La geografia storica ha coinciso con la geografia nel suo complesso, ma nel corso della seconda metà
dell'800 e primo 900 si è creata la GEOGRAFIA UMANA → Scienza puramente contemporaneistica.
Si è creata anche la GEOGRAFIA STORICA → studio delle strutture spaziali di età passate. Interessi
verso la definizione della geografia umana storica si sono presentati con il saggio di Giuseppe Caraci
del 1939 e Arrigo Lorenzi nel 1949 col saggio sulle trasformazioni del paesaggio italiano.
Il geografo italiano più sensibile a un riesame approfondito delle ragioni di fondo della geografia è
Lucio Gambi → ritiene superato il tradizionale concetto per cui la geografia basa la sua
originalità su un certo modo di vedere in termini spaziali le interazioni che i più vari fenomeni
ambientali e sociali proiettano.
Lucio gambi
Questa si collega alla cultura illuministica → allo storico Fernard Braduel e nuova generazione della
scuola di geografi di Marc Bloch → ferma l'attenzione sull'idea di paesaggio inteso non come sintesi
di elementi visibile ma come “struttura” prodotta dagli umani nel corso della storia → geografia
umana interpretata come “storia della conquista conoscitiva e della elaborazione regionale della
Terra”. Ogni quadro ambientale è il risultato del modo in cui l'ambiente è stato “incorporato nella
storia. → ogni società plasma lo spazio in base alle proprie strutture di ordine economico, giuridico
e scientifico.
Lo spazio → inteso come spazio che assume una dignità di potenza storica sempre diversa perchè
l'uomo ci vive e ci opera
Ambiente → grande forza con la quale si creano le società e i loro generi di vita.
La geografia umana viene “svolta secondo la mentalità delle scienze umane” e riguarda “le vicende
con cui l'uomo si espande sugli spazi della Terra, e i modi con cui egli ha scelto”.
Per Gambi, “ogni nuova metodologia, ogni nuova strumentazione di indagine portata dalle evoluzioni
della tecnologia deve essere aperta” alla geografia umana. L'azione del geografo, se vuole essere
presa in considerazione, deve sostenere fini politici, dare un contributo concreto alla conoscenza e
alla risoluzione dei problemi che pesano sopra la società.
Le posizioni di Gambi sono sviluppate da Massimo Quaini che introduce nella geogria la griglia
interpretativa costituita dal materialismo storico.
Massimo Quaini
Quaini contesta la tendenza di Braudel a considerare la storia come una superscienza che possa da
sola, assolvere al ruolo di scienze limitrofe, quali la geografia. Esse praticano tale studio secondo due
differenti punti di vista. Ritiene che il punto di vista della storia sia quello di esaminare il fattore
geografico come elemento esplicativo della storia stessa e quindi il paesaggio geografico nella sua
evoluzione, mentre il punto di vista della geografia consiste nello studio dell'ambiente geografico del
passato, nella sua evoluzione temporale, con la chiara consapevolezza che tale analisi è al servizio
della geografia del presente. Propone come campo di ricerca della geografia il complesso spazio-
temporale a scale e fonti integrate dove si realizza la fusione di geografia umana e storia, e si integrano
i diversi livelli temporali e le diverse scale spaziali. → il senso della geografia umana sta nell'avere
superato il ruolo di campo d'indagine che fa fa trait d'union fra l'ambito geografico e l'ambito storico
→ assumendo il suo peculiare compito di ricostruzione del mutamento geografico attraverso il tempo,
ricercando le cause del mutamento stesso, studiandone i meccanismi responsabili.
Quaini ha fatto uno studio sulla Liguria che non si limita a ricostruire le fasi evolutive del territorio
ma si propone pure una finalità prospettica nella direzione di una politica di pianificazione e dei beni
culturali alternativa ed equilibrata: una politica che miri alla proposizione di uno sviluppo diverso,
aperto al progresso, ma anche fedele alla eredità culturale della società rurale in fatto di rapporti
consapevolmente con la natura e la storia.
La geografia storia non è mai stata d'attualità come nella fase temporale in cui viviamo. In un'epoca
di globalizzazione dell'economia, dell'informazione e della cultura, e in un'epoca in cui la natura e
l'ambiente corrono costantemente il rischio di essere completamente sconvolti e omologati dal
consumismo devastatore, è di grande importanza culturale e politica verificare il carattere
storicamente determinato dello spazio socializzato che ci circonda.
La geografia deve essere al tempo stesso critica ed operativa: critica nel senso che non deve accettare
di rappresentare la realtà in nome di un potere o di un ordine dato → questo comporta una possibilità
di dissenso e di conseguenza la possibilità di produrre rappresentazioni diverse da quelle ufficiali.
Operativa nel senso che non deve limitarsi a dibattere e criticare ma deve anche intervenire
praticamente.
Lo studioso deve sempre necessariamente integrare le scale locale e regionale, continentale e
planetaria poiché sennò ne conseguirebbe la parzialità o la deformazione dei risultati conoscitivi
raggiunti dalla ricerca.
La città deve essere considerata il vero e proprio “fuoco” dell'approvazione duratura e della
trasformazione incessante delle campagne e dell'intero spazio geografico. Si creano con ciò le
“strutture territoriali” → complesso delle componenti materiali del territorio che sono il prodotto dei
rapporti sociali → si evolvono, il processo evolutivo si ripercuote sulla città e sul territorio rurale
finchè il cambiamento attivato non determina una svolta storia → il passaggio da una data
organizzazione a un'altra nuova.
I fattori del cambiamento sono vari:
– potere politico che legittima l'approvazione del suolo e della produzione di beni oltre che lo
stesso potere politico
– economia o produzione di beni materiali e circolazione dei prodotti
– determinanti culturali che si riflettono sugli insediamenti e sui paesaggi agrari e forestali
La geografia storia può essere definita come storia dell'organizzazione sociale dello spazio e storia
delle strutture territoriali. Essa opera col metodo diacronico proprio delle discipline storiche partendo
dal passato per arrivare al presente. → oggetto della ricerca: territorio individuato e perimetrato →
insiemi e unità di paesaggio, insediamenti, vie di comunicazione etc.
C'è l'esigenza di organizzare la ricerca con “salti di scala”, dal locale al regionale o generale e
viceversa. L'intreccio della “microanalisi” è poi anch'esso indispensabile per alternare quadri
d'insieme come utili capisaldi.
La scala “regionale” si adatta alla:
• regione fisico – naturale → individuata come unità spaziale grande o piccola per i caratteri
dati dalla natura
• regione politico – amministrativa → Stato o sue ripartizioni regionali, provinciali, comunali
o locali, parrocchie o frazioni geografiche. E' da tenere presente → la variazione degli assetti
amministrativi a qualsiasi scala nella storia
• regione funzionale → per l'assetto essenzialmente economico produttivo comune che ce la
fa percepire e individuare: regione agricola (campagne della mezzadria, latifondo, cascine
padane etc), regione forestale o alpina (con i suoi sistemi sociali incardinati sul bosco e
sull'allevamento praticato nei prati pascoli), regione mineraria (Colline Metallifere, Amiata
etc), regione industriale, regione turistica (riviere tirreniche e adriatiche etc), regione
urbanizzata (spazi con conurbazioni e aree metropolitane).
Da qualche tempo la geografia storica fa uso pure del metodo retrospettivo che si applica alla
descrizione/interpretazione dell'organizzazione sociale e territoriale presente e la ricostruzione di
analoghi tagli lineari/orizzontali proiettati nella storia. Questo metodo può definirsi “stratigrafico” →
stratificazione che si verifica “delle trasformazioni effettuate in passato o anche per la stessa radicale
cancellazione, in epoca determinata, di quanto avevano impresso sul suolo le generazioni precedenti”
→ questo metodo è utile per finalizzare la ricerca alla costruzione di relazioni di sintesi, di cartografie
tematiche, di schede di censimento sulle principali componenti paesistiche.
La trasformazione di un territorio è un processo continui e la cosa difficile sarà appunto “definire i
tempi di questo mutamento”. La classica periodizzazione storica generale “può essere usata come un
sussidio utile ma non può essere usata come guida dominante.
Fonti della geografia storica e della storia del territorio → E' necessario esplorare mediante
l'indagine diretta sul campo → osservazione della realtà nei suoi aspetti paesaggistico-ambientali, nei
suoi rapporti socio-economici e nei suoi comportamenti culturali.
Le biblioteche e gli archivi sono le basi di partenza di studio e di ricerca. Esistono testi bibliografici,
catalografici ed enciclopedici generali o specializzati ma in genere appaiono alquanto invecchiati, per
cui è necessario imboccare la strada dell'esame degli schedari e cataloghi “a soggetto” o per
argomento delle principali biblioteche. Delineata l'ipotesi di lavoro c'è bisogno di allargare il quadro
delle conoscenze mediante fonti edite e inedite. Nelle biblioteche è possibile reperire la
documentazione originale “indiretta”, prodotta cioè non per la storia ma per i bisogni della politica e
soprattutto del governo del territorio. Per descrivere la personalità e l'opera dei grandi protagonisti
politici ed economici, tecnici e scienziati della storia, esistono tanti dizionari o più ampi studi
biografici editi o manoscritti. Tali fonti originali si possono articolare in innumerevoli corpi omogenei
per categorie e contenuti o per istituzioni ed uffici centrali o decentrati o per altri organismi pubblici
o priviti.
Le fonti scritte. Legislazioni e normative → Qualsiasi documento grafico o scritto nel passato può
servire alla ricostruzione geografico-storica. I corpi legislativi e normativi prodotti dagli stati
preunitari e da quello italiano rappresentano una fonte di documentazione primaria perchè esprimono
le politiche eseguite e le ragioni per le quali le leggi furono promulgate. Le fonti più importanti sono
quelle comunali del XIII-XIV secolo e del XVIII-XIX secolo che costituiscono un documento di
estremo interesse per coloro che studiano gli elementi costitutivi ella civiltà. Gli archivi degli enti
locali conservano poi le delibere e gli altri “affari” degli organi collegiali.
I censimenti fiscali ed economici → Tra tutte le fonti di natura fiscale ed economica spiccano i
catasti che nei tempi tardo-medievali fotografano la distribuzione della ricchezza fondiaria soprattutto
terriera per le varie circoscrizioni amministrative del tempo. Questi documenti hanno impostazione
descrittiva con scarsa omogeneità di contenuti e limiti di attendibilità. Dopo che degli anni 60 del
XIX secolo lo Stato Italiano ebbe realizzato il catasto dei fabbricati, negli anni 80 si dette il via alle
operazioni per il nuovo “catasto terreni” . Molto importanti sono le inchieste e i censimenti economici
che si diffusero a partire dalla seconda metà del XVIII secolo. Con L'Unità d'Italia sono poi stati
prodotti tanti rilevamenti statistiche anche socio-economici.
Le fonti demografiche → Le fonti demografiche sono presenti sporadicamente per i secoli del tardo
medoevo come documenti censuari di natura civile. Le fonti censuarie nominative cominciano a
generalizzarsi in Italia a partire dalla metà del XVI secolo con il Concilio di Trento. Con l'Unità
d'Italia sono stati prodotti e pubblicati censimenti generali della popolazione a cadenza decennale.
Le relazioni e memorie itinerarie → Il filone delle memorie relative a esperienze di viaggi svolti in
regioni note, poco note o del tutto sconosciute, è ricchissimo di documentazioni edite e inedite fin dai
tempi tardo-medievali e fino ai nostri giorni. Per l'Italia, archivi e biblioteche conservano soprattutto
i resoconti amministrativi fatti da funzionari appositamente inviati in missione diplomatica per
conoscere i paesi → questa categoria appartiene al genere letterario assai eterogeneo del grand tour
europeo.
Tra 700 e 800 si sviluppa una diffusa pratica del viaggio esplorativo “interno”, volto cioè alla
conscenza delle risorse naturali e di quelle umane e la formulazione di istante per addivenire da parte
del potere al superamente degli squilibri e alla modernizzazione del territorio visitato.
Il mosaico ambientale italiano → Lo studioso che oggi vuole provvedere a una “regionalizzazione”
dell'ambiente italiano non può non rifarsi alla tradizionale classificazione della geografia. Lucio
Gambi scompartisce la realtà ambientale in quatto grandi inquadramenti che emergono dal coesistere
e dal congiungersi di una stessa area di fenomeni dovuti ad elementi diversi come il clima e la
vegetazione. Ciascuna di tali regioni fisico-naturali può scindersi anche in due o più grandi forme
paesistiche che a sua volta possono abbracciare molti tipi di paesaggio.
Albano Marcarini ha proposto un elenco di 76 tipi in cui la componente umana e la sedimentazione
storia hanno prodotto sul palinsesto naturale un'armonia di forme e strutture generalmente condivisa,
meritevole di conservazione e trasmissibilità. L'elenco è consapevolmente incompleto.
I paesaggi umanizzati ereditati dalla storia → L'Italia è un paese geologicamente e
geograficamente giovane, ma storicamente antico, modificato a livello superficiale dalla storia molto
di più che dalle forze della natura. Le forme e i tipi ambientali appaiono assai differenziati per il
diverso modo o grado con cui l'ambiente è stato incorporato nella storia. Se l'ambiente è divenuto
realtà umana, tale realtà si presenta ai nostri occhi con fome e caratteri assai variegati. L'ambienta si
plasma secondo le strutture che ogni comunità umana si è data da quando potè uscire dal chiuso
impianto sussistenziale. In altre regioni era stato possibile elaborare vocazioni di natura più complessa,
cioè dotate di una maggiore articolazione, investono la mobilitazione delle forze naturali per la
produzione di materiali industriali e di beni d'uso, o implicano relazioni di mercato e di cultura fra
paesi diversi e lontani.
L'elevato grado di storicità espresso da quasi tutti gli ambienti italiani non è sempre riconosciuto dalla
società attuale. Le configurazioni paesistico-territoriali sono dovute al processo di attribuzione di
valore allo spazio, indipendentemente dalla sua capacità produttiva agricola o d'altro genere, da parte
di una società che, nel XX secolo ha portato avanti il suo recente sviluppo secondo i più selvaggi
modi di appropriazione del suolo. La crisi ecologia è una conseguenza di tali logiche, essa si misura
non solo nel gravissimo depauperamento della vita biologica ma anche e più in generale nei guasti
sociali e ambientali e nella crescente estraneazione dei cittadini dai luoghi prodotti nel paese del
complesso di interventi riferibili alla “grande trasformazione” e realizzatisi nella seconda metà del
XX secolo.
Riconoscere il valore di un elemento che si ponga come fondamentale “memoria territoriale” si può
solo sulla base di una ricostruzione del passato che faccia emergere i vari momenti storici nelle loro
componenti più varie.
Il paesaggio: struttura e rappresentazione → Il nostro paese ha approvato leggi di tutela dei beni
paesistici fin dal primo 900 che si sono dimostrate tutte figlie della cultura umanistico-idealistica del
tempo, questa concepiva il paesaggio in quanto qualità di rilievo dello spazio geografico. E' da tutti
riconosciuta la generali deficienza della sensibilità comune e istituzionale volta a disciplinare le
attività antropiche che potessero avere ripercussioni negative sul paesaggio e più in generale sugli
equilibri ambientali.
L'Italia presenta una geografia disorganica in termini non solo di assetti territoriali ma anche di
ambienti e paesaggi con le loro specificità diacroniche.
L'assenza di una politica di piano ha fatto sì che i mutamenti suscitati dall'inserimento, poniamo, di
un'autostrada abbiano introdotto istanze e necessità nuove per far fronte ai mutati equilibri.
I più o meni tradizionali tipi della regionalizzazione paesistico-sociale italiana dovrebbe essere oggi
integrati in una classificazione di tipo ecosistemica. Tale regionalizzazione non potrebbe che
dimostrare come lo spazio italiano non sia ancora strutturato in un unico e funzionale sistema. Il
processo di trasformazione non ha certo contribuito a risolvere queste disfunzioni: le ha in molti casi
accentuate con la formazione di uno spazio relativo tutto in fermento da una parte e di uno spazio del
tutto indebolito dall'altra. Il paesaggio d'oggi non è più la proiezione di una collettività o di singoli
individui, ma il prodotto di scelte politiche.
La grande trasformazione ha portato grandi crescite: demograficamente, per quanto riguarda le strade
e per quanto riguarda la produzione di cemento. La violenza di una così rapida “fase cantieristica” è
stata maggiore per l'estraneità alle realtà locali del processo di cambiamento.
L'americanizzazione o la neo-tecnicizzazione del paesaggio è evidente anche sulle spiagge, sui monti,
con gli alberghi, le piscine, i dancing, le drinking houses.
Questo crea perciò una realizzazione di ghetti e quartieri dormitorio, con i loro nuovi edifici-alveare
o comunque con i modelli di edilizia che ripetono schemi e tipologie di breve durata. A tale forma di
degrado paesistico e territoriale si aggiunge poi la costituzione di un diverso modello di utilizzazione
individualistica dove tutto è cresciuto secondo le leggi della speculazione, prive di verde, di spazi per
la distensione. C'è anche un'Italia rimasta ancora fedele a quella del passato, con i piccoli centri che
esprimono ancora un sentimento municipale. Assai estesi sono gli spazi soggetti a emarginazione e
abbandono. Nelle aree ancora rurali spesso l'eredità di strutture agrarie vecchie, difficili da
riconvertire, è ancora evidente: il tessuto dei campi è rimasto uguale o quasi uguale a quello della
prima metà del 900.
Con la grande trasformazione quindi si è verificato un po' ovunque un progressivo distacco tra
l'identità dei luoghi e quella dei loro abitanti.
Si è poi gradualmente e faticosamente diffusa nelle nozioni elementari di milioni di italiani una
qualche cultura del paesaggio. Vengono fatte normative nuove grazie alle quali il paesaggio diviene
il fondamentale strumento concettuale di tutela dell'ambiente e i piani paesistici diventano il fulcro
dell'interesse di politici e tecnici del territorio.
Si è attivata piano piano anche in Italia una domanda sociale di buone conoscenze paesistico-
territoriali da applicare concretamente a politiche regionali e locali di pianificazione urbanistica,
dell'ambiente e dei beni culturali a base paesistica. Nascono politiche nuove che valgono anche a
reinserire le “forme storiche” ormai svuotate di funzioni e valori culturali identitari nel contesto del
territorio/spazio da produrre, quindi per elaborare e realizzare piani e regole volti ad attivare “sviluppo”
in territori che conservano la loro identità spaziale, saldando il nuovo all'esistente.
Il paesaggio è da concepire come interfaccia o momento di congiunzione, così sfumato nei suoi
contorni, tra il nostro percepire e il nostro agire, tra il nostro rappresentare la realtà e il nostro viverla,
tra il nostro guardre e il nostro studiare. L'opera di salvaguardia non può avere successo se non
diventando referente e controllo sociale della trasformazione, intrecciandosi con la dimensione
identitaria e con la partecipazione civica.
Secondo Lucio Gambi il paesaggio è un archivio e occorre una sensibilità storica molto acuta per
studiarlo e quindi tutelarlo. Quella sensibilità oggi non c'è.
Si è avuto modo di enunciare che, tuttavia, si va diffondendo la considerazione del paesaggio come
bene comune sempre più importante, ma anche come fonte di ricchezza inestimabile: bene e ricchezza
utili a far fronte a diversi bisogni economici, socio-culturali, ambientali, delle comunità rurali e rural-
urbane. Grazie all'avvio di politiche di tutela/valorizzazione che mettano freno o almeno limitino
sensibilmente gli eccessi delle iniziative individuali relative all'uso del territorio, potrà essere
possibile evitare molti disastri ambientali prodotti dall'abbandono o dalla trasformazione
incompatibile.
Molto importante è la Conferenza di consultazione integrativa sul progetto di Convenzione Europea
del Paesaggio organizzata a Firenze nell'aprile del 1998 dal Consiglio d'Europa che costituisce un
provvedimento giuridico organico e coordinato dedicato interamente al paesaggio nella sua
dimensione europea globale, alla sua protezione, gestione e valorizzazione.
Al recente riaccredito sociale del paesaggio ha fatto seguito l'interesse scientifico di molte aree
disciplinari, compresa la geografia. Il paesaggio presuppone sempre il dualismo fra realtà e
rappresentazione, fra forma e struttura oggettiva, da una parte e immagine o percezione culturale
intersoggettiva o personale dall'altra. Esprime quindi un significato ambiguo di difficile
interpretazione scientifica.
L'apporto della dimensione storica appare comunque fondamentale, in quanto ogni manifestazione
del paesaggio sottende dei processi. La finalità forse più importante di tale pratica di ricerca è
applicativa, essendo volta a far prendere coscienza le comunità locali dell'importanza della specificità
dei valori identitari espressi da luoghi e aree. Il paesaggio deve essere considerato una struttura che
dall'attività degli uomini è prodotta nel corso della storia, come complesso costitutivo di una civiltà
→ realtà di carattere sociale.
Dalla casa a schiera si sviluppa la casa del ricco mercante che conserva il fronte stretto ma ha spesso
un'elegante facciata di mattoni o di pietra a bozze lisce con un disegno che sottolinea gli stipiti e gli
archi delle aperture. Organizzata su tre livelli: bottega al piano terra, al primo piano la camera da letto
dei padroni, cucina con gli altri ambienti per la famiglia all'ultimo.
Tra 300 e 400 inizia la stagione dei distesi e simmetrici palazzi privati urbani. A partire da Firenze il
palazzo italiano trova la sua codificazione tipologica ed espressiva. Il palazzo della nuova aristocrazia
borghese si distingue per le nuove e imponenti dimensioni, per il rapporto con il tessuto urbano e per
la separazione delle funzioni tradizionalmente integrate nella casa medievale. La facciata del palazzo
diventa l'elemento di qualificazione formale e viene disegnata ricorrendo al principio classico della
sovrapposizione degli ordini.
Nei secolo XII-XIV gli spazi agricoli più prossimi alle città dell'Italia centro-settentrionale vengono
punteggiati anche di ville, cioè di residenze di cittadini proprietari di quegli stessi beni agricoli affidati
alla coltivazione di famiglie coloniche. Nel Rinascimento tali “caseforti” vengono accorpate in nuove
più ampie e comode residenze che ora assumono caratteri volumetrici e architettonici a sviluppo
orizzontale che si richiamano alla proporzione e alla simmetria dei modelli classici. Tale residenze
per la villeggiatura furono presto affiancate dal elementi nuovi, come i viali alberati di accesso sempre
più monumentali. Si voleva ricreare la natura selvaggia con l'impianto artificiale di boschetti di piante
sempre per lo più sempre verdi. Molti di questi verdi artificiali si caricano di significati allegorici,
simbolici esoterici etc. Anche la villa si evolve, si passa a modelli più aperti, con ampi loggiati al
pianoterra e con gli edifici che si articolano con funzioni di paesaggio-teatro.
Nel Rinascimento questo ambiente del latifondo viene ad esprimere piccoli centri isolati di gestione
dell'economia agro-pastorale estensiva che ora si collegano con il lontano Appennino mediante una
rete di strade e tratturi doganali obbligati di transumanza.
Riassumendo, lo studio paesistico, lungi dall'esaurirsi nell'analisi descrittiva delle forme, deve anche
tentare di definire il significato complessivo e scoprirne i contenuti culturali dominanti, il ruolo e le
funzioni affidate al sistema o all'oggetto spaziale da un determinata società e cultura.
La specializzazione delle funzioni e quindi delle diverse aree dell'organismo urbano si accentua nel
500 e poi ancora più diffusamente del 600.
Particolare cura viene ora prestata alla riorganizzazione delle strade principale secondo i canoni
dettati da Leon Battista Alberti: vale a dire, con la ricostruzione di vie larghe e dritte e di incroci
monumentali, per consentire la percezione prospettica immediata della dimensione urbana. Modifiche
assai più incisive si registrano nei tempi del razionalismo e dell'ottimismo illuministico quando gli
stati imboccano la via delle riforme amministrative e giuridico-economiche.
Le città settecentesche sono interessate da una modesta attività di trasformazione urbana ma da una
diffusa prassi di rinnovo edilizio, che investe il tessuto residenziale “minore”. Particolarmente
importanti risultano gli interventi di arredo urbano, alle strade e ai viali cittadini e suburbani
frequentati dal “passeggio” dei ceti aristocratici e borghesi e non poche vie vengono costruite ex novo.
I viali alberati settecenteschi sono la prima affermazione del moderno gusto del verde nell'arredo
stradale. Non di rado i paesaggi e gli insediamenti della produzione subiscono, insieme a i loro
giardini, arboreti e parchi dai più diversi stili.
È importante sottolineare il significato del sistema dei santuari, delle edicole e cappelle, dei
tabernacolo e vie crucis e di altri oggetti ancora che sacralizzano capillarmente lo spazio alpino,
prealpino e appenninico esprimendo la spiritualità e religiosità di popolazioni montanare.
È importante ricordare la portata e la diffusione delle impronte lasciate dalle tante e lunghe
dominazioni straniere, tra cui la bizantina, l'araba, la normanna, la sveva, l'angioina/francese, la
catalana/spagnola e l'austrica in parti non trascurabili dell'Italia.
Molti sono anche i casi di paesaggi ed insediamenti costruiti da autorità, per esprimere un determinato
concetto politico, con caratteri formali e funzionali finalizzati all'esaltazione del potere. In ogni epoca
è visibile il ruolo affidato dal potere all'urbanistica e specialmente all'architettura, nella strategia della
ricerca del consenso sociale e più in generale del rafforzamento del sistema politico.
La realtà urbana si scompone di parti distinte: una rete di strutture che spiega la complessità e gli
scompensi del rapporto residenza-funzioni pubbliche e residenza-attività lavorativa che si
manifestano nella città odierna, dove la vita è dispersa in molteplici poli e interessi.
Gli interventi del ventennio hanno avuto la forza di improntare la forma e talora anche le funzioni
delle città, a partire dalla capitale.
Geografia storica, valori paesistici e insediativi – schema
ANTICHITA'
• civiltà greca: città in piano, forma regolare, giardino mediterraneo coltivano a vite e olivo,
santuari
• civiltà etrusca: città d'altura, forma irregolare dominata dall'acropoli
• civiltà romana: città coloniale, forma a graticola, strade consolari, canali naviganti, acquedotti,
ville rustiche, santuari e templi isolati
ALTO MEDIOEVO
• insediamenti: corti, castelli, mercatali, mulini ad acqua, cenobi e abbazie benedettini
• vie di comunicazione: strade
• strutture produttive: sistema curtense, beni comuni e usi civici, giardini chiuso irriguo arabo-
siciliano
BASSO MEDIEVALE
• insediamenti: castelli, città nuove, mercatali, palazzi di campagna, castelli ridotti a ville, case
mezzadrili chiuse, terme, case canoniche, abbazie cluniacensi-cistercensi, conventi di ordini
monastici
• vie di comunicazione: strade e ponti nuovi, tabernacolo, canali navigabili
• strutture produttive: piantata padana-alberata tosco-umbro-marchigiana, prato, risaia, gelsi,
castagneti collinari-montani, abetine montane, pechiere
RINASCIMENTO
• insediamenti: città geometriche, fortificazioni, ville con giardini-parchi, santuari mariani,
conventi, cappelle, miniere, saline, mulini a vento, corti e cascine, masserie meridionali
• vie di comunicazioni: strade e poste-dogane, canali navigabili, canali irrigui, acquedotti
• strutture produttive: risaia, gelso, giardino mediterraneo chiuso, sistemazioni idraulico
ETA' MODERNA
• insediamenti: città nuove regolari, villaggi di colonizzazione baronale, ricostruzione regia in
Calabria, palazzi principeschi e aristocratici, ville fattorie, case coloniche, terme, saline,
manifatture moderne, tabernacoli, cappelle oratori
• vie di comunicazione: strade rotabili, grandi ponti, canali navigabili, acquedotti, canali irrigui
• strutture produttive: bonifiche idrauliche, sistemazioni fluviali, sistemazioni idrauliche-
agrarie e forestali, risaie, gelsi, piantagioni meridionali, pinete costiere, peschiere
ETA' CONTEMPORANEA
• insediamenti: centri e sedi di vacanza, città pianificate di bonifica, di termalismo, d'industria,
di guarnigione, centri polarizzati spontaneamente da strade-porti-industrie, miniere e
manifatture, sedi di bonifica e colonizzazione, riforma agraria
• vie di comunicazioni: strade rotabili, ferrovie, autostrade, viadotti, invasi artificiali e centrali
idroelettriche, impianti di risalita
• strutture produttive: manifatture e villaggi operai, chiusure e beni comuni privatizzati, piccole
aziende di colonizzazione o riforma agraria, piantagioni di mercato, sistemazioni idraulico-
agrario e forestali, arboreti collinari e montani, pinete, parchi naturali
I connotati strutturali del clima italiano → I connotati climatici dell'Italia si possono riassumere al
concetto di mediterraneità. Pure riguardo alla piovosità, si deve tenere conto dell'influenza dell'area
anticiclonica estiva. I divari tra le diverse aree italiane dipendono da condizioni locali di forme del
suolo. Le precipitazioni non sono particolarmente abbondanti, in generale. L'Italia infatti rientra
soprattutto tra i climi semiarido superiore e semi-umido ma con aree relativamente estese comprese
nei climi umido e peri-umido. L'Italia presenta una grande varietà di caratteri o regimi termici. I
climatologi frazionano l'Italia in sette sottozone o fasce termiche che risultano significative
soprattutto in relazione alla vita biologica animale e vegetale: cioè quel che più ci interessa, alla specie
o ai gruppi di specie vegetali acclimati o comunque espandi progressivamente dagli abitatori d'Italia.
1. La fascia più calda subtropicale abbraccia brevi cimose costiere quasi sempre pianeggianti.
La sottozona coincide sensibilmente con quella favorevole alla crescita di piante tropicali
timorose del freddo.
2. La fascia temperata calda ingloba quasi tutto il litorale italiano: mese più freddo compresa
tra 6 e 10° e media annua 14,5-16°. E' sempre foriera di una crescita sempre continua delle
erbe atte al pascolo nell'arco della stagione fredda.
3. La fascia sublitoranea bordeggia, dall'interno, tutto l'arco peninsulare e insulare a clima
temperato caldo: mese più freddo compresa tra 6 e 10° e media annua inferiore a 14,5.
4. La fascia subcontinentale abbraccia tutta la pianura padano-veneta e gran parte della dorsale
collinare e basso-montana peninsulare: media del mese più freddo si abbassa a 0° o anche a -
1°, mentre la media del mese più caldo è sempre superiore a 20°.
5. La pianura i rigori invernali sono compensati da un certo numero di mesi estivi con alte
temperature e scarse precipitazioni.
6. Nelle zone interne di bassa montagna si ha il clima temperato fresco, la cui media annua
scende al di sotto di 10° e quella del mese più caldo al di sotto di 20°.
7. L'alta montagna alpina rappresenta il regno del clima temperato freddo e del clima freddo:
mese più freddo inferiore a -3,-6°, media del mese più caldo 10°-15°.
Ci fu un aumento della temperatura che culminò in un periodo caldo di almeno quattro secoli fra il
750 e il 1200. L'Italia fu interessata da una flessione delle precipitazioni, degli eventi alluvionali e
della portata dei suoi corsi d'acqua, mentre la temperatura e il livello delle acque marine si rialzarono
vistosamente. L'innalzamento del livello marino può avere alterato il deflusso dei fiumi nel loro basso
corso e questo avrebbe potuto determinare la formazione di paludi. È anche possibile che il
moltiplicarsi delle paludi lungo le coste abbia avuto conseguenze dannose sulla vita degli abitanti
delle zone litoranee. La malaria è originaria delle zone caldo-umide tropicali. Soprattutto la seconda
parte dell'età calda medievale è caratterizzata da un continua e cospicua crescita demografica. L'Italia
centro-settentrionale venne organizzata mediante sistemi agrari volti al mercato, tra cui la mezzadria
poderale. Le aziende mezzadrili erano una miriade di eco-sistemi bene integrati tra loro.
Tra il XIII e il XVI secolo si susseguirono varie oscillazioni di clima, divenuto ora fresco e umido e
ora mite. Dapprima si ebbe, verso il 1350, una fase fredda, e poi con la prima metà del secolo
successivo, brevi periodi di clima inclemente si sono alternati con brevi periodi o annate percepiti
come normali o soleggiate. Un ciclo più decisamente freddo deve avere interessato la prima metà del
XV secolo. Il peggioramento climatico tardo-medievale coincide con la grave crisi demografica
trecentesca, che portò varie conseguenze. Tra queste molti terreni che erano diventati produttivi nei
secoli precedenti, tornarono a trasformarsi in acquitrini e paludi.
Vari documenti del XIII secolo ci parlano di una pianura intorno alla città frazionata in numerosi
appezzamenti di proprietà di Grossetani con larga presenza di vigne e persino di oliveti. Si deve poi
considerare la grande dilatazione di specie vegetali tipiche del clima mediterraneo o persino
subtropicale, come la vite e l'olivo, e soprattutto il gelso e altre piante industriali oltre che di certe
colture da giardino.
Piano piano i governi centrali cominciarono a guardare con maggiore attenzione ai problemi dello
sfruttamento delle risorse agricole e ambientali, anche se in molti casi per motivazioni di carattere
fiscale-finanziario. L'età delle bonifiche comincia qui solo nel XVIII secolo.
In definitiva si costrinsero a bassi livelli di produttività aree potenzialmente ricche ma sempre più
concentrate nelle mani della grande proprietà assenteistica e guadagnate dall'avanzata del latifondo
cerealicolo-pastorale.
L'età della lunga crisi che si apre con i primi decenni del XIV secolo riveste una grande importanza
in termini di storia territoriale.
La piccola età glaciale ha inizio intorno alla metà del XVI secolo perdura per circa tre secolo, pur con
accentuata variabilità tra brevi periodi e singole annate di bel tempo. Le conseguenze negative del
raffreddamento climatico si misurano specialmente nelle aree montane italiane, dove le condizioni di
vita per la popolazione peggiorarono fortemente. Il ritardo delle vendemmie e il decremento della
produzione vinicola non mancarono di produrre numerose e gravi carestie e crisi annonarie.
Infine dopo il 1855 si è verificata una svolta fondamentale nella storia climatica dato che si apre un
periodo di regresso dei ghiacciai e di progressivo riscaldamento del clima. Il ciclo caldo è ripreso per
proseguire anche ai nostri giorni, a causa della sempre più grave alterazione dell'atmosfera prodotta
dall'uomo con l'emissione di innumerevoli inquinanti che sono inquinanti che sono i diretti
responsabili delle anomalie comunemente definite effetto serra e buco dell'ozono.
Effetti dei mutamenti climatici storici sulla vita agricola e sociale → Gli storici del clima sono
pervenuti alla conclusione che la cautela è d'obbligo. Nei secoli successivi al Mille assistiamo a
fenomeni che sembrano contraddire ogni interpretazione deterministica e sembrano chiamare in causa
spiegazioni di ordine squisitamente economico e sociale: è il caso della crescita delle culture della
vite e dell'olivo in Toscana e nelle altre regioni dell'Italia centrale, e della risalita in latitudine sia della
canna da zucchero e sia del riso.
Il suolo e l'agricoltura → È notorio che i connotati qualitativi dei suoli italiani devono essere
considerati in rapporto agli strati superficiali del terreno che è provvisto di sostanza organica viva e
morta derivante dalla flora e dalla fauna ospitante sulla superficie terrestre. La notevole varietà dei
suoli in aree anche ristrette è condizionata soprattutto dalle piogge che tendono a convergere nei brevi
mesi invernali nel clima mediterraneo tipico oppure nelle stagioni autunnale e primaverile nel clima
submediterraneo. La forte concentrazione stagionale delle piogge provoca l'asportazione di milioni
di metri cubi di terreno e di detriti.
Al clima semiarido proprio delle ristrette zone di pianura e di bassa collina dell'Italia meridionale e
insulare corrisponde una fascia di terreni quasi privi di humus attivo. Decisamente migliore è la
qualità dei terreni dell'Italia subumida peninsulare: i suoli sono più ricchi di sostanza organica e
soggetti a un ciclo di umidificazione più lungo. L'Italia nel complesso presenta una costituzione
geologica piuttosto giovane come dimostra la stessa larga incidenza delle zone sismiche e dei non
infrequenti eventi tellurici. La maggiore differenziazione delle matrici si riscontra ovviamente nella
prima formazione, la prepliocenica, con rocce granitiche e affini, scisti argillosi, arenarie, calcari
compatti o dolomitici o marnosi, alcune rocce vulcaniche.
I suoli migliori per l'agricoltura sono quelli originatisi dalle matrici di trasporto del Quaternario,
diluviali e alluvionali, insediate nei compluvi e nelle valli fluviali e che procurano i terreni
caratterizzati dal più alto grado di fertilità integrale.
Un'alterazione ancora più profonda delle rocce originarie dà luogo ai vari tipi di argille dell'Italia
centromeridionale. Di norma ne derivano terreni compatti, impermeabili, talvolta fortemente alcalini,
sempre assai erodibili e di difficile messa a coltura, anzi lo strato del suolo è sovente molto sottile,
sede di una vegetazione erbacea xerotifica.
Gli squilibri idrogeologici e l'erosione meteorica sono comunque diffusi un po' in tutti quegli ambienti
montani e collinari privati nei più diversi tempi storici del loro rivestimento vegetazionale. In
mancanza di bonifiche d'altura, spesso i colli e i monti della penisola e quelli prealpini sono oggi in
molte aree colpiti da frase o da manifestazioni di erosione celere. L'inizio di questi degradamenti può
connettersi in genere con una occupazione agricola continuata per qualche secolo. Gli squilibri
idrogeologici in atto nelle terre alte non determinano solo l'insicurezza e il rischio idraulico di quelle
stesse aree e specialmente delle terre basse, ma accentuano un po' ovunque il processo di naturale
ricostituzione delle falde freatiche troppo impoverite dai crecenti prelievi per finalità agricole,
industriali e civili.
Le vocazioni naturali e umane della Padania flix e del piano-colle italiano → La conformazione
stretta e allungata dell'Italia peninsulare, con la montagna appenninica che ne rappresenta la spina
dorsale rappresenta il carattere geografico più peculiare del Paese. Le montagne sono ovunque
prossime al mare e scendono più o meno rapidamente verso coste in genere assai articolate e talora
fronteggiate da isole e gruppi insulari. La montuosità si integra con la marittimità, offrendo alle
società umane concrete possibilità di integrare ambienti assai diversi su distanze spaziali piuttosto
brevi. I peculiari caratteri fisico-naturali delle terre alte non sono da considerare solo sotto il profilo
delle possibilità “positive” per gli uomini. Non mancano infatti connotazioni negative.
Acquitrini, stagni e lagune nonostante lo sfruttamento delle specifiche risorse ambientali fattone
dall'uomo, si trasformarono in veicoli di malaria. La grande massa di sedimenti strappati dai corsi
d'acqua ai monti e ai colle e via via depositati nelle pianure fino alle coste spiega i processi naturali
concomitanti:
– accrescimento di queste ultime verso il mare con conformazione a triangolo (delta)
– ramificazione degli stessi corsi d'acqua in più alvei tra loro separati da zone umide e terre
emerse.
I caratteri differenziati del clima italiano, interagendo con le forme e la natura dei terreni e con i
caratteri delle acque superficiali e di sottosuolo, assegnano vocazioni naturali più favorevoli
all'agricoltura.
La condizione delle pianure ha ruotato per molti secoli a mo' di pendolo fra le mani dei popoli che
dimorano su quei monti e le mani dei popoli che giungono dal mare: i primi avevano i litorali come
area di pascoli invernali, i secondi li avevano usati come base per le loro stazioni mercantili.
Alle vocazioni rudimentali dei primi popoli si contrappongono quelle più complesse dei secondi
popoli che devono riconoscere e mettere in azione per impiantarsi in forma stabile in queste zone le
capacità di quelle esili pianure ad ospitare un popolamento alquanto numeroso e ad assicurargli
soddisfacenti risorse alimentari.
Se ci si sofferma sull'area pianeggiante italiana più ragguardevole per superficie e importanza umana,
la Padania, occorre riconoscere che le vocazioni naturali sono qui favorevoli all'uomo, a partire dalla
piovosità.
Non mancano diversità tra l'alta pianura permeabile e la bassa pianura impermeabile. Grazie a questa
larga disponibilità di acqua di provenienza montana, con il duro lavoro di tante generazioni di
“maestri d'acque” e contadini, è stato possibile qui costruire una vera e propria “patria artificiale”
ricca e popolosa. Tale ricchezza si deve alla ciclopica opera di costruzione di una fitta rete di canale
di adduzione dai fiumi gradualmente inalveati con potenti arginature. La parte bassa della pianura, i
cui suoli sono in genere molto fertili è divenuta la sede più florida per l'agricoltura padana.
Contrassegnate invece da valori idrici assai più negativi sono larga parte dell'Italia peninsulare, la
Sicilia e la Sardegna: caratterizzati da montagne senza nevi permanenti e da modesta piovosità.
Eccezioni a questa regola si costituiscono dove si ha una larga presenza percentuale, nei bacini, di
rocce permeabili. La relativa abbondanza e costanza di acque in questi ed altri fiumi minori dalle
analoghe caratteristiche è valsa ad azionare, per forza di gravità gli indispensabili e onnipresenti
mulini da creali o da castagne e in certe aree dell'Italia centro-settentrionale, pure svariati opifici da
vera e propria industria.
Si ha anche lo sfruttamento delle grandi possibilità irrigue padane con l'organizzazione dei fiumi
lombardi, specialmente dell'Adda e del Ticino, e con altresì l'organizzazione della cintura delle
risorgive che taglia tutta la pianura, parallelamente al Po, grosso modo all'altezza di Milano, fornendo
acqua di temperatura costante.
Nel resto d'Italia l'arretratezza dei rapporti di produzione impedisce ogni iniziativa, anche in quelle
parti che erano naturalmente più favorite.
Il carattere della siccità estiva è particolarmente negativo, determinando gravi limiti naturali
all'affermazione di sistemi agronomici di tipo europeo, con colture asciutte, ma più evoluti e
produttivi rispetto al classico avvicendamento mediterraneo grano/maggese. Nella più umida area
padano-veneta l'avvicendamento triennale potè diffondersi, già nei tempi tardo-medievali, nel resto
della penisola e nelle isole il deficit idrico estivo continuò a essere per secoli un fattore limitante.
Il vincolo climatico negativo che ha penalizzato l'Italia peninsulare e insulare per la produzione di
cereali panizzabili si ripropone pure per la produzione dei vegetali in funzione dell'allevamento del
bestiame.
Un po' meno conosciuta rispetto all'espansione del castagno e dei pini è la fortissima riduzione delle
abetaie dell'Appennino che ha lasciato spazio libero alla forza espansiva del faggio.
La selvosità pressocchè totalizzante dell'Italia del Paleolitico e Mesolitico venne in parte meno nel
Neolitico, e soprattutto nel I millennio a.C. E nei primi secoli dell'età volgare, con l'affermazione di
sistemi agrari sempre più di mercato.
Occorre attendere lo spopolamento e la crisi urbana e socio-economica tardo-antica e alto-medievale
perché si possa pensare alla cosiddetta “reazione selvosa” che produsse un diffuso avanzamento del
bosco. La ripresa demografica ed economica a cavallo del Mille condusse a una drastica riduzione
del bosco. I grandi fenomeni di disboscamento proseguirono anche nell'età moderna e contemporanea
→ questo portò l'acutizzarsi del conflitto tra autorità forestali, proprietari fondiari e agricoltori.
Il cambiamento naturale in atto più preoccupante dovuto alle responsabilità umane è sicuramente lo
sconquasso climatico del surriscaldamento e dell'avvelenamento dell'atmosfera dovuti alle emissioni
industriali e urbane del biossido di carbonio. Già oggi l'aumento della temperatura si accompagna ad
una sensibile diminuzione della piovosità annua. I climatologi non nascondono che il cambiamento
climatico in corso è destinato a produrre degli effetti anche di ordine negativo sulla vita biologica e
sulla stessa vita dell'uomo. Ci possono essere spostamenti di tipiche specie mediterranee al nord, tra
cui l'olivo e la vita. Nuove specie provenienti da zone più aride colonizzeranno i nostri contesti
fitogeografici. Ci sarà la modifica dei flussi migratori e l'anticipo delle stagione dell'amore e della
riproduzione da parte degli uccelli.
Gli effetti maggiori sull'uomo riguardano il mezzogiorno, con l'emergenza acqua. Un altro problema
è quello dovuto all'eccessiva quantità di vetture per numero di abitanti.
Città, territorio e sistemi agrari nell'Italia antica
Roma si costituì nell'arco di vari secoli, grazie anche alla dominazione etrusca, partendo da uno status
di più villaggi collinari agricolo-pastorali che trassero rilevante vantaggio dall'ubicazione su di un
territorio-strada per le comunicazioni costiere e per quelle dal mare all'interno. La fondazione da parte
dei Romani di varie centinaia di città fu un'operazione nettamente politica e solo subordinatamente
economica. Le colonie romane vennero fondate quasi sempre nelle pianure. Queste si qualificavano
singolarmente per i valori di centralità geografica, per il controllo delle vie di comunicazione e per la
messa a valore agraria o mineraria delle risorse territoriali, per il il governo amministrativo di distretti
e province dipendenti dai nuovi insediamenti.
La città romana mostra una chiara tendenza verso strutture geometriche e ortogonali degli edifici, che
risponde anche a motivi tecnici determinati soprattutto dall'insolazione. Ha una forma regolare a
scacchiera, quadrata o rettangolare ma sempre unitaria, non ha una cerchia muraria. Al centro della
città si costituisce il foro dove si svolge il commercio, si organizzano le attività del governo, si
amministra la giustizia, si tengono discorsi, si svolgono attività religiose. Molto importante è anche
la basilica, edificio a pianta rettangolare, talvolta munito di absidi sui lati brevi. La città romana
attrasse e produsse capitali e risorse umane e funse da crogiolo per il groviglio delle etnie italiane. Le
strade furono un altro indispensabile fondamento della dominazione romana in Italia e nell'Occidente.
Nei tratti di pianura la via si mantiene alta per il deflusso delle acque e contro le inondazioni, spesso
è fiancheggiata da margini protettivi in pietra di una certa altezza ed è sempre dotata di marciapiedi.
La pavimentazione è il selciato. Tali nuovi itinerari si avvantaggiarono dell'esistenza di corridoi
naturali o longitudinali lungo la costa o trasversali dal mare all'interno. Essi sostituirono i tortuosi e
lenti percorsi del passato, servirono da centri di diffusione della civiltà romana e furono intensamente
attrezzati con cippi miliari e colonne o archi monumentali, fontane, edicole e sacelli, cappelle e templi
dedicati alle varie divinità protettrici della strada. Lungo le strade sorgevano le locande. Non pochi
fiumi furono attrezzati come vie d'acqua. Lungo le vie, i canali e i porti più trafficati sorsero o si
svilupparono agglomerati commerciali, stabilimenti termali e centri abitati che approfittarono delle
opportunità offerte dalle grandi correnti di commercio e di traffico.
La fase delle nuove fondazioni urbane e dello sviluppo pressocchè ininterrotto dei vecchi centri
sembra che sia durata fino alla metà del I secolo d.C. Già a partire dai secoli III-IV d.C le città italiane
entrarono in crisi. La popolazione italiana sembra sia scesa a meno di 7 intorno al 400 d.C. Quasi
ovunque le città mantennero nuclei di mercanti e un minimo di funzioni urbane solo se divenute centri
di amministrazione civile. Le città vescovili salvaguardarono il ruolo di punto di riferimento
amministrativo ed economico delle più ristrette circoscrizioni territoriali rurali. La crisi economica
ed urbana procurò la mancata manutenzione delle grandi opere pubbliche come gli acquedotti, le
strade e i ponti, i canali navigabili. Le vie abbandonate si resero presto insicure e intransitabili
soprattutto nelle aree costiere. Nei secoli VI-VII all'abbandono o alla distruzione delle città romane
corrispose la nascia di nuovi e più modesti insediamenti nelle vicinanze.
L'alto Medioevo: dalle corti ai castelli al primo risveglio delle città di mare
Città rovinate, feudalesimo e sistema curtense → Nei secoli V-VI, la guerra greco-gotica e la
conquista longobarda, la convivenza con le rovine del mondo antico rimane una costante della civiltà
europea e trasmette il senso civico di un'altra civiltà incombente estranea e familiare nello stesso
tempo. I vari centri italiani risultano più vivaci di Roma: nelle principali città padane la vita
municipale continua e produce una relativa conservazione degli organismi urbani. Altre città invece
si atrofizzano, è il caso di Ravenna. La dominazione longobarda produsse cospicui trapassi di
proprietà fondiaria, operati come già fatto dai Goti, mediante larghe espropriazioni effettuate ai
latifondisti romani, lo stanziamento delle popolazioni germaniche determinò lo sviluppo
dell'allevamento suino ed ovino e della caccia. I nuovi dominatori non sembrano avere introdotto
innovazioni sostanziali all'organizzazione di un'Italia frantumata sul piano politico-amministrativo,
essi si sovrapposero alla popolazione esistente, ereditando l'organizzazione insediativa romana. Nel
Regno Longobardo le antiche città sopravvissute risultavano, comunque, fortemente impoverite dei
ceti mercantili e artigianali, e quindi si presentavano come semi-ruralizzate.
Nella Romania bizantina nasce ora Venezia, mentre più a Sud sopravvivono stentatamente Bologna
e le dieci città episcopali. Sono però da ricordare la costruzione urbana di Ferrara e l'affermazione di
Roma. Nell'Italia meridionale manifestano una qualche ripresa economica, demografica e edilizia
vari porti pugliesi tra cui Taranto.
Il sistema stradale romano versava in grande decadenza per le distruzioni e la mancata manutenzione.
Solo intorno all'anno Mille alcune delle strade maggiori attrassero interventi di manutenzione,
sorveglianza e assistenza da parte del potere politico, degli ordini monastici e cavallereschi. Le città
che superarono la crisi continuavano a essere tenute in vita dai bisogni e dagli interventi delle corti e
soprattutto dalla più rassicurante presenza dei vescovi e degli ordini monastici benedettini. In molti
centri urbani accanto a un ceto di grandi e medi proprietari fondiari è attestata la presenza di gruppi
di artigiani e di mercanti che producevano e commerciavano soprattutto generi di lusso.
Metà del X secolo → fase di netta ripresa delle funzioni urbane. Tra 700 e 800 l'Italia viene percepita
da Carlo Magno e da altri europei colti come un “mondo” diverso da quello franco-germanico proprio
perchè i centri italiano erano abitati anche dall'aristocrazia fondiaria.
In questa fase, ragguardevoli sono gli adattamenti urbanistici e architettonici richiesti dai processi di
contrazione dell'edificio urbano. Per le costruzioni si usano generalmente materiali poveri e
facilmente deperibili per questo le città italiane dell'alto medioevo hanno lasciato tracce labili o
addirittura nulle. La presenza più rada dell'uomo e la disgregazione dei poteri pubblici determinarono
l'abbandono alle acque stagnanti delle basse pianure costiere e della parte inferiore delle maggiori
vallate interne dai terreni potenzialmente più fertili. La popolazione si addensò nelle aree collinari e
di bassa montagna. Immensi spazi vuoti ed aree ristrette relativamente popolate conntavano il
paesaggio italiano fra VI-X secolo.
Riguardo al regime della proprietà questo continuò a essere caratterizzato da una grande
concentrazione delle terre anche nei tempi longobardi. Le aree “domestiche” dovevano apparire come
piccolissime “isole” circondate dall'oceano verde della selva ora asciutta e ora umida, ma sempre
oscura ed impervia piena di manacce.
Si ascrivono comunemente alla conquista carolingia gli interventi più incisivi dell'alto Medioevo.
Questi consistono in opere di riorganizzazione di alcune importanti strade lungo le quali venne creata
una densa rete dell'assistenza e dell'ospitalità costituita da pievi e chiese canonicali, abbazie e
ospizi/ospedali e in provvedimenti di rivitalizzazione di alcune città sia di terraferma e sia di mare.
La stessa costruzione degli organismi territoriali dell'amministrazione ecclesiastica presenta ovunque
una conformazione spaziale che denuncia il loro stretto collegamento con la viabilità.
Tale nuovo agrosistema rappresentò un passo in avanti per le condizioni di vita del grosso della
popolazione. Fu possibile coordinare il lavoro dei coloni, rinsaldare i rapporti con i mercati locali e
con quelli cittadini, promuovere iniziative che i singoli non erano in grado di assumere.
Il sistema curtense faceva riferimento all'aristocrazia feudale laica ed ecclesiastica, alle ricche
strutture religiose che si andavano moltiplicando.
La colonizzazione avveniva mediante l'affidamento, in affitto “perpetuo”, destinato col tempo a
divenire spesso un vero e proprio possesso, della maggior parte della terra coltivata a famiglie di
agricoltori residenti.
La parte massaricia (da massaro o contadino) veniva suddivisa in più unità di produzione dette “sorti”
o “mansi” che divennero le cellule-base del grande possesso terriero.
Ogni famiglia otteneva un “poderetto” di dimensioni tali da consentire l'impegno continuo di tutti i
componenti. Gli agricoltori allevavano pure pochi capi di bestiame negli stessi campi dopo il raccolto
e in quelli che nello stesso tempo, erano lasciati al riposo annuale. Tale carattere regolato da
consuetudini garantiva all'insediamento e alla popolazione locale una forte fisionomia comunitaria.
Nei villaggi potevano risiedere anche agricoltori con la condizione di piccoli proprietari o possessori
livellari. Questi contadini erano liberi in teoria, ma di fatto anch'essi erano legati al signore per il
versamento dei tributi e per i problemi dell'uso delle strutture di interesse generale. Le poche
coltivazioni arboree erano concentrate nella parte dominica, cui sovrintendeva un amministratore di
fiducia del proprietario e servivano ad alimentare il vicino mercato urbano.
In Sicilia nel IX secolo rinasce il paesaggio del giardino mediterraneo dove, accanto alle piante da
orto e da frutta tradizionali, si diffondono nuove specie provenienti dagli ambienti caldi: il riso, il
cotone, la canna da zucchero, il limone e l'arancio, il gelso, lo spinacio, il carrubo e il pistacchio.
Questa agricoltura intensiva ha esercitato un'influenza notevole sullo sviluppo agricolo d'Italia,
imprimendo lineamenti e forme più durature nel suo paesaggio agrario. La civiltà italiana ed europea
dei secolo che precedono il Mille e anche oltre fu civiltà di rustici. L'agricoltura non fu solo l'attività
economica fondamentale ma rappresentò l'elemento portante dell'intero sistema economico.
Unica eccezione di questo modello fu Palermo che era una città metropoli in quanto era punto di
confluenza dei traffici tra il Mediterraneo islamico e l'Europa cristiana. A questo corrisponde la crisi
della capitale bizantina: Siracura.
La civiltà dei castelli → La fase successiva della politica di territorializzazione prodotta dalla società
feudale riguarda il cosiddetto incastellamento. Già nei secoli IX e X ci fu una forte insicurezza politica,
la nobiltà ecclesiastica e laica fonda i primi castelli: borghi inerpicati, o villaggi fortificati, talvolta
anche assai piccoli e costituiti da case in materiali precari. Il signore non costruisce un castello per
sua esclusiva abitazione, bensì inserisce la sua residenza turrita. I castelli si diffusero grandemente
nei secoli successivi: specialmente nei secoli XI e XII ma anche XIII-XIV. Queste ultime e tardive
realizzazioni non sono sempre dovute all'antico ceto feudale ma anche e soprattutto alla piccola
nobiltà rurale ormai inurbata e addirittura ai nuovi e ricchi ceti cittadini che intendevano così
nobilitarsi. La nascita del castello mise in crisi la rete dei piccoli e piccolissimi villaggi o casali sui
quali si reggeva il sistema curtense. Molti di questi insediamenti furono infatti abbandonati e gli
agricoltori si trasferirono nel nuovo e meglio difeso ed attrezzato agglomerato.
In molti casi il signore autorizzò anche lavoratori di terre di altri proprietari oppure piccoli coltivatori
in proprio o liberi artigiani, a risiedere dentro le mura. Il signore comunque continuava a detenere
saldamente nelle sue mani i poteri giurisdizionali e fiscali sia sull'insediamento e sulla sua
popolazione e sia sul distretto circostante. Il castello continuava a sovrintendere in modo primario
allo sfruttamento agricolo, ittico e pastorale.
In questo periodo di espansione, nuovi castelli vennero poi fondati nelle terre vergini strappate al
bosco o all'acquitrino. In tali casi la pianificazione politica dell'intervento valse ad assicurare la
costruzione di insediamenti e soprattutto di spazi agrari di colonizzazione più razionali. Tale
operazione servì pure a garantire una maggiore autonomia amministrativa alla collettività mediante
la concessione di beni terrieri indivisi. Si creava così una sorta di condominio: autonomie locali che
coesistevano con i poteri signorili.
Il castello divenne poi il centro del mercato: la valenza commerciale del luogo non arricchiva solo il
signore con i dazi e le gabelle imposte sulle merci, ma finiva pure con il beneficiare i bottegai e gli
artigiani, contribuendo alla loro elevazione sociale. Spesso, il luogo del mercato finì con il diventare
un borgo abitato con le case e botteghe che sorgevano intorno alla piazza, nei luoghi tradizionalmente
occupati dai venditori. Nel XII-XIII secolo le corti vengono abbandonate dai coltivatori affrancati, i
ceti abbienti cittadini e locali possono acquistare molte terre, i livellati non di rado riescono a
diventare proprietari a tutti gli effetti → tutto ciò crea effetti dirompenti sul sistema dei castelli e sugli
equilibri territoriali da quelli dipendenti. Molti insediamenti finirono coll'essere abbandonati dagli
abitanti che preferirono emigrare nelle stesse città in espansione oppure trasferirsi in insediamenti
accentrati minori appositamente costruiti in luoghi che stavano esprimendo più avanti equilibri
territoriali.
Non pochi castelli finirono così per degradarsi e addirittura per ridursi a ruderi o per scomparire
completamente. Non furono pochi neppure gli insediamenti castellani che riuscirono a mantenere la
loro consistenza demografica e urbanistica o addirittura ad accrescerla, grazie alle cure e ai privilegi
del nuovo potere cittadino. Questi ultimi valsero a produrre un'ulteriore articolazione della società
locale, con formazione di un gruppo di potere in grado di gestire l'amministrazione della comunità. I
castelli sedi di comunità sono sopravvissuti ai grandi cambiamenti dei secoli comunali e tardo-
medievali perchè non si qualificavano più come villaggi esclusivamente o essenzialmente agricoli
bensì esprimevano ora le nuove funzioni di centri di servizio della campagna, ove stavano
affermandosi sistemi agrari innovativi quali quelli creati dalla città e sempre più compitamente
collegati al mercato urbano.
Il mare e il primo risveglio urbano a cavallo del Mille → Un'altra novità tra i secoli IX e XI sono
la nascita di alcune città e porti costieri, le “repubbliche marinare” con altri centri meno sviluppati. Il
quadro della maglia urbana dei secoli finali dell'alto Medioevo non si configurava tanto come
contrapposizione tra un Centro-Nord urbanizzato e un Mezzogiorno povero di città, quanto in una
bipolarità tra aree costiere. La conquista nel XI secolo, e soprattutto il controllo in seguito a passaggio
matrimoniale, da parte degli Svevi, di Sicilia e Meridione fra i secolo XII e XIII finirono però con il
creare le premesse per la graduale decadenza delle autonomie e funzioni urbane e quindi delle attività
economiche e mercantili generate dalle stesse repubbliche marine. Nel IX e X secolo il commercio
marittimo con l'Oriente è così scarso da essere accentrato prevalentemente nella piccola Amalfi
mentre i grandi porti rimangono fuori uso. La vittoria dell'imperatore Ottone sugli Ungari, la
riconquista bizantina di Creta e la cacciata dei Saraceni dalla base di Frassineto aprono un nuovo
spazio di scambi → Venezia, Pisa e Genova si sviluppano precocemente entro il secolo XII ognuna
delle città definisce la sua forma.
L'assoluta originalità del caso veneziano si misura nella matrice originaria bizantina e nel rapporto
diretto con Bisanzio mantenuto fino alla conquista turca. → caratteristiche di Venezia: sistema
costruttivo formato dai muri pieni allineati in profondità e dalle facciate vuote a polifore che li
collegato, le facciate assumono successivamente le forme romaniche, gotiche, rinascimentali e
barocche. L'uniformità rigorosa della quota di imposta comanda tutto il grande dispositivo urbano.
Come punto di smistamento verso l'Europa nord-occidentale delle merci provenienti dal bacino
orientale del Mediterraneo, la posizione di Venezia non temeva confronti. La posizione insulare di
Venezia nella laguna a nord del delta padano era ottima ai fini difensivi e venne anche occupata come
rifugio rispetto alla terraferma. Dalla dipendenza dall'impero bizantino, Venezia, trasse notevoli
privilegi che resero i suoi cittadini i più importanti trasportatori e costruttori dell'Impero nel
Mediterrraneo.
Pisa è un luogo abitato dall'epoca etrusca e romana, sul limite della laguna tirrenica dove sbocca
l'Arno e diventa importante quando Augusto sistema il porto al limite meridionale del sinus pisanus.
Deve considerarsi un organismo nuovo, approssimativamente conforme al modello classico della
scacchiera ma adattato liberamente alla curva del fiume e alle opportunità del terreno. Il suo sviluppo
è compreso fra l'inizio del XI secolo e la seconda metà del XII. La coerenza della forma urbana è
basata sull'omogeneità di un tessuto edilizio formato da moduli uguali ritmicamente ripetuti. La città
gravita sul corso dell'Arno canalizzato, con le due file di palazzi di altezza costante, i lungarno, le
scalee che scendono sul fiume, le fortificazioni terminali della Cittadella e dell'Arsenale. La sconfitta
della Meloria segnò la fine di una potenza commerciale che era arrivata a dominare il litorale tra
Portovenere e Civitacecchia. Nel corso del XIV secolo la città si spopolò e il porto si interrò.
Genova rivale e poi vincitrice di Pisa crea il suo porto e la sua attrezzatura urbana in un sito ristretto,
privo di comunicazioni agevoli con l'entroterra. Il disegno ortogonale della porzione piana, pur
ricalcando in qualche misura una traccia romana, va considerato un organismo nuovo derivante dalla
stessa logica. Le funzioni più importanti sono allineate sul fronte arcuato del porto, sistemato con
somma cura dall'autorità cittadina. Nell'abitato compattissimo restano pochi avari spazi aperti. Le otto
ripartizioni dell'area urbana o compagnie sono un ventaglio di spicchi convergenti sulla linea di costa.
I genovesi si avvantaggiarono di una posizione più favorevole di Pisa rispetto ai fiorenti centri
commerciali della Lombardia e del resto d'Europa, raggiungibili attraverso i valichi dell'Appennino
ligure e delle Alpi centrali. Fu quindi importante mercato e centro di industria tessile.
I caratteri urbani di una società rurale. La ripresa delle città e dei centri minori → Dall'XI al
XV secolo l'uniforme mondo rurale costituitosi nell'alto Medioevo con la feudalità e il sistema
curtense si va sempre differenziando. Le città si popolano, gli scambi si infittiscono, la moneta
riprende a circolare, i commerci riprendono anche a lungo raggio e si consente quindi la formazione
e l'ascesa di nuove classi sociale. Si crea il cittadino e il rurale. Il processo di sviluppo urbano si deve
pressocchè ovunque alla sostituzione del potere dei feudatari prima con quello dei vescovi, e poi con
quello dei mercanti ed artigiani. Questo cambio della guardia è in genere evidenziato da interventi
dal chiaro significato simbolico. Le città diventano centri specializzati delle attività secondarie e
terziarie. Ognuna di esse svolge un insieme di iniziative commerciali, industriali, finanziarie e
culturali molto più estese e compete con le altre in scala continentale e mondiale. A partire dal secolo
XI la città conquistano in vari modi l'autonomia, questa diventa un carattere costitutivo della civiltà
europea. L'organizzazione politica condiziona la forma fisica delle città, con varie innovazioni
costitutive date dall'avvicinamento degli edifici pubblici e privati. Uno spazio pubblico della città ha
una struttura risultate dall'equilibrio fra diversi poteri: il vescovato, il governo civile, gli ordini
religiosi, le corporazioni e le classi. Ogni città è divisa in quartieri, sestieri, contrade, compagnie,
rioni che hanno la loro organizzazione individuale, i loro simboli e spesso la loro organizzazione
politica. La città occupa uno spazio ristretto, il centro della città è il luogo più ricercato. Le mura
indispensabili per la difesa sono l'opera pubblica più dispendiosa, ed hanno il tracciato più breve
possibile per circondare una data superficie. Sulla base di precise scelte politiche e di normative
minuziose le cinta murarie vennero quasi dappertutto ampliate per inglobare i borghi ex tramoenia
costituitisi lungo le principali vie di comunicazione diramantisi dalle porte cittadine. La crescita delle
città fino almeno a tutto il XIII secolo continuò a essere scandita dalla creazione di nuovi borghi
all'esterno delle mura e da successivi inglobamenti grazie all'allargamento della cinta medesima.
Molti degli spazi verdi inseriti entro la cerchia muraria non avevano la squallida funzione dei suoi
urbani contemporanei ma erano accuratamente e intensivamente coltivati per il mercato cittadino.
All'intern delle città i governi provvidero a realizzare i simboli dei nuovi equilibri politici, i palazzi
comunali, le piazze porticate del mercato e le cattedrali e non di rado a diadare il tessuto urbano più
antico, con lo scopo dichiarato di abbellire la città, anche con l'ingrandimento e la pavimentazione di
vie e piazze. L'autonomia politico-amministrativa quasi completa guadagnata dalle città dell'Italia
centro-settentrionale nei riguardi dell'Impero valse a garantire il controllo del territorio circostante.
Questo processo non si verificò nell'Italia meridionale.
Le nuove fondazioni di città e villaggi → Un po' in tutta Europa e anche in Italia, nuove grandi
ondate di colonizzazione e di fondazione di centri abitati si ebbero con la ripresa demografica dopo
il 1000. Si passa dal vecchio potere feudale laico ed ecclesiastico, al quale si devono le fondazioni
più antiche, al nuovo potere dei centri comunale, al quale spettano le realizzazioni più recenti, di gran
lunga più numerose. Tali centri pianificati rispondono quasi ovunque alle denominazioni di terra
nuova/villa nuova o borgo franco/castel franco/ villa franca e presentano in genere una griglia
quadrangolare impostata su assi ortogonali.
Tutto questo movimento si accompagnava a una radicale evoluzione sociale: la crisi del feudalesimo
e del rapporto servile, e la nascita di una nuova classe di liberi cittadini dediti al commercio,
all'artigianato e alle arti liberati. La modifica del modello distributivo delle città che allora avvenne
poggiava sulla base di una vasta trasformazione sociale: ne è controprova il sostanziale fallimento di
quasi tutte le fondazioni di abitati, fatte a freddo cioè senza il supporto di incisive trasformazioni
politico-sociali, nel Rinascimento, quando si sovrapposero raffinati ma utopistici progetti elaborati
dalla cultura cittadina e specialmente cortigiana a un territorio rurale rimasto sostanzialmente estraneo.
In quanto agli attuali paesi gran parte di essi sorse appunto nel basso Medioevo, al tempo del grande
aumento della popolazione, completamente bloccato nel 1347-50 dall'arrivo della “peste nera”.
La differenziazione dei sistemi e dei paesaggi agrari italiani. I sistemi di mercato evoluti → I
processi di modernizzazione produssero la costituzione di due nuovi sistemi agrari.
1. MEZZADRIA: Italia centrale, padana, costiere liguri → numerose ville costruite a partire dal
300/400 si giustappongono allo spazio della produzione conferendogli un significato di
grande valore storico e artistico. La mezzadria è fatta di unità produttive a base familiare
concesse in gestione dal proprietario a una famiglia di coltivatori, il patto prevede la divisione
a metà dei raccolti e degli utili d'azienda, con tempi di insediamento della famiglia mezzadrile
assai brevi in una casa colonica nel podere. Accanto a quest'ultima ci poteva anche essere la
casa del signore. Il contratto mezzadrile è valutato tra le forme sociali intermedie fra quelle
servili medievali e quelle capitalistiche, ma valse a garantire autonomia alimentare ai
mezzadri e ai proprietari e anche a approvvigionare i mercati cittadini di genere indispensabili
al consumo della popolazione e alle stesse lavorazioni industriali che qui si svolgevano. La
forza espansiva della mezzadria nel tardo Medioevo fu tale da guadagnare anche settori non
esigui della pianura padano-veneta, dal Piemonte e dalla Lombardia al Friuli, dal Bolognese
al Venete e al Trentino.
2. CASCINE AD AFFITTANZA CAPITALISTICA: si concentra essenzialmente nella pianura
lombarda → rapporto di mercato che ha come caratteristiche di fondo la specializzazione
colturale e ricorso alla mano d'opera fissa e giornaliera da parte di una gestione
imprenditoriale in affitto. L'affittanza prevale nettamente sulla gestione in proprietà. La
cascina si diffuse tra tardo Medioevo e tempi contemporanei e divenne la realtà più tipica ed
evoluta dell'agricoltura padana. Fin dai secoli XIV e XV, l'affittanza padana comincia a fare
riferimento ad aziende di medie e grandi estensioni coltivabili con ricorso al lavoro salariato.
La dilatazione del sistema delle cascine e del bracciantato è legata soprattutto alla diffusione
della coltura del riso che si verificò nella Lombardia della seconda metà del 400.
La differenziazione dei sistemi e dei paesaggi agrari italiani. I sistemi di sussistenza o di mercato
arretrato → In un po' tutte le montagne alpine e appenniniche si perpetuarono le antiche forme di
vita e di un paesaggio pastorale che più da vicino continuano quelli dell'età feudale. Generalmente le
superfici coltivate erano superfici nude, riservate esclusivamente alle produzioni cerealicole, con
produttività molto bassa e rotazioni più arretrate rispetto alle colline e alla pianura. La figura sociale
più consueta era quella del piccolo proprietario allevatore. Sulla montagna non si ebbe affatto una
penetrazione di capitali cittadini, né una generalizzata riorganizzazione della proprietà verso forme
più compatte dell'azienda come il podere delle zone più basse.
Boschi e incolti sempre utilizzati per il pascolo brado e l'allevamento estensivo connotavano gran
parte dell'Italia centro-meridionale dove nel tardo Medioevo si stava organizzando il sistema del
latifondo.
I baroni si adeguarono alla domanda del traffico internazionale nel modo più semplice → praticando
su larga scala la coltura più immediatamente redditizia e rispondendo alle più immediate e spontanee
vocazioni produttive della terra.
Nei giardini irrigui siciliani e specialmente di Palermo, almeno dall'XI al XV secolo, si mescolavano
in forma irregolare innumerevoli specie arboree e arbustive con le primizie orticole.
La crisi trecentesca servì a dare il colpo di grazia a ciò che restava del sistema agrario curtense.
Centinaia di castelli furono definitivamente disertati dai contadini.
Nei tempi delle crisi demografiche ed economiche, nei più ampi contesti spaziali dell'Italia
meridionale, i signori feudali tendono ad estendere nel feudo l'allevamento ovino, sottraendo
abusivamente agli usi promiscui di pascolo delle popolazioni una parte delle terre feudali.
Tra la metà del Trecento e la metà del Quattrocento i tre governi di Siena, Roma e Napoli
organizzarono larghe porzioni dei loro territori come dogane di pascolo → destinazioni d'uso del tutto
incompatibili con la salvaguardia degli equilibri ambientali e di quelli demografici e socio-economici.
Solo la cerealicoltura estensiva era compatibile con il sistema doganale.
Il paesaggio nudo è il carattere distintivo del latifondo dove la presenza umana è scarsa, i terreno non
sono adoperati e gli investimenti sono scarsi. Il latifondo è accompagnato dall'insediamento
accentrato.
La crisi del XIV secolo si manifestò con un calo demografico consistente. Mentre nel Sud, nella
Maremma e nelle pianure laziali, la riposta alla crisi venne ricercata nello sviluppo dell'allevamento
brado e transumante, nell'Italia centro-settentrionale si imboccò una strada diversa → quella della
riconversione che puntava sulle produzioni di pregio e di alto prezzo, come la vita e l'olivo, il gelso,
il lino e la canapa e come le praterie artificiali in funzione dell'allevamento razionale dei bovini.
Il mercato italiano riprese poi importanza dopo il Mille e soprattutto nei secoli XIII e XIV, quando il
suo traffico si estendeva dall'Inghilterra fino al Sahara e fino alla Cina e all'estremo Oriente. La
creazione di quest'impero economico fu accompagnata dall'elaborazione di complesse tecniche
industriali e artigianali. Ci furono tre fatti che favorirono la rinascita commerciale:
1. aumento della popolazione e della produzione in tutta l'Europa nord-occidentale che
produssero una notevole e crescente della domanda, da parte del clero, della nobiltà e dei
nuovi inurbati, delle merci pregiate prodotte o importate dalle città italiane.
2. Ascesa del papato che influì in vari modi sullo sviluppo economico dell'Italia
3. controffensiva contro l'Islam → le crociate riaprirono il commercio dei paesi cristiani e in
primo luogo dell'Italia, le vie del Mediterraneo e del Mar Nero. Il trasporto di uomini e merci
su navi genovesi e pisane stimolò le costruzioni navali e fu fonte di guadagni, mentre il
contributo dato dal naviglio italiano alle vittoriose campagna sulle coste siriane fu compensato
con la concessione di agenzie e diritti e con l'istituzione nei porti del Levante di colonie o
quartieri destinati a funzionare da basi per l'importazione diretta delle merci orientali.
Già prima delle peste nera del 1347-50 si manifesta nell'economia una netta inversione di tendenza.
Ristagno e contrazione nella produzione industriale e nella sua commercializzazione sembrano essere
l'effetto della crisi demografica e di sussistenza già in atto dai primi decenni del secolo. Questo fu
anche un periodo di disgregazione e di mutamenti politici, caratterizzato da guerre e torbidi in Europa
e Italia.
La graduale ruralizzazione della società italiana nell'età moderna
Un territorio forte, ma sempre più ruralizzato → Tra 400 e 500 l'Italia era una delle aree europee
più avanzate dal punto di vista economico. Le città erano in Italia più numerose e più ampie. In queste
città le attività industriali erano assai sviluppate. I mercanti e i banchieri italiani godevano di una
posizione di grande prestigio in tutte le regioni d'Europa. Ma anche in questa fase temporale
l'economia della penisola era in prevalenza agraria. È normale che se le città aumentano la produzione
e la produttività del settore agricolo aumenta: più le città sono grandi e più nelle campagne occorre
che sia ampia la quota del prodotto agricolo destinata a nutrire chi vive in città. Molti dei caratteri
che le economie dell'Italia avevano assunto nell'espansione dei secoli X-XIV resistettero fino almeno
alla metà del XVIII secolo. Il cambiamento più significativo in questo periodo fu la perdita di vitalità
delle economie della penisola in relazione alle economie esterne.
Se proviamo a periodizzare tale ampia fase cronologica, è possibile ritagliare due periodi assai diversi:
1. secoli XV-XVI di sostanziale continuità con i tempi dello sviluppo tardo-medievale
2. secoli XVII-XVIII che evidenziano una vera e propria svolta nell'economia e nella società,
con la crisi della città, dell'industria e della marcatura urbana.
Ci furono altre epoche di crisi tra 500 e 600, è certo però che la crisi secentesca fu assai più grave in
Italia rispetto ad altri paesi europei. Questo fatto chiama in causa il ruolo dell'Italia nella geografia
politica dell'Europa occidentale. Le città-stato italiane con i loro piccoli domini territoriale erano
ancora di dimensioni inadeguate, per le condizioni createsi nel 500 con l'affermarsi di sempre più
potenti Stati Nazionali. Le piccole città-stato italiane dovettero cedere alle artiglierie e ai ben
addestrati eserciti francesi e spagnoli.
Le città ridisegnate dall'urbanistica del potere → Durante il XV e il XVI secolo vennero attuati
cospicui accrescimenti soprattutto a Roma, Milano, Genova, Verona, Lucca, Firenze, Napoli e
Messina. Tuttavia le realizzazioni urbanistiche più importanti restano interventi isolati, con
inserimento di una veste architettonica nuova nelle strutture edilizie già consolidatesi da secoli, e
soprattutto un po' ovunque con riorganizzazione di strade e piazze dettate dai modelli del nuovo
decoro urbano. E' però importante ricordare la costruzione di grandi e geometriche città fortificate
che esprimono le migliori elaborazioni concettuali dell'urbanistica e dell'architettura rinascimentali.
Nei secoli XVI-XVII ci fu un vero e proprio processo di intensa colonizzazione feudale → esigenza
di ripopolare le campagne semi-spopolate per fissare sul latifondo la forza lavoro necessaria per
rinnovare la produzione agricola.
La crisi dell'economia urbana che si apre con il XVII secolo vale a spiegare il sostanziale
immobilismo demografico e urbanistico di pressocchè tutte le città fino alla metà del XVIII secolo.
Sempre nel corso della crisi, il XVII secolo, matura una svolta gravida di conseguenze sulla futura
storia del paese, consistente nel passaggio dal sistema della città industriale. E' in questo quadro di
ristagno delle funzioni urbani più vivaci e creative che si collocano gli interventi fastosi e
monumentali di principi e aristocratici. Adesso sono le strutture che esprimono il potere e i
comportamenti religiosi a inserirsi con particolare risalto nel tessuto urbano.
I pochi lavori documentati riguardanti le strade e le vie di comunicazione del XVII secolo, ci rivelano
che esistevano strade quasi soltanto volte a collegare le capitali con altre città importanti. Lo stato
mediocre e pessimo della viabilità moderna non impediva, lo svolgimento dei flussi commerciali e il
passaggio dei viaggiatori, poiché le strade percorse da quest'ultimi erano quelle degli Stati con il
cosiddetto servizio di “posta” → istituzione di condotte regolari di corrieri per corrispondenza e
merci, affitto di cambi dei cavalli e fornitura di ospitalità e ristoro in specifici edifici.
L'amplissima ricerca sulle campagne trevigiane in età moderna, vale a tracciare le linee generali del
popolamento e dell'organizzazione produttiva in un settore non secondario della pianura padano-
veneta, durante i due secoli successivi alla grande crisi trecentesca. Dagli studi emerge la portata dei
mutamenti climatici tardo cinquecenteschi noti come “Piccola glaciazione” e scaturiscono pure, con
chiarezza, gli effetti delle politiche cittadine di privatizzazione od espropriazione dei beni comuni
dalla peculiare valenza silvo-pastorale.
Un tema territoriale che nell'età moderna investe un po' tutta l'Italia riguarda il disboscamento
montano e collinare, con i dissesti idrogeologici prodotti non solo nelle terre alte ma anche e
soprattutto in quelle basse.
Ben note agli studiosi sono le testimonianze sugli effetti disastrosi della distruzione dei boschi di
montagna e le provvisioni dei governi per la loro salvaguardia e il loro sfruttamento relativamente al
secolo XVI → questi crearono: allagamenti che, favorendo e aggravando la malaria, determinarono
abbandoni di terre da parte della popolazione. Si comincia a rispondere pure con iniziative individuali:
mediante l'elaborazione e la diffusione di nuovi tipi di sistemazioni che per questo ambiente erano
stati appena abbozzati in età comunale e ampliati nei tempi primo-rinascimentali.
Anche il riso progredisce nel Nord contemporaneamente al gelso e permise di lavorare terreni
paludosi, altrimenti impossibili da coltivare.
Le risaie non vennero impiantate soltanto come coltivazioni stabili nei terreni acquitrinosi: già alla
fine del XVI secolo, la coltivazione si diffonde anche in terre artificialmente allagate.
Ci fu anche una diminuzione del costo dei cereali che si manifestò nel corso della seconda metà del
XVI secolo che favorì lo sviluppo dell'allevamento, specialmente quello ovino per il più alto valore
della lana.
Il processo di ri-feudalizzazione appare evidente in quei settori della penisola nei quali più vivace era
stato lo slancio del moto comunale. Laddove i proprietari cittadini mantengono le attitudini
imprenditoriali raffinate dalla ercatura, gli investimenti fondiari e agrari nelle aree mezzadrili non si
interrompono.
Le ville tardo-cinquecentesche e secentesche rappresentano spesso un centro di riorganizzazione del
sistema mezzadrile verso orientamenti più produttivi e meglio in grado di soddisfare le mutevoli
domande del mercato.
Nell'Italia collinare e montana, vennero messe a coltura molte terre marginali, collocate a quote
eccessive o mal soleggiate, spesso mediante imponenti opere di sistemazione. Contemporaneamente
si manifesta una pesante aggressione ai boschi montani e collinari per estendere qui i coltivi e i pascoli,
oppure soltanto per utilizzare in modo troppo intensivo e smodato la massa legnosa sempre pi
richiesta dalle industrie e dai mercati urbani. I tagli determinarono processi preoccupanti di dissesto
idrogeologico delle terre alte, con le frane e gli smottamenti e il denudamento delle matrice rocciose
a opera dell'erosione delle acque, e con le sempre più rovinose inondazioni nelle terre basse → questo
arriva la ricerca e la sperimentazione della scienza agronomica che valse a elaborare la nuova tecnica
delle “colmate di monte” che intendeva trasformare le più basse pendici denudate e scoscese dei
rilievi, in una serie di singoli ripiani sostenuti da muri, detti piani “a spina” o tagliapoggio, con
divisione in piani separati. Tali efficacissime bonifiche collinari rimodellarono il paesaggio di intere
aree che vengono ad assumere un'importanza che dalla Toscana si allarga ben oltre i confini regionali,
per incidere profondamente delle forme del paesaggio agrario italiano.
Insieme con i disboscamenti e i dissodamenti a fini agrari, nella seconda metà del 700 ripresero in
grande stile anche le bonifiche degli acquitrini presenti in pianure costiere e interne dell'Italia centro-
settentrionale.
Si ritiene che bonifiche, diboscamenti e miglioramenti agrari realizzatisi nell'Italia centro-
settentrionale servirono almeno ad accrescere la produttività del settore agricolo. Essi fecero fronte
all'aumento demografico mettendo a disposizione più beni per un numero di bocche che andava
crescendo. A partire dalla metà o seconda metà del 700 la crescita commerciale e manifatturiera
riportò in primo piano l'attenzione per la viabilità e per le vie di navigazione interna. Il fatto era che
un po' tutte le strade erano malandate o pessime. La rete era molto più fitta ed efficiente nella Padania,
con articolazione intorno ai principali centri, mentre le coste a sud di Loreto e di Livorno sono
totalmente prive di strade, anche il Sud era quasi privo di comunicazioni. Nella seconda metà del
XVIII secolo → passaggio dal trasporto someggiato a quello con carri, vennero costruite
pavimentazione resistenti ma non eccessivamente costose, pendenze e larghezze costanti, curve con
raggi prefissati, opere d'arte unificate e ponti.
Gli interventi miglioritari si applicarono pure alla rete dei fiumi e canali navigabili esistente da secoli,
soprattutto nell'Italia settentrionale. Molti fiumi venivano tradizionalmente utilizzati anche per la
fluitazione a valle dei tronchi degli alberi tagliati nelle montagne, un trasporto che andò avanti almeno
fino all'avvento delle ferrovie e spesso ancora tra 800 e 900. Furono poi realizzati diversi lavori sui
valichi appenninici in Liguria, nei ducati emiliani e in Toscana, nonché interventi in zone prive di
arterie, come la ricostruzioni dell'Aurelia da Livorno a Roma. Rimase invece statica la situazione nel
Mezzogiorno. Furono istituiti anche nuovi servizi e linee regolari di diligenze, anche alla scala
internazionale, a opera di imprese come la Franchetti e la Orcesi che collegavano quasi tutte le
principali città italiane.
Ci furono innovazioni anche per quanto riguarda la navigazione → navigazione a vapore in pianura
padana, sulla cui rete di fiumi e canali si spostavano le derrate lombarde e svizzere dirette ai porti di
Venezia e Trieste.
Dal 1839 si apre pure l'epoca delle ferrovie in tutti gli Stati preunitari. Con la costruzione di tali
infrastrutture di comunicazione il mondo moderno, tecnologico e industriale, comincia a sovrapporsi
al paesaggio antico.
C'è un processo di ribaltamento dei valori territoriali e di scivolamento degli abitanti e delle attività
economiche verso le pianure, specialmente costiere, doveva però manifestarsi compiutamente dopo
l'unità d'Italia.
L'età unitaria: i tempi dell'industria e dell'urbanizzazione
L'Italia delle varietà geo-antropiche e socio-culturali. Il mosaico dei sistemi agrari al tempo
dell'unificazione nazionale → La distribuzione della popolazione sul territorio era direttamente
correlata a una realtà sociale così nettamente dominata dalla presenza contadina.
Italia centrale e nord-orientale: rapporti di lavoro stabili o di lunga durata e da una organizzazione
produttiva anche abbastanza organica (mezzadria)
Italia nord-occidentale: i rurali si aggregavano in villaggi e centri minimi
Italia meridionale: popolazione tende a concentrarsi nelle città e nei grossi centri contadini
Centro nord aveva un'armatura urbana assai fitta e articolata e distribuita in maniera abbastanza
uniforme sul territorio con caratteri che possono essere definiti policentrici.
Italia meridionale troviamo un numero di città minore: i rari poli urbani meridionali si
caratterizzavano come i luoghi in cui si realizza il potere dei ceti agrari dominanti.
Le pianure padano-venete con le loro cento città, grazie all'ampiezza raggiunta dalle bonifiche dei
tempi tardo-medievali e moderni, erano il teatro incontrastato dell'individualismo agrario, per la
dominanza delle grandi e medie aziende strutturate su sistemi prettamente capitalistici. Le grandi e
medie imprese si caratterizzavano per la spiccata specializzazione cerealicola e foraggiera che
rendeva possibile un cospicuo allevamento di bovini.
Italia centrale: organizzata secondo la struttura dell'agricoltura promiscua nel più lato termine con
seminativi e piantate di ogni tipo. L'ordinamento produttivo era dato dalle piccole unità poderali a
base familiare.
Eccezioni sono:
1. pianure litorali → regioni settentrionali e centrali, che erano intersecate da resti di lagune o
largamente pantanose e quindi pochissimo popolate.
2. Montagna alpina e appenninica → continuava a mantenere una relativa forza e una relativa
autonomia, nonostante la crescita demografica, le privatizzazioni di beni comuni e le
soppressioni delle servitù feudali. Questi interventi erano destinati a introdurre conseguenze
sempre più negative sugli equilibri precari che legavano le società locali
Fin grosso modo all'unità d'Italia le montagne mantenevano intatta la loro organizzazione territoriale
maturata tra tardo Medioevo ed età moderna: qui l'associazionismo popolare era particolarmente
diffuso e un po' a tutte le famiglie corrispondevano piccole o piccolissime aziende agro-silvo-pastorali.
L'organizzazione agraria più arretrata era l'assetto del latifondo che coinvolgeva gran parte della
Maremma toscana, le pianure laziali e quasi tutto il Meridione. Soprattutto nel Meridione l'assetto del
latifondo cerealicolo-pastorale estensivo era sostanzialmente destinato a durare fino alle bonifiche e
alle colonizzazioni fasciste e addirittura alla riforma agraria parziale del 1950.
Sino al 1860-70 l'Italia è un aggregato di spazi politici che intrattengono fra loro modeste relazioni
economiche e intense relazioni culturali: unificata del XIV secolo, la lingua letteraria è il principale
elemento coordinatore delle diverse Italie geografico-storiche.
Industrializzazione, urbanesimo e nuovi equilibri demografici → Con l'Italia unica si apre una
fase più dinamica in termini economici e sociali. Con l'espansione della legislazione e della politica
libero-scambista vennero svantaggiate le regioni del Mezzogiorno. Ci fu anche una grande crescita
demografica e un grande incremento fisico delle città.
Sul piano demografico e sociale, la grande emigrazione verso l'estero che caratterizzò, in misura
crescente, gli ultimi decenni del XIX e l'inizio del XX secolo fu senza dubbio un fatto nuovo e
sconvolgente nella storia della popolazione italiana. Gli spostamenti furono dovuti alla crisi delle
regioni alpine, appenniniche e le regioni meridionali.
Molte degli emigranti tornarono in Italia successivamente per offrire un contributo prezioso al
processo di industrializzazione e al miglioramento dell'economia italiana.
La svolta protezionista degli anni 80 del XIX secolo giocò un ruolo importante nel processo di
modernizzazione e di industrializzazione del Paese. Dagli anni 20 cominciarono a verificarsi
spostamenti definitivi all'interno della penisola per effetto della capacità attrattiva della capitale e di
alcune aree del Nord più interessate dallo sviluppo economico.
Le città e i nuovi equilibri (e squilibri) territoriali nell'età della rivoluzione industriale → Con
l'industria tutto cambia sempre più vorticosamente e la città diventa l'unico fulcro dell'assetto
territoriale. L'unificazione del mercato nazionale, la costruzione di una sempre più estesa rete di
comunicazione e la ininterrotta crescita demografica sono i fattori che spiegano la ripresa in grande
stile dei processi della bonifica idraulica e della colonizzazione agraria già nella seconda metà del
XIX secolo. Durante la prima età industriale ci sono stati una grande varietà di eventi urbanistici ed
una miriade di episodi edilizi, in relazione alla diversità delle situazioni. La creazione della vera e
propria città chiusa che ha un dentro e un fuori, la città cristallizzata in una forma è da collocare tra
800 e 900. Nella prima fase della più intensa industrializzazione 800-900entesca l'organizzazione
dell'industria tessile in grandi e medie manifatture finisce con il determinare la rovina dell'industria
rurale a domicilio. La disgregazione dell'industria rurale non mancò di produrre l'impoverimento e la
vera e propria espulsione all'estero o nei centri urbani in sviluppo del Paese di quote sempre più
rilevanti della popolazione agricola e rurale.
Con il diffondersi della macchina a vapore le industrie tendono a svincolarsi dalla risorsa acqua e a
polarizzarsi su centri ben serviti dalle infrastrutture di comunicazione. Tale processo comincia a
penalizzare molte delle piccole manifatture legate alle acque fluviali. Nella fase del decollo, emerge
Milano, che diventa il principale polo manifatturiero, con a seguire Genova e Torino, vale a dire i
vertici del cosiddetto triangolo industriale italiano.
Per poter unificare il mercato e lo Stato, i governi italiani provvidero a marce forzate a integrare le
reti stradale e ferroviaria dei vari staterelli. Ci fu un grande sviluppo della rete ferroviarie che proseguì
anche dopo la nazionalizzazione della rete, fino al tetto massimo di 22.372 km raggiunto nel 1939.
Sotto il regime fascista, iniziarono i lavori di elettrificazione e di raddoppio delle principali linee a
scorrimento veloce e di ammodernamento dei macchinari. La rivoluzione ferroviaria alla luga
produsse la quasi definitva scomparsa delle pratiche idroviarie.
Gli anni del miracolo economico videro un quasi generale abbandono della navigazione interna, che
sopravvive sui laghi subalpini e su quello Trasimeno, sulla laguna veneta e su circa mille chilometri
di vie d'acqua, con asse fondamentale costituito dal Po e dai suoi raccorti di foce con l'Adriatico.
Nei decenni postunitari, comincia a verificarsi un sempre più vistoso processo di selezione urbana,
con sviluppo di alcuni centri maggiori e con “perdita di rango” di molti centri minori, con conseguente
allargamento delle maglie della rete urbana e dell'area di influenza di ciascun centro → si veniva
delineando una specie di riordinamento funzionale con l'emergere di città industriali e di città di
servizi → si modifica il modello di distribuzione delle città e quindi della popolazione nel territorio.
La rivoluzione produttiva si estende alle compagna con macchine e ingrassi chimici e nuove tecniche.
A partire dagli anni 70-80 del XIX secolo si realizzano anche altre innovazione nel settore delle
infrastrutture, come le prime linee di trasporto non solo urbano ma anche extraurbano su rotaia,
inizialmente alimentate dal vapore, le tramvie. All'inizio del 900 si aggiungono poi le prime autolinee
con “omnibus” poi sostituiti dai bus. Nel 1924-25 vengono costruite le prime autostrade. E' però
nell'ultimo dopoguerra che, con lo sviluppo della motorizzazione privata di massa, non solo le filovie
e tramvie elettriche, ma anche le linee ferroviarie di lunga concorrenza dovettero cedere il posto ai
più inquinanti autobus e camion. Poi venne ripreso il programma di potenziamento della rete
autostradale.
Non c'è solo una modifica del paesaggio: cambia la struttura sociale, la distribuzione della
popolazione.
Fino alla rivoluzione industriale, l'Italia vantava una struttura policentrica come nessun altro paese in
Europa. In altri termini, le città erano relativamente indipendenti una dall'altra, e ciascuna continuava
a esercitare funzioni direzionali sulla propria campagna → la rete urbana era poco differenziata, e le
città non erano ordinate gerarchicamente e dominate dalle città maggiori come nel mondo attuale.
L'industria moderna sorge dapprima fuori dalle cinte urbane per vari motivi: migliore disponibilità di
forza motrice, di mano d'opera contadina a buon mercato e tuttavia già esperta nei mestieri tessili, di
suoli più estesi. Dopo questa prima frase, si verifica però una vera e propria zonizzazione sociale
della città e delle aree urbanizzare. L'industria tende infatti a raccogliersi in particolari localizzazioni.
Nelle aree peggiori si concentrano gli operai; nelle aree migliori, di collina i quartieri alti. Nel centro
si sviluppa una complessa articolazione commerciale mentre vengono espulsi i precedenti abitanti.
Nasce una struttura complessa di servizi tecnici: gli acquedotti portano alla necessità di fognature
moderne. Nasce anche il quartiere della stazione.
Buona parte della città, specie nel Centro e nel Meridione, rimasero chiuse nel loro secolare torpore,
salvaguardando almeno i loro valori monumentali di centri storici e di comunità con forti identità
culturali.
Una serie più nutrita di città si svilupparono tanto da poter essere elevate al rango di provincia, nel
periodo fascista e anche successivamente alla Seconda guerra mondiale. Nel corso del 900 vengono
attuati cospicui interventi di accrescimento dell'abitato, che non di rado comportano pure
“sventramenti” o “risanamenti” e ricostruzioni dei tessuti storici.
Il disordine edilizio è chiaramente dimostrato non solo dalle conformazioni spaziali e architettoniche
assunte dalle città, ma anche dalla grande varietà dei modelli residenziali riferibili alle differenze di
classe degli abitanti. Lo sviluppo della grande industria nel ventennio fascista arricchisce poi
ulteriormente la casistica degli stili architettonici e delle realizzazioni edilizie. L'alleanza tra rendita
fondiaria e capitale finanziario o industriale spiega l'esplosione edilizia e la speculazione immobiliare
che si sono verificate in tutti i centri di sviluppo industriale, turistico e terziario del Paese, nonostante
i tentativi di regolare la crescita effettuati dal potere centrale e dalle amministrazioni regionali. Dai
primi anni 70, con la crisi petrolifera e industriale mondiale, anche in Italia è cessato il processo
convulso e disordinato dell'urbanesimo versi i grandi centri.
Subordinata alla politica di favore per la motorizzazione privata è stata quella dei trasporti: il trasporto
per strada è stato facilitato in ogni modo, ed è stata realizzata un rete imponente di autostrade.
L'industrializzazione si è quindi diffusa dalle regioni dell'Italia nord-occidentale in direzione sia del
Veneto/Friuli e dell'Emilia e sia dell'Italia centrale. Un po' in tutta Italia è assai mutato il modello
complessivo di distribuzione della popolazione come pure il modello di distribuzione dei centri abitati.
In questo nuovo sistema il territorio si differenzia profondamente: si accentua la selezione e la
specializzazione delle funzioni, si articola in sistemi dominanti e in settori economicamente e
socialmente subordinati.
Siamo in presenta di territori più o meno densamente popolati che non trovano la loro ragion d'essere
in un rapporto con le risorse naturali locali, ma in una fitta rete di relazioni e di flussi tra fabbrica e
fabbrica, tra le fabbriche, i depositi commerciali e i punti di vendita, tra le case, le fabbriche, gli uffici
e viceversa.
Il territorio comandava la produzione e indirettamente la dimensione e le funzioni delle città come
luoghi di scambio, di organizzazione o anche solo di prelievo di rendite agricole. Negli ultimi 50 anni
questo rapporto si è invertito: sono le esigenze della produzione che determinano l'uso del territorio.
In questo periodo, infatti, c'è un trasferimento di residenza di molti cittadini dalle campagne.
Alle origini di uno Stato senza nazione: Stato e autonomie locali dopo l'unificazione → La nascita
d'una nazione avviene come il prodotto di un'operazione culturale quando riesce a fondere insieme
mitologia letteraria, concreti interessi sociali ed economici, progettualità politica, volontà di potenza,
quando una minoranza acquista egemonia culturale e politica. L'élite liberale che fondò lo Stato
unitario non riuscì a compiere questa inclusione. Incluse con molta fatica la piccola borghesia dei
pubblici impieghi e il proletariato industriale.
L'identità italiana appare estremamente debole e rischia di uscire a pezzi dalla crisi attuale. Lo stato
gode oggi di un basso prestigio di legittimità di cui è responsabile un ceto politico dissennato.
L'identità italiano non è un monolite ma una summa inesauribile di storie e culture differenti: un
profilo policentrico. → sembra dimostrare che mancano i presupposti perché si possa parlare di una
nazione. → la mancanza di una identità nazionale si spiega con la disomogeneità degli Stati preunitari.
Occorre valutare anche l'aspetto etnico-culturale e linguistico. Il nuovo Regno apparve subito
costituito da popolazioni culturalmente poco omogenee e da una imbarazzante carenza di coesione
etnica. Le diverse culture elaborate e prodotte dagli antichi Stati italiani, nella loro lunga esistenza,
avevano lasciato impronte particolari sulla cultura materiale e sulla psicologia delle popolazioni.
Esistevano, come adesso, nelle diverse aree regionali, diversità radicali.
Al di là della spaventosa piaga dell'analfabetismo, la frammentazione linguistica era ed è rimasta
grandissima per molto tempo. Al momento dell'unificazione erano pochissimi i cittadini che usavano
la lingua italiana abitualmente.
La politica ambientale agli inizi del 900 → I primi segnali del formarsi di una coscienza nazionale
ambientalista risalgono agli anni a cavallo tra 800 e 900, e sono legati alla necessità di difendere un
patrimonio, come quello italiano, di straordinaria valenza.
La difesa doveva essere attivata nei riguardi degli interventi pubblici e privati che distruggevano o
degradavano luoghi ed aree di rilevante pregio estetico e culturale.
Il banco di prova nella neonata coscienza ambientalista fu costituito dalla questione della pineta di
Ravenna. Tale storica foresta nel corso dell'800 era stata prima privatizzata e poi gradualmente
distrutta per finalità sia di sfruttamento commerciale del legname e sia per allargare gli spazi agricoli
e le aree fabbricabili per industri e residenze. Per salvare la pineta fu necessario approvare una
specifica legge il 1° luglio 1905, con la quale si provvedeva al suo acquisto da parte dello Stato e alla
sua dichiarazione di inalienabilità perpetua. L'istanza di tutela delle principali bellezze naturali e
paesaggistiche di notevole interesse pubblico si manifestò nei primi anni del 900.
Con l'obiettivo di tutelare ambienti naturali, paesaggi culturali e beni storici, vennero emanate alcune
leggi che limitavano il diritto di proprietà. (legge forestale del 1923, esemplare per organicità e
chiarezza, semplicità e avvedutezza delle norme e ancora oggi tale legge conserva la sua validità nel
settore dei boschi pubblici ove impone obiettivi di notevole impegno economico e sociale.)
Per i beni architettonici monumentali, già nel 1902 fu approvata una normativa che intendeva tutelare
i beni di pregio antico e artistico, ma che si mostrò poco efficace anche per la modestia dei
finanziamenti a disposizione. Fu una legge riformata più volte. Giacchè l'iniziativa del Governo
tardava, fu Rosadi a prenderla elaborando nel 1910 un disegno di legge intitolato “Per la difesa del
paesaggio” che pur presentato alla camera non arrivò mai ad essere discusso per l'opposizione al
medesimo, forte specialmente nel Senato. Tuttavia nel 1912 fu emanata una legge integrativa che
estendeva la tutela alle ville, ai parchi, ai giardini, luoghi dove l'arte ha modificato la natura in modo
tale da renderli veri e proprio monumenti. Nel 1920 il governo insediò una commissione diretta dallo
stesso Rosadi, perché approntasse un disegno di legge per la tutela delle bellezze naturali e degli
immobili di particolare interesse storico.
La nuova legge sulle bellezze naturali venne riformata nel 1939 con la legge n 1497 tuttora vigente:
in una fase in cui le edificazioni a fini residenziali e industriali avanzavano sospinte dall'incremento
della popolazione, come fiumi di lava che travolgono ogni carattere campestre. La nuova legge si
distingue da quella precedente in tre punti:
1. diversa precisazione dell'oggetto della protezione. Le bellezze sono suddivise in quattro specie:
prime due sono cose immobili di non comune bellezza naturale, e le ville i giardini e i parchi
non contemplati dalle leggi di tutela delle cose d'interesse artistico e storico; le altre due sono
i complessi di cose immobili aventi valore estetico tradizionale, e le bellezze panoramiche.
2. Mentre la legge del 22 difendeva l'integrità della cosa vincolata, la nuova legge intende salvare
solo l'aspetto, il volto della cose che è quello che interessa il senso estetico del pubblico.
3. Avere introdotto la pianificazione per la protezione delle bellezze panoramiche.
Le leggi paesaggistica del 39 e urbanistica del 42 sono tuttora in vigore.
Le aree protette e i parchi naturali e culturali → Nel 22-23 sorgevano in Italia i primi due parchi
nazionali montani e poi nel 34-35 si sono aggiunti i parchi costiero del Circeo e alpino del Gran
Paradico.
E' alla rivoluzione industriale che si deve l'avvio della politica di protezione di non poche, sconfinate
aree di elevato valore naturale o semi-naturale o di indiscussa bellezza paesaggistica, completamente
prive di popolazione umana, come strumenti essenziali per la sopravvivenza di società esposte agli
effetti dirompenti dell'urbanizzazione totale. Da questa duplice finalità (protezione/conservazione e
godimento/contemplazione) prende avvio una politica che ha avuto la forza di organizzare circa un
miliardo di ettari della superficie terrestre in parchi naturali e in altre aree protette.
Il Gran Paradiso consisteva in un'unica immensa riserva di caccia regia dalla particolare ricchezza
faunistica, un territorio quasi privo di insediamenti e popolazioni, che il sovrano provvedeva a donare
allo Stato con un vincolo di destinazione ad area di protezione assoluta dei pregevoli valori naturali
presenti → vero e proprio santuario della natura in cui lo Stato era essenzialmente tenuto a vigilare
che nulla impedisse o turbasse il libero svolgimento delle dinamiche naturali e della vita biologica.
Ci fu poi un periodo di cementificazione irresponsabile e di consumo irreversibile della natura che
procurò la crisi dei parchi e delle aree protette italiane. Dagli anni 70 ci fu una svolta, furono istituite
nuove riserve naturali e non poche riserve naturali statali nelle residue zone umide aventi rilevanza
internazionale, poi furono istituite 7 riserve marine.
Entra poi in gioco una terza finalità per quanto riguarda i parchi: ovvero quella dello sviluppo
economico e sociale delle comunità locali interessate → questo fa sì che i parchi possano venir visti
come strumenti di pianificazione delle autonomie locali di attività produttive ecosostenibili.
Negli anni 90 il numero delle aree protette è cresciuto in modo spettacolare tanto che adesso possiamo
parlare di un vero e proprio “sistema”. I parchi hanno quindi vinto “la prima mano della partita, quella
con cui dovevano affermare il loro diritto ad esistere”. I parchi devono però ancora dimostrare di
essere protagonisti meritevoli di fiducia e di risorse di una nuova politica ambientale: una politica che
sostituisca l'antica.
I parchi stanno diventando una sorta di “industria verde”, tant'è che qualche azienda industriale
sceglie di svilupparsi all'interno di un parco per trarre un vantaggio competitivo, con utilizzazione di
materie prime e processi del tutto naturali, per realizzare prodotti con caratteristiche particolari, in
grado di raggiungere fasce ben precise di consumatori. → veramente paradigmatico appare il
fenomeno dei parchi culturali e degli ecomusei che vengono progettati e istituiti tout court proprio
come strumenti di sviluppo. In realtà pensare che i parchi, alla stregue delle aziende produttive,
possano far quadrare i loro conti senza interventi delle istituzioni è un'assurdità.
Ci deve essere la consapevolezza che la protezione oggi, per essere efficace e non velleitariamente
affidata soltanto ai vincoli, deve impiegare una varietà di strumenti e risorse dai quali il territorio po'
trarre molteplici effetti benefici. Ognuna di queste realtà racchiude e per molti aspetti conserva
elementi di un patrimonio non solo ambientale ma di storia locale, che possono e devono essere
salvaguardati ma non ridursi a folklore. E per non ridursi a fatto pittoresco, devono potersi rinverdire
e rivitalizzare entrando in rapporto attivo con i processi esterni, regionali, nazionale e internazionali.
Il parco deve essere un organo che può rendere più efficace e qualificato il governo del territorio,
immettendo in un circuito regionale, nazionale o internazionale un bene e una risorsa altrimenti
destinati a rimanere confinati una dimensione locale.
In ogni caso le aree protette continuano a essere afflitte da molti problemi: conflitti istituzionali con
gli enti locali e disinformazione delle popolazioni locali, rischi e veri e propri devastanti attentati agli
equilibri paesistico-ambientali e biologici, etc.
In generale ogni intervento di politica ambientale e territoriale deve essere il frutto meditato e
consapevole di studi e ricerche interdisciplinari, coinvolgenti non solo i naturalisti ma anche i geografi
e gli storici delle strutte territoriali. Le aree protette devono essere sempre integrate all'interno del
sistema spaziale italiano, con l'auspicabile formazione di un efficace tessuto connettivo, rappresentato
anche dalle aree contigue ai parchi.