Fra Cinquecento e Seicento con le mutate esigenze e motivazioni del collezionismo si
assiste all’esaurirsi di un modello tipico della cultura italiana, lo studiolo, e alla nascita di una nuova tipologia, a esso contrapposta e complementare, rappresentata dalla galleria. I due modelli che si configurano in specifici ambienti rispecchiano ambedue una peculiare e ben definita cultura. Lo studiolo di matrice umanistica ed elitaria esalta, in uno spazio esiguo, ma armonico e funzionale, qui valori di introspezione, di meditazione intellettuale ed estetica che sono tipici e caratterizzanti della spiritualità quattrocentesca, mentre la galleria che ne costituisce la prosecuzione e il più dilatato svolgimento sia concettuale che spaziale, rispecchia la tensione a un più coinvolgente e allargato contatto col pubblico esercitando al contempo una doppia funzione: celebrativa del committente e conservativa-espositiva delle glorie artistiche e delle imprese eccellenti della casata. Se lo studiolo mutava la propria origine e la propria identità dagli ideali e dagli ambienti monastici, la galleria sembra affondare più addietro le proprie radici nel mondo classico, negli atri e nelle logge delle ville e delle abitazioni romane come nei portici e nei vestiboli colonnati, i musei, che il mondo greco destinava a raccogliere ed esporre oggetti celebranti le attività dello spirito. Se l’origine è di matrice classica, le prime forme conosciute di tale ambiente sono attestate in Francia nella prima metà del Cinquecento; queste avevano essenzialmente funzioni ricreative e celebrative, come luoghi di passeggio coperto, ma anche di esibizione e di esaltazione mediante arazzi o affreschi delle virtù guerresche, eroiche, erotiche o venatorie del nobile proprietario. In Italia le gallerie assumono un diverso significato e un’altra e più specifica funzione. Recuperando dalle logge e dai cortili dei palazzi romani la funzione pubblica e rappresentativa della figura del proprietario, divengono rapidamente luoghi deputati per esporre opere d’arte ma anche per esaltare il gusto e la magnificenza del committente. Alla funzione ornamentale e ricreativa propria delle gallerie francesi quelle italiane contrappongono un uso espositivo e museografico che a ragione può definirsi una loro peculiare e innovativa caratteristica. La sutura tra forma e usi francesi e nuova destinazione italiana è rappresentata dalla galleria di Sabbioneta, che per volontà del duca Vespasiano Gonzaga, cambia in pochissimi anni il suo allestimento. L’uso della galleria in funzione conservativa e museografica è peraltro attestato anche prima di Sabbioneta, nel palazzo del principe Cesare Gonzaga a Mantova. Nel palazzo, accanto agli studiolo si trovava la galleria, due modelli e due spazi collezionistici che alla metà del Cinquecento potevano ancora convivere e dirsi complementari. I due modelli potevano ancora coesistere oppure fondersi rapidamente l’uno nell’altro. L’ispiratore e consigliere del Gonzaga era il vescovo Garimberto. Il vescovo Garimberto possedeva una galleria posta come luogo di collegamento tra loggia e una libreria. L’ordine che l’informava, ritmica giustapposizione di statue, rilievi antichi e ritratti di contemporanei, può in qualche modo aver condizionato il poco più tardi scenografico allestimento della Galleria della Mostra a Mantova, nel palazzo ducale da Vincenzo I Gonzaga. Alla fine del Cinquecento la galleria era divenuta ormai l’accessorio consueto non solo delle dimore principesche, ma di tutte le abitazioni nobiliari. A Milano c’è documentata la diffusione fra le famiglie emergenti. Il Suppliemento alla guida del Morigia rappresenta una fonte preziosa per documentare gli orientamenti artistici dell’aristocrazia e degli amatori d’arte milanesi decisamente attrattivi verso gli artisti contemporanei. Per il Borsieri, la creazione di una galleria era in tempo di pace un utile e disinteressato diversivo per la “cavalleresca nobiltà”, meglio dei tornei e delle raccolte di armi, in grado di assicurare dama non effimera a colti gentiluomini, amanti delle belle arti e aperti al gusto della nuova pittura. In questo tempo la tipologia e la funzione della galleria si erano diffuse rapidamente per tutta la penisola. Il gusto eclettico ed eletto del Marino (poeta) trovava una congeniale affinità nello spirito estroso e instabile di Carlo Emanuele I duca di Savoia. Al duca di Savoia è dedicato un sonetto che celebra le sue inclinazioni antiquarie ed estetiche e l’interesse per i reperti antichi che si concretizza in un illuminato mecenatismo colto a trasformare, italianizzandolo, l’assetto urbanistico di Torino mediante gli interventi significativi. e rimodernare mediante la costruzione della galleria, il volto del palazzo ducale. A Verona il tono archeologico e antiquario che aveva caratterizzato il già ricordato collezionismo locale nel corso del Cinquecento, lascia il posto nel secolo seguente ad una decisa apertura verso l’arte locale e la pittura contemporanea. Nella dimora signorile in cui viene inserita come di prammatica la galleria, ambiente e simbolo appariscente dello status sociale della casata e dei suoi membri, si aggiungono sovente un ridotto o ritrovo musicale e, ove possibile, un giardino, sede di dotte conversazioni letterarie fra il padrone di casa, cui era demandato il doveroso compito proprio della classe nobiliare, di elevare il tono della cultura locale, e i virtuosi e i dilettanti cittadini. La famiglia Giusti possedeva una celebre galleria costituita da duecento ritratti di uomini illustri dipinti dai migliori artisti locali. La raccolta, celebrando le scelte artistiche dei giusti, svolgeva una doppia funzione didattica ed estetica: additava ai visitatori exempla di virtù e di sapienza proponendo una sintesi e una rassegna significativa dell’arte contemporanea. Nella seconda metà del Seicento, alla galleria venne aggiunta una stanza con una decorazione “alla boscareccia” con soggetti derivati dai poemi tasseschi. È questa una delle numerose testimonianze della profonda suggestione, già indagata dagli studi, esercitata dal Tasso sia sugli artisti italiani e stranieri come sulla musica barocca. Questo complesso decorativo, ora disperso, si articolava in sette tele e nove quadri a chiaroscuro e in un complicato programma iconografico realizzato dai migliori pittori di Verona. Il collezionismo locale, di cui la famiglia rappresenta un intelligente esempio di promozione artistica, si andava progressivamente orientando verso i prodotti della pittura contemporanea a ver i temi tasseschi e pastorali che bene incarnavano gli ideali e i sentimenti del mondo aristocratico tardobarocco. Ma è a Roma dove era nata la tipologia della galleria mutandonela funzione conservativa ed espositiva dalle logge e dai cortili cinquecenteschi, che essa acquista il suo assetto più scenografico e celebrativo, che è insieme conquista e sintesi della cultura e della poetica barocca. Se alla fine del Cinquecento le gallerie dei palazzi Spada e Farnese si richiamavano in parte ai modelli francesi adorni di stucchi e decorazioni, ma anche di nicchie con busti e statue antiche, alla metà del Seicento le gallerie prelatizie e mobiliari divengono la sede prestigiosa e appariscente di un collezionismo eterogeneo composto di reperti classici, sculture e pitture moderne, arredi preziosi, parati d’effetto. Esemplare in questo senso è la villa progettata da Flaminio Ponzio per Scipione Borghese. Essa era destinata non a funzione abitativa, ma d’apparato e per il piacere degli amici e degli ospiti, ed era pensata sia all’esterno nel vastissimo parco come all’interno nella premeditata sobrietà degli ambienti, per esaltare al massimo le qualità artistiche delle sculture e delle pitture che erano collocate. La semplicità degli interni e degli sfondi neutri palesano una felicissima sensibilità museografica degli arredi e degli apparati. La galleria rappresenta in un bel calcolato gioco di rispondenze, di scambi e di allusioni, tra antico, all’antica e moderno. Le gallerie fiorentine sembrano infatti oscillare fra opposte tendenze: apertura verso forme d’ate moderna, non legate alla tradizione locale ed esaltazione della glorie artistiche e letterarie della città. Palazzo di Baccio Valori: all’esterno nelle erme di illustri fiorentini, e all’interno nei busti e nei ritratti, è da vedere l'esaltazione della letteratura fiorentina e nel contempo quella del proprietario e della sua famiglia. Un gusto fastosamente appariscente connotava invece le sontuose gallerie barocche di Genova. Una fra le più ricche era quella del palazzo Durazzo; costituito da ampi saloni, cortili, scaloni monumentali e da un grande giardino pensile; al piano nobile si estendeva e si esponeva nella galleria la ricchissima collezione di famiglia. Si ripropongono rimandi tra antico, imitazione dell'antico, sua falsificazione e riprese e ispirazioni moderne che trovano in questo vano d’apparato e di rappresentanza un tema congeniale alla celebrazione, all’autoesaltazione e glorificazione dinastica, familiare e personale che possono considerarsi elementi costitutivi e peculiari della poetica barocca. Nell’arco di un secolo, fra Cinquecento e Seicento, si costituisce quindi un ambiente che come lo studiolo può dirsi creazione tipicamente italiana finalizzato a contenere ed esprimere due diversi, antitetici modelli di collezionismo. L’evoluzione della galleria e assai rapida. Proiezione spaziale e concettuale dello studiolo, conserva all’inizio gli stessi oggetti significanti di piccole e medie dimensioni. Diviene poi senza soluzioni di continuità un insostituibile ambiente di rappresentanza delle classi nobiliari e principesche in cui i cicli decorativi come negli studioli, hanno l’ufficio di celebrazione ed esaltazione dinastica e personale ma anche l’intento di costualizzare le opere esposte. Infine la galleria acquista il significato attuale come sinonimo di vano espositivo ma anche di pinacoteca e come ambiente deputato e funzionale alla conservazione- esposizione di opere d’arte, assimilandosi e prefigurando gli spazi e le finalità del museo moderno.
MUSEI IDEALI E GALLERIE POETICHE
Nel Rinascimento forte e profonda fu l’aspirazione verso un coordinamento razionale di tutto lo scibile che si tradusse nella pubblicazione di trattati e saggi di carattere utopistico che auspicano una società civile dominata dalla ragione e retta esclusivamente dalle leggi di natura. Molti di questi trattati disegnano, sul modello della Repubblica platonica, l'immagine di una città ideale, priva di agganci concreti e di rapporto con la realtà architettonica del tempo, assumendo spesso dalla fine del Cinquecento, il carattere di una protesta inattuale e irrealizzabile e i toni apocalittici della profezia. La Città del Sole composta dal Campanella vagheggia una nuova struttura organizzativa fondata su principi di uguaglianza e comunità di beni, tesa essenzialmente alla sana riproduzione e all’educazione razionale e programmata del cittadino, libero da ogni pressione ideologica come dai condizionamenti della politica. Nella repubblica teocratica perfetta immaginata dal Campanella grande importanza assume l’organizzazione e la trasmissione del sapere. La Città del Sole era divisa in sei giorni o settori concentrici sulle cui mura erano dipinte figure geometriche, pietre preziose e minerali, piante, uccelli, animale, le arti meccaniche e “gli inventori delle leggi, delle scienze e delle armi”. Le immagini dipinte unite ad oggetti significanti avevano il compito di stimolare le capacità individuali e l’autonomia intellettuale. La città del Campanella si poneva non solo come un nuovo modello di società civile a gestione comunitaria ma anche come uno strumento conoscitivo e pedagogico, come un sistema di memoria universale proposto dai trattati di mnemotecnica rinascimentali, teso al libero e diretto apprendimento delle singole scienze. I sei giorni o settori espositivi in cui si organizzano e strutturano nella Città del Sole le diverse conoscenze possono assimilarsi e configurarsi anche come una sorta di “museo ideale” rivolto essenzialmente a fini pedagogici e didattici. È infatti un museo didattico che si fonda su un tentativo di catalogazione del sapere universale e che propone di fatto un nuovo tipo di conoscenza e di apprendimento, rapportabile per l’analoga modernità di concezione alla famosa lettera di Rabelais sull’educazione di Pantagruele. Le innovative proposte del Campanella non vennero peraltro recepite e comprese dai contemporanei poiché slegate da ogni forma di esaltazione del potere costituito e dei ceti emergenti come dalla celebrazione della religione di stato. La Città del Sole auspicando una società civile aperta, progressiva e rivolta ai più meritevoli per doti intellettuali e morali, proponeva anche un nuovo sistema conoscitivo e rappresentativo che costituisca un antitesi e un’alternativa. Mentre tramonta il mito della città ideale si elaborano altri modelli concettuali, altre categorie mentali che razionalizzano l’esistente sulla spinta della fantasia e dell’immaginazione anche in virtù dell’accentuato e fecondo rapporto che si instaura e si rafforza in età barocca tra arti figurative e letteratura. Da questo rinnovato e felice rapporto tra le arti sorelle nasce il “museo ideale”. Esso cresce e si alimenta di una realtà concreta, il collezionismo che già aveva acquisito una ben caratterizzata consistenza, una complessità di motivazioni e una varietà di esempi ; dalle raccolte private celebrative a autoesaltatorie, a quelle pubbliche. Nella nuova tipologia architettonica della galleria si era inoltre individuato lo spazio più funzionale e rappresentativo per il collezionismo e l'ambiente perfetto per esporre ed esporsi agli sguardi e all’ammirazione dei gentiluomini, dei virtuosi e dei dilettanti. Una sorta di “museo immaginario” è infatti la Galeria del Marino. Lontana dalle finalità pedagogiche e dalle istanze conoscitive che informavano la Città del Sole, la raccolta poetica e anch’essa creazione concettuale premeditata che mira invece a stupire e a meravigliare il lettore, proponendo un parallelo analogico e un sfida tra la natura e l’arte, che umilia il tempo e la morte, e a tradurre in versi le suggestioni visive ed emotive offerte dalle opere. Le opere d’arte, in un sorvegliatissimo gioco di alternanze tra realtà e fantasia, realmente possedute dal Marino o soltanto ammirate, costituiscono il pretesto e lo stimolo alla sua immaginazione creativa ma sono anche descritte e interpretate nel loro contenuto. La Galeria è pertanto assimilabile a un “museo ideale” suddiviso e catalogato per generi, per contenuto e per tecnica. Sostenuto da una rigorosa fantasia il Marino divide le composizione poetiche, costruite con metri diversi per temi; le pitture per soggetto: favole, historie ritratti e capricci e le sculture per tecnica: statue, rilievi, modelli e medaglie. La Galeria stabilisce un’inedita unione tra descrizione e interpretazione dell’opera d’arte e amplificazione letteraria e retorica dei temi e dei contenuti di questa. Galleria poetica poetica e museo ideale, diviso per generi artistici e organizzato con rigore creativo e fantastico che apre la strada al gusto edonistico e aulico delle corti nobiliari, delle élites dei conoscitori e dei virtuosi, della collezione intesa come valore ideologico s strumento di fasto potere che si rispecchia nella nuova e funzionale tipologia architettonica esprimendo inoltre compiutamente le istanze e l’essenza della civiltà barocca. Un diverso tipo di “museo ideale" è quello descritto da Marco Boschini. La Carta del navegar pittoresco, guida rimata sulle bellezze pittoriche di Venezia, è dedicata a un grande collezionista del Seicento, l’arciduca Leopoldo Guglielmo, la cui straordinaria raccolta viennese venne più volte riprodotta in pittura e in incisione da David Teniers. Le opere del Teniers possono considerarsi una sorta di corrispondente visivo della galleria immaginata dal Boschini, folta e rutilante di quadri disposti senza soluzione di continuità sulle pareti. Dalla guida del Boschini, oltre a puntuali descrizioni delle maggiori raccolte private veneziane, si evincono precise indicazioni per l’allestimento e per una fastosa e scenografica disposizione delle opere. Rivelando una straordinaria sensibilità museografica, il Boschini suggerisce, per armonizzare al massimo le pitture con gli ambienti, di rivestire le pareti di velluti verdi o cremisi. Da allora innumerevoli sono state le proposte e le riflessioni sul tema del “museo ideale”. Ai numerosi “musei ideali”, frutto di riflessione e di fantasie creative, possono aggiungersi, costituendo un suggestivo parallelo, anche le innumerevoli composizioni poetiche che celebrano, illustrano, interpretano, descrivono, sovente in uno sforzo mimetico e competitivo la ekphrasis di matrice retorica e di origine tardo antica, le opere d’arte figurative. Si raccolgono qui in una immaginaria galleria poetica, corrispettivo del museo ideale”, una ristrettissima scelta di un genere frequente in Italia, alcune composizioni in versi, privilegiando quelle relative ai ritratti a ai temi profani, nel tentativo di documentare nel tempo i diversi modi di approccio e di fruizione del testo figurativo. A prova della complementarietà fra pittura e poesia si può invocare il famosissimo sonetto del Petrarca sul ritratto Di Laura dipinto da Simone Martini. Il sonetto celebra le virtù pittoriche di Simone considerato fra i pochi artefici moderni superiori agli antichi poiché capace di tradurre in un ritratto riconoscibile e spirante di vita, la bellezza spirituale e ultraterrena di Laura. Con SImone e anche con Giotto si passa da un ritratto simbolico e astraente in funzione devozionale e propiziatoria tipico del Medioevo, a uno riconoscibile, attualizzante e caratterizzato che prefigura l’arte gotica internazionale. Il ritratto del Quattrocento perfezionando i caratteri individuali e fisiognomici, svolge molteplici funzioni. Sarà infatti variamente utilizzato nei diversi centri artisti in funzione sia civica che celebrativa, commemorativa, araldica, matrimoniale. Il sonetto del poeta di corte Uisse Accolti ricorda la gara per premiare l’artista che avesse realizzato il miglio ritratto del Marchese. Il dipinto di Giovanni Bellini svolge solamente la funzione du suscitare il ricordo dell’amata. Il Bembo scrive che “a me pareva uno che lo vidi molto proprio e bello e da rifare in meglia, per mostrarvi al mondo dopo la morte quale siete”. Tale apprezzamento sottintende anche il mutamento di significato che il genere del ritratto aveva acquistato a Venezia con Bellini… viene perdendo la sua funzione commemorativa, genealogica e celebrativa, per divenire non solo oggetto di fruizione estetica, ma anche da collezione. Come in Raffaello, così anche Tiziano, la caratterizzazione psicologica e la ricerca della più segreta individualità del personaggio dipinto, raggiungono vertici insuperabili. La lirica di stampo manieristico si incentra, tema usuale nel Rinascimento, sullo sdoppiamento dell’immagine vera da quella dipinta e sul binomio e sulla sfida tra l’arte e la natura. L’abilità artistica di Tiziano uguagliando le doti naturali del soggetto ne ha espresso mirabilmente l’alta spiritualità. Nel Seicento il rapporto tra arte e letteratura si fa più intenso e analogico; l’adagio oraziano allarga il suo campo d’azione, acquistando e sperimentando nuove possibilità semantiche e promuovendo reciproche suggestioni linguistiche, esplicite allusioni e una fioritura inesauribile di epigrammi, emblemi, madrigali e imprese. Alla luce di questa stratta contemplementrietà rinasce e si evolve il vecchio genere letterario dell’ekfrasis, o descrizione mimetica del soggetto dipinto, e si assiste a una foltissima produzioni di versi, collegata ai problemi visivi della civiltà barocca, tesa ad interpretare, illustrare, parafrasare sensibilmente ed emotivamente il valore poetico e concettuale dell’opera d’arte. Le pitture e le sculture non costituiscono più come nel Rinascimento, un’occasione per la poesia, ma divengono l’oggetto stesso della composizione. Si realizza quindi una nuova sintesi fra le due forme: la poesia descrive l’opera e il contenuto sviluppandone, parafrasandone o commentando eil tema in un’unione che sembra riformulare, rigenerandole, le possibiltà di rappresentazione. La pittura del Caravaggio, non scena di genere o rappresentazione realistica o naturalistica come era stata interpretata in passato, ma di contenuto fortemente emblematico, simbolico e moraleggiante, bene si presta a stabilire un rapporto con la coeva letteratura metaforica e col concettismo. In ambedue i generi e la stessa tensione a insegnare, illustrare, visualizzare in modo intuitivo e diretto una verità morale. I poeti contemporanei specie i concertisti lodando in Caravaggio la straordinaria imitazione pittorica del reale, tendono a tradurre le sue immagini in poesia, sciogliendone e divulgandone i significati nascosti in ammaestramenti etici espressi di volta in volta in epigrammi, in sonetti, in liriche moraleggianti. I versi che illustrano le opere pubbliche e private di Roma, ordinate soltanto in base alla loro ubicazione, sono il pretesto per riflessioni e condanne moraleggianti, per moniti e incitamenti devozionali e pietistici. Manca l’originalità critica e la capacità di tradurre sensibilmente ed emotivamente il valore dell’esperienza figurativa in termini poetico- letterari come nel Marino. L’importanza dell’opera risiede invece nel suo valore di fondo, di erudita documentazione sulle raccolte private. Nella descrizione delle pitture e sculture il Silos privilegia il contenuto e lo svolgimento del soggetto, e non lo stile, le emozioni e le risonanze che esse suscitano. SUI CRITERI DI DISPOSIZIONE, DECORAZIONE E ARREDO DEGLI SPAZI INTERNI E SULLE MODALITÀ DI ALLESTIMENTO DEI DIPINTI E DEI DISEGNI Nella letteratura e nella storiografia artistica italiana mancano saggi e trattati specifici dedicati ai criteri e alle norme di arredo degli ambienti come regole e suggerimenti per disporre quadri e disegni. Almeno fino alla metà del Settecento non vi è nulla di paragonabile ai testi e ai trattati stranieri che impartiscono norme e indicazioni museografiche come precise regole di allestimento. Nonostante la mancanza di tali specifici testi, alcune norme e indicazioni sui più consueti principi d’arredo e sui criteri di allestimento delle raccolte e delle collezioni italiane si possono facilmente estrapolare e individuare dalla letteratura artistica e dalla trattatistica architettonica. Da questi testi si ricavano molte indicazioni sulla disposizione degli ambienti interni e sulle loro diverse funzioni: private, pubbliche e di rappresentanza, come in opere più tarde si possono evincere norme sulla disposizione degli arredi. La loro diversa dislocazione e la crescente importanza degli spazi di uso pubblico e di più facile accesso sono legate alla progressiva importanza dell’abitazione privata, specchio ed emblema dle proprietario e della famiglia, ma possono offrire anche utili spunti per indagare l’evoluzione e la mutata fisionomia del collezionismo. La distribuzione fra spazio pubblico e privato è già nella De rea edificatoria dell’Alberti che nella razionale revisione delle norme classiche e nel loro superamento, distingue tre tipi di edifici: pubblici, destinati al volgo e quelli per i cittadini eminenti. Nella casa di cittadini eccellenti, nella quale la bellezza e la disposizione degli ambienti sono sempre privilegiate rispetto al fasto e alla ricchezza della decorazione, l’unico spazio pubblico è quello della biblioteca, cui convengono, in un uso poi divenuto canonico, oltre i libri, strumenti matematici, carte geografiche e ritratti di personaggi antichi. Lontana dalla funzionalità e dal rigore architettonico della casa albertiana si presenta la dimora ideale concepita da Filoteo Achillini. In un’epistola viene descritta una sorta di abitazione perfetta per il sapiente, in cui si privilegiano al massimo gli spazi di rappresentanza in un utopico e magniloquente percorso che si snoda dall’atrio decorato di statue e di contenitori di medaglie, fino alla sala della musica, all’armeria, alla biblioteca, al teatro. Paolo Cortesi nel suo De Cardinalatu, una sorta di manuale di comportamento e di vita per l’aristocrazia ecclesiastica, fa una intelligente divisione degli spazi che tiene conto delle diversificate esigenze del proprietario, distingue tre zone: una privata, una destinata agli intimi e una pubblica. Quest’ultima consiste in vari ambienti al primo piano: biblioteca, sala per udienze, sala per banchetti con annessa cella argentaria e infine la dattilioteca, piccolo e funzionale museo per gemme e monete antiche corrispettivo degli studioli degli umanisti e dei potenti. Una precisa reazione al culto degli antichi come un più strumentale uso delle immagini e delle decorazioni interne, si ricava dalla trattatistica della fine del Cinquecento e della prima metà del Seicento. Mentre si assiste alla creazione e all’utilizzo di uno spazio deputato alle funzioni espositive e di rappresentanza: la galleria, i cui usi e caratteri vengono codificati definitivamente dallo Scamozzi, si elaborano nello stesso tempo suggerimenti e prontuari iconografici ad uso degli artisti per un conveniente impiego delle immagini negli edifici sia pubblici che privati. Scopertamente tecnico e pedagogico è il Trattato della pittura e scultura, uso et abuso loro. Il saggio vuole utilizzare a fini devozionali e religiosi le immagini artistiche di cui non si sottovalutano la potenza e suggestione. La casistica e l’utilizzo delle immagini si fanno più sottili e scaltrite: negli spazi pubblici le decorazioni dovranno obbedire a criteri di assoluto decoro e convenienza, negli spazi di più limitata e selezionata fruizione, identificato negli studi, ma anche contro le norme correnti nelle gallerie, si potranno usare con una esplicita e moderna ammissione dell’autonomia dell’arte, anche soggetti diversi e licenziosi. Con la metà del Seicento mentre si attenuano nella trattatistica le prese di posizione e le teorizzazioni sulla forza di persuasione e la liceità delle immagini, emergono per converso l’importanza e la crescente funzione nei palazzi privati degli ambienti e degli spazi di rappresentanza. Oltre alla galleria, vano pubblico per eccellenza, grande risalto assumono le librerie e le sale di lettura, come i saloni per banchetti e ricevimenti. Un manoscritto anonimo offre puntuali indicazioni per la costruzione del palazzo-villa principesca. Oltre alla galleria e a uno studio che presenta ancora sorprendenti analogie con le Wunderkammern nella enciclopedica congerie di curiosa e naturalia, grande rilievo e posto nella organizzazione in più spazi della libreria. La sua struttura accessibile agli studiosi, denuncia una moderna concezione della cultura, garantendo in una funzionale interdipendenza, una utilizzazione a più livelli sia privata che pubblica. Se dal rapporto tra dislocazione e decorazione degli spazi interni qui brevemente delineato, si vogliono enucleare e individuare le modalità di allestimento e i criteri di disposizione degli arredi e delle opere d’arte, mancando nella letteratura artistica italiana testi specifici, dovremmo ugualmente recuperare e utilizzare fonti e saggi disparati radunando sparse osservazioni e consigli operativi. Raccolte le esigue testimonianze seicentesche sull’argomento, in una ricerca tutta da approfondire, emergono i criteri consueti, di assemblaggio indiscriminato e fastoso di arredi, dipinti e sculture rappresentative del prestigio e del peso sociale del proprietario e del loro casato, ma anche sorprendenti proposte, di taglio innovativo e didattico, che si pongono in contrasto e in polemica con i parametri dell’estetica barocca. Lo spazio più rappresentativo del prestigio familiare, la galleria, subisce un evoluzione nei criteri di arredo e di allestimenti. La armonica e spaziata giustapposizione fra dipinti e sculture, secondo un gusto che da Roma si diffonde per tutta la penisola lungo il corso del Cinquecento, tendente a instaurare un dialettico, erudito confronto tra arte antica e moderna e a mettere in valore pezzi più significativi con criteri ancora rispettosi delle singole opere, viene soppiantata da uno stile di arredo definibile “a incrostazione”. I dipinti vengono disposti sulle pareti senza cesure spaziali e senza riguardo alla loro specifica visibilità. Di questo nuovo stile che si diffonde rapidamente dai primi del Seicento e che costruirà il carattere distintivo delle grandi gallerie e quadrerie mobiliari fino al Settecento inoltrato, una puntuale testimonianza si ricava da una celebre lettera del marchese Vincenzo Giustiniani. Il Giustiniani, uno dei più grandi collezionisti e committenti romani, dopo aver distinto lo stile della pittura contemporanea in dodici maniere, la più perfetta delle quali “con l’esempio davanti del naturale” è rappresentata dai Carracci, dal Reni e dal Caravaggio, documenta la nuova moda diffusasi in Italia e all’esterno, che al posto di paramenti e arazzi amava ricoprire le pareti dei saloni “compitamente co quadri”. Su questa linea di arredo che privilegiava, in un ossessivo “horror vacui”, l’effetto d’insieme alla fruizione e alla visibilità del singolo pezzo, archetipo del museo barocco, si modellano le decorazioni seicentesche con una grande quantità di variazioni sul tema. Alla base di questo tipo di allestimento era sempre sottesa la precisa volontà di subordinare i singoli pezzi a un’unità visiva globale con l’intento di stupire, annientare il visitatore con un solo colpo d’occhio e con la quantità dei dipinti che vengono pertanto sacrificati alle esigenze dell’arredo. Uno schema visivo ordinato e totale prevarica dunque sopprimendolo, l'apprezzamento delle singole opere per stimolare un’impressione di fasto e di sontuosità inimitabile e coinvolgente teorizzata e l’ammirazione incondizionata del fruitore. Data l’estrema scarsità di documenti visivi atti a ricostruire l’assetto degli interni italiani, grande importanza assumono quindi i disegni di Diacinto Marmi. I disegni prospettano raffinate soluzioni d’arredo e proposte progettuali per l’allestimento di vari ambienti di palazzo Pitti destinati sia all’uso privato che a quello pubblico e di rappresentanza come la sala dell’udienza, la galleria, la libreria, la cappella e il teatro. Da questi emerge il fondamentale ruolo decorativo della pittura che è peraltro intimamente connessa alle suppellettili e ai mobili, una rigida gerarchia di oggetti, una vasta gamma di invenzioni d’effetto nonché una profonda integrazione di arti, manifatture e materie diverse che si compongono in una simmetrica unitaria visione sostanziata di valori cromatici e di insistenti allusioni dinastiche. Ne è un esempio il parametro di velluto rosso progettato dal Marmi per una sala della Villa di Poggio Imperiale, che prevedeva l’abbinamento di ritratti principeschi riccamente incorniciati alternati a stemmi medicei. I disegni del Marmi rappresentano quindi preziose fonti grafiche per visualizzare contesti irrimediabilmente perduti, sacrificati alle nuove esigenze del gusto e a più moderne funzioni abitative. La distribuzione e la disgregazione degli ambienti di rappresentanza, come delle quadrerie nobiliari, non sono peraltro legate solo ai cambiamenti del gusto o a dissesti finanziari, ma anche all’abolizione nella seconda metà dell’Ottocento, del vincolo testamentario del fedecommesso. Nel Seicento non mancano peraltro suggestive proposte alternative. Cassano dal Pozzo propone una variazione ai consueti criteri di arredo che ne costituisce una sorta di sostanziale contrapposizione. In una lettera, suggerisce di disporre sulla parete in una sistemazione inusuale per generi prospettive urbane e paesaggi, alternati ritmicamente e disposti a distanza conveniente e ad altezza d’occhio per poter essere goduti sia singolarmente che nel loro insieme e in raffinati giochi prospettici. La proposta inconsueta e innovativa, finalizzata a una corretta esposizione dei pezzi e a una loro più agevole e totale fruizione, è spiegabile con la personalità erudita e progressista del dal Pozzo come anche col nuovo significato assunto dalla sua enorme raccolta che si diversificava nei vari versanti artistici, antiquari e naturalistici. La sua collezione, piuttosto che la funzione consueta di arredo prestigioso e di decorazione fastosa a autocelebrativa del proprietario e degli ambienti, costituiva una sorta di museo privato con precisi intenti didattici e un laboratorio artistico e professionale per i numerosi artisti italiani e stranieri da lui protetti. Le Considerazioni sulla pittura (1620) da Giulio Mancini. Il capitolo X “Regole per comprare, collocare e conservare le pitture” rivela un’estrema familiarità con i problemi sia tecnici e operativi dell’opera d’arte che quelli legati al collezionismo, denuncia una grande modernità d’intenti e di visione. Può essere definito un vero saggio di museografia. Il Mancini elabora una casistica sulla disposizione nei vari ambienti di un palazzo; criteri e proposte di allestimento che rivelano una assoluta novità e modernità di concezione. Distinte per epoche e per scuole, andranno disposte in serie progressiva tenendo conto delle loro diverse condizioni di visibilità e del loro formato, con un schema spazio-temporale che fonde didattica e decorazione. Tale tipo di allestimento per scuole e per cronologia non venne recepito dai contemporanei come modello di pedagogica chiarezza. L'ordinamento dal Mancini troverà pratica attuazione soltanto dalla seconda metà del Settecento anche se esclusivamente nell’ambito delle pinacoteche pubbliche finalizzate a precisi intenti didattici. Per quanto riguarda l'ordinamento cronologico e per stili dei reperti antichi, questo potrà essere realizzato ai primi dell’Ottocento. Il Libro dei disegni del Vasari, ordinato storicamente, va inteso come luogo di conservazione e strumento di formazione del gusto e della conoscenza. I disegni raccolti e racchiusi in undici tomi che costituirono un modello insuperabile per le raccolte del genere, dovevano essere ordinati non solo con un criterio cronologico, seguendo cioè la disposizione delle Vite, ma anche in ordine di acquisto. Tale ordinamento è spiegabile con la profonda cultura antiquaria e con la decisa apertura verso il classicismo del suo proprietario.Anche la raccolta del cardinale Leopoldo di Medici ha una disposizione cronologica.
VIRTUOSI, DILETTANTI E CONOSCITORI
Per Torquato Tasso l’attività dell’antiquario si può così sintetizzare: dimostra meraviglie di possanza e di arte, elegge al meglio, insegna il vero. A quest'epoca il fenomeno del collezionismo aveva acquistato già una ben individuata fisionomia e i termini di antiquario e conoscitore avevano assunto la loro piena valenza semantica. Per antiquario si intendeva, alla fine del Cinquecento, uno studioso dell’antico che poteva anche in seconda istanza conservare e raccogliere concrete testimonianze, ma non ancora ne faceva commercio. Era in sostanza sinonimo di collezionista. Conoscitore, conoscente, intendente significavano invece identificandosi, esclusivamente la figura dell’artista. Con il Seicento la netta divaricazione tra artista- conoscitore e collezionista-antiquario si attenua sfumandosi ma anche addirittura si ribalta e si complica, sulla spinta di elementi contrastanti e di una cultura artistica complessa e diversificata qual’è quella del barocco. Codificandosi la suddivisione e la classificazione gerarchica dei generi artistici così come il riconoscimento della peculiarità stilistica delle diverse scuole pittoriche, si pongono allora le basi per una critica di tipo interpretativo e storico della quale per la prima volta si tenta di impostare i problemi e di fissare il metodo. Personalità importanti: Mancini e Giustiniani. Il conoscitore, la cui definizione acquista una connotazione più libera così come si modificano le figure tradizionali dell’artista e del committente sia nella loro fisionomia individuale che nei loro rapporti. L’artista che appare ora completamente slegato da ogni sudditanza alle arti meccaniche, assume una ben riconosciuta considerazione sociale e maggiore libertà dalle regola e dai condizionamenti dei mecenati e dei committenti. Ad allentare lo stretto legame fra artisti e committenti,, le mostre annuali o periodiche di pittura giocano un ruolo fondamentale. Organizzate in occasione di ricorrenze religiose o di solenno processioni (esempio: Roma il Pantheon), ponevano l’artista in contatto con un più vasto pubblico. Vi si presentavano principalmente giovani artisti stranieri, desiderosi di farsi conoscere o anche specialisti nei nuovi generi del paesaggio e della natura morta. Le mostra davano l’opportunità di conoscere maniere, tendenze e stili diversi, rendendo le opere largamente accessibili e liberando la pittura da una fruizione elitaria e intellettuale. In aperta polemica con il gusto della classe dominante e dell’aristocrazia che sosteneva il grandioso stile barocco e con gli autoritari dettami dell’Accademia di San Luca che esercitando un diretto controllo sulle arte propendeva per un sempre più rigoroso classicismo, si forma la classe dei dilettanti, degli amatori e conoscitori di estrazione borghese: scienziati, bibliotecari, letterati, che costituiscono l’anello di collegamento tra gli artisti e le grandi famiglie, ma anche i consiglieri di collezionismo di stravagante erudizione e di fanatica, inesausta curiosità. Per influsso dei dilettanti si formano collezioni quasi specialistiche.. Nelle mani dei dilettanti e dei conoscitori borghesi si trasferiscono progressivamente la critica e la storiografia artistica che incrementano l’esistenza e l’affermazione di diversificate e alternative correnti di gusto. A limitare ulteriormente l’influenza e il ruolo dei committenti concorrevano oltre i virtuosi e i dilettanti, in larga misura anche mercanti che svolgevano l’ufficio di talent- scout dei giovani artisti. I commercianti, i sensali, gli speculatori acquistano infatto straordinario peso e importanza, e più liberi da direttive ideologiche ed estetiche, fanno incetta di quadri per rifornire lo studio dei dilettanti, divenendo di fatto i consiglieri riconosciuti e rimunerati del gusto della classe borghese. A Venezia ormai in piena decadenza economica, i mercanti svolgono un ruolo determinante, educando i borghesi alla necessità di possedere opere d’arte per accrescere il proprio prestigio nonché fungendo da intermediari tra il collezionismo delle grandi famiglie della Serenissima e le sempre più pressanti richiese dell’aristocrazia straniera. Così lo storiografo Boschini e il sensale del Sera, divengono i mediatori e gli agenti artistici di Leopoldo di Medici. A Napoli il ruolo dei mercanti non consiste esclusivamente nel disperdere le glorie patrie ma anche nel far conoscere nuove correnti artistiche. Alternative al gusto ufficiale si possono considerare anche le raccolte specialistiche, come quelle dei disegni finalizzate all’apprendimento e alla conoscenza dei diversi stili e maniere artistiche. Se grande fu l’apporto dei dilettanti e dei virtuosi alla conoscenza e all’apprezzamento di nuove correnti artistiche aderenti a un tipo di raffigurazione più mimetico e realistico, altrettanto rilevante fu il loro approccio e la spinta ad un diverso tipo di critica meno idealistico e teorico e più sensibile ai procedimenti tecnici e operativi. Lo spostamento di interesse dal significato condusse a un processo di specializzazione non solo fra le arti e scienza, ma anche al loro interno, nonché all'individuazione delle maniere distintive delle singole scuole pittoriche regionali. Da qui la possibilità e la necessità nell’ambito delle diverse maniere e dei diversi generi, di individuare l’autore di un’opera non firmata. La possibilità di riconoscere le maniere e gli stili distintivi delle scuole regionali scatenera un accesso dibattito da parte degli eruditi e degli storiografi italiani sulle loro priorità cronologiche che nel Settecento darà origine all’interesse e al recupero in accezione storico-documentaria dei primitivi. La possibilità di individuare l’autore di un'opera anonima produrrà invece tra Seicento e Settecento, un’accesa polemica in ambito europeo, sui compiti e limiti del conoscitore. Il trattato già ricordato del Mancini, COnsiderazioni sulla pittura. La seconda parte del trattato, che rivendica significativamente l’autonomia della critica d’arte dalla tecnica e dalla pratica artistica, tenta una revisione sistematica delle Vite vasariane limitata esclusivamente alle notizie sulla pittura. A lui infatti si deve il tentativo di stabilire per la prima volta i principi della conoscenza e della critica figurativa, ponendo così le basi per la fondazione della scienza dell’attribuzione che nell’Ottocento troverà la sua codificazione nell’ambito della cultura positivista. Il Mancini rovesciando quindi l’opinione corrente e consolidata, afferma che gli artisti sono i peggiori teorici e critici d’arte e che solo il dilettante istruito e pratico può arrivare a discernere, non solo gli originali dalle copie, ma anche la qualità, lo stile e l’epoca dell’opera d’arte. Il dilettante può dunque agevolmente sostituirsi al pittore, troppo coinvolto nel giudicare e stimati i prodotti dei rivali. Baldinucci ritiene il pittore più idoneo a giudicare la qualità e le maniere dell’arte, nondimeno un praticissimo, erudito dilettante può eccezionalmente rivaleggiare con questo. Boschini pone sullo stesso piano il dilettante e l’artista. Si costituiscono così le basi della peculiare operazione dello storico d’arte attuale. Per il Lanzi, per divenire un vero conoscitore il dilettante dovrà familiarizzarsi con le diverse maniere dei pittori studiandone preliminarmente anche gli abbozzi e i disegni, la pittura e infatti simile alla scrittura (il pittore riconosce lo stile di un'opera come il cancelliere l’origine di un manoscritto dal suo ductus). È perciò possibili riconoscere lo stile individuale da alcuni caratteri che permangono immutabili nei prodotto di uno stesso autore. Per merito del Lanzi l’attribuzione acquista quindi una sua piena validità e una concreta base metodologica. Si chiude inoltre a questo punto la polemica italiana sui limiti e sulle competenze del conoscitore-dilettante e contemporaneamente si formulano le premesse per la costituzione della attribuzione come scienza sperimentale. Dalle testimonianze citate emergono la notevole importanza e l'incidenza del mondo dei dilettanti e dei virtuosi all’apprezzamento di stili e correnti alternative o divergenti dal gusto ufficiale, che si traducono in concreto nel diverso assetto delle collezioni, rivolte essenzialmente in due direzioni: sia verso il campo di una ancora embrionale archeologia che verso un tipo di arte meno idealistico e concettuale e più aperto alla cultura straniera. È per merito dei dilettanti che dalle interpretazioni sul significato simbolico e allegorico delle opere l’attenzione si sposta anche ai processi operativi e manuali con una progressiva ma definitiva differenziazione tra arte e critica che è alla base della situazione odierna. La pratica empirica del conoscitore viene inoltre elevata a sistema scientifico, divenendo il più efficace strumento di analisi e di classificazione elaborato dalla storiografia artistica.
DALLA MERAVIGLIA AL METODO: WUNDERKAMMERN E
RACCOLTE SCIENTIFICHE All’aprirsi del Cinquecento si assiste a un rinnovato e più profondo interesse per il mondo naturale che si esprime nella creazione di nuovi strumenti conoscitivi e di mezzi d’indagine che portano a un capillare censimento di questa realtà e contestualmente a un’opera di revisione, di controllo e di critica dei testi classici che fino ad allora erano considerato autorità indiscusse per il suo studio e la sua ricostruzione. Dal contrasto tra testi classici e lo studio e l’analisi del mondo naturale traggono origine il tentativo e il desiderio di classificare, catalogare e comprenderne tutti gli aspetti che trovano i pezzi più idonei e funzionali nella creazione di erbai, di orti botanici, e nella nascita dell’illustrazione scientifica. Nella pratica dell’osservazione diretta e nell’esigenza di riorganizzazione della conoscenza e di classificazione della realtà naturale cui concorrevano in maniera determinante il fascino e lo stimolo delle scoperte di nuovi mondi e i resoconti e le descrizioni di terre lontane, grande importanza assume la figura del medico e naturalista bolognese Ulisse Aldrovandi che bene evidenzia la delicata e travagliata fase di trapasso tra umanesimo scientifico cinquecentesco e il rivoluzionario sperimentalismo galileiano. Nei più motivato e sistematico interesse per il mondo naturale che si verifica nel corso del secolo i centri propulsori sono rappresentati dalle farmacie, orti botanici, erbari, sorti con specifiche che univano ad obiettivi commerciali di recupero e sfruttamento di nuove terre e nuovi materiale, pulsioni conoscitive e sperimentali. Analogamente anche le collezioni possono essere assunte come strumenti funzionali allo studio e alla classificazione e comprensione della realtà, e come mezzi di raccordo e di controllo fra l’uomo e la natura. Sono queste le raccolte enciclopediche che si pongono come specchio miniaturizzato, come ricomposizione concreta e visibile di tutti gli aspetti dello scibile e nascono dalla assoluta fiducia dell’uomo rinascimentale di comprensione e di conoscenza universale. I reperti naturali convivono in stretto legame simbiotico con le meraviglie create dall'ingegno umano, uno strenuo tentativo di riprodurre in uno e più ambienti, in un’ansia di dominio e di conoscenza, la totalità dell’esistente. Importante la collezione romana di Michele Mercati e la napoletana di Ferrante Imperato. Le raccolte naturalistiche cinquecentesche si pongono in opposizione alle Wunderkammer italiane e straniere, tese alla ricomposizione esaustiva di tutti gli aspetti della realtà sensibile, come strumenti di conoscenza empirica e di sperimentazione di nuove tecniche e nuovi processi manuali che peraltro utilizzavano e raccoglievano ancora oggetti esclusivamente legati alle categorie del raro e del meraviglioso. Col Seicento queste categorie verranno progressivamente messe in ombra da un atteggiamento verso la natura più analitico che inizia a raccogliere e a studiare anche oggetti comuni e reperti attinenti al quotidiano. Questa relativa e progressiva specializzazione delle raccolte italiane non trova nel Seicento un corrispettivo a livello europeo. Le raccolte naturalistiche italiane, non ancora veri centri di studio o laboratori, sono luoghi dove invece la ricerca, appuntandosi prevalentemente e ancora sui reperti rari, ne indaga a volte la segreta struttura per capirne le leggi interne e un ordine generale al quale ricondurre i singoli fenomeni. Le raccolte naturalistiche e scientifiche del Seicento rispecchiano il faticoso iter dalla meraviglia alla tensione verso un ordine unificante, e una norma interna alle cose che si spieghi i fenomeni e le proprietà. Coacervo in molti casi di oggetti eterogenei, di accostamenti e consonanze improprie e improbabili, esse si pongono un parallelo alle nature morte dell’epoca. Nel Settecento si evidenzia e si codifica la dicotomia fra arte e scienza che concorre alla genesi dei musei d’arte e musei di scienza sorti contestualmente alla settorializzazione e specializzazione delle diverse discipline. I gabinetti di storia naturale e le raccolte scientifiche, non più legate alla formazione professionale del proprietario o da preoccupazioni utilitaristiche, iniziano una vita autonoma. Con l’avventi alla metà del secolo di una nuova piramidale concezione del sapere, entrano inoltre in crisi sia il collezionismo privato sopravanzato e sconfitto da quello dei governanti, che la cultura dell’enciclopedismo e dell'eclettismo. Le raccolte ora differenziate devono concorre alla classificazione razionale del mondo, devono diffondere in una prospettiva utilitaria e collettiva, l’una la scienza servendo alla conoscenza della natura e allo sfruttamento delle risorse utili alla comunità, l’altra l’arte servendo all’affinamento del gusto e alla comprensione dei fenomeni figurativi. Se nel Seicento le collezioni private, specie quelle scientifiche, di cui si auspicava già la fruizione e l’utilizzazione pubblica, avevano offerto indicazioni preziose per razionalizzazione e la storicizzazione dell’esistente e aperto ad un atteggiamento più analitico e specialistico, ponendosi spesso insieme con gli orti botanici come “istituzioni alternativi e complementari alla cultura delle università e delle accademie”, nel Settecento queste accelerano il processo di separazione tra art e e scienza, concorrendo all’interno di quest’ultima alla costituzione e definizione delle varie discipline. Le raccolte settecentesche, quando esaurienti e preordinate con metodo, tendono quindi non solo intelligibile la regolata struttura della natura, ma nell’ambito della istituzionalizzazione e pubblicizzazione del sapere innescato dall’illuminismo e fatto proprio dal paternalismo dinastico, costituiscono una sorta di inventario delle risorse locali e territoriali sfruttabili razionalmente per scopi di pubblica utilità.
LA FORTUNA DEI PRIMITIVI
L’interesse della critica nei riguardi della scoperta e della rivalutazione dell’arte medievale, trova, come è noto, il suo primo punto fermo nel 1926, anno della pubblicazione del saggio di Lionello Venturi sul Gusto dei primitivi. L’inizio dell'apprezzamento estetico per l’arte anteriore a Raffaello viene visto come un fenomeno di portata internazionale che si compie in Italia nella prima metà dell’Ottocento e che si alimenta di istanze preromantiche e di ricerche critiche e storiografiche sia locali che europee, gestite da intellettuali e studiosi desiderosi di nuove norme di rinnovamento artistico. Diversi sia il taglio che l’angolazione del più recente libro del Previtali che rintraccia la genesi della fortuna, non estetica bensì storico-documentaria, dell’arte dei primitivi in Italia, lungo il corso del Settecento in seno all’erudizione regionale, alle analisi filologiche e alla cultura illuminista. Lo Haskell si propone di chiarire un successivo aspetto: i modi e le vie della scoperta in ambito europeo dell’arte del Medioevo che viene recuperata al gusto su vasta scala solo a partire dai primi decenni dell'Ottocento a seguito dell'enorme dispersione e diffusione sul mercato originaria dalle soppressioni napoleoniche, per opera di collezionisti, intenditori e commercianti che si accostano per primi a forme e stili diversi da quelli tradizionali, precedendo le indagini storico- esegetiche e le compilazioni storiografiche. Sulla base di questi testi fondamentali e sui saggi su argomenti parziali che si sono aggiunti in seguito, è possibile seguire l’evoluzione dell’apprezzamento e la diversa considerazione relativa all’arte anteriore a Raffaello. Se al tempo del Vasari le opere dei primitivi erano apprezzate esclusivamente dal punto da vista tecnico e per la loro carica devozionale, nel Seicento, in linea con il profondo rinnovamento storico-grafico e con il riconoscimento della peculiarità delle scuole pittoriche locali, queste vengono utilizzate per avvalorare l’antichità e quindi la nobiltà e la superiorità dei diversi centri regionali italiani. Nel Settecento le spinte e le pulsioni campanilistiche che si mutano progressivamente in tensioni nazionaliste, originano invece una forte, specifica attenzione per la cultura medievale gestita in prima persona dai letterati e dagli eruditi italiani di formazione illuminista portanti al suo recupero, peraltro solo in accezione storico-documentaria. QUesto interesse che non coinvolge ancora il gusto, le categorie di giudizio e l’estetica, sostanzialmente attestate su posizioni classicheggianti, viene allora attuato e reso possibile per via di intelletto e di riflessione critica e non per via sensitiva e intuitiva, e si traduce, diversificandosi dagli approcci delle epoche precedenti, in esami più aderenti documentari esperiti direttamente sui testi e sulle testimonianze concrete di quell’età lontana. Nel primo Ottocento l’interesse storico e l’analisi filologica dei pezzi e dei materiali cede il posto a un apprezzamento di tipo diverso, estetico-critico e di gusto cui concorrono in maniera determinante i conoscitori stranieri. In questa riscoperta di nuove forme d’arte fino allora misconosciute e neglette, il collezionismo italiano, seppure sulla scia e sulla spinta di ricerche e recuperi erudito-letterari, svolse un ruolo importante di promozione e di stimolo propulsore sulla cultura estetica e sulla storiografica europea. Nel Seicento un primo precoce segni di una diversa disponibilità si può registrare in area veneta nella vasta collezione enciclopedica del letterato Girolamo Gualdo Junior. I pezzi più antichi della raccolta annoveravano una sconosciuta Pietà di scuola veronese del 1279 e una tavola raffigurante la Morte di San Francesco (1333). Il possesso di opere dei primitivi non implica ancora un apprezzamenti stilistico e formale, si tratta invece di un interesse sostanziato di campanilismo, volto essenzialmente alla scoperta e alla messa in valore dell'origine, delle emergenze artistiche e delle tradizioni culturali cittadine e regionali. Col Settecento il recupero delle glorie patrie si complica e si arricchisce di nuovi componenti letterarie e storicistiche. Prova di questa mutata prospettiva all’aprirsi del secolo, è la considerazione accordata su scala più larga a tutte le testimonianze dei secoli più antichi. Con il progredire del secolo le istanze dello storicismo e dell'educazione patria si volgono a rintracciare più sistematicamente le radici originarie nel tentativo di abbozzare la fisionomia e l’evoluzione della cultura natia nonché lo sviluppo progressivo delle tradizioni figurative e delle scuole locali. Le testimonianze dell’età romanica e gotica vengono per la prima volta analizzate in maniera diretta e testuale. Utilizzando ancora il modello storiografico vasariano improntato a una visione progressiva ed evoluzionistica del fenomeno artistico, le opere dei primitivi vengono allora esaminate e raccolte per tentare di illuminare attraverso esempi reali e raffrontabili su più vasta scala, lo svolgimento tecnico e storico dell’arte dei diversi centri della penisola. Nel Veneto che appare dalla documentazione esistente in posizione di apertura e di avanguardia, sono documentate alcune collezioni private che per la prima volta in opposizione al gusto corrente, ornamentale e autoesaltatorio, tendono a offrire, scaglionandole cronologicamente verificabili prove dell’arte degli antichi e dei loro progressi operativi e pittorici. L’abate Facciolati, filosofo ed erudito padovano, inizia nel 1751 una raccolta di quadri bizantini e pitture trecentesche, considerate non per il loro valore stilistico e contenutistico, ma in ragione della loro “pittoresca”antichità. Siamo lontani quindi da un apprezzamento del valore intrinseco di queste opere. Diversa appare la situazione romana. A fronte delle precoci, ma isolate ed elitarie aperture verso l’arte dei primitivi e in specie per le sue testimonianze pittoriche registrabili in area veneta dai primi decenni del Settecento, un più diffusi e generalizzato interesse per la cultura del Medioevo era cresciuta a Roma germogliando in clima illuminista sull’erudizione curiale seicentesca, sugli studi cristiani come sugli inizi della nascente disciplina archeologica. I collezionisti di questo settore appartenevano infatti non solo alla classe dei letterati e degli eruditi, ma in massima parta ai vari gradi della carriera ecclesiastica. Coloro che raccoglievano non soltanto distocia membra picturae, ma anche e in speciale modo oggetti tardo-antichi, reliquie paleocristiane, cimeli medievali, erano infatti prelati, abati, cardinali. Esempio: “Museo pittorico” che si segnalava per la larghezza d’intenti e ampiezza di vedute, sopravanzando le contemporanee analoghe iniziative, allo scopo di rappresentare lo svolgimento della pittura dall’avvento del Cristianesimo all’età presente. Se il peso dell’erudizione e della storiografia italiana è stato interpretato come la causa principale e determinante per la formazione del collezionismo dei primitivi, di un altro fattore occorre tener conto: l’importanza cioè dei primi musei sorti nell’ambito del paternalismo e dell’assolutismo che in linea con le programmate istanze didattiche e culturali dell’illuminismo, avevano sancito la necessità di una sostanziale pubblicazione delle raccolte d’arte e di scienza. A Roma il peso dell’erudizione cattolica e della cultura sacra aveva portato allo studio, al restauro e alla raccolta di antichità sia sacre che profane. Clemente XI aveva istituito nel cortile ottagono del Vaticano un piccolo museo ecclesiastico, Clemente XIII aveva inaugurato nel 1734 il Museo Capitolino, Benedetto XIV creato il “Museo sacro” annesso alla Biblioteca Vaticana, tra altri acquista pitture su tavola, per documentare e confermare storicamente e visibilmente le origini del Cristianesimo. A Firenze i musei pittorici e le raccolte sacre romane sia private che legate alle iniziative pali devono aver stimolato l’interesse e l’apprezzamento per l’arte paleocristiana e per la pittura dei primitivi. Raimondo Cocchi, direttore della Galleria degli Uffizi, aveva proposto di costituire una raccolta delle più rappresentative e antiche pitture della scuola toscana. Ricostruire la genesi e lo svolgimento della scuola pittorica locale e che si poneva come premessa del Gabinetto. Il Gabinetti dovette stimolare a sua volta l’interesse non solo dei letterati ma anche degli amatori e dei commercianti, ad accostarsi a un genere nuovo, quello dei primitivi che si andava allora rivestendo di indubbie valenze storiche. Sono documentati numerosi acquisti di pitture primitive da parte dei privati. Una precoce testimonianza di una diversa considerazione nei riguardi dei primitivi, che apre verso una loro valutazione estetica e artistica e verso il riconoscimento delle loro peculiarità stilistiche e creative, si può rintracciare nella Storia pittorica del Lanzi. Il passo relativo ai caratteri distintivi della scuola bolognese del Trecento dimostra una grande apertura mentale nell’individuazione della sua originalità che troverà definitivo riconoscimento critico solo a distanza di più di un secolo. Il recupero storico dei primitivi non fu dunque merito dei collezionisti, ma il portato e il riflesso della più moderna cultura illuminista e delle forze più vive dell’erudizione locale. Non si può considerare peraltro un fenomeno provinciale ne legato esclusivamente a rivendicazioni campaniliste, anche se non si configurò come una netta apertura critica ed estetica, come operarono invece nel Seicento i virtuosi e i dilettanti, sensibili a nuovi indirizzi figurativi non ancora recepiti dalla moda e dal gusto corrente. Il collezionismo dei primitivi, il cui nuovo criterio espositivo in serie progressive è dipendente ma a sua volta condiziona quello dei musei pubblici del Settecento, mantenne sempre una stretta simbiotica correlazione con le conquiste della critica contemporanea. In largo anticipo sulle scelte degli amatori e dei conoscitori stranieri, favorì gli studi e le elaborazioni storiografiche a livello europeo. La sua diffusione appare quindi legata indissolubilmente all’evoluzione e alla crescita della cultura italiana sia laica che ecclesiastica e curiale.
DALLA COLLEZIONE AL MUSEO PUBBLICO
Nel 1618 Federico Borromeo inaugura a Milano l’Accademia Ambrosiana, un’istituzione pubblica destinata a incoraggiare lo studio e a promuovere la creazione di un certo tipo di pittura e di scultura per venire incontro ai nuovi dettami ideologici auspicati dal Concilio di Trento. Il cardinale Borromeo era infatti pienamente consapevole della straordinaria importanza della cultura e in particolare delle arti visive, veicolo immediato e tramite di comunicazione per i fedeli, per la difesa e come baluardo della civiltà cristiana e del cattolicesimo assediato dalla riforma protestante. Progetta e attua quindi un’istituzione culturale, in una città priva di strutture “pubbliche”, atta a favorire un’arte secondo un’estetica militante gestita e programmata dalla Chiesa, tesa a raggiungere un’egemonia sociale e intellettuale. Dona a questo scopo la sua biblioteca e la sua ricchissima collezione. L’Accademia del Borromeo si configurava quindi negli intenti del suo ordinatore, come una macchina pedagogica programmata e programmabile dalla Chiesa e come uno strumento efficace e diretto di coinvolgimento e ammaestramento delle coscienze. Nei suoi triplici scopi, conservativi e didattico-scientifici, essa prefigura assai precocemente, incarnandole di fatto, le funzioni essenziali del museo moderno. Gli obiettivi dell'istituzione sono illustrati dal cardinale in un operetta, il Musaeum uscita nel 1625 che assume un duplice aspetto e può essere letta perciò secondo una duplice chiave di lettura. È un catalogo ragionato di tutte le opere ivi conservate, ma al contempo può essere vista come una giustificazione necessaria per un uomo di chiesa, dell’acquisto e del possesso di oggetti artistici di rilevante valore sia culturale che commerciale. Allo stesso modo di Suger, che giustifica il possessp di oggetti preziosi affermando che la visione della bellezza materiale induceva il fedele a trascendere, elevandosi verso la bellezza immateriale ed eterna. Il cardinale Borromeo sosteneva che la sua raccolta era tesa e indirizzata al recupero e alla conservazione delle grandi opere del passato dagli effetti distruttivi e irrimediabili del tempo. Nel Settecento gli obiettivi di un allargato coinvolgimento dei cittadini divengono invece imprescindibile per l’influsso e l’incidenza di nuovi indirizzi culturali tesi a una coscienza e a una comprensione razionale della realtà. Si fa infatti progressivamente strada la consapevolezza sempre più profonda del diritto dei cittadini e del conseguente, pressante dovere dei proprietari, dei governanti, dei monarchi, e poi dello stato, ad aprire alla fruizione pubblica sia le collezioni private che i musei dinastici. Questi divengono in linea con le istanze illuministiche, insieme con i teatri, con le biblioteche e con le accademie, gli strumenti principali di formazione intellettuale dei nuovi ceti borghesi e di diffusione di una cultura sempre più allargata e comunitaria. In questo secolo in cui non a caso avviene il passaggio irreversibile dal collezionismo privato alla gestione pubblica del patrimonio storico-artistico dei singoli stati, il museo acquista una straordinaria importanza come mezzo capace di incidere sulla realtà sociale. L’istituto museo, forte di questa acquisita consapevolezza e rilevanza culturale, conosce allora una spinta irrefrenabile che lo porta a un deciso mutamento dei suoi assetti, costitutivi ed organizzativi. La sede delle raccolte si distacca dalle abitazioni dei proprietari e dei governanti, ciò produce una cesura irrecuperabile tra esperienza reale e collezioni ma concorre altresì all’elaborazione e alla progettazione di edifici e se stanti, funzionali e rappresentativi. Le collezioni inoltre non si organizzano più secondo le esigenze culturali ed estetiche del singolo, tendono ad acquistare invece un valore didattico universale recepibile dalla comunità e una valenza più generale; di conseguenza mutano anche i criteri di allestimento e di esposizione che sono improntati al desiderio di illustrare esaustivamente un singolo settore dello scibile e a scelte selezionate e programmate dei materiali. Contestualmente all'avventura e codificata diversificazione fra arte e scienza, i musei documentano i diversi campi delle conoscenze, frazionandosi a tal scopo in nuove tipologie funzionali al loro apprendimento. I risultati e le conquiste della erudizione e della storiografia regionale, divengono inoltre insostituibile premessa teorica e stimolo operativo al collezionismo pubblico. Come il Museo Epigrafico di Verona; il suo ordinatore e il Maffei, che sapeva dell’importanza dello studio delle iscrizioni e delle epigrafi per la ricostruzione dell’arte e della civiltà classica e della conseguente necessità di una loro raccolta. Le epigrafi come i monumenti figurati sono considerate per la prima volta fonti e documenti storici essenziali, al pari delle testimonianze letterarie, per la ricerca storiografica e scientifica. Il Museo Epigrafico costituisce nel suo assetto e nelle sue funzioni il vero prototipo del museo moderno, anticipando le più vaste scenografiche realizzazioni della seconda metà del Settecento. La Notizia del nuovo museo di iscrizioni pubblicata dal Maffei nel 1720, costituisce il primo saggio di letteratura museologica di respiro e di livello europeo, illustrando i reali e nuovi criteri di esposizione e di classificazione del materiale. Assolutamente nuovi erano i criteri di esposizione e l’allestimento delle epigrafi: venivano presentate come una esemplificazione delle diverse esperienze paleografiche suddivise in classi (greche, etrusche…) e in sequenze storico-cronologiche sovvertendo per la prima volta il criterio ornamentale e simmetrico che aveva informato le raccolte precedenti. Le epigrafi vennero inserite lungo le pareti di un portico dorico, la sistemazione architettonica fu progettata come struttura a stante dal veronese Alessandro Pompei che utilizzò per la prima volta lo stile neoclassico perché consono ai pezzi esposti e in funzione di questi. Il Museo maffeiano preannuncia le teorie di Diderot nei riguardi del museo, struttura pubblica in grado di offrire vantaggi differenziati per la comunità dei cittadini. Anna Ludovica di Medici, l’ultima discente dei Medici, trasferisce alla nuova dinastia dei Lorena l’immenso patrimonio avito con l’obbligo che esso resti in perpetuo uso della città. Il Patto di Famiglia rivela una concezione sempre più allargata e collettiva del patrimonio artistico che aveva trovato una prima formulazione giuridica nel diritto romano, ma allo stesso tempo si può leggere come uno dei vari provvedimenti di tutela e di salvaguardia atti a impedire la dispersione e il degrado dei tesori della comunità. Le motivazioni della cessione dei beni di famiglia alla città svelano una visione assai articolata e moderna dei beni culturali e delle molteplici valenze di questi; sono sentiti come sorgente di crescita intellettuale e didattico-scientifica dei cittadini, come richiamo turistico per gli stranieri ma anche come fonte di notevoli vantaggi economici e commerciali per Firenze. Gli Uffizi, sede di massima concentrazione delle collezioni medicee, divengono di fatto e di diritto, una istituzione pubblica affidata alla cura e alla gestione della nuova dinastia dei Lorena, ma il cui patrimonio è proprietà della comunità. In questo tempo le collezioni e i musei perdono progressivamente il loro carattere originario; non più luogo di diletto personale, materia di godimento estetico, ornamento e celebrazione dinastica s strumento di elevazione sociale, divengono raccolta di fonti, centri di cultura e di diffusione del sapere. Anche le collezioni private si sentono investite da un’analoga funzione didattico- scientifica considerando ormai come imprescindibile la necessità di una fruizione più allargata da parte degli artisti e degli studiosi. La raccolta di Filippo Farsetti fu la base fondamentale per la formazione classica di molti artisti come il Canova. Il Farsetti appartenevano a quel ceto progressista di mecenati e conoscitori che vedevano nella promozione e protezione delle arti un servizio pubblico destinato al bene della patria. Con la seconda metà del Settecento il paternalismo illuminato aveva di fatto acquisito e divulgato alcune concezioni museologiche enunciate ai primi del secolo. Si sentiva perciò come una necessità imprescindibile la sostanziale pubblicizzazione da parte dei sovrani delle raccolte di arte e di scienza. Giò origina, per una migliore e più cosciente fruizione, un grandioso sforzo di organizzazione di catalogazione del materiale diviso per scuole e per cronologia progressiva, che è alla base del primo recupero storico- documentario dell’arte dei primitivi, nonché un grande fervore dell’architettura museografica che si attua mediante la ristrutturazione e l’adattamento di vecchi edifici come mediante la costruzione ex-novo di spazi museali che utilizzano, funzionalizzandolo, lo stile neoclassico. Il collezionismo privato appare nel Settecento orientarsi progressivamente verso una generalizzata prospettiva scientifico-didattica e i musei pubblici, gestiti dal paternalismo illuminato, espressione e affermazione del potere dei sovrani, tendono al servizio delle diverse esigenze della comunità civile. Esempio: Uffizi, Museo Epigrafico di Verona… La rivoluzione francese il regime napoleonico spezzano irrimediabilmente queste conquiste così avanzate della cultura italiana più progressista. La conservazione e la gestione del patrimonio divengono legali. Si affermava in sostanza per la prima volta il carattere integralmente pubblico del patrimonio storico-artistico affidato all'amministrazione e alle cure esclusive dello stato. Tale progressiva concezione comunitaria venne peraltro attuata con la forza delle armi secondo una duplice direttiva operativa che produsse effetti ugualmente funesti. La legge di soppressione e di incameramento dei beni ecclesiastici sia artistici che monumentali che produssero l’eversione e la perdita di molti contesti culturali nonché il degrado irreversibile e il selvaggio riuso architettonico delle chiese e dei conventi, portarono in Francia alla effimera realizzazione del Musée de Monumentes Français di ALexandre Leonio, suggestiva anticipazione del museo storico e d’ambientazione, e in Italia alla costituzione dei musei di Milano, Bologna, Verona e Venezia. Le requisizioni delle opere d’arte dai paesi conquistati e il loro invio al Louvre, modello irraggiungibile del trionfalismo museale ottocentesco, portarono invece a un mutamento della geografia artistica dei singoli paesi europei, seppure durante l’era napoleonica, a una accelerazione dei processi conoscitivi della storia dell’arte e della loro conseguente elaborazione storiografica. La politica napoleonica delle requisizioni, in sostanza una massiccia opera di rapina legalizzata e istituzionalizzata dai trattati e imposta con la forza, che colpì in primo luogo l’Italia, non mancò suscitare le veementi proteste di molti intellettuali. Le requisizioni, spezzando l’indissolubile legame tra arte italiana e la sua entità storico- geografica diminuiscono la sua fruibilità, impoveriscono la comunità e distruggono le suggestioni, le corrispondenze mentali e le capacità associative che costituiscono la componente essenziale del godimento e del piacere estetico. Tre diversi correttivi sono stati elaborati nel corso del tempo per tentare di ovviare alla perdita del contesto. Uno consiste nel tentativo di sostituire ai contesti originari che le opere perdono quando immesse nei musei, altri contesti fittizi e artificiali ottenuti sia mediante il ricorso ad una architettura d’ambientazione, sia mediante l’uso evocativo di arredi d’epoca; dalle period-rooms americane, alle ricreate abitazioni dei collezionisti privati, alle raccolte di arte applicata. Le opere, avulse dal luogo d’origine, perdono la loro valenza estetica. I musei sorti dalle requisizioni napoleoniche avevano perso quello stretto legame col passato e con la storia locale nonché la loro connivenza con l’ambiente e con i luoghi d’origine che avevano costituito invece il modello e il cardine della museografia settecentesca. Nell’Ottocento, sull’esempio del Louvre, divengono simboli appariscenti del prestigio nazionale. Né le grandi mostre internazionali della tecnica e della produzione industriale riescono in Europa a ricucire il progressivo distacco tra pubblico e istituzioni, né i musei civici e locali sorto in Italia per le appassionate pulsioni patriottiche dei privati, riescono a impedire la stretta avvinghiante del centralismo e della burocratizzazione delle strutture. Nel Novecento la fisionomia del museo è profondamente mutata: della conservazione il suo obiettivo si è spostato verso quello della comunicazione visiva a tutti i livelli, della più vasta educazione e promozione culturale e verso il coinvolgimento totale dei visitatori. Se questi scopi non sono stati per ora raggiunti, ciò deriva dal distacco tra cultura degli ordinatori del museo e quella dei suoi fruitori, ancora per la massima parte incapaci senza mediazioni di contestualizzare gli oggetti esposti e di decodificare il significato dei peculiari linguaggi artistici. Comunanza di cultura, identità di interessi, scambi d¡fecondi tra letterati e artisti che invece hanno connotato sia la museografia settecentesca, sia il fenomeno del collezionismo, proteiforme, insostituibile e per sempre perduto raccordo fra spirito del tempo e i suoi protagonisti.