(1508-1580)
Figlio del mugnaio Pietro della Gondola e di Marta detta "la zota", Andrea nasce a Padova
nel 1508. Nella città del Santo egli compie le sue prime esperienze come scalpellino nella
bottega di Bartolomeo Cavazza da Sossano, che sembra avergli posto condizioni
particolarmente dure. Nel 1542, infatti, dopo un primo tentativo fallito, riesce a fuggire a
Vicenza: qui entra nella bottega di Pedemuro San Biagio, tenuta da Giovanni di Giacomo
da Porlezza e Girolamo Pittoni da Lumignano, a quell'epoca scultori molto famosi a
Vicenza. Tra il 1535 e il 1538 avviene l'incontro che cambierà radicalmente la sua vita:
mentre lavora nel cantiere della villa suburbana di Cricoli conosce Giangiorgio Trissino,
poeta e umanista, che lo prenderà sotto la sua protezione. Sarà proprio lui a
soprannominarlo Palladio, a guidarlo nella sua formazione culturale improntata
soprattutto sullo studio dei classici, a condurlo, infine, più volte a Roma. Qui Andrea si
trova per la prima volta a contatto con le architetture che aveva imparato ad amare, può
osservare dal vivo i monumenti imperiali, ammirandone la bellezza e studiandone i
materiali, le tecniche costruttive, i rapporti spaziali. Ma i viaggi col suo mecenate
significano anche l'incontro con i "grandi" del tempo: Michelangelo, Sebastiano Serlio,
Giulio Romano, Bramante. Intorno al 1540 inizia intanto la sua attività autonoma di
architetto, con opere come il Palazzo Civena a Ponte Furo (Vicenza) e la villa Godi a
Lonedo, mentre nel 1549 si situa l'episodio che lo consacrerà definitivamente: la
ricostruzione delle Logge della Basilica di Vicenza in sostituzione di quelle
quattrocentesche. Il progetto del Palladio ha la meglio su una concorrenza decisamente
agguerrita (erano stati fra gli altri consultati Serlio, Sansovino, Sanmicheli, Giulio
Romano). Da allora le nobili famiglie vicentine e veneziane si contenderanno l'attività del
Palladio. Inizia così il periodo più intenso dell'attività palladiana, che si concretizzerà in
opere di assoluta bellezza, dal palazzo Chiericati alla villa Barbaro di Maser, dalla
"Malcontenta" a Mira alle chiese veneziane del Redentore e di S. Giorgio Maggiore, fino
alla notissima Rotonda. Nel 1570, inoltre, Palladio pubblica il trattato I quattro libri
dell'architettura, espressione della sua cultura, dei suoi ideali ed anche della sua concreta
esperienza. Negli anni '70 è a Venezia in qualità di "proto", cioè consulente architettonico,
della Serenissima. Tra febbraio e marzo del 1580 vengono intanto avviati i lavori per la
costruzione del teatro Olimpico, edificato su richiesta degli Accademici Olimpici (lo stesso
Andrea era stato nel 1556 socio fondatore) per la recitazione della tragedia classica.
Tuttavia, prima che l'opera sia completata il Palladio si spegne il 19 agosto 1580.
Questo l’itinerario storico raccontato in tredici sale. Elemento costante di ogni sala è il
rapporto fra l’edificio di villa e il proprio contesto storico, sociale, economico e culturale.
La vita che ruotava attorno alle Ville è descritta tramite le immagini del paesaggio
perduto, della vita e del lavoro contadino.
Il percorso espositivo continua al di fuori del Museo. I visitatori possono accedere, con lo
stesso biglietto, alle più belle ville del Veneto: dalla casa di Petrarca ad Arquà alla "villa
palladiana ideale" per gli Emo a Fanzolo, dalla villa-tempio Badoer di Fratta Polesine a
villa Valmarana "ai Nani" di Vicenza, da villa Caldogno a villa Contarini a Piazzola, sino al
"barco contemporaneo per la vita e per la morte": il complesso Brion di Carlo Scarpa ad
Altivole.
I contenuti
Di Guido Beltramini e Howard Burns, curatori della mostra
"Andrea Palladio e la Villa Veneta" sarà un omaggio - ma non acritico - alla villa nel
Veneto. Essa non riguarda solo l’architettura, ma un intero modo di organizzare la
produzione, un’intera società, un’intera cultura. Confermerà, con pochi riferimenti chiave
(la villa a Chiswick di Burlington, l’opera di Cameron per Caterina la Grande di Russia, la
residenza di Jefferson a Monticello), quanto importante è stata la villa veneta per
l’architettura (architettura europea, americana, mondiale), spesso in una relazione di
dialogo più che di semplice influenza a senso unico. Si vedrà che la villa è sempre stata
associata molto strettamente alla pittura, alla cultura e alla vita economica e sociale del
Veneto, e all’organizzazione della sua campagna.
La villa veneta si affermò grazie a una richiesta crescente di prodotti agricoli; alla
disponibilità di terra adatta alla coltivazione intensiva di grano e vite; alla domanda e ai
prezzi contenuti della seta grezza, prodotta principalmente nei possedimenti; alle
condizioni di pace e di relativa sicurezza rurale, garantite dallo Stato veneziano; alla
presenza di proprietari terrieri dal fiuto imprenditoriale, pronti a controllare il rendimento
e il lavoro dei loro fittavoli e a investire le proprie risorse ed energie per incrementare la
produzione; al buon senso di questi proprietari, che in generale non forzarono lo
sfruttamento dei fittavoli fino al punto di provocare ribellioni o vendette; e soprattutto a
una cultura che vedeva la vita di campagna come meno logorante e più salutare di quella
di città, in grado di contribuire maggiormente alla pace dell’anima e alle attività del
pensiero.
È Andrea Palladio ad aver inventato la villa moderna, e con essa un nuovo modo di vivere
in campagna. Molto più dei suoi predecessori, Palladio ha saputo mettere in accordo
esigenze funzionali, strutturali, estetiche, per creare case a un tempo comode e belle. Per la
sua architettura domestica, la villa costituiva un vero laboratorio, dove egli era meno
vincolato dal sito o da preesistenze di quanto non fosse nei centri urbani. Numericamente,
i progetti di villa costituiscono la gran parte della sua produzione, e ad essi deve larga
parte della sua fama.
Anche se non fosse rimasto nessun edificio di Palladio, egli sarebbe ugualmente annoverato tra
gli architetti che esercitarono il maggior influsso sui posteri semplicemente per aver pubblicato i
Quattro Libri dell'Architettura. Con la loro uscita nel 1570, Palladio aveva creato un nuovo genere di
trattato architettonico, che non riscriveva Vitruvio né intendeva discutere l'architettura su un piano
puramente teorico, come avevano fatto gli altri trattati del Rinascimento. I Quattro Libri, invece,
offrivano una sistematica descrizione dell'architettura, a partire dai fondamenti stessi, assieme ai
progetti di case e di ponti di Palladio, e alla ricostruzione dei più begli esempi di templi antichi.
Sebbene sia incompleto - erano in progetto almeno altri due libri da aggiungere ai primi quattro - il
trattato mette in evidenza le maggiori qualità di Palladio: l'approccio innovativo all'architettura
privata e la profonda conoscenza dell'antico. I Quattro libri dell'architettura videro la luce a Venezia
nel 1570. Benché l'autore avesse ricevuto in qualche modo un'educazione umanistica e condividesse
gli ideali dei suoi maestri e patroni, non sfuggendo all'influenza della dottrina aristotelica, l'opera
non è propriamente un frutto dell'umanesimo: sull'erudizione e sulla tradizione classica prevale
l'atteggiamento pratico e tecnico, che si esprime in un linguaggio stringato ed efficace attraverso il
quale si manifesta il credo più profondo del grande architetto. Le pubblicazioni di architettura
crebbero notevolmente di numero nel Cinquecento. Nel 1512 il veronese Giocondo pubblicò un testo
migliorato di Vitruvio, illustrato da alcune mediocri xilografie; dieci anni dopo uscì a Milano, a cura
di Cesare Cesairiano, una elaborata traduzione italiana con più di cento illustrazioni.
Il fatto che Palladio ritenesse importante che l'architetto sapesse trarre giovamento dall'opera dei
suoi predecessori rispecchia quella visione storica ed empirica dell'architettura che rispondeva alle
idee del Barbaro e di Aristotele, che consideravano ogni opera umana in via di sviluppo e secondo i
quali si poteva solo imparare dalle esperienze proprie e da quelle degli altri; l'architetto deve quindi
comprendere l'architettura del presente attraverso le esperienze del passato e proiettarla, così
perfezionata, nel futuro. Palladio inoltre confida in una dottrina dell'arte, in precetti e regole, ed ha
una certa sfiducia verso la fantasia incontrollabile. Le variazioni e le innovazioni sono certamente
necessarie, ma non nella forma di novità radicali, bensì come passi ben meditati verso una più
grande perfezione dell'arte; infatti, come la natura è semplice in tutte le sue opere, così la buona
architettura deve, per conseguenza, avere la stessa semplicità. Sebbene egli non vi faccia
esplicitamente cenno, gli scopi classici si propone sono resi anche più chiari dalla sua decisione di
scrivere in lingua volgare e di evitare le parole complicate e i termini tecnici, a parte quelli
comunemente impiegati dai costruttori, poiché in tal modo avrebbe potuto allargare la cerchia dei
suoi lettori a tutti i livelli della società, dai gentiluomini dilettanti di architettura agli architetti
professionisti che non sapevano il latino. L'esposizione del primo libro riflette fedelmente il
funzionamento della mente di Palladio. Scritto con chiarezza e ben organizzato, il discorso muove
scorrevole dal generale al particolare, evitando teorie e speculazioni astratte e focalizzandosi invece
sull'empirico. La triade vitruviana di durata, utilità e bellezza è integrata da consigli specifici sulla
pratica costruttiva; Palladio ha a tal punto assorbito precetti di Vitruvio, di Leon Battista Alberti e di
una schiera di autori romani che può inserire le loro osservazioni nel proprio discorso. La sua
tendenza alla pratica appare evidente nella riduzione a poche pagine concise dei tre libri di Alberti
sulla fase preparatoria della costruzione e sulla scelta dei materiali. Il nucleo centrale del primo
libro è la trattazione degli ordini, e qui il modo con cui Palladio affronta il tema può essere visto
come il punto culminante dei tentativi di razionalizzare l'uso classico delle colonne. I cinque ordini
così come sono presentati da Palladio, rappresentano una codificazione abbastanza recente, soltanto
nel Cinquecento entrò nell'uso comune il senso corretto delle proporzioni e quelle che si potrebbero
chiamare le identità degli ordini. Nella sua lettera a Leone X Raffaello definì i cinque ordini così
come li useranno gli architetti successivi. Palladio, d'altra parte, giunge al punto di affermare: "Io
porrò partitamente di ciascuno di questi [ordini] le misure, non tanto secondo che n'insegna Vitruvio, quanto
secondo c'ho avvertito ne gli edificij Antichi". Un breve testo pubblicato dall'architetto bolognese Jacopo
Vignola nel 1562 esercitò un influsso più decisivo sulla presentazione degli ordini da parte di
Palladio. In ogni caso Palladio aggiunge le finezze a lui proprie nella gerarchia dei cinque. Al
sistema di proporzioni adottato da Serlio, Vignola e Palladio, Vitruvio offriva poche idee chiare. Egli
prescriveva proporzioni di 1:7 (tra diametro e altezza) per gli ordini tuscanico e dorico, di 1:9 per lo
ionico, ma non prendeva in considerazione l'ordine composito e il corinzio. Palladio e i suoi
immediati predecessori furono guidati dalle proprie tendenze estetiche al momento di trattare
questo punto. Serlio diede proporzioni di 6, 7, 8, 9 e 10 per l'altezza degli ordini tuscanico, dorico,
ionico, corinzio e composito, mentre Vignola consigliava 7, 8, 9, 10 e 10 per la stessa sequenza.
Palladio adottò un percorso diverso. Egli seguì la regola di Vitruvio per gli ordini tuscanico e ionico
(cioè rispettivamente 1:7 e 1:9), ma modificò l'ordine dorico a 1:7½ e graduò gli ordini corinzio e
composito rispettivamente a 1:9½ e 1:10. Palladio non solo presenta gli ordini come un insieme più
chiaro di quanto non lo fosse nell'architettura classica ma, collocando il composito all'apice dei
cinque ordini, segue anche una tendenza generale del pensiero architettonico del Cinquecento,
sebbene le testimonianze dell'antico fossero, anche in questo caso, equivoche.
Palladio mise insieme il suo sistema mediante lo studio dei porticati dei templi oltre che
attraverso una lettura creativa del testo di Vitruvio, e nelle tavole in cui illustra i cinque ordini fa in
modo di presentarne una visione progressiva, che va dal tozzo "toscano" al composito. Le tavole di
Palladio forniscono una buona serie di vedute dettagliate e complete di ciascun ordine, una
caratteristica, questa, che rispecchia le conclusioni personali dell'autore sulle forme migliori da lui
utilizzate.
Il secondo libro rappresenta una certa novità fra i trattati pubblicati a quel tempo poiché qui
sono gli edifici di Palladio stesso a occupare la scena. All'inizio del secondo libro Palladio afferma:
"... Io sarò tenuto molto avventurato, avendo ritrovato gentiluomini di così nobile e generoso animo et
eccellente giudizio, c'abbiano creduto alle mie ragioni e si siano partiti da quella invecchiata usanza di
fabricare senza grazia e senza bellezza alcuna". Il secondo libro è contemporaneamente una
testimonianza di gratitudine e stima ai suoi mecenati e una celebrazione del suo genio, ed è
l'aristocrazia vicentina che inevitabilmente si profila imponente nelle opere illustrate. Sono le
persone che hanno reso possibile la sua carriera, perciò questa parte dei Quattro Libri si può leggere
come un peana alla sua città adottiva. Sparse tra i progetti di case di città e di campagna vi sono le
ricostruzioni dell'antica architettura privata, che sviluppano il discorso di Vitruvio ma lo presentano
in forma contemporanea riconoscibile. La discussione sugli atrii a colonne consente a Palladio
d'introdurre il progetto del convento della Carità, che egli ovviamente aveva concepito come la
creazione di una nuova casa romana. In maniera analoga una villa romana è presentata nel
sedicesimo capitolo in contrapposizione all'ambizioso progetto di villa Thiene a Quinto e di villa
Sarego a Santa Sofia. Così il dialogo implicito tra l'architettura antica e quella moderna è reso
esplicito mediante l'accostamento dei progetti di Palladio e delle sue ricostruzioni dall'antico. Inoltre
il libro lascia trasparire i segni dei mutamenti di programma dell'ultimo minuto, come quando
Palladio, alla fine del libro, aggiunge un certo numero di progetti non realizzati, contraddicendo
l'originaria intenzione di affrontare soltanto la trattazione di edifici effettivamente costruiti. Anche
qui il suo proposito aveva probabilmente un duplice aspetto: da una parte attirava l'attenzione sulle
ultime idee di Palladio in fatto di architettura privata, mentre dall'altra sottolineava i suoi stretti
legami con le classi dominanti a Vicenza e Venezia. Le Citazioni del secondo libro fanno spesso
sorgere questioni di affidabilità. Il problema fu sollevato per la prima volta alla fine del Settecento
da Bertotti Scamozzi, che misurò gli edifici di Palladio e riferì le notevoli differenze esistenti tra le
tavole dei Quattro libri e le opere di Palladio rimaste. Più recentemente la polemica attorno alle
illustrazioni si è polarizzata tra coloro che respingono le xilografie come totalmente inaffidabili e
quelli che le vedono come la spia delle reali intenzioni dell'architetto, sebbene duramente
compromesse in fase d'esecuzione. Certamente vi sono molti problemi con le xilografie, alcuni di
poco conto, altri più seri, e per ogni resa accurata del progetto ve ne sono quattro o cinque che
differiscono vistosamente. Queste discrepanze divennero più evidenti nel Settecento, quando i
turisti incominciarono a visitare gli edifici costruiti da Palladio. Nelle tavole che illustrano i palazzi
Porto, Thiene e Valmarana ci vengono mostrati progetti molto gonfiati rispetto agli edifici realmente
costruiti; la stessa cosa si può dire delle ville Thiene a Quinto, Sarego a Santa Sofia e Trissino a
Meledo per menzionare soltanto i casi più vistosi. A villa Godi è attribuito un frontone, e la sua
pianta si allarga ben oltre i limiti del terreno effettivamente disponibile, mentre alla villa Pisani di
Bagnolo è aggiunto un portico dorico che stona con la facciata posteriore così come fu costruita.
Mentre alle xilografie si possono contestare questi e altri difetti, un completo rifiuto di esse, per
quanto inaffidabili possano essere nei particolari, ci priverebbe di un elemento essenziale per la
comprensione dei processi mentali di Palladio. Esse sono innanzitutto opere sussidiarie che
"fotografano" le idee architettoniche di Palladio negli anni appena precedenti la pubblicazione del
suo trattato. Sarebbe un errore aspettarci, da un'opera come i Quattro Libri, degli standard di
veridicità pari a quelli contemporanei. Il secondo libro, sebbene fosse una celebrazione di Vicenza e
della perspicacia dei committenti dell'architetto, era anche indirizzato a un pubblico che
difficilmente poteva avere conoscenza diretta degli edifici illustrati. Le incongruità delle tavole dei
Quattro libri si possono meglio spiegare con il fatto che l'architetto progetta le sue opere con un
occhio alla realtà e l'altro all'ideale che trova espressione nel suo trattato. Le ville ed i palazzi di
Palladio furono anche concepiti in modo tale da poter essere costruiti un po' alla volta, e molti di
essi non andarono mai oltre la fase iniziale. A sottolineare l'affinità culturale ed artistica col Barbaro,
Palladio riprese nei Qualtro Libri il commento dell'umanista al secondo capitolo del trattato di
Vitruvio, ove si tratta delle sei categorie nelle quali consiste l'architettura: ordinatio, symmetria,
dispositio, eurythmia, decor, distributio. La prima categoria è l'ordine, il che significa che l'architetto
deve badare a che un solo modulo governi l'intera costruzione, ed ogni dettaglio sia un prodotto di
questo modulo. Il modulo è la misura in base alla quale le parti possono accordarsi tra loro e col
tutto.
Il quarto principio che l'architetto deve seguire, quando la materia assuma forma, è l'euritmia: il
Palladio interpreta, allo stesso modo del Barbaro, il concetto secondo cui la forma va riferita
all'aspetto. Per aspetto si può intendere, da un lato, semplicemente la facciata (nel tempio l'aspetto è
dato dal numero delle colonne e dall'ampiezza degli intercolumni), dall'altro, anche il modo
particolare con cui l'architetto modella la sua fabbrica. La quinta categoria, della quale Vitruvio e
Barbaro parlano, è il decoro; e il Palladio inizia il suo Secondo Libro con un capitolo sul decoro. Tale
vocabolo significa, di certo, anche la decorazione, ma più di questo. Palladio lo interpreta come "la
convenienza, che si deve osservar nelle fabriche private", cioè tutto quello che fa una casa conveniente alla
qualità del committente; la magnificenza di una casa, sia in città, sia in villa, non è dunque un valore
a sé, ma dev'essere in relazione alla magnificenza del padrone di casa. Il sesto e ultimo valore,
secondo il Barbaro è la distribuzione: qui è ammessa la discussione su tutti gli aspetti pratici, per
esempio quali spazi debbano assolutamente trovarsi nell'edificio, quale materiale da costruzione sia
necessario, e non meno importante, come si debba fare il calcolo delle spese. Il terzo libro tratta temi
urbanistici e, nel modo in cui sono trattate strade, ponti e piazze, si fonda largamente sul quarto
libro di Leon Battista Alberti. Palladio evita di sviluppare gli argomenti del più vecchio scrittore, ma
mostra il suo tipico acume archeologico nella minuziosa riflessione sulle strade romane,
specialmente sulla via Ostiense, che univa Roma a Ostia. Nella sua trattazione dei ponti Palladio
utilizza la stessa definizione che ne dà Alberti, cioè di una strada sull'acqua. Egli aggiunge anche che
i ponti dovrebbero essere costruiti con la stessa attenzione all'utilità, alla durata e alla bellezza che
informa gli altri progetti edilizi. Anche qui l'unico capitolo dedicato da Alberti a questo argomento è
ampliato da Palladio, in questo caso in dodici capitoli, che costituiscono la più ampia trattazione
dell'argomento prima del Settecento. Palladio ricalca la distinzione albertiana tra ponti di legno e
ponti di pietra, ma la sezione dedicata ai primi è molto più particolareggiata a causa delle sue
numerose commissioni in questo campo. I ponti di pietra sono tendenzialmente modellati sul ponte
di Augusto a Rimini, e la cosa notevole è che il famoso progetto del ponte di Rialto dimostra la
stessa tendenza al monumentale che si ritrova nella rielaborazione di alcuni palazzi e complessi di
villa di Palladio. Vitruvio e Alberti sono le pietre di paragone per la descrizione dei fori classici e dei
loro edifici, e questo argomento appare come logica estensione della discussione sulle strade e sui
ponti. L'accenno alle basiliche consente a Palladio d'introdurre l'equivalente del suo tempo, sotto la
forma del palazzo della Ragione di Vicenza, che egli chiama Basilica. In questo modo continua il
confronto tra l'antico e il moderno già utilizzato nel secondo libro e nelle precedenti descrizioni di
ponti, ma la presentazione della Basilica vicentina costò a Palladio molta fatica, come testimoniano i
disegni più volte corretti. Palladio colloca la sua opera nel contesto della tradizione dei palazzi
pubblici veneti, rifacendosi alle strutture analoghe esistenti a Padova e a Brescia. Dopo la
discussione sulla Basilica, Palladio dedica le pagine finali alla palestra.
Il quarto e ultimo dei Quattro Libri è meno conosciuto del primo e del secondo, ma la fama di cui
godette Palladio nei secoli scorsi si fondava sì sui palazzi e le ville da lui costruiti, ma anche sulla
sua ricostruzione di antichi templi nel quarto libro. Il tema principale di questo libro sono infatti i
templi, un argomento considerato dall'architetto una sorta di ponte di collegamento con gli altri libri
sull'antichità e sulla sua propria architettura. Palladio scelse di concentrare l'attenzione sui templi
poiché si trattava di opere che potevano trovare termini di confronto nell'architettura ecclesiastica
del suo tempo e perché qualcuno di essi, come il Pantheon, restava uno dei suoi primi amori nel
campo degli edifici classici. Inoltre il carattere delle sue ricostruzioni consentiva a Palladio di
esprimere la propria creatività, dimostrando di possedere una conoscenza dell'antico ben superiore
a quella dei suoi più colti contemporanei. Palladio riteneva che le chiese fossero gli edifici più
importanti di una città, e così la sua discussione sui templi deriva logicamente dall'aver egli preso in
considerazione, nel libro III, gli edifici pubblici e le piazze. Vengono discusse la collocazione e la
forma dei templi, e Palladio esprime la sua preferenza per la pianta circolare, che è la più bella, la
più uniforme, la più capace e perfetta, quella che dimostra l'unità e l'infinità del Creatore. Palladio
offriva al pubblico le sue ricostruzioni di templi antichi non solo per lasciare traccia del proprio
lavoro di archeologo, ma anche per illustrare come le chiese moderne potessero essere progettate in
modo tale da evocare lo stesso reverente timore e l'ispirazione suscitati dai templi antichi. In realtà
egli s'indignava pensando quanto i templi pagani fossero superiori alle chiese della fede cristiana,
indicando probabilmente in tal modo la propria insoddisfazione nei confronti di molta edilizia
ecclesiastica contemporanea e del suo retaggio medievale. La struttura del quarto libro segue
schematicamente questo modello: in primo luogo l'illustrazione degli edifici di Roma e dintorni, poi
di quelli esistenti in Italia, e infine di alcuni situati fuori d'Italia. I criteri seguiti per l'inclusione nel
libro erano che le strutture prese in considerazione fossero dei templi e che illustrassero il maggior
numero possibile di ordini. Tutti i disegni furono rivisti negli anni sessanta, quando le misure
furono uniformate e gli alzati di opere come il foro di Nerva e il tempio di Clitumno furono
trasformati da prospettici in ortogonali. Uno degli elementi più ragguardevoli del quarto libro è
quanto esso ci dice della perfetta conoscenza di Palladio dell'architettura romana.
L'antichità, per Palladio, era la pietra di paragone o un insieme di regole e, come egli scrisse nel
primo libro, "... benché il variare et le cose nuove à tutti debbano piacere, non si deve però far ciò contra i
precetti dell'arte, e contra quello, che la ragione ci dimostra; onde si vede che anche gli antichi variarono: né
però si partirono mai da alcune regole universali et necessarie dell'arte". Egli riconobbe e addirittura
illustrò alcuni aspetti di questa varietà (peraltro da lui concepita entro limiti saldamente definiti),
come il capitello con i cavalli alati del tempio di Marte Ultore, che Palladio non imitò mai nei suoi
lavori, o il capitello ionico angolare del tempio della Fortuna Virile, che invece egli imitò. La morte
impedì l'ampliamento del trattato promesso da Palladio nel proemio nel libro I, dove egli faceva
cenno a ulteriori volumi "... de i Theatri, e de gli Anfitheatri, de gli Archi, delle Terme, de gli Acquedotti, e
finalmente del modo di fortificar le Città, e de li Porti". Numerosi disegni alcuni portati a un alto grado di
rifinitura, testimoniano questa intenzione, e Paolo Gualdo, il più antico biografo di Palladio, registra
che, quando morì, l'architetto stava lavorando ad una nuova edizione del libro.
Silla, il figlio superstite e suo erede, nel 1581 presentò una petizione all'accademia Olimpica
vicentina affinchè finanziasse una nuova edizione, ma non se ne fece nulla. ln quell'anno uscì invece
la ristampa della prima edizione, cui fecero seguito altre due, mentre incominciavano a uscire le
edizioni straniere; nel corso del Sei e del Settecento i Quattro libri diventarono un best-seller
internazionale.
Alla base dei Quattro Libri, e di conseguenza della sua architettura, Palladio pone un ideale di vita,
armoniosa, semplice e serena, attinto alla saggezza antica ma rinnovato dalle esigenze moderne.
Una casa in città dovrà quindi essere "conveniente alla qualità di chi l'haverà ad abitare, e le sue parti
dovranno corrispondere al tutto, e fra se stesse"; così anche in una casa in villa, dove il gentiluomo
trascorrerà il suo tempo libero "in vedere, e ornare le sue possessioni " e dove " per l'esercito, che […] si
suoi fare a piedi e a cavallo, il corpo più agevolmente conserverà la sua sanità, e robustezza, e dove […]
l'animo stanco delle agitazioni della città, prenderà molto ristauro, e consolatione, e quietamente potrà
attendere agli studi delle lettere, e alla contemplazione"; pure le prigioni devono essere fatte " sane e
commode, perché sono state ritrovate per custodia, e non per supplicio e pena dei scelerati, o d'altre sorti
d'huomini "; ed infine anche la città intera nell'idea di Palladio altro non può essere “ che una certa
casa grande ", così come la casa non può essere che "una città picciola ". In questo ideale di vita si
specchia una società ordinata che vuoi vivere in armonia con se stessa e con il mondo circostante:
una società quindi che si prolunga nella " natura" e che con essa entra in simbiosi. Quando discorre
della scelta del sito, il primo posto è dato alle località fluviali. "Se si potrà fabricare sopra il fiume - egli
scrive - sarà cosa molto comoda e bella [...] e sarà bellissima vista [...] e si potranno adacquare le possessioni, i
giardini [...] che sono l'anima, e diporto della Villa ". E si potrebbero ancora richiamare gli accenni per il
laghetto di Maser ("fa questa fonte un laghetto, che serve per peschiera"), o le battute con cui raccomanda
di disporre lungo i fianchi delle strade extra-urbane filari d'alberi, che " con la verdura allegrano gli
animi nostri, e con l'ombra ne fanno comodo grandissimo ". Gli alberi costituiscono per queste strade
l'ornamento più appropriato, così come i bei palazzi per le vie cittadine. Sono segni, questi come
tanti altri, che nel loro insieme formano la via più sicura per penetrare nell'intimità dell'opera
palladiana, e coglierne il significato più profondo ed autentico.
I libro tratta la scelta dei materiali, il modo di costruire, le forme degli ordini architettonici in tutte le
loro parti.
II libro riporta i disegni delle costruzioni realizzate da Palladio. Tali raffigurazione talvolta si
discostano dall'edificio costruito in quanto risentono di un processo di idealizzazione e
adeguamento al maturo linguaggio del Maestro.
I disegni degli ordini architettonici sono quotati in moduli, ognuno dei quali corrisponde al
diametro della base della colonna (fatta eccezione per l'ordine dorico in cui un modulo equivale a 2
diametri). Ogni modulo è inoltre diviso in 60 minuti. Tale artificio consente quindi di astrarre
l'ordine completo dalle dimensioni dell'edificio.
I rilievi degli edifici antichi e di quelli moderni sono quotati invece in piedi vicentini antichi,
corrispondenti a 0.357m, ognuno dei quali è ripartito in 12 once ciascuna composta da 4 minuti.
Pollione Vitruvio
(I sec. a.C.)
Vitruvio Pollione, architetto e ingegnere romano del I secolo a.C., fu contemporaneo di
Cesare e Cicerone. Come architetto, forse, costruì la scomparsa basilica di Fano, raffigurata
in una ricostruzione ipotetica nell'edizione del 1521 commentata da Cesariano. Come
ingegnere egli stesso accenna a propri lavori eseguiti sotto Augusto, mentre Frontino lo
menziona quale addetto agli acquedotti di Roma. La data di composizione del trattato non
è certa, forse fra il 27 e il 23 a.C. Il testo dell'opera, nonostante i tentativi di
sistematizzazione operati nelle varie edizioni a stampa, appare come il risultato di un
lavoro condotto a più riprese, non privo di inesattezze e lacune. Comunque, i manoscritti
di Vitruvio finora conosciuti risalgono in gran parte al periodo compreso fra il lX e la fine
del Xlll secolo. Fra questi, va segnalato l'Harleianus (British Museum Library) del lX
secolo, capostipite di una serie di copie eseguite fino al XV secolo. Il De Architectura, nelle
edizioni a stampa, è stato diviso in dieci libri dei quali esistono numerosi compendi.
Il primo libro illustra i significati e le parti dell'architettura e la formazione dell'architetto e
si sofferma sull'uso e le caratteristiche degli ordini architettonici. Nel secondo libro si
affrontano argomenti di carattere tecnico, come la descrizione dei materiali da costruzione.
Nel terzo -dove si descrive l'uomo ideale- e nel quarto libro si descrivono i diversi tipi di
templi e si torna a parlare degli ordini architettonici, mentre nel quinto si affronta
l'argomento degli edifici pubblici. Il sesto e settimo libro quello delle case private. Fra gli
argomenti con attinenza alle macchine o alle difese -di competenza dell'ingegnere più che
dell'architetto- si possono segnalare i passi dedicati alla costruzione delle mura urbane
(libro primo), agli acquedotti (libro ottavo), all'utilità delle scienze (libro nono) e, infine,
alla trattazione della machinatio, o costruzione di macchine ad uso civile o bellico (libro
decimo). Vitruvio arricchisce il trattato con osservazioni desunte da esperienze personali e
fa esplicito riferimento alle proprie fonti: Ctebisio di Alessandria e Archimede per
numerose invenzioni, Aristosseno (allievo di Aristotele) per la musica, Agatarco per le
scene di teatro e Terenzio Varrone per l'architettura.
De architectura
Dal momento che questa disciplina è così estesa, adorna e ricca di differenti e molteplici
contenuti, non ritengo che possano a buon diritto chiamarsi d’un tratto architetti se non
coloro che sin dall’infanzia, salendo per questi livelli di educazione nutriti della
conoscenza della maggior parte delle discipline artistiche e letterarie, siano giunti al
supremo tempio dell’architettura. Ma forse sembrerà straordinario agli inesperti che la
natura umana possa apprendere perfettamente e ricordare un così ampio numero di
nozioni. Una volta però che avranno capito che tutte le discipline hanno tra loro una
relazione e una connessione, reputeranno che (ciò) si possa facilmente realizzare. Infatti
tutto quanto il sapere è costituito da queste parti come un unico organismo. Pertanto
coloro che fin dalla tenera età vengono istruiti con differenti nozioni, riconoscono in tutti
gli ambiti letterari le medesime caratteristiche e la connessione di tutte le discipline, e per
questo motivo conoscono tutto più facilmente. Perciò tra gli antichi architetti Pythius, che
progettò magistralmente il tempio di Minerva a Priene, dice nei suoi appunti che è
opportuno che l’architetto, in tutte le arti e le discipline, possa fare di più di coloro che
portarono al sommo splendore le cose una per una grazie alla loro applicazione e al loro
esercizio pratico. Ma ciò in realtà non è utile. Infatti l’architetto non deve né può essere un
grammatico, come era stato Aristarco, ma non (deve essere) inesperto di grammatica, né
un musico, come Aristosseno, ma non ignorante nella musica, né un pittore, come Apelle,
ma non inesperto di disegno, né uno scultore, allo stesso modo di Mirone o Policleto, ma
non ignaro dei canoni della scultura, né, ancora, un medico come Ippocrate, ma non a
digiuno di medicina, né eccellente in modo particolare nelle altre discipline, ma in queste
non sprovveduto.
Le parti del De Architectura
Secondo Vitruvio l'architettura si divide in sei parti: ordinatio, dispositio, eurythmia,
symmetria, decor e distributio (Ferri, I, 2, pp. 49-61).
L'ordinatio consiste nella conoscenza delle misure dei singoli membri architettonici e delle
loro proporzioni rispetto a un modulo o unità di misura. Da essa dipende l'esecuzione
armonica di un edificio.
La dispositio, che regola la corretta messa in opera di ogni elemento, si divide a sua volta in
tre parti: icnografia, ortografia e scenografia, vale a dire il disegno in pianta, quello in alzato e
quello in prospettiva. Per l'icnografia occorre saper usare il compasso e la riga; l'ortografia si
occupa delle facciata e presuppone la conoscenza delle proporzioni, mentre la scenografia
consiste nello schizzo o disegno in scorcio. Tutte e tre derivano da cogitatio e inventio. La
prima, fondata sullo studio e la disciplina nell'operare, ha per meta le "sensazioni
piacevoli"; la seconda, consiste nell'abilità nell'affrontare e risolvere problemi nuovi o
insoluti.
La distributio, infine, consiste nell'uso sapiente di materiali e superfici, come pure nella
"oculata parsimonia di spesa nel costruire".