Sei sulla pagina 1di 298

i Quaderni del Bardo

edizioni

Collana Saggi
Prima edizione - maggio 2018

ISBN: 978-88-99763-36-7

i Quaderni del Bardo Edizioni di Stefano Donno


Sede Legale e Redazione: Via S. Simone 74
73107 Sannicola (LE)
Mail - iquadernidelbardoed@libero.it

Redazione: Mauro Marino (progetto, cura grafica e impagina-


zione)
Social Media Communications: Anastasia Leo, Ludovica Leo
Segreteria organizzativa: Emanuela Boccassini

i Quaderni del Bardo


(supplemento editoriale per tirature limitate
e numerate del periodico Il Bardo) di Maurizio Leo
Redazione: Via Regina Isabella 2/D 73043 Copertino (LE)
Mail: foglidiculture@libero.it
Info link: http://iqdbedizionidistefanodonno.blogspot.it
http://catalogoiqdbedizioni.blogspot.it
Annibale Gagliani

Impegno e disincanto
in Pasolini, De André,
Gaber e R. Gaetano

Prefazione di Marcello Aprile


*
7

Prefazione

Il primo libro di Annibale Gagliani è lo sviluppo di un traguardo perso-


nale importante, lungamente pensato, sviluppato, limato, articolato
negli anni precedenti, in cui l’autore ha esercitato una pazienza non co-
mune ed è andato alla ricerca di fonti e interpretazioni che spesso sono
testimoniali e di prima mano.
Non solo. Dai percorsi che man mano prendeva la ricerca, all’inizio un
po’ nebulosa sia per Annibale sia per me, la continua esclusione di al-
cune piste un tempo preventivate e l’emersione di nuove possibilità
hanno fatto emergere, con chiarezza cristallina, che cosa davvero Anni-
bale doveva fare: di chi occuparsi tra i tanti artisti possibili, come unirli
in una linea rossa convincente e coerente, come occuparsene concre-
tamente senza mai scadere nella trappola dei percorsi scontati.
Perché, a ben vedere, scadere nella banalità era un rischio concreto.
Quando si ha a che fare con quattro icone riconosciute della cultura alta
e popolare dell’Italia contemporanea non è facile dire qualcosa di
nuovo, o anche semplicemente non è scontato evitare di scrivere quat-
tro profili staccati e avulsi, estranei tra loro, tanti quanti sono gli artisti
(tutti Maestri della parola, tre su quattro anche del suono) che l’autore
ha illustrato in questo libro.
Ne è venuto fuori un percorso duro, compatto, radicale; un insieme in
cui appare chiaro, nelle persino ovvie diversità di espressioni, temi, per-
corsi (anche politici), epoche, che cosa unisce Pier Paolo Pasolini, Fabri-
zio De André, Giorgio Gaber e Rino Gaetano. Com’è giusto, Annibale
Gagliani salta sulle differenze e nota affinità mai venute fuori prima, che
però sono lì, pronte per essere scoperte.

*
8

Pasolini, il poeta delle borgate e degli ultimi, il prototipo dell’intellet-


tuale e poi “poeta, narratore, professore, linguista, cineasta, autore di
teatro, paroliere, uomo che sfida il potere e smaschera i suoi abatini”,
come dice lo stesso autore, è probabilmente un collante attraverso le
cui idee si possono leggere tutti i percorsi successivi. Senza individuare
discendenze dirette, come possono essere quelle che legano maestri
e allievi, possiamo senz’altro dire che la lezione pasoliniana è assorbita
dalla canzone d’autore molto più in profondità di quanto comunemente
non si pensi. Annibale, che capisce di calcio (e anche questa è un’arte
purissima), individua per rappresentare visivamente il corpus dei suoi
amatissimi autori una struttura a rombo, al cui vertice è ovviamente
Pasolini (PPP), ai cui angoli centrali ci sono De André e Gaber, e al cui
vertice basso c’è Rino Gaetano. Possiamo consentire o no con questa
figura geometrica e metaforica e possiamo individuarne altre, ma si
tratta di un percorso interpretativo estremamente preciso, sulla cui ar-
ticolazione non resta che rimandare al libro che avete tra le mani.
Certo, ci sono affinità più evidenti e altre più nascoste. Palese (anche a
prescindere dal fatto che il cantautore genovese scrive nel 1980, a quat-
tro mani con Massimo Bubola, Una storia sbagliata, canzone che pro-
prio di PPP parlava) è la consonanza di temi, riflessioni, interessi con
Fabrizio De André, altro grandissimo cantore delle voci delle minoranze,
anche quelle etnico-linguistiche, e delle espressioni della cultura po-
polare nelle migliaia di lingue tutte derivate direttamente dal latino, i
dialetti italiani, oggi minacciati di morte dall’italianizzazione avanzante.
Trovare uno che dicesse la verità, cioè che i dialetti non sono storpia-
ture dell’italiano ma patrimoni culturali sviluppati nei millenni, non era
facile, nell’Italia degli anni Sessanta e Settanta. Trovare un loro cantore,

*
9

uno che se ne serviva come strumento vivo e come mezzo artistico nel-
l’Italia degli anni Ottanta e Novanta (Creuza de mä, ma anche tanto
altro), come ha fatto Faber, non è stato facile.
Non era facile però neanche trovare qualcuno che portasse il Teatro di
parola (una formula proprio di Pasolini), o il Teatro-canzone, come pre-
feriscono dire gli studiosi gaberiani, al livello in cui lo ha portato Giorgio
Gaber. Proviamo a riascoltare la lungamente censurata Io se fossi Dio,
capolavoro dell’artista milanese, e vediamo se le consonanze con Paso-
lini, nei temi, ma soprattutto nel modo di vedere il mondo, non sono
evidenti. E non che fosse trovare, in pieno riflusso post '77, le energie
dissacratorie con cui Rino Gaetano rivestiva i suoi versi. In sintesi, come
dice Annibale, «Pier Paolo Pasolini rappresentava il cardine del Disin-
canto italiano, fonte d’ispirazione intellettuale per chi cercava di vivise-
zionare le mentalità che hanno scosso il Sessantotto. Fabrizio De André
è diventato, raffinatamente, il megafono poetico e cantautorale delle
eresie pasoliniane. Giorgio Gaber ha portato a compimento le sugge-
stioni corsare e luterane di PPP, percorrendo una strada filosofica fuori
dal coro, quella del Teatro di Parola, alla ricerca dell’Umanesimo Nuovo.
Ora potremmo dire che l’erede designato per garantire una continuità
coerente del linguaggio disincantato nel Duemila, era, senza nessuno
che lo incoronasse, Rino Gaetano». Godiamoci allora questo viaggio nel
linguaggio del disincanto, in compagnia di Annibale Gagliani, un gior-
nalista dallo sguardo acuto e fine e dalla penna leggera. La prosa del-
l’autore, tra l’altro, non annoia mai, e il piacere di leggerlo è uno dei
tanti aspetti belli e costruttivi di questo libro.

Marcello Aprile

*
*
«Andare via lontano a cercare un altro mondo,
dire addio al cortile, andarsene sognando»

Da Ciao, amore ciao, 1967

*
*
13

Introduzione

Diṡincantare v. tr. [comp. di dis- e incantare; in senso fig., dal


fr. désenchanter]. – Liberare da un’opera di magia, sottrarre all’effetto
di un incantamento; fig., togliere da un’illusione, e per estens. smaliziare
[...] Part. pass. diṡincantato, anche come agg., soprattutto in senso fig.,
liberato da un’illusione, dalle illusioni, disingannato, smaliziato1.

È un percorso sublime, arduo e decisivo quello che mi ap-


presto a inaugurare. Questo lavoro di ricerca illumina L’epopea
del disincanto tricolore e richiede passi scientifici calibrati inte-
riormente. Quantunque non sia facile stabilire collegamenti socio-
culturali coerenti nella storia d’Italia – financo nella storia
d’Europa e del mondo – ho sperimentato un comune denomina-
tore: il linguaggio, orgogliosamente italiano. La funzione sociale
e pedagogica dello strumento di comunicazione principe, che
fonde verbo, canto e penna, può essere di inesauribile ricchezza:
altrimenti non sarebbero ancora oggi difese le tre corone dell’età
dell’oro (Dante, Petrarca e Boccaccio), o ancora Machiavelli, Ario-
sto, Goldoni, Manzoni, Verga, Leopardi, Foscolo, e via dicendo.
Mentre il progresso del Novecento mette in piedi il suo inesorabile
corso – dopo aver versato sangue mondiale senza scrupoli tra il
Dieci e il Cinquanta – nel Belpaese si celebrano D’Annunzio e Un-
garetti, e crescono Calvino, Montale e Sciascia. Non solo loro, na-
turalmente, l’italiano letterario – di matrice dantesca – trova
numerosi e validissimi adepti specialmente in poesia. Ma il di-
lemma amletico, ai giorni nostri, è paurosamente riversato sul
Duemila: chi ha fissato l’arpione nel nuovo millennio, permet-
Impegno e disincanto
14

tendo una saldatura dai contorni rinascimentali tra i secoli di


maggior splendore artistico e l’odierno secolo dall’espressione
consumistica? Pier Paolo Pasolini e le tre corone del cantauto-
rato italiano.
Pasolini è il prototipo dell’intellettuale: poeta, narratore,
professore, linguista, cineasta, autore di teatro, paroliere, uomo
che sfida il potere e smaschera i suoi abatini. Dona alle teche della
cultura nostrana un patrimonio geniale e accademico, lasciando
la scia stimolante di quella ricerca che va oltre il noto, rico-
struendo un ponte verso l’ignoto. Il tutto con un lessico e un’ela-
sticità di collegamenti filosofici e storici dalla ricchezza
qualitativa incredibile.
Le tre corone del cantautorato italiano, che richiamano
emozionalmente quelle fiorentine, portano dei nomi suadenti e
dolorosi per l’immenso universo artistico nostrano: Faber, Gaber
e Rino Gaetano. La ballata popolare che diventa poesia maledet-
tamente estetica. Il Teatro Canzone che vola sui frastagliati campi
della filosofia, della sociologia e della psicanalisi. La filastrocca
poetica che diviene un’arma semantica per la salvezza della so-
cietà. In molti storceranno il naso dinanzi al quartetto d’archi di-
sincantati proposto, ma prima di incedere nelle mie analisi,
confutando le tesi antitetiche, devo fare linguisticamente un po’
di ordine. In misura maggiore rispetto ai secoli precedenti, la pa-
dronanza di una lingua letteraria non basta per varcare i confini
della sensibilità di un pubblico colto, medio o semicolto. «La lin-
gua letteraria è distinta dalla lingua dell’uso ma non può isolar-

Annibale Gagliani
15

sene, altrimenti viene meno il terreno d’intesa tra autori e pub-


blico: una lingua che sia loro comune, e nella quale anche l’arte
dell’allusione o dell’ironia non cada nel vuoto2».
Il narratore, nell’edificazione della sua arte, deve perciò fa-
vorire il connubio tra lirismo costruttivo e comunicabilità piace-
vole. Un simile approccio determina la ricerca costante
dell’avanguardia, poiché l’espressione richiede – sempre e co-
munque – di essere amica dei tempi. A sposare in pieno il diktat
dionisiaco sono pochissimi intellettuali (guidati da Pier Paolo Pa-
solini) e dagli anni Sessanta i “cantautori”, non ancora conosciuti
come tali. Cesare Pavese diceva che «le parole sono il corpo della
canzone come la musica ne è l’anima», un’osservazione estrema-
mente lungimirante che precede di qualche anno la nascita della
canzone d’autore. La vera genesi del genere “realista” si ha in Italia
grazie al successo di iniziative culturali «avviate da scrittori del
calibro di Calvino e di Fortini che nel 1957», dentro le viscere della
Torino di Pavese, danno vita al «Canta-cronache». Si ode dentro
quegli ambienti di ampio respiro illuminato una canzone inscin-
dibilmente legata alla realtà, nemica delle forme stereotipate in-
site nelle “canzonette” (in voga nella decade del Cinquanta). È
un’avanguardia espressiva «volta principalmente a épater le
bourgeois3»: con parole innovative, elaborate e perforanti apre i
battenti a una rivoluzione stilistica fenomenale. L’impatto iniziale
è molto confortante, poiché al pubblico solletica «il fatto che al-
cuni autori prendano a cantare in prima persona i loro brani»:
l’evento è percepito «come una garanzia di maggiore autenticità
e qualità dei testi4». Negli anni della contestazione giovanile «la
Impegno e disincanto
16

canzone d’autore non si impone più come elemento di consola-


zione, ma di disturbo5» e cogliendo il volano culturale di cotanto
successo, anche la ricerca pensa di occuparsene. «Gli studiosi di
cose linguistiche hanno cominciato a guardare con attenzione alla
lingua delle canzoni», sicché la scattante tipologia d’arte offre
«per la storia delle forme musicali e per la sociologia, molteplici
motivi d’interesse6».
E da qui partono riflessioni piuttosto meticolose. Bisogna
rammentare che chi lavora con le parole, cercando di provocare
la vertigine conturbante nel lettore o nell’ascoltatore, non può
prescindere dal rispetto “ponderato” delle norme grammaticali:
«Il lessico, cioè il patrimonio delle parole, è un insieme com-
plesso. Esso è composto da diversi filoni e strati di differente impor-
tanza quantitativa e qualitativa […] è opportuno ricordare che, mentre
il numero delle parole è potenzialmente arricchibile all’infinito, il nu-
mero delle regole di grammatica è un insieme ristretto e piuttosto sta-
bile: il cambiamento di una regola di grammatica produce a sua volta
trasformazioni e riassestamenti in tutto il sistema, quindi è un fatto po-
tenzialmente molto rilevante, addirittura in alcuni casi distruttivo7».

Perciò non basta la fugace genialità del momento per es-


sere artisti, né l’ispirazione fuori dal limite: le fondamenta del
poeta, dell’intellettuale e persino del semplice interprete devono
essere fortificate da una formazione scientifico-umanistica di al-
tissimo livello. Il Dopoguerra, il boom economico, il Sessantotto,
Tangentopoli, le Stragi di Mafia e la lettura profetica ed equili-
brata del futuro possono essere narrate – giustamente – soltanto
Annibale Gagliani
17

da veri fuoriclasse del panorama artistico-culturale. La poesia da


togliere il fiato, d’ispirazione nazionale e internazionale; il teatro
dalle sfumature elleniche e dal focoso sguardo interiore; il cinema
neorealista che attraversa l’anima; l’evasione dal reale attraverso
una canzone giocosa, composta con il fine di far comprendere pro-
fondamente il disumano universo. Tutto ciò è epicamente l’epo-
pea del disincanto. Pasolini, De André, Gaberscik, Gaetano: il
viaggio multisensoriale comincia insieme a loro, eseguendo la tra-
iettoria di un rombo narrante. Al vertice di esso vi è il cardine,
PPP; scendendo sugli angoli centrali si trovano statuari FDA e GG;
infine sul vertice basso del percorso delizioso c’è l’estenuante RG.
La bellezza di tale evasione-evocazione è pronta a conquistare lo
spazio che merita al centro di uno Stivale in eutanasia.

Impegno e disincanto
*
19

Capitolo 1
Pasolini – L’intellettuale delle borgate:
quando l’eresia diventa arte

1. La ricerca dell'io e della propria espressività

Solo un mare di sangue può salvare,


il mondo, dai suoi borghesi sogni destinati
a farne un luogo sempre più irreale!
[…] Questo può urlare, un profeta che non ha
la forza di uccidere una mosca – la cui forza
è nella sua degradante diversità.
Solo detto questo, o urlato, la mia sorte
si potrà liberare: e cominciare
il mio discorso sopra la realtà8.

(P.P. PASOLINI, La realtà, da Poesie in forma di rosa, 1964)

Pier Paolo Pasolini nasce a Bologna il 5 marzo 1922, da


Carlo Alberto Pasolini, ufficiale dell’esercito (di convinta ideologia
fascista), e da Susanna Colussi, maestra elementare di estrazione
contadina. La madre, di origine friulana, gli trasmetterà la pas-
sione per la poesia, facendo scatenare in Pasolini adolescente un
legame indissolubile con Casarsa, landa dove frequenta la seconda
elementare e buona parte delle sue vacanze estive. Bologna rap-
presenta la città più importante per la formazione del giovane
poeta. Si diploma al Liceo Galvani e poi si laurea in Lettere Mo-
derne nell’Ateneo emiliano. Tra le sue prime letture plasmanti ri-
Impegno e disincanto
20

troviamo i nazionali Petrarca, Foscolo, Leopardi, Gadda e gli in-


ternazionali Dostoevskij, Melville e Dickens. Osserva con molta
attenzione, altresì, il movimento letterario dell’ermetismo, tra-
endo da esso la spinta per fondare nel 1941 – assieme agli amici
Francesco Leonetti, Luciano Serra e Roberto Roversi – l’ambi-
ziosa rivista «Eredi».
Il 14 luglio del 1942 lo sprezzante Pasolini pubblica a pro-
prie spese, presso la libreria Mario Landi, la raccolta di liriche
che ne suggella il vero esordio poetico, Poesie a Casarsa. Parlo
di un’incontaminata «operazione di violenza linguistica9»: vuole
imporre con la creatività in versi il dialetto casarsese sulla scena
italiana letteraria. Secondo Elena Tombesi questa scelta primor-
diale «rappresenta, in una dimensione più partecipe e affettiva,
la lingua della madre (Paolo Volponi in Scritti dal Margine defi-
nirà quel regno perfetto come «madre-società»), perciò lingua
delle proprie radici e lingua “originaria”, lingua del passato». Il
tormentato rapporto con la genitrice, dall'apologo edipico, «un
amore assoluto e ingombrante», gli fa desiderare automatica-
mente «un ritorno all’innocenza giovanile, l’innocenza vissuta
tramite il passato, visibile attraverso una dolce affezione per i fan-
ciulli o ancora, per i primitivi contadini friulani10». Di seguito un
frammento sintomatico di questa lirica delle origini pasoliniane:

Sera imbarlumida, tal fossàl/a cres l’aga, na fèmina plena/


a ciamina pal ciamp.
Jo te recuardi, Narcís, ti vèvis il colòur/da la sera, quand li
ciampanis/a súnin di muàrt.
Annibale Gagliani
21

Sera luminosa, nel fosso/cresce l’acqua, una donna incinta/


cammina per il campo.
Io ti ricordo, Narciso, avevi il colore/della sera, quando
le campane/suonano a morto11.

Il nini muàrt, (Il fanciullo morto), da Poesie a Casarsa, 1942.

La morte leopardiana si staglia nei pensieri di un ragazzo


che contempla una fanciullezza narcisistica, immersa nell’atmo-
sfera paesana, pregna di leggenda popolare. Secondo Gianfranco
Contini – il primo a recensire le poesie pasoliniane per la rivista
«Primato» –, «occorreva una dignità di lingua, una sorta di equi-
valenza12» e nei versi del giovane intellettuale sono forti le rievo-
cazioni dei paesaggi di Lorca o delle figure simboliste di Rimbaud
o Mallarmé. Si scorgono, inoltre, venature classiche che riman-
dano alle Bucoliche di Virgilio, con una volontà irreversibile di at-
traversare la realtà in quel tempo apparentemente senza speranza.
Cronache di giovane vita che quasi si arrende alla morte, legandosi
passionalmente a un cristianesimo primitivo, alquanto necessario
nello scenario rupestre. Diverso tempo dopo «Pasolini dirà di aver
superato un proprio “fascismo naturale” grazie a una poesia letta
in classe dal professor Antonio Rinaldi, Le bateau ivre di Rim-
baud13», racchiudendo nell’episodio le sliding doors del suo cam-
biamento interiore.

Impegno e disincanto
22

Non a caso nel 1944 arriva il dramma teatrale I Turcs tal


Friùl, in cui Pasolini trasferisce l’idea espressiva e il fervore dia-
lettale, legandolo alle preoccupazioni sociali della sua gente, che
vive l’invasione tedesca del secondo conflitto mondiale come
quella tragica dei Turchi nel 1499.
Crist pietàt dal nustri paìs. […] Vuei a è la muart c’a ni speta
ca intòr. Ma di-n-dulà vegnia che muart? Di-n-ndulà, e parsè, duta
chiesta zent foresta vegnia a meti in pericul chista nustra puora vita,
sensa pretesis, sensa ideai, spenduda doma che a lavorà e a patì? Ma
nu i si ricurdàn che n'altra volta, tanciu sécui fa, quant che il Turc al
à brusàt e distrùt dut il Friul, Tu ti às vut pietàt dal nustri paìs, ti as
fat il miracul di salvalu. […] Slontàna n’altra volta il perìcul e la
muart, làssini cà enciamò a vivi a patì e preaTi e murì in pas.
Cristo pietà del nostro paese. […] Oggi la morte ci aspetta qui
intorno. Ma da dove viene la morte? Da dove, e perché, tutta questa
gente straniera venuta a mettere in pericolo questa nostra povera vita,
senza pretese, senza ideali, spesa solo a lavorare e a patire? Ma non
rammentano che un’altra volta, tanti secoli fa, quando il Turco ha bru-
ciato e distrutto tutto il Friuli, tu hai avuto pietà del nostro paese, hai
fatto il miracolo di salvarlo. […] Allontana un’altra volta il pericolo e la
morte, lasciaci ancora qui a patire e pregarTi e morire in pace14.
Prejera, (Preghiera), in I Turcs tal Friùl (I Turchi nel Friuli), 1944.

È rappresentato in questo caso il modello dei canti funebri


greci, con l’aggiunta di un’eco ricorrente nel frangente friulano:
gli archetipi della morte pascoliana, leopardiana e petrarchesca.
Alla stregua dei tre autori citati, il giovane poeta è in preda a una

Annibale Gagliani
23

ricerca esistenziale che si trasforma in corroborante ricerca lin-


guistica. Il mito soggettivo, legato a doppio nodo all’aspetto poe-
tico-psicanalitico della sua ispirazione, viene curato con una
raffinatezza esaltante. Diventa ciò che Leopardi era già stato con
gran classe, un pessimista-ottimista. L’essenza di questa visione
filosofica pasoliniana, vissuta negli anni Quaranta, si cela nella
sua pratica di «irrisione della storia».
L’eterno ritorno è finito: l’umanità è partita per la tangente.
Nuovi «demoni» patrocinano questo fenomeno, ma credendo ancora
stupidamente a una rivoluzione di poveri. Resta il Libro ma non la pa-
rola. Aveva ragione il peggior San Paolo, non l’Ecclesiaste. Il mondo è
una grande Chiesa grigia, dove non importa se i Doveri sono imposti
dall’Edonè invece che dall’Agapè15.

Parole durissime che avallano la crescita di un’esigenza


pressante nell’anima inquieta dello scrittore: la produzione lette-
raria d’impegno civile. La collaborazione con le riviste «Archi-
trave» e «Setaccio» proiettano l’osservazione di Pasolini verso le
problematiche più urgenti dello Stivale, succube della domina-
zione fascista. Su tutte gli interessano il futuro delle università e
la nuova espressione dell’Umanesimo. Diviene ben presto un co-
siddetto “fascista di sinistra”, poiché stimola, nei suoi primi arti-
coli, le nuove generazioni – definite “sfortunate” – a combattere
alacremente il potere culturale del regime. Il dialetto può rappre-
sentare, secondo l’intellettuale friulano, l’arma per poter infran-
gere l’imperante omologazione dittatoriale.

Impegno e disincanto
24

L’8 settembre del 1943, PPP, militare a Livorno, scappa


dal fuoco nazista, nascondendosi a Casarsa; qui ricomincia a scri-
vere poderose poesie dialettali, raggruppandole poi nel docu-
mento Stroligut di cà da l’aga. Nel 1944 fonda nel paesino
materno L’Academiuta, centro di studi filologico-letterari sul vol-
gare friulano, ideato per dotare di prestigio e dignità quell’idioma
“minore”, che faceva i conti con una marginalità storica a livello
nazionale. Nella produzione lirica l’eclettico intellettuale sceglie
di avvalersi del friulano occidentale, del quale si conosceva solo
l’aspetto parlato, ma che registra una tradizione romanza sulla
falsariga del volgare sì e di quello d'oïl. Rispetto a queste due ul-
time lingue, estremamente provate dalle proprie letterature, il
friulano «conservava ancora la purezza rustica e cristiana16», ot-
tima per innovative attività letterarie. Dopo la fine della Seconda
Guerra Mondiale, Pasolini è investito da un periodo di vicissitu-
dini caldissime che gli suscitano emozioni contrastanti. Tra il
1947 e il 1949 prendono vita lavori di poesia come La meglio gio-
ventù, Dal diario e L’usignolo della chiesa cattolica, libri di nar-
rativa estremamente discussi come Atti impuri e Amado Mio, o
ancora il romanzo che anticipa ideologicamente il periodo ro-
mano dell’autore, Il sogno di una cosa, meglio conosciuto come
I giorni del lodo De Gasperi. Il poeta casarsese racconta quel pe-
riodo di necessaria scrittura in questi tumultuosi termini:
La morte di mio fratello e il dolore sovraumano di mia madre;
il ritorno di mio padre dalla prigionia: reduce malato, avvelenato dalla
sconfitta del fascismo, in patria, e, in famiglia, della lingua italiana; di-
strutto, feroce, tiranno senza più potere, reso folle dal cattivo vino, sem-

Annibale Gagliani
25

pre più innamorato di mia madre che non l’aveva altrettanto amato e
ora era, per di più, solo intenta al suo dolore; e a questo si aggiunga il
problema della mia vita e della mia carne17.

La questione linguistica, o per meglio dire, del dialetto,


come unica ancora di salvezza contro l’omologazione (che sta per
attanagliare la società italiana), ritorna prepotentemente nel-
l’opera saggistica che il linguista PPP offre nel decennio 1948-58
su riviste come «L’Approdo», «La Fiera letteraria», «Il belli»,
«Giovedì», «Itinerari», «Ulisse», «Il Punto», «Vie Nuove», «Il
Mulino» e l’amata «Officina», fondata nel 1955 da lui stesso as-
sieme a Francesco Leonetti e Roberto Roversi. Negli anni Cin-
quanta poi si rende portavoce di un marxismo sofferto, sia per la
morte del fratello partigiano, sia per i contrasti evidenti col Pci,
provenienti dall’appello accorato che egli riserva ai politici comu-
nisti: non diventare schiavi del mercato e dell’occidentalismo.
Nella raccolta di liriche Le ceneri di Gramsci del rovente – per i
partiti comunisti internazionali – 1957 e negli articoli sferrati su
«Officina», l’intellettuale esprime i punti più spigolosi (per gli al-
leati dal “drappo rosso”) della sua ideologia in evoluzione.
La linguistica domina i pensieri del ricercatore, trasfor-
mandosi in spinosa questione sociale. L’opera saggistica sulle lin-
gue italiane verrà raccolta nel 1960 nel libro Passione e ideologia,
in cui trovano spazio studi sul neo-sperimentalismo e sulla libertà
stilistica che si dispiega negli anni Cinquanta. Lo stile identificato
come “stella polare” per le jeune écrivain è quello del Pascoli, in
primis analizzato attraverso il collaudato schema di Contini del

Impegno e disincanto
26

monolinguismo e del plurilinguismo18, e poi, in un secondo mo-


mento, maneggiato con un personalissimo impressionismo les-
sicale.
Nel Pascoli coesistono, con apparente contraddizione di ter-
mini, una ossessione, tendente patologicamente a mantenerlo sempre
identico a se stesso, immobile, monotono e spesso stucchevole, e uno
sperimentalismo che, quasi a compenso di quella ipoteca psicologica,
tende a variarlo e a rinnovarlo incessantemente. In altri termini coesi-
stono in lui, per quanto meglio ci riguarda, una forza irrazionale che lo
costringe alla fissità stilistica e una forza intenzionale che lo porta alle
tendenze linguistiche più disparate19.
In concreto, per Pasolini, Pascoli era uno studioso speri-
mentale che aveva infuso nella poesia una lingua parlata, trasfor-
mata in koinè20, imponendosi come fonte d’ispirazione stilistica
per i crepuscolari, e tematica – attraverso il pessimismo cosmico
riversato nella memoria – per il Montale. La sua poetica del Fan-
ciullino è in grado di afferrare con puntualità i dettagli del reale,
attraverso «un lirismo insieme ingenuo e sapiente immediato e
squisito21». Cogliendo il fulgido esempio pascoliano, l’artista di
Casarsa traccia il viatico di un nuovo sperimentalismo che deve
essere rimosso dalla storia, partendo dall’interiorità dell’uomo e
proponendo sperimentazioni stilistiche radicali. Tre azioni de-
vono costituire il leitmotiv del portatore del vessillo della libertà
stilistica: innovazione, rinnovamento e ricerca.

Di enorme rilievo all'interno della fatica saggistica Pas-


sione e ideologia sono gli studi dedicati alla poesia dialettale del
Annibale Gagliani
27

Novecento e più in generale alla lirica popolare italiana.


È proprio perché unita, confusa con una storia del costume, col
poetico o il furbesco di una campagna, di una città, la lingua potenziale
che è il dialetto tende a conservare rigidamente, come in un codice
d’onore, i semplici e isolati caratteri di «inventum»; e realizzandosi tale
situazione linguistica (puramente orale, e si sarebbe tentati di dire cro-
nologicamente contemporanea all’infanzia, all’adolescenza del futuro
poeta) in «tipi» etnici, fortemente coloriti, in figure predisposte a una
leggenda familiare e rionale – il poeta dialettale tende a realizzare ar-
tificialmente questa intensificazione pseudo-poetica della lingua nei
parlanti in rapporto non puramente strumentale, e traferisce dentro gli
schemi letterari interi pezzi di quella realtà di lessico, di gergo, come
per una documentazione. C’è nel poeta dialettale medio il terrore di es-
sere linguisticamente diverso. Di non obbedire rigidamente a quel co-
dice d’onore linguistico che è dell’anonimo anche più scanzonato. E la
sua più grande ambizione è quella di annullarsi nell’anonimia, farsi in-
conscio demiurgo di un genio popolare della sua città o del suo paese,
portavoce di una «assoluta» allegria locale22.

In questo bramoso stralcio il linguista Pasolini spiega i con-


trasti ultracentenari tra espressione volgare e l’apparentemente
contraria espressione italiana (fiorentina). Compone con cogni-
zione di causa il manifesto del poeta dialettale novecentesco, che
non è soltanto una cetra “fuori dal coro” della letteratura tricolore
– percepito talvolta come linguisticamente estraneo dai comuni-
canti standard – ma vero è proprio portavoce della sua tradizione
familiare e rionale. Tale sentimento di appartenenza lo porta a di-
fendere, attraverso un meccanismo codificato, la colorita allegria
della località. Alla stregua di Dante nel De vulgari eloquentia, PPP
Impegno e disincanto
28

classifica geograficamente le letterature volgari dell’Italia tutta,


non dividendo in due tronconi verticali la mappa linguistica,
bensì in tre macro-aree che subiscono ancora focale influenza
dalla produzione dialettale. Il punto d’osservazione culminante
è il mito, analizzato con un approccio arcaico a oltranza. In tale
sede, non sono l’élite istruite a essere protagoniste, ma altresì le
figure più esperte dell’oralità popolare (spesso uomini analfa-
beti).
Questo scatto da un popolo reale nella vita moderna, ad uno
reale nella vita mitica, può essere legittimo, anche se fuori da un reali-
smo documentario, virile – anche se sbava nella convenzionalità arca-
dica: e infatti il poeta dialettale analfabeta (figura quasi scomparsa nel
Nord, ma non del tutto nel Sud) è pronto ad accettare del popolo – cui
egli appartiene – una tale falsificazione, la sua riduzione cioè alla pura
e semplice «allegria», alla poesia amorosa23.

L’eclettico intellettuale esegue un’ecografia sulla lettera-


tura dialettale del Paese, senza discriminazioni di sorta, analiz-
zando con minuzia grandi nomi poetico-narrativi che dal
Risorgimento fino al Dopoguerra dominarono la scena: natural-
mente Pascoli, Montale, Gadda (col suo avanguardistico pasti-
che), Carducci, Rebora, Sbarbaro, Saba, Penna, Bertolucci,
Bassani, Caproni, Volponi, Luzi e altri primattori. Nei saggi di
Passione e ideologia troviamo confronti gergali e lessicali tra me-
tropoli come Milano e Roma; uno spazio esclusivamente senti-
mentale per il Friuli; un parallelo tecnico tra le poesie popolari
del Settentrione, del Centro e del Meridione. La ricerca linguistica
pasoliniana diviene un vero e proprio manuale filologico del ven-
Annibale Gagliani
29

tesimo secolo. Si pone nel ristretto campo dell’accademia alta


come scientificamente idoneo per determinare la potenza espres-
siva della lirica dialettale italiana, e per stabilire un dialogo co-
struttivo tra volgari materni, ideologicamente agli antipodi, ma
morfologicamente affini. Ritornando sulla querelle del neo-spe-
rimentalismo, Pasolini spiega meglio cosa intende comunicare
nell’esaustivo saggio, autodeterminandosi agli occhi di quel lettore
che lo qualifica come neo-sperimentale, giacché caduto nel tra-
bocchetto dell’analisi sui tecnicismi. Il linguista chiarisce, al cul-
mine di Passione e ideologia, le intenzioni sullo studio
dell’archivio letterario popolare a sua disposizione:
Io mi dichiarerei neo-sperimentale: ciò è falso, si leggano atten-
tamente i due ultimi saggi, e si vedrà come deve esser stato sciocco il
primo lettore che ha pensato questo: e tutti coloro che ne hanno accet-
tato la cantonata, come una fila di pecore […]. Io porrei come normativo
l’uso del dialetto nel romanzo: anche ciò è falso. Io ho semplicemente
cercato di difendere e giustificare tale operazione. Non ho mai voluto
essere parenetico24.

Impegno e disincanto
30

2. Il poeta delle borgate romane:


romanzare con ogni forma d'espressione

Nel 1950 Pier Paolo Pasolini scappa da Casarsa e si stabi-


lisce a Roma. Qui arriva il confronto con il reale, attraverso lo
studio profondo di un ambiente sofferto: le borgate. Il dialetto
entra con pacata prepotenza nella sua idea di narrateur: nasce
nel 1955 il romanzo Ragazzi di vita. La narrazione è cinemato-
grafia allo stato puro, simile alla sceneggiatura di un film. La ca-
pitale non viene descritta come una metropoli, ma come
un’enorme borgata efferata, nella quale le baracche sono avvolte
da un elettrocardiogramma sociale: la visione del tempo «mise-
ria-benessere25». I protagonisti sono un gruppo di bulletti della
città di Dio, esponenti di un sottoproletariato fuori dalla sacca
storica. Essi delinquono per poter sopravvivere alla famelica gior-
nata: sono cittadini invisibili che si trasformano in soggetti “par-
lanti” tra le righe pasoliniane. Rimangono soltanto sfiorati da
quell’omologazione industriale che corrompe i vertici della scala
gerarchica, sputando in faccia a chi non ne fa parte. Il primattore
del romanzo è il giovanissimo Riccetto, mariuolo per eccellenza
dall’insospettabile buon cuore.
Era una caldissima giornata di luglio. Il Riccetto che doveva
farsi la prima comunione e la cresima, s’era alzato già alle cinque; men-
tre scendeva giù per via Donna Olimpia coi calzoni lunghi grigi e la ca-
micetta bianca, piuttosto che un comunicando o un soldato di Gesù
pareva un pischello quando se ne va acchittato pei lungoteveri a rimor-
chiare. […] Appena finito il sermoncino il Vescovo, Don Pizzuto e due

Annibale Gagliani
31

tre chierici giovani portarono i ragazzi nel cortile del ricreatorio per fare
le fotografie: il Vescovo camminava fra loro benedicendo i familiari dei
ragazzi che s’inginocchiavano al suo passaggio. Il Riccetto di sentiva ro-
dere, lì in mezzo, e si decise a piantare tutti: uscì per la chiesa vuota, ma
sulla porta incontrò il compare che gli disse: «Aòh, addò vai?» «A casa
vado», fece il Riccetto, «tengo fame». «Vie’ a casa mia, no, a fijo de na
mignotta», gli gridò dietro il compare, «che ce sta er pranzo». Ma il Ric-
cetto non lo filò per niente e corse via sull’asfalto che bolliva al sole26.

Il romanesco diviene, più che una mera scelta stilistica,


un’incisiva connotazione esistenziale. Nella città eterna Pasolini
attraversa un periodo senza lavorare; è un professore di Lettere,
ufficialmente, ma senza cattedra. Nelle giornate di ozio, decide di
entrare nelle arterie putrefatte della capitale, di osservarne losche
abitudini, gergo asfissiante e caratteristiche ideologiche. Tale vor-
tice ispiratore, intensamente low cost, porta l’artista a sbattere
pionieristicamente il sangue nero delle borgate in faccia alla let-
teratura. Già dall’attacco di Ragazzi di vita si ha subito la perce-
zione di un racconto “a tu per tu” con la crogiolante miseria.
L’approccio linguistico è gaddiano (unione tra dialetto e italiano)
e l’espressione cieca del realismo amoroso – atto alla descrizione
del vitalismo originario dei protagonisti – porta quel sottobosco
fognante a fare per la prima volta la storia. Pasolini accetta una
«regressione sperimentale27»: è l’unico modo possibile di denun-
ciare, con prorompente rimando al naturalismo zoliano, le con-
dizioni di vita di quella classe sociale totalmente invisibile. Il suo
realismo mimetico – che si trasformerà definitivamente in neo-
realismo sul grande schermo – sdogana nel territorio nazionale

Impegno e disincanto
32

termini come: abbioccato, brecola, ficcà, piotta, zagaià, zella,


eccetera. Ma non è tutto, perché a risultare estremamente inte-
ressante è il refrain sociale del “rubare ed essere derubati”, defi-
nito come un pareggiamento degli avversi eventi per i borgatari,
sempre alla ricerca della “grana”, che fin dalla nascita rappre-
senta il centro gravitazionale delle loro attenzioni socio-biologi-
che. E quando con furtarelli e truffe si riesce a reperirla, l’ariosa
pecunia, viene subito dispersa in prostitute, vino all’osteria e
qualche abitino nuovo da sfoggiare in faccia all’amico meno ab-
biente. Simbolico è questo piccolo frammento di Ragazzi di vita,
in cui il Riccetto, ormai cresciuto, gode del suo “premio” di gior-
nata dopo un profumato colpo illegale messo a segno con gli op-
portunisti amici. Lo scenario catartico è quello di un’arroventata
cabina balneare:
Il Riccetto era lì in mezzo, col cappello messicano in testa. Lei
zitta zitta si slacciò il reggipetto e le mutandine del due pezzi, se li tolse
dalla carne sudata, e pure il Riccetto, vedendola, si tolse gli slip: «La-
vora, daje», le ordinò sottovoce. Ma mentre facevano quello che dove-
vano fare, e la Nadia si teneva stretto il pischello tra le braccia con la
faccia affondata tra le zinne, pian piano con una mano, scivolò su lungo
i suoi calzoni appesi contro la parete, la infilò nella saccoccia di dietro,
levò il pacco dei soldi e lo mise dentro la sua borsa che pendeva lì ap-
presso28.

Nell’episodio della spiaggia, assieme al primo passaggio


citato – che detiene una funzione proemiale nel romanzo –, si
evince come Pasolini attui una sorta di unione filologica tra l’ita-
liano e il romanesco, proponendo toni come il lirico, l’idilliaco e
Annibale Gagliani
33

il tragico, sovrapponendo una serie di livelli espressionistici.


L’obiettivo linguistico e tematico è uno soltanto: descrivere un
micro-universo caldissimo e in costante movimento, che non è in-
serito nel tempo e nello spazio socio-politico. L’autore nutre una
viscerale attenzione nei confronti del sottoproletariato, decantato
nella sua cruda lealtà, umanamente accettabile rispetto ai modi
di vivere dei piccolo-borghesi e dell’alta borghesia (da lui dete-
stati).
Ma la «Comare Secca29» incombe nell’atto più fervido del
destino inesistente dei borgatari. Certo, sullo sfondo pessimistico
delle periferie romane, rantola sovente un bagliore di speranza,
impresso nelle righe che raccontano le avventure del Riccetto.
Molti dei suoi compagni soccombono, in maniera brutale talvolta,
altri masnadieri come lui marciscono in gatta buia. Ma ironia della
garrula sorte, il protagonista principe la scampa sempre, pur su-
bendo durissime lezioni: la scomparsa della madre o l’arresto
dopo un svaligiamento andato male. Però, sommariamente, tutto
ciò non gli occlude il passaggio nella nuova società consumistica.
Manifesto del romanzo è la scena finale, tragica, quasi sarcastica,
nella quale un amico del Riccetto, Genesio, muore affogando in
fondo al fiume, proprio nel momento in cui, l’ormai ex borgataro
diventa un nuovo esponente del mondo piccolo-borghese.
Sulla stessa linea narrativa sconvolgente orbita il secondo
romanzo pasoliniano apparso nel 1959: Una vita violenta. In que-
sto caso l’esponente del sottoproletariato urbano è Tommaso Puz-
zilli, ragazzo statuario, delinquente per necessità, ma che nutre

Impegno e disincanto
34

fervidi ideali. A differenza del Riccetto, Tommaso non riesce a


varcare le soglie del mondo borghese: uscito da galera – con i mi-
gliori propositi di avvicinarsi alla politica di partito e di sposare
la sua amata Irene – muore catastroficamente dopo aver salvato
una donna che subisce un’inondazione nella baracca di proprietà.
Inequivocabile catarsi plebea che fa sviluppare nell’autore una
stimolante idea: unire i fotogrammi parlanti di Ragazzi di vita e
di Una vita violenta, ma per trarne cosa? Accattone.
Nel 1961 Pasolini esordisce nella regia cinematografica,
imponendosi come un fulmine a ciel sereno dentro gli ambienti
culturali d'élite: Accattone vede la luce alla mostra del cinema di
Venezia. Sul velo di Maya arabescato del boom economico,
l’avanguardistico regista – dalle spiccate capacità di trasposizione
dell’inquadratura pittorica nell’arte filmica – invita l’osservatore
a guardare attentamente sotto la stoffa sociale. Raccontare la sto-
ria di un “magnaccia”, abbandonato dalla moglie e dal suo bam-
bino, “possessore” di una donna da far prostituire nell’inferno
grezzo delle borgate e guastatore di un’altra innocente ragazza,
suscita non poche polemiche. Franco Citti, protagonista assoluto
del film, rappresenta somaticamente la sofferenza e il veleno del
sottoproletariato romano: è il simbolo dello “scabroso” neorea-
lismo pasoliniano. Il linguaggio che narra i crimini del primattore
è perentoriamente misto tra dialetto capitolino e piccoli momenti
poetici, restando aderente ai primi vagiti romanzati dell’autore.
Per Michelangelo Zaccarello il romanesco utilizzato «univa il
forte impatto popolaresco, e l’ormai generale notorietà televisiva
e cinematografica, con una completa comprensibilità da parte del
Annibale Gagliani
35

pubblico», anche per il fatto che tra i volgari nostrani è uno di


quelli che «combina una connotazione popolana o rusticale con
una facile comprensibilità30». Attraverso un pastiche nazional-ro-
mano (miscuglio di volgare borgataro e lingua italiana) assistiamo
a furti, violenze, sbeffeggiamenti nei confronti di chi si guadagna
onestamente il pane. Il magnaccia è severamente punito dal de-
stino mangia-borgate, che lo colpisce proprio nel momento in cui
decide di cambiare registro esistenziale. La morale del film, per-
vasa da un ripudio nei confronti del livellamento sentimentale che
la borghesia ha messo in atto, evidenzia «l’unica misera luce della
coscienza di Accattone, e culmina con la morte, la quale rappre-
senta il massimo punto di arrivo, in quanto il personaggio non
avrebbe né la forza e né i mezzi, data la sua condizione sociale
estremamente repressa, di redimersi completamente31». Il reali-
smo spaventoso – per i canoni culturali dell’epoca – di Accattone
attira le mire del censore ministeriale Renzo Hefler, che reputa
inadeguati alcuni dialoghi della pellicola, colpevole, a sprazzi, di
esporre un linguaggio conturbante:
L’Arco Film presentò Accattone alla Commissione di censura il
26 agosto 1961, cinque giorni prima della proiezione alla Mostra, con
l’intento di distribuirlo nelle sale italiane a inizio ottobre. Dopo alcuni
giorni il sottosegretario allo spettacolo Renzo Helfer dichiarò che, con-
siderati i personaggi della storia (“che per il novantanove per cento sono
leoni, prostitute, ladri, bari, violenti”) e il soggetto, “non è pensabile che
la pellicola possa venire proiettata a un pubblico che non abbia rag-
giunta la piena maturità”. Il divieto ai minori di anni 16 “deve ritenersi
obiettivamente troppo basso”, quindi “la modifica del limite del divieto
fino alla maggiore età prevista nel disegno di legge attualmente in di-
Impegno e disincanto
36

scussione al Senato potrebbe sciogliere, almeno in parte, le gravi riserve


che il film propone” (Il Tempo, 2 settembre 1961)32.

È estremamente interessante comprendere le ragioni


ideali e tecniche che portano Pasolini a sperimentare la quinta
arte e a rischiare, al battesimo, con un’opera intellettualmente
esplosiva. Bisogna chiarire in primis un aspetto centrale. Il regi-
sta poetico (ma anche pittorico) concepisce allo stesso modo l’at-
tività di romanzare in un libro o sul grande schermo, «considero
il lavoro di un regista del tutto simile a quello di uno scrittore [...]
cambio semplicemente tecnica, mezzo espressivo […] non so se
farò altri film, o come li farò: è certo però che questo dovesse suc-
cedere, rientrerebbe nella mia attività di narratore, né più né
meno che come fare romanzi33». In seconda battuta, la scelta di
sbaragliare pubblico e critica con Accattone è indice (già dalla ge-
nesi) di un conflitto interiore del regista, scatenato dall’espe-
rienza delle borgate, «Al mio arrivo a Roma, abitando nella
periferia in cui è ambientato Accattone, sono stato colpito da un
ambiente che non conoscevo e ho provato il bisogno di rappre-
sentarlo. Accattone è scaturito da un “trauma psicologico”34». La
scelta controversa, ed efficace, di comporre un cast di attori non
professionisti – autentici esponenti delle borgate capitoline – che
fisicamente trasmettono il dolore dentro al cuore della cinepresa,
porta un certo scetticismo nei produttori a cui propone la pelli-
cola. Federico Fellini, in una lunga intervista rilasciata a Rita
Cirio, ricorda curiosamente il primissimo rifiuto recapitato a Pa-
solini, che di certo non ebbe parole al miele per uno dei padri del
neorealismo tricolore:
Annibale Gagliani
37

In un primo tempo fui costretto a dire a Pier Paolo non la verità,


ma che era meglio aspettare. Ma lui, intelligente com’era, capì che
c’erano resistenze da parte mia – cosa non vera – e mi ricordo che sor-
ridendo con un po’ di mestizia mi disse: “Certo non posso fare il cinema
come lo fai tu”. Dopo che fu avviato il sodalizio con Alfredo Bini cercai
di farmi perdonare quella presa di distanza. Apprezzai persino esage-
ratamente il suo film e soprattutto mi diedi da fare perché venisse libe-
rato dal blocco della censura. Pasolini scrisse in quell'occasione un
articolo sul “Giorno” in cui raccontava tutta la storia con onestà, con
molta acutezza e anche un po’ di umorismo, cosa che in genere non ap-
parteneva alle sue corde. In quell'articolo venni da lui battezzato “l’ele-
gante vescovone” per il modo in cui, con grande imbarazzo, gli avevo
dato notizia negativa sul suo film35.

Un anno più tardi, nel 1962, arriva la seconda opera filmica


di Pier Paolo Pasolini: Mamma Roma. Ad aleggiare sulla trama
sono gli ideali della piccola-borghesia, immersi nello scenario ro-
mano dell’Ina-Casa. La protagonista, Mamma Roma, interpretata
dall’incommensurabile Anna Magnani, è una prostituta che cerca
di costruire per il figlio Ettore un futuro diverso da quello che la
criminalità delle periferie tende a segnare. I palazzoni bianchi
delle borgate moderne, divorate da un sogno di benessere vio-
lento, che trasforma l’epicità delle campagne in meccaniche città,
sono il simbolo della scalata sociale che la madre progetta per
l’unico genito. Se in Accattone manca il moto di rivalsa, seppur
palesato in maniera tardiva e poi rivelatosi fallimentare, in questa
seconda opera il contatto tra l’ideologia “benestante” e modus vi-
vendi del sottoproletariato porta al caos. Mamma Roma proviene

Impegno e disincanto
38

dallo sterco di una famiglia che l’ha costretta a prostituirsi fin da


adolescente e perciò tenta a tutti i costi di spingere il fragile Ettore
in una classe sociale “pulita”. Per raggiungere il suo lancinante
obiettivo si avvale delle promesse lavorative di un prete, perpe-
tuando addirittura un ricatto nei confronti di un uomo potente,
con l’aiuto decisivo delle sue colleghe. Ma le radici sociologiche
della protagonista segnano l’inevitabile condanna: il figlio muore
tragicamente dopo essere stato coinvolto dagli amichetti mariuoli
in un furto all’ospedale. La scena finale è densa di pathos, dotata
del parabolico alone della tragedia ellenica: si dispiega una con-
trapposizione tra Ettore, legato al letto dei matti – quasi fosse un
Cristo crocefisso –, e Mamma Roma, che alla notizia della morte
del figlio emana un urlo di straziante dolore verso la crudeltà del
mondo benestante. Il “caos” è semplicemente scatenato dall’eti-
chetta che si porta addosso: prostituta opportunista, insindaca-
bilmente incompatibile con il perbenismo della piccola borghesia.
Pasolini racconta così l’intuizione del soggetto e del messaggio ri-
servato nella sua seconda opera filmica:
L’idea di Mamma Roma mi venne almeno un anno prima che
scrivessi il copione di Accattone, quando tutti i giornali parlarono della
drammatica morte di Marcello Elisei, un giovane detenuto morto a Re-
gina Cœli legato al letto di contenzione. Da quello spunto di cronaca
maturai una storia i cui protagonisti portano come una condanna in-
delebile la loro miseria, respinti nel fango perché la loro colpa è come
un peccato originale36.

Il periodo romano di PPP, pregno di sperimentazioni e ri-


voluzioni interiori, è determinante per il mutamento ideologico
Annibale Gagliani
39

dal “drappo rosso” (sollevato in Friuli) alla penna “eretica” degli


anni Settanta, e altresì, per il passaggio di consegne poetiche tra
le Ceneri e La religione del mio tempo. Due prodotti culturali pos-
sono rappresentare la sintesi degli squilli sanguinanti della capi-
tale: la lirica A un Papa e la canzone Cosa sono le nuvole.
Forse io sono feroce a chiedermi per che ragione
la gente come Zucchetto fosse indegna del tuo amore.
Ci sono posti infami, dove madri e bambini
vivono in polvere antica, in un fango di altre epoche.
Proprio non lontano da dove tu sei vissuto,
in vista della bella cupola di San Pietro,
c’è uno di questi posti, il Gelsomino...
Un monte tagliato a metà da una cava, e sotto,
tra una marana e una fila di nuovi palazzi,
un mucchio di misere costruzioni, non case ma porcili.
Bastava soltanto un tuo gesto, una tua parola,
perché quei tuoi figli avessero una casa:
tu non hai fatto un gesto, non hai detto una parola.
Non ti si chiedeva di perdonare Marx! Un’onda
immensa che si rifrange da millenni di vita
ti separava da lui, dalla sua religione:
ma nella tua religione non si parla di pietà?
Migliaia di uomini sotto il tuo pontificato,
davanti ai tuoi occhi, son vissuti in stabbi e porcili.
Lo sapevi, peccare non significa fare male:
non fare il bene, questo significa peccare.
Quanto bene tu potevi fare! E non lo hai fatto:
non c’è stato peccatore più grande di te37.
Impegno e disincanto
40

Pasolini intende propinare un j’accuse alla religione del


suo tempo, e più profondamente, all’effige di essa: Papa Pio XII,
all’anagrafe Eugenio Pacelli. Il suo fu un pontificato abbastanza
movimentato, cominciato nel 1939 e terminato il 9 ottobre 1958,
giorno della nascita dell’epigrafe pasoliniana. Nel 1949 Papa Pa-
celli scomunicò i marxisti dalla chiesa, ma per l’autore friulano
non è questa la principale contraddizione di cui si era macchiato.
I versi di A un Papa, distesi come un fiume in piena su un blocco
unico, senza rime, quasi a intendere con rabbiosa educazione di
non voler essere interrotti, intendono spaccare il cielo romano
nelle giornate delle esequie papali. Il poeta gioca sull’aut aut
bene-male, miseria-ricchezza, impegno sociale-indifferenza: con-
trappone la tragicomica fine di uno sventurato di borgata, Zuc-
chetto, alla dorata celebrazione della morte del Papa. La
narrazione poetica di Pasolini è cruda ed estremamente realistica,
senza metafore o giochi di parole, come un confronto face to face
tra i diretti interessati. Si evidenzia la crisi e la contraddizione di
due mondi inconciliabili, per colpa essenzialmente di figure come
Pio XII, che secondo l’autore non muove mai un dito per ascoltare
– anche dalla finestra di San Pietro – i guaiti d’aiuto delle perife-
rie più dissanguate. I brandelli dell’ubriacone Zucchetto sparsi
per i Mercati, la silente costernazione sotto il monte Gelsomino:
quanta sofferenza nella Roma della “pietà cristiana”, ma il Líder
Máximo di essa non conosceva niente di tutto ciò (o forse non
voleva saperne, come implicitamente sostiene Pasolini). Da que-
sta stagione in poi, l’intellettuale degli ultimi è scosso da una crisi
totale, sintomo delle brutture che aveva deciso di raccontare, che

Annibale Gagliani
41

lo portano ben presto a trasformarsi in una temutissima mina cul-


turale.

Ch’io possa essere dannato


se non ti amo.
E se così non fosse
non capirei più niente.
Tutto il mio folle amore
lo soffia il cielo
lo soffia il cielo... così. […]
Il derubato che sorride
ruba qualcosa al ladro
ma il derubato che piange
ruba qualcosa a se stesso.
Perciò io mi dico
finché sorriderò
tu non sarai perduta38.

Tra A un Papa e Che cosa sono le nuvole ci sono innume-


revoli gemme pasoliniane a trafiggere la scena: i film del filone
neorealista, La ricotta con Orson Welles nel 1962, la riscrittura
teologica de Il vangelo secondo Matteo, l’allegorico Uccellacci uc-
cellini nel 1966 con Totò protagonista – che sancisce la scomparsa
del marxismo –, e la riscrittura mitologica di Edipo re nel 1967. E
poi Capriccio all’italiana, diretto assieme a Monicelli e Bolognini,
nel quale un episodio chiamato Che cosa sono le nuvole – col
principe della risata sugli scudi – fa riecheggiare l’omonima can-
zone pasoliniana, interpretata magistralmente da Domenico Mo-
Impegno e disincanto
42

dugno. Il brano racchiude fedelmente il dolore amoroso provato


toujours dal poetico narratore, che nei versi non riesce a nascon-
dere il suo trasporto emotivo nei confronti della natura e di quel
sentimento probabilmente mai corrisposto da un ipotetico par-
tner. Anche qui appare la dicotomia ladro-derubato, molto in-
tensa nel ciclo narrativo romano, ma assume un’altra chiave
interpretativa: sorridere se la vita toglie può portare alla felicità,
adombrarsi se la vita toglie può rappresentare un’auto-flagella-
zione esistenziale. Perciò un modus vivendi positivo può rubare
“alla società matrigna”, mentre un’espressione vitale negativa
porta a essere ingannati due volte. La canzone è ispirata all’Otello
di William Shakespeare, colonna romantica della lirica mondiale,
che PPP legge con attenzione in quel preciso periodo artistico.
Ma di che reputazione gode il poeta friulano, per esempio nel cast
del film di quel bollente 1968? Molto puntuale e sorprendente è
il ricordo riservatogli da Franco Franchi, anche lui meilleur ac-
teur in Capriccio all’italiana:
Quando io ho fatto Che cosa sono le nuvole? mi sembrò che Pa-
solini fosse un gran cervello, una persona dolcissima però molto addo-
lorata, strana dentro. Aveva questo magone perché, secondo me, forse
avrebbe voluto essere più alto, più forte, chissà, pareva che non fosse
soddisfatto di come lo aveva fatto la natura. Non faceva mai il profes-
sore malgrado tutta la scienza che aveva, non metteva mai in imbarazzo
nessuno, dialogava, anche se non si era colti ci si stava bene assieme.
Comunque quando si isolava e si metteva seduto da una parte per cin-
que minuti, diventava di una tristezza spaventosa. Pasolini amava la
comicità, quella tradizionale, però, quella dei famosi guitti, quella dei
«vastasi», insomma la comicità senza copione, perché appunto nelle
Annibale Gagliani
43

«vastasate» il copione non esisteva, è nato quattro secoli dopo. Era una
comicità fatta da poveracci, ma sanguigna, acuta, molte delle cose che
strombazzavano oggi si ritrovano già nel loro repertorio39.

Due aspetti pressanti balzano fuori dalla shakespeariana


chanson e dal tenero ricordo di Franchi: il vitalismo nascosto (e
necessario) dell’autore e la sua affezione a tutto ciò che di popolare
il Paese esprime. Ama profondamente il football da oratorio, poi-
ché lo pratica con elegiaca purezza, e decide, quasi per gioco, di
proporre una semiotica del calcio40. Ama velatamente la canzone
popolare e osserva con attenzione il cinema di solerte spontaneità.
Preferisce, come ricordato da Franchi, il teatro d’improvvisazione
a quello ingessato da schemi precostituiti. Queste passioni por-
tano l’eclettico intellettuale, dopo aver sperimentato nuove forme
artistico-comunicative, aver studiato con occhio critico l’evolu-
zione linguistico-sociologica nel ventennio post-conflitto, a voler
riformare i più travolgenti strumenti espressivi. L’obiettivo –
arduo quanto i mulini a vento del Don Chisciotte di Cervantes – è
di farli sfuggire all’imperante omologazione che il potere consu-
mistico porta in atto. Circolo vizioso pronto a svuotare l’individuo
contemporaneo, per poi cancellarlo.

Impegno e disincanto
44

3. L’alternativa artistico-culturale eretica:


un poeta verso l’autodistruzione

Smetto di essere poeta originale, che costa mancanza


di libertà: un sistema stilistico è troppo esclusivo.
Adotto schemi letterari collaudati, per essere più libero.
Naturalmente per ragioni pratiche41.

Da COMUNICATO ALL'ANSA (SCELTA STILISTICA)

Già nel 1964, con la raccolta di componimenti poetici Poe-


sia in forma di rosa, Pasolini abiura il periodo lirico delle Ceneri
di Gramsci, sollevando l’ardua questione che non vi è più richie-
sta di scrittura in versi sul panorama nazionale. Sentimento cla-
moroso, diretto, spaesante, che sfocia in gran parte nel poema
politico del 1971, Trasumanar e organizzar, in cui l’autore af-
ferma il fallimento della poesia e si esprime attraverso «una ma-
teria autodistruttiva42». Lo svuotamento della semantica celata
nella scrittura, dimostra come il segno grafico possa cavalcare da
solo. L’intellettuale friulano intende evidenziare quel vuoto
espressivo in voga alle prime luci del Settanta, strumento strate-
gico della cultura borghese che non interpreta la realtà, ma una
pantomima funzionale della stessa. Colgo qualche esempio di
questo linguaggio perfettamente modellabile, raccapricciante, ca-
pace di implodere scevro di senso:

Annibale Gagliani
45

COMUNICATO ALL'ANSA (UN CANE)

Ahi, cane, fermo sul ciglio della via Presentina


che si guarda di qua e di là prima di attraversare la strada.
Non ha nulla da ridire: accetta tutto.
Non ha dignità da difendere, a causa della sua bontà.
Ecco quindi la mia conclusione:
la rassegnazione non ha niente da invidiare all’eroismo […].

LA MAN CHE TREMA


Per natura sono dentro la mischia
per età ne sono fuori –
l’ambiguità è ribadita dal rapporto ambiguo
tra contiguità e similarità – grazie, vecchio Jakobson!
Che non per nulla ti fondi oltre che su Poe, su Valéry –
mettiamoci un po’ di oscurità, egli infatti diceva –
È quello che faccio quando sorrido come chi è fuori
dalla mischia,
E VICEVERSA –
ed è quello che faccio quando dicendo cose chiare
«ci metto dell’oscurità», e, naturalmente, VICEVERSA –
ma nessuno dimentica che come le fiabe
anche le strutture tendono a ripetersi, a non cambiare
e se una corrente letteraria è stata reazionaria
questa è stata il simbolismo, tuttavia...
l’exitation prolongée entre le sans e le son...
chi è fuori dalla mischia è, si capisce, un po’ reazionario,
ma anche chi è dentro lo è; un po’ reazionario è chi è chiaro,
con tutte le sue virgole, e chi aiuta la naturale ambiguità
creando apposta degli ostacoli. Perché non dirlo43?
Impegno e disincanto
46

Come fa il poeta Pasolini a trasformare il suo urlo delizio-


samente sofferto di Poesie in forma di rosa, in un manifesto del-
l’incomunicabilità, incontrovertibilmente comunicativo? Nei
frammenti selezionati da Trasumanar e organizzar si evince
l’esigenza dell’intellettuale di trovare una nuova strada per sfug-
gire al conformismo della lingua del consumismo, architettata
dalla sfera mediatica borghese. Disordine strutturale, alternanza
di corsivo e tondo, caratteri che improvvisamente diventano ma-
iuscoli, espressioni in altre lingue e citazioni alte che stordiscono
il lettore. Un’incomunicabilità reazionaria che mira a stimolare
la rivoluzione culturale. La mala-politica e la società-gregge sem-
pre sullo sfondo, ma la ricerca di una nuova espressività campeg-
gia al di sopra di tutto. Negli anni immediatamente precedenti
allo strampalato poema, Pasolini rafforza il legame con la narra-
zione psicanalitica – in risposta al suo marxismo delle origini –
attraverso l’opera teatrale Affabulazione (1966), e poi ancora con
le fulminanti pellicole Teorema (1968) e Porcile (1969), e infine
con la riscrittura di Medea (1970). Ma dopo la fase marxista degli
anni Cinquanta e quella freudiana degli anni Sessanta, agli inizi
degli anni Settanta l’autore cerca riparo ideologico nella società
del passato, contrapponendola a quella “irreale” del consumismo:
sperimenta La trilogia della vita.
Ricompone – col suo originale tocco – il Decameron di
Boccaccio nel 1971, I canti di Canterbury di Chaucer nel 1972 e
Il fiore delle mille e una notte nel 1974 (raccolta anonima osser-
vata da Pasolini durante il viaggio in India assieme a Moravia).
Le tre opere vivono impetuosamente nel turbinio di pellicole in-
Annibale Gagliani
47

novative. Sono da citare, sia per l’imponenza sentimentale, che


per la propulsione data alla contrapposizione sogno-realtà, la ri-
scrittura teatrale di Calderón de la Barca nel 1973 e il tentativo
di trasformazione dell’inferno dantesco con Divina Mimesis. L’in-
tellettuale friulano si vuole servire di questo lavoro per spedire
negli inferi i vip dell’epoca post-sessantottina. Tornando a La tri-
logia della vita, come accennato, la ratio artistica è figlia di un
mondo perduto, che si batte per i diritti sociali e che riflette con
cognizione di causa sulle problematiche dell’esistenza. Ma la sua
si rivela una balenante illusione, poiché la crisi antropologica sca-
tenata dalla sottocultura dei mass media, sancì il trionfo dell’ir-
reale, portando al crollo di quel presente artisticamente fragile.
Tutto ciò determina di fatto anche il crollo del passato, ridise-
gnando una vita futura costellata da mucchi di insignificanti e iro-
niche rovine. Ecco il perché basilare del bizzarro discorso di
Trasumanar e organizzar, e con più fondamento scientifico, della
sua ultima operazione saggistica: Empirismo eretico nel 1972.
La sezione inaugurale della raccolta di saggi anti-tecnocra-
tici parte con il recupero di una conferenza tenuta da Pasolini
presso l’Associazione Culturale Italiana, che verte sulle Nuove
questioni linguistiche. A completare lo studio proemiale del-
l’opera sono una serie di interventi apparsi su «L’Espresso», su
«Il Giorno» e su «Rinascita». Vi è l’esigenza chiara, per l’autore,
di salvaguardare il dialetto ai fini di sfuggire al conformismo, ma
vi è, altresì, una forte presa di coscienza linguistica:

Impegno e disincanto
48

In Italia non esiste una vera e propria lingua italiana nazionale.


Cosicché, se vogliamo ricercare una qualche unità tra le due figure della
dualità (lingua parlata, lingua letteraria), dobbiamo cercarla al di fuori
della lingua, all’interno di quell’individuo storico che è contempora-
neamente utente di queste due lingue: che è uno, e storicamente de-
scrivibile in una totalità di esperienze. Tale individuo quale sede
spirituale o coabitazione della dualità, è il borghese o piccolo borghese
italiano, con la sua esperienza storica e culturale, che è inutile qui de-
finire: credo basti semplicemente alludervi come a una comune cono-
scenza. È lo stesso borghese che usa, quando parla, la koinè, e, quando
scrive, la lingua letteraria. Egli porta dunque in tutte queste lingue lo
stesso spirito44.

I dialetti, secondo Pasolini, non sono parte integrante di


un universo culturale indipendente, bensì un fattore ideologico
contrapposto alla società industriale neocapitalista, che si
espande in maniera ramificata giorno dopo giorno. Perciò, «la li-
quidazione dei dialetti45», voluta dal blocco capitalistico, è una
tattica sbrigativa per omologare la società italiana, salvaguar-
dando il potere tecnocratico.
La nuova borghesia delle città del Nord non è più la vecchia
classe dominante che ha imposto stupidamente (?) dall’alto dell’unifi-
cazione politica, culturale (?) e linguistica dell’Italia, ma una nuova
classe dominante (?) il cui reale potere economico le consente real-
mente (?), per la prima volta nella storia italiana (?) di porsi come
egemonica. E quindi irradiatrice simultaneamente di potere (?), di
cultura (?) e di lingua46.

I punti interrogativi che il giornalista culturale lascia in so-


Annibale Gagliani
49

speso per il lettore, sono un chiaro invito ad andare oltre il suo


monito sociale, lasciando comunque un bruciante beneficio del
dubbio. Si parla di “classe dominante”, di “borghesia del Nord”,
per la felicità storica di Antonio Gramsci. Se l’intellettuale sardo
del Pci intendeva il processo di unificazione risorgimentale intem-
pestivo e mal organizzato da parte del Regno sabaudo – colpevole
di aver annesso il Meridione precipitosamente, non favorendo in
un secondo momento il livellamento economico e la coesione so-
ciale tra le macro-regioni –, Pasolini vede il processo di unifica-
zione completato, ma con altre modalità. Il blocco capitalistico ha
imposto un’annessione linguistica di tutte le regioni, attraverso il
linguaggio tecnologico, rendendo l’individuo settentrionale simile,
in tutto e per tutto, al connazionale meridionale. Il linguista friu-
lano conviene con Gramsci su chi siano i protagonisti dell’omolo-
gazione: la piccola borghesia e l’alta borghesia. Una convergenza
d’intelletto manifestata copiosamente nella celeberrima visita al
cimitero degli Inglesi di Roma, dove, sulla tomba del “temuto” dai
fascisti, PPP formulò Le ceneri di Gramsci (1957):
Tu giovane, in quel maggio in cui l’errore
era ancora in vita, in quel maggio italiano
che alla vita aggiungeva almeno ardore,
Quanto meno sventato e impuramente sano
dei nostri padri – non padre, ma umile
fratello – già con la tua magra mano
delineavi l’ideale che illumina
(ma non per noi: tu, morto, e noi
morti ugualmente, con te, nell’umido
giardino) questo silenzio47.
Impegno e disincanto
50

Il punto di contatto ideale tra i due demiurghi della società


nostrana è la convinzione che l’Italia non viene unita nel 1861.
Un assaggio di unità arriva durante la Prima Guerra Mondiale,
vero esperimento di mescolanza tra uomini di differenti regioni.
Però, l’esaurimento del processo di compattamento nazionale si
completa con le mode del mercato e con il linguaggio televisivo
del Dopoguerra. L’intuizione filosofica dei due ricercatori porta
a osservare la perenne trasformazione della scala gerarchica so-
ciale. Ma tra Gramsci e Pasolini emerge una sostanziale diffe-
renza: se il filosofo di Sales evidenzia la divisione tra Nord e Sud
– e nella fattispecie quella tra campagna e metropoli –, procla-
mando l’alleanza tra operai settentrionali e contadini meridionali
come unica soluzione per risolverle, il narratore delle borgate
spera nell’avvolgente rivolta sociale della cultura popolar-dialet-
tale (azione che ribalterebbe il dominio consumistico).
La seconda rampante sezione di Empirismo eretico tratta
della letteratura, avanzando acerrime critiche a una determinata
produzione contemporanea, intesa dall’autore come strumento
delle avanguardie borghesi. Il filone di studi che prendo in esame,
annoda un file rouge con le radiose ricerche di Passione e ideo-
logia. Osservando lo “stravagante discorso” che chiosa il saggio
La fine dell’avanguardia, risalente al 1966, possiamo compren-
dere come l’invettiva verso i «vecchi piccoli borghesi, riuniti se-
condo l’orrenda tradizione in gruppo (massoneria, mafia,
accademia, chiasso nel caffè, tornate congressuali, spirito di
corpo)48», abbia un deciso fondamento: il loro rifiuto incondizio-
nato nei confronti del naturalismo. Strano come essi si oppon-
Annibale Gagliani
51

gano proprio a quella corrente letteraria più attenta a evocare la


realtà in senso stretto, priva di filtri congeniali per lo scrittore.
Questo atteggiamento avanguardistico porta, secondo Pasolini, la
letteratura italiana del Dopoguerra a retrocedere in serie B. Nel-
l’analisi di Sociologia del romanzo di Goldmann, l’eretico linguista
estrapola un concetto chiave che doveva fungere da sveglia per gli
intellettualoidi borghesi da caviale: la realtà si profila nell’im-
menso panorama culturale come un linguaggio, perciò bisogna
perseguire solidamente una semiologia di essa. Tale concetto ci
traghetta verso la terza sezione di Empirismo eretico, ovverosia,
quella dedicata al cinema di poesia.
«Il film si potrebbe definire “parola senza lingua”: infatti i
vari film per essere compresi non rimandano al cinema, ma alla
realtà stessa49». In questa visione narrativa, prosa e poesia si fon-
dono, prendendosi carico di un onere fondamentale: raccontare
delle storie segnanti attraverso il linguaggio della realtà. Nel ci-
nema di Pasolini appare, con semiotica cognizione di causa, il di-
scorso libero indiretto, culmine di una ricerca certosina – da
sottosuolo dell’animo umano –, finalizzata all’amalgama dei per-
sonaggi, nei quali l’autore si immedesima psicologicamente.
Anche Luca Bandirali, professore e critico cinematografico di
lungo corso, sottolinea la portata “realmente” innovativa della
sperimentazione PPP della quinta arte:
La scelta del cinema, per Pasolini, rappresentò l’approdo di un
percorso di profonda esplorazione della scrittura drammaturgica. Le
potenzialità dell’immagine gli apparivano illimitate, capaci di attivare
un processo di significazione certamente razionale e ordinato (come
Impegno e disincanto
52

quello che si attiva a partire da un sistema linguistico) ma con più aper-


tura di senso rispetto alla lingua propriamente detta. L’impatto di Pa-
solini sul cinema fu impressionante perché pur avendo solidi
riferimenti formali, Pasolini sembrava reinventare il mezzo, ripensarlo
storicamente: fu come se la macchina da presa osservasse la realtà per
la prima volta, cogliendo quella che Cesare Brandi chiamava la “fla-
granza” della cosa ritratta50.

Ad avallare l’interpretazione di Bandirali è lo stesso regi-


sta, che spiega con chiarezza elvetica la poíesis e la práxis orbi-
tanti all’interno di un suo lavoro filmico: «Tutti sostengono che
il cinema è sostanzialmente naturalistico. Io oso infatti dire: “se
attraverso il linguaggio cinematografico io voglio esprime un fac-
chino, prendo un facchino vero e lo riproduco: corpo e voce” [...]
Ma perché, perché tanta paura del naturalismo51?».
L'intellettuale friulano, dotato di una giudiziosa «co-
scienza filologica52» nella sua produzione artistica, si ispira per
la ricerca scientifica del linguaggio al metalinguismo53 di Roman
Jakobson. Non solo lui, bisogna rammentarlo, teorici de la lan-
gue et parole del calibro di Ferdinand de Saussure e Roland Bar-
thes rimpolpano la lucida scrivania pasoliniana. Questa
formazione, sommata all’attività saggistica da linguista sulle tra-
sformazioni del sistema linguistico sì, basterebbe per incoronarlo
esponente principale (insieme a Umberto Eco) dello strutturali-
smo italiano.
Empirismo eretico contiene probabilmente una quarta se-
zione, anche se ne saltano all’occhio soltanto tre: intendo il teatro
Annibale Gagliani
53

di parola, sdoganato sempre al tramonto degli anni Sessanta da


Pasolini ed eretto come autentico manifesto per la nuova rappre-
sentazione scenica. Parlo di una recitazione in lingua poetica che
deve opporsi al «Teatro della chiacchiera», al «Teatro del Gesto»
e a quello «dell’Urlo». Queste forme rappresentative sono espres-
sione fedele della sfera culturale borghese, che tende a depaupe-
rare la parola per favorire la fisicità. L’irredentista sceneggiatore
friulano vuole scandalizzare la sfera dominante: senza riferimenti
accademici o avanguardistici, la fonte d’ispirazione del nuovo tea-
tro alberga nell’antica Atene e nell’illusione di Majakowsky. L’at-
tore deve esprimere ad alta voce una poesia incontaminata, che
non è concepita come il mero sbandieramento di un’élite artistica,
ma come la sfida diretta al «centralismo» della comunicazione di
massa, che è gestito da una «falsa democrazia54» al potere.
Dopo aver preso visione della geniale eresia filosofica, fi-
lologica e scientifico-dionisiaca dell’intellettuale anti-borghese, è
molto puntuale tirare fuori una provocazione propostagli vis a vis
dal giornalista transalpino Jean Duflot, durante un’intervista ri-
salente a qualche mese prima della morte, e ripubblicata in Italia
nel 1993:
Dunque, il suo rifiuto del consumismo è l’effetto di una reazione
prettamente individuale, del disgusto, l’equivalente di un’allergia pri-
vata e non la conclusione di un percorso razionale, ideologico?
Per carità, non insista con le provocazioni. Sono ben consape-
vole di partecipare all’usufrutto di questa società produttrice di beni di
consumo. Oggettivamente, vi aderisco. Ma, ripeto, l’importante è la pre-

Impegno e disincanto
54

senza in me di questo disgusto. Se le cose stessero diversamente, potrei


accettare questa società in blocco, senza troppi problemi. Ma l’apatia
che sento nel mio foro interiore è talmente insostenibile che mi riesce
impossibile tenere gli occhi fissi più di qualche minuto su uno schermo
televisivo. È un fatto fisico, mi viene la nausea. Del resto, l’intera cultura
di consumo mi riesce insopportabile, senza appello55.

La controprova più precisa – e linguisticamente sensibile


– a questa schietta risposta dell’eclettico pensatore, è rintraccia-
bile nelle attività da giornalista corsaro e da compositore di epi-
stole luterane, che provocano fortissimi scossoni dentro la Torre
di Babele italiana, verso la prima metà della polveriera temporale
targata Sessanta.

Annibale Gagliani
55

4. Un “sognatore” corsaro e luterano:


come processare la società civile italiana

Perché corsaro? Pasolini è saturo di disgusto, stanco del


vilipendio umano portato in atto dal potere del consumo. Attor-
cigliato in un pessimismo cosmico impenetrabile, decide di sal-
pare con il suo veliero giornalistico, per liberare culturalmente
(un’utopia mica male) il Paese, che secondo lui, è in piena balia
dei vizi della classe borghese. Perché luterano? Semplicemente
per il fatto che Martin Lutero rappresenta un fulgido esempio di
contrattacco verso il potere – in quel caso identificato nella chiesa
teutonica delle indulgenze –, e titolarsi con tale qualificativo è
una specie di continuità rivoluzionaria nella storia. L’obiettivo di
Pasolini, da trafiggere con l’arma del pezzo di denuncia sui gior-
nali più venduti dell’epoca, vedi il «Corriere della sera»,
«L’espresso», «Paese Sera» e «Il Mondo», è il cuore del Palazzo,
centro nevralgico del potere. Oltre all’omologazione culturale,
alla mala-rivoluzione antropologica che progredisce e alla scom-
parsa del proletariato, si manifesta un’altra piaga quasi irrever-
sibile dello Stato italiano: la corruzione della classe politica, mista
al terrorismo. Le prime tracce di editorialista corsaro, però, si in-
travedono già nell’estate del 1968, con una lirica “parlata” riser-
vata ai ragazzi sessantottini che fanno a botte senza ritegno
contro le forze dell’ordine a Valle Giulia, nel ventre della capitale:
[…] Hanno vent’anni, la vostra età, cari e care. / Siamo ovvia-
mente d’accordo contro l’istituzione della polizia. / Ma prendetevela
Impegno e disincanto
56

contro la Magistratura, e vedrete! / I ragazzi poliziotti / che voi per


sacro teppismo (di eletta tradizione risorgimentale) / di figli di papà,
avete bastonato, / appartengono all’altra classe sociale. / A Valle Giulia,
ieri, si è così avuto un frammento / di lotta di classe: e voi, amici (ben-
ché dalla parte / del torto) eravate i ricchi / mentre i poliziotti (che
erano dalla parte del torto) erano i poveri. Bella vittoria, dunque, / la
vostra56!

Il poeta tira un metaforico ceffone ai ventenni che si at-


teggiano a rivoluzionari. Si schiera decisamente dalla parte dei
poliziotti, definiti veri figli del popolo. Gli studenti, invece, ven-
gono ritenuti “capricciosi” figli di papà e perciò ignari dei reali
valori sociali in seno a una corretta rivolta socio-culturale. La
poesia Il PCI ai giovani! divide il lettore, che sia radical chic o
total chic, e propone un chiaro ossimoro già nel titolo, visto che
quei giovani di sinistra, per l’autore, dell’ideologia marxista non
sono degni. I versi ricalcano lo stile intensamente narrativo di A
un Papa. È come se il poeta parlasse direttamente in un’aula uni-
versitaria ai violenti di Valle Giulia, descrivendo con un lessico
tagliente la contraddizione più grande del vulcanico episodio.
L’arma, da sempre al servizio dello Stato, è la sintesi, in quel de-
terminato caso, del popolo; gli studenti, frizzanti e altezzosi, sono
l’ultimo stadio del dominio capitalistico. L’inaspettata polemica
con le nuove leve della politica, dell’istruzione e del sistema la-
vorativo tricolore non si esaurisce in quella occasione. Quattro
anni e mezzo dopo, con un articolo titolato Contro i capelli lun-
ghi, scritto per il «Corriere della sera», Pasolini smonta la tanto
decantata rivoluzione di costume dei sessantottini, intenti a esi-

Annibale Gagliani
57

bire chiome folte e abiti ambiziosi per rompere gli schemi con i
loro padri, concepiti come “matusa” e nemici di un futuro libero.

Venne il 1968. I capelloni furono assorbiti dal Movimento Stu-


dentesco; sventolarono con le bandiere rosse […]. Il ciclo si è compiuto.
La sottocultura al potere ha assorbito la sottocultura all’opposizione e
l’ha fatta propria: con diabolica abilità ne ha fatto parzialmente una
moda, che, se non si può proprio dire fascista nel senso classico della
parola, è però di una «estrema destra» reale […]. Le maschere ripu-
gnanti che i giovani si mettono sulla faccia, rendendosi laidi come le
vecchie puttane di una ingiusta iconografia, ricreano oggettivamente ciò
che essi solo verbalmente hanno condannato per sempre. Sono saltate
fuori le vecchie facce da preti, da giudici, da ufficiali, da anarchici fasulli,
da impiegati buffoni, da azzeccagarbugli, da Don Ferrante, da merce-
nari, da imbroglioni, da benpensanti teppisti. Cioè la condanna radicale
e indiscriminata che essi hanno pronunciato contro i loro padri – che
sono la storia in evoluzione e la cultura precedente – alzando contro di
essi una barriera insormontabile, ha finito con l’isolarli, impedendo
loro, coi loro padri, un rapporto dialettico […] l’isolamento in cui si sono
chiusi – come in un mondo a parte, in un ghetto riservato alla gioventù
– li ha tenuti fermi alla loro insopprimibile realtà storica: e ciò ha im-
plicato – fatalmente – un regresso. Essi sono in realtà andati più indie-
tro dei loro padri, risuscitando nella loro anima terrori e conformismi,
e, nel loro aspetto fisico, convenzionalità e miserie che parevano supe-
rate per sempre. Ora così i capelli lunghi dicono, nel loro inarticolato e
ossesso linguaggio di segni non verbali, nella loro teppistica iconicità,
le «cose» della televisione o delle réclames dei prodotti, dove è ormai
assolutamente inconcepibile prevedere un giovane che non abbia i ca-
pelli lunghi: fatto che, oggi, sarebbe scandaloso per il potere57.

Impegno e disincanto
58

Servi del potere, testimonial di un cambiamento culturale


apparente, ma nella sostanza privo di ogni fondamento ideologico
e intellettuale. Il giornalista corsaro analizza la generazione di
Woodstock che si erge a punta di diamante del processo consu-
mistico. Questa schiera di giovani conformisti compie il più
grande errore di cui una mentalità rivoluzionaria possa mac-
chiarsi: non dialogare costruttivamente con i loro padri. In tal
modo fa tabula rasa di un passato definito inadeguato. Però, co-
tanti figli del maggio francese, rimangono sguarniti di forza in-
ventiva, poiché non posseggono più quella base artistica,
sociologica e filosofica che i genitori hanno donato loro. Ormai
sono schiavi compiaciuti della società dei consumi, che riesce a
dominarli attraverso marchingegni linguistici moderni. Marshall
McLuhan definisce la televisione come un medium freddo, che
non esige un’ottima partecipazione sensoriale per poterne fruire.
I professionisti della TV, quelli nati, formati e viventi sul messag-
gio pubblicitario, si inventano nel Dopoguerra una strategia ag-
gressiva per conquistare l’ascoltatore: lo slogan stereotipato. Una
specie di coercizione indolore che investe il consumatore e lo con-
danna a inseguire, quasi fosse un’estensione del proprio corpo, il
bene di consumo. Sempre sul «Corsera» nel maggio del 1973, Pa-
solini mette in guardia i lettori dal pericolo di sviluppare una di-
pendenza irreversibile per il nuovo linguaggio del marketing,
identificato in questa sede ne Il folle slogan dei jeans:
Il linguaggio dell’azienda è un linguaggio per definizione pura-
mente comunicativo […]. I tecnici parlano fra loro un gergo speciali-
stico, sì, ma in funzione strettamente, rigidamente comunicativa. Il
Annibale Gagliani
59

canone linguistico che vige dentro la fabbrica, poi, tende a espandersi


anche fuori: è chiaro che coloro che producono vogliono avere con loro
che consumano un rapporto d’affari assolutamente chiaro. C’è un solo
caso di espressività – ma di espressività aberrante – nel linguaggio pu-
ramente comunicativo dell’industria: è il caso dello slogan. Lo slogan
infatti deve essere espressivo, per impressionare e convincere. Ma la
sua espressività è mostruosa perché diviene immediatamente stereo-
tipa, e si fissa in una rigidità che è proprio il contrario dell’espressività,
che è eternamente cangiante, si offre a un’interpretazione infinita. La
finta espressività dello slogan è così la punta massima della nuova lin-
gua tecnica che sostituisce la lingua umanistica. Essa è il simbolo della
vita linguistica del futuro, cioè di un mondo inespressivo, senza parti-
colarismi e diversità di culture, perfettamente omologato e acculturato
[…]. Sembra folle, ma un recente slogan, quello divenuto fulmineamente
celebre, dei «jeans Jesus»: «Non avrai altri jeans all’infuori di me», si
pone come fatto nuovo, una eccezione nel canone fisso dello slogan, ri-
velandone una possibilità espressiva imprevista, e indicandone una evo-
luzione diversa da quella che la convenzionalità – subito adottata dai
disperati che vogliono sentire il futuro come morte – faceva troppo ra-
gionevolmente prevedere58.

L’intellettuale friulano constata come nel tornado morti-


fero dell’omologazione si fa i conti con due principali conseguenze
linguistiche: un impoverimento dell’espressività a favore della co-
municazione iconografica; l’ascesa dei messaggi subliminali pro-
azienda. Il consumismo sta distruggendo il mondo reale, quello
pregno di valori originali, che in Italia vede compimento nelle so-
cietà contadine e artigiane. La purezza della gioventù non ancora
controllata dal mantra del Dio consumo può rappresentare la

Impegno e disincanto
60

fonte autoctona in grado di infrangere l’oscuro schema. Le nuove


leve di cui parla Pasolini sono i figli del sottoproletariato che non
scendono a patti con la borghesia, evitando di farsi assorbire dal-
l’ideologia edonistica. Peccato che questa sia un’ulteriore utopia
fagocitata dalla distopia dominante: la classe sottoproletaria è
vittima di un progressivo genocidio che ingrassa il capitale
umano della piccola e media borghesia. L’editorialista nichilista
parla di fascismo mascherato, lindo e invisibile, nel novembre del
1973, sempre sul quotidiano più acquistato del Belpaese. E non
ha paura di lanciare una Sfida ai dirigenti della televisione:
Nessun centralismo fascista è riuscito a fare ciò che ha fatto il
centralismo della civiltà dei consumi. Il fascismo proponeva un mo-
dello, reazionario e monumentale, che però restava lettera morta. Le
varie culture particolari (contadine, sottoproletarie, operaie) continua-
vano imperturbabili a uniformarsi ai loro antichi modelli: la repres-
sione si limitava ad ottenere la loro adesione a parole. Oggi, al
contrario, l’adesione ai modelli imposti dal Centro, è totale e incondi-
zionata. I modelli culturali ideali sono rinnegati. L’abiura è compiuta.
Si può dunque affermare che la «tolleranza» della ideologia edonistica
voluta dal nuovo potere, è la peggiore delle repressioni della storia
umana. Come si è potuta esercitare tale repressione? Attraverso due ri-
voluzioni, interne all’organizzazione borghese: la rivoluzione delle in-
frastrutture e la rivoluzione del sistema d'informazioni59.

Mussolini non è nessuno se confrontato al “dittatore invi-


sibile” dei consumi. Implicitamente è questo ciò che afferma con
speranzosa disperazione PPP. I due capisaldi del programma di
regime consumistico sono la rivoluzione delle infrastrutture –

Annibale Gagliani
61

raccontata con dolore in Mamma Roma e in altre sedi – e la rivo-


luzione del sistema d’informazioni. Ma quali sono gli obiettivi più
succulenti di quella parte d’Italia governante, che porta allo sfa-
scio totale la sua società? Surtout, la somministrazione di modelli
di sviluppo multinazionali, estranei alle vere esigenze del Paese.
In seconda battuta l’impoverimento della cifra istruttiva nelle
scuole, utile a veicolare i giovani verso il consumo (più individui
ignoranti, più individui manipolabili). In terza istanza la chiusura
della cerchia sociale borghese, che attraverso il capitale afferma
la propria posizione e può permettersi di assorbire servi leccapiedi
nel suo telaio edonistico. Ma come si pongono istituzioni mille-
narie come la famiglia e la religione dinanzi a tale prassi apparen-
temente invincibile? L’intellettuale luterano lancia un allarme
rigoroso all’interno di un pezzo immerso nei suoi indistruttibili
Scritti corsari: Prefazione a una raccolta di Sentenze della Sacra
Rota.
Che cos’è, oggi, la Famiglia? Dopo aver rischiato, praticamente,
di dissolvere se stessa e il proprio doppio mito economico-religioso –
secondo le previsioni progressiste degli intellettuali laici – oggi la fami-
glia è tornata a essere una realtà solida, più stabile, più accanitamente
privilegiata di prima. È vero che, per esempio, per quanto riguarda
l’educazione dei figli, le influenze esterne sono enormemente aumentate
(tanto, ripeto, che a un certo punto si è pensato a una definitiva risiste-
mazione pedagogica, del tutto fuori della Famiglia). Tuttavia la Famiglia
è tornata a diventare quel potente e insostituibile centro infinitesimale
di tutto che era prima. Perché? Perché la civiltà dei consumi ha bisogno
della famiglia. Un singolo può non essere il consumatore che il produt-
tore vuole60.
Impegno e disincanto
62

La famiglia è un complice insostituibile dei consumi.


L’asettica disamina di Pier Paolo Pasolini smaschera le strategie
edulcorate dei killer multinazionali: il singolo individuo ha
un’esigenza d’acquisto limitata sul mercato, il nucleo familiare
ne ha un’altra abbastanza amplificata. Per questo l’asse pubbli-
citario, a braccetto con determinate lobby politiche, crede nella
procreazione “conservativa”, per garantirsi freschissimi cicli di
profitto e di stordimento delle masse. Il giornalista d’assalto sol-
leva la pietra marcia che cela “il verminaio tricolore”. Dopo
un’istruttoria durata diversi anni – conditi da persecuzioni intel-
lettuali e fisiche contro la sua persona – PPP è pronto a mettere
pubblicamente alla sbarra i colpevoli: la sua nazione, i suoi con-
nazionali e le reti culturali ed economiche protagoniste dello sfa-
scio. Si assiste alla seduta inaugurale del procedimento il 10
giugno 1974, nell’aula intellegibile del «Corriere della sera», poi-
ché Gli italiani non sono più quelli.
I «ceti medi» sono radicalmente – direi antropologicamente –
cambiati: i loro valori positivi non sono più i valori sanfedisti e clericali
ma sono i valori (ancora vissuti solo esistenzialmente e non «nomi-
nati») dell’ideologia edonistica del consumo e della conseguente tolle-
ranza modernistica di tipo americano. È stato lo stesso Potere –
attraverso lo «sviluppo» della produzione di beni superflui, l’imposta-
zione della smania del consumo, la moda, l’informazione (soprattutto,
in maniera imponente, la televisione) – a creare tali valori, gettando a
mare cinicamente i valori tradizionali e la Chiesa stessa, che ne era il
simbolo. […] l’Italia contadina e paleoindustriale è crollata, si è disfatta,
non c’è più, e al suo posto c’è un vuoto che aspetta probabilmente di
essere colmato da una completa borghesizzazione, del tipo che ho ac-
Annibale Gagliani
63

cennato qui sopra (modernizzante, falsamente tollerante, americaneg-


giante ecc.)61.

Stando a quanto afferma Pasolini, gli Italiani si sarebbero


abbandonati – gaudenti – al loro indegno destino: borghesizzarsi.
L’Italia contadina e paleoindustriale rimane solo un ricordo sbia-
dito: più vivido che mai è uno stile americano da imitare, un con-
sumo abominevole da non farsi sfuggire. La televisione crea nuovi
valori “brillanti”, funzionali al blocco capitalistico, soppiantando
i vecchi cardini educativi come la chiesa e la scuola. Ma chi è colui
o coloro che tirano le fila? Quattordici giorni dopo l’articolo di
condanna recapitato ai cittadini, l’accusatore poetico scrive un
altro pezzo che traccia il profilo di un potere malefico, impercet-
tibile, cruento, Il potere senza volto.
Oggi – quasi di colpo, in una specie di Avvento – distinzione e
unificazione storica hanno ceduto il posto a una omologazione che rea-
lizza quasi miracolosamente il sogno interclassista del vecchio Potere.
A cosa è dovuta tale omologazione? Evidentemente a un nuovo Potere
[…]. Non lo riconosco più né nel Vaticano, né nei Potenti democristiani,
né nelle Forze Armate. Non lo riconosco più neanche nella grande in-
dustria, perché essa non è più costruita da un certo numero limitato di
grandi industriali: a me, almeno essa appare piuttosto come un tutto
(industrializzazione totale), e, per di più, come tutto non italiano (tran-
snazionale). Conosco anche – perché le vedo e le vivo – alcune caratte-
ristiche di questo Potere ancora senza volto: per esempio il suo rifiuto
del vecchio sanfedismo e del vecchio clericalismo, la sua decisione di
abbandonare la Chiesa, la sua determinazione (coronata da successo)
di trasformare contadini e sottoproletari in piccoli borghesi, e soprat-

Impegno e disincanto
64

tutto la sua smania, per così dire cosmica, di attuare fino in fondo lo
«Sviluppo»: produrre e consumare62.

Il potere del Ventesimo secolo non è più nelle mani di un


Vaticano che vede, mese dopo mese, svuotare le proprie pittore-
sche cattedrali, ma nemmeno nei gradi delle Forze Armate, ormai
fedele strumento di “qualcuno d’immensamente superiore”. Se-
condo Pasolini anche le grandi industrie e la maggioranza della
sfera politica cedono il passo al mito dello sviluppo: productio et
consummatio sono i radicati comandamenti cui ogni individuo,
famiglia o gruppo di elevate proporzioni deve adempiere senza
piagnistei o discussioni. E se per caso un ingranaggio comune,
schiavo del sistema, si ribellasse allo status quo? Se parliamo di
casi follemente isolati, l’epilogo sarebbe l'emarginazione dalla so-
cietà e di conseguenza l'oblio. Se parliamo, invece, di una rivolta
enorme – una marea rivoluzionaria – allora i risultati sarebbero
cospicui (ripercorrendo i fasti di Che Guevara), ma si tratta, co-
munque, di un sogno quasi irrealizzabile, visto l’assorbimento
massiccio delle nuove generazioni nell’ossequioso sistema capi-
talistico. In questo scenario socio-economico, intellettualmente
apocalittico, ritorna in auge (anche se mai aveva abbandonato il
ring discorsivo) il valore del dialetto, inteso come martello utile
per rompere le catene dell’omologazione. Ogni realtà regionale è
costretta a sopprimere il proprio volgare materno per essere com-
prensibile da chi maneggia con cura il linguaggio della tecnocra-
zia e del consumo. Il messaggio falso che il blocco dominante ha
diffuso in mainstream è quello che la diversità è portatrice bat-
terica di inadeguatezza, e mortalmente, fa male a chi la perpetua.
Annibale Gagliani
65

Creerebbe addirittura una progressiva cancrena sociale: idea di


stampo curiale medievale. Nella nuova seduta del processo paso-
liniano viene chiamata in causa – come testimone di peso –
un’importante figura dallo spessore internazionale: Papa Montini,
alias, Paolo VI. L’autore è intento a sollevare sullo scenario a oro-
logeria I dilemmi di un Papa.
Riprendendo una lotta che è peraltro nelle sue tradizioni (la lotta
del Papato contro l’Impero), ma non per la conquista del potere, la
Chiesa potrebbe essere la guida, grandiosa ma non autoritaria, di tutti
coloro che rifiutano (e parla un marxista, proprio in quanto marxista)
il nuovo potere consumistico che è completamente irreligioso; totalita-
rio; violento; falsamente tollerante, anzi più repressivo che mai; corrut-
tore; degradante (mai più di oggi ha avuto senso l’affermazione di Marx
per cui il capitale trasforma la dignità umana in merce di scambio). È
questo rifiuto che potrebbe dunque simboleggiare la chiesa: ritornando
alle origini, cioè all’opposizione e alla rivolta. O fare questo o accettare
un potere che non la vuole più: ossia suicidarsi63.

Un marxista che chiede, sottovoce, aiuto al Papa, e lo in-


corona come guida fisica per combattere l’isterico consumismo.
La repressione all’ennesima potenza che lo status quo commette
senza sosta, camuffandola in finta tolleranza, esige un reale con-
trocanto critico: il Vescovo di Roma combattente. Un rifiuto del-
l’incarico riservato dall’occulta disperazione generale, produrrebbe,
secondo l’inquisitore, il suicidio inevitabile della chiesa tutta.
L’apocalisse si avvicina al compimento: arriva a questo punto l’ar-
ringa d’accusa che fa tremare spaventosamente il Palazzo odorante
di vetusto champagne: novembre del 1974, Cos’è questo golpe?
Impegno e disincanto
66

A spodestare il quieto grigiore dei sederoni ignari è siffatta con-


fessione coscienziosa: un ultimatum eloquente per sormontare
le mistificazioni politiche di quegli anni. Da qui a poco, Pasolini
si trasformerà in un “kamikaze intellettuale”, determinato a scal-
fire il plotone roccioso del potere più cinico.
Io so. Io so i nomi dei responsabili di quello che viene chiamato
golpe (e che in realtà è una serie di golpes istituitasi a sistema di pro-
tezione del potere). Io so i nomi dei responsabili della strage di Milano
del 12 dicembre 1969. Io so i nomi dei responsabili delle stragi di Bre-
scia e di Bologna dei primi mesi del 1974. Io so i nomi dei responsabili
delle stragi di Brescia e di Bologna dei primi mesi del 1974. Io so i nomi
del «vertice» che ha manovrato, dunque, sia i vecchi fascisti ideatori di
golpes, sia i neofascisti autori materiali delle prime stragi più recenti.
Io so i nomi che hanno gestito le due differenti, anzi, opposte, fasi della
tensione: una prima fase anticomunista (Milano 1969), e una seconda
fase antifascista (Brescia e Bologna 1974). Io so i nomi del gruppo di
potenti, che, con l’aiuto della CIA (e in second’ordine dei colonnelli
greci e della mafia), hanno prima creato (del resto miseramente fal-
lendo) una crociata anticomunista, a tamponare il 1968, e in seguito,
sempre con l’aiuto e per ispirazione della CIA, si sono ricostituiti una
verginità antifascista, a tamponare il disastro del referendum. […] Io
so tutti questi nomi e so tutti i fatti (attentati alle istituzioni e stragi) di
cui si sono resi colpevoli. Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno
indizi. Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore, che cerca di se-
guire tutto ciò che succede, di immaginare tutto ciò che non si sa o che
si tace; che coordina i fatti anche lontani, che mette insieme i pezzi di-
sorganizzati e frammentari di un intero e coerente quadro politico, che
ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l’arbitrarietà, la follia e
il mistero64.
Annibale Gagliani
67

L’intento dell’accusa pasoliniana è chiaro: aggirare la stru-


mentalizzazione culturale borghese, con il fine di sbattere in fac-
cia la verità a tutti gli uomini-oggetto che consegnano la propria
esistenza al potere senza volto (in cambio della chimera del be-
nessere). Pasolini si sente estraneo a questo sistema coatto, pro-
pulsore di anomia allo stato puro. A livello politico è nauseato
dalle fantasie partitiche che in dieci anni hanno creato disservizi,
ampliando la forbice socio-economica del divario tra Nord e Sud.
Viene chiamato a testimoniare l’11 settembre del 1975 il Presi-
dente della Repubblica Giovanni Leone, preso come campione
d’analisi che conferma, per l’inquisitore, l’urgentissima, nonché
vitale, necessità del processo. La sua intervista conferma che ci
vuole il processo:
L’Italia – e non solo l’Italia del Palazzo e del potere – è un Paese
ridicolo e sinistro: i suoi potenti sono le maschere comiche vagamente
imbrattate di sangue: «contaminazioni» tra Molière e il Grand Guignol.
Ma i cittadini italiani non sono da meno. Li ho visti, li ho visti, in folla
a Ferragosto. Erano l’immagine della frenesia più insolente. Ponevano
un tale impegno a divertirsi a tutti i costi, che parevano in uno stato di
«raptus»: era difficile non considerarli spregevoli o comunque colpe-
volmente incoscienti. Specialmente i giovani. Tutte quelle sciocche cop-
pie che se ne andavano tenendosi all’infinito strette per mano, con aria
di vicendevole, romantica protezione e ispirata certezza del domani.
Sono stati ingannati, beffati. Un rovesciamento improvviso e violento
(per quanto riguarda l’Italia) del modo di produzione ha distrutto tutti
i loro precedenti valori «particolari» e «reali», cambiando la loro forma
e il loro comportamento: e i nuovi valori, puramente pragmatici, esi-
stenziali, del «benessere», hanno tolto ogni dignità65.
Impegno e disincanto
68

Dopo la Seconda Guerra Mondiale, e il conseguente esau-


rimento del totalitarismo delle camicie nere, per Pasolini, a pren-
dere il testimone di tale ideologia – trasformata in “tecno
-fascismo” – è la DC, che per più di un trentennio governa incon-
trastata sugli orizzonti politici italiani. Il giochino redditizio e au-
toreferenziale del “consumate e sarete felici”, inculcato toujours
agli storditi cittadini, è – stando agli atti del kamikaze corsaro –
un ottimo scudo per nascondere le attività mafiose e deliranti del
governo. Gli anni Settanta hanno l’odore acre del piombo, ma non
solo delle bombe anarchiche dei brigatisti, ma anche di quelle
candide impacchettate dai democristiani. Ecco Perché il Pro-
cesso.
Perché in questi dieci anni di cosiddetta tolleranza si è fatta an-
cora più profonda la divisione tra Italia Settentrionale e Italia Meridio-
nale, rendendo sempre più, i Meridionali, cittadini di seconda qualità.
[…] Perché in questi dieci anni di cosiddetta civiltà tecnologica si siano
compiuti così selvaggi disastri edilizi, urbanistici, paesaggistici, ecolo-
gici […]. Perché in questi dieci anni di cosiddetto progresso la «massa»
dal punto di vista umano si sia così depauperata e degradata. […] Per-
ché in questi dieci anni di cosiddetta democratizzazione […] i decen-
tramenti siano serviti unicamente come cinica copertura alle manovre
di un vecchio sottogoverno clerico-fascista divenuto meramente ma-
fioso. Ho detto e ripetuto la stessa parola «perché»: gli italiani non vo-
gliono infatti consapevolmente sapere che questi fenomeni
oggettivamente esistono, e quali siano gli eventuali rimedi: ma vogliono
sapere appunto, e prima di tutto, perché esistono66.

Perché il processo? Perché il processo?! Perché il processo!

Annibale Gagliani
69

La zampillante ferita pasoliniana, che culmina nel solito lessico


colto, ma audace, semanticamente incisivo, vuole imprimersi den-
tro le pieghe umane del lettore come la pagliuzza di Adorno fa
con i sociologi di mestiere. L’intellettuale comprende come non
possa vincere il fascismo edonistico per mancanza di prove schiac-
cianti, di affiliati coraggiosi e di sangue scandalistico. Al giornali-
sta d’assalto non resta che perdere ogni freno inibitorio e
immolarsi per la causa sociale tricolore. Perché il Processo, l’ul-
tima “bomba a penna” sferrata nel quotidiano nazional-popolare
«Corsera», rappresenta l’emblema della fase finale dell’ideologia
pasoliniana, in cui una pellicola iper-discussa sarà materia arti-
stica di autodistruzione espressiva: Salò e le 120 giornate di So-
doma. Parliamo dell’esaustivo riassunto cinematografico della sua
attività di oppositore corsaro e luterano contro il kratos cannibale.
Nei giorni della Repubblica di Salò, in una villa “inesistente” sul
Lago di Garda, quattro signorotti, che rappresentano idealmente
i poteri nobiliare, ecclesiastico, giudiziario ed economico, seque-
strano un gruppo di giovani innocenti con l’intento di violentarli
e torturarli a loro piacimento. Il sollazzo del potere trasforma gli
esseri umani in oggetti inutili, sulla scia di uno schiavismo che
contrappone l’umile servo al padrone carnefice. Le vittime del film
hanno sembianze graziose e l’animo puro, mentre i loro aguzzini,
esponenti di ogni forma di dominazione, sono capaci di qualsivo-
glia perversione. La metafora delle caratteristiche somatiche non
è altro che la trasfigurazione di due classi agli antipodi: la faccia
pulita del sottoproletariato e la mostruosa follia del viso borghese.
La trama dell’opera filmica è strutturata come una sorta di Inferno

Impegno e disincanto
70

dantesco contemporaneo, con un anti inferno di partenza e tre


gironi (delle assurde manie; della merda profusa; del sangue
senza pietà). Ma alla fine i gregari più resistenti riescono a fuggire
dalle angherie libidinose dei potenti: sono pochi, ma incarnano
un sommerso barlume di speranza, che l’autore non stenta mai a
consegnare al più aguzzo osservatore.
L’ultimo stadio dell’intellettuale esplosivo si va arricchendo con
due opere incompiute: un romanzo dalle forti vibrazioni esistenzialiste,
Petrolio, che ha come sfondo la crisi petrolifera del 1973, e la pellicola
dal sapore fiabesco – da porre in contrapposizione a Salò – Porno-Teo-
Kolossal, con Eduardo De Filippo e Ninetto Davoli splendidi protago-
nisti.

Annibale Gagliani
71

5. L’ultimo insegnamento nel cuore del Barocco:


il dialetto come fonte salvifica contro il consumismo

Il 21 ottobre 1975 – soltanto dodici giorni prima della sua


terrificante scomparsa – Pier Paolo Pasolini partecipa come re-
latore al corso di aggiornamento per docenti indetto dal Mini-
stero dell’Istruzione presso il Liceo Classico “Giuseppe Palmieri”
di Lecce. Beppe Puppo, direttore di Leccecronaca.it, e rappre-
sentante degli studenti nell’indelebile evento, lo ricorda con gli
occhi da intrepido adolescente.
Pasolini aspettò pazientemente che nell’aula, riempitasi al mas-
simo, tutti riuscissero a trovare una qualche sistemazione. Il viso scarno,
aveva addosso un paio di jeans, una camicia di flanella a quadroni e sti-
valetti ai piedi. Cominciò a parlare convinto e convincente, riprendendo
e sviluppando, in una sorta di fresco riepilogo, molti spunti delle sue
clamorose polemiche. Se la prese con Mike Bongiorno e con la televi-
sione, denunciandone l’omologazione e l’asservimento ai prodotti. Ap-
profondì la tematica del linguaggio nazionale, specificatamente la tesi
della lingua che ci farebbe uguali, da lui confutata, naturalmente. Lo
stesso preciso argomento della traccia del tema, mutuata da don Lo-
renzo Milani, che sarebbe poi uscita all’esame di maturità di quell’anno.
Trattò dell’educazione didattica, della scuola, ovviamente, ma poi pure,
a lungo, dei dialetti67.

La sessione di lavoro, ideata dall’ispettore centrale del Mi-


nistero, Antonio Piromalli, affronta il tema didattico-disciplinare
Dialetto e scuola, proposto per il rinnovamento delle competenze
Impegno e disincanto
72

della classe docente leccese. Lo stesso Piromalli vede in Pasolini


una sorta di guida accademica, che può elevare strategicamente
l’immobile scuola italiana. Al vertice della tavola rotonda appa-
recchiata – un simposio che dota di leggenda quel rattrappito
Liceo Classico – l’ospite sposta subito l’attenzione su uno dei suoi
bersagli mobili più paurosi: “la droga” TV, coerentemente, con i
docenti che la affiancano.
Il vero problema di oggi non è tanto il fatto che ci sia un plura-
lismo linguistico e culturale; il vero problema di oggi è che questo plu-
ralismo linguistico e culturale tende ad essere distrutto e omologato
attraverso quel genocidio di cui parla Marx, e che viene compiuto dalla
civiltà consumistica, che ha un grande strumento di diffusione che è la
TV e anche la scuola negli ultimi tempi: perché insegnanti che abbiano
la coscienza che avete voi sono una piccola élite; nella maggioranza di
questi problemi non se li pongono nemmeno. Il grande corpo degli in-
segnanti è affiancato alla TV per imporre quel famoso italiano, che tra
l’altro non è nemmeno più quel bel fiorentino letterario che poteva es-
sere un ideale in qualche modo; è l’italiano orrendo della televisione68.

La distruzione del pluralismo linguistico e culturale; un


potere garantito al blocco omologante dagli strumenti di “indot-
trinamento di massa” come la TV; i docenti del secondo Nove-
cento che sono complici del consumismo a causa dell’imposizione
di un italiano qualitativamente ridimensionato. Il bel fiorentino
letterario, parlato e scritto, lascia ormai spazio a un linguaggio
mediocre che spoglia di stile ed espressività il parlante italien,
sempre più belante e ridimensionato. I due passaggi chiave del-
l’intervento pasoliniano ricalcano la mano su aspetti socio-poli-
Annibale Gagliani
73

tici, idealmente gramsciani, e sui consigli spassionati per un cam-


bio linguistico rivoluzionario, indirizzati a quei professori spiri-
tualmente fuori dagli schemi. L’assunto storico che ritorna in
superficie – con ottemperata premura – è quello dell’Unità nazio-
nale:
L’Italia non ha avuto né un’unificazione monarchica, né un’uni-
ficazione luterana riformistica, che è quella che ha preparato la civiltà
industriale, né la rivoluzione borghese, che ha unificato, né la prima ri-
voluzione industriale; non ha avuto nessuna di queste rivoluzioni uni-
ficatrici, omologatrici; quindi per la prima volta l’Italia è unificata dal
consumismo. È una cosa abbastanza terrorizzante e abbastanza defini-
tiva69.

L’Italia è unita non sotto la luce patriottica del tricolore, o


nella marcetta evocativa dell’inno di Mameli, e nemmeno per la
bontà dell’annessione sabauda: secondo Pasolini il nostro Paese
si stringe insieme dentro la coercizione delle vibrazioni tribali di
un patriota cancerogeno: il consumismo. Qual è l’antidoto finale
indicato ai professori del Settanta che per almeno un trentennio
hanno l’arduo compito di invertire un trend di molti vizi ed esigue
virtù? Il dialetto, la tradizione popolare, l’originalità locale.
Prendere coscienza che i fenomeni dialettali sono completa-
mente diversi, prendere coscienza che sono in un certo senso rivoluzio-
nari, e i giovani, che dici tu, che usano il dialetto, lo fanno perché anche
a loro è arrivata, magari non con estrema consapevolezza, ma esisten-
zialmente, la necessità di lottare contro questo nuovo fascismo che è ac-
centramento, che è accentramento linguistico e culturale del
consumismo70.
Impegno e disincanto
74

Nel primo pomeriggio del 21 ottobre 1975, Pier Paolo Pa-


solini varca le soglie del Circolo di cultura grecanica “Giannino
Aprile”71, presso la manifattura di tabacchi Murrone, a Calimera.
Il gruppo di studi pomeridiano è un’iniziativa elegante di una fi-
gura straordinaria del micro-universo della cultura grika72, il pro-
fessore e scrittore Rocco Aprile. Pasolini rimane estasiato
dall’ascolto dei canti popolari del leggendario cantore locale, Co-
simino Surdo, accompagnati dagli enigmatici “moroloja”, lamenti
in musica delle impenetrabili prefiche calimeresi. Di quell’epico
evento di ricerca musical-lingustica, andato in scena nell’interno
del Salento, è affettuoso testimone il professore Marcello Aprile,
che con il cuore sobbalzante di un bambino di nove primavere,
racconta nitidamente le particolari emozioni vissute:
La fabbrica si riempì di gente in poco tempo. C’erano musicisti
che poi sarebbero diventati di un certo peso, come Roberto Licci del
Canzoniere Grecanico Salentino, e cantori popolari come Cosimino
Surdo, autentici e inconsapevoli di esserlo, a differenza di quelli che poi
si sono autoproclamati tali. Secondo le testimonianze unanimi dei pre-
senti (io c’ero, ma ero troppo piccolo per ricordare i dettagli, e in ogni
caso fui l’unico a cui Pasolini rilasciò un autografo), lo scrittore era af-
fascinato, ascoltava in silenzio, ogni tanto chiedeva chiarimenti; in par-
ticolare, rimase senza parole davanti a una canzone struggente e
malinconica come Aremo rindineddha, che certo non rientra nei cir-
cuiti commerciali della pizzica, ma ha segnato l’identità dei calimeresi
per decenni73.
Pier Paolo Pasolini dopo il 21 ottobre 1975 ha un’influenza
impareggiabile su molti intellettuali salentini.
Annibale Gagliani
75

L’epilogo della tragica notte del 2 novembre 1975 cementa un le-


game massimale tra lui e una schiera ristretta – ma portentosa –
di irriducibili combattenti, pensatori dell’arte, poeti del reale, so-
ciologi della parola: le tre corone del cantautorato italiano. L’ul-
timo pensiero dell’intellettuale delle borgate, quello più
amaramente dolce regalato alla platea leccese, è issato al centro
del suo manuale di difesa del dialetto: Volgar’ Eloquio. Che cos’è
la felicità per il maestro Pasolini:
Nelle borgate romane, che sono il mondo che io conosco e che
ho espresso nei miei romanzi dieci anni fa, i giovani e la gente in genere
era molto più felice di adesso. Non so cosa sia la felicità; ma se la felicità
è sorridere e cantare e inventare linguisticamente tutti i giorni una bat-
tuta, una spiritosaggine, una storia, se la felicità è questa, allora erano
molto più felici di oggi. Se la felicità non è questa, allora, non parlo più74.

Impegno e disincanto
76

Annibale Gagliani
77

Capitolo 2
Faber – Il poeta dei carruggi:
“una ballata vi seppellirà”

1. Destino eretico, orizzonte “maledettamente bleu”

È una storia vestita


di nero
è una storia da basso impero
è una storia mica male insabbiata
è una storia sbagliata.

È una storia da carabinieri


è una storia per parrucchieri
è una storia un po’ sputtanata
o è una storia sbagliata75.

DE ANDRÉ – BUBOLA, Una storia sbagliata, 1980

Le affinità artistiche e ideologiche tra PPP e Fabrizio De


André sono intensamente sorprendenti. Ad accomunarli non è
soltanto la scelta di un tragitto culturale “oscuro”, ben lontano
dalle logiche iper-produttive del consumismo, ma altresì un te-
muto sostantivo: eresia.

Nell’estate del 1980 Faber (soprannome donatogli arguta-


mente da Paolo Villaggio) viene contattato dal giornalista Rai

Impegno e disincanto
78

Franco Biancacci, che gli propone un progetto televisivo molto


ambizioso: Dietro il processo, programma noir di quattro pun-
tante, nel quale si intende fare chiarezza sui delitti Pasolini e
Montesi. Il cantautore non è chiamato in causa per fare una libi-
dinosa ospitata su Rai Due – non avrebbe mai accettato – ma per
comporre la sigla dello special televisivo. Nasce, a quattro mani
con Massimo Bubola, Una storia sbagliata, udita per la prima
volta dall’Italia devota al tubo catodico il 7 ottobre 198076. Ecco
l’inaspettato omaggio deandreano al calpestato intellettuale cor-
saro. Queste due menti, radicalmente agli antipodi dalla razio-
nalità logorante che vige nel mondo borghese, convergono nella
ratio narrativa e nella scelta dei personaggi da “salvare”. I car-
ruggi77 genovesi raccontati dal cantautore non sono altro che la
riproposizione nordica delle borgate pasoliniane. I primattori
delle loro vicende provengono «dallo stesso universo di ladri, as-
sassini, puttane, diseredati, mentecatti, disperati», che conqui-
stano un proscenio «attraversato dalla volgarità di ricchezze
ostentate e ignoranza elevata a valore78», risultato dell’alienante
dominio capitalistico. Dalle lettere custodite nell’archivio di casa
De André, «trapela comunque un marcato senso di solitudine»
dell’artista, o più specificatamente «un vero disagio psicologico,
frutto di un tormentato rapporto col contesto che lo circonda»,
scenario sociale «segnato da alcolismo, malattie, difficoltà eco-
nomiche od occupazionali, atteggiamenti repressivi in famiglia,
problemi sentimentali, talora drammatici79».
In un’intervista radiofonica rilasciata a Mario Luzzato
Fegiz, Faber spiega l’immane perdita culturale che la morte di Pa-
Annibale Gagliani
79

solini porta al Paese, ponendosi filosoficamente sullo stesso fronte


sociale della vittima.

Non doveva succedere perché è stato come ammazzare una


grossa fetta di cultura, una grossa partecipazione da parte di un perso-
naggio, un modo soprattutto di interpretare la cultura che era comple-
tamente al di fuori delle regole e delle norme. Credo sia stato il primo a
dire apertamente che non esiste una sola cultura, ne esistono tante, e
nessuna è più avanti di un’altra, e che soprattutto abbia sperimentato
di persona e cercato di interpretare queste nuove culture, culture pro-
babilmente diverse da quelle della sua estrazione. Ci sono esempi pratici
e poetici da parte sua che lo dimostrano […]. Ovviamente è stato male
interpretato, e probabilmente è anche questo uno dei motivi della tra-
gedia80.

Ma chi è artisticamente Fabrizio De André? Innanzitutto è


al vertice di una delle scuole cantautorali più influenti della storia
della società italiana: la «scuola genovese». Il desiderio di questi
fuoriclasse della musica poetica è «rinnovare il repertorio canzo-
nettistico di quegli anni alla maniera dei chansonniers d’oltralpe
(Brel e Brassens su tutti), attraverso parole, musiche e temi
nuovi81». Mi riferisco alla “canzone di protesta”, che nelle decadi
degli anni Sessanta e Settanta viene censurata dai media di Stato
a causa del suo anticonformismo imperituro. I genovesi – assieme
ad altri colleghi milanesi e romani – rompono gli schemi con i
«cascami che celebravano la finta arcadia», ovvero con le canzo-
nette che nel primo Novecento portano alla ribalta un mondo ot-
timistico di cuore-fiore-amore-stelle d’oro. Lo stile garbato e privo

Impegno e disincanto
80

di rischi è soppiantato perciò dalla ricerca poetico-narrativa di


artisti che ripudiano la frivola banalità. Essi «innovano radical-
mente, recuperano anche in lingua il quotidiano, cominciano a
parlare degli oggetti di tutti, a usare le parole di tutti, in modo
semplice, popolare82».

All’ombra della lanterna oltre a Faber ritroviamo Tenco,


Bindi, Lauzi, Conte e Paoli. Sotto gli occhi della madonnina ab-
biamo invece Gaber, Vecchioni, Ciampi e Jannacci. Nel fragore
della capitale spiccano Battisti, Venditti e De Gregori (romano di
adozione è il calabrese Rino Gaetano). A sottolineare i bagliori
soffusi dell’Abruzzo c’è Ivan Graziani. «Nasce così l’idea di una
canzone d’autore da contrapporre alla canzone di consumo83», e
di questa filosofia De André è l’alfiere più vibrante.

Ma al di là di ogni possibile (o impossibile) corrente arti-


stica, si sa che è l’uomo a fare l’artista, quasi mai il contrario. Il
18 febbraio 1940, alle ore dodici precise, presso il civico dodici di
via De Nicolay, a Genova, nasce Fabrizio Cristiano De André. Il
padre, Giuseppe De André, stimatissimo professore genovese,
rincuora la moglie, Luisa Amerio, nelle ore precedenti al parto,
selezionando sul grammofono il Valzer campestre di Gino Mari-
nuzzi. I protagonisti fanno i conti con il secondo conflitto mon-
diale e la situazione sul fronte italiano, che sembra degenerare
verso le cinque terre, spinge il professore De André ad acquistare,
a due passi da Revignano D’Asti, la Cascina dell’Orto, utile come
rifugio per tutta la famiglia. Fabrizio cresce lì, in mezzo a una

Annibale Gagliani
81

campagna sterminata, sotto il peso di notizie spesso tremebonde,


come la deportazione dello zio materno – Francesco – nel campo
di concentramento di Mannheim84. Faber ha un fratellino molto
curioso, si chiama Mauro, insieme vivono un’esperienza che li
segna per il resto dei loro giorni: il ritorno, alla fine della guerra,
dell’adorato zio. Deperito e tremendamente provato nell’anima,
racconta ai due piccoletti le brutture e le angherie che ha vissuto.
Fabrizio e Mauro nei giorni seguenti lo stuzzicarono, cercando
di sapere qualcosa di quella terribile esperienza. Lo zio raccontò loro
della fame, delle bucce di patata, del torso di cavolo diviso in quattro
per sopravvivere; e infine dell’esperienza più terrificante: quando, in
fila per entrare nel forno crematorio, si era salvato perché il turno della
guardia era finito. Vicende che lo minarono per sempre nello spirito.
Tutto ciò è rimasto impresso in Fabrizio e non si può escludere che il
suo cantare storie di persone umili, diseredate, sia stato provocato
anche da questa triste vicenda85.

Nel settembre del 1945 la famiglia De André ritorna a casa,


in un’esausta Genova. Qui Fabrizio cresce come un ribelle, fre-
quentando le scuole primarie e il Liceo Classico Colombo. Studia
controvoglia il violino e alla calma piatta della sua più che agiata
famiglia preferisce i pericoli saporiti della strada: diventa un bul-
letto di quartiere inafferrabile – un «gundùn» (un mascalzone) –
il capetto della banda dei “Lupi del Piave”. Maturerà negli anni
della gioventù una specie di rifiuto per il mondo piccolo e alto bor-
ghese, scaturito dai ricordi statuari che provengono dalla sua in-
fanzia campagnola.

Impegno e disincanto
82

Sono nato a Genova il 12 febbraio del 1940, ma al momento


dell’entrata in guerra dell’Italia, la mia famiglia è sfollata in un paesino
piemontese, a Revignano d’Asti. E fino alla liberazione, sono cresciuto
nei campi, in mezzo ai contadini. Quello è stato forse il periodo più
bello, più felice della mia vita. Ho imparato ad amare la natura, gli ani-
mali86.

Culturalmente parlando, una delle prime figure che in-


fluenza FDA è il petroliere – amico di famiglia – Remo Borzini,
che coltiva l’amore per la pittura e la poesia verace. Le liriche
composte dal cinquantenne uomo in carriera solleticano la fan-
tasia acerba del quattordicenne Fabrizio, poiché narrano di oste-
rie, tabernacoli e degli scossoni sociali dei vicoli genovesi.
«Quando ci conoscemmo, Remo aveva cinquant’anni e io ne
avevo quattordici. Però a me piaceva il suo modo di parlare, di
raccontare le storie; a lui evidentemente piaceva il modo in cui le
ascoltavo87». Il confronto con Borzini fa scoccare la scintilla della
lettura squassante nel ribelle genovese: seguendo anche i consigli
del diciottenne fratello Mauro, divora testi della reale letteratura
russa, su tutti di Dostoevskij e Bakunin, e del naturalismo fran-
cese, tra gli altri Maupassant, Flaubert e Balzac. Poi a quindici
anni arriva la perdita della verginità artistica al Teatro Carlo Fe-
lice, nel quale si esibisce per un concerto di beneficenza. Ma que-
sto è il frangente storico dominato dalle contaminazioni che
scavalcano l’Atlantico: la celere esperienza faberiana con il
gruppo country-western The Crazy Cowboys & The Sheriff One
non è casuale. O ancora la segnante attività da jazzista nel Mo-
dern Jazz Group – sodalizio dalle sonorità black in cui condivide
Annibale Gagliani
83

la scena con un inedito Luigi Tenco – lo forgia musicalmente. Ma


a cesellare dolcemente la visione di vita del giovane De André sono
le amicizie con Paolo Villaggio, Rino Oxilia e con il poeta Riccardo
Mannerini. Ancora più determinante, nonché decisivo, è l’ascolto
di due 78 giri di un travolgente chansonnier francese: Georges
Brassens. Le Gorille, Le Mauvaise réputation e Corn d’Aurochs
non rappresentano soltanto delle canzoni fortemente ispiratrici
per FDA, bensì il manifesto ideologico della sua giovinezza. Egli
si trasforma, infatti, in un cuore anarchico ed estende le sue let-
ture vorticose a Malatesta e Kropotkin. Le fondamenta country-
jazz, cementate nell’adolescenza, vengono perentoriamente
violentate dall’influsso calmo delle ballate brassensiane. Cresce
nell’artista un inconsapevole progetto: cantare i carruggi genovesi,
relazionandoli alle contraddizioni del sistema borghese e alle de-
bolezze assolute del genere umano88. La strofa del cantastorie
transalpino che più percuote l’anima di De André, è il cardine di
La Mauvaise réputation, latente riassunto dell’anarchica proie-
zione esistenziale:
Eppure non danneggio nessuno
seguendo la mia strada di uomo tranquillo.
Ma alle persone per bene non piace che
si segua una strada diversa da loro...
No, alle persone per bene, non piace che
si segua una strada diversa dalla loro89.

Nel gennaio del 1961 arriva il primo 45 giri faberiano, in-


ciso con l’ambiziosa etichetta Karim: Nuvole barocche. All’interno

Impegno e disincanto
84

del lavoro discografico d’esordio pulsa la primogenita canzone


del cantautore dei carruggi, che tallona già la maturazione arti-
stico-filosofica: La ballata del Michè.

Stanotte Michè
si è impiccato a un chiodo perché
non poteva restare vent’anni
in prigione lontano da te.

Io so che Michè
ha voluto morire perché
ti restasse il ricordo del bene
profondo che aveva per te.

«Ho scritto con Clelia Petracchi questa canzone, che parla


di un povero Cristo finito in carcere per avere ucciso un rivale in
amore […] perché se non l’avessi scritta, probabilmente, invece
di diventare un discreto cantautore, sarei diventato un pessimo
penalista90». FDA parte con il botto, il pezzo embrionale della sua
carriera – tra gli studi di Medicina e Lettere accarezzati, e il per-
corso da giurista rifiutato – riflette la sua giovanile avversione
per i dogmi istituzionali. Diviene, da questo rivoluzionario mo-
mento, narratore in musica dei suoi sogni d’anarchia. Tre sono i
pilastri perforanti del pezzo: la morte senza appello, la spada di
Damocle della giustizia e il cinismo della religione. De André si
muove come un narratore anonimo e sbatte in prima linea, già
dalle strofe inaugurali, il dramma di uno sventurato suicida.

Annibale Gagliani
85

Michè viene condannato a vent’anni di reclusione dopo l’omicidio


dell’uomo che intendeva portagli via l’amore della sua inutile vita:
Marì. Raptus di gelosia a ispirare il crimine, ma il protagonista
completa il secondo atto – il più letale –, contro la sua stessa per-
sona. Il movente in questo caso proviene dalla consapevolezza di
non poter godere delle attenzioni della sua amata per un tempo
ampio, insopportabile, e perciò non vi è altra via d’uscita che il
gesto estremo. Le strofe semplici, adagiate sul valzer francese,
sono intervallate da versi in rima senza un preciso ordine strut-
turale. È intenso nel testo il binomio morte-amore, che ricalca il
millenario lirismo greco e il pessimismo speranzoso di Giacomo
Leopardi. Faber contrappone il suicidio stigmatizzato dalla giu-
stizia (umana e divina) – che non riconoscerà l’ultima messa al
deceduto – all’atto d’amore idealizzato come gesto di vita eterna
nel cuore di Marì. Si intravedono nel corpus piangente linee con-
cettuali dell’antico storicismo di Seneca – che vede l’harakiri
come espressione di coraggio –, e altresì le proiezioni esistenzia-
liste di un filosofo bleu, «Albert Camus quando riflette sul suicidio
come “problema filosofico veramente serio”, perché la risposta al
quesito fondamentale dell’intera filosofia sta nel giudicare se la
vita valga o non valga la pena di essere vissuta91». La classica strut-
tura della ballata popolare, in cui solo Marì comprende con pre-
cisione emozionale il gesto del suo amato, rappresenta un chiaro
rimando alla tecnica espressiva degli autori-comico realistici che
erano in voga tra il Duecento e il Trecento. Uno spirito musicale
conosciuto come vituperium92, maneggiato con cura dai cantasto-
rie, che con ritmo poetico, raccontano le vicende del volgo indos-

Impegno e disincanto
86

sando gli occhi sia del narratore che dello spettatore.


Il 27 gennaio 1967, durante la kermesse canora di San-
remo, Luigi Tenco muore, elevando al cielo il suo urlo di rivalsa
sussurrato in Ciao amore ciao. De André, caro e rispettoso amico
del compianto cantautore – uno degli esponenti più geniali della
scuola genovese – gli dedica un pezzo da brividi, ricordando con
assoluta sofferenza i momenti successivi all’inspiegabile morte.
Luigi sul comodino teneva i libri di Pavese; ne ho conosciuti
altri che si sono suicidati dopo aver letto troppe volte Pavese. Io lo fre-
quentavo abbastanza saltuariamente, eravamo tutti cani sciolti, ma si-
curamente era quello che mi era vicino come formazione politica e poi,
da artista, come tematiche trattate. Appena saputa la notizia della sua
morte, mi precipitai all’obitorio. Quando lo vidi lì disteso, con questo
turbante di garza insanguinato, mi colpirono il pallore della morte e il
colore viola scuro delle sue labbra carnose. Le ho ancora impresse nella
mente, e le menzionai nella canzone che scrissi sull’onda di quell’emo-
zione partendo da una poesia di un autore del Novecento francese,
Francis Jammes93.

Faber, nello stesso anno, pubblica con la casa discografica


Bluebell Records un album intero, il primo lavoro completo di
una carriera che corre già in fulminante ascesa: Volume 1. All’in-
terno della fatica discografica si ritrova l’immacolato omaggio al
“filosofico” compagno, Preghiera in gennaio, per Tenco.

Signori benpensanti
spero non vi dispiaccia
se in cielo, in mezzo ai Santi
Annibale Gagliani
87

Dio fra le Sue braccia


soffocherà il singhiozzo
di quelle labbra smorte
che all’odio e all’ignoranza
preferirono la morte.
Dio di misericordia
il tuo bel Paradiso
lo hai fatto soprattutto
per chi non ha sorriso
per quelli che han vissuto
con la coscienza pura
l’inferno esiste solo per chi ne ha paura.

FDA scrive una preghiera di umano sentimento a Dio, ma


non al padre dei “benpensanti”, bensì al misericordioso Re dei
cieli che si cura con giusta attenzione delle sorti dei sofferenti e
degli ultimi. Attraverso un testo semplice, appartenente ai canoni
della lingua parlata, l’autore chiede che l’amico Tenco venga ac-
colto in Paradiso, nonostante penda su di lui la colpa – vera o pre-
sunta – del suicidio. Rime alternate e calzanti consonanze
sorreggono un ateismo religioso per nulla scontato. È evidente, in
questo caso, la scelta di non appoggiarsi a un linguaggio clericale
e istituzionale: il poeta «invoca la presenza trascendente», bus-
sando metaforicamente alle nuvole e adottando «il linguaggio ere-
ditato dall’infanzia». A palesarsi nelle strofe lancinanti, perciò, è
«una spiritualità magari negata ma profonda, inconfessata ma
viva94».
Si è dinanzi a un insospettabile inno sacro che esprime «un
Impegno e disincanto
88

ritmo metrico di sapore quasi manzoniano95», capace di ripercor-


rere le odi solenni dell’Ottocento, celandosi però, in chiave erme-
tica, nell’essenzialità del discorso diretto. Ma è pur sempre una
preghiera laica, ispirata alla lirica di Francis Jammes, «Prière
pour aller au paradis avec les ânes96», e intinta di sonorità rock-
blues, tanto care all’amico scomparso. Il fine che il narratore
vuole raggiungere è diretto ed efficace: consegnare un testo di de-
nuncia contro il bigottismo della nuova-vecchia chiesa – figlia del
Concilio Vaticano II – e contro il perbenismo borghese, che pu-
nisce le anime più fragili. La “sacra accusa” è avvalorata da un
aguzzo osservatore della vicenda Tenco: Salvatore Quasimodo,
Premio Nobel. Egli sostiene che in quel contesto di spettacolosa
cultura, nel quale Claudio Villa e Iva Zanicchi trionfano al tetro
Festival con Non pensare a me (canzonetta classicamente d’an-
nata), il sacrificio dissacrante dello chansonnier avrebbe colpito
«a sangue il sonno mentale dell’italiano medio».
La sua ribellione che coincideva con una situazione personale
di uomo arrivato alla resa dei conti con la carriera, ha però ancora una
volta urtato contro il muro dell’ottusità. Chi non è in grado di doman-
dare un minimo di intelligenza a una canzone non può certo capire una
morte. Il risultato del festival ha reso ancora più stridente il contrasto
tra la reazione delle giurie e l’impegno che Luigi Tenco aveva sperato
di richiamare con la violenza contro se stesso. Perciò pensiamo che
pochi lo abbiano capito e per questo non vogliamo dimenticare il sui-
cidio di Luigi Tenco che va al di là di ogni sdrucciolevole simbolismo
beat97.

Annibale Gagliani
89

2. Poesia sulle fiamme dei carruggi:


la ballata popolare per un nobile fine

Nell’album Volume 1 si avverte con delicata potenza lo spi-


rito struggente dei carruggi: Via del Campo e Bocca di rosa rap-
presentano il monumento alle vicende degli ultimi. De André
tratta con tatto e acume intellettuale tematiche che smascherano
«l’Italietta sessuofoba», mentre nell’ipocrisia della propria pro-
vincia viene «ridicolizzata dal trionfo dell’“amor profano”98». Ma
come nasce un romantico e feroce pezzo faberiano? Lo spiega il
poeta stesso, senza remore o fronzoli di sorta, in una preziosa in-
tervista della celeberrima rivista «Rossana».
Leggendo una novella, un libro, o semplicemente un giornale,
mi viene improvvisamente l’idea per un testo. Allora, per ricordarla, fac-
cio una stesura in prosa. Poi, in base a questo schema che può essere
allegro, drammatico o ironico, secondo l’impulso che l’ha ispirato, in-
vento la musica alla chitarra; quindi, leggendo la prosa scritta prima,
faccio i versi in rima99.

Negli istanti creativi che portano alla gestazione di Via del


Campo, il cantautore è pervaso da un senso di pietas nei confronti
di due personaggi che rappresentano il must della sua produzione
artistica: una prostituta e l’illuso ragazzo che vuole portarla all’al-
tare.

Impegno e disincanto
90

Via del Campo c’è una puttana


gli occhi grandi color di foglia
se di amarla ti vien la voglia
basta prenderla per la mano.
E ti sembra di andar lontano
lei ti guarda con un sorriso
non credevi che il paradiso
fosse solo lì al primo piano.

Via del Campo ci va un illuso


a pregarla di maritare
a vederla salir le scale
fino a quando il balcone è chiuso.
Ama e ridi se amor risponde;
piangi forte se non ti sente.
Dai diamanti non nasce niente
dal letame nascono i fior.

«Passavo spesso da via del Campo, la strada dei travestiti.


Una volta salii in camera con un certo Giuseppe, che si faceva
chiamare Joséphine e mi apparve una bellissima ragazza
bionda100». Una vivida reminiscenza che FDA trasforma nel per-
sonaggio chiave della canzone: la luminosa e carnale donna vive
di tremendi espedienti nella malfamata via genovese, che pun-
tualmente è sputata dai benpensanti. Ella rappresenta l’arazzo
anti-moralista di tutte le vie sottoproletarie che nutrono sogni
malinconici. Il prolungamento ideale di questa “illegale” storia è
il viso dannatamente poetico di Bocca di Rosa.
Annibale Gagliani
91

La chiamavano Bocca di rosa


metteva l’amore, metteva l’amore
la chiamavano Bocca di rosa
metteva l’amore sopra ogni cosa. [...]

Si sa che la gente dà buoni consigli


sentendosi come Gesù nel tempio,
si sa che la gente dà buoni consigli
se non può più dare cattivo esempio.

Così una vecchia mai stata moglie


senza mai figli, senza più voglie
si prese la briga e di certo il gusto
di dare a tutte il consiglio giusto.

E rivolgendosi alle cornute


le apostrofò con parole argute
«il furto d’amore sarà punito
- disse - dall'ordine costituito».

E quelle andarono dal commissario


e dissero senza parafrasare:
«quella schifosa ha già troppi clienti;
più di un consorzio alimentare».

Bocca di rosa non fa l’amore per noia, o per professione


(come i fatti lascerebbero intendere), ma per inossidabile pas-
sione. Una ballata strutturalmente romantica, dall’impeto profa-
natore, sinuosamente erotizzante.
Impegno e disincanto
92

Portante è nelle strofe l’intento fiabesco-popolare, mescolato ai


toni epico-narrativi, che, attraverso degli escamotage gramma-
ticali e stilistici – come l’uso dell’imperfetto o della ripetizione si-
stematica –, dispiegano un’aura di leggenda. Il nome della
protagonista non è conosciuto, ma si conoscono la sua fama e
l’epiteto saliente. Lo scenario ripercorre un «humus culturale»
insito nella «civiltà cavalleresca medievale101». C’è chi sostiene
che Bocca di rosa sia ispirata alla Brave Margot di George Bras-
sens, mentre altre correnti di pensiero identificano la meretrice
nella bionda istriana “Maritza”, raccontata nel romanzo Un de-
stino ridicolo, scritto da Faber insieme ad Alessandro Gennari.
Di certo a spiccare è il sensuale motivo conduttore «l’eros in ven-
dita, della donna che si offre non per soldi ma solo per il piacere».
La chanson funziona perfettamente grazie a «un’accentuazione
ironica tra il gaio e il brioso», che nella mente del cantautore è fi-
nalizzata a elogiare un simbolo pronto a sbeffeggiare «la menta-
lità borghese che moralisticamente disapprova102». Una decisa
nota di merito va al lessico utilizzato dal poeta dei carruggi, in cui
si alternano termini provenienti dal quotidiano ed espressioni de-
suete che destano curiosità nell’ascoltatore: «l’ira funesta delle
cagnette / a cui aveva sottratto l’osso» o ancora «e rivolgendosi
alle cornute / le apostrofò con parole argute103».

All’interno dell'album Volume 1 trova spazio un brano,


scritto da Faber a quattro mani con l’amico di sempre Paolo Vil-
laggio, che suscita non poco scalpore: Carlo Martello ritorna
dalla battaglia di Poitiers. In data 10 dicembre 1967 viene noti-

Annibale Gagliani
93

ficata al cantautore e agli editori della Karim la citazione in giudi-


zio da parte del Tribunale di Milano. La motivazione dell’accusa
è torrenziale: per aver «in concorso fra loro prodotto e posto in
commercio dischi di contenuto osceno104». La canzone è dura-
mente accusato di ledere la morale cattolica. Perché mai? Ohibò!
Il protagonista della ballata è Carlo, re dei Merovingi, eroe di nu-
merose imprese belliche in Terra Santa e persecutore dei Mori in-
fedeli. Egli, durante l’atteso ritorno in Europa, intende dare sfogo
alle sue voglie sessuali. Con maschilismo e maleducazione cerca
di possedere una ragazza del popolo, che consegnandogli il sala-
tissimo conto delle sue grazie, è in grado di farlo fuggire. Si tratta
di «un goliardico ritorno alle tradizioni medievali e al puritane-
simo cristiano che trovava nelle crociate la summa ideologica
dell’onore cavalleresco105».

Re Carlo tornava dalla guerra,


lo accoglie la sua terra cingendolo d’allor.
Al sol della calda primavera
lampeggia l’armatura del suo sire vincitor. […]
«Mai non fu vista cosa più bella,
mai io non colsi siffatta pulzella»
disse re Carlo scendendo veloce di sella. […]
Alla donna apparve un gran nasone,
un volto da caprone, ma era Sua Maestà.
«Se voi non foste il mio sovrano,
- Carlo si sfila il pesante spadone -
non celerei il desio di fuggirvi lontano.

Ma poiché siete il mio signore


Impegno e disincanto
94

- Carlo si toglie l’intero gabbione -


debbo concedermi spoglia d’ogni pudore». […]
«Deh! Proprio perché voi siete il sire
fan cinquantamila lire: è un prezzo di favor» […]
«È mai possibile, oh porco di un cane,
che le avventure in codesto reame
debban risolversi tutte con grandi puttane».

L’atmosfera è quella della chanson de geste, accentuata da


una curiosa «parodia dell’amore cortese106». Marcato è il contra-
sto tra registro aulico e materialismo prosaico, con un’appari-
zione esilarante dell’italiano regionale (nella fattispecie quello
bolognese con il verso della donna che detta il prezzo). Dentro il
duello verbale tra la pulzella e re Carlo, si passa scorrevolmente
dalla voce del narratore al discorso diretto, rispettando una so-
stenuta dinamicità. Il lirismo deandreano, in questa occasione,
propone una lingua letteraria anacronistica, sorretta da un ac-
compagnamento musicale demistificatore, che diverte con colo-
rita solennità, grazie al rustico dinamismo enfatizzato. Lo
scenario è intensamente bucolico, con il mondo pastorale – rap-
presentato dalla femmina desiderata dal sovrano – che si riflette
nei ruscelli e nei laghi degli incontri segreti. La vicenda, recupe-
rata scherzosamente dagli autori, infarcita di dottissime citazioni,
è un deciso atto antimilitarista, una specie di denuncia fiabesca
contro la guerra e il pregiudizio.

Annibale Gagliani
95

Nell’arroventato 1968, arrivano due album angolari per la


carriera di Fabrizio De André: Tutti morimmo a stento (pubbli-
cato con Belldisc italiana) e Volume III (pubblicato con Bluebell
Records). All’interno del primo lavoro citato irrompe una canzone
dal dolore spossante, Cantico dei drogati.

Mi citeran di monito
a chi crede sia bello
giocherellare a palla
con il proprio cervello.

Cercando di lanciarlo
oltre il confine stabilito
che qualcuno ha tracciato
ai bordi dell’infinito.

Una canzone perdutamente amara, formata da versi raggruppati


in quartine di settenari (a eccezione di quelle sopracitate), in cui
si manifestano un novenario e un ottonario. Dimostrazione che
FDA predilige coerentemente la calzatura della melodia, da rag-
giungere anche attraverso licenze poetiche e adattamenti testuali
non indifferenti. Il Cantico è deliberatamente ispirato a una
squarciante lirica di Riccardo Mannerini: Eroina. Nel dramma
imperante della tossicodipendenza, che l’Italia sessantottina vive
in maniera sempre più copiosa, De André scorge i sadici fantasmi
e il disgusto interiore del drogato. Il “licenziamento di Dio”, la sfi-
ducia totale nei valori terreni, la convinzione di “essere in affitto
dentro a un corpo idiota”. La paura soffocante, la vigliaccheria che
Impegno e disincanto
96

prevale su ogni reazione virtuosa, un futuro dilapidato non solo


dalle sostanze, ma, in prima istanza, da un’emarginazione senza
appello. Sull’incedere quasi innaturale dell’arrangiamento sinfo-
nizzante, esplode la liberazione autobiografica che l’artista non
riesce più a contenere: «per me, che ero totalmente dipendente
dall’alcool, ebbe un valore liberatorio, catartico107». Non è un se-
greto che Faber abbia pensato, originariamente, a tutt’altro titolo
per il Cantico maledetto, Cantico dei folletti di vetro. Espressione
dionisiaca viscerale, che diviene respiro vitale del cantautore, per-
vaso dall’esigenza di raccontare il proprio disagio, che si riflette
simbolisticamente nel disagio del mondo.

All’interno di Volume III riecheggiano con forza le malin-


conie poetiche di Baudelaire e Villon. De André regala un ottimo
esempio di lirismo in musica quando tratta la vicenda di una fan-
ciulla incantevole che viene travolta dal puntuale binario amore-
morte: La canzone di Marinella. Il poeta racconta con sofferto
rispetto la macabra illuminazione che ispirò tale omaggio lagri-
mante.

Non è nata per caso, semplicemente perché volevo raccontare


una favola d’amore. È tutto il contrario. È la storia di una ragazza di
campagna dalle parti di Asti. È stata cacciata dagli zii e si è messa a bat-
tere lungo le sponde del Tanaro, e un giorno ha trovato uno che le ha
portato via la borsetta dal braccio e l’ha buttata nel fiume. E non po-
tendo fare niente per restituirle la vita, ho cercato di cambiarle la
morte108.

Annibale Gagliani
97

Questa di Marinella è la storia vera


che scivolò nel fiume a primavera
ma il vento che la vide così bella
dal fiume la portò sopra a una stella.

Sola senza il ricordo di un dolore


vivevi senza il sogno di un amore
ma un re senza corona e senza scorta
bussò tre volte un giorno alla tua porta. […]

Furono baci furono sorrisi


poi furono soltanto i fiordalisi
che videro con gli occhi delle stelle
fremere al vento e ai baci la tua pelle.

Nelle quartine della fievole deferenza, versi talvolta dode-


casillabi e in misura minore endecasillabi, si legano grazie a rime
baciate con schema AABB. Inizialmente il titolo pensato da Faber
è La ballata di Marinella, con un testo che lancia la sfida alla cen-
sura, perché di fattura decisamente erotica. Ma il cantautore de-
cide di correggere il tiro: Marinella vive un amore metafisico e
morbidamente pulito con il suo re (che le resterà fedele nono-
stante la morte), e viaggia in uno scenario fuori dalla storia, «un
surreale microcosmo fiabesco109». La canzone cambia completa-
mente la vita di FDA, grazie all’interpretazione eseguita da una
fuoriclasse della musica leggera italiana: Mina. La sua versione fa

Impegno e disincanto
98

conoscere la tragedia di Marinella a tutta la nazione, che oltre ad


apprezzarla con struggente sentimento, comincia a osservare con
acutezza le note liriche dello chansonnier dalle vibrazioni fran-
cofone, ma dall’accento genovese.

Volume III è arricchito da un dotto riferimento letterario


rimodernato in musica: S’i’ fosse foco, memorabile sonetto di
Cecco Angiolieri, che rompe gli schemi con il Dolce Stil Novo al
tramonto del Medioevo. De André si sente un compositore gio-
coso, imitando l’arguzia del poeta senese. Mantenendo la ver-
sione originale del sonetto duecentesco, lo adagia su un
godereccio ritmo di makurka, danza classica della tradizione go-
liardico-parodistica. Riguardo al valore intrinseco della poesia
nella sua essenza primordiale, Faber non smette di sorprendere:
«Benedetto Croce diceva che fino a diciotto anni tutti scrivono
poesie e che, da quest’età in poi, ci sono due categorie di persone
che continuano a scrivere: i poeti e i cretini. Allora, io mi sono ri-
fugiato prudentemente nella canzone che, in quanto forma d’arte
mista, mi consente scappatoie non indifferenti, là dove manca
l’esuberanza creativa110».

Sul secondo lato del disco, si impone una narrazione can-


tata che ricorda per certi versi il sonetto Le dormeur du val di Ar-
thur Rimbaud e per altri il pezzo Le soldat de Marsala di Gustave
Nadaud, mi riferisco a La guerra di Piero. Un’espressione poetica
di denuncia, una protest song, simile a quelle diffuse da Dylan e
da Baez nei tempi che stavano cambiando. De André racconta la

Annibale Gagliani
99

tragedia di Piero, soldato semplice che si appresta ad attraversare


la frontiera durante la primavera bellica. Il destino architetta l’in-
contro del protagonista con un giovane uomo armato, il suo ne-
mico in fondo alla valle. Il combattente italiano, frapposto dinanzi
al mors tua vita mea del brutale evento, non ha il coraggio di spa-
rare all’omologo ragazzo, e, in preda a un’ansiosa fragilità, tallo-
nata da un solidale senso di pietas, rimane bloccato. È il nemico
a risolvere senza patemi la questione: gli spara freddamente al
cuore, straziando i sogni di Ninetta – amata del morente militare
– che non avrebbe più assaporato il miele dei baci dopo il disu-
mano epilogo.

Dormi sepolto in un campo di grano


non è la rosa non è il tulipano
che ti fan veglia dall’ombra dei fossi
ma solo mille papaveri rossi.

Lungo le sponde del mio torrente


voglio che scendano i lucci argentati
non più i cadaveri dei soldati
portati in braccio dalla corrente
così dicevi ed era d’inverno
e come gli altri verso l’inferno
te ne vai triste come chi deve
il vento ti sputa in faccia la neve.

Il simbolo dell’antimilitarismo italiano è tatuato sulla nuca


glaciale di Piero, indubitabilmente figlio dei racconti sconvolgenti

Impegno e disincanto
100

dello zio di Faber. La metrica della ballata, in cui si muovono rime


baciate e alternate, è dominata dalla voce invisibile del narratore,
che comunica con il soldato italiano in seconda persona. Il pro-
tagonista, inoltre, si esprime personalmente in differenti strofe,
con «apparenti irregolarità sintattiche». Lo sfondo è duramente
animato dall’uso reiterato del passato remoto e da «crudezze les-
sicali111» che hanno lo stesso risultato di un gancio nello stomaco
per l’ascoltatore. Ricchissima di immagini metaforiche, prosopo-
pee e anastrofe, la meta-narrazione – dai contorni esistenziali e
socio-psicologici – offre opposizioni decisive nella mente di chi
ne fruisce: “voglio che scendano i lucci argentati / non più i ca-
daveri dei soldati / portati in braccio dalla corrente”; “non è la
rosa, non è il tulipano / ma sono mille papaveri rossi”.

L’affresco allegorico dei papaveri è di strepitosa sensibi-


lità: si tratta dell’emblema della natura deturpata dal conflitto ar-
mato, che però, nonostante il decorso dilagante del sangue,
resiste. Tutto ciò è la rappresentazione del ciclo biologico della
morte, che lascia il testimone dei fatti alla rinascita pacifica, sep-
pur in mezzo alle croci. «L’ansia per una giustizia sociale che an-
cora non esiste, e l’illusione di poter partecipare in qualche modo
a un cambiamento del mondo112». Ecco lo spirito sommerso che
FDA dona a La guerra di Piero e a innumerevoli canzoni, pronte
a esplodere nel sottobosco del mercato discografico più ghirlan-
dato.

Annibale Gagliani
101

3. La Buona Novella faberiana:


né per il denaro né per il cielo, ma per gli ultimi

Nel 1970 sale nel marmoreo cielo, passando dalle bruli-


canti vene, uno smisurato atto di fede: l’album La Buona Novella
(edito da Produttoriassociati srl). Lavoro ispirato ai «Vangeli apo-
crifi in contrapposizione ai Vangeli canonici113»: Faber ricerca Dio,
ma non quello punitivo dei borghesi, bensì quello misericordioso
dei sofferenti. Vuole processare umanamente Gesù Cristo e decide
di confrontarsi con «la vertigine della storia sacra», cercando di
«attrarre l’alto/divino114» verso la semplicità del basso. La chan-
son che meglio rappresenta questa redenzione indagatrice del
cantautore è senza alcuna ombra di dubbio Il testamento di Tito.
Il ladrone dai buoni sentimenti – Tito – esprime il messaggio teo-
logico servendosi della calda voce deandreana. Dieci sono i co-
mandamenti che Mosè riceve sul monte Sinai, tutti quanti sono
ripercorsi interiormente nella trama del brano. Tito è un perso-
naggio altamente simbolico, un peccatore che condivide assieme
a Gesù la morte sul Golgota: la trasposizione della figura parabo-
lica – umana troppo umana – dentro la realtà del peccatore De
André, suggella un percorso di purificazione lampeggiato dalle
leggi cattoliche.

Non nominare il nome di Dio,


non nominarlo invano.
Con un coltello piantato nel fianco
gridai la mia pena e il suo nome:
Impegno e disincanto
102

ma forse era stanco, forse troppo occupato,


e non ascoltò il mio dolore.
Ma forse era stanco, forse troppo lontano,
davvero lo nominai invano.

FDA diviene illuminante portavoce delle debolezze


umane, rafforzando il parallelo con la fragile figura di Tito: tutti
e due sono dei ladri terreni, ma innocenti, poiché rubano per un
fine nobile. Nonostante le malefatte il criminale riuscirà a vedere
il Paradiso, grazie alla casualità di aver condiviso le ultime soffe-
renze in croce col Nazareno. Stesso viatico avrà lo spirituale pezzo
nella strofa finale: il narratore degli «anti-comandamenti» im-
parerà lealmente ad amare, contemplando il percorso di indagine
interiore e celeste. La carezza laica del cantautore sposta i riflet-
tori delle lodi non più verso l’imponenza del «Dominum», ma
sull’animo puro dell’«hominem», ridipingendo le sacre narra-
zioni come un’allegoria dell’Italia sessantottina. «Quando scrissi
La Buona Novella si era in piena lotta studentesca. Non avevano
capito che La Buona Novella è un’allegoria, che paragona le
istanze migliori e più sensate della rivolta del ’68 con quelle della
vita di Cristo, queste ultime da un punto di vista spirituale sicu-
ramente più elevate, ma dal punto di vista etico-sociale molto si-
mili alle prime115».

Un anno dopo, nel 1971, Fabrizio De André tira fuori dallo


sprezzante cilindro il suo quinto disco, Non al denaro non al-
l'amore né al cielo (edito ancora da Produttoriassociati srl). Il ti-
Annibale Gagliani
103

tolo è alquanto sintomatico, ma a esserlo ancor di più, sono i per-


sonaggi di tre canzoni follemente divertenti: Un blasfemo, Un
matto e Un giudice. Il primo pezzo, dal titolo originario Un bla-
sfemo (dietro ogni blasfemo c’è un giardino incantato), narra la
vicenda del simbolico ribelle esistenziale, che cerca di opporsi al
metro di misura terreno della borghesia più bigotta. In questo
caso la religione solleva una problematica nettamente contro-
versa: i rischi del “frutto proibito” non più da sottrarre alla mano
di Dio, ma al braccio armato del sistema. La ballata dal profumo
tradizionale è accompagnata da un flauto medievale che ferma il
tempo in quell’epoca di pop galoppante.

Mi arrestarono un giorno per le donne ed il vino,


non avevano leggi per punire un blasfemo,
non mi uccise la morte, ma due guardie bigotte,
mi cercarono l’anima a forza di botte.

Perché dissi che Dio imbrogliò il primo uomo,


lo costrinse a viaggiare una vita da scemo,
nel giardino incantato lo costrinse a sognare,
a ignorare che al mondo c’è il bene e c’è il male.

Il blasfemo è un disadattato, è quel soggetto ripudiato dalla


società perbenista perché ritenuto un congenito nemico della
stessa. De André passa la palla dell’emarginazione umana (archi-
tettata dall’insulsa massa) all’altro personaggio irriso dai molti:
Un matto. La ballata folk-rock, ispirata all’epitaffio di Frank
Drummer, che colpevolizza i “normali” di identificare come

Impegno e disincanto
104

“scemo” un uomo incapace di esprimere correttamente i tormenti


del suo inconscio, mira alla rivincita del matto (il titolo completo
è Un matto, dietro ogni scemo c’è un villaggio). Lo chansonnier
dalla sensibilità esorbitante spiega precisamente le intenzioni di
quel vituperato canovaccio musicale: «uno scemo del villaggio,
uno di quei personaggi sui quali la gente scarica, con ignobile iro-
nia, le proprie frustrazioni. E che per invidia degli altri si studiò
a memoria la Treccani; fu chiuso in manicomio, forse perché era
impazzito o forse perché ormai ne sapeva troppo, e agli altri tornò
comodo chiamarlo pazzo116». Ma alla fine dei conti, il denigrato
pazzoide vince la battaglia contro la più cieca ipocrisia, sempli-
cemente perché nutre cristallini sentimenti (non è di certo un
merdoso acchittato). Percorso similare a quello dell’altra effige
deandreana, scuoiata da ingiurie pungenti e bieca solitudine: Un
giudice. «Raccontammo di un uomo alto un metro e mezzo, che
diventa magistrato per sfogare il suo odio verso chi è più alto di
lui117».

Passano gli anni i mesi, e se li conti anche i minuti


è triste trovarsi adulti senza essere cresciuti
la maldicenza insiste, batte la lingua sul tamburo
fino a dire che un nano è una carogna di sicuro
perché ha il cuore troppo, troppo vicino al buco del culo.

Fu nelle notti insonni vegliate al lume del rancore


che preparai gli esami, diventai procuratore
per imboccare la strada che dalle panche di una cattedrale
porta alla sacrestia quindi alla cattedra di un tribunale

Annibale Gagliani
105

Giudice finalmente, arbitro in terra del bene e del male.

E allora la mia statura non dispensò più buonumore


a chi alla sbarra in piedi mi diceva "Vostro Onore"
e di affidarli al boia fu un piacere del tutto mio
prima di genuflettermi nell’ora dell’addio
non conoscendo affatto la statura di Dio.

Il brano è un riadattamento della tragicomica vicenda rac-


contata da Selah Lively nel capolavoro Antologia di Spoon River
di Edgar Lee Masters: un nano che si vendica delle maldicenze ca-
ramellate e delle risate assassine della comune gente. Egli, tra i
luoghi comuni generati dal disagio nei confronti del diverso, di-
venta meschino all’inverosimile, spietato, ultra-vendicativo. Parte
da tale sofferenza l’obiettivo di afferrare uno dei massimi poteri
terreni: la panca da magistrato nel tribunale, giusto per determi-
nare le sorti del volgo da sé. Il sottotitolo della canzone – censu-
rato pleonasticamente – era Dietro ogni giudice c’è un nano,
quasi a sbandierare il rancore primordiale covato da chi può im-
pugnare il destino altrui. La rivincita del pocket man è spiegabile
– se si prendono in esame le ingiurie sorbite nella sua infanzia –
ma d’altro canto, non giustificabile, perché, secondo il cantautore,
«la cattiveria», fusa concettualmente a quell’«arbitrio di asse-
gnare perfino la pena capitale118», non è concepibile in una società
civile.

A causa di questa macroscopica leggerezza, il giudice pic-


colino si ritrova a essere sottoposto al giudizio finale di Dio.
Impegno e disincanto
106

Negli ultimi versi l’arbitro in terra compare dinanzi al Sovrano


dei Cieli, di cui non conosce la statura: non può mai immaginare
di essere punito senza appello. Non basta genuflettersi al suo co-
spetto per garantirsi il perdono, dato che Faber decide di chiudere
il pezzo con una contro-vendetta verso il protagonista: il viso del
«Dio vendicativo, che pretende il sangue di coloro che hanno vio-
lato le norme religiose119», rimane l’immagine più efferata dell’in-
tera narrazione. La ballata è guizzante, ironicamente incisiva,
arrangiata in chiave rock: un’idea armonizzata per materializzare
i fulmini che dal cielo sarebbero caduti sul capo del nano all’ora
del giudizio. Rimane l’assunto allegorico dell’invidia atavica, af-
fiancata alla prova inequivocabile dell’effetto boomerang del po-
tere più incontrollato. De André chiude il suo cerchio artistico
“religioso”, ricordando che Dio non sempre è portatore di pietà e
misericordia: l’espressività dell’opera, miticamente romanzata,
ma diligentemente disincantata, è un’impellente risposta a chi
crede ciecamente il contrario (convinzione diffusa nell’avariato
mondo borghese).

Annibale Gagliani
107

4. Che cos’è questa borghesia?


A spiegarlo è il rovente impiegato

Faber proviene da una famiglia borghese, ma odia tale con-


dizione sociale. Perciò si sente a suo agio nel buio ardente dei car-
ruggi, che gli rimembrano la scuola della strada. Certo, la sua
origine familiare è determinante per fargli comprendere i malanni
– apparentemente insormontabili – della classe in questione.
«La borghesia si può definire in modo filosofico o politico, ma in
fondo che cos’è? È ancora una classe? Per me è una categoria dello
spirito: tutti tirano ad essere felici, a farsi grattare la pancia da un
servo120». Nelle ultime righe FDA espone idee chiare in merito alla
classe dominante: i figli della borghesia (spinti da uno slancio
pseudo-ideologico) trasformano gli anni, che precedono la decade
del Settanta, in una maccheronica parata. Non tutti però, il can-
tautore ci tiene ad affermarlo, ponendosi come portabandiera
della contro-schiera ideale.

A raccontare magistralmente il disagio umano dei giorni


di liberté, egalité et fraternité sarà il musical-romanzo del 1973,
Storia di un impiegato, capolavoro di valore assoluto pubblicato
da Produttoriassociati srl, album acremente sublime nella storia
d’Italia. Nella narrazione discografica, confezionata sinfonica-
mente assieme al fuoriclasse da Oscar, Nicola Piovani, tuonano
brani fulminanti che lasciano uno strascico lunghissimo di pole-
miche, per esempio La bomba in testa e Il bombarolo.

Impegno e disincanto
108

Nel primo infuocato pezzo, un umile impiegato prende co-


scienza, dopo anni di torpore, degli ideali e delle utopie dei gio-
vani del maggio sessantottino. Le proteste di quest’ultimi lo
affascinano, provocandogli un pesante esame di coscienza: si
rende conto della vita «stracarica di conformismi e banalità, di
frasi fatte e luoghi comuni, di duro lavoro e cieca obbedienza121»,
della quale è protagonista, chinando prontamente il capo. L’im-
piegato comprende come tra i protestanti ci siano egocentrici ma-
scherati che pensano al proprio tornaconto e non all’incedere
coerente della rivoluzione. Parte in causa dell’analisi del prota-
gonista sono anche coloro che invece di interessarsi all’utopia ser-
peggiante, rimangono a guardare sulla soglia di un Palazzo sicuro
(casa della morale retrograda). Tali constatazioni veicolano il mo-
desto antieroe verso il solipsismo: diviene un bombarolo assetato
di anarchica giustizia. L’iniziale sfoggio del suo individualismo
sanguinario si ha Al ballo mascherato, dopo essersi definitiva-
mente convinto delle sue azioni nelle onde melodiose de La
bomba in testa, gustoso cocktail tra symphonic rock e progres-
sive pop. L’avvicinamento all’attentato è un imperioso fruscio
pulp nelle vene del ribelle:

E io contavo i denti ai francobolli


dicevo “grazie a Dio”, “buon Natale”
mi sentivo normale
eppure i miei trent’anni
erano pochi più dei loro
ma non importa adesso torno al lavoro.

Annibale Gagliani
109

Cantavano il disordine dei sogni


gli ingrati del benessere francese
e non davan l’idea
di denunciare uomini al balcone
di un solo maggio, di un unico Paese. […]
Ormai sono in ritardo per gli amici
per l’odio potrei farcela da solo
illuminando al tritolo
chi ha la faccia e mostra solo il viso
sempre gradevole, sempre più impreciso.

E l’esplosivo spacca, taglia, fruga


tra gli ospiti di un ballo mascherato,
io mi sono invitato
a rilevar l’impronta
dietro ogni maschera che salta
e a non aver pietà per la mia prima volta.

Il trentenne impiegato, mosso da caotica disperazione e


smanioso di compiere attraverso il fuoco la rivoluzione, diventa
un bombarolo di mestiere, e nell’omonima canzone è oggetto di
indagine psicanalitica. A questo punto il romanzo deandreano si
immola a “satira del terrorismo” degli anni Settanta, con profetico
tocco. Arriva una ballad levare dal ritmo frenetico, che sfavilla sui
sogni rigogliosi dell’attentator: Il bombarolo. Nicola Piovani, du-
rante lo spettacolo La musica è pericolosa, andato in scena al Tea-
tro Verdi di Brindisi il 13 marzo 2017, racconta un segreto
meraviglioso legato alla genesi dell’esplosivo brano. Il motivetto
portante è ispirato ai rintocchi delle campane del convento delle
Impegno e disincanto
110

suore d’Ivrea, che lo stesso compositore ascoltava con trepida-


zione da bambino. Con queste premesse, il capitolo in questione
si erige con un’aura altisonante di ossimori avvincenti. Il terrori-
sta raccontato da Faber non è quello di efferata matrice politica
che avrebbe perseguitato i compromessisti storici, ma un indivi-
dualista che agisce senza dare conto a gruppi strutturati, e che
mette nel mirino gli antirivoluzionari, visti come nemici del reale
ideale. Vuole punire “la società indifferente” con esplosioni ro-
boanti, come quella progettata vicino al Parlamento, che fallisce
miseramente, culminando soltanto nella distruzione di un’edi-
cola. È in cotanto momento che il protagonista viene accecato
dalla solitudine metafisica: la sua fidanzata lo abbandona, dichia-
rando ai giornali di non essere a conoscenza delle sue azioni co-
spirative. L’impiegato scopre personalmente la notizia sul
quotidiano, rimanendo impietrito alla visione della foto della
sfuggente amata.

Per strada tante facce


non hanno un bel colore
qui chi non terrorizza
si ammala di terrore
c’è chi aspetta la pioggia
per non piangere da solo
io sono d’un altro avviso
son bombarolo.

Intellettuali d’oggi
idioti di domani

Annibale Gagliani
111

ridatemi il cervello
che basta alle mie mani
profeti molto acrobati
della rivoluzione
oggi farò da me
senza lezione. […]

C’è chi lo vide ridere


davanti al Parlamento
aspettando l’esplosione
che provasse il suo talento
c’è chi lo vide piangere
un torrente di vocali
vedendo esplodere
un chiosco di giornali

Ma ciò che lo ferì


profondamente nell’orgoglio
fu l’immagine di lei
che si sporgeva da ogni foglio
lontana dal ridicolo
in cui lo lasciò solo
ma in prima pagina
col bombarolo.

Nel colloquiale racconto, frazionato in ottave che alternano


la voce sommersa del narratore all’urlo silenzioso del bombarolo,
è pulsante un sentimento personale che svetta sul tema collettivo.
Il giovane professionista del tritolo subisce l’arresto, e dal cupo

Impegno e disincanto
112

orizzonte della cella scrive per l’ultima volta alla donna che pron-
tamente l’abbandona. Egli è «un antieroe scalcinato o un roman-
tico assai velleitario», schiacciato dal peso atroce della sconfitta,
materializzata nelle sbarre di un destino già marchiato. La fine
del bombarolo e il suo pianto invisibile, non sono altro che il me-
gafono con cui De André decide di condannare politicamente
(con nettissimo anticipo) il terrore degli anni a venire. «Il terro-
rismo è stata la vera esasperazione: il Sessantotto che ho vissuto
io era un’epoca ricca di fantasia e ha fatto del bene122».

La poetica di Faber è soprattutto, e dentro il tutto, catalo-


gabile nell’enunciazione di un potentissimo sostantivo: amore. Il
crescendo narrativo che porta il dissidente anarchico all’interno
di Storia di un impiegato, a osservare con La canzone del maggio
i figli della rivolta parigina, a prendere coscienza della sua inuti-
lità storica in La bomba in testa, tramando una rivincita ideolo-
gica Al ballo mascherato e soccombendo sociologicamente in Il
bombarolo, traghetta l’ascoltatore verso l’indomabile senti-
mento: l’amour. Ad allietare il folgorante album, chiosando le
emozioni attonite dell’impiegato, è la cocente dichiarazione amo-
rosa dello stesso, Verranno a chiederti del nostro amore.

Digli che i tuoi occhi me li han ridati sempre


come fiori regalati a maggio e restituiti in novembre
i tuoi occhi come vuoti a rendere per chi ti ha dato lavoro
i tuoi occhi assunti da tre anni
i tuoi occhi per loro,

Annibale Gagliani
113

ormai buoni per setacciare spiagge con la scusa del corallo


o per buttarsi in un cinema con una pietra al collo
e troppo stanchi per non vergognarsi
di confessarlo nei miei
proprio identici ai tuoi

sono riusciti a cambiarci


ci son riusciti lo sai.

L’innamorato invita colei che gli ha frantumato il cuore a


prendere in pugno la propria vita, cercando di migliorarsi, e per-
ché no, di far rinascere il loro sentimento. Stando ai tumulti insa-
nabili del carcerato, i riflettori dei media stordiscono la giovane
donna, che si concede poi al padrone di turno per un lavoro sicuro.
Egli, nelle sue domande incalzanti, intervallate da metafore che
raffigurano il più vile compromesso umano, cela un grandioso
alone di affetto: la invita a scegliere e non a farsi scegliere, quasi
si preoccupasse del suo tempestoso avvenire. Il titolo originario
della canzone è Lettera a una donna, ispirata a Roberta, fidanzata
di allora di De André. La musica cadenzata, dolorosa, ma so-
gnante, accompagnata alla missiva struggente, avvalora le tesi di
coloro che individuano cenni autobiografici nel pezzo.

Impegno e disincanto
114

5. Parlami d’amore, Faber!

Strano l’amore targato FDA. Decisamente incompiuto e


sanguinario, dolcemente appagante e strampalato. Se ne La bal-
lata del Michè o ne La guerra di Piero, Maria e Ninetta riman-
gono vittime desolate di un lieto fine inesistente, la parabola
distruttiva dell’impiegato deandreano conosce un sentimento
esacerbato dalla polvere delle bombe (e dai compromessi disu-
mani). Ma l’amore sa anche essere cieco e vanitoso, e l’amante
può procombere dentro esso con fido masochismo. È il caso di
un brano macabro immerso nell’album Canzoni del 1974 (edito
da Produttoriassociati), La ballata dell’amore cieco. Un uomo
“onesto”, un uomo “probo”, s’innamora totalmente di un’altez-
zosa donna dalle esigenze madornali. La corteggiata chiede al cor-
teggiatore delle prove d’amore piuttosto ardue, con la fame di chi
emula seccamente Narciso: il cuore della madre per i suoi cani, il
taglio delle vene senza pensiero alcuno e infine la flemmatica
morte. Soltanto ciò, secondo la diabolica pulzella, avrebbe pro-
vato la veridicità del sacro impulso dello spasimante.

Gli disse amor se mi vuoi bene,


tralalalalla tralallaleru
gli disse amor se mi vuoi bene,
tagliati dei polsi le quattro vene. […]

E mentre il sangue lento usciva,


e ormai cambiava il suo colore,
Annibale Gagliani
115

la vanità fredda gioiva,


un uomo s’era ucciso per il suo amore.

Faber dimostra come «la vanità trionfi sugli affetti», im-


ponendosi nell’essere umano con «spudoratezza e cinismo», fa-
vorendo l’incedere della «cecità morale» e del «comportamento
irrazionalistico123». Un ragionamento proiettato verso l’inconscio
all’altezza del classic Freud o del punk Lacan. Il dramma del testo
è sobbalzato sulle pareti dell’emozione da un ritmo jazz allegro ed
effervescente. In differenti quartine appare l’espressione da fila-
strocca popolare, “tralalalalla tralallaleru”, posizionata come se-
condo verso. La scelta della nota di colore onomatopeica è
proposta per attenuare la spietata sete di sangue della femmina
fatale, e per romanzare l’orribile fine del cieco innamorato. Vi
sono correnti di pensiero “maledette” che intravedono l’ispira-
zione faberiana di codesta narrazione nelle liriche À une passante
e Bénédiction di Charles Baudelaire (tratte da Les fleurs du mal);
altri invece identificano i passi tormentati del corpus nei versi di
Cuore di mamma di Jean Richepin.

Ma l’amore di Faber conosce un’altra inespugnabile decli-


nazione: perduto. La fatica discografica Canzoni accoglie una bal-
lata estremamente romantica che scalza l’atmosfera languidamente
terrificante de La ballata dell’amore cieco: La canzone dell’amore
perduto. Dedicata alla sua prima moglie, Enrica Puny Rignon, che
diede alla luce Cristiano, rappresenta il racconto leggiadramente
eufonico della fine della loro intensa relazione. La musica è una
Impegno e disincanto
116

scaltra rielaborazione del settecentesco Adagio dal Concerto in


Re maggiore per tromba, archi e continuo del compositore teu-
tonico Georg Philipp Telemann. Il testo narra delle carezze per-
dute e delle tenerezze esaurite, che illogicamente non svaniranno
mai. In questo caso primattrice non è una delle donne «doloro-
samente incantevoli» o «gioiosamente indimenticabili», che si
palesano con tempra encomiabile nelle chansons deandreane,
formando «le perle di una sfolgorante collana124». Qui la musa da
idolatrare è la sua donna, non più sua.

L’amore che strappa i capelli è perduto ormai,


non resta che qualche svogliata carezza
e un po’ di tenerezza.

E quando ti troverai in mano


quei fiori appassiti al sole
di un aprile ormai lontano,
li rimpiangerai

ma sarà la prima che incontri per strada


che tu coprirai d’oro per un bacio mai dato,
per un amore nuovo.

Un dialogo spalancato che ammira il sentiero dell’amore giunto


al fremente bivio della separazione. L’essenziale analisi degli
amanti è letterariamente lungimirante: la loro divisione regalerà
per sempre tracce sensoriali fortissime. Il colore e il profumo
delle viole – che si confondono con i nobili miraggi – non svanirà

Annibale Gagliani
117

dal cuore, è una promessa non scritta. Cresce nell’ermetico testo


la relativa presa di coscienza (faccia a faccia) dei due protagonisti:
viole e sentimenti appassiscono, fisicamente e mentalmente, ma
rimane per sempre un bene sincero per l’altro. Prima è l’uomo a
redarguire la vecchia compagna su ciò che sarà, poi finisce ella per
esortarlo: continuare ad amare ricoprendo d’oro una nuova
donna-idolo. L’amore passato è inoppugnabilmente perduto, però
l’esistenza continua: ecco il trascinante file noir di ogni impresa
poetica del Faber amoroso.

Impegno e disincanto
118

6. Un Amico fragile tra l’Hotel Supramonte


e Creuza de mä

Nel cuore dell’album Canzoni, emergono con deliziosa di-


sarmonia gli echi della landa più importante per il cantautorato
FDA: i carruggi. «A me pare che Genova abbia la faccia di tutti i
poveri diavoli che ho conosciuto nei suoi carruggi […] per la
prima volta nelle riserve della città vecchia125». È la circostanziata
canzone La città vecchia, ispirata all’omonima lirica di Umberto
Saba, a prendersi carico del destino nefasto dei Genovesi “sven-
turati”, prostrati davanti al giudizio feroce dei benpensanti.

Nei quartieri dove il sole del buon Dio


non dà i suoi raggi
ha già troppi impegni per scaldar la gente
d’altri paraggi,
una bimba canta la canzone antica
della donnaccia
quel che ancor non sai tu lo imparerai
solo qui tra le mie braccia.

De André scrive il brano a ventidue anni, dimostrando di


avere già allora “poche idee, ma in compenso fisse”. Egli non ri-
cerca il merito nelle virtù e d’altro canto non solleva colpe sugli
errori umani: è semplicemente lo chansonnier degli ultimi, delle
anime emarginate. Già dalla prima strofa si può osservare i rug-
genti «quadretti del tran tran quotidiano in un quartiere popolare
Annibale Gagliani
119

del centro storico126». La canzoncina antica della “donnaccia” in


bocca alla bambina è un ossimoro che punta a purificare ideal-
mente l’immagine controversa della “pubblica moglie”. Traspare,
come in Bocca di rosa, un sentimento di pietà autentica verso le
vittime trasparenti della società borghese, divorate dal perbeni-
smo ipocrita che aleggia nella spirale cannibale della storia. Tutte
le contraddizioni della classe benestante si riversano nell’atto di
un professore moralista, che di nascosto va nei carruggi a ricercare
i piaceri della carne. Faber è sagacemente scettico nei confronti
della giustizia terrena: i poveri, che “il sole del buon Dio non illu-
mina”, si riprendono – compiendo reati – ciò che la vita e la so-
cietà nega loro. Perciò, «non esiste ladro o assassino che FDA non
assolva per partito preso, in base alla visione anarchica del
mondo, s’intende, ma anche per una vissuta, sperimentata e col-
tivata solidarietà a chi vive fuori dal branco127». In questo moto di
“anti-giustizia”, stagliato negli ultimissimi versi di La città vec-
chia, appare con ficcante ironia l’associazione “figli-gigli”, ispirata
al portamento piccante della Donna del Paradiso di Jacopone da
Todi. La ballata, dal ridente sapore casareccio, è costruita da una
piccola orchestra, con un clarinetto e un banjo country-folk a pro-
porre assoli euritmici, e una chitarra acustica accompagna il testo
nel ritmo cadenzato. Resta chiaro, a tutti i Genovesi, che la zona
specifica narrata dal cantautore maledetto è quella dell’angiporto,
«con tutta la fauna umana che lo popolava vivacemente», formata
«dai ladri agli assassini fino agli approfittatori senza scrupoli128».

Impegno e disincanto
120

Nel 1975 arriva un pargolo discografico con il quale De


André «dimostra la volontà di superare radicalmente gli schemi
consueti129», narrando sempre con lucida ironia, Volume 8 (pub-
blicato da Produttoriassociati). La canzone simbolo di questa
prima svolta poetica, in cui l’autore sperimenta nuove strutture
espressive, è Amico fragile. Il pezzo è un’implicita decostruzione
dell’élite borghese, animata da frivole e squallide ricreazioni. «Il
Cantautore offre una sorta di autoritratto carico di inquietudini
e sofferenze esponendosi a una dura autocritica esistenziale130».
La visione malinconica e reazionaria che il poeta matura nei con-
fronti degli ambienti sfarzosi, lo emargina culturalmente. Egli si
ritrova a frequentarli e ad appurare che sono fini a se stessi, non-
ché menefreghisti del sociale. Il testo nasce probabilmente da una
presa di coscienza rabbiosa, racchiusa nella forte ubriacatura
della notte: «Stavo ancora con la Puny [...] e una sera che era-
vamo a Portobello di Gallura, dove avevamo una casa, fummo in-
vitati in uno di questi ghetti per ricchi della costa del Nord131».

Evaporato in una nuvola rossa


in una delle molte feritoie della notte
con un bisogno di attenzione e d’amore
troppo «Se mi vuoi bene, piangi»
per essere corrisposti;
valeva la pena divertirvi le serate estive
con un semplicissimo «mi ricordo»:
per osservarvi affittare un chilo d’erba
ai contadini in pensione e alle loro donne
e per regalare a piene mai oceani

Annibale Gagliani
121

ed altre ed altre onde ai marinai in servizio,


fino a scoprire ad uno ad uno i vostri nascondigli
senza rimpiangere la mia credulità:
perché già dalla prima trincea
ero più curioso di voi,
ero molto più curioso di voi.

FDA sferra un pezzo privo di coerenza semantica tra verbi


e complementi, senza presupposti logici, insolitamente criptico,
che produce immagini fiocamente sibilline. Una parodia dei temi
dell’incomunicabilità, con “luoghi comuni bestiali” a dominare la
scena personale: sarcasmo coerente e liberi «calembours132» col-
legano l’opera al surrealismo francese di Jacques Prévert, celebre
per la sintassi sapientemente squassata e l’accostamento inopi-
nato di mots et chose. Segni rabbiosi che spaesando l’ascoltatore,
rimandano a qualcos’altro, ossia alle emozioni veritiere vissute da
chi scrive. I piani linguistici, distinti e sovrapposti, vengono ac-
compagnati da un arpeggio di chitarra acustica infernale, ma so-
gnante. L’atmosfera musicale ricorda il sound raffinato di
Leonard Cohen e avalla un connubio contrastante tra gli affondi
offensivi – espressi informalmente – e il lirismo mimetico che sor-
regge l’intelaiatura dei clichés esposti. Questi ultimi colpiscono
direttamente le pessime abitudini sociali dei vip della Sardegna
peggiore.

Le innovazioni testuali e di tecnica strumentale presentate


in Volume 8 hanno un migliore dispiegamento nel successivo
album, Rimini, del 1978 (edito dalla Dischi Ricordi s.p.A.). La bal-
Impegno e disincanto
122

lata popolare Volta la carta, ispirata alla concezione dei tarocchi,


la storia “a doppio senso” dell’indiano di Coda di lupo, e l’omag-
gio nonsense alla tragica nave London Valour – con il brano Par-
lando del naufragio del London Valour – elevano notevolmente
la cifra stilistica del cantautore dei carruggi. L’obiettivo è quello
di evidenziare la voglia di comunicabilità presagita, attraverso
un’esasperazione del simbolismo originario, che eruttava rego-
larmente nella sua crusoeiana isola interiore.

Ma il 27 agosto del 1979, un evento orripilante cambia per


sempre la vita di FDA, paradossalmente migliorandone il futuro
impatto poetico e accrescendone la statura umana. Alle ventuno
e trenta un uomo incappucciato e armato di pistola fa irruzione
nella tenuta di Tempio Pausania dell’artista (in provincia di
Olbia). Il bandito rapisce Faber e la sua compagna Dori Ghezzi,
portandoli con la Dyane di casa De André in una grotta tra
Oschiri, Pattada e Buddusò. Quella prigione inattesa, improvvi-
sata nel bel mezzo della flora sarda, diviene per quasi quattro
mesi un luogo di incubo e redenzione, che i sequestrati trasfor-
mano in arte purissima. Dopo il rilascio, avvenuto a pochi giorni
dal Natale dello stesso anno, i due cantanti tornano a Villa Para-
diso (Genova), ereditando dall’incredibile esperienza profondi
scossoni all’anima133. Nasce poco dopo la narrazione fenomenale
di quei momenti di rispettosa e sanguinante prigionia, Hotel Su-
pramonte.

E se vai all’Hotel Supramonte e guardi il cielo


tu vedrai una donna in fiamme e un uomo solo
Annibale Gagliani
123

e una lettera vera di notte, falsa di giorno


e poi scuse e accuse e scuse senza ritorno […]

Grazie al cielo ho una bocca per bere e non è facile


grazie a te ho una barca da scrivere, ho un treno da perdere
e un invito all’Hotel Supramonte dove ho visto la neve
sul tuo corpo così dolce di fame, così dolce di sete
passerà anche questa stazione senza far male
passerà questa pioggia sottile come passa il dolore
ma dove, dov’è il tuo amore? Ma dove, è finito il tuo amore?

Un amore indivisibile, una complicità di sguardi, di silenzi,


che reggendo il dolore regalano gocce di vita agli amanti legati. La
metafisica presa di coscienza dei criminosi eventi subiti fa sussur-
rare a Faber – dall’interno più sofferente del cuore – le parole
nude di lui e Dori, intrise di sensazioni soffocanti per l’ascoltatore
e i rapitori. Il brano, volutamente privo di introduzione, pone il
cantautore in un discorso diretto con chi ci si immerge dentro. La
dolcezza ottimista, il clima minimal e la discrezione dell’amal-
gama testo-musica rappresentano una carezza di speranza che at-
tenua le paure della compagna di venture (e in tal caso sventure).
A distanza di qualche anno dal tremendo fatto, FDA confessa pub-
blicamente lo stupore e la velata determinazione che si prova in
una cella “naturale”, ribattezzata elegantemente, Hotel Supra-
monte. «Ho vissuto il rapimento con un’enorme curiosità. Come
un film o un romanzo di cui purtroppo ero protagonista. Ma mi
incuriosiva vedere come andava a finire, che cosa succedeva di
giorno in giorno134».

Impegno e disincanto
124

Tale esperienza trascendentale, dai contorni dannata-


mente roboanti, appare nell’album del 1981, segnato da un nome
evocativo, L’Indiano (pubblicato con Dischi Ricordi s.p.A.). Al-
l’interno dell’insolito lavoro, spiccano canzoni di indomito impe-
gno civile e di romantico dolore: Fiume Sand Creek e Se ti
tagliassero a pezzetti, per esempio. L’attività artistica di Fabrizio
De André è ormai indirizzata verso un progetto ambizioso, che
gli offre una fonte di evasione tradizionale e rivoluzionaria. Nel
1984 vede la luce il capolavoro incontrastato della sua produzione
musicale: Creuza de mä (edito sempre da Dischi Ricordi s.p.A.).
Nell’album in questione ritroviamo un ponte culturale con quelli
che furono gli studi linguistici di Pier Paolo Pasolini. Faber rivi-
talizza la portata poetica del dialetto genovese, lucidandone il leg-
gendario armamentario di favole popolari. «Io dovevo scrivere
delle parole che rispecchiassero letterariamente, perché sono
sempre versi per canzoni, quello che è il mondo del Mediterraneo.
Credo che il genovese sia tra gli idiomi neolatini quello che ha più
importazione di fonemi arabi, che coinvolgono quindi tutto il Me-
diterraneo135».

L’impalcatura sonora del multiculturale disco è a cura di


un indiscutibile talento della buona musica italiana: Mauro Pa-
gani. Egli spiega così – accoratamente – l’idea di fondo che inca-
stona le tracce del castello certosino:

Il mio riferimento non era la musica greca, bensì quella turca


che è andata in giro per centinaia di anni per tutto il Mediterraneo e
anche per tutta la penisola balcanica seminando bastardi. […] Ed ecco
Annibale Gagliani
125

allora la musica rumena, la musica bulgara, che rappresentano, secondo


me, il punto più alto della musica etnica. Non a caso la musica balcanica
presenta una complessità, una ricchezza armonica e di tempi rispetto a
quella di altre zone... tra l’altro, proprio lì tutti i compositori classici
dalla fine del Settecento sino al Novecento, hanno tratto ispirazione, ar-
ricchendo la musica centroeuropea136.

Creuza de mä diviene un album esemplare per la discogra-


fia nazionale e internazionale, grazie alla mescolanza di strumenti
etnici a quelli canonici, con l’inserimento efficace di novizie stru-
mentali come il synclavier e il synth (sintetizzatori e campionatori
del suono). Poi il connubio spettacolare tra volgare genovese ed
echi suadenti del Mediterraneo, porta innumerevoli riconosci-
menti all’avanguardistico disco: miglior album nell’undicesima
edizione del Club Tenco; migliore copertina al Salone internazio-
nale della musica di Milano; miglior disco della categoria leggera
e della categoria rock per la temutissima rivista di critica musicale
«Musica e dischi»137.

Secondo il professore Stefano Moscadelli – colonna por-


tante del Centro Studi FDA dell’Università di Siena – Faber, par-
tito da testi giovanili, «vicini a una linea fortemente debitrice a
quanto veniva dalla tradizione francese», passato dalle ballate
d’amore, costruite in «situazioni “paradossali”», «”graffianti” o
critiche per il costume borghese», arriva finalmente a definire una
«linea più personale e tendenzialmente più colta». Le suggestioni
donategli da una società in continuo cambiamento lo portano a
evolversi testualmente. Creuza de mä «rappresenta anche un ten-
Impegno e disincanto
126

tativo, forse insuperato, d’invenzione linguistica, cioè la creazione


di un sistema di comunicazione coerente con un esperimento –
che molto deve a Mauro Pagani – di apertura verso la cultura me-
diterranea». Moscadelli osserva con arguzia che «l’intuizione di
servirsi di una lingua “genovese” tramite la quale esprimersi», ri-
sulta, ancor di più nei giorni nostri, «davvero geniale». L’aspetto
scientificamente straordinario – su cui si sofferma altresì l’italia-
nista Marianna Marrucci – è quello «della capacità di De André
di traghettare nel contesto artistico della canzone temi, sugge-
stioni e spunti che provenivano dalla letteratura alta», ponendosi
come un vero e proprio «divulgatore» o «mediatore138», più che
un disadorno cantastorie.

La canzone che dà il nome all’intera opera di eccellenza


discografica è, naturalmente, Creuza de mä, ambivalente meta-
fora della navigazione marittima che si ripercuote sulla vita
umana:

Umbre de muri muri de mainé


dunde ne vegnì duve l’è ch'ané
da ‘n scitu duve a l’ûn-a a se muestra nûa
e a neutte a n’à puntou u cutellu ä gua
e a muntä l’àse gh’è restou Diu
u Diàu l’è in çë e u s’è gh’è faetu u nìu.

Ombre di facce facce di marinai


da dove venite dov’è che andate
da un posto dove la luna si mostra nuda

Annibale Gagliani
127

e la notte ci ha puntato il coltello alla gola


e a montare l’asino c’è rimasto Dio
il Diavolo è in cielo e ci si è fatto il nido.

“Creuza de mä”, in volgare ligure “crosa di mare”, o per me-


glio dire, “mulattiera” (piccola via battuta da umili carovane, che
in questo caso porta verso le onde dell’azzurro). I protagonisti
sono i marinai, che di ritorno dal loro eterno viaggio, contemplano
sulle seggiole della Taverna dell’Andrea le rarefatte immagini
delle colline, sulle quali dorme scintillante l’erotica luna genovese.
Ci troviamo dinanzi a «un’apologia della povera gente in lotta con
il destino», nella quale «chi è costretto a navigare, deve imparare
per sopravvivere». Il brano, invaso dai palpiti strepitanti delle so-
norità mediorientali e accecato da uno spirito internazionale
senza precedenti nel mercato italiano, è formato da un’ottava e
tre sestine, dentro cui spiccano tre momenti particolari: il verso
“frè di ganeuffei e dè figge'” (un implicito riferimento alla classe
politica contemporanea); il menù della taverna (ispirato alla poe-
sia Osteria del Bay di Remo Borzini); il finale – setosamente sob-
balzante – cantato in re maggiore dalla pescivendola Caterina. I
titoli di coda riporteranno nel Mare Nostrum i protagonisti, ab-
bracciando festosamente quella miseria sconosciuta per l’élite
borghese, ma che sotto i soffusi bagliori della lanterna, rappre-
senta un’intramontabile ricchezza «in balia degli eventi139».

Impegno e disincanto
128

7. Passano Le nuvole sulle Anime salve:


parodia apocalittica della borghese storia contemporanea

La volontà di sperimentare stili differenti, ma di rimanere


ideologicamente il De André dei vent’anni, si manifesta con mag-
giore forza nel successivo album del 1990, Le nuvole (edito da Di-
schi Ricordi s.p.A.). In tale sede, «confluiscono, rinnovandosi,
tutte le sperimentazioni linguistiche del passato140». Sono poeti-
camente al vetriolo, nei confronti della mala-società politica, can-
zoni come Le nuvole, Ottocento e la debordante La domenica
delle salme. Completamente spiazzante è, invece, la scelta arti-
stica intrapresa nel pezzo Don Raffaè: la scrittura in volgare na-
poletano per il racconto di una vicenda che fece tremare persino
il Vesuvio. Perché questa rischiosissima decisione? Ormai la lin-
gua italiana è vista da Faber come bieca espressione del potere
vigente, parafrasando le accuse pasoliniane verso la lingua con-
sumistica. Non a caso il lato A del disco è presentato in italiano,
con l’allegoria delle “nuvole” a farla da padrone, mentre quello B
è proposto con idiomi dialettali (genovese e napoletano), che raf-
figurano i veri sentimenti del popolo sfruttato. I due modi di rac-
contare coesistono, ma non si incontrano, poiché «quando mai il
potere si è preoccupato di comprendere il popolo?141». Ritor-
nando, dunque, a Don Raffaè, la canzone è una denuncia soleg-
giata contro la complicatissima situazione delle carceri italiane
degli anni Ottanta.

Annibale Gagliani
129

Io mi chiamo Pasquale Cafiero


e son brigadiero del carcere oinè
io mi chiamo Cafiero Pasquale
sto a Poggioreale dal ’53
e al centesimo catenaccio
alla sera mi sento uno straccio
per fortuna che al braccio speciale
c’è un uomo geniale che parla co’mme.
Tutto il giorno con quattro infamoni,
briganti, papponi, cornuti e lacchè
tutte ll’ore co’ ‘sta fetenzia
che sputa minaccia e s’à piglia co’ mme
ma alla fine m’assetto papale
mi sbottono e mi leggo ‘o ggiurnale
mi consiglio con don Raffaè
mi spiega che penso e bevimm’ ‘o ccafè.
Ah, che bellu ccafè
pure ‘n carcere ‘o sanno fa’
co’ à recetta ch’a Cicirinella
compagno di cella ci ha dato mammà.

Le comuni azioni da brigadiere di Pasquale Cafiero, che tra


la chiusura di una cella speciale e un portentoso caffè, lo fanno di-
stinguere come il secondino più furbo di Poggioreale. Strano che
durante l’ascolto della narrazione a cadere dalle Nuvole siano pro-
prio i professionisti della Difesa. Le contraddizioni drastiche dello
Stato, che “s’indigna” e “si impegna” contro la malavita organiz-
zata, sono incise nei versi fluenti con teatrale nonchalance. Il se-
condino lacchè, senza alcun ripensamento, si piega al volere del
Impegno e disincanto
130

boss recluso, Don Raffaè, personaggio ispirato al capo della


Nuova Camorra, Salvatore Cutolo.

L’intento della corrotta guardia è quello di avere avanza-


menti di carriera, una casa più grande, un posto di lavoro per il
fratello e addirittura un soprabito da utilizzare a un matrimonio.
Pertanto diventa un fido collaboratore del don, migliorandone le
condizioni di detenzione e presentandosi come una sorta di brac-
cio destro dello stesso. Don Raffaè è un omaggio brillante alla
Commedia dell’arte di Eduardo De Filippo e, in particolare, al-
l’opera Il sindaco del rione sanità. La melodia, ideata da Faber e
Mauro Pagani, è composta da una marcetta che si trasforma in
ballata, raccogliendo altresì le trascinanti sonorità della tarantella
napoletana. Il ritornello rappresenta una citazione dotta della
canzone O ccafè di Domenico Modugno, mentre il corpo restante
del testo, scritto in un napoletano stimabile, è stato supervisio-
nato dal cantautore partenopeo Roberto Murolo. Dietro al j’ac-
cuse del mandolino – e al suo clamoroso seguito – si nasconde
un retroscena altisonante: Raffaele Cutolo, «meravigliato per
come il testo riesca a capire e a narrare molto realisticamente sia
i diversi segni del proprio carattere sia la monotona vita carcera-
ria» scrive una lettera a FDA; il cantautore dei carruggi «risponde
alla missiva di Cutolo e lo ringrazia, ma evita in seguito di perpe-
tuare un carteggio con lui142».

All'interno dell’album Le nuvole, pulsa uno dei brani più


discussi e affascinanti del poeta multietnico, La domenica delle

Annibale Gagliani
131

salme. La canzone è una parodia shoccante della Domenica delle


Palme, giorno che apre le porte alla settimana cruciale per la sal-
vezza dell’uomo cattolico. Il nuovo ingresso di Cristo nella città
del giudizio universale sancisce grottescamente il trionfo «dell’ef-
fimero e del capitale», con una persecuzione sistematica dei non
adepti all’iper-consumo, «inseguiti, braccati o sfruttati», che ri-
cordano i cristiani perseguitati nella Settimana Santa. «Nel clima
post-atomico e funerario143» delle terrificanti festività, l’unico ap-
piglio verso la salvezza esistenziale è il rifiuto, con l’annessa ri-
cerca, di un nascondiglio sicuro.

La scimmia del quarto Reich


ballava la polka sopra il muro
e mentre si arrampicava
le abbiamo visto tutti il culo
la piramide di Cheope
volle essere ricostruita in quel giorno di festa
masso per masso
schiavo per schiavo
comunista per comunista […]

il ministro dei temporali


in un tripudio di tromboni
auspicava democrazia
con la tovaglia sulle mani e le mani sui coglioni.

Un clamoroso mosaico della crisi irreversibile di una so-

Impegno e disincanto
132

cietà in preda al «dominio del capitalismo», foraggiato «dal ri-


chiamo all’opulenza e allo sfruttamento del mondo occidentale
(soprattutto della Germania) nei confronti dell’est europeo».
Questa società, analizzata asetticamente dal Faber più nichilista
di sempre, ha perso volutamente la memoria, abbandonandosi al
velenoso spettacolo dell’apparenza più cinica. Il cantautore in-
voca “la stagione dell'impegno”, una ligia “tensione morale”, per-
sonificata da Renato Curcio: poeta e carbonaro, leader delle
Brigate Rosse, prigioniero politico senza aver commesso omicidi
diretti. L’amputazione della gamba di quest’ultimo alluderebbe
alla figura di Arthur Rimbaud, anche lui ritenuto a suo tempo “ar-
tista vecchio e fuori moda”; altre correnti di pensiero ricollegano
“l’amputazione simbolica” all’eroica figura risorgimentale di Pie-
tro Maroncelli (che perse la gamba destra al culmine di un’acer-
rima battaglia). Più avanti si scorge il ritratto della classe politica,
incarnato nelle mani meschine del “ministro dei temporali”, che
si serve del «politichese con la volgarità e la superstizione» di chi,
in un clima di violenza totale, promulga «l’imperativo del diver-
timento a ogni costo144». Nell’atto aurorale ritroviamo una cita-
zione dotta tanto cara a FDA, “Baffi di Sego”, riferimento al
valoroso gendarme austriaco, protagonista di una grandiosa sa-
tira del poeta Giuseppe Giusti.

La domenica delle salme


nessuno si fece male
tutti a seguire il feretro
del defunto ideale
la domenica delle salme
Annibale Gagliani
133

si sentiva cantare
-quant’è bella giovinezza
non vogliano più invecchiare-

De André si serve del verso libero, il suo classico vitupe-


rium, per redarguire speditamente il mondo che si lancia a peso
morto nel Duemila. Cita Lorenzo de’ Medici nel passo d’umani-
stico ardor, “quant’è bella giovinezza, non vogliamo più invec-
chiare”, e ridicolizza gli schiavi del capitalismo con uno stile
innovativo che supera i tradizionali canoni cantautorali italiani.
La parodia della contemporanea società viene espressa «attra-
verso la mediazione dei capisaldi della storia umana rivisitati in
funzione simbolica», vedi “la piramide di Cheope”, “gli ultimi
viandanti si ritirarono nelle catacombe” e “la scimmia del quarto
Reich”. Il poeta dei carruggi «corrode il potere dei mass-media
troppo sfruttati145», puntando l’indice verso le attività di stordi-
mento della moda (la creazione del termine “palastilisti” è un ri-
ferimento alla struttura milanese Palatrussardi), e non
risparmiando nemmeno i colleghi “fighetti”, con un deciso ri-
mando a tutti gli artisti che organizzano profumati concerti per la
salvaguardia dell’ambiente. Nel testo copiosamente disperato, in-
dirizzato da Faber a un popolo in overdose di lingua del potere, si
evince l’ascesa di una democrazia non democratica, che approfitta
della crisi di valori e dello sbando sociale per crescere senza mi-
sura. Nell’abbagliante crescendo ritroviamo anche piccole e im-
perturbabili citazioni di opere prode: Sant’Ambrogio di Giuseppe
Giusti, Le mie prigioni di Silvio Pellico e Serafino Ponte Grande
Impegno e disincanto
134

di Oswald de Andrade. Dentro l’accompagnamento musicale –


pieno di suspense e fragore –, appaiono una chitarra, un violino,
un kazoo (fiato di origine africana), una sirena da cuore in gola e
un rasserenante canto di cicale. La mescolanza sonora è esal-
tante: dà la carica migliore per il lancio di profezie angosciose.
Come quella sulla “Battigia di Milano”, ricollegabile alle cronache
di Tangentopoli. Lo scenario del critico mosaico – confuso tra i
semafori occupati dai lavavetri polacchi, i mercatini, le prostitute
e il traffico di saponette per l’Europa orientale (ancora comuni-
sta) – si abbandona agli ologrammi violenti di un simbolismo
erudito, con cui FDA intende colpire il sistema disgustoso146. «Voi
avete voci potenti, lingue alleate a battere il tamburo, voi avete
voci potenti, adatte per il vaffanculo»; ecco i versi liberatori che
il cantautore anti-potere non ha alcun timore di sdoganare in
plein air. Nel suddetto caso il turpiloquio lascia spazio al brivido
doloroso che trapassa cellulosa e calamaio. De André è netta-
mente combattuto e racconta con parole dissanguate le anarchi-
che intenzioni de La domenica delle salme:

Democrazia formale e invece si sta scoprendo che è un’oligar-


chia. Lo sapevano tutti, però nessuno si peritava di dirlo. È una canzone
disperata di persone che credevano di poter vivere almeno una demo-
crazia e si sono accorte che questa democrazia non esisteva più […].
Era tutto quello che avevo dentro, e che sentivo di dover dire. È una
canzone un po’ rabberciata, perché la musica la abbiamo scritta dopo,
la abbiamo cucita sopra il testo, e si sente. L’ho scritta in modo piuttosto
colto147.

Annibale Gagliani
135

L’ultimo album dell’angelo dei carruggi arriva nel 1996,


anche questo un lavoro di rara bellezza, Anime salve, confezionato
assieme a Ivano Fossati e pubblicato con BGM Ricordi. Secondo
il professore Stefano Moscardelli, le canzoni del canto del cigno
sono «molto più ispirate a una "condizione autobiografica"», con
la finalità di «raggiungere una utopica "salvezza"», restando «in
un contesto musicale, impresso da quel grande artista che fu Piero
Milesi, che dà risalto alla limpidezza testuale del De André ma-
turo148». Anime Salve è l’incontaminata espressione di uno spirito
sempre fuori dal coro, ma che chiude a chiave in un cassetto il «fu-
rore apocalittico149». Tre brani, incredibilmente agli antipodi,
squarciano la copertina del disco per la loro portata socialmente
travolgente: Prinçesa, Dolcenera e Disamistade.

Prinçesa, la principessa disincantata di Faber. Narrazione


ispirata all’omonimo libro autobiografico, scritto dal trans brasi-
liano Fernanda Farias De Albuquerque, che abbandona il suo pae-
sino rurale trasferendosi a Bahia con il sogno di diventare donna.
Il tema dell’omosessualità accende la creatività dello chansonnier
genovese: Fernandinho, nella penombra della casa natale, imma-
gina dinanzi allo specchio le tanto desiderate sembianze femmi-
nili. Nel pezzo dal sapore carioca, verace e affettuoso al tempo
stesso, si ritrovano «l’ambivalenza» e «la duplicità dell’essere150»
di un primattore intento a morire per poter rinascere come Fer-
nanda. Il percorso di metamorfosi sarà amarissimo: la prostitu-
zione per sopravvivere ai raggi raccapriccianti di Bahia, la paura
soffocante del bisturi in sala operatoria e infine la catarsi del

Impegno e disincanto
136

primo amore con un avvocato di Milano. La musica accompagna


limpidamente l’evoluzione narrativa con un mix di sound latino
ed escalation tra tonalità minori e maggiori; intensi sono gli echi
in lingua portoghese di scuola Sergio Mendes, da cui FDA attinge
sapientemente. Quanto alla trasformazione fisica e sociale della
protagonista, il cantautore afferma con razionale orgoglio: «Il
meglio della cultura viene sollecitato da persone che si trovano
in minoranza e che proprio per i loro doni vengono emarginate e
all’occorrenza perseguitate151».

Sono la pecora, sono la vacca


che agli animali si vuol giocare
sono la femmina camicia aperta
piccole tette da succhiare. […]

“Che Fernandinho è come una figlia


mi porta a letto caffè e tapioca
e a ricordargli che è nato maschio
sarà l’istinto, sarà la vita”

e io davanti allo specchio grande


mi paro gli occhi con le dita
a immaginarmi tra le gambe
una minuscola fica.

Ottobre 1972, Genova viene dilaniata da un’improvvisa al-


luvione. Un uomo perdutamente innamorato, bloccato dal fango
incontenibile, non può raggiungere i baci della sua amante se-
greta, la moglie di Anselmo. Una sfortuna travolgente quella degli
Annibale Gagliani
137

amanti, simboleggiata dal potere insindacabile di Madre Natura,


Dolcenera, carnefice del proibito sentimento. Il mellifluo brano,
variegato linguisticamente e avvolto da una melodia jazz interval-
lata da tambureggianti cori dialettali, si dispiega su tre atti narra-
tivi: l’alluvione, l’amore proibito e la distruzione del tiranno
naturale. “L’ansia di perdersi” di due cuori ribelli, durante le la-
crime scure dei tragici eventi, è garanzia di paradossale unione
eterna. Nella narrazione «pulsano però gli umori della vita», l’in-
treccio di splendore e verità che racchiude il senso spaesato di
«sogno e realtà152». L’irruenza dell’acqua crea il caos, dividendo
fisicamente i protagonisti, ma alla fine, come sempre, l’esistenza
riprende a scorrere quando la furia di madre natura decide di pla-
carsi.

Oltre il muro dei vetri si risveglia la vita


che si prende per mano
a battaglia finita
come fa questo amore che dall’ansia di perdersi
ha avuto in un giorno la certezza di aversi.
Acqua che ha fatto sera che adesso si ritira
bassa sfila tra la gente come un innocente che non c’entra niente
fredda come un dolore, Dolcenera senza cuore […]
E la moglie di Anselmo sente l’acqua che scende
dai vestiti incollati da ogni gelo di pelle
nel suo tram scollegato da ogni distanza
nel bel mezzo del tempo che adesso le avanza
così fu quell’amore dal mancato finale
così splendido e vero da potervi ingannare.
Impegno e disincanto
138

Arriviamo a Disamistade, titolone che in dialetto sardo in-


dica “l’inimicizia”, nel senso della lotta intestina, della faida san-
guinaria. «Ed è proprio dall’antinomica "disamistade" che
traggono la propria origine quell’elogio della solitudine e quel-
l’inno all’isolamento che sono il tema di tutte le canzoni dell’al-
bum [Anime Salve]153». Fabrizio De André spiega così l’idea
originaria di una storia che ricalca le tipiche “disfide” tra clan
dell’Italia preindustriale. Questioni di onore leso o mancate pro-
messe, ecco il perché della guerra esplosa tra le due famiglie af-
famate di carne umana. La vicenda parla con gli occhi degli
innocenti, che tremanti e senza fiato, implorano l’intervento della
Chiesa, sorda e immobile di fronte agli omicidi commessi per
“onore”. Il cantautore dei carruggi domanda con tutte le sue forze
– su un sottofondo che ricorda il sound delle origini, seppur con
orchestrazioni etnicheggianti – quale possa essere la via utile per
sfuggire all’assordante indifferenza. La fase albeggiante del pezzo
è una dolente parafrasi del silente orrore nutrito dalla parte sana
della comunità. I soggetti chiamati in causa ricordano, per l’in-
credibile stato di abbandono, coloro che dispersero rugiade atroci
dentro le arterie tumefatte di una Sicilia desolata, sfregiata al
volto dalle stragi di mafia:

Che ci fanno queste anime


davanti alla chiesa
questa gente divisa
questa storia sospesa

Annibale Gagliani
139

a misura di braccio
a distanza di offesa
che alla pace si pensa
che la pace si sfiora

due famiglie disarmate di sangue


si schierano a resa
e per tutti il dolore degli altri
è dolore a metà.

La giudiziosa chiosa sulla produzione artistica, filosofica e


umana del poeta dei carruggi, è giusto farla spendere a un suo va-
loroso fratello, che nutre gli stessi valori esistenziali, con gli an-
nessi tumulti interiori, don Andrea Gallo. «La vita come Servizio,
non importa se chi mi implora e tende la mano, per gli altri, è un
assassino o una persona "per bene"! […] La scelta di Fabrizio non
accetta etichette, non è mai ideologica. Fabrizio è modestamente
un anarchico, perché l’Anarchia, prima ancora che una apparte-
nenza, è un modo di essere. Chi sceglie un’ideologia, può anche
sbagliare... chi sceglie i poveracci, i senza voce, i fragili, come
uomo, non sbaglia mai154».

Faber lascia fisicamente il mondo terreno l’11 gennaio


1999, a Milano. La sua voce – melodiosamente frenetica – rap-
presenta per larghi tratti la trasposizione del pensiero pasoliniano
nel cantautorato. Un’altra figura dall’arte inafferrabile, che resiste

Impegno e disincanto
140

sotto il tetro intonaco dell’Italia consumante e consumata, è nata


proprio nel capoluogo lombardo: il Signor G. Il passaggio di te-
stimone tra il carisma culturale di De André e quello altrettanto
stratosferico di Gaber è concettualmente strabiliante.

Annibale Gagliani
141

Capitolo 3
Gaber – Fenomenologia dionisiaca del Teatro Canzone:
un filosofo prestato al cantautorato

1. Dalla polvere del cabaret


alle vibrazioni di una “vera chitarra”

Ma cos’è davvero la cultura? Credo sia una chiave per capire me-
glio quello che siamo. Deve essere circondata di silenzio. È impossibile
che su problemi di qualsiasi tipo, di qualsiasi ordine, ognuno dica im-
punemente la sua e valgano le opinioni di tutti. Questa è una grande
partecipazione della gente, incoraggiata fin dall’inizio dalle radio libere
quando partirono a «microfono aperto». Per me il microfono deve es-
sere chiuso, e si lascino parlare le persone che ne hanno titolo e qualità.
Questo falso senso democratico mi infastidisce moltissimo155.
G. G.

Giorgio Gaberscik vede la luce il 25 gennaio del 1939, al ci-


vico 28 di via Londonio, in una Milano dai contorni futuristi, pros-
sima ad accogliere il secondo cancro mondiale. Durante l’infanzia
è un ragazzino vispo, irrefrenabile, dalla sensibilità fuori dal co-
mune. Si diploma in ragioneria e frequenta l’Università Bocconi
pagandosi gli studi con l’arte. Esordisce in età adolescenziale
come chitarrista jazz del gruppo Ghigo e gli arrabbiati. Il suc-
cesso sorprendente al Festival del Jazz del 1954 convince il mol-
leggiato, Adriano Celentano, ad accogliere Gaberscik dentro i
sogni affusolati della sua rampante band, i Rock boys. Nell’afa vel-
Impegno e disincanto
142

lutata dell’estate del 1958, il rampante Giorgio parte per i lumi


della lanterna.
A Genova stringe una segnante amicizia con Luigi Tenco, diven-
tando il fiore all’occhiello del gruppo Rocky Mountains, con cui
comincia anche a cantare.

Però, tra le pieghe dell’anima da jazzista, si insinua un


tarlo da urlo: ama fin da subito misurarsi “fisicamente” con il
pubblico. Perciò, assieme a Enzo Jannacci – conosciuto nel 1959
a una serata rock al Palazzo del ghiaccio meneghino – balza sul
proscenio polveroso del cabaret della città natia: locali cult come
la Muffola, l’Intra’s Derby Club, il Santa Tecla, il Cab 64 e la Ta-
verna Mexico rappresentano una palestra di spettacolo pregevole.
Il sodalizio con Jannacci viene battezzato da un nome giocosa-
mente d’assalto: I Due corsari. A diciannove anni il giovane ca-
barettista firma un contratto con la casa discografica Bmg
Ricordi, per la quale pubblica il primo 45 giri, Ciao ti dirò. Nel-
l’epoca al fulmicotone del boom economico, Gaber (per esigenze
comunicative i discografici gli fanno accorciare il cognome) di-
viene un volto amico della televisione made in mamma Rai: vuoi
per i “musicarelli”156 cinematografici che lo vedono protagonista,
vuoi per le quattro partecipazioni al Festival di Sanremo o ancora
per la conduzione di programmi come Canzoni da mezza sera,
Canzoniere minimo e a… E noi qui157. Nel 1965 è tempo di cam-
biamenti, che mettono in discussione la coperta di cachemire
sull’artistico destino: un disco con la magniloquente tigre di Cre-
mona, Mina, che sfocia in una tournée teatrale. Tale frangente di

Annibale Gagliani
143

leggera evasione chiude un cerchio di produzione musicale e te-


levisiva che lo traghetta verso la fine degli anni Sessanta. D’un
tratto un boato a cielo limpido: la morte dell’amico Luigi Tenco il
27 gennaio del 1967. Dopo l’imprevedibile evento salgono a galla
dall’inconscio tutte le inquietudini del Gaber in trasformazione:
il brano presentato a Canzonissima, Il signor G sul ponte – pron-
tamente bloccato – narra i tripudi interiori di un quasi suicida. A
questo punto non bastano più i sorrisi rispolverati nelle ballate
popolari Barbera e Champagne e Com’è bella la città, GG è dra-
sticamente investito da una metamorfosi kafkiana al contrario. Il
termometro della sua rivoluzione metafisica sono i dischi L’asse
d’equilibrio del 1968 e Seux et politica del 1970. In quest’ultimo
lo chansonnier interpreta testi classici di Ovidio, Orazio, Giove-
nale, Catone (Prova a pesare Annibale è il migliore a mio modesto
parere). Improvvisamente la cifra stilistica gaberiana si espande,
squarciando il velo arabescato (e putrefatto) dello spettacolo trico-
lore. Suona chitarra, canzoncina ironica dal messaggio obliquo
tempestoso, è il punto di non ritorno dell’artista, che spicca il volo
verso il suo incorruttibile habitat culturale: il Teatro Canzone.

Se potessi cantare davvero


canterei veramente per tutti
canterei le gioie e i lutti
e il mio canto sarebbe sincero.
Ma se canto così io non piaccio
devo fare per forza il pagliaccio.
E allora
suona chitarra falli divertire
Impegno e disincanto
144

suona chitarra non farli mai pensare


al buio, alla paura
al dubbio, alla censura
agli scandali, alla fame
all’uomo come un cane
schiacciato e calpestato.

Nella provocazione in questione, dal «contenuto voluta-


mente paradossale», Gaber spiega – accompagnato prima dal
languido rantolo della sua chitarra e poi dall’incedere di una pic-
cola orchestra indemoniata – le contraddizioni di un cantante
medio, che «deve autocensurarsi e accantonare altre velleità158»
per non impedire il frivolo divertimento al pubblico. Ecco l’in-
contenibile prologo de Il signor G, che afferra la “vergine” scena
del trentennio successivo. Il brano Suona chitarra, presentato
come un dialogo simbolico con il bistrattato strumento, necessa-
riamente libero e continuo, in cui si alternano rime baciate e as-
sonanze, è «un ponte tra il vecchio Gaber» e il «nuovo bisogno
manifesto di svincolarsi dalla logica dell’intrattenimento159».

Annibale Gagliani
145

2. Il Signor G vede la luce dell’oscuro mondo

Stanza 132, ore 18, è già nato, sì, un maschio,


due chili e nove.

Giorgio Gaber sposa creativamente Sandro Luporini, ri-


chiede sensibilmente il contatto con il pubblico, rompe gli schemi
con il teatro borghese. Ad affascinarlo è la prosa di Louis-Ferdi-
nand Céline, costituita da una sintassi pregna di suspense, ravvi-
vata da espressioni gergali e allusioni fuori dal comune,
costantemente appassionanti grazie al ritmo incisivo che deno-
tano. Ma legge con attenzione anche Sartre, ravvivando la primor-
diale idea di marxismo gramsciano che custodisce. Bisogna dire
che il punto di riferimento sociologico del Teatro Canzone è la
Scuola di Francoforte, con Adorno e Marcuse che fungono da pa-
gliuzza negli occhi per GG e SL durante la stesura dei primi lavori
d’ellenica avanguardia. Nel ramo d’analisi citato è da inserire al-
tresì la figura di Alberto Melucci, sociologo che viviseziona la con-
testazione giovanile del Sessantotto. Il duo artistico affronta con
versatile coraggio l’operazione d’indagine dentro l’io e sopra la
massa, tracciando notevoli riflessioni sulla psichiatria di Freud e
l’antipsichiatria di Laing e Cooper.

Ma quali sono i modelli tematici, emozionali e narrativi,


decisivi nella fenomenologia del Teatro Canzone? Jacques Brel e
Pier Paolo Pasolini. Il primo, eclettico forain belga, è l’esempio
cantautorale, attoriale e registico che Gaber segue fin dai timidi
Impegno e disincanto
146

passi da cabarettista. Il secondo, eclettico poeta-drammaturgo, è


il tarlo intellettuale che lo chansonnier milanese coltiva per tutta
la sua esistenza: dopo aver letto gli Scritti corsari e le Lettere lu-
terane, implode nella sua interiorità, giudiziosamente senza
freni, la consapevolezza di «un’Italia caratterizzata da uno svi-
luppo “senza progresso” e da un consumismo capace di annettere
le coscienze, all’interno di un’omologazione culturale e antropo-
logica senza precedenti160».

Questo cocktail filosofico, oscuramente salvifico, trova dei


punti di contatto sontuosi con il poetico canzoniere di Fabrizio
De André. La genesi dionisiaca dei due cantautori è la medesima:
la ballata popolare, il jazz, il rispolvero dell’epica narrazione. Ad
accomunarli è una trascinante amicizia, quella con Luigi Tenco;
anche Gaber vincerà, nel 1974, il premio che prende il nome del
compianto collega. Faber, di estrazione altoborghese, anarchico,
GG che rivendica la libertà dell’individuo, scorticando la società
e la politica. Nel cuore di entrambi «è presente una rigorosa presa
di posizione verso l’ordine costituito, verso quel tipo di potere po-
litico che tende a soffocare l’individuo, la sua unicità, le sue scelte
di vita». Sono loro i più grandi difensori in musica «dell’umanità
emarginata dal perbenismo sociale e dai dogmi imposti dal po-
tere161».

«Signore delle chiese e dei santi Signore delle suore e dei


preti prova ad esserlo, se credi, anche dei cortili, delle fabbriche,
delle puttane, dei ladri. Signore, signore dei vincitori prova ad es-
serlo, se ci sei, anche vinti. Amen162».
Annibale Gagliani
147

Dopo il vertiginoso preambolo, arriviamo al 21 ottobre


1970: nelle viscere del Piccolo Teatro di Milano debutta Il signor
G. In questa originaria espressione dell’arte gaberiana, il prota-
gonista si ritrova, fin dalla nascita – sino alla morte –, a districarsi
tra gli eventi mondani e rassicuranti della vita piccolo-borghese.
Gli stereotipi della coscienza e dell’amore coniugale vengono
messi in discussione con pezzi come Il signor G e l’amore, Il si-
gnor G dalla parte di chi, e con l’esilarante prosa dal retrogusto
parodizzante, L’orgia. Ci troviamo dinanzi alla sublimazione di
ciò che Pasolini chiama Teatro di parola. Gaber e Luporini con-
segnano all’onnivora critica culturale un «testo sliricizzato, parlato,
disinibito», dalla potenza «mimetico-realistica163» diametralmente
opposta al lirismo dell’Italietta borghese che si affaccia sull’inge-
nuo mare di Sanremo. Alla ballata popolare della primissima ora
si affianca la canzone-monologo: la parola, in codesta sede, è il
tutto, tesa ad appropriarsi con vigore della realtà, e «permette di
sviluppare ragionamenti su grandi temi», conservando la capacità
«di mescolare, con ironia e autoironia, storie altrui e dolorose con-
fessioni personali164», che grazie a un’interpretazione approfon-
dita diventano il manifesto dei gesti di un’intera epoca.

Ma perché rifugiarsi dentro le luci soffuse e millenarie del


teatro? Secondo il compagno di sempre, il poeta Sandro Luporini,
le intenzioni di Gaber erano incoscienti, ma precise.

Quello di Giorgio, per esempio, è un caso tipico di egoismo su-


blimato. In breve, volevo dire che esistono due tipi di egoismo: uno as-
solutamente ignobile e uno sano. Del primo non ne parliamo: ne è pieno
Impegno e disincanto
148

il mondo […] Il secondo consiste nel fare quello che veramente ti piace,
perché è lì che senti di poterti esprimere al massimo. Una scelta che fa
bene a te stesso e quasi inconsciamente anche agli altri. Il concetto io
e Gaber lo avremmo poi ripreso tanto tempo dopo, quando, nella Can-
zone della non appartenenza, scrivemmo appunto: “… un egoismo an-
tico e sano di chi non sa nemmeno che fa bene a sé e all’umanità165.

Nella stagione teatrale 1971/1972, il nuovo percorso del Si-


gnor G si sviluppa musicalmente e strutturalmente, mettendo nel
mirino la classe borghese, protagonista di un accelerato sgreto-
lamento dei valori tradizionali. Lo spettacolo I borghesi rappre-
senta, infatti, una denuncia nei confronti della retorica
tradizionalista, architettata con l’omonima canzone dalla satira
pungente. Obiettivo tematico è anche il vigliacco “uomo sfera”,
che contagia con la sua forma opportunista tutti gli strati della
massa. La sintesi tra le due piaghe sociali – conosciute dall’interno
da Gaber grazie alle sue origini benestanti – è racchiusa nel gancio
sferrato con Che bella gente, traduzione e adattamento (a cura di
Herbert Pagani) del capolavoro di Jacques Brel, Cés gens là:

Sì, avvocato, lei mi parla così della provincia perché


non li conosce,
lei non sa mica com’è fatta questa gente qua.
Lo vede quello là?
Sì quello col testone
lui che ha quest’ora qua non sa già più il suo nome
un nome rispettato
la casa sulla piazza

Annibale Gagliani
149

mai che abbia lavorato […]


E poi c’è il fratellino
un tempera-pennini
ragioniere al catasto
incassa bustarelle
distribuisce inchini
peggio di un dente guasto,
pensi che si è sposato
con una mezza gobba
solo perché ha la dote
ma non gli basta mai. […]
Mi creda, avvocato,
ai funerali di quella gente lì
mica si canta sa, no, no
si conta!

Che bella gente si pone come musicato archetipo della tec-


nica narrativa che Gaber e Luporini identificano come «teatro
d’evocazione166», con la quale l’attore rivive nel presente perso-
naggi e storie che fanno parte della sua memoria. I monologhi o i
dialoghi, in questo caso, sono genialmente semplici e si trasfor-
mano «in vita davanti allo spettatore», grazie ai movimenti es-
senziali, alla mimica facciale e alla prestanza corporea di un
interprete che riesce a «evocare altri personaggi (eventuali), luo-
ghi, situazioni, vicende167». Nella stagione teatrale 1972/1973, il
Signor G prosegue il suo viaggio spasmodico, trovandosi davanti
i giovani del Settanta. Le idee del maggio francese sono cultural-
mente interessanti: il cambiamento della vita tradizionale è in
parte condiviso da GG e SL, ma, ironicamente, emergono le diffi-
Impegno e disincanto
150

coltà di far sposare l’ideologia con la statura interiore dell’indivi-


duo. Nasce, come un raggio d’aurora scandinava, Dialogo tra un
impegnato e un non so. Gli autori sollevano una formicolante
problematica: l’uomo è impossibilitato a mettersi al servizio di
utopie o ideologie a causa di un deficit congenito del suo essere.
Qui ritroviamo una dicotomia fortemente in voga nel dopoguerra:
“l’impegnato”, celebrale, coerente e idealista; contro, “il non so”,
ondivago, complessato, indeciso. L’attore interpreta i differenti
modi di vivere, mettendoli ad assediante confronto di fronte agli
interlocutori. Si evidenzia automaticamente il sentimento più dif-
fuso dell’individuo medio: sentirsi pedina in uno scacchiere so-
ciale che spersonalizza e porta alla pazzia. I riferimenti tematici
sono direttamente proporzionali all’offerta intellettuale prove-
niente dalla realtà, che fa instaurare agli autori dialoghi costrut-
tivi con un determinato pubblico. Sensazione, questa, confermata
proprio da Sandro Luporini:

Ormai avevamo aperto un dialogo. Cominciavamo a capire che


tipo di pubblico era il nostro. È molto più facile spiegarsi quando co-
nosci un po’ meglio chi ti sta ad ascoltare. Erano quasi tutti giovani, in
gran parte venivano dal movimento studentesco. A dire la verità, più
che del “Movimento” in genere, con un’espressione scriverei con la M
maiuscola per il timore di non essere abbastanza chiaro. Mi sembra in-
fatti che, per quanto gli studenti ne fossero di sicuro una parte impor-
tante, quei due aggettivi non ne definiscano appieno la natura
complessiva: con quei giovani c’erano anche tanti intellettuali e una
parte del mondo operaio e sindacale168.

Annibale Gagliani
151

Con il nuovo spettacolo d’indagine interiore, Gaber e Lu-


porini si avvicinano moltissimo alla portata filosofica di Horkhei-
mer e Adorno. Non per niente lo chansonnier milanese viene
definito dal critico Enzo Golino, «l’Adorno del Giambellino169».
In cotanta sede ritroviamo l’acquisizione puntuale del celebre me-
todo della Scuola di Francoforte, che accoglie la «dialettica nega-
tiva» nell’impianto artistico. Un punto di approdo in cui «Tesi e
Antitesi, entrambe rivoluzionarie, sono messe in scena attraverso
un vero e proprio sdoppiamento del protagonista, al fine però solo
di rivelarne, negandole come inautentiche, la parzialità e addirit-
tura l’impotenza tout court170». Stilettate al vetriolo, doverose
prese di coscienza. Lo sdoppiamento funzionale dell’individuo
conquista il centro della scena con pezzi come Un’idea, La presa
del potere, Gli intellettuali o Lui.

Un’idea un concetto un’idea


finché resta un’idea è soltanto un’astrazione
se potessi mangiare un’idea
avrei fatto la mia rivoluzione.
In Virginia il signor Brown
era l’uomo più antirazzista
un giorno sua figlia sposò
un uomo di colore
lui disse: «Bene»
ma non era di buon umore. […]
Aveva tante idee
era un uomo d’avanguardia
si vestiva di nuova cultura

Impegno e disincanto
152

cambiava ogni momento


ma quanto era nudo
era un uomo dell’Ottocento.

L’idea. Ma quanto può essere potente un’idea? Magari in-


serita all’interno di “un ingranaggio” che annovera nel suo roteare
anche le coscienze più vergini? I conflitti metafisici la fanno pur
sempre da padrone, regnano incontrastati sulle sovrastrutture
dell’essere e possono smascherare chi bleffa dentro un ruolo
scelto ad hoc nella traversata massificata. Il bene che convive
strenuamente con il male, l’ambivalenza di un’entità che richiede
l’equilibrio tra le parti per poter garantire l’autosufficiente inte-
rezza psico-fisica. Ciò che esprime concettualmente la canzone-
monologo gaberiana-luporiniana, rimanda alle proiezioni
indomite di Pirandello, di Joyce e di Kafka. E se un’idea ce
l’avesse un intellettuale, massima espressione del cogito ergo
sum contemporaneo? Lo pseudo-pensatore medio quasi mai si
ritrova interamente coinvolto nelle discussioni che dibatte. Per-
tanto, l’osservatore Gaber diffida di tale figura progressivamente
aleatoria, vittima del falso piacere del conformismo (ma che sor-
seggiava toujours caffè illuminista). Nel frammento accurata-
mente selezionato, vi è la prova lapalissiana del rivoluzionario
spento, che compie attività mentalmente gaudenti, ma concreta-
mente inconsistenti. Diversamente dall’Adorno del Giambellino,
che è fisicamente coinvolto nelle questioni che solleva sul prosce-
nio, restando «vivace e molto nottambulo, dissacrante ma non
fine a se stesso, e d’una simpatia irresistibile». L’artista ambro-
gino ama – in proiezione infinita – «trovare con l’interlocutore
Annibale Gagliani
153

una convergenza finale potenziale». Egli perde sempre qualche


ora, dopo i suoi spettacoli, per confrontarsi con il pubblico a ri-
flettori spenti. Un monito ereditato indubbiamente dalla sua let-
tura di un classico chiamato Caporale, di Paolo Volponi. Decide
dunque di «ripartire dal corpo, da ciò che sentiamo, in tutti i sensi,
perché il nostro partire può essere sempre un inizio di compren-
sione e di riscatto171». Ma a volte confrontarsi è quasi impossibile,
soprattutto con coloro che nel cannibale ingranaggio azionano i
bottoni, quelli per La presa del potere.

Ora si tolgono i mantelli


son già sicuri di aver vinto
anche le maschere van giù
ormai non ne han bisogno più
son già seduti in Parlamento.
Ora si possono vedere
sono una razza superiore
sono bellissimi e hitleriani.
Chi sono? Chi sono?
Sono i tecnocrati italiani.
Ein, zwei, ein, zwei. Alles kaputt!
E l’Italia giocava alle carte
e parlava di calcio nei bar.

Nell’epoca dei golpe tentati, degli accordi della loggia P2 e


del reazionario contrabbando, Gaber sceglie, usando un linguag-
gio diretto e disincantato, di dare un volto all’élite minacciosa che
nella stanza dei bottoni salvaguarda una finta democrazia. La

Impegno e disincanto
154

presa del potere è incalzante, identifica il polare passaggio dei


serpenti tecnocrati (ignoti e letali). L’inciso musicale inaugurale,
che pressa aspramente l’ascoltatore con tocco cinematografico, è
contrapposto a piccoli momenti di mazurca in cui si palesa l’Ita-
lietta dei bar e del calcio. Questa porzione sociale – la maggio-
ranza tra l’altro – canta Sanremo, rimanendo malinconicamente
all’oscuro dei giochi di potere in atto nei sotterranei lussuosi della
sua nazione. E infine, l’atmosfera lugubre – da campo di concen-
tramento –, con quell’“uno, due, tre, quattro, andiamo a morire”
(in tedesco), fa scorgere allo spettatore la praxis hitleriana di chi
comanda.

Dialogo tra un impegnato e un non so è il primo passo


programmatico verso la forma più definita e squassante che il
Teatro Canzone prenderà nelle stagioni successive. È l’unico caso
in cui gli autori puntano a consegnare un messaggio politico le-
gato alla filosofia della scolastica marxista. Dalle crepe del fondo
argomentativo emerge la messa «in guardia dall’idealizzazione
degli operai e dal tentativo di piegarli verso obiettivi, definiti da
altri, intellettuali o dirigenti di partito», affermando, attraverso
una visione gramsciana, «che sono proprio gli operai i veri “mo-
tori” della storia e della rivoluzione172». Dopo queste analisi so-
ciologiche, un raggio di rivalsa civile trafigge l’anima dell’artista.
Nasce un umile pensiero, che si incastona nei secoli della cultura
italiana: «La libertà non è star sopra un albero / non è neanche
un gesto, un’invenzione / la libertà non è uno spazio libero / li-
bertà è partecipazione».

Annibale Gagliani
155

3. Far finta di essere sani mentre


Anche per oggi non si vola

Siamo tutti malati e contenti. Il nostro corpo non è più capace


di un gesto integrale, autentico. I sensi non sono più sani e la febbre
sale. Facciamo tutti parte di un gigantesco «febbrosario» e, quanto più
la febbre sale, tanto più siamo orgogliosi e soddisfatti della nostra con-
dizione deformata. Naturalmente, la febbre a cui mi riferisco nelle mie
canzoni è una febbre sociale che impedisce lo sviluppo corretto dei no-
stri rapporti173. G. G.

Nella stagione teatrale 1973/1974, l’ironia diventa più acu-


minata e avvolgente, inseguendo la tanto agognata “interezza”
dell’individuo. GG e SL osservano la fase schizofrenica che fa per-
dere il contatto tra entità corporea e slanci ideali dell’essere: è il
tempo di Far finta di essere sani. L’analisi attuata all’interno dello
spettacolo, non è altro che un consiglio rigenerante di abbracciare
le realtà sociali partendo dal proprio io. Una denuncia dei mali
“umani” – privati e pubblici – messa in scena per debellare il virus
della fantomatica coscienza individuale, gonfiata dalla filosofia
piccolo-borghese, che ricerca il comodo e la sicurezza. La persona
“sana” è il prodotto di un mondo per vocazione giusto, senza im-
precazioni sovversive, che insegue il “desiderabile”. Prendendo
spunto da questo diktat etico, esposto dal mostruoso meccanismo
della modernità, l’uomo cerca di integrarsi, obbedendo al pensiero
dominante. Egli insegue – perennemente – la rasserenante razio-
nalità e talvolta si inebria di un esasperante benessere psico-fisico.

Impegno e disincanto
156

Vivere, non riesco a vivere


ma la mente mi autorizza a credere
che una storia mia, positiva o no,
è qualcosa che sta dentro la realtà.

Nel dubbio mi compro una moto


telaio e manubrio cromato
con tanti pistoni, bottoni e accessori più strani.
Far finta di essere sani.

La bellica scissione tra corpo e mente, che era legata da


“un elastico” fragilissimo, è il pilastro di Far finta di essere sani.
Sandro Luporini spiega la ratio intrinseca della canzone, che dà
il nome all’intera opera, «Oddio, ogni tanto, in mezzo a tutte le
cose serie e a volte gravose della vita, non c’è niente di male nel-
l’alleggerirsi con qualche distrazione futile. Prendersi sempre sul
serio è faticoso. Anzi, più che faticoso è da imbecilli174». Il sound
è figlio delle ballate di Brel e dei movimenti soffici di John
McLaughlin. Tale atmosfera catartica accoglie sequenze narrative
differenti, elevando trattazioni politiche e personali, che sfociano
– immancabilmente – in discussioni sulla “psicanalisi culturale”.
Marcuse, Baudrillard, Roland Barthes e poi ancora Wilhelm
Reich, Laing e Cooper vengono sapientemente frullati e sommi-
nistrati con trasporto a «quella metà d’Italia o quasi che non si
riconosce nello status quo, che lotta e sogna una realtà diversa,
spinta in avanti proprio dalla ricerca di quel non-luogo caratteri-
stico della migliore utopia175». L’opera assume, nel suo diapason,
vesti spiazzanti e intensamente riflessive.

Annibale Gagliani
157

È questo il destino dell’individuo? Essere poco corporeo,


non perfettamente emozionale, lasciandosi andare solo a ripidi
ragionamenti razionali? Il «grido personale eppure universale»
che condusse l’Adorno del Giambellino a «denunciare un proprio
smarrimento esistenziale176», percuote la mente di chi stigmatizza
il diverso. Che sia la solita mosca bianca fuori dal coro borghese,
un emarginato per sventure fisiche o un pazzo completo, è evi-
dente come la “curia etica” difendesse l’uomo consumistico,
Quello che perde i pezzi (ma ragiona come una calcolatrice), can-
cellando dalla società chi non segue il suo gesto in nuce. Dopo l’ag-
gressivo assunto – che suscita doveroso spaesamento – è
estremamente emozionante osservare la separazione epocale tra
un individuo sano e un indifeso matto (o presunto tale). Una scis-
sione inconciliabile imposta con leggerezza dalle sbarre di un can-
cello: i giusti sono liberi, i pazzoidi sono, stabilmente, Dall’altra
parte del cancello:

Ho visto un uomo matto


è impressionante come possa fare effetto
un uomo solo, abbandonato, dimenticato
dietro le sbarre sempre chiuse di un cancello. […]
Noi fuori dal cancello
noi che siamo normali, noi possiamo fare tutto
noi che abbiamo la fortuna di essere sani
possiamo avere un buon lavoro, una famiglia
sempre unita, un’esistenza piena di rapporti umani. […]
Noi che abbiamo gli strumenti per poterci realizzare
con un titolo di studio

Impegno e disincanto
158

si può viaggiare si può avere il passaporto, la patente


il porto d’armi e la domenica allo stadio. […]
Noi siamo sani, noi siamo sani, noi siamo normali
noi che sappiamo di contare sul cervello
noi prepariamo i nostri figli per domani
e noi da quale parte del cancello?
Da quale parte del cancello?

Giorgio Gaber dimostra come l’individuo contemporaneo


sia mosso da purissima isteria. La domanda risuonante nel con-
turbante brano è: sono sani coloro che accettano completamente
le leggi del mercato e le imposizioni del potere dominante? Biso-
gna dire che tale quesito ne fa sviluppare subito un altro: è sano
colui che non prova a mettere in discussione tale sistema a-so-
ciale? Chi legge il brano può raggiungere delle risposte chiare,
seppur complesse, grazie a un linguaggio essenziale – sociologi-
camente segnante – che accende spie doloranti nell’inconscio. Gli
autori compiono un’eccellente parafrasi dell’assioma che Adorno
consegna ai posteri meno creduloni. «Basta osservare quando i
borghesi parlano di esagerazione, isterismo, follia, per sapere che
proprio là dove è più pronto il richiamo alla ragione, si tratta sem-
pre, in realtà, dell’apologia del suo contrario177».

Nella stagione 1974/1975, il Signor G compie un’umile au-


tocritica sui tentativi di cambiare il mondo, manifestati tra le sa-
ette degli spettacoli precedenti. In Anche per oggi non si vola, si
insinua un giudizio piccato verso la cultura, le istituzioni e l’idea
di coppia novecentesca. Gli slanci utopistici tinti di briosa allegria
Annibale Gagliani
159

vi sono ancora e il desiderio di prendere realmente in pugno il fu-


turo è stoico. Si ricercano, inoltre, nuove visioni esistenziali che
possano far sviluppare la dimensione individuale e quella collet-
tiva. Le affinità ideologiche con il “movimento rivoluzionario
rouge” sono sensibili: la richiesta di partecipazione all’interno del-
l’opera è finalizzata a scardinare le ingannevoli convinzioni della
società borghese, impantanata tra le orde manie del mercato e le
insipide soluzioni della psicanalisi. Le atmosfere musicali sul
palco sono contrastanti e giocose: accompagnano le diverse ver-
sioni di individuo massificato, che si ritrova a comprendere la pro-
pria divisione interiore, pur rimanendo sempre Narciso ed
eccessivamente gonfiato (come in Il plus-amore). Siffatto prota-
gonista comunica in maniera aurorale con l’altro servendosi de Le
mani, biglietto da visita quasi infallibile. Prelibati, nel ventre della
cangiante performance, sono due constatazioni auliche riservate
ad altrettante forze motrici che accarezzano e spodestano la ra-
gione, la politica e la realtà. Osserviamo attentamente I gag-man.

Dei giocolieri, dei prestigiatori funambolici, che hanno tutta la


capacità di coinvolgere nei loro giochi un vasto pubblico che li segue con
interesse proprio per questa comicità innata che ognuno di loro pos-
siede e che in gergo teatrale si chiama «buffo naturale». Anche, anche
all’estero hanno molta gente che li segue con interesse, sì, che ride mol-
tissimo, sì. No, in America no, perché hanno dei comici che sono vedette
internazionali. E poi non si capisce come loro, gli americani, così lontani
dalla Grecia, dal suo teatro, non si capisce come possano avere questa
grossa tradizione di maschere. No, i nostri sono più casalinghi, ma… ma
pirotecnici nel loro piccolo, sì. È incredibile il ritmo insostenibile, il

Impegno e disincanto
160

fuoco di trovate, di effetti. Sì, hanno anche loro qualche, qualche effetto
fisso, sì, quello che in gergo teatrale si chiama «tormentone». Sì. Cioè
l’insistere su alcune parole che hanno proprio un senso buffissimo pro-
prio perché ripetute tante volte. Non so, per esempio: bum… «Depre-
chiamo», bum… «Esprimiamo il nostro sdegno», bum… «Siamo
solidali con le famiglie», bum… Bravissimi, bravissimi! Dei veri profes-
sionisti della risata. Sì, la risata di Stato.

La prosa I gag-man, tragicomica, satiricamente trac-


ciante, potrebbe essere identificata con un altro titolo: il politi-
chese in mezzo alle bombe. Le maschere pirandelliane, dal talento
antico, di matrice ellenica, risiedono nei Parlamenti occidentali.
Quelle a stelle e strisce, assieme alle omologhe tricolori, risultano
per Gaber le più talentuose. Le prime guidano idealmente buona
parte dell’emisfero, poiché gli States impugnano il linguaggio del
mercato e le dinamiche politiche internazionali. Le seconde non
godono di grosso potere a livello mondiale, perciò contemplano
burlescamente i propri confini, arsi da un fuoco intestino cre-
scente: il terrorismo. “Il deprechiamo”, “l’essere sdegnati e soli-
dali”, tutto il lessico rielaborato per “tirare a campare piuttosto
che tirare le cuoia” è ancestrale espressione di un lessico ibrido,
che naviga tra il giuridico, l’economico e il surreale. Politichese
“salvapoltrona”, appunto. Ma seguendo la ricostruzione tematica
e narrativa di GG e SL, quale sarebbe il vero compito delle ma-
schere buffe naturali, fautrici della risata di Stato? Leggere, cor-
teggiare e afferrare un volatile dalle traiettorie imprevedibili, La
realtà, che è un uccello:

Annibale Gagliani
161

La realtà è un uccello che non ha memoria


devi immaginare da che parte va.
Noi ci critichiamo, ci guardiamo dentro lucidi e coscienti
la realtà è più avanti.
Noi scendiamo in piazza, siamo democratici, siamo antifascisti
la realtà è più avanti.
Siamo sempre più indietro, la realtà è più avanti
siamo sempre indietro.

Il pezzo nasce in prosa, dispiegandosi musicalmente nel


solco di un mix ritmico, simile al volo dell’uccello sopra i cieli del-
l’incertezza. L’allegoria dipinta dagli autori, che dura storicamente
da secoli, vede l’uomo scovare la realtà con famelico ardore: ritro-
viamo la denuncia ironica di un «certo vecchiume in ambito isti-
tuzional-rivoluzionario», descritto dalla «metafora della caccia
rispetto alla lotta politica178». Sandro Luporini spiega – con non
poche sofferenze – la traslata semantica nascosta tra le piume del
determinante volatile, lasciando trapelare la “spaccatura” futura
che esegue a braccetto col compagno artistico:
Io e Giorgio sentivamo che tutti noi – movimento compreso –,
nonostante i nostri sforzi, eravamo sempre indietro, in ritardo su una
realtà che non poteva essere affrontata solo con l’organizzazione di un
normale partito politico o con le feste popolari, trasudanti bandiere, re-
torica e grandi tornei di scopone scientifico. Per avvicinarsi davvero alla
realtà si dovrebbe mettere da parte ogni certezza e inseguirla solo e sol-
tanto con la consapevolezza della sua mutevolissima instabilità e conti-
nua variabilità. Non basta organizzarsi, modificare i ruoli, chiamare le
cose in un altro modo per avvicinare l’uccello realtà179.
Impegno e disincanto
162

4. La trilogia dell’amarezza gaberiana

Il processo rivoluzionario delle coscienze, che avrebbe do-


vuto trainare le istituzioni politiche e il corso della storia verso
un futuro radioso, si dimostra limitato, evidenziando contraddi-
zioni terrificanti. L’appiattimento dell’individuo è ormai in ese-
cuzione, come avevano già preannunciato Adorno e Marcuse, e
serpeggia tra I reduci della Resistenza un senso di impotenza.
Contrapporsi al trionfale modello dell’America è quasi impossi-
bile, pertanto, prende forma una sconfitta collettiva mortale. Le
distanze programmatiche tra il movimento e i due artisti franco-
fortesi sono ormai incolmabili: Gaber e Luporini accolgono le
“profetiche provocazioni” di Pier Paolo Pasolini, divenendo Cor-
sari da proscenio che naufragano tra le banalità e gli slanci uto-
pistici della vita. Gli autori prendono coscienza della vittoria
schiacciante del mercato, attorniato da un crollo progressivo delle
certezze ideologiche. Ci troviamo nel periodo più doloroso del
Teatro canzone: la trilogia dell’amarezza.

Libertà obbligatoria del 1976 – lo spettacolo più amato


da GG e SL, che detiene il maggior numero di repliche –, Polli
d’allevamento del 1978 e Anni affollati del 1981 sono tre bombe
culturali fatte esplodere con il fine di «riconoscere i propri errori
e le proprie sconfitte, perché la consapevolezza e l’onestà intel-
lettuale rimangono valori fondamentali», e l’ammissione della
«sconfitta è indispensabile per poter ripartire con maggior chia-

Annibale Gagliani
163

rezza e con nuovi slanci vitali180». Cominciamo – con un lunghis-


simo brivido lungo la schiena – da Libertà obbligatoria. All’in-
terno dello spettacolo, insaporito da ballate d’annata e monologhi
reboanti, emergono due sogni fatti da Gaber, non casuali, realiz-
zati dal proprio inconscio, che spingono l’artista alla ricerca delle
ultime ancore valoriali e filosofiche: Il sogno di Gesù e Il sogno di
Marx. Gesù, incontrato dal protagonista nel torpore di una Roma
russante, spiazza completamente il pubblico con un’affermazione
clamorosa: «Sono corporeo io, non c’ho niente di divino, non mi
ha mai sfiorato l’idea». A questo punto l’Adorno del Giambellino
è in crisi, poiché crede che nell’eterna lotta tra corpo e spirito
debba avere uno spazio d’onore la suggestione hegeliana. Invece
no, il consiglio che il figlio di Dio dà all’uomo contemporaneo è di
“fisicizzare”, essendo meno “celebrale”. Nella canzone Un’idea,
per esempio, il Signor G dice accoratamente, «se potessi mangiare
un’idea, avrei fatto la mia rivoluzione», ecco il parallelo proposto
da Cristo: nel rito della comunione, l’idea cattolica entra dentro il
corpo umano. Ma la discussione onirica non finisce nel modo mi-
gliore e l’ospite religioso invita Gaber a chiamare in sogno Karl
Marx per schiarirsi le idee. Un ossimoro incredibilmente esal-
tante: Gesù a confronto con il padre del comunismo.

Il barbuto filosofo interviene in uno scenario milanese,


mentre l’attore è intento a ricercare prove di indomita esistenza
con la sua macchina fotografica. “Flash, flash”, e in lontananza si
sente, con la stessa sinuosità di un’eco, «così non fotograferai mai
niente…». È Marx, disinvolto passante che scardina ancora una

Impegno e disincanto
164

volta le certezze recondite di GG. Il maestro del materialismo sto-


rico afferma che la borghesia non esiste più, poiché i capitalisti
sono diventati impersonali. E anche la lotta di classe si presenta
complicata: non sono più chiare le classi sociali. Gaber è tramor-
tito dalle parole inaspettate del pensatore comunista, che lo invita
a osservare come nel mondo esistano altri nemici da acciuffare,
celati negli schemi di una produzione giunonica, dalle mastodon-
tiche potenzialità. La metafora finale del sogno ridisegna, infatti,
una produzione dalle sembianze sorprendenti: una “donna indi-
pendente”, musa del Novecento inoltrato. E pensare che è sol-
tanto una “bambina” sul finale imperiale del positivo Ottocento.

A questo punto il protagonista è assolutamente spaesato:


nella sua desolazione interiore, intervallata da fiochi raggi di luce
sociale, scopre come i giochi di potere, d’ispirazione americana,
siano scanditi spesso da untuosi incontri per Il tennis. A questo
punto qual è L’inserimento possibile per l’adombrato protagoni-
sta dello spettacolo? Egli, che non è sceso a compromessi con il
blocco dominante, ma che non ha nemmeno cercato – violente-
mente – di farsi una carriera.

E sì, perché io potenzialmente, potrei far tutto. Non so se pro-


vare o no. Potrei riscrivermi all’università, mi mancano venticinque
esami. Sono stato stupido, però, eh. Potevo approfittare al tempo degli
Unni. «Ditemi pure borghese, ditemi pure borghese, ditemi pure bor-
ghese, non di più». Il termine «borghese di merda» per loro era il più
leggerino. […] E come firmavano. «Trenta, trenta, trenta». Gliene ab-
biamo messa di paura ai tempi degli Unni! Ora Attila è consigliere re-
Annibale Gagliani
165

gionale. […] No, l’università non va più bene, è tornato tutto come
prima, anzi, ti fanno certi mazzi. […] Hanno bisogno di gente preparata
per la produzione. Il fine giustifica i mazzi. […] A noi c’hanno rovinato
quelli lì. I Miller, I Kerouac, «On the road, on the road!» On the road
noi. E loro a casa. Gattacci, neri, finti, hanno portato la scalogna solo a
noi che siamo ancora qui a vendere collanine. […] Io non diventerò
come loro, questo è certo. Li vedo, li vedo sempre pronti a rincorrere un
direttore nei corridoi, a divincolarsi vicino lui parlandogli un po’ dal
basso, ossequiosi, scodinzolano, continuano a corrergli dietro, inciam-
pano, lo raggiungono ancora, sempre più bassi. E poi se lo guardano, lo
seguono a passettini e annuiscono, viscidi, striscianti, schifosi. E a casa
minestrine al burro, il «Corriere».

Gaber e Luporini rovesciano perentoriamente i motti apo-


tropaici del saggista statunitense Henry Miller e del connazionale
Jack Kerouac, poeta che invita i giovani a calcare la strada del
cambiamento. Le due icone made in USA diffondono dalla loro
scrivania le indicazioni per aprire il mondo alle libertà di espres-
sione, rompendo le catene del bigottismo e innovando una cultura
contemporanea ritenuta troppo classica. Tale ideologia rivoluzio-
naria funziona realmente? Alla stregua di Pasolini, GG e SL espon-
gono le ipocrisie del Sessantotto, smontando non tanto gli ideali
filosofici, bensì le figure che si ergono a paladini di essi. “Gli
Unni”, che hanno imposto barbarie alla sfera borghese retrograda,
portano semplicemente una maschera, che luccica grazie ai canti
di Dylan, ma che concretamente li conduce verso la smania della
realizzazione narcisistica. E dopo aver messo al muro i baroni uni-
versitari, strappando loro opulenti trenta, si ritrovano a fare la

Impegno e disincanto
166

voce grossa negli schemi politici, oppure a utilizzare lingue servili


se ancora non hanno raggiunto una posizione brillante. Per que-
sto il protagonista di Libertà obbligatoria prende le distanze dal
sessantottino evoluto (al contrario), preferendo una vita di poche
medagliette – ma di barbera e veri sentimenti – all’arrivismo
sommerso, portatore della minestrina al burro e del «Corriere»
da leggere sul divano.

Proprio sulle colonne del «Corsera», Maurizio Porro, so-


stiene che «Gaber cantava i sogni infranti proprio nel momento
del frangersi, quindi in quell’attimo in cui non si sa ancora bene
che fine faranno, da che parte sbatteranno, quale percorso finale
avranno, e come torneranno181». Libertà obbligatoria presenta
delle innovazioni musicali raffinate, come la scelta di aggiungere
un trio d’archi all’orchestra e l’apparizione alle tastiere di Oscar
Rocchi, capace di regalare effetti sonori calzanti e appetitosi. SL
spiega con sincerità quanto codesta opera, centrale nella teca ga-
beriana, sia determinante nel percorso del Teatro Canzone.

Sia io sia Giorgio abbiamo sempre considerato “Libertà obbli-


gatoria” uno dei nostri lavori migliori in assoluto. Era uno spettacolo
dotato di una grande coerenza interna e concettualmente forte, in cui,
tra l’altro, le parti recitate cominciavano a diventare veri e propri mo-
nologhi con un’importanza ormai pari a quella delle canzoni. Giorgio
lo portò a teatro per due stagioni successive, sfiorando le trecento re-
pliche, con un successo di pubblico dovunque straordinario182.

Annibale Gagliani
167

E poi arriva Polli d’allevamento nel 1978, opera nella quale


il sospetto della massificazione che gli autori hanno nei confronti
del movimento giovanile, diviene una realtà insostenibile. Nelle
piazze non si parla più delle ferventi problematiche della vita, ma
si fa deliberata mistificazione: la “moda” consumistica impone
questo comandamento. Le utopie del Sessanta, che hanno rega-
lato un fluente sentimento di aggregazione e appartenenza, tra-
montano inesorabili: con narrazioni scientificamente poetiche,
che racchiudono una drammaturgia solida, Gaber e Luporini con-
segnano lo scettro del mondo al mercato, capace di assuefare com-
pletamente l’individuo. Nello spettacolo le magistrali
orchestrazioni, assieme ai ricercati arrangiamenti, sono curate da
un Franco Battiato ancora underground. Il caleidoscopico can-
tautore catanese racconta un retroscena intenso di Polli d’alleva-
mento, cometa a ciel vermiglio che spalanca le porte della
raffinata protesta alla sua jeune visione lirica.

Giorgio era un ascoltatore impressionante. Intelligentissimo, cu-


rioso e aperto. Perfezionista com’era, non sopportava (e in questo era
feroce) l’inciviltà, l’incompetenza, il pressapochismo, il delinquere come
filosofia di vita… E poi la politica corrotta. Non poteva immaginare che
nel giro di qualche anno tutto quello che lui ha combattuto sarebbe di-
ventato per mezza Italia un sano obiettivo, finalmente raggiunto. Un
giorno mi chiese di arrangiargli un suo nuovo spettacolo, Polli di alle-
vamento. Me lo chiese per il musicista che nel frattempo ero diventato,
e perché sentiva la necessità di rivestire i suoi spettacoli con un suono
diverso da quello che normalmente utilizzava. Gli proposi una sonorità
“classica”: quartetto d’archi, ottoni e soprattutto un modello che pre-

Impegno e disincanto
168

scindeva dalle convenzioni del tipico modello pop. […] E così, anche se
con qualche dubbio sul tipo di operazione che andavamo a fare, mi tra-
scinò in uno dei suoi spettacoli più dibattuti. Tanti si scandalizzavano
e arrabbiavano, ma ci furono anche vere apoteosi. Il passaggio di un
uomo simile dalle nostre parti è stata, per me, l’ennesima prova che la
vita non è per caso183.

Il pezzo che dà il titolo all’opera, Polli d’allevamento, è un


atto di coraggio spontaneamente polemico, con cui il Signor G
descrive con dolenza “i polli”, suoi alleati storici nella vecchia sta-
gione delle utopie.

Cari, cari polli d’allevamento


che odiate ormai per frustrazione e non per scelta.
Cari, cari polli d’allevamento
con quell’espressione equivoca e che è sempre più
stravolta.
Che immaginando di passarvi accanto
in una strada poco illuminata
non si sa se aspettarsi un sorriso
o una coltellata. Dlin dlan, dlin dlan, dlin dlan.

Il testo è «rabbioso, rancoroso, livido». La vittoria della


massificazione e dell’omologazione è confermata dall’atteggia-
mento insofferente dei polli, che odiano per frustrazione e non
per scelta, sbandierando un’allegria omicida. Acchittati con sti-
valetti gialli e fischiettando canzonette svuotate di senso, essi cor-
rono verso le fauci del mercato, dimostrando come non esista più

Annibale Gagliani
169

«uno spazio sociale in grado di sfuggire alla manipolazione delle


coscienze184». Ma incontrovertibilmente si sa: Quando è moda è
moda.

Sono diverso e certamente solo.


Sono diverso perché non sopporto il buon senso comune
ma neanche la retorica del pazzo
non ho nessuna voglia di assurde compressioni
ma nemmeno di liberarmi a cazzo
non voglio velleitarie mescolanze con nessuno
nemmeno più con voi
ma non sopporto neanche la legge dilagante
del «fatti i cazzi tuoi!» […]
di quelli che diranno che sono un qualunquista
non me ne frega niente
non sono più compagno né femministaiolo militante
mi fanno schifo le vostre animazioni, le ricerche popolari
e le altre cazzate […]
sono diverso perché quando è merda è merda
non ha importanza la specificazione.
Autisti di piazza, studenti, barbieri, santoni, artisti, operai,
gramsciani, cattolici, nani, datori di luci, baristi, troie,
ruffiani, paracadutisti, ufologi.
Quando è moda è moda, quando è moda è moda.

La «feroce invettiva contro le mode» che Gaber non ha


paura di diffondere, lo porta a «mettersi a nudo estremo e do-
lente185». Le polemiche nei confronti dello spettacolo sono vele-
nosissime, ma lui sa bene da che pulpito vengano, i garanti
Impegno e disincanto
170

dell’imborghesimento, cellule tumorali della società. Il Signor G


pompa energia torrenziale contro gli ipocriti, celati dietro le ma-
schere di tutti i giorni. L’esposizione delle loro colpe non rispar-
mia la crudezza del turpiloquio: alcune espressioni dell’artista
sono talmente viscerali e incontrollate da far contorcere ideal-
mente il sottofondo orchestrale (di deliziosa classe). E il Movi-
mento? Come conclude le proprie sorti? Dalla canzone-monologo
ne esce con le ossa rotte: un organismo vivente, autoreferenziale,
«minato da un cancro», perciò lentamente proiettato a una morte
«certa e scontata186». Polli d’allevamento porta un fiume di ten-
sioni non facile da gestire per GG e SL, che prendono due anni di
pausa dai sipari per somatizzare la rottura epocale. È in gesta-
zione, dunque, una nuova fase del Teatro Canzone: il poeta Lu-
porini spiega il clima vissuto durante la netta inversione di rotta.

Era stato un amore vero, il nostro per il movimento – su questo


non ho dubbi –, e come tutte le storie che contano davvero anche que-
sta era stata segnata da qualche incomprensione, da punti di vista di-
versi, da slanci di condivisione e da qualche incazzatura. […] Eravamo
arrivati alla fine del 1978 e questa storia, cominciata circa dieci anni
prima, per noi era arrivata al termine: era il tempo di divorzio e quel-
l’anno certamente noi sancimmo un divorzio definitivo da un certo tipo
di persone e di sogni che sino a quel punto, seppure con qualche disso-
nanza, avevamo comunque sentito nostri187.

Nel 1981 l’Adorno del Giambellino, assieme al suo com-


pagno di mille battaglie teatrali, ritorna alla carica: è tempo di
Anni affollati. Lo spettacolo effettua un bilancio razionalizzato
Annibale Gagliani
171

del decennio precedente, con frangenti di introspezione palpitante


che attenuano gli slanci utopistici dei monologhi della prima ora.
Il linguaggio gaberiano è insormontabile e polemico, capace di de-
nudare i falsi eroi di una decade che ha soppresso “la razza” del
Sessantotto. All’interno dell’opera un pezzo maledettamente ere-
tico infiamma il grigiore dominante: Io se fossi Dio, rifiutato da
tutte le maison discografiche a cui è proposto, tranne una, la Pa-
narecord, che con attributi onesti gli riserva la possibilità di un 33
giri.

«Certe volte mi chiedo perché non me ne resto più tran-


quillo, perché non mi metto a scrivere cose rasserenanti, magari
gioiose. Poi mi guardo intorno, vedo che ci stiamo tutti abituando
al grigiore, alla piattezza, alla rassegnazione, e mi accorgo che il
mio compito, il mio lavoro, è quello di dire le cose che gli altri non
dicono. Le cose che voi giornalisti non avete più il coraggio di scri-
vere188». Gaber spiega precisamente le intenzioni di Io se fossi Dio,
che lo portano a vestire per un quarto d’ora i panni dell’Onnipo-
tente. Il suo è un atto laico di valutazione dei misfatti dell’uomo,
ma altresì delle beghe del regno dei cieli. Un giudizio universale
sferrato con un monologo-canzone, in cui le trombe dell’ideale “li-
vella” accecano i momenti di interlocuzione tra l’attore e il pub-
blico (vegliati da un basso pulp). L’artista comune che si traveste
da Dio e con il suo indice infuocato fa immedesimare, a sangue
caldo, l’ascoltatore. La partenza, lieve e riflessiva, tocca già nervi
scoperti da secoli:

Impegno e disincanto
172

Io se fossi Dio
non sarei mica stato a risparmiare
avrei fatto un uomo migliore. […]
e sull’amore e sulla carità
mi sarei spiegato un po’ meglio.
Infatti non è mica normale
che un comune mortale
per le cazzate tipo compassione e fame in India
c’ha tanto amore di riserva
che neanche se lo sogna
che viene da dire
«Ma dopo come fa a essere così carogna?».

Un Dio quasi umano, che non riesce a compiere un lavoro


perfetto nella costruzione della sua opera più sensazionale:
l’uomo. Giocattolo difettoso che dimostra tutti i suoi limiti in mol-
teplici occasioni. L’amore verso il prossimo, a esempio, vero in-
dice d’ipocrisia. Il lessico si avvale di un termine crudo e
penetrante per etichettare l’individuo, “carogna”, ma, bisogna
dire che, il linguaggio, per il momento, è contenuto negli argini.

E a te ragazza
che mi dici che non è vero
che il piccolo borghese
è solo un po’ coglione
che quell’uomo è proprio un delinquente
un mascalzone, un porco in tutti i sensi, una canaglia
e che ha tentato pure di violentare sua figlia.
Annibale Gagliani
173

Io come Dio inventato


come Dio fittizio
prendo coraggio
e sparo il mio giudizio e dico:
speriamo che a tuo padre
gli sparino nel culo, cara figlia.
Così per i giornali diventa
un bravo padre di famiglia.

I toni si alzano improvvisamente: l’uomo è un essere che


sovente compie atti spregevoli, disgustosi, fuori da ogni logica.
Violenza carnale su una figlia! La prova eclatante citata dal “Dio
per un quarto d’ora”, inasprisce la portata del giudizio sulla so-
cietà nuova di zecca. Trovano spazio nella slegata requisitoria i
media, che conquistano una seggiola d’onore grazie alle loro ca-
pacità di manipolare un fatto evidente. Lo stupratore può trasfor-
marsi in candida vittima se al cliente solletica l’idea. La scelta del
turpiloquio per gli autori è una necessaria liberazione, più che
un’intemperanza stilistica. Il Dio furente e meditabondo chiude-
rebbe la bocca a tanti ciarlatani, sbarrando loro la strada dei cieli.
Osserva come la politica – quella dei peccaminosi politicanti – sia
diventata un gioco metaforicamente simile alla lebbra, al tifo, in
grado di collassare la pelle. Marco Travaglio, dopo un’intervista
fatta a Gaber nel 1998 per «la Repubblica», comprende l’aurea
ontologica che muove le considerazioni filosofico-politiche del Si-
gnor G. «Di lui mi colpì soprattutto la totale equidistanza dalla
politica. Che non credo fosse geometrica, nel senso che non penso
Impegno e disincanto
174

proprio che Gaber facesse calcoli su quanto lo separava dalla de-


stra e quanto invece dalla sinistra. Mi sembrò un atteggiamento
interiore, una categoria dello spirito che segnava la sua alterità
assoluta da un far politica nei partiti189».

A questo punto le trombe del giudizio universale squillano


inquiete, assordando il perbenismo trotterellante:

Però se fossi Dio


sarei anche invulnerabile e perfetto
allora non avrei paura affatto
così potrei gridare, e griderei senza ritegno che è una porcheria
che i brigatisti militanti siano arrivati dritti alla pazzia.
Ecco la differenza che c’è tra noi e gli innominabili:
di noi posso parlare perché so chi siamo
e forse facciamo più schifo che spavento
di fronte al terrorismo o a chi uccide c’è solo lo sgomento.
Ma io se fossi Dio
non mi farei fregare da questo sgomento
e nei confronti dei politici
sarei severo come all’inizio
perché a Dio i martiri
non gli hanno fatto mai cambiar giudizio. […]
Io se fossi Dio
quel Dio di cui ho bisogno come di un miraggio
c’avrei ancora il coraggio di continuare a dire
che Aldo Moro insieme a tutta la Democrazia Cristiana
è il responsabile maggiore di trent’anni di cancrena italiana.

Annibale Gagliani
175

Dopo il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro nel 1978, le


BR non placano la loro fame di casta. Agli inizi degli anni Ottanta
vengono assassinati Vittorio Bachelet, vicepresidente del Consi-
glio superiore della Magistratura, e il giornalista Walter Tobagi.
La cronaca nera narra anche della morte – per mano di Cosa No-
stra – del Presidente della Regione Sicilia, Piersanti Mattarella.
L’Italia a questo punto diventa una polveriera abbagliata dall’odio
più scellerato. Il Dio degli Anni affollati grida senza ritegno lo sgo-
mento verso gli ambrati killer rossi: l’espressione di cotanta «rab-
bia» – la migliore di sempre, «encomiabile», diretta verso «tutti
quelli che “elegantemente” erano già oltre ogni possibile indigna-
zione», ma perfettamente «a loro agio nell’effimero, nella nouvelle
vague plastificata degli anni Ottanta190» – spacca dottamente la
critica. Aldo Moro, vittima dorata dei brigatisti, cugino dei martiri
millenari di cui Dio non si cura, si trasforma in nome intoccabile
dopo la controversa scomparsa. Nessuno si permette di analizzare
il suo operato da statista: né giornalisti perversi, né parlamentari
avversi e neppure i disquisitori seriali del bar. Gaber e Luporini
sollevano il velo di lino che ricopre il politico più potente degli
anni Settanta. L’invereconda dipartita non cancella “la cancrena”
che egli crea nell’organismo statale, insieme, naturalmente, ai col-
leghi dallo scudo crociato (che lo abbandonano senza troppi com-
plimenti). Gli autori fanno appello al realismo, alle azioni che
determinano e qualificano l’uomo, stigmatizzando lo sgomento fi-
sico diffuso. È una precisa scelta linguistica, debordante e cinica,
finalizzata al ritrovamento del vero Dio, operazione possibile sol-
tanto continuando «a demolire gli idoli», che pubblicizzano «una
libertà di far qualunque cosa191», Libertà obbligatoria.
Impegno e disincanto
176

Come sostiene, con non pochi risentimenti, il pensatore


Adorno, l’estrema lontananza è l’unica e ineluttabile fonte di vi-
cinanza. Un ragionamento pieno di conflitti emozionali, con il
quale Gaber chiude il suo giudizio politicamente scorretto: tutto
ciò è prova di sofferto amore che il protagonista non riesce a con-
tenere. «Io se fossi Dio, mi ritirerei in campagna, come ho fatto
io»; una scelta moralmente doverosa, non priva di malinconie e
lacrime soffocanti, ma assolutamente in linea con il percorso
umano del Signor G. La contrastante sensazione vissuta dall’in-
terprete in Io se fossi Dio, è descritta con affettuosa franchezza
dall’amico Luporini: «credo che la sua forza e il suo impatto sugli
spettatori restino ineguagliabili, anche e soprattutto per l’incre-
dibile energia e direi quasi la violenza che Giorgio era capace di
rovesciare su un pubblico che assisteva annichilito192». L’irruenza
dell’intervento, come già accennato, attira critiche ferocissime da
organi di stampa nazionali – quelli più imborghesiti – e dalle
forze politiche d’élite. Essi accusano gli autori – con opportuni-
stica indignazione – di disfattismo, qualunquismo e pessimismo.
A pensarla diversamente, in questo caso, è un premio Nobel ita-
liano, stimato a gran voce in ogni landa terrestre grazie al suo Mi-
stero Buffo, Dario Fo.

Personalmente ritengo che Giorgio non abbia mai smesso di es-


sere presente, lo sarà sempre. Perché i suoi modi artistici non avevano
scadenza. Ha sempre scritto, cantato e recitato l’universale. Anche
quando partiva dalla cronaca. Con Luporini scriveva lavori costruiti
bene e soprattutto mangiati, masticati, digeriti, sputati e ripresi. Ovvero
mediati, sofferti, discussi, faticosi, mai buttati lì con facilità. Come tutte
Annibale Gagliani
177

le cose che contano, le sue erano opere vissute. E mi piacerebbe molto


vedere ragazzi di oggi rimettere in scena tutto quello che Giorgio ha
fatto, vederli confrontarsi non solo con le sue canzoni, ma anche, e so-
prattutto, con quel suo teatro tanto sofferto e tanto attuale193.

I tuonanti anni Ottanta del Signor G si arricchiscono di una


sfumatura di leggerezza inaspettata: un disco jazz and rock-blues
con l’amicone Enzino Jannacci. È il 1983, volteggia sul mercato
discografico italico un divertissement chiamato Ja-Ga brothers,
maxi 45 giri pubblicato dall’etichetta CGD East West. La tempe-
stosa ironia che investe il lavoro da hit parade, contamina deci-
samente il ritorno in teatro di un Gaber sempre più pungente:
nella stagione 1984/1985 arriva lo spettacolo Io se fossi Gaber.
L’opera evocativa chiude con netto anticipo due lustri gorgoglianti
di sangue e corruzione, che registrano il trionfo dell’illegalità po-
litica. Non è più il momento, brano immerso nell’ermetico cano-
vaccio, placa splendidamente un bollore platonico che ritorna a
crescere morboso negli anni Novanta.

Caro amico, sei messo male


sei vittima di un tempo un po’ sbagliato
un tempo dove tutto si è appiattito
dove ciò che aveva un senso si è deteriorato. […]
No, non fa male credere
fa molto male credere male.

Ma dove vuole andare a parare la radiosa vena dell’Adorno


del Giambellino? Qual è il punto d’approdo finale? Il professore
Impegno e disincanto
178

Roberto Vecchioni scorge nell’orizzonte gaberiano una chiave di


lettura poetica e civilmente impegnata, che corteggia socialmente
l’infinito.

Gaber era semplice e chiaro, non gridava verità ma proponeva


strade. Segnalando anche l’importanza del dolore, la necessità nella vita
di superare prove difficili. Tutte cose che danno i romanzi, e però in
maniera più diretta oggi ci arrivano proprio dalle canzoni d’autore. La
forma più rapida per entrare nel contemporaneo. Che poi è sempre
stato lo scopo di Giorgio Gaber: cantare l’illogica allegria del vivere la
realtà194.

Annibale Gagliani
179

5. Il mondo fa male, ma può essere anche


capace di amare

Nella stagione dell’Italia che sta per salutare la prima Re-


pubblica – frantumata dai miliardi di monetine di Tangentopoli
– e che versa lacrime al sapor di tritolo sui corpi eroici di Falcone
e Borsellino, Gaber torna sul proscenio per uno spettacolo speciale
messo in circolo tra il 1991 e il 1992: Teatro Canzone. Nomino
un’opera di delicato amarcord, o più minuziosamente, un rispol-
vero dei suoi monologhi meglio riusciti. Bisogna ricordare che sul
finale degli anni Ottanta, il cantautore porta in scena, assieme a
Luporini, due lavori prosaici concettualmente diversi dalla tecnica
teatrale gaberiana: Parlami d’amore Mariù e Il Grigio, che ricon-
ciliano l’artista con la propria arte d’ispirazione ateniese. Ritor-
nando alla raccolta di gemme culturali che inaugura il decennio
del progresso digitale, L’illogica allegria, Le elezioni, Il suicidio,
La nave, I soli, Lo shampoo, e tante altre, sono analitiche prove
di compatibilità tematica nell’attualità di ogni epoca. Gaber recu-
pera dalle proprie teche filosofiche lo slancio utopico, seppur “rat-
trappito”, con l’inedito monologo Qualcuno era comunista.
«Un’autentica grande partecipazione195», che è spirata all’epilogo
del secolo, ritorna a echeggiare anche in un evergreen del Teatro
Canzone, C’è solo la strada:
C’è solo la strada su cui puoi contare
la strada è l’unica salvezza
c’è solo voglia e il bisogno di uscire
di esporsi nella strada e nella piazza.
Impegno e disincanto
180

Perché il giudizio universale


non passa per le case
le case dove noi ci nascondiamo
bisogna ritornare nella strada
nella strada per conoscere chi siamo.

GG invoca la cruenta agorà, la polvere virtuosa della


strada, la rottura della routine casalinga che porta all’autodistru-
zione consapevole. Il giudizio universale non passerebbe mai
dalle fredde abitazioni, perché il confronto caloroso è prestabilito
soltanto fuori e dentro di sé. La contrapposizione tra malinconici
slanci utopistici e pessimismo dinamico, è il preludio dell’opera
successiva, E pensare che c’era il pensiero, dove gli autori assor-
bono il bastimento di errori – quasi fantascientifici – che la sfera
culturale, politica ed economica lancia nella gipsoteca della storia
noir. Sandro Luporini spiega l’influenza ricevuta dentro la spirale
dello strambo crollo sociale:

Nei tre anni in cui Giorgio portò in tournée “Il Teatro Canzone”,
in Italia era successo davvero di tutto. La realtà di quello che avevamo
appreso dai telegiornali superava di gran lunga qualunque racconto di
fantasia. Le indagini di Mani Pulite avevano portato alla luce un sistema
consolidato di finanziamenti illeciti all’interno dei partiti e io e Giorgio
commentavamo quello che stava accadendo, aspettandoci sempre un
altro colpo di scena, come in un racconto a puntate196.

Annibale Gagliani
181

Nel 1995 il conflitto interiore del Signor G ritorna lanci-


nante e si materializza sul palco con una burlesca consapevolezza:
la mancanza di senso collettivo, che potrebbe tornare in auge solo
con l’ausilio di un sentimento d’appartenenza empatico. E pen-
sare che c’era il pensiero è uno schiaffo morale all’individuo tem-
perato da una copiosa solitudine. E nell’ensemble musicale,
godibile e tecnicamente scorrevole, Mi fa male il mondo rappre-
senta una «esplicita cavalcata riassuntiva dello stato d’animo che
pervade l’intero disco197». Il classic Gaber del Teatro Canzone, a
volte vestito con un comune maglione, altre con semplice abbina-
mento giacca e cravatta, lascia spazio a un lodevole disincanto fi-
sico: è l’interpretazione più graffiante della sua antologia. Tra i
rompicapi finissimi racchiusi in Destra e sinistra e le discussioni
trascendenti sui rapporti sociali, emozionali e sentimentali si le-
vano in alto le fiamme oscure dell’artista. Gli fa male il mondo,
mica un dente del giudizio qualsiasi.

Mi fa male la stampa. Mi fa male che ci sia ancora qualcuno che


crede che i giornalisti si occupino di informare la gente. […] «Cosa met-
tiamo oggi in prima pagina? Ma sì, un po’ di bambini stuprati. È un periodo
che funzionano». […] Facce da grandi missionari dell’informazione che il
giorno dopo guardano l’indice d’ascolto, sì, alla televisione. Facce comple-
tamente a loro agio che si infilano le dita nelle orecchie e si grattano i co-
glioni. Sì, questi geniali opinionisti che gridano, litigano, si insultano,
sempre più trasgressivi. Questi coraggiosi leccaculo travestiti da ribelli. È
questa libertà di informazione che mi fa vomitare.

Impegno e disincanto
182

“La libertà d’informazione” che si trasforma prepotente-


mente, alla velocità della luce, in TV del dolore, in sete di au-
dience, in faccia diabolica dell’intellettualoide decerebrato.
Urlatore di professione, giornalista medio che al guinzaglio del
padroncino gli lecca i piedi annusando la grana. E poco importa
se le foto in prima pagina o in prime time sono di “bambini stu-
prati”, “mamme piangenti” o di sederi droganti, quando “c’è
l’ascolto c’è tutto”. L’avarizia del guadagno esautora anche le co-
scienze culturali più vergini dell’opinione pubblica: Gaber non
riesce a sopportarlo, e totalmente disgustato da quelle visioni, si
sfoga senza freni inibitori.

Mi fa male la violenza. Mi fa male la sopraffazione, la prepo-


tenza, l’ingiustizia. A dir la verità mi fa male anche la giustizia. Un Paese
che ha una giustizia come la nostra, non sarà mai un Paese civile. […]
Mi fanno male le facce dei collaboratori di giustizia. Sì, dei pentiti, degli
infami insomma. Che dopo aver ammazzato uomini, donne e bambini
fanno l’atto di dolore, tra Pater, Ave e Gloria e chi s’è visto s’è visto. Mi
fa male che tutto sia mafia.

La mafia ha marchiato a fuoco una nazione sempre più


terrorizzata dal “vivere normalmente”. Ma in fin dei conti, il po-
polo, è difeso dalla Magistratura come prevede l’amata Costitu-
zione? L’Adorno del Giambellino è preoccupato dell’incapacità
della giustizia italiana di tutelare i cittadini; lo storico, catastro-
ficamente, parla chiaro. Dopo l’escalation mediatica di Buscetta,
pentito che porta alla demolizione del castello di Cosa Nostra, si
fa largo una nuova tipologia di fenomeno da baraccone: il delin-
Annibale Gagliani
183

quente redento, che diviene vip esclusivo, ruminatore seriale dei


milioni delle TV.

Mi fa male non capire perché animali della stessa specie si am-


mazzino tra loro. Mi fa male che in Bosnia non ci sia il petrolio. Mi fa
male, mi fa male chi crede che le guerre si facciano per ragioni umani-
tarie. Mi fa male anche chi muore in Somalia, in Ruanda, in Palestina,
in Cecenia. Mi fa male chi muore. Mi fa male chi dice che gli fa male chi
muore e fa finta di niente sul traffico delle armi, che è uno dei pilastri
su cui si basa il nostro amato benessere.

È mai giusta questa guerra? L’uomo non ha mai smesso di


combattere, l’assalto bellico è sempre un argomento di eccitante
attualità. Vuoi per i miliardi che portano in dote l’acquisto di armi
di distruzione di massa (o di singole genti) e ancora per la verti-
gine che provoca il possedimento dei cacciabombardieri o delle
portaerei (giocattoli orgasmici in mani talvolta depravate). GG è
percosso da una sofferenza inestinguibile, causata dalle deplore-
voli morti che accelerano il meccanismo autodistruttivo del po-
tere. Si decide di ammazzare in Somalia e Ruanda per motivi
“umanitari”. Lo stesso vale per la Bosnia, dove l’autore rammenta
come “non sia stato trovato il petrolio”.

Mi fanno male le lobby di potere, le logge massoniche, la P2. […


] Mi fa male qualsiasi tipo di potere, quello conosciuto e anche scono-
sciuto, sotterraneo, che poi è il vero potere. Mi fanno male le oscillazioni
e i rovesci dell’alta finanza. Più che male mi fanno paura, perché mi
sento nel buio, non vedo le facce. Nessuno ne parla, nessuno sa niente.

Impegno e disincanto
184

Sono gli intoccabili. Facce misteriose che tirano le fila di un meccani-


smo invisibile, talmente al di sopra di noi da farci sentire legittima-
mente esclusi. È lì, in chissà quali magici e ovattati saloni, che a voce
bassa e con modi raffinati si decidono le sorti del nostro mondo. Dalle
guerre di liberazione ai grandi monopoli, dalle crisi economiche alle
cadute dei muri, ai massacri più efferati.

Il Signor G intuisce tutto, grazie alla sua smisurata sensi-


bilità e al fervido sentimento di pietas nei confronti del mondo.
Il potere senza volto profetizzato da Pasolini e la cerimonia pa-
rodistica della società deceduta ne La domenica delle Salme di
Faber, trovano un fenomenale parallelo sul proscenio: Mi fa male
il mondo. Gaber accenna alle strategie che la loggia massonica
“P2” medita per conservare il potere economico-sociale sull’Italia
(forma di lobbismo storico affrontata poeticamente da Rino Gae-
tano), ma guarda addirittura oltre: le catene invisibili della fi-
nanza stanno per sopprimere le masse, che non disobbediscono
più ai padroni sconosciuti. Nello squallore assordante del lusso
senza indirizzo si decidono le sorti del pianeta: guerre stermi-
nanti, monopoli succosi e posizionamento delle pedine funzio-
nali. Chi sono costoro – scacchi lussureggianti – che garantiscono
cicli interminabili di dominazione agli invisibili? Per GG e SL si
chiamano “politici”. Queste elettrizzanti riflessioni sulle angherie
subite negli anni per mano degli “statisti” hanno un effetto las-
sativo. Il linguaggio gaberiano e luporiniano – disincantato al-
l’ennesima potenza –, suscita, ex novo, angosciose polemiche
negli stomaci intellettuali più delicati. Ma fermiamoci un attimo
a riflettere. Perché, noi Italiani, esseri umani, individui composti
Annibale Gagliani
185

da brividi dolorosi ed emozioni lascive, come ci esprimiamo di so-


lito di fronte alle ingiustizie? L’attore diviene nell’opera (come del
resto in tutte le sue manifestazioni artistiche) auspicato megafono
sociale, lucidato da vivido realismo civile.

L’artista eretico continua a stimolare fulgidamente il suo


idilliaco conflitto interiore. In Mi fa male il mondo, implode sul
finale un messaggio di speranzosa responsabilità verso l’indivi-
duo: seppur disperso nelle dittature invisibili, o in quelle sempre
on air dei mass media, egli può rivoluzionarsi.

Bisogna assolutamente trovare il coraggio di abbandonare i no-


stri miseri egoismi e cercare un nuovo slancio collettivo, magari scatu-
rito proprio dalle cose che ci fanno male, dai disagi quotidiani, dalle
sofferenze comuni, dal nostro rifiuto. Perché un uomo solo che grida il
suo no è un pazzo. Milioni di uomini che gridano lo stesso no avrebbero
la possibilità di cambiare veramente il mondo.

Allargando ampiamente il tiro su tutta l’opera, è incredibile


constatare come in E pensare che c’era il pensiero aleggia elegan-
temente un alone di romanticismo salvifico. Spicca la canzone
d’amore più giusta della storia della musica nostrana: Quando
sarò capace di amare.

Quando sarò capace di amare


probabilmente non avrò bisogno
di assassinare in segreto mio padre
né di far l’amore con mia madre in sogno.
Impegno e disincanto
186

Quando sarò capace di amare


con la mia donna non avrò nemmeno
la prepotenza e la fragilità di un uomo bambino.

Una sfida ammaliante lanciata a Sigmund Freud: non è


detto che per essere in grado di amare ci sia bisogno di rispolve-
rare l’arcaico mito di Edipo Re. Assassino ideale del padre, tragico
amante della madre, secondo gli autori non è questo l’uomo ca-
pace realmente di amare. La “prepotenza” e la “fragilità” di un in-
dividuo immaturo non potrà mai permettergli di vivere un
rapporto completo ed equilibrato. Perciò prima di accendere il
verbo amare, urge innaffiarne un altro ben più edificante: matu-
rare. E tutto ciò non rappresenta un moto egoistico di crescita
personale, bensì, la certezza di donare il pieno godimento al par-
tner.

Quando sarò capace di amare


vorrò una donna che non cambi mai
ma dalle grandi alle piccole cose
tutto avrà un senso perché esiste lei.
Potrò guardare dentro al suo cuore
e avvicinarmi al suo mistero
non come quando io ragiono
ma come quando respiro.

Il giusto bilanciamento tra desiderio e rispetto. Il Signor


G non sciorina parole al vento che si innestano dentro a un co-

Annibale Gagliani
187

munissimo compromesso, ma la leale forma dell’amore completo.


«Guardare dentro al suo cuore e avvicinarmi al suo mistero», in
punta di piedi, avendo massima cura di ogni passo, «non come
quando ragiono ma come quando respiro», analogia di un’azione
che richiama all’indispensabile meccanismo vitale, perciò fonda-
mentalmente necessario, e mai opportunistico e utilitario.

Quando sarò capace di amare


farò l’amore come mi viene
senza la smania di dimostrare
senza chiedere mai se siamo stati bene.
E nel silenzio delle notti
con gli occhi stanchi e l’animo gioioso
percepire che anche il sonno è vita
e non riposo.

L’amore come un continuo nutrimento reciproco e non


come un mero risultato da raggiungere. L’amore senza alcun as-
sillo di essere perfetti e di richiedere la perfezione dall’altra metà
di mela: in primis dentro il climax dello sbalorditivo brivido, da
assaporare insieme. E dopo la magica rivelazione di Venere, la
sinfonia non può finire, cala il silenzio, è notte, frangente cristal-
lino di esistenza reciproca e non di semplicistico riposo.

Quando sarò capace di amare


mi piacerebbe un amore
che non avesse alcun appuntamento
col dovere.

Impegno e disincanto
188

Un amore senza sensi di colpa


senza alcun rimorso
egoista e naturale come un fiume
che fa il suo corso.

L’atto poetico del cantautore si dispiega in una specie di


auto-epistola che interroga la propria coscienza, il proprio io, l’es-
sere uomo in carne e sentimenti. La giusta commistione tra liri-
smo essenziale e prosa attinta dal quotidiano, compone un
corpus compatto di strofe variegate e coerenti. I versi sono liberi
di spaziare nella sillabazione, poiché legati da un ermetismo pia-
cevole e spontaneo. Il protagonista sussurra morbidamente, alle
vibrazioni della ballata al miele, un proposito consapevole e one-
sto, «Quando sarò capace di amare…». Il primo atto di indagine
è compiuto su se stesso: solo dopo aver accertato di essere in
grado di amare con maturo tocco, egli esprime il desiderio nei
confronti del partner. Confessa che «non vorrebbe un amore che
avesse appuntamenti col dovere», senza rimuginare nel domani
“colpevoli rimorsi” (da ultima spiaggia). GG e SL citano il fiume
come metafora dello strabiliante sentimento, perché spogliandosi
dei razionali artifizi si può raggiungere un’unione “egoista e na-
turale”. Esattamente come un corso fluviale qualsiasi, che nono-
stante le intemperie, raggiunge sempre l’atteso mare.

Gli anni Novanta dell’Adorno del Giambellino chiudono il


sipario con l’ultimo capolavoro del Teatro Canzone: è il 1997, sul
proscenio ruggisce Un’idiozia conquistata a fatica. Lo spettacolo
traghetta il sodalizio Gaber-Luporini fino al nuovo millennio, se-
Annibale Gagliani
189

gnando un periodo di sfavillante nichilismo combattivo. Gli autori


indagano, servendosi degli epici monologhi cantati, sul rapporto
causa-effetto che intercorre tra l’imperialistica espansione del
mercato e l’indelebile grigiore delle coscienze. Il consumo deli-
rante e la dipendenza dalla produzione sono il mantra di fine se-
colo, in cui l’uomo è chiamato perlomeno a garantirsi un
equilibrio sano, che possa dare senso al suo modus operandi.
Tutte le paure paventate dalle opere gaberiane negli anni Settanta
sono diventate realtà: l’individuo è stato plasmato dal potere do-
minante, dando così i natali a una razza ibrida e ossequiosa, quella
personificata da Il conformista.

L’individuo pseudo-idealista del Sessantotto subisce una


metamorfosi spersonalizzante che lo ha reso camaleontico, con-
cettualmente impotente, boriosamente cangiante. Il favoloso brano
di GG e SL «riassume più potentemente l’idiozia individuale ma-
scherata alla bell’e meglio da un uomo aggiornato e informato, va-
gamente d’altronde, su ogni argomento198». Inizialmente gli autori
si esprimono in prima persona, dando voce squillante al “confor-
mista”. Dalla parte centrale del pezzo fino alla conclusione, essi
fanno un balzo fuori dalla narrazione e raccontano il personaggio
dall’esterno, con gli occhi del pubblico (tecnica che regala una ce-
lere immedesimazione all’ascoltatore):

Il conformista
è uno che di solito sta sempre dalla parte
giusta
il conformista ha tutte le risposte belle chiare
Impegno e disincanto
190

dentro la sua testa


è un concentrato di opinioni
che tiene sotto braccio due o tre quotidiani
e quando ha voglia di pensare
pensa per sentito dire
forse da buon opportunista
si adegua senza farci caso e vive nel suo
paradiso.
Il conformista
è un uomo a tutto tondo che si muove senza
consistenza
il conformista s’allena a scivolare
dentro il mare della maggioranza
è un animale assai comune
che vive di parole da conversazione
di notte sogna e vengon fuori
i sogni di altri sognatori
il giorno esplode la sua festa
che è stare in pace con il mondo
e farsi largo galleggiando.

Un essere parassitario, che fortifica le proprie difese im-


munitarie con supposte di opinioni provenienti da più versanti.
È sempre e costantemente dalla parte giusta, opportunista come
nessuno nella storia, si infila nei meccanismi della maggioranza.
Galleggia nella palude terrena, festeggiando una pace giornaliera
a lui funzionale: senza farsi accorgere ruba sogni di altri sogna-
tori. Gaber emette un lessico articolato, denso di aggettivi quali-
Annibale Gagliani
191

ficativi ed etichette politico-sociali, che ricostruiscono paurosa-


mente il profilo del conformista tipo: cervello asettico partorito
dal progresso. Il finale dell’antropologica denuncia è, per certi
versi, tranquillamente terrificante, per altri, comicamente disar-
mante. Il conformista somiglia a tutti noi. L’individuo che sfiora
i problemi reali con un dito e che dopo aver morso la vita si sente
realizzato, siamo tutti noi. Pallone gonfiato, informato apparente.
Non nutre speranze di progredire a livello cerebrale: è solo la po-
sizione nella piramide gerarchica il suo etilico assillo. Lo siamo
tutti noi! È inutile, controproducente, credere di poter nascon-
dersi. Risulta illuminante scoprire che l’unico cittadino d’Italia a
fare outing in tal senso è proprio il coautore del capolavoro citato,
Sandro Luporini. «Insomma, lo ammetto, anch’io sono malato,
malato di conformismo come tutti gli altri; quello che mi dispiace
di più è di non essere riuscito per ora a trovare un medico che mi
possa almeno ricoverare199».

Un’idiozia conquistata a fatica, complessivamente, è una


riflessione sostanziale sull’inconsistente processo democratico
esploso dopo la caduta del Muro di Berlino. L’ideologia del mer-
cato, con la sua selvaggia somministrazione della droga del con-
sumo, garantisce una democrazia povera di valori, in grado di
svuotare all’inverosimile l’uomo. Tutto ciò svezza flotte giovanili
prive di senso di responsabilità, devote allo sfrenato vizio e lonta-
nissime dalle angolari ideologie. Gaber e Luporini profetizzano il
destino ultimo della civiltà: un crollo progressivo e distruttivo,
come quello subito dall’Impero Romano per mano dei Barbari. La

Impegno e disincanto
192

gravissima mancanza di coscienza è la colpa assoluta dell’uma-


nità, ormai schiava dei dettami del mercato.

Chiudo il Novecento del Signor G con un pensiero bellis-


simo dedicatogli da uno dei fuoriclasse della satira italiana. Egli
attinge a piene mani dalla leggenda del Teatro Canzone e porta
un nome che con le pose circensi del potere cozza, Maurizio
Crozza. «Sia in teatro sia in televisione, spesso mi sono servito
della lucida e arguta sintesi di Giorgio Gaber: da “Il potere dei più
buoni” a “Il conformista”, Gaber mi è sempre venuto in soccorso.
La visione di Gaber e Luporini sulle debolezze umane è precisis-
sima. La loro capacità di aver visto lontano, di aver scritto e pre-
ceduto il pensiero di molti, li rende attualissimi200».

Annibale Gagliani
193

6. L’Umanesimo Nuovo:
La razza in estinzione può salvarsi, rivoluzionandosi

All’inizio del millennio ipertecnologico, appaiono due fati-


che discografiche che rappresentano il perentorio canto del cigno
per il cantautore teatrale: La mia generazione ha perso (edito da
CGD East West nel 2001) e Io non mi sento italiano (pubblicato
sempre da CGD East West nel 2003). Nel primo album ritroviamo
un brano dalla ratio nietzschiana, che si prende carico di tutta
«l’amarezza di dover attraversare, per onestà intellettuale, il ter-
reno della sconfitta sino all’estremo della sofferenza personale201»,
La razza in estinzione.

La mia generazione ha visto


migliaia di ragazzi pronti a tutto
che stavano cercando
magari con un po’ di presunzione
di cambiare il mondo.
Possiamo raccontarlo ai figli
senza alcun rimorso
ma la mia generazione
ha perso.

Gaber e Luporini ripercorrono i fasti volanti del Movi-


mento del Sessantotto, quasi come una calda carezza all’avara so-
cietà italiana. Nell’amarezza setosa dell’amarcord, riescono a
isolarsi storicamente: fanno un respiro profondo, con la lucidità
Impegno e disincanto
194

intellettuale che li ha sempre contraddistinti, non hanno pro-


blemi a cantare «l’affermazione relativa alla propria sconfitta ge-
nerazionale», ritenuta «perentoria», senza lasciare spazio a
«dubbi o eccezioni202». Su questo pessimista punto di snodo della
società contemporanea, non sono d’accordo colleghi illustrissimi,
come l’amicone coevo che lucida gli albori del cabaret ambro-
gino, Enzo Jannacci. «Solo su un concetto non sono mai stato
d’accordo con Gaber: la nostra generazione secondo me ha vinto,
mica perso. Perché abbiamo figli con le palle, perché abbiamo po-
tuto fare seri discorsi sociali nella musica; partendo da Milano,
la Milano degli anni Sessanta, che era un po’ meno invivibile di
quella che c’è adesso203».

Ma a non essere sulla stessa lunghezza d’onda della sco-


moda ricostruzione gaberiana erano, surtout, i sessantottini di-
stribuiti tra il pubblico. A questo punto Sandro Luporini, senza
nemmeno l’ombra di una (pur) comprensibile polemica, spiega
le reali motivazioni che spingono i due artisti a consegnare l’ono-
revole medaglia della sconfitta alla generazione della contesta-
zione:

Molti, anche tra il nostro pubblico, hanno contestato quest’ul-


tima frase come fosse un’eresia, un’offesa incancellabile. “Non è vero
che abbiamo perso” dicevano in coro. “Caro Gaber, sei tu che non hai
più la spina dorsale!” […] io e Giorgio volevamo solo dire che il movi-
mento del Sessantotto, rispetto alle sue aspettative di partenza, non
aveva raccolto abbastanza; l’eco della sua protesta si era affievolito, se
non addirittura spento, troppo presto per poter raggiungere dei veri
Annibale Gagliani
195

cambiamenti. Si trattava alla fine dell’ammissione di una sconfitta –


anche mia e di Giorgio – la cui analisi disincantata rappresentava per
noi l’unico contributo reale che potessimo dare a chi […] veniva dopo
di noi204.

L’analisi condotta in La razza in estinzione non si sofferma


soltanto sull’involuzione di un passato melanconico, ma ha la
forza sociologica di guardare oltre, verso quel futuro a “stelle e
strisce” che si è già impadronito del corso degli eventi. Guardare
dritto in faccia la tremenda verità del presente per creare un’uma-
nità giusta e consapevole, che non è mai esistita in precedenza.
Nei versi di Gaber e Luporini – se si ascolta con orecchio aguzzo
collegato all’intelletto – non vi è traccia di pessimismo autorefe-
renziale e nei ragionamenti imparziali, tantomeno di sadico ni-
chilismo. La mia generazione ha perso è il compimento
clamoroso degli studi eretici, corsari e disincantati di Pier Paolo
Pasolini. Il suo grido salvifico trova straordinaria collocazione e
definizione nell’opera finale dell’Adorno del Giambellino: vince
l’omologazione e non l’egualitarismo; evapora la creatività e
trionfa la spettacolarizzazione televisiva; scompare il pacifismo
spirituale per lasciare terreno fertile al potere belligerante; perde
fragorosamente la razza dei “capelli lunghi” e stravince l’appa-
rente libertà americana. Il prodotto sociale più dolente dell’ultima
umanità – dall’epilogo straziante – è L’obeso, che attraverso una
citazione dotta di pregevole caratura, diviene «il segreto di un
gonfiarsi disumano», «l’infinito di un Leopardi americano205».
Tale figura nata in Nord America – già distribuita in tutto il pia-
neta – è schizofrenicamente animata dal possedere e ingurgitare.
Impegno e disincanto
196

È golosa di cibo da fast food, vestiti griffati e oggetti tecnologici,


che le danno un senso di pienezza effimero. I comandamenti della
sua pseudo-esistenza non ammettono esami di coscienza: essere
sempre alla moda, cambiare velocemente il cellulare (o il pc) con
uno di ultimissima generazione; ingozzarsi di "schifezze" propi-
nate da un mercato ramificato in ogni angolo dei continenti (e
nella mente di ogni cliente). Solo così L’obeso gode, ingrassando
il sedere (o i bicipiti) e sfibrando il cervello. Il Dio Consumo è or-
goglioso dell’esemplare che ha creato – ancora in preda a una
continua trasformazione – ed è pronto a brevettare una massa
dall’aspetto delirante: quella “senza più l’individuo”. È soltanto
l’aurora del Duemila, e GG e SL comprendono perfettamente il
destino abominevole di un genere che cambia la propria conno-
tazione, presentandosi come un “non genere”: il non genere
umano.

All’inizio del 2003, poco dopo la scomparsa di Gaber, av-


venuta il primo gennaio a Montemagno di Camaiore, in tutto il
laconico Stivale riecheggia romanticamente una lettera aperta
scritta a cuore spalancato dall’artista, destinatario il Presidente
della Repubblica Carlo Azelio Ciampi, ma in realtà sarebbe esten-
dibile altresì a Giorgio Napolitano o a Sergio Mattarella. Io non
mi sento italiano, ennesima perla di una carriera coerentemente
incommensurabile, che dà il titolo all’intero album.

Io G. G. sono nato e vivo a Milano.


Io non mi sento italiano

Annibale Gagliani
197

ma per fortuna o purtroppo lo sono. […]


Mi scusi Presidente
se arrivo all’impudenza
di dire che non sento
alcuna appartenenza.
E tranne Garibaldi
e altri eroi gloriosi
non vedo alcun motivo
per essere orgogliosi.

Gaber instaura un dialogo diretto insieme al sommo ascol-


tatore, esprimendosi con un apporto lessicale «coerentemente
schierato per il congiuntivo206». La struttura sintattica è essenziale
e valorizza momenti di rima random, che si impongono come i
passaggi chiave del pezzo. Il refrain evocativo, «mi scusi Presi-
dente», tiene idealmente sulla corda il destinatario, che diviene,
infatti, protagonista indiretto della sintetica ricostruzione storica,
cesellata nei versi di prosa resistente. L’autore porta alla ribalta
quel malcostume diffuso in tutta la nazione: il patriottismo man-
cato. L’italiano medio non è pervaso dal celeberrimo senso di ap-
partenenza, e tranne Garibaldi e altri patrioti dell’Unità, non vi
sarebbe necessità di esibire orgoglio per nessuno. Il mittente ri-
corda la ferita interna del fascismo per preannunciare la forma-
zione di una democrazia molto discutibile, che dal dopoguerra
fino al Duemila, porta a esercizi di opera buffa all’interno di un
Parlamento “sfasciato”. Ma mentre consta tutte le criticità di un
Paese dai contorni surreali, G.G. apre uno spiraglio di responsa-
bile rivalsa civile:
Impegno e disincanto
198

Mi scusi Presidente
ma forse noi italiani
per gli altri siamo solo
spaghetti e mandolini.
Allora qui mi incazzo
son fiero e me ne vanto
gli sbatto sulla faccia
cos'è il Rinascimento. […]
Io non mi sento italiano
ma per fortuna o purtroppo
per fortuna o purtroppo
per fortuna
per fortuna lo sono.

Nel pessimismo umanitario dell’artista ritroviamo costan-


temente tracce intensissime di ottimistica rivoluzione interiore
(e sociale). Gaber chiede al Presidente di prendere seria coscienza
dei limiti nazionali, ma di tenere viva nelle sinapsi l’immagine
dello splendore italiano: quella del Rinascimento, dell’Umane-
simo vitale, che illuminò le tenebre costruttive del Medioevo. Bi-
sogna infrangere gli stereotipi saltellanti, attenuando le divisioni
intestine. Chi scrive la patriottica missiva lo fa già sull’amletico
finale, nel quale cantando il “non sentirsi italiano”, si domanda
se “per fortuna” o “purtroppo” lo sia: si ritiene, caldamente, for-
tunato di esserlo.

Annibale Gagliani
199

Andrea Scanzi, colonna portante de Il Fatto Quotidiano,


rispolvera i valori didatticamente satirici del Signor G nello spet-
tacolo teatrale Gaber se fosse Gaber. Con amorevole amarezza,
egli ricorda come l’ultimo genio della cultura italica sia venuto a
mancare proprio allo scoccar della fine di Io non mi sento italiano.

I Gaber non ci sono più, non soltanto perché non ci sono più fi-
sicamente, ma perché è cambiata tutta la società. L’idea che avevamo
di intellettuale tout court non esiste più. In questo grande caos, in que-
sta grande solitudine che tutti noi viviamo, qualcuno si aggrappa a Tra-
vaglio, al Fatto, a me. So che sta accadendo, ma per quanto io sia
narciso, Gaber era un’altra cosa. Era un fenomeno assoluto e raccon-
tarlo per me è un’emozione e un onore enorme, ancor più perché aven-
dolo conosciuto, so di cosa parlo207.

L’Adorno del Giambellino ricerca nella gemma discogra-


fica conclusiva la via più virtuosa per raggiungere un Umanismo
Nuovo. L’uomo può riscattarsi pretendendo la verità etica, da af-
ferrare fisicamente, vincendo così l’apatia convenzionale. Da qui
nascerebbe il confronto freudiano con I mostri che abbiamo den-
tro. È facile intuire allora come il pessimismo gaberiano abbia me-
ravigliose punte di fiducia nel cambiamento sociale. L’umanità
può rinascere, e non in maniera apparente, bensì con la U maiu-
scola: coltivando valori laici ed empatici si combatte il male del
potere dominante. Gaber consegna ai posteri «una sorta di pri-
maria eredità spirituale208» nel brano testamento della sua feno-
menale carriera, Se ci fosse un uomo.

Impegno e disincanto
200

Se ci fosse un uomo
forte nel guardare sorridente
la sua oscura realtà del presente
nel gestire ciò che ha intorno
senza intaccare il suo equilibrio interno
nell’odiare l’arroganza
nel custodire con impegno
la parte più viva del suo sogno
un uomo che ha scelto il suo cammino
senza gesti clamorosi per sentirsi qualcuno
che vive senza alcuna ipocrisia
col rispetto di se stesso e della propria pulizia
un uomo che crede nell’individualismo
ma combatte con forza qualsiasi forma di egoismo
che odia il potere esercitato su se stessi
che è certo che la donna e l’uomo
siano il grande motore del cammino umano […]
Allora si potrebbe immaginare
un Umanesimo nuovo
con la speranza di veder morire
questo nostro medioevo
con certezza in un futuro non lontano.

Primo Levi regala alle esigenti teche della cultura mon-


diale il decano dell’uomo bastardo, quello che soffocò la civiltà
durante il secondo conflitto mondiale, quello di Se questo è un
uomo. Günther Anders spariglia le carte nella comunicazione ter-
restre, vivisezionando le prime rivoluzioni industriali. Dopo di
che determina una conclusione inaspettata: la produzione di bi-
Annibale Gagliani
201

sogni inflitta dalla legge del mercato stabilisce che L’uomo è an-
tiquato. Giorgio Gaber, francofortese di Milano, offre alle gene-
razioni future – laicamente – la possibilità di frantumare le
tenebre dell’insensato medioevo consumistico, privo di qualsiasi
apporto valoriale. Ma per aprire le porte sociali al Nuovo Uma-
nesimo, bisogna avere il coraggio di intraprendere una rivoluzione
interiore totale. Tutto ciò potrebbe compiersi realmente, anche
dopodomani, Se ci fosse un uomo…

Impegno e disincanto
202

7. Il Signor G a sipario chiuso, a riflettori spenti

Chi è Giorgio Gaber a sipario chiuso, a riflettori spenti? Lo


chiedo con affettuosa emozione a due figure che lavorano ogni
giorno per diffondere alle nuove generazioni l’opera gaberiana,
regalando indomita passione ed eccellente professionalità: Paolo
Dal Bon, Presidente della Fondazione Giorgio Gaber (nata nel
2006 e concepita dall’omonima associazione culturale del 2003)
e Dalia Gaberscik, figlia dell’Adorno del Giambellino, nonché Vi-
cepresidente della Fondazione. Paolo intraprende l’oneroso com-
pito di organizzare le tournée del Teatro Canzone dal 1985 fino
all’ultima edizione. A tracciarne un tenero profilo è Sandro Lu-
porini, che ci riserva una chicca zuccherata.

Verso il 1985, Paolo Dal Bon aveva di fatto sostituito Giorgio


Casellato nell’organizzazione delle tournée teatrali di Gaber. Certo che
Giorgio se li trovava tutti un po’ matti, eh. Anche Paolo, infatti, aveva
le sue manie […] accompagnando Gaber nelle sue tournée, Paolo teneva
una specie di diario di bordo giornaliero, in cui di solito annotava con
cura i particolari più inutili, tipo: “Brescia – spese 850 lire al bar Corso;
colore delle pareti discutibile; ottimo il chinotto; cameriera carina; da
tornarci”. Però, a parte questo, credo che sia stata una delle persone
più care a Gaber, senza contare che gli è stato sempre vicino, anche nei
momenti più difficili. Paolo era quasi un figlio per Giorgio209.

Ma parliamone direttamente con lui, indubitabilmente ci


illuminerà le idee sulla sinfonica Epopea di GG:
Annibale Gagliani
203

Presidente, chi era per lei Giorgio Gaber?

Dopo vent’anni di lavoro con lui, a me piace dire che la persona,


Gaber persona, era ancora meglio del Gaber artista. E quindi la sensa-
zione che tanti avevano, e hanno avuto, e tutt’ora hanno, che dietro alle
cose bellissime che scriveva e che faceva insieme a Sandro Luporini ci
fosse una grande persona, è assolutamente confermata. Era veramente
una persona eccezionale, diversamente non avrebbe potuto fare quello
che ha fatto. Un percorso unico nella storia dello spettacolo italiano ed
è stato un grande privilegio poterlo condividere con lui. Ho girato in-
sieme a lui per sette mesi all’anno per molti anni nei principali teatri
italiani, e quindi c’era una specie di convivenza anche con i musicisti e
con i tecnici, per cui una straordinaria esperienza di vita. Se devo arri-
vare a una sintesi su Gaber direi che era una persona che aveva nell’es-
senzialità la sua ricerca, la sua utopia. L’unica utopia percorribile era la
ricerca dell’essenzialità. Non è una persona o un’artista che ha dato delle
risposte, ma che ha posto e sottolineato delle contraddizioni, che viveva
lui in prima persona.

Quali erano le contraddizioni intrinseche che il Signor G aveva


più a cuore?

Lo straordinario lavoro che Gaber ha fatto è quello di sottoli-


neare le contraddizioni, di lasciar cadere delle cose, non di aggiungere.
La sua attenzione è sempre stata opposta al disagio, al proprio disagio
individuale e collettivo. Era una persona che amava molto condividere
con gli altri l’esistenza. Insieme a Sandro Luporini si faceva carico delle
sue contraddizioni, ritenendo che i suoi limiti, le sue difficoltà, i suoi
problemi, fossero poi anche quelli degli altri, ma sempre con un atteg-
Impegno e disincanto
204

giamento di grande umiltà, nel senso nobile del termine, non di sotto-
missione ma di condivisione. È sempre stata una proposta artistica sul
palco che diceva «io avverto queste sensazioni, ho questi pensieri, io
ho queste perplessità, ho questi dubbi, mi piace condividerli con voi, e
vediamo cosa succede». In questa interazione ogni volta si apriva un
percorso che partiva da zero e arrivava a un suo termine. Questa è la
grandezza di Gaber, l’aver sottolineato delle contraddizioni e aver
sciolto dei piccoli grandi nodi.

Secondo lei, che ha avuto il privilegio di osservare il Teatro


Canzone dietro e davanti al sipario, qual era il segreto potentissimo
di questa innovativa forma artistica?

Gli spettacoli di Gaber avevano una cosa molto particolare. La


gente arrivava alle nove di sera un po’ stanca, con un livello energetico
abbastanza basso, dopo una giornata di lavoro, e usciva con un’adre-
nalina, un’energia nuova, che traspariva dagli occhi, dalle facce. Questa
vitalità si sprigionava negli spettacoli del Teatro Canzone, dove vi era
un coinvolgimento fisico che Gaber chiedeva al pubblico nelle piccole
e nelle grandi cose. Era una rigorosa risposta al proprio disagio, non
lasciandolo cadere, ma entrandoci dentro, cercando di liberare un in-
tasamento di energie non certo per una nuova ideologia o per una vi-
sione statica del mondo, e nemmeno per qualcosa di già scritto, ma per
il mistero e l’attesa.

Se le chiedessi di definirmi con poche e incisive parole figure


del calibro di Pasolini, De André, Gaber e Rino Gaetano, accomunan-
doli sotto la stessa luce socio-artistica, cosa mi direbbe?

Ti direi che abbiamo avuto il piacere e il privilegio di leggere e


Annibale Gagliani
205

ascoltare quattro uomini di cultura stratosferici, che avevano una mar-


cia in più: l’intatta percezione del dolore…210.

Chi meglio di una figlia può raccontare la semplice unicità


di un padre. Dalia Gaberscik, opera gaberiana più riuscita – con
la partecipazione decisiva di Ombretta Colli – esordisce nel vasto
mondo della comunicazione proprio con la gestione dell’ufficio
stampa del Teatro Canzone. Poi una crescita esponenziale a suon
di umiltà e sacrificio, con compiti di alta responsabilità in Rai, Me-
diaset, La 7 e Radio Italia. I suoi lavori più importanti sono legati
alla memoria del papà: la cura di dieci edizioni del Festival del
Teatro Canzone Giorgio Gaber di Viareggio e la vicepresidenza
nei battenti milanesi della Fondazione. Scambiamo due chiac-
chiere poderose assieme a lei.

Che cosa ha rappresentato il Teatro Canzone gaberiano per la


vostra Milano e per l’Italia tutta?

Credo che il Teatro Canzone sia una forma espressiva che ha


permesso a Milano e a tutta l’Italia di approcciare alcuni argomenti in
modo nuovo, inedito. Una forma di Teatro che consente il sorriso, la ri-
flessione, ma che nel caso di Gaber puntava dritto al “dubbio” e alla di-
scussione che voleva che nascesse dentro di noi.

Quali sono i pezzi a cui è più fortemente legata?

Un pezzo di quando ero molto piccola. Goganga. Me la cantava e


mi faceva molto molto ridere. E più avanti Non insegnate ai bambini, che
parlava invece anche di me e dei miei figli in età decisamente più adulta.
Impegno e disincanto
206

C'è un piccolo aneddoto del suo immenso babbo che conserva


dentro di lei in maniera lucida e fervida?

Mi fa sorridere ricordare come a volte, quando i teatri erano


esauriti per settimane, alcuni magari meno informati lo incontravano
in un ristorante e cercavano in modo lieve di incoraggiarlo: «Non la
chiamano più in TV eh…?!». E lui, che magari era protagonista tutte le
sere di veri e propri eventi al Lirico (dove faceva anche sei settimane),
e che rifiutava qualunque cifra dalle televisioni, rispondeva sornione
con un mezzo sorriso. «Eh, sono tempi duri…211».

Una delle canzoni preferite di Dalia Gaberscick, un monito


delicato per i genitori del futuro, una carezza di speranzoso en-
tusiasmo ai figli del Ventunesimo secolo, Non insegnate ai bam-
bini.

Non insegnate ai bambini


non insegnate la vostra morale
è così stanca e malata
potrebbe far male
forse una grave imprudenza
è lasciarli in balia di una falsa coscienza.
Non elogiate il pensiero
che è sempre più raro
non indicate per loro
una via conosciuta
ma se proprio volete
insegnate soltanto la magia della vita. […]

Annibale Gagliani
207

Non insegnate ai bambini


ma coltivate voi stessi il cuore e la mente
stategli sempre vicini
date fiducia all’amore il resto è niente.
Giro giro tondo cambia il mondo.

Al bando la vecchia morale, attenzione alla falsa coscienza!


Le uniche verità dell’uomo sono la magia della vita e il fiducioso
amore. Ascoltando l’indistruttibile consiglio di Gaber, ti viene vo-
glia di cantare, lanciando la mente nell’orbita delle rigeneranti
emozioni: giro giro tondo, cambia il mondo…

Impegno e disincanto
209

Capitolo 4
Rino Gaetano – Il poeta del “senso interiore”:
un dissacratore impavido e paradossale

1. Un ragazzo sognante, molto sognante

Una canzone serve a distogliere da quei momenti


pesanti e tetri anche facendo pensare212.
R.G.

Salvatore Antonio Gaetano si scaglia sull’ellisse blu il 29


ottobre del 1950, nascendo a casa di Pitagora, Crotone, da una fa-
miglia di umili origini. La sorella maggiore, Anna, gli ridisegna
inconsapevolmente l’orizzonte: lo chiama Rino, diminutivo che
diviene leggenda scolpita nel vinile. Dentro lo scirocco della flo-
rida primavera 1960, la famiglia Gaetano si stabilisce nella città
eterna per pressanti questioni lavorative. Rino prosegue gli studi
primari nel seminario della Piccola Opera del Sacro Cuore di
Narni (in provincia di Terni). La lontananza dai genitori è difficile
da superare, ma il vispo ragazzino calabrese sa rifugiarsi nelle vol-
teggianti evasioni della poesia, sviluppando una grandiosa sensi-
bilità. Compone in quel periodo di studio forzato il poemetto E
l’uomo volò e legò soprattutto con un insegnante. Il maestro in
questione è padre Renato Simeoni, che racconta così i viaggi so-
gnanti del piccolo poeta: «[Gaetano] sentiva l’importanza dello
studio, però aveva anche dei momenti di grande assenza, che non
era vuoto. Era molto difficile trovare in Rino situazioni di “vuoto”,

Impegno e disincanto
210

era sempre mentalmente occupato. C’erano dei gusti, questo mi


è sempre sembrato di lui, dei gusti all’interno di questa persona,
delle ricerche sue personali che lo tenevano occupato. Lui è stato
abbastanza un ragazzo sognante, molto sognante213».

Nel 1967 RG ritorna – per restare – nell’immensità soffusa


di Roma. Inizialmente abita in via Cimone, nei pressi di piazza
Sempione (quartiere di Monte Sacro), poi tre anni dopo si sposta
in via Nomentana Nuova. Cresce in lui l’onda irrefrenabile del-
l’artista fuori dagli schemi. Il 1971 è l’anno dei Krounks, quartetto
musicale di amici giudiziosamente ribelli, in cui Rino suona il
basso. Comincia a frequentare il Folkstudio, tempio del cantau-
torato romano, ascoltando attentamente Buscaglione, De André
e Celentano. Ama altresì le trame innovative del cabaret di Jan-
nacci e Gaber. Sulla scena internazionale apprezza moltissimo
Bob Dylan e i Beatles, dei quali cerca di studiare meticolosamente
le sonorità. La formazione artistica del giovanissimo Gaetano si
cementa grazie agli echi magniloquenti del teatro. Tra la fine degli
anni Sessanta e gli inizi del Settanta interpreta il “disturbatore”
nei poemi di Majakovskij, e poi ancora “Estragone” in Aspettando
Godot di Samuel Beckett (progetto con l’Ente Teatrale Italiano)
e infine la “volpe” ne Il Pinocchio di Carmelo Bene.

Non smette però di studiare. Si diploma in ragioneria negli


anni più arditi della beat generation, venendo incontro ai pro-
blemi economici della famiglia, che immagina per il figlio un
posto di lavoro sicuro in banca. Rino accetta l’aut aut riservatogli

Annibale Gagliani
211

dal padre: o diventava un vero artista, oppure deve piegarsi ai de-


nari bancari senza discussioni. Nel 1972 decide di iscriversi alla
SIAE, conoscendo Vincenzo Micocci, deus ex machina della casa
discografica It. Ma già nel 1970 era arrivato l’esordio beffardo: il
primo 45 giri con l’etichetta milanese Belldisc, che annovera i
brani Jacqueline e La ballata di Renzo, ma il disco non viene mai
pubblicato. Un colpo basso niente male per il cantautore cala-
brese, che si rifà prestissimo (e con gli interessi). Nel 1973 Gae-
tano incide un nuovo 45 giri con la It, I Love You
Maryanna/Jaqueline, prodotto dal sodalizio RosVeMon (acro-
nimo di Aurelio Rossitto, Antonello Venditti e Piero Montanari).
Il singolo è firmato con lo pseudonimo Kammamuri's, per omag-
giare un personaggio de I misteri della jungla nera di Emilio Sal-
gari, a cui Rino è molto legato. La critica canora cerca subito di
stroncare il 45 giri, definendolo “un divertissement dissacrante
contro il cantautorato impegnato”. Ai parrucconi mediatici non
piace lo spirito goliardico dei brani, definiti demenziali a causa
del presunto nonsense. Il timbro sporcamente graffiante di Rino,
poi, è concepito come una sfida indegna alla candida canzone
made in Sanremo, da sempre evocatrice del bel canto. Eppure in
pochi si rendono conto che sta per esplodere nel panorama cul-
turale tricolore un fuoriclasse incompreso, che stimola l’intelli-
genza del popolo, servendosi di simboli misteriosi, del tutto
rivoluzionari.

Impegno e disincanto
212

2. Per Rino l’Ingresso è libero


nell’epopea del disincanto

Pier Paolo Pasolini rappresenta il cardine del disincanto


italiano, fonte d’ispirazione intellettuale per chi cerca di vivise-
zionare le mentalità che scuotono il Sessantotto. Fabrizio De
André diventa, raffinatamente, il megafono poetico e cantauto-
rale delle eresie pasoliniane. Giorgio Gaber porta a compimento
le suggestioni corsare e luterane di PPP, percorrendo una strada
filosofica fuori dal coro, quella del Teatro di Parola, alla ricerca
dell’Umanesimo Nuovo. Ora posso dire che l’erede designato per
garantire una continuità coerente dell’arte disincantata italiana
nel Duemila, è, senza nessuno che lo incoroni, Rino Gaetano. Per
poter stabilire questo, predispongo nel capitolo corrente una ri-
cerca trasversale che mira alle sinapsi del cantautore e non agli
artifizi dell’immagine. Ho intervistato il nipote di Rino, Alessan-
dro, che lavora intensamente ogni giorno – assieme alla madre
Anna, sorella dell’artista – per completare il percorso ereditario
verso le fresche generazioni. Alessandro è il frontman della Rino
Gaetano Band, complesso musicale che solca l’intero Stivale por-
tando altissimo il vessillo culturale dello zio. Ho intervistato, inol-
tre, un altro portentoso esperto della scienza gaetaniana: l’ottimo
giornalista romano David Gramiccioli, autore dell’unica opera
teatrale dedicata a RG, Avrei voluto un amico come lui, che da
tre anni rapisce letteralmente oltre 80.000 spettatori.

Annibale Gagliani
213

Alessandro mi racconta come, originariamente, lo zio «leg-


geva le filastrocche di Prévert, le Fleur du mal di Baudelaire e i
testi di Voltaire». Inoltre, «guardava attentamente le pellicole di
Bertolucci e Woody Allen», e «ascoltava con gusto De André, am-
mirando molto l’espressività di Gaber e Jannacci214». Mentre
David, da buon segugio d’inchiesta quale è, mi confessa che «Rino
era una persona trasversale, dal coraggio inaudito. Pasolini lo ap-
passionava. Lo leggeva e lo considerava un gigante. In Spendi
spandi effendi, sensazione confermata dagli amici più cari, egli si
ispira all’ultimo romanzo pasoliniano, Petrolio215». Letture fulgide
per il suo inconscio diventano anche quelle di Palazzeschi, Cal-
vino, Campanile, Ionesco e Salgari. Rino Gaetano studia da auto-
didatta la chitarra e il basso, ritrovandosi a scrivere degli inediti
quasi per inerzia. Vulcanico dentro di lui è il legame con il micro-
universo popolare, che lo porta a raccontare problematiche asfis-
sianti con tecniche tradizionali, sfumate da un’avanguardistica
sensibilità. Dopo l’incipit del capitolo, dedicato alle vicissitudini
di una vita per niente semplice – ma sempre vissuta con malin-
conico entusiasmo –, non resta che nuotare emozionalmente
verso l’affascinante isola della sua discografia.

Nel 1974 arriva un album enigmatico dal retrogusto di


chansonnier d’oltralpe: Ingresso libero. «Quello che per il mondo
intero sarebbe stato surreale, bislacco, metaforico e chissà cos’al-
tro, per lui era normale linguaggio espressivo per comunicare at-
traverso i suoi testi216». Enrico Gregori ci conduce con puntualità
al nocciolo della poetica gaetaniana, un linguaggio che comunica

Impegno e disincanto
214

sensazioni e stati d’animo, ma in maniera totalmente diversa ri-


spetto al passato, poiché è l’immaginazione “reale” a farla da pa-
drone. A questo punto, è innegabile sostenere un primo
balenante paradosso: con l’uscita di Ingresso libero, Rino «si col-
loca pienamente nel genere cantautorale», seppur «provi una
certa insofferenza per questa definizione: gli sembra quasi un’of-
fesa, un po’ “come dire a uno che è stronzo”217». Ma l’influenza di
Faber, con la sua anarchica canzone di contestazione, non può
essere tradita. Salpa dall’idea giovanile di arte progressive per
attraccare nel porto – veracemente incontaminato – della ballata
ironica: è tempo di Agapito Malteni, il ferroviere. Il pezzo tratta
i temi nevrotici dell’emigrazione e dell’utopia, esponendo un tatto
breliano o brasseniano, incentivato da sonorità ibride: chitarra
wah-wah, organo, batteria, tamburello e basso, che compongono
un’armonia investigativa.
Agapito Malteni era un ferroviere
viveva a Manfredonia giù nel Tavoliere
buona educazione di spirito cristiano
e un locomotore sotto mano.
Di buona famiglia giovane e sposato
negli occhi si leggeva: molto complessato
faceva quel mestiere forse per l’amore
di viaggiare sul locomotore.
Seppure complessato il cuore gli piangeva

quando la sua gente andarsene vedeva


perché la gente scappa ancora non capiva
dall’alto della sua locomotiva.
Annibale Gagliani
215

Il protagonista, Agapito Malteni, ferroviere pugliese di


buona famiglia, cresciuto con una morale cattolica e non pochi
complessi, è stanco di vedere emigrare la sua gente verso il Nord.
L’abbandono del paesino rupestre per una vita frenetica da ope-
raio è il destino comune del meridionale medio. Ma il ferroviere
questo non può più accettarlo: decide, perciò, di sabotare il treno
per non fargli completare il tragitto diretto al Settentrione. L’an-
tieroe Agapito esegue una sorta di controcanto ideale nei confronti
dell’eroe illustre della Locomotiva di Guccini, che muore per ri-
vendicazione proletaria, mentre il sabotatore pugliese non è
mosso da mire anarchiche, bensì da spirito cristiano. Ci troviamo
dinanzi a un vivido ossimoro, accessibile solo a intelletti fini. Il
collega macchinista di Agapito, «buono come lui, ma meno uto-
pista», lo blocca appena in tempo, sancendo, in un’atmosfera tra-
gicomica, l’incontrovertibilità dell’emigrazione. Il 1974 è un anno
di rivolte e sommosse popolari al vetriolo. Nonostante le attività
della Cassa per il Mezzogiorno, il Sud vive in uno scenario disa-
stroso e magmatico. A Eboli – dove Agnelli promette di costruire
due stabilimenti FIAT – si amplia la voce della protesta, fino ad
arrivare in Calabria. La sollevazione meridionale, che vede parte-
cipare più di trenta mila protestanti, porta il governo a investire
un paio di miliardi nella fabbrica petrolchimica SIR, che è ormai
in disfacimento a causa della crisi petrolifera. Una presa per i fon-
delli storica: la stessa beffa sociale traspare nel brano di Rino, ov-
vero la consapevolezza che «nella realtà gli ideali e le lotte
sindacali non sono in grado di determinare un cambiamento218».
Il linguaggio utilizzato dal graffiatore cantante è secco e iper-nar-

Impegno e disincanto
216

rativo, stilisticamente conforme a un monologo che racconta in


terza persona. Nell’esposizione del concitato e fallimentare epi-
sodio, Rino utilizza prima il tempo imperfetto e nel finale del
brano il passato remoto, dimostrando una buona elasticità lessi-
cale, che garantisce solida coerenza alla sintassi. Alla fine il treno
arriva a Torino, conduce un giovane di belle speranze verso il con-
sueto futuro fordista e taylorista: ecco il destino monotono de
L’operaio della FIAT.

Hai finito il tuo lavoro


hai tolto trucioli dalla scocca
è il tuo lavoro di catena
che curva a poco a poco la tua schiena […]
Hai lasciato la catena
un bicchiere di vino buono
ti ridà tutto il calore
trovi la tua donna, fai l’amore
sei già pronto per partire
spegni tutte le luci di casa
metti il tuo abito migliore e pulito
lasci al gatto la carne per tre giorni
e insieme a una Torino abbandonata
trovi la tua macchina bruciata.

La cinica quotidianità di un operaio della FIAT è narrata


con un approccio confidenziale e carezzevole. Rino parla diretta-
mente al protagonista, raccontandogli con ritmo sostenuto la
giornata tipo che vive nel tortuoso meccanismo della catena di
montaggio. Il cantautore descrive l’azione di messa a punto di
Annibale Gagliani
217

un’auto, da compiere in meno di un minuto, accompagnandola


con una chitarra acustica dal passo rockeggiante. È comprensibile
come l’operaio cerchi di fuggire dall’alienazione industriale al-
meno nel weekend, spegnendo i ronzii della città per esigui giorni.
Sicché, dopo aver sorseggiato vino riconciliante, assaporando
l’amore con la sua donna, vira insieme agli amici verso la tran-
quillità di Moncalieri. Ma al momento della partenza si ritrova la
sua vettura 1100 completamente bruciata. Gaetano si ispira agli
sfibranti fatti avvenuti a Torino dagli inizi degli anni Settanta: la
FIAT mette in cassa integrazione più di sessantacinque mila ope-
rai, scatenando scioperi da biennio rosso. All’interno delle mani-
festazioni si infiltrano esponenti delle BR, che incendiano a caso
innumerevoli auto per creare sempre più scompiglio. L’artista ca-
labrese conferma «una considerazione politica sul Sessantotto e
sui movimenti rivoluzionari, che Pier Paolo Pasolini aveva già
espresso lucidamente», ossia che sono «borghesi i giovani rivo-
luzionari». Dunque, essi risultano «distanti dal mondo dei lavo-
ratori» in cui RG è nato, e idealmente agli antipodi da «una realtà
fatta di pane e fatica219».

È la classe operaia a pagare più di tutte la lotta giovanile


del Sessantotto. È la classe contadina a soffrire più di tutte le
scelte discutibili di un governo spinto alla cieca dal boom econo-
mico. Rino lo sa bene, coltivando negli anni dei tarli nobilissimi.
Come la richiesta di giustizia sociale, unita alla denuncia – tra le
righe – delle emarginanti disuguaglianze. Le corde vibranti del-
l’antieroe pitagorico celebrano le piccole e impagabili cose. Una

Impegno e disincanto
218

di queste è la semplicità dell’erta vita, che nel suo Sud resta im-
macolata. La bellezza paesaggistica riesce ad alleviare le ferite di
una fibra arsa di gioie lussuriose, ma storicamente leale, in grado
di far sussurrare all’artista: Ad esempio a me piace il Sud.

Ad esempio a me piace vedere


la donna nel nero del lutto di sempre
sulla sua soglia tutte le sere
che aspetta il marito che torna dai campi […]
Ad esempio a me piace rubare
le pere mature sui rami se ho fame
ma quando bevo sono pronto a pagare
l’acqua, che in quella terra è più del pane. […]
Ma come fare non so
sì devo dirlo ma a chi
se mai qualcuno capirà
sarà senz’altro un altro come me.

Eh sì, il brano accende i riflettori proprio su quel micro-


universo arcaico, indicato da Pasolini come unica fonte di sal-
vezza nei confronti del mercato multinazionale. L’autore parla di
un sottobosco ancestrale nel quale regnano sovrane tradizioni ul-
tracentenarie (la donna in nero che aspetta sulla soglia il marito).
Cotale humus di graziose disgrazie non riesce a scrollarsi di dosso
problematiche mortifere. La piaga dell’acqua “che vale più del
pane” e “il lusso” di poter fare il vino, sono grattacapi quasi in-
sormontabili per il contadino comune. Ma nonostante tutte le pe-
renni zavorre, Rino indica il Meridione come il suo habitat

Annibale Gagliani
219

naturale, landa nella quale l’anima ingegnosa del poeta può svo-
lazzare senza freni, naturalmente. Quei paesaggi deontologica-
mente puri e succosamente avari, gli ricordano l’infanzia
edificante di Crotone. Da qui, parte la confessione che l’autore fa
nel brano a se stesso: gli piace il Sud, con tutti gli onori e i dolori
del caso, si rende conto che soltanto un altro che nutre sentimenti
e valori simili ai suoi lo potrà comprendere. Un invito velato da
immagini simboliche che mirano a stimolare l’osservazione reale
da parte dell’ascoltatore, smarcandosi dagli sbrigativi e laconici
stereotipi.

È proprio per questo che Rino Gaetano fa paura agli elitisti.


Come accade a Pier Paolo Pasolini dopo i suoi moti corsari e lute-
rani, che lo portano a essere emarginato; come accade al poeta De
André, preso di mira sistematica dalla censura; come accade al fi-
losofo Gaber, liberatosi nei teatri d’Italia. Il cantautore del Sud
subisce dure conseguenze per le sue opere: viene tacciato dalla
critica del Kratos di sdoganare una forma di espressione sui ge-
neris: il nonsense. Prendiamo come esempio due testi enigmatici,
densi di carica poetica, immersi aggraziatamente in Ingresso li-
bero: A.D. 4000 D.C., E la vecchia salta con l’asta.

Sugli alberi le scimmie cloroformizzate


raccontano le storie delle fate
un quadro di Guttuso messo all’asta in un mercato
fa il piano quinquennale del peccato […]

Impegno e disincanto
220

Un cielo zabaione sangue e miele


mi fa sentire piccolo e crudele
un nastro registrato a cento piste
ricorda la voce antropomorfica
dell’uomo del Duemila.
Un topo murato in un music hall
balla il tip-tap sul suo motocross
scriveva un venusiano emigrato
a un anno luce dalla sua città.

Queste tessere di puzzle antropologico selezionate da A.D.


4000 D.C., ricche di simboli sfuggenti, metafore inusuali e ana-
logie sinergiche, confermano che il testo è «una specie di fanta-
scienza». L’autore definisce il brano «distopico220», poiché
ispirato al fantasiosamente sociologico romanzo di George Or-
well, 1984, che spacca la critica mondiale dal 1949. L’accattivante
penna britannica narra di un pianeta comandato da tre grandi
superpotenze totalitarie: Oceania, Eurasia ed Estasia. Queste
sono in costante movimento per garantirsi il controllo completo
della società. I Ministeri che esercitano la governance sono quelli
della Pace (che gestisce la guerra), dell’Amore (che garantisce la
sicurezza), della Verità (che organizza la propaganda e le revi-
sioni storiche) e dell’Abbondanza (che si occupa dell’economia).
A capo del governo centrale – di ispirazione socialista inglese –
vi è una figura che tutti conoscono per fama, ma che nessuno ha
mai visto fisicamente: il Grande Fratello. Egli tira le fila della so-
cietà con la stessa efferatezza di Josif Stalin e Adolf Hitler, impo-
nendo un totalitarismo invincibile, ai più visibilmente invisibile.

Annibale Gagliani
221

Ecco, partendo da questo presupposto letterario, il pre-


sunto nonsense di A.D. 4000 D.C. si trasforma improvvisamente
in uno scenario parabolico e incisivo. La galassia immaginifica ri-
mane intatta, decisamente, ma le immagini bizzarre di “scimmie
cloroformizzate” (che raccontano le storie delle fate) e “il topo mu-
rato vivo in un musical hall” (che balla il tip-tap sul suo moto-
cross), diventano caustiche allegorie dei protagonisti di un’Italia
incatenata. “Il cielo zabaione sangue e miele” del Paese apparen-
temente indecifrabile, trapassa emozionalmente l’artista, lascian-
dogli nella mente un’immagine battente, che gli ricorda di essere
piccolo ma di poter sfoderare una poetica crudeltà. I versi sciolti
e mirabolanti del Rino dagli effetti speciali – in cui appare anche
il realismo possente di Guttuso – colpiscono con surreale tocco la
realtà tricolore. Vi è l’autentica raffigurazione di un’epoca fuori
dalla storia: il tutto viene architettato con obliqui significati e ani-
mato da un banjo country, da tastiere psichedeliche e da spunti
ritmici arlecchino. Posso dire a questo punto che l’evidente e sco-
nosciuto mondo orwelliano di 1984 detiene una versione paral-
lela: quella in musica di Rino Gaetano. A.D. 4000 D.C. è
l’inappellabile presa di coscienza delle contraddizioni assurde
della società, in preda a un potere che conosce bene, ma che non
lo vuole guardare negli occhi, figuriamoci affrontare.

I creativi giochi di parole dell’artista sono definiti non-


sense. Non vi è la capacità dei critici di andare oltre la staccionata
intellettuale, anzi, essi cercano consapevolmente di «“circoscri-
vere” e addomesticare il contenuto poetico e la portata culturale

Impegno e disincanto
222

in realtà notevoli nell’opera di Rino Gaetano221». La poetica del-


l’autore regala un’altra perla intrisa di evocativo mistero inte-
riore, E la vecchia salta con l’asta.

Solitario nel vecchio castello


consumando la triste vigilia
inedito: annaffia l’antico rampollo
coniato negli anni da antica famiglia.
Non valse l’amore di tre cortigiane
per divietar l’emottoico pianto
né il rosso nettare di tre damigiane
l’erede è partito, il cavallo, il suo manto.
Nella foresta di faggi segati
le nuvole acerbe di cieli malati
come gli illusi le assurde chimere
seguendo l’amore partì il cavaliere.
Tremila città tremila villaggi
la sagoma bianca striata dei faggi
scordò la sua terra, scordò la sua casta
rimase una vecchia che salta con l’asta.

Voilà! Un ulteriore frammento di caleidoscopica e cama-


leontica espressione gaetaniana. Camilla Tagliabue descrive –
con “occulta” precisione – cotanta proposta artistica sulle colonne
de Il Sole 24 ORE, «una raccolta di aforismi muriatici, di motti
goliardici, di doppi sensi sessuali, di nonsense, di calembour, di
inni alla stupidità, di battute luciferine o surreali, oscene e triviali,
dadaiste e pop, blasfeme o sceme, però tutte, deliziosamente
scanzonate222». E la vecchia salta con l’asta è leggiadramente un
Annibale Gagliani
223

rompicapo impossibile. C’è chi intravede riferimenti al “rampollo”


disadattato di casa Agnelli, Edoardo, mentre altri leggono una
semplice evasione cavalleresca dalle catene della casta. La prota-
gonista, “la vecchia”, racconta dei passi fiabeschi al bimbo del suo
cuore: la storia del cavaliere sognatore. Ritorna spesso la contem-
plazione “nella foresta di faggi segati” di “nuvole acerbe di cieli
malati”. Sembra che la narratrice custodisca un desiderio valoroso
all’interno del paesaggio austero e deturpato. Emergono nel cre-
scendo cadenzato del brano “assurde chimere” proiettate verso
l’amore. Il puro sentimento scappa dai veleni di una società iper-
politicizzata, che sogna a comando. Il sound è quello di una ballata
mazurkata in chiave decisamente moderna: basso, tastiera e bat-
teria partono piano per poi correre sempre più forte. Alla fine si
erge l’assolo di chitarra elettrica, contrapposto allo sporadico ac-
compagnamento di corde classiche della partenza. È questo il sof-
fice climax nel quale “la vecchia che salta con l’asta” termina la
narrazione del “cavaliere che cerca l’amica”. La serenità del rac-
conto cancella i salti mortali della giornata, poetizzata dai sussulti
della favola antica.

La canzone, come accennato prima, è davvero un rebus


dalla purezza contagiosa. Rino è trino: si traveste prima da vecchia
narrante, poi fa un salto fuori dalla storia diventando narratore
esterno, infine sembra mettersi l’elmetto del cavaliere per la de-
scrizione sensoriale della foresta. Tecnicamente canta ogni situa-
zione con l’autorevolezza di una filastrocca dalle venature
popolari: l’uomo-artista «non aveva altro modo per esprimere il

Impegno e disincanto
224

fatalismo223», imperante nella società civile, sicché dà sfogo a


questi ermetici effetti speciali. Da Ingresso libero fino all’album
della staffa, si assiste spesso a siffatto linguaggio letterario (vitu-
perato da troppi) che amalgama in un soffio distonia del presente
e bagliore del passato. Il fuoriclasse dalla poetica conturbante
spiega in Tu forse non essenzialmente tu, come l’esistenza viaggi
al fulmicotone, comportando talvolta l’incoscienza di ciò che si
sta vivendo. «E sono ormai convinto da molte lune dell’inutilità
irreversibile del tempo». Una bella sfida per l’ascoltatore medio,
che è sempre trasportato nevroticamente a guardare il proprio
orologio per non perdere tempo, “perché il tempo è denaro”.
«Non si ha il tempo di vedere la mamma e si è già nati e i minuti
rincorrersi senza convivenza». I momenti meravigliosi sfuggono
puntualmente, la vita scorre via lontano, chissà dove poi. Ma il
tempo è galantuomo con lui, e grazie a quella sensibilità superiore
alla norma che lo qualifica artista profetico, se ne rende conto con
netto anticipo durante uno storico concerto, «Sento che, in fu-
turo, le mie canzoni saranno cantate dalle prossime generazioni!
Che, grazie alla comunicazione di massa, capiranno cosa voglio
dire questa sera! Capiranno e apriranno gli occhi, anziché averli
pieni di sale224». Ebbene sì, un’intera generazione distoglie la
mente dalla realtà a causa del “sale”. Rino canta a tutti singolar-
mente, come una rauca sveglia lirica, questa strana mania insof-
ferente: I tuoi occhi sono pieni di sale. Ma proprio la sua
generazione, sessantottina e disgregata, ha toppato nei confronti
di un certo tipo di cantautorato. David Gramiccioli, factotum di
Colors Radio, spiega meglio l’inconcepibile apatia di quegli anni:

Annibale Gagliani
225

Per la generazione che ha animato il Sessantotto Rino Gaetano


non ha rappresentato niente, perché questa ha completamente mancato
la portata e lo spessore del cantautore. L’affermazione che in tantissimi
anni si è sostenuta nei confronti di Rino è quella che lui fosse il principe
del nonsense. Se le sue canzoni sono senza senso, vuol dire che non ha
senso nessuna canzone a livello mondiale. Rino ha sempre centrato alla
grandissima, non ha mai sprecato una parola, e all’epoca conveniva farlo
passare per uno che cantava cose senza senso225.

Il coerente talento calabrese subisce un deciso ostracismo


da parte dei discografici e dei media fin dagli inizi del Settanta,
periodo precedente a Ingresso libero. Uno dei suoi primissimi
brani, La ballata di Renzo, porta via con sé un bastimento di ri-
fiuti e nasi storti quasi da record. Eppure quel lavoro segna ario-
samente la sua breve e cristallina carriera: un’alba culminante di
temi che rodono il fegato dei benpensanti, come «l’emarginazione,
la povertà, la solitudine, illuminate da accostamenti folgoranti e
paradossi226». La ballata di Renzo tratta, infatti, un argomento
sconosciuto nella spirale conclusiva del boom economico: la ma-
lasanità. Un povero sventurato che passeggia tranquillamente per
strada viene investito, ma subito soccorso dall’automobilista col-
pevole. Un normale percorso verso l’ospedale più vicino gli salve-
rebbe la vita, però, purtroppo, l’uomo sofferente non fa i conti con
l’imponderabile della sanità pubblica italiana:

La strada molto lunga


s’andò al San Camillo
e lì non lo vollero per l’orario.
Impegno e disincanto
226

La strada tutta scura


s’andò al San Giovanni
e lì non lo accettarono per lo sciopero […]
Con l’alba,
le prime luci
s’andò al Policlinico
ma lo respinsero perché mancava il vicecapo.
In alto,
c’era il sole
si disse che Renzo era morto
ma neanche al cimitero c’era posto.
Quando Renzo morì, io ero al bar
bevevo un caffè
quando Renzo morì, io ero al bar,
al bar con gli amici
quando Renzo morì, io ero al bar.

La ballata paradossale, dalle suggestioni pop, rappresenta


con vesti inebrianti una sorta di alter ego de La ballata del Michè
di Faber. Cambiano gli scenari: Gaetano racconta agli Italiani il
viaggio disperato verso la morte di Renzo, specificando di aver
sentito la notizia al bar, mentre beve un caffè con gli amici; De
André racconta il suicidio di Michè come una storia d’amore
senza happy end, pretesa dall’ingiusta realtà. Eccolo qui il fronte
comune dei due prodotti culturali: il destino cinico che sferra
colpi bassi alle umili genti. Un suicida non può avere l’ultima
messa, perché “indegno” secondo la giustizia terrena. Un uomo
qualunque non può avere le cure salvavita, perché gli ospedali
Annibale Gagliani
227

sono affollati, oppure per la casuale mancanza del vicecapo. Oltre


il danno, la beffa. Tornando alla fine tragicomica di Renzo, il San
Camillo lo rimbalza per l’orario; il San Giovanni è in sciopero; al
Policlinico manca colui che decide. Le immagini scaraventate
nelle strofe di varia composizione, liberamente sillabate e spora-
dicamente rimate, «fanno balenare i vari esempi di malasanità e
cattiva organizzazione che la cronaca offre». La descrizione dei
fatti è interiormente cruenta, ma trattata con enorme rispetto. Ci
vuole una risma artistica elevata per districarsi tra «pazienti sbal-
lottolati su ambulanze da un nosocomio all’altro», romanzando
cuori increduli, «adagiati in barella e tragicamente deceduti prima
di ogni cura». E meno male che Rino Gaetano è il cantautore “di-
simpegnato”, quello che attraverso il nonsense gioca esprimendo
il nulla. Qui ci dimostra – circa quattro anni prima della pubbli-
cazione di un album completo – come la malasanità, l’assenteismo
(difeso da inadeguati sindacati) e l’incapacità dell’amministra-
zione pubblica può far «“morire” se arrivi fuori orario o perché
non si è presentato qualche burocrate227». Il coraggiosissimo vor-
tice tematico sollevato dal poeta graffiante, è racchiuso in un unico
componimento. Vuoi vedere che il “non senso” è una scusa di quei
potenti poco abituati a stabilire un onesto confronto diretto!

Impegno e disincanto
228

3. Per mio fratello, che è figlio unico,


il cielo è sempre più blu

Chiamare Mio fratello è figlio unico un disco, vuol dire che in-
tanto tutto il disco verte appunto su questo problema della solitudine,
dell’estromissione, dell’emarginato, e considera l’emarginato in tutte
le sue parti. Poi cercare di fare la battuta “mio fratello è figlio unico”,
fa parte di come scrivo io. Prendo dei problemi che mi stanno a cuore
e cerco sempre di mettermi da parte, distante, al di fuori di questi pro-
blemi e di guardarli con occhio estraneo228.
R.G.

Dopo le saette musicali che hanno illuminato Ingresso li-


bero, Rino è pronto – più di prima – a creare nuovi pezzi che pos-
sano arrampicarsi nel gotha del canto disincantato. Si rimette al
lavoro con implacabile determinazione, e, «tra le pareti della sua
stanza, nel seminterrato in cui non si vede il cielo, nasce una can-
zone: Ma il cielo è sempre più blu». Il graffiatore poetico è folgo-
rato da stimolazioni artistiche nuove: assieme all’amico Bruno
assiste «ad alcuni spettacoli di Gaber», apprezzandolo «moltis-
simo». In particolare rimane colpito dalla ricerca della verità pro-
posta ne Il Signor G, opera che gli regala la suggestione di
scriverne una tutta sua, in due atti: Ad esempio a me piace… Le
esibizioni gaetaniane – concepite per il teatro o per un disco –
innestano una nuova marcia. L’idea è quella di prendere come
modello la stratosferica forma del Teatro Canzone, aggiungendo
«lo stile dada e surrealista», con l’obiettivo socio-culturale di «ac-
Annibale Gagliani
229

compagnare la demenzialità» alle «considerazioni psicanalitiche


ed esistenziali», unendo in un colpo solo «le atmosfere oniri-
che229» ai momenti di riflessione beffarda.

Con questo spirito comunicativo vede i primi raggi dell’alba


nel 1975 il singolo 45 giri Ma il cielo è sempre più blu, molto ap-
prezzato da Micocci, ma che spiazza per la sua larga durata: otto
minuti distribuiti su due lati del disco. Nella primavera dello
stesso anno la censura blocca il brano. Due sono le frasi incrimi-
nate: “chi canta Baglioni, chi rompe i coglioni”; “chi tira la bomba,
chi nasconde la mano”. “Grazie” alle sforbiciate del censore di
turno, la hit si impone come tormentone che durerà nei decenni,
garantendo al cantautore un’ottima visibilità. Le note d’azzurra
ironia che Gaetano diffonde in tutto lo Stivale, entrano di diritto
nella testa degli ascoltatori, che però si ritrovano, mediamente, a
non conoscere il lato B del singolo, con le annesse parti censurate.

Chi vive col padre, chi fa la rapina,


chi sposa la Gina, chi ha rotto con tutti,
chi vince a Merano, chi cerca il petrolio,
chi dipinge ad olio, chi chiede un lavoro
chi mangia patate, chi beve un bicchiere
chi fuma il toscano, chi vive cent’anni […]
Chi vive in baracca, chi suda il salario
chi ama l’amore, chi tira al bersaglio
chi sogna la gloria, chi ha scarsa memoria,
chi gioca a Sanremo, chi va sotto un treno […]
Ma il cielo è sempre più blu!

Impegno e disincanto
230

Canzone-monologo, omaggio agli ultimi dimenticati e ai


componenti di un’élite doverosamente in prima pagina. L’accom-
pagnamento incalzante incentiva il grido black del Rino da de-
nuncia: un pianoforte stoico, una chitarra dalle mire esotiche e
un sax festoso accendono gli elenchi tragicamente esilaranti del
solista (si odono addirittura delle maracas indisturbate). C’è chi
mangia patate, chi beve un bicchiere; poi chi fuma il toscano e
chi cambia la barca. C’è chi ha avuto l’onore di vedere Aristotele
Onassis e chi scappa a Beirut con un miliardo; d’altro canto c’è
chi vive in baracca, chi suda il salario e chi va sotto un treno. È
stranamente stralunato questo mondo nel quale a chi cerca il pe-
trolio si contrappone chi dipinge a olio. Rino lo racconta come il
Tevere in piena, senza pleonastiche limitazioni, con una carica
popolare che fende i timpani (e le coscienze) delle generazioni fu-
ture. «La ballata surreale» detiene un messaggio filosofico d’im-
menso spessore interiore: l’urlo di rivalsa sociale alzato al cielo.
Quell’ammasso di nuvole formose, desideri degli ultimi e bestem-
mie dei primi è comunque “sempre più blu”, nonostante tutto.
Servendosi di «rapidi schizzi», l’autore «delinea varie immagini
non certo attribuibili a chi vuole o ama il disimpegno230», confer-
mando la sua vertiginosa crescita creativa e ideale.

Mio fratello è figlio unico accetta il confronto con il popolo


nell’anno più giusto: il 1975, che si conclude con il buio torbido
della morte di Pier Paolo Pasolini, il vero fratello figlio unico della
storia d’Italia. L’opera esce nella primavera del 1976: la gemma
che dà il nome all’intero album non è esplicitamente dedicata a

Annibale Gagliani
231

PPP, ma, per la profondità dei significati e la grandezza del mes-


saggio sociale, è come se lo fosse. Rino «ama i paradossi, esaspe-
rare le cose231»; carica la canzone disperatamente solidale –
manifesto della solitudine del Duemila – di «reconditi quanto af-
fascinanti significati», confermando la sua metamorfosi immagi-
nifica che lo porta a presentarsi come «un genio, pieno di ingegno
e di poesia232».

Mio fratello è figlio unico


perché è convinto che Chinaglia
non può passare al Frosinone
perché è convinto che nell’amaro benedettino
non sta il segreto della felicità
perché è convinto che anche chi non legge Freud
può vivere cent’anni.
Perché è convinto che esistono ancora gli sfruttati,
malpagati e frustrati.
Mio fratello è figlio unico
sfruttato, represso, calpestato, odiato
e ti amo Mario.
Mio fratello è figlio unico
deriso, frustrato, picchiato, derubato
e ti amo Mario.
Mio fratello è figlio unico
dimagrito, declassato, sottomesso, disgregato
e ti amo Mario.

Il fratello figlio unico di Rino è fedele alle proprie idee, che


siano sportive, culturali o culinarie. Dice onestamente quello che
Impegno e disincanto
232

pensa, in qualsivoglia occasione, e non ha problemi a confrontarsi


con l’altro. Al bar, per esempio, sbandiera che è un sacrilegio ve-
dere l’ariete di Maestrelli, Chinaglia, calzare le vesti del Frosi-
none, oppure, confessa che l’amaro benedettino è simile agli
omologhi amari. Poi, crede fermamente che chi non legge Freud
può vivere con serenità, in barba a centinaia di psicanalisti bo-
riosi. Tutto questo gli crea dei grossi problemi. Ed è qui che il
poeta Rino snoda il velo fasullo attorcigliato sulla realtà: suo fra-
tello, Mario, è dimagrito, represso, calpestato e odiato. E lui sa
bene che esistono ancora i malpagati e gli sfruttati, perché ne rap-
presenta l’esempio. Ma Rino lo ama, e non per un umanoide
senso di pietas, bensì, poiché si riconosce in quella solitudine me-
tafisica. E non importa se suo fratello è deriso, declassato o di-
sgregato, lui lo ama lo stesso (addirittura più forte visto come lo
grida nel ritornello).

La ballata – dai cori solenni – è melodicamente immediata


e soffia raucamente «un lamento di solitudine, che condensa i
controsensi e le assurdità dell’esistenza233». La schiera fluente di
aggettivi dolenti, sciorinata con tempismo dall’artista, determina
uno status tremendamente diffuso: l’uomo “frustato e frustrato”
è un fratello che rimarrà nei secoli figlio unico. La soffertissima
descrizione di Mario, infatti, ha un intento preciso: mettere
l’ascoltatore di fronte al “vero emarginato” della società, che in-
consapevolmente, è più vicino di quanto si possa immaginare.
Emarginato è ognuno di noi, quando rimane coerente a se stesso,
analizzando la realtà realmente, e non con la fantascienza del po-

Annibale Gagliani
233

tere. Tra i versi descrittivi del corpo testuale – che emanano un


sapore di loda dantesca – è posizionata la dichiarazione di totale
solidarietà del cantautore: «E ti amo Mario!».

Il talentuoso cineasta Antonio Carella ci fa comprendere


come la tecnica di scrittura di Rino, a volte essenziale, altre piro-
tecnica, ha un traguardo pragmaticamente preciso, seppur dai ri-
schi eccellenti. «Lui badava a fare le sue canzoni, e le sue canzoni
dovevano rispecchiare fedelmente il suo pensiero ma anche la biz-
zarria, quella bizzarria positiva che accompagnava il suo pensiero,
la capacità che aveva di deformare la realtà per raccontarla me-
glio, usando l’arma del paradosso. Costruendo i paradossi più in-
credibili raccontava poi con perfetto realismo quelli che erano i
suoi tempi, quella che era la sua vita, che erano i suoi amori234».

Il nipote dell’artista del Sud, Alessandro, ricorda come il


biennio 1975-76 sia foriero di particolari proiezioni creative, con
un Gaetano interessato a scoprire gustose novizie musicali. «Mio
zio si dedicò a fare il talent scout, con diversi dischi che furono
supervisionati e prodotti da lui stesso. Ricordo soprattutto un la-
voro interessante di Ernesto Bassignano, Moby dick si chiamava,
scoperta davvero niente male235».

Naturalmente il cantautore non arresta la sua maratona


poetica, continuando l’equilibrista attività di disturbatore emo-
zionale. All’interno di Mio fratello è figlio unico luccica un dia-
mantino allegorico spettacolare, che dà ulteriore linfa alle

Impegno e disincanto
234

polemiche perbeniste: Berta filava. È proprio Rino a raccontarci


il senso della chanson mitologica che punta a romanzare politi-
chese e politicanti. L’esclusiva spiegazione arriva direttamente
dal palco di un torrenziale concerto tenuto a Lecce nell’estate del
1977.

A questo punto vorrei ricordare un grosso personaggio che è


nato a pochi passi da qui, è nato a Maglie. È uno dei più grossi calzatu-
rieri, è uno che ha fatto le scarpe a tutta Italia […] Io so benissimo che
lui usa dei linguaggi chiarissimi e che ha inventato diversi termini, in-
fatti è un grosso filologo, ha inventato “le convergenze parallele”, “la
congiuntura” […] Io una volta ho sentito fare dei discorsi stranissimi
tipo: “questi fermenti di dissoluzione, non dico iconoclastici, ma pro-
iettati verso nuove tentazioni ipertrofiche, che mi riportano parimenti
in un nuovo pragmatico universale, e nuove dimensioni tutte ancora
da scoprire”. E ci sono tutte queste cose qui che tendono a non far ca-
pire assolutamente niente. È una cosa molto dispersiva. E io ho scritto
l’anno scorso un pezzo ancora più dispersivo, proprio dedicandolo a
questi grossi personaggi enigmatici del mondo politico. E di altri mondi
anche. Comunque questa sera la voglio dedicare a questo personaggio
che ha fatto le scarpe a tutta l’Italia236.

E Berta filava
e filava la lana
la lana e l’amianto
del vestito del santo
che andava sul rogo
e mentre bruciava
urlava e piangeva
Annibale Gagliani
235

e la gente diceva
anvedi che santo
vestito d’amianto.
E Berta filava
e filava con Mario
e filava con Gino
e nasceva il bambino
che non era di Mario
che non era di Gino.

Rino cita la leggenda popolare di “Betta” (trasformata dal


cantautore in Berta), risalente ai tempi dell’Impero Romano. La
donna era una professionista del filato, conosciuta per le sue qua-
lità di tessitrice in tutto il territorio imperiale. Nerone, avaro im-
peratore, la chiamò al suo cospetto, promettendole di donarle
tanti terreni quanto fosse stato lungo il filato che gli avrebbe com-
posto. Betta cominciò a filare, filare e filare in misura abnorme,
garantendosi un futuro di ricchezze. Diventata ormai un’impor-
tante proprietaria terriera, smise di filare per mestiere, e decise
di tessere stoffe soltanto a coloro che le avrebbero fatto guada-
gnare cospicui denari o avanzamenti di posizione. Il graffiante
narratore pone la storiella musicata come strepitosa allegoria di
un’altra leggenda italica: il compromesso storico. Berta raffigura
il “calzaturiero” Aldo Moro, che fila “la lana delle alleanze” con
Mario, Pino e Gino, i segretari dei partiti delle larghe intese – Psi,
Psdi, Pri, Pli – citati nel brano con i loro nomi di battesimo.

Impegno e disincanto
236

Il “santo”, che viene messo al rogo, è invece il segretario


del Pci, Enrico Berlinguer. Il vestito d’amianto protegge ideal-
mente Moro, garantendogli la crescita della sua trama di accordi,
tessuti negli anni Settanta. Il bambino partorito sul finale del
brano – figlio di Berta e del Santo – è il simbolo supremo delle
trattative politiche portate a compimento: il compromesso storico
di Moro e Berlinguer.

È eccezionale intuire come «non si salvava nessuno da


questa invettiva laica», che Rino trasforma in una «gigantesca
pira per abbrustolire ipocriti e perbenisti237». Tre semplicissimi
accordi, un basso architrave, un coro allegro a riecheggiare e l’as-
solo del pianoforte all’epilogo: il brano pullula di corposo ritmo
e spendibile orecchiabilità. L’incedere ricalca il «prologo fiabesco,
che rimanda alla notte dei tempi», utilissimo per «dissacrare
santi e peccatori» in maniera edulcorata. Il poeta di denuncia
mette bruscamente alla sbarra «gli eroi, le novelle e i falsi miti di
patria e di famiglia238». Si salvi chi può! David Gramiccioli ci ri-
serva un retroscena d’annata legato all’inimitabile allegoria di
Berta filava, «parliamo di una canzone che doveva essere censu-
rata dalla chiesa, invece furono proprio le più alte sfere del Vati-
cano a non censurarla. Berta Filava è un po’ un’omologa di Dio
è morto di Guccini, ma sono in pochi a saperlo239». Intanto la for-
mazione spiritual-culturale del giocoliere bruciante dell’italian
writing si arricchisce con le letture di Pavese e le avanguardie
teatrali – splendidamente povere – del polacco Grotowski. Ma
emergono limpidamente le tiritere sconvolgenti e i giochi lessicali

Annibale Gagliani
237

di prévertiana e palazzeschiana memoria. Rino ci spiega l’ardi-


mentosa scelta di giocare con simili divagazioni letterarie, perfet-
tamente disturbanti, quasi fossero una manna stilistica per farsi
comprendere in mezzo al linguaggio del mercato. «Le filastrocche
sono una serie di flash, e i flash si usano moltissimo, dappertutto.
Manca la possibilità di dilungarsi sui discorsi, si parla a flash240».
All’interno dell’album Mio fratello è figlio unico trova spazio una
delle filastrocche più entusiasmanti della discografia gaetaniana:
La zappa, il tridente, il rastrello, la forca, l’aratro, il falcetto, il
crivello, la vanga. La popolar-ballata, scandagliante, dal passo
indemoniato e dal ritornello scioglilingua, racchiude due momenti
succulenti. Il primo racconta implicitamente le manie lussuose
dei componenti della P2, che tirano le fila sorseggiando champa-
gne nella mansarda di via Condotti, innominabile luogo della città
eterna:

Una mansarda in via Condotti


moquette, plafond, cassettoni
giovani artisti e vecchie tardone
si realizzano nel nobile bridge.
La zappa, il tridente, il rastrello, la forca,
l’aratro, il falcetto, il crivello, la vanga
e la terra che spesso t’infanga.

Il secondo è immediatamente successivo al primo e cita


con sarcastico tocco un collega che staziona sulla cresta dell’italica
onda musicale: Francesco De Gregori. «“Giovane e bello divo e
poeta, con un principio d’intossicazione aziendale, fatturato lordo
Impegno e disincanto
238

la classifica che sale, il resto lo trova naïf241». Una simpatica sti-


lettata ispirata al brano di De Gregori, Dolce amore del Bahia,
nel quale il cantautore romano si autodetermina: «Io, con oc-
chiaie profonde e un principio di intossicazione». Le due buffe
parodie, immerse nel sound da celebrazioni di borgo antico, col-
piscono le figure che emanano fumi lucenti nella società del Set-
tanta: il poeta figo (che non deve chiedere mai) e il politico
massone (che non deve essere scoperto mai).

A questo punto possiamo affermare che il refrain di umi-


lissima statura – La zappa, il tridente, il rastrello, la forca, l’ara-
tro, il falcetto, il crivello, la vanga – è una fiera rivalsa simbolica
nei confronti della sfarzosa mondanità dominante. Rino carica di
significati romantico-valoriali oggetti che rappresentano l’em-
blema del lavoro proletario e sottoproletario. “E la terra che
spesso t’infanga”, il terrore nascosto dei sangue blu, dei capitalisti
poltronieri e addirittura degli “artisti elitisti”. Ma nell’eretico
disco si arrampica – prelibata – un’altra eco densa di storicismo
Sturm und drang e carezze al carpe diem, Sfiorivano le viole. Le
ragioni della solitudine, le follie per una donna, il realismo sur-
reale, si fondono speranzosamente su spiagge meridionali arse
dal re degli astri. Una canzone per l’estate che parte con le sfu-
mature carioca della bossa nova, genere principe dei brividi sof-
fiati dalla salsedine. L’innamoramento senza preconcetti cresce
a dismisura nel cantautore, che racconta il fiorire del suo oggetto
del desiderio, servendosi di una poetica originale e fascinosa.

Annibale Gagliani
239

I passi delle onde che danzavano sul mare a piedi nudi


come un sogno di follie venduto all’asta
la notte quella notte cominciava un po’ perversa
e mi offriva tre occasioni per amarti e tu
fiorivi sfiorivano le viole
e il sole batteva su di me
e tu prendevi la mia mano
mentre io aspettavo.

La donna che gli trafigge il cuore “fioriva, mentre sfiori-


vano le viole”. Il poeta sussurra il suo lirismo necessario nella culla
di un sentimento ribelle. D’un tratto un fulmine a ciel sereno
squassa l’ordinario paesaggio di sabbia al silicio, «la realtà esterna
entra violentemente nell’idillio d’amore242». I giri velenosamente
melodici di Rino si trasformano in un uragano di emozioni im-
ponderabili, «succede di tutto: ti passa davanti la storia, la leg-
genda, la vita, la rabbia, il dolore, la gioia243». La bossa nova si
infila celermente le vesti di una rock ballad in cui si assiste a tutto
questo.

Si lavora e si produce si amministra lo Stato


il comune si promette e si mantiene a volte
mentre io (oh ye) aspettavo te
il marchese La Fayette ritorna dall’America
importando la rivoluzione e un cappello nuovo
mentre io (oh ye) aspettavo te […]

Impegno e disincanto
240

Otto von Bismarck-Shonhausen realizza l’unità germanica


e si annette mezza Europa
mentre io aspettavo te
Michele Novaro incontra Mameli
e insieme scrivono un pezzo
tuttora in voga, mentre io (oh ye) aspettavo.

Il ciclo della produzione va fulmineamente avanti, senza


freni, chissà dove poi. Mentre il graffiante innamorato aspetta lei,
in mezzo a un leggero coro di giocoso divertissement. La rivolu-
zione, talvolta, è assimilata come una moda e non come un’ideale.
Capitò alla Francia settecentesca quando il marchese La Fayette
ritornò dall’America con un cappello nuovo. Contemporanea-
mente, travolto da un vento sarcastico, il folle innamorato aspetta
lei. L’incontro carbonaro tra giovani risorgimentali sancisce la
nascita di una hit tutt’ora in voga: la patriottica provocazione è
indirizzata all’aura sacra del tricolore italico. Il cantautore in love
continua a essere uno spirito latitante nel mondo, arriva al grot-
tesco citando la storica unificazione della Germania, tiene a ri-
cordare che l’amore fa evadere dal tempo nel bel mezzo di
cambiamenti dall’effetto domino. Nel finale si ritorna a tessere la
melina musicale verde-oro, con la cognizione che «la contrappo-
sizione tra affetti personali e senso della storia e del proprio
tempo244» diviene un vero preziosismo stilistico, rimodellato da
Rino nell’album successivo, Aida.

Annibale Gagliani
241

Devo ricordare che il rivoluzionario pezzo gaetaniano, Sfio-


rivano le viole, si sarebbe dovuto chiamare Mentre io aspettavo
te, e il fegato della censura non digerisce un passaggio estrema-
mente significativo: «Dopo tre giorni di prigionia viene rilasciato,
nella foto con la moglie e figli, e il governo Hanoi proclama lo stato
d’emergenza nelle zone colpite dai bombardamenti americani245».
Nei versi in questione, l’artista d’avanguardia contesta la spedi-
zione americana in Vietnam, una guerra verbalmente deprecata
in tutto il mondo, contestata dai figli dei fiori, ma praticamente
fatta evitare da nessuno (e quando si dice nessuno, si intende le
altissime sfere del potere mondiale).

Impegno e disincanto
242

4. Cara Aida, Nuntaraggae più!

Rare tracce di gente


che lavora, che produce
quando chiede nulla scuce
a un sistema che non va.
Rare tracce di fortune
che si perdono alla sera
da teppaglia ammanicata
capace solo di opinare, ponderare,
deliberare, prevedere, escogitare,
ideare, meditare, concepire, elucubrare,
congetturare, arbitrare, giudicare, disserrare,
spalancare, strombazzare, armeggiare,
appagare tracce rare
di chi è capace di operare,
reagire, realizzare, effettuare, avverare
rispettare, esercitare, lavorare, addestrare,
assuefare, applicare, elaborare, manipolare,
arrischiare, rinunciare, smanovrare, ammansare,
smandrappare, detestare, adorare, esecrare.

GAETANO, Rare tracce, da Aida, 1977.

Rino prende gusto a viaggiare poeticamente nei meandri


della storia contemporanea. Al crepuscolo del 1977 tira fuori dal
cilindro un dipinto testuale (e musicale) della donna più bella e
più vituperata d’Europa: l’Italia. «Aida, un capolavoro assoluto,
Annibale Gagliani
243

nessuno ha cantato l’Italia in modo più centrato, più amaro, più


esaustivo246». Con questo lavoro discografico di avventuriera evo-
cazione, l’artista sembra «affrontasse in maniera più esplicita i
temi sociali», proiettandosi verso un «abbandono dell’allego-
ria247». La canzone che dà il nome al disco è intensamente cine-
matografica, ispirata a Novecento di Bernardo Bertolucci, colonna
portante del cinema neorealista. Il titolo è un omaggio all’Aida di
Giuseppe Verdi, che nell’opera personifica la sinuosa figlia del re
di Etiopia. L’intento del cantautore è di completare «l’incarna-
zione di tutte le donne248» nazionali (Italia compresa) e di imba-
stire un romanzo reminiscente attraverso fotogrammi storici.

Lei sfogliava i suoi ricordi


le sue istantanee
i suoi tabù
le sue madonne i suoi rosari
e mille mari
e alalà
i suoi vestiti di lino e seta
le calze a rete
Marlene e Charlot.
E dopo giugno il gran conflitto
e poi l’Egitto
un’altra età
marce svastiche e federali
sotto i fanali
l’oscurità.

Impegno e disincanto
244

E poi il ritorno in un Paese diviso


più nero nel viso
più rosso d'amore
Aida come sei bella.

Rino attinge, narrativamente, dalla tecnica utilizzata da


Elsa Morante ne La Storia del 1974, dove il racconto dei fatti
scorre attraverso l’essenza dei personaggi principali. Il testo si
presenta subito con un ermetismo audace e dinamico. Il lettore
si immerge insospettabilmente nella prima epoca tricolore del
Novecento. La sacralità della tradizione cattolica, che impone alla
giovane Aida tabù, madonne e rosari, si contrappone al progresso
dei Tempi moderni charlottiani, in cui la moda consiglia le calze
a rete di Marlene Dietrich. Poi arriva il ventennio dal color di
pece, quello del fascismo. Tremebondi alalà in coro, vestiti di lino
e veli di seta rimandano al lussuoso matrimonio tra Galeazzo
Ciano ed Edda Mussolini (figlia del Duce). Dalle disgraziatamente
aggraziate celebrazioni, Aida viene sballottata scortesemente
sugli scogli funesti del 10 giugno 1940: sbarco nella guerra mon-
diale, che lascia il passo ai marchi infuocati delle ambigue svasti-
che. E poi le battaglie egiziane di El Alamein, che fanno da
contraltare alle lotte intestine tra partigiani e nazifascisti. Il con-
flitto finisce, ma arriva la fame portata dalla distruzione e dai sa-
lari bassi, all’ombra di due effigi ideologiche ben descritte dal
super caricaturista Giovannino Guareschi, Cristo e Stalin.

Annibale Gagliani
245

Aida le tue battaglie


i compromessi
la povertà
i salari bassi, la fame bussa
il terrore russo
Cristo e Stalin.
Aida la costituente
la democrazia
e chi ce l’ha
e poi trent’anni di safari
fra antilopi e giaguari
sciacalli e lapin.

Arriva la democrazia, la tanto agognata e sospirata “prima


Repubblica”, che apre i battenti a “trent’anni di safari”. Tangenti
deferenti, scandali occulti e truffe doverosamente pubbliche sono
carne fresca per avanzate figure animalesche: “antilopi, giaguari
e sciacalli”, che sacrificano esemplari controproducenti ai loro in-
trighi per garantirsi la sopravvivenza. È il caso delle lapin, rap-
presentate sommariamente dalla ventenne Wilma Montesi. Rino
racconta più dettagliatamente – in altre tracce dell’album Aida e
nel successivo Nuntaraggae più – le anomalie delle attività di
lucro del Lockheed, il disastro petrolifero del Settanta e il giochino
prosperoso dei finanziamenti merlini. Chiudo l’analisi poetico-
storica di Aida, avendo i timpani baciati dalla marcia trionfale ver-
diana, e notando come sulla copertina del 33 giri spicchi «la
presenza di una pompa di benzina sulla spiaggia», quasi a dimo-

Impegno e disincanto
246

strare, in senso lato, «la suprema potenza degli industriali del pe-
trolio249».

Mi soffermo sul clamoroso (e calcolato) tonfo economico-


sociale citato: la crisi petrolifera narrata umoristicamente in
Spendi Spandi Effendi. Rino dà voce musicata, attraverso tale
pezzo beat, al romanzo finale – e incompiuto – dell’esistenza con-
trovento di Pier Paolo Pasolini: Petrolio. «Spendi Spandi Effendi,
cantava Rino Gaetano nel 1977 e già allora ci consegnava una
foto, nitida e verosimile, del panorama italiano dell’epoca». Il
cantautore, con antesignano savoir faire, «prendeva in giro lo
stereotipo dell’italiano medio tutto donne e motori e lo inseriva
nel gravoso contesto del 1973, in occasione della crisi petrolifera».
Pasolini, tra le righe del “romanzo greggio”, «prendeva alla lettera
l’espressione “genocidio” utilizzata da Marx», ricordando come
il capitalismo attuasse una fulminante cancellazione di «interi
strati della società». Non a caso il protagonista della narrazione,
Carlo Valletti, ingegnere borghese del torinese, dalle idee catto-
comuniste, si ritrova a intraprendere un losco viaggio interiore
per purificarsi dai “peccati” della sua carriera all’Eni. Il personag-
gio pasoliniano «richiama alla memoria Enrico Mattei, allora
reale presidente dell’ente pubblico250». Nel godibile brano di Rino
si intravedono delle allusioni sommerse (e oblique) alla miste-
riosa morte di Mattei, che il 27 ottobre del 1962, nei pressi di Ba-
scapè (Pavia), viene disintegrato mentre un aereo lo riporta da
Milano a Catania. Ancora non è chiaro se la tragedia, nella quale
muoiono altre tre persone, sia provocata da un inaspettato guasto

Annibale Gagliani
247

tecnico o da un calcolato attentato. E probabilmente mai lo sarà.


Ma lo spirito della società capitalista deve concentrarsi su ben
altro: spendere compulsivamente i denari per il prodotto, span-
dere la proprietà dei beni ed effondere occupando più spazio pos-
sibile sul territorio. I tre verbi, posizionati sulla nauseante giostra
economica del Settanta, emanano un densissimo odore di ben-
zina.

Essence e benzina o gasolina


soltanto un litro e in cambio ti do Cristina
se vuoi la chiudo pure in monastero
ma dammi un litro di oro nero.

Ti sei fatto il palazzo sul Jumbo


noi invece corriamo sempre appresso all’ambo
ambo, terno, tombola e cinquina
se vinco mi danno un litro di benzina.

Il poetico graffiatore calabrese si muove nelle prime due


strofe con versi dalla sillabazione liberissima e debordante (in
linea con il suo stile), ma si concludono con schema di rime AABB.
Il sound detiene un ritmo da Seventy rock, aromatizzato da schi-
tarrate concettualmente made in Abbey Road. Le strofe inaugu-
rali tracciano le contraddizioni sedimentate nell’austerità
“petrolifera”, dai «lati grotteschi e ridicoli pescati nella vita di tutti
i giorni». L’aumento esorbitante del prezzo dei carburanti apre
scenari di incredibile follia. La patologica astinenza porta il citta-
dino comune – dal potere d’acquisto esiguo – a compiere scelte
Impegno e disincanto
248

pazzesche, «per un litro di essence, benzina e gasolina si può dare


in cambio di tutto: anche Cristina251». Un’istantanea completa ed
esilarante dell’uomo fuori controllo, «gli sceicchi, il petrolio alle
stelle, la società schiava del carburante252». Il ritornello è un clas-
sico scioglilingua gaetaniano, dal gioco di parole rimato, perfet-
tamente musicale, come una filastrocca, “spendi, spandi, spandi,
spendi, effendi”. Il pericoloso invito, che mira a raggiungere
l’ascoltatore colpevole, dimostra come un individuo qualunque,
a furia di spendere e spandere senza limiti, alla fine diventi un
“effendi”, ossia un espansore seriale. Le strofe finali, struttural-
mente analoghe alle prime, prendono in giro il mondo dei ma-
niaci delle automobili, veneratori delle Spider, delle Coupé, delle
Gittì e delle Alfetta. Il “macchinone” garantisce ai possessori l’af-
fetto futile di quelle donne attratte dall’apparenza, smaniose di
diventare un oggetto senza pensiero. Al tramonto del pezzo, Rino
cita il “sultano”, è Lui, con la potenza delle sue inscalfibili armi,
«che decide quale prodotto energetico debba essere consumato
al posto e in luogo di altri», e soprattutto «come si debba consu-
mare».

L’artista sognante, molto sognante, intende «evidenziare


che le strategie energetiche di estrazione, di acquisto e di con-
sumo», crocevia di importanza capitale per le sorti delle industrie
occidentali, «sono decise da un potere supremo, un potere so-
vrano253». A Spendi Spandi Effendi è legato un aneddoto televi-
sivo sensazionale: Gaetano è invitato, nell’anno di Aida, a
presentare i suoi ultimi lavori poetici in un programma musicale

Annibale Gagliani
249

di Gino Paoli. Il cantautore genovese, dall’incontestato Sapore di


mare, presenta Rino accostandolo a Fred Buscaglione e ritenen-
dolo l’affresco sonoro del futurismo di Tommaso Marinetti. A rac-
contarmi la fine è l’amico di sempre, Enrico Gregori: «Guardai la
trasmissione, e fui smentito un’altra volta. Gino Paoli, nel presen-
tare Rino, scomodò il futurismo di Marinetti e il genio di Fred Bu-
scaglione. Vederlo entrare in scena, poi, con un casco in testa e
una pompa da distributore in mano sembrò davvero forte. Il pub-
blico fu affascinato da quel “giullare” sfrontato, che aveva come
dono quello di rimanere spontaneo, di restare “uno qualunque”,
pur sapendo di essere artista innovativo, destinato a entrare nella
storia della musica254». Ma a irradiare gli orizzonti di Aida vi è
anche un essenziale raggio d’amore emanato dall’essere che più
ricopre d’incondizionato affetto l’uomo: il cane. Rino lascia da
parte per un attimo la satira politica, riprendendo il disagio esi-
stenziale della solitudine, Escluso il cane è un rubino rarissimo
nella collana artistica del graffiatore.

Chi mi dice ti amo


chi mi dice ti amo
ma togli il cane
escluso il cane
tutti gli altri son cattivi
pressoché poco disponibili
miscredenti e ortodossi
di aforismi perduti nel nulla.

Impegno e disincanto
250

Chi mi dice ti amo


chi mi dice ti amo
se togli il cane
escluso il cane
non rimane che gente assurda
con le loro facili soluzioni
nei loro occhi c’è un cannone
e un elisir di riflessione.

Il brano è un canto sofferto che contempla l’abbandono,


ma allo stesso tempo elogia la lealtà commovente dell’amico a
quattro zampe. Una chitarra dal passo terzinato, note struggenti
di pianoforte e incursioni del sax magnetico creano un’atmosfera
catartica. A sedimentare i sentimenti disordinati del poeta nella
compassione del peloso ascoltatore è una specie di ululato palpi-
tante, prodotto dal theremin, strumento elettronico dalle sonorità
“ufo”. Si tratta metaforicamente di un «ululato di solitudine e di-
sperazione di chi ha toccato il fondo dopo aver perso l’amore».
Un’amara emozione dai contorni rabbiosi, che l’artista sbatte in
faccia con garbo alle maschere del mondo ipocrita. O per meglio
dire, l’espressione pura di un «guaito di chi è crollato nell’osses-
sione e nello smarrimento da quando lei non torna più», deter-
minando che «a dirgli ti amo è rimasto solo il cane255».
L’incompreso, l’emarginato, l’escluso si prende nuovamente la
scena in un testo che ripercorre – senza virtuosismi di sorta – il
dialogo veritiero tra Rino e il migliore amico. Il pezzo trasmette
sensazioni fortissime grazie al proverbiale trasporto black del-
l’interprete e altresì, decostruisce interrogativi laceranti che
Annibale Gagliani
251

esplodono silenziosamente tra le righe. Nella ruvida dichiarazione


d’amore si scorge, sulle onde furenti del finale, una frecciatina alle
case discografiche che compongono duetti tra cantanti: queste
non si domandano nemmeno se sia opportuno valutare la com-
patibilità fisico-spirituale degli stessi. Rino è pienamente giusti-
ficato a esprimere un concetto caldamente duro: Nuntaraggae
più! Il quarto album completo del poeta calabrese, che farà fer-
mentare i veleni della critica nel 1978, «è un mosaico di persone
e immagini miscelate con una tonalità allegra», percepito a po-
steriori come «un affresco di storia italiana con tanti colori vol-
genti allo scuro256». Anno clamoroso il ’78: la caustica originalità
gaetaniana irrompe – come il Nilo che attenua il deserto – sul
palco più vergine d’Italia: il brillantato Ariston del Festival di San-
remo. Rino prende per mano la disinibita Gianna, presentandola
a tutto il Paese bigotto. Il conduttore della kermesse, Vittorio Sal-
vetti, annuncia l’esibizione in maniera istituzionale, senza aspet-
tarsi il coup de théâtre del cantautore. A raccontarci la scena
epocale è Enrico Gregori, stravaccato davanti al televisore in
mezzo a un “sepolcrale silenzio”.

Altro che giacca e cravatta, che eleganza classica: Rino indossava


un frac di avanspettacolo ed era pieno di improbabili medaglie. In testa
un cilindro e in mano l’ukulele. Poi sull’incipit di Gianna, una gag con
l’orchestra e alcuni figuranti, saliti sul palco insieme a lui per fare la sto-
ria del festival. Ma in quel momento nessuno lo sapeva. Sarà stato forse
per il cilindro, ma io ebbi la sensazione che sul palco ci fosse un presti-
giatore, un illusionista beffardo, che stava davvero ipnotizzando tutti
con quel pezzo surreale e tirato al limite delle corde vocali di Rino257.
Impegno e disincanto
252

Gianna è un pezzo surreale, rivoluzionario, un cannoc-


chiale culturale verso il futuro. Per la prima volta al Festival tra i
testi delle canzoni appare la scomodissima parola “sesso”.

Gianna, Gianna, Gianna sosteneva tesi e illusioni


Gianna, Gianna, Gianna prometteva pareti e fiumi
Gianna, Gianna, aveva un coccodrillo e un dottore
Gianna non perdeva neanche un minuto per fare l’amore […]
Ma la notte la festa è finita, evviva la vita
la gente si sveste e comincia un mondo
un mondo diverso, ma fatto di sesso
chi vivrà vedrà.

Una donna emancipata che affronta di petto le contraddi-


zioni dilaganti della fine degli anni Settanta: Gianna difende le
proprie idee, perdendosi spesso nelle dolci illusioni. La protago-
nista del tormentone che spalanca le porte del successo a Rino,
«è stata ragazzina (con il suo coccodrillo in peluche)», ma adesso
«è diventata donna, ha avuto la sua prima visita dal ginecologo
(il dottore)», e sceglie finalmente di «rimanere libera, senza con-
trolli e legami (“non cercava il suo pigmalione”)». In particolar
modo si sente in spedito dovere di non «perdere neanche un mi-
nuto per fare l’amore258». Una donna intuitiva, perspicace, che
vive la notte. Il ritornello è un elogio alle notti brave, dove il sesso
si scioglie nel divertimento privo di morale e freni inibitori. «Un
mondo diverso, ma fatto di sesso e chi vivrà vedrà», è una cronaca
anticipata del Duemila, nel quale la libertà sessuale ha conqui-
stato il suo spazio vitale tra i bacchettoni della curia e del foro.
Annibale Gagliani
253

Ma chi sono codesti moralisti della classe politica e delle strutture


ecclesiastiche che proclamano il rigore, ingannando volpinamente
sottobanco? Nell’album Nuntaraggae più, il surreale poeta di
protesta traccia arditamente il profilo con tre pezzi fuori da ogni
logica di contegno: Capofortuna, Fabbricando case e Nuntarag-
gae più (invettiva pregevole verso l’Italietta chic).

Capofortuna ripercorre la parabola ascendente di Luciano


Lama, in quegli anni segretario della CGIL e successivamente par-
lamentare del PCI.

[Cittadini lavoratori alle ore


diciotto il nostro
beneamato segretario sarà con noi]
voce al megafono

Ma che fortuna grazie alla luna


Capofortuna stasera è con noi
ha una gran testa come uomo e una bestia
sembra immortale ma è come noi.
Lui è stato sempre puro come l’alito di chi
non beve e non fuma lava i denti tutti i dì
profuma di roba francese e sulla camicia ha un foulard
di chiffon
regala sorrisi distesi ai suoi elettori, ai bambini bonbon […]
dimentica i tuoi problemi, imbarca i tuoi remi, lui pensa per te
inaugura mostre e congressi, autostrade e cessi, ferrovie e metrò
sorride ai presenti commosso, se punta sul rosso sa che vincerà.

Impegno e disincanto
254

Capofortuna è una riproposizione mignon di Gesù: bello


e profumato come i nobili francesi, forte e possente come i cen-
turioni romani (grazie all’esperienza da ufficiale nella Seconda
Guerra Mondiale). Regala sorrisi e caramelle ai suoi devoti, men-
tre inaugura opere pubbliche e intraprende comizi da rockstar.
Quando Rino sottolinea la purezza d’animo del segretario, si
odono le note di un organo angelico, quasi a sottolinearne l’inve-
stitura celeste. Durante l’elencazione dei “miracoli” dell’amma-
liante sindacalista, brucia fortissimo il fetore della pipa: parte in
sottofondo il banjo, regalando un’atmosfera da saloon country.
All’epilogo del satirico omaggio, va in scena una smitizzazione
dello stesso: la perfezione dell’incantatore mondano lo porta a
inaugurare persino “i cessi”. A questo punto la caduta di stile è
inevitabile: la sua bramosia di successo ha un contrappasso coi
fiocchi. A volte capita che il “capofortuna” di turno, assieme ai
suoi colleghi in giacca e cravatta, venga dominato dalle tentazioni
terrene, diventando schiavo di un oggetto del desiderio delin-
quenziale: le corruttive “bustarelle”. Rino canta – divinamente –
gli scandali pubblici scoppiati Fabbricando case.

Fabbricando case
ospedali, casermoni e monasteri
fabbricando case
ci si sente più veloci e più leggeri
fabbricando scuole
dai un tuo contributo personale all’istruzione
fabbricando scuole
sub-appalti e corruzione e bustarelle da un milione […]
Annibale Gagliani
255

ci si sente vuoti dentro il cuore


ci si sente vuoti dentro il cuore
dopo vai dal confessore
e ti fai esorcizzare
spendi per opere assistenziali
e per sciagure nazionali
e ti guadagni l’aldilà
e puoi morire in odore di santità
fabbricando case.

Il cantautore crotonese canta con vent’anni d’anticipo lo


spirito governativo che balza fuori dopo Tangentopoli. Dal dopo-
guerra fino agli anni Settanta, l’Italia è investita da una marea di
cemento, utile per la ricostruzione abitativa e infrastrutturale, e
per la nascita di strutture pubbliche assistenziali e religiose. Ma
il problema, come sempre, è antropologico: una parte marcia di
classe politica. Dietro a numerosissime opere edili – macroscopi-
che e microscopiche – si nasconde lo spettro della “bustarella”,
che dal costruttore passa allo Stato e dallo Stato arriva fino ai com-
plici esterni. Rino cerca di entrare nel cuore del corrotto abituale,
comprendendone eventualmente i rimorsi umani. «Ci si sente
vuoti dentro al cuore», ma fino a un certo punto, perché poi si va
dal confessore per farsi esorcizzare e ci si garantisce una morte in
odore di santità. Percorso piuttosto comune nel Paese dell’ingiu-
stizia, dove a pagare gli errori sanguinosi dei dirigenti sono co-
stantemente le fasce più deboli del popolo. Fabbricando case è il
perentorio del corrotto, in cui la voce rauca dell’interprete graffia
il fegato di chi ha la coda di paglia.
Impegno e disincanto
256

Mi fermo al cospetto del brano che dà il titolo all’intera


opera, Nuntaraggae più. È un turbine musicale destinato a ri-
manere pulsante almeno per i prossimi cinquant’anni. In
un’esclusiva intervista radiofonica rilasciata a Enzo Siciliano,
Gaetano spiega quale sia la fonte d’ispirazione, con la susseguente
costruzione, dell’indelebile pezzo.

È nato da un pacco di giornali. Si dividono le notizie politiche,


le notizie sportive, le notizie di attualità e le notizie di cronaca. Poi si
prendono a caso e si scrive una canzone. Sono tutti titoli dei giornali,
abbastanza scandalistici. Nuntaraggae più è una cosa a furor di popolo,
tutti quanti oggi sono d’accordo. Credo che si rischi il qualunquismo
quando uno attribuisce a una canzone l’effetto di un comizio politico.
Questa è una canzone evasiva. Io non faccio commenti politici. Quando
canto voglio cercare di fare l’evasivo in tutti i modi e di scrivere delle
canzoni d’amore. Questa è una canzone d’amore per la nostra società.
Esistono dei periodi sociali: nel periodo di boom economico Morandi
faceva “Fatti mandare dalla mamma a prendere il latte”, oggi il latte
costa troppo. Dal momento che il boom economico non c’è più, ci sono
dei problemi, e chiaramente io come uomo non sono cieco259.

Rino diventa il megafono del nuovo popolo risorgimentale, che


non sopporta più tutta una serie di contraddizioni impellenti. Un
reggae forsennato – dal ritmo ska – oltre a entrare nel titolo at-
traverso il giochino del dittongo, sorregge intensamente l’ironica
dichiarazione di “guerra” ai personaggi d’élite del Belpaese. Il
tutto popolarmente inaugurato da un calcistico “abbasso e alé”.

Annibale Gagliani
257

Abbasso e alè con le canzoni


senza fatti e soluzioni
la castità
la verginità
la sposa in bianco, il maschio forte
i ministri puliti, i buffoni di corte
ladri di polli
super pensioni
ladri di stato e stupratori
il grasso ventre dei commendatori
diete politicizzate
evasori legalizzati
auto blu
sangue blu
cieli blu
amore blu
rock and blues
nuntaraggae più.

Eccolo qui «il processo conclusivo di un discorso già avviato


da alcuni anni260»: la prima parte del brano offre subito immagini
scottanti dell’Italia “da bere” e contrappone magistralmente “il sangue
blu” ai “cieli blu”, sotto i quali si muovono “le auto blu”. Nella fase cen-
trale escono tutte le qualità da rapper antesignano di un Gaetano ga-
gliardamente sugli scudi.
Eja alalà
Pci, Psi

Impegno e disincanto
258

Dc, Dc
Pci, Psi, Pli, Pri
Dc, Dc, Dc, Dc
Cazzaniga
avvocato Agnelli, Umberto Agnelli
Susanna Agnelli, Monti, Pirelli
dribbla Causio, che passa a Tardelli
Musella, Antognoni e Zaccarelli
Gianni Brera
Bearzot
Monzon, Panatta, Rivera, D’Ambrosio
Lauda, Thoeni, Maurizio Costanzo, Mike Bongiorno
Villaggio, Raffa e Guccini
onorevole, eccellenza, cavaliere, senatore
nobildonna, eminenza, monsignore
vossia, cherie, mon amour
nuntaraggae più.

Una canzone che punteggia d’ironia la notorietà, spoglian-


dola di quell’armatura di malsana intoccabilità. In un cavallerizzo
gioco di enunciazioni fulminee, appaiono gli acronimi dei partiti
più potenti del Parlamento. Poi è la volta degli industriali e dei
dirigenti – su tutti gli Agnelli, i Monti, i Pirelli e i Cazzaniga – che
aprono la scena agli sportivi più amati dal Paese. In mezzo al pool
di nomi strepitanti appaiono anche Gianni Brera e il cittì della
nazionale, Bearzot, che vengono subito seguiti dai professionisti
della TV generalista: Maurizio Costanzo e Mike Bongiorno. E poi
si passa al cinema con Villaggio e alla musica con la Carrà e Guc-
cini. Sembra che Rino abbia lasciato la televisione accesa tutto il
Annibale Gagliani
259

giorno. È quello l’habitat naturale di chi detiene un titolo nobi-


liare, politico o religioso da esporre gaudente. David Gramiccioli
rileva che la versione originale di Nuntaraggae più – ampiamente
censurata – aveva ben altra forma: «Quando lui portò la versione
integrale ai discografici, vennero censurati i nomi di Sindona,
Ventriglia, Cruciani, Rovelli e di Aldo Moro. In pratica i politici,
gli economisti e i burocrati più potenti del Paese. Il ritornello ini-
zialmente era “Amoro mio, Amoro mio”, anagrammando il nome
dello statista pugliese. Rino voleva portare questo pezzo a San-
remo nel 1978: tu immagina se qualche mese prima del rapimento
di Moro avesse cantato quella canzone al Festival, che polverone
si sarebbe sollevato…261».

Cabron! La censura capovolge, sovente, il senso intero di


un prodotto culturale. Ma questo non è il caso di Rino: nel brano
rimangono intatte «le voci sdegnate che sembrano appartenere ai
passanti, intervistati al mercato, in fila per la pensione o per pa-
gare le tasse, che sbraitano sul governo ladro262». Appaiono scaglie
di politichese stagionato, utili per mantenere lo status quo. L’iro-
nia del pezzo tocca il diapason quando si alternano parole sforbi-
ciate all’ultima lettera per creare una musicalità ridondante:
«Freud e il sess, è tutto un cess, ci sarà la ress», quasi a incollare
minuscole parti di comuni discorsi dell’italiano medio. Chi va al
mare con un cofano di soldi e “tanto amore”, vive nel terrore che
gli rubino l’argenteria, poiché la roba è diventata estensione del
corpo e perciò se manca son dolori. Più prosa che poesia questa
Italia, soprattutto nella sconvolgente parte finale:

Impegno e disincanto
260

Ue paisà
il bricolage
il Quindici-Diciotto
il prosciutto cotto
il Quarantotto
il Sessantotto
il P38
sulla spiaggia di Capocotta
Cartier, Cardin, Gucci
Portobello e illusioni
lotteria a trecento milioni
mentre il popolo si gratta
a dama c’è chi fa la patta
a sette e mezzo c’ho la matta
mentre vedo tanta gente
che non c’ha l’acqua, corrente
e non c’ha niente
ma chi me sente
ma chi me sente
e allora amore mio ti amo.

Si riparte serratamente con una serie di manie che si al-


ternano alle date chiave della storia italiana contemporanea. Il
tutto espletato in rima baciata, quasi ad ammorbidire il pericolo
di raccontare la verità. Subito dopo arriva un’altra citazione ro-
boante: la vicenda scabrosa e intricata di Wilma Montesi, ventu-
nenne ritrovata senza vita l’11 aprile del 1953 sulla spiaggia di
Capocotta, a Torvaianica (Roma). Ebbene sì, proprio il caso noir
Annibale Gagliani
261

cantato da Fabrizio De André in Una storia sbagliata. La ragazza


dalle umili origini è liquidata dalla giustizia con uno sbrigativo re-
ferto che ne accerta la morte per overdose. “Morte casuale e non
voluta da nessuno, se non da lei”, tanto stabilisce la magistratura.
Ancora oggi le ombre sulla vicenda restano densissime, poiché,
secondo molti testimoni “stimabili”, Wilma Montesi è un’assidua
frequentatrice di potenti figure, entrate successivamente nella
massoneria romana. Ma nel brano ritorna puntualmente l’Italietta
della dolce vita: allietata dalle grandi marche di moda, dalle illu-
sorie vacanze a Portobello, programmate mentre la nazione si di-
vide tra i benestanti estetizzati e gli ultimi che non hanno
nemmeno l’acqua o la corrente. Una contrapposizione inascoltata,
però, nonostante il cantautore la gridi tra gli squilli delle sue
trombe, che non sono quelle del giudizio universale di Gaber, ma
certamente, altrettanto rabbiose. Al calar dell’invettiva, l’artista
di protesta riesce a soffiare un “ti amo” calorosissimo alla sua ado-
rata donna, che si estende alla sua dilaniata patria, e può servire
da monito per la sua avara società. Gaetano processa lo Stivale –
e i suoi sudaticci portatori – con la stessa lungimiranza di Pier
Paolo Pasolini negli Scritti Corsari, precedendo nella parodia sto-
rica Faber e raccogliendo saggiamente le riflessioni sulla persona
(prima che sulla maschera convenzionale) che Il Signor G scatena.

Enrico Gregori è ancora molto legato a Nuntaraggae più,


tribolato e idilliaco comizio (comizio d’amore) che rende l’arte
gaetaniana sempre più appetibile al mercato discografico. L’amico
permanente ricorda come – fino agli ultimi giorni – intimi a Rino

Impegno e disincanto
262

di non scordarsi mai dei versi della sua prosaica denuncia, per
salvarsi dalle angherie diabetiche dell’industria musicale. «Sa-
rebbero piovuti contratti, inviti, concerti, radio, tv, intellettuali
“pret-a-porter”, sociologi e mignotte, e speravo che Rino conti-
nuasse a canticchiare dentro di sé Nuntaraggae più, come anti-
doto al circo di nani, saltimbanchi, mangiafuoco e mangiamerda
che di lì a poco si sarebbe proposto in tutta la sua trivialità263».

Annibale Gagliani
263

5. L’epilogo del poeta garantisce la continuità


del disincanto nel Duemila

Beati i professori, beati gli arrivisti,


i nobili e i padroni specie se comunisti […]
Beati i sottosegretari, i sottufficiali
beati i sottaceti che ti preparano al cenone
beati i critici e gli esegeti di questa mia canzone.

GAETANO, Le Beatitudini, da Gianna e le altre, 1990.

30 ottobre 1978, Maurizio Costanzo invita al suo talk tele-


visivo, Acquario, il mirabolante Rino. L’idea dell’onnipresente
presentatore è far confrontare dialetticamente l’artista con uno
dei personaggi più altisonanti apparsi in Nuntaraggae più, Su-
sanna Agnelli. Di quella puntata cult fa un sommario resoconto
David Gramiccioli, «Costanzo, che è sempre stato forte con i de-
boli e debole con i forti, ebbe il compito “dall’alto” di attenzionare
questo cantautore che sdoganava una canzone piena di nomi scot-
tanti. Il presentatore voleva, a questo punto, sancire la morte me-
diatica di Gaetano. Alla fine dei conti fu spiazzato, perché
Nuntaraggae più a Susanna Agnelli – regina laica – piacque, vuoi
perché la cantavano in casa i suoi figli, vuoi per la genialità del-
l’artista264».

Arriva il 1979, anno di grandi cambiamenti per il graffia-


tore pitagorico. Termina la collaborazione con la casa discografica
IT, che ha pubblicato tutti i suoi lavori precedenti. Parte una ran-
Impegno e disincanto
264

tolante avventura con una delle case più potenti dell’universo mu-
sicale italiano: la RCA. I nuovi discografici cuciono un vestito
commerciale che a Rino va molto stretto: l’operazione è ideata
per rilanciarlo nelle vendite. Nasce Resta vile maschio, album re-
gistrato nell’afa torrida del Messico. La genesi del 33 giri avviene,
stando alle ricostruzioni storiche della RCA, in un bar, nel quale
si incontrano Rino e Mogol. L’episodio è chiarito con accuratezza
dal nipote del poeta real-surreale, Alessandro:

Stando alla nascita di Resta vile maschio, si racconta di questo


incontro poetico in un bar romano, in cui Mogol scrisse a Rino la can-
zone cardine del disco. In realtà io credo che dopo il passaggio di mio
zio dalla IT alla RCA, vi fu una sorta di compendio, lui è dovuto sotto-
stare a una serie di cose. Loro pensarono siccome Rino era stato un po’
fermo, di “rilanciarlo” con un pezzo scritto da un grande nome, che do-
veva poi prendere il titolo dell’album. Esistono più versioni in playback
di Resta vile maschio che di tutte le altre canzoni messe insieme. Rino
voleva stare poco in tv, per non stancare il pubblico, mentre in quel-
l’occasione fu proprio spinto di brutto e fu assolutamente una soffe-
renza265.

Come affermato da Alessandro, Rino è investito da una


sofferenza artistica senza precedenti. Il mercato musicale vuole
cambiarlo completamente e questo lo tormenta nell’anima. Al-
l’interno di Resta vile maschio appare un pezzo divertente, dai
contorni allegorici, quasi a ripercorrere le orme delle origini: Ahi
Maria. Il sound esotico, condito dall’atmosfera di spiagge imma-
colate e cocktail rilassanti, attenua il palpabile dolore dell’artista.
Annibale Gagliani
265

Ma i voli pindarici in paradisi rarefatti non bastano. Nel 1980 ar-


riva l’ultimo album, sempre targato RCA, in cui Rino urla fioca-
mente il suo desiderio di rivoluzione incastonato da lustri dentro
l’inconscio, E io ci sto.

Mi alzo al mattino con una nuova illusione,


prendo il 109 per la Rivoluzione,
e sono soddisfatto
un poco saggio, un poco matto
penso che fra vent’anni finiranno i miei affanni
ma ci ripenso però, mi guardo intorno per un po’
e mi accorgo che son solo,
in fondo è bella però la mia età e io ci sto.

Questo brano d’assalto, che firma l’intero disco, è bagnato


da un rock audace, arduamente anni Ottanta, che sancisce l’eru-
dizione totale del Rino artista. Il cantautore, all’interno della sua
vita poetica, scrive allegoricamente, caricando di brulicante realtà
le sue placide figure retoriche. Adotta un’idea narrativa iperreali-
sta finalizzata all’assoluta comprensione per il pubblico. Musical-
mente parte dalle ballate transalpine e popolari – quelle
infinitamente care a Faber – e poi elettrizza i pentagrammi con
uno sperimentalismo stimolante: bossa nova, raggae, rap camuf-
fato, rock, blues, spruzzate di jazz, marce e marcette, giochi elet-
tronici e pop d’autore. Rino è l’artista che detiene le sonorità più
eclettiche nel panorama cantautorale italico. Un neosperimenta-
lista della musica, che si nutre di letture liriche, saggistiche e nar-
rative di avventuriero realismo. Pasolini è il suo maestro
Impegno e disincanto
266

argomentativo. L’arte gaetaniana si cesella con una teatralità


senza confini: Gaber è il suo incommensurabile esempio, al levare
di una suggestione d’attore proscenico. Rino non rompe quel vin-
colo naturale stabilito con il suo pubblico, che percepisce come
una boccata d’aria purificante, profumata di rose blu (come il suo
cielo, del resto). Nonostante le sofferenze – quasi insuperabili –
dei lavori finali, si alza in volo una corrispondenza di amorosi
sensi e rabbiosi sentimenti tra il cantautore e i suoi ascoltatori,
Ti, ti, ti, ti.

A te che sogni una stella ed un veliero


che ti portino su isole dal cielo più vero,
a te che non sopporti la pazienza
o abbandonarti alla più sfrenata continenza,
a te che hai progettato un antifurto sicuro,
a te che lotti sempre contro il muro
e quando la tua mente prende il volo
ti accorgi che sei rimasto solo,
a te che ascolti il mio disco forse sorridendo
giuro che la stessa rabbia sto vivendo,
siamo sulla stessa barca io e te.

Rino vive la medesima rabbia dell’ascoltatore. Ad accen-


dergli questo moto di rivalsa dentro le arterie, mentre la mente
prende il volo – determinandolo “solo” –, è la tragicomicità della
realtà, dove i muri – alla Sartre – per la gente qualsiasi sono sem-
pre più alti. Tali barriere meschine, che allontanano bruscamente
dai sogni, per “i politici imbrillantinati” sono facilmente sormon-
Annibale Gagliani
267

tabili. Essi godono di un trattamento con guanti bianchi quando


compiono degli errori focali. Sono toujours pronti a mandare tutto
in malora “pur di salvare la loro dignità mondana”. L’impunità
parlamentare (aggiunta con penna invisibile nella Costituzione)
è il calzino di piombo sul tallone d’Achille che nascondono gelo-
samente. Sicché, forti di tale difesa, chiedono il consueto “voto
pulito” a chi davvero non sa più come sfuggire alla disperazione:
accentuazione di uno smarrimento che fa cadere nel tranello del
potere.

Ma Rino è un inguaribile romantico. Sostiene con orgoglio


che le sue sono canzoni d’amore: per la patria, la società, per una
donna, Amelia. Nella marcia nuziale che lo avrebbe portato a spo-
sarla, lui canta poeticamente anarchici desideri: I miei sogni
d’anarchia…

Ma io l’amavo e lei amava me


nei suoi sogni ritrovavo anche un po’ di me.
E lei scopriva ogni giorno il valore del denaro
e le conseguenze
toccava il cielo con un dito e sanava le ferite
con la rivoluzione […]
Le bugie, le poesie, i racconti e la paura,
l’inflazione, le battaglie, l’egoismo della razza,
la stagione dei colori, un bicchiere e le memorie,
vecchi libri e dischi rock, un sudario e mille storie,
le panchine dei viali e le strane fantasie,

Impegno e disincanto
268

le bugie, le poesie e le strane cose che


stritolavano il passato, il feudalesimo e l’anarchia,
i sogni, l’anarchia, i miei sogni d’anarchia.

L’amore di Sfiorivano le viole è un sentimento che evade


inconsapevolmente da una storia pubblica in progressivo muta-
mento. L’amore de I miei sogni d’anarchia è un sentimento con-
sapevole, perfettamente ambientato nella storia, che costruisce
con il partner lo stesso percorso ideale, riflessivo, sognante. Gior-
nate, azioni e sofferenze: il tutto immensamente condiviso da due
anime anarchiche, che vogliono il bene dell’umanità. Nei sogni
della sua lei, il cantautore ritrova anche un po’ di sé. Lei tocca il
cielo con un dito, sanando le sue ferite sociali con la rivoluzione.
È per danzare in questo vortice di vita che Rino sposa Amelia af-
fidandosi all’inscindibile canzone: poco importa che la chiesa non
li riconosca fisicamente sposi. L’arte suggella sodalizi che le isti-
tuzioni non potranno mai immaginare.

Il 2 giugno 1981 il graffiatore neo-sperimentale si assenta


dal mondo terreno a causa di un tragico incidente, avvenuto nella
sua Roma. Dopo l’atroce fatto, forse in pochissimi si accorgono
che lo strabiliante artista ha colto sapientemente l’eredità corsara
e luterana di Pier Paolo Pasolini e ha saputo ispirarsi alle eresie
poetiche e teatrali di Faber e di Gaber. La sua breve e intensis-
sima discografia garantisce la continuità del pensiero e del lin-
guaggio disincantato nel Duemila. Rino sa bene che ci vogliono
diverse generazioni prima che la sua arte possa essere ricono-
sciuta liricamente e musicalmente: così è stato e così sarà. Grazie
Annibale Gagliani
269

alla passione inesauribile della sorella Anna e dei suoi figli, sono
in atto tanti progetti che veicolano il reale messaggio gaetaniano.
Il nipote Alessandro ricorda, infatti, come il sensoriale zio sia en-
trato in punta di piedi nelle scuole: «Poco tempo fa siamo andati
in una scuola elementare a San Giovanni, Istituto Manzoni, dove
i bambini avevano preparato insieme alla maestra una recita mi-
mata di Ma il cielo è sempre più blu. Poi ho tirato fuori la chitarra
e tutti in coro abbiamo cantato Aida, la storia d’Italia. È stato
qualcosa di grandioso, come lui del resto266».

Il 4 aprile 2017 la Repubblica italiana insignisce della me-


daglia d’oro alla cultura il più grande cantautore meridionale della
storia del Paese: il poeta del senso interiore. Meglio tardi che mai,
cara Aida. Tu, una delle donne più amate da Rino. Tu, la donna
più bella della storia.

Impegno e disincanto
270

Annibale Gagliani
271

Conclusioni

A chi è rivolto questo libro? Tre sono i target che mi hanno


spinto a riporre tutte le mie forze intellettuali in queste righe. Il
primo è la mia generazione, che della marea rivoluzionaria del
Sessantotto conosce soltanto le mode “belle e dannate”, in grado
di rendere sessualmente più attraenti. Il secondo sono i padri del
Sessantotto, con i quali intendo dialogare costruttivamente, per
capire le motivazioni del fallimento della rivoluzione valoriale,
evitando di imitare il loro peccato originale. L’aurora della gio-
ventù dei compagni ai giorni nostri risulta un eccitante inganno.
Cinquant’anni fa, in quel maggio di grande fermento socio-poli-
tico e culturale, sotto la cenere dei più avanguardistici ideali si è
incredibilmente generata una corruzione, un razzismo intellet-
tuale e un regno dell’apparenza di cui innumerevoli capitani della
contestazione sono stati adulatori (in)consapevoli. Il terzo desti-
natario del mio lavoro è – nell’accezione più ampia del termine –
l’individuo fragile, emarginato, smarrito, culturalmente svuotato.
Qual è l’obiettivo del percorso multi-disciplinare che ho attraver-
sato insieme a te, caro lettore? Dare il mio contributo per il mi-
glioramento della società italiana. Farlo da solo sarebbe ridicolo.
Abbracciare idealmente ed emozionalmente quattro profeti del
nostro patrimonio storico e artistico – Pasolini, Faber, Gaber e
Rino Gaetano –, per poterli iniettare nelle vene di chi legge, può
servire a tanto. Il mio compito da mediatore porta nell’abbraccio
disincantato tutte le fonti e gli altri autori citati. Parlo di memo-

Impegno e disincanto
272

rabili profili, studiosi, scrittori e artisti che hanno raccontato


scientificamente i quattro profeti e che hanno aperto un grosso
squarcio sulle origini intellettuali degli stessi. L’apertura di questa
serie sterminata di link scatena un vento di onestà intellettuale
del quale sono ispiratori tutti i fuoriclasse della cultura interna-
zionale che ho citato. Artisti francesi, scrittori russi e americani,
filosofi anglosassoni e greci. Lettore, essere umano che vuoi cam-
biare, non sei solo! C’è una schiera di menti eccellenti pronta a
sorreggerti in qualsiasi momento.

Magari l’intellettuale avverso (quello che serve il potere)


potrebbe chiedermi perché l’analisi dei testi di questi magnifici
quattro. Ogni mia parola, canzone riportata, riflessione fatta ha
lo scopo di aprire gli occhi alla mia generazione, che condurrà il
gioco nel futuro prossimo. Possiamo salvarci, salvando in extre-
mis un Paese in tragica eutanasia. Nessuno come i quattro antie-
roi conosce meglio il dolore e i problemi che si autorigenerano
all’infinito nei giorni nostri (e in quelli a venire).

Voglio chiarire, oltretutto, che l’idea di fondo del libro è


stata incisa prima su me stesso e poi su cellulosa. Vengo dalla
strada, sono figlio di un nulla cosmico in grado di squartare il fe-
gato e di sputarti in faccia senza nemmeno avvisarti. La lettura,
la visione e l’ascolto dell’immensa cultura che ho cercato di rac-
contare, mi ha salvato la vita, regalandomi un futuro. Come non
poteva essere così, ad aiutarmi sono stati degli esseri umani in-
commensurabili, con le loro paraboliche storie.

Annibale Gagliani
273

Pier Paolo Pasolini, un intellettuale totale, la mente più


eclettica della storia d’Italia. Faber, narratore perenne degli ul-
timi. Miscelatore di sound popolare di estrazione medievale e mo-
derni generi sorti tra New Orleans e Nashville. Il tutto saporito da
spruzzate di echi musicali provenienti da micro-universi esotici e
balcanici. Giorgio Gaber, l’ultimo vero filosofo della Storia d’Italia.
Lui si definiva un “filosofo ignorante”, nel bel mezzo di una storica
intervista rilasciata a Maurizio Porro sul «Corriere della Sera» il
4 giugno 1978. Il proscenio gaberiano pullulava di energie ricari-
canti, riflessioni sul je et moi e argomentazioni altissime forgiate
da inesauribile coraggio. La parola prima di tutto, la mente e bri-
vidi su tutto. Rino Gaetano, il poeta del senso interiore. Con lui i
sacrifici del meridionale squattrinato, a ogni piè sospinto verso
l’emigrazione – per lo più con fame incontrollabile –, conquistano
uno spazio dionisiaco nel cantautorato d’eccellenza. Un artista na-
turalista, che narra con onniscienza e tenebrosa inclusione le pro-
blematiche sociali. Gioca arditamente con il surrealismo per
distribuire il messaggio in maniera obliqua, l’unica possibile al-
l’interno di media come la televisione, la radio e i giornali iper-
controllati e crudamente vivisezionati.

Quattro profeti che non ho chiamato in causa per caso. Essi


hanno condiviso la stessa arena intellettuale e interagiscono an-
cora oggi – profondamente – tra loro. Nella narrazione ho utiliz-
zato uno schema a rombo, che, partendo dall’accademico friulano,
giunge al narratore della lanterna prima e al francofortese di Mi-
lano poi, per terminare la corsa con il cantastorie di Crotone. Un

Impegno e disincanto
274

percorso eterogeneo e comunicante che rappresenta interamente


ogni aspetto nascosto del Paese. Oltre ad analizzare l’evoluzione
antropologica (al contrario) dell’individuo, ho evidenziato il fo-
coso romanzo della sua storia contemporanea. La coerenza di tale
forma di linguaggio è esemplare e rende giustizia alla lingua let-
teraria figlia delle tre corone fiorentine, ravvivata da Ariosto e ri-
modellata da Manzoni, da Leopardi e da D’Annunzio. I quattro
profeti italiani sono i veri eredi di tale tradizione linguistico-poe-
tica nel Novecento. Prendono spunto dalla tradizione lirica e can-
tautorale francese, dal realismo torrenziale della letteratura russa
e dagli spunti avanguardistici che l’italiano offre. Non solo analisi
della tradizione letteraria, ma altresì uso strategico del dialetto e
profusione di giochi di parole. L’espressività di tali antieroi della
fenomenale parola – ontologicamente dolorosa – non soltanto
eleva interiormente chi se ne abbevera, bensì lava gli occhi intor-
piditi dell’essere umano medio, imbastardito dalla legge dei con-
sumi.

L’Umanesimo Nuovo non può attendere oltre: la massa


sta divenendo sempre più impersonale, con il conseguente disin-
tegrarsi dell’originalità costruttiva. L’emozione veritiera e l’iden-
tità sociale potrebbero non esistere più, lasciando spazio
all’ebetismo zampillante. Come preservare contagiosamente
l’umanità? Bisogna intervenire sull’istruzione, strepitosa fonte di
speranza per l’uomo vuoto del Duemila. Pier Paolo Pasolini, Fa-
brizio De André, Giorgio Gaber e Rino Gaetano devono entrare
di diritto nei programmi istituzionali delle scuole primaria e se-

Annibale Gagliani
275

condaria, e con ancora più forza nelle facoltà di Lettere e Filosofia


di tutta la nazione. Bisogna educare le tenere generazioni ad ascol-
tare la vera musica cantautorale e a leggere i classici più vicini a
livello temporale e spirituale. Solo così si possono percorrere a ri-
troso le dinamiche della cultura italica e internazionale con uno
sguardo privo di illusioni, sfrontatamente aperto a creare. Per un
giovane studente, avvolto dal consumistico fardello di apparire e
guadagnare morbosamente, comprendere che un artista partito
da zero – con tutti i limiti e le problematiche del caso – abbia edi-
ficato il proprio futuro sposando lo scomodo sacrificio, lo studio
curioso e la bellezza nella sua reale essenza può essere il carbu-
rante spontaneo che muoverà principalmente la sua “persona”, e
poi l’eventuale professionista. Lavorare sulla “sensibilità” e non
solo sulle “capacità” farebbe nettamente la differenza. Il Ventu-
nesimo secolo è l’epoca dei ciechi, dell’insensibilità, dell’iper-pro-
duttività funzionale al surplus del guadagno. Gli “ipovedenti
intellettuali” furono straordinariamente descritti due secoli fa da
Charles Baudelaire ne I fiori del male, con il dissuadente compo-
nimento I ciechi:

Guardali, anima mia; sono davvero orrendi!


Simili a manichini; vagamente ridicoli;
terribili, strani come sonnambuli;
folgorando chissà dove quei globi tenebrosi267.

Il disincanto è la migliore forma di ottimismo apparsa nella


cultura mondiale, strada maestra che porta a incontri rivoluzio-
nari. Permette di eludere l’apparenza data in pasto dal potere, ele-
Impegno e disincanto
276

mento dominante nel cuore della società odierna. Il disincantato


bada alla concretezza, alle emozioni reali, osservando critica-
mente la sostanza delle persone. Ma è anche un visionario e viag-
gia – regolarmente – con il pensiero per raggiungere la sua vera
ispirazione. È mosso da quell’estenuante passione sovrannatu-
rale, composta dalla stessa sostanza di un sogno giovanile. So-
stanza che non può mai mancare nelle vene dell’uomo, perché,
da millenni, è in grado di portarlo nello scenario boudelariano:

Assordava tutt’intorno il frastuono della strada.


Alta, sottile, in lutto stretto, dolente maestà,
una donna passò, facendo con la mano sontuosa
oscillare il festone, l’orlo della gonna sollevato […]

Un lampo… poi la notte! – Fugace bellezza,


il tuo sguardo d’un tratto mi ha fatto rinascere,
ti rivedrò soltanto nell’eternità268?

Annibale Gagliani
277

Note di testo

1
Definizione tratta da www.treccani.it.
2
BRUNI F., L’italiano letterario nella storia, Il Mulino, Bologna, 2007, p. 54.
3
ACCADEMIA DEGLI SCRAUSI, Versi rock – La lingua della canzone italiana negli
anni ’80 e ’90, Rizzoli, Milano, 1996, pp. 27-28.
4
ANTONELLI G., Ma cosa vuoi che sia una canzone – Mezzo secolo di italiano can-
tato, Il Mulino, Bologna, 2010, p. 55.
5
BECCARIA G. L., Le orme della parola – Da Sbarbaro a De André, testimonianze
sul Novecento, Rizzoli, Milano, 2013, p. 200.
6
BORGNA G. – SERIANNI L., La lingua cantata – L’italiano nella canzone dagli
anni Trenta ad oggi, Garamond Editrice, Roma, 1994, p. III.
7
APRILE M., Dalle parole ai dizionari, Il Mulino, Bologna, 2015, pp. 14-15.
8
PASOLINI P. P., Poesie, Garzanti, Milano, 2016, pp. 138-139.
9
MARTELLINI L., Ritratto di Pasolini, Edizioni Laterza, Bari, 2006, p. 7.
10
TOMBESI E., Pasolini: la cultura popolare e l’importanza della pedagogia, tratto
da www.academia.edu, pp. 1-2.
11
MARTELLINI L., Ritratto di Pasolini, Editori Laterza, Bari, 2006, p. 8.
12
Ivi, p. 8.
13
BENEDETTI G., Pasolini 1940-1945: genesi di un intellettuale, da
www.academia.edu, p. 2.
14
MARTELLINI L., Ritratto di Pasolini, Editori Laterza, Bari, 2006, p. 11.
15
Ivi, p. 16.
16
Ivi, p. 28.
17
Ivi, p. 31.
18
Per monolinguismo si intende l’uso di un solo codice o varietà linguistica, e più spe-
cificamente nell’uso letterario di un unico registro stilistico o modulo espressivo omo-
geneo e selezionato da parte di un autore. […] Il plurilinguismo dantesco per Contini
(1970: 171) non è solo uso concomitante di latino e volgare, ma soprattutto «poliglottia
degli stili e […] dei generi letterarî» (prosa: epistolografia, trattatistica, narrativa e di-
dascalica; poesia: lirica, tragica e comica).
Definizione tratta da www.treccani.it.
19
MARTELLINI L., Ritratto di Pasolini, Edizioni Laterza, Bari, 2006, p. 91.
20
Koinè, lingua comune, come uso linguistico accettato e seguito da tutta una comunità
Impegno e disincanto
278

nazionale e su un territorio piuttosto esteso, con caratteri uniformi (in contrapposizione


ai dialetti locali e alle parlate regionali, territorialmente limitati e disformi).
Definizione tratta da www.treccani.it.
21
MARTELLINI L., Ritratto di Pasolini, Edizioni Laterza, Bari, 2006, p. 92.
22
PASOLINI P. P., Passione e ideologia, Einaudi, Torino, 1985, pp. 48-49.
23
Ivi, pp. 41-42.
24
Ivi, p. 429.
25
MARTELLINI L., Ritratto di Pasolini, Editori Laterza, Bari, 2006, p. 62.
26
PASOLINI P. P., Ragazzi di vita, Garzanti, Milano, 2015, p. 15.
27
MARTELLINI L., Ritratto di Pasolini, Editori Laterza, Bari, 2006, p. 72.
28
PASOLINI P. P., Ragazzi di vita, Garzanti, Milano, 2015, pp. 54-55.
29
Ivi, p. 253.
30
ZACCARELLO M., La componente dialettale nella commedia all’italiana di am-
bientazione medievale..., www.academia.edu, p. 23.
31
MARTELLINI L., Ritratto di Pasolini, Editori Laterza, Bari, 2006, p, 111.
32
GIUSTI L. – CHIESI R., Accattone – L’esordio di Pier Paolo Pasolini raccontato
dai documenti, Edizioni Cineteca di Bologna, Bologna, 2015, pp. 150-153.
33
Ivi, p. 105.
34
Ivi, p. 136.
35
Ivi, pp. 76-77.
36
FONDO PIER PAOLO PASOLINI, Pier Paolo Pasolini – Le regole di un’illusione,
Editori Riuniti, Roma, 1996, pp. 37-324.
37
PASOLINI P. P., Poesie, Garzanti, Milano, 2016, pp. 109-110.
38
FONDO PIER PAOLO PASOLINI, Pier Paolo Pasolini – Le regole di un’illusione,
Editori Riuniti, Roma, 1996, p. 145.
39
Ivi, pp. 147-148.
40
Il football è un sistema di segni, cioè un linguaggio. Esso ha tutte le caratteristiche
fondamentali del linguaggio per eccellenza, quello che noi ci poniamo subito come
termine di confronto, ossia il linguaggio scritto-parlato. Infatti le «parole» del lin-
guaggio del calcio si formano esattamente come le parole del linguaggio scritto-par-
lato. Ora, come si formano queste ultime? Esse si formano attraverso la cosiddetta
«doppia articolazione» ossia attraverso le infinite combinazioni dei «fonemi»: che
sono, in italiano, le 21 lettere dell’alfabeto. [...] Il calcio in prosa è quello del cosiddetto
sistema (il calcio europeo): il suo schema è il seguente: Il «goal», in questo schema,
Annibale Gagliani
279

è affidato alla «conclusione», possibilmente di un «poeta realistico» come Riva, ma


deve derivare da una organizzazione di gioco collettivo, fondato da una serie di pas-
saggi «geometrici» eseguiti secondo le regole del codice. (Rivera in questo è perfetto:
a Brera non piace perché si tratta di una perfezione un po’ estetizzante, e non realistica,
come nei centrocampisti inglesi o tedeschi). Il calcio in poesia è quello del calcio la-
tino-americano: il suo schema è il seguente: Schema che per essere realizzato deve ri-
chiedere una capacità mostruosa di dribblare (cosa che in Europa è snobbata in nome
della «prosa collettiva»): e il goal può essere inventato da chiunque e da qualunque
posizione. Se dribbling e goal sono i momenti individualistici-poetici del calcio, ecco
quindi che il calcio brasiliano è un calcio di poesia. Senza far distinzione di valore, ma
in senso puramente tecnico, in Messico [Olimpiadi 1968] è stata la prosa estetizzante
italiana a essere battuta dalla poesia brasiliana.
Articolo tratto da Il calcio secondo Pasolini, www.pierpaolopasolini.it.
41
PASOLINI P. P., Trasumanar e organizzar, Garzanti, Milano, 1971, p. 66.
42
MARTELLINI L., Ritratto di Pasolini, Editori Laterza, Bari, 2006, p. 158.
43
PASOLINI P. P., Trasumanar e organizzar, Garzanti, Milano, 1971, pp. 58-79.
44
PASOLINI P. P., Empirismo eretico, Garzanti, Milano, 1972, p. 9.
45
MARTELLINI L., Ritratto di Pasolini, Editori Laterza, Bari, 2006, p. 150.
46
PASOLINI P. P., Un articolo su «Il Giorno», 3 marzo 1965, in Empirismo eretico,
PASOLINI P. P., Garzanti, Milano, 1972, p. 33.
47
PASOLINI P. P., Poesie, Garzanti, Milano, 2016, pp. 17-18.
48
MARTELLINI L., Ritratto di Pasolini, Editori Laterza, Bari, 2006, p. 151.
49
PASOLINI P. P., Empirismo eretico, Garzanti, Milano, 1972, p. 246.
50
Intervista a Luca Bandirali, professore di Cinema e fotografia dell’Università del
Salento, 24 marzo 2017.
51
PASOLINI P. P., Empirismo eretico, Garzanti, Milano, 1972, pp. 252-253.
52
DUFLOT J., Pier Paolo Pasolini - Il sogno del centauro, Editori Riuniti, Roma,
1993, p. 89.
53
La funzione metalinguistica riguarda la presenza all’interno del messaggio di ele-
menti orientati a definire il codice stesso, ed è prevalente in tutti quei casi in cui si
chiedono e si forniscono chiarimenti sui termini, sulle parole e sulla grammatica di
una lingua. Definizione tratta da www.funzioniobiettivo.it.
54
MARTELLINI L., Ritratto di Pasolini, Editori Laterza, Bari, 2006, p. 145.
55
DUFLOT J., Pier Paolo Pasolini – Il sogno del centauro, Editori Riuniti, Roma,
Impegno e disincanto
280

1993, p. 44.
56
PASOLINI P. P., Il PCI ai giovani!!, da L’espresso del 16 giugno 1968, in Ritratto
di Pasolini, MARTELLINI L., Editori Laterza, Bari, 2006, p. 153.
57
PASOLINI P. P., Contro i capelli lunghi, dal Corriere della sera del 7 gennaio 1973,
in Scritti corsari, PASOLINI P. P., Garzanti, Milano, 1975, pp. 10-16.
58
PASOLINI P. P., Il folle slogan dei jeans, dal Corriere della sera del 17 maggio
1973, in Ivi, pp. 17-18.
59
PASOLINI P. P., Sfida ai dirigenti della televisione, Corriere della sera, 9 dicembre
1973, in Ivi, pp. 31-32.
60
PASOLINI P. P., Prefazione a una raccolta di Sentenze della Sacra Rota, marzo
1974, a cura di PEREGO F., in Ivi, p. 46.
61
PASOLINI P. P., Gli italiani non sono più quelli, Corriere della sera, 10 giugno
1974, in Ivi, pp. 51-52.
62
PASOLINI P. P., Il potere senza volto, Corriere della sera, 24 giugno 1974, in Ivi,
pp. 57-58.
63
PASOLINI P. P., I dilemmi di un Papa, oggi, Corriere della sera, 22 settembre 1974,
in Ivi, p. 101.
64
PASOLINI P. P., Cos’è questo golpe?, Corriere della sera, 14 novembre 1974, in
Ivi, pp. 111-112.
65
PASOLINI P. P., La sua intervista conferma che ci vuole il processo, Il Mondo del
11 settembre 1975, in Ritratto di Pasolini, MARTELLINI L., Edizioni Laterza, Bari,
2006, p. 185.
66
PASOLINI P. P., Perché il Processo, Corriere della sera del 28 settembre 1975, in
Ivi, p. 192.
67
PUPPO G., A quaranta anni dalla morte – fu a Lecce l’ultimo discorso in pubblico
di Pier Paolo Pasolini – Quell’incontro decisivo che mi ha cambiato la vita, tratto da
www.leccecronaca.it, 22 ottobre 2015.
68
PASOLINI P. P., Volgar’Eloquio, Edizioni FAP, Roma, 2015, p. 52.
69
Ivi, pp. 63.
70
Ivi, pp. 88-89.
71
Giannino Aprile, sindaco di Calimera negli anni Cinquanta del Novecento, autore
delle silloge di canti popolari grichi Traudia, donata dal prof. Rocco Aprile a Pasolini
il 21 ottobre 1975.
72
Si tratta della cultura popolare dell’area grecofona della Grecìa Salentina, che si
Annibale Gagliani
281

trova in Puglia a Sud della città di Lecce. Una volta si estendeva su un territorio più
vasto di quello odierno, tra Otranto, Υδρούς in greco antico e Gallipoli, l’antica
Καλλίπολις. Oggi l’area grecofona salentina (di circa 100 km.²) è costituita da 11 co-
muni: Calimera, Carpignano, Castrignano dei Greci, Corigliano d’Otranto, Martano,
Martignano, Soleto, Sternatia, Zollino, Carpignano Salentino, Cutrofiano. Le tracce
della preistoria che si riscontrano nell’area si intrecciano con i monumenti bizantini,
quelli medievali e il barocco leccese.
Definizione tratta da www.e-griko.eu.
73
APRILE M., Pasolini, ultime parole in difesa del dialetto, Quotidiano di Puglia, 5
marzo 2017.
74
PASOLINI P. P., Volgar’Eloquio, Edizioni FAP, Roma, 2015, pp. 58-59.
75
GIUFFRIDA R. – BIGONI B., Fabrizio De André. Accordi eretici, Rizzoli, Milano,
2008, p. 83.
76
Cfr., VIVA L., Non per un Dio ma nemmeno per gioco – Vita di Fabrizio De André,
Feltrinelli Editore, Milano, 2016, p. 184.
77
Carruggio - [car-rùg-gio] s.m. (pl. -gi) dial. - Stretta via cittadina tra palazzi alti,
tipica di città e paesi della Liguria (a. 1924).
Definizione tratta da dizionari.corriere.it.
78
GIUFFRIDA R. – BIGONI B., Fabrizio De André. Accordi eretici, Rizzoli, Milano,
2008, pp. 63-64.
79
FABBRINI M. – MOSCADELLI S., Archivio d’autore: Le carte di Fabrizio De
André, Ministero per i beni e le attività culturali, Roma, 2012, pp. 66-67.
80
Intervista apparsa nella puntata del programma radiofonico Fegiz Files del 14 feb-
braio 1999, condotto da Mario Luzzatto Fegiz, estratto da www.youtube.com.
81
ACCADEMIA DEGLI SCRAUSI, Versi rock - La lingua della canzone italiana
negli anni ‘80 e ‘90, Rizzoli, Milano, 1996, p. 31.
82
BECCARIA G. L., Le orme della parola – da Sbarbaro a De André, testimonianze
sul Novecento, Rizzoli, Milano, 2013, pp. 188-189.
83
G. ANTONELLI, Ma cosa vuoi che sia una canzone – mezzo secolo di italiano can-
tato, Il Mulino, Bologna, 2010, p. 55.
84
Cfr., L. VIVA, Non per un Dio ma nemmeno per gioco – Vita di Fabrizio De André,
Feltrinelli Editore, Milano, 2016, pp. 11-15.
85
Ivi, p. 19.
86
GHEZZI P., Il Vangelo secondo De André, Ancora Editrice, Milano, 2003, p. 168.
Impegno e disincanto
282
87
VIVA L., Non per un Dio ma nemmeno per gioco – Vita di Fabrizio De André, Fel-
trinelli Editore, Milano, 2016, p. 39.
88
Cfr., VIVA L., Non per un Dio ma nemmeno per gioco – Vita di Fabrizio De André,
Feltrinelli Editore, Milano, 2016, pp. 61-63.
89
SVAMPA N. – MASCIOLI M., Brassens, Franco Muzio Editore, Padova, 1991, p.
328.
90
MICHELONE G., Fabrizio De André – La storia dietro ogni canzone, Barbera Edi-
tore, Siena, 2011, p. 81.
91
Ibidem.
92
BORGNA G. – SERIANNI L., La lingua cantata – L’italiano nella canzone dagli
anni Trenta ad oggi, Garamond Editrice, Roma, 1994, p. 64.
93
VIVA L., Non per un Dio ma nemmeno per gioco – Vita di Fabrizio De André, Fel-
trinelli Editore, Milano, 2016, p. 123.
94
GHEZZI P., Il vangelo secondo De André, Ancora Editrice, Milano, 2003, p. 117.
95
GIUFFRIDA R. – BIGONI B., Fabrizio De André. Accordi eretici, Rizzoli, Milano,
2008, p. 75.
96
MICHELONE G., Fabrizio De André — La storia dietro ogni canzone, Barbera
Editore, Siena, 2011, p. 115.
97
QUASIMODO S., Luigi Tenco ha voluto colpire a sangue il sonno mentale dell’ita-
liano medio, apparso su Il Tempo il 10 febbraio 1967, tratto da luigi-tenco.tripod.com.
98
VIVA L., Non per un Dio ma nemmeno per gioco – Vita di Fabrizio De André, Fel-
trinelli Editore, Milano, 2016, p. 125.
99
Intervista La mosca bianca della piccola musica del 1967, pubblicata in De André
Talk, a cura di SASSI C. – PISTARINI W., Coniglio Editore, Roma, 2008, e selezio-
nata in Archivio d’autore: Le carte di Fabrizio De André, FABBRINI M. – MOSCAR-
DELLI S. … p. 70.
100
MICHELONE G., Fabrizio De André – La storia dietro ogni canzone, Barbera
Editore, Siena, 2011, p. 142.
101
BORGNA G. – SERIANNI L., La lingua cantata – L’italiano nella canzone dagli
anni Trenta ad oggi, Garamond Editrice, Roma, 1994, pp. 65-66.
102
MICHELONE G., Fabrizio De André – La storia dietro ogni canzone, Barbera
Editore, Siena, 2011, p. 34.
103
BORGNA G. – SERIANNI L., La lingua cantata – L’italiano nella canzone dagli
anni Trenta ad oggi, Garamond Editrice, Roma, 1994, pp. 66.
Annibale Gagliani
283
104
VIVA L., Non per un Dio ma nemmeno per gioco – Vita di Fabrizio De André, Fel-
trinelli Editore, Milano, 2016, pp. 129-130.
105
MICHELONE G., Fabrizio De André – La storia dietro ogni canzone, Barbera Edi-
tore, Siena, 2011, p. 41.
106
BORGNA G. – SERIANNI L., L’italiano nella canzone dagli anni Trenta ad oggi,
Garamond Editrice, Roma, 1994, pp. 66-68.
107
MICHELONE G., Fabrizio De André – La storia dietro ogni canzone, Barbera Edi-
tore, Siena, 2011, p. 36.
108
Ivi, p. 88.
109
Ibidem.
110
Ivi, p. 124.
111
ACCADEMIA DEGLI SCRAUSI, Versi rock – La lingua della canzone italiana
negli anni ‘80 e ‘90, Rizzoli, Milano, 1996, pp. 37-38.
112
MICHELONE G., Fabrizio De André ― La storia dietro ogni canzone, Barbera
Editore, Siena, 2011, p. 95.
113
GHEZZI P., Il Vangelo secondo De André, Ancora Editrice, Milano, 2003, p. 81.
114
GIUFFRIDA R. – BIGONI B., Fabrizio De André. Accordi eretici, Rizzoli, Milano,
2008, pp. 96-97.
115
GHEZZI P., Il Vangelo secondo De André, Ancora Editrice, Milano, 2003, pp. 85-
86.
116
MICHELONE G., Fabrizio De André — La storia dietro ogni canzone, Barbera
Editore, Siena, 2011, p. 137.
117
Ivi, p. 135.
118
GHEZZI P., Il Vangelo secondo De André, Ancora Editrice, Milano, 2003, p. 92.
119
Ivi, p. 93.
120
Ivi, p. 163.
121
MICHELONE G., Fabrizio De André – La storia dietro ogni canzone, Barbera Edi-
tore, Siena, 2011, p. 85.
122
Ivi, p. 66.
123
Ivi, p. 83.
124
GIUFFRIDA R. – BIGONI B., Fabrizio De André. Accordi eretici, Rizzoli, Milano,
2008, p. 123.
125
MICHELONE G., Fabrizio De André - La storia dietro ogni canzone, Barbera Edi-
tore, Siena, 2011, p. 90.
Impegno e disincanto
284
126
Ibidem.
127
GHEZZI P., Il Vangelo secondo De André, Ancora Editrice, Milano, 2003, p. 88.
128
MICHELONE G., Fabrizio De André - La storia dietro ogni canzone, Barbera Edi-
tore, Siena, 2011, p. 90.
129
BORGNA G. – SERIANNI L., La lingua cantata – L’italiano nella canzone dagli
anni Trenta ad oggi, Garamond Editrice, Roma, 1994, p. 74.
130
MICHELONE G., Fabrizio De André - La storia dietro ogni canzone, Barbera Edi-
tore, Siena, 2011, p. 27.
131
Ibidem.
132
BORGNA G. – SERIANNI L., La lingua cantata – L’italiano nella canzone dagli
anni Trenta ad oggi, Garamond Editrice, Roma, 1994, p. 76.
*calembour ‹kalãbùur› s. m., fr. [etimo incerto]. – Freddura fondata su un gioco di
parole, risultante per lo più dalla contrapposizione o dall’accostamento di parole omo-
grafe o polisemiche (per es.: «un professore che, anziché fare lezioni di economia, fa
economia di lezioni»; «un cretino può scrivere un saggio, ma non viceversa») o dalla
sostituzione, in una frase nota, di una parola con altra di suono simile ma di sign.
molto diverso.
Definizione tratta da www.treccani.it.
133
Cfr., VIVA L., Non per un Dio ma nemmeno per gioco – Vita di Fabrizio De André,
Feltrinelli Editore, Milano, 2016, pp. 179-181.
134
MICHELONE G., Fabrizio De André – La storia dietro ogni canzone, Barbera
Editore, Siena, 2011, p. 62.
135
Ivi, p. 46.
136
VIVA L., Non per un Dio ma nemmeno per gioco – Vita di Fabrizio De André, Fel-
trinelli Editore, Milano, 2016, pp. 190-191.
137
Cfr., Ivi, p. 193.
138
Intervista al Professore Stefano Moscardelli del Centro Studi Fabrizio De André
dell’Università di Siena, 26 marzo 2017.
139
MICHELONE G., Fabrizio De André – La storia dietro ogni canzone, Barbera
Editore, Siena, 2011, pp. 45-46.
140
BORGNA G. – SERIANNI L., La lingua cantata – L’italiano nella canzone dagli
anni Trenta ad oggi, Garamond Editrice, Roma, 1994, p. 80.
141
Ibidem.
142
MICHELONE G., Fabrizio De André - La storia dietro ogni canzone, Barbera Edi-
Annibale Gagliani
285

tore, Siena, 2011, p. 52.


143
GIUFFRIDA R. e BIGONI B., Fabrizio De André. Accordi eretici, Rizzoli, Milano,
2008, p. 115-116.
144
Ibidem.
145
BORGNA G. – SERIANNI L., L’italiano nella canzone dagli anni Trenta ad oggi,
Garamond Editrice, Roma, 1994, p. 85.
146
Cfr., MICHELONE G., Fabrizio De André – La storia dietro ogni canzone, Barbera
Editore, Siena, 2011, pp. 91-93.
147
Ibidem.
148
Intervista al professore Stefano Moscadelli del Centro Studi Fabrizio De André
dell’Università di Siena, 26 marzo 2017.
149
GIUFFRIDA R. – BIGONI B., Fabrizio De André. Accordi eretici, Rizzoli, Milano,
2008, p. 119.
150
Ivi, p. 117.
151
MICHELONE G., Fabrizio De André – La storia dietro ogni canzone, Barbera Edi-
tore, Siena, 2011, p. 116.
152
GIUFFRIDA R. – BIGONI B., Fabrizio De André. Accordi eretici, Rizzoli, Milano,
2008, p. 120.
153
MICHELONE G., Fabrizio De André – La storia dietro ogni canzone, Barbera Edi-
tore, Siena, 2011, p. 49.
154
Trascrizione dell’intervento tenuto da Don Gallo l’8 febbraio 2004, presso il Centro
culturale “Fabrizio De André” di Marcon (Ve), in GHEZZI P., Il Vangelo secondo De
André… pp. 7-8.
155
HARARI G., Quando parla Gaber – Pensieri e provocazioni per l’Italia di oggi,
Chiarelettere editore, Milano, 2011, p. 59.
156
Musicarello, sottogenere cinematografico, nato e sviluppatosi in Italia tra la fine
degli anni Cinquanta e gli anni Sessanta e caratterizzato dalla presenza di giovani can-
tanti, già famosi presso i loro coetanei, che si esibiscono interpretando le loro canzoni
di maggior successo, inserite all’interno di trame in cui vengono affrontati, in maniera
piuttosto convenzionale, contrasti di tipo generazionale. Il nome risulta ricalcato su
quello di ‘Carosello’, la rubrica di pubblicità televisiva che veniva trasmessa dall’emit-
tente nazionale e i cui episodi vedevano spesso protagonisti gli interpreti più famosi
di questo genere cinematografico.
Definizione tratta da www.treccani.it.
Impegno e disincanto
286
157
Cfr., PEDRINELLI A., Non fa male credere – La fede laica di Giorgio Gaber, An-
cora Editrice, Milano, 2006, pp. 140-144.
158
MAINARDI N., La magnifica illusione – Giorgio Gaber e gli anni ’70, Vololibero
edizioni, Milano, 2016, p. 73.
159
CASALE G., Se ci fosse un uomo – Gli anni affollati del signor Gaber, Fazi Edi-
tore, Roma, 2006, p. 12.
160
MAINARDI N., La magnifica illusione – Giorgio Gaber e gli anni ’70, Vololibero
edizioni, Milano, 2016, p. 90.
161
DI GIANDOMENICO F. – BALDUCCI M. – BASSO BONDINI R. – DI BONITO
R. – PIRANI P., Tu prova ad avere un’idea ripensando De André e Gaber, Edizioni
Ensemble, Roma, 2015, pp. 11-12.
162
Dalla collana di CD de IL Sole 24 ORE e di Carosello Records, Io mi chiamo G,
2011, cito l’opera teatrale Il signor G, nella quale troviamo Il signor G nasce, p. 23
del volumetto.
163
BECCARIA G. L., Le orme della parola – Da Sbarbaro a De André, testimonianze
sul Novecento, Rizzoli, Milano, p. 189.
164
ACCADEMIA DEGLI SCRAUSI, Versi rock – La lingua della canzone italiana
negli anni ’80 e ’90, Rizzoli, Milano, 1996, pp. 46-47.
165
LUPORINI S. – LUPORINI R., Vi racconto Gaber, Mondadori, Milano, 2013, pp.
23-24.
166
PEDRINELLI A., Non fa male credere – La fede laica di Giorgio Gaber, Ancora
Editrice, Milano, 2006, p. 126.
167
Ivi, p. 127.
168
LUPORINI S. – LUPORINI R., Vi racconto Gaber, Mondadori, Milano, 2013, p.
38.
169
MAINARDI N., La magnifica illusione – Giorgio Gaber e gli anni ’70, Vololibero
edizioni, Milano, 2016, p. 93.
170
CASALE G., Se ci fosse un uomo – Gli anni affollati del signor Gaber, Fazi Edi-
tore, Roma, 2006, p. 21.
171
Ivi, p. 27.
172
MAINARDI N., La magnifica illusione – Giorgio Gaber e gli anni ’70, Vololibero
edizioni, Milano, 2016, p. 128-129.
173
HARARI G., Quando parla Gaber – Pensieri e provocazioni per l’Italia di oggi,
Chiarelettere editore, Milano, 2011, pp. 87-88.
Annibale Gagliani
287
174
LUPORINI S. – LUPORINI R., Vi racconto Gaber, Mondadori, Milano, 2013, p.
65.
175
CASALE G., Se ci fosse un uomo – Gli anni affollati del signor Gaber, Fazi Editore,
Roma, 2006, p. 40.
176
PEDRINELLI A., Non fa male credere – La fede laica di Giorgio Gaber, Ancora
Editrice, Milano, 2006, p. 19.
177
CASALE G., Se ci fosse un uomo – Gli anni affollati del signor Gaber, Fazi Editore,
Roma, 2006, pp. 43-44.
178
Ivi, p. 59.
179
LUPORINI S. – LUPORINI R., Vi racconto Gaber, Mondadori, Milano, 2013, p.
101.
180
PEDRINELLI A., Non fa male credere – La fede laica di Giorgio Gaber, Ancora
Editrice, Milano, 2006, p. 47.
181
CASALE G., Se ci fosse un uomo – Gli anni affollati del signor Gaber, Fazi Editore,
Roma, 2006, p. 69.
182
LUPORINI S. – LUPORINI R., Vi racconto Gaber, Mondadori, Milano, 2013, p.
109.
183
FONDAZIONE GIORGIO GABER, Gaber, Giorgio, Il signor G raccontato da in-
tellettuali, amici, artisti, a cura di PEDRINELLI A., Kowalkski, Milano, 2008, pp.
141-142.
184
MAINARDI N., La magnifica illusione – Giorgio Gaber e gli anni ’70, Vololibero
edizioni, Milano, 2016, pp. 138-139.
185
PERDINELLI A., Non fa male credere – La fede laica di Giorgio Gaber, Ancora
Editrice, Milano, 2006, pp. 48-47.
186
MAINARDI N., La magnifica illusione – Giorgio Gaber e gli anni ’70, Vololibero
edizioni, Milano, 2016, p. 138.
187
LUPORINI S. – LUPORINI R., Vi racconto Gaber, Mondadori, Milano, 2013, p.
131.
188
Dalla collana di CD de IL Sole 24 ORE e di Carosello Records, Io mi chiamo G,
2011, cito l’opera teatrale Anni affollati, nella quale Gaber raccontava la scelta di scri-
vere Io se fossi Dio, pp. 44-45 del volumetto.
189
FONDAZIONE GIORGIO GABER, Gaber, Giorgio, Il Signor G raccontato da in-
tellettuali, amici, artisti, a cura di A. PEDRINELLI, Kowalski, Milano, 2008, p. 123.
190
CASALE G., Se ci fosse un uomo – Gli anni affollati del signor Gaber, Fazi Editore,
Impegno e disincanto
288

Roma, 2006, p. 105.


191
PEDRINELLI A., Non fa male credere – La fede laica di Giorgio Gaber, Ancora
Editrice, Milano, 2006, p. 31.
192
LUPORINI S. – LUPORINI R., Vi racconto Gaber, Mondadori, Milano, 2013, pp.
166-167.
193
FONDAZIONE GIORGIO GABER, Gaber, Giorgio, il Signor G raccontato da
intellettuali, amici, artisti, a cura di PEDRINELLI A., Kowalski, Milano, 2008, p.
146.
194
Ivi, p. 210.
195
CASALE G., Se ci fosse un uomo – Gli anni affollati del signor Gaber, Fazi Edi-
tore, Roma, 2006, p. 129.
196
LUPORINI S. – LUPORINI R., Vi racconto Gaber, Mondadori, Milano, 2013, pp.
224-225.
197
CASALE G., Se ci fosse un uomo – Gli anni affollati del signor Gaber, Fazi Edi-
tore, Roma, 2006, p. 132.
198
Ivi, p. 150.
199
LUPORINI S. – LUPORINI R., Vi racconto Gaber, Mondadori, Milano, 2013, p.
271.
200
FONDAZIONE GIORGIO GABER, Gaber, Giorgio, il Signor G raccontato da
intellettuali, amici, artisti, a cura di PEDRINELLI A., Kowalski, Milano, 2008, p. 61.
201
PEDRINELLI A., Non fa male credere – La fede laica di Giorgio Gaber, Ancora
Editrice, Milano, 2006, p. 53.
202
MAINARDI N., La magnifica illusione – Giorgio Gaber e gli anni ’70, Vololibero
edizioni, Milano, 2016, p. 182.
203
FONDAZIONE GIORGIO GABER, Gaber, Giorgio, il Signor G raccontato da
intellettuali, amici, artisti, a cura di PEDRINELLI A., Kowalski, Milano, 2008, p.
154.
204
LUPORINI S. – LUPORINI R., Vi racconto Gaber, Mondadori, Milano, 2013, pp.
281-282.
205
Ivi, p. 283.
206
ANTONELLI G., Ma cosa vuoi che sia una canzone – Mezzo secolo di italiano
cantato, Il Mulino, Bologna, 2010, p. 152.
207
Intervista apparsa su L’Attacco il 16 marzo 2016, nella quale Andrea Scanzi narrava
di Gaber alla giornalista Antonella Soccio, stralcio tratto da www.andreascanzi.it.
Annibale Gagliani
289
208
PEDRINELLI A., Non fa male credere – La fede laica di Giorgio Gaber, Ancora
Editrice, Milano, 2006, pp. 82-83.
209
LUPORINI S. – LUPORINI R., Vi racconto Gaber, Mondadori, Milano, 2013, p.
213.
210
Intervista a Paolo Dal Bon, presidente della FONDAZIONE GIORGIO GABER, 3
marzo 2017.
211
Intervista a Dalia Gaberscik, 20 marzo 2017.
212
Intervista radiofonica tratta dal profilo Soundcloud “Rino Gaetano Official”, rin-
tracciabile su soundcloud.com.
213
Citazione tratta da www.radiomargherita.com.
214
Intervista ad Alessandro, nipote di Rino Gaetano, 17 marzo 2017.
215
Intervista a David Gramiccioli, 15 marzo 2017.
216
GREGORI E., Quando il cielo era sempre più blu – Rino Gaetano raccontato da
un amico, Historica Edizioni, Cesena, 2016, p. 14.
217
D’ORTENZI S., Rare tracce – Ironie e canzoni di Rino Gaetano, Arcana Edizioni
Srl, Roma, 2007, p. 21.
218
Ivi, p. 30.
219
Ivi, p. 31.
220
GREGORI E., Quando il cielo era sempre più blu – Rino Gaetano raccontato da
un amico, Historica Edizioni, Cesena, 2016, p. 15.
221
MAUTONE B., Rino Gaetano – La tragica scomparsa di un eroe, L’argolibroEdi-
tore, Agropoli (Sa), 2013, p. 27.
222
TAGLIABUE C., Non solo canzonette, articolo apparso su Il Sole 24 ORE il 28
agosto 2016, tratto da www.ilsole24ore.com.
223
GREGORI E., Quando il cielo era sempre più blu – Rino Gaetano raccontato da
un amico, Historica Edizioni, Cesena, 2016, p. 15.
224
RAI CULTURA NETWORK, Rino Gaetano, il senso profondo del nonsense, fram-
mento tratto da www.media.rai.it.
225
Intervista a David Gramiccioli, 15 marzo 2017.
226
RAI CULTURA NETWORK, Rino Gaetano, il senso profondo del nonsense, fram-
mento tratto da www.media.rai.it.
227
MAUTONE B., Rino Gaetano – La tragica scomparsa di un eroe, L’argoLibroE-
ditore, Agropoli (Sa), 2013, pp. 42-43.
228
Intervista radiofonica tratta dal profilo Soundcloud “Rino Gaetano Official”, rin-
Impegno e disincanto
290

tracciabile su soundcloud.com.
229
D’ORTENZI S., Rare tracce – Ironie e canzoni di Rino Gaetano, Arcana Edizioni
Srl, Roma, 2007, p. 36.
230
MAUTONE B., Rino Gaetano – La tragica scomparsa di un eroe, L’argoLibro
Editore, Agropoli (Sa), 2013, p. 47.
231
D’ORTENZI S., Rare tracce – Ironie e canzoni di Rino Gaetano, Arcana Edizioni
Srl, Roma, 2007, p. 51.
232
MAUTONE B., Rino Gaetano – La tragica scomparsa di un eroe, L’argoLibro
Editore, Agropoli (Sa), 2013, p. 117.
233
D’ORTENZI S., Rare tracce – Ironie e canzoni di Rino Gaetano, Arcana Edizioni
Srl, Roma, 2007, p. 56.
234
RAI CULTURA NETWORK, Rino Gaetano, il senso profondo del nonsense, fram-
mento tratto da www.media.rai.it.
235
Intervista ad Alessandro, nipote di Rino Gaetano, 17 marzo 2017.
236
Passaggio del celebre concerto di Lecce tratto da www.youtube.com.
237
GREGORI E., Quando il cielo era sempre più blu – Rino Gaetano racconto da un
amico, Historica Edizioni, Cesena, 2016, p. 25.
238
D’ORTENZI S., Rare tracce – Ironie e canzoni di Rino Gaetano, Arcana Edizioni
Srl, Roma, 2007, p. 63.
239
Intervista a David Gramiccioli, 15 marzo 2017.
240
Intervista radiofonica tratta dal profilo Soundcloud “Rino Gaetano Official”, rin-
tracciabile su soundcloud.com.
241
GREGORI E., Quando il cielo era sempre più blu – Rino Gaetano raccontato da
un amico, Historica Edizioni, Cesena, 2016, p. 53.
242
D’ORTENZI S., Rare Tracce – Ironie e canzoni di Rino Gaetano, Arcana Edizioni
Srl, Roma, 2007, p. 64.
243
GREGORI E., Quando il cielo era sempre più blu – Rino Gaetano raccontato da
un amico, Historica Edizioni, Cesena, 2016, p. 27.
244
D’ORTENZI S., Rare tracce – Ironie e canzoni di Rino Gaetano, Arcana Edizioni
Srl, Roma, 2007, p. 65.
245
Ibidem.
246
Intervista a David Gramiccioli, 15 marzo 2017.
247
GREGORI E., Quando il cielo era sempre più blu – Rino Gaetano raccontato da
un amico, Historica Edizioni, Cesena, 2016, p. 63.
Annibale Gagliani
291
248
D’ORTENZI S., Rare tracce – Ironie e canzoni di Rino Gaetano, Arcana Edizioni
Srl, Roma, 2007, p. 78.
249
MAUTONE B., Rino Gaetano – La tragica scomparsa di un eroe, L’argoLibro Edi-
tore, Agropoli (Sa), 2013, p. 154.
250
L’INTELLETTUALE DISSIDENTE, Pier Paolo Pasolini e gli effetti del Potere.
Uno sguardo a Petrolio, 11 aprile 2014, stralcio tratto da
www.lintellettualedissidente.it.
251
D’ORTENZI S., Rare tracce – Ironie e canzoni di Rino Gaetano, Arcana Edizioni
Srl, Roma, 2007, p. 83.
252
GREGORI E., Quando il cielo era sempre più blu – Rino Gaetano raccontato da
un amico, Historica Edizioni, Cesena, 2016, p. 82.
253
MAUTONE B., Rino Gaetano – La tragica scomparsa di un eroe, L’argoLibro Edi-
tore, Agropoli (Sa), 2013, 159.
254
GREGORI E., Quando il cielo era sempre più blu – Rino Gaetano raccontato da
un amico, Historica Edizioni, Cesena, 2016, p. 83.
255
D’ORTENZI S., Rare tracce – Ironie e canzoni di Rino Gaetano, Arcana Edizioni
Srl, Roma, 2007.
256
MAUTONE B., Rino Gaetano – La tragica scomparsa di un eroe, L’argoLibro Edi-
tore, Agropoli (Sa), 2013, p. 173.
257
GREGORI E., Quando il cielo era sempre più blu – Rino Gaetano raccontato da
un amico, Historica Edizioni, Cesena, 2016, p. 119.
258
D’ORTENZI S., Rare tracce – Ironie e canzoni di Rino Gaetano, Arcana Edizioni
Srl, Roma, 2007, p. 109.
259
Intervista radiofonica di Enzo Siciliano a Rino Gaetano, 15 luglio 1978, tratta da
www.youtube.com.
260
MAUTONE B., Rino Gaetano – La tragica scomparsa di un eroe, L’argoLibroE-
ditore, Agropoli (Sa), 2013, p. 173.
261
Intervista a David Gramiccioli, 15 marzo 2017.
262
D’ORTENZI S., Rare tracce – Ironie e canzoni di Rino Gaetano, Arcana Edizioni
Srl, Roma, 2007, p. 103.
263
GREGORI E., Quando il cielo era sempre più blu – Rino Gaetano raccontato da
un amico, Historica Edizioni, Cesena, 2016, p. 124.
264
Intervista a David Gramiccioli, 15 marzo 2017.
265
Intervista ad Alessandro, nipote di Rino Gaetano, 17 marzo 2017.
Impegno e disincanto
292
266
Intervista ad Alessandro…
267
BAUDELAURE C., I fiori del male, Giunti Editore S.p.A., Firenze, 2012, p. 103.
268
Ivi, p. 104.

Bibliografia e sitografia
ACCADEMIA DEGLI SCRAUSI, Versi rock – La lingua della canzone italiana negli
anni ’80 e ’90, Rizzoli, Milano, 1996.
ANTONELLI G., Ma cosa vuoi che sia una canzone – Mezzo secolo di italiano can-
tato, Il Mulino, Bologna, 2010.
APRILE M., Dalle parole ai dizionari, Il Mulino, Bologna, 2015.
BAUDELAIRE C., I fiori del male, Giunti Editore S.p.A., Firenze, 2012.
BECCARIA G. L., Le orme della parola – Da Sbarbaro a De André, testimonianze
sul Novecento, Rizzoli, Milano, 2013.
BRUNI F., L’italiano letterario nella storia, Il Mulino, Bologna, 2007.
BORGNA G. – SERIANNI L., La lingua cantata – L’italiano nella canzone dagli
anni Trenta ad oggi, Garamond Editrice, Roma, 1994.
CASALE G., Se ci fosse un uomo – Gli anni affollati del signor Gaber, Fazi Editore,
Roma, 2006.
DE GIUSTI L. – CHIESI R., Accattone – L’esordio di Pier Paolo Pasolini raccontato
dai documenti, Edizioni Cineteca di Bologna, Bologna, 2015.
DI GIANDOMENICO F. – BALDUCCI M. – BASSO BONDINI R. – DI BONITO
R. – PIRANI P., Tu prova ad avere un’idea ripensando De André e Gaber, Edizioni
Ensamble, Roma, 2015.
D’ORTENZI S., Rare tracce – Ironie e canzoni di Rino Gaetano, Arcana Edizioni Srl,
Roma, 2007
DUFLOT J., Pier Paolo Pasolini – Il sogno del centauro, Editori Riuniti, Roma, 1993.
FABBRINI M. – MOSCARDELLI S., Archivio d’autore: Le carte di Fabrizio De
André, Ministero per i beni e le attività culturali, Roma, 2012.
FONDAZIONE Fabrizio De André ONLUS, Fabrizio De André – Sotto le ciglia
chissà – I diari, Mondadori, Milano, 2016
FONDAZIONE Giorgio Gaber, Gaber, Giorgio, Il Signor G raccontato da intellet-
Annibale Gagliani
293

tuali, amici, artisti, Kowalski, a cura di PEDRINELLI A., Milano, 2008.


FONDO Pier Paolo Pasolini, Pier Paolo Pasolini – Le regole di un’illusione, Editori
Riuniti, Roma, 1996.
GIUFFRIDA R. – BIGONI B., Fabrizio De André. Accordi eretici, Rizzoli, Milano,
2008.
GHEZZI P., Il Vangelo secondo De André, Ancora Editrice, Milano, 2003.
GREGORI E., Quando il cielo era sempre più blu – Rino Gaetano raccontato da un
amico, Historica Edizioni, Cesena, 2016.
HARARI G., Quando parla Gaber – Pensieri e provocazioni per l’Italia oggi, Chia-
relettere editore, Milano, 2011.
Il Sole 24 ORE, collana di DVD Io mi chiamo G., Carosello Records, Milano, 2012.
LUPORINI S., LUPORINI R., Vi racconto Gaber, Mondadori, Milano, 2013.
MAINARDI N., La magnifica illusione – Giorgio Gaber e gli anni ’70, Vololibero
edizioni, Milano, 2016.
MARTELLINI L., Ritratto di Pasolini, Laterza, Bari, 2006.
MAUTONE B., Rino Gaetano – La tragica scomparsa di un eroe, L’argoLibro Editore,
Agropoli (Sa), 2013.
MICHELONE G., Fabrizio De André – La storia dietro ogni canzone, Barbera Editore,
Siena, 2011.
PASOLINI P. P., Empirismo Eretico, Garzanti, Milano, 1972.
PASOLINI P. P., Passione e Ideologia, Einaudi, Torino, 1985.
PASOLINI P. P., Poesie, Garzanti, Milano, 2016.
PASOLINI P. P., Ragazzi di vita, Garzanti, Milano, 2015.
PASOLINI P. P., Scritti Corsari, Garzanti, Milano, 1975.
PASOLINI P. P., Trasumanar e organizzar, Garzanti, Milano, 1971.
PASOLINI P. P., Volgar Eloquio, a cura di FRANCIONE F., Edizioni FAP ONLUS,
Roma, 2015.
PEDRINELLI A., Non fa male credere – La fede laica di Giorgio Gaber, Ancora Edi-
trice, Milano, 2006.
SVAMPA N. – MASCIOLI M., Brassens, Muzzio, Padova, 1991.

Impegno e disincanto
294

VIVA L., Non per un Dio ma nemmeno per gioco – Vita di Fabrizio De André, Feltri-
nelli Editore, Milano, 2016.

www.academia.edu; www.andreascanzi.it; www.angolotesti.it;


www.arabeschi.it; www.centrostudipierpaolopasolinicasarsa.it;
www.cittapasolini.com; www.cultura.rai.it; www.dizionari.corriere.it;
www.e-griko.eu; www.facebook.com / città pier paolo pasolini / fabrizio de andré /
giorgio gaber / pasolini eretico e corsaro /rino gaetano band / videoteca pier paolo
pasolini; www.funzioneobiettivo.it; www.fondazionedeandre.it;
www.giorgiogaber.it; www.ilsole24ore.com; www.it.wikipedia.org; www.lintellet-
tualedissidente.it; www.media.rai.it; luigi-tenco.tripod.com; www.pierpaolopaso-
lini.it; play.google.com; www.radiomargherita.com; www.rinogaetano.it;
www.rockol.it; soundcloud.com; www.treccani.it; www.youtube.com.

Annibale Gagliani
295

Indice

Prefazione di Marcello Aprile 7


Introduzione 13

CAPITOLO 1
Pasolini – L’intellettuale delle borgate: quando l’eresia diventa arte

1 La ricerca dell’io e della propria espressività......................................................... 19


2 Il poeta delle borgate romane: romanzare con ogni forma d’espressione.............30
3 L’alternativa artistico-culturale eretica: l’intellettuale verso l’autodistruzione.......44
4 Un “sognatore” corsaro e luterano: come processare la società civile italiana......55
5 Testamento nel cuore del Barocco: il dialetto come fonte salvifica........................71

CAPITOLO 2
Faber – Il poeta dei carruggi: “una ballata vi seppellirà”

1 Destino eretico, orizzonte “maledettamente bleu”................................................77


2 Poesia sulle fiamme dei carruggi: la ballata popolare per un nobile fine...............89
3 La Buona Novella faberiana: né per il denaro né per il cielo, ma per gli ultimi....101
4 Che cos’è questa borghesia? A spiegarlo è il rovente impiegato..........................107
5 Parlami d’amore, Faber!.......................................................................................114
6 Un Amico fragile tra l’Hotel Supramonte e Creuza de mä....................................118
7 Passano Le nuvole sulle Anime salve: parodia apocalittica della borghese storia
contemporanea.......................................................................................................128

CAPITOLO 3
Gaber – Fenomenologia dionisiaca del Teatro Canzone:
un filosofo prestato al cantautorato

1 Dalla polvere del cabaret alle vibrazioni di una “vera chitarra”............................141


2 Il Signor G vede la luce dell’oscuro mondo...........................................................145

***
296

3 Far finta di essere sani mentre Anche per oggi non si vola...................................155
4 La trilogia dell’amarezza gaberiana.....................................................................162
5 Il mondo fa male, ma può essere anche capace di amare..................................179
6 Umanesimo Nuovo: La razza in estinzione può salvarsi, rivoluzionandosi..........193
7 Il Signor G a sipario chiuso, a riflettori spenti......................................................202

CAPITOLO 4
Rino Gaetano – Il poeta del “senso interiore”:
un dissacratore impavido e paradossale

1 Un ragazzo sognante, molto sognante................................................................209


2 Per Rino l’Ingresso è libero nell’epopea del disincanto.......................................212
3 Per mio fratello, che è figlio unico, il cielo è sempre più blu...............................228
4 Cara Aida, Nuntaraggae più!...............................................................................242
5 L’epilogo del poeta, garantisce la continuità del Disincanto nel Duemila............263

Conclusioni.............................................................................................................271
Note di testo..........................................................................................................277
Bibliografia e sitografia...........................................................................................292

***
297

***
Collana Saggi

Questo volumetto
è stato composto da Mauro Marino
nella sede del Fondo Verri
a Lecce, in via Santa Maria del Paradiso, 8
per conto dell’editore Stefano Donno
è stato impresso
da Digital Copy a Lecce
nel Maggio 2018

iQdB edizioni

Potrebbero piacerti anche