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RIASSUNTO Una storia

dell'architettura
contemporanea - Dellapiana,
Montanari
Storia Dell'architettura
Università degli Studi di Pavia (UNIPV)
126 pag.

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UNA STORIA DELL’ARCHITETTURA CONTEMPORANEA
Riassunto
Parte I - XVIII e XIX secolo

Cap. 1 - L’eredità dell’Illuminismo


L’architettura è sempre stata veicolo di significati, che sono stati di volta in volta indotti da
progettisti, committenza, chi ha finanziato e utilizzato le strutture.
Le rivoluzioni in USA (1776-1783) e Francia (1789) cambiano il ruolo dell’architettura e la
quantità di persone che la utilizzano (nasce borghesia, l’architettura non è più appannaggio solo
dell’élite). Nascono e si diffondono sistemi di pensiero che trasformano i movimenti politici in
sistemi culturali; nasce l’illuminismo con i suoi principi (tra i quali la circolazione di
informazioni, uguaglianza tra gli uomini, tolleranza religiosa) formulati da Montesquieu,
Voltaire, Rousseau, Locke. → Rivoluzione della comunità degli intellettuali e degli artisti: le
arti e le scienze appartengono a tutta Europa e non sono più proprietà esclusiva di una sola
nazione.

1.1 ENCICLOPEDISMO E ARCHEOLOGIA: LA FORMAZIONE DELL’ARCHITETTO MODERNO


Encyclopédie = 1745-72, promossa dall’editore Le Breton, affidata a Diderot e d’Alambert,
rappresenta visione mondo che andrà caratterizzando l’epoca contemporanea e tutte le sue
espressioni. Essa ha 2 scopi: esporre ordine e connessione delle conoscenze umane
(enciclopedia), spiegare i principi generali (dizionario). La voce architettura fu compilata da
François Blondel (fig. 1.1), l’architetto è presentato come uomo fuori dall’ordinario;
l’architettura è considerata al pari di tutte le altre professioni e arti. Per lui il ruolo
dell’architetto non è nulla senza la comunità che lo forma e lo sostiene.
Nasce Académie Royale d’Architecture, fondata da Luigi XIV nel 1671 (inizialmente con sede
al Louvre): si occupa della formazione di architetti che devono fare tirocini e ogni mese un
concorso di progettazione, devono inoltre fare periodi di studi presso l’Accademia di Francia a
Roma (envoi = saggi annuali a cavallo tra rilievo e progetto); il percorso formativo si basava
sulla ripetizione a memoria degli antichi trattati e studio degli edifici classici. Blondel è
riformatore della didattica, prima di essere ammesso all’Accademia aveva fondato nel 1793 una
scuola alternativa (Ecoles des arts) dove aveva impostato un vero e proprio sistema organizzato
di corsi che fornisce agli architetti in formazione tutti gli strumenti utili alla preparazione
culturale e professionale.
All’Accademia vengono accolti gli architetti, come Julien David Leroy, architetto pensionato a
Roma, che fu professore nella classe nell’accademia di architettura (morto Blondel); 1°
architetto francese ad aver viaggiato in Grecia e autore di Les Ruines del 1758 (raccolta delle
ricostruzioni delle architetture dei tempi antichi e l’interpretazione degli edifici con gli occhi
dell’architetto, in termini di esattezza, precisione delle misure e di processo progettuale,
accurate incisioni; egli trasforma la narrazione illustrata del viaggio in un assunto teorico
sull’architettura; fig. 1.2). Leroy ritiene che la qualità formale sia legata alla qualità dello
sviluppo della società nella quale viene elaborata; dà poi degli attributi alla bellezza greca:
solidità, sincerità costruttiva, maestosità, grandezza, nobiltà e bellezza. Visione di una grande
varietà, affrontata analiticamente secondo un approccio scientifico e di classificazione-relazione
fra forma (ordine architettonico) e epoca (area geografica). Perfezionamento della disciplina
archeologica. Leroy chiarisce l’interpretazione ideologica dell’architettura e dell’arte classica.
Egli sostiene che la qualità formale sia legata alla qualità dello sviluppo della società nella
quale viene elaborata. Modello: Atene Periclea, perché troviamo insieme il pensiero scientifico

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e il pensiero artistico. È così che nasce il gusto à la greque cioè la diffusione dell’uso degli
elementi classici come puramente decorativi e non come ricerca di un sistema progettuale.
A partire da questa fase della trasformazione dell’Accademia, arricchita delle ricerche
archeologiche e dell’approccio filologico agli scritti, individuiamo 2 direzioni intraprese dagli
architetti:
1. Utilizzo di parti decorative dell’antichità classica.
2. Ricerca di indirizzi progettuali originali: proposta architettura moderna ispirata a classicità
ma libera dai fattori tecnologici.
Dopo la morte di Blondel (che si fece trasportare nella sua aula per esalarvi l’ultimo respiro) è
accademico professore nella classe di architettura Etienne-Louis Boullée, che rivendica una
forte componente artistica per l’architettura (fig. 1.3). La sua opera teorica è Architecture, essai
sur l’art del 1780-93 (dove afferma che l’arte di costruire = arte secondaria, parte scientifica
dell’architettura; l’arte propriamente detta è la scienza); egli accentua gli aspetti ideologici del
suo maestro Blondel, aumentando la sua ammirazione per la Grecia; il suo testo è un sistema
progettuale che enuclea dall’antichità classica i principi ideali di ordine e carattere,
componendo così un linguaggio chiaro, fatto di muri nudi e edifici al servizio della comunità;
mette così architettura al servizio della repubblica greca.
Parallelamente all’accademia nasce l’Ecole Polytechnique, che si insedia in Francia nel 1794,
una scuola a indirizzo tecnico scientifico alle dipendenze del Ministero dei Lavori Pubblici;
l’importanza delle discipline geometrico matematiche, che fanno capo alla Geometrie
descriptive di Gaspard Monge, è il risultato della visione illuministica e razionalista. L’Ecole
era gestita da Jean-Nicolas-Louis Durand, uno degli allievi di Boullee; con i Precis des lecons
d’architecture donnee a l’Ecole Polytecnique da una parte punta sulla semplicità e sulla
condivisione, dall’altra accentua la funzione sociale (fig. 1.4); l’unico obiettivo dell’architettura
è l’utilità; lui propone una specie di gerarchia in cui le forme più importanti nascono dalla
natura dei materiali e dalla funzione degli oggetti, poi ci sono quelle che ci sono più vicine per
la consuetudine d’uso e infine le forme derivanti dell’antichità. Con questa gerarchia si produce
un sistema progettuale meccanico, semplice, adatto a tutti, di edifici con rigidi criteri di
simmetria e circolarità, in cui la forma della pianta viene impostata su una griglia ortogonale
mediante la composizione di semplici moduli, da cui il nome di metodo combinatorio dato a
questa progettualità.
La formazione dell’architetto e dei tecnici dell’edilizia si fa sempre più definitiva, per questo
motivo nascono diversi modelli formativi.
Accademia = studi storici e archeologici // Politecnico = obbiettivo dell’utilità.
Troviamo il seguito dell’opera di Durand in quella di Jean-Baptiste Rondelet, anche lui
docente alla scuola politecnica e autore del Traité théorique et ratique de l’art de bâtir del
1802-17.
Nella scuola Politecnica si formano ingegneri civili che progettano nuove città napoleoniche,
sulla scorta del grande impulso dato da Napoleone alla scuola e ad altri organismi dello Stato.
Ci sono tre vertici di un sistema di circolazione del sapere:
1. Architetti accademici (formati tra Parigi e Roma);
2. Architetti-ingegneri (scuola politecnica);
3. Puri tecnici (scuola Ponts et Chaussées). Questi si fanno carico della rappresentazione del
potere nei nuovi assetti post-rivoluzionari e imperiali, bisognoso di grandi edifici portatori di
retorica ma anche di fabbriche utilitaristiche.
Le scuole francesi attraggono aspiranti architetti e tecnici da tutta Europa. A Roma, architetti di
tutte le accademie possono accostarsi alle testimonianze dell’antico, confrontandosi tra loro e
con alcuni maestri. Figure di riferimento sono Johann J. Winckelmann (bibliotecario, curatore

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delle collezioni Albani, autore dei primi studi sulle antichità di Ercolano, sostiene la superiorità
dell’arte greca) e Giovanni Battista Piranesi.
Giovanni Battista Piranesi, nutrito di archeologia come Winckelmann, negli anni ’50 realizza
splendide incisioni che ritraggono le antichità di Roma (fig. 1.5), sostenitore della superiorità
romana; nel suo Parere sull’architettura del 1765, egli contrappone la grandiosità e le
dimensioni assolute dell’architettura romana alla graziosità di quella greca. Viene ammesso
nell’accademia di San Luca a Roma nel 1761.
A Roma come a Parigi, l’educazione all’architettura si dipana tra l’accademia ufficiale e le
botteghe di artisti e architetti, alcuni dei quali si organizzano come vere e proprie scuole
alternative come l’Accademia della Pace, costituita da un gruppo di architetti e aspiranti tali
provenienti dai vari stati italiani; teorico dell’Accademia è Francesco Milizia, autore dei
Principi di architettura civile del 1781, che si fonda sul principio di utilità razionalista (fig.
1.6).
Parigi e Roma, nutrite della cultura illuminista, si moltiplicano le scuole d’architettura.
L’ondata napoleonica riorganizza in tutti i territori il sistema d’istruzione, incluso quello degli
architetti, individuando 2 direzioni: la scienza e l’arte.

1.2 IL RIFLESSO DELLE RIVOLUZIONI: ARCHITETTURA CIVILE E DISEGNO URBANO


Riflessione sul classico, impiego di un approccio razionale all’architettura, radicale
cambiamento dei significati innescato dalle rivoluzioni e avvio dell’applicazione di nuove
tecnologie nel processo edilizio sono riuniti per la 1° volta nella CHIESA DI SAINTE
GENEVIÈVE (1758-89), uno degli edifici più simbolici di Parigi, voluta da Luigi XV e
affidata a Jacques-Germain Soufflot (che aveva studiato a Roma fra il 1731-38); nel
programma del sovrano doveva diventare il più importante luogo di devozione di Parigi e
incarnare i valori della monarchia. Caratteristiche: architettura greco-gotica, colonne (corinzie)
libere che sostengono architravi come nei templi greci, coperture voltate come nell’architettura
romana, carattere di leggerezza, effetto gotico snello, leggero e tendente al verticale. Il
raggiungimento di questo obiettivo viene raggiunto da Soufflot mediante l’innalzamento della
cupola posta sul transetto della croce latina, che però prevede anche un rinforzo mediante catene
e barre metalliche sulla struttura in pietra (ricordiamo che nelle costruzioni gotiche sono gli
archi rampanti esterni a contenere la spinta delle coperture sulle pareti. Per realizzare questa
struttura Soufflot e in seguito Jean-Baptiste Rondelet (risolto problemi statici) mettono a
punto un sistema di macchine per la prova della resistenza della pietra e sistemi di rinforzo per
ottenere l’effetto di leggerezza (fig. 1.7). La costruzione viene completata sotto la direzione di
Rondelet e nel 1789 cambia destinazione, declinando l’edificio a luogo di celebrazione laica
delle personalità francesi (come Pantheon, con posizionamento di edifici monumentali al
termine di vedute e quinte prospettiche). Durante la II Repubblica 1851 viene ripristinato l’uso a
culto. La chiesa riflette inoltre i cambiamenti nei sistemi produttivi e sociali
Un processo simile ma in contesto differente è quello affrontato da Claude-Nicolas Ledoux,
allievo di Blondel, che diventa responsabile delle saline di Lorena e Franca Contea per incarico
della Ferme Generale; così progetta le Saline Reali di Chaux, un nuovo sito produttivo e
residenziale per la raffinazione del sale, pensato come una città ideale. Modo scientifico di
affrontare il progetto (attenzione alla corretta organizzazione del lavoro, alla qualità della vita
degli addetti, alla bontà del prodotto finale), pianta a semicerchio (fig. 1.8, simbolo della
monarchia). Scelte compositive ispirate a fonti classiche con elementi didascalici: pronai,
colonne doriche, rustiche, architravi e archi; anfore che versano acqua pietrificata in buona
parte della costruzione; volontà di aggiungere ordine, razionalità, organizzazione. l’impianto
entra in funzione nel giro di pochi anni. Ledoux verrà poi imprigionato dal governo
rivoluzionario perché vicino ai Borboni e architetto favorito di Madame du Barry (amante di

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Luigi XV), ma proseguirà il suo lavoro su carta: intorno all’insediamento produttivo pensa di
aggiungere una moltitudine di edifici; progetta le nuove case in modo semplice, con camini
funzionali, forni. Se il valore della Salina decresce nel tempo perché legato al valore della
“gabella sul sale”, il suo significato pubblico cresce dopo la rivoluzione con l’aggiunta virtuale
di edifici vari e con destinazioni ben pensate.
In questo contesto nascono i primi progetti di riforma urbana, come la Rue de Rivoli a Parigi,
dove il governo rivoluzionario aveva tentato di mettere a frutto in forma speculativa i beni
demaniali ripetendo il modello architettonico d’oltremanica con la sequenza arcate-piani
sovrapposti, senza alcuna attenzione al rapporto con il tessuto urbano. MA nel 1801 Napoleone
si trasferisce alle Tuileries e l’asse che costeggia il parco assume una connotazione diversa. Nel
1802 Percier e Fontaine, architetti del primo console, firmano il progetto per un collegamento
viario che costeggi le Tuileries. La Rue de Rivoli, la Place e Rue de la Pyramide rispondono al
nuovo progetto napoleonico di assetto di Parigi; i due architetti vanno a ammodernare e
riorganizzare la città con progetti viari (es: centro universitario e amministrativo). Fra i progetti:
la Residenza per il Re di Roma (figlio dell’Imperatore, a Chaillot) e Rue de l’Empire (avrebbe
dovuto riunire il Louvre e la Place de la Bastille) non saranno mai avviati perché Napoleone
riteneva fosse più importante dotare la città di fogne, acquedotti, mercati. La direzione “civile”
è evidente e prevede un misto fra modello inglese e modello italiano. Per il modello inglese ci
sono le terraces (fig. 1.9 e 1.10), con piani sovrapposti che arretrano man mano per culminare in
grandi coperture in mansarda che accolgono 3 livelli per le classi sociali meno agiate; e il
Crescent, ossia terrace con impianto a esedra (semicerchio). Il modello italiano di lottizzazione
su parco reale invece prevede edifici porticati per accogliere attività commerciali e uffici in una
visione borghese.
Il modello Percier-Fontaine-Napoleone si ripropone a LONDRA, dove re Giorgio nel 1813
riesce a far approvare il progetto di una via monumentale che unisse Carlton House e Regent’s
Park, allo scopo di risanare quartieri degradati e non adeguatamente costruiti. Il piano viene
affidato dal 1811 a John Nash, che prevede un progetto con edifici di diversa natura a seconda
dei quartieri che la via doveva attraversare (fig. 1.11, terrace per classi più alte e costruzioni più
piccole). Con questo piano si sarebbe configurata una porzione di città quasi autonoma, dotata
di servizi e abitazioni per tutte le classi sociali, il cui elemento unificante sono le facciate in
stucco a cedenze regolari, con porticati a colonne doriche o ioniche. Certamente la prima azione
di Estate, intervento immobiliare londinese, fu sulla scorta di quello che Napoleone faceva a
Parigi. L’architettura civile assume importanza sui progetti delle città, l’architetto arriva
all’estrema semplificazione degli edifici (accostando la combinazione romana di massa muraria
e archi con quella greca, puntuale, delle colonne architravate).
Questa tipologia di architettura si svolge in straordinaria interezza negli interventi delle diverse
Napoléonville o negli ampliamenti di snodi portuali e produttivi. Si tratta di piani generali di
ampliamento che affrontano in parallelo abitazioni, fabbriche e servizi, con estrema
semplificazione del linguaggio architettonico; sono pochi gli interventi di questo tipo realizzati
a Parigi (fig. 1.12 e 1.13). In tutti gli esempi, la spinta della produzione e della classe media dei
funzionari risulta fondamentale per le scelte progettuali: efficienza funzionale, rapidità
esecuzione e risparmio economico.
Lo stesso tipo di scansione dei fronti urbani in zone di ampliamento o di risulta dalla
demolizione dei sistemi difensivi si verifica in tutta Europa, nell’Italia napoleonica, in Francia e
in Uk. Parlando della demolizione dei sistemi difensivi, un esempio è Torino, dove la
demolizione delle cinte fortificate deliberata nel 1799 con l’annessione alla Repubblica, il
terreno liberato a ridosso del fiume viene utilizzato da impresari edili per costruire edifici con
scopo abitativo e commerciale. Il progetto si realizza solo dopo la Restaurazione, quando il
Consiglio degli Edili affida a Giuseppe Frizzi la progettazione di piazza Vittorio Veneto (fig.

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1.14); gli edifici attorno alla piazza sono fatti adottando il modello anglo-francese (portici
sostenuti da archi su pilastri e semplici facciate intonacate a tre piani con coperture a falda),
riuscendo a mascherare il notevole dislivello del sito in discesa verso il fiume.
Il tessuto dell’architettura civile viene gestito dalle burocrazie e c’è un cambiamento degli
utenti, che iniziano a investire sulle città.

1.3 NUOVI SERVIZI PER LO STATO E LE CITTÀ


Il vero punto di incontro del dibattito sull’architettura, la conoscenza di Roma e della classicità
e le esigenze della società, si ritrova nelle architetture di servizio. Nella città si formano nuovi
tipi di edifici: piazze e fori urbani, edifici per la pubblica sicurezza, biblioteche, musei, scuole,
ospedali, cimiteri, acquedotti, … Fino almeno al primo quarto del XIX sec. l’aspetto di tutti gli
edifici di servizio rappresenta la sperimentazione della nuova architettura per un utilizzo
sempre più aperto.
Nel 1771 a Roma nasce il 1° museo moderno ossia il Museo Pio-Clementino, all’estremità del
cortile del Belvedere in Vaticano, un luogo destinato alla pubblica fruizione delle collezioni di
statuaria, voluto da Clemente XIV e proseguito dal suo successore Pio VI. Era costituito da una
sequenza di sale di conformazioni diverse, rotonde, ottagone, a croce greca, a gallerie, dove
l’uso di elementi architettonici dell’architettura antica erano combinati con nuove teorie
dell’architettura. All’esterno troviamo masse murarie, mentre le sale interne sono un’apoteosi
di colonne architravate, coperture e lacunari, sopraornati e pavimenti musivi, a costituite una
visione razionalista del vocabolario classico.
Il tema dei musei sarà poi molto frequentato dagli architetti francesi, tra cui di nuovo Boullee.
Tra le sue opere più importanti c’è infatti il progetto Museo del 1783 (contenuto ma non
commentato ne L’architecture, essai sur l’art), un grandioso edificio a pianta centrale con 4
ingressi segnalati da colonne traiane, tutto circondato da porticati di colonne libere, culminanti
in una gigantesca calotta semisferica in cui si innestano 4 volte a botte che coprono le navate
(fig. 1.15). Sempre Boullee progetta altri edifici come la Chiesa Metropolitana del 1781 e il
Cenotafio di Newton nel 1784, e compone sempre spazi immensi con elementi semplici, dove è
l’effetto della celebrazione a superare quello della destinazione/fruizione.
La grandiosità proposta da Boullee e il razionalismo classicista devono incontrarsi nell’edificio
pubblico anche per altri motivi. È un caso la Reggia del Louvre (Musée Central des Arts),
edificio per cittadini nato da una riconversione di una fabbrica già esistente. Il 1° intervento
viene pensato dal sindaco Hubert Robert e affidato a Percier e Fontaine, che avevano rilevato
con scurpolo il Museo Pio-Clementino, viene realizzato durante l’Impero; i due progettano una
sequenza di sale che vanno dal riallestimento della Grande Galérie che collegava il Louvre alle
Tuileries, con copertura fornita da lucernari per ottenere luce zenitale e suddivisa da gruppi di
colonne per migliorare la fruizione, aggiungendo il disegno di nuove sale in funzione di
vestibolo e di uno scalone per facilitare l’accesso (grande riferimento al museo Pio-
Clementino).
Di maggiore libertà gode il progetto di Friedrich Schinkel per l’Altes Museum di Berlino
(1823-30). Qui c’è più libertà di collocazione nel tessuto urbano; sin dall’inizio del secolo nella
capitale prussiana si pensa all’apertura di un museo per le collezioni reali. Esso è una vera
sintesi tra funzionalità, magnificenza, linguaggio classico, rapporto con la città e l’utenza.
L’edificio si configura come un porticato ellenistico di 18 colonne ioniche (alte 12m), base
ionica, riferimento agli scavi archeologici prussiani. Destinato ad essere cerniera con parco
circostante, luogo di riparo per il visitatore e per i ritratti degli uomini che avevano fatto grande
la patria. Dal porticato il visitatore accede, attraverso il volume che accoglie una scala
monumentale a doppia rampa a uno spazio circolare, coperto da cupola semisferica e lucernari,
2 livelli, statue antiche. Dalla sala circolare e dallo scalone si accede alle gallerie di

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esposizione, a volume a parallelepipedo, cupola occultata all’esterno da un attico. Esso presenta
anche una cupola cassettonata. La combinazione tra portico, attico e sala circolare, raggiunge lo
scopo di ottenere un edificio permeabile alla città.
Le sperimentazioni trovano finalmente spazio per la loro realizzazione dopo la caduta di
Napoleone. Inizia anche il dibattito sugli edifici di pubblica utilità, infatti le comunità iniziano a
richiedere servizi atti a soddisfare necessità, intellettuali, fisiche e sociali.
Una dimostrazione di tale continuità è il caso del gigantesco complesso della Bank of England
del 1788-1833 (nella city di Londra) dell’architetto John Soane, che consiste nell’ampliamento
della banca più grande d’Inghilterra. Lavoro lungo e laborioso, il progetto ha dei cambiamenti
funzionali e di significato, con una continua collaborazione con i committenti: locali sempre più
di servizio, adatti ad accogliere pubblico in sicurezza, confortevolezza e buona illuminazione;
tutto è funzionale a una maggiore economicità e velocità nell’esecuzione, e questo porta
all’utilizzo di nuovi materiali come argilla cava refrattaria per le cupole, pietra artificiale per le
decorazioni, lucernari metallici per l’illuminazione, catene di ferro e sistemi per riscaldamento.
Vocabolario classico, esplorato nel vedere Roma; Sloane capisce che simmetria, chiusura dei
volumi, ritmo obbligato delle aperture non appartengono al repertorio dell’architettura reale.
Sulla base dei disegni di Adam per il palazzo dell’imperatore Sloane prende ispirazione per la
rotonda della Banca e per ricucire ambienti irregolari, di dimensioni e destinazioni diverse. Le
mura perimetrali esterne, che si affacciano sulla city, sono un’immagine classica; gli ambienti
interni (raccordati a cortili, passaggi coperti a forma di navata o veri e propri chiostri,
riproducono le forme costruttive di cupole leggere, volte a botte o coperture piane dove i
materiali moderni interagiscono con decorazioni in stucco e giochi di intonaco. La banca non
era un edificio pubblico, ma trasmette l’idea di polo per il pubblico interesse una parte della
città destinata a durare come emerge dal dipinto di John Gandy che nel 1830 illustra, per conto
di Sloane, la Bank of England in forma di rovina restituendone la complessa articolazione (fig.
1.18 e 1.19); si vede un luogo popolato da impiegati, clienti, pubblico dove è il linguaggio
familiare delle colonne, dei capitelli e delle sculture diventa unificatore degli ambienti interni.
Sulla base della nuova concezione scientifica illuminista vengono realizzate le grandi fabbriche
per il benessere ed il controllo che sostituiscono/integrano i vecchi ospedali, le carceri e le
vecchie strutture assistenziali. Gli edifici che costellano le città di tutta Europa sono perlopiù
contenitori il cui scopo principale è sempre stato la separazione tra i reprobi e la società,
modificano ora il loro assetto. Una delle prime occasioni per mettere compiutamente a
confronto le discipline scientifiche ed architettoniche si verifica in seguito all’ennesimo
incendio che nel 1772 devasta il più antico e centrale ospedale parigino ossia l’Hôtel-Dieu. Nel
1774 viene bandito un concorso, tra i progetti maggior influenza ha quello degli architetti
Bernard Poyet e Antoine Petit; entrambi propongono piante organizzate radialmente con
lunghe maniche delle corsie che convergono su uno spazio centrale, cortile o chiesa (fig. 1.20).
La moltiplicazione delle corsie come ambienti di ricovero è dovuta alle maggiori conoscenze in
campo medico, così che si abbia una separazione tra malati contagiosi e non, tra cronici e
curabili, tra maschi e femmine.
A partire da questo momento si moltiplicano le sperimentazioni, con la fondazione e
l’ammodernamento di edifici ospedalieri destinati a cure specifiche. Nel 1791 il filosofo e
giurista Jeremy Bentham pubblica Panopticon or the inspection-house, un modello di casa di
reclusione a pianta circolare dove il controllo di tutti i reclusi è il principio ispiratore della
struttura architettonica (fig. 1.21). Questo modello sarà impiegato in diverse varianti in
ospedali, prigioni, scuole e fabbriche destinate alla collettività. Uso degli ordini classici negli
affacci, ingressi e spazi centrali.
Durante la fase napoleonica e la prima Restaurazione le città europee e Usa vengono dotate di
moltissimi ospedali, manicomi, reclusori, ecc. Tutti derivano da una concezione della società in

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cui i cittadini sono parte di un equilibrio generale e per i quali è prevista una possibilità di
miglioramento. Questo disegno, politico prima ancora che sociale, si serve anche di edifici e
spazi pubblici per lo sago e la trasmissione di valori condivisi. I luoghi di pubblico spettacolo
nascono in questo periodo di ideologie nuove, a partire dal grande circo immaginato da Boullée
nel 1782 dove è ancora il modello romano dell’anfiteatro a fare da modello, fino al Teatro di
Besançon 1778-84 progettato da Ledoux (fig. 1.22), passando per la numerosa trattatistica
sull’argomento come lo scritto Del teatro di Francesco Milizia nel 1771. Gli architetti di
preoccupano di progettare edifici dove c’è il rifiuto per la rigida scansione del teatro barocco
(dove i palchi privati corrispondevano alla separazione classista) favorendo invece il recupero
del modello classico della cava-galleria (egualitario). Allo stesso tempo si fanno diversi studi
sulla rifrazione della luce e sulla diffusione del suono che servono per definire assi di curvatura
del volume, scelta dei materiali di rivestimento e uso dell’illuminazione. Queste due tendenze si
incontrano in progetti come il Teatro del Foro Bonaparte di Milano di Giovanni Antonio
Antolini del 1802. Tuttavia, la maggior parte dei teatri continua ad essere costruita con lo
schema a palchi; la borghesia si prende a carico economicamente la costruzione dei teatri con il
meccanismo del finanziamento collettivo, acquistando preventivamente palchi e poltrone. I
nuovi teatri continuano a impiegare il linguaggio dei muri e delle colonne, affidando la
dichiarazione della funzione all’apparato decorativo composto da statue a tema coreutico, ma si
ha una marcata attenzione ai flussi degli spettatori, alle macchine sceniche e alla flessibilità
degli spazi.
Il registro più alto dell’uso degli ordini è riservato ai pochi edifici totalmetne celebrativi,
dedicati al sacro/uomini illustri: sono questi i casi in cui architetture archetipe vengono
impiegate in versioni più vicine all’originale. Ludwig di Baviera, dopo la sconfitta di
Napoleone a Lipsia nel 1813, bandisce un concorso per il Walhalla, un monumento per
celebrare l’unità pangermanica, con la riunione di ritratti di uomini illustri. Molti progetti
partecipano al concorso, ma nessun vincitore, così viene incaricato Leo Von Klenze, architetto
favorito di Ludwig di Baviera. Si sceglie un luogo extraurbano ossia Ratisbona, lungo in
Danubio, e il complesso monumentale replica quasi interamente il Partenone (fig. 1.23); la
costruzione avviene fra il 1830-42. La cella è interamente rivestita in marmi policromi ed è
popolata dai busti di militari, musicisti, filosofi, poeti e artisti. Il Partenone viene impiegato per
tradurre il sogno della Germania unita.
Il modello del Pantheon viene usato per chiese e templi, come ad esempio con la Chiesa della
Santissima Trinità di Antonio Canova o la Gran Madre di Dio a Torino di Ferdinando
Bonsignore. I decori e le architetture classiche diventano il simbolo di autorevolezza e decoro
per costruzioni portatrici di ufficialità religiosa o laica.

Cap. 2 - Gli storicismi del XIX secolo


Teniamo presente che fin dalle Vite del Vasari del 1550 la visione della sequenza storica, anche
nel campo dell’arte, alternava età dell’oro a fasi di decadenza, sulla scorta delle fonti classiche,
visione poi formalizzata da Giambattista Vico a fine ‘600. Nei secoli XVI e XVII, fino
all’avvio dell’epoca contemporanea, si manifestano dichiarazioni di interesse nei confronti
dell’arte e dell’architettura che non derivano dalla cultura classica. I motivi sono vari e
differenti; per esempio Jean-François Félibien (segretario dell’Académie) per la prima volta
concede ampio spazio all’epoca medievale in una logica di continuità della storia francese;
Guarino Guarini nella sua Architettura Civile, ammette addirittura l’esistenza di un ordine
gotico, collocabile nel sistema degli ordini architettonici, grazie soprattutto al senso di stupore
che le costruzioni medievali suscitano.

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2.1 LA STORIA COME STRUMENTO PER NUOVI LINGUAGGI
Il medioevo, ma anche l’area culturale arabo-ottomana, la Persia, l’Egitto, sono oggetto di studi
storici e storico-artistici, e più tardi antropologici. Il Medioevo diviene oggetto di interesse già
a partire dal XVIII secolo nei maggiori paesi europei. Nella Francia prerivoluzionaria, il
medioevo (suddiviso mediante le fasi dinastiche) è affrontato come un passaggio indispensabile
per la ricostruzione della storia della monarchia; edifici e monumenti medievali vengono inclusi
in una sorta di inventario del patrimonio della corona. Inizialmente però non si dispone ancora
degli strumenti necessari per comprendere le vicende architettoniche, si ha difficoltà ad
individuare una trama e una regola. Vengono così creati ampi inventari suddivisi per dinastie,
spesso imprecisi, perché è difficile classificare gli edifici dato che risultano da una mescolanza
di stili. Tuttavia nel 1808, ma pubblicato postumo nel 1823, Jean Baptiste L.G. Seroux
d’Agincourt nel suo Histoire de l’art par les monuments (Storia dell’arte attraverso i
monumenti) scrive che la storia dell’arte medievale non si pone in alternativa a quella classica,
quanto a suo completamento. Egli si reca a Roma a inizio anni ’90 del Settecento con lo scopo
di riprendere la sequenza storica dove Winckelmann l’aveva abbandonata; l’intenzione è
coprire una alcuna che non si può affidare a storici locali. Il metodo di Seroux è di tipo
scientifico-illuminista, suddivide la storia dell’arte in 3 sezioni: pittura, scultura e architettura,
dal IV al XVI sec. con sequenze cronologiche per tipologie e caratteristiche tecniche, tramite
documentazione grafica di incisioni che documentano 1400 monumenti e opere d’arte; il
metodo di narrazione include tabelle riassuntive, classificazioni, tavole comparative (in perfetto
stile enciclopedico, fig. 2.1); il medioevo viene proprio trattato a completare una sequenza
temporale interrotta da pregiudizi estetici e culturali, ma anche da carenze di tipo scientifico.
Inoltre ricordiamo che Seroux ha avuto come compagni di viaggio e collaboratori artisti di
altissimo calibro (Canova, Camuccini). L’Histoire diviene la più diffusa e precisa opera di
consultazione sull’arte medievale a livello europeo. Vengono poi pubblicate molte altre opere
specializzate, attente alle diverse fasi dell’arte medievale, tra cui Essai sur l’architecture
(Saggi sull’architettura) di Marc-Antoine Laugier del 1753 nel quale si possono leggere gli
esiti sull’origine naturale dell’architettura: la capanna primitiva fatta di tronchi a ottenere un
riparo, come origine dell’architettura classica e l’imitazione dell’incontro delle chiome degli
alberi nelle foreste alla base di quella gotica; entrambe frutto di un’attitudine illuminista-
scientifica-razionale.
In Inghilterra, nel secondo quarto del ‘700, si ha una modalità di carattere differente, molti
intellettuali ed eruditi si accingono ad utilizzare occasionalmente modelli ed esempi provenienti
da luoghi lontani nel tempo e nello spazio come innovazioni per le loro abitazioni. Horace
Walpole nel 1747 ristruttura la sua casa giocattolo a Strawberry Hill innestandovi porzioni e
stanze cinesi, con gusto rococò, ma soprattutto gotiche (fig. 2.2); alla casa lavorerà per quasi 40
anni aiutato da amici architetti, storici, e artisti. È stata definita un’architettura di carta ma per l
proprietario era una “capricciosa aria di novità”; le librerie della biblioteca sono tratte dalle
antiche cancellate del coro dell’antica cattedrale di St. Paul.
Il percorso compito da Walpole e architetti, come James Essex e James Wyatt, si accompagna
all’approfondimento di studi storici sul medioevo inglese. Gli studi dell’architettura assumono
così in Uk un forte legame con la storai nazionale, adottando come punto di partenza Britannia,
indagine storica di William Camden del 1607 (storico ufficiale di Elisabetta e custode del
patrimonio storico-artistico del regno di Albione). Alla svolta del secolo si sviluppano in Uk
almeno 2 tendenze negli scritti di architettura:
1. Antiquari o archeologi dilettanti, che si dedicano al racconto del patrimonio inglese, come ad
esempio: James Stuart e Nicholas Revett. Essi fanno una serie di ipotesi sull’origine
dell’architettura gotica e sulla sua nascita in terra inglese, ipotesi spesso fantasiose.

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2. Opere onnicomprensive nelle quali si assicurano le fasi della storia inglese alla qualità dei
manufatti architettonici e si propone una gerarchia delle diverse fasi, valutando
caratteristiche estetiche, funzionali, tecniche senza però esprimere ancora l’idea che possano
diventare modelli facilmente impiegabili nell’attualità.
Questo proliferare di scritti di architettura in Uk è il risultato della prevalenza che l’architettura
medievale ha in terra britannica rispetto agli altri paesi (dove il classicismo si è affermato con
continuità). Questa attitudine inglese fa anche sì che in Uk si diffondano, prima di altrove, gli
studi sull’architettura e l’arte provenienti da paesi lontani e da civiltà estranee alla cultura
continentale per il colonialismo. È il caso di Owen Jones che nel 1856 scrive la Grammatica
dell’ornamento (fig. 2.3), dove affronta il complesso delle decorazioni che va dall’epoca
preclassica con esempi tribali, egizi e assirobabilonesi alla contemporaneità (mondo classico
nella sua accezione rinascimentale, medioevo europeo e inglese). L’obiettivo è quello da una
parte di mettere ordine nei reperti e negli oggetti disordinatamente raccolti nei secoli precedenti,
dall’altra di mettere a punto un sistema razionalista che leghi i diversi stili ai loro contesti
culturali e storici, allo scopo di disincentivare le operazioni di mera copia. La sequenza storica
per Jones è utile all’individuazione del modello comune a tutte le fasi storiche e a tutte aree
geografiche di provenienza: la natura.
In generale coloro che si sono occupati di storia dell’architettura tra il XVIII e il XIX si
pongono una domanda cruciale: quale debba essere lo stile in cui progettare e costruire nel XIX
secolo. Tutti sono concordi nel condannare l’imitazione, arrivando a proporre approcci nuovi;
Schinkel per esempio negli anni ’20 afferma che “la storia non ha mai copiato da esempi
precedenti”. Un suo conterraneo, Heinrich Hübsch, nel 1828 scrive il libro In quale stile
dobbiamo costruire?; la proposta che lui fa ruota attorno al cosiddetto Rundbogenstil = una
rilettura del Romanico ossia l’architettura tipica del primo medioevo (X-XII sec.). L’interesse
per il Romanico si rafforza parallelamente al sempre maggior valore che assumono la
semplificazione costruttiva e la componente nazionalistica (Romanico deriva da roman, termine
francese per indicare l’area geografica-culturale delle lingue romanze). Il romanico testimonia,
nella rilettura del XIX sec., la semplificazione dell’architettura romana con l’abbandono della
monumentalità ma anche la persistenza della principale innovazione costruttiva cioè l’arco
(elemento architettonico adatto a ogni tipo di impiego).
Il filone inaugurato da Hübsch, interrogarsi cioè sugli studi storici e chiedersi che forma
adottare nella contemporaneità, sfocia in una serie di storicismi architettonici e decorativi,
anche molto diversi, che parte della storiografia ha definito Eclettismo. In parallelo gli studi
storici si andranno sviluppando e precisando. D’altra parte la spinta ideologica che aveva
caratterizzato questa attenzione alla classicità si stava stemperando, o meglio precisando: la
repubblica delle idee immaginata da Quatremere de Quincy, sovranazionale e votata alla ricerca
del bello si frammenta in obiettivi diversi. Le declinazioni dell’ideale classico assoluto e
transnazionale prevedono l’affermazione di nuovi stati nazionali, il sostegno a una o l’altra
delle confessioni cristiane, dinastie o singole personalità, fino al tentativo di far forma a utopie
di stampo progressista.
Gli studi storico-artistici formati sui principi dei filosofi illuministi si aprono a tutte le epoche
storiche, con approcci critici: Archisse du Caumont che pubblica 1854 Abècedaire au rudiment
d’archeologie (fig. 2.4) comprendendo il patrimonio monumentale medievale francese; Paul-
Marie Letarouilly fra il 1840-45 pubblica una raccolta di tavole sulla città di Roma (fig. 2.5), da
lui appena visitata, senza distinzione di valore tra stili.

2.2 LA MOLTIPLICAZIONE DEI MODELLI: RICERCA NELLO SPAZIO E NEL TEMPO


Da quando i progettisti furono impegnati nell’indagine storico-artistica il risultato fu la
grandissima abbondanza di architetture e decorazioni storiciste che compaiono a cavallo della

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metà del XIX secolo. I motivi alla base di questo fenomeno non sono omogenei. Certo è che la
chiarezza ideologica insita nella ripresa del periodo classico in epoca imperiale e rivoluzionaria
si è andata perdendo, le contraddizioni della società industriale si vanno facendo sempre più
evidenti e gli ideali di condivisione e uguaglianza si scontrano con una realtà molto distante dai
modelli astratti dei philosophes. Soprattutto il ridimensionamento del mito della laicità, dello
Stato, della società si presta alla ripresa di approcci confessionali o più in generale metafisici.
La giustificazione religiosa sta alla base della forte motivazione di Augustus Welby
Northmore Pugin, figlio di un architetto francese riparato dalla Rivoluzione in Uk, che dopo
essersi dedicato nello studio del padre alla decorazione gotica del castello di Windsor, si
converte al cattolicesimo; il rapporto architettura-religiosità è esplicitamente dichiarato da
Pugin che racconta di essere diventato cattolico sulla scorta dell’osservazione dell’architettura
gotica; egli sostiene una visione fortemente confessionale e lo afferma nel testo Contrasti, o un
parallelo tra l’architettura del XV e XIX secolo del 1836, un libro illustrato pubblicato a sue
spese, che appoggia la forte tesi del rapporto tra arte e moralità del cristianesimo, il suo
pensiero era che “l’architettura decadde con la religione alla quale era debitrice della sua
nascita”. Egli affianca opere di architetti inglesi di cultura classicista con edifici simili
medioevali, dicendo che questi ultimi sono migliori sotto tutti gli aspetti (estetici, di uso, di
effetto sulla qualità urbana); fig. 2.6. Il medioevo, cioè il cristianesimo, ha promosso un’arte di
facile comprensione, di cui tutti si possono avvantaggiare, al contrario dell’epoca classica che
con il paganesimo non è stata la madre e protettrice delle arti come si vorrebbe. Solo la
ripetizione dei modelli medievali deve essere la soluzione al dibattito sull’architettura del XIX
sec. inglese, anche perché nasce in Uk. Pugin sostiene la sua posizione quasi al limite del
fanatismo, ma il suo approccio e la sua certezza che i modelli medievali siano più adatti alle
esigenze della contemporaneità è quello che Blondl richiama nel suo invito alla proprieté, cioè
il richiamo agli architetti ad usare forme che esprimono la funzione-significato degli edifici.
Pugin finisce per utilizzare un sistema di pensiero sostanzialmente razionalista, approfondendo
gli studi sui diversi periodi dell’arte medievale inglese e impiegando lo stile iperdecorato in
auge anche in Francia nella realizzazione di St. Giles’s di Cheadle nello Staffordshire (fig. 2.7),
su modello della Sainte Chappelle parigina; poi opta per le fonti trecentesche inglesi, più
rigorose e sobrie nella Chiesa di St. Augustinès a Ramsgate. Il suo intervento più noto è di
certo la nota Houses of Parliament del 1837-60 (sede del parlamento di Londra), risolta con
elementi tipici dei Tudor di stile classico-gotico (pilastrini, statue-colonna, baldacchini,
pinnacoli, impianto simmetrico classico con linguaggio medievale con veste perpendicular);
ricordiamo che il complesso era andato distrutto nel 1834 a causa di un incendio; la veste
perpendicular non solo richiama il periodo pre-scismatico ma ribadisce la presunta origine
medievale della casa regnante, risolvendo in parte la contraddizione tra classico e gotico:
l’organizzazione generale dell’edificio si addice alla modularità classica, l’aspetto invece al
linguaggio medievale. La componente religiosa di Pugin risente delle letture di François de
Chateaubriand, che nel testo Lo spirito del Cristianesimo del 1802 aveva fatto un duro attacco
alla dottrina illuminista, portatrice di barbarie, contro il cristianesimo protettore delle arti; il
libro ebbe enorme successo in Europa però l’attenzione per i modelli medievali avviene in
Francia entro il sistema del pensiero razionalista, perciò nessuna importante accoglienza da
parte dei lettori francesi.
L’attenzione per i modelli medievali si verifica tutta entro i confini del sistema di pensiero
razionalista, e ne è un esempio Eugène Emmanuel Viollet-le-Duc, che nel suo Dizionario
ragionato dell’architettura francese dall’XI al XVI del 1854-68 interviene nel dibattito che
vede contrapposti classicismo e goticismo, proponendo una soluzione completamente nuova.
Parte da una posizione a favore del Gotico (sostenitore nel neogotico francese), lo considera
metodo impiegabile nell’architettura del XIX sec. I caratteri razionali delle fabbriche medievali,

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fatte di elementi strutturali puntuali e coperture leggere, sono quelli più adatti a essere
reinterpretati con i nuovi materiali della costruzione contemporanea: ferro, ghisa e acciaio. Il
modello storico rappresenta per lui un nucleo originario omogeneo da sviluppare e trasformare
per creare un nuovo linguaggio. Il richiamo alla propriété di Blondel abbraccia un intero
periodo storico da assumere come modello per la contemporaneità non solo per il senso di
appartenenza alla cultura francese ma anche per il razionalismo e la consonanza con le nuove
esigenze costruttive. In una visione totalmente razionalista e laica, l’architetto-storico-
restauratore individua i principi di propriété nell’architettura delle varie epoche, giungendo alla
conclusione che il XIII secolo francese ha saputo rispondere meglio alle caratteristiche dei
materiali e ai principi di costruzione e corrispondenza tra edificio e impressione
dell’utilizzatore. Inoltre attribuisce a quella fase una laicità, rappresentata dalle gilde, che gli
permette di secolarizzare in modo piuttosto arbitrario le cattedrali. È questo il motivo per cui i
progetti di Viollet-le-Duc riprendono molte delle caratteristiche costruttive delle fabbriche
medievali, adattandole ai nuovi materiali e alle nuove esigenze. Nel progetto del Mercato
coperto con soprastante sala riunioni (fig. 2.8), incluso nell’opera Entretiens sur l’architecture,
egli adotta un sistema costruttivo a pilastri inclinati in ferro che permettono un adeguato sbalzo
e un assetto statico tale da poter sostenere ancora un piano sovrastante ove sistemare lo spazio
per le riunioni. Si tratta di un edificio compiutamente moderno, corrispondenza tra forma,
struttura e funzione. L’attitudine razionalista di le-Duc lo spinge a prendere in considerazione
gli aspetti naturali dell’architettura, sia come origine del gotico che come continuo riferimento
(fig. 2.9). Violet-l-Duc è anche un appassionato naturalista dilettante, attento a interpretare i
fenomeni naturali che incontra sul suo cammino: ghaiccia, falde, formazioni rocciose che
concretizza nella sua ultima casa a Losanna in Svizzera.
Il secondo ‘800 vede da una parte un’accentuazione della libertà dei progettisti di attingere ad
ogni periodo storico possibile, dall’altra l’adesione all’idea razionalista di volontà di
rappresentazione permette a molti progettisti di riferirsi all’epoca classica, medievale o
rinascimentale a seconda della destinazione dell’edificio e della sua funzione. È il caso di
Schinkel che nella sua raccolta di disegni, che cura e uniforma personalmente, dal titolo
Raccolta di progetti architettonici del 1858 mostra, mediante tavole architettoniche, edifici
rigorosamente neoclassici insieme ad altri neogotici o neorinascimentali. Nelle testi che
accompagnano le tavole egli motiva le sue scelte; fra gli esempi: la Chiesa di Werder (1821-30)
che ricorda le cappelle gotiche inglesi; era infatti necessario operare in estrema economia,
quindi laterizio lavorato ma non prezioso; altro esempio l’edificio della Bauakademie
(Accademia di architettura di Berlino, 1831-36) composto da una struttura a pilastri con
rivestimento in laterizio e archi ribassati nelle aperture che ricordano il Rinascimento del Nord
Italia. Per ragioni simili Schinkel ipotizza di dare forme direttamente derivate dal primo
Rinascimento fiorentino (quello di Palazzo Rucellai o Strozzi di fine XV sec.) al Palazzo per il
conte Redern (1829, fig. 2.10). L’obbiettivo, come afferma Schinkel, era trovare un linguaggio
per l’attualità.
A metà del secolo è spesso il Rinascimento italiano a fornire spunti anche civici per i
progettisti, è un modello facilmente disponibile, ben documentato dalle raccolte di incisioni, e
si presta ad una modularità non ornata da colonne e a simmetrie necessarie per conferire decoro
agli edifici urbani. Le sue caratteristiche erano: archi a tutto sesto o ribassati, simmetrie,
poderosi muri rivestiti in pietra o laterizio, piccole decorazioni mediante timpani o paraste, corti
interne, tutti elementi che permettono di raccontare/reinterpretare l’”epoca d’oro” per lo
sviluppo delle città e delle arti. Molti sono gli esempi in Europa, dove gli edifici ripetono
fedelmente le forme dei palazzi italiani di epoca signorile-rinascimentale; ad esempio Leo Von
Klenze rilegge il michelangiolesco Palazzo Farnese nel Palazzo Leutchensberg (1816), Palazzo

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Pitti nel Konigsbau (1826-35), il palazzo della Cancelleria di Bramante nell’edificio per l’Alte
Pinakotkek di Monaco. (1826-30).
Analogamente la cultura anglosassone considera il Rinascimento romano e fiorentino modello
impiegabile negli edifici urbani, come nel caso del Reform Club di Charles Barry (1841)
(simile al Palazzo Farnese, fig. 2.11).
Per gli edifici extraurbani il Rinascimento continua ad essere il periodo di riferimento ma
nelle forme più agresti di Andrea Palladio; questo avviene sin dal XVII secolo con Inigo Jones
e nel secolo successivo con la villa Chiswick progettata e voluta da Lord Burlington, stabilendo
una linea che arriva fino al XIX sec.
L’abitazione privata stabilisce un nuovo modo di pensare agli interni borghesi, con la casa
vittoriana, e mantiene/rinnova l’uso di utilizzare modelli orientali o mediorientali; il salotto
cinese tipico delle dimore signorili del XVII-XVIII sec. amplia i suoi confini fino ad
abbracciare intere abitazioni/ville ma anche luoghi di incontro e spettacolo: gli esempi si
concentrano soprattutto nell’area mediterranea, dove il clichè dell’harem o bagno turco con
comodità si presta a essere usato in ville/villini/giardini. Un esempio è il Castello di
Sammezzano presso Lecce (fig. 2.12), 1853-1889, costruito da Ferdinando Panciatichi
Ximenes d’Aragona, colto dilettante appassionato di oriente e giardini, che sviluppa una
dimora dove le capacità artistico-industriali della Toscana del tempo obbediscono al
programma di ambienti letteralemnte incrostati di laterizi, ceramiche, maioliche che evocano
l’Alhambra, le Mille e una notte, un modo di abitare lontano dal protocollo dell’aristocrazia.
L’orientalismo ottocentesco sarà poi sviluppato lungo tutto il periodo che chiude il secolo e
inaugura quello successivo, fino a sfociare nella fase di Art Nouveau.

2.3 LA RICERCA DI UNO STILE NAZIONALE


Lo “Stato” è sempre stato uno dei motivi legati all’impiego di uno o l’altro dei periodi storici
del passato. la spinta è dovuta ai movimenti politici della stagione intorno ala metà ‘800, ai
moti anche rivoluzionari che, fallendo, cancellano gli effetti della Restaurazione sancita dal
Congresso di Vienna (1814-15). I tre decenni che si aprono con il 1820 e che portano alle prime
carte costituzionali, ai gruppi di borghesi radicali che richiedono giustizia sociale, e alla
successiva affermazione dell’idea di monarchia costituzionale hanno come risultato la
definizione di un concetto di nazione che si va diffondendo in tutta Europa perdendo in buona
parte la connotazione estremista e radicale. Tale processo, che vede la formazione di nazioni in
tutta Europa, ha come risultato la ricerca di mezzi di espressione che rappresentino l’idea di
nazione condivisa. I 2 paesi meno toccati dal nazionalismo sono Uk e Francia, il primo perché
concentrato sulla rivoluzione industriale e poco toccato dai moti rivoluzionari, la seconda
perché concentrata sulla modernizzazione gestita in modo verticistico; in entrambi i casi i
problemi legati ai confini, alla cultura e alla lingua sono risolti e sedimentati da tempo. Gli stati
in cui invece si attuano processi di unificazione (Italia, Germania, Belgio, Ungheria, zona degli
Zar) sono coinvolti in profonde trasformazioni culturali che ruotano attorno all’idea di nazione.
In Italia si può individuare come origine della ricerca dell’unità linguistica il lungo lavoro
eseguito da Alessandro Manzoni e che termina con la pubblicazione de I Promessi sposi tra
1840-42. Analogamente il tema del linguaggio architettonico è mosso dalla necessità di dotare
le città di servizi e di concentrare i luoghi del potere, uffici, ministeri; se poco dopo la
Restaurazione il problema era stato affrontato usando i modelli del Classicismo internazionale,
una volta innescato il processo di “italianizzazione” il distacco da modelli classicisti è
d’obbligo. Così si avviano ricerche volte alla messa a punto di linguaggi condivisi; l’efficacia
della ricerca si deve al fatto che molti dei nuovi architetti coinvolti nel dibattito ricoprono, oltre
al ruolo di progettista delle nuove costruzioni, anche quello di didatti nelle accademie e nelle

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nuove scuole superiori, di funzionari dello Stato, degli enti per la salvaguardia del patrimonio
storico-artistico, di scrittori di storia e di pubblicisti.
Nel 1856 Pietro Selvatico Estense tiene il corso di Storia Architettonica all’Accademia di
Venezia, fa il primo e più violento attacco anticlassico in Italia; egli denuncia la necessità di
una nuova architettura consona ai tempi di cambiamento sociale e politico del nuovo Stato
unitario che si protrae fino agli anni del Fascismo; mette in guardia gli studenti sugli scritti di
Vitruvio e di Palladio, condanna il Barocco, il Rococò e il Neoclassico.
Anche Camillo Boito è un esempio pertinente in questo discorso, egli fin dagli anni ’60 attinge
al medioevo civile lombardo nel Cimitero e nell’Ospedale di Gallarate (fig. 2.13), lavorando
secondo i principi razionalisti, sulla sincerità dei materiali, laterizio e pietra, e sulla funzione
dei volumi delineati a masse compatte. Nel 1872 scrive l’articolo L’architettura della nuova
Italia dove delinea le condizioni per una ricerca dello stile nazionale: l’architettura italiana
deve essere una e formata da: una parte organica (per distribuzione interna edificio, dalla
qualità dei materiali, dall’ordinamento statico della fabbrica, dalle condizioni naturali del paese,
da certi principi della scienza e della pratica architettonica); una parte simbolica legata alla
ricerca della bellezza e dei significati. Per Boito questa unione si trova nell’architettura
lombarda o nelle maniere municipali del ‘300. Parte organica e simbolica devono obbedire alle
esigenze dello Stato moderno, evitare operazioni di copia (atteggiamento storicista). Un
esempio è l’Ex Reggia Carrarese a Padova del 1877 che viene trasformata in un edificio
scolastico (fig. 2.14); l’estrema semplificazione dell’impianto compositivo, con l’uso lineare di
laterizio e pietra, è accompagnata da contrafforti bicromi e archi a sesto ribassato, e come unica
decorazione una sequenza di polifore; tale semplificazione è compensata dalla complessità
della ricerca planimetrico-funzionale, che si adatta al dibattito sull’obbligo della scuola
primaria in Italia, sulla mission centrale dell’istruzione primaria in un paese analfabeta. Boito
avrà una carriera eccezionale, egli rivestì il ruolo di “maestro e patriarca” per intere generazioni
di architetti; la sua lingua è fatta da narrazioni diverse che si adattano in maniera diversa
adattandole a scelte di modelli non medievali come nel caso di molti edifici-immagine di Roma
(fig. 2.15). I ministeri e le fabbriche di rappresentanza costruiti in seguito a concorsi, dove
Boito è chiamato a giudicare, si orientano i 2 direzioni: dove l’edificio è già esistente l’indirizzo
prevede di mantenere/rafforzare il carattere originario, e sono i casi ad esempio dei restauri-
ricostruzioni della Nuova sede del Parlamento del regno di Torino (1860-64, con forme
barocche), della Piazza Salimbeni sede della Monte dei paschi a Siena del 1875 (simile alla
città comunale), del Castello Sforzesco 1890-1900 dove si ribadisce la fase sforzesca e
viscontea, e del completamento della Facciata del Duomo di Firenze (Emilio de Fabris, 1864,
fig. 2.16, palinsesto dell’architettura religiosa toscana tra Gotico e primo Rinascimento).
Diversamente, nei tanti edifici governativi, inclusi quelli che accolgono in ministeri di Roma,
1871, è spesso il ‘500 romano o lombardo a farla da padrone. Come ad esempio, il Monumento
a Vittorio Emanuele II - Il Vittoriano di Giuseppe Sacconi del 1879-1911 (fig. 2.17); esso è
situato in un’area alle spalle del Campidoglio che presume un imponente sventramento e
distruzione di patrimonio archeologico; è costituito da un gigantesco monumento in marmo
bianco botticino di Giuseppe Sacconi; egli torna a ispirazioni antiche come il tempio della
Fortuna Primigenia a Palestrina del II sec. a.C. o l’altare di Zeus a Pergamo sempre del II sec.
a.C. e non adotta nessuno dei linguaggi elaborati nella II metà dell’Ottocento.
Nei paesi di lingua tedesca, storicamente frammentati e riuniti nell’impero austro-ungarico nel
1867, poi Reich nel 1871, la questione del linguaggio nazionale segue quella parcellizzazione
durata secoli. Il maggior teorico e architetto tedesco Gottfriend Semper, suddito del regno di
Sassonia, cosmopolita, attivo nei moti ’49, viaggia in Italia, risiede molto in Uk, partecipa alla
Great Exhibition del 1851 e porta avanti nei suoi scritti (come Lo stile nelle arti tecniche e
costruttive del 1860-63) una teoria sulle origini dell’architettura e sugli effetti sull’architettura

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moderna. Egli si oppone agli aspetti ideologici e conservatori del Neogotico propugnando
un’architettura adatta alla modernità. L’ipotesi è che l’edificio si componga di struttura e
rivestimento (classico, rinascimento o barocco, elemento flessibile per la rappresentazione
anche dei linguaggi nazionali in area tedesca).
Semper contribuisce alla prodigiosa operazione del Ring di Vienna fra 1859-72, che include: il
Burgtheater del 1874-88 in forme baroccheggianti (fig. 2.18), accanto l’Opera di Stato in stile
neorinascimentale, il Parlamento neoclassico, il Municipio in stile gotico fiammingo,
l’Università neorinascimentale, al Museo di Arti Applicate, la Borsa e alla Votivkirche in stile
neogotico, tutti costruiti nella seconda metà del XIX secolo e dovuti ai più importanti architetti
austriaci. Gli edifici affacciati sul Ring, che sono un catalogo degli stili storici, rappresentano la
volontà dei vecchi stati di affidarsi al governo centrale. l’autorità sostiene un nazionalismo fatto
di diktat formali, principi, prove di forza; negli edifici il Rinascimento italiano è
intercambiabile con il medioevo. Ma ci sono delle eccezioni, come la committenza di Ludwig II
di Baviera che avvia un programma architettonico e iconografico incentrato sulla fusione tra i
cicli epici tedeschi e l’ambiente naturale alpino; in un continuo scambio con l’amico e
musicista Wagner, egli gli commissiona i Castelli di Neuschweinstein e Falkestein (fig. 2.19,
non costruito), nello stile autentico delle antiche fortezze dei cavalieri tedeschi, in un processo
di identificazione del principe con gli eroi wagneriani, ospitati a loro volta nel Teatro di
Bayreuth del 1867 (progettato da Semper). Nella Baviera il segno che Ludwig lascia nella
ricerca di un linguaggio nazionale, risiede in un registro interno che si rivolge de una parte al
medioevo tedesco e dall’altra alla ricchezza culturale ed etica della tradizione germanica. Esiste
però anche un registro esterno, rivolto al resto d’Europa e assegnato agli edifici pubblici, risolti
con linguaggi più internazionali (gotico, rinascimento, barocco: a seconda della destinazione
dell’edificio).

Cap. 3 - Materiali e tecniche per nuove funzioni e nuovi luoghi


Con il progresso il mondo occidentale diventa veloce, nei trasporti, nella circolazione delle
informazioni, nei tempi di produzione e consumo, nella possibilità di accumulare fortune e di
perderle altrettanto rapidamente. Il commercio diventa sempre più variegato: nascono merci. I
ritmi dei lavori sono sempre più organizzati e frenetici, di conseguenza c’è un’accelerazione in
ambito urbano. Le folle si muovono per il paesaggio nei grandi parchi urbani e nascono le
grandi esposizioni nazionali e internazionali (occasioni per fare bilancio del rapporto tra il
progetto e l’industrializzazione). Si avvia la riflessione sull’architettura fatta “a macchina”.

3.1 PROGETTO E INDUSTRIALIZZAZIONE: LA GREAT EXHIBITION


La consuetudine delle mostre a tema commerciale volta a mostrare alla popolazione i progressi
scientifici è praticata dal secondo quarto del secolo in tutte le nazioni europee. Le Esposizioni
vengono collocate in luoghi urbani, parchi, edifici storici e organizzate da ministeri e camere di
commercio; attirano i visitatori per mostrare loro la modernità dei prodotti e la buona situazione
del sistema economico.
L’Inghilterra è il primo tra i paesi ad avvertire le potenzialità internazionali delle esposizioni
merceologiche e nel 1847 organizza la prima Esposizione Nazionale con grande successo di
pubblico (oltre 20mila spettatori), coinvolgendo tutte le manifatture del Regno Unito; il
governo si rende così conto dell’enorme potere di propaganda di questi eventi. La Royal
Society of Arts, associazione privata che da fine ‘700 organizza mostre d’arte, diretta in questi
anni dal principe consorte Albert, avvia subito dopo il programma per la Great Exhibition of
the Works of Industry of all Nations (fig. 3.1), una grandiosa Esposizione Universale tenutasi
a Londra nel 1851. Per il Palazzo dell’Esposizione viene bandito un concorso internazionale, al
quale partecipano più di 100 progettisti, però i progetti non soddisfano perché costosi e lunghi

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da realizzare; così il comitato sceglie che l’edificio debba essere “leggero” e realizza un meta-
progetto senza forma ma con caratteristiche precise; si programma una costruzione che non
faccia uso di pietra, mattoni o malta, si prevendono costi sulle 150.000 sterline e si richiede che
possa essere facilmente smantellato, poiché si propone Hyde Park come location (il più
frequentato parco cittadino). L’impresa Fox Henderson & Co. presenta un’offerta
economicamente vantaggiosa (978mila sterline) che sviluppa l’impianto planimetrico ipotizzato
dal Comitato secondo il progetto di Joseph Paxton. Paxton, progettista di serre, progetta un
edificio realizzato con materiali lavorati industrialmente (lastre di vetro e ferro). La struttura di
impianto basilicale a cinque navate, attraversata da un transetto con copertura a botte, è risolta
con elementi modulari. Il mastodontico edificio copre 84.000 metri quadri, è rivestito
interamente da lastre di vetro prodotte grazie a grandi macchine per la trafilatura di materiale
morbido. Questa soluzione permette di ottenere uno spazio interno completamente libero da
pareti, chiamato Crystal Palace; Pugin lo definisce un mostro di vetro, gli Ecclesiologist un
esempio di ingegneria lontano anni luce dall’architettura, Ruskin la più grande serra mai
costruita e esempio delle possibilità del calcolo umano; sono abbondanti inoltre le critiche di
stampo politico che vedono nell’esposizione un grottesco inno al mercato a scapito dei reali
problemi della società. Gli elementi interni sono tenuti insieme con bulloni, perciò può essere
smantellato e riutilizzato; è un edificio completamente nuovo, grazie all’uso del ferro e del
vetro. Nei 6 mesi di apertura il Crystal Palace ospitò più di 6milioni di persone; tale affluenza
così numerosa non è dovuta solo alla magnificenza del luogo, ma anche e soprattutto agli
allestimenti interni. L’allestimento interno è caratterizzato dall’organizzazione degli spazi dei
padiglioni dette courts (nei punti di incontro delle gallerie) e in spazi più piccoli destinati ai
vari espositori. Un ampio spazio è dedicato ai paesi della vecchia Europa, alle ex colonie e ai
possedimenti inglesi, particolare attenzione ricevono gli stati autonomi. Il tema era quello del
progresso industriale che costituisce la sfida fra i paesi del mondo. Non sono però le merci a
distinguere i diversi paesi ma più che altro gli sfondi che le ospitano; in ognuna delle court a
tema o dedicate a una nazione, tutte aperte e visibili tramite balconate dall’alto, si trovano
dettagli, ornamenti o intere parti di copie di importanti edifici che rimandano al tema che
l’ambiente vuole illustrare. Owen Jones, sovrintendente dell’aspetto architettonico interno del
Crystal Palace, propone l’uso di larghe fasce di corrispondenza dei travi e delle divisioni dei
settori colorate in rosso, giallo e blu, convinto che solo i colori primari fossero usati nell’età
dell’oro dell’arte mondiale. Jones è anche soprintendente dei padiglioni dedicati alla scultura e
alle carte stampate. I singoli padiglioni vengono gestiti da progettisti più o meno anonimi,
spiccano Semper che si occupa dei padiglioni danese, canadese, egiziano, turco e svedese,
cercando di caratterizzarli con segni di riconoscibilità artistico-culturale, e Pugin che si dedica
alla Medieval Court (fig. 3.3) popolata di tabernacoli, altari, elementi autentici e d’imitazione
desunti dall’amato medioevo.
Le merci esposte venivano illustrate da un foglio quotidiano pubblicato durante la mostra
chiamato The Art Journal. Illustrated Catalogue, e rispondono alla logica della dimostrazione
della validità dei processi industriali e la fiducia nelle scienze applicate alla produzione umana,
dalla meccanica alle belle arti. siamo in una fase di orgoglio di appartenenza a una nuova era,
fatta di competizione e capitale, della suddivisione del lavoro come motore dello sviluppo,
orgoglio che contribuisce a mascherare le tensioni sociali ma anche a proporre il problema dello
stile. Da una parte alcuni dei prodotti presentati mostrano lo sfruttamento del lavoro minorile,
dall’altra viene esposto il progetto di cottage modello per la classe lavoratrice (fig. 3.4),
progettato da Henry Roberts, promosso dal principe Albert in qualità di presidente della
Society for Improving the Condition of Working Class; esso viene edificato all’esterno del
Crystal Palace ed è interamente costruito in mattoni forati senza l’uso di legname nei solai, con

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una struttura regolare, ha due piani ed è destinato a 4 famiglie. Così efficace che da lì a poco
verrà utilizzata nella prima edificazione delle case operaie tra il 1863-65.
Agli stessi principi di industrializzazione si rifanno l’abbondanza di macchinari e la miriade di
oggetti e prodotti, tuttavia le scelte formali sono meno rilevanti. Tali macchine sono abbigliate
con rivestimenti egizi, gotici, greci e riproducono modelli tradizionali (secondo il gusto
vittoriano), arrivando a proporsi come vere copie dei grandi capolavori del passato. il processo
elettrolitico permette di imitare oggetti in argenti o di riprodurre industrialmente statue/oggetti
in bronzo; la decalcomania sostituisce la decorazione pittorica artigianale su molte superfici e i
brevetti meccanici permettono di presentare al pubblico nuovi strani apparecchi (es: cavalletti
pieghevoli, sedie da barbiere, …).
Il Crystal Palace viene poi smontato e riallestito a Sydenham Hill nel 1854 per divenire un
parco a tema per famiglie dove, scomparse le merci, la riproduzione di ambienti lontani diventa
un’enorme attrattiva (nello spirito delle period rooms); quasi tutti i progetti sono guidati da
Owen Jones, e includono la riproposizione dell’Alhambra, delle tombe medicee, delle sfingi
egiziane, dei templi greci e altro; all’aperto invece lo spazio ospitava una collezione di
dinosauri. Tutto questo è mostrato nella chiave ottimistica del regno della regina Vittoria, con
un tono blandamente pedagogico ma di continuo inno al progresso.
La corsa al progresso prosegue nella sequenza delle Esposizioni: dopo Londra 1851, nel
decennio successivo le Esposizioni Universali si ripetono tra Parigi (1855, 1867, 1878) e
Londra (1862). Un tentativo si svolge anche a Vienna con la Weltausstellung del 1873, e questa
“moda” sbarca poi oltreoceano con la Fiera Mondiale di NY del 1883 e quella del 1893 a
Chicago. I “contenitori” proposti a queste Esposizioni sono sempre più diversi, ma traggono
tutti ispirazione dai modelli di Paxton; l’intenzione di stupire diventa una vera e propria
ossessione. Nel 1867 il Campo di Marte di Parigi viene interamente occupato dall’Esposizione,
e ha al centro un grande edificio circolare e modulare (fig. 3.5) in cui vengono impiegate
giganteschi pilastri e travi letteralmente ricamati di bulloni e rivetti; a Vienna invece la scelta è
più imperiale e viene affidata a stucchi e colonne, con padiglione centrale coperto da un’ardita
cupola. Nel 1889, anno di celebrazione del centenario della rivoluzione, per l’Esposizione
Universale di Parigi viene costruita la Tour Eiffel (fig. 3.6): alta 324m, è l’edificio più alto in
quel periodo, fa da ingresso monumentale per gli edifici al Campo Marte, è il risultato della
perizia dell’ingegnere Gustave Eiffel, che l’ha progettata e ne ha calcolato la struttura statica, e
dell’efficienza dell’industria pesante francese. la Galerie de Machines di Ferdinand Dutert e
Victor Contamin ne è il contraltare: palcoscenico di tecnologie avanzatissime, terreno di
sperimentazioni con tecniche costruttive in acciaio e ferro che permettono di avere lo spazio
libero più ampio al mondo.

3.2 INGEGNERIA E ARCHITETTURA: SEGNALI DI DIVERSIFICAZIONE


Le discipline legate alla tecnica della costruzione sono presenti nella cultura architettonica
europea fin dall’inizio del secolo. Gli studi di Rondelet sull’assetto statico della cupola della
chiesa di Sainte-Génevieve sono la 1° tappa dell’applicazione delle discipline scientifiche alla
costruzione dell’architettura, ma non sono altro che un episodio di sperimentazione sulla
funzione strutturale, che Rondelet conosceva bene in seguito al suo viaggio a Roma nel 1783-
85.
Henry Labrouste, uno degli allievi di Rondelet, ha aperto la strada all’industrializzazione
dell’architettura, sviluppata nel XX secolo dal Movimento Moderno, evidenziando l’uso di
materiali senza mascheramento alcuno. La Biblioteque Sainte-Genévieve del 1838-50 ne è un
esempio (fig. 3.7): posizionata vicino al Pantheon, la nuova biblioteca è eredità di quella
monastica pre-Rivoluzionaria, formata da una pianta rettangolare con al piano terra locali di
distribuzione e lettura, al 2° piano una sala di lettura enorme; la pianta è divisa in 2 navate

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allungate scompartite dalle basi in pietra su cui poggiano esili colonne in ghisa, a loro volta gli
archi metallici si sostengono alla copertura; la sequenza di archi si riflette sulla facciata esterna,
molto semplice, rivestita in pietra con leggere reminiscenze di antichi edifici. Nella sala di
lettura, tra le paraste delle finestre, sono inserite tavole di pietra incisa con elenchi dei più
importanti autori di volumi conservati nella biblioteca. Sempre nella sala di lettura viene
utilizzato metallo a vista, ma i capitelli non sono strutturali bensì il risultato di una scocca cava
stampata e sovrapposta: l’uso del il metallo non è dettato solo da scopi utilitaristici ma anche
dall’idea che l’impianto greco possa essere utilizzato ma aggiornato alla società moderna; tutto
ciò continuando a pensare che l’architettura e l’arte traducano lo stato delle società nelle quali
nascono. Labrouste pensa che l’impianto greco debba essere impiegato, ma aggiornato alla
società moderna; si tratta dunque di un’operazione di sincretismo progettuale. Qualcosa di
simile avviene in un’altra biblioteca cioè la Blibliotèque Nationale del 1853-62, dove vengono
usate colonne in ghisa a sostegno di un sistema di copertura leggero, cupole ribassate e forate al
centro per avere luce zenitale sui tavoli di studio, uso di elementi in metallo (fig. 3.8 e 3.9). In
questo edificio troviamo una riunione di modello, funzione dell’edificio e nuove tecnologie. Si
ha l’uso di materiali moderni funzionali a un approccio ideologico molto marcato, la tecnologia
è il mezzo per conseguire consequenzialità tra società e i suoi prodotti: del resto Labrouste è tra
i discepoli del filosofo Auguste Comte, padre del Positivismo.
MA qualcosa inizia a cambiare, a partire da Parigi. Nella capitale francese Luigi Napoleone e il
prefetto Haussmann progettano lavori per far diventare la città capitales des capitales; gli
edifici per servizi, le chiese, le fontane iniziano a essere affidati a figure diverse da quelle
dell’architetto tradizionale. È vero che il rifacimento delle Halles Centrales del 1853-72
(principale mercato coperto parigino) viene realizzato su progetto degli architetti accademici
Victor Baltard e Felix-Emanuel Callet. Il complesso formato da 12 padiglioni in metallo e
vetro (fig. 3.10 e 3.11), risponde alle logiche di processo edilizio sperimentate a Londra, come
pure la successiva opera di Baltard, la Chiesa di Saint Augustin del 1860-71. Nelle Halles viene
utilizzato il ferro in collaborazione con laterizio, legno e vetro. Tuttavia nonostante si voglia
attribuire allo stesso Hausmann la scelta della struttura metallica imposta dall’architetto,
Baltard non viene coinvolto in altri cantieri significativi; il prefetto Hausmann preferisce
circondarsi di collaboratori addetti al controllo di progetti che provengano dai ruoli degli
ingegneri e funzionari Pont et Chaussee. Gli architetti di formazione accademica, anche se
chiaramente in grado di gestire processi costruttivi aggiornati, non incontrano il favore
dell’Impero. Jacques-Ignace Hittorff, grande divulgatore della teoria della colorazione
dell’architettura classica, è un abile utilizzatore delle strutture leggere, come le capriate alla
Polonceau, con puntoni in legno, colonnetti in ghisa e tiranti in ferro, riprodotte poi in
Inghilterra con struttura interamente metallica, ma è oggetto di antipatia da parte di Haussmann
che ne mette in ombra le qualità modificando il tracciato del boulevard sul quale avrebbe
dovuto affacciarsi la Gare du Nord.
L’impiego dei materiali moderni, usati in un’accentuazione di modularità e dunque di
industrializzazione, sembra essere percorribile inizialmente solo in edifici che rappresentano
nuove funzioni all’interno delle città. Gustave Eiffel, di formazione ingegnere, progetta insieme
a Louis-Charles Boileau la copertura e la struttura interna dei grandi magazzini Au Bon
Marché nel 1876 (fig. 3.12), uno dei punti focali del ridisegno haussmaniano di Parigi;
struttura e serramenti in ferro e ghisa, conoscenza approfondita delle qualità dei materiali
aprono la strada a un nuovo tipo di edificio, il centro per il commercio nel quale lo snodo
centrale dello spazio è coperto dalla cupola trasparente e abbracciato da percorsi aerei. I
successivi Magazine du Printemps del 1881-89 si devono all’architetto Paul Sedille che
diventa un tecnico specialista. I tecnici infatti di fanno largo, ma in posizioni visivamente
defilate.

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Altro elemento di novità nel tessuto urbano sono i passage coperti, che si diffondono in tutte le
città occidentali. Già presenti a Parigi dagli anni ‘20 del secolo, iniziano ad essere promossi
molto rapidamente dalle amministrazioni per migliorare la qualità della circolazione urbana
come formalizzato negli scritti di Cerdà, Sitte e Soria y Mata e pongono il problema progettuale
della ricerca di soluzioni trasparenti per le coperture e omogenee ai fronti stradali per affacci
urbani. L’orientamento del progresso assume una duplice direzione: già da uno dei primi
esempi cioè il passage di Jean Pierr Cluysenaar a Bruxelles, ai serramenti ed ingressi modulari
metallici che sostengono le coperture, fanno da contraltare gli ingressi che ricuciono il fronte
urbano con una partitura classicista che prelude a un trattamento monumentale. Tale dicotomia
trova il suo compimento nella Galleria Vittorio Emanuele II di Milano del 1865-67 (fig. 3.13 e
3.14), che nasce da un passage il quale da una semplice strada di ridotte dimensioni coperta da
capriate si trasforma in galleria strutturata indipendente. Essa viene progettata in seguito ad un
concorso indetto dalla municipalità dall’ingegnere Giuseppe Mengoni, all’interno del progetto
di ridefinizione di piazza Duomo e la mette in comunicazione con piazza della Scala. Mengoni
realizza una grandiosa struttura con pianta a croce coperta da volte a botte in metallo e vetro e,
all’incrocio dei bracci, una cupola ottagonale alta ben 47m. I due ingressi sulle piazze sono ad
arco di trionfo su tre fornici, mutuato dalla cinta delle porte urbane napoleoniche e ispirato al
Classicismo tardo-bramantiesco della città. Gli ingegneri come Mengoni affiancano le
innovazioni tecnologiche ai repertori storici del decoro urbano evocando i caratteri
architettonici tipici locali oppure rielaborando quelli presenti nelle vicinanze:
- Primo metodo progettuale: Kaisergallerie di Berlino, 1870-73, di Walter Kyllmann e Karl
Gottlieb Kyllmann che, affacciata all’incrocio di due grandi assi urbani, è risolta con la prima
delle tante torri angolari di inspirazione rinascimentale che popoleranno la nuova Germania.
- Secondo: Galleria Umberto I di Napoli, 1887-90, di Emanuele Rocco, riprende la facciata
del Teatro di San Carlo.
La specializzazione dei progettisti di approfondisce sempre di più fino ad arrivare a suddividere
la parte architettonica e artistica, affidata all’architetto, da quella relativa al calcolo strutturale
assegnata all’ingegnere.
Sul finire del secolo viene realizza la gigantesca galleria GUM di Mosca, 1889-90, progettata
per la parte compositiva dall’architetto Alexander Pomerantsev (di formazione accademica) e
per la parte delle strutture in cemento armato dall’ingegnere Vladimir Grigoryevich Suckov.
Processi simili si verificano nelle stazioni ferroviarie, le nuove porte urbane delle città. A
Londra, con l’occasione dell’esposizione del 1862 si ebbero forti disagi per il sovraffollamento
della Great Northern Reilway, così la Midland Railway avvia la costruzione di una nuova
stazione attrezzata con un albergo e negozi, chiamata St. Pancras Station e realizzata nel
1862-73. Il Midland Hotel e tutte le parti architettoniche si devono a Sir George Gilbert Scott,
mentre la copertura dei binari all’ingegnere William Henry Barlow che realizza la più estesa
campata metallica mai costruita fino ad allora (fig. 3.15). La convivenza fra Scott e Barlow non
è facile: Scott realizza la grande opera neo-medievale, che aveva sempre inseguito, tentando di
rendere più architettonica la struttura metallica, sovrapponendo decorazioni al sistema di travi.
La percezione di St. Pancras da parte del pubblico è proprio la fusione fra riferimenti storici e
esigenze moderne; addirittura Dickens esalterà questa stazione nel London Dictionary,
sottolineando che in essa le campate si incontrano al centro con un angolo (stile gotico),
piuttosto che con il consueto cerchio.
Anche in Italia negli stessi anni in molti terminal ferroviari si riproduce il dualismo fra
architettura-ingegneria; tra le prime e più monumentali stazioni del Paese c’è la Stazione di
Porta Nuova di Torino del 1865-68 (fig. 3.17)), costruita con grande impegno finanziario,
affidata all’ingegnere del Genio Civile Alessandro Mazzucchetti (progetta la copertura ad
arco per i binari e i locali di accesso) e dall’ingegnere e architetto civile Carlo Ceppi autore di

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molte opere nel quadro dell’ingrandimento dell’allora capitale. I compiti sono sempre divisi, in
questo caso Ceppi studia le parti architettoniche, riproducendo nella facciata il profilo della
grande volta interna che determina le dimensioni dell’arco a tutto sesto e nel rivestimento in
laterizio e pietra di linguaggio neoromanico, con contaminazioni classicistiche nelle mensole e
capitelli e gotiche nella partitura dei serramenti e dei decori delle aperture in pietra e ferro.
L’effetto è di monumentalità, grazie anche all’abbraccio della piazza antistanza attrezzata a
square, giardino pitoresco recintato su modello inglese

3.3 LA BATTLE OF STYLES: TIPI E LINGUAGGI


In parallelo alla progressiva specializzazione delle figure inerenti al mondo architettonico, ha
luogo lo scontro tra i sostenitori dei dviersi stili architettonici. La vera e propria Battle of styles
si svolge nell’Inghilterra degli anni della Great Exhibition e le sue fasi si susseguono come se le
questioni relative all’industrializzazione, alla modernità, all’innovazione non esistessero
neppure. L’esposizione universale e il concorso per il Foreign Office di Londra del 1856
ottengono enorme eco sulla stampa; l’Inghilterra sta investendo considerevoli risorse nel
rafforzamento commerciale e militare dell’Impero, in particolare per affrontare la Cina nella II
Guerra dell’Oppio (1856-60). Le burocrazie coinvolte in queste funzioni hanno bisogno di una
sede appropriata e per questo il governo pensa a 2 edifici destinati rispettivamente al Foreign
Office e al War Office (poi India Office). Il concorso ha grande successo e si caratterizza sin da
subito come uno scontro tra sostenitori del gotico e del Classico/Palladiano. Al 2° posto si
classifica George Gilbert Scott, in entrambi i corni del concorso, e viene perciò dichiarato
vincitore assoluto quando si decide di realizzare un unico edificio. La sua soluzione è di
impianto classicista, chiuso e simmetrico, però con un manto che ricorda il Pugin della Hauses
of Parliament e il Ruskin teorico della ripresa del medioevo. L’edificio viene nominato Foreign
Office (fig. 3.18 e 3.19) ed è di stile “gotico francese” con inserimenti “italiani” nelle finestre e
nella policromia, e dimostra una grande attenzione alle indicazioni dello stesso Ruskin:
decorazione pervasiva e di differenti tipi, ampie ed estese pareti, decorazioni in mattoni variate
e visibili, accentuazione delle ombre. Per Scott è evidentemente la soluzione che meglio
incarna le necessità dell’edificio, ma si scontra con l’ostilità del primo ministro Lord
Palmestron nei confronti dello stile gotico, il quale invece sostiene a gran voce che l’edificio
deve avere forme classiche poiché edificio di punta della rappresentatività della politica estera
inglese. Quindi da un lato Scott sostiene che l’architettura debba essere sintesi del passato,
dall’altro Palmestron annuncia battaglia dichiarando di non voler avere nulla a che fare con il
Gotico. Si forma uno scontro tra due partiti, la battaglia prosegue con accenti sempre più
violenti, non concentrandosi però sulla teoria degli stili o sui caratteri, ma rimanendo sul piano
dei gusti personali: Scott tenta di contrabbandare un progetto neobizantino per rispondere alle
richieste del primo ministro di dare un aspetto “italiano” all’edificio, sostenendo l’origine
peninsulare dello stile che caratterizza Venezia; Palmestron non accetta un evidente ibrido
senza coerenza e pretende un progetto “in stile italiano ordinario” pena la rimozione
dell’incarico. Scott propone così alla committenza e all’opinione pubblica un impianto la cui
provenienza è ancora a Venezia, ma nella sua fase cinquecentesca, e Jacopo Sansovino è
l’architetto di riferimento, dichiarando di aver riscoperto una passione sopita per il classico. Le
polemiche e i cambi di casacca legati al concorso si concludono nel 1872, a quasi vent’anni
dalla sua apertura, quando Scott riesce a realizzare la sua St. Pancras. Successivamente viene
sconfitto nel concorso per le Low Courts del 1866, sede del potere legislativo di Londra.
Il progetto di Scott per le Low Courts era ispirato alla migliore architettura medievale inglese,
ma viene scartato in favore del progetto di George Edmund Street, che propone anche lui un
progetto neo-medievale che utilizza un nucleo formale inglese, completato da elementi francesi

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e nordici, e piegato alle necessità contemporanee, con uso del ferro, copertura in vetro; il tema
non è più la scelta dello stile ma la capacità di rispondere alle necessità della contemporaneità.
La Battle of syles trova terreno anche in Francia, ma in modo meno acceso che in Uk, e ne è un
esempio la vicenda dell’Operà del 1861-75 di Charles Garnier (fig. 3.20 e 3.21). Aneddoti
dicono che quando il progetto fu presentato all’imperatrice, che voleva come progettista
Viollet-le-Duc, Garnier abbia risposto alle obiezioni della sovrana che faticava a trovare lo stile
del progetto dicendo “Signora, è Napoleone III; e Voi vi lamentate?”. Garnier non si preoccupa
dello stile, le sue affermazioni sono legate al ruolo sociale del teatro, luogo per guardare e farsi
guardare, dove l’architettura ha la funzione di accentuare la magia e lo stupore della
rappresentazione e dell’incontro, in una ritualità ben strutturata (come l’accesso e la
circolazione nei foyer, con scala monumentale con immagine moltiplicata dagli specchi). La
formazione di Garnier è di tipo accademico, passione per i classico-mediterraneo, ma poco di
questo si riconosce nel nuovo teatro fatta eccezione per capitelli, colonne e mensole già viste
ma in un’unione straordinaria con statue, specchi, marmi e tappezzerie. Come dice lui stesso è
l’événement (=avvenimento) a regolare tutto il progetto e l’architetto si occupa di tutti gli
aspetti sia in fase di progettazione che di esecuzione (aerazione, riscaldamento, carpenteria
metallica e rifiniture), aspetti che rientreranno nella Monografia sulla nuova Opéra di Parigi
del 1880. Il cantiere dell’Operà diventa rapidamente il più ricercato atelier d’Europa per gli
architetti della nuova generazione. L’Agence cioè lo studio professionale interamente dedicato
all’Operà, produce più di 30.000 disegni a cui si applicano giovani architetti, pittori, scultori, e
poi operai, artigiani, litografi che collaborano alle tecniche costruttive, alla creazione e alla
comunicazione dell’immagine del nuovo teatro. Oltre alla messa a punto del progetto (fig.
3.22), il risultato reimpiegato da tutti i progettisti che fanno apprendistato presso il cantiere è
l’elaborazione delle soluzioni planimetriche e altimetriche regolate sui flussi degli spettatori e
delle maestranze. Nella facciata del teatro la sovrapposizione del piano dell’ingresso ad arcate,
dell’ordine gigante binato e dal piano attico può rimandare a modelli italiani settecenteschi, ma
lo schema rigoroso di base richiama Vanvitelli e Juvarra e i maestosi prospetti di palazzi e ville
reali, frutto a loro volta di rielaborazioni dei maestri seicenteschi, ammantato e intarsiato di
elementi attinti da tutte le arti visive e da tutti i materiali possibili. Tutto ciò per obbedire alla
necessità che l’architettura, una volta compiuta, svolga la sua funzione di rendere
indimenticabile una città o parte di essa. Il rapporto tra carattere dell’architettura e pubblico è
per Garnier la chiave di un risultato efficace. Come l’opera, il dramma musicale e la
rappresentazione teatrale costituiscono il vero medium del nuovo assetto sociale, così l’edificio
teatrale ne rappresenta la versione in pietra e l’interfaccia con la città. La città è quella moderna
nella quale si inserisce il palinsesto di flussi, momenti e contatti sociali perfettamente tradotti
dall’Opéra di Garnier.
La condizione per la realizzazione di edifici dotati di tale carattere è che i progettisti siano
coinvolti profondamente nei processi di rinnovamento tecnologico e urbano e siano disponibili
a rielaborare i propri strumenti culturali per la definizione di un linguaggio fuori dagli stili di
qualsiasi segno. In genere si tratta poi di veri capiscuola i cui allievi diretti o meno riproducono
non tanto le forme ma riecheggiano l’attitudine culturale dei maestri e la consapevolezza di
appartenenza a una fase nuova dello sviluppo delle arti e della cultura.
Tra costoro si può citare Alessandro Antonelli, architetto piemontese formato alla scuola del
paladino del Neoclassicismo ossia Ferdinando Bonsignore, ma che assorbe anche elementi
tecnici lontano dall’architettura immaginata e dipinta durante il soggiorno a Roma, dove
frequenta la scuola per ingegneri e architetti istituita dal pontificato di Leone XII. Rientrato in
Piemonte, Antonelli inizia ad assumere incarichi professionali via via più importanti,
diventando un imprenditore edile e facendo investimenti immobiliari, quindi nella realizzazione
di progetti dal punto di vista economico. Egli sperimenta il principio dello scheletro costruttivo

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in laterizio e pietra, economico per la sottigliezza dei diaframmi delle pareti di tamponamento,
impiegando sequenze di colonne sovrapposte, senza reverenza per la teoria classicistica degli
ordini. Attingendo al razionalismo francese e alle innovazioni tecnologiche, Antonelli non si fa
mai coinvolgere nel dibattito teorico sullo stile, nemmeno quello in corso in quegli anni in
Italia. Nel 1859 viene chiamato dalla Comunità israelitica di Torino, a dieci anni
dall’emancipazione dello Statuto Albertino che prevedeva la libertà di culto, per costruire un
Grande tempio per la preghiera e per la sede della Comunità, ossia la Mole Antonelliana. Sarò
una tappa per il superamento del dibattito sugli stili analoga all’Opéra di Garnier. Come per il
teatro è la messa in concreto della consapevolezza di appartenere a una fase di forte mutamento
nei rapporti tra architettura e trasformazioni della società a guidare le soluzioni in funzione
della ritualità del rapporto tra rappresentazione e pubblico. Antonelli, gestendo la ristrettezza
del lotto e le necessità di una sinagoga, progetta uno spazio centrale a pianta quadrata, destinato
alla preghiera, innalzato su un alto basamento, in cui sarebbero stati collocati i servizi e gli
spazi accessori e coperto da un’alta cupola a padiglione di 47m. Egli modifica rapidamente e in
completa autonomia il progetto, esasperando i caratteri di cupola e coronamento grazie all’uso
di un sistema costruttivo a fulcri isolati: uno scheletro di colonne in laterizio e pietra a ordini
sovrapposti, legate e rinforzate da archi in mattoni e inserimenti di barre metalliche, creando
una struttura ad andamento decrescente, ottenuto per sottrazione di elementi verticali, sul quale
poggia una cupola risolta con un sistema di nervature, ancora in laterizio, che sostiene un
ulteriore elemento verticale, in forma di lanterna, ancora a colonne sovrapposte fino a
immaginare un edificio di circa 112 metri. La comunità israelitica ritira la commessa a cantiere
avviato, e dopo molte indagini tecniche il comune di Torino decide di acquistare l’edificio che
sarà destinato ad essere Museo Nazionale del Risorgimento, mentre Antonelli modifica
ulteriormente la lanterna trasformandola in una guglia che porta l’altezza complessiva a 164 m,
conclusi nel 1889. L’edificio è caratterizzato da una sequenza abbondandissima di colonne,
pilastri e paraste, in diversi formati e ordini, in alcuni casi coronati da timpano, che però non
conferiscono all’edificio un aspetto classicista; lo spettatore è stupito per l’arditezza della
costruzione e per l’eterodossia delle soluzioni. Le colonne, inseribili in uno schema puntiforme,
hanno un apparato nascosto di rinforzi in laterizio e sono l’espressione dell’interesse per i
sistemi costruttivi della modernità impiegati con le competenze della tradizione: stereotomia,
uso empirico delle strutture sottili in laterizio ad altezze mai raggiunte prima. Sono le soluzioni
strutturali, essenzialmente la realizzazione di ampi invasi liberi, a guidare la scelta
dell’architetto nel comporre elementi desunti dal linguaggio storico, e ad adattarle al principio
dello scheletro costruttivo, senza spingersi alle formule tipiche della cultura ingegneristica
come le strutture metalliche. L’unione di funzione e carattere ha la meglio sul dibattito sullo
stile.
Nel 1890 a Torino si tiene la 1° esposizione italiana di Architettura, allora ci si interroga
sullo stato di salute della disciplina. Camillo Boito (stile nazionale), osserva sconsolato come il
razionalismo costruttivo propugnato da Antonelli odori pericolosamente di “ingegnerismo”;
assemblare elementi di diverse epoche a soluzioni tecnico-funzionali ha come risultato: la
cancellazione della discussione colta, e l’affidare processi progettuali a ingegneri e tecnici.

Cap. 4 – La nascita della città industriale


Tra fine ‘700 e inizio ‘800 prima in Uk poi in Germania, poi in Francia e altrove, il processo di
industrializzazione della produzione determina la concentrazione di vaste masse di popolazione
nelle città e nelle zone di estrazione mineraria, ed è così che abbiamo la nascita della città
industriale. I paesaggi si trasformano: le campagne sono stravolte dalla trasformazione
produttiva, la concorrenza delle macchine e l’organizzazione su vasta scala dell’agricoltura,
insieme alle recinzioni nelle terre (un tempo utilizzate da tutti) ora sfruttate dai proprietari per

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l’allevamento su larga scala, portano a un’espulsione dei piccoli proprietari e dei contadini, che
si affollano attorno ai centri di attività manifatturiera. Un’edificazione senza regole investe le
città e i centri produttivi determinando nuovi panorami urbani: alti camini delle manifatture con
le loro ceneri anneriscono i cieli, nei dintorni i prati sono invasi dai detriti degli scavi e coperti
dalle ciminiere, fiumi e canali si trasformano in scarichi maleodoranti per gli scarti delle
lavorazioni e la raccolta delle deiezioni. Nascono edifici per le attività industriali in grado di
ospitare migliaia di lavoratori, con caratteri legati alla forza motrice utilizzata e al tipo di
lavorazione che devono ospitare. Le fabbriche vengono costruite vicino ai fiumi e vengono
organizzate su più livelli almeno finché è l’acqua la principale risorsa energetica. Con
l’invenzione della macchina a vapore e la scoperta dell’elettricità è possibile effettuare il
trasporto a distanza, così le fabbriche possono spostarsi nei luoghi già urbanizzati.

4.1 ANALISI E CRITICA DELLA CITTÀ INDUSTRIALE


Le concentrazioni urbane si trasformano in luoghi di sofferenza e di enormi disparità sociali. Si
formano quartieri operai che soffrono di pauperismo e sovraffollamento, le case sono malsane
carenti di aria, di luce e di servizi, e di conseguenza diventano un problema sanitario e sociale
di rilevanza nazionale. Tra ‘700-‘800 la città storica viene accerchiata da quartieri operai dove
abitazioni e fabbriche si affiancano senza soluzione di continuità. I fabbricati industriali si
trasformano in sequenze di tettoie, sviluppate in orizzontale, su un solo livello e punteggiate da
ciminiere. Coperture a shed (leggere strutture in legno o ghisa) e sottili tamponamenti in
laterizio caratterizzano i nuovi complessi industriali, integrati dalle palazzine degli uffici e dalle
eleganti case del proprietario. Le abitazioni destinate ai lavoratori sono costruite con materiali
poveri e spesso in agglomeranti senza regole urbanistiche, dando vita a edifici su più piani in
muratura portante come nel caso mitteleuropeo (mietskaserne); oppure dando vita a estesi
quartieri di casette in mattoni a due piani fuori terra (slums) addossate le une alle altre,
prevalenti in Uk e Usa. L’acqua potabile e le fognature sono quasi completamente assenti così
come scuole e ospedali, ma anche esposizione all’aria, al sole, spazi verdi.
Le città principali si espandono in modo impressionante: Londra a inizio ‘800 ha 860mila
abitanti, poi 2milioni a metà secolo, e circa 4milioni e mezzo nel 1901. Diventa la città più
popolata del mondo fino al 1921 (anno in cui è superata da New York); Parigi a inizio ‘800 ha
548mila abitanti, passa al milione nel 1851, e a fine secolo ne ha quasi 2 e poi 3 milioni;
Vienna, capitale dell’impero austro-ungarico, passa da 900mila ab. nel 1870 a più di 2milioni
nel 1910; Berlino nel 1900 raggiunge quasi i due milioni di abitanti.
La pittura e la letteratura del Realismo ottocentesco offrono numerose testimonianze d’indagine
e di denuncia che costituiscono numerosi strumenti per comprendere le condizioni di vita degli
umili, la società, i modi di abitare della città industriale, le fabbriche. Molti pittori
rappresentano per la 1° volta le condizioni di lavoro e di vita degli umili, come Gustave
Courbet (fig. 4.1, Gli spaccapietre di Courbet, 1849), Honoré Daumier, Jean-Francois Millet;
l’incisore inglese Gustave Doré descrive l’affollamento della capitale inglese; anche i pittori
impressionisti, attratti da come la luce colpisce queste nuove realtà, non si sottraggono al
fascino delle città industriali (fig. 4.3, Boulevard Montmatre di Pissarro, 1897). In letteratura
narratori come Balzac, Zola, Dostoevskij, Verga si occupano dei “vinti”. Charles Dickens
restituisce in numerosi racconti le condizioni di vita della città industriale, simpatizzando per i
più deboli, descrivendo gli ambienti fisici e i comportamenti permettendo di calarsi nei quartieri
operai, in testi come Oliver Twist, David Copperfield, Hard Times egli fa proprio una denuncia
della morale ipocrita e utilitaristica del tempo; nota è la descrizione della immaginaria città
industriale che di Coketown del 1854. Anche Emile Zola con Il ventre di Parigi del 1873 fa del
quartiere parigino delle Halles una metafora della vita e della morale del basso ceto parigino.

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Un altro approccio alla città industriale è quello della fiducia nello sviluppo tecnologico come
strumento di soluzione per i problemi sociali. Fra le visioni di un futuro dove la città è fulcro di
una scoeità efficiente e inventiva, quella di Jules Verne è forse la più vivace e scientificamente
fondata; in Parigi nel XX secolo del 1863 (ma pubblicato nel 1994) egli descrive con molti
particolari i sistemi di trasporto veloce, l’uso dell’elettricità, gli edifici e gli spazi urbani a scala
gigantesca che caratterizzeranno le città; la sua profetica visione sembra anticipare gli
entusiasmi degli architetti futuristi, tuttavia fa da sfondo ad una pessimistica consapevolezza
sulle reali possibilità del progresso inarrestabile.
Le terribili condizioni igienico-sanitarie della città sono causa di una mortalità infantile
altissima, aspettativa di vita 40 anni, malattie endemiche. I quartieri operai sono anche focolai
di epidemie di malaria, colera, tifo e altro; nell’Ottocento il colera è presente in tutta Europa e
si manifesta in ondate successive che provocano centinaia di migliaia di morti (a Londra ad es.
nel 1831 5500 morti, 1848-49 15mila morti, 1853-54 12mila morti); gli studi dell’ostetrico
John Snow mettono in relazione la diffusione del colera all’approvvigionamento idrico; saranno
poi Louis Pasteur e Robert Koch a trovare il batterio. I progressi della medicina proseguono in
questo periodo in modo rapido e costituiscono uno stimolo forte alle acquisizioni della moderna
pianificazione urbana. Nasce l’ingegnere sanitario, le leggi sanitarie e le Commissioni di igiene.

4.2 LA CITTÀ DELL’UTOPIA


Con le contraddizioni dovute allo sviluppo industriale nascono movimenti di pensiero che
tendono a proporre nuovi modelli di società in relazione ad un’azione di riforma del territorio e
della città. Tra i più importanti c’è il filone di ricerche ed esperienze che si sviluppa nel solco
del socialismo utopista (utopia è quindi un luogo felice non esistente). Fin dall’antichità filosofi
e artisti avevano immaginato società del futuro perfette, con precise organizzazioni e
definizioni dello spazio; dalla città di Platone a quella di Aristotele, fino a quella di Tommaso
Campanella, poi alla trattatistica rinascimentale, insomma sono numerose le visioni di un futuro
perfetto/ideale. Il termine utopia deriva dall’omonimo libro di Thomas More del 1516, dove
l’autore descrive uno Stato ideale, collocato su un’isola; il termine, un neologismo, può riferirsi
sia a un non-luogo che a un luogo felice: utopia è un “luogo felice non esistente”.
L’inglese Robert Owen, prima operaio e commesso, poi autodidatta, grazie ad un fortunato
matrimonio acquista con altri soci una fabbrica dove avviare un esperimento di organizzazione
del lavoro ispirato ai principi di progresso e di giustizia. Nei primi anni dell’800 costruisce in
una filanda modello a New Lanark, in Scozia, per circa 2000 operai (fig. 4.4), che possono
usufruire di orari di lavoro ridotti, salari dignitosi e hanno a disposizione un ambulatorio, una
scuola elementare e un asilo infantile. Diventerà in breve tempo un esempio di successo
imprenditoriale e impegno sociale per tutto il mondo. Sulla scia di questa esperienza, Owen
approfondisce il suo impegno nella politica, nella legislazione del lavoro, nei movimenti
sindacali. Tuttavia egli non vede nell’industria il settore prevalente dell’attività umana e
vorrebbe riportare ad unità industria e agricoltura, superando separazione tra città e campagna.
Così nel 1817 pensa ad un Progetto di villaggio dotato di tutti i servizi per una comunità che si
autosostenta con produzione agricola e industriale; il progetto viene esposto alla Commissione
di inchiesta sugli operai poveri. Il suo “villaggio d’unione” prevede di ospitare da 500 a 1500
persone, a ciascuno è riservato un acro di terreno da coltivare; il villaggio si articola su una
piazza quadrangolare con edifici pubblici al centro e residenze disposte lungo i lati, in
fabbricati da uno a quattro piani fuori terra, camere da letto e soggiorni per adulti, dormitori
comuni per i bambini. Il progetto illustra anche soluzioni costruttive volte al risparmio di
energia per il riscaldamento e per il raffrescamento degli edifici.
Purtroppo, il suo progetto non troverà risorse sufficienti per essere realizzato nel Vecchio
continente, ma Owen si trasferisce in America nel 1825 e acquista in Indiana un terreno di più

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80.000 ettari dando vita alla comunità di New Harmony (fig. 4.5) che raccoglie circa 800
persone tra intellettuali, liberi pensatori e scienziati; sarà un centro di diffusione della cultura e
della ricerca scientifica, ma sarà anche un’esperienza che terminerà, tanto che Owen torna in
Uk.
Contemporaneamente in Francia Charles Fourier parte da una critica feroce alla società
borghese del suo tempo, per elaborare un progetto di società per il futuro. Ricco di famiglia ed
ereditiere, usa la sua ricchezza per dedicarsi agli studi di riforma sociale, ma nel 1763 a causa
di una speculazione sbagliata perde tutto e, coinvolto nei moti di Lione, subisce varie
persecuzioni, facendo 3 anni di prigione. Dopo diventa commesso viaggiatore e ha modo di
viaggiare per la Francia apprendendo nozioni di economia e analisi sociale. Nel 1808 riesce a
pubblicare in anonimo la sua teoria in un gran numero di articoli di giornali settimanali.
Secondo Fourier l’attrazione passionale è ciò che fa scattare ogni azione umana; per avere
l’armonia si dovrà collettivizzare la proprietà e, abbandonando le città malsane, riunirsi in
Phalanges di circa 1800 individui che alloggeranno in appositi edifici comunitari chiamati
Phalanstère (Falansterio, fig. 4.6). Questo meccanismo consente di mettere in comune tutte le
attività produttive, di servizio e cura risparmiando energia e risorse. Nel suo testo Il nuovo
mondo industriale e societario del 1829 egli sottolinea la necessità di aderire allo sviluppo
industriale e all’organizzazione estensiva dell’agricoltura proprio per poter incrementare il
raccolto e la ricchezza. La città secondo Fourier dovrebbe essere divisa in 3 ordini di anelli
(separati da aree verdi e da palizzate): al centro edifici pubblici principali; poi quartieri
residenziali e grandi fabbriche; infine grandi viali alberati e periferia. Le aree libere e verdi
saranno il doppio di quelle urbanizzate nella seconda cinta e il triplo nella terza cinta; così egli
anticipa la visione di “città giardino” di Howard. Il progetto del Falansterio o Palazzo
societario dedicato all’umanità si basa sull’immagine dei grandi edifici pubblici e
rappresentativi del tempo (Versailler, l’Escorial di Madrid, i grandi ospedali); negli scritti
dell’autore si trovano indicazioni molto precise sull’organizzazione funzionale e compositiva
del progetto. Gli edifici di 4 piani sono articolati simmetricamente intorno ad una corte centrale
e altre minori. La vita è organizzata come un grande albergo; elemento di novità è la “strada
galleria” che si svolge lungo un lato di tutti i fabbricati ed è a tutta altezza, quindi permette i
collegamenti al coperto al primo piano e, mediante scale, ai piani superiori, mentre al piano
terreno consente il passaggio delle vetture.
Fourier tenterà in più riprese inutilmente di trovare i finanziamenti per mettere in pratica il suo
modello e alcuni tentativi saranno avviati in Francia, Algeria, Nuova Caledonia e Stati Uniti dai
suoi seguaci, senza successo. Tra i prosecutori dell’opera di Fourier c’è Victor Considerant
che diverrà direttore dell’organo di diffusione “La Phalange” ed esporrà in modo più chiaro le
idee del maestro. L’unica parziale realizzazione del progetto di Fourier viene da Jean Baptiste
Godin, un operaio poi diventato imprenditore, che a Guise (Francia) organizza nel 1848 una
comunità a partire dalla gestione in forma cooperativa di un’industria. Il familisterio di Godin è
una sorta di piccolo falansterio, un complesso edilizio tuttora esistente e tutelato, di 5 piani
fuori terra, articolato in 3 corti coperte con una struttura di ferro e vetro, dotato di asilo, scuola,
teatro e vari servizi comuni, ma ogni famiglia è ospitata in un alloggio individuale (400
famiglie).
Il fervente rivoluzionario Etienne Cabet, carbonaro che partecipa ai moti del 1830, pubblica
nel 1840 in Francia Voyage en Icaria, un romanzo utopico che propone una società basata su
un comunismo egualitario; la capitale del paese immaginario di Icaria, è una città a pianta
circolare, pianificata attentamente secondo il modello delle città ideali rinascimentali; i percorsi
pedonali e veicolari sono separati, i 60 quartieri hanno un tipo di architettura secondo un
progetto unico. Servizi collettivi, fabbriche e cimiteri sono collocati esternamente alla città,
immersi nel verde. Ogni alloggio è dotato di ampie finestre con balconi e le case sono coronate

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da terrazze con balaustre fiorite in cui nelle sere estive le famiglie si ritrovano per prendere il
fresco e dedicarsi alla musica, al cibo e agli incontri. Incoraggiato dal successo del suo libro,
Cabet cerca di raccogliere fondi per fondare una reale Icaria in America; acquista un terreno
nell’Illinois dai mormoni, ma purtroppo egli muore di lì a poco e il suo esperimento di una
grande città razionale si riduce a sopravvivere in comunità rurali sempre più piccole, destinate a
ritornare ad essere la singola impresa familiare.
Il socialismo utopista è quindi un fallimento, e questo era prevedibile. Tuttavia già a metà ‘800
Karl Marx e Friedrich Engels denunciano l’ingenuità del tentativo dei socialisti, proprio da
loro definiti “utopisti”, proponendo invece un socialismo scientifico. Nel Manifesto del partito
comunista del 1848, Marx e Engels affermano che per risolvere i problemi della città
industriale non sono sufficienti soluzioni tecniciste o pedagogiche senza inquadrarle in un
radicale cambiamento della società: è infatti necessario instaurare un nuovo sistema economico
e sociale basato sulla proprietà collettiva dei mezzi di produzione che elimini per sempre il
conflitto di classe e lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo. Il dibattito che si crea intorno a
questa riflessione coinvolge la politica e l’architettura e crea un ampio ventaglio di posizioni
anche contrastanti. Ai 2 estremi troviamo: le proposte di chi ha fiducia negli strumenti tecnici
del progetto e della pianificazione come risoluzione die problemi sociali; la convinzione di chi
ritiene inutile l’impegno disciplinare se non nel quadro di una lotta politica. Fra queste
posizioni estreme nel corso del ‘900 si svilupperanno elaborazioni tecniche e realizzazioni
intermedie.

4.3 LA CITTÀ DEGLI INDUSTRIALI


Alle esperienze di matrice utopista per risolvere le contraddizioni della città industriale si
affiancano quelle di stampo paternalista di imprenditori mossi da spirito filantropico. Alcuni
edifici industriali già prevedono la possibilità di ospitare i lavoratori nei sottotetti o in baracche
annesse, gli industriali che cercano di migliorare le condizioni di vita dei lavoratori realizzano
fabbriche e villaggi, modelli di organizzazione razionale della produzione e di attenta
pianificazione urbana. Già nel Settecento il progetto di Ledoux per le Saline del Re, messo in
pratica nel villaggio di Arc et Senans, costituisce un 1° tentativo di organizzare uno
stabilimento produttivo integrando in un disegno unitario la fabbrica, le abitazioni e il rapporto
col territorio.
Sempre in Francia il villaggio di Mulhouse, in Alsazia, diventa riferimento per tutto l’800 sia
per il meccanismo finanziario usato sia per la tipologia architettonica urbanistica scelta; esso è
il frutto dell’iniziativa di un’associazione di industriali locali, la Société Mulhousienne des citée
ouvrières; l’ingegnere Emile Muller progetta un prototipo di villetta (sulla scorta del modello
fatto realizzare dal principe Albert per l’Esposizione Universale di Londra del 1851), a uno o
due piani fuori terra, di pianta quadrata, con due alloggi accostati, ciascuno con 3 arie e un orto-
giardino proprio; le case sono date agli operai in riscatto per un periodo di 15 anni con affitto
che comprende interesse sul capitale, ottenendo il duplice scopo di legare i lavoratori al posto di
lavoro e garantire la redditività dell’operazione.
La fabbrica modello fatta costruire da Sir. Titus Salt nel 1853 a Bratford (Uk) per la
produzione del tessuto di alpaca darà vita al villaggio di Saltaire (fig. 4.7), simile a New
Lanark. L’impianto elementare è caratterizzato da una rete viaria interna all’abitato disposta su
una griglia ortogonale, mentre i principali percorsi sono collocati lungo il perimetro. Fabbrica e
residenze sono divise dalla linea ferroviaria e dal parco. Il villaggio è costituito da 800 case
unifamiliari per i lavoratori, lo stabilimento, ospedale, scuola, bagni pubblici, ospizio, sale per
lettura, laboratorio scientifico, piazze alberate, palestra e chiesa.
Il villaggio di Saltaire si può confrontare con quello voluto da George M. Pullmann,
proprietario della omonima fabbrica di carrozze ferroviarie costruita alla periferia di Chicago a

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partire 1880. Incaricati del progetto sono l’architetto Solon Beman, il paesaggista Nathan
Barrett e l’ingegnere Benzette Williams per progettare un complesso industriale per circa 4.000
lavoratori; l’esito darà la Pullmann City (fig. 4.8), con l’obiettivo di raccogliere intorno alla
fabbrica la migliore manodopera. L’edificio produttivo è simmetricamente disposto a partire da
un corpo centrale e 2 torri laterali, arriverà ad ospitare 11.000 persone in 2.500 case. Il tipo
architettonico prevalente è la casetta unifamiliare con orto, ma anche chiesa, scuole, albergo,
negozi, e la City avrà il titolo di “città perfetta” all’Esposizione internazionale di igiene e
farmaceutica di Praga. Nel 1894 il sogno della armoniosa conciliazione lavoro-capitale era già
finito quando, a causa della crisi economica, il duro sciopero dei lavoratori viene represso col
sangue.
In Germania si ha una delle esperienze più vaste di filantropismo paternalista, quella degli
industriali dell’acciaio Krupp a Essen, che realizzano una serie di residenze operaie a partire
dal 1870 (fig. 4.9) dette Villaggio Krupp, arrivando ad ospitare 46.000 persone in 5 città
satelliti. Disposte secondo una maglia regolare e con molti spazi verdi, le case sono
inizialmente edifici a 3 piani per diminuire i costi, dopo viene adottata la tipologia cottage
(influsso inglese). Il potere neofeudale realizzato da Krupp si basa sulla inclusione dell’operaio,
che può usufruire di assicurazione e assistenza sanitaria, secondo una visione di controllo del
soggetto che, tolto dalla campagna, è incluso nella cultura borghese, una visione che si presterà
al regime nazista.
In Italia i primi villaggi operai fanno la loro apparizione solo dopo l’unificazione politica la
creazione di un grande mercato nazionale. Quello di Cristoforo Benigno Crespi a Capriate
San Gervasio (Bergamo) è uno tra i più caratteristici; egli decide di edificare a partire dal 1875,
in prossimità della filatura di cotone e sulle rive dell’Adda, una serie di abitazioni a tre piani
con più appartamenti per le famiglie dei suoi operai che si occupano della filatura del cotone,
dando vita al Villaggio di Crespi d’Adda (fig. 4.10). Il figlio Silvio Benigno subentra alla
direzione della fabbrica nel 1889 e varia il progetto urbanistico in seguito ad un viaggio in Uk,
adottando il sistema delle villette mono o bifamigliari con giardino. Inoltre, costruisce una
centrale idroelettrica per la fornitura gratuita di energia elettrica. Il complesso, terminato a
inizio ‘900, arriverà a contare circa 3000 dipendenti. L’impianto urbanistico è regolato da una
semplice scacchiera tagliata da un asse viario principale il cui fulcro visivo è costituito
dall’altra ciminiera della fabbrica. Il complesso, che dagli anni ’20 include anche le abitazioni
degli impiegati, ha in sé anche un ospedale, una scuola, un teatro, un centro sportivo. Tra le
costruzioni più simboliche ci sono la chiesa, il cimitero, gli uffici amministrativi e il castello
neo-medievale (dimora della famiglia Crespi). Il villaggio si è conservato nella sua interezza
(nonostante i passaggi di proprietà), oggi è oggetto di tutela ed è inserito nel patrimonio
UNESCO come “Esempio eccezionale del fenomeno dei villaggi operai, il più completo e
meglio conservato del Sud Europa”.
Un altro caso italiano di villaggio operaio è quello di Collegno (Torino) costruito a partire
dall’attività del cotonificio Leumann attivo dal 1875. Carlo G. N. Leumann decide la
costruzione dell’opificio in una zona esterna della città approfittando del ridotto costo di
acquisizione dei terreni agricoli e della presenza di canali d’acqua, nonché per la vicinanza con
il collegamento viario e ferroviario tra Torino e la Francia. Il villaggio è organizzato in 2
comprensori posti ai lati del grande stabilimento composto da circa 1500 operai. I due viali
alberati di accesso principali sono assiati uno sulla piazza del convitto e l’altro su quella della
chiesa e collegati trasversalmente da strade secondarie, con una disposizione a scacchiera. Tutti
gli edifici residenziali sono costituiti da palazzine a due piani fuori terra, gli edifici comuni
comprendono: scuola e convitto, albergo, ufficio postale, bagni pubblici e chiesa. Leumann era
anche promotore e finanziatore di numerose istituzioni di beneficienza e di assistenza; il suo

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insediamento costituisce un interessante banco di prova della nascente edilizia economico
popolare.
→La riforma della società industriale parte dai concetti di igiene morale, sociale e medica, e dal
progresso industriale, nel quadro di un controllo ferreo della forza lavoro.

4.4 LA CITTÀ PROGETTATA


Nel corso dell’Ottocento gli architetti vengono soppiantati da nuove figure di
urbanisti/ingegneri che usano la tecnica come principale mezzo di costruzione e trasformazione
della città. L’urbanistica viene definita disciplina scientifica. Con la repressione dei moti del
1848 i governi controrivoluzionari attuano un’urbanistica autoritaria che riorganizza città e
colonie.
In FRANCIA, l’alto livello tecnico degli ingegneri usciti dall’École Polytechnique, un’avanzata
legge urbanistica dovuta alla Repubblica e le capacità del barone Hausmann, prefetto della
Senna dal 1853-69, rendono la trasformazione di Parigi un caso esemplare che si porrà a
modello per numerosi altri interventi. Il barone Georges Eugéne Haussmann dirige i lavori
stradali, edilizi, idraulici, realizza aree verdi e dà vita a un’inedita gestione amministrativa della
città; è quello che viene definito come piano Haussmann (fig. 4.12). Con l’apertura di nuove
strade e con la soppressione di vecchie, si realizza una nuova maglia da sovrapporre a quella
medievale che spazza via interi quartieri fatiscenti e popolari. Le nuove ampie arterie rettilinee,
funzionali ai movimenti delle truppe, determinano l’altezza delle costruzioni e permettono di
garantire luce e aria a tutte le abitazioni. Vengono costruiti uffici amministrativi, caserme,
scuole, ospedali, prigioni, biblioteche e mercati. La consapevolezza del ruolo del verde come
luogo di svago assegna alla progettazione e conservazione di parchi pubblici molta importanza,
testimoniata da nuovi parchi come Bois de Boulogne, Bois de Vincennes e alcuni altri giardini
minori. La sistemazione idraulica è uno delle iniziative più importanti per intervenire
sull’igiene, quindi si ha un ammodernamento della rete idrica e la costruzione di quella
fognaria, quadruplicando le linee e realizzando collettori che portano a valle tutti gli scarichi
nella Senna. Viene triplicato l’impianto illuminazione a gas, costruito nuovo cimitero e
riordinato il trasporto pubblico. Da un punto di vista amministrativo la città incorpora una serie
di comuni limitrofi riorganizzando gli originali arrondissement in nuove delimitazioni basate
sul decentramento. L’intervento urbanistico che porta alla demolizione di circa 27mila case e
alla costruzione di altre 100mila, è reso possibile dalla Legge sull’esproprio della Prima
Repubblica (dal 1850); in pratica l’aumento di valore delle aree urbanizzate viene in gran parte
incamerato dai vecchi proprietari anziché dal Comune. Le conseguenze in termini di
produttività generale e di crescita del reddito globale della città permettono così all’intervento
promosso dal Comune di finanziarsi da solo. Il bilancio dell’opera di Hausmann è ancora al
centro delle riflessioni sull’urbanistica; la prevalenza del potere esecutivo fu segnale di scarsa
democrazia, mentre l’aumento delle rendite e delle speculazioni dei privati mostrò l’ingiustizia
sociale.
Il modello Haussmann avrà seguito in altre città europee tra cui VIENNA. A Vienna,
l’abbattimento delle mura consente di realizzare tra 1860-90-90 il Ringstrasse, un’ampia strada
anulare alberata che permette di pianificare razionalmente nuovi quartieri e di realizzare edifici
pubblici (fig. 4.13). La città storica viene preservata, rispetto a Parigi, e si ottengono aree libere
da destinare a giardini, edifici statali come Parlamento o Università, teatri e biblioteche.
A BARCELLONA la demolizione delle mura incoraggia un piano di ampliamento avviato dal
1859 sotto alla guida dell’ingegnere Ildefonso Cerdà, autore di un accurato rilievo
sull’esistente, a cui il governo affida il progeto. Il piano si basa su una griglia regolare di
espansione per assicurare l’equivalenza di tutti i lotti edificabili e il loro corretto orientamento
in rapporto al sole, ai venti prevalenti e alla visibilità. Il reticolo ortogonale, orientato verso il

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mare, è tagliato da cinque diagonali di grandezza variabile dai 60-80 metri, che si incontrano in
una grande piazza destinata a diventare il nuovo centro urbano (fig. 4.14). La larghezza delle
strade è proporzionata all’altezza degli edifici e i caratteristici isolati (manzanas), ancora molto
riconoscibili con angoli smussati per facilitare la circolazione e formare piazze. Il piano di
Barcellona ha la caratteristica di riuscire a raccordare la città antica all’espansione nuova con
un disegno teoricamente illimitato. Tuttavia, i lotti sono stati edificati su tutto il perimetro
arrivando a densità abitative molto forti che non risolveranno i problemi di congestione urbana.
A MADRID nel 1894 viene realizzato il primo tratto di ciudad lineal=città lineare, un’idea
esposta nel 1882 dall’ingegnere Arturo Soria y Mata. Per far fronte al congestionamento della
città che si è sviluppata concentricamente attorno al nucleo storico, egli propone un’alternativa
costituita da un nastro edificato largo circa 500 metri, che può estendersi indefinitamente
collegando una città ad un’altra; tale nastro adotta un sistema di case unifamiliari, con giardino
e orto, edificato ai 2 lati di un’ampia strada alberata, dotata di linea ferroviaria (fig. 4.15). Il
progetto prevede un anello da svilupparsi attorno a Madrid, da parte di investitori privati, ma
sarà realizzato solo in una piccola parte e nel tempo sarà cancellato dalla caotica espansione
urbana. Anche se la proposta di città lineare sembra interessante per la ricerca di un razionale
rapporto tra sistemi di sviluppo urbano e trasporto, essa è debole dal punto di vista di modelli
insediativo e del rapporto tra abitazione e luogo di lavoro.
In ITALIA, nella seconda metà dell’800, le maggiori trasformazioni urbane avverranno
durante il regime fascista. Tra i numerosi esempi di modernizzazione urbana, appaiono
particolarmente significativi gli interventi legati al processo di unificazione nazionale che pone
di dare vita successivamente a 3 capitali: Torino, Firenze e Roma.
A TORINO il processo di creazione di una capitale era già iniziato durante l’ancien regime, nel
XVII secolo, con la creazione di una griglia di strade e piazze in continuità con gli assi della
prima sedimentazione urbana di origine romana. La stretta relazione tra architettura e spazi
pubblici continua nell’Ottocento con la realizzazione di piazza Vittorio Emanuele I, delle
espansioni verso sud - corso Vittorio Emanuele II, e verso nord - piazza Emanuele Filiberto.
Nel breve periodo di capitale dello Stato vengono riadattati numerosi edifici pubblici a sede di
ministeri e vengono fatti interventi nella zona centrale (con slarghi e nuove strade). Sono spesso
interventi che si basano sul principio del diradamento e incidono pesantemente sul tessuto
storico.
Il progetto di FIRENZE come nuova capitale dal 1864 è esperienza di impronta
Haussmaniania, si pone il problema del rapporto tra nuove funzioni urbane e monumenti
storici. Abbattute le mura, Giuseppe Poggi, a cui è affidato il progetto di ampliamento,
realizza un anello di nuovi quartieri collegato da un viale alberato con alcune piazze
scenografiche dove raccorda in stile neorinascimentale gli edifici circostanti e isola+preserva le
porte trecentesche. Ingloba il Cimitero degli inglesi nel piazzale Donatello e crea la passeggiata
che culmina in Piazzale Michelangelo. Gli interventi previsti nel centro producono lo
sventramento della zona del mercato vecchio, ma sono fermati dalla crisi. Gli interventi di
Poggi sono il frutto della prima larga applicazione di esproprio per “pubblica utilità” e
mostrano attenzione tra antico e nuovo, affrontando anche il tema del progetto del paesaggio.
A ROMA, che nel 1870 ha 200mila abitanti, la nuova dotazione di edifici pubblici legata alla
costruzione della capitale del nuovo Stato è affrontata in un primo tempo con la collocazione di
ministeri e uffici in antichi conventi e palazzi d’epoca, a seguito dell’alienazione di una parte
cospicuo dei beni di enti ecclesiastici. A Roma non si abbattono le mura e non si sviluppano
grandi programmi urbanistici, nonostante i contatti di Crispi con Haussmann, il piano della
Commissione di esperti nominati dal generale Cadorna e un piano regolatore poi non
approvato. Interventi significativi saranno: l’apertura della Via Nazionale, il Palazzo delle
Esposizioni (di Pio Piacentini), la Banca d’Italia (di Gaetano Koch), il Palazzo di Giustizia (di

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Guglielmo Calderini), i notevoli lavori stradali e la rete fognaria, sistemazioni per le sponde del
Tevere.
La nuova visione degli ingegneri igienisti, sviluppata da una generazione di medici impiegati
socialmente e politicamente nella riforma urbana e nello sviluppo di una legislazione adeguata
alla cura e prevenzione di malattie, è alla base degli interventi di fine secolo improntati
principalmente al taglio e al diradamento dei tessuti antichi e alla costruzione di nuovi quartieri
con migliori caratteristiche igienico edilizie.
A seguito dell’epidemia di colera di Napoli del 1884, è varata la legge del 1885 per il
risanamento di Napoli, che prevede forme di esproprio più agili per l’amministrazione pubblica
e maggiormente remunerative per i proprietari e fondi per i lavori di ristrutturazione e
risanamento delle case fatiscenti della città. Si incide il tessuto storico con il corso Umberto I,
lungo più di 1 km, che collega la stazione al centro, si costruisce la Galleria coperta Umberto I
e il nuovo quartiere altoborghese del Vomero (nuovi palazzi pubblici). Permettono una migliroe
viabilità e la costruzione di nuovi palazzi pubblici, ma sono un mascheramento del restante
tessuto urbano che è ancora insalubre.
A Genova, la sistemazione di Piazza De Ferrari e la realizzazione di via XX Settembre sono
parte del piano di ammortamento della città e miglioramento della viabilità.
A Milano, Giuseppe Mengoni avvia la ridefinizione della piazza del Duomo, con la costruzione
della Galleria e il risanamento delle zone adiacenti. Iniziano i lavori con la copertura dei canali
e vengono realizzate: la stazione Centrale 64 e quella di Porta Genova 65. Lo sviluppo urbano
intenso viene affrontato con due piani dell’ingegnere capo Cesare Beruto che prevedono
espansione epriferica secondof asce circolari intorno alla cintura dei bastioni spagnoli
In Inghilterra, patria delle proposte utopistiche di Owen, l’impiegato del parlamento Ebenezer
Howard nel saggio Tomorrow, a peaceful Path to real Reform propone l’idea di garden city,
un sistema insediativo in grado di risolvere il problema del conflitto tra città e campagna. Allo
scopo di diffondere i principi fonda la Garden City and Town planning Association e dà vita ad
una rivista. Nell’immagine che rappresenta la sua proposta si vedono 3 magneti attrattori della
popolazione (fig. 4.16): da un lato quello della città, opportunità e comodità ma affollata e nel
fumo dell’industria; dall’altro quello della campagna salubre ma priva di servizi; tra i due è
inserito il magnete della città giardino, compromesso tra le parti. La Garden City ha un parco
centrale attorno al quale si sviluppano le aree residenziali a bassa densità, con casette
unifamiliari dotate di verde per l’autosufficienza alimentare del nucleo abitativo, servite da viali
e servizi, negozi, teatro, chiesa, zone amministrative per rendere questi centri autonomi ma ben
collegati tra loro con la linea ferroviaria. Howard non entra nel merito dell’aspetto tecnico-
formale della nuova città ma approfondisce gli aspetti sociali e economici della sua proposta,
descrivendo con rigore le tipologie abitative e produttive, le quantità di terreno e i tempi.
Howard tenterà di mettere in pratica le sue idee, dapprima con Letchworth, 50 km da Londra,
una città giardino disegnata per 35.000 abitanti, ma non riuscirà a svilupparsi secondo le
previsioni, poiché non raccoglie il capitale necessario; poi con il progetto di Welwyn per
50.000 abitanti, più vicino alla capitale, con riduzione della fascia agricola e con minori spazi
verdi, e che raggiunge un numero più consistente di popolazione, ma perde il suo carattere di
autosufficienza, per diventare un sobborgo di Londra. Il modello della città giardino è ripreso in
tutto il mondo, ma esaurisce il suo valore di una nuova visione della città e fornirà la
giustificazione teorica ad un uso privato dei suoli, senza riuscire a realizzare l’equilibrio tra
residenza servizi e attività produttive.
Gli insediamenti estensivi si traducono in alto consumo dei suoli liberi con conseguenze sociali
e ambientali negative.
A fine secolo la prevalenza dell’approccio scientifico che investe in disegno urbano con le
iniziative degli ingegneri e dell’urbanistica alla Haussmann provoca disagi. L’architetto

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viennese Camillo Sitte nel suo L’arte di costruire la città tenta di riportare la questione
dell’estetica al centro della pratica urbanistica, convinto che la città non possa essere
considerata solo dal punto di vista tecnico ma anche da quello estetico. Egli esamina una serie
di città antiche e moderne per mettere in evidenza i principi della composizione che producono
armonia. All’autore interessa la disposizione dei vuoti e dei pieni, la dislocazione degli edifici e
la percezione che l’individuo ha dello spazio urbano. La piazza secondo lui deve essere una
sorta di teatro all’aperto, nelle città moderne hanno abbandonato quelle semplici regole
compositive che ne costituivano il fascino e avvaloravano la qualità estetica di edifici e
monumenti. Sitte afferma che la linea dritta e l’angolo retto caratterizzano una composizione
edilizia senza sensibilità, quindi il rettilineo è un elemento infelice. Secondo Sitte la città è
un’opera d’arte, la città deve essere città-architettura.

Cap. 5 - Notizie dal Nuovo Mondo


La cultura progettuale statunitense, dopo una fase di assunzione dei linguaggi europei, tende a
differenziarsi notevolmente, soprattutto per quanto riguarda i modi di produzione e
l’organizzazione del lavoro. Mentre in Europa durante il XVIII-XIX sec. si sono perfezionati
sia capacità tecniche individuali e di categoria, sia i linguaggi formali, negli Usa sono
praticamente inesistenti i linguaggi autonomi condivisi. Gli edifici di rappresentanza
continuano a riproporre modelli Gregoriani, Vittoriani e genericamente storicisti, e sono quasi
assenti competenze specifiche per la realizzazione di edifici interni e oggetti comparabili alla
produzione europea. In Nord America il sistema industriale è applicato essenzialmente alle
lavorazioni primarie (tessitura, macinatura e fonditura), perché troviamo molte materie prime
rispetto all’Europa. In Usa inoltre l’abbondanza di materie prime, il ritardo degli effetti
dell’industrializzazione, la scarsità di manodopera ad alta professionalizzazione, configurano
un sistema industriale che tende a meccanizzare i mestieri complessi, infatti nel 1851 gli
Americani portano a Londra un gran numero di prodotti industrializzati, come i patented
furniture ossia i semplici mobili meccanici per la casa e l’ufficio. Dal punto di vista del
progetto, c’è una fortissima tendenza all’anonimo e l’adesione a un razionalismo formale
pragmatico.

5.1 COMPONENTI EDILIZI E PROVE DI PIANIFICAZIONE


La progressiva industrializzazione per fasi e componenti che investe i modi produttivi
statunitensi coinvolge parecchio anche l’architettura. Pochi luoghi scelti (capitali, sedi
universitarie, musei) beneficiano delle competenze e dei progetti di derivazione Europea, ed è
sostanzialmente Washington a vedere la progressiva elevazione di edifici alienati al gusto
classicista per esplicita impostazione del piano urbanistico voluto da George Washington nel
1791 e realizzato dall’architetto francese Pierre-Charles L’Enfant, che concepisce una
maglia ortogonale che ospita gli edifici governativi all’estremità degli assi (dalla White House
al Campidoglio). Per resto delle architetture gli edifici per abitazione, costruzione, produzione e
commercio sono semplici costruiti in legno, materia prima molto abbondante.
I modi da falegname vengono soppiantati dall’avvio della lavorazione del legno nelle segherie
industriali e dalla produzione automatizzata di chiodi e piccola ferramenteria (fig. 5.1). Il
risultato è la cosiddetta casa a balloon frame, dove lastre e listelli in legno legati
esclusivamente da chiodi fatti a macchina, costituiscono lo scheletro e il rivestimento
dell’edificio, portando enormi risparmi in termini di denaro e tempo e avviando
l’industrializzazione del processo edilizio, la quale porta per ad una continua corsa a brevetti
per migliorare e accelerare la costruzione. La balloon frame probabilmente è stata ideata da
George W. Snow, imprenditore che studiò agrimensura e ingegneria, ed ha uno scheletro che
può assumere molte forme e essere rivestito in modi differenti (con asticelle, scandole e tavole).

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Grazie alla costruzione a balloon frame piccoli villaggi che sorgono nei vari punti delle prime
strade tracciate verso l’ovest possono diventare delle città di dimensioni ragguardevoli (es: San
Francisco); si tratta anche di un vero e proprio processo di accelerazione della costruzione.
Questo sistema costruttivo corrisponde e si incrocia con altre innovazioni che riguardano
l’occupazione e il valore dei terreni, conseguenza della colonizzazione interna.
Un processo simile riguarda un’altra invenzione tecnologica: nel 1850 James Bogardus
brevetta un sistema in acciaio per strutture, coperture e piani di calpestio per edifici (fig. 5.3).
Bogardus è un industriale e un inventore (ha il brevetto di una usatissima macchina per la
filatura del cotone, per una macchina tipografica per francobolli e banconote, e per una mola
eccentrica per la finitura delle lenti), che propone un contributo esclusivamente tecnico. Il
sistema della struttura in ferro, sperimentato nella sua fabbrica di NY a fine anni ’40, si
presenta come un vero e proprio modo per la prefabbricazione, simile a quello di Paxton in Uk
ma molto semplificato; le componenti sono completamente industrializzate; il sistema è
composto da semicolonne stampate in ghisa, travi per le strutture orizzontali e tetti, listelli per
le pavimentazioni e le coperture in acciaio. Con il suo sistema abbiamo robustezza e bellezza
con leggerezza.
Dagli anni ‘50 a NY compaiono edifici multipiano destinati a nuove imprese produttive e
commerciali (fig. 5.4), costruiti rapidamente e completati, negli spazi compresi nel telaio della
struttura e nelle divisioni interne, con soluzioni diverse e con materiali prefabbricati che
assecondano la ricerca della qualità architettonica e decorativa. Sono edifici costosi, nei quali le
aziende investono con volontà di innovazione. L’aumento della dimensione della città (fig. 5.5),
contribuisce a diffondere il mito del self made man, avviato da Benjamin Franklin, archetipo di
colui che con studio, dedizione e duro lavoro ottiene condizioni economiche migliori e ruoli
importanti nella nuova società americana. Nel 1895 l’afro-americano Frederick Douglass
formalizza la visione dell’uomo che si fa da sé in un famoso discorso, in un momento in cui è
già iniziato un dibattito teorico sulla città. Nella prima metà del XIX sec., infatti, l’indifferenza
verso i caratteri formali dell’architettura fuori dalle sedi istituzionali è riconducibile alla
mancanza di “architetti laureati” ma anche a un sistema di decoro urbano e decor detto laissez
faire.
L’apparente rigidità del tessuto urbano statunitense, basato a partire da Philadelphia sulla
griglia ortogonale, lascia totale libertà agli investitori privati sui sistemi di sfruttamento dei
suoli, radicalmente diversi rispetto a quelli della città europea. Grazie alla manodopera a basso
costo, alla ricchezza derivata dall’acquisizione di terreni e dalle risorse sottratte ai nativi, i boss
dell’edilizia possono usare la griglia urbana come terreno neutro per un processo edilizio che
guarda solo ai plusvalori delle rendite. Quindi l’unione tra la griglia urbana e la costruzione
balloon frame è la soluzione alla necessità di promuovere e concretizzare i processi di
inurbamento, senza che gli immigrati rischino di cadere nel degrado urbano. Il dibattito tra
architetti su quali caratteristiche debbano avere le città americane è vivacissimo, e si sintetizza
in 2 tendenze: Park movement, guida l’urbanizzazione e i tentativi di formare nuovo assetto
sociale; City beautiful movement, nasce con Esposizione di Chicago, rapporto del verde con
tessuto urbano.
Entrambi sono legati alle vicende di grandi città americane e portano la firma dei fondatori della
disciplina.
Il dibattito intorno ai parchi urbani deriva dalla spinta del pittoresco che viene importato
dall’Inghilterra, dove è già presente da un secolo, da Jackson Downing, a seguito di un viaggio
in Europa e del suo interesse per unire il romantico europeo e l’approccio scientifico
dell’interesse per orticultura e botanica; l’eredità della sua opera si traduce nel progetto per il
Mall di Washington del 1851, che consiste nella costituzione di un movimento di opinione che
richiede, progetta e pubblicizza parchi pittoreschi nelle grandi città. Tra il 1851-53 a New York

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si realizza Central Park nel cuore di Manhattan su progetto di Frederick Law Olmsted e
Calvert Vaux (fig. 5.8). L’idea che sta alla base di buona parte dei parchi urbani Usa è quella
di tradurre pragmaticamente le utopie europee sulle città giardino e sulle comunità ideali,
affidando alla natura il ruolo di catalizzatore sociale, estetico, funzionale della città in
espansione. Il verde urbano promosso dal Park Movement diviene base di un sistema di
progettazione urbana. Il parco, ben separato dal tessuto urbano ma permeabile ad esso (a
differenza dei parchi europei, dove le vie urbane penetrato l’assetto naturale), è simbolo
dell’assenza di segregazione classista e motore di retribuzione della ricchezza. Su questa scia
citiamo i piani e i sistemi di parchi per Boston, ancora controllati da Olmsted tra 1868-90 e
moltissime esperienze per le quali egli è consulente a NY, SF, Chicago, Detroit. Il movimento
per i parchi si esaurisce a fine secolo, ma oltre a motivare l’inaugurazione di una vera e propria
disciplina cioè l’architettura nel paesaggio, subisce una rielaborazione da parte di un altro
movimento cioè il City Beautiful Movement.
Non si tratta di un’oppposizoone al movimento dei parchi, quanto di un diverso punto di
vista/partenza che trova nelle città dove i parchi erano nati i più interessanti sviluppo. Dove i
parchi erano divenuti ossatura dello sviluppo urbano, il problema della qualità architettonica
diventa centrale. A Washington, città monumentale per eccellenza, si sviluppa il progetto di
concretizzare in monumento dello Stato l’idea di armonia tra lo sviluppo urbano incontrollato
gestito dai boss e l’ideale riformatore del Park Movement. La sintesi è il piano McMillan, dal
senatore che presiedeva la Park Commission e che nel 1902 vara un ridisegno del cuore della
capitale per celebrarne il centennale, facendo rimpiazzare gli slums e il degrado, così che il
grande asse del Mall diventa tracciato verde e facciata urbana per rappresentare l’assetto
politico.
Le grandi città vengono investite dalla doppia azione dei pianificatori, Daniel Burnham
(autore di molti piani negli stati Uniti), e degli architetti che punteggiano la città con “edifici
belli” ispirati ai linguaggi e agli edifici dell’antichità. Lo studio degli architetti Charles Follen
McKim, William Rutherford Mead e Stanford White (sostenitori del movimento City
Beautiful) realizza a New York e nelle altre città edifici estremamente moderni e funzionali,
dotati di tutte le innovazioni strutturali che riprendono modelli del Rinascimento italiano per
committenze dei grandi tycoon, nella fase di crescita economica e allo stesso tempo di conflitti
sociali detta Guilded age, per la municipalità o per le grandi compagnie di infrastrutture, come
la Pennsylvania Station del 1902-11 che riprende il modello di Caracalla. L’obbiettivo per tutti
è unire qualità architettonica al disegno riformatore della città.
→La “città nel giardino”, la “città dei monumenti”, la “città autostrada” e la “città altezza” sono
tutte formule che combinano diverse scale di progetto e contribuiscono a costruire la sostanza e
l’immagine della città americana tra Ottocento e Novecento.

5.2 LA CITTÀ ALTA, LA CITTÀ BELLA


È Chicago la città che, più di ogni altra, sintetizza le diverse spinte di espansione interna,
industrializzazione, crescita economica, conflitti sociali e sviluppi del disegno urbano e
dell’architettura del sistema americano. I motivi sono molti e articolati:
- Crescita vertiginosa da piccolo villaggio di 350 abitanti a trasformazione in una grande città di
100.000 abitanti nel 1860 e 300.000 nel decennio successivo;
- Chicago “Città autostrada”: punto di partenza per l’approvvigionamento della corsa all’ovest,
per le compagnie ferroviaria, per la fornitura di cibo e strumenti per il viaggio dei coloni;
- Luogo di lavoro per decine di migliaia di white collars impiegati nelle imprese più diverse,
addetti alle fonderie, macelli, centri di stoccaggio del grano, che avrebbero poi resa la città
nera a causa dell’inquinamento, cattive condizioni igieniche, e conflittualità sociale;

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- Sede di grandi stabilimenti industriali, di slums, ma anche luoghi per la borghesia: teatro (fig.
5.11), grandi magazzini, serviti da trasporto pubblico e distribuiti in maniera disomogenea,
secondo la logica dei laissez faire, su griglia ortogonale (fig. 5.12).
Nell’ottobre 1871, come avveniva spesso nelle nuove metropoli fatte prevalentemente di legno,
a Chicago divanta il Great Fire, un incendio di 3 giorni che lascia senza casa 90.000 persone;
esso offre terreno vergine alle riflessioni sulla città, sullo sfruttamento dei lotti urbani,
cavalcando l’ideologia del boosterism (=incentivo/spinta) all’insegna del progresso e
dell’innovazione.
Dopo il Great Fire è di legno la 1° costruzione edificata e celebrata come simbolo di rinascita di
Chicago (fig. 5.12), costruita con il metodo balloon frame. La città viene comunque ancora
costruita senza regole infrastrutturali, perciò come un miscuglio tra edifici agricoli e chiese,
case di mattoni e primi edifici alti. Dopo il Great Fire si costruisce il cosiddetto loop, un’area di
9 isolati disegnata dal Chicago River, usato come via d’acqua per le merci; esso viene
progressivamente servito da mezzi di trasporto pubblici per il trasporto degli impiegati,
sostenendo la crescita economica prima interrotta e questa è la prima fase della ricostruzione,
focalizzata su infrastrutture e involucri per la produzione, all’insegna del “grande e numeroso”,
con più di 10mila licenze edilizie assegnate. È così che nasce la Chicago School, un momento
della storia della costruzione e dell’architettura, una scuola composta da progettisti di diversa
provenienza e formazione, quasi tutti attirati a Chicago dalle possibilità di lavoro dopo
l’incendio. Fra loro William Jenney, nato in Massachusetts, viaggia a Parigi e termina la
formazione all’Ecole Centrale d’Art e Manifacture, la stessa dove studiava Gustave Eiffel; si
trasferisce a Chicago nel 1867 e si dedica al progetto dei sistemi dei parchi (West Park System
1869) sulla scorta del Park Movement, dove incrocia Olmsted per il disegno del Riverside, un
sobborgo verde della città destinato all’alta borghesia. Nello stesso anno insieme al suo socio
Sanford E. Loring pubblica I principi e la pratica dell’architettura, testo autopromozionale nel
quale si accenna ad un’architettura moderna americana e alla necessità che la costruzione si
affidi ad architetti e non a chi pratica l’edilizia all’insegna del risparmio economico; i
riferimenti guardano a ciò che proviene in Europa, alle città operaie promosse da Napoleone III.
È la rivendicazione del ruolo dell’architetto con un occhio all’efficienza dei materiali. Per lo
studio Jenney l’incendio costituisce una grande occasione per costruire in altezza nel centro
urbano e concentrare le funzioni amministrative. Nel 1878 Jenney progetta il First Leiter
Buiding (fig. 5.13), costruito fra 1879-81, un grande magazzino relativamente alto (5 piani, poi
7), con struttura a scheletro in acciaio interamente rivestita in terracotta, produzione a Chicago
in crescita, ignifuga, servito da elevatori (brevetto Elisha Otis). Gli orizzontamenti sono ancora
in legno, e all’esterno presenta, probabilmente su richiesta del Building Departement, qualche
accenno di lesene nelle parti verticali con formelle a guisa di capitelli e accenno di cornicione
nella parte superiore. Questo fabbricato è un esempio di edificio onesto, segue le indicazioni
che l’autore ha affermato in sede teorica. Si presenta per quello che è, senza commistioni tra
struttura metallica e pannelli di finitura ad arco o opachi come gli edifici di New York di
Bogardus. L’ingegneria apparsa in Facia e applicata ai sistemi di fortificazione che ha
impiegato durante la Guerra Civile, oltre alle competenze sulle proprietà dell’acciaio, vengono
utilizzate da Jenney per il suo progetto di edifici sempre più alti e sempre più vicini a strutture
leggere e sicure, come nel caso dell’Home Insurance Building del 1883-84, in acciaio nelle
parti orizzontali e verticali con solai in laterizio e rivestimento totalmente portato. Jenney ha
come tirocinanti diversi degli architetti che comporranno la Chicago School: Daniel Burnham,
John Henry Sullivan, John Welbourn Root, William Holabird e Martin Roche.
Con l’avvio del decennio seguente inizia la 2° fase di costruzione di Chicago, che prevede la
diffusione di edifici alti, con potenziamento delle reti infrastrutturali e l’ingresso di centinaia di
migliaia di lavoratori. I grattacieli sono costruiti solo per alti funzionari o grandi alberghi,

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perciò non hanno nulla a che vedere con i quartieri operai, che sono costruiti ancora il legno e
costituiscono una sacca di degrado, focolaio di tensioni sociali, che causa un tasso di
inquinamento dei terreni e delle acque. Nel decennio 1880-90 molte altre innovazioni tecniche
si mettono al servizio della costruzione in altezza che deve essere rapida ed efficiente: le
fondazioni che incontrano sacche di terreno argilloso vengono posate su griglie composte dagli
stessi trafilati metallici destinati alle rotaie dei treni, diventando delle sorte di zattere che
stabilizzano l’edificio senza effettuare scavi profondi, così che i tempi di costruzione vengono
notevolmente ridotti, anche grazie all’aggiunta del sale al calcestruzzo così che possa essere
gettato con temperature inferiori allo zero e con l’uso dell’illuminazione elettrica (Edison
brevetta la lampada a incandescenza nel 1880). Con la Prima Grande Depressione del 1873-95,
che colpisce il sistema americano, gli investimenti delle compagnie a Chicago sono ingenti, a
fronte di un continuo innalzamento dei prezzi dei lotti di terreno che determina da una parte la
crescita in altezza degli edifici e dall’altra la ridotta distanza tra gli edifici stessi. Sempre
Jenney rende sempre più indipendenti l’ossatura metallica dell’edificio e il suo rivestimento nel
Manhattan Building (fig. 5.14) del 1889-91, dove gli intervalli tra i pilastri nella prima decina
di piani sono ritmati da volumi aggettanti detti bow-window, scanditi da aperture tripartite dette
Chicago Window, in modo da catturare quanta più luce possibile dalla buia strada di affaccio,
mentre gli ultimi piani sono privi di aggetti e godono di luce diretta. Le facciate assumono il
ruolo di involucro della struttura e si possono piegare alle esigenze sia funzionali che formali,
portando o meno elementi decorativi. Questi possono essere impressi nelle formelle laterizie
ignifughe o trasformando i pilastri in colonne ornate di capitelli come nel Fair Building del
1891 (fig. 5.15), dove i primi due piani sono vetrati e i pilastri si sviluppano in un ordine
gigante che abbraccia i 5 piani e termina con capitello ionico.
il tema della composizione di affacci dei grattacieli è complesso ma non è oggetto di una vra
discussione e i progettisti, a seconda della committenza, delle risorse e delle necessità attuano le
loro scelte. La spinta è esclusivamente pragmatica, come illustra Root, autore con Burnham
del Monadnok Building del 1885-90 (fig. 5.16); si ha qui assenza di decorazione, di uso degli
ordini o di citazionismi storicistici; ad esempio l’uso della Chicago window, a 3 specchiature,
offer spesso la possibilità di conferire ritmo alla facciata dell’edificio e di poter rinunciare a
ulteriori decori, soprattutto in casi dove i progettisti hanno solo competenze tecniche come nel
Marquette Building, di Holabird e Roche del 1894.
Meno neutro è il Departement store Marshall Fields del 1885-87 (fig. 5.17), di Henry
Hosbon Richardson. Dopo l’Ecole des Beux Arts a Parigi porta in patria la padronanza di un
linguaggio per trovare una via per l’architettura americana, non solo aulica e celebrativa, con
monumentalità moderna e vicina alle radici del paese. Lo scheletro è avvolto da un involucro di
conci di pietra sbozzati interrotto da ordinate e ritmiche serie di aperture arcuate che rimandano
alle sequenze di archi sovrapposti e digradanti delle opere di ingegneria romane. Richardson si
misura con moltissimi temi in diverse città del New Englandm, dalle biblioteche alle chiese,
alle stazioni ferroviarie, alle case private, quasi sempre seguendo le tracce di un medioevo
domestico risolto con materiali dotati di consistenza speciale, come blocchi di pietra. A
Chicago realizza pochi edifici, il magazzino e case private, ma nella città egli fonde le
sperimentazioni precedenti nel tipico edificio simbolo della modernità cioè il luogo per il
commercio.
Una linea simile viene proposta da Louis Henry Sullivan e Dankmar Adler, giunto a Chicago
dopo l’incendio, soci dal 1881 e autori del nuovo Auditorium cittadino del 1886-89 (fig. 5.18).
Il volume parallelepipedo del teatro, modernissimo dal punto di vista delle strutture in acciaio,
delle attrezzature, degli impianti e della destinazione (si tratta di un edificio misto con bar,
ristorante, albergo e negozio), adotta una scansione esterna delle pareti simili al Marshall field,

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combinando pareti ed archi in modo da dare carattere al complesso. Decorazioni molto presenti
all’interno.
Richardson e lo studio di Adler and Sullivan sono entrambi occupati a cercare l’unione tra la
funzionalità e la bellezza, facendo coincidere questa ricerca con quella intorno ai linguaggi
storici o con la necessità di un linguaggio figurativo e simbolico. Sullivan, che passa in
rassegna le fasi della sua carriera in Autobriografia di un’idea del 1924, racconta il programma
che lui e Adler avevano pensato, e la narrazione suona come un manifesto; l’idea è
sperimentare un’architettura che obbedisca alle sue funzioni, sia realistica, basata sulle
necessità, l’architettura potrebbe diventare di nuovo viva se si segue questa formula. Nei 256
progetti preparati prima di separarsi, lo studio Adler and Sullivan sperimenta quella formula in
varie declinazioni. La loro opera è stata spesso interpretata come il versante storicista della
Chicago school, soprattutto per via delle modalità di partizione dei volumi in particolare degli
edifici alti che si distendono da un basamento massiccio, un volume slanciato e segnato da
lesene in corrispondenza dell’ossatura e una conclusione in forma di coronamento, come nel
Guaranty Building a Buffalo. Il rapporto tra forma e funzione non è
astratto/intellettualistico/ideologico ma estremamente pragmatico e prende ispirazione dal
processo che in natura si verifica a partire dalle condizioni ambientali. Adler e Sullivan sono i
progettisti che più interpretano il ruolo fondamentale che la natura assume in parte della cultura
americana come modello di crescita e come immagine dei contrasti e delle tensioni evidenti.
Sullivan ad esempio descrive come dovevano essere i grattacieli: la bellezza e l’ispirazione
risiedono nell’elevatezza, nella snellezza e nell’aspirazione cioè la tensione a salire dalla terra.
Negli anni 1880-90 Chicago è malsana, c’è immondizia e febbre tifoide, prostituzione,
criminalità, gioco d’azzardo, povertà; dai viaggiatori ricaviamo che a NY, neanche nella
stazione peggiore, c’era mai stata tanta sporcizia come a Chicago.
Una soluzione, voluta fortemente da tutti i grandi finanzieri e industriali della città, appare
essere la grande Esposizione per la celebrazione dei 400 anni della scoperta dell’America: la
World’s Fair: Columbian Exposition del 1893 diviene l’occasione per opporre alla Chicago
“città nera” una nuova “città bianca”, che concretizzi i principi del movimento City beautiful
(fig. 5.20). La responsabilità del progetto urbanistico è data a Daniel Burnham, in
collaborazione con Olmsted per il tracciato degli isolati e del verde. 10 architetti furono
coinvolti nella faraonica impresa che voleva far dimenticare le meraviglie dell’Esposizione di
Parigi del 1889. Gli investimenti e gli sforzi sono inimmaginabili e, pur trattandosi perlopiù di
edifici effimeri in stucco e legno, in molti vengono impiegate soluzioni tecnologiche
all’avanguardia con sperimentazioni e non pochi incidenti. Si tratta della formula della “città
bella” che riunisce in unico organico disegno urbano organizzato su assi armonicamente
disposti a quanto stava avvenendo nella Parigi di Napoleone III; colonne, porticati come
pretesto per sostenere gigantesche cupole e immense coperture di vetro. Il frenetico lavoro di
Burnham per la mostra si sovrappone a quello per i grattacieli; l’ambivalenza delle scelte
formali è evidente: l’ala nord del Monadnock Building del 1881-91, edificio per uffici,
scheletro di acciaio e rivestimento in pareti di mattoni portanti è quasi privo di decorazioni,
secondo il volere degli investitori, mentre accurata è la disposizione delle aperture per
l’illuminazione degli uffici; dall’altra parte il Mansonic Temple (fig. 5.21) e il Woman’s
Temple presentano solidi basamenti e coronamenti. Il valore simbolico e comunicativo
dell’edificio gioca pur adottando un sistema simile, presentano solidi basamenti e coronamenti
che ripropongono tetti a falde o torricini medievali. Il valore simbolico dell’edificio gioca un
ruolo condizionante, indirizzando maggiore o minore uso della decorazione.
Dopo l’esposizione l’amministrazione commissiona a Burnham un piano per Chicago (1909); il
risultato non è solo la concretizzazione delle idee del City Beautiful Movement ma anche

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un’estensione verso il bacino regionale che apre la strada ai moderni criteri di pianificazione
urbana e all’interesse per le aree periurbane da destinarsi a residenze nel verde.

5.3 CASE NEL VERDE: FRANK LLOYD WRIGHT


Lo sviluppo delle linee ferroviarie e il progressivo degrato delle città derivante dalla mancanza
di regolamentazioni edilizie (e a Chicago anche gli effetti del Great Fire) sono le cause degli
insediamenti nei sobborghi, in seguito village, nella zona esterna del tessuto urbano. Il legame
con la natura che i primi planner cercano di instaurare nel disegno urbano dovrebbe portare ad
un equilibrio e equità sociale che caratterizza il sistema americano, questo legame è più robusto
nelle aree di insediamento che conservano caratteri di natura inalterata. L’invito a ristabilire un
contatto con la natura e la polemica antieuropea e anti urbana vengono raccolti sia dai Park
Movement che da gruppi di architetti che rivendicano un’architettura autoctona, anche se
modellata sulle fonti europee dei cottage.
A Chicago nel 1897 si costruisce un collettivo, in seguito denominato Prairie School (scuola
della prateria), che va alla ricerca di un linguaggio architettonico autenticamente americano,
che sviluppi le conoscenze già presenti sul territorio, faccia a meno dell’apparato ornamentale e
sfrutti materiali semplici ottenendo un nuovo sistema simbolico ed espressivo. Una delle fonti è
il shingle style (stile a scandole), un sistema di costruzione di case in legno ispirate ai cottage
inglesi, con tetti spioventi con copertura in tavolette di legno, abbaini e porticati, effetto della
fusione con l’architettura coloniale. Richardson, Sullivan, McKim, Mead e White realizzano
molte dimore con queste caratteristiche nei village del New England (fig. 5.24).
Tra gli architetti del Midwest vi è Frank Lloyd Wright (1867-1959), di formazione
eterodossa, con studi in ingegneria non portati al termine e un alunnato a Chicago prima presso
lo studio Joseph Lyman Silsbee e poi presso lo studio Sullivan fra 1888-93. Wright assorbe
tramite le sue letture e i suoi maestri molte influenze europee e autoctone che, elaborate, sono
l’ossatura di un modo compositivo destinato a influenzare l’architettura del XX secolo non solo
americana. Dall’Europa mutua il precoce rapporto con la natura che si legge in autori come le
Violet-le-Duc, Owens Jones e Ruskin, rispettivamente per gli aspetti razionali insiti nei modelli
naturali, per la permanenza di questi modelli lungo l’intera storia occidentale e orientale, e per
l’approccio romantico agli aspetti estetizzanti della fusione tra artefatto e natura. Dell’Uk
accoglie la ricerca della dimensione domestica degli spazi, già in parte presenti negli ibridi tra
cottage e casa coloniale delle residenze nel verde progettate dalla metà del secolo e in seguito
dalla Praire School. Dalle Art&Crafts e da Morris, Wright assorbe una certa diffidenza nei
confronti della meccanizzazione ma la rielabora con una “sospensione di giudizio” utilizzando
la natura come elemento di intermediazione e pacificazione tra l’uomo e la civiltà della
macchina. Durante la permanenza da Sullivan, Wright costruisce la Oak Park, un sobborgo
verde di Chicago confinante con River Forest, il primo nucleo della sua casa-studio costruita
nel 1889, in un anglosassone stile Queen Anne (fig. 5.25) che utilizza tutti gli elementi tipici
della Prairie House, dettati dal clima: portico con forte aggetto a fare filtro tra esterno e interno,
rivestimento in scaglie di legno, camino focolare fulcro della vita domestica, basamento e
colonne sintomo del carattere di ricerca monumentale che si sta evolvendo a Chicago. Nel
corso degli anni la casa si amplia a seconda delle esigenze della famiglia: camera da giochi e
stanze da disegno quando vi trasferisce il suo studio di architettura, ottiene interni luminosi, no
corridoi e disimpegni, scelta di orizzontalità. Nelle ultime fasi di permanenza presso Sullivan,
Wright ha modo di andare a visitare la Chicago World’s Fair, il suo studio realizza
Transportation Building, dove trova spunti di ogni genere, dai padiglioni con le ricostruzioni
etnografiche, all’architettura classicista, a quella del lontano Oriente.
Le prime opere di Wright fuori dallo studio di Sullivan sono un insieme di tutte le sue letture,
modi costruttivi e compositivi accumulati dal suo arrivo a Chicago all’apertura del suo studio.

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Il 1° incarico è una villa per W.H. Winslow del 1893-94 (fig. 5.26), dove riunisce in sé il tema
dell’assialità classica e della tripartizione (disposizione marcatamente orizzontale) appreso da
Sullivan; dalla Chicago School proviene l’attenzione per i materiali, che accentuano la
tripartizione, una disposizione orizzontale che verrà sviluppata successivamente nella metafora
dell’albero, contrastata dalla presenza del camino in sostituzione dei comiglioli in mattoni. La
scelta di orizzontalità è in contrapposizione con la verticalità dei grattacieli. Il camino è un
punto focolare, la radice dell’organismo architettonico. Le piante cruciformi dell’architettura
residenziale americana su cui si innesta la metafora di Sullivan sull’architettura come
organismo iniziano a prendere una direzione che partendo dal concetto semplice del camino
come rifugio definirà un metodo compositivo che smonterà la maniera tradizionale di
progettare ambienti in sequenza serviti da corridoi. Il camino diviene l’unico elemento fisso e
determinante la distribuzione di spazi altrimenti fluidi, non interrotti tra loro se non per motivi
funzionali.
L’avversione di Wright per le pareti che chiudono gli spazi è una rielaborazione proveniente
dagli spunti della visione meccanicista dell’architettura della Chicago School. L’edificio
secondo Jenney, Sullivan e altri, si sviluppa dall’interno, in base alla quantità di luce che si
vuole ricevere. Vengono eliminati gli spazi di distribuzione come corridoi e disimpegni, per
sostituirli con un invaso privo di chiusure e suddiviso da schermi e diaframmi che fanno da
quinte per suggerire la destinazione delle porzioni dell’ambiente (pranzo, conversazione,
lettura, …) ma permettendo anche allo sguardo di circolare liberamente senza ostacoli o
chiusure, anche in considerazione del fatto che la disponibilità di servitù da parte della nuova
borghesia è drasticamente inferiore a quella della vecchia classe dirigente. Egli usa un sistema
di quinte per articolare lo spazio interno del piano terreno (il 1° piano invece è suddiviso in
maniera tradizionale), associato a muri di tamponamento che accolgono fasce continue di
finestre, sulla scorta di quando Wright aveva visto nel padiglione giapponese alla Fiera del
1893.
Wright matura infatti una vera e propria passione per il Giappone, che lo condurrà a più riprese
nel Paese orientale e a collezionare stampe e tessuti, secondo un gusto che si stava diffondendo
anche in Europa. I pochi esempi di cui dispone gli procurano varie commesse e convincono
anche gli acquirenti più conservatori; questo orienta Wright a pensare che le basse case nel
verde, cruciformi, incentrate sul camino, circondate da portici e aggetti che si distendono sul
terreno con andamento orizzontale possano diventare un tipo. Nel febbraio 1901 in Ladies
Home Journal viene pubblicato un generico progetto per una casa in una Praire Town (fig.
5.27), che sintetizza e riunisce tutto quanto fino ad allora sperimentato; la rappresentazione
dello spaccato sulla linea del salone mostra ancora interni e arredi, regno della padrona di casa
secondo la tradizione della famiglia bianca americana; camino in mattoni posizionato al
baricentro, inquadrato da un ambiente spoglio ma accogliente che distribuisce 2 ali simmetriche
destinate a biblioteca e sala da pranzo con arredi integrati alle pareti semplici ma eleganti,
finestre continue che si affacciano sui portici protette da lunghi sporti delle coperture aggettanti.
Le decorazioni sono ridotte al minimo e trasmettono l’idea di ambienti luminosi in perfetto
Prairie Style e profili in legno che segnano i punti di giunzione tra le pareti, coperture e piani di
calpestio sull’intonaco chiaro che sostituiscono la suddivisione tradizionale degli spazi.
Con il nuovo secolo Wright ha moltissime commesse per case unifamiliari. Un esempio è la
Ward Willis House del 1902-03 a Highland Park a Chicago (fig. 5.28); la concretizzazione del
progetto viene pubblicata su Journal. L’architetto costruisce una casa di rappresentanza
semplice e ben funzionale rendendo simmetrico e assiale l’impianto ipotizzato per le prime case
suburbane (il committente è un uomo d’affari nel campo delle ferrovie). Portici esterni e
terrazze creano punti di contatto tra ambiente esterno ed interno, creando zone filtro, di riparo,
ombra, che forniscono l’integrazione tra natura e costruzione. Per Wright infatti l’architettura

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deve essere come un organismo vivente: semplice e ben funzionante. Pareti chiare intonacate,
coperture e linee di orizzontamento in cotto e legno scuri giocano il ruolo dell’ancoraggio e
della distensione nell’ambiente circostante. I mobili, gli impianti, l’illuminazione e il
riscaldamento, integrati alla struttura la rendono un meccanismo semplice, come un albero.
Pianta incentrata sul camino centrale da cui partolo le 4 ali a formare impianto cruciforme,
semplice ma non bloccata nell’organizzazione interna a spazi compenetranti o nel rapporto con
l’esterno dove gli schermi di luce, pareti quasi trasparenti che verranno formalizzate da lui più
tardi bilanciano lo schema regolare.
Le parole chiave per Wright sono: semplicità, tutte le parti del progetto vengono considerate e
tutti gli elementi creano armonia, nulla è superfluo; plasticità, il rapporto tra struttura e
rivestimento deve essere come un tutt’uno plastico, ottenuto con il fluire delle pareti, coperture
e pavimenti in maniera continua; chiarezza della struttura ossia l’importanza nell’articolazione
delle superfici, delle linee verticali e orizzontali chiaramente contrapposte, qualità dei materiali,
separati e in contrasto piuttosto che sovrapposti; perfetto significato; chiarezza dell’idea
compositiva; comodità uso edificio; sovrapposizione elementi decorativi allo scheletro. Per
avere semplicità e plasticità egli fa una ricerca sulla natura dei materiali, considerati per le loro
reali caratteristiche e per le possibilità di impiego; elementi prima studiati e poi utilizzati in
modo integrato tra loro senza confusione degli edifici che caratterizzano la Chicago School.
La Robie House del 1908-10 è il punto di arrivo della serie delle Prairie Houses e anche per
l’architetto (fig. 5.29), che non tornerà più nella sua casa-studio a Oak Park per via del nuovo
legame con Martha Borthwick; costruita in gran parte quando Wright era già partito per
l’Europa per sovraintendere alla pubblicazione delle sue opere nel cosiddetto Wasmuth
Portfolio pubblicato a Berlino nel 1910. I 15 anni intercorsi tra la Willis House e la Robie
House costituiscono una traiettoria che esplora diverse soluzioni, maggiore e minore chiusura
dei volumi, simmetria e riconoscibilità dei piani che compongono l’edificio sono dettate dalle
richieste dei committenti e dall’intensa volontà di realizzare architetture come rifugio in senso
simboli. La Robie House si sviluppa su 3 piani secondo un asse longitudinale, in un lotto di
ridotte dimensioni accanto all’università di South Woodlawn e viene realizzata per l’ingegnere
Frederick C. Robie. Le richieste: spazi per servitù, sala da biliardo, cura nel rapporto visivo tra
esterno e interno per godere della vista ma senza subire curiosità dei passanti. La casa ha le
seguenti caratteristiche:
- Le falde dei diversi volumi sono sovrapposte in modo sfalsato per creare una compenetrazione
di elementi di riparo che proteggono i volumi abitati;
- I volumi abitati sono divisi in 2 parti. Sul retro le funzioni di servizio e un cortile mentre sul
fronte strada, traslata rispetto all’altra, è incardinata sul camino che attraversa i piani
includendo in un tutt’uno il corpo scale, fungendo da perno e schermo divisorio tra gli
ambienti del seminterrato e del piano soggiorno, posto specularmente rispetto all’invaso del
camino per ricucire le fasce;
- La sovrapposizione dei 3 piani a cubatura digradante fino a culminare nelle 3 camere
all’ultimo piano abbraccia l’asse verticale della canna fumaria e diviene funzione e
rappresentazione delle Prairie Houses, tutto accentuato dalle linee orizzontali, parallele al
terreno;
- L’involucro, plastico in senso wrightiano del termine, è risolto con una serie di orizzontamenti
che emergono dal terreno con un primo zoccolo in pietra chiara e si articolano nei diversi
livelli tra parapetti e muri di protezione e tamponamento realizzati in mattoni romani a vista
alternati a corsi di malta stilata leggermente rientrante;
- L’accento è posto sulle linee orizzontali, ogni muro in mattoni è sormontato da un parapetto in
pietra grigia, prosegue con le linee di gronda dei tetti a falde con grandi aggetti, protese oltre il

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filo della facciata per creare zone d’ombra che rafforzano l’impressione che i tetti-riparo siano
l’elemento formale preponderante.
- La balconata è percorribile e abbraccia tutto l’affaccio su strada della casa diventa porticato
sul lato sud, sul quale si incunea una parete vetrata di bow-window inedita, che fa da
espressione del piano nobile della residenza;
- Ogni materiale è usato in base alle sue caratteristiche, valorizza le loro funzionalità funzionali
ed espressive, accentuate dall’uso di possente trave in acciaio che permette la libertà dai
sostegni verticali;
La casa rifugio, fusa con il contesto senza esserne contaminata, rappresenta a pieno ciò che gli
americani intendono per abitazione nel verde, contrapposta alla frenesia della città. Il
simbolismo delle case della prateria viene così ad essere il risultato della somma della
tradizione della casa vernacolare, funzionale alla mitografia dei pionieri e dell’identità
nazionale e dell’urgenza di proteggere le famiglie americane dalle brutture del progresso.
Separando il lavoro dalla vita privata, si fornisce un obiettivo per stimolare la mobilità sociale e
il valore assegnato al lavoro.
Nell’ultima fase del lavoro intorno a Chicago, Wright avvicina anche i temi dell’edificio
pubblico, da quello per gli uffici (Larking Building) a quello per comunità (Unity Temple, fig.
5.30). Entrambi i casi hanno spazi interni fluidi e ininterrotti con le pareti-schermo per
l’ingresso.
L’organicità tra esterno ed interno è determinata dalla centralità nel progetto di spazi dotati di
simbolismo e di funzioni concrete; il risultato è determinato dall’uso di pareti libere da
condizionamento strutturali per concentrare all’interno dell’edificio azioni e significati. Ciò che
caratterizza gli edifici è la trasformazione del concetto di colonna, con la geometrizzazione
delle forme naturali.
Il bilanciamento tra formula e molteplicità di applicazioni nella lunga serie di edifici costruiti
tra fine XX sec. e 1910 fa sì che molto rapidamente le soluzioni di Wright divengano modelli,
formule anche estrapolate dal loro contesto culturale e simboli e associate, piuttosto, a una
modernità di stampo diverso (come quella dei De Stijl).

Cap. 6 - Art Nouveau: prove di modernità


L’Art Nouveau (AN, arte nuova) costituisce forse il 1° episodio globale nella ricerca di
innovazione dei linguaggi artistici, sia dal punto di vista della diffusione che degli obiettivi.
Include architettura, arti applicate, moda, grafica, trattamento degli spazi pubblici, pittura
poesia, musica. Il risultato è la creazione di cenacoli che comprendono intellettuali e artisti di
ogni ramo che influenzeranno fortemente il gusto borghese, permettendo ad alcuni critici di
denotarlo come uno stile vero e proprio caratterizzante un’epoca: Belle Époque. Il terreno di
coltura dell’AN è determinato dalle trasformazioni politiche e sociali: le rivoluzioni borghesi, la
formazione degli Stati nazionali e la crescita dei sistemi economici in chiave industriale e le
grandi esposizioni. In Francia il processo di riforma avviato tra il 1860-70 dai gruppi dei pittori
ribelli appartenenti al Fauvismo e all’Impressionismo dà avvio ad una macchia d’olio che si
estende in tutta Europa, cambiando radicalmente il modo e i soggetti della rappresentazione.
Negli anni ’80 la Francia avrà il Simbolismo, con linguaggi anti-realistici e irrazionali, auto-
referenziali, svincolati dalla quotidianità; pittori come Moureau (L’apparizione, 1875, fig. 6.1)
e scrittori come Huysmans rappresentano bene una rivoluzione espressiva e formale ma non
sociale. In Inghilterra, dove forte è la presenza delle spinte sociali del movimento moderno
Arts&Crafts, altrettanto forte è l’Aesthetic Movement (bellezza astratta) composto da scrittori
come Wilde e pittori come Aubrey Beardsley concentrati sulla ricerca di una bellezza astratta.

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La breve fase che precede l’AN è tutta circoscritta alle convenzioni borghesi: stupire i borghesi
con comportamenti, stili di vita, affermazioni è la missione di tutti i protagonisti dei gruppi
intellettuali riformatori tra il 1860 e il 1890.

6.1 AREA FRANCO-BELGA: PROGETTAZIONE TOTALE E ORNAMENTO


L’Art Nouveau vede la sua affermazione in Belgio, nazione nata nel 1830 dopo la guerra di
indipendenza dall’Olanda; esso è il luogo ideale per la borghesia imprenditoriale
completamente rinnovata e in ricerca di affermazione nel panorama internazionale. La
preponderanza della cultura francofona colloca da una parte il paese nell’orbita della Francia,
dall’altra stimola la ricerca di una propria autonomia culturale. Il sistema economico in rapida
crescita incontra un buon equilibrio con le amministrazioni che tendono a governare i processi
di crescita urbana mediante piani di espansione soprattutto nella città intesa come luogo da
attrezzare con l’intervento pubblico di nuovi spazi. Inizialmente il tentativo è espresso in chiave
storicistica, con tentativi neorinascimentali in chiave vallona o neomedievali legati alla
tradizione fiamminga, ma con l’avvio della rivista L’Art Moderne dal 1881 si hanno sentori di
una tendenza di rinnovamento che trova nutrimento nei circoli di intellettuali simbolisti con
diversi autori tra cui Maurice Maeterlinck e pittori come Toorop.
Nel 1883 inizia la sua attività il gruppo di architetti Les XX, che però si scioglierà 10 anni dopo
per originare una nuova associazione la Libre Esthétique (l’estetica libera), sempre più aperta
oltre che a pittura e scultura anche alle arti applicate e alla grafica.
L’idea simbolista di opera d’arte si va poi ad applicare oltre che ai linguaggi artistici anche alle
discipline di progetto.
Nel 1893 Paul Hankar realizza la propria casa a Bruxelles e Victor Horta realizza la Maison
Tassel e le serre del Palazzo Reale. Entrambi sono architetti di formazione all’Ecole des Beux
arti, reduci da alunnati differenti (Hankar edilizia residenziale, Horta grandi costruzioni in ferro
e vetro), e mettono la loro esperienza al servizio dell’alta borghesia urbana fatta di
professionisti e industriali. Entrambi avvertono l’influenza delle teorie razionaliste sul modo di
trattare come modelli gli elementi naturali, assecondando le caratteristiche dei nuovi materiali
di costruzione mischiati a quelli tradizionali (ancora un rimando a Le Duc). La casa di Hankar
(fig. 6.3) occupa un lotto stretto e allungato, come quasi tutte le case di Bruxelles; si affaccia
sulla strada con un prospetto che unisce citazioni storicistiche anche se molto semplificate a una
texture di mattoni locali con inserti in pietra, aperture a bifora e mensole in pietra. Veranda
aggettante che copre tutti i piani della casa, culmina in un abbaino che si regge su una struttura
in ferro battuto, chiusa nei parapetti con decorazioni a graffito e mosaici secondo un gusto
orientale. La Maison Tassel (fig. 6.4), commissionata dall’amico Emile Tassel, si colloca
invece ai margini del centro urbano ed è larga poco più di 7 metri; l’architetto, al suo 2°
incarico importnte, spinge su un razionalismo di stampo francese e le tendenze estetizzanti
provenienti dall’Inghilterra e dai circoli simbolisti alle estreme conseguenze. La casa attraversa
il profondo lotto come una sorta di ponte (fig. 6.5): i 2 corpi si affacciano sulla strada e sul
giardino e si presentano come volumi solidi edificati in pietra e mattoni, con l’inserimento di
putrelle metalliche a vista a sostenere gli orizzontamenti dei bow-window. La parte centrale si
configura come una scatola trasparente che prende luce dal grande lucernario (fig. 6.6),
attraversata dalle scale, dove tutti i sostegni sono in metallo ad alleggerire l’insieme e facilitare
l’illuminazione. Le strutture interne rilanciano la lezione di Viollet-le-Duc, accentuando e
utilizzando i principi statici insiti nelle strutture vegetali: esili pilastrini (fig. 6.7) in forma di
stelo con nodi vegetali alle sommità che si distendono in viticci a sostenere l’intradosso delle
scale, con comportamenti statici simili a fusti e fronde. Gli stessi motivi formali-strutturali
diventano decorativi e pervadono tutte le superfici. Pitture sui muri, mosaici a pavimento, vetri
colorati e piombati nelle porte interne e nei lucernai, intagli nel legno, fino alla conformazione

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di arredi e tessuti (fig. 6.8). L’equilibrio tra parti tecniche (parapetti, illuminazione artificiale,
radiatori, fig. 6.9) e decorative è raggiunto mediante una sovrapposizione tra i due stipiti del
progetto: quello che sostiene, illumina e riscalda è anche decorativo.
Anche se Hankar e Horta utilizzino semilavorati industriali, tutte le loro lavorazioni diventano
comunque pezzi unici, dove le innovazioni industriali sono solo strumento per ottenere oggetti
dotati di funzionalità e spessore espressivo. La stessa Maison du Peuple (casa del popolo a
Bruxelles, fig. 6.10) del 1896-98, di Horta, oggi demolita, sede del partito socialista, pur
dovendo incarnare i valori di società ugualitarie ed utilizzare in maniera massiccia componenti
di derivazione industriale si presenta come un unicum, un edificio eccezionale, molto lontano
dalle ricerche delle possibilità offerte dalla costruzione modulare sia dai dibattiti sulla
responsabilità sociale dell’arte.
Leggermente diverso è il percorso di Henri van de Velde che, dopo un periodo di pittura nel
gruppo Les XX, si dedica al tema delle arti applicate e della grafica e solo di conseguenza
dell’architettura, con la costruzione della sua casa a Uccle nel 1885. Molto più propenso alla
teoria e all’insegnamento egli si apre alla cultura di progetto internazionale in Germania e in
Francia: nel 1899 si trasferisce in Germania dove dà vita alla Scuola Granducale di Arti e
Mestieri, da cui discenderà il Bauhaus; in Francia realizza gli arredi per il Salon de l’Art
Nouveau, il negozio di Samuel Bing, che diviene uno dei più potenti apmplificatori della nuova
estetica negli oggetti d’uso. Nel suo scritto Sgombero d’arte del 1894 egli esprime l’orrore per
la bruttezza e la volontà di ricercare il bello in coincidenza con l’epoca moderna. Si spende per
l’idea di coincidenza tra funzione e decorazione e per quella di progettazione totale, concetti
che trovano la loro espressione nei mobili, in cui compare un accenno di studio sul il rapporto
ergonomico tra uomo e oggetto, risolto con forme avvolgenti, e in progetti che coinvolgono
tutti gli aspetti dell’abitazione, incluse le posate e le vesti da camera per la moglie (fig. 6.11);
egli ricorderà che il suo linguaggio formale traeva origine sia dalla scoperta dell’energia della
linea e dell’espressione dinamica delle forme, sia dalla struttura degli ornamenti.
A differenza di Horta, van der Velde riflette sulle possibilità di incontro con l’industria, anche
in architettura (Scuola di arti e mestieri a Weimar del 1904), ma rivendicherà sempre
l’autonomia della creazione artistica anche in caso di concezione funzionalista.
Un’arte seriale, modulare e assemblabile è il punto di equilibrio formulato da Hector Guimard
a Parigi, il quale progetta un gran numero di ingressi della metropolitana della città (fig. 6.13),
inaugurata nel 1900; elementi in ghisa stampata che rimandano a carapaci (fig. 6.14), pensiline
in ferro e vetro con un alto valore espressivo, sostegni per illuminazione come pistilli, pannelli
in lamiera a stampo, sono componenti variamente assemblate a seconda delle dimensioni e
dell’importanza. È uno stile che andrà a chiamarsi Style Metrò (fig. 6.15). Inoltre Guimard
progetta anche molte case private, tra cui Castel Béranger nel 1894-98.

6.2 LA GLASGOW SCHOOL


Il versante scozzese dell’Art Nouveau ha una visione politica e storicista. Mentre in Inghilterra,
si sviluppano l’Art and Crafts (con stampe e motivi giapponesi) e l’Aesthetic Movement,
entrambi alla ricerca di una nuova bellezza, la Scozia, in particolar modo Glasgow (la città più
sviluppata nei commerci, nell’industria e nelle sedi universitarie) si muove in maniera
autonoma anche in seguito alle secolari spinte all’indipendentismo del regno di Scozia da
quello di Uk, che continuano anche dopo l’unione fra i due paesi nel 1707 e vengono
interpretate nel XIX da artisti/intellettuali come Walter Scott. Così nascono gruppi e società
artistiche che promuovono mostre e dibattiti; ad esempio i Glasgow Boys dal 1890, autori del
tentativo di rinnovamento figurativo, con recupero di tradizioni ancestrali identificative della
Scozia. L’esaltazione del mondo dei druidi e delle civiltà celtiche diventa tema di
rappresentazioni (fig. 6.16) insieme ai riferimenti all’Oriente, conseguenza della moda dei

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viaggi di formazione in Giappone in seguito all’apertura dei contatti commerciali con l’oriente
nel 1858. Stampe e motivi giapponesi sono presenti in Uk ma anche in Scozia, sia grazie ai
Glasgow Boys che grazie a Christopher Dresser, che pubblica nel 1882 l’opera Japan. Its
Architecture, Art and Art Manifactures. La diffusione die modelli figurativi orientali si deve
anche alla circolazione delle xilografie di incisori giapponesi che invadono l’Europa (fig. 6.17).
Tutte queste spinte in avanti sia dal punto di vista figurativo che commerciale per inserire la
Scozia in un posto di rilievo in Europa e a livello internazionale, vengono recepite nella School
of Art di Glasgow, frequentata da giovani sensibili al rinnovamento in corso e che recepiscono
gli stimoli provenienti sia dalle Arts&Craft sia dalla cultura celtica e esotica. Tra questi
ricordiamo un gruppo di studenti che inizialmente si dedicano al disegno e poi all’architettura; i
membri erano Charles Rennie Mackintosh, Herbert MacNair, le sorelle Margaret e
Frances Macdonald; i 4 stringeranno un sodalizio già dai banchi della scuola; Mackintosh
avvierà la sua formazione nello studio Honeyman&Keppie prima come disegnatore e poi come
progettista di edifici, guidando così gli amici nella progettazione-realizzazione di oggetti e
mobili. Questi giovani nel 1896-97 sono coinvolti in 2 progetti che saranno fondamentali per
definire l’indirizzo della Glasgow Schoool:
1. Sale da tè per Catherine Cranston. Gli studi sulla bidimensionalità e la semplificazione
deducibili dalle decorazioni primitive e giapponesi guidano la ricerca per arredi, decorazioni
murarie e a stampo, vetrate, secondo una direzione antinaturalistica.
2. Palazzo della School of Art di Glasgow (fig. 6.19). Il confronto con l’architettura spinge
anche nella composizione dei volumi all’individuazione di un modello locale, legato alla
tradizione ma dotato di semplicità e bidimensionalità: l’architettura baronale (le grandi
residenze fortificate del XVI secolo sulle verdi colline scozzesi, fig. 6.18, che hanno dei
profili così unici da permettere agli storici dell’800 di parlare di “Baronial Style”). Il volume
della scuola, rivestito in blocchi di pietra modellati e scolpiti e interrotto da aperture di
dimensioni diverse a seconda dell’uso interno (finestrini, bay-windows), cita continuamente
torricini e caditoie, accessi protetti da arcate, pianta semplice e simmetrica (fig. 6.20-21). Il
rapporto interno-esterno appare essere il criterio che regola la costruzione. Biblioteca: spazio
a doppia altezza, circondato dalla galleria sostenuta da un sistema di travi e pilastri in legno
che si prolungano a sostenere la copertura (sempre in legno), come pure le balaustre
sostenute da catene metalliche ma rivestite in legno; l’intero sistema di arredo (fig. 6.22)
determina aperture posizionate per ottenere la migliore illuminazione dell’invaso: piccole
nella parte della sala di lettura, allungate e sporgenti nella porzione del 2° livello per ottenere
un’illuminazione dall’alto. Serramenti in metallo e arredi in legno sono segnati da un modulo
rettangolare che si replica e ingrandisce parte del sapere della manifattura tradizionale-
comune alle Arts&Craft, nella maglia strutturale, negli schienali delle sedie, nelle recinzioni
esterne, nel sistema di lampade a sospensione (tipo lanterne giapponesi che fanno pendant
con i telai di ispirazione orientale).
Per la critica le opere del gruppo intorno a Mackintosh sono un miscuglio tra elementi
funzionali realizzati in materiali innovativi ed elementi che obbediscono alla sola funzione
estetica. Quasi tutto l’apparato decorativo sovrapposto alle superfici di pareti e arredi è affidato
alle sorelle MAcdonald, ed è da mettere in relazione alla rilettura della tradizione celtica, delle
figurette femminili eteree e allungate (fig. 6.23-24). La partecipazione dei 4 a una mostra della
Secessione a Vienna nel 1900 e alla Mostra d’Arte decorativa a Torino del 1902 aumentano le
loro commesse, e le case private ne sono una dimostrazione. Es. Windyhill (1899-1901), Hill
House (1902-05) dove la fusione tra il modello baronale, la libertà offerta da disposizioni
slegate da gerarchie formali, la ricerca formale e decorativa detta “alla Mackintosh” ma legata
all’elaborazione di modelli primitivi ed orientali, offrono la possibilità di vivere in un’opera
d’arte. Hill House (fig. 6.25-26) ad esempio, progettata per l’editore Blakie di Glasgow, è la

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più grande e sontuosa realizzazione di Mackintosh e sviluppa il tipo del castello baronale
accentuandone la bidimensionalità; pareti intonacate coprono anche gli sporti delle coperture a
falde, piccoli finestrini o bay window; volumi ben definiti dei camini. Hill House è progettata in
ogni suo particolare interno/esterno con interventi su tutti i materiali, utilizzando sempre la
stessa combinazione di colori (toni scuri ambienti di rappresentanza, bianco-oro-rosa stanze
private). La stessa firma si trova ancora nelle diverse Sale da tè di nuovo per Catherine
Cranston del 1903-05 (fig. 6.27-28), con ispirazioni orientali, un ennesimo successo.

6.3 VIENNA: LA QUESTIONE DEL RIVESTIMENTO


LA seconda metà del XIX rappresenta per Vienna sia una grande fase di crescita urbana con
interventi di pianificazione, intensa edificazione e crescita industriale, come viene dimostrato
nell’Esposizione Universale del 1873, sia un periodo di effervescenza culturale. Non interessata
alle esigenze di ricostruire o costruire un linguaggio nazionale legato alla modernità, gli
intellettuali viennesi si muovono in quello che Karl Kraus definisce “il laboratorio della fine del
mondo” o come dice Hermann Broch “il luogo della gioiosa apocalisse” (si avvertono sia la
fine dell’impero sia le spinte al rinnovamento). L’ampliamento della città e dei mercati fornisce
spunto per le riflessioni sull’architettura, che dovranno rispondere a nuovi principi di rendita,
decoro urbano e allargamento del sistema delle merci. È qui che nascono e avranno la loro
fortuna la Wagnershule (scuola di Wagner) e le Wiener Werkstatte (Industrie artistiche
viennesi).
Otto Wagner, architetto formatosi sui due versanti politecnico e Beaux Arts, con esperienze
per commesse private e pubbliche quasi tutte nell’area del Ring, dopo aver vinto il Concorso
per il nuovo piano regolatore di Vienna del 1892, nel 1894 viene nominato Direttore di una
delle scuole speciali di Architettura dell’Accademia delle Belle Arti di Vienna e
contemporaneamente Oberbaurat ossia consigliere per l’edilizia comunale. Tutti questi
incarichi lo rendono il punto di riferimento della cultura architettonica austriaca e lo spingono a
sistematizzare il suo pensiero progettuale. Nel suo libro Architettura moderna del 1895
riprende l’impostazione del teorico tedesco Gottfried Semper ma anche l’interesse per culture e
mondi lontani (vivacissimo intorno agli studi di antropologia e storia dell’arte e incarnato da
Alois Riegl, funzionario del Museo austriaco per l’Arte e l’Industria e teorico del Kunstwollen
cioè la ‘volontà d’arte’ ossia l’irrefrenabile spinta alla ricerca del valore artistico che ogni
epoca-società persegue insieme a quello di utilità); Wagner, con questo suo sentire moderno,
rilancia prepotentemente l’ipotesi di Semper sull’origine tessile dell’architettura. Si offre così la
possibilità di progettare secondo consuetudini consolidate sia nel mondo occidentale che nelle
società primitive e di rinnovare completamente il repertorio formale e il modo di usare i
materiali, insistendo sulla tecnologia come caratteristica della modernità. Wagner e i suoi
allievi mettono in pratica questi principi a partire dall’incarico per le stazioni della rete
metropolitana di Vienna, 1895-1900, realizzando circa 30 costruzioni di diverse dimensioni,
formate da una struttura a telaio metallico sulla quale sono fissate lastre in marmo decorate a
motivi di girasoli (fig. 6.29). Il nitore delle lastre, che all’interno sono in gesso, per renderle più
isolanti, è interrotto da decorazioni floreali ed elementi grafici che alludono alla ricucitura: il
marmo è trattato come rivestimento tessile e ogni particolare rimanda ad occhielli, bottoni e
asole, in una visione dei materiali lontana dal razionalismo francese ma vicina al voler
assegnare artisticità anche ad edifici di servizio (tipico dell’Art Nouveau). Nel solco di questa
esperienza si verifica poi l’incontro con il rinnovamento dei linguaggi figurativi. Nel 1897
viene fondata la Wiener Secession (secessione viennese), un gruppo di una 20ina di artisti e
architetti che si distaccano dall’Accademia di Belle Arti ufficiale per creare un’arte nuova:
Wagner, Olbrich, Gustav Klimt, Egon Schiele, Hoffmann. I secessionisti si misurano con tutti i
rami dell’arte, dall’architettura alla decorazione alle arti applicate. Esempio concreto è il loro

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Padiglione della Secessione del 1897-98, destinato alle esposizioni, costruito su progetto di
Joseph Maria Olbrich. Qui, ad una pianta simmetrica bloccata che unisce il volume di
ingresso affiancato a 4 pilastri troncati a quello per le esposizioni con copertura di vetro a shed
(lucernari industriali), corrisponde un alzato e degli interni in cui tutti gli artisti prestano la loro
opera (fig. 6.31); a Klimt si deve la cupola sferica deformata in ottone dorato a motivi di foglie
di lauro che sovrasta il corpo di affaccio, dove l’ingresso è sormontato dalla scritta in tedesco a
ogni tempo la sua arte a ogni arte la sua libertà. Klimt è, più tardi, autore del Fregio interno
dedicato a Beethoven, del 1902 (fig. 6.32) e delle decorazioni in facciata (ma alcune sono anche
di Moser). La conclusione dei lavori avvia una fortunata stagione di mostre, e la pubblicazione
dell’organo ufficiale del gruppo Ver Sacrum pubblicato fino al 1903. A partire dalla 1°
esposizione, per la quale Klimt disegna il manifesto (fig. 6.33) il confronto fra architettura,
decorazione e sperimentazioni si fa intensissimo.
Da una parte, i più anziani del gruppo, Wagner in primis, impiegano sapientemente il
paradosso nell’architettura urbana e nelle case da rendita: la Maiolika Haus (1898-99, facciata
su strada rivestita di ceramica invetriata come un tendaggio decorato a tralci di rose, fissato in
alto da occhielli e fermagli dorati, fig. 6.34); il rivestimento in ceramica, una delle pochissima
indicazioni teoriche che Wagner fornisce nella sua opera, presenta vantaggi di carattere
funzionale perché permette un buon isolamento e affronta bene l’aggressione del clima vienese.
Nel 1903 Wagner vince il concordo per la Banca postale imperial-regia di Vienna (fig. 6.35),
un progetto più sofisticato. Interno moderno con copertura vetrata che illumina dall’alto il
salone degli sportelli, areato con bocchette di alluminio a vista e poco ornato, facciata in lastre
di marmo e pietra fissate da rivetti di ottone, a ottenere un effetto costruttivamente esplicito.
Dall’altra parte i più giovani aderenti alla Secessione danno vita alle Wiener Werkstätte nel
1902, affiancando alla progettazione in architettura anche quella degli oggetti e della
decorazione degli interni. Gli interni della secessione risentono della geometrizzazione mutuata
dal successo del gruppo Mackintosh ma sono anche in costante dialogo con gli artisti del
gruppo, risultando unici e sontuosi. È il caso del Sanatorio di Purkersdorf del 1903, un
complesso per cure termali realizzato da Hoffmann, secondo una semplice pianta organizzata
su una griglia quadrangolare per ottenere un volume squadrato e regolare grazie anche alla
maglia in cemento armato; questa sostituisce la profilatura in materiali pregiati, movimenta la
copertura piana con le travi a vista che rimandano a soffitti a cassettoni e definisce il motivo
geometrico quadrato che ricorre in tutte le parti dell’edificio; l’intervento di Moser negli arredi
asseconda la scelta di Hoffmann con infine variazioni del motivo quadrato.
Quando la committenza lo permette, Hoffman e il suo gruppo portano alle estreme conseguenze
il connubio tra architettura, tecnica e decorazione. Nel Palais Stoclet del 1905-11 (fig. 6.36),
Stoclet era un finanziere e mercante d’arte, Hofmann riprende sia la lezione di Wagner che la
progettazione inseguita tramite la lavorazione di materiali pregiati; il volume è articolato in 2
porzioni, una per la residenza padronale, una per i servizi, forme semplici squadrate composte
da pareti rivestite in lastre di marmo bianco e segnate negli spigoli da profili di bronzo
(ricchezza dei materiali). I profili in bronzo e rame fanno da contrappunto alla linearità del
rivestimento, oltre all’apparato decorativo affidato a gruppi statuari. Marmi preziosi e materiali
pregiati rivestono a loro volta ogni superficie (fig. 6.37), culminando nei mosaici di Klimt che
ornano le pareti della sala da pranzo e negli arazzi su disegno di Carl Otto Czeschka per il
salotto ottagonale. Tutti gli arredi e gli interni sono affidati alla produzione della Wiener
Werkstätte, su progetti di Hoffmann.

6.4 CATALUNYA: IDENTITÀ E GRANDE DIFFUSIONE


Barcellona vede all’inizio degli anni ottanta del XIX secolo una forte espansione urbana e la
sua regione, detta Fabbrica de Espana, risente anche di una forte crescita industriale. Grazie al

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potere economico incrementato negli anni, vengono sollecitati i movimenti catalanisti, infatti si
parla di Rinascimento catalano, un movimento che recupera le tradizioni locali, artistiche,
letterarie e linguistiche e che mira a definire un’identità nazionale in chiave anti-castigliana. È
in questo contesto che si sviluppano cesure con l’ambiente accademico, con l’apertura nel 1875
della Scuola Provinciale di Architettura, nata come superamento della vecchia Scuola di
Applicazione e in competizione con la Scuola di Architettura di Madrid. Qui insegnanti e allievi
ragionano intorno al significato più letterale del termine eclettismo, inseguendo la disponibilità
a riunire e contaminare stili provenienti dal passato per rispondere alle esigenze della
modernità, modernità che consiste (fin dagli anni ’60 col piano di Ildefonso Cerdà) nel
progettare-costruire edifici pubblici per la città in espansione ma anche per la produzione e
lavorazione dei prodotti.
Il termine Modernismo, non diverso da Art Nouveau francese o Jugenstil tedesco, investe
anche l’architettura, incrociando le ricerche stilistiche del passato catalano, l’uso di linguaggi
locali, afflati nazionali, per realizzare un’opera d’arte totale.
A partire da Luis Domenech i Montader, titolare della cattedra di architettura nella nuova
università e esponente di spicco dei movimenti politico-culturali, il comune obiettivo degli
architetti giovani quasi tutti suoi allievi è riunire le testimonianze del passato in organismi in
cui queste si perdano/confondano in risultati nuovi, costituiti grazie alle conoscenze dei
mestieri artistici-artigianali nella regione e ibridate con le nuove conoscenze tecniche. Luis
D.M si occupa della progettazione dell’Ospedale psichiatrico Pere Mata a Reus (1897-1912)
e dell’Ospedale maggiore di baccellona San Pau (1905-30, fig. 6.38), utilizzando i moderni
criteri per la conformazione degli edifici ospedalieri, a padiglioni, dotati di spazi verdi per il
benessere dei pazienti, con approfonditi studi sui flussi, l’aerazione e l’illuminazione con
citazioni delle architetture moresche. Egli inoltre progetta il Palazzo della Musica Catalana
nel 1905-08, primo tra i teatri wagneriani in Europa, modernissimo per soluzioni tecnologiche e
vera e propria traduzione in architettura-scultura-mosaici-vetrate dell’ideale di opera d’arte
totale.
Il suo allievo Josep Puig i Cadafalch si dedica all’architettura industriale e produttiva come
nel complesso delle Caves Codorniu (fig. 6.40) dove sperimenta, in una varietà di edifici
destinati alla produzione vinicola semi-industriale, insediati nella prima area a coltivazione
intensiva il Penedès (a sud ovest di Barcellona), gli studi sulla resistenza dei materiali che si
accingeva a insegnare presso la Scuola di Architettura, con grandi coperture e archi paraboloidi.
La tradizionale tecnica delle volte catalane, sottili archi a sesto ribassato in laterizio che non
necessitano di centine in fase di costruzione in quanto i mattoni sono posati di piatto (o in
foglio), viene largamente impiegata per la copertura di ampi spazi per la lavorazione e lo
stoccaggio delle merci. Alla competenza tecnica, anche quella storica: Puig i.C. è infatti acuto
osservatore della storia architettonica locale, con una particolare predilezione per il medioevo
(Romanico e Gotico) e una grande abilità ad adattarne le forme più ardite ai nuovi modi
costruttivi (sulla scorta di ciò che predicava Viollet-le-duc).
Viollet-le-Duc è riferimento privilegiato anche per un altro degli allievi della Scuola di
architettura di Barcellona cioè Antoni Gaudi (1852-1926), il più noto degli architetti del
Modernismo considerato per molto tempo un genio isolato quando in realtà è un componente
molto dotato del panorama della tendenza della Catalunya di fine ‘800. Egli opera una felice
sintesi tra la conoscenza di architettura, decorazione e manufatti tradizionali, la capacità di
gestire tecniche costruttive e la conoscenza dei materiali, spinte al rinnovamento figurativo e
culturale in consonanza con movimento nazionalisti e una potente convinzione religiosa.
Questa visione cattolica e conservatrice gli consente di avvicinare clienti legati agli ambienti
curiali ma anche di utilizzare continui riferimenti alla natura come emanazione divina. A fine
anni ’60, appena diplomato alla Scuola di Architettura, conosce Eusebi Güell che diventerà il

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suo più importante committente e che rappresenta la classe dirigente conservatrice dell’epoca. I
primi lavori di Gaudì per la potente famiglia Guell nel 1883-84 sono proprio dedicati
all’abbellimento delle residenze; Guell commissione l’ampliamento e la sistemazione di
appezzamenti agricoli ai margini della città. Gaudì realizza per Guell la Finca Güell, dove il
progetto è guidato dalla rilettura dei versi del poeta Jacint Verdaguer (amico di Guell, autore del
poema Atlantida) ed è una rilettura del giardino delle Esperidi che si contamina con la lettura
che rilocalizza il mito in Catalunche riproduce il canto X del poema, notiamo il drago che
protegge il cancello d’ingresso (fig. 6.41). Altro progetto noto è l’ampliamento del palazzo
Güell dove abbiamo abbondanza di simbolismi, legati alle epoche nordiche, impiego dell’arco
di cetenaria (parabolico) che si piò usare per diversi usi perché distribuisce uniformemente i
carichi; passaggi, finestre, camini tutti conformati con un andamento più simile alla natura,
senza correzioni (fig. 6.42). Gaudì sviluppa un interesse a tutto tondo per il lavoro umano,
inteso come contributo all’equilibrio tra fisico e metafisico. L’unione di simbolismo arditezza
costruttiva e valorizzazione dell’intervento umano caratterizza tutte le opere di Gaudì sempre
per Guell, come la Colonia Guella a Santa Coloma del Cervellò del 1890-1915, e come nel
Parc Güell del 1900-14 una sorta di villaggio vacanze per i dipendenti del magnate situato su
una collina con affaccio sulla città (fig. 6.43).
Gaudì farà anche case residenziali, collocate sui viali dell’Eixample e quindi in sintonia con il
piano Cerdà che prevede uniformità delle altezze. Casa Milà e Casa Battlò, entrambe affacciate
sul Passeig de Gràcia, sono edifici nei quali Gaudì riesce a fondere le sue ricerche sull’uso
simbolico dei riferimenti alla natura e all’iconografia religiosa, con quelle materiali e strutture
per un uso più generalizzato. La copertura a scaglie di ceramica colorata di Casa Battlò fa
riferimento al drago di San Giorgio patrono di Barcellona, come alla chiesa fanno riferimento le
croci multi-braccia che punteggiano il coronamento; la facciata, sovrapposta a quella originaria,
è composta da una combinazione tra pietra arenaria scolpita, metallo, frammenti di ceramica e
inserti di vetro, con il risultato di un edificio che segue sia la necessità di funzionamento dia
quelle di adeguamento alla normativa urbanistica. Molto simile è anche Casa Milà,
comprendente un lotto angolare, con molti alloggi che si affacciano su 2 cortili interni. Il tema
dominante è quello marino: rivestimento in pietra sbozzata con forme a onda (ecco perché
viene anche detta “la pedrera”), colorazioni delle scale e dei cortili sono dei toni dell’acqua,
raffigurazioni di creature e pianti acquatiche, stucchi interni a forma di vortici. Andando a
configurare una emtafora del mare, dei suoi materiali e dei suoi abitanti. Entrambi gli edifici
sono arredati con pezzi unici (fig. 6.44).
La sintesi dell’intero percorso professionale e spirituale di Gaudì risiede tuttavia in un’opera
avviata fin dal 1883 e non ancora terminata: la Sagrada Familia. Egli riceve l’incarico
subentrando a Frances de Villar e Joan Martorell, che avevano iniziato il cantiere in chiave
storicista. Caratteristiche:
- Pianta a croce latina e abside raggiata consacrata nel 2010;
- Le 3 facciate alle estremità dei bracci della navata e transetto raccontano rispettivamente la
gloria, non realizzata, la natività e la passione di Cristo;
- Le guglie con struttura a catenaria, incrostate di ceramica e mosaici, sono assegnate ai 4
evangelisti, ne portano i simboli ed elevano la preghiera, quasi un messale che porta al cielo le
parole Santus;
- Lo spazio degli ingressi nella facciata della natività è un presepe con figure a grandezza
naturale, ritratti di contadini secondo quanto stava facendo la scuola verista di Rodin;
- Il complesso è inno collettivo in cui ognuno trova le proprie cose.
A quest’opera risale la considerazione di Gaudì come autore che impersona bizzarrie
progettuali, oltre che personali. In realtà la sua opera è calata nella temperie culturale della sua
regione, con le risposte al catalanismo, wagnerismo e alle istanze di modernità, e del suo tempo

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con la ricerca di un’arte nuova, totale e totalizzante e di un progetto che, anche se obbedisce
alle richieste degli industriali, rifugge alla serializzazione; l’architetto è autore di opere uniche e
irripetibili, pervasive di città e territori.

6.5 ITALIA: LA LUNGA DURATA


Le modalità regionaliste che si verificano in Italia al completamento dell’Unità e la permanenza
della tradizione artistica che gli storicismi hanno contribuito a rafforzare si ripropongono
nell’Art nouveau, definita comunemente Liberty, termine che rimanda all’azienda inglese che
commercializza/distribuisce i prodotti nel nuovo stile, in un legame implicito con l’Uk. L’Italia
si inserisce nel panorama internazionale con qualche anno di ritardo, ma non guarda sono
all’Inghilterra ma anche a Vienna, Bruxelles e Parigi che danno altrettanti spunti agli architetti
italiani che poi si svilupperanno a seconda dell’ambito culturale di appartenenza. Precoci
manifestazioni del nuovo stile appaiono già dall’inizio degli anni Novanta con la rivista “Arte
Italiana Decorativa e Industriale” diretta da Boito, sulle cui pagine emerge la necessità di
ricongiungere architettura, decorazione e prodotti d’uso. Nel 1895 iniziano le pubblicazioni di
Emporium, rivista internazionale modellata anche graficamente su The Studio, ben illustrata,
rivolta a tutti, universale e bella, porta in Italia Simbolisti e Preraffaelliti ma si occupa anche di
musica, arti applicate, e architettura, e assegna al versante italiano dell’Art Nouveau il tentativo
è di diffondere l’arte italiana al grande pubblico. La differenza tra l’Italia e gli altri paesi è
infatti la mancanza di concretezza, di effettiva realizzazione architettonica, è più una dialettica
che si svolge contro invece che per qualcosa. Tuttavia a fronte delle spinte portate avanti da
queste riviste periodiche, la dialettica continua a muoversi tra storicismi e innovazione.
I “molti medioevi” raccontati da Boito fin dagli anni ’80 del XIX sec., si traducono in indirizzi
per l’innovazione e la modernizzazione di residente e edifici per la produzione. A seguito delle
Esposizioni Nazionali a Palermo e dalla serie di mostre presso l’accademia di Brera, iniziano ad
apparire anche architetture e oggetti che riconoscono il bagaglio degli studi storici alle
innovazioni di linguaggio. Nella vivace PALERMO di fine secolo, Ernesto Basile realizza nel
1899-1900 la Villa Igeia per la famiglia Florio (fig. 6.48-49-50), intervenendo su un progetto
precedente. Il progetto ha una mole compatta all’esterno, merlata con coperture a sesto acuto e
rivestimenti laterizi e fa dell’interno una vera e propria opera d’arte totale, spazi ampi e
luminosi, reinterpretazioni di colonne e archi; gli arredi sono realizzati dalla locale ditta Ducrot,
e le decorazioni dal pittore Ettore De Maria Bergler. Qualche anno prima Basile aveva
affiancato il padre architetto nell’ultimazione del Teatro Massimo di Palermo (1875-91), una
delle più grandi sale classiciste d’Italia. L’incontro con committenze che chiedono soluzioni
innovative produce un vero e proprio sodalizio fra Basile-Ducrot-Bergler, i quali presenteranno
mobili e allestimenti in mostre e fiere fino a essere incaricati della costruzione della nuova ala
di Montecitorio a Roma in cui è ospitato il Parlamento (1902-27). Da queste opere si individua
un filone siciliano dell’architettura liberty o floreale.
A BOLOGNA nasce nel 1898 nasce l’Aemilia Ars, un’associazione voluta dall’architetto e
restauratore Alfonso Rubbiani, grande frequentatore del neo-medioevo, sulla scorta dell’Art
and Crafts, che promuove un arricchimento delle decorazioni del tre-Quattrocento
centroitaliano con inserti floreali tramite tecniche e materiali moderni.
In LOMBARDIA, Giuseppe Sommarga, allievo di Boito, incrosta la facciata dell’austero
Palazzo Castiglioni a Milano (fig. 6.51), che rimanda a un’architettura gentilizia urbana
cinquecentesca con putti, ghirlande e mascheroni. Giovanni Battista Bossi usa la Casa
Galimberti (fig. 6.51) come un’immensa tela da popolare di tralci fioriti e personaggi arcadici,
combinazione tra rivestimento viennese e struttura dei palazzi urbani lombardi.
Ma è il 1902 la data che segna la svolta nel panorama della cultura Art Nouveau, non solo
italiana: a TORINO si svolge la prima Esposizione Internazionale d’Arte Decorativa

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Moderna, che raccoglie saggi e prodotti da tutt’Europa, rappresenta bene la collaborazione tra
artisti, architetti, e produttori; tali oggetti e architetture rappresentano le varie tendenze (quelle
floreali, quelle lineari e geometrizzanti, quelle di influenza giapponese o del passato gotico, del
Simbolismo o dei preraffaelliti) e rendono conto delle differenze e del comune riferimetno alla
natura trattato in modi vari (fig. 6.53). Da questo momento gli architetti e le aziende italiane da
una parte ripropongono i modelli provenienti dalle diverse realtà europee rielaborandoli,
dall’altra si dedicano a un lavorio di diffusione che investe più che altrove edifici da reddito e
da pigione, fabbriche e interni; la diffusione è ovviametne maggiore nelle città a più intenso
sviluppo industriale come Milano, Torino, Palermo ma anche altre.
La scuola viennese trova un’interprete in Raimondo D’Aronco progettista di molti degli edifici
dell’Esposizione di Torino (fig. 6.54) e poi attivo a Istanbul; la Francia e il Belgio trovano un
interprete ancora a Torino in Pietro Fenoglio che nel 1902 realizza 2 case: casa La Fleur e il
villino Scott (fig. 6.55), dove linee curve che abbracciano volumi e superfici. Inoltre, progetta
la fabbrica dei dolciumi Venchi dove adotta un trattamento superficiale che attinge a modelli
ibridati, tra linearità francese e geometrismo viennese, usando tecniche di veloce esecuzione e
buon prezzo; decorazioni ceramiche sia nella fabbrica che in Casa La Fleur.
La semplificazione naturalistica investe tutti i distretti produttivi dedicati alle arti decorative,
come quelli della ceramica in Toscana e in Lombardia. Fino a tutti gli anni ‘20 troviamo un
ritorno alla storia nei riferimenti formali, mentre il processo di modernizzazione dei sistemi
edilizi prosegue sostituendo l’arte nuova con una modernità che unisce tecnologia e tradizione
nei rifermenti stilistici.

Cap. 7 - Dalle Art and Crafts al prodotto industriale: case e cose


Dopo gli effetti negativi dell’industrializzazione su larga scala, intellettuali, artisti e progettisti
iniziano a porsi delle domande; le sollecitazioni arrivano dalle fonti più svariate, ma ruotano
tutte attorno a questi effetti negativi, individuando nella coincidenza tra assenza di bello, cattiva
gestione del lavoro e erosione dei valori morali propri della società occidentale le cause della
situazione. Bisogna iniziare a considerare il ruolo sociale dell’arte e la responsabilità dell’artista
che durante il Romanticismo si era isolato, chiamato ora a confrontarsi con vari interlocutori. Il
fenomeno attorno al ruolo dell’artista che trova una serie di sperimentazioni e traduzioni
nell’ambito del progetto di architettura quanto del prodotto.

7.1 LA DIALETTICA ARTE, ARTIGIANATO E INDUSTRIA: ARTS & CRAFTS IN EUROPA E AMERICA
L’Art and Crafts Movement (movimento delle arti e artigianato) in Uk apre la strada a una
completa rilettura della società industriale che si compirà poi negli anni Venti del ‘900,
partendo da un punto di vista contrario ai risultati dell’industrializzazione. Non si tratta di una
posizione soltanto teorica: i suoi protagonisti collocano il dibattito e i suoi risultati nel contesto
moderno fato di professioni, commercio e progetto. Tali approcci si originano nell’Uk tardo-
vittoriana e nelle discussioni/azioni che si dipanano a partire dall’Arts and Crafts Exhibition
Society fondata a Londra nel 1887 (fig. 7.1) che esporrà l’anno successivo alla New Gallery a
Regent Street e poi con cadenza regolare riscontrando grande successo. L’analisi negativa
operata sui risultati dell’industrializzazione porta a ricercare da un lato l’innovazione del modo
in cui le cose vengono prodotte, dall’altro un cambiamento del gusto del pubblico, quindi
bisogna intervenire con una missione pedagogica ed educativa intervenendo su industria e
commercio.
Nel 1861 William Morris apre la Morris, Marshall, Faulkner & Co., un’azienda per la
produzione di oggetti di arte applicata, in società con l’architetto Philip Webb (che lo aveva
supportato nella realizzazione della sua casa) e con 2 tra i membri principali della Confraternita
dei Preraffaelliti cioè Dante Gabriele Rossetti e Edward C. Burne-Jones. Essi propongono

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un’opposizione alla modernità mediante progetti alternativi. Architettura ed arti applicate
procedono a pari passo, la prima dal punto di vista personale e individuale, le seconde con
immediatezza cavalcando la nuova richiesta merci e oggetti originali. In entrambi i casi, il
terreno di coltura sul quale si fanno crescere le nuove idee è già esistente: per l’architettura è il
revival medievale; per gli oggetti, gli interni e il modo di collocare gli edifici, è ancora lo
sguardo al medioevo oltre all’importanza che assume in epoca vittoriana l’idea di spazio
domestico, borghese, accogliente e accurato. Entrambi gli approcci costituiscono una reazione
alla modernità, ricerca di rifugio dal caos. La casa diviene dunque il centro delle attività di
Morris e dai suoi allievi. Gli strumenti sono molti, basati sull’idea medievale delle gilde e delle
reti di artigiani-produttori a partire dalla ricerca di nuovi modelli o sistemi di produzione. Nel
1882-83 Arthur H. Mackmurdo fonda The Century Guid, un vero e proprio collettivo di
architetti, artigiani e artisti, costituito con lo scopo di raggiungere l’unità delle arti e di toccare
così ogni ramo del progetto e della produzione, dal restauro degli edifici, alla decorazione, alle
vetrate, alla ceramica, all’intaglio e alla lavorazione dei metalli, riportando questo ampio
settore nella sua corretta posizione fra pittura e scultura.
In seguito altri gruppi vengono a formarsi con obbiettivi simili e con il risultato di rafforzare il
senso di collaborazione tra gli iscritti e di impostare autentici distretti produttivi che uniscono
piccoli laboratori interamente artigianali con imprese meccanizzate o semi-meccanizzate. La
scala architettonica viene affrontata in maniera empirica e incerta inizialmente proprio da
Morris, insieme a Webb, quando nel 1860 costruiscono la Red House, nel sobborgo di
Bexleyheat a sud di Londra, come dono di nozze per la giovane moglie Jane Burden (una delle
muse ispiratrici dei pittori pre-raffaelliti). Morris e Webb si erano incontrati nello studio
dell’architetto George Edmund Street, rappresentante del Gotico Vittoriano e Webb stesso era
diventato un progettista di quel genere. La svolta operata nel piccolo edificio residenziale
rispetto al revival protagonista della Battle of Syles è l’estrema semplificazione dei modelli.
Webb e Morris partono da un nucleo Tudor (XVI sec.) invece che da diverse aree,
mantenendone alcuni caratteri identificativi come camini prominenti, frontoni incrociati, soffitti
con travi a vista, andando a semplificare il tutto per rendere l’idea di casa famiglia e per
celebrare la collaborazione tra arti e artigianato. Il risultato è un edificio a pianta a L (fig. 7.2),
organizzato in modo tradizionale, con ambienti in sequenza serviti da corridoi; non vuole
introdurre innovazioni nella distribuzione dell’ambiente, ma realizzare ambienti di dimensioni
piuttosto ridotte, con illuminazione fioca con piccole finestre (in coerenza con il clima
circostante); mattoni rossi lasciati a vista, semplicità di forme e valorizzazione dei materiali e
della loro lavorazione (fig. 7.3-4). I tetti inclinati rivestiti in tegole punteggiati da abbaini e
articolati a coprire volumi rientranti e aggettanti della facciata, lontano dalle magioni in pietra
(Tudor) che ne fanno da modello. Archi a quattro centri (tudor). Il progetto integra interamente
il giardino, che è un’integrazione fondamentale, parte di un processo progettuale ampio che ne
comprende gli esterni e gli interni, affidato ad artisti ed artigiani. Non si cerca di ottenere
un’opera d’arte totale ma un effetto di domesticità nobilitato dal lavoro dell’uomo, al fine di
ottenere una qualità di vita autentica, semplice e sincera.
Le stesse caratteristiche le troviamo nell’azienda fondata da Morris e sua omonima. Nella
Morris&Co., azienda ancora esistente e attiva, si riconoscono tutti i principi che si vanno
definendo: recupero delle lavorazioni tradizionali (pittura, intaglio, mobilio e metalli), che si
ampliano in seguito ai tessuti, vetrate, intarsi e oggetti in vetro. Il lavoratore è il vero
protagonista del processo, più del progettista. Oltre a un processo di rilettura dei temi
medievali, con una netta propensione per gli oggetti semplici che ottengono un immediato
successo commerciale (fig. 7.5), si trasferisce da una parte l’interesse per i temi medievali e
favolistici, spesso affidati ai preraffaelliti e dall’altra la visione della natura.

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Il movimento è fondamentalmente urbano, Londra è il centro delle realizzazioni, ma l’interesse
e il luogo catalizzatore è la campagna, soprattutto quella nel sud dell’Inghilterra, che diviene
oltre che il luogo ideale per ricreare il senso di equilibrio, semplicità e primato dell’artigianato,
anche veicolo di un nazionalismo culturale, quello che sarà definito l’Englishness (l’inglesità).
La campagna diviene oggetto di interpretazione e soggetto privilegiato di scrittori, pittori,
musicisti, studiosi e progettisti ma anche sperimentazione dei possibili risultati dell’azione
sociale tipica delle prime fasi del movimento, educazione delle comunità locali, diffusione dei
prodotti tipici.
Il pragmatismo di architetture e oggetti tradizionali, tutti concentrati sulla funzione più che sulla
decorazione, è motivo della spinta alla semplicità. Le forme naturali, piante, fiori, frutti, sono
quelle che vengono impiegate nel progetto di stoffe, oggetti e elementi decorativi per
l’architettura. Fogliami riprodotti realisticamente si prestano a un uso decorativo utilizzando le
tecniche tradizionali e la loro ripetitività, oltre ad assecondare l’idea di serie, rimanda alla
ciclicità dei processi naturali (fig. 7.6). La natura è la protagonista dei progetti Arts&Crafts, non
in maniera stilizzata come nell’ Art Nouveau, come modello formale e modello ideale,
pradossalmente conservatore, storicista nella sua visone e antiurbana. Altro paradosso della
produzione dei laboratori di Morris e degli altri assimilabili è l’alto costo delle merci messe in
commercio, riservate fin da subito all’alta borghesia. Morris radicalizza la sua visione con il
passare degli anni, abbandona i suoi soci per diventare il titolare principale dell’impresa e nel
1884 fonda la Socialist League con la figlia May e si dedica a un’intensa attività pubblicistica
con articoli, libri e conferenze, fino alla pubblicazione di Notizie da nessun luogo del 1890
(romanzo di “fantapolitica”, il cui protagonista si risveglia in un futuro dove ha preso il
sopravvento una società collettivista, priva di divisioni di classe dove la produzione è
controllata in modo democratico. Nel 1891 aprirà anche una casa editrice, la Kelmscott Press.
La generazione di progettisti più giovani si avvicina all’industria con l’abbandono dei contenuti
ideologici che costituivano la parte centrale del pensiero di Morris.
Charles F.A. Voysey, presente nell’esposizione dell’Arts&Crafts Society e associato alla Art-
Workers’ Guild nel 1884, attivissimo nel progetto soprattutto di tessuti e di carte da parati. I
risultati di Morris, Webb e dei “pionieri” del movimento vengono elaborati proprio in funzione
dell’industrializzazione: la verosimiglianza vira nella stilizzazione pur mantenendo inalterati
soggetti vegetali o animali; contorni ripetuti e riduzione dei colori permettono una produzione
meno complessa e conservano la semplicità e le suggesioni naturalistiche (fig. 7.8). Negli arredi
di Voysey si ha la valorizzazione dei materiali delle costruzioni tradizionali di campagna (legno
di rovere). Nella sua opera si trova una corrispondenza con l’interesse diffuso per l’architettura
rurale, tipico delle Arts&Crafts, oggetto di ampie campagne di rilievo e fotografiche anche
nell’ottica della conservazione (fig. 7.9). I suoi progetti abbandonano quasi ogni riferimento
fortemente storicista, per rivolgersi al mantenimento di elementi tipici del paesaggio agreste
come camini e tetti spioventi, abbaini e volumi articolati, in un approccio rivolto ad una
clientela abbiente. Si progettano ville immerse nella natura; esse sono costituite da volumi
semplici, intonacati, con corpi aggettanti che si fondono con il giardino circostante, come nel
caso della Villa Broadleys del 1898 (fig. 7.10) dove compaiono dei tentativi di
compenetrazione tra spazi interni per ricerca di un equilibrio tra il modello agreste e la
necessità della borghesia di accogliere gli ospiti in ambienti luminosi e ariosi.
La fortuna di molte ville di Voysey si deve alla pubblicazione di alcune di esse sulle pagine di
‘The Studio’, rivista inglese fondata nel 1893 da Charles Holme, che rapidamente ha
un’edizione francese e una americana, e che contribuisce alla diffusione internazionale delle
tendenze innovative. Come altri progetti, Bradleys house è stata considerata come un prodromo
dei principi del Movimento Moderno per via del trattamento dei volumi, dell’uso degli intonaci
chiari e dell’estrema semplificazione di finiture e arredi. Si tratta del noto adagio “DA William

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Morris alla Bauhaus” coniato da Nikolaus Pevsner nel 1943 come sottotitolo del suo libro I
pionieri dell’architettura moderna; egli individua nelle soluzioni di Voysey (architettoniche e
di oggetti) una reazione all’opulenza dell’Art Nouveau e insieme un’avvisaglia dei modi dei
progettisti che negli anni Venti si misureranno con l’industrializzazione a la rinuncia alla
decorazione. In realtà la vicinanza è solo formale, legata ad un atteggiamento conservatore,
puritano, anglosassone, lontano dalle ricche elaborazioni continentali. La fortunata formula
dell’Englishness messa a punto da Morris e dai suoi, legando la tradizione alla modernità in
modo alternativo all’industrializzazione di massa, appare a Pevsner applicabile ad altri contesti
analoghi per rapidità di sviluppo, come la Germania.
Le architetture di Voysey sembrano sviluppare compiutamente la risposta formulata nei 13
saggi del volume Architettura: una professione o un’arte del 1892, a cura di R. N. Shaw, che si
può sintetizzare in un radicale conservatorismo, in un immaginifico ritorno alla terra, in un
sofisticato attaccamento alla semplicità e per alcuni in un socialismo snobistico.
Perfetta incarnazione di questo modo progettuale è Edwin Lutyens che prima di arrivare negli
anni ’30 al progetto classicista è uno dei più prolifici attori dei risultati dell’approccio
Arts&Crafts. Insieme a Gertrude Jekyll (nota progettista di giardini e ortoculturista) avvia una
fruttuosa collaborazione per la fusione di edifici residenziali e giardini in periodo edoardiano.
Essi realizzano una serie di ville in campagna per una ricca clientela usando tecniche di
costruzione tradizionali, nella quale si rispecchiano i principi della Arts&Craftse di Webb.
Partendo dalla rilettura dei modelli storici (come il settecentesco Wueen Anne) egli associa una
scrupolosa attenzione dei materiali locali, affidati alle maestranze del posto, alla sistemazione
del verde. In Overstrand Hall del 1898 (fig. 7.11) impiega la muratura in pietra e malta,
riservando il laterizio per le cornici di finestre, profili, camini e coperture, mentre a Homewood
nel 1901 (fig. 7.12) cambia l’intonaco con il legno che riveste i timpani determinati dalla forte
pendenza dei tetti in tegole e inserisce elementi classicisti, archi a tutto sesto, per fare da
diaframma tra gli ambienti formali e il contesto naturale. Nel 1902 progetta una panchina per
una villa nel Sussex che avrà enorme fortuna ed è ancora in produzione.
La grande fortuna che porta ai tardi risultati dell’Art&Crafts è dovuta anche all’attività
pubblicistica e pubblicitaria che ruota dietro agli autori e ai loro progetti. La rivista Country
Life del direttore Edward Hudson ha commissionato a Lutyens una sontuosa Villa a Sonney nel
1899-1901, pubblica molti dei progetti di Lutyens insieme ad altre informazioni. William R.
Lethaby, uno degli architetti legati al movimento, pubblica diversi testi in cui riporta le
tecniche artigianali di derivazione medievale e il volume Architettura, misticismo e mito del
1891 in cui tenta di legare l’architettura a sistemi filosofici rafforzando l’idea di responsabilità
sociale dell’artista. Fondatore nel 1898 della Central School of Art&Crafts si pone come
obbiettivo la cancellazione della fattura tra progetto e produzione.
Il sistema del rapporto diretto tra prodotto e progetto, si ripresenta in altri paesi oltre la Gran
Bretagna e in particolare negli Stati Uniti e Giappone. Le 1° opere di F. L. Wright si collocano
su questa scia; in Giappone fa la sua comparsa una grande quantità di oggetti e di architetture
nippo-occidentali destinate a nuove classi dei funzionari e degli imprenditori. Nella vasta
circolazione di idee e prodotti si elaborano oggetti, case e giardini perfettamente rispondenti
alle necessità e ai gusti di una nascente borghesia raffinata ed esigente.

7.2 VERSO UNA SINTESI: PROGETTISTI E INDUSTRIALI. DALLE WIENER WERKSTATTE AL


DEUTSCHER WERKBUND
La visione Art&Crafts oltre che in Uk si diffonde anche in Stati Uniti e Giappone, anche se
privata della sua visione socialista. Nei paesi centroeuropei, come Austria e Germania, i risultati
dell’Art&Crafts vengono recepiti ed elaborati in diverse sfumature accogliendo il modello che
contribuisce a creare un’identità nazionale che si confronti con la modernità, per ricucire un

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sistema formale che corrisponda alle esigenze della contemporaneità. Nei paesi di lingua
tedesca risponde al principio dello Zeitgeist (spirito del tempo) nella sua accezione hegeliana.
Uno dei personaggi tramiti di questo trasferimento dall’area anglosassone a quella germanofona
è Hermann Muthesius che nel 1896 viene nominato addetto per l’architettura presso
l’ambasciata tedesca di Londra, dove trascorre 7 anni e invia relazioni in patria dove fa un
resoconto sui progressi dell’architettura e delle arti applicate, ma anche dell’insegnamento
artistico e industriale con lo scopo di trovare soluzioni applicabili all’area tedesca. In quest’area
infatti, dopo la sconfitta della Francia e l’unificazione-creazione del II Reich nel 1871, si era
creato un quadro di rete produttiva/economica diviso tra la campagna prussivana, composta da
aristocratici e possidenti terrieri conservatori; in questa dicotomia la produzione di merci e la
necessità di definire una “forma tedesca” faticavano a trovare spazio. Pare che proprio il Kaiser
Guglielmo II avesse voluto la creazione del ruolo poi assunto da Muthesius. Nel 1903 egli
pubblica in 3 volumi La casa inglese dove fa un’ampia ricognizione sull’architettura delle
residenze. Muthesius ammira il nuovo modello abitativo per la capacità di legarsi al
tradizionale e al rustico e di valorizzare nel giusto modo l’amata madre natura, incontrando
anche il gusto del pubblico; il testo è realizzato grazie a visite, interviste, documentazioni
fotografiche, rilievi e schematizzazioni (fig. 7.14-15). Per inserire il progetto inglese in area
tedesca Muthesius imposta un impianto teorico che esplora la forma nel passato e nel futuro
della nazione e promuove la creazione di alleanze con progettisti e industriali per creare una
cultura tedesca e affermare il primato produttivo della Germania.
Il parallelo con quanto avvenuto in Uk passa anche per l’importanza data alla casa e ai suoi
prodotti. Il successo commerciale delle produzioni Arts&Crafts così come quello ottenuto dalle
Dresdner Werkstätten (Laboratorio artigiano di Dresda) aveva innescato il processo che portò
alla trasformazione dei diversi linguaggi, inclusa l’architettura. L’esperienza delle Werkstätte,
aperte come vere e proprie imprese produttive e commerciali nei primi anni del secolo, funge
da cerniera tra l’austera versione inglese dell’atelier di produzione prevalentemente artigianale
e la successiva fase industriale.
I workshop tedeschi per la produzione di mobili, originariamente fondati nel 1898 da Karl
Schmidt-Hellerau, poi riformati nel 1907, arrivano ad avere nel 1910 (anno della costruzione
della fabbrica e della città-giardino ad essa connessa, fig. 7.16) circa 450 dipendenti che creano
prodotti di buona qualità a basso costo. L’ammodernamento della ditta avviene sotto la spinta
di Friedrich Naumann (nel 1896 fonda il partito social nazionale, di tendenze progressiste)
convinto che tramite l’arte si potesse creare una nuova cultura tedesca legata all’età della
macchina, come tacconta nel testo L’arte nell’epoca della macchina del 1910.
In AUSTRIA la Wiener Werkstatte viene aperta nel 1903, grazie alla collaborazione tra il
finanziatore Fritz Waerndorfer, Moser e Hoffmann; qui però la spinta al prodotto a buon
mercato non trova spazio e merci, di grandissimo successo a livello internazionale, rimangono
nell’alveo di oggetti destinati all’alta borghesia, di elevato costo ma semplicità formale. Il
discrimine è dunque la presenza di rappresentati del ceto politico innovatore, interessato al
sociale oltre che alla deifinizione di una nuova cultura nazionale.
Nella Germania di inizio ‘900 nasce la Deutscher Werkbund nel 1907 a Monaco di Baviera.
Inizialmente l’associazione accoglie 12 progettisti (Behrens, Fischer, Hoffmann, Olbrich, Bruno
Paul, Schumacher, …) e 12 aziende, accomunati dall’esperienza di innovazione nelle arti,
appartenenti a gruppi di frattura rispetto alle scuole storicistiche e riuniti intorno all’idea che
collaborazione tra le diverse componenti dell’epoca moderna potrà focalizzare una cultura e
un’estetica tedesche a muovere un settore economico nuovo e vincente. Le singole esperienze
dei diversi attori concorrono a mettere a fuoco l’importanza del ruolo dell’industria come stipite
di riferimento oltre alla dicotomia arte-artigianato. Alcuni tra gli architetti come Beherens e
Olbrich, erano stati coinvolti nel 1899 nell’esperimento guidato dal granduca d’Assia Ernst

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Ludwig che aveva voluto la creazione della Colonia degli artisti a Darmstadt (fig. 7.17), un
villaggio-atelier che prevedeva abitazioni-studio, un grande laboratorio-scuola, giardini e la
residenza dello stesso granduca. L’obiettivo era promuovere la crescita della regione con artisti
di lingua tedesca, i cui lavori vengono presentati al pubblico in una serie di esposizioni, la 1° nel
1901. Darmstadt rappresenta una condizione intermedia tra la creazione di “arte per arte” e la
successiva alleanza con il mondo economico. Molti dei protagonisti della colonia avevano alle
spalle esperienze precedenti. La timida e economicamente fallimentare, per gli altissimi costi,
sperimentazione di Darmstadt, oltre a diffondere attraverso le esposizioni e la pubblicistica la
concretizzazione degli ideali Arts&Crafts, ipotizza la possibilità che la ricerca avanzata intorno
al progetto e ai suoi risultati possa costituire una spinta economica oltre che culturale.
L’esposizione del 1908, a Werkbund già fondato, vede il coinvolgimento di un congruo numero
di industriali nella costruzione di un villaggio di case a basso costo, interamente arredate, gli
architetti devono confrontarsi con un budget ridottissimo. Anche la Opel richiede a Olbrich il
progetto completo di una casa per operai. Le scelte iniziali sono una commistione tra
Arts&Crafts (per l’idea di comunità semi-rurale, ruolo sociale dell’arte e modi di produzione) e
i linguaggi vicini all’Art Nouveau. Questi si sviluppano nei pochi anni di vita della Colonia,
fino al 1914, nella direzione di approggi progressivamente più pragmatici. La casa di Behrens
del 1901 (fig. 7.18) esprime in forme sinuose e grande cura dei particolari riferimenti
all’edilizia rurale del Nord della Germania, è l’edificio più costoso di tutto il primo nucleo della
colonia. La casa di Olbrich è già avviata a scelte di volumi semplici, rivestiti da grafismi
astratti, mentre la casa per lavoratori del 1914 dell’architetto Georg Metzendorf abbandona
ogni allusione alla volontà d’arte ed è una moderna casa di contadini, tetti inclinati e
rivestimento in tegole e aperture incorniciate in ceramica.
Quindi Werkbund = spunti dalle Art&Crafts inglesi, dalle Wrskstatte, dalle ricerce dell’Art
Nouveau di area tedesca + alcuni precoci indizi dell’interesse degli industriali per la moderna
cultura del progetto.
Architetti ed artisti abbandonano definitivamente la chiusura dell’atto creativo rispetto alla
realtà e si propongono come volano economico. L’architetto Fritz Schumacher, in occasione
della prima riunione della Werkbund afferma senza mezzi termini che l’unione di qualità
estetica e valori morali produce immancabilmente una ricaduta economica. Nel 1912
l’associazione si trasferisce a Berlino. Nel 1914 i soci diventano 971, fino a 1870.
Negli anni in cui la Werkbaud matura almeno un industriale aveva già preso contatti con questi
progettisti. Ad esempio Walther Rathenau, rampollo di una famiglia di imprenditori ebrei e
ingegnere, nel 1907 assume Behrens nel ruolo di consulente artistico dell’AEG, l’azienda di
famiglia, con il compito di impostare una veste grafica per la comunicazione, riprendendo le
sue prime esperienze professionali come illustratore e grafico. Negli anni Dieci l’AEG è attiva,
anche grazie all’acquisizione di brevetti Edison da parte di Emile (padre di Walther), in tutti i
campi connessi con l’elettricità, l’elettromagnetismo, l’ingegneria energetica. Il progetto di
Behrens parte inizialmente dagli aspetti di comunicazione del prodotto mediante l’impostazione
grafica dei cataloghi di vendita e dei manifesti pubblicitari per svilupparsi in un sistema di
Corporate Identity (=immagine coordinata) senza precedenti. Egli realizza: il logotipo aziendale
(fig. 7.20); l’invenzione di nuovi caratteri tipografici; il disegno dei prodotti (fig. 7.21);
l’assetto dei punti di vendita, fino a vere e proprie fabbriche. Nel ragionare sulla serialità
industriale e sulla componibilità, i suoi prodotti subiscono una semplificazione estrema nei
caratteri, composizione della pagina, rapporto testo-immagine; i caratteri tipografici sono
composti di poche e semplici aste che riprendono le maiuscole romane; gli oggetti per la casa e
gli spazi pubblici esprimono l’immagine familiare e domestica rimandando all’uso. Il passaggio
all’architettura aziendale avvenuto nel 1908 avviene così già caricato del peso e
dell’importanza del significato della fabbrica come luogo dove si trovano in equilibrio le

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tensioni tra la modernità e la volontà di forma. La fabbrica che la AEG costruisce tra 1908-14 e
il quartiere operaio, hanno lo stesso criterio di semplificazione e simbolismo della sua grafica,
traduzione della mistica inglese del lavoro artigianale e valori morali del linguaggio tedesco e
industriale.
La gigantesca Turbinenhalle (fabbrica delle turbine a Berlino) che Behrens progetta nel 1908-
09 (fig. 7.22-23), è solo la prima di una lunga serie di edifici e depositi industriali con strutture
a grandi luci per ospitare la sequenza produttiva. Spazio monumentale che nobilita le funzioni
che vi si svolgono, con approccio funzionalista. La necessità di organizzare il grande invaso
interno in base a un ponte mobile e aereo a gru per lo spostamento delle componenti
meccaniche per in via di montaggio, si traduce in una struttura in un arco spezzato in acciaio,
che è risolta nella copertura come un diaframma quasi interamente trasparente, appoggiato sulle
arcate a proseguire la maglia strutturale all’interno, nelle facciate esterne delle testate diventa
un austero timpano opaco, che porta impresso nella cella il simbolo dell’AEG e la destinazione
della fabbrica. La solidità e monumentalità nel profilo di testa è ribadita dal contrasto delle
pareti ad angolo in calcestruzzo intonacato piene e stilate a fasce, quasi un bugnato e l’ampia
parete in vetro con serramenti a moduli metallici contribuisce a rafforzare l’immagine della
sequenza pilastri angolari-architrave-timpano che rimanda all’archetipo del trilite primitivo e
militaresco che caratterizzerò la nuova industria. Il dinamismo della nuova industria è affidato
ai prospetti laterali: una lunga sequenza di pilastri in acciaio intercalati da vetrate e una stoà
metallica dove l’arditezza del calcolo viene esibita mediante l’assottigliamento verso il basso e
la cerniera nel punto di incontro tra pilastro e basamento.
L’esperienza di Behrens come architetto per l’AEG e di case private, e la vasta conoscenza del
dibattito sulla Deutscher Form, lo mettono in grado di rispondere alle richieste del suo
committente senza particolari condizionamenti formali. La combinazione tra un’ipotetica forma
archetipica tedesca, di impianto classico, e le soluzioni tecniche più congrue alla produzione
industriale concretizza la teorizzazione di Muthesius. Anche gli oggetti progettati da Behrens
hanno il medesimo orientamento: accostando i bollitori e le teiere disegnati per l’AEG a oggetti
progettati più di trent’anni prima da Dresser, in un quadro che costituisce il versante
dell’Aarts&Crafts che non rifiuta l’industrializzazione, si nota come le prime siano legate ad un
modello domestico più rassicurante.
Grazie alla crescente partecipazione a progetti industriali, la Werkbund procede speditamente
con un’intensa serie di pubblicazioni e convegni; nel 1912 Muthesius sottolineerà che il
Wrkbund persegue la spiritualizzazione del lavoro nella cooperazione tra arte, industria e
commercio mediante la formazione, la propagandistica su posizioni pertinenti. Nel 1914
avviene la I Esposizione Internazionale del Werkbund a Colonia (fig. 7.24); sostenuta
fortemente da politici nazionalisti e industriali, richiese un grande sforzo economico e fu un
palcoscenico per i manifesti del progresso culturale e industriale dei paesi di lingua tedesca.
L’area affacciata sul Reno (fig. 7.25) accoglie edifici finanziati dall’associazione stessa:
Festhalle di Behrens , Haus der Farbenshau di Muthesius, Teatro del Werkbund di van der
Velde e la Fabbrica e uffici modello di Gropius.
Walter Gropius è tra i più recenti associati del Werkbund, reduce da un periodo di formazione
presso lo studio di Beherens e dalla progettazione dell’ampliamento di una Fabbrica di scarpe a
Alfeld an der Leine nel 1911, di componenti per le ferrovie statali prussiane e di altri progetti
(come il Treno delle linee aerodinamiche per Steinfurt, fig. 7.26); Van de Velde invece si può
considerare uno dei veri fondatori del Werkbund.
Durante il congresso usciranno le 2 anime prevalenti che hanno formato il gruppo. Tutto ruota
attorno alla polemica sull’idea di “tipizzazione” da una parte e di “volontà d’arte” dall’altra. La
prima posizione è sostenuta da Muthesius e Behrens, la seconda da Van der Welde.
MUTHESIUS sostiene il “tipo” progettuale da sviluppare o modificare ma che deve sempre

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comporre l’ossatura del progetto; per lui l’architettura è “come una cornice ritmica dei nostri
bisogni e forma il sottofondo silenzioso su cui lo straordinario della vita può costruirsi”; inoltre
non può dimenticare in alcun modo la tradizione, non come copia ma come sequenza di
trasformazioni di tipi. L’approccio propone l’adattamento del tipo ideale al contesto sociale;
Muthesius sostiene ciò che è stato fatto fino a quel momento: l’avviamento di trattative con
impresari e la regolare pubblicazione di veri e propri cataloghi di architetture costruite e di
merci in produzione. La presentazione negli Jarbücher (annuari) del Werkbund di immagini
della Torre dell’acqua di Poelzig (fig. 7.27), con sinuose forme delle lastre d’acciaio
imbullonate, delle fabbriche di Behrens e Gropius, dei servizi da tavola di Van de Velde, …
esprime molto bene la missione pragmatica promossa da Muthesius durante il convegno.
Il discorso di Muthesius provoca ovviamente reazioni che erano già nell’aria. Grandi applausi
accolgono le contro-tesi di VAN DE VELDE che, dichiarando di rappresentare parte
dell’associazione, rivendica la libertà della creazione artistica in contrapposizione con ogni
sorta di ricerca di tipo o canone. Muthesius viene accusato di essere interessato alle regole del
mercato, mentre per Van de Velde va rispettato l’ingegno dell’artista e la suaunicità. Gropius
non si esprime, accodandosi in qualche modo alle posizioni di Van de Velde ma mantenendo un
atteggiamento piuttosto ambiguo, salvo provocare le dimissioni di Muthesius e entrare nel
consiglio di amministrazione del Werkbund.
Gli edifici firmati dai promotori della tipizzazione sono lontani dall’idea di standard
industrializzato caratteristico dell’architettura del Razionalismo. Nell’Haupthalle di Fischer lo
scheletro costruttivo ritmico è in cemento armato, materiale di cui lui era esperto, risulta sempre
mascherato da elementi tipo desunti dal passato, che imbrigliano la creatività e la bellezza
nuova. La Festhalle di Behrens (fig. 7.28) è organizzata come una grande aula basilicale con
copertura a falde e due blocchi scanalati che alludono a colonne, con architrave e modanature a
inquadrare l’ingresso in forma di arco di trionfo con finestrone termale e specchiature con
bassorilievi decorativi. L’andamento è ritmico e seriale. Si respira una classicità fuori dal
tempo. Analogo risultato nell’edificio di Muthesius dove tutto converge in una cupola a
lanterna e copertura semisferica con un pronao semplificato, che ci ricorda il progetto di
Schinkel per l’Altes Museum di Berlino.
L’ambiguità di Gropius espressa nel dibattito è ben rappresentata anche nell’edificio della
fabbrica e uffici modello, dove al volume del capannone industriale, in realtà un adattamento
di un edificio preesistente, con tetto a capanna, a costruire un archetipo, corrisponde in
simmetria la palazzina degli uffici che unisce in un corpo solo la componente “tipica” e la
componente sperimentale.
Altro discorso vale per il Teatro di Van de Velde (fig. 7.29-30), dove l’edificio sfugge a ogni
inquadramento, demolito nel ’20, è organizzato intorno a rigidi assi di simmetria e intorno a
una sala rettangolare, si articola come massa di volumi scultorei dove gli angoli degli spigoli
sono smussati e le aperture scavate plasticamente. Differenti corpi di fabbrica addossati alla
sala e alla torre di scena digradano con coperture arrotondate, come la pensilina e la rampa che
accompagnano lo spettatore all’ingresso affiancato a due finestroni ovali incassati fra le pareti.
l’altro edificio che rivendica la quota di individualità e artisticità è il Padiglione di vetro di Taut
fatto da una struttura in cemento e grandi lastre in vetro.
Il contrasto tra i due schieramenti si scontra con l’avvio della prima guerra mondiale che
interrompe anche l’esposizione a Colonia. Dopo la guerra il tema della responsabilità sociale di
industria e architettura torna ad essere in primo piano. Van de Velde suggerisce per Gropius la
carica di Direttore della scuola di Arti e Mestieri fondata nel 1905 che sfocerà nel Bauhaus.
Taut e gli altri metteranno le loro abilità al servizio delle abitazioni operaie. Il gruppo
Werkbund giungerà a risultati orientati alla produzione industriale, raccogliendo e
promuovendo tutti i protagonisti del Movimento Moderno, mentre i promotori della corrente

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tipizzatrice non si libereranno mai dalle componenti storiche e contribuiranno alla definizione
di modernità alternativa senza rinunciare ai caratteri nazionali e Classicismo.

Parte II – Il Novecento

Cap. 8 - Avanguardie artistiche e architettura


Nel 1907 il dipinto Les demoiselles d’Avignon di Pablo Picasso costituisce forse la più
significativa sintesi del processo di rottura con il passato e un possibile punto di ripartenza per
l’arte che vuole essere in sintonia con i tempi di trasformazione sociale. Dall’Espressionismo
all’Astrattismo, dal Cubismo al Dadaismo, dal Futurismo al Suprematismo, dal Surrealismo,
alla pittura metafisica, componendo una sfaccettata galassia di ricerche, raccolta sotto la
definizione di “Avanguardie artistiche del Novecento”. Elemento comune di queste ricerche è
la volontà di interrompere il filone della continuità con la storia e con la tradizione che si fonda
sulle innovazioni tecniche, ricerche scientifiche, processi industriali, consapevolezza politica,
internalizzazione dei mercati. L’architettura sarà al centro di questo processo e non soltanto
riceverà stimoli di rinnovamento, ma sarà anche vista come possibile sintesi di tutte le arti.

8.1 ESPRESSIONISMO TEDESCO


Nella Germania dei pittori espressionisti organizzati in gruppi come Die Brücke e Blaue Reiter,
l’impegno dell’arte nelle problematiche sociali e nel tentativo di rappresentare i sentimenti e le
angosce dell’uomo trova terreno di sperimentazione nell’astrazione e nell’uso di colori forti non
naturali e deformazione del vero. Nell’architettura questo tentativo di abbandonare le regole del
passato trova linfa vitale nelle opportunità dei nuovi materiali come calcestruzzo armato, ferro
e vetro. Le opere costruite non sono numerose ma interessanti per capire la ricerca di nuove
forme non tradizionali, pensando all’architettura come ad una scultura che sia plasmabile fino a
giungere a forti contrasti luce ed ombra, movimenti di masse, sfaccettature cristallografiche
delle superfici di vetro, plasmando il calcestruzzo con forme biomorfiche.
Con la pubblicazione nel 1914 del libretto Architettura di vetro il poeta Paul Scheerbart
propone la creazione di una nuova civiltà del vetro. L’architettura utilizzerà il vetro come
nuova frontiera di conquista tecnologica ma anche come strumento per la costruzione di edifici
emblematici di un’umanità libera dalla schiavitù del lavoro e dalle convenzioni borghesi, in cui
la trasparenza diurna e illuminazione notturna dvientano espressioni di una civiltà rinnovata. Il
volume è dedicato al più giovane amico e architetto Bruno Taut che con il suo padiglione di
vetro (fig. 8.1) all’Esposizione di Werkbund di Colonia del 1914, sembra concretizzare l’utopia
scheerbartiana. Il padiglione ha un basamento circolare in calcestruzzo armato su cui poggia
una parete in vetrocemento, chiusa da una copertura in struttura in calcestruzzo armato e vetro.
Dalle pareti e dalle lastre di vetro della copertura filtra la luce e riflessa da mosaici e cascata
d’acqua. Il vetro diventa un elemento per far luce, dare trasparenza e colore a elementi di una
nuova architettura. Ancora all’Esposizione di Stoccarda è realizzato il Teatro di Van de Velde
che con i suoi volumi arrotondati e quasi antropomorfi e le forme concave e convesse è
espressionista.
Durante la repubblica di Weimar 1923-22, anche se breve, la crisi economica e aspri conflitti
politici, le aspirazioni ad una trasformazione rivoluzionaria della società coinvolgono artisti e
architetti. Dal Novembergruppe (Gruppo di novembre), che si rifà ai moti rivoluzionari del
novembre 1918 e raccoglie artisti radicali che seguono principio di libertà, uguaglianza,
fraternità, nasce il Consiglio del Lavoro per l’Arte (Arbeitsrat für Kunst), organizzato
secondo il modello dei primi soviet operai, dove troviamo gli architetti Bruno e Max Taut,
Adolf Behne, Otto Bartning, Bernhard Hoerger, Adelf Meyer, Erich Mendelsohn, Walter
Gropius. Nella loro visione, influenzata dall’anarchismo e dal pensiero comunista, l’architettura

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deve essere una sintesi di tutte le arti, secondo il modello della collaborazione delle
corporazioni medievali, coordinate al fine della costruzione della cattedrale, opera d’arte totale
per eccellenza, sintetizzata nella famosa xilografia Cattedrale del 1919 di Lyonel Feininger
(fig. 8.2). Vorrebbero un’arte a servizio della società e del popolo, che rifiuti gli obbrobri della
guerra a cui hanno portato scienza e tecnologia.
La svolta dopo i moti spartachisti del 1919 e la difficoltà a costruire per la crisi economica
inducono Taut a promuovere la Catena di vetro (Glaserne Kette), una rete di corrispondenza
alla quale partecipano gli artisti del Consiglio del Lavoro per l’Arte, gli architetti Hans
Scharoun, Hans e Wassili Luckhardt. Il fitto epistolario permette lo scambio di idee, il
confronto di progetti fantastici e l’approfondimento del rapporto tra architettura, arte, inconscio
e società. Taut in questo periodo pubblica una serie di testi comprendenti scenografie teatrali e
architettura fantastiche e luminose. In Architettura Alpina egli immagina case e monumenti di
cristallo tra i ghiacciai; con La Corona della Città propone una città senza chiese e tribunali,
dominata da grandi edifici in vetro destinati a funzioni pubbliche; ne La dissoluzione della città
descrive una società del futuro, senza nessuna costrizione degli individui, insediamenti sparsi
nel territorio con gestione collettiva. Le visioni utopiche di Taut non avranno realizzazione
concreta, tuttavia alcuni edifici espressionisti iniziano ed essere costruiti, con la fiducia nella
scienza e la tecnologia per risolvere i problemi dell’umanità.
L’opera realizzata più emblematica di questa stagione è probabilmente il Grande Teatro
(Grosses Schauspielhaus, fig. 8.3) realizzato a Berlino da Hans Poelzig nel 1918-19 e distrutto
nel 1988. L’architetto interviene sul preesistente mercato coperto e riveste l’interno con una
vasta cupola di gesso e legno, decorata da stalattiti di vetro sfaccettato, che creano un luogo
suggestivo, una specie di cattedrale laica.
L’osservatorio astronomico Albert Einstein (fig. 8.4) a Postdam di Erich Mendelsohn del
1917-21 è una sorta di scultura dalle forme dinamiche, concave e convesse, con profonde
bucature per le aperture, influenzata dalle ricerche sui concetti di spazio, tempo e materia:
l’opera doveva essere realizzata con un’unica colata di calcestruzzo per dare vita ad una
immagine di modernità, ma sarà invece realizzata con tradizionale muratura portante. La sua
attività prosegue negli anni Venti-Trenta con edifici per l’industria e per il terziario: Grandi
Magazzini per la catena commerciale Schocken di Stoccarda e di Chemnitz, dove evolve la sua
visione espressionista in un linguaggio di facciate incurvate, con l’alternanza di fasce
tamponate e finestrature a nastro, vetro per riflettere la luce del sole oppure per sottolineare la
luce artificiale degli interni. Anche la casa unifamiliare del Weissenhof a Stoccarda (fig. 8.5),
di Scharoun, è figlia del clima di ricerca antitradizionale e provocatorio, le cui forme
movimentate derivano dall’aderenza alle funzioni interne orgogliosamente esibite. Scharoun si
occuperà anche della ricostruzione postbellica di Berlino dove realizza la Filarmonica.
Nell’ambito dell’architettura plastica è da ricordare il II Teatro dedicato a Goethe
(Goetheanum, fig. 8.7), di Dornach presso Basilea, progettato dall’antroposofo Rudolf Steiner,
sulle macerie del primo edificio costruito nel 1913 e andato a fuoco nel 1922 (fig. 8.6).
L’imponente edificio in calcestruzzo armato a vista è il fulcro di un villaggio dedicato alla
realizzazione dell’utopia steineriana e testimonia le possibilità delle nuove tecniche costruttive
nel dare vita a forme complesse e simboliche. Forme sinuose, con pinnacoli e coperture
plastiche, ma realizzate con il più tradizionale mattone, si trovano anche negli interventi di
edilizia a basso costo fatti in Olanda negli anni Dieco-Venti da alcuni protagonisti della “scuola
di Amsterdam”.
Ad Amburgo il Chilehaus di Fritz Hoger del 1923, sede della compagnia di navigazione e di
importazione di potassio dal Cile, esprime l’apparente contraddizione tra una forte carica
simbolica della sua forma a prua di nave e il coevo interesse per il Gotico e per il ritorno
all’organizzazione corporativa dei cantieri del passato (fig. 8.8).

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Dal 1923, al consolidarsi della Repubblica di Weimar e con l’avvio della ripresa economica,
l’Espressionismo Tedesco tende a esaurirsi, per confrontarsi con temi molto concreti, come il
problema della casa per i lavoratori. La ricerca espressionista non si esaurirà del tutto ma
confluirà nel Movimento Moderno.

8.2 FUTURISMO ITALIANO


A inizio ‘900 l’Italia è un paese ancora prevalentemente agricolo. Tuttavia alcuni poli urbani
come Torino e Milano, si stanno rapidamente proponendo come luoghi di inserimento di
industrie, istituzioni di ricerca e di formazione e concentrazione di manodopera specializzata.
Gli artisti e intellettuali vedono nella velocità delle auto, nell’emancipazione dei lavoratori,
nella frenetica attività delle fabbriche elementi di riferimento del rinnovamento artistico. Nel
1909 Filippo Tommaso Marinetti pubblica su “Le Figaro” il Manifesto del Futurismo,
esaltando tutte queste caratteristiche della nuova realtà italiana. Questo linguaggio evocatore
delle grandi città nordamericane, delle grandi industrie, delle infrastrutture di ingegneria viene
ripreso da pittori e artisti.
Anche l’architettura sarà posta al centro di questo fermento attraverso l’opera del giovane
architetto Antonio Sant’Elia, di Como, che dopo gli studi a Brera e la laurea a Bologna, nel
1912 forma Mario Chiattone il gruppo Nuove Tendenze, che espone nel 1914 a Milano una
serie di disegni di architetture per una città del futuro, poi raccolte in Città Nuova. Milano
nell’anno 2000 (fig. 8.9). Le immagini di Sant’Elia delineano una nuova architettura che, pur
non essendo approfondita in luoghi specifici o piani urbanistici, propone visioni affascinanti in
grado di colpire i giovani progettisti. Sono prevalentemente prospettive vertiginose, viste a volo
d’uccello, realizzate in tratto scuro a china, carboncino o acquerello. Sono proposti edifici
giganteschi, centrali elettriche, fabbriche, dighe, stazioni, aeroporti, edifici affollati di veicoli e
di persone, automobili, ascensori (fig. 8.10).
Nel 1914 Sant’Elia scrive con Marinetti il Manifesto dell’Architettura Futurista, dove
denuncia lo stato di confusione dell’architettura del tempo e propone possibilità nuove con le
innovazioni tecniche. Egli parte dalla constatazione che dopo il ‘700 non era più esistita
nessuna architettura a causa della continua copia e mescolanza degli stili del passato, condotta
nell’ambito del neoclassicismo e dell’Eclettismo; egli afferma che il problema della nuova
architettura non si risolve con rimaneggiamento lineare cioè con la ricerca di nuove sagome per
la decorazione, ma si deve “creare di sana pianta la casa futurista, di costruirla con ogni risorsa
della scienza e della tecnica”. Secondo lui bisogna fare uso di nuove tecnologie, come quelle
del calcestruzzo armato, del ferro e del vetro, leggero, pratico, effimero e veloce. L’architettura
futurista deve quindi esprimere la nuova organizzazione sociale e la nuova disponibilità di
strumenti meccanici e di conoscenze scientifiche. Il manifesto si conclude con la proclamazione
di 8 punti che costituiscono una serie di indicazioni operative per progettare l’architettura
futurista:
1. Uso nuove scoperte strutturali 5. Negazione della decorazione
2. Uso cartone, fibra tessile e surrogati dei 6. Uso dei materiali non mascherati o
materiali naturali violentemente colorati
3. Architettura effimera e non durevole 7. Ispirazione dagli elementi del mondo
4. Linee oblique ed ellittiche più dinamiche meccanico
ed evocative 8. Forme provocatorie estremizzate.
Tuttavia, le proposte di Sant’Elia, tranne i progetti per la stazione di Milano, sono rivolte a tipi
architettonici ideali ma privi di una loro collocazione reale, egli non entra veramente nel merito
delle soluzioni tecnologiche, non affronta lo studio delle sezioni né tutte le fasi che la
progettazione richiede. I circa 300 disegni del suo archivio restano il suo unico lascito concreto,

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ma le sue immagini influenzano in modo significativo le elaborazioni di un’architettura della
modernità (fig. 8.11).
Alla vigilia del Conflitto mondiale, i futuristi aderiscono all’interventismo e vanno al fronte,
anche come volontari; molti di loro troveranno la morte in battaglia. Questa scelta della guerra
come esaltazione della tecnica e di una rifondazione futurista dell’universo ha fatto sì che si
mal interpretassero le intenzioni di questo gruppo, che con la loro proposta di rinnovamento, di
rompere con il passato e con le convenzioni borghesi, non si allontanano più di tanto dal
costruttivismo russo. Nel dopoguerra la generazione dei sopravvissuti, guidata da Marinetti,
aderisce al regime fascista perdendo la carica innovativa e anti-accademica degli esordi;
tuttavia il gruppo di artisti si oppone al “ritorno all’origine” degli anni Venti e darà vita al
Secondo Futurismo con l’intento di richiamarsi agli ideali originali; tra loro Chiattone, Luigi
Colombo detto Fillìa, Depero, Guido Fiorini, Cesare Poggi, Enrico Prampolini. L’avanguardia
italiana si esaurisce di fronte all’esigenza di interpretare la propaganda e le opere del nuovo
regime.

8.3 COSTRUTTIVISMO RUSSO


Tra ‘800 e ‘900 la Russia zarista è ancora in gran parte feudale ma è galvanizzata dallo sviluppo
industriale di alcune città come San Pietroburgo e Mosca e i porti sul Mar Baltico. La nascita
dei primi movimenti di operai e di cittadini che lottano per migliorare le durissime condizioni di
sfruttamento e la rivoluzione del 1905 sono espressioni di una vitalità sociale che ha riflessioni
anche nell’arte e nella cultura. Molti artisti viaggiano in Europa e a Parigi dove hanno modo di
incontrare i protagonisti delle avanguardie.
- Nel 1912 è lanciato in Russia il Manifesto del Cubofuturismo animato dal poeta
Majakovskij;
- Nel 1913 esce il Manifesto del Raggismo ossia una sintesi di Cubismo, Futurismo e Orfismo,
fondato dai pittori Larinov e Gonciarova.
- Nel 1913 viene organizzata in una Galleria di San Pietroburgo la Mostra 0.10 di quadri astratti
di Malevic tra cui il famoso Quadrato nero su fondo bianco; nel 1915 l’autore firma il
Manifesto del Suprematismo, con la collaborazione di Majakovskij, affermando che “l’arte
non può più stare al servizio della religione e dello Stato”.
La Rivoluzione del 1917 guidata da Lenin scardina le istituzioni zariste, abolisce la proprietà
privata, pone le basi per costruzione del socialismo. Milioni di lavoratori in tutto il mondo
guardano i fatti russi come un esempio praticabile per dar vita ad una società improntata
all’uguaglianza e alla giustizia. Una proliferazione senza precedenti di gruppi e di tendenze
artistiche accompagna la rinascita sociale e manifesta un inedito impegno degli artisti a fianco
di lavoratori e agitatori. In questa fase, con la direzione di Anatolij Lunacarskij al ministero
della cultura, il governo sovietico lascia ampia libertà al dibattito artistico.
Nel 1917 il medico-politico Alexandr A. Bogdanov fonda il Proletkult (cultura proletaria), con
l’intento di organizzare gli artisti sulla strada di una nuova sensibilità politica. Nonostante il
periodo di crisi economica tutte le espressioni artistiche sono incoraggiate. Sono potenziati
musei, si hanno finanziamenti pubblici per le opere d’arte e sostegno agli artisti indigenti. Si ha
una vera e propria esplosione di proposte negli anni 1917-19.
Nel 1920 nascono l’Istituto per la Cultura Artistica (l’Inkhuk) e il centro per gli Studi Superiori
Artistici e Tecnici (Vchutemas). Nel dibattito e nelle opere prendono forma 2 principali
tendenze contrapposte, già presenti prima della guerra:
1. Tendenza degli artisti rivolti alla ricerca astratta, pura, non utilitaria, compendiata nelle opere
di Kandinskij, Malevic; negli scultori Naum Gabo e Antoine Pevsner, che nel 1920
pubblicano il Manifesto del Realismo.

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2. Tendenza più strettamente legata alla vita pratica, alla produzione industriale e all’impegno
politico, presente nelle opere di Tatlin, Rodčenko, Gan, sintetizzata nel Programma del
gruppo produttivista, firmato da Rodcenko e dalla moglie Varvara Stepanova, considerato
il 1° manifesto costruttivista.
Nel 1922 Gan pubblica il libro Il costruttivismo, dove viene teorizzata la possibilità di definire
nuovi compiti della nuova cultura comunista attraverso unione di aspetti tecnici e funzionali a
componenti ideologiche e formali. Nello stesso anno si svolte la Mostra della “Società dei
giovani artisti”, definita costruttivista. Il Manifesto architettonico dei costruttivisti appare nel
1923 per opera dell’architetto Moisej Ginzburg. Le sue tesi, riportate nell’opera Stile ed epoca,
sono esposte alla MAO (Organizzazione degli Architetti di Mosca).
Il dibattito tra astrattisti e produttivisti si riflette anche nella nascita di organizzazioni come
l’ASNOVA (Associazione dei nuovi architetti, fondata nel 1923 da Nikolaj Ladovskij) e l’OSA
(Società degli architetti contemporanei, fondata nel 1925 dai fratelli Vesnin). Gli architetti
dell’ASNOVA sostengono la necessità di evidenziare le qualità emozionali ed estetiche delle
forme architettoniche, con incontro tra struttura, linea e fantasia; queste teorie trovano affinità
con Malevič e il suo gruppo UNOVIS (Affermazione delle nuove forme nell’arte). L’OSA, che
pubblicherà la rivista Architettura contemporanea dal 1926 al 1930, considera la nuova
organizzazione sociale come l’unica base possibile della moderna concezione architettonica che
deve essere volta alla costruzione materiale del comunismo, come “tecnica” oltre che
costruttiva, nuovi tipi edilizi socialisti.
Le difficoltà economiche dei primi anni della rivoluzione non consentono di realizzare vere e
proprie opere di architettura, perciò ci si concentra soprattutto sulla propaganda. Edifici, piazze,
mezzi di trasporto sono molto colorati, ricoperti di scritte e manifesti inneggianti alla
rivoluzione. Lazar El Lissitzsy progetta Tribuna Lenin nel 1920, secondo linee geometriche
inattese (fig. 8.16-17). Molti progetti si riferiscono ad arredi prodotti industrialmente, pratici,
smontabili e trasportabili, oppure a vestiti confortevoli ed economici, fino a utensili di uso
quotidiano come stufe ad alta resa.
Opera che può essere assunta come paradigmatica dell’intero movimento costruttivista è il
progetto per il Monumento alla III Internazionale di Tatlin del 1919-20 (fig. 8.18). È un
enorme doppio traliccio in acciaio a spirale, alto più di 400 metri, memore della Tour Eiffel, ma
asimmetrico e inclinato, che sostiene 4 volumi in vetro: un cubo, una piramide, un cilindro e
una semisfera, sospesi e ruotati su sé stessi a diverse velocità a seconda dei tempi di
convocazione dei vari organi di governo e di propaganda dei Soviet a cui sono destinati. Qui i
principi tradizionali dell’architettura sono scardinati, la struttura portante è all’esterno,
tettonicità e staticità sono stravolte: la torre è inclinata, i volumi sono appesi e addirittura si
muovono.
L’esaltazione strutturale è al centro di molte richieste in questo periodo, come quelle degli
allievi di Ladovskij tra cui il Ristorante sospeso sotto la roccia a picco sul mare oppure i
Grattacieli orizzontali di El Lissitzsy, enormi edifici su pilastri, al di sopra della città (fig. 8.19).
In molti progetti si mette particolare enfasi sull’uso esibito di soluzioni strutturali e impianti
tecnologici a vista, come la Sede della Pravda a Leningrado dei fratelli Vesnin, o nell’Istituto
Lenin a Mosca di Ivan Leonidov.
In questa prima fase tra le rare opere costruite si possono ricordare i padiglioni espositivi, come
quello di Golosov per la Mostra dell’agricoltura e artigianato della Russia del 1923, e quello di
Melnikov per la Mostra internazionale di arti decorative di Parigi nel 1925. Con l’evolvere
della situazione politica gli architetti sono sempre più coinvolti nella progettazione di edifici
pubblici del nuovo Stato socialista, residenze dei lavoratori e pianificazione di città e territorio.
Il concorso per il Palazzo del Lavoro (fig. 8.20), lanciato nel 1° congresso dei Soviet nel 1922
e costruito nel 1923 dai fratelli Vesnin, è un banco di prova interessante. L’edificio era

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destinato al Ministero del lavoro, al partito di Mosca e a sede dei Soviet, con una sala per 8mila
persona e altre con capienza 300-1000. Dei circa 50 progetti presentati, il progetto dei fratelli
Vesnin è il più all’avanguardia (con struttura e apparati in facciata) ma riceverà solo il 3°
premio.
Al centro del dibattito del tempo c’è il tema dei cosiddetti club operai, fulcro di attività politiche
e sociali dei lavoratori, dotati di spazi per rappresentazioni teatrali, cinema, sport, biblioteche.
Inizialmente pensati a imitazione del teatro borghese, essi diventano condensatori di vita
sociale, progettati sulla base di una ricerca formale innovativa e disposizioni planimetriche
funzionali e variabili a seconda delle esigenze. Alcune di queste opere realizzare a Mosca sono:
il club Rusakov del 1927-29 di Melnikov (fig. 8.21), con compenetrazione di corpi sporgenti
delle 3 sale principali del teatro collegabili con 7 mobili, unico spazio; e il club Zuev del 1928
di Golosov (fig. 8.22), un parallelepipedo con un cilindro vetrato all’angolo, con uno spigolo a
sbalzo.
L’abitazione è un altro nodo importante di ricerca e sperimentazione, non soltanto come
tentativo di risolvere la storica mancanza di case dignitose per i lavooratori ma anche come
strumento per mettere in discussione il modello di vita borghese e promuovere la nuova
organizzazione sociale. Nel 1925 il Soviet di Mosca lancia un concorso per il progetto di casa
comune, il programma prevede un complesso per circa 800 abitanti in camere individuali di
minimo 9 mq, collegabili se destinate a famiglie, dotate di locali per bambini, mensa,
lavanderia, cucina, svago o uso culturale. L’obiettivo è quello di superare l’individualismo,
sviluppare una nuova socialità. Pochi gli esempi realizzati, tra cui l’edificio per i dipendenti del
Narkimfin – Commissariato per il popolo e le finanze del 1927-29 di Ginzburg e Milinis (fig.
8.23), che, con la provocatoria casa cilindrica di Melnikov del 1927-29 (fig. 8.24), costituisce
una delle testimonianze più rilevanti. Negli anni successivi si perfezionano i modi di
assemblare le cellule abitative, risparmiando superfici di distribuzione e incrementando spazi
collettivi.
Nell’agosto 1918, con il decreto per la soppressione della proprietà privata degli immobili nelle
città superiori a 10mila abitanti, e con i provvedimenti di socializzazione dell’uso dei suoli,
sono poste le basi per una pianificazione su scala urbana per risolvere arretratezza delle
condizioni abitative delle campagne e affollamento città. Nel marzo 1918 il governo bolscevico
aveva trasferito la capitale da San Pietroburgo a Mosca, che però versava in condizioni
disastrose di strade, reti idriche e fognarie, carenza di alloggi e servizi. Il dibattito si articola
sulle proposte degli “urbanisti” e quelle dei “disurbanisti”: gli urbanisti vorrebbero
modernizzare le città esistenti attrezzandole con servizi e case collettive, progettando nuovi
insediamenti per funzioni produttive; i disurbanisti vorrebbero invece una pianificazione che
eviti le grandi concentrazioni urbane per superare conflitti campagne. I primi piani per lo
sviluppo della capitale di Zoltovskij e Ščusev confermano la struttura storica radiocentrica
della città, allineamenti stradali e assi prospettici che consentono uno sviluppo controllato, linee
della metropolitana e cinta verde con soluzioni che si rifanno sulla città giardino e la City
Beautiful americana. La casa singola è ancora fondamentale anche se si cerca di sostituirla da
focolai collettivi multipiano.
Nel 1930 il disurbanista Ginzburg propone un piano per la ricostruzione socialista di Mosca,
proponendo lo spostamento delle attività produttive fuori dalla città e strade separate dalle
residenze da aree verdi. Il piano per la città verde di Mosca susciterà l’interesse, ma anche la
critica, di Le Corbusier che lo riterrà basato sull’utopia del “ritorno alla natura” e giudicherà
impossibile spostare tutto in campagna.
Tra 1930-32 si sviluppa il concorso per il piano di mosca che costituisce l’ultima occasione
dell’avanguardia per esprimersi sulla forma della città socialista. Negli anni successivi viene
redatto il piano che verrà adottato dal 1935, ma la situazione politica nel mentre cambia.

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La spinta del Costruttivismo si esaurisce nel processo di burocratizzazione e di involuzione
autoritaria dello Stato sovietico. Con la morte di Lenin, Stalin porta all’emarginazione di chi ha
partecipato alla Rivoluzione del 1918. Con il controllo centrale dell’economia e con lo
sviluppo forzato dell’industria avrà il sopravvento la scelta della pianificazione dall’alto, con la
costruzione dei quartieri operai e di nuovi centri urbani integrati ai poli produttivi, destinati ad
ospitare grandi concentrazioni di manodopera, in condizioni di vita molto dure. Il progressivo
controllo politico sull’arte e sulla società si riflettono nel disincantamento di molti artisti, che
trova espressione nel suicidio di Majakovskij del 1931. In architettura il segno del cambiamento
dei tempi viene tracciato dal concorso per il Palazzo dei Soviet del 1930-33 (fig. 8.25, sede dei
principali organi della nuova società sovietica, che viene vinto da Boris Jofan. Il progetto
prevede un basamento a più livelli sorretto da colonne su cui si erige una enorme aula coperta
da una cupola, coronata da una gigantesca statua raffigurante Lenin. Alla 1° fase ad inviti
partecipano molti architetti stranieri (Mendelsohn, Poelzig, Gropius, Perret, Brasini, Le
Corbusier); la 2° fase vede partecipare più di 250 gruppi di progettazione i cui lavori saranno
esposti in una grande mostra a Mosca nel 1932. Nonostante la presenza di proposte di architetti
dell’avanguardia, vince il progetto tradizionalista di Boris Jofan, che inizia i lavori nel 1936.
Nel 1932 il Congresso degli scrittori sovietici stabilisce lo scioglimento di tutte le
organizzazioni culturali e artistiche dell’avanguardia e il controllo da parte dello Stato di tutte le
espressioni scientifiche ed artistiche. Ritorno al classicismo.

8.4 NEOPLASTICISMO OLANDESE


Il tentativo più esplicito di trasferire direttamente nell’architettura e nel design le ricerche
astratte delle arti figurative avviene con il Neoplasticismo olandese. A inizio ‘900 i Paesi Bassi
costituiscono una delle regioni europee più sviluppate economicamente e culturalmente; hanno
una visione aperta al confronto tra culture e popoli.
Qui la Scuola di Amsterdam ha preso le mosse dall’opera di Hendrik Berlage, formatosi con
insegnamenti di Semper e di Le Duc, che realizza la nuova Borsa di Amsterdam nel 1898-
1903 (fig. 8.26), secondo l’immagine di una cattedrale romanica ma contraddetta all’interno
dalla sala luminosa delle contrattazioni, la cui copertura di vetro è sorretta da una struttura ad
archi e capriate di ferro, completamente lasciata a vista. Qui si sviluppano le dottrine filosofico
matematiche di Matthieu Schoenmaekers, si organizzano mostre di pittori cubisti francesi e
altro. In questo ambiente si forma il pittore Piet Mondrian che, con Kandinskij, sarà tra i
protagonisti della radicale emancipazione della ricerca pittorica dalla rappresentazione
figurativa; a differenza di Kandinskij, l’astrattismo di Mondrian non è di connotazione lirica e
romantica ma razionale; per dare un’interpretazione oggettiva della realtà le linee sono ridotte a
rette, tra loro perpendicolari, le superfici a quadrati e triangoli, i colori sono soltanto primari e
le loro sintesi estrema. La pittura si è svincolata dalla realtà e cerca una nuova razionalità.
Nel 1917, dall’incontro fra Mondrian e il pittore-critico Theo van Doesburg, nasce la famosa
rivista De Stijl, attorno alla quale si raccoglie un gruppo di intellettuali e artisti provenienti da
paesi che aderiscono alla ricerca; tra loro: LEck, Hans Arp, Vilmos Huszar, gli architetti Pieter
Oud, Jan Wils, Gerrit Rietveld, il pittore italiano Gino Severini. La rivista esce regolarmente 1
volta al mese fino al 1923; all’interno c’erano saggi che saranno incentrati sul rapporto tra arte
e architettura. Contenuti e finalità dell’architettura sono chiarite da Oud: architettura è arte
plastica, arte di determinazione dello spazio che ha la sua massima espressione nella città,
l’iniziativa privata scomparirà per quella collettiva, e la bellezza del blocco residenziale
moderno che si esplicherà con l’uso; materiali moderni, eliminazione del tetto a falda con
accettazione del tetto piano, campata orizzontale con travi in calcestruzzo armato o ferro e
trattamento di superfici e aperture murarie con materiali moderni. Ritroviamo le posizioni
dell’avanguardia già viste altrove come: architettura come sintesi di tutte le arti, rottura con il

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passato e i suoi stili, ruolo edifici moderni di dare nuova immagine alla città, rapporto tra arte e
industria, uso di materiali moderni di produzione industriale: nuova unità tra ricerca artistica e
espressione dello spirito di un’epoca, abitazione di massa. Un 1° manifesto di De Stijl, in 9
punti e firmato da Van Doesenburg, Van t’Hoff, Kok, Mondrian, Vantongerloo e Wils viene
pubblicato nel 1918; il manifesto propone di raggiungere un equilibrio tra l’interesse
individuale e quello collettivo, come strumento per una società nella quale sia possibile la
formazione di una unità internazionale di Vita-Arte-Cultura. Il gruppo dei De Stijl adotta il
termine Neoplasticismo per individuare il nuovo approccio all’arte e all’architettura ed
elaborerà successivamente altri manifesti che avranno come caratteri comuni l’autonomia
dell’arte dalla politica e il progressivo trasferimento delle ricerche grafiche a tutti gli altri
aspetti dell’arte e della vita. Precoce anticipazione delle ricerche neoplastiche è la Villa Henny
progettata da Van t’Hoff nei sobborghi di Utrecht (fig.8.27), in calcestruzzo armato, con tetto
piano e un’immagine stereometrica. Ma l’oggetto che più esprime la ricerca del movimento è la
sedia rosso-blu di Rietveld del 1917-18 (fig. 8.28), realizzata assemblando semplici elementi:
asse di compensato e 2 assi di faggio a sezione quadrata e rettangolare, colorati in rosso, blu,
giallo e nero. Si assiste così a un’inedita sintesi tra la ricerca estetica e la necessità di ottenere
economicità e funzionalità dalla produzione industriale.
Il passaggio dalla ricerca pittorica alla progettazione architettonica ha il suo culmine della Casa
Schroder-Schrader progettata da Rietveld, Utrecht nel 1923-24 (fig. 8.29-30). È una casa
unifamiliare a 2 piani, posti in testata da una schiera di cassette di mattoni rossi. Un edificio
scomposto in una serie di piani e di setti, poi accostati o allontanati tra loro perpendicolarmente,
secondo scarti e aperture inedite. La struttura portante puntiforme di pilastri in acciaio permette
articolazione libera della pianta e dei prospetti creando nelle viste ortogonali le immagini dei
quadri dell’astrattismo. I tamponamenti verticali e le solette orizzontali che non chiudono gli
angoli ma proiettano verso l’esterno sono uniti alla contrapposizione dei colori, contribuiscono
a smaterializzare il volume, oggetto senza confini. Anche l’interno è concepito in modo
innovativo: al piano superiore, attraverso una serie di pareti scorrevoli, a scomparsa è possibile
realizzare un grande spazio aperto per le attività diurne, oppure ricavare tre stanze da letto, a
seconda delle esigenze degli abitanti. La casa Schroder-Schader mette in pratica i 16 punti
raccolti da Van Doesburg nell’articolo Verso l’architettura plastica pubblicato su De Stjil nel
1924, dove si legge la nuova architettura come somma di tutte le arti deve derivare dal
superamento del concetto di forma, elementare, economica, funzionale, anti monumentale e
superare contraddizioni tra esterno ed interno. Grazie poi ad aggetti di volumi e superfici
sporgenti è anti cubica, rifiuto simmetria, facciate principali, monotonia, gerarchia delle parti,
colore elemento organico di espressione architettonica anti decorativo. Meno chiaro è il
rapporto tra architettura, processo di industrializzazione e aggiornamento tecnologico.
Poche sono le altre opere del movimento neoplastico. A Rotterdam Oud realizza la facciata del
Cafè De Unie nel 1925, distrutto dai bombardamenti e poi ricostruito, che si distacca dalle
facciate tradizionali per campiture geometriche colorate; a Strasburgo si trova invece la
decorazione degli interni e l’arredo del Cafè l’Aluette da parte di Van Doesburg, ma il
Movimento Neoplastico ha una vita effimera. Nel 1925 la frattura fra Mondrian e Van
Doesenburg segna l’inizio della crisi del movimento.

Cap. 9 - La tekné fuori dalle avanguardie


La forza delle avanguardie non tocca tutti i progettisti del XX secolo. molti di loro proseguono,
trasformandoli, gli indirizzi-attitudini del secolo precedente assegnano al termine modernità
significati diversi. Questi autori che sviluppano delle nuove posizioni ideologiche o delle nuove
sensibilità propongono un’architettura coerente alla propria epoca ma non necessariamente
all’inseguimento dei principi diffusi dalle avanguardie, primo tra tutti l’Astrattismo.

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Protorazionalismo è stata la categoria critica più fortunata, che enuclea da una produzione
variegata di caratteri razionali, sottolineandone la mancanza di compiutezza. Tradizionalismo
è il termine più adatto per sottolineare il legame mantenuto con la storia che spesso però insinua
una forma di “pigrizia” da parte dei protagonisti. Per comprendere questi moderni fuori
dall’ortodossia modernista, bisogna relativizzare il concetto di Modernità altra, che guarda al
progresso come fanno gli architetti razionalisti di stretta osservanza, ma si misura con il
territorio anche storico e con la pratica dell’architettura come costruzione e come gesto
artistico.

9.1 NUOVE RICERCHE E PERMANENZE DELLA STORIA


Adolf Loos è forse il miglior esempio di come la produzione teorica e pratica di un architetto
sia stata guardata e valutata con molta difficoltà. I suoi numerosi scritti furono recepiti come
contraddittori rispetto alla pratica progettuale e costruttiva; fuorviante è poi il valore attribuito
alle sue affermazioni dai protagonisti della generazione successiva, che ha molto influenzato la
sua collocazione critica da parte della storiografia che lo inserisce al servizio del Movimento
Moderno. Attivo nella Vienna di fine secolo, socio della Secessione, progetta interni e
arredamenti e nel 1903 crea la rivista L’altro. Un periodico per l’introduzione della cultura
occidentale in Austria (fig. 9.1) che esce per soli 2 numeri; nei pochi fogli della rivista egli
affronta temi pratici e dell’attualità legati alla vita moderna, sostenendo modelli anglosassoni e
statunitensi, ritenuti più adatti al nuovo stile di vita; il tono aneddotico, spesso polemico e pieno
di frecciatine con cui si rivolge ai professori della secessione, mostra la sua fascinazione per il
mondo dei self-made-man americani e una fiducia grande nel potere del nuovo mercato
liberista. Loos arriva a questi scritti riprendendo Semper, adottando una visione evoluzionistica
dell’architettura e ponendo il rivestimento alla base dello sviluppo della costruzione; inoltre egli
esprime molte delle idee illuministe a proposito della necessità di usare i materiali in maniera
“sincera” e di far parlare le architetture (ad esempio la banca deve trasmettere sicurezza e
onestà).
Loos insiste sulla condivisione dei valori, rifiuto delle aspirazioni artistiche e della creazione
dell’ornamento individuale, in pieno contrasto con le tendenze coeve. Egli ripone una fiducia
nei classici, nel riferimento all’architettura antica come compendio di logica, corretto uso della
costruzione e del pragmatismo progettuale. Si arriva così al suo testo più celebre ossia
Ornamento e delitto del 1908 dove, in modo paradossale, usando la tecnica dell’aforisma più
che dello scritto teorico, esprime il proprio pensiero intorno al tema che dalla metà del secolo
precedente è al centro del dibattito sul progetto e che esploderà di lì a poco nel congresso del
Deutcher Werkbund del 1914. Nonostante utilizzi il soggetto dell’ornamento, Loos si occupa
della legittimità di applicare l’arte all’artigianato e alle discipline di progetto, discutendo
dell’attualità dell’ornamento e della sua mancanza di aderenza alla modernità. Afferma come
l’ornamento sia accettabile solo in quanto espressione collettiva di una certa epoca, ma afferma
anche come non sia più possibile stabilire un rapporto tra ornamento e civiltà contemporanea,
estranea ai movimenti culturali collettivi. “L’uomo moderno usa ornamenti di età passate o di
popoli stranieri a suo piacimento. Il proprio spirito inventivo lo concentra su altre cose”. La
convinzione che non sia possibile inventare nuove forme decorative permette a Loos di
mescolare nuove interpretazioni e soluzioni già esistenti, ritenuto perfette e non migliorabili.
Nel Cafè Museum del 1899 (fig. 9.2) egli riforma la facciata esistente sostituendo il bugnato
della zoccolatura con l’intonaco liscio, ma non ne sconvolge il ritmo, mantenendo la sequenza e
la proporzione delle aperture, e ottenendo così di segnare il fronte urbano in modo
inequivocabile ma garbato. Gli ambienti sono spogli, ma mostrano il sistema costruttivo
originario, popolati però da sedie Thonet e poltroncine in vimini Prag-Rudniker. Con questo

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edificio Loos inaugura una stagione di progettazione di interni di esercizi commerciali, come il
Kartner Bar.
A seguito del contributo sulla decorazione, Loos pubblica un altro intervento intitolato
Architettura nel 1909 dove riprende le polemiche sull’ornamento e le applica all’architettura,
affermando come l’architetto moderno sia incapace di creare perché incapace di guardare con
obiettività alla propria epoca. Solo il sepolcro e il monumento attengono all’arte, mentre
l’architettura, che deve rispondere ad uno scopo immutabile e duraturo, ne è di conseguenza
estranea e quindi se l’arte è rivoluzionaria, l’architettura è necessariamente conservatrice; egli
afferma che la fortuna di appartenere all’epoca che si colloca all’acme del processo di
civilizzazione consiste nel non dover inventare più nulla e applicare quindi soluzioni già
sperimentate. È ciò che fa nella Casa in Michaelplatz a Vienna, nel 1909-11 (fig. 9.3-4-5): una
sartoria si affida a Loos per la progettazione di un edificio a destinazione commerciale e
residenziale. Egli propone un edificio d’angolo dove a un basamento costituito dal piano
terreno e dal mezzanino con un elaborato partito decorativo, corrisponde un corpo superiore
completamente liscio, forato da aperture prive di cornici, segnate solo da fioriere. Il corpo
dell’edificio ha un’ossatura in calcestruzzo armato, che cita nelle coperture in rame, e nella
disposizione dell’isolato il decor urbano viennese, trascurandone il piano terreno. Colonne
monolitiche in marmo cipollino senza funzioni portanti si ricongiungono con quello che risulta
essere un architrave-putrella in metallo. Capitelli rivestiti in lamina di bronzo riprendono un
dorico-tuscanico semplificato, e definiscono un’ordinatura che rimanda all’ordine
architettonico. Le aperture del mezzanino sono incorniciate da paraste decorate in
continuazione con le colonne sottostanti. I vuoti del bow window sono affiancati da colonne
ancora a ricordare l’ordine classico. Tutti i rivestimenti in marmo sono modanati, mentre i piani
superiori sono solo intonacati, col tentativo di armonizzare l’edificio col resto della piazza,
riprendendo il tipico tratto delle facciate viennesi. Il gusto per il paradosso spinge Loos ad
affermare che i 4 piani superiori erano quelli più in armonia col carattere storico della città,
quelli più spogli, mentre quelli adibiti a spazi commerciali erano quelli più moderni. La
complessiva intenzione di Loos era quella di lavorare da moderno guardando al passato.
L’approccio più moderno si riconosce però all’interno della sartoria, dove viene sperimentato il
principio del Raumplan (piano nello spazio), a cui si accenna già negli scritti sull’architettura
del 1909; si ha l’idea di un’architettura che sia risultato della coordinazione degli spazi interni,
prende forma nella differenziazione dei livelli dei piani che si librano in uno spazio complessivo
fluido e ininterrotto, grazie alla funzione portante della maglia in calcestruzzo armato e dei muri
a cui sono ancorate le scale. Il tutto è riccamente realizzato o rivestito di legni lucidi, ottoni,
specchi e mattoni in vetro stampato. Il Raumplan è stata considerata un’anticipazione della
pianta libera concepita da Le Corbusier, ma altrettanto forte è il legame con le soluzioni per i
grandi edifici commerciali di fine ‘800. In teoria Loos, dopo il putiferio sollevato con la casa in
Micheaelerplatz, venga “bandito” da Vienna.
Successivamente Loos si occupa di abitazioni unifamiliari di amici della sua cerchia , e
arredamenti e devanture dei negozi. Osservando le case con o senza giardino che vanno dalla
Casa Steiner (fig. 9.6) alla Mitzi Schnabl, è difficile leggere la continuità nelle scelte formali,
che vanno dalla definizione dei volumi bianchi, ma con inserti legati alla tradizione come la
copertura a botte di Villa Streiner, ai tetti a falde delle ville che ristruttura rispettandone la
conformazione originaria a cottage come casa Stoessl o intervenendo sui volumi e
mascherando l’impianto come in Villa Strasser. Gli spunti provengono dalla ricerca di
armonizzare l’esistente con le nuove necessità abitative; Casa Scheu (fig. 9.7) ne è un esempio:
la conformazione a gradoni concretizza anche le vaghe indicazioni per il Raumplan, che va
definendosi negli interni domestici, in cui si affiancano oggetti perfetti e finiti ad altri di nuova
invenzione.

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Queste scelte, vicine a quelle del Razionalismo europeo (come nella Casa Moller del 1926-27,
fig. 9.8), sembrano in contrasto con il progetto presentato nel 1922 per il Chicago Tribune:
Loos propone una stupefacente colonna dorica di 24 piani su un basamento di 12, una
dichiarazione di fedeltà nei confronti dell’architettura classica, mentre le case si basano su un
progetto che proviene dall’organizzazione interna, dal Raumplan.
Per Loos la casa è il risultato di un processo logico che pone all’origine del progetto la qualità
dell’abitare, dove quadri e oggetti d’arte sono a completamento e non parte integrante del
progetto (come stavano facendo Rietveld e Le Corbusier). È proprio la mancanza del legame
con l’arte di ricerca la motivazione della volontà e della capacità di Loos di muoversi tra
linguaggi e contesti diversi. Nel 1921 Loos procede con il brevetto per la casa con un muro
solo, per abbattere i costi e facilitare la costruzione condivisa e giungere infine alla soluzione
per la casa alla Werkbund Siedlung di Vienna del 1930-32, dove il primato è segnato
all’abilità, alla facilità di esecuzione senza impiego del calcestruzzo armato e al Raumplan negli
interni.
Loos fa scuola: un esempio è la casa Wittgenstein realizzata dall’allievo Paul Engelmann, che
esprime una cura maniacale per ogni dettaglio, in una aspirazione più filosofica che artistica.
La morte di Loos nel 1933 contribuisce a accrescere il suo ascendente, collocandolo laddove
egli mai avrebbe voluto essere, cioè tra gli architetti-artisti, mentre egli aveva sempre
rivendicato il proprio ruolo di architetto-costruttore.

9.2 TECNICA E VISIONE SOCIALE AL SERVIZIO DELLA CITTÀ


Un distacco ancora più netto dall’ambito artistico è quello di Tony Garnier: si trasferisce a
Parigi nel 1899 per studiare all’Ecole des Beaux Arts, nel 1899 si aggiudica il Prix de Rome e
trascorre 4 anni a Villa Medici a Roma, con l’unico compito di studiare, rilevare e ri-progettare
gli edifici antichi. La sua posizione è collocabile tra la tradizione accademica e la lezione del
razionalismo predicato da Viollet-le-Duc. Il risultato di questo viaggio è il testo Una città
industriale che Garnier spedisce a Parigi nel 1904, un complesso e articolato progetto che
abbraccia urbanistica ed architettura, alla cui base risiede una sensibilità sociale (influenza di
Zola e del romanzo Lavoro, redenzione della classe operaia). Presentata in grandi tavole
acquerellate, la città di Garnier ha una disposizione per zone e lo stesso autore la illustra per
capitoli: industrie, città, luoghi di cura sono nuclei distanziati tra loro, collegati con la ferrovia,
in modo da consentire ulteriori espansioni (fig. 9.12). Le indicazioni relativamente più
approfondite che accompagnano le tavole riguardano:
- Disposizione amministrazione che produce anche beni
- Abitazioni di prima necessità
- Amministrazione ed edifici pubblici → - Industria → specializzate in metallurgia,
non sono previsti tribunali carceri ed distanziate dal nucleo urbano, intese come
edifici religiosi arricchimento del
- Scuole → con classi miste suddivise per - Territorio
età e livello di istruzione - Costruzione → uso di calcestruzzo povero
- Stabilimenti sanitari → posizioni su alture, per fondazioni e muri e calcestruzzo
in situazioni salubri. Si fa attenzione alla armato per solai e coperture; il processo
cura, ma anche alla vecchiaia e disagio costruttivo prevede l’uso di casseforme
- Stazione semplici e riutilizzabili.
- Servizi pubblici → relazionati al cittadino
e pensati come emanazione della pubblica
Tutte le categorie sono utilizzate mediante una sorta di regolamento edilizio e di igiene,
fornendo indirizzi su dimensione e orientamento degli spazi, sulla quantità di soleggiamento,
sulla disposizione delle vie e sulla destinazione degli spazi collettivi, comprendendo indicazioni

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sociali e di pianificazione urbana. La proibizione dell’uso dei cortili e anditi provati ha lo scopo
di rendere la città completamente percorribile dai pedoni. Gli spazi pubblici sottendono la
focalizzazione sulla comunità, sugli spazi di relazione per la popolazione con ampie sale e spazi
aperti riparati; in una visione ancora utopista non sono previsti tribunali, carceri e edifici
religiosi; le scuole rispecchiano le riforme proposte dai nuovi pedagoghi, con classi miste
suddivise per età e livello di istruzione. I luoghi per l’assistenza assecondano l’attenzione per la
cura, ma anche per la vecchiaia e il disagio; le industrie sono distanziate dal nucleo urbano e
intese come arricchimento del territorio, non solo degli industriali! (fig. 9.13). I servizi sono
tutti relazionati al cittadino e pensati come emanazione della pubblica amministrazione che
gestisce anche la produzione di prima necessità (pane, farmaci, acqua, latte, fig. 9.14). Poche
parole sono spese sulla costruzione, per la quale si prevede il solo uso di calcestruzzo povero
per fondazioni e muri e calcestruzzo armato per solai e coperture (9.15); il processo costruttivo
prevede l’uso di casseforme semplici, semplicità nella struttura, senza ornamenti, nuda, così da
disporre delle arti decorative ovunque, indipendente dalla costruzione. La consapevolezza del
ruolo che l’arte può assumere nella vita in una comunità è chiarissima, ma non è compito
dell’architettura esprimere tale arte, quanto fornire uno scenario, da cui la decorazione è
“distaccata”. Un esempio è la tavola casa per un artista, con volumi cubici, oggetti di spoglio,
capitelli, anfore e una grande riproduzione della Nike di Samotracia (fig. 9.16).
Accanto alla pianificazione, Garnier ha ovviamente anche un’attività da architetto praticante, a
ritorno a Lione, dove diventa uno dei maggiori collaboratori comunali; molti dei principi teorici
da lui espressi trovano spazio, fino a un disegno per dotare la sua città (Lione) di un impianto
socialmente efficace mediante l’esecuzione dei Grandi Interventi, pubblicati nel 1921. Nel
1906-24 realizza il Mercato del bestiame e macello di Lione (fig. 9.17), formato da un edificio
squisitamente industriale, organizzato a padiglioni diversificati a seconda delle destinazioni,
progettato in collaborazione con il veterinario che ne sarebbe divenuto direttore. La Grande
Halle del mercato, originariamente pensata per essere costruita in calcestruzzo, utilizzato in tutte
le altre costruzioni, è poi realizzata con una struttura metallica a giunti sferici (sulla falsa riga
delle coperture dei terminal ferroviari del XIX secolo). La facciata in mattoni e corsi di pietra
permette a Garnier di realizzare la ricerca di ritmo e simmetria. A partire da questo cantiere,
interrotto per la guerra, l’attività per la città si fa intensissima. Nel 1910 realizza il Grande-
Blache cioè il Nuovo ospedale di Lione dove, sulla linea europea, adotta la tipologia a
padiglione; esso si articola in corpi di fabbrica collegati nel sottosuolo in modo da accentuare il
tessuto verde nel quale è immerso; l’ospedale avrebbe dovuto accogliere 1000 posti letto. La
conformazione abbandona la simmetria che caratterizza i grandi insediamenti ospedalieri, per
privilegiare una conformazione che rimanda ad un quartiere senza gerarchie. Ancora inserito nei
Grandi Interventi per Lione è il Quartiere des Etats-Unis del 1917-33 (fig. 9.18-19, richiesto
dall’amministrazione come un grande viale industriale che porti agli ampliamenti
imprenditoriali in previsione. Garnier propone una lottizzazione che comprenda trasporti, ma
anche abitazioni per gli operai, ribattezzando il progetto Abitazioni in comune-centro
industriale. A costruzione ultimata si contano 1620 alloggi riuniti in edifici a cinque piani,
immersi nel verde, in cui tutti gli spazi privati tipici dei villaggi operai diventano patrimonio
pubblico, così che il modello comunitario prende il sopravvento; il villaggio operaio fourierista
traslato sulla città e diviene uno stile di vita.
La soluzione adottata da Garnier risente di un dibattito avviato nella capitale e sollecitato da
progettisti che privilegiano la componente della ricaduta sociale e l’utilizzo delle tecnologie
avanzate. Henri Sauvage e Charles Sarazin danno il loro contributo professionale alla Société
Anonyme des Logements Hygiéniques à Bon Marché, costruendo una serie di edifici e
appartamenti a Parigi tra il 1904-12, applicando i principi igienisti sull’areazione e il
soleggiamento e il controllo dello scheletro strutturale in calcestruzzo armato o in acciaio.

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Sauvage organizza le facciate movimentate da bow-window e composte secondo una gerarchia:
piano terra trasparente, elevazione conformata per accogliere la maggior quantità di luce e
ultimi piani terrazzati; il suo “tradizionalismo” consiste nel non interrompere la sequenza tra il
nuovo della cultura igienista e della ricerca formale Art Nouveau e il nuovo dell’aggiornamento
sui materiali e della responsabilità sociale dell’architettura. Quest’ultimo aspetto di rivela
nell’approfondimento sugli alloggi sociali, per i quali Sauvage e Sarazin brevettano un sistema
di costruzione a gradoni applicato all’Edificio di rue Vavin (fig. 9.20), dove si applica un
sistema che integra i criteri per l’abitazione a quelli dei luoghi di cura con scheletri in
calcestruzzo armato e rivestimenti in mattonelle. Un ulteriore passaggio è l’HBM in rue des
amiraux dove la grande massa piramidale accoglie nel cuore una piscina coperta a disposizione
del pubblico (fig. 9.21).
La convinzione di Sauvage e Sarazin riguardo la necessità di fornire abitazioni salubri anche in
ambito urbano raccolte in grandi volumi, si scontra sia con il regolamento edilizio (restio a
concedere autorizzazioni per edifici che spezzino la continuità degli affacci), sia con le coeve
tendenze a relegare l’edilizia a basso costo nelle colonie operaie. Sauvage non esita poi ad
applicare soluzioni anche molto diverse, come l’uso di strutture metalliche e vetro (nei
Magazzini Decré di Parigi del 1931) o la ripresa della tradizione riletta dall’Art Nouveau,
entrambi legati alla stagione del razionalismo ottocentesco.

9.3 LA MISTICA DEL CALCESTRUZZO ARMATO


Nel 1892 François Hennebique brevetta a Bruxelles il suo sistema di costruzione in
calcestruzzo armato, che si inserisce in un processo costruttivo che aveva avuto origine fin dal
XVIII secolo; inoltre egli avvia, insieme ad altri, una formidabile stagione tecnica e
commerciale. La formula che riescono a mettere a punto (fig. 9.22) combina 3 fattori:
1. Nuovi procedimenti di messa in opera dell’unione tra calcestruzzo (miscela di cemento,
ghiaia e acqua) e parti in ferro;
2. Progressi della conoscenza dei comportamenti e delle possibilità fisiche del nuovo materiale;
3. Coinvolgimento nelle innovazioni di tutti gli attori del processo costruttivo.
Nel giro di pochi anni l’impresa, che si fa strada anche attraverso la pubblicità, la pubblicazione
di una rivista aziendale e la partecipazione a esposizioni, arriva ad avere negli anni Dieci ben 42
agenti in tutto il mondo e provenienti da esperienze diverse, ma sostenitori dell’idea che la
struttura in calcestruzzo armato incarni la modernità e il progresso. La vicenda nasce come
un’impresa industriale: cavare sabbia e ghiaia, approntare i silicati mediante la cottura di
calcare+argilla, fornire la tecnologia per la produzione e la posa delle armature; l’impresa
diviene un bacino di sviluppo su cui tutte le nazioni industrializzate investono. Coloro i quali
sono coinvolti sia nel processo industriale sia in quello progettuale, sono i primi a realizzare
l’architettura del calcestruzzo armato, fuori dal dominio esclusivamente ingegneristico, ma
adottando tutte le soluzioni fornite dagli ingegneri. È il caso dei fratelli Perret (Auguste
architetto, Gustave architetto, Claude capo dell’impresa di costruzioni), 3 figli di un impresario
francese. Nel 1903 Auguste sperimenta nella Casa in rue Franklin 25 bis (fig. 9.23),
un’abitazione con scheletro in calcestruzzo armato; la struttura è interamente evidenziata da
rivestimenti decorativi ceramici a motivi floreali, che soprattutto ne sottolineano gli aspetti
costruttivi e le ampie aperture. Nel 1905 Auguste si associa ai fratelli Gustave e Claude per
realizzare costruzioni di maggior impegno come il Garage della società Ponthieu –
automobiles di Parigi del 1906-07 (fig. 9.24), in cui alla struttura interna a sbalzo che accoglie
le auto corrisponde un prospetto scandito dal telaio che inquadra aperture per illuminare gli
spazi secondo una disposizione concentrica di riquadri a grandezze variate, sistema trilitico
pilastro-architrave, concluso da un sistema di aperture più piccole che alludono all’ordine
architettonico. Ma è nel 19010-13 con il Theatre des champs elysées che Perret inizia ad

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assegnare al materiale una sua identità propria creando un linguaggio architettonico che dipende
dall’impiego dall’ossatura in calcestruzzo (le architetture di servizio e committenza pubblica,
sono sempre il frutto di sperimentazioni fatte in ambito industriale). L’urgenza di creare un
codice, che sarà poi espresso solo nel 1952 nel Contributo a una teoria dell’Architettura, lo
spinge a una rilettura della struttura architettonica classica degli ordini (modello pilastro-trave-
solaio). Le architetture di servizio e committenza pubblica o semi-pubblica, come il teatro o
altro, sono sempre frutto di sperimentazioni realizzate in ambito industriale, dove le necessità
funzionali stimolano a spingere al massimo le caratteristiche del nuovo sistema costruito, che
non vuole comunicare significati ma trasmettere per efficienza, economicità e rapidità di
esecuzione. Nella Sartoria Henri Esdier a Parigi del 1919 (fig. 9.25), la struttura si risolve in
grandi archi ai quali sono ancorate le balconate che circondano l’invaso e che irrigidiscono il
sistema, tangenti alla scatola edilizia con copertura leggera e trasparente; essa è il banco di
prova per sperimentare l’indipendenza tra struttura e tamponamenti, messa in pratica poi nella
Chiesa di Notre Dame a Raincy del 1922-23 di Auguste Perret (fig. 9.26), che è anche una
buona prova della sua estraneità all’ortodossia a un unico modello storico; l’edificio è letto
come tentativo di ricondurne la destinazione religiosa ai modelli del Gotico matura per
l’elevazione del campanile in facciata e la trasparenza dei graticci in calcestruzzo armato che
sostituiscono le pareti; si tratta infatti dell’esperienza maturata nell’utilizzo degli edifici
industriali parigini nei quali la maglia strutturale (articolata in sostegni
verticali/inclinati/arcuati) è posta in collaborazione strutturale con solai e tamponamenti. Da
queste sperimentazioni derivano edifici di forte contenuto simbolico come quelli costruiti per
l’Esposizione di Parigi del 1925 (Teatro-Arena) dove l’ovvia necessità di monumentalità e
veicolazione di significati porta Perret a sintetizzare un “ordine” architettonico che, oltre a
comunicare una regola, è completamente incentrato sulle caratteristiche costruttive derivate dal
nuovo sistema strutturale.
Sono dunque ingegneri, tecnici e impresari che attraverso le sperimentazioni in edifici a
destinazione funzionale, gettano le basi per la definizione di oggetti e meccanismi che
diventano architetture con carattere di monumentalismo o che vengono percepiti come
architetture dagli osservatori. È il caso di Giacomo Mattè-Trucco che realizza la grande
fabbrica FIAT Lingotto del 1915-22 a Torino (con il supporto della ditta Giovanni Antonio
Porcheddu, fig. 9.27), dove lo stabilimento è risolto con una maglia strutturale generata per
assecondare la produzione di auto su linee sovrapposte dal basso verso l’alto, la pista di
collaudo sulla copertura e le rampe elicoidali per la discesa dei veicoli finiti, ed è ben visto dal
movimento moderno, trasformando un luogo di lavoro in un’icona della modernità; l’edificio è
salutato con entusiasmo dai protagonisti del Movimento Moderno, primo tra tutti Le Corbusier,
che ne sottolineano le straordinarie qualità formali, la plasticità delle rampe elicoidali e delle
curve paraboliche della pista.
Operazioni critiche simili hanno investito l’opera dell’ingegnere polacco Max Berg, che nel
1911-13 progetta a Breslavia la Sala del centenario con la più grande cupola in calcestruzzo
armato del suo tempo; o più tardi Emile Maigrot che nel 1923 progetta i Mercati generali a
Reims.
Con un processo che potremmo definire di “trasferimento tecnologico”, le sperimentazioni nel
campo delle strutture, effettuate prevalentemente da ingegneri e impresari, vengono traslate nel
campo dell’architettura. L’ingegnere-impresario Pier Luigi Nervi è l’esempio di come la
promozione degli esperimenti in campo industriale attraverso riviste e mostre abbia spostato
una carriera sostanzialmente tecnica e dedicata al progetto e alla costruzione di edifici
funzionali e di servizio, nel campo dell’architettura del Movimento Moderno. Nel 1924 Nervi
fonda la sua impresa di costruzione Nervi&Nebbiosi, dopo studi di ingegneria; egli redige il
progetto e si aggiudica la costruzione della tribuna coperta per il nuovo stadio Giovanni Berta

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di Firenze. Qui l’ossatura di sostegno alle gradinate della tribuna testimonia l’esperienza della
Nervi&Nebbisi nel getto di strutture portanti per edifici industriali, ma per la pensilina egli
libera la struttura dalla gabbia ortogonale ideando rastremate travi a sbalzo in calcestruzzo
armato a supporto di un solaio di copertura latero-cementizio. Segue la realizzazione delle
tribune scoperte. Le tre scale elicoidali (fig. 9.30), la Torre di Maratona e le tribune in curva
sono le strutture più iconiche e sperimentali dello stadio e decreteranno il definitivo successo
internazionale di Nervi. Il superamento del sistema a ossatura permette di presentare le strutture
in calcestruzzo sciolte da ogni sovrastruttura, nude nella loro funzione. Con la costruzione dello
stadio avvia una stagione molto feconda che sviluppa una vera e propria estetica del cemento
armato. Con la costruzione dello stadio di Firenze Nervi avvia una stagione estremamente
feconda, senza eguali nella storia della costruzione italiana del Novecento, chiamata “estetica
del cemento armato”.

9.4 OLTRE I NUMERI: BENESSERE PSICOLOGICO E AMBIENTE NATURALE


L’estraneità ai movimenti delle avanguardie si deve anche all’isolamento culturale e geografico
o alla mancanza di allineamento alle vicende storiche. È il caso di molte aree della penisola
scandinava, che vedono un ritardo nell’applicazione del dibattito sull’architettura nazionale.
Generalmente fino alla 1GM la ricerca architettonica si muove nella direzione del reimpiego di
modelli locali o storicisti convergendo in una fase che è stata chiamata Romanticismo
nazionale, che risente delle vicende storiche oltre che dell’influenza di intellettuali come Henrik
Ibsen. I grandi edifici civili e religiosi fanno riferimento a modelli civici (come il palazzo
pubblico medievale) come nel caso del Municipio di Stoccolma di Ragnar Ostberg del 1909-
23 (fig. 9.31), combinati con l’architettura tradizionale. In altri casi, come la Stazione
ferroviaria di Helsinky di Eliel Saarinen del 1904-14, la spinta è quella che porta a un forte
impatto visivo, con le facciate in pietra incrostate, almeno nel progetto originale in seguito
depurato.
La mancanza della presenza delle avanguardie artistiche fa sì che alcuni concetti fondativi
dell’approccio romantico, come il legame con l’ambiente naturale e culturale della regione,
permangano anche laddove si presenti la penetrazione del rinnovamento razionalista, anche
prepotentemente come in Svezia, con il movimento Funkis. In Svezia Gunnar Asplund, con
Sigurd Lewerentz, vince il concorso per il Cimitero di Stoccolma del 1917-20; entrambi
reduci da un viaggio in Italia, si impegnano in un lavorio di fusione tra gli spunti vernacolari e
gli studi sull’antichità di area mediterranea raggiungendo risultati per presentano influenza di
grandi complessi monumentali come l Villa Adriana a Tivoli. La Wood Church del 1918-20
(fig. 9.32) è una commistione tra l’archetipo del tempio classico, la capanna nordica e un acuto
sguardo al bosco circostante. Un processo simile si verifica nella Biblioteca civica di
Stoccolma del 1920-28 (fig. 9.33), dove Asplund utilizza gli schemi compositivi ereditati
dall’illuminismo e le proprie esperienze nella progettazione di silos e fabbricati industriali: il
cilindro che accoglie la sala di lettura è posto su un parallelepipedo in cui sono collocati i
servizi e uffici, bipartito da 2 fasce orizzontali. Seguendo un richiamo mediterraneo, le diverse
elaborazioni hanno in comune la considerazione per la componente luminosa del paesaggio e
dell’architettura, con la volontà di riprodurre la luce del sud dell’Europa.
Questo percorso è particolarmente evidente nell’opera di Alvar Aalto, laureato al Politecnico
di Helsinky nel 1921, che dopo la guerra compie il suo primo viaggio in Italia nel 1924, le cui
tracce si manifestano in edifici già dello stesso anno, che egli ricorda come una rivelazione,
soprattutto per la scoperta degli spazi di relazione tipici degli insediamenti dei piccoli centri
urbani (piazze dotate di forte significato civico, cortili e chiostri), oltre alla forte impressione
ricavata dalla luce che ha sempre affascinato i visitatori nordici. Nel Club dei lavoratori del
1924-25 (fig. 9.34), seguendo il modello di Asplund, Aalto innesta un corpo cilindrico, in cui è

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collocato uno spazio distributivo al piano terreno e una sala teatrale a doppia altezza al piano
superiore, in un volume parallelepipedo caratterizzato da una serie di colonne doriche (a
scandirne l’affaccio sulla strada). Il cilindro centrale rimanda, a entrambi i livelli, all’idea della
piazza, coperta, che tanto aveva colpito Aalto nelle sue peregrinazioni italiane. Simile è il
processo impiegato nella Sede delle associazioni patriottiche a Seinajoki del 1924-29 (fig.
9.35), un insieme di basso-fabbricati in legno, disposti intorno a un cortile sul quale insistono
un edificio in forme palladiane, con portico, timpano e barchesse (ali laterali) e un corpo
principale che in facciata è scandito da lesene. Anche qui consuetudini costruttive tradizionali e
citazioni dell’architettura classica, insieme all’unione tra volumi primari, si fondono a definire
spazi da una parte inconsueti per le latitudini nordiche, in quanto riferiti alla civiltà
mediterranea, dall’altra frutto di elaborazione della cultura locale: la piha ossia la corte
circondata di edifici letta come matrice della civitas finlandese.
Sul finire degli anni Venti la ventata razionalista investe la Scandinavia. Col rischio di poter
appiattire tradizioni e linguaggi nazionali su principi formali, molti esprimono dubbi
sull’opportunità di adottare il funzionalismo senza valutarne ragioni e implicazioni pratiche.
Aalto sembra rispondere a queste preoccupazioni con 2 edifici razionalisti legati alle logiche
che definiscono la forma a partire dalla funzione; si tratta della Biblioteca di Viipuri e del
Sanatorio di Paimio, dove l’adesione entusiastica al Razionalismo europeo, dichiarata in articoli
e brevi saggi, è temperata dall’assenza del dogmatismo che caratterizza i suoi colleghi. In senso
razionalista egli adotta un approccio non lontano dalla visione illuministica di Asplund, che
contempla la determinazione della forma, l’acustica e l’illuminotecnica, oltre ai parametri tipici
del progetto razionale: soleggiamento, arieggiamento, dimensioni minime, attrezzature
igieniche. Inoltre, Aalto esclude dal suo modo progettuale l’autoreferenzialità dell’oggetto
architettonico. La Biblioteca di Viipuri del 1927-35 (fig. 9.36), rappresenta la traduzione del
metodo scientifico, portato alle sue estreme conseguenze; la sala conferenze è studiata in modo
da diffondere nel miglior modo il suono della voce dell’oratore, adottando una
controsoffittatura in doghe di legno ad andamento ondulato che riflettono le onde sonore
(sfrutta le capacità fonoassorbenti del legno). La sala di lettura è illuminata dall’alto mediante
una serie di lucernari a sezione circolare, uno dei primi tentativi di inserire una progettazione
dell’illuminazione naturale tra il materiale di cui l’architetto dispone per dar forma alla propria
idea compositiva. È poi nel Sanatorio di Paimio del 1929-33 (fig. 9.37) che Aalto spinge
ancora di più agli estremi sia il metodo scientifico sia il confronto con l’ambiente circostante.
Egli cerca un metodo funzionalista piuttosto che seguire forme moderniste. Nella progettazione
tiene conto dell’orientamento rispetto all’andamento del sole, rispetto alle correnti,
diversificando a seconda delle funzioni i padiglioni, ponendo l’attenzione alle necessità
psicologiche ed emotive del paziente. Adotta forme che sfuggono ai principi di ortogonalità
definendo volumi puri e andamenti curvilinei. Razionalista è l’opzione di suddividere i corpi di
fabbrica a seconda della loro destinazione; razionaliste sono pure molte delle opzioni
costruttive adottate: la maglia strutturale, l’uso degli intonaci chiari, l’attenzione ai flussi di
circolazione interna. Tutti questi aspetti vengono integrati da valori aggiunti che Aalto
classifica come superamento del funzionalismo stesso: ai tetti piani viene attribuita la funzione
di accogliere i malati per i loro bagni di sole e passeggiate (fig. 9.39); agli spazi comuni è
assegnato il compito di accogliere relazioni sociali e pause tra le cure, mediante l’uso di arredi
estranei al mondo ospedaliero si vuole far sentire la persona più che un paziente; nei luoghi di
distribuzione (hall, scale, corridoi) sono situate piccole aree di sosta attrezzate; snodi della
circolazione, spazi di ricezione e postazione di infermieri e medici sono caratterizzati da linee
curve di modo da non respingere i pazienti e ricucire il paesaggio circostante con l’artefatto
costruito. Grande attenzione è data agli aspetti umani: tutti i colori vengono scelti assecondano
la gradevolezza e la non aggressività delle superfici, le finiture di mancorrenti e punti di

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appoggio sono in legno per mantenere la temperatura dei materiali. Le stanze di degenza sono
organizzate di modo da limitare al massimo gli effetti negativi della malattia e della cura
ospedaliera sull’umore del paziente: soffitti dai colori tenui, luce indiretta, isolamento acustico
fra le stanze, lavamani e attrezzature studiate per evitare rumori molesti (fig. 9.40). Il progetto
coinvolge anche gli arredi, soprattutto le sedute, dove Aalto evolve a partire dalle
sperimentazioni razionaliste sui mobili industriali in tubolare metallico, mutuandone il metodo
progettuale ma integrandolo col legno; ne è un risultato la poltrona Paimio del 1931 (fig.
9.41), costituita da 2 anelli in legno lamellare curvato e una seduta in compensato tutto in
betulla curvata e laccata. Successivamente dal 1935 l’azienda Artek, fondata da Aalto, avvia
l’attività di industrializzazione di mobili in legno di betulla pensati per altre destinazioni.
Per quanto riguarda gli interni domestici, Aalto adotta un approccio di tipo scientifico, che
contempla anche l’acustica e l’illuminotecnica oltre a elementi come soleggiamento,
arieggiamento, attrezzature igieniche... rifiutando l’autoreferenzialità dell’architettura. Egli
mette a fuoco una proposta nuova, tra cui: la casa degli architetti a Munkkiniemi, e la villa
Mairea del 1938-39, che si distacca dall’idea dello standard per arrivare a un progetto
articolato e complesso: la villa ha una forma a L che abbraccia un’area rettangolare e prosegue
verso il giardino con un porticato che conduce ai locali della sauna. I due piani fuori terra sono
sostenuti da una struttura a pilastri in acciaio e calcestruzzo il cui ruolo tecnico scompare nel
rapporto tra esterno ed interno, dove è il legno a caratterizzare le superfici. All’esterno è
utilizzato legno industrializzato che si distacca dalla retorica della casa tradizionale. Anche la
parte strutturale interna è dominata dal legno: i pilastri in acciaio sono cavi e rinforzati con un
getto di cemento al loro interno, moltiplicati a seconda della criticità della situazione statica. A
questi si accompagnano sequenze di pali in legno. Il risultato percepito è quello di grande
armonia, tra aspetti della tradizione e aspetti dell’industrializzazione. Pur destinando la sua
opera a committenti borghesi, pone le basi per un umanesimo applicabile anche negli edifici a
basso costo, che sarà uno degli obiettivi della critica al movimento moderno nel secondo
dopoguerra.
Critica al movimento moderno → materiali e metodi costruttivi non hanno un’influenza diretta
e unilaterale sull’architettura e solo la loro carica simbolica stabilisce gli equilibri che
conferiscono qualità umane al progetto.

Cap. 10 - “Dal cucchiaio alla città” la modernità come dogma


Nei primi decenni del Novecento l’espansione della produzione industriale e del mercato
impongono un ripensamento delle forme e delle tecniche dell’architettura. Gli esiti portano a
riflessioni teoriche ed opere di rottura con la tradizione costruttiva e con le regole formali del
passato. Molti sono i termini per dare conto di queste esperienze: Razionalismo, Funzionalismo,
Astrattismo, Macchinismo, Neue Sachlichkeit (nuova oggettività), Nueu Bauen (nuovo
costruire), Esprit nouveau (spirito nuovo), International Style (stile internazionale). Il termine
Movimento Moderno è quello che più compiutamente raccoglie tutte le accezioni citate, deve
la sua fortuna allo scritto I pionieri dell’architettura moderna di Nikolaus Pevsner del 1936. Il
concetto di modernità, dal latino modus=ora, ha sempre indicato nella storia un momento di
rottura con la tradizione. Il Movimento Moderno si nutre delle nuove opportunità tecniche e
scientifiche, si arricchisce delle innovazioni figurative delle avanguardie e si motiva nelle
istanze sociali proprie dei movimenti riformisti e rivoluzionari, diventando di fatto il motore
principale dell’architettura contemporanea, fatta di maestri. Le opere dei “miti” del Movimento
Moderno propongono soluzioni a problemi complessi, da quello delle città in espansione, a
quello dei luoghi per la produzione industriale, dagli edifici per la politica, per la cura, per lo
sport e per lo spettacolo di massa, alle nuove infrastrutture per i trasporti ferroviari, marittimi e
aerei, fino al design degli oggetti quotidiani e alla costruzione dell’abitazione a basso costo.

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10.1 DAL PARTENONE AL PIROSCAFO
Il più iconico degli architetti del Movimento Moderno è Le Corbusier, dal 1919 pseudonimo di
Charles-Edouard Jeanneret-Gris (1887-1965), che nasce in Svizzera, dopo la scuola primaria
frequenta la scuola d’arte locale per cesellatori dove il maestro Charles L’Eplattenier (pittore e
incisore) gli insegna la storia dell’arte, il disegno e lo introduce all’Art Nouveau. A 15 anni
realizza un suo orologio decorato, premiato all’Esposizione Internazionale di Arti Decorative di
Torino del 1902 (fig. 10.1). Si diploma nel 1904 e nel 1905 realizza il suo 1° progetto, Casa
Fallet, uno chalet in pietra e legno che risente dei modi locali, del contatto con la natura e del
rapporto con i paesaggi dell’ambiente alpino. Fa vari viaggi; una delle prime tappe del suo
percorso formativo è il viaggio in Italia del 1907 con un lungo soggiorno a Firenze; viaggia a
Pisa, Sine,a Lucca, Ravenna, Venezia, Triestre e poi Budapest e Vienna. Nella primavera del
1908 si stabilisce a Parigi, dove conosce SAuvage, Guimard e probabilmente Tony Garnier a
Lione. Per 14 mesi lavora con i fratelli Perret, sperimentatori del calcestruzzo armato, dove
apprende le possibilità plastiche, strutturali e tecnologiche del materiale del futuro. Tutti questi
viaggi sono documentati nei suoi taccuini di viaggio (fig. 10.2), ricchi di riflessioni, schizzi,
acquerelli. Nel frattempo, riceve alcuni incarichi per ville e per decorazioni nella sua cittadina
natale in Svizzera, fino al viaggio in Germania del 1910 dove fa un apprendistato nello studio di
Behrens, dove conosce i giovani Gropius e Mies van der Rohe. Altro viaggio è quello fatto in
Oriente iniziato nel 1911 (arriva fino a Istanbul passando per la Grecia, poi torna indietro
passando per l’Italia).
Nel 1914 torna nella neutrale Svizzera e negli anni della guerra si dedica allo studio
dell’organizzazione dei quartieri a partire da una semplice cellula edilizia, costituita da una
struttura in calcestruzzo armato, composta di 3 solette, 6 pilastri arretrati rispetto al filo
dell’edificio e una scala; ne è un esempio la Maison Dom-ino del 1914-15 con cellula abitativa
continuamente elaborata e perfezionata (fig. 10.3). Opera di questo periodo è anche Villa
Schwob del 1916, dove applica regole compositive della sezione aurea (fig. 10.4).
La svolta della sua attività avviene nel 1917 quando si trasferisce definitivamente a Parigi. Con
il pittore Amédée Ozenfant fonda nel 1919 la rivista L’Esprit Nouveau, che fino al 1925 si
porrà come punto di riferimento delle ricerche seguite dal Cubismo (Purismo, Dadaismo,
Surrealismo) e del loro incontro con poesia e letteratura.
Il ritorno all’architettura avviene nel 1922 quando apre il suo studio di progettazione con il
cugino Pierre Jeanneret, inaugurando una lunga collaborazione professionale. Il progetto per
la Maison Citrohan nel 1921 è basato sulla ricerca della standardizzazione delle parti
costruttive in un’unità abitativa pensata su 2 livelli, con soggiorno a doppia altezza e copertura
praticabile, che può essere assemblata nei palazzi-villa (Immeubles-villas, complessi edilizi su
più piani, non realizzati, dove le cellule sono alternate a grandi terrazze-giardino, in un gioco di
ibridazione tra palazzo urbano e casa nel verde. Applicazione di questi studi saranno la casa del
pittore Ozenfant del 1922, la doppia casa La Roche-Jeanneret di Parigi del 1923 e il padiglione
dell’Esprit Nouveau all’Esposizione d’Arti decorative di Parigi del 1925 (poi demolito e
ricostruito a Bologna nel 1977, fig. 10.5). In queste opere l’architetto esplora le relazioni tra
spazi interni normali e a doppia altezza, e lo studio delle facciate secondo le regole dei
tracciatori regolari, proponendo soluzioni svincolate dalla simmetria ma in grado di portare a
sintesi funzionalità e visione purista.
La riflessione di Le Corbusier sull’architettura procede parallelamente allo studio del problema
urbanistico, come dimostra la proposta per le Città torri del 1920 e per Une ville
contemporaine del 1922, nella quale ipotizza la costruzione di una città per 3 milioni di
abitanti, realizzando giganteschi grattacieli cruciformi per uffici e servizi pubblici, separati da
ampie strade su più livelli e a più velocità, circondati da quartieri residenziali con cade basse

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immerse nel verde (fig. 10.6). questa visione sarà poi precisata nel 1925 nell’opera tecnica
Urbanisme e nel Plan Voisin dove propone di demolire l’intera città di Parigi, con l’eccezione
dei 3 monumenti simbolo (cattedrale di Notre Dame, basilica del Sacre Coeur e la Tour Eiffel).
Si tratta di proposte provocatorie di città fatte di autostrade e grandi complessi residenziali.
Nel 1923 con la pubblicazione di Verso un’architettura Le Corbusier elabora il Manifesto
dell’architettura del Movimento Moderno. Raccogliendo scritti già apparsi su L’Espirit
Nouveau, ma impostando una grafica inconsueta fatta di successioni di fotografie e schizzi con
brevi aforismi, Le Corbusier invita a guardare alle recenti opere dell’ingegneria e della tecnica
come alle vere testimonianze di una ricerca artistica moderna; il problema è che l’architettura
del suo tempo non esprime il proprio Partenone: ridotta a copia degli stili del passato non ha più
ragione di esistere. Chiude il tutto con un monito “Architettura o rivoluzione. Si può evitare la
rivoluzione”.
Con il Quartiere Operaio di Pessac del 1925 (fig. 10.7) l’architetto ha la prima occasione di
mettere in pratica le ricerche sull’aggregazione di cellule abitative minime. Le 130 case
unifamiliari hanno la struttura in calcestruzzo armato (una trave di 5 metri di lunghezza usata
per tutta la lottizzazione), in modo da risparmiare sui costi di costruzione.
Negli anni Venti-Trenta realizza opere come Villa Stein-de Monzie e le due case per il
Weissenhof (fig. 10.8), che sono esempio della poetica di Le Corbusier riassunta nei Cinque
punti di una nuova architettura del 1926:
1. Pilotis (pali o pilastri) lasciano le visuali 4. Facciata libera
libere 5. Finestre a nastro (tagliati in tutta la loro
2. Tetto giardino (praticabile, spazio per il lunghezza, massima illuminazione e
verde) aerazione).
3. Pianta libera (elimina puri portanti)
La famosa Villa Savoye del 1929-31 (fig. 10.9) riassume tutte queste regole e diventa
rapidamente una delle più note icone del Movimento Moderno; essa è costituita da un
parallelepipedo bianco a pianta quadrata, sollevato da terra con pilastri tondi. Al piano terreno,
troviamo le autorimesse e gli alloggi del personale di servizio, al piano superiore troviamo il
soggiorno, affacciato su un’ampia terrazza, e le camere da letto, con ampi spazi per l’igiene e il
relax, collegate con un solarium sul tetto giardino; oltre alla scala, anche una rampa esterna
permette i collegamenti verticali e invita ad una passeggiata architettonica alla scoperta della
casa. Queste opere e le sue pubblicazioni portano la fama di Le Corbusier.
Nel 1927 è il vincitore morale del Concorso internazionale per il Palazzo della Società delle
Nazioni a Ginevra, dove la giuria era presieduta dal pionere del Movimento Moderno Victor
Horta, ma è indecisa sull’accettazione dell’architettura moderna quindi egli arriva 1° posto in ex
aequo con altri otto progetti, ma poi non gli viene conferito l’incarico. Il suo progetto prevede
una chiara composizione e distribuzione degli edifici in relazione alle funzioni e valorizza
l’affaccia verso il lago (fig. 10.10). Lo studio degli edifici pubblici ha però una svolta positiva
con il concorso internazionale per il Palazzo del centro Soyuz del 1929 (un complesso per uffici
per 3500 impiegati, con ristoranti, sale per conferenze e vari servizi, che verrà realizzato, fig.
10.11), mentre il progetto per il concorso del Palazzo dei Soviet del 1931 sarà respinto nel clima
di restaurazione della Russia di Stalin.
Nel 1928 a LA Sarraz in Svizzera, ospite del mecenate Mandrot, Le Corbusier è promotore con
altri 24 architetti e con lo storico dell’architettura Sigfried Giedion, dei CIAM (Congressi
Internazionali di Architettura Moderna), sede di confronto e di diffusione delle idee del
Movimento Moderno; la prima riunione è incentrata sulla definizione di una piattaforma
comune che identifica la necessità di elaborare un’architettura in sintonia con le esigenze sociali
piuttosto che individuali. Viene anche individuata l’urbanistica come strumento per la

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pianificazione e vengono approfonditi temi scottanti come l’abitazione razionale ed economica
e il disegno dei nuovi quartieri residenziali.
Il tema della casa economica e produttiva viene nel frattempo approfondito da Le Corbusier con
la Citè de Refuge del 1929 (fig. 10.12), un palazzo di 10 piani destinato ai senza tetto dove
l’attenzione al rapporto tra spazi collettivi e individuali sia afianca allo studio di soluzioni
tecnologiche, come la parete vetrata; e il Padiglione svizzero alla Citè universitaire del 1930
a Parigi, una residenza per studenti di 6 piani dove gli spazi comuni sono organizzati in un
volume staccato curvilineo.
Vista la sua notorietà, Le Corbusier viene invitato nel 1929 a una serie di conferenze in America
del Sud, che influenzeranno molti architetti andando a fargli realizzare edifici lineari
giganteschi, con scarso riferimento al tessuto urbano pre-esistente; fondamentale sarà poi l’idea
della città strada affacciata sulla linea di costa, che però non troverà applicazione concreta.
L’attività di Le Corbusier come urbanista ha una svolta con l’organizzazione del IV Congresso
del CIAM nel 1922, che lo vede protagonista di un dibattito internazionale incentrato sul
confronto di piani urbanistici, che sarà alla base del libro di scritti e disegni programmatici La
ville radieuse (La città radiosa) del 1935, e poi della famosa Carta di Atene del 1943, un
documento-manifesto della visione del Movimento Moderno sulla città. Seguono il padiglione
dei Tempi nuovi all’Esposizione internazionale di Parigi del 1937 (struttura precaria di tendoni
con policromia molto forte), vari altri progetti tra cui il Monumento a Villejuif del 1937 alla
memoria di Paul Vaillant-Couturier (deputato comunista).
Nel 1940 Parigi viene occupata dai nazisti, Le Corbusier ripara nei Pirenei con la moglie e con
Pierre Jeanneret. Poi si trasferisce a Vichy. Nel 1947 pubblica lo studio Modulor che è un
insieme di misure armoniche basate sulla scala umana e utili per il progetto ergonomico
dell’architettura (fig. 10.13).

10.2 PROGETTO PER L’INDUSTRIA E ARCHITETTURA PER IL POPOLO


Per Le Corbusier l’architettura deve essere un’opera d’arte, ma per altri progettisti è più
importante la ricerca del ruolo sociale dell’architettura e l’aspirazione a una vera e propria
“estetica industriale”. Walter Gropius (1883-1969), proviene da una famiglia di architetti,
studia a Monaco e al Politecnico di Berlino, si forma presso lo studio di progettazione di Peter
Behrens a Berlino (al tempo in cui Behrens elabora le immagini per l’AEG) dove incontra
anche Mies van der Rohe, Le Corbusier e Adolf Meyer; fa numerosi viaggi in Europa. Nel 1910
abbandona Behrens, inizia un’attività autonoma di progettazione avviando una collaborazione
con Meyer che durerà fino al 1925. Gropius+Meyer nel 1911 si occupano dell’ampliamento
della Farguswerk (Officine della Fagus, fig. 10.14) dove si propone di assegnare anche agli
edifici industriali una carica formale fino a quel momento negata; vengono realizzati i
tamponamenti in courtain wall (parete tenda) fatti con vetrate a tutta altezza che risvoltano sullo
spigolo annullandone il tradizionale ruolo portante, sottolineando le nuove possibilità tecniche.
Questa impostazione viene ulteriormente sviluppata nell’edificio industriale modello alla
mostra della Werkbund di Colonia del 1914 (fig. 10.15), il cui impianto simmetrico e
vagamente monumentale è ancora legato alla tradizione, mentre gli uffici verso la corte e i corpi
scala cilindrici sono di esaltazione tecnologica; anche la ciminiera-serbatoio esprime una nuova
immagine.
Durante la Guerra Gropius è ufficiale degli Ussari al fronte; poi aderisce alle ricerche dei circoli
artistici di Berlino durante la crisi rivoluzionaria. È tra i fondatori dell’Arbeitstrat fur Kunst nel
1919. Nello stesso anno Gropius viene incaricato della direzione della Scuola superiore delle
Belle arti di Weimar dando vita alla Bauhaus, una delle esperienze didattiche più innovative
del secolo. L’obbiettivo è quello di costruire un luogo di unità di tutte le forme d’arte. La
didattica della Bauhaus è innovativa: partendo dal presupposto che l’arte non può essere

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insegnata, la preparazione è basata sull’attività di laboratori nei quali unire l’approccio teorico e
l’esperienza pratica acquisita nella lavorazione dei materiali; al Bauhaus non c’erano insegnanti
e studenti, ma maestri e apprendisti. In una 1° fase sono chiamati a insegnare al Bauhaus artisti
dell’avanguardia internazionale (Kandinkij, Klee, George Muche, Itten che tiene il corso
preparatorio dove azzera ogni conoscenza tradizionale degli allievi); in seguito altri protagonisti
come Joseph Albers, Marcel Brueuer, Moholy Nagy, che orienteranno, in accordo con Gropius,
gli indirizzi della scuola verso obiettivi più produttivi. La sezione di architettura della scuola
però tarda ad essere avviata, e ha impulso soltanto con la Casa Sommerfeld di Gropius+Meyer
del 1920-21 (fig. 10.16), voluta da un importante industriale del legno e realizzata con la
collaborazione di numerosi artisti e allievi del Bauhaus. Ancora influenzati da questa stagione
sono il Monumento ai caduti di marzo del 1922 (fig. 10.17), una saetta in calcestruzzo armato
rivolta verso il cielo a ricordare il sacrificio dei rivoluzionari spartachisti; e il grattacielo per il
concorso internazionale per il Chicago Tribune del 1922 (fig. 10.18), che abbandona il ricorso
allo storicismo.
In questo periodo sono affrontate anche le prime ricerche sulle abitazioni a basso costo, da
costruire in serie, come la Casa am Horn del 1923 (fig. 10.19) con pianta quadrata, camere sul
perimetro, zona del soggiorno di un quadrato centrale dalla copertura elevata per permettere
illuminazione dai laterali, aggregabile e ampliabile a seconda delle esigenze.
Crescenti difficoltà politiche e un contesto economico non favorevole portano alla chiusura
della scuola a Weimar e al suo trasferimento a Dessau, dove Gropius costruisce la Nuova sede
della Bauhaus nel 1925-26 (fig. 10.20); l’edificio (manifesto costruito dell’architettura) in
struttura in calcestruzzo armato è articolato in 4 prismi con copertura piana tra loro
perpendicolari: uno per gli uffici dell’amministrazione e il direttore, uno per le aule, uno per i
laboratori, auditorium e mensa e uno per gli alloggi per gli allievi. Le finiture sono in intonaco
bianco-grigio e vengono realizzati courtain walls in vetro. Al completamento del complesso
scolastico Gropius realizza anche la Casa del direttore e le 3 Case bifamiliari per i docenti:
incastri di volumi geometrici a copertura piana, ampie finestre, intonaci bianchi così che
risaltano nel verde degli alberi; ampie dimensioni degli alloggi, cura delle soluzioni
tecnologiche e di arredo, di fatto sono residenze di lusso.
Nell’ambito del Bauhaus Gropius realizza il quartiere Torten sempre a Dessau nel 1926-28
(fig. 10.21), un complesso di 60 case a schiera unifamiliari, promosse e parzialmente finanziate
dallo Stato, dove vengono sperimentate tecniche avanzate di standardizzazione, di
prefabbricazione e di industrializzazione del cantiere. L’insediamento è in messo alla
campagna, le strutture sono in pilastri e travi prefabbricate osate a secco, con tamponamenti
leggeri in materiali ricavati sul posto. Sempre a Dessau egli costruisce l’Ufficio di
collocamento nel 1927-29 (fig. 10.22), un fabbricato a un piano fuori terra a pianta
semicircolare, illuminato tramite una copertura a shed.
Su un fronte diverso, quello dell’innovazione delle avanguardie artistiche, si colloca il progetto
di Total-Theater del 1927 (fig. 10.23), che non sarà però mai realizzato, ma costituisce una
geniale testimonianza delle possibilità di interazione tra soluzioni tecnologiche e spaziali.
Nel 1928 Gropius lascia il Bauhaus, che proseguirà sotto la direzione di Meyer. Nel 1930 la
sostituzione di Meyer con il moderato Mies van der Rohe e nel 1931 il trasferimento della
scuola a Berlino in forma di istituzione privata, non salveranno la Bauhaus dalla chiusura per
imposizione di Hitler nel 1933. L’eredità della Bauhaus però è enorme: una nuova estetica
basata sull’essenzialità formale, sulla funzionalità e sulla stretta relazione con la produzione
industriale.
Gropius si impegna sul versante della casa popolare: realizza 2 case del Weissenhof Siedlung di
Stoccarda del 1927, realizzate con tecniche di prefabbricazione, una in struttura di acciaio e
l’altra con blocchi di pietra pomice montati a secco.

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Nell’ambito dei CIAM, Gropius è tra gli organizzatori e vicepresidente del II Congresso di
Francoforte del 1929, incentrato sul problema della casa “minima” e partecipa al III Congresso
a Bruxelles de 1930 sulle case popolari, dove sostiene la bontà delle case alte con servizi
comuni e case basse nella periferia. In questo periodo elabora alcuni progetti per case di 10
piani in struttura di acciaio e realizza numerosi quartieri di edilizia economica nelle principali
città tedesche.
Negli anni Trenta la sua notorietà cresce sempre di più. compie viaggi, tiene conferenze in
Europa. Nel 1934 si appella a Goebbels per difendere l’arte moderna, ma non viene ascoltato. Si
reca a Londra dove mostra i suoi lavori presso il Royal Insitute of British Architects e collbora
con l’architetto Maxwell Fry realizzando il Village College nel 1936-39.
Nel 1937 è accolto negli USA dove riceve l’incarico di professore di architettura ad Harvard. Lì
realizza la casa Gropius nel Massachussets nel 1938 (fig. 10.24), usando tecniche costruttive
locali con struttura e finiture in legno, compreso il portico, e i brise-soleil.

10.3 OSCILLAZIONI TRA FORMA E TECNOLOGIA


La ricerca tecnologica si rivela uno degli strumenti del rinnovamento dell’architettura. Lo
dimostra Ludwing Mies van der Rohe, figlio di uno scalpellino di Aquisgrana, nel 1905 si
trasferisce a Berlino dove lavora come disegnatore di mobili presso Bruno Paul; nel 1908 entra
nello studio di Behrens (impegnato nella progettazione dell’ambasciata tedesca di San
Pietroburgo) e in questo periodo formativo studia le opere neoclassiche di Schinkel, lavora con
Gropius e Le Corbusier, frequenta mostre di Wright, fa un viaggio in Italia e un soggiorno in
Olanda dove visita le opere di Berlage.
Dopo la guerra vive la fase rivoluzionaria e partecipa allo sviluppo dell’esperienza
espressionista, aderendo alla fondazione e alle iniziative del Novembergruppe e della Glaserne
Kette. In questo contesto di rinnovamento delle forme e di esaltazione dell’uso del vetro per
l’architettura del futuro Mies elabora 2 progetti per grattacieli in vetro con struttura metallica
del 1921-22 (fig. 10.25-26), dove mette in evidenza la distinzione tra le parti portanti e quelle
portate, articolate intorno ai corpi centrali delle scale e degli ascensori. Stessa cosa anche nel
progetto per un Palazzo per uffici in calcestruzzo armato del 1922 dai forti sbalzi delle solette,
rinforzate dal risvolto in facciata.
Per Rohe alla ricerca strutturale sui nuovi materiali è necessario affiancare anche l’elaborazione
di processi produttivi industriali. Ancora sotto l’influenza delle avanguardie Mies propone un
progetto per una villa in mattoni nel 1923 e quello per una villa in calcestruzzo armato nel 1924,
dove oltre all’approfondimento delle diverse tecniche costruttive abbiamo piante ridotte a poche
rette perpendicolari, coperture piane, lastre a sbalzo ‘alla Wright’. Anche il Monumento a KAlr
Liebknecht e Rosa Luxemburg (fig. 10.27), costruito nel 1925 a Berlino ma demolito dai nazisti
nel 1933, è una composizione di pure geometrie tipiche della ricerca neoplastica ma fatte in
mattoni.
Nel 1926 viene nominato vicepresidente del Wrkbund e ottiene l’incarico di direzione della
Esposizione del Weissenhos Siedlung di Stoccarda del 1927, dedicata a raccogliere le ricerche
più avanzate del tempo intorno al tema del quartiere di edilizia economica. Per l’occasione Mies
prepara il piano generale dell’area definendo 2 assi viari principali disposti sulle curve di
livello, da cui si diramano le strade secondarie di accesso alle unità abitative. Nella zona a
monte, a coronamento e sfondo dell’insediamento, realizza un complesso residenziale su 3
piani, con copertura a terrazza (fig. 10.28). La struttura portante in acciaio permette di rendere
completamente libere le piante dei 24 alloggi, distribuiti su 4 scale; sulla struttura vengono
applicati i 5 punti di le Corbusier, che fanno di questo edificio un modello perfetto (con una
nuova oggettività). Il quartiere di case dagli intonaci bianchi e dalle coperture piane avrà
notorietà internazionale.

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La struttura in acciaio è utilizzata da Mies anche nelle due case per gli industriali Hermann
Lange e Josef Esters del 1927-30, con novità nel rivestimento in mattone scuro che copre
forme tipiche della modernità: tetti piani, ampie finestre, terrazze, libertà di articolazione dello
spazio. La cura e l’essenzialità delle soluzioni ne fa esempi emblematici delle possibilità per la
nuova progettazione elementare di interpretare anche materiali tradizionali come il laterizio.
Mies raggiunge una fama enorme. Nel 1929, poi ricostruito nel 1986, realizza il Padiglione
della Germania per l’Esposizione Universale di Barcellona (fig. 10.29-30), pensato come un
prototipo di casa unifamiliare molto ricca. Su un basamento in travertino di 17x53 metri, otto
pilastrini in acciaio reggono una copertura piana in calcestruzzo armato. I tamponamenti sono
quasi completamente sostituiti da ampie vetrate a tutta altezza, con serramenti in acciaio
cromato e l’edificio si riflette in 2 specchi d’acqua, uno grande che accoglie il visitatore e uno
piccolo, con pareti in marmo verde scuro, animata dalla scultura Il mattino di George Kolbe.
Nel padiglione è presente la famosa sedia Barcellona, di gusto essenziale e con un’estetica
della modernità, in piattina di acciaio inossidabile curvato e cuoio bianco.
Il contributo di Mies a questa nuova estetica può essere sintetizzato dall’aforisma che gli viene
attribuito “Less is more” (il meno è il più), ovvero: è attraverso un processo di sottrazione e
semplificazione che si può raggiungere un risultato migliore. Elemento in più che aiuta a capire
la poetica miesiana potrebbe essere anche un altro aforisma a lui ascritto “God is in the details”
(Dio è nei dettagli), afferma che è proprio il particolare architettonico ad assegnare
all’architettura quella qualità che non viene più dalla decorazione applicata, ma dall’essenza
stessa della soluzione tecnologica adottata.
Nel 1929 Mies affronta un tema urbanistico con il concorso per la sistemazione di
Alexanderpatz a Berlino (progetto non realizzato). Nel progetto l’importante nodo stradale e
commerciale è visto come sfondo di imponenti parallelepipedi in vetro e acciaio, arretrati dal
filo strada per creare luoghi di incontro del pubblico e attrarre visitatori. Nel 1930 realizza la
nota Villa Tugendhat in Repubblica Ceca (fig. 10.31-32), dove dimostra la possibilità per il
neue bauen (nuovo costruire) di essere adottato anche da una committenza facoltosa. La
struttura è in metallo con pilastri cruciformi parzialmente lasciati a vista e rivestiti in acciaio
cromato. I semplici volumi geometrici, i particolari tecnologici all’avanguardia e il raffinato
disegno degli interni. La zona giorno al piano inferiore è un ambiente che può essere collegato
al verde tramite una grande vetrata e un giardino d’inverno.
Negli anni Trenta Mies continua un’attività di progettista e teorico, realizzando il progetto di
concorso per l’ampliamento della Reichsbank nel 1933. Con l’arrivo di Hitler, Mies è costretto
ad abbandonare la Germania per trasferirsi negli USA, dove sarà docente a Chicago presso
l’Armour Institute of Technology, in cui ridisegnerà il campus.

10.4 LA NUOVA ARCHITETTURA PER LA CASA POPOLARE: GERMANIA, AUSTRIA E OLANDA


Il problema dell’accesso alla casa per le classi popolari è centrale nell’800. Il Movimento
Moderno costituisce lo stimolo a sviluppare nuove soluzioni urbanistiche e tecnologiche al
servizio del miglioramento delle condizioni di vita dei lavoratori. Nascono istituti rivolti alla
progettazione di abitazioni e quartieri residenziali con caratteristiche di confort, di igiene e di
economicità tali da essere accessibili a lavoratori e popolazione a basso reddito. Questi quartieri
costituiscono un incentivo alla sperimentazione di nuove tecniche industriali di produzione
edilizia e alla diffusione del linguaggio della modernità.
Il “diritto alla casa” che la Costituzione della Repubblica tedesca di Weimar sancisce sulla
carta, si concretizza nel corso degli anni Venti con l’apertura di vari cantieri nelle città per la
costruzione di abitazioni dai costi contenuti. Si realizza così il più significativo intervento di
edilizia popolare che abbia caratterizzato un paese occidentale, che diventa un gigantesco
laboratorio della modernità; è un esperimento reso possibile dalla compresenza di un massiccio

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afflusso di capitali esteri dovuto ai finanziamenti del Piano americano Dawes del 1924, la
presenza di un’avanzata cultura tecnica scientifica e urbanistica e soprattutto la pressione
sindacati e delle organizzazioni dei lavoratori che spinge i governi socialdemocratici ad
affrontare il problema della casa per le classi a basso reddito. Il finanziamento degli interventi è
basato su un sistema di crediti agevolati dallo Stato. I nuovi quartieri definiti Siedlungen
(=colonie) sono costituiti da case a schiera su due piani, che hanno il migliore orientamento nei
confronti del sole e della ventilazione (asse nord-sud). Inoltre, i quartieri sono collegati con
efficienti trasporti pubblici, in più sono realizzati servizi e spazi collettivi e ampi spazi verdi. La
proposta di Siedlungen come città del futuro ha anche i suoi critici, come Ludwig Hilberseimer
che nel libro L’architettura della grande città del 1927 ribadisce la visione di architetture
monumentali tutte uguali, come parti integranti della città-macchina proposta da Le Corbusier.
Grande attenzione viene quindi riservata alla necessità di garantire agli abitanti grandi quantità
di luce, aria e sole, tramite ampie finestre, logge e coperture piane praticabili. Alexander Klein
elabora un metodo di progetto e verifica della funzionalità delle piante sulla base del concetto
“minimo vitale per l’esistenza” (fig. 10.33), oggetto di dibattito al II Congresso del CIAM a
Francoforte. Con questo sistema si mettono a confronto il rapporto tra profondità e larghezza
degli alloggi, la razionalità dei percorsi, il ruolo delle ombre e la migliore organizzazione delle
attività abitative.
A Celle, tra i primi quartieri di edilizia popolare guidati dalla ricerca di nuove forme, Otto
Haester realizza Italienischer Garten nel 1923, con 8 unità residenziali in linea di 2 piani dalle
pure geometrie di volumi, sottolineate dai colori primari, e Georgsgarten nel 1924 dove i
fabbricati sono disposti in schiere perpendicolari alla strada. Sono esperimenti che verranno poi
sviluppati su larga scala a Berlino e a Francoforte.
Nel 1920 si calcola che a BERLINO manchino circa 130.000 alloggi, l’intervento pubblico è
impressionante: tra il 1924 e il 1932 sono realizzati circa 150.000 nuovi appartamenti. Gli
interventi sono guidati da Martin Wagner e da Bruno Taut. Tra i loro interventi più
significativi la Hufeisen Siedlung del 1925-33 (fig. 10.35-36), insediamento di circa 2700
alloggi, il cui disegno parte da un0inedita concezione del paesaggio urbano; il fulcro del
quartiere è l’edificio di tre piani a “ferro di cavallo”, disposto ad arco attorno ad uno specchio
d’acqua, da cui si dipartono le stecche delle case a schiera su 2 piani. Qui per la prima volta
sono impiegate attrezzature meccaniche per il cantiere e lavori a catena che riducono i tempi di
esecuzione. Poi in un vasto bosco vengono realizzati altri 2000 alloggi, la metà erano case
unifamiliari a schiera le altre in linea su 3 piani. Diverso è l’insediamento Siemensstadt del
1929-31, di 1370 alloggi organizzati in case in linea di 4 piani secondo diverse ricerche formali
(fig. 10.37).
Altra esperienza fondamentale è quella di BERLINO dove Ernst May dirige tutta l’attività
edilizia municipale, realizzando circa 20.000 alloggi tra il 1925-30, sperimentando nuovi
procedimenti urbanistici e costruttivi illustrati nella rivista La nuova Francoforte. Dopo alcuni
esperimenti (fig. 10.38), sono realizzati complessi come Praunheim nel 1926-28, composto di
più di 1400 alloggi, prevalentemente case a schiera con affaccio su spazi verdi, con lunghe
stecche orientate sull’asse eliotermico, coperture piane e facciate essenziali. Romerstadt del
1927-29 è invece composto da 1200 alloggi disposti su tre/quattro piani in schiera con testate
incurvate e con finestratura orizzontale. L’intervento che offre più spunti di discussione è quello
del 1928-29 della Siedlung Dammerstock, realizzato a seguito di un concorso da Gropius in
collaborazione con Otto Haesler. Lo schema prevede 300 alloggi in edifici di 4/5 piani e 400
case monofamiliari a schiera (ne verranno realizzati poco più della metà), esso è definito un
esempio di assoluta essenzialità dell’impianto ed efficienza delle soluzioni tecnologiche. I
servizi comprendono lavanderia, centrale termina, zone verdi, orti privati; l’insediamento sarà
pubblicizzato sulle riviste; le critiche più dure vengono da Adolf Behne che denuncia

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un’applicazione formalistica dell’architettura funzionale, mascherata dietro il paravento della
scienza, per lui bisogna tenere più conto del contesto ambientale, dei bisogni delle persone.
In AUSTRIA la mano pubblica controlla il mercato dell’edilizia. Il programma si concentra su
Vienna, città di quasi 3 milioni di abitanti, dove tra 1919-33 si realizza l’esperimento della
cosiddetta Rote Wien (Vienna rossa) durante il quale il decreto per la requisizione degli
alloggi sfitti assicura alla collettività circa 45.000 abitazioni. Le soluzioni proposte si baseranno
sulla tipologia degli Hofe, isolati compatti di più piani, dotati di servizi comuni come asili,
lavanderie, botteghe artigianali e negozi, costruiti in aree immediatamente adiacenti al centro.
Le scelte urbanistiche e architettoniche viennesi sono quindi più improntate alla tradizione
rispetto a quelle tedesche, e restano ancorate ai modelli dell’edilizia popolare ottocentesca.
Sono realizzati più di 63.000 alloggi collocati in circa 300 nuovi insediamenti, fra cui citiamo:
- Winarskyhof di Behrens e Hoffmann, linguaggio semplice e comunicativo, passaggi coperti
che introducono spazi verdi interni.
- Professor Jodl Hof (fig. 10.41) di Perco, Frass e Dorfmeister, corpo di linea a scavalco della
strada e corte chiusa, alloggi orientati meglio, perimetro spezzato, terrazzini a pianta
triangolare con motivi decorativi geometrici.
- Karl Seitz-Hof di Gessner, isolato a pianta rettangolare, si apre a esedra creando uno spazio
pubblico con torre e passaggi ad arco di accesso alle corti interne.
- Matteotti Hof (fig. 10.42) di Aichinger e Schmid, si chiude nei confronti della città borghese
con un’immagine di fortezza, corti nascoste, grande arco spezzato nel prospetto poggiante su
pilastri.
- Karl Max Hof (fig. 10.43) di Karl Ehn del 1927-30, di 1400 alloggi, con fronte lungo più di un
chilometro allineato lungo la ferrovia; prospetto scandito da torri con balconi e parti in
aggetto, colore rosso; alti pennoni porta bandiera, statue sulle chiavi di volta, serramenti di
colore vivace. Evidente è la volontà di dare dignità alla casa per lavoratori.
Quasi a rispondere alle contestazioni dei settori conservatori della città che vedono negli Hofe il
simbolo dell’aggressività dell’ideologia operaia, viene realizzato il George Washington-Hof
(fig.10.44) di Krist e Oerley, articolato in blocchi di soli 3 piani fuori terra, disposti nel verde
secondo un’immagine popolare e tradizionale.
I PAESI BASSI hanno una lunga tradizione di controllo pubblico del territorio dovuta ad una
secolare pratica di regimentazione delle acque; qui vengono emanate leggi di pianificazione
funzionali e di esproprio funzionali ad un sistema economico propenso ad investire nel nuovo;
l’edilizia sovvenzionata raggiunge il 75% della produzione edilizia totale. Tuttavia, a partire dal
1925, con la crisi economica, si assiste a un drastico ridimensionamento delle provvidenze a
favore della casa. la ricerca olandese, come sappiamo, si dipana come Scuola di Amsterdam
sulle orme di Berlage (protagonista del Piano di Amsterdam tra 1900-17) che prevede
un’espansione della città in continuità con il tessuto storico. I protagonisti di questa vicenda
sono architetti formati nel contesto dell’influenza di Wright, dell’Espressionismo e del
Neoplasticismo, raccolti intorno all’associazione Architectura et Amicitia e alla rivista
Wendingen (Inversioni). Nell’ambito di una vasta produzione che comprende edifici pubblici e
case di campagna, Michel De Klerk con il quartiere Spandammerbuurt per la società edilizia
Eigen Haard, e Pieter Kramer con De Dageraad (fig. 10.45-46) propongono un’originale
commistione tra immagini tradizionali e suggestioni espressioniste usando un tipico laterizio
scuro di Amsterdam a fianco delle nuove innovazioni tecnologiche; il disegno prevede
piazzette, slarghi, percorsi a misura d’uomo; i blocchi residenziali a 2-4 piani fuori terra hanno
fronti e coperture movimentati da bow window, torrette e pinnacoli. Molto diverso l’approccio
di Johannes Bernardus Van Loghem che è tra gli autori del quartiere Betondrop (=villaggio
in cemento, fig. 10.47), dove usa calcestruzzo armato, disegni geometrici e spoglio dei volumi.
Verso la fine degli anni ’20, in previsione dell’espansione della città di Amsterdam, la città si

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dota di un ufficio urbanistico diretto da Cornelius van Eesteren, che nel 1923 pubblica, insieme
a Van Doesenburg, il volume Veros una costruzione collettiva; il Piano, adottato nel 1935,
diventa un punto di riferimento per tutti gli studi urbanistici successivi e sarà costantemente
aggiornato. Di particolare interesse è il fatto che l’espansione è progettata in continuità con il
tessuto storico, con quartieri previsti per 10.000 abitanti.
Interventi importanti sono fatti anche a ROTTERDAM dove Oud è l’architetto capo dal 1918-
35 e progetta una serie di quartieri popolari di grande diffusione sulle riviste della modernità. Il
suo sobborgo di Hoek van Holland è costituito da stecche di case a schiera bianche su due piani
a copertura piana. Stesso linguaggio si ritrova nel quartiere Kiefhoek, ma più approfondito.
Sempre a Rotterdam, tra gli esperimenti interessanti è da ricordare il blocco residenziale a
Spangen di Michiel Brinkman.
Interventi di edilizia popolare vengono attuati anche in SVEZIA. Qui il movimento svedese
noto con il nome di funzionalismo è da ricordare anche per la messa a punto di un sistema di
misure e di relazioni tra gli spazi interni e gli arredi, che sfocerà nella produzione seriale di
mobili di buona qualità a prezzi popolari (es: IKEA).

10.5 LA CELEBRAZIONE DEL MODERNO E I FERMENTI DELLA CRISI


Le nuove architetture prive di decori, di simmetrie e di prospetti principali, volumi puri delle
grandi superfici in ferro e vetro, dalle coperture piane e dagli intonaci bianchi, sono
propagandati da riviste specializzate e popolari, giornali, cinema, concorsi e congressi
internazionali. Spesso riprese nel cinema e fotografate con inquadrature che esaltano gli aspetti
di rottura con le leggi della statica, propongono un’idea di modernità che si estende anche ai
vestiti, grafica pubblicitaria, oggetti domestici. La casa moderna correttamente orientata rispetto
al sole, in contatto col verde, è il luogo della rigenerazione del fisico e della mente, dove si vive
a contatto con l’aria e con la luce; è in sintonia con le richieste del movimento operaio e
sindacale che si batte per condizioni del lavoro e di vita migliori.
Il successo delle architetture del Movimento Moderno è quindi internazionale e interclassista, e
ha varie tappe di cui le mostre in forma di quartieri costruiti sono tra le più note. La mostra di
Stoccarda del 1927 presenta anche proposte esteticamente dirompenti per la casa del borghese.
A quella segue la mostra di Breslau del 1929 dove si costruisce un quartiere di 32 edifici
intorno al tema dell’abitazione e dell’ambiente di lavoro. Altra tappa è la mostra di Barcellona
del 1929 con dimostrazione di case di lusso. Nell’ambito del Werkbund sono promosse le
mostre di Vienna e Praga del 1932 sul tema della casa unifamiliare, dalla cellula minima alla
grande villa.
Il Movimento Moderno tocca il vertice della parabola del successo con la Mostra di
architettura del 1932 promossa dal MoMa di NY, che inizia così la sua importante opera di
divulgazione. La mostra è affidata al critico e storico dell’architettura Henry-Russel Hitchcock
e all’architetto Philip Johnson; è costituita da foto e modelli di opere, accompagnata dalla
pubblicazione del libro che esce col titolo programmatico di Lo stile Internazionale; il testo,
poi ripubblicato da Hitchkok nel 1966 ha una selezione di circa 80 opere contemporanee di più
di 70 architetti, realizzate in paesi quasi tutti europei (con l’eccezione di un’opera giapponese,
una russa e 7 americane); la Germania è terra di più di 20 opere, seguono Francia e Svizzero;
l’Italia una sola. Tra le architetture selezionate le più numerose sono case unifamiliari, ma ci
sono anche quartieri operai, padiglioni espositivi, edifici industriali, palazzi per uffici, grandi
magazzini, laboratori, stazioni di rifornimento, club sportivi e arredamenti interni. Tra gli autori
troviamo: Gropius, Le Corbusier, Mies, Aalto, Lurcat, Neutra; Wright non è citato nonostante la
mostra al MoMA avesse in origine uno spazio, perché ritenuto legato alle ricerche del secolo
passato. Hitchkok e Johnson intendono elaborare un vero manuale operativo che diffonda negli
Usa le conquiste europee, ma depurate dal loro forte contenuto sociale; sostengono che è nato

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un nuovo stile in sintonia con l’epoca delle macchine e del quale possono essere trasmessi i
principali canoni: il funzionalismo come rispondenza alle necessità pratiche dell’edificio,
l’abbandono della massa muraria portante grazie a scheletri strutturali leggeri, l’uso di
rivestimenti continui, la regolarità intesa come abbandono della simmetria e assunzione di
regole di proporzionalità, l’eliminazione della decorazione e l’uso della pianta libera. Infine lo
scritto si occupa anche della costruzione degli alloggi a basso costo sostenendo che anche la
Siedlung deve avere rapporti proporzionali tra le singole unità abitative e l’intero complesso, e
che l’impianto funzionale non deve dimenticare l’organizzazione estetica. In definitiva il testo
di Hitchkok e Johnson registra e diffonde il successo del Movimento Moderno, ma anticipa
anche quelli che saranno i punti di crisi in arrivo. Ridimensionato il riferimento all’impegno
sociale e al rapporto col contesto ambientale, l’architettura della modernità può adottare gli
elementi compositivi e metodologici descritti, come una ricetta valida sempre e ovunque; la
stessa definizione di internazionale è un ulteriore elemento di contraddizione perché da un lato
sottolinea gli aspetti progressisti del confronto internazionale ma dall’altro fa emergere
strumenti formali e metodologici validi in tutti i luoghi, non considerando il committente ma un
soggetto-tipo con necessità standardizzate. Proprio da questi elementi emergono una serie di
fattori di crisi dell’architettura del Movimento Moderno, come la sua spersonalizzazione, la sia
vocazione alla produzione seriale, l’indifferenza ai luoghi e alle culture locali.

Cap. 11 - Architettura, città e regimi totalitari: ancora il classicismo


La seconda metà del ‘900 è sempre stata analizzata sotto la luce del Movimento moderno, che
era il principale protagonista dell’architettura del ‘900, ma è una lettura fuorviante perché
alcuni elementi della tradizione restano costanti e convivono con i fermenti della modernità.
Soprattutto nei regimi totalitari troviamo il ricorso alla tradizione: durante la dittatura di
Mussolini la tradizione convive con le ricerche della modernità; al contrario il regime Nazista
combatte apertamente l’arte delle avanguardie e arriva a controllare interamente la ricerca
artistica e architettonica imponendo la classicità per gli uffici pubblici e le tradizioni rurali per
le abitazioni; nell’Unione Sovietica di Stalin l’emarginazione e poi la repressione delle
avanguardie artistiche si accompagnano alla sconfitta delle posizioni politiche legate all’ideale
di una rivoluzione internazionale permanente.

11.1 LA VICENDA ITALIANA


Nel primo Dopoguerra il dibattito sulla modernità si concretizza in molte esperienze europee,
soprattutto francesi e tedesche, ma in Italia sembra stare ai margini. La proposta di una
“ricostruzione futurista dell’universo” avanzata da Marinetti non si realizza, tuta via alcuni
contenuti futuristi confluiscono nell’ideologia del nascente movimento fascista. In arte la
reazione alla guerra e alle provocazioni delle avanguardie, provoca il richiamo all’ordine
promosso in Italia dalla rivista Valori plastici e da Margherita Sarfatti come tentativo di
ritornare ai valori della tradizione. Si muovono in tal senso un gruppo di architetti lombardi
guidato da Giovanni Muzio, che con la sua Ca’ Brutta a Milano del 1919-23 (fig.11.1) esprime
la volontà di ritornare alle atmosfere del Neoclassicismo, reinterpretato e semplificato secondo
le surreali atmosfere della Metafisica pittorica. Con il termine Novecento si va così a
identificare il raggruppamento milanese, che conta tra gli altri anche Giuseppe De Finetti e Giò
Ponti e che rimanda in pittura a Giorgio De Chirico e Mario Sironi proponendo una difesa della
classicità, non intesa come copia di forme e stili di un’altra epoca, ma come modello di
equilibrio e di originalità italiana contro le insidie rivoluzionarie estere.
Con la marcia su Roma dell’ottobre 1922, Mussolini dà inizio al ventennio di dittatura fascista.
Gli intellettuali devono formalmente aderire al regime e dal 1932 c’è l’obbligo per architetti e
ingegneri di iscriversi al Partito fascista per poter esercitare la loro professione, per quanto il

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regime lasci abbastanza aperto il dibattito intorno a arte e architettura; molti architetti quindi
rinunciano alla rivendicazione dell’autonomia della loro ricerca dalla politica e si muovono per
far adottare al regime le proprie posizioni. Non ci sono diciamo architetti di sinistra legati alla
modernità e architetti di destra legati alla tradizione, perché il dibattito è più ampio e ruota
attorno al tema dell’architettura arte di Stato. Il confronto è vivace, si mostra in articoli e
fotografie sulle riviste di architettura; il nodo di fondo è come elaborare un’architettura che sia
italiana e nazionale ma anche moderna e in sintonia con le esigenze del mondo industriale.
Mussolini è interessato agli aspetti edilizi e urbanistici del Paese per cercare di definire il volto
architettonico dell’Italia del ventennio, ma non impone un indirizzo stilistico unico. L’apertura
alla ricerca espressa da Mussolini si può “leggere” nelle pagine del Gruppo 7 (laureati e
laureandi del Politecnico di Milano) che annuncia dalla rivista “La Rassegna Italiana” l’avvento
di uno spirito nuovo, parafrasando Le Corbusier. Secondo loro questo nuovo modo di costruire
che si identifica con il Razionalismo e implica il sacrificio del proprio ego nel nome della
creazione comune che elaborerà per gradi il nuovo stile, dopo una necessaria identificazione di
“tipi fondamentali” ottenuti per selezione. il Gruppo 7 aggiunge come imprescindibile, rispetto
ai loro colleghi europei, la necessità di conservare “un’impronta tipicamente nostra” intesa
come spirito della tradizione; essi vogliono far trasformare la tradizione; è una posizione che si
allontana dalle avanguardie.
I fulcri del dibattito sono a Torino e Milano, ma l’imponente piano di opere pubbliche avviato
dal regime si estende in tutto il territorio. L’imponente piano di opere pubbliche comprende
nuove città, bonifiche, infrastrutture, tribunali, poste, impianti per lo sport; si costruiscono:
Case del Fascio, Case del Balilla, Case della Madre e del Bambino, Sedi dopolavoristiche,
Colonie estive e invernali, che sono realizzate secondo un programma molto enfatizzato dagli
strumenti di comunicazione di massa, al tempo in via di diffusione, come la radio e il cinema.
Il 1° laboratorio della modernità è la TORINO degli anni Venti. La città è divisa tra lo slancio
dell’industria (es: Stabilimento Fiat Lingotto di Giacomo Mattè Trucco) e l’affermazione di una
libertà intellettuale compendiabile negli spettacoli di danza, nei primi concerti jazz, nelle
rappresentazioni teatrali, ecc. Qui il finanziere Riccardo Gualino organizza un cenacolo
culturale nutrito di intellettuali e artisti (Casorati, Chessa, Paulucci, Pagano, Morelli, Sartoris e
altri). A Torino nel 1928 Giuseppe Pagano coordina l’Esposizione Nazionale italiana, che
ospita i padiglioni futuristi di Chessa, Sartoris e Prampolini, e quelli connotati dai primi accenni
di modernità ossia quelli progettati da Pagano stesso, da Paolo Perona (Casa degli architetti).
Sull’onda del successo dell’esposizione Pagano e Rita Levi-Montalcini progettano il Palazzo
per gli uffici di Gualino nel 1928-30 a Torino (fig.11.2), edificio moderno per vari aspetti:
volume geometrico e spoglio, taglio orizzontale delle aperture, tetto piano, studio spazi di
lavoro e percorsi e progetto degli arredi con nuovi materiali di produzione industriale). Degli
stessi architetti è anche Villa Colli a Rivara Canavese, presso Torino, del 1929-31 (fig. 11.3)
che è un precoce tentativo di ibridare modernità e tradizione rurale. La stagione
dell’avanguardia torinese si chiude presto, in seguito a contrasti con il regime. Gualino viene
mandato al confino e le sue proprietà confiscate, Sartoris emigra in Svizzera, Pagano si
trasferisce a Milano e dal 1933 dirige la rivista Casa Bella.
La figura di Pagano è una delle più significative dell’architettura italiana tra le due guerre. Egli
vede nelle posizioni rivoluzionarie di Mussolini uno strumento per il rinnovamento
dell’architettura; quando si rende conto dell’impossibilità di affermare questi ideali non esita a
unirsi alla Resistenza e a pagarne le conseguenze fino alla fine, nel campo di Mauthausen. Il
suo obbiettivo di rendere le sue opere dei “manifesti” costruiti dalle due idee. Lo vediamo
nell’innovazione tecnologica, per esempio con la Casa a struttura in acciaio per la V Triennale
di Milano del 1933 (fig. 11.5), oppure nel design industriale con l’elettrotreno Breda con Ponti

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del 1933, o in una delle sue più belle architetture cioè la sede dell’Università Bocconi a Milano
del 1937-41 (fig. 11.6) e ancora nel progetto urbanistico “Milano verde” del 1938.
Nel 1928 a Roma ha luogo la I Esposizione di Architettura Razionale e nasce il MIAR
(Movimento Italiano Architetti Razionalisti) promotore della II Esposizione di Roma nel 1931
tenutasi alla galleria del collezionista e critico Pietro Maria Bardi; Bardi attacca duramente gli
architetti della tradizione, con la presentazione del Tavolo degli orrori (fig. 11.7), un collage
che accosta a vari manufatti di cattivo gusto, le opere di architetti influenti legati alla tradizione
come Brasini o Piacentini. Bardi voleva attrarre il sostegno di Mussolini, convincendolo con le
proposte che nel 1931 aveva raccolto nel suo articolo Architettura, arte di Stato e rielaborato
nel Rapporto sull’architettura (per Mussolini), con l’obbiettivo di legare l’immagine del
fascismo all’architettura razionalista. Ma la posizione del dittatore è ambigua. Ma la posizione
di Mussolini è ambigua, non solo non va alla mostra ma non sosterrà i giovani nella polemica
contro il sistema consolidato. Il Sindacato Nazionale Fascista degli Architetti prende distanza
dalle posizioni più avanzate, e dichiara lo stile razionalista non adatto a rappresentare il regime,
e prepara la fine del MIAR che sarà sostituito dal RAMI (Raggruppamento Architetti Moderni
Italiani), con l’intenzione di cercare un compromesso con gli architetti meno intransigenti.
Il comasco Giuseppe Terragni è protagonista del razionalismo italiano come sintesi tra le
proposte della modernità e la carica di rinnovamento degli esordi del fascismo. Laureatosi al
Politecnico di Milano, partecipa al Gruppo 7, collabora con Pietro Lingeri (suo amico); la sua
formazione passa attraverso l’ammirazione per le opere e gli scritti dei moderni stranieri
(Gropius, Rietveld, Le Corbusier). Il suo Novocomum realizzato a Como nel 1927-29 (fig.
11.8) urta la sensibilità estetica del tempo per l’assenza di decorazione, per la copertura piana e
l’immagine navale; creato con qualche sotterfugio per celare la sua immagine troppo moderna,
rischierà di essere abbattuto ma sarà poi giudicato positivamente da un comitato apposito;
evidenti sono le somiglianze con il coevo Club operaio Zuyev di Golosov a Mosca e con le
ricerche delle avanguardie europee. Il suo capolavoro è la Casa del Fascio di Como del 1932
(fig. 11.9), simbolo di moralità e sviluppo. Le Case del fascio durante il fascismo furono
costruite in tutte le città come centri di propaganda e di incontro, luoghi di riferimento del
partito. Quella di Terragni vuole essere uno spazio aperto al pubblico, un perfetto semi cubo
che dialoga con il contesto riprendendo le proporzioni e l’immagine del Duomo con la
sopraelevazione su un lieve basamento e il rivestimento di marmo; gli ingressi vetrati
immettono direttamente nell’ampio atrio illuminato dalla copertura in vetrocemento. L’edificio,
un perfetto semi cubo, ha 4 facciate tutte diverse.
Sempre a Como Terragni realizza l’asilo di Sant’Elia 1934-35 e la casa Giuliani-Frigerio
1939-40. Tra le sue opere milanesi la più nota è la casa Rustici (1933-35, con Lingeri, fig.
11.10, ripropone in facciata la distribuzione a ballatoio tipica dell’edilizia tradizionale
lombarda). A Roma realizza il Palazzo del littorio in 2 fasi 1934-37 e il Palazzo dei congressi
all’E42 sempre in 2 fasi 1937-39; entrambi dimostrano la totale estraneità dell’architetto alle
retoriche storiciste e monumentali ormai adottate dal regime e ripropongono il primato della
sincerità strutturale e funzionale. Altro progetto è il Danteum di Roma del 1938 (fig. 11.11),
monumento che doveva essere sintesi di opera letteraria e architettonica, dove Terragni gioca
sui numeri e sulle simbologie, in rapporto alla struttura della Commedia, di modo che l’edificio
si proponesse come sintesi di tutte le arti. Terragni tornerà dalla guerra nel 1943 disilluso dalla
politica di Mussolini, portatrice di distruzione e non di progresso.
Il vero ago della bilancia del dibattito è Marcello Piacentini, che si muove fra committenze
pubbliche e concorsi, guadagnandosi la stima incondizionata del Regime. Egli ha una carriera
sfolgorante tra viaggi, incarichi di prestigio e università. Nel 1910 è autore del padiglione
italiano all’Esposizione di Bruxelles; nel 1921 fonda e dirige con Gustavo Giovannoni la rivista
“Architettura e arti decorative” che nel 1931 diventa Architettura, organo del SNFA (Sindacato

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Nazionale Fascista degli Architetti). Nel 1929 è insignito, come Pagano, del titolo di
Accademico d’Italia. Le sue opere esprimono una costante adesione alla ricerca tecnologiaca e
formale della modernità, ma permeata della lezione della tradizione, come si vede nel palazzo
di giustizia di Milano del 1933-41 (fig. 11.12), oppure nella piazza della Vittoria a Brescia del
1929-31, o nella ricostruzione del secondo tratto di via Roma a Torino del 1933-36 (fig.
11.13). Suo grande capolavoro è la Città Universitaria di Roma del 1932-35 (fig. 11.14) dove
invita a lavorare creatività diverse (Pietro Aschieri, Giorgio Calza Bini, Giuseppe Capponi,
Giovanni Michelucci, Gaetano Minucci, Giuseppe Pagano, Gio Ponti, con interventi anche di
Arturo Martini e di Mario Sironi).
Un altro tema del dibattito del tempo è quello che riguarda la liceità di introdurre architetture
nuove nel contesto storico. Nel 1933 un gruppo di giovani architetti guidato da Michelucci
vince il concorso per la Stazione di Santa Maria Novella a Firenze (fig. 11.15), dove essi
usano materiali tradizionali seppure lavorati industrialmente. Con questo progetto sembra che la
battaglia per la modernità sia vinta, ma nella seconda metà degli anni Trenta prendono il
sopravvento caratteri più enfatici, retorici per l’architettura delle opere pubbliche che
esasperano monumentalità, simboli del regime, culto per Mussolini; le molte opere realizzate
sono un panorama complesso detto architettura fascista (termine inadeguato proprio per la
difficoltà di raccogliere le varie proposte sotto un’unica etichetta). Degli esempi sono i palazzi
delle Poste come quello di raffinata monumentalità di Napoli realizzato da Vaccaro e Franzi nel
1932-26 (fig. 11.16) o quello di assoluta modernità di Roma realizzato da Libera e De Renzi nel
1933-34 (fig. 11.17); fra i complessi sportivi il Foro italico di Roma di Ernico del Debbio, lo
Stadio dei Marmi adorno di 60 statue dalla evidente classicità (fig. 11.18); la Casa delle Armi di
Luigi Moretti; nell’ambito dell’edilizia sanitaria abbiamo il Dispensario antitubercolare di
Alessandria di Ignazio Gardella (fig. 11.19), che si distingue per l’integrazione di forme e
materiali moderni con riferimenti locali, come il grigliato in laterizio; un processo analogo si
trova anche nella Società ippica torinese di Carlo Mollino del 1936-40 (fig. 11.20) oppure nella
villa Malaparte a Capri del 1938-40, un parallelepipedo spoglio incastonato nella roccia a picco
sul mare, un’inedita riflessione su natura e mediterraneità. Le colonie infatti sono destinate ad
affascinare i giovani utenti, e si arricchiscono di divagazioni futuriste come quella di Angiolo
Mazzoni a Calambrone nel 1926-31 (fig. 11.21) dove realizza le torri-serbatoio percorse dai
“serpenti” delle scale in una colonia, oppure Clemente Busiri-Vici a Cattolica a forma di
Littorina (fig. 11.22).
Dal punto di vista della città e del territorio gli interventi di Mussolini si inseriscono
pesantemente nei contesti urbani; innumerevoli le demolizioni di quartieri antichi per creare
nuove piazze e “isolamento” dei monumenti. Tuttavia sono anche gli anni della maturazione di
una moderna cultura di gestione del territorio basata sulle leggi di tutela del patrimonio artistico
1939 e sui Piani regolatori 1942. Tra gli interventi urbani più significativi c’è la nascita della
città del Vaticano e l’apertura di via Conciliazione a Roma, che sacrificando un importante
tessuto urbano quattro-cinquecentesco crea un collegamento visivo diretto fra San Pietro e la
città, rappresentando la nuova alleanza Chiesa-Stato dei Patti Lateranensi del 1929.
Fondamentali sono anche le bonifiche, le fondazioni di nuove città. A proposte decisamente
improntate alla modernità, come per Sabaudia (fig. 11.23), come per Carbonia, se ne affiancano
altre più legate alla tradizione e al contesto. Discorso a parte merita il progetto di Piano
Regolatore della Valle d’Aosta voluto da Adriano Olivetti nel 1934-39, elaborato da un
gruppo di studio che propone lo studio e la pianificazione del territorio a scala regionale.
L’ultimo tentativo di trovare un’unità alle espressioni dell’architettura durante il regime
avviene con l’organizzazione dell’Esposizione Universale di Roma del 1942 – E42 (fig.
11.25), voluta da Mussolini per festeggiare il ventennale del suo governo e poi dare visibilità
internazionale ai successi del regime. Il progetto, coordinato da Piacentini, impone un piano

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rigidamente formalista, impostato su 2 assi perpendicolari lungo i quali sorgono piazze ed
edifici di esasperata monumentalità, da cui vengono ovviamente escluse le proposte dei
razionalisti Franco Albini, Cesare Cattaneo, i BBPR (Banfi, Velgioioso, Peressutti e Rogers),
Gardella, Lingeri, Terragni. Tra le opere emblematiche troviamo il Palazzo dei congressi (fig.
11.26, pure geometrie e colonnato monumentale) e il Palazzo della civiltà italiana (fig, 11.27, il
colosseo quadrato).

11.2 GERMANIA ANNO ZERO


L’ascesa ai vertici del partito nazionalsocialista tedesco di Adolf Hitler avvia una delle più
feroci dittature dell’epoca, dove ci sarà un controllo diretto dell’arte e dell’architettura. Nel
1933 viene chiuso il Bauhaus ritenuto pericoloso “covo bolscevico” e nel 1934 ci sarà la messa
al bando delle opere dell’avanguardia internazionale. Le esperienze architettoniche del
Movimento Moderno sono ritenute esecrabili dal nazismo sia perché sviluppate in Paesi retti da
governi nemici, sia perchè desunte da ricerche su architetture di popolazioni giudicate inferiori
alla razza ariana. Dal 1934 Joseph Goebbels, ministro della propaganda e dell’informazione,
emana le direttive per promuovere la vera cultura nazionalsocialista. Una intera generazione di
artisti e intellettuali sceglie la via dell’esilio o aderisce al regime.
A Monaco, fulcro del regime nazista, l’architetto Paul L. Troost viene incaricato da Hitler di
costruire la Casa dell’Arte, realizzata nel 1933-37 (fig. 11.28), con chiari riferimenti
neoclassici e l’uso di pietra a vista; il nuovo museo è inaugurato con una mostra sull’arte di
propaganda voluta dal regime, e poco dopo si tiene la Mostra dell’arte degenerata (Entartete
Kunst). Troost realizza anche i Templi dei martiri nel 1935 (fig. 11.29), recinti di pilastri
classicheggianti che racchiudono sarcofagi dei militanti nazisti uccisi nel colpo di stato del
1923.
La campagna denigratorio contro il moderno si accompagna alla costruzione dell’architettura
nazionalsocialista. Nel progetto della casa unifamiliare si fa riferimento alla tradizione agricola
dei villaggi rurali tedeschi e si ripropongono quindi case dalle coperture a falde, inclinate, con
murature ancorate alla terra, che esplicitano il legame sangue-terra, la sua natura ariana.
In questo ritorno alla tradizione il nazismo trova un sostenitore in Heinrich Tessenow, il quale
nelle sue lezioni al Politecnico di Berlino sostiene un’architettura semplice, da ricercare con un
approccio tecnologico che esprima uno stile del popolo.
Fervente ammiratore di Tessenow e suo assistente è Albert Speer, che diventa in poco tempo il
maggior protagonista dell’architettura del Terzo Reich, collaboratore del Fuhrer. Nel 1933
allestisce la manifestazione per il 1° maggio presso il Tempelhofer Feld, utilizzando enormi
bandiere issate su pennoni alti oltre 30 metri e enfatizzando la tribuna di Hitler. Alla morte di
Troost, Speer diventa l’architetto ufficiale del nazismo, sviluppando un rapporto stretto con
Hitler, fino al coinvolgimento nell’organizzazione militare dello stato e nella persecuzione degli
ebrei; verrà condannato a 20 anni di carcere durante il processo di Norimberga. Nei suoi diari di
prigionia emerge la figura di un “dittatore tedesco” appassionato di architettura, che seduce
Hitler con una sua “teoria delle rovine” secondo cui un edificio costruito con materiali della
tradizione e monumentale sarebbe rimasto a testimoniare la grandezza dell’impero tedesco. Tra
le opere realizzate per esaltare la figura del dittatore e per assecondare le sue esigenze di
propaganda è la sistemazione dell’area dello Zeppelinfeld nel 1934-37 (fig. 11.30), luogo del
raduno nazista, dove Speer progetta una tribuna di dimensioni eccezionali (390 metri di
lunghezza per 24 di altezza) ispirata all’Altare di Pergamo, in blocchi monolitici, ma nei fatti a
causa dei costi la struttura sarà in muratura tradizionale con rivestimento in intonaco trattato a
finta pietra. Nel 1936, incaricato di gestire l’adunata nazista, Speer decide di far marciare le
truppe di sera e orchestra un gioco di luci con 130 proiettori anti-aerei esaltando l’avanzata
delle schiere armate e puntando le luci verso l’alto di modo da creare l’illusione di colonne.

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L’architetto di Hitler realizza il Padiglione della Germania all’Esposizione Universale di
Parigi del 1937, con pilastri classici sormontati da un’aquila (fig. 11.31). Successivamente nel
1939 ca. Hitler incarica Speer di redigere, insieme a Haussmann (il più grande urbanista della
storia), il progetto di costruzione della nuova Berlino che avrebbe dovuto cambiare nome in
Deutschland; il ridisegno è impostato su un asse principale nord-sud, la Grosse Strasse (grande
strada) lungo 7 km e larga 120 metri; un secondo asse est-ovest, la Grosse-Halle e il
Triumphbogen (arco di trionfo). La Grosse Halle è un enorme spazio di 38.000 metri quadri,
coperto da una cupola di 250 metri di diametro. L’arco di trionfo di 120 metri di altezza,
costituisce invece il coronamento della strada, verso sud. La nuova Berlino di Hitler prevede
anche la sistemazione delle aree residenziali, la creazione di parchi e un accurato studio delle
nuove arterie di traffico. L’impegno bellico ferma allo stadio di modelli questi progetti.
Notiamo però che la costruzione del Palazzo del Turismo, 1° edificio della nuova arteria
monumentale, richiese la demolizione di 52mila appartamenti e il trasferimento di molte
famiglie in case sequestrate agli ebrei. Nel 1938 H. commissiona la Nuova cancelleria (fig.
11.35), edificio con fronte di 360 metri, aspetto austero, ingresso con colonne decorato dalle
statue neoclassiche di Arno Becker, corridoio interno di 150 metri che conduce allo studio di
Hitler di 400m2, dove le decorazioni inneggiano alla guerra; dopo i bombardamenti e il rifugio
del Fuhrer nel suo bunker, della Cancelleria rimarranno solo ruderi.

11.3 LA RUSSIA DI STALIN


Dopo la rivoluzione i bolscevichi, guidati da Lenin, vogliono sviluppare un’architettura che sia
immagine della modernità. Nel corso degli anni Venti la posizione del ministro della
propaganda Anatolij Lunacarskij è ambigua: da un lato il governo non contrasta la produzione
sperimentale delle avanguardie, dall’altro però sostiene l’ala tradizionalista degli architetti che,
di fatto, concretizza l’esecuzione delle opere di committenza statale. Ma URSS è un terreno
fertile per le sperimentazioni architettoniche e attrae molti architetti impegnati
nell’affermazione del Movimento Moderno. Nasce la VOPRA (unione panrussa degli architetti
proletari) favoreole a un ritorno alla monumentalità come idonea rappresentazione dello Stato,
in netto contrasto con la visione costruttivista. Il processo di mummificazione degli ideali della
rivoluzione russa trova emblematico riscontro in architettura nel Mausoleo di Lenin di Alejsej
Scusev del 1929 a Mosca (fig. 11.36); edificio posto nella piazza Rossa, destinato a sostituire
una prima struttura ligne costruita per omaggiare la salma imbalsamata di Lenin, composizione
geometrica priva di decori, materiali pregiati.
Negli anni ’30 gli apparati statali adottano il vocabolario della classicità e delle dimensioni
colossali in sintonia con la retorica dei Piani Quinquennali di Stalin a partire dal 1929, il cui
obbiettivo era l’incremento delle qualità di prodotto. Nel quadro dei primi 2 piani quinquennali
sono costruite 354 nuove città. Il crescente ruolo di Mosca, Leningrado e Kiev giustifica piani
urbanistici di grande respiro. Il piano adottato nel 1935 che costituirà a lungo il riferimento per
lo sviluppo della città, con l’orientamento di isolare Mosca per farne il centro politico,
amministrativo e culturale del Paese, viene redatto sotto la tutela del segretario Kaganovic; il
progetto prevede l’integrazione dell’originale forma urbana radiocentrica e una maggiore
connessione con la periferia (fig. 11.37). Sono realizzate una rete di infrastrutture e di servizi
tra cui la prima linea di metropolitana, sono ingrandite e rettificate le principali arterie, due
nuove circonvallazioni sono costruite. Il fine è quello di costruire un insieme urbano omogeneo;
il piano di Mosca è improntato alla retorica della monumentalità di regime, ma a differenza di
Roma o Berlino appare più in grado di gestire gli spazi vuoti e le scenografie di sfondo.
Il ritorno alla tradizione può anche essere visto come una continuità della cultura classica che in
Russia si forma a partire dal 1780 e si prolunga fino alla metà del Novecento. Negli anni Trenta
l’Accademia di Architettura rifiuta il Movimento Moderno ritenuto espressione della decadenza

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del mondo occidentale, preferisce rimandi alla classicità; gli esempi spaziano dal rimando alla
classicità del Hotel Moskva di Scusev, a composizioni inusuali come il Teatro dell’Armata
Rossa, con una pianta a forma di stella a cinque punte. Il classicismo di Iofan è utilizzato per il
Padiglione Sovietico all’Esposizione di Parigi del 1937.
Sarà il freddo e distaccato Neoclassicismo a costituire il modello ricorrente per l’espressione
ufficiale dell’architettura in Unione Sovietica fino agli anni ‘50, come la Biblioteca di Lenin, i
padiglioni per la mostra delle realizzazioni del Socialismo e i 7 grattacieli voluti da Stalin nel
centro di Mosca.

Cap. 12 - Architettura e città USA: prima e dopo la Seconda G.M.


La grande crescita economica negli Usa è determinata anche dall’ingresso nel primo conflitto
mondiale. Troviamo una rapida crescita nel settore edilizio e una ricerca di identità nazionale.
Sono 3, in sintesi, i modi urbani e architettonici che si originano dalle trasformazioni della
società americana: Città degli edifici pubblici (modello americano di monumentalità), Città
alta (grattacielo), Città agraria (anti-città). In questa trama c’è uno sviluppo della città e un
rinnovo e potenziamento del sistema industriale.

12.1 ALTRI CLASSICISMI E RICERCA DI IDENTITÀ CULTURALE


I district amministrativi delle grandi città americane risentono del processo di crescita nella
dotazione di nuovi e sempre più specializzati edifici ministeriali, sedi di uffici e istituzioni
destinati ad accogliere nuove funzioni. La ripresa dell’American Renaissance, avviata
all’indomani della Guerra civile, comporta una necessità di accentuazione dei caratteri
nazionali anche nella ricerca di linguaggi architettonici. Sono i progettisti di origine europea o
formati in Europa a gestire tale processo, riprendendo da una parte gli insegnamenti Beaux Arts
parigini, e dall’altra introiettando l’idea del Classico come categoria quasi astratta. Le città con
centri di vario tipo importanti proseguono la loro crescita seguendo i dettami del classicismo
secondo l’assunto che il linguaggio classico sia permanente.
John Russel Pope è il vero promotore del Classicismo nazionale, si occupa di case private per
le più importanti famiglie americane e ha un’attività di progettazione di edifici di
rappresentanza uniformati a un linguaggio classico, assegnando agli edifici americani
un’architettura distintiva rispetto a quella europea degli stessi anni. Egli studia ed elabora non
tanto il Classicismo originale nato sulle sponde del Mediterraneo, quando il Classicismo della
prima età repubblicana statunitense, vale a dire dalla Washington sette-ottocentesca. Tra le sue
realizzazioni troviamo: il Tempio massonico di rito scozzese di Washington del 1911-15 (fig.
12.1) che assume il ruolo di miglior edificio americano riunendo una fantasiosa ricostruzione
del Mausoleo di Alicarnasso di III sec. a.C. alla numerologia-simbologia massonica; il Museo
d’arte di Baltimora del 1926-29 dove cita la facciata del Patent Office di Washington di Millis
del 1836; il Theodore Roosvelt Memorial (fig. 12.2), criticato duramente da Lewis Mumford
perché penosamente, bizzarramente fuori luogo; il Jefferson Memorial. Ricordiamo che era
stato il presidente-architetto Thomas Jefferson ad aver introdotto l’architettura classicista negli
Usa, rendendola così americana. La soluzione di Pope per il Jefferson Memorial del 1936-37 è
una grande rotonda palladiana collocata sulla mall della capitale, dove l’autore non elabora un
modello originale italiano ma presenta la sua proposta al pubblico accostandola al noto progetto
di Jefferson del 1822-26 Rotonda dell’Università della Virginia. Le critiche all’enorme quantità
di edifici progettati da Pope non interrompono la riproposizione di linguaggi classici.
Nel 1935 al progetto di Pope per il Federal Reserve Board Building, colmo di citazioni
dell’architettura di Mills, viene preferito il progetto dell’architetto Paul Cret (fig. 12.3),
orientato a un classicismo semplificato, quasi moderno. Cret, francese ma naturalizzano
americano, era stato per oltre 30 anni professore di architettura all’Università di Philadephia,

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autore di una grande quantità di costruzioni che includono edifici di rappresentanza come ponti
e sistemi infrastrutturali. Egli arriva a un Classicismo purgato, che prende le mosse dall’uso di
un virile dorico per il portico di ingresso della Biblioteca pubblica di Indianapolis del 1919
(fig. 12.4) organizzata come una stoà affiancata da 2 volumi ciechi e coronata da un fregio a
metope e triglifi, fino ad arrivare al Classicismo semplificato (Stripped classicism) come nel
Federal Reserve Board Building del 1935. Il riferimento al sistema degli ordini e alle fasi
dell’architettura classica, permette una buona flessibilità d’uso e una completa aderenza
all’impiego delle nuove tecniche costruttive. Le proporzioni classiche sono riservate
all’affaccio urbano che cela uno sviluppo dell’edificio francamente moderno, con lucernari
metallici, strutture industrializzate e a scheletro. Non è un caso che negli stessi anni Cret si
presti anche alla realizzazione di edifici di gusto quasi Art Decò (come nell’Union Terminal di
Cincinnati del 1933).
Il Classicismo semplificato è stato fin dagli anni Venti un’efficace soluzione anche ai temi
progettuali legati allo sviluppo urbano delle città industrializzate. Ne è un esempio il Concorso
per la sede del Chicago Tribune del 1922 dove si propone di promuovere la realizzazione
dell’edificio per uffici più bello e peculiare del mondo (bellezza civica); coinvolge progettisti di
tutto il mondo. lo sviluppo degli edifici alti, ininterrotto dal 1880, presenta negli anni ’20 un
empasse perché non si è stati capaci di mantenere unite le parti del discorso: gli architetti
progettano grattacieli per i committenti, ma non si preoccupano delle implicazioni economiche
o tecniche di questi edifici; i grandi volumi spesso non dialogano fra loro o con la città,
sfuggendo dalle teorizzazioni della City Beautiful. Il concorso è strettamente connesso allo
sviluppo di Chicago in direzione nord e con un programma di investimenti immobiliari. Gli
edifici alti venivano trattati come isolati, slegati dal tessuto urbano. Il bando del Concorso non
entra nel merito delle soluzioni tecniche ma insiste su quelle estetiche. Neogotico è il progetto
vincitore di John M. Howells e Raymond Hood (fig. 12.7) realizzato nel 1922-25; classicista
con inserti Decò il secondo classificato di Eliel Saarinen; classicista con una terminazione
medievalista il terzo di Holabird e Roche. Quasi tutti i progetti vengono poi esposti in una
Mostra itinerante. Saarinen realizzerà poi sempre nel 1922, di propria iniziativa, la Chicago
Lakefront, un progetto a cavallo tra dimensione urbana e architettonica per una porzione di
affaccio sul lago tra il Grant Park e la Michigan Avenue; la sintesi operata produce un progetto
di integrazione tra edificio alto, maglia stradale, verde del parco e affaccio sul lago,
combinando volumi di diverse dimensioni e destinazioni articolati: una city Beautiful popolata
da grattacieli.
Ma sono interventi isolati., con poca ricaduta sulla crescita urbana, e il destino degli edifici alti
segue il carattere degli oggetti isolati, sempre più elaborati e insieme slegati dal contesto
urbano, come nel caso dell’isola di Manhattan a New York, uno skyscrapers-district (quartiere
di grattacieli).
A cavallo della grande depressione nelle grandi città c’è una guerra fra grattacieli, in
competizione per dimensioni e qualità formale. È il caso del Chrysler Building dell’architetto
William van Alen del 1928-30 per conto del senatore William Reynolds al quale poi subentra
Walter Crysler (che ne fa la sede della sua casa automobilistica), con la guglia decrescente
rivestita in acciaio cromato, i gargoyle in acciaio come doccioni che riproducono le decorazioni
del cofano della Plymouth (auto più famosa della Crysler), e il complessivo aspetto che
rimanda al mito dell’età della macchina; il Crysler è alto 318 metri, vengono edificati 4 piani al
mese in un cantiere perfettamente organizzato; inaugurato nel 1930 con gli interni più curati e
lussuosi di NY (fig. 12.12) In parallelo si sviluppa un sistema costruttivo a sezione decrescente
(set-back), che configura i grattacieli, senza limiti di altezza, come blocchi che a partire
dall’isolato si assottigliano. Nel 1929-31 viene poi realizzato l’Empire State Building dagli
architetti Shreve, Lamb & Harmon per una società di imprenditori che si propone un affare

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immobiliare, che supera il Cryslr con i suoi 381 metri di altezza, con struttura in acciaio,
rivestimento in pietra e alluminio all’esterno e mattoni all’interno con decorazioni Decò (fig.
12.13).
Un processo simile si verificherà con la costruzione del Rockefeller Center, avviato nel 1930
da Raymond Hood, portato a termine solo nel 1940 a causa degli effetti della Depressione. La
crisi infatti bloccherà questa smania dei grattacieli, tanto che l’Empire State Building verrà
ribattezzato Empty State Building e sopravvivrà solo grazie al flusso di visitatori.

12.2 CRITICHE ALLA CITTÀ METROPOLITANA: ARCHITETTURA COME ORGANISMO


Le critiche alle città e l’idea di ruralizzazione urbana trova grande spazio, anche grazie al
successo che le architetture unifamiliari stanno raggiungendo, tra le altre quelle di Franck
Lloyd Wright. Egli, dopo la permanenza in Europa e in Giappone, rientra negli Usa e realizza
nel 1916 in occasione dell’esposizione di Chicago il Midway Gardens.
In seguito, nel 1919-23 realizza l’Imperial Hotel di Tokyo, in Giappone (fig. 12.14-15), viene
trattato da Wright come un poema epico del popolo giapponese, frutto di lunghe trattative con i
committenti e caricato di molti significati. Si ha la fusione tra l’impostazione planimetrica a
corte, regolata da assi di simmetria e di preciso andamento gerarchico, e l’impiego di bassi
fabbricati per le camere dove tetti, terrazzamenti e rapporto con le aree verdi sono tipicamente
giapponesi. La struttura in calcestruzzo armato, mattoni e pietra vulcanica è regolata dalla
necessità di considerare l’eventualità di disastri naturali (punto fisso di Wright). Esso ha una
forma piramidale con i tetti a pagoda (evoca il monte Fuji).
Negli stessi anni di chiusura del cantiere giapponese, Wright lavora in California. A Los
Angeles nel 1918-21 realizza la Hollyhock House (fig.12.16-17-18), commissionata dalla
ricchissima ereditiera Aline Barnasdall, colta, aggiornata, sperimentatrice che già nel 1916 si
era rivolta a Wright per un teatro nella sua proprietà; Wright realizzerà per lei un programma
vero e proprio che include la residenza, un polo culturale per le arti drammatiche. Nella
residenza i volumi sono geometricamente definiti e con poche aperture verso l’esterno,
caratterizzati da un andamento digradante ottenuto mediante terrazzamenti e giardini pensili
che rimandano alle civiltà precolombiane e connettono gli spazi fra loro in senso circolatorio
tramite la disposizione attorno alla corte del giardino (piuttosto che attorno al camino). C’è il
ricorso continuo a hollyhock (altea rosata), un arbusto fiorito californiano, che viene stilizzato e
rimanda ai siti archeologici del vicino Messico. L’obiettivo è trasmettere un senso di grandezza
e romanticismo tipici della regione.
Il legame con l’architettura primitiva americana è funzionale all’assegnazione di un aspetto
monumentale nuovo nel suo linguaggio, ed è portato avanti in tutte le case californiane,
sollecitando la riflessione sulla città e sulle conseguenze della sua promiscuità, assenza di
natura, disgregazione di famiglia. Tutti effetti che Wright sperimenta dopo l’incendio che
distrugge la sua residenza a Taliesin est (Chicago) prima nel 1914, dove muore la sua
compagna e alcuni impiegati uccisi per mano di uno squilibrato, e poi nel 1924. Allo stesso
tempo Wright si misura con la civiltà della macchina venendo a contatto con architetti europei e
arrivando a considerare la sua fase giapponese una vacanza dalla modernità.
Nel 1932 Wright realizza il progetto della Broadacre City (fig. 12.19), esposto nel volume La
città che scompare, dove l’assetto di città ricercato da Wright è mosso da un radicale rifiuto
della civiltà urbana. Il piano urbano consiste nel dotare ogni famiglia di un acro, ed emerge
l’idea di utilizzare materiali e tecniche costruttive industrializzate, che permettano di abbassare
i costi. Ne sono un esempio le formelle in cemento stampato usate per il rivestimento della
Ennis House del 1923 (fig. 12.20-21), elementi modulari che si ispirano alle decorazioni maya,
come pure le soluzioni costruttive delle Usonian Houses del 1937-54, case unifamiliari
realizzate per le classi medie, in legno.

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La visione anti-urbana trova seguito in diverse realizzazione, molte in Arizona, negli esempi di
Ocatilla del 1929, e poi nella cosiddetta Taliesin West (12.22), dove a partire dal 1937 insedia
un campo prima provvisorio e poi sempre più stabile, da usarsi come sede invernale del suo
programma di insegnamento, la Taliesin Fellowship: luogo di formazione, studio di
architettura e abitazione collettiva. Il deserto è oggetto di riflessioni e materiale per sviluppare
le teorie antiurbane
La Falling Water del 1934-37 (fig. 12.23-24-25) è l’opera più nota di Wright, realizzata per
Edgar Kaufman uomo d’affari di Pittsburg, che gli chiede un progetto per una casa da week-end
nei boschi della Pennsylvania (per la quale richiederà poi 6 progetti di ampliamento). All’epoca
Wright aveva 67 anni, era all’apice della fama e rappresentava di fatto l’alternativa
all’International Style proposto dalla mostra del MoMa del ’32. Il progetto combina
l’adattamento all’ambiente naturale circostante con il rigore geometrico. Il fulcro dell’edificio è
costituito da un elemento verticale molto marcato. Sul volume centrale sono innestati i piani
distesi in orizzontale segnati di parapetti intonacati di tre ordini di terrazze. La struttura è in
calcestruzzo armato ed è intonacata di ocra chiaro. I serramenti invece sono in rosso Cherokee.
Verticalità e orizzontalità, pietra e materiai artificiali, tecniche costruttive aggiornate,
definizione dei volumi e apertura degli spazi interni, raccontano la dialettica interno-esterno;
tuto rappresenta da un lato la sintesi dei modi progettuali già sperimentati, dall’altra l’avvio di
quella che Wright definirà architettura organica. Nella conferenza Una architettura organica,
l’architettura della democrazia del 1939 a Londra, Wright formalizza questa ricerca di rapporto
tra insediamento e ambiente circostante, nel tentativo di rendere l’architettura parte di un
sistema in una continua ricerca di equilibri. Falling Water e Taliesin West, entrambe ampliate
ed elaborate nel corso degli anni, come se si trattassero di organismi viventi che si modificano
in base alle sollecitazioni, sono proprio esempio di questo nuovo concetto di architettura.
In chiara polemica con quanto stava accadendo in Europa, la versione del funzionalismo
proposta da Wright si configura come un linguaggio autenticamente americano, nuovo e antico
insieme, e si pone in una posizione intermedia tra la meccanizzazione futuristica e il
classicismo conservatore. Nella Fiera di New York del 1939 realizza la Building the World of
Tomorrow e gli edifici della Transportation Zone.

12.3 CONTINUITÀ CON IL MOVIMENTO MODERNO


La mostra del MoMa del 1932 si propone anche di riformare la cultura architettonica
americana. Gli atti del MoMa parlano proprio dell’affermazione dell’International Style, da
considerarsi originale come il greco, bizantino o gotico. Nella mostra troviamo gli esempi
americani che affiancano quelli dei maestri europei, e riguardano Friederick Kiesler (Chicago
Tribune), Raimond Hood, George Howe e William Lescaze, autori del PSFS Building di
Philadeppia del 1932 (1° grattacielo modernista a cortina continua), i fratelli Monroe e Irving
Bowman e Richard Neutra. Essi, concentrati sugli edifici alti e sui blocchi di appartamenti,
contribuiscono alla mostra con le proposte legate alla civiltà della macchina e alla ripresa della
meccanizzazione dopo la crisi del ’29. Ricordiamo che nel 1934 Johnson cura anche un’altra
mostra, cioè la Machine Art (fig. 12.27), in occasione della quale vengono esposti prodotti
industriali di tutti i generei come oggetti dotati di qualità formali oltre che funzionali.
A partire dagli anni delle due mostre (1932 e 1934) sono molti gli episodi in continuità con
l’International Style, partendo dal caso di Richard Neutra, vicino all’ambito europeo (allievo
di Loos a Vienna); la sua casa a LA è l’unico esempio di casa privata americana che fa mostra
di sé al MoMa. La sua opera è un esempio di come il Razionalismo europeo si sposta in Usa.
Neutra insieme a Rudolf Schindler avvia quella che verrà definita, all’inizio degli anni
Cinquanta, una rivoluzione e non evoluzione perché lo strappo è stato violento, benché di solito
garbato.

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Schindler, che arriva in Usa a inizio anni Venti, avvia nella sua casa in California un
laboratorio di architettura e costruzione che segna molto la via americana del Moderno, dove
realizza: lastre di calcestruzzo inclinate (fig. 12.28), uso dei materiali di facile reperibilità, ecc.
Anche Neutra, dopo le sue frequentazioni/collaborazioni in Germania, il uo trasferimetno negli
Usa nel 1923, la sua collaborazione con Wright e i suoi contatti con Schindler, si accosta al
tema della costruzione industrializzata. Realizza infatti Lovell House (anche detta Health
House, a LA, fig. 12.29-30) nel 1927, la prima casa unifamiliare realizzata interamente con uno
scheletro in acciaio montato in sole 40 ore, con rivestimento a pannelli realizzati con la tecnica
del cement-gun, solai e coperture sono in pannelli di calcestruzzo armato con rete elettrosaldata
e i volumi a sbalzo, terrazze e pensiline sono sospesi allo scheletro mediante tiranti metallici
sottili. È in questo decennio che il tema delle case unifamiliari fuori dalla città viene
frequentato da moltissimi progettisti, e diventa campo di sperimentazione per maturare le linee
del linguaggio architettonico americano. Neutra viene interpellato da Kaufman, che gli chiede
una casa nel deserto della California (fig. 12.32); lo scheletro metallico rinforzato per resistere
alle scosse sismiche e alle sollecitazioni dei venti desertici è unito a pareti in laterizio e pietra a
secco, la climatizzazione interna è ottenuta mediante pannelli radianti sulle terrazze.
Philiph Johnson matura una critica ruralistica e anti-funzionaistica espressa già nella sua casa
a Cambridge del 1942 (la sua tesi di laurea) e compiuta nella celebre Glass House del 1949
(fig. 12.34), mutuata dai modelli di Mies van der Rohe, dove definisce spazi completamente
esposti all’ambiente circostante. Impiega lo scheletro in metallo a vista.
Unica opera di Le Corbusier in America è il Carpenter Center for the visual Arts del 1959-
62 a Cambridge (fig. 12.35), che raccoglie tutte le caratteristiche del suo linguaggio
architettonico: beton-brut, rampa, pilotis, pan de verre, brise-soleil, ondulatoire, doppia altezza,
finestre a nastro e tetto giardino.

12.4 TECNOLOGIA, NUOVA INDUSTRIALIZZAZIONE E ORGANICISMO


Parallelamente alla prosecuzione del Movimento Moderno, i 2 versanti dell’architettura
americana alta risultato essere la spinta indstriale e quella di quanto Wright definisce
architettura organica. Wright negli Uffici della società Johnson del 1936-39 nel Winsconsin
(fig. 12.36) porta avanti la ricerca condotta fino a Falling Water e organizza intorno a due
soluzioni tecnologicamente forti, pilastri cavi a fungo in calcestruzzo accostati (fig. 12.37) e il
vetro tubolare utilizzato invece delle vetrate, la definizione di spazi per il lavoro ampi, fluidi,
luminosi, articolati sulla base delle necessità di impiegati e dirigenti; l’invaso risulta articolarsi
fra orizzontalità e verticalità della torre (fig. 12.38).
Con la mostra/concorso organizzata da MoMa nel 1940 chiamata Disegno Organico
nell’arredo domestico, fanno la loro comparsa in veste di vincitori del 1° premio con la loro
Organic Chair i due architetti Ray Eames e Eero Saarinen. Definizione di “progetto
organico”: un progetto può essere definito organico se, entro l’oggetto nel suo complesso, vi è
una relazione armonica tra i singoli elementi per quanto riguarda la struttura, materiale, e lo
scopo.
Eero Saarinen, formatosi negli Usa, incontra Eames alla Cranbrook Academy of Art (dove si
proponevano corsi di belle arti, architettura e industrial design); egli utilizza materiali e
tecniche tradizionali, ma con nuove tecnologie produttive, nuovi materiali e l’attenzione alla
produzione di massa mutuata dalle avanguardie europee. L’occasione è offerta a Saarinen e
Eames dalla conoscenza di Florence Schust che, abbandonato il lavoro di architetto, collabora
con Hans Knoll (figlio di un fabbricante tedesco di mobili), che poi sposerà e insieme i due
apriranno una compagnia per la produzione industriale di arredi, andando a produrre tutti i
mobili progettati da Eames-Saarines. I tempi di guerra poi offrono la possibilità di sperimentare

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materiali e tecniche d’avanguardia, destinati allo sforzo bellico, come la fibra di vetro, il
compensato curvato e i pannelli prefabbricati.
All’interno della scuola di Saarinen e Eames si conducono sperimentazioni su moduli abitativi
prefabbricati come la Unfolding House del 1942 (fig. 12.39), unità modulari rimorchiabili che
possono essere spostate e combinate; copertura metallica e lucente, leggermente curvata; il
progetto, in una logica organica, comprende arredi ed attrezzature, sviluppando allo stesso
tempo le proposte di Buckminster Fuller e di Wright. Nel 1941 Eames sposa Ray Kaiser,
docente alla scuola.
Questo processo è spinto sia dalle grandi compagnie pubbliche e private che commissionano ai
progettisti unità abitative industrializzabili e mobili, sia dalla pubblicistica specializzata e dalle
istituzioni culturali. La rivista Arts & Architecture lancia un programma denominato Case
Study House (fig. 12.40-41) con un 1° concorso per edifici residenziali risolti con il sistema
PAC (Componenti pre-assemblati); John Entenza è il direttore della rivista, 1° destinatario della
casa realizzata con struttura in acciaio e tamponamenti industriali chiamata Case Study House
n. 9, mentre Charles e Ray Eames vanno ad abitare nelle Case Study House n. 8; entrambe con
struttura in acciaio e con pilastri ad H di 10 cm e travi reticolari di 30 cm. Il programma Case
Study House coinvolge molti architetti e in parallelo con la produzione sempre più
standardizzata degli arredi di qualità, incarna la proposta di costruzioni a basso costo per la
società post guerra mondiale. Sono politiche in alternativa all’intensa attività immobiliare nei
suburbs, spinta da imprese come quella di William Lewitt che, in risposta alla crescita
economica e al baby boom, costituisce intensamente case prefabbricate, tutte simili e anonime,
le cosiddette Lewittown (fig. 12.42), realizzate con fondi federali e pensate per i veterani e le
loro famiglie che entrano così a far parte della classe media.
Negli anni ’50 abbiamo il continuo incontro tra prodotto e architettura nella corsa all’uso di
tecnologie sempre più avanzate. In questo quadro collochiamo sia i progetti di Eames-Saarinen,
ma anche quelli di Mies van der Rohe. Diverso è l’edificio per i dormitori al MIT detti Baker
House di Aalto del 1947-48 (fig. 12.43), celebrato maestro considerato fra i padri
dell’organicismo; il fabbricato doveva ospitare 300 studenti, è risolto con un blocco a pianta
ricurva e ad andamento sinusoidale che permette un’estensione tale da poter posizionare tutte le
stanze su un unico lato, con vedute sul verde; il laterizio prescelto come rivestimento è
caratterizzato da pezzature disomogenee, con texture varie ottenute mediante tempi diversi di
cottura e con irregolarità per farci arrampicare sopra le piante.
Tutte le ricerche degli anni della guerra si applicano anche a edifici produttivi o di servizio.
Saarinen realizza il gigantesco General Motors Technical Center tra 1948-56 (fig. 12.44-45),
dove un telaio standardizzato leggero in acciaio, i vetri riflettenti a courtain wall e i pannelli in
laminato creano volumi neutri. La grande cupola per l’esposizione delle auto e la torre
dell’acqua sono entrambe rivestite in acciaio lucente e forme tondeggianti, e risentono ancora
dello streamlining cioè dell’aereodinamismo che, dopo la sua nascita dovuta all’invenzione
della galleria del vento negli anni ’20 presso la Crysler, ha guidato i progettisti americani per
comunicare la leadership nazionale nello sviluppo industriale.
I volumi curvilinei e le forme concavo-convesse rappresentano per alcuni progettisti il punto di
incontro tra l’industria e l’organicità. Saarinens continuerà in questa direzione, dosando le
tecniche a seconda della destinazione degli edifici: sono realizzati gusci in calcestruzzo e
laterizio per il Kresge Auditorium e la Kresge Chapel al MIT, e telai in acciaio per i centri
IBM. Il TWA Terminal del 1956-62 (fig. 12.46-47) rappresenta il culmine di questo discorso:
realizzato con una copertura a quattro gusci a ombrello in calcestruzzo leggero (pioniere di
questo tipo di costruzione era Pier Luigi Nervi), sostenuto da pilastri obliqui, segue il principio
del “tutto in una cosa sola” e segue la volontà del committente di uno spazio che incarni lo
spirito del volo; novità sono i check-in divisi, il nastro trasportatore dei bagagli.

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Una delle ultime opere di Wright è il Guggenheim Museum del 1943-59 (fig. 12.48-49-50),
prestigiosa che racchiude una collezione di arte astratta del filantropo Solomon Guggenheim.
Wright qui ha più di 80 anni ma realizza in modo plastico e nuovo l’idea di architettura come
organismo. L’idea progettuale è originata dal percorso di visita innovativo rispetto alla consueta
sequenza di sale: il tema della rampa, fornisce l’andamento del flusso dei visitatori dall’alto
verso il basso, intorno ad un invaso a tutta altezza illuminato da un lucernario. Un guscio di
calcestruzzo gettato in opera da una parte evoca un organismo naturale, dall’altra propone
un’architettura non figurativa. Il Guggenheim diventa una delle opere architettoniche più
iconiche del XX secolo; la sorprendente modellazione dei volumi e la collocazione in una delle
più rigide griglie urbane e architettoniche del mondo occidentale lo pongono in sequenza di
grandi edifici risolti con volumi curvi, ma anche in una posizione di unicità.

Cap. 13 - Il Movimento Moderno alla prova nel Dopoguerra: ricostruzione e città di


nuova fondazione
La Seconda Guerra Mondiale l’ascia un’eredità impressionante di morti e di distruzione.
Durante la complessa opera di ricostruzione il dibattito ruota intorno a varie posizioni:
ricostruire com’era dov’era; utilizzare le distruzioni come opportunità per ridefinire le città e le
infrastrutture. Oltre alla ricostruzione postbellica, uno dei banchi di prova più significativi per
la verifica delle ipotesi del Movimento Moderno è il progetto di alcune città capitali di nuova
fondazione come Chandigarh e Brasilia. Una soluzione alla crisi sembra venire dai Paesi
scandinavi, dove il progetto è in rapporto con il contesto naturale e con le esigenze emozionali
delle persone, secondo un approccio “organico” con l’architettura.

13.1 IL PROBLEMA DELLA RICOSTRUZIONE IN EUROPA TRA MEMORIA E MODERNITÀ


In UK il dibattito sulla ricostruzione inizia nel 1940 con i primi bombardamenti; nasce il
neologismo coventrizzare cioè distruggere completamente una città a seguito di un
bombardamento a tappeto; i bombardamenti del 1944 investono con grande violenza l’area di
Londra. Nel 1944 si pensa al Great London Plan di Patrick Abercrombie e John H. Forshaw,
che propone di arrestare l’incremento delle industrie e della popolazione nell’area
metropolitana e di decentrare le attività produttive e gli insediamenti residenziali (fig. 13.1);
attraverso l’istituzione del London City Council il territorio è pianificato secondo una
delimitazione di successive fasce centriche: l’anello urbano interno decongestionato, l’anello
suburbano, l’anello verde e l’anello esterno. Con il New Towns Act del 1946 è avviata la
costruzione di 12 nuove città in territorio inglese e gallese e di altre due in Scozia, vicino a
centri urbani, con popolazione di 29-140mila abitanti; a metà anni ’60 si avvia una nuova fase
che prevede un’ulteriore costruzione di altre 5 città. Un esempio è il Quartiere Alton a
Roehampton dove si trovano sia modelli mediati dalla ricerca architettonica svedese, sia dalla
tradizione, sia dallo sviluppo di temi lecorbusiani; il risultato è significativo, si escludono gli
edifici pluripiano, di dotano queste città di buoni servizi pubblici, ma ci sono anche critiche. In
particolare è denunciata la freddezza di alcuni nuclei e la difficoltà di ricreare la ricchezza
sociale delle città di tradizione. Ci sono anche dissidi interni: Abercombie ritiene che le New
Towns debbano garantire un decentramento lavorativo, ma l’rogano di governo centrale vede
prioritaria la costruzione di alloggi.
La lentezza dei processi di realizzazione, unita a una successiva politica di ristrutturazione degli
edifici danneggiati dalla guerra, porta al progressivo insabbiamento del piano generale delle
New Towns inglesi. In questa riflessione sul disegno urbano è interessante il complesso
residenziale Golden Lane di Alison e Peter Smithson del 1951-52, previsto per la
ricostruzione della citàà bombardata, ha una rete orizzontale di percorsi a più livelli, idea poi
approfondita nel Robin Hood Gardens del 1972, un insediamento di edilizia sociale di 230

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appartamenti disposti in 2 edifici a 7 e 10 piani in calcestruzzo armato prefabbricato. Gli
Smithson, nonostante teorizzino l’integrazione architettura-paesaggio, non riescono a dare una
vera continuità tra città e nuovi insediamenti; tra le loro opere la Scuola superiore di
Hunstanton del 1951-54 (fig. 13.2) e la sede del giornale Economist del 1963 (fig. 13.3),
caratterizzate dall’esibizione delle strutture e degli apparati tecnologici e impiantistici, che
saranno identificate con il termine Brutalismo (da beton brut in francese). Altre opere di
Brutalismo sono realizzate da veri architetti importanti: Le Corbusier, James Stirling,
Vittoriano Vigarò, Kenzo Tange e di Kunio Mayekawa.
In FRANCIA la ricostruzione inizia nel 1940, il governo collaborazionista di Pétain avvia la
redazione di piani finalizzati alla ricostruzione di diverse città della valle della Loira, incentrati
sulla scelta di armonizzare la tradizione dei luoghi con la modernità, attraverso una serie di
vincoli di natura estetica e storica. Alla fine della Guerra la Francia è devastata; il governo
Charles de Gaulle nomina una serie di organismi di controllo dei progetti affidati a diversi
architetti, con l’obiettivo di rispettare le preesistenze e le qualità estetiche delle città storiche.
Auguste Perret per la ricostruzione della città di Le Havre nel 1945-59 (13.4-5),
completamente distrutta, si basa sul recupero delle due maglie ortogonali storiche e sulla
ripropofig. 13.4sizione di isolati residenziali di altezza costante, di 4 piani fuori terra; il
progetto è affidato in realtà a un gruppo di architetti che poi pubblicano le loro teoria in
Contributo a una teoria dell’architettura del 1952. Elementi focali sono il municipio con la
torre e la piazza e la chiesa di Saint Joseph. La Havre è un esempio di sintesi tra la razionalità
delle funzioni e persistenza della memoria. Tra cui la maglia strutturale in calcestruzzo armato
a vista.
Nel 1948 Le Corbusier realizza l’Hunitè d’Habitation di Marsiglia (1945-52, fig. 13.6), con
complessi autosufficienti, dotati di tutti i servizi. L’Unitè è un blocco edilizio di 337
appartamenti per 1600 abitanti di 20 piani, sollevato da terra da enormi pilastri. La “strada
interna”, un corridoio posto a metà altezza, ospita negozi, sale riunione e piccoli uffici
professionali, mentre il tetto praticabile è destinato al ritrovo, con asilo nido, palestra, solarium
e piccola piscina. Le cellule (composte da soggiorno a doppia altezza, zona notte e servizi) sono
proposte in 23 tipologie e sono aggregate a incastro, distribuite da un corridoio centrale. Il
prototipo sarà ripreso in più varianti a Nantes, Berlino, Briey-en-Foret, Meaux e a Firminy, ed
avrà un notevole successo di critica anche se confermerà tutti i problemi dei Grandes
Ensambles (quartieri di edifici multipiano, con migliaia di alloggi). Queste nuove realtà urbane
costituiscono le città nuove ossia le Villes Nouvelles, pianificate da metà anni ’60 secondo un
disegno territoriale simile alle New Towns. Nei dintorni di Parigi sorgono 5 nuove città (8-
80mila abitanti) e altre 4 in aree più esterne (398 fino a 30mila abitanti). Le Villes Nouvelles
soffrono dell’assenza di un nucleo storico stratificato. Le difficoltà dell’integrazione degli
immigrati, unite alla concentrazione di povertà e di degrado ambientale fanno di queste
banlieues parigine teatri di rivolte sanguinose e di diffusione di fondamentalismi che i governi
non sono ancora riusciti a risolvere.
In GERMANIA, sconfitta nel conflitto, si ricostruisce dal 1945 e le scelte culturali della
ricostruzione si indirizzano verso una comprensibile volontà di rivalutazione del Movimento
Moderno (emarginato dalla dittatura di Hitler). Maestri come Gropius, Mise van der Rohe
(entrambi emigrati), insieme a Hans Scharoun e altri vengono incaricati dei progetti edilizi che
dovevano eliminare le tracce del vecchio regime (volontà di rimuovere il recente passato). in
Germania emerge molto il dibattito fra il ricostruire tutto ex novo e il ricostruire “come era e
dove era”. Berlino, completamente distrutta, è un caso fondamentale. Hans Scharoun è
nominato capo di un gruppo di lavoro che deve progettare il piano ricostruttivo, che deve
andare insieme alla rimozione delle macerie; le sue proposte sono accusate di non tenere conto
dell’impianto storico della città; inoltre la divisione interna alla città, che porterà alla

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costruzione del muro nel 1961, rendeva difficile un piano urbanistico unitario. A Est si
realizzano viali monumentali che fanno da sfondo a grandi edifici anonimi (visione urbanistica
influenzata dallo stalinismo); a Ovest uno degli interventi di qualità è il Quartiere Hansaviertel,
nell’ambito dell’Esposizione Interbau del 1957. Al Concorso per Berlino capitale del 1958
partecipano vari architetti, ma non troverà uno sbocco concreto. Solo a fine anni ’70-inizio ’80
la Germania tornerà al centro del confronto tra progettisti di tutto il mondo con le realizzazioni
dell’IBA (Mostra internazionale del costruire). Tra le opere più importanti del periodo
ricordiamo la Filarmonica del 1963 di Scharoun (fig. 13.10), edificio per concerti, memore
della ricerca espressionista negli esterni che richiamano una tenda da circo e anche nel disegno
delle sale acusticamente riuscite e con platee poste su solai a sbalzo sfalsati. A Francoforte e a
Dresda si cerca di ricostruire il tessuto urbano e la maglia storica riproponendo l’immagine del
passato, ma la ricostruzione totale si impone in alcune grandi città, come Berlino. La riflessione
su queste esperienze fa emergere una fitta rete di contraddizioni e di occasioni in parte mancate.
Ci sarà un abbandono dei contenuti ideologici ed etici del Movimento Moderno da parte di
molti architetti, per seguire percorsi spesso votati al sensazionalismo, all’esasperazione
tecnologica o all’omologazione alla moda.
In ITALIA i bombardamenti aveva distrutto tutto, incluse le infrastrutture, e la ricostruzione
parte da uno spirito di rottura con il passato e di ricerca innovatrice che può essere riassunto da
2 opere:
- Il Monumento dei Martiri delle Fosse Ardeatine di Mario Fiorentino, Giuseppe Perugini,
Nello Aprile, Cino Calcaprina, Aldo Cardelli, con Francesco Coccia, Uga de Plaisant e Mirko
Basaldella, drammatico masso sospeso su un paesaggio naturale, fig. 13.11;
- Il Monumento ai caduti dei campi di concentramento dei BBPR (Belgiojoso, Peressutti,
Rogers, assente Banfi morto a Mathausen), un astratto reticolo di metallo su base cruciforme,
fig. 13.12.
Ma la fase delle illusioni nella trasformazione radicale della società finisce presto. L’impulso
della ripresa economica e della ricostruzione secondo un disegno di matrice liberista, aggrava i
disequilibri territoriali tra nord e sud. In conseguenza a questa situazione il governo approva la
legge Provvedimenti per incrementare l’occupazione operaia, agevolando la costruzione di case
per i lavoratori del 1949, presentata dal ministro del lavoro Amintore Fanfari; il piano Fanfari,
attuato attraverso l’Istituto Nazionale delle Assicurazioni - InaCasa, è di stimolo per lo sviluppo
economico; porterà all’apertura di circa 20.000 cantieri per costruire un totale di 335.000
alloggi in più di 5.000 comuni. Il piano è coordinato da 2 architetti: il tradizionalista Arnaldo
Foschini e il razionalista Adalberto Libera.
Da citare è il quartiere Tiburtino (fig. 13.13) di Quaroni, Ridolfi, Fiorentino, Lanza, Lenci,
Lugli, Melograni, Menichetti, Rinaldi, Valori, realizzato nel 1950-52, assunto come manifesto
del Neorealismo in architettura, che offre condizioni abitative dignitose tramite l’adozione di
tipi edilizi diversi che vanno a valorizzare gli spazi collettivi.
L’idea del villaggio con riferimenti alla socialità rurale viene sviluppata ancora da Ridolfi e
Gorio nel Borgo La Martella a Matera (fig. 13.14), dal 1951, dove le case bifamiliari si
distribuiscono lungo i tracciati irregolari delle strade che convergono verso il centro dove si
trova la piazza, caratterizzata dalla chiesa e da alcuni servizi pubblici.
La creazione dei luoghi di incontro ispira anche il Quartiere Falchera (Torino, 1951-60, fig.
13.15), coordinato da Giovanni Astengo. Esso è caratterizzato da un’asse centrale di
penetrazione, al centro si trova la piazza destinata al mercato e ai servizi pubblici.
Più aperto all’innovazione tecnologica pare il QT8 a Milano (fig. 13.16) di Pietro Bottoni,
previsto per 18mila abitanti, dotato di attrezzature per lo sport, negozi, asili, una scuola
elementare, cinema; le residenze comprendono l’unica esperienza del tempo di
prefabbricazione e di montaggio in cantiere di case a 4 piani.

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Caso particolare è il Quartiere di Forte Quezzi (Genova, fig. 13.17), composto da 5 edifici di
7 piani, i blocchi sono attraversati orizzontalmente da percorsi coperti al piano terreno,
affacciano sul mare.
Con l’esaurirsi della spinta morale postbellica si esaurisce anche l’esperienza Ina-Casa, che
costituisce una risposta di stampo riformista al problema della casa. I limiti sono dovuti alla
difficoltà di attrezzare i quartieri con i servizi sciali necessari a collegarli razionalmente con i
luoghi centrali.

13.2 I MAESTRI DEL DOPOGUERRA


Nel Dopoguerra si consolida il mito dei maestri del Movimento Moderno anche grazie al
contributo di Siegfried Giedion, segretario dei CIAM (Congressi Internazionali di Architettura
Moderna), che con il testo Spazio, tempo, architettura, divulga le opere e i protagonisti del
movimento. I Congressi riprendono anche grazie al contributo di Gropius e Le Corbusier,
insieme a Josè Louis Sert che sarà il presidente dei CIAM.
- 1947, IV Congresso promosso dal MARS (Gruppo di ricerca per l’architettura moderna,
sezione inglese del CIAM) e che si svolge in Uk, si parla della spersonalizzazione dei grandi
quartieri di edilizia economica e dei bisogni non soltanto materiali ma anche emozionali delle
persone.
- 1949, VII Congresso, si svolge a Berlino, partecipano per la prima volta gli studenti di
architettura, si propone di elaborare una Carta dell’Habitat e tra i piani urbanistici la Carta di
Atene.
- 1951, VIII Congresso, si svolge ancora in Uk, si intitola “Il cuore della città”, parla del centro
della città come centro civico più che come centro storico.
- 1953, IX Congresso, si svolge ad Aix-en-Provence, qui avviene lo scontro tra la vecchia e la
nuova generazione quando i giovani architetti mettono in discussione le 4 categorie
funzionaliste della Carta di Atene (abitazione, svago, lavoro, trasporti) e la loro trasposizione
nel disegno della città. Torna alla ribalta la proposta di redigere una Carta dell’Habitat.
- 1955, X Congresso, si svolge a Dubrovnik in Jugoslavia, viene redatta la Carta d’Habitat dal
Team X (dal n° del Congresso, tra i cui membri ci sono Smithson, Woods, Van Eyck, van der
Broek, Bakema, Candilis, De Carlo). Le principali posizioni di dibattito sono: quella di chi
avrebbe voluto continuare nel solco dei vecchi CIAM; quella degli italiani che cercano una
strada per un linguaggio contemporaneo; quella dei più vicini al Team X, che tentano una
nuova espressione architettonica. Il loro programma porterà all’esplosione dei CIAM
Nel frattempo, l’attività dei maestri continua con il crescere del successo internazionale, ma
anche con svolte impreviste. LE CORBUSIER con la Cappella de Notre Dame du Haut a
Ronchamp del 1950-55 (fig. 13.18-19), si cimenta sul tema dell’edificio sacro; su una collina
colpita dai bombardamenti l’architetto dà vita ad un volume plastico/scultura con copertura
aggettante a conchiglia in calcestruzzo armato a vista e delle torri di illuminazione delle
cappelle; spesse mura perimetrali con intercapedine di calcestruzzo armato che ingloba le pietre
della preesistente cappella e sono bucate da aperture irregolari, con vetri colorati; la copertura
sembra galleggiare nel vuoto; all’interno atmosfera di calma e rarefazione; nonostante le
polemiche l’edifico diventa simbolo della modernità e genialità di Le Corbusier. Poco dopo egli
realizza un altro edificio legato al sacro, cioè il Convento di Sainte Marie de la Tourette del
1957 (fig. 13.20), il progetto prevede un complesso per un centinaio di ospiti, con chiesa, spazi
riunione, biblioteca, refettorio e vari servizi, che si articola con un edificio a corte, proteso su
setti portanti verso il paesaggio naturale; le celle sono essenziali unità abitative. Tra le
invenzioni formali e tecniche troviamo i cannoni di luce che sono volumi esterni studiati per
convogliare e schermare i raggi del sole. Vengono realizzate case con tecniche costruttive e
materiali tradizionali, come le Case Jaoul del 1951 (con volte catalane in laterizio coperte da

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erba e tamponamenti in mattoni) e le case Sarabhai e Shodhan in India nel 1951-55
(tamponate con mattoni impastati a mano). Nel corso degli ultimi anni Le Corbusier si
dedicherà alla sua ultima e più impegnativa opera: la costruzione della nuova capitale del
Pujab; ma si impegnerà anche nella costruzione dei musei di Ahmedabad e Tokio
(concretizzano la ricerca teorica sul museo a crescita infinita), dell’ospedale a Venezia
(progetto mai realizzato, che si inseriva nel contesto della laguna). Assolutamente innovativo è
il Padiglione Philips all’esposizione mondiale di Bruxelles del 1958 (fig. 13.21), con gusci
paraboloidi realizzati in pannelli in calcestruzzo sospesi ad una struttura metallica realizzata
con la collaborazione dell’ingegnere musicista Iannis Xenakis. Alla sua morte Le Corbusier
lascia un’immensa eredità culturale di difficile gestione, composta anche da molti progetti mai
realizzati ma raccolti nell’opera Opere complete, in 8 volumi del 1934-57.
Walter GROPIUS nel dopoguerra, dopo la fine del sodalizio con Breuer, costituisce un gruppo
di progettazione composto da giovani architetti chiamato The Architects Collaborative, con il
quale vuole riproporre il metodo di lavoro collettivo sperimentato con il Bauhaus. Con il blocco
residenziale dell’Interbau Austellung di Berlino del 1955-57 egli riprende gli studi
distributivi e psicologici degli anni ’20, ma l’esito sarà eccessivamente formalistico;
probabilmente la carenza delle motivazioni sociali che avevano caratterizzato la situazione
europea prebellica, condiziona l’opera americana dell’architetto alle esigenze del contesto. È il
caso del grattacielo della Pan American Airways del 1958-63 (fig. 13.22): il tentativo è
quello di evocare un’immagine dell’antichità classica senza scendere nell’imitazione storicista,
ma susciterà molte polemiche l’incongrua disposizione a sbarramento della Park Avenue.
Nell’Ambasciata americana ad Atene del 1956-61 (fig. 13.23), edificio a corte con zoccolo a
pianta quadrata, Gropius enfatizza l’apparato strutturale con pilastri rivestiti in marmo e
copertura a sbalzo, ma il tentativo è solo parzialmente riuscito (evocare l’antichità classica).
Nel 1955 Gropius pubblica Architettura integrata, dove raccoglie tutta la sua attività: dalle
prime teorizzazioni sull’architettura industriale, ai programmi di didattici del Bauhaus, dalle
proposte per la razionalizzazione della produzione edilizia, alle ricerche per l’arte totale, fino ai
bilanci della maturità. Uno dei suoi ultimi progetti è Bauhaus Archiv per Darmstadt nel 1964-
68, reinterpretato e usato successivamente da Alexander Cvijanovic a Berlino, che era un prova
delle possibilità del linguaggio moderno, fatta in un edificio che doveva documentare e studiare
la stagione dell’avanguardia. Gropius lascia un’eredità enorme di opere e di sperimentazioni.
Mies VAN DER ROHE arriva in Usa nel 1938, è chiamato a dirigere il Dipartimento di
architettura del prestigioso Illinois Institute of Technology di Chicago. I suoi nuovi edifici
hanno volumi essenziali e geometrici con struttura portante principale in acciaio a vista e
tamponamenti in mattoni, che testimoniano la sua cura per i dettagli. Tra gli edifici troviamo la
Crow Hall del 1950-56 (fig. 13.24), un’aula magna la cui struttura è totalmente espressa
all’esterno, e la Cappella del 1956 (puro parallelepipedo essenziale che anticipa le ricerche
della modernità per gli edifici sacri. La sua ricerca di semplificazione formale la troviamo nella
casa Farnsworth del 1945-50 (fig. 13.25), evoluzione estrema del padiglione di Barcellona del
’29, una casa per vacanze con pareti completamente in vetro. Anche negli edifici alti Mies
esprime ricerca di sottrazione formale e di esaltazione della tecnologia, come ad esempio nei
Lake Shore Drive Apartments del 1948-51, che hanno la disposizione razionale degli interni,
pilastri e travi portanti in acciaio e calcestruzzo, decorate in nero.
Il Seagram Building a New York di Philiph Johnson del 1954-58 (fig. 13.26) è il suo
capolavoro: un palazzo per uffici di 39 piani con spazio pubblico davanti, il perfetto
parallelepipedo è connotato da pilastri in acciaio a vista e curtain wall; nonostante il costo
dell’area l’architetto decide di arretrare l’edificio per fare uno spiazzo davanti con vasche
d’acqua (un luogo di sosta).

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In questo periodo vi sono alcuni progetti di Van der Rohe non realizzati tra cui la Convention
Hall (prevista per 50mila posti a sedere, con copertura a piastra con capriate reticolari alte più
di 0 metri), la sede Bacardi a Santiago e il Museo Georg Schafer. Gli schemi strutturali di
questi progetti troveranno poi concretizzazione nella sua ultima opera, realizzata nella madre
patria, ossia la Nuova Galleria Nazionale di Berlino del 1962-68 (fig. 13.27), avente pianta
quadrata, basamento in pietra, struttura in acciaio completamente a vista, interno libero da
strutture e richiami al tempio classico, 8 pilastri due per lato sorreggono una piastra di 64m di
lato, con spigoli a sbalzo; pareti interamente vetrate. Non si tratta di un ritorno al passato ma di
un lungo percorso che sintetizza passato e modernità.

13.3 L’ESPERIMENTO DI CHANDIGARH E DI BRASILIA


Alla fine della colonizzazione inglese (1947) la formazione di uno Stato federale indiano con la
nascita dello Stato del Punjab, implica la costruzione di una nuova città. Il Primo ministro
indiamo Nehru affida l’incarico a Le Corbusier che progetta la nuova capitale del Punjab ossia
Chandigarh (fig. 13.28-29), un progetto che porterà avanti fino alla morte con la
collaborazione del cugino-amico Jeanneret; l’idea si articola su un progetto che prevede la
costruzione per 150.000 abitanti in una prima fase e nella seconda per altri 500.000 abitanti. Le
Corbusier studia la storia e cultura locale, e individua un asse principale al cui estremo colloca
la zona di comando; su di esso orienta una griglia ortogonale regolare che divide la città in
settori: zona per il commercio, zona dello stadio, musei e università e residenze. Le strade sono
di vario tipo a seconda della funzione. Nel Campidoglio troviamo: i palazzi del Governatore e
di Giustizia, il Parlamento (fig. 13.30), il Segretariato e il monumento della mano aperta
(simbolo di pace e giustizia), collocati su ampie spianate, sullo sfondo di zone verdi e vasche
d’acqua; gli edifici hanno tutti di proporzioni colossali e sono fatti di calcestruzzo armato a
vista. Il piano risulterà sovradimensionato, perché da un lato la popolazione a basso reddito non
è riuscita ad accedere alle abitazioni, dall’altro il disegno urbano ha retto alla prova del tempo e
continua a presentare un suo razionale rigore.
Anche per Brasilia (1957-60, fig. 13.31-32) è difficile trarre un bilancio definitivo. La nuova
capitale prevista dalla Costituzione del 1946 e voluta dal presidente del Brasile Kubitschek, è
progettata dall’architetto brasiliano Oscar Niemeyer, che indice un concorso per la definizione
urbanistica generale. Vincitore è il suo maestro Lucio Costa, architetto brasiliano che aveva
collaborato con Le Corbusier al progetto per l’Università di Rio de Janeiro; il suo piano
prevede un insediamento per 500.000 persone su due assi che si incrociano perpendicolarmente.
L’asse più breve porta alla sua estremità orientale al Campidoglio, l’altro si sviluppa ad
andamento curvilineo con le zone residenziali; il disegno ricorda la forma di un arco con la
freccia, di un uccello o di un aereo e rimanda alle prime fondazioni urbane. Le diverse parti
della città sono chiaramente definite: sull’asse principale monumentale ci sono i ministeri, la
cattedrale, il mausoleo del presidente Kubitschek, gli impianti sportivi e la torre delle
telecomunicazioni; all’incrocio degli assi si trova la zona degli alberghi, mentre la circolazione
è articolata su vie pedonali e strade per le automobili, divise in piste centrali per il traffico
veloce e in quelle laterali per il traffico locale. Niemeyer progetta tra 1957-64 quasi tutti gli
edifici pubblici significativi e diverse residenze, in armonia col disegno urbanistico; la
successione dei volumi dei ministeri funge da rampa per l’avvicinamento del Parlamento, una
piastra a filo strada con 2 le cupole (una rovesciata) delle Camere (fig. 13.33); queste e altre
opere del maestro brasiliano, come la Corte suprema, la Residenza del presidente, il Museo
della città, la Cattedrale (fig. 13.34) e altro, sono realizzate con uno stile personale, fantastico e
futuribile, sintesi tra ricerche espressioniste e indagine sulle possibilità del calcestruzzo armato.
Brasilia è arrivata ad accogliere più di 2 milioni di abitanti, ma è difficile percorrerla a piedi e i
mezzi pubblici sono inefficienti e gli spazi sovradimensionati; inoltre l’alto costo degli alloggi

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non permette ai lavoratori di usufruirne. Per questo Brasilia è il simbolo di un tentativo solo
parzialmente riuscito di trovare soluzione ai problemi della città contemporanea. Il Movimento
Moderno non è riuscito a progettare città a dimensione umana.

13.4 CALORE E UMANITÀ: ARCHITETTURA ORGANICA E MITO SCANDINAVO


Una possibile soluzione alla crisi che inizia a serpeggiare nel dopoguerra nel Movimento
Moderno viene dalle esperienze di ricostruzione nella penisola scandinava e dalla diffusione
dell’opera di Alvar Aalto. La Finlandia, che subisce molte devastazioni, già durante la guerra
avvia un progetto di realizzazione di case rurali in legno per aiutare i profughi di guerra. La
Svezia contribuisce a questo sforzo con il finanziamento di 2.000 case unifamiliari in legno
prefabbricate che formano sobborghi residenziali ai margini dei centri abitati. Sono esperienze
che si basano sul focus posto nella penisola scandinava sulla questione degli alloggi, sulla
salute, sull’educazione del popolo. I protagonisti sono Alvar Aalto, che sviluppa modelli di
prefabbricazione nella sua esperienza al MIT e che giunge ad entrare nell’olimpo degli
esponenti del Movimento Moderno (Gropius, Le Corbusier, Van der Rohe e Wrigth), e Hilding
Ekelung, nominato nel ’41 architetto capo della città di Helsinki. L’interesse per la vicenda
scandinava ha un momento significativo nella celebrazione dei giochi Olimpici di Helsinki
1952 e trova corrispondenza nella cultura architettonica con il proliferare di articoli e mostre.
Una straordinaria cassa di risonanza è la mostra Design in Scandinavia: una esposizione di
oggetti della casa del 1954 che si svolge a NY ma poi attraversa gli Usa nei 3 anni seguenti.
In ITALIA la diffusione dell’architettura organica avviene soprattutto con le pubblicazioni e la
fondazione dell’APAO di Zevi e con l’attività di Leonardo Mosso. La celebrazione
dell’architettura organica fatta da Zevi ripercorre la genesi e l’uso di questa definizione,
ricordando che già per Sullivan organico=vivente. Queste posizioni erano state sviluppate da
Wright. Tuttavia Walter C. Behrendt, uno dei maggiori storici del Movimento Moderno,
riconosce all’attributo “organico” in architettura tutta la sua importanza, quando afferma che un
edificio è quasi come un animale; egli raccoglie tutta la produzione architettonica in due
categorie: l’arte empirica (edificio che cresce seguendo la propria vocazione in rapporto alle
funzioni e al contesto) e l’arte formale (edificio concepito come meccanismo in cui tutti gli
elementi sono disposti secondo un ordine assoluto). Le opere che arrivano dal nord vengono
associate nel dibattito postbellico da un lato alla costruzione in chiave moderna del mito dello
spirito nordico, dall’altro a definizioni come Empirismo scandinavo o Neo empirismo,
termini che andranno a connotare un superamento del Razionalismo dal suo interno tramite
l’attenzione ai contesti e alla natura.
Dopo la Baker House del MIT, Aalto realizza numerose opere per i servizi pubblici. Il Palazzo
comunale di Saynatsalo del 1949-52 (fig. 13.35) è improntato ad una visione accogliente e
anti-monumentale dell’edificio pubblico; l’edificio è solo 1 piano fuori terra, rivestito in
laterizio, ha una corte a prato su cui affacciano gli edifici; la sala del Consiglio ha il volume più
alto ed è arricchita internamente da un gioco strutturale delle capriate in legno della copertura.
Stesso atteggiamento di rispetto dei cittadini emerge nei piani urbanistici, tra cui ricordiamo il
disegno del centro urbano di Seynajoki del 1952-69 (fig. 13.36), che comprende la Chiesa e il
centro parrocchiale, il Palazzo comunale, la Biblioteca e il Teatro.
Nei molti istituti scolastici di Aalto è sempre presente l’attenzione della luce naturale, alla
funzionalità delle parti e alle ampie vetrate aperte, come nel Politecnico di Otaniemi (con vari
edifici e aule, laboratori, residenze, mensa, aula magna che è una grande sala a emiciclo
illuminata da lucernari schermati da setti verticali, fig. 13.38) e nell’Istituto superiore di
pedagogia (fig. 13.37). Per Aalto l’uso della luce è elemento fondamentale che gli permette di
raggiungere effetti di particolare suggestione negli edifici religiosi, come nella chiesa luterana
di Vuoksenniska e nella chiesa di Riola Vergato (fig. 13.39), unica opera italiana dell’architetto

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insieme al centro culturale di Siena, che presentano una precoce interpretazione della nuova
liturgia cattolica postconciliare. Aalto realizza anche numerosi progetti per musei, teatri e centri
culturali; fra questi la Casa della cultura (fig. 13.40) con forme sinuose e asimmetriche,
rivestimento in laterizio studiato appositamente, disposizione a ventaglio della sala in funzione
di un uso flessibile; Palazzo dei congressi e sala per concerti (fig. 13.41).
Il successo internazionale dell’opera di Aalto influenzerà la duiffusa e diversificata architettura
di qualità di ambito scandinavo, interpretata da Jorn Utzon e Arne Jacobsen, che sviluppano
l’insegnamento del maestro realizzando la Sydney Opera House nel 1957-73, ma molte sono
anche le influenze che pervadono le opere di Stirling, Gowan, Moneo e Alvaro Siza.

Cap. 14 - Ripartire dalla storia


Nel Secondo dopoguerra in Nord America Louis Kahn avvia un processo di rilettura della
tradizione. Si radica nella scoperta dei valori simbolici e comunicativi delle citazioni del
passato.
Il Postmoderno diventa così linguaggio internazionale. In Europa, la riscoperta della storia
assume valenze contradditorie: riproposizione di elementi classici privi di vitalità e rilettura
delle sedimentazioni del passato come stimolo per un progetto più consapevole. Diversi studi
da parte di Henry-Russell Hitchcock, Robin Middleton, Luciano Patetta e Paolo Portoghesi.
L’Italia diventa per qualche lo snodo del dibattito, a partire dalla vicenda del Neoliberty, fino
alla Biennale di Venezia del 1980. C’è una riproposizione dei saperi e delle pratiche costruttive
locali.

14.1 I MATERIALI E LE FORME DELLA STORIA


La crisi del Movimento moderno trova negli Usa una personalità di eccezione in grado di
ripartire dalla storia e esplorarne nuove suggestione, ossia Louis I. Kahn, emigrato in America
dall’Estonia a 5 anni, studia all’Univ. della Pennsylvania col maestro Paul Cret, studia le opere
di Viollet-le-Duc, di LAbrouste e soprattutto a fine anni ’20 fa un viaggio in Europa e viene
affascinato dalle architetture classiche, dai borghi medievali e dalle costruzioni tardo-romane in
mattoni. Egli si appassiona all’opera di Le Corbusier e si rafforza nella convinzione della
necessità di un ritorno alla monumentalità, anche nel moderno. Secondo lui era possibile
ripercorrere la lezione di grandezza degli edifici antichi anche nelle architetture del futuro; il
dibattito era già stato iniziato da Lewis Mumford nel 1937 con la sua dichiarazione sulla morte
del Monumento, poi fu ripreso da Giegion, Sert, Leger. Con la Yale University Art Gallery
del 1950-53 (fig. 14.1) Kahn fa molti rifermenti alla modernità, come la nitidezza delle forme,
l’uso del calcestruzzo armato a vista, la facciata in acciaio e vetro verso la corte interna (alla
Mier van der Rohe) e la soluzione strutturale in moduli tetraedrici. Tuttavia le masse materiche,
con l’uso espresso a vista di legno e laterizio sono ricerche che lo allontanano dal movimento
moderno. Anche nei Richards Medical Research Laboratories dell’Univ. della Pennsylvania
del 1957-65 (fig. 14.2) è presente l’uso del mattone a vista e i volumi delle scale e degli
impianti rimandano a case-torri medievali.
Kahn affronta poi il tema del sacro nella First Unitarian Church and School del 1959, dove
attorno al nucleo centrale del tempio si articolano un corridoio, gli ambienti ad uso scolastico e
i locali di servizio, e quindi dove l’idea difensiva è data da questa sorta di cortina a difesa
dell’ambiente del culto e dalla profondità delle masse murarie. Uno dei suoi capolavori è il
Salk Institute di La Jolla in California del 1959-65 (fig. 14.3), un istituto di ricerche biologiche
articolato in laboratori, sale studio, biblioteche e servizi, improntato al disegno geometrico del
quadrato e del cerchio, con alzati in cemento armato a vista e tamponamenti in legno di tek e
uno stretto canale in cui l’acqua scorre e si tuffa in una vasca posta inferiormente; l’acqua è
elemento centrale.

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La più grande impresa di Kahn viene avviata nel 1962 ed è il progetto per la sede del
Parlamento di Dacca nel Bangladesh costruito nel 1962-74 (fig. 14.4), di cui non vedrà
l’ultimazione ma che gli consente di affrontare il tema della valenza simbolica degli edifici per
le istituzioni civili. La sala dell’assemblea è pensata come il centro che si basa su un quadrato ai
cui vertici opposti si trovano l’ingresso e la moschea. Gli spazi serviti e gli spazi serventi sono
chiaramente definiti attraverso il disegno dei volumi: cilindri per i primi e parallelepipedi gli
altri. Il Parlamento, in calcestruzzo armato a vista, è decorato con giunti in marmo bianco e
connotato da grandi tagli circolari e triangolari che alleggeriscono le masse e sono fonti di luce.
Gli alloggi dei ministri, affacciati sull’acqua, sono identificati dalle forti murature in laterizio
(sintesi tra castelli medievali europei e cittadelle fortificate medio-orientali). Un analogo
incontro di civiltà si ha nei volumi geometrici e massicci dell’Istituto indiano di
amministrazione in India del 1963-74 (fig. 14.5), dove i grandi archi e le aperture circolari
nella muratura dialogano con gli architravi in calcestruzzo armato e connotano il complesso
delle aule, dormitori, residenze dei docenti.
Sempre negli Usa Kahn realizza altri 2 importanti progetti. Il primo è il Kimbell Art Museum
in Texas del 1962-72 (fig. 14.6), dove utilizza una copertura a botte in calcestruzzo armato,
illuminando dall’alto lo spazio espositivo con la riflessione della luce naturale con elementi
metallici curvi. Il secondo è la Phillips Exeter Library nel New Hampshire del 1965-71, che
riprende la forma quadrata in un volume in calcestruzzo armato a vista nel quale si aprono
grandi tagli circolari sugli spazi che contengono gli scaffali dei libri e le aree di lettura. La
ricerca di Kahn approfondisce aspetti trascurati, come le necessità emozionali delle persone, il
confronto con il passato, l’uso dei simboli, il rapporto con il contesto, la permanenza dei
materiali, ecc.

14.2 LA NASCITA DEL POSTMODERNO: LETTURE COLTE E POPOLARI


Negli anni ’70 si sviluppa una nuova attenzione alla tradizione e alle possibilità di
comunicazione delle immagini della storia dell’architettura. Robert Venturi (1925, ancora
vivo), allievo di Kahn a Yale, fa un apprendistato da Saarinen, vince il Rome Prize, dal 1954-56
è a Roma per studiare l’architettura barocca; nel 1930 apre uno studio con John Rauch, e
lavorando all’Univ. della Pennsylvania conosce Denise Scott Brown (che poi sposerà e con la
quale avrà un’interrotta collaborazione professionale).
La sua prima opera significativa è la Vanna Venturi House a Philapelphia del 1959-64 (fig.
14.7), che rielabora citazioni dell’architettura classica, come la facciata principale a timpano,
tagliato al centro, ma sconfessato dall’asimmetria delle aperture. Qui si trovano tutti gli
elementi della sua ricerca, tra cui un approccio ironico-giocoso al passato che è mostrato anche
nella casa di riposa Guild House di Philadelphia del 1960-66 (fig. 14.8), in cui la facciata
principale è caratterizza dall’ingresso con una colonna di granito in centro, da una serie di logge
sovrapposte e coronata da un’apertura ad arco; si vuole sottolineare la simmetria e la priorità
della facciata principale, fino ad allora negate nel Movimento Moderno; sulla facciata c’era la
grande scritta a caratteri rossi Guild House e l’antenna televisiva (ora eliminata), che diventano
elementi della nuova consapevolezza della possibilità dell’architettura di usare la
comunicazione visiva. Questo tema viene approfondito da Venturi nel 1966 nel libro
Complessità e contraddizione della’rchitettura dove, attraverso l’analisi critica di 350 edifici
di ogni epoca, afferma la necessità di riappropriarsi degli elementi comunicativi ed emozionali
dell’architettura. Egli infatti contesta la celebre frase di Mies “il meno è il più”, sostituendola
con la sarcastica il meno è noia. In assonanza con quello che Aldo Rossi studiava in Italia,
Venturi sottolinea la complessità e il disordine delle sedimentazioni storiche della città come
punti di riferimento per i suoi abitanti; c’è un mondo di possibilità architettoniche da
valorizzare e non da appiattire come ha fatto il Movimento Moderno. Come stava facendo la

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pop art di Warhol o Lichtestein, le città sono caratterizzate da architetture minori, non da grandi
opere e, come oggetti quotidiani, interagiscono con la gente.
Tra gli anni ’60-’70 Venturi, docente a Yale, raccogli gli esiti delle sue ricerche in Imparando
da Las Vegas del 1972. Egli critica la posizione di Le Corbusier che negli anni Venti voleva
demolire l’intera Parigi per ricostruirla dal nulla, e in alternativa egli propone di guardare alla
realtà con uno sguardo nuovo; la principale via di Las Vegas può insegnare tante cose (fig.
14.9), come gli architetti di inizio modernità hanno visto della produzione industriale uno
stimolo, gli architetti anni ’70 devono trovare nei cartelli, insegne, edifici trash elemento
coerenti con il consumismo in ascesa e che possono essere nuovi spunti di riflessione. Lui fa la
distinzione tra: l’edificio-feticcio in forma di anatra e l’edificio facciata in forma di capannone
decorato (fig. 14.10). Egli vede la possibilità di un approccio anche ironico all’architettura, che
affonda le sue radici nella tradizione americana. Per esempio Venturi nel 1967 progetta la
National College Football Hall of Fame (mai realizzata), che prevede come elemento principale
una parte-schermo su cui sono proiettate le immagini delle principali partite di football
americano; altri progetti sono le show rooms per i magazzini Best e Basco (monumenti al
successo della grande distribuzione), la Benjamin Franklin Court e la Western Plaza (entrambi
intrisi di componente scenografica, in cui Venturi ridisegna nella pavimentazione della piazza
la mappa della capitale, come elemento di dialogo e di formazione per il cittadino). Fra gli altri
progetti importanti ricordiamo quello insieme a Brown, l’Episcopal Academy Chapel del
2008 (fig. 14.11) dalle forme complesse. L’ opera di Venturi e Scotto Brown avvia quel
processo di revisione critica e denuncia del Movimento Moderno che prenderà il nome di
Postmoderno, tuttavia non è del tutto riconducibile a questa corrente (visto il loro interesse per
le architetture minori e la loro estraneità alle architetture alla moda).
Charles Moore, coetaneo di Venturi e docente di architettura, progetta nel 1975-78 La Piazza
d’Italia a New Orleand (fig. 14.12), dove disegna uno spazio pubblico che stimola la
meraviglia e la curiosità. Fulcro dell’intervento è una fontana disegnata secondo il profilo della
penisola italiana, sullo sfondo di quinte scenografiche che sono la reinterpretazione di fantasia
di alcuni ordini classici (con colorazioni e materiali contrastanti).
La scoperta degli elementi simbolici dell’architettura storica porta poi a esiti discutibili.
Michael Graves, prima è razionalista con i Five di NY (Eisenman, Gwathmey, Hejduk e
Meier), poi abbandona questa purezza razionalista e si volge alla tradizione architettonica
dimenticando le esigenze funzionali. L’Edificio dei servizi municipali di Portland degli anni
’80 (fig. 14.13) solleva proteste degli impiegati, perché formato da piccole finestre quadrate che
impediscono l’illuminazione naturale degli uffici; lo stesso avviene per l’Humana Building di
Orlando del 1982 (con la sua ridondante immagine antica fra Mesopotamia e Egitto, fig. 14.14),
e per la Biblioteca di San Juan Capistrano in Florida del 1984 (esercizio storicistico indifferente
agli utenti). Meglio il Walt Disney Dolphin Resort a Orlando in Florida nel 1987 (fig. 14.15)
che fa della sua vocazione kitsch un richiamo per i turisti.
L’architettura Postmodern si può configurare come tendenza architettonica in grado di
rimediare agli errori operati dal Movimento Moderno, pescando nella citazione storica, magari
ironica e provocatoria, nuovi stimoli per un’architettura più vicina alle necessità psicologiche,
emozionali e di memoria delle persone. Lo sostiene Charles Jencks nel testo Thw lanuguage
of Postmodern Architecture del 1977, che definisce questa tendenza come un eclettismo
radicale con l’obiettivo di integrare tutte le varie diramazioni anche contraddittorie.
Tra i protagonisti del postmoderno assume un ruolo di protagonista l’eclettico Philip Johnson
che, dopo essere stato mentore dell’International style ed essersi sempre riferito a Mies van der
Rohe, ne contraddice il pensiero realizzando il grattacielo per la AT&T nel 1979-84 (fig.
14.16) che torna alla tradizione tipica della scuola di Chicago; tripartizione in base, fusto e
coronamento, rivestimento in pietra, trionfo sommitale dell’imponente timpano spezzato.

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Secondo il filosofo Lyotard in La condizione post-moderna del 1979, il mondo contemporaneo
è caratterizzato dalla fine dei grandi sistemi narrativi, che corrisponde all’esistenza di diversi
giochi linguistici che si sovrappongono. Liberate dalle costrizioni dell’International Style, le
opere postmoderne esprimono dunque una forte carica provocatoria e diventano rapidamente
icone internazionali.
14.3 EUROPA: IL RAPPORTO CON LA MEMORIA E CON LA CITTÀ STORICA
In Europa il rapporto architetti-filosofia-storia deve fare i conti con le preesistenze
monumentali e tessuti urbani consolidati. Vediamo alcuni esponenti del Postmoderno.
Dopo una serie di prove interessanti nel Brutalismo (come i laboratori d’ingegneria della
Leincester University) lo scozzese James Stirling adotta un linguaggio postmoderno con la
Staatgalerie cioè la Galleria di Stato di Stoccarda, realizzata nel 1977-83 (fig. 14.17), dove la
tradizionale monumentalità del museo viene provocatoriamente smontata sfilando bugne dai
muri e usando elementi funzionali come la pensilina di ingresso, i corrimano, o i serramenti
sovradimensionati e colorati in modo sgargiante. Nel Centro di ricerca per le Scienze sociali
di Berlino del 1984-99 (fig. 14.18) egli adotta per le varie parti un catalogo di impianti
planimetrici esplicitamente desunti della storia (croce latina, palazzo seicentesco, castello
medievale, porticato classico, …), uniti fra loro da un funzionale sistema di percorsi e da una
ironica decorazione in fasce di colore rosa e celeste.
Il tedesco Oswald M. Ungers, formatosi in ambito razionalista nel dopoguerra, realizza le
prime opere in modi essenziali come la sua casa a Colonia di fine anni ‘50. Nel 1969 si
trasferisce in Usa dove continua la sua attività didattica; il suo approccio giudica sbagliato il
contrasto tra il vecchio e il nuovo per proporre un atteggiamento di integrazione-stratificazione.
La sua posizione teorica critica il filone del Movimento Moderno che riconosce nella funzione
la principale motivazione dell’architettura. Egli rivendica l’autonomia dell’architettura sia dai
tecnicismi, sia dai sistemi produttivi, sia dalla sociologia, ripartendo da una lettura della triade
vitruviana: firmitas, utilitas, venustas. Tra le opere più significative troviamo il Museo di
Architettura di Francoforte del 1979-84 (fig. 14.19), dove sviluppa il tema della casa dentro
la casa attraverso la trasformazione di una villa del 1901 di cui è mantenuto solo l’involucro, e
nella quale sono inseriti i nuovi corpi delle sale espositive, dialogando con il passato con
rispetto usando gli strumenti del rigore formale e della logica geometrica. Questo rigore, questa
riduzione dell’architettura a poche forme (quadro, cubo, tetto a capanna) si ritrova in tutte le
sue opere. Il suo approccio progettuale come neo-razionalismo si vede nella Biblioteca
Regionale di Baden, nel Grattacielo della fiera di Francoforte, nella biblioteca Kubus di
Colonia, ma risulta meno adatto per edifici come l’Istituto per le ricerche polari e marine (fig.
14.29) che echeggia l’immagine vagamente espressionista di una nave, in sintonia con la sua
destinazione d’uso.
Nell’ambito del programma dell’Internazionale Bauaustellung, promosso sul finire degli anni
’70 dalle amministrazioni federali e cittadine per ridisegnare alcune aree di Berlino Ovest,
Josef P. Kleiheus si incentra sul disegno di residenze e servizi del quartiere di Tegel, nella
Prager Platz, riproponendo l’idea dell’isolato tradizionale che la cultura del Movimento
Moderno aveva ritenuto superato.
In questo contesto l’architetto e scultore lussemburghese Robert Krier coordina 6 gruppi di
architetti per costruire altrettante ville urbane a Berlino (fig. 14.21-22) secondo un impianto
simmetrico, con edifici a base quadrata di sei piani lungo gli assi viari di confine al lotto e un
giardino-cortile al centro. Il suo edificio d’ingresso condensa elementi della tradizione
architettonica antica e locale, utilizzando anche elementi unicamente decorativi.
Il fratello Leon Krier è il protagonista del tentativo di riproporre l’immagine storica della città
europea attraverso ricostruzioni urbane tipiche dei borghi tardo medievali e rinascimentali,
sviluppate nel movimento New Urbanism sostenuto dal principe Carlo d’Uk, che intende

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reagire al degrado e alla sciatteria delle nuove periferie urbane razionaliste. Ne sono un
esempio i quartieri residenziali di Pundbury e di Alessandria (fig. 14.23), realizzazioni che
trovano soluzioni formalistiche a problemi super complessi.
Il viennese Hans Hollein, autore negli anni ’60-’70 di facciate e arredi per negozi di lusso, è
autore nella Strada novissima di Venezia della facciata (fig. 14.24) forse più provocatoria, che
realizza nel 1980: una successione di colonne che, a partire da quella storica in pietra
dell’Arsenale, si trasformano citando il grattacielo a forma di colonna dorica di Loos, fino ad
annullare la loro stessa essenza: appese all’architrave o trasformate in una siepe vegetale. Nel
Museo di Arte Moderna a Francoforte del 1987-91 (fig. 14.25) Hollein valorizza il lotto
d’angolo con una soluzione a prua di nave vagamente espressionista. Più originale il suo
edificio commerciale Hass del 1990 a Vienna (fig. 14.26), che si distacca dagli edifici vicini
trasformando via via un paramento in pietra in una facciata in vetro.
Il catalano Ricardo Bofill fonda negli anni Sessanta un gruppo interdisciplinare di
progettazione architettonica e urbanistica, il Taller de Arquitectura. I suoi interventi negli anni
’70-’80 diventano emblematici del Postmoderno, proprio per la loro esasperata ricerca di
riferimenti alla tradizione, desunti in parte dall’urbanistica barocca, in parte dall’uso di elementi
classici. È il caso dei complessi residenziali Le espace d’Ambrax di Marne-la-Vallée o la
Placedu nombre d’Or, caratterizzati da impianti planimetrici di matrice rinascimentale e
assemblaggi di parti architettoniche classiche più o meno d’invenzione (fig. 14.27); l’intenzione
era forse dare anche alle classi meno abbienti un ambiente colto, ma l’esito ricorda le scelte
dello stalinismo.
Una strada per evitare il disurbanismo del Razionalismo senza scadere nella monumentalità era
però già stata indicata dal francese Christian de Portzampare con il Quartiere di alloggi
popolari Hautes-Formes del 1975-79 dove, a seguito di un concorso indetto per riorganizzare
un’area di trasformazione rinunciando alle torri previste, l’architetto disegna una strada e una
piazza disponendo 210 alloggi in un ambito urbano gradevole, sensibile alla luce e alle viste
prospettiche (fig. 14.28).
Un atteggiamento criticametne legato alle esperienze del Movimento Moderno è quello del
tedesco Hans Kollhoff, che integra architettura e urbanistica attualizzando opere degli Hofe
viennesi e di Le Corbusier nei Complessi residenziali Victoria in Lindenstrasse e Berlin
Museum. La sua opera, radicata nella tradizione, non è mai citazionista, alla moda, ma basata
sull’adozione di un disegno severo dei materiali pesanti come la pietra e il laterizio. Ne sono un
esempio la Torre Daimler Chrysler a Berlino del 1997-2000 (fig. 14.29) e la Torre Main Plaza a
Francoforte del 2000-2002.
La rilettura della storia, con attenzione alle architetture neoclassiche della Francia
rivoluzionaria, ha caratteri specifici nell’opera di Mario Botta, originario della Svizzera
italiana, formatosi a Venezia, collabora con Kahn; egli realizza la sua 1° opera, la casa
unifamiliare a Stabio del 1965, come omaggio a Le Corbusier, evidente nel disegno della
scala esterna, del tetto praticabile e nell’uso del calcestruzzo armato a vista. Numerose altre
case nel Canton Ticino sono neorazionaliste, ma temperate dalla sensibilità per il contesto e per
la tradizione dei luoghi. Con il centro artigianale di Balerna del 1977-79 (fig. 14.30), Botta
collega 4 unità abitative e produttive con un grande tetto a falde in ferro e vetro, riuscendo a
dare dignità al tipo edilizio del capannone industriale. Nella casa dei Medici a Stabio del 1980-
82 (fig. 14.31), Botta interpreta il tema a lui congeniale del volume cilindrico, tagliandolo sul
diametro su un vuoto che scende dal lucernario ai piani inferiori. L’apparecchiatura dei mattoni
di cemento sottolinea le aperture e il coronamento dell’edificio senza metterne in discussione la
purezza geometrica assoluta, alle variazioni metriche e all’accostamento del colore. La ricerca
della monumentalità che Botta dichiara necessaria per l’architettura (desumendola da Kahn), fa
da sfondo ai successivi progetti pubblici a grande scala e geometrie pure. Nella Banca di

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Friburgo di fine anni ’70 troviamo un blocco cilindrico d’angolo incastrato tra le due ali
laterali; nel blocco per uffici Ransila I a Lugano di inizio anni ’80 (fig. 14.32) egli
smaterializza progressivamente la facciata in laterizio, rigorosamente scompartita in quadrati,
introducendo tamponamenti vetrati e alla sommità della torre d’angolo colloca un albero come
inusuale riferimento urbano. Tra gli incarichi più importanti internazionali troviamo il Museo
di Arte Moderna di San Francisco del 1989-1995 (fig. 14.33), formato da un parallelepipedo
a gradoni in laterizio nel quale è inserito un corpo cilindrico centrale rivestito da fasce di pietra
bianca e nera, tagliato a 45°, che porta la luce naturale nella hall d’ingresso. Il tema del museo è
anche affrontato con il Museo d’arte Moderna e Contemporanea di Trento e Rovereto del
1993-2002 che l’architetto decide di nascondere dietro ad una cortina di edifici preesistenti,
creando una piazza semi-coperta. Nell’architettura religiosa l’uso di forme geometriche diventa
strumento per la creazione di ambienti di grande suggestione. Ne è un esempio la Cattedrale
della Resurrezione a Evry (cilindro tagliato in diagonale e sormontato dagli alberi, fig. 14.34),
la Chiesa di San Giovanni a Mogno (con alternanza del granito scuro e del marmo bianco, fig.
14.35), la Cappella di Santa Maria degli Angeli sul Monte Tamaro (con affaccio sulla valle), la
Sinagoga Cymbalista e la Chiesa del Santo Volto (l’aula centrale è il risultato di 7 torri che
ricordano il recente passato industriale della città testimoniato dalla superstite ciminiera di una
fabbrica, con abside decorato dal volto di Cristo riprodotto attraverso tessere di pietra di
Verona, fig. 14.36). Questa integrazione tra vecchio e nuovo è anche tema controverso
dell’ampliamento del teatro della Scala di Milano nel 2002-2004. Botta fa della purezza
geometrica una cifra stilistica che nel tempo sembra una produzione seriale, ma questo è
proprio uno dei limiti del postmodernismo.

14.4 LA “RITIRATA” ITALIANA DAL MOVIMENTO MODERNO


In Italia il ritorno alla storia inizia già a fine anni ’50 con le prese di distanza dal Movimento
Moderno, e si manifesta come un tentativo di riannodare i fili di un dibattito sull’architettura
che si era incagliato a causa della guerra. Definita con il termine Neoliberty da Paolo
Portoghesi nel 1958, questa vicenda ha contorni incerti e accumuna architetti con posizioni
molto diverse, divisi in 2 generazioni ma legati dal comune rapporto con la storia:
1. Franco Albini, gruppo BBPR, Ignazio Gardella, Carlo Mollino, Giovanni Michelucci,
Saverio Muratori, Ludovico Quaroni, Mario Ridolfi, Giuseppe Samonà e Carlo Scarpa
2. (più giovani) Carlo Aymonino, Guido Cannella, Giancarlo de Carlo, Roberto Gabetti,
Vittorio Gregotti, Ludovico Meneghetti, Aimaro d’Isola, Giorgio Raineri, Aldo Rossi e
Giotto Stoppino.
Già prima della guerra l’architettura spontanea, legata ai contesti rurali e montani, è vista da
alcuni come strumento per scoprire nuove suggestioni. Le dimostrano per esempio Mollino con
la Stazione per la slittovia e albergo al Lago Nero, e Albini con il rifugio Pirovano a Cervinia,
nelle quali il tema dell’architettura alpina è approfondito con aggiornamento tecnologico ma
senza negare la tradizione. Nel 1954 la rivista diretta da Rogers ricomincia ad essere pubblicata,
con il titolo Casabella-Continuità, e pubblica saggi critici, ricerche, documenti su architetti
vari. Nel famoso numero 215 del 1957 la rivista ospita alcune opere di Gabetti e Isola che
scatenano una polemica intorno alla possibilità di ripensare l’ortodossia razionalista. Bruno
Zevi e Gillo Dorfles prendono le distanze da queste opere, ma sarà soprattutto il critico Reyner
Branham a denunciare la “ritirata dell’Italia dal fronte del Movimento Moderno”. I due
architetto torinesi Gabetti e Isola sono legati dalla volontà di rivendicare un’autonomia morale
e intellettuale attraverso la riscoperta del luogo e della tradizione costruttiva artigianale.
Emblematica del loro percorso è la Bottega di Erasmo di Torino del 1953-56 (fig. 14.37), sede
di una libreria antiquaria, dove troviamo nuova cura per il dettaglio e disegni degli arredi

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interni. La facciata è movimentata da bowwindows e balconi con parapetti in pietra, sostegni in
ferro battuto, punti di ancoraggio a vista in ottone e apparato murario in laterizio.
La fine della stagione del Neorealismo sembra coincidere con lo sviluppo del Neoliberty, tanto
che questa fase è avvertita come un ritorno indietro. Nei quartieri neorealisti e nelle opere
Neoliberty si assiste all’adozione di soluzioni compositive e materiali desunti dalla tradizione.
La ricerca di identità e di rassicurazione psicologica per i committenti si radica nella specificità
delle funzioni e del genius loci. Il Neoliberty è una rilettura della modernità.
Gardella con il Reparto taglieria pelo della fabbrica Borsalino ad Alessandria del 1945-46 (fig.
14.38) sviluppa un’attenzione alla salubrità degli ambienti di lavoro pensati in funzione della
luce, che si ritrova anche nella Mensa per i dipendenti Olivetti a Ivrea. Realizza la Residenza di
impiegati Borsalino sempre ad Alessandria, con luminosità degli interni, movimento dei
volumi, materiali in dialogo col contesto, caratteristiche che ritroviamo anche in altre sue opere.
Tuttavia nella casa Cicogna alle Zattere di Venezia degli anni ’50 (fig. 14.39) egli affronta il
tema del rapporto con la storia in un contesto dove l’inserimento di architetture moderne era
difficile (neanche Wright e Le Corbusier erano riusciti a costruire a Venezia); la casa si affaccia
sul canale della Giudecca senza disturbare il contesto storico; Gardella adotta progressivamente
partiture compositive, materiali costruttivi che reinterpretano in modo moderno linguaggi e
tecniche del passato. Con atteggiamento altrettanto creativo Giuseppe Samonà e Engle
Tricanato realizzano gli Uffici Inail a Venezia nel 1950-56 (fig. 14.40), a pochi passi dal ponte
Rialto.
Sempre a Venezia Carlo Scarpa realizza il Negozio Olivetti alle Procuratie Vecchie dove
propone una straordinaria cura dei particolari e scelta dei materiali.
Un altro autore difficile da collocare rispetto alle critiche è Michelucci, che realizza la Borsa
merci a Pistoia (fig. 14.43) e la Chiesa dell’autostrada del Sole presso Firenze, e che si
confronta a più riprese con la storia in vari progetti.
Percorsi poco classificabili, venati di ironia e disincanto si trovano in molti autori. Ridolfi e
Frankl sembrano portare a maturità alcune soluzioni nell’Asilo nio a Canton Vesco presso Ivrea
(interpretando le esigenze di gioco e di rapporto con la natura). Gregotti, Meneghetti e Stoppino
realizzano un edificio per uffici a Novara, sul filo strada storico, accostando elementi possenti a
superfici vetrate in bow windows. Iaretti e Luzi con la Casa dell’Obelisco di Torino sviluppano
una inusuale commistione tra prefabbricazione e riferimenti al modernismo catalano. Pietro
Derossi fa qualcosa di simile con l’edificio residenziale di corso Unione sovietica di Torino,
dove gioca con riferimenti alla secessione viennese e alla Bottega di Erasmo.
La conoscenza del luogo e della storia come strumenti del progetto sono aspetti fondativi
dell’opera di Saverio Muratori, che realizza l’edificio per uffici ex Enpas, ora Inpdap a
Bologna, caratterizzato da portici, rivestimento in laterizio e coronamento merlato andando a
cercare una continuità con la città storica. Prova della diffusione di questa riflessione è il
Padiglione italiano dell’Expo 1958 di Bruxelles dei BBPR, DE Carlo, Gardella, Perugini e
Qauroni, opera che appare pacata rispetto alla spettacolarizzazione dell’Expo.
Tra le opere accomunate da un legame con la tradizione e dalla ricerca di un dialogo con il
luogo abbiamo la Torre Velasca (Milano, 1950-58) realizzata dallo studio BBPR (fig. 14.46),
realizzata dalla separazione delle funzioni tra la parte del fusto destinata ad uffici e quella della
sommità, a maggior superficie, destinata a residenze. Eco di questo si ritrova nel Grattacielo
RAI a Torino di Aldo Morbelli e Domenico Morelli, e nel grattacielo Pirelli di Giò Ponti e
Pier Luigi Nervi a Milano, interpretazione dei canoni dell’International Style.

14.5 STORIA DELL’ARCHITETTURA E LETTURA DELLA CITTÀ


Un bilancio della ricerca postmoderna si svolge con la mostra La presenza del Passato nella
Biennale di Venezia del 1980, organizzata dall’architetto Paolo Portoghesi. Il catalogo si apre

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col saggio La fine del proibizionismo col quale si sostiene la necessità da parte degli architetti
di rivendicare il riferimento al passato per superare l’empasse dell’architettura contemporanea.
Una commissione internazionale individua e invita 20 architetti, chiamati a realizzare una
facciata effimera, tra le colonne della navata centrale delle Corderie dell’Arsenale. Gli architetti
invitati attingono dal repertorio della storia ripensando l’eredità del passato al fine di rendere
nuovo e attuale ciò che era considerato antico/obsoleto. Il risultato si riduce prevalentemente a
esercizi di stile, a ricerche estetiche e grafiche più o meno provocatorie. Il successo della
mostra segna anche l’inizio del declino di un fenomeno che si manifesterà sempre più come una
ripresa accademica e stilistica delle forme del passato; la presa di distanza dal MM apre la
strada alla ricerca di una continuità tra Illuminismo e Razionalismo, che non consista nella
scorciatoia razionalizzazione.
Queste ricerche danno vita al movimento di idee chiamato Tendenza, il cui caposcuola è Aldo
Rossi che con il libro Architettura della città del 1966 propone una riflessione inedita e
fondativa sulla città come memoria collettiva, generatrice e custode dei fatti urbani, la cui
stratificazione può essere reinterpretata come strumento del progetto. Le opere di Rossi
esprimono quanto dice nel suo scritto: attraverso lo studio e la riclassificazione tipologica delle
forme invariabili del tempo, egli costruisce immagini geometriche pure da riportare al presente.
La sua non comune pratica del disegno, espresso in centinaia di tavole, lo aiuta a esprimere una
ricerca che spazia dall’architettura, all’oggetto di design, al disegno urbano. Nel complesso
residenziale Monte Amiata al Gallaratese di Milano del 1967-74 (fig. 14.48-49), coordinato
da Carlo Anonymo, la manica progettata da Anonymo rifiuta i riferimenti a culture locali e si
riconnette alla modernità, mentre quella di Rossi recupera le case ringhiera dei quartieri operai
milanesi, ripete il modulo quadrato del volume principale, il portico ha setti portanti e colonne
enfatizzate da imponenti cilindri; l’intervento è un baluardo di rigore nella periferia di Milano.
Con l’ampliamento del cimitero di San Cataldo di Modena del 1973-80, Rossi approfondisce il
rapporto tra memoria dei viventi e assenza realizzando un parallelepipedo svuotato. Per
l’architetto è l’occasione per definire un campionario di forme geometriche pure, prismi,
piramidi, cilindri, coni, aperture quadrate, che andranno a costituire il vocabolario essenziale
delle opere successive, tra cui le Scuole di Fagnano Olona, la Villa a padiglione e le Case a
schiera.
Il contributo di Rossi per la Biennale di Venezia del 1980 consiste nella realizzazione del
Teatro del Mondo (fig. 14.50), un teatro galleggiante ispirato agli antichi teatri su barche di
epoca barocca; è un’aggregazione di volumi semplici con un nostalgico richiamo al gioco
dell’infanzia. Il tema del teatro sarà poi sviluppano e approfondito con la ricostruzione del
teatro Carlo Felice di Genova nel 1983-89 pensato come una piazza coperta.
Rossi afferma più volte il tema dell’inserimento in contesti urbani costruiti, come nel caso del
Complesso per gli uffici Casa Aurora a Torino (fig. 14.51) che integra pure geometrie e
tradizione urbana-architettonica, mantenendo l’isolato, adottando il portico e coprendo con una
copertura a falde con abbaini e laterizio a vista.
A Berlino realizza una casa di appartamenti caratterizzata dalla torre delle scale con lanterna
ottagonale e dal rivestimento di mattoni gialli e rossi a fasce alternate, omaggio alla tradizione
berlinese. Il trattamento dell’angolo che Rossi caratterizza con l’inserimenti di una colonna
gigante per un’altezza di quattro piani, si trova anche nell’Unità residenziale di zona Vialba a
Milano, mentre con l’Unità residenziale di Villette sud a Parigi ripropone i tetti alla Mansart e
una composizione di facciata che richiama la sua prova giovanile gallaratese.
Uno degli ultimi progetti è la ricostruzione di un isolato in Schutzenstrasse a Belino, negli anni
’90, dove l’architetto realizza una cortina di varie facciate, caratterizzando ogni singola parte
con colori e materiali diversi da cui sono leggibili riferimenti a proprie opere e ad edifici del
passato.

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Parallelamente all’attività di Rossi, si svolge quella di Giorgio Grassi, il cui testo d’esordio è
La costruzione logica dell’architettura del 1967, dove guardando ai maestri otto-novecenteschi
ne ammira lucidità, rigore, linearità, apparente facilità del progetto. Nella ristrutturazione degli
isolati residenziali di Pavia ripropone razionalità e linearità delle isole quadrate di tradizione
locale. Nella Ccuola media di Tollo conferma gli spunti rurali, che troviamo anche nella Casa
dello Studente. La sua cifra è riconoscibile nei tanti complessi per residenze e uffici, tra cui
l’ampliamento del Politecnico di Milano alla Bovisa, dove propone la tipologia della stecca
rigidamente squadrata, ripetuta ritmicamente, con riferimento in laterizio e griglia rigorosa delle
aperture. Per Grassi la storia costituisce una stella polare di riferimento irrinunciabile, che lo
mette al riparo dalle derive modaiole di tanti architetti della sua generazione.
Gae Aulenti, tra i protagonisti della “scuola di Milano”, realizza la casa con scuderia a San
Siro riproponendo linguaggio vernacolare. Partecipa alla mostra Italy: the new Domestic
Landscape al MoMa di NY nel 1972; la sua opera più significativa è la riqualificazione del
museo della Gare d’Orsay di Parigi nel 1980-86, dove aderendo alle aspettative del governo
di Mitterand, abbandona il dialogo costruttivo con la storia nascondendo le innovazioni
strutturali della stazione sotto ad un allestimento di grande ricchezza. Analogo approccio
invasivo e indifferente al contesto si trova nella ristrutturazione di Palazzo Grassi a Venezia e
di quella del Palavela di Torino.

Cap. 15 - Dall’utopia tecnologica al Decostruttivismo


Nel corso degli anni Sessanta del Novecento si registra un generale miglioramento delle
condizioni di vita nei paesi più ricchi, ma nel tempo stesso si diffonde un’insofferenza nei
confronti delle strutture sociali e politiche tradizionali, che sfocerà nella Rivolta del ‘68. C’è
una rinnovata fiducia nel progresso scientifico e tecnologico (che compare ciclicamente nella
storia contemporanea). La ripresa dello sviluppo economico del dopoguerra riporta in auge le
speranze nella ricerca scientifica e nello sviluppo tecnologico. In questo clima la crisi del MM e
lo sviluppo di nuovi materiali sistemi costruttivi spingono gli architetti a nuove proposte, anche
provocatorie. Questo approccio è definito High Tech, i protagonisti sono architetti di rilievo
internazionale, insigniti dal Nobel del Pritzker Prize. Si creano opere di grande fascino formale,
basate su un approccio al progetto innovato dagli strumenti informatici.

15.1 NUOVE AVANGUARDIE, FASCINAZIONE TECNOLOGICA, MEGASTRUTTURE


Tra i precursori della fascinazione tecnologica c’è Richard Buckminster Fuller, architetto,
inventore, nel 1928 prima della guerra progetta la Dymaxion House (fig. 15.1), una cellula
abitativa in alluminio ipertecnologica, a basso consumo energetico e riproducibile serialmente,
a cui seguirà il prototipo della Dymazion car. Poi Fuller studia la Cupola geodetica (fig. 15.2),
brevettata nel 1954, con struttura emisferica composta da una rete di travi giacenti cu cerchi
massimi che si intersecano formando elementi triangolari, realizzate con elementi strutturali
componibili in acciaio, può essere ricoperta da vari tipi di teli e gusci plastici e permette di
realizzare strutture di ricovero, adottate anche dall’esercito. In un progetto fantascientifico
Fuller propone di coprire l’intera area urbana di Manhattan con una cupola trasparente di 3 km
di diametro, mentre nella realtà realizza la Cupola del padiglione americano all’Esposizione
internazionale di Montreal del 1967.
L’inseguimento del futuro e delle tecnologie influenza i progetti di ridisegno delle città, sempre
più legate alla fantascienza che a progetti urbanistici realizzabili, sulla scia della pop art, dei
fumetti e dei fenomeni di massa della ribellione giovanile (Warhol, Lichtenstein, Glaser,
Edelma, la musica dei Beatles, il cinema di Fellini). In questo contesto si forma l’Archigram
Group composto dai 6 architetti inglesi Cook, Crmpton, Chalk, Greene, Herron, Webb, che a
partire dal 1960 realizza numerose provocazioni progettuali raccolte nelle pagine della rivista

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Archigram pubblicata dal 1961-70. Tra le loro varie visioni urbanistiche la Plug-in City del
1964 è una città altamente tecnologica dove è enfatizzata un’ossatura portante strutturale e
infrastrutturale e la possibilità di inserire cellule a seconda delle funzioni, mentre la Walking
City dello stesso anno (fig. 15.3) è una città semovente, incrocio fra edificio e robot.
Nello stesso filone di ricerche in Giappone si costituisce il gruppo Metabolism, composto da
architetti e urbanisti; il nome del gruppo fa riferimento ad una concezione di città come
organismo vivente metabolico, sempre in trasformazione. Figura di riferimento è Kenzo Tange
che, nel redigere un piano per la città di Tokyo nel 1960, propone un modello urbanistico
incentrato sull’utilizzo di megastrutture altamente tecnologiche, contenente i flussi del traffico,
della comunicazione e altre funzioni. Analogamente la Città spaziale di Isozaki (fig. 15.4), la
città galleggiante di Kikutake e la città elicoidale di Kurokawa propongono soluzioni
urbanistiche di esagerazione dimensionale e iper tecnologia, di difficile realizzazione.
Alcune proposte sono incentrate sull’espansione urbana nell’ambiente marino, sopra e sotto
l’acqua, con progetti che trattano la baia di Tokyo. Tuttavia il programma dei MEtabolism non
diventa mai reale, non si costruisce quasi niente di quanto proposto; una parziale applicazione
trova il Press and Broadcasting Center di Yamanashi, sempre di Tange, complesso di uffici
destinato a centro stampa e radiodiffusione con gigantesche colonne in calcestruzzo armato a
vista che fanno da elementi strutturali e collegamento verticale.
L’architetto israeliano Moshe Safdie nell’Esposizione di Montreal 1967 propone l’Habitat ’67
(fig. 15.5), un insediamento di 158 cellule abitative realizzate come scatole in cemento armato
casualmente accatastate; il risultato è affascinante per l’apparente semplicità concettuale e
compositiva ma riscontra difficoltà a rendere flessibili-economiche le singole cellule.
Intervento simile è quello di Kurokawa con la sua Nagakin Capsule tower di Tokyo di inizio
’70, con cellule indipendenti e tecnologicamente avanzate
Nel clima culturale delle megastrutture si sviluppa anche il contributo dell’ungherese Yona
Friedman; autore di diverse pubblicazioni, propone enormi città sollevate su ponti come
risposta all’aumento demografico. Egli applica una rivisitazione della società in senso
democratico e ripensa la tecnologia in progetti di autocostruzione e di riappropriazione
popolare che applica nel Museum of Simple Technology di Madras, con materiali locali come il
bambù.
Le proposte dei gruppi Archigram e Metabolism stimolano in Italia nel 1966 l’opera dei gruppi
Superstudio (Toraldo di Francia, Frassinelli, Magris) formatosi attorno alla personalità di
Alfonso Natalini; e del coevo Archizoom (Deganello, Morozzi, Coretti, Bartolini) ideato da
Andrea Branzi. Essi sono rappresentanti di quel movimento che va a essere compreso nella
definizione Architettura radicale come corrente collocata nel più ampio movimento di
liberazione culturale del ’68, che propone l’abolizione dei parametri formali e morali. Un primo
momento di esposizione pubblica di queste elaborazioni è la mostra Superarchitettura di Pistoia
1966, fatta di disegni, fotomontaggi, volantini, opuscoli, articoli, libri; si svilupperà in
interessanti proposte di arredo e comprende progetti a scala territoriale; di fatto propongono una
architettura e un design iperbolici, derivati dalla cultura pop, mettendo il focus sull’aspetto
irrazionale e fantasioso, contro la concretezza.
La ricerca di concretezza viene però affrontata da Paolo Soleri, che nel 1970 fonda una
comunità di vita e di studio chiamata Arcosanti, incentrata sul progetto e sulla realizzazione di
prototipi di insediamenti umani a grande scala e a basso impatto ecologico.
Nonostante la carica provocatoria e utopica delle esperienze ricordate, nei primi anni ’70 in
Italia si realizzano alcuni frammenti urbani ispirati al mito delle megastrutture: Le Vele a
Scampia, il Corviale a Roma (8.500 abitanti) e lo Zen a Palermo. Progettati nell’illusione che la
grande dimensione possa essere una soluzione razionale al problema della casa per i ceti
popolari, una volta che vengono realizzare risultano essere luoghi di emarginazione e degrado

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sociale, al punto da farne invocare la demolizione; i progetti sono ingenui e l’incapacità
economica e gestionale delle amministrazioni pubbliche li rende dei fallimenti.

15.2 HIGH TECH TRA TECNOLOGIA ED ECOLOGIA


Le suggestioni degli Archigram si ritrovano dell’opera degli inglesi Richard Rogers e
Norman Foster che danno vita nel 1963, con le rispettive consorti, al Team 4. Essi
esordiscono con una serie di progetti per residenze, e la loro opera più nota è la Fabbrica della
Reliance Control del 196 in Uk, grande spazio aperto e flessibile che segna una svolta nella
concezione dell’edificio industriale, eliminando la divisione tra impiegati e operai; struttura a
vista in acciaio.Alla fine del sodalizio, Rogers progetta la Zip up House (fine anni ’60, fig.
15.6), un prototipo non realizzato di abitazione adattabile ad ogni luogo grazie a un sistema di
pilastri regolabili in altezza, rivestita in pannelli coibentati d’alluminio e plastica, impostata
sulla massima libertà di gestione. La novità delle soluzioni strutturali presenta un
aggiornamento del modello di “macchina da abitare” di Le Corbusier, ed emergono i fattori
costanti nelle progettazioni di Rogers: ricerca di soluzioni strutturali alternative in modo da
garantire la massima flessibilità degli spazi utili, la diversificazione dei servizi rispetto al
nucleo dell’edificio, l’attenzione all’uso di elementi tecnologicamente avanzati per garantire
l’ottimizzazione dei risultati e anche dell’economicità degli stessi. Con Renzo Piano, Rogers
realizza le Centre Pompidou a Parigi nel 1971-78 (fig. 15.7), manifesto dell’approccio High
Tech con strutture metalliche avanzate, che determinerà la fama dei due architetti. Il concorso
prevedeva la costruzione nel cuore di Parigi di un contenitore culturale tecnologicamente
avanzato. Inserito nella visione di grandeur promossa dal presidente George Pompidou, suscita
le reazioni di cittadini e intellettuali a difesa del tessuto storico della città. Il Centre, anche
conosciuto come Beaubourg, è un parallelepipedo nel quale 5 solai a piastra ospitano l’ingresso
aperto al pubblico al piano terreno, una mostra d’arte contemporanea permanente, uno spazio
per mostre temporanee, un ristorante, una biblioteca, un’emeroteca e altre attività culturali.
All’esterno le strutture portanti, la scala mobile appesa e gli impianti sono enfatizzati e colorati,
dando vita a un gigantesco gioco Meccano in cui colonne, mensole, tubi dell’acqua-aria-gas
diventano pezzi di una composizione elementare. Le prese esterne sono a forma di grandi
maniche a vento come quelle delle navi. Pochi anni dopo, Rogers realizza da solo la Sede dei
Lloyd’s di Londra (1978, fig. 15.8), edificio per uffici di una delle più importanti compagnia di
assicurazioni del mondo; struttura in calcestruzzo armato con copertura a botte di ferro e vetro.
Esternamente sei torri rivestite in acciaio inossidabile contengono servizi, ascensori e scale di
sicurezza. L’opera di Rogers si sviluppa poi affrontando altri temi progettuali, inclusi quelli
urbanistici, infrastrutture. Tra i noti e simbolici c’è il Millenium Dome – The O2 di Londra del
1999 (fig. 15.9), uno spazio coperto di 100.000 metri quadri realizzato per celebrare il nuovo
millennio; una tenso-struttura in teflon e fibra di vetro, alta 50 metri e sostenuta da 12 pilastri di
100 metri e da 70 chilometri di cavi in acciaio.
Dopo lo scioglimento del Team4, Foster dà vita a uno studio associato che si afferma
internazionalmente. Tra le prime opere realizza la Willis Faber & Dumas nel 1970-75, un
edificio per uffici rivestito in vetro scuro che offre visioni opposte tra il giorno e la notte. Anche
il Sainsbury Center for Visual Arts offre l’opportunità di evidenziare il rapporto tra la
struttura in acciaio a vista e il rivestimento in vetro. L’opera più emblematica dell’approccio
High Tech è la Hong Kong and Shangai Bank (1979-86, fig. 15.10), un grattacielo per uffici
con struttura in calcestruzzo armato e acciaio, calcolata per resistere a tifoni e terremoti, con
piloni d’angolo, travi principali e negli irrigidimenti a croce, sommità con meccanismi per la
manutenzione-pulizia, un gigantesco open space con gli spazi del lavoro che si affacciano sul
vuoto centrale. Il rapporto con il contesto è affrontato da Foster con il Carré d’Art in Francia
(fig. 15.11), che si confronta con la Maison Carré (tempio romano prostilo del I sec d.C.,

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perfettamente conservato); il nuovo inserimento consiste in un parallelepipedo completamente
vetrato, leggera struttura a vista in acciaio. Negli anni Novanta lo Studio Foster realizza
numerosi edifici alti tra cui: la Sede della Commerzbank di Francoforte e la Millenium Tower
(1990, torre conica di oltre 800m nella baia di Tokyo progettata per oltre 60mila persone, con
completa autosufficienza energetica), destinati a diventare simboli. L’opera più emblematica di
Foster è il restauro del Reichstag di Berlino, nel 1992-99 (fig. 15.13), danneggiato da un
incendio nel 1933; Foster si aggiudica il concorso internazionale promuovendo un intervento
attento a conservare le tracce della storia, reintegrando le parti distrutte e riproponendo in una
nuova versione trasparente la cupola ottocentesca in ferro e vetro che diventa percorribile al
pubblico, posso vedere la sala del parlamento grazie al cono di 360 specchi. A Londra Foster
realizza la nuova City Hall nel 2001 (fig. 15.14), struttura pseudo sferica con un guscio
tecnologico in ferro e vetro; e la Torre della Swiss Re nel 2000-2004 (fig. 15.15), un
grattacielo per uffici di 180 metri, ironicamente chiamato dai londinesi The Gherkin (sintesi tra
innovazione costruttiva e sostenibilità).
Renzo Piano, figlio di un impresario edile, studia al Poli di Milano, maestro nell’uso della
lamiera e dell’acciaio negli arredamenti e in architettura. Le sue prime sperimentazioni sono
incentrate sulle possibilità tecniche di materia inconsueti nell’uso architettonico. Tra le sue
prime opere troviamo il Padiglione dell’industria italiana all’Expo di Osaka 1969-70,
padiglione provvisorio in poliestere rinforzato, e le Case unifamiliari a Cusago nel 1970-74 con
spazio interno flessibile, copertura in lamiera su trave reticolare in acciaio. Già qui emerge una
costante di Piano: l’approccio al progetto aperto e antiaccademico che si fonda sulla profonda
conoscenza dei materiali e dell’impatto sull’ambiente naturale e nel contesto. Ne è un esempio
il Museo De Menil a Houston del 1981-83 (fig. 15.16), volume di un solo piano rivestito in
doghe di legno verniciato; per l’illuminazione egli elabora un sistema di copertura a foglie di
ferrocemento che consente di graduare l’intensità della luce del sole.
Nel 1982 nasce il Renzo Piano Building Workshop – RPBW, con le sedi di Genova, Parigi e
NY, che esprime l’organizzazione del lavoro seconda Piano: collaboratori internazionali,
portatori di saperi diversi, tradizione dell’esperienza di bottega che sintetizza i metodi del
passato e l’innovazione. Piano realizza centinaia di opere, tra le quali gli allestimenti per la
mostra di Calder, la struttura per accogliere il Prometeo di Luigi Nono, le stazioni della
metropolitana genovese, la sistemazione del water front (banchine del porto e dell’acquario di
Genova), la ristrutturazione della fabbrica Fiat Lingotto a Torino e la ricostruzione di Potsdamer
Platz a Berlino (fig. 15.17).
Tra i progetti più impegnativi da un punto di vista tecnologico c’è il Terminal dell’aeroporto
internazionale Kansai di Osaka del 1988-94, costruito su un’isola artificiale lunga quasi 2 km,
dove usa martinetti idraulici al posto dei plinti di fondazione per adeguare la struttura agli
assestamenti del materiale di riempimento, e strutture leggere in acciaio che resisteranno al
terremoto e sostengono le lunghe travi curvate che rievocano la sagoma di un aliante. Un
intervento che attualizza la tradizione e la spiritualità più antica è il Centro culturale J.M.
Tibaou a Noumea in Nuova Caledonia del 1991-93 (fig. 15.18), destinato alla cultura delle
popolazioni del Pacifico, dove Piano vince il concorso internazionale a inviti proponendo un
villaggio di capanne realizzato con materiali del luogo e a forma di gusci in legno
dall’apparenza arcaica, ma dotati di tutte le tecnologie.
Tra le opere più recenti troviamo il Parco della Musica di Roma del 1994-2002 (fig. 15.19), un
complesso auditorium formato da 3 edifici dalla differente capienza, pensando le sale come
strumenti musicali, casse armoniche in legno rivestite in laterizio e coperte da gusci di piombo;
i 3 volumi si affacciano su un’arena per gli spettacoli all’aperto che mette in relazione gli spazi
interno-esterno. Nella sala più grande, l’architetto pone l’orchestra al centro dalla sala tenendo
conto dell problematiche acustiche.

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Anche Piano accetta la sfida della progettazione di edifici alti: l’Aurora Palace a Sydney (2
torri, una residenziale più bassa e una per uffici di 200m che incorpora la vela per catturare
l’energia del vento e del sole), la sede del New York Times (di 52 piani, concretizzazione
dell’idea del grattacielo trasparente), la sede dell’Intesa San Paolo a Torino (contestata per il
controverso inserimento nel contesto storico), la London Bridge Tower detta The Shar (edificio
di uffici, profilo slanciato e tagliente, sfida l’altezza con i suoi 72 piani, incoraggia la mobilità
sostenibile perché non ha parcheggi, fig. 15.20). L’approccio di Renzo Piano è internazionale,
rischiando di omologarsi ad altre esperienze ma riesce sempre a mantenere uno sguardo
originale, intimo legato alla conoscenza dei luoghi, dei popoli, del passato che tendono a porsi
come antidoto alla globalizzazione.
Nell’esperienza di Jean Nouvel troviamo un’altra possibilitùà dell’approccio tecnologico
sviluppato in ricerca fantasiosa. Egli si forma all’Accademia di Belle Arti di Parigi. L’opera che
inizia il suo successo è la sede dell’Institut du Monde Arabe (Istituto del mondo arabo, fig.
15.21) di Parigi del 1982-87, affacciato sulla Senna e destinato a sala conferenze, biblioteca,
uffici, ristorante, come ponte immaginario fra Europa e mondo arabo; l’elemento più noto è la
facciata a sud, caratterizza da pannelli metallici traforati secondo un disegno d’ispirazione
araba, ma realizzata con diaframmi meccanici regolati da cellule fotoelettriche che dosano
l’ingresso dalla luce con un effetto molto suggestivo.
L’ampliamento e il restauro dell’Opera di Lione del 1986-93 (fig. 15.22) si basa sul rispetto
dei prospetti dell’antico teatro e del legame con la città storica, ma la contemporaneità è
evidenziata dalla grande volta botte in acciaio, rivestita di pannelli in vetro serigrafato (che
ospita gli spazi per le prove); il tentativo di sintesi tra architettura e arredo d’interni tipico di
Nouvel viene approfondito giocando con luci e materiali. Fra gli altri progetti ricordiamo la
Galeries Lafayette della rinata Friedrichstrasse del 1991-96 a Berlino; la Fondation Cartier a
Parigi, e il riuso di uno dei quattro ex-gasometri di Vienna, tutti interventi che manifestano la
volontà di entrare in dialogo con la memora storica dei luoghi mediante l’uso di raffinate
soluzioni tecnologiche. Il tema del museo di rilievo internazionale è affrontato con
l’ampliamento del Centro d’arte regina Sofia a Madrid del 1998-2005, fig. 15.23,
l’espansione si collega alla preesistenza con nuovi volumi destinati a sale espositive,
collegamenti verticali terrazze affacciate sulla città e un’ampia copertura che incorpora il tutto
creando una piazza riparata; e con il Museo di Quai Branly a Parigi del 1999-2006, fig. 15.24,
dove Nouvel articola le sale destinate ad arti primitive extraeuropee secondo percorsi di visita
destinati ai vari continenti, l’articolazione si riflette nel movimento dei volumi esterni,
affacciati su uno spazio verde.
Nel quadro della ricerca degli edifici alti la Torre “senza fine” di Parigi nel 1998, un edificio a
sezione circolare rivestito di vetro, sempre più trasparente mano a mano che sale verso il cielo;
il progetto vince un concorso per la zona della Défense ma non verrà realizzata, tuttavia
costituisce le premesse per la Torre Agbar di Barcellona del 1999-2005 (fig. 15.25) che
conserva l’impostazione a pianta circolare, ha 38 piani, ha una pelle di vetro dorata di sensori
per la regolazione delle schermature interne e un sistema di illuminazione a led che decora la
facciata con varie trasparenze e decorazioni, però nello skyline della città di Gaudì è un pochino
pesante. L’approccio di Nouvel si basa dunque sul design più sofisticato, sulla scelta dei
materiali e soluzioni progettuali ipertecnologici, sull’attenzione ai cambiamenti della nostra
epoca.
Sempre nell’ambito dell’esibizione tecnologica appare quasi eretica la produzione dello
spagnolo Santiago Calatrava, formatosi all’Accademia di Belle arti di Valencia e alla Scuola
di architettura di Zurigo, che unisce la creazione artistica al rigoroso calcolo matematico delle
strutture. Lo studio delle forme della natura e del corpo umano costituisce l’approccio da cui
prende spunto per elaborare soluzioni architettoniche e strutture originali. I suoi progetti, tra

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l’onirico e il biomorfico, danno nuova veste a ponti, stazioni ferroviarie, torri per le
telecomunicazioni, centri culturali e musei secondo una cifra stilistica. Fra le sue opere: le
stazioni ferroviarie di Lucerna e di Zurigo (con pensiline e tamponamenti in ferro e vetro che
connotano le varie funzioni e, come nell’800, sono segni importanti nel tessuto urbano;
l’aeroporto-stazione di Lione Satolas (fig. 15.26) che richiama con le sue ali trasparenti l’idea
di un volatile; le torri delle telecomunicazioni di Collserola e del Montjuic di Barcellona che
propongono un’immagine da fantascienza con il loro disegno futuristico. Ma è nella infinita
serie dei ponti e passerelle pedonali che Calatrava trova la sintesi più riuscita tra sfida
strutturale e ricerca estetica, usando il calcestruzzo armato o l’acciaio dipinti di bianco e il vetro
per banchine e parapetti, facendo della forza dei flussi di scorrimento elemento di
configurazione di soluzioni strutturali avveniristiche e inaspettate. È il caso dei tanti ponti
spagnoli di Barcellona, Siviglia, Mèrida, Ripol, Bilbao, ecc., che diventano pretesti per processi
di valorizzazione urbana che hanno successo internazionale (Manchester, Redding, Dublino,
Tel Aviv, Gerusalemme). In Italia nonostante le polemiche per gli alti costi Calatrava realizza il
ponte sul Canal Grande di Venezia nel 1997-2008 (fig. 15.27), che dimostra la sua sensibilità
nell’intervenire in modo non aggressivo e rispettoso nella laguna.
La capacità di unire ricerca strutturale e segno accattivante rende gli spazi per la cultura
destinati a un vasto pubblico le opere migliori di Calatrava. Emblematica è la Città delle arti e
delle scienze di Valencia del 1991-2000 (fig. 15.28-29-30), costruito sul letto del fiume Turia
deviato dopo alcune inondazioni, che comprende il Palazzo dell’Arte, il Museo della Scienza,
dalle forme osteologiche, l’Humbracle, il Parco oceanografico, l’Hemisferic, uno spazio
destinato a proiezioni a 180 gradi in forma di un gigantesco occhio dotato di una schermatura
mobile.
L’edificio alto è affrontato da Calatrava con Turning Torso di Malmo in Svezia nel 1999-
2005, fig. 15.31, di 54 piani, caratterizzato da una sovrapposizione di blocchi di 5 piani,
ciascuno leggermente ruotato, rispetto al sottostante, come vertebre della spina dorsale umana
in torsione. Con Calatrava il tradizionale conflitto dell’architettura tra i saperi dell’architetto e
dell’ingegnere, sembra giungere a un’inaspettata sintesi, complice il suo approccio.

15.3 DECOSTRUTTIVISMO TRA FILOSOFIA E MERCATO


Alla fine degli anni ’80 la società globalizzata sembra aver perso i riferimenti filosofici e
politici caratterizzanti dell’800 e del ‘900. 1989 cade il muro di Berlino e di conseguenza la
fiducia nel socialismo. La mancanza di pensieri forti lascia libero sfogo alle dinamiche
neoliberiste di un capitalismo finanziario incontrollato, che provoca la delocalizzazione degli
apparati produttivi. Tra gli interpreti di questo disagio c’è il filosofo francese Jacques Derrida
che collabora con alcuni architetti ed elabora il concetto di decostruzione, a proposito della
impossibilità di ottenere un significato univoco dai testi e dal linguaggio; al posto della
contrapposizione tra significati, egli propone l’esame delle sfumature, delle parti nascoste fra
termini opposti, secondo un processo analitico che porta alla liberazione dei significati e di
conseguenza dei testi. In architettura questo corrisponde alla fine delle certezze del MM, già
proclamata dal Postmodernismo; l’architettura vuole registrare l’incertezza e la provvisorietà
della società attraverso un accostamento di espressioni e deformazioni che sovvertono ogni
ordine gerarchico consolidato, tramite un linguaggio che offra molteplici interpretazioni.
Abolite le regole razionaliste, l’edificio appare come un qualcosa di precario, sovrapposto, di
cui emergono la complessità, il contrasto, il rifiuto di gerarchie o codici. Questo approccio
all’architettura trova riconoscimento ufficiale nella Mostra Deconstructivism architecture del
1998 al MoMa di NY a cura di Philiph Johnson e Mark Wigley, che invitano ad esporre: Gehry,
Eisenman, Tschumi, Koolhaas, Libeskind, Zaha Hadid e il gruppo viennese Coop Himmelblau;

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dal loro lavoro emerge una tendenza progettuale che si sta diffondendo nell’architettura
internazionale.
Frank O. Gehry si forma nel clima del funzionalismo Usa, apre il proprio studio nel 1962, si
affaccia alla notorietà con la casa ristrutturata per sé stesso a Santa Monica di fine anni ’70
(poi anni ’90, fig. 15.32) dove decostruisce una tipica villetta monofamiliare americana con
tetto a falde attraverso l’inserimento di aperture oblique, lucernari, aggetti inaspettati in
lamiere, reti metalliche, legname non pregiato, materiali di recupero di modo da creare una
nuova immagine della casa. La produzione successiva mostra la dissoluzione del volume
compatto e il rifiuto delle gerarchie tradizionali, affermando un processo creativo che si basa
sull’uso di schizzi e modelli. Altre opere di Gehry sono: la casa Norton (sulla spiaggia di
Venice, rimanda alle torrette di guardia californiane), il museo aereospaziale di Los Angeles
(reinterpreta il tema dell’aereo e del volo), il Centro Americano di Parigi (si frammenta in
volumi movimentati, parzialmente rivestiti della pietra tipica di Parigi), il museo Vitra in
Svizzera (con volumi spigolosi e concavo-convessi in intonaco bianco), l’auditorium Walt
Disney di Los Angeles (usa un rivestimento in acciaio inossidabile, fig. 15.33); tutte opere che
definiscono il tipico aspetto dell’architettura di Gehry cioè la plasticità dei volumi e l’adozione
di materiali inusuali. Nella Casa danzante di Praga del 1992-96 (fig. 15.34), edificio per
residenza e uffici costruito in continuità con un isolato tradizionale, Gehry dà vita alla danza di
due corpi di fabbrica, uno di vetro e l’altro opaco, allacciati tra possanza strutturale e leggera
trasparenza in un abbraccio che ironizza sulle possibilità espressive dell’architettura. L’opera
che assicura fama mondiale a Gehry è il Museo Guggenheim di Bilbao del 1991-97 (fig.
15.35), fulcro di un’operazione di rilancio economico della città che coinvolge anche altri
architetti, come Foster per le stazioni metro, e Calatrava per il onte pedonale; il museo è
destinato ad accogliere arte contemporanea ma è pensato esso stesso come una sorta di scultura,
sviluppata in una successione di volumi che poggiano su un basamento in pietra e si sviluppano
liberamente nello spazio reagendo alla luce-sole-vento, con superficie rivestita da sottilissime e
mobili lastre in titanio dello spessore di 3 decimi di mm. I percorsi interni sono disposti a petali
di fiore a partire dal grande atrio illuminato dall’alto; troviamo molte innovazioni tecnologiche:
dalla progettazione strutturale che si è avvalsa per la prima volta di un avanzatissimo sistema di
calcolo e di rappresentazione grafica, all’uso di un materiale innovativo come il titanio. Nella
vasta produzione internazionale di Gehry ricordiamo anche il Ray e Maria Stata Center presso
il MIT di Cambridge (centro di ricerche, forme instabili e accartocciate), oppure l’Experience
Music Project di Seattle (fig. 15.36, museo interattivo dedicato alla musica americana e a Jimmi
Hendrix). Nell’ambito dell’approccio decostruttivista l’opera di Gehry, presenta la specificità di
un’architettura che diventa scultura e viceversa, basata su scenari aperti nel calcolo strutturale
dalle applicazioni dell’elaboratore elettronico e, nelle soluzioni di facciata, dall’uso di nuovi
materiali, dimostrando quindi possibilità di sviluppo per la creatività dell’architetto.
Peter Eisenman si forma nel razionalismo dei Five di NY (Michael Graves, Charles
Gwathmey, John Hedjuk, Richard Meier) che raggiungono la notorietà con la mostra curata da
Kenneth Frampton nel 1969 al MoMA; egli trova nel lungo studio dell’oepra di Terragi un
riferimento per elaborare un metodo combinatorio di elementi lineari e di griglie in grado di
determinare la serie di case progettate dalla metà degli anni ’60; la sua ricerca appare
complessa e nascosta. Il suo contributo più grande al decostruttivismo è il Complesso
residenziale IBA al Check point Charlie di Berlino del 1981-85 (fig. 15.37), dove le piante e
le facciate sono il frutto di sovrapposizioni e disassamenti di griglie che partono
dall’identificazione topografica del luogo. Nel Wexner Center dell’Univ. di Columbus
nell’Ohio del 1983-89, edificio destinato a esposizione d’arte contemporanea, introduce un
disallineamento rispetto alla maglia preesistente del campus, mettendo anche un reticolo
metallico che si insinua tra gli edifici. Tra gli strumenti del suo lavoro Eisenman assegna alla

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matematica un ruolo crescente che gli consente di identificare sequenze di misure e rapporti
proporzionali delle sue architetture; questo processo viene usato per il progetto non realizzato
del Biozentrum dell’Univ. di Francoforte nel 1987, ed è sviluppato uno spazio espositivo
dell’Aronoff Center dell’Univ. di Cincinnati attraverso una sequenza di rotazioni e sfalsamenti
di quota; viene poi portato all’estremo nel progetto per la Max Reinhardt Haus di Berlino, un
grattacielo che nega la sua tendenza a slanciarsi nel cielo ripiegandosi su s stesso, seconda una
configurazione matematica.
Tra le opere realizzate più significative troviamo il Memoriale per gli ebrei assassinati
d’Europa del 1998-2005, sul confine incerto tra architettura-scultura-disegno, una distesa di 2
ettari di 2700 blocchi di cemento armato, come stele di pietra di misure costanti ma altezza
variabile, ordinate in file parallele e perpendicolari, a documentazione della Shoa, come se
fosse un freddo labirinto che mostra la sensazione di vuoto, annullamento, perdita dei
riferimenti. Opere a scala territoriale possono anche essere la Great Columbus Convention
Center a Columbus in Ohio (centro congressi fatto da una successione di volumi curvilinei) e la
Ciudad de la Cultura de Galicia a Santiago de Compostela (fig. 15.39), ancora in corso, un
centro culturale di vari fabbricati adagiati su un rilievo collinare che diventano essi stessi parte
del rilievo come estroflessioni geologiche.
Un’analoga sovrascrittura di schemi orizzontali si trova nell’opera di Bernard Tschumi, in
particolare nel parco de la Villette di Parigi del 1982-98 (fig. 15.40), che è la trasformazione di
un’area periferica abbandonata in un parco del XX secolo, luogo di memoria, che comprende il
riuso del dismesso mattatoio per la Citta delle scienze e dell’industria, secondo il progetto high
tech di Adrien Fainsilber e il Parco della Musica di De Portxmparc. Schumi sovrappone alle
trame del territorio una serie di griglie determinate dalle infrastrutture, secondo sfalsamenti
successivi. Con una lunga pensilina ondulata in acciaio e lamiera i visitatori vengono accolti in
più piccoli edifici detti Folies, progettati a partire da una comune matrice cubica variamente
deformata. Destabilizzazione, contaminazione, frammentazione, disarmonia compositiva, sono
gli esiti di un intervento che resta emblematico nell’approccio decostruttivista e che Tshumi
svilupperà in molte altre opere. La Torre per gli appartamenti blu di NY del 2004-2007, di
17 piani, è realizzata con una facciata vetrata come una superficie di pixel colorati di varie
gradazioni di azzurro. Il Museo dell’acropoli di Atene del 2001-2009 (fig. 15.41), collocato
alla base del più famoso monumento dell’occidente, è formato da una sovrapposizione e
sfalsamento di volumi geometrici semplici che generano uno spazio coperto a doppia altezza
che include i resti archeologici; elemento di cesura e collegamento insieme antica e nuova,
riprende con le gigantesche colonne in cemento armato a vista i motivi dimensionali e formali
del tempio.
Giornalista e sceneggiatore, Rem Koolhas fa della comunicazione irriverente e della riflessione
provocatoria gli strumenti del suo lavoro. Nel 1975 per favorire una maggiore conoscenza
dell’architettura contemporanea costituisce a Londra l’OMA (Ufficio per l’architettura
metropolitana) con Madelon Vriesendorp, Elia Zenghelis e Zaha Hadid. Nei testi come
Delirous New York egli scrive della metropoli americana come perfetta grazie alla spontaneità
dei suoi fenomeni architettonici. Congestione e tensioni caotiche della città contemporanea
sono dunque fenomeni dai quali non si può sfuggire, ma di cui bisogna prendere atto
positivamente. Nel 1980 viene invitato alla Biennale di Venezia che promuove il Postmoderno,
partecipa a molti concorsi internazionali. Nel 1981-90 realizza, di fronte all’edificio di
Eisenmann, il Residenziale Checkpoint Charlie per l’IBA a Berlino (fig. 15.43),
distaccandosi dal contesto con l’arretramento del fronte su strada, la copertura in calcestruzzo
armato a vista a sbalzo rivestita in mosaico ceramico nero. Anche la Villa Dall’Ava di Parigi,
con l’accostamento incongruo di volumi, parzialmente sospesi su esili sostegni in acciaio,
appoggiati su pareti di vetro e coronati dalla piscina sulla copertura, sembra comporre parti di

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capolavori del MM in un disordine voluto. Questa volontà di disordine si ritrova nella sua
pubblicazione più famosa cioè S, M, L, XL del 1985, un volume di mostre di più di 1300
pagine. Tra le riflessioni più interessanti vi si trova quella sulla Bigness = la grande
dimensione, descritta come una condizione dell’architettura contemporanea che, dal grattacielo
ai centri commerciali, si sostituisce alla strada, entra in conflitto con la città o diventa essa
stessa città, del tutto indifferente al contesto; per Kooholas questa dimensione non è negativa,
anzi la possibilità che tutti i luoghi si assomiglino non è un problema, ma un inevitabile destino
ricco di opportunità. Da ciò deriva la sua concezione di città generica, conurbazione di milioni
di abitanti, tipica dei paesi asiatici ma destinata a diffondersi, dove le autostrade sono la logica
evoluzione dei viali e delle piazze e dove l’unica attività collettiva è fare acquisti. Kooholas
raggiunge così la notorietà, che si traduce in importanti incarichi come il piano urbanistico
per Euralille (nuovo fulcro urbano, legato alla connessione ferroviaria tra Francia-Belgio-Uk,
coinvolge vari architetti in un disordine programmatico che identifica nella concentrazione
delle funzioni e negli edifici alti un elemento di qualità del progetto), e il Padiglione per i
congressi ed esposizioni Congrexpo (un grande spazio a pianta ovale con rivestimento in
acciaio inossidabile ondulato). Nel momento in cui lo shopping stava diventando fenomeno di
massa, Koohols è funzionale alla costruzione dell’immagine di grandi brand: suoi i negozi di
Prada a NY, LA, SF, Parigi e Milano, e la serie di allestimenti per le sfilate di moda. Egli
esplora anche la grande dimensione con il Grattacielo della China Central Television di
Pechino di inizio ‘2000 (fig. 15.44), celebrato in tutto il mondo in occasione delle olimpiadi,
una realizzazione sorprendente per azzardo e gratuità della ricerca strutturale e formale, aspetti
che troviamo anche nel Grattacielo della Borsa di Shenzehn. Egli descrive lo spazio della
contemporaneità come Jungspace = spazio spazzatura nel libro omonimo del 2001, ovvero ciò
che resta dopo che la modernizzazione ha fatto il suo corso; nel testo prende atto degli errori
dell’architettura moderna come fine dell’illuminismo. Incaricato della mostra Biennale di
architettura di Venezia del 2014 ha individuato con il titolo Foundamentals l’indagine sulle
parti costitutive dell’edificio, con un approccio tra storia e documentazione tecnologica molto
concreto.
Figlio di ebrei polacchi, Daniel Libeskind frequenta la Cooper Union for Advancement of Art
e Scienze di NY, dove studia con Hedjuk, Einsenman e dove si laurea. Le sue prime proposte
partono da segni grafici realizzati con tecniche diverse, che vanno dal collage alla
sovrapposizione delle linee casuali. Tra le prime trasposizioni di questo approccio in
architettura abbiamo il progetto non realizzato City Edge a Berlino, vinto in seguito a un
concorso dell’IBA di un edificio residenziale di 450 metri di lunghezza, sostenuto da esili
pilastri, sovrastante il tetto della città. Giocosamente invadente è la passerella e osservatorio
nel parco di Uozu in Giappone del 1997 (fig. 15-45), un percorso aereo a zig zag colorato di
rosso e con pilastri variamente inclinati. La notorietà internazionale la raggiunge con il Museo
ebraico di Berlino del 1989-99 (fig. 15.46), vinto per concorso, formato da una linea spezzata
originata dalla sezione della stella di Davide e attraversata da una linea retta; l’accesso al museo
costringe in un percorso sotterraneo che conduce alla torre dell’Olocausto, dove spazi vuoti
richiamano l’assenza delle persone; chiusa la porta lo spettatore vive la sensazione di
smarrimento dei campi di concentramento. All’esterno il fronte spezzato, solcato da tagli
drammatici, si collega al giardino dedicato a E. T. A. Hoffmann: una selva di 49 alti pilastri di
calcestruzzo armato sormontati dagli ulivi della terra sana che affondano su un piano di
calpestio in grosse pietre che rende incerto il passo, riproducendo di nuovo la sensazione di non
equilibrio. Le scelte sperimentate nel Museo vengono poi approfondite e ripetute, come nel
Museo Felix Nussbaum in Germania del 1998, uno spazio espositivo costituito di 3 volumi
irregolari intersecati tra loro e differenziati dal rivestimento (legno-metallo-calcestruzzo), che
racconta le fasi della produzione artistica di Nussbaum e della moglie fino alla morte ad

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Auschwitz. Sempre nel campo museale egli interviene in estensioni di musei esistenti, come il
Victoria and Albert Museum (estensione non eseguita), il Royal Ontario Museum di Toronto;
interviene anche sul Denver Art museum nel 2006 (fig. 15.47), edificio di Gio Ponti, cui
accosta uno sconcertante incastro di punte acuminate protese verso il vuoto. Il linguaggio dei
muri inclinati, degli angoli acuti, delle finiture in calcestruzzo a vista o in acciaio inossidabile
comincia così ad essere applicato indifferentemente a centri commerciali, musei e monumenti.
Liberskind, vista la sua fama, vince il concorso per il master plan (piano generale) per la
Ricostruzione del World Trade Center dopo l’attentato terroristico dell’11-09-2001, che
prevede la Freedom Tower (un grattacielo di 541m in acciacio e vetro), realizza anche il
giardino della memoria dell’evento e il mantenimento degli invasi delle torri gemelle abbattute
trasformati in vasche d’acqua, un museo e un fascio di luce. Il progetto sarà poi modificato in
corso di esecuzione, e quindi ripensato da David Childs con aumento degli spazi commerciali a
detrimento di quelli per il museo e per il verde.
In Italia è previsto l’insediamento residenziale Citylife di Milano nel 2015, volto a
riqualificare la zona dell’ex-Fiera in occasione dell’Esposizione Internazionale. Il progetto
prevede le torri di Hadid e di Isozaki e quella di Libeskind, dalla curiosa forma ripiegata che
vorrebbe ricordare il profilo della Pietà Rondanini di Michelangelo.
Nata in Iraq, formatasi a Londra, Zaha Hadid inizia la sua attività partendo da una rilettura
della ricerca grafica dei costruttivisti e dei suprematisti russi degli anni ’20, che trascrive nel
The Peak Club di Hong Kong di inizio anni ’80, un lcoale di ritrovo e benessere caratterizzato
da arrei e decori irreali e fantastici. Poi realizza l’edificio residenziale per l’IBA di Berlino nel
1986-93, dove inizia la trascrizione in architettura delle deformazioni prospettiche e del
movimento che la affascinano dell'opera dell’avanguardia russa. Con la stazione dei pompieri
del Vitra Museum di Weil am Rhein in Svizzera (fig. 15.48), che diviene un’icona del
Decostruttivismo, la sua interpretazione cinetica delle pareti in vetro e calcestruzzo armato a
vista che si proiettano nello spazio in più direzioni, rende inutilizzabile l’edificio per la sua
destinazione che infatti cambia diventando un museo e galleria d’arte. La Hadid realizza anceh
il Museo di Arte contemporanea di Cincinnati (apparentemente pesante nei blocchi superiori e
leggero e aperto al piano terra, come prolungamento dello spazio urbano), il trampolino per il
salto con gli sci di Innsbruck (il dinamismo del gesto sportivo si prolunga nelle forme della
torre), la sede centrale della BMW a Lipsia (si supera la divisione tra colletti bianchi e colletti
blu e si trascrive in termini architettonici il fascino dell’automobile), il Museo delle Arti del
XXI secolo di Roma, la nuova stazione dell’alta velocità di Afragola a Napoli. Caratteristica
emblematica dell’attività di Hadid è la progettazione parametrica, sistema che lega le forme
geometriche a parametri matematico/informatici di controllo. Le opere realizzate tendono ad
essere oggetti sofisticati, quasi sculture.
Alla mostra del Decostruttivismo partecipa anche la Cooperativa Himmelblau, che realizza un
intervento modesto cioè la ristrutturazione di un locale nel sottotetto di un palazzo ottocentesco
con una estroflessione in ferro e vetro, dando vita alla sala riunioni di uno studio legale a
Vienna, del 1983-88 (fig. 15.51). Essi ripercorrono la strada di Gehry, e qui mettono in
discussione un edificio storico nel centro urbano della tradizionale Vienna, facendo
un’operazione certo discutibile ma che propone una riflessione sul rapporto col contesto. Nella
ristrutturazione dei Gasometri di Vienna, del 1995-2001, tema sviluppato anche da Nouvel,
accostano al fabbricato storico un nuovo intervento residenziale in ferro e vetro che sembra
appoggiarcisi in modo instabile. Nella sede della BMW di Monaco del 2001-2007 (fig. 15-52),
vinta con un concorso, l’obiettivo è colpire il pubblico in visita all’esposizione storica della
BMW; si realizza la rampa di accesso dei veicoli sospesa nell’aria e la struttura in acciaio,
risultato dell’avvitamento su se stesso di un gigantesco traliccio.

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Decostruttivismo: la frantumazione dei prospetti, l’incertezza delle composizioni, le forzature
strutturali di molte delle opere che connotano questa corrente. Il Decostruttivismo sembra
essere la semplice trasposizione delle più aggiornate possibilità tecniche e formali di
un’architettura finalizzata al consumo e al profitto.

Cap. 16 - Global architecture vs local architecture


Negli ultimi decenni si avvia un progetto responsabile nei confronti della società e degli
ecosistemi. Si avallano interventi di forte impatto sui territori, motivati più dalla ricerca del
profitto da parte della committenza, che dalle esigenze collettive. Ci sono poi architetti che
cercano di elaborare un’architettura di qualità che rispetti l’ambiente e la cultura dei luoghi.
Tuttavia utile strumento può essere leggere ancora le molteplici espressioni architettoniche
attraverso il filtro delle relazioni tradizione/modernità, luogo/non luogo, riconoscibili a volte
come condizioni antitetiche, altre volte come momenti di ibridazione. La convinzione di fondo
è che la ricerca scientifica e le innovazioni tecnologiche che possano giocare un ruolo
importante per uno sviluppo sostenibile.

16.1 I LIMITI DELLO SVILUPPO: SOSTENIBILITÀ SOCIALE E AMBIENTALE


Approssimativamente a partire dal Rapporto sui limiti dello sviluppo pubblicato del 1972 dal
Club di Roma, fondato da Aurelio Peccei, la consapevolezza della finitezza delle risorse e dei
rischi della distruzione dell’ambiente si scontra con la difficoltà ad avviare politiche mondiali
di governo del territorio basate sul concetto di sostenibilità, cioè sull’adozione di processi
produttivi e distributivi in grado di soddisfare i bisogni. Timidi tentativi di affrontare su scala
internazionale i problemi di riscaldamento globale, come il Protocollo di Kyoto del 1997-2005,
si rivelano insufficienti, anche vista la crisi economica che colpisce l’Europa in questi anni. Lo
sviluppo di una ricerca scientifica e di una tecnologia rispettose degli uomini e degli ambienti,
coinvolge la conoscenza e la pianificazione dei territori. in ogni organizzazione sociale la
possibilità di consegnare ai posteri la riflessione e le esperienze sviluppate è aspetto
determinante di civiltà. La memoria e il racconto del passato costituiscono le basi identitarie di
ogni comunità umana e diventano tradizione sulla base dei documenti tramandati. È il territorio
a conservare le testimonianze del passato, e se queste fossero tutte eliminate si rischierebbe un
presente immanente, senza storia. La civiltà stessa è connessa alla nascita della storia e si
caratterizza per la volontà di preservare i documenti del passato come memoria collettiva,
dando vita a musei, archivi, biblioteche e monumenti. Rispetto al passato, vengono considerati
documenti del passato non solo i resti aulici ma anche le cose più minute; si tratta di un
processo di consapevolezza culturale, ma anche di approfondimento delle tecniche di
conservazione.
Il territorio antropizzato è il forziere dove sono custoditi i documenti che raccontano la storia
della civiltà, testimonianze la cui consistenza materiale è spesso fragile. La rapida
trasformazione di paesaggi naturali e urbani senza una riflessione approfondita, porta alla
perdita di elementi di qualità ambientale e culturale. In Cina l’abbandono delle campagne, la
distruzione di villaggi rurali e di contesti naturali per fare posto a grandi opere produttive e
infrastrutturali rischia di cancellare l’identità di intere comunità. Analogamente nell’Occidente,
testimonianze di attività tradizionali sono distrutte da infrastrutture, da capannoni produttivi, da
monoculture estensive. Negli ambiti urbani e periurbani si assiste alla distruzione di quartieri
operai e di fabbriche.
La consapevolezza intorno alla tutela del patrimonio storico è una conquista della modernità,
sviluppata e radicata in ogni società democratica. L’UNESCO ratifica la Convenzione sul
patrimonio mondiale nel 1972 promuovendo la schedatura, la conservazione e la valorizzazione
di siti naturali e antropizzati ritenuti “patrimonio dell’umanità”, integrata nel 2003 dalla

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Convenzione internazionale sui beni immateriali che, oltre ad allargare il campo della
conservazione dai beni materiali a quelli immateriali, integra la tutela delle fonti come
strumento per costruire e diffondere la storia delle comunità. Sullo sfondo di questi
provvedimenti si situa la Convenzione Europea del Paesaggio del 2000, utile strumento
concettuale e normativo per strappare il termine alla sua usurata accezione estetica.
La distruzione del passato, la costruzione di quartieri tutti uguali, senza rapporto con il
contesto, privi di specificità e di qualità urbana è alla base della trasformazione dei luoghi in
non luoghi, cioè spazi spersonalizzati e uguali in tutto il pianeta, come i centri commerciali, gli
aeroporti, le gradi stazioni, descritti dall’antropologo Marc Augé nel suo famoso testo del
1922. Vari approcci disciplinari hanno infatti messo in guardia sui rischi della perdita di
identità. I quartieri degradati, privi di servizi sono tra le cause dei noti fenomeni di
emarginazione, malattia, disagio psichico, devianza. Al contrario è proprio nella possibilità di
riconoscere la sacralità e la specialità del luogo, che possono essere trovati gli elementi guida
per un progetto di trasformazione del territorio e della città, sensibile alla storia, attento alla
conservazione delle risorse ambientali, portatore di civiltà. MA i progetti sono difficili a
attuare. Anche un Paese ad alta densità di beni culturali e di bellezze naturali come l’Italia
manifesta grande difficoltà nel maturare progetti sostenibili. Il dissesto idrogeologico,
l’impressionante consumo delle aree agricole con impermeabilizzazione dei suoli, la scarsa
qualità urbana dei nuovi insediamenti e la difficoltà a gestire i siti museali e archeologici, sono
alcuni degli aspetti più noti di questa difficoltà. Le cause sono molteplici; sono aspetti che
contribuirebbero a fare del Bel Paese un caso emblematico della necessità di maturare a tutti i
livelli un nuovo approccio al progetto.
Il confronto su questi temi vede diversi approcci, da quelli più radicali come il movimento per
la decrescita, a quelli volti ad una modifica solo parziale del sistema, tra cui quello per la
“green economy”, la “blue economy”, che prevede di raggiungere 0 emissioni. A questo filone
si riferisce il concetto di biomimesi (incrocio tra biologia e tecnologia); la sua evoluzione in
progettazione sistematica consiste nell’eliminare totalmente o quasi la produzione di rifiuti
attraverso un sistema in cui gli scarti di un processo possano essere utilizzati come materie
prime da un altro processo.

16.2 LUOGHI E NON LUOGHI, CONTESTO E INSERIMENTO


Il rapporto tra contesto e nuovo inserimento è uno dei temi che interessa di più l’architettura
contemporanea. La negazione del contesto e della storia, è messo n discussione all’interno steso
della modernità. Lo studio e il rispetto del contesto si approfondiscono con le opere e con gli
scritti di Kahn e di Rossi che ritornano alla storia dei luoghi, fino a rivendicare un’adesione alle
culture locali, alla memoria degli abitanti, alle loro relazioni sociali. La riflessione critica su
questo tema è alla radice della crisi del Movimento Moderno, per questo fino agli anni Novanta
si può parlare di correnti, se non di movimenti: Neolibery, Postmoderno, High Tech,
Decostruttivismo, mentre per gli ultimi decenni l’utilizzo di questa chiave interpretativa
diventa inattuale e si devono percorrere le carriere dei singoli progettisti individuando ogni
volta la sensibilità e il contesto che condizionano le opere.
Lo spagnolo Rafael Moneo Valls, formatosi nello studio di Utzon in Danimarca, decide di
sottolineare nelle sue architetture la concretezza fisica dei volumi, l’utilizzo dei materiali
tradizionali, il rispetto delle preesistenze, basandosi su una conoscenza approfondita della storia
dei luoghi. La sua opera più nota è il Museo di arte romana di Merida, del 1980-85 (fig. 16.4),
dove avvia un dialogo tra i reperti archeologici e l’architettura contemporanea. L’edificio è
articolato i 2 volumi: uno spazio centrale e altri ambienti minori su tre livelli per esporre i
reperti; uno spazio per i servizi accessori al museo, collegato attraverso un ponte e altri
passaggi. L’opera si riferisce all’architettura romana non in modo imitativo, ma utilizzando le

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sue forme e i suoi materiali, senza nascondere l’intervento delle strutture moderne,
privilegiando il contenuto e non il contenitore. In sintonia con questo approccio anche altre
opere, come il Kursaal di San Sebastian del 1990-99, con i suoi due volumi dalle forme aspre,
che riflette di giorno sulle facciate in vetro ondulato traslucido i colori della baia della città,
mentre di notte si illumina determinando un nuovo panorama. Nella trasformazione della
stazione di Atocha a Madrid del 1992 (fig. 16.5), Moneo accosta un nuovo terminal articolato
su piani orizzontali alla costruzione di metà Ottocento, restaurata e trasformata in giardino
d’inverno. Nell’estensione del municipio di Murcia del 1991-98 (fig. 16.6), l’architetto
dialoga sulla piazza centrale con la cattedrale di XVI sec. e con il palazzo vescovile del XVIII
sec., attraverso un’inedita partitura della facciata rivestita in pietra arenaria locale, il cui
disegno dei pieni e dei vuoti si alleggerisce progressivamente verso l’alto fino a diventare una
griglia di pilastri e leggeri architravi (non immemore della Casa di Terragni). Più problematica
è la Cattedrale di Nostra Signora degli Angeli a LA (1996-2002) dove si confronta con la
tradizione architettonica sacra, realizzando la 3° cattedrale al mondo per dimensioni: una serie
di volumi collegati ad un nucleo centrale danno vita ad una massa movimentata da rientranze e
sporgenze dal disegno geometrizzato, cui si accede attraverso una maestosa porta in bronzo.
Nell’ampliamento del Prado del 1997-2007 (fig. 16.7), un volume seminterrato con copertura
a giardino che ospita i nuovi servizi per il pubblico (biglietteria, book-shop, caffetteria),
Moneto ingloba il chiostro cinquecentesco vicino alla chiesa di San Jeronimo el Real, trattato
come un’opera esposta e restituito a una nuova funzione: al di sotto crea 3 piani espositivi
ipogei, illuminati da un lucernario. Anche in questo caso l’incontro riuscito tra preesistenza e
inserimento è giocato sulla dialettica fra materiali tradizionali locali (laterizio e pietra) e forme
moderne.
In Portogallo, che aveva avuto un lungo periodi di marginalità politica e economica, si sviluppa
con gradualità una ricerca stimolante per l’architettura. Verso la fine degli anni ’40, l’architetto
Ferdinando Tavora insiste sullo studio dell’architettura popolare portoghese come strumento
di attualizzazione del progetto. Questo nuovo modo di leggere l’architettura è alla base
dell’opera di Alvaro Siza Vieira, allievo e collaboratore di Tavora, docente di costruzioni
presso la facoltà di Porto, che integra l’architettura vernacolare portoghese con gli insegnamenti
dei maestri del MM. Il riferimento a Wright e Le Corbusier è esplicito nel ristorante-casa da tè
Boa Nova e nella piscina delle maree, entrambe realizzate a Leca de Palmeira. Membro del
SAAL (Servizio d’Appoggio Ambulante Locale, nato dopo la rivoluzione del 1974 per
realizzare edifici di edilizia popolare facendo intervenire nel progetto i destinatari degli
appartamenti), Siza matura una vasta esperienza sul tema che lo porta a realizzare anche
quartieri popolari a Sao Victor e Bouca. Questi interventi gli danno poi la possibilità di
intervenire su scala internazionale, ad esempio con gli interventi residenziali di Berlino
Kreutzberg nell’ambito dell’IBA (fig. 16.8). nelle residenze private, come nelle case
Figueiredo, Vieira de Casro e Avelino Duarte, ai codici del MM affianca la costante capacità di
dialogare con la committenza, alla ricerca di un linguaggio locale. Nell’istituto superiore di
Setùbal del 1986-94, Siza si rifà ad un impianto a corte di matrice classica, però gioca con
forme semplici e contrasti di pieni e vuoti, evitando la monotonia. Anche la facoltà di
architettura di Porto del 1986-96 assume il confronto con la storia come elemento di
partenza, ma non nega l’originalità dei volumi e il valore del contesto naturale e della luce
attraverso le viste verso l’esterno e i tagli orizzontali delle aperture. Nel Centro Gallego di
arte contemporanea di Santiago de Compostela del 1988-93 (fig. 16.9), Siza usa volumi
compatti e un rivestimento in granito locale come elementi per rapportarsi con il luogo. Nella
biblioteca dell’università di Aveiro è evidente la somiglianza con la biblioteca di Vijpuri di
Aalto nel sistema di illuminazione della sala di lettura, ma anche nella volontà di riproporre al
centro del progetto l’uomo con le sue esigenze. Nel 1992 raggiunge una fama internazionale,

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anche grazie al progetto per il ridisegno del quartiere del Cjhiado a Lisbona, distrutto da un
incendio, per il quale Siza vince il Pritzker Price. Con il padiglione del Portogallo per
l’Esposizione di Lisbona del 1998 (fig. 16.10), Siza affronta il tema della monumentalità con
un edificio che richiama l’espressività di Niemeyer: tra 2 portici architravi rivestiti di lastre di
Lios, stende su tiranti un sottile foglio di calcestruzzo armato che copre, come un lenzuolo
incurvato dal proprio peso, un’ampia piazza pubblica. Nel museo per Formazione Ibere
Camargo a Porto Alegre in Brasile del 1998-2008, Siza esalta il legame Portogallo-Brasile e la
riconoscenza dell’architettura europea. Insomma Siza realizza un’architettura di qualità e di
attenzione ai luoghi che è riferimento importante per il resto d’Europa.
In questa corrente di attenzione alla natura dei luoghi e all’aspetto emotivo dell’uomo, si
sviluppa l’opera dello svizzero Peter Zumthor, la cui formazione giovanile come ebanista lo
porta ad un’attenzione maniacale per il disegno e la messa in opere del materiale delle sue
architetture. Per esempio il legno usato nelle sue varie possibilità espressive diventa un grigliato
desunto dei fienili per la copertura degli scavi archeologici di Coira del 1985-86 (fig. 16.11),
oppure un rivestimento in scandole e una struttura a carena di nave nella cappella di Sogn
Benedetg a Sumtvig del 1989 (fig. 16.12). anche la pietra può essere utilizzata come un
rivestimento dalle molteplici possibilità, e lo vediamo nello Stabilimento termane di Vals del
1994-96 (fig. 16.13), dove la costruzione, scavata nella montagna da cui scaturisce l’acqua
curativa, è rivestita di pietre naturali estratte in loco, tagliate secondo moduli costanti ma
disposte a fasce longitudinali casuali, trattate in modo diverso (lisce, ruvide, grezze, lucidate). Il
rapporto tra la pietra, l’acqua e la luce, che a seconda degli ambienti filtra da esili tagli oppure
si espande dalle grandi vetrate affacciate sul paesaggio, procura sensazioni visive, tattili,
sonore, emozionali diverse, in funzione delle diverse vasche e dei diversi ambienti. Nella
Kunst house – Casa della cultura del 1991-97 (fig. 16.15) troviamo il calcestruzzo armato a
vista e il vetro esposti nella loro nuda matericità, ma con estrema cura nei dettagli. Il museo
Kolumba di Colonia del 1997-2007 (fig. 16.15), costruito su un quartiere distrutto dai
bombardamenti, usa la pietra e il laterizio realizzando con essi tamponamenti e grigliati
secondo una nuova texture. L’approccio artigianale è portato all’estremo nella cappella di
Bruder Klaus a Mechernich (Germania) del 1998-2007, un prisma irregolare il cui interno a
cono, aperto alla sommità, è realizzato con una cassaforma in tronchi di legno poi bruciati sul
posto, lasciando traccia della loro conformazione e dell’encausto con un effetto sorprendente.
La ricerca minimalista e legata agli ambienti di Zumthor si trova anche negli architetti svizzeri
Jacques Herzog e Pierre de Meuron, associati dal 1978, ben inseriti nello star system
internazionale. L’importanza che essi assegnano allo studio dei materiali di rivestimento e alla
loro percezione in rapporto al contesto è visibile già nelle prime opere, tra cui la casa a Tavole
di Prelà presso Imperia: il semplice volume cubico manifesta la struttura di calcestruzzo armato
con un disegno a croce, ma è rivestita dalle pietre locali disposte a secco come nei tipici
sostegni contro terra dei terrazzamenti liguri. Nell’azienda vinicola Dominus a Yountville in
California (1995-97) i gabbioni d’acciaio riempiti con pietre che formano le cortine esterne
permettono di sottolineare l’armonioso inserimento nel contesto naturale circostante. Un altro
esempio è lo stabilimento Ricola di Mulhouse del 1992-93 con la ripetizione della serigrafia di
una foglia sul tessuto di pannelli traslucidi in policarbonato che crea diverse situazioni
percettive dell’edificio a seconda del variare della luce. Tra i progetti della coppia Herzog-
Demeuron la più nota è la nuova sede della Tate Modern Gallery di Londra del 1995-2000-
2012 (fig. 16.16), frutto della riconversione di una stazione termoelettrica degli anni ’50 sulle
sponde del Tamigi, di cui è conservata la struttura, mentre negli interni il progetto espositivo di
grande semplicità e purezza formale, è in grado di valorizzare le opere, spesso grandi
installazioni. Particolare è l’intervento per la Galleria d’arte contemporanea Caixa Forum di
Madrid del 2001-2007 (fig. 16.17) realizzato all’interno di una centrale elettrica dismessa della

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prima industrializzazione il cui guscio di mattoni, oggetto di tutela, viene conservato ma
staccato dal suolo e integrato da un’espansione superiore rivestita in acciaio; l’intervento
strutturale è sorprendente ma non visibile. La sala per concerti della Elbphilharmonie di
Amburgo del 2003-2016 (fig. 16.18) è invece realizzata riutilizzando un deposito ottocentesco
in prossimità del porto; al di sopra della struttura in laterizio originale è collocata la sala per
concerti da 2100 posti, con orchestra al centro; il nuovo corpo disegnato come una tenda e
rivestito di vetro, riflette l’acqua e il cielo di giorno, mentre di notte viene illuminato. Interventi
di grande notorietà legati ad appuntamenti spettacolari internazionali sono lo stadio Allianz
Arena a Monaco di Baviera (fig. 16.19), realizzato in occasione del Mondiale di calcio 2006
con struttura in acciaio e rivestimento in cuscini in materiale plastico illuminabili dall’interno, e
lo Stadio Olimpico di Pechino (fig. 16.20), pensato per 91mila spettatori con copertura semi-
trasparente realizzata con un intreccio di elementi strutturali in acciaio e denominato nido di
uccello.

16.3 RICERCHE DALL’ALTRA PARTE DEL MONDO: AUSTRALIA E GIAPPONE TRA ECOLOGIA E
TRADIZIONE
Dell’immenso contesto naturale quasi incontaminato dell’AUSTRALIA, Glenn Murcutt
sottolinea la ricchezza e la forza della natura. Autore di centinaia di case e di poche altre opere,
la sua attività si svolge in uno studio senza collaboratori, isolato, eppure vince il Pritzker Price
nel 2002. La sua formazione si nutri di viaggi in Europa, interesse per Mise van der Rohe e per
le ricerche di Aalto e Utzon, ma i suoi riferimenti più diretti si rintracciano nei ripari
temporanei in foglie e corteccia di alberi degli aborigeni e nelle costruzioni rurali dei coloni
australiani; il suo metodo progettuale è definito funzionalismo ecologico e si basa sull’uso di
tecnologie povere e materiali semplici (ferro, legno, vetro, laterizio) secondo un disegno in
armonia con i caratteri del paesaggio locale. Murcutt pone attenzione ai fattori ambientali
utilizzando risorse rinnovabili; egli è espressione di quella ricerca che sarà poi definita
bioarchitettura, cioè un filone del progetto che segue la sostenibilità ambientale con
l’obiettivo di arrivare a progettare edifici passivi a bilancio energetico nullo/positivo. Inoltre
egli sviluppa la pratica dell’autocostruzione.
Dopo le prime case degli anni Sessanta e Settanta progettate in aderenza al linguaggio
miesiano, come casa Murcutt, con la casa Marie Short del 1975-80 (fig. 16.21) l’architetto
australiano recupera un edificio preesistente smontando e riutilizzando alcune parti in legno
locale e proponendo una copertura in lamiera, tipica dei granai circostanti; questo metodo di
risparmio e di aderenza al luogo viene poi sviluppano in decine di altre opere. Non ci sono però
regole fisse. Ad esempio casa Magney (1984/1999, fig. 16.22) ha struttura in acciaio e
privilegia l’affaccio sul Pacifico, mentre la casa presso le Blue Mountains del 2004-2008 è in
gran parte di legno recuperato sul posto e si chiude alla vista data la privacy della committenza.
Gli edifici di Marcutt si prestano a essere modificati nel tempo a seconda delle esigenze.
Un altro paese dove la natura e il paesaggio rivestono un ruolo di grande importanza, ma dove
ci sono dure tradizioni, è il GIAPPONE. Negli ultimi decenni è un paese che ha espresso una
cultura progettuale sempre più internazionale, spesso confusa nel caotico contesto delle grandi
città che attirano gli architetti più famosi. In questo contesto l’opera di Tadao Ando si presta a
essere un ponte ideale tra la tradizione e l’attualità. Autodidatta, esperienza da falegname e da
pugile, approfondisce la conoscenza dell’architettura tradizionale nelle città storiche di Nara e
Kyoto, ma è affascinato da Le Corbusier; le influenze reciproche tra MM e architettura
giapponese sono note (viaggi di Wright in Giappone porta in occidente le stampe e poi lui
realizza l’Imperial Hotel di Tokyo; anche Taut viaggia in Giappone e rimane colpito dalla villa
imperiale di Katsura del XVIII sec. fig. 16.24); i maestri del MM sono affascinati dalla
semplicità e

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dall’essenzialità della casa tradizionale giapponese, le cui proporzioni sono regolate in pianta e
in alzato dalla misura del tatami che riveste i pavimenti: un rettangolo di paglia pressata, il cui
lato minore è metà del maggiore. La modularità delle parti costruttive tutte in legno, la quasi
totale assenza di arredi, il movimento delle leggere pareti scorrevoli e il giardino Zen sono visti
come anticipazioni della ricerca del MM. Con le prime numerose case degli anni ’70 Ando
mette a punto una propria poetica, basata sull’essenzialità delle forme e sull’uso del
calcestruzzo armato; ne è un esempio la casa Azuma a Osaka del 1976 (fig. 16.25) che si
segnala come un tassello molto riconoscibile nel contesto urbano, che si prolunga dietro
creando uno spazio vuoto centrale, scavalcato da passerelle e scale; il legame con il
minimalismo Zen è nella ricerca di uno spazio intermedio tra dentro e fuori. Anche nel
Complesso residenziale Rokko a Kobe (fig. 16.26) l’intento è mantenere una relazione con il
contesto naturale, interpretato con i tetti verdi e con le viste sul paesaggio. Ando compie
interventi di ogni tipo, ma occupano un posto di eccezione per ricerca e per risultati formali gli
edifici di culto (anni ’80), dove l’obiettivo è creare spazi di meditazione in sintonia con il
creato. La cappella sull’acqua a Tomamu (fig. 16.27) si affaccia su un piccolo lago circondato
dalla foresta, p un semplice volume parallelepipedo in contatto con lo straordinario paesaggio;
la chiesa della luce (16.28), realizzata in contesto urbano, è una spoglia scatola in calcestruzzo
armato dove i tagli nel muro disegnano la croce; il tempio dell’acqua (16.29) destinato al culto
buddista, è realizzato sotto a un invaso d’acqua a forma ovale, costellato di fiori di loto. In
poche occasione Ando abbandona il calcestruzzo, un esempio è il padiglione all’Expo di
Siviglia del 1992 dove Ando realizza costruzioni in legno, materiale abbondante in Giappone
che fu materiale principale delle architetture storiche sopravvissute; per Ando tornare al legno
rappresenta una rilettura della tradizione ma a partire dalle nuove conoscenze tecnologiche
acquisite. Tra i numerosi interventi per esposizioni e musei, la realizzazione della sede per la
Collezione Pinault alla Punta della dogana vecchia di Venezia del 2007-09 è un’occasione per
l’architetto di misurarsi con un edificio storico occidentale: i grandi ambienti sono dotati di
pareti e elementi di collegamento, le inferriate delle aperture sono un omaggio al disegno dello
showroom Oliverri di Scarpa e alla sua passione per il Giappone. In sintesi, il nuovo si accosta
all’antico, in un dialogo fatto di differenza e di reciproco rispetto.
16.4 ALLA RICERCA DELLA QUALITÀ URBANA: RIGENERAZIONE, DENSITÀ, SMART CITY
Il recupero e la nuova fruizione di contesti urbani, aree industriali in seguito a ristrutturazioni
produttive è una delle nuove frontiere della ricerca e della pratica architettonica contemporanea.
Nella definizione degli strumenti su questi temi si citano sempre di più termini come:
“rigenerazione”, “densità”, “centralità”, “smart city”, che spesso mascherano processi di
gentrification ovvero interventi speculativi di riqualificazione, con espulsione di abitanti poveri
dai centri urbani per ottenete l’incremento di valore delle aree. Soltanto una pianificazione
finalizzata al riequilibrio delle opportunità di sviluppo e di redistribuzione della ricchezza sul
territorio, può essere una risposta ai problemi della città odierna e del futuro.
L’area della Ruhr in Germania comprende un territorio di circa 4.000 km 2 che per almeno un
secolo non è stato il più grande distretto d’Europa dell’industria mineraria del carbone e della
produzione di acciaio. La progressiva cessazione di questa attività ha lasciato un peasaggio
devastato, con acque inquinate, detriti, rovine delle fabbriche; la scelta di governo è stata quella
di avviare progetti di recupero basati sul principio della rinaturalizzazione dei luoghi e della
riqualificazione del patrimonio dell’archeologia industriale a fini turistico ricreativi, con la
creazione di nuovi posti di lavoro. si è quindi avviato un processo unico e di rilievo
internazionale, cioè la costituzione dell’Emscher Park del 1991-98, un parco di 800 ettari; tra i
progettisti Peter Latz nel Landschftspark di Duisburg-nord nel 1991, fig. 16.31, che ha
saputo integrare le rovine postindustriale nel disegno verde; stessa operazione viene proposta

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anche nel recupero della zona Parco Dora di Torino nel 2006 (fig. 16.32), sul sedime delle ex
acciaierie della Fiat.
Sollecitati dai cittadini che si oppongono alla demolizione, lo studio di architettura e design
Diller-Scofidio + Renfo realizza il Recupero della High line di NY nel 2011-15 (fig. 16.33),
trasformando un tratto di circa 2 km di una sopraelevata storica della zona ovest di Manhattan
in parco lineare ossia un percorso pedonale dove, usando le tecniche della agritecture =
agricoltura+architettura, è facilitata la crescita di piante spontanee e sono realizzati giardini.
Sempre a NY il quartiere di Bowery ha una lunga storica di alternanza sviluppo-ababndono.
Negli anni ’90 è in degrado, ma rinasce tramite la collocazione del New Museum of
Contemporary Art del SANAA studio del 2007 composto dai progettisti giapponesi Sejima e
Nishizawa, che propongono una serie di semplici volumi parallelepipedi, rivestiti di lamiera
stirata e sovrapposti come scatole sfalsate. La coppia realizza anche il Rolex learning center a
Losanna nel 2010, innovativo centro di studio e ricerca con linee curve e sinuose, con copertura
a guscio in calcestruzzo armato.
Lo studio cinese MAD Architects realizza il Museo dell’Arte e della Città di Ordos
(Mongolia, fig. 16.35), che nelle sue forme gommose sintetizza la tensione tra i processi di
modernizzazione imposti dal Governo cinese e la permanenza di lontane tradizioni; fatto con un
volume ameboide e astratto, ricoperto da lame metalliche per resistere alle tempeste di sabbia
contrasta con gli abiti tradizionali degli abitanti del luogo.
Nella corrente dell’architettura scandinava, lo studio danese Henning Larsen firma la sala per
concerti e conferenze Harpa a Reykjavik in Islanda, del 2007-11 (fig. 16.36), che si propone
di rivitalizzare con una spazio pubblico una parte del porto trascurata; la struttura geometrica
sfaccettata dalle vetrate, che riflettono la luce del cielo e del mare, si ispira alle concrezioni
basaltiche tipiche dell’isola. Nella sua fase di formazione collabora nello studio Larsen anche
Dorte Mandrup, che realizza molti interventi di riuso attenti all’inserimento nel contesto. Con
la casa della cultura dei bambini a Copenaghen del 2013 (fig. 16.37) si inserisce su un angolo
di un isolato, collegando fabbricati di diversa altezza con una copertura che è anche facciata,
capovolgendo l’immagine tradizionale della casa.
Ancora in Danimarca, sempre nella capitale, il parco urbano Superkilen del 2011 (fig. 16.38)
nasce dalla collaborazione tra lo studio danese BIG, i paesaggisti Topotek1 e gli artisti visivi
Superflex; l’arredo urbano prevede oggetti segnalati da 57 comunità etniche presenti, come
emblemi di appartenenza.
Nell’ambito di un’attività schiva ma di qualità, Luciano Pia, formatosi professionalmente con
Andrea Bruno e autore di importanti restauri (come quello del Castello di Rivoli), realizza la
Scuola universitaria delle biotecnologie di Torino nel 200-06 (fig. 16.39), intervenendo su un
complesso ottocentesco dove inserisce nuovi corpi in calcestruzzo armato a vista che rispettano
le matrici del paesaggio urbano e creano nuove corte verdi e protette.
Il Museo delle Civiltà d’Europa e del Mediterraneo di Marsiglia del 2009-13 (fig. 16.40) del
francese-algerino Rudy Riciotti è collegato da una passerella aerea alla fortezza seicentesca, e
dialoga con le antiche vestigia attraverso una pelle in calcestruzzo armato traforata che fa da
filtro e riparo al parallelepipedo in acciaio e vetro a pianta quadrata che ospita su 3 livelli il
nuovo museo; la copertura è in legno di frassino trattato e fa da piazza belvedere.
Il trio degli architetti MVRDV composto da Maas, Van Rijs e De Vries, si è imposto nell’arena
internazionale con opere poco classificabili, tendenzialmente destrutturate, attente alla
sostenibilità ambientale, ma anche allo star system dell’architettura. Con il mercato coperto di
Rotterdam riescono a rivitalizzare il cuore storico della città secondo il principio della densità,
concentrando in un unico edificio a tunnel diverse funzioni.
Nella tradizione delle siedlungen tedesche si inserisce il complesso residenziale sulla
Rotternamerstrasse a Duren del 1997 di Herman Hertzberger (fig. 16.41-42), che ricerca un

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compromesso tra spazi pubblici, semi pubblici e privati, in rapporto con verde e con la città,
riportando all’attenzione il tema della casa popolare.
Aspetto comune delle opere citate è la disponibilità dei progettisti ad accogliere proposte dei
cittadini e sempre di più la partecipazione di quest’ultimi.

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