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lo straniero nella letteratura italiana del primo Novecento

ci imbattiamo in una tipologia di figure che si prestano ad un percorso interculturale e che corrispondono
al paradigma di tratti dell' "espatriato che ritorna" e dell'intellettuale alla ricerca della propria identità.
. L' "espatriato che ritorna"

1) Italy dI Giovanni Pascoli


L' "espatriato che ritorna" è la famiglia di contadini della Garfagnana, emigrati da anni in America, che fa
ritorno al paese d'origine, protagonista del poemetto Italy (1904) di Giovanni Pascoli: alle vicende di questa
famiglia – la malattia della piccola Molly, le difficoltà economiche – Giovanni Pascoli s'interessò
personalmente.
Il testo di Italy consente di analizzare e comprendere il dramma dell'emigrazione italiana del primo
Novecento.
La storia ha un significato simbolico: il ritorno al nido, all'antico casolare, dona agli emigranti la salute (Molly
guarirà dalla tisi grazie al clima mite della campagna toscana) e la felicità perdute lontano dalla patria. Pascoli
lo dedicò a tutti coloro che a centinaia, a migliaia lasciavano l'Italia ogni anno, diretti in gran parte oltre
Atlantico.
Da questo più ampio contesto storico, si snoda la trama: la guarigione della piccola Maria (Molly in inglese),
arrivata malaticcia in Italia, la morte della vecchia nonna, il ritorno degli emigrati in America.
questo lungo componimento è diviso in due canti, per 450 versi complessivi. Le parti piuù interessanti sono
le sezioni III – VI del primo canto: in esse è descritto il ricongiungimento degli emigranti con la madre (la
nonna di Molly), le impressioni che la bambina ha del paese a lei straniero, l'incontro con i paesani che
chiedono notizie dei loro cari emigrati.
Il dramma dell'emigrazione italiana, fenomeno di cui Pascoli fu tra i pochi letterati a comprendere
l'importanza storica, rivive nell'esperienza di Molly: nata in America, parla solo l'inglese e non riconosce
l'Italia come il suo paese. In effetti, nel rapporto tra la nipotina e la nonna, che parlano due lingue
sconosciute l'una a l'altra e stentano a capirsi, si riassume l'estraneità e la distanza tra il vecchio e il nuovo
mondo, tra la vita contadina ancorata al suo patrimonio di valori e la vita nelle metropoli, frenetica e
incomprensibile, incubo dei nostri emigrati che, come "vu cumprà" ante litteram, si aggiravano per le strade,
di giorno di notte, col freddo e la pioggia. Ma nell'incontro fra questi due mondi, così distanti e diversi, non
c'è solo la solidale rappresentazione dello spaesamento, della solitudine dell'emigrato condannato ad
andare per "terre ignote con un grido / straniero in bocca" (Will you buy?), che sogna di poter tornare a
casa, un giorno, e con il gruzzolo risparmiato acquistare "un campettino da vangare, un nido / da riposare",
ma c'è soprattutto l'auspicio che l'Italia, l'antica madre, possa un giorno riscattare i suoi figli dispersi,
recuperare al suo seno le migliaia di italiani costretti ad emigrare alla ricerca di forme di sostentamento.
L'analisi di Italy può svolgersi su due piani: l'analisi del tema, l'attenzione dell'autore verso un problema
sociale del suo tempo; l'analisi delle forme, lo sperimentalismo linguistico di cui l'autore fa sfoggio.
D'Annunzio parlò al riguardo di "virtuosismo linguistico" ed ebbe a complimentarsene.
In Italy assistiamo a un vero impasto linguistico, che apparve "scandaloso" a chi lo misurava con la norma
della tradizione letteraria italiana. Il testo è costituito da battute di discorso diretto, i dialoghi si svolgono in
più lingue. E' possibile individuare quattro livelli linguistici:

- la lingua della poesia, che realisticamente rende l'umiltà dei personaggi e della loro condizione (I muri
grezzi apparvero col banco / vecchio e la vecchia tavola di noce, III 58-59) ma allo stesso tempo non esenta
da finezze letterarie (Il tramontano discendea con sordi / brontoli, V 119-120);
- i dialettalismi lucchesi (nieva per nevica, IV 98, scianto per riposo, V 106, mugliava per muggiva, V 107);
- la lingua straniera, l'inglese di Molly
- la lingua speciale ovvero il mix italoamericano degli emigranti (bisini per business; fruttistendo per fruit-
stand; checche per cakes; candi per candy; scrima per icecream, V 113-114)
Un'operazione davvero “scandalosa” se si considera che Pascoli, oltre a fondere lingue diverse, trasgredisce
la norma del linguaggio poetico istituzionale creando rime tra inglese e italiano (febbraio con Ohio I 1 e3;
luì con Italy III 73 e 75; gelo con yellow VI 138 e 140; tossì con Italy VI 148 e 150). Non si tratta esclusivamente
di quella "magia pratica", della "destrezza […] infallibile", dell'attitudine a giocolare con la metrica che tra i
primi D'Annunzio riconobbe all'autore: l'impasto linguistico, ricercato da Pascoli, riflette la contaminazione
culturale dell'emigrato. Pascoli, pioniere, introduce nel linguaggio poetico quella contaminazione di lingue
che è sempre di più un aspetto del mondo contemporaneo.

2) I mari del Sud e la luna e il falò di Cesare Pavese


Qui l' "espatriato che ritorna" è il cugino di Cesare Pavese che, dopo aver a lungo viaggiato ed essere stato
nei quattro angoli del mondo, fa ritorno alle Langhe, e gli confida: "quando si torna, come me a quarant'anni
/ si trova tutto nuovo".
"espatriato che ritorna", colui che si è sradicato dal proprio mondo, ha viaggiato in lungo e in largo, magari
ha fatto fortuna, ma prima o poi ritorna ai propri luoghi e cerca un recupero del passato infantile, dal
protagonista di questa prima lirica a quello dell'ultimo romanzo: Anguilla. E proprio lui, Anguilla,
protagonista dell'ultimo romanzo La luna e i falò, dichiarerà: "un paese vuol dire non essere soli", dove
"paese" è l'unico antidoto alla condizione della solitudine, all'impossibilità di dialogare con gli altri, un po'
Il disorientamento di chi lascia il proprio paese e, al ritorno ai propri luoghi, sente di non potergli
appartenere mai più.
ANALOGIE
Maria/Molly recupera le sue origini e la salute, il cugino di Pavese recupera le Langhe e il suo passato
infantile: la prima, però, che non conosce nemmeno l'italiano ritorna in America; il secondo, che pure
apprezza la primordialità e la staticità della vita di paese, non si riconosce più in quella comunità e della
gente delle Langhe dice: "Dovevo sapere / che qui buoi e persone son tutta una razza". Troppo ha viaggiato
.

- L'impasto linguistico, di cui Pascoli dà mirabile prova in Italy, ritorna, scevro della sua virtuosa attitudine di
sperimentatore, nell'uso del dialetto intrecciato alla parola colta, il gergo torinese o piemontese, "il lento
dialetto" del cugino che ritorna (ci fece riuscire un garage di cemento, v. 60; e che la dicano, v. 83) assieme
alla "rabbiosa passione per Shakespeare e altri elisabettiani". [6]
DIFFERENZE
Gli emigrati di Pascoli che ritornano a Caprona hanno oramai perduto la loro lingua madre, non parlano
più l'italiano ma non parlano nemmeno americano: dall'incontro di culture, nasce un mix linguistico in cui
Pascoli riassume il dramma dell'emigrazione. Il cugino che ritorna, invece, nonostante i "vent'anni di idiomi
e di oceani diversi", nonostante gli anni in giro per il mondo e a contatto con lingue diverse, continua ad
adoperare "il lento dialetto" che non perderà mai.
- Italy si connota di implicazioni ideologico-politiche, nasce dall'interesse dell'autore per il fenomeno
dell'emigrazione; ne I mari del Sud, al di là del tentativo di ancorarsi a una esperienza concreta e di porsi in
posizione antitetica al lirismo tipico della poesia ermetica contemporanea, Pavese sembra prescindere dal
dato realistico e su questa realtà avvia un processo di tipizzazione. Il senso di sradicamento e di solitudine
del cugino come esperienza tipica dell'esistere.
3) Ungaretti, l'intellettuale alla ricerca della propria identità: Girovago, In memoria
L'intellettuale è come l'esule moderno che "ha perduto la patria senza acquistarne un'altra, uno che vive di
una doppia esteriorità". L'intellettuale moderno ha spesso intrapreso, per motivi personali, politici, culturali,
viaggi che lo hanno condotto lontano dal contesto di appartenenza; egli ha spesso più culture di riferimento,
sebbene distanti tra loro.
Il ruolo tradizionalmente attribuito agli intellettuali europei è molto diverso in altri contesti: gli scrittori
dell'America Latina, assumono presso la società una funzione di guida, e producono una letteratura che
partecipa all'azione.
La funzione dell'intellettuale sarebbe quella di conoscere e far conoscere il mondo. Il viaggio ha sovente
portato l'intellettuale in terre remote, alla ricerca dell'altro, alla ricerca di stesso.
Due opposte tendenze percorrono la cultura contemporanea: da un alto, la globalizzazione, l'universalità,
l'abbattimento dei vecchi confini; dall'altro, la creazione di nuovi confini. La letteratura ha sempre escogitato
il modo per raggirare le frontiere e l'intellettuale, che conosce più culture, diviene un efficace esempio di
mediazione e scambio culturale.
Silenzio , Girovago, Levante (Allegria) di Giuseppe Ungaretti. Il tema dell'intellettuale, che viaggia alla ricerca
della propria identità, è espresso a chiare lettere nei versi di Girovago ("In nessuna / parte / di terra / mi
posso / accasare … E me ne stacco sempre / straniero") come nelle parole di commento dello stesso
Ungaretti: "Questa poesia, composta in Francia, dov'ero stato trasferito con il mio reggimento, insiste
sull'emozione che provo quando ho coscienza di non appartenere a un particolare luogo o tempo. Indica
anche un altro dei miei temi, quello dell'innocenza, della quale l'uomo invano cerca traccia in sé o negli altri
sulla terra".
Queste liriche di Ungaretti nascono dalla stessa esperienza biografica (l'abbandono di Alessandria d'Egitto,
città natale del poeta): in esse torna il tema del viaggio, come conoscenza, come memoria, come riscoperta
di sé nell'altrove, uno dei temi paradigmatici dello straniero.
La lirica Girovago (L’allegria, 1931) denuncia l’estraneità di Ungaretti ad ogni luogo in cui approda e
l’inconciliabilità tra la ricerca di cambiamento e quella di serenità.
Ungaretti soldato nel maggio 1918 è stato appena trasferito sul territorio francese: è l’ultimo anno di guerra
e questo è l’ennesimo fronte che cambia, in una vita che non ha conosciuto mai dimora stabile. Nato in
Egitto da genitori toscani e formatosi in Francia, in Italia è stato fervente patriota prima e rinomato
accademico poi; accolto in Brasile come illustre professore e poeta, si spegnerà infine a Milano e verrà
sepolto a Roma. Il corso dei suoi viaggi incrocia quello dei fiumi che attraversano le città che lo hanno
accolto: nelle acque di Serchio, Nilo, Senna e Isonzo rilegge le fasi della sua crescita (cfr. Ungaretti, I fiumi,
in Il porto sepolto, 1916), che raggiungerà la maturità tra i meandri del Tevere e del Rio Tiete a San Paolo.

Quand’è sul campo di Mailly, in quel maggio del 1918, Giuseppe Ungaretti ha già abbandonato vari Paesi
per stabilirsi in altri ed è arrivato ormai a denunciare un senso di inappartenenza a qualsiasi luogo abiti. «In
nessuna / parte / di terra / mi posso / accasare» [1] è la constatazione di uno sradicato, una verifica di vita
precisa e netta: non c’è posto che possa essergli casa, luogo in cui non si senta estraneo. La poesia Girovago,
posta nell’omonima sezione de L’allegria, registra il dramma di chi, dopo aver così tante volte, in così poco
tempo, estratto le proprie radici da un terreno per impiantarle in un altro, le ha perse: queste si sono seccate
e, assieme ad esse, è venuta meno la capacità di attecchire in un nuovo suolo.
Il poeta usa termini forti e assoluti per descrivere la sua condizione: «nessuna» terra gli è casa e «ogni»
clima nuovo lo indebolisce [2]. Il tono è rassegnato e l’andamento del periodo è conciso, quasi lapidario: è
lo stile che caratterizza il poetare essenziale di Ungaretti. I pochi termini, i soli necessari, compongono versi
brevissimi da frasi disarticolate in unità minime, spesso ridotte ad una sola parola: questa stringatezza
conferisce ai singoli lemmi una forte carica descrittiva ed emotiva. «Nessuna / parte / di terra» (vv.1-3), «a
ogni / nuovo / clima» (vv.6-8), «languente» (v.11), «assuefatto» (v. 15), «straniero» (v.17), «innocente» (v.25)
sono tutti versi quasi monoverbali che cadono a piombo nel ritrarre il poeta esule del mondo e la sua ricerca
insoddisfatta di un riparo. La scelta dei termini è accorta, le pause tra i versi sono ben ponderate: tutta la
struttura del componimento è volta a dare pieno potere evocativo alla parola, per non perderla in discorsi
prolissi, ma fissarla nella sua nudità sul foglio. Sono parole banali e semplici, ma espresse nella pienezza del
loro significato, ricavate da un attento lavoro di scavo e di pulizia del superfluo.
Nell’essenzialità della sua espressione, Ungaretti immortala la condizione dell’uomo che non trova
compiutezza nel luogo in cui nasce e che per questo migra, cerca un riscatto dalla sua situazione di partenza.
Climi e ambienti nuovi arricchiscono il singolo in termini di conoscenza del mondo e di se stesso ed è per
questo che migrare è parte della natura umana da sempre. Ungaretti stesso nella già citata lirica I fiumi,
ricostruendo le tappe della sua vita, riconosce come nell’Isonzo del Nord Italia si sia «riconosciuto / una
docile fibra / dell’universo» [3] e come nel torbido corso della Senna di Parigi si sia «rimescolato» e
«conosciuto» [4]. All’uomo con la nascita viene dato un punto di partenza, un contesto iniziale in cui
muovere i primi passi: è facoltà sua decidere poi dove proseguire il suo cammino. La crescita deve essere
spostamento, sia questo all’interno della stessa città o tra continenti diversi: non ci può essere sviluppo
senza il movimento verso ciò che è nuovo e diverso rispetto al conosciuto.
Quando un uomo sceglie, allora, di varcare i confini della propria nazione di nascita per raggiungere un’altra
non fa altro che proseguire il suo sviluppo verso la maturità, verso un luogo da conoscere e in cui riconoscersi
e così è stato fin da quando la storia ha memoria. Frontiere e confini sono convenzioni sancite in un secondo
momento, quando l’uomo ha iniziato a stabilirsi in una terra e a reclamarla come sua. Per potersi organizzare
e regolare, ha disegnato dei limiti tra quello che era suo e quello che era di altri. Il limite permette, sì, di
constatare una differenza effettivamente esistente tra popoli di culture diverse e talora difficilmente
conciliabili, ma non può trasformarsi in una barriera invalicabile. Pensare di poter serrare le frontiere di una
nazione è un progetto utopico che, prima di essere scorretto secondo la logica storica dei movimenti
migratori, è irreale. È, di fatto, impraticabile qualsiasi provvedimento politico che intenda bloccare un flusso
che non si arresta dall’alba dei tempi. Non solo sarebbe impossibile fermare le migrazioni, ma anche pensare
di farlo è controproducente nell’ottica della crescita individuale dell’uomo e collettiva della sua comunità. Il
contatto tra culture e tradizioni diverse è una relazione molto difficoltosa, talvolta solo parzialmente
praticabile, ma la sua fatica non trova soluzione nel negare l’accesso all’altro, quanto invece nel mettersi in
discussione e nel cercare un dialogo. Se non si è stimolati dal diverso, se non ci si muove dal conosciuto, si
resta fermi e questa è una decisione che si è liberi di condividere, ma che non si potrà di certo imporre.

La migrazione spesso non si risolve in un solo spostamento, ma risulta in vari cambiamenti di posto lungo
diversi anni. Ad ogni viaggio corrisponde una rottura con il luogo che si lascia e un’irruzione in quello in cui
si arriva: traumi che fino a questo momento per il poeta nella lirica sono stati riassorbiti nel corso della
permanenza, anestetizzati dall’abitudine di una nuova routine. La situazione cambia rispetto a «una volta»,
quando il poeta si trovava presto «assuefatto» al luogo: adesso, ad ogni nuovo ambiente, l’autore si trova
«languente» [5], spossato. Lo spostamento ora è fonte di disagio, sconforto e scoraggiamento: arrivare in
una nuova terra e non riuscire ancora una volta a sentirsi a casa viene percepito come una sconfitta,
l’ennesima ricerca senza successo. In nessun caso il cambiamento smette di essere motivo di ricchezza, ma,
a lungo andare, la ricerca del nuovo e del migliore si scontra con un’altra quête dell’uomo, quella della
serenità.
La fame di crescita e progresso porta sicuramente ad un guadagno per l’essere umano – è ciò che porta
l’adolescente a farsi adulto e il migrante a spostarsi –, ma ad un prezzo alto in termini di irrequietezza e
insoddisfazione. L’uomo alla ricerca percepisce di essere manchevole di qualcosa e da ciò sarà sempre
frustrato fintanto che si illuderà di poter trovare ciò che lo completi. La fame di cambiamento mal si concilia
al desiderio di serenità, eppure entrambi, in egual modo, muovono l’essere umano. L’uomo è nomade, sì,
ma fino ad un certo punto: lo sconforto di Ungaretti è dato dal fatto che, nonostante i numerosi viaggi
attraverso i quali è maturato, il poeta ricerca ancora quell’unico posto che gli sia casa. Egli è cosciente che
cambiare ancora non lo appagherà mai una volta per tutte: la serenità non si raggiunge soddisfacendo un
desiderio che non avrà mai compimento, ma accentando la propria eterna manchevolezza nella scelta di
una casa, una vocazione; una sola che per ognuno è unica e straordinaria.
Da ogni terra, invece, «me ne stacco sempre / straniero» [6], dice il poeta: l’allitterazione della “s” rende
bene l’asprezza con cui l’autore vive la separazione da un luogo che non è riuscito a fare suo, in cui è sempre
stato un estraneo. I paesi già visti e vissuti sono come carte sgualcite, da cui non si è riuscito a ricavare molto:
Ungaretti cerca invece del materiale vergine, «un paese / innocente» [7], in cui «godere un solo / minuto di
vita / iniziale» [8]. Stanco di girovagare, vorrebbe ora assaporare di nuovo l’inizio: qualcosa di ancora
intoccato e puro per ricordarsi com’era non essere rassegnati, ma credere ancora di poter trovare
soddisfazione alla propria ricerca. Ciò che è al suo stato iniziale, infatti, non si conosce perché non è ancora
stato vissuto: questo dà motivo, quindi, di credere di poter trovare in esso la tanto agognata pace.
Al vecchio e ripetuto passato, si contrappone la prospettiva di una rinascita in un gioco di opposizioni tra
termini – «nascendo» (v.18) – «vissute» (v.20); «sempre» (v.16) – «un solo / minuto di vita» (vv.21-22) – che
ha caratterizzato l’intero componimento, come tra «nessuna» (v.1) – «ogni» (v.6); «languente» (v. 11) –
«assuefatto» (v.15). Nel poeta convivono, infatti, sia la rassegnazione data dalla ricerca inconclusa, sia il
prospetto di un ritorno a quella vita iniziale che lo incoraggiava ad aver ancora fiducia nel cambiamento.
Ungaretti conclude, dunque, la sua denuncia rassegnata di estraneità al mondo con l’immagine di un paese
innocente: il miraggio di un Eden, un posto che ancora non ha incrociato nei suoi viaggi e che sappia dargli
il gusto di qualcosa di nuovo, di non-scoperto. La ricerca del poeta non si risolve, quindi, se non in un sogno
appeso ad un futuro ideale, non meglio definito: non immagina di trovare casa tra mura domestiche di cui
saper accettare il limite e le mancanze, ma ancora aspira ad un posto in cui la novità risolverà ogni suo
desiderio. Ungaretti rimane migrante, ormai già diverso dal luogo da cui è partito e ancora distante da
qualsiasi posto nuovo incontri: continua così a muoversi, con una facilità a varcare le frontiere invidiabile da
chi persegue una simile ricerca, ma senza il privilegio dell’accoglienza.
In memoria (1915 Il porto sepolto)
Una vita perduta, ma eternata dalla letteratura. Moammed Sceab è divenuto un simbolo, la sua lapide
anonima, smarrita in un camposanto in terra straniera è la lapide di tutti i migranti. Ce ne parla Giuseppe
Ungaretti nella poesia In memoria (1915), posta originariamente in apertura alla raccolta Il porto sepolto
(1916), quasi si trattasse di una dedica.
Attraverso la breve parabola esistenziale dell’amico africano, Ungaretti ci consegna una testimonianza
universale sul significato dell’emigrazione: un processo di sradicamento che comporta perdita d’identità,
smarrimento, una sorta di sospensione. La malinconia dell’esule è perfettamente incarnata dalla figura di
Moammed Sceab - questo nome dolce, melodioso, da principe arabo - che soffrì sulla propria pelle la pena
di essere “straniero”, “senza patria”, e si tolse la vita a Parigi dopo aver cercato invano, con tutte le proprie
forze, di integrarsi, di diventare “francese”.
Che fatica camminare come un vagabondo per le strade del mondo e difendere la propria identità, Ungaretti
ci restituisce questa pena in poesia, ricordando che al posto dell’amico morto - ancora una volta - ci poteva
essere lui stesso. La conclusione è straziante, ma da un certo punto di vista anche consolatoria perché il
poeta riesce attraverso la parola a eternare il ricordo di Moammed Sceab.
In memoria fu pubblicata per la prima volta nel 1915 sulla rivista futurista Lacerba, fondata da Giovanni
Papini, in seguito inserita come apertura della celebre raccolta ungarettiana. In apertura vi è posta
un’indicazione di luogo e di tempo: Locvizza, il 30 settembre 1916, Ungaretti la scrisse sul fronte italo-
sloveno della Prima guerra mondiale, sull’altopiano del Carso che ispirò numerose sue opere.
Nel mondo apocalittico, creato dall’uomo contro l’uomo, la parabola di vita di Moammed Sceab aveva
ragione d’esistere e acquisiva un senso proprio lì, tra quelle case sventrate dalle bombe nemiche, dove
improvvisamente Ungaretti scopriva che in realtà era il suo cuore “il paese più straziato”.
In memoria si compone di otto strofe in versi liberi che oscillano costantemente tra due tempi: passato e
presente. Ungaretti rievoca la vita di un uomo, ma soprattutto di un amico: si chiamava Moammed Sceab, e
anche lui era un poeta. Veniva dal Libano ed è divenuto, suo malgrado, il simbolo di uno scontro tra civiltà
e culture (“fu Marcel/ ma non era francese”) che ancora oggi si ripercuote sul nostro presente.
Giuseppe Ungaretti esercita il dovere della memoria, restituendo la voce a chi più non l’ha, a chi ormai non
può più parlare. Riscatta la figura di Moammed Sceab dall’oblio con una poesia melodiosa quanto il suo
nome. Non è un caso che Ungaretti avesse posto questa lirica al principio della sua più celebre raccolta, Il
porto sepolto (1916): era una chiara dichiarazione d’intenti. Il titolo stesso In memoria fa riferimento alla
formula rituale delle sepolture che significa “in ricordo” e ricordare, dall’etimologia latina cor cordis, significa
tenere nel cuore.
Nel finale Ungaretti glorifica il ricordo dell’amico in un epitaffio memorabile:
E forse io solo
so ancora
che visse.
Possiamo cogliere nella figura di Moammed Sceab un alter ego di Ungaretti; erano entrambi poeti, entrambi
sperimentarono la tragica condizione di essere senza patria, a fare la differenza è stato quel discrimine sottile
tra la vita e la morte. Ricorda il compagno massacrato di Veglia che nel silenzio inscalfibile della morte rivela
al poeta una verità suprema sull’esistenza. Anche qui Ungaretti rimane “attaccato alla vita” e scrive parole
piene d’amore; mentre Moammed no. Ma proprio lui che è sopravvissuto riscatta l’amico morto e sembra
anche redimere sé stesso, perdonarsi d’averlo abbandonato in quel vicolo in discesa in rue des Carmes.
Ungaretti dichiara di aver trovato la cura al proprio sradicamento nella poesia e così di essere sopravvissuto.
Scioglie così il dolore della perdita in un canto che trova il proprio cardine in un nome che il tempo ha cercato
di disperdere, ma che attraverso i versi rimane forgiato a fuoco nella memoria: “si chiamava Moammed
Sceab”, e ora tutti noi sappiamo che visse.
Chi era Moamed Sceab
Ungaretti aveva conosciuto Sceab ad Alessandria d’Egitto, i due erano stati compagni di scuola al liceo
svizzero-francese École Suisse Jacot. Sempre insieme si erano trasferiti a Parigi, in rue des Carmes, nel quinto
arrondissement, alla ricerca della propria identità artistica e letteraria.
In terra francese avevano condiviso la comune condizione di esuli: solo che Ungaretti seppe integrarsi
trovando nuova identità attraverso il suo “canto” poetico, mentre Moammed no, “non seppe sciogliere il
canto del suo abbandono”. L’amico africano morì suicida in Francia; ma questo il poeta non lo dice, ci fa solo
sapere che è sepolto in una tomba anonima nel camposanto di d’Ivry, un luogo descritto come simbolo di
sfacelo e abbandono.

La tragedia di Moammed Sceab è il dramma dell’emigrazione, della dispersione di identità: per adattarsi e
non sentirsi “straniero” ma “cittadino” cambia nome in Marcel, sceglie una nuova lingua, una nuova patria,
ma non riesce ad affrancarsi dalla sua condizione di “déraciné”, sradicato. Così smarrisce il proprio senso di
appartenenza, sino a non sapere più chi essere e neppure a cosa tornare, perché l’aver abbandonato il
Corano e i suoi precetti non lo rendeva più accetto nella terra in cui era nato. Era diventato una persona
diversa, ma non sapeva chi era diventato: se Moammed o Marcel, se arabo o francese, sino a scoprire di
non essere in fondo né arabo né francese. Questa incapacità d’esistere lo conduce alla morte, ma Ungaretti
non si focalizza sulla sua triste fine, invece ci ricorda: “che visse”, proprio con questo verbo significativamente
conclude la poesia come un presagio di resurrezione.

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