Il termine “museografia” compare per la prima volta nel 1727: È il titolo del volume di Caspar
Friedrich Neickel, un colto mercante di Amburgo che si proponeva di offrire un censimento delle
principali raccolte europei d'arte e di rarità. È una descrizione dei musei del tempo, non destinata
ad un pubblico di intenditori, ma rivolta lettori profani, a viaggiatori desiderosi di apprendere. Si
era all'inizio dell'età dei lumi, quando cominciava ad affermarsi l'idea che le Grandi collezioni
dovessero avere finalità di pubblica educazione, ma ancora non si era compiuto il passo decisivo
verso l'Istituzione di musei accessibili a tutti. L’intento di Neickel era quello di dare un'immagine
d’insieme delle principali collezioni europee, distinguendo le varie tipologie delle raccolte e, come
recita il sottotitolo, di fornire una ” Guida per una giusta idea ed un utile allestimento dei musei”.
Vengono così individuate innanzitutto le due grandi classi di Naturalia e Artificialia (cioè collezioni
naturalistiche o di oggetti prodotti dall’uomo) e poi precisate le definizioni che le raccolte hanno
assunto nei vari paesi. Nell'accezione moderna la museografia e la museologia hanno assunto una
distinta fisionomia, anche se il dibattito sui loro contenuti è ancora in atto e non si è raggiunto un
pieno accordo sulla precisa definizione dei campi d'indagine di ciascuna disciplina. La museologia
ha a che fare con il logos, cioè con il pensiero, e quindi privilegia gli aspetti teorici relativi al museo
e alla sua storia. Strumento di conoscenza si pone come riflessione sul museo, sulle sue finalità, sul
ruolo che esso ha assunto all'interno della società, sui rapporti con un pubblico sempre più
interessato ed esigente. È nell'ambito della museologia che si collocano lo studio delle collezioni E
la loro interpretazione, la ricerca scientifica E la funzione conservativa, la didattica E la scelta dei
contenuti da comunicare. L'interpretazione della collezione, che si traduce nella scelta del
percorso di visita, nella selezione delle opere E nel loro accostamento, la produzione scientifica
legata alle raccolte, I contenuti da comunicare, rientrano nei compiti del museologo, che si affiderà
al museografo per la realizzazione dei suoi progetti. Etimologicamente la parola musaeum deriva
dal greco mouseion, cioè luogo delle muse. È il geografo Strabone a utilizzare questo termine in
riferimento alla biblioteca d'Alessandria d’Egitto. Ma che cosa intendiamo oggi per museo? Una
delle più complete definizioni moderne È quella formulata nel 1951 dall’ICOM, l'organismo
fondato con lo scopo di coordinare i musei tutto il mondo: “il museo È un'istituzione permanente,
senza scopo di lucro, al servizio della società e del suo sviluppo, aperta al pubblico, che ha come
obiettivo l’acquisizione, la conservazione, la ricerca, la comunicazione E l’esposizione, per scopi di
studio, di educazione E di diletto, delle testimonianze materiali dell'umanità e dell’ambiente”. Il
museo È un organismo con carattere di ufficialità; tale organismo È permanente quindi inserito nel
contesto sociale ponendosi come servizio pubblico. Il suo scopo È quello di contribuire alla crescita
culturale della collettività E dunque la sua fruizione Deve essere garantita a tutti. Deve garantire la
conservazione delle raccolte, esporle, promuoverne la conoscenza, comunicare i propri contenuti.
Il patrimonio del museo, cioè le sue collezioni, sono dette “testimonianze materiali dell'umanità e
dell’ambiente”. Quest’ultimo punto è poi stato modificato nell'assemblea generale dell’ICOM del
2004 quando si propose di affiancare anche le testimonianze immateriali: la danza, I canti
popolari, I dialetti, cioè quel patrimonio che caratterizza il costume E la memoria di una comunità,
sono anch'essi oggetto di salvaguardia. L'Ecomuseo, ha come centro d'interesse il rapporto uomo-
natura, E si pone come luogo dei sapere delle comunità E come testimonianza dei valori
ambientali, secondo un'idea nata in Francia negli anni 60 del 900 per rispondere all'esigenza di
salvaguardare la cultura rurale fortemente minacciata dai radicali cambiamenti sociali, Economici,
Produttivi in atto in quegli anni. La locuzione “Beni Culturali” È entrata nell'uso alla convenzione
per la protezione dei beni culturali in caso di conflitto armato, firmata nel 1954 a l’Aia; che include
i “Beni mobili E immobili di grande importanza per il patrimonio culturale dei popoli, Come i
monumenti architettonici, di arte o di storia, Religiosi o laici; le località archeologiche; I complessi
di costruzioni che, Nel loro insieme, siano di interesse storico o artistico; le opere d'arte, I
manoscritti, I libri e altri oggetti di interesse storico, Artistico o archeologico, Nonché le collezioni
scientifiche E le collezioni importanti di libri di archivi”. Il museo ha come ruolo fondamentale
quello di conservare la memoria del passato attraverso I beni che formano le sue collezioni E di
tramandare questa memoria alle generazioni future perché in essa si riconoscano.
INGHILTERRA: Non tutti i quadri confiscati furono recuperati e a favore delle restituzioni fu
il duca di Wellington che mando’ le proprie truppe al Louvre ordinando ai suoi uomini di
staccare dalle pareti i quadri fiamminghi e olandesi.
ROMA: Per il Papa trattava Antonio Canova, ispettore generale delle antichità e delle arti, il
recupero delle opere fu parziale.
AUSTRIA: Si occupava di quanto era stato sottratto in Lombardia e nel Veneto ed una delle
operazioni piu’ delicate fu il recupero dei Cavalli di San Marco che erano stati issati sull’Arc
de Triomphe. Operazione eseguita di notte.
Con la riappropriazione dei beni requisi sentimento nuovo: Superamento dei concetti di valore
estetico, erudito o economico attribuiti alle opere d’arte e ora venivano riconosciute piu’ come
beni legati alla nazione.
Difensore delle ragioni dei vinti e contro le requisizioni napoleoniche fu l’intellettuale francese
Antonie Quatremère de Quincy dove, attraverso delle testimoniaze, possiamo leggere le sue
riflessioni sulla difesa della conservazione delle opere d’arte nei luoghi d’origine “dividere è
distruggere” e da questo punto di vista anche il museo è luogo di condanna in quanto “luogo di
deportazione”.
Vittima delle restituzioni -> Musèe del Monuments aperto da Alexandre Lenoir dentro il convento
dei Petites-Augustins il quale, per mettere in salvo dalla rivoluzione la maggior parte di monumenti
possibili, uso’ questo convento come deposito con l’ambizione di trasformarlo poi in museo. Tutte
le opere poi sono state ricollocate nei luoghi di provenienza.
In conseguenza alle spoliazioni napoleoniche si matura una nuova coscienza da parte dello stato
per quanto riguarda la tutela del patrimonio artistico visto ormai come un bene di tutti.
A questa nuova coscienza, infatti, si introduce l’Editto Doria: Estende la tutela al patrimonio mobile
pubblico e privato, elenca opere inalienabili.. ecc e l’Editto Pacca che rappresenta il fondamento
della legislazione italiana in materia di tutela.
Musei legati alla presenta napoleonica: Pinacoteca di Brera poi trasformato dall’imperatrice Maria
Teresa in un complesso di istituti economico-giuridici, letterari, scientifici, agrario-manifatturieri e
artistici.
Tra tutti i segretari, quello che ha avuto maggiore importanza e ha dato un nuovo impulso
all’accademia è Giuseppe Bossi dettato dal mutamento della situazione politica e da una piu’
decisa volontà di ampliare il museo. La sua azione si rivolse a modificare sia il profilo gestionale, sia
il profilo didattico e tale rinnovamento fece sboccare la stesura degli statuti che consentirono
l’apertura ufficiale dell’accademia come accademia nazionale.
Obiettivi principali del museo: istruzione pubblica e diffusione del “buon gusto”.
La crescita di Brera proseguì con un altro personaggio chiamato Andrea Appiani che assunse
sempre di piu’ i caratteri di un museo nazionale e si afferma un nuovo tipo di museo caratterizzato
dal legame tra collezione artistica e accademia.
Altre città vantavano di una grande tradizione accademica come: Bologna con “l’accademia dei
desiderosi”, “accademia clementina” per Papa Clemente XI e a Venezia con le “gallerie
dell’accademia”.
SAN PIETROBURGO: Klenze chiamato dallo zar Nicola I per l’Ermitage (1852) e applico’ i principi
già proposti a Monaco con una decorazione suntuosa ma in questo museo elaboro’ un sistema di
pareti mobili per aumentare lo sviluppo lineare e per avere una miglior illuminazione delle opere.
BERLINO: Sorge 1) L’Altes Museum di Schinkel, primo edificio realizzato in quella che poi ha preso
il nome di Museuminsel (isola dei musei). Quest’opportunità fu suggerita al re Federico Guglielmo
II da un docente il cui cognome è Hirt ma la morte del re non aveva consentito la realizzazione del
museo. Con la salita al trono del figlio, Hirt presento’ per la seconda volta la sua idea nella quale
sosteneva di rendere pubbliche le collezioni d’arte antica e quindi: avere un’istruzione pubblica
unita al piacere della contemplazione (principi sostenuti dal museo illuminista).
Da parte dello stato: garantita la libertà d’accesso ai tesori artistici di proprietà della corona e la
fondazione dei musei dovevano essere un bene dello stato al servizio dei cittadini. SITUAZIONE
POLITICA NON FAVOREVOLE ALL’INIZIATIVA.
Caduto Napoleone e riacquisite le opere rubate, il progetto riprese forza ed è stato proprio
Schinkel a scegliere il luogo dove costruire il museo. Nel cuore della città ed eretto tra il 1825-
1830, la costruzione dell’Altes Museum prese forma; struttura a pianta rettangolare, con due
cortili interni e un portico frontale di diciotto colonne di ordine ionico che ripropone il tema della
stoà greca. In corrispondenza delle sei colonne centrali si apre lo scalone a due rampe che
conduce al piano duperiore. Nucleo centrale è la “rotonda” che si sviluppa in altezza.
Hirt, a differenza di Schinkel, concepiva l’Altes Museum piu’ come un luogo votato allo studio
mentre l’architetto Schinkel pensava invece ad un museo capace di elevare lo spirito attraverso la
contemplazione della bellezza infatti, l’allestimento era molto elegante e raffinato per le scelte dei
colori, per la scelta dei pavimenti e per il rivestimento delle pareti. Sculture antiche collocate al
piano inferiore mentre quello superiore era riservato alla pinacoteca. Nella rotonda trovavano
posto opere di grandi dimensioni raffiguranti divinità.
Dipinti divisi in diverse categorie a seconda della loro importanza e della loro qualità infatti i piu’
privilegiati erano i protagonisti del Rinascimento italiano e del seicento mentre scarso era
l’apprezzamento per i manieristi e artisti barocchi.
Con la presenza di uno storico dell’arte, in qualità di responsabile delle raccolte e fedele
sostenitore di Schinkel, nasce una nuova scienza per la quale l’esame delle opere era condizione
della ricerca scientifica.
2)Neues Museum con il nuovo sovrano Federico Guglielmo IV si istituì un secondo museo
destinato alle collezioni egizie oltre che all’archeologia greca e romana. Sorge alle spalle dell’Altes
Museum e il suo interno era improntato a una classica magnificenza con sale colonnate, scalinate
monumentali, decorazioni pittoriche e fregi scolpiti.
3)Nationalgalerie sempre voluto da Federico Guglielmo IV questa volta costruito per accogliere le
collezioni d’arte tedesca ma con un’architettura classica e costituito da un tempio corinzio
periptero.
Nel complesso della Museuminsel, oltre ai tre musei precedenti troviamo anche:
4)Kaiser Friedrich Museum palazzo neobarocco voluto dall’imperatore Guglielmo II.
5)Pergamonmuseum nato per accogliere pezzi archeologici acquisiti nelle campagne di scavo
tedesche.
ROMA: 1)Museo Chiaramonti: Con papa Pio VII Chiaramonti che affidava a Canova l’allestimento
di una nuova sezione destinata a contenere molte sculture antiche. Inaugurato agli inizi dall’800, il
museo ha mantenuto tutt’ora intatto l’ordinamento canoviano sottolineato dalla decorazione
pittorica delle lunette che celebra il ruolo del pontificato.
2)Il Braccio Nuovo: Secondo museo consigliato al Papa da Canova per contenere le sculture
restituite dalla Francia dopo la caduta di Napoleone. E’ una bellissima galleria con volta a
cassettoni interrotta da lucernari; sui fianchi si aprono 28 nicchie dove vi sono collocate sculture di
grandi dimensioni e l’uso raffinato di materiali antichi danno al Braccio Nuovo una particolare
eleganza.
3)Pinacoteca Vaticana: Costruita durante il pontificato di Pio VII. Il primo nucleo della quadreria
era stato formato da Pio VI riunendo i dipinti sparsi nei vari palazzi pontifici ma la confisca
napoleonica ne segno’ la fine. Recuperate solo in parte, le opere vaticane furono riunite a quelle
raziate negli stati pontifici le quali, invece di tornare nei luoghi d’origine, furono trattenute a
Roma.
PARIGI: 1)Musèe de Cluny: Museo aperto a metà del 800, dedicato all’arte medievale e situato in
un edificio gotico costruito sulla fine del 400. Allestito da Albert Leloir inaugura il tipo di museo
“romantico” dal quale discenderanno tanti musei dell’800 dedicati alla storia e alla cultura
nazionale.
SPAGNA: 1)Il Prado: All’inizio un museo dedicato alle scienze naturali voluto da Carlo III
nell’ambito di un grande disegno di revisione urbanistica del centro cittadino. Danneggiato e
ricostruito dopo la caduta di Napoleone. Il perfetto equilibrio delle strutture, la varietà delle sale
interne, ellittiche, a pianta centrale, con volte a botte, hanno reso il Prado uno dei piu’ alti esempi
della museografia neoclassica.
INGHILTERRA: 1)British Museum: Realizzato con finanziamenti pubblici ha adottato la tipologia del
tempio ionico.
2)Dulwich Picture Gallery: Uno dei primi edifici destinati all’esposizione di dipinti, realizzato prima
del British Museum. Il suo esterno è rivestito in mattoni con semplici parastre mentre l’interno ci
fa alludere che in origine il museo era nato come collezione privata.
3)Sir John Soane’s Museum: è un prototipo di Casa-Museo ma anche un vero e proprio museo
perchè è pensato a beneficio di “dilettanti e studenti” che avrebbero potuto frequentarlo e
consultarne le collezioni. Una delle specialità del museo è l’uso di specchi convessi che dilatano gli
spazi che in realtà sono molto piccoli e introduce i piani mobili della picture room che si aprono a
libro e consente l’esposizione in una piccolissima sala di un gran numero di dipinti es. Canaletto.
4)National Gallery: Inizialmente ospitata nella residenza di un banchiere che aveva donato una
piccola parte di dipinti. Sucessivamente, l’espandersi della raccolta, ha portato alla costruzione di
un edificio in forme neoclassiche. La pinacoteca si arricchì soprattutto di dipinti italiani del
Rinascimento. Una nuova ala è stata costruita di fianco al museo e ha mantenuto inalterato
l’allestimento ottocentesco.
Per buona parte dell’ottocento nei musei europei dominava prevalentemente una tipologia
classica ma sono anche molti i nuovi edifici che adottano uno stile monumentale ispirato
all’architettua civile del Rinascimento e del Barocco per es. a Dresda.
E’ a Vienna che l’adozione della tipologia neobarocca trova la sua forma piu’ completa e piu’
grandiosa. L’imperatore Ferdinando I aveva iniziato un piano di ristrutturazione urbanistica che poi
venne interrotto e ripreso da un altro imperatore creando così due monumentali musei uguali
dedicati all’arte.
STATI UNITI: A Filadelphia, istituito un museo scientifico che aveva come scopo l’insegnamento
delle scienze naturali il cui scopo era quello di avere una vocazione educativa ottenuta attraverso
un approccio che mirava ad attirare il pubblico anche attraverso l’intrattenimento. Il museo fu
chiuso per mancanza di fondi. Secondo museo: Yale Art Gallery dedicato alle arti visive. Altri
musei: Metropolitan di New York, Fine Arts Museum di Boston, Museum of art di Filadelphia...
Differenza tra musei europei e musei americani: La gestione dei musei europei viene affidata a
consigli d’amministrazione. I musei americani nascono sul mercato cioè tramite la formazione di
grandi collezioni acquisite attraverso abili mercanti.
MUSEI D’ARTE APPLICATA E MUSEI PER LA SCIENZA
Seconda metà dell’800: A Londra e Parigi ebbero luogo delle grandi esposizioni nelle quali veniva
data la possibilità di presentare ad un numero molto alto di nazioni i loro prodotti frutto
dell’industrializzazione.
INGHILTERRA: Con La Great Exhibition (prima esposizione universale) gli espositori venivano da
ogni parte del mondo industrializzato con l’intenzione di farsi riconoscere e confrontare il loro
prodotto con quello delle altre nazioni. Gli oggetti della mostra erano suddivisi in quattro
categorie:
• Materie prime
• Macchinari e invenzioni meccaniche
• Manufatti
• Sculture e arte plastica
E le opere presentate divise in dipartimenti dedicati alle diverse tipologie di prodotti: ceramiche,
vetri, gioielli, lavori in quoio o metallo, tessuti ecc..
Inolte una guida venne messa a disposizione per orientare i visitatori. Per l’occasione l’architetto
Paxton costruì un edificio in ferro e vetro che si montava e smontava e per la novità della
concezione e dei materiali utilizzati puo’ essere considerato esso stesso un monumento verso la
modernità.
Questa mostra ottenne così tanto successo che gli organizzatori pensarono di creare una
collezione permanente con gli oggetti che avevano già preso parte alla Great Exhibition con lo
scopo di educare i visitatori attraverso la conoscenza delle piu’ aggiornate produzioni industriali,
così su iniziativa di Henry Cole, fu fondato il 1)Museum of Manufactures.
Una nuova sede fu necessaria per ospitare la vasta quantità di oggetti e l’architetto per eccellenza,
Gottfried Semper, realizzo’ un edificio in ferro e vetro inaugurato il 22 Giugno 1857 con il nome di
2)South Kensington Museum: In questo museo vi era una novità assoluta dei pezzi esposti tra i
quali macchinari e oggetti d’uso per la prima volta musealizzati al pari delle opere d’arte. Le
grandissime dimensioni del museo e la vastità dei materiali esposti richiedevano lunghi tempi di
visita e porto’ alla creazione di alcuni servizi mai visti prima come un vero e proprio ristorante e
l’illuminazione a gas. Il South Kensintom Museum rappresenta la prima decisa rottura con la
grande tradizione museale dell’800 ispirati al mondo classico.
Gottfried Semper e Henry Cole facevano parte delle menti illuminate convinti dalla necessità di
spostare l’asse dell’educazione artistica dalle tradizionali Accademie di Belle Arti che miravano
solo alla contemplazione estetica a scuole dedicate all’insegnamento delle arti decorative quindi
alla realizzazione e alla decorazione di oggetti d’uso.
L’attenzione al design e alla produzione industriale inglese fecero scuola negli Stati Uniti dove
molti dei musei fondati negli anni ottanta dell’800 ne adottarono le finalità formative rivolte allo
studio dell’arte e alla sua applicazione agli oggetti di uso comune.
EUROPA: Nella seconda metà dell’800 si assiste a Grandi Esposizioni nazionali e universali, alla
fondazione di scuole dedicate all’insegnamento delle arti applicate e alla creazione di musei di arte
decorativa ispirati al modello inglese come a Vienna, a Berlino e nelle principali città tedesche.
PARIGI: Fecero la seconda Esposizione Universale all’interno del Conservatoire del Artes et
Mètiers nato in clima rivoluzionario per incentivare lo sviluppo sociale ed economico della
nazione. Le collezioni del conservatoire comprendono strumenti scientifici, macchinari, attrezzi,
disegni e ogni sorta di oggetti legati all’evoluzione della tecnica.
ITALIA: Il processo di industrializzazione si avvio’ solo negli ultimi decenni dell’800 perchè era
considerata in qualche modo “arretrata” rispretto agli altri paesi europei. La tradizione artigianale
e la pratica di bottega non avevano facilitato nella penisola il confronto con la nuova realtà
tecnologia delle altre nazioni. La prima esposizione fu quella tenuta a Firenze e la chiamarono
L’esposizione Italiana, Agraria, Industriale e Artistica. Questa rappresento’ un’occasione di
confronto tra diverse categorie di artigiani, commercianti e artisti.
Secondo alcune voci tra le quali quelle di Camillo Boito dicevano che le accademie artistiche
italiane avrebbero dovuto essere trasformate in scuole professionali rivolte all’acquisizione di
competenze utili alla produzione industriale quindi partendo dall’educazione al “bello”,
un’educazione soltanto estetica, si giungesse al conseguimento di abilità tecniche in grado di
trasformare un oggetto dotato di valore estetico in prodotto riproducibile molte e molte volte.
TORINO: Prima città italiana a dotarsi di un museo industriale Museo civico di arte applicata
all’industria dove vengono esposte manifatture di ferro e acciaio, collezioni di vetri e ceramiche,
carrozze e piu’ tardi automobili.
Successivamente in diverse città italiane nacquero musei come quelli di Roma, Napoli ma
soprattutto quello di Milano la cui istituzione è stata annunciata fin dal 1873.
MILANO: Nasce il Museo d’Arte Industriale perchè l’Associazione Industriale Italiana voleva un
museo che ospitasse collezioni di oggetti antichi, prodotti dell’industria nazionale, biblioteca e
fototeca specializzate in prodotti di arte e industria. Nelle dichiarazioni di intenti veniva inoltre
annunciata l’annessione al museo di scuole professionali finalizzate allo studio dell’arte a
all’applicazione del disegno all’industria
La stessa Associazione, che poi cederà le proprie raccolte al Museo Artistico Municipale*per scopi
educativi, organizzo’ l’Esposizione Storica d’Arte Industriale: La quale includeva prodotti industriali
di vario genere ed epoca dotati di qualità artistiche con lo scopo di costituire con quegli oggetti
una base per il museo. Allestita nel Salone dei Giardini pubblici ospito’ oltre diecimila oggetti
suddivisi in dodici classi tipologiche.
*Museo Artistico Municipale: Depositario delle raccolte artistiche civiche. inaugurato nel 1878 e
quattro anni dopo gli verrà annesso a questo museo la Scuola d’Arte Applicata all’Industria.
Mantenne i criteri tipologici dei musei d’arte applicata suddividendo le sue collezioni per classi
omogenee: avori, ceramiche, oreficerie, vetri ecc.. A Milano come a Torino e altre città italiane
fecero fatica a far coesistere collezioni di tipo artistico-artigianale con oggetti appartenenti
all’ambito tecnico-scientifico.
Successivamente furono fatti molti altri tentativi di musei commerciali rivolti pero’ solo ad un
pubblico legato al mondo dell’industria e del commercio ed erano quindi esposti macchinari, i
modelli, i campionari a fini dimostrativi in funzione di un progresso tecnologico internazionale
senza fare attenzione ad aspetti artistici. Ci fu un totale fallimento delle iniziative nate sotto
quest’ambito. Solo a Milano rimane tutt’ora l’unico museo pubblico delle scienza e della
tecnologia.
Secondo 800: Sviluppo dei Musei Naturalistici organizzati su basi scientifiche moderne, lontane dal
concetto di “meraviglia” che era stato il criterio ispiratore delle prime raccolte naturalistiche nate
in Italia e in Europa tra la fine del 500 e l’inizio del 600. Queste raccolte naturalistiche di questo
periodo si possono associare alle Wunderkammern, dove i reperti piu’ insoliti si associavano a ogni
sorta di opere, rarità e prodigi creati dall’uomo. Questa tipologia collezionistica diventa sempre
meno frequente perchè c’è una settorializzazione dei campi del sapere tra quello artistico e
scientifico.
L’antropocentrismo rinascimentale (l’uomo al centro dell’universo) aveva radicato l’idea di
universo conoscibile, comprensibile, classificabile e il desiderio di caralogare ogni aspetto del
mondo naturale. Si crearono così dei luoghi dove coltivare, conservare ed esporre le testimonianze
di queste indagini: orti botanici, farmacie, raccolte naturalistiche.
Tra le piu antiche testimonianze di raccolte naturalistiche: Ulisse aldrovandi (Naturalista
bolognese) e Ferrante Imperato (napoletano) “Dell’Historia Naturale Libri” dove descrive una
delle prime raffigurazioni degli ambienti dedicati alla collezione: La disposizione “a incrostazione”
sulle pareti, dentro gli armadi, su scaffalature e sul soffitto della stanza che permetteva la visione
simultanea dei reperti generando stupore.
Quindi se tra la fine del 500 e i primi decenni del 600 le collezioni naturalistiche le troviamo
all’interno delle Wunderkammern con le quali condividono l’interesse per gli aspetti piu’
sorprendenti dell’universo naturale, con il passare del tempo si definiranno sempre piu’ in
direzione scientifica fino a raggiungere una totale sistemazione nell Età dei Lumi con la
trasformazione delle raccolte naturalistiche in musei pubblici. Questi musei, che con la progressiva
specializzazione del sapere e la suddivisione degli ambiti scientifici, hanno suddiviso pure
all’interno dei musei i vari aspetti della natura;
Nasceranno così i musei di storia e scienze naturali, astronomia, fisica ecc ecc.. come il Natural
History Museum di Londra, il Museum d’Histoire Naturelle di Parigi, il Naturhistorisches Museum
di Vienna (uno dei piu’ grandi musei di storia naturale al mondo) su progetto di Semper e
Hasenauer ecc ecc..
Nei musei di Scienze Naturali come in quelli della scienza e della tecnica, il tipo di approccio verso
il pubblico è quello multimediale e interattivo con il coinvolgimento attraverso manipolazioni ed
esperimenti che consentono una maggior partecipazione emotiva e una maggior comprensione.
Nel corso del XX secolo i musei della scienza e tecnica hanno avuto un grandissimo successo infatti
altri musei sono: Deutsches Museum di Monaco, l’Ecploratorium di San Francisco e infine a
Valencia il parco realizzato da Calatrava e infine la Città delle scienze a Bagnoli.
UN MUSEO PER LA CITTA’: NASCITA DEI MUSEI CIVICI IN ITALIA
La tipologia di museo che caratterizza l’Italia postunitaria è il museo civico. La sua istituzione nasce
da diverse ragioni, il primo era la volontà dei collezionisti di donare le proprie raccolte di opere
d’arte alla città, con l’augurio che fosse creato un museo. Ciò avveniva anche nelle città dove
esisteva già un museo, che sarebbe divenuto poi “nazionale”: a Venezia con Teodoro Correr che
nel 1830 lasciò le sue collezioni purché fossero mantenute nel suo palazzo e aperte al pubblico; a
Bologna nel 1881 si istituì un museo civico che comprendeva antiche collezioni naturalistiche
universitarie, la ricca collezione del pittore bolognese Pelagio Pelagi e i reperti archeologici
rinvenuti sul quel territorio. Anche Milano acquisiva nel 1861 il lascito dello scultore Pompeo
Marchesi comprendente tutte le opere del suo studio, nel 1863 acquisiva quello di Antonio
Guasconi e nel 1865 quello del conte Gian Giacomo Bolognini. Tuttavia la città non disponeva
ancora della sede dove collocare questi lasciti, e peraltro la Pinacoteca di Brera non era adatta per
ospitare queste tre raccolte di opere d’arte, in quanto la prima era composta di sculture moderne
e le altre perché accanto ai dipinti figuravano ceramiche, mobili, disegni antichi e moderni, che
richiedevano che il museo non fosse esclusivamente improntato nella pittura. Nel corso dell’800
numerose città italiane fondarono musei destinati alla conservazione delle memorie cittadine e del
territorio.
Un altro elemento che ne favorì la nascita fu l’affermarsi di una legislazione che mirava a
ridimensionare il potere temporale della Chiesa. Già nel 1850 un ministro del Regno di Sardegna
fece approvare le “leggi separatiste” volte a rompere l’alleanza tra Stato e Chiesa, abolendo alcuni
privilegi tipici dell’ancien regime come: il foro ecclesiastico, il diritto all’asilo e la cosiddetta
“manomorta” che riguardava l’inalienabilità dei possedimenti ecclesiastici e la loro esenzione dalle
imposte. Questi privilegi erano inammissibili in uno stato moderno. Questi provvedimenti furono
poi rafforzati dalla “legge Rattazzi” che aboliva gli ordini religiosi privi di utilità sociale e dalle “leggi
eversive” che negavano il riconoscimento di congregazioni religiose e ne espropriava i beni di loro
proprietà trasferendoli al demanio statale.
A questo punto lo Stato doveva far fronte ad un’enorme quantità di beni, che erano in quel
momento privi di tutela, minacciati dalla dispersione e sotto rivendicazioni da parte di famiglie
aristocratiche che cercavano appunto di riappropriarsene come legittimi eredi. A queste
rivendicazioni il clero non si opponeva in alcun modo. Di questa confusa situazione tuttavia se ne
stava approfittando il mercato, che era costantemente pronto a intervenire su opere d’arte di
facile collocazione (specialmente internazionale). A tutto ciò si aggiunge un’Italia priva di un
apparato legislativo capace di proteggere i beni: solo lo Stato pontificio infatti aveva promulgato
apposite leggi di tutela (Editto Pacca), che solo più tardi furono prese come modello dal Regno
d’Italia per la propria legislazione.
Le prime istituzioni incaricate di conservare le opere d’arte furono le Accademie. Furono
comunque inadatte sia per la mancanza di personale competente sia per l’indisponibilità di spazio.
Occorreva quindi cercare strutture adatte con risorse adeguate e attuare una politica di
conservazione funzionante. Fu così che si moltiplicarono i musei civici con differenti scopi in base
alle collezioni che ospitavano, ad esempio gli Uffizi, Capodimonte, le Gallerie Nazionali di
fondazione napoleonica, i musei archeologici. In questo quadro di salvaguardia del patrimonio
emergono due importanti figure, Giovanni Battista Cavalcaselle e Giovanni Morelli. Nel 1861
furono incaricati di redigere un inventario sulle opere d’arte di pertinenza ecclesiastica in Umbria e
nelle Marche per mettere lo Stato nelle condizioni di intervenire nella loro alienazione. Purtroppo
il catalogo era molto selettivo per via delle condizioni in cui operavano e per la mancanza di
supporti tecnici adeguati, che riducevano la loro possibilità di documentare ampiamente le opere.
Tuttavia la loro relazione fu un sussidio importante per la memoria di queste opere e per la
possibilità di rintracciarle. Successivamente nel 1863 Cavalcaselle inviò un rapporto al Ministero
della Pubblica Istruzione i principi-guida per la tutela, formulando così una nuova proposta: la
“doppia sorveglianza del municipio e del governo: il primo nell’interesse locale, il secondo
nell’interesse nazionale”. Ancora prima, nel 1862, emergeva già questa importanza del ruolo del
museo civico, infatti Morelli si era dichiarato favorevole all’istituzione nelle diverse regioni d’Italia
di musei con opere d’arte confiscate agli edifici di culto. Molto spesso però questi musei erano
visti come “cimiteri dell’arte” poiché le opere essendo state prelevate dal loro luogo di
destinazione perdevano il loro significato. Tuttavia il museo ebbe un ruolo fondamentale per
evitare le dispersioni. Morelli inoltre nel 1863, con una lettere al ministro Francesco de Sanctis,
auspicava l’istituzione di musei su base regionale e provinciale. C’è da ricordare inoltre che
l’esperienza dei due studiosi per quanto riguarda la ricognizione delle opere d’arte era focalizzata
su beni di maggior pregio, e questo modo di operare rispecchia infatti la concezione elitaria di
“bene culturale” che purtroppo influenzò i criteri di salvaguardia nei confronti del patrimonio da
musealizzare: oggi si rimpiangono appunto le opere “minori” che non vennero salvate.
Anche le urbanizzazioni di metà 800 contribuirono alla crescita di musei civici. Nei centri molte
chiese ed edifici di culto vennero demoliti e a volte trasformati radicalmente. Gli ambiti quindi di
cui si occupa un museo civico sono: la storia locale, le memorie cittadine, le indagini sul terreno (il
tutto anche in termini di collezionismo). Si concentra anche l’interesse per i per i reperti medievali
come sculture, stemmi, iscrizioni ed elementi architettonici. Trovano spazio anche le raccolte di
arte applicata provenienti dal collezionismo locale e la tradizione da parte dei collezionisti di
lasciare al museo gli oggetti della propria dimora come quadri, sculture, mobili, ceramiche,
bronzetti e oreficerie. La varietà di oggetti pone i musei civici sulla linea avviata dal londinese
South Kensington Museum che fu preso come modello da altri musei ottocenteschi in Italia, quali il
Museo Artistico Municipale inaugurato a Milano nel 1878.
Altro aspetto particolare è quello rappresentato dai musei storici. Spesso nei musei civici vediamo
come interi settori vengano dedicati alla storia, che tuttavia in molti casi assumono totale
autonomia diventando veri e propri “Musei Civici di storia patria”. Questo concetto di “storia
patria” si fonda sulla volontà di creare un rapporto emozionale con il visitatore, il quale potrà
ammirare opere d’arte che raccontano qualcosa, che rievocano una battaglia o un personaggio
storico. L’idea di museo storico è ben visibile anche in Francia, dove il museologo Georges Rivière
elabora la nozione di “patrimonio territoriale” intendendolo come insieme di storia, archeologia,
etnografia di un territorio: propone quindi un percorso espositivo ordinato secondo criteri diversi
(concetto di “musée discours”). In Germania invece il museo di storia patria è rappresentato dallo
Heimatmuseum, caricato da significati diversi secondo l’ideologia del tempo ma che con il passare
degli anni ha raggiunto un’accezione vicina a quella francese.
IL DIBATTITO SUL MUSEO NEL NOVECENTO: LA CONFERENZA DI MADRID DEL 1934
Le forme con le quali la tradizione ottocentesca aveva concepito il museo e lo consegnava al nuovo
secolo con un’identità ben consolidata erano di tipo neogreco, neoromanico, neorinascimentale e
neobarocco. Tuttavia all’inizio del 900 le varie tipologie non rispondevano più alle esigenze di una
società colpita da cambiamenti politici, economici e sociali e che andava verso un progresso
scientifico. Anche in precedenza vediamo delle deviazioni dai modelli canonici, ad esempio il South
Kensington Museum che aveva modificato la sacralità del museo adottando leggere strutture in
ferro e in vetro inaugurate dal Crystal Palace dell’Esposizione Universale londinese nel 1851: l’idea
che andava formandosi era quelli di applicare i principi che regolavano il commercio anche al
museo. L'influenza delle Grandi Esposizioni si fa sentire in diversi modi: l'uso delle corti vetrate,
l'impiego di materiali nuovi come il cemento armato, la presenza di ballatoi e gallerie e
l'introduzione di percorsi liberi che creano un rapporto confidenziale con i visitatori. Ne è un
esempio il progetto elaborato da Otto Wagner (non realizzato) dove vediamo tre ordini di gallerie
illuminate da lampioni che circondano un grande vestibolo centrale, punto d'incontro e di
informazione. L'intento era quello di trovare un accordo tra monumentalità e funzionalità, tra
storicismo e modernità. Presentava una hall a pianta quadrata ad interpretazione della "rotonda",
spogliata dei suoi rimandi classici e interpretata in chiave moderna secondo i bisogni del pubblico
sempre più aggiornato.
Viene messo in discussione anche il ruolo del museo, che doveva appunto tener conto del nuovo
pubblico che aveva comunque bisogno di essere guidato. Quindi, se in Europa il museo come
"servizio" fatica ad affermarsi, in America l'attenzione per i visitatori assume un ruolo centrale,
mettendo in discussione l'idea di museo elitario destinato solo ad un pubblico colto. Alcuni esempi
di musei d'Oltreoceano che sono omaggio alla museografia europea:
Cleveland Museum (fondati agli inizi 900)
Baltimore Museum of Art (1926-29)
Philadelphia Museum of Art (1919-28)
I principi-guida quindi dei musei americani sono l'intento didattico e il rapporto con la produzione
industriale. John Cotton Dana, creatore e direttore del Newark Museum, infatti sosteneva che
questa istruzione dovesse servire ad un miglioramento del design, promuovendo una
collaborazione con le industrie, le scuole, i grandi magazzini. Il compito del museo era quello di
intrattenere e incuriosire la gente comune e contribuire alla crescita intellettuale. Da qui nasce la
nuova idea di museo come servizio, dando forma al pensiero elaborato da George Brown Goode,
direttore dello U.S. National Museum of Washington, che parlava del cosiddetto educational
museum, ritendendo che fosse sufficiente un buon apparato di didascalie e pannelli esplicativi. Fu
molto facile mettere in atto le nuove idee, perchè i musei statunitensi erano tutti di nuova
fondazione, e non dovevano quindi far fronte a limitazioni architettoniche pre-esistenti. Esempio
emblematico di tutto ciò è il Cleveland Museum of Art, il quale rappresenta al meglio
l'organizzazione moderna e razione di un'esposizione pubblica: un piano principale per le collezioni
con al centro una rotonda fiancheggiata da due corti vetrate, una per l'esposizione e l'altra come
giardino coperto; un basamento destinato agli uffici amministrativi e ai servizi per il pubblico come
sale studio, biblioteche, sale conferenze ecc. Qui fa la sua prima comparsa anche la period room
(sala d'epoca) creata per contestualizzare più facilmente opere svincolate dalla loro destinazione
originaria. Si trattava quindi di un accostamento di materiali della stessa epoca riuniti per ricreare
l'ambiente per il quale ogni oggetto era stato creato. Alcuni esempi: una cappella italiana del
Rinascimento, un interno olandese del Seicento, un salotto francese del Settecento. Questo tipo di
esposizione è ben visibile nel Kaiser Friedrich Museum di Wilhelm von Bode, dove le raccolte
d'arte erano esposte in apposite sale "ambientate" e in ordine cronologico.
L'interesse per il museo come metodo di comunicazione di massa e come spazio non
esclusivamente dedicato agli studiosi e ai conoscitori, si intensifica nel periodo tra le due guerre,
grazie alla creazione di alcune organizzazioni che promuovevano gli scambi culturali tra gli stati e il
mantenimento di pubbliche relazioni in segno di un'unica appartenenza intellettuale. Le
organizzazioni sono:
Commission Internationale de Còoperation Intellectuelle (CICI)
Organisation de Còoperation Intellectuelle (OCI)
Office International de Musées (OIM), centro internazionale dedicato interamente ai
musei, e che aveva come ambito d'indagine la museografia. Fu fondato nel 1926 da Henri
Focillon.
L'interesse di Focillon per i musei si era consolidato a Lione nel 1913 quando viene nominato
direttore del Musèe des Beaux-Arts e dove ricopriva la cattedra di Storia dell'Arte all'Università. Il
museo era visto da Focillon come un luogo di confronto, una sorta di laboratorio per lo studio
comparativo delle testimonianze visive. Al tempo stesso però il museo deve essere uno strumento
utile anche per il pubblico, e non solo per lo studioso. Per questo motivo era necessario eliminare
la visione del museo ottocentesca, per assumere una nuova veste attuale. Focillon ebbe
l'occasione di esporre le proprie idee nell'XI Congresso Internazionale di Storia dell'Arte a Parigi nel
1921. In questa occasione presentava una comunicazione dal titolo La conception moderne des
Musèes , e di nuovo con una relazione a Ginevra presentata alla Sottocommissione per le Lettere e
le Arti della Società delle Nazioni. Lo studioso afferma che la tradizione ottocentesca aveva
elaborato due diversi tipi di museo: uno dedicato agli artisti, che concepisce l'arte come
successione di capolavori isolati, e uno per gli storici dell'arte che la vede come una serie di opere
d'arte concatenate. Focillon inoltre afferma la necessità di allestimenti più moderni lasciando ad
ogni opera d'arte il suo spazio. E ancora, fu sempre Focillon ad indicare le principali attività
dell'OIM:
La redazione di cataloghi dei musei d'arte e archeologia
La compilazione di un catalogo generale delle vendite delle opere d'arte
La stipulazione di un accordo internazionale tra le Calcografie di Parigi, Roma e Madrid per
favorire lo scambio di opere destinate all'esposizione
Attività didattiche nei musei ispirati all'esperienza americana
La fondazione di una rivista per discutere di problemi relativi alla museografia intesa come
scienza riguardante le questioni di architettura, di storia dell'arte e di organizzazione
interna dei musei.
Nasce quindi la prima rivista internazionale di museografia, "MOUSEION", pubblicata dal 1927 al
1946. I destinatari di questa rivista erano principalmente direttori di museo, conservatori e storici
dell'arte che venivano informati sulle attività dell'OIM, sui cambiamenti dei musei europei e sulle
novità americane. Grazie all'apertura internazionale del "Mouseion", quest'ultimo assume il ruolo
di portavoce del disagio riguardo l'inadeguatezza dell'impianto classicistico del museo, incapace di
far fronte alle esigenze della nuova società. Occorreva quindi dare nuove finalità al museo ed
elaborare nuove proposte sulla sua organizzazione. Era convinzione comune che la funzione
conservativa del museo dovesse essere affiancata da una capacità di interpretazione della
domanda di cultura posta dalla società. La rivista diventa quindi sede di dibattito museografico,
dove l'idea comune era la volontà di trasformare gli spazi espositivi in un luogo d'interesse per il
pubblico. La rivista inoltre era un prezioso veiocolo d'informazione; vediamo infatti che in un
articolo del 1932 si dava notizia della prima inchiesta internazionale sullo stato dei musei. Inoltre si
preparava il terreno alla Conferenza che si svolse a Madrid nel 1934, che costituisce un momento
significativo della discussione, documentato da due volumi che riportano gli interventi dei relatori
e che è ancora oggi una pietra miliare nella bibliografia museografica. Gli argomenti dibattuti sul
"Mouseion" riguardano:
La necessità di non esporre intere collezioni, ma operare una selezione delle opere
La possibilità di fare ampliamenti nel caso di incremento della raccolta
L' esclusione degli elementi decorativi per non distrarre l'occhio dall'opera esposta
La creazione di percorsi più flessibili con ambienti diversi per contrastare la monotonia
Problemi tecnici di illuminazione, climatizzazione e dei servizi al pubblico.
Un'altro intervento significativo proposto dal "Mouseion" fu quello di Laurence V. Coleman
(direttore dell'American Association of Museums), a proposito dell'educazione nei musei degli
Stati Uniti e di come il pubblico venisse messo al centro dell'attenzione, diversamente
dall'ideologia insediata nella tradizione europea. A questa polemica rispondeva Max Friedlander
direttamente da Berlino, sottolineando come i musei europei fossero affermati prima di quelli
americani, e che il loro sviluppo è un fatto interno che mette al primo posto la loro vera e propria
funzione di museo. Altro intervento fu quello ad oepra di Richard Bach, curatore della sezione
d'arte industriale del Metropolitan Museum di New York, il quale afferma la triplice funzione del
museo: esporre, conservare ed educare. Con questa consapevolezza enumera i servizi per un buon
funzionamento di una struttura museale: sale espositive e per le mostre temporanee, uffici
amministrativi, depositi, gabinetti fotografici, sale per il restauro, guardaroba per il personale e per
i visitatori, sale di studio e luoghi di sosta. Gli faceva eco dalla rivista "The Architectural Forum",
l'architetto americano Stein, il cui intervento fu pubblicato nel "Mouseion" nel 1933. Alla base
della sua proposta per il "museo di domani", c'è la constatazione che il pubblico si divide in
studiosi, interessati al museo per ragioni scientifiche e visitatori comuni. Per questo motivo era
necessario formulare due percorsi diversi in base alla tipologia di visitatore, ponendo i capolavori e
le opere di documentazione nella sala principale le altre in un percorso secondario.
ES: Il museo immaginato da questo architetto (Stein) quindi era un grattacielo basato su una
planimetria ottagonale, suddivisa all'interno in 8 raggi che partono dal centro e sfociano nell'anello
perimetrale. Le otto gallerie convergono nella rotonda, e costituiscono la parte riservata al
pubblico con le opere più importanti della collezione. La galleria ottagonale più esterna invece è
dedicata agli studiosi, dove le opere sono collocate in modo ordinato e sistematico. Era quindi
necessario mettere in comunicazione il museo selettivo e il museo comprensivo, in modo che tutti
potessero accedere alle study series per approfondire qualche argomento. Naturalmente non
dovevano mancare servizi di accoglienza, spazi amministrativi e per la conservazione, auditorium e
sale di studio, biblioteche e laboratori. Il progetto museografico di Stein sostiene a pieno la
concezione moderna di museo, soprattutto per quanto riguarda la flessibilità.
Per flessibilità s'intende la possibilità per il museo di crescere e adattarsi alle collezioni che
richiedono nuovi percorsi. Nel 1927 la Società delle Nazioni aveva bandito un concorso per la
costruzione di un museo dedicato al sapere universale a Ginevra. Il progetto più interessante, ma
mai realizzato, fu quello di Le Corbusier con il suo Musée Mondial formato da tre navate che
partivano dall'alto e si sviluppavano lungo una spirale che si ingrandisce scendendo, dando
all'edificio una forma piramidale. Questo progetto fu alla base dell'idea di "museo a crescita
illimitata", struttura in contrapposizione con l'ideale ottocentesco, poco costosa, con materiali
semplici, senza facciata e flessibile. Basato su moduli quadrati, il "museo a crescita illimitata" di Le
Corbusier, si sviluppa intorno ad una sala centrale formata da quattro moduli standard e procede
in una spirale quadrata. All'interno le pareti sono costituite da pannelli mobili, in modo da
plasmare lo spazio a seconda delle esigenze; l'illuminazione invece proviene da un soffitto vetrato.
Questo tipo di museo suscitò forti reazioni, come quella dell'architetto Perret, che esponeva la sua
idea di "museo dell'avvenire", conciliando gli aspetti monumentali con le risorse tecniche
dell'attualità. Realizzato in cemento armato, proponendo un doppio percorso collocando i
capolavori in una rotonda dalla quale partono le gallerie disposte a raggiera che sbucano in sale
circolari e quadrate; davanti alla rotonda troviamo una corte rettangolare porticata.
NB: gli elementi che definiscono il lessico architettonico tradizionale sono ROTONDA, PORTICI,
GALLERIE. Gli elementi della modernità sono FLESSIBILITA, PERCORSO LIBERO, CEMENTO
ARMATO.
Due temi affrontati dall'OIM (Office International des Musée) sono il restauro dei dipinti e il
restauro architettonico. Al primo fu dedicata una conferenza a Roma nel 1930, per fare punto sui
nuovi criteri d'intervento e su più efficaci metodologie di conservazione. A distanza di un anno
venne affrontato anche il secondo tema nella Conferenza Internazionale sulla Conservazione dei
Monumenti Storici ad Atene, stabilendo principi analoghi a quelli affermati a Roma per gli
interventi sulle opere mobili. In questo modo ci si muove verso la redazione di un codice
normativo per la conservazione e il recupero dei monumenti storici, che fu fissato nella Carta
Internazionale del Restauro pubblicata a Venezia nel 1964.
La Conferenza di Madrid (28 ottobre - 4 novembre 1934) è il momento riassuntivo dei continui
dibattiti sull'idea di museo, il quale aveva suscitato dispareri e provocazioni ma sempre con la
volontà di un miglioramento. Fu scelta la città di Madrid per via del recente riordino in chiave
moderna del Prado: doppio percorso, selezione delle opere, illuminazione naturale, sale di studio,
insomma erano stati applicati i criteri del nuovo allestimento. Protagonista della Conferenza fu lo
storico d'arte Louis Hautecoeur, conservatore del Louvre e docente di museografia, anche definita
"Storia delle collezioni e dei musei d'arte". Le riflessioni dello studioso, pubblicate in un saggio,
riguardavano la storia dei musei, il modo di presentare le collezioni, le tecniche di conservazione e
la catalogazione. In questo saggio inoltre presentava un primo profilo delle trasformazioni
tipologiche dell'architettura dei musei, dall'inizio del collezionismo alla tradizione ottocentesca,
fino ad affrontare questioni aperti come la piante ideale del museo, la distribuzione delle opere, la
forma delle sale, i materiali di costruzione, la decorazione, la flessibilità. Lo studioso pone degli
interrogativi su questi argomenti, e risponde portando esempio a favore di entrambe le tesi.
Emergono così contrasti di tipo: funzione-decorazione, selezionare-ambientare, spazio fluido-
percorso obbligato, in generale il contrasto tra rinnovamento e tradizione. Gli atti riportanti gli
interventi dei relatori, sono racchiusi in due volumi; il primo tratta l'edificio, ovvero l'architettura e
l'allestimento delle sale, il secondo invece tratta i problemi allestitivi di sei diverse tipologie di
raccolta: etnografica, grafica, d'arte decorativa e industriale, numismatica, di scultura e reperti
preistorici. Anche l'illuminazione era un tema fondamentale, affrontato anche da Stein, il quale
illustrava diverse esperienze di illuminazione artificiale nei musei americani, facendo riflessioni
sugli effetti della luce sulle opere d'arte. Il punto forte della relazione di Stein è il riconoscimento
del ruolo della luce, al pari degli altri elementi della composizione architettonica del museo. Altro
argomento centrale della Conferenza è la flessibilità, che interpretava l'interno come spazio aperto
e ben percepibile. La flessibilità dunque investiva anche il criterio espositivo della collezione, non
era mai fissa anzi doveva avere un'apertura alle nuove letture.
La delegazione italiana alla Conferenza di Madrid era composta dai più alti funzionari del Ministero
dell 'Educazione Nazionale. Il tema dai rappresentanti dei musei italiani riguardava gli edifici storici
riadattati come sede di musei. L'archeologo Paribeni a riguardo sosteneva la necessità di creare
una corrispondenza tra collezione e edificio, con l'intento di armonizzare i due aspetti. A suo
avviso, le opere erano chiamate a ornare e completare la decorazione. Altro rappresentante fu
Ugo Ojetti, accademico d'Italia e importante figura della politica culturale fascista, il quale trattò il
tema delle mostre temporanee. Nonostante la sua posizione a favore di un'architettura aulica e
accademica, riuscì a dare riconoscimento al ruolo delle mostre temporanee organizzate all'interno
dei musei, come primo anello di contatto tra arte e pubblico, ma soprattutto come momento di
sperimentazione espositiva in grado di provare soluzioni nuovi che potranno poi essere applicate
nell'allestimento permanente. In generale, la museografia appareva ancora sospesa tra una
concezione fortemente tradizionale e una aspirazione a rinnovarsi.
ES: Pinacoteca Vaticana progettata da Luca Beltrami, è un edificio neorinascimentale ricco di
decorazioni e attrezzature all'avanguardia.
L’EPOCA D’ORO DELLA MUSEOGRAFIA ITALIANA: I MUSEI DEL SECONDO
DOPOGUERRA
Nel 1953 il direttore generale delle Antichità e Belle Arti, Guglielmo De Angelis d'Ossat, pubblicava
un rapporto sul ripristino dei musei italiani dalla fine della guerra. Questo documento testimonia
l'impegno nella ricostruzione e espone i principi-guida. Quest'opera di ricostruzione aveva
coinvolto 150 musei italiani e mirava a migliorare le condizioni preesistenti, sfruttando un
avvenimento doloroso, quale la guerra, in un occasione per fare un passo avanti nella più
completa sistemazione delle opere di patrimonio artistico nazionale. Le collezioni erano rimaste
indenni, per via del lavoro svolto dalle soprintendenze e dalle amministrazioni locali, ma occorreva
agire su due fronti: il restauro delle sedi espositive, e assicurare ciò che la tecnica museografica
moderna richiede.
I principi dichiarati dalla Conferenza di Madrid, s'impongono nella museografia italiana dopo circa
vent'anni, e vengono enunciati da Angelis d'Ossat come i criteri guida per la ricostruzione. E sono:
sale locali semplici e raccolte
strutture leggere spostabili
depositi funzionali
pareti con tonalità chiare
percorso logico collegato ai criteri di ordinamento
illuminazione naturale
laboratori di restauro
sale di studio
sale per l'esposizione temporanea
sale per le conferenze pubbliche
mostre didattiche
Tuttavia non era così semplice applicare i nuovi criteri agli edifici storici che ospitano la maggior
parte dei musei italiani. Alcuni esempi sono la sistemazione del Museo Nazionale di San Matteo a
Pisa, il Palazzo Bianco a Genova, le Gallerie dell'Accademia dell'Arte a Venezia e la Scuola della
Carità. Quindi vediamo come le città di Genova, Venezia e Milano sviluppino le proposte più
innovative in campo museografico negli anni cinquanta. Tuttavia, i musei milanesi furono i più
colpiti dalla guerra. Alcuni esempi:
MILANO - Pinacoteca di Brera, fu riaperta nel giugno del 1950, ed è un caso esemplare
dell'incertezza tra modernità e tradizione. Il risultato fu quindi una sorta di compromesso fra
ripristino e innovazione. La ricostruzione iniziò nell'inverno del 1946 sotto la direzione di Ettore
Modigliani, il quale affidò l'opera di riallestimento a Pietro Portaluppi. Il risultato fu una "Brera
antica e nuova". Antica per l'uso di marmi preziosi, e nuova nella presentazione di dipinti su un
solo registro, con pareti di tonalità chiara e una radicale trasformazione dell'impianto illuministico.
Le salette ellittiche con i dipinti del Settecento, la "cappella" che ospita i capolavori di Raffaello e la
sala che rievoca lo "studiolo" di Piero della Francesca, rientrano nel concetto di alto decoro.
Un'altro segno di rinnovamento, lo vediamo nelle Gallerie che dal 1939 al 1946 erano sotto la
soprintendenza di Guglielmo Pacchioni, il quale affidò a Franco Albini la progettazione delle salette
attigue alle sale napoleoniche. Albini era già conosciuto a Brera per aver operato nella
sistemazione di un'ala della Pinacoteca e per aver allestito una mostra temporanea dedicata a
Scipione nel 1941. In questa occasione Albini introdusse strutture leggere e montanti fissati al
soffitto con cavetti d'acciaio per supportare sia quadri che lampade. Attraverso le mostre quindi,
l'architetto fissava i canoni che avrebbe seguito nel corso del suo lavoro, inoltre poteva
sperimentare. Il cosiddetto "corridoio Albini", era costituito dalle salette adiacenti alle quattro sale
napoleoniche, che unificate davano vita ad una galleria continua con pannelli dalle tonalità chiare
disposti a "pettine" in modo da creare diversi vani per ospitare pitture venete di formato minore. Il
sistema di illuminazione si basava sia su luce naturale proveniente dalle finestre, sia da luce
artificiale nascosta da una soffittatura a due livelli.
GENOVA - Albini operò anche a Genova, insieme a Caterina Marcenaro, responsabile dei musei
civici. Qui realizzò i suoi più importanti interventi in campo museale. Si tratta di Palazzo Bianco, di
architettura settecentesca, che ospita una collezione di scultura, pittura e arti decorative
prevalentemente genovesi tra XIII e XVIII secolo. Il tema museografico si intrecciava con il tema del
restauro. L'intento di Albini fu quello di "ambientare il pubblico", capovolgendo la tradizione del
museo dove l'architettura cercava rapporti con le opere e non con il visitatore. Albini puntava ad
una nuova museografia che facesse da tramite tra opera e pubblico. Da questa idea nasce quindi
l'uso di strutture semplici e di elementi d'arredo familiare, non appariscenti. Alla base di tutto ciò
ci sono due scelte fondamentali: una rigorosa selezione delle opere effettuata da Caterina
Marcenaro, e una volontà di escludere tutti gli elementi d'arredo che potessero rievocare le forme
originarie del palazzo. Quindi, i dipinti antichi vennero lasciati liberi, senza cornici e presentati
nella "loro originale limpidezza". Anche le scelte cromatiche furono rigorose: pavimenti in lastre di
ardesia con riquadri in marmo bianco, pareti chiare e supporti neri o grigi; solo le "tripoline"
(poltrone pieghevoli) si staccano da tutto il resto con il colore biondo del cuoio. L'illuminazione
prevedeva una luce naturale, graduata da tende, e una luce artificiale diffusa da lampade
fluorescenti. Grazie a questa progettazione, le opere avevano uno spazio autonomo, quasi di
isolamento dalle opere vicine. Icona del museo era il frammento di Giovanni Pisano con l' Elevatio
animae di Margherita di Bramante che venne presentato su una parete di ardesia e illuminato da
luce naturale. Albini pensò a due mensole asimmetriche per accompagnare l'irregolarità del
frammento, innestate a loro volta su un meccanismo che permetteva l'innalzamento e la rotazione
dell'opera. Purtroppo la realizzazione del Museo lapideo di Sant'Agostino causò lo spostamento
del gruppo scultoreo di Giovanni Pisano nella nuova sede. Questo induce a pensare che gli
allestimenti, anche se ben progettati, avevano un carattere di "opera chiusa", cioè che gli
spostamenti e i nuovi inserimenti comportano la rottura di equilibri a lungo meditati. Ricordiamo
infine che Palazzo Bianco ospitava anche un deposito visitabile nel piano intermedio e nel
sotterraneo, si trattava di una sorta di "galleria secondaria" riservata alla consultazione.
Sempre a Genova, Albini operò con criteri analoghi alla progettazione del museo di Palazzo Rosso
(1953-1961), tuttavia adottando un approccio diverso nei confronti dell'architettura, decidendo di
conservare il suo carattere di dimora patrizia. Il palazzo era infatti di stile barocco con loggiati e
grandi scalinate, decorato dai maggiori pittori genovesi del tardo Seicento, tuttavia danneggiato
dai bombardamenti del 1942. In collaborazione ancora una volta con Caterina Marcenaro, decise
di eliminare i tramezzi che occludevano le logge e i porticati, sostituendoli con lastre di cristallo
all'interno delle arcate, staccate dalle colonne e dalle balaustre, in modo tale da avere una chiara
visione dell'architettura dotata di valori quali la trasparenza e la continuità degli spazi. Secondo
Albini infatti "aria e luce sono materiali da costruzione". Fece poi una distinzione tra i due piani
nobili: nel primo, privo di affreschi, pose i dipinti antichi; nel secondo aveva collocato le opere più
tarde, compresi mobili e sculture. Anche in questo caso utilizza supporti in acciaio per le opere.
Successivamente, date le caratteristiche del palazzo, l'architetto decise di ammorbidire il
linguaggio schermando le finestre con tendaggi leggeri e introducendo note di colore come il rosso
dei pavimenti e il rivestimento in lana grigio delle pareti prive di affreschi.
Terzo museo genovese di cui si occupa Albini è il Museo del Tesoro di San Lorenzo, situato nel
sottosuolo del cortile dell'Arcivescovado. E' costituito da tre camere principali a pianta circolare,
che traducono in un linguaggio moderno il tema della tholos micenea (tomba). I tre ambienti
presentano nelle volte ribassate una trama di travetti a vista in cemento, disposti a raggiera
intorno ad un oculo da cui filtra una luce zenitale. Al centro del pavimento c'è un incavo che ospita
le opere più significative, mentre gli altri oggetti sono liberi su putrelle di ferro, protetti da teche
appositamente studiate. Lo spazio è quindi antico e nuovo. Il carattere della collezione è chiuso e
non presenta problemi di flessibilità, anzi permette agli oggetti di essere collocati in una
dimensione di reliquiario.
MILANO - Negli stessi anni si realizzava il riallestimento dei musei del Castello Sforzesco, riordinati
dal direttore Baroni in collaborazione con altri quattro progettisti (Gruppo BBPR - iniziali dei
cognomi che è impossibile ricordarsi quindi pacco). Il progetto appoggiava l'idea di contestualismo
architettonico, cioè la necessità da parte dell'architettura di tener conto delle preesistenze
ambientali. Il dialogo tra i progettisti e lo storico dell'arte si rivelò quindi essenziale per la riuscita
dell'intervento. Tutti gli elementi costitutivi del Castello erano fondamentali: le muraglie, i tre
cortili, le torri, i torrioni, i ponti, il fossato, le scale e le scalette, i passaggi incavati e le passerelle.
L'obiettivo era infatti quello di un "museo popolare" nel senso di parlante e comunicativo, e non
una semplice presentazione di opere. Si puntava ad un coinvolgimento emotivo, offrendo la
possibilità a tutti di comprendere le opere. Il restauro architettonico fu il primo intervento, fu un
opera complessa soprattutto per quanto riguardava le scelte nei confronti dei rifacimenti "in stile"
realizzati 50 anni prima da Beltrami, al quale si riconosce il salvataggio dell'antica fortezza.
Vennero rispettate le aggiunte tardo-ottocentesche, alleggerendo le decorazioni interne, solo in
minima parte autentiche (sala dei Ducali e sala degli Scarlioni). Inoltre furono abbattuti i muri
divisori delle prime sale della Corte Ducale, dove erano stati individuati tre pilastri esagonali,
risalenti al periodo dei Visconti e corrispondenti alla cappella di San Donato, che costituivano il
sostegno di tre arcate trasversali che Beltrami era stato costretto a togliere, ma che fu possibile
riportare alla luce demolendo appunto i muri. Si otteneva quindi una fluida continuità di spazio,
esaltata dalla collocazione della trecentesca Posterla dei Fabbri, una delle porte minori della città
che fungeva ora da richiamo per la visita del museo. Altro risultato del restauro fu la scoperta della
Sala delle Asse, con la decorazione realizzata da Leonardo ma occultata da Beltrami con dei
rivestimenti lignei. Dopo la scoperta infatti venne lasciata libera per non interferire con il
capolavoro di Leonardo, e fu attrezzata con pannelli rimovibili in occasioni delle mostre
temporanee. Il dialogo quindi tra ambiente storico e oggetti esposti era al centro dei progetti di
allestimento, che riconoscevano l'architettura come parte integrante del percorso. ES: il
pianterreno della Corte Ducale conserva ancora la decorazione antica.
In questi ambienti, la scultura lombarda è la vera protagonista, e si era fatto in modo di
coinvolgere il pubblico e suscitare la loro attenzione attraverso alcuni accorgimenti: superfici e
spazi chiari ben definiti, collocazione delle opere in una propria situazione attraverso l'uso di leggii,
pareti, nicchie in modo tale da isolare ogni singola opera. Inoltre una disposizione dinamica e
un'illuminazione particolare evitavano una monotona successione delle opere. I supporti erano
realizzati in legno, bronzo, pietra o ferro battuto. La flessibilità era garantita dalla presenza di
spinotti alle pareti in grado di ospitare le nuove acquisizioni. Tuttavia, incrementare la collezione
senza modificare l'allestimento era rimasta una concezione del tutto teorica: vediamo ad esempio
nella Sala degli Scarlioni, la collocazione di venti nuove sculture che diedero luogo ad
un'esposizione fitta e poco armoniosa. Emerge così un problema difficile da risolvere: il conflitto
tra il rispetto per l'allestimento e le esigenze di crescita del museo.
L'opera sicuramente più importante che il Castello Sforzesco ospita è La Pietà di Michelangelo,
situata al termine di un'ampia scalinata e protetta da una nicchia esagonale che isola l'opera dal
resto della collezione. Al piano superiore il tono è più pacato, vediamo infatti raccolte di mobili e la
pinacoteca, due ambienti privi di decorazioni antiche. Nella pinacoteca i dipinti erano esposti su
pannelli componibili e rivestiti in tela ruvida di colore neutro.
Sempre a Milano, anche la Galleria d'Arte Moderna situata nella neoclassica Villa Belgiojoso,
aveva subito duri colpi dalla guerra. Nel riordino delle collezioni ad opera di Baroni, si decise di
riservare l'edificio principale alle raccolte ottocentesche, ricavando però uno spazio per le opere di
arte contemporanea, su progetto di Ignazio Gardella. Nasceva così il Padiglione d'Arte
Contemporanea, inaugurato nel 1953, nel quale l'architetto manteneva inalterato il rapporto tra le
preesistenze (villa e giardino all'inglese) e i rustici distrutti (le scuderie antiche che erano state rase
al suolo). Vennero infatti conservate nelle loro proporzioni originali: il cortile, l'ingresso del
Padiglione, il muro nord, la planimetria irregolare e l'estensione in altezza. Il magistrale intervento
di Gardella si qualifica soprattutto nell'unità dello spazio architettonico interno, semplice e
luminoso, concepito come un unico ambiente composto da sale esagonali.
VENEZIA - L'altro grande protagonista della museografia italiana è Carlo Scarpa, il quale allestì
diverse mostre a Venezia:
Allestimento della sala dedicata a Paul Klee alla Biennale di Venezia del 1948
Allestimento della mostra di Giovanni Bellini nel 1949
In questo periodo ci furono anche i primi interventi nelle Gallerie dell'Accademia di Venezia
(1946-1948), in collaborazione con il direttore del museo Vittorio Moschini. Anche in questo caso
la linea museologica seguita fu quella di una revisione critica del patrimonio, con un diradamento
delle opere secondo un percorso ben studiato. Furono eliminate le tappezzerie, le pareti trattate
con intonaci lavorati sia con sabbie grosse, sia con raffinate stesure di sabbie minute. I dipinti sono
collocati su pannelli diversi per evitare le simmetrie, facendo sempre attenzione all'illuminazione.
Scarpa aveva una predilezione per la luce naturale.
Nel 1953 iniziava anche l'allestimento del Museo Correr, in parallelo alla mostra Antonello da
Messina e la pittura del Quattrocento in Sicilia, una delle realizzazioni più riuscite di Carlo Scarpa.
Tornando al Museo Correr, l'allestimento prevedeva le collezioni storiche al primo piano: costumi,
armi, cimeli, mobili, vessilli. ES: per quanto riguarda l'allestimento dei costumi, si era pensato ad
una selezione di costumi presentati entro vetrine di cristallo e ferro, abbinati alle bandiere, ai
vessilli e ad una serie di grandi ritratti di dogi, dignitari condottieri. La quadreria fu allestita nel
1957 al piano superiore, ed era composta da oltre cento dipinti databili tra XIII e XVI secolo e
alcune sculture. I criteri di allestimento erano i nuovi: decisa selezione delle opere, depositi
visitabili, pareti chiare, luce filtrata che lasciava ad ogni opera il suo spazio, in modo tale da
sottolineare l'unicità.
Carlo Scarpa fu incaricato di allestire anche il Palazzo Abatellis a Palermo (1953-54). Gli elementi
fondanti della sua museografia, e che vediamo applicati in quest'occasione sono:
architettura come strumento critico
diverse soluzioni per ogni singola opera
predilezione per la luce naturale
cura artigianale per la realizzazione dei supporti
Criteri che furono applicati in egual modo nell'ampliamento della Gipsoteca di Possagno nel 1956,
dove vediamo la geniale invenzione di finestre collocate in alto e a spigolo in modo tale da
catturare uniformemente la luce naturale. E ancora, nella mostra Da Altichiero a Pisanello (1958)
allestita nelle sale di Castelvecchio a Verona, vediamo Scarpa impegnato in un complesso episodio
di restauro e di allestimento museografico delle collezioni. L'intervento fu occasione di importanti
scoperte, come il vallo trecentesco e l'antica porta del Morbio, che indirizzarono le scelte
museografiche in base alle esigenze di restauro. Il rispetto per le tracce antiche portò alla
demolizione della caserma napoleonica che le aveva occultate, mentre venne mantenuto il
prospetto verso il cortile con la ricostruzione delle facciate gotiche veronesi. All'interno delle sale
le sculture antiche, esposte su basi diverse, ritrovavano senso e attualità. ES: la sistemazione della
statua equestre di Cangrande della Scala, fu preceduta da lunghe riflessioni. Inizialmente era stata
posta nel cortile d'ingresso, ma dopo le scoperte, fu collocata in corrispondenza del nuovo
ingresso su una base di calcestruzzo, visibile sia a distanza ravvicinata, sia dal basso. Questa
soluzione geniale e irripetibile, che vincola l'opera all'edificio, conferma l'idea di un allestimento
concepito come "opera chiusa" e non modificabile.
IL MUSEO VERSO IL XXI SECOOLO: GRANDI ARCHITETTI, IL MUSEO COME
“LANDMARK”, LA COMPETIZIONE CON LE MOSTRE
“.. l’ordinamento ideale è quello che si presta a essere continuamente scomposto e ricomposto, e
la struttura architettonica ideale è quella che si presta a flettersi secondo le necessità di ogni tipo
di ordinamento.. poiché la determinante di tutte le condizioni di spazio, luce e colore sono, le
opere d’arte: in nessun caso, più che nel museo, l’architettura deve sapersi subordinare e,
dissimulare per mettere in valore, cioè in una dimensione e in una luce conformi, l’opera d’arte”.
In questo “elogio della flessibilità” Argan richiamava come struttura esemplare quella del
Padiglione d’Arte Contemporanea di Gardella per la sua grande duttilità e per la capacità di
adattarsi alle esigenze espositive “senza smarrire la propria qualità formale”, sottolineava inoltre
l’obbligo dell’architettura a non prevaricare sull’opera d’arte, vera protagonista del museo.
Mentre lo studioso formulava questi concetti, a New York si andava realizzando il Solomon
Guggenheim Museum di Frank Lyod Wright, dedicato alla grande collezione di “Non-Objective
Painting”. Il museo sconvolgeva i canoni tradizionali, il cuore del Guggenheim si prestava come un
affascinante invaso vuoto, cinto da una rampa a spirale di sette piani che costituisce il percorso del
museo, caratterizzato da un’audace inversione: inizia dall’alto e non prevede altra possibilità di
visita se non quella imposta dallo svolgersi della rampa. Il visitatore può contemplare le opere
esposte che però, collocate su muri curvi e in relazione col piano inclinato del pavimento,
sembrano fluttuare prive di appoggio. Wright crea un edificio spettacolare che si impone nel
tessuto urbano cercando un nuovo rapporto con la città.
Ma l’aspetto più nuovo è la competizione che qui si instaura tra struttura architettonica e opere
d’arte, dove la prima finisce per prevalere marginalizzando la collezione -> Guggenheim
rappresenta così il prototipo delle odierne esperienze museografiche che hanno assegnato al
museo il ruolo di Landmark e su di esso hanno investito l’immagine di un quartiere, se non
dell’intera città.
Questo disinteresse per la funzionalità a vantaggio della forza espressiva del segno architettonico
si ritrova, nella Neue Nationalgalerie di Berlino caratterizzata dal tema della trasparenza: come un
Crystal Palace razionalista, collocato su un alto podio in granito e sovrastato da un’ampia falda di
copertura, il museo è una vasta aula dalle pareti in vetro, uno spazio continuo e senza interruzioni,
all’interno del quale le opere esposte hanno come scenario la città.
Una svolta ancora più radicale è a Parigi nel 1977 con la creazione del Centre Pompidou (prende il
nome dal presidente francese che ne promosse l’istituzione). Alla sua base c’è una volontà politica,
tesa a rilanciare Parigi sulla scena dell’arte contemporanea strappando a New York il ruolo di
capitale che la città francese stava perdendo. Già nella definizione di “centro” e non di “museo” è
chiara la volontà di distinguersi delle istituzioni tradizionali. Il Centre Pompidou rivendica un ruolo
propositivo, come luogo di attività dove le arti visive si accompagnano al cinema, alla fotografia,
alla musica, al design e, attraverso un centro di documentazione promuove la ricerca sulle varie
discipline.
Il Centre Pompidou si rivolge ad un pubblico più esigente e desideroso di partecipazione,
allargando così la sfera dei propri fruitori, sensibilizzando artisti e operatori culturali, coinvolgendo
il quartiere -> STRUMENTO DI COMUNICAZIONE SOCIALE
Nel suo dissacrante aspetto di parallelepipedo vetrato sostenuto da strutture in acciaio,
attraversato diagonalmente in facciata dal nastro trasparente delle scale mobili, con le tubature a
vista sul retro, variamente colorate a seconda delle funzioni, l’architettura di Renzo Piano e
Richard Rogers si impone con prepotente novità nel tessuto urbano dell’antico quartiere parigino.
Ciò che si svolge dentro il museo è ben visibile perché la totale trasparenza dissolve i confini
tradizionali tra l’interno e l’esterno, tra il museo e la città. È l’annullamento del LIMEN, cioè il
confine tra la vita quotidiana e lo spazio “sacrale” del museo.
L’organizzazione degli spazi interni si articola in vaste d’accoglienza, non solo al pianterreno dove
sono collocati biglietteria, bookshop e punti di informazione, ma anche nei piani superiori dove
caffè, luoghi di sosta e terrazze si alternano a zone dedicate alle mostre temporanee in un
continuo rapporto con il panorama della città. All’esposizione permanente (patrimonio del XX
secolo) sono riservati il terzo e quarto piano, dove tuttavia il percorso troppo libero e forse
disorientante, è stato sostituito negli anni ottanta da un progetto di Gae Aulenti che ha riplasmato
lo spazio dividendolo in sale più raccolte, la cui sequenza ordinata e più tradizionale sembra
meglio rispondere all’esigenza del pubblico di essere guidato alla visita.
L’enorme successo del Beaubourg, visitato a tutt’oggi da una folle giornaliera di 25000 persone
dimostra che si tratta di una formula vincente. Il Centre Pompidou viene vista come un’istituzione
di primo ordine e non solo una meta del turismo culturale di massa. La sua creazione ha portato ad
una ricaduta positiva sull’intero quartiere, riqualificato proprio grazie alla sua capacità
d’attrazione. Sarà proprio la consapevolezza della forza seduttiva dell’architettura a determinare la
fondazione di nuovi musei in aree degradate da rivitalizzare o addirittura in città da rilanciare,
come insegnano la Tate Modern di Londra e il Guggenheim Museum di Bilbao.
Dopo il Centre Pompidou, la progettazione architettonica si è andata sempre più svincolando dalla
fedeltà a una tipologia riconoscibile. Se nell’800 si era fissato un canone espressivo su cui
uniformarsi, ora ogni museo costituisce un caso a sé, un’esperienza non confrontabile con altre.
Negli ultimi decenni del secolo scorso il museo è stato uno dei temi centrali della progettazione
architettonica, sia per le potenzialità che offre sul piano creativo, sia per la grande attrattiva che
esercita come strumento di comunicazione. E in modo sempre più forte si è imposto come opera
d’arte in sé, quasi a prescindere dalla funzione espositiva che è chiamato a svolgere.
ESEMPI
Museo del legno del giapponese Tadao Ando
Casa de Hombre a La Coruna di Arata Isozaki
“parco architettonico” d Weil am Rhei
Ma è nel Judisches Museum di Daniel Libeskind a Berlino che l’architettura, lacerata da continui
tagli diagonali che ne tormentano le superfici esterne rivestite di zinco, esprime la tragedia
dell’Olocausto meglio di qualsiasi oggetto esposto al suo interno. Memorial, più che museo con la
sua pianta ispirata alla stella di Davide ma come deformata e sconvolta,con i suoi interni
oppressivi, comunica al visitatore un senso di angoscia e di sofferenza solo attraverso l’efficacia del
linguaggio formale.
Il Getty Center ( Los Angeles) è il frutto di una lunga progettazione portata avanti dall’architetto
Richard Meier, autore del contestato complesso museale dell’Ara Pacis a Roma, costituito da un
insieme di vari edifici dedicati alla ricerca, alla conservazione, alla documentazione in ambito
artistico. Il museo occupa la parte più panoramica della collina ed è costituito da cinque edifici
autonomi ma collegati da passerelle al livello superiore in moda da dare continuità al percorso.
Spettacolare è la “ rotonda” che accoglie il visitatore e dove sono collocati punti informativi,
guardaroba, bookshop: un grande spazio vetrato completamente offerto alla luce naturale, così
come nelle sale superiori dedicate alla pittura, i lucernari consentono di illuminare le opere e al
tempo stesso di vedere il cielo.
In stretta simbiosi con la città è invece il nuovo Mueseums Quartier di Vienna, inaugurato nel
2001, presenta una collezione di opere di artisti austriaci tra cui spiccano Klimt e Schiele, quello in
basalto nero è dedicato all’arte moderna e contemporanea. Stile barocco e linguaggio
d’avanguardia convivono così nel grande complesso che accoglie più di venti istituzioni culturali.
Come nel caso del Centre Pompidou e a differenza del Getty Center di Los Angeles dove la città è
lontana la realizzazione del Museums Quartier risponde a una strategia di riqualificazione urbana
che ha infatti rilanciato il distretto di Neubau, non solo grazie all’ampia gamma di proposte
culturali, ma anche con la vivacità dei punti di ritrovo e la molteplicità delle occasioni di svago.
Non si è invece trattato della riqualificazione di un quartiere ma di un’intera città quello che è
avvenuto a Bilbao, dove il celebrato Guggenheim Bilbao Museo ha risollevato le sorti del
capoluogo basco,già ricco centro industriale ma da tempo avviato alla decadenza.
L’amministrazione cittadina ha puntato sul rinnovamento dell’immagine della città affidando ai più
famosi architetti la progettazione di edifici di importanza strategica: l’aeroporto di Calatrava,le
stazioni della metropolitana di Norman Foster, le stazioni ferroviarie di Stirling e Wilford. Poi ha
commissionato a Frank O. Gehry la realizzazione di un museo per l’arte contemporanea. Il
grandioso “Landmark” di Gehry è così divenuto il simbolo della nuova identità urbana, fruttando
alla città il suo riconoscimento internazionale. Il museo incanta con i suoi volumi sinuosi la cui
superficie, rivestita di sottili lastre di titanio, si offre alla luce mutevole del giorno, del tempo e
delle stagioni. Come un’immensa scultura l’andamento ondulato, offre prospettive sempre
diverse. All’interno gli spazi si regolarizzano, almeno nella sequenza delle sale quadrate e
rettangolari che si dipartono dall’enorme atrio, ma la galleria principale riprende il percorso
flessuoso. I musei continuano a essere ospitati in edifici rinfunzionalizzati, con tutti i limiti che
questo comporta.
PARTICOLARI TIPOLOGIE DI MUSEI: CASA-MUSEO, STUDI D’ARTISTA, MUSEI
DIOCESANI, MUSEI ETNOGRAFICI, ECOMUSEI, MUSEI AZIENDALI
Oltre a quelle finora considerate, esistono altre tipologie museali:
1. la casa-museo, un’istituzione nata dalla trasformazione di un’abitazione privata in museo
aperto al pubblico. La sua particolarità è il persistere di una raccolta artistica all’interno
dell’ambiente domestico un tempo abitato dal collezionista e dunque,ricco, talvolta,
saturo, di oggetti a lui appartenuti. La casa,divenuta museo,si trova così a esibire non solo
opere d’arte,spesso di primaria importanza,ma anche gli arredi della dimora,dai mobili agli
oggetti d’arte decorativa. Nel corso dell’800 diviene infatti possibile,anche per i nuovi
ricchi, arredare la propria residenza con oggetti preziosi e opere d’arte,come aveva fatto da
sempre l’aristocrazia. Nell’insieme di oggetti che si accumulano nella casa ottocentesca
costituiscono una “narrazione”, assumono cioè il significato che il collezionista ha voluto
attribuire loro attraverso una disposizione mai casuale. Talvolta la casa del collezionista,
possiede le caratteristiche di una “galleria” visitabile anche da estranei. Altre volte, invece
all’atto della donazione le dimore divenute meno si configurano come luoghi arredati con
gusto che testimoniano la ricchezza dei mezzi del proprietario, ma non evidenziano un suo
preciso progetto espositivo. La musealizzazione di una dimora privata comporta una serie
di modifiche legate alle esigenze, spesso contrastanti, della conservazione e della fruizione.
Se infatti la necessità di fruizione suggerirebbe di non alterare con elementi stranei
l’atmosfera familiare evocata da una dimora private,per quanto sontuosa,la tutela delle
opere obbligherebbe invece a una loro messa in sicurezza attraverso vetrine, distanziatori e
strumenti e dei fattori ambientali. Tali elementi, che implicano talvolta interventi invasivi,
interferiscono pesantemente con l’aura della dimora,violandone il delicato equilibrio
narrativo. La musealizzazione della casa comporta inoltre la necessità di rendere agevole e
comprensibile la lettura delle opere. Nella maggior parte dei casi la mancanza di indicazioni
precise nei documenti testamentari lascia alle istituzioni che ereditano la facoltà di
intervenire nella scelta del percorso espositivo. Diventa allora possibile modificare la
disposizione delle opere stesse e degli arredi fino ad alterare sensibilmente ciò che fu la
casa del collezionista. Alcuni donatori, invece,pongono nel loro testamenti la condizione di
non modificare la conformazione della casa donata,mantenendo nel tempo la disposizione
originaria di opere d’arte e arredi. In altri casi ancora,il collezionista non vincola la
disposizione di opere e oggetti all’interno della sua dimora ma impone la costituzione di
una fondazione che gestisca il patrimonio donato ( casa,opere e spesso anche rendite
finanziarie) in genere indicando persone alui note,solitamente uomini di cultura o esperti
d’arte,quali responsabile delle scelte culturali del futuro museo. Nei primi decenni del XX
secolo la tipologia della casa-museo vide, in Europa e in America,un ampio sviluppo. Molti i
collezionisti che donarono,insieme alle proprie raccolte,la casa che le conteneva.
Spesso,però, in Europa, gli allestimenti originali sono andati distrutti a causa degli eventi
bellici. In America il modello europeo e ottocentesco della casa-museo ha resistito a lungo,
ben oltre la metà del 900, sostenuto dal forte desiderio dei collezionisti statunitensi di
legare il proprio nome a un’istituzione museale. Nel 1942 si apriva a Boston la casa-museo
di Isabella Stewart Gardner, una delle splendide e singolari dimore, ancor oggi ammirabile
secondo le disposizioni impartite dalla stessa Isabella,che aveva subordinato la donazione,
al vincolo tassativo di non spostare alcun oggetto dalla posizione da lei assegnata.
2. sotto la generica definizione di casa-museo si fanno solitamente cadere anche le case e gli
studi d’artista che, rispetto alla casa-museo ottocentesca di stampo aristocratico o alto
borghese, racchiudono solitamente al loro interno una maggior uniformità di oggetti in
quanto frutto del lavoro dell’artista stesso o perché raccolti da quest’ultimo con la finalità
di servire da modello per l’attività creativa. Sono spesso gli artisti stessi a decidere la
destinazione museale per le loro dimore. Molti sono gli esempi: - casa-museo di Sir John
Soane a Londra, - Rubens ad Anversa, - il Vittoriale di Gordone. Come veri e propri ateliers,
che conservano al loro interno materiale di studio, bozzetti,strumenti di lavoro,possiamo
ricordare lo studio di Brancusi, di Giuseppe Pellizza da Volpedo, di Vincenzo Vela a
Ligornetto. Nel panorama museale nazionale del secondo 800 una parte significativa è
rivestita anche dalle collezioni artistiche di proprietà ecclesiastica.
3. Sarà solo a fine 800 che inizieranno a costituirsi in Italia i primi musei diocesani, loro scopo
principale è quello di riunire e salvaguardare una grande varietà di beni.
4. Musei del tesoro, in genere allestiti in cripte e sacelli e formati da oggetti di piccole
dimensioni come reliquiari o materiali ancora utilizzati per il culto.
5. Musei della fabbrica o dell’opera del Duomo, che espongono pezzi legati alle vicende
edilizie della chiesa,come frammenti scultorei o architettonici spesso di altissima qualità.
7. Musei etnografici, ormai numerosissimi e in Italia spesso legati alle comunità montane,
hanno un ruolo centrale gli oggetti, in genere oggetti d’uso e non opere d’arte, che
raccontano i costumi e le tradizioni di un popolo. L’interpretazione del museo etnografico
come raccolta di testimonianze materiali di una civiltà esclude, le produzioni immateriali,
come suoni,rituali,danze,consuetudini,talvolta in grado di raccontare un popolo meglio di
oggetti concreti. Sempre più spesso, dunque, come dimostra il più aggiornato di questi
musei, il Musee du Quai Branly, aperto a Parigi nel 2006, questi musei si dotano di
attrezzature multimediali che riproducono la cultura intangibile a completamento delle
opere esposte. I musei etnografici offrono molteplici punti di tangenza con l’ECOMUSEO.
8. L’ecomuseo approfondisce il legame con la civiltà espressa da un territorio facendo
diventare quest’ultimo, e le sue produzioni materiali e immateriali, il bene stesso da
tutelare. In Italia l’esperienza degli ecomusei ha il suo epicentro in Piemonte. Ciò che
differenzia invece sostanzialmente questa tipologia museale da quelle tradizionali è
l’essere musei in progress, istituzioni per lo più legate a un’azienda ancora produttiva, per
la quale la storia pregressa testimoniata dal museo costituisce una sorta di garanzia di
affidabilità. Possedere una storia vuol dire infatti avere un’esperienza che dura nel tempo,
il che, per un’impresa, significa attendibilità e possesso del know how.
LA TUTELA IN ITALIA: LINEAMENTI DI LEGISLAZIONE
In Italia la tutela di quelli che oggi si definiscono “beni culturali” ha una storia molto antica. Il
concetto di bene pubblico, che è tale se inalienabile e se la sua fruibilità è garantita a tutti, è
chiaramente enunciato da Plinio e confermato dall’istituzione, come responsabile della
salvaguardia delle opere d’arte pubbliche. La necessità di un controllo per rendere efficace l’azione
di tutela fu avvertita da Sisto IV ed estese la vigilanza alle opere d’arte custodite nelle chiese
vietandone la vendita. Con Leone X fu affidato a Raffaello il ruolo perfetto della fabbrica di San
Pietro, poi ampliato in quello di ispettore generale delle Belle Arti, nella consapevolezza che
fossero necessarie precise competenze tecniche per svolgere quel compito. La necessità di una
figura istituzionale responsabile della salvaguardia dei monumenti della città fu condivisa da Paola
III Farnese che creò un nuovo organismo, il Commissario alle antichità. Anche nel corso del 600 si
registrano numerosi interventi di tutela, ma è soprattutto nel 700, sotto la spinta del Grand Tour e
della corsa frenetica dei viaggiatori a procacciarsi ogni genere di oggetto antico, che si
intensificano gli interventi per la tutela del patrimonio archeologico: particolarmente severi i due
editti del cardinal Annibale Albani, 1726 contro gli scavi clandestini e quello del 1733,ribadendo i
divieti dell’editto precedente, si affermano i principi del “pubblico decoro” della città, che deve
essere difeso da tutti i cittadini, e quello dell’interesse collettivo alla conservazione del “ pubblico e
del privato bene”. L’Editto Doria, ispirato dal commissario alle antichità e agli scavi Carlo Fea, è la
necessaria premessa dell’Editto del cardinal Pacca. Ciò che lo rende efficace è la creazione di
rigorosi strumenti applicativi e di una struttura di controllo, la Commissione permanente di
vigilanza, articolata in diverse competenze tecniche, con sede centrale a Roma ma ramificata negli
Stati Pontifici. Ai tecnici e agli esperti sono attribuite precise mansioni e grande rilievo ha l’aspetto
del’inventariazione come necessaria base di conoscenza del patrimonio. L’Editto Pacca, sarà il
modello per la normativa dell’Italia postunitaria. Alla legge del 1865 fecero seguito l’anno
successivo le cosiddette “leggi eversive” che affidavano ai comuni la gestione dei beni espropriati,
favorendo l’incremento se non addirittura la nascita dei musei civici. L’Italia unita confermò
inizialmente il CORPUS legislativo adottato dagli Stati preunitari, mantenendo commissioni
decentrate,civiche e regionali,fino all’istituzione all’interno del Ministero della Pubblica Istruzione
di una Giunta di Belle Arti dotata però di scarsa efficacia operativa. Il 1875 rappresenta una
svolta,con la fondazione della Direzione generale degli scavi e dei musei, struttura centrale sempre
dipendente dal Ministero. Nello stesso anno veniva introdotta la “ tassa d’ingresso” ai musei che
rimase in vigore per oltre un secolo ed è stata sostituita da un semplice “ biglietto” d’ingresso solo
nel 1997. La legge 12 giugno 1902 segna l’avvio di un’articolata azione legislativa in materia di
tutela. Più efficace, completa e moderna è la legge 364 del 20 giugno 1909 per il cui regolamento
d’attuazione si dovettero però attendere tre anni e mezzo. La legge Rosadi stabiliva l’inalienabilità
non solo dei beni pubblici, ma anche di quelli privati ritenuti di alto valore storico e culturale, beni
che non potevano essere manomessi o alterati. Tali beni, equiparati a quelli dello Stato, erano
perciò soggetti a notifica, e quindi spettavano allo Stato la tutela e ogni intervento relativo al bene
stesso. Se l’esportazione del bene privato su cui era stato emesso il vincolo veniva esplicitamente
vietata, non lo era la sua vendita all’interno del territorio nazionale ma, in tal caso, lo Stato si
riservava di esercitare il diritto di PRELAZIONE ( cioè il diritto di intervenire per primo nell’acquisto)
assicurandone il possesso alla collettività. Altro punto della legge Rosadi riguarda la creazione di
una struttura organizzativa centrale e di una rete di organismi periferici distribuiti capillarmente
sul territorio e la necessità di compilare un catalogo del patrimonio pubblico. Nel 1939 furono
promulgate le due leggi che hanno costituito per 60 anni l’asse portante della legislazione italiana
in materia di tutela:
- legge 1089 del 1 giugno 1939
- legge 1496 del 29 giugno 1939
Lo spirito delle due leggi è improntato a una visione protezionistica, dove la tutela e la
conservazione appaiono come punti di forza su cui il legislatore interviene. La 1089/39 è divisa in
otto capitoli tematici, il primo dei quali specifica l’oggetto della tutela. Tra i vari provvedimenti,
conferma la “ notifica”, che va però formalizzata attraverso una motivazione scritta, e la “
prelazione”, interviene severamente in merito all’esportazione, stabilisce la proprietà statale di
tutti i ritrovamenti archeologici, esclude dalla tutela dello Stato le opere di autori viventi o la cui
esecuzione non risalga a oltre cinquant’anni. Si tratta di una legge lungimirante, solo nel 1999 è
stata riassorbita nel Testo unico per i beni culturali che raccoglie e attualizza tutta la precedente
legislazione in materia di tutela. L’attenzione al patrimonio culturale, in realtà scarsa nell’Italia
appena uscita dalla guerra e concentrata sulla ricostruzione, si fece più intensa negli anni 60. La
volontà di rinnovare la gestione dei musei italiani allineandola a quella dei musei stranieri è alla
base della legge Ronchey, che sanciva la possibilità di “ esternalizzare”, cioè di affidare a privati,
quei “ servizi aggiuntivi” che il personale interno non era in grado di fornire. Si tratti dei servizi di
visite guidate,della gestione di librerie interne e di ristorazione. Nel 1999 entro in vigore il Testo
Unico per i beni culturali, che riordina la precedente legislazione e cui fa seguito il Codice dei beni
culturali, leggi entrambe che,moltiplicando il numero delle direzioni generali, hanno contribuito ad
appesantire l’apparato burocratico statale.
FUNZIONI DEL MUSEO
Nella proposizione dell’ICOM già commentata e risalente al 1951, dove il museo viene definito “
istituzione permanente, senza scopo di lucro, al servizio della società e del suo sviluppo, aperta al
pubblico”, sono sinteticamente enunciate anche le sue finalità: gli obiettivi individuati sono,
“l’acquisizione, la conservazione, la ricerca,la comunicazione e l’esposizione”. L’ordine di priorità
vede al primo posto la tutela e la conservazione,funzioni delle quali le altre discendono. Il primo
compito della tutela è la conoscenza del patrimonio su cui essa si esercita e dunque ogni museo ha
l’obbligo di censire gli oggetti che possiede. Tale censimento si esplica nella compilazione di
elenchi di beni, secondo una pratica secolare tipica del collezionismo sia religioso che profano.
L’importanza di tali documenti è evidente, essendo essi elementi fondamentali per ricostruire il
percorso collezionistico di un’opera. Ma fu a Venezia che il problema del censimento venne per la
prima volta affrontato in maniera sistematica,quando il Consiglio dei Dieci affidò al pittore Anton
Maria Zanetti la stesura di un elenco dei dipinti custoditi nelle chiese di Venezia e delle isole: un
progetto che partiva dalla consapevolezza che la tutela del patrimonio è imprescindibile dalla sua
conoscenza capillare. La schedatura di un’opera avviene su due diversi livelli: quello inventariale e
quella catalografico. La scheda inventariale contiene i dati essenziali per il suo riconoscimento,
mentre quella catalografica ne rappresenta un approfondimento. La prima è una sorta di “ carta
d’identità”, limitata agli elementi esterni,mentre la scheda di catalogo è assai più articolata e
ripercorrere nel dettaglio gli aspetti critici, conservativi, bibliografici,aprendo anche un dibattito in
caso di attribuzioni incerte.
Le voci essenziali della scheda invetariale sono:
- Il numero d’inventario;
- L’autore;
- L’ambito stilistico e cronologico;
- Firme o iscrizioni;
- Il soggetto;
- Il supporto e la tecnica;
- Il materiale;
- Le misure;
- La collocazione;
- La provenienza;
- La bibliografia essenziale;
- Il numero di negativo fotografico;
- Fotografia dell’opera.
Gli elementi permettono di identificare l’opera con certezza, ma escludono le informazioni sullo
stato di conservazione, sul dibattito critico, sui risultati di un restauro: approfondimenti che
appartengono all’ambito catalografico. Ma è solo dl 1969 la creazione dell’Ufficio Centrale del
Catalogo,divenuto nel 1975 Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione (ICCD). Questo
istituto è in stretto rapporto con le soprintendenze, cui spetta il compito di organizzare campagne
di ricognizione sul territorio che sfociano in schedature trasmesse poi alla banca dati dell’ICCD. La
catalogazione avviene sulla base di una scheda-tipo diversa a seconda della tipologia di
beni,ciascuno dei quali è indicato da una sigla: OA per i beni mobili, RA per il reperto archeologico,
D per disegno, S per stampa, N per numismatica, E per materiali etnografici, A per i beni immobili
architettonici, MA per monumento archeologico, PG per parchi e giardini. Le schede dell’ICCD si
rivolgono invece a quei beni che non sono tutelati direttamente, spesso in pievi isolate di non
facile accessibilità. Una scheda catalografica, per quanto esauriente e precisa, non è mai
definitiva: costituisce la base per ulteriori approfondimenti. Di qui la necessità di continui
aggiornamenti e di un’attività di ricerca scientifica che rappresenta una delle principali funzioni del
museo. Della conservazione fanno parte tutte quelle operazioni volte a preservare il patrimonio e
a trasmetterlo alle generazioni future. Una corretta conservazione ha come base il controllo
climatico: i parametri ottimali per la conservazione dei dipinti si aggirano sui 18-20 gradi di
temperatura e il 50-55 % di umidità relativa. Il controllo della luce è altrettanto essenziale, specie
per opere su carta e con un’intensità luminosa che non superi i 110 lux. Questi principi, fanno
parte di quella “conservazione programmata” che ha fatto proprio i concetti di prevenzione e di
manutenzione come aspetti imprescindibili della tutela del patrimonio. Il restauro è
un’operazione complessa,che la conservazione preventiva consente di rimandare fino a quando lo
stato di un’opera non lo richieda. Un tempo il restauro era una pratica empirica, oggi invece è visto
come un’operazione critica affidata a professionisti. Si deve a Cesare Brandi la svolta in senso
moderno che ha completamente rinnovato l’impostazione del restauro secondo il quale viene
visto come un’operazione critica che considera l’opera d’arte non solo nella sua consistenza fisica
ma anche nella duplice popolarità storica ed estetica: dove per “istanza storica” si intende lo
scorrere del tempo sull’opera e le ineliminabili stratificazioni avvenute dal momento della sua
creazione; per “ istanza estetica” il riconoscimento delle qualità che fanno di un oggetto un’opera
d’arte. Compito del restauro è di ristabilire l’ “unità potenziale” di tale opera,la cui “forma” è
indivisibile in quanto non è data da un’aggregazione di parti ma costituisce un “intero”. Oltre
all’ISCR esistono in Italia altri due criteri dedicati al restauro e alla formazione dei restauratori:
l’Opificio delle Pietre Dure di Firenze (OPD), fondato nel 1588 e il Centro del Restauro di Venaria
Reale, istituito nel 2005.
I restauri delle opere pubbliche e delle opere private sottoposte a vincolo vanno autorizzati e
controllati dagli organi preposti alla tutela, cioè dalle soprintendenze. Se nei musei 800eschi il
criterio era di mostrare tutto, organizzando l’esposizione come un grande gabinetto di studio,la
necessità di selezionare era emersa dagli anni 30, quando si ipotizzava la creazione di un duplice
percorso per il pubblico generico e per gli studiosi, e si era imposta con forza nei musei italiani del
dopoguerra. Le antiche collezioni di dipinti erano esposte a “incrostazione”, tappezzando cioè
l’intera parete senza intervalli tra un’opera e un’altra: è un modo che riscontra luoghi come la
Galleria Spada, la Doria Pamphilj o la collezione Borromeo all’Isola Bella. Successione cronologica e
raggruppamenti per scuole o ambiti stilistici sono le linee più frequentemente seguite
nell’ordinare una collezione: costituiscono infatti la sequenza più razionale e meglio comprensibile
da parte del pubblico. Un ruolo importante è poi quello svolto dai depositi che costituiscono un
prezioso campo per la ricerca: sono infatti i luoghi deputati alla conservazione di opere meno note,
poco studiate o di attribuzione incerta che spesso danno luogo a notevoli scoperte.
Nell’indicazione delle funzioni del museo formulata nel 1951, l’ICOM precisava che l’esposizione
ha come scopo l”educazione e il diletto”. Questo concetto veniva approfondito a una dichiarata
apertura verso la società. Comunicare è una delle funzioni basilari del museo.
DEFINIZIONE RECENTE: “ il museo è un’istituzione permanente,senza scopo di lucro, al servizio
della società e del suo sviluppo, aperta al pubblico, che svolge ricerche,concertanti le
testimonianze materiali dell’uomo e del suo ambiente,le acquisisce,le conserva,le comunica e
soprattutto le espone a fini di studio, di educazione e di diletto”. In Italia la funzione didattica del
museo fu riconosciuta solo negli anni 50 del secolo scorso. Fu con la legge Ronchey, ampliata dalla
successiva legge Paolucci che i musei furono messi nelle condizioni di offrire costantemente al
pubblico il supporto didattico delle visite guidate. Le scolaresche costituiscono una presenza fissa
delle mattine in museo, così come le comitive di turisti sono tra i visitatori più assidui. Più difficile è
raggiungere il pubblico locale e “fidelizzarlo”, cioè offrire delle ragioni per tornare in un museo che
già si conosce. La strategia messa in atto è quella di organizzare un’attività espositiva che non
richiede la realizzazione di grandi mostre ma punta sulla rilettura del patrimonio, sulla
presentazione di importanti restauri, su indagini rivolte a opere poco note,conservate nei depositi,
sulla presentazione di nuove acquisizioni. È noto che i “ musei effimeri” basati su prestiti dei
musei permanenti esercitano sul pubblico un’attrazione molto forte. La frequenza con cui i musei
sono sollecitati a prestare le proprie opere e, viceversa ha reso necessaria la presenza di una figura
professionale “tecnica”: il registrar.
Ma quali sono le valutazioni che il museo deve fare per concedere o meno un prestito?
- Esaminare il progetto scientifico, in caso di giudizio positivo, si devono considerare lo stato
di conservazione dell’opera. Se poi l’opera è esposta, va tenuto conto dell’effetto della sua
assenza temporanea dal museo. Particolari precauzioni vanno prese nel caso di opere su
tavola, la cui sensibilità agli sbalzi climatici è già stata sottolineata: un tempo erano escluse
dal prestito, oggi la tecnologia ha reso possibile lo spostamento purché la tavola sia protetta
dal clima-box