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di Michelangelo, Raffaello e Tiziano, sino alla grandi rivoluzioni di Caravaggio, all’aurora di Guido Reni, al barocco di
Bernini. Un secolo di pittura e scultura, tra artisti più noti (Giulio Romano, Parmigianino, Romanino, Veronese,
Tintoretto, Caravaggio) e artisti meno noti e altrettanto imprescindibili e grandi: Altobello Melone, Campi, Savoldo, per
citarne una minima parte. Una storia dell’arte, "Il tesoro d’Italia", che è sempre anche una geografia dell’arte:
ovviamente Firenze, Venezia, Roma, ma anche Brescia, Ferrara, Cremona, Genova, Napoli, fino ai comuni più piccoli.
DAL CIELO ALLA TERRA
VITTORIO SGARBI
DAL CIELO ALLA TERRA
DA MICHELANGELO A CARAVAGGIO
Il tesoro d’Italia III
Introduzione di Luca Doninelli
BOMPIANI
VITTORIO SGARBI, Dal cielo alla terra. Da Michelangelo a Caravaggio. Il tesoro d’Italia III
Published by arrangement with Marco Vigevani & Associati Agenzia Letteraria
Progetto grafico Sara Pallavicini
Editing Sergio Claudio Perroni
L’Editore si dichiara disponibile con gli eventuali aventi diritto delle fotografie di cui non è riuscito a risalire alla fonte.
ISBN 978-88-452-8011-5
© 2015 Bompiani/RCS Libri S.p.A.
Via Angelo Rizzoli, 8 – 20132 Milano
Prima edizione Bompiani ottobre 2015
Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore.
È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata.
L’ERBA MALEDETTA
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LUCA DONINELLI
Una strana razza di intellettuali – critici, scrittori, poeti, cineasti – attraversa la storia d’Italia degli ultimi cent’anni.
Essi vengono temuti, e perciò tenuti a distanza, sono rispettati dal potere ma difficilmente amati; inquadrarli nel
sistema culturale risulta impossibile, impossibile collocarli in un profilo storico decente – puoi provare a cacciarli in un
manuale, tenendoli il più possibile a distanza uno dall’altro, e dimostrando in modo impeccabile che essi non hanno
nulla in comune uno con l’altro, ma loro saltano fuori sempre, e alla prima occasione metteranno alla berlina tutte le tue
interpretazioni così caute, ponderate e articolate, i tuoi civili distinguo, le tue virgolette.
Spesso dileggiati in vita, oppure ricoperti non importa se di onori, o di denaro, o di sputi, questi personaggi hanno il
difetto di esistere in barba a tutti gli autoritratti che una cultura sempre un po’ parruccona come la nostra produce per
giustificarsi al cospetto del mondo, per poter indossare l’abito più conveniente, mentre il loro abito è sempre
immancabilmente quello che indosseranno nella bara; e anche nelle foto di circostanza, quando resi inoffensivi dalla
Morte torneranno a presenziare (loro malgrado) in commemorazioni e celebrazioni, sarà con quell’abito che si
ripresenteranno, e sarà compito dell’esegeta di turno spiegare quell’abito, giustificarlo, collocarlo nel contesto storico.
Questi uomini sono indifferentemente di destra o di sinistra, talvolta tutt’e due le cose, altri non sono né l’una né l’altra
cosa, alcuni sono omosessuali ma anche qui non facilmente inquadrabili in una qualsivoglia “cultura” (cultura cattolica,
cultura gay e così via). C’è chi, una volta morto, cerca la damnatio memoriae senza riuscire a trovare un cane – per
quanto i tentativi si moltiplichino negli anni e nei lustri – in grado di accontentarlo. A volte li cacciamo all’inferno, altre
volte viceversa li trasformiamo nelle madonne pellegrine della cultura italiana – i profeti, quelli che avevano capito tutto
–, cerchiamo insomma di dimenticare il loro corpo, le loro chiappe, il loro cazzo, in altre parole quella loro presenza
tutt’altro che rassicurante. Li teniamo come profeti, vati, gallinacci da quattro lire. Eterni dilettanti (mentre loro, gli
accademici, loro sì che…), talentacci morti ancora acerbi, sempre irrisolti per vanità, amor di palcoscenico, potere, figa,
culo, soldi.
Come si somigliano, questi personaggi! Come sanno di erba amara, loro che sono la nostra erba maledetta e al
tempo stesso i nostri più genuini rappresentanti, più italiani di ogni italiano. Si chiamano indifferentemente Gabriele
D’Annunzio, Pier Paolo Pasolini, Giovanni Testori, e poi altri (non molti però) di cui non ha importanza fare i nomi, e
infine proprio lui: Vittorio Sgarbi. A tenerli insieme non è il pensiero, non le opinioni, non la fortuna critica (che il diavolo
se la porti), non l’accordo o il disaccordo tra l’uno e l’altro: a tenerli insieme è l’odore dei loro corpi, perché è col corpo che
essi hanno attraversato e attraversano l’Italia, col corpo hanno guardato e guardano questo paese, col corpo lo hanno
giudicato e lo giudicano, e ne hanno conosciuto la varietà, l’indefinibilità, il genio, e si sono lasciati sorprendere dalla
sua ricchezza, che noi facciamo così fatica a vedere perché per vedere la sovrabbondanza occorre innanzitutto essere
sovrabbondanti, possedere un’intelligenza generosa, mentre noi siamo diventati avari, avari di noi stessi, e parliamo
tutto il giorno di cibo ma non mangiamo, di sesso e non lo facciamo, di emozioni e non ne conosciamo nemmeno una di
quelle vere, di quelle che non c’entrano col primo sorso di birra, con l’ultimo modello Mercedes o con le fragranze al
bergamotto. Ed è per questo che poi sappiamo sempre meno, l’Italia ci risulta conosciuta fino alla noia, diventiamo ogni
giorno più ignoranti e a Firenze corriamo per vedere il David e al Louvre per la Gioconda, e sostiamo a Roma sotto il dito
informatico di Dio mentre dona vita al Primo Uomo, ma ignoriamo Moroni e il Savoldo, e poco sappiamo di Niccolò
dell’Arca e del suo Compianto e del “dolore furiale” che lo pervade, come disse il Vate.
L’Italia che sprofonda, l’Italia che ce la fa. L’Italietta di ladri di Travaglio e quella piena di virtù di Cazzullo. Basta,
fermiamoci un istante. L’Italia va conosciuta, vanno conosciuti i fuochi artificiali nel pieno dell’azzurro mezzogiorno, i
monasteri basiliani, gli orefici di Scanno. Va conosciuta questa compagine umana fatta di mille storie irriducibili tra
loro, messe insieme per forza dagli inglesi e dai Savoia ma lungamente unite solo dalla necessità quotidiana della
bellezza, del non poter vivere in un mondo che non sia bello anche se faticoso, come ci racconta il Foscolo, che di tutti i
poeti di casa nostra è il meno lagnoso circa le sorti dell’Italia, e offre il suo omaggio alle “convalli popolate di case e
d’oliveti” ben sapendo quant’è dura la vita in quelle case, quanto difficile coltivare ulivi, quanto ardui gli “incensi”.
Eppure i fiori non si dimenticano, e sono mille, contati uno a uno.
Nel suo Tesoro d’Italia, giunto al terzo volume, Vittorio Sgarbi ci offre sempre sguardi di prima mano. Dietro le sue
soste (il Tesoro è un romanzo di soste) c’è un corpo che si muove e pulsa, piedi che salgono scale spesso a orari
impossibili. Un amore insolente lo conduce per palazzi, chiese, abitazioni private, del tutto indifferente alle fortune
critiche o mediatiche delle opere. Che siano gli Uffizi o un solaio nella provincia mantovana, che siano affrescatori di
piscine o di cappelle sistine, Vittorio lo sa: dopo studi eccellenti e grandi maestri e romantici astratti furori occorre
andare, muoversi, indagare, possibilmente scoprire. I manuali e i profili storici stendono il loro inevitabile velo di
polvere sui capolavori, e questa è parte anche della loro funzione, che è quella di spronarci a cercare ancora, a non
accontentarsi. È questa la giustizia cui ogni profilo storico – ma, diciamo meglio, ogni storia – aspira, gridando: togliete
quella polvere!
Scrivere una storia è senza dubbio un atto di tentata (o di anelata) giustizia, ma alla fonte della storia la sete di
giustizia cresce. Così, nel saggio più impegnativo di questo volume, dedicato al Tintoretto, il longhiano Vittorio Sgarbi
contesta amorevolmente il maestro, insuperabile nell’insegnare l’arte dello Sguardo ma soggetto come tutti alle
restrizioni del cuore, al fascino discreto del sentimento, o risentimento. E senza smettere di accompagnarsi al Longhi
ne rovescia il giudizio. Ogni maestro cerca di impedire all’allievo di superarlo, ma curiosamente non smette di sognare
questa cosa.
Alla passione per l’arte figurativa si accompagna come un controcanto quella poetica, mai messa a tema ma ben
presente. La poesia diventa in Sgarbi non ornamento ma fonte, origine. L’impulso che lo muove verso un artista o una
singola opera appartiene a un fondo poetico nel quale è possibile intravedere una storia, dei precedenti, dei maestri,
sia pure assunti in una totale libertà di giudizio, che è il solo modo in cui si può dichiarare il proprio amore per un
maestro. Molto più pasoliniano di tanti esegeti – così puntuali, così filologici, così dediti – ma anche profondamente
dannunziano e longhiano e testoriano, Vittorio Sgarbi condivide le teorie dei maestri non nell’ordine del discorso ma
solo nella misura in cui esse si fanno corpo, carne, sangue.
Perché l’Italia ha questo di strano, che non la si può conoscere se non la si percorre tutta da capo, leggendo e poi
dimenticando la sua storia, il suo già-saputo, il suo già-interpretato, come fosse una terra inesplorata – perché questo
è, tanto che ormai gli immobiliaristi inglesi la conoscono meglio dei conservatori dei suoi musei e di tutti i suoi profondi
analisti (“Eh, l’Italia, si sa…”). La bellezza spudorata, incessante, di cui questa terra è stata capace richiede uomini
altrettanto spregiudicati. Questo atto di giustizia essenziale, per cui va bene Michelangelo ma guai a dimenticare –
come forse sta già accadendo – il Savoldo, e guai far le meraviglie per Caravaggio e poi non degnare di un’occhiata il
Rosso Fiorentino o il sommo Lorenzo Lotto, produce senz’altro le sue ingiustizie, le sue omissioni, ma tutto questo
apparteneva già al disegno del Tesoro, alla sua origine. Il fatto è che l’Italia esiste se rinasce qui, ora, sotto i nostri
occhi, ed è impossibile che questo accada solo grazie ai piani di sviluppo: occorre esercitare l’arte della preferenza,
finanche dell’arbitrio, proprio come accadde ai papi e ai cardinali che, in secoli inimmaginabili per i nostri parametri da
mod. 730, manifestarono simpatia per autentici pendagli da forca.
Si sa infatti che l’arte e la bellezza proliferano meglio là dove il pool genetico è più ricco, ossia nella promiscuità, tra
ladri e prostitute che, se non sbaglio, furono una frequentazione non so se desiderata ma comunque abituale di Gesù
Cristo. Ma proprio per questo niente è giusto e imparziale come l’arbitrio, se condotto dalla passione, poiché più del
puro distacco critico esso appartiene alla sana follia che genera la bellezza. Lo diceva Gianfranco Contini poco prima di
morire, a proposito degli scrittori dell’ultima generazione da lui conosciuta: bravi, corretti, preparatissimi, ma senza
quel pizzico di follia…
Un altro apporto, per nulla scontato, del lavoro di Vittorio Sgarbi sta nell’acribìa con la quale ci dà conto del livello
qualitativo sbalorditivo del nostro patrimonio artistico. Il miracolo della città italiana, codificata all’epoca dei Comuni,
fece di ogni comunità la titolare di un progetto originale, irriducibile e imparagonabile. Conoscere Firenze, Roma e
Venezia dimenticando Bergamo o Ascoli Piceno o Palazzolo Acreide renderebbe impossibile una valutazione decente
dell’enormità di questo paese, che qualche mente avara vorrebbe ridurre a terra di geni isolati, mentre essa stessa è il
genio, lei nella sua interezza. E Sgarbi ci ammonisce: gli artisti “maggiori”, “sommi”, in un contesto unico come questo
sono in numero esorbitante, e voi non vi azzardate a chiamare “minore” un Bassano, un Pordenone, un Moretto.
Insomma, Sgarbi appartiene a questa schiera strana, inimmaginabile altrove, casualmente osannata o vituperata,
di camminatori instancabili, di scopritori, di amanti capricciosi, di corpi sempre ingombranti – corpi vivi e veri, fatti di
muscoli e pulsioni e passioni –, questa schiera di uomini pieni di difetti, questi impresentabili della cultura, che tuttavia
sono in qualche modo i figli legittimi, forse gli ultimi, di una storia che, fuori dal loro arbitrio e forse anche dai loro errori
d’amore, risulterebbe – ne sono certissimo – ancora più incomprensibile di quanto già non sia.
DAL CIELO ALLA TERRA
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IL TESORO D’ITALIA III
CAPITOLO I
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L’OMBRA DEI MAESTRI
Raffaellino del Colle, Resurrezione di Cristo, part., duomo di Sansepolcro affreschi della Sala della Calunnia, Villa
Imperiale, Pesaro
Raffaellino del Colle, Resurrezione di Cristo, duomo di Sansepolcro
Agnolo Bronzino, Allegoria del trionfo di Venere, part., National Gallery, Londra
AGNOLO BRONZINO
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RITORNO ALL’ORDINE
Ciò che è radicale nel compiuto percorso irrazionalistico dei tre grandi maestri del manierismo toscano – Pontormo,
Rosso Fiorentino e Beccafumi – in Agnolo Bronzino si ricompone in una misura algida, di gelida armonia, senza
concessioni a fantasie bizzarre o effetti speciali.
Giovanissimo, Bronzino lavora accanto a Pontormo nella Cappella Capponi in Santa Felicita, e subito introduce una
diversa misura nel rapporto con lo spazio nei due tondi con San Marco e San Matteo. Da lì in avanti, sia nei soggetti
mitologici sia nei soggetti religiosi, Bronzino tenterà una restaurazione dell’ideale classico secondo canoni d’armonia
che risalgono agli esempi plastici di Michelangelo. Lo si vede bene nell’Allegoria del trionfo di Venere alla National
Gallery di Londra, così come nella Sacra famiglia agli Uffizi. Bronzino restituisce ordine a ciò che aveva rappresentato
un’esaltazione di interpretazioni soggettive, senza esempi e modelli. Risale alla fonte certa di Michelangelo e lo
depura in forme ideali. Ma è singolare che proprio a lui tocchi, con maggiore verità rispetto a Pontormo, coltivare la più
sofisticata esperienza naturalistica attraverso una serie di mirabili ritratti, dal Ritratto di giovane uomo con libro a Laura
Battiferri, da Eleonora da Toledo a Bartolomeo e a Lucrezia Panciatichi. Improvvisamente, il suo sguardo si fa più nitido e
coglie nella verità di un volto, non ansie psicologiche ma forza interiore, ruolo sociale.
Agnolo Bronzino, Sacra famiglia, part., Galleria degli Uffizi, Firenze
I suoi ritratti illustrano compiutamente l’opera di Baldassar Castiglione, Il cortegiano, con un’austera e aristocratica
evidenza. Così la poetessa Laura Battiferri mentre pensa i versi che la mano indica sul libro che tiene in mano. E così la
lunare bellezza di Lucrezia Panciatichi. Così la gravità regale di Eleonora da Toledo. Nei suoi ritratti, Bronzino ci
illustra un’intera epoca, senza cerimonie e senza encomio, attraverso l’esaltazione di individui che si fanno archetipi.
Bronzino sembra rinunciare a slanci interpretativi, a complicità e passioni. I suoi ritratti, rarefatti, composti, eleganti,
sono storia.
Agnolo Bronzino, Allegoria del trionfo di Venere, part., National Gallery, Londra
Agnolo Bronzino, Ritratto di Eleonora da Toledo, part., Galleria degli Uffizi, Firenze
Agnolo Bronzino, Ritratto di Lucrezia Panciatichi, part., Galleria degli Uffizi, Firenze
Agnolo Bronzino, Sacra famiglia, Galleria degli Uffizi, Firenze
Agnolo Bronzino, Allegoria del trionfo di Venere, National Gallery, Londra
Agnolo Bronzino, Ritratto di Eleonora da Toledo, Galleria degli Uffizi, Firenze
Agnolo Bronzino, Ritratto di Lucrezia Panciatichi, Galleria degli Uffizi, Firenze
Francesco Salviati, La Carità, part., Galleria degli Uffizi, Firenze
FRANCESCO SALVIATI
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TRA MICHELANGELO E PARMIGIANINO
Coetaneo e amico di Vasari, Francesco Salviati, nato a Firenze nel 1510, si muove come lui nell’orbita di
Michelangelo, ma è più curioso ed elastico. Così, a Roma nel 1531, mostra particolare curiosità per Raffaello, di cui dà
conto negli affreschi con le Storie di san Giovanni Battista in Palazzo Salviati, nei primi affreschi per l’Oratorio di San
Giovanni Decollato e nell’Annunciazione per San Francesco a Ripa. Una propensione per la pittura calligrafica, in una
dimensione sempre più astratta e mentale, sembra derivata dalla conoscenza di Parmigianino, conosciuto in Emilia
nel 1539. Ma rispetto a Vasari, e piuttosto in intesa con Bronzino, Salviati è un inventore raffinato e talora visionario,
come lo vediamo nella Carità degli Uffizi e nella Deposizione per il Refettorio di Santa Croce a Firenze.
A Roma, il suo impegno si dispiega anche nell’Oratorio dei Piceni e in Palazzo della Cancelleria, culminando nella
vasta decorazione di Palazzo Farnese. La sua piena maturità si manifesta nelle Storie di David in Palazzo Sacchetti,
sempre a Roma, notevoli per originalità d’invenzione e fantasia architettonica, come si vede nella Betsabea che si reca
da David, dove l’architettura manierista è reinterpretata in chiave visionaria, quasi alla Escher, e l’influenza dei
maestri toscani si fonde magistralmente con quella del Parmigianino. Se osserviamo opere di forte ispirazione
michelangiolesca come L’incredulità di san Tommaso, con i colori acidi derivati dagli affreschi della Cappella Sistina,
riconosciamo, nell’affinità con l’ortodossia vasariana, una più sofisticata sensibilità grafica, subito evidente nel ritmo
dei panneggi ma anche in un pathos che sembra la naturale maturazione del gusto di Pontormo e di Bronzino. Il ritmo
compositivo è cadenzato da un’architettura classica che aumenta la profondità dello spazio, come in una premonizione
di Escher, e rivela un’originale riflessione sulla concezione dell’opera di Giulio Romano.
Francesco Salviati, Betsabea si reca da David, Palazzo Sacchetti, Roma
Maurits Cornelis Escher, Relatività, collezione Federico Giudiceandrea, Bressanone
Francesco Salviati, L’incredulità di san Tommaso, part., Musée du Louvre, Parigi
Francesco Salviati, La Carità, Galleria degli Uffizi, Firenze
Francesco Salviati, L’incredulità di san Tommaso, Musée du Louvre, Parigi
Giorgio Vasari, I quartieri cittadini di San Giovanni e Santa Maria Novella, part., Salone dei Cinquecento, Palazzo
Vecchio, Firenze
GIORGIO VASARI
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OPERE SENZA VITA PER L’AUTORE DELLE VITE
La maniera toscana, dopo le visioni e le follie di Pontormo, Rosso Fiorentino e Beccafumi, si cristallizza in
un’adorante riflessione su Michelangelo, in particolare nei pittori della generazione successiva, Francesco Salviati e
Giorgio Vasari. Quest’ultimo, sempre misurato e corretto nell’adesione al metodo michelangiolesco, era totalmente
negato alla poesia. Difficile ricordarne un’invenzione in cui la fantasia e la libertà creativa non siano imbrigliate in un
virtuosismo che manifesta tutta l’ammirazione per Michelangelo. Ed è Vasari, nato nel 1511 ad Arezzo, che si incarica
di normalizzare anche la più viva, emozionata ed emozionante, ricerca artistica cresciuta su un ceppo diverso da
quello toscano; mi riferisco alla pittura veneziana. Giorgione e Tiziano avevano espresso sentimenti ed emozioni
liriche in una straordinaria immersione nella natura, dandoci le prime immagini di un paesaggio moderno, avevano
trasferito in pittura la poesia di Petrarca, l’idillio.
Come Petrarca, un altro aretino, Vasari arriva a Venezia per contrastare questa visione, mettere in crisi grandi come
Tiziano e Lorenzo Lotto, e aprire la strada a un artista spregiudicato come Tintoretto.
Vasari arriva a Venezia nel 1541 dopo essere stato, ventenne, a Roma con Francesco Salviati. Le tavole di Palazzo
Corner Spinelli sono determinanti per la maturazione in chiave monumentale di Tiziano, ma anche per i primi
capolavori di Tintoretto, culminanti nel Miracolo di san Marco che libera lo schiavo. La maniera toscana si manifesta a
Venezia con un tale imperio da sconvolgere la visione di Tiziano, così come si manifesta nei dipinti per Santo Spirito in
Isola, ora alla chiesa della Salute, e in tutti i pittori che dipingeranno il soffitto della Libreria Marciana.
Vasari era arrivato a Venezia come scenografo, chiamato da un altro illustre e influente aretino, Pietro, per mettere in
scena la sua Talanta. Sulla strada lasciò, a Bologna, la Cena di san Gregorio per il refettorio di San Michele in Bosco. La
sua mobilità era straordinaria, quasi per la missione di diffondere il messaggio michelangiolesco. Lo troviamo così a
Napoli nel 1545, con la Crocifissione e le tavole della sacrestia in San Giovanni a Carbonara; a Rimini nel 1547, per
l’Adorazione dei Magi nella chiesa di San Fortunato; a Pisa nel 1562, per riallestire il Palazzo degli Anziani. A Firenze,
tra il 1560 e il 1570, dipinge in Palazzo Vecchio il Salone dei Cinquecento con tutta la devozione per i venerati maestri
Leonardo e Michelangelo, sulle stesse pareti da loro evidentemente affrescate solo sommariamente, con sinopie e
disegni. Nel 1567 dipinge la cupola di Santa Maria del Fiore, realizzando le figure più vicine alla lanterna.
In nessuna di queste opere si muove un soffio di vita vera; e forse Vasari non sarebbe così presente nella nostra
visione delle arti del Rinascimento, se non fosse anche l’autore del primo manuale di storia dell’arte italiana, Le vite de’
più eccellenti pittori, scultori, e architettori, pubblicato nel 1550 da Lorenzo Torrentino e aggiornato nel 1568 con le
xilografie degli artisti nell’edizione Giuntina. È in queste Vite che troviamo preziose testimonianze e riscontri delle
opere da Cimabue a Michelangelo, fondamento della storiografia moderna.
Giorgio Vasari, Giudizio universale, part., duomo di Firenze
Giorgio Vasari, Giudizio universale, duomo di Firenze
Giorgio Vasari, I quartieri cittadini di San Giovanni e Santa Maria Novella, Salone dei Cinquecento, Palazzo Vecchio,
Firenze
CAPITOLO II
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LA MANIERA PADANA
Amico Aspertini, Madonna col Bambino e santi, part., basilica di San Martino Maggiore, Bologna
AMICO ASPERTINI
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“ALLA MANIERA DI NESSUNO MAI”
C’è da credere che non molti abbiano confidenza con l’opera di Amico Aspertini, originale campione del Rinascimento
a Bologna. Originale in ogni senso: perché nessuno ha interpretato il Rinascimento come lui, e perché nessuno è stato
tanto bizzarro e stravagante da riaccendere lo spirito di un’epoca che a Bologna si era espressa con grande
compostezza. Alla corte dei Bentivoglio, infatti, il classicismo si era manifestato nelle forme gentili e misurate di
Lorenzo Costa e Francesco Francia, formati sui modelli della pittura umbra, in particolare di Perugino. Cosicché la
maggiore novità di quegli anni, in tutta la sua potenza protomanieristica, fu certamente l’arrivo, nel 1515, dell’Estasi di
santa Cecilia di Raffaello. Con quell’opera si apriva una stagione nuova e si spazzava via il timido classicismo di Costa
e di Francia.
Lo spirito della pittura bolognese non poteva esaurirsi nelle forme semplici e composte di un Innocenzo da Imola e
neppure di Girolamo da Treviso, ortodossi seguaci di Raffaello, ma doveva trovare uno sfogo. E per questo nessuno
sembrava meglio predisposto di Amico Aspertini, animato da una furia che non consentiva pace alle forme, fino a
configurarsi come una sorta di anti-Rinascimento. Mentre la lingua di Raffaello si diffondeva in tutta l’Emilia Romagna,
articolandosi nelle variazioni di Correggio, Parmigianino e Giulio Romano da una parte, e di Innocenzo da Imola,
Girolamo da Treviso e Luca Longhi dall’altra, Amico Aspertini stava nella sua trincea mostrandosi molto più curioso
della pittura di Dürer, Cranach, Grünewald, osservati e tradotti come nessun altro fece.
Aspertini contrasta tutte le correnti pittoriche che vengono da sud, da Roma e da Firenze. Niente Perugino, niente
Raffaello, se non per farne il verso fino alla caricatura. Anche il suo rapporto con l’antico, la rianimazione di grottesche e
fregi classici studiati e disegnati a Roma, non è archeologia o memoria storica bensì nostalgia di una vita perduta che
si agita nelle forme senza regole e metodo. Aspertini è incomprensibilmente sfuggito ai surrealisti, che avrebbero
potuto riconoscere in lui un precursore per curiosità e originalità. Lo si vede anche nei disegni, memoria di viaggi a
Roma, Firenze, Lucca, Mantova, Venezia, fonti di esperienza come le discese alla Domus Aurea, dove Aspertini,
turista indisciplinato, ha lasciato graffito il suo nome.
Sulle prime, Aspertini sembra trovare un fratello nel pittore ferrarese Ludovico Mazzolino e, con altrettanta fantasia
e maggiore controllo, intarsia le sue opere di bassorilievi e grottesche nelle luminose e coloratissime forme, come si
vede nella Pala del Tirocinio, ora alla Pinacoteca nazionale di Bologna. Anche quando il confronto con Raffaello è diretto,
come nella Pala di San Martino Maggiore con la / Bambino e santi, Aspertini mostra insofferenza a ogni ordine e a ogni
schema, al punto che le immagini sembrano galleggiare, sospese nel vuoto in uno spazio indefinito. Lo stesso
stralunato spirito si ritrova sia nella Pietà per la Cappella Garganelli in Sant’Antonio sia in una sgangherata pala nella
chiesa parigina di Saint-Nicolas-des-Champs. L’essenza e la fantasia di Aspertini tornano negli affreschi della chiesa
di San Frediano a Lucca, dove il pittore bolognese irrompe nel delicato tessuto toscano con un racconto zingaresco ricco
di umori e di volti caricaturali. Al confronto con questo rumore della strada, con questo spirito popolaresco, anche un
pittore affine come Filippino Lippi appare accademico. È così che di Aspertini può ben dirsi ciò che aveva intuito Carlo
Cesare Malvasia: “Un uomo capriccioso e fantastico, che alla maniera di nessuno mai volle assoggettarsi, studiando
bensì da tutti”.
Amico Aspertini, Pala del Tirocinio, part., Pinacoteca nazionale, Bologna
Amico Aspertini, Madonna col Bambino e santi, part., basilica di San Martino Maggiore, Bologna
Amico Aspertini, Pala del Tirocinio, Pinacoteca nazionale, Bologna
Amico Aspertini, Madonna col Bambino e santi, basilica di San Martino Maggiore, Bologna
Dosso Dossi, Baccanale, part., Castel Sant’Angelo, Roma
DOSSO DOSSI
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A FERRARA, IL PRIMO PITTORE ROMANTICO
Stava a Ferrara, Dosso Dossi, e osservava con distacco le smaltate meraviglie dei grandi pittori della generazione
che lo aveva preceduto: quella di Cosmè Tura, Francesco del Cossa, Ercole de Roberti. Non era a loro che voleva
guardare, ma piuttosto ai giovani e vicini pittori romantici: i nouveaux philosophes, Giorgione e Tiziano, che stavano
compiendo la loro rivoluzione a Venezia. In quei paesaggi, in quei boschi si perdeva il pensiero di Dosso, che vedeva
come irrinunciabili modelli la Tempesta, i Tre filosofi, il Concerto campestre. Lui voleva essere lì. E di quelle visioni, di
quegli idilli di natura, sentiva perdutamente il foscoliano “calore di fiamma lontana”. Eccolo allora avvicinare quei
paesaggi e incendiarli, ma anche far rivivere un’iconografia collaudata.
Così i suoi esordi si possono far coincidere con la prima testimonianza d’amore nei confronti della pittura veneziana,
del maestro dei maestri: Giovanni Bellini. Mi riferisco alla paletta con la Madonna con il Bambino e angelo musicante per
il duomo di Lendinara, presidio di cultura ferrarese nel Veneto. L’opera è firmata Domenico Mancini e datata 1511. Ma
vi è chi, per la difformità dello stile, ha visto la mano del giovane Dosso, poco più che ventenne, nell’angelo infuocato che
suona sotto la composta Madonna (derivata dalla Pala di San Zaccaria di Bellini, concepita agli inizi del secolo, proprio
mentre crescevano gli idoli di Dosso, Giorgione e Tiziano). Se l’intuizione è giusta, tutto ciò che segue è coerente. Dosso
dipinge la Ninfa e il satiro della Galleria Palatina, il Baccanale ora al Museo nazionale di Castel Sant’Angelo a Roma, le
Tre età dell’uomo del Metropolitan Museum di New York, il Riposo durante la fuga in Egitto ora agli Uffizi, il Compianto sul
Cristo morto ora alla National Gallery di Londra, Enea ed Acate sulla costa libica ora alla National Gallery of Art di
Washington, la Melissa (o Circe) della Galleria Borghese, Giove pittore di farfalle del Castello di Wawel, a Cracovia. Sono
alcuni dei capolavori del decennio successivo alla morte di Giorgione, tra il 1510 e il 1520.
Dosso Dossi, Baccanale, part., Castel Sant’Angelo, Roma
Nessun pittore, più di Dosso Dossi, diede un’interpretazione tanto romantica e appassionata del mondo di Giorgione
e di Tiziano giovane, visto nelle sale del Castello di Ferrara. Quei paesaggi della campagna veneta tra Este,
Monselice, Conegliano, Asolo, i Colli Euganei, i Colli Berici, diventano, in Dosso Dossi, luoghi del mito, boschi sacri con
albe e tramonti dorati e arcobaleni sul fiume, sul Po che avanza da Ferrara. Sono paesaggi reali e onirici insieme,
visioni, opere calde, incendi di colore. Vi sono anche riferimenti esplicitamente letterari, illustrazioni di temi mitologici
o cavallereschi. Così che, in coincidenza di date, la fantasia di Dosso sembra sintonizzarsi con quella di Ludovico
Ariosto dell’Orlando furioso (la prima edizione è del 1516, la seconda del 1521).
Fin dal 1514, Dosso è pittore di corte a Ferrara, per Alfonso d’Este, negli anni della Camera dell’alabastro, con i
Baccanali di Giovanni Bellini e di Tiziano. L’ebbrezza di Tiziano e le riflessioni su Raffaello – soprattutto quello della
pala di Foligno – orientano il suo gusto e la sua visione e si manifestano chiaramente in quel capolavoro compiuto che è
la Melissa (o Circe). Qui la donna regale domina la natura accendendola di una luce calda e paradisiaca. La sua veste è
lussureggiante, della stoffa più preziosa che potesse arrivare dall’Oriente; la natura tutt’intorno, pastori compresi, è
quella della Tempesta e del Concerto campestre, ed è anche più fertile e ricca. Con queste originali interpretazioni,
Dosso Dossi è il primo pittore romantico italiano.
Dosso Dossi, Circe, part., Galleria Borghese, Roma
Dosso Dossi, Circe, part., Galleria Borghese, Roma
Dosso Dossi, Baccanale, Castel Sant’Angelo, Roma
Dosso Dossi, Circe, Galleria Borghese, Roma
Savoldo, Annunciazione, part., Gallerie dell’Accademia, Venezia
SAVOLDO
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“DI NOTTE, E DI FUOCHI, MOLTO BELLI”
Qualcosa ostacola, forse vantaggiosamente, l’affermarsi di una piena popolarità per taluni, grandi e imprescindibili
artisti, ai quali è riservato il più ampio riconoscimento nell’area ristretta dei competenti. È il caso di Giovanni Gerolamo
Savoldo, pittore amatissimo e reputatissimo da studiosi e coltivati conoscitori, eppure lontano dalla comune conoscenza
anche in tempi come questi, così attenti alle celebrazioni dei centenari. Mezzo millennio ci separa oggi dal Savoldo,
senza che egli ci si sia allontanato più di un giorno, viva e appassionata com’è la sua pittura.
Una leggenda, forse non priva di fondamento, lo vuole di nobili origini: cosa che potrebbe dare ragione della sua
impopolarità, nonostante in lui non vi sia mai la superbia o l’ostentato distacco che talvolta sentiamo nei popolarissimi
Tiziano o Tiepolo. D’altra parte, lo stesso riconoscimento della critica non è mai stato molto più che onorario, senza che
al Savoldo toccasse di essere considerato un artista centrale o dominante.
Da queste premesse deriva che l’atteggiamento più consueto anche tra gli storici dell’arte sia quello di considerare
Savoldo una questione risolta con l’ammissione generica delle sue qualità. E invece il suo nome sottintende alcuni dei
più importanti problemi della storia dell’arte tra Lombardia e Veneto. La moderna riproposta di un Savoldo giorgionesco
e “naturalista”, insomma più veneziano che bresciano, si deve a Carlo Volpe, nel più vasto impegno di gettare con
motivate argomentazioni un ponte tra Giorgione e Caravaggio, di cui Savoldo è certo una delle chiavi principali, essendo
tanto giorgionesco quanto lombardo. La perigliosa dimostrazione di Volpe per giungere al Giorgione caravaggesco
deve passare per un Caravaggio savoldesco. Già il Vasari ci aveva indirizzato: “Di mano di Giangirolamo bresciano si
veggono molte opere in Venetia, e in Milano, e nelle dette case dalla Zeccha sono quattro quadri di notte, e di fuochi,
molto belli, e in casa di Tommaso da Empoli, in Venetia, è una Natività di Christo finita di notte molto bella, e sono due
altre cose di simile fantasia, delle quali era Maestro”.
E maestro appare il Savoldo nell’Annunciazione per la chiesa veneziana di San Domenico di Castello, soppressa nel
1806. Qui la ricordano le fonti come opera di Marco Vecellio. Anche il Ganzer accetta il nome di Marco Vecellio, dando la
notizia del ritrovamento a Ghirano vicino a Pordenone, dopo le spoliazioni napoleoniche. Eppure il quadro, per il primato
dei dati visivi su quelli documentari, si dichiara immediatamente opera indiscutibile del grande maestro bresciano, e
ne è anzi un’invenzione assolutamente tipica e insieme assolutamente originale, non meno di quelle ricordate dalle
fonti e ancora presenti a Venezia. L’ambientazione notturna che caratterizza le sue Natività, come quella Tosio
Martinengo o quella per la chiesa di San Giorgio a Venezia, è qui accentuata dalla scelta di un ambiente chiuso,
rischiarato dal lume a olio, in alto, che suscita effetti di controluce, proprio come quelli ammirati dal Ridolfi sulle “mezze
figure finite di notte, nelle quali osservansi alcuni lumi cagionati da un lume”. Sono queste le opere per le quali,
andando anche oltre il Caravaggio – che certamente le vide a Venezia – la critica ha pronunciato i nomi di Gherardo
delle Notti e di Matteo Stomer.
Savoldo, Annunciazione, part., Gallerie dell’Accademia, Venezia
Se dall’ambientazione si passa poi ai dettagli, lampanti sono nell’Annunciazione i rapporti con le opere note del
Savoldo, dal riquadro in alto nella finestra – con l’apparizione a colpo di schioppo del Padre Onnipotente – all’ampio
panneggio dell’angelo, accostabile a quello dell’arcangelo nel Tobiolo della Galleria Borghese e a quello del Cristo
nella Trasfigurazione degli Uffizi (specialmente il braccio e la manica destra), così come la testa del medesimo è in
strettissima relazione con la Mezza figura di giovane della Galleria Borghese di Roma. Anche per la Vergine i
riferimenti sono amplissimi, dal volto della Maddalena iridescente della National Gallery di Londra a quelli delle
diverse Natività, in particolare quella della collezione Albertina, quella nella Galleria Sabauda e in San Giobbe a
Venezia.
Sommamente savoldesche sono poi le mani sensitive dell’angelo (guardate come stringe il giglio!) e quelle della
Vergine, quasi scolpite nel legno sotto il bellissimo effetto di controluce, che evidenzia, come spesso in Savoldo, la
linea di contorno delle unghie. Ogni ulteriore indicazione è inutile, tanto sono forti i caratteri e l’atmosfera savoldesca in
quest’Annunciazione, di una semplicità e di un’eleganza senza paragone, veramente neoattica e precaravaggesca, in
quell’essenzialissima sintesi di idealismo e realismo che è tipica del Savoldo; e siamo appena tra il 1535 e il 1540,
ossia negli anni del trionfo di Tiziano e dell’esilio di Lorenzo Lotto. Ma a Brescia, come vedremo, accadono cose
memorabili.
Savoldo, Annunciazione, Gallerie dell’Accademia, Venezia
Romanino, Crocifissione, part., chiesa di Santa Maria della Neve, Pisogne
ROMANINO
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AI MARGINI DELLA STORIA, AL CENTRO DELL’ARTE
Se come vedremo a Cremona Altobello rinnova la pittura introducendo dramma, umanità, colore, Romanino domina
nel Bresciano, con lo stesso spirito e più fuoco e disordine dei sensi. Altro suo fratello spirituale, ma più lirico e
intimista, è Lorenzo Lotto. Ma Romanino sceglie da subito di essere l’ala dionisiaca di Tiziano, fin dal precoce polittico
di Santa Giustina a Padova del 1513.
Romanino è un incendiario, il suo spirito padano ha la stessa energia e vitalità di Dosso Dossi, entrambi innamorati
di Giorgione; ma a Brescia nel 1522 arriverà un’altra opera definitiva di Tiziano, memorabile per la figura del san
Sebastiano derivata dai Prigioni di Michelangelo e impressionante per il volo, nel cielo infuocato dal tramonto, di un
atletico Cristo risorto. Nuova linfa per il Romanino negli anni in cui l’impresa del suo sodale e complice Altobello si avvia
al declino: egli ha energie illimitate, e lascia traccia di sé in borghi, castelli e pievi fino a incrociare l’altro sovversivo,
Dosso Dossi, al Castello del Buonconsiglio a Trento. Romanino si era già distinto nel dialogo con Tiziano nella fortunata
Salomè, versione espressionistica di quella (talora considerata una Giuditta) di Tiziano alla Galleria Doria Pamphilj.
Dopo un passaggio a Cremona per affiancare l’alter ego Altobello – scavalcato dal Pordenone, che chiude l’impresa
della decorazione a fresco nella cattedrale –, ritroviamo il Romanino a Brescia, di nuovo in dialogo con il Tiziano del
Polittico Averoldi, nella Cappella del Santissimo Sacramento della chiesa di San Giovanni Evangelista, misurandosi
con Moretto. Nel 1524, sempre a Brescia, dipinge il polittico di Sant’Alessandro, ora alla National Gallery di Londra, e tra
il 1524 e il 1526 è ad Asola per la cantoria e le ante d’organo; nel 1529 è a Salò per il vividissimo Sant’Antonio da
Padova nel duomo. A Trento arriva tra 1531 e il 1532, ma la sua piena maturità si dispiega tra il lago d’Iseo e la Val
Camonica, nelle chiese di Sant’Antonio a Breno, dell’Annunciata a Bienno e di Santa Maria della Neve a Pisogne. Qui
ritorna in chiave espressionistica, se non caricaturale, il ricordo del Cristo risorto di Tiziano, tra le più alte
interpretazioni padane di Michelangelo, anticipando la Sistina. Tanto che Giovanni Testori definirà gli affreschi di
Pisogne “la Cappella Sistina dei poveri”.
Romanino, Crocifissione, part., chiesa di Santa Maria della Neve, Pisogne
Nella Crocifissione e nelle Storie di Cristo di Pisogne, Romanino si esprime con un linguaggio grottesco, comprimendo
i corpi fino a deformarli, oltre le regole della prospettiva rinascimentale, in dialogo con lo spirito popolare dei Sacri
Monti, in particolare con il Gaudenzio Ferrari di Varallo, in un teatro senza precetti, fuori dall’osservanza di canoni e
prescrizioni liturgiche. A Santa Maria della Neve si compie una rivoluzione: Cristo appare goffo e molle, più che
atletico; nessuna regola è certa, il disegno è veloce e sintetico, beffardo rispetto a ogni modello classico; i modelli sono
corpi deformi di contadini, non statue classiche. Così Testori può definire Romanino “il più grande e più torvo e triviale
dei pittori in dialetto dell’arte di ogni regione e di ogni tempo […] il solo vero grande e sdegnoso barbaro”. La Discesa al
Limbo lo appassiona meno di un litigio tra ragazzi, e la Maddalena ai piedi della croce è una contadina con le guance
rubizze e le braccia grosse. Testori aggiunge, osservando l’impianto dell’intera decorazione: “Guardate qui su le
sibille se non sembrano donne che tornino con le loro gerle dai boschi […] Pisogne per forza poetica tiene la Sistina, ne
è come l’alterità, l’altro modo di vivere il cristianesimo. Qui c’è un modo di viverlo più umile, più da eroismo popolare e
montagnardo, più dialettale […] Romanino qui fa il controcanto della parola che si fa carne, infatti prende la carne di un
popolo, di una valle e ne fa verbo figurativo”.
Romanino, Discesa al Limbo e Lavanda dei piedi, chiesa di Santa Maria della Neve, Pisogne
Romanino, Crocifissione, chiesa di Santa Maria della Neve, Pisogne
Dopo quest’impresa ai margini della storia ma al centro dell’arte, Romanino procede con altre imprese come le ante
d’organo per il duomo Vecchio a Brescia e per San Giorgio in Braida a Verona; continua verso il 1545 a dipingere per la
Cappella del Santissimo Sacramento in San Giovanni a Brescia, e ancora, entro il 1550, la pala di San Domenico e la
Pala Avogadro. Chiude la sua opera con la Caduta della manna ancora per il duomo Vecchio di Brescia e con la
Vocazione dei Santi Pietro e Andrea per la chiesa di San Pietro a Modena. Il suo fuoco si spegne sotto la cenere
dell’allievo e genero Lattanzio Gambara.
Romanino, particolare della volta, chiesa di Santa Maria della Neve, Pisogne
Moretto da Brescia, Apparizione della Madonna al sordomuto Filippo Viotti, part., santuario della Madonna di Paitone,
Paitone
MORETTO DA BRESCIA
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TENSIONE SPIRITUALE ASSOLUTA
Il più austero dei grandi pittori bresciani del Rinascimento è certamente Moretto da Brescia, fedele alla prima fonte
di Vincenzo Foppa, la cui pittura religiosa si fonda su un umanissimo sentimento della devozione popolare. Nato alla
fine del secolo, nel 1498, Moretto guarda certo il più vicino dei maestri veneti, Lorenzo Lotto, intendendone la pietas
contro ogni tentazione espressionistica, così evidente in Romanino per una forte attrazione della pittura nordica. E Lotto
vuol dire, negli anni della formazione di Moretto, il pittore più vicino a Raffaello, mentre meno forte appare l’impressione
di Tiziano. Non è da escludere, per contiguità, anche un interesse del giovane Moretto per la pittura ferrarese tra
Garofalo e Dosso, come si manifestano nel precoce Polittico di Sant’Andrea, realizzato negli anni dei suoi esordi. Così lo
vediamo nella Madonna in trono col Bambino tra i santi Giacomo Maggiore e Girolamo conservata all’High Museum of Art
di Atlanta, un’opera splendente, luminosa. Nel 1518 dipinge San Faustino a cavallo e San Giovita a cavallo per l’organo
del duomo Vecchio di Brescia, ora a Lovere; nel 1521 si misura con il Romanino nella Cappella del Santissimo
Sacramento della chiesa di San Giovanni Evangelista, in un’impresa che durerà fino agli anni quaranta. I rapporti della
giovinezza con Lorenzo Lotto si rinsaldano nel 1528, quando il pittore veneziano scrive al “molto carissimo suo honorato
messer Alessandro Moretto pittore exellentissimo” per chiederne la collaborazione per la decorazione del coro della
chiesa di Santa Maria a Bergamo.
Di quest’affinità spirituale con il Lotto è notevole documento l’Apparizione della Madonna al sordomuto Filippo Viotti per
il santuario della Madonna di Paitone, testimonianza di una sensibilità che prelude a Caravaggio. Ancora il Lotto ispira
la devozione intensa e autentica della Santa Giustina da Padova e un donatore, oggi al Kunsthistorisches Museum di
Vienna. Il processo di accostamento a una dimensione sempre più umana, di intenso realismo, continua nella Pala
Rovelli per Santa Maria dei Miracoli a Brescia (ora nella pinacoteca Tosio Martinengo), dove san Nicola da Bari
presenta gli allievi di Galeano Rovelli alla Madonna in trono con il Bambino.
Nella ritrattistica, dove il Moretto eccelle, la guida è sempre Lorenzo Lotto, come si vede nel Ritratto di Fortunato
Martinengo Cesaresco, del 1542, dove il tema lottesco del giovane malinconico in meditazione si incrocia con l’esibita
esaltazione del rango e della ricchezza nei preziosi dettagli di tendaggi, velluti, ermellini. Ma intanto il Moretto coltiva
le sue ossessioni religiose e controriformistiche: sono gli anni delle ante d’organo per San Giovanni Evangelista e della
Caduta e conversione di san Paolo per la chiesa di Santa Maria presso San Celso a Milano, opera lungamente
osservata da Caravaggio negli anni della formazione milanese.
È in questi ultimi anni che il Moretto coniuga realismo e misticismo in quell’assoluto capolavoro che è il Cristo e
l’angelo ora alla Pinacoteca Tosio Martinengo, databile verso il 1550, con l’invenzione sublime della tunica sollevata
dall’angelo piangente, in una smorfia di dolore senza precedenti, con la croce buttata di traverso nell’angolo e il Cristo
seduto sui gradini come un clochard, lontana derivazione degli Ecce Homo e delle Incoronazioni di Tiziano. Il dipinto
parla di una sconfitta, e le sue tonalità grigie e marroni sono un’assoluta rinuncia ai colori e agli splendori della pittura
dai quali Moretto era partito. Un’opera d’intensissima tensione spirituale, disarmata, senza speranza. L’angelo
disperato dichiara l’impotenza e l’umiliazione di Cristo, che sembra rassegnato all’inutilità del sacrificio. Da quella
posizione è impossibile risorgere.
Moretto da Brescia, Santa Giustina da Padova e un donatore, part., Kunsthistorisches Museum, Vienna
Moretto da Brescia, Cristo e l’angelo, part., Pinacoteca civica, Brescia
Moretto da Brescia, Cristo e l’angelo, Pinacoteca civica, Brescia
Moretto da Brescia, Santa Giustina da Padova e un donatore, Kunsthistorisches Museum, Vienna
Moretto da Brescia, Apparizione della Madonna al sordomuto Filippo Viotti, santuario della Madonna di Paitone, Paitone
Altobello Melone, Fuga in Egitto, part., duomo di Cremona
ALTOBELLO MELONE
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UN ESPRESSIONISTA A CREMONA
Mentre a Ferrara furoreggia Dosso Dossi, a Cremona, patria di pittori, dopo le meditazioni belliniane di Boccaccio
Boccaccino c’è spazio per gli astratti furori di Altobello Melone, che coniuga Leonardo e Bramantino con il giovane
Tiziano. Anche nel suo caso, la prospettiva dalla quale sono visti i maestri veneziani è romantica, fondamentalmente
anticlassica, al punto che, fin dall’inizio del secondo decennio, Altobello sceglie come interlocutore e sodale un altro
originale ed eterodosso tizianesco, il bresciano Romanino, come si vede fin dal 1511-12 nel Compianto sul Cristo morto
di Brera, in dialogo con il dipinto di analogo soggetto del Romanino all’Accademia di Venezia (è Marcantonio Michiel,
curioso collezionista e amatore d’arte veneziano, a chiamare Antonello Melone “discepulo di Armanin”). Di questa fase
di Altobello sono memorabili la Coppia di amanti ora a Dresda, torbida interpretazione della ritrattistica del Lotto, e il
volitivo Ritratto di gentiluomo dell’Accademia Carrara di Bergamo.
Ma Altobello ha il suo campo di prova nella cattedrale di Cremona, dove si affianca a Boccaccio Boccaccino e a
Giovanni Francesco Bembo. Tra 1516 e 1518 sono documentati i suoi affreschi nella navata centrale del duomo. Qui
l’artista matura il suo linguaggio espressionistico, variante del gusto popolare del Romanino, con il quale si era
misurato negli affreschi di Sant’Onofrio a Bovezzo, in Valtrompia. A Cremona, invece, Altobello dialoga inizialmente con
Boccaccino nelle Storie di Maria. È difficile individuarlo nella compostezza classica dell’olimpico Boccaccino, ma è subito
riconoscibile negli affreschi del settimo arcone a sinistra della navata centrale, con la Fuga in Egitto e la Strage degli
innocenti. Nel contratto con i massari della cattedrale è esplicitamente richiamato ad Altobello il precedente di
Boccaccino, al cui stile e al cui ritmo narrativo dovrà conformarsi, pena il raschiamento degli affreschi (a spese
dell’artista).
Conclusa l’impresa nell’agosto del 1517, proprio il Romanino, indicato da Altobello, e altri due giudici, scelti dai
committenti, espressero parere favorevole. Così, nel 1518 i massari richiamarono Altobello per gli affreschi con le
storie della Passione da dipingere sulla parete destra della stessa navata: vediamo L’ultima cena, la Lavanda dei piedi,
l’Orazione nell’orto, la Cattura di Cristo e Cristo davanti a Caifa. Qui Altobello esprime il punto più alto della sua impresa
artistica. Se nella Strage degli innocenti la richiesta di “varie crudeltà de omini” e donne “spaventevole e scapigliate”
trovava nel pittore una rappresentazione convinta attraverso i richiami alla cultura nordica, in questi affreschi la
vocazione drammatica di Altobello si semplifica in forme essenziali, sintetiche, con figure più grandi e panneggi ampi
e geometrici. Così Altobello, nella visione distanziata, va oltre lo schema narrativo di Boccaccio Boccaccino e apre al
gusto manieristico, magniloquente, del Pordenone, che chiuderà la decorazione pittorica della cattedrale.
Altobello Melone, Strage degli innocenti, part., duomo di Cremona
Per questo scarto, anche rispetto agli affreschi della parete frontale, è certamente determinante l’influenza di
Raffaello con le due pale di San Sisto a Piacenza e di Santa Cecilia a Bologna. Ma Altobello, attraverso Romanino, ha
meditato su Dürer, Cranach, Altdorfer, rivelandosi tra i più colti pittori italiani di quegli anni, insieme a Lorenzo Lotto,
pellegrino in Italia e di lì a poco attivissimo a Bergamo e in territorio bergamasco. Eppure neanche Lotto, come nessuno
in quegli anni, tra Ferrara, Mantova, Cremona, Bergamo e Brescia, è versatile come Altobello, che, nella cattedrale di
Cremona, raggiunge l’acme della pittura padana del secondo decennio, prima dello sconvolgente arrivo di Giulio
Romano e dell’affermazione del Correggio nella cupola di San Giovanni Evangelista a Parma.
Altobello Melone, Strage degli innocenti, part., duomo di Cremona
Altobello Melone, Fuga in Egitto, duomo di Cremona
Altobello Melone, Strage degli innocenti, part., duomo di Cremona
Callisto Piazza, Decollazione del Battista, part., santuario dell’Incoronata, Lodi
CALLISTO PIAZZA
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UNA TENSIONE SCONOSCIUTA
Ferrara, Camerino, Brescia, Cremona… Città che oggi appaiono minori, nel Rinascimento furono capitali. Tra queste,
Lodi.
In pieno Cinquecento, come controcanto di Brescia, Lodi è la città di Callisto Piazza, artista operoso e sofisticato, in
equilibrio fra Tiziano, Romanino e Moretto.
Figlio d’arte, egli impara il mestiere presso il padre Martino e lo zio Albertino, il cui orizzonte era più limitato rispetto
a quello dei pittori bresciani, in particolare del Romanino, che Callisto incontra a Brescia nel 1524 e di cui batte le
stesse tappe in Valcamonica.
Nel quarto decennio lo troveremo a Crema e poi a Milano, dove affresca una sala del Castello Sforzesco, e all’abbazia
di Chiaravalle.
La curiosità e l’energia che Callisto esprime nella pittura si manifestano compiutamente nei dipinti per il
meraviglioso santuario dell’Incoronata, con le Storie del Battista e la Passione di Cristo.
Qui agisce una complessa sensibilità culturale nella quale entra la conoscenza degli affreschi del Pordenone nella
cattedrale di Cremona e dell’opera di Giulio Campi.
Nella Deposizione, Callisto si spinge fino a ripetere il motivo di Michelangelo nel braccio che pende inerte, come
nella Pietà vaticana; e nella Decollazione del Battista sembrerà aggiungere alla compiuta sintesi drammatica la vitalità
del movimento, riuscendo a esprimere una tensione sconosciuta persino a Tiziano. Ed è questa la sua specifica
dimensione poetica.
Callisto Piazza, Decollazione del Battista, santuario dell’Incoronata, Lodi
Parmigianino, Pallade Atena, part., Royal Collections, Hampton Court
PARMIGIANINO
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IL CULTO PAGANO DELLA BELLEZZA, A PARMA
Fuori dalla Firenze di Pontormo, Rosso e Bronzino, interpreti alieni di Michelangelo, il manierismo ha il suo
campione in Parmigianino, forse il più originale pittore emiliano del Cinquecento, la cui parabola, descritta
polemicamente da Giorgio Vasari, avrebbe potuto condurlo a essere l’erede di Raffaello.
Nato nel 1503 a Parma, il Parmigianino arriva a Roma, chiamato da papa Clemente VII, nel 1525, pochi anni dopo la
morte del Divino Pittore. Il suo volto in quegli anni è quello dell’Autoritratto entro uno specchio convesso: un giovane
efebico e romantico. Ma il suo destino è segnato dal sacco di Roma che, nella grande città devastata, gli impedisce
l’affermazione sperata e lo costringe a risalire l’Italia, rientrando nella sua città natale, dove aveva prosperato – in un
mondo parallelo di armonie e perfezioni amorose – il suo primo maestro: Correggio. Dopo una breve sosta a Bologna,
dove lascia alcuni capolavori come la pala con Santa Margherita e il San Rocco, nel 1530 il Parmigianino torna
definitivamente a Parma, accompagnato dalla leggenda della gloria romana, che non ebbe, ma che gli consente di
esprimere in soli dieci anni assoluti capolavori fra i quali l’Antea, e gli affreschi, incompiuti e mirabili, con Tre vergini
stolte e tre vergini sagge per la chiesa di Santa Maria della Steccata. La maniera che Parmigianino elabora è del tutto
autonoma da Raffaello e Michelangelo, che trovano il loro presidio nell’impresa di Giulio Romano a Palazzo Te a
Mantova. Parmigianino sviluppa uno stile sofisticato e intellettuale, in cui l’armonia dei sensi di Correggio si trasforma
in un’alchimia di forme nuove, algide e cristalline.
Il cavaliere Francesco Baiardi era amico e collezionista esclusivo del Parmigianino, ed è sua sorella Elena a
commissionare al pittore, per la cappella funeraria del marito nella chiesa di Santa Maria dei Servi a Parma, il 23
dicembre 1534, la sua opera più nota e rappresentativa, e forse la più perfetta e la più grande, la Madonna dal collo
lungo, di cui quasi una versione profana può essere considerata la coeva, e preziosamente antiquariale, Pallade Atena
di Hampton Court, probabilmente da identificare con “una testa col petto d’una Minerva di mano del Parmesianino”
nell’inventario della collezione di Francesco Baiardi. Non che il mondo antico manchi, nella Madonna dal collo lungo,
come testimonia l’accenno del peristilio di un tempio dietro la emergente colonna, simbolo della fortezza e dell’integrità
della Vergine ma anche del contributo del mondo antico alla costruzione della civiltà cristiana. Così, in basso, un
minuscolo profeta si ritaglia come un filosofo antico uno spazio solitario ai piedi delle colonne del tempio. “Alla chiesa di
Santa Maria dei Servi fece in una tavola la Nostra Donna col figliuolo in braccio, entro la quale riluce una croce
contemplata dalla Nostra Donna. La quale opera, perché non se ne accontentava molto, rimase imperfetta. Ma non di
meno è cosa molto lodata in quella sua maniera piena di grazia, e di bellezza”.
L’opera accompagnò il Parmigianino fino alla morte, senza che egli giungesse a compierla. Arrivò nella Cappella
Baiardi solo nel 1542. È testimonianza di un processo alchemico compiuto, di una trasformazione della materia in
spirito, in pura idea: potrà poi essere, come vuole Fagiolo dell’Arco, l’Immacolata concezione della Vergine, la sua
divina maternità allusa nella forma pura del vaso. Aggiunge Fagiolo: “La ricerca è da approfondire; questo motivo del
collo lungo connesso alla Vergine è una lunga storia, e trova le sue radici addirittura nel Medioevo. In un inno medievale
così è esaltata Maria: collum tuum ut columna, turris et eburnea”. Diversa è la seducente, non formalistica
interpretazione di Hauser: “Par che nessun elemento del quadro si accordi con un altro, non una figura che si comporti
secondo le leggi naturali, non un oggetto adempia la funzione che gli verrebbe assegnata di norma. Non si sa se la
Vergine sia in piedi o seduta, e se si appoggia a un sostegno che forse è un trono. Non si sa neppure dove si svolge
veramente la scena: se in un atrio o all’aperto. Che cosa significa laggiù nel fondo la fila delle colonne? Che razza di
colonne sono, poi, che se ne stanno lì senza capitello, affatto inutili, veramente paragonabili a fumaioli di fabbriche? E
che cosa vogliono rappresentare i giovanetti e le fanciulle accalcati nell’angolo a sinistra in primo piano? Angeli o
piuttosto, come pensava Dvořák, un efebo con i suoi compagni nell’atto di presentare un’offerta votiva alla Vergine, a
quest’idolo così idealmente leggiadro? Si sarebbe così arrivati là dove doveva ineluttabilmente condurre questo genere
di pittura sacra: a un culto pagano della bellezza”.
Parmigianino, Madonna dal collo lungo, part., Galleria degli Uffizi, Firenze
Parmigianino, Madonna dal collo lungo, part., Galleria degli Uffizi, Firenze
Parmigianino, Madonna dal collo lungo, Galleria degli Uffizi, Firenze
Parmigianino, Pallade Atena, Royal Collections, Hampton Court
CAPITOLO III
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VENEZIA E LA MANIERA
Federico Zuccari, Il Barbarossa bacia il piede a papa Alessandro III, part., Palazzo Ducale, Venezia
FEDERICO ZUCCARI
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IL GRANDE ORDINATORE
Tra i grandi ordinatori della stagione manieristica dopo il Vasari, vi è certamente Federico Zuccari, marchigiano di
Sant’Angelo in Vado, meno grande e più fortunato del corregionale Federico Barocci. Fratello minore di Taddeo,
Federico lo segue a Roma ancora adolescente e, invece di soddisfare i desideri del padre, si avvia anch’egli alla pittura
sotto il magistero del fratello. Ed è subito notevole che il suo linguaggio artistico, superando la contraddizione di culture
che aveva caratterizzato l’esperienza di Battista Franco, sia compatibile con Roma e con Venezia. Federico, infatti, è
attivo a Roma per la decorazione del Casino di Pio IV e del Belvedere (1561-63) e, a Venezia, nella Cappella Grimani di
San Francesco della Vigna (1564) proprio per completare l’opera di Battista Franco. La maturazione del suo
sincretismo linguistico si compie, contestualmente, con l’ammissione all’Accademia del disegno di Firenze del 1565.
Sistematore, uomo d’ordine, teorico, sul piano formale Federico Zuccari svolge per la pittura la stessa funzione di Pietro
Bembo per la letteratura.
Alla morte del fratello Taddeo, nel 1556, ne porta a termine le imprese incompiute, a Trinità dei Monti e Palazzo
Farnese a Roma, in Villa Farnese a Caprarola e nella chiesa di San Marcello ancora a Roma, con una vasta bottega e
un impegno febbrile. Lavora anche a Villa d’Este a Tivoli, a Santa Caterina dei Funari e nell’Oratorio del Gonfalone.
Dopo viaggi di studio in Francia, in Inghilterra e in Olanda, a Firenze ha l’incarico di terminare gli affreschi della cupola
del duomo realizzati dal Vasari. Ancora nel 1580 lavora in Vaticano nella Cappella Paolina; nello stesso anno dipinge
una controversa Processione di san Gregorio per Santa Maria del Baraccano a Bologna. Nel 1582 è a Venezia, nella
Sala del Maggior consiglio in Palazzo Ducale. Nel 1563 è a Loreto, per gli affreschi della Cappella Della Rovere della
Santa Casa. Nel 1585 è all’Escorial; nel 1590 è ancora a Roma, per la costruzione e la decorazione della sua bizzarra
casa, che Gabriele d’Annunzio avrebbe trasformato in quella di Andrea Sperelli nel Piacere. Nel 1592 istituisce
l’Accademia di San Luca, di cui fu il primo principe.
In qualche modo, lo Zuccari è il naturale continuatore del Vasari, sia come pittore sia come teorico. Il suo pensiero è
essenzialmente espresso ne L’idea di pittori scultori ed architetti edita nel 1607, in tempo per rappresentare una
posizione antagonista e politicamente corretta rispetto a quella travolgente ed eversiva di Caravaggio. Zuccari è
l’espressione più alta dell’Accademia e ha una visione radicalmente antinaturalistica. Egli persegue il primato del
disegno come pensiero metafisico originato nella mente dell’artista: niente di più lontano da Caravaggio. Federico
Zuccari elabora un codice senza sorprese, con una semplicità narrativa funzionale all’illustrazione di episodi storici e
mitologici in relazione al potere o come sua esaltazione. La pittura deve essere subordinata alla dottrina. Non deve
stupire, deve descrivere. Non può interpretare né tantomeno cambiare il mondo, può solo illustrarlo.
Federico Zuccari, Assunzione, part., Trinità dei Monti, Roma
Federico Zuccari, Il Barbarossa bacia il piede a papa Alessandro III, Palazzo Ducale, Venezia
Federico Zuccari, Assunzione, Trinità dei Monti, Roma
Federico Barocci, Circoncisione, part., Musée du Louvre, Parigi
FEDERICO BAROCCI
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SUBLIME TORMENTO
Per certi versi affine all’esperienza di Bastianino è quella dell’ultimo grande pittore del Cinquecento, Federico
Barocci. Un pittore senza dubbi e senza errori, apparentemente.
Non priva di significato, per la sua concezione integrata della pittura, è l’origine urbinate, come quella del grande
Raffaello. Negli anni della sua formazione c’è anche il rapporto con un pittore veneziano convertito al michelangiolismo,
Battista Franco, che lo indirizza opportunamente allo studio della scultura antica. Fin dagli esordi nella Pala di santa
Cecilia per il duomo di Urbino, diversamente da Bastianino, Barocci trasforma il modello, quando non lo ignora
completamente. Ben presto, poco più che ventenne, lo ritroviamo a Roma su chiamata del cardinale Della Rovere. Non
per questo egli rinuncia all’amata patria e, in un perfetto pendolarismo, lo troviamo a Roma, poi ancora a Urbino, poi a
Roma. Il suo affetto per la città natale è denunciato anche da segnali evocativi, come la presenza del Palazzo Ducale
sullo sfondo di uno dei suoi dipinti maggiori, la Deposizione per la Cappella di San Bernardino nel duomo di Perugia del
1569.
Barocci viene poi richiamato in patria per un altro capolavoro, il Riposo durante la fuga in Egitto per il duca Guidobaldo.
È l’inizio di una serie di opere di intatta perfezione e armonia, come la Madonna del gatto, l’Estasi di san Francesco per
l’omonima chiesa d’Urbino, la Madonna del Popolo per la pieve d’Arezzo, la Sepoltura di Cristo per Santa Croce a
Senigallia, il Martirio di san Vitale per l’omonima chiesa di Ravenna, l’Annunciazione per la Cappella del duca Francesco
Maria II a Loreto, la Visitazione per la chiesa Nuova di Roma e, ancora, la Presentazione della Vergine, sempre per la
chiesa Nuova. Il suo successo e la perfezione della sua pittura aprono la strada a commissioni internazionali come
quella dell’imperatore Rodolfo II per la Fuga da Troia in fiamme. Nell’ultimo decennio del secolo, Barocci ci consegna
alcuni dei suoi assoluti capolavori: il Cristo e la Maddalena, la Circoncisione, le Stigmate di san Francesco, la
Crocifissione, la Natività. In apertura del secolo nuovo dipinge l’Istituzione dell’eucarestia, e la Beata Michelina per la
chiesa di San Francesco a Pesaro.
L’esecuzione di Barocci è meticolosa, concentrata, aliena da ogni abbreviazione o scorciatoia. La sua opera nasce da
centinaia di studi preparatori e da una stesura lenta e uniforme, anche se estranea a ogni concezione realistica in
nome di una visione onirica. La sua pittura è una fuga, una consolazione, una ricomposizione del mondo. Barocci è un
pittore tormentato e nevrotico, non meno del Bastianino. Le sue opere non rispecchiano la sua condizione psicologica
ma la distanziano e la rasserenano, nonostante l’infelicità dichiarata dell’artista, che nelle lettere al duca di Urbino,
suo protettore, lamenta la salute incerta confessando la propria malinconia e rivelando il carattere irascibile.
Barocci supera il manierismo attraverso la perfezione formale di ogni elemento compositivo senza pentimenti o
audacie. Per molti versi egli fa rivivere la poetica del bello ideale di Raffaello e la sua armonia formale, per esempio
eliminando ogni incidenza dell’ombra, sempre subordinata alla luminosità interna del colore. L’opera di Barocci è un
manifesto ideologico che riabilita il misticismo religioso, trovando la fonte d’ispirazione, oltre la terribilità di
Michelangelo, in Correggio con le sue morbide stesure. Anche la prodigiosa attività grafica e incisoria è tutto meno che
derivativa, in innumerevoli soggetti. Ed è degno di nota che, nonostante l’universale riconoscimento, sia Urbino il teatro
della sua visione, in una continua intermittenza del cuore.
Federico Barocci, Madonna del gatto, part., Galleria degli Uffizi, Firenze
Federico Barocci, Sepoltura di Cristo, part., chiesa di Santa Croce, Senigallia
Federico Barocci, Circoncisione, Musée du Louvre, Parigi
Federico Barocci, Madonna del gatto, Galleria degli Uffizi, Firenze
Federico Barocci, Sepoltura di Cristo, chiesa di Santa Croce, Senigallia
Ferraù Fenzoni, San Francesco d’Assisi sostenuto da un angelo, part., Museo Thyssen-Bornemisza, Madrid
FERRAÙ FENZONI
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UN MERAVIGLIOSO LUNA PARK
È forse audace, dopo aver toccato il sublime di Barocci e prima di dar conto di alcuni straordinari momenti della breve
ma fulminante carriera – anzi, esperienza di vita che brucia l’arte – di Caravaggio, chiudere le esperienze
manieristiche con una personalità forte ma in fondo periferica come quella di Ferraù Fenzoni. E se lo scenario del
purissimo e soavissimo Barocci fu una capitale ideale del Rinascimento come Urbino, Ferraù Fenzoni prende il nome
dalla città d’origine, Faenza, ed è lungamente, in un destino artistico più circoscritto, a Todi anche se il suo
apprendistato avviene a Roma durante il papato di Gregorio XIII e successivamente durante quello di Sisto V, per il
quale decora la Loggia delle benedizioni del Palazzo del Laterano. Lo troviamo anche in Santa Maria in Trastevere e in
Santa Maria Maggiore, dove si manifesta, proprio come Caravaggio, osservante interprete di un pittore di ordine
razionale e rigoroso come Cavalier d’Arpino.
Temperamento appassionato e drammatico, Ferraù non uscirà mai dai codici manieristici e, proprio negli anni in cui
Caravaggio inizia la sua rivoluzione a Roma, lui, pur dotato di grande personalità e fervore, non conquista Roma ma si
rifugia prima a Todi e poi a Faenza. Nel 1584 dipinge, estremo omaggio a Michelangelo, il Giudizio universale nella
controfacciata del duomo di Todi, e mentre Caravaggio concepisce i suoi capolavori in San Luigi dei Francesi – a partire
dal 1599 –, Ferraù dipinge nella cattedrale di Faenza. È una lunga esperienza senza grandi oscillazioni di stile, che
dura oltre trent’anni dopo la morte di Caravaggio. E non è un’esperienza parallela: è una traduzione del manierismo
tintorettesco, studiato soprattutto nel Miracolo di san Marco che libera lo schiavo e reso con una cifra espressionistica di
grande vigore. Così che non sono rari i capolavori di Ferraù Fenzoni, al quale, nonostante la grande personalità e le
belle invenzioni documentate anche nei numerosi disegni, non è ancora toccata una mostra che evidenzi la sua
insuperata crisi espressiva di artista stretto fra la lezione di Michelangelo e le invenzioni travolgenti di Caravaggio.
Ferraù non accetta la sfida. Egli, dapprima allievo di Francesco Vanni, drammatizza all’inverosimile l’armonia
olimpica del Barocci che pur osserva, per rappresentarne, a fronte della concezione apollinea, una interpretazione
dionisiaca. L’interesse per la sua opera potrebbe oggi essere favorito dalla potente drammatizzazione di alcuni suoi
soggetti, che trovano un rispecchiamento nella vita, con la leggenda di aver ucciso, dietro la cattedrale di Faenza, il
giovane pittore caravaggesco Michele Manzoni, per non soffrirne la concorrenza. Fenzoni ha una tavolozza rutilante e
variegata, e rifiuta ogni tentazione naturalistica alla quale il suo istinto, ma non la sua cultura, sarebbe incline. Quando
affronta, in ideale competizione con Caravaggio, un soggetto come San Francesco d’Assisi sostenuto da un angelo,
predilige gli effetti speciali di un turbine luminoso che scende dalle nuvole e incendia i capelli dorati e le ali dell’angelo.
Gioca con la stessa finzione drammatica (e perciò modernissima) di un disegnatore di fumetti. Non c’è mai tragedia né
verità nei suoi demoni e nei suoi dannati, la cui espressività è teatrale e caricaturale come l’invenzione di un carro
allegorico per una sacra rappresentazione liturgica – risalendo agli esempi vicini di Michelangelo e a quelli remoti di
Signorelli a Orvieto.
Ferraù Fenzoni, San Francesco d’Assisi sostenuto da un angelo, Museo Thyssen-Bornemisza, Madrid
Eppure, nel suo gran daffare, Ferraù si ritaglia uno spazio icastico nella nostra memoria per una personalità più
libera e fantasiosa di quella rigida del Cavalier d’Arpino, che pure lo guida. E se osserviamo la sua Giuditta
avvicinarsi, con la fida nutrice e lo sguardo tenero e innamorato, alla tenda di Oloferne, sotto un cielo notturno
annuvolato, proviamo l’emozione di una “prima visione” originale come non fu neppure Artemisia, ortodossa nel
riprodurre la verità di Caravaggio. Nei suoi momenti migliori, Ferraù è un sognatore struggente e romantico, anche se
sempre con effetti più adatti al teatro che presi dalla realtà. Lo vediamo nella tumultuosa Caduta di Fetonte, con le forme
scorciate per non farci sentire il fragore della caduta: meraviglioso fumetto. Così anche nella Decollazione del Battista,
recentemente riapparsa presso Altomani. Talvolta Ferraù esonda fino ad annunciare una compiuta sensibilità
barocca, che sembra fiorire improvvisa dall’arida matrice manieristica: dai suoi affreschi sembrano sbocciar rose.
Un vero e proprio capolavoro surrealista, tintorettesco, baroccesco, onirico è la Deposizione di Cristo nel sepolcro, in un
passaggio dalla notte all’alba, con un grappolo di corpi intorno al tronco della croce. Un’opera vitale ed entusiasmante
(ora alla Fondazione Cassa dei risparmi di Forlì) che, nella contrazione delle forme e dello spazio, sembra fare il verso,
strafottente all’aerea e ventosa Deposizione senza dramma del Barocci nel duomo di Perugia. Ferraù è irriverente e
antiaccademico, antidrammatico anche quando s’impegna in composizioni forzatamente tumultuose, e sempre sotto
cieli tempestosi, come nella grande Deposizione della Pinacoteca di Faenza. Predilige i fuochi d’artificio, i colori densi
che alterano le campiture nitide di Pontormo, altro maestro molto amato, ma alla fine eluso per disparità sentimentale
(anzi per vera e propria atarassia). E quella concezione sarebbe stata il suo ubi consistam, ma non c’era verso: Ferraù
voleva divertirsi, tradurre tutto in favole e fuochi d’artificio; e pensare che i diavoli non esistono, se non come incubi e
paure degl’uomini: a lui era chiesto di farne immagini, ma senza crederci. Così che il suo inferno non è minaccioso, ma
è un meraviglioso luna park.
Ferraù Fenzoni, Deposizione di Cristo nel sepolcro, part., Fondazione Cassa dei risparmi di Forlì
Ferraù Fenzoni, Deposizione di Cristo nel sepolcro, Fondazione Cassa dei risparmi di Forlì
CAPITOLO VII
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ROMA: LA FINE DEL MANIERISMO
E IL RITORNO ALLA NATURA
Cavalier d’Arpino, Combattimento tra Orazi e Curiazi, part., Palazzo dei Conservatori, Roma
CAVALIER D’ARPINO
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UN PITTORE CONCETTUALE MAESTRO DI CARAVAGGIO
Se Federico Zuccari rappresenta la compiuta elaborazione formale del linguaggio manieristico nello spirito della
Controriforma, quindi il mondo figurativo cui si contrappone Caravaggio con il suo linguaggio nuovo, naturalistico e
irruento, il Cavalier d’Arpino, la cui posizione non è dissimile da quella dello Zuccari, assume a posteriori un ruolo
diverso come cerniera dei due mondi, avendo avuto nella sua bottega proprio il Caravaggio, appena arrivato a Roma.
Caravaggio lascia Peterzano, manierista tizianesco, e i successivi capricci dell’Arcimboldo, per cercare fortuna a
Roma, dove entra nella bottega dell’esigente maestro. Il Cavaliere è un pittore che vede tutto e ne offre una sintesi
assai originale e potentemente geometrica. È così lontano dalla realtà, e anche dall’impulso del racconto, che può
essere, con buona ragione, considerato un pittore astratto. Nessuna concessione naturalistica, ma anche nessuna
descrizione aneddotica, è contemplata nella sua idea della pittura. In questo, Cavalier d’Arpino è anche mentalmente
più lontano da Caravaggio dello stesso Zuccari, che certamente lo seguì ammirato, pur non condividendone alcun
principio, a partire dal principio di gerarchia fra gli uomini. Tutti uguali e tutti protagonisti, per Caravaggio; sottoposti
alla legge di Dio e degli uomini, in relazioni che si rispecchiano anche nella concezione artistica, per Federico Zuccari.
Il Cavalier d’Arpino, più giovane, incrocerà lo Zuccari all’Accademia di San Luca e lavorerà dopo di lui a Trinità dei Monti
(1585). Tra 1589 e il 1593 lo troviamo a Napoli per affrescare il coro della certosa di San Martino e la volta della
sacrestia. Caravaggio sarà nella sua bottega tra il 1595 e il 1596, e si affermerà così rapidamente da succedere al
Cavalier d’Arpino nella decorazione della Cappella Contarelli in San Luigi dei Francesi. Ma per il Cavaliere l’impresa
della vita sono gli affreschi del Palazzo dei Conservatori, il Ritrovamento della Lupa del 1596, la Battaglia tra i Romani e i
Veienti nel 1597, il Combattimento tra Orazi e Curiazi del 1612 e, molto più avanti, il Ratto delle Sabine, la Fondazione di
Roma, l’Istituzione della Religione dal 1635. Ma già in apertura di secolo assume l’incarico più prestigioso, per i mosaici
per la cupola di San Pietro in Vaticano, di cui predispone i cartoni.
La concezione del Cavalier d’Arpino resta fedele al classicismo raffaellesco, soprattutto nelle evoluzioni dell’ultimo
tempo, dallo Spasimo di Sicilia alla Trasfigurazione, codificandone le forme in una cifra allungata, geometrizzante,
potentemente sintetica e programmaticamente irrealistica. Cavalier d’Arpino ha coscienza piena della forma, ma
rifugge da ogni descrittivismo e realismo, distanziandosi sia da Zuccari sia da Caravaggio. Egli non narra, teorizza. È
il più astratto dei pittori manieristici, e resta tetragono in questa sua visione in pieno Seicento, indifferente a tutte le
variazioni del caravaggismo e a Bernini, in sintonia soltanto con la traduzione delle sue forme algide e rigide in quelle
idealizzate di Guido Reni. Ammirandone il rigore, possiamo considerare il Cavalier d’Arpino un pittore concettuale che
trascrive programmaticamente in immagini le verità della fede.
Cavalier d’Arpino, Combattimento tra Orazi e Curiazi, Palazzo dei Conservatori, Roma
Cavalier d’Arpino, Combattimento tra Orazi e Curiazi, Palazzo dei Conservatori, Roma
Annibale Carracci, Mercurio offre a Paride il pomo della discordia, part., Palazzo Farnese, Roma
I CARRACCI
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L’IDEA DEL BELLO
Annibale, erede di Raffaello
Certo, Caravaggio fu una rivoluzione. E continuiamo a sentirne gli effetti, a parlarne, a sentirlo contemporaneo. Però
anche Annibale Carracci e altri emiliani portarono a Roma idee nuove. Da Bologna, dove si erano formati.
Annibale aveva circa dieci anni più di Caravaggio. E, nel periodo in cui il grande pittore lombardo si muoveva per le
città padane – da Milano a Cremona a Bergamo a Brescia e a Mantova fino a Venezia –, con il fratello Agostino e il cugino
Ludovico aveva stanza nella bella e prosperosa Bologna, in un’accademia prima detta dei “Desiderosi”, poi degli
“Incamminati”.
Tentando una strada in equilibrio tra Firenze e Venezia, i tre Carracci si trovano in Palazzo Fava e mescolano le
rispettive personalità. Poi Annibale, con il Battesimo di Cristo per la chiesa di San Gregorio a Bologna, indica una sua
opzione originale verso il Correggio.
Tra il 1587 e il 1588 sarà a Parma e a Venezia. In apertura del nuovo decennio, i tre Carracci lavorano agli affreschi
del Palazzo Magnani a Bologna e, poco più tardi, tra il 1593 e il 1594, sono ancora insieme per gli affreschi di Palazzo
Sampieri.
Ma Roma chiama, e, in singolare coincidenza con l’arrivo di Caravaggio, anche Annibale, tra il novembre e il
dicembre 1595, arriva in città insieme ad Agostino. Caravaggio sta sulla strada, forse porta con sé lo straordinario
Riposo durante la fuga in Egitto della Galleria Doria Pamphilj, sintesi di lunghi anni di riflessione sui grandi maestri
veneti e lombardi, e dipinge zingari e ragazzi di vita, musici e bari nei modi e nei costumi del suo tempo. Annibale sta a
palazzo: lo chiama Odoardo Farnese per una delle imprese più grandi e più belle dopo quella di Michelangelo alla
Sistina. Annibale non è un ribelle, e, mentre in apertura del nuovo secolo si divide Roma con Caravaggio, lo mostra in
un confronto in diretta nella Cappella Cerasi in Santa Maria del Popolo.
Caravaggio ha accettato di rinunciare agli abiti contemporanei per i suoi Pietro e Paolo, e li rappresenta (soprattutto
quest’ultimo) all’antica. Ma l’energia e la vita non mutano e la realtà domina in modo quasi insolente. Carracci, al centro
sull’altare maggiore, non regge il confronto: la sua Assunzione della Vergine fatica a farsi spazio, nell’inane volo verso il
cielo, fra una folla di inespressivi apostoli, non memorabili e ancora memori di Raffaello e Correggio. Il tempo gli darà
torto: nessuno entra in Santa Maria del Popolo per vedere la sua opera.
Al riparo del palazzo, però, Annibale ritrova l’assoluto e il mito. Gli affreschi di Palazzo Farnese gli consentiranno di
essere quello che non riuscì a Parmigianino: l’erede di Raffaello. È subito evidente che nello spazio, non grande ma di
perfette proporzioni, e a portata di vista, soprattutto dalla volta, Annibale si misura con Michelangelo; anche la partitura
indica il modello, con membrature architettoniche e una finta quadreria con cornici dipinte. Al centro, l’affresco con il
trionfo di Bacco e Arianna. Certamente Carracci ricorda i Baccanali di Tiziano nel Castello di Ferrara, ma accentua i
riferimenti alla statuaria classica romana. Nei riquadri laterali, immerge gli dei in una luce dorata entro stucchi
bianchi; aumenta lo spazio del paesaggio, semplifica la composizione. Così, nell’episodio di Mercurio e Paride celebra
gli dei in un’età dell’oro incolpevole, fuori del tempo; e si candida a rappresentare, più di ogni altro, quell’idea del bello
come armonia che il Bellori, grande teorico dell’arte, opporrà alla realtà di Caravaggio. Carracci lascia il popolo e torna
al mito, lascia la strada e torna al palazzo. Per scelta, aprendo la strada a Rubens, a Pietro da Cortona, al Baciccio, al
Lanfranco. È forse utile ricordare che non aveva temuto di bruciarsi al fuoco di Caravaggio, per poi trasformarlo in una
luce senza tempo. Ne diede prova in un’opera di incontinente modernità, superando il rischio della pittura di genere e
del folklore in un’autentica e unica ispirazione popolare tratta dalla realtà, e ben prima di Caravaggio (1585): Il
mangiafagioli della Galleria Colonna di Roma. Teatro? Forse. Ma teatro della verità.
Annibale Carracci, Assunzione, part., basilica di Santa Maria del Popolo, Roma
Annibale Carracci, Assunzione, basilica di Santa Maria del Popolo, Roma
Annibale Carracci, Mercurio offre a Paride il pomo della discordia, Palazzo Farnese, Roma
Ludovico, una religione confidenziale
Ben diversamente popolare, ma profondamente elegantemente popolare, la scena che il cugino di Annibale,
Ludovico Carracci, rimasto a Bologna, rappresenta nel Ritorno dalla fuga in Egitto, la cui insolita iconografia è così
riassunta dall’Arcangeli (1956): “Ludovico ha immaginato poeticamente che, in una giornata di luci tempestose, la
Sacra famiglia stia traghettando, e, mentre il barcaiolo fatica al remo, due angeli son scesi alla manovra della vela tesa
dal vento, mentre l’asinello si pasce nell’ombra. Le acque remote del Vangelo si son mutate in quelle della ‘bassa’
padana, con la macchia dei boschi all’orizzonte livido e un borgo accenna, da lontano, all’altra riva: la leggenda sacra
s’è tradotta in una vicenda popolare, emiliana, di ‘valle’ o di fiume, d’acque basse e di tempo mutevole, d’un tono reso
appena melodrammatico dall’arte”.
Annibale Carracci, Il mangiafagioli, part., Galleria Colonna, Roma
Nello stesso tempo in cui Caravaggio, a Roma, “in un ambiente più liberale e sfogato”, dipinse i quadroni per i
Contarelli trasformando una cappella in osteria, in attesa, poco dopo, di trasformarne un’altra in una stalla, Ludovico a
Bologna ardisce meno ma, poeticamente, compone un suo idillio notturno, immaginando una religione confidenziale.
C’è in questa concezione un di più di romantico e sentimentale, di manzoniano, come se quella stessa barca dovesse
attendere, non molti anni dopo, di trasportare Renzo e Lucia.
Una scuola, come mostra anche il Guercino nelle sue opere giovanili, pronta a raccontare la religione con una lingua
nuova, tra favola e racconto, “cara anche al popolo”. Così che “da Ludovico e dal vivacissimo gruppo di artisti, intorno a
lui, fra cui si contano almeno quattro o cinque veri pittori, si conferisce alla città un tono, un livello di capitale figurativa,
che regge e tiene per almeno due secoli” (Longhi).
Tutti sulla stessa barca.
Ludovico Carracci, Ritorno dalla fuga in Egitto, part., collezione privata
Ludovico Carracci, Ritorno dalla fuga in Egitto, collezione privata
Annibale Carracci, Il mangiafagioli, Galleria Colonna, Roma
Stefano Maderno, Santa Cecilia, part., basilica di Santa Cecilia in Trastevere, Roma
STEFANO MADERNO
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L’INTELLIGENZA DEL CUORE
L’ultima scultura del Cinquecento italiano è la Santa Cecilia di Stefano Maderno, concepita tra il 1599 e il 1600,
mentre Caravaggio lavora per la chiesa di San Luigi dei Francesi. Anche Maderno veniva dal Nord, presumibilmente
da Capolago – nell’odierno Canton Ticino –, ed era solo di un anno più vecchio di Caravaggio. Ma, diversamente da
quest’ultimo, arriva presto a Roma, dove lavora a fianco del maestro Niccolò d’Arras.
Nel 1599, appena ventitreenne, è chiamato dal cardinale Paolo Emilio Sfondrati a scolpire in marmo di Carrara il suo
capolavoro. L’intuizione del Maderno è nell’affidarsi all’emozione e alla commozione per un episodio avvenuto in quei
giorni, che per molti aveva del miracoloso: il ritrovamento del corpo di santa Cecilia, integro e incorrotto, durante gli
scavi per il restauro della chiesa di Santa Cecilia. Ciò che sembra assecondare lo spirito nuovo è invece l’abbandono,
come nel sonno, del corpo della santa. Maderno deve avere a lungo disegnato quella forma sorprendente di giovane
donna rannicchiata, e probabilmente non avrà negoziato l’idea di rinunciare a mostrarne il volto, che nel ritrovamento
apparve reclinato e forzosamente girato, anche per il vistoso taglio alla gola, che, diligentemente, lo scultore riproduce.
Il velo sulla testa è studiatamente scomposto, e verso di noi si volgono le braccia, con le mani inerti, molli, sospese in un
gesto che potrebbe indicare il mistero della Trinità: la destra con tre dita alzate, la sinistra con uno. La tunica è
avvolgente, con pieghe studiate e accarezzate, ma è il capo reclinato e girato ad accentuare la drammaticità, in una
commovente declinazione sentimentale.
Stefano Maderno, Santa Cecilia, basilica di Santa Cecilia in Trastevere, Roma
Maderno rappresenta la verità della morte come il sonno di un’adolescente, allontanando il dramma del martirio con
una delicatezza prima psicologica che formale. La semplicità è assoluta, analoga a quella della coeva Maddalena
penitente di Caravaggio, ora nella Galleria Doria Pamphilj a Roma. Fra i due artisti c’è un’intelligenza del cuore,
l’intuizione di celebrare la quiete del sonno, entrambi rubando una posizione inconsapevole: quella della santa
nell’attimo decisivo della scoperta, fissandone l’emozione per sempre; quella della Maddalena nel trarre vantaggio
dall’assopimento della modella. Inutile svegliarla: Caravaggio approfitta del suo sonno, evita di destarla, di
costringerla a una posa forzata per interpretare la parte. Non c’è miglior posa di questa, imprevista e spontanea. La
Santa Cecilia e la Maddalena sono sorelle nella contemporanea interpretazione dei due artisti. L’analoga scelta del
Maderno ci consegna una delle sculture più delicate e liriche che siano state consacrate alla morte, allontanandone la
minaccia con la trasfigurazione nella santità, della vita oltre la morte.
Caravaggio, Maddalena penitente, Galleria Doria Pamphilj, Roma
Caravaggio, Vocazione di san Matteo, part., chiesa di San Luigi dei Francesi, Roma
CARAVAGGIO
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Quel che Caravaggio ha visto
Caravaggio nasce a Milano il 29 settembre 1571.
Le forme parlano, anche per dirci ciò che non rivelano i documenti. Un lungo silenzio, infatti, si registra negli atti della
vita e nelle opere, un silenzio che corrisponde al periodo della sua esistenza al Nord.
La famiglia di Michelangelo Merisi è originaria del paese di Caravaggio, da cui prende il nome, ma il pittore nasce ed
è battezzato a Milano. Qui, in tempi abbastanza precoci – intorno ai dodici anni – va a studiare pittura nella bottega di
Simone Peterzano, l’artista al quale si deve il ciclo di affreschi e le pale d’altare della certosa di Garegnano, luogo in cui
il giovane Caravaggio andò per vedere e seguire il suo maestro e dove costruì, attraverso la visione di Peterzano, quello
che si può e si deve considerare come una rivoluzione: la pittura della realtà, una diversa visione del mondo. Davanti a
un quadro di Caravaggio è come se fossimo aggrediti dalle cose, è come se la realtà ci venisse incontro, come se lui la
riproducesse, esattamente come farà la fotografia.
Per arrivare a questa visione naturalista, o realista che dir si voglia, a questa riproduzione totalmente mimetica,
come il calco di un corpo, occorre intraprendere un percorso lungo e complesso. Ed è quello che noi cerchiamo di fare,
immaginando i percorsi di Caravaggio, i suoi movimenti, i luoghi dov’è stato nel tempo in cui ha vissuto a Milano e ha
guardato, ha camminato, ha perlustrato tutte le città del Nord, da Venezia a Milano, in quest’area che oggi si qualcuno
chiama Padània e che fu chiamata da grandi storici dell’arte Padanìa.
In realtà, comunque, di quanto Caravaggio ha fatto a Milano non sappiamo niente; eppure è inimmaginabile che un
giovane che comincia a dipingere intorno al 1584 non lasci nulla che possa consentirci di identificarlo in un embrione
del suo stile. Nell’anno in cui Caravaggio entra a bottega da Peterzano, a Milano, Giovanni Paolo Lomazzo pubblica il
Trattato dell’arte della pittura. Ebbene, in quel momento, con questo codice teorico e con i precetti sommamente
manieristici impartiti dal Peterzano, il giovane Caravaggio inizia la sua esperienza. Evidentemente insoddisfatto di
quanto Peterzano gli può raccontare, egli è curioso di vedere, di scoprire, e lo fa non per due o tre anni di peregrinazioni
ma in circa dodici, dal 1584 al 1596, un periodo che per noi, al momento, corrisponde a un buco incolmabile nella sua
biografia.
Capire cosa ha fatto in questi dodici anni, in assenza di opere, è possibile solo attraverso quello che ha visto, nel
senso letterale di quanto gli occhi di Caravaggio hanno visto, di ciò che hanno specchiato.
Alcunché di Giorgione, del suo afflato romantico, si avverte in Caravaggio, come già aveva osservato Federico Zuccari
davanti alla Vocazione di san Matteo in San Luigi dei Francesi, secondo quanto ci riferisce Giovanni Baglione: “che
rumore è questo? […] io non ci vedo altro che il pensiero di Giorgione”. Niente di più logico: Simone Peterzano è allievo di
Tiziano, che era allievo e amico di Giorgione. Ecco allora che il collegamento con Giorgione è dimostrato, per quanto di
Giorgione continua a vivere nelle forme di Peterzano, che colloquia col Caravaggio giovane. Il quale, però, insoddisfatto
di questa sistematizzazione, del manierismo tizianesco di Simone Peterzano, dobbiamo immaginare che cominci a
guardarsi intorno e vada in giro, non potendo non andare a Venezia per risalire alle fonti, per vedere direttamente
alcuni capolavori di Tiziano.
Caravaggio, Vocazione di san Matteo, part., chiesa di San Luigi dei Francesi, Roma
Penso soprattutto al Martirio di san Lorenzo nella chiesa dei Gesuiti a Venezia, in cui si sente il fuoco delle carni che
bruciano, delle lucerne, delle fiaccole, dei carboni ardenti, e si sente quasi il rumore di quella condizione di martirio,
caldo e febbricitante, in un chiaroscuro potentissimo. Insomma, un dipinto che non può non averlo suggestionato ed
emozionato profondamente. Ovviamente, intanto, a Venezia può vedere qualunque cosa, dalle estreme propaggini di
Leonardo, che sicuramente lo avrà incuriosito, attraverso ciò che ne restava nelle notevoli e importanti opere di
Giovanni Agostino da Lodi, alle altre opere di Tiziano e di Tintoretto. Venezia, dunque, è una tappa fondamentale per la
sua formazione.
Altro riferimento importante per gli occhi di Caravaggio è Giovanni Gerolamo Savoldo, del quale avrà ammirato, nella
chiesa di San Domenico di Castello, seguendo la guida di Sansovino edita nel 1581, l’Annunciazione, un’opera in cui la
mano della Vergine e l’ambiente in cui avviene questo incontro straordinario sono già pensieri caravaggeschi, che
Caravaggio ricorderà e vorrà riprodurre nei suoi capolavori giovanili. Savoldo è certamente la personalità che egli sente
più affine, in cui ritrova una parte di se stesso. Certamente lo insegue anche a Brescia, come si cercano gli artisti
amati. Ma a Brescia si ferma anche davanti alle opere di Moretto, nelle chiese della città e del contado. Penso alla
Apparizione della Madonna al sordomuto Filippo Viotti del santuario della Madonna di Paitone: Caravaggio non può non
osservare lo spessore dei panni della Vergine, che non è della pittura ma proprio del tessuto, una sensazione che
certamente gli entra nella testa e gli fa sentire la “verità” di questa materia, che si ritrova anche nelle pale più articolate
e più macchinose di Moretto, per il gusto e il piacere dei particolari della vita quotidiana.
Tiziano, Martirio di san Lorenzo, part., chiesa dei Gesuiti, Venezia
Romanino forse no, troppo lussureggiante, troppo deforme; ma Savoldo e Moretto il giovane Caravaggio li vede e li
studia certamente. Sono sicuri capisaldi di quella cultura pittorica bresciana già messa in riferimento alla formazione
di Caravaggio da Roberto Longhi in un suo remoto saggio del 1917, dal titolo sbrigativo Cose bresciane del Cinquecento.
E la parola “cose” serve per darne la consistenza fisica che attrarrà la curiosità di Caravaggio.
Abbiamo osservato, nel secondo volume del Tesoro d’Italia, che civiltà veneziana e civiltà lombarda si fondono nella
singolarissima esperienza artistica di Lorenzo Lotto, meraviglioso pittore veneziano con un’urgenza realistica nella
necessità, per un verso, di misurarsi con la vita quotidiana, e, per l’altro, di introspezione, di lettura del cuore dell’uomo,
di indagine psicologica, creando una singolarissima miscela in cui la pittura della realtà e un dolcissimo sentimento di
essa convivono con intense emozioni: un’emotività vibrante e intima. Dopo Savoldo, Caravaggio trova un suo simile,
maestro di verità e di vita, in Giovanni Battista Moroni, un pittore in cui sembrano convivere le memorie di Moretto,
senza rigidezze devozionali, e la sensibilità introspettiva e duttilissima di Lorenzo Lotto: Moroni è già una sorta di
archetipo di Caravaggio.
Savoldo, Annunciazione, Gallerie dell’Accademia, Venezia
Moretto da Brescia, Apparizione della Madonna al sordomuto Filippo Viotti, part., santuario della Madonna di Paitone,
Paitone
Tutto questo mondo padano, Caravaggio lo domina, lo vede e lo patisce in una serie di choc visivi, avendo una
sensibilità che nulla disperde: ne plasma la visione, si accumula, e non capiremo come si sfoghi finché non avremo la
ventura e la fortuna di trovare un’opera di Caravaggio dipinta in Lombardia. Quel giorno verrà. È sicuro che in una
chiesa, su un altare, sotto la sporcizia delle vernici vi sia una tela di Caravaggio dipinta fra il 1585 e il 1595, in questi
anni febbrili di ricerca, di concentrazione e meditazione sui pittori fin qui ricordati, che certo furono per lui inesauribili
stimoli.
In queste “strade di predestinazione”, come ben ricorda Longhi, possiamo immaginare che, di ritorno da Venezia
verso Milano, una sosta sicura sia stata Cremona, dove lo aspettano i Campi, in particolare Antonio e Vincenzo.
Abbiamo detto che a Milano, nella chiesa di San Paolo in Converso, vi sono alcune vaste composizioni dove l’invenzione
dei Campi è soprattutto un’intuizione luministica, che crea la sensazione di uno spazio teatrale, con fortissimi
contrasti. Sono già gli spazi che Caravaggio, semplificandoli, concepirà nei primi anni romani.
Meditate queste opere, Caravaggio è pronto a raccontare storie nuove trasfigurando il lirismo di Savoldo e Lotto, così
affini a lui. Nel Riposo durante la fuga in Egitto, la più lombarda delle sue opere, la rivoluzione è già compiuta. Ci sono gli
occhi di un asino che guardano, c’è san Giuseppe che sorregge lo spartito affinché l’angelo, meraviglioso, possa
suonare su quelle note; ma c’è un paesaggio padano, una luce di tramonto sul fiume, c’è la dolcezza della Madonna che
si addormenta: tutto quello che lui continua a ricordare delle terre da cui è partito. Davanti a queste evidenze
geografiche e interiori, sentimentali, non si “pretende di segnare itinerari precisi ai suoi viaggi (o siano pure
vagabondaggi) di apprendista; ma non si potrebbe porli mai in altra zona”, come rammenta Roberto Longhi.
Con Il riposo durante la fuga in Egitto, Caravaggio arriva dove è partito. Occhio per occhio, infine, questo percorso
immaginario ci conduce a un’apparizione. Quella Medusa in cui si riconosce un autoritratto con i lineamenti giovanili del
Caravaggio come doveva essere quando stava a Milano. Occhi che si specchiano e si vedono come Medusa, con i
serpenti al posto dei capelli. Occhi terrorizzati come di chi ha visto qualcosa di indicibile. Siamo alla fine degli anni di
conoscenza e agli inizi di un nuovo mondo: 1595-96. Sono gli occhi spiritati di un uomo che non ha paura di niente, che
guarda il male, che guarda il fuoco, che guarda l’inferno, che guarda la vita nella sua dimensione più drammatica, come
dimostrerà nei suoi capolavori. Intanto, ne ha visto l’annuncio. Gli occhi di questa Medusa sono gli occhi di Caravaggio
davanti a quello che fino ad allora non era stato possibile vedere, non era stato possibile concepire. Qualcosa che va
oltre l’immaginazione e che Caravaggio ci mostrerà con la rivoluzione della sua visione.
Caravaggio, Il riposo durante la fuga in Egitto, part., Galleria Doria Pamphilj, Roma
Nuove visioni
Nuova visione del mestiere, nuova visione della tecnica, nuova visione del mondo. Sono queste le innovazioni
straordinarie legate al nome di Caravaggio, che ne fanno uno degli artisti più importanti di tutti i tempi.
Del mestiere, perché Caravaggio afferma definitivamente l’autonomia intellettuale dell’artista, libero di creare le sue
opere e di venderle ai collezionisti invece di aspettare le commesse come facevano i vecchi artigiani. Della tecnica,
perché Caravaggio dipinge dal vero, non con disegni preparatori, realizzando solo alcune incisioni sulla tela sulle quali
costruisce le figure, accentuandone la plasticità attraverso un intenso contrasto fra la luce e l’ombra. Del mondo, infine,
perché il realismo “spietato” di Caravaggio riconduce l’uomo al valore della verità, dell’oggettività contro le menzogne
della retorica, e il cristiano al pauperismo del messaggio evangelico.
È la vita di strada, quella dei vicoli fetidi e pieni di mendicanti che una volta caratterizzavano Roma, Napoli, Milano,
che ispira la pittura di Caravaggio. Una vita di strada che mai era stata presa a modello, perché l’arte doveva illudere,
fingere, nobilitare ciò che non era nobile. Caravaggio compie la svolta e per primo dipinge le cose come sono, la
pienezza della vita così come si poteva cogliere nelle strade, l’improvvisa certezza di una verità che non si può
discutere.
La certificata frequentazione della strada, con i suoi rischi e le sue avventure, era per Caravaggio un modo per stare
sempre in presa diretta con le cose che, se non nella fase esecutiva, rigorosamente meditata, mandava riflessi
sull’opera d’arte, contaminandola, rendendola “impura”: è questo un atteggiamento tipicamente moderno del quale, con
diverse manifestazioni, ha dato testimonianza Pier Paolo Pasolini. E non a caso, come Pasolini, anche Caravaggio
possedeva un’anima profondamente cristiana; un cristianesimo al servizio dei più deboli, apparentemente
spregiudicato e provocatorio. In realtà, Caravaggio e Pasolini possedevano un rigore etico straordinario, assai più
profondo di quello che rivelano atteggiamenti stravaganti o abitudini sessuali poco “ortodosse”: essi cercavano nell’arte
la verità, la verità cristiana che riscatta dal male, dall’ingiustizia, dalla sofferenza.
Caravaggio, Medusa, part., Galleria degli Uffizi, Firenze
Certo, per entrambi non esisteva un rapporto immediato tra l’esperienza della vita vissuta e quella, ultima e
fondamentale, dell’opera d’arte. Caravaggio e Pasolini, cioè, non illustravano le esperienze della propria vita.
Nondimeno, la loro arte trovava le sue ragioni profonde nelle passioni, nei desideri, negli incontri, nella violenza,
perfino nella morte o nel suo presagio, ragioni sperimentate nel confronto diretto con la realtà.
Caravaggio, si è detto, vuole rappresentare la verità degli uomini e delle cose. Nel Ragazzo con canestro di frutta
della Galleria Borghese, opera concepita intorno al 1596-97, ne abbiamo la conferma. È un ragazzo preso dalla strada,
uno dei molti che appariranno nelle sue opere, tanto presente quanto antico, tanto reale quanto mitico. Caravaggio lo
dipinge nei primi tempi del suo lungo soggiorno a Roma, giunto probabilmente da Milano, quando lavorava nella
bottega di un grande pittore manierista, il Cavalier d’Arpino. Caravaggio sembra volerci dire che l’“animalità” e la
passionalità dell’uomo sono eterne e immutabili come ogni altra espressione della natura, come l’uva, i fichi, le mele.
Un’inedita visione naturalistica che Caravaggio deriva da quei rappresentanti della pittura della realtà – Lotto, Moretto,
Savoldo – che studiò nei suoi anni di formazione. E che a Roma rivela nella sua prima opera su commissione.
Vocazione del vero
Nelle sue Vite de’ pittori, scultori et architetti moderni, Giovanni Bellori scrive che all’arrivo di Caravaggio a Roma, il
cardinal del Monte “lo sollevò, dandogli luogo honorato in casa fra suoi gentilhuomini”. È lui che gli fa ottenere la prima
commissione pubblica: le tele per la Cappella Contarelli in San Luigi dei Francesi, con episodi della vita di san Matteo.
“Quì avvenne cosa, che pose in grandissimo disturbo, e quasi fece disperare il Caravaggio, in riguardo della sua
riputatione; poiché havendo egli terminato il quadro di mezzo di San Matteo, e postolo sù l’altare, fù tolto via da i Preti,
con dire che quella figura non haveva decoro, né aspetto di Santo, stando à sedere con le gambe incavalcate, e co’ piedi
rozzamente esposti al popolo. Si disperava il Caravaggio per tale affronto nella prima opera da esso pubblicata in
Chiesa, quando il Marchese Vincenzo Giustiniani si mosse à favorirlo, e liberollo da questa pena; poiché interpostosi
con quei Sacerdoti, si prese per il quadro e glie ne fece fare un altro diverso, che è quello si vede hora sù l’altare”. È un
episodio significativo del nuovo rapporto dell’artista con il committente.
Ciò che prima rimaneva in una cerchia ristretta di amatori, adesso è dichiarato agli occhi di tutti: Caravaggio non è
soltanto un buon pittore ma subito un maestro. Ancora Bellori: “tanto che li pittori all’hora erano in Roma presi dalla
novità, e particolarmente li giovini concorrevano a lui, e celebravano lui solo, come unico imitatore della natura e come
miracoli mirando l’opere sue, lo seguitavano a gara, spogliando modelli ed alzando lumi; e senza più attendere a
studio, ed insegnamenti, ciascuno trovava facilmente in piazza, e per via il maestro e gli esempi nel copiare il naturale”.
Caravaggio, Ragazzo con canestro di frutta, part., Galleria Borghese, Roma
Assistiamo ora allo sviluppo delle sue prime idee. Ecco le figure dipinte con lo stesso impegno dei fiori e dei frutti, e
l’episodio della Vocazione di san Matteo diventare una riunione di giocatori in osteria. Caravaggio sembra prescrivere a
se stesso una norma cui non potrà sottrarsi: quella di non rappresentare nessun avvenimento alla luce del sole, bensì
in una stanza schiarita da un lume, capace di determinare potenti chiaroscuri. Anche le scene ambientate all’aperto,
come il San Francesco in estasi e i vari San Giovanni Battista, sono riscaldate con un forte lume artificiale. Ma,
soprattutto, in Caravaggio, è molto vivo lo spirito teatrale. Le due grandi tele con la Vocazione e il Martirio di san Matteo,
così come le due versioni di San Matteo e l’angelo, furono sviluppate su un palcoscenico con pochi elementi essenziali
utili a definire l’ambiente: una finestra, un tavolo, due sedie per l’osteria o una colonna e un altare per la chiesa, uno
sgabello in bilico per lo studio del santo diventato evangelista. E si tratta sempre di scenografie originali: nella
Vocazione, i personaggi sono in costume dell’epoca, di diversa età, e mentre giocano sono sorpresi da un avvenimento
improvviso. Senza essere annunciati entrano dalla porta due pellegrini, e con essi una luce improvvisa. I pellegrini
sono vestiti con abiti senza tempo, camminano scalzi, hanno capelli poco curati, mani grandi e nodose; il più giovane
alza il braccio quasi con indolenza, facendo brillare la mano vibrante nell’ombra: vuole indicare uno dei giocatori,
Matteo, e lo fissa con intensità. Lo stupore e la curiosità di Matteo si rispecchiano nello sguardo del suo giovane amico.
Due altri giocatori non si accorgono di nulla, mentre un terzo si volta all’improvviso, intensamente attratto. Il dialogo
delle mani dei due protagonisti sa molto di mimica teatrale, ma è anche un essenzialissimo modo di comunicare, di
stare a metà strada fra il quotidiano e il simbolico.
Caravaggio, Vocazione di san Matteo, part., chiesa di San Luigi dei Francesi, Roma
Caravaggio, Vocazione di san Matteo, part., chiesa di San Luigi dei Francesi, Roma
Puro teatro è anche la pala centrale, nella seconda versione: vediamo il santo con il ginocchio su uno sgabello in
bilico, mentre intinge la penna, pronto a segnare i punti essenziali del discorso che gli enumera l’angelo sospeso a
mezz’aria. Il santo è, come si conviene alla poetica di Caravaggio, un semplice popolano, con la fronte solcata dalle
rughe per gli anni e i pensieri: ha le mani grosse, da lavoratore, pur essendo paludato in un largo mantello. Niente a
che fare con il rude popolano analfabeta della precedente versione, ma, pur normalizzato, sempre un personaggio
lontanissimo da quello che soltanto qualche anno prima l’evangelista era stato nelle innumerevoli rappresentazioni dei
pittori manieristi. Certo, con questi dipinti il Caravaggio entra d’ufficio nella pittura di storia, pur ostinandosi a vestirla
dei panni della cronaca quotidiana. Se finzione deve esserci – egli sembra pensare – deve apparire più vera del vero.
Caravaggio, San Matteo e l’angelo, part., chiesa di San Luigi dei Francesi, Roma
Caravaggio, San Matteo e l’angelo, Gemäldegalerie, Berlino
Caravaggio, San Matteo e l’angelo, chiesa di San Luigi dei Francesi, Roma
Conversione, Crocifissione, Seppellimento:
l’immagine ineluttabile
Con questo spirito, Caravaggio affronta subito la seconda grande impresa romana, le storie dei santi Pietro e Paolo
per la Cappella Cerasi in Santa Maria del Popolo. Compiute fra il 1599 e il 1600 le due tele di San Luigi dei Francesi,
come hanno rivelato i documenti, il Caravaggio non ha un attimo di respiro: ma la sua maturazione è così veloce, e le
sue contraddizioni sono così limpidamente risolte, che il Longhi ha potuto ritenere le opere dei due cicli distanti fra loro
sette o otto anni. In effetti, la sintesi delle nuove tele con la Conversione di san Paolo e la Crocifissione di san Pietro
manifesta risultati assai più avanzati di quelli appena raggiunti. Qui, addirittura, il Caravaggio può rinunciare
all’adattamento dell’episodio ai costumi e ai tempi moderni. Nel San Paolo sembra superfluo sottolineare l’inversione
spaziale del punto di vista, che, riducendo il santo a terra con le braccia levate, impone all’attenzione il grande corpo
del cavallo, senza che per un attimo la tensione religiosa si allenti in un compiacimento da scena di genere alla Iacopo
Bassano. La presenza dell’animale non attenua la certezza del miracolo, anzi la esalta, facendolo coincidere con la
flagranza della caduta: la caduta stessa è il miracolo. Chi stava in alto è ora a terra, la superbia è stata umiliata e
l’uomo è in balia dell’animale, che potrebbe d’improvviso schiacciarlo sotto gli zoccoli. Ma questa stessa umiliazione è
l’inizio della redenzione.
Lo stesso può dirsi per la Crocifissione di san Pietro: niente di più forte e di più terrestre dei corpi grevi, animaleschi,
sporchi dei carnefici. La loro energia brutale travolge ogni umana identità, e il solo del quale si veda il volto mostra una
maschera dalle rughe incise sulla pelle spessa con capelli corti e fittissimi. Questo è un vero martirio: sentiamo il peso
del legno della croce, leggiamo il dolore nel volto di Pietro, e anche qui tutto accade in un attimo, non c’è tempo da
perdere.
Caravaggio, Conversione di san Paolo, part., basilica di Santa Maria del Popolo, Roma
Straordinari monumenti dell’azione, questi due dipinti sembrano una dichiarazione di guerra contro l’Annibale
Carracci cui è affidata l’Assunzione della Vergine per l’altare maggiore della stessa cappella, la visione di un mondo
senza tempo, mentre quella del Caravaggio è insieme del suo tempo e di tutti i tempi, oscura allegoria della violenza.
Per mostrare quanto radicale fosse il dissidio, Caravaggio aveva dato una seconda versione più estremistica della
Conversione di san Paolo, la cui primitiva versione è conservata nella collezione Odescalchi, macchina meravigliosa e
complicata, dove l’azione si moltiplica in tanti episodi, con una concezione dello spazio ancora manieristica. Si ha
ragione di stupirsi che le edizioni finali dei due dipinti siano state accettate senza le discussioni e censure cui il
Caravaggio aveva dovuto sottostare per San Matteo e l’angelo. Ma la forza degli avvenimenti è tradotta in termini così
essenziali che sembra di assistervi direttamente, come se non potessero essere accaduti che in quel modo. Credo che
questa sensazione dovesse aver avuto anche il committente, monsignor Tiberio Cerasi, come qualcosa di ineluttabile.
Per il Longhi, nella Crocifissione “le cose accadono con un’evidenza incolpevole, dove ognuno attende all’opera sua”.
Caravaggio, Conversione di Saulo, part., collezione Odescalchi, Roma
Caravaggio, Crocifissione di san Pietro, part., basilica di Santa Maria del Popolo, Roma
In modo più tragico, questo spirito ritorna nel Seppellimento di santa Lucia, dove ritroviamo i due impressionanti bruti
che scavano la fossa davanti ai pietosi devoti. L’episodio è ambientato nella latomia di Siracusa, visitata da Caravaggio
in compagnia dell’erudito Vincenzo Mirabella, che lo guidò nella grotta detta “Orecchio di Dioniso”. Nella mente di
Caravaggio dovette agire fortemente la suggestione di quei luoghi, evocati nella vasta e dura parete che incombe sui
personaggi, quasi comprimendoli, e sospingendoli in un abisso dove non può arrivare la luce. Uno degli incubi più
terribili della storia dell’arte.
Caravaggio, Seppellimento di santa Lucia, part., chiesa di Santa Lucia alla Badia, Siracusa
Caravaggio, Vocazione di san Matteo, chiesa di San Luigi dei Francesi, Roma
Caravaggio, Riposo durante la fuga in Egitto, Galleria Doria Pamphilj, Roma
Caravaggio, Ragazzo con canestro di frutta, Galleria Borghese, Roma
Caravaggio, Medusa, Galleria degli Uffizi, Firenze
Caravaggio, Conversione di san Paolo, Santa Maria del Popolo, Roma
Caravaggio, Conversione di Saulo, collezione Odescalchi, Roma
Caravaggio, Crocifissione di san Pietro, basilica di Santa Maria del Popolo, Roma
Caravaggio, Seppellimento di santa Lucia, chiesa di Santa Lucia alla Badia, Siracusa
Guido Reni, Aurora conduce il carro di Apollo, part., Casino dell’Aurora, Palazzo Pallavicini Rospigliosi, Roma
GUIDO RENI
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FINISCE LA NOTTE
La presenza di Caravaggio a Roma e la straordinaria eredità che lascia non impediscono, come già si intendeva
bene nella Cappella Cerasi in Santa Maria del Popolo, dominata dall’Assunzione della Vergine di Annibale Carracci,
che la forza della tradizione raffaellesca e la sua ispirazione al bello ideale perdurino nello stesso tempo e, alla fine,
prevalgano.
Giovanni Pietro Bellori, combattuto ammiratore di Caravaggio, suo malgrado e contro i suoi stessi principi, solleciterà
i pittori a perseguire il miraggio di quel bello ideale, vilipeso, contrastato e negato dal Merisi. Da una parte, dunque, la
pittura della realtà; dall’altra, la pittura del bello ideale.
Morti quasi contemporaneamente Caravaggio (1610) e Annibale Carracci (1609), il seguito del primo è dirompente,
diramato, travolgente: se ne vede un esempio formidabile nelle Scene della vita di san Francesco di Simon Vouet, che
occupano lo spazio della Cappella di San Lorenzo in Lucina, con una dissacratoria fantasia carica di sensualità e di
turbamenti. Sull’altro fronte non mancano, soprattutto con Domenichino e Francesco Albani, i continuatori, di eletto
magistero, di Annibale Carracci; ma l’antagonista vero e radicale, in un percorso che lo porterà alla dissoluzione della
forma e del colore in pura essenza, è Guido Reni.
Fin dai suoi esordi, paralleli all’esperienza della strada con i ragazzi di vita di Caravaggio, Guido Reni ha chiari i
suoi riferimenti, che non saranno certo bacchini malati e amorini vincitori di controverso erotismo, bensì, come si
conviene, riflessioni sul momento più alto del classicismo bolognese in forza della presenza di Raffaello. Forte
dell’esperienza che arriva da Annibale Carracci a Palazzo Farnese, Reni si appresta a superarlo nella stessa
dimensione del mito e dell’ideale: lo spazio sarà sempre aulico e sempre a Roma (il Casino dell’Aurora Pallavicini), e
anche Guido viene da Bologna. È più giovane di Annibale e anche (di tre anni) del Caravaggio.
A Bologna trova un terreno favorevole nella bottega di un uomo colto e curioso come il fiammingo Denijs Calvaert, ma
non riesce a staccare gli occhi (producendone diverse derivazioni) dall’Estasi di santa Cecilia di Raffaello. A vent’anni
entra nell’Accademia degli Incamminati e a Bologna lascia l’Incoronazione della Vergine, oggi nella Pinacoteca
nazionale, la Madonna col Bambino, san Domenico e i misteri del rosario nella basilica di San Luca e l’Assunzione di
Pieve di Cento.
Arriva a Roma in apertura del nuovo secolo, il 1600, e affronta il Martirio della santa nella basilica di Santa Cecilia in
Trastevere, ma anche una copia dell’Estasi di santa Cecilia per la chiesa di San Luigi dei Francesi. Passa a Loreto e a
Osimo e torna a Roma nel 1605 per dipingere la Crocifissione di san Pietro, nella quale sembra voler emulare
Caravaggio, ma più per soggetto e forme esterne che per tensione espressiva e forza drammatica, non volendosi
staccare dall’ideale raffaellesco preservato nell’esperienza dei Carracci.
Guido Reni, Santa Cecilia, chiesa di San Luigi dei Francesi, Roma
Guido Reni, Aurora conduce il carro di Apollo, Casino dell’Aurora, Palazzo Pallavicini Rospigliosi, Roma
La sua indisponibilità al caravaggismo si manifesta pienamente negli affreschi di San Gregorio al Celio e in quelli di
assoluto irrealismo per la Cappella dell’Annunciata del Palazzo del Quirinale. Sono, questi, gli anni di un capolavoro di
classicismo e teatralità: la Strage degli innocenti del 1610.
Nel 1612 lo troviamo a dipingere gli affreschi di Santa Maria Maggiore e, subito dopo, su commissione di Scipione
Borghese, l’affresco dell’Aurora, compiuto nel 1614. Il suo idealismo, così convinto da mandare bagliori fino all’età
neoclassica e oltre, ha una natura talmente apollinea da conquistare tutto lo spazio della volta celeste: il carro di Apollo
nel corteo delle Ore è preceduto dall’Aurora; sopra i quattro cavalli vola Phosforos, il cavallo del mattino, con una torcia
accesa, e, più in basso, un lindo paesaggio marino attraversato da bianche vele. Il cielo di Guido Reni è dorato. Apollo
guida il suo carro dentro il Sole, preceduto dall’Aurora in volo, sopra uno sconfinato mare azzurro. È finita la notte.
Guido Reni, Caduta dei giganti, part., Musei civici, Pesaro
Raffaello può ritenersi soddisfatto: Guido Reni lo ha vendicato dopo che la pittura era stata trascinata sulla strada e
costretta a misurarsi con soggetti più bassi e popolari. Caravaggio non solo è alle spalle: è rimosso. E Guido ritorna agli
dei e al cielo per non scenderne più. La sua Aurora rappresenta un nuovo inizio, senza il principale rivale, dopo la
prima stagione romana. Chiamato da Paolo V, ritornò, appunto, nel 1613, e fu pagato nel 1616, come leggiamo in un
documento, in cui è ricordato come Guido “Renzi”.
Manifesto del nuovo idealismo, il capolavoro di Reni apre la strada a una carriera con alcuni episodi mai drammatici
per contrasto di forze, ma sempre memorabili per armonia di forme. Ne è un esempio l’Annunciazione, inviata ad Ascoli
Piceno nel pieno della maturità, quando Reni aveva 53 o 54 anni.
Mai nessuno prima, se non Beato Angelico, aveva concepito un simile mondo di perfezioni, un’immagine più pura di
questa: l’Angelo è sceso di cielo in terra a miracolo mostrare. È un adolescente leggiadro, femmineo, guidato da una
luce che proviene dallo stesso cielo dell’Aurora. I cieli di Reni sono imperturbabili, anche quando sono turbati. Le ali,
più grandi di lui, si alzano come un monito semplice alla vergine timida e composta, ma interiormente regale perché
scelta da Dio. Sono due giovinetti che, timidamente, s’incontrano, scambiandosi parole d’amore. È finito il momento dei
grandi festeggiamenti in sontuosi palazzi: nella piccola e decorosa stanza della Vergine, con la finestra che si affaccia
su un paesaggio azzurro e rosato, l’angelo entra come un corteggiatore sospinto da una nuvola, per poter ritornare,
come un sogno, nel suo cielo.
La semplicità della composizione è disarmante. Il Bellori (che era nato nell’anno dell’Aurora) poteva iniziare a dirsi
soddisfatto, ma Guido non lo era. E, continuamente inquieto, era determinato a dissolvere la forma. Ne abbiamo un
esempio, circa dieci anni dopo, in un’opera consistente per concezione e soggetto: la Caduta dei giganti, dipinta per
Casa Isolani a Bologna.
Quanto all’apparenza la forma è consistente, tanto più l’esecuzione si fa rarefatta, impalpabile, con una materia
pittorica liquida e sottile, distesa con colpi veloci e grande consapevolezza degli effetti. Lo vediamo bene nel braccio del
gigante più vicino a noi, che, con una mano d’aria, sostiene un masso apparentemente pesante. Guido sta realizzando
il suo obiettivo: tradurre la materia in pensiero, dipingere nell’aria, alitare la forma. Nessun pittore era arrivato a tanto,
neanche l’ultimo Tiziano, informale ma rimasto materico. Per Reni la realtà è essenza, e tutto deve trasfigurare in luce.
Con questo sembra anticipare un’intuizione di Montale: “Svanire è dunque la ventura delle venture”. Ed è questa la
condizione cui aspira l’artista, annullando le forme sino a farle diventare aria o nebbia, e i colori fino alla monocromia,
come il Giove della Caduta dei giganti, che ha tutta la potenza immersa nel rosa.
Nessuno, se non Michelangelo, ha compreso la forza del non finito come Guido Reni, il quale però lo trasporta fuori
della forma, alla ricerca dell’essenza. Le sue opere, dal 1640 al 1642, anno della morte – con diversi soggetti, anche
monumentali, e sempre non finite – passarono dalla bottega del pittore alla collezione del cardinal Sacchetti, e poi da
Benedetto XIV ai Musei Capitolini. Una serie di opere commoventi per ciò che nascondono e per ciò che rivelano. Reni,
alla fine della vita, si libera di tutto: dell’iconografia, dei soggetti mitologici e religiosi, del disegno, della materia e del
colore. Dipinge fantasmi, arrivato alla fine del bello e anche dell’ideale, e ancora più lontano da Caravaggio. Dei corpi,
se mai vi furono, restano soltanto le anime. E le anime sono espresse in una pittura senza consistenza.
Nessuno è andato più in là, partendo da un mondo certo, nemmeno Turner. L’ultimo Guido Reni sembra
corrispondere al titolo del libro su di lui scritto da Manlio Cancogni: Il genio e il niente.
Guido Reni, Caduta dei giganti, Musei civici, Pesaro
Guido Reni, Annunciazione, Pinacoteca civica, Ascoli Piceno
Gian Lorenzo Bernini, David, part., Galleria Borghese, Roma
GUIDO RENI
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L’INVENZIONE DEL BAROCCO
Caravaggio è ancora vivo quando un artista bambino inizia a cambiare un’altra volta il mondo, dando inizio all’età
barocca: è Gian Lorenzo Bernini, figlio di Pietro, pittore e scultore toscano che lavora a Napoli alla certosa di San
Martino. A Napoli, nel 1598, nasce Gian Lorenzo. Sette anni dopo, Pietro si trasferisce a Roma, dove lavora per Paolo V
Borghese.
Con il padre Gian Lorenzo probabilmente inizia a lavorare nel 1611 per le tombe dei papi Paolo V e Clemente VIII.
Roma era il centro del mondo e un punto di osservazione straordinario in quegli anni, con la presenza di decine di pittori
influenzati da Caravaggio, ma anche di classicisti bolognesi come Annibale Carracci e Guido Reni. E, ancora, con la
presenza di Rubens, che tra il 1605 e il 1608 aveva lasciato i suoi capolavori nella chiesa Nuova: forse è proprio lui, con
il suo vitalismo, a suggestionare più di ogni altro Bernini. In ogni caso, lavorando per il cardinal Scipione Borghese alle
sculture destinate ai giardini della villa, Bernini condivide con Caravaggio il primato degli interessi del porporato.
Questi, esaurita la passione caravaggesca, gli commissiona quattro gruppi scultorei: Enea e Anchise, Il ratto di
Proserpina, il David e Apollo e Dafne.
Con le ultime due sculture, eseguite tra il 1623 e il 1625, Bernini compie una rivoluzione. Il David, ben oltre
Michelangelo, introduce il movimento, un dinamismo che anima la pietra e la rende viva fino a farla palpitare. Ma è
dall’Apollo e Dafne che nasce un mondo nuovo. Bernini non sente più il vincolo della realtà, della vita della strada, e
ritorna al mito, gli ridà carne e vita, sensualità, erotismo. Anziché sfuggire ad Apollo, la sua Dafne spera di esserne
rapita, si concede mentre scappa. Il giovane dio non la insegue ma le sta alle spalle in un ritmo di danza; e lei indugia,
desiderosa di essere presa piuttosto che trasformarsi in corteccia.
Gian Lorenzo Bernini, Apollo e Dafne, part., Galleria Borghese, Roma
Gian Lorenzo Bernini, David, Galleria Borghese, Roma
Gian Lorenzo Bernini, Apollo e Dafne, Galleria Borghese, Roma
Bernini descrive tutto. Anche il dettaglio dell’albero, e dei rami, e delle foglie. Ma soprattutto il desiderio dei due corpi
di fondersi, di essere una sola cosa. Egli descrive non la violenza bensì la grazia, i due corpi di adolescenti,
l’imperturbabilità di Apollo e l’urlo contratto di Dafne, disperata di non poter essere presa. Per fortuna, come scrive John
Keats nell’Ode su un’urna greca, tutto rimarrà sospeso: lui non potrà raggiungerla, lei non si trasformerà in pianta. E
l’ansia e il desiderio rimarranno la condizione eterna di questo gruppo in perfetta tensione, ovvero in movimento, primo
motore, a pieni giri, dell’età barocca.
Ritratto di Scipione Borghese
Il committente del David e dell’Apollo e Dafne ha un volto. Anzi, due volti. Dopo l’età romana, e con qualche raro
esempio in età federiciana (soprattutto nei busti monumentali di Capua), è con Bernini che si perfeziona il busto-ritratto.
Abbiamo visto begli esempi nel Rinascimento fiorentino: Donatello, Benedetto da Maiano, Mino da Fiesole, e ancor più,
quel grande ritrattista che fu Alessandro Vittoria. Ma nessuno, neanche Caravaggio in pittura, riuscì a trasferire nella
propria materia d’arte tutta la vita, il calore, il sudore, l’odore dei suoi personaggi come Bernini fece nei due ritratti di
Scipione Borghese, apparentemente identici e diversamente vivi.
Gian Lorenzo Bernini, Ritratto di Scipione Borghese (II), part., Galleria Borghese, Roma
Gian Lorenzo Bernini, Ritratto di Scipione Borghese (II), Galleria Borghese, Roma
Gian Lorenzo Bernini, Ritratto di Scipione Borghese (I), Galleria Borghese, Roma
Perché due? Per quale capriccio di committente?
In realtà, l’insoddisfatto doveva essere lo stesso Bernini. Quando iniziò a sbozzare il marmo, si accorse di un difetto
che non gli impedì di andare avanti con impegno anche maggiore, nella speranza di dissimularlo o di interpretarlo
come una vena. Così si spiega perché anche il ritratto difettoso fu compiuto. Ma il tentativo non riuscì, pur con tutto
l’impegno l’artista non poteva trasformare la materia. Così, procuratosi un blocco di marmo integro, ne fece un secondo,
in tutto identico, nel giro di poche settimane. Anche nella seconda versione il cardinale è beffardo, accaldato, con la
tonaca spiegazzata, la bocca semiaperta come per l’ansimare. Ma ciò che più colpisce è la resa della pelle, con le
mollezze della pinguedine, a emulare la consistenza della carne.
I ritratti di Bernini sostituiscono e perfezionano la realtà, senza idealismi.
Estasi di santa Teresa
Il genio di Bernini si manifesta eminentemente come teatro, e se ne ha la più alta esemplificazione nella Cappella
Cornaro di Santa Maria della Vittoria, a Roma, dove l’artista immagina l’Estasi di santa Teresa.
La cappella improvvisamente si anima e diventa un vero e proprio teatro. La luce cade dall’alto, da un cupolino, e si
rifrange sui raggi di legno dorato alle spalle del gruppo. In alto, due palchetti ufficiali con i committenti alludono in modo
esplicito alla rappresentazione scenica. Bernini suggerisce di riparare all’insolenza dell’angelo compiaciuto che
sostiene santa Teresa con un’estensione del brivido luminoso, una scossa elettrica che scuote fino all’inverosimile le
forme nascoste della terra, le emozioni improvvise dei sensi. Santa Teresa si agita sotto la tonaca che non riesce a
celarne i brividi, i sussulti. L’angelo sorride, compiaciuto, come un Apollo cui sia stato consentito di possedere Dafne,
abbandonata, stremata, affranta. L’angelo è euforico, dominante, come un soldato che abbia combattuto e vinto il
nemico. La santa è spossata e felice in questa vera Hypnerotomachia.
Gian Lorenzo Bernini, Estasi di santa Teresa, part., chiesa di Santa Maria della Vittoria, Roma
Bernini è andato oltre l’architettura, la scultura, la scenografia, il teatro e perfino la pittura, nelle nuances di luce e
ombra che animano la veste della santa. È entrato in una dimensione psicoanalitica. Mai prima di questo capolavoro la
scultura e la pittura – neanche nei precedenti delle cupole del Correggio – erano arrivate a cogliere così intimamente la
trasfigurazione, anzi la transverberazione, di un corpo in uno stato d’animo, in una condizione di pura beatitudine
sublimata in luce. Bernini attinge, com’è evidente, anche alla letteratura e alla musica, ovvero a tutte le condizioni
dell’arte. La sua Estasi di santa Teresa è una vera e propria Gesamtkunstwerk, un’opera d’arte totale, in una vertigine dei
sensi e delle forme.
Estasi della beata Ludovica Albertoni
Bernini fu pittore di sensibilità straordinaria e con una pittura di tocco che ambiva a rappresentare l’anima prima dei
corpi, come si vede nei numerosi autoritratti. Fu anche scenografo e architetto, dal baldacchino della basilica di San
Pietro, con le imponenti colonne tortili, al completamento di Palazzo Barberini, al Palazzo di Montecitorio, al colonnato di
San Pietro fino al teorema della chiesa di Sant’Andrea al Quirinale. Nella scultura, sempre in ambito romano, compie la
fontana del Tritone, la Verità scoperta dal tempo, la fontana dei Quattro fiumi a piazza Navona, il monumento funebre per
suor Maria Raggi a Santa Maria sopra Minerva, il busto di Innocenzo X alla Galleria Doria Pamphilj. E ancora, nella
Cappella Chigi di Santa Maria del Popolo, le statue di Daniele e Abacuc con l’angelo, e il monumento equestre
dell’imperatore Costantino in San Pietro. L’esperienza dell’Estasi di santa Teresa spinge Bernini a perfezionarne il
tema nella Beata Ludovica Albertoni per la Cappella Altieri in San Francesco a Ripa. Anche in questo caso, la beata è
presa da un’agitazione incontenibile, espressa nell’elaboratissimo panneggio che riveste il suo corpo e ne registra
tutti i sussulti, in un’umanissima condizione di beatitudine compiutamente erotica. Non c’è neppure trasfigurazione,
solo definizione ambientale, con i materassi e i cuscini su cui posa la donna. Per noi è come entrare in una dimensione
intima, osare l’inosabile, vedere l’invisibile, con una sensualità, una morbidezza che troveremo soltanto, a distanza di
tre secoli, in alcuni momenti di sensualità morbosa di Pierre Bonnard.
Bernini insiste nello spingere alle estreme conseguenze la sensibilità barocca. Il suo obiettivo è vincere la morte, far
prevalere la vita sulla forma, agitare il marmo fino a dargli una diversa dimensione. Nessuno si era spinto fino a questi
confini, oltre i quali la stessa materia si trasfigura.
Gian Lorenzo Bernini, Estasi di santa Teresa, chiesa di Santa Maria della Vittoria, Roma
Gian Lorenzo Bernini, Estasi della beata Ludovica Albertoni, part., chiesa di San Francesco a Ripa, Roma
Gian Lorenzo Bernini, Estasi della beata Ludovica Albertoni, chiesa di San Francesco a Ripa, Roma
INDICI
____________________________
INDICE DEI NOMI
____________________________
Sono indicati in corsivo i numeri di pagina riferiti alle didascalie.
Acilio, Laura de, [1]
Albani, famiglia, [1]
Albani, Francesco, [1]
Albertinelli, Mariotto, [1]
Aldrovandi, Ulisse, [1]
Allori, Alessandro, [1], [2], [3]
Altdorfer, Albrecht, [1]
Ammannati, Bartolomeo, [1]
Anguissola, Lucia, [1]
Anguissola, Sofonisba, [1]
Antonio da Sangallo, [1]
Arcangeli, Francesco, [1], [2]
Arcimboldi, Giuseppe (Arcimboldo), [1], [2], [3], [4], [5], [6], [7], [8]
Aretino, Pietro, [1], [2]
Ariosto, Ludovico, [1], [2]
Aspertini, Amico, [1], [2], [3], [4], [5], [6]
Baglione, Giovanni, [1]
Bagnacavallo (Bartolomeo Ramenghi), [1]
Baiardi, Francesco, [1]
Bandini, Giovanni, [1]
Barocci, Federico, [1], [2], [3], [4], [5], [6], [7], [8], [9]
Bassano, Iacopo, [1], [2], [3], [4], [5], [6], [7], [8], [9], [10], [11], [12], [13], [14]
Bastianino (Sebastiano Filippi), [1], [2], [3], [4], [5], [6]
Battiferri, Laura, [1]
Beccafumi, Domenico, [1], [2], [3], [4], [5], [6], [7], [8]
Begarelli, Antonio, [1]
Bellini, Giovanni, [1], [2]
Bellori, Giovanni Pietro, [1], [2], [3], [4]
Bembo, Giovanni Francesco, [1]
Bembo, Pietro, [1], [2]
Benedetto da Maiano, [1]
Benedetto XIV (Prospero Lorenzo Lambertini), papa, [1]
Bentivoglio, signori di Bologna, [1]
Benvenuti, Mario, [1]
Bernardelli Curuz, Maurizio, [1]
Bernini, Gian Lorenzo, [1], [2], [3], [4], [5], [6], [7], [8], [9], [10]
Bernini, Pietro, [1]
Beuckelaer, Joachim, [1], [2]
Blake, William, [1], [2], [3]
Boccaccino, Boccaccio, [1], [2], [3], [4]
Bonnard, Pierre, [1], [2]
Borghese, Scipione, [1], [2], [3]
Borghini, Vincenzo, [1]
Bosch, Hieronymus, [1]
Boschini, Marco, [1]
Bramante (Donato “Donnino” di Angelo di Pascuccio), [1]
Bramantino (Bartolomeo Suardi), [1]
Brembati, Isotta, [1]
Bronzino (Agnolo di Cosimo di Mariano), [1], [2], [3], [4], [5], [6], [7], [8], [9], [10]
Buonarroti, Michelangelo, [1], [2], [3], [4], [5], [6], [7], [8], [9], [10], [11], [12], [13], [14], [15], [16], [17], [18], [19], [20],
[21], [22], [23], [24], [25], [26], [27], [28], [29], [30], [31], [32], [33], [34], [35], [36], [37], [38]
Butteri, Giovanni Maria, [1], [2], [3]
Calvaert, Denijs, [1]
Cambiaso, Luca, [1], [2], [3], [4], [5], [6], [7], [8]
Campi, Antonio, [1], [2], [3], [4], [5]
Campi, Bernardino, [1], [2], [3], [4], [5]
Campi, Giulio, [1]
Campi, Vincenzo, [1], [2], [3], [4], [5]
Cancogni, Manlio, [1]
Candido, Elia, [1]
Canozi, Cristoforo, vedi Lendinara, Cristoforo
Caravaggio (Michelangelo Merisi), [1], [2], [3], [4], [5], [6], [7], [8], [9], [10], [11], [12], [13], [14], [15], [16], [17], [18],
[19], [20], [21], [22], [23], [24], [25], [26], [27], [28], [29], [30], [31], [32], [33], [34], [35], [36], [37], [38], [39], [40], [41], [42],
[43], [44], [45], [46], [47], [48], [49], [50], [51], [52], [53], [54], [55], [56], [57], [58], [59], [60], [61], [62]
Carlo II Francesco d’Asburgo, arciduca d’Austria, [1]
Carpaccio, Vittore, [1]
Carracci, Annibale, [1], [2], [3], [4], [5], [6], [7], [8], [9], [10], [11], [12], [13], [14], [15]
Castello, Valerio, [1]
Castiglione, Baldassarre, [1], [2]
Cavalier d’Arpino (Giuseppe Cesari), [1], [2], [3], [4], [5]
Cavalori, Mirobello, [1]
Cazzullo, Aldo, [1]
Cerasi, Tiberio, [1]
Cimabue (Cenni di Pepo), [1]
Clemente VII (Giulio Zanobi di Giuliano de’ Medici), papa, [1]
Clemente VIII (Ippolito Aldobrandini), papa, [1]
Conconi Fedrigolli, Adriana, [1]
Contarini, Gaspare, [1]
Contini, Gianfranco, [1]
Contucci, Andrea, [1]
Correggio (Antonio Allegri), [1], [2], [3], [4], [5], [6], [7], [8], [9], [10], [11]
Costa, Lorenzo, [1], [2]
Cranach, Lucas il Vecchio, [1], [2]
Cremona, Tranquillo, [1]
Daniele da Volterra (Daniele Ricciarelli, detto il Braghettone), [1], [2], [3], [4], [5]
d’Annunzio, Gabriele, [1], [2], [3]
Danti, Vincenzo, [1]
Domenichino (Domenico Zampieri), [1]
Donatello (Donato di Niccolò di Betto Bardi), [1]
Dossi, Dosso, [1], [2], [3], [4], [5], [6], [7], [8], [9], [10], [11]
Dürer, Albrecht, [1], [2], [3]
Dvořák, Antonín, [1]
Eleonora da Toledo, duchessa di Firenze, [1]
Ercole de Roberti, [1]
Escher, Maurits Cornelis, [1], [2], [3]
Fagiolo dell’Arco, Maurizio, [1]
Farnese, famiglia, [1]
Farnese, Odoardo, [1]
Fenzoni, Ferraù, [1], [2], [3], [4], [5]
Ferrante Gonzaga, principe di Molfetta, [1]
Ferrari, Gaudenzio, [1], [2]
Fidia, [1]
Filippi, Camillo, [1]
Filippi, Sebastiano, vedi Bastianino
Foscolo, Ugo, [1]
Fra Bartolomeo (Bartolomeo di Paolo o Baccio della Porta), [1]
Francesco del Cossa, [1]
Francesco Ferdinando d’Avalos, marchese di Pescara, [1]
Francesco I de’ Medici, granduca di Toscana, [1], [2]
Francesco Maria II della Rovere, duca di Urbino, [1]
Francia, Francesco, [1]
Franco, Battista, [1], [2], [3], [4], [5]
Fugger, famiglia, [1]
Füssli, Johann Heinrich, [1], [2], [3]
Gambara, Lattanzio, [1]
Garofalo (Benvenuto Tisi), [1]
Gentileschi, Artemisia, [1]
Gherardo delle Notti, [1]
Giambellino, vedi Bellini, Giovanni,
Giambologna (Jean de Boulogne), [1]
Gilberti, Giammatteo, [1]
Giorgione (Giorgio da Castelfranco), [1], [2], [3], [4], [5], [6], [7], [8], [9], [10], [11]
Giovanni Agostino da Lodi, [1]
Girolamo da Carpi, [1]
Girolamo da Treviso, [1], [2]
Giulio II (Giuliano della Rovere), papa, [1]
Giulio Romano, [1], [2], [3], [4], [5], [6], [7], [8], [9], [10], [11], [12], [13], [14]
Gonzaga, Ippolita, [1]
Goya, Francisco, [1], [2], [3]
Greco, El (Dominikos Theotokopoulos), [1], [2], [3], [4], [5], [6], [7], [8]
Grimani, Domenico, [1]
Grimani, Marcantonio, [1]
Grimani, Marino, [1]
Gritti, Andrea, [1]
Grumelli, Gian Gerolamo, [1]
Grünewald, Matthias, [1]
Guidobaldo II Della Rovere, duca di Urbino, [1]
Holbein, Hans il Giovane, [1]
Innocenzo da Imola, [1], [2]
Keats, John, [1]
Lamo, Alessandro, [1]
Leonardo da Vinci, [1], [2], [3], [4]
Leone X (Giovanni di Lorenzo de’ Medici), papa, [1]
Lippi, Filippino, [1]
Lomazzo, Giovanni Paolo, [1]
Longhi, Roberto, [1], [2], [3], [4], [5], [6], [7], [8], [9], [10], [11], [12], [13], [14], [15]
Lorenzi, Stoldo, [1]
Lotto, Lorenzo, [1], [2], [3], [4], [5], [6], [7], [8], [9], [10], [11], [12], [13], [14], [15], [16], [17]
Macchietti, Girolamo, [1]
Maderno, Stefano, [1], [2]
Malvasia, Carlo Cesare, [1]
Mancini, Domenico, [1]
Manet, Édouard, [1]
Manzini, Benedetto, [1]
Maria Anna di Wittelsbach, principessa di Baviera e arciduchessa d’Austria, [1]
Masaccio (Tommaso di ser Giovanni Cassai), [1]
Maso da San Friano, [1]
Massimiliano II d’Asburgo, imperatore del Sacro Romano Impero, [1], [2]
Mazzolino, Ludovico, [1]
Mazzucco, Melania, [1]
Melone, Altobello, [1], [2], [3], [4], [5], [6], [7]
Michiel, Marcantonio, [1], [2]
Mino da Fiesole, [1]
Mio, Giovanni de, [1], [2]
Mirabella, Vincenzo, [1]
Monet, Claude, [1]
Montale, Eugenio, [1]
Moretto da Brescia, [1]
Moretto da Brescia (Alessandro Bonvicino), [1], [2], [3], [4], [5], [6], [7], [8], [9], [10], [11], [12], [13], [14], [15], [16]
Morigia, Paolo, [1]
Moroni, Giovanni Battista, [1], [2], [3], [4], [5]
Napoleone Bonaparte, imperatore dei francesi, [1]
Niccolò d’Arras, [1]
Niccolò dell’Abate, [1], [2]
Niccolò dell’Arca, [1], [2]
Nicolò da Ponte, [1]
Palladio, Andrea, [1], [2], [3], [4]
Pallavicino, famiglia, [1], [2]
Pallucchini, Rodolfo, [1], [2]
Palma il Giovane, Jacopo (Giacomo Nigretti), [1]
Panciatichi, Lucrezia, [1]
Paolo III (Alessandro Farnese), papa, [1], [2]
Paolo IV (Gian Pietro Carafa), papa, [1]
Paolo V (Camillo Borghese), papa, [1], [2]
Parmigianino (Francesco Mazzola), [1], [2], [3], [4], [5], [6], [7], [8], [9], [10], [11], [12], [13], [14], [15], [16], [17], [18],
[19], [20], [21]
Pasolini, Pier Paolo, [1], [2], [3]
Passerotti, Bartolomeo, [1], [2], [3]
Perugino (Pietro di Cristoforo Vannucci), [1], [2], [3]
Peruzzi, Baldassarre, [1]
Peterzano, Simone, [1], [2], [3], [4], [5], [6], [7], [8], [9]
Petrarca, Francesco, [1]
Piazza, Callisto, [1], [2]
Picasso, Pablo, [1]
Piccio, il (Giovanni Carnovali), [1]
Piero di Cosimo (Piero di Lorenzo di Chimenti), [1]
Pino, Marco, [1], [2], [3], [4], [5], [6], [7]
Pisani, Vettor, [1]
Poggini, Domenico, [1]
Pollock, Jackson, [1]
Pontormo (Jacopo Carrucci), [1], [2], [3], [4], [5], [6], [7], [8], [9], [10], [11]
Poppi, il (Francesco Morandini), [1]
Pordenone, [1]
Pordenone (Giovanni Antonio de’ Sacchis), [1], [2], [3], [4], [5], [6], [7], [8], [9], [10], [11], [12], [13]
Pseudo-Boccaccino, vedi Giovanni Agostino da Lodi
Quignone, cardinale, [1]
Quintavalle, Prospero, [1]
Raffaellino del Colle, [1], [2]
Raffaello Sanzio, [1], [2], [3], [4], [5], [6], [7], [8], [9], [10], [11], [12], [13], [14], [15], [16], [17], [18], [19], [20], [21], [22],
[23]
Rangone, Tommaso, [1]
Rembrandt, Harmenszoon van Rijn, [1]
Reni, Guido, [1], [2], [3], [4], [5], [6], [7], [8], [9]
Renoir, Pierre-Auguste, [1]
Ridolfi, Carlo, [1], [2]
Rodolfo II d’Asburgo, imperatore del Sacro Romano Impero, [1], [2]
Romanino (Girolamo da Romano), [1], [2], [3], [4], [5], [6], [7], [8], [9], [10], [11]
Rossi, Vincenzo de’, [1]
Rosso Fiorentino (Giovanni Battista di Iacopo de’ Rossi detto), [1], [2], [3], [4], [5], [6], [7], [8], [9], [10]
Rovelli, Galeano, [1]
Rubens, Pieter Paul, [1], [2], [3]
Sacchetti, Giulio Cesare, [1]
Salviati, Francesco, [1], [2], [3], [4], [5], [6], [7], [8], [9], [10]
Sansovino (Jacopo Tatti), [1], [2], [3], [4], [5], [6]
Santi di Tito, [1]
Savoldo, Giovanni Gerolamo, [1], [2], [3], [4], [5], [6], [7], [8], [9], [10], [11], [12], [13]
Schiavone (Andrea Meldolla), [1], [2], [3], [4], [5]
Schönberg, Arnold, [1]
Serlio, Sebastiano, [1]
Sfondrati, Paolo Emilio, [1]
Signorelli, Luca, [1]
Sodoma, il (Giovanni Antonio Bazzi), [1]
Stomer, Matteo, [1]
Stradano, Giovanni, [1]
Sustris, Lambert, [1], [2]
Tatti, Jacopo, vedi Sansovino
Testori, Giovanni, [1], [2], [3]
Tibaldi, Pellegrino, [1], [2], [3], [4], [5]
Tiepolo, Giambattista, [1]
Tintoretto (Iacopo Robusti), [1], [2], [3], [4], [5], [6], [7], [8], [9], [10], [11], [12], [13], [14], [15], [16], [17], [18], [19], [20],
[21], [22], [23], [24], [25], [26], [27], [28], [29], [30], [31], [32], [33], [34], [35], [36], [37]
Tiziano Vecellio, [1], [2], [3], [4], [5], [6], [7], [8], [9], [10], [11], [12], [13], [14], [15], [16], [17], [18], [19], [20], [21], [22],
[23], [24], [25], [26], [27], [28], [29], [30], [31], [32], [33], [34], [35], [36], [37], [38], [39], [40], [41], [42], [43]
Tolnay, Charles de, [1]
Travaglio, Marco, [1]
Tura, Cosmè, [1]
Turner, William, [1]
Urso, Antonio, [1]
Vaga, Perin del, [1], [2], [3]
Vanni, Francesco, [1]
Vasari, Giorgio, [1], [2], [3], [4], [5], [6], [7], [8], [9], [10], [11], [12], [13], [14], [15], [16], [17], [18], [19], [20], [21], [22], [23]
Vecellio, Marco, [1]
Venier, Francesco, [1]
Venusti, Marcello, [1]
Venuti, Paolo, [1]
Veronese (Bonifazio de’ Pitati), [1], [2], [3]
Veronese, Paolo (Paolo Caliari), [1], [2], [3], [4], [5], [6], [7], [8], [9], [10], [11], [12]
Vespasiano I Gonzaga, duca di Sabbioneta principe del Sacro Romano Impero, [1], [2]
Vincenzo da Pavia, [1]
Vittoria, Alessandro, [1], [2], [3], [4], [5]
Vouet, Simon, [1]
Watteau, Jean-Antoine, [1], [2]
Zamboni, Silla, [1]
Zanetti, Anton Maria, [1]
Zelotti, Giovanni Battista, [1]
Zezza, Andrea, [1]
Zuccari, Taddeo, [1], [2], [3], [4], [5], [6], [7], [8], [9]
Zucchi, Jacopo, [1]
INDICE DELLE IMMAGINI
____________________________
Rosso Fiorentino, Deposizione, particolari, Pinacoteca comunale, Volterra © 2015. Foto Scala, Firenze [1], [2], [3].
Pontormo, Deposizione di Cristo, part., chiesa di Santa Felicita, Firenze © 2015. Foto Scala, Firenze [1], [2].
Pablo Picasso, Donna con ventaglio, Hermitage, San Pietroburgo [1].
Pontormo, Deposizione di Cristo, chiesa di Santa Felicita, Firenze © 2015. Foto Scala, Firenze [1].
Rosso Fiorentino, Deposizione, Pinacoteca comunale, Volterra © 2015. Foto Scala, Firenze [1].
Domenico Beccafumi, Natività, part., chiesa di San Martino, Siena © 2015. Foto Scala, Firenze [1].
Domenico Beccafumi, San Paolo in trono, part., Museo dell’Opera del duomo, Siena © 2015. Foto Opera Metropolitana
Siena/Scala, Firenze [1], [2].
Domenico Beccafumi, San Michele scaccia gli angeli ribelli, chiesa di San Niccolò al Carmine, Siena © 2015. Foto
Scala, Firenze [1].
Hieronymus Bosch, Caduta dei dannati e Inferno, Palazzo Grimani, Venezia © 2015. Foto Scala, Firenze – su
concessione Ministero Beni e Attività Culturali [1].
Domenico Beccafumi, San Michele scaccia gli angeli ribelli, part., chiesa di San Niccolò al Carmine, Siena © 2015. Foto
Scala, Firenze [1], [2].
Domenico Beccafumi, San Paolo in trono, Museo dell’Opera del duomo, Siena © 2015. Foto Opera Metropolitana
Siena/Scala, Firenze [1].
Domenico Beccafumi, Natività, chiesa di San Martino, Siena © 2015. Foto Scala, Firenze [1].
Giulio Romano, Martirio di santo Stefano, particolari, chiesa di Santo Stefano, Genova © 2015. Foto Scala, Firenze [1],
[2], [3], [4].
Giulio Romano, Martirio di santo Stefano, chiesa di Santo Stefano, Genova © 2015. Foto Scala, Firenze [1].
Raffaellino del Colle, Resurrezione di Cristo, part., duomo di Sansepolcro © 2015. Foto Scala, Firenze [1].
Affreschi della Sala della Calunnia, Villa Imperiale, Pesaro © 2015. Foto Scala, Firenze [1].
Raffaellino del Colle, Resurrezione di Cristo, duomo di Sansepolcro © 2015. Foto Scala, Firenze [1].
Agnolo Bronzino, Allegoria del trionfo di Venere, part., National Gallery, Londra [1].
Agnolo Bronzino, Sacra famiglia, part., Galleria degli Uffizi, Firenze [1], [2].
Agnolo Bronzino, Allegoria del trionfo di Venere, part., National Gallery, Londra [1].
Agnolo Bronzino, Ritratto di Eleonora da Toledo, part., Galleria degli Uffizi, Firenze [1], [2].
Agnolo Bronzino, Ritratto di Lucrezia Panciatichi, part., Galleria degli Uffizi, Firenze [1], [2].
Agnolo Bronzino, Sacra famiglia, Galleria degli Uffizi, Firenze [1].
Agnolo Bronzino, Allegoria del trionfo di Venere, National Gallery, Londra [1].
Agnolo Bronzino, Ritratto di Eleonora da Toledo, Galleria degli Uffizi, Firenze [1].
Agnolo Bronzino, Ritratto di Lucrezia Panciatichi, Galleria degli Uffizi, Firenze [1].
Francesco Salviati, La Carità, part., Galleria degli Uffizi, Firenze © 2015. Foto Scala, Firenze – su concessione
Ministero Beni e Attività Culturali [1].
Francesco Salviati, Betsabea si reca da David, Palazzo Sacchetti, Roma © 2015. Foto Scala, Firenze [1].
Maurits Cornelis Escher, Relatività, collezione Federico Giudiceandrea, Bressanone [1].
Francesco Salviati, L’incredulità di san Tommaso, part., Musée du Louvre, Parigi © 2015. Foto Scala, Firenze [1].
Francesco Salviati, La Carità, Galleria degli Uffizi, Firenze © 2015. Foto Scala, Firenze – su concessione Ministero
Beni e Attività Culturali [1].
Francesco Salviati, L’incredulità di san Tommaso, Musée du Louvre, Parigi © 2015. Foto Scala, Firenze [1].
Giorgio Vasari, I quartieri cittadini di San Giovanni e Santa Maria Novella, part., Salone dei Cinquecento, Palazzo
Vecchio, Firenze © 2015. Foto Scala, Firenze [1].
Giorgio Vasari, Giudizio universale, part., duomo di Firenze © Per concessione dell’Opera di Santa Maria del
Fiore/Nicolò Orsi Battaglini/Archivi Alinari, Firenze [1].
Giorgio Vasari, Giudizio universale, duomo di Firenze © 2015. Foto Scala, Firenze [1], [2].
Giorgio Vasari, I quartieri cittadini di San Giovanni e Santa Maria Novella, Salone dei Cinquecento, Palazzo Vecchio,
Firenze © 2015. Foto Scala, Firenze [1].
Amico Aspertini, Madonna col Bambino e santi, part., basilica di San Martino Maggiore, Bologna © DeAgostini Picture
Library/A. de Gregorio/Bridgeman Images [1], [2].
Amico Aspertini, Pala del Tirocinio, part., Pinacoteca nazionale, Bologna © 2015. DeAgostini Picture Library/Scala,
Firenze [1].
Amico Aspertini, Pala del Tirocinio, Pinacoteca nazionale, Bologna © 2015. DeAgostini Picture Library/Scala, Firenze
[1].
Amico Aspertini, Madonna col Bambino e santi, basilica di San Martino Maggiore, Bologna © DeAgostini Picture
Library/A. de Gregorio/Bridgeman Images [1].
Dosso Dossi, Baccanale, particolari, Castel Sant’Angelo, Roma © 2015. Foto Scala, Firenze – su concessione
Ministero Beni e Attività Culturali [1], [2], [3].
Dosso Dossi, Circe, particolari, Galleria Borghese, Roma [1], [2].
Dosso Dossi, Baccanale, Castel Sant’Angelo, Roma © 2015. Foto Scala, Firenze – su concessione Ministero Beni e
Attività Culturali [1].
Dosso Dossi, Circe, Galleria Borghese, Roma [1].
Savoldo, Annunciazione, part., Gallerie dell’Accademia, Venezia © Foto Archivio fotografico, Polo museale del Veneto
– su concessione Ministero Beni e Attività Culturali e del Turismo [1].
Savoldo, Adorazione dei pastori, Pinacoteca Tosio Martinengo, Brescia [1].
Savoldo, Annunciazione, Gallerie dell’Accademia, Venezia © Foto Archivio fotografico, Polo museale del Veneto – su
concessione Ministero Beni e Attività Culturali e del Turismo [1].
Romanino, Crocifissione, particolari, chiesa di Santa Maria della Neve, Pisogne [1], [2], [3].
Romanino, Discesa al Limbo e Lavanda dei piedi, chiesa di Santa Maria della Neve, Pisogne [1].
Romanino, Crocifissione, chiesa di Santa Maria della Neve, Pisogne [1], [2].
Romanino, particolare della volta, chiesa di Santa Maria della Neve, Pisogne [1].
Moretto da Brescia, Apparizione della Madonna al sordomuto Filippo Viotti, part., santuario della Madonna di Paitone,
Paitone © Mondadori Portfolio/Sergio Anelli [1].
Moretto da Brescia, Santa Giustina da Padova e un donatore, part., Kunsthistorisches Museum, Vienna © 2015. Foto
Austrian Archives/Scala, Firenze [1].
Moretto da Brescia, Cristo e l’angelo, part., Pinacoteca civica, Brescia © 2015. Foto Scala, Firenze [1], [2].
Moretto da Brescia, Cristo e l’angelo, Pinacoteca civica, Brescia © 2015. Foto Scala, Firenze [1].
Moretto da Brescia, Santa Giustina da Padova e un donatore, Kunsthistorisches Museum, Vienna © 2015. Foto
Austrian Archives/Scala, Firenze [1].
Moretto da Brescia, Apparizione della Madonna al sordomuto Filippo Viotti, santuario della Madonna di Paitone,
Paitone © Mondadori Portfolio/Sergio Anelli [1].
Altobello Melone, Fuga in Egitto, part., duomo di Cremona © Luciano Romano [1].
Altobello Melone, Strage degli innocenti, particolari, duomo di Cremona © Luciano Romano [1], [2].
Altobello Melone, Fuga in Egitto, duomo di Cremona © Luciano Romano [1].
Altobello Melone, Strage degli innocenti, duomo di Cremona © Luciano Romano [1].
Callisto Piazza, Decollazione del Battista, part., santuario dell’Incoronata, Lodi © Antonio Francesco Mazza [1].
Callisto Piazza, Decollazione del Battista, santuario dell’Incoronata, Lodi © Antonio Francesco Mazza [1].
Parmigianino, Pallade Atena, part., Royal Collections, Hampton Court [1].
Parmigianino, Madonna dal collo lungo, particolari, Galleria degli Uffizi, Firenze © 2015. Foto Scala, Firenze – su
concessione Ministero Beni e Attività Culturali [1], [2].
Parmigianino, Madonna dal collo lungo, Galleria degli Uffizi, Firenze © 2015. Foto Scala, Firenze – su concessione
Ministero Beni e Attività Culturali [1].
Parmigianino, Pallade Atena, Royal Collections, Hampton Court [1].
Pordenone, Deposizione, part., duomo di Cremona © Ghigo Roli/Bridgeman Images [1].
Pordenone, Scene della Passione di Cristo, duomo di Cremona © Ghigo Roli/Bridgeman Images [1].
Pordenone, Deposizione di Cristo, chiesa dell’Annunciata, Cortemaggiore © Fabio Lunardini [1].
Caravaggio, Seppellimento di santa Lucia, basilica di Santa Lucia, Siracusa p. [1].
Pordenone, Noli me tangere, Museo del duomo, Cividale del Friuli [1].
Tiziano, Punizione di Marsia, particolari, Galleria arcivescovile, Kroměříž [1], [2], [3].
Tiziano, Martirio di san Lorenzo, part., chiesa dei Gesuiti, Venezia [1].
Tiziano, Punizione di Marsia, Galleria arcivescovile, Kroměříž [1].
Tiziano, Martirio di san Lorenzo, chiesa dei Gesuiti, Venezia [1].
Tiziano, Incoronazione di spine, Alte Pinakothek, Monaco [1].
Jacopo Sansovino, Madonna della Loggetta, part., campanile di San Marco, Venezia © 2015. DeAgostini Picture
Library/Scala, Firenze [1].
Jacopo Sansovino, Madonna col Bambino, Galleria dell’Arsenale, Venezia [1].
Jacopo Sansovino, Madonna della Loggetta, campanile di San Marco, Venezia © 2015. DeAgostini Picture
Library/Scala, Firenze [1].
Michelangelo, Madonna col bambino, chiesa di Notre-Dame, Bruges, © 2015. Foto Scala, Firenze [1].
Iacopo Bassano, Fuga in Egitto, particolari, Norton Simon Museum, Pasadena © Norton Simon Art Foundation [1], [2].
Iacopo Bassano, Ultima cena, part., Galleria Borghese, Roma © 2015. Foto Scala, Firenze [1].
Iacopo Bassano, Fuga in Egitto, Norton Simon Museum, Pasadena © Norton Simon Art Foundation [1], [2].
Iacopo Bassano, Ultima cena, Galleria Borghese, Roma © 2015. Foto Scala, Firenze [1], [2].
Tintoretto, Susanna e i vecchioni, part., Kunsthistorisches Museum, Vienna [1].
Tintoretto, La disputa di Gesù con i dottori del tempio, part., Museo del duomo, Milano [1].
Raffaello, La Scuola di Atene, Stanza della Segnatura, Musei vaticani, Città del Vaticano [1].
Tintoretto, La disputa di Gesù con i dottori del tempio, Museo del duomo, Milano [1].
Tintoretto, Il miracolo dello schiavo, particolari, Gallerie dell’Accademia, Venezia [1], [2].
Tintoretto, Il miracolo dello schiavo, Gallerie dell’Accademia, Venezia [1], [2].
Tintoretto, Susanna e i vecchioni, part., Kunsthistorisches Museum, Vienna [1].
Tintoretto, Susanna e i vecchioni, Kunsthistorisches Museum, Vienna [1], [2].
Tintoretto, Trafugamento del corpo di san Marco, particolari, Gallerie dell’Accademia, Venezia [1], [2].
El Greco, Il miracolo di Cristo che guarisce il cieco, part., The Metropolitan Museum of Art, New York [1].
Tintoretto, Trafugamento del corpo di san Marco, Gallerie dell’Accademia, Venezia [1].
El Greco, Il miracolo di Cristo che guarisce il cieco, The Metropolitan Museum of Art, New York [1].
Tintoretto, Ritrovamento del corpo di san Marco, Pinacoteca di Brera, Milano [1].
Tintoretto, Ritrovamento del corpo di san Marco, part., Pinacoteca di Brera, Milano [1].
Tintoretto, La salita al Calvario, Scuola Grande di San Rocco, Venezia [1].
Tintoretto, Cristo davanti a Pilato, Scuola Grande di San Rocco, Venezia [1].
Tintoretto, Ultima cena, chiesa di San Polo, Venezia © 2015. Cameraphoto/Scala, Firenze [1], [2].
Tintoretto, Il battesimo di Cristo, part., Scuola Grande di San Rocco, Venezia [1].
Tintoretto, Annunciazione, part., Scuola Grande di San Rocco, Venezia [1].
Tintoretto, Annunciazione, Scuola Grande di San Rocco, Venezia [1].
Tintoretto, Il battesimo di Cristo, Scuola Grande di San Rocco, Venezia [1].
Veronese, Giustiniana Barbaro e la nutrice con cagnolino affacciate a un finto balcone, particolari, Villa Barbaro, Maser
[1], [2], [3].
Veronese, Predica di sant’Antonio ai pesci, part., Galleria Borghese, Roma © 2015. Foto Scala, Firenze – su
concessione Ministero Beni e Attività Culturali [1].
Veronese, Bimba alla porta, Villa Barbaro, Maser [1].
Veronese, Predica di sant’Antonio ai pesci, Galleria Borghese, Roma © 2015. Foto Scala, Firenze – su concessione
Ministero Beni e Attività Culturali [1], [2].
Alessandro Vittoria, Sant’Antonio Abate, san Sebastiano e san Rocco, part., chiesa di San Francesco della Vigna,
Venezia © 2015. Cameraphoto/Scala, Firenze [1].
Alessandro Vittoria, Sant’Antonio Abate, san Sebastiano e san Rocco, chiesa di San Francesco della Vigna, Venezia
© 2015. Cameraphoto/Scala, Firenze [1], [2].
Alessandro Vittoria, Madonna col Bambino, Museo civico Palazzo Chiericati, Vicenza © DEA/A. Dagli Orti/Getty
Images [1].
Alessandro Vittoria, Busto di Benedetto Manzini, Ca’ d’Oro, Venezia [1].
Daniele da Volterra, Deposizione, particolari, Trinità dei Monti, Roma © 2015. Foto Scala, Firenze – Pieux
Etablissements de la France à Rome et à Lorette [1], [2], [3].
Daniele da Volterra, Deposizione, Trinità dei Monti, Roma © 2015. Foto Scala, Firenze – Pieux Etablissements de la
France à Rome et à Lorette [1].
Marco Pino, San Michele Arcangelo, part., chiesa di Sant’Angelo a Nilo, Napoli [1].
Marco Pino, San Michele Arcangelo, chiesa di Sant’Angelo a Nilo, Napoli [1].
Marco Pino, Decollazione del Battista, Museo di Capodimonte, Napoli © Foto Archivio fotografico, Polo museale dela
Campania – su concessione Ministero Beni e Attività Culturali e del Turismo [1].
Pellegrino Tibaldi, Ulisse e la maga Circe, particolari, Palazzo Poggi, Bologna © 2015. Foto Scala, Firenze/Luciano
Romano [1], [2].
Pellegrino Tibaldi, Ulisse e la maga Circe, Palazzo Poggi, Bologna © 2015. Foto Scala, Firenze/Luciano Romano [1],
[2].
Luca Cambiaso, Natività, particolari, Pinacoteca di Brera, Milano © 2015. Foto Scala, Firenze – su concessione
Ministero Beni e Attività Culturali [1], [2].
Georges de La Tour, Adorazione dei pastori, Musée du Louvre, Parigi © 2015. Foto Scala, Firenze [1].
Georges de La Tour, Maddalena penitente, Musée du Louvre, Parigi © 2015. Foto Scala, Firenze [1].
Luca Cambiaso, Madonna della candela, Palazzo Bianco, Genova © 2015. Foto Scala, Firenze [1].
Luca Cambiaso, Natività, Pinacoteca di Brera, Milano © 2015. Foto Scala, Firenze – su concessione Ministero Beni e
Attività Culturali [1].
Alessandro Allori, Pesca delle perle, particolari, Studiolo di Francesco I, Palazzo Vecchio, Firenze © 2015. Foto Scala,
Firenze [1], [2], [3].
Giovanni Maria Butteri, La vetreria, part., Studiolo di Francesco I, Palazzo Vecchio, Firenze © 2015. Foto Scala,
Firenze [1], [2].
Mirabello Cavalori, Il lanificio, Studiolo di Francesco I, Palazzo Vecchio, Firenze © 2015. Foto Scala, Firenze [1].
Alessandro Allori, Pesca delle perle, Studiolo di Francesco I, Palazzo Vecchio, Firenze © 2015. Foto Scala, Firenze [1].
Giovanni Maria Butteri, La vetreria, Studiolo di Francesco I, Palazzo Vecchio, Firenze © 2015. Foto Scala, Firenze [1].
Bastianino, Giudizio universale, particolari, duomo di Ferrara © 2015. Foto Scala, Firenze [1], [2].
Bastianino, Giudizio universale, duomo di Ferrara © 2015. Foto Scala, Firenze [1], [2].
El Greco, Sogno di Filippo II, monastero dell’Escorial, Madrid © 2015. Foto Scala, Firenze [1].
Bastianino, Santa Cecilia, Pinacoteca nazionale, Ferrara © Finsiel/Archivi Alinari – su concessione del Ministero per
i Beni e le Attività Culturali [1].
Giovanni Battista Moroni, Cavaliere in rosa, particolari, collezione privata © 2015. Foto Scala, Firenze [1], [2], [3].
Giovanni Battista Moroni, Cavaliere in rosa, collezione privata © 2015. Foto Scala, Firenze [1].
Bernardino Campi, Santa Cecilia e santa Caterina, particolari, chiesa di San Sigismondo, Cremona [1], [2].
Bernardino Campi, Santa Cecilia e santa Caterina, chiesa di San Sigismondo, Cremona [1].
Bartolomeo Passerotti, Cavaliere con cane, part., Musei Capitolini, Roma © 2015. Foto Scala, Firenze [1].
Bartolomeo Passerotti, Macelleria, Galleria nazionale d’arte antica, Roma © 2015. Foto Scala, Firenze – su
concessione Ministero Beni e Attività Culturali [1], [2].
Annibale Carracci, Macelleria, Christ Church Picture Gallery, Oxford © 2015. DeAgostini Picture Library/Scala,
Firenze [1], [2].
Bartolomeo Passerotti, Cavaliere con cane, Musei Capitolini, Roma © 2015. Foto Scala, Firenze [1].
Antonio Campi, Transito della Vergine, part., chiesa di San Marco Apostolo, Milano © 2015. Mario Bonotto/Foto Scala,
Firenze [1].
Antonio Campi, Transito della Vergine, chiesa di San Marco Apostolo, Milano © 2015. Mario Bonotto/Foto Scala,
Firenze [1].
Vincenzo Campi, Fruttivendola, part., Pinacoteca di Brera, Milano [1], [2].
Joachim Beuckelaer, Dutch kitchen scene, Treasurer’s House, York © 2015. NTPL/Scala, Firenze [1].
Vincenzo Campi, Cucina, Pinacoteca di Brera, Milano © 2015. Foto Scala, Firenze – su concessione Ministero Beni e
Attività Culturali [1].
Vincenzo Campi, Fruttivendola, Pinacoteca di Brera, Milano [1], [2].
Arcimboldo, Terra, part., collezione privata [1].
Arcimboldo, Acqua, part., Kunsthistorisches Museum, Vienna [1], [2].
Arcimboldo, Estate, part., Kunsthistorisches Museum, Vienna [1].
Arcimboldo, Fuoco, part., Kunsthistorisches Museum, Vienna [1].
Arcimboldo, Terra, collezione privata [1].
Arcimboldo, Acqua, Kunsthistorisches Museum, Vienna [1].
Arcimboldo, Estate, Kunsthistorisches Museum, Vienna [1].
Arcimboldo, Fuoco, Kunsthistorisches Museum, Vienna [1].
Simone Peterzano, Venere e Cupido con due satiri, part., Pinacoteca di Brera, Milano © 2015. Foto Scala, Firenze – su
concessione Ministero Beni e Attività Culturali [1].
Testa di vecchio, Fondo Peterzano, Gabinetto dei disegni, Castello Sforzesco, Milano [1].
Caravaggio, Conversione di Saulo, part., collezione Odescalchi, Roma © 2015. Foto Scala, Firenze [1].
Simone Peterzano, Angeli con i simboli della Passione, certosa di Garegnano, Milano © 2015. Foto Scala,
Firenze/Mauro Ranzani [1].
Simone Peterzano, Venere e Cupido con due satiri, Pinacoteca di Brera, Milano © 2015. Foto Scala, Firenze – su
concessione Ministero Beni e Attività Culturali [1], [2].
Federico Zuccari, Il Barbarossa bacia il piede a papa Alessandro III, part., Palazzo Ducale, Venezia © 2015. Foto
Scala, Firenze [1].
Federico Zuccari, Assunzione, part., Trinità dei Monti, Roma © Andrea Jemolo [1].
Federico Zuccari, Il Barbarossa bacia il piede a papa Alessandro III, Palazzo Ducale, Venezia © 2015. Foto Scala,
Firenze [1].
Federico Zuccari, Assunzione, Trinità dei Monti, Roma © Andrea Jemolo [1].
Federico Barocci, Circoncisione, part., Musée du Louvre, Parigi © 2015. Foto Scala, Firenze [1].
Federico Barocci, Madonna del gatto, part., Galleria degli Uffizi, Firenze © 2015. Foto Scala, Firenze – su
concessione Ministero Beni e Attività Culturali [1].
Federico Barocci, Sepoltura di Cristo, part., chiesa di Santa Croce, Senigallia © 2015. Foto Scala, Firenze [1], [2].
Federico Barocci, Circoncisione, Musée du Louvre, Parigi © 2015. Foto Scala, Firenze [1].
Federico Barocci, Madonna del gatto, Galleria degli Uffizi, Firenze © 2015. Foto Scala, Firenze – su concessione
Ministero Beni e Attività Culturali [1].
Federico Barocci, Sepoltura di Cristo, chiesa di Santa Croce, Senigallia © 2015. Foto Scala, Firenze [1].
Ferraù Fenzoni, San Francesco d’Assisi sostenuto da un angelo, part., Museo Thyssen-Bornemisza, Madrid © 2015.
Museo Thyssen-Bornemisza/Scala, Firenze [1].
Ferraù Fenzoni, San Francesco d’Assisi sostenuto da un angelo, Museo Thyssen-Bornemisza, Madrid © 2015. Museo
Thyssen-Bornemisza/Scala, Firenze [1].
Ferraù Fenzoni, Deposizione di Cristo nel sepolcro, part., Fondazione Cassa dei risparmi di Forlì © Fondazione Cassa
dei risparmi di Forlì [1].
Ferraù Fenzoni, Deposizione di Cristo nel sepolcro, Fondazione Cassa dei risparmi di Forlì © Fondazione Cassa dei
risparmi di Forlì [1].
Cavalier d’Arpino, Combattimento tra Orazi e Curiazi, particolari, Palazzo dei Conservatori, Roma © DeA Picture
Library, concesso in licenza ad Alinari [1], [2].
Cavalier d’Arpino, Combattimento tra Orazi e Curiazi, Palazzo dei Conservatori, Roma © DeA Picture Library,
concesso in licenza ad Alinari [1], [2].
Annibale Carracci, Mercurio offre a Paride il pomo della discordia, part., Palazzo Farnese, Roma © Archivi Alinari,
Firenze – su concessione del Ministero per i Beni e le Attività Culturali [1].
Annibale Carracci, Assunzione, part., basilica di Santa Maria del Popolo, Roma [1].
Annibale Carracci, Assunzione, basilica di Santa Maria del Popolo, Roma [1].
Annibale Carracci, Mercurio offre a Paride il pomo della discordia, Palazzo Farnese, Roma © Archivi Alinari, Firenze –
su concessione del Ministero per i Beni e le Attività Culturali [1].
Annibale Carracci, Il mangiafagioli, part., Galleria Colonna, Roma © Mondadori Electa/Bridgeman Images [1].
Ludovico Carracci, Ritorno dalla fuga in Egitto, part., collezione privata © Paolo Righi – Meridiana Immagini [1].
Ludovico Carracci, Ritorno dalla fuga in Egitto, collezione privata © Paolo Righi – Meridiana Immagini [1].
Annibale Carracci, Il mangiafagioli, Galleria Colonna, Roma © Mondadori Electa/Bridgeman Images [1].
Stefano Maderno, Santa Cecilia, part., basilica di Santa Cecilia in Trastevere, Roma [1].
Stefano Maderno, Santa Cecilia, basilica di Santa Cecilia in Trastevere, Roma © 2015. Foto Scala, Firenze [1], [2].
Caravaggio, Maddalena penitente, Galleria Doria Pamphilj, Roma [1].
Caravaggio, Vocazione di san Matteo, particolari, chiesa di San Luigi dei Francesi, Roma [1], [2].
Tiziano, Martirio di san Lorenzo, part., chiesa dei Gesuiti, Venezia [1].
Savoldo, Annunciazione, Gallerie dell’Accademia, Venezia © Foto Archivio fotografico, Polo museale del Veneto – su
concessione Ministero Beni e Attività Culturali e del Turismo [1].
Moretto da Brescia, Apparizione della Madonna al sordomuto Filippo Viotti, part., santuario della Madonna di Paitone,
Paitone © Mondadori Portfolio/Sergio Anelli [1], [2].
Caravaggio, Il riposo durante la fuga in Egitto, part., Galleria Doria Pamphilj, Roma [1], [2].
Caravaggio, Medusa, part., Galleria degli Uffizi, Firenze [1].
Caravaggio, Ragazzo con canestro di frutta, part., Galleria Borghese, Roma [1], [2].
Caravaggio, Vocazione di san Matteo, particolari, chiesa di San Luigi dei Francesi, Roma [1], [2].
Caravaggio, San Matteo e l’angelo, part., chiesa di San Luigi dei Francesi, Roma [1].
Caravaggio, San Matteo e l’angelo, Gemäldegalerie, Berlino © 2015. Foto Scala, Firenze/BPK, Bildagentur für Kunst,
Kultur und Geschichte, Berlin [1].
Caravaggio, San Matteo e l’angelo, chiesa di San Luigi dei Francesi, Roma [1].
Caravaggio, Conversione di san Paolo, part., basilica di Santa Maria del Popolo, Roma [1].
Caravaggio, Conversione di Saulo, part., collezione Odescalchi, Roma [1].
Caravaggio, Crocifissione di san Pietro, part., basilica di Santa Maria del Popolo, Roma [1], [2].
Caravaggio, Seppellimento di santa Lucia, part., chiesa di Santa Lucia alla Badia, Siracusa [1].
Caravaggio, Vocazione di san Matteo, chiesa di San Luigi dei Francesi, Roma [1].
Caravaggio, Il riposo durante la fuga in Egitto, Galleria Doria Pamphilj, Roma [1].
Caravaggio, Ragazzo con canestro di frutta, Galleria Borghese, Roma [1].
Caravaggio, Medusa, Galleria degli Uffizi, Firenze [1].
Caravaggio, Conversione di san Paolo, basilica di Santa Maria del Popolo, Roma [1].
Caravaggio, Conversione di Saulo, collezione Odescalchi, Roma [1].
Caravaggio, Crocifissione di san Pietro, basilica di Santa Maria del Popolo, Roma [1].
Caravaggio, Seppellimento di santa Lucia, chiesa di Santa Lucia alla Badia, Siracusa [1].
Guido Reni, Aurora conduce il carro di Apollo, part., Casino dell’Aurora, Palazzo Pallavicini Rospigliosi, Roma ©
DeAgostini Picture Library/G. Nimatallah/Bridgeman Images [1].
Guido Reni, Santa Cecilia, chiesa di San Luigi dei Francesi, Roma © 2015. Foto Scala, Firenze [1].
Guido Reni, Aurora conduce il carro di Apollo, Casino dell’Aurora, Palazzo Pallavicini Rospigliosi, Roma © DeAgostini
Picture Library/G. Nimatallah/Bridgeman Images [1], [2].
Guido Reni, Caduta dei giganti, part., Musei civici, Pesaro [1].
Guido Reni, Caduta dei giganti, Musei civici, Pesaro [1].
Guido Reni, Annunciazione, Pinacoteca civica, Ascoli Piceno [1].
Gian Lorenzo Bernini, David, part., Galleria Borghese, Roma [1].
Gian Lorenzo Bernini, Apollo e Dafne, part., Galleria Borghese, Roma [1], [2].
Gian Lorenzo Bernini, David, Galleria Borghese, Roma [1].
Gian Lorenzo Bernini, Apollo e Dafne, Galleria Borghese, Roma [1].
Gian Lorenzo Bernini, Ritratto di Scipione Borghese (II), part., Galleria Borghese, Roma [1].
Gian Lorenzo Bernini, Ritratto di Scipione Borghese (II), Galleria Borghese, Roma [1].
Gian Lorenzo Bernini, Ritratto di Scipione Borghese (I), Galleria Borghese, Roma © 2015. Foto Scala, Firenze – su
concessione Ministero Beni e Attività Culturali [1].
Gian Lorenzo Bernini, Estasi di santa Teresa, part., chiesa di Santa Maria della Vittoria, Roma © 2015. Foto Scala,
Firenze/Fondo edifici di culto – Ministero dell’Interno [1].
Gian Lorenzo Bernini, Estasi di santa Teresa, chiesa di Santa Maria della Vittoria, Roma © 2015. Foto Scala,
Firenze/Fondo edifici di culto – Ministero dell’Interno [1].
Gian Lorenzo Bernini, Estasi della beata Ludovica Albertoni, part., chiesa di San Francesco a Ripa, Roma © 2015.
Foto Scala, Firenze – su concessione Ministero Beni e Attività Culturali [1].
Gian Lorenzo Bernini, Estasi della beata Ludovica Albertoni, part., chiesa di San Francesco a Ripa, Roma © 2015.
Foto Scala, Firenze – su concessione Ministero Beni e Attività Culturali [1], [2].
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