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Leonardo Rombai, Geografia storica dell'Italia: ambienti, territori, paesaggi,

Mondadori Education, 2002.


La geografia storica: concetti, metodi, finalità

La geografia storica ha coinciso con la geografia nel suo complesso, ma nel corso della seconda metà
dell'800 e primo 900 si è creata la GEOGRAFIA UMANA → Scienza puramente contemporaneistica.
Si è creata anche la GEOGRAFIA STORICA → studio delle strutture spaziali di età passate. Interessi
verso la definizione della geografia umana storica si sono presentati con il saggio di Giuseppe Caraci
del 1939 e Arrigo Lorenzi nel 1949 col saggio sulle trasformazioni del paesaggio italiano.
Il geografo italiano più sensibile a un riesame approfondito delle ragioni di fondo della geografia è
Lucio Gambi → ritiene superato il tradizionale concetto per cui la geografia basa la sua
originalità su un certo modo di vedere in termini spaziali le interazioni che i più vari fenomeni
ambientali e sociali proiettano.

Lucio gambi

Questa si collega alla cultura illuministica → allo storico Fernard Braduel e nuova generazione della
scuola di geografi di Marc Bloch → ferma l'attenzione sull'idea di paesaggio inteso non come sintesi
di elementi visibile ma come “struttura” prodotta dagli umani nel corso della storia → geografia
umana interpretata come “storia della conquista conoscitiva e della elaborazione regionale della
Terra”. Ogni quadro ambientale è il risultato del modo in cui l'ambiente è stato “incorporato nella
storia. → ogni società plasma lo spazio in base alle proprie strutture di ordine economico, giuridico
e scientifico.
Lo spazio → inteso come spazio che assume una dignità di potenza storica sempre diversa perchè
l'uomo ci vive e ci opera
Ambiente → grande forza con la quale si creano le società e i loro generi di vita.

La geografia umana viene “svolta secondo la mentalità delle scienze umane” e riguarda “le vicende
con cui l'uomo si espande sugli spazi della Terra, e i modi con cui egli ha scelto”.
Per Gambi, “ogni nuova metodologia, ogni nuova strumentazione di indagine portata dalle evoluzioni
della tecnologia deve essere aperta” alla geografia umana. L'azione del geografo, se vuole essere
presa in considerazione, deve sostenere fini politici, dare un contributo concreto alla conoscenza e
alla risoluzione dei problemi che pesano sopra la società.
Le posizioni di Gambi sono sviluppate da Massimo Quaini che introduce nella geogria la griglia
interpretativa costituita dal materialismo storico.

Massimo Quaini

Quaini contesta la tendenza di Braudel a considerare la storia come una superscienza che possa da
sola, assolvere al ruolo di scienze limitrofe, quali la geografia. Esse praticano tale studio secondo due
differenti punti di vista. Ritiene che il punto di vista della storia sia quello di esaminare il fattore
geografico come elemento esplicativo della storia stessa e quindi il paesaggio geografico nella sua
evoluzione, mentre il punto di vista della geografia consiste nello studio dell'ambiente geografico del
passato, nella sua evoluzione temporale, con la chiara consapevolezza che tale analisi è al servizio
della geografia del presente. Propone come campo di ricerca della geografia il complesso spazio-
temporale a scale e fonti integrate dove si realizza la fusione di geografia umana e storia, e si integrano
i diversi livelli temporali e le diverse scale spaziali. → il senso della geografia umana sta nell'avere
superato il ruolo di campo d'indagine che fa fa trait d'union fra l'ambito geografico e l'ambito storico
→ assumendo il suo peculiare compito di ricostruzione del mutamento geografico attraverso il tempo,
ricercando le cause del mutamento stesso, studiandone i meccanismi responsabili.
Quaini ha fatto uno studio sulla Liguria che non si limita a ricostruire le fasi evolutive del territorio
ma si propone pure una finalità prospettica nella direzione di una politica di pianificazione e dei beni
culturali alternativa ed equilibrata: una politica che miri alla proposizione di uno sviluppo diverso,
aperto al progresso, ma anche fedele alla eredità culturale della società rurale in fatto di rapporti
consapevolmente con la natura e la storia.

La geografia storia non è mai stata d'attualità come nella fase temporale in cui viviamo. In un'epoca
di globalizzazione dell'economia, dell'informazione e della cultura, e in un'epoca in cui la natura e
l'ambiente corrono costantemente il rischio di essere completamente sconvolti e omologati dal
consumismo devastatore, è di grande importanza culturale e politica verificare il carattere
storicamente determinato dello spazio socializzato che ci circonda.

La geografia deve essere al tempo stesso critica ed operativa: critica nel senso che non deve accettare
di rappresentare la realtà in nome di un potere o di un ordine dato → questo comporta una possibilità
di dissenso e di conseguenza la possibilità di produrre rappresentazioni diverse da quelle ufficiali.
Operativa nel senso che non deve limitarsi a dibattere e criticare ma deve anche intervenire
praticamente.
Lo studioso deve sempre necessariamente integrare le scale locale e regionale, continentale e
planetaria poiché sennò ne conseguirebbe la parzialità o la deformazione dei risultati conoscitivi
raggiunti dalla ricerca.
La città deve essere considerata il vero e proprio “fuoco” dell'approvazione duratura e della
trasformazione incessante delle campagne e dell'intero spazio geografico. Si creano con ciò le
“strutture territoriali” → complesso delle componenti materiali del territorio che sono il prodotto dei
rapporti sociali → si evolvono, il processo evolutivo si ripercuote sulla città e sul territorio rurale
finchè il cambiamento attivato non determina una svolta storia → il passaggio da una data
organizzazione a un'altra nuova.
I fattori del cambiamento sono vari:

– potere politico che legittima l'approvazione del suolo e della produzione di beni oltre che lo
stesso potere politico
– economia o produzione di beni materiali e circolazione dei prodotti
– determinanti culturali che si riflettono sugli insediamenti e sui paesaggi agrari e forestali

La geografia storia può essere definita come storia dell'organizzazione sociale dello spazio e storia
delle strutture territoriali. Essa opera col metodo diacronico proprio delle discipline storiche partendo
dal passato per arrivare al presente. → oggetto della ricerca: territorio individuato e perimetrato →
insiemi e unità di paesaggio, insediamenti, vie di comunicazione etc.
C'è l'esigenza di organizzare la ricerca con “salti di scala”, dal locale al regionale o generale e
viceversa. L'intreccio della “microanalisi” è poi anch'esso indispensabile per alternare quadri
d'insieme come utili capisaldi.
La scala “regionale” si adatta alla:
• regione fisico – naturale → individuata come unità spaziale grande o piccola per i caratteri
dati dalla natura
• regione politico – amministrativa → Stato o sue ripartizioni regionali, provinciali, comunali
o locali, parrocchie o frazioni geografiche. E' da tenere presente → la variazione degli assetti
amministrativi a qualsiasi scala nella storia
• regione funzionale → per l'assetto essenzialmente economico produttivo comune che ce la
fa percepire e individuare: regione agricola (campagne della mezzadria, latifondo, cascine
padane etc), regione forestale o alpina (con i suoi sistemi sociali incardinati sul bosco e
sull'allevamento praticato nei prati pascoli), regione mineraria (Colline Metallifere, Amiata
etc), regione industriale, regione turistica (riviere tirreniche e adriatiche etc), regione
urbanizzata (spazi con conurbazioni e aree metropolitane).

RICERCA GEO-STORICO REGIONALE

1. necessario stabilire i cicli cronologici e la periodizzazione, con l'inizio e la conclusione e con


l'eventuale scomposizione in fasi intermedie. E' importante che lo studio parta da un'ipotesi
di ricerca che ricostruisca l'evoluzione globale di un territorio dal passato al presente.
Occorre quindi individuare il quadro di partenza: dove si abbraccia la regione con la sua
posizione, configurazione fisico-naturale, risorse ambientali → descrizione generale. In
questo taglio iniziale il ricorso alla storia è molto misurato.
2. indicare l'assetto ambientale cioè fisico-naturale, e assetto politico-amministrativo e
economico.
3. ricostruire le strategie e le pratiche del potere politico e economico
4. con il tempo si consolidano nuove strutture sociali e quindi territoriali, anche se le varie
strutture manifestano sempre diversi ritmi di cambiamento → obbligo di articolare la
ricostruzione del cambiamento in modo ordinato in tanti “percorsi” diacronici tematici.
5. necessario ritornare alla sintesi descrittiva/interpretativa per tratteggiare un quadro
sincronico d'insieme.

Da qualche tempo la geografia storica fa uso pure del metodo retrospettivo che si applica alla
descrizione/interpretazione dell'organizzazione sociale e territoriale presente e la ricostruzione di
analoghi tagli lineari/orizzontali proiettati nella storia. Questo metodo può definirsi “stratigrafico” →
stratificazione che si verifica “delle trasformazioni effettuate in passato o anche per la stessa radicale
cancellazione, in epoca determinata, di quanto avevano impresso sul suolo le generazioni precedenti”
→ questo metodo è utile per finalizzare la ricerca alla costruzione di relazioni di sintesi, di cartografie
tematiche, di schede di censimento sulle principali componenti paesistiche.
La trasformazione di un territorio è un processo continui e la cosa difficile sarà appunto “definire i
tempi di questo mutamento”. La classica periodizzazione storica generale “può essere usata come un
sussidio utile ma non può essere usata come guida dominante.

Fonti della geografia storica e della storia del territorio → E' necessario esplorare mediante
l'indagine diretta sul campo → osservazione della realtà nei suoi aspetti paesaggistico-ambientali, nei
suoi rapporti socio-economici e nei suoi comportamenti culturali.
Le biblioteche e gli archivi sono le basi di partenza di studio e di ricerca. Esistono testi bibliografici,
catalografici ed enciclopedici generali o specializzati ma in genere appaiono alquanto invecchiati, per
cui è necessario imboccare la strada dell'esame degli schedari e cataloghi “a soggetto” o per
argomento delle principali biblioteche. Delineata l'ipotesi di lavoro c'è bisogno di allargare il quadro
delle conoscenze mediante fonti edite e inedite. Nelle biblioteche è possibile reperire la
documentazione originale “indiretta”, prodotta cioè non per la storia ma per i bisogni della politica e
soprattutto del governo del territorio. Per descrivere la personalità e l'opera dei grandi protagonisti
politici ed economici, tecnici e scienziati della storia, esistono tanti dizionari o più ampi studi
biografici editi o manoscritti. Tali fonti originali si possono articolare in innumerevoli corpi omogenei
per categorie e contenuti o per istituzioni ed uffici centrali o decentrati o per altri organismi pubblici
o priviti.

Le cartografie, le iconografie e le altre rappresentazioni spaziali → Le rappresentazioni grafiche


dello spazio, soprattutto le cartografie e pittorico-vedutistiche sono a ragione considerate le fonti
“primarie” di lavoro delle discipline geografico-storiche e storico-territorali.
Le foto aree sono concentrate presso l'Istituto Geografico Militare di Firenze. Le iconografie di pittori
e incisori di paesaggio relative a insediamenti e a campagne sono “disperse” in molte istituzioni
museali, biblioteche o raccolte specifiche.
Soprattutto mediante le cartografie storiche è possibile verificare criticamente, ordinare e sistemare
scientificamente innumerevoli dati e informazioni di natura scritta, orale e “oggettuale”.
Fin dai tempi preistorici o protostorici, l'uomo deve necessariamente appropriarsi mentalmente dello
spazio per i suoi spostamenti. Disegni e vere e proprie rappresentazioni e mappe spaziali in ogni
epoca e paese stanno a dimostrare l'importanza e la diffusione di tale pratica. L'applicazione del sapere
astronomico e matematico all'arte della rappresentazione spaziale nasce dalla consapevolezza che
ebbero gli antichi dell'approssimazione di ogni procedimento di traduzione sul piano mediante
l'artificio delle proiezioni.
Le cartografie ora scientifiche e ora speditive proprie del mondo antico furono indispensabili
strumenti geo-politici per conoscere, utilizzare, controllare e governare il territorio. Le cartografie
minuziose e “ritratti” originali di città e territori più o meno ristretti sono andati pressocchè quasi tutti
perduti, mentre sono a noi pervenute poche raffigurazioni di sintesi, come le copie tardo-medievali
del mappamondo e della carte di continenti o grandi paesi di Claudio Tolomeo alessandrino. Il
Medioevo cristiano arriva però a dimenticare la cartografia come rappresentazione reale del mondo e
vengono a crearsi raffigurazioni dei mappamondi tripartitti. Solo nei secoli dopo il Mille tornano in
auge la concezione sferica del mondo e le cartografie che la riflettono. Tra il XIII e il XIV secolo,
genovesi, veneziani e pisani elaborano una copiosa produzione relativa in genere all'insieme delle
coste del Mediterraneo → molta precisione. Molto importanti per la nascita della cartografia moderna
sono i viaggiatori e la loro esperienza empirica, sono osservatori acuti, con occhi di geografo, dello
spazio terrestre e delle attività o dei comportamenti dell'uomo. Secoli XIII-XV → trionfo della
cartografia nautica, “invenzione” delle prime mappe → rappresentazioni rozze e imprecise,
significato reale e simbolico, prodotte con ricorso al metodo dei pittori e spesso disegnate da pittori.
Pietro Massaio dà il via alla cartografia regionale e contemporaneamente a questo dà anche il via alla
ritrattistica urbana moderna. La rappresentazione di Firenze sarà perfezionata da un altro pittore
cartografo di fame → Franceso Rosselli. Solo a partire dal XV secollo la bussola comincerà a essere
applicata agli strumenti e ai rilevamenti topografici terrestri.
Un pittore molto importante che fu anche un ottimo cartografo è Leonardo Da Vinci. Mentre la
cartografia precedente a Leonardo non può essere definita politico-amministratica, ma produzione
erudita, quella di Leonardo, invece, rientra a pieno titolo nel filone amministrativo espresso dal potere
politico di Firenze e Milano, del Papa e del Valentino. Da allora “esplose” la produzione cartografica
di città e territori. Tra i cartografi che si segnalano per la qualità dei loro prodotti ricordiamo Giacomo
Castaldi e Giovanni Antonio Magini.
Non c'è però solo la cartografia scientifica e matematica. La cartografia scientifica dei topografi è il
punto di arrivo di un processo che inizia con i grandi pittori del XV secolo, che studiano Euclide e la
prospettiva. Qui conta non solo e non tanto il colpo d'occhio magistrale e raffinato di tanti artisti,
bensì il rigore geometrico della prospettiva. Nel XV secolo → il colpo d'occhio del pittore e il suo
sempre più sicuro possesso della prospettiva diventano componenti profondamente radicate nella
nascente cartografia.
Cartografia storica → cartografia ufficiale o di Stato prodotta in Italia a partire dalla seconda metà
del XV o dall'inizio del XVI fino all'Unità. Un po' tutte le carte storiche hanno un alto o significativo
valore di opera d'arte (coloriture, cura particolare per l'ornamentazione, disegni architettonici → tutto
ciò è ovviamente proporzionale al tipo di committenza) → tutto ciò appare ai nostri occhi un vero e
proprio contenuto, e quindi parte integrante della rappresentazione geografica.
Tuttavia non sempre si trattava di un cartografo di professione, spesso è un funzionario
amministrativo oppure uno scienziato, oppure un viaggiatore o un privato o comune cittadino. La
cartografia rappresenta uno strumento geopolitico: un prodotto di difficile costruzione e di alto costo,
e quindi, almeno fino alla prima metà del XIX secolo, uno strumento raro o comunque diffuso solo
tra gli apparati statali o tra le oligarchie → è sempre servita allo stato o ai ceti sociali egemoni per
controllare militarmente, politicamente, socialmente ed economicamente l'ambiente naturale e
sopratutto umanizzato. Ovviamente è servita anche per fare le guerre.
Esisteva anche una cartografia a stampa privata quasi sempre edita, già dal tardo Quattrocento, per
finalità commerciali dai librai o eruditi o artisti che non si pongono problemi politico-amministrativi.
La carta manoscritta costruita per uso riservato di geo-polica, con l'incisione di legno/rame/pietra che
la trasforma in una stampa, si trasforma ineluttabilmente per via di una forte selezione e perdita dei
contenuti.Non si posseggono carte generali a scala e dettaglio propri delle topografie e neppure serie
di carte omogenee che coprono gli interi stati preunitari. Le regioni sono rappresentate a “pelle di
leopardo”. Le carte che si conoscono sono quasi tutte definibili come parziali ovvero come carte
idrografiche e di bonifica, carte stradali, carte di confini e delle maglie amministrative civili e
religiose, carte di controllo militare/fiscale/sanitario del territorio, carte di gestione di beni
patrimoniali agricolo-forestali/ittici/minerari/industriali.
Le carte amministrative ci appaiono belle o affascinanti, utilizzabili e utili, perchè ci restituiscono per
quanto possibile al meglio le condizioni del territorio. Questi documenti possono servirci anche come
strumenti per valorizzare altre fonti.
Le carte del passato si prestano abbastanza facilmente per valorizzare sia la ricerca storica sia la
ricerca geografica. Con la carta e mediante la carta storica è possibile valorizzare il lavoro sul
documento e il lavoro sul terreno. La cartografia storica ci consente di studiare il territorio sia nel
passato che nel presente. E' solo dopo questa fase di analisi che si dovrebbe passare a progettare in
modo consapevole interventi e forme di fruizione su quello che esiste. La cartografia storica consente
di far percepire ai bambini come nel passato antico, medievale e moderno era organizzato il territorio
regionale o locale. Grande è anche l'importanza per l'educazione permanente degli adulti, per la
riambentazione dei cittadini che hanno anch'essi spesso perduto la memoria della storia territoriale.
Le carte del passato sono strumenti di lavoro per modificare il presente, la nostra realtà, ma senza
l'intervento critico finiamo col lasciarci rapire dalla bellezza, dal fascino indiscreto della carta.
La cartografia è sempre una costruzione soggettiva, almeno ai primi decenni del XIX secolo, presenta
sempre delle distorsioni di ordine geometrico.
Non si hanno quasi mai carte eseguite per rappresentare tutto il territorio nazionale, anche pensando
alla realtà degli Stati preunitari. Tra 700 e 800, quando si dà ampio potere ai Comuni, lo Stato delegò
a costoro tutta una serie di competenze, con l'obbligo di mettere in piedi l'ufficio tecnico comunale e
a dotarsi di un provveditore che doveva provvedere a disegnare le strade e i corsi d'acqua.
Nelle carte storiche vediamo inseriti determinati contenuti geografici, non ne vediamo altri che
sicuramente esistevano sul territorio, ma che il cartografo non ha rappresentato semplicemente perchè
non gli interessavano. La cartografia perciò ha bisogno di essere integrata e confrontata criticamente
con altri e diversi documenti.
Le cartografie scientifiche contemporanee ci danno immagini, raramente belle, che si qualificano per
la loro asetticità o ermeticità: sono precise sul piano geometrico ma non dicono nulla o ben poco in
materia di rapporti sociali, di percezione e condizioni d'uso da parte degli abitanti, che ora non
animano più le rappresentazioni.

Le fonti scritte. Legislazioni e normative → Qualsiasi documento grafico o scritto nel passato può
servire alla ricostruzione geografico-storica. I corpi legislativi e normativi prodotti dagli stati
preunitari e da quello italiano rappresentano una fonte di documentazione primaria perchè esprimono
le politiche eseguite e le ragioni per le quali le leggi furono promulgate. Le fonti più importanti sono
quelle comunali del XIII-XIV secolo e del XVIII-XIX secolo che costituiscono un documento di
estremo interesse per coloro che studiano gli elementi costitutivi ella civiltà. Gli archivi degli enti
locali conservano poi le delibere e gli altri “affari” degli organi collegiali.

I censimenti fiscali ed economici → Tra tutte le fonti di natura fiscale ed economica spiccano i
catasti che nei tempi tardo-medievali fotografano la distribuzione della ricchezza fondiaria soprattutto
terriera per le varie circoscrizioni amministrative del tempo. Questi documenti hanno impostazione
descrittiva con scarsa omogeneità di contenuti e limiti di attendibilità. Dopo che degli anni 60 del
XIX secolo lo Stato Italiano ebbe realizzato il catasto dei fabbricati, negli anni 80 si dette il via alle
operazioni per il nuovo “catasto terreni” . Molto importanti sono le inchieste e i censimenti economici
che si diffusero a partire dalla seconda metà del XVIII secolo. Con L'Unità d'Italia sono poi stati
prodotti tanti rilevamenti statistiche anche socio-economici.

Le fonti demografiche → Le fonti demografiche sono presenti sporadicamente per i secoli del tardo
medoevo come documenti censuari di natura civile. Le fonti censuarie nominative cominciano a
generalizzarsi in Italia a partire dalla metà del XVI secolo con il Concilio di Trento. Con l'Unità
d'Italia sono stati prodotti e pubblicati censimenti generali della popolazione a cadenza decennale.

Le relazioni e memorie corografiche → Nel XV secolo si ebbe il fiorire di una documentazione di


tipo geografico assimilabile alle relazioni degli ambasciatori veneziani al loro Senato → descrizioni
sincroniche applicate a realtà geografiche regionali, di ogni realtà spaziale si evidenziano le
componenti fisiche ed umane con finalità applicative. Il modello venne applicato anche alle
ripartizioni provinciali interne dei vari Stati dell'antico regime ma anche in quelli occupati da
Napoleone, e poi all'interno del nuovo Stato Italiano.

Le relazioni e memorie itinerarie → Il filone delle memorie relative a esperienze di viaggi svolti in
regioni note, poco note o del tutto sconosciute, è ricchissimo di documentazioni edite e inedite fin dai
tempi tardo-medievali e fino ai nostri giorni. Per l'Italia, archivi e biblioteche conservano soprattutto
i resoconti amministrativi fatti da funzionari appositamente inviati in missione diplomatica per
conoscere i paesi → questa categoria appartiene al genere letterario assai eterogeneo del grand tour
europeo.
Tra 700 e 800 si sviluppa una diffusa pratica del viaggio esplorativo “interno”, volto cioè alla
conscenza delle risorse naturali e di quelle umane e la formulazione di istante per addivenire da parte
del potere al superamente degli squilibri e alla modernizzazione del territorio visitato.

La toponomastica → La toponomastiche serve a chiarire le dinamiche di appropriazione e controllo


del territorio da parte delle società che vi si sono succedute. Molti nomi derivano da elementi
ambientali, dai rapporti stabiliti dall'uomo con i medesimi, da utilizzazioni produttive agricole,
pastorali, forestali etc, da usi e significati culturali. Lo studio della toponomastica è assai complesso,
è desumibile da documenti storici, sia cartografici che scritti e sia dal terreno studiato come
documento mediante la raccolta laboriosa della memoria. Molti microtoponimi sono scomparsi,
insieme a termini geografici dialettali. Inoltre la toponomastica presenta un alto grado di soggetività
e relatività di valori. La toponomastica deve essere contestualizzata storicamente nello spazio sociale
che l'ha prodotta, evitando gli schematismi delle operazioni di censimento di ordine linguistico o
classificatorio che non sono supportate da adeguata conoscenza geografica e storica.

Storia paesaggio e beni culturali

Il mosaico ambientale italiano → Lo studioso che oggi vuole provvedere a una “regionalizzazione”
dell'ambiente italiano non può non rifarsi alla tradizionale classificazione della geografia. Lucio
Gambi scompartisce la realtà ambientale in quatto grandi inquadramenti che emergono dal coesistere
e dal congiungersi di una stessa area di fenomeni dovuti ad elementi diversi come il clima e la
vegetazione. Ciascuna di tali regioni fisico-naturali può scindersi anche in due o più grandi forme
paesistiche che a sua volta possono abbracciare molti tipi di paesaggio.
Albano Marcarini ha proposto un elenco di 76 tipi in cui la componente umana e la sedimentazione
storia hanno prodotto sul palinsesto naturale un'armonia di forme e strutture generalmente condivisa,
meritevole di conservazione e trasmissibilità. L'elenco è consapevolmente incompleto.
I paesaggi umanizzati ereditati dalla storia → L'Italia è un paese geologicamente e
geograficamente giovane, ma storicamente antico, modificato a livello superficiale dalla storia molto
di più che dalle forze della natura. Le forme e i tipi ambientali appaiono assai differenziati per il
diverso modo o grado con cui l'ambiente è stato incorporato nella storia. Se l'ambiente è divenuto
realtà umana, tale realtà si presenta ai nostri occhi con fome e caratteri assai variegati. L'ambienta si
plasma secondo le strutture che ogni comunità umana si è data da quando potè uscire dal chiuso
impianto sussistenziale. In altre regioni era stato possibile elaborare vocazioni di natura più complessa,
cioè dotate di una maggiore articolazione, investono la mobilitazione delle forze naturali per la
produzione di materiali industriali e di beni d'uso, o implicano relazioni di mercato e di cultura fra
paesi diversi e lontani.
L'elevato grado di storicità espresso da quasi tutti gli ambienti italiani non è sempre riconosciuto dalla
società attuale. Le configurazioni paesistico-territoriali sono dovute al processo di attribuzione di
valore allo spazio, indipendentemente dalla sua capacità produttiva agricola o d'altro genere, da parte
di una società che, nel XX secolo ha portato avanti il suo recente sviluppo secondo i più selvaggi
modi di appropriazione del suolo. La crisi ecologia è una conseguenza di tali logiche, essa si misura
non solo nel gravissimo depauperamento della vita biologica ma anche e più in generale nei guasti
sociali e ambientali e nella crescente estraneazione dei cittadini dai luoghi prodotti nel paese del
complesso di interventi riferibili alla “grande trasformazione” e realizzatisi nella seconda metà del
XX secolo.
Riconoscere il valore di un elemento che si ponga come fondamentale “memoria territoriale” si può
solo sulla base di una ricostruzione del passato che faccia emergere i vari momenti storici nelle loro
componenti più varie.

Il paesaggio: struttura e rappresentazione → Il nostro paese ha approvato leggi di tutela dei beni
paesistici fin dal primo 900 che si sono dimostrate tutte figlie della cultura umanistico-idealistica del
tempo, questa concepiva il paesaggio in quanto qualità di rilievo dello spazio geografico. E' da tutti
riconosciuta la generali deficienza della sensibilità comune e istituzionale volta a disciplinare le
attività antropiche che potessero avere ripercussioni negative sul paesaggio e più in generale sugli
equilibri ambientali.
L'Italia presenta una geografia disorganica in termini non solo di assetti territoriali ma anche di
ambienti e paesaggi con le loro specificità diacroniche.
L'assenza di una politica di piano ha fatto sì che i mutamenti suscitati dall'inserimento, poniamo, di
un'autostrada abbiano introdotto istanze e necessità nuove per far fronte ai mutati equilibri.
I più o meni tradizionali tipi della regionalizzazione paesistico-sociale italiana dovrebbe essere oggi
integrati in una classificazione di tipo ecosistemica. Tale regionalizzazione non potrebbe che
dimostrare come lo spazio italiano non sia ancora strutturato in un unico e funzionale sistema. Il
processo di trasformazione non ha certo contribuito a risolvere queste disfunzioni: le ha in molti casi
accentuate con la formazione di uno spazio relativo tutto in fermento da una parte e di uno spazio del
tutto indebolito dall'altra. Il paesaggio d'oggi non è più la proiezione di una collettività o di singoli
individui, ma il prodotto di scelte politiche.
La grande trasformazione ha portato grandi crescite: demograficamente, per quanto riguarda le strade
e per quanto riguarda la produzione di cemento. La violenza di una così rapida “fase cantieristica” è
stata maggiore per l'estraneità alle realtà locali del processo di cambiamento.
L'americanizzazione o la neo-tecnicizzazione del paesaggio è evidente anche sulle spiagge, sui monti,
con gli alberghi, le piscine, i dancing, le drinking houses.
Questo crea perciò una realizzazione di ghetti e quartieri dormitorio, con i loro nuovi edifici-alveare
o comunque con i modelli di edilizia che ripetono schemi e tipologie di breve durata. A tale forma di
degrado paesistico e territoriale si aggiunge poi la costituzione di un diverso modello di utilizzazione
individualistica dove tutto è cresciuto secondo le leggi della speculazione, prive di verde, di spazi per
la distensione. C'è anche un'Italia rimasta ancora fedele a quella del passato, con i piccoli centri che
esprimono ancora un sentimento municipale. Assai estesi sono gli spazi soggetti a emarginazione e
abbandono. Nelle aree ancora rurali spesso l'eredità di strutture agrarie vecchie, difficili da
riconvertire, è ancora evidente: il tessuto dei campi è rimasto uguale o quasi uguale a quello della
prima metà del 900.
Con la grande trasformazione quindi si è verificato un po' ovunque un progressivo distacco tra
l'identità dei luoghi e quella dei loro abitanti.
Si è poi gradualmente e faticosamente diffusa nelle nozioni elementari di milioni di italiani una
qualche cultura del paesaggio. Vengono fatte normative nuove grazie alle quali il paesaggio diviene
il fondamentale strumento concettuale di tutela dell'ambiente e i piani paesistici diventano il fulcro
dell'interesse di politici e tecnici del territorio.
Si è attivata piano piano anche in Italia una domanda sociale di buone conoscenze paesistico-
territoriali da applicare concretamente a politiche regionali e locali di pianificazione urbanistica,
dell'ambiente e dei beni culturali a base paesistica. Nascono politiche nuove che valgono anche a
reinserire le “forme storiche” ormai svuotate di funzioni e valori culturali identitari nel contesto del
territorio/spazio da produrre, quindi per elaborare e realizzare piani e regole volti ad attivare “sviluppo”
in territori che conservano la loro identità spaziale, saldando il nuovo all'esistente.
Il paesaggio è da concepire come interfaccia o momento di congiunzione, così sfumato nei suoi
contorni, tra il nostro percepire e il nostro agire, tra il nostro rappresentare la realtà e il nostro viverla,
tra il nostro guardre e il nostro studiare. L'opera di salvaguardia non può avere successo se non
diventando referente e controllo sociale della trasformazione, intrecciandosi con la dimensione
identitaria e con la partecipazione civica.
Secondo Lucio Gambi il paesaggio è un archivio e occorre una sensibilità storica molto acuta per
studiarlo e quindi tutelarlo. Quella sensibilità oggi non c'è.
Si è avuto modo di enunciare che, tuttavia, si va diffondendo la considerazione del paesaggio come
bene comune sempre più importante, ma anche come fonte di ricchezza inestimabile: bene e ricchezza
utili a far fronte a diversi bisogni economici, socio-culturali, ambientali, delle comunità rurali e rural-
urbane. Grazie all'avvio di politiche di tutela/valorizzazione che mettano freno o almeno limitino
sensibilmente gli eccessi delle iniziative individuali relative all'uso del territorio, potrà essere
possibile evitare molti disastri ambientali prodotti dall'abbandono o dalla trasformazione
incompatibile.
Molto importante è la Conferenza di consultazione integrativa sul progetto di Convenzione Europea
del Paesaggio organizzata a Firenze nell'aprile del 1998 dal Consiglio d'Europa che costituisce un
provvedimento giuridico organico e coordinato dedicato interamente al paesaggio nella sua
dimensione europea globale, alla sua protezione, gestione e valorizzazione.

Al recente riaccredito sociale del paesaggio ha fatto seguito l'interesse scientifico di molte aree
disciplinari, compresa la geografia. Il paesaggio presuppone sempre il dualismo fra realtà e
rappresentazione, fra forma e struttura oggettiva, da una parte e immagine o percezione culturale
intersoggettiva o personale dall'altra. Esprime quindi un significato ambiguo di difficile
interpretazione scientifica.
L'apporto della dimensione storica appare comunque fondamentale, in quanto ogni manifestazione
del paesaggio sottende dei processi. La finalità forse più importante di tale pratica di ricerca è
applicativa, essendo volta a far prendere coscienza le comunità locali dell'importanza della specificità
dei valori identitari espressi da luoghi e aree. Il paesaggio deve essere considerato una struttura che
dall'attività degli uomini è prodotta nel corso della storia, come complesso costitutivo di una civiltà
→ realtà di carattere sociale.

Per il riconoscimento e la lettura dei valori paesistici, insediativi, architettonici e storici →


L'analisi storico-paesistica deve proporre una efficace chiave di lettura lungo uno svolgimento storico
a ritroso, cancellando via via tutto ciò che vi è stato aggiunto in anni recenti e poi negli anni passati.
Occorre identificare sulla carta topografica il territorio che ci interessa e delimitare l'area e/o gli
oggetti da considerare.
Il percorso alternativo è quello geo-storico diacronico tradizionale che in Italia non può non prendere
il via dai tempi della civilizzazione greco-etrusco-romana e arrivare all'attualità. All'interno della
generale periodizzazione si deve provvedere all'individuazione delle più brevi fasi temporali e dei
momenti significativi dei radicali cambiamenti dell'organizzazione territoriale. Ogni ricerca deve
mettere a fuoco anche e soprattutto gli “iconemi” o unità di percezione del paesaggio, con i loro valori
simbolici sui quali ciascuno costruisce l'immagine di un paese e dei luoghi, comunicando con i
medesimi. Ogni iconema è una finestra attraverso la quale ci poniamo in relazione con il territorio
inteso come spazio organizzato.
Dall'epoca antica ci è pervenuto un'eredità vastissima formata anche da città vive. Per l'età romana
disponiamo di estesissimi graticolati della centuriazione delle pianure, di resti delle raffinate ville,
delle vie consolari per lunghissimi tratti funzionanti. Spicca per l'età antica la predilezione per
l'organizzazione del territorio su reti quadrate → quadrato forma da attribuire alla terra come la più
“stabile” per mantenerne la “verosimiglianza. Quindi la forma quadrata permette una organizzazione
del territorio che è più omogenea e priva di punti di congestione.
L'età dell'oro della costruzione degli insediamenti religiosi sono comunque quelle feudale e comunale,
con la loro cultura romanica che si sviluppa a livelli diversi. Tra il XIII e XIV secolo poi la rapida
diffusione in Italia di decide di insediamenti cistercensi introduce la nuova trionfante cultura
d'Oltralpe.
La città dell'Alto Medioevo mostra caratteri peculiare che richiamano l'architettura delle “signorie di
castello”. L'edilizia si sviluppa in tessuti urbani esigui ma addensati, dando luogo alla tipologia delle
torri isolate o riunite in un isolato-castellare.
All'interno delle città italiani, i governi comunali realizzarono i simboli dei nuovi equilibri politici ed
economici. Già nel 1290 a Firenze era ritenuto normale che le vie fossero lastricate. Le tecniche usate
sono diverse anche nella stessa città e talvolta nella stessa via. Ulteriore elemento di arredo sono i
tabernacolo, diffusi ovunque. Le città tardo-medievali sono articolate in quartieri, ciascuno con un
suo centro, una sua strada principale con le botteghe, una sua chiesa. Le abitazioni all'inizio
presentano un'identica tipologia → casa a schiera unifamiliare. L'unica eccezione è rappresentata
dalla selva delle arcigne torri nobiliari per chiare finalità di controllo e difesa.
La tipologia del palazzo pubblico è diversa da area ad area in rapporti alle differenti situazioni sociali.
Nelle città padane → soluzione loggiata, architettura aperta. Italia centrale → la sede del potere
cittadino costituisce un blocco piuttosto chiuso, il monumento pubblico finisce con il costruire un
prototipo per i palazzi comunali delle città.

Dalla casa a schiera si sviluppa la casa del ricco mercante che conserva il fronte stretto ma ha spesso
un'elegante facciata di mattoni o di pietra a bozze lisce con un disegno che sottolinea gli stipiti e gli
archi delle aperture. Organizzata su tre livelli: bottega al piano terra, al primo piano la camera da letto
dei padroni, cucina con gli altri ambienti per la famiglia all'ultimo.
Tra 300 e 400 inizia la stagione dei distesi e simmetrici palazzi privati urbani. A partire da Firenze il
palazzo italiano trova la sua codificazione tipologica ed espressiva. Il palazzo della nuova aristocrazia
borghese si distingue per le nuove e imponenti dimensioni, per il rapporto con il tessuto urbano e per
la separazione delle funzioni tradizionalmente integrate nella casa medievale. La facciata del palazzo
diventa l'elemento di qualificazione formale e viene disegnata ricorrendo al principio classico della
sovrapposizione degli ordini.

Le campagna padane, contemporaneamente, sono organizzate inizialmente dalla mezzadria e poi


dalla grande o media azienda con salariati. Queste cominciano a esprimere il modello della casa a
corte o cascina che sembra derivare dalla domus romana. Il pianoterra di queste case era adibito a
deposito, ricovero degli animale e ambiente di lavoro, il primo piano serviva per l'abitazione vera e
propria e il secondo, era utilizzato come granaio.
La casa a corte non è espressione solo dell'azienda capitalistica padana e non si presenta solo con
configurazione chiusa. Essa si ritrova anche in aree organizzate con la piccola azienda diretto-
coltivatrice in proprietà o in affitto o a mezzadria.

Nei secolo XII-XIV gli spazi agricoli più prossimi alle città dell'Italia centro-settentrionale vengono
punteggiati anche di ville, cioè di residenze di cittadini proprietari di quegli stessi beni agricoli affidati
alla coltivazione di famiglie coloniche. Nel Rinascimento tali “caseforti” vengono accorpate in nuove
più ampie e comode residenze che ora assumono caratteri volumetrici e architettonici a sviluppo
orizzontale che si richiamano alla proporzione e alla simmetria dei modelli classici. Tale residenze
per la villeggiatura furono presto affiancate dal elementi nuovi, come i viali alberati di accesso sempre
più monumentali. Si voleva ricreare la natura selvaggia con l'impianto artificiale di boschetti di piante
sempre per lo più sempre verdi. Molti di questi verdi artificiali si caricano di significati allegorici,
simbolici esoterici etc. Anche la villa si evolve, si passa a modelli più aperti, con ampi loggiati al
pianoterra e con gli edifici che si articolano con funzioni di paesaggio-teatro.

Nel Rinascimento questo ambiente del latifondo viene ad esprimere piccoli centri isolati di gestione
dell'economia agro-pastorale estensiva che ora si collegano con il lontano Appennino mediante una
rete di strade e tratturi doganali obbligati di transumanza.

Riassumendo, lo studio paesistico, lungi dall'esaurirsi nell'analisi descrittiva delle forme, deve anche
tentare di definire il significato complessivo e scoprirne i contenuti culturali dominanti, il ruolo e le
funzioni affidate al sistema o all'oggetto spaziale da un determinata società e cultura.

La specializzazione delle funzioni e quindi delle diverse aree dell'organismo urbano si accentua nel
500 e poi ancora più diffusamente del 600.
Particolare cura viene ora prestata alla riorganizzazione delle strade principale secondo i canoni
dettati da Leon Battista Alberti: vale a dire, con la ricostruzione di vie larghe e dritte e di incroci
monumentali, per consentire la percezione prospettica immediata della dimensione urbana. Modifiche
assai più incisive si registrano nei tempi del razionalismo e dell'ottimismo illuministico quando gli
stati imboccano la via delle riforme amministrative e giuridico-economiche.
Le città settecentesche sono interessate da una modesta attività di trasformazione urbana ma da una
diffusa prassi di rinnovo edilizio, che investe il tessuto residenziale “minore”. Particolarmente
importanti risultano gli interventi di arredo urbano, alle strade e ai viali cittadini e suburbani
frequentati dal “passeggio” dei ceti aristocratici e borghesi e non poche vie vengono costruite ex novo.
I viali alberati settecenteschi sono la prima affermazione del moderno gusto del verde nell'arredo
stradale. Non di rado i paesaggi e gli insediamenti della produzione subiscono, insieme a i loro
giardini, arboreti e parchi dai più diversi stili.
È importante sottolineare il significato del sistema dei santuari, delle edicole e cappelle, dei
tabernacolo e vie crucis e di altri oggetti ancora che sacralizzano capillarmente lo spazio alpino,
prealpino e appenninico esprimendo la spiritualità e religiosità di popolazioni montanare.
È importante ricordare la portata e la diffusione delle impronte lasciate dalle tante e lunghe
dominazioni straniere, tra cui la bizantina, l'araba, la normanna, la sveva, l'angioina/francese, la
catalana/spagnola e l'austrica in parti non trascurabili dell'Italia.
Molti sono anche i casi di paesaggi ed insediamenti costruiti da autorità, per esprimere un determinato
concetto politico, con caratteri formali e funzionali finalizzati all'esaltazione del potere. In ogni epoca
è visibile il ruolo affidato dal potere all'urbanistica e specialmente all'architettura, nella strategia della
ricerca del consenso sociale e più in generale del rafforzamento del sistema politico.
La realtà urbana si scompone di parti distinte: una rete di strutture che spiega la complessità e gli
scompensi del rapporto residenza-funzioni pubbliche e residenza-attività lavorativa che si
manifestano nella città odierna, dove la vita è dispersa in molteplici poli e interessi.
Gli interventi del ventennio hanno avuto la forza di improntare la forma e talora anche le funzioni
delle città, a partire dalla capitale.
Geografia storica, valori paesistici e insediativi – schema

ANTICHITA'
• civiltà greca: città in piano, forma regolare, giardino mediterraneo coltivano a vite e olivo,
santuari
• civiltà etrusca: città d'altura, forma irregolare dominata dall'acropoli
• civiltà romana: città coloniale, forma a graticola, strade consolari, canali naviganti, acquedotti,
ville rustiche, santuari e templi isolati
ALTO MEDIOEVO
• insediamenti: corti, castelli, mercatali, mulini ad acqua, cenobi e abbazie benedettini
• vie di comunicazione: strade
• strutture produttive: sistema curtense, beni comuni e usi civici, giardini chiuso irriguo arabo-
siciliano
BASSO MEDIEVALE
• insediamenti: castelli, città nuove, mercatali, palazzi di campagna, castelli ridotti a ville, case
mezzadrili chiuse, terme, case canoniche, abbazie cluniacensi-cistercensi, conventi di ordini
monastici
• vie di comunicazione: strade e ponti nuovi, tabernacolo, canali navigabili
• strutture produttive: piantata padana-alberata tosco-umbro-marchigiana, prato, risaia, gelsi,
castagneti collinari-montani, abetine montane, pechiere
RINASCIMENTO
• insediamenti: città geometriche, fortificazioni, ville con giardini-parchi, santuari mariani,
conventi, cappelle, miniere, saline, mulini a vento, corti e cascine, masserie meridionali
• vie di comunicazioni: strade e poste-dogane, canali navigabili, canali irrigui, acquedotti
• strutture produttive: risaia, gelso, giardino mediterraneo chiuso, sistemazioni idraulico
ETA' MODERNA
• insediamenti: città nuove regolari, villaggi di colonizzazione baronale, ricostruzione regia in
Calabria, palazzi principeschi e aristocratici, ville fattorie, case coloniche, terme, saline,
manifatture moderne, tabernacoli, cappelle oratori
• vie di comunicazione: strade rotabili, grandi ponti, canali navigabili, acquedotti, canali irrigui
• strutture produttive: bonifiche idrauliche, sistemazioni fluviali, sistemazioni idrauliche-
agrarie e forestali, risaie, gelsi, piantagioni meridionali, pinete costiere, peschiere
ETA' CONTEMPORANEA
• insediamenti: centri e sedi di vacanza, città pianificate di bonifica, di termalismo, d'industria,
di guarnigione, centri polarizzati spontaneamente da strade-porti-industrie, miniere e
manifatture, sedi di bonifica e colonizzazione, riforma agraria
• vie di comunicazioni: strade rotabili, ferrovie, autostrade, viadotti, invasi artificiali e centrali
idroelettriche, impianti di risalita
• strutture produttive: manifatture e villaggi operai, chiusure e beni comuni privatizzati, piccole
aziende di colonizzazione o riforma agraria, piantagioni di mercato, sistemazioni idraulico-
agrario e forestali, arboreti collinari e montani, pinete, parchi naturali

Le basi fisico-ambientali della storia territoriale italiana

Clima e ambiente: agricoltura e organizzazione socio-ambientale → A Paola Sereno va il merito


di avere contribuito a una impostazione corretta del problema dei rapporti tra l'ambiente e la
sociosfera, ovvero lo spazio ereditato, il territorio organizzato dalle società umane. Sereno sposa la
posizione di Le Roy Ladurie che si pone l'obiettivo di risolvere il problema imperante del
determinismo ambientale, con il richiamare l'attenzione sulla storicità del clima, sulla sua
mutevolezza.
Ma il dimostrare la frequente interazione fra eventi fisici ed eventi storici e quindi di provvedere con
ciò a “esorcizzare” il determinismo ambientale, non significa dover sempre negare le influenze di
questo, con il fare proprie posizioni di anti-determinismo ambientale, che non possono che condurre
a trascurare le complesse problematiche uomo/natura. Si devono considerare i cambiamenti strutturali
di lungo periodo, le oscillazioni climatiche possono esercitare un'azione modificatrice di non
irrilevante ricaduta sull'organizzazione e sul funzionamento delle società rurali. Il clima è uno dei
fattori determinanti di ogni ecosistema. Il controllo umano dell'agrosistema (un ecosistema
modificato e controllato dall'uomo) non riesce mai a essere completo, esso tende a mantenere un
equilibrio artificiale ma è evidente che i processi di precarietà e di incertezza interessano le aree
marginali.
Le oscillazioni del clima sono normali e avvengono come risposta a sollecitazioni sia di ordini
astronomico e sia di ordine planetario e regionale. Le oscillazioni obbediscono soprattutto a
sollecitazioni intensive di carattere umano.

I connotati strutturali del clima italiano → I connotati climatici dell'Italia si possono riassumere al
concetto di mediterraneità. Pure riguardo alla piovosità, si deve tenere conto dell'influenza dell'area
anticiclonica estiva. I divari tra le diverse aree italiane dipendono da condizioni locali di forme del
suolo. Le precipitazioni non sono particolarmente abbondanti, in generale. L'Italia infatti rientra
soprattutto tra i climi semiarido superiore e semi-umido ma con aree relativamente estese comprese
nei climi umido e peri-umido. L'Italia presenta una grande varietà di caratteri o regimi termici. I
climatologi frazionano l'Italia in sette sottozone o fasce termiche che risultano significative
soprattutto in relazione alla vita biologica animale e vegetale: cioè quel che più ci interessa, alla specie
o ai gruppi di specie vegetali acclimati o comunque espandi progressivamente dagli abitatori d'Italia.

1. La fascia più calda subtropicale abbraccia brevi cimose costiere quasi sempre pianeggianti.
La sottozona coincide sensibilmente con quella favorevole alla crescita di piante tropicali
timorose del freddo.
2. La fascia temperata calda ingloba quasi tutto il litorale italiano: mese più freddo compresa
tra 6 e 10° e media annua 14,5-16°. E' sempre foriera di una crescita sempre continua delle
erbe atte al pascolo nell'arco della stagione fredda.
3. La fascia sublitoranea bordeggia, dall'interno, tutto l'arco peninsulare e insulare a clima
temperato caldo: mese più freddo compresa tra 6 e 10° e media annua inferiore a 14,5.
4. La fascia subcontinentale abbraccia tutta la pianura padano-veneta e gran parte della dorsale
collinare e basso-montana peninsulare: media del mese più freddo si abbassa a 0° o anche a -
1°, mentre la media del mese più caldo è sempre superiore a 20°.
5. La pianura i rigori invernali sono compensati da un certo numero di mesi estivi con alte
temperature e scarse precipitazioni.
6. Nelle zone interne di bassa montagna si ha il clima temperato fresco, la cui media annua
scende al di sotto di 10° e quella del mese più caldo al di sotto di 20°.
7. L'alta montagna alpina rappresenta il regno del clima temperato freddo e del clima freddo:
mese più freddo inferiore a -3,-6°, media del mese più caldo 10°-15°.

I mutamenti climatici, le grandi oscillazioni climatiche dall'età glaciale a oggi → Le maggiori


variazioni della temperatura si sono verificate nel periodo glaciale del Pleistocene. Tra 25 e 18 mila
anni fa, i ghiacci erano molto estesi nell'Italia alpina , i ghiacciai alpini occupavano ampi tratti della
fascia delle Prealpi e dell'alta pianura padana. L'accumulo di ingenti quantità di ghiaccio e neve sul
continente produsse un forte abbassamento del livello dei mari. Le terre basse e non montane erano
interessate da un clima temperato fresco e coperte da foreste di latifoglie decidue e da foreste tundre
che alimentavano una fauna abbondante di mammiferi tolleranti del freddo. L'età glaciale ha scolpito
la morfologia di regioni vastissime. Tutta l'idrografia superficiale è stata creata o profondamente
trasformata dall'espansione dei ghiacci, perché scavarono le cavità e i solchi in cui si insediarono e
perchè le morene frontali crearono dei laghi e costrinsero i fiumi a deviare dal loro corso antico.
Bisogna poi considerare che l'alternanza di fasi glaciali e interglaciali ha ora favorito e ora ostacolato
la diffusione dlle varie specie vegetali e animale e quindi anche nell'ambiente italiano. Con l'arrivo
dei ghiaccio molte delle specie superiori di piante e di animali vennero selezionate o eliminate. Si
deve anche a questo se l'Europa mediterranea è caratterizzata da una grande ricchezza floristica.
Le variazioni climatiche del postglaciale comprendono l'Olocene. Seguono le fasi di caldo umido,
corrispondenti al Neolitico, e quelle a clima con fasi alterne, la sub-boreale 2600-900 (età dei metalli)
e la sub-atlantico post 900 (età storica propriamente detta). L'incremento termico culminò nella fase
del Neolitico. Il rialzo della temperatura determinò l'ulteriore innalzamento del livello marino che
invase le zone costiere più esterne e più basse. Il clima più caldo, con la diffusa copertura vegetale e
il rialzo del livello del mare, offrì nuove possibilità già nelle prime due fasi dll'Olocene. Le profonde
trasformazioni realizzatesi nel quadro biogeografico ebbero una grande importanza dal punto di vista
dei nostri progenitori. La società inizia a sottomettere a sé la natura come fonte di produzione della
sopravvivenza e della ricchezza.
È probabile che le caratteristiche abitazioni su palafitte che risalgono a quel periodo, siano state
costruite dagli abitanti non allo scopo di difendersi dagli attacchi esterni o per il desiderio di dedicarsi
a un modo di vita acquatico ma soltanto per proteggersi dalle acque che occupavano il terreno per
buona parte dell'anno.

Ci fu un aumento della temperatura che culminò in un periodo caldo di almeno quattro secoli fra il
750 e il 1200. L'Italia fu interessata da una flessione delle precipitazioni, degli eventi alluvionali e
della portata dei suoi corsi d'acqua, mentre la temperatura e il livello delle acque marine si rialzarono
vistosamente. L'innalzamento del livello marino può avere alterato il deflusso dei fiumi nel loro basso
corso e questo avrebbe potuto determinare la formazione di paludi. È anche possibile che il
moltiplicarsi delle paludi lungo le coste abbia avuto conseguenze dannose sulla vita degli abitanti
delle zone litoranee. La malaria è originaria delle zone caldo-umide tropicali. Soprattutto la seconda
parte dell'età calda medievale è caratterizzata da un continua e cospicua crescita demografica. L'Italia
centro-settentrionale venne organizzata mediante sistemi agrari volti al mercato, tra cui la mezzadria
poderale. Le aziende mezzadrili erano una miriade di eco-sistemi bene integrati tra loro.

Tra il XIII e il XVI secolo si susseguirono varie oscillazioni di clima, divenuto ora fresco e umido e
ora mite. Dapprima si ebbe, verso il 1350, una fase fredda, e poi con la prima metà del secolo
successivo, brevi periodi di clima inclemente si sono alternati con brevi periodi o annate percepiti
come normali o soleggiate. Un ciclo più decisamente freddo deve avere interessato la prima metà del
XV secolo. Il peggioramento climatico tardo-medievale coincide con la grave crisi demografica
trecentesca, che portò varie conseguenze. Tra queste molti terreni che erano diventati produttivi nei
secoli precedenti, tornarono a trasformarsi in acquitrini e paludi.
Vari documenti del XIII secolo ci parlano di una pianura intorno alla città frazionata in numerosi
appezzamenti di proprietà di Grossetani con larga presenza di vigne e persino di oliveti. Si deve poi
considerare la grande dilatazione di specie vegetali tipiche del clima mediterraneo o persino
subtropicale, come la vite e l'olivo, e soprattutto il gelso e altre piante industriali oltre che di certe
colture da giardino.
Piano piano i governi centrali cominciarono a guardare con maggiore attenzione ai problemi dello
sfruttamento delle risorse agricole e ambientali, anche se in molti casi per motivazioni di carattere
fiscale-finanziario. L'età delle bonifiche comincia qui solo nel XVIII secolo.
In definitiva si costrinsero a bassi livelli di produttività aree potenzialmente ricche ma sempre più
concentrate nelle mani della grande proprietà assenteistica e guadagnate dall'avanzata del latifondo
cerealicolo-pastorale.
L'età della lunga crisi che si apre con i primi decenni del XIV secolo riveste una grande importanza
in termini di storia territoriale.
La piccola età glaciale ha inizio intorno alla metà del XVI secolo perdura per circa tre secolo, pur con
accentuata variabilità tra brevi periodi e singole annate di bel tempo. Le conseguenze negative del
raffreddamento climatico si misurano specialmente nelle aree montane italiane, dove le condizioni di
vita per la popolazione peggiorarono fortemente. Il ritardo delle vendemmie e il decremento della
produzione vinicola non mancarono di produrre numerose e gravi carestie e crisi annonarie.
Infine dopo il 1855 si è verificata una svolta fondamentale nella storia climatica dato che si apre un
periodo di regresso dei ghiacciai e di progressivo riscaldamento del clima. Il ciclo caldo è ripreso per
proseguire anche ai nostri giorni, a causa della sempre più grave alterazione dell'atmosfera prodotta
dall'uomo con l'emissione di innumerevoli inquinanti che sono inquinanti che sono i diretti
responsabili delle anomalie comunemente definite effetto serra e buco dell'ozono.

Effetti dei mutamenti climatici storici sulla vita agricola e sociale → Gli storici del clima sono
pervenuti alla conclusione che la cautela è d'obbligo. Nei secoli successivi al Mille assistiamo a
fenomeni che sembrano contraddire ogni interpretazione deterministica e sembrano chiamare in causa
spiegazioni di ordine squisitamente economico e sociale: è il caso della crescita delle culture della
vite e dell'olivo in Toscana e nelle altre regioni dell'Italia centrale, e della risalita in latitudine sia della
canna da zucchero e sia del riso.

Il suolo e l'agricoltura → È notorio che i connotati qualitativi dei suoli italiani devono essere
considerati in rapporto agli strati superficiali del terreno che è provvisto di sostanza organica viva e
morta derivante dalla flora e dalla fauna ospitante sulla superficie terrestre. La notevole varietà dei
suoli in aree anche ristrette è condizionata soprattutto dalle piogge che tendono a convergere nei brevi
mesi invernali nel clima mediterraneo tipico oppure nelle stagioni autunnale e primaverile nel clima
submediterraneo. La forte concentrazione stagionale delle piogge provoca l'asportazione di milioni
di metri cubi di terreno e di detriti.
Al clima semiarido proprio delle ristrette zone di pianura e di bassa collina dell'Italia meridionale e
insulare corrisponde una fascia di terreni quasi privi di humus attivo. Decisamente migliore è la
qualità dei terreni dell'Italia subumida peninsulare: i suoli sono più ricchi di sostanza organica e
soggetti a un ciclo di umidificazione più lungo. L'Italia nel complesso presenta una costituzione
geologica piuttosto giovane come dimostra la stessa larga incidenza delle zone sismiche e dei non
infrequenti eventi tellurici. La maggiore differenziazione delle matrici si riscontra ovviamente nella
prima formazione, la prepliocenica, con rocce granitiche e affini, scisti argillosi, arenarie, calcari
compatti o dolomitici o marnosi, alcune rocce vulcaniche.
I suoli migliori per l'agricoltura sono quelli originatisi dalle matrici di trasporto del Quaternario,
diluviali e alluvionali, insediate nei compluvi e nelle valli fluviali e che procurano i terreni
caratterizzati dal più alto grado di fertilità integrale.
Un'alterazione ancora più profonda delle rocce originarie dà luogo ai vari tipi di argille dell'Italia
centromeridionale. Di norma ne derivano terreni compatti, impermeabili, talvolta fortemente alcalini,
sempre assai erodibili e di difficile messa a coltura, anzi lo strato del suolo è sovente molto sottile,
sede di una vegetazione erbacea xerotifica.
Gli squilibri idrogeologici e l'erosione meteorica sono comunque diffusi un po' in tutti quegli ambienti
montani e collinari privati nei più diversi tempi storici del loro rivestimento vegetazionale. In
mancanza di bonifiche d'altura, spesso i colli e i monti della penisola e quelli prealpini sono oggi in
molte aree colpiti da frase o da manifestazioni di erosione celere. L'inizio di questi degradamenti può
connettersi in genere con una occupazione agricola continuata per qualche secolo. Gli squilibri
idrogeologici in atto nelle terre alte non determinano solo l'insicurezza e il rischio idraulico di quelle
stesse aree e specialmente delle terre basse, ma accentuano un po' ovunque il processo di naturale
ricostituzione delle falde freatiche troppo impoverite dai crecenti prelievi per finalità agricole,
industriali e civili.

Le vocazioni naturali e umane della Padania flix e del piano-colle italiano → La conformazione
stretta e allungata dell'Italia peninsulare, con la montagna appenninica che ne rappresenta la spina
dorsale rappresenta il carattere geografico più peculiare del Paese. Le montagne sono ovunque
prossime al mare e scendono più o meno rapidamente verso coste in genere assai articolate e talora
fronteggiate da isole e gruppi insulari. La montuosità si integra con la marittimità, offrendo alle
società umane concrete possibilità di integrare ambienti assai diversi su distanze spaziali piuttosto
brevi. I peculiari caratteri fisico-naturali delle terre alte non sono da considerare solo sotto il profilo
delle possibilità “positive” per gli uomini. Non mancano infatti connotazioni negative.
Acquitrini, stagni e lagune nonostante lo sfruttamento delle specifiche risorse ambientali fattone
dall'uomo, si trasformarono in veicoli di malaria. La grande massa di sedimenti strappati dai corsi
d'acqua ai monti e ai colle e via via depositati nelle pianure fino alle coste spiega i processi naturali
concomitanti:
– accrescimento di queste ultime verso il mare con conformazione a triangolo (delta)
– ramificazione degli stessi corsi d'acqua in più alvei tra loro separati da zone umide e terre
emerse.
I caratteri differenziati del clima italiano, interagendo con le forme e la natura dei terreni e con i
caratteri delle acque superficiali e di sottosuolo, assegnano vocazioni naturali più favorevoli
all'agricoltura.
La condizione delle pianure ha ruotato per molti secoli a mo' di pendolo fra le mani dei popoli che
dimorano su quei monti e le mani dei popoli che giungono dal mare: i primi avevano i litorali come
area di pascoli invernali, i secondi li avevano usati come base per le loro stazioni mercantili.
Alle vocazioni rudimentali dei primi popoli si contrappongono quelle più complesse dei secondi
popoli che devono riconoscere e mettere in azione per impiantarsi in forma stabile in queste zone le
capacità di quelle esili pianure ad ospitare un popolamento alquanto numeroso e ad assicurargli
soddisfacenti risorse alimentari.
Se ci si sofferma sull'area pianeggiante italiana più ragguardevole per superficie e importanza umana,
la Padania, occorre riconoscere che le vocazioni naturali sono qui favorevoli all'uomo, a partire dalla
piovosità.
Non mancano diversità tra l'alta pianura permeabile e la bassa pianura impermeabile. Grazie a questa
larga disponibilità di acqua di provenienza montana, con il duro lavoro di tante generazioni di
“maestri d'acque” e contadini, è stato possibile qui costruire una vera e propria “patria artificiale”
ricca e popolosa. Tale ricchezza si deve alla ciclopica opera di costruzione di una fitta rete di canale
di adduzione dai fiumi gradualmente inalveati con potenti arginature. La parte bassa della pianura, i
cui suoli sono in genere molto fertili è divenuta la sede più florida per l'agricoltura padana.
Contrassegnate invece da valori idrici assai più negativi sono larga parte dell'Italia peninsulare, la
Sicilia e la Sardegna: caratterizzati da montagne senza nevi permanenti e da modesta piovosità.
Eccezioni a questa regola si costituiscono dove si ha una larga presenza percentuale, nei bacini, di
rocce permeabili. La relativa abbondanza e costanza di acque in questi ed altri fiumi minori dalle
analoghe caratteristiche è valsa ad azionare, per forza di gravità gli indispensabili e onnipresenti
mulini da creali o da castagne e in certe aree dell'Italia centro-settentrionale, pure svariati opifici da
vera e propria industria.
Si ha anche lo sfruttamento delle grandi possibilità irrigue padane con l'organizzazione dei fiumi
lombardi, specialmente dell'Adda e del Ticino, e con altresì l'organizzazione della cintura delle
risorgive che taglia tutta la pianura, parallelamente al Po, grosso modo all'altezza di Milano, fornendo
acqua di temperatura costante.
Nel resto d'Italia l'arretratezza dei rapporti di produzione impedisce ogni iniziativa, anche in quelle
parti che erano naturalmente più favorite.
Il carattere della siccità estiva è particolarmente negativo, determinando gravi limiti naturali
all'affermazione di sistemi agronomici di tipo europeo, con colture asciutte, ma più evoluti e
produttivi rispetto al classico avvicendamento mediterraneo grano/maggese. Nella più umida area
padano-veneta l'avvicendamento triennale potè diffondersi, già nei tempi tardo-medievali, nel resto
della penisola e nelle isole il deficit idrico estivo continuò a essere per secoli un fattore limitante.
Il vincolo climatico negativo che ha penalizzato l'Italia peninsulare e insulare per la produzione di
cereali panizzabili si ripropone pure per la produzione dei vegetali in funzione dell'allevamento del
bestiame.

Sistemazioni idrauliche e agricoltura → I caratteri climatici e idrologici dispiegano compiutamente


il loro significato nelle terre basse, in larghissima misura il risultato dell'azione di accumulo e di
colmamento sia dei veli lacustri e sia dei fondali marini litoranei da parte dei fiumi.
La bonifica è un processo che non può non essere definito in perpetuo rinnovamento, a causa dei
ricorrenti casi di incuria o di vero e proprio abbandono dei manufatti idraulici realizzati, fenomeni
che richiesero nuovi e più onerosi interventi. L'opera più macroscopica è quella condotta dai Romani
con la centuriazione, che però non si spinse ovunque, perciò ristagni di acque rimasero soprattutto
nelle aree costiere, giustapponendosi con gli spazi organizzati con l'agricoltura e con i boschi.
E' certo che le crisi economiche e demografiche tardo-antica e alto-medievale, allorchè quasi si
generalizzarono sistemi agrari signorili estensivi, quali quelli latifondistico e curtense, comportanti
l'abbandono agrario diffuso delle pianure, interagendo con oscillazioni climatiche fredde e
caratterizzate da una maggiore piovosità, grazie ai fiumi correnti su letti sempre più pensibili e
divaganti, produssero un nuovo e generale allargamento delle paludi e delle lagune. Il periodo di
optimum medievale favorì il processo di bonifica.
Durante il Rinascimento ci furono una serie di bonifiche molto importanti ma per arrivare a una
pressocché generale redenzione sanitaria e ambientale delle umide bassure italiane e a una stabile e
capillare colonizzazione agraria incentrata sulle grandi aziende bisogna attendere i tempi unitari e
quelli fascisti.

L'ambiente montano e la mobilità di una società “conservatrice” → I tipi climatici si correlano


strettamente al “ruolo generale della montagna”. L'alta montagna introduce in Italia il clima delle
grandi foreste di conifere del nord, della tundra, delle nevi. L'alta montagna appenninica manca in
genere delle condizioni perché possano costituire il piano sommitale delle nevi permanenti e quelli
sottostanti dei prati pascoli naturali e delle conifere. L'appennino finisce per inglobare e integrare le
sue parti basali costituite da ambienti bioclimatici submediterranei o prettamente mediterranei.
La varietà di forme, di suoli e di climi espressa dalla grande estensione in superficie, dalla posizione
geografica e dalla diversa origine geologica della montagna e della collina sono alla base delle mille
peculiarità ambientali del Paese.
Nelle terre alte le società umane stabilmente residenti hanno dovuto fare i conti con la mutevolezza
storica dei valori e delle vocazioni ambientali offerti dalla grande differenziazione alle scale sub-
regionali e locali.
L'impianto e lo sviluppo del castagno da frutto si realizza in quasi tutta la fascia montana italiana fin
verso gli 800-1000 m. Nei secoli successivi al Mille, inizia pure un processo di sviluppo di un
allevamento di bestiame minuto e grosso che guarda invece al mercato esterno. Sono stati proprio i
limiti ambientali e l'insufficiente produttività agraria a rendere le terre montane sempre poco
appetibili per i capitali e i mercati cittadini. Si deve però rilevare che le terre montane non attrassero
rilevanti investimenti fondiari dall'esterno, e quindi sistemi agrari più evoluti come la mezzadria o
l'impresa capitalistica. Era un mondo controllato da società locali poco articolate, costituite in larga
parte da piccoli proprietari coltivatori e allevatori che in molte aree ricavavano proventi importanti
per l'autosussistenza dalle terre a bosco e a pascolo di proprietà collettiva o comunale o di valle. Da
tale organizzazione deriva la forte coesione comunitaria delle società montane. Eccezione è solo
l'Alto Adige dove, a partire dalla metà del XVIII secolo, il governo asburgico provvide a codificare
il peculiare e arcaico istituto giuridico del “maso chiuso”.
La montagna è stata quasi ovunque praticata dai suoi versatili figli: ora pastori e agricoltori, boscaioli
e cacciatori e ora minatori o cavatori, artigiani e trasportatori di merci.
L'emarginazione di vasti settori montani si comincia a verificare tra la seconda metà del XVIII secolo
e la prima del XIX con la costruzione delle prime strade rotabili.
Guardiamo invece le Alpi oggi: la loro realtà umana è decisamente diversa. Più alcuna resistenza: la
regione alpina è un reticolo di vie di qualunque genere. Legami energetici, grande allevamento di
bovini, industria idroelettrica. Il mondo di pianura vi penetra con la grande industria moderna con le
sue colture progredite di alberi da frutta, con le sue correnti via via più fori di turismo. Se la vocazione
della montagna italiana è di natura per così dire elementare, però gli strumenti che l'uomo ha dovuto
escogitare per attuarla, per edificare con essa un coerente sistema di vita, appaiono già meno iniziali,
e anzi un po' meno complessi.

Vegetazione naturale e ambiente → Il mosaico fisico- naturale dell'ambiente italiano giustifica la


grande varietà delle “zone” e quindi l'enorme quantità di sfumature dei paesaggi forestali o
vegetazionali naturali. Le aree forestali ricoprono oggi circa un quarto del territorio italiano. La
ricostruzione della vegetazione forestale potenziale elaborata da Tomaselli nel 1973 viene utilizzata
per richiamare i paesaggi verdi naturali dei secoli che precedono la rivoluzione industriale. Tomaselli
individua sette zone:
• le prime due (fascia dell'oleastro e del carrubo, fascia del leccio) rientrano nelle formazioni
definite dalla scienza fitogeografica classica dell'alloro (area temperata calda costiera
peninsulare e insulare)
• terza fascia (roverella e revere) e quarta ( frassino, carpino, farnia) formazioni del castagno
(area sublitoranea e subcontinentale in parte della pianura padano-veneta)
• quinta fascia coincide con la formazione della bassa e media montagna del faggio
• sesta fascia dell'abete e del larice coincide con la formazione a conifere dell'alta montagna
alpina del peggio o abete rosso
• settima fascia coincide con la formazione delle cime alpine più elementi del prato pascolo

Un po' meno conosciuta rispetto all'espansione del castagno e dei pini è la fortissima riduzione delle
abetaie dell'Appennino che ha lasciato spazio libero alla forza espansiva del faggio.
La selvosità pressocchè totalizzante dell'Italia del Paleolitico e Mesolitico venne in parte meno nel
Neolitico, e soprattutto nel I millennio a.C. E nei primi secoli dell'età volgare, con l'affermazione di
sistemi agrari sempre più di mercato.
Occorre attendere lo spopolamento e la crisi urbana e socio-economica tardo-antica e alto-medievale
perché si possa pensare alla cosiddetta “reazione selvosa” che produsse un diffuso avanzamento del
bosco. La ripresa demografica ed economica a cavallo del Mille condusse a una drastica riduzione
del bosco. I grandi fenomeni di disboscamento proseguirono anche nell'età moderna e contemporanea
→ questo portò l'acutizzarsi del conflitto tra autorità forestali, proprietari fondiari e agricoltori.

Il cambiamento naturale in atto più preoccupante dovuto alle responsabilità umane è sicuramente lo
sconquasso climatico del surriscaldamento e dell'avvelenamento dell'atmosfera dovuti alle emissioni
industriali e urbane del biossido di carbonio. Già oggi l'aumento della temperatura si accompagna ad
una sensibile diminuzione della piovosità annua. I climatologi non nascondono che il cambiamento
climatico in corso è destinato a produrre degli effetti anche di ordine negativo sulla vita biologica e
sulla stessa vita dell'uomo. Ci possono essere spostamenti di tipiche specie mediterranee al nord, tra
cui l'olivo e la vita. Nuove specie provenienti da zone più aride colonizzeranno i nostri contesti
fitogeografici. Ci sarà la modifica dei flussi migratori e l'anticipo delle stagione dell'amore e della
riproduzione da parte degli uccelli.
Gli effetti maggiori sull'uomo riguardano il mezzogiorno, con l'emergenza acqua. Un altro problema
è quello dovuto all'eccessiva quantità di vetture per numero di abitanti.
Città, territorio e sistemi agrari nell'Italia antica

La città come “fuoco della civilizzazione” e dell'organizzazione territoriale → La città italiana


rappresenta una costruzione originale che sarebbe stata lasciata in dote all'Europa dalla dominazione
romana. A parte la genesi politica generale delle antichissime città della mezzaluna fertile e del
mediterraneo orientale, è certo che la città italiana nasce e si sviluppa come figlia del mercato. Il
commercio e le attività di scambio determinarono sia la fondazione di nuovi centri coloniali e sia lo
sviluppo di non pochi agglomerati agricoli preesistenti. In ogni tempo e luogo lo sviluppo urbano
dipende da decisioni politiche: ora del livello statale e ora del livello cittadino o municipale che
possono coincidere nelle epoche delle città stato. Tra il VIII e VII secolo la civiltà urbana arriva a
guadagnare tutta l'Italia con eccezione delle terre montane. L'urbanesimo si intensifica tra i secoli IV
e III e I a.C.
La prima generazione dei centri coloniali è quella dei Fenici e dei Greci.
Il processo di espansione marittima e coloniale lasciò un'impressione profonda e duratura. Gli interni
collinari e montani rimasero in mano agli indigeni.
Gli Etruschi invece così come più tardi faranno i Romani impiantarono i loro centri urbani sia nei
litorali che nelle aree interne, in posizione quasi sempre d'altura. Gli Etruschi subordinarono i loro
interessi eminentemente marittimi a un obiettivo di penetrazione e conquista nelle zone dell'entroterra.
Greci ed Etruschi costruirono delle città-stato che non riuscirono mai a unirsi in organismi politici
nazionali, tutt'al più in deboli confederazioni. L'intero territorio venne incardinato dagli organismi
urbani.
Grazie alla costruzione di vie di comunicazione poterono dispiegarsi i processi della bonifica e del
disboscamento, della creazione di un'agricoltura di mercato e di attività minerarie e industriali. Gli
Etruschi manifestarono spiccate doti di canalizzatori soprattutto per dare equilibrio ai suoli.

Roma si costituì nell'arco di vari secoli, grazie anche alla dominazione etrusca, partendo da uno status
di più villaggi collinari agricolo-pastorali che trassero rilevante vantaggio dall'ubicazione su di un
territorio-strada per le comunicazioni costiere e per quelle dal mare all'interno. La fondazione da parte
dei Romani di varie centinaia di città fu un'operazione nettamente politica e solo subordinatamente
economica. Le colonie romane vennero fondate quasi sempre nelle pianure. Queste si qualificavano
singolarmente per i valori di centralità geografica, per il controllo delle vie di comunicazione e per la
messa a valore agraria o mineraria delle risorse territoriali, per il il governo amministrativo di distretti
e province dipendenti dai nuovi insediamenti.
La città romana mostra una chiara tendenza verso strutture geometriche e ortogonali degli edifici, che
risponde anche a motivi tecnici determinati soprattutto dall'insolazione. Ha una forma regolare a
scacchiera, quadrata o rettangolare ma sempre unitaria, non ha una cerchia muraria. Al centro della
città si costituisce il foro dove si svolge il commercio, si organizzano le attività del governo, si
amministra la giustizia, si tengono discorsi, si svolgono attività religiose. Molto importante è anche
la basilica, edificio a pianta rettangolare, talvolta munito di absidi sui lati brevi. La città romana
attrasse e produsse capitali e risorse umane e funse da crogiolo per il groviglio delle etnie italiane. Le
strade furono un altro indispensabile fondamento della dominazione romana in Italia e nell'Occidente.
Nei tratti di pianura la via si mantiene alta per il deflusso delle acque e contro le inondazioni, spesso
è fiancheggiata da margini protettivi in pietra di una certa altezza ed è sempre dotata di marciapiedi.
La pavimentazione è il selciato. Tali nuovi itinerari si avvantaggiarono dell'esistenza di corridoi
naturali o longitudinali lungo la costa o trasversali dal mare all'interno. Essi sostituirono i tortuosi e
lenti percorsi del passato, servirono da centri di diffusione della civiltà romana e furono intensamente
attrezzati con cippi miliari e colonne o archi monumentali, fontane, edicole e sacelli, cappelle e templi
dedicati alle varie divinità protettrici della strada. Lungo le strade sorgevano le locande. Non pochi
fiumi furono attrezzati come vie d'acqua. Lungo le vie, i canali e i porti più trafficati sorsero o si
svilupparono agglomerati commerciali, stabilimenti termali e centri abitati che approfittarono delle
opportunità offerte dalle grandi correnti di commercio e di traffico.
La fase delle nuove fondazioni urbane e dello sviluppo pressocchè ininterrotto dei vecchi centri
sembra che sia durata fino alla metà del I secolo d.C. Già a partire dai secoli III-IV d.C le città italiane
entrarono in crisi. La popolazione italiana sembra sia scesa a meno di 7 intorno al 400 d.C. Quasi
ovunque le città mantennero nuclei di mercanti e un minimo di funzioni urbane solo se divenute centri
di amministrazione civile. Le città vescovili salvaguardarono il ruolo di punto di riferimento
amministrativo ed economico delle più ristrette circoscrizioni territoriali rurali. La crisi economica
ed urbana procurò la mancata manutenzione delle grandi opere pubbliche come gli acquedotti, le
strade e i ponti, i canali navigabili. Le vie abbandonate si resero presto insicure e intransitabili
soprattutto nelle aree costiere. Nei secoli VI-VII all'abbandono o alla distruzione delle città romane
corrispose la nascia di nuovi e più modesti insediamenti nelle vicinanze.

L'agricoltura → Le prime forme di agricoltura evoluta che superano l'angustia dell'autoconsumo e


delle tecniche primordiali di coltivazione prevedono l'adozione della pratica agronomica del maggese.
Le attività agricole cominciano a imprimere al paesaggio naturale forme e lineamenti culturali che
danno vita a un vero e proprio paesaggio agrario. Già prima della metà dell'ultimo millennio a.C. Si
diffusero gli agri ugualmente pianificati con forme regolari con piccole aziende familiari di proprietà
di agricoltori residenti nelle città medesime oppure in case poderali isolate. Le colture venivano
prodotte in piccoli campi sempre accuratamente recintati per impedire i danneggiamenti da parte del
bestiame allevato negli incolti e nei boschi di proprietà comune che circondavano lo spazio
addomesticato. Questo modello di agricoltura relativamente intensiva condotta in aziende di modesta
estensione non pare avere avuto una grande grado di radicamento.
Gli Etruschi organizzarono i territori dipendenti dalle loro città-stato mediante grandi imprese
aristocratiche lavorate per lo più estensivamente con schiavi o servi residenti in villaggi e fattorie. Gli
Etruschi non si limitavano a coltivare le stesse piante “emigrate” dal Sud ma provvedevano pure ad
allevare ogni sorta di bestiame “grosso” e “minuto”. L'elemento più caratterizzante del loro sistema
paesistico-agrario.
La bonifica dovette comportare una capillare ed efficace regimazione delle terre basse mediante
l'apertura di una rete di canali di scolo in gradi di assicurare assetti “giovanili” equilibrati e salubri,
specialmente ai grandi specchi lacustri. Lo spazio agrario si allargò enormemente mediante le
bonifiche e i dissodamenti. Acquitrini e boschi furono ridotti. Vennero introdotte numerose piante
provenienti dal Mediterraneo orientale o dall'Asia. Mentre nelle aree montane persistevano le antiche
forme di organizzazione comunitaria italica per villaggi o insediamenti minori. Le piccole aziende di
riforma agraria erano finalizzate all'autoconsumo della famiglia colonica. Di questo grande e
sistematico processo di territorializzazione restano ancora oggi notevoli tracce in tante terre basse a
livello toponomastico e topografico. Il secondo modello di agricoltura creata dalle esigenze urbane,
quello delle “ville rustiche”, inizialmente venne indirizzato verso produzioni esclusivamente di
mercato.
Le ville si addensarono anch'esse nei territori polarizzati dalle città coloniali, che rifornivano con i
loro prodotti per la perdita di valori economici e demografici delle città italiane e per la concorrenza
vincente dell'agricoltura delle altre regioni dell'Impero, la struttura tradizionalmente volta al mercato
delle ville italiane entra in crisi e si evolve della struttura del latifondo. Il venire meno del sistema
schiavistico venne probabilmente compensato dalla fuga di molta popolazione urbana verso le
campagne. Le grandi aziende signorili, poi, subiscono una vera e propria involuzione versi
ordinamenti estensivi. Le piantagioni vengono gradualmente abbandonate. Ci si rivolge a indirizzi
produttivi di tipo semi-naturale → cerealicoltura. Il disordine delle acque non più regimate finisce
con l'allargare a dismisura gli acquitrini e gli specchi lagunari mantenutisi nelle pianure. Tali forme
degradate di conduzione vengono portate avanti dal lavoro di coltivatori asserviti che fuggono il
fiscalismo e l'insicurezza della vita cittadina per rifugiarsi nei villaggi e centri aziendali in parte
costituitisi intorno ad antiche ville sempre più signoreggiati dal latifondista che bada a organizzare
l'amministrazione ecclesiastica della piccola comunità di base provvedendo pure a sovrintendere ai
più embrionali servizi e bisogni dei distretti territoriali locali.
Nell'Italia passata ai Bizantini le città non vengono certamente distrutte e abbandonate: è anzi noto
che i Longobardi si stabilirono in numero consistente in molti centri urbani → iniziative di nuove
forme di organizzazione dell'economia, dell'amministrazione della vita delle campagne.
Nelle campagne italiane dei secoli V-VI d.C. Sta nascendo una realtà economico-sociale e ambientale
relativamente articolata. Una realtà che è destinata ad approdare all'alto Medioevo con le varianti
apportate dal potere feudale laico e religioso mediante il sistema curtense → piccole economie
familiari e aziendali chiuse e di microcosmi o unità di vita associativa riuniti nei villaggi antichi, nei
modesti nuclei e nei veri e propri villaggi costituitisi gradualmente ex novo intorno alle ville e alle
residenze signorili. Questa è una realtà che finisce con il sostituirsi alla tradizionale organizzazione
latifondistica. In tale contesto politico-sociale, del tutto erronee risultano certe teorie storiografiche
che addossano alla natura la responsabilità degli abbandoni agrari e territoriali e delle crisi
demografiche, dell'involuzione produttiva e addirittura del declino dell'Impero romano.

L'alto Medioevo: dalle corti ai castelli al primo risveglio delle città di mare

Città rovinate, feudalesimo e sistema curtense → Nei secoli V-VI, la guerra greco-gotica e la
conquista longobarda, la convivenza con le rovine del mondo antico rimane una costante della civiltà
europea e trasmette il senso civico di un'altra civiltà incombente estranea e familiare nello stesso
tempo. I vari centri italiani risultano più vivaci di Roma: nelle principali città padane la vita
municipale continua e produce una relativa conservazione degli organismi urbani. Altre città invece
si atrofizzano, è il caso di Ravenna. La dominazione longobarda produsse cospicui trapassi di
proprietà fondiaria, operati come già fatto dai Goti, mediante larghe espropriazioni effettuate ai
latifondisti romani, lo stanziamento delle popolazioni germaniche determinò lo sviluppo
dell'allevamento suino ed ovino e della caccia. I nuovi dominatori non sembrano avere introdotto
innovazioni sostanziali all'organizzazione di un'Italia frantumata sul piano politico-amministrativo,
essi si sovrapposero alla popolazione esistente, ereditando l'organizzazione insediativa romana. Nel
Regno Longobardo le antiche città sopravvissute risultavano, comunque, fortemente impoverite dei
ceti mercantili e artigianali, e quindi si presentavano come semi-ruralizzate.

Nella Romania bizantina nasce ora Venezia, mentre più a Sud sopravvivono stentatamente Bologna
e le dieci città episcopali. Sono però da ricordare la costruzione urbana di Ferrara e l'affermazione di
Roma. Nell'Italia meridionale manifestano una qualche ripresa economica, demografica e edilizia
vari porti pugliesi tra cui Taranto.

Il sistema stradale romano versava in grande decadenza per le distruzioni e la mancata manutenzione.
Solo intorno all'anno Mille alcune delle strade maggiori attrassero interventi di manutenzione,
sorveglianza e assistenza da parte del potere politico, degli ordini monastici e cavallereschi. Le città
che superarono la crisi continuavano a essere tenute in vita dai bisogni e dagli interventi delle corti e
soprattutto dalla più rassicurante presenza dei vescovi e degli ordini monastici benedettini. In molti
centri urbani accanto a un ceto di grandi e medi proprietari fondiari è attestata la presenza di gruppi
di artigiani e di mercanti che producevano e commerciavano soprattutto generi di lusso.
Metà del X secolo → fase di netta ripresa delle funzioni urbane. Tra 700 e 800 l'Italia viene percepita
da Carlo Magno e da altri europei colti come un “mondo” diverso da quello franco-germanico proprio
perchè i centri italiano erano abitati anche dall'aristocrazia fondiaria.
In questa fase, ragguardevoli sono gli adattamenti urbanistici e architettonici richiesti dai processi di
contrazione dell'edificio urbano. Per le costruzioni si usano generalmente materiali poveri e
facilmente deperibili per questo le città italiane dell'alto medioevo hanno lasciato tracce labili o
addirittura nulle. La presenza più rada dell'uomo e la disgregazione dei poteri pubblici determinarono
l'abbandono alle acque stagnanti delle basse pianure costiere e della parte inferiore delle maggiori
vallate interne dai terreni potenzialmente più fertili. La popolazione si addensò nelle aree collinari e
di bassa montagna. Immensi spazi vuoti ed aree ristrette relativamente popolate conntavano il
paesaggio italiano fra VI-X secolo.
Riguardo al regime della proprietà questo continuò a essere caratterizzato da una grande
concentrazione delle terre anche nei tempi longobardi. Le aree “domestiche” dovevano apparire come
piccolissime “isole” circondate dall'oceano verde della selva ora asciutta e ora umida, ma sempre
oscura ed impervia piena di manacce.
Si ascrivono comunemente alla conquista carolingia gli interventi più incisivi dell'alto Medioevo.
Questi consistono in opere di riorganizzazione di alcune importanti strade lungo le quali venne creata
una densa rete dell'assistenza e dell'ospitalità costituita da pievi e chiese canonicali, abbazie e
ospizi/ospedali e in provvedimenti di rivitalizzazione di alcune città sia di terraferma e sia di mare.
La stessa costruzione degli organismi territoriali dell'amministrazione ecclesiastica presenta ovunque
una conformazione spaziale che denuncia il loro stretto collegamento con la viabilità.
Tale nuovo agrosistema rappresentò un passo in avanti per le condizioni di vita del grosso della
popolazione. Fu possibile coordinare il lavoro dei coloni, rinsaldare i rapporti con i mercati locali e
con quelli cittadini, promuovere iniziative che i singoli non erano in grado di assumere.
Il sistema curtense faceva riferimento all'aristocrazia feudale laica ed ecclesiastica, alle ricche
strutture religiose che si andavano moltiplicando.
La colonizzazione avveniva mediante l'affidamento, in affitto “perpetuo”, destinato col tempo a
divenire spesso un vero e proprio possesso, della maggior parte della terra coltivata a famiglie di
agricoltori residenti.
La parte massaricia (da massaro o contadino) veniva suddivisa in più unità di produzione dette “sorti”
o “mansi” che divennero le cellule-base del grande possesso terriero.
Ogni famiglia otteneva un “poderetto” di dimensioni tali da consentire l'impegno continuo di tutti i
componenti. Gli agricoltori allevavano pure pochi capi di bestiame negli stessi campi dopo il raccolto
e in quelli che nello stesso tempo, erano lasciati al riposo annuale. Tale carattere regolato da
consuetudini garantiva all'insediamento e alla popolazione locale una forte fisionomia comunitaria.
Nei villaggi potevano risiedere anche agricoltori con la condizione di piccoli proprietari o possessori
livellari. Questi contadini erano liberi in teoria, ma di fatto anch'essi erano legati al signore per il
versamento dei tributi e per i problemi dell'uso delle strutture di interesse generale. Le poche
coltivazioni arboree erano concentrate nella parte dominica, cui sovrintendeva un amministratore di
fiducia del proprietario e servivano ad alimentare il vicino mercato urbano.

In Sicilia nel IX secolo rinasce il paesaggio del giardino mediterraneo dove, accanto alle piante da
orto e da frutta tradizionali, si diffondono nuove specie provenienti dagli ambienti caldi: il riso, il
cotone, la canna da zucchero, il limone e l'arancio, il gelso, lo spinacio, il carrubo e il pistacchio.
Questa agricoltura intensiva ha esercitato un'influenza notevole sullo sviluppo agricolo d'Italia,
imprimendo lineamenti e forme più durature nel suo paesaggio agrario. La civiltà italiana ed europea
dei secolo che precedono il Mille e anche oltre fu civiltà di rustici. L'agricoltura non fu solo l'attività
economica fondamentale ma rappresentò l'elemento portante dell'intero sistema economico.
Unica eccezione di questo modello fu Palermo che era una città metropoli in quanto era punto di
confluenza dei traffici tra il Mediterraneo islamico e l'Europa cristiana. A questo corrisponde la crisi
della capitale bizantina: Siracura.

La civiltà dei castelli → La fase successiva della politica di territorializzazione prodotta dalla società
feudale riguarda il cosiddetto incastellamento. Già nei secoli IX e X ci fu una forte insicurezza politica,
la nobiltà ecclesiastica e laica fonda i primi castelli: borghi inerpicati, o villaggi fortificati, talvolta
anche assai piccoli e costituiti da case in materiali precari. Il signore non costruisce un castello per
sua esclusiva abitazione, bensì inserisce la sua residenza turrita. I castelli si diffusero grandemente
nei secoli successivi: specialmente nei secoli XI e XII ma anche XIII-XIV. Queste ultime e tardive
realizzazioni non sono sempre dovute all'antico ceto feudale ma anche e soprattutto alla piccola
nobiltà rurale ormai inurbata e addirittura ai nuovi e ricchi ceti cittadini che intendevano così
nobilitarsi. La nascita del castello mise in crisi la rete dei piccoli e piccolissimi villaggi o casali sui
quali si reggeva il sistema curtense. Molti di questi insediamenti furono infatti abbandonati e gli
agricoltori si trasferirono nel nuovo e meglio difeso ed attrezzato agglomerato.
In molti casi il signore autorizzò anche lavoratori di terre di altri proprietari oppure piccoli coltivatori
in proprio o liberi artigiani, a risiedere dentro le mura. Il signore comunque continuava a detenere
saldamente nelle sue mani i poteri giurisdizionali e fiscali sia sull'insediamento e sulla sua
popolazione e sia sul distretto circostante. Il castello continuava a sovrintendere in modo primario
allo sfruttamento agricolo, ittico e pastorale.
In questo periodo di espansione, nuovi castelli vennero poi fondati nelle terre vergini strappate al
bosco o all'acquitrino. In tali casi la pianificazione politica dell'intervento valse ad assicurare la
costruzione di insediamenti e soprattutto di spazi agrari di colonizzazione più razionali. Tale
operazione servì pure a garantire una maggiore autonomia amministrativa alla collettività mediante
la concessione di beni terrieri indivisi. Si creava così una sorta di condominio: autonomie locali che
coesistevano con i poteri signorili.
Il castello divenne poi il centro del mercato: la valenza commerciale del luogo non arricchiva solo il
signore con i dazi e le gabelle imposte sulle merci, ma finiva pure con il beneficiare i bottegai e gli
artigiani, contribuendo alla loro elevazione sociale. Spesso, il luogo del mercato finì con il diventare
un borgo abitato con le case e botteghe che sorgevano intorno alla piazza, nei luoghi tradizionalmente
occupati dai venditori. Nel XII-XIII secolo le corti vengono abbandonate dai coltivatori affrancati, i
ceti abbienti cittadini e locali possono acquistare molte terre, i livellati non di rado riescono a
diventare proprietari a tutti gli effetti → tutto ciò crea effetti dirompenti sul sistema dei castelli e sugli
equilibri territoriali da quelli dipendenti. Molti insediamenti finirono coll'essere abbandonati dagli
abitanti che preferirono emigrare nelle stesse città in espansione oppure trasferirsi in insediamenti
accentrati minori appositamente costruiti in luoghi che stavano esprimendo più avanti equilibri
territoriali.
Non pochi castelli finirono così per degradarsi e addirittura per ridursi a ruderi o per scomparire
completamente. Non furono pochi neppure gli insediamenti castellani che riuscirono a mantenere la
loro consistenza demografica e urbanistica o addirittura ad accrescerla, grazie alle cure e ai privilegi
del nuovo potere cittadino. Questi ultimi valsero a produrre un'ulteriore articolazione della società
locale, con formazione di un gruppo di potere in grado di gestire l'amministrazione della comunità. I
castelli sedi di comunità sono sopravvissuti ai grandi cambiamenti dei secoli comunali e tardo-
medievali perchè non si qualificavano più come villaggi esclusivamente o essenzialmente agricoli
bensì esprimevano ora le nuove funzioni di centri di servizio della campagna, ove stavano
affermandosi sistemi agrari innovativi quali quelli creati dalla città e sempre più compitamente
collegati al mercato urbano.

Il mare e il primo risveglio urbano a cavallo del Mille → Un'altra novità tra i secoli IX e XI sono
la nascita di alcune città e porti costieri, le “repubbliche marinare” con altri centri meno sviluppati. Il
quadro della maglia urbana dei secoli finali dell'alto Medioevo non si configurava tanto come
contrapposizione tra un Centro-Nord urbanizzato e un Mezzogiorno povero di città, quanto in una
bipolarità tra aree costiere. La conquista nel XI secolo, e soprattutto il controllo in seguito a passaggio
matrimoniale, da parte degli Svevi, di Sicilia e Meridione fra i secolo XII e XIII finirono però con il
creare le premesse per la graduale decadenza delle autonomie e funzioni urbane e quindi delle attività
economiche e mercantili generate dalle stesse repubbliche marine. Nel IX e X secolo il commercio
marittimo con l'Oriente è così scarso da essere accentrato prevalentemente nella piccola Amalfi
mentre i grandi porti rimangono fuori uso. La vittoria dell'imperatore Ottone sugli Ungari, la
riconquista bizantina di Creta e la cacciata dei Saraceni dalla base di Frassineto aprono un nuovo
spazio di scambi → Venezia, Pisa e Genova si sviluppano precocemente entro il secolo XII ognuna
delle città definisce la sua forma.

L'assoluta originalità del caso veneziano si misura nella matrice originaria bizantina e nel rapporto
diretto con Bisanzio mantenuto fino alla conquista turca. → caratteristiche di Venezia: sistema
costruttivo formato dai muri pieni allineati in profondità e dalle facciate vuote a polifore che li
collegato, le facciate assumono successivamente le forme romaniche, gotiche, rinascimentali e
barocche. L'uniformità rigorosa della quota di imposta comanda tutto il grande dispositivo urbano.
Come punto di smistamento verso l'Europa nord-occidentale delle merci provenienti dal bacino
orientale del Mediterraneo, la posizione di Venezia non temeva confronti. La posizione insulare di
Venezia nella laguna a nord del delta padano era ottima ai fini difensivi e venne anche occupata come
rifugio rispetto alla terraferma. Dalla dipendenza dall'impero bizantino, Venezia, trasse notevoli
privilegi che resero i suoi cittadini i più importanti trasportatori e costruttori dell'Impero nel
Mediterrraneo.

Pisa è un luogo abitato dall'epoca etrusca e romana, sul limite della laguna tirrenica dove sbocca
l'Arno e diventa importante quando Augusto sistema il porto al limite meridionale del sinus pisanus.
Deve considerarsi un organismo nuovo, approssimativamente conforme al modello classico della
scacchiera ma adattato liberamente alla curva del fiume e alle opportunità del terreno. Il suo sviluppo
è compreso fra l'inizio del XI secolo e la seconda metà del XII. La coerenza della forma urbana è
basata sull'omogeneità di un tessuto edilizio formato da moduli uguali ritmicamente ripetuti. La città
gravita sul corso dell'Arno canalizzato, con le due file di palazzi di altezza costante, i lungarno, le
scalee che scendono sul fiume, le fortificazioni terminali della Cittadella e dell'Arsenale. La sconfitta
della Meloria segnò la fine di una potenza commerciale che era arrivata a dominare il litorale tra
Portovenere e Civitacecchia. Nel corso del XIV secolo la città si spopolò e il porto si interrò.

Genova rivale e poi vincitrice di Pisa crea il suo porto e la sua attrezzatura urbana in un sito ristretto,
privo di comunicazioni agevoli con l'entroterra. Il disegno ortogonale della porzione piana, pur
ricalcando in qualche misura una traccia romana, va considerato un organismo nuovo derivante dalla
stessa logica. Le funzioni più importanti sono allineate sul fronte arcuato del porto, sistemato con
somma cura dall'autorità cittadina. Nell'abitato compattissimo restano pochi avari spazi aperti. Le otto
ripartizioni dell'area urbana o compagnie sono un ventaglio di spicchi convergenti sulla linea di costa.
I genovesi si avvantaggiarono di una posizione più favorevole di Pisa rispetto ai fiorenti centri
commerciali della Lombardia e del resto d'Europa, raggiungibili attraverso i valichi dell'Appennino
ligure e delle Alpi centrali. Fu quindi importante mercato e centro di industria tessile.

L'Italia della crescita comunale e della crisi basso-medievale

I secoli del primato: trend demografico e “rivoluzione” comunale → La ripresa demografica


iniziata in Italia e in Europa già nei secoli IX-X si irrobustisce e consolida grandemente nei tre secoli
successivi. Alla base della ripresa demografica ci fu indubbiamente la minore incidenza di alcuni
fatto negativi che nei secoli precedenti avevano posto ferrei limiti al naturale incremento della
popolazione. La peste bubbonica che aveva infierito a più riprese nell'Occidente europeo tra la metà
del VI e la metà dell'VIII secolo si ritirò nei focolai endemici dell'Africa e dell'Asia. Anche le minacce
umane esterne con la fine del X secolo persero gran parte della propria virulenza. La ripresa della
popolazione urbana intorno al X-XI secolo è attestata da tutta una serie di indizi: costruzione di nuovi
edifici in pietra, ampliamento del numero delle parrocchie, comparsa di sobborghi, edificazioni di
nuove mura. Una delle innovazioni durevoli è data dall'acquisto di forma e aspetto più solidi. Le città
signorili e comunali cominciano progressivamente ad adeguarsi a modelli urbanistici e a materiali
edilizi superiori. Specialmente all'inizio di questa prima fase dello sviluppo urbano le città vedono un
pullulare di nuclei privato-feudali ognuno con una sua autonomia. Tale fase iniziale di crescita urbana
si realizza sotto l'ala protettrice del potere vescovile. La successiva evoluzione dalla fase del dominio
signorile a quella del governo comunale borghese produce le prime regolamentazioni del tessuto
urbano precedente.
Le città non avevano mai abdicato alla loro preminenza politico-amministrativa ed economica nei
confronti della campagna circostante. Fin da quei tempi riprende forma l'organizzazione
urbanocentrica del territorio, caratteristica degli ultimi secoli del Medioevo italiano. Dopo la sconfitta
e la morte di Federico II di Svevia nel 1250 le nostre città hanno adeguato le loro strutture alle loro
nuove funzioni territoriali e decollano verso uno sviluppo che nel XIV secolo le vedrà all'avanguardia
rispetto a tutte le città dell'Occidente europeo.
La proliferazione dei castelli, diversi per dimensioni e per carico demico ebbe effetti importanti
sull'assetto dell'habitat, promuovendo la concentrazione della popolazione e mutando in parte i
caratteri del paesaggio agrario. A partire dall'XI secolo, per impulso dei ceti aristocratici, riprese
impulso anche la fondazione delle abbazie benedettine. La popolazione salì molto e portò all'inizio
del XIV secolo a circa 12,5 milioni di persone. Ci furono poi crisi economiche che riportarono la
popolazione a 7,5 milioni di abitanti. Il recuperò però proseguì e si intensificò fino ad arrivare a 9
milioni e poi a 11,5. La popolazione delle città crebbe più di quella delle campagna soprattutto in
seguito di una vasta, spontanea e coatta immigrazione rurale. Le città divennero un permanente
mercato di smercio dei prodotti del circondario.
Con l'andare del tempo però si vennero a creare due Italie: l'uno per i livelli del tempo, densamente
popolata, più urbanizzata e industrializzata, l'altra meno popolata, più nettamente agraria e feudale
→ Italia centro-settentrionale e Italia meridionale.
Ci sono però delle eccezioni di zone più arretrate come gran parte del Piemonte, Lazio o Maremma.
Se per l'Italia centro-settentrionale si può a buon diritto parlare di una “storia urbana” per il Meridione
e le isole bisogna parlare piuttosto di una “storia regionale”. Soltanto nel Centro-Nord la crescita
demografica delle città e il loro sviluppo economico ebbero un carattere rivoluzionario e il potere
politico passò ai governi comunali. Nel Meridione, nessun centro urbano assunse caratteristiche
manifatturiere paragonabili a quelle delle città centro-settentrionali e pochi caratteri “mercantili”
spiccato. Si sviluppò una debole borghesia.
La popolazione era differenziata per le diverse aree dell'Italia. Troviamo il 15 per cento della
popolazione nell'Italia settentrionale, il 25 nell'Italia meridionale e il 30 nell'Italia centrale. Questi
caratteri distributivi della popolazione al culmine dello sviluppo medievale stanno a indicare, pur
all'interno di realtà profondamente differenziate, un notevole squilibro tra popolazione urbana e
popolazione rurale.
Le carestie, gli incrementi dei prezzi dei cereali, la crescita dell'indigenza e le crisi di sussistenza che
tormentarono la società italiana del XIV secolo stanno a dimostrare la presenza di radicali “compensi
del sistema”: squilibrio tra popolazione urbana e popolazione rurale, difficoltà crescenti
nell'organizzazione degli scambi sulle lunghe distanze, processi di ristrutturazione degli scambi sulle
lunghe distanze, processi di ristrutturazione delle campagne che aumentavano la massa dei contadini
privi di terra.
Queste difficoltà erano destinate a permanere nel tempo, nonostante i grandi sforzi effettuati un po'
da tutti i governi cittadini e statali per controllare politicamente e militarmente il sistema delle vie di
comunicazione. Il Po è divenuto la spina dorsale del nuovo sistema di comunicazione, la via fluviale
è l'asse portante di nuovi circuiti economici e serve da supporto per il traffico a lungo e medio raggio.
La ripresa degli scambi commerciali, che si ebbe soprattutto nel corso del XIII secolo, determinò un
movimento di uomini e di merci senza precedenti, con il fiorire di tutta una serie di attività legate
all'ospitalità e al cambio delle valute. Vecchi tracciati furono ripristinati e più celebri collegamenti
creati anche per le comunicazioni oltremontane. Strade, idrovie e porti marittimi, ove si incanalarono
i più consistenti flussi di uomini e merci produssero effetti di polarizzazione di straordinaria portata.
La via Francigena fu un poderoso strumento di crescita economica. In non pochi caso lo stesso
impianto degli abitati si strutturò in funzione della strada. Ma un po' tutti i centri lungo la strada
denunzieranno, nella loro struttura tendenzialmente lineare, l'influenza esercitata dalla viabilità
nell'articolazione del loro impianto urbano. La via Francigena fu quindi uno dei principali fattori che
contribuirono allo sviluppo della vita economica e sociale dell'Italia medievale.
La crisi demografica ed economica tardo-medievale → Le carestie produssero pressocchè
ovunque larghi vuoti demografici e contribuirono pure a preparare un terreno favorevole alle
epidemie.
Ci furono numerosi abbandoni di castelli, tale cataclisma era dovuto ai mutamenti politici e socio-
economici che stavano delineando equilibri territoriali nuovi, anche se non sempre più avanzati. La
crisi demografica servì a rimescolare in maniera non trascurabile e definitiva il quadro etnico-
culturale italiano. Soprattutto nella pianura padana, la ripresa delle opere di bonifica e di irrigazione
allargarono il popolamento, restringendo l'incolto alla fascia a ridosso dei fiumi maggiori.

I caratteri urbani di una società rurale. La ripresa delle città e dei centri minori → Dall'XI al
XV secolo l'uniforme mondo rurale costituitosi nell'alto Medioevo con la feudalità e il sistema
curtense si va sempre differenziando. Le città si popolano, gli scambi si infittiscono, la moneta
riprende a circolare, i commerci riprendono anche a lungo raggio e si consente quindi la formazione
e l'ascesa di nuove classi sociale. Si crea il cittadino e il rurale. Il processo di sviluppo urbano si deve
pressocchè ovunque alla sostituzione del potere dei feudatari prima con quello dei vescovi, e poi con
quello dei mercanti ed artigiani. Questo cambio della guardia è in genere evidenziato da interventi
dal chiaro significato simbolico. Le città diventano centri specializzati delle attività secondarie e
terziarie. Ognuna di esse svolge un insieme di iniziative commerciali, industriali, finanziarie e
culturali molto più estese e compete con le altre in scala continentale e mondiale. A partire dal secolo
XI la città conquistano in vari modi l'autonomia, questa diventa un carattere costitutivo della civiltà
europea. L'organizzazione politica condiziona la forma fisica delle città, con varie innovazioni
costitutive date dall'avvicinamento degli edifici pubblici e privati. Uno spazio pubblico della città ha
una struttura risultate dall'equilibrio fra diversi poteri: il vescovato, il governo civile, gli ordini
religiosi, le corporazioni e le classi. Ogni città è divisa in quartieri, sestieri, contrade, compagnie,
rioni che hanno la loro organizzazione individuale, i loro simboli e spesso la loro organizzazione
politica. La città occupa uno spazio ristretto, il centro della città è il luogo più ricercato. Le mura
indispensabili per la difesa sono l'opera pubblica più dispendiosa, ed hanno il tracciato più breve
possibile per circondare una data superficie. Sulla base di precise scelte politiche e di normative
minuziose le cinta murarie vennero quasi dappertutto ampliate per inglobare i borghi ex tramoenia
costituitisi lungo le principali vie di comunicazione diramantisi dalle porte cittadine. La crescita delle
città fino almeno a tutto il XIII secolo continuò a essere scandita dalla creazione di nuovi borghi
all'esterno delle mura e da successivi inglobamenti grazie all'allargamento della cinta medesima.
Molti degli spazi verdi inseriti entro la cerchia muraria non avevano la squallida funzione dei suoi
urbani contemporanei ma erano accuratamente e intensivamente coltivati per il mercato cittadino.
All'intern delle città i governi provvidero a realizzare i simboli dei nuovi equilibri politici, i palazzi
comunali, le piazze porticate del mercato e le cattedrali e non di rado a diadare il tessuto urbano più
antico, con lo scopo dichiarato di abbellire la città, anche con l'ingrandimento e la pavimentazione di
vie e piazze. L'autonomia politico-amministrativa quasi completa guadagnata dalle città dell'Italia
centro-settentrionale nei riguardi dell'Impero valse a garantire il controllo del territorio circostante.
Questo processo non si verificò nell'Italia meridionale.

Le nuove fondazioni di città e villaggi → Un po' in tutta Europa e anche in Italia, nuove grandi
ondate di colonizzazione e di fondazione di centri abitati si ebbero con la ripresa demografica dopo
il 1000. Si passa dal vecchio potere feudale laico ed ecclesiastico, al quale si devono le fondazioni
più antiche, al nuovo potere dei centri comunale, al quale spettano le realizzazioni più recenti, di gran
lunga più numerose. Tali centri pianificati rispondono quasi ovunque alle denominazioni di terra
nuova/villa nuova o borgo franco/castel franco/ villa franca e presentano in genere una griglia
quadrangolare impostata su assi ortogonali.

Tutto questo movimento si accompagnava a una radicale evoluzione sociale: la crisi del feudalesimo
e del rapporto servile, e la nascita di una nuova classe di liberi cittadini dediti al commercio,
all'artigianato e alle arti liberati. La modifica del modello distributivo delle città che allora avvenne
poggiava sulla base di una vasta trasformazione sociale: ne è controprova il sostanziale fallimento di
quasi tutte le fondazioni di abitati, fatte a freddo cioè senza il supporto di incisive trasformazioni
politico-sociali, nel Rinascimento, quando si sovrapposero raffinati ma utopistici progetti elaborati
dalla cultura cittadina e specialmente cortigiana a un territorio rurale rimasto sostanzialmente estraneo.
In quanto agli attuali paesi gran parte di essi sorse appunto nel basso Medioevo, al tempo del grande
aumento della popolazione, completamente bloccato nel 1347-50 dall'arrivo della “peste nera”.

Bonifica, dissodamenti e sviluppo dell'agricoltura → La crescita demografica dei secoli successivi


al Mille produsse una generale estensione delle aree coltivabili ai danni di boschi, incolti a pastura e
acquitrini, con innovazioni tecniche e agronomiche. I nuovi avvicendamenti determinarono una più
alta produttività del suolo, contribuendo così a esaudire la sempre maggiore domanda alimentare del
mercato dell'epoca.
La bonifica assunse una funzione antifeudale, divenendo oggetto della politica degli Stati a base
territoriale più ampia e specialmente dei liberi comuni cittadini: allora i disboscamenti e i
dissodamento assunsero l'aspetto di una vera e propria colonizzazione organizzata su basi collettive
che non si limitò ad annettere lo spazio intorno all'area del villaggio, ma iniziò spesso un'operazione
di penetrazione in luoghi deserti dove impiantare un nuovo villaggio, creando un'isola, nuovo punto
di partenza da cui procedere al dissodamento delle terre circostanti.
I vasti dissodamenti portarono alla nascita e allo sviluppo di villaggi intorno ad insediamenti
monastici. I canali, le dighe, le opere di irrigazione di cui si ha notizia attestano questa intensa opera
di colonizzazione. Le colonizzazioni più ampie e ordinate, riguardano la bassa pianura imolse e varie
zone piemontesi, l'Alto Adige e il Trentino. I progressi agricoli del Meridione rimasero limitati, nei
secoli dell'assalto all'incolto e delle bonifiche, soprattutto ad alcune aree non lontane dai porti e dai
mercati e a certi tipi di iniziative. Mancarono del tutto opere sistematiche di bonifica delle zone basse
e malariche, dove i tentativi in tal senso furono pochi, sporadici, molto limitati e generalmente abortiti.
Tale spinta alla fondazione e allo sviluppo di centri rurali e all'allargamento dello spazio agrario finì
con l'esaurirsi già prima della dominazione angioina e della grave crisi trecentesca. Le guerre, il
fiscalismo, le baronie produssero una forte contrazione della popolazione e dell'insediamento.
Nel resto del paese, gli interventi di valorizzazione sono riconducibili alla finalità di promuovere
l'individualismo agrario, pertanto vennero eliminati o drasticamente limitati i diritti d'uso di pascolo
o semina, di legnatico, caccia o pesca, che gravavano sulle proprietà feudali e si estesero le chiusure
di pascoli e terre di coltivazione.
In tal contesto d'inquadra anche il grande processo dell'espansione della grande e media proprietà
terriera cittadina ai danni di quella piccola contadina. I sistemi della crisi delle aziende familiari
gestite da agricoltori proprietari o livellari sono evidenti nel XIII secolo e si generalizzano nei secoli
XIV e XV, salvo che nelle zone di montagna o alto-collinari interne.
Nelle campagne dell'Italia centro-settentrionale, più polarizzate dalle città borghesi, si disgregano
rapidamente le vecchie forme dell'agricoltura e della società feudale e se ne creano di nuove. La
signoria terriera della corte finisce col frammentarsi in una miriade di piccole unità di produzione e
sempre più spesso, quest'ultimi, i mansi, in singoli appezzamenti o campi.
Da questi processi che rivoluzionano i sistemi agrari e sociali delle campagne, si affermano due realtà
produttive correlate a un mercato che torna a chiedere generi alimentari e materie prime per le
lavorazioni artigianali oltre che per l'industria edilizia e del legno.
A partire dal XIII secolo, nell'Italia centro-settentrionale si affacciò la coltivazione del gelso per
l'industria serica.
Grazie alle grandi realizzazioni di bonifica e dissodamento o di vera e propria colonizzazione si apre,
per i singoli agricoltori, una pagina nuova e più evoluta, costituita dalle sistemazioni idraulico-agrarie,
specialmente dei delicati ambienti collinari e montani, con diffusa tendenza a sostituire le rovinose
lavorazioni e sistemazioni del ritocchino dei rilievi con lavorazioni e sistemazioni orizzontali:
innovazioni che danno vita a un più maturo e articolato paesaggio agrario. Le opere di bonifica
rispondono in generale ad un concetto comune, quello di assicurare la migliore difesa idraulica, una
più equilibrata economia dell'acqua e una più efficace lavorazione del suolo coltivabile.
Nell'Italia centrale comincia a definirsi il reticolo irregolare dei “campi a pigola” → prevalgono le
chiusure meno cospicue di siepi vive o morte, addirittura quelle semplicemente rappresentate da fosse
o scoline, contornate da filari di alberi.
Campi chiusi → fitta e razionale rete dei solchi acquai e delle porche, delimitati da fossi di scolo e da
filari di viti ed alberi allineati alle prode.
In molti casi sono gli stessi statuti comunali a prescrivere agli agricoltori l'impianto della vite e degli
alberi domestichi. Il sistema medievale del vigneto basso in coltura specializzata sopravvive,
soprattutto nelle aree urbane e ni pressi degli insediamenti agricoli di più ragguardevoli dimensioni.
La crescita agricola dei tempi comunali produsse un'importante trasferimento di denaro dalla
campagna alla città che ne consacrò definitivamente la supremazia.

La differenziazione dei sistemi e dei paesaggi agrari italiani. I sistemi di mercato evoluti → I
processi di modernizzazione produssero la costituzione di due nuovi sistemi agrari.
1. MEZZADRIA: Italia centrale, padana, costiere liguri → numerose ville costruite a partire dal
300/400 si giustappongono allo spazio della produzione conferendogli un significato di
grande valore storico e artistico. La mezzadria è fatta di unità produttive a base familiare
concesse in gestione dal proprietario a una famiglia di coltivatori, il patto prevede la divisione
a metà dei raccolti e degli utili d'azienda, con tempi di insediamento della famiglia mezzadrile
assai brevi in una casa colonica nel podere. Accanto a quest'ultima ci poteva anche essere la
casa del signore. Il contratto mezzadrile è valutato tra le forme sociali intermedie fra quelle
servili medievali e quelle capitalistiche, ma valse a garantire autonomia alimentare ai
mezzadri e ai proprietari e anche a approvvigionare i mercati cittadini di genere indispensabili
al consumo della popolazione e alle stesse lavorazioni industriali che qui si svolgevano. La
forza espansiva della mezzadria nel tardo Medioevo fu tale da guadagnare anche settori non
esigui della pianura padano-veneta, dal Piemonte e dalla Lombardia al Friuli, dal Bolognese
al Venete e al Trentino.
2. CASCINE AD AFFITTANZA CAPITALISTICA: si concentra essenzialmente nella pianura
lombarda → rapporto di mercato che ha come caratteristiche di fondo la specializzazione
colturale e ricorso alla mano d'opera fissa e giornaliera da parte di una gestione
imprenditoriale in affitto. L'affittanza prevale nettamente sulla gestione in proprietà. La
cascina si diffuse tra tardo Medioevo e tempi contemporanei e divenne la realtà più tipica ed
evoluta dell'agricoltura padana. Fin dai secoli XIV e XV, l'affittanza padana comincia a fare
riferimento ad aziende di medie e grandi estensioni coltivabili con ricorso al lavoro salariato.
La dilatazione del sistema delle cascine e del bracciantato è legata soprattutto alla diffusione
della coltura del riso che si verificò nella Lombardia della seconda metà del 400.

Grazie ad entrambi i processi di modernizzazione ci fu una razionalizzazione dell'agricoltura e un


migliore impiego del lavoro contadino su terre non più disperse ma compatte.
Sia nelle aree a mezzadria e sia in quelle a imprese capitalistiche, la domanda delle manifatture urbane
stimolò sin dall'inizio del XIII secolo la coltivazione su scala più vasta e in luoghi più numero di
piante tintorie come la robbia, il guado, lo zafferano.

La differenziazione dei sistemi e dei paesaggi agrari italiani. I sistemi di sussistenza o di mercato
arretrato → In un po' tutte le montagne alpine e appenniniche si perpetuarono le antiche forme di
vita e di un paesaggio pastorale che più da vicino continuano quelli dell'età feudale. Generalmente le
superfici coltivate erano superfici nude, riservate esclusivamente alle produzioni cerealicole, con
produttività molto bassa e rotazioni più arretrate rispetto alle colline e alla pianura. La figura sociale
più consueta era quella del piccolo proprietario allevatore. Sulla montagna non si ebbe affatto una
penetrazione di capitali cittadini, né una generalizzata riorganizzazione della proprietà verso forme
più compatte dell'azienda come il podere delle zone più basse.
Boschi e incolti sempre utilizzati per il pascolo brado e l'allevamento estensivo connotavano gran
parte dell'Italia centro-meridionale dove nel tardo Medioevo si stava organizzando il sistema del
latifondo.
I baroni si adeguarono alla domanda del traffico internazionale nel modo più semplice → praticando
su larga scala la coltura più immediatamente redditizia e rispondendo alle più immediate e spontanee
vocazioni produttive della terra.
Nei giardini irrigui siciliani e specialmente di Palermo, almeno dall'XI al XV secolo, si mescolavano
in forma irregolare innumerevoli specie arboree e arbustive con le primizie orticole.
La crisi trecentesca servì a dare il colpo di grazia a ciò che restava del sistema agrario curtense.
Centinaia di castelli furono definitivamente disertati dai contadini.
Nei tempi delle crisi demografiche ed economiche, nei più ampi contesti spaziali dell'Italia
meridionale, i signori feudali tendono ad estendere nel feudo l'allevamento ovino, sottraendo
abusivamente agli usi promiscui di pascolo delle popolazioni una parte delle terre feudali.
Tra la metà del Trecento e la metà del Quattrocento i tre governi di Siena, Roma e Napoli
organizzarono larghe porzioni dei loro territori come dogane di pascolo → destinazioni d'uso del tutto
incompatibili con la salvaguardia degli equilibri ambientali e di quelli demografici e socio-economici.
Solo la cerealicoltura estensiva era compatibile con il sistema doganale.
Il paesaggio nudo è il carattere distintivo del latifondo dove la presenza umana è scarsa, i terreno non
sono adoperati e gli investimenti sono scarsi. Il latifondo è accompagnato dall'insediamento
accentrato.
La crisi del XIV secolo si manifestò con un calo demografico consistente. Mentre nel Sud, nella
Maremma e nelle pianure laziali, la riposta alla crisi venne ricercata nello sviluppo dell'allevamento
brado e transumante, nell'Italia centro-settentrionale si imboccò una strada diversa → quella della
riconversione che puntava sulle produzioni di pregio e di alto prezzo, come la vita e l'olivo, il gelso,
il lino e la canapa e come le praterie artificiali in funzione dell'allevamento razionale dei bovini.

Il mercato italiano riprese poi importanza dopo il Mille e soprattutto nei secoli XIII e XIV, quando il
suo traffico si estendeva dall'Inghilterra fino al Sahara e fino alla Cina e all'estremo Oriente. La
creazione di quest'impero economico fu accompagnata dall'elaborazione di complesse tecniche
industriali e artigianali. Ci furono tre fatti che favorirono la rinascita commerciale:
1. aumento della popolazione e della produzione in tutta l'Europa nord-occidentale che
produssero una notevole e crescente della domanda, da parte del clero, della nobiltà e dei
nuovi inurbati, delle merci pregiate prodotte o importate dalle città italiane.
2. Ascesa del papato che influì in vari modi sullo sviluppo economico dell'Italia
3. controffensiva contro l'Islam → le crociate riaprirono il commercio dei paesi cristiani e in
primo luogo dell'Italia, le vie del Mediterraneo e del Mar Nero. Il trasporto di uomini e merci
su navi genovesi e pisane stimolò le costruzioni navali e fu fonte di guadagni, mentre il
contributo dato dal naviglio italiano alle vittoriose campagna sulle coste siriane fu compensato
con la concessione di agenzie e diritti e con l'istituzione nei porti del Levante di colonie o
quartieri destinati a funzionare da basi per l'importazione diretta delle merci orientali.
Già prima delle peste nera del 1347-50 si manifesta nell'economia una netta inversione di tendenza.
Ristagno e contrazione nella produzione industriale e nella sua commercializzazione sembrano essere
l'effetto della crisi demografica e di sussistenza già in atto dai primi decenni del secolo. Questo fu
anche un periodo di disgregazione e di mutamenti politici, caratterizzato da guerre e torbidi in Europa
e Italia.
La graduale ruralizzazione della società italiana nell'età moderna

Un territorio forte, ma sempre più ruralizzato → Tra 400 e 500 l'Italia era una delle aree europee
più avanzate dal punto di vista economico. Le città erano in Italia più numerose e più ampie. In queste
città le attività industriali erano assai sviluppate. I mercanti e i banchieri italiani godevano di una
posizione di grande prestigio in tutte le regioni d'Europa. Ma anche in questa fase temporale
l'economia della penisola era in prevalenza agraria. È normale che se le città aumentano la produzione
e la produttività del settore agricolo aumenta: più le città sono grandi e più nelle campagne occorre
che sia ampia la quota del prodotto agricolo destinata a nutrire chi vive in città. Molti dei caratteri
che le economie dell'Italia avevano assunto nell'espansione dei secoli X-XIV resistettero fino almeno
alla metà del XVIII secolo. Il cambiamento più significativo in questo periodo fu la perdita di vitalità
delle economie della penisola in relazione alle economie esterne.
Se proviamo a periodizzare tale ampia fase cronologica, è possibile ritagliare due periodi assai diversi:
1. secoli XV-XVI di sostanziale continuità con i tempi dello sviluppo tardo-medievale
2. secoli XVII-XVIII che evidenziano una vera e propria svolta nell'economia e nella società,
con la crisi della città, dell'industria e della marcatura urbana.
Ci furono altre epoche di crisi tra 500 e 600, è certo però che la crisi secentesca fu assai più grave in
Italia rispetto ad altri paesi europei. Questo fatto chiama in causa il ruolo dell'Italia nella geografia
politica dell'Europa occidentale. Le città-stato italiane con i loro piccoli domini territoriale erano
ancora di dimensioni inadeguate, per le condizioni createsi nel 500 con l'affermarsi di sempre più
potenti Stati Nazionali. Le piccole città-stato italiane dovettero cedere alle artiglierie e ai ben
addestrati eserciti francesi e spagnoli.

Lo spostamento del commercio marittimi dal Mediterraneo all'Atlantico, dall'Italia all'Europa


occidentale è da ricercare nel ripiegamento della già intraprendenti borghesie mercantili italiane verso
i meno rischiosi investimenti fondiari e agrari.
Nell'Italia del primo Seicento, le varie crisi diverse, derivanti da cause specifiche, spesso locali, da
difficoltà nei mercati o nell'approvvigionamento di materie prima, o nell'evoluzione della domanda,
o nella politica economica, s'influenzarono a vicenda.
Nella seconda metà del XVII secolo l'industria cittadina italiana non appare più in grado di competere
con le nuove e più economiche produzioni dell'Europa occidentale e settentrionale, tranne che nel
campo dei prodotti di altissima qualità e dei generi di lusso.

Le oscillazioni demografiche → La tendenza demografica positiva avviatasi dalla metà del XV


secolo prosegue per tutto il XVI secolo. Alla metà del XVI la popolazione risale a 11,5 milione e alla
fine del secolo a 13,5 milioni. Il nuovo e ragguardevole addensamento della popolazione nelle città
più importanti stava producendo gravi problemi di ordine igienico-sanitario per l'inadeguatezza delle
strutture idriche e ognarie, oltre che per l'assenza di qualsiasi servizio di nettezza urbana. La ripresa
aveva comportato un sensibile rimescolamento delle gerarchie rispetto alla situazione dei tempi di
Dante Alighieri. Molta importanza venne assunta da Roma e le capitali del Mezzogiorno: Napoli,
Palermo, Messina e Catania. Le città dell'Italia centrale avevano perso molte posizioni. L'inizio
dell'età moderna ha sancito un'altra trasformazione determinante, vale a dire il passaggio di rango
della città. Mentre pochi centri mantengono o acquistano un peso maggiore rispetto a tutti gli altri, il
rovescio della medaglia si applica a un elenco nutritissimo di città non solo piccole e medie ma anche
di grande forza economica e politica nel passato medievale.
Il secolo XVII segna l'ultima crisi di antico regime demografico.

Le città ridisegnate dall'urbanistica del potere → Durante il XV e il XVI secolo vennero attuati
cospicui accrescimenti soprattutto a Roma, Milano, Genova, Verona, Lucca, Firenze, Napoli e
Messina. Tuttavia le realizzazioni urbanistiche più importanti restano interventi isolati, con
inserimento di una veste architettonica nuova nelle strutture edilizie già consolidatesi da secoli, e
soprattutto un po' ovunque con riorganizzazione di strade e piazze dettate dai modelli del nuovo
decoro urbano. E' però importante ricordare la costruzione di grandi e geometriche città fortificate
che esprimono le migliori elaborazioni concettuali dell'urbanistica e dell'architettura rinascimentali.
Nei secoli XVI-XVII ci fu un vero e proprio processo di intensa colonizzazione feudale → esigenza
di ripopolare le campagne semi-spopolate per fissare sul latifondo la forza lavoro necessaria per
rinnovare la produzione agricola.
La crisi dell'economia urbana che si apre con il XVII secolo vale a spiegare il sostanziale
immobilismo demografico e urbanistico di pressocchè tutte le città fino alla metà del XVIII secolo.
Sempre nel corso della crisi, il XVII secolo, matura una svolta gravida di conseguenze sulla futura
storia del paese, consistente nel passaggio dal sistema della città industriale. E' in questo quadro di
ristagno delle funzioni urbani più vivaci e creative che si collocano gli interventi fastosi e
monumentali di principi e aristocratici. Adesso sono le strutture che esprimono il potere e i
comportamenti religiosi a inserirsi con particolare risalto nel tessuto urbano.
I pochi lavori documentati riguardanti le strade e le vie di comunicazione del XVII secolo, ci rivelano
che esistevano strade quasi soltanto volte a collegare le capitali con altre città importanti. Lo stato
mediocre e pessimo della viabilità moderna non impediva, lo svolgimento dei flussi commerciali e il
passaggio dei viaggiatori, poiché le strade percorse da quest'ultimi erano quelle degli Stati con il
cosiddetto servizio di “posta” → istituzione di condotte regolari di corrieri per corrispondenza e
merci, affitto di cambi dei cavalli e fornitura di ospitalità e ristoro in specifici edifici.

Le campagne tra sviluppo rinascimentale e “rifeudalizzazione” secentesca → Nel Rinascimento


si ha un perfezionamento del sistema irriguo delle marcite (con lo scorrimento sul prato di un leggero
velo d'acqua durante l'inverno, impedisce il congelamento e l'arresto di ogni attività vegetativa),
soprattutto in Padania e in particolare la Lombardia. In questo periodo in Padania: si riduce il peso
della grande proprietà nobiliare di origine feudale, si centrale la proprietà ecclesiastica, si riduce
anche la piccola proprietà, aumenta la proprietà dei mercanti e di uomini d'affari di origine urbana. In
alcune zone l'abbondante irrigazione permette d'integrare ancor più strettamente agricoltura e
allevamento: la coltura dei foraggi per gli animale sostituisce il maggese → scompare l'anno del
riposo del terreno, introdotta la rotazione continua al posto delle rotazioni triennali. La coltivazione
dei foraggi permette di allevare bestiame più abbondante che in passato, ciò significa più concime e
questo permette di raggiungere un rendimento superiore nella coltivazione dei grani.
Un altro sistema agrario della Padania era quello della “piantata” → divisione della superficie in
ampi campi di forma regolare, con limiti segnati da cavedagne e da fossati, lungo le cui ripe corrono
i filari di alberi vitati.

L'amplissima ricerca sulle campagne trevigiane in età moderna, vale a tracciare le linee generali del
popolamento e dell'organizzazione produttiva in un settore non secondario della pianura padano-
veneta, durante i due secoli successivi alla grande crisi trecentesca. Dagli studi emerge la portata dei
mutamenti climatici tardo cinquecenteschi noti come “Piccola glaciazione” e scaturiscono pure, con
chiarezza, gli effetti delle politiche cittadine di privatizzazione od espropriazione dei beni comuni
dalla peculiare valenza silvo-pastorale.

Un tema territoriale che nell'età moderna investe un po' tutta l'Italia riguarda il disboscamento
montano e collinare, con i dissesti idrogeologici prodotti non solo nelle terre alte ma anche e
soprattutto in quelle basse.
Ben note agli studiosi sono le testimonianze sugli effetti disastrosi della distruzione dei boschi di
montagna e le provvisioni dei governi per la loro salvaguardia e il loro sfruttamento relativamente al
secolo XVI → questi crearono: allagamenti che, favorendo e aggravando la malaria, determinarono
abbandoni di terre da parte della popolazione. Si comincia a rispondere pure con iniziative individuali:
mediante l'elaborazione e la diffusione di nuovi tipi di sistemazioni che per questo ambiente erano
stati appena abbozzati in età comunale e ampliati nei tempi primo-rinascimentali.
Anche il riso progredisce nel Nord contemporaneamente al gelso e permise di lavorare terreni
paludosi, altrimenti impossibili da coltivare.
Le risaie non vennero impiantate soltanto come coltivazioni stabili nei terreni acquitrinosi: già alla
fine del XVI secolo, la coltivazione si diffonde anche in terre artificialmente allagate.

Ci fu anche una diminuzione del costo dei cereali che si manifestò nel corso della seconda metà del
XVI secolo che favorì lo sviluppo dell'allevamento, specialmente quello ovino per il più alto valore
della lana.
Il processo di ri-feudalizzazione appare evidente in quei settori della penisola nei quali più vivace era
stato lo slancio del moto comunale. Laddove i proprietari cittadini mantengono le attitudini
imprenditoriali raffinate dalla ercatura, gli investimenti fondiari e agrari nelle aree mezzadrili non si
interrompono.
Le ville tardo-cinquecentesche e secentesche rappresentano spesso un centro di riorganizzazione del
sistema mezzadrile verso orientamenti più produttivi e meglio in grado di soddisfare le mutevoli
domande del mercato.

La ripresa sei-settecentesca → L'Italia da paese sviluppato prevalentemente importatore di materie


prime ed esportatore di manufatti e servizi, era divenuta così un paese sottosviluppato
prevalentemente importatore di manufatti e servizi ed esportatore di materie prime. Dopo le gravi
crisi produttive ed epidemiche della prima metà del XVII secolo, la situa economia torna
gradualmente a migliorare nella seconda pare dello stesso secolo. Il ceto dei grandi mercanti e
banchieri si volge verso la proprietà della terra che garantisce l'ingresso nella nobiltà mediante
l'acquisto dei titoli feudali o cavallereschi. Anche la produzione agricola aumenta parallelamente
sotto l'impulso della crescita demografica. Ci fu una notevole diffusione del gelso e del riso. Si
crearono e potenziarono anche altre attività proto-industriali ubicate nelle campagne. Queste
contribuiscono a quella ruralizzazione dell'economia italiana che le cifre relative ai tassi di
urbanizzazione già rivelano.
La realtà rurale italiana, fortemente più variegata di quella urbana, vide affermarsi nei piccoli centri
e nelle campagne aree di forte sviluppo agricolo e manifatturiero a fianco di aree arretrate e in
progressiva decadenza. Una conseguenza di ciò fu la forte dinamica migratoria con flussi di esodo
anche da parte delle montagne.

Sviluppo demografico e allargamento dello spazio agrario tra 700 e 800

La rivoluzione demografica e urbanistica → La popolazione italiana passa da 13,6 a 15,8 milioni


tra il 1700 e il 1750. L'evoluzione demografica sette-ottocentesca è frutto principale della caduta della
mortalità per la scomparsa o il drastico ridimensionamento delle pestilenze e delle carestie con le
conseguenti crisi di sussistenza. Comincia ora a cambiare il rapporto tra la grande città murata e il
suo immediato circondario rurale. Lo sviluppo dei centri urbani può essere collegato a due particolari
funzioni svolte dalle città: una di tipo amministrativo, l'altra di centro portuale o nodo dei traffici. E'
dalla Restaurazione che la più intensa crescita demografica determina l'avvio della costruzione dei
primi quartieri ai margini delle città realizzati per iniziativa privata.
La crescita demografica sette-ottocentesca si distribuisce in modo abbastanza omogeneo nelle varie
parti dell'Italia rurale, ma tende a privilegiare il Mezzogiorno. Era più rapido l'aumento di numero
degli abitanti nel loro complesso rispetto a quelli che vivevano nelle città, il numero degli abitanti è
restato più o meno stabile dal 500 all'800. Le storiche città italiane continuano a mantenere i loro
caratteri di centri nobili fortificati. E' normale che le condizioni igieniche e ambientali dei quartieri
cittadini più affollati apparivano spesso drammatiche.
Nel XVIII secolo si ha una ripresa certa delle attività industriali e quindi anche delle attività
commerciali.
Allargamento dello spazio agrario → La fame di terra determinata dall'incremento demografico in
atto dagli anni 70 e 80 del XVIII secolo spinse i governi preunitari a porsi seriamente il problemi di
come allargare lo spazio coltivato e di come modernizzare il sistema agricolo. La finalità di fondo dei
governi illuminati dell'anciem regime e soprattutto della rivoluzioni francese, fu quella di spezzare il
regime feudale sia abolendo i monopoli e le privative statali o feudali che gravavano sulle risorse
fondiarie, sia rendendo commerciabili le terre e favorendo la formazione di un imponente strato
intermedio.
Le vaste terre di proprietà comunale con le trasformazioni economiche-sociali che hanno
accompagnato il crescere della classe borghese, divennero proprietà del comune e quindi vendibili
passarono dunque nelle mani dei privati. Le eliminazioni delle proprietà collettive e degli usi civici
furono processi radicali, dagli anni 60-70 del XVIII secolo. Anche gran parte dei latifondi nobiliari
erano non commerciabili, perché gravati da una serie di diritti dei poveri abitanti delle campagne su
di essi. Questi diritti non sono che la traccia e la prova di un'antica proprietà comune, usurpata dai
nobili del Medioevo. Dalla spartizione del ricco bottino sorse la proprietà agraria capitalistica, di
estrazione borghese o aristocratica. I contadini più poveri, quelli che campavano sui diritti feudali e
che spesso erano proprietari di appezzamenti insufficienti a sopravvivere furono costretti a lavorare
a tempo parziale negli opifici. Dalla seconda metà del XVIII secolo, anche nell'Italia si riflettono i
progressi tecnico-agronomici che stavano modernizzando parti dell'Inghilterra e dell'Europa
occidentale. Tra 700 e 800 è certo che il maggiore teatro di applicazione pratica fu costituito dalla
Padania irrigua: cominciano allora a diffondersi nuove colture, nuove rotazioni, nuove macchine,
nuovi modi di coltivare il foraggio. L'agricoltura capitalista si diffonde nella parte bassa della pianura.
La risaia è un notevole dinamismo nel Piemonte. Anche il mais si sviluppò molto nei secoli XVIII e
XIX. I vantaggi derivavano dai suoi rendimenti elevati: per ettaro produceva il doppio del grano e
non esauriva i suoli come quest'ultimo.
Nella Pianura Padana per tutto il 700 viene assumendo una crescente importanza un ceto di grandi e
medi affittuari, che in questa evoluzione hanno una funzione di sempre maggiore rilievo. Gli affittuari
iniziano ad intervenire in modo sempre più approfondito nel processo della produzione agricola.
In questo contesto nella Pianura Padana si hanno delle vere e proprie trasformazioni agricoli che
comportano però notevoli investimenti di capitale che nelle aziende mezzadrili avrebbero dovuto
essere ripartiti tra proprietà e colono. Le antiche unità poderali vengono riaccorpate in grandi e
massicce aziende unitarie mentre le case già mezzadrili ospitano ora famiglie ex mezzadrili ridotte
allo stato di salariato fisso o giornaliero. Si dilata il sistema della cascina che giunge a impegnare
anche masse cospicue di lavoratori a giornata. Le aree asciutte sono meno interessate dalle grandi
trasformazioni operate dall'affittanza capitalistica. La modernizzazione si afferma mediante lo
sviluppo delle coltivazioni di pregio commerciale o finalizzate all'uso della proto-industria rurale,
non mediante la rivoluzione delle rotazioni e l'introduzione di altre colture specializzate irrigue o
seccagne.
Segni di evoluzione capitalistica dell'azienda signorile cominciano a rilevarsi anche nel Mezzogiorno.
Sempre al Sud tornano a espandersi le piantagioni di gelso, e soprattutto si affermano processi, in
primo luogo, di specializzazione produttiva in forma di piantagioni monoculturali di olivi, e poi di
viti e mandorli.
Pure la vite in coltura promiscua e specialmente a vigna specializzata prese a ripopolare le terre
coltivate in prossimità dei centri abitati e ad addentrarsi nella campagna. La fortuna della vite
coinvolse e rivitalizzò le vecchie aree di produzione delle costiere rocciose amalfitana e sorrentina.
La realtà del Napoletano e della Sicilia, della Sardegna e dl litorale tirrenico compreso tra le
Maremme toscane, l'Agro romano e le Paludi Pontine, continua a essere profondamente diversa e
sostanzialmente immobile rispetto ai secoli del passato. Qui continuano ad esistere delle proprietà
signorili ed ecclesiastiche e persino demaniali, sulle quali, anziché affermarsi forme d'impresa
capitalistica, predomina la concessione precaria di singoli appezzamenti a una folla di terraticanti,
che li lavorano coi loro rudimentali mezzi di produzione. La tradizionale tendenza da parte dei
proprietari a escludere dagli usi civici le loro terre e persino i demani comunali si accentua tra 700 e
800. I beni concessi in cambio della soppressione dagli usi civici alle comunità, anziché essere
suddivisi tra tutte le famiglie residenti furono in larga misura acquisiti dalla nuova borghesia terriera
dagli affittuari che controllava le leve del potere locale.

Nell'Italia collinare e montana, vennero messe a coltura molte terre marginali, collocate a quote
eccessive o mal soleggiate, spesso mediante imponenti opere di sistemazione. Contemporaneamente
si manifesta una pesante aggressione ai boschi montani e collinari per estendere qui i coltivi e i pascoli,
oppure soltanto per utilizzare in modo troppo intensivo e smodato la massa legnosa sempre pi
richiesta dalle industrie e dai mercati urbani. I tagli determinarono processi preoccupanti di dissesto
idrogeologico delle terre alte, con le frane e gli smottamenti e il denudamento delle matrice rocciose
a opera dell'erosione delle acque, e con le sempre più rovinose inondazioni nelle terre basse → questo
arriva la ricerca e la sperimentazione della scienza agronomica che valse a elaborare la nuova tecnica
delle “colmate di monte” che intendeva trasformare le più basse pendici denudate e scoscese dei
rilievi, in una serie di singoli ripiani sostenuti da muri, detti piani “a spina” o tagliapoggio, con
divisione in piani separati. Tali efficacissime bonifiche collinari rimodellarono il paesaggio di intere
aree che vengono ad assumere un'importanza che dalla Toscana si allarga ben oltre i confini regionali,
per incidere profondamente delle forme del paesaggio agrario italiano.

Insieme con i disboscamenti e i dissodamenti a fini agrari, nella seconda metà del 700 ripresero in
grande stile anche le bonifiche degli acquitrini presenti in pianure costiere e interne dell'Italia centro-
settentrionale.
Si ritiene che bonifiche, diboscamenti e miglioramenti agrari realizzatisi nell'Italia centro-
settentrionale servirono almeno ad accrescere la produttività del settore agricolo. Essi fecero fronte
all'aumento demografico mettendo a disposizione più beni per un numero di bocche che andava
crescendo. A partire dalla metà o seconda metà del 700 la crescita commerciale e manifatturiera
riportò in primo piano l'attenzione per la viabilità e per le vie di navigazione interna. Il fatto era che
un po' tutte le strade erano malandate o pessime. La rete era molto più fitta ed efficiente nella Padania,
con articolazione intorno ai principali centri, mentre le coste a sud di Loreto e di Livorno sono
totalmente prive di strade, anche il Sud era quasi privo di comunicazioni. Nella seconda metà del
XVIII secolo → passaggio dal trasporto someggiato a quello con carri, vennero costruite
pavimentazione resistenti ma non eccessivamente costose, pendenze e larghezze costanti, curve con
raggi prefissati, opere d'arte unificate e ponti.

Gli interventi miglioritari si applicarono pure alla rete dei fiumi e canali navigabili esistente da secoli,
soprattutto nell'Italia settentrionale. Molti fiumi venivano tradizionalmente utilizzati anche per la
fluitazione a valle dei tronchi degli alberi tagliati nelle montagne, un trasporto che andò avanti almeno
fino all'avvento delle ferrovie e spesso ancora tra 800 e 900. Furono poi realizzati diversi lavori sui
valichi appenninici in Liguria, nei ducati emiliani e in Toscana, nonché interventi in zone prive di
arterie, come la ricostruzioni dell'Aurelia da Livorno a Roma. Rimase invece statica la situazione nel
Mezzogiorno. Furono istituiti anche nuovi servizi e linee regolari di diligenze, anche alla scala
internazionale, a opera di imprese come la Franchetti e la Orcesi che collegavano quasi tutte le
principali città italiane.
Ci furono innovazioni anche per quanto riguarda la navigazione → navigazione a vapore in pianura
padana, sulla cui rete di fiumi e canali si spostavano le derrate lombarde e svizzere dirette ai porti di
Venezia e Trieste.
Dal 1839 si apre pure l'epoca delle ferrovie in tutti gli Stati preunitari. Con la costruzione di tali
infrastrutture di comunicazione il mondo moderno, tecnologico e industriale, comincia a sovrapporsi
al paesaggio antico.
C'è un processo di ribaltamento dei valori territoriali e di scivolamento degli abitanti e delle attività
economiche verso le pianure, specialmente costiere, doveva però manifestarsi compiutamente dopo
l'unità d'Italia.
L'età unitaria: i tempi dell'industria e dell'urbanizzazione

L'Italia delle varietà geo-antropiche e socio-culturali. Il mosaico dei sistemi agrari al tempo
dell'unificazione nazionale → La distribuzione della popolazione sul territorio era direttamente
correlata a una realtà sociale così nettamente dominata dalla presenza contadina.
Italia centrale e nord-orientale: rapporti di lavoro stabili o di lunga durata e da una organizzazione
produttiva anche abbastanza organica (mezzadria)
Italia nord-occidentale: i rurali si aggregavano in villaggi e centri minimi
Italia meridionale: popolazione tende a concentrarsi nelle città e nei grossi centri contadini
Centro nord aveva un'armatura urbana assai fitta e articolata e distribuita in maniera abbastanza
uniforme sul territorio con caratteri che possono essere definiti policentrici.
Italia meridionale troviamo un numero di città minore: i rari poli urbani meridionali si
caratterizzavano come i luoghi in cui si realizza il potere dei ceti agrari dominanti.
Le pianure padano-venete con le loro cento città, grazie all'ampiezza raggiunta dalle bonifiche dei
tempi tardo-medievali e moderni, erano il teatro incontrastato dell'individualismo agrario, per la
dominanza delle grandi e medie aziende strutturate su sistemi prettamente capitalistici. Le grandi e
medie imprese si caratterizzavano per la spiccata specializzazione cerealicola e foraggiera che
rendeva possibile un cospicuo allevamento di bovini.
Italia centrale: organizzata secondo la struttura dell'agricoltura promiscua nel più lato termine con
seminativi e piantate di ogni tipo. L'ordinamento produttivo era dato dalle piccole unità poderali a
base familiare.
Eccezioni sono:
1. pianure litorali → regioni settentrionali e centrali, che erano intersecate da resti di lagune o
largamente pantanose e quindi pochissimo popolate.
2. Montagna alpina e appenninica → continuava a mantenere una relativa forza e una relativa
autonomia, nonostante la crescita demografica, le privatizzazioni di beni comuni e le
soppressioni delle servitù feudali. Questi interventi erano destinati a introdurre conseguenze
sempre più negative sugli equilibri precari che legavano le società locali
Fin grosso modo all'unità d'Italia le montagne mantenevano intatta la loro organizzazione territoriale
maturata tra tardo Medioevo ed età moderna: qui l'associazionismo popolare era particolarmente
diffuso e un po' a tutte le famiglie corrispondevano piccole o piccolissime aziende agro-silvo-pastorali.

L'organizzazione agraria più arretrata era l'assetto del latifondo che coinvolgeva gran parte della
Maremma toscana, le pianure laziali e quasi tutto il Meridione. Soprattutto nel Meridione l'assetto del
latifondo cerealicolo-pastorale estensivo era sostanzialmente destinato a durare fino alle bonifiche e
alle colonizzazioni fasciste e addirittura alla riforma agraria parziale del 1950.

Sino al 1860-70 l'Italia è un aggregato di spazi politici che intrattengono fra loro modeste relazioni
economiche e intense relazioni culturali: unificata del XIV secolo, la lingua letteraria è il principale
elemento coordinatore delle diverse Italie geografico-storiche.

Industrializzazione, urbanesimo e nuovi equilibri demografici → Con l'Italia unica si apre una
fase più dinamica in termini economici e sociali. Con l'espansione della legislazione e della politica
libero-scambista vennero svantaggiate le regioni del Mezzogiorno. Ci fu anche una grande crescita
demografica e un grande incremento fisico delle città.
Sul piano demografico e sociale, la grande emigrazione verso l'estero che caratterizzò, in misura
crescente, gli ultimi decenni del XIX e l'inizio del XX secolo fu senza dubbio un fatto nuovo e
sconvolgente nella storia della popolazione italiana. Gli spostamenti furono dovuti alla crisi delle
regioni alpine, appenniniche e le regioni meridionali.
Molte degli emigranti tornarono in Italia successivamente per offrire un contributo prezioso al
processo di industrializzazione e al miglioramento dell'economia italiana.
La svolta protezionista degli anni 80 del XIX secolo giocò un ruolo importante nel processo di
modernizzazione e di industrializzazione del Paese. Dagli anni 20 cominciarono a verificarsi
spostamenti definitivi all'interno della penisola per effetto della capacità attrattiva della capitale e di
alcune aree del Nord più interessate dallo sviluppo economico.

L'agricoltura tra modernizzazione e crisi → Tutte queste modernizzazioni aiutano il processo di


penetrazione dei rapporti mercantili e capitalistici nell'agricoltura italiana, favorendo anche la
specializzazione regionale delle culture. Tuttavia la rivoluzione ferroviaria e tecnologica in atto nel
settore dei trasporti marittimi non fu sufficiente ad amalgamare le varie parti del paese, ma neanche
l'unità del Paese riuscì a riunire le due Italie.
Italia settentrionale → ultimi decenni unitari riprendono stile i lavori della bonifica e della
sistemazione idraulica, ci sono i sistemi agrari della cascina capitalistica e della piantata/alberata.
Padania asciutta e Italia centrale → le classi dominanti continuarono a costringere lo sviluppo nel
quadro tradizionale del sistema mezzadrile e delle colture promiscue organizzate nel classica
paesaggio della piantata/alberata.
Le bonifiche rappresentarono il capitolo più glorioso: quello a cui la borghesia fondiaria meglio legò
il suo ruolo di classe dirigente, tanto con il prosciugamento di nuove terre quanto con l'irrigazione
delle vecchie. Il caso più eclatante di bonifica è l'Emilia Romagna → è stata rivoluzionata dalla
bonifica e dalle sistemazioni idrauliche contemporanee della pianura detta “larga”: quest'ultima, una
vasta distesa di terre in pianura, generalmente compresa in una zona di recente bonifica, non
appoderata, dotata di sistemazione idraulica a maglie larghe, ma sprovvista ancora di alberatura,
seppure punteggiata di centri aziendali per la conduzione capitalistica con salariati della produzione
agraria.
Furono fatte bonifiche anche nel latifondo Odescalchi di Ostia e ci fu una trasformazione fondiaria
del Fucino.
Da tali processi scaturirono anche la diffusione capillare delle foraggiere e di nuove colture industriali
nell'avvicendamento, oltre che per la prima volta del frutteto specializzato.
L'Italia settentrionale collinare e montana risulta estranea ai processi della modernizzazione
tecnologico-agronomica, con le tante piccole aziende familiari spesso precarie messe gravemente in
crisi dalla sottrazione di risorse integrative, con la soppressione degli usi civici e la privatizzazione
di molti beni comuni.
Negli ambienti collinari più produttivi non mancano isole di piccole proprietà coltivatrici autonome
che si perpetuano a prezzo di inauditi sacrifici e investimenti di lavoro.
Nell'Italia centrale va ora crescendo il peso agrario delle antiche province dello Stato Pontifico che
vedono aperta la via ad un tipo di evoluzione capitalistica dei rapporti agrari e ad un più rapido ritmo
del processo agronomico.
In queste regione dell'Italia centrale lo slancio degli investimento e dello sviluppo capitalistico
dell'agricoltura è ben lungi da raggiungere quello che abbiamo potuto rilevare nella Pianura Padana.
Nell'Italia meridionale la mobilizzazione degli ingenti patrimoni comunali ex feudali produce il
duplice fenomeno della frammentazione delle quote in un numero sempre maggiore di proprietari
particellari, incapaci di trarre dalla terra quanto necessario per vivere. D'altra parte un numero assai
esiguo di aristocratici e di galantuomini provvedono a concentrare nelle loro mani le notevoli quantità
di terre per acquisto o usurpazione.
Anche i beni dell'asse ecclesiastico finirono in larga misura per ingrossare il patrimonio fondiario
della nuova borghesia terriera. Il risultato più vistoso di questi trapassi di terre alla borghesia è dato
dall'estensione dei campi chiusi in luogo di quelli aperti tradizionali, con il maggese che, prima, si
giustappone al riposo e poi tende gradualmente a sopravanzarlo in vari territori.
Si dilatano le grandi piantagioni di viti, olivi, agrumi, mandorli. Laddove si costituisce tale nuovo
paesaggio alberato, con i suoi muri divisori o di sostegno del suolo, si delinea rapidamente il corollario
dei nuovi insediamenti aziendali e delle dimore e dei magazzini rustici.
Un po' in tutto il Meridione, a partire dal secondo Ottocento, le nuove piantagioni tendevano ad
incunearsi profondamente nella campagna, lontano dalle mura urbane, a formare vaste distese di
coltura specializzata che si stagliavano con nettezza sul restate paesaggio. Fu proprio l'agrume, pianta
che per antonomasia si era a lungo identificata con il giardino, a imprimere un ritmo particolare di
trasformazione del territorio. L'agrumeto investe ora tutte le zone climatiche favorevoli del
Mezzogiorno e assume i caratteri di sterminata monocoltura → questo determinò la crisi e la quasi
scomparsa delle piccole e antiche coltivazioni presenti nella costa tirrenica e ligure e addirittura
intorno al lago di Garda e nella costiera adriatica marchigiana.
Il mandorlo guadagnò con velocità straordinaria i terreni più poveri, quali quelli calcarei, nell'agro di
Bari, nell'Agrigento e nella Sardegna. Vennero poi impiantati grandi noccioleti soprattutto nella
Penisola Salentina, Cilento e Calabria.
Le condizioni del Meridione peggiorarono con le sopraffazioni dello Stato accentratore.
Ancora nell'ultimo dopoguerra l'Italia era un paese essenzialmente agricolo, con l'agricoltura che
continuava a esprimere forti contrasti fra i sistemi agrari di mercato, da un parte, e le tante altre realtà
che apparivano ormai del tutto o in parte inadeguate. C'era un forte disagio che causarono gli indici
alti di popolazione delle campagne e di disoccupazione e sottoccupazione delle masse rurali. E' in
tale contesto di forte disagio politico-sociale che il governo doveva approvare nel 1948. le legge
incentivante la formazione della piccola proprietà contadina che valse a produrre la ridistribuzione di
circa 2 milioni di ettari, e nel 1950 la cosiddetta “legge stralcio” → riforma agraria non spoliatrice e
assai moderata e parziale con la quale venivano espropriati a 2805 proprietari di latifondi quasi
700.000 ettari assegnati a 109.000 famiglie di proprietari particellari e contadini senza terra. → tale
riforma doveva realizzare grandi trasformazioni paesistiche e produttive, specialmente nei
comprensori dell'Italia centro-settentrionale. La riforma intendeva suscitare un modello abitativo qui
quasi completamente nuovo quale la casa isolata sul podere che rompeva il tradizionale
accentramento contadino nel borgo. Almeno per i primi anni però le difficoltà non mancarono: intorno
al 55 si calcolava che gli assegnatori ricavassero mediamente un reddito di lavoro pari al salario
bracciantile corrente.
Con la riforma fondiaria e più ancora con la liquidazione dei restanti patrimoni borghesi, sul libero
mercato, la conduzione coltivatrice divenne la struttura portante dell'agricoltura italiana già negli
anni 60.
Il quadro dell'agricoltura italiana attuale è completamente diverso da quello della prima metà del 900.
Il carattere di fondo è dato dall'altissima specializzazione delle aziende. Anche l'agriturismo e il
turismo rurale stanno validamente contribuendo al consolidamento e allo sviluppo di innumerevoli
aziende.
Domina l'azienda familiare sempre più razionalizzata ed efficiente e accanto convivono aziende di
operai contadini e braccianti,artigiani, commercianti e persino impiegati contadini.
Al buon successo arriso alla riforma, corrisponde il sostanziale fallimento dei programmi di interventi
straordinari approvati ed eseguiti per l'industrializzazione dell'Italia arretrata.

Le città e i nuovi equilibri (e squilibri) territoriali nell'età della rivoluzione industriale → Con
l'industria tutto cambia sempre più vorticosamente e la città diventa l'unico fulcro dell'assetto
territoriale. L'unificazione del mercato nazionale, la costruzione di una sempre più estesa rete di
comunicazione e la ininterrotta crescita demografica sono i fattori che spiegano la ripresa in grande
stile dei processi della bonifica idraulica e della colonizzazione agraria già nella seconda metà del
XIX secolo. Durante la prima età industriale ci sono stati una grande varietà di eventi urbanistici ed
una miriade di episodi edilizi, in relazione alla diversità delle situazioni. La creazione della vera e
propria città chiusa che ha un dentro e un fuori, la città cristallizzata in una forma è da collocare tra
800 e 900. Nella prima fase della più intensa industrializzazione 800-900entesca l'organizzazione
dell'industria tessile in grandi e medie manifatture finisce con il determinare la rovina dell'industria
rurale a domicilio. La disgregazione dell'industria rurale non mancò di produrre l'impoverimento e la
vera e propria espulsione all'estero o nei centri urbani in sviluppo del Paese di quote sempre più
rilevanti della popolazione agricola e rurale.
Con il diffondersi della macchina a vapore le industrie tendono a svincolarsi dalla risorsa acqua e a
polarizzarsi su centri ben serviti dalle infrastrutture di comunicazione. Tale processo comincia a
penalizzare molte delle piccole manifatture legate alle acque fluviali. Nella fase del decollo, emerge
Milano, che diventa il principale polo manifatturiero, con a seguire Genova e Torino, vale a dire i
vertici del cosiddetto triangolo industriale italiano.
Per poter unificare il mercato e lo Stato, i governi italiani provvidero a marce forzate a integrare le
reti stradale e ferroviaria dei vari staterelli. Ci fu un grande sviluppo della rete ferroviarie che proseguì
anche dopo la nazionalizzazione della rete, fino al tetto massimo di 22.372 km raggiunto nel 1939.
Sotto il regime fascista, iniziarono i lavori di elettrificazione e di raddoppio delle principali linee a
scorrimento veloce e di ammodernamento dei macchinari. La rivoluzione ferroviaria alla luga
produsse la quasi definitva scomparsa delle pratiche idroviarie.
Gli anni del miracolo economico videro un quasi generale abbandono della navigazione interna, che
sopravvive sui laghi subalpini e su quello Trasimeno, sulla laguna veneta e su circa mille chilometri
di vie d'acqua, con asse fondamentale costituito dal Po e dai suoi raccorti di foce con l'Adriatico.
Nei decenni postunitari, comincia a verificarsi un sempre più vistoso processo di selezione urbana,
con sviluppo di alcuni centri maggiori e con “perdita di rango” di molti centri minori, con conseguente
allargamento delle maglie della rete urbana e dell'area di influenza di ciascun centro → si veniva
delineando una specie di riordinamento funzionale con l'emergere di città industriali e di città di
servizi → si modifica il modello di distribuzione delle città e quindi della popolazione nel territorio.
La rivoluzione produttiva si estende alle compagna con macchine e ingrassi chimici e nuove tecniche.
A partire dagli anni 70-80 del XIX secolo si realizzano anche altre innovazione nel settore delle
infrastrutture, come le prime linee di trasporto non solo urbano ma anche extraurbano su rotaia,
inizialmente alimentate dal vapore, le tramvie. All'inizio del 900 si aggiungono poi le prime autolinee
con “omnibus” poi sostituiti dai bus. Nel 1924-25 vengono costruite le prime autostrade. E' però
nell'ultimo dopoguerra che, con lo sviluppo della motorizzazione privata di massa, non solo le filovie
e tramvie elettriche, ma anche le linee ferroviarie di lunga concorrenza dovettero cedere il posto ai
più inquinanti autobus e camion. Poi venne ripreso il programma di potenziamento della rete
autostradale.
Non c'è solo una modifica del paesaggio: cambia la struttura sociale, la distribuzione della
popolazione.
Fino alla rivoluzione industriale, l'Italia vantava una struttura policentrica come nessun altro paese in
Europa. In altri termini, le città erano relativamente indipendenti una dall'altra, e ciascuna continuava
a esercitare funzioni direzionali sulla propria campagna → la rete urbana era poco differenziata, e le
città non erano ordinate gerarchicamente e dominate dalle città maggiori come nel mondo attuale.
L'industria moderna sorge dapprima fuori dalle cinte urbane per vari motivi: migliore disponibilità di
forza motrice, di mano d'opera contadina a buon mercato e tuttavia già esperta nei mestieri tessili, di
suoli più estesi. Dopo questa prima frase, si verifica però una vera e propria zonizzazione sociale
della città e delle aree urbanizzare. L'industria tende infatti a raccogliersi in particolari localizzazioni.
Nelle aree peggiori si concentrano gli operai; nelle aree migliori, di collina i quartieri alti. Nel centro
si sviluppa una complessa articolazione commerciale mentre vengono espulsi i precedenti abitanti.
Nasce una struttura complessa di servizi tecnici: gli acquedotti portano alla necessità di fognature
moderne. Nasce anche il quartiere della stazione.
Buona parte della città, specie nel Centro e nel Meridione, rimasero chiuse nel loro secolare torpore,
salvaguardando almeno i loro valori monumentali di centri storici e di comunità con forti identità
culturali.
Una serie più nutrita di città si svilupparono tanto da poter essere elevate al rango di provincia, nel
periodo fascista e anche successivamente alla Seconda guerra mondiale. Nel corso del 900 vengono
attuati cospicui interventi di accrescimento dell'abitato, che non di rado comportano pure
“sventramenti” o “risanamenti” e ricostruzioni dei tessuti storici.
Il disordine edilizio è chiaramente dimostrato non solo dalle conformazioni spaziali e architettoniche
assunte dalle città, ma anche dalla grande varietà dei modelli residenziali riferibili alle differenze di
classe degli abitanti. Lo sviluppo della grande industria nel ventennio fascista arricchisce poi
ulteriormente la casistica degli stili architettonici e delle realizzazioni edilizie. L'alleanza tra rendita
fondiaria e capitale finanziario o industriale spiega l'esplosione edilizia e la speculazione immobiliare
che si sono verificate in tutti i centri di sviluppo industriale, turistico e terziario del Paese, nonostante
i tentativi di regolare la crescita effettuati dal potere centrale e dalle amministrazioni regionali. Dai
primi anni 70, con la crisi petrolifera e industriale mondiale, anche in Italia è cessato il processo
convulso e disordinato dell'urbanesimo versi i grandi centri.
Subordinata alla politica di favore per la motorizzazione privata è stata quella dei trasporti: il trasporto
per strada è stato facilitato in ogni modo, ed è stata realizzata un rete imponente di autostrade.
L'industrializzazione si è quindi diffusa dalle regioni dell'Italia nord-occidentale in direzione sia del
Veneto/Friuli e dell'Emilia e sia dell'Italia centrale. Un po' in tutta Italia è assai mutato il modello
complessivo di distribuzione della popolazione come pure il modello di distribuzione dei centri abitati.
In questo nuovo sistema il territorio si differenzia profondamente: si accentua la selezione e la
specializzazione delle funzioni, si articola in sistemi dominanti e in settori economicamente e
socialmente subordinati.
Siamo in presenta di territori più o meno densamente popolati che non trovano la loro ragion d'essere
in un rapporto con le risorse naturali locali, ma in una fitta rete di relazioni e di flussi tra fabbrica e
fabbrica, tra le fabbriche, i depositi commerciali e i punti di vendita, tra le case, le fabbriche, gli uffici
e viceversa.
Il territorio comandava la produzione e indirettamente la dimensione e le funzioni delle città come
luoghi di scambio, di organizzazione o anche solo di prelievo di rendite agricole. Negli ultimi 50 anni
questo rapporto si è invertito: sono le esigenze della produzione che determinano l'uso del territorio.
In questo periodo, infatti, c'è un trasferimento di residenza di molti cittadini dalle campagne.

Alle origini di uno Stato senza nazione: Stato e autonomie locali dopo l'unificazione → La nascita
d'una nazione avviene come il prodotto di un'operazione culturale quando riesce a fondere insieme
mitologia letteraria, concreti interessi sociali ed economici, progettualità politica, volontà di potenza,
quando una minoranza acquista egemonia culturale e politica. L'élite liberale che fondò lo Stato
unitario non riuscì a compiere questa inclusione. Incluse con molta fatica la piccola borghesia dei
pubblici impieghi e il proletariato industriale.
L'identità italiana appare estremamente debole e rischia di uscire a pezzi dalla crisi attuale. Lo stato
gode oggi di un basso prestigio di legittimità di cui è responsabile un ceto politico dissennato.
L'identità italiano non è un monolite ma una summa inesauribile di storie e culture differenti: un
profilo policentrico. → sembra dimostrare che mancano i presupposti perché si possa parlare di una
nazione. → la mancanza di una identità nazionale si spiega con la disomogeneità degli Stati preunitari.
Occorre valutare anche l'aspetto etnico-culturale e linguistico. Il nuovo Regno apparve subito
costituito da popolazioni culturalmente poco omogenee e da una imbarazzante carenza di coesione
etnica. Le diverse culture elaborate e prodotte dagli antichi Stati italiani, nella loro lunga esistenza,
avevano lasciato impronte particolari sulla cultura materiale e sulla psicologia delle popolazioni.
Esistevano, come adesso, nelle diverse aree regionali, diversità radicali.
Al di là della spaventosa piaga dell'analfabetismo, la frammentazione linguistica era ed è rimasta
grandissima per molto tempo. Al momento dell'unificazione erano pochissimi i cittadini che usavano
la lingua italiana abitualmente.

La destrutturazione delle antiche “piccole patrie”, l'artificio regionale e provinciale → I comuni


costituiscono le pietre elementari dello Stato: anzi, costituiscono storicamente lo Stato, proponendosi
come gli unici o almeno i principale destinatari delle emergenti domande sociali, i luoghi della
sovranità da cui dipende il riconoscimento e l'ordinamento dei diversi soggetti giuridici di una società.
In Italia, gli attuali confini amministrativi interni sono ora la copia esatta di quelli assai più antichi, e
ora il frutto di aggiustamenti più recenti, presentando spesso aspetti eterogenei per quanto attiene al
loro rapporto con le componenti dell'ambiente fisico-naturale.
Lo spazio territoriali comunale, per gli organismi urbani e rurali, era già disegnato con discreta
esattezza e stabilità fino dagli ultimi secoli medievali.
Prima dell'unità e soprattutto fino all'età napoleonica, le circoscrizioni intermedie al di là dei diversi
ordinamenti giuridici e delle diverse tradizioni amministrative, si qualificavano per le dimensioni
assai minori e per i caratteri geografici sicuramente più omogenei. Talora nella regionalizzazione di
grado intermedio a maglie molto strette organizzatasi all'interno degli Stati del tardo Medioevo e
dell'inizio dell'età moderna, le popolazioni tendevano a identificarsi con le piccole “province”
storiche.
Queste si erano definite sul piano dell'organizzazione politico-amministrativa mediante
l'accorpamento di gruppi di comunità effettuato in base a parametri fisico-naturali. Non si può dire
che prima dell'unità esistesse una coscienza diffusa in merito all'esistenza dei “regionalismi” alle più
diverse scale geografiche.
Lo Stato italiano, si dimostrò del tutto inadeguato a garantire una gestione armonicamente integrata
alle mille differenze e contrapposizioni locali del Paese, dominate dai vivaci e spesso polemici
municipalismi.
Le province furono concepite come sedi di decentramento dell'amministrazione statale controllata dai
prefetti di nomina governativa e quindi come meri strumenti di allineamento della politica locale a
quella centrale. Le province furono individuate sulla base di astratte pratiche di regionalizzazione
geostatistica e di artificiosi interventi di ritaglio e organizzazione territoriale di uno spazio, in chiave
amministrativa, ad opera dei vertici dello Stato.

La questione e la politica ambientale del XX secolo

La politica ambientale agli inizi del 900 → I primi segnali del formarsi di una coscienza nazionale
ambientalista risalgono agli anni a cavallo tra 800 e 900, e sono legati alla necessità di difendere un
patrimonio, come quello italiano, di straordinaria valenza.
La difesa doveva essere attivata nei riguardi degli interventi pubblici e privati che distruggevano o
degradavano luoghi ed aree di rilevante pregio estetico e culturale.
Il banco di prova nella neonata coscienza ambientalista fu costituito dalla questione della pineta di
Ravenna. Tale storica foresta nel corso dell'800 era stata prima privatizzata e poi gradualmente
distrutta per finalità sia di sfruttamento commerciale del legname e sia per allargare gli spazi agricoli
e le aree fabbricabili per industri e residenze. Per salvare la pineta fu necessario approvare una
specifica legge il 1° luglio 1905, con la quale si provvedeva al suo acquisto da parte dello Stato e alla
sua dichiarazione di inalienabilità perpetua. L'istanza di tutela delle principali bellezze naturali e
paesaggistiche di notevole interesse pubblico si manifestò nei primi anni del 900.
Con l'obiettivo di tutelare ambienti naturali, paesaggi culturali e beni storici, vennero emanate alcune
leggi che limitavano il diritto di proprietà. (legge forestale del 1923, esemplare per organicità e
chiarezza, semplicità e avvedutezza delle norme e ancora oggi tale legge conserva la sua validità nel
settore dei boschi pubblici ove impone obiettivi di notevole impegno economico e sociale.)
Per i beni architettonici monumentali, già nel 1902 fu approvata una normativa che intendeva tutelare
i beni di pregio antico e artistico, ma che si mostrò poco efficace anche per la modestia dei
finanziamenti a disposizione. Fu una legge riformata più volte. Giacchè l'iniziativa del Governo
tardava, fu Rosadi a prenderla elaborando nel 1910 un disegno di legge intitolato “Per la difesa del
paesaggio” che pur presentato alla camera non arrivò mai ad essere discusso per l'opposizione al
medesimo, forte specialmente nel Senato. Tuttavia nel 1912 fu emanata una legge integrativa che
estendeva la tutela alle ville, ai parchi, ai giardini, luoghi dove l'arte ha modificato la natura in modo
tale da renderli veri e proprio monumenti. Nel 1920 il governo insediò una commissione diretta dallo
stesso Rosadi, perché approntasse un disegno di legge per la tutela delle bellezze naturali e degli
immobili di particolare interesse storico.
La nuova legge sulle bellezze naturali venne riformata nel 1939 con la legge n 1497 tuttora vigente:
in una fase in cui le edificazioni a fini residenziali e industriali avanzavano sospinte dall'incremento
della popolazione, come fiumi di lava che travolgono ogni carattere campestre. La nuova legge si
distingue da quella precedente in tre punti:
1. diversa precisazione dell'oggetto della protezione. Le bellezze sono suddivise in quattro specie:
prime due sono cose immobili di non comune bellezza naturale, e le ville i giardini e i parchi
non contemplati dalle leggi di tutela delle cose d'interesse artistico e storico; le altre due sono
i complessi di cose immobili aventi valore estetico tradizionale, e le bellezze panoramiche.
2. Mentre la legge del 22 difendeva l'integrità della cosa vincolata, la nuova legge intende salvare
solo l'aspetto, il volto della cose che è quello che interessa il senso estetico del pubblico.
3. Avere introdotto la pianificazione per la protezione delle bellezze panoramiche.
Le leggi paesaggistica del 39 e urbanistica del 42 sono tuttora in vigore.

Le aree protette e i parchi naturali e culturali → Nel 22-23 sorgevano in Italia i primi due parchi
nazionali montani e poi nel 34-35 si sono aggiunti i parchi costiero del Circeo e alpino del Gran
Paradico.
E' alla rivoluzione industriale che si deve l'avvio della politica di protezione di non poche, sconfinate
aree di elevato valore naturale o semi-naturale o di indiscussa bellezza paesaggistica, completamente
prive di popolazione umana, come strumenti essenziali per la sopravvivenza di società esposte agli
effetti dirompenti dell'urbanizzazione totale. Da questa duplice finalità (protezione/conservazione e
godimento/contemplazione) prende avvio una politica che ha avuto la forza di organizzare circa un
miliardo di ettari della superficie terrestre in parchi naturali e in altre aree protette.
Il Gran Paradiso consisteva in un'unica immensa riserva di caccia regia dalla particolare ricchezza
faunistica, un territorio quasi privo di insediamenti e popolazioni, che il sovrano provvedeva a donare
allo Stato con un vincolo di destinazione ad area di protezione assoluta dei pregevoli valori naturali
presenti → vero e proprio santuario della natura in cui lo Stato era essenzialmente tenuto a vigilare
che nulla impedisse o turbasse il libero svolgimento delle dinamiche naturali e della vita biologica.
Ci fu poi un periodo di cementificazione irresponsabile e di consumo irreversibile della natura che
procurò la crisi dei parchi e delle aree protette italiane. Dagli anni 70 ci fu una svolta, furono istituite
nuove riserve naturali e non poche riserve naturali statali nelle residue zone umide aventi rilevanza
internazionale, poi furono istituite 7 riserve marine.
Entra poi in gioco una terza finalità per quanto riguarda i parchi: ovvero quella dello sviluppo
economico e sociale delle comunità locali interessate → questo fa sì che i parchi possano venir visti
come strumenti di pianificazione delle autonomie locali di attività produttive ecosostenibili.
Negli anni 90 il numero delle aree protette è cresciuto in modo spettacolare tanto che adesso possiamo
parlare di un vero e proprio “sistema”. I parchi hanno quindi vinto “la prima mano della partita, quella
con cui dovevano affermare il loro diritto ad esistere”. I parchi devono però ancora dimostrare di
essere protagonisti meritevoli di fiducia e di risorse di una nuova politica ambientale: una politica che
sostituisca l'antica.
I parchi stanno diventando una sorta di “industria verde”, tant'è che qualche azienda industriale
sceglie di svilupparsi all'interno di un parco per trarre un vantaggio competitivo, con utilizzazione di
materie prime e processi del tutto naturali, per realizzare prodotti con caratteristiche particolari, in
grado di raggiungere fasce ben precise di consumatori. → veramente paradigmatico appare il
fenomeno dei parchi culturali e degli ecomusei che vengono progettati e istituiti tout court proprio
come strumenti di sviluppo. In realtà pensare che i parchi, alla stregue delle aziende produttive,
possano far quadrare i loro conti senza interventi delle istituzioni è un'assurdità.
Ci deve essere la consapevolezza che la protezione oggi, per essere efficace e non velleitariamente
affidata soltanto ai vincoli, deve impiegare una varietà di strumenti e risorse dai quali il territorio po'
trarre molteplici effetti benefici. Ognuna di queste realtà racchiude e per molti aspetti conserva
elementi di un patrimonio non solo ambientale ma di storia locale, che possono e devono essere
salvaguardati ma non ridursi a folklore. E per non ridursi a fatto pittoresco, devono potersi rinverdire
e rivitalizzare entrando in rapporto attivo con i processi esterni, regionali, nazionale e internazionali.
Il parco deve essere un organo che può rendere più efficace e qualificato il governo del territorio,
immettendo in un circuito regionale, nazionale o internazionale un bene e una risorsa altrimenti
destinati a rimanere confinati una dimensione locale.
In ogni caso le aree protette continuano a essere afflitte da molti problemi: conflitti istituzionali con
gli enti locali e disinformazione delle popolazioni locali, rischi e veri e propri devastanti attentati agli
equilibri paesistico-ambientali e biologici, etc.

In generale ogni intervento di politica ambientale e territoriale deve essere il frutto meditato e
consapevole di studi e ricerche interdisciplinari, coinvolgenti non solo i naturalisti ma anche i geografi
e gli storici delle strutte territoriali. Le aree protette devono essere sempre integrate all'interno del
sistema spaziale italiano, con l'auspicabile formazione di un efficace tessuto connettivo, rappresentato
anche dalle aree contigue ai parchi.

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