l periodo storico che va dal 1224, data presumibile della composizione del Cantico delle creature di San
Francesco d'Assisi, al 1321, anno in cui morì Dante, si contraddistingue per i numerosi mutamenti in campo
sociale e politico e per la viva attività intellettuale e religiosa.
Prendiamo ora in esame le principali correnti letterarie del nostro paese durante il XIII secolo:
1. Letteratura allegorico-didattica,
2. Letteratura didattica e morale
3. Letteratura religiosa (San Francesco d’Assisi e Jacopone da Todi)
4. Lirica popolare e giullaresca
5. Scuola siciliana
6. La Lirica Toscana
1. La letteratura allegorico-didattica
Un tipo di letteratura, quella di carattere enciclopedico e allegorico, nata in Francia già nel XII secolo.
Giunge nel Duecento in Italia con i suoi modelli, come il famoso Roman de la Rose che nelle due parti
composte tra il 1230 e il 1280 circa da Guillaume de Lorris e Jean de Meun narrano, con abbondanti figure
simboliche e azzardate personificazioni, le vicende del sentimento amoroso nei suoi vari e drammatici
aspetti. L'influsso del Roman si avverte in tutte le opere allegorico-didattiche antiche scritte in volgare.
3. La letteratura religiosa
Contemporaneamente a questi componimenti dell'Italia settentrionale, nasce, soprattutto in Umbria, una
letteratura in versi a carattere religioso scritta nei vari dialetti locali per lo più anonima.
Attraverso le laude, liriche drammatiche, pasquali o passionali secondo l'argomento religioso trattato, il
movimento si diffuse in tutta l'Italia del Nord stabilendone il centro a Perugia e ad Assisi. Ma è il “Cantico di
Frate Sole” o “Cantico delle creature” di san Francesco d'Assisi ad essere considerato il più antico
componimento in volgare italiano mentre solamente con Jacopone da Todi la lauda assunse una
dimensione artistica.
Tra i più importanti generi della letteratura religiosa ci sono quindi le laude, componimenti che cantavano
le lodi dei Santi, di Cristo e della Madonna, e che vengono spesso raccolte in manoscritti chiamati "laudari"
(raccolte di laude). Si tratta spesso di laude scritte sotto forma di dialogo con carattere di dramma sacro che
venivano recitate in ricorrenze religiose di una certa importanza con l'accompagnamento musicale.
Le laude di questo periodo sono quasi tutte anonime e vengono soprattutto dalla Toscana, dall'Umbria,
dalle Marche, dall'Abruzzo e dall'Italia settentrionale e conservano, nella povertà della loro struttura
sintattica, un carattere molto semplice ma estremamente sincero.
Vengono narrati gli episodi del Vangelo di maggior effetto, come i miracoli di Gesù e della Vergine e la vita
dei santi. Le opere a carattere religioso furono quindi assai numerose in questo periodo ma quelle che si
contraddistinguono per il loro carattere realmente poetico sono il "Cantico di Frate Sole" di San Francesco
d'Assisi e le "Laude" di Jacopone da Todi.
JACOPONE DA TODI
Sarà però con Jacopone da Todi e con il Pianto della Madonna, una lauda dialogata dal linguaggio misto di
parole del volgare umbro e di latinismi e dalla metrica che ripropone i modelli della poesia dotta, che la
poesia religiosa raggiunge il suo vero apice poetico.
Nato a Todi nel 1236 morì nel 1306; la sua vita è spezzata dalla tragica morte della moglie trovata con uno
strumento di tortura che lo spinge alla conversione e da procuratore si fa frate, rifiutando i valori mondani.
Si fa accogliere dai francescani, avvicinandosi agli spirituali più intransigenti. Si trovò contro Bonifacio VIII,
papa conservatore. Fu arrestato da questo e liberato solo dopo la sua morte. A testimonianza della sua
cultura si hanno delle opere in latino come lo “Stabat mater”. Le laudi di Jacopone hanno una tradizione
molto complessa. La parte più importante della produzione di Jacopone sta nelle sue laude che parlano
dell’umiltà dell’uomo rispetto a Dio, i momenti della fede cristiana. Nel corso dei secoli al frate sono state
attribuite nei manoscritti numerosissime laude e, a seconda delle edizioni a stampa, vengono riconosciute
come jacoponiche più o meno laude. I manoscritti censiti finora con attribuzioni a Jacopone sono ben 337,
una tradizione vastissima, seconda soltanto a quella della Commedia e delle Rime di Dante.
Tuttavia i manoscritti più antichi di area umbra (quindi teoricamente i più fedeli) riconoscono
concordemente a Jacopone un numero di laude che si aggira intorno alle 100 unità. Talvolta, Jacopone si
limita alla denuncia commossa e ardente; altre volte, come nel Pianto della Madonna (uno dei capolavori
che fanno di lui la più grande personalità della nostra storia letteraria prima di Dante), traduce l'ansiosa
passione umana in figure potentemente drammatiche, poste di fronte al mistero della saggezza divina.
Nelle sue laude non inneggia la natura, ma intraprende una lotta politico-culturale con la chiesa. La
tensione espressiva con cui Jacopone cerca di persuadere il lettore è il centro delle sue opere; la scelta
dell’umbro come lingua, l’uso di vocaboli di altre lingue esprime la differenza fra voler dire e il linguaggio.
Jacopone usa anche la lauda drammatica, di cui è esempio Donna del Paradiso, dialogo fra più voci, dove si
può vedere come l’uomo possa incontrare Dio. La metrica è soggetta ai fini dell’autore; c’è
un’imprevedibilità nel ritmo e della struttura strofica. Usa l’ottonario e il settenario semplice o doppio con
valore comico. Le sue laudi circolano solo in ambienti francescani e non determinano una tradizione.
5. La scuola siciliana
Fin dal 1166 alla corte normanna di Guglielmo II di Sicilia convenivano da ogni parte i trovatori italiani e
provenzali. Una prima elaborazione di lingua letteraria da poter mettere in versi si ebbe al tempo di
Federico II di Svevia in Sicilia dove l'imperatore aveva dato l'avvio, nel 1220-50 circa, alla Scuola siciliana,
una vera scuola poetica in aulico siciliano che si ispirava ai modelli provenzali e che portò avanti la sua
attività letteraria per circa un trentennio concludendosi nel 1266 con la morte del figlio di Federico,
Manfredi, Re d'Italia morto nella battaglia di Benevento. I poeti di questa scuola "… scrivevano in un
siciliano illustre, in un siciliano cioè nobilitato dal continuo raffronto con le due lingue, in quel momento
auliche per eccellenza: il latino e il provenzale". Il tema dominante nei poeti siciliani fu quello dell'amore
ispirato ai modelli provenzali: le forme in cui si espresse questa poesia sono la canzone, la canzonetta e il
sonetto, felice invenzione di Jacopo da Lentini, caposcuola del movimento.
Tra i maggiori poeti di questa scuola si ricorda inoltre Guido delle Colonne del quale sono pervenute cinque
canzoni, Pier della Vigna di Capua (nominato da Dante nel XIII canto dell'Inferno, tra i suicidi essendosi
dato la morte non accettando il disonore di un’accusa ingiusta a cui lo stesso imperatore credeva), Stefano
Protonotaro da Messina al quale dobbiamo l'unica composizione conservata in lingua originale siciliana (Pir
meu cori alligrari). Siamo comunque molto distanti dall'erotismo provenzale e francese, e più vicini al
platonismo italiano e alla tradizione classica, che si sente maggiormente nel periodare e nel contenuto. Di
diversa estrazione era infatti la scuola dell'isola, composta prevalentemente di giuristi e notai, più vicini del
mondo francese alla tradizione umanistica e nel complesso distanti dal mondo cavalleresco francese,
ammirato da lontano ma difficilmente sentito come proprio. Annoverato come poeta appartenente alla
scuola siciliana vi fu anche il già citato Cielo d'Alcamo.
A Jacopo da Lentini, notaio presso la corte di Federico II e probabile iniziatore della scuola, si attribuisce
l'invenzione del sonetto e la teoria dell'amore, inteso come sentimento che nasce alla vista di una donna e
che viene alimentato attraverso l'immaginazione, che sarà ripresa da tutta la lirica d'amore del Duecento,
dai siciliani agli stilnovisti.
Solo due componimenti sono giunti a noi nell'originale volgare siciliano, salvati da Giovanni Maria Barbieri:
“Pir meu cori alligrari” di Stefano Protonotaro da Messina e “S'iu truvassi Pietati” di Re Enzo, figlio di
Federico. Tutte le altre poesie furono tradotte in fiorentino dai copisti toscani. Nella storia della poesia
"Non grande è l'importanza della scuola poetica siciliana, ma grandissima è la sua importanza nella storia
della nostra cultura e nel formarsi della nostra lingua letteraria". Questo significa che non è la
qualità/quantità/bellezza della poesia siciliana a renderla importante, ma il suo ruolo di apripista a tutta la
letteratura italiana successiva: i successori poeti toscani imiteranno, tradurranno e copieranno la poesia
siciliana, migliorandola, ma pur sempre tenendola come modello.
6. La Lirica toscana
Con la morte di Federico II e del figlio Manfredi si assiste al tramonto della potenza sveva e anche l'esaurirsi
della poesia siciliana. Dopo la Battaglia di Benevento l'attività culturale si sposta dalla Sicilia alla Toscana,
dove nasce una lirica d'amore, la lirica toscana, non dissimile da quella dei poeti della corte siciliana ma
adattata al nuovo volgare e innestata nel clima dinamico e conflittuale delle città comunali: sul piano
tematico dell'amore cortese si affiancano nuovi contenuti politici e morali.
Vengono così ripresi in Toscana i temi della scuola siciliana e le ricercatezze di stile e di metrica propria dei
Provenzali con l'arricchimento dato dalle nuove passioni dell'età comunale. La poesia dei poeti toscani
viene così ad arricchirsi sia dal punto di vista tematico che linguistico anche se viene a mancare "quel livello
di aristocrazia formale a cui i siciliani riescono generalmente a mantenersi". Fanno parte del gruppo dei
poeti toscani Bonagiunta Orbicciani da Lucca, il fiorentino Chiaro Davanzati e molti altri di cui il più noto è
Fra Guittone dal Viva da Arezzo.
Guittone d'Arezzo
Il caposcuola dei toscani viene considerato Guittone d'Arezzo, nato verso il 1235 ad Arezzo e morto nel
1294, nel 1256, a causa delle sue simpatie politiche, fu esiliato per alcuni anni da Arezzo.
Amareggiato dai troppi contrasti, intorno al 1265, colto da una forte crisi spirituale, lasciò la moglie e i figli
ed entrò nell'ordine religioso di recente creazione dei Cavalieri di Santa Maria detto anche Frati della
Beata Gloriosa Vergine Maria (i cosiddetti frati Gaudenti), nei quali si accedeva anche in base al censo,
testimoniando così una sua estrazione familiare piuttosto alta. A seguito della crisi religiosa si può notare
un cambiamento nella sua poetica: oltre a firmarsi come Fra Guittone, nella canzone "Ora parrà s'eo saverò
cantare" rifiuta la produzione letteraria precedente, arrivando a paragonare l'amore con il follore (follia).
Guittone ci ha lasciato una vasta raccolta di rime (composta da 50 canzoni e 239 sonetti) nelle quali si
rispecchiano i suoi due diversi modi di vita. Si può così dividere la sua opera in due parti: la prima, dove
imita i poeti della scuola siciliana ed è dedicata all'amore e alle armi, la seconda di contenuto religioso e
morale.
A Guittone si deve il primo esempio di canzone politica (“Ahi lasso, or è stagion de doler tanto”) scritta in
seguito alla sconfitta che i guelfi fiorentini subirono nel 1260 a Montaperti per opera dei ghibellini nella
quale, con il tono energico e veemente che si ritroverà in alcune pagine di Dante, egli lamenta la pace
perduta utilizzando e alternando il sarcasmo con l'invettiva e l'ironia.
Ma il vero poeta lo si deve cercare nelle sue rime di carattere religioso e specialmente nella laude, come in
quella dedicata a San Domenico scritta con lo schema della ballata sacra da lui inventata.
Sempre da attribuire a Guittone d'Arezzo è un Trattato d'amore in 12 sonetti e circa una trentina di Lettere.
IL DOLCE STIL NOVO
Dopo la stagione della scuola siciliana e quella della lirica toscana, t
ra la fine del XIII secolo e i primi anni del successivo nasce il Dolce Stil Novo, un movimento poetico che,
accentuando la tematica amorosa della lirica cortese, la conduce ad una maturazione molto raffinata.
Nato a Bologna (con Guido Guinizzelli) e in seguito fiorito a Firenze (soprattutto con Guido Cavalcanti e poi
con Dante Alighieri), esso diventa presto sinonimo di alta cultura filosofica e questo "... spiega perciò come i
giovani poeti della nuova scuola guardassero con disprezzo, più che ai siciliani, ai rimatori del gruppo
toscano, che accusavano di avere in qualche modo imborghesita la poesia e di mancare di schiettezza e
raffinatezza stilistica ". Il nome della nuova "scuola" si trae da Dante. È noto che Dante, incontrando, in un
balzo del suo Purgatorio nel canto XXIV, il rimatore Bonagiunta Orbicciani da Lucca, mentre ci offre il nome
(da noi per convenzione ormai antica adottato) della scuola o gruppo letterario cui Dante appartiene
(mentre il Jacopo da Lentini detto il Notaro, Guittone d’Arezzo e lo stesso Bonagiunta ne rimasero esclusi),
definisce poi questo "dolce stil novo" uno scrivere quando "Amore spira". Infatti nel XXIV canto del
Purgatorio Bonagiunta da Lucca si rivolge a Dante chiedendogli se si trattasse proprio di
“colui che fuore
Trasse le nuove rime, cominciando
"Donne ch'avete intelletto d'amore"
e Dante gli risponde senza dire il suo nome ma così definendosi:
I' mi son un che, quando
Amor mi ispira, noto; e a quel modo
Ch'e' ditta dentro, vo significando
ed è a questo punto che Bonagiunta risponde:
O frate, issa vegg'io... il nodo
Che il Notaro e Guittone e me ritenne
Di qua dal dolce stil novo ch'i' odo.
I poeti del "Dolce Stil Novo" fanno dell'amore il momento centrale della vita dello spirito e possiedono un
linguaggio più ricco e articolato di quello dei poeti delle scuole precedenti. La loro dottrina "toglieva
all'amore ogni residuo terreno e riusciva a farne non un mezzo, ma il mezzo per ascendere alla più alta
comprensione di Dio". Per questo motivo le donne oggetto della loro ammirazione non sono semplici
signore, ma donne-angelo, che aiutano i poeti stilnovisti ad avvicinarsi a Dio grazie alla loro perfezione.
L'iniziatore di questa scuola fu il bolognese Guido Guinizelli e tra gli altri poeti, soprattutto toscani, si
ricordano i grandi come Guido Cavalcanti, Dante stesso, Cino da Pistoia e i minori come Lapo Gianni, Gianni
Alfani, Dino Frescobaldi.
Guido Guinizzelli
Nacque a Bologna tra il 1230 e il 1240. Considerato il fondatore del "dolce stil novo", di Guido Guinizzelli
non si hanno dati anagrafici certi. All’interno del suo canzoniere di 15 sonetti e 5 canzoni, egli ci ha lasciato,
con la canzone “Al cor gentil rempaira sempre amore”, quello che deve considerarsi il manifesto del
"dolce stil novo" dove viene messa in evidenza l'identità tra il cuore nobile e l'amore e come la gentilezza
stia nelle qualità dell'animo e non nel sangue. immagina, nei versi finali, di potersi giustificare di fronte a
Dio che lo interroga sul motivo per cui indirizzò ad un essere umano le lodi e l'amore che a Lui e alla
Madonna soltanto convengono; a tali domande egli si giustifica testimoniando l'angelicità della semblanza
dell'amata: "Tenne d'angel semblanza / che fosse del tuo regno; / non me fu fallo, s'in lei posi amanza" (vv.
57-60), ossia "aveva l'aspetto (semblanza) di un angelo che appartenesse al tuo regno, non feci peccato
(non me fu fallo) se posi in lei il mio amore (amanza)". Egli riprende poi con accenti sublimi il concetto del
paragone tra la donna e l'angelo. Guinizelli occupa un posto di assoluto rilievo nella storia della letteratura
italiana; la sua produzione lirica fu molto apprezzata dai contemporanei e dallo stesso Dante Alighieri, che
non esita appunto a dichiararlo, con ammirazione e commozione, padre suo e quindi maestro, nel canto
XXVI del Purgatorio. Un'altra caratteristica che spicca nella poesia guinizzelliana, e che sarà poi tipica dello
Stilnovismo, è il gusto per il sottile ragionamento filosofico, nutrito della cultura della Scolastica: non per
nulla Guinizelli è di Bologna. La poesia di Guinizelli costituisce infine un esempio perfetto di stile «dolce e
leggiadro», cioè di uno stile limpido e piano in contrapposizione alla contorta e artificiosa oscurità
guittoniana. Oltre al manifesto “Al cor gentil rempaira sempre amore” possiamo ricordare la famosa “Io
voglio del ver la mia donna laudare”.
Guido Cavalcanti
Guido Cavalcanti, figlio di Cavalcante dei Cavalcanti, nacque a Firenze intorno all'anno 1258 in una nobile
famiglia guelfa di parte bianca. Nel 1260 Cavalcante, padre del poeta, fu mandato in esilio in seguito alla
sconfitta di Montaperti. Sei anni dopo, in seguito alla disfatta dei ghibellini nella battaglia di Benevento, che
avvenne nel 1266, i Cavalcanti riacquistarono la preminente posizione sociale e politica a Firenze. Nel 1267
a Guido fu promessa in sposa Bice, figlia di Farinata degli Uberti, capo della fazione ghibellina.
Nel 1280 Guido è tra i firmatari della pace tra guelfi e ghibellini e quattro anni dopo siede nel Consiglio
generale al Comune di Firenze insieme a Brunetto Latini e Dino Compagni. Secondo lo storico Dino
Compagni a questo punto avrebbe intrapreso un pellegrinaggio a Santiago di Compostela. Pellegrinaggio
alquanto misterioso, se si considera la fama di ateo e miscredente del poeta. Il 24 giugno 1300 Dante
Alighieri, priore di Firenze, è costretto a mandare in esilio l'amico nonché maestro Guido con i capi delle
fazioni bianca e nera in seguito a nuovi scontri. Il 29 agosto muore, pochi giorni dopo essere tornato a
Firenze, probabilmente a causa della malaria contratta durante l'esilio.
È ricordato - oltre che per i suoi componimenti - per essere stato citato da Dante (del quale fu amico
assieme a Lapo Gianni) nel celebre nono sonetto delle Rime “Guido, i' vorrei che tu e Lapo ed io”. Dante lo
ricorda, anche, nella Divina Commedia (Inferno, canto X e Purgatorio, canto XI) e nel De vulgari eloquentia,
mentre Boccaccio lo cita nel Commento alla Divina Commedia e in una novella del Decameron.
La sua personalità, aristocraticamente sdegnosa, emerge dal ricordo che ne hanno lasciato gli scrittori
contemporanei. Cavalcanti era noto per il suo ateismo.
I componimenti pervenutici di Cavalcanti sono 52, tra cui 36 sonetti, 11 ballate 2 canzoni, 2 stanze isolate e
un mottetto. Le forme maggiormente utilizzate sono la ballata ed il sonetto, seguite dalla canzone. In
particolare, la ballata appare congeniale alla poetica cavalcantiana, poiché incarna quella musicalità
sfumata e quel lessico leggero, che si risolve poi in costruzioni armoniose.
I temi delle sue opere sono quelli cari agli stilnovisti; in particolare la sua canzone manifesto della sua
poetica “Donna me prega” è incentrata sugli effetti prodotti dall'amore. La concezione filosofica su cui egli
si basa è l'aristotelismo radicale promosso dal commentatore arabo Averroè, che sosteneva l'eternità e
l'incorruttibilità dell'intelletto possibile separato dal corpo e l'anima sensitiva come entelechia o perfezione
del corpo. Va da sé che, avendo le varie parti dell'anima funzioni differenti, solo collaborando esse
potevano raggiungere il sinolo, l'armonia perfetta. Istantanea è la deduzione che, colpendo l'amore l'anima
sensitiva e squarciandola e devastandola, si comprometteva il sinolo e ne risentiva molto l'anima
vegetativa (come si sa l'innamorato non mangia o non dorme). La donna, avvolta come da un alone mistico,
rimane così irraggiungibile e il dramma si consuma nell'animo dell'amante. Questa concezione filosofica
permea la sua poesia senza comprometterne la sua raffinatezza letteraria. Uno dei temi fondamentali è
l'incontro con l'amore che conduce, al contrario che in Guinizzelli, al dolore, all'angoscia e al desiderio di
morire. La poesia di Cavalcanti possiede accenti di vivo dolore riferiti spesso al corpo e alla persona.
Oltre a “Donna me prega” possiamo ricordare il sonetto “Voi che per gli occhi mi passaste ‘l core”
sull’effetto doloroso dell’amore e il sonetto “Chi è questa che vèn, ch’ogn’om la mira” sugli effetti che la
sua donna fa agli altri uomini e a se stesso quando compare.