Documenti di Didattica
Documenti di Professioni
Documenti di Cultura
&
CRITICA
rivista quadrimestrale
pubblicata sotto gli auspici del centro pio rajna
direzione: bruno basile, renzo bragantini, roberto fedi,
enrico malato (dir. resp.), matteo palumbo
SALERNO EDITRICE
ROMA
Direzione
Bruno Basile, Renzo Bragantini, Roberto Fedi,
Enrico Malato, Matteo Palumbo
Consiglio di Direzione
Guido Arbizzoni, Guido Baldassarri, Arnaldo Bruni, Claudio Gigante,
Andrea Mazzucchi, María de las Nieves Muñiz Muñiz,
Manlio Pastore Stocchi, Emilio Russo
Direttore responsabile
Enrico Malato
Redazione
Massimiliano Malavasi
In Rome di Zola – romanzo fluviale, secondo della trilogia Les trois villes
che comprende Lourdes e Paris –, pubblicato nel 1896 in contemporanea in
Francia e in Italia,1 appare nelle ultime pagine una figura inquietante: un
ragazzo dall’aria tranquilla e i propositi feroci, un anarchico bombarolo, al
meno nei sogni e nei discorsi, intenzionato a distruggere con i suoi com
pagni la “terza Roma” per poterla ricostruire daccapo, su nuove fondamen
ta.
Siamo nel 1894.2 Il suo nome è Angiolo Mascara. È il nipote ventenne di
* Ringrazio Gianni Maffei e Matteo Palumbo che hanno letto una prima stesura di queste
pagine, scritte per una miscellanea in memoria di Serge Vanvolsem che vedrà la luce nel
prossimo anno.
1. E. Zola, Rome, Paris, Charpentier, 1896; in Italia il romanzo apparve a puntate (in ver
sione ridotta) su « La Tribuna » prima di uscire in volume (Roma, traduzione di G. Palma [alias
Emilia Luzzatto], Roma, Stab. tip. della Tribuna, 1896). È dei mesi scorsi una riproposta del
romanzo, in traduzione italiana, preceduta da una non memorabile prefazione (cinque pagi
ne) di Emanuele Trevi (Roma, Bordeaux, 2012). L’editore ripropone la versione ottocentesca
della Luzzatto (senza nominarla), precisando che è stata « rivisitata » sul testo originale. Le tap
pe della composizione del romanzo (con l’inevitabile dossier di documenti, come da regola per
Zola e dintorni) sono tracciate da J. Noiray nella Préface (pp. 7-43) e nella Notice (pp. 900-29)
che corredano la sua recente edizione del romanzo (Paris, Gallimard, 1999), da cui cito d’ora
in poi indicando direttamente a testo le pagine.
2. Zola lavorò alla stesura del romanzo tra il 1894 (quando effettuò anche un soggiorno di
331
claudio gigante
uno dei Mille, morto in Sicilia mentre combatteva insieme a Orlando Pra
da. Prada è un vecchio patriota, un ottuagenario milanese che ha partecipa
to a tutte le fasi del Risorgimento riuscendo a coronare il suo impegno – in
bilico tra gli ideali mazziniani della giovinezza, la militanza garibaldina e la
fede acquisita verso la nuova casa regnante – con l’ingresso trionfale a Ro
ma tra i bersaglieri attraverso la breccia di Porta Pia. Ventiquattro anni sono
passati da quel giorno: è il tempo del secondo governo Crispi; una stagione
di crisi non soltanto per le conseguenze degli scandali finanziari legati alla
Banca Romana e per le infuocate tensioni sociali esistenti in diverse aree
del Paese, ma anche per i dubbi sulla tenuta della stessa Unità.3
Prada vive da tempo paralizzato, colpito da apoplessia, in un appartamen
to di via XX settembre della nuova capitale: una strada che dovrebbe piú
di ogni altra ricordare il valore morale, per chi credette nel Risorgimento,
della conquista della città; ma che ora, divenuta sede del Ministero delle Fi
nanze (« les toitures du colossal Ministère des Finances étalaient des steppes
désastreuses, infinies et blafardes, d’une cruelle laideur », p. 205), è il simbo
lo dell’altra faccia della medaglia: il mito di Roma – la convinzione ch’essa
sia, per dirla con le parole di Carlino Altoviti, « il nodo gordiano » dei « de
stini » della nazione –,4 coltivato dalle generazioni precedenti, è stato dissolto
dalle nuove classi dirigenti, dalla religione del danaro e della speculazione;
un credo micidiale e assai piú contagioso del tradito amor di patria.5
due mesi nella capitale) e la primavera del 1896. Cfr. G. Luciani, Zola visiteur de Rome ou du
bon usage du ‘Baedeker’, nel vol. Il terzo Zola. Émile Zola dopo i ‘Rougon-Macquart’, a cura di G.C.
Menichelli, Napoli, Ist. Universitario Orientale, 1990, pp. 173-89.
3. Ricordo che Crispi, nel colloquio che ebbe con Umberto I in vista della formazione del
nuovo governo, rivelò al sovrano che c’erano fondati timori di una secessione repubblicana
nel Nord: si sarebbe parlato, addirittura, di una nuova Cisalpina. Cfr. Ch. Duggan, Creare la
nazione. Vita di Francesco Crispi, trad. it., Roma-Bari, Laterza, 2000, pp. 760-64; F. Cammarano,
Storia dell’Italia liberale, ivi, id., 2011, p. 168.
4. I. Nievo, Le confessioni d’un Italiano, a cura di S. Casini, Parma, Guanda, 1999, cap. xvi, p.
1007. E il vecchio Orlando esclama: « [Rome] elle seule était le lien, le symbole vivant de no
tre unité » (Zola, Rome, cit., p. 838). Sul mito di Roma basti il rinvio, tra tanta messe bi
bliografica, all’ormai classico P. Treves, L’idea di Roma e la cultura italiana del XIX secolo, Mi
lano-Napoli, Ricciardi, 1962.
5. Sulla figura di Prada nel romanzo vd. S. Guermès, Fiction et diction du Risorgimento dans la
littérature de langue française, de Charles Didier à Émile Zola, nel vol. Il romanzo del Risorgimento, a
cura di C. Gigante e D. Vanden Berghe, Bruxelles, P.I.E. Peter Lang, 2011, pp. 211-27, in
partic. pp. 217-18; in un’ottica diversa, dove sono sfiorati anche argomenti di cui si tratta nelle
prime pagine del presente contributo (compresa la riformulazione di qualche periodo), C.
Gigante, Effetti dell’unificazione tra entusiasmo, disincanto, delusione (Cattaneo, d’Azeglio, Nievo, Zo
la, Carpi), nel vol. Pre-sentimenti dell’Unità d’Italia nella tradizione culturale dal Due all’Ottocento. Atti
332
la figura dell’angelo sterminatore nella narrativa italiana
del Convegno di Roma, 24-27 ottobre 2011, a cura di C. Gigante e E. Russo, Roma, Salerno
Editrice, 2012, pp. 397-423.
6. Il destino accomuna questo libro immaginario a Rome e agli altri romanzi zoliani, tutti
messi all’Indice (cfr. S. Disegni, Émile Zola all’Indice, in « Esperienze letterarie », a. iv 2008, pp.
47-78).
7. L’episodio, insieme ad altri aspetti, sarà imitato ne Il santo di Fogazzaro: cfr. L. Morbiato,
Zola e Fogazzaro: le « soldat de la vérité » e il cavaliere dello spirito, nel vol. Antonio Fogazzaro, num.
mon. di « Filologia Veneta », a. iv 1993, pp. 51-86; F. Romboli, Zola e Fogazzaro: paragrafi per un
confronto, in F.eC., a. xxviii 2003, pp. 350-71; L. Curreri, De Bruges à Rome. ‘Il Santo’ d’Antonio
Fogazzaro, in Les Villes du Symbolisme. Actes du Colloque de Bruxelles, 21-23 octobre 2003, edi
tée par M. Quaghebeur, Bruxelles, P.I.E. Peter Lang, 2007, pp. 111-22, alle pp. 113-14.
8. Cfr. A. Berl, Les deux Rome en 1894, in « La revue de Paris », a. i 1894, to. v pp. 541-74, a
p. 551: « L’Italien du nord, calme, brave, industrieux, robuste, instruit, économe et intègre,
apporte dans la vie publique ces qualités solides et foncières. Le Méridional est tout autre
d’esprit, de caractère, de tempérament. Impressionnable et mou, facile et spirituel, prompt
d’esprit et d’imagination, moqueur et pétulant, il est aussi d’une ignorance profonde, d’un
individualisme effréné, incapable d’effort […] et surtout, en matière politique, sans scrupules
et sans moralité ». E vd. anche R. Bazin, Les Italiens d’aujourd’hui, in « Revue des deux mondes »,
a. lxiii 1893, vol. cxviii pp. 47-94 e 524-71, partic. pp. 86-87. I due articoli sono stati da tempo
segnalati dalla critica zoliana (cfr. Noiray, Notice, cit., pp. 903-5).
9. Cfr. Gigante, Effetti dell’unificazione, cit., pp. 414-19.
333
claudio gigante
della cosa pubblica. Secondo Berl, riecheggiato senza alcuna sfumatura nel
pensiero che Zola attribuisce al suo personaggio Prada, la grave malattia
che affligge la capitale, e quindi l’Italia, nasce dalla meridionalizzazione del
la politica; il parlamento è nelle mani dei deputati che vengono dal Sud: gen
te che si è dedicata a una spoliazione sistematica delle pubbliche finanze.
Nel romanzo, odiato dal vecchio milanese Prada, è il napoletano Sacco (un
cognome non scelto a caso: in lui « l’Italie du Midi flambait avec sa rage d’ap
pétits continuelle », p. 209) che incarna il tipo dell’affarista sbarcato a Roma,
lanciatosi – anche grazie a un’annunziata nomina ministeriale – alla conqui
sta del potere.
Ma non è solo un problema Nord-Sud: c’è anche – vivissima –, come
accennavo piú sopra, la questione generazionale. Il vecchio Orlando Prada,
malgrado le condizioni fisiche, è uno di quei vecchi che restano « plus virils,
plus passionés que les jeunes » (p. 222). Il figlio Luigi, allevato da Orlando
nel mito della costruzione nazionale, è divenuto invece uno dei piú intri
ganti affaristi della nuova capitale; avido e senza scrupoli (« le fils du héros
que la conquête a gâté, qui mange à dents pleines la moisson coupée par
l’épée glorieuse du père », p. 216), ammira il padre ma non riesce a farsi con
tagiare dalla sua passione né dai suoi ideali, anche se non manca a suo mo
do di una visione lucida sull’avvenire di Roma: che potrà divenire una ca
pitale moderna come Parigi e Berlino soltanto se saprà trovare una nuova
vita, senza rassegnarsi a essere un « musée croulant » (ibid.).
I « vecchi » muoiono e non c’è un « giovane » che ne prenda il testimo
ne ideale, grida Orlando (p. 208). L’ardore dei « vecchi » per la conquista del
l’Unità e di Roma, desiderata come e piú di una donna, anche la piú amata
(« Moi, je l’ai aimée et voulue plus qu’aucune femme », p. 204), si è trasfor
mato nei « giovani » non soltanto in sete di affari, ma anche in una sorta di
abulia di ideali, quasi un tragico contrappasso delle passioni dei « vecchi ».
Se il vecchio Orlando Prada ancora spera nella grandezza di Roma (« Ro
me a beau être lourde à nos épaules, elle n’en est pas moins le sommet que
nous avons voulu », pp. 839-40) e nell’Unità dell’Italia, la sua speranza è rap
presentata come una lontana futura utopia, che non ha alcun rapporto con
il presente, ma è soltanto nutrita da un’incrollabile fede nell’Idea di nazione
che un giorno darà i suoi frutti (« L’Italie renaîtra dans sa glorie ancienne,
dès que le grand peuple de demain aura poussé de terre! », p. 847); mentre
nei pochi « giovani » in cui sono ancora vivi i semi dell’ideale inizia a serpeg
giare un desiderio di anarchia e distruzione. Ed è qui che il discorso ci inte
ressa piú da vicino.
Angiolo Mascara, di cui si diceva in apertura, è un ventenne imberbe
334
la figura dell’angelo sterminatore nella narrativa italiana
Dalle ceneri della terza Roma nascerà la quarta, prospera e vigorosa: il fuo
co purificatore degli anarchici permetterà di cancellare l’ignominioso pre
sente, segnato dalla corruzione e dal cinismo, e di dar vita a una nuova ca
pitale, capace di rinnovare il mito antico nel segno di una rinascita morale.
Il romanzo di Zola non concede altro spazio al giovane anarchico; vale
notare che il suo rapido apparire non è legato propriamente a una volontà
di distruzione, tema affiorante anche altrove nella letteratura fin de siècle. Si
tratta di un’apocalissi costruttiva, di un fuoco che si vuole palingenetico:
una delle prime rappresentazioni di quel desiderio di un “bagno di sangue
rigeneratore” che troverà il suo culmine – retorico e poi tragicamente fat
tuale – in una certa visione della Grande Guerra. È un tema che, attraverso
altre figure di angeli sterminatori, proverò a rintracciare in tre romanzi di
tre autori siciliani di generazioni diverse, che a loro modo si posero il pro
blema della degenerazione e della possibile rigenerazione nazionale.
10. L. Pirandello, I vecchi e i giovani, in Id., Tutti i romanzi, a cura di G. Macchia, con la
335
claudio gigante
so,11 Rome di Zola ha svolto un ruolo non secondario (ipotesi che si adatte
rebbe bene, fra l’altro, alla recente proposta, fondata sul reperimento di due
foglietti autografi conservati alla Houghton Library, di anticipare al 1896,
cioè proprio all’anno di pubblicazione di Rome, l’inizio della gestazione del
romanzo di Pirandello) –12 il diciottenne Del Re sarebbe, secondo un’intui
zione di Leonardo Sciascia, una proiezione autobiografica dell’autore non
soltanto per le note corrispondenze tra album di famiglia e romanzo:13 in
carnerebbe anche lo sdegno di Pirandello « per il “sistema” […] che permet
teva fosse pubblicamente infangata la classe dirigente che aveva fatto l’uni
tà d’Italia ».14 È un’indicazione preziosa, anche se da non sopravvalutare: è
sin troppo nota l’abitudine pirandelliana di disseminare tra i suoi personag
gi frammenti della propria identità, senza che per questo essi guadagnino il
diritto di essere considerati “autobiografici” a tutto tondo.
Come tutti i principali personaggi de I vecchi e i giovani, Antonio Del Re
è proiettato da Girgenti verso Roma. La sua natura di « inetto », nel senso
sveviano divenuto comune, è chiara sin dall’inizio: la sua rabbia, covata con
sdegno, non perviene a produrre in lui alcuna energia costruttiva, al mas
simo qualche smorfia nervosa (« un fremito nelle labbra e nel naso », dopo
avere scoperto l’articolo sull’« Empedocle » che infama la memoria del non
no garibaldino Stefano Auriti, condito con un tono di voce « vibrante » e un
atteggiamento « sprezzante », p. 91). Piú tardi lo troviamo, prima in Sicilia
poi nella capitale, alle prese con la sua fidanzata Celsina, figlia di Nocio Pi
gna. Celsina è un po’ la cartina al tornasole che consente di capire Del Re.
È spigliata, ha studiato brillantemente nelle scuole e studierebbe ancora, ha
un’intelligenza vivace, non pensa – come l’ambiente crede (a cominciare
dal padre e dalle sorelle) e vuole forse farle credere – di essere condannata
« a funghir lí, in quel paese marcio, d’ignoranti » (p. 178). Antonio non vor
rebbe che Celsina avesse un ruolo visibile, da conferenziera, nel movimen
to dei Fasci organizzato dal padre e da Luca Lizio. È in fondo un desiderio
collaborazione di M. Costanzo, Milano, Mondadori, 1973, vol. ii pp. 3-515, a p. 90. Cito
sempre da questa edizione, indicando d’ora in poi le pagine direttamente a testo.
11. Ho discusso di questa ipotesi in un contributo in corso di stampa: C. Gigante, I “vecchi”
e i “giovani” di Zola. Un’ipotesi per Pirandello, nel vol. Armonia e conflitti: dinamiche familiari nella
narrativa italiana otto-novecentesca, a cura di I. De Seta, Bruxelles, P.I.E. Peter Lang.
12. Cfr. O. Frau, Per un manoscritto de ‘I vecchi e i giovani’, in « Ariel », a. xviii 2003, fasc. 1 pp.
123-51; A.R. Pupino, Pirandello o l’arte della dissonanza. Saggio sui romanzi, Roma, Salerno Editrice,
2008, pp. 190-97.
13. Com’è noto, Antonio Del Re, nipote di Roberto Auriti (fratello di sua madre), è figura
largamente ispirata a uno zio di Pirandello, Rocco Ricci Gramitto.
14. L. Sciascia, Pirandello e la Sicilia, Milano, Adelphi, 1996, p. 80.
336
la figura dell’angelo sterminatore nella narrativa italiana
15. I. Svevo, Una vita, in Id., Romanzi e “continuazioni”, a cura di N. Palmieri e F. Vittorini,
intr. di M. Lavagetto, Milano, Mondadori, 2004, pp. 3-396, a p. 207.
337
claudio gigante
– Ragazzo…
– Sai? stanotte è stata con me, abbracciata con me, a letto. E sempre…
– Ma va’! Non sono io, quella, sai!
– Lo so; ma è tua, è stata tua… Non l’hai baciata tu?
– Tanto, da bambina…
– E dunque…
– Va’, va’, Nino. Mi richiamano. Addio. Ricordati, sai? Scrivimi! Addio (p. 250).
16. Profezia che parrebbe avverarsi: verso la fine del romanzo si legge che due sorelle di
Celsina, Mita e Annicchia, si recano per disperazione « alla Posta a riscuotere un po’ di denaro
che Celsina aveva mandato da Roma, e di cui non sapevano che pensare… » (p. 451).
338
la figura dell’angelo sterminatore nella narrativa italiana
strugge »);17 il solo contatto con la capitale è sufficiente non solo per spen
gere ogni virtú ma anche per addormentare ogni passione. Nel caso di Pi
randello, siamo parecchio oltre l’immagine, pure efficace, dell’acquasantie
ra-posacenere del Mattia Pascal.18
Per la Roma politica sono, nel romanzo, i giorni dello scandalo della
Banca Romana: Roberto Auriti, Corrado Selmi, il ministro d’Atri, protago
nisti loro malgrado e a vario titolo della « bancarotta patriottica », vantano
tutti dei trascorsi eroici, addirittura leggendari nel caso di Auriti (il fu « gio
vinetto dalla camicia rossa », p. 84), e un presente ricco di non onorevoli com
promessi. Sono tutti « impeciati », per dirla con le parole del ministro d’Atri
(« Tutti impeciati, ti dico! Tutti… tutti… Muojo di schifo… Il fango, fino
qua! »), che misura sulla sua pelle la lunga deriva: « da Quarto… ah, da quel
la notte a questa, che baratro! » (p. 287).19
Resta solo una lugubre fantasia, per Antonio, il sogno già carezzato in
Sicilia di vendicare con la « mano armata » i torti della “malaunità”:
Educato alla scuola d’un dolor cupo e fiero, che sdegnava di sfogarsi a parole, d’una
rinunzia ancor piú fiera, che sdegnava ogni bassa invidia, se egli si fosse gettato
nella lotta, spezzando ogni legame ideale coi suoi, non avrebbe né proferito una
parola, né cercato compagni: a testa bassa, coi denti serrati e la mano armata, subito
all’atto si sarebbe avventato (p. 187).
17. F. De Roberto, Lettere a donna Marianna degli Asmundo, a cura di S. Zappulla Muscarà,
Catania, Tringale, 1978, p. 151.
18. L. Pirandello, Il fu Mattia Pascal, in Id., Tutti i romanzi, cit., vol. i pp. 317-578, a p. 445: « I
papi ne avevano fatto – a modo loro, s’intende – un’acquasantiera; noi italiani ne abbiamo
fatto, a modo nostro, un portacenere. D’ogni paese siamo venuti qua a scuotervi la cenere del
nostro sigaro […] ». Su Roma « città morta » vd. G. Macchia, Pirandello o la stanza della tortura,
Milano, Mondadori, 1981, pp. 66-67.
19. Sulla simbologia del fango, della pece, della creta cfr. N. Merola, Il romanzo dell’in
fatuazione, saggio introduttivo all’ed. a sua cura de I vecchi e i giovani, Firenze, Giunti, 1994, pp.
xxv-xxxvi.
20. Sul modello delle « bombe Orsini », importato da Crispi in Sicilia nell’estate del 1859,
vd. Duggan, Creare la nazione, cit., pp. 179-80.
339
claudio gigante
be recate da Francesco Crispi in Sicilia alla vigilia della Rivoluzione del 1860 e della
preparazione di esse. Corrado Selmi aveva detto che ne aveva preparate alcune an
che lui, di notte, nel magazzino preso in affitto da Francesco Riso presso il conven
to della Gancia. Forte delle sue nozioni di chimica moderna, s’era messo a ridere e
aveva dimostrato quanto fosse puerile quella preparazione, e come adesso si sareb
bero potuti ottenere effetti piú micidiali con ordigni di molto piú piccolo volume.
– Ecco! – aveva esclamato allora Corrado Selmi. – Per fare un po’ di festa, biso
gnerebbe buttare dalle tribune uno di questi giocattolini nell’aula del Parlamento!
D’improvviso [Antonio Del Re] s’era sentito prendere e predominar tutto da
quest’idea. […] Sí, sí, questa sarebbe la giusta vendetta, questo lo sfogo di tutte le
amarezze, che avevano attossicato la sua vita e quella dei suoi; e a quei suoi compa
gni là, di Sicilia, cianciatori, avrebbe dimostrato che lui solo sapeva far quello che
loro tutti insieme non avrebbero mai saputo (pp. 349-50).
Ma chiuso nella sua rabbia, non reattivo, per fatto personale o onore di
famiglia, Del Re sembra nella realtà capace soltanto di minacciare di morte
con un coltello un uomo politico, Corrado Selmi, che sta già morendo sui
cida per i fatti suoi e che trova il tempo, prima di venir meno (ha assunto
del veleno), di sbeffeggiare il suo aspirante attentatore: « Impara a ridere, gio
vanotto… Va’ fuori: oggi è una bellissima giornata » (p. 398).
Da anarchico potenziale, Antonio Del Re torna a essere un ventenne at
tardato, votato all’implosione e all’inazione: se altri giovani del romanzo so
no moralmente “degenerati”, Del Re è un giovane “degenerato” di altro ti
po, una di quelle figure fin de siècle incapaci di agire e di uscire da una dimen
sione immaginativa dell’esistenza, su cui si esercitava la sinistra ermeneutica
sociale di Nordau.21 La coscienza dell’irrimediabile morte di ogni ideale po
litico, il riverbero sinistro dello scandalo della Banca Romana sulla sua fami
glia (a lungo illusoriamente considerata impoverita per la presunta sua pu
rezza), l’attentato ridicolo e incompiuto ai danni di Selmi, annichiliscono del
tutto il serioso vendicatore. Che è destinato a tornare indietro, in Sicilia, in
una condizione di oblio, « folgorato lo spirito » (p. 426), con alle spalle uno
sterminio mancato e davanti a sé un’esistenza definitivamente vuota.
21. Cfr. ora S. Acocella, Effetto Nordau. Figure della degenerazione nella letteratura italiana tra
Ottocento e Novecento, Napoli, Liguori, 2012.
340
la figura dell’angelo sterminatore nella narrativa italiana
22. Le tappe della composizione sono ricostruite da N. Zago nell’Introduzione all’ed. del
romanzo a sua cura (Milano, Rizzoli, 2009), pp. 5-13.
23. Per la storia editoriale de I vecchi e i giovani vd. M. Costanzo, Nota ai testi e varianti, in
Pirandello, Tutti i romanzi, cit., vol. ii pp. 905-7.
24. F. De Roberto, L’Imperio, in Id., Romanzi, novelle e saggi, a cura di C.A. Madrignani,
Milano, Mondadori, 1984, pp. 1105-388, a p. 1199. Cito sempre da questa edizione, indicando
d’ora in poi le pagine direttamente a testo.
341
claudio gigante
servatori che temevano il finimondo dall’opera dei progressisti, si sono accorti che
il mondo durerà quanto ha da durare; e se noi fossimo stati al governo durante la
formazione del regno, diciamola tra noi, avremmo poi fatto molto diversamente da
quelli contro i quali gridavamo?… (p. 1203).
25. F. De Roberto, I Viceré, in Id., Romanzi, novelle e saggi, cit., pp. 411-1103, a p. 1087.
342
la figura dell’angelo sterminatore nella narrativa italiana
rotto: la convinzione che tutti, alla fin fine, coltivino i soli propri interessi),
sono valutati con ammirazione: « Hanno ragione coloro che fanno i repub
blicani! Se viene la rivoluzione si trovano dalla parte del manico, e se non
viene, per la paura che venga, i nostri buoni amici li tengono da conto, li
accarezzano e li piaggiano » (ibid.). Se poi Consalvo accetta la proposta di
tenere una conferenza contro il socialismo, è solo perché si convince che si
tratti di un’occasione propizia per guadagnare notorietà anche al di là della
società romana.
Il discorso di Consalvo Uzeda, ricco di prevedibili facezie condite da
triviale buon senso, segna il punto finale del percorso di Federico Ranaldi,
presente al teatro Valle tra gli spettatori del comizio: l’egoismo del deputa
to Uzeda e la facilità con cui ha dimostrato a un pubblico compiacente l’i
neluttabilità della miseria e dello sfruttamento dei lavoratori, quasi si trat
tasse del prodotto necessario di una legge di natura, tolgono a Federico quel
la quota residuale di idealismo politico e di fedeltà al partito conservatore
che ancora coltivava; inizia paradossalmente a considerare per la prima vol
ta con occhio diverso le teorie progressiste (« Da quella conferenza contro
il socialismo egli sentiva d’essere uscito socialista », p. 1301). D’altro canto,
Consalvo ottiene con il comizio l’effetto sperato: il suo nome è sulla boc
ca di tutti; la sua fama è inoltre accresciuta dall’attentato che subisce il gior
no stesso pur senza gravi conseguenze.26
È nel nono e ultimo capitolo de L’Imperio ambientato, a quel che è dato
di capire, all’indomani della disfatta di Adua (siamo dunque nel 1896), cau
sa nel romanzo delle dimissioni del ministro Consalvo (qui chiaramente
controfigura di Francesco Crispi), che Federico Ranaldi, tornato a tempo
indeterminato a Salerno con alle spalle una conoscenza ormai profonda e
disincantata della politica italiana, è contagiato sia pure solo mentalmente
dal sogno di una distruzione innestata da un attentato dinamitardo.
Vale ricordare che il capitolo segue, nella cronologia interna del romanzo,
un lungo vuoto temporale mai colmato dall’autore (nulla sappiamo dell’e
volversi dei vari filamenti narrativi interrotti nel capitolo precedente).27 Tor
nato dunque in provincia, Federico Ranaldi ha assunto un profilo caratteria
26. È una zona del testo particolarmente disagiata che avrebbe avuto piú di altre bisogno
della revisione dell’autore: alla fine del cap. vii si parla di « due colpi di revolver » (p. 1301), al
l’inizio del cap. viii della « lama d’un pugnale » (p. 1305).
27. Alla lacuna temporale del romanzo corrisponde probabilmente la piú lunga interru
zione della sua composizione. Incongruenze nella trama, ugualmente imputabili a fasi dif
ferenti di stesura mai rese del tutto omogenee da una revisione, sussistono anche tra i primi
cinque capitoli e i tre successivi.
343
claudio gigante
le assai simile a quello del pirandelliano Antonio Del Re: si è chiuso, incu
pito, in se stesso, meditando un suicidio che sembrerebbe il suggello piú
prevedibile alla sua personale discesa dall’Olimpo del patriottismo ideale
agli inferi della lunga permanenza nella capitale (« vent’anni di pandemonio
politico », p. 1376).28 Il suo desiderio di distruzione – il sogno che si formi un
partito di « biofobi » e di « geoclasti » che faccia « saltare a pezzo a pezzo il
mondo » (pp. 1375-76) – è stato autorevolmente apparentato ad altre visioni
apocalittiche coeve, con riferimento in primo luogo a La coscienza di Zeno.29
Tuttavia Ranaldi, nel prendere spunto da un episodio di cronaca este
ra (il fallito attentato dinamitardo di un anarchico contro il parlamento di
Vienna) sviluppa, a differenza di Zeno, un ragionamento politico che è ge
nerato dalla propria delusione nei confronti della sterilità della rivoluzione
italiana – come ai tempi di De Roberto ancora si chiamava comunemente
il nostro Risorgimento – nei confronti della quale « tanta fede » giovanile (p.
1380) aveva nutrito. L’apocalissi evocata da Zeno nella pagina finale della
Coscienza è invece priva di connotati politici (come del resto lo sono tutti i
romanzi sveviani):30 è un apologo sul progresso, di cui l’uomo si illude di
344
la figura dell’angelo sterminatore nella narrativa italiana
potersi giovare senza esserne l’autore (« l’occhialuto uomo […] inventa gli
ordigni fuori del suo corpo e se c’è stata salute e nobiltà in chi li inventò,
quasi sempre manca in chi li usa »);31 l’uomo è l’unica specie che per la sua
sopravvivenza crede di essersi potuto affrancare dalla necessità di evolver
si per adeguarsi alla natura. L’illusione di poter affidare la propria difesa (la
propria « salute ») a strumenti esterni, irrelati alla forza che si è capaci di
esprimere, rende l’uomo sempre piú debole, sempre piú preda delle furie
incontrollabili di chi possa o voglia fare uso dei formidabili ordigni bellici
della modernità. L’« esplosione enorme » che un uomo provocherà dopo
aver rubato dell’esplosivo e averlo posto al centro della terra costituirà il
meritato compenso per una specie che ha nutrito la presunzione di pote
re sopravvivere esimendosi dalla lotta. Né va dimenticato che, nel caso di
Zeno, la « catastrofe inaudita prodotta dagli ordigni » consentirà un ritorno
alla « salute » (« Ci sarà un’esplosione enorme che nessuno udrà e la terra
ritornata alla forma di nebulosa errerà nei cieli priva di parassiti e di malat
tie »): ossia una “rinascita” sotto altre forme, che non sono determinabili.32
Tutt’altra è la prospettiva di Federico Ranaldi33 – e ciò malgrado il fatto
che De Roberto e Svevo siano alla lontana suggestionati autonomamente
da un retroterra comune (Schopenhauer, Hartmann, Darwin; nonché Bour
get e Zola) –34 che considera necessaria la fine del mondo (non la sua ri
generazione) dopo aver compreso che nessun cambiamento politico può
migliorare la natura degli uomini: è qui in questione, forse anche per la
forte suggestione del pensiero leopardiano,35 la debolezza e la presunzione
31. I. Svevo, La coscienza di Zeno, in Id., Romanzi e “continuazioni”, cit., pp. 623-1085, a p. 1084.
Le due citazioni che seguono sono entrambe da p. 1085.
32. Si veda la densa analisi di E. Saccone, Commento a ‘Zeno’. Saggio sul testo di Svevo, Bo
logna, Il Mulino, 19912, pp. 178-87.
33. Sulla diversità delle due « geoclasie » ha insistito, in polemica con Lavagetto, R. Barilli
(La linea Svevo-Pirandello, Milano, Mondadori, 2003, pp. 257-58), ma senza andare oltre il puro
enunciato. Una lettura contrastiva dei passi rispettivi di De Roberto e Svevo si deve a Matteo
Palumbo, che interpreta la visione di Svevo, priva della « tensione nera e inquietante » delle
pagine di De Roberto, alla luce della Gaia scienza di Nietzsche: cfr. M. Palumbo, L’apocalisse
di Zeno: al di là di ottimismo e pessimismo, in Mathesis e Mneme. Studi in memoria di Marcello Gigan
te, a cura di G. Indelli, G. Leone, F. Longo Auricchio, Napoli, Arte Tipografica, 2004, pp.
457-68, spec. le pp. 465-68.
34. Per le particolari modulazioni sveviane di queste e altre letture (in primo luogo
Nietzsche) cfr. M. Palumbo, Svevo e i suoi autori, in « Modern Language Notes », a. cxi 1996,
pp. 1-30.
35. Alludo in particolare agli explicit del Cantico del gallo silvestre e del Frammento apocrifo di
Stratone da Lampsaco (Operette morali, in G. Leopardi, Poesie e prose, vol. ii. Prose, a cura di R.
Damiani, Milano, Mondadori, 1988, risp. pp. 164-65 e 168-71).
345
claudio gigante
della civiltà rispetto a un immutabile stato di natura (la « fatale eternità del
male », p. 1353); donde l’idea che il terrorismo anarchico, che mira a colpi
re le istituzioni e gli uomini politici, sia fallimentare perché la « radice del
male non è negli ordinamenti politici, ma nella nostra stessa natura » (p.
1372). All’opposto di Zeno, Federico pensa che l’errore sia proprio lottare:
« Concepita la necessità di distruggere la vita, il suo primo pensiero non era
quello di compiere la distruzione, bensí di predicarla » (p. 1355); il « nuovo
partito » – termine che ancora una volta riconduce il discorso in una sfera
politica –36 che sorgerà non « s’indugerà a risolvere l’insolubile quistione so
ciale, ma affronterà tutto il problema umano », studiando come distrugge
re gli individui e anche le loro realizzazioni:
La morte sarà un benefizio per tutti, per i sofferenti che non soffriranno piú, per i
gaudenti che non vedranno la fine del gaudio loro. E non la sola vita umana questi
mistici vorranno distruggere, ma tutte le sue opere vane e tutte le altre effimere
vite. Come gli anarchici d’oggi, essi si chiuderanno in luoghi remoti e segreti, a
preparare, coi piú potenti mezzi della chimica futura, strumenti che, in piccolo
volume, racchiuderanno una forza tremenda, e che rovineranno dalle fondamenta
tutto un edifizio, che ridurranno in polvere tutto un quartiere di città, e che non
lasceranno un solo ferito, e neanche un solo cadavere intatto, ma faranno sparire
tutti i corpi viventi come con una pedata si fa sparire un insetto (pp. 1374-75).
346
la figura dell’angelo sterminatore nella narrativa italiana
ta):37 ne condivide non soltanto la retorica dei confini naturali e della “mis
sione” ma anche, durante e subito dopo, un senso di diffusa frustrata delu
sione destinato a generare gli esiti da brivido che conosciamo. Nessun te
sto, forse, come Rubè di Giuseppe Antonio Borgese ha saputo restituire la
cupa atmosfera del mancato ritorno alla vita normale nel tempo intercorso
tra la fine del conflitto e la vigilia dell’avvento del regime; la forza del ro
manzo è precisamente in questo: Borgese dà una magistrale rappresenta
zione delle tensioni sociali che condussero al fascismo, pur senza poter pre
vedere (il romanzo, lo ricordo, è pubblicato nel 1921) l’ascesa al potere di
Mussolini.
Pure per questo testo è una figura minore che cercherò di isolare: Mas
simo Ranieri de’ Neri, che compare nel romanzo appena tre volte ed è evo
cato in un altro paio di occasioni. Per il suo carattere fiero e determinato,
per il suo atteggiamento violentemente fideistico, infine per la sua natu
ra di combattente, Ranieri presenta un’indole diversa, da attivista (non da
“indifferente” o da “contemplatore”), rispetto alle figure romanzesche trat
tate in precedenza:38 è piuttosto la sua caratura ideale ad accomunarlo a
loro insieme a una volontà distruttiva che tuttavia non resta immobilizza
ta nei meandri di un onirismo inconcludente; troviamo all’opposto in lui
« l’attivismo inebriato della grande occasione ».39 Lo incontriamo per la pri
ma volta nel cap. vii, il primo della Parte seconda, la sezione del romanzo am
bientata nel triennio italiano di guerra. Durante un pasto consumato in as
senza del capitano di compagnia, Filippo Rubè, che si trova con gli alpini in
Cadore, sfoga tutto il suo disagio di sottotenente alle prese con la difficoltà
di ritrovare nelle quotidiane attività belliche i motivi del proprio impegno
di volontario. È di malumore e ha anche un po’ bevuto:
37. Vd. su questi temi C. Gigante, Scrittori del Risorgimento “precursori del fascismo”? A proposito
di un luogo comune della storiografia letteraria fascista, in « Intersezioni », a. xxxi 2011, pp. 349-68; Id.,
« Vogliamo Magenta e Solferino ». Sull’eredità risorgimentale nel giovane Gadda, in « I Quaderni del
l’Ingegnere. Testi e studi gaddiani », n.s., a. xii 2012, pp. 137-56.
38. Il suo spirito “volitivo” si colloca senza difficoltà fra le caratterizzazioni antropologiche
piú tipiche del primo conflitto mondiale (vd. M. Isnenghi-G. Rochat, La Grande Guerra.
1914-1918, Bologna, Il Mulino, 2008, pp. 114-22). Esempi di abnegazione giovanile, sul filo di
una retorica familiare ancora “onesta”, al di qua di intenti propagandistici, sono nel cap. I
giovinetti del grande libro di A. Omodeo, Momenti della vita di guerra (Dai diari e dalle lettere dei
Caduti), Bari, Laterza, 1934, pp. 130-87.
39. M. Isnenghi, Il mito della Grande Guerra (1989), Bologna, Il Mulino, 2007, p. 76 (Isnenghi
descrive cosí il punto di vista pirandelliano, in Berecche e la guerra, di fronte all’attivismo in
terventista dei giovani).
347
claudio gigante
Soprattutto insisteva nel dimostrare che le cause nazionali e sociali della guerra
erano vuoti pretesti; che la guerra si faceva perché il mondo intero era troppo satu
ro di vita e ora si sentiva invaso da una smania di annichilamento […] e che dunque
il vero disastro erano i medici, i chirurgi, le dame infermiere, i portalettighe e simi
le genia. Se loro combattenti sfasciavano e i chirurgi incollavano, diventava una
specie di lavoro di Penelope alla rovescia, e non si concludeva niente, e la guerra
poteva durare eterna. Era un controsenso.40
Rubè aveva avuto già occasione, durante i primi mesi del conflitto, di
sperimentare quale abisso vi fosse tra la retorica interventista, di cui in pre
cedenza si era fatto lui stesso portavoce, e la realtà cinica e aberrante della
guerra di trincea: nei pressi del « sacro confine », in missione, ripensando ai
propri « discorsi interventisti, sulla santità della difesa, sulla fine delle tiran
nidi, sulla giustizia dei limiti, sulla perpetuità delle nazioni », aveva provato
un senso di vergogna e di colpa: la « cattiva coscienza di chi sa d’aver men
tito » (p. 75); invano in sé e nello spettacolo circostante cercava « le tracce del
l’amor di patria » (p. 77). Rubè non è diventato né pacifista né tanto meno
neutralista: è diventato scettico; senza mutare realmente le proprie convin
zioni, ha smesso di crederci.41
Torniamo al pasto consumato in Cadore. Al suo discorso, sarcastico e di
sincantato, replica Massimo Ranieri, che « aveva occhi azzurri di vergine »
(il suo ritratto somiglia un po’ a quello zoliano di Angiolo Mascara): benché
ferito, era voluto tornare in prima linea « con la febbre che gli faceva balla
re il sangue tutte le sere »; alle parole di Rubè Ranieri « arrossiva come se lo
oltraggiasero » sino a prorompere in un fanciullesco « Non è vero. Non è
vero » (p. 101) e in un toccante: « Perché ci vuoi togliere la fede, di’? Questa
vita diventerebbe una cosa indegna » (p. 102). Perché di fede si tratta: chi, co
me Rubè, non l’ha o forse non l’ha mai avuta, non potrà mai nutrire i sen
timenti nel contempo candidi e bellicosi di Ranieri.
Piú tardi, siamo nell’inverno 1916-1917, Rubè e Ranieri si incontrano a
Roma, entrambi convalescenti dopo essere stati feriti; Rubè è sul punto di
partire per Parigi, dove grazie ai buoni uffici dell’onorevole Taramanna, è
stato assegnato al comodissimo Ufficio Munizioni (una di quelle destina
40. G.A. Borgese, Rubè, Milano, Mondadori, 1994, pp. 100-1. Cito sempre da questa
edizione, indicando d’ora in poi le pagine direttamente a testo.
41. È quella che Isnenghi ha definito « la demistificazione progressiva » dei valori giusti
ficativi della guerra che avviene nella coscienza di Rubè; quasi « una forma di ironico sabo
taggio intellettuale » attuato da Borgese nel momento (l’inizio degli anni Venti) in cui « s’av
via a prender corpo definitivamente il mito gratificante della guerra nazional-popolare »
(Isnenghi, Il mito della Grande Guerra, cit., pp. 210-11).
348
la figura dell’angelo sterminatore nella narrativa italiana
zioni che potevano al tempo essere considerate un lusso tanto rispetto al-
la vita di trincea, tanto rispetto ai pur contenuti rischi del servizio in re
troguardia). Ma anche Ranieri ha « intrigato » per ottenere qualcosa: « fi
nalmente l’ho spuntata, a farmi rispedire al fronte. E in un settore a modo
mio » (p. 138). Borgese, che era stato interventista ma senza partire per la
guerra, intende dipingere in modo sin troppo netto l’antitesi tra l’ardore del
giovane che, pur ferito, ritrova negli occhi un’improvvisa « lucentezza az
zurrina » al pensiero di tornare in battaglia, e l’indolenza di Rubè che può
solo sentirsi soggiogato di fronte « all’audacia del guerriero di razza » (p.
138).
Durante una licenza a Roma, Rubè apprende della disfatta di Caporetto.
Al solito, l’evento non provoca in lui alcuna sensazione, pur s’egli non man
ca di partecipare agli infiammati dibattiti sul tradimento e la ritirata, con
l’ormai tradizionale litania sulla mancanza di carattere. Alla notizia della
nuova frontiera del Piave, Rubè, ancora a Roma, annunzia a tutti di volere
tornare al fronte: ma nessuno lo prende sul serio; e basta poco, del resto,
per fargli cambiare idea. Torna qui l’evocazione di Ranieri, in funzione an
cora una volta antitetica: egli – ci dice il narratore (che in questo caso non
riferisce indirettamente i pensieri di Rubè) – percorreva l’argine del Piave
« in su e in giú e teneva ai ragazzi del ’99 certi discorsi che, con tutta la sua
balbuzie, avevano piú effetto di un Cicerone redivivo » (p. 160).
A conflitto finito, Rubè si stabilisce a Milano con la fresca sposa Eugenia;
trova inizialmente un impiego, ma lo perde per avere incautamente parlato
in termini quasi elogiativi, nel salotto dell’imprenditore De Sonnaz che è
anche il suo datore di lavoro, di un corteo socialista di qualche giorno pri
ma. Nel frattempo, in città infiamma la guerriglia fra bolscevichi e fascisti;
casualmente (è il 15 aprile 1919) Rubè s’imbatte nei fascisti che hanno mes
so a ferro e fuoco la sede dell’« Avanti » (p. 227):
Riconobbe, ma questi non urlava, Massimo Ranieri, con un fermo viso d’arcangelo
sotto l’elmetto, e con gli occhi larghi, lucenti della certezza del compiuto dovere,
come quando gli aveva narrato senza vanagloria che gli era riuscito, a forza d’intri
ghi, di farsi mandare, cosí malconcio com’era a quei tempi, sul Piave.
Fra gli arditi in camicia nera Rubè incontra un’altra sua conoscenza di
guerra, Garlandi, che nel romanzo incarna il tipo dell’opportunista: sia in
guerra sia dopo, Garlandi bada solo al proprio utile; per Rubè, Garlandi,
che in guerra non ha esitato a uccidere un commilitone subalterno che per
paura rifiutava di marciare, è un assassino volgare (un assassino senza idea
li). Al raduno fascista a cui in seguito partecipa, Rubè « non sapeva capaci
349
claudio gigante
tarsi come nella stessa adunanza ci fosse posto “per quell’assassino di Gar
landi” e pei cherubini armati della razza di Ranieri » (p. 229); un’osservazio
ne simile viene da Rubè formulata verso la fine del romanzo, quando è pre-
so dai sensi di colpa per l’incidente in barca che ha causato la morte dell’a
mante Celestina: « Garlandi, quell’assassino, con quella faccia fresca come
le rose! E Ranieri, che ha fatto la guerra con la pistola carica ed ha ammaz
zato, per spirito di dovere, tanti cristiani, e pure nel dopoguerra fa la guerra,
e ha la coscienza come se avesse risuscitato Lazzaro e la faccia d’un angelo »
(p. 321).
Altro di Massimo Ranieri de’ Neri non sappiamo: è una comparsa che
nel romanzo di Borgese rischia finanche di passare inosservata. Acquista
dei tratti significanti – questa è la tesi che proponiamo – soltanto quale
anello di una catena, certo piú ampia di quella qui ricostruita, di torbide
figure della distruzione. I tempi sono cambiati: dalle utopie di rigenerazio
ne vagheggiate da personaggi “contemplativi”, destinati a restare al di qua
dell’azione, si è passati – complice il bagno di sangue della Grande Guerra
– a una violenza piú spiccia e fattiva, ma in alcuni casi egualmente amman
tata dei sacri furori dell’idealità.
Lo stesso Borgese, fuor di romanzo, ne avrebbe pagato piú tardi le con
seguenze.42
Claudio Gigante
Three novels (Zola’s Rome, Pirandello’s I vecchi e i giovani, De Roberto’s L’imperio), differ-
ently dealing with the political and moral crisis of post-Unitarian Italy, present however a similar
350
la figura dell’angelo sterminatore nella narrativa italiana
young rebel and disenchanted character, dreaming of destroying by organized attacks the capital city (in
Rome), the parliament (in I vecchi e i giovani), or the entire human race (in L’imperio, where the
presence of thinkers like Schopenhauer and Hartmann is traceable), as a revenge for the shameful
present. In Borgese’s Rubè, which is set two decades after, a similar role of “exterminating angel”
conveys his destructive will in actual violence, by participating as “ardito” in the Great War, and then
in the fascist squadrons which get ready for seizing the power. The author of this paper highlights the
points such four characters have in common, which range from a dark desire of destruction to an am-
biguous aim of renovation.
351