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GIANFRANCO 

SPAGNESI 
1401‐2001 
PROFILO STORICO 
DELL’ARCHITETTURA 
DELL’OCCIDENTE  
 
 
 
 
 
 
Questo è il secondo libro per Anna 
SOMMARIO

Prefazione: la Storia come conoscenza

1. Dalla fine del Medioevo all’inizio dell'età moderna (1401-1492)


2. Dalla scoperta dell'America alla fine del Concilio di Trento (1492-1563)
3. Dall’affermazione della Riforma cattolica agli inizi della guerra dei Trent’anni (1563-1618)
4. Dal trionfo della Riforma cattolica all’inizio della pubblicazione dell’Encyclopédie (1618-
1751)
5. Dall’inizio della guerra dei Sette anni alla Rivoluzione di luglio in Francia (1756-1830)
6. Dall’affermazione della rivoluzione industriale al termine della prima guerra mondiale
(1830-1918)
7. Dal primo dopoguerra all’inizio del nuovo millennio (1918-2001)

Postfazione: “Storia” e “Progetto” dell’architettura

Appendice: Bibliografia dell’autore


Prefazione
LA STORIA COME CONOSCENZA

Le linee essenziali della ricerca che si è portata avanti vogliono offrire le motivazioni
per una riflessione critica verso un auspicabile chiarimento del rapporto tra storia e
progetto dell’architettura: un possibile recupero della conoscenza storica nel fare
dell’architetto contemporaneo, pur riconoscendo l’autonomia dei due ambiti disciplinari.
All’interno di questo percorso critico, certamente non facile da avviare, è sembrato
necessario proporre un tentativo di revisione dei modelli organizzativo-temporali della
storia dell’architettura, nella prospettiva di un loro aggiornamento, e al tempo stesso un
modo più concreto di avvicinarsi alla conoscenza dei valori figurativi dello spazio
architettonico. In questo contesto, si è tentato di raggiungere alcuni obiettivi ritenuti
importanti che appaiono emergere spontaneamente dalla realtà del mondo contemporaneo:

1) aggiornare il quadro di riferimento temporale del processo evolutivo della cultura del
progetto architettonico, proponendo una nuova articolazione delle sue fasi, e
rinunciando quindi alle tradizionali categorie organizzative (Rinascimento,
Manierismo, Barocco ecc.): tutto ciò, riguardando all’architettura come documento
essenziale, concreta manifestazione della più generale storia politica, religiosa ed
economico-sociale, in quanto prodotta da un continuo mutare delle istanze della vita
dell’uomo;
2) proporre la conoscenza dello spazio architettonico inteso essenzialmente come concreta
realizzazione di un organismo risultante dalla sintesi dei caratteri tipologico-funzionali,
tipologico-strutturali, espressi da uno specifico linguaggio architettonico che ne mette
in evidenza la fisicità attraverso i materiali;
3) limitare la ricostruzione del percorso storico dell’architettura soltanto a quella
dell’Occidente, al fine di conoscere le radici della sua attuale contemporaneità,
ricostruendo la sua identità, per un confronto con culture altrettanto importanti di altre
aree geografiche (Europa orientale, mondo islamico, Estremo Oriente, così come quelle
meno note del continente africano).

Obiettivi, tutti questi, per costruire un profilo della storia del progetto architettonico e delle
sue maggiori esemplarità realizzate, mettendo da parte non soltanto ogni schematismo
ideologico, ma anche ogni possibile attualizzazione degli eventi del passato: una storia intesa
come una più completa possibile restituzione degli avvenimenti che hanno concorso alla
formazione, alla realizzazione o trasformazione, nel tempo, dei diversi organismi
architettonici.
L’operazione critica si fonda tanto sulla sequenza cronologica che sulla localizzazione
geografica delle personalità e degli eventi, rifiutandone l’antica interpretazione organizzativa
stilistica. Una posizione che vuole restare lontana, così, dal perdurare delle tematiche della
critica neoclassica, come da quelle del cosiddetto “movimento moderno”, tutte ancora alla
base di molti equivoci interpretativi durante la seconda metà del XX secolo. Alla critica di
origine neoclassica si deve il prevalente interesse per l’analisi dei codici linguistici derivati
dalla applicazione della grammatica degli ordini architettonici del mondo antico e per la
rispondenza della relativa trattatistica, quali parametri estetici di riferimento, per arrivare alla
conoscenza del valore delle singole opere di architettura e dei loro progettisti. Un’angolazione
critica che, in seguito, si è accompagnata all’interesse sociologico per la qualità della
committenza e della sua cultura, talvolta mettendo in secondo piano anche la conoscenza del
valore dello spazio architettonico, senza individuarne la logica della sua figuratività.
L’affermazione del movimento moderno, a sua volta, rifiutando ogni imitazione stilistica, ha
finito per proporre una contemporaneità del tutto alternativa e contrapposta a quanto era
accaduto prima, relegandolo all’interno di una storia dell’arte-architettura, quasi sempre
attualizzata nei suoi significati. Una posizione critica che nasce quasi subito (1919) con il
rifiuto dell’insegnamento della storia dell’architettura, operata nel Bauhaus diretto da Walter
Gropius, cui veniva contrapposta la novità delle esperienze dei suoi docenti, artisti e architetti,
rinunciando anche ad ogni suo valore formativo. Infine, senza nulla togliere all’importanza
del “puro visibilismo”, sembra essere oggi assolutamente necessario eccettuare l’architettura
dalle altre arti visive, perché la sua contemporaneità figurativa è sempre legata ai particolari
processi di trasformazione, subordinati ai diversi problemi della vita dell’uomo nel tempo: il
variare delle funzioni, dei sistemi strutturali e dell’uso di materiali diversi fa dell’architettura
un evento spazio-temporale che deve essere conosciuto sempre come sintesi di valori
complessivi e non soltanto come comprensione-interpretazione di immagini spaziali.
Altrettanto può dirsi per l’iconologia, certamente molto utile quando individua significati
simbolici delle forme architettoniche che ne possono aver guidato la progettazione, ma del
tutto priva di importanza allorché viene usata come strumento esclusivo della conoscenza
storica. Come è stato affermato già da tempo (Ruskin), l’architettura è il documento più certo
del passato della vita dell’uomo e come tale va riguardata, ricercandone e ricostruendone ogni
volta la singolarità del suo processo di formazione e di trasformazione.
L’esigenza di riflettere sulla successione delle opere che hanno determinato l’evoluzione
del progetto di architettura deriva dall’approfondimento, durante questi ultimi cinquant’anni,
dell’opera di tanti protagonisti-architetti, così come di singoli monumenti, che ha messo in
evidenza un insieme sempre più complesso di personaggi e realizzazioni accanto alle figure
dei grandi maestri: una realtà culturale molto articolata, sempre più difficile da costringere
all’interno di rigide categorie definitorie, ma che potrebbe trovare nuove interpretazioni nella
ricerca di un rapporto con gli eventi della storia generale, mettendo da parte ogni
periodizzazione stilistica, unitaria e idealizzata. Potrebbe anche essere messo da parte, in tal
modo, l’attuale interesse quasi esclusivo per l’analisi di ogni linguaggio architettonico, visto
in rapporto a quello dell’antichità classica, a sua volta inteso come un insieme di codici
grammaticali rigidamente definiti e proposti come modelli di perfezione estetica. Sembra
necessario dover rendersi conto di come i termini “Rinascimento”, “Manierismo” e “Barocco”
potrebbero ancora avere un significato preciso, ma soltanto se riferito alla storia
dell’evoluzione del pensiero critico, mentre debbono essere accantonati tanto per evitare
schematismi organizzativi che per non incorrere negli inevitabili equivoci formalisti. Al
contrario, ricondurre l’interpretazione dell’architettura all’interno di momenti ben definiti
della storia politica, religiosa ed economico-sociale equivale a metterne in evidenza le
motivazioni primarie che ne hanno determinato l’esistenza e la trasformazione per il
soddisfacimento delle necessità della vita dell’uomo attraverso il tempo. Occorre tenere
presente, tuttavia, che si è ritenuto più opportuno limitare la ricostruzione storica a quella
omogenea successione di eventi architettonici che ha origine con il recupero della geometria
euclidea, per arrivare alla definizione di uno spazio razionale, scandito dagli ordini
architettonici dell’antichità classica, criticamente riproposti nella libera interpretazione delle
loro regole grammaticali: tutto ciò, naturalmente, riguardato nella complessità e nella diversità
delle singole realtà urbane, regionali e nazionali.
Una vicenda, questa, che ebbe inizio in un mondo ancora totalmente medievale, agli inizi
del XV secolo, diffondendosi poi gradualmente non solo in Europa ma in tutto l’Occidente
sino al termine della prima metà del XVIII secolo, allorché la pubblicazione
dell’Encyclopédie di D’Alembert e Diderot avrebbe aperto la strada all’affermazione del
“progresso” e della “modernità”. In seguito, come per la pittura e la scultura, anche per
l’architettura si sarebbe sostituita gradualmente all’invenzione l’imitazione di modelli
stilistici, vere e proprie memorie idealizzate di un passato più o meno lontano, intesi sempre
come manifestazione di un’estetica razionale: un modo d’intendere il progetto
dell’architettura che andrà avanti sino a tutti gli anni Trenta del XX secolo, pur essendosi
avviato dalla fine dell’Ottocento il processo di rinnovamento che avrebbe portato al
cosiddetto “movimento moderno” e all’International Style dell’attuale contemporaneità.
L’individuazione di questi due grandi periodi storici, prima e dopo la metà del Settecento,
deriva esclusivamente dall’osservazione della qualità figurativa dello spazio architettonico,
prodotto di specifiche ricerche linguistiche nella sua evoluzione temporale, piuttosto che dal
riconoscimento stilistico per ordinare cronologicamente e catalogare le singole esemplarità:
operazione, questa, che implica comunque il riconoscimento di valori comuni, ma ritrovati
nella complessità e non in una uniformità stilistica. In tal modo l’organizzazione della
sequenza cronologica è stata articolata seguendo la periodizzazione della storia generale
dell’Occidente, dall’inizio del XV secolo alla scoperta dell’America per sottolineare il
momento del passaggio dal Medioevo all’Età Moderna, procedendo successivamente sino al
termine del Concilio di Trento che, dopo l’affermazione e la diffusione dell’architettura del
linguaggio classico, avviando la riforma della Chiesa di Roma, apre un periodo storicamente
complesso che giunge sino all’inizio della guerra dei Trent’anni: un evento eccezionale,
quest’ultimo, che definì l’assetto politico europeo, sino all’inizio della pubblicazione
dell’Encyclopédie che, dopo la fine delle diverse guerre di successione, segnò l’inizio della
diffusione di una cultura totalmente nuova, quella del progresso e della ragione. Così
individuati, questi quattro momenti principali scandiscono l’evoluzione della cultura
architettonica post-medievale, riguardata anche nel suo rapporto con l’interpretazione critica
dei vocaboli e della grammatica dell’antichità classica. Nella seconda parte del testo, infine, si
è cercato di ricostruire la complessa vicenda che ha come punto di arrivo la contemporaneità:
dalla riproposizione degli archetipi di un passato più o meno antico, idealizzati come modelli
di perfezione estetica, sino al progressivo rifiuto di ogni rapporto con la storia e alla ricerca
continua di figuratività sempre diverse ma nuove. Una vicenda complessa, ancora oggi non
del tutto chiarita, caratterizzata dall’evoluzione del pensiero critico che sembra precedere
sempre l’opera degli architetti. Tutto ciò è avvenuto in un contesto caratterizzato da profondi
rivolgimenti politico-sociali, dalla rivoluzione francese a quella industriale, dalle due grandi
guerre mondiali del XX secolo, sino alla crisi in atto del mondo occidentale all’inizio del
terzo millennio: eventi, tutti questi, troppo importanti, per non essere intesi come un quadro di
riferimento essenziale per verificare in ogni suo momento il processo evolutivo della cultura
architettonica. Ogni spazio architettonico, risultante in ogni sua fase di un progetto volto a
rispondere, nel mutare del tempo, alle esigenze della vita dell’uomo, non può essere
riguardato soltanto in funzione della sua morfologia, ma piuttosto come manifestazione
espressiva di un insieme organico da cui dipenda la sua stessa esistenza e quindi anche la sua
conoscenza: diversamente dal fine della pittura e della scultura, con le quali può anche avere
regole in comune, quello dell’architettura è la realizzazione di organismi capaci di assolvere a
ben determinate funzioni pratiche per un tempo anche molto lungo, garantito dalla durata dei
materiali con cui vengono realizzate le sue strutture portanti. La conoscenza della qualità di
uno spazio architettonico non può essere definita che da una precisa presa di coscienza del
processo progettuale di ogni architettura intesa come evento spazio-temporale, caratterizzata
non soltanto dalle sue dimensioni plano-volumetriche ma anche da quelle temporali della sua
fruizione e della relativa durata nel tempo. Specifici caratteri tipologici, funzionali e strutturali
sono alla base della stessa esistenza di ogni architettura che si realizza usando materiali che ne
assicurano la durata, manifestandone al tempo stesso l’espressività delle qualità spaziali e del
relativo linguaggio di riferimento: caratteri tipologici dell’organismo, mai schemi funzionali,
né impianti strutturali o analisi dei materiali. In questo senso la ripetitività o l’evoluzione di
ogni tipo di organismo, da quelli delle emergenze architettoniche (edifici religiosi, edifici di
rappresentanza pubblici o privati, edifici specialistici) al tessuto edilizio di base (case a
schiera, case in linea, edifici isolati), possono essere proposte come esperienze indispensabili
per ricostruire il contesto di riferimento di un particolare momento storico della cultura
architettonica: tutto ciò senza nulla togliere alla riconosciuta qualità dello spazio in
architettura di essere il prodotto di un’operazione complessa, un progetto finalizzato alla
risoluzione di necessità primarie della vita dell’uomo, dall’abitare a tutte le sue attività sociali.
In tal modo, piuttosto che all’analisi della grammatica degli stilemi che sottolineano il disegno
dello spazio architettonico, maggiore attenzione viene rivolta alla diversità delle componenti
del tipo di organismo di cui è la concreta manifestazione: dal confronto con precedenti
enunciazioni teoriche, alla verifica delle soluzioni precedenti e successive di un identico tipo,
sino alla ricerca del programma figurativo di ogni opera riguardata tanto singolarmente che
nel contesto dell’attività complessiva del suo progettista.
Un’operazione critica, questa, che non considera mai l’opera di architettura isolatamente,
ma ricerca sempre il suo rapporto con la città di cui è parte, restandone profondamente
condizionata la sua realtà figurativa. Complessivamente, un modo per affrontare la
conoscenza del progetto dell’architettura nel suo tempo, cercando di comprendere il valore di
ogni specifica sintesi figurativa non soltanto come prodotto culturale, ma anche come una
voluta risposta al mutare delle condizioni della vita dell’uomo e delle conoscenze tecnico-
costruttive: un rapporto con la specificità dei luoghi, anche questo, di cui è necessario fare
esperienza per conoscere tutta la realtà dell’architettura.
Da ultimo, la delimitazione geografica degli eventi architettonici, ristretta rigidamente
all’area dell’Occidente, vuole esprimere l’esigenza di sottolineare la sostanziale unità
culturale di questa parte del mondo, cui va riconosciuto un identico processo culturale
evolutivo: tutto ciò, mettendo anche da parte ogni esperienza prodotta dall’esportazione, verso
la cultura di altre aree geografiche, di esemplarità o soltanto di singoli modelli
dell’architettura dell’Occidente. D’altronde, il processo di globalizzazione in corso, prodotto
dall’affermazione di un’economia di mercato priva di regole e dallo sviluppo delle
comunicazioni telematiche, pone sempre in maggiore evidenza la necessità di un dialogo
molto aperto per il confronto tra le diverse realtà culturali religiose, politiche e sociali. In
questo contesto, rinunciando all’affermazione del proprio modello di progresso e sviluppo,
l’Occidente dovrà ritrovare il valore delle sue tradizioni e dell’evoluzione del suo pensiero nel
tempo, sino alla contemporaneità: un patrimonio certamente grande, anche da rivedere
criticamente in ogni momento, da offrire sempre e mai da imporre nelle relazioni
internazionali. Al tempo stesso, un confronto positivo tra le parti potrebbe aversi soltanto
arrivando ad un libero riconoscimento di comuni finalità nel rispetto degli specifici contenuti
dei diversi sistemi culturali, naturalmente se ben conosciuti dai partecipanti al dialogo
globale. Da questa urgenza deriva la necessità di riscoprire, attraverso la memoria, la propria
identità senza la quale non sembra essere possibile evitare, soprattutto per l’Occidente, il
progressivo scivolamento lungo un percorso involutivo. La riconoscibilità dell’Occidente, in
tal senso, trae origine dalle modalità della fine del mondo antico, dall’affermazione del
Cristianesimo e dalla divisione in due dell’Impero romano: in quello d’Occidente i cristiani
riconoscevano il primato del vescovo di Roma, mentre in quello d’Oriente i cristiani greco-
ortodossi ne negavano l’autorità, esaltando l’importanza delle chiese locali. Una divisione
dell’Europa, questa, che divenne ancora più netta per la durata dell’Impero bizantino,
l’influsso della lunga appartenenza all’impero ottomano e la progressiva evangelizzazione dei
territori russi. Tanta diversità tra Europa occidentale e orientale ha sempre trovato una precisa
corrispondenza nelle arti figurative, malgrado le reciproche influenze lungo determinati
periodi della loro storia.
D’altronde nessuna area culturale si è mai ristretta in se stessa, tanto che per l’Occidente
sono molto importanti gli scambi con le conoscenze del mondo islamico, sia attraverso la
Spagna dei regni moreschi, che dai territori mediorientali e nordafricani: contributi, tutti,
molto rilevanti per l’evoluzione delle arti figurative dell’Occidente. Nel tempo, i processi
evolutivi di formazione degli stati nazionali e le successive divisioni religiose hanno messo in
evidenza le diversità regionali, mentre la cultura europea si diffondeva nei nuovi territori oltre
Atlantico, imposta anche in totale sostituzione di civiltà molto avanzate, presenti da sempre
nel continente americano. Molto più recente è la partecipazione del continente australiano al
mondo occidentale attraverso un processo di emigrazione forzata per popolare quel territorio
vastissimo e quasi disabitato. Tale delimitazione dell’area del mondo occidentale deriva,
naturalmente, dal riconoscimento di una comune memoria degli eventi che hanno determinato
l’identità della forma di civiltà di queste parti del pianeta senza volerne tacere l’ambiguità, le
contraddizioni e le diversità: di tutto ciò fa parte anche la storia della cultura delle arti
figurative in Occidente, tra le quali l’architettura va riguardata, come si è già ricordato, quale
documento autentico, testimonianza certa e duratura di una comune memoria.
Da questo quadro di riferimento molto articolato dovrebbe emergere il tentativo di
presentare le singole opere di architettura e le intenzionalità figurative del loro progetto
all’interno del proprio momento storico politico, religioso ed economico-sociale, restando
sempre al di fuori di ogni classificazione stilistica. In tal modo lo spazio architettonico viene
inteso come momento di sintesi, frutto della rielaborazione di tipi di organismi corrispondenti,
nei diversi momenti della storia, alle reali necessità della vita dell’uomo occidentale,
facendone emergere le identità della sua cultura architettonica. In sintesi, una proposta
complessiva per l’insegnamento nelle scuole di architettura, affinché l’interpretazione delle
esperienze figurative del passato possa tornare ad essere posta a fondamento del progetto di
architettura contemporaneo finalizzato alla trasformazione e all’evoluzione della realtà
attuale, conosciuta attraverso la sua storia. D’altronde, tutte le istanze innovative del
“movimento moderno” sembrano essere state progressivamente messe da parte, malgrado la
grande qualità di tanti protagonisti della seconda metà del XX secolo: momento culturale,
quello contemporaneo, le cui cause possono essere chiarite soltanto ripercorrendo la
successione temporale delle singole opere, per comprenderne i caratteri e il valore del loro
progetto, mettendo da parte ogni interpretazione psicologica, sociologica o morfologica degli
spazi costruiti per la vita dell’uomo.
Ringraziamento:
Debbo sinceramente molta gratitudine all’amico Prof. Maurizio Caperna, della facoltà di
architettura de “la Sapienza” Università di Roma per la laboriosa, paziente e indispensabile
opera di revisione del testo di questo mio saggio, senza la quale non sarebbe mai stato
possibile pubblicarlo.
Dalla fine del Medioevo all’inizio dell'età moderna

(1401-1492)

Tra il 1401 (concorso per la porta nord del Battistero di Firenze) e il 1426-1427 (tavolette
prospettiche brunelleschiane), attraverso il cantiere della cupola del Duomo (1418-1436), un
piccolo gruppo di artisti guidati da Filippo Brunelleschi (1377-1446), quali Donatello (1386-1466),
Masaccio (1401-1427), Luca Della Robbia (1400c.-1482) e Nanni di Banco (1380c.-1421) opera
una rivoluzione figurativa senza precedenti riproponendo la triplice unità di spazio, tempo e luogo,
propria alla tradizione delle rappresentazioni dell’antichità classica, insieme alla sua nuova
raffigurazione derivata dalla riscoperta di una prospettiva regolata dalle leggi della geometria
euclidea: una novità assoluta che, fondata su una raggiunta conoscenza scientifica della natura,
trasformava radicalmente la precedente idea dello spazio figurativo. L’inizio di questo notevole
processo, destinato a incidere profondamente sulla cultura e sulla qualità di tutte le arti, avveniva
all'interno una sola città, Firenze, in un ambiente tanto italiano che europeo, ancora medievale. La
Repubblica fiorentina, dopo il fallimento del governo popolare seguito alla rivolta dei Ciompi
(1378), aveva veduto la prevalenza continua dell’alleanza tra il popolo grasso e la nobiltà che, dal
1382, aveva dato luogo ad un potere oligarchico guidato ininterrottamente dalla famiglia degli
Albizi: malgrado i gravosi impegni e le alterne vicende delle guerre tra i vari stati italiani, cui la
Repubblica partecipò attivamente in specie contro i Visconti di Milano, questo tipo di governo si
mantenne sino al 1434, allorché i Medici conquistarono definitivamente il potere nella città con il
ritorno di Cosimo il Vecchio dal temporaneo esilio padovano. Durante lo stesso periodo, il ritorno
della sede papale a Roma da Avignone (1377) aveva aperto il cosiddetto “scisma d’Occidente”
(1378-1415), uno dei momenti più difficili della Chiesa romana, terminato con il concilio di
Costanza e l’elezione del pontefice Martino V (1417-1431): un evento complesso che ebbe molta
influenza tanto nella politica italiana che in quella europea, anche se non si giunse ad una vera e
propria riforma della chiesa.
Negli stessi anni, naturalmente, tutti i grandi cantieri iniziati nell'ultimo scorcio del XIV
secolo erano ancora in corso, mentre altri sarebbero stati aperti durante la prima metà del '400. In
particolare in Italia si svolgevano ancora i lavori del Duomo di Milano (dal 1386) e della Certosa di
Pavia (1396-1402), ambedue voluti da Giangaleazzo Visconti che era stato investito del Ducato di
Milano (1395), quelli del San Petronio a Bologna (dal 1390), mentre a Todi veniva ampliato il San
Fortunato (1405-1418) e a Venezia venivano realizzate la facciata del Palazzo Ducale verso la
piazzetta (1424-1442) e la Ca' d'Oro (1423-1436). In Spagna erano stati avviati i cantieri della
cattedrale di Pamplona (dal 1392) e di quella di Siviglia (dal 1402), mentre in Austria, a Salisburgo,
la chiesa di San Francesco dal 1408: esempi, tutti questi, di un gusto ormai maturo da tempo, pur
nella diversità stilistica propria delle rispettive aree geografiche di appartenenza. La situazione
fiorentina non era diversa dal resto dell'Italia e d'Europa: tra i suoi monumenti più importanti
restava incompiuto soprattutto il Duomo, dedicato a Santa Maria del Fiore, iniziato dal Talenti
(1357), cui Nanni di Lapo aveva aggiunto il tamburo (1410), mancando la conclusione della cupola,
la cui forma era già stata definita; anche le tre chiese più importanti di Santa Trinita, Santa Maria
Novella e Santa Croce erano state completate da tempo, pur essendo tutte prive della facciata. In
questo contesto, tuttavia, l'opera innovatrice di un gruppo di grandi artisti non va intesa come
un'alternativa radicale, dialetticamente contrapposta a quanto in quel momento si faceva, bensì
come il risultato di un processo di trasformazione di cui gli artisti erano partecipi con un ruolo, in
quel momento, di protagonisti assoluti.
Questo nuovo e importante rivolgimento non accadeva per caso in quel momento storico
fiorentino, dovendosi considerare come un grande episodio di sintesi di una serie di esperienze
diverse, tanto filosofiche che artistiche, avvenute durante tutto il Trecento. A livello delle
elaborazioni concettuali si era posto il problema del superamento delle filosofie teologizzanti, a cui
un grande contributo era stato apportato dalle riproposizioni aristoteliche dell'averroismo latino con
la formulazione della teoria della doppia verità (Sigeri di Brabante, 1235-1284), riaffermata
successivamente con la distinzione tra il campo della conoscenza e quello della fede da Duns Scoto
(1274-1308), Bacone (1214-1293) e Guglielmo Ockham (1290-1384). Un rapporto nuovo contro il
quale veniva mossa la critica del neoplatonismo propria della cultura letteraria dell'umanesimo
nascente che, anche attraverso l'opera di grandi letterati (Petrarca, Boccaccio), giungeva alla
riscoperta dell'Antico e al concetto di arte come imitazione della natura. Un complesso contesto
culturale nel quale si inseriva, infine, il contributo dei grandi cancellieri-umanisti fiorentini
Coluccio Salutati (1331-1406) e Leonardo Bruni (1360-1444) che avevano avanzato la
rivendicazione delle virtù romane a Firenze.
Un altro contributo, proprio della cultura araba, sta alla base delle nuove esperienze e
soprattutto nel campo della pittura: il trattato sull'ottica (perspectiva) di Al Azen (975-1039), dal
titolo Opticae Tesaurus, tradotto dal Witelo (1230c.-1280c.) per essere diffuso in Occidente.
All'inizio del rinnovamento si perviene alle opere di Giotto (1267-1337; il Miracolo
dell'assetato, Assisi; il Tradimento di Giuda, Padova) e di Duccio di Buoninsegna (1278-1318; le
Nozze di Cana, Padova; il Bacio di Giuda, l'Ingresso a Gerusalemme, l'Ultima Cena, Siena), con le
quali si giungeva al superamento della visione medievale. Tutto ciò era stato ottenuto attraverso la
riscoperta del piano di quadro come riferimento figurativo nella rappresentazione pittorica e della
costruzione dello spazio attraverso un'aggregazione aperta di elementi finalizzati alla narrazione
dell’evento dipinto (architetture e paesaggio). Uno spazio, tuttavia, nel quale sono presenti
contemporaneamente due punti di vista (centrale e obliquo), mancando l'unità di tempo nella
rappresentazione dell'azione. Ricerche, tutte queste, cui portava il proprio contributo anche Simone
Martini (1285-1344; il Miracolo del Beato Agostino Novello, Siena), mentre Ambrogio Lorenzetti
(attività dal 1319 al 1347; Annunciazione, Siena) giungeva alla progressiva affermazione del
concetto di infinito come strumento per la costruzione dello spazio. Infine, non poca importanza
dovette avere il trattato sulla prospettiva (Questiones perspectivae) di Biagio di Parma (morto nel
1416), la cui ricerca anticipò di poco quella di Brunelleschi.
L'esperienza brunelleschiana prende lo spunto dalla riproposizione delle unità aristoteliche
di spazio, tempo e luogo nella formella del Sacrificio di Isacco eseguita per il concorso per la porta
nord del Battistero fiorentino, vinto poi da Lorenzo Ghiberti (1378-1455). Dopo alcuni viaggi con
Donatello a Roma, tra il 1404 e il 1407, mentre la città viveva un momento di grande abbandono,
per studiare alla fonte i modelli e il linguaggio dell’antichità classica, arrivava all'affermazione nel
concorso per la soluzione strutturale della cupola del Duomo (questa volta insieme al Ghiberti):
l'invenzione brunelleschiana realizzata (in polemica con il Ghiberti) andava a ribaltare
definitivamente i metodi del cantiere medievale, con la proposta di un sistema costruttivo, non
soltanto completamente nuovo, ma anche prefigurato e controllato al momento del suo progetto, per
mezzo dell'uso delle forme della geometria euclidea (volta a padiglione ottagona con doppia calotta
e ventiquattro costoloni, intesa come cupola di rotazione; struttura muraria con filari di mattoni a
corda molle e collegamenti elicoidali "a spina-pesce"). Mentre i lavori della cupola procedevano, il
maestro affrontava contemporaneamente il rinnovamento dei tipi fondamentali degli organismi
architettonici della tradizione: con il San Lorenzo (iniziato nel 1418) la revisione critica dello spazio
basilicale del modello di Santa Croce e con la Sacrestia Vecchia della stessa chiesa (1420-1421) una
prima definizione di uno spazio centrale. Nel primo caso, con il controllo di una prospettiva ancora
fisiologica, realizzava uno spazio prospettico con asse di simmetria centrale, scandito da arcate
modulari, su colonne, proiettate su di un unico piano verticale, riquadrato da una cornice continua
su paraste ioniche alle estremità: un impianto in cui l’uso dell’ordine architettonico viene inteso
come elemento unificante della composizione e al contempo come codice anticlassico, mentre la
presenza di fonti di luce differenziate sottolinea le scelte figurative fondamentali. Nel secondo caso
l'organismo centrico, proposto in visione diagonale, è ottenuto attraverso l'aggregazione di forme
geometriche semplici, un accoppiamento tra due piante quadrate, coperte ambedue da una cupola a
creste e vele, in cui l'ordine architettonico sta a sottolineare gli angoli delle superfici che articolano
lo spazio. Sempre di questi stessi anni (1421) è l'esperienza nell'architettura civile dell'Ospedale
degli Innocenti con il lungo portico sulla piazza della Santissima Annunziata: si trattava della
rettificazione di un lato di uno spazio urbano preesistente, ottenuta con un edificio strettamente
rettilineo scandito da un portico posto al di sopra di una scalinata, dalla geometria del tutto regolare,
definita da un reticolo spaziale individuato dalle arcate su colonne, anche questa volta proiettate su
di un piano individuato, come nel San Lorenzo, da una cornice continua su paraste alle due
estremità. Infine, la cappella Pazzi (1429-1430) nel chiostro di Santa Croce: un passo avanti nella
ricerca dell'articolazione degli spazi centrali coperti a cupola, che si arricchiva della dilatazione
dell'asse trasverso. Tutti questi esempi si caratterizzano, figurativamente, per la presenza di un
ordine architettonico (il corinzio) usato per sottolineare gli angoli che articolano le superfici dei
solidi geometrici semplici chiamati a definire lo spazio e di cui mettono in evidenza i precisi
rapporti proporzionali.
All'incirca durante questo arco di tempo, tra il 1416 e il 1427, maturano anche le
esperienze degli altri artisti del gruppo fiorentino e soprattutto di Donatello (S. Giorgio che uccide il
drago, Orsanmichele, Firenze, 1416-1417; Convito di Erode, Siena, 1423) e Masaccio (affreschi
della cappella Brancacci nella chiesa del Carmine e Trinità in Santa Maria Novella, Firenze 1425-
1427). Da ultimo, nel 1425 arrivava a Firenze, da Padova, il grande matematico Paolo dal Pozzo
Toscanelli (1397-1482) che divenne amico del Brunelleschi, il quale dovette portare a maturazione,
con il contributo di questi, la propria riflessione sulla prospettiva geometrica, realizzando le due
cosiddette "tavolette prospettiche": la prima, centrale, a raffigurare il Battistero, la seconda in
veduta obliqua il Palazzo Vecchio, ambedue senza mai rappresentare lo spazio infinito (il cielo).
Non è certamente un caso che tutte le esperienze più innovatrici del gruppo brunelleschiano siano
proprio di questi anni. Successivamente, nel 1431 Brunelleschi iniziava la realizzazione del Santo
Spirito, in cui lo spazio della chiesa a pianta longitudinale e a tre navate era definito dalla
sommatoria di elementi geometrici semplici e ripetuti sul modulo quadrato, tra loro in un preciso
rapporto proporzionale: una scelta che portava all'eliminazione della funzione tradizionale della
zona presbiteriale, per la presenza lungo l'asse longitudinale di un "pieno" individuato da una
colonna. Infine, nel 1435 veniva iniziata la Rotonda degli Angeli, a pianta centrale ottagona e
articolata da cappelle radiali rettangolari con absidi trasversali semicircolari e contrapposte: era la
soluzione di una pianta centrale con un asse di simmetria verticale a 360° che superava i modelli
tradizionali dei battisteri, una tipologia completamente nuova e punto di partenza per tutte le
ricerche future. Contemporaneamente, proseguendo i lavori del cantiere della cupola, il
Brunelleschi aveva avuto anche l'occasione per approfondire l'uso dell'ordine architettonico: nelle
cosiddette "tribune morte" (intorno al 1430) e nella lanterna della cupola (dal 1432), l'uso
dell'ordine architettonico è finalizzato anche all'articolazione plastica della parete muraria continua,
oltre che a quella delle geometrie. Un punto di arrivo anticipato da Donatello nel tabernacolo di
parte guelfa ad Orsanmichele (1423-1425): ricerche, tutte queste, cui stava portando un certo
contributo anche il Ghiberti con le architetture rappresentate nella sua porta del Paradiso del
Battistero fiorentino (1436-1451) e nella fronte della cassa di san Zanobi (1431-1439). Si
concludeva, in tal modo, la fortunata esperienza di questo grande gruppo di artisti fiorentini i quali,
attraverso una sperimentazione continua, avevano rivoluzionato tutta la cultura figurativa che li
aveva preceduti: un metodo di lavoro, frutto di una successione di approfondimenti, condotto per
docta ignorantia, così come era stato teorizzato attorno al 1440 da Niccolò da Cusa detto il Cusano
(1400c.-1464), un altro loro amico.
Alla morte del Brunelleschi, nessuna delle sue opere era stata ancora portata a termine e
ciò non faciliterà la diffusione del suo linguaggio e della sua ricerca nell'architettura. Nella pittura,
al contrario, molto rapida era stata la presa di coscienza dell'importanza della prospettiva
geometrica come metodo di rappresentazione dello spazio: decisiva, in questo senso, è la
divulgazione di Leon Battista Alberti con il trattato De Pictura (1435), dedicato al gruppo di artisti
fiorentini guidati da Brunelleschi, che aveva potuto conoscere durante un suo viaggio a Firenze nel
1428. Con questa opera l'umanista rivendicava a sé stesso la teoria della "costruzione legittima"
della prospettiva. In tal modo, essa diveniva patrimonio comune di un momento culturale
omogeneo, che vedeva l'uomo come spettatore di un mondo figurativo di cui lui stesso era misura.
Tra i maggiori di questo momento furono: il Beato Angelico (1397-1457; lo Sposalizio della
Vergine, Firenze), Paolo Uccello (1397-1475; la Battaglia di San Romano, Firenze; L'ebreo che
brucia l'ostia, Urbino) e soprattutto Piero della Francesca (1415-1492; la Flagellazione, Urbino),
cui si deve anche il trattato De prospectiva pingendi (dopo il 1482).

L'affermazione del linguaggio classico e della sua precisa grammatica in architettura, unito
all'uso della geometria euclidea, con i suoi volumi semplici, variamente aggregati tra di loro per
definire uno spazio architettonico articolato, sono legati all'opera di trattatista e di progettista di
Leon Battista Alberti (1404-1472), di famiglia fiorentina esiliata a Genova, umanista, arrivato a
Roma nel 1432 dove più tardi farà parte dell'ambiente curiale di Nicolò V. Viaggiando molto in
Italia e, forse, in Europa, nel 1428 egli era a Firenze dove conobbe Brunelleschi e la sua cerchia di
artisti.
Con l'avvio del cantiere del San Francesco a Rimini e con il termine quasi contemporaneo
della stesura del suo trattato De re aedificatoria (1450), l'Alberti indicava tutte le regole della nuova
architettura e ne iniziava la sperimentazione. Con il De re aedificatoria definiva ogni modello
ideale dell'architettura e della città. Tutti gli ordini dell'antichità classica, ciascuno descritto con le
proprie proporzioni, vengono riproposti tanto come articolazione plastica delle pareti murarie, che
quali elementi di misura delle superfici che racchiudono gli spazi, mentre l'uso delle forme
geometriche elementari era messo al fondamento di un’architettura intesa come imitazione della
natura: quelle primarie, indicate nel cerchio e nel quadrato, vengono suggerite per il tipo del tempio
ideale, periptero, posto su alto podio. Ogni architettura deve manifestare l'armonia tra tutte le sue
parti regolate da precisi rapporti numerici, intesi sempre anche in relazione con le proporzioni
musicali: un giudizio estetico che diviene oggettivo e razionale. In questo contesto, l'opera
dell'architetto è l'atto intellettuale di una personalità universale, il cui obiettivo consiste nella
verifica della sua scelte estetiche: il progetto viene distinto dalla realizzazione, divenendo
definizione geometrica della forma, concepita come atto razionale, per mezzo del disegno. Infine la
città, che, secondo l'Alberti, non è molto diversa da quella medievale, ma caratterizzata da spazi
polari, piazze quadrate e porticate attorno ad un tempio a pianta centrale: una città, tuttavia, che
rispecchia nella sua forma la propria organizzazione politico-sociale, mantenendo un rapporto
funzionale con il proprio territorio. Anche se il trattato albertiano non sarà pubblicato a stampa che
nel 1485, il suo contenuto fu certamente noto molto presto, tanto da essere posto alla base del nuovo
fare architettura: un linguaggio rinnovato che non fu subito accettato da tutti, ma che si ritrova in
modo diverso nelle sperimentazioni rese possibili dalle imprese edilizie delle famiglie nobili che
governavano le signorie locali e della nuova borghesia finanziaria. Tutto ciò sarà senz’altro favorito
dalla pace di Lodi (9 aprile 1454) che, ponendo fine alla guerra di successione per il ducato di
Milano, ristabilì un duraturo equilibrio politico tra i principali Stati della penisola italiana.
Queste occasioni rimarranno, in ogni caso, episodi sporadici e isolati all'interno di città del
tutto medievali, e così nel caso del rinnovamento della chiesa di San Francesco a Rimini che
l'Alberti trasformò nel mausoleo familiare di Sigismondo Malatesta, signore della città. L'edificio
mendicante preesistente venne racchiuso in una sorta di reliquiario, chiaramente ispirato ai
sarcofagi ravennati, e concluso da un coro a pianta circolare, coperto a cupola emisferica, che in
seguito non fu realizzato. Tutto intorno, una serie di arcate su pilastri, molto profonde e poste su
podio, racchiudono in un involucro l'antica chiesa, definendo un ideale reticolo spaziale geometrico;
soltanto il lato di ingresso è sottolineato da un ordine architettonico su semicolonne, che articolano
la parete muraria, proponendo un compromesso stilistico con la rielaborazione del motivo classico
dell'arco trionfale, un valore di tramite tra la parete posta tra interno ed esterno, quasi un valico
trionfale verso le memorie malatestiane. Chiaro è che il modello albertiano è lontanissimo da tutti i
modelli di riferimento possibili, trasfigurati e riproposti secondo regole spaziali totalmente nuove,
rese evidenti da citazioni stilistiche desunte dall’antichità classica. Rimasta incompiuta per la morte
del Malatesta nel 1466, questa chiesa rinnovata proponeva per la prima volta il problema della
soluzione delle fronti degli edifici religiosi secondo il nuovo linguaggio architettonico: un problema
che l'architetto affronterà subito dopo con la facciata della chiesa di Santa Maria Novella a Firenze
(1456-terminata dopo il 1458), opera voluta dal banchiere fiorentino Giovanni Rucellai, insieme al
palazzo della sua famiglia (1450). Integrandosi con le preesistenze e in un preciso rapporto con il
protoclassicismo della tradizione fiorentina (San Miniato al Monte), l’Alberti elaborava una fronte a
due ordini sovrapposti, distanziati da un alto attico intermedio, sormontati da una trabeazione
classica e da un timpano triangolare, mentre volute raccordano le diverse ampiezze delle due parti
della facciata: tutto un insieme armonico, i cui elementi sono relazionati tra loro per l'uso di rapporti
proporzionali semplici derivati dal quadrato e messi in evidenza, oltre che dagli ordini
architettonici, dalla bicromia dei materiali lapidei di rivestimento. Anche la facciata di palazzo
Rucellai rappresenta l'invenzione di un modello totalmente nuovo e destinato, anch'esso, ad avere
una grande fortuna, anche se l’Alberti non affrontò, in questa occasione, una revisione del tipo di
organismo del palazzo nobiliare fiorentino. Nella parete tradizionalmente bugnata, la
sovrapposizione degli ordini architettonici su paraste definisce un reticolo modulare che incornicia
le finestre, concludendosi in alto con la novità dell’adozione di una cornice classica. Ancora una
volta, è l’armonia delle leggi proporzionali a regolare ogni relazione tra le varie parti della facciata
del palazzo.
Così come era accaduto per le opere brunelleschiane, tutte le architetture dell'Alberti si
inseriscono nello spazio di città medievali, senza modificarlo, come oggetti isolati: sono proposte
per una veduta angolare (San Francesco) o di scorcio per la propria serialità (palazzo Rucellai) o
come lato conclusivo di una piazza irregolare aperta a fianco di un percorso (facciata di Santa Maria
Novella). Altrettanto può dirsi per le due chiese mantovane, progettate per Ludovico Gonzaga,
signore della città, opere nelle quali l'architetto sembra aver portato ad un limite estremo la propria
sperimentazione sull'uso del linguaggio classico come articolazione della parete muraria,
inventando nuovi schemi tipologici, ottenuti per mezzo di una contaminazione di maniera dei
modelli dell'antichità. Una diversità dalle sue opere precedenti, questa, che potrebbe essere stata
anche il prodotto dei tempi molti lunghi di realizzazione, dal momento che i lavori furono portati
avanti senza la presenza dell'architetto (chiesa di San Sebastiano), o addirittura iniziati dopo la sua
morte (chiesa di Sant’Andrea). Nella chiesa di San Sebastiano (primo progetto 1460 - secondo
progetto 1470) veniva proposta una soluzione planimetrica impostata sull'articolazione del quadrato
di base, preludio delle successive piante a croce greca con i bracci absidati: preceduto da un'alta
scalinata, l’edificio si apre lungo una via rettilinea che ne propone una vista in diagonale, anziché di
fronte. Lo spazio interno, in cui non è presente l'ordine architettonico, sarebbe dovuto essere
coperto a cupola, mentre la facciata è definita da un solo ordine su quattro paraste, sormontato da un
timpano triangolare e caratterizzata dal motivo della trabeazione interrotta con un arco di raccordo:
una commistione di modelli dell'antichità classica (il tempio, il fianco dell'Arco di Orange), con le
paraste in luogo delle colonne ad articolare la parete muraria. Molto più complesso risulta l'insieme
delle soluzioni adottate per la chiesa di Sant’Andrea (progetto del 1470 - iniziata nel 1472), inserita
anch’essa in un sistema urbano medievale che privilegia la visione d'angolo, esaltandone
l'articolazione dei volumi e delle parti. La soluzione della pianta longitudinale ad unica navata con
tre cappelle per lato deriva dalla rilettura critica del "tempio toscano", descritto nel De re
aedificatoria, risolta da una parete articolata dal motivo anticlassico della travata ritmica posta ad
incorniciare le arcate dei vani laterali e coperta da una volta a botte: uno spazio interno
completamente nuovo, di continuo scandito e non più teso verso la zona presbiteriale, evidenziato
dall'invenzione di un motivo architettonico che, inoltre, in assoluta continuità con la soluzione della
superficie muraria della facciata, risolve il rapporto tra interno ed esterno dell'intero impianto
strutturale. La fronte diviene, in questo caso, un elemento tridimensionale, e in essa, ancora una
volta, si rifondono i motivi classici del tempio e dell'arco trionfale, dando vita ad un tipo ancora una
volta totalmente nuovo.
Con le sue opere mantovane, Leon Battista Alberti aveva portato avanti, sino ad un
estremo limite di validità, l'applicazione dei modelli tipologici e della grammatica dell'antichità
classica, individuati attraverso un metodo di conoscenza filologico-critica condotta direttamente
sugli elementi residui dei monumenti della Roma imperiale: questi, di volta in volta, vengono
riutilizzati e rielaborati ai fini di sintesi figurative totalmente nuove, dando luogo ad esperienze
ormai lontane da ogni rapporto con la tradizione precedente, anticipando, al contrario, quel metodo
operativo che sarà proprio di tutta la cultura architettonica del XVI secolo.

Le opere di Filippo Brunelleschi e di Leon Battista Alberti, pur profondamente distanti e


diverse tra loro, possono anche essere considerate come legate ad una logica comune, che si ritrova
almeno tra le più tarde esperienze brunelleschiane (Rotonda degli Angeli, tribune morte e lanterna
della cupola) e il complesso della produzione albertiana, per la scelta dell'uso dell'ordine
architettonico (su semicolonne o su paraste) come plastica articolazione della parete muraria: una
grammatica, mediata dalla conoscenza di quella dell'antichità classica, per le soluzioni di continuità
tra le figure geometriche semplici (solidi e piani) che determinano lo spazio architettonico
prospetticamente definito e di cui rappresentano anche l'elemento di misura delle sue proporzioni
armoniche. Questo tipo di linguaggio architettonico, in tal modo, non era mai inteso come citazione
dall'Antico, né come imitazione di stili e di modelli, ma come supporto alla costruzione di uno
spazio, controllato dalla prospettiva geometrica: in questo contesto, al disegno dei singoli elementi
costituenti l'ordine architettonico (base, fusto, capitello, trabeazione) veniva affidato, unitamente al
cromatismo dei materiali da costruzione o di rivestimento, soltanto il ruolo di rendere manifeste
tutte le varietà possibili degli apparati decorativi con le relative leggi proporzionali di riferimento.
Questo profondo cambiamento del modo di fare e di intendere l'architettura non ha un’immediata
affermazione neppure lungo la sola penisola italiana: mentre nella pittura la rappresentazione dello
spazio prospetticamente inteso si diffonde presto, divenendo patrimonio comune, la realizzazione di
esperienze architettoniche nuove è più limitata, non soltanto nel numero, ma anche
geograficamente. Molto diverse risultano, inoltre, le linee di ricerca portate avanti tanto da non
poter mai essere riguardate come omogenee, ma piuttosto come momenti di un dibattito ancora
largamente aperto. D'altro canto, molti cantieri conducono i lavori all'incirca nello stesso tempo di
quelli delle opere di Leon Battista Alberti, delle quali tanto l'influenza che il linguaggio non
possono sempre essere ritrovate in altre esperienze architettoniche.
A Firenze, l'attività di Michelozzo di Bartolomeo Michelozzi (1396-1472) iniziava quando
Brunelleschi era ancora in vita, contribuendo a diffonderne la ricerca con i suoi viaggi successivi a
Napoli (1427) insieme a Donatello, Montepulciano (1430), Venezia (1433), Milano (1462-1468) e
in Dalmazia (1464). Nella nuova realtà politica fiorentina, in cui il regime oligarchico era stato
sostituito dal potere personale di Cosimo de' Medici, Michelozzo era l'architetto di quest'ultimo, di
cui realizzò il grandioso palazzo sulla via Larga. Dal complesso delle sue opere emerge con molta
evidenza l'accettazione della grammatica architettonica del Brunelleschi, ma non del suo
programma di rinnovamento progettuale: nel complesso di San Marco a Firenze (1437-1452), ad
esempio, malgrado l'adozione dell'arco su colonne, è evidente la rinuncia a precise regole
geometriche per il controllo dello spazio, mancando anche le intelaiature che avrebbero dovuto
delimitare gli impaginati delle diverse facciate. Nello stesso palazzo Medici (1444-1459), inoltre,
manca un puntuale reticolo spaziale di riferimento, per la diversa profondità dei lati del cortile, pur
nell’invenzione di una nuova tipologia di palazzo nobiliare fiorentino, del tutto alternativa a quella
del quasi contemporaneo esempio del palazzo Rucellai di Leon Battista Alberti. Il nuovo organismo
architettonico derivava dalla riutilizzazione contemporanea di elementi tradizionali tratti da tipi
edilizi specialistici diversi: il palazzo civico medievale a parete bugnata, con una cornice corinzia
che sostituisce le merlature, il chiostro conventuale e la loggia dei mercanti. La facciata, inoltre, è
organizzata su più fasce orizzontali gerarchizzate, sottolineate da una diversa accentuazione del
valore plastico della parete bugnata. Questo modello avrà un’enorme fortuna a Firenze ed è alla
base dei numerosissimi palazzi costruiti in questa città durante gli anni di grande incremento
edilizio che, dagli anni sessanta del secolo, continuò per tutto il periodo del governo di Lorenzo il
Magnifico (1469-1492): ne è precisa testimonianza la sua interpretazione, già accademica, nel
palazzo Strozzi (1489), opera di Benedetto da Maiano (1442-1497), insieme a Simone del Pollaiolo.
La città, tuttavia, pur ampliandosi all'interno della cinta delle mura, non mutava la sua forma
precedente, strutturandosi sempre sulla preesistenza dell'antico impianto romano: un momento di
grande attività e di sviluppo, anche culturale, che ebbe fine dal momento in cui il frate Girolamo
Savonarola restaurò nella città una repubblica democratica (1494-1498), continuando
successivamente sino al definitivo ritorno dei Medici a Firenze nel 1512.
Malgrado i viaggi che anche altri architetti fiorentini (Giuliano da Maiano, 1432-1490)
intrapresero tanto all'interno che al di fuori della Toscana, le esperienze e il gusto brunelleschiani
ebbero una diffusione assai limitata al di fuori del territorio della Signoria di Firenze: fa eccezione
soprattutto la Milano del nuovo duca Francesco Sforza (1450-1466), succeduto a Filippo Maria
Visconti (morto nel 1447), ove forse fu lo stesso Michelozzo a realizzare la cappella Portinari sul
modello della brunelleschiana Sacrestia Vecchia, oltre allo scomparso palazzo del Banco Mediceo.
Ancora da Firenze, la prima volta nel 1451, arriverà nella città Antonio Averulino detto il Filarete
(1400-1469), principale ispiratore dei programmi urbanistico-edilizi della nuova signoria milanese.
Nel suo trattato, scritto tra il 1460 e il 1464 e dedicato allo Sforza, affrontava il tema della forma
della città ideale proponendo una sorta di programma di infrastrutture radiocentriche, all'interno di
un perimetro risultante dall'intersezione di due quadrati intesi come rappresentazione simbolica (i
quattro punti cardinali, le quattro stagioni, i quattro elementi primari costituenti la natura) di una
tradizione cosmologica ancora medievale. All'interno di questo schema di riferimento, la città è
organizzata funzionalmente per poli di grande rilevanza figurativa e a grande scala, la cui
illustrazione permette all'autore di proporre una serie di tipologie edilizie completamente nuove
basate anche sulla sovrapposizione degli ordini architettonici, o di elementi finiti. Novità, tutte
queste, che forse gli derivavano dalla concreta esperienza del cantiere per l'Ospedale Maggiore a
Milano (dal 1456): un edificio grandissimo, articolato simmetricamente intorno a grandiosi cortili
interni, in cui riproponeva l'applicazione di sintagmi brunelleschiani nella parte inferiore della
facciata. In ogni caso, era la proposta di una grande polarità urbana, dalla funzione utilitaristica,
nella ricerca di una monumentalità intesa come manifestazione dell'esigenza politica della nuova
dinastia di affermare la propria autorevolezza.
Seppure le nuove architetture andavano ad inserirsi, prevalentemente, nel contesto di città
medievali, senza modificarne la forma complessiva, il tema del rinnovamento urbano si proponeva,
a partire dalla metà del XV secolo, per il sorgere di nuove esigenze funzionali e celebrative di
matrice religiosa o politico-dinastica: mantenendo uno stretto rapporto con la struttura della città
preesistente, ne veniva rinnovata la forma con la realizzazione di nuove e più grandi emergenze
architettoniche e con il tracciamento di strade rettilinee o con la rettificazione di quelle esistenti. Il
primo esempio di questo tipo di interventi può essere considerato il cosiddetto "programma" del
papa Nicolò V Parentucelli (1447-1455), con cui veniva dato inizio alla renovatio urbis Romae,
dopo che il potere politico-religioso della Chiesa romana era stato definitivamente ristabilito nella
città e nello Stato per la fine del cosiddetto “piccolo scisma”, provocato dal contrasto tra Eugenio
IV e il Concilio di Basilea (1437), terminato subito dopo l’elezione del nuovo papa (1447). Questa
idea nuova di trasformare la città era così grandiosa da poter essere soltanto accennata durante gli
anni del pontificato, tanto da restare sempre a fondamento degli interventi di tutti i successivi
pontefici fino alla caduta del loro potere temporale. Gli interventi previsti comprendevano la
ricostruzione, in un unico grandioso complesso polifunzionale, dei Palazzi Apostolici e della
Basilica petriana, che doveva essere preceduta da una grande piazza porticata con un obelisco al
centro: tre strade rettilinee sarebbero state dirette verso la nuova emergenza urbana, ridisegnando il
tessuto edilizio del Borgo Vaticano e ribaltandone l'orientamento rispetto al resto della città. Di
quest'ultima, ancora tutta racchiusa nell'ansa del Tevere, ne veniva proposta una prima
riqualificazione attraverso il restauro delle basiliche più importanti e delle chiese stazionarie,
insieme alle mura e alle porte urbiche. Questo programma, tanto vasto da poter essere soltanto
avviato nella sua realizzazione, era certo il risultato dell'ambiente degli umanisti che circondava il
pontefice, tra i quali era anche Leon Battista Alberti: la dichiarata articolazione planimetrica del
nuovo San Pietro sulla forma del corpo umano e la concezione del Palazzo Apostolico come capo
fortificato del nuovo Borgo Vaticano anticipano largamente le enunciazioni teoriche degli ultimi
decenni del Quattrocento. Durante questo pontificato, tuttavia, non si manifestava a Roma un
mutamento vero e proprio del gusto architettonico e le stesse poche opere realizzate (in particolar
modo i torrioni circolari delle fortificazioni) sembrano appartenere di più al passato, pur se nel
cantiere vaticano è già presente Bernardo Rossellino (1409-1464).
L'affermazione del nuovo linguaggio architettonico nell'ambiente romano deve essere fatta
risalire agli anni del pontificato dell'umanista Enea Silvio Piccolomini, Pio II (1458-1464), anche se
questi da cardinale aveva duramente condannato l'esperienza albertiana del San Francesco a Rimini:
il sintagma, mediato dal Colosseo, degli ordini sovrapposti che incorniciano archi diventa il modo
per risolvere la Loggia delle Benedizioni in San Pietro e sarà subito ripreso per la facciata della
chiesa di San Marco e per il cortile del palazzo di Venezia durante il pontificato di Paolo II Barbo
(1464-1471).
Non è certamente un caso se fu proprio lo stesso Pio II a promuovere la ristrutturazione del
suo borgo natale, il piccolo paese toscano di Corsignano, affidandone il progetto e la realizzazione
al Rossellino, il quale la portò a termine tra il 1459 ed il 1464. La volontà di creare una residenza
estiva per la corte pontificia veniva risolta, nel rispetto dell'impianto medievale con la sua lunga
strada di crinale, per mezzo di un programma urbanistico unitario impostato sulla creazione di un
nuovo spazio urbano, centro politico e religioso della città. Lo spazio-piazza, di forma trapezoidale
in senso antiprospettico, è caratterizzato dalla contemporanea presenza di quattro emergenze
architettoniche: la cattedrale, il palazzo Piccolomini, la residenza vescovile e il palazzo comunale,
quale elemento di filtro con la retrostante piazza del mercato. In tal modo, la piazza assume una
forma chiusa rispetto alla città, sottolineando tutto ciò con il suo asse prospettico centrale, rivolto
verso la cattedrale, programmato anche in relazione ai suoi effetti illusionistici: in ogni caso, uno
spazio controllato anche con il disegno della pavimentazione, a maglie quadrangolari, che
scandendo la partitura delle facciate rapporta tra loro gli edifici e con lo spazio-piazza. Se tutto ciò
rappresentava una novità assoluta nell'ambito del disegno urbano, le scelte tipologico-figurative
effettuate per i singoli edifici mostrano chiaramente come il dibattito sul rinnovamento
dell'architettura fosse ancora molto aperto nell'ambiente romano. Certamente il nuovo sembra
essere stato accettato soltanto per il palazzo Piccolomini, che ripropone l'intelaiatura del palazzo
Rucellai nella facciata sulla piazza, oltre all'invenzione della fronte sul giardino a triplice loggiato,
che rapporta il palazzo alla visuale paesistica: altrettanto non può dirsi della pur notevole cattedrale,
che rielabora il modello delle hallenkirche medievali, nella quale l'ordine architettonico classico è
soltanto un ornamento sovrapposto ad uno schema tipologico mutuato direttamente dalla tradizione.
Anche il palazzo comunale rappresenta una razionalizzazione classicista del tema tradizionale del
palazzo civico che, in questo caso, assume un particolare valore come elemento mediante, con il
preesistente tessuto urbano, del rapporto tra antico e nuovo. Tanta diversità, tuttavia, nulla toglie
all'armonia delle proporzioni di questo spazio nuovissimo, una polarità unica che riassume in sé
l'immagine del borgo ristrutturato che, dal nome del pontefice, si chiamerà Pienza.
Negli stessi anni in cui stava giungendo al termine questa notevole impresa, ad Urbino
Federico da Montefeltro, divenuto nel 1464 duca e gonfaloniere della chiesa, dava un maggiore
impulso ai lavori per la realizzazione del suo nuovo e grandioso palazzo. Anche in questo caso,
l'intervento era mirato alla trasformazione della città medievale esistente, proponendosi, forse sin
dall'inizio, oltre alla realizzazione del palazzo, anche quella della cattedrale e di una nuova zona di
espansione rivolta in direzione di Roma: un vero e proprio "programma", portato in seguito a
termine per fasi successive sino al momento della morte del duca Federico (1482). Naturalmente, il
palazzo è l'elemento preponderante in questa complessa operazione di trasformazione urbana, nella
quale viene proposto come una "città in forma di palazzo" (Baldassare Castiglione), una vera e
propria megastruttura edilizia a scala urbana capace di essere immagine riassuntiva della città, quale
memoria della sua forma: l'edificio è caratterizzato dalla ricca articolazione dei suoi corpi di
fabbrica proposti come elenco; un’aggregazione di elementi finiti controllati dalle leggi della
geometria e della prospettiva. Decisivo, in questo contesto, il ruolo della facciata cosiddetta “dei
Torricini” che viene proposta obliquamente come prospetto paesistico nella direzione di Roma,
episodio polarizzante del palazzo e dell’intera città. Al tempo stesso, la grande dimensione lineare
della fronte del palazzo rivolta verso la città esistente dà luogo a un lungo asse rettilineo, esempio
primo della rettificazione di tracciati medievali. Anche se dal 1468 Luciano Laurana (1420c.-1479)
viene chiamato a dirigere il grande cantiere, questo deve essere inteso soprattutto come luogo di
confronto e di sintesi delle maggiori esperienze figurative del primo Quattrocento, mediate dalla
figura di mecenate di Federico da Montefeltro: alla sua corte erano presenti il matematico Luca
Pacioli, i pittori Piero della Francesca, Melozzo da Forlì, Paolo Uccello e Sandro Botticelli, ai quali
più tardi (dal 1474) si unirà Francesco di Giorgio Martini, incaricato del progetto per la nuova
cattedrale. Accanto a questi, più illustri, stavano alcuni architetti più giovani come Benedetto da
Maiano, Baccio Pontelli e soprattutto Donato Bramante. La presenza di tanti notevoli personaggi
fece del palazzo il risultato unitario di un processo di progettazione collettiva svolta a diversi livelli
di partecipazione: tutto ciò, anche se al Laurana debbono essere attribuiti, tanto il cortile d’onore,
che la facciata dei "Torricini", i due più importanti episodi figurativi del palazzo. Il sintagma
dell’angolo aperto scandisce le quattro facciate della corte interna estrinsecando una chiave di
lettura dell’organizzazione dell’intero palazzo: una precisa volontà di denunciare, con l’isolamento
dei quattro prospetti, il cortile come spazio di risulta derivato da un’operazione di assemblaggio dei
diversi corpi di fabbrica articolati tra loro. Verso l’esterno il palazzo, che non ha una vera e propria
fronte, si manifesta per la facciata dei "Torricini": un episodio di grande fantasia, medievaleggiante,
formato da alcuni loggiati tra due torri scalari, che presenta soltanto pochi elementi di dettaglio di
gusto classicista. In ogni caso, ambedue questi episodi non possono essere considerati isolatamente,
ma riguardati come partecipi di questo articolato organismo unitario, di cui rappresentano gli eventi
maggiormente memorativi sia del suo spazio interno che esterno.
Tanto il disegno di un nuovo spazio urbano, come a Pienza, che la realizzazione del
“programma” urbinate sono il prodotto di un metodo di intervento sulla città esistente fondato sulla
determinazione di polarità emergenti; anche se le nuove esperienze architettoniche venivano
proposte tra novità e tradizione: l'immagine della città, pur se rinnovata, veniva sempre riassunta dal
suo spazio più rappresentativo o dal suo edificio più importante. Completamente diversa è, al
contrario, la trasformazione urbanistica di Roma portata a termine, nel corso del pontificato di Sisto
IV Della Rovere (1471-1485). In due fasi successive, prima e dopo il Giubileo del 1475, venivano
realizzati: un nuovo ponte sul Tevere, al termine della via Aurelia, che proseguiva con una strada
rettilinea (via dei Pettinari) sino all'antica via Peregrinorum e a piazza Campo dei Fiori; la
rettificazione delle due strade di margine del Borgo, che viene dotato anche di un grande ospedale,
la sistemazione della via Recta (via dei Coronari) e della via Lata (via del Corso), oltre all'apertura
della nuova via Sistina rettilinea (via di Tor di Nona - via di Monte Brianzo) verso la porta del
Popolo, accesso da nord alla città. Venivano attuate, in tal modo, tutte le intenzioni annunciate da
Nicolò V, non soltanto per il Borgo, ma anche per l’intera città che, d'ora in poi, sarà sempre
proposta come rivolta verso la Basilica di San Pietro. Con questi interventi la città medievale si era
radicalmente trasformata con un'operazione di ridisegno urbano complessivo, controllato dalla
magistratura cittadina dei "maestri delle strade", caratterizzato dalla rettificazione di strade esistenti
o dalla apertura di vie rettilinee, anche molto lunghe, di attraversamento della città: un modello
definitivo, quest'ultimo, totalmente nuovo. Identiche esigenze legate alle celebrazioni giubilari
avevano portato il pontefice ad intervenire anche su molti edifici religiosi esistenti: alcuni (San
Pietro in Vincoli, 1475), portando avanti una consuetudine, vengono ristrutturati e consolidati
voltando a crociera le coperture delle navate laterali, mentre altri vengono soltanto in parte
riutilizzati (Santa Susanna - San Vitale, 1475) per realizzare nuovi organismi ad unica navata.
Operazioni, tutte queste, in cui prevale la preesistenza medievale pur nella trasformazione dello
spazio sacro. Anche le due chiese costruite ex novo, Santa Maria del Popolo (1472) e Sant’Agostino
(terminata nel 1483), presentano impianti longitudinali ancora medievaleggianti, le cui facciate a
lastra e su due ordini, al contrario, ripropongono l'esperienza albertiana di Santa Maria Novella. In
ogni caso, così come era accaduto per la città, ogni intervento innovativo era il prodotto della
ricerca di uno stretto rapporto tanto con le preesistenze che con la cultura della tradizione
precedente: una continuità, tuttavia, del tutto consapevole di quanto si andava sperimentando al di
fuori di Roma e le cui novità dovevano essere molto note.
In ogni caso, Pienza, Urbino e Roma, che furono, sia pure a diversa scala, le tre più
importanti esperienze di intervento sulla città, rappresentano modi diversi di affrontare il problema:
la prima progettata da una forte personalità di architetto molto condizionato dal pontefice-umanista-
committente, la seconda frutto dell'elaborazione di un gruppo di uomini di cultura riuniti intorno ad
un principe mecenate e la terza il risultato dell'opera continua di una magistratura civica, certamente
più ispirata a criteri di operante funzionalità, impegnata dallo Stato committente a rendere più
agevole l'arrivo verso la Basilica di San Pietro. Tutte e tre furono, inoltre, finalizzate alla
ristrutturazione della città esistente, mentre soltanto le prime due presentano anche importanti
momenti di sperimentazione delle nuove ricerche figurative. Tutto ciò mentre negli altri centri
italiani il processo di rinnovamento tarda a prendere quota, o si arresta (Firenze), per il prevalere del
solo gusto dei nuovi apparati decorativi.
In questo contesto, all'inizio degli anni ottanta del XV secolo, una serie di eventi tra loro
correlati segnano l'avvio di un nuovo processo di sperimentazione figurativa, assolutamente
decisivo per l'affermazione dell'architettura del linguaggio classico. Francesco di Giorgio Martini
(1439-1502), già operante da qualche anno a Urbino nei cantieri per la nuova cattedrale (prima del
1482) e del San Bernardino (1482?), oltre che nelle nuove rocche del Ducato, iniziava nel 1481 la
stesura del suo trattato; mentre quello di Piero della Francesca, De Prospectiva Pingendi, appariva
nel 1482; infine, non va dimenticato che il De re aedificatoria dell'Alberti verrà pubblicato per la
prima volta a stampa nel 1485, iniziandosene in tal modo la sua diffusione. Negli stessi anni (1481)
Donato Bramante, proveniente da Urbino, iniziava la propria attività di architetto a Milano ove,
l'anno successivo, arrivava anche Leonardo da Vinci: un incontro che si rivelerà molto importante, a
cui parteciperà più tardi lo stesso Francesco di Giorgio Martini (1491), chiamato per breve tempo a
Milano per una consulenza sul tiburio del Duomo e, insieme a Leonardo, per il Duomo di Pavia.
Contemporaneamente, con il diffondersi della cultura figurativa maturata intorno al grande cantiere
urbinate, una proposta di ricerca nuova, ricca di citazioni classiciste, si andava affermando
nell'ambiente fiorentino con le opere di Giuliano Giamberti da Sangallo (1443-1516): la villa
medicea di Poggio a Caiano (1480) e la chiesa di Santa Maria delle Carceri a Prato (1485). In
sostanza, due tendenze dallo svolgimento autonomo, ma non distanti tra loro, tanto che anche
Giuliano sarà a Milano nel 1493 ove incontrerà Leonardo.

Il trattato di architettura civile e militare di Francesco di Giorgio Martini va considerato


come il momento dell’esemplificazione e della divulgazione di quanto sino ad allora, a livello
critico, era stato maturato in continuità con gli scritti di Leon Battista Alberti, che subito avevano
trovato una prima applicazione nel programma e nelle intenzioni di Nicolò V per il rinnovamento
della Basilica petriana e dei Palazzi Vaticani, descritti dall'umanista Giannozzo Manetti. Come in
quest’ultimo scritto, alla base del trattato del Martini sta il carattere antropomorfico dell'architettura,
le cui misure e proporzioni sempre debbono essere derivate da quelle del corpo umano: città, singoli
edifici e ordini architettonici sono legati tra loro da un'unica legge di proporzione e di armonia che
accomuna l'universo, l'architettura e l'uomo. Lo studio sulla forma delle città, sulle tipologie edilizie
prevalentemente religiose e sugli ordini architettonici, proposti con un grande numero di esempi,
viene portato avanti come affermazione di forme ideali antropomorfiche e con precisi riferimenti
cosmologici, sempre mediati dalla figura umana (homo ad circulum). In questo contesto, inoltre, il
trattato diverrà molto importante per lo sviluppo delle nuove tecniche fortificatorie contro le
artiglierie, tante sono le soluzioni proposte per le cinte murarie delle città poligonali radiocentiche
con baluardi sugli spigoli. In sintesi, lo scritto e gli esempi del Martini si propongono come il
momento conclusivo di una ricerca che anticipa quella degli architetti del primo Cinquecento e ne
costituisce la premessa, riaffermando tutto il valore di esemplarità dell'architettura antica, capace di
risolvere ogni problema di novità e di razionalità dello spazio architettonico. Nel ducato di Urbino,
Francesco di Giorgio esordisce con la realizzazione di opere militari a difesa dei confini dello Stato:
le rocche di Sassocorvaro (1476-1478), di Cagli (1481) e di San Leo sviluppano il sistema
fortificato a bastioni e a cortine oblique, realizzato in forme astratte e geometriche con precisi
riferimenti zoomorfici, manifestando un’espressività nuova, tutta fondata sul valore plastico e sullo
spessore delle strutture murarie che racchiudono gli spazi architettonici. Un’identica ricerca si
ritrova nel progetto per la cattedrale di Urbino (prima del 1482), nella quale rinuncia addirittura
all'ordine architettonico, affidando l'articolazione dello spazio longitudinale a tre navate ad una
successione di arcate su pilastri: altrettanto può dirsi per il San Bernardino ad Urbino, il mausoleo
dei Montefeltro, in cui le quattro colonne della crociera completamente estradossate appaiono come
un’articolazione della parete muraria. Ambedue queste opere non vennero portate a termine
dall'architetto, così come accadrà per la chiesa di Santa Maria delle Grazie del Calcinaio a Cortona
(1485) per la quale approntò il modello, mentre il cantiere fu condotto da altri: un organismo a
croce latina sormontato da una cupola, derivato dal tipo planimetrico composito illustrato nel
trattato, che tende alla centralità dello spazio interno, definito prospetticamente per l'uso linearistico
dell'ordine architettonico. Un'architettura certamente molto nuova, ma che ancora si confronta con
la tradizione per la tipologia della facciata e per i forti strombi delle aperture laterali, che pure
rendono manifesto il grande spessore della parete muraria.
Quando Francesco di Giorgio arriverà a Milano, per rimanervi soltanto due mesi, la corte
di Ludovico il Moro (1480-1499) era già divenuta uno dei centri culturali più importanti della
penisola per la contemporanea presenza e l'amicizia di Luca Pacioli (autore del De divina
proportione) e Donato Bramante, ambedue provenienti da Urbino, e soprattutto di Leonardo da
Vinci: personaggio chiave, quest'ultimo – anche se non realizzò mai alcuna architettura – per la
vastità dell'orizzonte della sua ricerca scientifica, oltre che per la novità delle sue proposte
architettoniche soltanto disegnate. Definendosi "homo sanza lettere", sistematizzava una vera e
propria summa del pensiero scientifico contemporaneo, affermando il valore dell'esperienza come
"madre di ogni certezza": da tutto ciò aveva derivato la riunificazione tra arte e scienza, rispetto alle
quali il disegno era visto come l'unico mezzo per la conoscenza di tutta la realtà visibile. All'interno
di questo ambito, gli studi per le città, soprattutto quelli per Milano, sono sempre improntati a
principi di razionalità e ordine, secondo criteri di funzionalità, igiene e bellezza, rifiutando ogni
forma di utopia. Altrettanto importanti sono gli studi sugli edifici sacri a pianta centrale: questi
vengono concepiti come macchina spaziale in cui ogni elemento è gerarchizzato e correlato al tutto
come parte di un congegno strutturale unitario, in analogia con il corpo umano. Tutte queste
proposte, prodotte dall'aggregazione di figure geometriche semplici (cerchio e quadrato) che
definiscono complesse articolazioni spaziali, o organismi cupolati, erano rappresentate con nuovi
criteri di disegno tecnico atti a cogliere gli edifici nella loro realtà tridimensionale (prospettive a
volo d'uccello e piante): esempi, tutti questi, che avranno una decisiva e immediata influenza anche
sulle opere milanesi di Donato Bramante, attraverso le quali l'architetto urbinate andava maturando.
Arrivato a Milano da Urbino, dove forse aveva concorso alla realizzazione dello studiolo di
Federico (poco prima del 1476), Donato Bramante era stato subito impegnato nel rinnovamento
della chiesa di Santa Maria presso San Satiro (1482-1486). Ribaltando l'orientamento della chiesa
preesistente, la cui navata viene utilizzata in funzione di transetto, l'allora giovane architetto
proponeva un organismo con una pianta a croce latina: uno spazio in cui prevale la visione lungo
l'asse longitudinale mediano e che si conclude con un finto coro, ottenuto in alto rilievo con una
prospettiva centrale. Questo risultato derivava dalla sua formazione culturale nel cantiere urbinate,
per la capacità di prefigurazione e controllo dello spazio del nuovo organismo architettonico per
mezzo della prospettiva geometrica. È anche possibile che, sino a questo momento, Bramante non
avesse ancora iniziato il suo confronto con Leonardo e poteva non ancora conoscere il trattato del
Martini: esperienze, tutte queste, maturate negli anni successivi e che sono alla base del nuovo coro
della chiesa di Santa Maria delle Grazie a Milano (dal 1492). La soluzione bramantesca dà luogo ad
un tipo di organismo completamente nuovo, formato da un assemblaggio tra le navate longitudinali
della chiesa preesistente e un impianto centrale coperto a cupola e dal presbiterio molto
approfondito. Questa soluzione tipologica, che avrà molta fortuna durante tutto il XVI secolo e
anche oltre, presenta la novità del vano centrale, ottenuto per mezzo dell’aggregazione di forme
geometriche semplici: dal quadrato di base con i lati articolati da forme semicircolari, alla cupola
emisferica direttamente poggiata sui pennacchi sferici di raccordo. Una proposta, questa, che
puntava tutto sul valore plastico delle masse murarie, senza dare un grande risalto agli ordini
architettonici, ma privilegiando i valori della geometria matrici della sua forma. Nello spazio
esterno, tuttavia, fanno da contrappunto alla forza dell’articolazione volumetrica del nuovo coro
tutte quelle scelte che riportano alla tradizione precedente: dalla soluzione a tiburio per la copertura
della cupola, alle pur raffinate decorazioni, elementi di misura delle superfici esterne. Tutto ciò non
può far pensare, certamente, ad una mancata maturazione nell'uso della grammatica classica, quanto
ad un maggiore impegno dell'architetto in una progettualità di tipo nuovo, fondata sulla razionalità e
la gerarchizzazione degli spazi, come anche Leonardo andava dimostrando con i suoi studi: un
modus operandi che recuperava tanto una delle principali esemplificazioni tipologiche del trattato di
Francesco di Giorgio Martini, quanto la sua esperienza sulla figuratività espressiva dei sodi murari.
In questo senso, il coro di Santa Maria delle Grazie può essere considerato come il punto di arrivo
della ricerca del XV secolo sull'architettura che deve essere posto alla base, non soltanto della
futura attività bramantesca a Roma, ma anche di tutta la cultura del linguaggio classico.
Infine, contemporaneamente a quanto andava accadendo a Milano, nell'ambiente fiorentino
maturava un processo di revisione dei modelli del primo Quattrocento, ormai affermati e troppo
spesso ripetuti, in favore di una ripresa del confronto critico con l'antichità classica. Protagonista di
questa nuova fase della cultura toscana è Giuliano da Sangallo il quale, nella villa Medici di Poggio
a Caiano, affrontando il tema di un edificio isolato nella natura, ne traeva lo spunto per una rilettura
delle forme degli impianti planimetrici del mondo classico: dal basamento a criptoportico, all'uso
del modello della fronte di un tempio classico, posto ad individuare l'accesso principale all'edificio e
il suo grande spazio interno passante, alla rinuncia della rigidità delle regole grammaticali degli
ordini, di cui vengono mutati i rapporti sia di proporzione che di collocazione. Una ricerca, questa,
che avrà il suo momento di sintesi di altissima qualità nella successiva chiesa a croce greca di Santa
Maria delle Carceri a Prato: un’esperienza concreta in cui la tradizione coloristica fiorentina e il
linguaggio classico felicemente convivono in un risultato di grande esemplarità figurativa, che
invita alla contemplazione della propria armonia proporzionale, in quanto affermazione perentoria
di un’architettura indifferente alla propria specifica funzione.

Accompagnato dalla ricchezza di queste sue realizzazioni, anche Giuliano arriverà a


Milano, entrando in contatto con Leonardo e soprattutto con Donato Bramante, con il quale molto
più tardi si ritroverà a Roma al termine del pontificato di Alessandro VI. In tal modo, tanto le
esperienze fiorentine, che milanesi, poterono confrontarsi e integrarsi reciprocamente: un preludio
indispensabile alla successiva definizione e diffusione della moderna architettura del linguaggio
classico, ovvero una nuova fase della ricerca figurativa avviata a Roma dalle poche opere realizzate
e dai grandi cantieri appena iniziati dal Bramante.
Dalla scoperta dell'America alla fine del Concilio di Trento

(1492-1563)

Nel 1492 la scomparsa di Lorenzo de’ Medici, detto il Magnifico, la caduta del regno di
Granada, ultimo rimasto di quelli islamici in Spagna, oltre alla scoperta dell’America,
rappresentano gli avvenimenti che, più di ogni altri, stanno a simboleggiare tanto la fine di un
momento storico ormai trascorso quanto l’avvio di una fase completamente nuova. Due anni più
tardi (1494), la pur breve avventura in Italia di Carlo VIII di Francia, per riaffermare i suoi diritti
dinastici sul trono di Napoli come erede degli Angoini, segnava l’inizio di quel contrasto tra Francia
e Spagna, che caratterizzò tutta la politica europea del successivo cinquantennio: uno scontro che
vide come teatro prevalente l’Italia, provocando eventi drammatici come il sacco di Roma del 1527.
Nel contesto del dibattito religioso, dopo un primo tentativo di riforma della Chiesa romana con il
Concilio lateranense (1512-1517), il momento più rilevante corrisponde agli anni tra il 1517 e il
1520, nei quali si compì lo scisma promosso da Martin Lutero (1483-1546) il quale, nel contestare il
commercio delle indulgenze e la mondanità della corte pontificia, rifiutò di riconoscere l’autorità
assoluta del papa, dei vescovi e dei concili in materia di fede: un evento tanto rilevante che avrebbe
impegnato la Chiesa cattolica in un grande aggiornamento dottrinario, culminato con l’apertura del
Concilio di Trento nel 1546, successivamente concluso nel 1563. A tutti questi avvenimenti va
ricondotta l'origine di ogni nuova proposta di grande significato figurativo e il diffondersi della
cultura italiana in Europa e soprattutto nella Francia di Francesco I.
Durante questo periodo Roma divenne il centro di irraggiamento della nuova cultura
figurativa, maturandosi in questa città l’esperienza di grandi maestri quali Donato Bramante,
Raffaello Sanzio, Baldassarre Peruzzi, Antonio da Sangallo il Giovane e soprattutto Michelangelo
Buonarroti: personaggi, tutti questi, che si ritrovano contemporaneamente nella città, con ruoli
diversi, durante il pontificato di Giulio II Della Rovere (1503-1513): un pontefice molto attivo
politicamente tanto in Italia, che in Europa, capace di ricostruire l’integrità dello Stato della Chiesa
e di svolgere un ruolo decisivo contro la Francia, in favore della Spagna. Contemporaneamente, a
Roma, egli dava vita a tutta una serie di grandi iniziative nell’ambito delle arti figurative, facendo
della città ciò che era stata Firenze durante gli anni di attività del gruppo brunelleschiano: un ruolo
che Roma non perderà più, almeno sino al termine della prima metà del XVIII secolo, per la
funzione trainante delle tante opere promosse dai pontefici romani, motivate dalle diverse necessità
della loro politica religiosa. In tal modo la città, centro del mondo cattolico, sarà la prima tra le
grandi capitali europee a definire la sua nuova forma moderna, divenendo così un modello per tutte
le altre.
Il termine del XV secolo, tuttavia, vedeva la continuità delle ricerche portate avanti sino a
quel momento: per la dimensione urbana, le lunghe strade rettilinee sperimentate a Roma
rimanevano il principale modello di riferimento, mentre nell'architettura le esperienze albertiane
sugli edifici religiosi e civili erano ancora quelle poste a fondamento dei nuovi progetti. In questo
contesto, tuttavia, rimane particolare il caso di Ferrara, il cui signore Ercole I d’Este (1471-1505)
faceva ingrandire la città per esaltarne il recente sviluppo economico e demografico, affidandone
l’incarico a Biagio Rossetti (1447-1516), che lo avrebbe realizzato tra il 1492 e il 1510. Il suo
progetto, prodotto di un ambiente culturale e artistico tutto raccolto attorno alla corte estense, si
basava sul tracciamento di due assi rettilinei e ortogonali tra loro, aperti verso il territorio
circostante, che definivano la nuova struttura urbana contrapposta alla città preesistente: un modo
per disegnare la città anche a scala architettonica, evidenziandone gli edifici angolari (palazzo dei
Diamanti, palazzi Prosperi-Sacrati e Turchi-Di Bagno) come esemplarità capaci di indirizzare e
ordinare il futuro tessuto edilizio. Un contesto nel quale agli edifici sacri veniva affidato il ruolo di
poli funzionali interni al sistema.
A Roma, al contrario, il tracciamento di nuove strade restava sempre finalizzato al
collegamento fra emergenze architettoniche di grande importanza: proprio negli ultimi giorni del
secolo (24 dicembre 1499), veniva aperta la nuova via Alessandrina, dal nome del pontefice
Alessandro VI Borgia (1492-1503), che collegava Castel Sant’Angelo con i Palazzi Apostolici
attraverso il Borgo: un percorso assolutamente rettilineo, con un preciso punto di arrivo, matrice di
una lottizzazione a maglie ortogonali, perfettamente regolari. Inoltre, nel resto della città, sin
dall’inizio degli anni del pontificato del Borgia, stavano procedendo i lavori di alcune, esemplari
opere architettoniche: soprattutto quelli per il nuovo palazzo Riario lungo la via Peregrinorum (poi
della Cancelleria Nuova, dal 1492) e quelli per la chiesa francescana di San Pietro in Montorio (dal
1498). Il nuovo palazzo del potente cardinale, nipote di Sisto IV, si differenziava completamente da
quelli tradizionali romani (palazzi Venezia, Della Rovere, Capranica), articolandosi intorno ad un
cortile con un doppio ordine di arcate su colonne e soprattutto per la nuova tipologia della fronte:
una rielaborazione del modello di palazzo Rucellai, che presenta un alto basamento bugnato, cui
sono sovrapposti due ordini di paraste binate che stanno a riquadrare le finestre ad edicola,
concludendosi con un cornicione sporgente. Il disegno della facciata diveniva anche un modello,
tanto che fu replicato in quella del palazzetto Turci (1500) e nel più tardo completamento (1517)
della fronte del palazzo Castellesi da Corneto sulla via Alessandrina. Altrettanto nuovo era
l’organismo della chiesa di San Pietro in Montorio, ad unica navata, con cappelle laterali e
presbiterio poligonale: una tipologia mediata, forse, dalla tradizione degli ordini mendicanti, con
uno spazio interno fortemente ritmato dalle volte a crociera dell’unica navata. Anche la facciata, che
nel gusto dei dettagli dell’ordine ricorda quelle sistine di Santa Maria del Popolo e di
Sant’Agostino, presenta la novità del tipo a doppio ordine, ma di eguale ampiezza, sormontato da
un timpano triangolare. In ogni caso, in questo ultimo scorcio del XV secolo, a Roma rimaneva
comunque molto forte la continuità con quanto sino ad allora era stato sperimentato.
L’arrivo di Donato Bramante a Roma, nel 1499, va inquadrato in un contesto culturale di
questo tipo, rispetto al quale l’architetto urbinate con la sua prima opera, il chiostro di Santa Maria
della Pace (dal 1500), non si pone certamente in antitesi. La soluzione realizzata è quella di uno
spazio centrale a pianta quadrata, proposto lungo la sua diagonale: insieme cubico esaltato
mirabilmente dalle perfette proporzioni degli ordini sovrapposti. Uno spazio interno-esterno
modularmente articolato dagli elementi che caratterizzano la sua tipologia strutturale: un duplice
ordine nel porticato inferiore, dorico all’interno – su cui impostano le crociere continue –, ionico
quello delle paraste che riquadrano gli archi, cui è sovrapposto un ordine corinzio a sostegno delle
travi del solaio piano in legno. Una modularità resa evidente dagli spigoli delle volte e dai pilastri
ribattuti anche sulla parete interna. Nella logica di tale complessità, le poco rilevate lesene ioniche e
composite appaiono sovrapposte per raggiungere magici rapporti proporzionali, mentre la colonnina
corinzia è libera tra i pilastri del secondo ordine: oltreché un ricordo di esempi medievali, sembra
indicare l’asse di simmetria delle arcate sottostanti. Questo spazio racchiuso caratterizzato da un
pieno in asse su ogni lato è proposto privilegiando la sua visione in diagonale verso l’inusitata
soluzione d’angolo della parasta filiforme, mentre il rapporto chiaroscurale tra i due ordini
contrappone alle ombre forti di quello inferiore l’aerea luminosità del piano superiore. La casa dei
Caprini sembra essere il momento successivo di un identico metodo progettuale (1502-1504): in
questo caso, sono le pareti murarie portanti esterne, su cui si aprono le aperture delle botteghe e le
finestre del piano nobile, ad essere modulate e plasticamente segnate con l’aggiunta, in getto, del
bugnato rustico basamentale e delle sovrapposte semicolonne doriche binate, per segnare la
contrapposizione tra il forte chiaroscuro di quello che è un vero e proprio stilobate con la luminosità
della parete muraria continua mediata dalle morbide ombre degli elementi dell’ordine
architettonico. In questo senso, sembra potersi ritrovare tanto una continuità che una precisa
coerenza del suo modo di operare in queste prime due opere, forse ancor prima dell’inizio del
grande cantiere vaticano, la cui esperienza porterà il maestro alla sintesi dimostrativa del tempio di
San Pietro in Montorio (1504-1509). Questo piccolo tempio, destinato a divenire il simbolo
dell’architettura del linguaggio classico, riassume in sé tutte le indicazioni della trattatistica
precedente, in specie albertiana, sulla chiesa ideale a pianta centrale, di forma circolare, periptera e
posta su podio, con cupola emisferica preceduta da un tamburo cilindrico: una precisa citazione di
modelli antichi, tanto tipologici, che strutturali, e lessico-grammaticali in una rielaborazione capace
di produrre un organismo nuovo e assolutamente originale. In tal senso, ancorché molto piccola di
dimensioni, quest’opera è il frutto della volontà di Bramante di giungere ad un momento di sintesi
concretamente operativo della propria esperienza culturale. In un insieme di grande armonia
proporzionale, il tempietto si caratterizza per il valore di massa scavata del cilindro interno, nucleo
articolato della composizione spaziale, evidenziato dal chiaroscuro portato dal peribolo dorico
esterno: al di sopra di questo, la balaustra rappresenta la soluzione di continuità tra il rigido e severo
ordine sottostante e la morbidezza chiaroscurale del tamburo e della cupola emisferica. Ancora una
volta è la modularità, in questo caso quella della colonna, a determinare ogni solido geometrico
della forma dell’organismo architettonico, che deve senz’altro essere considerata come un
momento conclusivo della sperimentazione continua di tutta la ricerca progettuale bramantesca.
Con il chiostro di Santa Maria della Pace e con la casa dei Caprini, Donato Bramante si
affermava immediatamente anche nell’ambiente culturale della città di Roma nella quale
arriveranno, successivamente, Baldassarre Peruzzi (1503), Antonio da Sangallo il Giovane (1503),
Giuliano da Sangallo (1505), Michelangelo Buonarroti (secondo arrivo, 1505) e Raffaello Sanzio
(1509). Tutto questo gruppo di grandissimi artisti si ritroverà intorno a Giulio II Della Rovere
(1503-1513) per le diverse imprese volute dal pontefice che si era impegnato subito per promuovere
una completa renovatio urbis Romae: un progetto, quest’ultimo, dalle dimensioni tanto rilevanti da
fare della città il principale, pressoché unico, centro di formazione e di irraggiamento di ogni novità,
non soltanto dell’architettura, ma anche di tutte le altre arti figurative.
In architettura, il processo di rinnovamento che vede Donato Bramante come protagonista
prende l’avvio dal progetto per le nuove fabbriche del complesso vaticano: il cortile del Belvedere
(dal 1504-1505), la nuova tribuna della Basilica di San Pietro (dal 1506) e l’ampliamento del
palazzo Apostolico (dal 1508), volute immediatamente dal pontefice subito dopo la sua elezione.
Seppure, come afferma il Vasari, l’architetto urbinate possa aver approfondito le proprie
conoscenze con lo studio dei monumenti dell’antichità romana, è possibile che sia stata soprattutto
la grande dimensione delle opere da progettare a farlo giungere ad una completa maturazione del
proprio linguaggio architettonico. Certamente, per risolvere l’eccezionale longitudinalità del
Belvedere, così come la maggiore grandiosità che si voleva per il San Pietro, non fu ritenuta
sufficiente un’articolazione dello spazio architettonico ottenuta soltanto con l'aggregazione di
volumi geometrici semplici, definiti da superfici piane, ritmate dagli ordini architettonici. Bramante,
senza rinunciare al valore delle forme e della geometria euclidea come matrici degli organismi
architettonici, riscopriva definitivamente l’importanza dello spessore delle pareti murarie, inteso
come una dimensione entro la quale ritrovare, plasticamente, nuove articolazioni spaziali (ordini
architettonici sporgenti e nicchie concave): un’interpretazione che trova i suoi precedenti nell’opera
matura di Brunelleschi e Donatello (rispettivamente le tribune morte del tamburo della cupola del
Duomo e il tabernacolo di parte Guelfa), nelle chiese mantovane di Leon Battista Alberti e forse
anche in alcune opere di Giuliano da Sangallo. Una poetica certamente nuova nella quale l’uso
dell’ordine architettonico per articolare ogni parete muraria non è mai il risultato di una rigida
riproposizione di archetipi classici o di regole vitruviane, ma piuttosto un’interpretazione critica
dell’Antico che propone sempre complessità e differenziazioni: un’espressività del tutto reinventata
e applicata, in questo caso, agli edifici simbolo di tutta la Chiesa romana.
Il complesso della Basilica e dei Palazzi Vaticani, in continuità con il più antico programma
di Nicolò V, deve essere inteso come il prodotto di un progetto unitario, ben articolato e
differenziato nelle sue funzioni per assolvere a tutti gli impegni legati al governo della Chiesa e
dello Stato. I tre elementi dell’impianto a grande scala sono tra loro in un rapporto gerarchico: il
Belvedere non era destinato ad essere riguardato dall’esterno, in quanto spazio privato della corte e
quasi un giardino, mentre la nuova fronte del Palazzo Apostolico doveva essere rivolta verso la città
e la Basilica è ancora oggi polo essenziale di riferimento per l’organizzazione di tutta la struttura
urbana, oltre che manifestazione della memoria religiosa più importante. Seppure Bramante dovette
avanzare altre soluzioni, la scelta di mantenere inalterato l’orientamento della Basilica, con il suo
asse longitudinale ovest-est, sta alla base di tutto il progetto definitivo: a ciò si deve collegare la
volontà di raggiungere dai palazzi Vaticani, con un’unica grande struttura, la preesistente villa Cybo
al Belvedere, determinando un controasse nord-sud, mentre la nuova fronte del Palazzo Apostolico
va ad individuare un terzo allineamento in direzione est-nordest. Si tratta di un progetto dalla
morfologia ben definita, impostata su due assi principali ortogonali tra loro, con l’emergenza della
grandiosa cupola della Basilica posta alla destra del nuovo, immenso, cortile.
Essendo rimasti ancora largamente incompiuti, alla morte di Bramante, i lavori del cantiere
vaticano, molti sono i dubbi e le interpretazioni per ricostruire le intenzioni progettuali del maestro,
in specie per la grande tribuna della Basilica di San Pietro. Questa doveva essere risolta con un
impianto centrale, a quincunx, sormontato dalla grande volta a cupola inquadrata posteriormente da
due campanili: nulla era stato ancora deciso per le navate costantiniane, né lo sarà per il resto di
tutto il secolo, e la cui funzionalità venne mantenuta per moltissimo tempo ancora. In ogni caso,
qualunque fosse stata la funzione prescelta, il progetto prevedeva la giustapposizione all'impianto
longitudinale delle navate, di un organismo centrale, prodotto da una ricca articolazione dei suoi
spazi interni ed esterni, gerarchizzati tra loro: una macchina perfetta che trova precedenti nei
disegni leonardeschi e in un progetto di Giuliano da Sangallo per lo stesso San Pietro. Anche se
realizzò direttamente soltanto i quattro piloni della crociera a sostegno della cupola, Bramante
fissava una volta per tutte la misura delle dimensioni eccezionali di questa impresa architettonica,
con le quali tutti i continuatori si sarebbero dovuti in seguito confrontare. Anche il cortile del
Belvedere non fu portato a termine, essendone stato realizzato in parte soltanto il braccio orientale,
oltre alle rampe di risalita che collegavano le due diverse quote di questo spazio interno
grandissimo. In questo caso, la ricerca di una soluzione nuova aveva portato l’architetto alla
rilettura critica del modello del tempio repubblicano della Fortuna Primigenia a Palestrina e ad una
ricca sperimentazione linguistica, attraverso la quale definiva l’uso della sovrapposizione degli
ordini architettonici, posti a riquadrare un arco, e la cosiddetta travata ritmica: l’asse di simmetria
longitudinale era interrotto, trasversalmente, dalle rampe gradonate di risalita alla quota superiore,
riproponendosi più in alto sino alla conclusione del nicchione. Una sequenza di spazi, a diversi
livelli, di cui le superfici che li racchiudono sono diversamente ritmate dalla sovrapposizione degli
ordini nel cortile inferiore e dalla travata ritmica in quello superiore: paradigmi grammaticali
liberamente tratti dai modelli dell’antichità classica romana. In sostanza, uno spazio nel complesso
illusionistico in cui il linguaggio classico non è soltanto citazione stilistica, ma svolge soprattutto il
ruolo di scandire diversamente le cadenze di fruizione, nella successione delle quote altimetriche.
Soltanto all’uso della sovrapposizione degli ordini su paraste, a riquadrare grandi arcate, è invece
legata la soluzione della facciata a loggia del Palazzo Apostolico, rivolta verso la città e di cui
veniva proposta una visione statica, contrapposta all’articolazione volumetrica tra Palazzo e
Basilica. Attraverso queste esperienze, Bramante stava sperimentando tutta una serie di novità
spaziali, figurative e sintattiche, ben presenti e manifeste anche nelle sole parti che vennero
realizzate: dalle invenzioni contenute nelle successive proposte per il San Pietro, alla riproposizione
di organizzazioni spaziali dell’antichità romana, sino alla riutilizzazione dei sintagmi degli ordini
architettonici sovrapposti e della travata ritmica. Tanto modelli tipologici che spaziali, tutti questi,
basati essenzialmente sull’articolazione della parete muraria intesa come massa plastica, solido-
geometrico e non sola superficie, da cui trarrà spunto il rinnovamento linguistico dell’architettura
del XVI secolo.
Un contributo importante, in questo senso, è dato anche da un altro intervento realizzato, il
presbiterio di Santa Maria del Popolo (terminato entro il 1509): ancora un esempio in cui viene
esaltata la plasticità delle murature portanti, messa in evidenza dai sottarchi cassettonati.
Alla morte del maestro l’incompletezza delle sue opere fu certamente alla base delle diverse
ricerche figurative degli stessi allievi rispetto alle novità che queste rappresentavano. Nel 1509-
1510, nella villa per Agostino Chigi alla Lungara, Baldassarre Peruzzi (1481-1536) dava vita ad un
chiaro esempio di armonia proporzionale che, tuttavia, era ancora risolto da una geometria semplice
e dal disegno classico delle sue superfici esterne: un organismo nuovo, in ogni caso, che va
riconosciuto quale tipo definitivo delle ville suburbane romane. Raffaello (1483-1520), a sua volta,
iniziava a realizzare la chiesa di Sant’Eligio degli Orefici: un impianto centrale a croce greca,
coperto a cupola, che risente ancora della cultura fiorentina mostrando uno spazio interno prodotto
sinteticamente da superfici piane, distinte tra loro da paraste a fascia. Al contrario, nelle architetture
dipinte negli affreschi delle Stanze Vaticane (1509-1511, la Scuola di Atene; 1511-1513, la
Cacciata di Eliodoro), Raffaello mostra di ben comprendere e anche di poter andare oltre le
esperienze bramantesche. In tal modo, dopo la morte del maestro, dava forma ad esperienze
personali pur adottandone tutte le definizioni tipologiche: nella cappella Chigi (prima del 1516)
riproponeva il modello della crociera del San Pietro, anche in questo caso coperta da una cupola
emisferica. Al tempo stesso, prodotti dall’ambiente vicino a Raffaello, i palazzi Alberini
Cicciaporci, Vidoni Caffarelli e del medico Bresciano (tutti prima del 1515) ripresentavano in
maniera aggiornata il modello della fronte della casa dei Caprini, divenuta nel frattempo dimora
dello stesso artista: tutto ciò dal momento che il fallimento della nuova tecnica costruttiva adottata
dal Bramante per dare una risposta in termini di economia alla realizzazione degli ornamenti dei
palazzi aveva indotto a una riflessione critica sul modo di operare bramantesco. Certamente la
fedeltà di Raffaello e dei suoi allievi al maestro era pressoché totale: l’impossibilità, tuttavia, di
articolare le pareti con bugnati rustici e ordini architettonici su semicolonne, senza l’uso di
rivestimenti in pietra, portò a notevoli diversità rispetto al tipo originario. La modularità delle
superfici perse di valore e vennero soltanto scandite dalla sovrapposizione degli ordini, poco rilevati
ed intesi linearisticamente, mentre scomparve il bugnato rustico e le paraste binate molto
ravvicinate (palazzo Alberini Cicciaporci e Vidoni Caffarelli), o fasci di paraste (casa di Jacopo
Bresciano) sostituirono l’articolato rilievo delle semicolonne bramantesche, senza rinunciare del
tutto al valore plastico delle pareti murarie. Tra questi fa eccezione il palazzo Branconio
dell’Aquila, sulla via Alessandrina, la cui tipologia della fronte è completamente nuova per la
varietà della sua ricchezza figurativa.
Sempre all’interno dell’ambiente culturale bramantesco, ma del tutto alternativo negli esiti,
fu il contributo di Antonio da Sangallo il Giovane (1484-1546), nipote di Giuliano e di Antonio il
Vecchio (1455 ca. - 1534), autore, quest’ultimo, dell’impianto centrale coperto a cupola della chiesa
di San Biagio a Montepulciano (dal 1518), isolata dall’abitata e certamente condizionata dalla
ricerca progettuale bramantesca per la basilica di San Pietro, di cui ripropone i campanili angolari e
soprattutto la plasticità della massa muraria sia all’interno che all’esterno. Ancora una volta una
sorta di tempio ideale senza relazione con uno spazio costruito, che si affianca con un linguaggio
architettonico diverso ai precedenti di Santa Maria del Calcinaio a Cortona (Francesco di Giorgio
Martini) e della molto più recente Santa Maria delle Carceri a Prato (del consanguineo Giuliano da
Sangallo). Forte anche di questa tradizione familiare, Antonio il Giovane mosse sin dall’inizio da
una perfetta conoscenza dei mezzi espressivi del suo maestro al rinnovamento di ogni tipologia
edilizia, tanto civile che religiosa, giungendo a realizzare architetture del tutto originali e destinate a
divenire modelli di riferimento. Nel palazzo Baldassini (1510-1514) definiva la tipologia del
“palazzo nobiliare” romano, dalla facciata senza ordini architettonici, organizzata su più fasce
orizzontali gerarchizzate, concluse da una cornice classica: l’ormai consolidato schema funzionale
con androne profondo verso la corte interna, preceduta da un lato porticato, che dà accesso allo
scalone d’onore, venne realizzato attraverso il disegno di una maglia muraria assolutamente
regolare che non aveva tenuto in conto delle preesistenze. In questo contesto, la soluzione della
fronte senza ordini architettonici deve essere considerata come il risultato di una presa di coscienza
dell’importanza della parete bramantesca, intesa come massa plastica, semplicemente da intonacare
e tinteggiare, la cui continuità poteva essere ritmata anche soltanto dalla sequenza delle aperture, a
loro volta riquadrate da cornici modanate in pietra o in stucco, pur rinunciando alla ricerca
modulare nel rapporto tra esterno e interno, come metodo progettuale. Non meno importante, per
quanto riguarda l’edilizia religiosa, è l’impianto della chiesa di Santa Maria in Monserrato a Roma,
a navata unica, con presbiterio rettangolare e cappelle laterali, che anticipa di molto le tipologie
gesuitiche delle chiese della riforma cattolica. Tutte le architetture di Antonio, in ogni caso, saranno
sempre caratterizzate, anche in seguito, da una sintesi espressiva ricca di semplicità e austerità, che
poco concede al gusto e al dettaglio degli ordini classici: una diversità molto significativa rispetto
all’ambiente bramantesco. Un contesto, questo, caratterizzato dal dibattito sul San Pietro, alla cui
direzione Raffaello era succeduto al Bramante e che, successivamente, dal 1520 sarà affidato allo
stesso Antonio da Sangallo il Giovane. In ogni caso, i cantieri bramanteschi, ancorché incompleti,
venivano considerati tutti come esemplarità di riferimento nell'ambito di un confronto culturale
molto stimolante che vedeva particolarmente impegnati anche gli artisti della nuova generazione
che di continuo stavano arrivando a Roma: tra gli altri, soprattutto, Jacopo Sansovino (1486-1570),
Michele Sanmicheli (1484-1559), Sebastiano Serlio (1475-1555) e Giulio Romano (1499-1546).
A tanta ricchezza di esperienze diverse, a Roma, si accompagnava anche la ricerca e la
realizzazione di nuovi modelli di disegno urbano, superando quello della strada unica e rettilinea,
matrice della lottizzazione, con le strade secondarie ad essa perpendicolari, come era stato per la via
Giulia e quella della Lungara al tempo di Giulio II, così come precedentemente, durante il
pontificato di Alessandro VI, era accaduto per la via Alessandrina (Borgo nuovo, 1499). Alle
iniziative successive e coordinate dei due pontefici medicei, Leone X (1513-1521) e Clemente VII
(1523-1534), si deve il tracciamento del cosiddetto “tridente” di Campo Marzio, a partire dal 1519,
mentre erano “maestri delle strade” Raffaello e Antonio da Sangallo il Giovane. Affiancando alla
preesistente via Lata (via del Corso) le convergenti e rettilinee via Leonina (via di Ripetta) e via
Clementina (via del Babuino), si risolveva con un disegno unitario tutta l’espansione nord della città
e, contemporaneamente, il problema del collegamento con la Basilica di San Pietro, da un lato, e
con i rioni posti più in alto, dall’altro: una precisa forma urbana destinata a divenire classica, che
può essere rinviata ai tipi delle città radiali e convergenti su di una piazza di Francesco di Giorgio
Martini.
Malgrado fosse presente a Roma sin dall’inizio del pontificato di Giulio II, Michelangelo
Buonarroti rimase sempre estraneo alla cerchia bramantesca e impegnato nella realizzazione della
tomba del papa e negli affreschi per la Cappella Sistina. In qualche modo isolato, era restato
estraneo ad ogni dibattito e non impegnato nell’architettura sino al concorso per la facciata della
chiesa di San Lorenzo a Firenze, dove era giunto nel 1519, inviato da papa Leone X per realizzare
la sistemazione delle tombe medicee. Malgrado un suo ritorno a Roma, verrà di nuovo inviato a
Firenze nel 1523, questa volta da Clemente VII, per la Biblioteca Laurenziana ed era ancora
presente in questa città nel 1529, per progettare le fortificazioni in difesa della repubblica fiorentina
contro la restaurazione medicea: nel complesso un periodo di tempo abbastanza lungo, lontano da
Roma, durante il quale egli sarà capace di offrire, pur nella piccola dimensione di queste opere,
novità assolute e alternative di ogni altro modo di intendere la figuratività dello spazio
architettonico. Michelangelo, pur mantenendo la logica delle figure geometriche semplici
combinate tra di loro, è del tutto lontano da ogni rapporto con l’Antico come i suoi contemporanei
andavano sperimentando: la grammatica degli ordini architettonici diviene soltanto un pretesto e
anche un modello preciso si trasforma in un lontano ricordo, completamente trasformato e
reinterpretato. Così nel progetto per la facciata di San Lorenzo (1516-1520), la tipologia proposta
resta del tutto autonoma dall’antico organismo religioso preesistente, rifiutando la diversa altezza
delle navate e svolgendo il ruolo, per il forte spessore, di un vero e proprio edificio a sé stante. La
sua forma rettangolare, divisa in due dalla sovrapposizione di due ordini corinzi, è scompartita
verticalmente in cinque parti tra loro articolate per l’avanzamento del corpo centrale, sormontato da
un timpano triangolare, e delle estremità: una soluzione molto connotata plasticamente, anche per le
semicolonne dell’ordine inferiore e la ricchezza decorativa delle aperture delle nicchie tra le paraste
di quello superiore. Altrettanta diversità, rispetto ad ogni realtà figurativa contemporanea, si ritrova
nella Sacrestia Nuova di San Lorenzo (dal 1519): la limpida e chiara razionalità del precedente
brunelleschiano, che intendeva replicare, viene del tutto dimenticata per una maggiore articolazione
tanto dei volumi, che delle superfici. Le pareti sono scavate da nicchie profonde che accentuano sia
l'asse longitudinale verso la scarsella, che la dilatazione dell'asse trasverso, ribaltato poi verso il
centro dalle tombe sporgenti: architettura e scultura si fondono in un’unica rappresentazione,
delimitata dalle pareti risolte dalla sovrapposizione di due ordini non canonici, e dalla cupola
emisferica cassettonata. Le stesse finestre, tra gli archi dei pennacchi della cupola, sono diverse per
la loro forma quadrangolare e convergente verso l'alto. Un espressionismo ancora maggiore è
presente nella soluzione adottata per la Biblioteca Laurenziana (dal 1523), il cui atrio è
letteralmente invaso dalla scalinata di risalita verso la limpida chiarezza della lunga sala di lettura,
che si doveva concludere in uno spazio totalmente nuovo per il deposito dei volumi, di forma
triangolare. Nelle pareti del vestibolo, molto alto rispetto alla sua limitata ampiezza, la logica
dell'ordine è ancora una volta stravolta e le colonne a tutto tondo sono alveolate nella muratura e
sostenute da una mensola rovescia. Di nuovo una chiara dimostrazione del rifiuto di ogni
subordinazione rispetto all'eredità del mondo antico, del quale Michelangelo, pur accettandone le
forme, rifiuta ogni rigidità nell'applicazione delle sue regole grammaticali: così come alla tradizione
umanistica dello spazio geometrizzato risponde con la complessità della propria ricerca
espressionistica, legata all'articolazione delle masse murarie. Una tendenza, questa, che troverà il
suo culmine negli inquietanti disegni per le fortificazioni fiorentine (1529), nei quali è impossibile
ritrovare un qualsiasi riferimento con la geometria euclidea, tanto appaiono diverse da ogni norma e
legate soltanto dalla ricerca di una più logica difesa dal tiro delle artiglierie. Certamente, tutte
queste novità, concentrate inoltre nei pochi anni dell'attività fiorentina, furono il frutto
dell'esperienza della sua precedente attività di pittore e scultore, ma non deve essere dimenticata la
sua conoscenza dei cantieri bramanteschi, essendo stato Michelangelo presente a Roma durante
l'attività del maestro urbinate: ambedue gli artisti hanno in comune l'uso delle pareti murarie intese
come massa plastica, per articolare i volumi delle proprie rappresentazioni architettoniche pur tanto
diverse tra di loro.
Se le opere fiorentine di Michelangelo non ebbero un'immediata diffusione, non incidendo
subito nel dibattito culturale in corso, ciò fu certamente dovuto al fatto di essere state realizzate in
una città che da tempo non era più il centro di riferimento per le arti figurative: a tutto deve
aggiungersi il sacco di Roma che segnava il tramonto definitivo di un'epoca che aveva affermato
l'utopia dell'uomo, centro dell'universo creato da Dio, capace di conoscere, interpretare e dominare
la natura. Il drammatico evento del 6 maggio 1527, durante il pontificato del Medici Clemente VII
(1523-1534), era stato il frutto del fallimento di una politica tendente a fare dello Stato Pontificio
una potenza europea capace di mediare i contrasti tra la Francia di Francesco I e la Spagna di Carlo
V: una tendenza, questa, nata molto prima dalle ambizioni dinastiche di Alessandro VI Borgia, poi
portate avanti dal successore Giulio II Della Rovere, anche se con diverse motivazioni, intersecata
drammaticamente dal compiersi della riforma luterana nel 1517 e conclusa, infine, dalla tragica e
profanatoria occupazione da parte delle truppe del cattolicissimo imperatore Carlo V, il quale, in tal
modo, intese punire Clemente VII per la sua adesione alla lega di Cognac, con Francesco I, Milano,
Firenze e Genova contro la Spagna. Questo evento fu catastrofico e non soltanto per la città di
Roma: il grande scontro tra le due più importanti autorità cattoliche, il papato e l'impero, facilitava
la diffusione delle idee di Martin Lutero e lo scisma poteva, così, dilagare in Germania e in Europa
settentrionale, mentre la stessa autonomia della Chiesa ne risultava più limitata. Tuttavia, malgrado
questo evento, Roma restava il centro indiscusso della cultura artistica e in particolare
architettonica, anche perché gli ultimi allievi di Bramante, il Peruzzi e Antonio da Sangallo il
Giovane, seguitavano ad operare nella città. Altri, al contrario, avevano lasciato Roma prima del
Sacco, come Giulio Romano per Mantova nel 1524, oppure immediatamente dopo, come
Sanmicheli, Serlio e il Sansovino per il Veneto e Venezia, contribuendo alla diffusione delle
esperienze bramantesche e degli allievi del maestro: in ogni caso, il clima culturale era
profondamente mutato, prevalendo il carattere soggettivo e personale di ogni singolo architetto
nella propria ricerca figurativa, sempre meno legata al rispetto assoluto dei canoni del linguaggio
dell'antichità classica: uno sperimentalismo ricco di idee anche alternative, messe in evidenza dalle
differenze tra le varie scuole.
A Mantova, Giulio Romano dal 1525 al 1535 lavora alla realizzazione del palazzo Tè e nel
1544 a quella della sua casa: due esempi nei quali è evidente la ricerca di una libertà espressiva,
ritrovata nel rifiuto di una rigida applicazione delle regole degli ordini architettonici, usati solo
come pretesto per motivi decorativi. Certamente più aderente ai modelli bramanteschi fu, a Verona,
l’opera del Sanmicheli, anche se essi furono sempre assunti soltanto come il punto di partenza per
una personale rielaborazione: così accade all’interno della cappella Pellegrini nel San Bernardino
(1529-1557) in cui alla pianta circolare di base viene sovrapposta una croce greca, per articolarne le
pareti, mentre l’uso differenziato delle fonti di luce fa entrare in gioco gli elementi più minuti
dell’ordine architettonico e dei vari elementi decorativi, in un modo rinnovato di intendere i valori
pittorici dell’architettura. Altrettanto accade per il tipo della fronte del palazzo Caprini che
l’architetto replica nei palazzi Pompei (1530), Canossa (1531-1537), Bevilacqua (1530-1532), oltre
al palazzo Cornaro a Venezia (1560-1564). Tutta una serie di esempi che si propongono, in un
processo di approfondimento continuo del modello originario, come una sorta di casistica capace di
rispondere alle esigenze delle grandi famiglie ed essere ornamento della città. A Venezia, Jacopo
Sansovino nel 1532 con il palazzo Corner si era riproposto un’identica tematica: in questo caso,
tuttavia, il modello viene adattato all’ambiente veneto e, nella parte basamentale, alle botteghe si
sostituiscono gli arconi dell’accesso monumentale dal Canal Grande, mentre il numero dei piani
superiori viene raddoppiato. Subito dopo (1537), nell’ambito di un programma di ristrutturazione
del polo di San Marco, l’architetto realizzava prima l’edificio della Zecca e poi la Biblioteca
Marciana e la Loggetta. Nella fronte della Biblioteca veniva riproposto il modello della
sovrapposizione degli ordini per risolvere una facciata porticata, con aperture al piano superiore:
una soluzione, questa, che rinnovava il tipo di riferimento per la plasticità degli ordini su
semicolonne e per la vivacità chiaroscurale delle figure poste a decorazione dei rinfianchi delle
alzate del portico e delle pseudo-serliane su colonnine del piano superiore. Il modello di origine
romana si arricchiva, in tal modo, per l’influenza della cultura veneziana e per le suggestioni
dell’ambiente tipico lagunare, la cui particolare luminosità deve avere suggerito morbidi riflessi
chiaroscurali per gli elementi ornamentali che ricoprono ogni superficie libera delle pareti murarie.
Il contemporaneo palazzo della Zecca fa parte delle esperienze di questo tipo, anche se la sua
funzione utilitaristica può aver suggerito all’architetto una soluzione più robusta, dal forte bugnato
basamentale, con un solo ordine sovrapposto, dalle paraste anche bugnate, che riquadrano le
finestre: un esempio, quest’ultimo, che ripropone una libera interpretazione delle tipologie
bramantesche e degli stessi ordini architettonici. Infine, a Venezia, contemporaneamente al
Sansovino era presente Sebastiano Serlio: un allievo del Peruzzi che, nel 1537, pubblicava il quarto
libro del suo trattato e, subito dopo, il terzo dedicandolo al re di Francia Francesco I. Chiamato per
questo motivo alla corte francese vi rimaneva dal 1541 al 1551, contribuendo in maniera decisiva
alla diffusione, in Francia, dell’architettura del linguaggio classico, tanto con i contenuti del suo
trattato che con le architetture realizzate. Il trattato si propone come un vero e proprio manuale per
un’architettura fondata sulla ricerca di uno spazio geometricamente definito e prospetticamente
controllato (libro primo e secondo), rappresentato con un linguaggio desunto dai modelli
dell’antichità e da quelli delle architetture di Bramante, ritenuti anch’essi classici (libro terzo).
Queste indicazioni venivano seguite da un grande repertorio illustrativo di soluzioni pratiche e di
ordini architettonici (libro quarto), di edifici religiosi (libro quinto), di portali (libro sesto, lasciato
manoscritto), dell'edilizia civile (libro settimo) e delle architetture militari (libro ottavo, andato
perduto): un grandissimo numero di casi anche molto concreti, attraverso i quali Serlio metteva in
evidenza, in quel momento, una grande libertà di interpretazione dei canoni della classicità antica.
Il linguaggio dell'architettura romana si diffonde in Europa, soprattutto nel regno di Francia,
dove l'arrivo del Serlio era stato preceduto da quello dei pittori Rosso Fiorentino (1495-1540) e
Primaticcio (1505-1570), tra il 1530 e il 1540: l'incontro tra la cultura di questo paese, tuttavia, con
quella italiana era già stato avviato con l'avventura militare di Carlo VIII (1494) e con le successive
campagne italiane di Francesco I. Inoltre, Giuliano da Sangallo era stato a Lione nel 1496, per
presentare al re il progetto di un palazzo, mentre lo stesso Leonardo da Vinci sarà in Francia tra il
1517 e il 1519: la testimonianza di questo primo periodo dell'architettura classicista francese si
ritrova nell'inizio del castello di Chambord (1517) e nell'ala di Francesco I di quello di Blois (1516-
1525), quando iniziava a manifestarsi un nuovo gusto, piuttosto che la ricerca di una diversa
spazialità derivata dall'Antico. In questo contesto l'influenza del Serlio e del suo trattato, di cui
pubblicò la maggior parte dei libri in Francia, è certamente molto rilevante, accompagnandosi anche
con alcune opere realizzate di notevole importanza esemplare: la residenza della Grand Ferrare a
Fontebleau per il cardinale di Ferrara (1544-1546) e soprattutto il castello di Ancy Le France
(1546), dal chiaro impianto bramantesco, cui l'alto tetto conferisce un carattere tutto francese.
Naturalmente, se pure fu il Serlio a far conoscere in Francia l'architettura dei maestri italiani, in
specie di Bramante e di Raffaello, gli architetti di questo paese erano andati maturando nel tempo
un proprio repertorio linguistico, attraverso esperienze formative diverse. È il caso di Pierre Lescot
(1510/1515-1574), di cui non si conosce con precisione la formazione, autore a Parigi dell'Hotel
Carnavalet (1545), ispirato alla Grand Ferrare del Serlio, oltre all'inizio della ristrutturazione del
palazzo del Louvre (1546): questo architetto non visitò l'Italia che molto tardi, nel 1556, ma può
essere considerato come il fondatore del classicismo francese, anche se con propri principi e regole.
Un secondo notevole personaggio dell'architettura francese di quel momento fu certamente Philibert
Delorme (1510-1560) che venne a studiare a Roma tra il 1533 e il 1535, raggiungendo poi nel suo
paese, con le opere e soprattutto con il suo trattato, un prestigio pari a quello dei maestri italiani. La
sua opera più importante è il Castello di Anè (1547-1552), fatto costruire da Enrico II per Diana di
Poitiers, di cui è particolarmente importante la cappella, rappresentando il primo esempio in Francia
dell’applicazione di una pianta circolare per un edificio religioso. Sempre per Enrico II, realizzava
quella di Francesco I a Saint Denis (1547), ispirata all'arco trionfale romano: messo in seguito da
parte per cinque anni, venne richiamato dalla regina madre Caterina dei Medici per la quale fece il
progetto per il palazzo delle Tuileries a Parigi. Infine, con il suo trattato "Nouvelles Inventions pour
bastir et à petits frais" (1561), l'architetto offriva alla cultura architettonica del suo paese la
possibilità di un aggiornamento nelle regole e nelle forme del linguaggio classico dell'architettura
per mezzo di un ampio numero di illustrazioni: una vasto repertorio, preparato per fini pratici, che
influenzerà, insieme al trattato del Serlio, anche tutta la successiva produzione di architettura
francese. In ogni caso Delorme aderisce alle idee albertiane e non è un caso se, insieme ad altri suoi
progetti, abbia illustrato proprio la cappella del Castello di Anè, forse per tentare anch'egli una
affermazione evidente della propria universalità: un esempio tipico di come possa essere
trasformato un identico indirizzo culturale se riferito e usato in un ambito di tipo diverso. In ogni
caso in Europa, la Francia restava come un’eccezione e in Inghilterra, Paesi Bassi, Germania e
Austria il linguaggio desunto dall'architettura antica rimaneva soltanto in sporadici episodi a livello
di gusto, in una realtà totalmente tardo gotica. Altrettanto può dirsi per la Spagna, almeno sino
all'inizio del regno di Filippo II (1561), allorché questo sovrano faceva iniziare, l'Escorial, nel cuore
della Sierra Guadarrama: un unico grandissimo edificio che doveva contenere un convento, il
palazzo per la corte, una chiesa e il mausoleo di Carlo V. Il progetto iniziale venne affidato a Juan
Batista de Toledo, un architetto che era vissuto in Italia, a Napoli, tornato poi in Spagna nel 1549. Il
classicismo spagnolo ha inizio da questo edificio, anche troppo austero e che fu poi terminato da
altri.
Mentre le esperienze bramantesche e della sua cerchia si divulgavano in Italia, iniziando
lentamente a diffondersi anche in Europa, a Roma durante gli ultimi anni del pontificato di
Clemente VII, pur andandosi affermando sempre più la figura professionale di Antonio da Sangallo
il Giovane, Baldassarre Peruzzi realizzava il raffinato quanto trasgressivo palazzo Massimo alle
Colonne (1532-1536): un impianto molto originale, dalla fronte curvilinea suggerita dalle
preesistenze, caratterizzato da un porticato dalle colonne binate sormontate da una trabeazione. Al
di sopra di esso la fronte è completamente bugnata, con il piano nobile evidenziato per la maggiore
dimensione delle aperture e la ricchezza della loro incorniciatura, sormontate a loro volta da due
ordini di finestre quadrotte: un’alternativa totale alla tipologia del palazzo sangallesco, che andò
perduta per l’immediata morte del suo autore (1536).
La grande ripresa edilizia nella città rimane, tuttavia, legata al grande pontificato del
successore di Clemente VII, Paolo III Farnese (1534-1549): un periodo di tempo segnato da due
grandi avvenimenti, la pace definitiva con l'Impero con la visita di Carlo V a Roma (1536), oltre
all'inizio dei lavori del Concilio di Trento (13 dicembre 1545), con cui si dava inizio alla riforma
della Chiesa di Roma, dopo i problemi posti dallo scisma luterano. Architetto del nuovo pontefice è
Antonio da Sangallo il Giovane, già responsabile della fabbrica di San Pietro dal 1520 e progettista
del palazzo cardinalizio del Farnese. In quegli anni, a testimonianza della grande importanza dei
modelli bramanteschi e della presenza attiva degli ultimi suoi allievi, sono presenti a Roma, a
studiare, la maggior parte degli architetti della nuova generazione: il Vignola (dopo il 1530), Pirro
Ligorio (1534), il Vasari (all'incirca tra il 1537 e il 1538), Andrea Palladio (primi due viaggi tra il
1541 e il 1545), Galeazzo Alessi (1542) e, dopo la morte del Sangallo, Pellegrino Tibaldi (1547-
1550), oltre a Bartolomeo Ammannati (1550). Durante questi anni e sino al termine della sua vita,
l'attività di Antonio il Giovane sembra essere sempre molto caratterizzata dalla produzione di
modelli tipologici definitivi ed esemplari, anche nel futuro, non soltanto per Roma. Tra questi, la
facciata della chiesa di Santo Spirito in Sassia (1538), rielaborando lo schema di quella albertiana di
Santa Maria Novella, risolveva il problema della fronte degli edifici religiosi con la sovrapposizione
di due ordini raccordati da volute e con terminazione a timpano. Nello stesso modo, il nuovo
progetto per il palazzo farnesiano (dal 1541) precisava ancora meglio i caratteri del "palazzo
nobiliare", questa volta a blocco, con un atrio passante a tre navate che immette nella grande corte,
articolata dalla sovrapposizione degli ordini su semicolonne a riquadrare gli archi, da cui si
disimpegna lo scalone d'onore: sulla fronte, gerarchizzata a fasce orizzontali, gli angoli bugnati
esaltano il valore stereometrico dell'insieme. Due opere esemplari, queste ultime, tra le tante altre
prodotte durante tutta la sua fortunata carriera di progettista e di esecutore di grandi opere, che
fanno di questo personaggio un protagonista assoluto, dopo Bramante, della cultura del linguaggio
classico nell'architettura.
La morte di Antonio da Sangallo il Giovane (1546), ultimo degli allievi diretti del Bramante,
doveva portare un notevole cambiamento in tutto l'ambiente romano: lo stesso Paolo III, privo di
alternative valide in quel momento, non poteva che scegliere Michelangelo per portare a termine le
opere che aveva fatto mettere in cantiere. Questi, divenuto cittadino romano nel 1537, era stato
incaricato nello stesso anno del progetto per il basamento della statua di Marco Aurelio, premessa
indispensabile della futura sistemazione della piazza capitolina (dal 1547): contemporaneamente, il
Buonarroti andava a dirigere la fabbrica di San Pietro e il cantiere farnesiano, mentre al pontificato
di Pio IV (1560-1564) appartengono l'impianto della cappella Sforza a Santa Maria Maggiore (dal
1560), la porta Nomentana e la basilica di Santa Maria degli Angeli alla Terme di Diocleziano
(ambedue dal 1561). Il grande artista fiorentino, con tutte queste opere e il progetto per il concorso
per il San Giovanni dei Fiorentini, metteva in atto una serie di novità assolute, tanto rispetto
all'ambiente culturale romano, che alle sue stesse precedenti opere fiorentine. Nella piazza del
Campidoglio, di cui accetta tutte le preesistenze più antiche e l'impianto antiprospettico
trapezoidale, una doppia scalinata risolve il basamento del palazzo Senatorio, la cui fronte è risolta
da un ordine gigante e sormontata da una torre sull'asse centrale. L'ordine gigante che raccoglie i
due piani assume una funzione strutturale nel successivo palazzo dei Conservatori, riquadrando il
minore su colonne, che risolve il porticato dalla copertura piana: in questo caso, il confine con il
cielo è risolto da una balaustra sormontata da statue. In sostanza uno spazio urbano caratterizzato da
edifici di grande sintesi espressiva, resi simili tra di loro dagli elementi comuni del linguaggio
architettonico, rispetto ai quali l'asse di simmetria longitudinale è contrappuntato dal disegno
centrifugo della pavimentazione attorno al basamento della statua del Marco Aurelio. Nel
completamento del palazzo Farnese, lasciato interrotto alla sua morte dal Sangallo, ogni previsto
rapporto proporzionale viene volutamente ribaltato: il grande cornicione, molto sporgente, prevale
su ogni altro elemento della fronte, così come l'ultimo ordine del cortile, corinzio e su paraste,
sovrasta con la sua forte altezza i due sottostanti. Nella fabbrica di San Pietro, dove il Buonarroti
interviene facendo demolire quanto realizzato dal Sangallo, il nuovo impianto è molto diverso da
qualsiasi proposta bramantesca: pur ribadendo l'impianto a croce greca inscritta in un quadrato,
rinunciava a qualsiasi articolazione e gerarchizzazione dei volumi, proponendo uno spazio interno
più grande e unitario rispetto a quello coperto dalla cupola. All'esterno, tutto il perimetro viene
fasciato da una parete continua, contrappuntata da un ordine gigante su podio, sormontato da un alto
attico, che raccorda a 45° le absidi sporgenti dal quadrato. Infine la cupola, con le sue nervature,
sull'alto tamburo caratterizzato dalle colonne dei contrafforti, è posta a concludere grandiosamente
il forte slancio verticale di questa plastica composizione: un risultato nuovo e originalissimo, che
poco o nulla ha a che vedere con i modelli dell'antichità classica e i più recenti della tradizione
romana, frutto di una personalità capace di mettere sempre tutto in discussione e sperimentare
diverse invenzioni. Questo stesso impegno caratterizzerò anche tutte le ultime opere di
Michelangelo. Nella cappella Sforza la pianta a croce greca viene reinterpretata completamente e il
suo prevalente asse longitudinale, caratterizzato dall'ampio e approfondito presbiterio, è
contrappuntato da una dilatazione dell'asse trasverso, subito compresso dalla curvatura molto tesa
delle pareti laterali. Così la nuova porta Nomentana, al termine della via Pia, rinuncia all'arco
trionfale come modello per la porta urbica, per una parete a cortina con un solo fornice, dal disegno
originalissimo, affiancato da nicchie e sormontato da una torretta. Infine, nella basilica di Santa
Maria degli Angeli, riutilizzando gli ambienti delle terme di Diocleziano, proponeva un impianto
longitudinale definito per mezzo dell'assemblaggio dell'ambiente circolare ricoperto a cupola con un
grande spazio rettangolare trasversale in funzione di transetto, che si conclude in un presbiterio
molto approfondito che veniva aggiunto a terminazione delle preesistenze: ancora una
sperimentazione senza precedenti, che prelude le ricerche analoghe della fine del secolo tanto in
ambiente romano che milanese, capace anche di trasformare le testimonianze antiche.
Come quelle di Bramante, anche le opere di Michelangelo rimasero largamente incompiute,
tanto da non dover essere del tutto comprese dalla nuova generazione di architetti che iniziava ad
operare al termine della sua vita e che pure molto dovevano certamente ammirarlo. Tutti questi
iniziarono ad operare intorno al 1550, portando avanti ricerche diverse non sempre confrontabili tra
di loro. Il napoletano Pirro Ligorio, dal 1549 al 1555 al servizio del cardinale Ippolito d'Este, viene
da questi incaricato della villa d'Este a Tivoli, il cui giardino rappresenta uno degli episodi di
maggiore fantasia tra le architetture di questo periodo, caratterizzata com'è dai giochi d'acqua delle
sue fontane. Personaggio molto colto, andò sempre più affinando il proprio gusto antiquario anche
con gli scritti: il suo primo trattato "Delle antichità romane", restato manoscritto, venne redatto tra
il 1550 e il 1560. A questo seguirono la "Mappa di Roma antica" del 1553, una ricostruzione di
fantasia della Roma imperiale, e molto più tardi (tra il 1570 e il 1580) il "Trattato di Pirro Ligorio...
su alcune cose concernenti la nobiltà delle antiche arti". Certamente capace di coniugare la
raffinatezza della sua preparazione culturale con il gusto per le citazioni memorative, realizzò con il
Casino di Pio IV in Vaticano (1558-1561) un'opera in questo senso esemplare: uno spazio
prevalentemente esterno che si conclude in un elegante porticato su colonne, punto di arrivo di un
percorso molto articolato e racchiuso tra pareti usate come supporto per una decorazione di grande
eleganza che le ricopre completamente. Di certo, in questo caso, ancora una manifestazione del
gusto antiquario dell'architetto dal significato certamente più laico che religioso. Un altro
personaggio di rilievo di questi anni fu il pittore e architetto aretino Giorgio Vasari che, certamente,
concepì proprio a Roma il suo fondamentale trattato "Le vite dei più celebri architetti, pittori et
scultori italiani da Cimabue insino ai tempi nostri ...", edito poi a Firenze nel 1550 (seconda
edizione, Firenze, 1568): un'opera fondamentale per la critica d'arte che valse la fama al suo autore,
anche più della sua opera di architettura più importante, la Galleria degli Uffizi a Firenze (dal
1560). Volendo esaltare l'arte e l'architettura del proprio momento storico, il Vasari nega ogni
validità artistica al medioevo affermando come alla nuova epoca debba far capo un'arte prodotta da
una "restaurazione o per meglio dire rinascita". Venivano così riconosciuti tre momenti del
rinnovamento delle arti: dopo il primo di presa di coscienza, sino alla fine del Trecento, segue un
periodo di preparazione con Jacopo della Quercia, Donatello, Ghiberti e Brunelleschi, dopodiché si
manifesta la rinascita vera e propria delle arti. In architettura, il momento più alto è dato dalle opere
della triade Leonardo, Raffaello e Michelangelo, quest'ultimo il più grande di tutti e anche rispetto
agli antichi: in questo contesto Vasari assegna alla propria generazione il ruolo di esprimere un
momento transitorio di questo processo di sviluppo. Naturalmente, premessa di questa impostazione
critica è il giudizio sulle diverse età della cultura artistica: l'antichità, riferimento obbligato di ogni
canone estetico, il Medioevo, dai secoli oscuri e privi di arte, cui segue il momento della rinascita
che deve riproporre ogni qualità dell'architettura antica. All'architettura viene riconosciuto un valore
universale, superiore a quello delle altre arti, così come è Roma a riassumere il primato che aveva
nell'antichità. Nella sua complessa articolazione una visione storiografica molto importante, non
soltanto per gli esiti artistici immediati, quanto per il seguito avuto nella storia della successiva
critica d'arte, dalla metà del Settecento e anche molto oltre. All'incirca in quegli stessi anni, tuttavia,
veniva dato alle stampe il secondo e ancora più fortunato trattato sulle "Regole delli cinque ordini di
architettura" (1562) di Jacopo Barozzi da Vignola, già allora architetto molto attivo a Roma, dopo
un soggiorno in Francia con il Primaticcio. Architetto del pontefice Giulio III, aveva diretto i lavori
per la sua villa romana (1551-1555), realizzando inoltre la piccola chiesa di Sant’Andrea sulla via
Flaminia (1550-1553), sempre a Roma, primo esempio di un edificio religioso a pianta centrale di
forma ovale: una novità importante che egli stesso replicherà molto più tardi, nella chiesa di
Sant’Anna dei Palafrenieri (intorno al 1570). Infine, la villa Farnese di Caprarola (1558-1573), di
certo la più importante tra le opere di questo primo periodo dell'attività del Vignola: ancora
un'occasione per riproporre, dopo quella della villa Giulia, la fantasia dello spazio di una corte
interna, risolta in forma circolare dalla sovrapposizione degli ordini. Una ricca varietà di
articolazioni che sempre contrasta con la sobrietà delle fronti dei suoi edifici nei quali ripropone, sia
pure con qualche variante, il modello sangallesco. Con il suo trattato edito a Roma alla vigilia della
conclusione del concilio di Trento, il Vignola proponeva una sistematizzazione di ogni elemento
grammaticale dei singoli ordini architettonici, del loro disegno complessivo e delle loro
proporzioni: un repertorio classico, dalle regole grammaticali molto precisate, un pratico manuale
per ogni occasione, testo fondamentale per tutta l'architettura del linguaggio classico sino al termine
del XIX secolo. All'interno del complesso contesto culturale di questi anni va collocata la figura
dell'architetto fiorentino Bartolomeo Ammannati, arrivato nell'Urbe dopo aver lavorato con il
Sansovino a Venezia, che certo più di altri entrò in contatto con Michelangelo, ma anche con il
Vignola e il Vasari: dal Buonarroti fu forse inviato a completare la Biblioteca Laurenziana a Firenze
(1559), dopo aver dato prova di sé nel completamento di villa Giulia (1553-1555), con il Vignola, e
nel disegno di una fontana lungo la via Flaminia (1552). Opere ambedue, queste, di una grande
eleganza e ricerca formale che, soprattutto nel ninfeo della villa papale, produce un'immagine molto
ricca di una memoratività emotiva e molto suggestiva.
All'incirca negli stessi anni (1548), arrivava a Genova il perugino Galeazzo Alessi (1512-
1572), che a Roma era stato allievo del Peruzzi. Questi, all'interno di un programma di sviluppo
della città, realizzava la cosiddetta "strada nuova", un'asse rettilineo scandito da un'orditura di
grandi palazzi nobiliari dalla maglia muraria ortogonale alla via: alcuni di questi edifici, dagli spazi
interni aperti ricchi di scenografica fantasia, sono dello stesso Alessi, come i palazzi Cataldi (1557),
Cambiaso (1565) e Parodi (1567). Tuttavia, l'opera più importante di questo architetto resta la
chiesa di Santa Maria di Carignano (1552): una riproposizione del modello bramantesco del San
Pietro, a pianta centrale, coperto a cupola e con torri angolari, caratterizzato da un forte slancio
verticale delle sue proporzioni.
Negli stessi anni in cui a Roma vengono successivamente realizzate le diverse fabbriche
michelangiolesche maturava l'esperienza architettonica di Andrea Palladio (1508-1580), prima a
Vicenza e in seguito a Venezia, in un ambiente culturale già segnato dalle importanti figure del
Sanmicheli e del Sansovino. Formatosi nell'amicizia con l'umanista Giangiorgio Trissino, in un
gruppo di personaggi colti e raffinati ma, forse, al limite dell'eresia religiosa, era arrivato per due
volte a Roma tra il 1541 e il 1545, accompagnato dal suo protettore: occasione di conoscere le opere
e i modelli di Donato Bramante e della sua scuola, oltre le testimonianze dell'antichità classica.
Esemplarità, tutte queste, che saranno alla base del suo processo di maturazione, già avviato sulla
conoscenza delle esperienze figurative dell'ambiente culturale veneto: un confronto con le opere di
Michelangelo, al contrario, non potrà che avvenire soltanto parzialmente, durante il suo ultimo
viaggio a Roma nel 1554, dopo il quale pubblicherà "L'antichità di Roma raccolte brevemente dagli
autori antichi e moderni". In realtà la poetica architettonica del Palladio non presenta alcun
riferimento possibile con quella degli architetti della sua generazione, né può essere compresa come
evoluzione di modelli tipologici veneti o romani. Si è infatti in presenza di un modo completamente
nuovo di interpretare l'architettura del linguaggio classico per la capacità di saper trascendere,
reinventandolo, tanto qualsiasi elemento della grammatica antica, che ogni tipo tradizionale di
organizzazione dello spazio. I suoi stessi emblemi classicisti sono chiaramente finalizzati
all'affermazione perentoria di spazi architettonici assoluti e irripetibili, espressione di una società
laica e mercantile e di una borghesia molto colta: anche quando la citazione di un’icona classica è
molto evidente, come nelle fronti delle ville, a prevalere è sempre il suo valore di simbolo, insieme
al raggiungimento di eccezionali armonie proporzionali. Tutte queste architetture, inoltre, si
ritrovano sempre in un preciso rapporto con il paesaggio cui appartengono, cui debbono essere in
ogni caso relazionate, non soltanto per il loro valore funzionale, ma anche in quanto presupposto
della chiara luminosità del loro essenziale cromatismo. Pur avendo potuto conoscere bene, durante i
suoi quattro viaggi nella città, l'ambiente culturale romano e la sua produzione architettonica – ivi
compreso Michelangelo –, Andrea Palladio, con le sue opere, propone novità assolute rispetto a
qualsiasi precedente modello di riferimento: anche se la sua attività di architetto durerà molto a
lungo, sino al 1580, tutto ciò si manifestava subito, sin dalle sue prime realizzazioni. Il primo
impegno di Palladio per un'occasione importante fu il progetto per la basilica di Vicenza (1546,
realizzata dal 1549), subito dopo la villa Godi (1540): tuttavia, per quel momento, questa fabbrica
vicentina deve essere considerata come una sintesi tra le esperienze romane di tipo bramantesco e
quanto aveva potuto conoscere nel Veneto, attraverso le opere del Sanmicheli e di Giovanni Maria
Falconetto (1468-1534; Padova, loggia e Odeon Cornaro 1524-1530), così come a Venezia
nell'ambiente culturale del Serlio e del Sansovino. Un’interpretazione nuova di questo genere di
linguaggio architettonico caratterizzata, tra l'altro, da alcune attenzioni, quali la contrazione delle
campate angolari e il confine con il cielo, mediato dalla balaustra e dalle statue sovrapposte. Ma è il
tema della villa a caratterizzare, soprattutto, l'architettura di Andrea Palladio: i caratteri tradizionali
della residenza della borghesia agraria veneziana venivano del tutto trasfigurati e reinventati
dall'architetto, capace di interpretare liberamente lo schema funzionale della grande sala passante,
affiancata da stanze laterali. A tutto ciò aggiungeva la scelta della loggia-pronao, posta a
sottolineare il prospetto principale e l'accesso alla residenza vera e propria, emblema classico della
sacralità di ogni casa familiare. Questo importante rinnovamento si manifesta subito nella villa
Capra (1550), detta "La Rotonda", poi parzialmente replicata nella Trissino a Meledo (1553):
addirittura una pianta centrale con copertura a cupola, aperta sui quattro lati verso il paesaggio
circostante. Un'esemplarità, questa, che non doveva rappresentare per l'architetto un punto di arrivo,
tanto è diversa ogni sua esperienza, in un processo di continua evoluzione che giunge sino alla villa
Foscari a Mira (1560), detta "La Malcontenta": un'architettura, questa, che sarà spesso presa a
modello, fortemente caratterizzata da una netta distinzione della facciata esterna, resa aulica dalla
loggia, rispetto a quella posteriore, privata e risolta con razionalità funzionale. A tutta questa
attività, sul territorio della Serenissima Repubblica, si accompagnava il progetto e la realizzazione
dei palazzi per la nobiltà vicentina. Nel palazzo Iseppo da Porto (1550-1552), un edificio inserito
nella schiera delle case, proponeva una nuova organizzazione funzionale basata su una corte
disimpegnata da un atrio tetrastilo, tra due corpi di fabbrica paralleli e gerarchizzati tra loro: nella
facciata al contrario, veniva ripreso lo schema romano bramantesco-raffaellesco, sostituendo
all'ordine dorico quello ionico aggiungendovi festoni e statue stagliate contro il cielo. Lo stesso
impianto del prospetto veniva riproposto nel contemporaneo palazzo Thiene (dopo il 1550,
terminato nel 1556), con la variante dell'ordine su paraste corinzie, nel quale anche lo schema
planimetrico risente delle influenze romano-toscane. Del tutto originale si presenta la soluzione
adottata per il palazzo Chiericati (progetto 1550), molto condizionato dalle ridotte dimensioni del
lotto: porticato al piano inferiore, costituendo uno dei lati di una piazza, ribalta al piano superiore lo
schema tradizionale veneziano, con il forte pieno in asse, affiancato da logge. Di certo un
organismo che accentua il proprio valore tridimensionale in un preciso rapporto con l'ambiente
urbano.
Gli anni del Concilio di Trento, tra il 1545 e il 1563, quasi coincidono con quelli dell'ultima
stagione romana di Michelangelo, che morirà nel 1564, così come con quella dell'affermazione
dell'ultima generazione di architetti, incluso Andrea Palladio: la terza, dopo quella di Bramante e
del Buonarroti, cui era seguita quella di Raffaello, Peruzzi e Antonio da Sangallo il Giovane. Dopo
il Concilio spetterà a questi ultimi di dare una risposta alle nuove esigenze della liturgia religiosa e
al rinnovamento delle funzioni rappresentative della città e in particolare di Roma. In ogni caso,
tuttavia, il grande numero di realizzazioni di questo periodo, tanto dei maestri che dei loro allievi,
rappresentano i nodi del complesso e articolato dibattito culturale sull'architettura del linguaggio
classico, sui suoi contenuti e sull'applicazione del suo lessico grammaticale. Molte delle esemplarità
proposte e delle nuove tipologie edilizie potevano essere ancora utilizzate, anche se in contesti
sociali, culturali e religiosi molto diversi: tanto le necessità della riforma cattolica, che la stessa
affermazione della cultura architettonica italiana nei diversi paesi europei, forniranno occasioni
diverse, anche alternative ed autonome. In questo contesto, i continuatori delle ricerche
bramantesche e dei suoi allievi, diretti o indiretti, avevano a disposizione un grande numero di
esperienze architettoniche, un repertorio di modelli che potevano essere riutilizzati, anche con l'uso
di una grammatica in qualche modo comune. Le proposte del tutto innovative di Michelangelo, al
contrario, troppo radicali per poter essere comprese immediatamente, restavano al di fuori di questa
continuità progettuale che relegava anche lo stesso Palladio all'interno di una sua ristretta
dimensione territoriale: ambedue esperienze clamorose, ma fuori della norma, avevano rifiutato il
linguaggio classico inteso come schematismo figurativo, in favore dell'espressività delle spazio
architettonico, raggiunto al di fuori di qualsiasi ricerca di canonica applicazione di un lessico
grammaticale. In ogni caso, due modi di fare architettura molto diversi tra loro, e certamente non
confrontabili, ma che mettevano allora in chiara evidenza quanto libere fossero le valenze per ogni
possibile rapporto con la riscoperta cultura figurativa dell'antichità classica romana.
Dall’affermazione della Riforma cattolica agli inizi della guerra dei Trent’anni

(1563-1618)

La chiusura del Concilio di Trento, al termine del 1563, segna l’inizio di una forte
iniziativa della Chiesa di Roma alla ricerca di nuove espressioni artistiche capaci di mettere in
evidenza e diffondere i contenuti della Riforma cattolica. Nel resto d’Europa, al contrario, malgrado
fosse stata raggiunta la pace nelle contese tra Francia e Spagna sin dal 1559 con il trattato di
Cateau-Cambrésis, non si avvia alcun processo di trasformazione della cultura artistica: le difficoltà,
anche economiche, di riorganizzazione dei singoli Stati, insieme alla progressiva espansione del
calvinismo nei paesi luterani, provocando molti contrasti, posero certamente in secondo piano
qualsiasi interesse nell’intraprendere nuove opere di architettura. Anche a Roma, d’altronde, il
successore di Pio IV, il pontefice san Pio V Ghislieri (1565-1572), si occupò prevalentemente
dell’applicazione dei decreti del Concilio e della difesa dell’Europa dall’espansionismo dell’impero
ottomano (battaglia navale di Lepanto, 1571): un momento di grande ristagno edilizio nella città,
cui fa eccezione l’apertura del cantiere della chiesa del Gesù (1568) promossa dall’ordine dei
Gesuiti. In ogni caso, nei più importanti centri italiani, non si verificò alcun ricambio generazionale
tra gli architetti, continuando a prevalere tutti quelli che si erano già affermati precedentemente. A
Roma, dopo il trasferimento di Pirro Ligorio a Ferrara nel 1568, restava soprattutto il Vignola
(muore nel 1573), la vita di Giorgio Vasari termina nel 1574 a Firenze, dalla quale l’Ammannati
tornava a Roma nel 1581 per il cantiere del Collegio Romano, mentre Pellegrino Tibaldi iniziava la
sua attività milanese nel 1564 con il Collegio di Pavia. A Venezia, in particolare, continuava senza
interruzioni l’attività di Andrea Palladio il quale, nel 1570, pubblicava i Quattro libri
dell’architettura, che diverrà il principale tramite per la diffusione del linguaggio palladiano in
Europa: un trattato basato soprattutto sulla rappresentazione grafica di tutte le sue architetture
proposte insieme agli esempi paradigmatici dell’antichità classica e di Bramante. Tra le opere del
maestro veneto di questi anni, una particolare rilevanza hanno le architetture religiose, sempre
risolte con l’invenzione di organismi completamente nuovi che, oltre al linguaggio, dal classicismo
prendono soprattutto la grande dimensione monumentale. Nel San Giorgio Maggiore (1566-1568)
lo spazio è articolato in tre navate, con cappelle contratte, transetto molto sporgente con
terminazioni semicircolari; il coro è straordinariamente approfondito e distinto dal presbiterio vero e
proprio da quattro colonne libere per renderne illusionistica la sequenza spaziale. Nella navata
centrale l’ordine corinzio su semicolonne riquadra le arcate, mentre ai lati del coro si aprono sul
transetto due grandi cappelle a pianta quadrata e dalle pareti molto articolate. Nella successiva
chiesa del Redentore (1577), l’impianto è a navata unica con cappelle rettangolari, articolate da
nicchie, transetto appena sporgente per le sue terminazioni semicircolari e coro, sempre trattato
illusionisticamente e molto approfondito: una soluzione che si propone a confronto con le due coeve
chiese gesuitiche del Gesù a Roma e del San Fedele a Milano, anche se Palladio era certamente
estraneo alla ricerca sui nuovi spazi liturgici ad unica navata promossi dal Concilio tridentino.
Malgrado la novità del loro impianto planovolumetrico, le fronti delle due chiese sono risolte
dall’adozione della tipologia ormai classica della bramantesca parrocchiale di Roccaverano e della
Madonna di Carpi del Peruzzi. Rispetto a questi modelli di riferimento, tuttavia, ne rappresentano
una notevole evoluzione per la maggiore precisazione dei rapporti tra i due ordini: ambedue
compositi, quello gigante su coppie di semicolonne e quello minore su paraste. A tutto ciò si
accompagna una precisa ricerca di rapporti proporzionali finalizzati ad evocare una forte immagine
memorativa. Infine, tra le ultime opere del maestro, che morirà nel 1580, la Loggia del Capitanio a
Vicenza (1571) ripropone l’ordine gigante michelangiolesco, già usato per la fronte del palazzo
Valmarana, in questo caso su semicolonne che accentuano la plasticità dell’insieme: un’esperienza
ancora una volta nuova, che supera qualunque riferimento alla tipologia del palazzo comunale,
mentre la disposizione delle aperture rifiuta ogni regola classicista e la fitta decorazione delle pareti,
plasticamente scolpita, è una precisa manifestazione dell’horror vacui. Sempre coerente a se stessa,
tutta l’esperienza palladiana va ben oltre ogni possibile riferimento tipologico-grammaticale
classicista di origine romana, trasfigurandone sempre ogni significato, tanto da proporre sino
all’ultimo novità assolute, anche se molto difficili da comprendere al di fuori della realtà socio-
economica della Repubblica veneta: una condizione, questa, che non consentirà alle opere del
maestro di influire immediatamente nello sviluppo dell’architettura italiana di quegli anni.
Nel resto d’Italia e in particolare a Roma, le nuove tematiche della ricerca figurativa
emergono soprattutto da istanze di natura religiosa, piuttosto che da elaborazioni autonome della
cultura architettonica di questo momento: dopo il Concilio di Trento, papi, cardinali e ordini
religiosi divengono, più che gli architetti, non solo i promotori, ma anche i protagonisti di ogni
esperienza progettuale. In un certo senso la città di Roma diviene il cantiere più grande, quello delle
maggiori sperimentazioni, rappresentando il luogo della continuità del magistero morale della
Chiesa: ogni intervento a livello urbano non avrebbe potuto essere che una fase successiva in un
processo avviato da tempo dai pontefici romani, così come erano già pronti da tempo i modelli dei
suoi assi viari rettilinei e delle tipologie edilizie più importanti, quelle sangallesche della chiesa e
del palazzo nobiliare. Inoltre, il trattato sugli ordini architettonici del Vignola (1562) risolveva,
anche congelandolo, ogni problema riguardante il lessico grammaticale. La Chiesa cattolica e i suoi
personaggi istituzionali, più che di una nuova figuratività avevano necessità di manifestare il valore
prevalentemente spirituale di ogni loro iniziativa, tanto evidente è il significato delle diverse
proposte che furono portate avanti. In questo contesto, la ricerca sullo spazio architettonico
religioso è indirizzata sopratutto a favorire la predicazione anche se neppure l’impianto del Gesù
(Vignola 1568-1573) poteva dirsi del tutto nuovo: a navata unica, con cappelle laterali, transetto
sormontato da una cupola e presbiterio, esso aveva avuto precedenti nelle sangallesche Santa Maria
in Monserrato e Santo Spirito in Sassia. In questo caso, tuttavia, la separazione tra le diverse
funzioni è più netta e marcata con semplicità degli ordini architettonici, così come la navata unica
per la predicazione si dilata trasversalmente nelle cappelle, che propongono il rifiorire del culto dei
santi, mentre il transetto rende più distante la zona presbiteriale: un modello, questo, destinato a
divenire classico per le moltissime repliche che i Gesuiti ne faranno in ogni parte del mondo
occidentale. Per tutto il periodo, però, perdurando la stasi edilizia a Roma durante il pontificato di
Pio V, un ruolo decisivo è quello svolto dalla grande figura di san Carlo Borromeo, dapprima
sostenitore della politica religiosa dello zio Pio IV e più tardi (dopo il 1565) al suo ritorno nella
diocesi ambrosiana, per aver dettato una precisa normativa per le architetture religiose, coerente con
le nuove esigenze della spiritualità cristiana: le sue “Instructiones” del 1577 rappresentano un vero e
proprio manifesto di una svolta culturale che il suo architetto, Pellegrino Tibaldi, realizzerà
concretizzando le idee del grande cardinale milanese. Tutto quanto il Borromeo saprà realizzare a
Milano, o soltanto avviare, fa emergere con chiarezza qualità innegabili di originalità nelle ricerche
figurative che, soltanto molto più tardi, saranno presenti anche a Roma, portate dagli architetti
lombardi che opereranno durante gli ultimi anni del pontificato di Clemente VIII e soprattutto di
quello di Paolo V.
Pellegrino Tibaldi (1527-1596) seppe trovare un modo diverso di fare architettura pur
finalizzandone sempre il risultato all’esaltazione della fede, resa manifesta dalla grandiosità, dalla
novità e dalla ricchezza delle sue fabbriche: la grande autonomia morale, di cui certamente doveva
godere il Borromeo, la sua grande fama e autorità in ogni sede, debbono aver permesso, in quel
momento a Milano, quanto a Roma non era neppure possibile cominciare a pensare. L’architetto era
rientrato a Milano nel 1563, dopo un soggiorno a Roma tra il 1547 e il 1550 e un primo periodo di
attività professionale a Bologna. Dopo il debutto nel Collegio di Pavia (1564), è soprattutto a
contatto con il cardinale Borromeo che il suo modo di fare architettura si trasforma, rinvigorendosi,
giungendo con le sue opere realizzate, o solo progettate, alla definizione di nuovi tipi di modelli di
riferimento: questi, più che divenire classici, aprono la strada ad uno sperimentalismo sia sugli
organismi architettonici, che sulla grammatica del linguaggio figurativo, tali da oltrepassare di
molto i confini dell’ambiente lombardo. In tal senso, alcune opere del Tibaldi possono essere
considerate come la prima manifestazione di una linea di tendenza che, nel mutare dei contesti di
riferimento, si trasforma in un processo di evoluzione continua, senza mai divenire repertorio. Tra
queste, del tutto nuova è la soluzione data alla chiesa gesuitica del San Fedele a Milano (1569), ad
unica navata risultante dall’assemblaggio di due impianti quadrati, con copertura a vela su colonne
libere, sormontata da una sorta di lanterna a sottolineare l’asse di simmetria verticale e dalle
cappelle laterali molto contratte, per una alternativa pressoché totale al Gesù di Roma che, negli
stessi anni, l’ordine ignaziano andava realizzando: un’esperienza, questa, presumibilmente derivata
da esemplarità dell’architettura picta raffaellesca (la Cacciata di Eliodoro nelle Stanze Vaticane),
che doveva aver conosciuto a Roma. Molto più tardi, nell’impianto del tempio a Riva San Vitale, la
pianta centrale a matrice ottagona viene articolata con la sovrapposizione ad essa di una croce greca
e di un quadrato circoscritto: anche in questo caso, un metodo progettuale che trova precedenti negli
esempi di Bramante e di Antonio da Sangallo il Giovane. Come è evidente, ad ambedue queste
esperienze è comune uno spazio sacro, unitario ma articolato, prodotto dall’assemblaggio o dalla
sovrapposizione di più impianti centrali: un precedente notevole per le successive esperienze
milanesi del Binago e del Richino e che tanta attenzione meritarono da parte degli architetti del
Seicento romano. Anche le soluzioni realizzate per le fronti delle chiese hanno una grande
rilevanza: soprattutto quelle per il San Fedele e il Santuario di Saronno. In ambedue questi casi,
tuttavia, il riferimento tipologico non è più quello romano sangallesco ma, piuttosto, il modello
michelangiolesco per la facciata del San Lorenzo di Firenze: una soluzione se si vuole tradizionale,
ma che si arricchisce molto per l’articolazione del corpo centrale e di quelli laterali, sempre risolti
con l’uso delle colonne a tutto tondo e per la ricchezza di dettaglio nelle riquadrature e nei portali
(ad esempio l’uso dei telamoni nel Santuario di Saronno). Tanta ricchezza degli apparati figurativi,
anche trasgressiva, trovava la più ampia sperimentazione negli altari progettati per il Duomo di
Milano, nei quali quasi ogni regola viene in qualche modo dimenticata e ogni memoria classicista
riproposta soltanto come un emblema. Tutti i contenuti e il programma di queste opere del Tibaldi,
realizzate o soltanto progettate, si ritrovano nelle successive Instructiones del Borromeo, nelle quali
è già presente un modo nuovo di riguardare all’architettura religiosa in funzione dell’esaltazione dei
valori della fede: accanto alle indicazioni prevalentemente normative emerge con evidenza il
concetto di una architettura intesa come rappresentazione, per la presenza degli edifici religiosi
come polarità del tessuto urbano. Anche lo stesso Tibaldi nel suo trattato (che sarà conosciuto
soltanto nel 1587) teorizzerà un modello di città per poli stellari impostati sulle chiese, anticipando
quanto sarà realizzato a Roma ad opera di Sisto V.
Tutte queste novità, in ogni caso, non raggiungeranno subito Roma, essendo la ricerca
dell’ambiente lombardo autonoma, pur nel rigido rispetto dell’ortodossia cattolica. Inoltre, a Roma,
una forte ripresa dell’attività edilizia, in un contesto di grande interesse per il disegno della città si
avrà soltanto con l’elezione del nuovo papa, Gregorio XIII Boncompagni (1573-1585), successore
di Pio V: in conclave, il nuovo papa era stato appoggiato dal cardinale Borromeo il quale, sino alla
sua morte nel 1584, manterrà sempre una forte influenza su tutto l’ambiente della curia romana. La
politica religiosa di Gregorio XIII sarà sempre di segno completatamene diverso da quella del suo
predecessore, rendendosi ben conto che la Chiesa, oltre che riaffermare i propri principi immutabili,
doveva procedere ad una precisa riorganizzazione del suo governo interno: la riforma della curia,
con la nascita delle congregazioni poi definite da Sisto V, insieme alla fondazione della nuova
Università teologica romana, che da lui prenderà il nome, sono le linee guida essenziali sulle quali
si muoverà l’azione di questo pontefice, grande esperto di diritto canonico. Inoltre, venne favorita
l’espansione dei nuovi ordini religiosi, soprattutto quelli più recenti come i Gesuiti, i Filippini e i
chierici regolari per l’assistenza agli infermi di san Camillo de Lellis. Questa maggiore attenzione
per i problemi concreti della Chiesa si rispecchia nella città con il valore polare degli edifici
religiosi nei nuovi spazi urbani, quale rappresentazione evidente dell’affermazione della Riforma
cattolica. A Roma, la Civitas Dei iniziata da Pio IV viene immediatamente ripresa, con il
completamento della via Merulana (1573) e della via Appia Nuova (1576), fuori delle mura
Aureliane: a queste si aggiungono l’apertura di via della Ferratella (1575) e quella della via
Gregoriana, indirizzata verso il colle del Pincio e la chiesa di Trinità de’ Monti.
Contemporaneamente, la città costruita si arricchisce di un elemento nuovo, l’acqua, profusa con
larghezza nelle numerose fontane disegnate e realizzate durante questo pontificato da Giacomo
della Porta. In sostanza, un vero e proprio modello come nuova città, per la quale veniva anche
emanata una sorta di regolamento edilizio con la bolla Quae publice utilia che anticipava il concetto
di esproprio a favore di terzi, per la trasformazione degli spazi urbani esistenti e per quelli nuovi che
sarebbero stati proposti. Tutti i migliori architetti, operanti a Roma in questo momento, anche se di
origine lombarda o ticinese, pur appartenendo alla stessa generazione del Tibaldi, non ne subirono
alcuna influenza, ricercando linguaggi autonomi fondati sulla tradizione romana e sulle regole del
trattato del Vignola: Giacomo della Porta (1533-1602), comasco, è attivo a Roma autonomamente
soltanto nel 1573, mentre Martino Longhi il Vecchio (1534-1591), originario di Viggiù, dopo il suo
arrivo nella città, lavora presso il Vignola dal 1569. Altrettanto può dirsi per il ticinese Domenico
Fontana (1543-1607), l’architetto impresario del successivo pontefice Sisto V, arrivato a Roma nel
1561 ma che non iniziò a operare prima del 1580. Tra le tante fabbriche, portate a termine durante il
pontificato gregoriano, una particolare menzione merita la realizzazione della facciata del Gesù
(1574-1579), che della Porta realizza con maggiore plasticità, rispetto alle più timide proposte
vignolesche, caratterizzata dalla sua parte centrale avanzata e protesa verso la città: un’evoluzione
del tipo sangallesco della fronte, a due ordini sovrapposti, che sembra finalizzata alla proiezione
dello spazio interno della chiesa verso quello esterno della piazza antistante. Una novità, questa, che
lo stesso della Porta non ripeterà più, né in Santa Maria ai Monti (iniziata nel 1580), né in Santa
Maria in Via (1576-1594): al contrario, l’architetto sperimentava nuove soluzioni tipologiche
riproponendo l’idea michelangiolesca per il San Lorenzo di Firenze nella fronte della chiesa di San
Luigi dei Francesi (1580-1584), mentre per quella di Sant’Atanasio dei Greci (1580-1583), sempre
a Roma, la novità della soluzione sta nella presenza dei due campanili giustappposti, che slanciano
verso l’alto tutta la facciata. A sua volta, Martino Longhi il Vecchio iniziava la realizzazione della
chiesa dei Filippini di Santa Maria in Vallicella (1575) e il completamento del palazzo Altemps
(1577-1579): una riproposizione senza novità, quest’ultimo, del modello sangallesco del palazzo
nobiliare, se non per alcuni dettagli dell’ordine architettonico della corte interna. Infine, dal contesto
degli architetti operanti a Roma emerge la figura del bolognese Ottavio Mascherino (1524-1606)
per la realizzazione del cosiddetto Casino gregoriano (1582-1585), che segnava l’avvio del palazzo
papale sul Quirinale, proprio all’inizio della via Pia: un nuovo edificio, sulle preesistenze della villa
del cardinale Ippolito d’Este, molto elegante e mediato dalla tipologia della Farnesina Chigi. Alcuni
anni più tardi (1591) nell’impianto della chiesa di San Salvatore in Lauro, lo stesso architetto
realizzerà un’altra novità assoluta per l’ambiente romano: in questo caso l’uso delle colonne, del
tutto distaccate dalla parete, che sorreggono arconi fortemente ribassati, a scandire l’unica navata
con cappelle laterali. Un motivo anche questo non del tutto nuovo per l’ambiente romano,
ritrovandosi già nel San Biagio di Montepulciano di Antonio da Sangallo il Vecchio e in alcuni
progetti di Antonio il Giovane, ma che potrebbe essere mediato anche da esempi dell’architettura
classica, come l’arco di Settimio Severo al Foro Romano.
Un’altra figura singolare è quella di Giacomo Del Duca 1520 ca. - 1601), autore di lavori a
Porta Pia, dopo la morte di Michelangelo, della chiesa di Santa Maria in Trivio (1573-1575) e del
completamento di Santa Maria di Loreto (1573-1577).
Alla fine del regno di Gregorio XIII, il nuovo pontefice Sisto V Peretti Montalto (1585-
1590) affrontava con decisione e portava a termine il completamento del grande disegno della
nuova Civitas Dei: un’operazione complessa, affidata alle grandi capacità organizzative di
Domenico Fontana, che investe tutta la città, costruita e non, in un rapporto di relazione per la
comune matrice della risignificazione con il signum crucis della nuova Roma, centro
dell’affermazione della Riforma cattolica. Il nuovo impianto urbano aveva a fondamento l’idea di
collegare la piazza del Popolo, con le basiliche di Santa Maria Maggiore e di San Giovanni in
Laterano per mezzo di una nuova strada rettilinea (la via Felice) e per l’esistente via Merulana:
anche se l’ultimo tratto verso la porta del Popolo non fu mai realizzato, si dava luogo in tal modo ad
una sorta di asse attrezzato che poteva raccordare le due grandi basiliche, oltre a quella di Santa
Croce in Gerusalemme, unendole attraverso un unico percorso, con il principale accesso da nord
alla città. Lungo questo tracciato, assolutamente rettilineo, convergevano anche tutte le più recenti
strade, urbane ed extraurbane, tracciate da Pio IV nell’arco nord-orientale, mentre l’attuale via
Amba Aradam, soltanto iniziata, avrebbe dovuto collegare la basilica di San Giovanni in Laterano
con quella di San Paolo fuori le Mura. Inoltre, con il rettilineo stradone di San Giovanni, si dava
inizio al collegamento della basilica lateranense con il San Pietro: questo doveva essere inteso, più
che una direttissima verso la Basilica vaticana, come un percorso che doveva ricongiungersi con la
via papalis e di lì, attraverso il ponte Elio, con il Borgo e il Vaticano. Con il compiersi degli
interventi sistini, attraverso il nuovo asse attrezzato orientale, tutte le strade radiali di Pio IV
tendono verso la piazza del Popolo e di lì, per il Tridente di Campo Marzio, la via di Tor di Nona, la
piazza di Ponte e al di là del Tevere verso il San Pietro. In questo senso l’innalzamento degli
obelischi di piazza del Popolo e di piazza San Pietro, posti volutamente l’uno in vista dell’altro,
assumono un significato molto preciso, rappresentando la concreta realizzazione di idee anche
lontane nel tempo: tutta la città, in ogni caso, era stata oramai, irrevocabilmente, indirizzata verso il
San Pietro. All’interno di questo contesto, il ruolo degli obelischi, veri e propri punti di fuga
all’infinito delle lunghissime strade rettilinee, resta quello di portare molto in alto il segno della
croce che li sormonta, così come le statue degli apostoli Pietro e Paolo, posti al di sopra delle due
antiche colonne coclidi, stanno a significare tanto i santi protettori di questa nuova Roma, che le
fondamenta stesse della Chiesa cattolica romana. Inoltre, nella realizzazione della forma urbana per
centri stellari, Sisto V non ha bisogno di realizzare nuovi edifici religiosi: erano già presenti le
basiliche antichissime, rappresentative di una grande tradizione religiosa, ciascuna delle quali
poteva assumere il ruolo di un vero e proprio polo di irraggiamento. È in funzione di questo
complesso disegno della forma urbana, che vanno riguardate le stesse architetture di Domenico
Fontana, molto semplici e quasi povere, se isolate dal proprio contesto, ma che acquistano una ben
diversa forza, considerate quali quinte o fondali dei nuovi lunghissimi tracciati viari rettilinei. In tal
senso possono essere interpretate come partecipi di scenografie urbane più complesse: tali vanno
considerate tutte le opere di Domenico Fontana, in quanto finalizzate a questo scopo. Così la mostra
dell’Acqua Felice (1587) al lato della via Pia, vera e propria invenzione tipologica che riutilizza lo
schema dell’arco di trionfo, mentre la Loggia delle Benedizioni a San Giovanni in Laterano e il
nuovo Patriarchio Lateranense vanno riguardati come elementi che articolano la dinamica di uno
spazio urbano non più statico: la stessa ripetizione del modello sangallesco del palazzo nobiliare, in
questo caso, si trasfigura per la diversa organizzazione delle fronti che si irraggiano dall’asse
dell’obelisco lateranense, dando luogo a uno spazio urbano totalmente nuovo. La frenetica attività
edilizia del pontefice e del suo architetto, che aveva avuto inizio con la realizzazione della sua villa
cardinalizia all’Esquilino (1570) e poi con quella della cappella Sistina a Santa Maria Maggiore
(1584-1587), a croce greca, vedeva anche il compiersi della nuova sede della Biblioteca Apostolica
Vaticana (1587-1590), oltre al termine della cupola della basilica di San Pietro (insieme con
Giacomo della Porta, 1587-1590): trasversalmente al cortile del Belvedere, l’edificio della
Biblioteca segnava la fine dei valori prospettici del grandioso cortile interno voluto da Giulio II,
mentre la cupola veniva voltata a sesto rialzato, ben diversamente da come era stata pensata da
Michelangelo. Certamente un insieme imponente di opere, realizzate tutte durante i soli cinque anni
di regno di Sisto V, cui si accompagnano i tracciati viari e l’innalzamento degli obelischi definendo
un modo completamente nuovo di concepire la città e la dinamica dei suoi spazi urbani: un
momento, questo, della cultura architettonica romana molto importante non soltanto per il futuro
della stessa città, ma anche quale premessa indispensabile di ogni successiva ricerca figurativa.
Certamente in controtendenza sono, di questi anni, le altre opere di Martino Longhi il Vecchio
come la chiesa di San Girolamo degli Schiavoni (1587-1589) e il palazzo poi Borghese (1590),
ambedue per il cardinale Dezza camerlengo di Sisto V: anche se queste opere erano nate all’interno
della curia pontificia, la loro grammatica architettonica risulta molto linearistica e semplificata,
elegante, pur non presentando alcuna innovazione tipologica, né un diverso rapporto con lo spazio
urbano.
Il successivo pontefice, Clemente VIII Aldobrandini (1592-1604), messo da parte
Domenico Fontana, affidava a Giacomo della Porta la direzione dei cantieri più importanti, che
l’architetto porterà avanti sino alla sua morte: in questo momento, tuttavia, la novità dell’ambiente
culturale romano era rappresentata dalla presenza nella città di Francesco Capriani da Volterra
(1536-1594), che aveva preceduto la venuta dei lombardi Lorenzo Binago (dal 1593 al 1596) e
Francesco Maria Richino (sino al 1603), certamente arrivati per conoscere, ma anche divulgatori
delle esperienze milanesi. Inoltre, il Volterra rappresentava un ulteriore contatto indiretto con
l’ambiente culturale borromeano per la sua precedente attività presso i Gonzaga a Mantova e
Guastalla: la sua opera, non vastissima, deve essere considerata nodale rispetto a tutto ciò che
doveva ancora accadere a Roma e anche a Milano. Nella chiesa romana di Santa Maria in Aquiro
(1590), malgrado la soluzione planimetrica tradizionale, la distinzione tra l’aula per i fedeli e la
zona transetto-presbiterio viene risolta dall’articolazione volumetrica prodotta dalla maggiore
altezza della navata rispetto agli arconi della cupola: in tal modo, lo spazio interno risulta diviso in
due parti ben distinte e assemblate tra loro, che anticipava la soluzione della “prolunga” del San
Pietro. Ancora più notevole è la scelta per la chiesa di San Giacomo degli Incurabili (1592), nella
quale il tema dell’unica navata con cappelle laterali veniva risolto con un impianto centrale ellittico,
disposto nella direzione longitudinale: a questo è sovrapposto un secondo impianto centrale, a croce
greca dai bracci diseguali, che risolve tanto l’approfondimento del presbiterio, che la dilatazione del
suo asse trasverso. Una tipologia, questa, certamente innovativa, dalla copertura a cupola ovata su
tamburo, intersecato dall’arcone del presbiterio posto al di sopra della cornice dell’ordine
architettonico che riquadra gli archi delle cappelle. In sostanza, una soluzione molto complessa che
apre alla progettazione degli spazi per il culto attraverso l’uso di geometrie meno convenzionali.
Infine, sempre di questi anni è l’altra chiesa romana di San Silvestro in Capite (1591-1594), la cui
aula unica con cappelle laterali, preceduta da un endonartece, si conclude nella crociera coperta da
una cupola ovale su pennacchi sferici, disposta trasversalmente verso i bracci del transetto. A queste
opere religiose si accompagna la prima parte del palazzo Lancellotti (1591-1594), lungo la via dei
Coronari, le cui fronti mostrano chiaramente una ricerca identica a quella già sperimentata nel
palazzo Lateranense dal Fontana. In questo contesto, non fu certamente un caso, se tutte queste
opere, lasciate incompiute dal Volterra, furono completate da Carlo Maderno (1536-1620), nativo di
Capolago nel Canton Ticino e nipote del Fontana: insieme a Flaminio Ponzio (a Roma dal 1596),
tra i primi architetti di origine lombarda attivi nell’ambiente romano e che avevano potuto
conoscere e studiare le esperienze architettoniche prodotte a Milano. Già nel 1595, Carlo Maderno
realizzava la cappella Salviati a San Gregorio al Celio, a pianta quadrata e coperta da una volta a
vela su colonne libere angolari, preceduta da un vano rettangolare non in asse: la novità della
soluzione è evidente, tanto per l’assemblaggio di due organismi diversi, che per l’adozione delle
colonne libere su cui imposta la copertura a vela. Maderno, in tal modo, legava insieme la cultura
lombarda di matrice tibaldesca con lo sperimentalismo dell’ambiente romano di Francesco da
Volterra. Un identico tipo di ricerca viene proposto per la soluzione della fronte della chiesa di
Santa Susanna (1602) nella quale, pur rielaborando il modello del Gesù, prevale una forte
articolazione volumetrica dal centro verso l’esterno, con le superfici scavate da nicchie di diversa
profondità, dagli ordini sovrapposti su colonne libere, e dal timpano sormontato da una balaustra a
definire il confine con il cielo: una novità assoluta, emergenza rappresentativa rispetto alla strada su
cui prospetta, certamente influenzata dai precedenti tibaldeschi delle facciate del San Fedele a
Milano e del Santuario di Saronno. Infine, durante questi stessi anni, un altro architetto lombardo, il
milanese Onorio Longhi (1569-1619), ricostruiva (prima del 1603) gli spazi presbiteriali delle
antiche chiese medievali di Sant’Eusebio e San Francesco a Ripa: in tal modo, ad essere proposta è
una diversa spazialità, prodotta dalla contrapposizione tra l’impianto preesistente e la nuova
terminazione, sempre molto approfondita e coperta a volta. Questi due esempi confermano come a
Roma fosse allora in corso una sperimentazione certamente avanzata tendente alla ricerca di nuovi
organismi religiosi, portata avanti quasi esclusivamente da architetti lombardi.
Questo tipo di proposte per gli spazi sacri trova un preciso momento di conferma, a
Milano, con la realizzazione della chiesa di Sant’Alessandro (dopo il 1601) di Lorenzo Binago
(1554-1629) e con quella della chiesa di San Giuseppe (1607-1612) di Francesco Maria Richino
(1584-1658): ambedue progettate dopo il ritorno da Roma dei due architetti a Milano dopo aver
potuto certamente conoscere le architetture di Francesco da Volterra e l’inizio dell’attività di Carlo
Maderno. Ben al di là del rispettivo linguaggio architettonico che le caratterizza, queste due opere
rappresentano l’affermazione di un nuovo tipo edilizio religioso a pianta longitudinale, ottenuto
attraverso l’assemblaggio di due impianti centrali in successione: il Sant’Alessandro per la sua
pianta centrale di cui è accentuato l’asse longitudinale, mentre il San Giuseppe per la soluzione
derivata da due piante centrali giustapposte. In ogni caso, queste opere rappresentano certamente
una ripresa dei temi tibaldeschi del San Fedele a Milano e del tempio a Riva San Vitale, rivissuti e
approfonditi per l’esperienza romana dei due architetti lombardi. Tanto le realizzazioni romane che
quelle milanesi, altro non sono che esperienze consecutive che si diffonderanno ben presto per
l’intera penisola italiana: un esempio ne è il San Salvatore di Bologna, realizzato tra il 1613 e il
1623 da Giovanni Ambrogio Magenta (1565-1635), che ne rappresenta un’alternativa, ma non in
contraddizione. In ogni caso, tutte queste architetture debbono essere considerate come la
manifestazione di una chiara ricerca tipologica che, pur nella diversità dei linguaggi figurativi, può
essere intesa come una tendenza nella soluzione degli spazi interni degli edifici per il culto: questa
non può essere interpretata soltanto come una continuità con la tradizione lombarda, in specie
bramantesca, ma va riguardata nel contesto dei rapporti di reciproco scambio fra l’ambiente
culturale milanese e quello romano.
Questa relazione molto stretta diviene ancora più importante, a Roma, durante il
pontificato di Paolo V Borghese (1605-1621), durante il quale si affiancano al Maderno il milanese
Flaminio Ponzio (1560-1613) e Giovanni Vasanzio (1550-1621), proveniente da Utrech: questi tre
architetti saranno i maggiori artefici delle grandi imprese architettoniche di questo papa, molto
impegnato nella realizzazione di nuove grandi polarità urbane, tanto religiose (il completamento
della basilica di San Pietro innanzitutto), che rappresentative (il palazzo del Quirinale e quello della
sua famiglia), o di arredo scenografico della città (le grandi mostre dell’Acqua Paola). Il Maderno
iniziava, nel 1607, la prolunga del San Pietro demolendone le antiche navate e il quadriportico
antistante e occupandone tutta l’area. L’impostazione è molto chiara sin dalle prime proposte
progettuali e la ricerca tipologica per definire la forma della navata longitudinale viene subito
impostata disegnando uno spazio autonomo ben distinto dalla grande crociera già realizzata: una
forma planimetrica, in questo caso, che si presenta simile a una croce greca per la cappella centrale
più ampia rispetto alle altre due, scalari, poste ai lati. Questa ricerca spaziale è ancora rintracciabile
nella versione definitiva che oltretutto risolve la soluzione di continuità tra le due parti con la
maggiore altezza della volta della navata longitudinale rispetto a quella degli arconi della cupola.
Ancora una volta, l’architetto ticinese riproponeva la continuità della propria esperienza culturale
concludendo il nuovo San Pietro con il contrapporre tra di loro due spazi autonomi e ben distinti. A
sua volta, allorché venne impegnato nelle grandi imprese del pontefice Borghese, Flaminio Ponzio
portava avanti una ricerca, anche molto originale, derivata da quanto aveva visto e imparato nella
sua terra d’origine. Nel palazzo Borghese (1605-1607) ripropone la sovrapposizione di arcate su
colonne binate del tibaldesco Collegio di Pavia, dandone una interpretazione diversa e di ben altra
intensità, così come riutilizza il motivo delle cariatidi per la tomba di Paolo V nella Cappella
Paolina a Santa Maria Maggiore (1605-1611), nella quale replica l’impianto a croce greca della
Cappella Sistina di Domenico Fontana. Più evidenti sono le citazioni dal Tibaldi che il Ponzio,
insieme al Vasanzio, fa nella facciata e nell’atrio della basilica di San Sebastiano fuori le mura
(1609-1613) che hanno un loro preciso riferimento nel progetto per la chiesa di Caravaggio, da cui è
ripreso il motivo dell’arco su colonne binate al quale, tuttavia, i due architetti sovrappongono un
secondo ordine, evidentemente tratto dalle tipologie delle facciate dei palazzi, sormontato da un
timpano: anche all’interno di questa chiesa si ritrovano precisi ricordi lombardi, per le cappelle
molto poco approfondite dell’unica navata, se non contratte. In ogni caso, si tratta di riferimenti
presi a prestito dai due progettisti, ma rifusi in un contesto del tutto nuovo anche se manifestazione
di un gusto che a Roma non trovava precedenti. Il completamento del palazzo del Quirinale (1607-
1617) costituisce un episodio del tutto diverso nell’opera del Ponzio, in quanto andava a
rappresentare la definizione di una precisa antipolarità nella città precedentemente già rivolta verso
il San Pietro: i dieci anni di intenso lavoro del cantiere porteranno al completamento del palazzo e
alla definizione della grande piazza antistante. Il nuovo progetto del palazzo del Quirinale è molto
diverso rispetto al precedente sistino, che si era inserito tra le preesistenze della villa d’Este e nel
rispetto del Casino gregoriano immediatamente precedente: il Ponzio, al contrario, vuole rendere
unitario il grande organismo architettonico per ottenere un’immagine complessiva forte, raggiunta
con il “riquadramento” dell’angolo con la strada Pia (via XX Settembre), realizzando il corpo di
fabbrica della Cappella Paolina e quello degli alloggi degli Svizzeri. È evidente come, in questo
caso, malgrado la preziosità di tante soluzioni architettoniche, in specie nella Cappella Paolina, a
prevalere è il ruolo del palazzo nella città e la rappresentazione del suo spazio circostante, da
riguardarsi nell’ambito di un contesto di esperienze che andavano ridefinendo il volto delle strade e
delle piazze romane. All’interno di questo stesso discorso debbono essere ricondotte le mostre
d’acqua realizzate dal Vasanzio insieme a Giovanni Fontana. Tra la prima, quella dell’Acqua Paola
al Gianicolo, e la seconda, posta a fondale della via Giulia, esiste un rapporto di sequenza spaziale
che doveva essere realizzato con una strada rettilinea in forte pendenza dal colle alla città:
tipologicamente legate al precedente sistino della mostra dell’Acqua Felice, presentano comunque
notevoli novità per l’uso delle colonne a tutto tondo e delle cariatidi ai lati dell’iscrizione
dedicatoria nell’attico. In ogni caso, ancora una volta l’interesse maggiore sta nella volontà di creare
un grande itinerario scenografico, collegato al di qua e al di là del Tevere attraverso ponte Sisto,
ornato da fontane ricche di giochi d’acqua: anche se questo disegno non fu portato a termine, a
mettersi in evidenza è la capacità di creare un percorso a grande scala, tale da proporsi come una
sequenza di eventi clamorosi all’interno dello spazio urbano. Tutto ciò può essere considerato come
un’anticipazione di quanto molto più tardi doveva accadere.
Se pure il lungo e reciproco rapporto di scambio tra Roma e la Lombardia caratterizza
l’asse portante dello sviluppo della cultura architettonica italiana, nelle altre regioni esistono
comunque esperienze diverse di grande interesse, spesso riconducibili alla trasformazione
istituzionale dei singoli stati. Nell’ambiente fiorentino del granducato mediceo di Toscana, dopo
l’attiva presenza del Vasari e dell’Ammannati, emerge la figura di Bernardo Buontalenti (1536-
1608), architetto militare, scenografo, inventore di automi, di fontane e giochi d’acqua. Autore di
numerose opere a Firenze, tra cui il palazzo “Nonfinito”, la facciata di Santa Trinita (1592-1594) e
il Forte Belvedere (1590-1595), è soprattutto noto per le sue grandi sistemazioni dei giardini delle
ville medicee: quello della Villa di Pratolino (1569-1575) e quello più famoso di Boboli (dal 1583).
In quest’ultimo realizza alcune notevoli grotte artificiali, una architettura naturalistica dalla grande
forza espressiva, tra cui deve essere ricordata la cosiddetta “Grotta Grande” (1583-1593) all’interno
della quale pose i quattro prigioni michelangioleschi. Allievo del Buontalenti fu Ludovico Cardi da
Cigoli (1559-1613), attivo dal 1579, collaborò con il maestro nel cortile del palazzo “Nonfinito”:
pittore, architetto, scenografo e trattatista, a Firenze fu molto amico di Galileo Galilei con il quale
scambiò un importante carteggio. Trasferitosi a Roma nel 1604, deve essere ricordato per un
progetto per la facciata della basilica di San Pietro (1607), redatto in gara con il Maderno e con altri,
con il quale dimostrava di poter essere un alternativa molto valida al gusto prevalente romano-
lombardo dell’ambiente culturale del pontificato Borghese.
Nell’Italia del nord, in Piemonte, il ritorno vittorioso di Emanuele Filiberto di Savoia dalla
battaglia di San Quintino nel 1563 segnava l’avvio alla trasformazione di Torino, iniziando i lavori
per la costruzione della cittadella (1564-1566), ove il nuovo duca aveva spostato la capitale dei
domini della sua casata da Chambéry. A questa iniziativa seguì, più tardi, l’incarico affidato da
Carlo Emanuele I ad Ascanio Vittozzi (1539-1615) nel 1584 di disegnare una piazza porticata
avanti al castello (lavori dal 1608), cui fece seguito il tracciamento della rettilinea via Nuova (via
Roma) e della piazza Reale (piazza San Carlo) nel 1615: spazi urbani tutti, questi, che
rappresentano una precisa novità per la contemporanea definizione tanto dei loro tracciati, che dei
tipi edilizi relativi, sempre progettati dallo stesso architetto. Il Vittozzi, che sarà impegnato in
numerose opere militari nel ducato di Savoia, fu anche autore di alcune architetture religiose per la
nuova Torino: la chiesa della Santissima Trinità (progetto 1590; apertura al culto 1606; terminata
nel 1661), quella del Corpus Domini (1607) e Santa Maria al Monte per i cappuccini, che richiama
l’impianto di Santa Maria della Consolazione a Todi con il prolungamento del braccio maggiore
della croce. Della chiesa della Santissima Trinità, al Vittozzi deve essere attribuito esclusivamente
l’impianto planimetrico, in quanto fu terminata molto più tardi e con intervento di diversi architetti:
una pianta circolare, le cui pareti sono articolate da vani disposti in corrispondenza dei vertici di un
triangolo equilatero di evidente significato simbolico. Più tradizionali si presentano le soluzioni
adottate nella chiesa del Corpus Domini, a navata unica e coperta da una volta a botte lunettata, con
tre cappelle per lato, di cui quella centrale più larga, con un coro molto approfondito: forse una
memoria della prolunga maderniana della basilica di San Pietro, cui si aggiunge la copertura
ellittica del presbiterio rettangolare. Certamente, con tutti questi interventi, Ascanio Vittozzi
impostava il futuro sviluppo della città di Torino, indicandone il metodo e aprendo anche la strada
ad uno sperimentalismo architettonico di grande interesse. A Venezia, al contrario, dopo le
strepitose novità di Andrea Palladio, tutta la ricerca architettonica veniva risolta con l’applicazione
di un classicismo rigido e manierato, derivato dalla immediata assunzione delle opere del grande
maestro come modelli formali. D’altronde, nell’immutato perdurare delle strutture politiche ed
economico-sociali dell’ormai antichissima repubblica, le architetture palladiane apparivano
certamente come la manifestazione più evidente della nobiltà del suo ceto dirigente. In questo
ambiente, il personaggio più notevole è senz’altro Vincenzo Scamozzi (1552-1616), la cui opera più
importante è, sulla piazza San Marco a Venezia, l’edificio delle Procuratie Nuove (1583-1593), nel
quale propone una ripresa molto raggelata di alcuni motivi della fronte sansoviniana della biblioteca
marciana: architetto molto operoso, realizzò tra l’altro le scene prospettiche per il teatro Olimpico di
Vicenza (1584), il teatro di Sabbioneta (1588) e il palazzo Contarini degli Scrigni a Venezia (1609).
La sua maggiore importanza, tuttavia, sta nel trattato “Dell’Idea dell’Architettura Universale”
(1615), che molto servirà alla diffusione del palladianesimo in Europa e soprattutto nei paesi
anglosassoni: codificando ancora una volta il linguaggio classico, sembrava chiudere qualcosa che
oramai era già trascorso, piuttosto che aprire nuove strade alla ricerca architettonica. In tal modo,
tanto con le sue architetture, che con i suo scritti, lo Scamozzi chiudeva la strada a quanto di nuovo
si andava preparando nel resto d’Italia e da cui la Repubblica Veneta sarà pressoché assente.
Fuori d’Italia, in Europa, l’affermazione dell’architettura del linguaggio classico procede
molto gradualmente e in modo diverso in ciascun paese: la Francia prima e successivamente
l’Inghilterra sono all’avanguardia in questa fase del processo di trasformazione della cultura
architettonica europea, mentre nelle altre nazioni gli stilemi del linguaggio classicista sembrano
essere accettati soltanto al livello decorativo. Nella seconda metà del secolo sedicesimo, in Francia,
avviandosi alla conclusione l’attività di Philibert Delorme, Jean Bullant (1510-1578) con il suo
trattato “Règle générale d’architecture des cinq manières de colonnes” (1674 postumo) testimonia
ulteriormente del grande interesse della cultura francese nell’approfondire le nuove tematiche
architettoniche, consolidando l’affermazione in atto del linguaggio classico. Al contrario, le sue
opere più importanti, il castello di Ecouen e il padiglione per il Connestabile Montmorency,
manifestano maggiormente l’impronta di un classicismo soltanto citazionista. Molto più
interessante è la figura di Jacques Androuet Du Cerceau (1510/1512-1585c.), il cui contributo più
importante è senz’altro il trattato dal titolo “Les plus excellents bastiments de France” (1576-1579):
una ricerca utopistica e immaginaria tendente a presentare nuove tipologie edilizie, come quella di
un castello a pianta pentagonale, per andare oltre i modelli della tradizione classicista. Tra i suoi
progetti più importanti, quello per il castello di Verneuil (dal 1568), che riprende le utopie del suo
trattato, ma con l’uso di un repertorio classicista citato in un contesto privo di riferimenti per
superarne la rigidità: altrettanto aveva fatto nel castello di Charleval (dal 1583) cercando sempre il
superamento del linguaggio classico senza mai negarne la continuità. Una ricerca costante, questa,
che riproporrà anche nel secondo progetto per il castello di Verneuil (1596). In sostanza, anche
durante il secondo cinquantennio del sedicesimo secolo, ma anche più oltre, la cultura architettonica
francese rimarrà sempre coerente alle regole del classicismo, definite precedentemente dalle opere e
soprattutto dal trattato di Philibert Delorme.
In Inghilterra, al contrario, l’arrivo del linguaggio figurativo e delle ricerche
dell’architettura italiana avviene molto più tardi, agli inizi del XVII secolo, restando subito
influenzato dall’opera di Palladio e dei suoi continuatori nella Repubblica Veneta. Ad operare
questa mediazione è Inigo Jones (1573-1652), prima pittore e poi architetto, che aveva potuto
conoscere l’Italia e Venezia durante due successivi viaggi nel 1600 e dopo il 1611: al tempo della
seconda visita in Italia conobbe certamente lo Scamozzi, del cui trattato entrò in possesso nel 1617.
La sua conoscenza dell’opera del Palladio è testimoniata, inoltre, da una copia del trattato annotata
di suo pugno, ma egli doveva aver anche studiato gli scritti del Serlio e del Labacco. Dopo aver
esordito come pittore nel 1605 la sua attività di architetto non iniziò prima del 1613: dal 1615
diveniva sovrintendente delle fabbriche reali e le sue prime opere sono la Queen’s House (1616) e
la Banqueting House a Whitehall (1619-1622), in cui venne usato per la prima volta un ordine
classicista in Inghilterra. Mentre l’impostazione della Queen’s House a Greenwich deve essere fatta
riferire al modello della villa medicea di Poggio a Caiano di Giuliano da Sangallo, nella Banqueting
House Inigo Jones studia un’applicazione della forma della basilica palladiana come organizzazione
dello spazio interno: la fronte, al contrario, è risolta tutta a bugnato, a cui è sovrapposto un ordine
architettonico assai rigido. Questo stesso rapporto stretto con i motivi dell’architettura veneta lo si
ritrova anche nelle sue opere successive e molto più tarde: la Queen’s Chapel nel Palazzo di San
Giacomo (1623-1627), la piazza del Covent Garden a Londra (1631-1635) e la Lindsay House
(1640). Tra queste la piazza del Covent Garden rappresenta il primo esempio londinese di
sistemazione urbanistica a tracciato regolare, mentre la fronte della Lindsay House, dal basamento
bugnato e sormontato da un ordine gigante che raccoglie i piani superiori, definisce un modello
canonico, destinato ad essere molto ripetuto in futuro. In tal modo, l’Inghilterra post-elisabettiana di
Giacomo I Stuart (1603-1625) assumeva sin da quel momento i modelli palladiani come un
riferimento preciso per indirizzare la ricerca di tutta la sua futura produzione architettonica: un
omaggio a Venezia forse non casuale, se si pensa alla contemporanea contesa di Paolo V, tanto con
la Repubblica Veneta che con il sovrano inglese, il quale aveva imposto ai cattolici il giuramento di
fedeltà al Re (1606). Può essere stato anche questo un modo, per i due paesi, di riconoscere una
reciproca similitudine, che andava ad aggiungersi alle già provate qualità marinare e mercantili.
Gli inizi della guerra dei Trent’anni (1618-1648) segnano un preciso termine di riferimento
nella storia europea: anche registrando i contrasti con l’Inghilterra e soprattutto con Venezia, il
pontificato di Paolo V si chiudeva con il consolidamento definitivo della Riforma cattolica. Gli
stessi architetti del pontefice, il Maderno, il Ponzio e il Vasanzio, andando oltre la ricerca della
seconda metà del XVI secolo, avevano aperto strade nuove, tutte ancora da percorrere. In questo
senso, la conclusione del cantiere della Basilica petriana, con la prolunga e la facciata maderniana,
può essere riguardata come un segno perentorio dell’affermazione della Chiesa uscita dal Concilio
di Trento: il dibattito tanto culturale, che religioso, durato più di un secolo, era stato chiuso dal
decisionismo di Paolo V, che aveva portato a termine senza indugi la grande operazione, decisa
ormai da tempo, che era stata presa anche a pretesto per gli inizi della Riforma luterana. Prima del
lungo scontro armato tra cattolici e protestanti nei paesi germanici si era già manifestata una larga
autonomia nell’evoluzione della cultura architettonica nei singoli stati nei confronti del
protagonismo di quella lombardo-romana. In Italia, tanto nel granducato mediceo di Toscana, che
nel Piemonte del duca Carlo Emanuele I di Savoia, si sperimentano percorsi paralleli a quelli degli
architetti pontifici, mentre Venezia si rinchiude, per il contrasto con Roma, nel classicismo del
palladianesimo. In Francia, superate le importanti traversie dinastiche, con l’ascesa al trono di
Enrico IV della casata dei Borbone, duchi di Navarra, nulla si opponeva all’affermazione del
linguaggio classico, mentre nell’Inghilterra degli Stuart il palladianesimo diveniva una sorta di
grammatica laica per una forma di governo ostile a Roma e al suo pontefice. La grande diffusione
dei Gesuiti e delle loro chiese in tutta Europa, sul modello di quella del Gesù, così come quelle
degli altri ordini religiosi protagonisti della Riforma cattolica, rappresentano un altro strumento di
diffusione di quanto si era andato elaborando a Roma, che resta il principale centro di riferimento
per tutta la cultura architettonica europea. Un primato, questo, destinato a durare ancora a lungo
anche nel secolo successivo ed oltre, pur nelle mutate condizioni politiche dell’Europa e nella
sempre più importante presenza delle altre grandi capitali.
 
Dal trionfo della Riforma cattolica all’inizio della pubblicazione dell’Encyclopédie

(1618-1751)

La guerra dei Trent’anni, tanto devastante per l’Europa centrale e per gran parte dei Paesi
germanici, era terminata con la pace di Vestfalia, nel 1648, che poneva fine alla contesa tra la
Francia e l’Impero risolvendo ogni questione religiosa con la formula cuius regio eius religio.
Un’intesa, questa (cui avevano partecipato anche l’Inghilterra, la Russia e la Polonia), che portava
all’Europa una certa tranquillità politica e religiosa, mentre la controversia tra francesi e spagnoli
non sarebbe terminata che nel 1659 con la pace dei Pirenei. Durante i lunghi anni della guerra, la
penisola italiana non era stata toccata dagli eventi bellici, se non marginalmente. All’inizio, nel
1620, la questione della Valtellina, appartenente al cantone svizzero protestante dei Grigioni,
territorio di passaggio per il collegamento tra l’esercito spagnolo e quello austriaco, si risolveva nel
1626 con il trattato di Monçon tra Francia e Spagna che garantiva alla popolazione la professione
della fede cattolica. Subito dopo (1627) si apriva la successione al ducato dei Gonzaga di Mantova,
rivendicata dal ramo collaterale francese dei Gonzaga di Nevers: il trattato di Cherasco (1631)
metterà fine anche a questa contesa assegnando il ducato a Carlo di Nevers, favorevole alla Francia.
Tra gli stati italiani soltanto il ducato di Savoia si era schierato a fianco della Francia, alla ricerca di
ingrandimenti territoriali nel Monserrato, mentre Venezia manteneva la sua tradizionale neutralità,
il ducato di Modena propendeva per la Spagna e il granduca di Toscana cercava di indurre il papa
ad una lega tutta italiana. Tutti erano restati in qualche modo al di fuori della guerra e in particolar
modo lo Stato della Chiesa, timoroso di una maggiore influenza spagnola in Italia, durante i
pontificati di Gregorio XV (1621-1623) e Urbano VIII (1623-1644). In particolare, durante la crisi
della Valtellina, il pontefice era stato fatto garante tra le parti e Gregorio XV aveva inviato le
proprie truppe a presidiare le fortificazioni della zona. Malgrado la sua breve durata, l’importanza di
questo pontificato fu notevole, come momento conclusivo della definitiva affermazione della
Riforma Cattolica, da cui avrebbe avuto inizio un’azione di esaltazione e rilancio di tutti i suoi
valori: tra i protagonisti più importanti, venivano canonizzati Ignazio da Loyola, Teresa d’Avila,
Filippo Neri e Francesco Saverio, mentre nel 1622 veniva fondata la congregazione “De
Propaganda Fide”. Questo indirizzo tutto religioso venne portato avanti energicamente anche
durante il successivo pontificato di Urbano VIII Barberini, durante il quale si ebbe la decisa
condanna del giansenismo e venne celebrato il secondo processo contro Galileo Galilei: un periodo
molto buio di governo della Chiesa, anche viziato da un certo nepotismo, durante il quale venne
ricucito lo strappo con Venezia e mantenuta la neutralità dello Stato pontificio rispetto al conflitto
europeo. In tal modo, mentre tutta l’Europa era percorsa dalla guerra e le risorse degli stati
impegnate nelle imprese militari, i pontefici romani erano in grado di promuovere l’esaltazione
della fede cattolica, a Roma soprattutto, anche attraverso la realizzazione di grandi opere
architettoniche e di nuovi spazi urbani, promossi quali manifestazioni concrete di un preciso
programma propagandistico.
Con l'ascesa al soglio pontificio di Urbano VIII (1623), la città di Roma manteneva il suo
ruolo di capitale della cultura architettonica europea, divenendo il luogo di grandiose realizzazioni e
di sempre nuove sperimentazioni figurative, volte all’esaltazione della vittoria del cattolicesimo
sulla riforma protestante. Questo primato intellettuale durerà per tutto il XVII secolo e la prima
metà del XVIII, anche se, in Europa, il rinnovamento delle capitali di Francia e Inghilterra, dopo il
1660, darà a queste città una propria autonomia nelle scelte figurative. Sino a quel momento,
tuttavia, il ruolo di avanguardia che Roma aveva sempre avuto dall’inizio del Cinquecento rimaneva
inalterato, perdurando tutto ciò almeno sino alla metà del Settecento, nonostante il percorso
autonomo e di grande rilevanza delle due nuove capitali. Durate il precedente pontificato di Paolo V
Borghese (1602-1621), Roma aveva visto giungere a compimento il grande disegno della sua rete
viaria tanto all'interno, che immediatamente all'esterno delle mura Aureliane: un insieme organico
alla funzione della città come centro del cattolicesimo, in quanto luogo della sede apostolica, in
qualche modo definitivo, almeno sino alla fine del potere temporale (1870). In tal modo, una volta
definita nella sua interezza la struttura urbana, l'intervento architettonico veniva rivolto, quasi
esclusivamente, al rinnovamento di alcuni suoi spazi urbani e alla creazione di nuovi. Risultati,
questi, ottenuti in vario modo: con la realizzazione di un solo edificio (San Carlino all'incrocio delle
Quattro Fontane), con il disegno di una facciata molto ricca e articolata (Santa Maria della Pace),
così come con soluzioni grandiose (piazza San Pietro).
Un'altra costante importante per la città era rappresentata dalla permanenza della cultura
architettonica degli ultimi decenni del XVI secolo che, da Vignola a Domenico Fontana e a
Giacomo Della Porta, aveva riproposto le tipologie sangallesche della chiesa e del palazzo nobiliare
come base di un linguaggio comune a tutta la città, capace di durare sino al XIX secolo. Una ricerca
che non aveva tenuto conto del processo innovativo iniziato da Carlo Maderno, Flaminio Ponzio e
Giovanni Vasanzio. Tra questi ultimi, infatti, e i grandi maestri che operarono a Roma durante il
XVII secolo deve essere riconosciuta una generazione di mezzo, di cui fanno parte Girolamo
Rainaldi (1570-1655, Casa professa dei Gesuiti 1600-1620), Rosato Rosati (1560-1622, San Carlo
ai Catinari 1610-1620), Giovanni Battista Soria (1581-1651, San Crisogono, facciata 1620-1626),
Paolo Marucelli (1594-1649, interno di San Nicola dei Lorenesi 1620), Mario Arconio (1575-1635)
e Francesco Peparelli (?- dopo il 1645, palazzo Del Bufalo Ferraioli 1627-1645). Tutti costoro
esprimono, con le loro opere, l'alto livello raggiunto dalla produzione professionale di quel
momento definendo un preciso contesto di riferimento nella città rispetto al quale deve anche essere
valutata l'operazione di rinnovamento portata avanti da Gian Lorenzo Bernini (1598-1680),
Francesco Borromini (1599-1667) e Pietro Berrettini da Cortona (1596-1669). Quasi tutte le opere
dei tre grandi maestri verranno realizzate durante i pontificati di Urbano VIII, Innocenzo X
Pamphili (1644-1655) e Alessandro VII Chigi (1655-1667): poco più di un quarantennio, ma molto
intenso, lungo il quale vennero avanzate proposte non soltanto diverse, ma anche profondamente
alternative fra loro.
L’avvio dell’attività di architetto di Gian Lorenzo Bernini, già attivo come scultore dal
1615, coincide con l’inizio del lungo pontificato di Urbano VIII: del 1624 sono tanto la facciata
della chiesa di Santa Bibiana (terminata nel 1626) che il baldacchino nella basilica di San Pietro.
Senza grandi innovazioni, la tipologia della fronte dell’antico edificio religioso, a portico con un
piano soprastante, ripropone quelle della fontaniana Scala Santa e del San Sebastiano sulla via
Appia di Flaminio Ponzio: un modello sottolineato in questo caso dall’avanzamento del corpo
centrale, che accentua l’asse di simmetria, ancor più evidente per la finestra superiore all’interno di
una nicchia e per il timpano al di sopra della cornice di coronamento. Una soluzione ancora in linea
con la tradizione più recente, ma ben lontana dal grado di novità assoluta presente nelle proposte
per il baldacchino petriano. Quest’opera segna, infatti, l’inizio di una svolta non soltanto del modo
di fare architettura, ma anche della sua utilizzazione come strumento per esaltare valori religiosi e
politici: un manifesto, in questo caso, per un’architettura voluta per celebrare trionfalmente il
primato del cattolicesimo. Questo obiettivo profondo non venne raggiunto immediatamente dal
Bernini, ma soltanto attraverso un processo di maturazione reso evidente dai tempi lunghi del
cantiere: nel 1630 erano state innalzate soltanto le quattro altissime colonne, mentre nel 1633
veniva ultimata l’opera con l’eccezionale soluzione della copertura. Questa appare tenuta in alto dai
tralci nelle mani degli angeli sulla sommità dei sostegni tortili, memoria dell’antica basilica
costantiniana: avviluppati da tralci di alloro, non sono uniti tra loro da una trabeazione ma soltanto
da una serie di drappi pendenti dall’alto. Una perfetta sintesi tra scultura e architettura che si
confronta con l’extra dimensione della basilica senza presentarsi statica al di sotto della grande
volta della cupola. Intanto, morto nel 1629 Carlo Maderno, Bernini era divenuto architetto della
fabbrica di San Pietro e aveva ereditato anche la direzione del cantiere di palazzo Barberini, già
iniziato dallo stesso maestro ticinese: durante questi lavori, che durarono per tutto il pontificato di
Urbano VIII, avrà vicino Francesco Borromini già attivo anche nel San Pietro per il baldacchino.
Nell’ambito di un contesto tipologico ben definito, appartengono al Bernini i due primi ordini della
fronte, il disegno dello scalone e della sua sequenza spaziale con il salone d’onore al piano nobile:
all’incirca di questo stesso periodo, la fine degli anni venti del XVII secolo, è la prima opera
importante di architettura di Pietro da Cortona, la villa del Pigneto Sacchetti: occasione, questa, per
manifestare subito la volontà di sperimentare ancora, ma con attenzione tutta filologica, i modelli
dell’antichità classica romana (il Tempio della Fortuna Primigenia a Palestrina) e del primo
Cinquecento bramantesco (il cortile del Belvedere in Vaticano). Articolazioni spaziali concavo-
convesse, insieme all’alternanza di assi longitudinali e trasversali, vengono proposte per risolvere
architetture di non grandi dimensioni, rese subito molto comprensibili, ma sempre all’interno di
contesti di grande immaginazione creativa. È questo il caso della chiesa dei Santi Luca e Martina
(1635-1650), progettata dal maestro dopo che, già famoso come pittore, era stato proclamato
principe dell’Accademia di San Luca nel 1634. Una tradizionale pianta a croce greca, coperta al
centro da una cupola su tamburo, rende subito evidente la natura di questo organismo, progettato
per rimanere isolato nel proprio contesto di riferimento: una soluzione classica che, tuttavia, si
arricchisce per le terminazioni absidali curvilinee di tutti i bracci e per l’accentuazione della
dimensione del suo asse longitudinale. Inoltre il biancore monocromatico delle pareti continue
interne, contrappuntate dalle colonne libere dell’ordine ionico, poste su un alto piedistallo e
affiancate da paraste, determina la dinamicità di uno spazio completamente avvolgente. In tal modo,
la voluta accettazione della pianta a croce greca non diviene una manifestazione di passività, ma il
punto di partenza per dare un nuovo esito ad uno schema tipologico ormai consolidato. Nella fronte,
dagli ordini sovrapposti ionico e composito, qualunque riferimento a modelli precedenti appare
inutile: senza alcun rapporto con lo spazio interno, la sua scenografica proposizione centrale
concavo-convessa, sormontata da un timpano curvilineo, viene inquadrata tra due quinte rettilinee,
sottolineate dagli ordini su paraste. Ancora il motivo concavo dell’esedra, che annulla ogni punto di
fuga prospettico, cui è sovrapposta una convessità che la ripropone in avanti, resta il riferimento
classicista, il fulcro delle composizioni cortonesche: una ricerca illusionistica che contrappone
sempre ad una visione diretta un'altra alternativa e opposta, per ottenere una programmazione di
alternanze nella fruizione-comprensione di ogni spazio architettonico. Infine, con l’inizio dei lavori
per il convento di San Carlo alle Quattro Fontane dell’ordine dei Trinitari, anche Francesco
Borromini iniziava la propria autonoma attività di architetto nel 1634, subito caratterizzata da un
preciso rifiuto di tutta la tradizione dell’architettura del linguaggio classico. Un’alternativa totale
rispetto alla poetica tanto berniniana che cortonesca: rinunciando anche ad ogni precedente regola
di definizione dello spazio, il Borromini propone la novità assoluta delle sue architetture, emergenti
dal contesto urbano circostante e articolate all’interno da soluzioni inedite. Diversità, tutte,
sorprendenti quanto uniche, caratterizzano una spazialità sempre dinamica che provoca una
partecipazione emotiva, certamente necessaria per comprenderla. All’interno del convento, il
chiostro è impostato su pianta rettangolare, dagli angoli smussati da linee convesse, e risolte da un
doppio ordine di colonne appaiate: rinunciando subito a qualunque codice classico, i capitelli dorici
si presentano senza abaco, mentre all’ordine superiore sono di forma ottagona. Successivamente,
per la chiesa annessa al convento (1638-41) il maestro proponeva un impianto centrale, dall’asse
longitudinale prevalente, definito da pareti verticali curve, regolate da una base di riferimento
costituita da due triangoli equilateri con un lato in comune, che coincide con il suo asse trasverso; in
questo caso, il capitello dell’ordine composito presenta l’inversione delle volute, mentre la cupola,
perfettamente ovale e prospetticamente cassettonata dai simboli dell’ordine trinitario, poggia sui
pennacchi sferici impostati ben al di là del piano verticale. In quel momento, questo organismo
architettonico non aveva certamente precedenti, essendo definito da geometrie nuove e presentando
un uso disinvolto e irriverente tanto delle strutture voltate che dell’ordine architettonico:
un’immagine spaziale molto coinvolgente anche per le caratteristiche inedite della sua figuratività.
Contemporaneamente ai progetti e ai lavori per i Trinitari, Borromini realizzava alcuni interventi
molto importanti in aggiunta, o a completamento, di architetture già esistenti: varie sistemazioni
all’interno del palazzo Spada, oltre alla Galleria prospettica (1635), il completamento dell’Oratorio
dei Filippini (1637-43) e l’ampliamento di palazzo Falconieri sulla Via Giulia (1639-1641).
È possibile che l’angustia del giardino del palazzo Spada a piazza Capodiferro abbia
suggerito al Borromini la scelta di un porticato prospettico per dilatarne lo spazio: un modello del
tardo Cinquecento, forse anche suggerito dalle scene palladiane del Teatro olimpico. Totalmente
nuova, al contrario, è la fronte dell’oratorio dei Filippini, quasi del tutto priva di relazione con lo
spazio interno, articolata nelle sue superfici concavo-convesse da elementi grammaticali molto
lontani dalla tradizione classica. Una soluzione in cui prevale il valore plastico della muratura,
esaltata dal paramento di mattoni in vista, verrà affiancata da due superfici piane di diversa
dimensione, una delle quali, quella di minore ampiezza, fa da soluzione di continuità con la fronte
della chiesa adiacente; l’altra presenta la soluzione d’angolo concava, una sorte di vera e propria
fronte, che sottolinea la prevalente visione diagonale dell’intero complesso architettonico. Una forte
attenzione all’angolo che si ripropone nella soluzione contrapposta, sulla via del Governo Vecchio,
con l’imponente torre angolare dell’orologio: in tal modo, tutto l’organismo architettonico non è
soltanto ricco di novità, ma anche molto importante per lo stesso architetto che lo illustrò nel suo
trattato Opus Architectonicum (edito, molto più tardi, soltanto nel 1725). Nell’ampliamento di
palazzo Falconieri, infine, Borromini usa nuove invenzioni inusitate tanto nell’ampliamento della
fronte sulla via Giulia, con le grandi erme terminanti con teste di falco, che nella facciata verso il
fiume: in questo caso i quattro livelli vengono risolti con un’altezza sempre maggiore verso l’alto,
da una successione di due ordini a fasce che precedono un ordine ionico e una sovrastante loggia
risolta da una serliana, ricordo evidente della basilica palladiana di Vicenza.
Durante il pontificato successivo di Innocenzo X Pamphili (1644-1655), mentre si
consolida la fortuna professionale di Francesco Borromini, divenuto anche architetto della famiglia
del papa, il Bernini e il Cortona rimarranno più in disparte: poche le opere del primo, tra le quali
prevale la scultura rispetto all’architettura, quasi inesistente l’attività dell’altro completamente
impegnato nella sua opera di pittore. La berniniana cappella Cornaro (1644-1650) più che ad
un’opera di architettura corrisponde alla soluzione di un altare nella testata del transetto della chiesa
romana di Santa Maria della Vittoria: la rappresentazione dell’estasi di Santa Teresa ne costituisce il
sorprendente epicentro, cui si contrappone la sorpresa dei membri della famiglia Cornaro affacciati
dai palchetti di un proscenio teatrale. Un vero e proprio esempio di teatro totale, di cui fa anche
parte l’osservatore, nel quale attori e spettatori sono partecipi di un’unica azione scenica. Al
contrario, la fontana dei Quattro Fiumi (1648-1651) posta avanti alla borrominiana facciata della
chiesa palatina dei Pamphili, Sant’Agnese (1652-1657), rappresenta senz’altro una concreta sintesi
tra scultura e architettura: l’alto obelisco, che segna il centro della piazza, si erge sorretto dalle
quattro figure in movimento che simboleggiano i fiumi, a loro volta emergenti dai giochi d’acqua
provenienti dalla grande vasca plurilobata. Un’altra rappresentazione fatta certamente per stupire
l’osservatore, nella quale la dinamicità delle acque e delle figure si contrappone alla rigidità
dell’elemento verticale prevalente. Nell’incompiuto palazzo Ludovisi (1650-1655), ora di
Montecitorio, sulla scelta berniniana di una facciata curva e convessa prevale quella del corpo
centrale avanzato: la prima volta nella fronte di un palazzo nobiliare, anche se coeva a quella di
palazzo Altieri di Giovanni Antonio De Rossi. D'altronde, la superficie ricurva della facciata era
stata forse suggerita dall’andamento delle preesistenze, anche se favoriva la sua visione dinamica
dalla piazza Colonna, resa ancor più evidente dalla plasticità dei bugnati rustici. I lunghi tempi del
cantiere borrominiano per la chiesa di Sant’Ivo alla Sapienza (1642-1662) fanno di quest’opera un
momento di grande sintesi figurativa nel processo evolutivo del maestro. Iniziata durante gli ultimi
anni del pontificato del Barberini, dal cui simbolo araldico dell’ape deriva la forma della pianta,
quasi terminata nel 1650 durante il regno del Pamphili, ne mostra la colomba dello stemma sul
globo conclusivo della spirale esterna, mentre evidenti motivi chigiani nella più tarda decorazione
interna ne testimoniano la conclusione al tempo di Alessandro VII. La matrice della forma
planimetrica centrale è data dall’intersezione tra due triangoli equilateri, i cui lati sono articolati
alternativamente da rientranze dalle pareti curvilinee concave e convesse che ne sottolineano la
longitudinalità: in sostanza, le pareti verticali definiscono una superficie continua e avvolgente sulla
quale, attraverso la mediazione di una cornice assai poco sporgente, s’imposta direttamente la
cupola. Questa, non estradossata, è risolta esternamente dalla sovrapposizione ad un tamburo
plurilobato convesso di una piramide gradonata con contrafforti e di un lanternino formato dalla
successione di coppie di colonnine poste avanti ad una superficie concava, sormontata a sua volta
da una spirale che si conclude nella gabbia metallica elicoidale che sorregge il globo con la croce.
Anche in questo caso si è di fronte ad una vera e propria invenzione senza precedenti, arricchita dal
significato simbolico di molte delle scelte figurative. Un altro esempio notevole di novità è il
campanile della chiesa di Sant’Andrea delle Fratte, realizzato nell’ambito dei lavori eseguiti dal
Borromini tra il 1653 e il 1665. Ancora una volta, la soluzione dell’elemento verticale è affidata alla
sovrapposizione di elementi diversi su tre ordini: una parte basamentale quadrata, tozza e massiccia,
con colonne angolari poste lungo le diagonali, cui è sovrapposto un colonnato periptero con un’alta
balaustra al di sopra della cornice. Il terzo ordine è formato da una serie di coppie di erme, in forma
di cherubini dalle ali chiuse, collegate tra loro da recessi concavi, posti a definire un insieme
contrapposto alla regolare circolarità della parte inferiore e che si conclude in volute invertite,
sostenenti una corona dalle punte aguzze: una ricerca voluta di complessità figurative, quasi una
provocazione per coinvolgere l’attenzione dell’osservatore. Questa precisa intenzionalità è sempre
presente nelle opere del maestro ticinese e anche nelle sue altre importanti realizzazioni di questi
anni, quelle più direttamente legate alla committenza del Pamphili: il restauro della basilica di San
Giovanni in Laterano (1646-1649) e il completamento della chiesa di Sant’Agnese a piazza Navona
(1653-1655). Realizzato per l’occasione dell’anno santo del 1650, l’intervento nella basilica
lateranense rappresenta l’incarico professionale di maggior prestigio ottenuto dal Borromini:
vincolato dalla necessità di mantenere la pianta basilicale e il soffitto piano della navata centrale,
l’operazione di consolidamento si risolve con grandi pilastri tra le arcate articolato da un ordine
gigante su paraste binate, tra le quali si apre una nicchia tabernacolo molto sporgente. In questo
contesto è senz’altro prevalente la ricchezza delle invenzioni delle decorazioni, tra le quali, nella
navata laterale, sono particolarmente rilevanti le ricomposizioni dei resti delle antiche tombe già
presenti in passato nella basilica. Iniziata da Carlo Rainaldi, con l’aiuto del padre, il completamento
della chiesa di Sant’Agnese viene affidato al Borromini per l’insoddisfazione del Pamphili nei
confronti dei primi progettisti. La pianta a croce greca, già impostata, viene coperta da una cupola
dal tamburo molto alto e dalla sezione fortemente ogivale, che esalta la verticalità dello spazio
interno: nella fronte, tra i due campanili, la superficie si fa concava accentuando l’incombere della
cupola e andando a definire nella piazza, insieme con la fontana dei Quattro Fiumi, la
contrapposizione del suo asse trasverso a quello longitudinale prevalente. Alla morte di Innocenzo
X, tuttavia, per contrasti con il principe Camillo, l’incarico fu tolto al Borromini e affidato ad una
commissione di architetti, tra cui il Rainaldi, che la portò a termine: la scomparsa del pontefice
segnava, in tal modo, anche la fine del periodo più fortunato della vita professionale di Francesco
Borromini.
Protagonista assoluto del pontificato di Alessandro VII Chigi (1655-1667) fu senza dubbio
Gianlorenzo Bernini: il pontefice, molto esperto in architettura, trovò in questo maestro il
personaggio capace di realizzare le sue grandi intuizioni a scala urbana, la piazza San Pietro e
quella del Popolo. Non un’idea di piano ma il disegno di due spazi polari: l’ingresso da nord alla
città (la piazza del Popolo) e la logica conclusione di ogni percorso urbano con la piazza di San
Pietro. Quest’ultima, inoltre, rappresentava anche la conclusione dell’ormai antico piano nicolino
per il Borgo e l’Urbe. Il programma iconologico della piazza ovata, con i due bracci porticati
semicircolari, è definito dallo stesso Bernini come il protendersi della Chiesa cattolica in un
abbraccio verso tutta l’umanità, dei credenti e non: uno spazio grandioso attorno all’obelisco
sistino, che ne costituisce il centro, ma molto dinamico per la molteplicità degli assi principali.
Innanzitutto quello longitudinale, individuato dalla guglia centrale, cui si contrappone la dilatazione
dell’asse trasverso, segnato ora dalle fontane, che ritorna verso il centro dal protendersi in avanti
degli avancorpi: memoria, quest’ultima, dei due antichi tracciati di arrivo a San Pietro dalla Porta
Cavalleggeri e dal viale Angelico. Tanto la grande dimensione dello spazio racchiuso, che
l’articolata ricchezza della sua complessità, dovevano apparire improvvisamente e di scorcio
all’osservatore giunto al termine di uno dei due borghi, aumentando nella sorpresa l’effetto
scenografico: una sintesi eccezionale ottenuta con elementi grammaticali molto semplici, come
l’ordine dorico del porticato sormontato da una balaustra e da statue a fare da confine con il cielo. I
tempi di progettazione della piazza furono abbastanza brevi e, dopo un anno, nell’agosto del 1657 si
iniziarono i lavori: Alessandro VII, tuttavia, non ne vide la fine essendo stato terminato, nell’anno
della sua morte, soltanto il braccio di sinistra. La progettazione della piazza del Popolo può dirsi
aver avuto inizio da un’idea dello stesso pontefice, nei primi mesi del 1657, insieme al
proponimento, di alcuni mesi più tardi, di prolungare la via del Babuino sino ad un progettato
portale d’ingresso al giardino del Quirinale, mai più realizzato in seguito: dall’accesso da nord alla
città, attraverso il tridente di Campo Marzio, si sarebbero raggiunti i luoghi più notevoli della città,
dal San Pietro, al Campidoglio ed al palazzo apostolico del Quirinale. Le due chiese-propilei (1661-
1679), a pianta centrale, coperte a cupola e precedute da un portico come il Pantheon, hanno la
funzione di individuare l’accesso alla città costruita, quali veri e propri boccascena rispetto ad un
fondale teatrale prospetticamente definito: ancora una volta una scenografia urbana molto evidente
nelle intenzioni, ma oramai tradizionale a Roma dopo gli interventi tardo cinquecenteschi di Sisto V
e del primo Seicento di Paolo V. In ogni caso, durante il pontificato di Alessandro VII, si affermava
definitivamente un metodo d’intervento sulla città basato sulla realizzazione di spazi polari
caratterizzati da architetture di grande rilevanza figurativa. Gianlorenzo Bernini, mentre seguitava a
lavorare all’interno della basilica di San Pietro all’altare della cattedra (1656-1676), si trovò
impegnato in numerose opere architettoniche e religiose, tutte di grande rilevanza progettuale: tre
impianti centrali, risolti con l’adozione di tipologie della tradizione, rielaborate e finalizzate a
supporto di uno spazio sempre scenografico e celebrativo. Così nel San Tommaso di Villanova
(1658-1661), adiacente al palazzo pontificio di Castelgandolfo, un forte slancio verticale
caratterizza la pianta a croce greca, dai bracci profondi la metà della loro larghezza. Alla semplicità
del linguaggio architettonico, tanto dell’interno, che dell’esterno, si contrappone la cupola che si
innalza su un tamburo molto semplice e basso, da cui è separata da una cornice sporgente: al suo
interno la ricchezza della copertura della crociera è risolta progressivamente dalla serie degli
angiolotti, al di sopra dei timpani spezzati delle finestre del tamburo, messi a sorreggere i
medaglioni, cui segue la cupola vera e propria, costolonata e cassettonata in cui appaiono
bassorilievi con episodi della vita del santo. Nella successiva chiesa dell’Assunta ad Ariccia (1662-
1664), avanti al ristrutturato antico palazzo dei Savelli, acquistato dai Chigi, il modello del
Pantheon, dal cilindro sormontato da una cupola emisferica con lanterna e preceduto da un portico,
si arricchisce per una lieve accentuazione dell’asse longitudinale e per la presenza delle cappelle
radiali ai lati del presbiterio semicircolare: ancora una sintesi tra pittura, scultura e architettura,
sottolineata dal concludersi dello spazio interno nell’illusionismo dell’affresco del presbiterio e
dagli angeli, tra i costoloni della cupola, che sorreggono festoni. Il portico esterno, dalle arcate
riquadrate da un ordine su paraste, è prolungato lateralmente, ma su pilastri binati, a definire una
sorta di piazza passante che separa nettamente il complesso palazzo Chigi-chiesa dell’Assunta
dall’adiacente centro abitato antico dell’Ariccia. La romana chiesa di Sant’Andrea al Quirinale, del
1658-1670, rappresenta senz’altro uno dei momenti più significativi e felici dell’esperienza
berniniana, riassumendone ogni sperimentazione precedente in un organismo architettonico
completamente nuovo. In questo caso, la pianta centrale ed ellittica è disposta lungo l’asse minore,
mentre alla più ampia dilatazione trasversale dello spazio interno si contrappone la contrazione di
quello maggiore, per la presenza del pieno di uno dei pilastri delle cappelle radiali alle sue
estremità. La luce ed i colori dei marmi di rivestimento sono i protagonisti di questa
rappresentazione per il graduale passaggio, dalla semioscurità delle cappelle, allo splendore
luminoso dei marmi variegati del vano centrale al bianco dorato della cupola, costolonata e dai
cassettoni esagoni: dall’altare di Sant’Andrea, una schiera di angeli risale lungo la volta celeste per
protendersi verso la Trinità, rappresentata nella lanterna. Lo spazio esterno mette in evidenza le
matrici geometriche di questo organismo architettonico, mentre la fronte, al di sopra di una leggera
scalinata, è ad edicola, con il portale sormontato da un’ampia finestra semicircolare e preceduto da
un protiro curvilineo su colonne: arretrata rispetto all’oramai antica via Pia, è affiancata da due muri
curvilinei che la raccordano con il filo stradale, dando luogo ad uno spazio trasversale rispetto alla
infinita longitudinalità di questo asse viario rettilineo. Infine, oltre alle architetture religiose, tra le
opere berniniane del pontificato chigiano va sottolineata l’importanza del palazzo Odescalchi
(1664?-1667), realizzato durante gli stessi anni in cui il maestro, su incarico del re di Francia Luigi
XIV, iniziava i suoi primi disegni per il Louvre (1664) portati poi avanti durante il suo viaggio a
Parigi del 1665, ma senza alcun esito positivo. Destinata a diventare un modello per la poco più
tarda cultura architettonica centro-europea, la fronte del palazzo romano (in seguito modificata dal
Vanvitelli) contrappone, a due ali bugnate con tre finestre, un corpo centrale, scandito in sette parti
da un ordine gigante composito innalzato al di sopra di una fascia basamentale: una balaustra, sulla
quale dovevano innalzarsi alcune statue, lo conclude al di sopra del cornicione con mensole. In tal
modo, rielaborando la tipologia classica delle fronti romane di Bramante e Raffaello, il Bernini ne
traeva ancora una volta una forma del tutto originale: una quinta grandiosa della scena urbana,
protagonista del suo spazio antistante.
Anche l’opera romana più importante di Pietro da Cortona durante questo periodo, la
nuova facciata della preesistente chiesa di Santa Maria della Pace (1656-1657), rappresenta
un’eccezionale scenografia architettonica posta a risolvere, in questo caso, un ambiente urbano di
secondaria importanza: voluta direttamente da Alessandro VII, si mostra improvvisamente come un
unico scenario concavo-convesso, posto al termine di una strada angusta. Vero e proprio gioiello
architettonico incastonato nel tessuto edilizio, è caratterizzato da un protiro semicircolare e molto
sporgente, dall’ordine dorico su colonne. Questo modo di concepire le architetture nella città, come
poli di grande rilevanza figurativa dello spazio urbano, è comune alle intenzionalità dei tre grandi
maestri del seicento romano e neppure Borromini fa eccezione. Così la soluzione delle fronti della
chiesa di San Carlino (1665-1667), una fascia avvolgente plasticamente articolata, per evidenziare
un evento eccezionale che segna asimmetricamente l’angolo delle quattro fontane, mentre la
facciata del collegio di Propaganda Fide (1662), posta avanti alla nuova cappella dei Re Magi, si
evince dalla quinta stradale: scandita in sette parti da un ordine gigante con cornicione molto
sporgente e sormontato da un attico, presenta quella centrale concava, dalle aperture con le cornici
convesse, cui si contrappongono quelle laterali, rettilinee. Le ultime due opere del maestro ticinese,
tuttavia, altro non erano se non la riconferma di quanto era già emerso con chiarezza nella facciata
dell’ Oratorio dei Filippini.
La nuova stagione della cultura architettonica romana, durante il lungo quarantennio dei
pontificati successivi Barberini, Pamphili e Chigi, non si esaurisce nella diversa novità delle opere
dei tre grandi maestri: altri personaggi, al contrario, debbono essere riguardati sempre come
protagonisti e innovatori durante questo periodo tanto ricco di sperimentazioni. Gli ultimi anni del
pontificato di Urbano VIII vedono l’affermazione di una nuova generazione di architetti che, pur
formatisi nella continuità culturale con il tardo cinquecento romano, furono capaci di esprimersi ad
un livello figurativo molto alto, rinnovando tutti i modelli di riferimento nella continuità della
logica del loro processo evolutivo. In tal modo, pur partecipando al rinnovamento del gusto della
grammatica architettonica, trovarono nell’approfondimento di organismi già sperimentati la forza
per giungere a momenti di sintesi del tutto originali: ad essere recuperata è tutta la larga
sperimentazione del tempo del pontificato di Paolo V, dal tipo del palazzo nobiliare a quello della
fronte a doppio ordine delle chiese, alla definizione del loro spazio interno ottenuta attraverso
l’aggregazione, o l’intreccio combinato, di due impianti centrali. L’opera di questi architetti deve
essere considerata come una vera e propria alternativa rispetto a quella di Bernini, Pietro da Cortona
e, soprattutto, Borromini in quanto altrettanto importante per avere stabilito in modo definitivo le
regole di un linguaggio comune alla base del processo di trasformazione della città durante il XVIII
e XIX secolo. D'altronde, le architetture nuovissime dei maestri non avevano certo trovato un
consenso unanime: al termine del pontificato chigiano, nel 1664, lo storico e critico Pietro Bellori in
un celebre discorso all’accademia di San Luca ne contestava addirittura la validità, mettendone in
dubbio la grammatica arbitraria rispetto a quella del linguaggio classico. Una vera e propria messa
in stato di accusa che risulterà decisiva nell’evoluzione immediatamente successiva della cultura
architettonica romana. Questa forte critica, in ogni caso, colpiva soprattutto l’opera del Borromini
amareggiandone gli ultimi anni di vita ed anticipandone, forse, la tragica fine nel 1668: Pietro da
Cortona scomparirà nell’anno successivo (1669) mentre il Bernini, pur rimanendo ancora a lungo in
vita, vedrà messa in dubbio la sua perizia tecnica al termine della sua attività, per aver provocato
l’instabilità dei piloni centrali della cupola di San Pietro. Al contrario, la nuova generazione di
architetti, muovendosi nel solco della tradizione romana, porterà avanti una serie di esperienze
comuni tra di loro e confrontabili. Tra questi, Martino Longhi il Giovane (1602-1660), ultimo di
una grande famiglia di architetti, con la facciata della chiesa dei Santi Vincenzo e Anastasio del
1644, in piazza di Trevi, molto articolata e risolta dalla sovrapposizione di due ordini architettonici
su colonne libere e molto ravvicinate tra di loro, raggiunse un limite estremo di esasperazione
nell’evoluzione di questo tipo che ha origine in quella della Santa Susanna del Maderno. Una
ricerca, questa, ripresa anche da Carlo Rainaldi (1611-1691), figlio di Gerolamo e forse il migliore
di questa generazione, per la chiesa di Santa Maria in Campitelli e per Sant’Andrea della Valle
(ambedue tra il 1656 ed il 1665): progettate per una prevalente visione di scorcio, rappresentano
soluzioni di forte efficacia plastica, per la sovrapposizione di due ordini su colonne a tuttotondo,
poste a sottolineare la scalarità delle superfici proiettate in avanti. A Santa Maria in Campitelli,
questo tipo di grammatica architettonica la si ritrova anche nell’articolazione dello spazio interno,
progettato dal Rainaldi come un’aggregazione tra due organismi centrali, ispirata dallo
sperimentalismo lombardo: un impianto a croce greca e coperto a cupola, che risolve il transetto con
il presbiterio, separato da due arcate molto ravvicinate ed evidenti dalla navata vera e propria,
risolta da un secondo impianto a croce, ma coperto da una volta a botte nel senso longitudinale.
Oltre a questa opera, senza dubbio eccezionale e nuova, si debbono al Rainaldi anche
l’impostazione delle chiese di Sant’Agnese a piazza Navona, poi terminata dal Borromini, e quelle
di Santa Maria in Montesanto e Santa Maria dei Miracoli a piazza del Popolo interpretate di seguito,
scenograficamente, dal Bernini. Tra le sue opere, senz’altro più classicista è la soluzione esterna
della tribuna della basilica di Santa Maria Maggiore (1669-1675) in cui l’ordine architettonico ha
soprattutto la funzione di articolare linearisticamente la superficie avvolgente. Vicino al Rainaldi
nel cantiere di Santa Maria in Campitelli, la figura di Giovanni Antonio De Rossi (1616-1695)
emerge anche per la sua vastissima attività professionale: di famiglia lombarda, ma formato a Roma
presso il Peparelli, questo architetto seppe trovare soluzioni sempre più convincenti e di grande
qualità, sia per la sua committenza nobiliare, che per quella delle numerevoli congregazioni
religiose che a lui si rivolgevano. Attivo sin dagli inizi degli anni quaranta, nelle chiese di Santa
Maria in Publicolis (1640-1643), Santa Maria Porta Paradisi (1643-1645) e San Rocco (dal 1646)
riuscì a portare avanti la sperimentazione sulle tipologie religiose ottenute per sovrapposizione di
impianti diversi, alternativamente longitudinali e centrali. Più tardi, nel 1650, con la cappella
Lancellotti a San Giovanni in Laterano riproponeva una nuova interpretazione della maderniana
cappella Salviati, mentre nella chiesa di Santa Maria in Campo Marzio (1676-1686) utilizzava la
pianta a croce greca coperta a cupola, ma con un ingresso laterale. Tra le sue residenze nobiliari,
palazzo Altieri al Gesù (1550 e 1570), contemporaneo al berniniano palazzo di Montecitorio,
presenta la novità del corpo centrale avanzato che articola la tipologia sangallesca della fronte. Tra
gli altri edifici di questo architetto, il palazzo D’Aste-Bonaparte (1658-1665) e quello Muti Bussi
(1662), mostrano notevolissime soluzioni sia planimetriche, che per il disegno delle scale, degli
apparati decorativi e delle soluzioni angolari: una grande ricchezza espressiva sempre capace di
rinnovare una tipologia ormai tradizionale, che trova un momento di sintesi molto alto nella villa
Altieri all’Esquilino (1674). Proprio verso il termine della sua attività realizzerà le chiese di San
Pantaleo (1681-1688) e di Santa Maria Maddalena (1695), due soluzioni assolutamente nuove e di
grande rilevanza. Nel San Pantaleo, per i colasanziani, la pianta ad unica navata e coperta da una
volta a botte completamente affrescata, è risolta con due sole cappelle per lato, semplicemente
riquadrate da pilastri, mentre in Santa Maria Maddalena, proprio nel suo ultimo anno di vita, ritornò
allo sperimentalismo di origine lombarda proponendo una soluzione planimetrica impostata
sull’aggregazione di due impianti centrali, una croce greca ed un esagono irregolare: una soluzione
soltanto impostata, quest’ultima, per la sopravvenuta scomparsa dell’architetto ma di grande
interesse per l’uso inconsueto della pianta poligonale.
In ogni caso, tanto Carlo Rainaldi, che Giovanni Antonio De Rossi, avevano avuto la
possibilità di conoscere direttamente i grandi maestri del periodo e di potersi confrontare con loro:
un’assoluta indipendenza contraddistingue, tuttavia, l’opera di questi più giovani protagonisti, che
saranno tanto determinanti per il futuro sviluppo della cultura architettonica della città di Roma. La
loro opera, in ogni caso, non rimaneva isolata per la presenza di numerosi architetti molto attivi al
livello professionale, come, ad esempio, un collaboratore di Bernini, Matta de Rossi (1637-1695;
Roma, ricostruzione della chiesa di Santa Croce e San Bonaventura dei Lucchesi, 1680-1695) o il
più giovane Giovanni Battista Contini (1641-1723; Roma, Chiesa delle Stimmate di San Francesco,
1708), che opererà alternativamente a Carlo Fontana nel XVIII secolo.
Le novità assolute delle esperienze dell’architettura romana, tali da ribaltare
completamente ogni precedente rapporto con la tradizione classica, così come la progettazione della
forma della città attraverso la realizzazione di forti polarità urbane di grande rilievo figurativo, non
trovarono subito un immediato riscontro al di fuori delle più alte gerarchie della Chiesa cattolica, da
cui erano state promosse per la sua celebrazione: tra i protagonisti, all’inizio è soprattutto il Bernini
ad essere conosciuto fuori d’Italia per il suo viaggio a Parigi del 1665. D’altronde, anche se Roma si
era di nuovo imposta come il centro della cultura architettonica, tanto in Italia che, soprattutto, in
Europa la diversità e le incertezze della situazione politica avevano contribuito a produrre forti
limitazioni all’apertura di nuovi cantieri per opere di rappresentanza religiosa o civile. In Italia, la
Repubblica di Venezia era riuscita a restare neutrale nella guerra dei Trent’anni, iniziando nel 1631
un processo di riavvicinamento a Roma, dopo lo strappo con Paolo V, conclusosi solo nel 1644 al
termine del pontificato di Urbano VIII: i tempi lunghi della contesa religiosa allontanarono la
cultura architettonica veneta da quella romana, tanto da rifiutarne del tutto ogni esperienza
innovativa. Il protagonista di questi anni è Baldassarre Longhena (1598-1682), coetaneo del
Bernini, che vinse il concorso per il progetto della chiesa della Madonna della Salute nel 1631: i
lavori, subito iniziati, potevano dirsi quasi terminati dopo un ventennio, ma la chiesa non venne
consacrata che nel 1687 dopo la morte dell’architetto. Il grande tempio votivo, isolato, presenta una
pianta ottagonale con ambulacro e coperta a cupola, memoria di impianti centrali tardoantichi
(Martiria), ma anche bizantino-ravennati (San Vitale) per la forte presenza dello spazio autonomo
del presbiterio, che ne accentua l’asse longitudinale: anch’esso coperto a cupola e dilatato
trasversalmente da due absidi semicircolari, deve essere interpretato come un secondo, anche se
minore, impianto centrale assemblato al primo per definire un tipo di organismo che ricorda le
precedenti esperienze degli architetti lombardi. Riflessioni ed interpretazioni critiche, tanto di
tradizioni antiche, che più recenti, ma tutte non estranee alla cultura veneziana, sono facilmente
riconoscibili nell’impostazione di questa rilevante architettura religiosa, risolta poi dall’architetto
con un linguaggio non rigidamente classicista, che esalta l’articolato assemblaggio dei solidi
geometrici semplici che compongono la sua volumetria. Tutte le altre, non molte, opere del
Longhena sono ben lontane dal raggiungere l’interesse della chiesa veneziana, che rimase pressoché
unica tra le grandi imprese volute dalla Serenissima Repubblica: la lunga guerra contro i Turchi, dal
1645 al 1669, che riprenderà più tardi tra il 1685 ed il 1687, dovette certamente impedire la messa
in atto di programmi edilizi di una qualche rilevanza.
La forte presenza del dominio spagnolo nel sud dell’Italia, appena scalfito dalle rivolte
popolari napoletane del 1647 e siciliane sino al 1649, non era certamente tale da favorire nuove
esperienze culturali. In questo contesto emerge un personaggio della stessa generazione dei tre
grandi maestri romani, Cosimo Fanzago (1591-1678), di origine bergamasca ma presente a Napoli
dal 1608: oltreché architetto, fu anche scultore, decoratore e talvolta pittore, operando anche a
Roma. La sua opera principale fu la chiesa napoletana di Santa Maria Egiziaca (1651-1717) dalla
pianta a croce greca con l’asse longitudinale prevalente, coperta a cupola e preceduta da una sorta di
piazza porticata: ricca certamente di molti ricordi romani, rappresenta la sintesi più efficace
dell’opera di questo architetto, mai del tutto originale, ma piuttosto incline all’utilizzazione di
modelli già sperimentati.
Al contrario di Napoli e Venezia, durante questo periodo emerge prepotentemente il ruolo
della città di Torino, capitale dei duchi sabaudi, che giunge ad affiancare Roma come importante
centro di elaborazione della cultura architettonica: malgrado discontinue, non sempre fortunate
iniziative politiche e militari, alternandosi le alleanze tra Francia e Spagna, i Savoia riuscirono ad
affermare la propria dinastia e lo stato, continuando anche a trasformarne la città più importante in
una del tutto nuova e più grande. A portare avanti quanto era stato iniziato dal Vittozzi, nel 1638
veniva chiamato Carlo di Castellamonte (1560 circa-1641) mentre successivamente nel 1673 il duca
Carlo Emanuele II (1638-1675) affiderà ad Amedeo di Castellamonte (1610-1683) il nuovo
ampliamento di Torino sino al Po. Un programma di sviluppo e di abbellimento che andrà avanti
ininterrottamente anche durante il successore, Vittorio Amedeo II che riuscirà a liberare il Piemonte
dalla presenza francese (trattato di Pinerolo, 1696). Tuttavia, il salto di qualità dell’ambiente
culturale torinese era già avvenuto sin dal 1666, con l’arrivo nella città dell’architetto e sacerdote
teatino Guarino Guarini (1624-1683): originario di Modena, dal 1639 entrava nell’ordine dei
Teatini, trasferendosi poi a Roma, ove studierà teologia, filosofia, matematica e architettura, e
ritornando a Modena nel 1647 ove fu ordinato sacerdote. A Roma, poté certamente studiare le opere
dei tre maestri e conoscere, soprattutto, l’interno del San Carlino e la facciata dell’Oratorio dei
Filippini, precedenti importanti per la sua futura attività di architetto. Lavorando sempre per il suo
ordine, ebbe alcune importanti esperienze a Messina e a Parigi, ove era presente dopo il 1662, che
poi pubblicò nel suo trattato dal titolo L’architettura civile (pubblicato postumo da Bernardo
Vittone nel 1737): a Torino, venne chiamato da Carlo Emanuele II che gli offrì le occasioni più
importanti per la sua attività. Nella Cappella della Sindone (dal 1667, terminata nel 1694) aggiunse
alla pianta circolare, impostata da Carlo di Castellamonte nel 1657, tre vestiboli circolari che
individuano i vertici di un triangolo equilatero, posti ad articolare la regolarità geometrica
dell’impianto con le loro pareti convesse: su queste si impostano i tre arconi dei pennacchi sferici a
sostegno del tamburo e della cupola. Nel tamburo, a pianta circolare si aprono sei finestre arcuate,
alternate da nicchie riquadrate da un ordine su colonne ribattuto da paraste a fianco della nicchia e
delle finestre: al di sopra e in asse con le finestre s’impostano sei archi a trasformare la pianta
circolare in una esagonale, ripetendosi poi per altre sei volte sino all’imposta del lanternino. La
cupola assume, in tal modo, una forma ogivale ottenuta dalla rotazione degli esagoni sovrapposti
l’un l’altro, al di sopra della quale si alza un lanternino molto alto, goticizzante, con aperture ovali.
Nel complesso un’esperienza senz’altro senza precedenti, sia a livello tipologico che strutturale,
espressione anche di valori simbolici evidenti, ricca di diversità anche nei confronti delle precedenti
esperienze borrominiane a Roma: una soluzione ben lontana da ogni rapporto con la tradizione,
risultato anche di una vera e propria invenzione complessiva. Anche nella successiva chiesa di San
Lorenzo (1668-1687), a Torino, il Guarini riafferma la propria creativa diversità: ancora un
impianto centrale, un ottagono iscritto in un quadrato, ma dai lati convessi verso l’interno, articolati
da serliane. Un presbiterio, a pianta ellittica e posto trasversalmente, accentua l’asse longitudinale
dell’impianto. Il vano centrale è coperto da una cupola, impostata su pennacchi sferici in
corrispondenza delle diagonali del quadrato circoscritto, alla cui base si aprono otto finestre ovali.
La calotta vera e propria della cupola è attraversata da un complesso sistema di nervature che va a
formare una stella ad otto punte con al centro un ottagono regolare; al di sopra un lanternino,
anch’esso ottagono, ripropone il disegno della cupola. Di nuovo uno spazio sorprendente e senza
precedenti, eccezionale manifestazione del ruolo svolto dal Guarini nella ricerca di nuovi organismi
religiosi, al di fuori del classicismo, in coincidenza con la scomparsa di Francesco Borromini a
Roma.
Nel resto d’Europa, la interminabile guerra dei Trent’anni aveva posto un freno alla
diffusione delle nuove esperienze architettoniche romane e italiane. Nella Francia del re Luigi XIII
e del suo primo ministro cardinal Richelieu, direttamente impegnata nel forte scontro con la Spagna,
poche erano state le risorse economiche impegnate nell’apertura di nuovi cantieri edilizi: malgrado
la politica del Richelieu per affermare uno Stato assoluto e centralista, l’architettura è ben lontana
da assumerne qualunque funzione celebrativa, al contrario di quanto accadrà più tardi durante il
regno di Luigi XIV. In questo contesto di riferimento emerge l’opera di François Mansart (1598-
1674) autore della chiesa della Visitazione a Parigi (1632), dell’ala Orléans del castello di Blois
(1635) e della casa di campagna di Maison-Lafitte (1642-1650).
Nell’ampliamento del castello di Blois l’architetto riproponeva l’articolazione e la
tipologia della fronte del romano palazzo Barberini, in qualche modo anche arricchita per
l’avanzamento della sua parte centrale e per il raccordo curvilineo tra questa e l’estremità delle ali
corte, realizzato da un ordine dorico su colonne libere binate: una soluzione che accentua
l’importanza dell’asse di simmetria, oltretutto ancor più sottolineato da una soluzione molto
elaborata della sovrapposizione degli ordini, ancora su coppie di colonne libere e su paraste. Anche
la casa di Maison-Lafitte è risolta da un corpo di fabbrica con due ali ortogonali più corte,
prolungate per il solo piano terreno a contenere due saloni ovali, disposti trasversalmente: soluzione
planimetrica, questa, caratterizzata da un vasto atrio passante le cui gradinate di accesso raccordano
la diversità delle quote della corte di ingresso con quelle del giardino retrostante. In questo caso,
l’articolazione volumetrica è sottolineata anche dalla diversità dei tetti a padiglione a diversa altezza
tra di loro, mentre la sovrapposizione di un ordine ionico a quello dorico basamentale risolve il
disegno delle fronti riquadrandone le finestre. La preminenza dell’asse di simmetria centrale viene
di nuovo riproposta, tanto con l’avanzamento della superficie della fronte, che per la presenza di un
terzo ordine corinzio, sormontato da un timpano, a risolvere l’abbaino del tetto, molto più alto degli
altri, posto a coprire le due parti avanzate contrapposte da ambo i lati. François Mansart, con queste
due opere, mostra con tutta evidenza una grande capacità nel rinnovare le tipologie e la grammatica
del linguaggio classico ricercando soluzioni sempre ricche di novità e di fantasia, prodotto di una
ingegnosa ricerca di soluzioni sintattiche capaci di dare significati nuovi all’uso del linguaggio
classico. In questo stesso contesto culturale deve essere riguardato anche Jacques Lemercier (1585-
1654), autore della chiesa della Sorbona a Parigi (1635-1642), il quale precedentemente, nel 1631,
aveva progettato la piccola città di Richelieu con il palazzo del cardinale dello stesso nome, ma in
forme più tradizionali. La sua chiesa parigina mostra, al contrario, una nuova interpretazione della
pianta centrale a croce greca per una precisa individuazione di un asse longitudinale notevolmente
prevalente che si conclude, nel presbiterio, con un catino absidale: dei quattro bracci, tutti coperti da
volte a botte lunettate, quelli maggiori sono affiancati da cappelle accoppiate, mentre la crociera è
risolta da una cupola emisferica con il tamburo su pennacchi sferici. La soluzione della fronte è
senz’altro più tradizionale, con due ordini compositi sovrapposti, su colonne e su paraste, raccordati
da volute e con il corpo centrale avanzato che mette in evidenza la longitudinalità dello spazio
interno. Nel complesso una ricerca tutta all’interno di schemi tipologici della tradizione classicista,
di cui sperimenta i limiti per superarli, reinventandone la spazialità in un preciso rapporto fra
interno ed esterno.
Nel 1643, dopo la clamorosa vittoria dei Francesi sull’esercito spagnolo a Rocroi e la
morte di Luigi XIII, si apre il momento decisivo per l’attuazione di uno Stato assoluto e centralista
in Francia: il nuovo primo ministro, cardinale Mazzarino che governava in nome di Luigi XIV
ancora in minore età, nel 1649 arrivava alla pace con la Spagna (trattato dei Pirenei), mettendo fine
alla guerra dei trent’anni, mentre all’interno del paese superava la lunga contesa della cosiddetta
“fronda” della nobiltà (1648-1653), riportando definitivamente la monarchia a Parigi. Allorché nel
1660 Luigi XIV prendeva effettivamente il potere, in Francia tutto poteva dirsi pronto per l’inizio di
un periodo nuovo, caratterizzato dalla grande personalità di un sovrano la cui politica sarà sempre
finalizzata all’affermazione dell’assolutismo nel governo: prima l’ampliamento del palazzo reale
del Louvre a Parigi e, subito dopo, la nuova residenza del re a Versailles – che gli permetterà di
riunire attorno alla propria corte tutta la nobiltà – sono le due maggiori imprese architettoniche con
le quali il sovrano intese celebrare la grandiosità del proprio potere assoluto. Il progetto del Louvre,
in un primo momento, veniva affidato a Louis Le Vau (1612-1670), il quale aveva già messo in
evidenza le proprie capacità con il castello di Vaux le Vicomte (1657-1661), per il ministro delle
finanze Fouchet, e con il collegio e la chiesa delle quattro nazioni a Parigi (iniziata nel 1661),
attualmente istituto di Francia. Il castello di Vaux le Vicomte, nella regione dell’Ile-de-France,
posto al centro di un grandioso parco sulla riva di un fiume, disegnato dall’architetto dei giardini
André Le Nôtre (1613-1700), anticipava le future soluzioni per la residenza reale di Versailles: una
rete di lunghi viali a maglie ortogonali faceva da corona al castello, a sua volta circondato dalle
acque e collegato con i giardini attraverso due ponti contrapposti. In un ambiente paesaggistico
tanto regolarizzato, l’architettura di Le Vau ancor più che classicista può essere definita eclettica
per l’eterogeneità dei modelli tipologici e stilistici utilizzati. Il modello di partenza resta sempre
quello di palazzo Barberini a Roma, ma innalzato al di sopra di grandi e scenografiche scalinate che
ne accentuano l’asse di simmetria centrale, definito dall’atrio quadrato e sporgente, affiancato da
due scale a doppia rampa verso i piani superiori: dall’ingresso si arriva direttamente ad un grande
salone ovale, disposto trasversalmente, anch’esso sporgente verso il lato opposto e coperto a cupola
con lanternino. La superficie delle fronti è prevalentemente bugnata, ed è presente, per dare
evidenza ai lati corti, un ordine gigante ionico con timpano, che raccoglie due ordini di finestre,
posto su un alto stilobate anch’esso bugnato: la cornice del basamento e quella marcadavanzale del
secondo ordine di aperture segnano orizzontalmente tutta la fronte, il cui corpo centrale avanzato è
risolto da un ordine rustico su colonne libere, con il timpano ornato da statue, su cui è sovrapposto
un ordine di paraste bugnate, terminanti con una balaustra, che inquadrano le finestre laterali e la
specchiatura centrale chiusa, senza bugnature e sormontata da un grande orologio. Al solo piano
terreno, due raccordi curvilinei risolvono la ricca articolazione superficiale della fronte sulla corte,
mentre quella posteriore è più semplificata per l’unica sporgenza in corrispondenza del salone
ovale: l’ordine rustico su colonne libere, sormontato da statue, viene di nuovo riproposto con la
sovrapposizione di un ordine ionico su paraste che riquadrano archi e sormontato da un timpano,
riccamente decorato da bassorilievi. Tutto un insieme certamente molto ricco, oltreché
rappresentativo, risultato del sovrapporsi di un intricato apparato decorativo non privo di diversità e
contraddizioni, anche se sempre riconducibile all’interno del linguaggio figurativo classico.
Altrettanta capacità di proporre soluzioni spaziali, accompagnate da invenzioni linguistiche, si
ritrova nella chiesa del Collegio delle Quattro Nazioni a Parigi. La pianta, a croce greca, accentua il
proprio asse longitudinale per la diversa larghezza dei bracci, che si concludono nel vano centrale
rettangolare, coperto da una cupola ovale, su un tamburo molto alto e a sesto acuto, posta
trasversalmente: i due bracci longitudinali sono di forma quadrata e articolati trasversalmente da
due absidi semicircolari, quello di ingresso, mentre quello di fondo da due nicchioni rettangolari. La
complessità di questo spazio interno trova un’ulteriore articolazione nella dimensione rettangolare,
molto contenuta, dei suoi vani trasversali, sui cui lati si aprono due cappelle. Tutto ciò in modo tale
da contrapporre sempre, tanto all’asse longitudinale prevalente, che a quello trasversale molto più
contenuto, un diversificato approfondirsi dei diversi bracci della croce greca. La fronte della chiesa
orientata verso la Senna, si raccorda con i corpi di fabbrica del collegio per mezzo di pareti concave
su cui si aprono due ordini di finestre: la fronte vera e propria è divisa in tre parti da un ordine
gigante composito su paraste binate; la porzione centrale è più sporgente ed è articolata da colonne
libere ribattute da paraste e sormontato da un timpano triangolare. Ancora una novità per il rapporto
che viene a stabilirsi tra la chiesa e il collegio, di cui è l’emergenza principale, oltre alla capacità di
reinterpretare sempre i modelli della tradizione classicista.
Il desiderio di Luigi XIV di giungere ad ottenere un’architettura non soltanto celebrativa,
ma anche nuova, portò a richiedere idee per il nuovo Louvre ad alcuni architetti italiani, la cui fama
era giunta fino in Francia: ad essere interpellati furono il Candiani, Carlo Rainaldi, Pietro da
Cortona e soprattutto Gian Lorenzo Bernini, che giunse a Parigi nel 1665. Seppure tutte queste
proposte non vennero in seguito prese in considerazione, i contenuti espressi dai singoli progetti
italiani, se non addirittura romani, insieme alla presenza dello stesso Bernini, stimolarono
certamente un dibattito tale da incidere profondamente su tutta la cultura architettonica di quel
momento in Francia nella direzione di un preciso aggiornamento della tendenza classicista, ormai
tradizionale in questo paese. La manifestazione più evidente è rappresentata dal progetto definitivo
del Louvre per il quale, nel 1667, era stata data vita ad una commissione formata dal Le Vau (che
aveva già lavorato nel palazzo a partire dal 1663), Claude Perrault (1613-1688) e Charles Lebrun
(1619-1690). La grande fronte realizzata, disegnata dal Perrault e iniziata nel 1668, ripropone la
tipologia classicista con un alto basamento a bugnato liscio, sormontato da un ordine composito su
colonne binate libere ribattute da paraste, che inquadrano finestre rettangolari incorniciate e con
timpano triangolare, al di sopra delle quali sono posti bassorilievi floreali ovati: l’asse di simmetria
è sottolineato per l’avanzamento di un corpo centrale tripartito dall’ordine e con timpano
triangolare, nel quale l’arcone del portale principale è impostato dopo il bugnato, mentre un grande
bassorilievo seguito da un’epigrafe lo sormontano. Anche le estremità laterali della fronte sono
risolte con un identico avanzamento delle testate angolari, ancora tripartite ma da un ordine su
lesene che, nella parte centrale, si affianca a colonne libere che inquadrano una finestra molto alta
arcata, mentre ai due lati si ripropongono le aperture rettangolari incorniciate e con timpano
triangolare, con il sovrastante bassorilievo ovato: una sottile cornice interposta tra le finestre e gli
ovati mentre, a fare da confine con il cielo, una balaustra corre lungo tutta la fronte. Malgrado la
rilevanza del cantiere del Louvre, tuttavia, l’architetto più importante del regno di Luigi XIV resta
Jules Hardouin Mansart (1646-1708), autore a Parigi della chiesa del complesso degli Invalidi
(1675-1700), oltre alla nuova residenza reale di Versailles (1685-1687), insieme all’architetto dei
giardini Le Nôtre, come una vera e propria nuova capitale del paese: un’operazione attraverso la
quale Luigi XIV riuniva nella propria corte tutta la nobiltà del paese, al fine di prevenirne ogni
iniziativa di fronda, allontanandola dai propri feudi per indebolirne la presenza sul territorio. Ai
grandiosi programmi del monarca, Jules Hardouin Mansart presta tutta la sua abilità professionale,
fondata sulla riproposizione di modelli tipologici molto consolidati e risolti dal classicismo di una
ben definita grammatica, disegnata sempre in maniera molto elegante. La chiesa di San Luigi del
grande complesso degli Invalidi si presenta come una spettacolare emergenza, rispetto all’ampia
piazza antistante semicircolare. Il suo impianto planimetrico è impostato su di una croce greca
iscritta in un quadrato, coperta al centro da una cupola e con quattro cappelle angolari anch’esse
coperte a cupola, non emergente: la diversa lunghezza dei bracci, conclusi da volte a botte, ne
accentuano l’asse longitudinale, che si conclude nel presbiterio, più alto e di forma rettangolare.
Uno spazio molto articolato, arricchito per l’irraggiamento dal suo asse verticale verso le cappelle
angolari per mezzo di varchi nei grandi piloni della cupola centrale. Questa, poggiata su un alto
tamburo, è stata realizzata con una doppia calotta in modo tale che, attraverso un’ampia apertura,
divenga visibile l’intradosso della seconda, riccamente affrescato e illuminato da aperture proprie,
cui è sovrapposta una terza, che copre tutto l’insieme. La soluzione esterna, mediata certamente dal
progetto bramantesco per il San Pietro illustrato dal Serlio, presenta un primo tamburo sul quale si
aprono le grandi finestre fra i contrafforti decorati da coppie di colonne, sormontato da un secondo,
dalle mensole rovesce tra le aperture che illuminano la seconda calotta, al di sopra del quale
s’innalza la cupola esterna. Senza dubbio una ricca complessità di forme e di strutture, che perviene
ad una vera e propria novità spaziale, tuttavia ottenuta sempre attraverso l’applicazione di modelli e
di un lessico grammaticale decisamente classicisti. Anche la nuova reggia di Versailles, così come il
disegno dei suoi giardini e dell’impianto urbano che la precede, è il risultato di un simile approccio
progettuale. Un unico, lunghissimo asse di simmetria centrale si riconosce come elemento portante
della forma planimetrica di questo insieme complesso, relazionando tra di loro la struttura viaria
della nuova Versailles, la residenza reale e i percorsi dei giardini realizzati dal Le Nôtre. In ogni
caso, spazi tutti disegnati astrattamente dalla geometria elementare in un contesto dimensionale a
grande scala, cui fa riscontro la immediata riconoscibilità dei modelli di riferimento usati: così il
“tridente” della nuova città, che confluisce in una piazza trapezoidale; per la reggia la pianta della
villa suburbana, le cui testate sono rivolte verso l’esterno e prolungate trasversalmente dai due lati,
mentre il percorso del giardino lungo l’asse principale si interrompe di continuo, alternando il suo
asse trasverso per la presenza di fontane, canali e giochi d’acqua. Un insieme molto ricco nel quale
prevalgono il disegno e la grande dimensione della sua forma planimetrica, la grandiosità degli
spazi interni della reggia, insieme alla spettacolarità della sistemazione dei giardini: un evento
eccezionale, realizzato anche in un tempo decisamente breve, tutto finalizzato all’esaltazione della
politica e della figura del monarca assoluto.
In Inghilterra, Inigo Jones rimase attivo sino alla metà del XVII secolo (muore nel 1652),
mentre nel paese l’assolutismo regio di Carlo I Stuart (salito al trono nel 1625) veniva sconfitto
dall’azione politica e militare di Cromwell nel 1645 e lo stesso sovrano, dopo un processo, veniva
giustiziato nel 1649: un periodo certamente molto lungo e di stasi dell’attività edilizia che ebbe
termine con la morte dello stesso Cromwell (1659) e la successiva restaurazione degli Stuart con
l’inizio del regno di Carlo II (1660). Un periodo di tempo molto ampio, certamente anche
rivoluzionario, ma più avanzato rispetto a quanto accadeva nell’Europa continentale: l’Illuminismo
pragmatico inglese che ne seguì, teorizzato subito dopo dal Locke (1632-1704), sarà posto alla base
dell’affermazione dei diritti materiali dell’uomo, del valore dell’origine contrattuale dello Stato,
vere e proprie premesse delle future democrazie liberali dell’occidente. Questi principi, tuttavia,
non si affermeranno subito, ma soltanto nel 1689 con l’avvento al trono inglese del principe
protestante olandese Guglielmo di Orange con la riaffermazione del valore dell’antica Magna
charta e dei principi della monarchia costituzionale. Il regno di Carlo II, al contrario, era stato tutto
indirizzato alla riaffermazione del potere assoluto della monarchia, malgrado i forti contrasti e le
sconfitte subite da parte di un parlamento a forte prevalenza protestante, sempre contrapposto al re
cattolico. L’architetto di questo monarca (morto nel 1685) fu Christopher Wren (1632-1723),
arrivato molto tardi all’architettura, dopo aver studiato anatomia a Westminster e successivamente
tutte le altre scienze ad Oxford (ove divenne docente di astronomia nel 1661): nel 1662 fu tra i
fondatori della Royal Society, l’Accademia inglese delle scienze, divenendo anche amico del
grande Isacco Newton. Nel 1663 presenta un progetto per lo Sheldonian Theatre, progettato per
l’università di Oxford, opera non di grande qualità architettonica come la successiva cappella di
Cambridge (1663-1666), mentre nel 1665 compie un viaggio a Parigi nel tempo in cui era anche
presente il Bernini. Dopo l’incendio di Londra del 1666 venne subito nominato membro della
commissione reale per la ricostruzione della città, divenendone il sovrintendente generale nel 1669,
tanto da rimanere il protagonista assoluto della sua ricostruzione, anche se il suo progetto di piano
non sarà accettato. L’idea architettonica di fondo per la nuova forma urbana che l’architetto voleva
realizzare proponeva la creazione di una serie di spazi polari di irraggiamento, in relazione tra loro,
dando luogo ad un vero e proprio sistema di piazze legate tra di loro da una maglia viaria molto
articolata di strade rettilinee: nella soluzione definitiva, le 51 chiese parrocchiali e la stessa
cattedrale di Saint Paul (1675-1710), tutte realizzate dallo stesso architetto, rappresenteranno le
principali emergenze architettoniche poste a caratterizzare gli spazi pubblici. L’impostazione
progettuale dell’organismo architettonico della cattedrale di Saint Paul è direttamente riconducibile
alla volontà di riproporre il modello bramantesco della cupola di San Pietro in Vaticano. L’impianto
centrale è risolto da una croce greca che presenta una forte accentuazione dell’asse longitudinale
verso il presbiterio concluso da un’abside semicircolare: lo spazio interno è molto articolato per la
suddivisione dei quattro bracci in tre navate, tra le quali quelle minori concorrono a formare una
sorta di deambulatorio che segue tutto il perimetro esterno della chiesa. Questa è preceduta da un
portico, affiancato da due torri scalari, oltre che da un vestibolo su pianta quadrata, coperto da una
cupola ribassata così come quelle in serie delle tre navate, la cui parete perimetrale è articolata da
nicchie semicircolari. Posta su un alto tamburo, la cupola centrale è risolta da una prima volta
emisferica con un grande oculo aperto, che lascia intravedere una seconda copertura tronco-conica,
illuminata da finestre e che porta la lanterna, mentre il profilo esterno è dato da una terza cupola in
legno ricoperta da lastre di piombo: all’esterno, come nel modello bramantesco, un colonnato
periptero posto su di un basamento e sormontato da una balaustra risolve il tamburo della cupola,
mentre su di un secondo più arretrato si aprono le finestre che illuminano l’altra volta interna. La
fronte della cattedrale presenta un doppio ordine di colonne binate, con cinque intercolumni nella
zona inferiore e tre in quella superiore, a sua volta sormontata da un timpano triangolare mentre le
torri scalari sono leggermente arretrate rispetto alla fronte. Nel complesso è molto evidente la netta
contrapposizione tra la rigidità dei modelli classicisti (la pianta a croce greca e la cupola) con le
tante novità dello spazio interno articolato in tre navate convergenti verso la cupola centrale, molto
alta e scenograficamente risolta in modo da accentuarne la verticalità: una sintesi figurativa di certo
originale, nella quale la grammatica del linguaggio classico ha la funzione di ricondurre all’interno
di un sistema consolidato ogni scelta innovativa. La forte vivacità della sperimentazione di Wren
nella definizione dei nuovi organismi architettonici per gli edifici religiosi, tra le tante chiese
parrocchiali progettate e realizzate, doveva trovare in quella di Santo Stefano a Walbroock (1672-
1687) il momento di più grande rilevanza espressiva. In questo caso, alla rigidità della volumetria
esterna, un parallelepipedo da cui emerge soltanto la cupola, si contrappone l’ingegnosità del
disegno dello spazio interno, dominato da una finta cupola in legno e stucco, dalla pianta ottagona e
posta verso l’ingresso, sorretta da archi su colonne, che mostrano una sorta di goticismo, anche se
solo apparente: la grammatica classica, in questo caso, mette in evidenza rapporti proporzionali
molto più complessi, tanto da divenire quasi un pretesto usato per risolvere il linguaggio di un
organismo nuovo, del tutto diverso dalla tradizione, così come è anche della cupola che non sta più
a rappresentare la volta celeste. Infine, tra gli edifici specialistici realizzati da questo architetto,
dopo l’Ospedale reale di Chelsea (1682-1689), deve essere ricordato il Ospedale Navale a
Greenwich del 1695. Questo è risolto dai grandi corpi di fabbrica delle corsie, alcuni dei quali
incernierati tra di loro da spazi centrali coperti a cupola, tutti prospettanti su di un unico grande
spazio fortememente allungato: il linguaggio classico è ancora una volta chiamato a risolvere
l’impaginato delle fronti, del resto molto semplici e condizionate dalla stessa specificità funzionale
dell’organismo architettonico. In sintesi, il classicismo di Christopher Wren ha matrici molto
diverse da quello precedente di Inigo Jones e non ne costituisce la continuità, ma piuttosto una
precisa alternativa nel contesto del percorso evolutivo iniziato, non da molto, dalla cultura
architettonica inglese.
Negli altri stati europei, tanto la durata della Guerra dei Trent’anni, che le condizioni
politico-economiche interne ed esterne, rallentarono molto l’attività edilizia e la diffusione dei
risultati delle varie esperienze figurative nell’architettura. In Spagna, dopo la massima potenza
raggiunta durante il regno di Filippo II (1598-1621), aveva inizio un periodo di grande crisi tanto
come potenza militare, che economica, culminata nella sconfitta ad opera dei francesi nella battaglia
di Rocroi. In tal modo, anche l’architettura veniva subito messa da parte assumendo un ruolo di
secondaria importanza: durante questo periodo, più che il rinnovamento degli organismi
architettonici, ad essere sviluppato è il tema della decorazione parietale, portata avanti sino
all’esasperazione, ma che raggiungerà il suo vertice soprattutto nelle chiese missionarie del sud
America. Tra gli episodi più significativi debbono essere ricordati la Cattedrale di Madrid,
realizzata dopo il 1629 (Francisco Bautista, 1594-1678), Santa Maria Maddalena a Granada (dopo il
1677) di Juan Luis Ortega (1628-1677) a pianta longitudinale e coperta a cupola, oltre alla notevole
chiesa dei Desesperados a Valenza dell’architetto Diego Martinez Ponce de Urana (1652-1657):
unico esempio, quest’ultima, di un organismo completamente nuovo impostato su di un ellisse
longitudinale iscritto in un rettangolo, che sembra anticipare esperienze dell’Europa centrale della
prima metà del XVIII secolo. Tra le grandi capitali europee, Vienna è l’ultima ad iniziare il proprio
processo di rinnovamento, la cui attività edilizia non poté avere inizio prima del 1683, anno della
definitiva sconfitta dei Turchi sotto le mura della città ad opera dell’esercito imperiale guidato dal
principe Eugenio di Savoia, che pose fine all’espansionismo islamico verso l’Europa centrale. Da
questo momento in poi, in Austria e nei paesi germanici si avviava una diffusione della cultura
italiana e romana ad opera soprattutto di architetti e maestranze provenienti dalla Lombardia e dal
Canton Ticino: tra questi, in Austria, il personaggio più rilevante fu certamente Domenico
Martinelli (1650-1718), che si stabilì a Vienna nel 1690, ove realizzò il palazzo del principe di
Liechtenstein (iniziato nel 1692), offrendo una riproposizione monumentale del berniniano palazzo
Chigi-Odescalchi. Per lo stesso committente realizzò, inoltre, una villa (1696), il cui impianto è
caratterizzato da un atrio passante affiancato da due scaloni d’onore, mentre la fronte è risolta
ancora da una parte basamentale bugnata, sormontata da un ordine gigante su paraste. Oltre al
Martinelli, gli altri architetti di origine italiana presenti in Europa centrale sono, a Praga, Carlo
Lurago (1618-1684) e Francesco Carati (morto nel 1669), mentre in Baviera è presente Agostino
Barelli (1627-1699), autore della chiesa teatina a Monaco di Baviera sul modello della romana
Sant’Andrea della Valle. Ancora in Boemia è importante la presenza del francese Jean-Baptiste
Mathey (1630-1695), autore tra l’altro della chiesa di San Francesco dei Crociferi a Praga (1679-
1688), dalla pianta risultante dalla sintesi tra un ellisse longitudinale e una croce greca allungata e
coperta a cupola. Unico, tra gli architetti tedeschi, di una qualche rilevanza fu Andréas Schluter
(1664-1714), incaricato di progettare il palazzo reale di Berlino, manifestazione del nuovo
assolutismo prussiano: un personaggio, tuttavia, isolato che conferma l’assoluta prevalenza degli
architetti e della cultura architettonica italiana nell’Europa centrale dopo la Guerra dei Trent’anni.
Gli ultimi tre decenni del XVII secolo, se pure Roma rimaneva il più importante centro di
elaborazione e sperimentazione della cultura europea, tanto Parigi, che Londra, sembrano
contenderne il primato, ma in Italia anche Torino non era da meno sia per l’importanza del suo
nuovo sviluppo urbano, che per l’assoluta originalità dell’opera di Guarino Guarini. Certamente
Jules Hardouin Mansart e Christopher Wren possono essere considerati come protagonisti
nell’ambito di quel classicismo rappresentativo ispirato, certamente, dalle opere di Gian Lorenzo
Bernini: quel linguaggio architettonico che, seppure totalmente nuovo, si esprimeva attraverso la
grammatica e le geometrie della tradizione. In questo senso Roma, Parigi e Londra sembrano andare
d’accordo, in specie dopo la condanna del borriminismo ad opera del Bellori nel 1664. Dopo la
morte del Bernini, tuttavia, l’ambiente culturale degli architetti romani rimase sempre molto
stimolante e attivo, promuovendo tanto una sperimentazione su nuove tipologie edilizie, in specie
religiose, che tutta una serie di proposte e realizzazioni di grandi scenografie urbane che segneranno
in modo definitivo il volto e la caratteristica della città: sarà questo il modo per portare avanti il
programma non scritto della trasformazione continua di Roma, iniziato con la realizzazione delle
strutture viarie rettilinee del Quattrocento e del Cinquecento e continuato, nel XVII secolo, dalle
opere di Bernini, Borromini e Pietro da Cortona. Anche da questo punto di vista, Roma resta
diversa dalle altre capitali europee, tutte legate alla realizzazione di impianti urbani prefigurati,
mentre ogni trasformazione della città centro del cattolicesimo seguitava secondo logiche diverse e
più articolate, di certo anche dovute al carattere unico e sacro delle sue funzioni essenziali. Il
personaggio più interessante di questo momento è senz’altro Carlo Fontana (1634-1714), anche per
il ruolo fondamentale da lui svolto per la diffusione della cultura architettonica romana nel resto
d’Europa attraverso i suoi numerosi allievi di ogni paese. Attivo nella città sin dal 1670, con un
progetto molto rigido non realizzato per l’ampliamento di palazzo Altieri, si era formato soprattutto
a contatto di Pietro da Cortona riguardando, al tempo stesso, le opere del Bernini: durante tutta la
sua attività rimase sempre elemento di punta di tutto l’ambiente romano, tanto da divenire principe
dell’Accademia di San Luca nel 1686, dando vita ad uno studio professionale che divenne subito il
centro di incontro, non soltanto per i giovani architetti romani, ma anche per quelli provenienti da
altre regioni europee. Tra i suoi allievi e collaboratori si ritrovava infatti, oltre al figlio Francesco
(che premorì al padre nel 1708) e i nipoti Carlo Stefano e Girolamo (1668-1701), il suo principale
collaboratore Alessandro Specchi e i romani Carlo Buratti (1651?-1734), Romano Carapecchia
(1661?-1741), Tommaso Mattei (1648?-1726), Matteo Sassi (1640-1723), Carlo Bizzaccheri (1655-
1721), Sebastiano Cipriani (1662?-1738), Domenico Martinelli (1650-1716), Filippo Barigioni
(1690-1753), Domenico Antonio De Sanctis (1660?-1740), Francesco Bufalini, Nicola Rossini,
Ludovico Rusconi Sassi (1678-1736), Antonio Valeri (1648-1736) e Nicola Michetti (1675-1759):
quest’ultima personalità non da sottovalutare, fu chiamato dallo zar Pietro il Grande a partecipare ai
importanti cantieri di Pietroburgo. Tra i non romani emergono le notevoli figure del siciliano
Filippo Juvarra, che lasciò lo studio nel 1713 per andare a Torino, gli austriaci Johann Bernhard
Fischer von Erlach (1656-1723) e Lucas von Hildebrandt (1668-1745) e l’inglese James Gibbs
(1682-1754). L’opera architettonica del Fontana è caratterizzata dall’accettazione senza riserve
della grammatica classica, sempre utilizzata anche nella riproposizione di tipologie della tradizione
tardo cinquecentesca, oltre che per gli edifici specialistici e nelle proposte di nuovi spazi urbani.
Così la facciata concava di San Marcello al Corso (1682-1683) viene derivata dalla tipologia della
maderniana Santa Susanna, mentre nella cappella Cybo a Santa Maria del Popolo (1686) viene
proposto uno spazio interno molto ricco, prodotto dall’assemblaggio di due spazi separati, il
secondo dei quali coperto a cupola. Nello stesso modo, a Santa Maria in Trastevere, riutilizza il
modello della fronte a portico ad un solo ordine (1702). Tra le sue opere più importanti è il
completamento del palazzo di Montecitorio, iniziato dal Bernini, di cui conferma la fronte convessa
e davanti alla quale aveva previsto una ampia piazza semicircolare descritta nel suo trattato
Discorso sopra il Monte Citatorio (1694): una scelta motivata dalla ricerca di una precisa
razionalità nel disegno degli spazi urbani, la cui forma viene vista sempre in relazione alla relativa
principale emergenza architettonica. Nella grande dimensione dell’Ospizio San Michele a Ripa
Grande (1700), questa razionalità viene intesa anche come funzionalità, tanto di forme che di
impianto, contrapponendo alla rigida severità dell’unico, enorme volume complessivo,
un’organizzazione degli spazi interni articolata di necessità attorno ad una successione di corti che
seguono quella centrale più maestosa e rappresentativa. Questo modo, certamente in anticipo, di
coniugare sempre insieme il linguaggio classico con la ricerca di una precisa razionalità trova un
momento di notevole sintesi nel suo trattato Templum Vaticanum (1697) con il quale il Fontana
proponeva il suo progetto di ingrandimento della piazza di San Pietro con la creazione di un grande
spazio rettangolare antistante, ottenuto attraverso la demolizione della spina dei Borghi. L’interesse
di questa idea non sta tanto nella novità della proposta, già in precedenza avanzata da qualche altro,
quanto nel metodo attraverso il quale essa veniva portata avanti: per la prima volta, il risultato di
una ricerca storica intesa come conoscenza della realtà costruita (la Basilica petriana con la piazza
berniniana), rappresentata con lo strumento del disegno, veniva assunto come fondamento di un
progetto di architettura, individuandone la sua più ragionevole motivazione. Malgrado le non molte
opere realmente costruite, l’importanza di Carlo Fontana sta, oltre che in questo suo ultimo trattato,
anche nei suoi numerosissimi progetti non realizzati, molti dei quali dovettero circolare in tutta
Europa, diffondendone la fama e facendo del suo studio un esemplare centro di elaborazione
culturale indirizzato verso una creatività razionale fondata sul linguaggio classico. Al suo allievo
più noto, Alessandro Specchi (1667-1728), si deve la prima della nuova serie di importanti
scenografie urbane che caratterizzavano Roma durante la prima metà del XVIII secolo: lo
scomparso porto di Ripetta (1702), con cui s’iniziava il processo di trasformazione del tridente di
Campo Marzio in una sorta di città in forma di giardino, mediandone il rapporto con il Tevere
attraverso un sistema di scalinate di risalita concavo-convesso di matrice chiaramente cortonesca.
Un precedente importante della successiva scalinata di Trinità dei Monti (1725), per la quale lo
stesso architetto, con un progetto del 1717, anticipava quasi tutte le scelte definitive di Francesco
De Sanctis (1693-1740). Questa risulta una soluzione ancora più grandiosa, posta a fondale della via
dei Condotti e preceduta dalla preesistente fontana della Barcaccia, proponendo un percorso di
risalita alternativamente longitudinale e trasversale: tutto ciò risolto con il disegno concavo-
convesso delle rampe di risalita e dei ripiani protesi verso la città. Visti in successione, dal monte
Pincio alla città più bassa e al fiume, la scalinata e il porto riproponevano a scala urbana quei
percorsi fatti di terrazzamenti, discese e giochi d’acqua, propri delle grandi ville patrizie: una novità
assoluta e spettacolare, con la quale veniva modificata del tutto la forma preesistente di questa parte
della città. Tutto ciò non si ripete nelle altre grandiose architetture scenografiche, sempre proposte
isolatamente nel contesto del tessuto edilizio esistente, quali “poli” di eccezionale qualità figurativa.
Così è per le Scuderie papali di Alessandro Specchi (1723), avanti al palazzo del Quirinale, più tardi
terminate dal Fuga, per la sistemazione della piazza Sant’Ignazio (1725) del beneventano Filippo
Raguzzini (1680c.-1771): un episodio in controtendenza, certamente borrominista, che dà luogo ad
una piazza-sagrato che contrappone alla rigida e alta facciata gesuitica la fantasiosa varietà
articolata dei suoi edifici di altezza molto ridotta. A Roma, l’affermazione definitiva
dell’architettura del linguaggio classico veniva preceduta da un intervento del critico e storico Lione
Pascoli, il quale nelle sue Vite (1730), faceva pronunciare all’architetto Giovanni Battista Contini
(1641-1723) una violenta inventiva contro i cosiddetti “borrominelli”: soltanto due anni più tardi, il
risultato dei concorsi per la facciata della basilica di San Giovanni in Laterano e per la fontana di
Trevi avrebbero sanzionato in maniera definitiva questa precisa scelta figurativa. Autore della
fronte lateranense fu il fiorentino Alessandro Galilei (1691-1736), che aveva già lavorato
nell’Inghilterra di Wren: un’esperienza rivissuta per questa occasione, risolvendo i due livelli della
facciata a portico con un solo ordine corinzio gigante sormontato da un timpano triangolare.
Certamente una soluzione molto diversa e nuova per l’ambiente romano che, tuttavia, lo stesso
architetto non seppe ripetere nella molto più tradizionale fronte per la chiesa di San Giovanni dei
Fiorentini. Di tutt’altro respiro è la mostra d’acqua della Fontana di Trevi (Nicola Salvi, 1697-1751)
nella quali ai ricordi cortoneschi e di Carlo Fontana si aggiunge la sintesi tra architettura, scultura
ed elementi naturalistici (acqua e rocce): così per risolvere la fronte di un palazzo, come quella del
progetto del Cortona per il palazzo Chigi, e vede anche il motivo di Carlo Fontana per la mostra
dell’Acqua Paola al Gianicolo e la vasca che invade tutto lo spazio-piazza, mentre il fondale
architettonico rievoca un’identica forma del tempo di Sisto V. Un insieme eccezionale, ricco e
dinamico, dalle molteplici visuali legate ai percorsi di arrivo, che si presenta sempre come una
sorpresa. Malgrado l’eccezionalità di queste opere, tuttavia, l’architetto di maggior rilievo al
momento è Ferdinando Fuga (1699-1781), molto vicino al pontefice Clemente XII Corsini, per il
quale realizzò il palazzo di famiglia alla Lungara (1736), la Manica lunga e il palazzetto della Cifra
al Quirinale (1730-1732) e l’adiacente palazzo della Consulta (1732): un esempio, questo, che
ripropone la tipologia della fronte dagli ordini sovrapposti e lo spazio della corte interna
caratterizzati da uno scalone d’onore a doppia rampa lasciato in vista. Il Fuga nel 1752, così come
Luigi Vanvitelli (1700-1773) che aveva già operato nello Stato pontificio, lascerà Roma per Napoli,
al servizio del nuovo re delle Due Sicilie Carlo III di Borbone.
Durante la prima metà del XVIII secolo Roma rimaneva, in tal modo, il più importante
centro di diffusione della cultura architettonica in Europa: ruolo reso possibile anche dalla politica
della Santa Sede che si era mantenuta estranea ai grandi conflitti dinastici che, iniziati con la guerra
di successione spagnola (1701-1713), si sarebbero conclusi con la pace di Aquisgrana (1748) al
termine di quella di successione austriaca, momento conclusivo dell’assetto politico definitivo
europeo. In ogni caso, quasi tutta la penisola italiana, fatta eccezione in parte per il Piemonte, non
divenne più il luogo degli scontri armati. I singoli stati, al contrario, sono interessati da profondi
mutamenti di carattere istituzionale determinati dalla prevalenza politica delle diverse potenze
europee. Con il trattato di Utrecht (1713), che mette fine alla guerra di successione spagnola,
ribadito poi da quello di Rastadt (1714), l’Austria otteneva dalla Spagna tutti i suoi possedimenti
italiani e in particolare il Ducato di Milano e quello di Mantova (per l’estinzione dei Gonzaga) e il
regno di Napoli, ad eccezione della Sicilia che andava a Vittorio Amedeo di Savoia: l’Italia
passava, in tal modo, dall’occupazione spagnola a quella austriaca. Subito dopo con il trattato de
L’Aja del 1720, gli austriaci ottenevano anche la Sicilia, dando in cambio al Piemonte la Sardegna.
In architettura, durante questo periodo, emerge a Napoli la figura di Ferdinando Sanfelice (1675-
1748) del quale sono importanti le soluzioni date alle scalinate dei suoi edifici residenziali (palazzo
Sanfelice, 1725-1728). Poco più tardi, per l’estinzione della casa dei Farnese, nel 1731 il Ducato di
Parma veniva assegnato a Carlo di Borbone, figlio di Filippo V di Spagna e di Elisabetta Farnese, il
quale salirà successivamente al trono del Regno delle Due Sicilie con il trattato di Vienna del 1738
con cui si era posto termine alla guerra di successione polacca: dopo il 1750, questo sovrano
certamente illuminato farà di Napoli uno dei centri europei più importanti di produzione e
diffusione della cultura architettonica. Infine, nell’ambito delle sistemazioni territoriali e dinastiche
italiane, anche il Granducato di Toscana veniva assegnato alla morte dell’ultimo sovrano mediceo
Gian Gastone, a Francesco di Lorena, marito della futura imperatrice d’Austria Maria Teresa:
un’altra dinastia, quella degli Asburgo-Lorena, che promuoverà la modernizzazione di tutta la
regione, anche nel campo dell’architettura, dopo i deboli governi degli ultimi due granduchi
medicei. Al tempo stesso, nel contesto italiano ed europeo, Torino manteneva il suo ruolo di centro
di produzione e sperimentazione di nuove esperienze architettoniche, parallelamente a Roma,
mettendo a frutto i successi politici e militari della dinastia sabauda, sempre più orientata a liberarsi
dell’influenza francese ingrandendo, al tempo stesso, il territorio dello Stato. La politica del nuovo
duca Vittorio Amedeo II, che iniziò il proprio autonomo governo solo dal 1684, dopo il 1687 si
orientava definitivamente verso l’alleanza con l’Austria: in tal modo, con l’aiuto del cugino,
generale imperiale principe Eugenio di Savoia-Carignano, otteneva l’uscita dei francesi dal
Piemonte (trattato di Pinerolo, 1696). Successivamente, dopo aver sconfitto ancora una volta i
francesi nella battaglia di Torino (1707), di nuovo con l’aiuto del principe Eugenio, al termine della
guerra di successione spagnola otteneva la Sicilia con il titolo regale per la sua dinastia: proprio in
occasione della battaglia di Torino, Vittorio Amedeo II aveva fatto voto, in caso di vittoria, di
erigere una basilica sul colle di Superga che sovrasta Torino. Per rispondere a questo impegno
veniva chiamato (1713) il messinese Filippo Juvarra (1678-1736), proveniente da Roma con
l’esperienza acquisita nello studio di Carlo Fontana nell’approfondimento dell’applicazione del
linguaggio classico nell’architettura: una figuratività assolutamente diversa e anche alternativa
rispetto a quella del Guarini, protagonista assoluto in Piemonte nella seconda metà del XVII secolo.
Per la basilica di Superga (1715-1718), lo Juvarra definisce un impianto che risulta formato
dall’accoppiamento di due impianti centrali: il grande vano circolare dell’aula e la croce greca del
presbiterio. La prima, dalle pareti articolate da cappelle di diversa ampiezza, è coperta da una
cupola su tamburo molto alto, mentre il secondo presenta anch’esso all’intersezione una cupola di
minori dimensioni: molto classicamente, lo spazio sacro è preceduto da un pronao, con quattro
colonne sulla fronte sormontate da un timpano e tre ai due lati. Ancora a Torino, nel palazzo
Madama (1718-1721), ad un impianto planimetrico molto scenografico, impostato su una grandiosa
scalinata a doppie rampe contrapposte e arricchite dalla preziosità dei marmi di rivestimento,
corrisponde una fronte che ripropone la tipologia di quella berniniana del palazzo Chigi Odescalchi:
scandita da nove assi di aperture, con le tre centrali a definire un corpo avanzato, presenta un
basamento bugnato sormontato da un ordine gigante corinzio su lesene, che racchiudono il piano
nobile con un mezzanino sovrastante. Nella parte centrale l’ordine è su colonne ribattute da paraste,
mentre il confine con il cielo è definito da una balaustra, sormonta da statue al centro e da vasi nelle
ali laterali. Infine, nel casino reale di caccia di Stupinigi (1729-1731), sempre voluto da Vittorio
Amedeo II, proponeva un impianto molto articolato, tale da interagire con lo spazio esterno: il
fulcro della composizione è dato da una rotonda centrale da cui si dipartono quattro bracci
diagonali, preceduta da una corte d’onore di forma ottagonale, a sua volta introdotta da uno spazio
rettangolare. Lungo la provenienza da Torino la strada diventa un viale molto ampio, fiancheggiato
da edifici di servizio, aprendosi poi in un ampio semicerchio che trova riscontro in un altro più
piccolo che precede il grande complesso edilizio. Malgrado la grande rilevanza delle architetture
prodotte, l’opera di Filippo Juvarra non cancella il valore esemplare dell’eredità guariniana, che
rimase sempre presente nella ricerca delle nuove generazioni di architetti. Benedetto Alfieri (1700-
1767), architetto della corte reale dal 1739, insieme a Bernardo Vittone (1705-1770) ne furono i due
esponenti più interessanti: il secondo particolarmente, formatosi prima a Roma, poi assistente dello
Juvarra e addirittura curatore della pubblicazione delle opere guariniane. Ambedue, tuttavia,
realizzarono le loro architetture più importanti dopo l’inizio della seconda metà del XVIII secolo,
continuando la grande tradizione dello sviluppo della cultura architettonica nello Stato dei Savoia.
Dopo aver spinto definitivamente le mire espansionistiche dell’impero ottomano, i successi
militari e diplomatici conseguiti con le guerre di successione fanno dell’impero austriaco una
grande potenza politica, anche se a dimensione solo continentale: durante la prima metà del XVIII
secolo e anche oltre, tutto ciò porterà al consolidamento di una nuova e pressoché omogenea area
culturale estesa sino alla Boemia e agli stati germanici. A Vienna, in assoluta continuità con gli
architetti e le maestranze italiane, che avevano fatto conoscere il linguaggio classico delle
architetture berniniane, era attivo dal 1686 Johann Bernhard Fischer von Erlach (1656-1723): una
personalità notevole, formatasi a Roma dal 1671 alla bottega dello Schor e forse anche presso lo
studio di Carlo Fontana. Divenuto sovrintendente alle fabbriche imperiali con Giuseppe I (1705),
vedendo riconfermato in tale incarico dal successore Carlo VI (1712), mentre del 1707 è un suo
viaggio a Venezia per approfondire l’architettura di Andrea Palladio. Attivo in tutto il paese, iniziò
la sua attività a Vienna ove realizzò il palazzo Eckardt (1690), quello per il cancelliere Strattmann
(1692-1693), il palazzo Althan (1693, non più esistente) e quelli del principe Eugenio di Savoia
(1696), Batthyány (1699), Trautson (1709), oltre alla Cancelleria Boema (1708-1714): nel 1693,
infine, aveva redatto un primo progetto per la residenza imperiale di Schönbrunn, che poi non fu
realizzato. In tutte queste opere, di grande interesse è la sperimentazione portata avanti alla ricerca
di nuove tipologie edilizie per i palazzi nobiliari, come nel palazzo Althan, risolto da un corpo
centrale di forma circolare con due ali disposte radialmente. Al contrario, per la soluzione delle
fronti viene riproposta di continuo la tipologia del romano palazzo Chigi Odescalchi, dal basamento
bugnato, sormontato da un ordine gigante: con varianti, naturalmente, come nei palazzi Strattmann
e Althan, nei quali il corpo centrale della fronte, al di sopra del bugnato basamentale, viene risolta
da un ordine su paraste, cui è sovrapposto un secondo a fascia. La citazione del modello beniniano è
più precisa in altre occasioni (palazzi del Principe Eugenio e Batthyány), mentre nella Cancelleria
Boema e nel palazzo Trautson, realizzati dopo il viaggio a Venezia, il corpo centrale avanzato è
sormontato da un timpano triangolare alla maniera palladiana. Molto notevole, a Niederweiden
presso Vienna, è anche il castello Engelhartstetten (1693), dalla pianta caratterizzata da uno spazio
centrale ovale con due ali simmetriche: un’alta scalinata conduce al vano centrale, che emerge più
alto di un piano rispetto alle ali, riproponendo in qualche modo l’esempio francese del castello di
Vaux-le-Vicomte di Louis Le Vau. Infine, tra i suoi edifici religiosi più importanti sono, a
Salisburgo, la chiesa della Trinità (1694-1702), e la Collegiata di Nostra Signora (1696-1707). La
prima ha un impianto molto semplice dato da un ellisse posto lungo l’asse longitudinale coperto da
una cupola ovale su di un tamburo, con la fronte concava fiancheggiata da due alti torri campanarie.
La Collegiata, al contrario, presenta un impianto molto più complesso, di maggiori dimensioni e dal
grande sviluppo in altezza, in cui un portico dalla pianta ellittica precede uno spazio interno a croce
greca allungata, coperto a cupola e fiancheggiato da quattro cappelle laterali ellittiche: la fronte,
naturalmente convessa, avanza rispetto alle due torri campanarie ai suoi lati. Per l’elevato numero e
la grande qualità delle sue opere, Fischer von Erlach deve essere considerato come il protagonista
dell’affermazione in Austria di una cultura architettonica nuova, fondata prevalentemente sulle
esperienze romane, cui riuscì a dare una propria personale interpretazione, tanto da iniziare una
grande tradizione nazionale. Anche se in modo diverso, sulla stessa linea culturale deve essere
collocata la notevole personalità di Johann Lucas von Hildebrandt (1668-1745), anch’egli formatosi
in Italia, prima al seguito del principe Eugenio sulle esemplarità piemontesi, poi a Roma dal 1690
nello studio di Carlo Fontana: tornato al Vienna nel 1696, veniva nominato consigliere imperiale
nel 1698, poi architetto di corte dal 1700 e infine sovrintendente generale delle costruzioni imperiali
dal 1723, alla morte di Fischer von Erlach. All’inizio la sua opera si realizza parallelamente a quella
di quest’ultimo, anche se più impegnata nella sperimentazione sugli organismi religiosi: tra queste,
a Vienna, la chiesa dei Piaristi (1698-1716), una reinterpretazione della pianta del San Lorenzo
guariniano, ripresa immediatamente dopo nel San Lorenzo a Gabel, in Boemia vicino a Praga
(1699). Presentano un impianto a sviluppo longitudinale, con al centro un grande spazio centrale
coperto a cupola, a matrice quadrata con ampi angoli convessi, ma contrastati da concavità spaziali;
due ellissi completano l’impianto, il primo a fare da atrio e il secondo da presbiterio con una
terminazione absidale. Le due chiese presentano, naturalmente, alcune differenze tra loro,
soprattutto nel disegno delle cappelle ellittiche che fiancheggiano i lati lunghi del vano centrale, ma
debbono essere considerate come un preciso momento di sperimentazione, applicazione e
superamento di un modello di riferimento ben precisato. Impegnato prevalentemente nella
realizzazione dei palazzi nobiliari dell’aristocrazia imperiale, Lucas von Hildebrandt portava avanti
la sperimentazione di nuove tipologie, iniziata da Fischer von Erlach con il palazzo Althan. Così a
Vienna, nel Schwarzenberg (1699), l’organismo è risolto da un corpo di fabbrica, con al centro uno
spazio ovale con ali ortogonali rispetto ad ambedue le fronti: la facciata di arrivo presenta un
portico rettilineo con tre arcate su colonne, posto avanti alla superficie convessa, per la sua intera
altezza e raggiungibile per mezzo di due scalinate semicircolari. In questo contesto, il linguaggio
architettonico ripropone lo schema consueto dell’ordine gigante su paraste, sovrapposto a un
basamento bugnato e sormontato da una balaustra, tetto a padiglione e con l’unica emergenza della
copertura del vano centrale ovato. Con Hildebrandt, poi autore a Vienna dei palazzi Schönburg
(1706-1710), Daun-Kinsky (1713-1716), della Cancelleria Imperiale (1719), il Belvedere nella villa
del Principe Eugenio di Savoia (1721-1724), oltre al palazzo Herrach (1728-1729) e il castello di
Göllersdorf (1710-1717). Tra questi, il grandioso palazzo Daun-Kinsky interessa tutta l’area di un
isolato dalla forma rettangolare allungata, la cui fronte principale si apre su uno dei lati corti: al
portale concavo segue una vasta aula ovale che immette nella corte d’onore, succeduta da una
seconda dalle dimensioni minori. La facciata è impostata su sette assi di aperture, tra i quali i tre
intermedi individuano il corpo centrale avanzato, riquadrate da un ordine gigante su paraste al di
sopra di un basamento bugnato, che raccoglie due piani e sormontato da una balaustra con statue a
fare da confine con il cielo. In questo insieme, mentre le riquadrature del corpo centrale avanzato
presentano un disegno più ricco, la soluzione del grande portale è senz’altro molto singolare, di
forma concava e risolto da due colonne poste radialmente e sormontate da una trabeazione
curvilinea. Sempre legate a una grande novità sono anche le soluzioni adottate nel Belvedere
superiore della villa del Principe Eugenio, nella quale Fischer von Erlach aveva impostato quello
inferiore. In questo caso, la ricca articolazione volumetrica del nuovo edificio è prodotta da un
corpo di fabbrica rettilineo, dalla parte centrale avanzata, con quattro ottagoni coperti a padiglione
posti su ciascun angolo: un portico precede il corpo centrale avanzato, risolto da un doppio ordine
corinzio su paraste, al di sopra della fascia basamentale bugnata, con cinque assi di finestre per lato,
mentre i residui quattro assi presentano un piano in meno, in modo da raccordarsi con gli ottagoni
angolari. Al di sopra delle cornici terminali, è presente una balaustra avanti al tetto a padiglione,
completando una vivace ricchezza compositiva certamente di grande rappresentatività: un carattere,
questo, proprio di tutta l’architettura di Lucas von Hildebrandt che andava a rafforzare l’importanza
dell’architettura austriaca in quel momento come singolare fenomeno nazionale, rispetto al resto
d’Europa. Novità, tutte queste, immediatamente riprese dalla successiva generazione di architetti,
tra i quali sono particolarmente importanti il tedesco Balthasar Neumann (1687-1753) e il boemo
Kilian Ignaz Dientzenhofer (1689-1751), principale esponente di una famiglia di architetti. Una
delle sue prime opere, autonoma dall’attività del padre Christoph, fu il santuario della Natività di
Maria Vergine a Nicov (1720-1728): un organismo impostato su un quadrato centrale dagli angoli
smussati e coperto a cupola, con un presbiterio molto approfondito, due cappelle trasversali
semicircolari. Il perimetro esterno segue l’articolazione dello spazio interno, mentre due torri
campanarie ne inquadrano la fronte concava, risolta da un ordine tuscanico gigante su paraste, posto
su un podio molto alto e sormontato al centro da un secondo ordine composito, raccordato da volute
con quello inferiore. Tale capacità di inventare nuovi organismi religiosi caratterizza tutta l’opera
del Dientzenhofer, in un superamento continuo di proposte l’una diversa dall’altra. Nella chiesa di
San Clemente a Odolená Voda (1732-1735) l’impianto spaziale longitudinale è il risultato
dell’aggregazione di due ellissi, posti trasversalmente, con uno spazio centrale a matrice quadrata
con gli angoli smussati. Questo, dai lati convessi e dagli smussi concavi, presenta due cappelle
trasversali dalla parete lievemente convessa, mentre l’ellisse di ingresso è preceduto da un vano
quadrato e quello presbiteriale è approfondito anch’esso con un secondo vano quadrato della torre.
Ancora, a Praga, nella chiesa di San Giovanni sulla Roccia (1729-1739), il cui impianto
longitudinale è risolto da un vano centrale a matrice ottagona con tutti i lati convessi, preceduto e
seguito da due ellissi posti trasversalmente: il primo a fare da atrio, affiancato da due torri
campanarie, mentre il secondo destinato all’area presbiteriale. Ad accentuare il decorativismo della
soluzione sta la cupola affrescata dello spazio centrale, il quale, radialmente, presenta quattro
cappelle dalle pareti anch’esse convesse, mentre il perimetro esterno segue le articolate curvature
dello spazio interno, rendendole evidenti. Posta in posizione rilevata viene raggiunta da un’ampia
scalinata caratterizzata da due rampe di scale contrapposte e parallele alla sua fronte. Infine, quella
che a buon diritto, può essere considerata la sua opera più importante è la chiesa di Santa Maria
Maddalena a Karlsbad (1733-1736). Ancora una volta un impianto longitudinale impostato su uno
spazio centrale ellittico coperto a cupola su tamburo, preceduto e seguito da due ellissi, posti
trasversalmente, a fare da atrio e da presbiterio: le cappelle dalla parte di fondo concava, si aprono
lungo l’asse mediano dell’elisse principale, mentre quattro cappelle semicircolari si aprono
radialmente negli angoli. Quattro arconi invadono il tamburo della cupola articolando le pareti
dell’elisse con gli ambienti maggiori, mentre due arcate sovrapposte, di minore altezza, risolvono le
cappelle semicircolari: la ricchezza dello spazio interno viene accentuata da un disegno degli ordini
e da un apparato decorativo ricco di fantasia, mentre il perimetro esterno rende leggibile
l’articolazione interna seguendone il profilo. La fronte, al contrario, si presenta molto sobria,
convessa, affiancata da due torri campanarie e risolta da un ordine gigante ionico su paraste, posto
su un alto basamento, sormontato al centro da un timpano mistilineo. Dientzenhofer apriva, in tal
modo, verso una maggiore ricerca nel disegno degli apparati decorativi dello spazio interno,
accentuandone l’importanza con l’uso di rivestimenti marmorei policromi. Questo stesso indirizzo,
senza rinunciare alla invenzione di nuovi organismi religiosi, veniva seguita anche da Balthasar
Neumann (1687-1753), nato in Boemia, ma operoso soprattutto negli stati germanici: nel 1718
viaggiava in Italia, a Milano e Torino, ove poté conoscere le opere del Guarini e dello Juvarra,
mentre fu a Parigi nel 1723. Prima del suo viaggio in Francia, nel 1719, veniva incaricato dal conte
di Schönborn, divenuto vescovo di Würzburg, di realizzare la nuova residenza vescovile destinata a
divenire la sua opera più importante e i cui lavori durarono fino al 1744. Un edificio molto grande,
preceduto da una corte d’onore quadrata tra due corpi di fabbrica di grande spessore, con una fronte
dal corpo centrale avanzato: l’atrio di accesso passante è prodotto dalla successione di due grandi
vani rettangolari, ortogonali tra loro, mentre un grandioso e scenografico scalone d’onore si apre
ortogonalmente al primo spazio di ingresso. Le fronti sono risolte dalla sovrapposizione di un
ordine composito a uno tuscanico, su paraste per i corpi di fabbrica laterali e su semicolonne sulla
fronte principale, il cui corpo centrale avanzato è preceduto da un portico: il confine con il cielo è
risolto da una balaustra sormontata da statue. Un insieme nel quale lo scalone appare come
l’episodio più rilevante e anche in qualche modo nuovo. Neumann ebbe una notevole fortuna
professionale, realizzando un gran numero di opere, ma il suo nome resta legato, oltre che al
palazzo del vescovo di Würzburg, alle sue opere di architettura religiosa. Tra queste la parrocchiale
di Holzkirchen (1730), dalla pianta circolare inscritta in un ottagono e risolta da otto colonne
composite, e soprattutto il santuario di Vierzehnheiligen (1743-consacrata nel 1772) certamente una
delle più interessanti tra le realizzazioni di questo architetto. La pianta, a sviluppo longitudinale, è
data dalla successione di tre ellissi, di cui quello centrale molto più grande, mentre i due minori
fanno rispettivamente da atrio e da presbiterio: tutti e tre coperti a cupola senza tamburo, sono
affiancati da due cappelle circolari tra il presbiterio e l’ellisse maggiore, mentre altri due, disposti
longitudinalmente, sono tra quest’ultimo e il vano dell’atrio. Tale ricerca molto complessa sulla
articolazione spaziale non trova riscontro nello sviluppo delle fronti esterne, certamente troppo
sintetiche per la forma semiottagona a risolvere il presbiteriale e, ancora di più, per la rigidità
rettangolare che ingloba tutto lo spazio interno, da cui emerge soltanto la convessità della fronte,
affiancata da due torri campanarie: una soluzione che contrasta non soltanto con la qualità dello
spazio interno, ma anche con la vivacità decorativa delle sue superfici di rivestimento, che tendono
ad eliminare la sua funzione di separazione. Infine, a Würzburg, la chiesa di Santa Maria sul
Nikolausberg (1747), dalla pianta sempre a sviluppo longitudinale, organizzata su di un quadrato
dagli angoli smussati e coperti a cupola su pennacchi sferici, preceduto da un endonartece e seguito
da un presbiterio molto approfondito e terminante con un’abside semiellittica: trasversalmente al
quadrato si aprono due cappelle semiellittiche, mentre un ordine su semicolonne ne riquadra gli
angoli smussati. Ancora una volta l’esterno della chiesa sembra rifiutare il disegno di quello interno
ove, al contrario, prevale sempre una certa sovrabbondanza decorativa che sembra sovrapporsi alla
intelligente e sintetica logica organizzativa dell’intero organismo. In ogni caso, in tutte le opere
degli architetti dell’Europa centrale è molto evidente l’intenzione di distinguersi dalle
manifestazioni della cultura architettonica non soltanto romana, ma anche del resto d’Europa: anche
quando alcuni modelli tipologici sembrano essere accettati, è molto evidente che essi sono stati
considerati come momenti di partenza, tutti sempre criticamente rivisitati, in modo da dare luogo ad
un nuovo indirizzo figurativo che, nella diversità dei suoi protagonisti, si presenta in modo molto
omogeneo. Tutta l’Europa centrale, seppure con la prevalenza austriaca, deve essere considerata
come l’area geografica ben delimitata, all’interno della quale questa nuova cultura architettonica
trovò la sua affermazione, divenendone la qualità artistica più rilevante e diffusa.
Al termine della guerra di successione (1713), l’ascesa di Filippo IV di Borbone sul trono
spagnolo, seppure favorì in qualche modo una certa ripresa dell’attività edilizia nel paese, portava a
confermare una continuità assoluta della sua precedente ricerca culturale: poche e limitate le
sperimentazioni tendenti a rinnovare gli organismi architettonici tradizionali e una sempre maggiore
attenzione verso un decorativismo sempre più invasivo di ogni superficie, in specie negli spazi
interni degli edifici religiosi. Principale esponente di questa tendenza, certamente assai diffusa, fu
José De Churriguera (1665-1725), da cui prende il nome di “stile churriguresco”. Un momento
molto alto di questo modo di fare architettura è il cosiddetto “Trasparente” della Cattedrale di
Toledo (1721-1732), di Narciso Tomè (fine XVII secolo?-1742): una sorta di tabernacolo per
adorare il Santissimo tanto dal coro che dalla navata, risolta da un ambiente che appare senza pareti,
ma ricco di luce. Malgrado questi elementi di novità, la prima metà del Settecento, in Spagna, può
dirsi terminare con la Sacrestia della Certosa di Granada (1727-1764) di Manuel Vázquez (1697-
1765), nella quale anche i partiti architettonici tradizionali perdono il loro valore di articolazione
parietale, entrando a far parte della stessa grande ricchezza decorativa e restando privi quasi del
tutto del proprio valore grammaticale. Malgrado queste particolarità, tuttavia, gli architetti spagnoli
non portarono alcun contributo al dibattito europeo contemporaneo che, nella sua articolazione
nazionale, era pur sempre rivolto in prevalenza alla ricerca della novità nella definizione dei diversi
tipi di organismo architettonico e nel valore dell’uso della grammatica del linguaggio classico. È
questo il caso dell’Inghilterra, forse quello più ricco di esperienze nuove rispetto al resto d’Europa,
certamente favorito dal processo continuo di trasformazione delle istituzioni dello Stato, iniziato da
gran tempo dalla fase rivoluzionaria di Cromwell e conclusosi con l’allontanamento della dinastia
reale cattolica degli Stuart e con la loro sostituzione con quelle protestanti degli Orange prima, e
degli Hannover successivamente: nobiltà e borghesia mercantile erano unite da interessi pressoché
comuni, tali da coincidere sempre con quelli dello Stato e del suo progresso verso una società per
deliberare, determinandone l’affermazione come grande potenza tanto a livello militare, che
politico-economico. Le opere architettoniche della generazione successiva a quella di Christopher
Wren vanno collocate in questo contesto generale, molto diverso da quello degli stati assoluti
dell’Europa continentale, la cui cultura non dogmatica dovette favorire certamente la
sperimentazione di nuove logiche progettuali: in particolare, la definizione delle tipologie edilizie
della nuova classe dirigente, l’utilizzazione in chiave sempre più simbolica della grammatica
classica e la progressiva riscoperta di modelli architettonici legati a un passato più o meno lontano.
Ad iniziare questa nuova fase dell’architettura inglese furono John Vanbrugh (1664-1726) e
Nicholas Hawksmoor (1661-1736), il primo molto aperto alla cultura internazionale e all’origine
commediografo, il secondo già collaboratore di Wren dal 1682 e sino 1698: dei due, Nicholas
Hawksmoor sarà il collaboratore essenziale di tutte le opere di Vanbrugh (a partire dal 1699), anche
se dal 1702 aveva iniziato una propria, autonoma attività professionale. La prima opera in comune
fu la realizzazione di Castle Howard nello Yorkshire (1699) che venne commissionato al Vanbrugh
allora privo di esperienza nell’architettura, che volle vicino a sé Hawksmoor come collaboratore,
così come accadrà successivamente per le altre opere a lui affidate. L’organismo di Castle Howard è
caratterizzato da un corpo principale pressoché quadrato con due ali rettilinee verso il giardino
interno e altre due, ortogonali e raccordate con un arco curvilineo, a formare la corte d’onore: a
questa si affiancano due cortili laterali esterni che determinano un asse trasversale alternativo a
quello longitudinale di percorrenza. L’articolata volumetria e le fronti sono accentuate da soluzioni
stilistiche della più diversa origine: dalla cupola che copre il grande spazio centrale, alle torrette
medievaleggianti poste ai lati degli ingressi dei cortili laterali esterni, agli ordini architettonici che
risignificano la torre posta a risolvere l’ingresso principale e circondata da quattro obelischi egizi.
Ancora più eccezionali e nuovi sono gli arredi del giardino, tra cui il tempio romano, posto a
conclusione dell’asse longitudinale dell’impianto generale, un secondo tempio molto simile alla
Rotonda palladiana, un obelisco, una piramide, una torre medievale, un muro con bastioni e un
mausoleo in forma di tempio rotondo: quest’ultimo realizzato dal solo Hawksmoor dal 1729 al
1736. Episodi, tutti questi, di un’assoluta novità che preannunciano la crisi dell’architettura del
linguaggio classico in favore dell’assunzione di modelli architettonici di evidente valore
memorativo, ma al di fuori di qualsiasi logica razionalista. La tipologia di Castle Howard venne
ripresa dai due architetti nel palazzo di Blenheim (1705-1712 e 1716-1727) fatto realizzare dalla
regina Anna per il duca di Marlborough che aveva sconfitto l’esercito francese durante la guerra di
successione spagnola. In questo caso a cambiare è la dimensione dell’edificio, certamente molto
grande e monumentale, tanto che il corpo centrale quadrato presenta al suo interno due cortili ed è
caratterizzato, al centro, da un grande spazio interno affiancato da due scalinate simmetriche.
Diversamente dall’opera precedente, tuttavia, questo edificio si presenta nell’insieme molto austero,
anche se concluso da un attico certamente elaborato, mentre verso il cortile la fronte è resa più
leggera da un ordine scanalato: quasi un momento di riflessione rispetto alle invenzioni di Castle
Howard, in favore di una monumentalità accentuata dalla dimensione molto grande. La terza opera
in comune fra i due architetti fu Seaton Delaval, nel Northumberland, del 1720-1721: ancora una
ripresa dei caratteri tipologici di Castle Howard, definita da un corpo centrale appena rettangolare
con quattro torricini ottagonali angolari e due torri sull’asse trasversale che ne determinano
l’immagine di una struttura fortificata. In questa occasione, gli ordini architettonici tornano di
nuovo ad assumere un valore soltanto iconografico, così verso la corte d’onore l’ingresso principale
è fiancheggiato da colossali colonne tuscaniche, mentre la fronte verso il giardino presenta al centro
un profondo porticato ionico: soluzioni, tutte queste, che testimoniano la sperimentazione continua
dei due architetti ancora una volta alla ricerca di novità. Tutto ciò si ritrova in modo ancor più
evidente nelle architetture religiose di Nicholas Hawksmoor, che dal 1711 era entrato a far parte
della commissione per la realizzazione di cinquanta nuove chiese londinesi insieme a Vanbrugh.
Nelle sue chiese, più che lo spazio interno quasi sempre rettangolare e a sala, sono importanti le
soluzioni delle fronti tra le quali quella principale è risolta da torri-facciate. Così, nel St George-in-
the-East (1714-1729) la parete inferiore della fronte, preceduta da una scalinata, è risolta con un
linguaggio marcatamente classico, mentre la torre si conclude in un ottagono circondato da
contrafforti: quattro torri scalari si innalzano dagli angoli dello spazio interno, ciascuna con un
ingresso dal disegno diverso, le cui aperture superiori si ripetono lungo le pareti esterne
uniformandone il disegno. Nella chiesa di St Anne a Limehouse (1714-1730) la fronte è preceduta
da un vestibolo circolare aggettante verso una scalinata radiale, mentre la torre è conclusa da un
lucernario. Ancor più interessanti appaiono le soluzioni nella Christ Church a Spitalfields (1714-
1729), la cui facciata è preceduta da un portico che evoca immagini palladiane e le altre fronti
ritmate tanto pacatamente da sembrare essenziali. Infine, diversamente dalle altre, la chiesa di St
Mary Woolnoth (1717-1727) presenta una pianta centrale, quadrata e definita da una trabeazione
rettilinea, circondata da un ambulacro e illuminata dall’alto da grandi finestre semicircolari: nella
fronte, al di sopra di un alto basamento bugnato, sta un colonnato classico che sostiene due torri,
mentre nella parte opposta nicchie bugnate e concave sono inserite in un alto basamento continuo.
Appare evidente, in tutti questi esempi, la rinuncia ad accettare ogni rigido canone di progettazione,
lasciando sempre libera la scelta di utilizzare forme espressive diverse all’interno di un identico
contesto spaziale: Hawksmoor, portando avanti le esperienze comuni con Vanbrugh, apriva in tal
modo all’architettura, non soltanto inglese, una strada che non sarebbe stata percorsa
immediatamente, ma soltanto più tardi. Durante questo periodo, d’altronde, l’ambiente culturale
anglosassone non era del tutto omogeneo e l’architettura del linguaggio classico ancora in grande
evidenza: è questo il caso dell’opera di James Gibbs (1682-1754), che si era formato a Roma nello
studio di Carlo Fontana dal 1707 al 1709, dopo aver compiuto numerosi viaggi in Francia, in
Germania e in Svizzera. Al suo ritorno in patria (1709) partecipò alla commissione per le nuove
chiese londinesi, incarico che lasciò molto presto. Le opere maggiori sono a Londra, le chiese di St
Mary-le-Strand (1714-1717) e di St Martin-in-the-Fields (1721-1726), quest’ultima caratterizzata da
un ordine gigante che ne risolve la fronte esterna: una dichiarata riaffermazione del linguaggio
classico, resa ancor più manifesta nel suo impegno teorico di trattatista, che si ritrova anche nelle
sue numerose case di campagna e nella sua più importante architettura civile, la Radcliffe Library a
Oxford (1737-1749). Accanto a questa manifestazione, certamente tradizionale, di classicismo
architettonico deve essere ritenuta molto innovativa l’azione culturale innanzitutto portata avanti da
Lord Burlington, affiancato dal pittore architetto William Kent: una sorta di rilancio delle
architetture di Inigo Jones, accompagnato dalla divulgazione dei modelli palladiani che vengono
assunti come archetipi. Richard Boyle, conte di Burlington (1694-1753), intellettuale, mecenate e
architetto dilettante, fece un primo viaggio in Italia nel 1714-1715 e vi tornò successivamente nel
1719 per studiare Palladio: durante un suo soggiorno a Roma incontrò William Kent (1685-1748),
allora ancora pittore, invitandolo a decorare la Burlington House di Londra. In tal modo iniziava la
collaborazione tra i due e l’avvio di Kent all’architettura, il quale pubblicherà nel 1727 i disegni di
Inigo Jones per incarico del suo amico, mentre lo stesso Lord Burlington, nel 1728, pubblicava
Fabbriche antiche disegnate da Andrea Palladio Vicentino e date in luce da Ricardo conte di
Burlington. Questi due personaggi molto particolari svolsero l’attività progettuale anche
separatamente, ma l’allora opera più importante e significativa è quella che li vede insieme nella
villa di campagna a Chiswick, nel Middlesex, fra il 1730 e il 1740 per la quale Lord Burlington
disegnò l’edificio principale, a imitazione della Rotonda palladiana, mentre Kent ne risolveva la
sistemazione del giardino: iniziava in tal modo, in Inghilterra, la diffusione per il gusto delle case
palladiane e per un’interpretazione della natura nei giardini non più legata alla rigidità delle forme
geometriche tradizionali, tanto da aprire ancora un nuovo percorso di ricerca destinato a durare
molto a lungo. Un esito quasi immediato si ritrova, in ogni caso nell’opera di John Wood Senior
(1704-1754). Un altro costruttore dilettante che nel 1725 progettò un ampliamento della città
termale di Bath, realizzandone successivamente, tra il 1728 e il 1734, il nucleo centrale, Queen
Square, ispirata ai grandi spazi londinesi. La sua opera successiva fu il King’s Circus (iniziato nel
1754), portato a termine più tardi dal figlio John Wood Junior: esperienze, tutte queste, che provano
l’adattabilità dei nuovo modelli del linguaggio classico con le esigenze di rappresentanza della
nuova classe borghese. Tutta l’architettura inglese della prima metà del Settecento mette in
evidenza, in tal modo, una grande ricchezza di ricerche diverse tendenti al superamento della
tradizione, ma senza metterla completamente da parte. Ad essere stata superata era qualsiasi rigidità
grammaticale del linguaggio classico che veniva usato esclusivamente in funzione delle sue qualità
espressive e memorative, tanto che anche la riproposizione critica delle tipologie palladiane e di
Inigo Jones veniva intesa per il suo valore simbolico capace di manifestare la nuova realtà
economico-sociale: in ogni caso, tutte novità assolute rispetto al resto d’Europa e aperte verso il
futuro prossimo.
La prima metà del XVIII secolo, in Francia, è caratterizzata dal grande impegno nelle tre
guerre di successione, dalla fine del regno di Luigi XIV (settembre 1715) al lungo periodo della
reggenza (sino al 1743) e dall’inizio del governo autonomo del nuovo re Luigi XV:
contemporaneamente, tuttavia, così come stava accadendo in Inghilterra, nella cultura francese si
andavano affermando i principi della nuova filosofia dell’Illuminismo che porteranno all’inizio
della redazione dell’Encyclopédie di Diderot (1713-1784) e d’Alembert (1713-1784) nel 1751. In
tal modo, all’accortezza e alla prudenza dei governi della reggenza che, alle prese con le diverse
inquietudini europee, cercavano di mantenere il prestigio dello stato assoluto di Luigi XIV, si
affiancava la progressiva diffusione di una diversità culturale tanto radicale da contestare ogni
precedente tradizione religiosa, politica e sociale. Anche se preceduti in qualche modo dal pensiero
dell’inglese John Locke (1632-1704), saranno decisivi il pensiero e le opere di Voltaire (1694-
1778), protagonista durante il regno di Luigi XV, di Jean de Montesquieu (1689-1755), sostenitore
della separazione dei poteri dello stato, nell’ambito di una monarchia costituzionale, oltre
all’impegno di Jean-Jacques Rousseau (1712-1768) che aprirà la strada alla rivoluzione durante la
seconda metà del secolo: ragione, natura, scienza e progresso sono il credo di questo nuovo
pensiero critico che affrontava la realtà in tutti i suoi aspetti, dalla conoscenza alla politica,
all’estetica e all’educazione. In ogni caso, anche se la filosofia dei lumi non mise mai da parte il
classicismo, in quanto razionalistica rappresentazione della natura, durante la prima metà del secolo
le sue idee non erano così diffuse da poter influenzare subito la cultura figurativa e, in particolar
modo, quella architettonica. Certamente più importante fu il governo dell’inizio della reggenza che,
favorendo l’autonomia della nobiltà, creò le premesse per una vera e propria fioritura di edifici di
rappresentanza che ne manifestarono, in specie a Parigi, il nuovo e attivo ruolo politico. Questo
preciso ambito di riferimento, malgrado l’assenza di veri e propri protagonisti durante il periodo,
produsse una profonda trasformazione del gusto nell’architettura del linguaggio classico, tale da
superare la rigidità delle pareti articolate dagli ordini, in qualche modo codificata dalle opere di
Jules Hardouin Mansart: anche senza una precisa innovazione degli organismi architettonici, gli
ambienti interni si articolano tra loro in funzione della rispettiva destinazione d’uso denunciando
spesso anche il percorso prevalente lungo l’asse centrale. Questo diverso percorso di ricerca venne
aperto da un contemporaneo del Mansart, Pierre Bullet (1639-1716), il quale nell’hôtel Crozat
(1700-1702) propose subito nella fronte verso il giardino una serie di finestre molto ravvicinate tra
loro, aperte su una superficie muraria non più ritmata dagli ordini architettonici: anche nel castello
di Champs-sur-Marne (1703), che mantiene la forma planimetrica di Vaux-le-Vicomte del Le Vau,
si presenta come un volume fortemente unitario e coperto dal tetto a mansarda, le cui fronti non
presentano ordini architettonici, ma solo angoli bugnati, mentre le finestre hanno cornici molto
semplici e lineari. Accanto al Bullet si collocano due architetti, allievi del Mansart, Pierre Cailleteau
detto Lassurance (1655-1724) e Robert de Cotte (1658-1737). Il Lassurance iniziò la sua attività
indipendente nel 1700, a Parigi, con l’hôtel Rothelin, cui seguirono l’hôtel Desmarets (1704),
l’hôtel de Roquelaure (soltanto iniziato nel 1722), l’hôtel de Lassy (1722) e il palazzo Bourbon
(1722): tutti, ad eccezione di quest’ultimo, che segna un ritorno al linguaggio di Mansart,
presentano fronti scandite prevalentemente da finestre, tra loro anche ravvicinate, spesso dagli archi
ribassati, con gli assi principali appena segnati, sottolineando la continuità della superficie muraria
che racchiude il volume articolato soltanto dai tetti. A sua volta, Robert de Cotte iniziò, sempre a
Parigi, con l’hôtel de Ludes (1710), cui seguirono l’hôtel d’Estrées (1713) e la ricostruzione
dell’hôtel de la Vrillière di François Mansart (1713-1719): la sua opera più importante fu il palazzo
Rohan di Strasburgo (1728-1742), nel quale uno spazio semiovale precede il portale dorico, l’asse
principale è appena segnato da un modesto risalto, mentre tutte le finestre presentano archi ribassati
e quelle della fronte verso il giardino sottolineano l’articolazione degli spazi interni. Ambedue gli
allievi di Mansart, in tal modo, anziché portare avanti l’eredità del maestro segnarono insieme al
Bullet il consolidarsi di un mutamento in corso, ancor più caratterizzato dall’interesse per
l’arredamento e la decorazione degli spazi interni in relazione alla loro destinazione d’uso, trovando
un seguito immediato nella successiva generazione di architetti, tutti operanti prevalentemente
durante il periodo della reggenza. Tra i principali esponenti di questo secondo gruppo di architetti
sono Jean Courtonne (1671-1739), Jacques V Gabriel (1667-1742), Ange-Jacques Gabriel (1698-
1782) e soprattutto Germain Boffrand (1667-1754), certamente il personaggio più rilevante. Di
Courtonne sono l’hôtel de Noirmoutier (1720) e l’hôtel de Matignon (1721) nel quale le fronti non
presentano ordini architettonici, mentre l’articolazione delle pareti è ottenuta con aperture ad archi
ribassati e dimensioni diverse. Jacques Gabriel a sua volta, è autore a Parigi dell’hôtel Peyrenc de
Moras per Lord Biron (1728-1751), un volume certamente unitario racchiuso da una parete continua
scandita da finestre. Più rilevante è l’opera di Germain Boffrand, del quale sono noti due progetti
per il castello di Malgrange, presso Nancy (1712), uno dei quali chiaramente ispirato all’impianto
per il palazzo Althan di Fischer von Erlach; tra le sue opere realizzate, l’importante hôtel Amelot
(1710-1713), anticipazione di quanto poi accadrà in seguito, da lui stesso ripetuto nell’hôtel
Seignelay (1718) e nell’hôtel de Torcy, ambedue caratterizzati dall’uso di archi ribassati. Infine,
rispetto a questo gruppo di architetti, deve essere distinta l’opera di Pierre-Alexis Delamair (1675-
1745), autore dell’hôtel Soubise (1704-1709) e dell’hôtel Rohan (1705-1708). Nel primo, le ali
della corte d’onore sono risolte da colonnati su colonne binate che, agli angoli, sono sormontati da
statue, mentre la fronte principale, su due piani, presenta l’asse di simmetria definito da quattro
coppie di colonne binate e con un cornicione aggettante che unifica tutto l’insieme: una soluzione
certamente ricca e grandiosa che mette in evidenza l’interrotta continuità del linguaggio classico
nell’architettura francese. In ogni caso, questa non può dirsi mai venuta meno, in quanto la rinuncia
all’uso degli ordini per articolare le pareti delle fronti degli edifici deve essere considerata soltanto
come un alternativa linguistica all’interno di un identico codice figurativo, così come era avvenuto a
Roma sin dalla prima metà del XVI secolo. Piuttosto deve essere considerato come la maggiore
ampiezza delle aperture, oltre all’essere molto spesso tra loro ravvicinate, determinarono un diverso
rapporto tra spazio esterno e interno, mentre quest’ultimo veniva reso più prezioso da un raffinato
decorativismo guidato dalle necessità di esaltare le specifiche funzioni. In specie durante il periodo
della reggenza la cultura architettonica francese, pur realizzando opere di grande raffinatezza, può
dirsi certamente estranea alla contemporanea evoluzione del pensiero filosofico, i cui esiti saranno
così importanti al termine della seconda metà del XVIII secolo: l’uscita del primo volume
dell’Ecyclopédie nel 1751 segnò certamente non soltanto l’inizio della sua divulgazione, ma anche
l’avvio di un confronto-scontro sempre più serrato con quanto apparteneva a un passato anche
molto recente nella politica, nell’economia e in ogni altro aspetto del sapere umano.
Dall’inizio della guerra dei Sette anni alla Rivoluzione di luglio in Francia
(1756-1830)

Le architetture realizzate durante gli anni intorno alla metà del XVIII secolo, tra la fine
della guerra di successione austriaca (1748) e l’inizio della guerra dei sette anni (1756),
testimoniano della continuità di una ricerca progettuale fondata sulla definitiva affermazione del
linguaggio classico, inteso come sistema oggettivo di relazioni tra le parti che articolano lo spazio
architettonico, contrapposto tanto alle "novità" degli epigoni borrominiani, che alla "continuità" con
la tradizione della fine del Cinquecento. Questo processo, tuttavia, non è così omogeneo nei diversi
paesi europei: seppure Roma rimase, fino alla fine del secolo, il più importante centro
internazionale di incontro culturale, non appariva più il luogo delle grandi imprese architettoniche,
mentre la Francia e l'Inghilterra portarono avanti elaborazioni autonome, alternative tra loro. In
questo contesto, soltanto i paesi germanici e dell'impero asburgico continuarono a esplorare, fino
all'ultimo, tutti gli esiti possibili della figuratività espressionistica delle architetture della prima metà
del XVIII secolo: tali sono, ad esempio, le ultime opere dell’architetto bavarese Dominikus
Zimmermann (1685-1766), come il santuario di Wies (ultimato nel 1754) e la parrocchiale di
Eresing del 1756-1757. Sempre in Baviera, al contrario, Johann Michael Fischer (1692-1766) con la
sua chiesa di Roth am Inn presso Wasserburg (1759-1762), solo poco più tardi preannunciava
l’inizio del nuovo gusto neoclassico. In Piemonte le ultime opere di Bernardo Vittone (1702-1770;
Santa Croce a Villanova, Mondovì, 1755) e di Benedetto Alfieri (1700-1767; Duomo di Carignano,
1757) testimoniano il termine di un’esperienza che aveva avuto una lontana origine nell’opera del
Guarini. A Roma, già precedentemente, le facciate del palazzo Doria Pamphilj sulla via del Corso
(1731-1733) di Gabriele Valvassori (1683-1761) e della basilica di Santa Croce in Gerusalemme
(1743) di Domenico Gregorini (1700-1777) e Pietro Passalacqua (m. 1748) avevano rappresentato
le ultime due manifestazioni ispirate ad una sorta di revival borrominiano. Molto importante è
anche osservare come tutte le maggiori capitali europee (Roma, Parigi, Londra, Vienna) avessero
già raggiunto, nella prima metà del secolo, la loro forma definitiva, né l’avrebbero mutata più fino
alle grandi trasformazioni della seconda metà del XIX secolo: un fatto, questo, che forse pose un
freno alle grandi realizzazioni edilizie, privilegiando la trasformazione di singoli episodi esistenti e
solo talvolta la creazione di episodi polari a livello urbano. Anche se ciò non fu certamente un
limite, ogni nuovo episodio deve essere sempre inteso come il completamento dei singoli
programmi per le diverse città, ormai lontani nel tempo. Tuttavia, proprio la diversità degli ambienti
culturali delle singole città capitali di stati nazionali o regionali stava a caratterizzare le varie
tendenze dei paesi europei che, prima dell'affermazione del gusto neoclassico, portavano avanti la
continuità di una ricerca figurativa classicista dalla evidente, anche se ormai lontana, matrice
berniniana. Essendo stata risparmiata dalla Guerra dei Sette anni tutta la penisola italiana, questo
tipo di esperienze si diffuse da Roma dopo che Ferdinando Fuga (1699-1781) nel 1750 e Luigi
Vanvitelli (1700-1773) nel 1751 lasciarono la città per Napoli al servizio del nuovo re Carlo III di
Borbone. Il Fuga con il suo Albergo dei Poveri a Napoli (dal 1751), rimasto incompiuto, propose
una soluzione del grande organismo specialistico ottenuta con un unico parallelepipedo, articolato
all’interno da tre cortili, di cui quello mediano più ampio con una chiesa a pianta centrale al suo
interno: un impianto molto rigido, smorzato dai risalti appena accennati dei corpi di fabbrica
angolari e di quelli ortogonali alla fronte, con l’avanzamento del corpo centrale caratterizzato dagli
arconi di ingresso su due piani. Tutti questi risalti sono resi più evidenti dalla sovrapposizione di
due ordini su paraste a fascia, poste al di sopra di un basamento a bugnato liscio, che precede la
quota dell’atrio di accesso, raggiungibile da due scalinate simmetriche a doppia rampa, mentre la
superficie restante della fronte è scandita soltanto orizzontalmente. Nel complesso un edificio
certamente monumentale anche per le sue stesse dimensioni (m. 356 × 135), che risulta accentuato
dalla rigidità simmetrica del disegno della fronte, anche se questa è scandita da un linguaggio
architettonico molto semplificato. Da ben altra grandiosità è caratterizzata la nuova Reggia di
Caserta (1752) di Luigi Vanvitelli, certamente ispirata all’esempio di Versailles, anche se risolta da
un unico grande volume molto compatto: un organismo parallelepipedo con quattro cortili interni,
posti ai lati di un lungo e articolato atrio passante, al centro del quale, di lato, è posto un grandioso
scalone d’onore. Questo vero e proprio asse di simmetria, nel suo prolungamento verso la città,
segna il percorso principale di un tridente viario orientato verso la porta del palazzo, mentre,
continuando nello spazio aperto dei giardini, ne determina il più importante allineamento
ordinatore. La fronte del palazzo, che presenta avanzati il corpo centrale e quelli angolari, propone
ancora una volta un’interpretazione della tipologia berniniana del palazzo Chigi Odescalchi: un alto
basamento a bugnato liscio corre lungo tutta la facciata, al quale è sovrapposto un ordine composito
su semicolonne, utilizzato per gerarchizzare l’articolazione delle superfici in corrispondenza
dell’asse di simmetria e delle soluzioni angolari. Infine, a sottolineare anche nella fronte
l’importanza dell’asse che unisce il palazzo ai giardini e alla città, al di sopra del grande arcone
dell’ingresso principale l’ordine gigante, sormontato da un timpano triangolare, riquadra un arco
dalla superficie interna concava. Nel complesso, un insieme di soluzioni tutte molto ricche e
grandiose, nelle quali città, architettura di rappresentanza e natura vogliono coesistere, dando vita
ad un insieme coerente di grande efficacia anche scenografica, ma in ogni caso prodotto di un
momento di transizione perché molto vicino a quanto era già accaduto in Italia e in Europa. Questa
linea di ricerca venne ribadita dal Vanvitelli anche nella più tarda chiesa della Santissima
Annunziata a Napoli (1760-1762). Tale organismo è definito dall’aggregazione di un’unica navata
con tre cappelle per lato con una pianta a croce greca, dai bracci molto rappresi e coperta a cupola,
cui segue un presbiterio con terminazione absidale risolto da un vano della stessa ampiezza
dell’unica navata, con una cappella laterale: un contesto nel quale la fronte interna della navata è
risolta da colonne trabeate così come il vano del presbiterio. Questo tipo di impianto, che trova
riscontro nelle esperienze lombardo-romane di tutto il Seicento e anche oltre, presenta una fronte
convessa disegnata dalla sovrapposizione degli ordini: su semicolonne binate nella parte centrale,
sormontata da un timpano triangolare, mentre paraste singole riquadrano le superfici laterali, poste
al di sopra di un alto stilobate. Tutte le esperienze del Vanvitelli, se pure riconducibili all’interno di
tradizioni consolidate, presentano in ogni caso una loro precisa originalità per il virtuosismo
dell’architetto nel disegnare spazialità raffinate e capaci di produrre immagini suggestive.
Durante questi stessi anni, a Roma il personaggio di maggiore spicco fu certamente Carlo
Marchionni (1702-1786): la sua opera più importante rimane la villa romana del cardinale Albani
(1746-1763), che divenne in seguito estimatore di Anton Raphael Mengs, al quale fece affrescare
uno dei saloni (1757). La fronte della villa verso il giardino è caratterizzata da un portico le cui
arcate poggiano su colonne ioniche e sono riquadrate da un altro ordine ionico su paraste dalle
bozze rustiche, sormontato a sua volta da un ordine corinzio che riquadra due ordini di finestre: al di
sopra della cornice, una balaustra sormontata da statue determina il confine con il cielo.
Contrapposto a questa facciata sta il portico semicircolare della Coffe House definito da un ordine a
fasce, che riquadra le arcate sempre su colonne ioniche: un insieme di grande chiarezza figurativa,
che diviene ancora più interessante per il gusto romantico delle finte rovine presente negli altri
arredi del giardino. Tanta ricchezza di immagine si ritrova ancora nella molto più tarda nuova
sacrestia della basilica di San Pietro (1776-1784), un edificio polifunzionale impostato attorno a un
grande spazio ottagono, coperto da una cupola che sovrasta il corpo centrale avanzato della fronte:
questa, al di sopra della fascia basamentale, è risolta da un ordine corinzio su coppie di paraste, che
riquadrano due ordini di aperture. In sostanza, un episodio che confermava durante quegli anni
l’esaurirsi complessivo di un linguaggio figurativo che stava per essere messo da parte. L’ambiente
romano, al contrario, era sempre rimasto molto attento alle novità, come quella rappresentata
dall’arrivo nella città da Venezia, sin dal 1740, di Giovanni Battista Piranesi (1720-1778),
disegnatore e incisore, oltre che architetto: dal 1743 iniziava a lavorare alle Carceri (edite 1760),
una serie di grandi spazi architettonici fuori scala, mentre nel 1748 affrontava le Vedute di Roma
(pubblicate fino al 1775) e nel 1756 dava alla luce le sue incisioni sulle Antichità romane.
Esperienze, tutte queste, insieme alla sua pianta ideale del Campo Marzio antico (1762), che ebbero
una grande influenza su tutta la cultura architettonica della fine del secolo. La sua pressoché unica
opera architettonica, la piazzetta dei Cavalieri di Malta e la chiesa di Santa Maria del Priorato
(1764-1766), è soltanto poco più tarda: una manifestazione notevole di un raffinato gusto
antiquario, che rappresenta i simboli della religione di Malta citando in maniera precisa le stesse
memorie della città, innanzitutto gli obelischi, le edicole, unite alla casualità delle decorazioni dei
reperti archeologici erratici resa in questo caso sistematica. Un insieme di soluzioni nuove, molto
efficace nella sistemazione della piazzetta, riutilizzate anche nella fronte della chiesa, per il resto
consueta per il tipo di organismo adottato. A Roma, tuttavia, l’evento culturalmente più rilevante fu
l’arrivo in città nel 1755, durante il pontificato di Benedetto XIV Lambertini (1740-1758), dei
tedeschi Anton Raphael Mengs (1728-1779) e Johann Joachim Winckelmann (1717-1768):
quest’ultimo, che in seguito sarà anche incaricato di ordinare le collezioni d’arte vaticane,
pubblicando nel 1764 la sua Storia dell’arte nell’antichità, diede un fondamentale contributo alla
conoscenza critica della statuaria greca, avviando la ricerca storica sulla cultura figurativa
dell’antichità classica. Inoltre, nel 1761, l’ambiente romano si arricchiva anche della presenza di
Francesco Milizia (1725-1798), trattatista e sostenitore della razionalità dell’architettura del
linguaggio classico (Le vite dei più celebri architetti, 1768; Principi di architettura civile, 1781;
Dizionario delle belle arti e del disegno, 1787), il quale portò il proprio particolare contributo
all’affermazione della nascente cultura neoclassica. In tal modo, la città di Roma diveniva ancora
una volta il maggiore centro di diffusione delle nuove idee sin dall’inizio della seconda metà del
XVIII secolo.
Nello stesso momento, tuttavia, anche l’ambiente veneto assunse una propria e specifica
importanza per le ricerche di due notevoli intellettuali, il frate francescano Carlo Lodoli (1690-
1761) e Francesco Algarotti (1712-1764). Il primo, professore di teologia, fu detto anche architetto
filosofo, ma non lasciò alcuno scritto: il veneziano Andrea Memmo (1729-1793) pubblicherà molto
più tardi le sue opere (Elementi di architettura lodoliana, 1786; Riflessioni sopra alcuni equivoci
sensi intorno all’architettura, 1788), fondate sulla razionalità dell’illuminismo e in cui si afferma
l’importanza dei materiali da costruzione e quella determinante della funzione degli edifici,
rifiutando l’ornamento privo di qualsiasi utilità. A sua volta, grande viaggiatore e ricco di
esperienze europee, l’Algarotti fu molto aperto alla cultura illuminista e a quella figurativa del
classicismo, portando avanti la tradizione veneta del palladianesimo: con i suoi scritti (Lettere sopra
l’architettura, 1742-1763; Sopra l’architettura, 1753; Sopra la pittura, 1762) riprese anche le teorie
lodoliane, rendendone compatibile la razionalità con la figuratività del linguaggio classico. Un altro
divulgatore del palladianesimo fu Tommaso Temanza (1705-1789), architetto e ingegnere idraulico,
autore a Padova della facciata della chiesa di Santa Margherita (1750) e a Venezia della chiesa di
Santa Maria Maddalena (1760): amico del Milizia e dell’Algarotti, scrisse una vita del Palladio
studiandone le opere (1762) e le Vite dei più celebri pittori e scultore veneziani (1768). Infine, tra
gli architetti operanti in Veneto, debbono essere ricordati Lorenzo Boschetti (morto nel 1750),
autore del veneziano palazzo Ca’ Venier dei Leoni (1748-1749) oltre a Giordano Riccati (1709-
1790), che realizzò a Treviso la facciata della chiesa di San Teonisto (1758), il rifacimento del
Duomo (dal 1759) e, molto più tardi, la facciata della chiesa di Santa’Andrea (1780): opere, tutte
queste, ispirate al dominante gusto palladiano.
In Francia terminato il periodo della reggenza con la morte del cardinale Fleury (1743), il
governo del re Luigi XV aveva subito riproposto la politica assolutista del suo predecessore,
malgrado si fossero manifestati immediatamente i gravi problemi finanziari del paese. In seguito, la
rovinosa condotta della guerra dei Sette Anni portò la Francia a un completo fallimento tanto
militare che economico, oltre alla perdita di tutti i suoi territori nord americani e quella
dell’influenza sulla penisola indiana, sempre in favore dell’Inghilterra. Il trattato di Parigi del 1763,
che pose fine alla guerra coloniale, lasciò la Francia investita da una grave crisi economica e privata
della sua potenza militare: un momento di crisi molto rilevante, iniziata prima della fine della
reggenza, che tuttavia non impedì a Luigi XV di promuovere importanti iniziative architettoniche,
anche se ingiustificate per la scarsità della disponibilità finanziaria. Naturalmente, ad essere
riconfermato fu l’uso del linguaggio classico, già affermato nelle opere di Jules Hardouin Mansart,
riproposto con maggiore decisione dall’architetto del sovrano, Jacques Angel Gabriel (1698-1782),
tanto a Parigi (École Militaire, progetto 1750-1751; palazzi in place de la Concorde, 1753-1754),
prima della guerra dei Sette Anni, che a Versailles (Petit Trianon, 1762-1764), durante il conflitto.
Le fronti dei due edifici prospettanti la place de la Concorde, identiche e simmetriche, inquadrano la
Rue Royal che in seguito avrà come fondale isolato la chiesa della Madelene: uno spazio urbano
classicamente definito, con le due facciate a fare da proscenio, che si irraggia dalla grande piazza, la
quale avrebbe dovuto avere al centro un monumento a Luigi XV. Ai lati delle fronti, due corpi
appena avanzati inquadrano il lungo loggiato della parte centrale, scandita da un ordine gigante
corinzio su podio, posto al di sopra della fascia basamentale bugnata continua; lo stesso tipo di
ordine, comprendente due piani, scandisce anche le tre parti centrali dei corpi laterali avanzati
concludendosi in un timpano triangolare, ai lati del quale si innalzano statue al di sopra di una
balaustra che corre continua lungo tutta la fronte a fare da confine con il cielo. Anche se di
dimensioni più piccole il Petit Trianon nei giardini di Versailles presenta caratteri tipologici e
grammaticali analoghi: in questo caso soltanto il corpo centrale avanzato è scandito in tre parti da
un ordine corinzio comprendente due piani e posto al di sopra di un alto bugnato di base sul quale si
aprono portali rettangolari. In questo contesto è certamente anomala la mancanza dell’ordine agli
angoli, così come la successione di una finestra quadrotta al di sopra di quella rettangolare del piano
nobile, mentre, ancora una volta, una balaustra continua corre al di sopra della cornice. In ambedue
i casi appare evidente l’assoluta continuità dell’opera di Jacques Angel Gabriel con quella di Jules
Hardouin Mansart e degli architetti del Louvre, mentre era stata messa da parte tutta la
sperimentazione del periodo della reggenza riproponendo ancora una volta il linguaggio classico, la
sua grammatica e le sue tipologie sperimentate, come manifestazione di un radicale assolutismo
statale. L’architetto più rilevante di questo periodo fu, tuttavia, Jacques Germain Sufflot (1713-
1780), a Roma tra il 1731 e 1738 e, successivamente, a Napoli nel 1750 per rilevare i templi di
Paestum: dal 1755 fu controllore delle costruzioni reali e direttore dei lavori del Louvre, La sua
opera principale è, a Parigi, la chiesa di Saint Genevieve (iniziata nel 1757), poi Pantheon dal 1791,
un esempio di grande chiarezza stilistica dalla cupola ispirata al modello bramantesco per il San
Pietro, attorno alla quale si articolano i bracci di una croce greca, coperto da volte a vela e affiancati
da navatelle: una forma planimetrica che accentua il proprio asse longitudinale per la presenza di un
atrio e del presbiterio, preceduta da un pronao esastilo molto profondo, dall’ordine corinzio su
colonne sormontato da un timpano triangolare. Soluzione, questa, che accentua al tempo stesso la
verticalità dello spazio interno e il rigore delle citazioni classiciste del pronao e della cupola. Nel
complesso un’architettura ricca di novità, anche strutturali e costruttive, che può essere considerata
a buon diritto come un estremo limite di possibilità nella rappresentazione di una spazialità legata
criticamente alle regole del linguaggio classico.
In Inghilterra dopo i successi coloniali ottenuti con la guerra dei Sette Anni e il grande
avanzamento a livello economico-finanziario, il progressivo superamento del gusto palladiano si
affianca all’affermazione del Pittoresco ispirato ai dipinti di Poussin, in specie nella sistemazione
dei giardini e di un rinnovato rapporto tra paesaggio e architettura. Nel Royal Crescent di Bath
(1767-1775), di John Wood Junior (1728-1781) trenta abitazioni singole a schiera, su due piani oltre
al piano terra, sono riunite in un unico edificio dalla planimetria semiellittica e aperta verso la
visione dell’ambiente circostante: la fronte è scandita da un ordine gigante ionico su colonne, posto
al sopra di una fascia basamentale leggermente rialzata e sormontata da una balaustra continua. Di
tutt’altra natura l’esperienza di Robert Adam (1738-1792), il quale nella casa ad Adelphi (1767-
1772), a Londra, andava sperimentando il tentativo di arricchire con un decorativismo minuto le
singole articolazioni della grammatica classicista: una stretta facciata con tre assi di aperture, è
risolta da un ordine pseudo corinzio comprendente due piani, posto al di sopra di una fascia
basamentale a bugnato liscio, con un terzo piano scandito da paraste a fascia e sormontato da un
timpano triangolare; in questo contesto, le paraste del primo ordine e quelle che riquadrano il
portale asimmetrico sono minutamente decorate da motivi naturalistici, mentre tutte le aperture
sono risolte da porte finestre che si aprono su piccoli balconi diversamente aggettanti e riquadrate,
al piano nobile, da cornici minutamente decorate, che risaltano sulla muratura a faccia vista degli
sfondati. Soluzione e linguaggio certamente molto eleganti, in qualche modo anche di maniera, ma
che ottengono lo scopo di superare qualsiasi rigidità classicista.
Tutte le architetture di questo primo momento della seconda metà del XVIII secolo
possono essere intese come anticipazioni, rispetto all’affermazione, ancora al di là da venire, di un
classicismo ideale, canone esclusivo della bellezza assoluta: un modo totalmente nuovo per
riproporre l’eredità dell’antichità classica, portata in grande evidenza dalla progressiva definizione
dell’archeologia come scienza a partire dagli inizi del XVIII secolo. Questa nuova qualità della
ricerca architettonica, tuttavia, aveva a suo fondamento, non più l’opera degli architetti, ma gli
scritti degli storici e dei critici d’arte. L’influenza del pensiero, da Roma, di Anton Raphael Mengs,
di Johann Joachim Winckelmann, di Francesco Milizia e, da Venezia, di Carlo Lodoli, di Francesco
Algarotti e Tommaso Temanza, portò alla diffusione delle nuove idee che, precedendo l’opera degli
architetti, s’inserivano sulla forte tradizione della prevalenza del linguaggio classico in architettura.
I modelli tipologici e grammaticali dell’antichità classica greca e romana vengono assunti come
archetipi di bellezza e di razionalità universali conosciuti dalla storia dell’arte divenuta scienza: le
stesse esemplarità dell’antica architettura greca sono riconosciute direttamente soltanto dal 1751-
1754, ad opera di due studiosi inglesi James Stuart e Nicolas Prede, i quali iniziarono a pubblicare i
loro scritti e rilievi a partire dal 1762 nell’opera dal titolo Le antichità di Atene.
Tanta novità di pensiero e di indirizzi nella ricerca figurativa non trovò, tuttavia, una
diffusione immediata sino alla rivoluzione francese del 1789 e alla successiva affermazione
dell’impero napoleonico. A Roma, da dove era iniziata la diffusione delle nuove idee, il carattere
teocratico del potere politico, immutabile nel tempo, non poteva permettere che modesti
cambiamenti rispetto a quanto nella città si era già formato e consolidato da tempo. Durante il
pontificato di Clemente XIV (1769-1774), l’ambiente romano vive la realizzazione di due nuove
opere: la chiesa di Santa Scolastica a Subiaco (1771-1777) di Giacomo Quarenghi (1744-1817) e
l’inizio della nuova ala, cosiddetta clementino-pia dei Musei Vaticani ad opera di Michelangelo
Simonetti (1724-1781). La chiesa del Quarenghi, in ogni caso, deve essere intesa come una ripresa
di tutti i motivi di Palladio dal San Giorgio Maggiore di Venezia, nel senso di una citazione precisa
di un modello ben definito tratto piuttosto dalla storia che dall’interpretazione critica dell’antichità:
tutto molto al di là degli ideali neoclassici andando ad anticipare una sorta di neocinquecentismo. Al
contrario, nella nuova architettura museale il Simonetti attinse liberamente ai modelli della Domus
Aurea e degli impianti termali romani, determinando una sequenza di spazi-contenitori privi di una
precisata coerenza tipologica e di unità figurativa. Durante il pontificato di Pio VI (1779-1799),
l’architetto Antonio Asprucci (1723-1808) realizzò nella villa Borghese alcuni nuovi arredi del
grande parco: il tempietto di Esculapio al giardino del Lago, le finte rovine e la chiesuola di piazza
di Siena, tra il 1781 e il 1786, del tutto coerenti con il nuovo gusto neoclassico. Diversamente, negli
stessi anni, l’ancora giovane Giuseppe Valadier (1762-1839) veniva messo da parte nell’incarico
per il palazzo a Roma della famiglia dello stesso pontefice, malgrado un suo notevole progetto, cui
venne preferito quello di Gaspare Morelli (1732-1812), nella ormai consolidata tradizione del tardo
cinquecento romano, vera e propria costante della città: soluzione, quella realizzata, anche piuttosto
brillante per la presenza di quattro androni, tutti passanti verso il grande cortile interno, tra i quali
quello principale, aperto verso la via Papalis, affiancato da un vasto scalone d’onore molto
scenografico. In ogni caso, il limitato numero di opere realizzate, anche se importanti, segnava
l’inizio di una certa decadenza della cultura architettonica romana, non più protagonista sulla scena
europea, mentre la città continuò, sino a tutto il XIX secolo, ad essere un centro di incontro di
intellettuali e artisti.
In Francia, prima della rivoluzione del 1789, durante il regno dell’ultimo sovrano Luigi
XVI (dal 1774), il classicismo romantico è preceduto dall’opera di Étienne Louis Boullée (1728-
1799) e di Claude Nicolas Ledoux (1736-1806): due architetti definiti in seguito “rivoluzionari” per
l’utopia delle loro proposte di nuove tipologie specialistiche, spesso risolte da volumi puri e a
grande scala in cui la grammatica classica, appena accennata, tende a scomparire. Boullée, in
particolare, non riuscì mai a realizzare uno dei suoi edifici tutti sempre rappresentati molto
scenograficamente, in splendide prospettive. Tra queste, la sua proposta per una chiesa
metropolitana (1781) mette in evidenza l’uso di figure geometriche semplici per risolvere un
grandioso edificio religioso a croce greca, coperto a cupola: i quattro bracci sono preceduti ciascuno
da un pronao con timpano, su sedici colonne, posto al sopra di un’alta scalinata, che prosegue
all’interno per arrivare al grande spazio coperto dalla cupola. Questa, a sua volta, è impostata al di
sopra di due cilindri concentrici con colonnati peripteri. Ancora, l’idea per un Museo è risolta da
una pianta quadrata con quattro colonnati semicircolari su ciascun lato, preceduti da grandiose
scalinate concentriche: il suo spazio interno presenta una sorta di deambulatorio lungo i lati del
quadrato, con al centro una croce greca, i cui bracci convergono in uno spazio centrale circolare
coperto da un cilindro aperto da un oculo, emergente dal volume compatto e circondato da un
colonnato periptero. Ben più notevole è la prospettiva per una Biblioteca risolta da un’immensa
volta a botte cassettonata e aperta longitudinalmente al centro, posta a coprire uno spazio in forma
rettangolare, i cui lati gradonati altro non sono che le librerie, al di sopra delle quali s’innalza un
colonnato ionico trabeato su cui poggia la copertura. Tuttavia, la proposta più affascinante e
sincretica è rappresentata dallo sferico Cenotafio a Newton (1784), il cui volume appare poggiato su
due alti gradoni circolari circondati da alberature: l’accesso al monumento è dato da un portale
semicircolare aperto sul gradone inferiore, che immette in uno spazio semicircolare da cui si diparte
un lungo corridoio sino a giungere al centro della sfera, completamente vuota, sotto al sarcofago del
grande scienziato. Tutti i volumi puri e assoluti, più che in ogni altra occasione, esprimono con
maggiore evidenza la razionalità dell’utopia di questo architetto. I progetti di Ledoux, al contrario,
non furono soltanto proposte ma anche concrete realizzazioni. Nelle saline reali di Chaux, ad Arc et
Senans, tra il 1775 e il 1779, l’impianto simmetrico vede al centro la Casa per il Direttore,
fiancheggiata dagli opifici veri e propri ai suoi lati. La prima è un edificio cubico su due piani,
preceduto da un pronao, su colone bugnate, coperto da un tetto tronco-piramidale, mentre gli altri
due fabbricati industriali sono alti un solo piano e coperti a tetto, con un accesso leggermente
sporgente su tre arcate e sormontato da un timpano: queste fabbriche dovevano essere inserite
all’interno di una città ideale, che fu soltanto progettata, essendo realizzata solo molto parzialmente.
In ogni caso, malgrado le evidenti semplificazioni del linguaggio architettonico, quest’opera non è
priva di un certo eclettismo, che si ritrova anche nei quattro Caselli Daziari di Parigi (1784-1789):
tra questi, ad esempio, quello di Monceau presenta due scalinate longitudinali poste a raggiungere
un pronao tetrastilo su colonne e dal timpano triangolare, contenuto nell’attico al di sopra della
cornice dell’ordine, che corre lungo tutta la fronte e raccoglie due piani. Tra i progetti ideali di
Ledoux, molti dei quali proposti nel suo trattato del 1804 su “L’architettura”, di grande interesse è
la Fabbrica di Cannoni, dal volume parallelepipedo di dimensioni rilevanti articolato da quattro
cortili interni, con piramidi egizie ai quattro angoli, in funzione di canne fumarie, poste al di sopra
della copertura. Ancora più emblematica è la proposta per una casa delle Guardie Campestri (1780),
in forma sferica, che mostra un’evidente parallelismo di intenti tra Boullée e Ledoux: questa è posta
su un piano secante scavato nel terreno circostante, rappresentando l’apertura di quattro serliane
sulla sua superficie, da cui si diparte una scala su archi rampanti. La validità di tutte queste idee
utopiche, tuttavia, sta nell’apodittica affermazione del valore dei volumi semplici della geometria
euclidea, risolti senza ordini architettonici, per rappresentare spazi architettonici memorabili nella
loro razionalità assoluta. In seguito, durante gli anni tra l’inizio della rivoluzione in Francia e la
definitiva presa di potere da parte di Napoleone Bonaparte (1799), una pausa naturale di ogni
rilevante attività edilizia pose fine anche all’interesse per le novità di proposte architettoniche
direttamente motivate dai contenuti e dagli ideali dell’illuminismo: l’esigenza, per il futuro impero
napoleonico, di realizzare spazi urbani e architetture facilmente riconoscibili e dal significato
evidente, favorì subito la scelta di modelli consolidati e ideali, cui affidare la rappresentazione
immediata del proprio recente prestigio. L’affermazione del nuovo gusto neoclassico segue, infatti,
i grandi trionfi napoleonici: attorno alla nuova École Politecnique e al pensiero critico Jean Nicolas
Louis Durand (1760-1834), autore del trattato Compendio di lezioni di architettura, Charles Percier
(1764-1838) e Pierre Francois Leonard Fontaine (1762-1853) portarono avanti la realizzazione dei
nuovi spazi urbani di Parigi come la rue de Rivoli (1802). Una strada rettilinea e porticata che, da
est a ovest, costeggiando il Louvre s’irraggia da Place de la Concorde. I cantieri nella capitale
iniziarono a partire dal 1806 e tra i nuovi monumenti emergono l’Arc du Carrousel al Louvre
(1806-1808) di Percier e Fontaine e quello di Tronfo all’Etoile (J.A. Raymond, 1742-1811 e J.F.T.
Chalgrin, 1739-1811), ambedue rievocazioni evidenti del trionfalismo dell’impero dell’antichità
con cui il nuovo regime intendeva confrontarsi. Sulla stessa linea si colloca la bronzea colonna
coclide della Place Vendome (1806-1810), opera degli architetti Jean Baptiste Lepére (1761-1844)
e Jaques Condoine (1737-1818) per celebrare a imitazione di quella Traianea a Roma, le imprese
militari del Bonaparte. Altra opera importante fu la trasformazione della chiesa della Madeleine (dal
1807) ad opera di Alexander Pierre Vignon (1763-1828), che la ripropose in forma di tempio
romano: lo spazio interno, più tardo, ispirato a quelli termali antichi, fu portato a termine da Jean
Jacques Marie Huvuè (1783-1852) tra il 1828 e il 1840 durante il regno di Luigi Filippo.
Alle vittoriose campagne dell’esercito napoleonico deve essere attribuita la diffusione in
Italia del nuovo classicismo. A Milano, innanzitutto, veniva realizzato il Foro Bonaparte a fare da
cornice al Castello Sforzesco, nell’ambito di un piano di opere per ammodernare la città, voluto dal
governo napoleonico: dopo un primo e più grandioso progetto del 1801, proposto da Giovanni
Antonio Antolini (1756-1841), il complesso venne realizzato dopo il 1807 in forma più ridotta e
dalla planimetria semicircolare, terminante con due tratti rettilinei, realizzata da una serie di singoli
edifici. Sempre in questa città Luigi Cagnola (1762-1833) realizzò, tra l’altro, un arco di trionfo, poi
portato a termine tra il 1806 e il 1838, simile a quelli contemporanei parigini. In Veneto, lo scultore
Antonio Canova (1757-1821) realizzava il Tempio di Possagno nel 1819, dalla pianta circolare,
coperta da una cupola emisferica e preceduta da un pronao dorico: un’architettura religiosa che, con
tutta evidenza, risulta dalla sommatoria della citazione dei due modelli più importanti dell’antichità
classica greca e romana, il Partenone e il Pantheon. Negli stessi anni, a Padova, Giuseppe Jappelli
(1783-1852) portò a termine il caffè Pedrocchi tra il 1816 e 1831, realizzando un piccolo quanto
elegante edificio in stile dorico. Progetti molto più importanti di ridisegno degli spazi urbani
vennero redatti dal Valadier nell’ambito di un programma di trasformazione di Roma nella capitale
del nuovo regno bonapartista d’Italia: tra questi, l’unico ad essere realizzato fu quello relativo alla
sistemazione della piazza del Popolo che, iniziata nel 1815, fu in seguito portata a termine nel 1832
dal governo pontificio, prima della morte del Valadier. Quest’opera rappresenta l’ultima grandiosa
scenografia urbana della città, in continuità assoluta con quelle eseguite durante il XVII e la prima
metà del XVIII secolo, anche se realizzata con un linguaggio dal gusto più anticheggiante: al
contrario, dalla sequenza delle fontane da cui scende l’acqua dal colle del Pincio, alla dilatazione-
compressione del proprio asse trasverso per gli emicicli ornati da fontane, sino ai percorsi obliqui
delle rampe di risalita verso il colle e verso il fiume, le architetture di questo grande spazio urbano
risultano variamente articolate e dagli effetti sorprendenti. Anche a Napoli, durante il breve regno di
Giocchino Murat venne realizzata nel 1808 una grande piazza porticata semicircolare davanti il
palazzo reale (Leopoldo Laperuta, attivo a Napoli agli inizi del XIX sec.), dalla notevole armonia
proporzionale, terminata dopo la restaurazione dei Borboni nel 1817 con al centro la chiesa di San
Francesco di Paola (Pietro Bianchi, 1787-1841): un’altra occasione, questa, per la quale veniva
riproposto il modello del Pantheon. Al tempo stesso, a Torino, il ritorno dei Savoia venne celebrato
con la realizzazione della chiesa della Gran Madre di Dio (1818-1831), opera di Ferdinando
Bonsignore (1767-1843), posta a far da fondale al percorso rettilineo di arrivo al ponte che
attraversa il Po: ancora una riproposizione del modello del Pantheon dal volume cilindrico coperto
da una volta emisferica parzialmente gradonata, preceduta da un pronao esastilo. Tutte queste opere,
in ogni caso, tanto francesi che italiane, ripropongono sempre con molta evidenza modelli
dell’antichità classica greco-romana, intesi sempre come esemplarità assolute, espressione di
un’estetica predeterminata.
Una uguale attenzione all’antichità, in particolare quella greca, è propria di tutta
l’architettura tedesca di questo periodo, tra l’altro anche molto influenzata dal trattato del francese
Durand. Il punto di partenza può essere trovato nei progetti non realizzati di Friedrich Gilly (1772-
1800) per il monumento nazionale dedicato a Federico il Grande (1796) e per il teatro nazionale
prussiano di Berlino (1798): soprattutto il primo, in forma di tempio greco dorico, innalzato su un
podio molto alto e circondato da obelischi. A queste due esemplarità, in qualche modo, tutti si
ispirarono, da Karl Friedrich Schinkel (1781-1841), architetto di Stato di Federico II di Prussia, nel
suo Altes Museum di Berlino (1824-1828), a Leo von Klenze (1784-1864), autore, nei pressi di
Ratisbona, del monumento al Walhalla. Il Museo berlinese, questa volta, più che ispirato a un
tempio deve essere riferito al modello degli stoà che, al sopra di un’alta gradinata, risolve con un
portico su colonne ioniche giganti, tutta la fronte di questo edificio specialistico: la sua pianta
rettangolare, di grandi dimensioni e con il porticato su uno dei lati lunghi, presenta al centro uno
spazio quadrato coperto da una cupola semicircolare, nascosta all’esterno da una sorta di attico. Il
Walhalla di von Klenze, al contrario, ripropone ancora una volta la forma assoluta di un tempio
periptero, posto in cima ad una collina, sollevato in alto da uno stilobate gradonato: un episodio che
rappresenta l’accettazione di una forma simbolica ritenuta molto forte e adatta ad esprimere la
sintesi dei valori di una tradizione storica. Così come in Francia e in Italia, la cultura architettonica
del neoclassicismo si dimostrava adatta a rappresentare ogni evento edilizio memorativo di regimi
politici molto diversi tra loro, mettendo in evidenza il proprio carattere internazionalista.
In Inghilterra emergono le due notevoli figure di John Soane (1753-1837) e di John Nash
(1752-1835), ambedue legati ad un classicismo che non è mai ripetizione di modelli formali
dell’antichità: le loro opere, tanto nell’invenzione di nuovi organismi specialistici, che residenziali
usano il repertorio grammaticale classico per arrivare a soluzioni architettoniche di assoluta novità,
mostrando l’inizio dell’eclettismo storicistico. Nella Banca d’Inghilterra (1788-1833), a Londra,
John Soane si trovò ad intervenire su di una serie di edifici già esistenti all’interno di un isolato
trapezoidale, che l’architetto risolse articolandolo con due grandi cortili interni e arrotondandone gli
angoli con colonnati circolari leggermente sporgenti. Le fronti, di diversa altezza, hanno in comune
un paramento a bugnato liscio, spesso interrotto al centro da un porticato ottastilo e leggermente
sporgente, in qualche caso preceduto da due paraste simmetriche contrapposte: in coincidenza con
l’ingresso principale, al portico con balcone, comprendente due piani, segue un altro piano dalle
aperture riquadrate da un ordine su paraste a fascia, sormontato da una balaustra con anfore a fare
da confine con il cielo. A Londra il Cumberland Terrace (1827) a Regent’s Park, tra le altre opere di
Nash, presenta tre edifici disposti simmetricamente, di cui quello centrale è di larghezza doppia
rispetto agli altri, uniti tra loro da un basamento a bugnato liscio e aperto da due archi di trionfo ad
un solo fornice riquadrato da un ordine ionico su colonne: lo stesso ordine, ma comprendente due
piani, riquadra le testate delle ali aperte degli edifici, mentre un terzo piano è compreso in una sorta
di attico al di sopra della cornice. Certamente una soluzione molto articolata e dal
proporzionamento armonico, che segna il proprio asse di simmetria con un timpano triangolare che
sormonta l’ordine su colonne al centro dell’edificio maggiore. Sempre opera di John Nash è il
Regent’s Street Corner (1818), una soluzione semicilindrica che risolve, a Londra, l’angolo acuto
tra due strade: in questo caso, l’ordine corinzio comprendente due piani s’innalza al di sopra della
fascia basamentale, tutta aperta e destinata a botteghe, continuandosi con un terzo piano, dalle
paraste a fasce, arretrato sul tetto e coperto da un cupoletta con un lanternino. In sintesi, un volume
puro appena segnato dall’ordine architettonico proposto come immagine memorativa tra due
importanti percorsi della città. A differenza delle opere di Soane e Nash, protagonisti assoluti della
cultura architettonica britannica di questi anni, più legato agli schematismi neoclassici è il British
Museum di Londra (1825-1847), opera dell’architetto Robert Smirke (1780-1867), del tutto
allineato con le esperienze continentali: l’archetipo del tempio ionico, preceduto da un’alta
scalinata, si accompagna con quello di un ampio portico dello stesso ordine e posto su podio, che
avvolge tutto lo spazio prospiciente con le sue ali avanzate, formando un insieme che fa da
contenitore degli spazi interni museali. Nella cultura architettonica inglese, tuttavia, il gusto per il
Pittoresco restava sempre molto attuale e anche Soane con il suo progetto per la “Tomba del
Monaco” (1812-1813) e Nash, con il Padiglione Reale a Brighton (1815-1818) orientaleggiante e
dalla struttura in ghisa, ne resero una precisa testimonianza: un clima culturale molto ricco e
articolato che deve essere messo alla base della nascita del neogotico, la cui data d’inizio può essere
riferita alla realizzazione della Fonthill Abbey nello Wildshire (1796-1813), vera e propria
anticipazione di quanto doveva poi accadere in seguito sempre in Inghilterra.
Infine, ancor prima dell’avvio della rivoluzione francese, la guerra di indipendenza
americana, iniziata nel 1775, portava alla nascita degli Stati Uniti d’America, che la stessa
Inghilterra riconoscerà con il trattato di Parigi del 1783: certamente una novità politico-
istituzionale, rispetto agli ordinamenti statuali europei, subito protesa anche alla realizzazione dei
propri edifici pubblici, simboli del carattere democratico del governo del nuovo paese federale.
Naturalmente, più che la cultura inglese, fu quella neoclassica francese a fare da modello per gli
architetti americani, il cui impegno era stato rivolto alla realizzazione di architetture
immediatamente riconoscibili. Thomas Jefferson (1743-1826), ad esempio, progettò il suo
Campidoglio dello Stato della Virginia (1785-1796) sul tipo della Maison Carrée di Nimes. La
stessa nuova capitale federale Washington, fu iniziata a realizzare (dal 1791) sulla base di un piano
progettato dall’ingegnere Pierre Charles L’Enfant (1754-1825), un francese addirittura, e nato a
Parigi: una città divisa in quattro settori da strade rettilinee all’incrocio delle quali sorge Capitol
Hill, la sede del potere legislativo contrapposto lungo la strada più importante alla dimensione,
certamente modesta, della Casa Bianca, sede del potere esecutivo. Il primo e più importante dei due
edifici è tuttavia opera di un architetto dilettante inglese, William Thornton (1759-1828), che ne
risolse le complesse funzioni (a partire dal 1793) realizzando una sorta di contenitore coperto da
una cupola dal disegno bramantesco e preceduto da un pronao su colonne sormontato da un timpano
triangolare. A sua volta, la Casa Bianca fu iniziata dall’architetto irlandese James Voban (1762?-
1831) nel 1792: incendiata dagli inglesi durante la guerra, venne risistemata nel 1812, mentre i due
portici furono aggiunti tra il 1824 e il 1829. In ogni caso, la scelta di un linguaggio classico per le
fronti degli edifici, certamente anglo-palladiano e mediato dalla tipologia della facciata della
Lindsey House di Inigo Jones, divenne il linguaggio comune di tutta la città, che fu portato avanti
ancora per molto tempo: la più tarda realizzazione del Dipartimento del Tesoro nel 1836 (Robert
Mills, 1781-1855 ), accanto alla Casa Bianca, deve essere considerata, senza alcun dubbio, la sua
manifestazione più rilevante. Malgrado tutto ciò, l’affermazione del neoclassicismo negli Stati Uniti
va ascritta all’opera di Benjamin Latrobe (1764-1820), autore tra l’altro della Banca della
Pennsylvania a Philadelphia (1798-1801) e della Cattedrale cattolica di Baltimora (1805-1818), due
edifici neoclassici in modo diverso, essendo possibile riferire il primo ad un tempio ionico, la cui
cella è coperta da una cupola ribassata, mentre il secondo alla Saint Genevieve di Sufflot a Parigi:
ambedue, in ogni caso, manifestazioni di un gusto architettonico destinato a durare negli Stati Uniti
molto a lungo, sino al termine del XIX secolo e per la prima metà del Novecento. Questo nuovo,
grande, paese si presentava in tal modo alla cultura architettonica del mondo occidentale, forte di
una larga possibilità di sperimentazione sugli edifici specialistici, favorita dalla necessità di avere
presto strutture edilizie anche rappresentative per la gestione dello Stato e dell’economia.
La scelta ideologica del Neoclassicismo, sempre più internazionale, metteva subito gli Stati
Unti d’America allo stesso livello della cultura architettonica europea, favorendo un ambiente di
ricerca in cui erano maggiormente possibili l’attenzione a tipologie diverse e l’applicazione di
nuove tecnologie: opportunità, queste, che faranno in seguito degli architetti americani i
protagonisti della futura e profonda evoluzione dell’architettura del modo occidentale.
Dall’affermazione della rivoluzione industriale al termine della prima guerra mondiale
(1830-1918)

La permanenza e il consolidamento delle realtà politiche, sociali e culturali del più recente
passato, e al contempo la rapida affermazione di tante novità assolute – in seguito fondamentali per
tutto il resto dell’Ottocento – sono state le caratteristica essenziale di questo lungo momento della
storia dell’occidente.
Nell’architettura, sino al termine del secolo e nei primi dieci anni di quello successivo, la
parte prevalente di tutta la produzione architettonica fu caratterizzata dall’uso delle ordinanze
classiche e dalla ripetizione degli organismi, tanto dell’antichità che del Medioevo e del Quattro-
Cinquecento, mentre nello stesso tempo, approfondendosi le nuove tecniche costruttive delle
strutture in ferro e in cemento armato, aveva avuto inizio la ricerca di nuove espressioni figurative
che non avevano più nulla in comune con la tradizione: continuità e innovazione furono
condizionate soltanto dalle diverse realtà nazionali e dal livello del loro sviluppo economico che
poteva offrire maggiori possibilità di concrete sperimentazioni. In ambedue i casi, tuttavia, si rimase
ben lontani dalla formulazione di linguaggi architettonici internazionali: la diversità delle tradizioni
culturali dei singoli paesi o regioni rimase sempre tanto forte da inibire qualsiasi omologazione
stilistica o soltanto tecnologica. In questo contesto, un ruolo a parte fu quello svolto
dall’insegnamento accademico, che rimase sempre legato all’esaltazione anche ripetitiva del
linguaggio classico: così nella più antica Accademia di San Luca a Roma, come nella più celebre
École des Beaux-Arts di Parigi, che influenzò molto le prime scuole americane aperte presso il
M.I.T. (1865) di Boston e presso la Columbia University di New York. In ogni caso, un tal modo di
fare architettura andrà avanti per tutti questi anni e anche molto oltre, assumendo un’importanza
prevalentemente storica, che può essere ritrovata, anziché negli episodi o nei protagonisti più
significativi, nell’importanza che la loro massiccia presenza assume quale fenomeno collettivo, per
la definizione della forma degli attuali centri storici di tutte le città occidentali. Questi ultimi quando
non risultano trasformati da interventi di sostituzione edilizia del XX secolo, non soltanto sono
caratterizzati da un tessuto prevalentemente ottocentesco, ma anche la loro figuratività è data da un
linguaggio architettonico riferito soprattutto ad un classicismo più o meno eclettico, e realizzato
tanto in pietra che in mattoni o in intonaco e stucchi: alcune opere di questo periodo sono anche
molto rappresentative e monumentali, ma in tutte prevale sempre il valore morfologico del modello
di riferimento.
Una precisa testimonianza di tutto ciò è data dal rinnovamento e dalla trasformazione di
alcune tra le più importanti capitali europee. Innanzitutto Parigi, il cui abbellimento ebbe inizio
durante la monarchia di luglio (Luigi Filippo d’Orleans, 1830-1848) essendo state terminate le
opere lasciate interrotte dal primo impero bonapartista, e pertanto realizzando un’importante serie di
arredi urbani (l’obelisco di place de la Concorde, 1833; i diversi elementi di arredo stradale con cui,
tra il 1836 e il 1840, vengono abbellite la place dell’Étoile, gli Champs-Élysées e la avenue de la
Grande Armée) nella ricerca di una continuità anche soltanto ideale con il recente passato. Dopo il
colpo di Stato di Luigi Napoleone Bonaparte e la nascita del Secondo Impero (1852), la città venne
completamente ridisegnata con l’apertura dei boulevards (a partire dal 1853), grazie al
coordinamento del prefetto della Senna, barone Georges Eugène Haussmann (1809-1891): i due
edifici più rappresentativi, ritenuti anche alla base di uno stile particolare, sono il completamento
del Louvre (1852-1857), opera per lo più dell’architetto Hector-Martin Lefuel (1810-1880), e
l’Opéra (1863-1874) di J.L.C. Garnier (1825-1898). Lo stile del Secondo Impero si caratterizzò
immediatamente per l’affermazione di un proprio, specifico gusto architettonico. Infatti, tanto il
nuovo Louvre che l’Opéra debbono essere considerati come il prodotto di un eclettismo storicistico
capace di riutilizzare in un modo anche sovrabbondante gli stilemi del linguaggio classico: tutto ciò
rifiutando sempre precise citazioni tipologiche, mentre la ricchezza dei particolari decorativi esalta
la diversità delle singole fabbriche. Nel nuovo Louvre i padiglioni angolari esprimono
maggiormente la novità di questo gusto eclettico, che si esprime anche con la forte vigoria plastica
degli ordini architettonici sovrapposti e delle decorazioni scultoree a tutto tondo, molto diverse da
quelle dell’originario Louvre cinquecentesco. Nell’Opéra (inaugurata nel 1875) la soluzione
planimetrica si presenta estremamente elaborata, dando luogo a una successione di volumi: dalla
fronte sormontata da un colonnato, alla cupola emisferica che copre l’auditorium, al successivo
palcoscenico sul retro, alla sequenza interna scalone, foyer, sala. Tutto è risolto da un linguaggio
estremamente sfarzoso e ricco di dorature: un insieme troppo ricco, tanto all’esterno che all’interno,
senza alcuna citazione filologicamente corretta, ma espressione di una sorta di vero e proprio nuovo
gusto architettonico.
Anche a Vienna, dopo l’ascesa al trono del nuovo giovane imperatore Francesco Giuseppe
(1848), nel 1857 vengono demolite le antiche fortificazioni e nel 1858 Ludwig Förster (1797-1863)
vince il concorso per la Ringstrasse, che fu poi realizzata nel trentennio successivo: un tentativo,
questo – solo parzialmente riuscito – di fare della città una grande metropoli come Londra e Parigi.
La grandiosa strada collega tra loro ampie piazze, tutte caratterizzate dalla presenza di edifici
pubblici, ciascuno realizzato in uno stile diverso, come il palazzo del Parlamento, del 1873-1883,
in stile neogreco (Theophil von Hansen, 1813-1891), il Ratahaus, del 1872-1883, neogotico
(Friedrich von Schmidt, 1825-1891), il Burgtheater, del 1874-1888, dal linguaggio neosettecentesco
(Gottfried Semper, 1803-1879). Al contrario, il tessuto edilizio di base che fiancheggia ambedue i
lati di questa nuova arteria urbana è sempre molto omogeneo, dando luogo a una sorta di ring style,
dalle tipologie delle fronti riconducibili largamente a quelle dei palazzi nobiliari viennesi della fine
del XVII secolo e degli inizi del XVIII. Infine, in Italia, dopo la raggiunta unità del paese e la
proclamazione del regno (1861), viene ripetuto a Firenze, nel 1864, l’esempio di Parigi con
l’apertura dei cosiddetti “viali” (Giuseppe Poggi, 1811-1901); mentre la trasformazione di Roma,
capitale definitiva del nuovo regno dopo il 1870, mette in evidenza, piuttosto che i suoi monumenti,
tutta la vasta gamma dell’edilizia di base realizzata da una classe professionale colta, tra cui
emergono le figure di Giulio De Angelis (1850-1906), Luca Carimini (1830-1890) e Gaetano Koch
(1849-1910). In questo contesto, tutti gli edifici memorabili del nuovo Stato sono sempre legati
all’eclettismo di un linguaggio classico sempre diversamente citato, del tutto avulso dal linguaggio
comune della città: così lo smisurato ministero delle Finanze (1872, Raffaele Canevari, 1825-1900),
il monumento a Vittorio Emanuele II (1885-1911, Giuseppe Sacconi, 1854-1905) e il palazzo di
Giustizia (1888-1910, Guglielmo Calderini, 1837-1916). Tutto ciò, mentre i nuovi quartieri nella
zona orientale della città, realizzati unicamente entro le antiche mura, trovano il principale supporto
infrastrutturale negli assi rettilinei dell’ormai antico programma sistino, realizzandone in tal modo
lo spazio costruito. Negli stessi anni, parallelamente a questa forte affermazione dei modelli della
classicità antica e del Cinquecento, si diffondeva in Inghilterra e nei paesi anglosassoni, come
conseguenza del gusto per il pittoresco, la ripresa di tipi di organismi e di apparecchi figurativi
ispirati al “gotico” inteso come “stile”: un nuovo revival identico, nella sostanza, a quelli
precedenti. Quando la giovane regina Vittoria iniziò il suo lunghissimo regno (1837-1901),
avviando ad un’epoca senza precedenti la cultura politica, sociale, letteraria e artistica
dell’Inghilterra, l’anno precedente Charles Barry (1795-1860) aveva vinto il concorso per la nuova
sede del Parlamento a Londra (1836). Nello stesso anno, inoltre, Augustus Welby Northmore Pugin
il Giovane (1812-1852) aveva pubblicato il suo fondamentale trattato Contrasts, mentre George
Meikle Kemp (1795-1844) progettava ad Edimburgo il monumento a Walter Scott (1840-1846) in
forma di tabernacolo, molto arricchito dall’esuberanza dei motivi gotici. Il palazzo del Parlamento
londinese, il cui cantiere durò a lungo, risulta un edificio senz’altro più sobrio, che vive del
contrasto fra le torri poste alle sue estremità e quella dell’orologio, mentre le sue molteplici funzioni
sono risolte da una planimetria organizzata attorno a un ottagono centrale. In questo contesto, il
trattato di Pugin il Giovane, che collaborò con Barry per la realizzazione del Parlamento, divenne
subito il logico supporto critico a quanto stava già accadendo in quel momento: essendosi da poco
convertito al cattolicesimo, questo autore riteneva un impegno religioso la scelta del gotico per la
costruzione delle chiese, riproponendone non soltanto gli stilemi ma anche la tecnologia in maniera
precisa, finalizzando sempre tutto ad una sorta di ripristino della religiosità medioevale e delle sue
liturgie. Subito dopo, lo stesso Pugin, con la realizzazione delle due chiese di St. Oswald a Old
Swan a Liverpool (1840-1842) e di St. Wilfred a Hulme presso Manchester (1839-1842), definiva
quello che resterà il modello per gli edifici religiosi tanto in Inghilterra che nel nord America. Nella
prima, Pugin riprende la tipologia delle chiese parrocchiali inglesi del Trecento, con navate laterali,
un coro profondo e un’alta torre posta al centro del lato occidentale: all’interno la navata centrale
non è più alta di quelle laterali ed è coperta da travate in legno lasciate in vista. Il secondo edificio
sacro, a sua volta, è forse più originale per la posizione della torre, mai completata, posta sul lato di
nord-ovest e per le aperture strette e alte che permettono di evitare la decorazione dei trafori gotici.
Subito dopo la metà del secolo la pubblicazione di alcuni testi critici portava nuovi approfondimenti
a questa linea di ricerca figurativa: nel 1849 John Ruskin (1819-1900) pubblicava Le Sette Lampade
dell’Architettura e nel 1851 Le pietre di Venezia, attirando l’attenzione sul Trecento italiano;
mentre George Edmond Street (1824-1881) ne ribadiva in qualche modo l’indicazione con il suo
volume Brick and Marble Architecture of the Middle Ages in Italy del 1855. Tra i protagonisti di
questo momento, oltre allo stesso Street, vanno citati William Butterfield (1814-1900) e Georg
Gilbert Scott (1811-1878), autore dell’Albert Memorial a Londra (1863-1872). Con la chiesa di All
Saints in Margaret Street, nel West End di Londra, una delle prime opere di Butterfield, si ebbe
l’affermazione di un gusto per la policromia tanto negli spazi esterni che negli interni degli edifici
religiosi: in questa chiesa (progettata nel 1850; terminata tra il 1855 e il 1859) all’esterno si
alternano superfici in mattoni rossi con fasce scure, sempre in mattoni, che, nell’altissima torre
dominante il panorama urbano, sono sostituiti da disegni in pietra. All’interno, dal presbiterio più
alto della navata, la policromia è risolta da intarsi in marmo, da maioliche e persino da dorature,
mentre ogni dettaglio decorativo sembra essersi ispirato al Trecento inglese. Tra le sue opere
successive, Butterfield realizzò un diverso tipo di policromia nella chiesa di St. James a Baldersby,
nel North Yorkshire, portata a termine insieme alla canonica e alla scuola nel 1856. In questo caso,
l’esterno presenta superfici in pietra, diversamente trattate, in specie nella guglia piramidale che
s’innalza al di sopra della semplice torre quadrata, mentre lo spazio interno è tutto in mattoni rosati
e grigi lasciati in vista. La soluzione dell’Albert Memorial (1863-1872) di Scott, nel Hide Park a
Londra, è senz’altro molto più ricca e fastosa: questo vero e proprio simbolo dell’età vittoriana
matura venne impostato come un reliquiario, risolto dalla forma di un ciborio monumentale coperto
a volta, sotto al quale si trova la figura bronzea del principe seduto, circondato da altre statue in
marmo bianco. La ricchezza della policromia è affidata alla grande varietà dei marmi, mentre alcuni
particolari sono realizzati in bronzo e la volta è coperta da mosaici, tutto in un insieme di grande
effetto scenografico. Le opere di George Edmond Street, al contrario, sono molto più rigorose e
aderenti allo stile di riferimento. La sua prima chiesa importante fu quella di All Saints a Boyn Hill,
presso Maidenhead, realizzata nel 1853 insieme alla canonica e a una piccola scuola, perfettamente
aderente al gusto policromo di Butterfield. Sempre su questa linea si collocò tutta la sua ricca
produzione di edifici religiosi, tra i quali vanno ricordati la chiesa di St John a Torquay (1861-
1871), quella di St Philip and St James a Oxford (1862), oltre alle due chiese romane di Saint Paul
(1872-1876) su via Nazionale e di Ognissanti (1880) lungo la via del Babuino.
Nello studio di Street, inoltre, si formano il pittore-decoratore William Morris (1834-1896)
e l’architetto Philip Webb (1831-1915) il quale, nel 1859, realizzerà per il primo la Red House a
Bexley Heath nel Kent, un modello molto importante per la tipologia delle case unifamiliari inglesi,
risolto da un linguaggio di grande semplicità e dalle fronti a paramento di mattoni rossi. Per
converso, al fiorire di nuove architetture religiose è collegata la rinascita delle arti decorative, in
specie per le nuove vetrate delle chiese, ad opera dello stesso Morris e del suo gruppo di amici,
come Ford Madox Brown e Edward Burne-Jones, i quali parteciparono spesso alle opere dello
stesso Street, come nel caso del disegno delle vetrate per la chiesa di Saint John a Torquay o per la
decorazione del coro della romana St Paul. Infine, sempre dall’ambito dello studio di Street,
emergeva la notevole figura di Richard Norman Shaw (1831-1912) il quale, dopo un inizio
decisamente neogotico (chiesa Holy Trinity, Bingley, Yorkshire, 1866-1867), darà un contributo
decisivo nella definizione della casa unifamiliare impostata sull’articolazione di volumi dalle
superfici scandite. Nella chiesa dedicata alla Santissima Trinità, Norman Shaw sembra essersi
ispirato al protogotico francese, proponendo un edificio che si risolve attorno a una torre centrale
molto semplice, mentre all’interno i paramenti in pietra irregolare non presentano cromatismi di
sorta: un contesto nel quale la maggiore attenzione è rivolta al disegno minuto dei dettagli
architettonici in funzione dei materiali da costruzione. Dopo la pubblicazione, nel 1858, dello scritto
Architectural Sketches from the Continent, con il castello di Leyswood nel Sussex, del 1868
iniziava una notevole produzione tanto che le sue case saranno prese come modello dallo Shingle
Style americano. La grande residenza di Leyswood si presenta infatti con una pianta molto articolata
e organizzata attorno a un grande atrio centrale (su cui si affacciano tutti gli ambienti di
rappresentanza), che disimpegna una scala a più rampe verso i piani superiori; all’esterno le
superfici inclinate sono rivestite da tegole, mentre quelle verticali hanno tavolati in vista sovrapposti
alle murature portanti, su cui si apre una lunga serie di aperture che sembrano anticipare le finestre a
nastro del secolo successivo. Utilizzando, inoltre, le tipologie delle sue case isolate, lo stesso Shaw
realizzava uno dei primi quartieri autosufficienti, premessa delle future città giardino, come quello
di Bedford Park a Turnham Green, presso Londra, del 1876: un complesso formato da case binate,
ciascuna con il proprio piccolo giardino, tutte in mattoni rossi e con semplici decorazioni, molte
delle quali progettate da lui stesso. Una chiesa e alcuni servizi pubblici e commerciali rendevano
autonomo il piccolo quartiere, certamente molto in anticipo con quanto doveva ancora accadere.
Anche se nell’Europa continentale il neogotico ebbe una certa diffusione, non può dirsi che
abbia avuto altrettanta fortuna almeno per la qualità delle opere realizzate: fa eccezione la notevole
figura di E.E. Viollet-le-Duc (1814-1879). Tutte le sue opere, comprese quelle di restauro stilistico
e molto innovative, appartengono ad un gusto neogotico direttamente ispirato da un’approfondita
conoscenza storica dell’architettura medievale. Infine, nell’articolato panorama europeo, va
ricordato il più tardo debutto professionale (1872) dello spagnolo Antoni Gaudì (1852-1926) il
quale, con le sue prime opere in stile neogotico, dava inizio alla sua personale esperienza
progettuale.
Nell’America del nord, tanto la diffusione del gusto medievale, che quello per il gotico in
particolare ebbero una rapida diffusione, pur alternandosi con la prevalente cultura neoclassica. In
Canada, a Montreal, uno dei primi esempi fu la cattedrale cattolica di Notre-Dame (1824-1829),
opera di un architetto irlandese, James O’ Donnell (1774-1830), alla quale più tardi, nel 1870,
vennero aggiunte le due torri della fronte e la ricca decorazione interna. Con quest’opera s’iniziava
la realizzazione di tutta una serie di cattedrali neogotiche, tanto cattoliche che anglicane, nelle
principali città dell’impero inglese nei diversi continenti: così come quella cattolica di St Patrick, a
Melbourne, iniziata dall’architetto Wardell nel 1860, o come quella anglicana di St Paul, realizzata
su un progetto di Butterfield del 1847 e iniziata nel 1850. Ancora in Canada, uno degli esempi più
importanti dell’applicazione del gusto neogotico fu il Campidoglio di Ottawa, con il palazzo del
Parlamento, progettato da due diversi studi di architetti (quello di Fuller e Jones e quello di Stent e
Laver) nel 1859 e realizzato tra il 1861 e il 1867. Negli Stati Uniti uno dei primi edifici
neomedievali fu lo Smithsonian Institute (1848-1849), a Washington, dell’architetto James Renwick
(1818-1895), realizzato in pietra scura, molto monumentale e in forma di castello. Tra gli edifici
religiosi neogotici deve essere ricordata la cattedrale cattolica di St Patrick a New York, realizzata
da James Renwick nel 1859, prima della stasi edilizia a seguito dell’inizio della dolorosa guerra di
Secessione (1861-1865): certamente un’opera di gusto più continentale che inglese, caratterizzata
da due altissime torri che s’innalzano sulla fronte in angolo con la quinta strada. In ogni caso, dopo
la guerra di Secessione, il gusto neomedievale si afferma con l'opera di Henry Hobson Richardson
(1838-1886), che si era formato all'École des Beaux Arts di Parigi e aveva lavorato allo studio di
Labrouste. Nel 1868 realizza, in Stick Style, la propria casa ad Arrochar sulla Staten Island presso
New York: un alto padiglione coperto a mansarda, con le pareti esterne in travi di legno in vista, che
imitano lo Stick Style. Successivamente (1874-1877) costruisce a Boston nella Copley Square la
Trinity Church, di gusto neoromanico, che si fronteggia con la biblioteca pubblica del suo allievo
Charles F. McKim (1847-1909), dalle grandi arcate a tutto sesto di gusto neoquattrocentista.
McKim, che aveva studiato anch'egli a Parigi, aveva fondato lo studio McKim, Mead e White. Nel
settore dell'edilizia abitativa, Richardson aveva dato il via all'applicazione dello Shingle Style, con
la realizzazione della casa John Bryant, a Cohasset nel Massachusetts (1880), tutta rivestita da
tegole in legno, replicando poi molte volte questo tipo di costruzione in legno, che verrà molto
diffusa anche dallo studio di McKim. Tra la notevole produzione di Richardson deve, infine, essere
ricordato il Marshall Field Wholesale Store, dalla struttura in ferro all'interno e dalle facciate in
pietra bugnata, ancora una volta in stile neomedievale (1885-1887): questo edificio commerciale,
oggi non più esistente, a Chicago, presentava una fascia basamentale risolta da archi ribassati, cui
era sovrapposto un ordine arcato che raccoglieva i tre piani successivi, seguiti a loro volta da altri
due piani, compresi da arcate larghe metà delle precedenti, con un attico terminale chiuso da un
cornicione. Una fronte tutta bugnata in granito rosso le cui dimensioni delle bozze si riducevano con
il progredire verso l’alto dei piani.

Durante la seconda metà del XIX secolo, negli stessi anni in cui si affermò una ricerca
progettuale dalla matrice stilistica, le esperienze più innovative furono legate alle ricerche su nuove
tecnologie costruttive: tanto come innovazione nel campo delle stesse strutture murarie, che, in
particolar modo, con l’adozione delle strutture portanti in ferro e ghisa, dopo che questa nuova
tecnologia era stata applicata per finalità esclusivamente funzionali (ponti, coperture di edifici
industriali, serre). Nell’ambiente italiano, personaggio certamente unico può ritenersi Alessandro
Antonelli (1798-1888), attivo già dall’inizio degli anni Quaranta (Novara, Cupola di San
Gaudenzio, 1841), autore a Torino della cosiddetta Mole Antonelliana (1863-1880), nata come
sinagoga e destinata in seguito a museo: un’architettura d’eccezione anche per la forma, la
dimensione e la tecnica muraria, del tutto nuova, della grande guglia di copertura, nella quale la
grammatica degli ordini architettonici classici non esiste più, sostituita da una ricerca di
corrispondenza con le vere esigenze di necessità costruttiva. Nell’ambito, invece, delle nuove
strutture metalliche, a Parigi, tra il 1843 e il 1850, viene realizzata la Biblioteca di Sainte-Geneviève
(Henri Labrouste, 1801-1875) dall’impianto portante in ferro, ma dalla fronte esterna ad arcate
aperte in una parete muraria: all’interno, lo spazio della sala di lettura era risolto da due volte a
botte parallele, poggianti su un’unica fila di colonne, molto esili rispetto alla loro altezza. Più tardi
(1862-1868), nella ristrutturazione e ampliamento della Biblioteca Nazionale di Parigi lo stesso
Labrouste realizzò una nuova sala di lettura coperta da cupole in terracotta smaltata sostenuta da
archi su colonne altissime, divisa dall’adiacente magazzino dei libri da un’ampia vetrata, che ne
mostra lo spazio unitario ritmato dalle pilastrature modulari. Tutte queste innovazioni non portano
ad alcun rinnovamento tipologico, ma propongono spazi interni diversi da quelli della tradizione,
soprattutto per l'esile dimensione degli elementi verticali portanti. Tra le due esperienze si pone la
realizzazione del Palazzo di cristallo, sede dell’Esposizione universale di Londra del 1851,
progettato da Joseph Paxton (1801-1865): un intero edificio in ferro e vetro esclusivamente, ma
dalla pianta basilicale con transetto, fortemente modulare e privo di ogni stilema classicista. Quasi
contemporaneamente, ancora a Parigi, Victor Baltard (1805-1874) realizzava Les Halles, i mercati
generali (1853-1858), nel quadro del processo di ammodernamento della capitale del Secondo
Impero napoleonico. In questo contesto ebbero molta rilevanza le due grandi Esposizioni universali
parigine: quella del 1878 (Galerie des Machines di De Dion) e soprattutto quella del 1889 con la
realizzazione della grande, altissima, torre tutta in ferro che, da allora, s’innalza sopra Parigi
progettata dall'ingegner Gustave-Alexandre Eiffel (1832-1923), oltre alla grande Galerie des
Machines (C.-L.-Ferdinand Dutert, 1845-1906): due opere molto diverse tra di loro, essendo la torre
ancora legata ad alcune reminiscenze del passato, mentre la Galerie des Machines mette in evidenza
la novità delle proprie soluzioni tecnologiche dalle grandi arcate in ferro poggianti su cerniere.
Negli Stati Uniti l'applicazione della nuova tecnica costruttiva portava ad un rinnovamento
totale di tutte le tipologie degli edifici commerciali, dai grattacieli sempre più alti come palazzi per
gli uffici, ai grandi magazzini. Nell'ambito di questa grande sperimentazione emerge la figura di
Louis Sullivan (1856-1924) e tutta la cosiddetta "Scuola di Chicago".
Il primo edificio di Sullivan, a Chicago, è il Rothschild Store (1880-1881), il cui apparato
decorativo non è riferibile allo stile di alcun particolare periodo storico, apparendo immediatamente
nuovo: una rinuncia ad ogni riferimento linguistico che confermerà in tutte le sue opere successive
dall’Auditorium Building (ora Roosevelt College, Chicago, 1887-1889), allo Stock Exchange
Building, sempre a Chicago (1893-1894) nel quale compare la cosiddetta “finestra di Chicago”
rettangolare ma orizzontale, al Guaranty Building di Buffalo (1894-1895). Pur non affrontando, o
quasi, il tema della residenza, le invenzioni di Sullivan presentavano una novità assoluta, anche
perché le nuove architetture erano il prodotto di un completo rinnovamento dell’organismo
architettonico, tanto nel suo impianto funzionale che nella tecnologia costruttiva, oltre che
nell’apparato figurativo. Tuttavia l’edificio simbolo che, a Chicago, riassume questo grande
momento non è un’opera di Sullivan ma è il Reliance Building dello studio Burnham & Co. del
1894-1895: un grattacielo per uffici tutto in ferro, dalle facciate rigidamente modulari, un vero e
proprio prototipo per tutte quelle architetture che, molto più tardi, verranno definite come
“International Style”.
In ogni caso, malgrado la messa in discussione della figuratività della tradizione avanzata
dalle ricerche sulle nuove tecniche costruttive e della rappresentazione dello spazio, tutta
l’architettura storicista è stata assolutamente prevalente durante la seconda metà del secolo XX, e
non può essere messa da parte, soprattutto per l’importanza che ha avuto nel realizzare spazi urbani
e tessuti edilizi tuttora molto validi nelle più importanti città dell’Occidente. L’architettura al
termine dell’Ottocento risulta caratterizzata dall’uso prevalente di linguaggi derivati dalla tradizione
storica, tanto come modelli assoluti (neoclassicismo, neogotico, neocinquecentismo), che
liberamente associati in eclettiche combinazioni: grammatiche e tipologie edilizie del passato
venivano utilizzate per risolvere ogni problema funzionale sia specialistico che residenziale. La
riproposizione delle esemplarità del passato veniva intesa come un metodo progettuale capace di
rendere immediatamente memorativa l’architettura ben al di là del suo fine di pratica utilità. Questa
ricerca di “monumentalità” rappresenta senz’altro la caratteristica più evidente degli anni di fine
secolo, rappresentando il momento conclusivo di tutte le tendenze romantiche dell’Ottocento. Tanto
l’edilizia di sostituzione che quella di nuovi quartieri residenziali venivano risolte in prevalenza con
l’uso delle tipologie tradizionali del palazzo nobiliare, realizzando logiche di tessuto molto precise
che, tuttavia, rimangono pertinenti delle singole aree geografiche. Tra gli edifici specialistici, quelli
religiosi riproponevano modelli paleocristiani o medioevali, mentre per le emergenze delle
istituzioni politico-amministrative era l’antichità classica con i suoi repertori formali ad essere
utilizzata per esprimerne l’autorevolezza: soluzioni, tutte queste, sempre proponibili per ogni
occasione o latitudine, in contrasto con la molteplicità dei linguaggi dell’edilizia di base. In tal
modo le città, con le nuove espansioni dalla struttura viaria a maglie quadrangolari regolari,
mantenevano una precisa continuità con la propria tradizione culturale, mentre le nuove emergenze,
prospettanti gli spazi pubblici, se ne distaccavano restando avulse dal contesto urbano (ad esempio
Bruxelles, Palazzo di Giustizia, J. Poelaert, 1866-1888, New York, Columbia University, Charles
McKim, 1895-1897). Nei paesi anglosassoni e nordeuropei, infine, si affermava in maniera
definitiva la tradizione molto diffusa delle case unifamiliari: tanto in legno e dalle tipologie sempre
ripetibili, che in muratura e dalle volumetrie libere molto articolate.
Questo clima culturale dominante, abbastanza omogeneo, trovava poche eccezioni: la
continua affermazione delle strutture in ferro aveva favorito la sperimentazione di nuove tipologie
edilizie come i grattacieli e gli edifici commerciali senza proporre un rinnovamento vero e proprio
della figuratività architettonica. Centro più importante della cultura classicista rimaneva l’École des
Beaux Artes di Parigi, la cui influenza era già arrivata da tempo negli Stati Uniti. Tuttavia, rispetto a
questo contesto, dall’inizio degli anni Novanta del XIX secolo iniziava a manifestarsi un processo
d’inversione di tendenza mirato al superamento e al successivo abbandono dei linguaggi stilistici
del passato: un percorso molto lungo, dalle tante strade intraprese e poi interrotte, che avrà un suo
svolgimento autonomo, mentre in tutti i paesi del mondo occidentale permaneva l’architettura della
tradizione classicista. In tal modo, gli architetti seguiranno due linee principali di tendenza ben
distinte e dialetticamente contrapposte tra loro: una, prevalente, volta a sperimentare tutti gli esiti
possibili dei linguaggi della tradizione storica, l’altra, minoritaria ma molto avanzata, impegnata
nella reinvenzione totale del modo stesso di fare architettura, per l’affermazione di una “modernità”
da contrapporre a tutto il passato storico.
Questo rinnovamento profondo in ogni valenza dell’architettura (funzionale, strutturale e
figurativa) aveva trovato le sue prime motivazioni nel dare forma a nuove tipologie specialistiche e
nel grande progresso tecnologico, prodotti dallo sviluppo della società industriale, che avevano
portato con loro tutte le motivazioni per il superamento del linguaggio storicista: era l’inizio di una
realtà nuova, che non veniva subito avvertita, ma che andava rapidamente affermandosi nell’ultimo
quindicennio dell’Ottocento.
L’esigenza di rinnovamento figurativo, iniziatosi a sperimentare in un ben determinato
momento storico, deve essere intesa come un processo formativo da valutare anche nel suo rapporto
con la tradizione, per la diversità delle esperienze dei singoli protagonisti. A essere riconosciuta è la
logica attraverso la quale si giunse, percorrendo itinerari diversi, all’abbandono di ogni modello
della tradizione classicista, per arrivare a un’ampia sperimentazione di organizzazioni spaziali e
lessici grammaticali finalizzati al totale rinnovamento della figuratività architettonica: una ricerca
che trascende il pur importante progresso tecnologico e la stessa esigenza di nuove tipologie
edilizie, avanzata dalla forte affermazione della civiltà industriale, per le città più rappresentative
del potere finanziario. Volendo fare un esempio in questo senso, si guardi al Macy’s Store di New
York che, quando fu realizzato (1901, studio De Lemos & Cordes), era considerato il più grande
supermercato del mondo: una tipologia edilizia ancora oggi attuale e perfettamente funzionante,
realizzata con l’uso delle nuove tecnologie costruttive, ma che non si discosta minimamente dai
canoni estetici dell’eclettismo storicista. Naturalmente, la “modernità” del cosiddetto Movimento
moderno se pure porta con sé anche il rinnovamento tecnologico e la ricerca sulle nuove tipologie,
sta soprattutto, se non esclusivamente, nella “novità” dei suoi apparati figurativi.
Il rinnovamento del modo di concepire lo spazio architettonico maturerà in tempi
abbastanza lunghi: dall’inizio dell’attività professionale di Frank Lloyd Wright, nell’ultimo
decennio del XIX secolo, alla mostra berlinese delle sue opere (1910), con il catalogo dell’editore
Wasmuth a divulgarle in Europa, al viaggio di Berlage negli Stati Uniti nel 1912 e alla sua
successiva iniziativa di pubblicare sulla rivista “Wendingen” (1924) le opere del grande maestro
americano. Durante questo periodo, poco più di un trentennio, si vanno affermando tutte le novità
che si diffonderanno immediatamente dopo, sino a giungere alla loro progressiva affermazione e
diffusione. In questo contesto, l’opera di Wright non può essere isolata rispetto al contemporaneo
dibattito europeo, al fine di mettere meglio in evidenza la rilevante diversità dei percorsi compiuti
per trovare una modernità mai univoca, spesso alternativa, senza canoni estetici definitivi. Ciascuna
di queste esperienze rappresenta una diversa modernità, non soltanto per la qualità figurativa dei
risultati raggiunti, ma anche per la singolarità del modo di affrontare le problematiche del
rinnovamento. In questo senso, la conoscenza e la divulgazione in Europa dell’esperienze
wrightiane erano state molto importanti, perché aveva dato una risposta concreta e immediata tanto
alla ricerca sulle nuove tipologie edilizie residenziali e non, che a quelle linguistiche di matrice
astrattista o cubista, già molto avanzate nel vecchio continente. Da questo momento in poi, essendo
stato messo da parte ogni rapporto con l’architettura del linguaggio classico, ciascuna esperienza
figurativa veniva rivolta al raggiungimento di uno spazio articolato, capace di realizzare la reciproca
compenetrazione tra interno ed esterno, nel rifiuto dell’aggregazione tra figure semplici della
geometria euclidea, scomponendo ogni rigida stereometria volumetrica: l’uso di superfici piane
libere, orizzontali o verticali, poste anche ad incastro tra di loro, caratterizza tale ricerca. Un
processo continuo, questo, di sperimentazione figurativa che va molto più in là del semplice rifiuto
della “storia”, intesa esclusivamente come repertorio di modelli stilistici del passato, alla ricerca di
nuove regole di organizzazione e controllo dello spazio architettonico.
Tanta novità non era stata il prodotto di una ricerca univoca, senza contraddizioni o
percorsi alternativi, portata avanti nell’ultimo decennio del XIX secolo e sino alla metà degli anni
Venti del Novecento: mettendo in luce quelle esperienze che hanno affrontato il rinnovamento della
figuratività dell’architettura, appaiono quanto mai evidenti le diversità delle singole
sperimentazioni, tanto nordamericane che europee, ciascuna delle quali può essere riguardata come
una singola e autonoma espressione di “modernità”, anche se tutte confluiscono in quello che poi
sarà detto Movimento moderno. Com’è noto, la maggior parte di queste esperienze hanno in
comune la finalità di rivedere le tipologie residenziali, tanto isolate, che inserite nel tessuto edilizio
di base, oltre alla definizione di nuovi organismi specialistici: l’obiettivo prevalente, tuttavia, non
era l’approfondimento dei caratteri strutturali o distributivi dei singoli edifici, ma quello di
raggiungere un’architettura completamente diversa dalla tradizione, fondata sulla risposta alle
esigenze di una nuova società e sul contemporaneo sviluppo tecnologico. Naturalmente, essendo
stati diversi i percorsi verso questa modernità, diviene subito necessario operare alcune distinzioni.
Le prime opere di Victor Horta (1871-1947), contemporanee a quelle di Wright, muovono da
presupposti totalmente diversi: anche se la casa Tassel in rue Turin (1893), a Bruxelles, realizza
senz’altro il superamento del tipo edilizio seriale della tradizione, l’assoluta novità del suo
repertorio linguistico è il prodotto del massimo approfondimento delle possibilità espressive legate
alla tecnologia strutturale in ferro e ghisa. Tanto la flessibilità dello spazio interno, quanto le
ricerche grammaticali sul disegno di nuovi ordini architettonici, possono essere considerati come il
momento ultimo di un percorso che aveva avuto origine con il Padiglione Reale di Brighton (1812)
di J. Nash (1752-1835), e proseguito con le opere di H. Labrouste (1801-1875) e di V. Baltard
(1805-1874), insieme alle architetture delle esposizioni universali dal 1850 al 1889: seppure queste
esperienze non possono essere considerate soltanto come una semplice evoluzione tecnologica o
funzionale, certamente non è propria di queste ricerche la volontà di sperimentare nuovi regole di
articolazione dello spazio architettonico al di fuori della geometria euclidea. In sostanza, tutta l’art
nouveau, nel suo articolato sviluppo, rappresenta una sorta di “modernità” alternativa, destinata a
concludersi presto per l’autocompiacimento nella ricerca di apparati decorativi molto complessi e
per il prevalere di un eclettismo di fondo, sempre latente in questo tipo di architetture. Alle ricerche
della cosiddetta art nouveau, un contributo importante viene portato in Belgio da Henry van de
Velde (1863-1957), a partire dal 1895 con la propria casa a Uccle presso Bruxelles, suo primo
progetto realizzato. In Francia emerge la figura di Hector Guimard (1867-1942), autore tra l’altro di
alcune stazioni della metropolitana di Parigi. Anche in Italia, ove prese il nome di stile floreale,
ebbe una certa fortuna con l’opera degli architetti Ernesto Basile (1857-1932) e Raimondo
D’Aronco (1857-1932).
Altre considerazioni possono essere avanzate in relazione a quelle esperienze che, per il
superamento della tradizione, sono state portate avanti esclusivamente approfondendo nuove
logiche funzionali attraverso cui risolvere tutti i problemi tanto della città, che dei suoi tipi edilizi:
la rinuncia a qualsiasi elemento decorativo privo di una specifica e pratica funzionalità
semplificava, eliminandolo, ogni problema di lessico grammaticale. È il caso, ad esempio,
dell’opera di Tony Garneir (1869-1948) e in particolare del suo progetto per la “cité industrielle”
(1901) che ebbe certamente molta importanza per il processo di autonoma formazione di Le
Corbusier il quale, lungo tutta la sua esperienza, non rinunciò mai all’utopia di un perfetto sistema
di organizzazione funzionale. La ricerca figurativa di Garnier, tuttavia, era legata esclusivamente
all’essenzialità dell’evidenza delle funzioni proprie ai singoli tipi edilizi, privilegiando uno stretto
rapporto tra forma architettonica e organizzazione distributiva: ancora una “modernità” alternativa,
sia pure molto determinante per il Movimento moderno e mai dimenticata. Infine, anche se non
produssero alcun seguito, devono essere ricordate le proposte di Antonio Sant’Elia (1888-1916) per
la città, nell’ambito del movimento futurista: soltanto visioni prospettiche di macrostrutture urbane,
forse polifunzionali, certamente molto avveniristiche, quanto stimolanti.
Eccettuando questi autonomi percorsi di ricerca, diviene possibile mettere insieme un
gruppo di architetti, di certo non sempre omogenei tra loro, ma le cui opere è possibile riguardare
insieme, per il comune impegno verso una sperimentazione finalizzata alla reinvenzione tanto della
figuratività dello spazio architettonico, che del suo lessico grammaticale. Il più anziano di tutti
questi è il catalano Antoni Gaudì (1852-1928), seguono poi P.H. Berlage (1856-1934), C.R.
Mackintosh (1868-1928), P. Behrens (1868-1940), F.L. Wright (1869-1959), A. Loos (1870-1933),
E. Saarinen (1873-1950) e A. Perret (1874-1954): un non dichiarato percorso comune lega
certamente tutti questi personaggi nella ricerca del linguaggio moderno dell’architettura. Un
contesto in cui l’opera di Wright è certamente quella più avanzata, raggiungendo presto, con il
Tempio Unitario (1905) e con la Robie House (1906), un momento di sintesi pressoché definitivo e
capace d’influenzare tutto il dibattito della cultura europea.
Il processo formativo dell’esperienza wrightiana si presentò subito come una novità
assoluta rispetto la cultura prevalente nordamericana. Nell’ambiente di Chicago, ove ebbe inizio,
malgrado l’attiva presenza di L. Sullivan (1856-1924), la tendenza più diffusa era certamente
meglio rappresentata dalle architetture dell’Esposizione universale del 1893 come, ad esempio,
l’Art Institute (architetti Sheply, Rutan e Coolidge): uno dei pochi padiglioni ancora oggi esistenti
in cui, tanto la struttura portante in ferro, che la destinazione d’uso nuova, vengono dimenticati e
messi da parte per il prevalere di un evidente gusto neoclassico. La Charnley House di Wright
(Chicago, 1891, insieme con L. Sullivan), al contrario, si distingue nettamente, per la sua ricca
articolazione volumetrica, dal tessuto edilizio a villini isolati della Astor Street in cui sorge, tutti
molto bloccati e dal linguaggio eclettico: ad essere messe in evidenza sono le diverse funzioni della
casa, secondo la tradizione dell’edilizia privata anglosassone, insieme al tentativo di superare gli
stilemi classicisti, semplificandone il disegno e alterandone i rapporti proporzionali. Questa duplice
volontà sta alla base di tutte le prime esperienze wrightiane, ancora ben lontane dal risolvere il
problema della rigidità della scatola muraria. Così nella Waller House (1889), a River Forest presso
Chicago, molto compatta, l’articolazione volumetrica è concentrata soltanto nella parte posteriore
della casa, per esprimere le diverse funzioni della vita privata familiare con uno spazio aperto-
coperto: completamente nuovo è, in questo caso, il disegno dei dettagli delle fronti, del tutto lontano
da ogni ricordo della tradizione. Sempre a River Forest, accanto alla precedente, è la Winslow
House (1893), dalla volumetria più rigida, ma dall’impianto già asimmetrico, nel quale prevale
l’immagine del grande tetto a due falde che la ricopre: tutte le aperture, identiche, sono scandite per
fasce orizzontali non gerarchizzate, che accentuano una certa solennità di questa residenza per altro
molto vasta. Sin da queste prime esperienze del grande maestro americano il duplice obiettivo della
sua ricerca è già molto evidente: la sperimentazione sulle tipologie residenziali isolate unifamiliari,
con la proposta di nuovi rapporti tra spazio interno ed esterno che articolano i volumi, cui si
accompagna il progressivo ma definitivo abbandono anche del solo ricordo della grammatica
classica dell’architettura. Anche nei Francisco Terrace Apartments del 1895 (Oaks Park, Chicago),
in cui Wright affronta il tema dell’isolato, anziché quello della casa singola, si ritrova lo stesso
indirizzo di ricerca: la volumetria è naturalmente bloccata dall’impianto a maglie ortogonali della
struttura urbana con le fronti disegnate serialmente, mentre le singole unità residenziali si aprono di
più verso la corte interna, cui si accede attraverso un atrio passante. L’apertura dell’ingresso è
risolta da un arco a tutto sesto senza piedritto: uno stilema molto originale che Wright ripeterà
spesso, unico elemento rilevante rispetto all’assoluta essenzialità di ogni dettaglio architettonico.
Queste “novità” di Wright, che precedono le sue opere dei primi anni del XX secolo,
possono essere confrontate con quanto accadeva contemporaneamente nel vecchio continente ove,
oltre alle tipologie residenziali, si affrontavano anche i problemi di quelle specialistiche: è il modo,
questo, per fare emergere tutte le diversità verso la “modernità”, talvolta anche tra loro distanti, ma
sempre rivolte ad un identico fine. In alcuni paesi europei, d’altronde, la ricerca architettonica era
altrettanto avanzata e la coincidenza temporale con le opere wrightiane, anche se in un continente
lontano, sta a dimostrarlo. Molto significative sono, in questo senso, le proposte della scuola
catalana per essere del tutto contemporanee alle prime opere di Wright. Innanzitutto le realizzazioni
di Antoni Gaudì (1852-1928), il quale dopo un’iniziale esperienza neogotica e operando sempre a
Barcellona, con la chiesa della Sagrada Familia (dal 1882 e per tutta la sua vita) trasformava
modernamente la sua attenzione per il linguaggio neomedievale: subito dopo con la Casa Güell
(1885-1889), la Casa Batllò (1905-1907) e la casa Milà (1905-1910), veniva progressivamente
reinventando tutto il suo repertorio figurativo in un processo continuo di trasformazione privo di
regole. Le sue opere si inseriscono negli isolati dell’espansione tardo ottocentesca di Barcellona
proponendosi sempre in assoluta dissonanza con il tessuto edilizio circostante caratterizzato
dall’eclettismo storicistico delle abitazioni. Infine nel parco Güell (1900-1914) Gaudì, disegnando
scalinate, fontane e altri arredi da giardino, giungeva al limite più innovativo di tutta la sua ricerca
figurativa: ancora una volta immagini spaziali tanto ricche di fantasia da offrire emozioni sempre
nuove. Oltre a Gaudì, anche gli architetti suoi conterranei affrontarono i problemi dell’edilizia
residenziale e del rinnovamento tipologico degli elementi seriali del tessuto edilizio di base, che
portarono subito ad un’architettura dalla novità assoluta e del tutto originale, destinata, purtroppo,
ad essere poco diffusa, risultando ancora oggi poco nota: opere tutte che, a Reus, precedono i più
noti esempi di Barcellona. L’architetto Pere Caselles i Tarrats, ad esempio, nella casa Tarrats del
1892, in un contesto dal lessico molto semplificato, propone una brillante soluzione angolare che
scardina la rigidità volumetrica dell’isolato: un segno molto forte, posto a separare i due piani
verticali ortogonali delle fronti, individuato da una colonna libera per tutta l’altezza dell’edificio
che, al primo piano, sostiene un balcone circolare. Questo stesso architetto, nella casa Sardà del
1896, un elemento seriale del tessuto edilizio di base, si limita esclusivamente alla riduzione in
forma essenziale degli elementi decorativi della fronte, mentre nella casa Punyed del 1900 propone
un nuovo tipo di soluzione angolare: un bow-window a pianta circolare che risvolta una fronte con
finestre dalla semplice riquadratura. Altrettanto importanti sono le opere dell’architetto Lluís
Domènech i Montaner (1850-1923), come la casa Rull (1900) o la casa Navàs (1901-1907), dalla
fantasiosa soluzione angolare accompagnata dall’uso dei pilotis che, al piano terra, ne articolano
ancora di più la volumetria. Di certo non inferiori a quelli di Wright e forse più avanzati, questi
esempi mettono in evidenza la notevole originalità e novità della scuola catalana: un preciso
indirizzo di ricerca che non fu compreso, non riuscendo ad essere diffuso e restando sconosciuti
tutti questi personaggi, ad eccezione di Gaudì, il più grande tra loro, ma sempre espressione di
un’identica scuola.
I diversi percorsi del resto d’Europa sono senz’altro altrettanto singolari. In Olanda, con la
Borsa di Amsterdam (1898-1903), Berlage risolve questa tipologia specialistica e la sua
articolazione funzionale all’interno di una volumetria ancora sufficientemente rigida, cui
corrispondono spazi interni altrettanto definiti: il suo maggiore interesse sta nel linguaggio
architettonico adottato, caratterizzato da un apparecchio murario in vista molto raffinato e ricco di
dettagli, mentre la ricerca di una nuova grammatica approda ad un’estrema semplificazione, di
gusto neoromanico. In Inghilterra, a Glasgow, Mackintosh realizzava la Scuola d’arte (1896-1909)
con una pianta rettangolare allungata e chiusa, il cui volume è articolato dai diversi livelli delle
coperture e dalla torretta sporgente, in un contesto in cui la varietà dell’altezza delle aperture
evidenzia la molteplicità delle funzioni dello spazio interno. Anche in questo caso, a prevalere è un
gusto medievaleggiante, certamente derivato dalla recente tradizione neogotica britannica. Un tipo
di rapporto con il passato, questo, presente anche nella capitale finlandese, Helsinki, nel Museo
Nazionale di questo paese (1902-1904), di Eliel Saarinen (con H. Gesellius e A. Lindgren): un altro
edificio specialistico la cui ricca articolazione volumetrica si accompagna alla ricerca di una
grammatica tanto essenziale da apparire di gusto medievale. Questo stesso architetto, poco più tardi,
nella stazione centrale della città (1910-1914) contrappone, al grande spazio interno del salone
viaggiatori, coperto da una volta a botte, l’invenzione di un lessico completamente nuovo per le
fronti esterne: assai raffinato nel dettaglio, tanto da definire un contesto molto interessante, che va
ben al di là della sola articolazione volumetrica. Negli stessi anni in Francia, emerge la figura di
Auguste Perret con la sua casa in rue Franklin (1903), edificio inserito nella serie continua delle
case della quinta stradale che mantiene l’asse di simmetria della fronte, ma dai dettagli molto
essenziali e non soltanto semplificati. In seguito, sempre a Parigi, nel Teatro degli Champs Elysèes
(1911-1913), Perret affrontava il tema di un edificio specialistico su di un intero isolato: in questo
caso, l’architetto supera del tutto ogni rigidità stereometrica, scomponendo il volume con piani
orizzontali e solidi angolari, mettendo in evidenza le diverse funzioni dell’organismo teatrale.
Un’opera, questa, quasi certamente progettata senza una diretta conoscenza dell’opera wrightiana:
un’esperienza molto importante anche per la formazione di Le Corbusier il quale, a buon diritto,
poteva affermare, polemicamente, di non conoscere l’opera del grande maestro americano.
Infine, nell’area austro-tedesca, era ancora molto attivo l’anziano Otto Wagner (1841-
1918) il quale, nella sede della Banca Postale di Vienna (1904), affronta la reinvenzione del
paramento interamente bugnato di una fronte esterna, posta avanti alle diverse funzioni dell’edificio
specialistico, tra cui quella del salone per il pubblico risolto da una copertura in vetro-cemento:
l’articolazione dello spazio interno si accompagna con gli stilemi del tutto nuovi del linguaggio
architettonico della facciata. Inoltre, sempre nell’ambito della Secessione viennese, devono essere
ricordate le importanti figure di Joseph Maria Olbrich (1867-1908) e Josef Hoffmann (1870-1956),
autore più tardi del notevole Padiglione austriaco alla Biennale di Venezia (1934). Ancora, il
tedesco Peter Behrens, che in alcuni edifici industriali, come la fabbrica delle turbine (1909) e
quella per i piccoli motori (1910), ambedue a Berlino per la società AEG, prende spunto
dall’essenzialità funzionale di questo tipo di edifici specialistici, pervenendo alla definizione di un
linguaggio architettonico del tutto essenziale e sintetico. Sempre a Berlino, pochi anni più tardi,
Adolf Loos propone nella casa Scheu (1912) una planimetria rettangolare molto rigida che è risolta
da una volumetria scalare, per evidenziare l’articolazione dello spazio interno, dovuta alla diversità
delle quote dei piani di calpestio e dei soffitti: una tipologia residenziale completamente nuova,
nella quale la rinuncia programmatica ad ogni forma di decorazione risolve, quasi automaticamente,
qualunque problema di ricerca di un linguaggio architettonico. Proprio all’interno del vivace
contesto culturale tedesco e dello studio di Peter Behrens in particolare, nascono le prime
esperienze di Walter Gropius (1883-1969; case in Pomerania, 1906) e di Ludwig Mies van der Rohe
(1886-1969; casa Berg, 1911), prime esperienze di un nascente razionalismo. Contemporaneamente
in Francia, nel 1910 era iniziata anche l’attività di Le Corbusier (1887-1965), il quale, con le sue
Maisons Dom-Ino (1914), aveva subito proposto, attraverso l’uso del cemento armato, la possibilità
di avere le superfici delle fronti libere da ogni vincolo strutturale e svincolate da qualsiasi logica
modulare. In ogni caso, l’insieme di tutte queste esperienze, così come l’influenza in Europa
dell’opera di Wright, divenne manifesta nell’esposizione del Werkbund a Colonia del 1914: tra gli
altri, in questa occasione, partecipò anche Walter Gropius, il quale si era progressivamente
affermato attraverso esperienze architettoniche i cui dettagli mettono in evidenza una sua precisa
attenzione alle opere di Frank Lloyd Wright.
Allorché lo scoppio improvviso della prima guerra mondiale pose un freno a questo
processo evolutivo spontaneo della cultura architettonica occidentale, l’esperienza compiuta da
Wright dall’ultimo decennio del XIX secolo e agli inizi del Novecento era del tutto simile a quanto
veniva portato avanti dalla contemporanea cultura europea: quando la specifica diversità dell’opera
del maestro di Chicago sarà meglio conosciuta in Europa concorrerà, con tutte le altre, al comune
percorso verso la “modernità”, intesa come rinnovamento totale dello spazio e del linguaggio
architettonico per andare al di là di ogni tradizione storicistica.
Dal primo dopoguerra all’inizio del nuovo millennio

(1918-2001)

La vicenda politica del ventennio tra i due grandi conflitti mondiali del XX secolo (1919-
1939) venne caratterizzata dall’affermazione della dittatura fascista in Italia (1922), di quella
nazional-socialista in Germania (1933), dall’effimera avventura del Fronte popolare in Francia
(1936-1938) e dalla guerra civile in Spagna (1936-1939): eventi, tutti, che hanno come causa prima
l’espansionismo internazionalista del regime bolscevico in Russia, succeduto al crollo dell’impero
zarista (1917). Questi avvenimenti, che debbono essere considerati tra le premesse più importanti
della seconda guerra mondiale, formano l’inquietante cornice all’interno della quale si affermò
definitivamente lo sviluppo di tutto il Movimento moderno e in particolare del razionalismo
europeo: un momento senz’altro decisivo che vedrà la conferma definitiva dei principali
protagonisti e delle scuole di architettura più importanti, nonché la diffusione internazionale del
nuovo linguaggio architettonico. Mentre Wright portava avanti da solo un processo di rinnovamento
continuo di tutto il repertorio figurativo, dall’Hotel Imperiale di Tokyo (1916-23) alla Casa sulla
cascata (Mill Run, Pennsylvania, 1935), in Europa si sviluppò un dibattito senza precedenti insieme
ad un panorama molto largo di esperienze, legato alle realtà culturali dei diversi paesi. In Olanda,
Berlage e gli architetti della scuola di Amsterdam approfondirono le esemplarità di Wright in
direzione espressionista. In tal modo, dopo la nuova pubblicazione delle opere del maestro
americano sulla rivista Wendingen, lo stesso Berlage, dopo una lunga esperienza professionale
nell’edilizia residenziale, nel Museo municipale dell’arte de L’Aja (terminato nel 1935) prendeva le
mosse dalla sua profonda conoscenza dell’opera di Wright, intesa come affermazione di un metodo
progettuale alternativo a quello funzionalista e razionalista. Ancora, l’isolato detto “La nave”
(1921), nella zona di Amsterdam ovest, di Michel de Klerk (1884-1923), pur accentuando alcune
manifestazioni di linguaggio espressionista, può essere facilmente rinviato all’esempio dei
Francisco Terrace Apartment in Oak Park (Chicago) del 1895, anche se tutta la tradizione
dell’architettura residenziale olandese ne costituisce altrettanto una premessa indispensabile. Infine,
le opere di Willem Marinus Dudok (1884-1974) a Hilversum, tanto il Municipio (1924-1930), che
le scuole, piuttosto che per l’articolazione dei loro volumi, o per la ricchezza dei dettagli
architettonici, possono essere confrontate con le prime opere di Wright a causa dell’identico,
reciproco contesto urbano di riferimento: tanto Oak Park, che River Forest o Hilversum sono il
risultato di impianti urbanistici a maglie pressoché quadrangolari, i cui isolati sono a loro volta
suddivisi in lotti, all’interno dei quali, isolata, sta sempre un’architettura dalle dimensioni
relativamente modeste, tanto residenziale che specialistica. Tutti questi edifici, ben lungi dal
formare un tessuto, restano estranei l’uno all’altro, ciascuno interno al proprio lotto di appartenenza.
In contesti di questo tipo, le rarissime architetture moderne, senza svolgere alcun ruolo di
emergenza, risultano frammiste a tutta l’edilizia tradizionale e convenzionale al di fuori del tempo.
Sempre in Olanda, insieme alla conoscenza delle opere di Wright, l’affermazione delle ricerche
cubiste nelle altre arti figurative fu alla base della nascita del movimento De Stijl (1917), fondato da
Theo van Doesburg (1883-1931): altrettanto importanti furono l’esempio e i suggerimenti del
grande maestro astrattista Piet Mondrian (1872-1944), le cui opere anticipano sulla superficie piana
le scomposizioni volumetriche dei modelli di case realizzate dallo stesso van Doesburg e da
Cornelius Van Eesteren (1897-1988). La poetica di questo modo di fare architettura si fondava sulla
rinuncia alla stereometria dei solidi volumetrici, aperti e articolati da superfici verticali e orizzontali
che propongono un nuovo rapporto tra esterno e interno: intenzionalità, tutte, molto vicine a quanto
era già stato proposto da Wright con la Robie House e, soprattutto, con la fontanina nel grande
parco di Oak Park (1909). Oltre a Dudok, che operò parallelamente al movimento De Stijl, tra i
principali esponenti di questo gruppo debbono essere ricordati Gerrit Rietveld (1888-1964), che
realizzò concretamente le intenzionalità di van Doesburg e van Esteren con la sua casa Schroeder a
Utrecht (1924), mantenendo questo indirizzo progettuale sino al termine della sua operatività
(Amsterdam, Museo Van Gogh, 1963-72). Un altro protagonista fu Jacobus Johannes Pieter Oud
(1890-1963), autore tra l’altro delle case minime in serie per il quartiere sperimentale “Weissenhof”
a Stoccarda (1927), anch’egli rimasto fedele sino all’ultimo alla propria poetica iniziale (L’Aja,
Centro Congressi, 1956-58).
Ancora più articolato era il contesto tedesco, nel quale Walter Gropius (1883-1969), dopo
la realizzazione delle Officine Fagus (1911), fondava la sua scuola di architettura, il Bauhaus, a
Weimar (1919), trasferendola più tardi a Dessau nel complesso di edifici da lui stesso progettati
(1925-26). Questa era formata da un complesso di edifici che comprendeva le aule e i laboratori, gli
alloggi per gli studenti e quelli per i professori: planimetrie, tutte, chiuse ma molto articolate, tra le
quali spiccava il blocco dei laboratori completamente vetrato, mentre le fronti erano caratterizzate
dalla continuità quasi ininterrotta delle aperture orizzontali, disegnate con gusto astrattista sulla
superficie piana. Nell’insegnamento, il Bauhaus proponeva soltanto discipline compositive
totalmente nuove che escludevano qualsiasi conoscenza del passato. Nella scuola sarà invitato ad
insegnare anche Theo van Doesburg (1922), ma il suo rapporto con Gropius risultò molto difficile e
di breve durata. Tra le molte opere realizzate o soltanto progettate di questo maestro, prima che
abbandoni la Germania nel 1933, si segnalano le proposte per le case d’abitazioni e quelle molto
innovative per i teatri. La sua ricerca sulle residenze affronta i temi delle case minime, anche
multipiani, oppure in linea a formare veri e propri nuclei insediativi: tra questi, dopo l’Esposizione
del Werkbund a Stoccarda del 1927, soprattutto i quartieri Dammerstock (1927-28) e Siemensstadt
(1929) a Berlino. Molto più stimolanti sono i progetti degli edifici per lo spettacolo, tra i quali il
sobrio, quanto essenziale, Teatro municipale di Jena (1923) e il progetto assolutamente
rivoluzionario del suo Teatro totale del 1927. Negli stessi anni, all’interno dello stimolante
ambiente tedesco della cosiddetta Repubblica di Weimar, iniziò l’attività di Ludwig Mies van der
Rohe (1886-1969), molto attento al movimento De Stijl, che culminerà nel Padiglione tedesco per
l’Esposizione Internazionale di Barcellona del 1929: uno spazio molto articolato realizzato da piani
orizzontali e verticali liberi che s’intersecano tra loro. Precedentemente aveva realizzato il
monumento a Karl Liebknecht e Rosa Luxemburg (Berlino, 1926) e il progetto per il quartiere
Weissenhof Siedlung per l’Esposizione di Stoccarda del 1927 oltre, più tardi, la Villa Tugendhat a
Brno (1930). Divenuto direttore del Bauhaus dopo la partenza di Gropius, tentava un dialogo con il
nuovo potere nazista, quasi subito fallito, prima di abbandonare anch’egli definitivamente la
Germania nel 1938. Infine, protagonista di un plastico espressionismo è Erich Mendelsohn (1887-
1953), che dava vita ad una chiara alternativa al razionalismo con opere molto diverse, quali la
Torre Einstein (Potsdam, 1920-1921) o i Magazzini Schocken (Stoccarda,1926-1928), offrendo un
nuovo percorso di ricerca sul quale si avvierà, sin dall’inizio degli anni Trenta, l’opera della
notevole figura di Hans Scharoun (1893-1972), il quale non abbandonerà la Germania, restando
nascosto fino al termine della Seconda Guerra mondiale per sfuggire al regime nazista: prima della
sua forzata inattività aveva realizzato il gruppo di abitazioni per il quartiere Siemensstadt a Berlino
(1929-1930) e la casa Schminke a Löbau (1932).
L’ambiente culturale scandinavo, in quegli stessi anni, vedeva la prevalenza della
tradizione neoclassica espressa ad Helsinki dal raffinato Palazzo del Parlamento (arch. Johan
Sigfried Sirèn, 1926-1931), manifestazione chiara ed evidente di una raggiunta ricerca di
proporzioni armoniche: un gusto, questo, molto importante e da cui muove lo stesso Gunnar
Asplund (1885-1940) con la biblioteca di Stoccolma (1924-1927), dalla perfetta stereometria
cilindrica. Subito dopo, tuttavia, questo stesso architetto era capace di rinnovarsi completamente
con il Padiglione per l’Esposizione di Stoccolma (1928-1930): una planimetria del tutto bloccata,
preceduta da un elegante porticato avvolgente, ma dallo spazio interno imprevedibile e articolato,
per la molteplicità delle funzioni che racchiude. In sostanza, una concezione spaziale che accetta il
motivo tradizionale del volume puro e del portico, ma ne rinnova, elegantemente semplificandolo,
ogni elemento grammaticale, in modo da mettere in evidenza la novità assoluta di un libero e fluido
rapporto tra funzioni e percorsi. Tutto ciò è ancor più evidente nel successivo ampliamento del
Municipio di Göteborg (1934-1937), per il quale l’architetto inventa una tipologia del tutto nuova,
caratterizzata da due piani inclinati di risalita, messi in evidenza verso la corte interna dalla
trasparenza di una grande vetrata: nelle fronti sulle strade, rinunciando a qualunque imitazione della
preesistenza neoclassica, propone una grammatica completamente nuova e ricca nel dettaglio, forse
suggerita in qualche modo da una ricerca di ambientamento con l’edilizia circostante. Un esempio
tutto basato sull’articolazione dello spazio interno, contrapposto alla chiusa volumetria dell’isolato,
che ricerca un dialogo con il tessuto urbano attraverso un linguaggio nuovo, ma non dissonante.
Negli stessi anni, in Finlandia emergeva la grande personalità di Alvar Aalto (1898-1976): ancora
una volta una figura legata al confronto con l’ambiente locale, che subito si afferma realizzando
alcune opere notevoli. Tra queste il fondamentale sanatorio di Paimio (1929-1933), la Villa Mairea
a Noormarkku (1938-1939) e il padiglione finlandese alla Fiera mondiale di New York (1938-
1939), tutte realizzate prima dell’inizio dell’entrata in guerra della Finlandia nel secondo conflitto
mondiale.
Altrettanto autonoma, durante tutti questi stessi anni, era stata la produzione di Le
Corbusier il quale, prima di ogni altro, poneva subito il problema della forma della città ideale del
razionalismo con alcune proposte successive, quali il “Plan Voisin”(1925), il piano di Algeri (1930)
e la “Ville Radieuse” (1935), tutte impostate sulla necessità di risolvere precise esigenze funzionali:
la sua stessa produzione architettonica segue una linea identica, ricercando l’articolazione dello
spazio interno di volumi semplici, spesso su pilotis, dalle pareti esterne libere, come nel caso della
Ville Savoye (Poissy, 1928-1931), opera che era stata preceduta tra le altre, a Parigi, dalla casa del
pittore Ozenfant (1922), dal suo trattato Vers une architecture (1923) e dalla villa binata La Roche-
Jeanneret (1923). Più tardi, sempre a Parigi, realizzerà ancora il padiglione svizzero della città
universitaria (1930-1932). Le Corbusier, tuttavia, non era personaggio da porsi in disparte a livello
internazionale, tanto da partecipare al concorso per il palazzo del Soviet a Mosca, al quale fu
presente anche Walter Gropius, oltre a divenire protagonista dei congressi del CIAM e di quello di
Atene del 1933. Grande fu anche la sua influenza in Brasile (Ministero dell’Educazione e della
Cultura, Rio de Janeiro, 1936-1945), segnando la formazione di personaggi quali Lucio Costa
(1902-1998) e Oscar Niemeyer (1907) autore del Padiglione brasiliano all’Esposizione di New
York del 1938.
Il carattere internazionale del razionalismo era subito emerso e quasi tutti i suoi maggiori
protagonisti si erano ritrovati nell’Esposizione del Werkbund a Stoccarda nel 1927, ma la sua
diffusione, soprattutto oltre oceano, derivò dall’ascesa al potere del regime nazista. Nel 1933 Walter
Gropius ed Erich Mendelsohn abbandonarono la Germania per l’Inghilterra, mentre Mies van der
Rohe, dopo essere succeduto a Gropius nella direzione del Bauhaus e aver tentato di coesistere con
il nuovo potere, abbandonò la Germania per gli Stati Uniti: in questo paese l’aveva preceduto
Gropius (dal 1937), andando ad insegnare ad Harvard, e nel 1941 arrivava anche Mendelsohn,
mentre Mies van der Rohe iniziava il progetto per gli edifici dell’Illinois Institute of Technology
(I.I.T.). Tutte le condizioni per l’affermazione definitiva a livello internazionale del linguaggio
moderno dell’architettura si erano verificate: anche Le Corbusier vi parteciperà con la sua presenza,
nell’immediato dopoguerra, nella progettazione del Palazzo dell’ONU a New York (1947).
Il processo evolutivo verso l’affermazione della cultura del Movimento moderno e
dell’International Style, cui è legata la sua diffusione, non rappresenta l’unica ricerca figurativa del
periodo tra le due guerre mondiali: nella ricostruzione degli eventi architettonici di questo periodo
storico debbono essere ricordati tanto il tentativo della cosiddetta art déco, messa subito da parte,
quanto tutte quelle realizzazioni che cercarono di portare ancora avanti la tradizione classicista, pur
attraverso un rinnovamento del suo linguaggio. Tutte le esperienze dell’art déco, nella ricerca di
nuove tipologie sia residenziali che specialistiche, uniscono all’articolazione dello spazio e alle forti
soluzioni angolari la riproposizione del valore dell’asse di simmetria centrale e, soprattutto, l’uso di
tanti stilemi della tradizione storica: non come un linguaggio che ordina le superfici che
racchiudono gli spazi, ma soltanto quale citazione di una memoria che non è stata ancora del tutto
dimenticata. Architetture di questo tipo, tanto interi brani di città, come a South Beach (Miami,
Florida) nel cosiddetto Art Déco Historic District, che singoli edifici di sostituzione del tessuto
edilizio di base dei centri antichi (Saint Quentin, Francia), arrivano a soluzioni di grande interesse
ed eleganza figurativa. Esperienze, tutte queste, forse troppo presto abbandonate, ma che mettevano
chiaramente in mostra una strada alternativa verso il superamento di ogni classicismo. Molto più
importante e duratura, al contrario, fu la ripresa di un rapporto con la tradizione storica, anche se in
modi non del tutto omogenei: dal perdurare di manifestazioni di eclettismo storicistico, agli
esperimenti di semplificazione del lessico grammaticale che giunsero sino alla riproposizione di un
rinnovato neoclassicismo. Di questi ultimi fanno parte le più importanti realizzazioni di tutto il
mondo occidentale durante questi anni: in particolar modo in Italia e in Germania negli edifici
rappresentativi dei nuovi regimi autoritari, che favorirono sempre tutte le proposte miranti a
concretizzare una sorta di classicismo di Stato, anche se non con esclusività. In Italia, ad esempio, la
presenza del razionalismo, anche se arrivato tardi (Gruppo 7, 1926), rimase sempre molto forte per
le opere di Giovanni Michelucci (1891-1991; fabbricato viaggiatori della Stazione di Firenze -
Santa Maria Novella, 1933-1935), di Giuseppe Terragni (1904-1943; casa del Fascio a Como, 1932-
1936), di Luigi Moretti (1907-1973; casa delle Armi nel Foro Mussolini di Roma, 1934-1940), di
Adalberto Libera (1903-1963; palazzo dei Congressi a Roma, dal 1938), Ignazio Gardella (1905-
1999; dispensario antitubercolare, 1936-1938), Franco Albini (1905-1977; allestimenti per la VI
Triennale di Milano, 1936), oltre che per il notevole contributo critico di Giuseppe Pagano
Pogatschnig (1896-1945) e della sua rivista Casabella. In ogni caso, il percorso italiano verso il
monumentalismo era stato avviato a Milano con la Cà Brutta (1921) di Giovanni Muzio (1893-
1982), un’architettura molto semplificata, ma certamente frutto di uno specifico rapporto del suo
autore con la pittura di Sironi e con i suoi paesaggi di città. Nel resto del paese, le nuove esperienze
europee e nordamericane tardarono ad essere conosciute ed erano state anche dimenticate, o messe
da parte, le stesse testimonianze del futurismo italiano. Dopo la breve parentesi del floreale e
qualche isolato confronto con la Secessione viennese (ad esempio Marcello Piacentini, Cinema
Corso a Roma, 1915-1917), non molti sono i tentativi portati avanti dagli architetti di confrontarsi
con le istanze di rinnovamento nella rappresentazione dello spazio architettonico. Tra questi emerge
la figura del romano Pietro Aschieri (1889-1952) il quale, sin dal 1925, nella Casa del Guardiano a
Fregene, risolve con grande eleganza la compenetrazione tra spazio interno ed esterno per mezzo di
una ricca articolazione volumetrica e con l’essenziale linguaggio delle semplici riquadrature in
travertino delle finestre. Tra le molte altre sue opere occorre citare la palazzina a Roma, in piazza
della Libertà (1931), un esempio proto-razionalista che contrappone all’essenzialità geometrica
della fronte un’organizzazione molto articolata degli spazi interni. La produzione di questo
architetto, tuttavia, non fu del tutto omogenea e le sue esperienze di scenografo lo condussero,
forse, al pesante neoclassicismo della sua ultima opera, il Museo della romanità dell’E42 di Roma
(1939-1941): un impianto molto rigido, simmetrico, in cui anche le necessità funzionali museali
sono subordinate alla scenografia dell’insieme. Aschieri, in questo caso, si allontanò completamente
dall’originalità delle sue prime opere. Una tendenza della cultura architettonica italiana,
quest’ultima, che trovava immediatamente precisi riscontri anche in ambienti europei, ma orientata
prevalentemente alla reinvenzione di un linguaggio classicista capace di dare novità all’uso degli
schemi tipologici della tradizione: in particolare a Roma, protagonisti assoluti ne sono Marcello
Piacentini (1881-1960) e Arnaldo Foschini (1884-1968). Dopo le sue prime esperienze, legate alla
Secessione viennese, con la Casa Madre dei Mutilati (1928), a Roma, Piacentini mette subito in
evidenza un notevole eclettismo figurativo, pur in un contesto dalla volumetria non così rigida,
dall’effetto più scenografico che convincente. Nella successiva chiesa di Cristo Re (1934), sempre a
Roma in viale Mazzini, l’impianto è una vera e propria citazione di chiesa ad aula unica, con
transetto, cupola a tiburio e presbiterio molto approfondito: assolutamente nuova e più interessante
è senz’altro la facciata, dal paramento di mattoni a faccia vista molto ricercato, che esclude ogni
rapporto con gli ordini della tradizione, esaltando il forte impatto volumetrico della sua massa
muraria. Infine, restando tra le opere romane di Piacentini, il piano urbanistico e il palazzo del
Rettorato dell’Università di Roma “La Sapienza” (1935-1936): soluzioni ambedue monumentali,
caratterizzate da un forte asse di simmetria centrale. Il Rettorato, posto su un’alta scalinata e
elegante nelle proporzioni del nuovo ordine architettonico stilizzato su pilastri, sembra voler essere
una sorta di tempio della cultura senza timpano triangolare: dietro questa aulica fronte, che
corrisponde al grande atrio di rappresentanza, Piacentini pose magistralmente tanto gli uffici che
l’aula magna. In questo caso, malgrado l’articolazione volumetrica dell’insieme, prodotta da una
ricerca solo funzionale, prevale senz’altro una sorta di nuovo classicismo nel quale s’impone la
ricerca sulle tipologie specialistiche polifunzionali: la notevolissima qualità di architetto di
Piacentini riuscì a dare a queste architetture una grande dignità e forti contenuti rappresentativi,
anche se la sua opera resta neoclassica, malgrado la conoscenza che aveva di ogni novità
razionalista europea, che andava pubblicando sulla sua rivista L’architettura. Così come non rimase
isolato, anche in Europa, ritrovandosi una stessa figuratività architettonica in alcuni esempi di
disegno urbano all’interno di antiche e grandi città. A Parigi, al Trocadero, i palais de Chaillot
(1937) formano due quinte parallele con la Tour Eiffel a fondale, evidenziando con chiarezza
caratteri comuni con le architetture piacentiniane. Altrettanto può dirsi a Bruxelles dell’edificio
della Biblioteca Albertina (1954), anche se molto più tarda.
Ancora un nuovo classicismo, ma diverso, è quello espresso dall’opera del toscano
Arnaldo Foschini, che operò molto a Roma durante gli anni Trenta: pur privo di qualsiasi citazione,
il suo tipo di ricerca evoca il gusto del rinascimento per l’armonia delle proporzioni, la purezza dei
volumi e il valore di superficie delle facciate. Così, ad esempio, nell’ingresso alla Città
Universitaria (1933-1935), certo una delle architetture più notevoli realizzate a Roma durante la
prima metà del Novecento, il cui valore assoluto va ben al di là di qualsiasi scelta figurativa. Ancora
un’immagine rinascimentale è evocata dalla sua chiesa dei Santi Pietro e Paolo all’Eur (1939), a
pianta centrale, isolata e coperta a cupola, che ricorda certamente il tempio ideale. Infine, sempre a
Roma, le case in linea lungo il Corso del Rinascimento (1936-1938), le cui fronti vengono risolte
disegnando una superficie continua, che propone una serialità soltanto apparente, con un risvolto
sulla piazza di notevole rappresentatività, giocato con un doppio ordine porticato, ancora una volta
di armoniche proporzioni. In tutte le occasioni, Foschini dimostra sempre una grande eleganza nel
disegno delle sue architetture, molto raffinate e ricercate, capace di farlo emergere come uno dei
migliori protagonisti della scena romana di quegli anni.
In ogni caso questo tipo di esperienze può dirsi aver avuto termine con l’inizio della
seconda guerra mondiale. Un caso a sé stante sembra essere quello di Albert Speer (1905-1981),
architetto ufficiale del regime nazista, del quale realizzò tutte le principali opere: un fenomeno
certamente molto particolare per l’assoluta ed evidente continuità con la tradizione neoclassica
prussiana. Le più famose realizzazioni furono il campo da parate Zeppelin a Norimberga (1935) e il
palazzo della Nuova Cancelleria hitleriana a Berlino (1938, distrutto nel 1945). Il personaggio di
Speer, tuttavia, deve essere inquadrato andando ben oltre l’architettura, per la sua attiva
partecipazione nelle istituzioni del Reich hitleriano, di cui divenne ministro per gli armamenti, tanto
da figurare tra gli imputati del processo di Norimberga dopo la fine della guerra.
Anche nei paesi anglosassoni la continuità con la tradizione storicistica portò a esiti molto
diversi tra loro, in Inghilterra Edwin Landseer Lutyens (1869-1944), che all’Esposizione romana del
1911 aveva realizzato il padiglione inglese in forma di Pantheon, si riproponeva con un proprio
eclettismo stilistico negli edifici del governo vicereale indiano di Nuova Delhi (1911-1931). Anche
negli Stati Uniti i nuovi grattacieli venivano realizzati con un linguaggio semplificato (Empire State
Building, New York, 1931), ma non è certo un caso se, nel 1932, il Padiglione di questo paese alla
Biennale di Venezia veniva realizzato in stile dorico arcaico. Questo anno è lo stesso durante il
quale si manifestò la prima presa di coscienza, a livello critico, dell’immediata involuzione del
Movimento moderno verso l’International Style: una denuncia, questa, formulata sin dal 1932 dalla
famosa mostra e dal libro curati da Philip Johnson e Henry-Russel Hitchcock. Nello stesso grande
paese nordamericano, in ogni caso, con il concorso per il grattacielo della Chicago Tribune (1924),
si era avuto il primo grande confronto tra tradizionalisti e modernisti, conclusosi con la sconfitta di
questi ultimi, malgrado la presenza tra loro dello stesso Walter Gropius con un progetto di grande
interesse.
Al termine della Seconda Guerra mondiale in special modo in Europa, la ripresa
dell’attività edilizia legata alla ricostruzione delle città distrutte o alle nuove trasformazioni urbane
portava all’avvio dell’affermazione della grande diffusione del cosiddetto International Style, un
linguaggio mediato dalle più differenti esperienze razionaliste e funzionaliste. Tutto ciò mettendo
da parte in maniera definitiva tutte quelle manifestazioni figurative legate alla riproposizione dei
modelli storici del classicismo, che pure erano state molto forti almeno sino all’inizio del conflitto
(1939-1940). Anche se alcune opere di questo tipo vengono completate (Marcello Piacentini: via
della Conciliazione, Roma, 1950), l’aver rappresentato il linguaggio architettonico prevalente dei
regimi politici più autoritari era la causa principale del loro abbandono, specie nel nuovo clima
postbellico. Al contrario, l’affermazione di tutte le espressioni del Movimento moderno, anche se
generica, veniva interpretata come una scelta politica “progressita”. Le prime opere americane di
Walter Gropius e di Ludwig Mies van der Rohe, emigrati negli Stati Uniti poco prima dell’inizio
della guerra, oltre ad alcune realizzazioni e progetti di Le Corbusier, ad esempio l’Unità di
abitazione di Marsiglia (1946-1952), divenivano presto i modelli portanti per l’operare degli
architetti durante questi anni. Ciò che si manifestò quasi subito era l’assoluta incapacità
dell’architettura a proporre soluzioni valide per la città, pur in presenza della pur notevole
esperienza di Le Corbusier per Chandigarh (India, 1952-1970 ca) e di Lucio Costa per Brasilia
(1957-1970): malgrado i notevoli edifici pubblici realizzati dallo stesso Le Corbusier a Chandigarh
(il palazzo di Giustizia, il Segretariato, il palazzo dell’Assemblea) e da Oscar Niemeyer nella nuova
capitale dello stato sudamericano (Parlamento, sede della Presidenza della Repubblica, chiesa
cattedrale di Nostra Signora di Fatima, 1959-1970), a questi due notevoli esempi è comune un certo
monumentalismo fatto di architetture isolate, prive di un tessuto connettivo di base. Anche tutte le
proposte megastrutturali come quelle del giapponese, ma di cultura occidentale, Kenzo Tange
(1913-2005; piano per Tokio, 1960) e di Jan Lubicz-Nycz, a quelle di dimensioni più ridotte
dell'unità di abitazione di Montreal del 1967 (Moshe Safdie, n. 1938), sino al quartiere romano di
Corviale (Mario Fiorentino e associati, 1973-1982), malgrado l'interesse dei loro programmi, non
hanno certo risolto il problema. Altrettanto può dirsi di tutti i quartieri autosufficienti, realizzati in
attuazione di programmi per l’edilizia economico-popolare, in particolare in Gran Bretagna, Francia
e paesi scandinavi, che si propongono sempre come episodi isolati nel contesto del territorio urbano.
A tutte queste esperienze, che pur affrontano a livello architettonico la ‘forma’ della città, è comune
il riguardare ad un habitat umano come a una macchina, senza proporsi alcun rapporto con le
preesistenze. Malgrado tutto ciò, sin dal termine della seconda guerra mondiale venne messa in atto
una profonda revisione delle idee, ormai consolidate, del Movimento moderno. In ogni parte del
mondo, e anche in Italia, furono avviate ricerche tendenti al superamento degli schematismi
razionalisti legati alla corrispondenza tra forma e funzione. Ciò che a livello critico veniva proposto
era il superamento delle posizioni tradizionali, tendenti a riassumere tutto il Movimento moderno in
due correnti contrapposte: quella plastico-formale, parzialmente riferita alle organiche proposte
d’oltre oceano, e quella razionalista, dove per razionalismo s’intendeva soprattutto lo stile
internazionale. Un bipolarismo certamente troppo schematico, che non teneva conto della diversità
profonda fra i tre maestri del razionalismo, accentuando il valore di messaggio dell'esperienza
wrightiana. In questo senso si deve sottolineare il significato di totale rinnovamento operato da Le
Corbusier con la sequenza delle sue ultime opere, la cappella di Ronchamp (1950-54), il monastero
di Santa Maria de la Tourrette (1957-1960) e il progetto per l'Ospedale di Venezia (1965): tre
occasioni in cui il grande maestro svizzero francese s’impegna nel confronto con la psicologia di
uno spazio religioso, con la tradizione delle tipologie dell'edilizia mendicante e con le qualità
formali di un tessuto urbanistico-edilizio antico e particolarissimo. Le Corbusier, in tal modo,
rimetteva in discussione tutta la propria esperienza, dall'inizio fino al ‘brutalismo’ di Chandigarh,
nel Punjab (1951), senza aver alcun timore di ricominciare tutto da capo. Molto diversa è la
conclusione di Walter Gropius, legata soprattutto al grattacielo Pan Am a New York, (realizzato con
il gruppo TAC tra il 1958 e il 1963), certamente un modello per l'International Style, anche se non
va dimenticata la contemporanea attenzione ai linguaggi e alle tradizioni locali manifestata nei
progetti per l'ambasciata USA ad Atene (1957-1961) e per l' Università di Bagdad (con il gruppo
TAC, 1960-1975). Infine Mies van der Rohe, il quale, perfettamente coerente con le realizzazioni
immediatamente precedenti per l’IIT di Chicago (Facoltà di Architettura, Dormitori degli Studenti,
Cappella, 1950-1956), oltre ai due alti edifici di abitazione lungo la Lake Shore Drive, sempre a
Chicago (1950-1951), affermava il suo ultimo e più definitivo messaggio con il Seagram Building a
New York (1956-1959): ancora una geometria pura e perentoria, un modello che sarà molto imitato,
del suo astratto classicismo formale.
Al momento attuale, è sin troppo facile rendersi conto di cosa può aver significato il poco
conto in cui è stata tenuta l'ultima grande lezione di Le Corbusier, che metteva in evidenza
l'esaurirsi della poetica razionalista e la necessità di trovare un rapporto con il passato. Certamente
tale ricerca, in quel momento, era molto sentita in Europa: ne è un'ulteriore testimonianza l'opera di
Alvar Aalto, il quale, dopo l’espressionismo del Senior Dormitory al MIT di Cambridge, USA
(1947-1948) e del palazzo per uffici Rautatalo a Helsinki (1952-1954), muta radicalmente il proprio
linguaggio con il Palazzo Enso-Gutzeit di Helsinki (1962), di chiara matrice neoclassica, oltre al
Palazzo Municipale di Rovaniemi, i cui corpi di fabbrica si articolano attorno ad un episodio
emergente formando corti interne che non hanno mai angoli retti. Una sperimentazione di questo
tipo si era andata sviluppando anche in Italia, ritrovandosi nel realismo dell'opera di Mario Ridolfi
(1904-1984), nel linguaggio neoliberty della Bottega d’Erasmo a Torino realizzata negli anni 1953-
1954 da Roberto Gabetti (1925-2000) e Aimaro Oreglia d’Isola (n. 1928), il ‘citazionismo’
medievalistico della Torre Velasca a Milano (1954) dei BBPR (Gian Luigi Banfi, Ludovico
Barbiano di Belgiojoso, Enrico Peressutti, Ernesto Nathan Rogers), così come in quello di Ignazio
Gardella (1905-1999, Casa alle Zattere, Venezia 1957). In questo contesto appare fondamentale il
contributo di Franco Albini (1905-1977), con il Tesoro di San Lorenzo nella cattedrale di Genova
(1952) e con l'edificio della Rinascente a Roma (1957-1961). Tutte queste esperienze s’innestavano
in un tessuto culturale già pronto a recepire le tematiche connesse alle ricostruzioni e al restauro
delle città storiche. A Roma Saverio Muratori (1910-1973), con i suoi allievi, tenta la ricerca di
un'opzione diversa: partendo dalla presa di coscienza della crisi della civiltà contemporanea,
rileggeva in tale ottica l'intera vicenda del moderno e impostava un tipo di progetto fondato sulla
continuità con le preesistenze, individuata attraverso studi sulla morfologia delle tipologie edilizie,
sull'organicità costruttiva dei centri antichi e sulla caratterizzazione dei valori locali. Il palazzo della
Democrazia Cristiana a Roma del 1955-1958, opera dello stesso Muratori, ne rappresenta l'unica,
contraddittoria, manifestazione. All'interno del contesto italiano, particolare è la posizione di
Giovanni Michelucci (1891-1991) il quale, pur portando avanti il suo precedente linguaggio
razionalista (case in via Guicciardini a Firenze, 1955-1957, gli uffici PPTT e TETI a Firenze, 1962),
con la realizzazione della Borsa Merci a Pistoia (1949-1950), aveva aperto un personale processo di
revisione critica che lo porterà, più tardi, all'espressionismo lirico della chiesa di San Giovanni
Battista sull'Autostrada del sole a Campi Bisenzio (Firenze, 1961-1964): un’evidenza simbolica
molto forte, ritrovata nella forma della tenda intesa come prima casa del Signore.
Durante gli stessi anni, negli Stati Uniti, Louis Kahn (1901-1974) iniziava il proprio
processo di revisione nei confronti del linguaggio del Movimento moderno che, sino a quel
momento, aveva usato e approfondito. Questa nuova ricerca può dirsi aver inizio con l'edifico per la
galleria d'arte della Yale University (1951-1953), in cui studiava le possibilità offerte da una pianta
bloccata, rispetto a un piano libero di tipo funzionalista. Da questo punto di partenza, che pure
riutilizzava ancora la parete vetrata a curtain wall, già iniziava un percorso che, attraverso il Centro
della comunità ebraica a Trenton (1954-1959) e la Chiesa Unitaria di Rochester (1959-1967),
arriverà con le opere degli anni Sessanta e degli inizi degli anni Settanta a un completo
rinnovamento del proprio linguaggio architettonico e, soprattutto, a una nuova logica di
articolazione dello spazio: tutto ciò era il frutto della rinuncia a considerare l'architettura solo come
una manifestazione delle esigenze pratiche dell'uomo e la riaffermazione del valore espressivo e
simbolico di ogni opera architettonica, vista come manifestazione della propria realtà storica e di
uno specifico ambiente culturale. Le opere più significative che segnano questa profonda
maturazione sono: i laboratori Salk a San Diego (1959-1965), i dormitori per il Bryn Mawr College
(Bryn Mawr, Pennsylvania, 1960-1965), l'edificio per l'assemblea a Dacca, Pakistan (1962),
l'Istituto indiano Ahmedabad (1963), e la Olivetti Underwood Factory, a Harrisburg, Pennsylvania
(1966-1970), la Philip Exeter Library (Exeter, New Hampshire 1967-1972), il Centro d'arte e di
studi britannici della Yale University (New Haven, Connecticut 1969-1974) e infine la biblioteca
teologica dell'Università della California, a Berkeley (1973-1974). Naturalmente, l'aver potuto
verificare nel tempo la propria esperienza ha determinato l'importanza che l'esempio di Khan ha
avuto, successivamente, in ogni tentativo di revisione del linguaggio del Movimento moderno che,
inevitabilmente, trova in lui uno dei riferimenti più precisi e costanti. L'insegnamento di Louis
Khan troverà nella Yale Graduate School una propria linea di sviluppo, anche se problematica e
assertrice di linguaggi ibridi, in cui si formeranno Robert Venturi (n. 1925) e Romualdo Giurgola
(n. 1920), Charles Willard Moore (n. 1925) e con l'apporto in seguito di Vincent Scully (n. 1920),
cioè a dire di tutti gli esponenti del cosiddetto popular e del post-modern.
Tutt'altro indirizzo era stato quello seguito dalle due più grandi e antiche scuole di
architettura statunitensi, lo IIT (Illinois Institute of Technology) di Chicago e la Harvard GSD
(Graduate School of Design) della East Coast, da sempre dominate dagli orizzonti lontani, ma molto
influenti, di Mies van der Rohe e di Walter Gropius. Ambedue queste scuole prestigiose erano
rimaste del tutto estranee a qualunque processo di revisione critica e assolutamente fedeli
all'insegnamento dei loro maestri affermandone la validità insostituibile tanto dei modelli tipologici
che del linguaggio figurativo. Anche se le distanze e le diversità fra le due scuole sono state
notevoli, è evidente come ambedue abbiano sempre di più assunto, con il passare del tempo, un
ruolo di grande risonanza nella propaganda e nella diffusione della tradizione del linguaggio
razionalista pur variamente inteso nelle sue diversità stilistiche. Posizioni, tutte queste, che
favorivano comunque una rinnovata affermazione dello stile internazionale, nella rinuncia molto
spesso manifesta a qualunque tentativo di rinnovamento figurativo.
Allo IIT, il rigore tecnologico inteso anche come ricerca di monumentalità, da alcuni
definito come ‘neoclassicismo tecnocratico’, rappresenta l'indicazione più evidente,
successivamente molto contestata, che proviene dall'opera dei miesiani, Philip Cortelyon Johnson
(fino al 1970), il gruppo SOM (Skidmore, Owings & Merrill) ed Eero Saarinen (1910-1961):
quest'ultimo, tuttavia, dopo le esperienze in linea con lo stile internazionale (ambasciata americana
a Londra del 1955-1961), aderirà più tardi al ‘neoespressionismo’ (Air Terminal della TWA
all'aeroporto Kennedy di New York del 1960-1964), impegnandosi nella ricerca sulle strutture a
guscio. Al contrario, tanto l'opera di Philip Johnson che quella dei SOM sono rivolte
esclusivamente alla riproposizione di altissimi parallelepipedi, risolti dalle facciate a curtain walls,
capaci di differenziarsi fra loro soltanto per le dimensioni e per alcuni particolari di finitura: il
grattacielo per uffici, mediato dal modello del Seagram Building, rende possibile alla grande
professionalità di questi architetti di reiterare affermazioni perentorie, basate sull’assolutezza di
questi edifici intesi come singoli volumi puri. Certamente, al confronto, le opere di Johnson (1906-
2005) appaiono più ricche di articolazioni volumetriche, di ardite proposte di volumi accostati per
spigolo (Pennzoil Place, Houston, Texas, 1976), o di pareti taglienti esaltate come superfici
laminate (Garden Grove Community Church, Garden Grove, California, 1980), oltre a qualche
iniziale tentativo di articolazione nelle soluzioni delle fronti: tutta un'attenzione alla diversità dal
modello miesiano (South La Salle, Chicago, Illinois 1983-87, International Place at Fort Hill
Square, Boston, Massachusetts, 1983-1987), che porterà questo architetto fuori dal razionalismo
internazionale e verso un eclettismo storicistico (grattacielo della AT&T di New York realizzato in
collaborazione con Burgee nel 1982).
Skidmore, Owings & Merrill (L. Skidmore,1897-1962, N.A. Owings, 1903-1984, J.O.
Merrill, 1896-1975), al contrario, resteranno sempre fedeli alla lezione del loro maestro, dando
luogo a una serie di esperienze, in qualche modo tutte molto simili, che esaltano soprattutto il
grande valore professionale dei loro autori (Lever House, New York, 1952, John Hancock Center,
Chicago, Illinois, 1969, Sears Tower, Chicago, 1974). È molto facile, a questo punto, comprendere
la capacità di penetrazione che questi modelli, tanto semplici e facilmente ripetibili, hanno avuto e
continuano ad avere in ogni parte del mondo, propagando all'infinito un messaggio ormai molto
lontano nel tempo.
Un certo variegato formalismo caratterizza, al contrario, collaboratori e discepoli della
sofisticata scuola di Harvard da José Luis Sert a Marcel Breuer, al gruppo dei TAC (The Architect
Collaborative), a P. Rudolph e a I.M. Pei sino a J. Johansen. Tutti questi daranno luogo a
figuratività molto diversificate da quelle del maestro. Certamente, fra questi, i TAC (J. Fletcher, N.
Fletcher, J. Harkness, S. Harkness, R. MacMillen, L. MacMillen B. Thompson) rappresentano la
continuità con l'opera di Walter Gropius, da cui è anche difficile distinguerli e individuarne un
apporto individuale. J.L. Sert (1902-1983), d'altro canto, riprende dal maestro la pianta articolata in
volumi parallelepipedi e gli stessi stilemi figurativi (Carpenter Centre for the Visual Arts, Harvard
University, Cambridge Massachusetts, 1954-1964, realizzato insieme al maestro), mentre Ieoh
Ming Pei (n. 1917) esalta l'articolazione di volumi puri, risolti con un linguaggio del tutto essenziale
(John Hancock Center di Boston, Massachusetts nel 1976 in collaborazione con H. Cobb, Texas
Commerce Center a Houston, 1981, Le Grand Louvre, Parigi 1985). Rispetto a tutti questi, le
proposte di Paul Rudolph (1918-1997) si presentano molto più ricche e innovatrici: esse sono il
risultato di attente combinazioni tra l'articolazione della forma planimetrica e i volumi che la
compongono, che si accompagna sempre a una ricerca sul dettaglio, portandolo a rivedere tutto il
lessico grammaticale consolidato del razionalismo (Mary Cooper Jewett Arts Center nel Wellesley
College, Wellesley Massachusetts, 1955-1958). Rudolph, giunge in tal modo, a scomposizioni
volumetriche totali che si presentano come vere e proprie invenzioni, non avendo alcun raffronto
con quelle della tradizione (Yale University, New Haven, Connecticut 1958-1964, Endo
Laboratories, Garden City, New York, 1962-1964): tutto un repertorio di novità assolute, al di fuori
dello stile internazionale, una vera e propria esplorazione ai limiti del moderno. Diverso è il
percorso seguito da John Mc Lane Johansen (n. 1916), meno aulico e più impegnato nella
sperimentazione sulle forme curvilinee, sia in pianta che in alzato, che danno maggior rilievo
plastico all'articolazione dello spazio, che ammorbidiscono, stemperandolo, il suo razionalismo di
base (Spray House a Weston, 1956 e Taylor House a Westport, Massachusetts del 1962): era
l'indicazione di un'altra strada tutta da percorrere, per rivedere ancora una volta, dal suo interno, lo
stesso concetto di "moderno".
Chiaro sarà come le esperienze tanto eterogenee maturate dalle diverse scuole di
architettura avevano dentro, implicitamente, una critica serrata nei confronti dell'utopia del
moderno, delle sue mitologie, della fede umanistico-scientifica nel progresso e nella tecnologia. Il
contesto culturale del resto del mondo occidentale vide, in Europa, Hans Scharoun esplorare fino in
fondo tutte le possibilità dell’espressionismo con il ginnasio femminile Schöll a Lünen (1956-1958)
e l’Opera House di Berlino (1956-1963). In Finlandia le ultime opere di Alvar Aalto e le proposte
nuovissime dei suoi allievi Reima Pietilä (1923-1993) e Raili Pietilä (1926; Residenza
Presidenziale, Mäntyniemi, Helsinki, 1983-1993) e Raili Paatelainen (n. 1926), mentre in Brasile
continuava ininterrotta l’opera di Oscar Niemeyer: tutto un panorama di esperienze molto articolato,
certamente capace di portare il proprio contributo al grande dibattito culturale in corso.
Inoltre, tra le grandi realizzazioni dei primi due decenni del secondo dopoguerra debbono
essere messe in evidenza alcune architetture che, per le particolari caratteristiche della loro forma,
sono riuscite a divenire e a riassumere l’interezza della ‘memoria’ delle città cui appartengono: tra
queste, è certamente l’Opera House di Sidney (Australia, 1957-1973, arch. Jørn Utzon) che si
affaccia sul porto con l’articolata ricchezza delle volte che risolvono la sua copertura.
In questo contesto, a rimanere isolata fino alla sua morte (1958), fu la figura di Frank
Lloyd Wright, malgrado la diffusione in tutto il mondo occidentale di ogni sua nuova opera, per il
carattere totalmente nuovo e sempre innovatrice della sua ricerca che proseguì inalterata
sperimentando sempre nuove geometrie e grammatiche architettoniche: dalle V.C. Morris Gift Shop
di San Francisco (1948) alla sinagoga Beth Sholom nei pressi di Filadelfia (1954), dal Museo
Guggenheim (1946-1959) alle opere solo progettate come il centro civico di Marin County (1957) è
tutto un continuo rinnovamento, anche di se stesso, che non aveva mai avuto soste. Sempre
esperienze eccezionali, tuttavia, che per la loro irripetibilità non hanno mai costituito, né vi
ambivano, un possibile modello di riferimento. Giustamente l’opera di Wright è più l’espressione di
un metodo personalissimo di ricerca sempre di difficile applicazione per chiunque altro.
Un’altra figura destinata a rimanere isolata, anche se molto impegnata a livello
professionale, è quella di Richard Neutra (1892-1970), arrivato negli Stati Uniti nel 1923 dopo
un’esperienza in Europa insieme a Mendelsohn, entrando subito a far parte dello studio di Wright a
Taliensin fino al 1925: molto prolifico, ebbe una produzione vastissima, realizzando in specie nel
dintorni di Los Angeles una serie di grandi residenze private che si riconoscono nel linguaggio
dell’International Style, pur mettendo in evidenza una precisa attenzione al rispetto dell’ambiente
naturale (casa del regista Joseph von Sternberg, 1936; casa Kaufmann, 1946). Un’attività continua
che andrà ben oltre la fine della Seconda Guerra mondiale (casa Tremaine, 1948; casa Troxell,
1956), affrontando anche problemi di organizzazione urbana come quello di Elysian Park Heights
(1950-1953) o di Sacramento (1950), oltre a mostrare un forte impegno nella realizzazione di edifici
specialistici (Portorico, scuole rurali e ambulatori, 1944; Los Angeles, scuola elementare in Kester
Avenue, 1953; Los Angeles, Child Guidance Clinic, 1954). In ogni caso, malgrado le tante opere
prodotte, molto raffinate a livello figurativo, Richard Neutra non sarà mai un punto di riferimento
nel dibattito sull’architettura del movimento moderno.
La morte dei grandi maestri, anche per i pochi esempi da loro realizzati negli ultimi anni,
non ha permesso la diffusione di questo tipo di ricerca progettuale che rimase al solo stato di
proponimento, mentre in tutto il mondo occidentale l’affermazione del ‘moderno’ poteva dirsi
generale. Questo tipo di linguaggio, con i suoi volumi elementari dai dettagli molto semplificati,
veniva utilizzato per risolvere in modo rapido e con evidenti vantaggi economici tutti i problemi
edilizi delle nuove espansioni urbane, promosse dalla forte spinta all’urbanesimo dei primi decenni
postbellici: tanto la pianificazione pubblica dei nuovi quartieri residenziali, che la speculazione
edilizia delle periferie, ne furono il prodotto più evidente che, al di là delle qualità intrinseche dei
diversi episodi, fece emergere immediatamente la necessità di affrontare in un modo rinnovato il
tema di base del progetto e della realizzazione delle città. Durante gli anni Sessanta il dibattito
sull’architettura s’intreccia con quello sul valore della pianificazione urbanistica: l’importanza
maggiore veniva data alla gestione dei problemi delle città, che divenivano sempre più gravi per
l’aumentare delle loro dimensioni e per la conseguente, scarsa qualità dei loro servizi. Tutta questa
problematica, di per sé prevalentemente ‘politica’, vedeva architetti e urbanisti impegnati nella
ricerca di possibili soluzioni al livello tecnico-specialistico: un equivoco di fondo da cui derivava
un’implicita rinuncia all’architettura destinata a durare a lungo.

L’architettura degli ultimi due decenni del XX secolo è stata caratterizzata da un’elevata
funzionalità, cui corrisponde un linguaggio figurativo molto semplificato, prevalentemente
modulare, pressoché identico rispetto alle diverse funzionalità del mondo occidentale (ma non solo).
Dal modello delle emergenze architettoniche, tutto ciò conduce alla realizzazione di edifici
iperspecialistici, tecnologicamente molto avanzati e anche ‘intelligenti’. Nelle tipologie residenziali,
al contrario, il funzionalismo e la semplificazione figurativa non hanno prodotto alcuna
innovazione: nei paesi anglosassoni e nordeuropei, ad esempio, è continuata senza sosta la
realizzazione di tipologie tradizionali di case isolate (soprattutto in legno) di origine ormai molto
antica (XVIII e XIX secolo). Di norma, malgrado i molti tentativi portati avanti, la ricerca
sull’edilizia residenziale ha prodotto soltanto poche architetture molto rilevanti e non ripetibili,
talvolta in contrasto con il contesto circostante, mentre tutto il resto della produzione edilizia è solo
il risultato di un’industria delle costruzioni che di rado affronta problemi di qualità figurativa. Ogni
architettura, qualunque sia la sua funzione o la sua dimensione fisica, si presenta come un insieme
di volumi puri, liberamente sovrapposti o giustapposti, a formare episodi singoli e isolati, senza
relazioni tra loro tranne che a livello funzionale. Sempre alla funzione è affidata l’individuazione,
sul territorio, di zone omogenee in quanto a specializzazione (centri direzionali, centri commerciali,
zone industriali, quartieri residenziali), cui corrispondono dimensioni fisiche molto diverse che,
tuttavia, non incidono sulle rigide regole geometriche di costruzione dello spazio. Nelle grandi città
nordamericane la iperdimensione delle strutture edilizie ne accentua il valore monumentale, tanto
che lo spazio urbano è il prodotto di episodi grandiosi e isolati tra di loro. La città diviene, in tal
modo, una sommatoria di funzionalità differenziate, in gara tra loro quanto a dimensioni e forme,
senza alcuna relazione con i tracciati stradali su cui prospettano: un’immagine di grande ricchezza
economica e di varietà espressiva rispetto alla quale la presenza dell’uomo e le attività della sua vita
sono considerate in funzione di una sua utilizzazione, nel contesto di una collettività razionalmente
organizzata e operante verso l’identico fine del solo benessere economico. La qualità degli
interventi distingue l’architettura europea, sempre molto condizionata dal rapporto con i vecchi
centri e la loro tradizione: tutto ciò in specie quando il nuovo si propone come sostituzione di tessuti
edilizi antichi. Questo tipo di architettura viene di norma prodotta da organizzazioni professionali di
alta qualificazione tecnica, espressioni dell’attuale società industriale molto avanzata, non
interessate ad una ricerca propriamente figurativa, pur avendo l’impegno della soluzione dei
problemi tecnico-funzionali relativi ai singoli temi progettuali. A livello figurativo viene applicata,
in modo eclettico, tutta la grammatica razionalista, usata come repertorio stilistico per ogni
occasione e in ogni luogo del mondo. In particolare, il linguaggio delle ultime opere di Mies van der
Rohe, come il Seagram Building a New York (1958-1959) o gli edifici in Lake Shore Drive a
Chicago (1950-1951), senza comprenderne il reale valore di sintesi finale dell’esperienza
complessiva di questo grande maestro, viene usato e riproposto in ogni latitudine per le soluzioni
che offre al problema della modularità del volume unico. Si è andata definendo, in tal modo, una
sorta di ‘linguaggio globale’, riproponibile ovunque e anche nei paesi degli altri continenti nei quali
si va estendendo l’influenza dell’occidente, ignorando qualunque cultura delle tradizioni locali.
Entro questo quadro di riferimento, l’interesse prevalente, piuttosto che per le architetture,
diviene quello per le singole morfologie degli insediamenti umani cui, ai diversi livelli spaziali, si è
in tal modo dato luogo: centri direzionali nuovi o in sostituzione di quelli più antichi, quartieri
residenziali autosufficienti, periferie urbane. Esperienze, tutte queste, sempre dialettiche rispetto
alla città preesistente, se non in totale dissonanza, tanto quando si propongono come sostituzioni
edilizie, che quali fenomeni non sempre razionali del congestionamento urbano: la loro conoscenza
resta legata soprattutto ad un’analisi di tipo socio-economico sulla logica delle utilizzazioni delle
aree urbane.
Rispetto a questo tipo di architettura, sin dall’inizio degli anni ottanta del Novecento, si
sono avute numerose manifestazioni di controtendenza, anche molto rilevanti, che hanno avuto una
limitata incidenza sulla qualità della produzione edilizia più diffusa. Tutto ciò era stato anche
preceduto da manifestazioni contestative e metaprogettuali di gruppi radicali, sempre molto ricche
di connotazioni avveniristiche: i gruppi Archigram (Warren Chalk, Peter Cook, Dennis Crompton,
David Greene, Ron Herron, Mike Webb), Metabolism (Kiyonori Kikutake, Kisho Kurokawa,
Fumihiko Maki, Masato Otaka e Noboru Kawazoe), così come in Italia Superstudio (Adolfo
Natalini, Cristiano Toraldo di Francia, Roberto e Alessandro Magris, Gian Piero Frassinelli), tra gli
altri, sono tutti impegnati nella ricerca di perentorie libertà da contenuti opprimenti e da forme
rigide, che si risolvono, per lo più, in molto raffinate manifestazioni grafiche, vere e proprie
performance, a volte lontane dal progetto di architettura vero e proprio. In ogni caso, anche se assai
scarse furono le realizzazioni (Kisho Kurokava, 1934-2007, la Torre Nakagin, Tokyo 1972; Roberto
Magris, 1935-2003, e Adolfo Natalini, n. 1941, Centro elettrocontabile a Zola Predosa, Bologna
1979-1981), deve essere riconosciuto a questi ‘disegni’, un forte valore liberatorio per la volontà di
voler cambiare ogni regola. Tuttavia, le linee di ricerca più evidenti che caratterizzano l'architettura
degli ultimi due decenni del XX secolo, trovano una loro più puntuale conferma se viste all'interno
di un importante momento di riflessione critica che, in modi variegati e anche alternativi, si erano
posti il problema di rivedere l'eredità del Movimento moderno che ormai poteva già considerarsi
come una ‘tradizione’. Resta comune a tutti questi, il rifiuto dello stile internazionale, sempre più
inteso come un linguaggio riduttivo rispetto alle stesse idee del razionalismo e indifferente alla
specificità dei luoghi. Al contrario, la vivacità del dibattito aveva riproposto la ricerca di un più
precisato rapporto con la storia, precedentemente del tutto negato, la necessità di cimentarsi a scala
architettonica con i processi di trasformazione urbana e territoriale, oltre a mostrare chiaramente
tutti i diversi esiti ancora possibili, che si potevano ottenere operando all'interno della stessa
figuratività razionalista: posizioni, tutte queste, che rendevano possibile approcci del tutto nuovi alla
questione progettuale. Oltre il moderno si pongono così alcune tendenze che hanno caratterizzato
lo scadere del II millennio, mentre linee critiche di ricerca attraversano le correnti che raccolgono,
aggiornandola, la composita eredità del moderno.
Gli scritti di Robert Venturi (n. 1925), Complessità e contraddizioni nell'architettura del
1967 e Imparare da Las Vegas del 1972, aprono la strada a un linguaggio fondato sul simbolismo
evocativo di forme e particolari costruttivi interamente scelti nel passato storico e nella forte messa
in evidenza dei contrasti e delle contraddizioni proprie degli aggregati urbani attuali. In questo
modo coesistono tra loro liberamente immagini prese dalla storia con quelle dal vivere quotidiano:
capitelli, frontoni e colonne entrano a far parte del manifesto dell'architettura popular, espressa
soprattutto dalle prime architetture di Venturi e dal nuovo eclettismo di Johnson. Certamente più
efficace nella piccola dimensione delle case unifamiliari (la serie delle case eclettiche degli anni
Sessanta e Settanta), Robert Venturi disegna volumi meno articolati e più compatti, di cui risolve in
modo semplificato le superfici, senza alcun reale rinnovamento delle tipologie edilizie: l'allusione al
timpano ottenuta con la forma triangolare, la citazione dell'arco a tutto sesto e altro rappresentano,
pur nella loro eleganza formale, soltanto un modo per richiamare l'attenzione verso una focalità
prestabilita (Dixwell Fire Station, New Haven, Connecticut 1967, Franklin Court, Philadelphia,
Pennsylvania, 1972, Orchestra Hall, Philadelphia, 1987). Di certo, da un punto di vista formale, la
novità era assoluta, tanto forte da poter essere anche imitata, soprattutto in quel momento di
revisionismo critico. Pur provenendo da tutt'altro versante, Philip Johnson arriva con le sue ultime
esperienze (grattacielo AT&T Building di New York, 1978-1984) a un analogo punto di arrivo:
citazioni storicistiche ancor più precise, ad esempio la serliana, caratterizzano la sua ricerca di una
nuova, classica monumentalità. Per l'azione combinata delle opere di Venturi e di Johnson, il
confronto con la tradizione storica del passato riprendeva il suo ruolo nel fare architettura: anche se
tutto ciò veniva riproposto solo come citazione, appaiono evidenti gli equivoci che dovevano subito
maturare in seguito.
Questa nuova tendenza andava a contrapporsi, dialetticamente, ma da un altro versante,
alle architetture bianche dei Five architects newyorkesi (Peter Eisenman, Michael Graves, Charles
Gwathmey, John Hejduk, Richard Meier). Le loro opere erano pervase da un chiaro indirizzo neo-
razionalista, che si proponeva la rivisitazione del linguaggio di Walter Gropius e anche, talvolta, del
movimento De Stijl: un repertorio figurativo riproposto con soluzioni di grande bellezza, ma il cui
significato non poteva più essere lo stesso, lontano dal tempo, dai luoghi e dalle motivazioni da cui
aveva tratto origine (Peter Eisenman, House II per la famiglia Falk, Hardwick, Vermont, 1969-
1970; Michael Graves, Hanselmann House, Fort Wayne, Indiana, 1967-1970; Richard Meier, Smith
House, Darien, Connecticut, 1965-1967, progetto per una Chiesa parrocchiale da realizzarsi per il
Giubileo del 2000 a Roma, Museo d'Arte contemporanea a Barcellona, 1987-1992). Tuttavia,
queste esperienze, che si ripropongono la citazione degli stilemi del Movimento moderno, ben
s’inquadrano in un comune ambito di riferimento con le migliori esperienze popular e
postmoderniste. Maturano in tal modo concezioni più aperte dello stile internazionale, per la
maggiore attenzione ai luoghi e al paesaggio, dotate di nuove disponibilità verso le potenzialità
dello sperimentalismo e, per il momento, portatrici di un rinnovamento più figurale, di facciata, che
sostanziale, e capace realmente di rinnovare tutte le tipologie edilizie ancora marcatamente di
stampo razionalista. In tal modo, gli esiti di questa complessa e meditata riflessione sul valore del
linguaggio figurativo di tutta la tradizione del Movimento moderno mostrano, durante gli ultimi due
decenni del XX secolo, un insieme di contraddittorie proposte, impossibili da confrontare fra loro:
dal post-modern all’high-tech, dal decostruttivismo all'ipermoderno. Tutto un ventaglio di soluzioni
contrapposte fra loro, ma comunque legate agli idealismi propri delle estetiche romantiche: la
riproposizione, ancora una volta, di un’idea di architettura sempre diversa, ma impostata sulla
definizione a priori di un concetto di bellezza, di volta in volta individuato attraverso il filtro dello
storicismo del tecnologismo o del modernismo. Naturalmente, in un contesto di questo tipo, ogni
‘tendenza’ di ricerca deve essere esaminata da sola, senza ricercare inesistenti punti di convergenza
con le altre.

Il post-modern viene divulgato dalla pubblicistica anglo-americana (Charles Jencks, in The


Language of Post-Modern e da R.C. Smith) nel 1977, sulla trama posta in essere da Robert Venturi
e Philip Johnson e successivamente modificata in ‘classicismo’ e free-style classicism da Robert
Arthur Morton Stern (n. 1939), comprendendo insieme tutte le esperienze legate alla riproposizione
composita di archetipi tratti dalla tradizione storica. Legato ideologicamente alla cultura dei singoli
‘luoghi’, il post-modern, si presenta caratterizzato da una grande autonomia di linguaggi e di
sperimentazioni. Negli Stati Uniti Stanley Tigerman (n. 1930, casa Daisy, Indiana, 1975-1978) lo
stesso Robert Arthur Morton Stern (casa Lawson, East Quogue, New York, 1979) e Charles Moore
(1925-1993, progetto per una casa albergo a St. Simons Island, Georgia, 1974), sviluppano tutta una
serie di proposte, prevalentemente legate all'edilizia domestica, impostate sull'uso prevalente della
forma triangolare dei grandi tetti che incorniciano archi a tutto sesto, già molto usati dallo stesso
Venturi. Fuori da questo ambito, naturalmente, va posta la "Piazza Italia" (New Orleans, Louisiana,
1975-1978) di Charles Moore per l'insieme kitsch che questa soluzione propone. Al contrario,
Michael Graves (n. 1934, uno degli ex Five architects), propone forme e articolazioni volumetriche
più semplificate, arricchite dalla articolazione volumetrica (Public Library, San Juan Capistrano,
California 1981-1983) che, in occasioni particolari (Benacerraf House, Princeton, New Yersey 1969
e lo Humana Building, Louisville, Kentucky), raggiungono un risultato decisamente classico e
monumentale. Ancor più variegate le posizioni che emergono dal resto del mondo, dal
neoilluminismo, al vernacolo e al neobarocco, che vanno dall’eleganza neoclassica delle facciate
dei fratelli Léon (n. 1946) e Robert (n. 1938) Krier, (R. Krier, abitazioni sulla Ritterstrasse a
Berlino, intervento IBA, 1979-1981), al monumentalismo scenografico di Oswald Mathias Ungers
(1926-2007) che evoca i linguaggi analoghi degli anni '30 (Grattacielo sul Gleisdreick, Francoforte,
1983-1984, la residenza dell'ambasciata tedesca a Washington DC, 1982), fino alla diversa
attenzione verso la tradizione dell'edilizia locale che Oriol Bohigas (n. 1925) risolve con un
maggior razionalismo di fondo (Appartamenti Casa De la Torre, Barcellona 1973-1975, Isolato
Mollet, Barcellona 1985-1990), mentre Ricardo Bofill Levi (n. 1939) sembra raggiungere il proprio
intento attraverso una maggiore libertà nella ricerca di forme espressive della sua volontà contraria
a ogni retorica (Complesso Residenziale Les Colonnes, Parigi 1984, L'Arc nel complesso
residenziale Le Théatre a Noisy-le Grand, Marne-la Vallée, 1979-1983). In Italia, invece, il post-
modern si afferma nel 1980, per iniziativa di Paolo Portoghesi (n. 1931) con la “strada novissima”
alla Biennale di Venezia, dove un gruppo eterogeneo di professionisti fu chiamato a organizzare un
ambito urbano per mezzo di facciate illusorie (fra gli altri, Arata Isozaki, GRAU, Frank Gehry,
Hans Hollein, Robert Venturi, Oswald Mathias Ungers). Appena tangenti alla condizione post
moderna, ma prodotti critici di quello stesso modello, sono le esperienze italiane di questo tipo. Le
architetture migliori sono certamente quelle di Aldo Rossi (1931-1997), che usa prevalentemente
volumi puri, uniti tra loro (Teatro del Mondo, Venezia 1979) e scanditi da ritmi uniformi di aperture
(Cimitero di Modena 1971-1978), talora con una forte accentuazione della soluzione angolare
(intervento per la Südliche Friedrichstadt, IBA, 1981). Tra gli altri, Franco Purini (n. 1941)
"disegna" facciate dalle trame molto sottili e raffinate (La Casa Romana, 1979; Sistemazione dei
ruderi del porto romano di Testaccio), mentre Vittorio Gregotti (n. 1927) fa sempre emergere
chiaramente il proprio razionalismo di base (Sistemazione della zona Lützowstrasse, Berlino, 1980-
1982; Casa a corte in Lützowstrasse, Berlino, 1984). Di grande interesse è anche l'opera del ticinese
Mario Botta (n. 1943), anch'egli molto legato all'esaltazione e all'accostamento di volumi puri
(parallelepipedo e cilindro), spesso risolti con grande leggerezza e senza stilemi evocativi (Casa
unifamiliare a Pressagona, 1979-1980, Casa a Stabio, 1981-1982; Edificio amministrativo a
Lugano, 1981-1985). In ogni caso, la manipolazione disinvolta di interi settori della storia, l'uso
ridondante di citazioni, la riduzione a gioco anche delle motivazioni più fondate fa segnare alla fine
degli anni Ottanta la battuta di arresto del post-modern: la fine, in un certo senso, di una "moda"
piuttosto che di una tendenza.
Frattanto si era diffusa la proposta high-tech, il cui limite sembra essere la scarsa durata nel
tempo per il rapido invecchiamento dei materiali usati, basata sul principio della costruzione
leggera, mediante l'ottimizzazione dei componenti standardizzati (tensostrutture, strutture a
membrana e sospese che realizzano con il minimo del materiale la massima superficie). Il
riconoscimento internazionale, offerto dal parigino Beaubourg (1976), di Renzo Piano e Richard
Rogers, alla londinese sede dei Lloyds (1986) di Rogers alla Hongkong e Shangai Bank a
Hongkong (1985) di Norman Foster, offre una solida piattaforma all'estremo tentativo del moderno
di affrancarsi dalla derivazione dagli stili storici. In questi casi, essendo sempre effettivamente
molto difficile il superamento delle tipologie della tradizione razionalista, ogni impegno viene
rivolto alla loro realizzazione ottenuta con l'uso di materiali o soluzioni strutturali del tutto nuove e,
in alcuni casi, originalissime: la figuratività che ne deriva è senza dubbio avveniristica e propone
un'architettura che si esalta nel nuovo valore di "macchina" prodotta industrialmente, o colpisce
l'immaginazione per la novità delle “forme” proposte. Tra queste ne sono un esempio le
realizzazioni di Renzo Piano (n. 1933), che offrono immagini architettoniche completamente nuove,
capaci anche d’incidere sullo skyline del territorio o della città, come lo Stadio della Vittoria a Bari
(1990) e il Museo multimediale ad Amsterdam (poco prima del 2000). Tutto questo riconduce a uno
stile internazionale di nuovo tipo, identico nella sostanza, anche se nuovo per una evidente
originalità figurativa. Norman Foster (n. 1935, spesso in collaborazione con lo studio Ove Arup), è
senza dubbio il più interessante, fra questi architetti, per la capacità di raggiungere e applicare un
linguaggio tanto sintetico quanto espressivo: qualcosa di mediato dalla tradizione inglese
ottocentesca delle costruzioni in ferro e vetro, espressamente rivendicata, che conduce a soluzioni
semplificate, ma estremamente rigorose (Centro di distribuzione Renault, Swindon, Inghilterra,
1983; il terminal della nuova aerostazione di Londra, lo Stansted Airport, Londra, 1986-1991). A
loro volta, Richard Rogers e Renzo Piano, sia insieme, come nel Centro culturale Georges
Pompidou a Parigi del 1971-1977, che separatamente, procedono a una ricerca che produce
soluzioni più ricercate e innovative, che portano anche a invenzioni di profili curvilinei in specie per
le coperture (Renzo Piano, Progetto IBA per l'ampliamento della National Gallerie, Berlino 1981;
stadio San Nicola di Bari e Auditorium di Roma, 1990) e a complesse soluzioni anatomiche
(Richard Rogers, edifici per Daimler Benz, all'interno del progetto di Renzo Piano per Potsdamer
platz a Berlino, concorso 1992). Infine, oltre a questi, può essere ricordato tra gli strutturisti il
brillante Santiago Calatrava (n. 1951), anche se troppo spesso ridondante ed eccessivo, per la
volontà di ricercare soluzioni strutturali sempre nuove (Ponte sul fiume Guadalquivir, Siviglia,
1992-1997; Stazione per l'alta velocità a Lione, 1988-1994).
Nel 1988 al MOMA (Museum of Modern Art) di New York viene inaugurata la mostra
Decostructivist architecture con l'intento di definire come movimento un insieme di esperienze
diverse, in realtà già operanti da tempo. È di nuovo Philip Johnson con Peter Eisenman (il teorico
del gruppo dei Five architects) a rendersi protagonista di una tendenza all'obliquo con riferimenti
non sempre espliciti al costruttivismo sovietico, che si era formato in Austria e in Germania sulla
linea del neo-espressionismo funzionalista di Hans Scharoun, grazie alle opere di Günter Behnisch
& Partner (Hysolar Institut a Stoccarda, della fine degli anni '80, Museo delle poste a Francoforte,
1990 e un giardino per bambini a Stoccarda, 1990) e di Coop Himmelblau, (ampliamento di un
vecchio immobile viennese, nella Falkestrasse, 1983-1988), con l'apporto di Rem Koolhaas (n.
1944, Centro d'affari a Lille, 1989), della più giovane Zaha Hadid e di Daniel Libeskind. Tra questi
Peter Eisenman (n. 1932), divenuto con il tempo un architetto completamente diverso, rinuncia del
tutto all'organismo tradizionale dell'architettura razionalista, proponendo articolazioni volumetriche
e soluzioni delle fronti in cui il valore della modularità, ancorché esistente, viene difatti negato
(Centro di studi visuali, Columbus, Ohio, 1982-1989; edificio per l'IBA di Berlino al Checkpoint
Charlie, 1981-1985; Nunotani Corporation Headquarters Building Tokyo, 1990-1992; il college del
Design, Architecture, Art and Planning DAAP dell'Università di Cincinnnati, Ohio, 1990-1996). A
sua volta Daniel Libeskind (n. 1946) lavora per mezzo di tagli diagonali, alla scomposizione dei
volumi puri (Museo Ebraico a Berlino, 1989; Centro di Arte contemporanea a Ginevra, 1988),
mentre più avanzate e interessanti appaiono le architetture di Zaha Hadid (n. 1950), molto dure e
poco concilianti, ma ricche di espressività per la decisa articolazione di volumi in contrasto fra loro
e proposti di spigolo (la caserma dei vigili del fuoco Vitra a Weil am Rhein, Germania 1991-1993;
appartamenti IBA, Berlino, 1987-1993). In ogni caso, tutte queste realizzazioni trasmettono un
profondo senso di provvisorietà almeno apparente, puntando sull'assemblaggio di materiali poveri e
frammentati, ma alimentandosi anche di puntigliose funzionalità e tecnologie avanzatissime. La
realizzazione manifesto di questa tendenza è il parc de la Villette a Parigi (1986-1989), di Bernard
Tschumi (n. 1944), 55 ettari articolati da una serie discontinua di grossi punti nodali. La
divulgazione a livello di moda, l'eccesso di una ricerca certamente formalista non hanno giovato a
quanto di innovativo veniva proposto, tanto che alcuni esponenti, come ad esempio lo studio
Behnisch, ne hanno di recente preso le distanze: può essere l'inizio, come è accaduto prima per il
post-modern, di un esaurimento che, per questo tipo di esperienze, appare fisiologico.
Infine, per concludere l’esposizione delle più recenti esperienze delle architetture del
secolo XX, occorre prendere in esame tutte quelle proposte, non solo diverse ma anche eterogenee,
che di solito vengono raggruppate sotto la generica etichetta di ‘ipermodernismo’: definizione
sicuramente calzante, ma non priva di ambiguità. Tutte queste esperienze sono tuttora in via di
definizione e rappresentate da una vasta fascia di opere che, attraverso diversi recuperi del moderno,
alle volte confuso con memorie premoderne, copre uno spettro largo di elaborazioni progettuali.
Innanzitutto il romanticismo organico di B. Price, statunitense, dell'austriaco Kris Kowalski, e
dell'ungherese Imre Macovecz (Natura Shop Restaurant Hotel a Überlingen, 1992; padiglione
ungherese all'expo di Siviglia del 1992): un indirizzo a cui contribuiscono il gelido minimalismo di
Tadao Ando, essenziale per la semplicità dei volumi e delle superfici piane (Casa Koshino, Ashiya,
Giappone 1981-1984; Padiglione expò di Siviglia del 1992). Più eclettici appaiono Hans Hollein e
Frank Gehry, il primo per i diversi repertori a cui fa riferimento (Agenzia austriaca di viaggi a
Vienna del 1978; scuola in Kohlergasse, Vienna, 1979-1990); il secondo per una maggiore capacità
di rinnovare le geometrie attraverso la ricerca al computer di nuove forme, anche se indifferenti alla
specificità dei luoghi di volta in volta (la casa Norton sulla riva dell’Oceano a Venice, Los Angeles,
1983; il Museo del design Vitra a Weil am Rhein in Germania, 1988-1994; l'edificio per uffici nel
centro di Praga 1993-1995; il Museo Guggenheim a Bilbao, Spagna 1991-1997; il Museo
Aerospaziale di Los Angeles, 1984). Maggiore rigore analitico può essere riconosciuto all'opera di
Jean Nouvel (n. 1945), per la semplicità degli stilemi con cui risolve le fronti dei suoi nitidi volumi
(Centro Congressi a Tours in Francia 1989-1993; Edificio delle Gallerie Lafayette a Berlino, 1992),
così come quella dei giovani olandesi Mecanoo (Erick Van Egeraat e Francine Houben), che
disegnano solide volumetrie risolte nelle fronti nelle ritmicità delle aperture (Edifici residenziali a
Rotterdam, 1986). Naturalmente, tutti questi citati non sono che i più noti, ma non vanno anche
dimenticati i designer architetti come Giò Pesce (1891-1979) e i suoi collaboratori e soprattutto
Emilio Ambasz (n. 1943), che rivolgono la loro attenzione alla costruzione di un ambiente eco-
compatibile. Di tutte queste esperienze, tuttavia, di cui non è possibile dire l'esito futuro, va
sottolineata, anche per l'alto livello dell'impegno professionale, la grande qualità dei dettagli, a volte
tanto esasperata da produrre un risultato d'insieme del tutto asettico e indifferente ai luoghi.
Certamente è un limite dovuto all'ipermodernismo dei linguaggi architettonici adottati.

Emerge chiaramente da questo inquadramento critico, la manifestata impossibilità a


superare gli aspetti tradizionali dell'architettura razionalista e dello stile internazionale: architettura
high-tech, decostruttivismo e ipermodernismo rappresentano soltanto degli aggiornamenti
figurativi, il linguaggio contemporaneo di una manifestazione artistica che, va riconosciuto, ha
segnato prevalentemente quasi tutto il XX secolo. Sino ad oggi malgrado la fama raggiunta da
alcuni di questi protagonisti, le loro opere tendono a restare soltanto come ‘esemplarità’ dissonanti
rispetto ai contesti urbani cui appartengono. Tutte molto ben riconoscibili tra loro non appaiono
ancora sufficientemente forti per divenire modelli di riferimento di un linguaggio comune. Tuttavia,
seppure questo deve essere ritenuto un bilancio scontato e riconosciuto da tempo, sembra essere
sempre più difficile individuare nuove linee di ricerca che siano legate ad altre e più approfondite
sperimentazioni figurative, anche se sempre ritrovate all'interno del ‘moderno’. In ogni caso, non è
certo possibile privilegiare una ‘tendenza’ rispetto a un'altra: semmai molto più giusta è la
disponibilità a essere aperti verso una sperimentazione a largo raggio senza limiti di sorta. Resta,
naturalmente, l'esigenza di trovare una relazione fra le architetture e i singoli luoghi a cui
appartengono: è il problema di fondo a meno che l'affermazione del concetto di ‘villaggio globale’
non esalti proprio il valore internazionale dei linguaggi architettonici.  
Postfazione:
“storia” e “progetto” dell’architettura

L'architettura dell'ultimo venticinquennio del XX secolo, ricca di manifestazioni e ricerche


anche molto distanti tra loro, non può essere considerata come un percorso unitario, un momento di
un’evoluzione continua tanto forte da poter condizionare canoni di comportamento futuri. Le
esperienze figurative, spesso in aperto contrasto tra loro, pur mettendo in evidenza un ventaglio
molto ampio di riflessioni e di proposte, non permettono di indicare un impegno di studio che possa
svilupparsi nel tempo. È molto difficile, in questo preciso momento storico, la definizione di un
quadro di riferimento univoco entro cui ricondurre le diverse linee di tendenza della ricerca
figurativa: fatto, questo, di per sé non necessariamente negativo, ma che deve essere comunque
registrato come caratteristica dominante degli ultimi anni del secolo trascorso. Prenderne atto e
capirne i motivi significa compiere un azione di doveroso rigore critico, indispensabile bilancio di
una stagione creativa che, forse, potrebbe anche dirsi conclusa. Tutto ciò apparirà ancora più chiaro
considerando che, pur in presenza di notevoli personalità, queste non possono essere considerate dei
veri e propri "maestri", capaci di proporre non soltanto una continua novità di soluzioni, ma anche
di far esistere e sostenere la formazione di linee di ricerca in grado di svilupparsi al di fuori della
propria personale esperienza. Al contrario, si è in presenza di un gruppo ampio di personaggi, molto
noti e professionalmente affermati, impegnati in ricerche figurative individuali e particolari, ma mai
tanto forti da divenire, da sole, protagoniste: solo "tendenze" diverse, alimentate dalla pubblicistica
internazionale.
L'origine di questo fenomeno va individuata nel progressivo esaurirsi del rapporto stabilito
tra la ricerca architettonica e i suoi contenuti ritrovati nell’impegno politico-sociale, a causa delle
rapide trasformazioni della società contemporanea, sotto la spinta di eventi storici di grandissima
rilevanza che si susseguono l'un l'altro senza interruzioni. In tal modo, l'architettura è uscita di fatto
da questa dipendenza che è stata l'equivoco di fondo, proprio di tutto il movimento moderno: un
passaggio, questo, tuttavia molto positivo, che recupera al presente l'autonomia dell'architettura, non
più considerata come rispecchiamento di eventi politico-sociali. Era stata questa l'idea esaltata dalla
critica storica del movimento moderno durante gli anni Cinquanta e Sessanta (B. Zevi, 1950 e, sulla
scia dell'Hauser, Storia sociale dell'arte, prima ed. it. 1955, L. Benevolo, 1960, e più tardi M. Tafuri
e F. Dal Co, 1976), piuttosto che dal reale contenuto espresso dai suoi protagonisti. Naturalmente,
quest’interpretazione della storia architettonica si è accompagnata spesso con la coincidenza tra
'modernità' e progresso tecnico-scientifico (si pensi al fondamentale Spazio, tempo e architettura di
S. Giedion del 1941). Tutte queste posizioni, oggi, non sembrano più attuali né opportune e ad esse
può solo riguardarsi come esperienze critiche che fanno parte di diritto della cultura architettonica
del nostro più recente passato. D'altronde, il continuo mutare di tutti i valori, prodotto dagli
avvenimenti dell'ultimo trentennio, è dimostrazione della grande difficoltà di verificare i contenuti
dell'architettura contemporanea in riferimento ad un ideale contesto politico-sociale, per
l'impossibilità di definire modelli reali e precisati cui riferire un giudizio di questo tipo.
L'architettura ha, in tal modo, riguadagnato la sua essenziale qualità di dare soluzione
figurativa allo spazio fisico costruito dall'uomo in un preciso momento storico, di cui è partecipe
manifestazione, parte anche rilevante e rappresentativa: un'essenza che va al di là di ogni giudizio
morale che non appartiene mai al fare "storia" o al fare "architettura". In questo senso, l'architettura
contemporanea sta manifestando, sia pure inconsciamente, questo fondamentale carattere, anche se
identiche esperienze possono appartenere indifferentemente a contesti politico-sociali anche molto
distanti tra loro, oppure la diversità si confronta all'interno di ristretti ambiti nazionali, spesso come
fenomeni d’importazione da lontane realtà culturali. Tutto questo, chiaramente, è dovuto alla
precedente grande diffusione del cosiddetto International Style, che ha appiattito l'eredità del
razionalismo, per essere sempre simile in ogni latitudine e nelle diverse organizzazioni comunitarie.
Tutto il dibattito di questo ultimo venticinquennio, in parte mirato anche al superamento dei suoi
caratteri espressivi, avviene in un contesto sociale e culturale che è si è già assuefatto e reso
indifferente alla qualità delle attuali ricerche figurative dell'architettura contemporanea. Ciascuna
tendenza non appartiene, in particolar modo, ad alcuna area geografica o politica. La vicenda pur
fondamentale di Berlino (che ha inizio con l'IBA, Internationale Bauaustellung, fra il 1979 e il
1987) mette in evidenza la coesistenza, nient’affatto dialettica, tra le diverse esperienze figurative:
tutta una serie di "monumenti singolari", prodotti dai più noti protagonisti del momento presente.
Ignorare tutto ciò, o solo non metterlo nel debito risalto, equivale a una mancanza di rigore
critico che non tiene conto della concreta realtà del momento attuale, al voler riproporre,
inutilmente, una esegesi del "moderno" contemporaneo al di fuori di ogni verifica storica.
Un altro aspetto del problema è l'indifferenza delle architetture contemporanee al contesto
urbano a cui appartengono, malgrado, in alcuni casi, i riferimenti dichiarati alla memoria del genius
loci, o la ricerca di forme povere suggerite dai materiali naturali dei luoghi. È questa una delle
caratteristiche più contraddittorie del momento attuale che, pur affermando l'organicità delle
soluzioni figurative rispetto al preesistente, ripete l'errore dello stile internazionale, proponendo
spesso eclettismi figurativi facilmente riconoscibili. Naturalmente, l'incapacità tanto di progettare
una "forma" per la città che di stabilire un preciso rapporto con le tradizioni culturali locali,
rappresenta due aspetti di uno stesso problema: quello di saper trovare un rapporto tra "storia" e
"architettura", che non può più essere ignorato come agli inizi del movimento moderno e in specie
di quello razionalista. La città è, di fatto, il luogo dove maggiormente si concentrano le
testimonianze del passato delle singole comunità umane che, attraverso la costruzione o la
trasformazione di un proprio spazio fisico, manifestano i valori più importanti tanto storici che
artistici. In questo senso, sia la cultura dei pionieri del movimento moderno, che quella
contemporanea, non hanno saputo risolvere il problema di trovare un rapporto possibile tra antico e
nuovo.
Malgrado l'affermarsi sia delle discipline storico-architettoniche nelle scuole di architettura
(in specie italiane), che di un nuovo, profondo rispetto per i cosiddetti "centri storici", le nuove
architetture sembrano ignorare ogni rapporto con i valori dello spazio costruito attuale. La scelta,
sempre più diffusa, di volute dissonanze non appare fondata su un processo conoscitivo, storico-
critico, ma piuttosto sull'empirismo di letture morfologiche o su aprioristiche volontà espressive.
Per di più tutta l'urbanistica, anche a livello teorico, sembra privilegiare le ricerche economico-
sociali, i programmi di sviluppo e le politiche di piano, rinunciando a progettare la forma
architettonica della città. In tal modo, "urbanistica" e "architettura" hanno, spesso, seguìto strade
molto distanti tra loro, tanto che difficilmente si confrontano né reciprocamente si rapportano per
definire un precisato spazio urbano. È stato anche evidente il fallimento dell'urbanistica come
metodo di solo controllo e di gestione dello sviluppo urbano attuale: un obiettivo, questo, della fine
degli anni Sessanta che, ancora una volta, si fondava sulla presupposta capacità "politica" degli
architetti di formulare e guidare programmi di sviluppo economico sul territorio.
In ogni caso, questo contesto generale indica chiaramente la mancanza di un qualsiasi
rapporto tra “storia” e “progetto” dell’architettura. Nelle scuole di architettura, infatti,
l'insegnamento della storia dell'architettura, all'inizio inteso come una storia degli stili architettonici,
eredità dell'architettura dell'eclettismo storicistico, viene proposto prevalentemente come
conoscenza della storia artistica e culturale dell'architettura. Il superamento necessario di qualsiasi
"storia" capace di proporre modelli architettonici e di ogni possibile finalizzazione della ricerca
storica, conduce all'isolamento di questa disciplina da quelle compositive: la storia è intesa soltanto
quale fondamento della formazione culturale dell'architetto – come indubbiamente è necessario che
sia – e mai come conoscenza della realtà dello spazio attuale su cui si deve intervenire con il
"progetto".
Soltanto il restauro dei monumenti è stato fondato sui risultati della ricerca storica, anche
se troppo spesso confuso con la mera conservazione dei materiali dell'architettura, indagati
attraverso lo studio delle cause del loro degrado: in questo secondo caso alla storia è riservato
esclusivamente il ruolo di riconoscere i valori e l'artisticità di ogni singola architettura. D'altro canto
gli architetti-storici dell'architettura sono stati capaci di proporsi soltanto o come "critici"
dell'architettura contemporanea per scoprire nuovi talenti e tendenze emergenti, o come cultori
dell'architettura intesa come arte del passato, da interpretare ricostruendone i contesti culturali, i
processi di progettazione e l'approfondimento di ogni diverso lessico grammaticale. Vero è che si è
recuperato l'ostracismo dato alla storia dal Bauhaus e mai dimenticato; così è stato importante il
contributo dato, con nuove e più puntuali interpretazioni, alla storia dell'arte e alla diffusione della
cultura architettonica contemporanea: ciò che non si è raggiunto è un precisato rapporto tra storia e
progetto dell'architettura che non può dirsi risolto soltanto con l'acquisita conoscenza delle
manifestazioni, culturali e artistiche, dell'architettura nel tempo. A questa, pur indispensabile,
conoscenza si deve accompagnare la memoria, propria della storia, di ripercorrere i processi di
trasformazione che hanno determinato la realtà attuale, nella quale si interviene con il progetto,
riconoscendone le singole fasi, il loro valore e le diverse tracce superstiti (le preesistenze). Si avrà,
in tal modo, la possibilità di pensare a un progetto che, sempre libero da ogni tipo di vincolo,
fonderà le proprie scelte sull'accettazione o meno di valori acquisiti con la conoscenza storica, in
modo che tanto la continuità, che la dissonanza, abbiano sempre un fondamento logico.
A fronte di questi che sono gli aspetti problematici della cultura architettonica degli ultimi
anni sta l'importanza dell'esperienza complessiva maturata, per la capacità che si è avuta di
sperimentare un gran numero di linguaggi figurativi, talvolta anche rapidamente consumati. È
questo, ad esempio, il caso dell'avventura postmoderna, che pur aveva suscitato tante speranze per
quel suo dichiarato rapporto con la storia, rapidamente esauritosi durante l'arco degli anni Ottanta e
ristretto in una sorta di gusto decadente. Ancora forte è, al contrario, la sperimentazione sulle nuove
tecnologie applicate all'architettura, che trova in ogni caso alcuni limiti precisi nell'eclettismo
internazionalista posto a suo fondamento e nella scarsa durata nel tempo che si manifesta anche dei
suoi prodotti più prestigiosi e mirabolanti (è il caso del parigino Beaubourg di Piano e Rogers,
1972-1977). In questo senso, le esperienze che ripercorrono le eredità del movimento razionalista,
esplorandone gli ultimi esiti possibili, appaiono in ogni caso come le più interessanti per la
ricostituita continuità con quella che può definirsi la "tradizione" di questo secolo. In tutte le loro
manifestazioni (strutturaliste, neorazionaliste, decostruttiviste ecc.), esse mostrano chiaramente la
capacità di saper rinnovare l'articolazione dello spazio e il lessico grammaticale architettonico.
Tuttavia, la reale consistenza di questo presente contesto culturale non può essere dichiarata
attraverso semplici affermazioni di principio: al momento attuale diventa sempre più urgente
ricostruirne la vicenda storica, analizzandone le derivazioni e i contorni e definendone gli ambiti
territoriali, senza aprioristiche scelte di tendenza proprie alla critica dell'arte contemporanea.
Occorre, in un certo modo, riproporre tutta la storia dell'architettura del ventesimo secolo, e
non del solo "movimento moderno", che riporti in luce anche ciò che si è voluto dimenticare o
nascondere, senza il filtro delle ideologie ormai superate, o la ricerca di inutili esaltazioni. È il
processo di formazione e trasformazione della cultura architettonica del ventesimo secolo che
occorre ricostruire, mettendone in luce le fasi temporali, gli ambiti spaziali e i personaggi,
riconoscendone le contrapposizioni e le discontinuità sino a far emergere la vera essenza della realtà
attuale dell'architettura e dei suoi processi di progettazione e realizzazione. Una storia
dell'architettura contemporanea totalmente nuova, con una salda base filologica ancora tutta da
trovare, che non sia solo conoscenza di emergenze architettoniche, ma che queste sempre consideri
nei contesti più ampi della città e del territorio. Un programma di ricerca molto vasto e importante,
lungo nei tempi di maturazione, ma che va visto come uno degli impegni più urgenti della cultura
architettonica contemporanea, per poter procedere in avanti.
Tutto ciò comporta che al tempo stesso venga maturato un nuovo rapporto con i luoghi che
in ogni caso non potrà essere ricercato soltanto a livello di conoscenza morfologica, ma che va
perseguito approfondendone tutti i valori mediante l'apporto specialistico della conoscenza storica.
Una storia, come si è detto all'inizio, non finalizzata al progetto, ma intesa solo come conoscenza
della realtà su cui s’interviene con il progetto che, in tal modo, si qualifica come una nuova fase del
processo di trasformazione della città e/o del territorio. In tal modo il rapporto con i luoghi si
configura come presa di coscienza dei loro valori attuali (tanto figurativi che culturali): dati di fatto
qualitativi, e non quantitativi, che possono anche essere negati dal progetto, ma non ignorati. La
conoscenza storica, inoltre, potrebbe recuperare la rinuncia ad ogni rapporto con il passato operata
dal movimento moderno: una continuità che potrebbe essere riproposta, lontano da ogni imitazione
stilistica, facendo emergere l’importanza della processualità di tutti gli spazi di vita dell’uomo,
costruiti e non, all’interno della quale ritrovare anche il loro “progetto”. Una novità per sostituire
ciò che un tempo era stata la permanenza dell’uso tradizionale delle tecnologie costruttive in
muratura, sin quasi al XIX secolo, anche più forte dello stesso confronto con gli organismi e il
linguaggio dell’antichità classica. In tal senso, sembra sempre più opportuna la ricerca, al momento
attuale, di un ambito culturale comune per giungere a condividere almeno il momento iniziale della
progettazione, quello della “conoscenza” della realtà su cui si deve intervenire per trasformarla: un
modo per mettere da parte processi progettuali intuitivi, troppo spesso privi di contenuti concreti,
che sperimentano soluzioni morfologiche sempre diverse e inconfrontabili tra loro. Tutto ciò non
significa certamente mettere un limite al “progetto”, da mantenere sempre autonomo rispetto alla
“conoscenza”, ma soltanto porne in evidenza le qualità intrinseche del suo oggetto: naturalmente,
come già detto, il progetto dovrebbe sempre potersi riconoscere in una nuova fase del processo
storico di trasformazione della realtà attuale.
In conclusione, non la scelta di un linguaggio di tendenza, ma l'interpretazione dei valori
riconosciuti utilizzando, a seconda dei casi, il lessico grammaticale più efficace al momento attuale.
Tutto ciò è ancora più importante considerando come uno degli impegni urgenti cui la cultura
architettonica dovrà rispondere sia quello dell'intervento sulle "preesistenze" (dai centri storici alle
più recenti periferie), per affrontarne tanto la conservazione che la riqualificazione: un problema di
dimensioni anche molto notevoli, portato all'attenzione dallo sviluppo troppo grande delle città
attuali. In tutti i casi di questo tipo, è difficile pensare a interventi progettuali non fondati su
rigorose metodologie critiche di conoscenza della realtà attuale, capaci di individuare valori da
conservare o trasformare. Inoltre, è proprio dal confronto dei linguaggi architettonici contemporanei
con queste nuove tematiche progettuali che, forse, potranno emergere nuove soluzioni figurative e
organizzazioni spaziali: tutto un vastissimo campo di sperimentazione, che non può precludersi a
nessun linguaggio architettonico, ma il cui esito non può certo essere definito a priori. L'interesse
per questo nuovo tipo d’impegno progettuale non è visto, naturalmente, in termini assoluti, bensì è
aperto al confronto e alla verifica con altre proposte: nessuna anticipazione di soluzioni nuove, ma
soltanto possibili ipotesi di lavoro.
Appendice:

Bibliografia dell’autore

Questo Profilo storico dell’architettura moderna e contemporanea dell’Occidente (1401-


2001) potrebbe essere inteso come un’ampia sintesi critica di tutta la ormai lunga esperienza di
ricerca del suo autore. In ogni caso, questo nuovo contributo generale ha recepito tutti i suoi
contributi precedenti da cui è derivata tanto l’impostazione generale che alcuni approfondimenti
particolari di opere d’architettura o dell’attività di singoli architetti, molti dei quali di necessità
riguardanti l’ambiente romano. Talvolta, ad essere state riproposte sono intere pagine di alcuni
saggi, senza alcuna correzione del loro testo, ma inseriti nella logica sequenza storica del contesto
degli eventi. In tal modo, questo profilo storico potrebbe essere interpretato come una semplice
traccia, l’organizzazione di una serie di argomenti, partendo dai quali iniziare una riflessione critica
e una conoscenza dell’architettura molto più approfondita. A tal fine, viene qui ricordata una parte
della bibliografia dell’autore relativa ai contenuti dei singoli capitoli, in modo da proporre subito
tutti quegli approfondimenti che sono alla base del presente profilo storico: i singoli saggi o volumi
vengono qui indicati non seguendo la loro sequenza cronologica, bensì secondo la sequenza storica
degli eventi di questo “profilo”. Un modo, questo, per facilitarne l’evidenza e il loro
riconoscimento.

Prefazione: la storia come conoscenza

Storicità, autenticità e contemporaneità delle architetture, in Architettura: processualità e


trasformazione, Atti del convegno internazionale di studi, Roma, Castel Sant’Angelo, 24-27
novembre 1999, a cura di Maurizio Caperna e Gianfranco Spagnesi, Roma, Bonsignori, 2002
(«Quaderni dell’Istituto di Storia dell’Architettura», n.s., 34/39), p. 17-28.

Introduzione: Progetto e Architetture del Linguaggio Classico (XV – XVI secolo), in G.


Spagnesi, Progetto e Architetture del Linguaggio Classico (XV – XVI secolo), Milano, Jaca Book,
1999, pp. 9-27.

Storia, storiografia ed insegnamento dell’architettura, in L’architettura nelle città italiane


del XX secolo. Dagli anni Venti agli anni Ottanta, a cura di Vittorio Franchetti Pardo, Milano, Jaca
Book, 2003, pp. 362-365.
Capitolo I Dalla fine del Medioevo all’inizio dell'età moderna (1401 – 1492)

Una ipotesi di ricerca: la “officina” figurativa brunelleschiana, in Filippo Brunelleschi: la


sua opera e il suo tempo, Atti del convegno Internazionale di Studi, 16-22 ottobre 1977, Firenze,
Centro Di, 1980, pp. 257-264.

I “Casamenti” di Lorenzo Ghiberti, in «Studi e documenti di architettura», n.s., 11, giugno


1983, pp. 137-164.

Leon Battista Alberti e il Medioevo, in corso di pubblicazione.

Note sul Tempio Malatestiano a Rimini, in «Palladio. Rivista di storia dell’architettura e


restauro», 14, 1994, pp. 115-124.

Roma: la basilica di San Pietro, il borgo e la città. Milano Jaca Book, 2003, capitolo II, Il
“Vicus Curialis” e la Città del programma di Nicolò V: le realizzazioni del XV Secolo, pp. 29-51.

Capitolo II Dalla scoperta dell'America alla fine del Concilio di Trento (1492-1563)

Roberta Dal Mas, Gianfranco Spagnesi, Roma: dalla casa di Raffaello al palazzo dei
Convertendi, in «Quaderni dell’Istituto di Storia dell’Architettura», n.s. 53, Roma, Bonsignori,
2010.

Note su alcuni palazzi romani del primo Cinquecento, in corso di pubblicazione.

I continuatori della ricerca bramantesca, in Bramante tra umanesimo e manierismo, Roma


1970 Bramante tra umanesimo e manierismo: mostra storico-critica, settembre 1970, Roma,
Istituto grafico tiberino, 1970, pp.159-209.
Antonio da Sangallo il Giovane prima e dopo Raffaello, in Antonio da Sangallo il giovane:
la vita e l'opera, Atti del XXII Congresso di storia dell'architettura, Roma, 19-21 febbraio 1986, a
cura di Gianfranco Spagnesi, Roma, Centro Studi per la Storia dell'Architettura, 1986, pp. 13-20.

L’architettura picta di Raffaello: percezione e realtà, in Raffaello: l'architettura picta,


percezione e realta, Catalogo della Mostra,  Roma, Multigrafica, 1984, pp. 19-29.

La percezione dell’architettura picta nelle opere di Raffaello: i modelli tipologici, in


Raffaello: l’architettura picta, percezione e realtà, Catalogo della Mostra, Roma,
Multigrafica,1984, pp. 55-140.

Note sulla “forma” del “tridente” di Campo Marzio: il “progetto” del “tridente”, in
Gianfranco Spagnesi, Il centro storico di Roma: il rione Campo Marzio, Roma, Multigrafica, 1979,
pp. 87-96.

Capitolo III Dall’affermazione della Riforma cattolica agli inizi della guerra dei
Trent’anni (1563-1618)
 
Pellegrino Tibaldi e la cultura architettonica romana tra Cinque e Seicento, in Pellegrino
Tibaldi: nuove proposte di studio, Convegno internazionale Porlezza – Valsolda 19- 21 settembre
1987, Milano, Istituto per la storia dell’arte lombarda, pp. 81-89.

L’architettura dell’affermazione della riforma cattolica, in Atti del XXIII Congresso di


storia dell'architettura, Roma, 24-26 marzo 1988, a cura di Gianfranco Spagnesi, Roma, Centro
Studi per la Storia dell'Architettura, 1989, vol. 1, pp. 11-19.

L’immagine di Roma Barocca da Sisto V a Clemente XII: la pianta di G.B. Nolli del 1748,
in Immagini del Barocco: Bernini e la cultura del Seicento, a cura di Marcello Fagiolo e Gianfranco
Spagnesi, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1982 (Biblioteca internazionale di cultura, 6)
pp. 145-156.

Osservazioni su alcune architetture sistine, in Sisto V, a cura di Marcello Fagiolo e Maria


Luisa Madonna, Roma, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, 1992, pp. 419-428.
Barocco non barocco: le nuove tipologie delle chiese congregazionali tra Milano e Roma,
in «Arte lombarda. Rivista di storia dell’arte», n.s., 1, 134, 2002, pp. 127-132.

Capitolo IV Dal trionfo della Riforma cattolica all’inizio della pubblicazione


dell’Encyclopédie (1618-1751)

Palazzo Del Bufalo-Ferraioli e il suo architetto, in «Palladio. Rivista di storia


dell’architettura e restauro», 13, 1963, pp. 134-158.

Giovanni Antonio De Rossi architetto romano, Roma, Officina, 1964.

Gian Lorenzo Bernini: una proposta di ricerca operativa, in Gian Lorenzo Bernini
architetto e l'architettura europea del Sei-Settecento, a cura di Gianfranco Spagnesi e Marcello
Fagiolo, Roma, Istituto della Enciclopedia italiana, 1983-1984 (Biblioteca internazionale di cultura,
11), pp. 7-10.

Note sulla “forma” del “tridente” di Campomarzio: La “interpretazione” barocca ed il


Porto di Ripetta, in Gianfranco Spagnesi, Il centro storico di Roma: il rione Campo Marzio, Roma,
Multigrafica, 1979, pp. 96-101.

Alessandro Specchi: alternativa al borromismo, Torino, Testo&Immagine, 1997


(Universale di architettura, 25).

Rome et sa culture à l’epoque du voyage de Soufflot, in «Cahiers de la recherche


architecturale», n. spécial, Actes du colloque “Sufflot et l’architecture des lumiere”, 6-7, 1981, pp.
39-45.

Capitolo V Dalla Guerra dei Sette anni alla Rivoluzione di luglio in Francia (1756-
1830)
 
Alle origini del neoclassicismo: perché Roma non è neoclassica, in Neoclassico: la
ragione, la memoria, una città: Trieste, Venezia, Marsilio, 1990, pp. 233-242.

Capitolo VI Dall’affermazione della rivoluzione industriale al termine della prima


guerra mondiale (1830-1918)

Architettura a Roma al tempo di Pio IX (1830-1870), Roma, Cassa di Risparmio di Roma,


1976; Edizioni Studium, 2000, 2° ed.
L’architettura a Roma dal 1830 al 1870: cultura e società, in L' architettura a Roma al
tempo di Pio IX, Catalogo della mostra, Roma, Pio sodalizio dei Piceni, 25 novembre-7 dicembre
1978, Roma, Multigrafica, 1978, pp. 7-14.

Il “purismo” di Luigi Poletti, in Luigi Poletti architetto (1792-1869), Bologna, Nuova


Alfa, 1992, pp. 23-28.

Architettura e architetti, in Roma un secolo (1870-1970), Roma, Edizioni del Tritone,


1970, pp. 3-34.

Novità e accademia nelle architetture di Giulio De Angelis, in Enza Zullo, Giulio De


Angelis architetto: progetto e tutela dei monumenti nell’Italia umbertina, Roma, Gangemi, 2005,
pp. 9-12.

L’architettura religiosa a Roma durante il pontificato di Leone XIII, in I cattolici e lo stato


liberale nell’età di Leone XIII, a cura di Annibale Zambarbieri, Venezia, Istituto Veneto di Scienze,
Lettere ed Arti, 2008, pp. 163-210.

La “reggia” delle finanze di Roma capitale, in Il Palazzo delle finanze e del tesoro, Roma,
Editalia, 1989, pp. 47-110.

Franco Girardi, Gianfranco Spagnesi, Federico Gorio, L' Esquilino e la piazza Vittorio:
una struttura urbana dell'Ottocento, Roma, Editalia, 1974.
La “costruzione” del quartiere Sallustiano, in I settantacinque anni dell’Istituto nazionale
delle assicurazioni, Roma, Istituto dell’Enciclopedia italiana, 1987, pp. 173-200.

Il quartiere Prati di Castello e il Palazzo Menotti, in Carlo Menotti e la sua dimora: un


esempio di stile per Roma capitale, Roma, Istituto dell’Enciclopedia italiana, pp. 38-61.

Le matrici eclettiche nell'architettura di Raimondo D'Aronco, in Raimondo D’Aronco e il


suo tempo, Atti del Congresso internazionale di studi su «Raimondo D'Aronco e il suo tempo», 1-3
giugno 1981, Udine, Istituto per l'Enciclopedia del Friuli Venezia-Giulia, 1982, pp. 173-184.

Diversità verso la modernità. Alle origini della contemporaneità, in L’architettura


dell’”altra” modernità, Atti del XXVI congresso di storia dell’architettura, Roma 11-13 aprile
2007, a cura di Marina Docci, Maria Grazia Turco, Roma, Gangemi, 2010, pp. 48-61.

Capitolo VII Dal primo dopoguerra all’inizio del nuovo millennio (1919-2001)

Per una storia dell’architettura del XX secolo, in L'architettura delle trasformazioni


urbane 1890-1940, Atti del XXIV Congresso di Storia dell'Architettura Roma,10-12 gennaio 1991,
a cura di Gianfranco Spagnesi, Roma, Centro di Studi per la Storia dell'Architettura, 1992, pp. 11-
15.

Il quartiere e il corso del Rinascimento, a cura di Gianfranco Spagnesi, Roma, Istituto


della Enciclopedia Italiana, 1994.

Note sulla Poetica dell’architettura neoplastica, in Bruno Zevi per l’architettura, Atti del
convegno internazionale di studi, Roma 14-15 marzo 2002, a cura di Alessandra Muntoni e
Antonino Terranova, Roma, Mancosu, 2005, pp. 104-107.
L’insegnamento di Saverio Muratori: la cappella in muratura a pianta centrale, in La
Facoltà di Architettura dell’Università La Sapienza dalle origini al Duemila: discipline, docenti,
studenti, a cura di Vittorio Franchetti Pardo, Roma, Gangemi, 2001, pp. 373-386.

Dall’Anno Santo alle Olimpiadi. Note sull’architettura romana dal 1950 al 1960, in
«Architettura & arte», 1/2, 2007, pp. 71-79.
Il Villaggio Olimpico di Roma e la cultura architettonica nella città durante gli anni
Sessanta, in Luigi Moretti architetto del Novecento, Atti del convegno di studi, Roma 24-26
settembre 2009, a cura di Corrado Bozzoni, Daniela Fonti, Alessandra Muntoni, Roma, Gangemi,
2011, pp. 409-416.

[voce] Architettura, in Enciclopedia italiana di scienze, lettere ed arti. Appendice 2000.


Roma, Istituto dell’Enciclopedia italiana, vol. I, pp. 85-90.

Postfazione: storia e progetto dell’architettura

Presentazione. Storia e restauro delle architetture, in Gianfranco Spagnesi, Una storia per
gli architetti, Roma, NIS, 1989 (Studi superiori NIS, 65).

Note per una “politica” della città e del territorio, in Enciclopedia 75. La collaborazione
culturale fra i paesi della CEE, Roma, Istituto dell’Enciclopedia italiana, 1975, pp. 405-411.

Catechismo per la tutela nelle antiche città, in «Quasar. Quaderni di storia dell’architettura
e restauro», 23, 2000, pp. 73-76.

Nota generale
Numerosi testi, tra quelli sopra elencati, sono stati riuniti nelle seguenti raccolte di saggi:

Una storia per gli architetti, Roma, NIS, 1989 (Studi superiori NIS, 65).

Progetto e architetture del linguaggio classico (XV-XVI secolo), Milano, Jaca Book, 1999
(Di fronte e attraverso, 488) – (Saggi di architettura. Sezione architettura e storia).

Introduzione al restauro delle architetture delle città e del territorio, Roma, Edizioni
Studium, 2007.

Inoltre, per approfondire il rapporto tra architetture e città, si veda:


Roma: la basilica di San Pietro, il borgo e la città, Milano, Jaca Book, 2003 (Di fronte e
attraverso, 605).
(quarta di copertina)

Questo profilo dell’architettura dell’età moderna e contemporanea in Occidente vuole illustrare il


percorso critico che, aggiornando i modelli organizzativo-temporali della sua storia, permetta di
avvicinarsi alla conoscenza dello spazio fisico di vita dell’uomo attraverso il tempo: prodotto dalla
realizzazione di uno specifico organismo, sintesi dei suoi caratteri tipologico-funzionali, di quelli
strutturali e del suo linguaggio figurativo, reso manifesto dai materiali adottati. In questo contesto,
l’architettura viene presentata come documento essenziale, concreta manifestazione della più
generale storia politica, religiosa, economico-sociale, in quanto prodotta da un continuo mutare
delle istanze poste dalla vita dell’uomo. Oggetto di questa analisi è l’area culturale dell’Occidente
per conoscerne le radici della sua attuale contemporaneità, ricostruendo la sua identità per
l’inevitabile confronto con le importanti culture delle altre aree geografiche. Obiettivi tutti, questi,
per costruire una storia del progetto architettonico e delle sue maggiori esemplarità realizzate,
mettendo da parte non soltanto uno schematismo ideologico, ma anche ogni possibile
attualizzazione degli esempi del passato. In tal modo, le singole architetture e le diverse
intenzionalità figurative del loro progetto vengono presentate all’interno del proprio momento
storico complessivo, rifiutando sempre le classificazioni stilistiche e le interpretazioni psico-
sociologiche. Una storia intesa come la più possibile e completa ricostruzione degli avvenimenti che
hanno concorso alla formazione e alla realizzazione, o trasformazione nel tempo, dei diversi
organismi architettonici.

Gianfranco Spagnesi, è professore emerito de “La Sapienza” Università di Roma. ha insegnato


Storia dell’ Architettura nelle Università dell’Aquila (1968-76) e di Firenze (1976-82), oltre a
Restauro Architettonico ne “La Sapienza” Università di Roma (1982-2008). E’ stato presidente del
Centro di Studi per la Storia dell’Architettura (1978-92) e direttore del dipartimento di Storia
dell’Architettura, Restauro e Conservazione dei Beni Architettonici de “La Sapienza” Università di
Roma (1993-99). Tra le sue opere più importanti sono le monografie: Giovanni Antonio De Rossi
architetto romano (1964), L’Aquila- problemi di forma e storia della città (1972), L’edilizia romana
nella seconda metà del XIX secolo (1974), L’architettura a Roma al tempo di Pio IX (1976), Il
centro storico di Roma- Il rione Campo Marzio (1979), Il Palazzo de Majo e l’architettura barocca a
Chieti (1981), La Piazza del Quirinale e le antiche scuderie papali (1990), Il quartiere e il Corso del
Rinascimento (1994), Alessandro Specchi e l’alternativa al borrominismo (1997), Roma- la basilica
di San Pietro, il borgo e la città (2003), Dalla casa di Raffaello al palazzo dei Convertendi (2010).
Inoltre alcuni suoi saggi sono stati raccolti nei volumi: Una storia per gli architetti (1988), Progetto
e architetture del linguaggio classico (1999), Introduzione al restauro delle architetture delle città e
del territorio (2007), Il centro storico dell’Aquila, memoria e progetto (2009). Attualmente vive e
lavora a Roma.

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