riferimento in primo luogo a La coscienza di Zeno.29
Tuttavia Ranaldi, nel prendere spunto da un episodio di cronaca este­
ra (il fallito attentato dinamitardo di un anarchico contro il parlamento di
Vienna) sviluppa, a differenza di Zeno, un ragionamento politico che è ge­
nerato dalla propria delusione nei confronti della sterilità della rivoluzione
italiana – come ai tempi di De Roberto ancora si chiamava comunemente
il nostro Risorgimento – nei confronti della quale « tanta fede » giovanile (p.
1380) aveva nutrito. L’apocalissi evocata da Zeno nella pagina finale della
Coscienza è invece priva di connotati politici (come del resto lo sono tutti i
romanzi sveviani):30 è un apologo sul progresso, di cui l’uomo si illude di

28. L’indicazione non è compatibile con la cronologia implicita del romanzo: se a Roma


Federico è giunto nell’anno della riforma della legge elettorale, dunque nel 1882 o nei primi
mesi del 1883, può avervi trascorso non piú di quattordici anni.
29. Alludo a M. Lavagetto, L’impiegato Schmitz e altri saggi su Svevo, Torino, Einaudi, 19862,
pp. 201-7. Quale possibile retroterra comune a Svevo e De Roberto – una volta scartata una
impossibile interferenza diretta – Lavagetto cita, sul piano romanzesco, due passi de La joie
de vivre di Zola e de L’île des pingouins di Anatole France; un brano di Le disciple di Bourget,
forse piú decisivo, è segnalato da Lavagetto nel saggio introduttivo (Il romanzo oltre la fine del
mondo) all’ed. cit. dei Romanzi, a p. lxxxi. R. Bigazzi, I colori del vero. Vent’anni di narrativa: 1860-
1880, 2a ed. accresciuta, Pisa, Nistri-Lischi, 1978, pp. 470 sgg., aveva già citato Bourget, ma a
proposito degli Essais de psychologie contemporaine, ove è riportato e discusso un brano visionario
tratto dai Dialogues di Ernest Renan che prefigura l’ascesa al potere di un’élite di scienziati che
avrà i mezzi per distruggere il mondo (« une ligue capable de disposer de l’existence même
de la planète »; cito dall’ed. degli Essais di P. Bourget, Paris, Librairie Plon, 1920, p. 92). Piú
di recente Giovanni Maffei ha suggerito quale « impronta » comune, di fianco ai solitamente
citati Nietzsche e Schopenhauer, la teoria del suicidio universale di Eduard von Hartmann
(cfr. L’amnesia della storia ne ‘L’Imperio’ di De Roberto, in « Sinestesie », a. ix 2011, pp. 416-30, alle
pp. 427-28).
30. L’apoliticità risalta tanto piú nell’ultimo capitolo della Coscienza, l’unico in cui la tela di
fondo risulta costituita da un avvenimento di storia politica: la Grande Guerra e la “re­den­
zione” di Trieste. Finanche la guerra entra nel testo, osservava Mazzacurati, « come una sca­
ramuccia di frontiera, come una peripezia grottesca: […] censurata e ridotta alla misura sno­
bistica di un disagio privato l’imminente tragedia d’Europa » (G. Mazzacurati, Teresina, la
luce, l’apocalisse di Zeno [1982], in Id., Stagioni dell’apocalisse. Verga Pirandello Svevo, a cura di M. Pa­
lumbo, Torino, Einaudi, 1998, pp. 257-77, alle pp. 263-64).

344
la figura dell’angelo sterminatore nella narrativa italiana

potersi giovare senza esserne l’autore (« l’occhialuto uomo […] inventa gli
ordigni fuori del suo corpo e se c’è stata salute e nobiltà in chi li inventò,
quasi sempre manca in chi li usa »);31 l’uomo è l’unica specie che per la sua
sopravvivenza crede di essersi potuto affrancare dalla necessità di evolver­
si per adeguarsi alla natura. L’illusione di poter affidare la propria difesa (la
propria « salute ») a strumenti esterni, irrelati alla forza che si è capaci di
esprimere, rende l’uomo sempre piú debole, sempre piú preda delle furie
incontrollabili di chi possa o voglia fare uso dei formidabili ordigni bellici
della modernità. L’« esplosione enorme » che un uomo provocherà dopo
aver rubato dell’esplosivo e averlo posto al centro della terra costituirà il
meritato compenso per una specie che ha nutrito la presunzione di pote­
re sopravvivere esimendosi dalla lotta. Né va dimenticato che, nel caso di
Zeno, la « catastrofe inaudita prodotta dagli ordigni » consentirà un ritorno
alla « salute » (« Ci sarà un’esplosione enorme che nessuno udrà e la terra
ritornata alla forma di nebulosa errerà nei cieli priva di parassiti e di malat­
tie »): ossia una “rinascita” sotto altre forme, che non sono determinabili.32
Tutt’altra è la prospettiva di Federico Ranaldi33 – e ciò malgrado il fatto
che De Roberto e Svevo siano alla lontana suggestionati autonomamente
da un retroterra comune (Schopenhauer, Hartmann, Darwin; nonché Bour­
get e Zola) –34 che considera necessaria la fine del mondo (non la sua ri­
generazione) dopo aver compreso che nessun cambiamento politico può
migliorare la natura degli uomini: è qui in questione, forse anche per la
forte suggestione del pensiero leopardiano,35 la debolezza e la presunzione

31. I. Svevo, La coscienza di Zeno, in Id., Romanzi e “continuazioni”, cit., pp. 623-1085, a p. 1084.
Le due citazioni che seguono sono entrambe da p. 1085.
32. Si veda la densa analisi di E. Saccone, Commento a ‘Zeno’. Saggio sul testo di Svevo, Bo­
logna, Il Mulino, 19912, pp. 178-87.
33. Sulla diversità delle due « geoclasie » ha insistito, in polemica con Lavagetto, R. Barilli
(La linea Svevo-Pirandello, Milano, Mondadori, 2003, pp. 257-58), ma senza andare oltre il puro
enunciato. Una lettura contrastiva dei passi rispettivi di De Roberto e Svevo si deve a Matteo
Palumbo, che interpreta la visione di Svevo, priva della « tensione nera e inquietante » delle
pagine di De Roberto, alla luce della Gaia scienza di Nietzsche: cfr. M. Palumbo, L’apocalisse
di Zeno: al di là di ottimismo e pessimismo, in Mathesis e Mneme. Studi in memoria di Marcello Gigan­
te, a cura di G. Indelli, G. Leone, F. Longo Auricchio, Napoli, Arte Tipografica, 2004, pp.
457-68, spec. le pp. 465-68.
34. Per le particolari modulazioni sveviane di queste e altre letture (in primo luogo
Nietzsche) cfr. M. Palumbo, Svevo e i suoi autori, in « Modern Language Notes », a. cxi 1996,
pp. 1-30.
35. Alludo in particolare agli explicit del Cantico del gallo silvestre e del Frammento apocrifo di
Stratone da Lampsaco (Operette morali, in G. Leopardi, Poesie e prose, vol. ii. Prose, a cura di R.
Damiani, Milano, Mondadori, 1988, risp. pp. 164-65 e 168-71).

345
claudio gigante

della civiltà rispetto a un immutabile stato di natura (la « fatale eternità del
male », p. 1353); donde l’idea che il terrorismo anarchico, che mira a colpi­
re le istituzioni e gli uomini politici, sia fallimentare perché la « radice del
male non è negli ordinamenti politici, ma nella nostra stessa natura » (p.
1372). All’opposto di Zeno, Federico pensa che l’errore sia proprio lottare:
« Concepita la necessità di distruggere la vita, il suo primo pensiero non era
quello di compiere la distruzione, bensí di predicarla » (p. 1355); il « nuovo
partito » – termine che ancora una volta riconduce il discorso in una sfera
politica –36 che sorgerà non « s’indugerà a risolvere l’insolubile quistione so­
ciale, ma affronterà tutto il problema umano », studiando come distrugge­
re gli individui e anche le loro realizzazioni:
La morte sarà un benefizio per tutti, per i sofferenti che non soffriranno piú, per i
gaudenti che non vedranno la fine del gaudio loro. E non la sola vita umana questi
mistici vorranno distruggere, ma tutte le sue opere vane e tutte le altre effimere
vite. Come gli anarchici d’oggi, essi si chiuderanno in luoghi remoti e segreti, a
preparare, coi piú potenti mezzi della chimica futura, strumenti che, in piccolo
volume, racchiuderanno una forza tremenda, e che rovineranno dalle fondamenta
tutto un edifizio, che ridurranno in polvere tutto un quartiere di città, e che non
lasceranno un solo ferito, e neanche un solo cadavere intatto, ma faranno sparire
tutti i corpi viventi come con una pedata si fa sparire un insetto (pp. 1374-75).

La constatazione che « tutte le rivoluzioni sono state e saranno inutili »


non è soltanto un contrappunto generico al credo benpensante dei suoi
interlocutori (il padre di Federico, il presidente Ursino e Anna, la giovane
nipote di questi) e nemmeno un pensiero rivolto esclusivamente all’inge­
nuità degli anarchici: è anche una drammatica ammissione del fallimento
di una certa idea nazionale.

4. Verso il fascismo. Massimo Ranieri in Rubè di Borgese

Tempi di sangue, di interventismo, di passioni belliche. La Grande Guer­


ra, che fu chiamata anche Quarta guerra d’indipendenza, ha legami profon­
di con il Risorgimento da un punto di vista letterario e ideale (che poi sul
terreno sia stata tutt’altra cosa è faccenda diversa, ma ampiamente no­

36. « Tanti partiti sorgono, si trasformano, si riformano, si scindono, per meglio combattersi


mentre sono divisi soltanto da parole, da equivoci, da malintesi; e non se ne formerà mai uno,
composto sia pure di pochissimi coscienti, che grideranno a tutti gli altri la loro insania, e li
sforzeranno a riconoscere l’origine prima dei loro dolori e li guariranno loro malgrado del
male della vita?… » (p. 1356).

346
la figura dell’angelo sterminatore nella narrativa italiana

ta):37 ne condivide non soltanto la retorica dei confini naturali e della “mis­
sione” ma anche, durante e subito dopo, un senso di diffusa frustrata delu­
sione destinato a generare gli esiti da brivido che conosciamo. Nessun te­
sto, forse, come Rubè di Giuseppe Antonio Borgese ha saputo restituire la
cupa atmosfera del mancato ritorno alla vita normale nel tempo intercorso
tra la fine del conflitto e la vigilia dell’avvento del regime; la forza del ro­
manzo è precisamente in questo: Borgese dà una magistrale rappresenta­
zione delle tensioni sociali che condussero al fascismo, pur senza poter pre­
vedere (il romanzo, lo ricordo, è pubblicato nel 1921) l’ascesa al potere di
Mussolini.
Pure per questo testo è una figura minore che cercherò di isolare: Mas­
simo Ranieri de’ Neri, che compare nel romanzo appena tre volte ed è evo­
cato in un altro paio di occasioni. Per il suo carattere fiero e determinato,
per il suo atteggiamento violentemente fideistico, infine per la sua natu­
ra di combattente, Ranieri presenta un’indole diversa, da attivista (non da
“indifferente” o da “contemplatore”), rispetto alle figure romanzesche trat­
tate in precedenza:38 è piuttosto la sua caratura ideale ad accomunarlo a
loro insieme a una volontà distruttiva che tuttavia non resta immobilizza­
ta nei meandri di un onirismo inconcludente; troviamo all’opposto in lui
« l’attivismo inebriato della grande occasione ».39 Lo incontriamo per la pri­
ma volta nel cap. vii, il primo della Parte seconda, la sezione del romanzo am­
bientata nel triennio italiano di guerra. Durante un pasto consumato in as­
senza del capitano di compagnia, Filippo Rubè, che si trova con gli alpini in
Cadore, sfoga tutto il suo disagio di sottotenente alle prese con la difficol­tà
di ritrovare nelle quotidiane attività belliche i motivi del proprio impegno
di volontario. È di malumore e ha anche un po’ bevuto:

37. Vd. su questi temi C. Gigante, Scrittori del Risorgimento “precursori del fascismo”? A proposito
di un luogo comune della storiografia letteraria fascista, in « Intersezioni », a. xxxi 2011, pp. 349-68; Id.,
« Vogliamo Magenta e Solferino ». Sull’eredità risorgimentale nel giovane Gadda, in « I Quaderni del­
l’Ingegnere. Testi e studi gaddiani », n.s., a. xii 2012, pp. 137-56.
38. Il suo spirito “volitivo” si colloca senza difficoltà fra le caratterizzazioni antropologiche
piú tipiche del primo conflitto mondiale (vd. M. Isnenghi-G. Rochat, La Grande Guerra.
1914-1918, Bologna, Il Mulino, 2008, pp. 114-22). Esempi di abnegazione giovanile, sul filo di
una retorica familiare ancora “onesta”, al di qua di intenti propagandistici, sono nel cap. I
giovinetti del grande libro di A. Omodeo, Momenti della vita di guerra (Dai diari e dalle lettere dei
Caduti), Bari, Laterza, 1934, pp. 130-87.
39. M. Isnenghi, Il mito della Grande Guerra (1989), Bologna, Il Mulino, 2007, p. 76 (Isnenghi
descrive cosí il punto di vista pirandelliano, in Berecche e la guerra, di fronte all’attivismo in­
terventista dei giovani).

347
claudio gigante

Soprattutto insisteva nel dimostrare che le cause nazionali e sociali della guerra
erano vuoti pretesti; che la guerra si faceva perché il mondo intero era troppo satu­
ro di vita e ora si sentiva invaso da una smania di annichilamento […] e che dunque
il vero disastro erano i medici, i chirurgi, le dame infermiere, i portalettighe e simi­
le genia. Se loro combattenti sfasciavano e i chirurgi incollavano, diventava una
specie di lavoro di Penelope alla rovescia, e non si concludeva niente, e la guerra
poteva durare eterna. Era un controsenso.40

Rubè aveva avuto già occasione, durante i primi mesi del conflitto, di
sperimentare quale abisso vi fosse tra la retorica interventista, di cui in pre­
cedenza si era fatto lui stesso portavoce, e la realtà cinica e aberrante della
guerra di trincea: nei pressi del « sacro confine », in missione, ripensando ai
propri « discorsi interventisti, sulla santità della difesa, sulla fine delle tiran­
nidi, sulla giustizia dei limiti, sulla perpetuità delle nazioni », aveva provato
un senso di vergogna e di colpa: la « cattiva coscienza di chi sa d’aver men­
tito » (p. 75); invano in sé e nello spettacolo circostante cercava « le tracce del­
l’amor di patria » (p. 77). Rubè non è diventato né pacifista né tanto meno
neutralista: è diventato scettico; senza mutare realmente le proprie convin­
zioni, ha smesso di crederci.41
Torniamo al pasto consumato in Cadore. Al suo discorso, sarcastico e di­
sincantato, replica Massimo Ranieri, che « aveva occhi azzurri di vergine »
(il suo ritratto somiglia un po’ a quello zoliano di Angiolo Mascara): benché
ferito, era voluto tornare in prima linea « con la febbre che gli faceva balla­
re il sangue tutte le sere »; alle parole di Rubè Ranieri « arrossiva come se lo
oltraggiasero » sino a prorompere in un fanciullesco « Non è vero. Non è
vero » (p. 101) e in un toccante: « Perché ci vuoi togliere la fede, di’? Questa
vita diventerebbe una cosa indegna » (p. 102). Perché di fede si tratta: chi, co­
me Rubè, non l’ha o forse non l’ha mai avuta, non potrà mai nutrire i sen­
timenti nel contempo candidi e bellicosi di Ranieri.
Piú tardi, siamo nell’inverno 1916-1917, Rubè e Ranieri si incontrano a
Roma, entrambi convalescenti dopo essere stati feriti; Rubè è sul punto di
partire per Parigi, dove grazie ai buoni uffici dell’onorevole Taramanna, è
stato assegnato al comodissimo Ufficio Munizioni (una di quelle destina­

40. G.A. Borgese, Rubè, Milano, Mondadori, 1994, pp. 100-1. Cito sempre da questa
edizione, indicando d’ora in poi le pagine direttamente a testo.
41. È quella che Isnenghi ha definito « la demistificazione progressiva » dei valori giu­sti­
ficativi della guerra che avviene nella coscienza di Rubè; quasi « una forma di ironico sa­bo­
taggio intellettuale » attuato da Borgese nel momento (l’inizio degli anni Venti) in cui « s’av­
­via a prender corpo definitivamente il mito gratificante della guerra nazional-popolare »
(Is­nenghi, Il mito della Grande Guerra, cit., pp. 210-11).

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la figura dell’angelo sterminatore nella narrativa italiana

zioni che potevano al tempo essere considerate un lusso tanto rispetto al­-
la vita di trincea, tanto rispetto ai pur contenuti rischi del servizio in re­
troguardia). Ma anche Ranieri ha « intrigato » per ottenere qualcosa: « fi­
nalmente l’ho spuntata, a farmi rispedire al fronte. E in un settore a modo
mio » (p. 138). Borgese, che era stato interventista ma senza partire per la
guerra, intende dipingere in modo sin troppo netto l’antitesi tra l’ardore del
giovane che, pur ferito, ritrova negli occhi un’improvvisa « lucentezza az­
zurrina » al pensiero di tornare in battaglia, e l’indolenza di Rubè che può
solo sentirsi soggiogato di fronte « all’audacia del guerriero di razza » (p.
138).
Durante una licenza a Roma, Rubè apprende della disfatta di Caporetto.
Al solito, l’evento non provoca in lui alcuna sensazione, pur s’egli non man­
ca di partecipare agli infiammati dibattiti sul tradimento e la ritirata, con
l’ormai tradizionale litania sulla mancanza di carattere. Alla notizia della
nuova frontiera del Piave, Rubè, ancora a Roma, annunzia a tutti di volere
tornare al fronte: ma nessuno lo prende sul serio; e basta poco, del resto,
per fargli cambiare idea. Torna qui l’evocazione di Ranieri, in funzione an­
cora una volta antitetica: egli – ci dice il narratore (che in questo caso non
riferisce indirettamente i pensieri di Rubè) – percorreva l’argine del Piave
« in su e in giú e teneva ai ragazzi del ’99 certi discorsi che, con tutta la sua
balbuzie, avevano piú effetto di un Cicerone redivivo » (p. 160).
A conflitto finito, Rubè si stabilisce a Milano con la fresca sposa Eugenia;
trova inizialmente un impiego, ma lo perde per avere incautamente parlato
in termini quasi elogiativi, nel salotto dell’imprenditore De Sonnaz che è
anche il suo datore di lavoro, di un corteo socialista di qualche giorno pri­
ma. Nel frattempo, in città infiamma la guerriglia fra bolscevichi e fascisti;
casualmente (è il 15 aprile 1919) Rubè s’imbatte nei fascisti che hanno mes­
so a ferro e fuoco la sede dell’« Avanti » (p. 227):
Riconobbe, ma questi non urlava, Massimo Ranieri, con un fermo viso d’arcangelo
sotto l’elmetto, e con gli occhi larghi, lucenti della certezza del compiuto dovere,
come quando gli aveva narrato senza vanagloria che gli era riuscito, a forza d’intri­
ghi, di farsi mandare, cosí malconcio com’era a quei tempi, sul Piave.

Fra gli arditi in camicia nera Rubè incontra un’altra sua conoscenza di
guerra, Garlandi, che nel romanzo incarna il tipo dell’opportunista: sia in
guerra sia dopo, Garlandi bada solo al proprio utile; per Rubè, Garlandi,
che in guerra non ha esitato a uccidere un commilitone subalterno che per
paura rifiutava di marciare, è un assassino volgare (un assassino senza idea­
li). Al raduno fascista a cui in seguito partecipa, Rubè « non sapeva capaci­
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claudio gigante

tarsi come nella stessa adunanza ci fosse posto “per quell’assassino di Gar­
landi” e pei cherubini armati della razza di Ranieri » (p. 229); un’osservazio­
ne simile viene da Rubè formulata verso la fine del romanzo, quando è pre­-
so dai sensi di colpa per l’incidente in barca che ha causato la morte dell’a­
mante Celestina: « Garlandi, quell’assassino, con quella faccia fresca come
le rose! E Ranieri, che ha fatto la guerra con la pistola carica ed ha ammaz­
zato, per spirito di dovere, tanti cristiani, e pure nel dopoguerra fa la guerra,
e ha la coscienza come se avesse risuscitato Lazzaro e la faccia d’un angelo »
(p. 321).
Altro di Massimo Ranieri de’ Neri non sappiamo: è una comparsa che
nel romanzo di Borgese rischia finanche di passare inosservata. Acquista
dei tratti significanti – questa è la tesi che proponiamo – soltanto quale
anello di una catena, certo piú ampia di quella qui ricostruita, di torbide
figure della distruzione. I tempi sono cambiati: dalle utopie di rigenerazio­
ne vagheggiate da personaggi “contemplativi”, destinati a restare al di qua
dell’azione, si è passati – complice il bagno di sangue della Grande Guerra
– a una violenza piú spiccia e fattiva, ma in alcuni casi egualmente amman­
tata dei sacri furori dell’idealità.
Lo stesso Borgese, fuor di romanzo, ne avrebbe pagato piú tardi le con­
seguenze.42

Claudio Gigante

In tre romanzi (Rome di Zola, I vecchi e i giovani di Pirandello, L’imperio di De Roberto),


che affrontano in modi diversi la crisi politica e morale dell’Italia postunitaria, è presente
fra i personaggi un giovane deluso e ribelle, che sogna di vendicarsi dell’ignominia del
presente organizzando degli attentati volti a distruggere la capitale (in Rome), il parla­
mento (ne I vecchi e i giovani) o l’umanità intera (nel caso de L’imperio, ove è visibile l’in­
flusso di pensatori come Schopenhauer e Hartmann); in Rubè di Borgese, ambientato un
paio di decenni dopo, una figura analoga di “angelo sterminatore” traduce in violenza
effettiva la propria volontà distruttiva, partecipando da “ardito” alla Grande Guerra e
trovando poi spazio nelle squadracce fasciste che si preparano alla conquista del potere.
Nell’articolo sono tracciati i punti in comune di queste quattro caratterizzazioni, oscil­
lanti tra un fosco desiderio di distruzione e un ambiguo intento di palingenesi.

Three novels (Zola’s Rome, Pirandello’s I vecchi e i giovani, De Roberto’s L’imperio), differ-
ently dealing with the political and moral crisis of post-Unitarian Italy, present however a similar

42. Sull’argomento, tra molta bibliografia disponibile, vd. F. Mezzetti, Borgese e il fascismo,


intr. di G. Piovene, Palermo, Sellerio, 1978.

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la figura dell’angelo sterminatore nella narrativa italiana

young rebel and disenchanted character, dreaming of destroying by organized attacks the capital city (in
Rome), the parliament (in I vecchi e i giovani), or the entire human race (in L’imperio, where the
presence of thinkers like Schopenhauer and Hartmann is traceable), as a revenge for the shameful
present. In Borgese’s Rubè, which is set two decades after, a similar role of “exterminating angel”
conveys his destructive will in actual violence, by participating as “ardito” in the Great War, and then
in the fascist squadrons which get ready for seizing the power. The author of this paper highlights the
points such four characters have in common, which range from a dark desire of destruction to an am-
biguous aim of renovation.

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