Esplora E-book
Categorie
Esplora Audiolibri
Categorie
Esplora Riviste
Categorie
Esplora Documenti
Categorie
Band 14
‘Ridere in pianura’
Le specie del comico nella letteratura padano-emiliana
……
Ermanno Cavazzoni e Gianni Celati nel maggio 2009 a Innsbruck
LUIGI MARFÉ (Torino): Dalla parte di Bacbuc. La teoria del comico nei
saggi di Gianni Celati
EPIFANIO AJELLO (Salerno): Elogio del personaggio strambo. Per Gianni
Celati ed Ermanno Cavazzoni
MARINA SPUNTA (Leicester): Aspetti del comico nell’opera di Gianni Celati,
Daniele Benati e Ermanno Cavazzoni
VIKTORIA ADAM (Heidelberg): Lo sfondo tragico del comico. La
messinscena del riso nel Poema dei lunatici di Ermanno Cavazzoni
ASTRID POIER-BERNHARD (Graz): Ermanno Cavazzoni: il gioco con la
regola
ANTENATI E PRECURSORI: DUE ESEMPI
DORIS PICHLER (Graz): Ironia, parodia, satira. La guerra degli Antò di Silvia
Ballestra
DANIELE GREGORIN (Innsbruck): Paolo Nori e la saga di Learco Ferrari:
comico e oralità
Bibliografia essenziale
Introduzione
Nel maggio del 2009 lo scrittore Ermanno Cavazzoni è stato invitato come “Writer in
residence” dalla città di Innsbruck e dalla Facoltà di filologie e culture della nostra università.
Sono state quattro settimane di intensa osmosi fra lo scrittore e la città, un soggiorno in cui si
sono avvicendati letture pubbliche e laboratori di lettura e analisi del testo con gli studenti di
letteratura italiana, e che ha dato occasione allo scrittore di comporre lo scritto che apre il
primo capitolo del presente volume. Ma il momento più significativo è stato l’incontro che ha
riunito e coagulato le notevoli energie creative e gli spunti di riflessione di altri autori,
compagni di strade letterarie di Cavazzoni, come Gianni Celati e Ugo Cornia, che si sono
scanzonatamente “messi in vetrina” in occasione del convegno sul tema “Le specie del
comico nella letteratura padano-emiliana”, un convegno che ha avuto il suo focus principale
proprio nella narrativa cara a questi tre scrittori. Ermanno Cavazzoni, Gianni Celati e Ugo
Cornia sono legati da interessi e attività letterarie comuni e vengono percepiti come gruppo
soprattutto a partire dalla loro collaborazione all’interno della rivista Il Semplice tra il 1995 e
il 1997.1 Un gruppo a cui sarebbe doveroso aggiungere almeno Daniele Benati, già ospite a
Innsbruck in altra occasione, e più volte nominato nei saggi presenti in questo volume.
Il convegno, in cui gli autori sono stati presenti, offrendo anche un loro spunto in apertura e
partecipando attivamente alle discussioni, è stato pensato come un forum di riflessione e di
ricerca aperto a tutti gli interessati che avessero presentato proposte interessanti e pertinenti.
A questo proposito siamo fieri che si siano avvicendati sulla tribuna sia studiosi di lunga
esperienza, e in particolare studiosi che si occupano da anni di questa tematica e si sono già
incontrati a numerosi convegni su temi legati alla “narrativa delle pianure”, sia giovani
studiosi e dottorandi che hanno potuto cimentarsi in questa occasione con il dibattito
scientifico. Tale carattere aperto del convegno si rispecchia fedelmente nel volume degli atti,
in quanto è stata data la possibilità a tutti coloro che hanno partecipato al convegno di
presentare un contributo per la pubblicazione.
Sia per quanto riguarda il convegno che il volume degli atti, l’accento è posto sul gruppo di
“autori del Semplice”, con un capitolo di articoli che si concentrano su concetti e
manifestazioni del comico nell’opera di Celati, Cavazzoni e Benati, individuati come
esponenti centrali di tale esperienza. Da questo punto di partenza si è gettato uno sguardo
particolare sulla letteratura comica del Novecento, definito da Walter Pedullà come grande
secolo del riso (Pedullà 2001, 89). Come specifica il critico, “Il Novecento usa ogni mezzo,
pur di allontanarsi dal già visto, dal risaputo e dallo scontato. Comico, fantastico,
sperimentalismo, gioco, sogno, avanguardia, dialetti e linguaggi bassi scappano dal centro.”
(ibid., 102-103). Nel corso di questo processo, il comico novecentesco si associa spesso e in
maniera fecondissima ai procedimenti letterari addotti da Pedullà, manifestandosi all’interno
1
Si consulti a tale proposito il saggio di Peter Kuon su “La poetica del ‘semplice’: Celati & Co.” in
Kuon/Bandella 2000, pp. 157-176.
di strategie proprie dello sperimentalismo e dell’avanguardia nonché al gioco letterario (anche
postmoderno), abbinandosi con gli ulteriori effetti stranianti del fantastico e del sogno, o
tingendosi di accenti formali afferenti a dialetti e linguaggi bassi.
Tra la folla degli autori novecenteschi che ricorrono ai modi del comico, si nota una linea che
presenta una frequenza particolarmente alta riconducibile alla provenienza geografica
emiliano-romagnola, o più genericamente padana. Oltre al gruppo del Semplice si incontrano
nei saggi di questo volume i nomi di Giovannino Guareschi, Cesare Zavattini, Antonio
Delfini, Luigi Meneghello e Luigi Malerba, ed anche, indirettamente, quelli di Tonino Guerra,
Federico Fellini, Giorgio Manganelli, Pier Vittorio Tondelli. Nell’ambito della narrativa
contemporanea, oltre a registrare la presenza di Ugo Cornia, con un suo lepido scritto
narrativo, si incontrano nei saggi due esponenti significativi come Paolo Nori e (in quanto
emiliana “associata” o “fuori sede”) Silvia Ballestra. Ma indubbiamente è stata ricchissima
anche la tradizione comica emiliana dei secoli passati, che ha prodotto in primo luogo il filone
del poema cavalleresco, arricchitosi in terra italiana, nella maggior parte dei casi, di elementi
fantastici nonché comici. Questa originalissima manifestazione del comico nella letteratura
italiana antica, ripresa e rielaborata spesse volte nelle opere novecentesche e contemporanee
(come si leggerà in parecchi dei seguenti saggi), è trattata mediante casi esemplari nei due
contributi su Pulci e Tassoni.
Il volume inizia con il capitolo formato dagli scritti offerti dai tre scrittori presenti al
convegno. ERMANNO CAVAZZONI ha voluto dedicare all’iniziativa uno scritto, letto anche in
apertura del convegno, redatto proprio a Innsbruck nel suo soggiorno in veste di “Writer in
Residence”. Uno scritto che combina, costruisce e decostruisce una forma fittizia di
memorialistica/saggistica, e in cui si colloca nella prima adolescenza, fra scuola elementare e
scuola media, la scoperta di un “Bassomondo” (per dirla con le parole dello stesso autore), in
cui si ha il rovesciamento di tutte le forme “alte” del sapere, identificate con le materie
scolastiche del tipo “Epica” o “Religione”, un universo dove nascono tutte le “specie del
comico”.
Segue il dialogo di GIANNI CELATI con ALESSANDRO BOSCO, in cui lo scrittore, interrogato e
stimolato dal collega italianista a Zurigo, ci porta sulle tracce di un comico (ancora una volta)
semplice, ingenuo, affine all’asineria, e che si guarda bene dall’assumere le forme di una
comicità strategica propria di chi mira a mostrare la propria (presunta) superiorità. Un comico
atto a far nascere il riso con, e non di qualcuno.
Chiude la triade di scritti finzionali il racconto Paternità di UGO CORNIA. Un racconto – o
forse meglio dire un “raccontato”, data la forte presenza di moduli del racconto orale – che
ironizza sul contenuto (e sul vuoto) che potrebbe essere assegnato alla parola, carica di valori
tradizionali, che fa da titolo allo scritto.
Il capitolo dedicato a “Linee e nodi della tradizione novecentesca” inizia con un contributo di
GUIDO CONTI, egli stesso fertilissimo autore emiliano di romanzi e racconti,2 oltre a svolgere
l’attività di critico letterario rivolta in primo luogo a Giovannino Guareschi. Insieme a Cesare
2
Ricordiamo soltanto Il coccodrillo sull’altare (1998), I cieli di vetro (1999), Il taglio della lingua (2000), La
piena e altri racconti (2003), Tre bambini nella nebbia (2004), Un medico all’opera (2004), Il tramonto sulla
Pianura (2005) o La palla contro il muro (2007).
Zavattini, questo è anche oggetto del contributo che qui accogliamo, nel quale, prendendo ad
esempio questi due importanti umoristi del Novecento, si rilegge la tradizione dei giornali
satirici in Emilia Romagna, che era iniziata a metà Ottocento con un altro grande della
letteratura comica, Carlo Collodi (“La tradizione umoristica dei giornali satirici nel
Novecento a partire da Carlo Collodi: Cesare Zavattini e Giovannino Guareschi”). Pur
essendo stato sondato pochissimo dalla critica, il fenomeno dei numeri unici satirico-
umoristici di carattere popolare che si pubblicarono, in lingua e in dialetto, fino ai primi anni
Cinquanta del Novecento in tutte le città emiliane, è da giudicare importantissimo per lo
sviluppo e il quadro d’insieme della letteratura comica di quel secolo, in quest’area e non
solo. Dai loro contenuti e dal fatto che questi numeri unici si pubblicassero prima del periodo
delle festività “serie” come il Natale e la Pasqua, risulta che si tratta di una delle
manifestazioni della cultura carnevalesca, giocosa e popolare che comunque diventa, in
provincia, fonte di rinnovamento per la tradizione delle avanguardie nonché del ricorso dei
letterati ai nuovi mezzi di comunicazione.
Più che la satira, rivolta di solito a ridicolizzare e denunciare i difetti visibili nella realtà
contemporanea, nell’opera di Antonio Delfini è l’ironia, e spesso anche l’autoironia, ad essere
dominante. Lo dimostra MICHELE BARBOLINI nel suo contributo su “La vita comica di
Antonio Delfini” il cui titolo rivela già, in nuce, l’ipotesi che guida le analisi svolte, cioè
quella dell’impossibilità di affrontare il “continente Delfini” separando la vita e l’opera dello
scrittore modenese. Oltre alla sua vena dissacrante e polemica che si manifesta, per esempio,
nella scelta dei nomi propri, quest’opera (esaminata prendendo ad esempio Il ricordo della
Basca e Modena 1831 città della Chartreuse) diventa il riflesso di una visione distorta del
reale, conseguentemente alle tante ossessioni dell’uomo Delfini che finiscono per deformare
la narrazione stessa delle proprie gesta, creando una comicità sottesa a tutta la narrazione, un
esaltarsi e subito dopo deridersi insieme ad un’alternanza continua di alti e bassi.
Lo scontro tra i contrasti che è così spesso fondamento del comico, è attivo anche nelle note al
testo facenti parte dei romanzi di Luigi Meneghello, fenomeno sondato da GIOIA
VALDEMARCA nel suo contributo (“Spiegare una lingua che non si scrive. Il comico nelle note
al testo dei romanzi di Luigi Meneghello”). Oltre ad un generale abbassamento di tono tipico
del linguaggio meneghelliano, grazie al quale egli si avvicina il più possibile alla lingua
parlata, lo scrittore fa uso delle note al testo per spiegare e commentare certe espressioni del
proprio dialetto, il vicentino di Malo, rendendone accessibile la comicità proprio nell’atto
della sua trasposizione in scrittura. Le note di Meneghello si rivelano uno strumento di
enorme forza espressiva e possono essere trattate come organismi indipendenti che, pur
prendendo spunto dal contenuto del romanzo, assumono spesso vita propria – un percorso che
sfocia in un libro completamente dedicato ad esse, Maredé maredé… sondaggi nel campo
della volgare eloquenza vicentina. Tramite queste caratteristiche i romanzi di Meneghello,
concepiti come atti spontanei, non costruiti, si avvicinano alla prosa volutamente impura e
irrispettosa di Zavattini e del Celati delle Comiche, ma anche a certi scrittori contemporanei
liberi da sovrastrutture narrative come Ugo Cornia o Paolo Nori.
Il capitolo si conclude con il contributo di GERHILD FUCHS su “Le peregrinazioni dei
personaggi come sorgente del comico nella narrativa padano-emiliana”, con cui si pone un
nesso, da un lato, fra la tradizione novecentesca del comico, culminante nella Neo-
avanguardia, e il contemporaneo fino agli anni Novanta, dall’altro fra tale contemporaneo e il
gruppo di autori intorno a Gianni Celati su cui è incentrato il capitolo successivo. Partendo
dall’ipotesi che la bassa padana, specie nella sua conformazione veneto-emiliana di “Grande
Pianura”, inciti alle peregrinazioni, si mostra quali abbinamenti si possano produrre tra il
peregrinare e il comico: dai “girovaghi dell’assurdo” (come in Salto mortale di Malerba) e dai
“buffoni raminghi o picareschi” (Le avventure di Guizzardi di Celati) attraverso i “cavalieri
erranti parodistici e satirici” (Il pataffio di Malerba, Abitare il vento di Vassalli) e gli
“esploratori fantasiosi e nevrotici” (Il poema dei lunatici e Cirenaica di Cavazzoni) fino ai
“morti redivivi ambulanti” (Silenzio in Emilia di Benati). Allo stesso tempo il motivo del
vagabondare, fungendo ogni volta come moltiplicatore delle cose da raccontare ovvero
“generatore di finzioni”, si riconduce anche a determinate tradizioni letterarie quali il
cavalleresco, il picaresco, la letteratura di viaggio, l’utopia o la tradizione dantesca.
Segue il capitolo incentrato sul “Comico negli autori del ‘Semplice’”. L’accento è posto in
particolare su Gianni Celati, Ermanno Cavazzoni e Daniele Benati, tre degli autori più
proficui e originali del gruppo, le cui più importanti caratteristiche in comune possono essere
individuate in un uso di modi linguistici e narrativi dell’oralità combinati ad una narrazione
focalizzata sui personaggi nonché, per quanto riguarda i contenuti, in una priorità del
quotidiano e in una tendenza all’inconcludenza degli avvenimenti riportati (cf. Kuon 2002).
Nella concezione del comico, l’analogia probabilmente più importante sta nel regresso ad una
sua forma buffonesca e popolare (“semplice” anch’essa) che veniva coltivata nel Medioevo e
nel Rinascimento e anche oltre.
Infatti LUIGI MARFÉ nel suo contributo su “La teoria del comico nei saggi di Gianni Celati”,
ricostruendo le riflessioni celatiane sul percorso della cultura del comico nel mondo
occidentale in base ad alcuni suoi saggi fondamentali ( “Il bazar archeologico” del 1968, “Dai
giganti buffoni alla coscienza infelice” del 1974, “Il corpo comico nello spazio” del 1976),
indica nell’inizio dell’età moderna – o fine del Rinascimento – uno spartiacque importante per
la concezione del comico: da questo momento storico in avanti, l’oggetto comico non è più
qualcosa con cui si ride, ma qualcosa su cui si ride, per condannarlo; il riso diventa quindi un
sistema didattico di controllo e il comico si trasforma da elemento sovvertitore dell’ordine in
strumento di repressione. Le teorie bachtiniane, che Celati, come critico, fu tra i primi a
divulgare in Italia negli anni Settanta, forniscono un mezzo per ridare al comico il suo antico
significato. In tale tentativo Celati si mette simbolicamente “dalla parte di Bacbuc”,
personaggio rabelaisiano che rappresenta un atteggiamento buffonesco dettato dalle esigenze
“basse” del corpo, in sintonia con una realtà frammentata che non si può riportare a nessuna
unità. Rispetto ai movimenti del corpo, Celati distingue tra la modalità del mostrare e quella
dell’afferrare, pronunciandosi per la seconda che nei suoi saggi indaga con esempi presi dalle
opere di Louis-Ferdinand Céline e Samuel Beckett.
Caratteristiche del comico in gran parte simili si evidenziano anche nell’“Elogio del
personaggio strambo” concepito da EPIFANIO AJELLO sulla base delle opere di Gianni Celati
ed Ermanno Cavazzoni, con molteplici rimandi a certi modelli di personaggi letterari quali i
Bartleby, Bouvard e Pécuchet, Huckleberry Finn e altri. Lo “strambo”, a parte la gratuità e
fantasticheria del suo pensare, la vacanza del prevedibile e del logico nel suo comportamento
sociale o la naturalezza con cui vive regole e metodi a modo suo, è caratterizzato anche da
una percezione del mondo per frammenti: egli guarda i pezzi del mondo singolarmente ed
evita di trattenerli in un tutto. Anche il vagabondare è un tratto identificativo dello strambo, e
ad esso si adegua un modo di narrare “a tentoni”. Come esempi del tutto esemplari vengono
citati i personaggi celatiani del Pucci (da Costumi degli italiani), del Baratto (da Quattro
novelle sulle apparenze) e di Cevenini e Ridolfi (da Cinema naturale), mentre nel caso di
Cavazzoni la galleria degli strambi si rivela addirittura interminabile.
Nel contributo di MARINA SPUNTA, a Celati e Cavazzoni si aggiunge anche Daniele Benati
come ulteriore scrittore nella cui opera si indagano “Aspetti del comico”. Un’importante
premessa del saggio sta nell’ipotesi che il comico, in tutt’e tre questi autori, sia una funzione
parallela e strettamente connessa a quelle di oralità, spazialità (o erranza nello spazio),
affezione e “fantasticazione”. Spunta definisce l’uso del comico comune a questi autori
tramite la nozione di analogia di Enzo Melandri, anch’essa basata sull’inferenza dal
particolare al particolare (piuttosto che sulla deduzione sillogistica) e sul giudizio di
somiglianza (invece che su quello di identità o di inclusione della logica), nonché anch’essa
connessa al principio dell’archeologia, intesa come “regressione logica”, apprezzato da Celati
perché contrapposto alla razionalizzazione della storia e del pensiero logico. Mentre Celati
pone la comicità come potenzialità, come un vettore sempre in movimento e in divenire, la
comicità benatiana si fonda sul corpo e sulla lingua (in particolare su un’oralità regionale,
emiliana) e quella cavazzoniana si basa su un gioco linguistico che mette in scena
ironicamente il divario tra il corpo e la mente, risolvendo però il contrasto per la mente. Ai tre
scrittori è comune il tema chiave dell’aldilà, dei morti, sia come purgatorio o luogo liminale,
sia come limbo o mondo a rovescio che funge da vero spazio comico.
Una determinata variante della comicità cavazzoniana sta al centro del contributo di VIKTORIA
ADAM, dal titolo “Lo sfondo tragico del comico. La messinscena del riso nel Poema dei
lunatici di Ermanno Cavazzoni”. Per spiegare la compresenza di comico e tragico di cui tratta,
Adam ricorre alla metafora, proposta da Walter Pedullà, della moneta socratica che espone la
commedia su un lato e la tragedia sull’altro, che però si è fatta trasparente in modo da far
percepire i due opposti allo stesso tempo. Dovuto in primo luogo all’inaffidabilità della voce
narrante del protagonista Savini, il Poema dei lunatici si presenta come romanzo
profondamente ambiguo, oscillante costantemente non solo fra normalità e pazzia, realtà e
sogno, memoria e oblio, ma anche, per l’appunto, fra comico e tragico. Tramite l’analisi
dettagliata di una scena chiave per la poetica del romanzo, l’episodio fortemente dialogico che
si svolge nel bar “col moro dipinto” tra Savini e gli altri avventori (capitolo 5), si segue passo
dopo passo lo scivolamento da una serenità giocosa iniziale fino alla beffa avvilente per la
quale Savini stesso diventa “vittima del comico”.
Sotto il titolo “Il gioco con la regola”, ASTRID POIER-BERNHARD presenta un’ulteriore faccia,
alquanto diversa, del comico cavazzoniano, rendendo conto della scrittura ludico-sperimentale
dell’autore all’insegna dell’OPLEPO (un rampollo dell’OULIPO francese, formatosi nel 1990
e preceduto dalla rivista il Caffè). Sull’esempio del testo oplepiano Morti fortunati.
Slittamento proverbiale si dimostra che Cavazzoni, in verità, non segue pedissequamente le
regole e “costrizioni” oulipiane, ma si mette a giocare con esse spostandosi ad un metalivello.
Infatti dietro la proposta di derivare dall’incipit di un “Romanzo Naturale” RN0, nel caso
concreto nientemeno che I promessi sposi, una lista di 122 proverbi per arrivare allo sviluppo
dell’incipit di un „Romanzo Proverbiale“ RP1, appunto Morti fortunati (e di possibili altri
innumerevoli romanzi RP), si può supporre come procedimento effettivo l’invenzione di una
serie di proverbi adattati a posteriori ai due incipit di romanzi già esistenti (come viene
indicato anche dal fatto che Morti fortunati coincide con uno dei 49 brevi testi in prosa che
compongono Gli scrittori inutili). Si tratta quindi di un’ironizzazione delle stesse regole
oplepliane, evidente anche in rapporto alle altre parti del testo quali l’Introduzione al metodo
pseudoscientifica o la Bibliografia scientifico-parodistica che si rivela essere anch’essa un
testo letterario realizzato in modo creativo.
Il volume si conclude con due brevi capitoli nei quali, a completamento dei saggi sul comico
emiliano novecentesco, si getta un colpo d’occhio, rispettivamente, sulla tradizione del
passato e su possibili sviluppi nella letteratura contemporanea. Sotto il titolo “Antenati e
precursori” sono riuniti due contributi sul genere letterario che proprio nell’area geografica
emiliana, con Ferrara come grande punto di riferimento, ha influenzato in modo costante e
persistente la scrittura comica e umoristica: il poema cavalleresco.
Nel saggio di ANGELO PAGLIARDINI si risale a quello che Cavazzoni ha definito il capostipite
dei poemi cavallereschi, il poema fiorentino che apre quel genere comico sviluppatosi dal
filone narrativo dell’antica epica carolingia francese, e che ha dato i suoi frutti soprattutto
nell’area padano-emiliana e in particolare alla corte ferrarese degli Estensi. Il saggio si
focalizza in particolare su “Religiosità e parodia religiosa nel Morgante di Pulci”, analizzando
il rapporto con la materia religiosa nel poema che ha per protagonista ed eponimo il gigante
Morgante, che, insieme al suo (mezzo) doppio Margutte, offre diversi spunti di rovesciamento
della sacralità che circondava la figura del paladino. Nel saggio vengono quindi passate in
rassegna prima le modalità in cui la tematica religiosa è presente in modo neutro o
referenziale, come le invocazioni presenti sistematicamente all’inizio dei cantari, quindi i
procedimenti caricaturali, come i battesimi di massa, o con vari incidenti e imprevisti, e i
discorsi teologici più o meno strampalati messi in bocca ai protagonisti. In conclusione viene
indicato come citazione di questa forma di religiosità un episodio del film La voce della luna,
di Fellini, tratto dal Poema dei lunatici di Ermanno Cavazzoni, in cui si vede un sacerdote che
tiene una serie di discorsi mentre sullo sfondo si vede un camion che scarica statue di
madonne bianche.
Alle “Strategie dell’eroicomico nella Secchia rapita di Alessandro Tassoni” si dedica
STEFANIE NEU nel suo contributo. In questa nuova specie dell’epico di cui Tassoni si dichiara
il “padre”, il comico nasce dalle incongruenze esistenti a vari livelli, e quindi di nuovo
dall’effetto di contrasto. L’incongruenza più fondamentale consiste nell’inserimento di eventi
“spiccioli” quali il rapimento dell’eponima “secchia”, e di un conflitto campanilistico –
emiliano-romagnolo, difatti – in un contesto epico-eroico. Ma i procedimenti comici non si
limitano a questo. Contrariamente alla presentazione del poema da parte del suo autore come
opera “innocente”, Neu appura proprio i procedimenti parodistici e satirici che veicolano
implicitamente delle critiche rivolte ad autorità sia politiche che poetiche, ma colpiscono
anche personaggi contemporanei. A titolo d’esempio vengono analizzati due episodi: il
concilio degli dei nel secondo canto dove gli spunti parodistici e satirici coinvolgono gli stessi
modelli epici su cui si basa il poema eroicomico (in primo luogo l’Iliade, ma anche altre
autorità della tradizione letteraria nonché mitologica), e la rassegna degli eserciti in quanto
topos specifico che un “lettore modello” identifica subito come tipico sia del poema eroico
che del romanzo cavalleresco.
Tra gli “Sviluppi contemporanei”, ultimo capitolo del volume, si considerano in maniera
esemplare due giovani esponenti del comico nella letteratura attuale, Silvia Ballestra e Paolo
Nori. La prima, marchigiana di nascita ma molto legata alla zona padano-emiliana dove
ambienta anche parte delle sue opere, pubblica nel 1992 il romanzo La guerra degli Antò,
storia delle vite caotiche di quattro punk pescaresi diventata famosa anche per il suo
adattamento cinematografico per opera di Riccardo Milani (1999). DORIS PICHLER nel suo
contributo scandaglia le strategie di “Ironia, parodia, satira” in questo romanzo. L’effetto
ironico si sviluppa in primo luogo attraverso la voce eterodiegetica della narratrice, tramite i
cui commenti (che su un meta-livello rispecchiano un discorso generazionale) le esperienze,
in parte anche traumatiche, dei protagonisti perdono ogni valore tragico. La parodia invece si
situa a livello dei contenuti narrativi e riguarda per esempio il gioco con i generi letterari,
soprattutto con quello del romanzo di formazione trasformato dall’autrice nel suo contrario,
per cui si assiste alla continua “sformazione” dei personaggi (fra le altre cose per opera della
televisione, anch’essa oggetto di fertile parodia). Sulla scia di tali strategie rappresentative, il
testo si allarga ad essere una satira di determinati aspetti della società italiana del periodo in
questione, specie della diffusa mentalità di consumismo e dell’influsso dei mass-media, ma
anche di specifici avvenimenti politici quali il “caso Gladio” e i suoi principali protagonisti,
Andreotti e Cossiga.
Nel caso di Paolo Nori, giovane scrittore di Parma inizialmente in contatto con il gruppo di
autori riuniti intorno a Il Semplice, DANIELE GREGORIN esamina il nesso tra “comico e oralità”
nei sette romanzi usciti fra il 1999 e il 2003 che formano la “saga di Learco Ferrari”. In tali
opere, infatti, la comicità viene resa in primo luogo dal particolare uso della lingua, specie
dall’infrazione di norme del linguaggio letterario o scritto a favore di un linguaggio giovane e
schietto calcato sulle modalità del parlato. In seguito a delle riflessioni teoriche che
descrivono l’oralità tramite i parametri fondamentali che essa mette in atto, cioè i nessi
stabiliti tra esecuzione (o esecutore), composizione, memoria e ascoltatore, si esplorano le
caratteristiche dell’oralità fin nella stessa struttura dei romanzi su Learco Ferrari. Un principio
frequentemente attivo in essa è quello della serialità, presente nei tanti episodi sulle serie di
disavventure che hanno dei risvolti tragico-comici per il protagonista, e che conferiscono
all’esperienza negativa del personaggio “quel carattere innocuo che la distingue idealmente da
un’esperienza tragica” (Schulz-Buschhaus). Come dimostra Gregorin, tale serialità delle
disavventure si riflette nella dimensione orale, pragmatica, della lingua fin nelle caratteristiche
soprasegmentali o prosodiche del testo. Dal lettore queste caratteristiche, insieme a quelle
situazionali e contestuali tipiche di un’esecuzione orale, vengono ricreate mentalmente nella
lettura silenziosa, una volta che egli si è reso conto del frame orale del testo.
Il volume, come si è visto, ci offre nel suo insieme un percorso di analisi “sistematicamente”
parziale di quelle che possono essere le “specie del comico”, gli esempi, gli aspetti, le forme,
le tematiche, gli orientamenti, che il comico nelle sue varie manifestazioni letterarie ha
assunto nel corso del Novecento, non senza incursioni nella tradizione precedente, in
particolare eroicomica e cavalleresca, e negli sviluppi attualissimi del ventunesimo secolo.
Una mappa di orientamento generale del territorio del comico, tracciata partendo da quello
che si può illuminare puntando i riflettori sulla pianura padano-veneta, definita da Benati “un
foglio bianco su cui tu puoi scrivere e immaginare, oppure immaginare e scrivere”.3
3
Intervistato da Marina Spunta in Spunta 2004, 121.
Ermanno Cavazzoni
Com’è che uno è attratto dal comico? Beh, c’è di mezzo il fatto della miscredenza. Prendiamo
un bambino di undici anni, età della scuola media. Il bambino ci va ancora abbastanza
fiducioso; ha imparato nelle scuole elementari i regolamenti generali scolastici, sa che si deve
stare seduti in un banco, che non ci si sdraia, non ci si toglie le scarpe, che non si grida né si
lanciano penne, gomme, libri, righelli, sa che c’è l’ora d’entrata, l’ora d’uscita, un intervallo
per prendere aria e agitarsi moderatamente, sa che il maestro è l’autorità e che ad esempio si
chiama maestro Eschini (questo è quello che posso dire io per mia esperienza), e insegna a
scrivere e a fare i conti, due grandi invenzioni che da cinquemila anni si trasmettono di
generazione in generazione, e se le si perdesse (ad esempio per una guerra atomica che
distrugga il sistema scolastico) l’uomo tornerebbe allo stato preistorico e dovrebbe
ricominciare da capo, prima con la civiltà assiro babilonese, poi egizia, greca eccetera
eccetera, fino al maestro Eschini, che in un certo senso lo si può mettere (per quanto mi
riguarda) al vertice della millenaria storia della civiltà, cioè il maestro Eschini veniva dal
superamento del cuneiforme, del geroglifico, delle scritture sillabiche, proto sillabiche,
ideografiche ecc., ed esprimeva la civiltà alfabetica greco-romana, con l’innesto arabo-indiano
per quanto riguarda il sistema numerico. E tutto ciò era un grande fatto, di cui non c’è niente
da ridere, e anch’io me lo ripetevo che il maestro Eschini mi trasmetteva il frutto della
maggior civiltà terrestre, senza la quale saremmo scimmie che vagano e che non riescono più
neppure a salire sugli alberi.
Solo che il maestro Eschini soffriva sempre durante l’anno scolastico di un raffreddore
catarroso virulento e potente, per cui estraeva fin dalla prima ora di lezione un gran fazzoletto,
che apriva (molto spettacolarmente, facendo segno che tutto nella classe per un momento si
sospendesse), ed eseguiva delle soffiate di naso particolarmente sonore, impressionanti e
dense. A quell’età si è inclini a prendere tutto molto seriamente, perché è l’età in cui si
imparano le regole, ed è difficile distinguere dove finisce l’insegnamento e dove inizia la vita
privata. Queste soffiate di naso, cui seguiva da parte del maestro Eschini l’esame autoptico
del muco raccolto nel fazzoletto, poi l’asciugatura dei dintorni del suo gran naso e la
ripiegatura scrupolosa del fazzoletto, non si sapeva se queste soffiate erano parte del
programma didattico, in forma di esempio spettacolare; a quell’età è difficile distinguere, e in
un certo senso tutto nella scuola è inteso come materiale didattico di emanazione ministeriale.
Verso le dieci il fazzoletto era pieno, nel senso che non poteva più contenere altro catarro o
espettorazioni, allora il maestro Eschini faceva alt, con la sua gran mano legnosa, tutti noi ci
fermavamo dal fare i calcoli o dal fare grammatica, apriva il fazzoletto e lo distendeva per
bene sul termosifone. Verso le undici o undici e mezzo ricordo che mentre ad esempio
facevamo un esercizio sui tempi verbali, o una parafrasi, o una divisione coi decimali, andava
1
Questo scritto è stato letto da Cavazzoni in apertura del convegno di Innsbruck e nel frattempo è stato
pubblicato sotto lo stesso titolo in: Ermanno Cavazzoni, Il limbo delle fantasticazioni, Macerata: Quodlibet 2009,
pp. 102-115. Lo pubblichiamo in questa sede per gentile concessione dell’autore. [Nota dei curatori]
a riprendere il fazzoletto che era secco e rigido come inamidato, o di più, come fosse stato
intriso di colla da falegname che poi fosse indurita e seccata; tutta la classe sbirciava
affascinata, e in attesa del seguito dello spettacolo. Il maestro prendeva il fazzoletto e lo
piegava, col rumore di uno che frantuma una lastra di vetro, poi lo stropicciava per far cadere
i pezzi secchi e duri, e cristallini; torno a dire che non era un escreto normale quello del
maestro Eschini, nessuno della classe lo riscontrava ad esempio nel padre o in qualche zio
prossimo, affetto da bronchite anche cronica o asmatica, e io poi in seguito ho avuto sempre
un po’ di schifo per la colla da falegname, pensando al modo in cui veniva prodotta
direttamente dai falegnami. Dopo di che il fazzoletto era scrostato e pronto per il riuso.
Alcuni della classe queste cose non se le ricordano, altri (pochi devo dire) ne hanno ricevuto
una forte impressione, che va di pari passo con i ricordi di grammatica e calcolo, per cui la
scuola già alle elementari risultava composta di cose eterogenee, di cose allotrie e
incompossibili, diciamo (per dirla più filosoficamente). C’è chi è attratto dall’omogeneo, dal
coerente, dalla norma e dal logico, e chi non può fare a meno di osservare l’eterogeneo e
l’incompatibile e restarne impressionato, di come nel mondo (e non nella scuola solo)
prevalga il misto. È come per gli elementi chimici, che nel mondo non si trovano mai (o quasi
mai) puri, ma sempre misti ad altro, da cui bisogna estrarli, per avere la tavola di Mendeleev
tutta distinta e ordinata, cioè diciamo che l’universo è sporco, nel senso che è impuro, un gran
misto, un grande pattume confuso, dove l’oro sta in associazione col piombo o peggio.
E ricordo come il maestro Eschini, uomo buono e paziente in complesso, fosse preso ogni
tanto da un accesso incomprensibile d’ira contro un tal Vacondio e gli legasse le mani al
banco con dello spago. Anche questi erano fatti di grande mistero e confusione didattica, che
non venivano spiegati, se non con improvvise eccitazioni, con esplosioni di voce, rincorse per
tutta la classe, che non sapevo legare al calcolo e alla grammatica.
Poi ci fu l’epoca della scuola media, rispetto alla quale le elementari furono un pallido
antefatto, quanto all’incompossibilità degli opposti e all’eterogeneo. Alle scuole medie lo
svolgimento delle materie era affiancato in modo continuato e instancabile da un’attività
parallela sottobanco di tutta la classe. Si faceva ufficialmente latino, storia, epica, letteratura,
e intanto sotto i banchi era tutto un rimenarsi quelle parti basse sessuali che a quell’età
fuoriescono e prudono. Mentre ad esempio il benemerito professor Cobianchi spiegava anche
con una certa elevatezza di sentimenti l’Iliade, l’Eneide, la glaucopide Pallade Atena o la
consecutio temporum, Sturloni Ennio che era in un banco poco discosto dal mio, mostrava
tutto chino e accanito alla classe per ridere il suo affare cianotico fuori dai pantaloni, e tutta la
classe rideva piano stando chinata sul libro; e dai primi banchi si giravano indietro
nascostamente per sbirciare con la coda dell’occhio e ridere in silenzio anche loro, di questo
coso protuberante dello Sturloni, che se lo andava remenando quasi ad incitar gli altri e a dare
l’esempio; mentre dal professor Cobianchi intanto si udivano ad esempio i famosi versi Arma
virumque cano, Troiae qui primus ab oris, con quel suo tono nitido e forbito, e intanto vicino
a me Civillini aveva già seguito l’esempio di Sturloni Ennio esponendo tra i recessi del banco
anche lui il suo affare, su cui richiamava con un certo riso ebete particolare l’attenzione della
popolazione scolastica, che ancor di più rideva in modo stolto e delinquenziale, mentre il
professor Cobianchi batteva le nocche sulla cattedra e credeva si ridacchiasse di Enea e di
Turno (che già sarebbe stata grave irriverenza), o del pelide Achille, o del prode Ettorre. Non
dico tutto quello che succedeva misto alle materie scolastiche, era tutto un fare scherzi o
esibizioni o angherie, ad esempio sul povero Carmeli, a base di eruttazioni, sputacchi,
scoregge (dovete scusare, ma la scoreggia in età scolastica era molto in voga e onorevole),
non per dieci minuti o mezz’ora, ma per tutta la durata delle lezioni, sempre, ogni mattina,
come se si svolgesse un piano didattico parallelo, di sicuro però altrettanto incisivo e
penetrante.
Nell’ora di religione, quando in cattedra sedeva quell’anima buona e paziente di don Noè
Pasini, l’attività sottobanco, le puzze, i lanci di materiale masticato e repellente, il generale
rimenamento di quegli orrendi membri adolescenziali, il gridìo, i rumori di tromba, le risa, le
ostensioni raggiungevano il massimo, mentre don Noè Pasini parlava dei santi Evangeli, della
bontà di cuore, della storia sacra; avrebbe dovuto parlare del giudizio universale e delle
fiamme infernali, della pece bollente, del Cocito, dei calabroni, invece era buono, e parlava
delle virtù e del perdono; inutilmente, era come parlare a dei babbuini che saltano in gabbia, a
dei macachi, a delle bertucce; ché forse esseri ruminanti e più riflessivi come le mucche
avrebbero prestato maggior rispetto e attenzione.
Io prestavo orecchio alle due parti; e forse solo io ho sentito una volta in mezzo al frastuono, o
mi è sembrato di sentire, dalla bocca di don Noè Pasini uscire, insieme alla sua nobile
predicazione, queste parole: testi ed caz, in dialetto, teste di cazzo, rivolte alla classe, e come
sibilate, in mezzo alle altre. Io non credevo alle mie orecchie, e, devo dire, non sono sicuro;
ma se non erano quelle esatte parole, era qualche bestemmia, o qualche altra maledizione
contro di noi, che gli saliva in bocca come un impulso, che se Dio lo ascoltava avrebbe dovuto
incenerirci tutti all’istante. O avrebbe dovuto incenerire don Noè Pasini, perché tanto con la
classe si trattava solo di continuare a prendere nota, da parte di Dio Onnipotente, che poi i
conti si facevano più salati alla fine; ma per un sant’uomo che improvvisamente bestemmia o
turpiloquisce o stramaledice, questo richiama il fulmine, perché è come una punta acuta che si
alza da una superficie tranquilla mentre il cielo brontola e tuoneggia, e questa punta diventa
un polo magnetico che crea all’istante un canale per l’elettricità, e il cielo si scarica; nel nostro
caso sarebbe Dio che si scarica; o si sarebbe dovuto, su don Noè Pasini. E il fatto invece che
non è successo, ha aperto la via alla miscredenza, e quindi, di seguito, al comico, che è una
forma alternativa di scarica.
Com’è possibile, mi chiedo oggi, uscire indenne da questo stato del mondo? e una volta adulti
iniziare ad esempio un romanzo con le parole: Entrò Carla... Nel mondo parole così non si
danno; queste sono opera di laboratorio, che ha pulito ben bene la frase e ha creduto di dire
una frase umana, realistica, mentr’invece è irrealistica.
Certo c’è chi è insensibile; i primi della classe spesso sono insensibili e credono che ci siano
le materie di studio e il resto sia rumore, che quindi non conta, e ci sia per essere dimenticato.
Ma Sturloni Ennio, Civillini, Rossetti (dedito a quanto ricordo a far delle puzze così nauseanti
e pesanti nella loro formula chimica che si spandevano a bassa quota poco sopra il pavimento
e lo rendevano zona irrespirabile), Caprari, che era già un uomo maturo a undici anni (anche
adesso vederlo in foto, nella vecchia foto di classe, mi fa soggezione), e Caprari perciò
angariava Carmeli, il povero Carmeli, prendendolo e costringendolo a odorare le sue
emissioni di idrocarburi; Carmeli poi da queste angherie non so che mentalità abbia maturato,
poteva diventare neonazista, croce uncinata, o seguace di Pol Pot, o peggio, se c’è stato un
peggio; qualcuno mi ha detto in seguito che è diventato ecologista; chissà le vie dell’anima le
strade che trovano! E poi Cepelli, di Cepelli non ho ancora parlato, era un riassunto del
peggio, il suo riso stolido, il suo trotterellare al seguito di Caprari come assistente, per dargli
manforte nelle esalazioni di gas, nel tiranneggiare Carmeli, il povero Carmeli, e poi le sue
gesta putride sempre in sordina, non le posso dimenticare; e non posso però dissociarle dal
latino, da applicazioni tecniche, da geografia, e anche da certa poesia sublime che piaceva
tanto al professor Cobianchi, Giosuè Carducci ad esempio, poeta della madre patria; se oggi
lo leggo, anche l’anima di Cepelli in qualche modo ci vive dentro, o mi viene a me di rifarcela
vivere, con grande contrasto, devo dire, ma è così che uno prende il gusto della miscredenza e
si avvia sulla strada del comico, volente o nolente.
Quello che io vidi, ascoltai, vissi, prima alle elementari in forma blanda, poi nel clamore,
nell’ostinazione e nell’apice delle scuole medie, con lunghe e intense propaggini al ginnasio e
al liceo, io dico che non può lasciare indenne un essere umano, perché lo spettacolo che si dà
in permanenza per tutto questo lungo tempo di formazione, questo grande spettacolo
complementare se dovesse essere allestito e finanziato appositamente, con una legge
ministeriale, con attori e personale addestrato, sarebbe dispendiosissimo e forse impossibile.
Per fortuna nostra è il mondo stesso che ce lo offre a sue spese, senza lesinare, dove ognuno è
spettatore e attore, il grande teatro naturale scolastico.
E gli insegnanti essi pure sono sempre attori d’eccezione, ognuno coi suoi mirabolanti difetti,
manie, colpi di testa, grida, furie, frasi o intercalari ossessivi, mentre sulla bocca passa Orazio,
Catullo, l’estrazione delle radici quadrate, i teoremi a due incognite, i logaritmi, la proiezione
di Mercatore, la legge di Avogadro, il pi greco, e poi via via tutto quello che fa la sostanza
della nostra vasta civiltà occidentale.
Quindi come accade che un autore diventi comico? Beh, non accade, perché nel comico ci si
trova già immersi da sempre, e la scuola indubbiamente in questo senso è un’istituzione
decisiva e molto importante. La domanda è casomai: come accade che un autore non sia
comico? perché questo è lo strano, l’artificiale, per cui occorre forse una strategia, occorre
allenarsi; o forse è solo questione di cecità, sordità, insensibilità al mondo e alla parola com’è.
Se il comico viene dal contrasto, dal misto, dall’incompatibile (e dall’errore), la parola è in
principio comica, la parola umana, perché si dà sempre mista, e continuamente viene offerta
in spettacolo per accostamenti e sovrapposizioni di strati verbali di natura diversa. Solo a poco
a poco ci si abitua a distinguere, ci si sforza a pulire, a sterilizzare il proprio parlare.
Il primo della classe è colui che scrive: io spero di riuscire bene nella vita, mentre nella realtà
si dice: io speriamo che me la cavo, come ha detto un bambino in un tema, a Napoli (vedi
Marcello D’Orta2), che è bellissima frase, felice, ricca di strati e di echi, di roba diversa
appiccicata; come un minerale in natura, che non si trova mai puro, l’alluminio sta misto a
silicati di potassio, di sodio, o come ossido idrato nella bauxite; l’oro nelle rocce ignee è
associato alla pirite e altri solfuri; il rame in minerali assieme a ferro, zinco, antimonio,
arsenico eccetera, da cui viene estratto, e l’estrazione è un fatto artificiale. Così la lingua; in
natura è come le rocce, un gran misto; e in questo senso tutto l’universo sarebbe una gran
bolla di comicità, cui la tavola di Mendeleev ridà un po’ d’ordine, di distinzioni e di serietà,
ogni elemento al suo posto, con il suo numero in progressione, idrogeno, elio, litio, berillio,
boro, carbonio, e via via fino al mercurio, 80 di numero atomico, tallio, 81, piombo, 82,
eccetera eccetera, uranio e infine unumbio, a quanto si sa. Ma questa è l’osservazione
2
Cf. Marcello D’Orta, Io speriamo che me la cavo. Sessanta temi di bambini napoletani. Milano: Mondadori
1990. [Nota dei curatori]
scientifica, bellissima cosa, cosa geniale, come la grammatica, serve per la comprensione, non
per parlare.
Cosa voglio dire con questa rievocazione scolastica? Che certuni sono ciechi; soprattutto i
primi della classe, e sordi, e pensano esistano solo le materie scolastiche e la lingua scolastica,
mentre il resto, tutto il resto, tutto quello che viene fatto e viene detto sotto i banchi, nei
bassifondi dell’aula, tutto quel misto di tanfo, impurità, stoltezza, parole sporche,
coglionaggine eccetera sia solo pattume, cioè un misto senza importanza, che sta in un suo
campo separato, ed è un danno se interferisce.
Poi c’è tutta la massa di asini, pubblici masturbatori, gaglioffi, stolti sulla cui bocca risus
abundat, dice il proverbio, il riso abbonda, i quali sono un materiale importantissimo, fulgidi
esempi, diciamo così, della varietà delle lingue e delle pantomime, ma essi pure mediamente
ciechi e sordi alle meraviglie che fanno, probabilmente legati a fatti eterni che affondano nella
preistoria, o prima ancora, nell’homo arboricolus, a quella base dura e inamovibile che è la
proterva stoltizia umana, la cui lingua è ancora un ammasso di mugolii pitecoidi a stento
articolati. Costoro sono l’alternativa ai più bravi, ma non vedono niente essi pure, e sono
dimentichi; molti non continueranno gli studi, diventeranno dei normali artigiani,
controlleranno gli sfiati del corpo, i ribollimenti genitali, migliorerà la sintassi; e questa epoca
delle scuole medie starà laggiù come un medioevo sepolto, poco onorevole.
In mezzo però ci sta chi ben osserva e ben ascolta le due parti, e costantemente le mette a
raffronto; costui sta circa a metà classe, tra i primi e gli ultimi banchi; e lì viene su, fiorisce e
si alimenta lo spirito comico, che sarà prima meraviglia e spavento, poi incanto e delizia, per
così dire, per ciò che produce contrasto, per l’incompatibile che però convive e continuamente
si sfiora e stride. Questo stridore, a volte leggerissimo a volte violento, è il comico, e a scuola
si impara; la scuola può avviare a questa carriera, di estimatore e abitatore del comico. Anzi
spesso è un destino, ci si trova in mezzo, non si riesce più a essere né primi né ultimi, né il
professor Cobianchi (arma virumque cano), né Sturloni Ennio immerso mani e testa nei
bassifondi; e si farà sempre reagire il professor Cobianchi con quel po’ di Sturloni indelebile
che resta impresso e sempre risorge.
Ci sono specie diverse in questo destino? Beh, sì, direi che le specie dipendono dalla
particolarità della formazione, che è sempre diversa. Considerata la classe come una mappa
che ha ai due poli opposti il professor Cobianchi e Sturloni Ennio, dipenderà dalla posizione
del banco la specie particolare di comico da cui ciascuno verrà soggiogato, se più prossimo
alla sorgente di odori che era Rossetti, o alla accanita protervia di un Cepelli, o al sordo
turpiloquio pervaso di bontà di don Noè Pasini, e così via. Le specie del comico sono tante; io
direi che alla fine ciascuno ha la sua; spetta poi allo studioso trovare l’influenza di Cepelli, di
Rossetti, di don Pasini, del professor Cobianchi eccetera eccetera, quale sia preponderante, e
quindi fare delle classificazioni a cui si possano dare anche dei nomi, per comodità e utilità
negli studi; ad esempio quando il sacro e la bestemmia si incontrano, io la chiamerei comicità
donnoèpasiniana (in tedesco donnoèpasiniankomik), quando l’epica incontra la masturbazione
qui allora siamo nell’enniosturlonismo e così via, col cepellismo, col caprarismo, o forme
miste come lo sturlocepellismo, o nei casi più forti e estremi il rossetticobianchismo, che
spande un odore che è profumo ed è puzza, e qui dipende dagli studiosi risolvere il caso, che è
dilemmatico, e non è facile.
Gianni Celati e Alessandro Bosco
G.C. In un numero del “Semplice”, Jean Talon racconta la storia del viaggiatore russo Nicolaj
Maklaj, sbarcato su un’isola della Nuova Guinea, in cerca di una tribù di cacciatori di teste. Si
perde per strada, capita in un villaggio sconosciuto. Gli indigeni prendono atteggiamenti
bellicosi. Maklaj non parla la loro lingua. È stanco, ha l’idea di dormire, si corica e dorme per
terra. Al risveglio tutto è cambiato, lo trattano come uno dei loro. Ho letto altre storie di
viaggiatori che si incontrano con indigeni: le due parti si fronteggiano ostilmente, poi si mettono
a ridere in segno d’alleanza, come uno sfogo. Da situazioni simili nasce la comicità, la voglia di
ridere e far ridere, il rilassamento dei pensieri.
A.B. Il dormire, l’inerzia, può avere una forza disarmante, come nel Bartleby di Melville. Di
fronte allo scrivano Bartleby, l’attivismo quotidiano del mondo moderno va in frantumi. Ma che
tipo di comicità è quella di Bartleby?
G.C. C’è un ridere aggressivo, fatto di ironie per mostrare la propria superiorità. Ma qui noi
parliamo d’un altro ridere, che lascia perplessi e ci disarma con l’inerzia. È il caso di Bartleby,
che guarda il muro cieco, trasognato, perso nei suoi pensieri. Fa un po’ ridere per le sue
fissazioni, ma non si sa cosa pensarne. Si resta incerti. La sua inerzia ci disarma.
A.B. Ieri hai parlato di un’altra comicità, quella dell’asineria degli scolari sempre distratti, che
guardano fuori dalla finestra e sbagliano tutto. E hai detto che l’importanza dell’asineria, come
l’opposto della pedanteria, è la scoperta di Giordano Bruno.
G.C. Tra i testi teatrali italiani del ‘500, il Candelaio di Bruno è una delle maggiori invenzioni,
per la ricchezza della lingua, ma anche per la figura del pedante, incarnata da Marfurio. E inizia
subito con l’elogio della “santa asinità”, cioè la santa ignoranza. Il ridere comporta una
regressione a questo stato, all’idiozia o cecità o ignoranza, che sono aspetti inevitabili del nostro
incastro nel mondo. E mentre la pedanteria punta a trasformare il sapere in potere, gonfiandosi di
boria, l’asineria ci aiuta a vedere la boria del sapere come una ridicolaggine.
A.B. Sì, l’abbiamo detto ieri: l’asineria tende verso un candore che è anche un volo fantastico, e ti
aiuta a vedere la boria del pedante come una ridicola esibizione.
G.C. Nel Candelaio Bruno si autodefiniva: “Accademico di nulla accademia, detto il Fastidio”.
Prendi ora Totò: non ti sembra che ci sia una concordanza? Totò è proprio un Fastidio per tutti
quelli che si credono dei grand’uomini. E la sua comicità nasce da un’asineria, addobbata con le
più fantasiose trovate pseudo-pedantesche. Pensa a quando si mette a parlare in italiano
scolastico, per darsi delle arie, e ne vengono fuori i più meravigliosi strafalcioni.
A.B. Totò è un cultore dello sbaglio, dell’equivoco, dell’imprevedibile, che trasforma in nulla
tutte le convenzioni. Di fronte a lui la vita diventa una messinscena quotidiana dove siamo
chiamati a recitare la nostra farsa giornaliera come burattini.
G.C. Sì, in Totò c’è uno scivolamento frequente dell’attore nel burattino. È molto vicino a
Pinocchio che con le sue scappate ti mette allegria, ti dà un senso di sfogo.
A.B. Un giorno tu hai detto che Totò in un certo senso ci ha “riscattato tutti”. Alludevi a qualcosa
di liberatorio che c’è in lui. Guardando i film di Totò io ho sempre quella sensazione, come se mi
purificasse il cervello.
G.C. C’è una buona definizione in quel saggio di Ermanno Cavazzoni Il comico senza strategia
(in Il limbo delle fantasticazioni, 2009). È un titolo che per contrasto fa pensare alla risata
faziosa, alle ironie dottrinarie nella schermaglia politica, dove non c’è nessun rilassamento. La
comicità strategica sa sempre di falso e la escluderei dai nostri interessi. Invece la sensazione di
purificarsi il cervello di cui parli, credo sia la vera meta della comicità.
A.B. Ma cosa intendi? Mi pare che tu metta sul piatto due punti fondamentali e che troverei
interessante approfondire. Primo punto: la scrittura è primordialmente comica? Secondo punto: la
scrittura prima di essere significato (o contenuto) cos’era? Alludi a una scrittura che si
realizzerebbe al di qua e al di là del concettuale, e per questo assume un carattere naturalmente
comico?
G.C. Non so rispondere. Però qui non parliamo del ridere come fatto letterario, ma del modo in
cui sporgendoci verso il mondo, risucchiati dal mondo, noi reagiamo – sempre in uno stato di
mancanza, nell’errore e nell’imperfezione, come ridicoli pedanti o poveri somari.
A.B. Nel saggio di Cavazzoni c’è anche l’idea che tutti gli uomini sono ridicoli, e se gli angeli
potessero vederli muoversi nella loro vita qualsiasi riderebbero a crepapelle.
G.C. Sì, è la comicità di quando siamo trascinati nei traffici del mondo, a fare una parte, che
diventa la nostra condizione di vita, ed è una comicità per così dire “naturale”.
A.B. Ti ricordi l’altro giorno a pranzo? Mi raccontavi che eri convinto che proiettando un film di
Totò nella savana africana, davanti agli abitanti del villaggio dove stavi, questi avrebbero riso di
sicuro? Cosa ti fa pensare questo?
G.C. In realtà è un’idea di Mandiaye, e gli è venuta quando costruivamo lo schermo per proiettare
il nostro film in mezzo alla savana – per l’allegria che c’era e le risate a non finire, mentre
proiettavamo il film. E qui Mandiaye ha cominciato a dirmi: “Voglio portare Totò e vedrai come
ridono tutti”.
A.B. Ti ricordi quell’episodio che mi hai raccontato (c’è anche in Avventure in Africa) su quando
eri in Africa, e hai visto un burattinaio con una marionetta simile a Totò?
G.C. Sì, ero a Dakar, in taxi, e nel fitto traffico non potevamo fermarci.
A.B. Ripenso spesso a quell’immagine perché ogni volta che vedo Totò mi sembra di avere di
fronte il relitto di una civiltà sepolta. Nei tuoi taccuini dici qualcosa di simile: “Da quale antica
patria viene la maschera di Totò? Da dove viene la sua comicità con dentro tutto il disordine della
vita che c’è da queste parti?” Hai trovato una risposta?
A.B. Recentemente in una classe di giovani liceali (che non conoscevo) ho pensato di leggere
alcuni brani dal Pinocchio. Non sapevo come avrebbero reagito e quando ho chiesto loro cosa gli
veniva in mente alla parola ‘Pinocchio’ ho visto i loro occhi riempirsi di un’allegria infantile. Il
giorno dopo ho voluto fargli vedere quella scena in cui Totò fa Pinocchio. Qui Totò si muove
sulle tavole di un teatrino di marionette davanti ad un pubblico di bambini. La classe che avevo
era composta da ragazze e ragazzi sui 15-16 anni, ma vedendo Totò-Pinocchio dinoccolarsi, la
reazione era la stessa: stesso ridere incantato. Non trovi ci sia qualcosa di magico in questo?
G.C. Sì, tutte queste cose sono magiche. Ma dove li trovi più, libri così contaminati da questa
magia del comico? Non dico i libri di barzellette (vere truffe industriali). Dico libri che danno
quel senso di sfogo e liberazione che dicevi? Li conto sulle dita. È come se la pedanteria
letterario-manageriale si sia impadronita di tutti i fronti.
A.B. L’altra sera ho letto questa frase di Agamben: “Il volto non è qualcosa che trascende la
faccia, è l’esposizione della faccia nella sua nudità, vittoria sul carattere: parola”. M’è sembrata
una definizione di Totò, del suo essere prima di tutto apparenza, irriducibile ad un carattere, ad
una psicologia. C’è qualcosa di simile in molti dei tuoi personaggi, quasi sempre proiettati verso
l’esteriorità e mai appesantiti da travagli interiori. Possiamo vedere in ciò un altro tipo di
comicità?
G.C. Una comicità che non parte per far ridere, ma con un po’ di contentezza che la tira avanti.
A.B. Torniamo al discorso della marionetta. L’altra sera dopo cena riguardavamo assieme uno dei
primissimi film di Totò, Yvonne la nuit (1949), dove ci resta un documento di grande valore:
Totò che recita sul palcoscenico di una rivista la macchietta Il bel Ciccillo: la macchietta con la
quale nel 1917 debuttò nella sua carriera al Teatro Jovinelli di Roma. La scena mostra quello che
doveva essere Totò visto a teatro. Ne Il bel Ciccillo entra in scena saltellando, come se volasse,
poi inizia la danza del burattino, con quei movimenti che lo accompagneranno nei suoi film
successivi. L’ultima cosa che Totò gira prima di morire è l’episodio di Pasolini Che cosa sono le
nuvole (1968), dove appare ancora una volta, dopo la scena di Pinocchio, in un teatro di burattini,
con tanto di fili. Il cerchio si chiude. So che questo aspetto burattinesco di Totò – e il burattinesco
in generale – ti affascina molto, come mai?
G.C. Il burattino o le marionette mi rimandano ad un teatro meno umanistico, più vicino a quello
di Tadeus Kantor o quello finale nei Clown di Fellini.
A.B. Tu spesso dici (me lo ripetevi ieri passeggiando) che non c’è rimedio alla vita, e questo mi fa
pensare all’idea del limbo, dove – come scrive Agamben – “la pena più grande si rovescia […] in
naturale letizia”. Abbandonati da Dio, ma senza soffrirne, gli esseri limbali, “come lettere rimaste
senza destinatario, […] sono rimasti senza destino” ma carichi di una letizia inesauribile. Lo
trovo un pensiero stupendo che crea una misteriosa consonanza tra il Bartleby di Melville e Totò.
E mi vengono in mente molti tuoi personaggi erranti per il mondo. Cosa ha a che fare la tua idea
di comicità con l’idea del limbo?
G.C. Il limbo è la soglia d’uno stato incerto, dove non c’è illuminazione divina, ma dove ci sono
altri incontri. Non più risucchiati nelle chiacchiere del mondo, qui possiamo fare molti incontri
fraterni. Pensa a Dante nel canto IV quando si trova con i suoi autori preferiti. Come
nell’episodio di Maklaj: c’è qualche fattore ormonale che regola questi incontri tra estranei su
una soglia. Ci si ritrova simili, anche se parliamo in modo diverso – ma il ridere è la forma più
estatica con cui ci avviciniamo l’uno all’altro.
Ugo Cornia
Paternità
L’altro giorno pensavo se io avessi un figlio e un cane, per esempio un cane che era già a
vivere con me a casa mia e aveva all’incirca tre anni, età che io stimo quella del cane adulto, e
appunto a quell’epoca, quando il cane aveva tre anni, mi nasceva anche il figlio e però quello
che stavo pensando è se mentre il bambino cresceva, di mese in mese, piano piano si capiva
da tutti i suoi primi versini e sorrisini e mossine che mio figlio invece di prendere da me
prendeva dal cane, come se in realtà fosse il cane suo padre. Per esempio si potrebbe
ipotizzare che quando il cane infilava la sua faccia dentro la culla e leccava il bambino e poi
faceva due abbaiate, già a partire dai tre o quattro mesi il bambino leccava anche lui la faccia
del cane e faceva delle specie di abbaiate, però anche quando io o mia moglie mettevamo la
faccia dentro la culla, e gli sorridevamo guardandolo, il bambino un pochinino sorrideva ma
più che altro mi abbaiava e mi leccava un po’ la faccia, e lì c’erano i primi segni di
turbamento perché io, quando mi ero accorto di questo fatto che il bambino ogni volta che gli
sorridevo mi faceva dei versi che sembravano delle abbaiate, allora avevo chiesto a mia
moglie: ma tu, per scherzo, quando sei col bambino gli abbai e gli lecchi la faccia, e lei mi
aveva detto: no, non sono mica una cagna, perché dovrei leccare la faccia di mio figlio.
Però io dopo avevo iniziato a essere veramente diffidente perché anche quando mio figlio
aveva iniziato a camminare da bipede, o meglio, dovrei dire quando avrebbe dovuto iniziare a
camminare da bipede, che era già da un po’ che sgattonava, e a sgattonare su quattro gambe
andava via spedito, anche più in fretta della media, allora io e mia moglie lo tiravamo su per
addestrarlo a camminare su due gambe sole e gli prendevamo le due manine e lo facevamo
camminare soltanto su due gambe, da bipede, e lui per un po’ camminava in piedi su due
gambe da bipede, ma io lo capivo benissimo che lo faceva perché istintivamente capiva già
che doveva compiacerci, visto che nonostante tutto eravamo suo padre e sua madre naturali.
Però si vedeva che non ne aveva voglia di camminare da bipede. E comunque io dopo non
avevo più detto niente a mia moglie riguardo ai miei dubbi (mia moglie che per fortuna faceva
la manager e era tornata subito a lavorare e stava fuori per lavoro tutto il giorno, usciva alle
sette di mattina e tornava dopo le otto di sera), ma io mio figlio, dopo che aveva compiuto un
anno, mi ero messo a spiarlo, infatti facevo finta di uscire, devo dire che lui abbaiava, cioè
faceva questi versi che sembravano delle abbaiate anche quando io facevo finta di essere in
casa, ma appena io facevo finta di uscire e mi nascondevo per spiarli lui iniziava a abbaiare
fortissimo, allora il mio cane andava là, abbaiando anche lui, e si mettevano a fare tutti dei
loro giochi, e io poi stavo fuori in balcone delle ore a spiarli perché in verità anche il cane era
molto furbo e all’inizio, due o tre volte che mi ero nascosto dentro un armadio con le ante
tenute in fessura per spiarli, si vede che il cane sentiva il mio odore, anche perché tra l’altro
dopo un po’ che ero nell’armadio mi veniva voglia di fumare e quindi dentro a questo
armadio fumavo e dalle ante tenute in fessura per spiare usciva il fumo, e comunque il cane si
vede che sentiva il mio odore e non si lasciava andare totalmente perché un po’ mi temeva
(anche perché secondo me il cane lo capiva che il padre vero ero io e che lui stava un po’
abusando a insegnare tutte quelle cose a mio figlio), allora per riuscire a spiare bene, senza
che si accorgessero, mi ero fatto portare da un mio amico che fa il magazziniere all’ipercoop
uno scatolone di cartone di quelli da frigoriferi, che era alto due metri e largo quasi un metro,
e ci avevo fatto con la punta delle forbici vari buchi per guardare, e poi l’avevo messo in un
balcone dal quale tra finestre e prospettive riuscivo a controllare tre stanze, e quindi dopo mi
ero messo a far finta di uscire, cioè uscivo dalla porta di casa facendo un gran rumore quando
chiudevo l’uscio, e poi silenziosissimo, infilando le chiavi facendo pianissimo, dopo sei o
sette minuti che stavo seduto sul pianerottolo delle scale, a quel punto rientravo in casa e
richiudevo l’uscio pianissimo, e poi come una scheggia mi infilavo in balcone dentro lo
scatolone da frigo a vedere che cosa stavano facendo mio figlio e il cane. In realtà poi, devo
dirlo, io i primi due giorni volevo soltanto spiarli così, un po’ per divertimento, perché mi
incuriosiva in modo banale e egoistico che mio figlio, secondo me, prendesse più dal cane che
da me, ma dopo qualche giorno che li spiavo in realtà mi era sembrato di avere avuto una
grande opportunità a poter studiare il caso in oggetto, che a mio giudizio era piuttosto raro:
cioè poter studiare un caso di apprendimento bambino cane, che già in sé è abbastanza raro,
ma reso ancor più raro dal fatto che non si svolgeva in un ambiente naturale, per esempio in
Germania nella Foresta Nera; casi così, di neonati ancora in fasce abbandonati da madri
infelici e un po’ snaturate in mezzo ad una foresta, e lasciati al loro destino, poi in seguito
allevati da lupe che per esempio avevano perso i loro cuccioli ma avevano ancora dell’istinto
materno, per cui allevavano l’orfano abbandonato, ce n’era già stati; il mio caso mi sembrava
differente perché si trattava a quanto ne sapevo del primo caso di bambino non orfano, con
genitori presenti, che viene allevato da un cane in un ambiente totalmente artificiale, cioè un
appartamento di un palazzone in una città di media grandezza, cercando di farla franca sotto
gli occhi dei genitori. E io già dopo pochi giorni avevo deciso di studiare il caso in modo
scientifico, e eventualmente di prendere appunti per scrivere un saggio, infatti nel cartone del
frigorifero che tenevo in balcone ci avevo infilato anche un quaderno e delle biro per
segnarmi le osservazioni più rilevanti.
Tra l’altro avevo iniziato anch’io ogni tanto ad abbaiare, non abbaiavo spesso, abbaiavo
soltanto in momenti particolari. In un certo senso potrei dire che avevo iniziato ad abbaiare
nei momenti in cui la situazione mi aveva obbligato ad abbaiare, non si trattava per così dire
di abbaiate spontanee, nate dalla mia anima, ma di abbaiate richieste da una necessità esterna.
Perché tutte le mattine verso le dieci io uscivo per portare a passeggio sia il cane che il
bambino, ovviamente in carrozzina, per fargli prendere un po’ d’aria, e io i cani per principio
li mollo, perché di andare in giro legato a un cane non ne ho la minima voglia, tra l’altro mi
sono sempre immaginato che neanche il cane abbia la minima voglia di andare in giro legato a
me, di conseguenza, anche se per legge non si potrebbe, io il cane, appena eravamo dentro al
parco Amendola, lo mollavo in modo che andasse in giro libero, mentre il bambino lo tenevo
legato dentro alla carrozzina. Però, visto che stavano diventando un po’ morbosi, succedeva
che quando il cane era venti metri più in là, oppure cinquanta metri più in là, mio figlio, che lo
guardava sempre, vedevi proprio la sua testina che seguiva il cane di continuo, e mio figlio
stava in ansia quando il cane era troppo lontano, allora si metteva a abbaiargli (che secondo
me in cagnese gli diceva dove vai, torna subito qua), e visto che c’avevo fatto caso, i passanti
a sentire mio figlio che abbaiava, lo guardavano un po’ stupefatti, poi per di più c’era il cane
che abbaiava per rispondergli, e si abbaiavano anche per due o tre minuti, allora una volta,
c’era uno che ci guardava con la faccia strana, ho iniziato ad abbaiare anch’io, abbaiando
come copertura, perché volevo che la gente che ci vedeva pensasse che era tutto una mia
iniziativa. Anche se questo aver dovuto iniziare anch’io ad abbaiare da un certo punto di vista
non mi piaceva, in quanto perché mio figlio si ritrovasse esattamente in mezzo tra me e il
cane, per poter scegliere, io dovevo fare l’essere umano al cento per cento tanto quanto il cane
faceva il cane al cento per cento. Comunque fin qui l’avevamo fatta franca.
La vera catastrofe c’è stata dopo. Perché una notte che non riusciva a dormire mia moglie ha
trovato i miei taccuini e si è messa a leggerli, un po’ per noia e senza malizia, e all’inizio non
ha neanche capito, però quando ha iniziato a leggere le pagine sul “possibile incagnimento
volontario del bambino di un anno”, c’è anche da dire che le donne, quando ci sono di mezzo
i loro figli perdono qualsiasi elasticità, allora mi ha svegliato, che mi urlava che il cane
domani doveva scomparire e che mi denunciava, poi ha detto un sacco di altra roba, ma era
arrabbiatissima. Io ho capito subito che non c’era nient’altro da fare, allora l’ho
cloroformizzata, poi l’ho legata al divano, ho caricato in macchina mio figlio e il cane e siamo
scappati.
Guido Conti (Parma)
La tradizione umoristica dei giornali satirici nel Novecento
a partire da Carlo Collodi:
Cesare Zavattini e Giovannino Guareschi
1
“Concorrendo già avanti il 1860 a mettere in crisi i prototipi della letteratura primo-ottocento, il modello
sterniano fu principalmente un modello di strutture e modalità narrative ‘antiromanzesche’, finalizzate a creare
testi in cui la realtà semplice e varia degli argomenti trattati potesse unirsi ad uno stile efficace per ‘naturalezza’
espressiva; ma non comportò l’assunzione di precetti, di un preciso codice linguistico, almeno non all’inizio
della sua diffusione; né significò allora automatica scelta di posizione ideologica definitiva, in senso
risorgimentale o, retrivamente, nel suo contrario, come del resto avvenne tra coloro che si schierarono sugli
opposti fronti letterari del romanticismo e del classicismo.” (Marcheschi 1995, XVII-XVIII)
2
Fino ad oggi la latitanza dei critici e degli studiosi nei confronti di questo giornalismo popolare, ritenuto di
second’ordine, a volte volgare e poco importante per la vita culturale, politica e sociale del nostro paese, la dice
lunga sulla complessità e la difficoltà del lavoro. I numeri unici rivelano non solo la faccia ridanciana,
carnevalesca e gioiosa di una certa pubblicistica, ma anche la loro natura sarcastica e violenta, definendo
perfettamente un clima culturale oggi scomparso. Un’analisi sociologica oltre che letteraria, metterebbe
sicuramente in luce molti aspetti a volte perfino crudeli di un sistema sociale e culturale che ha radici antiche e
che si è perduto nel dopoguerra, verso la fine degli anni Cinquanta, quando, per una serie di concause, è svanito
l’humus culturale e popolare che dava vita a questo caratteristico giornalismo satirico locale.
Ogni numero unico fa storia a sé e rappresenta una storia tutta particolare, che cambia a
seconda della città o del paese in cui viene pubblicato, sempre in occasione di feste.
Solitamente gli appuntamenti più importanti erano il Natale, la Pasqua e le feste del paese
legate alla giornata del patrono e della sagra. I numeri unici non solo di stampo goliardico ma
anche quelli di carattere benefico e popolare, ospitavano moltissima pubblicità disegnata da
artisti che usavano questi giornali come palestra: la lista dei collaboratori è lunga.3 A Parma
3
Riportiamo un primo elenco dei numeri unici pubblicati a Parma dal 1900 fino al 1960. La brugnola di
Pozzolo, 20 maggio 1900 numero unico con vignette; numero unico in occasione della VIII festa universitaria,
con vignette del 1900 e un bellissimo disegno centrale a due pagine a colori con uomini che volano attaccati ad
ombrelli; ‘L trombon, numero unico pubblicato il 3 giugno 1906 con testi e vignette; ‘l Caghet, numero unico
semiufficiale del comitato omonimo, con testi e vignette; Marzo 1906, numero unico pro studenti bisognosi edito
dall’Associazione Universitaria Parmense; La Pasqua ciciaronna del 15 aprile 1906, scritto completamente in
dialetto parmigiano; Arte e Beneficenza, numero unico edito il 28 aprile del 1907 con illustrate 20 vignette di
personaggi della città e sonetti, poesie e scritti letterari di Ada Negri, Alfredo Testoni, Ildebrando Cocconi,
Alberto Lisoni e Alberto Rondani (solo prima pagina); Stivaleide, numero unico pubblicato in occasione della
XVI festa universitaria del 22-23 maggio 1909, a cura della Associazione Universitaria Parmense, con vignette;
La cometa gogliardica numero unico del 21 marzo 1910, pubblicato in occasione della XVII festa della
Associazione Universitaria Parmense, con vignette; L’on. Canela, del 25 dicembre 1912, numero unico, con
vignette e caricature; Si salvi chi può, del 4 febbraio 1913, con caricature; L’è riva... edito a Pieveottoville
(Parma) il 21 settembre 1919; Quattro Novembre, del 1920, numero unico dell’Ass. Combattenti sezione di
Parma, con la poesia Artigli di Renzo Pezzani e con vignette; numero unico pubblicato in occasione del
Concorso Nazionale Filodrammatico con caricature della giuria del 1922; Strenna gogliardica a colori edita
dall’Associazione Parmense a favore degli studenti bisognosi nel 1922; El Stombol, numero unico del comitato
festeggiamenti del 21 aprile 1922 con vignette e caricature; Maggiolata, spigolature gogliardiche condite col
sentimento e servite a la pubblica opinione da la faccia tosta dell’A.V.P. editrice, con vignette (uno dei più bei
numeri unici a colori) del 31 maggio del 1923; Il tappo, numero unico universitario, senza vignette ma solo
scritto del 1924; Lascia pur che il mondo dica..., numero unico pro studenti bisognosi pubblicato nel marzo del
1926 con vignette a colori, uno dei più bei numeri unici degli anni Venti; Nove ottobre edizione del 1927 con
vignette; Al tabacc dal moro, del 6 marzo 1927 pubblicato a Sala Baganza; Il Bagolardo, numero unico a cura
dell’Aristocrazia del pensiero edito nel 1927; Holliwood, numero unico a cura dell’ufficio viaggi e
festeggiamenti del G.U.F. di Parma del 1927; L’albiera, numero unico edito a cura dell’Aristocrazia del
pensiero, Sala Baganza 1928 senza vignette; Ce n’è per tutti..., numero unico a beneficio della “casa del Balilla”,
18 novembre 1928; Sportissimo, numero unico di capodanno a beneficio dell’opera nazionale dopolavoro,
Salsomaggiore 1929; Straparma, uscito nel dicembre del 1929, incentrato sul tema di Parma come sarà nel 2000,
scritto e stampato da Guareschi; Gas esilarante, cine rivista, parmense fidentina in 8 quadri con pezzi di Ugo
Betti e Gino Saviotti; El martedì ciciaron, uscito in occasione del carnevale del 1930, con caricature e vignette;
L’uovo di Pasqua, 20 aprile 1930, importante per i disegni attribuibili a Guareschi e una rubrica dal titolo
andantino firmato Achille Scampanile; La cometa, numero unico del Natale del 1932 scritto e disegnato da
Guareschi, a beneficio dell’F.d.g. di Parma Centro con caricature e vignette; Su e zù pr’al burcu, Borgotaro 28
aprile 1932 con vignette; Nove ottobre, numero unico edito nel 1932; Al becch ad ferr, con disegni di Gaibazzi,
pubblicato nel XIII anno dell’era fascista; Nove ottobre, numero unico anno 1933 a beneficio dell’opera
nazionale Balilla, con vignette; Spaccapelo, Novembre 1935 di Noceto, con disegni di Aristide e Latino Barilli e
Piero Furlotti; Marola d’anguria, numero unico liceale del 1935 con vignette; Un pugn int n’occ’, edito dal
gruppo Corridoni nel 1935 con vignette; El Tukul, numero unico umoristico del 25 ottobre 1935 con vignette;
Nove ottobre, numero unico edito a Fidenza nel 1935; La lucciola, numero unico umoristico del 23 giugno 1937
con disegni di Remo Gaibazzi; Nove ottobre, numero unico a beneficio dell’opera di maternità ed infanzia delle
opere assistenziali del fascio femminile di Fidenza, con testi e caricature di un giornalista che si firma "Il tarlo"
del 1937; La lanterna di Diogene, 14 Marzo 1937, con disegni di Gaibazzi tra cui spicca la caricatura dell’amico
Carlo Mattioli; El Besiòn, pubblicato l’8 aprile 1939, scritto e disegnato da Remo Gaibazzi; Il corbaccio, del 1
giugno 1939 con vignette; Parma-Venezia (numero assolutamente più unico che raro) del 14-15 maggio XVI; La
mandragola, numero unico del 21 novembre del 1937 con testi e disegni di Ferruccio Cervi, Remo Gaibazzi,
Donati, Negri e Rugnen; Biscioneide, numero unico, Busseto Natale 1960 con vignette.
muovono i primi passi grafici del calibro di Erberto Carboni, e negli anni Cinquanta Remo
Gaibazzi.4
Un elemento costitutivo dei numeri unici satirico-umoristici sono le caricature di
professionisti, uomini di politica e di potere, di scienza e di cultura della città, che diventano
anche i protagonisti delle vignette umoristiche e canzonatorie. Non si risparmia nessuno, con
attacchi a volte violenti e personali, dove il cognome nei testi scritti era omesso, e a volte, per
evitare guai giudiziari, venivano eliminate preventivamente le vocali ma con tutte le
consonanti a posto. Nelle vignette si accentuano difetti fisici, bruttezza e magrezza,
pinguedine e vizi sessuali. Spiccano, inoltre, le forme sinuose di donne bellissime, eleganti
(siamo agli albori delle figurine di moda) e le facce grottesche di uomini a cui si accentuano
particolari deformi.
Questi giornali sono campanilistici, sono lo specchio di una città e di un ambiente chiuso dove
tutti si conoscono e si riconoscono. Il momento della festa diventa occasione per sfottò più o
meno crudeli. I numeri unici sono un’importante spia culturale: la lettura di questi giornali ci
riporta ad un teatro culturale e sociale, quello dell’Italia della fine degli anni Venti, che
bisogna ricostruire per capire il lavoro dei giovani umoristi che si formano proprio in quegli
anni come Cesare Zavattini (1902-1989), Giovannino Guareschi (1908-1968) e molti altri
autori come Giovanni Mosca (1908-1983), Vittorio Metz (1904-1984), Carlo Manzoni (1909-
1975), Marcello Marchesi (1912-1968), Federico Fellini (1920-1993). Altrimenti mode e
forme letterarie usate, polemiche e atteggiamenti di molti scrittori che vivono in quel lasso di
tempo sono oggi assolutamente incomprensibili. Quei pezzi offrono il termometro della vita
sociale, culturale e letteraria di allora, e senza la possibilità di ricostruire le quinte di quel
mondo scomparso intorno agli anni Cinquanta, non si può capire il lavoro che farà Zavattini
nella sua rubrica “Spettacolo per famiglie”, né le polemiche che lo coinvolgeranno
personalmente, né i testi ferocissimi che lui stesso scriverà contro personalità della politica e
della cultura cittadina alla fine degli anni Venti.
La mano dei caricaturisti si muove sulla carta come quella del burattinaio che scolpisce nel
legno il volto grottesco del burattino. I volti disegnati hanno le sembianze, le spigolosità, i
tratti deformi dei volti burattineschi. I giornali umoristici e il teatro dei burattini sono due
manifestazioni che hanno una stessa identica matrice culturale popolare. La caricatura o la
vignetta grottesca mettono in risalto la deformazione, il tic, il difetto fisico che poi diventa la
caratteristica di quel soggetto, come capita per il fenomeno popolare dei soprannomi o degli
4
Remo Gaibazzi, Quello sguardo sulla città, catalogo della mostra tenutasi presso il Salone delle Scuderie in
Pilotta, 15 dicembre 1996, Electa, 1996, a cura dello Csac di Parma. Quello del noto pittore parmigiano Remo
Gaibazzi è perfino illuminante, poiché nel catalogo delle opere pubblicato in occasione della mostra del
dicembre del 1996, l’opera grafica, e in particolar modo i disegni su Parma, sono stati letti criticamente
estrapolandoli dal contesto in cui nacquero, ovvero quello dei numeri unici. Gaibazzi non collaborò solo ai
numeri unici come Bazar di Guareschi, ma disegnò, scrisse e impaginò numeri unici, come Il Canapè da lui
anche diretto negli anni Cinquanta. Il giornalismo dei numeri unici fu per Gaibazzi una palestra insostituibile e
mai dimenticata. Cambia completamente la prospettiva di lavoro e di ricerca su questo pittore, i cui disegni non
si possono considerare solo vignette, ma si devono leggere dentro al contesto dei numeri unici. Nel 1952
Gaibazzi ospitò proprio sul giornale umoristico Il Canapé il seguente giudizio sui numeri unici nella rubrica
“Giù le mani” col sottotitolo “I luoghi comuni non si toccano”: “I numeri unici: sono una cosa ignobile. Questo
dicono i borghesi parlando dei numeri unici popolari.”
stranomi, o dei nomi storpiati, più vivi e più reali del nome stesso.5 La tradizione del disegno
umoristico non va disgiunta inoltre da un’analisi letteraria, linguistica e sociale di quelle
pubblicazioni, dal loro rapporto con la fittissima pubblicità che ospitavano e dal clima
culturale in cui nascevano. L’esperienza e la realtà dei numeri unici sono l’humus popolare e
culturale di un’intera generazione di scrittori, umoristi e vignettisti, di grafici e di pittori tra
Otto e Novecento. Una realtà pressoché dimenticata non solo dai critici letterari ma anche
dagli studiosi e dai critici d’arte. Il disegno di Federico Fellini, per esempio, poi piegato alla
visionarietà del cinema, nasce all’interno di questa tradizione emiliano-romagnola.6
Nel giornalismo popolare dei numeri unici si mescolano lingua e dialetto, lingua colta e
linguaggio basso, in una babele satirica di grande ricchezza linguistica, con invenzioni e
storpiature sulla sintassi e sulla parola di forte impatto umoristico. Sono le storpiature e le
violenze linguistiche popolari, famigliari al linguaggio dei burattini.
Su questa tradizione popolare s’innervano anche elementi, radici e tradizioni di stampo
goliardico e universitario, che non snaturano il carattere dei numeri unici di livello popolare,
dove il grottesco delle vignette, il dialetto, il gusto per lo sberleffo e per la battuta feroce e
grassa, con tutta la terminologia legata alla corporalità e al registro del linguaggio “basso”,
viene recuperata a piene mani. La goliardia universitaria ha una sua tradizione letteraria e
carnevalesca di grandissimo livello, attenta fin dal medioevo alla parodia dei testi poetici e
liturgici, con capolavori come le macheronee folenghiane.
Di fronte alla rigidità e alla compostezza formale di un giornale o di un quotidiano, i numeri
unici hanno una vitalità di idee, di progettualità e di rubriche straordinaria, di cui Zavattini
saprà far tesoro. Da quel mondo attingerà quando lavorerà prima alla Gazzetta di Parma, poi
alla ideazione dei giornali, dei settimanali e degli Almanacchi alla Bompiani, prima alla
Rizzoli e poi alla Mondadori, negli anni Trenta. Accadrà lo stesso con Guareschi e il suo
primo giornale umoristico Bazar. Dentro al numero unico satirico-umoristico finiscono
novelle, raccontini, pezzi di teatro accanto a poesie in rima, in dialetto e in lingua, aneddoti,
barzellette che poi vengono raccolte dentro diverse rubriche, alcune delle quali hanno una
vera e propria fortuna, così da venir riprese poi in altri numeri unici, anche a distanza di
decenni. Zavattini lascerà una traccia profonda dentro i numeri unici e alcune rubriche
porteranno il nome dei suoi romanzi ancora negli anni Cinquanta.7
5
Il fare caricature ha origini antiche in Emilia Romagna e già abbiamo notizie che nel ‘600 i Carracci a Bologna
andavano per le strade e le piazze a ritrarre gli uomini del popolo, facendo caricature di uomini e donne
particolarmente brutti o deformi. Un fenomeno che ha manifestazioni e radici anche nel Rinascimento padano
(cf. il capitolo “Le metamorfosi della ‘Bête humaine’” in Camporesi 1976). Per il rapporto tra caricatura e
pittura, in area toscana, si veda Alessio et al. 1993.
6
Cf. Fellini 2007. Il suo lavoro di disegnatore satirico e di umorista comincia a Rimini e poi giovanissimo al
“Marc’Aurelio” dove diventerà una delle colonne portanti prima della sua stagione cinematografica da regista
che lo farà conoscere in tutto il mondo. Cf. Fellini 2004.
7
Non per tutte le città emiliane esistono dei repertori che offrono indicazioni precise per seguire da vicino
l’evoluzione di questo fenomeno tutt’altro che secondario in campo letterario e giornalistico. Fondamentale per
la nostra ricerca è il Catalogo delle riviste studentesche, De Giacomo/Orsina/Quagliarello 1999 che raccoglie
oltre 500 schede e tenta di censire il patrimonio di giornali, riviste e numeri unici dall’Unità d’Italia al 1968
presenti nelle biblioteche italiane. Per un primo sommario orientamento in Emilia Romagna si possono
consultare per Parma, Dardani 1979; per Modena, Bellei/Pecoraro 1996; per Carpi, Carpi come rideva 1978; per
Bologna, Cristofori 1973; per Mantova, Ciaramelli/Grassi 1993, sempre per Mantova, Ruberti 1985; per la
Toscana, Rondoni 1914 e Piccini 1910; per Napoli, AAVV 1986. Per gli umoristi europei tra Otto e Novecento
molti dei quali nascono su questi giornali umoristici si vedano le antologie di Vicari 1959, Bertolucci 1960 e
Il fatto che questi numeri unici si pubblicassero prima del periodo delle festività del Natale e
della Pasqua, è la riprova che siamo in presenza di una delle manifestazioni di quella cultura
carnevalesca, giocosa, satirica, umoristica e popolare che si è trasformata nei secoli e ha
assunto modi e forme sempre diverse nella modernità. Il fenomeno carnevalesco e popolare
del riso ha salvato, nei numeri unici, parte di quelle potenzialità sovversive e rigeneratrici del
carnevale rinascimentale. Siamo di fronte cioè all’effetto liberatorio del Risus paschalis, della
tradizione del riso pasquale e natalizio. La moderna società borghese e popolare ha sostituito
la piazza carnevalesca con il giornale, e tutto si è ridimensionato e ritrova il suo spazio
liberatorio dentro le pagine scritte e disegnate del numero unico pubblicato in occasione della
festa.
I numeri unici sono tutti fenomeni ai margini della cultura e del giornalismo “ufficiali”, con
un forte carattere di opposizione. Insieme al giornalismo umoristico dei numeri unici, siamo
di fronte a uno dei fenomeni periferici e degradati di ciò che resta del riso rinascimentale, che
solo in parte ha perso il suo aspetto “rigenerante”. L’abbassamento carnevalesco scivola verso
una forma di satira sociale, politica e culturale. L’elemento ludico del rimescolare i linguaggi,
il pastiche linguistico della goliardia universitaria filtrato nei numeri unici diventa, in
provincia, fonte di rinnovamento per il Futurismo e la tradizione delle avanguardie, per
esempio, negli anni Venti, proprio quando giovani come Fellini, Zavattini e Guareschi e gli
altri autori sopracitati si stanno formando alla scuola del giornalismo satirico sotto la dittatura
fascista. L’abbassamento carnevalesco dei numeri unici e la distruzione del linguaggio
operata dalle avanguardie novecentesche aspirano entrambe all’utopia di una rigenerazione
del linguaggio che in Zavattini, per esempio, è il nucleo portante di tutta la sua riflessione
linguistica, poetica e umana.
I numeri unici satirico-umoristici, inoltre, nascono della cultura popolare che aveva nella
tradizione italiana degli almanacchi e dei lunari un punto di riferimento importante; dall’altra
recupera la tradizione francese delle “Gazzette” umoristiche di satira politica e sociale, ricche
di illustrazioni e di vignette, assai diffusi tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento che
influenzerà moltissimo la tradizione dei giornali umoristici diffusi in altre città italiane.
Nel 1852 viene dato alle stampe a Parma l’almanacco Il Battistèn Panäda che uscì per
quarantotto anni consecutivi, scritto in versi dialettali da Domenico Galaverna. La ricchezza
di queste pubblicazioni di carattere contadino e popolare, proseguito anche negli anni
Cinquanta, ha influenzato molto anche la cultura borghese dell’”Officina Parmigiana”.8 Il
gruppo di letterati che si raccoglieva attorno ad Attilio Bertolucci ha rinnovato i fasti
dell’almanacco, a cavallo tra la fine degli anni Quaranta e l’inizio degli anni Cinquanta, con
La luna sul Parma.9
Citati 1961. Il campo d’indagine per questi numeri unici è vastissimo e reso più difficile dalla mancanza, per
l’archivio Staderini di Parma, di una prima catalogazione in ordine cronologico. Per l’analisi di uno di questi
periodici, a Fidenza, in provincia di Parma, si segnala I primi 40 anni del Numero unico di Borgo-Fidenza 1982,
che offre la ristampa anastatica del numero unico 9 Ottobre, che iniziò le sue pubblicazioni a partire dal 1898.
8
Così definì Pier Paolo Pasolini quel gruppo di giovani intellettuali che viveva a Parma attorno alla rivista
Palatina (cf. Pasolini 1960). Un’idea e una categoria che pur non corrispondendo molto al vero, ha funzionato
più avanti, come mito e come punto di riferimento per gli scrittori parmigiani venuti dopo.
9
Cf. Tenca 1995, che resta un caposaldo per questo tipo di ricerche. L’almanacco La Fodriga da Panocia è nato
insieme ad un altro almanacco Il Caporal Quattor di Cazzabal dla villa d’Figazzel, entrambi nati agli inizi del
Settecento e poi continuati fino alla seconda metà dell’Ottocento, periodo in cui cominciano a nascere i primi
La tradizioni dei numeri unici ha poi apporti dalla grande tradizione dei giornali francesi.
Giovannino Guareschi, prima di approdare a Milano alla redazione del Bertoldo chiamato
dallo stesso Zavattini, progetta, scrive e disegna a Parma Bazar, il suo primo numero unico.
Un’esperienza unica e irripetibile che sarà decisiva nella sua formazione giornalistico-
letteraria. Per Guareschi fu decisiva anche l’influenza dei petits journaux francesi, in
particolar modo, il giornale umoristico L’assiette au beurre. Guareschi trasse spesso
ispirazione per le sue vignette da questo settimanale in cui compaiono importanti scrittori
umoristici francesi che poi ritroveremo pubblicati sulla Gazzetta di Parma del periodo
zavattiniano.
Ampliando lo sguardo ad altre regioni italiane, si nota come il fenomeno dei numeri unici, o
dei giornali satirico-umoristici tra Otto e Novecento, sia così diffuso e così poco considerato
anche dalla critica. L’esempio lampante resta un autore come Carlo Collodi che Daniela
Marcheschi, nei suoi saggi, riporta all’interno di questa tradizione giornalistico popolare, con
le sue collaborazioni al Fanfulla e a Il Lampione uscito nel 1948 e poi subito chiuso, fino allo
Scaramuccia del 1953, un giornale teatrale dove Collodi pubblicherà anche testi teatrali
(Marcheschi 1999, 31). Pinocchio e tutta l’opera di Collodi, è leggibile in una doppia chiave
fiorentina ed europea insieme. Scrive Daniela Marcheschi collocando Carlo Collodi nella
grande tradizione europea del romanzo umoristico di Sterne, Diderot, Swift, recuperandolo
però nella tradizione dei macchiaioli caricaturisti che collaborano ai giornali umoristici:
Del resto i petits journaux francesi erano molto noti per le loro caricature anche in ambiente
macchiaiolo, com’è ormai risaputo fra gli storici dell’arte. Mi sono giovata molto dei loro studi,
come del resto di quelli musicologici, molto più avanzati di quelli degli italianisti nel campo del
giornalismo umoristico e non solo. Il giornalismo umoristico, diffuso nella penisola da Nord a Sud
con testate spesso in stretto rapporto tra loro, è stato proprio uno dei primi grandi fattori
d’unificazione della lingua italiana moderna. Collodi, lo ripeto, è uno dei protagonisti, uno dei
grandi maestri di stile del nostro Ottocento. Se io leggessi una pagina (basterebbe il solo attacco di
un articolo di Collodi), credo che avreste molta difficoltà a indovinare l’anno di pubblicazione,
tanto fresca e attuale è la lingua, il linguaggio che Collodi riesce a creare.
Il destino di Carlo Collodi è quello toccato spesso a chi in letteratura persegue vie e tradizioni
diverse, a chi non si lascia condizionare dalle mode. Per lucidità, per pessimismo, Collodi è stato
sterniano, lo ripeto, quando imperava Manzoni, quando il romanzo italiano cercava una strada
nuova nel romanzo sociale; è stato sterniano, ancora quando vincevano il verismo e Zola, a cui non
risparmiò le critiche.10
Bastano queste poche righe per aprire un nuovo filone di ricerca sulla tradizione letteraria
umoristica nella nostra letteratura novecentesca. Collodi scrive e lavora sui giornali
numeri unici satirico-umoristici. Cf. “Mese per mese, il manuale in versi dei lavoratori agricoli”, in: Gazzetta di
Parma, 25 agosto 1997. Per il rapporto tra lunari, almanacchi e cultura popolare nel Ventennio fascista, cf.
Ceschi 1992.
10
Cf. Marcheschi 1995. Tutto il saggio rilegge la figura di Carlo Collodi in una dimensione molto più europea
della sua narrativa.
umoristici, ha rapporti stretti con la cultura europea e legge i grandi settimanali francesi.
Scrive i suoi romanzi a puntate sui giornali popolari, anche per bambini. È uno dei primi che
teorizza e raccoglie in volume articoli e racconti. Tra stupore e meraviglia fa un libro in un
giorno, come racconta in maniera comica, gettando i semi della nuova industria culturale che
nell’Ottocento scopre il mercato e il pubblico di massa. L’autore non solo de Le avventure di
Pinocchio ma di testi umoristici come Occhi e nasi e soprattutto Macchiette, è il primo grande
moderno che raccoglie i suoi pezzi giornalistici per farne un libro. Collodi, figlio anch’esso
dei giornali umoristici, disegnati e scritti, nati nella seconda metà dell’Ottocento, scrive in
testa al suo Macchiette, con grande ironia e intelligenza:
Ve la racconto in poche parole. Erano un centinaio di foglietti, tutti sparpagliati qua e là, come se
il vento ci si fosse baloccato. Un bel giorno, tanto per non star lì con le mani in mano, mi saltò
l’estro di raccoglierli, di numerarli e di cucirli insieme. Quando li ebbi cuciti, m’accorsi che avevo
fatto un libro. Moltissimi libri, in giornata, si fanno così: vale a dire, si pigliano dei fogli scritti,
stampati o scarabocchiati pur che sia, si numerano uno dopo l’altro come vengono vengono, e se
non vogliono stare uniti e d’accordo fra loro, allora con un filo di refe si cuciono insieme: e il libro
è fatto. Quel modestissimo filo di refe, vedendolo così a occhio, parrebbe quasi un accessorio da
nulla; eppure quel filo di refe, in parecchi libri, è il vero nesso logico che serve a legare i primi
capitoli cogli ultimi, e a mantenere intera l’unità di concetto dal frontespizio alla fine. Questa
storia è breve, ma chiara, specie per chi sa leggere.11
La sottile ironia di Collodi c’introduce nel lavoro che gli umoristi fanno e faranno nel
Novecento con i propri articoli satirici, racconti spesso brevi e brevissimi, già editi nelle
rubriche o sui giornali, poi ricomposti in un libro in diversi modi e forme. Il discorso non
coinvolge solo gli scrittori di feuilleton che poi raccolgono i pezzi scritti a puntate in un
romanzo: la disposizione e l’ordine che un autore vuol dare al proprio materiale pubblicato
prima sui giornali e poi ripensato per il volume, è spesso una vera e propria architettura che
serve per capire le intenzioni e la poetica dell’autore. I libri vanno dalla raccolta dei testi di
fortunate rubriche popolari, fino al vero e proprio romanzo. Il primo romanzo di Zavattini,
Parliamo tanto di me, nasce da un taglia e cuci dei suoi primi racconti pubblicati sui numeri
unici e su Gazzetta di Parma12 con il desiderio di conferire a quel puzzle una forma di un
romanzo come viaggio nell’aldilà; esigenza unitaria che poi Zavattini perde, in vecchiaia,
quando si antologizza in Al Macero, secondo prospettive e con una idea completamente
diversa anche di sé. Guareschi, per esempio, lo fa con il primo romanzo La scoperta di
Milano. Con i pezzi pubblicati in “Le Osservazioni di uno qualunque”, rubrica umoristica del
Bertoldo, Guareschi fa un lavoro di scelta e di riordino e riscrittura inseguendo l’idea del
romanzo umoristico con tanto di riassunto comico ad inizio di capitolo come nella miglior
tradizione novellistica e romanzesca italiana. Con i racconti di Don Camillo, Peppone e il
crocifisso che parla, non segue più le strade del romanzo ma quella della saga aperta a puntate
di carattere ancor più popolare, una saga che anticipa forme e modalità della telenovela
televisiva e si ricollega alla grande tradizione della novella morale italiana (cf. Conti 2008).
11
Cit. in Marcheschi 1995, 7. Resta fondamentale l’introduzione di Daniela Marcheschi in cui inquadra
storicamente il problema e la tradizione degli umoristi e dei giornali umoristici tra Otto e Novecento. Un testo di
fondamentale importanza per aver individuato questa tradizione che si sviluppa tra i due secoli.
12
Su come scrivono, tagliano e incollano gli umoristi passando dai racconti sui giornali alla raccolta in volume,
si veda Conti 2002, in particolar modo Parliamo tanto di me, dove i raccontini pubblicati sulla Gazzetta di
Parma vengono assemblati in un romanzo. Cf. anche Celati 2007.
Non è un caso che una delle più fortunate serie cinematografiche del dopoguerra nasca
proprio da una saga narrativa di 347 racconti di don Camillo scritti in vent’anni, quasi uno
alla settimana.
Tornando a Carlo Collodi, non dobbiamo dimenticare la satira politica. Pochi ricordano la
sferza di Collodi, che, con la sua ironia pungente, mette alla berlina i pregi e i difetti degli
italiani e del loro nuovo modo di fare politica nel neonato parlamento. Collodi scrive pezzi
ancora oggi attuali: L’onorevole Cené Tanti, Il contribuente, Gli inconsolabili, Sangue
italiano, L’unità nazionale. Carlo Collodi muore nel 1890. Nel 1892, l’anno dell’insedia-
mento del primo ministero Giolitti e della costituzione del Partito socialista italiano, in pieno
liberismo, apre i battenti un settimanale destinato a segnare per sempre le sorti dei giornali
satirici. Guido Podrecca, in arte Goliardo, in collaborazione con Gabriele Galantara (in arte
come disegnatore si firmerà sempre Ratalanga), fondano il settimanale L’Asino. La vicenda
dell’Asino è complessa. Fino al 1901 il settimanale difende le posizioni socialiste più
avanzate, con una forte carica anticlericale. Galantara sarà arrestato per questo. Nel 1900 apre
un altro settimanale che durerà ben oltre il secondo dopoguerra, Il travaso delle idee fondato
da Filiberto Scarpelli, Carlo Montani, Marchetti, Tolomei e il mitico Yambo.
La corruzione dei politici e dei costumi, l’attacco frontale alla politica di Giolitti e della sua
repressione poliziesca nelle piazze, sono i temi all’ordine del giorno de L’Asino. Il successo
popolare e i lettori che si conquista questo giornale satirico sono importanti, ma nel 1901 c’è
una svolta. I cattolici entrano in politica e la vena anticlericale del giornale si rafforza, con
attacchi diretti anche al Vaticano, con una chiave politica interventista. Con la Prima guerra
mondiale il giornale chiude dal 1918 al 1921. Nel 1914 inizia le pubblicazioni il 420, giornale
antitedesco poi filofascista. Ma non mancarono le riviste umoristiche durante la guerra. Si
stampano giornali umoristici come La tradotta, La trincea, la Ghirba e SignorSì.
L’Asino riaprirà i battenti iniziando una forte opposizione a Mussolini e al fascismo.
Mussolini farà chiudere il settimanale dopo che la redazione sarà devastata più volte da
fascisti facinorosi. Galantara è incarcerato. Nel 1907 a Bologna, in contrapposizione a
L’Asino, apre i battenti Il Mulo, di stampo clericale, ma cessa le pubblicazioni poco dopo.
Intanto la tradizione dei giornali satirici continua. Galantara nel dopoguerra inizia le
pubblicazioni de Il Becco Giallo. È un clima di euforia. A Roma nel dopoguerra riapre
Pasquino. E nascono nuove testate come il Satana, che assumerà poi il titolo di Beffa, o il
Serenissimo, creato nel 1921 da Pio Vanzi, ex direttore del Pasquino. Sono quasi tutte testate
che dichiarano una forte contrapposizione al regime fascista, specie dopo il delitto Matteotti.
L’attacco frontale contro Mussolini porterà a un contraccolpo alla libertà di stampa con le
leggi liberticide del 1925. Ma i giornali umoristici non morirono del tutto. Anzi. Proprio a
Roma, grazie a una tradizione di testate satiriche locali, nel 1931 nasce il Marc’Aurelio a cui
collabora lo stesso Galantara. Nel 1934 inaugura Fuorisacco supplemento umoristico della
Gazzetta del popolo a cui collabora il giovane Novello. Questi eventi sono importanti perché
la tradizione degli umoristi ha un suo filo rosso che si dipana tra Otto e Novecento. Seguirne
le tracce, crea una linea di continuità. Il Marc’Aurelio, a cui collaborarono nomi come il
giovanissimo Federico Fellini, Vittorio Metz, e Giovanni Mosca, avrà un successo enorme, e
arriverà a tirature di oltre trecentocinquantamila copie a settimana. Al successo romano si
contrappone Milano. Rizzoli vuole il suo settimanale umoristico. Apre i battenti nel 1936,
dopo un lungo lavoro di progettazione di Cesare Zavattini, il mitico Bertoldo.13 Chiamato da
Zavattini, arriva al Bertoldo Giovannino Guareschi come caporedattore agli inizi del 1937. I
rapporti tra Zavattini e Rizzoli intanto si logorano e Zavattini viene assunto da Mondadori.
Per far fronte al successo del Bertoldo a cui aveva contribuito nella progettazione, Zavattini
acquista il settimanale umoristico Settebello e lo dirige insieme a Achille Campanile che
uscirà a partire dal maggio del 1938.
Il Bertoldo, che annovera tra i disegnatori il giovanissimo collaboratore Saul Steinberg, ha
come direttori del giornale Metz e Mosca che Rizzoli è riuscito a strappare al Marc’Aurelio
romano. Gli umoristi passano da un giornale satirico all’altro, creando sinergie e continuità
nell’idea di una tradizione piuttosto complessa e articolata. Quando l’8 settembre del 1943,
con l’armistizio, Bertoldo chiude i battenti, Guareschi è ufficiale ad Alessandria, viene
arrestato e portato nei campi di concentramento nazisti dopo il suo rifiuto di aderire alla
Repubblica sociale. Nei campi IMI (Internati Militari Italiani), Guareschi resterà due anni,
facendo l’umorista, riuscendo, grazie alla lezione del Bertoldo a prendere in giro le SS senza
che queste se ne accorgano, aggirando la dura censura dei campi e rischiando la vita. Durante
la prigionia è lo stesso Guareschi che diventa fisicamente il Bertoldo con il Bertoldo parlato.
Girando di baracca in baracca, racconta a voce le rubriche umoristiche del Bertoldo tenendo
così alto il morale dei soldati italiani.14
Guareschi è uno dei pochi che in mezzo alla miseria e alle sofferenze del lager trova la forza
di usare l’umorismo come strumento di resistenza umana alla violenza e alla barbarie nazista.
Quando tornerà in Italia, nel dicembre del 1945, insieme a Mosca, fonda Candido. Nel 1944 a
Salerno ha aperto i battenti Don Chisciotte, nome di testata che già Guareschi aveva utilizzato
nel campo liberato, in mano agli inglesi, come giornale satirico a muro attaccato alle
baracche. Il Candido è un settimanale che irrompe nel clima della ricostruzione, e tra il 1946 e
il 1948 segna, in due anni, molte delle battaglie civili del nostro paese tra cui il referendum e
le prime elezioni politiche, fino al 1961, quando, alle soglie del boom economico, chiude i
battenti. Accanto a Candido c’è un grande fermento di giornali umoristici, tra cui ricordiamo
il Don Basilio che inizierà le pubblicazioni dal 1950 al 1954. La morte di Guareschi nel 1968
segna profondamente la sorte dei giornali umoristici. Forattini, che ritiene Guareschi suo
padre spirituale e suo maestro nel disegno umoristico, comincia la sua carriera di disegnatore
nel 1970. Le prime vignette di satira politica appaiono nel 1973 sul settimanale Panorama a
cui collabora per dieci anni, e su Paese Sera nel 1974. Gli anni Settanta sono un decennio di
svolta nella tradizione delle riviste satiriche e politiche. Nel clima infuocato degli anni
Settanta nascono fanzine, riviste ciclostilate e riviste come Il Male dal 1977 al 1982, fondata
da Pino Zac (Giuseppe Zaccaria) e diretta dal quarto numero da Vincino. Il modello è quello
di un altro settimanale ancora in gran voga in Francia, Le Canard enchaîné da cui proveniva il
fondatore. Vincenzo Sparagna, collaboratore de Il Male, nel 1980 fonda Frigidaire che resterà
in edicola fino al 1998, altra testata umoristico-fumettistica rivoluzionaria a cui collaborò tra
gli altri Andrea Pazienza. Negli anni Novanta, con la discesa in campo di Berlusconi, come
già accaduto in epoca fascista, abbiamo un proliferare nuovo di testate tra cui ricordiamo
settimanali umoristici come Cuore supplemento de L’Unità e Comix a Modena presso Panini.
13
Cf. “Bertoldo”, in Casamatti/Conti 2008.
14
Per il periodo di Guareschi nel lager, si leggano Guareschi 1947, 2004 e 2008.
Si è voluto in questo modo tracciare in linea molto sommaria una tradizione che dimostra,
ancora una volta, che i giornali satirico-umoristici rappresentano una realtà complessa nella
tradizione umoristica del nostro paese e che ha osmosi, continuità, passaggi sotterranei,
oscuramenti e ritorni con infiammate improvvise, calorose e sferzanti, in epoche diverse.
Senza questa tradizione, per esempio, è impossibile capire come Zavattini, Fellini, Scarpelli e
Guareschi abbiano contribuito alla nascita del neorealismo e della commedia all’italiana.
Senza l'apprendistato satirico di umoristi che poi diventeranno sceneggiatori e registi su questi
giornali, è impossibile capire e trovare le ragioni di molti film del dopoguerra che
costituiscono la tradizione della commedia all’italiana dopo il successo del movimento
neorealista. E di notizie su questa tradizione umoristica anche nelle ultime, prestigiose e
ambiziose storiografie di ultima pubblicazione, non c’è traccia: mi riferisco a quella di
Alberto Asor Rosa che nella sua Storia europea della letteratura italiana, Einaudi 2009,
ignora completamente la tradizione dei giornali umoristici che hanno proprio la caratteristica
di ispirarsi a giornali europei. Stesso discorso vale per Giulio Ferroni e il suo Profilo storico
della letteratura italiana, che oggi è un manuale molto usato anche nelle università.
Quando la radio negli anni Trenta entra nelle case degli italiani, gli scrittori umoristici non
hanno paura a collaborare inventando anche programmi per l’E.I.A.R. Zavattini scrive per la
radio pezzi umoristici fin dagli anni Trenta e provoca un terremoto quando, programmatica-
mente, dice la parola “cazzo” alla radio nazionale negli anni Sessanta, con una volontà
carnevalesca di sovvertire valori e provocare un vero e proprio terremoto culturale che darà
vita a forti polemiche sui giornali di allora.
Giovannino Guareschi collabora alla radio nazionale con programmi a puntate di grande
successo. I suoi famosi processi alla radio del 1947-1948 (cf. Guareschi 2007) raccontano con
taglio umoristico tematiche scottanti d’attualità, con un intento morale: un format che piacque
molto alla BBC e che continua ancora, anche se in maniera molto diversa, nei processi
televisivi modello “Forum”.
Veri figli delle avanguardie e del futurismo, gli umoristi sopracitati fanno palestra nei numeri
unici e poi lavorano per la radio, per il cinema, per la televisione, creando trasmissioni,
scrivendo i testi per programmi di grande successo popolare. Guareschi nel dopoguerra
inventerà per “Carosello” i personaggi di Toto e Tata. Marcello Marchesi scriverà programmi
come “Canzonissima”. Zavattini scriverà sceneggiature per fumetti negli anni Trenta, dirigerà
Topolino per Mondadori e scriverà sceneggiature per il cinema fin dagli anni Trenta, a
dimostrazione, ancora una volta, su quanto sia necessario, per riordinare il caotico mondo del
Novecento letterario italiano, prendere in seria considerazione il lavoro fuori dai generi
letterari canonici e le collaborazioni degli umoristi ai nuovi strumenti di comunicazione
moderna.
Gli umoristi, in questo senso, sono i veri figli del Futurismo e delle avanguardie, in quanto
liberi di collaborare ai nuovi mezzi di comunicazione, con grande ricchezza, inventando
anche nuovi generi letterari fuori dalla tradizione canonica, come i radiodrammi.
I numeri unici e le testate satirico-umoristiche, che nel Novecento hanno una così forte
presenza letteraria e politica, sono da considerare come veri e propri luoghi dell’invenzione
letteraria, satirica, vignettistica e fumettistica. Si apre così un mondo completamente nuovo di
studio e di ricerca anche dal punto di vista critico: i racconti di don Camillo di Guareschi letti
su Candido accanto ad altri articoli e alle vignette dei trinariciuti di “Contr’ordine
compagni!”, assumono significati molto diversi rispetto alla lettura della raccolta in volume.
Se il racconto pubblicato sul settimanale viene letto nel contesto della pagina in cui viene
inserito, accanto a vignette, corsivi politici, polemiche e rubriche satiriche, in volume, lo
stesso racconto, cambia prospettiva, in quanto inserito accanto ad altri racconti di don
Camillo.
I punti di contatto, infine, tra la tradizione dei numeri unici e quella dei settimanali umoristici
di livello nazionale, crea cortocircuiti di grande interesse dal punto di vista critico-umoristico.
E faremo solo due esempi per far capire l’importanza dello sviluppo dell’umorismo in Emilia
Romagna che avrà riflessi in tutto il mondo, grazie al cinema di Zavattini e di Fellini e
soprattutto ai venti milioni di copie dei libri di Guareschi con oltre trecentocinquanta edizioni
diverse, tradotti in tutte le lingue escluso il cinese e il vietnamita.
Cesare Zavattini, alla fine degli anni Venti, vuole creare il giornale umoristico che il suo
paese non ha. Si chiamerà Il Luccio. Zavattini vuole e pretende il suo numero unico perché
questo darà prestigio al suo paese natale. Nell’ultima pagina, con le caricature di Latino
Barilli, Zavattini, con i distici baciati sotto le caricature, ritrae i personaggi di Luzzara. È un
primo, timido tentativo di studiare non solo dal punto di vista letterario il suo paese che
porterà nel 1950 alla nascita di Un paese con le fotografie di Paul Strand nel 1955, seguito da
Un paese vent’anni dopo, con le fotografie di Gianni Berengo Gardin, Einaudi 1975. L’ultimo
capitolo è il volume Paul Strand, Cesare Zavattini, Lettere e immagini, a cura di Hezel Strand
del 2005, che raccoglie i carteggi inediti e le foto mai pubblicate in volume di entrambi i
coniugi Strand. Senza il numero unico Il Luccio non si capisce come possa nascere il progetto
Un paese durato la bellezza di quasi cinquant’anni, registrando mutamenti e cambiamenti
nell’arco di un mezzo secolo veramente rivoluzionario dal punto di vista antropologico e
sociale di una piccola comunità rivierasca sul Po. Un libro che nella sua traduzione americana
ha operato una profonda influenza sul lavoro dei fotografi americani.
Senza i numeri unici non si capirebbe nemmeno il lavoro rivoluzionario che Zavattini fa come
giornalista alla Gazzetta di Parma e alle sue rubriche assolutamente innovative alla fine degli
anni Venti. Nel momento di grave crisi del giornalismo liberale sotto il fascismo, Zavattini
svecchia e reinventa il quotidiano di provincia, innova la sua terza pagina pubblicando
rubriche che passano dai giornali umoristici a quello “serio” della Gazzetta, individuando una
forma nuova di comunicazione più moderna, più agile, sperimentale e divertente. Esperimento
che riverserà poi nelle testate giornalistiche della Rizzoli quando negli anni Trenta, durante il
fascismo, ne sarà l’unico responsabile, contribuendo alla rivoluzione dei settimanali illustrati
a grande tiratura.
Sulla Gazzetta di Parma esce la prima puntata delle “Cronache da Hollywood” che passerà su
Cine Illustrazione con grande successo. Le cronache di una Hollywood completamente
inventata poi raccolte nella omonima raccolta, sono ancora oggi pezzi di bravura surreale e di
grande comicità degne di essere antologizzate, lontanissime dal clima realistico della narrativa
che s’imporrà nel dopoguerra.15 Zavattini ha intenzione di svecchiare il giornale pensando di
costruire in Gazzetta un “Bagutta volante”, un circolo culturale di giovani sul modello della
trattoria milanese che alla fine degli anni Venti aveva aperto il premio omonimo e dettava
legge sulla moda e gli indirizzi letterari nazionali.16 Zavattini inventa rubriche umoristiche
importanti come “Spettacolo per famiglie”, una sorta di teatro cittadino, di aneddoti e storielle
con protagonisti i personaggi veri della città. Una rubrica dove l’autore assume le vesti
dell’“impresario Za”, come amava firmarsi, che fece scandalo e che portò Zavattini a una
serie d’insulti non solo su giornali umoristici locali ma anche sui muri del centro di Parma
tappezzati di volantini con scritto: “L’amico ZA è cretino. Se ha qualche dubbio s’informi” e
ancora: “A tutti è permesso essere cretini. – Ma l’amico ZA ne abusa”.17 Il modello era “Otto
volante”, una rubrica anonima di aneddoti su scrittori e intellettuali d’allora pubblicata con
grande successo sull’irriverente e pettegola Fiera Letteraria, dove compariranno aneddoti di
Zavattini già editi sulla Gazzetta di Parma.18
Guareschi inventa il suo primo giornale umoristico a Parma, Bazar (cf. Conti/Casamatti
2008). La sua esperienza di scrittore e illustratore risale agli anni del liceo. Il 17 marzo 1927
esce il suo primo giornale umoristico scritto e disegnato interamente da lui sotto la guida di
Cesare Zavattini, suo istitutore al “Maria Luigia”. Un giornaletto tutto a colori, intitolato Una
gita di (s) piacere,19 dove professori e studenti sono messi alla berlina durante la gita
scolastica. Sotto le vignette si possono leggere i distici a rima baciata, sul modello del
Corriere dei Piccoli e dei numeri unici.20
15
Cf. Zavattini 2002 dove si raccoglie tutta la produzione parmigiana del giovane Zavattini, con i relativi testi, e
Zavattini 1996.
16
Scrive Zavattini: “Ricordo che s’era fatto il tentativo con la terza pagina della ‘Gazzetta di Parma’ d’istituire
un punto di riferimento, una specie di Bagutta volante. Disgrazie.” (Da “Corriera di Parma”, in: La Fiera
letteraria, 18 maggio 1930, ripubblicato in Zavattini 2002,106-107). Sul complesso e innovativo lavoro
giornalistico e letterario di Cesare Zavattini alla Gazzetta di Parma, e sul clima letterario nazionale con il Premio
Bagutta e il suo circolo, e quello culturale della fine degli anni Venti a Parma, si legga “Il giovane Zavattini”, in
Zavattini 2002, 5-140. Il suo pezzo edito sulla Gazzetta intitolato proprio “Bagutta”, il 25 dicembre 1927
testimonia come Zavattini abbia rapporti frequenti con Milano e i suoi intellettuali già a partire dal 1927 (cf.
Zavattini 2006).
17
Il numero unico satirico Hollywood esce a Parma il 25 dicembre del 1927 a cura dell’Ufficio Viaggi e
Festeggiamenti del G.U.F. di Parma, a firma del direttore Franco Gramelloni e stampato dalle Officine
Fresching, con caricature di notevole eleganza e pulizia di segno. Zavattini in questo giornale viene colpito
direttamente con frasi ingiuriose e in grassetto dentro alla pagina, in appositi “cassetti”. Le frasi offensive sono
indirizzate anche contro l’amico Piff che firma una rubrica di lettere sulla seconda pagina della Gazzetta di
Parma intitolata “Il nostro film quotidiano”.
18
I tre aneddoti di Zavattini pubblicati su Otto volante apparsi anche sulla Gazzetta si Parma si possono leggere
per intero in Zavattini 2002. Sui numeri unici parmigiani Zavattini pubblica tre novelle, Le ferite del generale,
Erberto e la mosca, e Come guadagnai un milione.
19
Giovannino Guareschi costruisce il suo primo giornale umoristico tutto a colori intitolato Una gita di (s)
piacere del 14 marzo 1927. Oggi è interamente leggibile in Bianchino et al. 2004 (“Giovannino Guareschi
illustratore satirico. Disegni dal 1927 al 1942”).
20
Il 27 dicembre 1908 è una data fondamentale per il fumetto italiano: esce il primo numero del Corriere dei
Piccoli, che va considerato come la prima testata a fumetti dell’editoria italiana. Del primo numero (venduto a
10 centesimi) vengono tirate 80.000 copie, che andranno rapidamente crescendo di settimana in settimana fino a
raggiungere quota 700.000. Si pubblicano molti personaggi disegnati negli Stati Uniti, ma anche il primo
personaggio a fumetti italiano: il negretto Bilbolbul, di Attilio Mussino. La testata, con molte modifiche e
adeguamenti ai tempi e con qualche momento molto critico, vivrà fino al 15 agosto 1995, senza interruzioni.
Il 1927 è un anno da ricordare anche perché Guareschi comincia a collaborare alla Gazzetta di
Parma dove Cesare Zavattini, suo ex-istitutore, lavora come redattore. Il ricordo di
quell’incontro è esilarante (Guareschi 2001, 10).
Bazar, numero unico parmigiano a cui collabora Giovannino, prende spunto da un’importante
quanto diffusa rivista quindicinale di letture e di vignette umoristiche che cominciò a uscire a
Roma il 5 marzo 1927 diretta da Ugo Chiarelli, con il sottotitolo di “quindicinale di letture per
tutti, letterarie, sportive, poliziesche, artistiche, mondane e umoristiche” il cui nome
probabilmente si ispirava a un’altra rivista di moda di grande successo della classe media
americana e newyorkese, Harper’s Bazaar.21 La rivista, sia per formato che per modello
editoriale, ricalca un modello fortunato come Le Grandi Firme, che aveva grandissima
fortuna a livello nazionale.22
A Parma, Bazar è un numero unico che viene stampato presso le tipografie Fresching a partire
dal primo numero uscito il 7 novembre del 1931, diretto proprio dallo stesso Giovannino.
Guareschi curerà anche i numeri del 1933, 1934, 1935, 1937 e 1939. Bazar merita un discorso
a parte perché Giovannino lo considera il suo primo giornale umoristico, a cui collaborerà con
testi e materiali fino al 1939, da Milano, dove si è trasferito nel 1936 per lavorare alla
redazione del Bertoldo. L’ultimo numero di Bazar del 1939 vedrà una pagina dedicata a
Parma, scritta e illustrata dai redattori del Bertoldo. Un piccolo capolavoro dove i grandi
umoristi come Steinberg, Mosca, Marchesi e Zavattini, collaborano al numero unico di
Giovannino. Così Bazar, da cui Giovannino era partito, diventa strenna del giornale satirico
milanese. E così, nello stretto rapporto tra numeri unici di provincia e grandi settimanali
satirici di livello nazionale, il cerchio si chiude.23
Da questa breve panoramica che coinvolge due autori come Guareschi e Zavattini, dimenticati
o relegati ai margini delle storie letterarie con qualche breve accenno, vengono spontanee
alcune riflessioni che spero possano servire alla ricerca letteraria dei prossimi anni.
21
Bazaar uscì nel 1867, divenne un mensile nel 1901 e nel 1929 cambiò nome e assunse quello che ha ancora
oggi, Harper’s Bazaar.
22
La rivista diretta da Ugo Chiarelli apre le sue pubblicazioni con vignette umoristiche e disegni di Onorato che
illustrano il racconto “Io e il pentimento” di Luciano Folgore, “Il marito timido, ovvero il discorso imprevisto”,
una tragedia comica brevissima, del francese Cami, il racconto sportivo “L’amica dell’ultimo goal” di Corrado
D’Errico; “Un furto misterioso” è un racconto poliziesco di Alberto Mottura, “Le grandi avventure nel mondo
nuovo, viaggi e scoperte” di Marcello Gallian, che diventa una rubrica fissa, una novella allegra di E. Doryèles
intitolata “La casa in prestito”; la cronaca a “sipario calato” con un racconto di Franco Franchi che parla
dell’attrice Anna Fougez, per chiudere con una rubrica, “Astri del cinema” dedicato a Nita Naldi. In Bazar di
Ugo Chiarelli troviamo sia gli stessi autori che gli stessi disegnatori de “Le Grandi Firme” tra cui ricordiamo
Mark Twain, Achille Campanile e collaboratori come Trilussa, Petrolini, Bontempelli, Aniante, A.G. Bragaglia e
come disegnatori, oltre Onorato, anche Cami, Bompard, Vucetich, Bazzi, Sem, Toddi e Scalpelli.
23
Guareschi prenderà ispirazione per le vignette del suo Bazar anche da Bertoldo, come si può vedere
nell’impostazione della vignetta “Una prima movimentata” al Teatro Regio, da confrontare con quella di Pagotto
“Battute fuori copione”: stesso scorcio da dietro le quinte, con il pubblico in platea e sui palchi a fare da sfondo.
Questo numero unico proseguirà nel dopoguerra con Il nuovo Bazar del 1947 e il Nuovissimo Bazar del 1948
realizzati e firmati da Remo Gaibazzi (Stagno, Parma 1915-Parma,1994), incisore, pittore, caricaturista, che
collaborerà anche ad altri numeri unici e fonderà il suo numero unico Canapè. La fine del conflitto, il
cambiamento radicale del mondo politico, culturale e letterario del dopoguerra segnerà per sempre la fine di
questa pubblicistica locale ma non di quella satirica a livello nazionale che, come abbiamo visto, avrà altre
strade. È la fine di un mondo, di una società e della sua cultura.
La prima è quella di una tradizione umoristica tra Otto e Novecento che sarà l’humus da cui
nasceranno grandi capolavori umoristici della letteratura del secolo scorso. Una linea molto
ben definita ma mai apertamente dichiarata nelle storie della letteratura. Senza questa
tradizione popolare diventa difficile capire l’umorismo non solo di Pirandello ma anche
l’umorismo di Gadda. Il contesto in cui scrivono questi autori è molto più ricco e articolato di
quanto si pensi.
La seconda è quella della necessità di analizzare il rapporto tra letteratura e nuovi sistemi di
comunicazione, con il lavoro di umoristi che lavorano, scrivono e pubblicano anche su
settimanali femminili e di largo consumo. C’è una lunga schiera di scrittori che lavora per
l’editoria, il cinema, la radio, la televisione, la pubblicità, il disegno umoristico, in un contesto
moderno molto articolato, popolare, anche in questo caso, che determina le sorti di una
tradizione “antiromanzesca” legata al racconto breve e brevissimo perché pensato prima di
tutto per i giornali. Zavattini sarà uno dei più importanti teorici del racconto brevissimo. Non
scriverà mai romanzi ma solo raccolte di racconti e il suo “romanzesco” lo riverserà nelle
storie per il cinema. Guareschi scriverà due grandi epopee di racconti, quella di don Camillo e
quella della famiglia Guareschi, due casi unici nel mondo letterario novecentesco, le cui radici
sono nella tradizione del racconto morale italiano (cf. Conti 2008).
Terzo la necessità di rileggere il Novecento in maniera completamente diversa, dove
l’umorismo è una delle grandi tradizioni che segna in maniera decisiva il secolo scorso, tanto
da poter definire il Novecento come un secolo “tragicamente comico”. Nei saggi di Walter
Pedullà sugli umoristi del Novecento manca il quadro d’insieme capace di cementare il lavoro
dei diversi autori analizzati dallo studioso di Siderno (Pedullà 2001).
Mentre finiva il secolo, critici, autori e giornalisti si sono sforzati di classificare il Novecento
con formule, concetti critici, letture e antologizzazioni assai discutibili, spinti da una frenesia
che cercava di definire il canone novecentesco una volta per tutte. A distanza di dieci anni
quelle storie letterarie ci appaiono superate, sclerotizzate in modelli che rispondono anche a
ideologie superate non solo dal tempo ma soprattutto dai nuovi studi e dalle nuove ricerche.
Ridefinire la storia del Novecento, così vicino ma anche così lontano, credo sia l’unica
speranza per ridare vitalità ad una letteratura che ha nel suo passato gli strumenti per il nuovo
futuro di capolavori.
Bibliografia
AA.VV. (1986): La satira politica nei giornali napoletani, 1860-1899. Catalogo della Mostra.
Roma: Istituto poligrafico e Zecca dello Stato.
Alessio, Martina et al. (ed.) (1993): Angiolo Tricca e la caricatura toscana dell'Ottocento.
Firenze: Giunti.
Bellei, Sandro / Pecoraro, Mario (ed.) (1996): Come ridevano i modenesi. Cent’anni di
giornali umoristici a Modena e Provincia. Catalogo pubblicato in occasione della
mostra “Sapore di tàmpel. Cent’anni di stampa satirico-umoristica a Modena e
provincia”. Modena: Edizioni il Fiorino.
Bertolucci, Attilio (ed.) (1960): Umoristi dell’Ottocento. Con introduzione di A. Bertolucci.
Milano: Garzanti.
Bianchino, Gloria et al. (ed.) (2004): La parola all’immagine/uno. Illustrazione e satira a
Parma tra le due guerre. Parma: Mup editore.
Camporesi, Piero (1976): Le maschere di Bertoldo. C.G. Croce e la cultura carnevalesca.
Torino: Einaudi.
Carpi come rideva: raccolta dai giornali umoristici carpigiani dal 1881 al 1966. Carpi:
Editrice Coop. Grafica Gualdi 1978.
Casamatti, Giorgio / Conti, Guido (2008): Guareschi e il Bertoldo. Catalogo della mostra,
Musei di Santa Giulia, Brescia, novembre 2008-gennaio 2009. Parma: Mup editore.
Celati, Gianni (2007): “Lo spirito della novella”. In: Griseldaonline.it (21 marzo 2007).
Ceschi, Elide (1992): “Il lunêri di smémbar nel ventennio fascista”. In: AA.VV.: Aspetti della
cultura Emiliano Romagnola nel Ventennio Fascista. A cura di Andrea Battistini.
Milano: Franco Angeli, pp. 174-185.
Ciaramelli, Giancarlo / Grassi, Lorena (ed.) (1993): Bibliografia dei periodici mantovani
1898-1945. Milano: Editrice Bibliografica.
Citati, Pietro (1961): Gli umoristi moderni. Con prefazione di Attilio Bertolucci. Milano:
Garzanti.
Conti, Guido (2002): “Il giovane Zavattini”. In: Zavattini, Cesare: Dite la vostra. Parma:
Guanda, pp. 11-140.
Conti, Guido (2008): Giovannino Guareschi, biografia di uno scrittore. Milano: Rizzoli.
Conti, Guido / Casamatti, Giorgio (2008): Giovannino Guareschi, illustratore satirico. Parma
1927-1942. Parma: Mup editore.
Cristofori, Franco (1973): Bologna come rideva. I giornali umoristici dal 1859 al 1924.
Bologna: Cappelli.
Csac (ed.) (1996): Remo Gaibazzi: Quello sguardo sulla città. Catalogo della mostra tenutasi
presso il Salone delle Scuderie in Pilotta, a Parma, 15 dicembre 1996. Milano: Electa.
Dardani, Umberto (1979): Repertorio della stampa periodica dalle origini al 1925. Con
introduzione di Felice da Mareto. Parma: Luigi Battei.
De Giacomo, Nora / Orsina, Giovanni / Quagliarello, Gaetano (ed.) (1999): Catalogo delle
riviste studentesche. Manduria-Bari-Roma: Piero Lacaita Editore.
Fellini, Federico (2004): Racconti umoristici. A cura di Claudio Carabba. Torino: Einaudi.
Fellini, Federico (2007): Il libro dei sogni. Milano: Rizzoli.
Guareschi, Alberto e Carlotta (ed.) (2007): Guareschi e la radio, Milano 1947-1949. Milano:
Rizzoli.
Guareschi, Giovannino (1947): Diario clandestino. Milano: Rizzoli.
Guareschi, Giovannino (2001): Bianco e nero. Giovannino Guareschi a Parma, 1929-1938.
Milano: Rizzoli.
Guareschi, Giovannino (2004): Ritorno alla base. Milano: Rizzoli.
Guareschi, Giovannino (2008): Grande diario. Milano: Rizzoli.
I primi 40 anni del Numero unico di Borgo-Fidenza. Fidenza: La tipografia Commerciale
1982.
Marcheschi, Daniela (1999): “Giornalismo umoristico e linea sterniana”. In: Bertacchini,
Renato / Marcheschi, Daniela / Tempesti, Fernando: Sterne e Collodi (=Fondazione
Nazionale Carlo Collodi: Quaderni nuova serie, 2). Lucca: Pazzi Faccini, pp.17-25.
Marcheschi, Daniela (1995): “Collodi e la linea sterniana nella nostra letteratura”. In: Collodi,
Carlo: Opere (=I Meridiani). A cura di Daniela Marcheschi. Milano: Mondadori, pp.
XII-XLII.
Pasolini, Pier Paolo (1960): “Officina Parmigiana”. In: Idem: Passione e Ideologia. Milano:
Garzanti, pp. 416-419.
Pedullà, Walter (2001): Le armi del comico. Milano: Mondadori.
Piccini, Giulio (1910): Jarro. Firenze umoristica. Terza edizione. Firenze: Bemporad.
Rondoni, Giuseppe (1914): I giornali umoristici fiorentini del triennio glorioso (1859-1961).
Firenze: Sansoni.
Ruberti, Francesco (1985): Quistello e la sua gente tra il serio e il faceto. Raccolta dei
‘Numeri Unici’ dal 1923 al 1969. Quistello (MN): Ceschi.
Tenca, Carlo (1995): Delle strenne e degli almanacchi. Saggi sull’editoria popolare (1845-
1849). Napoli: Liguori.
Trentini, Laura (1971): I giornali reggiani dal 1836 al 1915. Reggio Emilia: Poligrafici.
Vicari, Giambattista (ed.) (1959): Umoristi del Novecento, con alcuni precursori del secolo
precedente. Con prefazione di Attilio Bertolucci. Milano: Garzanti.
Zavattini, Cesare (1996): Cronache da Hollywood. A cura di Giovanni Negri. Roma: Editori
Riuniti.
Zavattini, Cesare (2002): Dite la vostra. A cura di Guido Conti. Parma: Guanda.
Zavattini, Cesare (2006): I grandi racconti della ‘Gazzetta di Parma’. Racconti e prose. 5
volumi. A cura di Manuela Cacchioli, Guido Conti, Giuseppe Marchetti. Parma:
Gazzetta di Parma editore.
Michele Barbolini (Bologna)
Nell’esplorare il panorama dei “narratori delle pianure” il comico abbonda e diviene spesso
carattere centrale delle opere di molti autori. Una comicità che affiora nei testi sotto diverse
spoglie e contamina i vari strati della lingua e la struttura stessa delle opere.
Nel modenese Antonio Delfini il comico è un tratto costitutivo che sottende alla scrittura di
tutti i testi, dai racconti alle poesie, dai manifesti politici ai diari. Lo stesso Cesare Garboli,
curatore di molte opere delfiniane, ha riconosciuto in numerose occasioni come il carattere
principale della scrittura del modenese sia il gioco, al punto che “tutto ciò che Delfini scrive
viene attraversato da una sorta di emozione ironica. Inafferrabile, come se la scrittura,
lievemente, leggermente, parodiasse se stessa” (Garboli 1990, 43).
Che si tratti di analizzare le componenti comiche o altri aspetti della scrittura delfiniana,
l’impasse di fronte al quale si trova il critico è il medesimo: l’impossibilità di affrontare il
“continente Delfini” (per riprendere una felice espressione di Ripellino riferita a Chlebnikov1)
separando, come si dovrebbe, la vita e l’opera del modenese. Le opere di Delfini nascono
sempre dalla commistione di vita vissuta e vita immaginata. Prendono l’avvio da fatti
realmente accaduti, successivamente trasfigurati dall’autore, spesso narrati come ricordi
attualizzati, riportati al presente. Delfini stesso scrive nel 1933, sulla rivista Oggi: “La realtà è
in gran parte nell’assurdo, in quell’immaginazione che è a un passo per diventare
realizzazione, ma non lo diventerà mai. Nella vita in fondo la realtà non esiste.” (Delfini 2008,
XVIII). Non è un caso che una delle più importanti opere di Delfini siano proprio i Diari e un
altro testo straordinario come Modena 1831 città della Chartreuse nasca, come vedremo, da
una volontà di vendetta tutt’altro che letteraria. Nel considerare complessivamente l’opera di
Antonio Delfini non ci sono dunque alternative, lo sguardo deve abbracciare in un solo colpo
d’occhio l’autore e le sue opere, rintracciando in questa relazione stretta e imprescindibile
l’origine stessa e le condizioni di possibilità della scrittura, dei motivi e delle ossessioni che
animano la prosa delfiniana.
Per quanto concerne l’oggetto della nostra indagine, il comico, cercherò di impostare alcuni
campi d’indagine. Una strategia potrebbe essere quella di attestarsi su uno studio degli
elementi esteriori e tecnico-formali con i quali, ad esempio nelle poesie, Delfini raggiunge
effetti di comicità. In questa direzione hanno scritto pagine importanti, tra gli altri, Giorgio
Celli e Alfredo Giuliani2. Celli in particolare analizza l’uso della sineddoche e l’operare di
Delfini per “scambi, sostituzioni, anagrammi e condensazioni” (Celli 1990, 138) verso una
strategia “dell’occultamento semantico” (ibid.). Sono queste senz’altro spie importanti,
procedimenti essenziali della scrittura di Delfini, anche se circoscritti al campo della
produzione poetica, tutto sommato marginale, quantitativamente, all’interno dell’opera
1
Ripellino usa l’espressione citata in “Tentativo di esplorazione del continente Chlebnikov”, in Velimir
Chlebnikov, Poesie, Torino: Einaudi 1989.
2
Rispettivamente: Giorgio Celli, “Il comico nelle Poesie della fine del mondo”, e Alfredo Giuliani, “Le Poesie
della fine del mondo”, in Pollicelli 1990.
dell’autore modenese.
Restando nel campo dell’analisi formale, vorrei segnalare un altro aspetto peculiare della
comicità delfiniana: l’uso dei nomi propri. Prendiamo in esame ad esempio le presenze
femminili al centro della produzione delfiniana. Ci troviamo di fronte a nomi imponenti e
difficili da decifrare: Maddalena Marfusa, Margherita Matesillani, Gina Montuori, Elena
Granfusardi. Sono nomi che riempiono la bocca, che s’imprimono nel ricordo e nell’immagi-
nario, nomi ingombranti. Sono soprattutto nomi di provincia, non specificamente connotati
localmente, alcuni probabilmente inventati sul calco di nomi esistenti. Sono nomi che in una
certa misura stonano con l’ideale femminile, nomi sgraziati, che creano un contrasto comico e
si inseriscono in quella tendenza già osservata da Celli di “creare una sutura intima, e senza
soluzioni di continuità, tra un eloquio alto, da Parnaso, e una farneticazione da strada, e da
osteria, puntando su di un comico di contrasto” (ibid.). Nello scegliere i nomi Delfini ha
sempre in qualche modo una vena dissacrante, tanto più forte quanto i soggetti a cui si
riferisce sono oggetto della propria vis polemica. Vediamo allora comparire la famiglia
Gnochirignocchi o i conti Borgobiliani e l’esplosione di nomi ed epiteti delle Poesie della fine
del mondo, dagli industriali Feterozzi a Merullo Fiscobrullo. L’elenco sarebbe lungo e
meritevole di una trattazione specifica, in altra sede.
Se quella dei nomi è una spia importante dell’attitudine alla comicità di Delfini, ritengo
tuttavia che un’analisi degli elementi formali della prosa delfiniana affronti solo “la punta
dell’iceberg” della comicità dell’autore modenese. Dovendo individuare un nodo centrale
della comicità dei testi delfiniani mi sembra che questo possa risiedere negli errori. Non
intendo errori di tipo formale o compositivo, ma piuttosto errori di natura concettuale, riflessi
nelle opere di una visione distorta del reale, trasfigurazioni del quotidiano che animano gli
scritti delfiniani. Sulla scia di questi errori e dell’inestricabile confondersi dei piani di realtà e
immaginazione, Delfini dispiega le proprie doti di narratore con un inesauribile gusto per il
gioco, la parodia e l’autoironia.
Vediamo alcuni esempi, a partire da quel testo straordinario che è Il ricordo del ricordo, posto
come introduzione alla seconda edizione de Il ricordo della Basca pubblicato nel 1956 per i
tipi di Nistri-Lischi a Pisa, unanimemente considerato il capolavoro di Delfini. In questo testo
l’autore modenese vorrebbe ripercorrere la genesi dei racconti della Basca, ma fin dalle prime
righe ci rendiamo conto che si tratta di una vera e propria digressione nel ricordo e nel sogno
delfiniano. È un racconto che procede per ondate narrative e già dall’incipit la struttura stessa
del testo è disseminata di elementi comici.
Prendiamo le prime righe:
Se avessi avuto altri amici, o non li avessi avuti affatto, sarei diventato un grande narratore, prima
della caduta del fascismo; e dopo lo sarei rimasto. Ma è più probabile che se non avessi avuto gli
amici che ho avuto, io non avrei mai scritto un racconto o un quasi racconto. Molto più bello, più
intelligente, più ricco, più aristocratico degli amici che ho avuto, mi sono trovato davanti alla
barriera terribile e armata dei loro difetti, vizi, capricci: gelosia, narcisismo, e sfrenata (ma sorda)
ambizione. Né geloso, né ambizioso, e tanto meno narciso, fortunato negli attributi fisici, morali
ed economici, mi sono scoperto (ma troppo tardi) un difetto (che i miei più intimi dicevano una
virtù scambiandola per bontà): una mitezza eccessiva nata dal desiderio di non soffrire mai o il
meno possibile, si è convertita nel tempo in pigra contemplazione e in una sorda velleitaria rivalsa
che non è mai sfociata in una conclusiva spiccata vendetta. (Delfini 2008, 209)
A livello formale saltano subito agli occhi le ripetizioni, quegli “amici” che tornano e il cui
significato per l’esistenza dell’autore viene capovolto di senso nel volgere di poche righe.
Amici che torneranno ancora, come ossessione permanente nel dispiegarsi dell’intero testo e
in molti luoghi dell’opera delfiniana, soprattutto nei Diari dove possiamo leggere frasi come
questa: “I malefici, quali possono essere anche i migliori amici, mi hanno predetto che non
farò mai nulla!” (Delfini 1982, 47). Per cogliere fino in fondo la comicità di queste righe è
necessario conoscere l’uomo Delfini e la sua storia “verofinta”, per riprendere il titolo di un
saggio di Stefano Calabrese3. Quando compone queste righe Delfini ha ormai quarantotto anni
e un numero discreto di pubblicazioni alle spalle, ma tutte uscite per piccoli o piccolissimi
editori, con scarsa circolazione. Il boom economico e la ricostruzione stanno travolgendo il
Paese e l’industria culturale sta diventando una vera e propria azienda pronta a sfornare
prodotti per le masse. Delfini coglie prima di molti altri i rischi di quanto sta accadendo e
cerca a modo suo di mettersi al riparo. Sente la terra che gli scompare sotto i piedi, capisce
che non c’è più spazio per un gentiluomo di provincia che scrive nei momenti di ozio. Ormai
scrivere è un vero e proprio mestiere, i circoli letterari sono luoghi di promozione sociale
dove non c’è spazio per le trovate naïf e fuori luogo di un vecchio possidente. Delfini si trova
costretto a tirare le somme del proprio operato e ad ammettere una doppia sconfitta: se da un
lato non si è affermato come scrittore di successo, dall’altro anche il sogno a lungo cullato di
una vita normale, fatta di lavoro e famiglia, è ormai tramontato, e si dissolverà ancor più
tragicamente dopo l’incontro e la rottura con Luisa B.
C’è uno scarto continuo nella vita di Delfini, una cifra esistenziale incomprimibile,
un’inadeguatezza che si fa ribellione, un tirar calci, un estro che non poteva piegarsi alla realtà
del suo tempo, né di quel tempo – di ogni tempo – poteva accettare le regole. Le opere di
Delfini sono il lungo resoconto delle ossessioni inguaribili di un uomo che ha costantemente
cercato di sfuggire al presente, alla realtà, alla vita vissuta, e per farlo ha usato le armi della
letteratura e del sogno. I suoi testi nascono sempre nel ricordo di una vita non vissuta, una vita
immaginata che si confonde col sogno di una vita di pienezza, unica via possibile alla felicità
e alla realizzazione dei propri desideri. Il presente è frustrazione continua, angoscia, e in
quanto tale sempre respinto con violenza come qualcosa di meschino e inautentico:
Perché non si scrive mai di ciò che esiste ma solo di ciò che non esiste. E se, scrivendo, si crede
che esista, è l’oggetto che non saprà mai di esistere in un modo in cui non si esiste: perché, se
esiste, chi esiste non esiste nello scritto di chi scrive, nel quale solamente lo scrittore può talvolta
illudersi di esistere. (ibid., 249-250)
Ecco allora che nell’affrontare la realtà attraverso la mediazione dello strumento letterario
Delfini sfoga i propri risentimenti e punta il dito contro i propri “nemici”, riconosce
complotti, si attribuisce imprese buffonesche col solo scopo di rendersi ancora più ridicolo. Se
idolo polemico, come abbiamo visto, sono i presunti amici, Delfini non risparmia parole
roventi ai rappresentanti del mondo letterario romano e fiorentino, ai politici, ai notabili
modenesi, tutti in combutta contro di lui, tutti pronti a deriderlo e a tarpargli le ali perché non
prenda il volo, perché non diventi l’avventuriero che ha sempre sognato.
Torniamo a Il ricordo del ricordo e vediamone alcuni passaggi. Tra le molte occasioni
spacciate come vere e proprie avventure Delfini racconta di una zuffa a un ballo di carnevale
3
Stefano Calabrese, Antonio Delfini verofinto, Udine: Forum 2007.
organizzato dal GUF4, finito con l’arrivo della croce verde e scrive: “persi per sempre la
reputazione (ancora oggi avvocati e strozzini se ne valgono per mettere la mia famiglia in
povertà)” (ibid., 212). Poche righe più sopra aveva addirittura dichiarato che il disprezzo nei
suoi confronti da parte di amici e parenti risaliva “da quando avev[a] compiuto cinque anni”
(ibid., 211).
Più avanti Delfini ricorda le sere trascorse trattenendo i clienti del Caffè Nazionale inventando
falsi aneddoti e avventure (come l’aver conosciuto Picasso in Francia) e riferisce di un
improvviso batticuore che non sa se attribuire all’ingresso della giovane Gina Montuori o alla
“paura di essere smascherato dagli informatori dell’ovra5 che [lo] stavano inquisendo” (ibid.,
216). E ancora, mentre racconta la passeggiata con la bella fanciulla:
Mi era venuto in mente, appena in tempo, quale pericolo si corre ad attraversare il Portico del
Collegio in compagnia di una donna: inviati del diavolo ti aspettano per toglierti la personalità. Per
salvare la propria personalità a Modena bisogna andare soli e senza donne e tenere il braccio
pronto a significare un gesto osceno: è una fatica, ma c’è chi arriva a salvarsi. (ibid., 221)
Questi brevi estratti mostrano con evidenza come le ossessioni delfiniane deformino la
narrazione stessa delle proprie gesta, creando una comicità sottesa a tutta la narrazione, un
alternarsi di toni solenni e improvvise cadute, in un movimento continuo tra alto e basso,
senza tuttavia mai toccare gli estremi, senza rompere l’incanto di una scrittura sempre attenta
e sorvegliata.
Egocentrico e puerile, timido fino all’inverosimile eppure al contempo sfacciato Delfini
immagina complotti e congiure dietro ogni angolo, si sente addirittura sotto l’inquisizione
dell’OVRA (che in quegli anni purtroppo pensava a sorvegliare ben altri “avventurieri”). Dal
momento che la vita vera per Delfini è solo la vita immaginata, queste sue affermazioni,
derivando invece da pensieri reali e concreti, forniscono una visione della realtà quanto mai
distorta, fatta, come dicevamo in apertura, di errori e sviste grossolane. Da qui nasce e si
consolida la comicità di Delfini, che troviamo come sottotraccia in ogni sua opera.
Prendiamo un altro testo, forse il più bizzarro del modenese, quel Modena 1831 città della
Chartreuse edito da Scheiwiller nel 1962. Nell’Ultimo preambolo che apre il testo è Delfini
stesso a dichiarare:
Avrò sbagliato tutto, nomi di persone e luoghi e interpretazioni ecc. ecc. Ma con questo bagaglio
di errori, di offese, di bestemmie, di vacuità storiche, ho accertato (ed è quanto soprattutto mi
importava) Modena come centro vivente della Chartreuse e cancellato Parma per sempre. (Delfini
1993, 15-16)
Il termine “accertare” che l’autore stesso pone in corsivo, sta a significare che la verità sta
proprio dentro all’opera letteraria, ed è perciò immune dagli errori, filologici o storici che
siano, e dunque, se la spinta a tale impresa derivò a Delfini dalla rottura con Luisa B.,
fidanzata parmigiana che segnò la sua ultima e più profonda crisi esistenziale, nell’unico
campo che conta, cioè la vita immaginata, l’unica possibile, l’autore modenese ha pareggiato i
4
La sigla GUF indica i Gruppi Universitari Fascisti. Nati nel 1919 divennero in seguito un’importante
articolazione del Partito Nazionale Fascista.
5
La sigla OVRA, che Delfini usa al minuscolo, indica l’Organo di Vigilanza dei Reati Antistatali, la polizia
politica della dittatura fascista dal 1930 al 1943.
conti, la sua vendetta si è compiuta, ha realmente cancellato Parma per sempre.
Modena 1831 diventa allora un libro tutto da ridere, nel quale Delfini può permettersi di
accusare gli storici del ‘31 “di estrema ribalderia faziosa massonica o gesuitica” (ibid., 34) o
dichiararsi “sublimamente unico su questa terra” (ibid., 72-73) in quanto discendente diretto
dei personaggi del romanzo di Stendhal. E tutta l’opera è un continuo alternarsi tra accuse agli
storici di professione e dichiarazioni della propria ignoranza, quasi elevata a titolo onorifico e
a sostegno delle proprie tesi strampalate.
La comicità dissacrante di Delfini è anche costantemente rivolta a se stesso. Lo abbiamo visto
nel primo brano citato dal Ricordo del ricordo, dove l’autore modenese non esita a definirsi
“Molto più bello, più intelligente, più ricco, più aristocratico degli amici” (Delfini 2008, 209),
“Né geloso, né ambizioso, e tanto meno narciso, fortunato negli attributi fisici, morali ed
economici” (ibid.). E più avanti nel testo: “la mia era una doppia vita: quella buona e naturale
era la vita di casa, condotta come quella di un semidio dimenticato dagli uomini e dalla
società; quella cattiva e mostruosa, la vita di un giovanotto qualsiasi” (ibid., 225).
Delfini mette tutto sullo stesso piano, senza soluzione di continuità, creando un contrasto
comico irresistibile, che gli consente di affermare senza vergogna di essersi considerato
“L’unico uomo che sarebbe riuscito, con l’astuzia, con lo studio, con l’immaginazione, a
rovesciare un giorno la dittatura” (ibid., 244) e allo stesso tempo di dichiararsi “scrittore un
po’ mancato” e “amante fallito” (ibid., 250). È questo alternarsi continuo di alti e bassi, un
esaltarsi e subito dopo deridersi, che ha portato Cesare Garboli a scrivere: “Se nel deridersi
c’è una gloria, Delfini è stato sicuramente un eroe” (Delfini 1982, XXVI).
Garboli parla di “eroe”, termine quasi ossimorico se accostato alla figura di Delfini. Eppure,
azzardando, mi sembra che il modenese abbia nel passato parenti illustri, da cercarsi,
nemmeno a dirlo, non nella Storia (con la maiuscola) ma nella storia letteraria, nella vita
immaginaria delle narrazioni. Delfini era un lettore distratto e poco sistematico, ma aveva un
nucleo di autori molto cari, che sentiva vicini e complici. Tra questi Leopardi, soprattutto
quello delle Operette. In un passo dei Diari leggiamo: “Ho finito di leggere I detti memorabili
di Filippo Ottonieri di Giacomo Leopardi. È finora l’operetta morale che mi è piaciuta di più”
(Delfini 1982, 19). Mi sembra tutt’altro che casuale questa preferenza di Delfini per l’operetta
dedicata a Filippo Ottonieri. Si tratta di una delle operette più ironiche di Leopardi e il
personaggio di Filippo Ottonieri, appena tratteggiato dal poeta, è un’ombra bizzarra e
contraddittoria che vive “in una continua resistenza al mondo ‘di fuori’, dal momento che tutti
i suoi ‘detti’ sono risposte a sollecitazioni esterne” (Bazzocchi 1991, 230). Di questo
personaggio non si sa quasi nulla, “Si crede6 che egli fosse in effetto, e non solo nei pensieri,
ma nella pratica, quel che gli altri uomini del suo tempo facevano professione di essere; cioè a
dire filosofo” (Leopardi 1977, 201). Allo stesso modo potremmo dire del Delfini scrittore.
L’unica cosa certa che ci viene tramandata del “filosofo” è l’iscrizione funebre da lui stesso
composta e incisa sulla sua lapide, iscrizione che mi sembra poter suggellare brevemente
questa vita comica di Antonio Delfini:
Ossa
di Filippo Ottonieri
nato alle opere virtuose
6
Mio il corsivo.
e alla gloria
vissuto ozioso e disutile
e morto senza fama
non ignaro della natura
né della fortuna
sua.
(Leopardi 1977, 789)
Bibliografia
Bazzocchi, Marco Antonio (1991) “Guida alla lettura”. In Leopardi, Giacomo: Operette
morali. A cura di Marco Antonio Bazzocchi. Milano: Mondadori, pp. 230-231.
Calabrese, Stefano (2007): Antonio Delfini verofinto. Udine: Forum.
Celli, Giorgio (1990) “Il comico nelle ‘Poesie della fine del mondo’”. In Pollicelli, Cinzia:
Antonio Delfini. Testimonianze e saggi. Modena: Mucchi, pp. 137-139.
Chlebnikov, Velimir (1989): Poesie. Torino: Einaudi.
Delfini, Antonio (1982): Diari. Torino: Einaudi.
Delfini, Antonio (1992): Il ricordo della Basca. Milano: Garzanti.
Delfini, Antonio (1993): Modena 1831 città della Chartreuse. Milano: Scheiwiller.
Delfini, Antonio (1995): Poesie della fine del mondo e Poesie escluse. Macerata: Quodlibet.
Delfini, Antonio (2008): Autore ignoto presenta. A cura di Gianni Celati. Torino: Einaudi.
Garboli, Cesare (1990): “La bicicletta di Delfini”. In Pollicelli, Cinzia: Antonio Delfini.
Testimonianze e saggi. Modena: Mucchi, pp. 41-49.
Leopardi, Giacomo (1977): Opere. A cura di Mario Fubini. Torino: Utet.
Pollicelli, Cinzia (ed.) (1990): Antonio Delfini. Testimonianze e saggi. Modena: Mucchi.
Gioia Valdemarca (Trieste/Düsseldorf)
Luigi Meneghello nelle sue opere è riuscito come pochi altri scrittori ad unire vita e
riflessione linguistica. Tutta la sua esistenza è infatti un percorso nel quale i punti di svolta più
significativi corrispondono all’incontro con diverse lingue. Ogni lingua rappresenta un
cambiamento, ed ognuna accompagna un periodo molto preciso della sua vita, diventando in
questo modo una tappa essenziale verso la sua maturità di uomo, e soprattutto di scrittore.
Meneghello nasce a Malo, un paesino in provincia di Vicenza, nel 1922. Il dialetto del luogo,
il vicentino di Malo appunto, una delle innumerevoli varianti di dialetto vicentino ancora
parlate, è quindi la prima lingua, la lingua madre dello scrittore, un dettaglio che segnerà
profondamente tutta la sua opera. L’“italiano” Meneghello lo ascolta per la prima volta a
scuola dai suoi maestri. L’incontro con questa nuova lingua è straniante: essa è infatti una
lingua che si legge e si scrive, ma che nella sua cerchia familiare non viene parlata. Per questo
Meneghello avrà con l’italiano un rapporto più distaccato che con il dialetto, ritenendolo a
tutti gli effetti una seconda lingua. Dopo una breve parentesi di adesione al fascismo, durante
la seconda guerra mondiale Meneghello, ormai adulto, entra nei partigiani: questa esperienza
verrà descritta in uno dei suoi romanzi più famosi: I piccoli maestri (1964). Dopo la guerra si
trasferisce in Inghilterra, a Reading, per lavorare all’università. Ci va con l’intenzione di
fermarsi solo qualche mese, ma in realtà ci resta più di 50 anni. In questo modo Meneghello
impara perfettamente una terza lingua, l’inglese, che diventerà la lingua simbolo dell’età
adulta. Il primo approccio con la scrittura avviene però solo nella maturità. Il suo primo libro,
Libera nos a malo, esce infatti nel 1963. Solo a partire da questa data ha inizio per
Meneghello un’intensa attività di scrittore e saggista, che durerà fino all’anno della sua morte,
nel 2007.
La scrittura dell’esperienza
Parlando della sua esperienza di scrittore, Meneghello descrive così i suoi romanzi: “Ho
pubblicato una mezza dozzina di libri che vanno sotto il nome di ‘romanzi’, ma non sono
novels convenzionali: sono piuttosto narrazioni a sfondo autobiografico, che hanno spesso un
andamento saggistico e non mai di storia personale romanzata” (Meneghello 1997, 64).
Meneghello, infatti, nei suoi libri racconta perlopiù i suoi ricordi, di infanzia e di adolescenza,
come in Libera nos a malo e Pomo pero, parla di guerra e resistenza, come ne I piccoli
maestri, o della sua esperienza all’estero, come in Bau-sète. Per questa sua ricerca di un
contatto con la realtà attraverso la memoria Meneghello si riallaccia spiritualmente a Pavese e
a Vittorini, ma nonostante la forte carica autobiografica dei suoi scritti, per descrivere il filo
conduttore della sua scrittura egli volutamente non usa mai il termine “memoria”: “quando
posso io cerco di non usare la parola ‘memoria’, per evitare certe associazioni collaterali in
chiave di sentimento e di nostalgia, il côté emotivo della faccenda” (ibid., 110). Meneghello
preferisce parlare di scrittura dell’esperienza, o di esperienza della scrittura. I romanzi di
Meneghello infatti sono più cronache familiari, brevi scorci di ricordi, piuttosto che
lacrimevoli celebrazioni del passato. “Ciò che ho fatto (scrivendo) è stato sempre di voler
rivivere con le parole qualcosa per cui ero passato, qualche esperienza, di rifare quasi una
determinata esperienza, spesso una piccola esperienza, cosucce, una frase, uno sguardo”
(Meneghello 1986, 38). I romanzi di Meneghello, infatti, sono tutto fuorché “grandi
narrazioni”: il loro autore non tenta di stringere tutto lo scibile umano in un’opera universale,
di “spiegare tutto l’universo in un’unica frase”, come disse egli stesso (Paolini/Mazzacurati
2002). La sua idea di arte, infatti, è quella di “un semplice ghiribizzo” (Meneghello 2006, 28),
corrisponde cioè ad un atto spontaneo, semplice, non costruito. Proprio per questa spontaneità
senza condizioni e per la sua ricerca continua di storie da trarre dal mondo reale e quotidiano,
Meneghello è uno dei padri di scrittori contemporanei liberi da sovrastrutture narrative come
Ugo Cornia o Paolo Nori.
Non bisogna però sottovalutare questi testi vedendo in essi solo una bella, ma sterile, cronaca
dei ricordi e delle immagini, seppur vivide, di una vita passata. Meneghello infatti intreccia a
questi momenti narrativi una ricerca accurata ed emozionale sul rapporto tra il dialetto,
l’italiano e l’inglese, e sulla loro convivenza in un unico soggetto: l’autore. Anche per questo
motivo i testi di Meneghello sembrano generalmente poco accessibili perfino ad un parlante
vicentino contemporaneo, per la grande quantità di termini dialettali ormai arcaici, di norma
trasmessi solo oralmente ma qui messi impietosamente su carta, misti all’italiano ed ad un
inglese accademico, quello del Meneghello professore in Inghilterra.
Libera nos a malo, il primo romanzo, è anche il primo esempio di questo tipo di scrittura a
lingue multiple. Qui infatti Meneghello parla del suo incontro con l’italiano, avvenuto come
dicevamo solo nei banchi di scuola: attraverso questa lingua l’autore bambino scopre un
mondo nuovo, miracoloso per questo suo potere di essere riportato sulla carta, ma poco
familiare perché non parlato. Meneghello scriveva:
Libera nos a malo è, a detta dell’autore, un libro nato “all’interno di un mondo dove si parla
una lingua che non si scrive” (Meneghello 2006, 252). Nei suoi romanzi, però, Meneghello
non rinuncia all’idea di mettere il dialetto su carta, come se fosse una qualsiasi altra lingua
codificata. L’italiano, in questo caso, anche se rimane la lingua maggiormente usata nel testo,
sembra fungere semplicemente da sostegno al dialetto, un ponte come un altro per portare la
parola viva dialettale ad un lettore che non sa il vicentino, una lingua che non si scrive, o, se si
scrive, bisogna allora in qualche modo spiegare.
Per spiegare i termini dialettali e le curiose espressioni utilizzate nei suoi testi Meneghello
trova una soluzione estremamente semplice: introduce delle note in italiano con brevi
spiegazioni dei termini o delle trasposizioni (non traduzioni), o “trapianti”, una parola che
ritornerà in una delle sue ultime opere. Questo mezzo, apparentemente piuttosto statico ed
accademico, si rivelerà a sorpresa uno strumento di enorme forza espressiva. Le note, come
vedremo, da semplici spiegazioni dei termini, si sviluppano poi autonomamente, guadagnando
con il tempo la stessa dignità dei testi a cui fanno da corollario. A riguardo delle note,
Meneghello scrive:
Non mi sono proposto di riprodurre il dialetto, cosa che anzi non era affatto nelle mie intenzioni
[…] né mi sono provato a tradurre il dialetto in italiano, cosa intrinsecamente insulsa; ho voluto
invece trasferire, trasportare la mia esperienza dialettale in italiano, farla valere anche per chi non
sa il dialetto, nel miglior modo che potevo. In realtà quello che facevo era di lasciare libero gioco
alle interazioni linguistiche che avvenivano in me e vedere cosa ne veniva fuori (Meneghello
1986, 26).
Le note, insomma, “sono ragguagli di uno da Malo a quegli italiani che volessero sentirli; e
sono scritti, per forza, in italiano” (ibid., 252). Per fare questo, Meneghello inventa un sistema
di convenzioni e una terminologia specifica. La sezione dedicata alle note di Libera nos a
malo inizia con questo schema di abbreviazioni:
Nel testo delle note sono usate le seguenti abbreviazioni e sigle speciali:
M: Dialetto schietto di Malo dal terzo al sesto decennio del secolo XX, sia nelle forme ad esso
peculiari, sia in quelle genericam. vicentine o venete.
Tras.: (Trasporto); parola trasportata da M con alterazioni foniche o morfologiche; costrutto
derivato da M; effusione linguistica dell’A.
DC: Dialetto corretto (nel senso di “caffè corretto”). Varianti di M usate dagli abbienti del
centro.
PLEB: Varianti di M giudicate tipiche dei popolani.
PUE: Varianti di M in uso tra i bambini (normalm.) fino all’età della ragione o (raram.) fino alla
pubertà.
Par.: Parodia fonica e/o morfologica dell’ital. (accolta in M).
Straf.: Parodia involontaria (corrente in M).
Ital.: La specie imperfetta di italiano che l’A. sa e scrive.
(Meneghello 2006, 254).
Ecco alcuni esempi di come Meneghello utilizza le note al testo: qui vediamo lo scrittore
bambino a passeggio con le cugine.
Le mie cugine spettegolavano criticando la figuretta che ci precedeva ancheggiando. “La trà ‘l
culo”, bisbigliavano.
Io camminavo in mezzo e volevo partecipare anch’io alla conversazione, dare un contributo. Ci
pensai su e dissi: “La trà la frìtola”. Questo contributo non era basato su un’osservazione empirica,
ma lo stesso mi pareva abbastanza pregevole; invece le mie cugine si mostrarono scandalizzate e
minacciarono di denunziarmi alla zia Nina. Ecco dunque: si possono fare i pettegolezzi sul culo,
ma sulla frìtola no.
(Ibid., 21).
p. 21 frìtola:
Fino alla pubertà del parlante l’espress. ha significato puram. descrittivo. La lieve sfumatura di
indecenza diffusa sul termine deriva probabilm. dal contatto con delle mutande (M mudande,
Straf. e raram. Par. muzanze) considerate nelle donne indumento indecente per sé, segnatam. negli
orli e nel cavallotto. Cf. móna, p. 26 n.
(Ibid., 257).
All’asilo ci facevano cantare canzoni piene di sentimento; altre ci arrivavano dal mondo esterno.
Ramona
Co na palanca se va in mona.
Mi pareva una bella canzone, un po’ triste, con quel richiamo alla rovina economica che càpita
fatalmente a chi non possiede altro che dieci centesimi: una cosa ovvia in fondo, ma molto ben
detta. Pensavo che sarebbe piaciuta alla mamma, ma invece non le piacque affatto.
(Ibid., 26)
Due esempi così triviali non sono stati scelti a caso. Certo, si sa che fin da bambini i
riferimenti agli organi sessuali e le volgarità sono il più semplice, e sicuro, mezzo per
muovere qualcuno al riso. Si potrebbe giustificare l’uso di queste espressioni prendendo atto
che tutto il romanzo è in realtà una cronaca dei ricordi di Meneghello bambino, e questo
dovrebbe giustificare la grossolanità dei termini usati. Una spiegazione del genere però non
regge nel momento in cui si analizza il linguaggio di altri romanzi di Meneghello che
presentano note al testo, come ad esempio Pomo pero: qui infatti l’autore è diventato adulto,
ma il tono triviale, e in alcuni casi anche blasfemo, è rimasto.
La Santa Eucaristia ha sempre stimolato la fantasia delle nostre popolazioni […]. Mino la
racconta così:
Gesù: Prendete e mangiate, questo è il mio corpo.
San Pietro (sottovoce a un apostolo): Ciò, el biondo l’è inbriago anca stasera.
Ascolto con tristezza. La gente mi è cara, le storie mi piacciono, la gioia non c’è più. Si discorre
un po’ sulla natura delle donne. Il più taciturno dei nostri mediatori assiste imbronciato. Gli
chiedono il suo parere. Lo enuncia:
Le done dio-can gussarle.
(Meneghello 1987, 95)
Non poteva mancare una nota esplicativa:
L’abbassamento di tono, quindi, è tipico del linguaggio meneghelliano, grazie al quale egli si
avvicina il più possibile alla lingua vera, parlata, e quindi impura, irrispettosa, e per questo più
piacevole e reale, in aperto contrasto con la prosa in italiano, stretta in convenzioni e
restrizioni che non le permettono di scendere tra la gente. Riflettendo su queste caratteristiche
della lingua di Meneghello, non si può non pensare alla prosa di Zavattini, e, rimanendo
sempre in area emiliana, a quella di Gianni Celati, soprattutto il Celati delle Comiche.
Profondamente radicati nella realtà, Zavattini, Celati e Meneghello fanno uso di una lingua
intensamente “sporca”, e quindi “comica”, soprattutto se posta accanto all’inamidato italiano.
È proprio questa commistione di trivialità e nobiltà letteraria il segreto dell’effetto
intensamente ironico delle loro opere.
Lo stile falsamente serio delle note ai testi di Meneghello ovviamente è frutto di un
consapevole intento umoristico. Meneghello ammette in un’intervista di aver voluto
chiaramente fare il verso a certi studi pretenziosi, “scientifici” (Meneghello 1986, 35-36), con
i quali da professore aveva sempre avuto a che fare. Il comico emerge spontaneamente
dall’incontro tra l’italiano e il dialetto, ovvero tra una lingua storicamente “scritta”, ed una
che è nata solo per essere utilizzata oralmente. Ma il primo Meneghello non è ancora
pienamente consapevole della forza comica delle sue note. In un passo di Libera nos a malo
infatti scrive: “Il comico esplode come forma stessa delle cose: ma è una forma che
naturalmente non si può riprodurre per iscritto, non si può conservare altro che per
trasmissione orale e diretta a un determinato pubblico” (Meneghello 2006, 226). Con le note,
però, Meneghello è riuscito a fare proprio ciò che riteneva impossibile: ovvero rendere
accessibile la comicità del dialetto proprio nell’atto della sua trasposizione in scrittura. La
vibrazione comica che il dialetto trasferisce al lettore non vicentino deve però
necessariamente passare attraverso il filtro dell’italiano, che inevitabilmente opacizza lo
splendore delle parole pure.
Meneghello infatti tratta i termini dialettali come portatori di significati preziosi e nascosti, da
codificare attraverso il sentimento: le parole in dialetto “[…] hanno dietro delle realtà
concrete che non ha per me nessuna parola italiana corrispondente; non sono solo diverse
vibrazioni dell’aria che caratterizzano la parola, ma diverse vibrazioni della mente”
(Meneghello 1986, 28). Nella trasposizione in italiano del sentimento delle parole,
Meneghello si trova di fronte al problema principe della traduzione: la perdita,
necessariamente, di quelle finezze linguistiche e culturali nella trasposizione da una lingua
all’altra.
I romanzi di Meneghello però sembrano essere stati creati proprio per colmare il distacco tra il
dialetto ed il lettore italiano non vicentino: rivivendo l’infanzia, la giovinezza, insomma le
esperienze dell’autore, il lettore si avvicina di più anche alla comprensione dei significati più
nascosti del dialetto.
Per il suo uso del dialetto in termini letterari, Meneghello è stato più volte paragonato a
Pasolini e a Gadda (Segre 2005, 94; Pellegrini 1992, 75; Raimondi/Fenocchio 2004, 53): il
paragone però si ferma alla superficie. Nei suoi scritti Pasolini usa il dialetto, o più di uno,
esattamente come faceva Gadda: ovvero come strumento di collocazione sociale dei suoi
personaggi, nel primo caso, o come strumento per arditi esperimenti linguistici, nel secondo.
Meneghello invece si allontana da entrambi per il semplice fatto che il dialetto non è uno
strumento, ma la lingua per eccellenza, quella carica di ricordi, emozioni, storie. La lingua
strumentale, priva di sentimento, è l’italiano, o, come lo definisce Meneghello, il toscano, una
lingua posticcia che il nostro autore, a suo dire, non imparerà mai.
Ma torniamo alle nostre note. In Libera nos a malo, le note al testo non sono utilizzate in
maniera tradizionale, ovvero come pedantesca spiegazione di termini del testo dal quale
dipendono completamente, pena la non comprensione del loro significato: al contrario, le note
di Meneghello possono essere trattate come organismi indipendenti, che prendono
effettivamente spunto dal contenuto del romanzo, ma che spesso assumono vita propria
allontanandosi dalla loro origine, diventando così autonome. Questo aspetto è ancora più
evidente in quelle note che non spiegano solamente i termini dialettali di difficile
comprensione: ci sono anche note che chiariscono intere espressioni (come il “trà l’culo” visto
all’inizio), o altre che illustrano le parodie involontarie e gli equivoci lessicali, perlopiù di
origine infantile. Questi tipi sono talmente frequenti da non poter passare inosservati in
un’analisi delle note al testo. Gli equivoci linguistici del Meneghello bambino sono parole o
frasi che provengono dal mondo esterno, rielaborate da una mente infantile verso qualcosa di
più familiare e semplice. Lo stesso titolo del primo romanzo, Libera nos a malo, è il chiaro
equivoco uditivo di un ragazzino che, ascoltando la messa in latino, confonde il termine latino
malum presente nell’ultima frase del Pater noster, con Malo, il paese in cui vive. È vittima
dello stesso equivoco anche Nino, l’amico di Meneghello che crede che la preghiera dica
libera nos amaluàmen, liberaci dai luamari, termine veneto per letamai: “preghiera
fondamentale e incredibilmente appropriata” (Meneghello 2006, 92).
Sempre in Libera nos a malo, durante un gioco sulla guerra insieme ad altri bambini, l’autore,
come un giovane Vittorio Alfieri, compone un misogallo dai toni infantili, ovvero un inno
antifrancese dal titolo “E i francesi son pandòli1” (ibid., 58). Nella nota che spiega questo
passo nel testo, Meneghello allarga ancora di più il tema, introducendo altri equivoci – e qui
la singola nota guadagna una tale forza da poter essere letta disgiuntamente dal testo di
partenza:
p. 58 un misogallo:
Ma è giusto registrare che erano in uso anche inni scevri di bias antifrancese, anzi addirittura nella
lingua stessa dei francesi; specie quello (insegnato da don Pacher a varie generazioni fino alla
mia), che comincia A lòn zanfàn! e contiene quel bellissimo insulto gettato in viso al nemico:
1
Corte mazze di legno, usate per giochi infantili. Fig.: semplicioni, persone poco sveglie, o, come scrive
Meneghello, “macachi, gente sciocca; contiene però, a differenza dei macachi, l’idea che non siano bravi a fare
la lotta” (Meneghello 2006, 265).
Marsón! Marsón! I marsóni, che si pescano nell’Astico con le mani o con la forchetta, sono goffi e
sgraziati.
(Ibid., 265).
Il piccolo Meneghello, cresciuto sotto il fascismo, non poteva non assorbire gli influssi
derivati da un’educazione da “piccolo balilla”; ma attraverso la rielaborazione infantile, anche
gli inni fascisti imparati da bambino si trasformano in filastrocche delicate ed ingenue. Anche
l’inno fascista a Roma non viene risparmiato dal gioco di equivoci di Meneghello e di suo
fratello:
Da note a sondaggi
Si può quindi individuare nelle opere di Meneghello un percorso di sviluppo delle note al
testo: un’illuminazione iniziale, che ha dato vita all’apparato di note come visto in Libera nos
a malo, si è poi sviluppata aggiungendo elementi e caricando la parte comica, come nelle note
di Pomo pero. Il percorso delle note sfocia poi in un libro completamente dedicato ad esse:
Maredé maredé… sondaggi nel campo della volgare eloquenza vicentina. Questo libro
rappresenta il culmine del Meneghello “dialettologo”. È un libro nel quale sono raccolte
centinaia di parole, modi di dire in dialetto vicentino, spiegati con lo stesso stile e la stessa
ironia delle note al testo presenti nei romanzi. La forma di approccio ai vari termini non è
enciclopedica, o comunque logica: si tratta infatti di una collezione piuttosto eterogenea di
parole e espressioni dialettali che Meneghello ha raccolto nella sua lunga vita, spiegate grazie
all’ausilio dell’italiano e in parte dell’inglese. Ma come al solito, Meneghello si sforza di
rendere non solo il primo significato di ogni lemma che spiega, o meglio, racconta: ciò che
egli cerca di fare emergere è la parte più arcana, emozionale, intima dei termini che usa, che
sono in parte ancora ancorati ad un passato che fatica a riemergere tra le pieghe del presente.
Anche la parola più semplice, come ad esempio “pan”, pane, nella grammatica meneghelliana
lascia trasparire nuove sfumature che si possono rendere solo attraverso una breve
spiegazione:
Pan:
Il pan è interclassista, un po’ meno il pan-co-l’òio, del resto poco pregiato dalla gente soda di ogni
ceto. Tipicamente il pan-co-l’òio è foggiato come una pagnochéta acciambellata, altro segno di
scarsa serietà in un alimento; roba da sbocconcellare oziosamente, tutt’al più da pociare (cafelate).
[…] Il pan quando diventa pan-vècio o pan-biscòto si taia: in ogni casa c’è il taiapàn dalle forme
austere ed armoniche: il suo senso si è oggi quasi perduto, fa pensare alla nuda gabbia di uno
strumento musicale campagnolo… (Meneghello 2002a, 204)
Le parole dialettali descritte da Meneghello si mescolano tutte alla vita sociale, alla vita vera,
all’esperienza dell’autore. Esse vengono infatti non solo pronunciate, o sentite, ma vissute,
contestualizzate, percepite con tutti i sensi. Dietro ad ogni parola c’è un mondo che
Meneghello vuole rendere accessibile a tutti, anche per non farlo dimenticare.
Possiamo concludere qui la nostra breve analisi del percorso delle note al testo ai romanzi di
Meneghello, dal loro ruolo di comprimarie ai testi principali dei romanzi fino al loro riscatto
come genere letterario a parte negli studi sul dialetto di Maredé. In realtà il loro sviluppo
continua: le note sono state probabilmente lo strumento di riflessione sulla lingua che ha
generato gli scritti successivi, anche posteriori a Maredé. Da lingua subalterna, spiegata in
Libera nos a malo come una strana lingua indigena destinata a scomparire, il dialetto di
Meneghello ha guadagnato sempre più valore e dignità, prima con lo studio ad esso dedicato,
fino agli ultimi scritti, uno fra tutti i Trapianti: traduzioni di opere famose, di Shakespeare,
Yeats ed e. e. cummings,2 dall’inglese al dialetto. Meneghello dona in questo modo alla
parlata locale la dignità che aveva perduto, o mai avuto. L’italiano, la lingua imposta, la
lingua imparata ma mai parlata, viene sorpassata dal suo parente povero, il dialetto, una lingua
che non conosceva l’altezza della poesia ma che grazie a Meneghello guadagna dignità e
valore come organismo autonomo, in grado anch’esso di generare bellezza e di essere
anch’essa fermata su carta.
Bibliografia
Barbieri, Giuseppe / Caputo, Francesca (2005): Per Libera nos a malo. Vicenza: Terra ferma.
Celati, Gianni (1971): Comiche. Torino: Einaudi.
Meneghello, Luigi (1984): I piccoli maestri. Milano: Mondadori.
Meneghello, Luigi (1986): Il tremaio. Note sull'interazione tra lingua e dialetto nelle scritture
letterarie. Bergamo: Lubrina.
Meneghello, Luigi (1988): Bau-séte. Milano: Rizzoli.
Meneghello, Luigi (1987): Pomo pero. Milano: Mondadori.
Meneghello, Luigi (1997): La materia di Reading e altri reperti. Milano: Rizzoli.
Meneghello, Luigi (2002a): Maredé maredé… Sondaggi nel campo della volgare eloquenza
vicentina. Milano: Rizzoli.
Meneghello, Luigi (2002b): Trapianti. Milano: Rizzoli.
2
Si rispetta qui la grafia tutta in minuscolo usata dallo stesso autore per scrivere il proprio nome.
Meneghello, Luigi (2006): Libera nos a malo. Milano: Rizzoli.
Paolini, Marco / Mazzacurati, Carlo (2002): Ritratti: Luigi Meneghello. (DVD). Padova:
Jolefilm.
Pellegrini, Ernestina (1992): Nel paese di Meneghello: un itinerario critico. Bergamo: Moretti
e Vitali.
Raimondi, Ezio / Fenocchio, Gabriella (2004): La letteratura italiana: dal neorealismo alla
globalizzazione. Milano: Mondadori.
Segre, Cesare (2005): Tempo di bilanci. La fine del Novecento. Torino: Einaudi.
Gerhild Fuchs
Considerazioni preliminari
L’Emilia, considerata nella sua parte padana, corrisponde, insieme al Veneto padano, a quella
che Ermanno Rea in Il Po si racconta chiama la regione ideale della “Grande Pianura” (Rea
1996, 148), cioè quella parte più aperta e più piatta della valle del Po che – sempre secondo
Rea – inizia a Guastalla. Vorrei avanzare l’ipotesi che tale “Grande Pianura” – come forse
tutte le grandi pianure del mondo – ha la dote di invitare alle peregrinazioni, di stimolare la
voglia di girovagare. Nell’antologia Esplorazioni sulla via Emilia. Scritture nel paesaggio
(1986), Giulia Niccolai accenna a questo fatto da un punto di vista regionale, parlando di
“quella mobilità regionale che è così tipica dell’Emilia-Romagna e che non ho mai riscontrato
in alcun’altra regione”, e spiegandola in parte con l’esistenza di “quell’aria fluida di
possibilità e concatenazioni fortuite che [...] coincide [...] geograficamente con l’Emilia-
Romagna” (Niccolai 1986, 138).
Il girovagare fortuito sembra corrispondere, infatti, ad una mentalità o tendenza piuttosto
radicata nella cultura emiliana, e che si rispecchia distintamente in certe fasi della produzione
letteraria di questa regione. L’esempio più evidente sono senza dubbio i poemi cavallereschi
del Quattro-, Cinque- e Seicento di cui una gran parte è nata, com’è noto, nelle zone padane
particolarmente piatte quali quelle della Ferrara dei Boiardo, Ariosto e Tasso, della Modena
del Tassoni, o della Mantova del Folengo. In questi poemi si assiste ad un continuo
spostamento nello spazio dei personaggi, nell’ambito del quale, più che i movimenti di
concentrazione nei luoghi di battaglie, assedi o tornei, contano i movimenti di dispersione che
portano i personaggi, in seguito ad una battaglia o un torneo, a sciamare nelle direzioni più
diverse e a percorrere delle distanze spesso considerevoli, senza che i territori percorsi
vengano però individualizzati geograficamente nel senso di una couleur locale (cf.
Pagliardini/Fuchs 2006, 581-582). Il più delle volte si ha infatti l’impressione che i personaggi
stiano camminando su dei terreni generici e piatti dove l’unica cosa che conta è di imbattersi
in altri cavalieri o in damigelle, fate, giganti e mostri per vivere una nuova avventura. Questo
viene ribadito anche da Gianni Celati nella sua riscrittura dell’Orlando innamorato
boiardesco:
Il terreno d’avventure di questi cavalieri è quello degli spazi aperti, attraverso i continenti,
dove uno può galoppare liberamente fino in capo al mondo, senza trovare confini. [...] Ma
in questo spazio larghissimo e senza confini, i cavalieri e le loro dame nei loro
vagabondaggi non fanno che incontrarsi, come se fossero in una cittadina, dove tutti
vanno per le stesse strade e per forza si incontrano e si conoscono. Questo è strano e
meraviglioso, perché fa pensare che quel terreno d’avventure dei nostri cavalieri sia
magari un giardino familiare, dove non ci si può perdere se non con la fantasia. (Celati
1994b: 26)1
1
Anche Ermanno Cavazzoni osserva lo stesso fenomeno quando sostiene in una discussione che „Nell’Orlando
furioso tutta l’Europa, la Spagna, la Francia, diventano il giardinetto di casa di Ludovico Ariosto“ (cf.
Kuon/Bandella 2002: 187).
2
Si veda p.es. l’annotazione seguente nel secondo diario di Verso la foce: “Campagne vuote. Tutto questo mi dà
voglia di scrivere, come se le parole seguissero qualcosa fuori di me.” (Celati 1993, 54)
immaginare, oppure immaginare e scrivere” (Spunta 2004, 121).3 In queste frasi traspare una
concezione della scrittura che si potrebbe associare alle teorie proposte da Michel de Certeau
in L’invention du quotidien – Arts de faire: l’azione del camminare si configura come
metafora essenziale del processo narrativo stesso, per cui la narrazione viene considerata
come parcours d’espace (Certeau 1990, 170-175);4 d’altra parte le pratiques de l’espace –
quali per esempio il viaggio – vengono considerate dei meccanismi per la produzione di
finzioni perché possono far nascere delle pratiques signifiantes come per esempio le leggende
(ibid., 160-161).
Evidentemente, il caso che più interessa nel nostro contesto sono le narrazioni che
rappresentano “percorsi spaziali” non solo in un’accezione metaforica, ma anche nel senso
letterale, cioè il caso di storie che nascono proprio dallo spostamento dei personaggi nello
spazio. Non sempre, comunque, queste peregrinazioni dei personaggi generano per forza delle
narrazioni comiche. Proprio nelle opere “padane” di Gianni Celati, per esempio, si trovano
frequentemente dei personaggi girovaganti le cui esperienze o osservazioni non tendono in
primo luogo ad effetti comici: si pensi al personaggio del narratore ambulante che si presenta
come “collezionista di storie” nella maggior parte delle novelle di Narratori delle pianure,
oppure all’io narrante di Verso la foce che potrebbe essere definito, seguendo certi
ragionamenti avanzati da Celati stesso, come passeggiatore (o flâneur) “archeologico”.5 Un
altro esempio sono i personaggi peregrinanti in terra padana sulla scia della memoria e del
passato, come appaiono in alcune novelle di Celati ma anche in certe opere di autori più
giovani quali Giulio Mozzi o Vitaliano Trevisan, per esempio in Fantasmi e fughe del primo e
I quindicimila passi o Un mondo meraviglioso del secondo, cioè personaggi a volte anche
traumatizzati le cui peregrinazioni possono avere perfino un carattere terapeutico.
Da quanto finora detto si arriva all’ipotesi seguente, da sottoporre come filo conduttore alle
analisi da svolgere: sia le peregrinazioni nello spazio, produttrici di narrazioni, sia il comico
di impronta bizzarra e paradossale sembrano essere delle componenti caratteristiche per la
letteratura di provenienza padano-emiliana. Non è però il girovagare di per sé a produrre il
comico, ma piuttosto il modo e le circostanze in cui esso si svolge. È su questi modi e
circostanze che si soffermeranno le esposizioni seguenti, prendendo in considerazione alcune
opere esemplari collocate in un arco di tempo che va dalla Neoavanguardia agli anni Novanta:
cominciando con il primo Malerba (Salto mortale, 1968, e brevemente anche Il Pataffio,
1978) si passa per il Celati “sperimentale” di Avventure di Guizzardi (1973), con una sortita
“lombarda” al Vassalli satirico di Abitare il vento (1980), per arrivare a tre grandi “finzioni di
pianura” di Ermanno Cavazzoni e Daniele Benati, Il poema dei lunatici (1987) e Cirenaica
(1999) del primo nonché Silenzio in Emilia (1997) del secondo. Sulla base di queste opere si
elaboreranno cinque differenti categorie di personaggi nei quali la mania del girovagare si
3
Può interessare che l’associazione tra la pianura e le narrazioni viene fatta ugualmente da Sebastiano Vassalli
nel volume illustrato Il mio Piemonte: “La pianura delle risaie e dei campi di granoturco compresa tra le Alpi e il
Po, il Ticino e la Dora Baltea fino al borgo di Saluggia, [...] può sembrare quasi un non-luogo della letteratura e
della memoria: una sorta di lavagna su cui il tempo ha scritto infinite storie e poi subito le ha cancellate per
scriverne altre, destinate a loro volta a scomparire.“ (Vassalli 2002, 67)
4
Per l’analogia tra narrazione e spazio da percorrere si veda Certeau 1990, 170: “Les récits […] traversent et
[…] organisent les lieux; ils les sélectionnent et les relient ensemble; ils en font des phrases et des itinéraires. Ce
sont des parcours d’espace.”
5
Se veda il saggio di Celati su “Il bazar archeologico”, contenuto nel volume delle Finzioni occidentali (Celati
1986).
combina ogni volta con una determinata specie del comico. Come ogni categorizzazione, ciò
comporterà delle generalizzazioni e inesattezze, ma servirà – come si spera – a rendere più
chiare e condivisibili le rispettive motivazioni del girovagare nonché le specie del comico
messe in atto.
Girovaghi dell’assurdo
La categoria parafrasata con “girovaghi dell’assurdo” deriva dai romanzi che Luigi Malerba
ha scritto sotto l’insegna della Neoavanguardia, innanzitutto dall’originalissimo Salto mortale,
pubblicato nel 1968 come ultima delle opere scritte in stretto collegamento con il “Gruppo
63”.6 L’impianto neoavanguardistico o generalmente sperimentale di quest’opera, si dimostra
sin dal fatto che le usuali coordinate narrative generatrici di significato – spazio, trama e
personaggio – vi vengono radicalmente smontate. Quando il protagonista e narratore in prima
persona del romanzo, il rigattiere ambulante “Giuseppe detto Giuseppe”, scopre il cadavere di
un uomo anziano su un prato,7 sembra avviarsi una trama da romanzo poliziesco, ma essa man
mano si dissolve perché svaniscono tutte le qualità distintive dei personaggi sospettati di aver
commesso il delitto, incluso il narratore-protagonista stesso. Tale dissolvimento del senso,
infatti, si effettua tramite i procedimenti del comico assurdo nel quale Sanda Sora individua,
in un suo saggio, una delle modalità comiche principali attive nell’opera di Malerba (Sora
1988, 127segg.). Il principio dell’assurdo, presente innanzi tutto come “incompatibilità
logica” (ibid., 130), appare già nel fatto che i sospettati, cioè in pratica tutti i personaggi
maschili del romanzo, si chiamano Giuseppe come il protagonista, mentre dall’altra parte la
moglie del protagonista Giuseppe riunisce su di sé tutta una serie di nomi diversi, essendo
chiamata Rosaria, Rosalma, Rossella, Rosmunda, Rosalia o Roselda. Mentre nel secondo caso
l’assurdo nasce da una confusione del rapporto tra segno linguistico e referente
extralinguistico, altre volte esso parte piuttosto da problemi di percezione, com’è il caso
quando il protagonista non è sicuro se ha visto, durante la notte del presunto delitto, un cane
nero oppure una bicicletta nera affermando che queste due cose si confondono facilmente nel
buio (Malerba 1968, 63), e più tardi dice perfino che „Non era un cane nero era un uomo con
il berretto in testa“ (ibid., 131), esprimendo una confusione fra le caratteristiche che
identificano cane e uomo. Piuttosto che da problemi di percezione, queste asserzioni
potrebbero tuttavia emanare da quello che Francesco Muzzioli, con riferimento a Il serpente,
ha chiamato “racconto mendace” (Muzzioli 1989, 5segg.): anche il protagonista di Salto
mortale, infatti, tende alla menzogna negando quanto è ovvio o quanto ha sostenuto poco
prima.8 Infine, l’assurdo viene portato al culmine quando nella seconda metà del romanzo il
protagonista Giuseppe si rivela essere non solo l’assassino, ma anche l’assassinato, tramite un
6
Le opere precedenti, ugualmente presentate a congressi del “Gruppo 63”, sono La scoperta dell’alfabeto (1963)
e Il serpente (1966).
7
“Avanti vai avanti, Giuseppe. Va bene vado avanti a un tratto ho sentito qualcosa sotto un piede. Sarà il tronco
di un albero, strano però in mezzo a un prato nella Pianura di Pavona dove non ci sono alberi per chilometri e
chilometri quadrati. […] Mi sono chinato a guardare, kappa >ERA UNA GAMBA UMANA<. Non esageriamo
non esagero per nientissimo affatto e attaccato alla gamba c’era il corpo di un uomo con la gola tagliata, steso
sull’erba in mezzo al prato.” (Malerba 1968, 16)
8
P.es. “Niente, non ho niente da raccontare. Non camminavo in mezzo al prato e il prato non era deserto. Non
c’era l’erba alta e ogni tanto il piede non affondava nei buchi del terreno.” (Malerba 1968, 20)
discorso schizofrenico che porta ad una confusione identitaria totale: “Chi è quel vecchio cioè
chi era, che vita faceva quando ero vivo. Che cosa facevo quando eri vivo. Ho dei terribili
sospetti, per piacere.” (ibid., 121)9
In fin dei conti, l’unica caratteristica fissa che si possa attribuire al protagonista Giuseppe è la
sua condizione di individuo viandante o errante – caratteristica che, come argomento a
contrario, rafforza ulteriormente il continuo ribaltamento dei significati su cui poggia l’intera
concezione assurda del romanzo. Tale condizione di viandante, infatti, si stabilisce fin dalle
prime righe del romanzo con ripetuti inviti che il protagonista rivolge a se stesso, del tipo
“Adesso corri, Giuseppe, alzati e corri perché è molto tardi. [...] Non puoi stare fermo,
Giuseppe, il Mondo corre e devi correre anche tu […]” (ibid., 8). Le sue incessanti
deambulazioni si svolgono su una pianura che non è quella padana, bensì la “Pianura di
Pavona”, di cui si sottolinea ripetutamente l’enorme estensione dello “spazio per camminare”
(ibid., 7) e che viene definita ad un certo punto una “tabula rasa” (ibid., 9), tanto “rasa” che
verso la fine del romanzo si giunge alla negazione della sua stessa esistenza.10 In tal modo, si
verifica implicitamente anche l’analogia, immaginata da Benati, tra pianura e foglio bianco su
cui “scrivere e immaginare”.
Nel suo saggio su Malerba, Sanda Sora riferendosi ad una distinzione di Guido Almansi
definisce Salto mortale come “head-novel” (“romanzo di testa”), mentre considera opere
come Il protagonista (1973) e Il pataffio (1978) come “gut-novels” (“romanzi di pancia”),
perché vi domina un comico basso-corporale affine alla nozione bachtiniana del carnevalesco.
Effettivamente il protagonista de Il pataffio è un buon esempio del tipo di personaggio che
può essere definito come “buffone ramingo”. Più degli altri personaggi del romanzo, egli
incarna l’elemento carnevalesco presente nella continua tematizzazione del mangiare e di tutte
le funzioni basso-corporali, inclusa la sessualità, aspetti che si manifestano fin dai nomi
propri: basta considerare che le peregrinazioni del protagonista, tale „marconte Berlocchio de
Cagalanza“, sono motivate dal progetto di matrimonio con la figlia del “re di
Montecacchione” con la prospettiva di ricevere in dote il “contado di Tripalle”.11 Negli
attributi pseudo-feudalistici che si osservano in queste poche indicazioni, riecheggia allo
stesso tempo un’evidente componente cavalleresca che avvicina il marconte de Cagalanza ai
“cavalieri erranti parodistici” considerati nel brano successivo.
Ancora più adatto, al fin di esemplificare il tipo del “buffone ramingo”, è Avventure di
Guizzardi, pubblicato da Celati nel 1973, in un’era post-neoavanguardistica e post-
sessantottesca ancora orientata verso le sperimentazioni anti-accademiche.12 Le peregrinazioni
del protagonista Guizzardi detto Danci iniziano quando egli, dopo una brutta lite con i suoi
9
I corsivi sono miei.
10
“Non ci sono più topi scoiattoli lucertole grilli cicale come c’erano un tempo, nella Pianura di Pavona. Perché
la Pianura di Pavona non c’è più nemmeno lei adesso c’è la Metropoli.” (ibid., 129)
11
Muzzioli osserva a proposito di queste proprietà dell’opera malerbiana: “[…] soprattutto nei romanzi degli
anni Settanta (Il protagonista, Il pataffio) Malerba ha ripreso alcuni fondamentali caratteri del genere,
l’abbassamento cinico alle funzioni primordiali del sesso e della fame, la derisione dei simboli del potere, il
plurilinguismo e l’uso ‘fisico’ delle parole.” (Muzzioli 1994, 11)
12
Com’è noto, l’esordio propriamente neoavanguardistico di Celati era avvenuto nel 1971 con Comiche.
genitori, abbandona definitivamente casa sua e inizia a percorrere tutta una serie di tappe che
rappresentano altrettanti nuclei di sperimentazione e iniziazione: dalla casa dell’amico
Muccini i cui genitori avarissimi lo vendono alla lasciva vedova Coniglio, passando attraverso
il soggiorno come infermiere in un ospedale, l’apprendistato come ladro di passanti,
l’avventura erotica con le due grasse figlie di un mendicante e l’uccisione dei genitori di
Muccini per impossessarsi di un loro tesoro, fino all’incontro finale con un suicida e alla
propria morte sulla panchina di un parco. In considerazione della trama del romanzo si può
avanzare l’ipotesi che la condizione vagante del protagonista somiglia agli spostamenti di un
pícaro, di cui “Guizzardi detto Danci” assume anche altre caratteristiche quali la marginalità
sociale, la giornaliera lotta per la sopravvivenza, e l’identità precaria compresa la
predisposizione ai travestimenti o alle trasformazioni.13 In modo ancora più calzante si può
parlare di un “buffone picaresco”, personaggio che si incontra, in fondo, fin dai poemi
cavallereschi italiani, in modo particolare se si pensa alle figure di Margutte nel poema del
Pulci o di Cingar (ma anche di altri suoi compagni) nel Baldus del Folengo. Mathias Bauer
nel suo saggio sullo Schelmenroman, il romanzo picaresco, annovera infatti questi due
personaggi come predecessori del pícaro spagnolo (cf. Bauer 1994, 43). Questo potrebbe
portare alla conclusione che nel poema cavalleresco all’italiana, la tradizione cavalleresca si
congiunga con quella picaresca nonché con quella carnevalesca, un congiungimento
estremamente proficuo che torna a portare frutti proprio nella letteratura del Novecento – già
solo tra le opere considerate in questa sede, se ne trovano parecchi esempi (oltre a Le
avventure di Guizzardi si possono nominare Il pataffio di Malerba, Abitare il vento di
Vassalli, Il poema dei lunatici di Cavazzoni).
Nel romanzo celatiano, il legame con la tradizione picaresca trapela perfino in certi
svolgimenti più particolari della trama narrativa. L’esempio certamente più ovvio è l’episodio
del mendicante cieco, che ricorda in vari dettagli l’inizio di uno dei romanzi picareschi più
famosi, il Lazarillo de Tormes. Nel romanzo spagnolo cinquecentesco, il giovane Lazarillo,
ottenendo pochissimo cibo da un mendicante cieco che lo tiene in servizio, impara ad
imbrogliare i passanti ma anche il mendicante stesso, portandogli via dei soldi e del cibo per
poter sopravvivere. Similmente Guizzardi, istruito dal suo temporaneo compagno Mantovani
nell’arte di derubare i passanti, tenta di truffare un mendicante cieco rubandogli una moneta
dalla tazza che tiene al collo. In questo caso, però, il tentativo fallisce, perché Guizzardi –
come si può desumere dall’andamento intero del romanzo – non accede alla furbizia degna di
un vero pícaro, ma persiste nello stato di buffone. Per il comico buffonesco che regna nel
romanzo, oltre agli influssi del film muto (cf. Caesar 1986: 38-39), è determinante il ruolo
esercitato dagli istinti repressi e dalla violenza gratuita, elementi caratteristici del
carnevalesco. Questi elementi si condensano simbolicamente negli strani esseri chiamati
“topacce” e nel loro capo, il “violinista matto” (Celati 1994a, 72) Malservigi, viventi nei tubi
sotto le case, per cui il mondo sotterraneo può essere inteso come raffigurazione del
subconscio, ovvero come regno dove entrano in conflitto istinti e inibizioni. Da quel regno
sembra sgorgare non solo il legame tra “il digiuno sessuale” (cf. ibid., 18) di Guizzardi e i
suoi accessi di violenza (attributi che fanno di lui un buffone anche sadico e inquietante), ma
ne sembra derivare ugualmente la sua “parlata difettosa” (ibid., 30), importante fonte del
13
Per le definizioni adottate del picaresco si può rimandare a due saggi precedenti, Fuchs 2004 e 2008.
comico, che nel corso della narrazione si rivela parzialmente simile ai suoni impronunciabili
emessi dalle “topacce”.14
Si è già parlato dei legami tra comico e ricorso alla tradizione cavalleresca, in particolare con
riferimento a Il pataffio di Malerba. Come si vede negli accenni alla trama del romanzo forniti
nel brano di sopra, già la sua ambientazione insieme alla costellazione dei personaggi rinvia
ad un impianto narrativo cavalleresco. A ciò si aggiunge, tra le altre cose, il rimando
abbastanza ovvio alla tradizione maccheronica del Baldus folenghiano che si può scorgere
nella lingua usata dai due personaggi di ecclesiastici con il loro miscuglio buffissimo tra
latino e italiano – basti citare a mo’ d’esempio il consiglio (già di per sé parodico) che il
curiale Belcapo dà per risolvere il problema della carestia: „Se il populo digiunat, non
magnat. Si non magnat, avanzant vivande in abundanzia.“ (Malerba 1985, 41) Il tradizionale
congiungimento tra materia cavalleresca e comico trapela anche da un giudizio espresso da
Cavazzoni secondo cui l’universo dei poemi cavallereschi italiani può essere considerato
come “un mondo di idioti forsennati“ dove regnano “l’ossessione, la mania, l’idea fissa”
(Kuon/Wetzel, 8 e 7), cioè come una parodia dei valori cavallereschi originari. Tramite questa
proprietà, anche gli stessi romanzi cavazzoniani si riallaccerebbero alla tradizione
cavalleresca, oltre tutto Il poema dei lunatici che rimanda a tale legame (soprattutto quello
con la linea ariostesca del cavalleresco) fin dal suo titolo. Si parlerà di quest’opera sotto un
punto di vista diverso, quello della letteratura di viaggio, nel brano successivo; ma bisogna
almeno accennare al fatto che il protagonista Savini incorpora senza dubbio certi tratti di un
“cavaliere errante” forsennato. Si pensi per esempio al modo in cui egli attraversa
quell’autostrada che, come unico segnale di un’ambientazione contemporanea del romanzo,
ad un certo punto gli impedisce di avanzare sul suo cammino: allora Savini, simile ad un eroe
cavalleresco o quasi donchisciottesco, si butta audacemente sull’asfalto dove le macchine che
passano “insieme alle folate del temporale”, lasciando una scia d’acqua che sembra volerlo
risucchiare, gli sembrano dei “mastodonti rombanti” (Cavazzoni 1996, 21).
La versione forse più elaborata di un cavaliere errante moderno ci viene data da Sebastiano
Vassalli nel suo romanzo Abitare il vento. Anche se si tratta di un autore con cui si
oltrepassano i confini della letteratura emiliana, vale la pena di considerare l’originale
connubio di intertestualità cavalleresca e satira politico-sociale che vi si presenta. Abitare il
vento, uscito nel 1980, si colloca fuori dalla fase strettamente neoavanguardistica dell’autore
(testimoniata da opere quali Narcisso e Tempo di màssacro), anche se ne presenta ancora lo
slancio sperimentale e sovversivo. Per di più, il romanzo presenta un’accentuata dimensione
autoreferenziale con il suo protagonista-narratore “Antonio Cristiano Rigotti detto Cris”,
giovane militante di sinistra che si autodichiara personaggio ed entra in dialogo con “l’autore
del [suo] romanzo” (Vassalli 1980, 110). A tale procedimento meta-riflessivo si aggiungono,
come fonti principali del comico, due fissazioni del protagonista presenti lungo tutto il testo
del romanzo: la definizione di se stesso come “cavaliere errante” (o “errante” tout court), di
14
Effettivamente i “Prrrcz mmt?”, “Drrxpù?” o “Sssz prrx?” (Celati 1994a, 39-40) emessi dalle topacce
richiamano i “Tuc!”,“Brrruh!”, “Splaf!” o “Glup glup!” (ibid., 44-45) pronunciati poco più tardi da Guizzardi.
solito con l’aggiunta “amico di tanti e di tante”, e la personificazione del proprio membro
virile, denominato “il Grande Proletario” e glorificato fino a rappresentare per lui “padre e
figlio e insieme formano la trinità dell’errante” (ibid., 23). Il membro personificato (che
riprende ironicamente la tradizione inaugurata, all’inizio degli anni Settanta, da Moravia con
Io e lui e Malerba con Il protagonista) è anche il vero eroe delle avventure “cavalleresche”
ossia erotiche che vengono narrate. Le sue “gesta” sono molto più numerose e spettacolari di
quelle che Cris vive in quanto militante politico: appena uscito di prigione quando la trama
inizia, egli parteciperà in seguito, dopo aver cercato invano di rintracciare la sua ragazza Tatti,
al sequestro di un giovane figlio di industriali, ma verrà escluso dall’iniziativa per il suo
comportamento troppo anarchico ed i suoi arbitrari accessi di violenza. Anche la “vita
randagia” (ibid., 13) di Cris (che è da intendersi sia figuratamente che letteralmente, dato che
egli continua a circolare in macchina tra Cassino e Milano) è motivata più dai bisogni sessuali
che non dalle necessità “professionali”. In queste avventure erotiche il “Grande Proletario”
ogni tanto assume la funzione della spada da cavaliere, per esempio quando viene descritto
come “diritto, eretto, […] sciabolante” (ibid., 17), ma per lo più viene considerato dal suo
proprietario come individuo indipendente, personificandosi per conto suo nell’eroe
cavalleresco:
La citazione dimostra ancora un’altra mania di Cris, quella di esprimersi per rime, e fa
intravedere allo stesso tempo in che consiste l’intenzione satirica del romanzo. Una meta
importante della satira è, infatti, il presunto elitarismo della cultura borghese, incarnato
paradossalmente nello stesso militante politico Cris, il quale non si stanca di ripetere “Ho fatto
il liceo classico prima del sessantotto io” (ibid., 8) ed ostenta ripetutamente le sue conoscenze
di poesia ermetica – per irriderle all’occasione con giochi di parole dissacranti quali il
“corriere della subito-sera” (ibid., 93). A ciò si aggiunge la satira sia dei comportamenti
stereotipi del “maschio italiano”, sia della scena politica militante (soprattutto di sinistra) il
cui dogmatismo ideologico sempre più astratto apre la strada a comportamenti arbitrari e
controproducenti.
Forse è proprio in tale impronta satirica, che implica necessariamente un (benché discreto)
atteggiamento didascalico, che il comico messo in atto da Vassalli si distingue da quello degli
autori emiliani qui trattati, in cui stramberia e assurdità producono un comico dal valore
interamente gratuito.
Ancora più significative delle reminiscenze cavalleresche attuate ne Il poema dei lunatici, a
cui si è già accennato, sono quelle che rimandano alla tradizione comico-fantastica della
letteratura di viaggio e del conte philosophique: esse infatti fanno del romanzo di Cavazzoni
quello che si potrebbe chiamare una “parodia epistemologica”.15 Se il protagonista-narratore
Savini percorre dei lunghi tratti di pianura padana, il suo movente principale è una curiosità
gnoseologica o epistemologica, quella di esaminare com’è fatta questa pianura e come si
possono spiegare i fenomeni che vi si incontrano. Ad introdurvi il principio comico, è il fatto
che le apposite ricerche ed osservazioni sono guidate da una visione del mondo distorta ed
alterata. Nel caso di Savini ciò è riconducibile ad una vivissima facoltà d’immaginazione e
una facile impressionabilità, mentre nel caso del “prefetto” Gonella, l’altro personaggio
esploratore che si associa a Savini ad un certo punto della trama, si può parlare di una
disposizione mentale decisamente nevrotica dacché egli sospetta che l’intera pianura sia piena
di „popolazioni“ nascoste e non registrate. In tal modo Savini e Gonella si completano
perfettamente a vicenda perché i resoconti un po’ strambi che il primo offre dopo ogni
peregrinazione in pianura, si integrano in maniera del tutto coerente nelle ossessioni del
secondo. Così quando Savini, che impara a considerare la pianura come uno spazio labirintico
con vaste incavature sotterranee,16 riferisce a Gonella i racconti del becchino Pigafetta sulle
avventure di questi nei tubi della fognatura dove sostiene di aver assistito alle guerre tra
popolazioni di „acque bianche e acque nere“ (Cavazzoni 1996, 75), il “prefetto” subito
acconsente con grande entusiasmo “Io lo immaginavo che c’era qualcuno nei tubi, abusivo.”
(ibid., 84). E quando Savini gli racconta le teorie di un certo Nestore secondo cui la vita in
città non sarebbe che un’immensa illusione, le case essendo in verità delle facciate vuote e i
passanti degli abili attori, Gonella tutto esaltato approva: “[Q]uesto lo immaginavo, lo sa? che
dietro ci sono nascosti degli individui senza fissa dimora, e senza identità giuridicamente. E
stanno lì per delinquere, cos’altro?“ (ibid., 90). I due strambi personaggi somigliano
effettivamente ad una coppia di esploratori di cui uno, l’“assistente”, va in giro per svolgere le
“ricerche sul campo”, mentre l’altro, lo “scienziato”, esamina e interpreta le scoperte fatte.
Solo che i risultati – divertentissimi – di questo processo epistemologico appartengono
decisamente al mondo dell’immaginazione o addirittura della fantascienza, dagli
“imprecatori” a forma di sanguisughe (ibid., 114) e dai “ripetitori” viventi “in colonie sotto le
mattonelle sconnesse” (ibid., 120-121) fino al personaggio camaleontico di “Taddei Filippo”
(ibid., 13segg.).
Con tutto questo, anche Savini e Gonella sono indubbiamente “dei maniaci che perseguono
delle idee fisse”, per citare ancora quanto dice Cavazzoni sui cavalieri del Boiardo e
dell’Ariosto (Kuon/Wetzel 1997, 7); ma più che alla tradizione cavalleresca, Il poema dei
lunatici si riallaccia, come segnalato, alle varianti comiche del conte philosophique
illuministico, e in certa misura anche al genere dell’utopia che Gianni Celati, nella prefazione
a I viaggi di Gulliver da lui tradotto, definisce come “un metodo di straniamento, di
fantasticazione e di derealizzazione, rispetto alle supposte ‘leggi di Natura’ delle società
esistenti” (Celati 1997, XXIII). È proprio ciò che succede anche nel Poema cavazzoniano:
basta pensare, oltre agli esempi già dati, a “scoperte” come quelle della casa in cui i mobili e
tutte le altre cose fatte di legno iniziano a germogliare e a ritrasformarsi in bosco (Cavazzoni
1996, 26segg.), o all’omino vivente nel rubinetto di cui Savini discerne il “faccino da astuto”
nell’acqua che vi gocciola fuori (ibid., 48).
15
Riprendo qui in parte delle osservazioni fatte in Fuchs 2009.
16
“Mi è sembrato che in campagna concepiscano i pozzi come fossero botole, e che la pianura sia una specie di
crosta.” (Cavazzoni 1996, 12)
Osservazioni analoghe si potrebbero fare anche su Cirenaica, altro romanzo “comico-
filosofico” di Cavazzoni e che presenta le caratteristiche dell’utopia in misura ben maggiore.
Le peregrinazioni dei personaggi lì non si svolgono più allo spazio aperto della pianura, bensì
all’interno di una città immaginaria, il Bassomondo. Il procedimento utopistico consiste non
solo negli attributi decisamente fuori dal reale che vengono conferiti a questa città, ma anche
nel fatto che in quanto lettori veniamo a conoscenza di tali attributi man mano che il
narratore-protagonista Paolo, lui stesso “personaggio fittizio del mondo normale”17 costretto
tempo fa ad esplorare l’universo nuovo, vi ci introduce facendo nascere il Bassomondo pezzo
per pezzo nella nostra immaginazione.18 Fonti del comico sono da un lato le apparenze stesse
della bizzarra città e dei suoi abitanti, dagli “obesi di via Monro” che si nutrono di gatti (ibid.,
6) o i “finti figli” e le “finte fidanzate” (ibid., 24segg.) della stazione centrale in cui i treni
arrivano senza ripartirne, fino ai cinema in cui si dà sempre lo stesso film dal titolo
Cirenaica.19 Ma il comico nasce anche, in larga misura, dallo stato di “amnesia insuperabile”
(ibid., 11) a cui sono sottoposti tutti, incluso il protagonista, per cui si inventano sulla propria
provenienza numerose teorie che a loro volta parodiano delle credenze religiose o esoteriche
del mondo reale. Ci sono quelli, per esempio, secondo i quali gli abitanti del Bassomondo
sono creature inventate da certi signori viventi su un altopiano visibile in distanza (“ci
osservano coi telescopi, come noi osserviamo le formiche; e così passano il tempo come in un
palco a teatro”; ibid., 98), mentre altri considerano l’esilio nel Bassomondo un soggiorno
turistico “radicale” per cui uno si fa cancellare la memoria per introdursi completamente in un
ambiente e un’identità nuovi (ibid., 164).
Soprattutto questa seconda fonte del comico, l’invenzione delle teorie sulla propria
provenienza e destinazione, riconduce di nuovo al principio della “parodia epistemologica”,
che in questo caso si presenta piuttosto come “parodia escatologica”. A tale proposito è anche
utile ricordare che il Bassomondo, terra di esiliati o reclusi, presenta delle analogie implicite
perfino con l’inferno dantesco: la struttura per cerchi e spirali di quest’ultimo si rispecchia
nelle vie curve del Bassomondo che “formano dei cerchi che s’intersecano” (ibid., 10)
rendendo impossibile uscirne, nonché nella stessa posizione geografica della città in una
“conca tellurica” (ibid.).
Di fatto è stato Gianni Celati, in un memorabile convegno a Salisburgo nel 2000, a lanciare
l’appello di “considerare ufficialmente la Valle Padana come una conca, cioè un gran buco
come l’inferno dantesco” (cf. Kuon/Bandella 2002, 180). L’opera comica contemporanea che
17
Si usa qui una delle categorie stabilite da Pfister/Lindner 1982 per definire i meccanismi dell’utopia (per la
categoria in questione cf. ibid., 25).
18
Con i termini di Certeau, il motore dell’invenzione narrativa in questo caso non è il parcours (come ne Il
poema dei lunatici), bensì la carte (Certeau 1990, 75) – che si potrebbe effettivamente disegnare del
Bassomondo seguendo le descrizioni del protagonista-narratore.
19
La Cirenaica che dà il titolo al romanzo (nella realtà una regione storico-geografica della Libia orientale) è la
terra agognata dal protagonista Paolo fin quando si trova nel Bassomondo e tenta di evaderne (cf. Cavazzoni
1996, 168segg.); ma una volta uscitone fuori alla fine del romanzo, desidera di ritornarvi.
propone la “fantasticazione”20 senza dubbio più originale ed estesa su povere anime
deambulanti nella pianura padana, è Silenzio in Emilia di Daniele Benati. I legami intertestuali
con Dante, prima di diventare espliciti nell’ultimo dei tredici racconti del volume, si basano
essenzialmente sulla rappresentazione della morte come fenomeno spaziale e dinamico, come
luogo dove i morti continuano a “fare delle cose”, innanzi tutto a girovagare nei pressi dei
loro paesi d’origine della provincia emiliana. A differenza della Commedia dantesca, nelle
novelle di Benati queste cose fanno ridere perché non si distinguono dalla quotidianità della
vita, creando così l’immagine di una morte sdrammatizzata e banale – si pensi per esempio al
giocatore di bocce novantunenne Franco Badodi che, all’inizio del secondo racconto, assiste
stupefatto e un po’ irritato al resoconto del proprio decesso fatto ai suoi familiari da uno del
paese, al che egli – in quanto narratore delle vicende – aggiunge: “Io li guardavo in silenzio
per non disturbarli, perché negli ultimi tempi avevano sempre qualcosa da ridire quando
aprivo la bocca.” (Benati 1997, 19). Benati mette in scena un mondo alla rovescia dove tutto
viene visto dal punto di vista dei morti e dove quello dei viventi – che corrisponderebbe ad
una presunta “normalità” – non esiste.
Il comico in questo caso poggia essenzialmente sul principio del paradosso: è paradossale la
trovata generale di morti che deambulano nei loro luoghi d’origine e continuano a fare delle
“cose da vivi”; ma innanzi tutto sono paradossali, in un senso comicissimo, tanti dettagli del
modo in cui si svolgono queste avventure dei morti, perché vengono presentate dal punto di
vista di personaggi che non sanno bene loro stessi cosa sia successo o hanno perso
completamente la memoria, fungendo così da narratori del tutto inaffidabili. Si prenda solo
l’esempio dell’ex-bidello Squadroni nel primo racconto: tornando nei pressi del paese
d’origine Marmirolo alcuni anni dopo la sua morte, egli va a zonzo con l’idea fissa di
rintracciare la moglie per chiederle “da quanto tempo era morto” (ibid., 12); non ricorda però
il nome di lei, e quando infine pensa di averla ritrovata ci si chiede su che cosa poggi tale
congettura, dato che la donna rintracciata gli fa un “effetto strano”, cioè “non sembrava
nemmeno lei, sua moglie; o per lo meno non se la ricordava così” (ibid., 13).
È dalla miriade di dettagli simili che nasce il comico paradossale, sommesso ma irresistibile,
del libro di Benati. Il racconto dal tono più serio è effettivamente l’ultimo, “Tema finale”, in
cui i rimandi a Dante, tramite il personaggio di una ragazza dal nome Portinari, diventano
espliciti. È la storia di un alunno delle medie, “il figlio di Soccetti” che, come autopunizione
(o penitenza) per aver avuto un voto basso nel tema d’italiano, fa a piedi gli otto chilometri di
via Emilia che separano la scuola da casa sua; ma sotto la guida di un cane parlante (un
Virgilio trasformato in maniera un po’ irriverente) egli finisce in un campo di calcio ed assiste
alla partita tra due squadre diversissime, una dinamica e giovane, l’altra “malandata” con
giocatori dal “fisico [...] di cartapesta” (ibid., 157) che si scopre composta di personaggi dei
racconti anteriori – si tratta infatti di una partita tra vivi e morti, dove la linea di mezzo, come
una voce suggerisce al ragazzo, è “una separazione immaginaria. Un limite invalicabile solo
per chi ha paura del disordine e agisce secondo una legge che verrà presto capovolta” (ibid.,
160-161). Il ragazzo descrive questa sua avventura in un nuovo tema per la scuola e lo legge a
voce alta – con ciò chiude il racconto – all’adorata compagna di classe Portinari. Tramite
questi rimandi intertestuali a Dante e le riflessioni ad essi legate, si accentua in chiusura del
20
Sul termine della “fantasticazione” e il suo significato per il gruppo di autori intorno a Gianni Celati, cf.
Spunta/Rorato 2009.
volume un aspetto attivo in modo implicito lungo tutti i racconti, cioè una maniera di trattare
la morte che connette l’approccio ludico e dissacrante con una dimensione filosofica. Anche
Silenzio in Emilia, al pari dei romanzi di Cavazzoni, può essere considerato da questo punto di
vista come conte philosophique comico-fantastico.
Conclusioni
Si è voluto dimostrare con ciò che precede quanto è frequente, nella letteratura emiliana della
seconda metà del Novecento, l’intreccio tra la tematica del girovagare di personaggi in uno
spazio aperto, ispirato probabilmente alla “grande pianura” della bassa padana, con
determinati caratteri del comico. Sotto forma dell’assurdo e del paradossale (Salto mortale,
Silenzio in Emilia, in parte Il poema dei lunatici e Cirenaica), del buffonesco o carnevalesco
(Le avventure di Guizzardi, Il pataffio) e del parodico (Il poema dei lunatici, Cirenaica, in
parte Silenzio in Emilia) si sono evidenziate le varianti di un comico fine a sé stesso e
propendente verso la stramberia che sembra essere particolarmente caratteristico per l’area
culturale emiliana. Invece non sembra essere un caso che l’unico esempio dall’impianto in
certa misura didascalico, tendente a denunciare o ridicolizzare tramite la satira, sia quello non-
emiliano di Vassalli (Abitare il vento). Tuttavia l’aspetto in comune di tutte queste opere è che
il motivo del girovagare proviene dal regresso a determinate tradizioni letterarie quali il
cavalleresco, il picaresco, la letteratura di viaggio, l’utopia o la tradizione dantesca, fungendo
ad ogni volta come moltiplicatore delle cose da raccontare ovvero “generatore finzionale”.
Bibliografia
Bibliografia primaria
Bibliografia secondaria
‚Teoria‘ non è forse la parola che si adatta meglio ai saggi di Celati, critico formidabile
almeno quanto lo è come narratore e traduttore, ma da sempre allergico alle pretese
teleologiche e totalizzanti del verbo ‚spiegare‘. „Elaboratore di teorie“ – come lo ha definito
Italo Calvino nella postfazione a Comiche (Celati 1971, p. [152]1) – Celati però senza dubbio
lo è, poiché le convinzioni che animano i suoi saggi rifiutano le ansie teleologiche della critica
storicistica e cercano nuove strategie di rappresentazione della realtà al di fuori di categorie di
interpretazione rigide. È per questo che il testo che descrive meglio il suo metodo critico ha
un approccio decisamente foucaultiano. Mi riferisco a „Il bazar archeologico“ (1968), un
saggio scritto per Alì Babà, la rivista che Celati aveva ideato insieme a Carlo Ginzburg, Enzo
Melandri e Guido Neri, oltre che con lo stesso Calvino, e che poi non è mai stata realizzata. In
questo testo, il sapere è paragonato a un bazar pieno di oggetti che si organizzano tra di loro
secondo una tassonomia fluttuante, in continuo divenire. „La storia, ogni storia, […]
presuppone un’identificazione con il passato“, scrive Celati, „ma con questi oggetti non c’è
identificazione possibile: le motivazioni che li hanno prodotti non sono quelle per cui noi li
ricerchiamo e li disseppelliamo dall’oblio“. A suo avviso, infatti, la cultura „può essere
riarticolata solo in forma parziale. […] È anch’essa come un sogno perduto, di cui si
ricordano sì e no gli stimoli essenziali“ (Celati 2001, 198).
Nella prospettiva di Celati, questa definizione di „sogno perduto“ si adatta in particolare a un
territorio specifico della cultura occidentale: la tradizione del comico. In uno dei saggi poi
raccolti in Finzioni occidentali2 – intitolato „Dai giganti buffoni alla coscienza infelice“
(Celati 1974) – egli descrive infatti la parabola storica della comicità come un „processo di
decomposizione“ e prova a risalire all’indietro il „percorso di questa perdita“ (Celati 2001,
55). Riprendendo le teorie di Michail Bachtin e di Michel Foucault, Celati sostiene che,
mentre nel Medioevo e nel Rinascimento il riso rappresentava una terapia sociale in grado di
innescare un processo di conoscenza che dava libero sfogo agli istinti del corpo, con l’età
moderna sarebbe iniziata una grande repressione, che avrebbe fatto perdere al comico le sue
caratteristiche in nome delle nuove estetiche del realismo. Nel presente articolo si
ricostruiscono le riflessioni di Celati sul percorso della cultura del comico nel mondo
1
La postfazione di Comiche non ha pagine numerate. Si indica tra parentesi quadra il numero che le pagine
avrebbero avuto nel caso fosse proseguita la numerazione.
2
Il libro che raccoglie i saggi più importanti di Celati è Finzioni occidentali. Questo volume ha avuto tre
edizioni: la prima è del 1975; la seconda, accresciuta e riordinata, del 1986; la terza del 2001. Le citazioni di
questo articolo sono tratte da quest’ultima edizione. Per comprendere meglio il significato de „Il bazar
archeologico“, che è appunto tra i saggi aggiunti nel 1986, occorre leggerlo insieme a un altro testo – „Lo
sguardo dell’archeologo“ (1968) – scritto da Italo Calvino come manifesto programmatico della rivista e poi
inserito dallo scrittore ligure in Una pietra sopra (1980). Sul destino di Alì Babà, vedi anche Barenghi/Belpoliti
1998. Più in generale, per quanto riguarda l’opera di Celati, i punti di riferimento della mia analisi sono stati
West 2000 e Belpoliti/Sironi 2009. Un’ampia rassegna del dibattito critico sul comico cui si fa riferimento nelle
pagine seguenti si può leggere invece in Ferroni 1974.
occidentale. Prima è descritta la tradizione letteraria in cui Celati iscrive la sua idea del riso.
Poi è mostrato il percorso storico che ha portato all’eclissi di questa concezione. Infine sono
analizzate le strategie che i suoi racconti mettono in atto per ridare al comico il suo antico
significato.
La comicità carnevalesca
Fino alle soglie dell’età moderna, ridere aveva un significato molto diverso da quello che ha
oggi. In Tvorčestvo Fransua Rable i narodnaja kul’tura srednevekov’ja i Renessansa (1963),
Bachtin ha dimostrato come la comicità fosse intesa nel Medioevo non come un meccanismo
logico astratto, ma come un rituale del ridere, situato in un determinato cronotopo culturale.
Ridere era una pratica di piazza, legata a feste come quelle del Carnevale; aveva una cornice
nello stesso tempo collettiva e individuale e chiamava in causa il corpo sociale nel suo
complesso. Si trattava cioè di una manifestazione simile a una rappresentazione in cui i ruoli
di attore e spettatore si confondevano. „L’idea carnevalesca è quella d’uno spazio dove non
c’è separazione tra individui, né tra il dentro e il fuori degli individui, tra interiorità ed
esteriorità, perché un’abbondanza straordinaria di cibo e parole ed escrementi e flussi va
dentro e fuori per i corpi“, sostiene Celati: „un’utopia che può spiegarsi solo escludendo
l’individualità separata, e pensando ad una comicità collettiva“ (Celati 2001, 58). Il comico
coincide quindi con una morfologia della trivialità, con i suoi re per burla, l’esaltazione del
cibo, la gioia dell’escrezione, il piacere della poltroneria, la concezione del corpo come flusso
inesauribile di ingurgitazioni ed espulsioni. Ma tutto questo con lo scopo preciso di de-
strutturare le gerarchie e le convenzioni della società, in nome del diritto allo spreco e alla
dispersione. „Il riso carnevalesco“, riassume Celati, „è un fenomeno di smembramento del
sapere e dell’unità di visione del mondo“, che riduce „a frammenti caricaturali ciò che altrove
ha valore di destino“ (ibid., 56).
Le idee di Bachtin sono oggi notissime, ma non era così alla metà degli anni Sessanta. Uno
dei meriti che va dato a Celati è quello di essere stato tra i primi scrittori a portarle al centro
del dibattito critico in Italia. Partendo dall’analisi di Bachtin, „Dai giganti buffoni alla
coscienza infelice“ spiega come l’impossibile conciliazione tra la tradizione del riso e la
cultura alta non dipenda solamente dall’esibizione di argomenti triviali, ma dalla concezione
del mondo che tale scelta sottende. Rabelais scriveva per un pubblico che non conosceva la
differenza tra comicità alta e bassa, che si affermerà nel Seicento con la nascita delle teorie
dei generi. Pertanto non avvertiva come un problema la compresenza tra le volgarità del
racconto e la visione del mondo implicita in esse: una concezione dell’essere come fluire di
eventi disaggregati, privi di finalità e in continua metamorfosi, che trova la sua metafora nella
rappresentazione del vino come principio vitale del cosmo. È questo il senso del libro v –
forse apocrifo, ma in linea con il significato generale dell’opera – delle avventure di
Gargantua e Pantagruel, allorché Rabelais descrive Bacbuc, la sacerdotessa di Bacco. Questo
personaggio spiega infatti come, dal momento che dà calore ed è diuretico, il vino permetta il
riequilibrio degli umori (eucrasia) che le malattie mettono in subbuglio. In questa prospettiva,
dunque, gli eccessi da taverna non solo perdono la loro fatuità, ma si rivelano una medicina
che fa stare meglio chiunque li pratichi con frequenza.
Riprendendo alcune teorie molto diffuse nella facoltà di medicina di Montpellier, Rabelais
sostiene che ridere produce sul corpo la stessa azione del vino. Da un punto di vista medico, il
riso è l’aria accumulata nel basso del corpo e da qui felicemente espulsa nel ciclo
dell’eucrasia. Da un punto di vista simbolico, invece, rappresenta il soffio vitale su cui si basa
l’inarrestabile movimento del cosmo. La trivialità di Rabelais fa ridere poiché la sua azione
parte dall’imitazione degli impulsi del corpo. In questa prospettiva, il buffone è colui che
mette la sua voce e i suoi gesti al servizio delle esigenze dell’organismo e in questo modo dà
corpo ai frammenti di una realtà che non si può riportare a nessuna unità. Né sarebbe
auspicabile il contrario, poiché è proprio in questo disordine – la „parola dialogica“ di cui
parla Bachtin – che il corpo sociale nel suo complesso espurga i suoi bisogni più bassi.
Paragonando l’attività di scrivere a quella di far ridere, Rabelais avvicina il compito dello
scrittore a quello di un medico, che cerca nella comicità la scienza dei rimedi in grado di
sanare i mali dei suoi lettori. La guarigione avviene attraverso l’esteriorizzazione dei sintomi
del male: il circolo dell’ingurgitamento e dell’espulsione mima quello della nascita e della
morte che presiede all’inarrestabile divenire del cosmo e quindi lo rende familiare. Dice la
sacerdotessa Bacbuc (V, 45): „I filosofi, predicatori e dottori del vostro mondo vi pascono di
belle parole per le orecchie; qui voi realmente incorporerete i nostri precetti per la bocca.
Pertanto non vi dico: leggete questo capitolo, vedete questa glossa; vi dico: gustate questo
capitolo, e ingurgitate questa bella glossa.“ È questo il motivo per cui Celati sta dalla parte di
Bacbuc: le sue opere, infatti, non descrivono mai la conoscenza come un’operazione
puramente mentale, ma piuttosto come qualcosa da conquistare con tutto il corpo, in modo da
diventare „sapienti fino ai denti“.3
In questo rituale di liberazione dal male attraverso la sua esteriorizzazione, ad un certo punto,
però, qualcosa si inceppa. Finzioni occidentali ricostruisce in chiave foucaultiana la
genealogia di questa trasformazione. Il punto di partenza dell’analisi di Celati sono Les
Passions de l’âme (1649) di René Descartes: un testo che fa propria la teoria rinascimentale
dell’equilibrio degli umori, ma la rinnova profondamente, subordinando il controllo degli
eccessi alla volontà e spostando il centro di osservazione dal cuore al cervello.
„Schematizzando, c’è un’inversione di tutto il senso dinamico della cura“, osserva Celati: „la
cura d’ora in poi non consisterà nell’esteriorizzazione del male, ma nello smascheramento e
imputazione delle passioni, sotto il controllo della volontà a cui sono sfuggite per
esteriorizzarsi“ (ibid., 66). Da questo momento storico in avanti, l’oggetto comico non è
qualcosa con cui si ride, ma qualcosa su cui si ride, per condannarlo: il medico è diventato
insegnante.
3
Cito le traduzioni date in Finzioni occidentali (Celati 2001, 101). Il passo originale di Rabelais è questo: „Les
philosophes, prescheurs et docteurs de vostre monde vous paissent de belles parolles par les aureilles; icy, nous
realement incorporons nos preceptions par la bouche. Pourtant je ne vous dy: Lisez ce chapitre, entendez ceste
glose; je vous dis: Tastez ce chapitre, avallez ceste belle glose. Jadis un antique Prophete de la nation Judaïque
mangea un livre, et fut clerc jusques aux dens; presentement vous en boirez un et serez clerc jusques au foye.
Tenez, ouvrez les mandibules.“ (Rabelais 1948, 168)
È quello che dimostra nel modo più chiaro la comedy of humours inglese. In essa, il
personaggio comico non stupisce né esteriorizzando i bisogni del corpo né chiamando in
causa lo spettatore. Piuttosto si muove all’interno della sceneggiatura con risposte fisse e
prevedibili, attraverso le quali il pubblico è portato a riconoscere il vizio che l’autore vuole
mettere alla berlina. Servendosi dell’interpretazione di Anatomy of Criticism (1957) di
Northorp Frye, Celati spiega come il suo carattere si riduca alla schiavitù rituale con cui ripete
la sua ossessione. Il riso si trasforma da rituale sociale in automatismo verbale: le maschere
perdono il compito di dare enfasi alla differenza e assumono quello di metterla con le spalle al
muro. In questa prospettiva, la comedy of humours rappresenta il corrispettivo artistico della
grande repressione dei manicomi e delle galere di cui parla Foucault. Sostituendo la legge
dell’imprevedibilità a quella della ripetizione, il riso diventa infatti un sistema didattico di
controllo.
Nei due secoli successivi, il comico si trasforma in uno dei dispositivi essenziali dei processi
di esclusione e sottrazione con cui la letteratura si avvia verso il paradigma di un’estetica
realista. L’esibizione degli impulsi del corpo è sostituita dalle riflessioni dei personaggi e
l’attenzione passa dunque dalla dimensione del fuori a quella del dentro. Lentamente, la
malinconia – che ancora Timothie Bright nel Treatise on Melancholy (1586) e Robert Burton
nella Anatomy of Melancholy (1621) condannavano come delirio non conoscitivo – si
trasforma in qualità determinante della personalità di un artista. Il „soggetto empirico“ di
Rabelais diventa il „soggetto trascendentale“ della filosofia idealistica. Dalla fine del
Settecento, infatti, il riso inizia a rappresentare la superiore capacità di giudizio di
un’individualità condannata all’insoddisfazione per la finitezza e alla nostalgia
dell’irraggiungibile infinito. Da affare del corpo, il comico si sublima in questione metafisica:
invece che libera espressione dei „giganti buffoni“ diventa ritenzione, introiezione in se stessa
della „coscienza infelice“ che malinconicamente volta le spalle alla realtà che la circonda.
Più tardi, la parabola di questa trasformazione è portata alle estreme conseguenze ne
L’essence du rire (1855) di Charles Baudelaire, che distingue due tipi di comico. Da una
parte, il comico di Rabelais, che con il suo tentativo di cura mantiene un accento utilitaristico
(„quelque chose d’utile et de raisonnable“; Baudelaire 1868, 378). Dall’altra, il comico
davvero significativo, „assoluto“, che non viene a compromessi con il mondo e
demonicamente ne prospetta la distruzione. „Il comico assoluto […] è un’affermazione di
superiorità dell’io sul mondo“, commenta Celati, è „un’affermazione dell’invincibilità dell’io
che svaluta il gioco prosaico delle passioni“ (Celati 2001, 87). Con Baudelaire, ci si avvia così
a quella coincidenza di comicità e risparmio delle passioni descritta da Sigmund Freud nel
saggio sul Witz (1905): condannando gli aspetti esteriori del comico, lo scrittore toglie il suo
io dal gioco e cerca di guadagnare il controllo assoluto sul mondo.
La conseguenza di questa rinuncia al „soggetto empirico“ è la radicale trasformazione
dell’imagerie associata al buffone. Verso la metà dell’Ottocento, la pinguedine ridanciana dei
buffoni della prima modernità viene levigata fino all’estrema magrezza e perde ogni contatto
con la saggezza del corpo. La passione per la Commedia dell’Arte di cui parla Jean
Starobinski in Portrait de l’artiste en saltimbanque (1970) deriva secondo Celati da uno
snobismo nostalgico che non ha interesse a riportare alla vita quel tipo di comicità. Gli
scrittori di quest’epoca si servono del mito del clown come riserva di occasioni poetiche e
soprattutto come proiezione narcisistica del culto dell’io superiore dell’artista. „Il pagliaccio
nella sua desolante stereotipia è sì il relitto d’uno slancio perduto in cui ricercano le tracce di
sintomi e pulsioni che la letteratura non conosce più“, sostiene Celati: „ma tutto ciò è anche e
soprattutto un modo per dire un sogno d’ascesa dell’arte moderna“ che vorrebbe elevarsi oltre
la prosaicità del mondo borghese come „l’acrobata si eleva dando l’illusione di violare le
leggi fisiche“ (ibid., 92).
L’estrema sintesi novecentesca della concezione romantica del comico è per Celati la
Anthologie de l’humour noir (1940) di André Breton. Questo testo esibisce una galleria di
scrittori che incastrano le energie dirompenti del riso entro una griglia interpretativa di stampo
metafisico. L’analisi di Breton parte da un giudizio critico che a Celati appare ingiustificato:
l’opposizione tra „il riso grossolano e innocente“ di Rabelais e „la lucidità antisentimentale“
di Jonathan Swift. Se Breton non si accorge dell’intima appartenenza di questi due scrittori
alla stessa tradizione, è perché il comico non gli interessa in sé, ma in quanto occasione delle
associazioni automatiche del surrealismo. Ridere è per lui un modo di giungere al
meraviglioso e di scandalizzare la borghesia. Ma si tratta di una rivolta che rimane all’interno
del sistema che intende abbattere. Le coincidenze bretoniane sono infatti operazioni
combinatorie che si possono compiere solo andando al di là della superficie delle cose. Celati
spiega come, d’accordo con le teorie dell’humour romantico, Breton sia costretto ad
„evacuare il soggetto empirico, ridurlo a mito negativo dell’esteriorità mondana“, e a
„introdurre un nuovo e più radicale sistema di esclusione che lo rigetta al di là delle soglie del
sapere“ e ne fa „semplicemente un soggetto da commedia“ (ibid., 112). Anche in questo caso,
quindi, il comico si trasforma da elemento sovvertitore dell’ordine in strumento di
repressione. È un riso di vendetta: non appena nasce sulle labbra, è come se fosse già morto.
Il comico e la cura di sé
Quali possibilità, in questo contesto, restano al comico oggi? „Dai giganti buffoni alla
coscienza infelice“ descrive due modi antitetici di intendere la pratica del riso. Da una parte,
la concezione della tradizione popolare del Medioevo, che trova la sua forma letteraria in
Rabelais, per cui il comico è immersione del corpo individuale nello spazio collettivo della
società. D’altra parte, la poetica critico-ironica dei romantici, che fanno del riso lo strumento
per creare una distanza tra sé e il resto del mondo e quindi giudicarlo. In un saggio di qualche
anno dopo – pensato dapprima come libro su Buster Keaton e poi uscito sul Verri con il titolo
„Il corpo comico nello spazio“ (1976) – Celati spiega questa opposizione ricordando la
distinzione di Maurice Merleau-Ponty tra due modalità dei movimenti del corpo: una che
coincide con l’atto di mostrare (‚zeigen‘) e l’altra con quello di afferrare (‚greifen‘). Pur nella
loro costruzione formale diversa, sia la bagarre delle slapstick comedies che Celati ha
pubblicato negli anni Settanta – da Comiche (1971) al Lunario del paradiso (1978) – che le
narrazioni del quotidiano degli anni Ottanta – da Narratori delle pianure (1985) a Verso la
foce (1989) – rappresentano due risposte a questo stesso interrogativo: come si può riportare
la rappresentazione del corpo a una dinamica dell’afferrare (‚greifen‘)?
I saggi di Finzioni occidentali difendono le ragioni della „parola dialogica“ di Bachtin da un
punto di vista più manifestamene teorico, prendendo le mosse dalle opere di due autori del
tardo modernismo: Louis-Ferdinand Céline e Samuel Beckett. Nell’introduzione all’edizione
del 1996 del Guignol’s Band (1944), Celati sottolinea come la comicità di Céline si opponga
al canone di Breton, poiché rigetta l’approccio critico-ironico e trova in Rabelais il maestro
della sua visionarietà. Si tratta naturalmente di una rielaborazione giocata sull’orlo del
paradosso e resa possibile dalla trasformazione del corpo sociale unitario di Rabelais con
quello schizofrenico del fool soggetto alla persecuzione del potere.4
In particolare nei suoi primi testi – come Premier Amour (1946), Molloy (1947) e Malone
meurt (1948) – anche Beckett ridiscute le possibilità di una comicità diversa con
un’operazione poetica ai limiti della follia. Le sue opere si caratterizzano per le strategie
discorsive con cui chiamano in causa il lettore come personaggio. Le gags di Beckett giocano
soprattutto con la dimensione del tempo, accelerando o rallentando l’azione per far riaffiorare
la parola dialogica di Rabelais, sbiaditasi con il passare dei secoli. Il risultato è una comicità
che si lascia alle spalle la maieutica e riprende a funzionare come linguaggio del desiderio.
„La comicità che sorge dalla recitazione non espone il vizio ad una sanzione morale come fa
la comicità da commedia“, afferma Celati: „ciò di cui ridiamo qui è soltanto il testo, la
linearità fonetica del testo occidentale, il libro come escremento metafisico di una verità che
lo precede e che si ri-presentifica attraverso la parola di un autore“ (ibid., 192). Come nella
tradizione degli antichi maestri del riso, il comico nasce dunque in Beckett dalla felicità
dell’espulsione. Nelle sue opere, però, ad essere tirato fuori è il testo stesso, che non offre più
criteri di valore totalizzanti, ma la „verità pneumatica“ che esce dalla bocca dell’autore e
viene a coinvolgere gli spettatori in un’(anti)-filosofia scritta al pronome „voi“ e basata su una
metafisica del continuo differimento del senso.
In Ohio impromptu (1981), Beckett descrive la riduzione della letteratura al minimo vitale. Lo
spazio del narrabile ondeggia tra il poco („little is left to tell“) e il nulla („nothing is left to
tell”) (Beckett 1984, 285). Allo stesso modo, i libri di Celati riflettono su come nel mondo di
oggi la capacità di scambiare esperienza si vada rarefacendo e l’arte di raccontare sia sul
punto di perdersi. Celati sostiene che la letteratura non può essere una pratica individuale:
l’„istinto narrativo“ consiste precisamente nel „sentire la lingua come un dialogo con gli
altri“. È per questo che per lui è così importante riscoprire la tradizione del riso: raccontare
significa ritrovare quell’omogeneità del corpo sociale che Rabelais riusciva a descrivere
attraverso le peripezie del corpo comico.
L’approccio di Celati è in questo senso simile al „pensiero itinerante“ di cui parlano Gilles
Deleuze e Félix Guattari in Mille plateaux (1980): un modo di guardare la realtà che mette da
parte le pretese teleologiche della metafisica e si immerge nell’ininterrotto flusso linguistico
della postmodernità. Il tratto caratteristico dello stile di Celati è infatti la convinzione che un
narratore debba lavorare sul tempo senza fissare punti fermi e categorie immobili in se stesse,
ma ricercando la fluidità di un meta-discorso in cui voci dalle provenienze più diverse si
sovrappongono senza sosta. Sono queste le „riserve“ del narrare che gli scrittori dovrebbero
riattivare, rompendo gli automatismi della vita anestetizzata dagli stereotipi diffusi dai mass
media. L’invito di Lunario del paradiso a farsi le proprie storie (Celati 1978, 185: „caro
pensatore, dacci un taglio di fare il cretino, prova anche tu a farti delle storie e vedrai che
questa è la sputtanata verità“) rappresenta un appello a usare il linguaggio come se fosse un
richiamo, perché le cose non si allontanino per sempre ciascuna in una diversa direzione del
4
Céline descrive il suo rapporto con l’opera di Rabelais in un saggio del 1957 che ora si può leggere anche in
volume (cf. Céline 1994).
cosmo. In questo senso, la parola comica è la più adatta a orientarsi in un mondo sempre più
disgregato, che lentamente vede spegnere la sua entropia. I personaggi di Celati si trovano in
questo senso nella stessa situazione di Buster Keaton: „our hero came from nowhere. He
wasn’t going anywhere, and he got kicked out of somewhere“ (Keaton/Cline 1921). Questa
immagine del personaggio comico sbattuto fuori è la materializzazione più icastica dei rituali
dell’espulsione di Rabelais, ma anche qualcosa di molto simile a un discorso esistenziale. Il
senso vero delle espulsioni del comico di Celati è quello di far star bene chi scrive e chi legge:
di ritrovare cioè quella che Foucault avrebbe chiamato „cura di sé“. È per questo che, a suo
avviso, occorre prestare più cura al destino del comico. Alla sua sopravvivenza, infatti, è
appesa la possibilità di rendere vivibile un mondo in cui non ci aspetta più niente, „né
un’astronave né un destino“ (Celati 1989, 140).
Bibliografia
Filmografia
Keaton, Buster / Cline, Edward F. (1921): The High Sign. U.S.A.: Metro Pictures.
Epifanio Ajello
L’intento di questo lavoro è di stabilire (con non poca impertinenza) la non semplice identità,
più che la tipologia, di un personaggio letterario, il ‘personaggio strambo’, rintracciandolo in
alcune narrazioni di Gianni Celati ed Ermanno Cavazzoni.
La procedura, inizialmente non può che essere classificatoria per cui la prassi migliore è
quella di andare per sinonimi. I sinonimi di strambo1 sono innumerevoli. Ne do un
improvvisato campionario: balordo, bislacco, bizzarro, lunatico, perdigiorno, strampalato,
stravagante, trasognato. Termini che battono i confini con quelli che attengono alla
monelleria, al vagabondare, alla follia, alla stupidità, all’inettitudine o all’indifferenza. La
definizione stessa di strambo è destinata ad oscillare senza tregua tra questi ultimi. Difatti, le
sinonimie sono zone linguistiche perturbate, dai confini connotativi assai diafani; talvolta si
lambiscono, si aggregano o si discostano per ampie zone semantiche, instaurando complicità
o negazioni significative, i cui perimetri di senso è difficile ben marcare. E questo per la
definizione dello strambo è esemplare.
Forse ci aiuta meglio il cinema. Nel cinema sono decisamente strambi i Fratelli Marx, Buster
Keaton (molto amato da Calvino e il suo Palomar ne ha i tratti). Per i fratelli Marx (molto
amati da Celati), Jean Starobinski li disegna affini, in un bel paragone, agli gnomi che
“sopraggiungono d’improvviso nei racconti leggendari: in apparenza gettano tutto per aria,
seminando ovunque la confusione; e sempre, alla fine della storia, la loro balordaggine
risulterà provvidenziale, in obbedienza ad una logica fiabesca che manda a vuoto tutte le
ragionevoli previsioni: essi sono gli aiutanti della vita e dell’amore minacciati” (Starobinski
1984, 131).
Bellissima spiegazione che si adatta mirabilmente al nostro tentativo di definire il personaggio
dello strambo, il cui comportamento, apparentemente insensato, gode di una libertà totale. Ed
è proprio la gratuità, la fantasticheria, la vaghezza di certo suo agire o di certo suo pensare che
istruisce una momentanea vacanza del prevedibile, dell’usuale, del logico quando legato a
certo comportamento sociale dell’universo borghese. È il suo non-senso, la sua innocenza a
stabilire una differente percezione delle cose attribuendo loro un valore diverso. Le decisioni
sembrano frutto di indecisioni. L’occupazione privilegiata è immaginare il mondo in altra
maniera e trasformare la percezione di ogni cosa che osserva col suo comportamento.
1
Proprio per mettere più ordine lessicale, non potevo non aprire il novissimo Dizionario dei temi letterari, a cura
di R. Ceserani, M. Domenichelli e del compianto P. Fasano (Torino, Utet 2007), eccellente e preziosa
enciclopedia, e vi ho cercato, con buon ottimismo ma, ahimé, senza successo, il lemma ‘strambo’; per la verità
non ho trovato nemmeno il termine ‘inetto’ che appare, ma soltanto citato, all’interno della voce Fantasticherie,
a proposito dei romanzi Una vita e Senilità di Italo Svevo. Ovvio che l’opera non è un vocabolario di lingua, ma
che la stramberia (come l’inettitudine) non sia un tema pertinente su cui ricucire possibili personaggi letterari,
lascia perplessi. Nei volumi ci si è affidati, in compenso, ad altri lemmi, in qualche maniera limitrofi ovvero
‘sciocco’, ‘buffone’, ‘clown’, ‘idiota’, ‘saltimbanco’, ‘ridicolo’, ‘balordo’, ‘picaro’, e ad alcune zone tematiche
quali ‘avventura’, ‘ingenuità’, ‘fantasticherie’ ed altre, che costeggiano l’identità di cui siamo in cerca.
Se riprendiamo lo Starobinski, sostituendo il riferimento ai clown col nostro strambo, un
disegno viene fuori ben netto. Lungo la lezione del critico ginevrino, lo possiamo avvicinare,
con prudenza, al pagliaccio. Lo strambo forse altro non è che un rivoluzionario buffone (ma
senza esserne consapevole fino in fondo) scappato via dal circo senza nessuna cipria o naso
rosso o cappello a cono o marsina sgargiante, ma vestito con abiti quotidiani nel mentre
continua il suo gioco straniante dentro il mondo “insensato” di tutti i giorni, fra gli uomini e le
cose, senza spettatori e applausi: “Essi hanno bisogno di un’immensa riserva di non senso –
scrive Starobinski – per poter passare al senso. In un mondo utilitaristico, attraversato dal
reticolo fitto delle relazioni significanti, in un universo pratico nel quale ogni cosa viene
investita d’una funzione e di un valore d’uso e di scambio, l’entrata del clown [l’entrata dello
strambo, diremmo noi] fa saltare alcune maglie della rete, e nella pienezza soffocante dei
significati ammessi apre una breccia per la quale potrà spirare un vento d’inquietudine e di
vita […], una sfida alla serietà delle nostre certezze” (ibid., 150).
Non so se sia possibile applicare al personaggio strambo, il “privilegio” che Celati stesso
assegnava al concetto di “frammento” ovvero “quello della differenza pura”, ossia di non
considerarlo né negativo né positivo “rispetto ad una Totalità di origine, bensì neutro ed
esterno”. Difatti, il mondo che attraversa quotidianamente lo strambo è guardato per
frammenti. Lo pervade una sorta di “epica dell’osservazione” (Giacomo Debenedetti), di
epica della scelta, con cui annulla la ripetitività e va a scovare in ogni cosa ordinaria una sua
straordinarietà. Guarda i pezzi del mondo singolarmente ed evita di trattenerli in un tutto, non
li adopera per scambi ma li usa in maniera diversa. Lo fa per stabilire un differente
“vertiginoso legame con gli altri”, indica col suo comportamento la possibilità di un differente
stare in mezzo alle cose e fra noi. Forse “frammento” gli sta proprio bene, nel senso che “al
discontinuo, – scrive Celati – all’escluso e al dimenticato è affidato il compito di contestare
l’illusione d’uno sviluppo lineare continuo della storia umana” (Celati 1998, 204). È come
una scheggia impazzita scattata via da un contesto ben funzionante. Lo strambo col sostare
altrove enuncia l’inefficienza di un sistema ben regolato e non fa nulla per rientrarvi.
Difatti, gli strambi fanno di tutto per inceppare la macchina seriale. Lavorano essenzialmente
sulla riserva delle cose poco usate, meno importanti, amano i dettagli. Oh! per davvero il
nostro personaggio strambo non ha nulla di prestabilito; tenta di attuare qualcosa che sia
insieme abitudinario ed esaltante. Incongruo, vive regole e metodi a modo suo. È
imprevedibile. Il suo smarrirsi nel mondo tende, in effetti, a dispiegarlo e a viverlo
accartocciandone in maniera ogni volta diversa il foglio. Ne comincia ogni volta uno nuovo,
riapre le possibilità, sfoglia in diverso ordine le pagine, “arricchisce il mondo” (Celati 1998,
204).
Il personaggio strambo non ha una postura autorevole, né tanto meno autoritaria. Non è un
personaggio ‘ben fatto’, tutto d’un pezzo. Non è un eroe che s’impone, affronta, risolve. Non
è – per intenderci – Achille, Robinson, Ortis, Ahab, Ivan Karamazov, Andrea Sperelli. Non è
l’Innominato; ha, invece, molto, con prudenza, del Bartleby, del Perelà, dei Bouvard e
Pécuchet. È imprevedibile e non riusciamo ad identificarci con lui; come per i personaggi
della Certosa di Parma, secondo Celati, “noi non seguiamo le loro imprese per identificarci in
loro, ma per la meraviglia prodotta dalla loro condotta” (Celati 2004, 11). Lo strambo porta
con sé una sorta di “alone di meraviglioso” che non permette di catalogarlo in una funzione,
sia pure narrativa. È un personaggio che coinvolge (come il Pifferaio magico di Hamelin), che
fa distrarre, che si ama seguire.
Insomma, il suo modo di agire consegna una possibilità fantasiosa all’ordine prestabilito del
mondo come riordinandolo di nuovo. C’è un’osservazione, ancora, di Celati a proposito della
“magia” del personaggio di Huckleberry Finn di Mark Twain che calza assai bene con quanto
ci sforziamo di definire: “Allora la magia di Huck è questa: non di inventarsi una realtà che
non esiste, ma di vivere in una realtà diversa semplicemente perché si vive in modo diverso
nella realtà” (Celati 2006, 7).
Il vagabondare è anche un tratto identificativo dello strambo. Ma il suo girovagare non è
marcato dall’abulia senza meta; se gironzola non ha qualcosa del flaneur di Baudelaire; ha
qualcosa del viandante di Walser. Se va, lo strambo preferisce il tratto in diagonale, e col suo
movimento mette a soqquadro i consueti itinerari consigliati dalle mappe. Se sta fermo ha
qualcosa di Oblomov,2 non certo del “giovin signore” pariniano (non è didattico). Non è un
perdigiorno come il fannullone di Eichendorff (lontana matrice del calviniano Cosimo
Piovasco meglio conosciuto come Barone rampante, anche lui – diciamolo – abbastanza
strambo). Il nostro personaggio non bighellona, cerca; insomma se va, va a zig zag con un suo
proposito.
Allora, ho sotto mano un esempio – come dire? – esemplare; e presento subito quello che è
forse lo strambo per eccellenza, almeno del nostro secondo Novecento letterario, il
Marcovaldo di Italo Calvino, là dove si legge:
2
Si allude al romanzo omonimo di Ivan Aleksandrovič Gončarov (del 1859).
3
Si allude a Bertoldo, Bertoldino e... Cacasenno, un film di Mario Monicelli (del 1984).
4
Si allude al personaggio shakespeariano di Romeo e Giulietta.
5
Questo saggio/articolo di Calvino è stato prima pubblicato in “The New York Times Book Review” (1984).
Aveva questo Marcovaldo un occhio poco adatto alla vita di città: cartelli, semafori, vetrine,
insegne luminose, manifesti, per studiati che fossero a colpire l’attenzione, mai fermavano il suo
sguardo che pareva scorrere sulle sabbie del deserto. Invece, una foglia che ingiallisse su un ramo,
una piuma che si impigliasse ad una tegola, non gli sfuggivano mai: non c’era tafano sul dorso
d’un cavallo, pertugio di tarlo in una tavola, buccia di fico spiaccicata sul marciapiede che
Marcovaldo non notasse, e non facesse oggetto di ragionamento, scoprendo i mutamenti della
stagione, i desideri del suo animo, e le miserie della sua esistenza. (da “Funghi in città”, Calvino
1998, 1067)
Personaggio che se richiama (anche a causa del suo particolare osservare) l’altro straordinario
strambo di vent’anni dopo, ovvero il “Signor Palomar”, ha tra i suoi antenati, a voler essere
moderni, in casa nostra, il non folto manipolo di strambi (alcuni sicuramente di Pirandello)
che si aggirano, a chiuderla con i veristi e i decadenti, lì tra fine Ottocento e inizio Novecento;
e tra i quali si staglia il tozziano Pietro di Con gli occhi chiusi, in fuga da ogni “delirio di
concretezza”, da ogni stordimento del superfluo e che ci mostra, come osserva, non a caso,
Celati stesso, “un mondo caduto in balia della pura esteriorità, visto attraverso vedute
meccaniche: […] un mondo già tutto interpretato e addomesticato” (Celati 1994, VII).
Ma è tempo di aprire le pagine e di metterci a sentire e guardare quanto accade nei due tometti
di Gianni Celati, intitolati Costumi degli italiani, pieni – come scrive Andrea Cortellessa – di
“personaggi strambi e senza prospettive, taciturni o strologanti a vuoto; si trascinano in una
città innominata, gretta e bottegaia, che farebbe volentieri a meno di loro” (Cortellessa 2008,
2); e di uno, soprattutto, quel Pucci, con “la testa fuori squadra”, sorta di nipotino del più
anziano Guizzardi (cf. Celati 1973), altro grande “lunatico”, a detta degli inquilini del
caseggiato dove abitava. Ma di una parentela poi non così lontana che potrebbe essere
soltanto un fratello un pochino più attempato del Pucci, visto che questa manciata di
raccontini sono riscritture di testi degli anni Ottanta. E di una possibile araldica di personaggi
strambi nelle pagine di Celati, ne ha dato, a suo tempo, splendido schizzo Giorgio
Manganelli:
È vero, la lingua di Celati è cambiata, ma solo perché è cambiato un poco, non totalmente il
personaggio mentale che parla dalle sue pagine. Non è un disperso nel mare dell’oggettività, ma un
faticoso iniziato alla decifrazione di un frammento di mondo; in entrambi i casi, è un fallito; non
per incapacità a tener testa ai temi che ha evocato, ma per scelta di fondo, o piuttosto per
consapevolezza che il fallimento è connaturale all’essere, anzi è la condizione più vicina alla
intelligenza del disordine, dell’errore, di quello scheggiato enigma che ci lacera il corpo e la
mente. (Manganelli 2006, 150)
Albero genealogico in cui suggerirei di inserire anche il personaggio di Baratto, che sembra
aver letto da poco il Bartleby di Melville, e che, come il Pucci, non parla o parla pochissimo
e sta “con la grazia di restare senza pensieri, senza il ronzio delle frasi interiori, libero da
questa farneticazione continua che ognuno porta dentro di sé” (Celati 1989, 25). (E meritano
altresì una menzione nello stesso albero genealogico i personaggi di “Cevenini e Ridolfi”6).
6
Cf. G. Celati, “Cevenini e Ridolfi”, in: idem 2001, 164-197.
Sono storie ordinarie queste di Celati, ma come percorse da un effetto-Wakefield, il racconto
di Hawthorne, perché sembrano essere guardate (e ascoltate) da un fuori. Celati: “Adesso con
la penna che scivola sul foglio spuntano tanti fatti che vengono su da una palude di cose
dimenticate, portando a galla posti e persone che devono esserci stati da qualche parte sotto il
cielo” (Celati 2008a, 22). Le storie partono non sapendo bene da dove, né dove vogliono
andare a parare; spesso vanno a smettere là dove meno si aspetta che finiscano, e alla fine non
si comprende nemmeno la ragione di quella lievissima trama che ha tenuto insieme le vicende
(risibili) e che potrebbe anche non esserci, e senza neppure un brandello di morale da nessuna
parte.
Ho detto sentire e vedere perché ad avvio della lettura dei racconti dei Costumi degli italiani
accade al lettore proprio questo. È preso come nel vortice di una parlata che non si sa da dove
arrivi e che cosa racconti e cosa mostri; tutta svolta in “piani panoramici”, come ebbe a dire
Celati, tempo fa, a proposito della novella italiana: “non si parte da una focalizzazione
precisa, ma da una vaghezza. […], che nel corso della narrazione permette d’allargare lo
spazio immaginativo con notazioni svelte che fungono da sguardi laterali” (Celati 1999a, 7).7
Difatti sembra di stare di lato agli accadimenti e di ascoltarli come in un crocchio di amici,
talmente suadenti sono la lingua e i giochi dei tempi verbali. I tempi verbali usati sono il
presente indicativo e il passato prossimo che consegnano alla prosa un’andatura fantastica,
creando un sortilegio da “continuo ritorno” come accade nelle fiabe: un riapparire di
immagini sempre le stesse, ma ogni volta nuove, come in una giostra, guardando lo stesso
cavallo che gira.
La città, dove sono ambientate le novelle appare una città vagamente felliniana, quasi da
Amarcord ma senza nessun gioco nostalgico, semmai archeologico. Fatta quasi di cartone
come gli spazi finti di una Cinecittà, si entra e si esce dalle case con gran facilità e le pareti
sembrano trasparenti. Si può vedere con comodità non soltanto cosa vi accade dentro, ma si
può origliare anche cosa vi si dice, e – come scrive Ghirri – “le voci ascoltate e gli spazi
esplorati sono i protagonisti” (Ghirri 2008, 176).
Le novelle dei Costumi degli italiani si succedono per leggeri incastri come in una soap opera
svolta sempre negli stessi luoghi e con i medesimi personaggi, una sorta di fenomenologia
della quotidianità. “Avventure” le definisce parodicamente Celati; avventure quotidiane ma
come slabbrate su un lato, senza una vera suspence. Per esse calzano bene le sue riflessioni a
proposito dell’Uomo che dorme, romanzo di Georges Perec: “L’avventura non può essere più
quella per mettere le cose a posto, secondo le norme dell’ottimismo e del buon vivere. Ora sta
nello scovare i luoghi della solitudine di massa, che ci separa e unisce tutti, nell’indifferenza o
nei giri a vuoto – in luoghi così abituali che ormai non vediamo più, nei cibi inghiottiti senza
sentirne il sapore, nei giornali letti senza badare a cosa dicono” (Celati 2009, 165).
Ma torniamo al nostro Pucci. “Pucci da giovane era mingherlino, timido e anche vestito male,
e andava via con la testa bassa, anche storta da una parte. Forse teneva la testa così perché
aveva il cervello fuori squadra” (Celati 2008a, 11). Avere il “cervello fuori squadra” significa,
a scuola (ma anche fuori dalla classe): “non avere niente da dire”, e poi, avere un fare
“randagio”. “L’unica cosa che gli piaceva era andare in giro tutto il giorno per le strade a
7
Il colloquio da cui si cita (Elogio della novella. Conversazione con Silvana Tamiozzo Goldmann, Venezia:
Fondazione Cini 1999) è stato ripubblicato, con il titolo “Presentazione e intervista a Gianni Celati”, in:
Francesco Bruni, Leggiadre donne…. Novella e racconto breve in Italia, Venezia: Marsilio 2000.
caso, trascinando i piedi lentamente e fermandosi ogni tanto a guardare la facciata di una casa
a testa in su” (ibid., 13). Così lo strambo-Pucci si muove, seguendo tracce che vede solo lui e
che lo portano in luoghi e in riflessioni che appartengono solo a lui. Se lo pediniamo, ci
conduce in posti non conosciuti, imprevisti. Non segue i corsi principali delle città dove si va
per incontrare e salutare e chiacchierare; ama, invece, le periferie, i vicoli, i luoghi nascosti,
segreti dove nessuno cammina, regno dei gatti: “andavano dove li portavano le scarpe […]
verso nessuna meta come cani che vanno a zonzo in cerca di ossi”, seguendo, caso mai, “i
binari del tram”; ed e così che “i pensieri si scioglievano nel moto dei piedi […] e veniva la
voglia di stendersi su un marciapiede all’ombra come i gatti” (ibid., 15-18).
Talvolta, volutamente si perde (Mattia Pascal?). Pensiamo a quanto accade allo splendido
personaggio “Prosdocimi”, accanito lettore della rivista di enigmistica Quiz che finisce per
perdersi lungo la ferrovia, in una sperduta “stazioncina svizzera”, dove, per caso, viene
ritrovato “più intronato che mai. Era arrivato lì per sbaglio e c’era rimasto perché aveva capito
che sbagliarsi faceva parte della sua natura, come per un granchio andare via tutto storto da
una parte” (Celati 2008b, 118). E viene in mente quanto suggeriva Walter Benjamin: “Non
sapersi orientare in una città non vuol dire molto. Ma smarrirsi in essa, come ci si smarrisce in
una foresta, è una cosa tutta da imparare” (Benjamin 1973, 9)
Gli eroi celatiani, in questo senso, sono tutti autodidatti, e la città è per loro davvero un bosco,
e sembrano essere come lupi allo sbando, irrequieti, feroci talvolta nelle loro abulie e nel non
sapere cosa volere, cosa cercare. Preferiscono gli interstizi come nelle strade così nei vicoli
del pensare, nelle sconnessioni delle cose ed anche nella sconnessione delle parole, e lì si
smarriscono. Anche le parole, assieme ai personaggi, sembrano andare a zonzo. Le parole (e
gli eroi) vanno dove meglio pare loro; in un certo senso si allontanano dalle cose a cui le
parole debitamente dovrebbero riferirsi. Ha scritto Celati: “è come star a vedere cosa
combineranno le parole, se seguiamo la loro cadenza, la loro metrica, la loro sonorità,
l’incantamento che le porta avanti di frase in frase” (Celati 1999b, 35). E così fa il Pucci,
dirimpetto alla “fisionomia delle lettere”, quando restava “tranquilli pomeriggi in
contemplazione d’una copertina dove le lettere gli sembravano più panciute e simpatiche delle
altre” (Celati 2008b, 55).
Ora, se i personaggi tutti passano di racconto in racconto come in una lunga striscia di fumetti
(e si perdono e si rincontrano come nelle ottave dell’Ariosto), essi sono condotti in questo
loro sparpagliato andare da una voce narrante. Una voce – come dire? – semplice; oserei dire
trasparente nel senso che lascia vedere le cose per come sono, che si limita a raccontare dei
fatti che ricorda o che soltanto conosce o che si inventa. Le parole dell’autore “procedono a
tentoni”. Siamo lontani dal “suono” delle Comiche. La parlata è meno saltellante, del tutto
piana, conversevole; e siamo vicinissimi alla voce di Ermanno Cavazzoni. Al suo “parlare
felice”.
Il particolare tono acustico delle frasi, come delle parole scelte (prevedibilità del periodizzare)
consegna – soprattutto nei racconti di Cavazzoni – un ritmo, un bis bis, d’uso comune che
contribuisce a sballottare i personaggi a pelo della pagina verso un esito del tutto insensato, e
a cui fa il verso l’ascolto. Gli “eroi” si ascoltano e ascoltano moltissimo di tutto.8
8
Ma i personaggi guardano anche. E sarebbe interessante qui fare un gioco: mettersi negli occhi dei personaggi e
vedere cosa vedono; ed è forse proprio attraverso ciò che guardano che il racconto si dà. Questo scorrere dello
Ad apertura di qualsiasi libro di Ermanno Cavazzoni ci arriva addosso sostanzialmente una
voce (e un ascolto), una parlata, che, il più delle volte, ci racconta straordinarie panzane
accadute a personaggi idioti (penso alle Vite brevi di idioti) ma con una tonalità incontro-
vertibile, che documenta fatti accaduti sul serio da qualche parte (una sorta di splendido
effetto Achille Campanile). Questa voce genera personaggi possibili che inaspettatamente
sono quasi sempre condotti ad azioni che strappano via ogni verosimiglianza col reale. Chi
narra è uno che conosce dei fatti e li racconta agli altri, ad un circolo di amici (o in un
crocicchio di santi, fa lo stesso), ma senza riportare (non si sentono) le risate, le aggiunte, le
probabili imprecazioni degli altri. Potrebbe, l’autore, anche non esserci; potrebbe aver lasciato
tutto scritto, possibilmente in bottiglie e al fondo dei pozzi (come nel Poema dei lunatici).
Non c’è insomma – come dire? – una causalità, un fatto da cui ne deriva un altro, non c’è una
vicenda da seguire, qualcosa che si aspetta debba accadere. La scrittura sembra il volantino di
un esploso con le figure che illustrano le parti di un oggetto. Come se la elocutio si mettesse
paradossalmente alla cappa dell’inventio e la trascinasse; e resta l’impressione che soltanto
dalla sonorità delle parole, di volta in volta, nascano i racconti, e non il contrario, come del
resto il nostro Cavazzoni consiglia, a rovescio, a chi dovesse venire la voglia di scrivere
(Cavazzoni 2009, 118). È – come dire? – un uso ben regolato di una lingua persa o meglio
dispersa. Non ha un centro, come accade per i poemi cavallereschi, del resto.
La prosa di Cavazzoni è paragonabile ad una pianura, ci si perde ed è lì che può capitare
d’incontrare di tutto: un nugolo di strambi; famiglie di giganti provenienti da altri libri di
cavalleria, aviatori in fuga verso l’Asia su motori di una Fiat 850, il velocissimo signor
Taddei Filippo difficile da avvicinare per come corre (e che ricorda il motociclista felliniano
di Rimini); o uno scrittore inutile, meglio se gonfiabile, oppure un meraviglioso “lunatico”
che gira col solo fine di origliare, non a caso, sul bordo dei pozzi nella pianura emiliana, da
buon “lunatico”. E, ancora, come non citare il personaggio di Primo Appariti – secondo me –
lontano pronipote di Mastro Geppetto, che si commuove ogni volta che le macchine strillano
nel mentre stringe loro i bulloni. La fila degli strambi in Cavazzoni è interminabile e scappano
(dalle piane emiliane) via di libro in libro (a cominciare dal Morgante e andando a finire in
mezzo alla Storia naturale dei giganti). Una nomenclatura non è semplice.
In Celati e Cavazzoni c’è come l’elogio del senso comune, ma detto in una lingua che nella
sua ovvietà mette brividi. Scopre evidenze là dove non le sospettavamo. Ci fa perdere
certezze, ci mostra tutto, davvero tutto, come un’impressionante finzione e restiamo
meravigliati del prevedibile, dalle cose comuni. Il senso comune – attenzione – qui non è il
buon senso, né il conformismo o il populismo. Scrive Celati: “viviamo nel senso comune, ed è
il senso comune che ci lega. Detto in altre parole: il senso comune è tutto quel tessuto di
piccole competenze che ci serve a dialogare con gli altri, tutte queste cose che stanno tra noi e
gli altri, per cui noi e gli altri ci intendiamo nel dare sen