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In questo libro l’autore ci conduce dalla lunga e fervida stagione del Manierismo, che ha tentato di rielaborare la lezione

di Michelangelo, Raffaello e Tiziano, sino alla grandi rivoluzioni di Caravaggio, all’aurora di Guido Reni, al barocco di
Bernini. Un secolo di pittura e scultura, tra artisti più noti (Giulio Romano, Parmigianino, Romanino, Veronese,
Tintoretto, Caravaggio) e artisti meno noti e altrettanto imprescindibili e grandi: Altobello Melone, Campi, Savoldo, per
citarne una minima parte. Una storia dell’arte, "Il tesoro d’Italia", che è sempre anche una geografia dell’arte:
ovviamente Firenze, Venezia, Roma, ma anche Brescia, Ferrara, Cremona, Genova, Napoli, fino ai comuni più piccoli.
DAL CIELO ALLA TERRA
VITTORIO SGARBI
DAL CIELO ALLA TERRA
DA MICHELANGELO A CARAVAGGIO
Il tesoro d’Italia III
Introduzione di Luca Doninelli
BOMPIANI
VITTORIO SGARBI, Dal cielo alla terra. Da Michelangelo a Caravaggio. Il tesoro d’Italia III
Published by arrangement with Marco Vigevani & Associati Agenzia Letteraria
Progetto grafico Sara Pallavicini
Editing Sergio Claudio Perroni
L’Editore si dichiara disponibile con gli eventuali aventi diritto delle fotografie di cui non è riuscito a risalire alla fonte.
ISBN 978-88-452-8011-5
© 2015 Bompiani/RCS Libri S.p.A.
Via Angelo Rizzoli, 8 – 20132 Milano
Prima edizione Bompiani ottobre 2015
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L’ERBA MALEDETTA
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LUCA DONINELLI
Una strana razza di intellettuali – critici, scrittori, poeti, cineasti – attraversa la storia d’Italia degli ultimi cent’anni.
Essi vengono temuti, e perciò tenuti a distanza, sono rispettati dal potere ma difficilmente amati; inquadrarli nel
sistema culturale risulta impossibile, impossibile collocarli in un profilo storico decente – puoi provare a cacciarli in un
manuale, tenendoli il più possibile a distanza uno dall’altro, e dimostrando in modo impeccabile che essi non hanno
nulla in comune uno con l’altro, ma loro saltano fuori sempre, e alla prima occasione metteranno alla berlina tutte le tue
interpretazioni così caute, ponderate e articolate, i tuoi civili distinguo, le tue virgolette.
Spesso dileggiati in vita, oppure ricoperti non importa se di onori, o di denaro, o di sputi, questi personaggi hanno il
difetto di esistere in barba a tutti gli autoritratti che una cultura sempre un po’ parruccona come la nostra produce per
giustificarsi al cospetto del mondo, per poter indossare l’abito più conveniente, mentre il loro abito è sempre
immancabilmente quello che indosseranno nella bara; e anche nelle foto di circostanza, quando resi inoffensivi dalla
Morte torneranno a presenziare (loro malgrado) in commemorazioni e celebrazioni, sarà con quell’abito che si
ripresenteranno, e sarà compito dell’esegeta di turno spiegare quell’abito, giustificarlo, collocarlo nel contesto storico.
Questi uomini sono indifferentemente di destra o di sinistra, talvolta tutt’e due le cose, altri non sono né l’una né l’altra
cosa, alcuni sono omosessuali ma anche qui non facilmente inquadrabili in una qualsivoglia “cultura” (cultura cattolica,
cultura gay e così via). C’è chi, una volta morto, cerca la damnatio memoriae senza riuscire a trovare un cane – per
quanto i tentativi si moltiplichino negli anni e nei lustri – in grado di accontentarlo. A volte li cacciamo all’inferno, altre
volte viceversa li trasformiamo nelle madonne pellegrine della cultura italiana – i profeti, quelli che avevano capito tutto
–, cerchiamo insomma di dimenticare il loro corpo, le loro chiappe, il loro cazzo, in altre parole quella loro presenza
tutt’altro che rassicurante. Li teniamo come profeti, vati, gallinacci da quattro lire. Eterni dilettanti (mentre loro, gli
accademici, loro sì che…), talentacci morti ancora acerbi, sempre irrisolti per vanità, amor di palcoscenico, potere, figa,
culo, soldi.
Come si somigliano, questi personaggi! Come sanno di erba amara, loro che sono la nostra erba maledetta e al
tempo stesso i nostri più genuini rappresentanti, più italiani di ogni italiano. Si chiamano indifferentemente Gabriele
D’Annunzio, Pier Paolo Pasolini, Giovanni Testori, e poi altri (non molti però) di cui non ha importanza fare i nomi, e
infine proprio lui: Vittorio Sgarbi. A tenerli insieme non è il pensiero, non le opinioni, non la fortuna critica (che il diavolo
se la porti), non l’accordo o il disaccordo tra l’uno e l’altro: a tenerli insieme è l’odore dei loro corpi, perché è col corpo che
essi hanno attraversato e attraversano l’Italia, col corpo hanno guardato e guardano questo paese, col corpo lo hanno
giudicato e lo giudicano, e ne hanno conosciuto la varietà, l’indefinibilità, il genio, e si sono lasciati sorprendere dalla
sua ricchezza, che noi facciamo così fatica a vedere perché per vedere la sovrabbondanza occorre innanzitutto essere
sovrabbondanti, possedere un’intelligenza generosa, mentre noi siamo diventati avari, avari di noi stessi, e parliamo
tutto il giorno di cibo ma non mangiamo, di sesso e non lo facciamo, di emozioni e non ne conosciamo nemmeno una di
quelle vere, di quelle che non c’entrano col primo sorso di birra, con l’ultimo modello Mercedes o con le fragranze al
bergamotto. Ed è per questo che poi sappiamo sempre meno, l’Italia ci risulta conosciuta fino alla noia, diventiamo ogni
giorno più ignoranti e a Firenze corriamo per vedere il David e al Louvre per la Gioconda, e sostiamo a Roma sotto il dito
informatico di Dio mentre dona vita al Primo Uomo, ma ignoriamo Moroni e il Savoldo, e poco sappiamo di Niccolò
dell’Arca e del suo Compianto e del “dolore furiale” che lo pervade, come disse il Vate.
L’Italia che sprofonda, l’Italia che ce la fa. L’Italietta di ladri di Travaglio e quella piena di virtù di Cazzullo. Basta,
fermiamoci un istante. L’Italia va conosciuta, vanno conosciuti i fuochi artificiali nel pieno dell’azzurro mezzogiorno, i
monasteri basiliani, gli orefici di Scanno. Va conosciuta questa compagine umana fatta di mille storie irriducibili tra
loro, messe insieme per forza dagli inglesi e dai Savoia ma lungamente unite solo dalla necessità quotidiana della
bellezza, del non poter vivere in un mondo che non sia bello anche se faticoso, come ci racconta il Foscolo, che di tutti i
poeti di casa nostra è il meno lagnoso circa le sorti dell’Italia, e offre il suo omaggio alle “convalli popolate di case e
d’oliveti” ben sapendo quant’è dura la vita in quelle case, quanto difficile coltivare ulivi, quanto ardui gli “incensi”.
Eppure i fiori non si dimenticano, e sono mille, contati uno a uno.
Nel suo Tesoro d’Italia, giunto al terzo volume, Vittorio Sgarbi ci offre sempre sguardi di prima mano. Dietro le sue
soste (il Tesoro è un romanzo di soste) c’è un corpo che si muove e pulsa, piedi che salgono scale spesso a orari
impossibili. Un amore insolente lo conduce per palazzi, chiese, abitazioni private, del tutto indifferente alle fortune
critiche o mediatiche delle opere. Che siano gli Uffizi o un solaio nella provincia mantovana, che siano affrescatori di
piscine o di cappelle sistine, Vittorio lo sa: dopo studi eccellenti e grandi maestri e romantici astratti furori occorre
andare, muoversi, indagare, possibilmente scoprire. I manuali e i profili storici stendono il loro inevitabile velo di
polvere sui capolavori, e questa è parte anche della loro funzione, che è quella di spronarci a cercare ancora, a non
accontentarsi. È questa la giustizia cui ogni profilo storico – ma, diciamo meglio, ogni storia – aspira, gridando: togliete
quella polvere!
Scrivere una storia è senza dubbio un atto di tentata (o di anelata) giustizia, ma alla fonte della storia la sete di
giustizia cresce. Così, nel saggio più impegnativo di questo volume, dedicato al Tintoretto, il longhiano Vittorio Sgarbi
contesta amorevolmente il maestro, insuperabile nell’insegnare l’arte dello Sguardo ma soggetto come tutti alle
restrizioni del cuore, al fascino discreto del sentimento, o risentimento. E senza smettere di accompagnarsi al Longhi
ne rovescia il giudizio. Ogni maestro cerca di impedire all’allievo di superarlo, ma curiosamente non smette di sognare
questa cosa.
Alla passione per l’arte figurativa si accompagna come un controcanto quella poetica, mai messa a tema ma ben
presente. La poesia diventa in Sgarbi non ornamento ma fonte, origine. L’impulso che lo muove verso un artista o una
singola opera appartiene a un fondo poetico nel quale è possibile intravedere una storia, dei precedenti, dei maestri,
sia pure assunti in una totale libertà di giudizio, che è il solo modo in cui si può dichiarare il proprio amore per un
maestro. Molto più pasoliniano di tanti esegeti – così puntuali, così filologici, così dediti – ma anche profondamente
dannunziano e longhiano e testoriano, Vittorio Sgarbi condivide le teorie dei maestri non nell’ordine del discorso ma
solo nella misura in cui esse si fanno corpo, carne, sangue.
Perché l’Italia ha questo di strano, che non la si può conoscere se non la si percorre tutta da capo, leggendo e poi
dimenticando la sua storia, il suo già-saputo, il suo già-interpretato, come fosse una terra inesplorata – perché questo
è, tanto che ormai gli immobiliaristi inglesi la conoscono meglio dei conservatori dei suoi musei e di tutti i suoi profondi
analisti (“Eh, l’Italia, si sa…”). La bellezza spudorata, incessante, di cui questa terra è stata capace richiede uomini
altrettanto spregiudicati. Questo atto di giustizia essenziale, per cui va bene Michelangelo ma guai a dimenticare –
come forse sta già accadendo – il Savoldo, e guai far le meraviglie per Caravaggio e poi non degnare di un’occhiata il
Rosso Fiorentino o il sommo Lorenzo Lotto, produce senz’altro le sue ingiustizie, le sue omissioni, ma tutto questo
apparteneva già al disegno del Tesoro, alla sua origine. Il fatto è che l’Italia esiste se rinasce qui, ora, sotto i nostri
occhi, ed è impossibile che questo accada solo grazie ai piani di sviluppo: occorre esercitare l’arte della preferenza,
finanche dell’arbitrio, proprio come accadde ai papi e ai cardinali che, in secoli inimmaginabili per i nostri parametri da
mod. 730, manifestarono simpatia per autentici pendagli da forca.
Si sa infatti che l’arte e la bellezza proliferano meglio là dove il pool genetico è più ricco, ossia nella promiscuità, tra
ladri e prostitute che, se non sbaglio, furono una frequentazione non so se desiderata ma comunque abituale di Gesù
Cristo. Ma proprio per questo niente è giusto e imparziale come l’arbitrio, se condotto dalla passione, poiché più del
puro distacco critico esso appartiene alla sana follia che genera la bellezza. Lo diceva Gianfranco Contini poco prima di
morire, a proposito degli scrittori dell’ultima generazione da lui conosciuta: bravi, corretti, preparatissimi, ma senza
quel pizzico di follia…
Un altro apporto, per nulla scontato, del lavoro di Vittorio Sgarbi sta nell’acribìa con la quale ci dà conto del livello
qualitativo sbalorditivo del nostro patrimonio artistico. Il miracolo della città italiana, codificata all’epoca dei Comuni,
fece di ogni comunità la titolare di un progetto originale, irriducibile e imparagonabile. Conoscere Firenze, Roma e
Venezia dimenticando Bergamo o Ascoli Piceno o Palazzolo Acreide renderebbe impossibile una valutazione decente
dell’enormità di questo paese, che qualche mente avara vorrebbe ridurre a terra di geni isolati, mentre essa stessa è il
genio, lei nella sua interezza. E Sgarbi ci ammonisce: gli artisti “maggiori”, “sommi”, in un contesto unico come questo
sono in numero esorbitante, e voi non vi azzardate a chiamare “minore” un Bassano, un Pordenone, un Moretto.
Insomma, Sgarbi appartiene a questa schiera strana, inimmaginabile altrove, casualmente osannata o vituperata,
di camminatori instancabili, di scopritori, di amanti capricciosi, di corpi sempre ingombranti – corpi vivi e veri, fatti di
muscoli e pulsioni e passioni –, questa schiera di uomini pieni di difetti, questi impresentabili della cultura, che tuttavia
sono in qualche modo i figli legittimi, forse gli ultimi, di una storia che, fuori dal loro arbitrio e forse anche dai loro errori
d’amore, risulterebbe – ne sono certissimo – ancora più incomprensibile di quanto già non sia.
DAL CIELO ALLA TERRA
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IL TESORO D’ITALIA III
CAPITOLO I
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L’OMBRA DEI MAESTRI

Rosso Fiorentino, Deposizione, part., Pinacoteca comunale, Volterra


ROSSO FIORENTINO
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NERVOSA EUFORIA POPOLATA DI FANTASMI
Siamo nel 1521. Da qui in avanti, ogni sperimentazione apparirà meno radicale. Nella Deposizione, Rosso
Fiorentino, diversamente da Pontormo, non cerca uno spazio nuovo, circolare, sottraendo le figure alla forza di gravità;
si muove con un ritmo più regolare, schematico, stagliando le figure contro un fondo unitario di cielo azzurro illuminato
come per irradiazione dal limite dell’orizzonte; su questa superficie unitaria dispone una croce molto lineare alla quale
appoggia, dietro e di fianco, due scale. Ciò garantisce un perfetto spazio tridimensionale nel quale far muovere, in
un’incontenibile frenesia, ben undici figure. L’opera fu dipinta per la Cappella della Croce di Giorno per la compagnia
della Croce di Notte nella chiesa di San Francesco, a Volterra. La sua singolarità è registrata all’inizio del secolo scorso
da Gabriele d’Annunzio, e sessant’anni dopo da Pier Paolo Pasolini.
Originale è la scelta del momento: subito dopo il distacco del corpo di Cristo dalla croce, in un equilibrio minacciato
dalla precarietà. Tutto è incerto nella visione di Rosso, tutto è miracolosamente bilanciato quasi in un’ideale
competizione con la Deposizione del Pontormo. C’è tensione in Rosso, nervosa e acuminata euforia, a partire dal punto
più alto, dal quale si affaccia Giuseppe d’Arimatea, spericolato nello sporgersi. Più sotto, Nicodemo grida e si sbraccia
mentre un aiutante si protende per sorreggere le gambe del Cristo; nella parte inferiore, il gruppo delle tre Marie con
san Giovanni Evangelista non potrebbe essere più concitato ed espressivo. Gli abiti fasciano i personaggi con un
formidabile compiacimento, che li rende spigolosi come cortecce in una singolare prefigurazione cubista. Giovanni
Evangelista non vuole vedere Cristo morto, gli gira le spalle e piange tenendosi la testa fra mani. La Maddalena si
getta ai piedi della Vergine in un’ideale ripetizione del gesto della Maddalena nella Crocifissione di Masaccio, ma
l’effetto è a tal punto visionario da anticipare le forme di Füssli, che sulla Deposizione rifletterà a lungo. Nessun
cedimento sentimentale. Anche il dolore è freddo, ghiacciato, candito. E non c’è virtuosismo, ma antinaturalismo, vita
interiore. Da qui deriva una soggezione razionale. Non un sogno, ma un incubo popolato di fantasmi.
Pontormo, Deposizione di Cristo, part., chiesa di Santa Felicita, Firenze
Rosso Fiorentino, Deposizione, part., Pinacoteca comunale, Volterra
Pablo Picasso, Donna con ventaglio, Hermitage, San Pietroburgo
Pontormo, Deposizione di Cristo, chiesa di Santa Felicita, Firenze
Rosso Fiorentino, Deposizione, Pinacoteca comunale, Volterra
Domenico Beccafumi, Natività, part., chiesa di San Martino, Siena
DOMENICO BECCAFUMI
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L’ANSIA DI SPERIMENTARE
Ciò che a Firenze sono stati Pontormo e Rosso Fiorentino, a Siena fu Domenico Beccafumi. In equilibrio fra il Perugino
e i pittori fiorentini di inizio secolo – Fra Bartolomeo, Mariotto Albertinelli, Piero di Cosimo –, verso il 1510 Beccafumi è a
Roma, dove medita su Michelangelo e Raffaello e lavora anche in Vaticano. Ritorna nel 1512 a Siena con una vasta
esperienza. E un perfetto omaggio a Michelangelo appare il San Paolo in trono oggi al Museo dell’Opera del duomo,
databile verso il 1515. Ma l’ansia della sperimentazione prevale in opere come la Natività, per la chiesa di San Martino
a Siena, con, sullo sfondo, un arco romano in rovina. Originale il motivo d’intreccio d’angeli che incornicia lo Spirito Santo
stabilendo un autentico spazio metafisico, una dimensione celeste.
Beccafumi sperimenta infaticabilmente. Tra gli esiti più impegnativi è San Michele scaccia gli angeli ribelli per la
chiesa di San Niccolò al Carmine, ora alla Pinacoteca nazionale di Siena. Vasari scrive che Beccafumi “andò come
capriccioso pensando a una nuova invenzione per mostrare la virtù e i bei concetti dell’animo suo”. La sua
interpretazione trasferisce ogni immagine in una dimensione visionaria. Ciò che in Pontormo e Rosso era
potentemente sintetico, in Beccafumi torna descrittivo. Ma è una curiosità metafisica, concettuale, lontana dalla realtà e
dalla sua descrizione. In alto, il Padre Eterno, circondato da un coro di angeli dai più variegati colori, dà impulso con il
gesto del braccio che san Michele, al centro della composizione, ripete. Il suo corpo domina voragini dove anime
purganti e dannate si ridestano alla luce del fuoco eterno. Beccafumi prende dalla visione il pretesto per potenti effetti
di chiaroscuro, come un Bosch nostrano. Il processo di rovesciamento della realtà in sogno si compie nei termini più
radicali.
Domenico Beccafumi, San Paolo in trono, part., Museo dell’Opera del duomo, Siena
Domenico Beccafumi, San Michele scaccia gli angeli ribelli, chiesa di San Niccolò al Carmine, Siena
Hieronymus Bosch, Caduta dei dannati e Inferno, Palazzo Grimani, Venezia
Domenico Beccafumi, San Michele scaccia gli angeli ribelli, part., chiesa di San Niccolò al Carmine, Siena
Domenico Beccafumi, San Paolo in trono, Museo dell’Opera del duomo, Siena
Domenico Beccafumi, Natività, chiesa di San Martino, Siena
Giulio Romano, Martirio di santo Stefano, chiesa di Santo Stefano, Genova
GIULIO ROMANO
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ROVINE ROMANE, A GENOVA
Sembra strano che una chiesa “segreta” sia sul corso principale di Genova. “Sul”, e non “nel”, perché l’edificio
domina via XX Settembre. Si passa dal traffico animato dei vicoli e dal movimento di persone dal passo spedito, sotto i
portici, a un quartiere silenzioso e isolato soltanto qualche metro più in alto. La chiesa di Santo Stefano domina, ma
bisogna volerla raggiungere. Ha la nobiltà e le proporzioni di una cattedrale, e fu infatti sede di un’abbazia benedettina
per molti secoli. Quello che vediamo è un edificio romanico consacrato nel 1217, con un alto tiburio di costruzione
successiva e un imponente corpo absidale.
L’interno della chiesa, restaurato dopo la guerra, ha un aspetto freddo ed è illuminato dalla luce che passa attraverso
un brutto rosone di disegno perversamente moderno. Alzando lo sguardo, tuttavia, la sgradevole sensazione si
disperde nella vertiginosa cupola e si trasvalora in fortissima emozione davanti a una grandiosa tavola, poggiata su
una mensola sul fianco destro della chiesa. La prima sensazione per chi abbia legato il nome di Genova ad alcuni suoi
grandi pittori, da Luca Cambiaso a Valerio Castello, è che ci sia a Genova un grande maestro non ancora ben studiato.
Poi a guardare bene, è il linguaggio del dipinto, così classico e maestoso, così eccezionale, a riportarci sulla strada
giusta. Il pensiero corre subito a Raffaello, alla grande Trasfigurazione vaticana, ed è molto probabile che l’arrivo di
un’opera così notevole abbia avuto nel Cinquecento gli stessi effetti che, nel secolo successivo, determinarono i dipinti
di Rubens. È il Martirio di santo Stefano di Giulio Romano, monumento al classicismo sia per l’energia dei corpi, nei vari
movimenti e nelle varie espressioni, sia per l’ampia citazione di monumenti antichi, terme, templi, obelischi, ponti.
L’opera si può veramente ritenere una commemorazione di Raffaello, appena scomparso, ed è dipinta con il cuore a
Roma, dentro le Stanze Vaticane. In effetti fu commissionata nel 1519 a Raffaello stesso, come testimonia una copia
seicentesca del bozzetto di Raffaello, conservata all’École des Beaux Arts di Parigi. Ma nel 1520 Raffaello morì e
Giammatteo Gilberti, consigliere-segretario di papa Leone X, trasferì la commissione del quadro a Giulio Romano, che
aveva evidentemente visto progetti e disegni del Maestro. Anche per questo, sia nelle dimensioni sia nel disegno, la
tavola genovese ricorda la Trasfigurazione di Raffaello e ha la stessa forza e animazione.
Giulio Romano, Martirio di santo Stefano, part., chiesa di Santo Stefano, Genova
Giulio Romano ricorda il Maestro e cerca persino di migliorarlo con qualche visibile correzione. Il martire sta al
centro, mentre i suoi carnefici si schierano intorno a lui, a semicerchio; e, tra l’apparizione della Trinità in cielo, in
mezzo ad angeli che trasfigurano in pura luce, e l’episodio del martirio, sulla linea d’orizzonte si apre lo spazio per un
paesaggio di rovine, in una luce radente, quasi artificiale, certo innaturale perché viene dall’aureola divina che il pittore
fa coincidere con il sole. Indimenticabile è l’edificio in rovina sullo sfondo, rudere di terme romane pronte a essere il
modello per le grandiose architetture di Giulio Romano in Palazzo Te a Mantova. È evidente l’allusione alla decadenza
del mondo pagano, dalle cui rovine vengono le pietre impiegate dai carnefici per il martirio del santo. Il contrasto è
accentuato dall’espressione dei volti: sereno quello di Stefano; indemoniati, bestiali, caricaturali quelli dei suoi
aguzzini. Quadro di grande, appassionata retorica, il Martirio di santo Stefano di Giulio Romano porta a Genova, prima
che in qualunque altra città del Nord, la grande cultura romana.
Giulio Romano, Martirio di santo Stefano, part., chiesa di Santo Stefano, Genova
Giulio Romano, Martirio di santo Stefano, chiesa di Santo Stefano, Genova
Raffaellino del Colle, Resurrezione di Cristo, part., duomo di Sansepolcro
RAFFAELLINO DEL COLLE
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LA SCIA DI RAFFAELLO
Tra le espressioni più originali e autentiche del manierismo fuori di Firenze va certamente ricordata quella di
Raffaellino del Colle. Pittore colto, Raffaellino intreccia un’infatuazione per Raffaello, di cui porta evidente traccia anche
nel nome, e un’originale e viva riflessione su alcuni fenomeni della maniera del Nord, in particolare Dosso Dossi, che
lavorò al suo fianco nelle stanze della Villa Imperiale di Pesaro. Ma Raffaellino, nato a Sansepolcro ancora alla fine del
Quattrocento, trova a Roma, nelle Stanze Vaticane e nello studio di Giulio Romano, le fonti prime per la sua
sofisticatissima impresa artistica. L’infatuazione raffaellesca non esaurisce la curiosità e la riflessione su un artista
eccentrico e originale come Rosso Fiorentino, che aveva dipinto una Deposizione dalla croce per la chiesa di San
Lorenzo a Sansepolcro. Dopo aver dipinto la lunetta per la pala del Rosso, Raffaellino elabora una cruciale
Resurrezione di Cristo. Ma è a Pesaro, nella Villa Imperiale, che l’artista mostra una grazia sconosciuta a ogni altro
ortodosso manierista, dipingendo, nella Sala della Calunnia, la Calunnia di Apelle, le allegorie delle Virtù teologali
(Fede, Speranza, Carità) e, sulla volta, i Segni dello Zodiaco.
Nella classica armonia di queste composizioni, Raffaellino mostra di avere guardato anche al Bronzino, e con questo
spirito potrà fiancheggiare Giorgio Vasari a Città di Castello, dove sono conservate varie opere sue, tra le quali
l’Annunciazione, l’Assunzione della Madonna, e la Presentazione della Vergine al Tempio. Ognuna di esse attesta il
percorso parallelo di Raffaellino rispetto al Vasari, l’uno nella scia di Raffaello, l’altro nella scia di Michelangelo.

Raffaellino del Colle, Resurrezione di Cristo, part., duomo di Sansepolcro affreschi della Sala della Calunnia, Villa
Imperiale, Pesaro
Raffaellino del Colle, Resurrezione di Cristo, duomo di Sansepolcro
Agnolo Bronzino, Allegoria del trionfo di Venere, part., National Gallery, Londra
AGNOLO BRONZINO
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RITORNO ALL’ORDINE
Ciò che è radicale nel compiuto percorso irrazionalistico dei tre grandi maestri del manierismo toscano – Pontormo,
Rosso Fiorentino e Beccafumi – in Agnolo Bronzino si ricompone in una misura algida, di gelida armonia, senza
concessioni a fantasie bizzarre o effetti speciali.
Giovanissimo, Bronzino lavora accanto a Pontormo nella Cappella Capponi in Santa Felicita, e subito introduce una
diversa misura nel rapporto con lo spazio nei due tondi con San Marco e San Matteo. Da lì in avanti, sia nei soggetti
mitologici sia nei soggetti religiosi, Bronzino tenterà una restaurazione dell’ideale classico secondo canoni d’armonia
che risalgono agli esempi plastici di Michelangelo. Lo si vede bene nell’Allegoria del trionfo di Venere alla National
Gallery di Londra, così come nella Sacra famiglia agli Uffizi. Bronzino restituisce ordine a ciò che aveva rappresentato
un’esaltazione di interpretazioni soggettive, senza esempi e modelli. Risale alla fonte certa di Michelangelo e lo
depura in forme ideali. Ma è singolare che proprio a lui tocchi, con maggiore verità rispetto a Pontormo, coltivare la più
sofisticata esperienza naturalistica attraverso una serie di mirabili ritratti, dal Ritratto di giovane uomo con libro a Laura
Battiferri, da Eleonora da Toledo a Bartolomeo e a Lucrezia Panciatichi. Improvvisamente, il suo sguardo si fa più nitido e
coglie nella verità di un volto, non ansie psicologiche ma forza interiore, ruolo sociale.
Agnolo Bronzino, Sacra famiglia, part., Galleria degli Uffizi, Firenze
I suoi ritratti illustrano compiutamente l’opera di Baldassar Castiglione, Il cortegiano, con un’austera e aristocratica
evidenza. Così la poetessa Laura Battiferri mentre pensa i versi che la mano indica sul libro che tiene in mano. E così la
lunare bellezza di Lucrezia Panciatichi. Così la gravità regale di Eleonora da Toledo. Nei suoi ritratti, Bronzino ci
illustra un’intera epoca, senza cerimonie e senza encomio, attraverso l’esaltazione di individui che si fanno archetipi.
Bronzino sembra rinunciare a slanci interpretativi, a complicità e passioni. I suoi ritratti, rarefatti, composti, eleganti,
sono storia.
Agnolo Bronzino, Allegoria del trionfo di Venere, part., National Gallery, Londra
Agnolo Bronzino, Ritratto di Eleonora da Toledo, part., Galleria degli Uffizi, Firenze
Agnolo Bronzino, Ritratto di Lucrezia Panciatichi, part., Galleria degli Uffizi, Firenze
Agnolo Bronzino, Sacra famiglia, Galleria degli Uffizi, Firenze
Agnolo Bronzino, Allegoria del trionfo di Venere, National Gallery, Londra
Agnolo Bronzino, Ritratto di Eleonora da Toledo, Galleria degli Uffizi, Firenze
Agnolo Bronzino, Ritratto di Lucrezia Panciatichi, Galleria degli Uffizi, Firenze
Francesco Salviati, La Carità, part., Galleria degli Uffizi, Firenze
FRANCESCO SALVIATI
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TRA MICHELANGELO E PARMIGIANINO
Coetaneo e amico di Vasari, Francesco Salviati, nato a Firenze nel 1510, si muove come lui nell’orbita di
Michelangelo, ma è più curioso ed elastico. Così, a Roma nel 1531, mostra particolare curiosità per Raffaello, di cui dà
conto negli affreschi con le Storie di san Giovanni Battista in Palazzo Salviati, nei primi affreschi per l’Oratorio di San
Giovanni Decollato e nell’Annunciazione per San Francesco a Ripa. Una propensione per la pittura calligrafica, in una
dimensione sempre più astratta e mentale, sembra derivata dalla conoscenza di Parmigianino, conosciuto in Emilia
nel 1539. Ma rispetto a Vasari, e piuttosto in intesa con Bronzino, Salviati è un inventore raffinato e talora visionario,
come lo vediamo nella Carità degli Uffizi e nella Deposizione per il Refettorio di Santa Croce a Firenze.
A Roma, il suo impegno si dispiega anche nell’Oratorio dei Piceni e in Palazzo della Cancelleria, culminando nella
vasta decorazione di Palazzo Farnese. La sua piena maturità si manifesta nelle Storie di David in Palazzo Sacchetti,
sempre a Roma, notevoli per originalità d’invenzione e fantasia architettonica, come si vede nella Betsabea che si reca
da David, dove l’architettura manierista è reinterpretata in chiave visionaria, quasi alla Escher, e l’influenza dei
maestri toscani si fonde magistralmente con quella del Parmigianino. Se osserviamo opere di forte ispirazione
michelangiolesca come L’incredulità di san Tommaso, con i colori acidi derivati dagli affreschi della Cappella Sistina,
riconosciamo, nell’affinità con l’ortodossia vasariana, una più sofisticata sensibilità grafica, subito evidente nel ritmo
dei panneggi ma anche in un pathos che sembra la naturale maturazione del gusto di Pontormo e di Bronzino. Il ritmo
compositivo è cadenzato da un’architettura classica che aumenta la profondità dello spazio, come in una premonizione
di Escher, e rivela un’originale riflessione sulla concezione dell’opera di Giulio Romano.
Francesco Salviati, Betsabea si reca da David, Palazzo Sacchetti, Roma
Maurits Cornelis Escher, Relatività, collezione Federico Giudiceandrea, Bressanone
Francesco Salviati, L’incredulità di san Tommaso, part., Musée du Louvre, Parigi
Francesco Salviati, La Carità, Galleria degli Uffizi, Firenze
Francesco Salviati, L’incredulità di san Tommaso, Musée du Louvre, Parigi
Giorgio Vasari, I quartieri cittadini di San Giovanni e Santa Maria Novella, part., Salone dei Cinquecento, Palazzo
Vecchio, Firenze
GIORGIO VASARI
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OPERE SENZA VITA PER L’AUTORE DELLE VITE
La maniera toscana, dopo le visioni e le follie di Pontormo, Rosso Fiorentino e Beccafumi, si cristallizza in
un’adorante riflessione su Michelangelo, in particolare nei pittori della generazione successiva, Francesco Salviati e
Giorgio Vasari. Quest’ultimo, sempre misurato e corretto nell’adesione al metodo michelangiolesco, era totalmente
negato alla poesia. Difficile ricordarne un’invenzione in cui la fantasia e la libertà creativa non siano imbrigliate in un
virtuosismo che manifesta tutta l’ammirazione per Michelangelo. Ed è Vasari, nato nel 1511 ad Arezzo, che si incarica
di normalizzare anche la più viva, emozionata ed emozionante, ricerca artistica cresciuta su un ceppo diverso da
quello toscano; mi riferisco alla pittura veneziana. Giorgione e Tiziano avevano espresso sentimenti ed emozioni
liriche in una straordinaria immersione nella natura, dandoci le prime immagini di un paesaggio moderno, avevano
trasferito in pittura la poesia di Petrarca, l’idillio.
Come Petrarca, un altro aretino, Vasari arriva a Venezia per contrastare questa visione, mettere in crisi grandi come
Tiziano e Lorenzo Lotto, e aprire la strada a un artista spregiudicato come Tintoretto.
Vasari arriva a Venezia nel 1541 dopo essere stato, ventenne, a Roma con Francesco Salviati. Le tavole di Palazzo
Corner Spinelli sono determinanti per la maturazione in chiave monumentale di Tiziano, ma anche per i primi
capolavori di Tintoretto, culminanti nel Miracolo di san Marco che libera lo schiavo. La maniera toscana si manifesta a
Venezia con un tale imperio da sconvolgere la visione di Tiziano, così come si manifesta nei dipinti per Santo Spirito in
Isola, ora alla chiesa della Salute, e in tutti i pittori che dipingeranno il soffitto della Libreria Marciana.
Vasari era arrivato a Venezia come scenografo, chiamato da un altro illustre e influente aretino, Pietro, per mettere in
scena la sua Talanta. Sulla strada lasciò, a Bologna, la Cena di san Gregorio per il refettorio di San Michele in Bosco. La
sua mobilità era straordinaria, quasi per la missione di diffondere il messaggio michelangiolesco. Lo troviamo così a
Napoli nel 1545, con la Crocifissione e le tavole della sacrestia in San Giovanni a Carbonara; a Rimini nel 1547, per
l’Adorazione dei Magi nella chiesa di San Fortunato; a Pisa nel 1562, per riallestire il Palazzo degli Anziani. A Firenze,
tra il 1560 e il 1570, dipinge in Palazzo Vecchio il Salone dei Cinquecento con tutta la devozione per i venerati maestri
Leonardo e Michelangelo, sulle stesse pareti da loro evidentemente affrescate solo sommariamente, con sinopie e
disegni. Nel 1567 dipinge la cupola di Santa Maria del Fiore, realizzando le figure più vicine alla lanterna.
In nessuna di queste opere si muove un soffio di vita vera; e forse Vasari non sarebbe così presente nella nostra
visione delle arti del Rinascimento, se non fosse anche l’autore del primo manuale di storia dell’arte italiana, Le vite de’
più eccellenti pittori, scultori, e architettori, pubblicato nel 1550 da Lorenzo Torrentino e aggiornato nel 1568 con le
xilografie degli artisti nell’edizione Giuntina. È in queste Vite che troviamo preziose testimonianze e riscontri delle
opere da Cimabue a Michelangelo, fondamento della storiografia moderna.
Giorgio Vasari, Giudizio universale, part., duomo di Firenze
Giorgio Vasari, Giudizio universale, duomo di Firenze
Giorgio Vasari, I quartieri cittadini di San Giovanni e Santa Maria Novella, Salone dei Cinquecento, Palazzo Vecchio,
Firenze
CAPITOLO II
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LA MANIERA PADANA

Amico Aspertini, Madonna col Bambino e santi, part., basilica di San Martino Maggiore, Bologna
AMICO ASPERTINI
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“ALLA MANIERA DI NESSUNO MAI”
C’è da credere che non molti abbiano confidenza con l’opera di Amico Aspertini, originale campione del Rinascimento
a Bologna. Originale in ogni senso: perché nessuno ha interpretato il Rinascimento come lui, e perché nessuno è stato
tanto bizzarro e stravagante da riaccendere lo spirito di un’epoca che a Bologna si era espressa con grande
compostezza. Alla corte dei Bentivoglio, infatti, il classicismo si era manifestato nelle forme gentili e misurate di
Lorenzo Costa e Francesco Francia, formati sui modelli della pittura umbra, in particolare di Perugino. Cosicché la
maggiore novità di quegli anni, in tutta la sua potenza protomanieristica, fu certamente l’arrivo, nel 1515, dell’Estasi di
santa Cecilia di Raffaello. Con quell’opera si apriva una stagione nuova e si spazzava via il timido classicismo di Costa
e di Francia.
Lo spirito della pittura bolognese non poteva esaurirsi nelle forme semplici e composte di un Innocenzo da Imola e
neppure di Girolamo da Treviso, ortodossi seguaci di Raffaello, ma doveva trovare uno sfogo. E per questo nessuno
sembrava meglio predisposto di Amico Aspertini, animato da una furia che non consentiva pace alle forme, fino a
configurarsi come una sorta di anti-Rinascimento. Mentre la lingua di Raffaello si diffondeva in tutta l’Emilia Romagna,
articolandosi nelle variazioni di Correggio, Parmigianino e Giulio Romano da una parte, e di Innocenzo da Imola,
Girolamo da Treviso e Luca Longhi dall’altra, Amico Aspertini stava nella sua trincea mostrandosi molto più curioso
della pittura di Dürer, Cranach, Grünewald, osservati e tradotti come nessun altro fece.
Aspertini contrasta tutte le correnti pittoriche che vengono da sud, da Roma e da Firenze. Niente Perugino, niente
Raffaello, se non per farne il verso fino alla caricatura. Anche il suo rapporto con l’antico, la rianimazione di grottesche e
fregi classici studiati e disegnati a Roma, non è archeologia o memoria storica bensì nostalgia di una vita perduta che
si agita nelle forme senza regole e metodo. Aspertini è incomprensibilmente sfuggito ai surrealisti, che avrebbero
potuto riconoscere in lui un precursore per curiosità e originalità. Lo si vede anche nei disegni, memoria di viaggi a
Roma, Firenze, Lucca, Mantova, Venezia, fonti di esperienza come le discese alla Domus Aurea, dove Aspertini,
turista indisciplinato, ha lasciato graffito il suo nome.
Sulle prime, Aspertini sembra trovare un fratello nel pittore ferrarese Ludovico Mazzolino e, con altrettanta fantasia
e maggiore controllo, intarsia le sue opere di bassorilievi e grottesche nelle luminose e coloratissime forme, come si
vede nella Pala del Tirocinio, ora alla Pinacoteca nazionale di Bologna. Anche quando il confronto con Raffaello è diretto,
come nella Pala di San Martino Maggiore con la / Bambino e santi, Aspertini mostra insofferenza a ogni ordine e a ogni
schema, al punto che le immagini sembrano galleggiare, sospese nel vuoto in uno spazio indefinito. Lo stesso
stralunato spirito si ritrova sia nella Pietà per la Cappella Garganelli in Sant’Antonio sia in una sgangherata pala nella
chiesa parigina di Saint-Nicolas-des-Champs. L’essenza e la fantasia di Aspertini tornano negli affreschi della chiesa
di San Frediano a Lucca, dove il pittore bolognese irrompe nel delicato tessuto toscano con un racconto zingaresco ricco
di umori e di volti caricaturali. Al confronto con questo rumore della strada, con questo spirito popolaresco, anche un
pittore affine come Filippino Lippi appare accademico. È così che di Aspertini può ben dirsi ciò che aveva intuito Carlo
Cesare Malvasia: “Un uomo capriccioso e fantastico, che alla maniera di nessuno mai volle assoggettarsi, studiando
bensì da tutti”.
Amico Aspertini, Pala del Tirocinio, part., Pinacoteca nazionale, Bologna
Amico Aspertini, Madonna col Bambino e santi, part., basilica di San Martino Maggiore, Bologna
Amico Aspertini, Pala del Tirocinio, Pinacoteca nazionale, Bologna
Amico Aspertini, Madonna col Bambino e santi, basilica di San Martino Maggiore, Bologna
Dosso Dossi, Baccanale, part., Castel Sant’Angelo, Roma
DOSSO DOSSI
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A FERRARA, IL PRIMO PITTORE ROMANTICO
Stava a Ferrara, Dosso Dossi, e osservava con distacco le smaltate meraviglie dei grandi pittori della generazione
che lo aveva preceduto: quella di Cosmè Tura, Francesco del Cossa, Ercole de Roberti. Non era a loro che voleva
guardare, ma piuttosto ai giovani e vicini pittori romantici: i nouveaux philosophes, Giorgione e Tiziano, che stavano
compiendo la loro rivoluzione a Venezia. In quei paesaggi, in quei boschi si perdeva il pensiero di Dosso, che vedeva
come irrinunciabili modelli la Tempesta, i Tre filosofi, il Concerto campestre. Lui voleva essere lì. E di quelle visioni, di
quegli idilli di natura, sentiva perdutamente il foscoliano “calore di fiamma lontana”. Eccolo allora avvicinare quei
paesaggi e incendiarli, ma anche far rivivere un’iconografia collaudata.
Così i suoi esordi si possono far coincidere con la prima testimonianza d’amore nei confronti della pittura veneziana,
del maestro dei maestri: Giovanni Bellini. Mi riferisco alla paletta con la Madonna con il Bambino e angelo musicante per
il duomo di Lendinara, presidio di cultura ferrarese nel Veneto. L’opera è firmata Domenico Mancini e datata 1511. Ma
vi è chi, per la difformità dello stile, ha visto la mano del giovane Dosso, poco più che ventenne, nell’angelo infuocato che
suona sotto la composta Madonna (derivata dalla Pala di San Zaccaria di Bellini, concepita agli inizi del secolo, proprio
mentre crescevano gli idoli di Dosso, Giorgione e Tiziano). Se l’intuizione è giusta, tutto ciò che segue è coerente. Dosso
dipinge la Ninfa e il satiro della Galleria Palatina, il Baccanale ora al Museo nazionale di Castel Sant’Angelo a Roma, le
Tre età dell’uomo del Metropolitan Museum di New York, il Riposo durante la fuga in Egitto ora agli Uffizi, il Compianto sul
Cristo morto ora alla National Gallery di Londra, Enea ed Acate sulla costa libica ora alla National Gallery of Art di
Washington, la Melissa (o Circe) della Galleria Borghese, Giove pittore di farfalle del Castello di Wawel, a Cracovia. Sono
alcuni dei capolavori del decennio successivo alla morte di Giorgione, tra il 1510 e il 1520.
Dosso Dossi, Baccanale, part., Castel Sant’Angelo, Roma
Nessun pittore, più di Dosso Dossi, diede un’interpretazione tanto romantica e appassionata del mondo di Giorgione
e di Tiziano giovane, visto nelle sale del Castello di Ferrara. Quei paesaggi della campagna veneta tra Este,
Monselice, Conegliano, Asolo, i Colli Euganei, i Colli Berici, diventano, in Dosso Dossi, luoghi del mito, boschi sacri con
albe e tramonti dorati e arcobaleni sul fiume, sul Po che avanza da Ferrara. Sono paesaggi reali e onirici insieme,
visioni, opere calde, incendi di colore. Vi sono anche riferimenti esplicitamente letterari, illustrazioni di temi mitologici
o cavallereschi. Così che, in coincidenza di date, la fantasia di Dosso sembra sintonizzarsi con quella di Ludovico
Ariosto dell’Orlando furioso (la prima edizione è del 1516, la seconda del 1521).
Fin dal 1514, Dosso è pittore di corte a Ferrara, per Alfonso d’Este, negli anni della Camera dell’alabastro, con i
Baccanali di Giovanni Bellini e di Tiziano. L’ebbrezza di Tiziano e le riflessioni su Raffaello – soprattutto quello della
pala di Foligno – orientano il suo gusto e la sua visione e si manifestano chiaramente in quel capolavoro compiuto che è
la Melissa (o Circe). Qui la donna regale domina la natura accendendola di una luce calda e paradisiaca. La sua veste è
lussureggiante, della stoffa più preziosa che potesse arrivare dall’Oriente; la natura tutt’intorno, pastori compresi, è
quella della Tempesta e del Concerto campestre, ed è anche più fertile e ricca. Con queste originali interpretazioni,
Dosso Dossi è il primo pittore romantico italiano.
Dosso Dossi, Circe, part., Galleria Borghese, Roma
Dosso Dossi, Circe, part., Galleria Borghese, Roma
Dosso Dossi, Baccanale, Castel Sant’Angelo, Roma
Dosso Dossi, Circe, Galleria Borghese, Roma
Savoldo, Annunciazione, part., Gallerie dell’Accademia, Venezia
SAVOLDO
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“DI NOTTE, E DI FUOCHI, MOLTO BELLI”
Qualcosa ostacola, forse vantaggiosamente, l’affermarsi di una piena popolarità per taluni, grandi e imprescindibili
artisti, ai quali è riservato il più ampio riconoscimento nell’area ristretta dei competenti. È il caso di Giovanni Gerolamo
Savoldo, pittore amatissimo e reputatissimo da studiosi e coltivati conoscitori, eppure lontano dalla comune conoscenza
anche in tempi come questi, così attenti alle celebrazioni dei centenari. Mezzo millennio ci separa oggi dal Savoldo,
senza che egli ci si sia allontanato più di un giorno, viva e appassionata com’è la sua pittura.
Una leggenda, forse non priva di fondamento, lo vuole di nobili origini: cosa che potrebbe dare ragione della sua
impopolarità, nonostante in lui non vi sia mai la superbia o l’ostentato distacco che talvolta sentiamo nei popolarissimi
Tiziano o Tiepolo. D’altra parte, lo stesso riconoscimento della critica non è mai stato molto più che onorario, senza che
al Savoldo toccasse di essere considerato un artista centrale o dominante.
Da queste premesse deriva che l’atteggiamento più consueto anche tra gli storici dell’arte sia quello di considerare
Savoldo una questione risolta con l’ammissione generica delle sue qualità. E invece il suo nome sottintende alcuni dei
più importanti problemi della storia dell’arte tra Lombardia e Veneto. La moderna riproposta di un Savoldo giorgionesco
e “naturalista”, insomma più veneziano che bresciano, si deve a Carlo Volpe, nel più vasto impegno di gettare con
motivate argomentazioni un ponte tra Giorgione e Caravaggio, di cui Savoldo è certo una delle chiavi principali, essendo
tanto giorgionesco quanto lombardo. La perigliosa dimostrazione di Volpe per giungere al Giorgione caravaggesco
deve passare per un Caravaggio savoldesco. Già il Vasari ci aveva indirizzato: “Di mano di Giangirolamo bresciano si
veggono molte opere in Venetia, e in Milano, e nelle dette case dalla Zeccha sono quattro quadri di notte, e di fuochi,
molto belli, e in casa di Tommaso da Empoli, in Venetia, è una Natività di Christo finita di notte molto bella, e sono due
altre cose di simile fantasia, delle quali era Maestro”.
E maestro appare il Savoldo nell’Annunciazione per la chiesa veneziana di San Domenico di Castello, soppressa nel
1806. Qui la ricordano le fonti come opera di Marco Vecellio. Anche il Ganzer accetta il nome di Marco Vecellio, dando la
notizia del ritrovamento a Ghirano vicino a Pordenone, dopo le spoliazioni napoleoniche. Eppure il quadro, per il primato
dei dati visivi su quelli documentari, si dichiara immediatamente opera indiscutibile del grande maestro bresciano, e
ne è anzi un’invenzione assolutamente tipica e insieme assolutamente originale, non meno di quelle ricordate dalle
fonti e ancora presenti a Venezia. L’ambientazione notturna che caratterizza le sue Natività, come quella Tosio
Martinengo o quella per la chiesa di San Giorgio a Venezia, è qui accentuata dalla scelta di un ambiente chiuso,
rischiarato dal lume a olio, in alto, che suscita effetti di controluce, proprio come quelli ammirati dal Ridolfi sulle “mezze
figure finite di notte, nelle quali osservansi alcuni lumi cagionati da un lume”. Sono queste le opere per le quali,
andando anche oltre il Caravaggio – che certamente le vide a Venezia – la critica ha pronunciato i nomi di Gherardo
delle Notti e di Matteo Stomer.
Savoldo, Annunciazione, part., Gallerie dell’Accademia, Venezia
Se dall’ambientazione si passa poi ai dettagli, lampanti sono nell’Annunciazione i rapporti con le opere note del
Savoldo, dal riquadro in alto nella finestra – con l’apparizione a colpo di schioppo del Padre Onnipotente – all’ampio
panneggio dell’angelo, accostabile a quello dell’arcangelo nel Tobiolo della Galleria Borghese e a quello del Cristo
nella Trasfigurazione degli Uffizi (specialmente il braccio e la manica destra), così come la testa del medesimo è in
strettissima relazione con la Mezza figura di giovane della Galleria Borghese di Roma. Anche per la Vergine i
riferimenti sono amplissimi, dal volto della Maddalena iridescente della National Gallery di Londra a quelli delle
diverse Natività, in particolare quella della collezione Albertina, quella nella Galleria Sabauda e in San Giobbe a
Venezia.
Sommamente savoldesche sono poi le mani sensitive dell’angelo (guardate come stringe il giglio!) e quelle della
Vergine, quasi scolpite nel legno sotto il bellissimo effetto di controluce, che evidenzia, come spesso in Savoldo, la
linea di contorno delle unghie. Ogni ulteriore indicazione è inutile, tanto sono forti i caratteri e l’atmosfera savoldesca in
quest’Annunciazione, di una semplicità e di un’eleganza senza paragone, veramente neoattica e precaravaggesca, in
quell’essenzialissima sintesi di idealismo e realismo che è tipica del Savoldo; e siamo appena tra il 1535 e il 1540,
ossia negli anni del trionfo di Tiziano e dell’esilio di Lorenzo Lotto. Ma a Brescia, come vedremo, accadono cose
memorabili.
Savoldo, Annunciazione, Gallerie dell’Accademia, Venezia
Romanino, Crocifissione, part., chiesa di Santa Maria della Neve, Pisogne
ROMANINO
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AI MARGINI DELLA STORIA, AL CENTRO DELL’ARTE
Se come vedremo a Cremona Altobello rinnova la pittura introducendo dramma, umanità, colore, Romanino domina
nel Bresciano, con lo stesso spirito e più fuoco e disordine dei sensi. Altro suo fratello spirituale, ma più lirico e
intimista, è Lorenzo Lotto. Ma Romanino sceglie da subito di essere l’ala dionisiaca di Tiziano, fin dal precoce polittico
di Santa Giustina a Padova del 1513.
Romanino è un incendiario, il suo spirito padano ha la stessa energia e vitalità di Dosso Dossi, entrambi innamorati
di Giorgione; ma a Brescia nel 1522 arriverà un’altra opera definitiva di Tiziano, memorabile per la figura del san
Sebastiano derivata dai Prigioni di Michelangelo e impressionante per il volo, nel cielo infuocato dal tramonto, di un
atletico Cristo risorto. Nuova linfa per il Romanino negli anni in cui l’impresa del suo sodale e complice Altobello si avvia
al declino: egli ha energie illimitate, e lascia traccia di sé in borghi, castelli e pievi fino a incrociare l’altro sovversivo,
Dosso Dossi, al Castello del Buonconsiglio a Trento. Romanino si era già distinto nel dialogo con Tiziano nella fortunata
Salomè, versione espressionistica di quella (talora considerata una Giuditta) di Tiziano alla Galleria Doria Pamphilj.
Dopo un passaggio a Cremona per affiancare l’alter ego Altobello – scavalcato dal Pordenone, che chiude l’impresa
della decorazione a fresco nella cattedrale –, ritroviamo il Romanino a Brescia, di nuovo in dialogo con il Tiziano del
Polittico Averoldi, nella Cappella del Santissimo Sacramento della chiesa di San Giovanni Evangelista, misurandosi
con Moretto. Nel 1524, sempre a Brescia, dipinge il polittico di Sant’Alessandro, ora alla National Gallery di Londra, e tra
il 1524 e il 1526 è ad Asola per la cantoria e le ante d’organo; nel 1529 è a Salò per il vividissimo Sant’Antonio da
Padova nel duomo. A Trento arriva tra 1531 e il 1532, ma la sua piena maturità si dispiega tra il lago d’Iseo e la Val
Camonica, nelle chiese di Sant’Antonio a Breno, dell’Annunciata a Bienno e di Santa Maria della Neve a Pisogne. Qui
ritorna in chiave espressionistica, se non caricaturale, il ricordo del Cristo risorto di Tiziano, tra le più alte
interpretazioni padane di Michelangelo, anticipando la Sistina. Tanto che Giovanni Testori definirà gli affreschi di
Pisogne “la Cappella Sistina dei poveri”.
Romanino, Crocifissione, part., chiesa di Santa Maria della Neve, Pisogne
Nella Crocifissione e nelle Storie di Cristo di Pisogne, Romanino si esprime con un linguaggio grottesco, comprimendo
i corpi fino a deformarli, oltre le regole della prospettiva rinascimentale, in dialogo con lo spirito popolare dei Sacri
Monti, in particolare con il Gaudenzio Ferrari di Varallo, in un teatro senza precetti, fuori dall’osservanza di canoni e
prescrizioni liturgiche. A Santa Maria della Neve si compie una rivoluzione: Cristo appare goffo e molle, più che
atletico; nessuna regola è certa, il disegno è veloce e sintetico, beffardo rispetto a ogni modello classico; i modelli sono
corpi deformi di contadini, non statue classiche. Così Testori può definire Romanino “il più grande e più torvo e triviale
dei pittori in dialetto dell’arte di ogni regione e di ogni tempo […] il solo vero grande e sdegnoso barbaro”. La Discesa al
Limbo lo appassiona meno di un litigio tra ragazzi, e la Maddalena ai piedi della croce è una contadina con le guance
rubizze e le braccia grosse. Testori aggiunge, osservando l’impianto dell’intera decorazione: “Guardate qui su le
sibille se non sembrano donne che tornino con le loro gerle dai boschi […] Pisogne per forza poetica tiene la Sistina, ne
è come l’alterità, l’altro modo di vivere il cristianesimo. Qui c’è un modo di viverlo più umile, più da eroismo popolare e
montagnardo, più dialettale […] Romanino qui fa il controcanto della parola che si fa carne, infatti prende la carne di un
popolo, di una valle e ne fa verbo figurativo”.
Romanino, Discesa al Limbo e Lavanda dei piedi, chiesa di Santa Maria della Neve, Pisogne
Romanino, Crocifissione, chiesa di Santa Maria della Neve, Pisogne
Dopo quest’impresa ai margini della storia ma al centro dell’arte, Romanino procede con altre imprese come le ante
d’organo per il duomo Vecchio a Brescia e per San Giorgio in Braida a Verona; continua verso il 1545 a dipingere per la
Cappella del Santissimo Sacramento in San Giovanni a Brescia, e ancora, entro il 1550, la pala di San Domenico e la
Pala Avogadro. Chiude la sua opera con la Caduta della manna ancora per il duomo Vecchio di Brescia e con la
Vocazione dei Santi Pietro e Andrea per la chiesa di San Pietro a Modena. Il suo fuoco si spegne sotto la cenere
dell’allievo e genero Lattanzio Gambara.
Romanino, particolare della volta, chiesa di Santa Maria della Neve, Pisogne
Moretto da Brescia, Apparizione della Madonna al sordomuto Filippo Viotti, part., santuario della Madonna di Paitone,
Paitone
MORETTO DA BRESCIA
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TENSIONE SPIRITUALE ASSOLUTA
Il più austero dei grandi pittori bresciani del Rinascimento è certamente Moretto da Brescia, fedele alla prima fonte
di Vincenzo Foppa, la cui pittura religiosa si fonda su un umanissimo sentimento della devozione popolare. Nato alla
fine del secolo, nel 1498, Moretto guarda certo il più vicino dei maestri veneti, Lorenzo Lotto, intendendone la pietas
contro ogni tentazione espressionistica, così evidente in Romanino per una forte attrazione della pittura nordica. E Lotto
vuol dire, negli anni della formazione di Moretto, il pittore più vicino a Raffaello, mentre meno forte appare l’impressione
di Tiziano. Non è da escludere, per contiguità, anche un interesse del giovane Moretto per la pittura ferrarese tra
Garofalo e Dosso, come si manifestano nel precoce Polittico di Sant’Andrea, realizzato negli anni dei suoi esordi. Così lo
vediamo nella Madonna in trono col Bambino tra i santi Giacomo Maggiore e Girolamo conservata all’High Museum of Art
di Atlanta, un’opera splendente, luminosa. Nel 1518 dipinge San Faustino a cavallo e San Giovita a cavallo per l’organo
del duomo Vecchio di Brescia, ora a Lovere; nel 1521 si misura con il Romanino nella Cappella del Santissimo
Sacramento della chiesa di San Giovanni Evangelista, in un’impresa che durerà fino agli anni quaranta. I rapporti della
giovinezza con Lorenzo Lotto si rinsaldano nel 1528, quando il pittore veneziano scrive al “molto carissimo suo honorato
messer Alessandro Moretto pittore exellentissimo” per chiederne la collaborazione per la decorazione del coro della
chiesa di Santa Maria a Bergamo.
Di quest’affinità spirituale con il Lotto è notevole documento l’Apparizione della Madonna al sordomuto Filippo Viotti per
il santuario della Madonna di Paitone, testimonianza di una sensibilità che prelude a Caravaggio. Ancora il Lotto ispira
la devozione intensa e autentica della Santa Giustina da Padova e un donatore, oggi al Kunsthistorisches Museum di
Vienna. Il processo di accostamento a una dimensione sempre più umana, di intenso realismo, continua nella Pala
Rovelli per Santa Maria dei Miracoli a Brescia (ora nella pinacoteca Tosio Martinengo), dove san Nicola da Bari
presenta gli allievi di Galeano Rovelli alla Madonna in trono con il Bambino.
Nella ritrattistica, dove il Moretto eccelle, la guida è sempre Lorenzo Lotto, come si vede nel Ritratto di Fortunato
Martinengo Cesaresco, del 1542, dove il tema lottesco del giovane malinconico in meditazione si incrocia con l’esibita
esaltazione del rango e della ricchezza nei preziosi dettagli di tendaggi, velluti, ermellini. Ma intanto il Moretto coltiva
le sue ossessioni religiose e controriformistiche: sono gli anni delle ante d’organo per San Giovanni Evangelista e della
Caduta e conversione di san Paolo per la chiesa di Santa Maria presso San Celso a Milano, opera lungamente
osservata da Caravaggio negli anni della formazione milanese.
È in questi ultimi anni che il Moretto coniuga realismo e misticismo in quell’assoluto capolavoro che è il Cristo e
l’angelo ora alla Pinacoteca Tosio Martinengo, databile verso il 1550, con l’invenzione sublime della tunica sollevata
dall’angelo piangente, in una smorfia di dolore senza precedenti, con la croce buttata di traverso nell’angolo e il Cristo
seduto sui gradini come un clochard, lontana derivazione degli Ecce Homo e delle Incoronazioni di Tiziano. Il dipinto
parla di una sconfitta, e le sue tonalità grigie e marroni sono un’assoluta rinuncia ai colori e agli splendori della pittura
dai quali Moretto era partito. Un’opera d’intensissima tensione spirituale, disarmata, senza speranza. L’angelo
disperato dichiara l’impotenza e l’umiliazione di Cristo, che sembra rassegnato all’inutilità del sacrificio. Da quella
posizione è impossibile risorgere.
Moretto da Brescia, Santa Giustina da Padova e un donatore, part., Kunsthistorisches Museum, Vienna
Moretto da Brescia, Cristo e l’angelo, part., Pinacoteca civica, Brescia
Moretto da Brescia, Cristo e l’angelo, Pinacoteca civica, Brescia
Moretto da Brescia, Santa Giustina da Padova e un donatore, Kunsthistorisches Museum, Vienna
Moretto da Brescia, Apparizione della Madonna al sordomuto Filippo Viotti, santuario della Madonna di Paitone, Paitone
Altobello Melone, Fuga in Egitto, part., duomo di Cremona
ALTOBELLO MELONE
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UN ESPRESSIONISTA A CREMONA
Mentre a Ferrara furoreggia Dosso Dossi, a Cremona, patria di pittori, dopo le meditazioni belliniane di Boccaccio
Boccaccino c’è spazio per gli astratti furori di Altobello Melone, che coniuga Leonardo e Bramantino con il giovane
Tiziano. Anche nel suo caso, la prospettiva dalla quale sono visti i maestri veneziani è romantica, fondamentalmente
anticlassica, al punto che, fin dall’inizio del secondo decennio, Altobello sceglie come interlocutore e sodale un altro
originale ed eterodosso tizianesco, il bresciano Romanino, come si vede fin dal 1511-12 nel Compianto sul Cristo morto
di Brera, in dialogo con il dipinto di analogo soggetto del Romanino all’Accademia di Venezia (è Marcantonio Michiel,
curioso collezionista e amatore d’arte veneziano, a chiamare Antonello Melone “discepulo di Armanin”). Di questa fase
di Altobello sono memorabili la Coppia di amanti ora a Dresda, torbida interpretazione della ritrattistica del Lotto, e il
volitivo Ritratto di gentiluomo dell’Accademia Carrara di Bergamo.
Ma Altobello ha il suo campo di prova nella cattedrale di Cremona, dove si affianca a Boccaccio Boccaccino e a
Giovanni Francesco Bembo. Tra 1516 e 1518 sono documentati i suoi affreschi nella navata centrale del duomo. Qui
l’artista matura il suo linguaggio espressionistico, variante del gusto popolare del Romanino, con il quale si era
misurato negli affreschi di Sant’Onofrio a Bovezzo, in Valtrompia. A Cremona, invece, Altobello dialoga inizialmente con
Boccaccino nelle Storie di Maria. È difficile individuarlo nella compostezza classica dell’olimpico Boccaccino, ma è subito
riconoscibile negli affreschi del settimo arcone a sinistra della navata centrale, con la Fuga in Egitto e la Strage degli
innocenti. Nel contratto con i massari della cattedrale è esplicitamente richiamato ad Altobello il precedente di
Boccaccino, al cui stile e al cui ritmo narrativo dovrà conformarsi, pena il raschiamento degli affreschi (a spese
dell’artista).
Conclusa l’impresa nell’agosto del 1517, proprio il Romanino, indicato da Altobello, e altri due giudici, scelti dai
committenti, espressero parere favorevole. Così, nel 1518 i massari richiamarono Altobello per gli affreschi con le
storie della Passione da dipingere sulla parete destra della stessa navata: vediamo L’ultima cena, la Lavanda dei piedi,
l’Orazione nell’orto, la Cattura di Cristo e Cristo davanti a Caifa. Qui Altobello esprime il punto più alto della sua impresa
artistica. Se nella Strage degli innocenti la richiesta di “varie crudeltà de omini” e donne “spaventevole e scapigliate”
trovava nel pittore una rappresentazione convinta attraverso i richiami alla cultura nordica, in questi affreschi la
vocazione drammatica di Altobello si semplifica in forme essenziali, sintetiche, con figure più grandi e panneggi ampi
e geometrici. Così Altobello, nella visione distanziata, va oltre lo schema narrativo di Boccaccio Boccaccino e apre al
gusto manieristico, magniloquente, del Pordenone, che chiuderà la decorazione pittorica della cattedrale.
Altobello Melone, Strage degli innocenti, part., duomo di Cremona
Per questo scarto, anche rispetto agli affreschi della parete frontale, è certamente determinante l’influenza di
Raffaello con le due pale di San Sisto a Piacenza e di Santa Cecilia a Bologna. Ma Altobello, attraverso Romanino, ha
meditato su Dürer, Cranach, Altdorfer, rivelandosi tra i più colti pittori italiani di quegli anni, insieme a Lorenzo Lotto,
pellegrino in Italia e di lì a poco attivissimo a Bergamo e in territorio bergamasco. Eppure neanche Lotto, come nessuno
in quegli anni, tra Ferrara, Mantova, Cremona, Bergamo e Brescia, è versatile come Altobello, che, nella cattedrale di
Cremona, raggiunge l’acme della pittura padana del secondo decennio, prima dello sconvolgente arrivo di Giulio
Romano e dell’affermazione del Correggio nella cupola di San Giovanni Evangelista a Parma.
Altobello Melone, Strage degli innocenti, part., duomo di Cremona
Altobello Melone, Fuga in Egitto, duomo di Cremona
Altobello Melone, Strage degli innocenti, part., duomo di Cremona
Callisto Piazza, Decollazione del Battista, part., santuario dell’Incoronata, Lodi
CALLISTO PIAZZA
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UNA TENSIONE SCONOSCIUTA
Ferrara, Camerino, Brescia, Cremona… Città che oggi appaiono minori, nel Rinascimento furono capitali. Tra queste,
Lodi.
In pieno Cinquecento, come controcanto di Brescia, Lodi è la città di Callisto Piazza, artista operoso e sofisticato, in
equilibrio fra Tiziano, Romanino e Moretto.
Figlio d’arte, egli impara il mestiere presso il padre Martino e lo zio Albertino, il cui orizzonte era più limitato rispetto
a quello dei pittori bresciani, in particolare del Romanino, che Callisto incontra a Brescia nel 1524 e di cui batte le
stesse tappe in Valcamonica.
Nel quarto decennio lo troveremo a Crema e poi a Milano, dove affresca una sala del Castello Sforzesco, e all’abbazia
di Chiaravalle.
La curiosità e l’energia che Callisto esprime nella pittura si manifestano compiutamente nei dipinti per il
meraviglioso santuario dell’Incoronata, con le Storie del Battista e la Passione di Cristo.
Qui agisce una complessa sensibilità culturale nella quale entra la conoscenza degli affreschi del Pordenone nella
cattedrale di Cremona e dell’opera di Giulio Campi.
Nella Deposizione, Callisto si spinge fino a ripetere il motivo di Michelangelo nel braccio che pende inerte, come
nella Pietà vaticana; e nella Decollazione del Battista sembrerà aggiungere alla compiuta sintesi drammatica la vitalità
del movimento, riuscendo a esprimere una tensione sconosciuta persino a Tiziano. Ed è questa la sua specifica
dimensione poetica.
Callisto Piazza, Decollazione del Battista, santuario dell’Incoronata, Lodi
Parmigianino, Pallade Atena, part., Royal Collections, Hampton Court
PARMIGIANINO
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IL CULTO PAGANO DELLA BELLEZZA, A PARMA
Fuori dalla Firenze di Pontormo, Rosso e Bronzino, interpreti alieni di Michelangelo, il manierismo ha il suo
campione in Parmigianino, forse il più originale pittore emiliano del Cinquecento, la cui parabola, descritta
polemicamente da Giorgio Vasari, avrebbe potuto condurlo a essere l’erede di Raffaello.
Nato nel 1503 a Parma, il Parmigianino arriva a Roma, chiamato da papa Clemente VII, nel 1525, pochi anni dopo la
morte del Divino Pittore. Il suo volto in quegli anni è quello dell’Autoritratto entro uno specchio convesso: un giovane
efebico e romantico. Ma il suo destino è segnato dal sacco di Roma che, nella grande città devastata, gli impedisce
l’affermazione sperata e lo costringe a risalire l’Italia, rientrando nella sua città natale, dove aveva prosperato – in un
mondo parallelo di armonie e perfezioni amorose – il suo primo maestro: Correggio. Dopo una breve sosta a Bologna,
dove lascia alcuni capolavori come la pala con Santa Margherita e il San Rocco, nel 1530 il Parmigianino torna
definitivamente a Parma, accompagnato dalla leggenda della gloria romana, che non ebbe, ma che gli consente di
esprimere in soli dieci anni assoluti capolavori fra i quali l’Antea, e gli affreschi, incompiuti e mirabili, con Tre vergini
stolte e tre vergini sagge per la chiesa di Santa Maria della Steccata. La maniera che Parmigianino elabora è del tutto
autonoma da Raffaello e Michelangelo, che trovano il loro presidio nell’impresa di Giulio Romano a Palazzo Te a
Mantova. Parmigianino sviluppa uno stile sofisticato e intellettuale, in cui l’armonia dei sensi di Correggio si trasforma
in un’alchimia di forme nuove, algide e cristalline.
Il cavaliere Francesco Baiardi era amico e collezionista esclusivo del Parmigianino, ed è sua sorella Elena a
commissionare al pittore, per la cappella funeraria del marito nella chiesa di Santa Maria dei Servi a Parma, il 23
dicembre 1534, la sua opera più nota e rappresentativa, e forse la più perfetta e la più grande, la Madonna dal collo
lungo, di cui quasi una versione profana può essere considerata la coeva, e preziosamente antiquariale, Pallade Atena
di Hampton Court, probabilmente da identificare con “una testa col petto d’una Minerva di mano del Parmesianino”
nell’inventario della collezione di Francesco Baiardi. Non che il mondo antico manchi, nella Madonna dal collo lungo,
come testimonia l’accenno del peristilio di un tempio dietro la emergente colonna, simbolo della fortezza e dell’integrità
della Vergine ma anche del contributo del mondo antico alla costruzione della civiltà cristiana. Così, in basso, un
minuscolo profeta si ritaglia come un filosofo antico uno spazio solitario ai piedi delle colonne del tempio. “Alla chiesa di
Santa Maria dei Servi fece in una tavola la Nostra Donna col figliuolo in braccio, entro la quale riluce una croce
contemplata dalla Nostra Donna. La quale opera, perché non se ne accontentava molto, rimase imperfetta. Ma non di
meno è cosa molto lodata in quella sua maniera piena di grazia, e di bellezza”.
L’opera accompagnò il Parmigianino fino alla morte, senza che egli giungesse a compierla. Arrivò nella Cappella
Baiardi solo nel 1542. È testimonianza di un processo alchemico compiuto, di una trasformazione della materia in
spirito, in pura idea: potrà poi essere, come vuole Fagiolo dell’Arco, l’Immacolata concezione della Vergine, la sua
divina maternità allusa nella forma pura del vaso. Aggiunge Fagiolo: “La ricerca è da approfondire; questo motivo del
collo lungo connesso alla Vergine è una lunga storia, e trova le sue radici addirittura nel Medioevo. In un inno medievale
così è esaltata Maria: collum tuum ut columna, turris et eburnea”. Diversa è la seducente, non formalistica
interpretazione di Hauser: “Par che nessun elemento del quadro si accordi con un altro, non una figura che si comporti
secondo le leggi naturali, non un oggetto adempia la funzione che gli verrebbe assegnata di norma. Non si sa se la
Vergine sia in piedi o seduta, e se si appoggia a un sostegno che forse è un trono. Non si sa neppure dove si svolge
veramente la scena: se in un atrio o all’aperto. Che cosa significa laggiù nel fondo la fila delle colonne? Che razza di
colonne sono, poi, che se ne stanno lì senza capitello, affatto inutili, veramente paragonabili a fumaioli di fabbriche? E
che cosa vogliono rappresentare i giovanetti e le fanciulle accalcati nell’angolo a sinistra in primo piano? Angeli o
piuttosto, come pensava Dvořák, un efebo con i suoi compagni nell’atto di presentare un’offerta votiva alla Vergine, a
quest’idolo così idealmente leggiadro? Si sarebbe così arrivati là dove doveva ineluttabilmente condurre questo genere
di pittura sacra: a un culto pagano della bellezza”.
Parmigianino, Madonna dal collo lungo, part., Galleria degli Uffizi, Firenze
Parmigianino, Madonna dal collo lungo, part., Galleria degli Uffizi, Firenze
Parmigianino, Madonna dal collo lungo, Galleria degli Uffizi, Firenze
Parmigianino, Pallade Atena, Royal Collections, Hampton Court
CAPITOLO III
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VENEZIA E LA MANIERA

Pordenone, Deposizione, part., duomo di Cremona


PORDENONE
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ORGOGLIOSE FANTASIE
Certamente stretto, e reciprocamente vantaggioso, è il rapporto tra Correggio, a Parma, e il Pordenone a Piacenza,
Cortemaggiore e a Cremona, in piena, nebbiosa e fertile area padana. Quando il grande veneto, più che friulano,
Giovanni Antonio de’ Sacchis, detto Pordenone, anche più vecchio di Tiziano e certo amico di Giorgione, arriva a
Cremona, Correggio non si è ancora esibito nella prima, preterintenzionalmente raffaellesca, cupola di San Giovanni
Evangelista a Parma. I due si sfiorano ma non si parlano. Il Pordenone è già più avanti, ha visto Raffaello e
Michelangelo, li ha innestati nel loro ceppo più forte, il disegno, sulla pianta della pittura veneziana. Pordenone agisce
dunque a ragion veduta e anticipa, in terra padana, l’azione dirompente di Giulio Romano. Correggio non lo vede ma
intuisce tutto. Il suo obiettivo è il sublime pittorico come conquista d’amore. Correggio è il pittore dei sentimenti, del
cuore; Pordenone è il pittore della ragione. Pordenone è più avanti di tutti, è il primo manierista; e, nel rapporto con
Raffaello e Michelangelo, ha meno imbarazzi di Tiziano e di Lorenzo Lotto, che si confronteranno con i grandi modelli
romani tentando di difendere la loro orgogliosa identità.
Pordenone non è timido e neppure romantico, come Dosso Dossi, o grottesco e popolare, come Romanino: fin da subito
pensa in grande e sconvolge il linguaggio degli educati e anche ribelli pittori che lo hanno preceduto nella cattedrale di
Cremona, Boccaccio Boccaccino e Altobello Melone. Si prende la parete della controfacciata e impagina un dramma che
nel Nord, in quegli anni, ha il solo precedente di Gaudenzio al Sacro Monte di Varallo, tanto da meritarsi una potente e
compiaciuta definizione del Vasari, il quale, nella sua incondizionata ammirazione, ci fa intendere come il Pordenone
non potesse non essersi formato a Roma, con una formidabile capacità di apprendimento; per l’autore delle Vite il
Pordenone fu “il più raro e celebre nell’invenzione delle storie, nel disegno, nella bravura, nella pratica de’ colori, nel
lavoro a fresco, nella velocità, nel rilievo grande et in ogni altra cosa delle nostre arti”.
Movimento, tumulto, grande teatro, dramma in azione: tutto questo dispiega, con grande rumore, a Cremona,
Pordenone. Il passaggio successivo è tra Veneto e Friuli, con le potenti portelle d’organo del duomo di Spilimbergo, gli
affreschi di Pinzano al Tagliamento e le originalissime pale di Susegana e di Varmo. Il confronto con Tiziano, con
modalità non diverse da quelle del Lotto, si misura a Venezia nelle ante d’organo con i santi Martino e Cristoforo per la
chiesa di San Rocco del 1528-29, dopo la sconfitta nel concorso per la pala di San Pietro Martire per basilica dei Santi
Giovanni e Paolo, vinto da Tiziano con il fortunatissimo e celebre dipinto, distrutto in un incendio. Quella è la strada
indicata da Tiziano, una proposta veneziana rispetto al romanismo del Pordenone, il quale mostra la propria con la pala
per San Lorenzo Giustiniani del 1532.
Pordenone, Scene della Passione di Cristo, duomo di Cremona
Pordenone, Deposizione di Cristo, chiesa dell’Annunciata, Cortemaggiore
Caravaggio, Seppellimento di santa Lucia, basilica di Santa Lucia, Siracusa
Ma dopo dieci anni il suo terreno d’azione torna a essere vicino a Cremona, a Cortemaggiore e a Piacenza. Ecco, a
Cortemaggiore, l’Immacolata concezione con gli affreschi della Cappella Pallavicino, di un monumentalismo imponente
e programmatico, senza cedimenti, senza compromessi. Eroi sono i suoi profeti e i suoi santi, ma intanto Pordenone ci
vuol mostrare come si concilino Michelangelo e Lotto e Tiziano nella mirabile Deposizione di Cristo per la chiesa
dell’Annunciata a Cortemaggiore, un’opera dolente e commovente con la rupe dominante, grezza e informe come sarà
lo spazio vuoto delle latomie di Siracusa nel Seppellimento di santa Lucia del Caravaggio, che certo lungamente dovette
meditare (e poco si ricorda) su quell’incunabolo. Un’opera intensa, drammatica, shakespeariana. Poi Pordenone si
avvia a Piacenza per dipingere gli affreschi della chiesa di Santa Maria di Campagna, compresa la cupola che, nella
ripartizione a spicchi, mostra di non voler concorrere con il cielo aperto delle cupole del Correggio a Parma. Ma guarda
pure al Correggio, nei pennacchi e nei singoli scomparti della cupola. Mentre, nei dipinti di parete – La nascita della
Vergine, le Storie dell’infanzia di Cristo e La disputa e lo Sposalizio mistico di santa Caterina – racconta in forme ampie e
con una sintassi narrativa che meglio di altri potrà intendere Lorenzo Lotto.
Ma a Piacenza il Pordenone non è più veneto né romano. È padano, ed è un meraviglioso narratore attento ai
particolari, come la capanna della Nascita della Vergine, malandata come altre mai. Pordenone è solo ed è fuori gioco
rispetto a Venezia ma, riparato a Piacenza, può fare ciò che vuole per liberare la fantasia festosa con una pittura
potente e generosa. Tuttavia gli basterà tornare a Cividale per riprendere il combattimento, e dipingere un’opera
programmaticamente romana e antitizianesca nel Noli me tangere. Un vero manierista, più amico di Pontormo che dei
veneti.
Pordenone, Noli me tangere, Museo del duomo, Cividale del Friuli
Tiziano, Punizione di Marsia, part., Galleria arcivescovile, Kroměříž
TIZIANO
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FORME CHE TREMANO COME IN UNA FIAMMA
Potrà stupire qualcuno, dopo tanti esempi di pittura manierista toscana, padana, romana, e dopo Tintoretto e
Veronese, incontrare di nuovo Tiziano. Ma Tiziano è, insieme a Michelangelo, l’artista più grande e multiforme del
Cinquecento. Nella sua lunghissima vita, egli apre il secolo e lo chiude. Lo apre con Giorgione, condividendone lo
spirito nel Concerto campestre del Louvre; e lo chiude, oltre ogni aspettativa – e nello stesso spirito del Michelangelo
della Pietà Rondanini e del “non finito” in scultura – con alcuni capolavori che, a partire dalla metà degli anni sessanta,
sembrano attraversare il fuoco e uscirne con una forma combusta, incontenibile, oltre ogni misura e ogni disegno.
Questa della rinuncia al disegno, già a partire da Giorgione, era stata una prerogativa dai grandi maestri veneziani;
ma, intorno al 1540, le suggestioni del grande laboratorio di Giulio Romano a Palazzo Te e l’arrivo di Vasari a Venezia
avevano determinato in Tiziano una reazione contraddittoria e autopunitiva, stringendolo nelle forme del manierismo
tosco-romano, come un Battista Franco qualsiasi. Ma il cuore e l’anima di Tiziano non erano lì. Ed eccolo darne
avvisaglie programmatiche già nel 1564, con l’Annunciazione per la chiesa di San Salvador a Venezia, duplicata in una
diversa ma coerente versione per la chiesa di San Domenico a Napoli. Liquefacendo le forme, e in particolare gli
elementi architettonici – come farà insieme a Palma il Giovane nell’estrema Pietà conservata all’Accademia di Venezia
–, Tiziano nella firma usa una formula singolare, Titianus fecit fecit. Cosa intende con questa ripetizione? È evidente:
l’opera è finita anche se non lo sembra. Non è incompiuta, non è in attesa di una forma definitiva. È come la vedete:
informale. Il processo avanza fino alla decomposizione programmatica della seconda Incoronazione di spine di Monaco
(del 1572-76, dopo quella del Louvre di trent’anni prima).
Stessa composizione, stessi elementi, ma forme che tremano come in una fiamma. Il colore è steso con le dita.
Indefinitezza dei contorni e, programmaticamente, la sostituzione del busto antico di Tiberio con una fiaccola. Il fuoco
invece del marmo. Questo è il Tiziano della piena maturità. Così lo vediamo in un capolavoro ritrovato (e ora restaurato)
come il Martirio di San Lorenzo della chiesa dei Gesuiti a Venezia: lampeggianti bagliori di fuoco e totale assenza di
disegno nell’elaborazione di un notturno misterioso e denso di insidie, come non potevano esserlo gli esempi di Luca
Cambiaso, Savoldo e Antonio Campi. Tiziano entra in una notte che non è teatro bensì psiche, coscienza, tormento. È un
lungo percorso che passerà attraverso Caravaggio, Rembrandt, Goya verso l’abisso. E il suo è, propriamente, l’inizio di
un viaggio al termine della notte.
In questa esperienza drammatica, l’opera capitale è compiuta da un pittore ultraottantenne, ed è la grande tela su
cui Tiziano scarica i suoi impulsi vitali in una rappresentazione che è il paradigma più alto della concezione
dionisiaca. È la Punizione di Marsia, concepito tra 1570 e il 1576 e oggi alla Galleria arcivescovile di Kroměříž. Ed è
singolare che il capolavoro della visione dionisiaca rappresenti un Apollo applicato alla vendetta nello scuoiare Marsia
come un macellaio il vitello, nell’indifferenza di Orfeo e nella pensosa concentrazione di Mida. Coscienza e Storia
s’intrecciano in quest’invenzione, se è vero che taluno ha visto in questa interpretazione del soggetto mitologico una
tragica suggestione del martirio di Marcantonio Bragadin, catturato dai turchi che lo torturarono come Apollo fece con
Marsia. La Punizione è la pittura più libera concepita fino a quel momento: un continuo fremito in ogni parte, con un
horror vacui che agita ogni dettaglio di materia e di luce, senza regole, in un corpo a corpo con la tela come sarebbe stato
soltanto di Pollock. È una irrazionale, incontenibile, contrapposizione al mondo toscano, alla sua compostezza,
all’interpretazione dogmatica della grande lezione di Michelangelo. Tiziano inizia negli anni della sua vecchiaia un
percorso che non è ancora concluso; un’interminabile stagione all’inferno.
Tiziano, Martirio di san Lorenzo, part., chiesa dei Gesuiti, Venezia
Tiziano, Punizione di Marsia, part., Galleria arcivescovile, Kroměříž
Tiziano, Punizione di Marsia, part., Galleria arcivescovile, Kroměříž
Tiziano, Martirio di san Lorenzo, chiesa dei Gesuiti, Venezia
Tiziano, Incoronazione di spine, Alte Pinakothek, Monaco
Jacopo Sansovino, Madonna della Loggetta, part., campanile di San Marco, Venezia
JACOPO SANSOVINO
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MICHELANGELO A VENEZIA
Il primato dell’arte toscana è così forte ed evidente che, mentre Venezia è attraversata per tutto il Cinquecento da
incursori toscani (Pietro Aretino, Francesco Salviati, Giorgio Vasari, Jacopo Tatti detto Sansovino), nessuno di loro si
naturalizza veneziano. I due mondi restano impenetrabili, non dialogano, non si confrontano. E può, semmai, accadere
che un veneto si faccia toscano nella lingua, come accade con Pietro Bembo; o nella pittura, come accade con Battista
Franco. Ma è veramente eloquente il caso del Sansovino, grande artista tetragono che arriva a Venezia nel 1527, a
quarant’anni, e vi rimane fino alla morte, nel 1570, nel ruolo importantissimo di architetto della Serenissima, eppure
non manca mai di ricordare le proprie origini: “Jacobus Sansovinus florentinus”.
Nel suo precedente periodo romano, Jacopo Tatti aveva avuto un rapporto molto stretto prima con Andrea Contucci, dal
quale aveva ereditato il toponimico “Sansovino” (da Monte San Salvino, paese natale di Contucci in provincia di Arezzo),
poi con Michelangelo al tempo del concorso per la facciata della basilica di San Lorenzo a Firenze. Nel successivo
decennio, fino al 1527, segue gli esempi di Bramante e Michelangelo: nella Madonna del parto nella basilica di
Sant’Agostino, nei monumenti al cardinale Giovanni Michiel e al vescovo Antonio Urso nella chiesa di San Marcello al
Corso, come in quello al cardinale Quignone nella basilica di Santa Croce in Gerusalemme e negli interventi
architettonici sempre in San Marcello al Corso e in Palazzo Lante. Poi, con il sacco di Roma, è costretto a partire, e a
Venezia, attraverso il cardinale Grimani – il cui palazzo è l’esempio più esplicito di architettura romana del
Rinascimento – conosce il doge Andrea Gritti.
Già nel 1529 il Sansovino diventa proto della Repubblica, lavorando alle Procuratie vecchie, alla Libreria di San
Marco, alla chiesa di San Gimignano (poi distrutta da Napoleone), alla Zecca, alla chiesa di San Francesco della
Vigna, alla tribuna del duomo, alla Scala dei Giganti del Palazzo Ducale e alla loggia del campanile di San Marco.
Prototipo delle ville di Palladio è la monumentale e romana Villa Garzoni che realizza a Pontecasale.
Nelle forme dell’architettura e nelle sculture, a Venezia come a Padova, Sansovino continua a lavorare come fosse a
Firenze o a Roma. Per lui c’è un solo Rinascimento e, benché amicissimo di Tiziano, il suo riferimento resta sempre
Michelangelo. Nella Madonna col Bambino della Galleria dell’Arsenale, del 1534, come nella Madonna della Loggetta,
del 1540, il modello è ancora la Madonna di Bruges di Michelangelo, e il nesso con la cornice architettonica risale agli
esempi della tomba di Giulio II e delle tombe medicee. Nella Madonna della Loggetta, Sansovino concilia in forme
monumentali di aulica solennità la poetica degli affetti esplicita nei moti degli sguardi della Madonna e del Bambino
con il san Giovannino supplice. La Madonna è una regina che si concede, che si sporge per esprimere un’umanità
piena, affermando la sua regalità.
Jacopo Sansovino, Madonna col Bambino, Galleria dell’Arsenale, Venezia
Jacopo Sansovino, Madonna della Loggetta, campanile di San Marco, Venezia
Michelangelo, Madonna col bambino, chiesa di Notre-Dame, Bruges
Iacopo Bassano, Fuga in Egitto, part., Norton Simon Museum, Pasadena
IACOPO BASSANO
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NATURALEZZA PRIMA DI NATURALISMO
“E se ho chiamato una volta Iacopo Bassano ‘Il re contadino della Pittura veneta cinquecentesca’ oggi vorrei
soggiungere: contadino per celia. Egli fu più tosto, in quei suoi anni estremi, un artigiano di genio, folle per la bellezza
dell’esecuzione: un puro artista. Fortunatamente che quando l’esecuzione si libera a questo punto sull’opera, vibrando
per sé stessa, non manca di produrre nuovi sogni, nuove aperture espressive; non tanto nei critici, per buona sorte,
quanto negli artisti: e basti rammentare che cosa intravede il Greco in codesti rustici scintillamenti, e che cosa il
Watteau”. Con queste parole Roberto Longhi riscattava Iacopo Bassano dalla condizione usata di pittore di genere.
Soltanto una capacità d’interpretazione che non si fermasse ai contenuti, ma desse conto di una interpretazione
formale fino a quel momento evitata, poteva cogliere una verità tanto sottile ed elevare Bassano al più alto cielo della
pittura veneziana, a fianco dei maestri più grandi, e più su di Tintoretto e dello stesso Veronese. E la conclusione non
poteva essere più efficace: “posto per figura, che Giorgione sia il Manet della pittura veneziana del Cinquecento e
Tiziano il Renoir, il Bassano ne sarà certamente il Monet”.
Naturalezza prima di naturalismo, nonostante i soggetti, è la cifra quasi “velasqueziana” di Iacopo Bassano. Ma se
questo è il giusto riscontro della sua fase più matura, tra il 1560 e il 1580, l’impresa di Iacopo, perpetuata poi da una
vivace bottega di figli e di allievi attiva per molti decenni, è folgorante e piena di sempre nuove invenzioni nel confronto
fra la sensibilità veneziana e la maniera toscana, a partire dalla fine degli anni trenta del Cinquecento.
Sorprendente e innovativo, di anno in anno, Iacopo si mostra pittore colto e originale fin dagli esordi, nella bottega di
Bonifazio de’ Pitati, il cui influsso è ancora evidente nella giovanile Fuga in Egitto del Museo civico di Bassano,
commissionata al pittore, poco più che ventenne, nel 1532 e pagata nel 1537. Ma è sul finire del decennio che, con
maggiore vitalità del Pordenone e altrettanto fanatismo sperimentale nel riferirsi a modelli toscani, in coincidenza
anche con l’arrivo di Vasari a Venezia, Iacopo inizia un percorso scintillante e sorprendente. Negli anni tra il 1540 e il
1555 si mostra pittore sofisticato, aristocratico, per nulla realista e popolaresco come sarebbe stato a lungo considerato
in virtù dei soggetti contadini. Lo vediamo nel Martirio di santa Caterina del Museo civico di Bassano, nella Decollazione
del Battista dello Statens Museum for Kunst di Copenaghen, nel Riposo durante la fuga in Egitto della Pinacoteca
Ambrosiana, nell’Ultima cena della Galleria Borghese, nel Lazzaro e il ricco epulone del Museum of Art di Cleveland.
Sono capolavori di sempre nuova e sempre diversa invenzione, e, in quegli stessi anni – nel pieno della tensione
manieristica, che ha il suo più sperimentale campione nel Tintoretto del Miracolo dello schiavo –, non temono confronti.
Iacopo Bassano, Fuga in Egitto, part., Norton Simon Museum, Pasadena
Lo stesso tema dell’Ultima cena, caro al Tintoretto, è affrontato da Bassano con un’energia formale e un intarsio
cromatico senza precedenti. E addirittura onirica, poetica e visionaria, è la Fuga in Egitto del Norton Simon Museum di
Pasadena. Un angelo meraviglioso guida la Sacra famiglia verso paradisi incontaminati: non è più un viaggio di giovani
pastori che, insieme a Giuseppe, accompagnano la Vergine e il Bambino sull’asino per umanissima solidarietà, ma un
sogno, una visione. Anche i colori dei dipinti di questi anni sono irreali, mentali, lontani da ogni possibile tentazione
naturalistica. Non sarà così per molto, se nella Pala di Enego, come nei Santi Pietro e Paolo della Galleria Estense di
Modena, i riferimenti saranno non più al manierismo toscano bensì al Parmigianino, in una continua reinterpretazione
dei grandi esempi, sempre ripensati e rifondati, anche nel dialogo e nel confronto sulle fonti comuni con Tintoretto,
Schiavone e Veronese. Poi inizierà una rielaborazione delle Pastorali annunciata dall’Adorazione dei pastori delle
Gallerie dell’Accademia di Venezia e dal Riposo durante la fuga in Egitto della Pinacoteca Ambrosiana. Gli anni
settanta vedranno il Battesimo di santa Lucilla, scintillante, luminoso, materico, e la Predica di san Paolo, racconto di vita
contadina a Marostica. Sarà facile a Bassano, su questi esempi prevalenti, fondere episodi di vita contadina e storie
bibliche. Rimarrà attivo fino ai più tardi anni e, anche preso dalla cecità, saprà consegnarci, in concorrenza con
Tiziano, capolavori drammatici, notti illuminate da lampi, come nella Susanna e i vecchioni di Nîmes. Bassano ci fa
vedere quello che non vede.
Iacopo Bassano, Ultima cena, part., Galleria Borghese, Roma
Iacopo Bassano, Fuga in Egitto, Norton Simon Museum, Pasadena
Iacopo Bassano, Ultima cena, Galleria Borghese, Roma
Tintoretto, Susanna e i vecchioni, part., Kunsthistorisches Museum, Vienna
TINTORETTO
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IL CONFLITTO MORTALE
Gli anni della formazione di Tintoretto hanno meritato un fortunato libro di Rodolfo Pallucchini, lo studioso che più di
ogni altro ha, con convinzione, rimeditato e rivalutato l’artista che qualche anno prima era uscito ammaccato dai colpi
dell’impertinente – e consideratissimo per il suo talento fulminante – Roberto Longhi. Il quale, proprio a margine di una
delle tante benemerite iniziative del Pallucchini (la mostra su Cinque secoli di pittura veneta), aveva elaborato quello
scintillante e illuminante viatico che ci ha accompagnato nello studio e nella riconsiderazione di tanti artisti. Con
civetteria, Longhi lo definisce “tenue”; ma, certo, “tenue” non fu nel severo giudizio sul Tintoretto.
Non gli era simpatico, il Tintoretto, e non gli concede nulla, bastonandolo con metodo e insistenza anche quando
sembra concedergli l’onore delle armi: “È più probabile che, specialmente da noi, si ammirasse nel Tintoretto più la
bravura che la fantasia; che è sempre un buon pretesto per far passare l’accademia sotto specie di furia. Mi rammento
che, dopo l’altra guerra, quando, nel distendere i teloni di San Rocco, si trovarono ripiegati sui bordi, non so che pezzi di
frutta e foglie, non si mancò di clamare alla ‘natura morta’ e a Cézanne. Si provò a fotografarli quei pezzi e le frutta
andarono a male”.
Difficile risalire alle ragioni di questo astio e alla oggettiva cecità di Longhi, che scrive nel 1946 e non vuole mostrarsi
prevenuto: “Non perciò vorrò io negare al Tintoretto una natura geniale, colma in principio di idee bellissime per favole
drammatiche da svolgersi entro la scenografia di luci e ombre rapidamente viranti. Egli si serviva all’uopo di un teatro
di manichini su cui provare quei suoi canovacci luministici. Niente di male in questo. Il male stava nella struttura dei
manichini e nel previsto meccanismo dell’azione che ne sprizzavano”.
Pallucchini non lascerà passare molto tempo per contraddirlo. E dallo spunto longhiano deriverà il libro La giovinezza
del Tintoretto, elaborato tra il 1943 e il 1949 e pubblicato nel 1950. Longhi non tornerà più su Tintoretto e smetterà di
infierire mostrando, non senza intenzione, di interessarsi meglio a Iacopo Bassano. Ma nella sua stroncatura non
mancherà di entrare in contraddizione proprio sul punto cruciale dei rapporti fra maniera toscana e il tentativo (riuscito)
di Tintoretto di uscire vivo da un conflitto mortale. Il nodo, colto dal Longhi, è quello della presa di coscienza della
lezione di Michelangelo con l’arrivo e la permanenza a Venezia non di un sanguigno e accondiscendente letterato come
Pietro Aretino, ma di un altro aretino, più severo e dogmatico, Giorgio Vasari: “Escogitare un meccanismo esecutivo che
accordasse in una dialettica apparente i due poli della maniera e del colore era proprio un distruggere la sostanza
passionale di quelle due tendenze”.
Dipinti come La disputa di Gesù con i dottori del tempio, ritrovata dal miglior allievo bolognese del Longhi, Francesco
Arcangeli, e oggi al Museo del duomo di Milano, fanno intendere come Tintoretto risolva il rapporto con la cultura
manieristica. Nessuna soggezione nei confronti di Michelangelo e del Vasari e, semmai, l’obbiettivo di assorbire
Parmigianino in una pittura sciolta, umorale, come aveva già tentato Schiavone. Tintoretto è più mimetico, più etereo, e
soprattutto meno “ingrippato” di Tiziano. Nel quadro milanese fa il verso, in uno spazio contratto, alla Scuola di Atene di
Raffaello, con un quasi caricaturale effetto a fisarmonica; ma nessun dubbio che sia già lui, con i suoi effetti speciali, in
una esibizione da gran varietà, prefigurando uno studio televisivo nella sua pittura rapida e serpentina.
Tintoretto, La disputa di Gesù con i dottori del tempio, part., Museo del duomo, Milano
Raffaello, La Scuola di Atene, Stanza della Segnatura, Musei vaticani, Città del Vaticano
Dopo questa sorprendente invenzione, che segue di poco i riquadri sagomati nel soffitto della casa di Vettor Pisani
nella contrada di San Paterniano a Venezia, ispirati a Giulio Romano, il blocco del Vasari e l’ossequio alla cultura
romana saranno una storia superata e anzi rigenerata in un linguaggio nuovo. Tintoretto si sbarazza molto
rapidamente di questa eredità pesante. Roma, Giulio Romano e Vasari sono una febbre passeggera. E quel gusto non
è affar suo. Con Tintoretto, libero da questa soggezione, la pittura a Venezia riprenderà il suo corso, deviato e rallentato
proprio da Tiziano. Tintoretto non è solo: per arrivare a questo risultato si guarderà intorno, misurandosi con artisti
curiosi come Bonifazio de’ Pitati detto Veronese, Andrea Schiavone, Lambert Sustris.
Tintoretto, La disputa di Gesù con i dottori del tempio, Museo del duomo, Milano
Tintoretto non ha dubbi, e dopo il gran quadro milanese lo dimostra nei cassoni con soggetti biblici del
Kunsthistorisches Museum di Vienna, confermando l’adesione del gusto di Bonifazio a una pittura più corsiva, in
concorrenza con lo Schiavone. Sono gli anni di altre tavolette di piccole dimensioni, come l’Adorazione del vitello d’oro,
sempre a Vienna, e la Susanna e i vecchioni, ora alla Galleria Antonacci-Lapiccirella. È importante questo snodo
perché da qui Tintoretto uscirà autonomo e indipendente attraverso l’arcadia mitologica e biblica elaborata nel corso del
quinto decennio, con un occhio attento proprio a lirici irriducibili come Bonifazio, Schiavone e Sustris, i quali hanno
scelto come modello non Michelangelo, parametro ineludibile per Tiziano che non può misurarsi sotto quel livello, ma
Parmigianino. Tintoretto non vive questo complesso e veleggia libero, tra un concerto campestre e l’altro
(Castelvecchio, Neuilly-sur-Seine) verso una dimensione visionaria che, sul finire del decennio, lo rende affine a El
Greco: Cristo e l’adultera di Palazzo Barberini, Cristo e la Maddalena in casa di Simone, all’Escorial, Lavanda dei piedi, a
Wilton House. Con le altre tre versioni di quest’ultimo soggetto, a Newcastle upon Tyne, a Toronto e a Madrid, Tintoretto
si avvia a sciogliere tutti i nodi e a saldare tutti i debiti con gli artisti con cui si è confrontato, per arrivare al suo primo
grande, autonomo capolavoro: Il miracolo dello schiavo per la Scuola Grande di San Marco.
Come nei dipinti citati che lo precedono, l’impaginazione del Miracolo dello schiavo è grandiosa e teatrale, con
l’impianto scenografico di quinte e di colonne, archi e portali, e scene che si dilatano verso profondità rarefatte. Il
prediletto e sperimentato cannocchiale prospettico delle scene diventa una cortina ravvicinata per potenziare il fuoco
dell’attenzione sul primo piano, giocato sulla contrapposizione dei due corpi, quello dello schiavo a terra e quello di San
Marco in alto, in prospettiva. Il secondo fuoco è a destra, con gli spettatori scomposti tra lo stupore e la sorpresa, e le
bellissime schiene nervose in primo piano. Ormai Tintoretto è diventato “il più terribile cervello che abbia mai avuto la
pittura”. E qui si gioca la partita dei suoi difficili e mai più risarciti rapporti con Tiziano. Imperterrito, Tintoretto continua
con il genere spericolato, e così lo ritroviamo nel Sant’Agostino risana gli appestati della chiesa di San Michele a
Vicenza, ora al Museo civico di quella città: scorci, prospettive, anatomie, in una pittura livida e quasi incompiuta, con
un fondale che viene da un’illustrazione dei libri di architettura di Sebastiano Serlio, pubblicati nel 1551, ipotecando
una non vincolante datazione per l’opera. Ormai l’artista ha trovato la sua cifra, che potrà allungare o contrarre a suo
piacimento, avendo raggiunto, come nessuno prima, un equilibrio tra figura e spazio nella natura e nell’architettura, e
molto oltre il manierismo di Tiziano, che mostra un ben diverso rapporto con lo spazio, per esempio nella
fiammeggiante Annunciazione di San Domenico Maggiore a Napoli.
Tintoretto, Il miracolo dello schiavo, part., Gallerie dell’Accademia, Venezia
Tintoretto sperimenta ogni virtuosismo, alternando invenzioni più composte, come la Tentazione di Adamo ed Eva o
Caino e Abele, delle Gallerie dell’Accademia di Venezia, ad altre più virtuosistiche, come Venere, Vulcano e Marte,
dell’Alte Pinakothek di Monaco. Arriva così a composizioni piramidali come la Presentazione della Vergine al tempio,
nella chiesa della Madonna dell’Orto a Venezia, che calamiterà lo sguardo e l’entusiasmo della scrittrice Melania
Mazzucco in una pagina evocativa della biografia del pittore. Tintoretto sperimenta composizioni con più fantasia ed
energia intellettuale di qualunque altro manierista. Lo ritroveremo, nello stesso soggetto, con un diverso punto di vista,
nel dipinto della chiesa dei Crociferi, ora alle Gallerie dell’Accademia di Venezia. La sua visione è instabile, inquieta,
con esiti sempre originali, come le coppie degli evangelisti per Santa Maria del Giglio, dalle imprimiture scure. Dopo
gli inverosimili accrocchi di figure, come nella Sant’Orsola e le undicimila vergini per la chiesa di San Lazzaro ai
Mendicanti, o il Mosè salvato dalle acque di Francoforte, o i virtuosistici sottoinsù con le storie bibliche ora al Prado,
Tintoretto sosta, con uno sguardo appagato, sulla Susanna e i vecchioni, ora a Vienna, tra i suoi capolavori assoluti.
Anche qui, e con esiti inarrivabili, il rapporto tra figura e natura è bilanciatissimo, come mai in Tiziano. Tintoretto lo
ripropone, in modo più o meno convincente, nel notevole Narciso della Galleria Colonna a Roma, e si avvia alla maturità
con un altro fiabesco capolavoro, il San Giorgio e il drago alla National Gallery di Londra, con l’effetto emotivo della
principessa in primo piano e del paesaggio quasi turneriano nella luce divina.
Tintoretto, Il miracolo dello schiavo, Gallerie dell’Accademia, Venezia
Tintoretto, Il miracolo dello schiavo, Gallerie dell’Accademia, Venezia
In questo senso, l’estensione del paesaggio come estasi visiva si può apprezzare nei due singolari e veloci dipinti
della collezione Thyssen di Madrid, L’incontro di Tamar e Giuda e L’annuncio dell’angelo alla moglie di Manue. Il vasto
panorama arriva ai limiti della dissolvenza nella luce, e le figure stanno ai lati come per favorirne e introdurne la
visione. Qui, come in numerosi altri dipinti, Tintoretto perfeziona una residuale ma profondamente sentita poetica
dell’idillio. Però è il teatro a dominare la sua mente, e le mille e varie soluzioni scenografiche lo spingono, come nessun
pittore, neppure Caravaggio, verso un linguaggio cinematografico. In questa direzione, Tintoretto perfezionerà la sua
visione, anche sconvolgendo soggetti più tradizionali, come l’Ultima cena.
Tintoretto, Susanna e i vecchioni, part., Kunsthistorisches Museum, Vienna
Tintoretto, Susanna e i vecchioni, Kunsthistorisches Museum, Vienna
Dopo una prima prova per la chiesa di San Marcuola, nel 1547, ancora in piena febbre manieristica romana, in cui
sembra volersi misurare con Iacopo Bassano – altro ricercatore, più appartato ma non meno audace, per i continui
stimoli, in quegli anni febbrili e avventurosi –, e dopo la incommensurabile Ultima cena ora alla Galleria Borghese,
Tintoretto si arrampica, irriducibile, verso la più ardita composizione per la chiesa di San Trovaso. Il dipinto, che
fronteggiava un’altra Lavanda dei piedi (ora alla National Gallery di Londra), di taglio più domestico rispetto a quelle
ricordate, fu convenientemente definito “veramente rarissimo […] di nuova e curiosa invenzione”, ma la libertà, rispetto
al tradizionale soggetto, poteva apparire arbitrio. Così l’erudito veneziano Anton Maria Zanetti rilancia contro Tintoretto
di “aver poste in attitudini troppo violente le figure degli apostoli, senza necessità”. Lo stesso Zanetti, poi, giustificava il
pittore riconoscendone il genio di sovvertitore di regole: “Chi potea dar mai leggi, a quel genio, e come si può chiedere
regolarità intiera, dove arde un vivo fuoco che vuole unicamente libertà?” Ed è una giusta rivendicazione se, nell’arco di
pochi anni, “quel genio”, tornando sul luogo del delitto nella Scuola Grande di San Marco, concepisce due assoluti
capolavori: il Trafugamento del corpo di san Marco, ora alle Gallerie dell’Accademia, e il Ritrovamento del corpo di san
Marco, ora alla Pinacoteca di Brera.
Tintoretto, Trafugamento del corpo di san Marco, part., Gallerie dell’Accademia, Venezia
Tintoretto, Trafugamento del corpo di san Marco, part., Gallerie dell’Accademia, Venezia
Con questi due dipinti, Tintoretto arriva dove nessuno era arrivato prima, aprendo la strada a Caravaggio e,
contestualmente, superandolo. Nessuno aveva osato tanto. L’intuizione spaziale è formidabile, ed era stata a lungo
tentata e ricercata, a partire dagli spazi obliqui delle lavande dei piedi e passando attraverso le Nozze di Cana della
chiesa di Santa Maria della Salute. Ma era pur sempre teatro, grande scenografia. Qui, invece, Tintoretto entra in uno
spazio onirico, in una dimensione visionaria seppur prospetticamente rigorosa.
Nel Trafugamento, ad esempio, a fronte del gruppo principale che si avvia a fuggire con la bizzarra presenza di un
cammello, a rendere elettriche le architetture è l’intuizione di inventare un’architettura fantasmatica, evanescente,
nella luce spettrale di un temporale. E la pittura, plastica e densa nel primo piano, sul modello della scultura
sansovinesca, si fa monocroma, liquida. Sotto la tempesta di un cielo attraversato dai fulmini, piccole figure come
fantasmi fuggono per rifugiarsi sotto i portici. Nella Legenda Aurea leggiamo: “L’aere fu turbato. Venne una gran
tempesta […] lampeggiavano le sagitte del cielo. Ognuno pensava a scampare”. Inedita è la veduta di piazza San
Marco con le Procuratie e la chiesa di San Gimignano, poi distrutta. La composizione di Tintoretto definisce non solo uno
spazio fisico, ma uno spazio psichico, che ha la stessa arbitrarietà delle visioni di El Greco.
El Greco, Il miracolo di Cristo che guarisce il cieco, part., The Metropolitan Museum of Art, New York
El Greco, Il miracolo di Cristo che guarisce il cieco, The Metropolitan Museum of Art, New York
Nel Ritrovamento, invece, la scena è ambientata in un interno, nella lunga navata di una chiesa dove al posto degli
altari stanno sarcofagi. Qui il pittore tradisce il precetto dell’unità di azione e mostra il corpo del santo mentre viene
calato dalla tomba e nel momento successivo in cui è disteso in terra su un tappeto. Ma il racconto, anche nella forte
dinamica dell’azione, è sopraffatto dall’atmosfera, sia per le luci striscianti che, come in un dipinto di Füssli, sfiorano le
volte e le altre membrature architettoniche, sia per la luce che sale dalla lastra tombale aperta sul fondo. E contro la
luce si stampano le ombre dei profanatori. È una composizione mirabile: Tintoretto ha trasfigurato la pittura in un sogno
o in un incubo, trasferendo la realtà in un’altra dimensione. Difficile non riconoscerlo, e soprattutto non avvertirlo nella
percezione della perfezione estetica, che evoca incubi e allucinazioni.
Tintoretto, Trafugamento del corpo di san Marco, Gallerie dell’Accademia, Venezia
Tintoretto, Ritrovamento del corpo di san Marco, Pinacoteca di Brera, Milano
Tintoretto, Ritrovamento del corpo di san Marco, Pinacoteca di Brera, Milano
Le due silhouette sul fondo, mirabile invenzione, si agitano come farfalle davanti a una lampada. Sono il
sorprendente coronamento del punto di fuga nella scenografica prospettiva.
Tintoretto è nella sua stagione più felice, con grande libertà di disegno espressa attraverso il colore, come vediamo
nel San Marco salva un saraceno durante un naufragio. In queste composizioni, Tintoretto è un narratore velocissimo,
indifferente ai dettagli, travolgente. Il suo estro si libera in invenzioni assolutamente originali, senza modelli o schemi
precostituiti, soprattutto quando i teleri hanno contenuti narrativi. Ma egli inventa anche in iconografie consolidate, e lo
fa con un ritmo concitato, drammatico, cinematografico. Così appare nella titanica impresa della Scuola Grande di San
Rocco, a partire dal 1564, tanto vasta e serrata da strappare l’ammirazione del Vasari, in diretta: “Mentre gli altri
attendevano a fare con ogni diligenza i loro disegni, il Tintoretto, tolte la misura della grandezza che aveva ad essere
l’opera, e tirata una gran tela, la dipinse, senza che altro se ne sapesse, con la solita sua prestezza, e la pose dove
aveva da stare. Onde radunatasi una mattina la compagnia, per vedere i vecchi disegni, e risolversi, trovarono il
Tintoretto avere finita l’opera del tutto, e postala al luogo suo. Perché adirandosi con esso lui, e dicendo che avevano
chiesto disegni e non datagli a far l’opera, rispose loro che quello era il suo modo di disegnare, che non sapeva fare
altrimenti, e che i disegni e i modelli dell’opera dovevano essere in quel modo per non ingannare nessuno; e finalmente
che, se non volevano pagare l’opera per le sue fatiche, la donava loro”. Ma ormai, per San Rocco, gli spazi sono saturi, e
Tintoretto affronta i temi allegorici con grande scioltezza, dando immagini alle sue fantasie. Ne escono comunque
capolavori originalissimi, come il Cristo davanti a Pilato o La salita al Calvario.
Tintoretto, La salita al Calvario, Scuola Grande di San Rocco, Venezia
La salita al Calvario ha un ritmo compiutamente cinematografico, senza un centro, in una formula inedita e nuova, una
vera e propria rivoluzione, un racconto: l’idea è semplice, ma di straordinaria efficacia, con il ritmo incalzante e la
potente soluzione narrativa. Dall’altra parte, il Cristo davanti a Pilato ha un’impostazione teatrale, statica, dominata
dalle vaste architetture rigorosamente palladiane davanti alle quali si staglia l’immagine del Cristo come un fantasma.
Nessun dubbio che entrambi i dipinti siano stati a lungamente meditati da El Greco nel suo soggiorno veneziano.
Tintoretto sperimenta infaticabilmente, anche se qualche volta dorme, come nel manierato Cristo risorto, san
Cassiano e santa Cecilia per la chiesa di San Cassiano, del 1565. E non si impegna troppo neppure nelle pitture del
soffitto per la saletta degli inquisitori in Palazzo Ducale. Per ritrovarlo, occorre aspettare il Cristo in casa di Marta e Maria
di Monaco o la più convenzionale Madonna con il bambino e i santi Sebastiano, Marco, Teodoro, venerata da tre
camerlenghi alle Gallerie dell’Accademia. L’artista alterna questi dipinti di parata – popolati di tipi umani fortemente
caratterizzati, e celebrati in un rituale mondano applicato al tema religioso che è parte della vita quotidiana e della
storia di Venezia – a formidabili macchine teatrali con poderosi effetti luminosi, come il visionario San Rocco in carcere
confortato da un angelo. La sua pittura è sempre e comunque veloce, compendiaria, spettrale.
Così si mostra, nel 1568, nei dipinti per la chiesa di San Cassiano, di originalissima composizione: la Crocifissione,
la Resurrezione e la Discesa di Cristo al Limbo, dove appare un angelo fosforescente, disegnato con il colore. Nell’Ultima
cena per la chiesa di San Polo ritroviamo l’impianto obliquo di San Trovaso, con il formidabile inserto di due personaggi
a sinistra e a destra, osservatori del tempo presente, che trasformano quell’episodio in una cronaca in diretta.
Inesorabilmente, Tintoretto accentua la componente visionaria: lo vediamo nei magnifici Filosofi della Libreria
Marciana, dove dialoga con tutti i maestri chiamati da Tiziano per la decorazione del soffitto. D’improvviso, forse
suggestionato dal potente romanismo del Veronese, di Battista Franco, di Salviati, dello Zelotti, dello Schiavone,
Tintoretto ritorna a Michelangelo nell’impianto dei grandiosi filosofi entro le nicchie. È il compimento naturale di quella
mirabile sala, ma è solo uno dei tanti momenti di un’attività febbrile che ha il suo inesauribile cantiere nella Scuola
Grande di San Rocco. Lì Tintoretto si sfoga con vaste composizioni.
Tintoretto, Cristo davanti a Pilato, Scuola Grande di San Rocco, Venezia
Tintoretto, Ultima cena, chiesa di San Polo, Venezia
Ecco allora, nel soffitto della sala superiore, Mosè fa scaturire l’acqua dalla roccia e La miracolosa caduta della manna,
dove ritroviamo il virtuosismo del disegno eseguito con il colore con una velocità e spregiudicatezza perfino insolenti
nel ripudio della “bella pittura”. Tintoretto procede velocissimo: lo vediamo nella Visione di Ezechiele, nella Scala di
Giacobbe, nella Pasqua degli Ebrei, nel San Rocco e nel San Sebastiano, tutte tele dipinte con gran velocità ed effetti
speciali, contando sulla distanza. Nella sala superiore e sulle pareti verticali, Tintoretto scenografo dipinge alcuni
capolavori come l’Adorazione dei pastori, con l’originalissima composizione su due piani, Il battesimo di Cristo,
L’orazione nell’orto e ancora un’Ultima cena.
Indimenticabile, nel Battesimo, il brano sul fondo, con la pittura fosforescente e serpentina come un filo elettrico
(singolare che questo virtuosismo nasconda l’incongruo episodio della Madonna dolorosa circondata dalle pie donne).
Qui Tintoretto supera se stesso con un tripudio di forme veloci, come nella Resurrezione di Cristo e nell’Orazione nell’orto,
mentre sempre più spericolata appare la composizione dell’Ultima cena. L’esecuzione è sempre più veloce anche nei
grandi formati, come nell’Ascensione, con i due piccoli apostoli al centro della composizione, dipinti di pura luce.
Fra alcuni più composti capolavori, anche in virtù della sede istituzionale, come Le tre Grazie e Mercurio, l’Arianna,
Venere e Bacco, La fucina di Vulcano e Minerva scaccia Marte dell’anticollegio in Palazzo Ducale, insieme alla Danae
del Musée des Beaux-Arts di Lione e alla Giuditta e Oloferne, di esecuzione molto veloce, si distinguono le
originalissime Annunciazione, Adorazione dei magi, Fuga in Egitto, La strage degli innocenti, vasti teleri per la sala
terrena della Scuola Grande di San Rocco. Sono questi i momenti più alti e più felici della pittura di Tintoretto.
Tintoretto, Il battesimo di Cristo, part., Scuola Grande di San Rocco, Venezia
Improvvisamente, le sue ricerche sulle più curiose composizioni, con scorci e prospettive allungate e bislacche, si
placano in misure calibrate che indicano la visione della piena maturità. Era dai tempi di Vittore Carpaccio che,
superati gli effetti speciali e il gigantismo adottati da Tintoretto per la necessità della ricerca dell’ammirazione, non si
vedevano così originali interpretazioni di soggetti tante volte affrontati dai pittori. Mai prima di allora si era vista una
soluzione così originale per l’apparizione dell’angelo alla Vergine – in un palazzo diroccato come dopo un terremoto,
con il pilastro in rovina sulla parete sventrata e, a sinistra, travi, porte, ma anche strumenti di lavoro abbandonati sui
muri pericolanti; e, a destra, gli ambienti dove la Madonna sta come una profuga nel grande salone diruto con il letto a
baldacchino e la sedia di paglia sfondata. L’angelo arriva con uno sciame di angioletti come uccelli che si riparano nello
spazio coperto, intrufolandosi nei pertugi, gli uni e gli altri convergendo sulla rotta dello Spirito Santo che li guida.
L’Adorazione dei magi è ambientata in un’altra stanza dello stesso grande edificio in rovina. Tintoretto si compiace di
aprire uno squarcio sul fondo per far muovere cavalieri-fantasma dipinti come rarefatte apparizioni, perfezionando altri
suoi analoghi motivi, tentati non sempre con esiti così felici.
Tintoretto, Annunciazione, part., Scuola Grande di San Rocco, Venezia
Grande e puro capolavoro in forma di idillio – in sintonia con le pressoché coeve meditazioni sulla natura di Annibale
Carracci a Bologna – è l’ariosa e ventosa Fuga in Egitto, fra paludi incantate e lontane cime innevate, dentro una florida
vegetazione. Qui Tintoretto raggiunge l’equilibrio della perfezione, con l’impronta di una struggente nostalgia:
composizione perfetta e bilanciata tra soggetto religioso e paesaggio puro, in un’emozionata poesia della natura.
È da un capolavoro come questo che discendono i due pannelli con la Santa Maria Maddalena leggente e la Santa
Maria egiziaca, che chiudono la sala terrena della Scuola Grande di San Rocco. Si tratta delle più libere interpretazioni
del paesaggio dopo la Tempesta di Giorgione, pur nella diversa concezione pittorica. Le due sante meditano, immerse
nella natura. Come nella Fuga in Egitto, le grandi piante sono cornice di una veduta di acque, casali, colline strisciate
da una luce crepuscolare. Tintoretto dipinge paesaggi come emozioni e stati d’animo di una lunga solitudine, perfetti
equivalenti della Verklärte Nacht di Arnold Schönberg. Felicemente, Charles de Tolnay ha scritto: “La natura è
trasfigurata dalla luce […] le figure delle sante mi sembrano soggiogate da quel magico cosmo. La natura consacrata
dalla luce pare colmare le anime delle due donne in meditazione. Sono contemplazioni notturne del creato, che
ricordano le notti spirituali di San Giovanni della Croce”.
Da queste visioni trasfigurate della natura discende il Paradiso nella versione del bozzetto e poi nell’opera compiuta
per la Sala del Maggior Consiglio di Palazzo Ducale. È il punto d’arrivo di Tintoretto a Venezia. Il riconoscimento del suo
primato dopo Tiziano, rispetto a Paolo Veronese e a Iacopo Bassano: un trionfo di energia pittorica placata e distesa in
pura luce nell’estasi mistica. La natura è alle spalle, ma lo stato d’animo del pittore non è mutato. Le creature,
nell’aggregarsi, si trasfigurano; e l’artista si congeda con un’opera corale, in un crescendo quasi musicale.
Di lì a poco, i suoi ultimi paesaggi solitari Tintoretto li riempirà di figure drammatiche per la Deposizione nel sepolcro,
come in un compianto di Cristo morto, con l’espediente di separare il gruppo della Vergine da quello del Cristo sul punto
di essere calato nel sepolcro. Tintoretto ne fa sostenere il corpo inerte come per suggerirne la prossima resurrezione:
un’elevazione nella speranza che la notte finisca. I suoi modelli per questa invenzione, più che Michelangelo e
Tiziano, sembrano essere i Compianti in terracotta della tradizione che va da Niccolò dell’Arca ad Antonio Begarelli, in
una teatrale esplicitazione del dolore. Così finisce, così si chiude la parabola umana e religiosa di Tintoretto.
Tintoretto, Annunciazione, Scuola Grande di San Rocco, Venezia
Tintoretto, Il battesimo di Cristo, Scuola Grande di San Rocco, Venezia
Veronese, Giustiniana Barbaro e la nutrice con cagnolino affacciate a un finto balcone, part., Villa Barbaro, Maser
VERONESE
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PITTURA FELICE
È singolare che i pittori veneti siano stati intesi, meglio che da chiunque altro, da un “emiliano nato ad Alba”, Roberto
Longhi, che li fa uscire da un acquario ben tenuto e autoreferenziale, denominato (come la fortunata rivista) “Arte
veneta”. Che vuol dire arte sigillata, protetta, come naturale conseguenza del mondo bizantino. Perfino Tiziano, così
estroverso e “internazionale”, veniva tenuto stretto nei miasmi della Laguna da una critica compiaciuta e tanto soffocata
quanto soffocante. Longhi porta aria nuova, e paragona il giovane Tiziano a Fidia e il Bassano a El Greco e Watteau,
mentre i veneti tentano di dimostrare che El Greco è veneziano. Per loro, l’eroe moderno è il drammatico, teatrale e
sgangherato Tintoretto. L’eroe di Longhi, il più bello e armonioso dei pittori veneziani, è Paolo Veronese; il più geniale e
inventivo, Iacopo Bassano. Longhi apprezza in Veronese il classicismo, la visione tersa, razionale, l’ordine del mondo.
In una parola, l’armonia – quella stessa che Benedetto Croce aveva indicato come la chiave della poetica di Ludovico
Ariosto.
A noi è evidente che Tintoretto e Veronese si contrappongono in radice, al di là della comune attenzione per il
manierismo tosco-romano e per le riflessioni ineludibili, e diversamente declinate, su Giulio Romano e Parmigianino,
come polarità dionisiaca l’uno e apollinea l’altro, autenticamente testimoniate. Ma Longhi non concedeva nemmeno
questo, e non avrebbe dato un centimetro degli affreschi di Veronese, a Villa Barbaro a Maser, per un chilometro della
pittura unta di Tintoretto sui teleri di San Rocco. Né gli importava che Andrea Palladio, il grande architetto, pignolo e
preciso nel ricordare nei suoi Quattro libri di architettura i nomi di tutti i pittori che avevano lavorato nei suoi edifici, fino ai
meno noti e talora modesti, avesse dimenticato proprio Paolo Veronese a Maser. Eppure il pittore aveva reso luminose
e ariose quelle pareti con paesaggi e architetture dipinte in prospettive illusionistiche, con divinità e belle donne e
statue dipinte. Ma il Palladio non era convinto e anzi, o per aver sentito la competizione con il più giovane per la sua
manifesta abilità, o per aver visto animarsi di volti e corpi quelle superfici bianche concepite per il silenzio e la
meditazione, si risolse a una non inosservata damnatio memoriae. Ma il suo silenzio non fu sufficiente a ostacolare o
allentare l’affermazione di Paolo Veronese, fino alla definitiva consacrazione del Longhi che, dopo la fase classica e
luminosa del Veronese della maturità, mostrò di apprezzare anche quella più tarda, umbratile, bagnata: “chi non
rammenta come nella Predica di sant’Antonio ai pesci della Galleria Borghese, il pittore scelga l’istante che un banco di
nuvole tramuta la distesa equorea dal solito azzurro a un insolito verde fondo? Il fenomeno sul quale il Tintoretto
avrebbe appoggiato ‘miracolisticamente’, drammaticamente, resta nel Veronese classicamente naturale, discreto: il
mondo insomma, trascolora ma non è men bello né men felice per questo”. Qui Longhi – d’accordo in qualità di giudice
con Tiziano, che premiò Veronese tra i pittori chiamati a decorare il soffitto della Libreria Marciana (da lui stesso
suggeriti per escludere Tintoretto) – gioca la carta della contrapposizione. Così: “per dirla col Ridolfi, Paolo secondò la
gioia, rese pomposa la bellezza, fece più festevole il riso. A ciò bastava la sua pittura felice e sia pure anacronistica
nella tragedia del secolo. Ma perché il Tintoretto assetta di sentire per tutto come un rombazzo drammatico dovremmo
per questo torcerci le mani, ammirando?” Ecco, quella di Veronese nelle diverse fasi, anche quella notturna, è pittura
felice, senza dramma e senza rabbia. Come un impressionista.
Veronese, Predica di sant’Antonio ai pesci, part., Galleria Borghese, Roma
Veronese, Giustiniana Barbaro e la nutrice con cagnolino affacciate a un finto balcone, Villa Barbaro, Maser
Veronese, Bimba alla porta, Villa Barbaro, Maser
Veronese, Predica di sant’Antonio ai pesci, Galleria Borghese, Roma
Alessandro Vittoria, Sant’Antonio Abate, san Sebastiano e san Rocco, chiesa di San Francesco della Vigna, Venezia
ALESSANDRO VITTORIA
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ORGOGLIO TRIDENTINO
Nella città di Tiziano, Lorenzo Lotto e Tintoretto, pittori che in diverso modo riuscirono a interpretare l’anima dell’uomo
e il suo segreto con straordinaria sensibilità e capacità di penetrazione, il più grande ritrattista non fu un pittore ma uno
scultore: Alessandro Vittoria.
Arrivato a Venezia da Trento nel 1543, Vittoria entra nella bottega di Jacopo Sansovino. Con il maestro lavora alle
sculture della Libreria Marciana e, nel portone principale, impagina due monumentali cariatidi. L’esperienza apre alla
collaborazione, in perfetto equilibrio tra architettura, pittura e scultura, nella Villa Barbaro a Maser, dove il Vittoria si
trova insieme a Palladio e Veronese. Siamo nel 1560. Nel 1561-62, l’artista trentino mostra il suo ossequio per
Michelangelo nelle sculture in marmo di san Rocco e san Sebastiano in San Francesco della Vigna a Venezia, e ancora
nel San Girolamo per la basilica dei Frari, mentre a San Giorgio dispone i quattro evangelisti sopra la parete d’ingresso.
Manierista consapevole, il Vittoria trae certamente ispirazione dal Sansovino della Villa di Pontecasale, osservando
con attenzione la Madonna con il Bambino, nelle cui forme plastiche si avverte l’eco dei disegni di Parmigianino. E ne è
evidente memoria anche negli stucchi giovanili per il Palazzo Thiene del Palladio a Vicenza.
Alessandro Vittoria, Sant’Antonio Abate, san Sebastiano e san Rocco, chiesa di San Francesco della Vigna, Venezia
Questi straordinari esercizi formali, culminanti nell’Annunciazione per la Cappella della famiglia Fugger a Swabia
(ora all’Art Institute di Chicago), sono superati in una sintesi nuova e profondamente vera nella mirabile serie di ritratti
nei monumenti funerari del doge Francesco Venier a San Salvatore, di Priamo da Lezze ai Gesuiti, di Gaspare
Contarini alla Madonna dell’Orto, di Marcantonio Grimani a San Sebastiano. In questi, entro l’architettura monumentale
o nei ritratti isolati – come quelli di Nicolò da Ponte, di Tommaso Rangone, di Marino e Ottaviano Grimani – in terracotta
o marmo, l’artista esprime tutta la forza del potere in un evidente richiamo alla statuaria romana, con i busti rielaborati
in ampi e voluttuosi panneggi sui quali stanno teste parlanti, cariche di vita e di esperienza.
Il Vittoria osserva i suoi personaggi con uno sguardo implacabile, curioso dell’uomo e del suo travaglio, della sua
concentrazione, come nel potentissimo busto di Benedetto Manzini, dagli occhi vibranti e infuocati. Le rughe sulla fronte
o le vene sulle tempie non contribuiscono soltanto all’espressività dei volti ma sembrano renderli vivi e palpitanti fino a
sentirne il respiro in una sfida con la realtà vera, duplicando anima e carne. Nel Vittoria ci sono la forza e l’espressione
dell’arte nordica, la riflessione sulla grande e classica ritrattistica di Dürer e di Holbein.
Alessandro Vittoria, Madonna col Bambino, Museo civico Palazzo Chiericati, Vicenza
Pur intensamente attivo a Venezia, a marcare la differenza con Sansovino, accade al Vittoria di firmare “Alexan.
Victoria Tridentinus”. Un diverso orgoglio per chi, nella materia, anticipando la verità di Bernini, riuscì a contenere tutta
l’energia della vita.
Alessandro Vittoria, Busto di Benedetto Manzini, Ca’ d’Oro, Venezia
CAPITOLO IV
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LA MANIERA DI MICHELANGELO
FUORI ROMA

Daniele da Volterra, Deposizione, part., Trinità dei Monti, Roma


DANIELE DA VOLTERRA
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MICHELANGIOLISMO NEVROTICO
A un artista che ha dedicato la vita a Michelangelo e a intenderne la spiritualità come mistico dialogo con Dio
attraverso le forme, l’ironia del destino ha attribuito il prosastico soprannome di “Brachettone”. È quanto è toccato a un
pittore difficile e raffinato come Daniele da Volterra, al quale Paolo IV, non sopportando il tripudio di corpi ignudi del
Giudizio universale, chiese di rivestirli. Così Daniele da Volterra dipinse le brachette da cui gli viene l’irriguardoso
soprannome.
In realtà, Daniele, allievo del Sodoma e del Peruzzi, era un pittore sofisticato e anche tormentato da pensieri che si
traducono in forme complesse. Con il Peruzzi lavora a Palazzo Massimo alle Colonne – assistito da Marco Pino – e a
Palazzo Farnese, all’ombra di Antonio da Sangallo e Michelangelo. Ma la sua opera più nota è l’affresco con la
Deposizione nella Cappella Orsini a Trinità dei Monti. Qui Daniele rielabora l’abissale prototipo di Rosso Fiorentino e
crea una composizione dinamicissima, costruita sullo scheletro delle scale sulle quali si agitano gli uomini cui è
affidato il compito materiale di togliere Cristo dalla croce. Costoro allungano le braccia, sostengono il corpo e, mentre si
muovono sembrano gridare, presi da un’urgenza accentuata dal clima di tempesta, un vento che muove i panni.
Salgono e scendono le scale per accompagnare il Cristo. A terra, un altro gruppo di dolenti soccorre la madre,
disperata, non ai piedi della croce bensì distesa, sconvolta e senza forza, anch’essa morta con il Cristo.
Daniele da Volterra, Deposizione, part., Trinità dei Monti, Roma
La potenza drammatica di questa Deposizione – in tutto michelangiolesca, al pari delle altre prove note di Daniele,
come la Madonna col Bambino, san Giovannino e santa Barbara o il Profeta Elia della collezione d’Elci Pannocchieschi –
è senza precedenti. Trasforma il codice manieristico, che si muove nel solco del grande modello, in un’invenzione
originale con la quale dovranno fare i conti sia Tintoretto sia Caravaggio, pur nei diversi esiti. Il michelangiolismo di
Daniele da Volterra è nevrotico, inquieto e inquietante. La sua Deposizione dalla croce è una sacra rappresentazione
con tutti i caratteri del dramma rappresentato. È teatro. Come mai prima era stato.
Daniele da Volterra, Deposizione, Trinità dei Monti, Roma
Marco Pino, San Michele Arcangelo, part., chiesa di Sant’Angelo a Nilo, Napoli
MARCO PINO
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“MANIERISMO ESTREMO, FIAMMEGGIANTE”
Marco Pino è certamente il manierista toscano che ha avuto maggiore influenza a Napoli, dove lavora per circa
trent’anni, a partire dal 1557. La sua formazione è a Siena nella bottega di Domenico Beccafumi, dov’è documentato già
nel 1537. Con il maestro collabora anche per opere importanti come la Discesa di Cristo al Limbo nella chiesa di San
Francesco, gli affreschi dell’abside del duomo e l’Incoronazione della Vergine per la chiesa di Ognissanti. È difficile
riconoscerlo in opere autonome, che si sono volute identificare nei due tondi con la Madonna e i santi Galgano e Paolo
della Pinacoteca nazionale di Siena, nella Madonna col Bambino e san Giovannino di Altenburg, nella Sacra famiglia
con san Giovannino del Monte dei Paschi e nella Sacra famiglia con san Francesco del Museo di Montalcino.
Troviamo Marco Pino a Roma tra il 1542 e il 1544. Nel 1545 dipinge le Visitazione di santa Elisabetta nella
controfacciata di Santo Spirito in Sassia; l’anno successivo è nella Sala Paolina di Castel Sant’Angelo con Perin del
Vaga, che era rientrato da Genova nel 1538, sotto la protezione della famiglia Farnese e di papa Paolo III. Nei
pagamenti a Perin si parla di un “Marcho senese pittore”. Dopo quest’impresa, troviamo Marco Pino con Daniele da
Volterra negli affreschi della Cappella Della Rovere in Trinità dei Monti. Con lui è anche l’esordiente Pellegrino Tibaldi.
Ancora con Daniele da Volterra, Marco lavora al fregio con le Storie di Fabio Massimo a Palazzo Massimo alle Colonne e
al fregio con le Storie bacchiche in Palazzo Farnese.
Nel 1552 è a Napoli, dove sposa Laura de Acillo; nel 1557 dipinge nella cripta dell’abbazia di Montecassino. Da lì in
avanti inizia la sua attività di pittore di pale d’altare, con cui raggiunge un primato incontrastato. Nel 1564 dipinge il
Battesimo di Cristo per la chiesa di San Domenico. Subito dopo, la Decollazione del Battista ora al Museo nazionale di
Capodimonte; nel 1556 è attivo nella chiesa del Gesù Vecchio con altre e varie pale d’altare: la Trasfigurazione, la
Circoncisione, l’Adorazione dei pastori e l’Adorazione dei Magi. Nel 1568 ritorna a Roma e lavora alla Resurrezione
nell’Oratorio del Gonfalone. Viene intanto chiamato ad Aversa per dipingere la tavola dell’altare maggiore della chiesa
dell’Annunziata. Nel 1571 dipinge l’Assunzione della Vergine e l’Adorazione dei Magi per la chiesa dei Santi Severino e
Sossio a Napoli, dove manifesta l’influenza di Raffaello in chiave manieristica. Il suo gusto si perfeziona
nell’Annunciazione di San Giovanni dei Fiorentini e nel San Michele Arcangelo in Sant’Angelo a Nilo, con quella che
Andrea Zezza definisce “una della più belle espressioni della poetica artificiosa e antinaturalistica di Marco Pino,
manifesto del suo manierismo estremo, fiammeggiante”.
Mentre la sua bottega si allarga e diminuiscono le opere autografe, sono ancora memorabili il San Michele Arcangelo
della chiesa di Sant’Angelo a Nilo e le due Crocifissioni per la chiesa di Santa Maria del Popolo agli Incurabili, oltre alla
Trasfigurazione per la chiesa del Corpus Domini di Gragnano, datata 1578. La poetica di Marco Pino è ben
rappresentata dal San Michele Arcangelo che vince il demonio, schiacciandolo a terra mentre la spada e l’ala si alzano
verso il cielo, tra nuvole, angeli e un Padre Eterno fluttuante. Ai lati dell’Angelo, grotte e rovine antiche, come a indicare
il percorso della storia, dalle caverne alla civiltà, in un tempo governato da Dio. San Michele interviene per allontanare
il male dal mondo: Marco non dipinge una storia ma un concetto. Dunque la rappresentazione è un pretesto, la pittura
uno strumento per suggestionare, persuadere, convincere.
Marco Pino, San Michele Arcangelo, chiesa di Sant’Angelo a Nilo, Napoli
Marco Pino, Decollazione del Battista, Museo di Capodimonte, Napoli
Pellegrino Tibaldi, Ulisse e la maga Circe, part., Palazzo Poggi, Bologna
PELLEGRINO TIBALDI
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MICHELANGIOLISMO ONIRICO
Architetto e pittore, Pellegrino Tibaldi nasce a Puria di Valsolda, ma inizia la sua attività di pittore a Bologna, alla
scuola del Bagnacavallo e sotto la forte suggestione di Parmigianino. La sua formazione si compie a Roma, dove, a
fianco di Perin del Vaga, Daniele da Volterra e Marco Pino, lavora negli appartamenti di Paolo III a Castel Sant’Angelo e
nella Cappella Della Rovere a Trinità dei Monti. Prima di applicarsi all’architettura in diversi luoghi d’Italia, da Ancona
a Pavia, Milano, Novara, ponendosi nel solco di Michelangelo come si vede nel collegio Borromeo a Pavia, nella chiesa
di San Fedele a Milano, e fino al chiostro dell’Escorial, Tibaldi matura una ricerca pittorica assolutamente originale, di
cui dà prova a Bologna in Palazzo Poggi. Per la prima volta, il michelangiolismo non si traduce in una espressione di
potenza muscolare in concorrenza con le arti plastiche, e piuttosto si trasferisce in una dimensione onirica, dove il
racconto, in particolare quello mitologico dell’Odissea, si fa sogno. Con gli affreschi di Palazzo Poggi, Tibaldi apre e
chiude il suo confronto con Michelangelo, molto diverso da come lo intendono Daniele da Volterra e Marco Pino.
In Palazzo Poggi, per desiderio del committente, Tibaldi si misura con Niccolò dell’Abate, pittore che esibisce temi
della vita di corte avendo negli occhi piuttosto Parmigianino che Michelangelo. Niccolò dell’Abate mette in scena feste,
banchetti, concerti, illustrando la vita contemporanea e non il mito. Tibaldi invece interpreta la cultura di Giovanni
Poggi, e la celebra in chiave allegorica con le Storie di Ulisse. La forza di Michelangelo è applicata a soggetti non più
religiosi bensì mitologici, e si orienta in una dimensione visionaria del tutto aliena dal formalismo toscano nelle
personalità più abili di Francesco Salviati e Giorgio Vasari. Tibaldi sprigiona un’energia e una fantasia espresse in
forme michelangiolesche, con i risultati più alti dell’intero manierismo. Nell’episodio di Ulisse e Circe, risolto con
un’eleganza che non teme il confronto con Parmigianino, la figura sinuosa della donna richiama le Allegorie delle tombe
medicee, ma non c’è imitazione, bensì ricreazione.
Pellegrino disegna e dipinge in stato di grazia, incastona le sue storie in cornici di stucco bianco dorato, con una
deformazione che sembra la conseguenza di un’alterazione psichica, come sotto l’effetto di una droga. Nessun
manierista, se non forse il Pontormo della Deposizione di Santa Felicita, ha mostrato una concezione così insolita e
originale. Nel manierismo bolognese, Tibaldi indica la stessa variazione rappresentata dall’Aspertini nell’ambito del
classicismo bolognese, ed evidenzia la spazialità dell’architetto anche nel racconto pittorico. Nessun dubbio che una
concezione tanto ardita potesse interessare ad artisti come Füssli e Blake.
Pellegrino Tibaldi, Ulisse e la maga Circe, Palazzo Poggi, Bologna
Pellegrino Tibaldi, Ulisse e la maga Circe, Palazzo Poggi, Bologna
Luca Cambiaso, Natività, part., Pinacoteca di Brera, Milano
LUCA CAMBIASO
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UN VISIONARIO A GENOVA
Le articolazioni della maniera sono complesse e difficili, ma si estendono, come una necessità espressiva dei
tempi, in tutte le città d’Italia, con una coerenza formale che investe anche il Meridione, se pensiamo all’esperienza
siciliana e napoletana di Vincenzo da Pavia e a quella napoletana e calabrese di Giovanni de Mio. Mera importazione
dei modelli toscani è, invece, la presenza di Giorgio Vasari e Marco Pino a Napoli. Risalendo alle sue manifestazioni
nel Nord, tuttavia, i presidi più espliciti e diretti sono a Mantova a Palazzo Te, con Giulio Romano; in Piemonte a Bosco
Marengo, nel santuario di Pio V, con Giorgio Vasari; a Genova nel Palazzo del Principe, con Perin del Vaga,
raffaellesco fondamentale per molti artisti settentrionali. Ed è sempre a Genova che matura una personalità originale e
singolare come Luca Cambiaso.
Nei suoi esordi si incrociano suggestioni di Parmigianino e del Pordenone, e affinità con il Beccafumi e Pellegrino
Tibaldi. Esempi raffaelleschi, Cambiaso, poteva trovarli nei fortunati affreschi di Perin del Vaga, arrivato a Genova
dopo il sacco di Roma. E subito Luca ne dà riscontro in palazzi e chiese genovesi, con una pittura di forte rilievo plastico
e smaltata, che ha un corrispondente, in quegli anni, soltanto nelle ricerche sperimentali di Iacopo Bassano. Ed è forse
propizio evocare il nome del grande pittore veneto perché, parallelamente, anche il Cambiaso, forse per ulteriore
suggestione del Savoldo, coltiva ricerche sulla luce con sorprendenti notturni a lume di candela (Cristo davanti a Caifa,
Natività, Madonna della candela), di straordinario nitore, da far presagire La Tour. L’evoluzione di Cambiaso, dai
soggetti storici, mitici e biblici di Palazzo della Meridiana o di Palazzo Lercari in via Garibaldi, agli effetti speciali dei
notturni, evidenzia la fortuna di un genere che, di lì a poco, attraverso Antonio e Vincenzo Campi, porterà a Caravaggio.
Ma in Cambiaso questi originalissimi risultati sono frutto di fervida applicazione intellettuale, di astratta ricerca senza
intenzioni naturalistiche, tutta verificabile in numerosi disegni di radicale spirito innovativo, con figure geometrizzate,
per cui la sua ricerca è stata messa in relazione con l’esperienza cubista. Alla luce di queste prove, Cambiaso appare,
oltre che un pittore modernissimo, un visionario del manierismo, in grado, su altri binari, di tener testa a Pontormo e
Rosso Fiorentino.
Georges de La Tour, Adorazione dei pastori, Musée du Louvre, Parigi
Luca Cambiaso, Natività, part., Pinacoteca di Brera, Milano
Georges de La Tour, Maddalena penitente, Musée du Louvre, Parigi
Luca Cambiaso, Madonna della candela, Palazzo Bianco, Genova
Luca Cambiaso, Natività, Pinacoteca di Brera, Milano
Alessandro Allori, Pesca delle perle, part., Studiolo di Francesco I, Palazzo Vecchio, Firenze
STUDIOLO DI FRANCESCO I
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EQUIVOCI MANIERISTI
Lo Studiolo di Francesco I in Palazzo Vecchio di Firenze è uno degli ambienti più segreti e suggestivi del
Rinascimento italiano. Vi si accede dal Salone dei Cinquecento con i grandiosi affreschi di Vasari, che ne è l’ideatore, e
furono realizzati su richiesta e impulso di Vincenzo Borghini, intellettuale di corte (uno dei saggi incaricati di “purgare”
il Decameron). L’idea era quella di una stanza di meditazione in prossimità della camera da letto di Francesco I e
comunicante con lo Studiolo di Cosimo I, padre di Francesco. Il piccolo spazio è interamente occupato dai dipinti,
compiuti tra 1570 e il 1572. Così come oggi lo vediamo, con la volta affrescata, lo studiolo è una ricostruzione
dell’ambiente originale, che fu smontato già nel 1590.
Nella sua concezione iniziale, il luogo doveva essere una preziosa Wunderkammer, per conservare oggetti di grande
interesse, secondo le indicazioni del Borghini: “Lo stanzino ha da servire per una guardaroba di cose rare et pretiose,
et per valuta et per arte, come sarebbe a dire gioie, medaglie, pietre intagliate, cristalli lavorati et vasi, ingegni et simil
cose, non di troppa grandezza, riposte nei propri armadi, ciascuna nel suo genere”. Talché i dipinti risultavano come
pannelli o porte di armadi. Uno di essi, Il laboratorio d’alchimia, di Giovanni Stradano, riproduce un interno che ha la
suggestiva ambientazione di uno studiolo di ricerca; tra i personaggi figura lo stesso Francesco I, con un effetto di
sdoppiamento rispetto alla sua presenza reale. Sotto la volta a botte, ci sono affreschi del Poppi (Francesco Morandini)
e di Jacopo Zucchi, con, al centro, Prometeo che riceve i gioielli dalla natura e, intorno, i Quattro elementi (Aria, Acqua,
Terra, Fuoco). Nelle due lunette, vediamo i Ritratti di Cosimo I e Eleonora di Toledo, genitori di Francesco I, dipinti da
Alessandro Allori. Alle pareti, i pannelli su due livelli: tre per fila sui lati minori e otto sul lato maggiore.
Alessandro Allori, Pesca delle perle, part., Studiolo di Francesco I, Palazzo Vecchio, Firenze
Studiolo di Francesco I, Palazzo Vecchio, Firenze
Gli artisti chiamati da Vasari sono a metà strada tra pittori e miniatori, in un singolare equivoco manierista stimolato
dai soggetti profani: Santi di Tito (Metamorfosi delle sorelle di Fetonte), Mirobello Cavalori (Lanificio), Alessandro Allori
(Pesca delle perle), Maso da San Friano (Miniera di diamanti), Girolamo Macchietti (Le terme di Pozzuoli), Jacopo Zucchi
(Miniera d’oro), Giovanni Maria Butteri (La vetreria). Nella complessità dell’impresa, che è un punto chiave del secondo
manierismo fiorentino, non mancano le sculture, in otto nicchie: Anfitrione di Stoldo Lorenzi, Venere di Vincenzo Danti,
Giunone di Giovanni Bandini, Eolo di Elia Candido, Apollo del Giambologna, Vulcano di Vincenzo de’ Rossi, Plutone di
Domenico Poggini e Opi di Bartolomeo Ammannati. Sogni e visioni, in una corte di umanisti, per riparare cose preziose,
e per stupire.
Mirabello Cavalori, Il lanificio, Studiolo di Francesco I, Palazzo Vecchio, Firenze
Alessandro Allori, Pesca delle perle, Studiolo di Francesco I, Palazzo Vecchio, Firenze
Giovanni Maria Butteri, La vetreria, Studiolo di Francesco I, Palazzo Vecchio, Firenze
Bastianino, Giudizio universale, part., duomo di Ferrara
BASTIANINO
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FORME NELLA NEBBIA
Tra le più originali e anomale esperienze del manierismo padano è certamente quella del ferrarese Sebastiano
Filippi, detto Bastianino. Nessun dubbio che anche per lui sia stata essenziale l’esperienza di Parmigianino, ma è non
meno importante che egli sia il punto d’arrivo della grande civiltà artistica ferrarese, e che nella sua formazione la
maniera romana, raffaellesca e michelangiolesca, sia filtrata da Girolamo da Carpi e da Dosso Dossi. La lezione del
padre Camillo si integra con quella di opere romaniste e ferraresi come il San Girolamo di Girolamo da Carpi per la
chiesa di San Paolo. Ma la riflessione su Michelangelo appare invece diretta in opere come la Caduta di san Paolo nella
chiesa di Massa Lombarda, dove è evidente la derivazione dall’affresco della Cappella Paolina; e nel Giudizio
universale nel catino absidale del duomo di Ferrara, sensibilissima variazione del Giudizio universale della Cappella
Sistina. Si è voluta vedere in questa così notevole impresa anche una consonanza con il Tiziano maturo, dalla pittura
informale e disfatta.
Osservando questi risultati, Roberto Longhi può descrivere Bastianino come “il William Blake della pittura del
Cinquecento italiano” e indicare alcune sorprendenti anticipazioni della pittura di Goya. Ciò che appare evidente è che,
per un processo di dolente tormento interiore, Bastianino all’esordio dell’ottavo decennio del Cinquecento può fare i conti
con tutti i maestri della pittura del secolo. E certamente ammira il Tiziano della piena maturità e ne trae suggerimenti e
stimoli, in una interpretazione non coloristica ma intrinsecamente ferrarese. Ossia nebbiosa. Con questo animo
affronta i grandi artisti, gli artisti inevitabili, e le loro opere imprescindibili. Così il Giudizio universale, e così la Santa
Cecilia di Raffaello, di cui offre una reincarnazione per la chiesa di Santa Maria in Vado. Davanti a questi modelli,
Bastianino procede con uno svuotamento delle forme, che appaiono senza sostegno, senza consistenza, nebulose, in
un’esecuzione di tocco che anticipa sorprendentemente il Piccio e, più ancora, Tranquillo Cremona, e perfino Bonnard,
oltre ai già ricordati Blake e Goya. Bastianino propone i suoi “d’après” al modo di un innamorato che non può prescindere
da quei modelli, ma non vuole copiarli come un Marcello Venusti o un manierista romano. Egli vede come in sogno,
attraverso una percezione apparentemente imperfetta, una visione sfocata da miope. In questo, il procedimento
d’alterazione visiva, pur nella minor fortuna, è analogo a quello di El Greco, la cui maniera sembra favorita da una
distorsione visiva. La pittura di Bastianino, che si spinge sino al secolo nuovo, è come un viaggio verso la fine del tempo,
dove le forme si consumano, diventano fumo, cenere, nebbia. Bastianino muore nel 1602 annichilendosi e annichilendo
le forme, nello stesso anno in cui Caravaggio, con ben diverso tormento, compie la seconda versione della Caduta di san
Paolo per la Cappella Cerasi della basilica di Santa Maria del Popolo a Roma. Bastianino si dissolve, Caravaggio crea
un mondo nuovo.
Bastianino, Giudizio universale, duomo di Ferrara
El Greco, Sogno di Filippo II, monastero dell’Escorial, Madrid
Bastianino, Giudizio universale, part., duomo di Ferrara
Bastianino, Santa Cecilia, Pinacoteca nazionale, Ferrara
CAPITOLO V
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MANIERISTI LOMBARDI
E NON SOLO

Giovanni Battista Moroni, Cavaliere in rosa, part., collezione privata


GIOVANNI BATTISTA MORONI
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LA SFINITA ELEGANZA DEL CAVALIERE IN ROSA
La lezione dei grandi maestri bresciani e l’ammirazione incondizionata per Lorenzo Lotto negli anni della sua lunga
stagione bergamasca sono certamente determinanti per il formarsi e maturarsi della visione di Giovanni Battista
Moroni. Questi inizia la sua attività pittorica nella bottega del Moretto, che resterà il modello prevalente per la sua opera
religiosa, contaminazione di spirito devozionale e di realismo, come si vede nel Devoto in adorazione della Madonna e
del Bambino o nel Devoto in contemplazione del battesimo di Cristo, singolari composizioni che coniugano catechismo e
spirito di osservazione della realtà.
Lo stesso spirito porterà Moroni nella ritrattistica, più in alto di ogni altro, fino all’elaborazione del Sarto, ora alla
National Gallery di Londra. Un ritratto in azione: così appare, nell’atto di tagliare una stoffa, il sarto che colpì Marco
Boschini nella sua Carta del navegar pitoresco: “Tuttavia quel Moron, quel Bergamasco / per esser gran pittor bravo e
valente, / El vogio nominar seguramente / che de bona nomea l’ha pieno el tasco; / Ghé dei ritrat, ma in particolar quel di
un sarto si belo, e si ben fato / che ’l parla più de qual si sa avocato, / l’ha in man la forfe, e vu ’l vede’ a tagiar”.
A Bergamo, Moroni lavora per tutti gli anni cinquanta. Negli anni sessanta la sua fortuna declina sia per le difficoltà
dei suoi protettori, la famiglia Albani, sia per l’avversione della curia locale, che gli inibisce le committenze
dell’aristocrazia cittadina. Così l’artista si riduce a ritrarre, ma con immutata lucidità e precisione, personaggi della
provincia bergamasca anche di modesta estrazione sociale, dal mercante Paolo Venuti di Albino al comandante di
milizie mercenarie Mario Benvenuti, dal sarto all’agricoltore suo vicino di casa; e produce pale per parrocchiali di
piccoli borghi. In queste alterne fortune, Moroni conserva intatta la capacità di concentrazione sulla condizione sociale
dei suoi soggetti, sia sul piano esteriore – soffermandosi sul loro abbigliamento, in un campionario di eleganze senza
fine, facendo sentire la diversa consistenza delle stoffe come soltanto il Moretto aveva saputo fare – sia su quello
psicologico, penetrando nella loro interiorità spesso fragile e turbata.
È il caso del mirabile Cavaliere in rosa, tra i grandi capolavori della ritrattistica di tutti i tempi. Moroni ritrae Gian
Gerolamo Grumelli, marito in seconde nozze di Isotta Brembati, alla quale l’artista dedica un altro notevole ritratto.
Forse a questo matrimonio si deve l’iscrizione sotto il bassorilievo a destra “mas el çaguero que el primero” (meglio
l’ultimo che il primo). Se pensiamo ai ritratti di Lorenzo Lotto, qui siamo a un potenziamento di verità che indica, in
figura, lo spirito di un’epoca non meno del Cortegiano di Baldassar Castiglione. Alle spalle del cavaliere in rosa, in un
fondale di architettura in rovina, l’edera si arrampica sopra i resti della nicchia di una statua a pezzi – simbologia meno
interessante del puro frammento di realtà del nitido taglio delle pietre. Ma la forza del dipinto è proprio nella costante
rosa, dal corpetto alle fasce che costruiscono i calzoni, dalle calze alle piume della berretta. Con questa sfinita
eleganza e la disarmata verità della espressione, seguendo un pensiero perduto, il cavaliere in rosa attraversa il suo
tempo e il nostro.
Giovanni Battista Moroni, Cavaliere in rosa, collezione privata
Bernardino Campi, Santa Cecilia e santa Caterina, part., chiesa di San Sigismondo, Cremona
BERNARDINO CAMPI
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INCROLLABILE COERENZA
Tra gli infiniti stimoli per un pittore che si fosse trovato a iniziare il suo tirocinio nel quarto decennio del Cinquecento a
Cremona, certamente il più forte era la presenza di Giulio Romano a Mantova. E così fu per il più dotato dei pittori
cremonesi di quella stagione, Bernardino Campi, nato nel 1522, quindi pressoché coetaneo di Tintoretto e di Paolo
Veronese. Bernardino, senza esitazioni, si diresse quindi a Mantova nella bottega di Ippolito Costa, vicino a Giulio
Romano che, nel 1538-39, stava lavorando nella Sala di Troia in Palazzo Ducale.
A Cremona, Bernardino torna dieci anni dopo, nel 1549. L’esperienza di Giulio Romano gli era bastata, con tutto
quello che riassumeva di Michelangelo e Raffaello; e non lo appassionavano le monumentali composizioni del
Pordenone nella cattedrale di Cremona. Aveva scelto la sua strada davanti alle opere del più seducente dei maestri,
certo il più difficile e scontroso: Parmigianino, precocemente scomparso nel 1540. A lui, anche attraverso la
mediazione di Camillo Boccaccino, fanno riferimento le prime opere significative di Bernardino: la Pala dell’Assunta in
Sant’Agata a Cremona e gli affreschi della chiesa di San Bassano a Pizzighettone. Nel 1548, quando Tintoretto
licenzia il Miracolo di san Marco che libera lo schiavo, Bernardino dipinge la Madonna in trono in San Francesco a
Cremona, manifestando una cifra manieristica in tutto parmigianesca. E di questa ritrovata grazia egli dà prova anche
nel tempio del manierismo cremonese, la basilica di San Sigismondo, nella quale decora la volta della Cappella dei
Santi Filippo e Giacomo. Intanto dipinge ritratti che lo accreditano prima dai Pallavicino a Piacenza, e poi a Milano
presso Ferrante Gonzaga. Ciò lo farà familiare e gentiluomo prima di Ippolita Gonzaga, poi di Francesco Ferdinando
d’Avalos, marchese di Pescara.
Parlando della ritrattistica, Alessandro Lamo, nel suo Discorso sulla pittura, ci ricorda che Prospero Quintavalle,
canonico del duomo di Reggio, e ritratto da Bernardino, finanziò al pittore un viaggio di studio a Parma, Piacenza e a
Modena per vedere le opere di Pordenone, Correggio e Parmigianino, a riprova di un’inclinazione prevalente. Questa
specialità ritrattistica aprirà la strada a Sofonisba e Lucia Anguissola. Ma la vera vocazione del pittore restano i temi
aulici e religiosi, nell’intenzione devota di dare veste ideale ai temi della Controriforma, come nelle belle pale dipinte a
Milano: la Trasfigurazione per Santa Maria della Scala, la Vergine con Bambino e santi, la Circoncisione e la Deposizione
ora a Brera, l’Assunzione in Sant’Alessandro. Sono evidenti prove di una ricerca idealistica, di quella che è stata
indicata da Silla Zamboni come “singolare mistione di eleganza parmense e di tagliente verità fiamminga”. Nel 1567,
Bernardino dipinge gli affreschi per il Castello Trivulzio a Maleo; nel 1568 invia una Santa Cecilia a Vespasiano
Gonzaga, inaugurando i rapporti con la corte di Sabbioneta; nello stesso anno è ancora a San Sigismondo per dipingere
la meravigliosa, e tutta parmigianesca, pala con Santa Cecilia e santa Caterina, e ancora San Girolamo e sant’Antonio,
san Filippo e san Giacomo. Notevoli sono anche le pale per Santa Maria della Croce a Crema. Ma l’impegno più notevole
resta in San Sigismondo, per l’affresco della Gloria del paradiso nel tiburio. A partire dal 1577, Bernardino è attivo in San
Colombano al Lambro per l’oratorio del Castello, di cui resta la pala con la Crocifissione. Subito dopo, dal 1582, lo
troviamo a Sabbioneta al servizio di Vespasiano Gonzaga per gli affreschi del Palazzo Ducale e del Palazzo del
Giardino; nel 1587 dipinge gli affreschi per il Palazzo Ducale di Guastalla, ora perduti. Nel 1589 è chiamato a Reggio
per dipingere il coro della chiesa di San Prospero. Non finisce l’impresa perché muore nel 1591, dopo una vita
d’incrollabile coerenza.
Bernardino Campi, Santa Cecilia e santa Caterina, part., chiesa di San Sigismondo, Cremona
Bernardino Campi, Santa Cecilia e santa Caterina, chiesa di San Sigismondo, Cremona
Bartolomeo Passerotti, Cavaliere con cane, part., Musei Capitolini, Roma
BARTOLOMEO PASSEROTTI
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REALISMO CHE PRESCINDE DALLA REALTÀ
Come nel Veneto, a Bassano, o in Lombardia, a Cremona, si era sviluppata la pittura di genere come esperienza
parallela alla pittura religiosa per corrispondere a esigenze di una committenza non ecclesiastica, così anche in
Emilia, a Bologna, un pittore aduso a temi religiosi, rivela la sua vena più originale e insolita nella pittura di genere. Si
tratta di Bartolomeo Passerotti. Nato nel 1529, quindi coetaneo di Luca Cambiaso e Paolo Veronese, Passerotti si forma
a Bologna davanti alle opere capitali di Raffaello e di Parmigianino, ma a Roma e nelle Marche guarderà gli esempi
della pittura moderna di Taddeo Zuccari. Anche per lui, come per Cambiaso, è certamente rilevante l’originalissima
esperienza di Pellegrino Tibaldi.
La complessità e la curiosità dell’esperienza di Passerotti si manifestano soprattutto nei ritratti, nei quali definisce
un archetipo algido e aristocratico, del tutto estraneo a qualsivoglia concessione emotiva o a una familiarità che alluda
alla sfera affettiva. Passerotti individua una dimensione celebrativa che non presuppone umanità o sentimenti. E non
elude la precisione fisiognomica, la verità fisica dei personaggi rappresentati; ma li cristallizza in una dimensione
senza tempo, in un’atmosfera impenetrabile, su sfondi uniformi color prugna sui quali i volti si stagliano vitrei. I
personaggi di Passerotti appartengono a un altro mondo rispetto a quello di Tiziano: non respirano, non si commuovono,
non si emozionano. Pensano. Allo stesso modo, quando affronta soggetti di genere, come nella celebre Macelleria,
messa a confronto di quella calda e umorosa di Annibale Carracci, gli esiti appaiono del tutto estranei alla
rappresentazione della condizione umana. Passerotti è distante e algido, rende natura morta anche i ritratti. Ed è
lontano sia dal mondo contadino sia da quello della nascente borghesia, com’è veridicamente registrata nel Sarto di
Giovanni Battista Moroni.
Bartolomeo Passerotti, Macelleria, Galleria nazionale d’arte antica, Roma
Annibale Carracci, Macelleria, Christ Church Picture Gallery, Oxford
È probabile che sul Passerotti agisca l’influenza della pittura fiamminga, ma è certo che la sua osservazione della
realtà sia filtrata da un procedimento intellettualistico che, pur nell’evidenza realistica, individua archetipi come per
una catalogazione naturalistica, secondo un modello che ha a Bologna il suo campione in Ulisse Aldrovandi. Passerotti
descrive macellai, pollivendole, cacciatori come fossero maschere di un teatro. E il suo realismo non si ispira alla vita
ma ai tipi di umanità, come estrema variazione di una sensibilità manieristica. Un realismo che prescinde dalla realtà.
In questo processo d’astrazione, Passerotti sta sulla stessa direttrice che porta ad Arcimboldo, parallela a quella che,
attraverso Moretto e Moroni, porta a Caravaggio.
Bartolomeo Passerotti, Cavaliere con cane, Musei Capitolini, Roma
Antonio Campi, Transito della Vergine, part., chiesa di San Marco Apostolo, Milano
ANTONIO E VINCENZO CAMPI
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INTUIZIONI PREMONITRICI
Se Bernardino Campi mantiene viva la sigla formale di Parmigianino con assoluta coerenza manieristica, e incorrotto
idealismo, Antonio e Vincenzo Campi saranno fortemente tentati da una immersione naturalistica, condizione
fondamentale anche nella formazione di Caravaggio. E se l’antefatto è in Savoldo e Moretto, la prima “simulazione”
caravaggesca nel tempo in cui Caravaggio nasceva è in opere come la Pietà del duomo di Cremona o la Decollazione del
Battista di San Sigismondo, entrambe di Antonio Campi, che sceglie come riferimenti i pittori bresciani accentuandone
gli effetti luministici.
In perfetto contrasto con Bernardino Campi, Antonio persegue la ricerca del vero sia nella Visitazione del Museo di
Cremona sia nell’Adorazione dei pastori in Santa Maria della Croce a Crema, così come nel Trittico di san Marco a
Milano, nelle tele di San Paolo Converso, l’Adorazione dei pastori, il Martirio di san Lorenzo, la Decollazione del Battista,
fino alla Santa Caterina in carcere e al Martirio della santa in Sant’Angelo.
Sorprende vedere quello che non ci saremmo aspettati prima dei capolavori di Caravaggio in San Luigi dei Francesi
a Roma in opere “marginali”, antecedenti di vent’anni, immerse nel buio di cappelle di chiese milanesi, dove
certamente Caravaggio le vide. Con ingenuità e semplicità sorprendenti, Campi definisce lo spazio di un interno con
porte e travi, alla luce di torce e candele. La suggestione è forte, nel Transito della Vergine, in una penombra rischiarata
dalla luce per favorire la lettura delle preghiere. In primo piano, voltando le spalle alla scena principale, un apostolo
legge a lume di candela. Una premonizione caravaggesca.
Antonio Campi cerca di raffigurare tutti i temi a luce notturna con potenti chiaroscuri, come si vede nella Natività di
Crema, che Caravaggio riprodurrà con misura e sintesi irraggiungibili in una nuova essenza. Ma la suggestione c’è
tutta, pur nei residui formali manieristici. E non c’è dubbio che Caravaggio conoscesse e avesse studiato queste opere
tanto esplicitamente naturalistiche. E con intuizioni premonitrici.
Analogamente, sul versante della pittura di genere, si muove Vincenzo Campi, che, superati i residui manieristici,
non esita a volgere il suo interesse verso i pittori bresciani, in particolare Savoldo. Così nella Deposizione del Museo di
Cremona e nella Sant’Orsola, Madonna e sant’Anna per la chiesa della Maddalena, come e più che in Antonio, si
riconoscono gli antefatti caravaggeschi bene indicati dal Longhi.
Il passaggio a Piacenza nel 1576 consente a Vincenzo la conoscenza dei dipinti di Joachim Beuckelaer presenti
nelle collezioni farnesiane del Palazzo del Giardino di Parma. Da questa fonte derivano le pitture di genere con grandi
nature morte di frutta e verdura che traducono in lingua lombarda gli archetipi fiamminghi, aprendo la strada alle
moderne esperienze bolognesi di Bartolomeo Passerotti e Annibale Carracci.
Antonio Campi, Transito della Vergine, chiesa di San Marco Apostolo, Milano
Vincenzo Campi, Fruttivendola, part., Pinacoteca di Brera, Milano
Joachim Beuckelaer, Dutch kitchen scene, Treasurer’s House, York
Per quanto riguarda Vincenzo, i celebri dipinti di Brera, la Pollivendola e la Fruttivendola, con la Cucina e i Mangiatori
di ricotta, provenienti dal monastero di San Sigismondo, e le composizioni, come la Cuciniera della Galleria nazionale di
Parma, si ispirano a quelli di Beuckelaer.
Numerose sono le opere di Vincenzo ricordate e disperse, a riprova della fortuna del genere che lui trasporta in Italia
con sorprendente dovizia di particolari, dai quali, con formidabile intuizione, Caravaggio isolerà la sua Cesta di frutta.
L’applicazione a questi fortunati soggetti non gli impedisce di dipingere ad affresco le volte della chiesa di San Paolo
Converso a Milano con l’Ascensione di Cristo e l’Ascensione della Vergine entro una complessa partitura architettonica
con logge, cornicioni e balaustre contro il cielo aperto, a conferma della consapevole separazione fra pittura religiosa,
alta, e pittura di genere, popolare.
Vincenzo Campi, Cucina, Pinacoteca di Brera, Milano
Vincenzo Campi, Fruttivendola, Pinacoteca di Brera, Milano
Arcimboldo, Terra, part., collezione privata
ARCIMBOLDO
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SCIENZA E CAPRICCIO
Giuseppe Arcimboldi, milanese, è certamente il più originale pittore italiano. Originale è la definizione che meglio
corrisponde alla natura di uno spirito curioso e bizzarro, pronto a trasformare la realtà in continui equivoci e fantasie,
pur nella più rigorosa osservazione naturalistica. Già il Morigia, storico milanese amico del pittore, dice: “Pittore raro, e
in molte altre virtù studioso, e eccellente; e dopo l’aver dato saggio di lui, e del suo valore, così nella pittura come in
diverse bizzarrie, non solo nella patria, ma ancor fuori, acquistasse gran lode”. Il suo maestro naturale e ideale è
Leonardo, sia per l’osservazione della natura sia per le caricature fisiognomiche. Ma la versatilità e l’originalità
dell’Arcimboldo non avrebbero avuto lo stesso rilievo se la fama e la curiosità per le sue invenzioni non fossero arrivate
all’orecchio e agli occhi di Massimiliano II d’Asburgo, che lo invitò alla corte di Vienna nel 1562, a trentasei anni.
A Vienna, Arcimboldo “fu molto benvoluto e accarezzato da Massimiliano, et raccolto con grande umanità, et con
honorato stipendio”. La sua specialità, che ebbe una straordinaria fortuna, erano le Teste composte. Invenzioni
grottesche generate dalla combinazione delle più varie forme di frutta e verdura. Per trent’anni Arcimboldo produsse
eccezionali trompe l’oeil realizzando volti, oltre che con frutta e verdura, con fiori, pesci, uccelli e libri. Giochi,
divertimenti la cui radice profondamente naturalistica è contraddetta dalle combinazioni che producono effetti
meravigliosi e, oggettivamente, artificiosi, “surrealistici”. Le variazioni sono nella rappresentazione delle Quattro
stagioni e dei Quattro elementi della cosmologia aristotelica: le otto Allegorie si fronteggiavano a coppie sulle pareti
della residenza imperiale, ogni stagione a fronte di un elemento per indicare le corrispondenze tra microcosmo e
macrocosmo secondo la filosofia aristotelica.
Arcimboldo, Acqua, part., Kunsthistorisches Museum, Vienna
Prima di partire per Vienna, Arcimboldo lascia i cartoni per le vetrate del duomo di Milano e il manieristico affresco
con l’Albero di Jesse nel transetto del duomo di Monza. Ma l’Arcimboldo che conosciamo nasce per l’evidente stimolo di
un mondo che vuole celebrarsi e divertirsi, di una corte che si esibisce con lo stupore e con il capriccio, nella
compiaciuta invenzione di Wunderkammern dipinte. Gli originalissimi prototipi dell’Arcimboldo furono variamente
duplicati per andare in dono, come formidabili curiosità, a nobili e regnanti di tutta Europa. Stagioni ed Elementi sono un
genere senza precedenti, e c’è umiltà e pazienza nel restituirli con tanta meticolosa fedeltà al vero, pur nell’irrealistico
effetto finale. Quest’impegno per l’insolito e per l’effimero, Arcimboldo lo applica alle feste e ai trionfi della vita di corte.
Sua la regia di rappresentazioni mascherate, cortei, giochi, come in occasione delle nozze dell’arciduca d’Austria con
Maria Anna di Wittelsbach. In centoquarantotto disegni, conservati al Gabinetto dei disegni e delle stampe degli Uffizi,
sono documentati i suoi progetti per feste e fasti con costumi, acconciature, slitte con sirene o con cigni per sfilate
(soprattutto per il successore di Massimiliano, Rodolfo II), in perfetta corrispondenza con gli interessi dell’imperatore
per gli studi alchemici e per ogni manifestazione di naturalia e mirabilia nel campo dell’arte e della scienza.
Arcimboldo, Estate, part., Kunsthistorisches Museum, Vienna
Arcimboldo seguì Rodolfo II a Praga e contribuì a formare, così com’era nella sua fantasia creatrice, la
Wunderkammer dell’imperatore. Divenuto conte palatino, Arcimboldo sceglie di tornare a Milano pur continuando a
servire l’imperatore, e a Milano dipinge la Ninfa Flora e Ritratto di Rodolfo II in veste di Vertunno. Sono gli anni in cui a
Milano si forma Caravaggio, che abita a poca distanza dallo studio dell’Arcimboldo, tornato da Praga con fama di grande
artista e creatore di meraviglie. Nessun dubbio che l’amore per la scienza e la visione naturalistica da cui discendono i
capricci e le fantasie dell’Arcimboldo siano stati motivo di curiosità e di stimolo per il giovane artista che restituisce alla
realtà ciò che Arcimboldo aveva trasportato nel sogno.
Arcimboldo, Fuoco, part., Kunsthistorisches Museum, Vienna
Arcimboldo, Terra, collezione privata
Arcimboldo, Acqua, Kunsthistorisches Museum, Vienna
Arcimboldo, Estate, Kunsthistorisches Museum, Vienna
Arcimboldo, Fuoco, Kunsthistorisches Museum, Vienna
Simone Peterzano, Venere e Cupido con due satiri, part., Pinacoteca di Brera, Milano
SIMONE PETERZANO
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PIÙ DI UN NOME
In una pur ampia proposta di dipinti di grandi e notevoli artisti italiani, qualche anno fa non sarebbe stato presentato
un pittore indiscutibilmente minore come Simone Peterzano. Il suo nome, infatti, a un livello più di materiale tirocinio
che di consonanza estetica e formale, veniva ricordato esclusivamente in quanto coincide con il maestro del
Caravaggio. La citazione del nome e nulla più, se non anche la riproduzione di un’opera di richiamo e di confronto.
Simone Peterzano, milanese, si segnalava inoltre, a monte, come allievo di Tiziano, con ciò stabilendo un utile
collegamento tra il Caravaggio e il grande pittore veneziano e sempre più diminuendo l’autonoma attenzione per la sua
opera. Ma l’improvvisa e audace rivelazione o proposta di due studiosi, Adriana Conconi Fedrigolli e Maurizio
Bernardelli Curuz, ha prepotentemente riacceso l’attenzione sul pittore bergamasco. E ancora una volta non per suo
merito, bensì per l’ipotesi che il lungo periodo di formazione milanese di Caravaggio sia documentabile attraverso un
certo numero di disegni appartenenti al cosiddetto Fondo Peterzano nel Museo civico del Castello Sforzesco. Si tratta di
più di milleduecento disegni, in verità discontinuamente studiati senza che mai si fosse individuata in taluni la mano di
Caravaggio. È invece un utile richiamo, e definisce un campo di indagine sicuramente interessante, che può far
pensare anche alla presenza del giovane Caravaggio nei cicli d’affreschi di Peterzano.
Testa di vecchio, Fondo Peterzano, Gabinetto dei disegni, Castello Sforzesco, Milano
Diversamente da altri, io sono convinto che l’intuizione e l’approfondimento dell’analisi sui disegni siano
apprezzabili e corretti, al di là delle conclusioni. E, d’altra parte, alcune evidenze fanno utilmente riflettere i due
studiosi sulla cronologia di alcune opere certe di Caravaggio. Alcuni confronti, ad esempio, mi paiono convincenti, in
particolare quello dell’armato con la lunga barba bianca in relazione alla Conversione di Saulo della collezione
Odescalchi. Così, per quanto riguarda il dipinto che legittima l’ipotesi della “firma” caravaggesca del disegno, si può
anche valutare il fondamento di una proposta che io feci circa la prima versione della Conversione di Saulo, tanto
manierista e artificiosa rispetto a quella definitiva e rivoluzionaria di Santa Maria del Popolo. Ciò induce a pensare di
essere dinanzi a una delle prime opere dipinte dal Caravaggio appena arrivato a Roma. La concordanza con il disegno
giustifica quella data anticipata. Ad ogni modo, la strategia di ricerca dei modelli per la formazione di Caravaggio sui
disegni di Peterzano è indubbiamente buona e intelligente.
Caravaggio, Conversione di Saulo, part., collezione Odescalchi, Roma
Per quanto riguarda Simone Peterzano come pittore, prescindendo dal suo destino di figlio di un Dio minore, occorre
dire che la sua eleganza formale lo pone tra i manieristi frigidi che hanno accolto la lezione toscana come un dogma.
Angelica e Medoro o la Venere e Cupido sembrano soffocare le calde forme tizianesche nella consistenza grafica di
modelli michelangioleschi o di sculture dipinte. Peterzano ossequia Tiziano, ma compone con la sobrietà di Moretto; e
nella certosa di Garegnano illustra e racconta con evidenti richiami alla Sistina, come si vede negli Angeli con i simboli
della Passione della bellissima cupola, in cui si avvertono echi di Giovanni de Mio, Giorgio Vasari e Federico Zuccari.
Insomma, al Caravaggio toccò un maestro dotto e curioso, che a Milano lo indusse piuttosto a studiare e a capire che a
dipingere. E ne abbiamo visto i frutti nella maturazione romana.
Simone Peterzano, Angeli con i simboli della Passione, certosa di Garegnano, Milano
Simone Peterzano, Venere e Cupido con due satiri, Pinacoteca di Brera, Milano
CAPITOLO VI
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DOPO RAFFAELLO:
LA MANIERA IN UMBRIA E NELLE MARCHE

Federico Zuccari, Il Barbarossa bacia il piede a papa Alessandro III, part., Palazzo Ducale, Venezia
FEDERICO ZUCCARI
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IL GRANDE ORDINATORE
Tra i grandi ordinatori della stagione manieristica dopo il Vasari, vi è certamente Federico Zuccari, marchigiano di
Sant’Angelo in Vado, meno grande e più fortunato del corregionale Federico Barocci. Fratello minore di Taddeo,
Federico lo segue a Roma ancora adolescente e, invece di soddisfare i desideri del padre, si avvia anch’egli alla pittura
sotto il magistero del fratello. Ed è subito notevole che il suo linguaggio artistico, superando la contraddizione di culture
che aveva caratterizzato l’esperienza di Battista Franco, sia compatibile con Roma e con Venezia. Federico, infatti, è
attivo a Roma per la decorazione del Casino di Pio IV e del Belvedere (1561-63) e, a Venezia, nella Cappella Grimani di
San Francesco della Vigna (1564) proprio per completare l’opera di Battista Franco. La maturazione del suo
sincretismo linguistico si compie, contestualmente, con l’ammissione all’Accademia del disegno di Firenze del 1565.
Sistematore, uomo d’ordine, teorico, sul piano formale Federico Zuccari svolge per la pittura la stessa funzione di Pietro
Bembo per la letteratura.
Alla morte del fratello Taddeo, nel 1556, ne porta a termine le imprese incompiute, a Trinità dei Monti e Palazzo
Farnese a Roma, in Villa Farnese a Caprarola e nella chiesa di San Marcello ancora a Roma, con una vasta bottega e
un impegno febbrile. Lavora anche a Villa d’Este a Tivoli, a Santa Caterina dei Funari e nell’Oratorio del Gonfalone.
Dopo viaggi di studio in Francia, in Inghilterra e in Olanda, a Firenze ha l’incarico di terminare gli affreschi della cupola
del duomo realizzati dal Vasari. Ancora nel 1580 lavora in Vaticano nella Cappella Paolina; nello stesso anno dipinge
una controversa Processione di san Gregorio per Santa Maria del Baraccano a Bologna. Nel 1582 è a Venezia, nella
Sala del Maggior consiglio in Palazzo Ducale. Nel 1563 è a Loreto, per gli affreschi della Cappella Della Rovere della
Santa Casa. Nel 1585 è all’Escorial; nel 1590 è ancora a Roma, per la costruzione e la decorazione della sua bizzarra
casa, che Gabriele d’Annunzio avrebbe trasformato in quella di Andrea Sperelli nel Piacere. Nel 1592 istituisce
l’Accademia di San Luca, di cui fu il primo principe.
In qualche modo, lo Zuccari è il naturale continuatore del Vasari, sia come pittore sia come teorico. Il suo pensiero è
essenzialmente espresso ne L’idea di pittori scultori ed architetti edita nel 1607, in tempo per rappresentare una
posizione antagonista e politicamente corretta rispetto a quella travolgente ed eversiva di Caravaggio. Zuccari è
l’espressione più alta dell’Accademia e ha una visione radicalmente antinaturalistica. Egli persegue il primato del
disegno come pensiero metafisico originato nella mente dell’artista: niente di più lontano da Caravaggio. Federico
Zuccari elabora un codice senza sorprese, con una semplicità narrativa funzionale all’illustrazione di episodi storici e
mitologici in relazione al potere o come sua esaltazione. La pittura deve essere subordinata alla dottrina. Non deve
stupire, deve descrivere. Non può interpretare né tantomeno cambiare il mondo, può solo illustrarlo.
Federico Zuccari, Assunzione, part., Trinità dei Monti, Roma
Federico Zuccari, Il Barbarossa bacia il piede a papa Alessandro III, Palazzo Ducale, Venezia
Federico Zuccari, Assunzione, Trinità dei Monti, Roma
Federico Barocci, Circoncisione, part., Musée du Louvre, Parigi
FEDERICO BAROCCI
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SUBLIME TORMENTO
Per certi versi affine all’esperienza di Bastianino è quella dell’ultimo grande pittore del Cinquecento, Federico
Barocci. Un pittore senza dubbi e senza errori, apparentemente.
Non priva di significato, per la sua concezione integrata della pittura, è l’origine urbinate, come quella del grande
Raffaello. Negli anni della sua formazione c’è anche il rapporto con un pittore veneziano convertito al michelangiolismo,
Battista Franco, che lo indirizza opportunamente allo studio della scultura antica. Fin dagli esordi nella Pala di santa
Cecilia per il duomo di Urbino, diversamente da Bastianino, Barocci trasforma il modello, quando non lo ignora
completamente. Ben presto, poco più che ventenne, lo ritroviamo a Roma su chiamata del cardinale Della Rovere. Non
per questo egli rinuncia all’amata patria e, in un perfetto pendolarismo, lo troviamo a Roma, poi ancora a Urbino, poi a
Roma. Il suo affetto per la città natale è denunciato anche da segnali evocativi, come la presenza del Palazzo Ducale
sullo sfondo di uno dei suoi dipinti maggiori, la Deposizione per la Cappella di San Bernardino nel duomo di Perugia del
1569.
Barocci viene poi richiamato in patria per un altro capolavoro, il Riposo durante la fuga in Egitto per il duca Guidobaldo.
È l’inizio di una serie di opere di intatta perfezione e armonia, come la Madonna del gatto, l’Estasi di san Francesco per
l’omonima chiesa d’Urbino, la Madonna del Popolo per la pieve d’Arezzo, la Sepoltura di Cristo per Santa Croce a
Senigallia, il Martirio di san Vitale per l’omonima chiesa di Ravenna, l’Annunciazione per la Cappella del duca Francesco
Maria II a Loreto, la Visitazione per la chiesa Nuova di Roma e, ancora, la Presentazione della Vergine, sempre per la
chiesa Nuova. Il suo successo e la perfezione della sua pittura aprono la strada a commissioni internazionali come
quella dell’imperatore Rodolfo II per la Fuga da Troia in fiamme. Nell’ultimo decennio del secolo, Barocci ci consegna
alcuni dei suoi assoluti capolavori: il Cristo e la Maddalena, la Circoncisione, le Stigmate di san Francesco, la
Crocifissione, la Natività. In apertura del secolo nuovo dipinge l’Istituzione dell’eucarestia, e la Beata Michelina per la
chiesa di San Francesco a Pesaro.
L’esecuzione di Barocci è meticolosa, concentrata, aliena da ogni abbreviazione o scorciatoia. La sua opera nasce da
centinaia di studi preparatori e da una stesura lenta e uniforme, anche se estranea a ogni concezione realistica in
nome di una visione onirica. La sua pittura è una fuga, una consolazione, una ricomposizione del mondo. Barocci è un
pittore tormentato e nevrotico, non meno del Bastianino. Le sue opere non rispecchiano la sua condizione psicologica
ma la distanziano e la rasserenano, nonostante l’infelicità dichiarata dell’artista, che nelle lettere al duca di Urbino,
suo protettore, lamenta la salute incerta confessando la propria malinconia e rivelando il carattere irascibile.
Barocci supera il manierismo attraverso la perfezione formale di ogni elemento compositivo senza pentimenti o
audacie. Per molti versi egli fa rivivere la poetica del bello ideale di Raffaello e la sua armonia formale, per esempio
eliminando ogni incidenza dell’ombra, sempre subordinata alla luminosità interna del colore. L’opera di Barocci è un
manifesto ideologico che riabilita il misticismo religioso, trovando la fonte d’ispirazione, oltre la terribilità di
Michelangelo, in Correggio con le sue morbide stesure. Anche la prodigiosa attività grafica e incisoria è tutto meno che
derivativa, in innumerevoli soggetti. Ed è degno di nota che, nonostante l’universale riconoscimento, sia Urbino il teatro
della sua visione, in una continua intermittenza del cuore.
Federico Barocci, Madonna del gatto, part., Galleria degli Uffizi, Firenze
Federico Barocci, Sepoltura di Cristo, part., chiesa di Santa Croce, Senigallia
Federico Barocci, Circoncisione, Musée du Louvre, Parigi
Federico Barocci, Madonna del gatto, Galleria degli Uffizi, Firenze
Federico Barocci, Sepoltura di Cristo, chiesa di Santa Croce, Senigallia
Ferraù Fenzoni, San Francesco d’Assisi sostenuto da un angelo, part., Museo Thyssen-Bornemisza, Madrid
FERRAÙ FENZONI
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UN MERAVIGLIOSO LUNA PARK
È forse audace, dopo aver toccato il sublime di Barocci e prima di dar conto di alcuni straordinari momenti della breve
ma fulminante carriera – anzi, esperienza di vita che brucia l’arte – di Caravaggio, chiudere le esperienze
manieristiche con una personalità forte ma in fondo periferica come quella di Ferraù Fenzoni. E se lo scenario del
purissimo e soavissimo Barocci fu una capitale ideale del Rinascimento come Urbino, Ferraù Fenzoni prende il nome
dalla città d’origine, Faenza, ed è lungamente, in un destino artistico più circoscritto, a Todi anche se il suo
apprendistato avviene a Roma durante il papato di Gregorio XIII e successivamente durante quello di Sisto V, per il
quale decora la Loggia delle benedizioni del Palazzo del Laterano. Lo troviamo anche in Santa Maria in Trastevere e in
Santa Maria Maggiore, dove si manifesta, proprio come Caravaggio, osservante interprete di un pittore di ordine
razionale e rigoroso come Cavalier d’Arpino.
Temperamento appassionato e drammatico, Ferraù non uscirà mai dai codici manieristici e, proprio negli anni in cui
Caravaggio inizia la sua rivoluzione a Roma, lui, pur dotato di grande personalità e fervore, non conquista Roma ma si
rifugia prima a Todi e poi a Faenza. Nel 1584 dipinge, estremo omaggio a Michelangelo, il Giudizio universale nella
controfacciata del duomo di Todi, e mentre Caravaggio concepisce i suoi capolavori in San Luigi dei Francesi – a partire
dal 1599 –, Ferraù dipinge nella cattedrale di Faenza. È una lunga esperienza senza grandi oscillazioni di stile, che
dura oltre trent’anni dopo la morte di Caravaggio. E non è un’esperienza parallela: è una traduzione del manierismo
tintorettesco, studiato soprattutto nel Miracolo di san Marco che libera lo schiavo e reso con una cifra espressionistica di
grande vigore. Così che non sono rari i capolavori di Ferraù Fenzoni, al quale, nonostante la grande personalità e le
belle invenzioni documentate anche nei numerosi disegni, non è ancora toccata una mostra che evidenzi la sua
insuperata crisi espressiva di artista stretto fra la lezione di Michelangelo e le invenzioni travolgenti di Caravaggio.
Ferraù non accetta la sfida. Egli, dapprima allievo di Francesco Vanni, drammatizza all’inverosimile l’armonia
olimpica del Barocci che pur osserva, per rappresentarne, a fronte della concezione apollinea, una interpretazione
dionisiaca. L’interesse per la sua opera potrebbe oggi essere favorito dalla potente drammatizzazione di alcuni suoi
soggetti, che trovano un rispecchiamento nella vita, con la leggenda di aver ucciso, dietro la cattedrale di Faenza, il
giovane pittore caravaggesco Michele Manzoni, per non soffrirne la concorrenza. Fenzoni ha una tavolozza rutilante e
variegata, e rifiuta ogni tentazione naturalistica alla quale il suo istinto, ma non la sua cultura, sarebbe incline. Quando
affronta, in ideale competizione con Caravaggio, un soggetto come San Francesco d’Assisi sostenuto da un angelo,
predilige gli effetti speciali di un turbine luminoso che scende dalle nuvole e incendia i capelli dorati e le ali dell’angelo.
Gioca con la stessa finzione drammatica (e perciò modernissima) di un disegnatore di fumetti. Non c’è mai tragedia né
verità nei suoi demoni e nei suoi dannati, la cui espressività è teatrale e caricaturale come l’invenzione di un carro
allegorico per una sacra rappresentazione liturgica – risalendo agli esempi vicini di Michelangelo e a quelli remoti di
Signorelli a Orvieto.
Ferraù Fenzoni, San Francesco d’Assisi sostenuto da un angelo, Museo Thyssen-Bornemisza, Madrid
Eppure, nel suo gran daffare, Ferraù si ritaglia uno spazio icastico nella nostra memoria per una personalità più
libera e fantasiosa di quella rigida del Cavalier d’Arpino, che pure lo guida. E se osserviamo la sua Giuditta
avvicinarsi, con la fida nutrice e lo sguardo tenero e innamorato, alla tenda di Oloferne, sotto un cielo notturno
annuvolato, proviamo l’emozione di una “prima visione” originale come non fu neppure Artemisia, ortodossa nel
riprodurre la verità di Caravaggio. Nei suoi momenti migliori, Ferraù è un sognatore struggente e romantico, anche se
sempre con effetti più adatti al teatro che presi dalla realtà. Lo vediamo nella tumultuosa Caduta di Fetonte, con le forme
scorciate per non farci sentire il fragore della caduta: meraviglioso fumetto. Così anche nella Decollazione del Battista,
recentemente riapparsa presso Altomani. Talvolta Ferraù esonda fino ad annunciare una compiuta sensibilità
barocca, che sembra fiorire improvvisa dall’arida matrice manieristica: dai suoi affreschi sembrano sbocciar rose.
Un vero e proprio capolavoro surrealista, tintorettesco, baroccesco, onirico è la Deposizione di Cristo nel sepolcro, in un
passaggio dalla notte all’alba, con un grappolo di corpi intorno al tronco della croce. Un’opera vitale ed entusiasmante
(ora alla Fondazione Cassa dei risparmi di Forlì) che, nella contrazione delle forme e dello spazio, sembra fare il verso,
strafottente all’aerea e ventosa Deposizione senza dramma del Barocci nel duomo di Perugia. Ferraù è irriverente e
antiaccademico, antidrammatico anche quando s’impegna in composizioni forzatamente tumultuose, e sempre sotto
cieli tempestosi, come nella grande Deposizione della Pinacoteca di Faenza. Predilige i fuochi d’artificio, i colori densi
che alterano le campiture nitide di Pontormo, altro maestro molto amato, ma alla fine eluso per disparità sentimentale
(anzi per vera e propria atarassia). E quella concezione sarebbe stata il suo ubi consistam, ma non c’era verso: Ferraù
voleva divertirsi, tradurre tutto in favole e fuochi d’artificio; e pensare che i diavoli non esistono, se non come incubi e
paure degl’uomini: a lui era chiesto di farne immagini, ma senza crederci. Così che il suo inferno non è minaccioso, ma
è un meraviglioso luna park.
Ferraù Fenzoni, Deposizione di Cristo nel sepolcro, part., Fondazione Cassa dei risparmi di Forlì
Ferraù Fenzoni, Deposizione di Cristo nel sepolcro, Fondazione Cassa dei risparmi di Forlì
CAPITOLO VII
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ROMA: LA FINE DEL MANIERISMO
E IL RITORNO ALLA NATURA

Cavalier d’Arpino, Combattimento tra Orazi e Curiazi, part., Palazzo dei Conservatori, Roma
CAVALIER D’ARPINO
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UN PITTORE CONCETTUALE MAESTRO DI CARAVAGGIO
Se Federico Zuccari rappresenta la compiuta elaborazione formale del linguaggio manieristico nello spirito della
Controriforma, quindi il mondo figurativo cui si contrappone Caravaggio con il suo linguaggio nuovo, naturalistico e
irruento, il Cavalier d’Arpino, la cui posizione non è dissimile da quella dello Zuccari, assume a posteriori un ruolo
diverso come cerniera dei due mondi, avendo avuto nella sua bottega proprio il Caravaggio, appena arrivato a Roma.
Caravaggio lascia Peterzano, manierista tizianesco, e i successivi capricci dell’Arcimboldo, per cercare fortuna a
Roma, dove entra nella bottega dell’esigente maestro. Il Cavaliere è un pittore che vede tutto e ne offre una sintesi
assai originale e potentemente geometrica. È così lontano dalla realtà, e anche dall’impulso del racconto, che può
essere, con buona ragione, considerato un pittore astratto. Nessuna concessione naturalistica, ma anche nessuna
descrizione aneddotica, è contemplata nella sua idea della pittura. In questo, Cavalier d’Arpino è anche mentalmente
più lontano da Caravaggio dello stesso Zuccari, che certamente lo seguì ammirato, pur non condividendone alcun
principio, a partire dal principio di gerarchia fra gli uomini. Tutti uguali e tutti protagonisti, per Caravaggio; sottoposti
alla legge di Dio e degli uomini, in relazioni che si rispecchiano anche nella concezione artistica, per Federico Zuccari.
Il Cavalier d’Arpino, più giovane, incrocerà lo Zuccari all’Accademia di San Luca e lavorerà dopo di lui a Trinità dei Monti
(1585). Tra 1589 e il 1593 lo troviamo a Napoli per affrescare il coro della certosa di San Martino e la volta della
sacrestia. Caravaggio sarà nella sua bottega tra il 1595 e il 1596, e si affermerà così rapidamente da succedere al
Cavalier d’Arpino nella decorazione della Cappella Contarelli in San Luigi dei Francesi. Ma per il Cavaliere l’impresa
della vita sono gli affreschi del Palazzo dei Conservatori, il Ritrovamento della Lupa del 1596, la Battaglia tra i Romani e i
Veienti nel 1597, il Combattimento tra Orazi e Curiazi del 1612 e, molto più avanti, il Ratto delle Sabine, la Fondazione di
Roma, l’Istituzione della Religione dal 1635. Ma già in apertura di secolo assume l’incarico più prestigioso, per i mosaici
per la cupola di San Pietro in Vaticano, di cui predispone i cartoni.
La concezione del Cavalier d’Arpino resta fedele al classicismo raffaellesco, soprattutto nelle evoluzioni dell’ultimo
tempo, dallo Spasimo di Sicilia alla Trasfigurazione, codificandone le forme in una cifra allungata, geometrizzante,
potentemente sintetica e programmaticamente irrealistica. Cavalier d’Arpino ha coscienza piena della forma, ma
rifugge da ogni descrittivismo e realismo, distanziandosi sia da Zuccari sia da Caravaggio. Egli non narra, teorizza. È
il più astratto dei pittori manieristici, e resta tetragono in questa sua visione in pieno Seicento, indifferente a tutte le
variazioni del caravaggismo e a Bernini, in sintonia soltanto con la traduzione delle sue forme algide e rigide in quelle
idealizzate di Guido Reni. Ammirandone il rigore, possiamo considerare il Cavalier d’Arpino un pittore concettuale che
trascrive programmaticamente in immagini le verità della fede.
Cavalier d’Arpino, Combattimento tra Orazi e Curiazi, Palazzo dei Conservatori, Roma
Cavalier d’Arpino, Combattimento tra Orazi e Curiazi, Palazzo dei Conservatori, Roma
Annibale Carracci, Mercurio offre a Paride il pomo della discordia, part., Palazzo Farnese, Roma
I CARRACCI
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L’IDEA DEL BELLO
Annibale, erede di Raffaello
Certo, Caravaggio fu una rivoluzione. E continuiamo a sentirne gli effetti, a parlarne, a sentirlo contemporaneo. Però
anche Annibale Carracci e altri emiliani portarono a Roma idee nuove. Da Bologna, dove si erano formati.
Annibale aveva circa dieci anni più di Caravaggio. E, nel periodo in cui il grande pittore lombardo si muoveva per le
città padane – da Milano a Cremona a Bergamo a Brescia e a Mantova fino a Venezia –, con il fratello Agostino e il cugino
Ludovico aveva stanza nella bella e prosperosa Bologna, in un’accademia prima detta dei “Desiderosi”, poi degli
“Incamminati”.
Tentando una strada in equilibrio tra Firenze e Venezia, i tre Carracci si trovano in Palazzo Fava e mescolano le
rispettive personalità. Poi Annibale, con il Battesimo di Cristo per la chiesa di San Gregorio a Bologna, indica una sua
opzione originale verso il Correggio.
Tra il 1587 e il 1588 sarà a Parma e a Venezia. In apertura del nuovo decennio, i tre Carracci lavorano agli affreschi
del Palazzo Magnani a Bologna e, poco più tardi, tra il 1593 e il 1594, sono ancora insieme per gli affreschi di Palazzo
Sampieri.
Ma Roma chiama, e, in singolare coincidenza con l’arrivo di Caravaggio, anche Annibale, tra il novembre e il
dicembre 1595, arriva in città insieme ad Agostino. Caravaggio sta sulla strada, forse porta con sé lo straordinario
Riposo durante la fuga in Egitto della Galleria Doria Pamphilj, sintesi di lunghi anni di riflessione sui grandi maestri
veneti e lombardi, e dipinge zingari e ragazzi di vita, musici e bari nei modi e nei costumi del suo tempo. Annibale sta a
palazzo: lo chiama Odoardo Farnese per una delle imprese più grandi e più belle dopo quella di Michelangelo alla
Sistina. Annibale non è un ribelle, e, mentre in apertura del nuovo secolo si divide Roma con Caravaggio, lo mostra in
un confronto in diretta nella Cappella Cerasi in Santa Maria del Popolo.
Caravaggio ha accettato di rinunciare agli abiti contemporanei per i suoi Pietro e Paolo, e li rappresenta (soprattutto
quest’ultimo) all’antica. Ma l’energia e la vita non mutano e la realtà domina in modo quasi insolente. Carracci, al centro
sull’altare maggiore, non regge il confronto: la sua Assunzione della Vergine fatica a farsi spazio, nell’inane volo verso il
cielo, fra una folla di inespressivi apostoli, non memorabili e ancora memori di Raffaello e Correggio. Il tempo gli darà
torto: nessuno entra in Santa Maria del Popolo per vedere la sua opera.
Al riparo del palazzo, però, Annibale ritrova l’assoluto e il mito. Gli affreschi di Palazzo Farnese gli consentiranno di
essere quello che non riuscì a Parmigianino: l’erede di Raffaello. È subito evidente che nello spazio, non grande ma di
perfette proporzioni, e a portata di vista, soprattutto dalla volta, Annibale si misura con Michelangelo; anche la partitura
indica il modello, con membrature architettoniche e una finta quadreria con cornici dipinte. Al centro, l’affresco con il
trionfo di Bacco e Arianna. Certamente Carracci ricorda i Baccanali di Tiziano nel Castello di Ferrara, ma accentua i
riferimenti alla statuaria classica romana. Nei riquadri laterali, immerge gli dei in una luce dorata entro stucchi
bianchi; aumenta lo spazio del paesaggio, semplifica la composizione. Così, nell’episodio di Mercurio e Paride celebra
gli dei in un’età dell’oro incolpevole, fuori del tempo; e si candida a rappresentare, più di ogni altro, quell’idea del bello
come armonia che il Bellori, grande teorico dell’arte, opporrà alla realtà di Caravaggio. Carracci lascia il popolo e torna
al mito, lascia la strada e torna al palazzo. Per scelta, aprendo la strada a Rubens, a Pietro da Cortona, al Baciccio, al
Lanfranco. È forse utile ricordare che non aveva temuto di bruciarsi al fuoco di Caravaggio, per poi trasformarlo in una
luce senza tempo. Ne diede prova in un’opera di incontinente modernità, superando il rischio della pittura di genere e
del folklore in un’autentica e unica ispirazione popolare tratta dalla realtà, e ben prima di Caravaggio (1585): Il
mangiafagioli della Galleria Colonna di Roma. Teatro? Forse. Ma teatro della verità.
Annibale Carracci, Assunzione, part., basilica di Santa Maria del Popolo, Roma
Annibale Carracci, Assunzione, basilica di Santa Maria del Popolo, Roma
Annibale Carracci, Mercurio offre a Paride il pomo della discordia, Palazzo Farnese, Roma
Ludovico, una religione confidenziale
Ben diversamente popolare, ma profondamente elegantemente popolare, la scena che il cugino di Annibale,
Ludovico Carracci, rimasto a Bologna, rappresenta nel Ritorno dalla fuga in Egitto, la cui insolita iconografia è così
riassunta dall’Arcangeli (1956): “Ludovico ha immaginato poeticamente che, in una giornata di luci tempestose, la
Sacra famiglia stia traghettando, e, mentre il barcaiolo fatica al remo, due angeli son scesi alla manovra della vela tesa
dal vento, mentre l’asinello si pasce nell’ombra. Le acque remote del Vangelo si son mutate in quelle della ‘bassa’
padana, con la macchia dei boschi all’orizzonte livido e un borgo accenna, da lontano, all’altra riva: la leggenda sacra
s’è tradotta in una vicenda popolare, emiliana, di ‘valle’ o di fiume, d’acque basse e di tempo mutevole, d’un tono reso
appena melodrammatico dall’arte”.
Annibale Carracci, Il mangiafagioli, part., Galleria Colonna, Roma
Nello stesso tempo in cui Caravaggio, a Roma, “in un ambiente più liberale e sfogato”, dipinse i quadroni per i
Contarelli trasformando una cappella in osteria, in attesa, poco dopo, di trasformarne un’altra in una stalla, Ludovico a
Bologna ardisce meno ma, poeticamente, compone un suo idillio notturno, immaginando una religione confidenziale.
C’è in questa concezione un di più di romantico e sentimentale, di manzoniano, come se quella stessa barca dovesse
attendere, non molti anni dopo, di trasportare Renzo e Lucia.
Una scuola, come mostra anche il Guercino nelle sue opere giovanili, pronta a raccontare la religione con una lingua
nuova, tra favola e racconto, “cara anche al popolo”. Così che “da Ludovico e dal vivacissimo gruppo di artisti, intorno a
lui, fra cui si contano almeno quattro o cinque veri pittori, si conferisce alla città un tono, un livello di capitale figurativa,
che regge e tiene per almeno due secoli” (Longhi).
Tutti sulla stessa barca.
Ludovico Carracci, Ritorno dalla fuga in Egitto, part., collezione privata
Ludovico Carracci, Ritorno dalla fuga in Egitto, collezione privata
Annibale Carracci, Il mangiafagioli, Galleria Colonna, Roma
Stefano Maderno, Santa Cecilia, part., basilica di Santa Cecilia in Trastevere, Roma
STEFANO MADERNO
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L’INTELLIGENZA DEL CUORE
L’ultima scultura del Cinquecento italiano è la Santa Cecilia di Stefano Maderno, concepita tra il 1599 e il 1600,
mentre Caravaggio lavora per la chiesa di San Luigi dei Francesi. Anche Maderno veniva dal Nord, presumibilmente
da Capolago – nell’odierno Canton Ticino –, ed era solo di un anno più vecchio di Caravaggio. Ma, diversamente da
quest’ultimo, arriva presto a Roma, dove lavora a fianco del maestro Niccolò d’Arras.
Nel 1599, appena ventitreenne, è chiamato dal cardinale Paolo Emilio Sfondrati a scolpire in marmo di Carrara il suo
capolavoro. L’intuizione del Maderno è nell’affidarsi all’emozione e alla commozione per un episodio avvenuto in quei
giorni, che per molti aveva del miracoloso: il ritrovamento del corpo di santa Cecilia, integro e incorrotto, durante gli
scavi per il restauro della chiesa di Santa Cecilia. Ciò che sembra assecondare lo spirito nuovo è invece l’abbandono,
come nel sonno, del corpo della santa. Maderno deve avere a lungo disegnato quella forma sorprendente di giovane
donna rannicchiata, e probabilmente non avrà negoziato l’idea di rinunciare a mostrarne il volto, che nel ritrovamento
apparve reclinato e forzosamente girato, anche per il vistoso taglio alla gola, che, diligentemente, lo scultore riproduce.
Il velo sulla testa è studiatamente scomposto, e verso di noi si volgono le braccia, con le mani inerti, molli, sospese in un
gesto che potrebbe indicare il mistero della Trinità: la destra con tre dita alzate, la sinistra con uno. La tunica è
avvolgente, con pieghe studiate e accarezzate, ma è il capo reclinato e girato ad accentuare la drammaticità, in una
commovente declinazione sentimentale.
Stefano Maderno, Santa Cecilia, basilica di Santa Cecilia in Trastevere, Roma
Maderno rappresenta la verità della morte come il sonno di un’adolescente, allontanando il dramma del martirio con
una delicatezza prima psicologica che formale. La semplicità è assoluta, analoga a quella della coeva Maddalena
penitente di Caravaggio, ora nella Galleria Doria Pamphilj a Roma. Fra i due artisti c’è un’intelligenza del cuore,
l’intuizione di celebrare la quiete del sonno, entrambi rubando una posizione inconsapevole: quella della santa
nell’attimo decisivo della scoperta, fissandone l’emozione per sempre; quella della Maddalena nel trarre vantaggio
dall’assopimento della modella. Inutile svegliarla: Caravaggio approfitta del suo sonno, evita di destarla, di
costringerla a una posa forzata per interpretare la parte. Non c’è miglior posa di questa, imprevista e spontanea. La
Santa Cecilia e la Maddalena sono sorelle nella contemporanea interpretazione dei due artisti. L’analoga scelta del
Maderno ci consegna una delle sculture più delicate e liriche che siano state consacrate alla morte, allontanandone la
minaccia con la trasfigurazione nella santità, della vita oltre la morte.
Caravaggio, Maddalena penitente, Galleria Doria Pamphilj, Roma
Caravaggio, Vocazione di san Matteo, part., chiesa di San Luigi dei Francesi, Roma
CARAVAGGIO
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Quel che Caravaggio ha visto
Caravaggio nasce a Milano il 29 settembre 1571.
Le forme parlano, anche per dirci ciò che non rivelano i documenti. Un lungo silenzio, infatti, si registra negli atti della
vita e nelle opere, un silenzio che corrisponde al periodo della sua esistenza al Nord.
La famiglia di Michelangelo Merisi è originaria del paese di Caravaggio, da cui prende il nome, ma il pittore nasce ed
è battezzato a Milano. Qui, in tempi abbastanza precoci – intorno ai dodici anni – va a studiare pittura nella bottega di
Simone Peterzano, l’artista al quale si deve il ciclo di affreschi e le pale d’altare della certosa di Garegnano, luogo in cui
il giovane Caravaggio andò per vedere e seguire il suo maestro e dove costruì, attraverso la visione di Peterzano, quello
che si può e si deve considerare come una rivoluzione: la pittura della realtà, una diversa visione del mondo. Davanti a
un quadro di Caravaggio è come se fossimo aggrediti dalle cose, è come se la realtà ci venisse incontro, come se lui la
riproducesse, esattamente come farà la fotografia.
Per arrivare a questa visione naturalista, o realista che dir si voglia, a questa riproduzione totalmente mimetica,
come il calco di un corpo, occorre intraprendere un percorso lungo e complesso. Ed è quello che noi cerchiamo di fare,
immaginando i percorsi di Caravaggio, i suoi movimenti, i luoghi dov’è stato nel tempo in cui ha vissuto a Milano e ha
guardato, ha camminato, ha perlustrato tutte le città del Nord, da Venezia a Milano, in quest’area che oggi si qualcuno
chiama Padània e che fu chiamata da grandi storici dell’arte Padanìa.
In realtà, comunque, di quanto Caravaggio ha fatto a Milano non sappiamo niente; eppure è inimmaginabile che un
giovane che comincia a dipingere intorno al 1584 non lasci nulla che possa consentirci di identificarlo in un embrione
del suo stile. Nell’anno in cui Caravaggio entra a bottega da Peterzano, a Milano, Giovanni Paolo Lomazzo pubblica il
Trattato dell’arte della pittura. Ebbene, in quel momento, con questo codice teorico e con i precetti sommamente
manieristici impartiti dal Peterzano, il giovane Caravaggio inizia la sua esperienza. Evidentemente insoddisfatto di
quanto Peterzano gli può raccontare, egli è curioso di vedere, di scoprire, e lo fa non per due o tre anni di peregrinazioni
ma in circa dodici, dal 1584 al 1596, un periodo che per noi, al momento, corrisponde a un buco incolmabile nella sua
biografia.
Capire cosa ha fatto in questi dodici anni, in assenza di opere, è possibile solo attraverso quello che ha visto, nel
senso letterale di quanto gli occhi di Caravaggio hanno visto, di ciò che hanno specchiato.
Alcunché di Giorgione, del suo afflato romantico, si avverte in Caravaggio, come già aveva osservato Federico Zuccari
davanti alla Vocazione di san Matteo in San Luigi dei Francesi, secondo quanto ci riferisce Giovanni Baglione: “che
rumore è questo? […] io non ci vedo altro che il pensiero di Giorgione”. Niente di più logico: Simone Peterzano è allievo di
Tiziano, che era allievo e amico di Giorgione. Ecco allora che il collegamento con Giorgione è dimostrato, per quanto di
Giorgione continua a vivere nelle forme di Peterzano, che colloquia col Caravaggio giovane. Il quale, però, insoddisfatto
di questa sistematizzazione, del manierismo tizianesco di Simone Peterzano, dobbiamo immaginare che cominci a
guardarsi intorno e vada in giro, non potendo non andare a Venezia per risalire alle fonti, per vedere direttamente
alcuni capolavori di Tiziano.
Caravaggio, Vocazione di san Matteo, part., chiesa di San Luigi dei Francesi, Roma
Penso soprattutto al Martirio di san Lorenzo nella chiesa dei Gesuiti a Venezia, in cui si sente il fuoco delle carni che
bruciano, delle lucerne, delle fiaccole, dei carboni ardenti, e si sente quasi il rumore di quella condizione di martirio,
caldo e febbricitante, in un chiaroscuro potentissimo. Insomma, un dipinto che non può non averlo suggestionato ed
emozionato profondamente. Ovviamente, intanto, a Venezia può vedere qualunque cosa, dalle estreme propaggini di
Leonardo, che sicuramente lo avrà incuriosito, attraverso ciò che ne restava nelle notevoli e importanti opere di
Giovanni Agostino da Lodi, alle altre opere di Tiziano e di Tintoretto. Venezia, dunque, è una tappa fondamentale per la
sua formazione.
Altro riferimento importante per gli occhi di Caravaggio è Giovanni Gerolamo Savoldo, del quale avrà ammirato, nella
chiesa di San Domenico di Castello, seguendo la guida di Sansovino edita nel 1581, l’Annunciazione, un’opera in cui la
mano della Vergine e l’ambiente in cui avviene questo incontro straordinario sono già pensieri caravaggeschi, che
Caravaggio ricorderà e vorrà riprodurre nei suoi capolavori giovanili. Savoldo è certamente la personalità che egli sente
più affine, in cui ritrova una parte di se stesso. Certamente lo insegue anche a Brescia, come si cercano gli artisti
amati. Ma a Brescia si ferma anche davanti alle opere di Moretto, nelle chiese della città e del contado. Penso alla
Apparizione della Madonna al sordomuto Filippo Viotti del santuario della Madonna di Paitone: Caravaggio non può non
osservare lo spessore dei panni della Vergine, che non è della pittura ma proprio del tessuto, una sensazione che
certamente gli entra nella testa e gli fa sentire la “verità” di questa materia, che si ritrova anche nelle pale più articolate
e più macchinose di Moretto, per il gusto e il piacere dei particolari della vita quotidiana.
Tiziano, Martirio di san Lorenzo, part., chiesa dei Gesuiti, Venezia
Romanino forse no, troppo lussureggiante, troppo deforme; ma Savoldo e Moretto il giovane Caravaggio li vede e li
studia certamente. Sono sicuri capisaldi di quella cultura pittorica bresciana già messa in riferimento alla formazione
di Caravaggio da Roberto Longhi in un suo remoto saggio del 1917, dal titolo sbrigativo Cose bresciane del Cinquecento.
E la parola “cose” serve per darne la consistenza fisica che attrarrà la curiosità di Caravaggio.
Abbiamo osservato, nel secondo volume del Tesoro d’Italia, che civiltà veneziana e civiltà lombarda si fondono nella
singolarissima esperienza artistica di Lorenzo Lotto, meraviglioso pittore veneziano con un’urgenza realistica nella
necessità, per un verso, di misurarsi con la vita quotidiana, e, per l’altro, di introspezione, di lettura del cuore dell’uomo,
di indagine psicologica, creando una singolarissima miscela in cui la pittura della realtà e un dolcissimo sentimento di
essa convivono con intense emozioni: un’emotività vibrante e intima. Dopo Savoldo, Caravaggio trova un suo simile,
maestro di verità e di vita, in Giovanni Battista Moroni, un pittore in cui sembrano convivere le memorie di Moretto,
senza rigidezze devozionali, e la sensibilità introspettiva e duttilissima di Lorenzo Lotto: Moroni è già una sorta di
archetipo di Caravaggio.
Savoldo, Annunciazione, Gallerie dell’Accademia, Venezia
Moretto da Brescia, Apparizione della Madonna al sordomuto Filippo Viotti, part., santuario della Madonna di Paitone,
Paitone
Tutto questo mondo padano, Caravaggio lo domina, lo vede e lo patisce in una serie di choc visivi, avendo una
sensibilità che nulla disperde: ne plasma la visione, si accumula, e non capiremo come si sfoghi finché non avremo la
ventura e la fortuna di trovare un’opera di Caravaggio dipinta in Lombardia. Quel giorno verrà. È sicuro che in una
chiesa, su un altare, sotto la sporcizia delle vernici vi sia una tela di Caravaggio dipinta fra il 1585 e il 1595, in questi
anni febbrili di ricerca, di concentrazione e meditazione sui pittori fin qui ricordati, che certo furono per lui inesauribili
stimoli.
In queste “strade di predestinazione”, come ben ricorda Longhi, possiamo immaginare che, di ritorno da Venezia
verso Milano, una sosta sicura sia stata Cremona, dove lo aspettano i Campi, in particolare Antonio e Vincenzo.
Abbiamo detto che a Milano, nella chiesa di San Paolo in Converso, vi sono alcune vaste composizioni dove l’invenzione
dei Campi è soprattutto un’intuizione luministica, che crea la sensazione di uno spazio teatrale, con fortissimi
contrasti. Sono già gli spazi che Caravaggio, semplificandoli, concepirà nei primi anni romani.
Meditate queste opere, Caravaggio è pronto a raccontare storie nuove trasfigurando il lirismo di Savoldo e Lotto, così
affini a lui. Nel Riposo durante la fuga in Egitto, la più lombarda delle sue opere, la rivoluzione è già compiuta. Ci sono gli
occhi di un asino che guardano, c’è san Giuseppe che sorregge lo spartito affinché l’angelo, meraviglioso, possa
suonare su quelle note; ma c’è un paesaggio padano, una luce di tramonto sul fiume, c’è la dolcezza della Madonna che
si addormenta: tutto quello che lui continua a ricordare delle terre da cui è partito. Davanti a queste evidenze
geografiche e interiori, sentimentali, non si “pretende di segnare itinerari precisi ai suoi viaggi (o siano pure
vagabondaggi) di apprendista; ma non si potrebbe porli mai in altra zona”, come rammenta Roberto Longhi.
Con Il riposo durante la fuga in Egitto, Caravaggio arriva dove è partito. Occhio per occhio, infine, questo percorso
immaginario ci conduce a un’apparizione. Quella Medusa in cui si riconosce un autoritratto con i lineamenti giovanili del
Caravaggio come doveva essere quando stava a Milano. Occhi che si specchiano e si vedono come Medusa, con i
serpenti al posto dei capelli. Occhi terrorizzati come di chi ha visto qualcosa di indicibile. Siamo alla fine degli anni di
conoscenza e agli inizi di un nuovo mondo: 1595-96. Sono gli occhi spiritati di un uomo che non ha paura di niente, che
guarda il male, che guarda il fuoco, che guarda l’inferno, che guarda la vita nella sua dimensione più drammatica, come
dimostrerà nei suoi capolavori. Intanto, ne ha visto l’annuncio. Gli occhi di questa Medusa sono gli occhi di Caravaggio
davanti a quello che fino ad allora non era stato possibile vedere, non era stato possibile concepire. Qualcosa che va
oltre l’immaginazione e che Caravaggio ci mostrerà con la rivoluzione della sua visione.
Caravaggio, Il riposo durante la fuga in Egitto, part., Galleria Doria Pamphilj, Roma
Nuove visioni
Nuova visione del mestiere, nuova visione della tecnica, nuova visione del mondo. Sono queste le innovazioni
straordinarie legate al nome di Caravaggio, che ne fanno uno degli artisti più importanti di tutti i tempi.
Del mestiere, perché Caravaggio afferma definitivamente l’autonomia intellettuale dell’artista, libero di creare le sue
opere e di venderle ai collezionisti invece di aspettare le commesse come facevano i vecchi artigiani. Della tecnica,
perché Caravaggio dipinge dal vero, non con disegni preparatori, realizzando solo alcune incisioni sulla tela sulle quali
costruisce le figure, accentuandone la plasticità attraverso un intenso contrasto fra la luce e l’ombra. Del mondo, infine,
perché il realismo “spietato” di Caravaggio riconduce l’uomo al valore della verità, dell’oggettività contro le menzogne
della retorica, e il cristiano al pauperismo del messaggio evangelico.
È la vita di strada, quella dei vicoli fetidi e pieni di mendicanti che una volta caratterizzavano Roma, Napoli, Milano,
che ispira la pittura di Caravaggio. Una vita di strada che mai era stata presa a modello, perché l’arte doveva illudere,
fingere, nobilitare ciò che non era nobile. Caravaggio compie la svolta e per primo dipinge le cose come sono, la
pienezza della vita così come si poteva cogliere nelle strade, l’improvvisa certezza di una verità che non si può
discutere.
La certificata frequentazione della strada, con i suoi rischi e le sue avventure, era per Caravaggio un modo per stare
sempre in presa diretta con le cose che, se non nella fase esecutiva, rigorosamente meditata, mandava riflessi
sull’opera d’arte, contaminandola, rendendola “impura”: è questo un atteggiamento tipicamente moderno del quale, con
diverse manifestazioni, ha dato testimonianza Pier Paolo Pasolini. E non a caso, come Pasolini, anche Caravaggio
possedeva un’anima profondamente cristiana; un cristianesimo al servizio dei più deboli, apparentemente
spregiudicato e provocatorio. In realtà, Caravaggio e Pasolini possedevano un rigore etico straordinario, assai più
profondo di quello che rivelano atteggiamenti stravaganti o abitudini sessuali poco “ortodosse”: essi cercavano nell’arte
la verità, la verità cristiana che riscatta dal male, dall’ingiustizia, dalla sofferenza.
Caravaggio, Medusa, part., Galleria degli Uffizi, Firenze
Certo, per entrambi non esisteva un rapporto immediato tra l’esperienza della vita vissuta e quella, ultima e
fondamentale, dell’opera d’arte. Caravaggio e Pasolini, cioè, non illustravano le esperienze della propria vita.
Nondimeno, la loro arte trovava le sue ragioni profonde nelle passioni, nei desideri, negli incontri, nella violenza,
perfino nella morte o nel suo presagio, ragioni sperimentate nel confronto diretto con la realtà.
Caravaggio, si è detto, vuole rappresentare la verità degli uomini e delle cose. Nel Ragazzo con canestro di frutta
della Galleria Borghese, opera concepita intorno al 1596-97, ne abbiamo la conferma. È un ragazzo preso dalla strada,
uno dei molti che appariranno nelle sue opere, tanto presente quanto antico, tanto reale quanto mitico. Caravaggio lo
dipinge nei primi tempi del suo lungo soggiorno a Roma, giunto probabilmente da Milano, quando lavorava nella
bottega di un grande pittore manierista, il Cavalier d’Arpino. Caravaggio sembra volerci dire che l’“animalità” e la
passionalità dell’uomo sono eterne e immutabili come ogni altra espressione della natura, come l’uva, i fichi, le mele.
Un’inedita visione naturalistica che Caravaggio deriva da quei rappresentanti della pittura della realtà – Lotto, Moretto,
Savoldo – che studiò nei suoi anni di formazione. E che a Roma rivela nella sua prima opera su commissione.
Vocazione del vero
Nelle sue Vite de’ pittori, scultori et architetti moderni, Giovanni Bellori scrive che all’arrivo di Caravaggio a Roma, il
cardinal del Monte “lo sollevò, dandogli luogo honorato in casa fra suoi gentilhuomini”. È lui che gli fa ottenere la prima
commissione pubblica: le tele per la Cappella Contarelli in San Luigi dei Francesi, con episodi della vita di san Matteo.
“Quì avvenne cosa, che pose in grandissimo disturbo, e quasi fece disperare il Caravaggio, in riguardo della sua
riputatione; poiché havendo egli terminato il quadro di mezzo di San Matteo, e postolo sù l’altare, fù tolto via da i Preti,
con dire che quella figura non haveva decoro, né aspetto di Santo, stando à sedere con le gambe incavalcate, e co’ piedi
rozzamente esposti al popolo. Si disperava il Caravaggio per tale affronto nella prima opera da esso pubblicata in
Chiesa, quando il Marchese Vincenzo Giustiniani si mosse à favorirlo, e liberollo da questa pena; poiché interpostosi
con quei Sacerdoti, si prese per il quadro e glie ne fece fare un altro diverso, che è quello si vede hora sù l’altare”. È un
episodio significativo del nuovo rapporto dell’artista con il committente.
Ciò che prima rimaneva in una cerchia ristretta di amatori, adesso è dichiarato agli occhi di tutti: Caravaggio non è
soltanto un buon pittore ma subito un maestro. Ancora Bellori: “tanto che li pittori all’hora erano in Roma presi dalla
novità, e particolarmente li giovini concorrevano a lui, e celebravano lui solo, come unico imitatore della natura e come
miracoli mirando l’opere sue, lo seguitavano a gara, spogliando modelli ed alzando lumi; e senza più attendere a
studio, ed insegnamenti, ciascuno trovava facilmente in piazza, e per via il maestro e gli esempi nel copiare il naturale”.
Caravaggio, Ragazzo con canestro di frutta, part., Galleria Borghese, Roma
Assistiamo ora allo sviluppo delle sue prime idee. Ecco le figure dipinte con lo stesso impegno dei fiori e dei frutti, e
l’episodio della Vocazione di san Matteo diventare una riunione di giocatori in osteria. Caravaggio sembra prescrivere a
se stesso una norma cui non potrà sottrarsi: quella di non rappresentare nessun avvenimento alla luce del sole, bensì
in una stanza schiarita da un lume, capace di determinare potenti chiaroscuri. Anche le scene ambientate all’aperto,
come il San Francesco in estasi e i vari San Giovanni Battista, sono riscaldate con un forte lume artificiale. Ma,
soprattutto, in Caravaggio, è molto vivo lo spirito teatrale. Le due grandi tele con la Vocazione e il Martirio di san Matteo,
così come le due versioni di San Matteo e l’angelo, furono sviluppate su un palcoscenico con pochi elementi essenziali
utili a definire l’ambiente: una finestra, un tavolo, due sedie per l’osteria o una colonna e un altare per la chiesa, uno
sgabello in bilico per lo studio del santo diventato evangelista. E si tratta sempre di scenografie originali: nella
Vocazione, i personaggi sono in costume dell’epoca, di diversa età, e mentre giocano sono sorpresi da un avvenimento
improvviso. Senza essere annunciati entrano dalla porta due pellegrini, e con essi una luce improvvisa. I pellegrini
sono vestiti con abiti senza tempo, camminano scalzi, hanno capelli poco curati, mani grandi e nodose; il più giovane
alza il braccio quasi con indolenza, facendo brillare la mano vibrante nell’ombra: vuole indicare uno dei giocatori,
Matteo, e lo fissa con intensità. Lo stupore e la curiosità di Matteo si rispecchiano nello sguardo del suo giovane amico.
Due altri giocatori non si accorgono di nulla, mentre un terzo si volta all’improvviso, intensamente attratto. Il dialogo
delle mani dei due protagonisti sa molto di mimica teatrale, ma è anche un essenzialissimo modo di comunicare, di
stare a metà strada fra il quotidiano e il simbolico.
Caravaggio, Vocazione di san Matteo, part., chiesa di San Luigi dei Francesi, Roma
Caravaggio, Vocazione di san Matteo, part., chiesa di San Luigi dei Francesi, Roma
Puro teatro è anche la pala centrale, nella seconda versione: vediamo il santo con il ginocchio su uno sgabello in
bilico, mentre intinge la penna, pronto a segnare i punti essenziali del discorso che gli enumera l’angelo sospeso a
mezz’aria. Il santo è, come si conviene alla poetica di Caravaggio, un semplice popolano, con la fronte solcata dalle
rughe per gli anni e i pensieri: ha le mani grosse, da lavoratore, pur essendo paludato in un largo mantello. Niente a
che fare con il rude popolano analfabeta della precedente versione, ma, pur normalizzato, sempre un personaggio
lontanissimo da quello che soltanto qualche anno prima l’evangelista era stato nelle innumerevoli rappresentazioni dei
pittori manieristi. Certo, con questi dipinti il Caravaggio entra d’ufficio nella pittura di storia, pur ostinandosi a vestirla
dei panni della cronaca quotidiana. Se finzione deve esserci – egli sembra pensare – deve apparire più vera del vero.
Caravaggio, San Matteo e l’angelo, part., chiesa di San Luigi dei Francesi, Roma
Caravaggio, San Matteo e l’angelo, Gemäldegalerie, Berlino
Caravaggio, San Matteo e l’angelo, chiesa di San Luigi dei Francesi, Roma
Conversione, Crocifissione, Seppellimento:
l’immagine ineluttabile
Con questo spirito, Caravaggio affronta subito la seconda grande impresa romana, le storie dei santi Pietro e Paolo
per la Cappella Cerasi in Santa Maria del Popolo. Compiute fra il 1599 e il 1600 le due tele di San Luigi dei Francesi,
come hanno rivelato i documenti, il Caravaggio non ha un attimo di respiro: ma la sua maturazione è così veloce, e le
sue contraddizioni sono così limpidamente risolte, che il Longhi ha potuto ritenere le opere dei due cicli distanti fra loro
sette o otto anni. In effetti, la sintesi delle nuove tele con la Conversione di san Paolo e la Crocifissione di san Pietro
manifesta risultati assai più avanzati di quelli appena raggiunti. Qui, addirittura, il Caravaggio può rinunciare
all’adattamento dell’episodio ai costumi e ai tempi moderni. Nel San Paolo sembra superfluo sottolineare l’inversione
spaziale del punto di vista, che, riducendo il santo a terra con le braccia levate, impone all’attenzione il grande corpo
del cavallo, senza che per un attimo la tensione religiosa si allenti in un compiacimento da scena di genere alla Iacopo
Bassano. La presenza dell’animale non attenua la certezza del miracolo, anzi la esalta, facendolo coincidere con la
flagranza della caduta: la caduta stessa è il miracolo. Chi stava in alto è ora a terra, la superbia è stata umiliata e
l’uomo è in balia dell’animale, che potrebbe d’improvviso schiacciarlo sotto gli zoccoli. Ma questa stessa umiliazione è
l’inizio della redenzione.
Lo stesso può dirsi per la Crocifissione di san Pietro: niente di più forte e di più terrestre dei corpi grevi, animaleschi,
sporchi dei carnefici. La loro energia brutale travolge ogni umana identità, e il solo del quale si veda il volto mostra una
maschera dalle rughe incise sulla pelle spessa con capelli corti e fittissimi. Questo è un vero martirio: sentiamo il peso
del legno della croce, leggiamo il dolore nel volto di Pietro, e anche qui tutto accade in un attimo, non c’è tempo da
perdere.
Caravaggio, Conversione di san Paolo, part., basilica di Santa Maria del Popolo, Roma
Straordinari monumenti dell’azione, questi due dipinti sembrano una dichiarazione di guerra contro l’Annibale
Carracci cui è affidata l’Assunzione della Vergine per l’altare maggiore della stessa cappella, la visione di un mondo
senza tempo, mentre quella del Caravaggio è insieme del suo tempo e di tutti i tempi, oscura allegoria della violenza.
Per mostrare quanto radicale fosse il dissidio, Caravaggio aveva dato una seconda versione più estremistica della
Conversione di san Paolo, la cui primitiva versione è conservata nella collezione Odescalchi, macchina meravigliosa e
complicata, dove l’azione si moltiplica in tanti episodi, con una concezione dello spazio ancora manieristica. Si ha
ragione di stupirsi che le edizioni finali dei due dipinti siano state accettate senza le discussioni e censure cui il
Caravaggio aveva dovuto sottostare per San Matteo e l’angelo. Ma la forza degli avvenimenti è tradotta in termini così
essenziali che sembra di assistervi direttamente, come se non potessero essere accaduti che in quel modo. Credo che
questa sensazione dovesse aver avuto anche il committente, monsignor Tiberio Cerasi, come qualcosa di ineluttabile.
Per il Longhi, nella Crocifissione “le cose accadono con un’evidenza incolpevole, dove ognuno attende all’opera sua”.
Caravaggio, Conversione di Saulo, part., collezione Odescalchi, Roma
Caravaggio, Crocifissione di san Pietro, part., basilica di Santa Maria del Popolo, Roma
In modo più tragico, questo spirito ritorna nel Seppellimento di santa Lucia, dove ritroviamo i due impressionanti bruti
che scavano la fossa davanti ai pietosi devoti. L’episodio è ambientato nella latomia di Siracusa, visitata da Caravaggio
in compagnia dell’erudito Vincenzo Mirabella, che lo guidò nella grotta detta “Orecchio di Dioniso”. Nella mente di
Caravaggio dovette agire fortemente la suggestione di quei luoghi, evocati nella vasta e dura parete che incombe sui
personaggi, quasi comprimendoli, e sospingendoli in un abisso dove non può arrivare la luce. Uno degli incubi più
terribili della storia dell’arte.
Caravaggio, Seppellimento di santa Lucia, part., chiesa di Santa Lucia alla Badia, Siracusa
Caravaggio, Vocazione di san Matteo, chiesa di San Luigi dei Francesi, Roma
Caravaggio, Riposo durante la fuga in Egitto, Galleria Doria Pamphilj, Roma
Caravaggio, Ragazzo con canestro di frutta, Galleria Borghese, Roma
Caravaggio, Medusa, Galleria degli Uffizi, Firenze
Caravaggio, Conversione di san Paolo, Santa Maria del Popolo, Roma
Caravaggio, Conversione di Saulo, collezione Odescalchi, Roma
Caravaggio, Crocifissione di san Pietro, basilica di Santa Maria del Popolo, Roma
Caravaggio, Seppellimento di santa Lucia, chiesa di Santa Lucia alla Badia, Siracusa
Guido Reni, Aurora conduce il carro di Apollo, part., Casino dell’Aurora, Palazzo Pallavicini Rospigliosi, Roma
GUIDO RENI
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FINISCE LA NOTTE
La presenza di Caravaggio a Roma e la straordinaria eredità che lascia non impediscono, come già si intendeva
bene nella Cappella Cerasi in Santa Maria del Popolo, dominata dall’Assunzione della Vergine di Annibale Carracci,
che la forza della tradizione raffaellesca e la sua ispirazione al bello ideale perdurino nello stesso tempo e, alla fine,
prevalgano.
Giovanni Pietro Bellori, combattuto ammiratore di Caravaggio, suo malgrado e contro i suoi stessi principi, solleciterà
i pittori a perseguire il miraggio di quel bello ideale, vilipeso, contrastato e negato dal Merisi. Da una parte, dunque, la
pittura della realtà; dall’altra, la pittura del bello ideale.
Morti quasi contemporaneamente Caravaggio (1610) e Annibale Carracci (1609), il seguito del primo è dirompente,
diramato, travolgente: se ne vede un esempio formidabile nelle Scene della vita di san Francesco di Simon Vouet, che
occupano lo spazio della Cappella di San Lorenzo in Lucina, con una dissacratoria fantasia carica di sensualità e di
turbamenti. Sull’altro fronte non mancano, soprattutto con Domenichino e Francesco Albani, i continuatori, di eletto
magistero, di Annibale Carracci; ma l’antagonista vero e radicale, in un percorso che lo porterà alla dissoluzione della
forma e del colore in pura essenza, è Guido Reni.
Fin dai suoi esordi, paralleli all’esperienza della strada con i ragazzi di vita di Caravaggio, Guido Reni ha chiari i
suoi riferimenti, che non saranno certo bacchini malati e amorini vincitori di controverso erotismo, bensì, come si
conviene, riflessioni sul momento più alto del classicismo bolognese in forza della presenza di Raffaello. Forte
dell’esperienza che arriva da Annibale Carracci a Palazzo Farnese, Reni si appresta a superarlo nella stessa
dimensione del mito e dell’ideale: lo spazio sarà sempre aulico e sempre a Roma (il Casino dell’Aurora Pallavicini), e
anche Guido viene da Bologna. È più giovane di Annibale e anche (di tre anni) del Caravaggio.
A Bologna trova un terreno favorevole nella bottega di un uomo colto e curioso come il fiammingo Denijs Calvaert, ma
non riesce a staccare gli occhi (producendone diverse derivazioni) dall’Estasi di santa Cecilia di Raffaello. A vent’anni
entra nell’Accademia degli Incamminati e a Bologna lascia l’Incoronazione della Vergine, oggi nella Pinacoteca
nazionale, la Madonna col Bambino, san Domenico e i misteri del rosario nella basilica di San Luca e l’Assunzione di
Pieve di Cento.
Arriva a Roma in apertura del nuovo secolo, il 1600, e affronta il Martirio della santa nella basilica di Santa Cecilia in
Trastevere, ma anche una copia dell’Estasi di santa Cecilia per la chiesa di San Luigi dei Francesi. Passa a Loreto e a
Osimo e torna a Roma nel 1605 per dipingere la Crocifissione di san Pietro, nella quale sembra voler emulare
Caravaggio, ma più per soggetto e forme esterne che per tensione espressiva e forza drammatica, non volendosi
staccare dall’ideale raffaellesco preservato nell’esperienza dei Carracci.
Guido Reni, Santa Cecilia, chiesa di San Luigi dei Francesi, Roma
Guido Reni, Aurora conduce il carro di Apollo, Casino dell’Aurora, Palazzo Pallavicini Rospigliosi, Roma
La sua indisponibilità al caravaggismo si manifesta pienamente negli affreschi di San Gregorio al Celio e in quelli di
assoluto irrealismo per la Cappella dell’Annunciata del Palazzo del Quirinale. Sono, questi, gli anni di un capolavoro di
classicismo e teatralità: la Strage degli innocenti del 1610.
Nel 1612 lo troviamo a dipingere gli affreschi di Santa Maria Maggiore e, subito dopo, su commissione di Scipione
Borghese, l’affresco dell’Aurora, compiuto nel 1614. Il suo idealismo, così convinto da mandare bagliori fino all’età
neoclassica e oltre, ha una natura talmente apollinea da conquistare tutto lo spazio della volta celeste: il carro di Apollo
nel corteo delle Ore è preceduto dall’Aurora; sopra i quattro cavalli vola Phosforos, il cavallo del mattino, con una torcia
accesa, e, più in basso, un lindo paesaggio marino attraversato da bianche vele. Il cielo di Guido Reni è dorato. Apollo
guida il suo carro dentro il Sole, preceduto dall’Aurora in volo, sopra uno sconfinato mare azzurro. È finita la notte.
Guido Reni, Caduta dei giganti, part., Musei civici, Pesaro
Raffaello può ritenersi soddisfatto: Guido Reni lo ha vendicato dopo che la pittura era stata trascinata sulla strada e
costretta a misurarsi con soggetti più bassi e popolari. Caravaggio non solo è alle spalle: è rimosso. E Guido ritorna agli
dei e al cielo per non scenderne più. La sua Aurora rappresenta un nuovo inizio, senza il principale rivale, dopo la
prima stagione romana. Chiamato da Paolo V, ritornò, appunto, nel 1613, e fu pagato nel 1616, come leggiamo in un
documento, in cui è ricordato come Guido “Renzi”.
Manifesto del nuovo idealismo, il capolavoro di Reni apre la strada a una carriera con alcuni episodi mai drammatici
per contrasto di forze, ma sempre memorabili per armonia di forme. Ne è un esempio l’Annunciazione, inviata ad Ascoli
Piceno nel pieno della maturità, quando Reni aveva 53 o 54 anni.
Mai nessuno prima, se non Beato Angelico, aveva concepito un simile mondo di perfezioni, un’immagine più pura di
questa: l’Angelo è sceso di cielo in terra a miracolo mostrare. È un adolescente leggiadro, femmineo, guidato da una
luce che proviene dallo stesso cielo dell’Aurora. I cieli di Reni sono imperturbabili, anche quando sono turbati. Le ali,
più grandi di lui, si alzano come un monito semplice alla vergine timida e composta, ma interiormente regale perché
scelta da Dio. Sono due giovinetti che, timidamente, s’incontrano, scambiandosi parole d’amore. È finito il momento dei
grandi festeggiamenti in sontuosi palazzi: nella piccola e decorosa stanza della Vergine, con la finestra che si affaccia
su un paesaggio azzurro e rosato, l’angelo entra come un corteggiatore sospinto da una nuvola, per poter ritornare,
come un sogno, nel suo cielo.
La semplicità della composizione è disarmante. Il Bellori (che era nato nell’anno dell’Aurora) poteva iniziare a dirsi
soddisfatto, ma Guido non lo era. E, continuamente inquieto, era determinato a dissolvere la forma. Ne abbiamo un
esempio, circa dieci anni dopo, in un’opera consistente per concezione e soggetto: la Caduta dei giganti, dipinta per
Casa Isolani a Bologna.
Quanto all’apparenza la forma è consistente, tanto più l’esecuzione si fa rarefatta, impalpabile, con una materia
pittorica liquida e sottile, distesa con colpi veloci e grande consapevolezza degli effetti. Lo vediamo bene nel braccio del
gigante più vicino a noi, che, con una mano d’aria, sostiene un masso apparentemente pesante. Guido sta realizzando
il suo obiettivo: tradurre la materia in pensiero, dipingere nell’aria, alitare la forma. Nessun pittore era arrivato a tanto,
neanche l’ultimo Tiziano, informale ma rimasto materico. Per Reni la realtà è essenza, e tutto deve trasfigurare in luce.
Con questo sembra anticipare un’intuizione di Montale: “Svanire è dunque la ventura delle venture”. Ed è questa la
condizione cui aspira l’artista, annullando le forme sino a farle diventare aria o nebbia, e i colori fino alla monocromia,
come il Giove della Caduta dei giganti, che ha tutta la potenza immersa nel rosa.
Nessuno, se non Michelangelo, ha compreso la forza del non finito come Guido Reni, il quale però lo trasporta fuori
della forma, alla ricerca dell’essenza. Le sue opere, dal 1640 al 1642, anno della morte – con diversi soggetti, anche
monumentali, e sempre non finite – passarono dalla bottega del pittore alla collezione del cardinal Sacchetti, e poi da
Benedetto XIV ai Musei Capitolini. Una serie di opere commoventi per ciò che nascondono e per ciò che rivelano. Reni,
alla fine della vita, si libera di tutto: dell’iconografia, dei soggetti mitologici e religiosi, del disegno, della materia e del
colore. Dipinge fantasmi, arrivato alla fine del bello e anche dell’ideale, e ancora più lontano da Caravaggio. Dei corpi,
se mai vi furono, restano soltanto le anime. E le anime sono espresse in una pittura senza consistenza.
Nessuno è andato più in là, partendo da un mondo certo, nemmeno Turner. L’ultimo Guido Reni sembra
corrispondere al titolo del libro su di lui scritto da Manlio Cancogni: Il genio e il niente.
Guido Reni, Caduta dei giganti, Musei civici, Pesaro
Guido Reni, Annunciazione, Pinacoteca civica, Ascoli Piceno
Gian Lorenzo Bernini, David, part., Galleria Borghese, Roma
GUIDO RENI
____________________________
L’INVENZIONE DEL BAROCCO
Caravaggio è ancora vivo quando un artista bambino inizia a cambiare un’altra volta il mondo, dando inizio all’età
barocca: è Gian Lorenzo Bernini, figlio di Pietro, pittore e scultore toscano che lavora a Napoli alla certosa di San
Martino. A Napoli, nel 1598, nasce Gian Lorenzo. Sette anni dopo, Pietro si trasferisce a Roma, dove lavora per Paolo V
Borghese.
Con il padre Gian Lorenzo probabilmente inizia a lavorare nel 1611 per le tombe dei papi Paolo V e Clemente VIII.
Roma era il centro del mondo e un punto di osservazione straordinario in quegli anni, con la presenza di decine di pittori
influenzati da Caravaggio, ma anche di classicisti bolognesi come Annibale Carracci e Guido Reni. E, ancora, con la
presenza di Rubens, che tra il 1605 e il 1608 aveva lasciato i suoi capolavori nella chiesa Nuova: forse è proprio lui, con
il suo vitalismo, a suggestionare più di ogni altro Bernini. In ogni caso, lavorando per il cardinal Scipione Borghese alle
sculture destinate ai giardini della villa, Bernini condivide con Caravaggio il primato degli interessi del porporato.
Questi, esaurita la passione caravaggesca, gli commissiona quattro gruppi scultorei: Enea e Anchise, Il ratto di
Proserpina, il David e Apollo e Dafne.
Con le ultime due sculture, eseguite tra il 1623 e il 1625, Bernini compie una rivoluzione. Il David, ben oltre
Michelangelo, introduce il movimento, un dinamismo che anima la pietra e la rende viva fino a farla palpitare. Ma è
dall’Apollo e Dafne che nasce un mondo nuovo. Bernini non sente più il vincolo della realtà, della vita della strada, e
ritorna al mito, gli ridà carne e vita, sensualità, erotismo. Anziché sfuggire ad Apollo, la sua Dafne spera di esserne
rapita, si concede mentre scappa. Il giovane dio non la insegue ma le sta alle spalle in un ritmo di danza; e lei indugia,
desiderosa di essere presa piuttosto che trasformarsi in corteccia.
Gian Lorenzo Bernini, Apollo e Dafne, part., Galleria Borghese, Roma
Gian Lorenzo Bernini, David, Galleria Borghese, Roma
Gian Lorenzo Bernini, Apollo e Dafne, Galleria Borghese, Roma
Bernini descrive tutto. Anche il dettaglio dell’albero, e dei rami, e delle foglie. Ma soprattutto il desiderio dei due corpi
di fondersi, di essere una sola cosa. Egli descrive non la violenza bensì la grazia, i due corpi di adolescenti,
l’imperturbabilità di Apollo e l’urlo contratto di Dafne, disperata di non poter essere presa. Per fortuna, come scrive John
Keats nell’Ode su un’urna greca, tutto rimarrà sospeso: lui non potrà raggiungerla, lei non si trasformerà in pianta. E
l’ansia e il desiderio rimarranno la condizione eterna di questo gruppo in perfetta tensione, ovvero in movimento, primo
motore, a pieni giri, dell’età barocca.
Ritratto di Scipione Borghese
Il committente del David e dell’Apollo e Dafne ha un volto. Anzi, due volti. Dopo l’età romana, e con qualche raro
esempio in età federiciana (soprattutto nei busti monumentali di Capua), è con Bernini che si perfeziona il busto-ritratto.
Abbiamo visto begli esempi nel Rinascimento fiorentino: Donatello, Benedetto da Maiano, Mino da Fiesole, e ancor più,
quel grande ritrattista che fu Alessandro Vittoria. Ma nessuno, neanche Caravaggio in pittura, riuscì a trasferire nella
propria materia d’arte tutta la vita, il calore, il sudore, l’odore dei suoi personaggi come Bernini fece nei due ritratti di
Scipione Borghese, apparentemente identici e diversamente vivi.
Gian Lorenzo Bernini, Ritratto di Scipione Borghese (II), part., Galleria Borghese, Roma
Gian Lorenzo Bernini, Ritratto di Scipione Borghese (II), Galleria Borghese, Roma
Gian Lorenzo Bernini, Ritratto di Scipione Borghese (I), Galleria Borghese, Roma
Perché due? Per quale capriccio di committente?
In realtà, l’insoddisfatto doveva essere lo stesso Bernini. Quando iniziò a sbozzare il marmo, si accorse di un difetto
che non gli impedì di andare avanti con impegno anche maggiore, nella speranza di dissimularlo o di interpretarlo
come una vena. Così si spiega perché anche il ritratto difettoso fu compiuto. Ma il tentativo non riuscì, pur con tutto
l’impegno l’artista non poteva trasformare la materia. Così, procuratosi un blocco di marmo integro, ne fece un secondo,
in tutto identico, nel giro di poche settimane. Anche nella seconda versione il cardinale è beffardo, accaldato, con la
tonaca spiegazzata, la bocca semiaperta come per l’ansimare. Ma ciò che più colpisce è la resa della pelle, con le
mollezze della pinguedine, a emulare la consistenza della carne.
I ritratti di Bernini sostituiscono e perfezionano la realtà, senza idealismi.
Estasi di santa Teresa
Il genio di Bernini si manifesta eminentemente come teatro, e se ne ha la più alta esemplificazione nella Cappella
Cornaro di Santa Maria della Vittoria, a Roma, dove l’artista immagina l’Estasi di santa Teresa.
La cappella improvvisamente si anima e diventa un vero e proprio teatro. La luce cade dall’alto, da un cupolino, e si
rifrange sui raggi di legno dorato alle spalle del gruppo. In alto, due palchetti ufficiali con i committenti alludono in modo
esplicito alla rappresentazione scenica. Bernini suggerisce di riparare all’insolenza dell’angelo compiaciuto che
sostiene santa Teresa con un’estensione del brivido luminoso, una scossa elettrica che scuote fino all’inverosimile le
forme nascoste della terra, le emozioni improvvise dei sensi. Santa Teresa si agita sotto la tonaca che non riesce a
celarne i brividi, i sussulti. L’angelo sorride, compiaciuto, come un Apollo cui sia stato consentito di possedere Dafne,
abbandonata, stremata, affranta. L’angelo è euforico, dominante, come un soldato che abbia combattuto e vinto il
nemico. La santa è spossata e felice in questa vera Hypnerotomachia.
Gian Lorenzo Bernini, Estasi di santa Teresa, part., chiesa di Santa Maria della Vittoria, Roma
Bernini è andato oltre l’architettura, la scultura, la scenografia, il teatro e perfino la pittura, nelle nuances di luce e
ombra che animano la veste della santa. È entrato in una dimensione psicoanalitica. Mai prima di questo capolavoro la
scultura e la pittura – neanche nei precedenti delle cupole del Correggio – erano arrivate a cogliere così intimamente la
trasfigurazione, anzi la transverberazione, di un corpo in uno stato d’animo, in una condizione di pura beatitudine
sublimata in luce. Bernini attinge, com’è evidente, anche alla letteratura e alla musica, ovvero a tutte le condizioni
dell’arte. La sua Estasi di santa Teresa è una vera e propria Gesamtkunstwerk, un’opera d’arte totale, in una vertigine dei
sensi e delle forme.
Estasi della beata Ludovica Albertoni
Bernini fu pittore di sensibilità straordinaria e con una pittura di tocco che ambiva a rappresentare l’anima prima dei
corpi, come si vede nei numerosi autoritratti. Fu anche scenografo e architetto, dal baldacchino della basilica di San
Pietro, con le imponenti colonne tortili, al completamento di Palazzo Barberini, al Palazzo di Montecitorio, al colonnato di
San Pietro fino al teorema della chiesa di Sant’Andrea al Quirinale. Nella scultura, sempre in ambito romano, compie la
fontana del Tritone, la Verità scoperta dal tempo, la fontana dei Quattro fiumi a piazza Navona, il monumento funebre per
suor Maria Raggi a Santa Maria sopra Minerva, il busto di Innocenzo X alla Galleria Doria Pamphilj. E ancora, nella
Cappella Chigi di Santa Maria del Popolo, le statue di Daniele e Abacuc con l’angelo, e il monumento equestre
dell’imperatore Costantino in San Pietro. L’esperienza dell’Estasi di santa Teresa spinge Bernini a perfezionarne il
tema nella Beata Ludovica Albertoni per la Cappella Altieri in San Francesco a Ripa. Anche in questo caso, la beata è
presa da un’agitazione incontenibile, espressa nell’elaboratissimo panneggio che riveste il suo corpo e ne registra
tutti i sussulti, in un’umanissima condizione di beatitudine compiutamente erotica. Non c’è neppure trasfigurazione,
solo definizione ambientale, con i materassi e i cuscini su cui posa la donna. Per noi è come entrare in una dimensione
intima, osare l’inosabile, vedere l’invisibile, con una sensualità, una morbidezza che troveremo soltanto, a distanza di
tre secoli, in alcuni momenti di sensualità morbosa di Pierre Bonnard.
Bernini insiste nello spingere alle estreme conseguenze la sensibilità barocca. Il suo obiettivo è vincere la morte, far
prevalere la vita sulla forma, agitare il marmo fino a dargli una diversa dimensione. Nessuno si era spinto fino a questi
confini, oltre i quali la stessa materia si trasfigura.
Gian Lorenzo Bernini, Estasi di santa Teresa, chiesa di Santa Maria della Vittoria, Roma
Gian Lorenzo Bernini, Estasi della beata Ludovica Albertoni, part., chiesa di San Francesco a Ripa, Roma
Gian Lorenzo Bernini, Estasi della beata Ludovica Albertoni, chiesa di San Francesco a Ripa, Roma
INDICI
____________________________
INDICE DEI NOMI
____________________________
Sono indicati in corsivo i numeri di pagina riferiti alle didascalie.
Acilio, Laura de, [1]
Albani, famiglia, [1]
Albani, Francesco, [1]
Albertinelli, Mariotto, [1]
Aldrovandi, Ulisse, [1]
Allori, Alessandro, [1], [2], [3]
Altdorfer, Albrecht, [1]
Ammannati, Bartolomeo, [1]
Anguissola, Lucia, [1]
Anguissola, Sofonisba, [1]
Antonio da Sangallo, [1]
Arcangeli, Francesco, [1], [2]
Arcimboldi, Giuseppe (Arcimboldo), [1], [2], [3], [4], [5], [6], [7], [8]
Aretino, Pietro, [1], [2]
Ariosto, Ludovico, [1], [2]
Aspertini, Amico, [1], [2], [3], [4], [5], [6]
Baglione, Giovanni, [1]
Bagnacavallo (Bartolomeo Ramenghi), [1]
Baiardi, Francesco, [1]
Bandini, Giovanni, [1]
Barocci, Federico, [1], [2], [3], [4], [5], [6], [7], [8], [9]
Bassano, Iacopo, [1], [2], [3], [4], [5], [6], [7], [8], [9], [10], [11], [12], [13], [14]
Bastianino (Sebastiano Filippi), [1], [2], [3], [4], [5], [6]
Battiferri, Laura, [1]
Beccafumi, Domenico, [1], [2], [3], [4], [5], [6], [7], [8]
Begarelli, Antonio, [1]
Bellini, Giovanni, [1], [2]
Bellori, Giovanni Pietro, [1], [2], [3], [4]
Bembo, Giovanni Francesco, [1]
Bembo, Pietro, [1], [2]
Benedetto da Maiano, [1]
Benedetto XIV (Prospero Lorenzo Lambertini), papa, [1]
Bentivoglio, signori di Bologna, [1]
Benvenuti, Mario, [1]
Bernardelli Curuz, Maurizio, [1]
Bernini, Gian Lorenzo, [1], [2], [3], [4], [5], [6], [7], [8], [9], [10]
Bernini, Pietro, [1]
Beuckelaer, Joachim, [1], [2]
Blake, William, [1], [2], [3]
Boccaccino, Boccaccio, [1], [2], [3], [4]
Bonnard, Pierre, [1], [2]
Borghese, Scipione, [1], [2], [3]
Borghini, Vincenzo, [1]
Bosch, Hieronymus, [1]
Boschini, Marco, [1]
Bramante (Donato “Donnino” di Angelo di Pascuccio), [1]
Bramantino (Bartolomeo Suardi), [1]
Brembati, Isotta, [1]
Bronzino (Agnolo di Cosimo di Mariano), [1], [2], [3], [4], [5], [6], [7], [8], [9], [10]
Buonarroti, Michelangelo, [1], [2], [3], [4], [5], [6], [7], [8], [9], [10], [11], [12], [13], [14], [15], [16], [17], [18], [19], [20],
[21], [22], [23], [24], [25], [26], [27], [28], [29], [30], [31], [32], [33], [34], [35], [36], [37], [38]
Butteri, Giovanni Maria, [1], [2], [3]
Calvaert, Denijs, [1]
Cambiaso, Luca, [1], [2], [3], [4], [5], [6], [7], [8]
Campi, Antonio, [1], [2], [3], [4], [5]
Campi, Bernardino, [1], [2], [3], [4], [5]
Campi, Giulio, [1]
Campi, Vincenzo, [1], [2], [3], [4], [5]
Cancogni, Manlio, [1]
Candido, Elia, [1]
Canozi, Cristoforo, vedi Lendinara, Cristoforo
Caravaggio (Michelangelo Merisi), [1], [2], [3], [4], [5], [6], [7], [8], [9], [10], [11], [12], [13], [14], [15], [16], [17], [18],
[19], [20], [21], [22], [23], [24], [25], [26], [27], [28], [29], [30], [31], [32], [33], [34], [35], [36], [37], [38], [39], [40], [41], [42],
[43], [44], [45], [46], [47], [48], [49], [50], [51], [52], [53], [54], [55], [56], [57], [58], [59], [60], [61], [62]
Carlo II Francesco d’Asburgo, arciduca d’Austria, [1]
Carpaccio, Vittore, [1]
Carracci, Annibale, [1], [2], [3], [4], [5], [6], [7], [8], [9], [10], [11], [12], [13], [14], [15]
Castello, Valerio, [1]
Castiglione, Baldassarre, [1], [2]
Cavalier d’Arpino (Giuseppe Cesari), [1], [2], [3], [4], [5]
Cavalori, Mirobello, [1]
Cazzullo, Aldo, [1]
Cerasi, Tiberio, [1]
Cimabue (Cenni di Pepo), [1]
Clemente VII (Giulio Zanobi di Giuliano de’ Medici), papa, [1]
Clemente VIII (Ippolito Aldobrandini), papa, [1]
Conconi Fedrigolli, Adriana, [1]
Contarini, Gaspare, [1]
Contini, Gianfranco, [1]
Contucci, Andrea, [1]
Correggio (Antonio Allegri), [1], [2], [3], [4], [5], [6], [7], [8], [9], [10], [11]
Costa, Lorenzo, [1], [2]
Cranach, Lucas il Vecchio, [1], [2]
Cremona, Tranquillo, [1]
Daniele da Volterra (Daniele Ricciarelli, detto il Braghettone), [1], [2], [3], [4], [5]
d’Annunzio, Gabriele, [1], [2], [3]
Danti, Vincenzo, [1]
Domenichino (Domenico Zampieri), [1]
Donatello (Donato di Niccolò di Betto Bardi), [1]
Dossi, Dosso, [1], [2], [3], [4], [5], [6], [7], [8], [9], [10], [11]
Dürer, Albrecht, [1], [2], [3]
Dvořák, Antonín, [1]
Eleonora da Toledo, duchessa di Firenze, [1]
Ercole de Roberti, [1]
Escher, Maurits Cornelis, [1], [2], [3]
Fagiolo dell’Arco, Maurizio, [1]
Farnese, famiglia, [1]
Farnese, Odoardo, [1]
Fenzoni, Ferraù, [1], [2], [3], [4], [5]
Ferrante Gonzaga, principe di Molfetta, [1]
Ferrari, Gaudenzio, [1], [2]
Fidia, [1]
Filippi, Camillo, [1]
Filippi, Sebastiano, vedi Bastianino
Foscolo, Ugo, [1]
Fra Bartolomeo (Bartolomeo di Paolo o Baccio della Porta), [1]
Francesco del Cossa, [1]
Francesco Ferdinando d’Avalos, marchese di Pescara, [1]
Francesco I de’ Medici, granduca di Toscana, [1], [2]
Francesco Maria II della Rovere, duca di Urbino, [1]
Francia, Francesco, [1]
Franco, Battista, [1], [2], [3], [4], [5]
Fugger, famiglia, [1]
Füssli, Johann Heinrich, [1], [2], [3]
Gambara, Lattanzio, [1]
Garofalo (Benvenuto Tisi), [1]
Gentileschi, Artemisia, [1]
Gherardo delle Notti, [1]
Giambellino, vedi Bellini, Giovanni,
Giambologna (Jean de Boulogne), [1]
Gilberti, Giammatteo, [1]
Giorgione (Giorgio da Castelfranco), [1], [2], [3], [4], [5], [6], [7], [8], [9], [10], [11]
Giovanni Agostino da Lodi, [1]
Girolamo da Carpi, [1]
Girolamo da Treviso, [1], [2]
Giulio II (Giuliano della Rovere), papa, [1]
Giulio Romano, [1], [2], [3], [4], [5], [6], [7], [8], [9], [10], [11], [12], [13], [14]
Gonzaga, Ippolita, [1]
Goya, Francisco, [1], [2], [3]
Greco, El (Dominikos Theotokopoulos), [1], [2], [3], [4], [5], [6], [7], [8]
Grimani, Domenico, [1]
Grimani, Marcantonio, [1]
Grimani, Marino, [1]
Gritti, Andrea, [1]
Grumelli, Gian Gerolamo, [1]
Grünewald, Matthias, [1]
Guidobaldo II Della Rovere, duca di Urbino, [1]
Holbein, Hans il Giovane, [1]
Innocenzo da Imola, [1], [2]
Keats, John, [1]
Lamo, Alessandro, [1]
Leonardo da Vinci, [1], [2], [3], [4]
Leone X (Giovanni di Lorenzo de’ Medici), papa, [1]
Lippi, Filippino, [1]
Lomazzo, Giovanni Paolo, [1]
Longhi, Roberto, [1], [2], [3], [4], [5], [6], [7], [8], [9], [10], [11], [12], [13], [14], [15]
Lorenzi, Stoldo, [1]
Lotto, Lorenzo, [1], [2], [3], [4], [5], [6], [7], [8], [9], [10], [11], [12], [13], [14], [15], [16], [17]
Macchietti, Girolamo, [1]
Maderno, Stefano, [1], [2]
Malvasia, Carlo Cesare, [1]
Mancini, Domenico, [1]
Manet, Édouard, [1]
Manzini, Benedetto, [1]
Maria Anna di Wittelsbach, principessa di Baviera e arciduchessa d’Austria, [1]
Masaccio (Tommaso di ser Giovanni Cassai), [1]
Maso da San Friano, [1]
Massimiliano II d’Asburgo, imperatore del Sacro Romano Impero, [1], [2]
Mazzolino, Ludovico, [1]
Mazzucco, Melania, [1]
Melone, Altobello, [1], [2], [3], [4], [5], [6], [7]
Michiel, Marcantonio, [1], [2]
Mino da Fiesole, [1]
Mio, Giovanni de, [1], [2]
Mirabella, Vincenzo, [1]
Monet, Claude, [1]
Montale, Eugenio, [1]
Moretto da Brescia, [1]
Moretto da Brescia (Alessandro Bonvicino), [1], [2], [3], [4], [5], [6], [7], [8], [9], [10], [11], [12], [13], [14], [15], [16]
Morigia, Paolo, [1]
Moroni, Giovanni Battista, [1], [2], [3], [4], [5]
Napoleone Bonaparte, imperatore dei francesi, [1]
Niccolò d’Arras, [1]
Niccolò dell’Abate, [1], [2]
Niccolò dell’Arca, [1], [2]
Nicolò da Ponte, [1]
Palladio, Andrea, [1], [2], [3], [4]
Pallavicino, famiglia, [1], [2]
Pallucchini, Rodolfo, [1], [2]
Palma il Giovane, Jacopo (Giacomo Nigretti), [1]
Panciatichi, Lucrezia, [1]
Paolo III (Alessandro Farnese), papa, [1], [2]
Paolo IV (Gian Pietro Carafa), papa, [1]
Paolo V (Camillo Borghese), papa, [1], [2]
Parmigianino (Francesco Mazzola), [1], [2], [3], [4], [5], [6], [7], [8], [9], [10], [11], [12], [13], [14], [15], [16], [17], [18],
[19], [20], [21]
Pasolini, Pier Paolo, [1], [2], [3]
Passerotti, Bartolomeo, [1], [2], [3]
Perugino (Pietro di Cristoforo Vannucci), [1], [2], [3]
Peruzzi, Baldassarre, [1]
Peterzano, Simone, [1], [2], [3], [4], [5], [6], [7], [8], [9]
Petrarca, Francesco, [1]
Piazza, Callisto, [1], [2]
Picasso, Pablo, [1]
Piccio, il (Giovanni Carnovali), [1]
Piero di Cosimo (Piero di Lorenzo di Chimenti), [1]
Pino, Marco, [1], [2], [3], [4], [5], [6], [7]
Pisani, Vettor, [1]
Poggini, Domenico, [1]
Pollock, Jackson, [1]
Pontormo (Jacopo Carrucci), [1], [2], [3], [4], [5], [6], [7], [8], [9], [10], [11]
Poppi, il (Francesco Morandini), [1]
Pordenone, [1]
Pordenone (Giovanni Antonio de’ Sacchis), [1], [2], [3], [4], [5], [6], [7], [8], [9], [10], [11], [12], [13]
Pseudo-Boccaccino, vedi Giovanni Agostino da Lodi
Quignone, cardinale, [1]
Quintavalle, Prospero, [1]
Raffaellino del Colle, [1], [2]
Raffaello Sanzio, [1], [2], [3], [4], [5], [6], [7], [8], [9], [10], [11], [12], [13], [14], [15], [16], [17], [18], [19], [20], [21], [22],
[23]
Rangone, Tommaso, [1]
Rembrandt, Harmenszoon van Rijn, [1]
Reni, Guido, [1], [2], [3], [4], [5], [6], [7], [8], [9]
Renoir, Pierre-Auguste, [1]
Ridolfi, Carlo, [1], [2]
Rodolfo II d’Asburgo, imperatore del Sacro Romano Impero, [1], [2]
Romanino (Girolamo da Romano), [1], [2], [3], [4], [5], [6], [7], [8], [9], [10], [11]
Rossi, Vincenzo de’, [1]
Rosso Fiorentino (Giovanni Battista di Iacopo de’ Rossi detto), [1], [2], [3], [4], [5], [6], [7], [8], [9], [10]
Rovelli, Galeano, [1]
Rubens, Pieter Paul, [1], [2], [3]
Sacchetti, Giulio Cesare, [1]
Salviati, Francesco, [1], [2], [3], [4], [5], [6], [7], [8], [9], [10]
Sansovino (Jacopo Tatti), [1], [2], [3], [4], [5], [6]
Santi di Tito, [1]
Savoldo, Giovanni Gerolamo, [1], [2], [3], [4], [5], [6], [7], [8], [9], [10], [11], [12], [13]
Schiavone (Andrea Meldolla), [1], [2], [3], [4], [5]
Schönberg, Arnold, [1]
Serlio, Sebastiano, [1]
Sfondrati, Paolo Emilio, [1]
Signorelli, Luca, [1]
Sodoma, il (Giovanni Antonio Bazzi), [1]
Stomer, Matteo, [1]
Stradano, Giovanni, [1]
Sustris, Lambert, [1], [2]
Tatti, Jacopo, vedi Sansovino
Testori, Giovanni, [1], [2], [3]
Tibaldi, Pellegrino, [1], [2], [3], [4], [5]
Tiepolo, Giambattista, [1]
Tintoretto (Iacopo Robusti), [1], [2], [3], [4], [5], [6], [7], [8], [9], [10], [11], [12], [13], [14], [15], [16], [17], [18], [19], [20],
[21], [22], [23], [24], [25], [26], [27], [28], [29], [30], [31], [32], [33], [34], [35], [36], [37]
Tiziano Vecellio, [1], [2], [3], [4], [5], [6], [7], [8], [9], [10], [11], [12], [13], [14], [15], [16], [17], [18], [19], [20], [21], [22],
[23], [24], [25], [26], [27], [28], [29], [30], [31], [32], [33], [34], [35], [36], [37], [38], [39], [40], [41], [42], [43]
Tolnay, Charles de, [1]
Travaglio, Marco, [1]
Tura, Cosmè, [1]
Turner, William, [1]
Urso, Antonio, [1]
Vaga, Perin del, [1], [2], [3]
Vanni, Francesco, [1]
Vasari, Giorgio, [1], [2], [3], [4], [5], [6], [7], [8], [9], [10], [11], [12], [13], [14], [15], [16], [17], [18], [19], [20], [21], [22], [23]
Vecellio, Marco, [1]
Venier, Francesco, [1]
Venusti, Marcello, [1]
Venuti, Paolo, [1]
Veronese (Bonifazio de’ Pitati), [1], [2], [3]
Veronese, Paolo (Paolo Caliari), [1], [2], [3], [4], [5], [6], [7], [8], [9], [10], [11], [12]
Vespasiano I Gonzaga, duca di Sabbioneta principe del Sacro Romano Impero, [1], [2]
Vincenzo da Pavia, [1]
Vittoria, Alessandro, [1], [2], [3], [4], [5]
Vouet, Simon, [1]
Watteau, Jean-Antoine, [1], [2]
Zamboni, Silla, [1]
Zanetti, Anton Maria, [1]
Zelotti, Giovanni Battista, [1]
Zezza, Andrea, [1]
Zuccari, Taddeo, [1], [2], [3], [4], [5], [6], [7], [8], [9]
Zucchi, Jacopo, [1]
INDICE DELLE IMMAGINI
____________________________

Rosso Fiorentino, Deposizione, particolari, Pinacoteca comunale, Volterra © 2015. Foto Scala, Firenze [1], [2], [3].
Pontormo, Deposizione di Cristo, part., chiesa di Santa Felicita, Firenze © 2015. Foto Scala, Firenze [1], [2].
Pablo Picasso, Donna con ventaglio, Hermitage, San Pietroburgo [1].
Pontormo, Deposizione di Cristo, chiesa di Santa Felicita, Firenze © 2015. Foto Scala, Firenze [1].
Rosso Fiorentino, Deposizione, Pinacoteca comunale, Volterra © 2015. Foto Scala, Firenze [1].
Domenico Beccafumi, Natività, part., chiesa di San Martino, Siena © 2015. Foto Scala, Firenze [1].
Domenico Beccafumi, San Paolo in trono, part., Museo dell’Opera del duomo, Siena © 2015. Foto Opera Metropolitana
Siena/Scala, Firenze [1], [2].
Domenico Beccafumi, San Michele scaccia gli angeli ribelli, chiesa di San Niccolò al Carmine, Siena © 2015. Foto
Scala, Firenze [1].
Hieronymus Bosch, Caduta dei dannati e Inferno, Palazzo Grimani, Venezia © 2015. Foto Scala, Firenze – su
concessione Ministero Beni e Attività Culturali [1].
Domenico Beccafumi, San Michele scaccia gli angeli ribelli, part., chiesa di San Niccolò al Carmine, Siena © 2015. Foto
Scala, Firenze [1], [2].
Domenico Beccafumi, San Paolo in trono, Museo dell’Opera del duomo, Siena © 2015. Foto Opera Metropolitana
Siena/Scala, Firenze [1].
Domenico Beccafumi, Natività, chiesa di San Martino, Siena © 2015. Foto Scala, Firenze [1].
Giulio Romano, Martirio di santo Stefano, particolari, chiesa di Santo Stefano, Genova © 2015. Foto Scala, Firenze [1],
[2], [3], [4].
Giulio Romano, Martirio di santo Stefano, chiesa di Santo Stefano, Genova © 2015. Foto Scala, Firenze [1].
Raffaellino del Colle, Resurrezione di Cristo, part., duomo di Sansepolcro © 2015. Foto Scala, Firenze [1].
Affreschi della Sala della Calunnia, Villa Imperiale, Pesaro © 2015. Foto Scala, Firenze [1].
Raffaellino del Colle, Resurrezione di Cristo, duomo di Sansepolcro © 2015. Foto Scala, Firenze [1].
Agnolo Bronzino, Allegoria del trionfo di Venere, part., National Gallery, Londra [1].
Agnolo Bronzino, Sacra famiglia, part., Galleria degli Uffizi, Firenze [1], [2].
Agnolo Bronzino, Allegoria del trionfo di Venere, part., National Gallery, Londra [1].
Agnolo Bronzino, Ritratto di Eleonora da Toledo, part., Galleria degli Uffizi, Firenze [1], [2].
Agnolo Bronzino, Ritratto di Lucrezia Panciatichi, part., Galleria degli Uffizi, Firenze [1], [2].
Agnolo Bronzino, Sacra famiglia, Galleria degli Uffizi, Firenze [1].
Agnolo Bronzino, Allegoria del trionfo di Venere, National Gallery, Londra [1].
Agnolo Bronzino, Ritratto di Eleonora da Toledo, Galleria degli Uffizi, Firenze [1].
Agnolo Bronzino, Ritratto di Lucrezia Panciatichi, Galleria degli Uffizi, Firenze [1].
Francesco Salviati, La Carità, part., Galleria degli Uffizi, Firenze © 2015. Foto Scala, Firenze – su concessione
Ministero Beni e Attività Culturali [1].
Francesco Salviati, Betsabea si reca da David, Palazzo Sacchetti, Roma © 2015. Foto Scala, Firenze [1].
Maurits Cornelis Escher, Relatività, collezione Federico Giudiceandrea, Bressanone [1].
Francesco Salviati, L’incredulità di san Tommaso, part., Musée du Louvre, Parigi © 2015. Foto Scala, Firenze [1].
Francesco Salviati, La Carità, Galleria degli Uffizi, Firenze © 2015. Foto Scala, Firenze – su concessione Ministero
Beni e Attività Culturali [1].
Francesco Salviati, L’incredulità di san Tommaso, Musée du Louvre, Parigi © 2015. Foto Scala, Firenze [1].
Giorgio Vasari, I quartieri cittadini di San Giovanni e Santa Maria Novella, part., Salone dei Cinquecento, Palazzo
Vecchio, Firenze © 2015. Foto Scala, Firenze [1].
Giorgio Vasari, Giudizio universale, part., duomo di Firenze © Per concessione dell’Opera di Santa Maria del
Fiore/Nicolò Orsi Battaglini/Archivi Alinari, Firenze [1].
Giorgio Vasari, Giudizio universale, duomo di Firenze © 2015. Foto Scala, Firenze [1], [2].
Giorgio Vasari, I quartieri cittadini di San Giovanni e Santa Maria Novella, Salone dei Cinquecento, Palazzo Vecchio,
Firenze © 2015. Foto Scala, Firenze [1].
Amico Aspertini, Madonna col Bambino e santi, part., basilica di San Martino Maggiore, Bologna © DeAgostini Picture
Library/A. de Gregorio/Bridgeman Images [1], [2].
Amico Aspertini, Pala del Tirocinio, part., Pinacoteca nazionale, Bologna © 2015. DeAgostini Picture Library/Scala,
Firenze [1].
Amico Aspertini, Pala del Tirocinio, Pinacoteca nazionale, Bologna © 2015. DeAgostini Picture Library/Scala, Firenze
[1].
Amico Aspertini, Madonna col Bambino e santi, basilica di San Martino Maggiore, Bologna © DeAgostini Picture
Library/A. de Gregorio/Bridgeman Images [1].
Dosso Dossi, Baccanale, particolari, Castel Sant’Angelo, Roma © 2015. Foto Scala, Firenze – su concessione
Ministero Beni e Attività Culturali [1], [2], [3].
Dosso Dossi, Circe, particolari, Galleria Borghese, Roma [1], [2].
Dosso Dossi, Baccanale, Castel Sant’Angelo, Roma © 2015. Foto Scala, Firenze – su concessione Ministero Beni e
Attività Culturali [1].
Dosso Dossi, Circe, Galleria Borghese, Roma [1].
Savoldo, Annunciazione, part., Gallerie dell’Accademia, Venezia © Foto Archivio fotografico, Polo museale del Veneto
– su concessione Ministero Beni e Attività Culturali e del Turismo [1].
Savoldo, Adorazione dei pastori, Pinacoteca Tosio Martinengo, Brescia [1].
Savoldo, Annunciazione, Gallerie dell’Accademia, Venezia © Foto Archivio fotografico, Polo museale del Veneto – su
concessione Ministero Beni e Attività Culturali e del Turismo [1].
Romanino, Crocifissione, particolari, chiesa di Santa Maria della Neve, Pisogne [1], [2], [3].
Romanino, Discesa al Limbo e Lavanda dei piedi, chiesa di Santa Maria della Neve, Pisogne [1].
Romanino, Crocifissione, chiesa di Santa Maria della Neve, Pisogne [1], [2].
Romanino, particolare della volta, chiesa di Santa Maria della Neve, Pisogne [1].
Moretto da Brescia, Apparizione della Madonna al sordomuto Filippo Viotti, part., santuario della Madonna di Paitone,
Paitone © Mondadori Portfolio/Sergio Anelli [1].
Moretto da Brescia, Santa Giustina da Padova e un donatore, part., Kunsthistorisches Museum, Vienna © 2015. Foto
Austrian Archives/Scala, Firenze [1].
Moretto da Brescia, Cristo e l’angelo, part., Pinacoteca civica, Brescia © 2015. Foto Scala, Firenze [1], [2].
Moretto da Brescia, Cristo e l’angelo, Pinacoteca civica, Brescia © 2015. Foto Scala, Firenze [1].
Moretto da Brescia, Santa Giustina da Padova e un donatore, Kunsthistorisches Museum, Vienna © 2015. Foto
Austrian Archives/Scala, Firenze [1].
Moretto da Brescia, Apparizione della Madonna al sordomuto Filippo Viotti, santuario della Madonna di Paitone,
Paitone © Mondadori Portfolio/Sergio Anelli [1].
Altobello Melone, Fuga in Egitto, part., duomo di Cremona © Luciano Romano [1].
Altobello Melone, Strage degli innocenti, particolari, duomo di Cremona © Luciano Romano [1], [2].
Altobello Melone, Fuga in Egitto, duomo di Cremona © Luciano Romano [1].
Altobello Melone, Strage degli innocenti, duomo di Cremona © Luciano Romano [1].
Callisto Piazza, Decollazione del Battista, part., santuario dell’Incoronata, Lodi © Antonio Francesco Mazza [1].
Callisto Piazza, Decollazione del Battista, santuario dell’Incoronata, Lodi © Antonio Francesco Mazza [1].
Parmigianino, Pallade Atena, part., Royal Collections, Hampton Court [1].
Parmigianino, Madonna dal collo lungo, particolari, Galleria degli Uffizi, Firenze © 2015. Foto Scala, Firenze – su
concessione Ministero Beni e Attività Culturali [1], [2].
Parmigianino, Madonna dal collo lungo, Galleria degli Uffizi, Firenze © 2015. Foto Scala, Firenze – su concessione
Ministero Beni e Attività Culturali [1].
Parmigianino, Pallade Atena, Royal Collections, Hampton Court [1].
Pordenone, Deposizione, part., duomo di Cremona © Ghigo Roli/Bridgeman Images [1].
Pordenone, Scene della Passione di Cristo, duomo di Cremona © Ghigo Roli/Bridgeman Images [1].
Pordenone, Deposizione di Cristo, chiesa dell’Annunciata, Cortemaggiore © Fabio Lunardini [1].
Caravaggio, Seppellimento di santa Lucia, basilica di Santa Lucia, Siracusa p. [1].
Pordenone, Noli me tangere, Museo del duomo, Cividale del Friuli [1].
Tiziano, Punizione di Marsia, particolari, Galleria arcivescovile, Kroměříž [1], [2], [3].
Tiziano, Martirio di san Lorenzo, part., chiesa dei Gesuiti, Venezia [1].
Tiziano, Punizione di Marsia, Galleria arcivescovile, Kroměříž [1].
Tiziano, Martirio di san Lorenzo, chiesa dei Gesuiti, Venezia [1].
Tiziano, Incoronazione di spine, Alte Pinakothek, Monaco [1].
Jacopo Sansovino, Madonna della Loggetta, part., campanile di San Marco, Venezia © 2015. DeAgostini Picture
Library/Scala, Firenze [1].
Jacopo Sansovino, Madonna col Bambino, Galleria dell’Arsenale, Venezia [1].
Jacopo Sansovino, Madonna della Loggetta, campanile di San Marco, Venezia © 2015. DeAgostini Picture
Library/Scala, Firenze [1].
Michelangelo, Madonna col bambino, chiesa di Notre-Dame, Bruges, © 2015. Foto Scala, Firenze [1].
Iacopo Bassano, Fuga in Egitto, particolari, Norton Simon Museum, Pasadena © Norton Simon Art Foundation [1], [2].
Iacopo Bassano, Ultima cena, part., Galleria Borghese, Roma © 2015. Foto Scala, Firenze [1].
Iacopo Bassano, Fuga in Egitto, Norton Simon Museum, Pasadena © Norton Simon Art Foundation [1], [2].
Iacopo Bassano, Ultima cena, Galleria Borghese, Roma © 2015. Foto Scala, Firenze [1], [2].
Tintoretto, Susanna e i vecchioni, part., Kunsthistorisches Museum, Vienna [1].
Tintoretto, La disputa di Gesù con i dottori del tempio, part., Museo del duomo, Milano [1].
Raffaello, La Scuola di Atene, Stanza della Segnatura, Musei vaticani, Città del Vaticano [1].
Tintoretto, La disputa di Gesù con i dottori del tempio, Museo del duomo, Milano [1].
Tintoretto, Il miracolo dello schiavo, particolari, Gallerie dell’Accademia, Venezia [1], [2].
Tintoretto, Il miracolo dello schiavo, Gallerie dell’Accademia, Venezia [1], [2].
Tintoretto, Susanna e i vecchioni, part., Kunsthistorisches Museum, Vienna [1].
Tintoretto, Susanna e i vecchioni, Kunsthistorisches Museum, Vienna [1], [2].
Tintoretto, Trafugamento del corpo di san Marco, particolari, Gallerie dell’Accademia, Venezia [1], [2].
El Greco, Il miracolo di Cristo che guarisce il cieco, part., The Metropolitan Museum of Art, New York [1].
Tintoretto, Trafugamento del corpo di san Marco, Gallerie dell’Accademia, Venezia [1].
El Greco, Il miracolo di Cristo che guarisce il cieco, The Metropolitan Museum of Art, New York [1].
Tintoretto, Ritrovamento del corpo di san Marco, Pinacoteca di Brera, Milano [1].
Tintoretto, Ritrovamento del corpo di san Marco, part., Pinacoteca di Brera, Milano [1].
Tintoretto, La salita al Calvario, Scuola Grande di San Rocco, Venezia [1].
Tintoretto, Cristo davanti a Pilato, Scuola Grande di San Rocco, Venezia [1].
Tintoretto, Ultima cena, chiesa di San Polo, Venezia © 2015. Cameraphoto/Scala, Firenze [1], [2].
Tintoretto, Il battesimo di Cristo, part., Scuola Grande di San Rocco, Venezia [1].
Tintoretto, Annunciazione, part., Scuola Grande di San Rocco, Venezia [1].
Tintoretto, Annunciazione, Scuola Grande di San Rocco, Venezia [1].
Tintoretto, Il battesimo di Cristo, Scuola Grande di San Rocco, Venezia [1].
Veronese, Giustiniana Barbaro e la nutrice con cagnolino affacciate a un finto balcone, particolari, Villa Barbaro, Maser
[1], [2], [3].
Veronese, Predica di sant’Antonio ai pesci, part., Galleria Borghese, Roma © 2015. Foto Scala, Firenze – su
concessione Ministero Beni e Attività Culturali [1].
Veronese, Bimba alla porta, Villa Barbaro, Maser [1].
Veronese, Predica di sant’Antonio ai pesci, Galleria Borghese, Roma © 2015. Foto Scala, Firenze – su concessione
Ministero Beni e Attività Culturali [1], [2].
Alessandro Vittoria, Sant’Antonio Abate, san Sebastiano e san Rocco, part., chiesa di San Francesco della Vigna,
Venezia © 2015. Cameraphoto/Scala, Firenze [1].
Alessandro Vittoria, Sant’Antonio Abate, san Sebastiano e san Rocco, chiesa di San Francesco della Vigna, Venezia
© 2015. Cameraphoto/Scala, Firenze [1], [2].
Alessandro Vittoria, Madonna col Bambino, Museo civico Palazzo Chiericati, Vicenza © DEA/A. Dagli Orti/Getty
Images [1].
Alessandro Vittoria, Busto di Benedetto Manzini, Ca’ d’Oro, Venezia [1].
Daniele da Volterra, Deposizione, particolari, Trinità dei Monti, Roma © 2015. Foto Scala, Firenze – Pieux
Etablissements de la France à Rome et à Lorette [1], [2], [3].
Daniele da Volterra, Deposizione, Trinità dei Monti, Roma © 2015. Foto Scala, Firenze – Pieux Etablissements de la
France à Rome et à Lorette [1].
Marco Pino, San Michele Arcangelo, part., chiesa di Sant’Angelo a Nilo, Napoli [1].
Marco Pino, San Michele Arcangelo, chiesa di Sant’Angelo a Nilo, Napoli [1].
Marco Pino, Decollazione del Battista, Museo di Capodimonte, Napoli © Foto Archivio fotografico, Polo museale dela
Campania – su concessione Ministero Beni e Attività Culturali e del Turismo [1].
Pellegrino Tibaldi, Ulisse e la maga Circe, particolari, Palazzo Poggi, Bologna © 2015. Foto Scala, Firenze/Luciano
Romano [1], [2].
Pellegrino Tibaldi, Ulisse e la maga Circe, Palazzo Poggi, Bologna © 2015. Foto Scala, Firenze/Luciano Romano [1],
[2].
Luca Cambiaso, Natività, particolari, Pinacoteca di Brera, Milano © 2015. Foto Scala, Firenze – su concessione
Ministero Beni e Attività Culturali [1], [2].
Georges de La Tour, Adorazione dei pastori, Musée du Louvre, Parigi © 2015. Foto Scala, Firenze [1].
Georges de La Tour, Maddalena penitente, Musée du Louvre, Parigi © 2015. Foto Scala, Firenze [1].
Luca Cambiaso, Madonna della candela, Palazzo Bianco, Genova © 2015. Foto Scala, Firenze [1].
Luca Cambiaso, Natività, Pinacoteca di Brera, Milano © 2015. Foto Scala, Firenze – su concessione Ministero Beni e
Attività Culturali [1].
Alessandro Allori, Pesca delle perle, particolari, Studiolo di Francesco I, Palazzo Vecchio, Firenze © 2015. Foto Scala,
Firenze [1], [2], [3].
Giovanni Maria Butteri, La vetreria, part., Studiolo di Francesco I, Palazzo Vecchio, Firenze © 2015. Foto Scala,
Firenze [1], [2].
Mirabello Cavalori, Il lanificio, Studiolo di Francesco I, Palazzo Vecchio, Firenze © 2015. Foto Scala, Firenze [1].
Alessandro Allori, Pesca delle perle, Studiolo di Francesco I, Palazzo Vecchio, Firenze © 2015. Foto Scala, Firenze [1].
Giovanni Maria Butteri, La vetreria, Studiolo di Francesco I, Palazzo Vecchio, Firenze © 2015. Foto Scala, Firenze [1].
Bastianino, Giudizio universale, particolari, duomo di Ferrara © 2015. Foto Scala, Firenze [1], [2].
Bastianino, Giudizio universale, duomo di Ferrara © 2015. Foto Scala, Firenze [1], [2].
El Greco, Sogno di Filippo II, monastero dell’Escorial, Madrid © 2015. Foto Scala, Firenze [1].
Bastianino, Santa Cecilia, Pinacoteca nazionale, Ferrara © Finsiel/Archivi Alinari – su concessione del Ministero per
i Beni e le Attività Culturali [1].
Giovanni Battista Moroni, Cavaliere in rosa, particolari, collezione privata © 2015. Foto Scala, Firenze [1], [2], [3].
Giovanni Battista Moroni, Cavaliere in rosa, collezione privata © 2015. Foto Scala, Firenze [1].
Bernardino Campi, Santa Cecilia e santa Caterina, particolari, chiesa di San Sigismondo, Cremona [1], [2].
Bernardino Campi, Santa Cecilia e santa Caterina, chiesa di San Sigismondo, Cremona [1].
Bartolomeo Passerotti, Cavaliere con cane, part., Musei Capitolini, Roma © 2015. Foto Scala, Firenze [1].
Bartolomeo Passerotti, Macelleria, Galleria nazionale d’arte antica, Roma © 2015. Foto Scala, Firenze – su
concessione Ministero Beni e Attività Culturali [1], [2].
Annibale Carracci, Macelleria, Christ Church Picture Gallery, Oxford © 2015. DeAgostini Picture Library/Scala,
Firenze [1], [2].
Bartolomeo Passerotti, Cavaliere con cane, Musei Capitolini, Roma © 2015. Foto Scala, Firenze [1].
Antonio Campi, Transito della Vergine, part., chiesa di San Marco Apostolo, Milano © 2015. Mario Bonotto/Foto Scala,
Firenze [1].
Antonio Campi, Transito della Vergine, chiesa di San Marco Apostolo, Milano © 2015. Mario Bonotto/Foto Scala,
Firenze [1].
Vincenzo Campi, Fruttivendola, part., Pinacoteca di Brera, Milano [1], [2].
Joachim Beuckelaer, Dutch kitchen scene, Treasurer’s House, York © 2015. NTPL/Scala, Firenze [1].
Vincenzo Campi, Cucina, Pinacoteca di Brera, Milano © 2015. Foto Scala, Firenze – su concessione Ministero Beni e
Attività Culturali [1].
Vincenzo Campi, Fruttivendola, Pinacoteca di Brera, Milano [1], [2].
Arcimboldo, Terra, part., collezione privata [1].
Arcimboldo, Acqua, part., Kunsthistorisches Museum, Vienna [1], [2].
Arcimboldo, Estate, part., Kunsthistorisches Museum, Vienna [1].
Arcimboldo, Fuoco, part., Kunsthistorisches Museum, Vienna [1].
Arcimboldo, Terra, collezione privata [1].
Arcimboldo, Acqua, Kunsthistorisches Museum, Vienna [1].
Arcimboldo, Estate, Kunsthistorisches Museum, Vienna [1].
Arcimboldo, Fuoco, Kunsthistorisches Museum, Vienna [1].
Simone Peterzano, Venere e Cupido con due satiri, part., Pinacoteca di Brera, Milano © 2015. Foto Scala, Firenze – su
concessione Ministero Beni e Attività Culturali [1].
Testa di vecchio, Fondo Peterzano, Gabinetto dei disegni, Castello Sforzesco, Milano [1].
Caravaggio, Conversione di Saulo, part., collezione Odescalchi, Roma © 2015. Foto Scala, Firenze [1].
Simone Peterzano, Angeli con i simboli della Passione, certosa di Garegnano, Milano © 2015. Foto Scala,
Firenze/Mauro Ranzani [1].
Simone Peterzano, Venere e Cupido con due satiri, Pinacoteca di Brera, Milano © 2015. Foto Scala, Firenze – su
concessione Ministero Beni e Attività Culturali [1], [2].
Federico Zuccari, Il Barbarossa bacia il piede a papa Alessandro III, part., Palazzo Ducale, Venezia © 2015. Foto
Scala, Firenze [1].
Federico Zuccari, Assunzione, part., Trinità dei Monti, Roma © Andrea Jemolo [1].
Federico Zuccari, Il Barbarossa bacia il piede a papa Alessandro III, Palazzo Ducale, Venezia © 2015. Foto Scala,
Firenze [1].
Federico Zuccari, Assunzione, Trinità dei Monti, Roma © Andrea Jemolo [1].
Federico Barocci, Circoncisione, part., Musée du Louvre, Parigi © 2015. Foto Scala, Firenze [1].
Federico Barocci, Madonna del gatto, part., Galleria degli Uffizi, Firenze © 2015. Foto Scala, Firenze – su
concessione Ministero Beni e Attività Culturali [1].
Federico Barocci, Sepoltura di Cristo, part., chiesa di Santa Croce, Senigallia © 2015. Foto Scala, Firenze [1], [2].
Federico Barocci, Circoncisione, Musée du Louvre, Parigi © 2015. Foto Scala, Firenze [1].
Federico Barocci, Madonna del gatto, Galleria degli Uffizi, Firenze © 2015. Foto Scala, Firenze – su concessione
Ministero Beni e Attività Culturali [1].
Federico Barocci, Sepoltura di Cristo, chiesa di Santa Croce, Senigallia © 2015. Foto Scala, Firenze [1].
Ferraù Fenzoni, San Francesco d’Assisi sostenuto da un angelo, part., Museo Thyssen-Bornemisza, Madrid © 2015.
Museo Thyssen-Bornemisza/Scala, Firenze [1].
Ferraù Fenzoni, San Francesco d’Assisi sostenuto da un angelo, Museo Thyssen-Bornemisza, Madrid © 2015. Museo
Thyssen-Bornemisza/Scala, Firenze [1].
Ferraù Fenzoni, Deposizione di Cristo nel sepolcro, part., Fondazione Cassa dei risparmi di Forlì © Fondazione Cassa
dei risparmi di Forlì [1].
Ferraù Fenzoni, Deposizione di Cristo nel sepolcro, Fondazione Cassa dei risparmi di Forlì © Fondazione Cassa dei
risparmi di Forlì [1].
Cavalier d’Arpino, Combattimento tra Orazi e Curiazi, particolari, Palazzo dei Conservatori, Roma © DeA Picture
Library, concesso in licenza ad Alinari [1], [2].
Cavalier d’Arpino, Combattimento tra Orazi e Curiazi, Palazzo dei Conservatori, Roma © DeA Picture Library,
concesso in licenza ad Alinari [1], [2].
Annibale Carracci, Mercurio offre a Paride il pomo della discordia, part., Palazzo Farnese, Roma © Archivi Alinari,
Firenze – su concessione del Ministero per i Beni e le Attività Culturali [1].
Annibale Carracci, Assunzione, part., basilica di Santa Maria del Popolo, Roma [1].
Annibale Carracci, Assunzione, basilica di Santa Maria del Popolo, Roma [1].
Annibale Carracci, Mercurio offre a Paride il pomo della discordia, Palazzo Farnese, Roma © Archivi Alinari, Firenze –
su concessione del Ministero per i Beni e le Attività Culturali [1].
Annibale Carracci, Il mangiafagioli, part., Galleria Colonna, Roma © Mondadori Electa/Bridgeman Images [1].
Ludovico Carracci, Ritorno dalla fuga in Egitto, part., collezione privata © Paolo Righi – Meridiana Immagini [1].
Ludovico Carracci, Ritorno dalla fuga in Egitto, collezione privata © Paolo Righi – Meridiana Immagini [1].
Annibale Carracci, Il mangiafagioli, Galleria Colonna, Roma © Mondadori Electa/Bridgeman Images [1].
Stefano Maderno, Santa Cecilia, part., basilica di Santa Cecilia in Trastevere, Roma [1].
Stefano Maderno, Santa Cecilia, basilica di Santa Cecilia in Trastevere, Roma © 2015. Foto Scala, Firenze [1], [2].
Caravaggio, Maddalena penitente, Galleria Doria Pamphilj, Roma [1].
Caravaggio, Vocazione di san Matteo, particolari, chiesa di San Luigi dei Francesi, Roma [1], [2].
Tiziano, Martirio di san Lorenzo, part., chiesa dei Gesuiti, Venezia [1].
Savoldo, Annunciazione, Gallerie dell’Accademia, Venezia © Foto Archivio fotografico, Polo museale del Veneto – su
concessione Ministero Beni e Attività Culturali e del Turismo [1].
Moretto da Brescia, Apparizione della Madonna al sordomuto Filippo Viotti, part., santuario della Madonna di Paitone,
Paitone © Mondadori Portfolio/Sergio Anelli [1], [2].
Caravaggio, Il riposo durante la fuga in Egitto, part., Galleria Doria Pamphilj, Roma [1], [2].
Caravaggio, Medusa, part., Galleria degli Uffizi, Firenze [1].
Caravaggio, Ragazzo con canestro di frutta, part., Galleria Borghese, Roma [1], [2].
Caravaggio, Vocazione di san Matteo, particolari, chiesa di San Luigi dei Francesi, Roma [1], [2].
Caravaggio, San Matteo e l’angelo, part., chiesa di San Luigi dei Francesi, Roma [1].
Caravaggio, San Matteo e l’angelo, Gemäldegalerie, Berlino © 2015. Foto Scala, Firenze/BPK, Bildagentur für Kunst,
Kultur und Geschichte, Berlin [1].
Caravaggio, San Matteo e l’angelo, chiesa di San Luigi dei Francesi, Roma [1].
Caravaggio, Conversione di san Paolo, part., basilica di Santa Maria del Popolo, Roma [1].
Caravaggio, Conversione di Saulo, part., collezione Odescalchi, Roma [1].
Caravaggio, Crocifissione di san Pietro, part., basilica di Santa Maria del Popolo, Roma [1], [2].
Caravaggio, Seppellimento di santa Lucia, part., chiesa di Santa Lucia alla Badia, Siracusa [1].
Caravaggio, Vocazione di san Matteo, chiesa di San Luigi dei Francesi, Roma [1].
Caravaggio, Il riposo durante la fuga in Egitto, Galleria Doria Pamphilj, Roma [1].
Caravaggio, Ragazzo con canestro di frutta, Galleria Borghese, Roma [1].
Caravaggio, Medusa, Galleria degli Uffizi, Firenze [1].
Caravaggio, Conversione di san Paolo, basilica di Santa Maria del Popolo, Roma [1].
Caravaggio, Conversione di Saulo, collezione Odescalchi, Roma [1].
Caravaggio, Crocifissione di san Pietro, basilica di Santa Maria del Popolo, Roma [1].
Caravaggio, Seppellimento di santa Lucia, chiesa di Santa Lucia alla Badia, Siracusa [1].
Guido Reni, Aurora conduce il carro di Apollo, part., Casino dell’Aurora, Palazzo Pallavicini Rospigliosi, Roma ©
DeAgostini Picture Library/G. Nimatallah/Bridgeman Images [1].
Guido Reni, Santa Cecilia, chiesa di San Luigi dei Francesi, Roma © 2015. Foto Scala, Firenze [1].
Guido Reni, Aurora conduce il carro di Apollo, Casino dell’Aurora, Palazzo Pallavicini Rospigliosi, Roma © DeAgostini
Picture Library/G. Nimatallah/Bridgeman Images [1], [2].
Guido Reni, Caduta dei giganti, part., Musei civici, Pesaro [1].
Guido Reni, Caduta dei giganti, Musei civici, Pesaro [1].
Guido Reni, Annunciazione, Pinacoteca civica, Ascoli Piceno [1].
Gian Lorenzo Bernini, David, part., Galleria Borghese, Roma [1].
Gian Lorenzo Bernini, Apollo e Dafne, part., Galleria Borghese, Roma [1], [2].
Gian Lorenzo Bernini, David, Galleria Borghese, Roma [1].
Gian Lorenzo Bernini, Apollo e Dafne, Galleria Borghese, Roma [1].
Gian Lorenzo Bernini, Ritratto di Scipione Borghese (II), part., Galleria Borghese, Roma [1].
Gian Lorenzo Bernini, Ritratto di Scipione Borghese (II), Galleria Borghese, Roma [1].
Gian Lorenzo Bernini, Ritratto di Scipione Borghese (I), Galleria Borghese, Roma © 2015. Foto Scala, Firenze – su
concessione Ministero Beni e Attività Culturali [1].
Gian Lorenzo Bernini, Estasi di santa Teresa, part., chiesa di Santa Maria della Vittoria, Roma © 2015. Foto Scala,
Firenze/Fondo edifici di culto – Ministero dell’Interno [1].
Gian Lorenzo Bernini, Estasi di santa Teresa, chiesa di Santa Maria della Vittoria, Roma © 2015. Foto Scala,
Firenze/Fondo edifici di culto – Ministero dell’Interno [1].
Gian Lorenzo Bernini, Estasi della beata Ludovica Albertoni, part., chiesa di San Francesco a Ripa, Roma © 2015.
Foto Scala, Firenze – su concessione Ministero Beni e Attività Culturali [1].
Gian Lorenzo Bernini, Estasi della beata Ludovica Albertoni, part., chiesa di San Francesco a Ripa, Roma © 2015.
Foto Scala, Firenze – su concessione Ministero Beni e Attività Culturali [1], [2].
INDICE GENERALE
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L’erba maledetta di Luca Doninelli


DAL CIELO ALLA TERRA
Capitolo I. L’ombra dei maestri
Rosso Fiorentino. Nervosa euforia popolata di fantasmi
Domenico Beccafumi. L’ansia di sperimentare
Giulio Romano. Rovine romane, a Genova
Raffaellino del Colle. La scia di Raffaello
Agnolo Bronzino. Ritorno all’ordine
Francesco Salviati. Tra Michelangelo e Parmigianino
Giorgio Vasari. Opere senza vita per l’autore delle Vite
Capitolo II. La maniera padana
Amico Aspertini. “Alla maniera di nessuno mai”
Dosso Dossi. A Ferrara, il primo pittore romantico
Savoldo. “Di notte, e di fuochi, molto belli”
Romanino. Ai margini della storia, al centro dell’arte
Moretto da Brescia. Tensione spirituale assoluta
Altobello Melone. Un espressionista a Cremona
Callisto Piazza. Una tensione sconosciuta
Parmigianino. Il culto pagano della bellezza, a Parma
Capitolo III. Venezia e la maniera
Pordenone. Orgogliose fantasie
Tiziano. Forme che tremano come in una fiamma
Jacopo Sansovino. Michelangelo a Venezia
Iacopo Bassano. Naturalezza prima di naturalismo
Tintoretto. Il conflitto mortale
Veronese. Pittura felice
Alessandro Vittoria. Orgoglio tridentino
Capitolo IV. La maniera di Michelangelo fuori Roma
Daniele da Volterra. Michelangiolismo nevrotico
Marco Pino. “Manierismo estremo, fiammeggiante”
Pellegrino Tibaldi. Michelangiolismo onirico
Luca Cambiaso. Un visionario a Genova
Studiolo di Francesco I. Equivoci manieristi
Bastianino. Forme nella nebbia
Capitolo V. Manieristi lombardi e non solo
Giovanni Battista Moroni. La sfinita eleganza del cavaliere in rosa
Bernardino Campi. Incrollabile coerenza
Bartolomeo Passerotti. Realismo che prescinde dalla realtà
Antonio e Vincenzo Campi. Intuizioni premonitrici
Arcimboldo. Scienza e capriccio
Simone Peterzano. Più di un nome
Capitolo VI. Dopo Raffaello: la maniera in Umbria e nelle Marche
Federico Zuccari. Il grande ordinatore
Federico Barocci. Sublime tormento
Ferraù Fenzoni. Un meraviglioso luna park
Capitolo VII. La fine del manierismo e il ritorno alla natura
Cavalier d’Arpino. Un pittore concettuale maestro di Caravaggio
I Carracci. L’idea del bello
Stefano Maderno. L’intelligenza del cuore
Caravaggio
Guido Reni. Finisce la notte
Gian Lorenzo Bernini. L’invenzione del barocco
Indice dei nomi
Indice delle immagini

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