Sei sulla pagina 1di 31

aINTRODUZIONE

Il termine “museografia” è usato per la prima volta nel 1727 da Caspar Friedrich Neickel,
colto mercante di Amburgo, nel titolo di un trattato in cui intende censire le principali
raccolte europee di arte e di “rarità”. L’intento era dare un’immagine di insieme delle
principali collezioni europee, distinguendo le varie tipologie delle raccolte e fornendo una
“guida per una giusta idea ed un utile allestimento dei Musei”. Separa tra Naturalia e
Artificialia e poi precisa le terminologie usate nei diversi paesi. Nel Neickel si intravedono
principi ancora presenti nella concezione del museo: ruolo didattico, necessità di un
catalogo della collezione, presenza di biblioteche interne, ma anche uso di pareti chiare,
luce uniforme, contenitori adeguati agli oggetti.
Il termine museologia si affianca a museografia solo a metà XX secolo, le due discipline sono
complementari, la museologia ha a che fare con il logos, con il pensiero, con gli aspetti
teorici relativi al museo e alla sua storia, la museografia si occupa degli aspetti pratici.
Museo deriva da mouseion, luogo delle Muse, il termine è usato per primo da Strabone per
fare riferimento a una parte della Biblioteca d’Alessandria (in realtà più simile a
un’Accademia). In età umanistica il termine è ancora usato per ambienti in cui si svolge
attività intellettuale.
Per la definizione del 1951 dell’International Council of Museums il museo “è
un’istituzione permanente, senza scopo di lucro, al servizio della società e del suo
sviluppo, aperta al pubblico, che ha come obiettivo l’acquisizione, la conservazione, la
ricerca, la comunicazione e l’esposizione, per scopi di studio, di educazione e di diletto,
delle testimonianze materiali dell’umanità e dell’ambiente”. L’assemblea generale
dell’ICOM del 2004 aggiunge alle testimonianze materiali quelle immateriali. Recentemente
è stato introdotto un nuovo tipo di museo, riguardante il patrimonio culturale diffuso su un
intero territorio, definito ecomuseo da Hugues de Varine. L’ecomuseo ha come centro di
interesse il rapporto uomo-natura, si occupa di saperi delle comunità locali e di valori
ambientali.
Il primo uso di “beni culturali” è nella Convenzione per la protezione dei beni culturali in
caso di conflitto armato, firmata a L'Aja nel ‘54. Sono definiti come beni culturali “i beni
mobili e immobili di grande importanza per il patrimonio culturale dei popoli”.
La Commissione di studio Franceschini istituita dal parlamento italiano nel ‘64 definisce il
bene culturale come “testimonianza materiale avente valore di civiltà”.

CAPITOLO 1
DALLO STUDIOLO ALLE GRANDI COLLEZIONI PRINCIPESCHE
L’attitudine alla collezione è antica, il collezionismo considerato origine del museo
moderno è quello che avviene per motivi estetici e non sacrali o di ostentazione di potenza.
Le fonti antiche parlano di collezionismo privato e di mercato d’opere d’arte, e di come gli
oggetti fossero disposti prestando attenzione all’armonia e all’ambiente espositivo.
Suger, abate di Saint-Denis nel XII secolo, scrive di compiacersi per il possesso
dell’abbazia di un gran numero di oggetti preziosi, perché nella bellezza delle opere
d’arte risplende la grandezza divina, e la contemplazione di queste stimola l’elevazione
spirituale. E’ una posizione diversa da quella standard della Chiesa medievale, che
raccoglieva oggetti di grande valore nei tesori di cattedrali e comunità religiose e li rendeva

1
accessibili ai fedeli non per il loro valore artistico o storico ma per i loro presunti poteri
miracolosi.
Nel corso del Medioevo l’interesse per l’arte classica era spesso strumentale (i materiali
antichi erano riutilizzati in nuove costruzioni) o politico (per porsi in continuità con l’Impero
romano).
Un’eccezione è Ristoro d’Arezzo, poeta e astronomo duecentesco, che nella Composizione
del mondo dimostra un interesse per le opere tardoromane simile a quello che sarà
dell’Umanesimo.
Nel 1335 il notaio di Treviso Oliviero Forzetta stila un promemoria che è uno dei primi
documenti relativi a una collezione italiana. Il testo tratta della notevole biblioteca del
Forzetta, ma anche della presenza a Venezia di un fiorente commercio di opere d’arte. Non
sappiamo come la raccolta del Forzetta fosse disposta nella sua residenza veneziana, ma tra
Trecento e Quattrocento si diffondono luoghi concepiti per l’attività intellettuale e per la
conservazione delle opere d’arte, che dovrebbero permettere tramite l’isolamento e il
supporto visivo di oggetti antichi di modellare la propria vita sul mondo classico, gli
studioli.
Lo studiolo è una proiezione dello scriptorium classico, dove praticare la solitudine e il
raccoglimento. Sugli scaffali in queste stanze sono collocati libri, monete, piccole sculture,
bronzetti, gemme, con ruolo soprattutto evocativo.
Poggio Bracciolini scrive che il suo studiolo è “refertum capitibus marmoreis”, anche gli
artisti collezionavano antichità, come risulta dal Vasari, seppure per motivi diversi,
considerando gli oggetti antichi fonte di ispirazione e stimolo alla creatività.
Gli studioli delle grandi dinastie nobiliari si collocano su un piano diverso, non solo per la
maggiore disponibilità economica ma anche per la decorazione degli spazi legata a un
programma iconografico di esaltazione del committente. Esempi sono lo studiolo di
Leonello d’Este a Ferrara, decorato con le 9 muse a rappresentare non solo le arti ma anche
le virtù e il buongoverno del marchese, e lo studiolo di Federico da Montefeltro a Urbino,
decorato con ritratti di uomini illustri antichi e contemporanei e con tarsie che raffigurano
libri, armature, strumenti scientifici e musicali.
Una delle maggiori collezioni quattrocentesche è quella medicea, iniziata da Cosimo il
Vecchio e continuata da Lorenzo il Magnifico. L’inventario redatto alla morte di Lorenzo
nel 1492 ci permette di ricostruirne la consistenza: lo studiolo ospitava opere religiose e
profane, carte geografiche, gemme, ecc., le sculture antiche e moderne erano disposte in due
cortili. Nel giardino di San Marco Lorenzo il Magnifico aveva creato una scuola per
giovani artisti e messo a disposizione come ispirazione la sua collezione scultorea, le
collezioni iniziano quindi ad avere un ruolo didattico. Cosimo I crea l’Accademia delle Arti
e del Disegno, i musei settecenteschi saranno spesso annessi ad accademie (Brera,
Capitolini).
Isabella d’Este parlava di un proprio “desiderio insaciabile di cose antique” (ma in realtà
anche di arte a lei contemporanea). La sua collezione inizia a formarsi nell’ultimo decennio
del quattrocento, con l’invio di suoi agenti in tutt’Italia e l’allestimento del suo studio.
Per lo studio commissiona opere allegoriche (Parnaso del Mantegna, Lotta tra Amore e
Castità del Perugino, ecc.). Lo studiolo era in una zona appartata della residenza di Mantova
dei Gonzaga, ed era collegato alla grotta, uno spazio con volta a botte. Nel 1522 le

2
collezioni, diventate troppo vaste, sono spostate nella corte vecchia del Palazzo Ducale, in
diversi ambienti in sequenza (camera granda, giardino segreto, studiolo, camerini, grotta).
Gli oggetti della collezione sono disposti in modo armonico, adattandoli ai vari ambienti e
caratterizzando questi per contenuto.
A Roma il collezionismo era orientato verso l’antichità, e proprio a Roma si fa strada la
coscienza della necessità di tutelare il patrimonio archeologico. Con Martino V Colonna si
varano le prime leggi volte alla salvaguardia e al restauro dei resti classici (1425), sono
principi sostenuti anche da papa Pio II Piccolomini in una bolla nel 1462 e poi da Gregorio
XIII nel 1574.
Nel 1471 Sisto IV dona al popolo romano quattro sculture, parlando di restituzione. Si
afferma il principio della pubblica fruizione delle opere d’arte, collocate all’esterno del
Palazzo dei Conservatori. La restituzione di Sisto IV è l’atto di fondazione delle collezioni
capitoline, anche se i Musei apriranno solo nel 1734.
Il cardinale Giuliano Cesarini nel 1500 dedica la propria collezione scultorea all’honesta
voluptas dei concittadini, Giulio II nel 1505 affida al Bramante il Casino del Belvedere,
nel quale è previsto un “cortile delle statue”, dove sono esposte sculture antiche di grande
pregio. L’accesso al cortile era riservato a pochi eletti, ma questo diventa un modello
espositivo: lo studio è centro della collezione ma questa si proietta all’esterno. Nel 1550
Ulisse Aldrovandi pubblica Della statue antiche, che per tutta Roma, in diversi luoghi, e
case si veggono, fonte importante per le collezioni di questo genere.
Il cardinale Andrea Della Valle è ricordato dal Vasari come un importantissimo
collezionista, consulta l’architetto Lorenzo Lotti per come disporre le antichità in tutto il
suo palazzo (inizia quindi a diffondersi l’idea della necessità di conoscenza specifiche per
curare gli allestimenti). Il cortile di palazzo Della Valle ospitava le statue in vari ordini di
nicchie, un’iscrizione dichiarava che le sculture erano aperte al godimento dei cittadini.
Altri collezionisti romani allestiscono le proprie collezioni all’esterno delle residenze, come
testimoniano descrizioni e disegni (la collezione Cesi era composta da una “passeggiata
archeologica” e da una costruzione, l’Antiquarium, in cui era ospitati i capolavori).
Nel 1516 papa Leone X nomina Raffaello ispettore generale delle belle arti, con il compito
di rilevare gli edifici classici ed eseguire una pianta di Roma antica. Raffaello denuncia
gli scempi e le speculazioni avvenuti.
La collezione del cardinale Ferdinando de’ Medici è documentata in un inventario
topografico del 1588, che permette di ricostruire l’esatta disposizione delle opere nella
residenza di Trinità dei Monti, caratterizzata da una lunga galleria ultimata nell’84,
riservata alla statuaria antica. Gallerie con specifica funzione espositiva si diffondono in
Italia nell’ultimo quarto di XVI secolo. Alberto V di Baviera era affiancato da Jacopo
Strada, mercante veneziano nei cui testi emerge l’uso di musaeum come sinonimo di
collezione, e da Samuel Quiccheberg, che descrive la collezione in quello che può essere
considerato il primo trattato di museografia, l’Inscriptiones vel tituli theatri amplissimi,
opera che suggerisce come creare una raccolta universale e come catalogarla.
Un passaggio fondamentale per la storia dei musei è il trasferimento delle collezioni da
Palazzo Vecchio agli Uffizi, attuato da Francesco I. Il nuovo edificio diventa così un luogo
di celebrazione dell’assolutismo mediceo. Il culmine del progetto è la tribuna ottagonale
aperta da Bernardo Buontalenti nella galleria di levante (1584), dove statue, dipinti,

3
oggetti naturalistici e d’arte erano distribuiti armoniosamente su palchetti d’ebano e
piedistalli. Questo è quindi un vero e proprio spazio museale, aperto al pubblico, e la sua
architettura sarà modello museografico per secoli. L’esistenza del museo porta ad attenzione
per la salvaguardia del patrimonio artistico, nel 1602 Ferdinando I vieta il commercio
delle opere dei pittori più celebri, affinché queste non escano dalla città.
Anche Venezia a fine XVI secolo ha il suo primo museo pubblico, parte della collezione di
Domenico Grimani, il cui primo nucleo si era formato a Roma e che comprendeva antichità,
dipinti moderni, medaglie, pietre incise, e una vastissima biblioteca, è donata per lascito
testamentario alla Repubblica nel 1523. Un secondo nucleo, detto statuario pubblico, è
donato dal nipote Giovanni Grimani nel 1587, e l’insieme è collocato nell’antisala della
Libreria di San Marco.
Una collezione che rimane privata è quella allestita da Paolo Giovio tra 1536 e 1543 nella
sua villa sul lago di Como, rievocazione della Comoedia di Plinio il Giovane. Giovio parla di
museo per descrivere il salone in cui era disposto il nucleo caratterizzante della raccolta, e
quindi parlando di un luogo fisico. La collezione era composta da centinaia di ritratti di
uomini illustri, ognuno dei quali accompagnato da un elogium scritto da Giovio stesso sul
modello delle Vite di Plutarco (storia come insieme di vite illustri), ed è replicata da Cosimo
I e Ferdinando d’Austria.
Nel Seicento sono particolarmente diffusi anche cabinets scientifici e raccolte
naturalistiche, Ulisse Aldrovandi nel 1603 destina nel suo testamento la propria raccolta
naturalistica al Senato dell’Università di Bologna “per l’onore e l’utile della mia città”.
Il primo nucleo dell’Ashmolean Museum di Oxford è donato da Elias Ashmole
all’Università alla sua morte.
Nel 1609 Federico Borromeo inaugura a Milano la Biblioteca Ambrosiana, aperta al
pubblico e parte di un progetto per l’istituzione di un’accademia e di una pinacoteca. Il
cardinale Borromeo nel 1618 dona alla Pinacoteca la sua raccolta personale di dipinti,
sculture, disegni, che descrive in un libro intitolato Musaeum. La Pinacoteca vuole essere
esposizione ma anche strumento didattico per l’Accademia del Disegno.

CAPITOLO 2 I MUSEI DELL’ILLUMINISMO


Nel tardo XVII secolo e nel XVIII nei palazzi nobiliari si diffondono le quadrerie. Le
gallerie private sono molte (Doria Pamphilj, Galleria Shonborn, Galleria Colonna), e
spesso concedono la visita a persone qualificate. In Italia per proteggere le raccolte nobiliari
dalla dispersione era stato introdotto nel XVII secolo il vincolo del fedecommesso (obbligo
di trasmettere intatto il patrimonio). Questo consente la sopravvivenza di collezioni
storiche, ma non ostacola il commercio di antichità incoraggiato dal Grand Tour. Nel XVIII
secolo il commercio verso l’estero di opere antiche è tale da indurre papa Clemente XII a
vietare l’esportazione di statue antiche (editto del cardinale Annibale Albani) e ad
acquistare parte della collezione Albani per donarla alle collezioni capitoline. Da questo
acquisto nascono i Musei Capitolini, inaugurati nel 1734 e ordinati secondo nuclei tematici
e scelte estetiche (l’allestimento attuale è molto fedele a quello originario). Lo studio della
statuaria antica è riconosciuto come elemento formativo fondamentale per gli artisti, e quindi
nel 1734 è istituita anche l’Accademia Capitolina, con una Scuola di nudo fondata sulle

4
collezioni. Benedetto XIV nel 1748 acquista due importanti collezioni pittoriche e nel ‘49
affianca ai musei la Pinacoteca Capitolina.
L’Editto Albani, che fa seguito a un precedente molto severo editto del cardinale Annibale
Albani, contiene spunti fondamentali: il concetto del proteggere il patrimonio artistico e
archeologico per il “pubblico decoro di quest’alma città di Roma” e quello del “gran
vantaggio del pubblico e del privato bene”, cioè il principio di pubblica utilità. Questo
principio trova risonanza nell’Età dei Lumi perché coincide con una presa di coscienza del
valore sociale dell’arte. Da qui nasce la svolta che porterà a considerare le opere d’arte
patrimonio dello Stato e quindi dei cittadini, necessario per la loro formazione.
Anna Maria Luisa, ultima Medici, al passaggio della Toscana ai Lorena stipula il “Patto di
Famiglia” (1737) con il quale lega le collezioni granducali alla città di Firenze. Negli stessi
anni a Verona nasce un museo di chiara matrice illuminista, basato sui criteri della
separazione dei materiali e dell’esposizione specialistica (come esemplificato dalla pianta del
museo ideale di Leonhard Christoph Sturm del 1704). Il Museo Lapidario di Verona è
fondato da Scipione Maffei ed espone epigrafi provenienti dal territorio veronese (c’è un
precedente, a Brescia nel 1490 è allestito un Lapidarium). Maffei enuncia i principi teorici del
suo progetto: numismatica ed epigrafia sono antichità parlanti, vanno raccolte e studiate
nella forma originale, è necessario che siano pubbliche. Il Museo Lapidario è un semplice
porticato che circonda un cortile e ospita lapidi disposte in ordine cronologico su uno dei
muri.
Il “muro delle lapidi” è organizzato in modo funzionale, non decorativo.
Negli stessi anni l’abate Lodoli, teorico dell’architettura, idea la “Galleria progressiva”,
basata sull’ordine cronologico perchè pemette di mostrare la progressione dell’arte.
Francesco Algarotti, agente d’arte per Federico il Grande e Augusto III di Sassonia elabora
il programma di un museo a Dresda, ispirato alla semplicità palladiana, influenzato dal
Lodoli. Il progetto non ci è pervenuto ma era caratterizzato dai principali temi architettonici
della museografia settecentesca: portico, sala a pianta centrale coperta a cupola.
Nella seconda metà del Settecento, con effetto domino, le collezioni principesche europee si
trasformano in musei rivolti alla pubblica utilità, anche se non sempre per volontà dei
principi. Il British Museum nasce dalla volontà parlamentare, con l’acquisizione nel 1753
della collezione del medico di corte Sir Hans Sloane, a cui si aggiungono poi la Cottonian
Library, la Harleian Library, la Royal Library. Nel 1759 aprono ufficialmente le raccolte
e la sala di lettura per gli studenti. E’ il primo museo pubblico nazionale (non ecclesiastico
né regio), ha aspirazione enciclopedica, anche se passerà da un focus sulla scienza a uno
sull’archeologia.
Si fa strada l’idea del museo in quanto edificio autonomo, con una struttura pensata
appositamente. Uno dei primi edifici di questo tipo è costruito a Kassel per volontà di
Federico II d’Assia-Kassel tra il 1769 e il 1777, su disegno di Simon Louis du Ry. E’ un
edificio imponente, destinato a ospitare una collezione enciclopedica divisa razionalmente
per tipologie. Il prospetto del Museo Federiciano introduce il tema, che diventerà
tradizionale, del tempio classico nell’architettura museale.
Nel 1769 apre al pubblico la Galleria degli Uffizi, quando Pietro Leopoldo di Lorena
rinuncia a gestire le collezioni come bene personale. Il museo si pone scopi didattici (era
stato in precedenza aperto a un pubblico selezionato, per scopi propagandistici), l’edificio è

5
adeguato da Zanobi del Rosso, che tra le altre cose separa le collezioni eterogenee da quelle
di pittura e scultura (armature, strumenti musicali, oggetti naturalistici sono trasferiti in altri
luoghi).
Il primo direttore degli Uffizi è Giuseppe Pelli Bencivenni, che riordina le collezioni (con
l’apporto di Luigi Lanzi per il settore delle antichità e la Sala della Niobe, costruita nel
XVIII secolo per ospitare le nove sculture romane). L’ordinamento della raccolta risponde
all’impostazione usata da Lanzi nel Storia pittorica dell’Italia, e si articola quindi per
scuole regionali.
Anche a Dresda i dipinti della collezione reale sono organizzati per scuole nazionali, a
Vienna quando la quadreria imperiale apre al pubblico le opere sono in ordine cronologico e
per scuole. Le collezioni sono lette in chiave storicistica e scientifica, si cerca di facilitarne
la fruizione in senso educativo, sono compilati cataloghi.
In Francia le collezioni reali concentrate a Versailles sono inaccessibili, il sistema è affidato
all’Academie Royale de Peinture et de Sculpture, che organizza ogni anno il Salon,
esposizione che si impone come guida del gusto. Gli appelli all’apertura delle collezioni
reali erano frequenti, come le preoccupazioni per la loro conservazione; in particolare quello
di Etienne La Font de Saint-Yenne è ascoltato dal marchese di Marigny (responsabile
degli edifici reali), che mette a disposizione nel 1749 alcune sale nel Palais du Luxembourg
in cui è esposto un centinaio di dipinti delle collezioni reali. Questo museo pubblico (aperto
solo per 3 ore due volte alla settimana) è chiuso nel 1779.
Il conte Charles d’Angiviller, conservatore del cabinet de peintures del re si fa
promotore di una trasformazione del Louvre in un palazzo delle arti, arrivando a
commissionare progetti di ristrutturazione della Grande Galerie per migliorarne
l’illuminazione, ma il progetto non ha seguito.
Carlo III di Borbone istituisce nel 1738 il Museo Farnesiano, e nel 1759 lo trasferisce nella
Reggia di Capodimonte e apre al pubblico. La collezione dei dipinti era allestita a
quadreria, su più ordini, ma organizzata per generi, autori, scuole nazionali. Carlo III nel
1755 vieta la circolazione degli affreschi antichi fuori dai confini del regno, tutelando
Pompei ed Ercolano. Il figlio Ferdinando IV istituisce il Real Museo Borbonico.
Il cardinale Alessandro Albani si fa costruire una villa sulla Salaria per esporvi la propria
collezione, senza mirare però ad aprirla al pubblico. L’organizzazione era concepita in senso
museale, e probabilmente era stata influenzata da Winckelmann. Era organizzata per nuclei
tematici: imperatori, dei, busti dei poeti, condottieri. Lo spazio in modo innovativo si
piega alle esigenze della collezione, la leggibilità delle opere è prioritaria. Sono
innovazioni anche il non collocare sculture all’aperto e i restauri rigorosi e non fantasiosi.
Villa Albani ha ancora un approccio legato alla classificazione illuminista.
Nel 1763 Winckelmann è nominato commissario delle antichità di Roma. In ambiente
vaticano si parlava dell’istituzione di musei già dai tempi di Clemente XI Albani, nel 1757
Benedetto XIV istituisce il Museo di Antichità Cristiane (Museo Sacro), Clemente XIII
collaborando con Winckelmann fonda nel 1761 il Museo Profano (reperti etruschi e
romani), che in modo innovativo e dovuto a Winckelmann stesso esce dall’ottica del
capolavoro per includere anche oggetti d’uso.
Clemente XIV nel 1770 acquista la collezione Mattei, per poi affidare ad Alessandro Dori il
compito di riadattare il Belvedere e il Cortile delle Statue per ospitarla. La loggia divisa

6
in più ambienti è trasformata in una lunga galleria, l’intervento ha gusto decorativo
barocco ma rispetta le preesistenze quattrocentesche. Il progetto del Cortile delle Statue è
affidato a Michelangelo Simonetti, che crea un porticato ionico per collegare la galleria al
cortile e realizza l’accesso al museo tramite il Vestibolo Rotondo. Il museo adatta
costruzioni preesistenti e recupera materiali. Morto Clemente XIV Pio VI riprende i
lavori, ma con ambizioni più propagandistiche. Affida a Simonetti il prolungamento della
Galleria delle Statue, la sequenza delle “sale romane”, e la Sala della Biga. Pio VI fa anche
realizzare una serie di sale di ispirazione neoclassica: la Sala degli Animali, che riprende il
tema della falleria, quella delle Muse, la Sala Rotonda, la Sala a Croce Greca. Il Cortile delle
Statue perde centralità, il cuore del museo diventa la Rotonda, ispirata al Pantheon. Il
museo Pio-Clementino è presto celebrato, anche grazie al ruolo di Giovanni Battista
Visconti, succeduto al Winckelmann come commissario delle antichità: gestisce i
finanziamenti, orienta gli architetti, riordina le opere, pubblica un monumentale catalogo
delle collezioni nel 1782. A Roma, intorno a Piranesi, si forma il nuovo linguaggio
neoclassico accolto con entusiasmo in Europa, che sarà vita a luoghi come la galleria privata
di William Weddel, edificio indipendente collegato a Newby Hall, con tre sale in sequenza
che fanno riferimento all’architettura antica.
Ancora prima della nascita del Pio-Clementino l’imitazione e la rilettura dell’antico
diventano fondametnali per i progetti espositivi. In Francia il tema del museo è più volte
scelto per i concorsi dell’Académie d’Architecture per il Prix de Rome, e il ricorso
all’architettura classica è spesso presente, Etienne-Louis Boullée, membro dell’Accademia,
progetta un museo ideale con un recinto quadrato, una croce greca, esedre semicircolari,
una rotonda centrale. Tra il 1802 e il 1809 Jean-Nicolas-Louis Durand pubblica il Précis
de leçons d’architecture, manuale che propone un metodo semplice e duttile.
Solo con la Rivoluzione francese sarà riconosciuto a tutti il diritto a frequentare i musei (nel
XVIII secolo le limitazioni non sono rare).

CAPITOLO 3 LE SPOLIAZIONI NAPOLEONICHE: LO STATO COME


COLLEZIONISTA
Il Louvre è spesso indicato come primo museo moderno aperto al pubblico, nasce sulla
spinta della Rivoluzione, con la statalizzazione delle raccolte reali e la confisca dei beni
ecclesiastici e degli émigrés.
Il 26 luglio 1791 la Costituente espropria i beni della corona, il 27 settembre 1792
istituisce al Louvre il Musée Révolutionaire, inaugurato il 10 agosto 1793, che nel ‘97
diventa Musée Central des Arts.
Per la prima volta un museo è riconosciuto come istituzione di interesse nazionale, il
patrimonio è definito come appartenente al popolo, lo Stato si fa carico
dell’amministrazione museale. Il diritto di accedere alle collezioni non è più concesso dal
principe ma rientra nelle finalità educative statali. All’inizio il museo conserva il carattere
di residenza reale, con arredi e mobili preziosi. La Grande Galerie era scarsamente
illuminata, i dipinti erano allineati in doppio ordine e divisi in tre scuole, con alcune opere
ritenute di maggior pregio ed esposte su cavalletti in prossimità delle finestre. L’ingresso
era gratuito e libero nel fine settimana, riservato agli artisti in settimana. Erano presenti
didascalie e previste visite guidate, nel 1793 si stampa il primo catalogo.

7
Con le campagne napoleoniche c’è una grande svolta, arrivano a Parigi centinaia di dipinti,
sculture, oggetti d’arte. Nei Paesi Bassi alle armate napoleoniche si uniscono due membri
della commissione per le arti per selezionare le opere da razziare, lo stesso avviene in
Italia. Napoleone include le requisizioni di opere d’arte nelle clausole degli armistizi e dei
trattati di pace. Il Direttorio moralmente si giustificava dicendo che le grandi opere d’arte
erano state create da spiriti liberi e dovevano quindi stare nel paese della libertà. Con
Campoformio la Francia si impadronisce dei Cavalli di San Marco, di opere di Tiziano, di
Tintoretto, di Veronese, a Roma il progetto di portare via i Dioscuri svana per impossibilità
materiale, ma le sculture del Cortile delle Statue sono tutte portate a Parigi. I commissari
francesi commerciano anche, vendendo le opere di minor pregio, e requisiscono opere anche
ai collezionisti accusati di avere sentimenti antifrancesi.
Il 27-28 luglio 1798 le opere requisite sfilano in corteo fino al Louvre, in alcuni casi prive
di imballaggio (Laocoonte, Cavalli di San Marco), mentre Napoleone è già in Egitto con
Dominique Vivant-Denon, incaricato di studiare e disegnare i monumenti. Nel 1802
Vivant-Denon è nominato direttore generale del Louvre, che nel 1803 cambia nome in
Musée Napoléon. Le opere requisite sono organizzate in scuole. Gli architetti Percier e
Fontaine danno un nuovo volto alla Grande Galerie suddividendola in più sale e creando
aperture laterali nella volta, inoltre aggiungono uno scalone monumentale sul modello del
Pio-Clementino. Nel 1806 Napoleone riprende le spedizioni e i saccheggi (Prussia, Austria,
Spagna), coadiuvato da Vivant-Denon, il quale nel 1811 in Italia scopre i prima trascurati
primitivi (Cimabue, Giotto, Beato Angelico).
Il museo di Denon ha come scopo la glorificazione del potere napoleonico, immagine della
supremazia politica e culturale francese. Il culmine dell’identificazione del potere con il
museo è il matrimonio di Napoleone e Maria Luisa d’Austria nel 1810 al Louvre. Dopo la
caduta dell’impero Luigi XVIII afferma che le opere appertengono alla Francia “con un
diritto più forte del diritto di guerra”. A Vienna le restituzioni sono negoziate, non c’è una
strategia unitaria e molte opere sono finite nei musei di provincia e nelle chiese parigine, e
non sono recuperabili. L’Inghilterra si schiera con decisione a favore delle restituzioni, e offre
al Vaticano di pagare il trasporto delle opere. Per il papa tratta Antonio Canova, che è
costretto a rinunciare a una ventina di dipinti e ignora molte opere di gusto non
classicista (ottiene circa la metà delle opere). Il governo austriaco tratta per le opere
sottratte da Lombardia e Veneto, in particolare per i Cavalli di San Marco issati sull’Arc
de Triomphe e ormai diventati un simbolo (e per questo rimossi di notte), ma mantiene una
politica conciliante e trascura quindi molte opere.
Si fa strada con Vienna l’idea dell’appartenenza a un popolo del patrimonio artistico come
fondamento della sua identità culturale (superando quindi l’idea di valore estetico,
economico, erudito). Antoine Quatremère de Quincy nelle Lettres à Miranda contesta le
requisizioni e difende la conservazione delle opere nei loro luoghi di origine (con idee che
arrivano a contestare il museo stesso come luogo di sradicamento delle opere).
Il Musée des Monuments Français, aperto dal pittore Alexandre Lenoir per salvare i
monumenti dalla violenza rivoluzionaria, è smantellato nel 1816 per ricollocare le statue nei
luoghi originari. Una conseguenza delle spoliazioni napoleoniche è una matura coscienza
della responsabilità statale nella tutela del patrimonio artistico.

8
Per questo Pio VII redige il Chirografo, a cui segue l’Editto del cardinale camerlengo
Doria Pamphilj, che estende la tutela anche al patrimonio mobile, sia pubblico sia
privato, elenca le opere inalienabili, incluse quelle conservate nelle chiese, e stabilisce la
compilazione di itinerari per avere un quadro complessivo della consistenza del
patrimonio. Da queste premesse si arriverà nel 1820 all’Editto Pacca.
Tra i musei legati alla presenza napoleonica in Italia c’è la Pinacoteca di Brera, inaugurata
nel 1809. L’imperatrice Maria Teresa aveva trasformato il palazzo di Brera (sia per dare
un’impronta laica all’istruzione pubblica sia per rinnovare gli insegnamenti secondo la
cultura illuminista) in un moderno complesso di istituti, anche artistici. Il primo segretario
dell’Accademia di Belle Arti di Brera è l’abate Francesco Albuzzi, sostituito poi da Carlo
Bianconi nel 1778.
Bianconi dà un’impostazione didattica all’Accademia, senza desiderare di creare una
pinacoteca. Nel 1801 è nominato Giuseppe Bossi (con la Repubblica Cisalpina), il quale si
impegna a rinnovare. Stende gli Statuti, estesi anche all’Accademia di Bologna, che
consentono l’apertura ufficiale dell’Accademia come Accademia Nazionale nel 1803.
Milano ha assunto ruolo di capitale, il viceré Eugenio de Beauharnais vuole potenziare il
museo connesso all’Accademia per conferirgli dignità di grande collezione nazionale. Le
spoliazioni e le soppressioni di enti ecclesiastici assicurano a Brera molte opere, Andrea
Appiani, commissario incaricato di selezionare le opere per il Louvre, si impegna anche a
formare il patrimonio della pinacoteca. Il Bossi afferma che gli obiettivi del museo siano
istruzione pubblica e diffusione del buon gusto. Bossi si dimette nel 1807, è nominato
direttore Appiani, l’istituzione diventa sempre più grande museo nazionale, con il desiderio
di ospitare rappresentanze di tutte le scuole italiane, e sempre più legata all’esempio del
Louvre. Con Brera si afferma un museo caratterizzato dal legame tra collezione artistica e
accademia.
A Bologna le accademie di tradizione cinquecentesca sono soppresse dai francesi, che
fondano nel 1802 l’Accademia Nazionale nel noviziato gesuita di Sant’Ignazio.
A Venezia nel 1807 nascono le Gallerie dell’Accademia (anche grazie al restauratore
Pietro Edwards, che scrive un decalogo che fissa le norme per l’intervento sulle opere
pubbliche sottolineando l’obbligo di rispettare la materia originale e di documentare le
metodologie di intervento, usare prodotti rimovibili).
I tre musei napoleonici del Regno d’Italia hanno orientamenti diversi, ma tutti si formano
grazie alle requisizioni e sono legati ad aspirazioni democratiche, si parla quindi di
collezionismo di Stato. In Italia con Vienna non ci sono restituzioni significative (un
nucleo importante di Brera è veneto).
Il Museo dell’Acropoli ha una galleria superiore vetrata, dalla quale si vede il Partenone, che
ospita i marmi rimasti e i calchi di quelli al British.
L’Egitto nel 2001 ha iniziato un’azione per il recupero di opere emigrate in musei stranieri,
ottenendone alcune. Il problema della restituzione di opere uscite illegalmente e poi
acquistate da musei stranieri è diverso.

9
CAPITOLO 4
LA STORIA DELL’ARTE COME SCIENZA E I GRANDI MUSEI
DELL’OTTOCENTO
La Francia innova moltissimo con il Louvre e con idee teoriche come quelle di Boullée,
Durand (Précis), Claude-Jacques Toussaint, ma è la Germania di primo Ottocento a
realizzare edifici di chiara ispirazione classica che avverano i progetti teorici francesi.
Monaco e Berlino sono protagoniste di una nuova stagione di progettazione museale che
ridisegna i centri urbani. Il museo ottiene il ruolo di edificio simbolico della città, dichiara la
propria funzione culturale e il proprio ruolo nel progresso collettivo.
A Monaco Leo von Klenze progetta per volontà del principe ereditario Ludwig il
Glyptothek (museo archeologico) inaugurando il modello del museo-tempio. Il Glyptothek
è parte di un progetto ampio di riqualificazione della città, con l’ambizione di creare
un’“Atene sull’Isar”. Nel 1810 è commissionato a Karl von Fischer un progetto
urbanistico: nella piazza principale si sarebbero dovuti fronteggiare il Walhalla (paradiso
della mitologia germanica) e il museo, in realtà il primo sarà realizzato a Regensburg (nella
forma di tempio greco).
Nel 1812 Ludwig acquisisce i frontoni del tempio di Afaia (Egina), la costruzione del
museo diventa prioritaria, è indetto un concorso, vince il progetto di von Klenze ispirato al
tempio greco (ne aveva proposti anche uno in stile romano e uno in stile rinascimentale), i
lavori si concludono nel 1830. La Glyptothek ha pianta quadrata, cortile centrale, un
unico piano. Sul prospetto sono presenti un pronao con 8 colonne ioniche e un frontone
scolpito, ai lati del portico le pareti sono scandite da 6 nicchie con statue. Alcune sale hanno
pianta centrale, altre rettangolare, le opere sono ordinate cronologicamente. Il pittore e
agente romano di Ludwig Wagner contesta il lavoro di Von Klenze perché non
sufficientemente rigoroso: alla Glyptothek le opere sono affiancate da decorazioni
evocative, gli spazi non sono neutri. La Glyptothek è un museo elitario, senza l’intento
educativo del Louvre, non ci sono didascalie, sono presenti sale per ricevimenti e
banchetti. Ludwig, divenuto re, commissiona a Von Klenze un nuovo edificio, l’Alte
Pinakothek, ultimata nel 1836, che rinuncia allo stile neogreco e invece, coerentemente alle
collezioni che deve ospitare, si ispira al palazzo rinascimentale italiano. L’edificio si
sviluppa su un lungo asse longitudinale con brevi ale alle estremità, imitando una galleria,
lo spazio superiore è diviso in tre fasce parallele di sale comunicanti (quella centrale per i
dipinti di grande formato, una delle laterali per dipinti di piccole dimensioni, un’altra per
affreschi sulle vite degli artisti). I dipinti erano ordinati cronologicamente, al piano terra
erano esposti vasi antichi ed erano presenti uffici, depositi, una biblioteca.
La fama di Von Klenze come architetto museale si diffonde, il re di Grecia gli commissiona
un progetto (mai attuato), Nicola I lo chiama a progettare il Nuovo Ermitage (i suoi disegni
saranno poi attuati da Vasilij Stasov). Il Nuovo Ermitage segue gli stessi principi della
Glyptothek: sale sontuose e progettate per rievocare il contesto originale, ed è dotato di pareti
mobili per ottenere una migliore illuminazione delle opere.
L’Alte Pinakothek ottiene apprezzamenti unanimi, vi si ispira anche la Neue Pinakothek
(von Voit), voluta da Ludwig I di fronte alla Glyptothek. La Neue è il primo museo
europeo dedicato alla modernità, e ha forte intento identitario nazionalistico; la sua
costruzione è a due ordini ma nettamente divisa in tre zone, meno armoniosa dell’Alte.

10
A Berlino l’idea di un museo che raccogliesse le collezioni del re per permetterne lo studio e
favorire il progresso della società era stata suggerita dall’archeologo Aloys Hirt già nel 1796,
e riproposta con il passaggio della corona a Federico Guglielmo III, ma è solo dopo il crollo
napoleonico che il progetto prende forza, anche grazie all’acquisizione di diversi nuclei
pittorici. L’architetto Schinkel aveva già realizzato la Neue Wache, Palazzo della Guardia, e
altri edifici di stile classico, sceglie per l’Altes Museum il cuore della città, l’edificio si
trova di fronte al Castello Reale e a fianco del duomo e dell’arsenale. E’ terminato nel
1830, ha pianta rettangolare, due cortili interni, un portico frontale ispirato alla stoà con un
maestoso scalone a due rampe visibile dall’esterno che fa del museo una struttura aperta.
Il suo nucleo centrale è la rotonda, forse ispirata dalle teorie di Durand o dalle architetture
parigine e italiane. Nell’ordinamento delle collezioni Schinkel è coadiuvato da Gustav
Friedrich Waagen, storico dell’arte che sarà poi direttore dell’Altes. Hirt concepiva il
museo come scuola, ma Schinkel e Waagen volevano che elevasse lo spirito tramite la
contemplazione del bello, influenzati da Hegel e sostenuti dal presidente della commissione
per il museo von Humboldt. L’allestimento dell’Altes Museum è improntato all’eleganza, le
scelte di colore sono raffinate, i pavimenti sono intarsiati, al piano inferiore sono esposte le
sculture antiche, a quello superiore le opere pittoriche, nella Rotonda (come nel
Pio-Clementino) le opere scultoree di grandi dimensioni e raffiguranti divinità, non in
nicchie ma tra le colonne, permettendo una visione a tutto tondo. I dipinti erano divisi in
categorie a seconda della loro importanza e della qualità (determinate da Waagen), con
quelli considerati inferiori in salette secondarie, la successione era cronologica e per scuole
ma privilegiava il Rinascimento italiano e il Seicento (come la storia dell’arte del tempo).
Con la presenza di storici dell’arte come responsabili delle raccolte nasce una nuova scienza
museale, le opere d’arte sono legittimate dal museo e rafforzate dal confronto con le altre,
l’esame diretto delle opere diventa imprescindibile per la ricerca scientifica, la scienza
museale e la storia dell’arte si legano.
L’Altes è il primo museo di quella che sarà la Museuminsel (Isola dei musei), l’incremento
delle collezioni spinge infatti Federico Guglielmo IV a istituire un secondo museo, il cui
progetto è affidato a Stuler, allievo di Schinkel, il quale tra il 1841 e il 1859 realizza il
Neues Museum, destinato alle collezioni egizie e all’archeologia greco-romana, alle spalle
dell’Altes. Anche il Neues ha un portico a colonne e ricche decorazioni interne, è stato
semidistrutto dai bombardamenti (il restauro, affidato a Chipperfield, si conclude nel 2010).
Stuler progetta poi la Nationalgalerie, voluta da Federico Guglielmo IV per l’arte tedesca,
che nonostante l’intento nazionalistico è anch’essa ispirata all’architettura classica, ormai
diventata caratteristica del modello museo. La Nationalgalerie è su un alto podio e richiama
un tempio corinzio, è dotata di una scalinata a doppia rampa decorata con una statua del re.
E’ inaugurata nel 1876. La Museuminsel comprende anche il Kaiser Friedrich Museum,
voluto da Guglielmo II e ultimato nel 1904, di stile neobarocco, a cui il primo direttore,
Wilhelm von Bode, dà un’impronta didattica legata all’idea di ambientare le opere per
facilitarne la fruizione (sono ricreati chiese gotiche, palazzi rinascimentali ecc.), e il
Pergamonmusem, ultimato nel 1930, nato per ospitare i grandi pezzi archeologici acquisiti
negli anni ‘20 (il fregio dell’Ara di Pergamo, la Porta di Ishtar, ecc.)
A Roma la politica museale papale prosegue, Pio VII Chiaramonti affida a Canova
l’allestimento di una nuova sezione di sculture antiche, che prenderà il nome di Museo

11
Chiaramonti (1807), nella parte finale del corridore orientale di Bramante collegato al Pio
Clementino. Canova sollecita il papa per un nuovo museo che ospiti le sculture restituite
dalla Francia, il progetto è affidato a Stern e prende il nome di Braccio Nuovo, è ultimato
nel 1822 come aggiunta al Chiaramonti. E’ una galleria neoclassica con volta a cassettoni e
lucernari che lasciano entrare luce zenitale, alle pareti si aprono nicchie per le statue di
grandi dimensioni, sono usati materiali antichi.
Sotto Pio VII nasce anche la Pinacoteca Vaticana, collocata prima nell’appartamento Borgia
e poi in quello di Gregorio XIII: il suo primo nucleo era stato formato da Pio VI, ma era stato
confiscato da Napoleone, in seguito a Vienna Pio VII trattiene a Roma anche opere razziate
negli Stati Pontifici, con un’azione di collezionismo di stato. Solo nel 1932 con Pio XI sarà
costruita una sede definitiva per la Pinacoteca.
Parigi nel 1843 inaugura il Musée de Cluny, interamente dedicato all’arte medievale e
situato in un edificio gotico quattrocentesco, l’hotel des abbés de Cluny. E’ allestito da
Albert Lenoir e inaugura il modello del museo romantico, dedicato alla storia e alla
cultura nazionali.
Nella seconda metà dell’800 infatti si diffondono musei celebrativi del patrimonio
nazionale, ma anche musei di arti applicate, storia naturale, industria.
Anche la Spagna si dota di un grande museo nel 1819, inaugurando il Prado. Il museo
inizialmente è dedicato alle scienze naturali e parte di una revisione cittadina che avrebbe
dovuto creare una cittadella del sapere scientifico, il progetto è del 1786 e di Juan de
Villanueva. Con l’occupazione francese è danneggiato, sarà ricostruito dopo la caduta
dell’impero. La struttura è neoclassica, con un portico dorico e un nucleo centrale coperto da
una cupola, galleria che terminano in due corpi quadrati.
In Inghilterra continua la creazione di musei finanziati con fondi pubblici, l’acquisto dei
marmi del Partenone porta all’abbattimento della vecchia sede del British Museum e alla
realizzazione di un nuovo complesso, progettato da Smirke in stile neoclassico (tempio
ionico, ali laterali colonnate, originariamente policromo) e terminato nel 1847 (nel 2000 si
conclude l’intervento di Norman Foster che copre la Great Court con una volta vetrata). Tra
1811 e 1813 è realizzata su progetto di Soane la Dulwich Picture Gallery, con un esterno
sobrio e in mattoni, non classico, e all’interno sei sale con ampi lucernari, Soane creerà anche
il Sir John Soane’s Museum, prototipo della casa museo e pensato a beneficio di
dilettanti e studenti, dotato di specchi convessi e piani mobili per dilatare gli spazi.
Nel 1824 il Parlamento istituisce la National Gallery, per cui è realizzato un nuovo edificio
negli anni ‘30 su progetto di William Wilkins. Grazie al direttore Sir Charles Lock Eastlake
e a Otto Mundler la pinacoteca acquisisce dipinti del Rinascimento italiano. L’edificio
neoclassico è affiancato dalla Sainsbury Wing (Robert Venturi) nel 1991.
Il ripristino degli allestimenti storici è un tema museografico molto dibattuto, in Gran
Bretagna il ripristino si è compiuto per la National Gallery of Scotland e per la Manchester
City Art Gallery.
Nel XIX secolo sono realizzati anche musei con stile monumentale ispirato al
Rinascimento e al Barocco. A Dresda Semper applica lo schema barocco alla
Gemaldegalerie già tra 1847 e 1855, con un prospetto a doppio ordine e cupole ai lati del
corpo centrale (è distrutta nel ‘45 e ricostruita dopo la guerra).

12
A Vienna Ferdinando I avvia un piano di ristrutturazione urbanistica poi ripreso da
Francesco Giuseppe, Semper progetta insieme a von Hasenauer per la piazza principale
due musei gemelli per l’arte e le scienze naturali, il Kunsthistorisches Museum e il
Naturhistorisches Museum, realizzati tra 1872 e 1891. Hanno pianta rettangolare, corpo
centrale con una cupola ottagonale di ispirazione rinascimentale.
Il primo museo americano è quello di scienze naturali istituito nel 1786 da Charles W.
Peale a Philadelphia, che ospitava anche ritrattistica e aveva vocazione educativa ma
anche di intrattenimento, aspetto caratteristico dei musei americani.
In questa fase aprono piccoli musei storici sull’Indipendenza americana, legati all’identità
nazionale. Il primo museo di arti visive è la Yale Art Gallery, istituita nel 1831.
Negli anni ‘70 dell’800 sono fondati il Metropolitan di New York, il Fine Arts Museum di
Boston, il Museum of Art di Filadelfia, l’Art Institute di Chicago, profondamente diversi
da quelli europei perché fondati per iniziativa privata e gestiti da consigli
d’amministrazione (board of trustees). Sono collezioni estranee alla cultura propriamente
americana, formate sul mercato, e i musei hanno una forte missione educativa anche per
questa estraneità. Fino ai primi decenni del XX secolo adottano lo stile classico, anche se non
nell’organizzazione interna.

CAPITOLO 5
MUSEI D’ARTE APPLICATA E MUSEI PER LA SCIENZA
Dalla seconda metà dell’800 nelle grandi capitali europee si tengono grandi esposizioni che
danno la possibilità a molte nazioni di presentare i loro prodotti industriali.
La Great Exhibition of the Works of Industry of All Nations apre a Hyde Park nel 1851 e
ospita più di 100.000 oggetti, suddivisi nelle categorie materie prime, macchinari e
invenzioni, manufatti, sculture e arte plastica. Per l’occasione era stato costruito su
progetto di Joseph Paxton il Crystal Palace, immenso edificio modulabile in ferro e vetro. Il
successo dell’esposizione porta alla creazione di una collezione permanente di oggetti
testimoni dell’evoluzione della tecnica, è fondato quindi nel 1852 per iniziativa di Henry
Cole il Museum of Manufactures (che ospiterà poi anche arte antica), per il quale nel ‘57 è
realizzata una sede in ferro e vetro, il South Kensington Museum. La struttura ha tre corpi
paralleli voltati a botte e per via dei suoi lunghi tempi di visita offre ai visitatori un
ristorante, è illuminata a gas per consentire le visite serali dei lavoratori. E’ la prima
rottura con la tradizione ottocentesca dei musei ispirati al mondo classico, il presupposto
teorico per la quale va cercato nelle idee democratiche ed egualitarie che si erano diffuse
dopo la Rivoluzione francese, in Inghilterra in particolare con John Ruskin e William Morris,
sostenitori della necessità di trovare un punto di incontro tra arte, industria, società.
Gottfried Semper e Sir Henry Cole pensano sia necessario un focus educativo sulle arti
decorative, e vedono come parte integrante di questo programma didattico affiancare alle
Accademie musei di arte applicata all’industria. Ritengono che questo possa
democratizzare l’arte e renderne la fruizione e il possesso più accessibili. In Inghilterra nel
1837 è fondata la Government School of Design in Ornamental Art. Il modello inglese
ispira gli USA, ma anche l’Europa, in particolare l’area del Nord.
A Vienna nel 1863 è fondato l’Osterreichisches Museum for Kunst und Industrie, nel ‘67
a Berlino il Kunstgewerbermuseum.

13
A Parigi si tiene la seconda esposizione universale nel 1855, e dal 1794 esiste il
Conservatoire des Arts et Métiers, che sarà un modello per i musei industriali europei:
nato in clima rivoluzionario per incentivare lo sviluppo sociale ed economico della nazione
ospita collezioni di strumenti scientifici, macchinari, disegni.
In Italia nel 1861 a Firenze si tiene la prima Esposizione Nazionale, con intento
nazionalistico e carattere enciclopedico ispirato al modello inglese. L’esposizione permette
confronto tra diverse categorie di artigiani, industriali, commercianti, artisti, ma rimanda
l’immagine di un paese ancora legato all’artigianato e alla piccola manifattura. Voci
autorevoli propongono la trasformazione delle accademie artistiche in scuole
professionali di insegnamento popolare per la produzione industriale, in particolare
partendo dal bello per arrivare alla riproducibilità in serie, sempre sull’esempio inglese.
I Musei Industriali delle città italiane sono quindi concepiti come luogo di formazione per i
cittadini di una nuova realtà industriale e come esposizione permanente delle scoperte della
tecnica. A Torino nel 1862 apre il Museo Civico di Arte Applicata all’Industria, affiancato
da un Istituto Tecnico. Il Museo tenta, senza riuscirci, di far coesistere gli ambiti
archeologico, artistico-industriale, tecnico-scientifico. Chiuderà definitivamente dopo la
seconda guerra mondiale.
Nel 1873 l’Associazione Industriale Italiana annuncia di voler creare, in seguito
all’esperienza dell’Esposizione Industriale del 1871, un museo che ospitasse sia oggetti
antichi sia prodotti industriali italiani sia una biblitoeca e una fototeca, e di volervi
annettere scuole professionali per l’applicazione del disegno all’industria. Nel ‘74
l’Associazione tiene l’Esposizione Storica d’Arte Industriale, ma il Museo non viene
realizzato, nel ‘76 il Comune di Milano aggrega le raccolte artistiche municipali a quelle
del Museo d’Arte Industriale, che sono cedute al Museo Artistico Municipale, il quale è
inaugurato nel 1878 e affiancato nel 1882 dalla Scuola d’Arte Applicata all’Industria.
Il Museo Artistico Municipale perde presto il suo legame con un museo di tipo industriale.
Milano e Torino dimostrano la difficoltà di far coesistere le collezioni tecnico-scientifiche
con quelle artistico-artigianali, ma nell’ultimo ventennio del XIX secolo i tempi sembrano
maturi per musei dell’industria e del commercio, a Torino nell’84 nasce il Museo
Commerciale Italiano (presso il museo industriale).
Il pubblico target dei musei industriali sono gli operatori del settore, non veniva data
attenzione agli aspetti artistici, in Italia queste iniziative falliranno, un Museo Nazionale
della Scienza e della Tecnica nascerà solo nel 1953 a Milano.
Nel secondo Ottocento si sviluppano anche i musei naturalistici, organizzati su basi
scientifiche e lontani dall’idea di “meraviglia” delle Wunderkammern.
Le Wunderkammern di XVI e XVII secolo sono stanze delle meraviglie in cui si mescolano
naturalia e artificialia, diffuse soprattutto nel Nord Europa (Rodolfo II d’Asburgo, Federico
Augusto di Polonia), vanno scomparendo con la settorializzazione dei saperi.
L’antropocentrismo rinascimentale porta all’idea di un universo conoscibile, comprensibile,
classificabile, la rivoluzione scientifica e la scoperta dell’America portano a cercare un nuovo
ordine universale, si diffondono quindi raccolte che cercano di essere enciclopediche.
Raccolte naturalistiche fondamentali sono quella di Ulisse Aldrovandi (seconda metà del
XVI secolo) e di Ferrante Imperato, il cui museo bene esemplifica lo stile espositivo
dell’epoca: reperti disposti “a incrostazione” sulle pareti, sul soffitto, in armadi, in

14
scaffalature, divisi per gruppi. Con la trasformazione delle raccolte umanistiche di antica
fondazione in musei pubblici si pongono problemi di ordinamento, sia per le dimensioni delle
collezioni sia per la difformità fisica dei reperti, problemi in parte risolti dalla
specializzazione dei saperi.
Il Natural History Museum di Londra è costruito tra 1871 e 1881 e ospita anche la sezione
scientifica originariamente del South Kensington, il Muséum d’Histoire Naturelle di Parigi
apre agli inizi del XX secolo.
Nei musei di scienza naturale e in quelli di scienza e tecnica l’approccio è spesso interattivo e
multimediale, il che comporta il rischio di un’eccessiva spettacolarizzazione. Nel corso della
seconda metà del XX secolo i musei di scienza e tecnica hanno uno sviluppo impetuoso,
sono esempi l’Exploratorium di San Francisco, lo Smithsonian Institute di Washington, la
Cité de Sciences et de l’Industrie a La Villette, la Città delle Scienze a Bagnoli.

CAPITOLO 6
UN MUSEO PER LA CITTA’: LA NASCITA DEI MUSEI CIVICI IN ITALIA
Il museo civico è caratteristico dell’Italia post-unitaria. Molti collezionisti donano le
proprie raccolte alle città con il proposito che sia creato un museo a partire da queste,
anche in città dove già esistono musei: a Venezia Teodoro Correr nel 1830 dona le sue
collezioni alla città, non alle Gallerie dell’Accademia, a Milano sono donate le opere di
Pompeo Marchesi, e le collezioni di Antonio Guasconi e Gian Giacomo Attendolo
Bolognini, opere tra l’altro inadatte alla Pinacoteca di Brera. La nascita di musei civici,
deputati alla conservazione delle memorie cittadine, si lega anche al ridimensionamento del
potere temporale della Chiesa: è abolita la manomorta (inalienabilità dei possedimenti
ecclesiastici e esezione dalle imposte), la Legge Rattazzi e le “leggi eversive” negano il
riconoscimento a ordini e congregazioni religiosi e ne espropriano i beni. Lo Stato si
trova con un patrimonio enorme da gestire e da proteggere (anche dalle rivendicazioni dei
nobili che cercano di riappropriarsi di opere donate alla Chiesa dai loro antenati), la
situazione è confusa, non esiste ancora un apparato legislativo a proteggere i beni passati
al demanio (come invece avveniva nello Stato Pontificio con l’Editto Pacca del 1820 che
sanciva la preminenza dell’utilità pubblica sugli interessi privati). Le opere nazionalizzate
sono inanzitutto affidate alle Accademie, ma mancano sia lo spazio sia il personale.
Nel 1861 Giovanni Battista Cavalcaselle e Giovanni Morelli sono incaricati di redigere un
inventario delle opere d’arte già di pertinenza ecclesiastica in Umbria e nelle Marche, in
seguito a questa esperienza Cavalcaselle invia un rapporto al Ministero della Pubblica
Istruzione in cui espone i principi guida della tutela: catalogazione, nomina di ispettori
locali, controllo dei restauri, divieto di esportazione (principi presenti nelle leggi degli stati
preunitari), e propone di mettere in atto una doppia sorveglianza, del comune nell’interesse
locale e dello stato in quello nazionale. Giovanni Morelli nel ‘62 in un discorso alla
Camera propone l’istituzione nelle regioni d’Italia di musei dove far confluire le opere
prelevate dai luoghi di culto, nel ‘63 scrive al ministro dell’Istruzione Pubblica auspicando
l’istituzione di musei su base regionale e provinciale e sottolineando il legame dell’arte
con il territorio.
Cavalcaselle e Morelli prestano attenzione solo alle opere di maggior pregio, in una
pecezione elitaria del bene culturale.

15
L’urbanizzazione, con l’abbattimento di parte dei centri storici, favorisce la nascita dei musei
civici fornendo loro materiale.
I musei civici si occupano di storia locale, memoria cittadina, indagine sul territorio,
raccogliendo quindi oggetti di genere molto vario (sul modello del South Kensington
Museum). Spesso questi musei prevedono un settore dedicato alla storia, che in alcuni casi
diventa un autonomo Museo civico di storia patria, in cui storia patria significa visione
celebrativa ed emozionale del risorgimento, fornita anche tramite l’uso delle opere d’arte
come documenti. L’idea di museo storico non è univoca, in Francia negli anni ‘50 del
Novecento il museologo Georges Rivière definisce “patrimonio territoriale” storia,
archeologia, etnografia di un territorio, e idea un museo in cui oggetti e documenti
devono essere in dialogo costante, il musée discours, che si svilupperà nell’ecomuseo.
In Germania i Landesmuseum sono paragonabili a musei civici, gli Heimatmuseum, che
nascono come legati all’ideologia del momento ma recentemente si sono spostati verso
l’ambito socioculturale del territorio, sono assimilabili ai musei di storia patria.

CAPITOLO 7
IL DIBATTTTO SUL MUSEO NEL NOVECENTO: LA CONFERENZA DI MADRID
DEL 1934
A inizio Novecento il modello museale ottocentesco non risponde più alle esigenze della
società. C’erano già state deviazioni dal canonico, come il South Kensington e gli altri musei
che ispirandosi alle Grandi Esposizioni usano materiali nuovi, comprendono vasti spazi di
accoglienza, prevedono percorsi liberi, creando un rapporto più diretto e confidenziale con il
pubblico.
Sulla stessa linea nel 1913 Otto Wagner progetta il Kaiser Franz Josef-Stadtmuseum (mai
costruito) con tre ordini di gallerie con lampioni circondano un vestibolo centrale, cercando
di coniugare monumentalità e funzionalità, storicismo e modernità, rileggendo la rotonda
nella hall a pianta quadrata.
Nei musei americani l’attenzione ai visitatori diventa fondamentale, e quindi
l’impostazione europea è messa in discussione (anche se il modello architettonico europeo
rimane diffuso). I musei americani sono votati alla didattica e a inizio XX secolo hanno un
forte rapporto con la produzione industriale e con il suo legame con la vita dei cittadini.
John Cotton Dana nel 1909 crea il Newark Museum, ponendosi l’obiettivo di migliorare il
design anche collaborando con i grandi magazzini, le scuole, i centri di produzione. Si
elabora negli USA l’idea di museo come servizio al pubblico, con il compito di contribuire
alla crescita intellettuale della collettività. George Brown Goode, direttore dello U.S.
National Museum of Washington, dal 1889 parla di educational museum e
dell’importanza di didascalie e pannelli esplicativi. La via americana al museo è
chiaramente legata all’esempio del South Kensington, nato con lo scopo di usare
l’educazione all’arte per migliorare la qualità dei prodotti industriali (adoperando come
modelli anche copie di opere celebri).
I musei statunitensi sono tutti di nuova formazione, il che facilita gli allestimenti innovativi.
Il Cleveland Museum of Art è un esempio di organizzazione moderna e razionale: ha un
piano principale con al centro la rotonda e con due corti vetrate, una per l’esposizione e una
per un giardino coperto, e un basamento con uffici, sale studio, biblioteche, sale conferenze.

16
E’ qui che compare la prima Period Room, sala d’epoca tipica dei musei americani,
ricostruzione dell’ambiente per il quale gli oggetti esposti erano stati creati (simili al modello
del Kaiser Friedrich di Bode). Le Period Rooms hanno successo per via della loro immediata
efficacia didattica.
L’attenzione per il museo si intensifica nel periodo tra le due guerre anche grazie alla
creazione da parte della SdN della Commission Internationale de Cooperation
Intellectuelle (CICI), fondata su proposta francese nel 1922 e presieduta da Henri Bergson.
La CICI ha l’obiettivo di promuovere scambi culturali tra gli stati membri, da questo primo
nucleo discende l’Organisation de Coopération Intellectuelle (OCI), antenata
dell’UNESCO e articolata in sottocommissioni. Henri Focillon, membro di una di queste
sottocommissioni, si impegna per la creazione dell’Office International des Musées (OIM)
nel 1926. Focillon considera il museo luogo del confronto, laboratorio per lo studio
comparativo delle testimonianze visive di una civiltà, e ritiene che non debba agire solo
per lo storico dell’arte ma anche per il nuovo pubblico, superando il modello del XIX
secolo. Per Focillon il museo è milieux vivant dove il pubblico cerca un “certain mode
d’information, mais aussi un monde heroique”.
Focillon espone le sue riflessioni museografiche all’XI Congresso Internazionale di Storia
dell’Arte di Parigi del 1921: il XIX secolo ha contrapposto due generi museali, quello
destinato agli artisti, che parla di capolavori isolati, e quello per gli storici dell’arte, che
parla di opere concatenate, nessuno dei due tiene conto delle esigenze di un pubblico
diverso.
Per Focillon gli allestimenti vanno svecchiati, il sovraffollamento delle opere va superato.
Focillon indica i compiti dell’OIM: redigere cataloghi dei musei, compilare un catalogo
generale delle vendite di opere d’arte, stipulare un accordo internazionale tra le
Calcografie di Parigi, Roma, Madrid per lo scambio di opere e l’istituzione di
esposizioni itineranti, avviare attività didattiche nei musei secondo il modello statunitense,
fondare una rivista trimestrale di museografia (Mouseion 1927-1946) destinata a direttori
di museo, conservatori, storici dell’arte.
Il ruolo di Mouseion è fondamentale per la discussione sull’inadeguatezza dell’impianto
classicista del museo, contribuisce a diffondere l’idea della necessità di aprirsi alla società
civile e di trasformare il museo in un luogo da frequentare con curiosità e piacere.
Mouseion prepara il campo alla Conferenza di Madrid del 1934.
I temi discussi su Mouseion sono: la necessità di operare una selezione per snellire le
esposizioni, la possibilità di realizzare ampliamenti, l’esclusione degli elementi decorativi
per rendere la parete neutra, la creazione di percorsi più flessibili e di ambienti meno
monotoni. La rivista ha carattere internazionale e presta molta attenzione al confronto con gli
USA.
Nel ‘30 su Mouseion compare l’articolo Le musée moderne. Son plan, ses fonctions di
Bach, curatore della sezione di arte industriale del Met, il quale sottolinea che il museo
abbia i compiti di esporre, conservare, educare e quindi abbia bisogno non solo di sale
espositive per le collezioni permanenti e le mostre temporanee, ma anche uffici, depositi,
gabinetti fotografici e di restauro, guardaroba, sale studio, luoghi di sosta ecc.
Sono le stesse idee della proposta per il museo di domani dell’architetto Clarence S. Stein,
che parte dall’idea che il pubblico si divida in studiosi e visitatori comuni e che quindi

17
serva distinguere due percorsi (the student’s museum for investigation e the public’s
museum for appreciation), e dividere le opere per interesse e qualità, separando capolavori e
opere secondarie. Il museo che l’architetto americano immagina è un grattacielo a pianta
ottagonale con otto gallerie convergenti nella rotonda centrale che funge da spazio
informativo e che sono riservate al pubblico e ospitano la collezione in Period Rooms, e con
una galleria perimetrale riservata agli studiosi, sorta di deposito visitabile. Inoltre devono
essere presenti servizi di accoglienza, sale studio, biblioteche, laboratori ecc. Il lessico
architettonico è classicista ma la concezione del museo è moderna (come lo è l’idea di dover
garantire flessibilità alle collezioni).
Nel 1927 la SdN indice un concorso per la costruzione a Ginevra di un centro culturale
internazionale, il Mundaneum, che includesse un museo del sapere universale. Il progetto
più interessante è quello, sconfitto, di Le Corbusier: tre navate che si sviluppano lungo
una spirale, dando all’edificio forma piramidale. Da qui Le Corbusier arriverà al museo a
crescita illimitata, spirale quadrata senza facciata e costruita con materiali semplici e
moduli standard, essenziale, rigorosa, funzionale in una concezione del museo come
“macchina per esporre”. La posizione radicale di Le Corbusier genera polemiche, su
Mouseion nel 1929 Perret gli risponde con il museo dell’avvenire in grado di conciliare
aspetti monumentali e risorse tecniche: in cemento armato, con doppio percorso che ospiti i
capolavori in una rotonda da cui partono gallerie a raggiera che sboccano in sale, con
davanti alla rotonda una corte rettangolare con sale di congiunzione che portano alle gallerie
“di studio” per le opere minori.
Nel ‘34 sempre su Mouseion Cret contesta la riduzione del museo a magazzino costruito
economicamente.
L’OIM si occupa anche dei temi del restauro dei dipinti e di quello architettonico, dedicando
al primo una conferenza a Roma nel 1930 e al secondo la Conferenza Internazionale sulla
Conservazione dei Monumenti Storici di Atene del ‘31, che elabora la Carta di Atene,
primo passo verso la Carta Internazionale del Restauro del ‘64.
La Conferenza di Madrid del 28 ottobre-4 novembre 1934 è il momento di culmine del
dibattito sull’idea di museo che si era diffuso tra le due guerre. Madrid è scelta anche per via
del riordino del Prado, che metteva in pratica i principi del doppio percorso, della
selezione, dell’illuminazione naturale. Il conservatore del Louvre Louis Hautecoeur
nell’intervento d’apertura della Conferenza affronta le questioni aperte (la pianta dei musei,
la distribuzione delle opere la possibilità di ampliamento, la decorazione), offrendo un ampio
raggio di argomenti alla discussione e facendo emergere una serie di antinomie:
funzione/decorazione, selezionare/ambientare, spazio fluido/percorso obbligato, in generale
rinnovamento/tradizione. Un solo relatore a Madrid è architetto, Stein, ed è lui ad affrontare il
tema dell’illuminazione, definendo il sistema illuminotecnico inscindibile dal progetto
architettonico museale.
Un tema centrale è la flessibilità, che porta anche alla critica delle ricostruzioni
d’ambiente, in una visione moderna l’oggetto deve essere mostrato come frammento
decontestualizzato e quindi ricontestualizzabile in modi diversi. Ai musei ambientati si
contesta anche la rigidità dell’allestimento.
La delegazione italiana a Madrid non è composta da direttori di museo ma da alti
funzionari del Ministero dell’Educazione Nazionale, e si occupa del tema degli edifici

18
storici riadattati come sedi museali, argomento già trattato da Giovannoni su Mouseion.
Giovannoni, direttore della Scuola superiore d’Architettura di Roma, affronta il problema del
compromesso tra l’edificio e le esigenze delle collezioni e parla di separare una parte
rappresentativa e una parte rigorosamente scientifica delle collezioni, che devono però
collaborare e disporre di servizi comuni. Sullo stesso tema interviene Roberto Paribeni, che
sostiene la necessità di armonizzare collezione ed edificio (perché le opere d’arte non
nascono per edifici neutri ma per completare la decorazione di luoghi caratterizzati), in
una posizione che rimane ancorata al museo di ambientazione. Ugo Ojetti tratta delle
mostre temporanee in rapporto al museo, riconoscendole come primo anello di contatto
tra arte e pubblico e come momento di sperimentazione espositiva.
La Museografia italiana appare sospesa tra una concezione tradizionale e un prudente
desiderio di aggiornarsi. La Pinacoteca Vaticana, realizzata tra il ‘29 e il ‘32, è un edificio
neorinascimentale riccamente decorato, ma ha attrezzature all’avanguardia nei laboratori di
restauro.
Un’eccezione a questo panorama è la Galleria Sabauda di Torino, il cui direttore
Guglielmo Pacchioni riorganizza il percorso espositivo nel 1932 con criteri moderni e
con un ordinamento selettivo.
La museografia italiana recupererà il proprio ritardo culturale solo con la ricostruzione dei
musei in seguito alla guerra.
CAPITOLO 8
L’EPOCA D’ORO DELLA MUSEOGRAFIA ITALIANA
Nel 1953 il direttore generale delle Antichità e Belle Arti, Guglielmo De Angelis
D’Ossat, pubblica un rapporto sul ripristino dei musei italiani dopo la guerra. Il
documento testimonia l’impegno nella ricostruzione e i principi generali applicati. La
ricostruzione coinvolge oltre 150 musei e si impegna a cercare di migliorare le condizioni
preesistenti. Le collezioni erano rimaste quasi totalmente indenni grazie al lavoro delle
soprintendenze e delle amministrazioni locali. I principi affermati a Madrid sono enunciati da
De Angelis D’Ossat come criteri-guida: gli spazi sono neutri, si creano strutture leggere
facilmente spostabili, le esposizioni sono snellite, la luce è studiata con attenzione, sono
istituiti laboratori di restauro, sale di studio, sale per esposizioni temporanee e per
conferenze pubbliche, si tengono mostre didattiche. Anche nel caso di edifici storici le
soluzioni sono efficaci, come nel caso di Palazzo Bianco a Genova (Franco Albini) e delle
Gallerie dell’Accademia di Venezia (Carlo Scarpa).
La Pinacoteca di Brera è un caso esemplare per il suo compromesso tra ripristino e
innovazione, con un ammodernamento prudente e misurato. Nel 1946 il direttore Ettore
Modigliani affida il riallestimento all’architetto Piero Portaluppi (già intervenuto negli anni
‘20), per Fernanda Wittgens il risultato è “una Brera antica e nuova, aulica e insieme
vivente”. E’ antica nell’uso dei marmi preziosi, nuova nella presentazione nitida dei dipinti
che non sono ammassati, nelle pareti chiare, nell’illuminazione. Per volontà di Guglielmo
Pacchioni, soprintendente alle Gallerie dal ‘39 al ‘46, la progettazione delle salette attigue
alle sale napoleoniche è assegnata ad Albini. L’intervento di Albini introduce a Brera
strutture leggere di stile industriale (Albini aveva allestito padiglioni fieristici), il corridoio
Albini unifica le salette in una galleria in cui dispone una sequenza di pannelli chiari a
pettine e combina luce naturale e artificiale.

19
I più importanti interventi di Albini sono però a Genova, in sintonia con la responsabile dei
musei civici Caterina Marcenaro. A Palazzo Bianco (settecentesco, ospita scultura, pittura,
arti decorative genovesi) Albini afferma di voler “ambientare il pubblico”, capovolgendo il
modello del museo che ambienta l’opera ma non dialoga con l’osservatore. Usa strutture
semplici, elementi di arredo familiari, sono eliminati gli elementi d’arredo che
richiamano la natura nobiliare dell’edificio, persino le cornici non coeve alle opere sono
rimosse, Marcenaro effettua una rigorosa selezione delle opere. I pavimenti sono in
ardesia con piccoli riquadri di marmo bianco, tipicamente genovesi, le pareti sono
chiare, i supporti neri o grigi, l’unico colore è dato dal cuoio delle sedie pieghevoli. La luce
naturale è filtrata da tende di listelli metallici orientabili, quella artificiale diffusa da
lampade fluorescenti ancorate al soffitto. Le opere sono agganciate a guide sul soffitto con
sottili tondini metallici o disposte su piantoni e ritrovano uno spazio autonomo, di
isolamento. Il fulcro è l’elevatio animae di Margherita di Brabante di Giovanni Pisano,
posta di fronte a una parete di ardesia e fissata su mensole asimmetriche innestate su un
sostegno telescopico che ne permette il movimento. Gli allestimenti degli anni ‘50 mirano
alla flessibilità ma in realtà spesso sono così calcolati e precisi che questa non è
realmente realizzabile.
A Palazzo Bianco sono creati depositi visitabili nel piano intermedio e nel sottotetto, con i
dipinti su pareti mobili o scorrevoli grazie a guide sul soffitto.
A Palazzo Rosso Albini sceglie di conservare il carattere barocco della dimora nobiliare,
perché le decorazioni sono meglio conservate. Albini elimina i tramezzi che chiudono logge
e porticati e li sostituisce con lastre di cristallo, afferma che aria e luce siano materiali da
costruzione. Distingue tra i due piani nobili, nel primo, non affrescato, dispone i dipinti
più antichi, nel secondo dispone quelli barocchi coevi con le decorazioni. Usa anche qui
tondini d’acciaio scorrevoli su guide fisse e supporti tubolari mobili a bandiera. Le
finestre sono schermate con tendaggi leggeri, sono introdotte note di colore come il feltro
rosso dei pavimenti al secondo piano nobile. Per gli oggetti di arte applicata Albini idea
vetrine a croce asimmetriche da disporre al centro delle sale o sospendere al muro. Ogni
piano ha un deposito con griglie scorrevoli su rotaie.
Le scelte che Albini adotta per il Museo del Tesoro di San Lorenzo sono diverse. Il museo è
sotterraneo, situato nel cortile dell’Arcivescovado, e ha tre camere a pianta circolare
ispirate alla tholos micenea. Il pavimento si abbassa per accogliere e isolare le opere più
significative, ogni volta ha un oculo centrale da cui filtra luce zenitale. La collezione è
finita, non è necessaria flessibilità.
A Milano negli stessi anni il direttore dei musei del Castello Sforzesco Costantino Baroni
ne commissiona il riallestimento al Gruppo BBPR (Banfi, Barbiano di Belgiojoso, Peresutti,
Rogers), aderente al contestualismo architettonico (necessità di tener conto delle
preesistenze ambientali). Direttore e architetti collaborano partendo dalla premessa che la
struttura del Castello fosse sufficiente a generare “una orchestrazione romantica
d’immediata comunicatività” e dall’obiettivo di realizzare un museo popolare, parlante,
non di astratta presentazione delle opere. Per ottenere il coinvolgimento emotivo del
pubblico sarà fatto ricorso anche a soluzioni spettacolari che saranno criticate. Il restauro è
complesso, cinquant’anni prima erano stati realizzati rifacimenti “in stile”, le aggiunte

20
tardo ottocentesche sono rispettate ma le decorazioni interne non autentiche sono
alleggerite.
I muri divisori delle prime sale della Corte Ducale sono abbattuti, ottenendo sia un recupero
dell’architettura originaria sia una continuità fluida degli spazi. All’inizio del percorso è
posta a fare da suggestivo incipit la Pusterla dei Fabbri, una delle porte minori della città.
Il restauro riporta alla luce il monocromo di Leonardo della Sala delle Asse, coperto perché
non riconosciuto come autentico. La sala è lasciata libera per non interferire con il reperto e
dotata di pannelli rimovibili per le mostre temporanee, eliminate nell’82. Il dialogo tra
ambiente storico e oggetti esposti è fondamentale per questo allestimento che riconosce
l’architettura come parte integrante del percorso. Al pianterreno della Corte Ducale
sono conservate le decorazioni antiche e la scultura lombarda è disposta su superfici e
spazi chiari e definiti con nicchie, leggii, pareti per attribuire a ogni opera il proprio
luogo. Il percorso è drammatizzato dalle prospettive inaspettate e dallo studio
dell’illuminazione, i materiali usati per i supporti sono legno, bronzo, ferro battuto, pietra.
Sono predisposti agganci per nuovi supporti, con una flessibilità che non sarà mai sfruttata
(ci sono tentativi ma interferiscono con l’armonia). La Pietà Rondanini di Michelangelo è
esposta alla fine, al termine di una scalinata, in una nicchia esagonale di pietra, isolata dal
resto della collezione. L’allestimento della Pietà è molto criticato, è pensato per sorprendere il
visitatore nel quadro del grande racconto popolare che l’allestimento BBPR vuole essere.
Dagli anni ‘90 si inizia a pensare a una nuova sistemazione (anche per via della barriera
architettonica della scalinata e dell’impossibilità di vedere il retro dell’opera), nel 2015 è
inaugurato il Museo della Pietà Rondanini (Michele De Lucchi) all’Ospedale degli
Spagnoli.
Al piano superiore sono esposti mobili e opere pittoriche. I mobili sono staccati dal
pavimento e disposti su ripiani per evitare l’ambientazione, gli ambienti non presentano
decorazioni antiche, i quadri sono esposti su pannelli articolati e componibili rivestiti di
tela neutra. La luce naturale è dosata tramite l’apertura di ampi lucernari o, nella sala della
torre d’angolo dove questo è impossibile, tramite un velario in tavole di pino orientabili.
L’allestimento BBPR è ormai stato quasi totalmente modificato.
A Milano la Galleria d’Arte Moderna di Villa Belgiojoso è gravemente danneggiata dalla
guerra, il direttore Costantino Baroni decide di riservare alle collezioni ottocentesche
l’edificio principale e dedicare uno spazio separato all’arte contemporanea. Nasce su
progetto di Ignazio Gardella il Padiglione d’Arte Contemporanea, dove prima dei
bombardamenti sorgevano le scuderie, inaugurato nel 1953. Le proporzioni degli edifici
originari sono preservate, come la planimetria e l’estensione in altezza. E’ mantenuta
continuità con il giardino anche tramite una vetrata continua, e lo spazio architettonico
interno è un unico ambiente semplice e luminoso, articolato in sale esagonali. L’architetto
semplifica al massimo le strutture per ottenere funzionalità e flessibilità.
Un altro grande protagonista della scuola museografica italiana è Carlo Scarpa, che tra ‘46 e
‘48 interviene sulle Gallerie dell’Accademia di Venezia in collaborazione con il direttore
Vittorio Moschini, seguendo la linea della revisione critica del patrimonio per diradare le
opere esposte. Le cornici non pertinenti sono rimosse, le tapezzerie sono eliminate, sulle
pareti sono stesi intonaci lavorati con sabbie di grana diversa per le diverse sale. I dipinti
sono su pannelli disposti con variazioni per evitare la simmetria, è data particolare

21
attenzione alla luce naturale (nella sala dei Primitivi sono riaperte finestre chiuse
nell’Ottocento). Nel 2004 l’Accademia è stata trasferita, raddoppiando lo spazio a
disposizione delle Gallerie, è in corso un ripensamento del percorso gestito da Tobia Scarpa.
Nel ‘53 Carlo Scarpa inizia il riallestimento delle sezioni storiche del Museo Correr di
Venezia e in contemporanea cura la mostra Antonello da Messina e la pittura del
Quattrocento in Sicilia a Messina, foderando le sale in calicot bianco pieghettato (detto
“cencio della nonna”). Al Correr le collezioni storiche sono molto variegate, per ogni
tipologia di oggetto è studiata un’esposizione differente (i costumi sono in vetrine di
cristallo e ferro, le bandiere sono applicate su teli ed appese in alto). I quadri sono su
pareti chiare o su cavalletti, illuminati da luce filtrata da tende di seta, le opere hanno
ognuna il proprio spazio. La Pietà di Antonello da Messina, opera di spicco, è impostata
diagonalmente contro una quinta in travertino, si impone allo sguardo del visitatore.
La museografia di Scarpa (Gipsoteca di Possagno, Palazzo Abatellis a Palermo) è
caratterizzata dall’uso dell’architettura come strumento critico, dalle soluzioni studiate ad
hoc per ogni opera, dalla sensibilità per la luce naturale nelle sue variazioni, dalla cura
artigianale nella realizzazione dei supporti per gli oggetti. Nel 1958 Scarpa allestisce la
mostra Da Altichieto a Pisanello a Castelvecchio, incaricato dal direttore Magagnato. Si
impegnerà nel restauro di Castelvecchio fino al ‘64, restauro fortemente influenzato dalla
struttura originaria del castello che emerge durante i lavori. Aggiunte napoleoniche sono
abbattute, le facciate gotiche sono valorizzate, le sculture antiche sono disposte su basi
calibrate per ogni opera e lette in luce del profondo legame con gli spazi del museo. La
statua equestre di Cangrande della Scala, opera emblematica, è collocata su un alto
basamento in calcestruzzo in modo da essere visibile sia da vicino sia da lontano e dal basso,
offrendo diverse prospettive in quella che è una soluzione geniale ma che conferma
l’immodificabilità dell’allestimento.

CAPITOLO 9
IL MUSEO DEL XXI SECOLO: GRANDI ARCHITETTI, IL MUSEO COME
LANDMARK, LA COMPETIZIONE CON LE MOSTRE
Per Argan l’ordinamento ideale si presta a essere continuamente scomposto e ricomposto, le
determinanti delle condizioni di spazio, luce, colore sono le opere d’arte, e l’architettura deve
sapersi subordinare e dissimulare. Richiama come struttura ideale il PAC di Gardella.
Negli stessi anni (i progetti sono degli anni ‘40, l’inaugurazione è nel ‘59) si realizza il
Somolon Guggenheim Museum di Frank Lloyd Wright, dedicato ai “Non-Objective
Painting”. E’ un museo che sconvolge i canoni tradizionali, un invaso vuoto cinto da una
rampa a spirale di sette piani che impone un percorso dall’alto verso il basso. Le opere
sono collocate su muri curvi e sembrano fluttuare. La spirale richiama Le Corbusier ma il
Guggenheim ne contraddice lo spirito: è un edificio spettacolare che si impone nel tessuto
urbano. La rivoluzione della rotonda si pone in continuità con lo spazio esterno. Si instaura
una competizione tra struttura architettonica e opere d’arte, con i musei che diventano
landmarks e cercano di imporsi sull’immagine di quartieri o città intere.
Il prevalere della forza architettonica espressiva a scapito della funzionalità emerge anche
nella Neue Nationalgalerie di Berlino realizzata da Mies van der Rohe nel 1968, la quale
sviluppa il rapporto con l’esterno con l’idea del “museo per una piccola città”, a un solo

22
piano, con una grande vetrata. Già nel ‘39 il MoMa (Philip Goodwin, Edward Durrel
Stone) nasce con un piano inferiore concepito “come la vetrina di un grande magazzino”.
Nella Nationalgalerie il tema della trasparenza è portato all’estremo con la totale
eliminazione di pareti esterne in muratura, è una vasta aula dalle pareti in vetro, le opere
esposte hanno come scenario quindi la città (ma in realtà la collezione permanente è esposta
in tradizionali sale nel basamento).
Una svolta ancora più radicale è quella del Centre Pompidou creato nel 1977 a Parigi con la
volontà di strappare a New York il ruolo di capitale dell’arte contemporanea. Non si definisce
museo, vuole distinguersi dalla tradizione e porsi obiettivi diversi, rivendica un ruolo
propositivo, come luogo di attività dove le arti visive si accompagnano a cinema, fotografia,
musica, design e dove è promossa la ricerca. Si lega all’esperienza del Sessantotto e alla
negazione della cultura ufficiale, del principio di autorità, del sistema scolastico. Il Centre
Pompidou vuole coinvolgere il quartiere, essere strumento di comunicazione sociale.
E’ un dissacrante parallelepipedo vetrato con struttura in acciaio, attraversato dalle
scale mobili, e dalle tubature colorate a vista, progettato da Renzo Piano e Richard
Rogers. Vi si accede da un ampio spazio che scende verso l’edificio, la trasparenza dissolve
i confini tra interno e esterno, il limen tra vita quotidiana e spazio sacrale del museo è
annullato. Gli spazi interni prevedono vaste zone di accoglienza a ogni piano. L’esposizione
permanente (arte del XX secolo) è al terzo e al quarto piano, dove il percorso originario,
molto libero, è stato sostituito negli anni ‘80 da un progetto di Gae Aulenti. Il Centre
Pompidou rappresenta la fine del canone, ogni museo ormai è un caso a sé.
Nel 1989 al Louvre è aggiunta la Pyramide di Ieoh Ming Pei, che ne diventa simbolo e
segno di modernità.
Negli anni ‘60 è inventata l’installazione, anche se in realtà possono essere considerate
installazioni già creazioni ottocentesche come l’opera di arte totale di Wagner (definizione
usata per il teatro lirico) o l’insieme di arte e architettura dello Jugendstil.
Con il surrealismo e la pop art l’idea di arte totale si manifesta nell’installazione e
nell’happening, nuove esperienze estetiche a cui devono corrispondere nuovi musei.
Nel ‘67 si fa interprete di queste idee Documenta, rassegna d’arte contemporanea di Kassel:
sono messe a disposizione degli artisti un parco e un castello in parte bombardato
affinché questi realizzino un’opera site specific. Il museo si confronta quindi con opere di
land art, con installazioni non permanenti, con altre che esigono sovvertimenti dello
spazio tradizionale. Un museo come il MUSMA di Matera (scultura del XX secolo), che usa
i sassi come sale espositive, è concepibile solo in seguito a questa evoluzione.
Negli ultimi decenni del XX secolo il museo è un tema centrale della progettazione
architettonica, si impone sempre di più come opera d’arte in sé. Sono esempi il Museo del
legno di Tadao Ando, la Casa de Hombre a La Coruna di Arata Isozaki, ecc.
Nel Judisches Museum di Daniel Libeskind a Berlino l’architettura esprime la tragedia
dell’Olocausto meglio di qualsiasi oggetto esposto, con i tagli diagonali che tormentano le
pareti esterne zincate. Memorial con la sua pianta ispirata alla stella di Davide ma
deformata comunica al visitatore angoscia e sofferenza, mentre l’intento didattico
dell’allestimento interno mortifica la forza comunicativa dell’edificio.
Il Getty Center di Los Angeles, affacciato sul Pacifico (Richard Meier) è formato da un
insieme di vari edifici dedicati alla ricerca, alla conservazione, alla documentazione in ambito

23
artistico. Gli edifici hanno spirito mediterraneo, usano il travertino e il marmo in
un’imitazione dell’acropoli, l’articolato complesso cerca di essere una cittadella della
cultura classica, senza tempo, lontana dai rumori cittadini. Il museo occupa la parte più
panoramica della collina, è costituito da cinque edifici collegati da passerelle al livello
superiore, nella rotonda vetrata e inondata dalla luce naturale ci sono punti informativi,
guardaroba, bookshop. Le sale superiori hanno lucernari che non solo illuminano ma
permettono di osservare il cielo. E’ un museo molto moderno, ultimato nel 1997, ma ospita
comunque Period Rooms.
Un museo in simbiosi con la città è invece il Museums Quartier di Vienna, parte di un
progetto di riqualificazione urbana, inaugurato nel 2001, spazio vastissimo che fa da sfondo
alla piazza dei musei gemelli ottocenteschi; l’edificio principale sono le antiche stalle della
residenza imperiale, la cui architettura barocca è conservata da Ortner und Ortner.
Nella corte interna Ortner und Ortner realizzano due edifici compatti e di colore
contrastante, uno in pietra bianca per il Leopold Museum (artisti austriaci) e uno in
basalto nero per le collezioni di arte moderna e contemporanea. Barocco e avanguardia
convivono nel complesso che accoglie più di venti istituzioni culturali.
Il Guggenheim Bilbao (‘91-’97) riqualifica l’intero capoluogo basco, centro industriale in
decadenza. L’amministrazione cittadina punta sul rinnovamento affidando a famosi architetti
la progettazione di edifici come l’aeroporto e le stazioni della metropolitana. In accordo con
la Guggenheim Foundation diretta da Thomas Krens, che avvia un programma di
espansione internazionale, Bilbao commissiona a Frank O. Gehry la realizzazione di un
museo per l’arte contemporanea. Il museo diventa landmark simbolo della nuova identità
urbana, è sulla riva del fiume, ha volumi sinuosi e superfici rivestite di lastre di titanio, si
specchia nell’acqua. All’interno gli spazi sono più regolari, ma la galleria principale
riprende il percorso flessuoso esterno. Lo spazio è enorme, ospita opere molto grandi, ci si
chiede se la spettacolarizzazione che offre non tradisca la missione museale di presentare
le opere senza soverchiarle.
Mario Botta, architetto del Moma di San Francisco (SFMOMA), afferma che ora per un
architetto progettare un museo è come nel medioevo progettare una cattedrale. I musei del
nuovo millennio sono spesso progettati da architetti affermati, hanno architetture che
rimodulano l’identità dello scenario urbano e sono slegate dal modello museale, sono dotati
di spazi per i servizi e l’intrattenimento sul modello dei centri commerciali. De Carlo parla di
ipermusei o di musei dell’iperconsumo. Nei musei tradizionali il rapporto spazi
espositivi/servizi era 9:1, negli ipermusei è 1:2, e i compiti istituzionali (conservazione,
studio del patrimonio, esposizione) del museo si ritraggono. Questo non avviene solo con
musei di nuova fondazione, ma anche con l’aumento degli spazi di musei pre esistenti, con
ampliamenti o nuove sedi. Il Prado ingloba strutture limitrofe (Chiostro de los Jeronimos)
nel suo ampliamento del 2007, il Victoria and Albert recupera una corte laterale
ricavando una nuova piazza con una sala ipogea (Amanda Levete) che rispetta l’edificio
storico.
L’ampliamento sostenibile è principio-guida di Renzo Piano: l’Isabella Stewart Gardner
Museum di Boston acquisisce una nuova ala composta da quattro blocchi connessi in vetro e
rame ossidato per concerti, mostre temporanee, ristoranti, laboratori d’arte, l’Art Institute di

24
Chicago ottiene la Modern Wing in acciaio, vetro, pietra calcarea, l’espansione del Kimbell
Art Museum di Fort Worth è a 50 metri dall’edificio storico con cui dialoga.
L’approccio di Frank O. Gehry nell’ampliamento dell’Art Gallery Ontario (Toronto 2008)
è invece opposto: la nuova costruzione incombe sul vecchio museo soverchiandolo con la
sua scala a spirale e la sua copertura ondulata.
Nel 2000 a Londra è inaugurata la Tate Modern, nata dalla riconversione di una centrale
elettrica in un quartiere disagiato. La Tate Modern comprende spazi enormi (la Turbine Hall)
ma sente comunque il bisogno di aumentarli dopo pochi anni, sia nell’ambito delle superfici
espositive sia in quello delle aree di accoglienza e dei laboratori: nel 2016 è inaugurata la
Switch House (Herzog & de Meuron, come la Tate), piramide sghemba alta dieci piani e
ricoperta di mattorni rossi come la struttura principale.
L’apertura di sedi decentrate è inaugurata dalla Fondazione Guggenheim di New York con il
direttore Thomas Krens: il progetto prevede filiali in diverse città, ma solo quella di Bilbao
avrà successo (Berlino chiude dopo circa 15 anni, Las Vegas dopo 7, Vilnius e Guadalajara
non sono realizzate). Il progetto fa scuola: il Centre Pompidou apre a Metz, 2010, e
Malaga, 2015, (con il Cubo di Cristallo di Buren), il Louvre nel 2012 apre a Lens e ad Abu
Dhabi (sul’isola artificiale di Saadiyat) nel 2017 (dopo molte polemiche e contestazioni), con
un insieme di cinquanta edifici arabi ispirati alle medine e collegati da un’enorme cupola
luminosa che sembra fluttuare sull’acqua (Jean Nouvel). Saadiyat mira a diventare
un’isola degli ipermusei, sono previste una sede del Guggenheim (Gehry), un museo di
storia nazionale (Norman Foster), sono progettati ma non realizzati il Performing Arts
Center di Zaha Hadid e il Maritime Museum di Tadao Ando.
Le potenzialità mediatiche ed economiche degli ipermusei sono sfruttate anche dal mondo
della moda: a Parigi nel ‘94 la Fondation Cartier apre un museo progettato da Jean
Nouvel, nel 2014 la Fondation Louis Vuitton inaugura un’enorme nuvola vetrata di Gehry,
in Italia la Fondazione Prada non crea un nuovo museo ma affida a Rem Koolhaas la
ristrutturazione di una vecchia distilleria (2015).
Il tema degli ipermusei tocca l’Italia solo marginalmente, i musei costruiti ex novo sono
pochi (MART di Rovereto, Mario Botta, MAXXI di Roma, Zaha Hadid, MUSE di
Trento, Renzo Piano), rimane diffusa la collocazione dei musei in edifici riqualificati, a
Milano il Museo del Novecento di Italo Rota (2010) è nello spazio dell’Arengario, edificio
fascista, a Napoli il Museo d’arte contemporanea Donnaregina (2005, ampliato nel 2007)
ha sede in un palazzo ottocentesco. Il MUDEC di Milano, progettato da David Chipperfield
e inaugurato nel 2014, è una struttura nuova ma sorge all’interno di un’area industriale
dismessa e allude con gli edifici squadrati alle ex officine che l’hanno preceduta.

CAPITOLO 10
PARTICOLARI TIPOLOGIE DI MUSEI
Le case-museo nascono dalla trasformazione di abitazioni private in musei aperti al
pubblico, sono caratterizzate dal permanere dell’ambiente domestico del collezionista. La
casa-museo non espone solo opere d’arte ma anche arredi e oggetti d’arte decorativa.
Dalla metà del XIX secolo si diffonde la pratica di istituirle per testamento, si tratta sia di
raccolte aristocratiche sia di nuovi ricchi borghesi, e nell’insieme gli oggetti che si
accumulano costruiscono una narrazione.

25
Talvolta le case dei collezionisti sono visitabili anche prima della donazione.
La musealizzazione comporta modifiche legate alle necessità conservative e di fruizione,
spesso in contrasto tra loro, e al bisogno di rendere agevole la lettura delle opere,
specialmente quella delle eccellenze, non sempre poste in evidenza. Si apre un dibattito su se
le didascalie siano opportune o se siano da preferirsi schede mobili che compromettano
meno la dimensione intima e domestica. Nei casi in cui è possibile si effettuano selezioni e
modifiche, ma alcuni donatori pongono la condizione di non modificare la conformazione
della casa, o almeno la costituzione di una fondazione guidata da persone di fiducia che la
gestisca. Un esempio è il caso di Gian Giacomo Poldi Pezzoli (1822-1879), che prima di
morire individua nell’amico e pittore, già direttore dell’Accademia di Brera, Giuseppe
Bertini, il primo direttore della propria casa-museo. Il Museo Poldi Pezzoli apre nel 1881
ed è un modello di riferimento.
L’avvocato Antonio Borgogna alla morte nel 1906 dona il proprio palazzo e la propria
collezione a Vercelli, con l’obbligo di istituire una fondazione. Il Museo Borgogna si
trasforma molto, solo di recente si torna ad un allestimento evocativo della sua natura di
casa-museo.
Sempre nel 1906 muore a Firenze Frederick Stibbert, che aveva già affiancato alla sua dimora
un eccentrico museo di armi, costumi, dipinti, arredi.
La casa-museo si diffonde in Europa e America nei primi decenni del XX secolo, ma molte
di quelle europee sono fortemente danneggiate dalla guerra, e le ricostruzioni per necessità o
per volontà non sono fedeli agli allestimenti originali. In America il modello della casa
museo resiste a lungo, nel 1924 si inaugura a Boston la casa-museo di Isabella
Stewart-Gardner, la quale aveva imposto di non spostare alcun oggetto.
Ci sono anche esempi di musealizzazione di abitazioni moderne, come Villa Necchi
Campiglio a Milano, dimora alto-borghese costruita negli anni ‘30 che ospita la Collezione
Gianferrari e quella di Alighiero de’ Michelis. Villa Necchi Campiglio è di proprietà del
FAI, aperta al pubblico dal 2008, e fa parte insieme ai musei Poldi Pezzoli, Bagatti Valsecchi,
e Boschi Di Stefano di una rete di case-museo.
Sono solitamente inclusi nel genere delle case-museo anche gli studi d’artista, che
solitamente ospitano opere maggiormente uniformi. Spesso sono gli artisti stessi a decidere di
dare destinazione museale ai propri studi o alle proprie dimore, come da Sir John Soane a
Londra, ma anche d’Annunzio con il Vittoriale. Sono veri e propri ateliers e conservano
materiale di studio, bozzetti, strumenti lo studio di Brancusi annesso al Centre Pompidou,
quello di Pellizza da Volpedo, quello di Vincenzo Vela.
Nel secondo Ottocento in Italia si costituiscono anche i primi musei diocesani, con lo scopo
di riunire e salvaguardare non solo reliquie, paramenti e oggetti sacri, ma anche pale d’altare,
gruppi scultorei, ecc. Nel corso del Novecento la Santa Sede con atti legislativi e costituendo
organismi appositi si impegna nella gestione di questi beni (1924 Pontificia Commissione
Centrale per l’Arte Sacra, 1988 Pontificia Commissione per i Beni Culturali della
Chiesa). Nascono musei radicati nelle realtà territoriali e legati ai musei locali e alle
scuole. I musei diocesani ospitano collezioni aperte e provenienti da territori anche vasti,
hanno quindi bisogno di soluzioni museografiche flessibili. Ci sono anche musei più antichi
legati alla Chiesa: i Musei del tesoro, i Musei della Fabbrica o dell’Opera del Duomo, e
con la fine dell’Ottocento nascono i Musei missionari, un genere di museo etnografico.

26
I musei etnografici danno importanza fondamentale agli oggetti, in genere d’uso, e corrono
il rischio di dare interpretazioni folkloristiche e poco accurate delle civiltà musealizzate. Sono
musei che spesso sfruttano le attrezzature multimediali per riprodurre la cultura intangibile,
come il Musée du Quai Branly di Parigi (2006, Jean Nouvel).
I musei etnografici hanno punti di contatto con gli ecomusei. Il termine ecomuseo nasce in
Francia negli anni ‘70, coniato da de Varine e Rivière. La riflessione sul museo etnografico
porta all’idea di un museo volto alla comprensione e alla salvaguardia dell’identità culturale,
l’ecomuseo lega la civiltà al territorio e rende il territorio il bene stesso da tutelare. E’ un
concetto che sconfina in quello di museo diffuso. L’ecomuseo si rivolge alla popolazione
locale e chiede partecipazione attiva, cerca di conservare tradizioni e attività produttive,
adopera gli edifici tipici del luogo. In Italia l’epicentro ecomuseale è il Piemonte, dove dal
‘95 esiste una legge per lo sviluppo di una rete ecomuseale.
I musei aziendali sono di recente formazione, nascono solitamente per finalità promozionali
(spesso comportano un costo superiore al guadagno). L’azienda che costituisce un museo
sceglie di comunicare una rappresentazione di sé non legata all’aspetto commerciale,
cercando di avvicinarsi al museo tradizionale. I musei aziendali sono in progress, legati a
istituzioni ancora in vita, e quindi necessitano di una costante revisione del percorso
espositivo. Spesso hanno ubicazioni atipiche: all’interno o vicino all’azienda stessa.

APPENDICI
LA TUTELA IN ITALIA: LINEAMENTI DI LEGISLAZIONE
Il concetto di bene pubblico inalienabile e dalla fruibilità garantita a tutti è enunciato da
Plinio il Vecchio nella Naturalis Historia e istituito dai romani con il Comes nitentium
rerum (custode delle cose che splendono). Il medioevo avversa le testimonianze classiche e
riusa i materiali dei monumenti antichi, ma con l’Umanesimo si diffonde una nuova
coscienza. Dopo alle bolle di Martino V e Pio II Sisto IV reintroduce i magistri viarum
(istituiti da Martino V) e vieta la vendita delle opere d’arte custodite nelle chiese.
Leone X affida a Raffaello il ruolo di prefetto della fabbrica di San Pietro prima e di
ispettore generale delle Belle Arti poi, Paolo III Farnese crea il Commissariato alle
antichità.
Papa Gregorio XIII Boncompagni con la Quae publice utilia del 1574 ribadisce il vincolo
sui beni privati di interesse storico-artistico.
Nel Settecento sotto la spinta del Grand Tour si intensificano gli interventi per la tutela del
patrimonio archeologico, come gli editti del cardinal Annibale Albani (1726, contro gli
scavi clandestini, 1733, per la difesa del “pubblico decoro” e la conservazione del “pubblico e
del privato bene”).
Nel 1802 l’Editto Doria rinnova l’impianto normativo includendo anche le opere mobili e
imponendo anche ai privati la compilazione di inventari. Nel 1820 è emesso l’Editto del
cardinal Pacca, che interviene in materia di scavi, inventariazione, esportazione, e crea
strumenti applicativi e una struttura di controllo, la Commissione permanente di
vigilanza, con sede centrale a Roma e ramificazioni sul territorio.
L’Editto Pacca sarà la linea guida per la normativa dell’Italia postunitaria, la quale affronta
un lungo vuoto legislativo colmato solo nel 1913 con il regolamento operativo che rende
applicabili le leggi nazionali di tutela del 1902 e del 1909. Inizialmente l’Italia unita deve

27
occuparsi del patrimonio ecclesiastico espropriato alle congregazioni prive di utilità sociale
sciolte (legge del 1865). Nel 1866 sono varate le “leggi eversive” che confermano
l’esproprio e ne affidano la gestione ai comuni, molti dei quali vendono parte delle opere
così ottenute (nel 1904 Orlando invia una circolare ai prefetti per cercare di verificare
l’ubicazione di questo patrimonio).
E’ mantenuto il corpus degli stati preunitari, con commissioni decentrate, civiche,
regionali, fino all’istituzione all’interno del Ministero della Pubblica Istruzione di una
Giunta di Belle Arti. I musei sono di fatto in mano alle Accademie. Nel 1875 è fondata dal
ministro Bonghi la Direzione generale degli scavi e dei musei (poi della Antichità e Belle
Arti), per svincolare i musei dalle accademie. Contemporaneamente è introdotta la tassa
d’ingresso ai musei, rimasta in vigore fino al 1997.
La legge 185 del 1902 avvia la tutela legislativa, seguita dalla più efficace e moderna legge
364 del 1909 (legge Rosadi), la quale stabilisce l’inalienabilità dei beni pubblici e di quelli
privati ritenuti di alto valore storico e culturale, vietandone quindi la modifica. Questi beni
privati sono soggetti a notifica, la loro tutela spetta allo stato e lo stato ha diritto di prelazione
in caso di vendita (concessa solo all’interno del territorio nazionale).
La legge Rosadi inoltre crea una struttura organizzativa centrale con ramificazioni territoriali,
le soprintendenze. Prevede anche la compilazione di un catalogo del patrimonio pubblico,
ma per questa si dovrà aspettare un regio decreto del 1923.
Nel 1939 il ministro Bottai promulga due leggi fondamentali, scritte con il contributo di
Lunghi e Argan, che ampliano la legislazione vigente partendo da un’impronta
protezionistica e dall’idea dell’interesse collettivo. La 1089/39 specifica che sono oggetto
di tutela anche le testimonianze etnografiche e gli edifici storicamente rilevanti, conferma la
notifica e la prelazione, interviene contro l’esportazione, stabilisce la proprietà statale di
tutti i ritrovamenti archeologici, esclude dalla tutela le opere di artisti viventi o terminate
meno di cinquant’anni prima. La 1497/39 si occupa di beni paesaggistici e ambientali e sarà
superata dalla Galasso del 1985.
L’attenzione al patrimonio culturale si fa più intensa negli anni ‘60, quando si diffonde anche
consapevolezza sullo stato di abbandono di questo patrimonio. Nel 1963 è istituita la
Commissione parlamentare per la tutela e la valorizzazione del patrimonio, che produce la
Relazione Franceschini, la quale denuncia il degrado del patrimonio e dichiara la
necessità di intervenire urgentemente.
Nel 1968 è istituita la Commissione Papaldo, con scopi analoghi ma anche per predisporre
un progetto di legge per la riforma delle strutture amministrative, parlando non solo di
conservazione ma anche di promozione. Nel 1974 con la legge n.5 è istituito il Ministero per
i Beni Culturali e Ambientali, fortemente voluto da Giovanni Spadolini. Negli anni ‘80 il
ministro De Michelis parla di giacimenti culturali intendendo accompagnare alla
catalogazione del patrimonio anche l’impiego di giovani laureati e un maggiore sfruttamento
anche economico di queste riserve di proprietà dello stato, con iniziative, mostre, eventi.
La riforma del titolo V della Costituzione del 2001 delega agli enti locali il compito di
valorizzare e gestire i beni culturali, mantenendo però la tutela come prerogativa statale.
La valorizzazione rischia di essere malintesa, le mostre si moltiplicano e con esse i rischi
per le opere d’arte. La riforma del 2001 è molto criticata, è proposta nel 2016 una revisione
che però è bocciata al referendum.

28
Nel 1993 è varata la legge Ronchey, con l’obiettivo di allineare la gestione dei musei a quella
estera, rendendo possibile affidare a privati i servizi aggiuntivi (visite guidate, gestione
delle librerie e della ristorazione, ecc.). Questi servizi sono estesi dalla legge Paolucci del
‘95.
Il disegno di legge 112/1998 prevede la definizione da parte del Ministero dei criteri
tecnico-scientifici e degli standard minimi che il museo deve osservare per essere tale. Sono
requisiti minimi su ambiti diversi: il personale, la sicurezza, il rapporto con il territorio
eccetera. Per sottolineare il rinnovamento nel ‘98 il ministero cambia nome in Ministero per
i Beni e le Attività Culturali, nel 2013 aggiunge la competenza del turismo e diventa
MIBACT. [Con Draghi diventa Cultura].
Nel 1999 entra in vigore il Testo unico per i beni culturali, a cui fa seguito il Codice dei
beni culturali del 2004 (codice Urbani), i due appesantiscono l’apparato burocratico statale.
Il codice Urbani permette la cartolarizzazione del patrimonio (silenzio-assenso, se entro 120
giorni la soprintendenza non si esprime la cessione di immobili pubblici ai privati può
avvenire), disposizione corretta nel 2006 ma che lascia intendere una visione sempre più
mercantile del patrimonio pubblico.
La Riforma Franceschini del 2014 ridimensiona il ruolo delle soprintendenze, sottraendo
alla loro competenza 18 musei di rilievo nazionale (Uffizi, Brera, Galleria Borghese ecc.) e
alcune aree archeologiche (come quella di Pompei). Sono costituiti inoltre diciassette Poli
museali regionali svincolati dalle soprintendenze, per la gestione e il coordinamento di
musei, aree, parchi archeologici, monumenti. E’ istituita anche la Direzione generale dei
musei con lo scopo di diramare le linee guida e sovrintendere allo sviluppo del Sistema
museale nazionale. I musei svincolati dalle soprintendenze hanno piena autonomia
gestionale, i direttori sono selezionati con concorsi internazionali e sono veri e propri
manager.

FUNZIONI DEL MUSEO


La proposta dell’ICOM del ‘51 definisce il museo “istituzione permanente, senza scopo di
lucro, al servizio della società e del suo sviluppo, aperta al pubblico” e ne elenca le
finalità: “acquisizione, conservazione, ricerca, comunicazione, esposizione”.
Per la tutela è necessario censire il patrimonio, ogni museo compila elenchi di beni, gli
inventari sono valorizzati e considerati fondamentali dal XVIII secolo in poi.
La schedatura avviene su due livelli: inventariale e catalografico. La scheda inventariale
contiene i dati essenziali per il riconoscimento, quella catalografica approfondisce gli aspetti
critici, conservativi, bibliografici.
La scheda inventariale riporta numero di inventario, autore, firme o iscrizioni, soggetto,
supporto, tecnica o materiale, misure, collocazione, provenienza, bibliografia essenziale,
numero di negativo fotografico, fotografia dell’opera.
L’Italia presta attenzione alla catalogazione ancora prima del rapporto del ‘64 dell’UNESCO
che la definisce necessaria. Dal 1902 è compilato un Elenco degli Edifici Monumentali,
negli anni ‘30 si pubblicano guide e cataloghi, ma solo nel ‘69 nasce l’Ufficio Centrale del
Catalogo, che nel ‘75 diventa Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione.

29
L’istituto collabora con le soprintendenze e conserva una banca dati in cui la catalogazione
avviene grazie a una scheda-tipo. La schedatura dell’ICCD si occupa non dei beni interni ai
musei ma di quelli non tutelati direttamente (opere nelle Chiese o sparse sul territorio).
Sono considerate conservazione tutte le opere volte a preservare e trasmettere il patrimonio.
I dipinti, specie se su tavola, sono estremamente sensibili agli sbalzi climatici (la tavola si
contrae), e devono quindi essere conservati a 18-20° e al 50-55% di umidità relativa.
Il controllo della luce è essenziale, le opere su carta vanno esposte per periodi limitati
(massimo due mesi) e con un’intensità della luce che non superi i 100 lux. Questi sono
principi parte della “conservazione programmata”, che consente di rimandare i restauri.
Il restauro è ora visto come operazione critica, affidata a professionisti altamente
specializzati. La svolta in senso moderno si deve a Cesare Brandi, la cui Teoria del
restauro del ‘63 sintetizza l’esperienza all’Istituto Centrale del Restauro, da lui fondato
insieme a Giulio Carlo Argan nel 1939.
Argan nel ‘38 afferma che il restauro deve essere scientifico, Brandi sottolinea come la
perizia del resauratore deve essere aiutata dai mezzi scientifici. Il restauro per Brandi
considera l’opera d’arte non solo nella sua consistenza fisica ma anche nella duplice polarità
storica ed estetica (scorrere del tempo sull’opera e qualità che ne fanno opera d’arte). Il
restauratore deve ristabilire l’unità potenziale dell’opera, la cui forma è indivisibile.
Il restauratore deve quindi rispettare la patina per non annullare il passaggio del tempo, le
lacune (cadute di colore o mutilazioni di sculture) non vanno cancellate, il restauro deve
essere riconoscibile, non mimetico, e deve essere reversibile (come già per il decalogo di
XVIII secolo di Edwards). I principi del Brandi all’epoca dell’ICR sono rivoluzionari,
rifondano scientificamente una disciplina artigianale.
I restauri ora partono dalle analisi diagnostiche e prevedono una rigorosa documentazione
delle operazioni effettuate. Oltre all’Istituto Superiore Conservazione Restauro (nuovo
nome dell’ICR) in Italia sono eccellenze del restauro l’Opificio delle Pietre Dure di Firenze
e il Centro del Restauro di Venaria Reale.
I restauri delle opere pubbliche e delle private sottoposte a vincolo devono essere autorizzati
e controllati dalle soprintendenze.
Esporre le collezioni significa individuare un percorso che ne esprima i contenuti e li renda
comprensibili al pubblico, il museologo deve agire in stretta collaborazoine con il
museografo. Le linee seguite più frequentemente sono successione cronologica e
raggruppamenti per scuole o ambiti, i musei con collezioni diverse solitamente le separano.
I depositi non solo permettono di decongestionare le esposizioni ma sono un prezioso campo
di ricerca.
L’ICOM nel ‘51 precisa gli ambiti di educazione e diletto, nel ‘74 scrive che il museo
“comunica e presenta, con il fine di accrescere la conoscenza”, nel 2001 ritorna il verbo
comunicare e si parla di educazione e diletto. Il miglioramento della cultura deve avvenire in
modo piacevole, l’educazione deve essere legata all’intrattenimento, è un principio
tipicamente anglosassone e statunitense.
In Italia la funzione didattica del museo è riconosciuta solo negli anni ‘50. Nel ‘51 per la
riapertura del Brera Wittgens avvia attività inedite, rivolte alle scuole, alle industrie, ai circoli
ricreativi, aprendo il museo anche alla sera e organizzando visite guidate.

30
Con la legge Ronchey i musei sono messi nelle condizioni di offrire costantemente il
supporto didattico delle visite guidate. Le scolaresche e i turisti sono presenze fisse, è più
complesso raggiungere e fidelizzare il pubblico locale, spesso si tenta di farlo organizzando
frequenti presentazioni e riletture.
Le mostre attraggono il pubblico, il loro numero aumenta quindi esponenzialmente. Spesso
sono esibizioni prive di contenuti, e i musei sono ormai sollecitati a prestare le proprie opere
così di frequente che servono figure specifiche, i registrar, e linee guida, i Principi di Londra
(1995, poi 2001), che standardizzino le procedure, gli obblighi, i documenti necessari.
Le autorizzazioni al prestito sono concesse dal ministero, che tramite le soprintendenze deve
ricevere la documentazione relativa con quattro mesi di anticipo. Il museo deve esaminare il
progetto scientifico, l’idoneità dell’opera allo spostamento (le opere su tavola si spostano in
clima-box o clima-frame), l’effetto della sua assenza temporanea dal museo prima di
concedere un prestito.

31

Potrebbero piacerti anche