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Corso di Laurea in Scienze della Formazione

INSEGNAMENTO DI
GEOGRAFIA ECONOMICO POLITICA

Modulo 1° - Teorie della Geografia politica

A cura di

Giuseppe Terranova
Geografia economico politica Modulo 1° - Teorie della Geografia politica

SOMMARIO MODULO 1°

Teorie della Geografia politica

1.1. Introduzione
1.2. Storia del pensiero
1.3. Contenuti

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Geografia economico politica Modulo 1° - Teorie della Geografia politica

1.1. Introduzione

Geografia dal greco significa descrizione del mondo. La Geografia è una


famiglia disciplinare divisa in due principali settori: Geografia fisica e
Geografia umana. Nel mondo di oggi parlare di uomo e di ambiente come di
due elementi non correlati è impensabile; eppure le due Geografie, quella
fisica e quella umana, fino a poco tempo fa dialogavano appena. La Geografia
fisica è la descrizione della Terra e ne sottolinea gli aspetti fisici, morfologici,
geologici, vulcanici e ambientali.
In sintesi la Geografia Fisica studia la struttura della terra nel suo insieme.

Le Geografia umana pone l'uomo al centro della descrizione della Terra o


meglio si occupa, in senso lato, dell’interazione tra l’uomo e la Terra: la
Geografia che studieremo in questo corso fa parte della grande famiglia della
Geografia umana.

La Geografia umana comprende anche la Geografia urbana che si interessa


dello studio delle città intese come particolari contenitori e come particolari
strutture: questo è un tema vicino alla pianificazione e all'organizzazione
territoriale, materia che, spesso, diventa parte della Geografia economica
mentre, altre volte, rimane parte della Geografia umana.
Fa ancora parte della Geografia umana la Geografia delle dimore degli uomini
e delle abitazioni rurali: l’abitazione rurale è una sintesi delle strutture
economiche rurali e dell’organizzazione che l’uomo si dà nelle varie culture
per trasformare la sua casa in un vero e proprio utensile agricolo rispondente
al clima e alle esigenze sociali.

La Geografia della popolazione è fortemente collegata sia alla Geografia


economica che alla Geografia politica: è una materia che studia tutto ciò che
riguarda la popolazione, da quella nomade a quella stanziale, ed è strettamente
intrecciata con la statistica e con la demografia.

Rami importanti della Geografia umana sono la Geografia politica e la


Geografia economica.

La Geografia politica sottolinea l’aspetto politico: le sue ulteriori suddivisioni


e specificazioni sono il risultato della sua storia. La Geografia politica si
occupa dello Stato - Geografia dei rapporti internazionali – si interessa
fortemente di aspetti politici, di politica estera o di sicurezza in prospettiva –
Geopolitica –si interessa di strategie militari e non solo – Geostrategia.

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La Geografia economica sottolinea l’aspetto economico e tratta molti temi da


cui prende il nome: Geografia delle materie prime, Geografia dell’agricoltura,
Geografia dell’industria, Geografia del commercio, Geografia
dell’informazione. Possiamo elencare nel dettaglio tutte le attività economiche
dell’uomo e per ognuna troviamo una Geografia economica che se ne occupa.
Nascono così, nel tempo, materie nuove che sottolineano aspetti rilevanti per
ogni momento storico.

La Geografia è al confine con varie discipline: politologia, relazioni


internazionali, economia, storia, statistica, demografia, psicologia,
antropologia (che deve la sua fondazione a Friedrich Ratzel, lo stesso
fondatore della Geografia politica), ma anche discipline che studiano aspetti
linguistici.

La Geografia è un’esperienza quotidiana: lo si può capire partendo dai


concetti di distanza di rispetto, di percezione dello spazio e del tempo che
rappresentano i punti cardini dei concetti geografici e, al contempo, sono le
basi della vita di tutti i giorni.
Nell’esperienza quotidiana la Geografia serve a vivere meglio; l’esperienza
del geografo è invece un’esperienza scientifica. Da un punto di vista
scientifico la Geografia può essere studiata principalmente in due modi; questa
distinzione rimanda a due tipologie di studiosi: i geografi viaggiatori o da
terreno e i geografi da tavolino.

Gli studiosi da terreno ricavano i dati dalle dirette osservazioni dei luoghi. Lo
studioso da tavolino analizza il mondo attraverso gli scritti altrui. I grandi
geografi da terreno appartengono alla storia delle esplorazioni e rappresentano
coloro che hanno avuto voglia, curiosità e desiderio di capire cosa c’è oltre
quello che già si conosce.
Il mondo dei grandi viaggiatori non vede mai fine: il mondo è sempre
rivedibile e, oggi, è cambiato il modo di osservarlo. Una volta ci si muoveva
per cercare ricchezza, per conquistare nuove terre in nome di un imperatore o
di un re; oggi ci si sta liberando dai concetti coloniali e si comprende meglio
come ognuno rivendichi la libertà di vivere la propria cultura, lingua e
religione. La conoscenza geografica è legata alla storia della colonizzazione,
delle invasioni e delle guerre.

Oggi il geografo che trae la propria competenza da ciò che vede è un rilettore
dei luoghi con rispetto delle culture locali. La parola indigeno, selvaggio, nel
suo significato anche dispregiativo, è scomparsa; si vuole dialogare, capirsi,
l’approccio è molto complesso ma rispettoso. Si tratta di superare le enormi
differenze di concepire il tempo e lo spazio, di entrare nella logica di una

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diversa religione, di una diversa società. Si vuole comprendere la posizione


della donna nelle varie società, le organizzazioni sociali remote, la differenza
tra sacro e profano, tra razionale e irrazionale, tra emozioni culturalmente
diverse.

Il geografo viaggiatore di oggi rilegge luoghi già visti e già scoperti; lo muove
il proprio il desiderio di rileggere, di rivedere e di ripulire il mondo dagli
stereotipi. Il geografo che viaggia affronta molte difficoltà, si trova a doversi
confrontare con altre lingue che sono contenitori culturali di difficile
traduzione perché, spesso, la traduzione passa per vari interpreti intermedi.

Il geografo da tavolino ha minori problemi, legge, raccoglie e compara. Può


attraversare i luoghi della storia per fare geografia; la geografia è presente
anche nei libri di letteratura. Chi lavora a tavolino viaggia con la mente
proprio come fece il Piccolo Principe nel suo viaggio attorno ad una stanza.
Molti geografi viaggiano solo con la fantasia e, non per questo, sono meno
capaci.
Mescolando lo studio da tavolino con i viaggi, il geografo può perfezionare la
sua lettura del mondo.

I geografi sono riuniti in organizzazioni scientifiche e accademiche. L’Unione


Geografica Internazionale è divisa per settori disciplinari e promuove
importanti convegni e congressi.

In Italia l’Associazione dei Geografi Italiani raccoglie i geografi universitari e


organizza escursioni di studio, convegni e pubblicazioni. Anche
l’Associazione Insegnanti di Geografia e l’Associazione dei Cartografi Italiani
svolgono importanti attività.

Nel nostro Paese le principali Società geografiche sono la Società Geografica


Italiana, che ha sede a Roma, e dispone di una importante biblioteca;
organizza convegni, seminari, proiezioni di film, conferenze e pubblicazioni.
La Società Geografica Italiana è anche editore del Bollettino della Società
Geografica. La Società di Studi Geografici ha, invece, sede a Firenze e
dispone di un’antica biblioteca e organizza convegni, seminari e conferenze.
E' editore della Rivista Geografica Italiana.

In ogni paese del mondo ci sono Società Geografiche collegate


prevalentemente al mondo accademico (una delle ultime nate è quella slovena)
che contribuiscono a far incontrare e discutere i geografi su basi non solo
nazionali, pubblicando riviste e organizzando attività convegnistiche.

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1.2. Storia del pensiero.

La Geografia politica nasce nel 1897 con la pubblicazione del libro Politische
Geographie da parte di Friedrich Ratzel. Tuttavia, la materia è nata in
seguito a un lungo percorso che affonda le sue radici nell’antichità e che,
grazie all’opera dei proto-geografi, è giunto sino alla fine del XIX Secolo
(Giordano, 2010).

Le proto-geografie politiche sono il risultato dello studio di una serie di


precursori le cui opere non sono basate su una vocazione scientifica e si
sostanziano in una raccolta eterogenea di conoscenze di carattere elementare e
poco strutturato, influenzate dalla filosofia e dalla scienza dell’epoca.

In questo paragrafo tratteremo sia le prime testimonianze di analisi geografica,


dall’epoca greca fino al Medioevo, che i primi esempi di quelle proto-
geografie politiche che sfoceranno nella disciplina vera e propria con Friedrich
Ratzel.

In epoca greca, le prime testimonianze di analisi geografica si hanno con


Erodoto che, nelle sue Storie, inserisce una vastità di informazioni circa la
geografia sino ad allora conosciuta e incentra la sua narrazione sullo scontro
tra la civiltà greca e i barbari. Quest’opera è frutto dei numerosi viaggi
intrapresi dall’autore. Tucidide nella sua opera Guerra del Peloponneso, in
cui descrive le fasi della guerra tra Atene e Sparta, esprime il suo pensiero
circa la volontà di potenza come motore del mondo. Nel celebrare la gloria di
Atene, evidenzia l’opposizione tra la potenza marittima e quella continentale
(Agnew, 2003).

Un importante contributo alla proto-geografia politica è stato fornito da


Platone e da Aristotele. Il primo, nelle sue opere Repubblica e Leggi, si
sofferma sui principi e sulla forma dell’unità politica ideale e sulle dimensioni
spaziali della polis. Risulta evidente l’attenzione per due argomenti che
saranno centrali per la Geografia politica (Giordano, 2010). Aristotele,
discepolo di Platone, si concentra sulla relazione tra l’entità della popolazione
e la qualità dell’ambiente. Per crescere la polis deve inserirsi in un contesto
ambientale che ne consenta l’autosufficienza, attraverso la disponibilità di
risorse naturali e un certo grado di difesa da possibili attacchi esterni, favorito
dalla conformazione fisica del territorio in cui la polis sorge. L’analisi di
Aristotele si fonda su due concetti propri dell’attuale Geografia politica: la
distribuzione della popolazione e la presenza di frontiere sicure.

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Platone, Aristotele e, in seguito, Alessandro Magno condividono una visione


comune che vede nei popoli un’eterna contraddizione tra isolazionismo e
cosmopolitismo. Platone elabora una teoria isolazionista sostenendo che una
comunità politica possa progredire soltanto all’interno del suo territorio
evitando influenze straniere. Aristotele aveva invece una concezione diversa
tanto da auspicare una Grecia più estesa e aperta verso l’esterno. Alessandro
Magno, discepolo di Aristotele, riesce a realizzare con le sue gesta un progetto
politico cosmopolita, il cui successo poggia sull’espansionismo economico e
sulla costruzione di una rete di grandi poli commerciali.

Nel periodo di massimo splendore dell’Impero romano, il geografo greco


Strabone apporta un grande contributo agli studi della Geografia politica con
la sua opera dal titolo Geografia. Si tratta della più ampia opera geografica
dell’antichità, nella quale l’autore inserisce tutte le nozioni geografiche sino
ad allora elaborate dai suoi predecessori. Strabone si concentra sulle
condizioni necessarie per il corretto funzionamento di una grande entità
politica e individua nell’Impero romano la costruzione politica ideale per poter
governare sull’intero ecumene. Questo pensiero era fondato anche su
considerazioni di natura ambientale; grazie al suo clima, alle risorse su cui
poteva contare e alla sua posizione geografica, l’Italia era vista come il luogo
ideale per unificare e guidare i territori sino ad allora esplorati.

A differenza di quanto accade in Grecia, il contributo degli autori romani alle


proto-geografie politiche è confinato per lo più all’ambito militare. E’ Giulio
Cesare la figura di spicco di questo periodo. Nelle sue opere, in particolare
nei Commentarii de Bello Gallico, il generale romano alterna descrizioni
antropologiche ed etnografiche a considerazioni sui temi della guerra, della
pace, degli stermini. L’opera di Giulio Cesare rappresenta una importante
riflessione non solo di proto-geografia, inserendosi come uno dei primi esempi
di proto-geopolitica e proto-geostrategia. Anche altri autori non appartenenti
al mondo militare si occupano di tematiche ascrivibili alla Geografia politica.
Ad esempio Cicerone approfondisce il discorso, già sorto in epoca greca,
circa la vulnerabilità degli Stati marittimi come Cartagine o la stessa Grecia.
Vitruvio e Galeno si concentrano sull’influenza del clima e sui caratteri fisici
e psicologici dei popoli.

Nel Medioevo emergono, invece, nuove proto-geografie diverse tra loro che
rispecchiano le società in cui sono prodotte. Oltre alle esperienze dei
Vichinghi e delle Crociate, che lasciano poche tracce, è il viaggio di Marco
Polo in Cina a rappresentare un evento epocale. Dal 1271-1295 il mercante
veneziano compie un’impresa senza precedenti attraversando la Persia, l’Asia

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centrale fino ad arrivare in Cina e, al ritorno, il suo viaggio lo porta sulle coste
dell’Indocina, della Malesia e dell’India. Uno dei risultati di questo grandioso
viaggio è la realizzazione de Il Milione, considerato un monumento di proto-
geografia politica, in cui Marco Polo descrive le caratteristiche dei popoli che
ha incontrato durante la sua impresa, soffermandosi sull’impero mongolo
(Giordano, 2010). Quest’ultimo si basa su un apparato amministrativo
organizzato dal centro verso la periferia, di cui Polo analizza la vastità del
potere cosmopolita. Ancora, il mercante veneziano effettua una comparazione
tra lo status della donna mongola e quello della donna musulmana. Il Milione
rappresenta a tutti gli effetti la prima documentazione etnografica e politica
sui paesi e sui popoli orientali.

Sempre in epoca medioevale, un altro importante contributo alle proto-


geografie è stato fornito dal mondo islamico, grazie all’ampio spazio religioso
che si espandeva dal Marocco alla Persia, permettendo così ai geografi di
intraprendere numerosi viaggi all’interno di un regno caratterizzato da
un’unica lingua e da un’unica religione. Tra l’800 e il 1400 la produzione
geografia araba è quantitativamente e qualitativamente superiore a quella
europea.

Figura di spicco è sicuramente Ibn Khaldun autore di Muqaddimah


(introduzione alla storia), un’opera che può essere considerata un compendio
di proto-geografia politica, in cui l’autore indaga sulle relazioni tra l’ambiente
e le società che lo abitano. Khaldun si concentra sulle tradizioni e
sull’organizzazione sociale, approfondendo il discorso relativo alle tribù
nomadi e agli insediamenti sedentari urbanizzati. In base alla sua
osservazione, i gruppi nomadi rappresentano il gradino precedente alla
formazione di insediamenti sedentari, luogo in cui si localizzano cultura,
commercio e industria. In più, i primi tendono a essere più omogenei, anche a
causa delle difficili condizioni ambientali in cui vivono. Al contrario, gli
insediamenti sedentari perdono tale coesione e per questo motivo sono più
esposti alla conquista da parte delle tribù nomadi. Khaldun descrive un ciclo
di eventi di integrazione e di disgregazione politica, che si ripete
continuamente in quanto le tribù nomadi, una volta insediatesi all’interno del
nuovo centro, sono progressivamente corrotte nei costumi e questo le rende
facile bersaglio per altre comunità nomadi maggiormente coese. In sintesi,
l’opera di Ibn Khaldun rappresenta un’analisi dei cicli di vita di alcune forme
di governo, in cui viene riconosciuto l’importante ruolo svolto dall’ambiente
fisico (Giordano, 2010). Si può, dunque, parlare di un modello teorico della
crescita e dei cicli di vita degli Stati che sarà ripreso in futuro da Ratzel.

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La frammentarietà e l’eterogeneità sono i difetti comuni delle proto-geografie


politiche sinora descritte, dovuti agli scarsi contatti tra le diverse geografie,
resi ancora più complicati dagli ostacoli di natura linguistica (Giordano,
2010).

Durante l’epoca moderna e il Rinascimento, la Geografia conosce un periodo


di rinascita grazie ai grandi viaggi di Colombo, Vasco da Gama e
Magellano. In questo periodo, Spagna e Portogallo si impongono come
potenze marittime, dando vita a una fase di forte espansione.
I due Stati iberici sono protagonisti di due rilevanti eventi nella storia della
Geografia Politica. Infatti, nel 1493, Papa Alessandro VI promulga la «Bolla
Intercaetera» con la quale la linea di confine tra le zone di influenza spagnola
e quella portoghese è fissata in corrispondenza del 38° meridiano
nell’Atlantico. Nello specifico, al Portogallo spetteranno i territori scoperti a
Est del meridiano, alla Spagna quelli posti a Ovest. Le due potenze arrivano a
fare ricorso all’intervento del pontefice per garantirsi il possesso delle nuove
terre. L’anno successivo, i due Stati siglano il Trattato di Tordesillas in base al
quale si prevede che i territori ancora inesplorati saranno divisi secondo una
linea situata a 370 leghe a Ovest delle Isole di Capo Verde. Più precisamente,
alla Spagna spetteranno i territori a Ovest di tale linea, al Portogallo quelli a
Est.

All’inizio del XVI secolo, Tommaso Moro scrive L’Utopia, un’opera politica
e sociale in cui descrive l’isola di Utopia, una sorta di stato modello di cui
delinea tutte le caratteristiche relative all’organizzazione economica, sociale,
politica e culturale. L’opera di Moro può essere considerata come un primo
esempio di Geografia politica del territorio ideale, in cui Utopia ha una forma
circolare (idea del cerchio come forma perfetta) e, pertanto, le periferie sono
ugualmente distanti dal centro in cui è posta la capitale. In tal senso, la
coesione è massimizzata e, grazie alla mancanza di ostacoli fisici, la capitale
può esercitare il proprio controllo su tutti i punti del territorio.

Anche la Francia ha offerto un importante contributo alle proto-geografie


politiche. In particolare, sono tre gli autori che, attraverso le loro opere, hanno
permesso un’evoluzione della materia. Nel 1678, il marchese de Vauban è
nominato commissario alle fortificazioni e, in questa veste, erige una rete di
roccaforti su tutte le frontiere francesi (Gottmann, 1944). Si tratta di una
grande opera di Geografia politica applicata, basata su una serie di studi
topografici, geologici e relativi alle vie di comunicazione. Vauban è autore di
Projet d’une Dîme Royale, un’opera all’interno della quale sono descritti gli
elementi essenziali per una politica degna di una grande potenza. Le principali
idee esposte da Vauban riguardano: la necessità di una economia interna

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solida, basata sull’abbondanza dei beni di consumo, e la centralità della


geografia regionale di uno Stato, elemento essenziale per una solida politica
estera (Giordano, 2010).

Altra figura di spicco è quella di Montesquieu, che nella sua opera Lo spirito
delle leggi presenta un’analisi del rapporto tra le leggi e una serie di temi
centrali per la geografia e la politica, ovvero il clima, il terreno, gli usi e i
costumi di una nazione, il commercio, il numero degli abitanti e la religione
(Raffestin, 1975). Il pensiero di Montesquieu si pone in una via di mezzo tra
determinismo e possibilismo, pertanto l’autore, se da un lato riconosce che
l’ambiente naturale e il clima abbiano una forte influenza sull’organizzazione
sociale, dall’altro afferma che nazioni omogenee e con un governo capace
possono superare i limiti imposti dall’ambiente. Il pensiero di Montesquieu si
fonda sul concetto dello spirito generale di una nazione, uno spirito che
migliora quando una società cresce e diviene complessa.

Anche eminenti filosofi offrono il loro contributo alla Geografia politica.


Immanuel Kant utilizza l’espressione Geografia politica per indicare le
relazioni tra territorio e popolazione mentre Friedrich Hegel si concentra su
una teoria politica che ha come fulcro lo Stato, il quale si imporrà come tema
centrale per la Geografia politica del XX Secolo.

E’ con Alexander Von Humboldt e Karl Ritter che la Geografia politica


inizia ad acquisire i tratti moderni. Il contributo dato dai due geografi è molto
importante, perché frutto dei viaggi che i due compiono e, quindi, di una
osservazione diretta di fatti e fenomeni ai quali tentano di dare una
spiegazione.

Von Humboldt è un importante geografo tedesco, le cui opere sono il risultato


dei viaggi compiuti, in particolare, in Sud America. Nella sua opera dal titolo
Viaggio alle regioni equinoziali del Nuovo Continente, effettua uno dei primi
studi scientifici sulle risorse e sui i prodotti del Regno della Nuova Spagna,
l’attuale Messico, soffermandosi sulla popolazione e sulle condizioni politiche
vigenti. Von Humboldt è impressionato dalla prosperità del Messico,
condizione che imputa alla grande disponibilità di risorse naturali. È lui a
proporre l’apertura di un canale tra gli oceani attraverso l’istmo di Panama e a
schierarsi apertamente contro la schiavitù in vigore nell’isola di Cuba.

Karl Ritter si concentra maggiormente sul continente africano. E’ un convinto


antirazzista e si schiera contro la schiavitù. Fonda la Società Geografica di
Berlino e scrive un’opera dal titolo La Scienza della terra in relazione alla
natura e alla storia dell’umanità, in cui si concentra sull’influenza

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dell’ambiente fisico sulle attività umane. Arriverà ad affermare che l’influenza


della natura sull’uomo diminuisce con l’evolvere della civiltà. Secondo Ritter,
il compito della Geografia è quello di esplorare l’individualità della terra
(Giordano, 2010).

1.3. Contenuti.

Tradizionalmente è però il 1897 l’anno che segna la nascita della Geografia


politica moderna grazie alla pubblicazione, da parte di Friedrich Ratzel,
dell’opera Politische Geographie. Il merito di Ratzel, allora professore
all’Università di Lipsia, è stato quello di conferire alla materia tutte le
caratteristiche proprie di una disciplina universitaria, segnando un solco
rispetto agli scritti meno strutturati delle proto-geografie analizzate nel
paragrafo precedente.
Ratzel tenta di dare una base scientifica al comportamento spaziale delle
società e delle entità politiche e per questo la sua Geografia politica si pone
nel solco del positivismo.

L’opera di Ratzel è frutto delle esperienze che l’autore ha collezionato nel


corso della sua vita. Gli anni di apprendistato come farmacista, gli studi di
zoologia, paleontologia e geologia, così come l’influenza delle idee di Ernst
Heinrich Häckel e di Charles Darwin hanno fornito un solido contribuito al
pensiero ratzeliano. Tema principale delle sue teorie è lo Stato inteso come
organismo, una struttura organizzata dotata di spirito e di senso morale. La
superficie e il territorio dello Stato mutano in continuazione e pertanto non
possono essere contenuti entro rigidi limiti. Questa innata tendenza
all’espansione si realizza attraverso la conquista di nuove aree, per mezzo di
processi di integrazione e fusione tra vari Stati, che si esplicitano
principalmente attraverso l’intreccio demografico dei loro abitanti. In tale
concezione, gli elementi di stabilizzazione e coesione sono rappresentati da:
sviluppo sociale, economico e religione.

Per l’autore tedesco, l’elemento fondamentale della vita di uno Stato è il


territorio: più grande è il suo territorio, maggiore sarà il suo livello di
sviluppo. La dimensione iniziale è sempre rappresentata dallo spazio fisico,
dall’ambiente privo delle infrastrutture create dall’uomo, ed è strettamente
dipendente dal contesto fisico in cui gli Stati sorgono. L’età matura di uno
Stato, quindi la sua massima espansione, è quella raggiunta dalle grandi
potenze mondiali; mentre l’ultimo stadio è rappresentato dalla loro
disintegrazione, accompagnata dalla contemporanea comparsa di nuove
potenze mondiali, a loro volta stadio di sviluppo maturo di altri Stati.

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Geografia economico politica Modulo 1° - Teorie della Geografia politica

Sempre in merito ai processi di espansione, Ratzel individua alcuni fattori


positivi come il commercio, il traffico e ogni genere di movimento di persone
o merci, che consentano di conoscere le vie di penetrazione negli altri Stati e
di individuare modi in cui esercitare una certa influenza politica su di essi. La
popolazione e, in secondo luogo, il nazionalismo sono invece considerati
fattori di potenza dell’espansione territoriale. Il processo di espansione si
struttura seguendo un preciso modello in base al quale gli Stati più grandi
annettono i territori degli Stati più piccoli confinanti, in un ordine prestabilito:
dapprima vengono annessi i territori più ricchi e vicini e, solo dopo, quelli
meno ricchi e più distanti. I processi di colonizzazione europea in Asia e
Africa sono un esempio pratico di tale processo. Nello specifico, i
colonizzatori penetravano nei territori da conquistare dal mare verso le
pianure, attraverso i fiumi; comunque seguendo le c.d. linee di minore
resistenza.

La spinta espansionistica che caratterizza gli Stati deriva da due elementi: la


continentalità, quindi la tradizionale volontà di cercare sbocchi verso il mare,
e il Raumsinn o senso dello spazio, una attitudine che Ratzel riconosce come
peculiarità della popolazione colonizzatrice. Questa attitudine è direttamente
proporzionale alla grandezza del continente in cui si trova lo Stato. La spinta
espansionistica appena descritta è avvertita non solo da chi regge lo Stato ma
anche dalla popolazione stessa che, con il passare del tempo, sviluppa un
rapporto affettivo con il territorio in cui vive.

Spesso, i concetti teorizzati da Ratzel sono stati male interpretati da critici e


studiosi. Ad esempio, la naturale tendenza all’espansione di uno Stato a
scapito di quelli confinanti è stata spesso criticata, perché considerata come
una sorta di autorizzazione alla conquista degli Stati minori da parte degli Stati
più potenti (Pagnini e Sanguin, 2015). In realtà, si tratta di una lettura
fuorviante del pensiero di Ratzel che, in nessuno dei suoi scritti, ha dichiarato
la guerra come atto necessario per la conquista di spazi altrui. Anzi, egli ha
proposto la creazione di ampie aree libere che potessero far diminuire gli
eventuali motivi di tensione e la messa in comune di alcune risorse e attività.
Un discorso simile va fatto a proposito del termine Lebensraum (spazio
vitale), inteso dall’autore come la superficie geografica indispensabile per una
specie, quindi con un significato profondamente diverso da quello di “spazio
vitale” di matrice nazista.

Altre tematiche cardine del pensiero ratzeliano sono le relazioni centro-


periferia. Il centro è lo spazio politico in cui si esercita il potere, e di
conseguenza, dove il tenore di vita è più alto ed esiste una rete di trasporti

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Geografia economico politica Modulo 1° - Teorie della Geografia politica

efficiente. Le periferie sono invece quei territori politici sfruttati e dominati


dai centri, caratterizzati da una popolazione vulnerabile, ed economicamente
dipendenti dal centro. Nel periodo in cui vive Ratzel, i progressi tecnologici
nel campo dei trasporti consentono di estendere l’influenza e il controllo
politico del centro su territori più distanti, quindi non soltanto sulle periferie
ma anche sulle colonie. La conquista di nuovi territori porta le grandi potenze
europee allo scontro. Le nozioni di potenza marittima e di potenza
continentale sono, secondo Ratzel, diretta conseguenza della rivoluzione dei
trasporti.

La Geografia politica di Ratzel è incentrata sulla personificazione dello Stato.


Non si basa su una filosofia politica sistematica ma è eclettica, in quanto si
fonda su teorie e discipline diverse. Ratzel è universalmente riconosciuto
come il padre della Geografia politica ma, dopo di lui, altri autori hanno
fornito un importante contributo alla disciplina (Gordano, 2010). In questo
paragrafo saranno analizzate le teorie di importanti autori non tedeschi.

In Francia, l’esponente di spicco della Geografia è Paul Vidal de la Blache,


docente alla Sorbona. Nelle sue opere egli considera l’uomo sia un fattore
geografico, come la natura, che un attore per la sua capacità di agire e di
modificare l’ambiente in cui vive. La natura offre un campo di possibilità e
l’uomo, grazie alla sua cultura e al suo grado di sviluppo, può decidere cosa
sia meglio per lui senza subire passivamente le imposizioni dell’ambiente
fisico. La teoria dell’autore francese è definita possibilismo. Spesso il pensiero
vidaliano è stato contrapposto alla teoria determinista di Ratzel; si tratta però
di una invenzione intellettuale di alcuni discepoli del professore francese come
Febvre, Sion e Vallaux. Proprio Vallaux contribuirà a far conoscere l’opera
di Ratzel in Francia, criticandone le teorie. Il discepolo di Vidal considerava
decisiva per l’evoluzione degli Stati la differenziazione regionale e non la
semplice influenza dei caratteri fisici, cuore della teoria determinista
(Giordano, 2010).

In Italia, la diffusione del pensiero di Ratzel è merito del geografo friulano


Olinto Marinelli che traduce l’opera e i concetti del professore tedesco in
termini obiettivi. Il discorso cambia, invece, negli Stati Uniti dove l’opera di
Ratzel è diffusa grazie a una sua allieva, Ellen Churchill Semple. Nel 1911,
la Semple traduce il primo volume dell’Antropogeographie di Ratzel
utilizzando un metodo basato sul confronto tra diversi popoli che vivono in
condizioni geografiche simili, al fine di analizzarne i diversi gradi di sviluppo
a cui giungono. La traduzione dell’opera del suo maestro è inserita all’interno
di un libro intitolato Influences of Geographic Environment Upon the Basis of
Ratzel’s Anthropogeography, ma qui l’autrice, oltre a definire l’uomo come

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Geografia economico politica Modulo 1° - Teorie della Geografia politica

prodotto della superficie terrestre, sottolineando il forte legame tra


componente umana e ambiente fisico, precisa che l’ambiente non controlla
l’azione umana e che solo in talune circostanze i popoli si comportano in
modo prevedibile. Questa tendenza segna un avvicinamento alle teorie
possibiliste.

Il contributo più importante della Semple alla Geografia politica è


rappresentato dallo studio dei processi di diffusione. Approfondendo un’idea
di Ratzel, l’autrice amplia l’analisi della spiegazione dei fenomeni politico-
geografici di diffusione, concentrandosi sui vari modi attraverso i quali la
cultura politica opera dei cambiamenti su un determinato territorio. Nello
specifico, i processi individuati dalla Semple sono tre: conquista, infiltrazione
e influenza.

La fine della Prima Guerra Mondiale e la sconfitta degli imperi centrali


conducono a una trasformazione territoriale in Europa senza precedenti in
tempi così brevi. Nascono nuovi Stati, mentre alcuni di quelli già esistenti si
ampliano, si ridisegnano le frontiere internazionali e viene creata la Società
delle Nazioni, ispirata da un nuovo ordine mondiale.

La fine delle Grande Guerra e i successivi trattati di pace portano alla nascita,
tra il 1919-20, di tre nuove branche della Geografia politica: la Geografia delle
frontiere, la Geografia della pace e della guerra e la Geografia degli affari
internazionali (Pagnini e Sanguin, 2015).

La Geografia delle frontiere deriva direttamente dai Trattati di pace seguiti


alla fine della Prima Guerra Mondiale. Ai negoziati parteciparono molti esimi
geografi dei paesi vincitori, che diedero un importante contributo alla
definizione delle nuove frontiere internazionali in Europa. Molte delle idee e
dei ragionamenti emersi durante i lavori delle commissioni dei negoziati di
pace vennero trasformate in opere, che hanno contribuito ad arricchire la
letteratura scientifica in Geografia politica.

Sono i geografi francesi a dare il maggiore contributo a questo settore


denominato appunto Geografia della pace e della guerra. Ad esempio, Camille
Vallaux, già citato nel precedente paragrafo, paragona la mappa dell’Europa
dopo il primo conflitto mondiale a uno specchio rotto e raccomanda, da un
lato, la necessità di frontiere aperte che favoriscano la libera circolazione in
Europa, anticipando di molto lo spazio Schengen; dall’altro lato si esprime a
favore di un’Europa federale capace, a suo parere, di favorire il mantenimento
della pace in maniera più efficace rispetto alla neonata Società delle Nazioni.

13
Geografia economico politica Modulo 1° - Teorie della Geografia politica

La terza branca della Geografia politica che si sviluppa nel periodo tra le due
guerre è la Geografia degli affari internazionali, che ha in Charles Colby,
professore di Geografia all’Università di Chicago, il principale esponente.
Colby pubblica un saggio dal titolo Geographic Aspects of International
Relations, in cui raccoglie il pensiero dei principali geografi politici americani
contemporanei e presenta tre tesi. Nella prima, discute della mancanza di vasti
territori da esplorare e conquistare, sui quali si possano riversare le grandi
migrazioni e di come questo aspetto abbia una forte influenza sulle relazioni
internazionali. Le grandi migrazioni via mare appartengono ormai al passato e
pertanto i nuovi flussi migratori non si indirizzano più verso ampie terre libere
ma, necessariamente, verso terre già occupate. La seconda tesi riguarda
l’intervento statale nella vita economica e le conseguenze di questa pratica
nelle relazioni tra gli Stati. La terza concerne le conseguenze internazionali
delle politiche interne adottate da alcuni Stati. A tal proposito, Colby sostiene
che, nella pianificazione e nell’implementazione di politiche nazionali, sia
doveroso tener conto non solo delle possibili conseguenze sul piano interno,
ma anche sugli effetti a livello internazionale.

Mentre il periodo della Seconda Guerra Mondiale è fortemente influenzato


dalle teorie geopolitiche, nel secondo dopoguerra si assiste a una pausa della
produzione in Geografia politica. L’ambiente scientifico avverte la necessità
di un rinnovamento nei temi e nei metodi della disciplina. Tale processo di
rinnovamento viene avviato dal geografo statunitense Richard Hartshorne, i
cui studi si concentrano sulle conseguenze spaziali dei processi politici. La
teoria di Hartshorne è incentrata sulla regione e sul suo funzionamento
all’interno di uno spazio politicamente organizzato. Per l’autore, l’essenza
della regione è il risultato dell’interazione tra forze centrifughe (forze
dispersive e disgreganti) e forze centripete (forze di coesione e integrazione).

Dopo il silenzio che l’aveva caratterizzata negli anni del secondo conflitto
mondiale, torna in auge anche la Geografia politica francese, grazie al
contributo di Jean Gottmann. L’indagine dell’autore si concentra sul
rapporto tra geografia e politica nell’ambito delle regioni-Stato e, in
particolare, sulle c.d. iconografie. Per iconografie si intendono quei sistemi di
resistenza al movimento o al cambiamento, più astratti che materiali. Secondo
Gottmann sono queste iconografie a determinare alcune attitudini delle
popolazioni nei confronti dell’ambiente fisico o a favorire il mantenimento di
determinate strutture sociali. Sono sempre le iconografie a far sì che le nazioni
rifiutino le influenze straniere, limitando contatti e comunicazioni. Quindi,
secondo Gottmann, la ripartizione politica dello spazio è il risultato
dell’interazione tra circolazione e iconografia.

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Geografia economico politica Modulo 1° - Teorie della Geografia politica

Ma la Geografia politica di questo periodo è caratterizzata da una certa


ambivalenza nelle tematiche trattate. Infatti, se da un lato l’attenzione sembra
rivolgersi principalmente verso il contesto politico internazionale rispetto a
quello nazionale, dall’altro si fa largo il concetto di idea politica, intesa come
il pensiero dell’individuo che diviene il nuovo punto di partenza dell’analisi
della Geografia politica. Il tema proposto da Jones risulta elastico poiché può
essere adeguato anche al contesto delle relazioni internazionali, basti pensare a
come l’idea politica influenzi la diplomazia o le strategie internazionali degli
Stati.

Il concetto di idea politica viene poi approfondito da Pounds, che aggiunge ai


temi della Geografia politica classica, l’attenzione alla percezione dei cittadini
sul loro paese e l’effetto di tale percezione sulle elezioni. Con Pounds si inizia
ad indagare il tema del comportamento politico, pertanto le azioni politiche e i
problemi affrontati nel quotidiano conquistano la stessa considerazione dei
processi decisionali a livello nazionale e internazionale. La Geografia politica
inizia così a trattare temi a scala microgeografica, sebbene Pounds si concentri
quasi esclusivamente sul comportamento elettorale dei cittadini. Dal 1968 in
poi, l’argomento più discusso e trattato dai geografi politici diviene il potere
politico.

In Italia è Giacomo Corna Pellegrini a operare una indagine interdisciplinare


sulla tematica del potere, ponendosi in contrapposizione al classicismo della
Geografia politica italiana. Partendo dal nesso indissolubile che lega politica e
geografia, Corna Pellegrini si concentra sulle varie modalità con cui il potere
politico, esercitato dallo Stato, influenza il territorio. Il rapporto tra potere e
territorio viene analizzato non solo dal punto di vista della Geografia politica,
ma anche da quello di un’altra disciplina, la programmazione dello sviluppo,
giungendo così a considerare le possibili reazioni del territorio alle modifiche
ipotizzate o già realizzate.
Altro interessante indirizzo della Geografia politica post-anni Sessanta è
quello della scuola “radicale” fondata da William Bunge e che ha in David
Harvey il più celebre esponente. Harvey approfondisce la tematica del potere
ponendola in relazione alle lotte di classe, alla nozione di dominanza e alle
relazioni centro-periferia. Nelle sue ultime pubblicazioni il geografo inglese si
è dedicato all’analisi delle mutevoli forme del capitalismo nelle relazioni con
il territorio.

Paul Claval propone, invece, un’analisi geografica della relazione tra potere e
spazio incentrata sui concetti di area e informazione. Claval considera l’area
un elemento primario, il cui studio consente di comprendere quanto una
società sia radicata e distribuita su un determinato territorio. Maggiore sarà la

15
Geografia economico politica Modulo 1° - Teorie della Geografia politica

distribuzione, tanto più forte l’esercizio del potere su quell’area.


L’informazione e, in particolare, le sue reti e le sue strutture agiscono come
forze condizionanti sul comportamento degli individui, favorendo con la loro
azione la distribuzione del potere. Rispetto al passato, cambia la
localizzazione dei centri decisionali, i quali non sono più necessariamente
posti nel cuore dell’area considerata. La loro localizzazione non dipende più
esclusivamente da considerazioni geografiche ma è legata piuttosto alla
presenza di determinati elementi come: reti di produzione, mercati, flussi di
informazioni.

Da quanto osservato sinora, la Geografia del potere appare come una branca
disciplinare piena di spunti che si dirigono in varie direzioni. Raffestin tenta
una sistematizzazione della materia. Secondo il geografo svizzero di origini
francesi, il potere coincide con il lavoro, considerato come il prodotto delle
relazioni tra popolazione e territorio. Pertanto, chi mira a detenere il potere
politico, cerca dei mezzi attraverso i quali controllare il lavoro e sfruttarlo per
i propri fini. Dalla Rivoluzione Industriale in poi, il potere economico è
esercitato attraverso il potere industriale; cambia il modo di produrre e di
lavorare e, nelle loro attività, gli uomini sono sostituiti o affiancati dalle
macchine. Da questo momento in poi, è il potere industriale a controllare il
lavoro, ed è sul primo che il potere politico cerca di estendere la propria
influenza (Raffestin, 1979).

Uno dei meriti della Geografia del potere è quello di aver permesso una
rilettura dei concetti tradizionali della Geografia politica, così il territorio non
è più il tema centrale della disciplina, l’elemento che condiziona la vita degli
individui, ma ad esso viene riconosciuta una doppia valenza. Esso rappresenta
il supporto all’attività tecnico-economica dell’uomo e, al contempo, il risultato
del lavoro della popolazione. Anche il ruolo svolto da quest’ultima cambia. La
popolazione è riconosciuta come la vera fonte del potere, non è più
considerata come un mero dato numerico ma diviene un fenomeno da
analizzare da vari punti di vista, tenendo conto dei valori, di rapporti di potere
e dei legami che la riguardano (Bresso, 1979).

A partire dagli anni Ottanta, la Geografia politica mostra un’evoluzione


interessante dovuta al progresso nel campo dei trasporti e dei mezzi di
comunicazione, nonché alla disponibilità immeditata di una grande massa di
informazioni. I temi principali su cui si concentra la materia in questi anni
sono essenzialmente tre: la Geografia elettorale, l’analisi dei gruppi sociali
disagiati e delle minoranze, e un nuovo filone di studi sui comportamenti
decisionali. La Geografia elettorale diventa una disciplina a sé stante e prende
le distanze dalle sue origini grazie all’utilizzo sistematico dell’analisi

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Geografia economico politica Modulo 1° - Teorie della Geografia politica

quantitativa dei dati. Nello specifico, la materia si concentra sui rapporti di


potere legati alle selezioni elettorali, nonché ai risultati elettorali come
possibili risposte alla politica del welfare state. L’analisi dei gruppi sociali più
disagiati e delle minoranze verte principalmente sulla disuguale ripartizione
delle risorse. In quest’ottica, i geografi politici si concentrano sulle aspirazioni
dei vari gruppi sociali, sul potere politico che esercitano e sulla loro influenza
sui processi decisionali. Nel filone dedicato ai comportamenti decisionali, la
Geografia politica si dirige verso due diversi rami di ricerca. Il primo di
matrice americana si occupa dei comportamenti di determinati attori come i
burocrati o i gruppi comunitari. Questo filone ha portato a interessanti risultati
nella comprensione del ruolo svolto dai singoli individui e dai piccoli gruppi
nei processi decisionali. Il secondo ramo è di matrice prevalentemente europea
ed è incentrato sull’interpretazione in chiave politico-economica del consumo
collettivo.

Nel decennio successivo la Geografia politica inizia a occuparsi, in maniera


più incisiva, di problematiche transnazionali come il sottosviluppo o la
questione ambientale, incentrata sulle conseguenze dei cambiamenti climatici
ormai in atto. Al contempo, i geografi politici mantengono vivo l’interesse per
gli aspetti locali delle relazioni uomo-potere-ambiente e sugli effetti globali di
atteggiamenti locali.

BIBLIOGRAFIA

Agnew J., Geopolitics: Re-Visioning World Politics, London, Routledge, 2003.

17
Geografia economico politica Modulo 1° - Teorie della Geografia politica

Giordano A., Geografia economico-politica, Dispensa, Unicusano, 2010.

Gottmann J., Centre and Periphery. Spatial Variations in Politics, Los


Angeles, Sage, 1980.

Pagnini M., Sanguin, A., Storia e teoria della Geografia politica: Una prospettiva
internazionale, Roma, Edicusano, 2015.

Raffestin C., Bresso M., Travail, espace, pouvoir, Lausanne, L’Âge


d’Homme, 1979.

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Corso di Laurea in Scienze della Formazione

INSEGNAMENTO DI
GEOGRAFIA ECONOMICO-POLITICA

Modulo 2° - Geopolitica

A cura di

Giuseppe Terranova
Geografia economico-politica Modulo 2° - Geopolitica

SOMMARIO MODULO 2°

Geopolitica

2.1. Introduzione
2.2. Storia del pensiero
2.3. Contenuti

1
Geografia economico-politica Modulo 2° - Geopolitica

2.1. Introduzione
Un importante sostegno alle trasformazioni concettuali e alle novità in campo
teorico negli anni che vanno dal 1990 al 2010 è dovuto all’attività del
geografo statunitense John Agnew. Egli sottolinea l’importanza di una
revisione della Geografia politica in chiave interdisciplinare, tenendo conto
dei reciproci benefici che possono scaturire dal legame della materia con la
storia diplomatica, le scienze politiche e le relazioni internazionali.

Vengono così rimessi in discussione gli elementi tradizionali della Geografia


politica legati allo Stato, grazie alla comparsa sullo scenario internazionale di
importanti reti metropolitane e organizzazioni sovranazionali. Inoltre, con la
conclusione della Guerra Fredda, la Geografia politica si affranca dagli
approcci e dai pregiudizi ideologici, e gli esperti della materia preferiscono
assegnare maggiore rilevanza allo studio dei contesti storico-geografici,
escludendo ogni spiegazione deterministica. In questo senso, gli avvenimenti
politici non possono essere compresi senza un’accurata conoscenza del
contesto geografico nel quale si svolgono (Giordano, 2010).
Il periodo preso in considerazione è caratterizzato da nuove sfide affrontate
dalla Geografia politica, sfide poste dalla rivoluzione telematica e dai
progressi nel campo dell’informazione. Così, da un lato, le comunicazioni
risultano globali, immediate, poco costose e libere dalla regolamentazione e
dal controllo dei governi; dall’altro, la rivoluzione dell’informazione mette in
crisi i concetti di frontiere politiche, poiché il centro del potere politico è posto
al di fuori delle aree tradizionali dell’Europa o dell’America settentrionale.
Anche gli approcci marxisti che avevano caratterizzato la disciplina durante la
Guerra Fredda vengono superati perché non sono più in linea con la realtà dei
tempi, caratterizzata dal dissolvimento del blocco sovietico e dalla maggiore
importanza dei paesi BRICS (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica).

Negli anni successivi al primo decennio del XXI Secolo, la Geografia politica
torna a occuparsi con rinnovato interesse della Geografia della pace e della
guerra. Ma oltre ai conflitti classici tra Stati, e all’esame delle loro cause e
conseguenze, i geografi si soffermano sulle guerre civili e sui conflitti religiosi
o culturali, focalizzandosi sul ruolo delle donne nelle guerriglie sudamericane
o asiatiche o sulle motivazioni religiose dei combattenti.
Collegato a queste tematiche è sicuramente il fenomeno della pulizia etnica,
che i geografi politici analizzano, studiando le ripercussioni a livello
geografico e politico.

2
Geografia economico-politica Modulo 2° - Geopolitica

Un altro dei grandi temi affrontati dalla Geografia politica riguarda i mari e gli
oceani, in particolare, le conseguenze geografiche frutto del differente utilizzo
del mare da parte degli Stati. La differenza principale con le dinamiche
continentali risiede essenzialmente in tre punti: la superficie oceanica è
continua, le risorse oceaniche sono mobili e alcuni Stati non hanno un accesso
al mare.

Nello stesso periodo, gli studi frontalieri che rappresentano un altro dei temi
classici della Geografia politica vengono riletti in un’ottica transdisciplinare,
che include il diritto internazionale, la storia, l’etnologia, la psicologia e le
scienze politiche. Le pubblicazioni attuali denotano come le frontiere mentali
siano diventate più forti di quelle territoriali; infatti, nonostante, in alcuni
paesi, le frontiere geografico-politiche abbiano gradualmente perso il proprio
significato territoriale, restano ancora ben impresse nella memoria dei
cittadini, grazie alla forte influenza della cultura nazionale. Ancora, il periodo
in esame è caratterizzato dal sorgere di nuove frontiere dovuto alla nascita di
super-spazi come l’Unione Europea o il complesso USA/Canada. In questo
settore, i cambiamenti più evidenti sono quelli accorsi nell’Unione Europea,
dove nel giro di pochi anni, dalla nascita dello spazio Schengen in poi, le
vecchie frontiere tra gli Stati membri sono state completamente rivoluzionate.
Tutto ciò ha portato gli studiosi a concentrarsi sulla rivalutazione spaziale e
sulla risistemazione territoriale della nuova Europa.

Altri argomenti di analisi sono rappresentati dalle minoranze etniche e dagli


esodi. Il lavoro dei geografi politici si rivolge alle relazioni che intercorrono
trai popoli autoctoni o indigeni e il gruppo etnico dominante, al ruolo che i
primi svolgono nella vita politica ed economica dello Stato, nonché alle lotte
che questi gruppi intraprendono per ottenere un territorio autonomo all’interno
dello Stato d’appartenenza. Protagonisti delle pubblicazioni di questo filone
sono le minoranze nazionali (frazione di un popolo che vive in uno Stato
adiacente) o le etnie senza Stato (popoli che parlano una lingua che non è
parlata altrove). Il settore si occupa inoltre del fenomeno delle migrazioni
internazionali e delle diaspore, delle relazioni che le comunità diasporiche
instaurano tra i paesi ospiti e i paesi di origine, e del ruolo economico e
politico sempre più importante che queste svolgono a livello internazionale.

Esiste, inoltre, anche la cosiddetta Geografia politica di genere e delle


tendenze che la caratterizzano. Il filone femminista si discosta dalla Geografia
politica classica nell’approccio, nei metodi e nei temi trattati. Innanzitutto
viene mossa una critica alla disciplina accademica, considerata una materia
maschile, che tende a privilegiare le analisi a livello macro rispetto a quelle
micro. La Geografia femminista sceglie, invece, il livello locale come il livello

3
Geografia economico-politica Modulo 2° - Geopolitica

principale di indagine. Per quanto riguarda i metodi, viene individuato un forte


nesso tra teoria, ricerca e pratica, ispirato al principio ricerca-azione. In merito
alle tematiche affrontate, le geografe si concentrano su quei fenomeni in cui il
rapporto donne/spazio è particolarmente intenso. Alcuni esempi riguardano la
partecipazione delle donne aborigene ai cambiamenti politici in Australia, le
guerriglie urbane delle donne iraniane o gli stupri subiti dalle donne rwandesi
durante il genocidio del 1994 (Giordano, 2010).

Un altro filone della Geografia politica di genere si occupa degli spazi gay e
lesbici. Si tratta di luoghi caratterizzati da una triplice dicotomia come
afferma la geografa Gill Valentine: tolleranza/intolleranza,
uguaglianza/disuguaglianza, inclusione/esclusione. Si parla di comunità
omosessuali come territori dissidenti, in cui si svolgono quotidiane battaglie
contro i poteri pubblici, considerati la causa delle condizioni di
discriminazione in cui gli omosessuali vivono. Le comunità omosessuali
manifestano e rivendicano i propri diritti attraverso i gay pride, che
rappresentano il loro spostamento dalla periferia verso il centro e denotano il
loro grado di organizzazione a livello internazionale.

2.2 Storia del pensiero.


Prima di analizzare le principali teorie geopolitiche occorre rimarcare le
differenze tra la Geografia politica e la Geopolitica.

La Geografia politica appartiene al campo disciplinare delle scienze


geografiche applicate alle attività politiche dell’uomo nello spazio. Si tratta,
dunque, di una disciplina accademica, con valenze anche pratiche, che nelle
sue analisi tenta di avere un approccio, per quanto possibile, oggettivo e non
di parte. La sua natura è prevalentemente descrittiva in quanto il suo compito
moderno è quello di analizzare l’influenza dei fattori politici sulla geografia, e
di supportare la scelta politica attraverso la varietà dei suoi dati.

Nel caso della Geopolitica, invece, non si parla di scienza accademica bensì di
un particolare approccio alla politica, basato sull’analisi del peso che i fattori
geografici ricoprono, in particolare, sulle decisioni di politica estera e
internazionale. La sua natura è pertanto prescrittiva, spesso soggettiva e
rappresentante la visione di una parte, e perciò definibile come una geografia
di stampo nazionalistico. Attraverso le sue teorie, la Geopolitica mira, dunque,
a determinare le scelte di strategia politica nazionale, spesso basandosi sui dati
che le provengono dalla Geografia politica. Dovrebbe esser chiaro, quindi, che
la Geopolitica proviene dalla Geografia politica, anche se per un certo periodo

4
Geografia economico-politica Modulo 2° - Geopolitica

è stata rigettata dai geografi per l’approccio poco scientifico che avrebbe
portato, in alcuni casi, a esiti pratici poco felici, come nel caso della presunta
base teorica che avrebbe fornito al Nazismo.

Il termine Geopolitica entra a far parte del lessico accademico nel 1899, grazie
a Rudolf Kjellen, scienziato politico svedese, che decide di fondere i termini
geografia e politica all’interno di un’unica parola, sottolineando le radici
geografiche dello Stato, ovvero ponendo l’accento sulle dotazioni di risorse
naturali, considerate uno dei principali fattori della potenza statale. Nelle sue
opere, Kjellen si ispira al pensiero di Ratzel e alla sua visione determinista
(Giordano, 2010).

Questa fase iniziale della Geopolitica è caratterizzata da alcuni aspetti


fondamentali. Innanzitutto, l’argomento centrale per la disciplina è lo Stato,
che viene analizzato, in particolare, dal punto di vista delle minacce e delle
opportunità che si trova ad affrontare. In secondo luogo, la Geopolitica adotta
un atteggiamento neo-lamarckiano, in quanto, almeno nella fase iniziale, i suoi
esponenti si rifanno al pensiero di Lamarck, ripreso da Ratzel, che
sottolineava l’influenza diretta dell’ambiente naturale nell’indirizzare il
processo evolutivo. In modo simile, la Geopolitica individua un solido
collegamento tra ambiente naturale e potenziale politico. Secondo tale visione,
le possibilità di sviluppo futuro di uno Stato appaiono fortemente connesse
alle sue risorse, al clima e allo spazio che ha a disposizione per espandersi
(Painter, 2009).

I primi autori che saranno analizzati in questo paragrafo tengono conto degli
aspetti peculiari della fase fondativa della geopolitica. Le loro teorie hanno
come principale obiettivo quello di tutelare e favorire l’interesse dei rispettivi
paesi di appartenenza e per questo motivo prendono il nome di Geografie
nazionali. Le teorie degli autori che appartengono a questo filone possono
essere suddivise, in base ai loro contenuti, in: teorie del potere marittimo, del
potere continentale, del potere peninsulare, del potere aereo, del potere
regionale.

Una delle prime figure di spicco nel panorama della Geopolitica è quella
dell’ammiraglio statunitense Alfred Thayer Mahan, il quale elabora la teoria
della potenza marittima, in base alla quale l’egemonia del mondo si può
ottenere esclusivamente mediante il potere marittimo, inteso come quel
complesso derivante da: marina militare, capacità di proiettare a terra la
potenza navale, basi navali strategiche e importanza dei traffici marittimi per
l’economia di un paese (Jean, 2003). Mahan considera mari e oceani non
come barriere tra i popoli ma arterie sulle quali proiettare lo sviluppo degli

5
Geografia economico-politica Modulo 2° - Geopolitica

interessi economici americani. A tal proposito, è doveroso da parte degli Stati


Uniti concentrare il proprio potere sui due oceani dai quali sono bagnati e,
seguendo l’esempio della Gran Bretagna durante il XVIII e XIX Secolo,
dotarsi di una potente flotta che permetta di ottenere una posizione dominante
nel controllo dei mari e, di conseguenza, del mondo intero. Secondo la visione
di Mahan i sei punti per la conquista e il dominio dei mari sono rappresentati
da: posizione geografica, configurazione fisica dello Stato, estensione
territoriale, entità numerica della popolazione, carattere nazionale, natura e
politica del governo. Inoltre, Mahan propone il controllo di una serie di
chokepoints (letteralmente “colli di bottiglia”, geograficamente definibili
come stretti marittimi, passaggi, vallate) vitali per il dominio degli spazi
marittimi. Tra questi: i Canali di Panama, Suez e Manica, gli stretti di
Gibilterra e della Malacca, i Capi Horn e di Buona Speranza.

La teoria del potere continentale è riscontrabile, da due punti di vista antitetici,


nelle opere e nel pensiero di Mackinder e Haushofer. Per quanto concerne la
Gran Bretagna, la figura più eminente in campo geografico e geopolitico è
sicuramente quella di Sir Hurfold Mackinder che si occupa di analizzare dal
punto di vista geografico le opportunità e le minacce che la Gran Bretagna si
trovava ad affrontare, in quella che egli stesso definisce l’era post-
Colombiana. Mackinder cercava spiegazioni geografiche a fenomeni politici,
al fine di individuare soluzioni che potessero aiutare il suo paese nel nuovo
confronto con Germania e Stati Uniti. L’autore britannico è conosciuto
soprattutto per la sua teoria dell’Heartland, esposta all’interno dell’articolo
The geographical pivot of history. Secondo Mackinder, il mondo è composto
da Stati-potenze marittime e Stati-potenze continentali; alle prime è impedito
l’accesso a un “nucleo centrale”, caratteristico dei continenti antichi, definito
Heartland. Questa regione perno può contare su una forte disponibilità di
risorse ed è circondata da due cinture: una mezzaluna interna o marginale
(inner o marginal crescent) e una mezzaluna esterna o insulare (outer o
insular crescent). Le grandi potenze entrano in conflitto per estendere la
propria influenza su queste due cinture.

Sebbene la sua scelta sarà rivista più volte, inizialmente Mackinder individua
l’Heartland nel centro geografico dell’Eurasia. Si trattava di un’area
inaccessibile alle potenze navali e, di conseguenza, alla Gran Bretagna. La
difficoltà di accesso all’area, unita alla ricchezza di risorse presenti nella
regione e alla costruzione già in atto di una fitta rete ferroviaria, avrebbero
portato l’Heartland a esercitare un potere militare ed economico senza pari,
una minaccia dalla quale la Gran Bretagna avrebbe dovuto difendersi (Painter,
2009). Sul piano pratico, Mackinder temeva una possibile alleanza tra la
Germania e la Russia.

6
Geografia economico-politica Modulo 2° - Geopolitica

Prendendo spunto dal pensiero di Mackinder, Karl Haushofer ha come


obiettivo quello di creare un insieme omogeneo di contributi al quale assegna
il nome di Geopolitik. Come per Mackinder, anche nell’analisi dell’attività di
Haushofer occorre tener conto del contesto in cui vive e opera, ovvero la
Germania post-primo conflitto mondiale, che aveva subito una forte riduzione
territoriale in seguito al Trattato di Versailles. Haushofer condivide l’idea
ratzeliana dello Stato come organismo vivente; nel caso della Germania, si
tratta di un organismo ferito e mutilato che avverte il bisogno di riacquisire il
proprio Lebensraum, e per farlo dovrà tentare di espandersi nei territori degli
Stati più piccoli confinanti (Giordano, 2010).

La Geopolitik di Haushofer è stata spesso bollata come disciplina nazista, in


quanto alcune sue idee sono state fatte proprie dal partito di Hitler. Si tratta
comunque di una percezione sbagliata, dovuta per lo più al ruolo svolto da
Rudolf Hess, allievo di Haushofer e futuro vice di Hitler. E’ con Hess che le
idee di Haushofer entrano a far parte della strategia nazista. Ma conferire tale
etichetta alla materia appare esagerato e troppo semplicistico, infatti, nel
pensiero di Haushofer non vi è alcun riferimento all’antisemitismo o alle idee
di purezza della razza.

La teoria del potere peninsulare, infine, ha come principale esponente


Nicholas Spykman, il quale si ispira all’opera di Mackinder inserendosi nel
solco di quegli studiosi che intendono analizzare le relazioni tra il pianeta
inteso in senso olistico e l’attività della potenza. Nella sua teoria, l’autore di
origine olandese prende le distanze sia dal determinismo di Ratzel che dal
possibilismo di Vidal de la Blache e Febvre, intendendo la Geografia come
una predisposizione. Per Spykman è proprio la Geografia l’elemento
fondamentale nella formulazione di una politica nazionale, in quanto
rappresenta l’elemento più permanente, stabile e immutabile, ed è in base a
tali predisposizioni che gli Stati delineano le proprie politiche.

La sua attività si concentra principalmente sul ruolo degli Stati Uniti ma, a
differenza di Mackinder che incentra le sue idee attorno al concetto di
Heartland, per Spykman la zona perno è rappresentata dal Rimland, ovvero
dalle terre che compongono la fascia esterna dell’Eurasia: l’Europa costiera, i
deserti dell’Arabia e del Medio Oriente, e l’Asia dei monsoni. E’ in questa
zona che avvengono i principali scontri tra la potenza marittima e quella
continentale in quanto, se da un lato, il Rimland è esposto alle minacce
provenienti dal fronte marino e da quello continentale, dall’altro, chi riesce a
controllare tali regioni si assicura il dominio sia sul mare che sulla terra.

7
Geografia economico-politica Modulo 2° - Geopolitica

Per Spykman, la protezione del Rimland deve divenire l’obiettivo principale


della politica estera statunitense. Infatti, in un’Europa in cui l’equilibrio tra le
potenze non è più possibile, gli Stati Uniti devono svolgere il ruolo di
contrappeso nei confronti della Germania hitleriana (negli anni del secondo
conflitto mondiale) e della Russia sovietica. Il fine ultimo è quello di impedire
che prenda forma la peggiore minaccia per l’equilibrio mondiale e per la
posizione degli Stati Uniti: l’unione di Rimland e Heartland, quindi dello
spazio euroasiatico, sotto un’unica insegna.

Le principali critiche mosse al pensiero di Spykman riguardano innanzitutto la


sua concezione di potenza. Per lo studioso, la potenza è semplicemente un
dato numerico basato sul concetto di quantità; una potenza è tale perché può
contare su un certo numero di uomini e mezzi, di materie prime e perché la
propria influenza si estende su un’area abbastanza vasta. Ma in questa sua
analisi, così come nel considerare Heartland e Rimland masse immutabili,
Spykman tralascia completamente l’importanza delle passioni umane, delle
credenze e degli ideali degli uomini nel sovvertire situazioni considerate
permanenti.

Una ulteriore visione geopolitica è legata al potere aereo del quale uno dei
principali esponenti è l’italiano Giulio Dohuet. In realtà, già sul finire del
XIX Secolo, in anticipo rispetto ai primi voli, effettuati nel primo decennio del
XX, non mancarono le figure che si cimentarono nell’immaginare i risvolti
che l’impiego del mezzo aereo avrebbe di li a poco avuto, nel settore bellico
come in quello civile. Si ipotizzarono così scenari in cui fortezze volanti
volavano sulle città seminando terrore e distruzione. In realtà mongolfiere e
poi aerostati si liberavano in cielo già da parecchio tempo, trovando i primi
impieghi bellici già in epoca napoleonica. Resta il fatto che, rispetto a
quest’ultimi, l’aeroplano aveva introdotto qualità come robustezza, velocità e
maggiore autonomia (nonché potenza di fuoco) soppiantandoli quasi del tutto.
Anche nelle moderne guerre è possibile notare come l’utilizzo di potenza di
fuoco dall’aria rientri nella prima opzione praticabile prima dell’eventuale
conflitto diretto sul territorio.

Chiude il ciclo degli autori geopolitici classici Isaiah Bowman. Altro


importante esponente della geopolitica statunitense, nelle sue pubblicazioni
prende le distanze dal determinismo ambientale e si avvicina a un approccio
più empirico e scientificamente verificabile. Ispirandosi a uno dei concetti
fondamentali del pensiero di Ratzel, Bowman sostiene la necessità di uno
spazio vitale economico per gli Stati Uniti, basato sullo sviluppo di relazioni
favorevoli agli interessi americani. Nel descrivere i propri contenuti
scientifici, Bowman si pone in aperta contrapposizione ai lavori simili svolti in

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Geografia economico-politica Modulo 2° - Geopolitica

Germania. In particolare, si scaglia contro la Geopolitica tedesca accusandola


di proporre una visiona distorta “delle relazioni storiche, politiche e
geografiche del mondo e delle sue componenti”.

La Geopolitik è vista da Bowman come una materia fortemente schierata, le


cui idee servono esclusivamente a giustificare l’azione tedesca durante il
secondo conflitto mondiale. Per ribadire la distanza tra le due concezioni, lo
studioso statunitense presenta un raffronto tra la sua Geografia, scientifica e
fondata su osservazioni empiriche, e la Geopolitica tedesca, colma di
pregiudizi e, per questo, priva di obiettività. La sua analisi rivela ovviamente
delle criticità in quanto il suo lavoro è, comunque, indissolubilmente legato
agli interessi degli Stati Uniti e questo è sufficiente per smontare ogni
presunzione di obiettività. Come per gli altri esponenti della Geopolitica di cui
si è parlato in precedenza, anche le pubblicazioni di Bowman forniscono una
lettura della realtà parziale e schierata, influenzata dal contesto in cui l’autore
opera.

Infine, una teoria che, in realtà, è di transito verso la Geopolitica


contemporanea. Si tratta del potere regionale e multipolare, che vede il suo
principale teorico in Samuel B. Cohen. Il geografo americano (1963) ha
criticato tutte le concezioni geopolitiche precedenti per il loro eccessivo
schematismo, che avrebbe comportato una visione rigida e globalistica del
containment, da cui era derivata la cosiddetta dottrina del domino, base
dell'intervento americano in Vietnam. Secondo Cohen, ogni elemento
geopolitico della fascia del containment dell’Unione Sovietica era dotato di
una propria individualità; pertanto, la conquista di uno di essi non avrebbe
provocato il collasso - per l’effetto domino, appunto – dell’intero sistema. Gli
Stati Uniti avrebbero dovuto puntare a una maggiore autonomia regionale,
diminuendo il loro impegno continentale sul Rimland e creando poderose
forze mobili che avrebbero costituito un elemento equilibratore da impiegare
solo in caso di aggressione a parti vitali del sistema antisovietico.

La prevalenza della dimensione strategica nella Guerra Fredda portò Cohen a


dividere il mondo in due grandi regioni geostrategiche - il mondo
commerciale marittimo e quello continentale euroasiatico - a loro volta
suddivise in regioni geopolitiche, destinate a integrarsi attorno a uno Stato
catalizzatore regionale, come la Germania per l'Europa. Tali concezioni
regionali o multipolari, che non ebbero modo di svilupparsi durante la Guerra
Fredda data la rigidità della struttura del mondo bipolare, si stanno affermando
dopo che quest’ultimo è venuto meno e si riflettono anche nelle concezioni
geopolitiche del nuovo disordine o dell’anarchia internazionale.

9
Geografia economico-politica Modulo 2° - Geopolitica

2.3 Contenuti.

Dal 1945 al 1975, si assiste a un oblio della Geopolitica dal punto di vista
accademico e teorico. Il dibattito geopolitico torna in primo piano nel periodo
che segue la conclusione della Guerra Fredda, grazie alle teorie e alle
pubblicazioni, tra gli altri, di tre importanti autori: Fukuyama, Huntington e
Brzezinski.

Il pensiero di Francis Fukuyama rientra in un quel filone di teorie che


potremmo definire endismi (dall’inglese “end”, fine), in quanto decretano la
fine di qualcosa. Nello specifico, per l’autore statunitense la vittoria del
capitalismo sul comunismo nella Guerra Fredda ha segnato la fine della storia
in senso hegeliano. La storia avrebbe raggiunto il suo stadio definitivo, con la
liberal-democrazia e il libero mercato. L’idea di fondo è che non vi sarebbero
più alternative al liberismo e alla democrazia di stampo Occidentale e il corso
degli eventi sarebbe pertanto indirizzato verso il raggiungimento di una pace
duratura. In quest’ottica, avvenimenti come gli attentati terroristici dell’11
Settembre devono essere considerati delle eccezioni, degli incidenti di
percorso (Jean, 2003).

Il pensiero di Fukuyama si presta a numerose critiche, in quanto risulta


estremamente occidentalizzato e in tal senso esclude la visione di tutte quelle
culture, in primis quella asiatica, che rifiutano di omologarsi ai valori
dell’Occidente. Inoltre, lo scoppio di conflitti etnico-identitari e le
conseguenze anche negative del consolidarsi del senso dell’identità islamica si
scontrano con l’ostentato ottimismo delle previsioni di Fukuyama, anche se,
va rilevato che, gran parte del mondo, mediante la cosiddetta globalizzazione,
si è indirizzata con alterne difficoltà e differenti intensità e velocità verso
strutture economiche di stampo occidentale.

Alla visione ottimistica di Fukuyama, si contrappone quella pessimistica di


Samuel Huntington secondo il quale il mondo non sarebbe avviato verso la
conquista di una pace duratura, ma gli antichi scontri tra Stati sarebbero
semplicemente sostituiti dagli scontri tra civiltà. Nella sua visione, le
motivazioni dei conflitti non sono di matrice politica o economica, bensì
culturale. L’autore statunitense sostiene la superiorità dei fattori umani su
quelli fisici, e nella sua teoria illustra come le dinamiche geopolitiche a
cavallo tra il XX e il XXI Secolo sfocino in uno scontro fra civiltà.

10
Geografia economico-politica Modulo 2° - Geopolitica

Tale scontro è basato su una serie di motivazioni. La prima riguarda le


differenze esistenti tra le civiltà, caratteri fondamentale e irriducibili, a cui
nessuno intende rinunciare. Secondo Huntington le civiltà sono state una delle
principali cause dei conflitti del passato ma, in futuro, la loro incidenza su
eventuali crisi sarà ancora maggiore. In secondo luogo, la tecnologia e
l’informazione, avendo ridotto le distanze, hanno reso anche più difficile la
convivenza tra civiltà diverse e hanno contribuito a veicolare un’immagine
della ricchezza occidentale che offende i poveri e genera sentimenti di rivalsa.
In queste dinamiche spesso la religione assume un valore elevato, portando a
delle ripercussioni anche sul piano politico. A questo stato di cose, si aggiunge
la perdita della forza di attrazione dell’Occidente. Oltre a quella occidentale,
Huntington individua altre sei civiltà: confuciana, giapponese, musulmana,
induista, slava-ortodossa, latino-americana. Nella sua visione, tra queste,
l’unica minaccia al predominio dell’Occidente è rappresentata da una
possibile alleanza fra la civiltà confuciana e quella islamica, alleanza peraltro
non verificatasi.

E’ evidente come le tesi di Huntington siano opposte a quelle di Fukuyama, e


per alcuni commentatori, più vicine alla realtà dei fatti. Come visto per
Fukuyama, però, anche il punto di vista di Huntington è focalizzato sul futuro
dell’Occidente e costituisce una vera e propria chiamata all’alleanza tra gli
Stati Uniti e i suoi possibili alleati contro civiltà ritenute potenzialmente ostili,
come quella mussulmana. Dovrebbe essere evidente che l’intero pensiero di
Huntington si basa sul concetto poco chiaro, sostanzialmente indefinibile e
sicuramente non collocabile all’interno di specifiche aree geografiche, quale
quello di «civiltà». Risulta, infatti, impossibile definire cosa sia esattamente
una «civiltà», pretenzioso classificarla con delle caratteristiche ben
determinate e stabili nel tempo e nello spazio, e ingannevole non considerare
che all’interno di queste presunte «civiltà» non ci siano molteplici differenze e
anche contrapposizioni che, in definitiva, rendono ambigua e rischiosa questa
idea di riordino mondiale basato, appunto, sulle «civiltà». Come detto, però,
l’apparente concordanza con alcuni episodi della recente politica
internazionale ha fatto si che la teoria di Huntington sia stata presa come
paradigma esplicativo per confermare l’erronea convinzione
dell’inconciliabilità tra «civiltà», pur quando queste non sono definibili,
soprattutto se basate sul banale attraversamento di una frontiera tra un’area
geografica e l’altra. L’ossessiva ripetizione di questa impostazione da parte
dei media ha comportato, comunque, che la teoria si “auto-realizzasse”.

Il terzo autore esaminato è il polacco Zbigniew Brzezinski che opera una


reinterpretazione delle teorie di Mackinder. Per illustrare il suo ragionamento,
Brezinzki parte da un dato di fatto rappresentato dall’eccezionalità storica

11
Geografia economico-politica Modulo 2° - Geopolitica

della supremazia americana nel mondo e della necessità di mantenere tale


supremazia non attraverso la coercizione ma tramite la forza di attrazione.
Affinché gli Stati Uniti possano continuare a detenere un ruolo di primo piano
nel mondo devono volgere la propria attenzione verso l’Eurasia, ovvero nella
regione in cui Mackinder aveva posto il suo Heartland. Il geopolitologo di
origine polacca delinea il profilo dell’area euroasiatica individuando cinque
attori geostrategici (Francia, Germania, Russia, Giappone, Cina) ovvero
cinque Stati con i mezzi e le capacità di portare la propria influenza anche al
di fuori dei propri territori, e cinque perni geostrategici (Ucraina, Azerbaigian,
Turchia, Iran e Corea del Sud) che rappresentano zone chiave, ma vulnerabili,
che vanno protette dagli USA contro gli attori geostrategici.

In quest’ottica gli Stati Uniti devono muoversi innanzitutto scongiurando la


rottura dell’asse franco-tedesco che, grazie al possibile contributo di Ucraina e
Polonia, potrà fungere da contrappeso alle mire della Russia. Per quest’ultima,
ormai in crisi con la fine della guerra fredda, Brzezinski non vede altra
soluzione se non quella di una sua europeizzazione, con il relativo passaggio
da impero a Stato nazionale. Ancora, lo studioso auspica la continuazione dei
rapporti con la Turchia e un riavvicinamento americano all’Iran che dovrebbe
tornare ad essere il primo alleato nell’area del Golfo. Per quanto riguarda gli
Stati dell’estremo Oriente, se con il Giappone è auspicata una maggiore
collaborazione, il confronto con la Cina è considerato inevitabile. Il pensiero
di Brzezinski rappresenta un interessante tentativo da parte degli Stati Uniti di
ripensare il mondo dopo la Guerra Fredda e, in particolare, di comprendere
come influenzare le sorti del continente eurasiatico che, da Mackinder in poi,
continua ad essere considerato il centro del mondo.

Di recente si sono imposti all’interno del dibattito accademico e mediatico due


nuovi filoni della Geopolitica: la Geopolitica critica e l’Antigeopolitica. La
Geopolitica critica è così definita perché mette in discussione le tesi
tradizionali degli autori classici, sottolineando i limiti della Geopolitica, che
viene descritta non come una scienza oggettiva basata sull’osservazione di dati
empirici ma come il risultato del punto di vista dei geopolitici, che
suddividevano il mondo secondo le proprie convinzioni e aspirazioni, mossi,
in gran parte, da un forte sentimento nazionale. Ad esempio, secondo gli
esponenti della Geopolitica critica, la teoria dell’Heartland di Mackinder non
descrive il mondo così com’è, ma si basa sulla creazione di un mondo
inventato, organizzato in un’area centrale e in due mezzelune, annullando le
differenze storiche e fisiche che caratterizzando le diverse regioni. Pertanto, le
idee della Geopolitica non sono considerate come rappresentazioni neutrali del
mondo, ma risultano legate a dinamiche fondate su interessi e volontà di parte.

12
Geografia economico-politica Modulo 2° - Geopolitica

Per Ó Tuathail, uno dei massimi rappresentati del filone critico, la


Geopolitica classica ha eliminato, per affermarsi, sia la geografia sia la
politica. Nel primo caso, la geografia scompare perché le teorie geopolitiche
sono basate su una semplificazione del mondo e della superficie terrestre, che
vengono riorganizzate in poche aree omogenee, senza tener conto della loro
storia e della loro geografia. L’opera di depoliticizzazione dei processi politici
viene, invece, attuata presentando i conflitti tra Stati non come il frutto di
processi economici e sociali ma come un processo naturale, inevitabile,
dovuto alla loro stessa natura. In questa visione, la Geopolitica ignora
qualsiasi volontà di scelta e non considera la componenti legate alle passioni
umane.

È bene notare che la Geopolitica critica non si concentra esclusivamente sulle


idee classiche ma individua e analizza tre ambiti più recenti della Geopolitica:
Geopolitica formale, Geopolitica pratica e Geopolitica popolare. La
Geopolitica formale si ispira ai concetti della Geopolitica classica presentati in
precedenza e analizza il modo in cui questi sono riproposti in tempi più
recenti. Nello specifico, gli esempi più recenti di geopolitica formale vengono
definiti come Geografia neoclassica, in quanto si distanziano da quella
classica poiché abbandonano l’idea dello Stato come un organismo in
movimento dal momento che i suoi confini, oggi, sono molto più rigidi. A
parte questa importante differenza, i temi trattati sono più o meno gli stessi e
lo Stato è sempre considerato come un individuo per il quale è necessario
elaborare delle politiche che riguardino il suo interesse.

Esiste anche la Geopolitica pratica a cui appartengono le idee geopolitiche


utilizzate non dagli accademici o dagli studiosi, bensì dai politici per la
propria attività di governo o per la politica estera (Painter, 2009). Un esempio
di geopolitica pratica può essere considerato il discorso del presidente
americano George W. Bush che nel 2002 definì Iran, Iraq e Corea del Nord
come l’asse del male. Bush si rifà alla geopolitica offrendo una visione
semplificata del mondo, individuando uno schieramento omogeneo di Paesi
«cattivi», senza tener conto delle differenze storiche e geografiche esistenti tra
gli Stati citati.

La Geopolitica popolare fa riferimento al connubio tra idee geopolitiche,


cultura popolare e al modo in cui le prime sono comunicate dallo Stato ai
cittadini attraverso: cinema, cartoni animati, libri, riviste. In questo modo, la
Geopolitica cessa di essere una materia elitaria e viene trasmessa a un
pubblico più ampio attraverso la pratica quotidiana. Un esempio interessante è
rappresentato dal lavoro del geografo politico Jason Dittmer che si è occupato
della comunicazione del senso d’identità e della sicurezza nazionale degli Stati

13
Geografia economico-politica Modulo 2° - Geopolitica

Uniti dopo l’11 settembre tramite i fumetti di Capitan America (Giordano,


2010).

Tra le altre correnti si noti l’Antigeopolitica, il cui nome trae origine dal
concetto di antipolitica utilizzato da Konrad, dissidente ungherese, per
descrivere l’attività politica “di coloro che non vogliono essere politici e
rifiutano di condividere il potere”. La prospettiva antigeopolitica prende
spunto dalle teorie femministe e da questo punto di partenza si muove per
evidenziare i limiti sia della Geopolitica classica sia della Geopolitica critica.
Innanzitutto si contesta il carattere prettamente maschile di entrambe le
discipline.

I filoni di studio dell’antigeopolitica sono rappresentati dall’attività di quegli


individui e di quelle istituzioni che hanno tentato di resistere alle visioni
egemoniche prevalenti, proponendo campi alternativi di produzione della
conoscenza. Protagonisti di questa resistenza sono i membri della società
civile (movimenti sociali, intellettuali, giornalisti, terroristi), individui che,
seppur in modo diverso, si oppongono, con un certo attivismo, al mainstream
in ambito geopolitico.

14
Geografia economico-politica Modulo 2° - Geopolitica

BIBLIOGRAFIA

Dittmer J., “Captain America’s Empire: Reflections on Identity, Popular Culture,


and Post- 9/11 Geopolitics”, Annals of the Association of American
Geographers, vol. 95, n° 3, pp. 626-643, 2005.

Giordano A., Geografia economico-politica, Dispensa, Unicusano, 2010.

Jean C., Manuale di Geopolitica, Bari, Editori Laterza, 2003.

Pagnini M., “Introduzione alla storia della Geografia politica”, in Corna Pellegrini
G., Dell’Agnese E., Manuale di Geografia politica, Roma, La Nuova Italia
Scientifica, pp.229-264, 1995.

Painter J., Jeffrey A., Geografia politica, Torino, UTET, 2011.

15
Corso di Laurea in Scienze della Formazione

INSEGNAMENTO DI
GEOGRAFIA ECONOMICO POLITICA

Modulo 3° - Evoluzione della Geoeconomia

A cura di

Giuseppe Terranova
Geografia economico politica Modulo 3° - Evoluzione della Geoeconomia

SOMMARIO MODULO 3°

Geoeconomia

3.1. Introduzione
3.2. Storia del pensiero
3.3. Contenuti

1
Geografia economico politica Modulo 3° - Evoluzione della Geoeconomia

3.1. Introduzione

Le attività economiche e lo sviluppo regionale sono i due fattori su cui si


concentra la Geografia economica. Nel primo caso, la materia cerca di
comprendere l’organizzazione dell’economia nello spazio, mentre nel secondo
tenta di indagare le dinamiche di sviluppo economico regionale, partendo
proprio dall’analisi della distribuzione geografica delle attività economiche.

Lo sviluppo regionale che, come detto, si basa sulla distribuzione delle attività
economiche, dipende sia da elementi interni sia da elementi esterni. Del primo
gruppo fanno parte le caratteristiche degli impianti produttivi e le strategie
delle singole imprese. Nel secondo gruppo sono ricomprese, invece, le
condizioni dei mercati in cui le aziende operano. Ma mentre le scienze
economiche vedono queste condizioni come “esterne” ignorando la
complessità dei contesti geografici nei quali si inseriscono, questi ultimi sono,
invece, di primaria importanza per la Geografia economica.

La Geografia economica studia due tipologie di relazioni. La prima riguarda le


relazioni orizzontali (dette anche interazioni spaziali): si tratta delle relazioni
geografico-spaziali che intercorrono tra i soggetti e tra le sedi di tali soggetti.
Nello specifico si parla di relazioni di scambio e di circolazione che
riguardano: merci, persone, denaro, informazioni, servizi (Giordano, 2010).

La seconda riguarda le relazioni verticali (chiamate anche ecologiche), le quali


fanno riferimento al rapporto esistente tra le singole attività economiche e le
caratteristiche dei luoghi in cui queste si inseriscono come: il tipo di clima, la
presenza di risorse naturali, i caratteri demografici e storico-culturali della
popolazione. La Geografia economica analizza tali tipologie di relazioni
contemporaneamente e non in maniera separata (Dematteis, 2010).

Le relazioni orizzontali e verticali, assieme ai soggetti e agli oggetti che esse


legano, costituiscono il territorio. Per organizzazione territoriale si intende
l’ordine complessivo che le relazioni orizzontali e verticali assumono in un
dato territorio. Spesso si tende a considerare tale organizzazione
esclusivamente legata alle relazioni orizzontali. Ma si tratta di una visione
troppo semplicistica e astratta, in quanto risulta impossibile ignorare il
contributo che gli elementi e le caratteristiche ambientali forniscono nella
localizzazione di un’attività economica, basti pensare a un porto o a una
centrale idroelettrica. L’organizzazione territoriale non può semplicemente
obbedire a criteri economico-funzionali o a dettami politici, l’elemento
ambientale non è trascurabile.
2
Geografia economico politica Modulo 3° - Evoluzione della Geoeconomia

Nello studio delle condizioni territoriali che incidono sulle attività


economiche, la Geografia economica effettua un’analisi sulle diverse scale (da
quella locale a quella globale) dell’organizzazione territoriale, tenendo in
considerazione tre ordini di fattori: 1) le condizioni naturali dei vari luoghi; 2)
le condizioni storiche, quindi ereditate dal passato, siano esse materiali,
sociali, culturali o economiche; 3) i diversi livelli dell’organizzazione attuale
(economico-sociale, politica, amministrativa).

Se le prime due condizioni possono essere considerate oggettive o comunque


date per acquisite, gli elementi dell’organizzazione attuale dipendono
principalmente dalle scelte effettuate dai vari soggetti. Non esiste una
organizzazione territoriale oggettiva per una regione o un paese, essa
rappresenta il risultato di scelte soggettive, mutando le quali è possibile
modificare le forme dell’organizzazione economica dello spazio (Dematteis,
2010).

Le decisioni che è possibile prendere in un determinato territorio, in una data


situazione storica e politica, sono molteplici ma non infinite. Esse dipendono
comunque da una serie di vincoli rappresentati dalla natura ma anche dalla
storia di ogni territorio.

La localizzazione delle attività economiche rappresenta uno dei temi principali


della Geografia economica. Nello specifico, l’obiettivo primario della teoria
della localizzazione è innanzitutto quello di stabilire sulla base di quali criteri
le attività economiche si distribuiscono nello spazio geografico e dove
decidono di ubicare le proprie unità produttive, commerciali e di consumo. In
questo modo è possibile per le imprese, per esempio, scegliere una
localizzazione ottimale, ovvero decidere di insediarsi in quel luogo che
consente loro di minimizzare i costi di trasporto delle merci dal luogo di
produzione, al mercato, fino al luogo di consumo. Lo studio della
localizzazione delle attività economiche ha un duplice fine. Da un lato,
permette di supportare le scelte localizzative, dall’altro, tale studio consente di
analizzare le conseguenze che le scelte localizzative hanno per le città o le
regioni.

La Geografia economica si occupa, dunque, di analizzare e spiegare la


localizzazione della produzione, della distribuzione e del consumo partendo da
modelli esplicativi di tipo economico che assumono rilievo geografico per
l’attenzione riservata al fattore distanza e ai luoghi nei quali si attuano i
processi produttivi e distributivi. I geografi studiano i luoghi, le reti, i flussi e
la realtà del territorio per ricercare, in chiave comparativa, altre realtà simili.

3
Geografia economico politica Modulo 3° - Evoluzione della Geoeconomia

Lo studio della realtà attraverso i modelli si configura diversamente: poiché il


territorio è troppo complesso per essere descritto nel suo insieme, si procede
ad una semplificazione selezionando poche variabili. In questo modo è
possibile analizzare una variabile alla volta e determinarne l’effetto e
l’importanza.

Di seguito saranno presentate le teorie classiche della localizzazione alla base


delle quali vi è l’idea di ricondurre l’organizzazione spaziale dell’economia
alle decisioni di agenti individuali razionali, per poi definire delle regole di
distribuzione legate alle attività, alle risorse, alle ricchezze e alle persone.
Queste teorie tendono a dare maggior peso alla spiegazione dei fenomeni
piuttosto che alla loro reale descrizione, con il rischio di arrivare a formulare
modelli troppo astratti che non tengono conto di quegli elementi non
economici legati all’organizzazione dello spazio geografico (Bignante, 2014).

Da queste teorie localizzative sono stati elaborati dei modelli generali che
spiegano il funzionamento dei processi di localizzazione e di concentrazione
spaziale. Tra i tanti possibili modelli semplificativi della realtà alcuni
rappresentano pietre miliari della conoscenza nel campo della Geografia
economica: i modelli semplificati nel campo dell’attività primaria (von
Thünen), dell’attività secondaria (Weber) e dell’attività terziaria (Christaller).
Questi modelli fanno parte di scuole di pensiero lontane nel tempo che portano
dalla Geografia qualitativa alla Geografia quantitativa.

Partiamo dal primo modello elaborato da Johann Heinrich von Thünen


(1783-1850) nel 1826, detto modello dello Stato isolato. Si tratta di un
modello formale e quantitativo di localizzazione delle attività agricole che
riguarda la distribuzione di diverse varietà di colture agricole attorno a un
centro urbano. Come premessa al modello, Von Thünen individua alcune leggi
generali relative all’organizzazione degli spazi agricoli e riconduce la
distribuzione di tali spazi esclusivamente alle scelte razionali degli agenti
economici che hanno come obiettivo quello di massimizzare il proprio profitto
individuale. In tale visione, si esclude qualsiasi elemento esterno.

L’autore immagina come spazio uno Stato isolato, costituito da una sola città
situata al centro di una pianura, che rappresenta lo spazio di produzione. Tale
spazio presenta una serie di caratteristiche: a) è perfettamente percorribile in
ogni direzione; b) è fertile in maniera uniforme; c) poiché circondato da
un’area non coltivabile, non è espandibile. Le altre condizioni di partenza
sono costituite dalla città come unico mercato di sbocco, da costi di trasporto
unitari e costanti nello spazio per tutte le produzioni e dalla domanda di
prodotti illimitata.

4
Geografia economico politica Modulo 3° - Evoluzione della Geoeconomia

In questo contesto l’obiettivo primario dei vari coltivatori è quello di stabilirsi


il più possibile vicino al centro urbano per minimizzare i costi di trasporto
delle proprie merci e, al contempo, per massimizzare la loro rendita di
posizione o di localizzazione, che è determinata dalla differenza tra i ricavi
della vendita dei prodotti agricoli e i costi totali (costi di traporto sommati ai
costi di produzione, quindi di coltivazione del suolo). L’esigenza di
localizzarsi il più vicino al centro urbano porta a una competizione per
l’acquisto dei terreni più prossimi alla città, che avrà come effetto quello di far
aumentare i costi dei terreni, man mano che ci si avvicina al centro. In un
simile contesto, i terreni più vicini al centro saranno occupati da quelle colture
che assicurano una maggiore rendita, nello specifico, quelle orticole seguite
nelle fasce successive da: pascolo intensivo, terreni arabili e pascolo estensivo.

Il costo del trasporto è l’elemento importante per stabilire il prezzo dei beni
poiché è l’unico elemento di differenziazione dei costi. E’ quindi la distanza
dal centro a determinare la convenienza nel localizzare i vari prodotti nelle
aree attorno alla città e, dato l’assunto dell’uguale percorribilità, le varie
produzioni si localizzano su anelli concentrici. Alla periferia si localizzano i
prodotti che per il loro basso costo di produzione possono sopportare la
maggiore spesa di trasporto; al centro i prodotti di maggior valore o quelli che
devono essere consumati freschi.

È bene notare che Von Thünen complica il suo modello tenendo anche conto
di possibili variazioni di clima e studia, in particolare, gli effetti della presenza
di un corso d’acqua navigabile che fa diminuire le spese di trasporto e porta a
una deformazione conseguente degli anelli che diventano fasce parallele al
fiume. Successivamente von Thünen tiene conto dell’innovazione
rappresentata dalle ferrovie che consente aumenti di velocità e di capacità nei
trasporti. In uno sforzo di adeguarsi alla realtà viene anche studiata la
disposizione e la distribuzione delle città nello Stato isolato, prima dottrina
economica sulla localizzazione urbana.

Pur essendo un modello che risale a quasi duecento anni fa, quello di Von
Thünen risulta ancora valido, anche se con alcune limitazioni. Oggi, infatti,
con le mutate logiche di trasporto, la possibilità di refrigerazione, il diverso
uso del legname, la teoria trova applicazioni soprattutto nei paesi in via di
sviluppo oppure a scala locale in aree marginali ad economia di sussistenza.
Tuttavia, il suo impianto teorico, il concetto di distanza e di rendita di
posizione continuano a rappresentare concetti validi ancora oggi.

5
Geografia economico politica Modulo 3° - Evoluzione della Geoeconomia

Il secondo modello riguarda la localizzazione nel settore secondario e si deve


ad Alfred Weber (1868-1958), un economista tedesco i cui studi sono stati
fondamentali sia per l’Economia sia per lo sviluppo della Geografia
economica moderna.

Il modello analizza i cambiamenti sociali nella civilizzazione occidentale


come una confluenza tra civilizzazione, processi sociali e cultura. La
localizzazione delle attività secondarie è, dunque, di capitale importanza sia
dal punto di vista economico sia da quello sociale. La localizzazione e il
fattore distanza giocano all’inizio del ’900, a processi industriali avviati, un
ruolo fondamentale.

Weber presta attenzione alla produzione delle materie prime localizzate in


punti precisi del territorio, materie da lui definite ubicate in contrapposizione
alle materie prime ubiquitarie, cioè di facile reperibilità sul territorio. La rarità
delle materie ubicate implica costi per il loro trasporto, riportandoci così alla
logica del modello di von Thünen. Anche Weber utilizza, come von Thünen,
un ragionamento deduttivo partendo da un’ipotesi semplificata della realtà per
dedurne gli effetti logici e per introdurre, in un secondo momento, altre
variabili che analizza per ricavarne, appunto, delle deduzioni. E’ un
ragionamento diverso da quello del geografo che è più descrittivo e induttivo
piuttosto che deduttivo. Il geografo osserva la realtà e la compara tra luoghi e
tempi storici diversi, individuando i vari fattori della localizzazione. Tuttavia i
due ragionamenti portano alla conoscenza della realtà complessa e sono tra
loro compatibili.

Weber si pone il problema di trovare il luogo ottimale, un punto nello spazio


nel quale localizzare l’attività industriale compatibilmente con
l’ottimizzazione dei costi. Weber inizia il suo modello considerando uniformi
il saggio del capitale, il costo della lavorazione, i salari, i costi fiscali, il costo
del terreno su cui l’attività si ubicherà, il costo unitario del trasporto. La sua
indagine è volta a identificare il luogo di localizzazione dell’industria essendo
distinti il luogo del consumo e i luoghi dei materiali. La sua è una risposta
economica concepita in funzione del costo di trasporto: la localizzazione
avviene nel luogo che rende minimi i costi del trasporto dei materiali dal
luogo di estrazione o produzione e del prodotto dal luogo di localizzazione
industriale al luogo di consumo, cioè al mercato.

Anche il modello weberiano, come quello di von Thünen, viene poi


complicato dall’introduzione di altre variabili: quali la diversità nello spazio
dei costi di trasporto o il risparmio per agglomerazione, la volontà

6
Geografia economico politica Modulo 3° - Evoluzione della Geoeconomia

dell’imprenditore in merito ad una localizzazione e, oggi, anche le


problematiche ambientali.

Walter Christaller (1893-1969) è, invece, considerato il principale


sostenitore della teoria di localizzazione del settore terziario. È un geografo
tedesco non accademico, un outsider che lavora nel campo della
pianificazione territoriale organizzata da Himmler e relativa ai territori
orientali conquistati dalla Germania. Egli si occupa, in particolare, di Berlino e
della pianificazione polacca. La sua tesi di laurea all’Università di Erlangen
riguarda la teoria delle località centrali nella Germania meridionale e viene
completata nel 1933. Dopo la guerra è attivo membro del partito Comunista: è
questa, e la precedente collaborazione con il regime nazista, la ragione di un
forte ostracismo americano alle sue teorie che diventano note a partire dalla
incompleta traduzione in inglese della sua tesi pubblicata solo nel 1966.

Fondamentale nella sua teoria è il concetto di centralità, che rappresenta


l’importanza relativa di un centro, arguendo che la centralità deriva dal
compimento di funzioni centrali. Con il concetto di “località centrali” l’autore
tedesco cerca di rispondere ai problemi relativi all’assetto degli insediamenti
urbani piuttosto che individuare quei fattori che influiscono sulla distribuzione
territoriale dei servizi (Bencardino, Prezioso, 2006).

Il modello di Christaller si concentra, dunque, su quelle leggi che governano la


distribuzione degli insediamenti e delle città all’interno di uno spazio
geografico, al fine di accertare se tale distribuzione risponde a una logica ben
definita o se è semplicemente frutto del caso. Il modello dimostra che la
distribuzione e la concentrazione degli insediamenti sul territorio sono
fortemente eterogenee e rispondono a una logica economica generale, che
opera in maniera uniforme sul territorio. Nello specifico, la localizzazione
delle città viene considerata una conseguenza del comportamento dei
consumatori e dei produttori di servizi.

Come gli altri modelli già descritti, anche questo si basa su una serie di ipotesi
di partenza. Innanzitutto, lo spazio è rappresentato da una pianura omogenea
percorribile in tutte le direzioni con costi di trasporto proporzionali alle
distanze e a carico del consumatore. La popolazione è distribuita in maniera
uniforme e gli agenti economici hanno un comportamento razionale, per cui i
consumatori tendono a ridurre il più possibile i costi di trasporto, acquistando
beni e servizi nelle località più vicine; i fornitori mirano a massimizzare i
profitti e per farlo scelgono di localizzarsi sul territorio in modo tale da
disporre del mercato più vasto possibile, ponendosi il più lontano l’uno
dall’altro. Tutte le zone dell’ipotetica pianura devono essere servite da una

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Geografia economico politica Modulo 3° - Evoluzione della Geoeconomia

località centrale che fornisce beni, servizi e funzioni amministrative a


beneficio del territorio circostante. Infine, vi sono economie di scala nella
produzione di alcuni beni detti centrali, pertanto un aumento della produzione
comporta una diminuzione del costo medio unitario.

Il costo del trasporto è il fattore che influenza la determinazione del prezzo


finale di beni e servizi, per cui la quantità di servizi venduti risulta
inversamente proporzionale alle distanze che il consumatore deve percorrere
per procurarsi il bene. In base a tale considerazione, il numero di acquirenti è
massimo in prossimità del centro del servizio e diminuisce man mano che ci si
allontana, sino ad annullarsi. La distanza tra il centro e il punto in cui le
vendite sono nulle si chiama portata ed equivale all’ampiezza massima
dell’area di mercato, intesa come la distanza massima che i consumatori sono
disposti a percorrere per godere di un particolare servizio; oppure come quella
distanza al di là della quale i costi di trasporto sono talmente alti da non
consentire profitti al produttore. Al concetto di portata fa da contraltare quello
di soglia, che indica la quantità minima di clienti che consente al produttore di
ottenere ricavi superiori ai costi fissi di produzione (Giordano, 2010).

La struttura delle aree di mercato risulta avere una forma circolare, ma ciò
comporta la presenza di spazi vuoti, non serviti. Per colmare tali vuoti e
soddisfare uno degli assunti di partenza (tutti gli spazi sono serviti), Christaller
ipotizza una particolare tendenza nella distribuzione dei servizi, ovvero quella
di coprire il mercato il più possibile. In questo modo, le varie aree di mercato
finiranno con il sovrapporsi e con lo spartirsi equamente gli spazi residui. Le
aree di mercato diventeranno degli esagoni e, di conseguenza, il territorio
assumerà la forma di un alveare composto da tante celle esagonali che
delimitano le aree di mercato. Tali aree sono organizzate gerarchicamente in
base ai servizi forniti. Al vertice della gerarchia urbana vi sarà il centro di
livello più alto, che offre molte funzioni specializzate oltre a quelle ordinarie;
alla base, invece, si troverà un gran numero di piccole località centrali che
offrono servizi più banali e servono piccoli hinterland rurali.

I servizi centralizzati, presi in considerazione dal Christaller, riguardano


l’amministrazione, la cultura, la sanità, l’organizzazione della vita economica
e sociale, il commercio, la finanza, l’organizzazione del mercato del lavoro e
quella del traffico. Egli elenca i servizi specifici e le istituzioni di ogni
categoria, classificandoli in minori, medi e superiori. Per ottenere un’adeguata
misura della centralità, alla ricerca di un accostamento statistico, il Christaller
prende come base di valutazione il numero dei telefoni e, attraverso questa
valutazione, fa emergere una graduazione dei centri, della loro popolazione e
del loro raggio di attrazione.

8
Geografia economico politica Modulo 3° - Evoluzione della Geoeconomia

Il rifornimento di beni e servizi non è, però, il solo fattore che condiziona il


numero, la grandezza, la distanza e la distribuzione delle località centrali. In
primo luogo, sono le vie di comunicazione che danno forma al sistema
normale delle località centrali o, addirittura, formano esse stesse i sistemi
secondo proprie leggi. Le comunicazioni sono fattori che agiscono
linearmente: è all’azione di un principio di circolazione da ascriversi il fatto
che, su un’importante arteria di comunicazione, numerose località centrali si
dispongono a piccole distanze una rispetto all’altra.

Dagli anni Cinquanta Christaller introdurrà il concetto di località periferiche,


località che segnano una tendenza opposta a quella delle località centrali. Il
servizio da esse offerto, costituito dalle “vacanze”, ha anch’esso un raggio di
mercato variabile in relazione all’intensità e al tipo di domanda. Va detto,
comunque, che Christaller stesso era conscio dei limiti del suo modello sulle
località e del fatto che questo non poteva sostituirsi a un’analisi dei paesaggi
economici reali (Giordano, 2010).

3.2 Storia del pensiero

In questo paragrafo saranno presentate le nuove teorie della Geografia


economica che iniziano a svilupparsi a partire dagli anni Ottanta del XX
Secolo e che caratterizzano, tuttora, la disciplina. Sarà illustrato il filone della
New Economic Geography e, nello specifico, sarà analizzato il modello
centro-periferia elaborato da Krugman. Successivamente verrà proposta una
panoramica relativa alla Geoeconomia.

Nell’arco di tempo preso in esame vengono realizzati alcuni studi che


sostengono come la creazione di centri di agglomerazione e la loro dinamica
di sviluppo inducano un aumento dei redditi individuali. Da tali studi
incentrati sull’analisi delle dinamiche economiche derivanti dall’utilizzo delle
teorie localizzative sono nati, grazie al decisivo contributo di Paul Krugman,
i c.d. modelli della New Economic Geography.

Non si possono, tuttavia, descrivere questi modelli, specie quello centro-


periferie di Krugman, senza spiegare bene cosa si intende con New Economic
Geography. Questa espressione indica un filone di studi che pone al centro
della sua indagine le relazioni funzionali che si svolgono su un determinato
territorio segnando, in tal senso, un forte distacco dalle teorie del
determinismo e del possibilismo. Le teorie della New Economic Geography
coniugano gli aspetti della localizzazione e quelli dello sviluppo delle attività
produttive con lo scopo di spiegare la concentrazione o le migrazioni delle

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Geografia economico politica Modulo 3° - Evoluzione della Geoeconomia

attività economiche e dei fattori produttivi verso o da determinate


localizzazioni territoriali. A differenza delle correnti che avevano in
precedenza caratterizzato la Geografia economica, la Nuova Geografia
Economica ricorre a un metodo unicamente deduttivo ed è incentrata
sull’utilizzo di teorie e modelli matematici.

Questo cambio di prospettiva consente di superare quei problemi che avevano


ostacolato l’integrazione della Geografia economica con la teoria economica,
ovvero l’incapacità di fornire una spiegazione formalizzata del funzionamento
dei meccanismi di agglomerazione spaziale. Infatti, la teoria economica si
fonda sul ricorso a spiegazioni riduttive e astratte, che possono essere
formalizzate attraverso delle equazioni matematiche. Krugman riesce a
raccordare Geografia economica e Teoria economica attraverso lo studio di
alcune economie di localizzazione. Più precisamente, l’economista americano
riesce a fornire una descrizione formale e matematica dei meccanismi di
agglomerazione spaziale, attraverso l’utilizzo di pochi parametri,
avvicinandosi così ai metodi della Teoria economica (Bencardino, Prezioso,
2006).

Il modello core-periphery di Krugman prevede due ipotesi iniziali.


Innanzitutto, assume l’esistenza di due settori, quello della produzione
agricola e quello della produzione manifatturiera. La distribuzione spaziale
delle produzioni agricole è dovuta a fattori esogeni come la posizione dei
terreni fertili. Inoltre, le imprese agricole agiscono in un mercato di
concorrenza perfetta con prodotti perfettamente omogenei, assenza di profitti e
immobilità dei fattori di produzione. Le imprese manifatturiere agiscono,
invece, in un mercato di concorrenza monopolistica e producono beni non
identici, cioè producono diverse varietà dello stesso bene e hanno rendimenti
di scala crescenti: possono cioè aumentare la loro produzione, al contrario di
quanto accade nel settore agricolo.

La seconda ipotesi di partenza prevede l’esistenza di due sole regioni (A e B).


Nel settore agricolo, i produttori servono esclusivamente il proprio mercato
locale, e ciò consente di considerare nulli i costi di trasporto. Nel settore
manifatturiero c’è del commercio tra le due regioni, perché ciascuna impresa
produce una varietà diversa del medesimo bene. In questo caso, i costi di
trasporto sono influenti poiché riducono l’entità potenziale del commercio, in
quanto i consumatori della regione B dovranno pagare di più i prodotti
provenienti dalla regione A. Inoltre, in questo settore, i fattori di produzione
sono mobili quindi, nel caso in cui in una delle due regioni si determini un
livello di salari superiore all’altra, i lavoratori migreranno da una regione
all’altra (Giordano, 2010).

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Geografia economico politica Modulo 3° - Evoluzione della Geoeconomia

Se c’è equilibrio, i lavoratori e le imprese si distribuiscono equamente tra le


due regioni. Ma, nel caso in cui nella regione A si determinassero dei
sovrapprofitti, ad esempio perché la varietà di beni prodotti in tale regione
riscuote maggiore successo, alcuni lavoratori della regione B migrerebbero
verso la regione A. Ciò accade perché i sovrapprofitti si trasformano nel corso
del tempo in aumenti dei livelli dei salari. La migrazione dei lavoratori dalla
regione B alla regione A porta, in quest’ultima, a tre conseguenze: un aumento
della domanda, la localizzazione di altre imprese e un processo di
agglomerazione. Il modello centro-periferia mostra come gli squilibri
economico-geografici e i processi di agglomerazione sono possibili anche in
una situazione di equilibrio macro-economico generale.

La Geoeconomia rappresenta un filone di indagine sviluppatosi sulla scia della


Geopolitica. Il suo oggetto di studio non è ancora ben definito. Le finalità
della disciplina riguardano essenzialmente l’inserimento delle scelte
economiche di un paese all’interno di una strategia che tenga in
considerazione le condizioni generali del mercato. In particolare, la
Geoeconomia mira alla definizione di una strategia economica nazionale che
prenda in esame sia elementi interni, come le dotazioni energetiche, sia di
elementi esterni, in questo caso le strategie economico-politiche avviate dagli
altri paesi.

Al fine di comprendere i caratteri di questo orientamento, è utile introdurre la


figura dell’economista, politologo e esperto di strategia militare statunitense
Edward Luttwak, uno dei maggiori esponenti di questo filone che, nelle sue
pubblicazioni, ha spesso posto la Geoeconomia in contrapposizione alla
Geopolitica ed ha esaltato i concetti di mercantilismo e guerra economica.

Secondo Luttwak, dopo la fine della Guerra Fredda, la forza militare è


diventata marginale sia nelle relazioni tra Nord e Sud del mondo che nei
rapporti tra i poli geoeconomici e tra gli Stati industrializzati. Pertanto la
competizione tra Stati non è più fondata sulla minaccia del ricorso a strumenti
militari (Luttwak considera le conseguenze della guerra militare troppo
distruttive) ma sull’utilizzo di strumenti economici. E’ la potenza economica a
determinare la gerarchia tra gli Stati e la loro possibilità di azione in campo
internazionale. In questa visione, la Geoeconomia sostituisce la Geopolitica
anche se in realtà si potrebbe considerare la prima come uno degli strumenti
della seconda.

Luttwak è convinto che le finalità della Geoeconomia vanno verso la


creazione della ricchezza e la conquista del benessere da parte dei cittadini,

11
Geografia economico politica Modulo 3° - Evoluzione della Geoeconomia

condizioni che permettono a uno Stato di prevalere su un altro. Per ottenere


tale effetto, non si ricorre più a guerre militari ma al c.d. conflitto
geoeconomico che sostituisce la tradizionale competizione economica.

Se quest’ultima aveva come scopo quello di indebolire l’economia di un


avversario, il conflitto geoeconomico mira, invece, a rafforzare la
competitività della propria economia, investendo nelle competenze di base che
consentono di aumentare la propria produttività (educazione, ricerca e
sviluppo, infrastrutture) e, quando possibile, violando le regole della libera
concorrenza e del libero mercato. In tal caso, uno Stato può decidere di fissare
unilateralmente regole vantaggiose per la propria posizione e imporle agli altri
paesi, ma in maniera indiretta, al fine di evitare reazioni premature. In questa
logica, appare evidente che il danneggiamento dell’avversario sia un effetto
collaterale e non un obiettivo della Geoeconomia.

Quando si parla di squilibrio tra Stati e/o aree geografiche è importante


menzionare la teoria centro-periferia di Immanuel Wallerstein. Sebbene non
si tratti di una teoria propriamente moderna, la visione di Wallerstein è utile in
quanto consente di comprendere come, secondo l’autore, l’influenza del
capitalismo su quello che egli stesso definisce sistema-mondo abbia
comportato la suddivisione degli Stati in tre spazialità differenti, in base al
loro grado di sviluppo: centro, periferia e semi-periferia. Il centro del mondo
sarebbe occupato da poco meno di una trentina di paesi a capitalismo avanzato
(le cosiddette economie avanzate, nella dizione della Banca Mondiale),
gravitante intorno a un nocciolo duro formato dalle maggiori potenze
industriali. Questi paesi sarebbero caratterizzati da governi democratici, salari
elevati, importazioni di materie prime, esportazioni di manufatti, investimenti
elevati e avanzati sistemi di welfare.

Invece la periferia collimerebbe con le economie meno sviluppate dei PVS, sia
in termini di reddito, sia perché privi o con limitate risorse naturali e,
frequentemente, pesantemente indebitati. In ultima istanza si tratta di paesi
con una struttura produttiva poco diversificata, con esportazione di materie
grezze e importazione di manufatti, caratterizzati da tecnologie e processi
produttivi più o meno sorpassati e, comunque, con una forte dipendenza
dall’estero per mercati e finanziamenti. Spesso i governi di questi paesi si
dimostrerebbero non democratici, la popolazione avrebbe salari al di sotto del
livello di sussistenza con una sostanziale assenza di servizi di welfare.

Ci sarebbe una fascia intermedia, la semiperiferia, nella quale confluirebbero


sia i paesi emergenti (escluse le quattro tigri asiatiche, inglobate nelle
economie avanzate), sia numerose economie in transizione che, per risorse

12
Geografia economico politica Modulo 3° - Evoluzione della Geoeconomia

naturali, capacità tecnologiche e organizzazione produttiva, si trovano in fase


di più o meno avanzata integrazione con il «centro».

In realtà si tratta di un modello ritenuto statico e non più adeguato a spiegare i


rapporti di potere economico tra i paesi nella cosiddetta era della
globalizzazione. Grazie, infatti, ai cambiamenti verificatisi negli ultimi trenta
anni nel sistema economico mondiale, la posizione dei paesi cambia molto più
rapidamente che nel passato (dalla periferia al centro, passando per la
semiperiferia, e viceversa) e parecchi paesi presentano caratteristiche
ascrivibili a più categorie del modello centro- periferia, non essendo più così
facilmente inquadrabili temporalmente e spazialmente in maniera stabile in
ognuna di esse.

3.3 Contenuti

L’organizzazione economica territoriale fa riferimento alla forma e all’ordine


assunti da un territorio come conseguenza del rapporto tra relazioni orizzontali
e verticali. L’attuale organizzazione territoriale è il frutto dei vari
condizionamenti che hanno caratterizzato i due tipi di relazioni e delle
interazioni tra condizioni naturali dei luoghi, condizioni materiali, sociali,
culturali ereditate dal passato ed evoluzioni attuali.

Le varie attività economiche modificano e plasmano lo spazio geografico in


cui si inseriscono in base alle proprie esigenze. Ogni settore produttivo genera
una particolare organizzazione economica del territorio. I fattori che
influiscono principalmente sull’organizzazione economica territoriale sono
essenzialmente tre: le evoluzioni tecnologiche settoriali, i trasporti e le
telecomunicazioni. Ognuno di questi fattori ha contribuito a modificare le
varie attività produttive e, di conseguenza, a plasmare il territorio in cui queste
si inseriscono e operano.

Nell’agricoltura, ad esempio, l’introduzione nel tardo Medioevo dell’aratro e


della rotazione delle colture ha permesso una rapida crescita della produzione
agricola. Più recentemente, a partire dal secondo dopoguerra, il ricorso a
fertilizzanti chimici e l’utilizzo di macchinari sempre più efficienti ha
determinato un’altra importante trasformazione del settore.

Pertanto, se in passato i campi coltivati erano localizzati in prossimità di città


o villaggi, e anzi proprio la vicinanza consentiva all’agricoltore di ottenere
vantaggi economici (teoria della localizzazione di Von Thünen) e di
soddisfare i bisogni della popolazione che sempre più si concentrava in quei

13
Geografia economico politica Modulo 3° - Evoluzione della Geoeconomia

centri, oggi, nei paesi del Nord del mondo, si è giunti alla separazione fisica
tra luogo di produzione e luogo di consumo.

Lo stesso vale per il settore industriale: se in passato la localizzazione degli


impianti era strettamente legata alla vicinanza ai giacimenti di materie prime,
oggi, grazie all’abbattimento dei costi di trasporto, anche in questo ambito si
assiste a una separazione fisica tra l’area di estrazione e quella di consumo.

L’evoluzione nel campo dei trasporti, avvenuta negli ultimi trent’anni, ha


consentito di intensificare le relazioni spaziali su scala planetaria,
coinvolgendo aree del pianeta in precedenza più isolate e contribuendo
all’ulteriore sviluppo della c.d. Triade (Nord America, Unione Europea, Asia
orientale). I mezzi e le vie di trasporto sono il tramite attraverso il quale si
realizzano le relazioni tra località, soggetti e imprese insediati in aree diverse.
In quest’ottica, il trasporto rappresenta uno degli elementi essenziali
dell’organizzazione del territorio.

Il terzo fattore d’influenza sull’organizzazione territoriale è rappresentato


dalle telecomunicazioni, il cui ruolo è fondamentale all’interno delle società
moderne caratterizzate sempre più dalla circolazione di informazioni, sotto
forma di dati e notizie, e dallo spostamento non più fisico dei capitali.

Nella società dell’informazione, sia la vita delle persone che l’intero ciclo di
funzionamento dell’impresa sono legati a un sistema di comunicazioni. In tal
senso, le informazioni diventano uno dei fattori di produzione. La necessità di
comunicare in modo sempre più rapido ed efficiente sta producendo una
rivoluzione delle telecomunicazioni che consente di migliorare, sempre di più,
la trasmissione di dati abbattendo le distanze funzionali e portando, assieme
alle innovazioni e all’abbassamento dei costi nei trasporti, alla cosiddetta
compressione spazio-temporale individuata dal geografo David Harvey
(1991).

La seconda parte di questo paragrafo è dedicata alle regioni geografiche, cioè


a quelle porzioni di superficie terrestre costituite da un insieme di luoghi
contigui che presentano alcune caratteristiche comuni o qualche relazione
preferenziale, differenziandosi in modo più o meno netto rispetto ai luoghi
circostanti. Questi ultimi, presentando caratteristiche e connessioni tra loro
diverse, appartengono ad altre regioni.

Pur essendo basate sul riconoscimento di caratteri reali, le regioni sono


comunque delle costruzioni mentali soggettive, per cui la loro suddivisione in
tipologie dipende dai fenomeni che si sceglie di analizzare, dagli obiettivi

14
Geografia economico politica Modulo 3° - Evoluzione della Geoeconomia

proposti e dai criteri di osservazione adottati. In base a questi ultimi,


individuiamo vari tipi di regioni.

La regione politico-amministrativa è caratterizzata da confini


istituzionalmente riconosciuti e dall’essere soggetta all’autorità di uno stesso
Ente pubblico territoriale. La regione politica corrisponde solitamente allo
Stato ma presenta livelli gerarchici inferiori, riscontrabili, ad esempio, in
quelle unità politico-territoriali che compongono uno Stato federale (i Cantoni
in Svizzera) o uno regionale (le Regioni in Italia), e livelli gerarchici superiori,
nel caso di organizzazioni politiche sovranazionali (UE).

Un’altra tipologia di regione è rappresentata da quella naturale, identificata


per le sue caratteristiche fisiche e, pertanto, per la prevalenza delle relazioni
ecologiche. Infine, l’ecoregione è un particolare tipo di regione che considera
contemporaneamente sia i caratteri naturali che le trasformazioni umane
(Giordano, 2010).

Scegliendo di analizzare le relazioni orizzontali piuttosto che quelle verticali,


è possibile identificare le c.d. regioni economiche. In base ai criteri utilizzati
per individuarle, si distinguono due tipologie di regione economica: formale e
funzionale. Nel caso della regione formale si parla anche di regioni omogenee
o uniformi perché il criterio di selezione è rappresentato da un attributo
comune a tutti i luoghi che le compongono. Ad esempio, si avranno regioni
risicole se l’attributo considerato è la coltura del riso (Dematteis, 2010).

Le regioni funzionali sono, invece, individuate tramite le relazioni orizzontali,


ovvero i forti legami che intercorrono tra i luoghi che le compongono. Un
esempio di regione funzionale è l’hinterland di un porto, ovvero quell’area che
è servita e si serve del porto per spedire e ricevere merci. Questo è anche un
esempio di regione monocentrica, dove i flussi e le relazioni spaziali fanno
capo a un unico centro. Le regioni monocentriche possono essere di due tipi:
gerarchiche o polarizzate. Le prime hanno come elemento distintivo la
distribuzione dei servizi. Si tratta di una distribuzione non casuale ma legata a
diversi fattori: frequenza dell’accesso ai servizi, distanza dei fruitori dai centri,
efficienza dei trasporti. Tra i diversi centri che compongono la regione esiste
pertanto una gerarchia legata al numero e alla tipologia dei servizi offerti da
ciascun centro. I centri di livello più alto offriranno servizi superiori in termini
di quantità e qualità rispetto ai centri di livello inferiore.

Le regioni monocentriche polarizzate si individuano laddove i flussi si


dirigono tutti su un unico centro principale come conseguenza, ad esempio,
delle economie di agglomerazione. In tali regioni, vi è un centro che funge da

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Geografia economico politica Modulo 3° - Evoluzione della Geoeconomia

polo principale e concentra attorno a sé un’importante quota di attività


produttive, terziarie e dirigenziali. Questa tipologia di organizzazione può
portare a situazioni di squilibrio territoriale tra la regione centrale polarizzante
e le regioni periferiche (Giordano, 2010).

Un’evoluzione delle strutture polarizzate e gerarchizzate è rappresentata dalle


c.d. strutture regionali policentriche interconnesse, tipiche dell’organizzazione
territoriale dei paesi di vecchia industrializzazione. In tali contesti, si è creata
una nuova struttura regionale in cui la popolazione e le diverse attività si
distribuiscono in vari centri, connessi tra loro e con i centri principali.

In quei casi in cui i centri di una regione si specializzano in funzioni


particolari, senza che vi sia tra di essi una struttura gerarchica, si parla di
regioni policentriche. Qui ogni centro è connesso agli altri tramite relazioni di
complementarietà.

L’ultima definizione riguarda quelle particolari regioni che mostrano, al


contempo, caratteri formali e caratteri funzionali, ovvero le regioni complesse.
La megalopoli Nord-atlantica degli Stati Uniti è una regione che appartiene a
questa tipologia. Infatti, è formale se si considerano il clima, il tipo di
industrializzazione e gli stili di vita, mentre è funzionale se si prendono in
considerazione le connessioni relative alle sue città, porti e aeroporti.

Le politiche di sviluppo relative a tali organizzazioni territoriali cambiano a


seconda di un complesso di fattori.

Innanzitutto è opportuno chiarire cosa si intende per politiche per lo sviluppo


del territorio. In generale, questa espressione indica quegli interventi pubblici
mirati a soddisfare interessi collettivi. Più nello specifico, le politiche per lo
sviluppo territoriale riguardano ogni azione tesa a realizzare un miglioramento
qualitativo della società che vive in un determinato spazio geografico. Tale
miglioramento passa attraverso interventi realizzati in diversi settori: sviluppo
delle infrastrutture, supporto all’occupazione, lotta all’emarginazione sociale.

La definizione di qualsiasi obiettivo di sviluppo è un processo strettamente


politico, oggetto di confronti, negoziazioni e talvolta conflitti, e varia in base
alle diverse scale geografiche selezionate. Esistono numerose politiche di
sviluppo, da quelle relative al livello globale, legate all’azione delle grandi
organizzazioni territoriali, a quelle a scala regionale o locale. In questa sede,
l’analisi delle politiche di sviluppo riguarda questi ultimi due livelli.

16
Geografia economico politica Modulo 3° - Evoluzione della Geoeconomia

Il fenomeno del Regionalismo rimanda a quel processo di formazione di


macro-regioni, composte solitamente da più paesi, spesso vicini tra loro, che
perseguono politiche comuni. Il livello e le forme di aggregazioni di tali
formazioni territoriali sono varie; possono riguardare la creazione di aree di
libero scambio o tramutarsi in vere e proprie unioni economiche caratterizzate
dalla libera circolazione di persone e capitali, oltre che dall’armonizzazione
delle politiche economiche.

L’Unione Europea rappresenta il principale caso di integrazione economica tra


Stati nazionali, coordinando le politiche, non solo economiche, dei suoi 28
Stati membri. Per realizzare interventi utili allo sviluppo sul piano interno,
questo organismo macro-regionale può contare su due differenti strumenti:
azioni di natura settoriale e azioni orizzontali o trasversali. Nel primo caso, il
riferimento è agli interventi in specifici ambiti dell’organizzazione economica
e sociale (politica agricola comune, trasporti e infrastrutture) mentre nel
secondo, l’attenzione è rivolta a quelle politiche che producono effetti in più
settori (politiche di coesione, politica ambientale).

In questo secondo gruppo si collocano le politiche regionali, il principale


strumento dell’Unione Europea volto a ridurre i divari economici tra le diverse
regioni dello spazio europeo. Destinatari di questi azioni sono le regioni in
ritardo di sviluppo che necessitano di interventi di riconversione economica e
sociale. La politica regionale si struttura in tre obiettivi. Il primo riguarda la
convergenza, ovvero la riduzione dei divari tra le diverse regioni dell’Unione,
favorendo la crescita economica di quelle in ritardo di sviluppo. Il secondo
obiettivo è rappresentato dal miglioramento della competitività e
dell’occupazione, mediante programmi di sviluppo che supportino
l’innovazione e il miglioramento tecnologico, l’imprenditorialità e la
formazione. Infine, il terzo obiettivo riguarda la cooperazione territoriale tra
regioni per mezzo della promozione di iniziative locali e regionali.

La politica regionale europea può contare su una serie di strumenti politici con
i quali l’UE tenta di realizzare i tre principali obiettivi; tali strumenti sono: il
Fondo europeo di sviluppo regionale (FESR), il Fondo sociale europeo (FSE)
e il Fondo di coesione.
Il FESR rappresenta l’intervento più consistente dal punto di vista economico
ed è finalizzato al raggiungimento di tutti e tre gli obiettivi attraverso il
finanziamento diretto alle imprese e la fornitura di strumenti tecnici e
finanziari per lo sviluppo economico e regionale. La gestione di tali fondi può
avvenire mediante i c.d. programmi operativi (PO), ovvero piani dettagliati in
cui gli Stati membri definiscono le modalità di spesa. Nello specifico, si
distingue tra programmi operativi regionali (POR) che riguardano una

17
Geografia economico politica Modulo 3° - Evoluzione della Geoeconomia

particolare regione e programmi operativi nazionali (PON) destinati al


raggiungimento di un obiettivo tematico di interesse nazionale. Il FSE
riguarda, invece, gli obiettivi 2 e 3 e supporta una serie di azioni volte a
migliorare la qualità del capitale umano e del sistema educativo nonché a
favorire l’accesso all’impiego da parte delle categorie più deboli. Infine, il
Fondo di coesione è diretto esplicitamente all’obiettivo convergenza e si
propone di stabilizzare le economie dei paesi più poveri dell’Unione, ovvero
quelli che presentano un PNL pro-capite inferiore al 90% della media europea.

18
Geografia economico politica Modulo 3° - Evoluzione della Geoeconomia

BIBLIOGRAFIA

Bencardino F., Prezioso M., Geografia economica, Milano, McGraw-Hill,


2006.

Bignante E., Celata F., Vanolo A., Geografia dello Sviluppo, una prospettiva critica
e globale, Torino, UTET, 2014.

Dematteis G., Lanza C., Nano F., Vanolo A., Geografia dell’economia mondiale,
Torino, UTET, 2010.

Harvey D., The Condition of Postmodernity: An Enquiry into the Origins of Cultural
Change, Oxford, Blackwell Pub., 1991. The National Interest, n° 20, pp. 17-23,
1990.

Luttwak E., Pelanda C., Tremonti G., Il fantasma della povertà, Milano, Mondadori.

19
Corso di Laurea in Scienze della Formazione

INSEGNAMENTO DI
GEOGRAFIA ECONOMICO POLITICA

Modulo 4° - Conflitti e relazioni internazionali

A cura di

Giuseppe Terranova
Geografia economico politica Modulo 4° - Conflitti e Relazioni Internazionali

SOMMARIO MODULO 4°

Conflitti e relazioni internazionali

4.1. Relazioni tra Stati e organizzazioni internazionali


4.2. Relazioni internazionali dopo la Seconda Guerra Mondiale
4.3. La globalizzazione
4.4. Conflitti
4.5. Terrorismo

1
Geografia economico politica Modulo 4° - Conflitti e Relazioni Internazionali

4.1. Relazioni tra Stati e organizzazioni internazionali

Le relazioni tra Stati si basano su una fitta, complicata e non sempre


pianificata rete di rapporti bilaterali e multilaterali di ogni genere: politici,
economici, storici, religiosi, culturali, giuridici, ideologici. Ogni Stato agisce
valutando il proprio interesse e partendo da una posizione centrica, mettendo
sé stesso al centro del mondo e successivamente valutando la propria forza e
la propria possibilità di agire nell’ambito della comunità formata dai vari Stati.
Le relazioni internazionali sono essenzialmente un gioco di forza tra Stati che
possono imporre la propria volontà a quelli più deboli.

Le norme del diritto internazionale derivano dal diritto romano, da quello


anglo-sassone e dalla teologia cristiana. Si tratta di un insieme di regole
stabilite da una ristretta cerchia di Stati occidentali alle quali si sono adeguati
gli Stati riuniti sotto l’egida delle Nazioni Unite. L’Organizzazione delle
Nazioni Unite (ONU) è aperta a tutti gli Stati ed ha i seguenti obiettivi: il
mantenimento della pace e della sicurezza, la promozione del rispetto dei
diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e la cooperazione internazionale
nei settori economico, culturale e umanitario.

Si chiama Carta lo statuto delle Nazioni Unite ed è il risultato di una


conferenza di 50 paesi del 1945. L’ONU comprende oggi tutti gli Stati
indipendenti e conta di Stati osservatori come il Vaticano. Anche l’Autorità
Nazionale Palestinese ha lo status di osservatore. Organi fondamentali delle
Nazioni Unite sono l’Assemblea Generale, il Consiglio di Sicurezza, il
Consiglio economico e sociale, il Segretariato generale che ha sede a New
York e la Corte Internazionale di Giustizia che ha sede all’Aja.

Il diritto internazionale vigente è anche il prodotto di importanti conferenze


internazionali tra le quali vanno ricordate quelle sul diritto marittimo, sul
commercio di transito, sui paesi senza accesso al mare. Dalle conferenze
derivano le convenzioni che sono trattati multilaterali che devono essere
ratificate dai paesi firmatari, in base al principio della sovranità, e che a
seguito entrano nel corpo del diritto internazionale.

Sono molte le istituzioni collegate all’ONU. Queste le più rilevanti: Banca


Mondiale; FAO, Organizzazione per l’alimentazione e per l’agricoltura; OIL,
Organizzazione Internazionale del Lavoro; International Labour Organization;
UNESCO, Organizzazione delle Nazioni Unite per l’educazione, la scienza e

2
Geografia economico politica Modulo 4° - Conflitti e Relazioni Internazionali

la cultura; UNICEF, Fondo delle Nazioni Unite per l'infanzia, per la difesa dei
diritti dei bambini, etc.

Esistono altri organismi internazionali che nascono su basi economiche o più


semplicemente regionali. Tra i più importanti: Benelux, Unione doganale tra
Belgio, Paesi Bassi e Lussemburgo; Commonwealth, comprendente le ex-
colonie britanniche che, dopo l’indipendenza, hanno mantenuto un legame
politico, economico e culturale con il Regno Unito; Lega Araba; Mercosur,
Mercato Comune del Cono Sud, finalizzato all’adozione di politiche comuni e
strumenti di integrazione economica tra buona parte dei paesi dell’America
Latina; NATO, Organizzazione del Trattato dell’Atlantico del Nord; OPEC,
Organizzazione dei Paesi esportatori di petrolio; OSCE, Organizzazione per la
Sicurezza e la Cooperazione in Europa e l’Unione Europea che sarà trattata
nel prossimo modulo.

Anche se tutte le organizzazioni, gli accordi o le associazioni tra Stati mirano


alla pace, dispute e controversie caratterizzano da sempre i rapporti tra gli
Stati. Esse si possono risolvere attraverso una composizione pacifica
ricorrendo a negoziati bilaterali. L’intermediazione può essere svolta da
organismi internazionali ma anche da associazioni o da singole persone con
varie modalità: buoni uffici, conciliazione, mediazione, arbitrato e
procedimento giudiziario. Quest’ultimo è di solito la tappa estrema che si
svolge davanti ad un Tribunale nazionale, sovranazionale come la Corte di
Giustizia della Comunità Europea dell’Aja prima o, addirittura, a carattere
mondiale come la Corte Internazionale di Giustizia.

Di particolare rilevanza, tra gli organismi internazionali preposti alla


costruzione della pace, è la Società delle Nazioni, istituzione precedente
all’ONU, che fu attiva come intermediaria nella soluzione di conflitti
internazionali. Dopo la seconda guerra mondiale il maggior numero di
operazioni di pace fu condotto dalle Nazioni Unite attraverso l’attività dei suoi
caschi blu. Ad oggi le missioni di pace delle Nazioni Unite sono le più
importanti, anche se non sono le uniche.

A livello internazionale è prassi, prima di una dichiarazione guerra, mettere in


atto ritorsioni contro lo Stato offensore. Le ritorsioni si configurano in atti
analoghi a quelli subiti; oppure in rappresaglie che hanno legittimità purchè
non siano sproporzionate al danno subito e se lo Stato aggressore non abbia
acconsentito ad una riparazione o a un giudizio arbitrale. Prima del ricorso alla
guerra ci sono anche le sanzioni di tipo economico come il congelamento dei
beni e dei capitali collocati all’estero o altri bandi di natura economica. Una
sanzione economica grave è l’embargo, totale o parziale, e quindi il

3
Geografia economico politica Modulo 4° - Conflitti e Relazioni Internazionali

boicottaggio delle esportazioni del paese colpito; di solito si tratta di


provvedimenti parzialmente applicati e di poca efficacia ma utili a posticipare
uno scontro armato.
La guerra e la pace sono tematiche molto importanti della geopolitica e della
geostrategia. Anche dopo la caduta del Muro di Berlino la conflittualità non è
diminuita, malgrado l'ottimismo e le speranze in un’era di pace.

Da notare che il modello di Stato unitario al quale si riferisce la gran parte di


quanto precedentemente detto è, quindi, in crisi da tempo. La fine del
bipolarismo ha portato alla rinascita di rivendicazioni etniche che erano state
troppo a lungo represse. Si sono avviati processi di globalizzazione e di
integrazione tra economie forti con problemi del tutto nuovi e, soprattutto
inizialmente, difficili da affrontare (Pagnini, 1995).

4.2. Relazioni internazionali dopo la Seconda guerra mondiale

Nel periodo che va tra il 1945 e il 1949 si costruì un Nuovo ordine mondiale
postbellico sulla base dei miti, dei valori e degli orientamenti politici ed
economici degli Stati Uniti e dell’Unione Sovietica. Il punto di vista liberale
degli Stati Uniti si contrapponeva nettamente a quello marxista dell’Unione
Sovietica ed entrambi si contrapponevano alla precedente visone del mondo
diviso in Stati. Il conflitto bipolare rese netta la contrapposizione, la evidenziò
con un confine impermeabile che prese il nome di cortina di ferro; richiese
una netta scelta di campo ai paesi alleati e ai nuovi paesi diventati
indipendenti dopo la colonizzazione.

Lo scontro Usa-Urss ebbe pesanti ripercussioni sull’attività dei geografi


politici e degli studiosi di discipline affini. Negli Stati Uniti non si potevano
avere visioni del mondo alternative a quella liberale e ogni dissidenza portava
ad un mandato di comparizione davanti a commissioni d’inchiesta, rigide nel
dichiarare l’esistenza di attività antiamericane, con conseguenze gravi sul
lavoro e sulla carriera. Nell’URSS la geografia politica era inesistente ed
aveva solo una dimensione pratica; erano impensabili visioni del mondo,
anche solo di poco, deviate da quella ufficiale. Anche in Europa la geografia
politica si teneva lontano dai temi politici.

Tra i più importanti esperti americani di geografia politica di quel periodo va


ricordato I. Bowman (1878-1950) che, nel 1942, sottolineava la differenza tra
la sua geografia politica naturale e oggettiva e la geopolitica considerata di
parte. La Geografia politica di Bowman fu veramente di parte, dalla parte

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Geografia economico politica Modulo 4° - Conflitti e Relazioni Internazionali

degli Stati Uniti. Un altro geografo politico che si adeguò al clima dell’epoca
fu R. Hartshorne che si occupò dello studio della “regione” vista da lui come
un collegamento tra geografia umana e geografia fisica. Come altri colleghi
statunitensi, per evitare contrasti col governo, Hartshone evitò di occuparsi di
prospettive geopolitiche.

Agli inizi della guerra fredda gli Stati Uniti furono affascinati dalla prospettiva
comportamentista nella politica e nelle relazioni internazionali. La norma era
il comportamento individuale e collettivo americano: il resto del mondo
veniva comparato a questa norma-normalità che acquistava valore di assoluto
e rendeva difficile ogni diversa spiegazione storica o istituzionale. Furono la
guerra del Vietnam – così simile a una guerra civile piuttosto che alla lotta tra
comunisti e democratici - e la lotta per i diritti civili ad aprire la possibilità
anche per gli studiosi di geografia politica che, già dagli anni ‘60, si erano
dedicati a ricerche territoriali (Pagnini, 1995).

L’influenza sovietica, dopo il 1945, condizionò, oltre che l’Europa dell’Est,


anche la Germania con lo sviluppo di una forza militare che si poteva
mantenere a patto di dover fronteggiare una grande minaccia esterna. Allo
stesso tempo la paura della minaccia esterna consentiva di isolare i dissidenti
politici, i nemici del popolo, che venivano mandati nei gulag.

Il timore dell’avanzata sovietica rendeva necessaria, per la sicurezza


nazionale, una continua presenza militare americana in Europa i cui costi
crescenti dovevano essere accettati. Gli Stati Uniti presero importanti
iniziative tra le quali il Piano Marshall e la costituzione della Nato; era loro
intenzione allargare il commercio internazionale ma era evidente che si
doveva prima investire in ricostruzione e sicurezza.

USA e URSS, caratterizzati da mescole etniche e sociali, riuscirono a stabilire,


attorno a miti e simboli, masse consenzienti che si identificavano anche per
contrapposizione. Il conflitto ideologico si nutriva di teorie quali l’effetto
domino, eventi molto distanti potevano portare a problemi molto vicini: i due
blocchi si misuravano in termini di potere militare, di tecnologia satellitare, di
potenza missilistica. Due disastri militari portarono alla necessità di diminuire
la spesa militare per entrambe le potenze.

Per gli Stati Uniti si trattò della guerra del Vietnam alla fine degli anni ‘50, per
l’URSS fu l’intervento in Afghanistan del 1979. Seguì un periodo di
distensione e di maggiore cooperazione tra le due potenze che iniziò già negli
anni ’70. La Guerra Fredda finì tra il 1989 e il 1992 con il collasso dell’URSS
dovuto a cause molteplici: prevalentemente economiche ma anche legate alla

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Geografia economico politica Modulo 4° - Conflitti e Relazioni Internazionali

crescente spesa militare non accompagnata da un adeguato sviluppo


tecnologico.
Dopo questi eventi epocali ci si illuse che fosse facilmente possibile sostituire
il sistema bipolare con un Nuovo Ordine Mondiale. Il crollo del muro di
Berlino fu inatteso e violento anche se preannunciato. Gli strumenti utilizzati
durante la guerra fredda furono spazzati via dal nuovo corso e la ricerca del
nuovo ordine internazionale si rivelò ardua e complessa e portò a punti di vista
sia di massimo ottimismo che di massimo pessimismo. Ci soffermeremo ora
su alcuni autori tra i tanti che, durante e dopo la guerra fredda, hanno
ragionato in termini di relazioni internazionali; parte degli autori sono stati già
affrontati nei precedenti moduli.

B. Buzan, un politologo inglese, pubblica nel 1985 “People, States and Fear”
inserendosi in un filone teorico che mette in discussione l’assoluta libertà di
azione concessa agli Stati; fornisce un correttivo ai paradigmi del realismo e
del neorealismo e crea un originale collegamento con il transnazionalismo.
Buzan constata come i paradigmi definiti dai grandi teorici, quali le leggi
oggettive o i bisogni fondamentali, la sicurezza, il potere, la pace o la
giustizia, si configurano più come un pregiudizio soggettivo che come una
base oggettiva per l’analisi e sono più fonte di domande che di risposte. Il suo
esame si concentra in modo particolare sul tema della sicurezza. Buzan
affronta prima il modo nel quale gli individui concepiscono la loro sicurezza
rispetto allo Stato, poi il modo in cui gli Stati interagiscono per sostenere la
sicurezza ed, infine, il modo nel quale la società di Stati partecipa alla
sicurezza.

Nel 1989 F. Fukuyama pubblica un articolo dal titolo “The End of history?”
che fu seguito, tre anni dopo, dal volume “La fine della storia e l’ultimo
uomo” (Milano, Rizzoli 1992). Fukuyama asserisce che la democrazia è il
punto finale dell’evoluzione ideologica dell’umanità e la forma ultima di
governo. L’evoluzione avrebbe permesso, anche se non immediatamente, al
mondo un’era di pace perché l’esplosione della democrazia toglie legittimità
all’uso della forza.

Nel 1993 S. P. Huntington pubblica un articolo dal titolo “The Clash of


Civilizations?” che riprende, nel 1996, nel volume “Lo scontro delle civiltà e
il nuovo ordine mondiale” (Milano, Garzanti 1997). L’autore rifiuta l’idea di
una modernizzazione assimilabile all’occidentalizzazione e nega la tendenza
mondiale verso l’omogenizzazione. Anche se le frontiere tra civiltà vengono
aperte non risulta necessaria una cultura universale.

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Geografia economico politica Modulo 4° - Conflitti e Relazioni Internazionali

A. Minc, nel 1993, pubblica “Il nuovo Medioevo”(Milano, Sperling & Kupfer
1994) prevedendo con grande pessimismo la scomparsa di qualunque centro,
l’assenza di un sistema organizzato e l’apparizione di solidarietà fluide.
L’autore immagina un ritorno all’oscurantismo del Medioevo (Pagnini, 1995).

4.3. La globalizzazione

Il periodo preso in considerazione è caratterizzato da nuove sfide affrontate


dalla Geografia politica, sfide poste dalla rivoluzione telematica e dai
progressi nel campo dell’informazione. Così, da un lato, le comunicazioni
risultano globali, immediate, poco costose e libere dalla regolamentazione e
dal controllo dei governi; dall’altro, la rivoluzione dell’informazione mette in
crisi i concetti di frontiere politiche, poiché il centro del potere politico è posto
al di fuori delle aree tradizionali dell’Europa o dell’America settentrionale.
Anche gli approcci marxisti, che avevano caratterizzato la disciplina durante
la Guerra Fredda, vengono superati perché non sono più in linea con la realtà
dei tempi, caratterizzata dal dissolvimento del blocco sovietico e dalla
maggiore importanza dei paesi BRICS (Brasile, Russia, India, Cina,
Sudafrica).

A fare da contraltare allo scontro delle civiltà c'è una tendenza apparentemente
opposta in quanto mira non a dividere ma a unire il mondo, soprattutto ai fini
dell’organizzazione di un mercato mondiale sicuro: la globalizzazione. Il
termine globalizzazione e il suo antagonista, l’antiglobalizzazione, hanno due
accezioni. Il dibattito accademico mette a confronto chi ritiene che la
globalizzazione stia veramente avvenendo, i “globalisti; e gli scettici, quelli
che ritengono che la discussione sulla globalizzazione sia una montatura.

I due schieramenti sono divisi al loro interno a seconda dei punti di vista
relativi alle linee di tendenza sulla disuguaglianza globale e sulle sue cause
fondamentali. Ci sono interpretazioni liberiste e interpretazioni radical-
trasformazionaliste. Per le prime il divario di reddito tra stati più ricchi e più
poveri del mondo va studiato in termini di reddito relativo che dimostra come
la povertà assoluta e la disuguaglianza globale siano in declino; per le seconde
la globalizzazione produce un quadro distorto della condizione umana globale.
I loro indicatori segnalano che povertà e disuguaglianza stanno aumentando e
non diminuendo all’interno degli Stati. Gli squilibri della globalizzazione
creano aree di polarizzazione della ricchezza e della povertà e generano una
frammentazione dell’ordine mondiale che si esprime nel moltiplicarsi delle
crisi economiche, nel terrorismo transnazionale, nella critica del
fondamentalismo, del crimine organizzato e dei conflitti etnici (Pagnini,
1995).
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Geografia economico politica Modulo 4° - Conflitti e Relazioni Internazionali

Il termine globalizzazione compare inizialmente nella letteratura manageriale


e viene usato per sostenere la tesi di un mercato ormai unico, dove imprese
ancora a base nazionale vendono la stessa cosa, nello stesso modo, ovunque.
L’internazionalizzazione delle imprese non è un fenomeno nato recentemente,
ma ha una lunga storia. Per non ricordare l’Impero Romano o per non risalire
a Ciro o ad Alessandro Magno, basti ripensare ai rapporti di scambio tra
mercanti e banchieri italiani nel Medioevo. Nei secoli XVII e XVIII lo Stato
controllava grandi Compagnie come quella delle Indie Orientali britannica e
olandese, la Compagnia moscovita e la Compagnia reale africana.

Con il termine globalizzazione, nella sua accezione più comune, si definisce il


nuovo assetto dell'economia mondiale. L'Organizzazione per la Cooperazione
Economica e lo Sviluppo (OCSE) definisce la globalizzazione come un
processo attraverso cui mercati e produzione nei diversi paesi diventano
sempre più dipendenti tra di loro, a causa della dinamica dello scambio di beni
e servizi e attraverso i movimenti di capitale e tecnologia.

Una parte crescente della ricchezza prodotta è oggi ottenuta e distribuita


all'interno di reti o network di imprese che si estendono a livello mondiale: un
fatto destinato a cambiare il volto del sistema economico internazionale. Il
risultato di tali cambiamenti, secondo alcuni, sarebbe già segnato: un grande
mercato mondiale senza più frontiere nazionali ed altamente concorrenziale.
Nel modello della globalizzazione la produzione e la distribuzione si
reralizzano in luoghi diversi ed in tempi diversi a livello globale.

L’aspetto innovativo dell’attuale processo di globalizzazione consisterebbe


nel fatto che oggi la stragrande maggioranza delle transazioni finanziarie è di
natura speculativa. Le Borse, quotidianamente, contrattano somme che sono
quasi il doppio delle riserve monetarie di tutte le banche centrali. I governi
sono succubi delle speculazioni o del rischio di speculazioni e, al pari delle
istituzioni sovranazionali, sono finora impotenti nell'arginarle. A causa della
globalizzazione il delta tra economia finanziaria ed economia reale è sempre
più ampio.

Gli esecutivi non sono pronti ad affrontare il fenomeno, lo stesso vale per le
istituzioni economiche internazionali che non hanno ancora messo a punto
strumenti di regolamentazione efficaci. La condizione delle moderne
economie, caratterizzata dall'internazionalizzazione dei mercati, da una
conseguente competitività globale e da un sistema di strutture decisionali
oligocentriche, tende a dislocare i poteri al di fuori delle realtà nazionali e a

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Geografia economico politica Modulo 4° - Conflitti e Relazioni Internazionali

ridimensionare fortemente lo Stato-nazione così come lo abbiamo conosciuto


fino a oggi.

Questo spiega perché gli imprenditori sentono sempre meno obblighi nei
confronti del proprio paese, dal quale traggono invece vantaggi che derivano
dalla ricerca tecnologica, dal progredire delle comunicazioni, dalla creazione
di infrastrutture: sono pronti, in nome della globalizzazione, a trasferire le loro
produzioni in paesi in cui la manodopera è più a buon mercato secondo gli
ormai consolidati schemi di delocalizzazione di impresa. La naturale
conseguenza dei fenomeni descritti è che il potere politico ed amministrativo
effettivo tende a trasferirsi verso istituzioni sovranazionali come l' Unione
Europea oppure verso regioni ed enti locali (Pagnini, 1995).

Le tante contraddizioni dell'economia e della politica, nell'era della


globalizzazione, aprono una serie di interrogativi che si estendono alla società
e ai comportamenti individuali e, di riflesso, al sentimento di nazionalità che
costituisce il fondamento emotivo dello Stato nazionale. In due saggi,
“Globalizzati e scontenti” (il Mulino, 2002) e “Le città nell’economia globale”
(Il Saggiatore, 2004), brillanti sintesi di sociologia, economia politica e analisi
culturale, la sociologa Saskia Sassen contesta le devianze politiche, culturali
ed economiche della globalizzazione e analizza in modo provocatorio la
società contemporanea.

Secondo Saskia Sassen la globalizzazione è centrata più che sugli Stati su una
rete complessa di città globali che sono punti di controllo, centri della finanza
e luoghi dotati di presupposti sociali e materiali relativi al ruolo globale. Sono
città collegate, anche solo in modo virtuale, con punti remoti della terra nei
quali si svolge la produzione, il consumo e la finanza. Le grandi città del
mondo sono il luogo nel quale i processi di globalizzazione assumono forme
concrete e localizzate; in qualche modo sono la stessa sostanza della
globalizzazione. Esse configurano una nuova geografia della centralità che
taglia trasversalmente i confini, che forma una Geografia politica del potere
parallela e uno spazio trasnazionale per la formazione di nuovi diritti del
capitale globale. Si materializzano nuove gerarchie globali e regionali di città
e di distretti industriali ad alta tecnologia e ad esse si affiancano vasti territori
sempre più periferici, sempre più esclusi dai grandi processi economici e,
quindi, dall’economia globale.

La globalizzazione si è affermata, risparmiando pochissime regioni del globo,


grazie anche alle innovazioni tecnologiche costanti del settore delle
telecomunicazioni, basti ricordare Internet e la telefonia mobile, del trasporto,
in particolare quello aereo di massa, e dell’informatica attraverso l’e-

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Geografia economico politica Modulo 4° - Conflitti e Relazioni Internazionali

commerce o le pagine web. L’attacco alle Torri Gemelle ha confermato


l’esistenza di reti politiche che operano oltre il confine dello Stato-Nazione.

La globalizzazione contribuisce alla deregolamentazione, all’egemonia della


concezione neoliberista delle relazioni economiche, al libero scambio
internazionale. Se da un lato ciò ha per conseguenza la prevalenza del mercato
sullo Stato e la conseguente riduzione di sovranità statale, da un altro lato
porta alla snazionalizzazione del territorio nazionale che trova sostenitori in
molte élite di governo.

4.4. Conflitti.

Il termine conflitto indica un contrasto personale, sociale, tra Stati ecc.; ma ciò
non implica necessariamente che si generi uno scontro violento, al contrario
molti conflitti possono essere risolti senza il ricorso alla forza oppure rimanere
latenti per molti anni. Ormai, però, tale termine viene sempre più spesso
interpretato nella sua accezione di conflitto armato, per cui è divenuto nell’uso
corrente un sinonimo, in tutto e per tutto, della parola guerra (Unimondo,
2018).

Dalla fine della seconda guerra mondiale si è assistito allo scoppio di centinaia
di conflitti armati benché l’espressione guerra fredda potrebbe portare a
pensare che la seconda metà del XX secolo sia stata caratterizzata da una certa
staticità. In realtà il terrore atomico ha sì impedito che le due superpotenze si
affrontassero in un conflitto aperto, ma non ha proibito loro di confrontarsi
attraverso guerre per procura sull’intero scacchiere mondiale, soprattutto nei
Paesi in via di sviluppo che, proprio negli anni ’60 e ’70, iniziavano il loro
percorso di decolonizzazione.

Non è facile stimare quante guerre siano state combattute dal 1945 ad oggi o
quante siano state le vittime militari e civili. Questo, innanzitutto, perché la
prassi di dichiarare ufficialmente le ostilità è stata abbandonata da tempo ma,
soprattutto, perché negli ultimi decenni sembra essersi modificata la natura dei
conflitti: la maggioranza delle guerre non può più, infatti, essere considerata
interstatale ma intrastatale. Secondo il programma di ricerca statunitense
Correlates of War negli ultimi sessant’anni andrebbero conteggiate almeno 25
guerre tra Stati e ben 127 conflitti civili, i quali in totale sono costati circa 20
milioni di morti, per la maggior parte appartenenti alla popolazione civile.

A questo occorre aggiungere la diminuzione delle possibilità di intervento di


qualunque sistema internazionale di sicurezza, come può essere quello delle

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Geografia economico politica Modulo 4° - Conflitti e Relazioni Internazionali

Nazioni Unite, spesso ostacolato nella sua azione dal divieto di ingerenza
negli affari interni di un Paese.

La maggior parte dei conflitti oggi in corso sono concentrati in Asia e in


Africa. Molti paesi in via di sviluppo soffrono ancora le conseguenze della
colonizzazione e del successivo processo di decolonizzazione che di fatto ha
obbligato diversi popoli a un’organizzazione statale sulla base del modello
occidentale a prescindere dalle loro tradizioni, e a dei confini del tutto
artificiali che hanno spesso causato conflitti sia al loro interno che con gli Stati
vicini (Unimondo, 2018).

La letteratura relativa alla natura dei conflitti armati è in costante


aggiornamento, basti pensare all’emergere sulla scena internazionale, negli
ultimi anni, di nuove tipologie di guerre come quelle “umanitarie” (Kosovo,
1999) o “preventive” (Iraq, 2003). I conflitti si possono differenziare, però,
anche in funzione di altre peculiarità come i soggetti contendenti o i mezzi
impiegati. Si possono quindi distinguere, innanzitutto, i conflitti internazionali
e le guerre civili a seconda che si scontrino due o più Stati oppure le parti
siano appartenenti allo stesso Paese; mentre si può distinguere tra guerre
convenzionali o meno a seconda che i contendenti siano in possesso o no di
armi di distruzioni di massa (bombe nucleari comprese) e non escludano la
possibilità di utilizzarle.

Le cause di una guerra sono molteplici. Parecchi esperti e studiosi, però,


tendono a ridimensionare il ruolo svolto dai vari fattori di carattere ideologico,
religioso, etnico o culturale per additare come prima responsabilità dei
molteplici conflitti la proprietà e il controllo delle risorse naturali: petrolio,
acqua, gas, minerali. Sarebbero poi le fazioni in lotta per tale potere a
strumentalizzare le tensioni che possono essere originate da una base
nazionalistica o religiosa per inasprire o ampliare, a seconda del proprio
interesse, il conflitto stesso.

Gli enormi guadagni associati alle risorse costituiscono un potente incentivo


anche per i governi stranieri o per le diverse imprese transnazionali che,
spesso, intervengono nei conflitti armati locali o, addirittura, li provocano.
Basti pensare alla guerra decennale in corso nella Repubblica democratica del
Congo, non a caso il paese più ricco del mondo a livello di risorse minerarie di
ogni tipo, nel quale tutte le fazioni coinvolte sono appoggiate, più o meno
direttamente, da potenze straniere o multinazionali. Nell’era della
globalizzazione non è dunque errato parlare anche di guerre globalizzate
poiché la dimensione locale e quella globale si confondono sempre più, dal

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Geografia economico politica Modulo 4° - Conflitti e Relazioni Internazionali

momento che i teatri di scontro sono spesso gestiti e finanziati anche da


soggetti lontani.
Se volessimo individuare alcune peculiarità dei conflitti contemporanei,
potremmo definirli privatizzati, per il fatto che molte volte i soggetti in azione
non sono statali; contro la popolazione, dal momento che ormai la popolazione
civile rappresenta il 90% delle vittime di guerra; asimmetrici, per indicare la
differenza che intercorre spesso tra i due contendenti sul piano della
tecnologia bellica, del potenziale distruttivo e dei capitali da investire.

Dal XIX secolo anche i conflitti armati sono sottoposti a particolari norme di
diritto internazionale, il cui contenuto essenziale venne codificato nella
Conferenza di Bruxelles del 1874 e successivamente sviluppato in quelle
dell’Aja del 1899 e del 1907. La natura delle guerre del tempo era molto
diversa da quella attuale, così le stesse norme giuridiche che regolano i
conflitti hanno subito negli ultimi cento anni una rapida evoluzione. All’inizio,
infatti, il diritto tradizionale disciplinava soltanto i conflitti armati tra Stati,
applicava la clausola si omnes (ossia ciascuna convenzione poteva trovare
applicazione solo se tutti i belligeranti erano parti contraenti), considerava
legittimi combattenti esclusivamente i membri degli eserciti regolari, mentre
le milizie, i corpi volontari e la popolazione civile che spontaneamente
imbracciava le armi all’avvicinarsi del nemico, per essere considerati tali,
dovevano soddisfare alcuni requisiti fondamentali come quello di portare un
distintivo di riconoscimento o essere sottoposti a un capo.

Soprattutto dalla seconda guerra mondiale in poi l’inadeguatezza e la


limitatezza delle norme codificate all’Aja sono emerse in tutta la loro gravità
ed è divenuto indispensabile aggiornare la disciplina internazionale. Sono,
infatti, diventati sempre più frequenti i conflitti civili rispetto a quelli
interstatali ma, soprattutto, sono apparsi sulla scena mondiale nuovi soggetti
combattenti come i partigiani o i guerriglieri, nuove categorie di guerra (come
quelle di liberazione nei territori coloniali) e nuove tipologie di armi sempre
più sofisticate e devastanti. Il risultato più evidente di questa evoluzione è il
coinvolgimento sempre più diretto della popolazione e, di conseguenza,
l’aumento esponenziale delle vittime civili in ogni conflitto armato
contemporaneo.

Il processo di revisione e aggiornamento del diritto umanitario ebbe inizio


nella Conferenza di Ginevra del 1949 durante la quale vennero approvate
quattro Convenzioni sulla protezione delle vittime di guerra alle quali si
aggiunsero, nel 1977, due fondamentali Protocolli relativi ai conflitti armati
internazionali e a quelli interni che, come le convenzioni del 1949, non
rispettano più la clausola si omnes.

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Geografia economico politica Modulo 4° - Conflitti e Relazioni Internazionali

Nonostante gli enormi progressi rappresentati dalle Convenzioni di Ginevra, il


diritto internazionale dei conflitti armati rimane ancora molto debole e, spesso,
carente o ambiguo dal momento che soprattutto le grandi potenze militari
hanno sempre cercato di impedire che si approvassero limitazioni troppo
restrittive.

Per quanto riguarda i conflitti internazionali, le norme attuali attribuiscono lo


status di combattente ai partigiani e ai guerriglieri ma non ai mercenari
(utilizzati soprattutto in Africa) e specificano chiaramente una serie di armi il
cui utilizzo è vietato, come ad esempio le armi chimiche e batteriologiche (già
proibite da una convenzione del 1925), le mine di terra e antiuomo
(quest’ultime proibite solo nel 1997) o, ancora, determinate armi non in
quanto tali, come ad esempio quelle incendiarie, ma solo se utilizzate in
maniera indiscriminata o per attaccare civili. Se da un lato la formulazione di
divieti così specifici ha di fatto eliminato il rischio di diverse interpretazioni,
frutto di norme troppo generiche e vaghe, dall’altro ha però facilitato
l’aggiramento delle disposizioni attraverso la fabbricazione di armi più
sofisticate che, proprio per le loro nuove caratteristiche, non rientrano più nei
parametri dei divieti.

L’elemento più debole del diritto tradizionale, e che è rimasto tale anche nel
nuovo diritto, riguarda invece gli strumenti atti a garantire l’osservanza delle
norme stesse. Oggi essi sono costituiti soprattutto dalle rappresaglie belliche
(che però le Convenzioni di Ginevra hanno proibito contro “persone
protette”), dal sistema delle potenze protettrici (che però è sostanzialmente
fallito) e dalla repressione delle violazioni del diritto umanitario attraverso
tribunali nazionali e internazionali.

Per ciò che riguarda i conflitti armati interni, le lacune del diritto
internazionale sono ancora più marcate, dal momento che i governi hanno
cercato di mantenere la maggior libertà possibile nei confronti dei diversi
gruppi ribelli ai quali, ad esempio, non è concesso lo status di legittimi
combattenti. Tuttavia è anche vero che, negli ultimi anni, si stia estendendo la
tendenza a giudicare le norme che disciplinano i conflitti interstatali altrettanto
valide per quelli interni. Nella sentenza del 2 ottobre 1995 sul caso Tadic si
può leggere infatti che “ciò che è disumano e quindi vietato nelle guerre
internazionali non può che essere altrettanto disumano e inammissibile nelle
guerre civili.”

La fine dell’equilibrio bipolare, l’ascesa di nuovi attori non politici, il


rafforzamento del terrorismo internazionale e le nuove conquiste tecnologiche
in campo militare sono tutti elementi che impongono di ripensare nuovamente,

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Geografia economico politica Modulo 4° - Conflitti e Relazioni Internazionali

e profondamente, il tema della guerra. Come sostenuto da Galtun, uno dei


maggiori autori di studi sulla risoluzione pacifica dei conflitti e direttore della
rete Trascend, questo ripensamento può aprire la strada a soluzioni pacifiche
basate sulla creatività, ossia la ricerca di un vantaggio per tutte le parti.

Secondo lo studioso, infatti, riuscendo a “trascendere” la contraddizione


sottostante al conflitto, tramite appunto un processo creativo in grado di far
emergere qualcosa di inaspettato, è possibile trasformare gli scopi,
inizialmente incompatibili, di due o più contendenti con una soddisfazione per
tutti gli attori (Unimondo, 2018).

4.5. Terrorismo.

Il Consiglio di Sicurezza dell’ONU che fu convocato il 28 settembre 2001, pur


esprimendo unanime condanna per gli attentati dell’11 settembre e pur
obbligando i suoi 189 membri a congelare le finanze dei terroristi, a negare
ogni forma di aiuto e di protezione e ad aiutare le indagini internazionali, non
ha trovato un’intesa su una definizione comune di terrorismo. L’omissione
produce conseguenze concrete e negative: per un paese che vuole aiutare il
terrorismo è sufficiente escludere dal concetto di terrorismo una determinata
azione violenta compiuta da una persona o l’aiuto finanziario dato a gruppi
che praticano la guerriglia.

Ma, d’altro canto, è anche peggio concordare su una definizione superficiale o


molto ampia che potrebbe trasformare qualsiasi atto in terrorismo: oggi, in
Europa, si tende ad allargare la nozione di terrorismo anche al concetto di
istigazione al terrorismo. Un concetto vago che potrebbe comprendere anche
la condivisione di alcune ragioni del terrorismo. Si potrebbe arrivare, per
questa via, a considerare terrorismo ogni manifestazione di dissenso verso gli
esecutivi al governo.

In ogni caso, sia pur in via teorica, è possibile sostenere che col termine
terrorismo si intende qualunque azione compiuta da persone o gruppi
organizzati, con violenza o senza violenza, contro persone o cose, al fine di
provocare una situazione permanente di terrore tra la popolazione civile, con
l’obiettivo di destabilizzare il paese, o di conquistare il potere, o di abbattere il
potere democraticamente costituito, o di costringere le istituzioni a scendere a
patti e a fare determinate concessioni. Il terrorismo si concretizza, in generale,
in omicidi, stragi, sequestri di persona, dirottamenti aerei; tuttavia presenta
anche aspetti politici, sociali, di sicurezza, militari e ideologici che
convergono nella stessa attività. Il terrorismo, per finanziarsi, può contare sul
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Geografia economico politica Modulo 4° - Conflitti e Relazioni Internazionali

sostegno di paesi “amici” o su anonimi “sostenitori” che inviano finanziamenti


anche attraverso organizzazioni caritatevoli, su attività industriali,
commerciali e finanziarie, ma anche sul traffico di armi, di droga, sulla
falsificazione di documenti, sul traffico di esseri umani e, in generale, sul
contrabbando. I gruppi terroristici si stanno sempre più rivolgendo verso
attività criminali tra cui il gioco d’azzardo e il raket delle estorsioni.

I terroristi hanno convinzioni forti, anche se aberranti, ed elaborano su di esse


un sistema di valori proprio. A questo si aggiunge una profonda fede religiosa
finalizzata ad un premio ultraterreno anche se la loro natura è, soprattutto,
quella di soggetti politici. La giustificazione dell’uso della violenza sta nella
logica di colpire qualcuno per terrorizzare molti; ma il pregiudizio è che la
violenza è solo provvisoria e che verrà abbandonata una volta raggiunti gli
scopi, cioè un’illusione. La violenza dei terroristi si regge sul presupposto del
verificarsi dello stato di necessità e le armi sono individuate come l’unica
soluzione possibile. Contraddizione in termini sono le guerre “umanitarie” o le
guerre “giuste”; la guerra viene sempre giustificata come opposizione al male,
cosicchè la vittoria viene sempre considerata come il trionfo del bene. La
domanda da porre è piuttosto quale sia la soglia di tollerabilità per la
violazione dei diritti umani universali che trasforma l’intervento umanitario in
un dovere morale.

Gli attentati possono essere compiuti da terroristi, interni o esterni ad uno


Stato, contro obiettivi internazionali. Possono essere attentati compiuti da
terroristi stranieri, con o senza l’aiuto dei terroristi interni, contro la
popolazione civile o contro le istituzioni civili, militari, parlamentari di uno
Stato. Negli ultimi anni il terrorismo è quasi sempre internazionale, sia per i
soggetti che lo attuano sia per gli obiettivi.

Esistono varie forme di terrorismo internazionale. La forma più grave è quella


sostenuta e finanziata da uno Stato contro un altro Stato. Lo Stato che
appoggia il terrorismo può disporre di armi micidiali, chimiche,
batteriologiche, nucleari, sempre più disponibili per il commercio illegale fatto
da generali e scienziati sovietici dopo il crollo del muro di Berlino. Ancora più
inquietante è il terrorismo “di Stato”; si tratta di abusi o eccessi sproporzionati
di potere che mirano solo alla conservazione dello status quo o alla sua
restaurazione.

Dagli anni Trenta del XX secolo la comunità internazionale si è confrontata


con il tema del terrorismo ma già dagli anni Venti iniziò il “radicalismo
islamico” che, fin dall’inizio, si contrapponeva al colonialismo, al

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Geografia economico politica Modulo 4° - Conflitti e Relazioni Internazionali

modernismo occidentale e ai governi arabi non islamici. Il terrorismo, negli


ultimi anni, non è solo episodico e tattico, ma è sistematico e strategico.
La prima Convenzione contro il terrorismo risale al 1937 e viene stilata a
Ginevra a seguito dell’attentato al Ministro degli Esteri francese Barthou e al
re Alessandro di Jugoslavia. La Convenzione aveva molto in comune con le
recenti Convenzioni: la distinzione tra misure preventive e repressive e la
problematica definizione dell’atto terroristico. Le successive Convenzioni si
rendono necessarie per l’acuirsi, negli anni ’60, di atti terroristici. La
Convenzione di Tokyo del 1963 riguarda reati e atti compiuti a bordo di
aeromobili; sempre a riguardo vengono stilate la Convenzione dell’Aja del
1970, di Montreal del 1971 e quelle di New York del 1973 sul sequestro di
ostaggi diplomatici e di coloro che svolgono funzioni per uno Stato; dal 1979
anche per il sequestro di ostaggi civili.

La Convenzione europea per la repressione del terrorismo, adottata


nell’ambito del Consiglio d’Europa, si conclude a Strasburgo nel 1977 e
disciplina l’estradizione. Nel 1988 la Convenzione di Roma disciplina la
pirateria marina a seguito dell’attacco, tre anni prima, alla nave Achille Lauro.
Altre due Convenzioni repressive vengono stilate a New York, una nel 1997
per gli atti terroristici con uso di esplosivi e una nel 1979 contro il
finanziamento del terrorismo.

Per ciò che concerne lo spazio europeo, nel 1975 viene istituito a Roma il
gruppo TREVI (Terrorismo, Radicalismo, Eversione, Violenza Internazionale)
composto dai ministri competenti. Nel 1976 vengono costituiti gruppi di
lavoro che prevedono la collaborazione tra le diverse polizie: da questo
organismo deriva l’agenzia EIDU per lo scambio di informazioni sul traffico
illecito di droga che in seguito porterà alla nascita di EUROPOL, l’ufficio
europeo di polizia. La lotta al terrorismo viene prevista espressamente, per la
prima volta in sede istituzionale, da un articolo del trattato di Maastricht
dell’ambito GAI (il Pilastro della Giustizia e degli Affari interni), ove si
propone di incentivare la cooperazione nella giustizia e negli affari interni in
diversi settori, tra i quali quello in analisi. Il Consiglio Europeo di Cardiff del
1998 conferisce mandato alla Commissione e al Parlamento per elaborare un
piano d’azione che attui al meglio le disposizioni di Amsterdam; ne consegue
il rafforzamento dell’Europol, della rete giudiziaria europea e della
cooperazione di polizia.

Il Consiglio Europeo di Tampere del 1999 introduce un nuovo strumento di


cooperazione in materia giudiziaria, l’Eurojust, istituito nel febbraio 2002, che
include pubblici ministeri, magistrati e funzionari di polizia. Dopo l’attentato
alle Torri Gemelle ci sono importanti prese di posizione. Nel giugno del 2002

16
Geografia economico politica Modulo 4° - Conflitti e Relazioni Internazionali

il Consiglio dei Ministri adotta due decisioni-quadro: una prevede la


definizione comune del reato terroristico, l’altra introduce il mandato di
arresto europeo.

Gli attentati di New York e di Madrid spingono l’UE ad elaborare un piano


d’azione sistematico al fine di migliorare la cooperazione tra Stati membri e
tra questi e paesi terzi. Una delle ultime manifestazioni è il capitolo “lotta
contro il terrorismo” del piano d’azione nel programma dell’Aja, approvato
dal Consiglio europeo nel giugno 2005. Il programma dell’Aja elenca le dieci
priorità dell’Unione Europea per rafforzare lo spazio di sicurezza, di libertà e
di giustizia nei cinque anni seguenti, e sottolinea con forza la lotta al
terrorismo.

Occorre inoltre aggiungere che gli attentati di matrice islamista, che hanno
colpito molte città europee negli ultimi anni, hanno obbligato le istituzioni di
Bruxelles ad approvare nuove iniziative normative contro il terrorismo. Di
seguito una sintesi realizzata grazie al materiale reso disponibile online dal
sito ufficiale del Parlamento Europeo.

Le misure messe in campo dall’UE per prevenire nuovi attacchi comprendono


una vasta gamma di interventi tra cui: controlli più scrupolosi alle frontiere,
maggiore cooperazione giudiziaria e di polizia per individuare i soggetti
sospetti e perseguire i criminali, taglio dei finanziamenti al terrorismo, lotta
alla criminalità organizzata e contrasto ai fenomeni di radicalizzazione.

Nell' aprile del 2017 sono stati introdotti controlli sistematici alle frontiere
esterne dell’UE su tutti gli ingressi, anche di cittadini europei, per garantire la
sicurezza dell’area Schengen.
Il 30 novembre 2017 il Parlamento europeo e i ministri dell’UE hanno
stabilito un nuovo sistema di registrazione delle entrate e delle uscite per
tenere traccia degli spostamenti dei cittadini non europei nell’area Schengen e
velocizzare le procedure di controllo. Questi nuovi controlli alle frontiere
esterne dell’UE dovrebbero diventare pienamente operativi entro e non oltre il
2020.

Secondo i dati dell’Europol, almeno 7.800 cittadini europei provenienti da 24


stati membri sono andati nelle zone di combattimento in Siria e Iraq per unirsi
ai gruppi terroristici di matrice jihadista. Il numero di spostamenti è calato, ma
ci si aspetta un aumento dei combattenti “di ritorno” qualora lo Stato islamico
(ISIS) venisse militarmente sconfitto o crollasse.

17
Geografia economico politica Modulo 4° - Conflitti e Relazioni Internazionali

L’Europa ha realizzato una legislazione, a livello europeo, sul


terrorismo per criminalizzare le azioni connesse al terrorismo, come
addestramenti o spostamenti per scopi terroristici e supporto a tali viaggi. La
sinergia tra queste norme, e i nuovi controlli alle frontiere esterne, contribuirà
a contrastare il fenomeno dei foreign fighters.
Le compagnie aeree che effettuano voli da fuori e dentro l’UE sono obbligati a
fornire alle autorità nazionali le informazioni dei passeggeri, ad esempio
nome, date del viaggio, itinerario e metodo di pagamento.

Le informazioni che provengono dal codice di prenotazione (dall’inglese


Passenger Name Record – PNR) vengono utilizzate per prevenire, individuare,
svolgere indagini e perseguire reati terroristici e crimini gravi, per arrivare a
questo ci sono voluti più di cinque anni di negoziati. Il Parlamento europeo
ha insistito per la protezione dei dati e per la tutela delle informazioni
sensibili riguardo origine, stato di salute e orientamento religioso, politico e
sessuale.

La persona responsabile dell’attentato al mercatino di Natale di Berlino nel


2016, che ha causato 12 vittime e più di 50 feriti, ha utilizzato diverse identità
per eludere i controlli delle autorità di frontiera e delle forze dell’ordine.
Questo e altri episodi simili sottolineano l’importanza di una efficace
condivisione delle informazioni tra le autorità competenti degli stati membri
(forze dell’ordine, autorità giudiziaria, intelligence).

L’Unione europea possiede già diversi database e sistemi di informazione per


la gestione della sicurezza interna. Il Parlamento si sta attualmente
concentrando sulle regole per consentire l’interoperabilità dei database e
permettere di effettuare consultazioni simultanee di sistemi differenti.

L’Europol, l' agenzia dell’UE incaricata dell’applicazione della legge, sostiene


lo scambio delle informazioni tra le forze dell’ordine nazionali in qualità di
centro di informazione penale dell’UE. A maggio del 2016 il Parlamento
europeo ha deciso di dotare l’Europol di maggiori poteri per intensificare la
lotta al terrorismo e istituire delle unità speciali come il Centro europeo
antiterrorismo inaugurato il 25 gennaio 2016.

Un modo efficace per fermare il terrorismo è tagliare le fonti di finanziamento


e le risorse logistiche. Il Parlamento europeo chiede che i paesi dell’UE
traccino le operazioni finanziarie sospette e gli enti di beneficienza e chiede
che controllino il traffico di petrolio, di sigarette, di oro, di pietre preziose e di
opere d’arte.

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Geografia economico politica Modulo 4° - Conflitti e Relazioni Internazionali

Gli eurodeputati hanno completato l’ultimo aggiornamento della direttiva


antiriciclaggio che inasprisce le regole per le piattaforme di valute virtuali e di
carte di credito anonime prepagate.

Gli eurodeputati sono anche riusciti a garantire delle risorse aggiuntive al


bilancio dell’UE per il 2018 per combattere meglio il terrorismo e il crimine
organizzato. La Commissione europea ha di recente stabilito un osservatorio
sulla blockchain, sulla scorta della richiesta del Parlamento riguardo
il controllo delle valute virtuali come il Bitcoin, per evitare che vengano usate
nei finanziamenti al terrorismo.

L’Unione europea fa tutto ciò che è in suo potere per evitare che le armi più
pericolose finiscano nelle mani delle persone sbagliate. Con la revisione
della direttiva sulle armi da fuoco si chiudono le scappatoie giuridiche che
consentivano ai terroristi di utilizzare armi riconvertite, come era stato fatto
negli attentati di Parigi del 2015. La direttiva richiede che gli stati membri
dispongano di un sistema di monitoraggio adeguato mantenendo pur sempre le
eccezioni per cacciatori, musei e collezionisti.

Il Parlamento chiede anche che ci sia un maggiore controllo nell’esportazione


di armi e che venga stabilito un embargo sulle esportazioni di armi in Arabia
Saudita.

La maggior parte degli attentati in Europa è stata commessa da persone


cresciute in Europa. Il Parlamento ha proposto quindi delle
misure per combattere i fenomeni di radicalizzazione ed estremismo negli
istituti penitenziari, online e attraverso l’educazione e l’inclusione sociale.

Sebbene l’anti-terrorismo rientri in gran parte nelle competenze nazionali, il


livello europeo è il principale forum per la cooperazione tra gli stati membri
nella lotta al terrorismo.

Gli eurodeputati prendono le decisioni su importanti leggi per la lotta al


terrorismo al pari dei ministri dell’UE. Generalmente, il Parlamento europeo si
assicura che vengano rispettati i diritti fondamentali e la protezione delle
informazioni, particolarmente necessari in un contesto fatto di politiche
guidate dalla crisi e dalla fretta di agire.

La strategia UE sulla lotta al terrorismo si articola in quattro elementi:


prevenire, proteggere, perseguire e rispondere. La Commissione europea per
la sua proposta ricalca la struttura dell’agenda europea per la sicurezza 2015-

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Geografia economico politica Modulo 4° - Conflitti e Relazioni Internazionali

2020 e ha lo scopo di facilitare la cooperazione tra gli stati membri nella lotta
al terrorismo, al crimine organizzato e alla criminalità informatica.

Negli ultimi anni sono state adottate diverse politiche europee per la lotta al
terrorismo e oggi il sistema prevede molti soggetti, un'infinità di strategie e, di
conseguenza, sovrapposizioni. Il Parlamento europeo ha stabilito una
commissione speciale che suggerisca i modi per migliorare l’efficienza e
l’efficacia della risposta europea al terrorismo.

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Geografia economico politica Modulo 4° - Conflitti e Relazioni Internazionali

BIBLIOGRAFIA

Bowman I., “Geography Versus Geopolitics”, The Geographical Review, vol. 32,
n° 4, pp. 646-658, 1942.

Fukuyama F., La fine della storia e l’ultimo uomo, Milano, Rizzoli, 1992.

Giordano A., Geografia economico-politica, Dispensa, Unicusano, 2010.

Huntington S., Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, Milano,


Garzanti, 2000.

Pagnini M., “Introduzione alla storia della Geografia politica”, in Corna Pellegrini
G., Dell’Agnese E., Manuale di Geografia politica, Roma, La Nuova Italia
Scientifica, pp. 229-264, 1995.

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Corso di Laurea in Scienze della Formazione

INSEGNAMENTO DI
GEOGRAFIA ECONOMICO POLITICA

Modulo 5° - Unione Europea

A cura di

Giuseppe Terranova
Geografia economico politica Modulo 5° - Unione Europea

SOMMARIO MODULO 5°

Unione Europea

5.1. Origini ed evoluzione


5.2. Allargamento
5.3. Ruolo geopolitico dell’Europa allargata

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Geografia economico politica Modulo 5° - Unione Europea

5.1. Origini ed evoluzione

L’idea dell’Unione Europea fin dagli inizi degli anni ’20 del secolo è legata
alla figura del conte Richard Coudenhove-Kalergi (1894-1972). Già nel 1923
espone il suo programma nel Manifesto Paneuropa e successivamente nel
1925-28 nei tre volumi “La battaglia per la Paneuropa”. Nello stesso anno
fonda l’Unione Paneuropea, un’associazione internazionale che propugna
l’unione di tutti gli Stati europei, esclusi Russia ed Inghilterra, e che pubblica
“Paneuropa”, una rivista in lingua tedesca, per diffondere le sue idee. Nel
1929, stimolato dal conte, il grande statista Aristide Briand presenta alla
Società delle Nazioni un progetto di federazione europea. L’iniziativa, vista
l’avanzata dei nazionalismo, non ha successo, ma attira Churchill e altri
esponenti politici della sua caratura.

L’inizio della guerra fredda e dell’amministrazione Truman rendono l’Europa


centrale nella strategia statunitense. E’ certamente il Piano Marshall a creare le
condizioni concrete per l’avvio del processo dell’unità europea, ma rilevante
per l’opinione pubblica americana è anche una risoluzione - non approvata -
presentata nel 1947, su spinta di Coudenhove-Kalergi, dai senatori J.W.
Fulbright e E. Thomas al Congresso degli Stati Uniti, risoluzione che
dichiarava “il Congresso favorisce la creazione degli Stati Uniti d’Europa nel
quadro dell’Onu”.

Nasce un Comitato Americano per un’Europa Libera e Unita presieduta da


Fulbright con Covenhove-Kalergi come Presidente onorario: il Comitato ha
spazio al Congresso Europeo dell’Aia del 1948 dove Kalergi tiene un discorso
e legge un’impegnativa dichiarazione del senatore. E’ l’ultimo atto pubblico
importante di Kalergi: un pensatore che agiva da solo, senza una patria o un
paese europeo che lo legittimasse.

Nell’autunno del 1948 Churchill, Spaak, Blum e De Gasperi diventano


presidenti del Movimento Europeo, una nuova organizzazione di cui Kalergi
non fa parte. Leader del movimento è il genero di Churchill, Duncan Sandys.
E’ proprio quest’ultimo a minare l’importanza e il ruolo di Kalergi negli USA
e nel Vecchio Continente.

Nel Secondo dopo guerra, l’Europa si trova in una situazione economica,


politica e sociale molto difficile. George Marshall, allora Segretario di Stato,
propone il Piano che prende il suo nome del valore di 17 miliardi di dollari,
Piano che termina nel 1951. Alla base del Piano c’è l’idea politica di impedire
2
Geografia economico politica Modulo 5° - Unione Europea

l’espansione dei comunisti attraverso un consistente aiuto economico. Per


coordinare gli aiuti del Piano Marshall, nasce nel 1948 l'Organizzazione
Europea per la Cooperazione Economica (OECE), prima cellula del processo
di integrazione. I rapporti tra i paesi europei occidentali si intensificano con la
nascita, nel 1949, del Patto Atlantico e del Consiglio d'Europa, ma è il piano
elaborato da due statisti francesi, Jean Monnet e Robert Schuman, a
determinare l'avvio di una collaborazione ancora più stretta. Padri fondatori
dell’Unione Europea sono oltre a Monnet e Schuman, gli italiani Altiero
Spinelli e Alcide De Gasperi, il tedesco Konrad Adenauer e il belga Paul-
Henri Spaak.

La dichiarazione Schuman, ispirata da Jean Monnet, è il punto d’inizio della


costruzione dell’Europa. Alla proposta aderiscono Belgio, Germania Federale,
Italia, Lussemburgo e Paesi Bassi che, insieme alla Francia, firmano nel 1951
il trattato di Parigi, dando vita alla Comunità europea del carbone e
dell'acciaio (entrata in vigore il 27 luglio 1952) che ha come scopo la messa in
comune delle produzioni di queste due materie prime fondamentali per
l'industria bellica: il trattato garantisce quindi da riarmi segreti. La Gran
Bretagna partecipa come associata.

Con la conferenza di Messina del 1955, i ministri degli Esteri dei sei paesi
della CECA avviano trattative per ampliare le basi della cooperazione
economica. Le trattative portano ai due Trattati di Roma del 1957, istitutivi
della Comunità Economica Europea (CEE) e della Comunità Europea per
l'energia atomica (EURATOM). Con l’istituzione della CEE, firmata da
Belgio, Francia, Italia, Lusssemburgo, Olanda e Germania Ovest, si avvia una
strategia sopranazionale come primo passo per una successiva unità politica
degli Stati membri. Si prevede l'eliminazione, entro dodici anni, delle barriere
doganali tra gli Stati membri, il libero movimento di beni, servizi, lavoratori e
capitali e lo sviluppo di politiche congiunte relative allo stato sociale,
agricoltura, trasporti e commercio estero. Nel 1967 CEE, CECA ed
EURATOM confluiscono in un'organizzazione denominata Comunità Europea
(CE). Sta intanto maturando l’idea di un ampliamento della Comunità: nel
1973 Danimarca, Gran Bretagna e Irlanda entrano a far parte della CEE
portando gli Stati membri a nove. Nel 1981 la CEE si amplia nuovamente con
l'ingresso della Grecia e, nel 1986, è la volta di Spagna e Portogallo.

Il Primo Parlamento Europeo viene eletto a suffragio universale nel 1979 ed


entra in vigore il Sistema monetario europeo (SME), un primo passo verso un'
unione monetaria di particolare utilità nella complessa congiuntura economica
degli anni ‘80. Nel 1986 viene firmato l’Atto unico europeo, premessa del
“Mercato unico”, una delle più importanti evoluzioni degli anni ’80: ci si

3
Geografia economico politica Modulo 5° - Unione Europea

propone di eliminare le restanti barriere doganali entro sette anni. Il progetto


trova vari ostacoli come quello della politica Agricola Comunitaria (PAC) che
assorbe gran parte del bilancio comunitario e rende necessario conferire alla
Comunità Europea maggiori poteri.

Con l’approvazione dell’Atto Unico il Consiglio europeo entra formalmente a


far parte delle istituzioni comunitarie, i poteri decisionali del Parlamento
europeo vengono ampliati e viene istituito un Tribunale di primo grado,
destinato a occuparsi dei ricorsi contro la normativa comunitaria.

Nel 1993 viene completato il mercato unico con libertà di circolazione di beni,
servizi, persone e capitali. Nel 1995 aderiscono all’UE tre nuovi Stati membri:
Austria, Finlandia e Svezia.

Tra il 1989 e il 1990 altri due passi importanti vengono compiuti in direzione
dell'integrazione europea: l'adozione di una Carta comunitaria dei diritti
sociali dei lavoratori e la rimozione delle restrizioni ai trasferimenti di
capitale.

All’inizio degli anni Novanta (1991) vengono avviati i negoziati per la


creazione dell'Unione Europea. A dicembre, il Consiglio europeo si riunisce
per elaborare la bozza dell'accordo. Il testo definitivo del Trattato viene
firmato a Maastricht, nei Paesi Bassi, il 7 febbraio del 1992 dai capi di
governo dei paesi membri ed è ratificato nell'ottobre 1993. Il 1° novembre
dello stesso anno, con l'entrata in vigore del Trattato di Maastricht, nasce
l'Unione Europea. Nel 2002 dodici paesi sperimentano l’entrata in vigore della
moneta unica europea, l’euro, amministrata dalla Banca Centrale Europea di
Francoforte e dal Sistema delle Banche Centrali Europee.

Nel 2004 entrano in Europa Cipro, Estonia, Lettonia, Lituania, Malta, Polonia,
Repubblica Ceca, Repubblica Slovacca, Slovenia e Ungheria, nel 2007
Bulgaria e Romania.

L'Unione Europea ha lungamente discusso l’ipotesi di dotarsi di una vera e


propria Costituzione, il cui progetto, avviato in seguito alla dichiarazione di
Leaken del 2001, è approvato nel luglio del 2003. Il trattato che adotta la
Costituzione europea viene firmato dai capi di governo dei 25 paesi membri il
28 ottobre del 2004 a Roma e definitivamente abbandonato nel 2007, a seguito
dello stop delle ratifiche imposto dalla vittoria dei no ai referendum in Francia
e nei Paesi Bassi.

4
Geografia economico politica Modulo 5° - Unione Europea

Le attività e il funzionamento dell’Unione Europea, che si attua tramite


l’operato delle proprie istituzioni, l’esercizio dei poteri e l’applicazione degli
strumenti, è regolato dal diritto comunitario. La Comunità Europea ha
lungamente discusso sulla propria natura giuridica per caratteri peculiari quali
la produzione autonoma di norme giuridiche, la prevalenza di esse sul diritto
nazionale degli Stati e l’applicazione diretta all’interno di quest’ultimo,
l’efficacia obbligatoria e l’esecutorietà immediata delle decisioni della Corte
di Giustizia. Per questi motivi, l’Unione Europea di oggi ha conosciuto un
continuo susseguirsi di modifiche, che l’hanno portata da un iniziale aggregato
economico ad un’istituzione politica importante, anche se oggi assai
impopolare.
La Comunità Economica per il Carbone e l’acciaio (CECA), ente
sopranazionale, aveva già caratteri assai particolari rispetto alle organizzazioni
precedenti. Con i Trattati di Roma del 25 marzo 1957 si assiste alla nascita di
due nuove comunità europee: la Comunità economica europea (CEE) e la
Comunità europea per l’energia atomica (EURATOM). Nel 1968 viene
firmata una convenzione che istituisce un Consiglio unico ed una
Commissione unica delle Comunità Europee. Negli anni settanta vengono
previste risorse proprie della Comunità, in sostituzione dei contributi
finanziari degli Stati membri. Con l’ingresso nella CEE di Danimarca, Gran
Bretagna ed Irlanda nel 1972, della Grecia nel 1981 e della Spagna e
Portogallo nel 1986, la partecipazione dei nuovi membri richiede una riforma
organizzativa e statutaria.

L'Atto unico europeo (AUE), firmato a Lussemburgo nel 1986 dagli Stati
membri, costituisce la prima modifica sostanziale del trattato che istituisce la
Comunità economica europea (CEE). L'AUE entra in vigore il 1° luglio 1987
e consente il passaggio dal mercato comune al mercato unico.

Con la creazione di nuove competenze comunitarie e la riforma delle


istituzioni, l'AUE prepara il terreno per l'integrazione politica e l'unione
economica e monetaria, che saranno istituite dal Trattato di Maastricht
sull'UE.

Il Trattato di Maastricht segna il superamento dell'obiettivo economico


originale della Comunità - ossia la realizzazione di un mercato comune - e si
afferma la sua vocazione politica. In tale ambito, il Trattato consegue cinque
obiettivi essenziali: rafforzare la legittimità democratica delle istituzioni;
rendere più efficaci le istituzioni; instaurare un'unione economica e monetaria;
sviluppare la dimensione sociale della Comunità; istituire una politica estera e
di sicurezza comune.

5
Geografia economico politica Modulo 5° - Unione Europea

Nasce, così, il cosiddetto ”acquis communautaire”, il complesso delle norme,


degli standard e della legislazione in vigore nell’UE che ogni paese candidato
deve incorporare nella propria iniziativa nazionale, garantendone l’effettiva
applicazione attraverso strutture amministrative e giudiziarie appropriate. Il
processo di adozione ed attuazione dell’acquis costituisce un elemento
centrale dei negoziati di adesione, determinante rispetto alla tempistica di
accesso di ogni singolo Stato. L’insieme degli acquis è suddiviso in 31
capitoli, che la Commissione progressivamente apre con ciascun paese
candidato, conducendo bilateralmente un esame analitico (screening) della
materia allo scopo di individuare i problemi e le specifiche tecniche di
adattamento. I capitoli vengono poi progressivamente chiusi.

La prima revisione del Trattato di Maastricht è culminata nella firma del


Trattato di Amsterdam nel 1997 che permette di rafforzare i poteri dell'Unione
attraverso la creazione di una politica comunitaria in materia di occupazione,
il trasferimento sotto competenza comunitaria di alcune materie
precedentemente disciplinate dalla cooperazione nel settore della giustizia e
degli affari interni, le misure volte ad avvicinare l'Unione ai suoi cittadini, la
possibilità di una più stretta cooperazione tra alcuni Stati membri.

L’ultimo dei Trattati in vigore è quello di Lisbona, firmato il 13 dicembre


2007 ed entrato in vigore l’1 dicembre 2009, con lo scopo di rendere l’UE più
democratica, efficiente e preparata per affrontare i problemi di portata
mondiale, come, ad esempio, il cambiamento climatico. Tra le principali
novità si segnalano: maggiori poteri per il Parlamento europeo, modifica delle
procedure di voto del Consiglio, iniziativa dei cittadini, un presidente
permanente del Consiglio europeo, l'istituzione di un alto rappresentante
dell'Unione per gli affari esteri e di un servizio diplomatico dell'UE. Da notare
che il trattato che istituisce una Costituzione per l'Europa (2004) – con
obiettivi simili a quelli del trattato di Lisbona – è stato firmato, ma mai
ratificato (Commissione Europea, 2018).

L’organo più importante dell’Unione Europea è il Consiglio, formato dai


rappresentanti degli Stati membri a livello ministeriale. La presidenza del
Consiglio è esercitata da ciascun membro per la durata di sei mesi secondo un
ordine stabilito da una deliberazione unanime. Per raggiungere gli scopi
stabiliti dal Trattato, il Consiglio provvede al coordinamento delle politiche
economiche generali degli Stati membri; dispone di un potere di decisione e
conferisce alla Commissione le competenze di esecuzione delle norme. Le
deliberazioni sono adottate all’unanimità, a maggioranza semplice o a
maggioranza qualificata: le decisioni unanimi sono richieste in pochi casi, allo
scopo di rendere il Consiglio più efficiente. Ciascun membro dispone del

6
Geografia economico politica Modulo 5° - Unione Europea

diritto di veto per sfere molto importanti come ad esempio: revisione dei
trattati, ammissione di nuovi stati membri, difesa, politica estera comune,
accordi internazionali, politiche fiscali.

Un altro organo rilevante dell’Unione è la Commissione, composta da 28


commissari (un membro per ogni Stato, diventeranno 27 quando la Gran
Bretagna formalizzerà l’uscita dall’UE), scelti in base alle loro competenze e
tali da offrire ogni garanzia di indipendenza. Il presidente della Commissione
è designato dai paesi membri a maggioranza qualificata, una scelta che deve
essere approvata dal Parlamento. La Commissione europea è strutturata in
Direzioni generali (DG), suddivise a loro volta in Direzioni e queste ultime in
Unità. Le deliberazioni dell'istituzione vengono prese a maggioranza del
numero dei suoi membri.

Alla Commissione vengono riconosciuti poteri di controllo, potere normativo,


potere di raccomandazione, potere di negoziazione dei Trattati internazionali.

Il Parlamento europeo è l'assemblea parlamentare dell'Unione Europea ed ha


la propria sede ufficiale a Strasburgo: è l'unico parlamento plurinazionale al
mondo ad essere eletto a suffragio universale diretto. Il Parlamento europeo
esercita tre poteri fondamentali: legislativo, di bilancio e di controllo
democratico. Parlamento europeo e Consiglio approvano congiuntamente le
leggi proposte dalla Commissione europea. Il Parlamento europeo esercita un
controllo democratico sull'attività comunitaria, soprattutto tramite l'istituzione
di temporanee commissioni d'inchiesta; ha inoltre il compito di votare la
fiducia alla Commissione nel suo insieme e può quindi esercitare un'eventuale
"mozione di censura". Qualunque nuova adesione di uno Stato all'Unione
Europea, nonché la maggior parte degli accordi internazionali, deve ricevere
l’approvazione del Parlamento europeo.

Le finalità dei Trattati e lo svolgimento delle attività dell’Unione richiedono


che le istituzioni competenti possano emanare atti applicabili all’interno dei
Paesi membri. Ciò può avvenire in due modi: attraverso un’azione diretta,
consistente nell’emanazione di atti direttamente applicabili in tutto l’ambito
dell’Unione. Si tratta di regolamenti e decisioni, adottate dal Parlamento
congiuntamente con il Consiglio e la Commissione che hanno carattere
obbligatorio. Uno Stato membro non può invocare norme o prassi del proprio
ordinamento interno per giustificare l’inosservanza degli obblighi e dei
termini contemplati da regolamenti e decisioni; oppure attraverso la cosiddetta
azione indiretta, tramite l’adozione di atti che impegnano gli Stati ad un certo
risultato lasciando libera la scelta dei mezzi. In questa categoria rientrano le
raccomandazioni e le direttive.

7
Geografia economico politica Modulo 5° - Unione Europea

5.2. Allargamento

Il processo di allargamento, dapprima della Comunità Europea e poi


dell’attuale Unione Europea, è un processo lungo e complesso, non ancora
concluso: ci sono altri 3 Paesi candidati all’adesione (Albania, Macedonia,
Montenegro, Serbia e Turchia) ed altri Paesi aspiranti tali (Bosnia-Erzegovina
e Kosovo).

Dal 1961 alcuni Paesi esterni, in particolare Gran Bretagna, Irlanda e


Danimarca, manifestano il desiderio di far parte della Comunità Europea ma si
scontrano con la ferma opposizione del generale De Gaulle, contrario
all’adesione britannica a causa degli stretti legami inglesi con gli Stati Uniti.
Nel 1963 il Presidente francese interrompe il negoziato, mentre nel 1967 il suo
veto ne impedisce addirittura l’inizio. Con l’elezione di George Pompidou alla
Presidenza della Francia, si apre nel 1973 per la Gran Bretagna – ma anche
per l’Irlanda e la Danimarca - la strada europea

Il secondo allargamento riguarda la Grecia, che già dal 1961 gode di un


regime di associazione finalizzato all’adesione, la Spagna e il Portogallo. Le
difficoltà che si presentano sono di tipo economico, a causa del basso sviluppo
dei tre candidati e del forte potenziale agricolo spagnolo, ma anche di tipo
istituzionale: l’Europa a 12 necessita di una gestione diversa da quella dell’
Europa a 6. Per questi problemi si decide di procedere all’adesione in due
tempi: la Grecia nel 1981, Spagna e Portogallo nel 1986.

Oltre allo sviluppo “politico” dell’integrazione si sono compiuti passi


significati nel campo economico comune creando nel 1979, con l’istituzione
del Sistema monetario europeo (SME), un’area di stabilità monetaria in
Europa. Il principale evento degli anni Ottanta è rappresentato dall’Atto Unico
Europeo. Nel 1986, con la prima parte dell’Atto Unico Europeo, vengono
inserite modifiche ai Trattati di Roma: la revisione sostanziale più importante
è il rilancio della costruzione europea tramite la previsione di realizzare un
Mercato Interno entro il 1992, introducendo linee politiche comuni anche nei
settori fiscale, occupazionale, sanitario ed ambientale.
Con la seconda parte dell’AUE le pratiche intergovernative utilizzate per la
cooperazione nella politica estera vengono istituzionalizzate e codificate,
senza però essere comunitarizzate. La cooperazione viene inoltre estesa agli
aspetti economici e politici nel campo della sicurezza.

Grazie a queste innovazioni, contemporaneamente al crollo dei regimi


comunisti e alla conseguente richiesta d’aiuto di molti paesi, aprono la strada
agli accordi di Maastricht (1992): con la loro firma si afferma la vocazione
8
Geografia economico politica Modulo 5° - Unione Europea

politica dell’Europa. Il Trattato di Maastricht, stabilisce i criteri per la


trasformazione della Comunità Europea in Unione Europea, la creazione di
un’Unione monetaria e attribuisce all’Unione nuove funzioni relative alla
definizione dei cosiddetti tre pilastri: il primo pilastro riguardante la Comunità
Europea ed il suo funzionamento, il secondo pilastro pertinente ad una
comune politica estera e di sicurezza ed infine il terzo pilastro inerente alla
cooperazione nel campo della giustizia e degli affari interni.

La data dalla nascita ufficiale dell’Unione Europea è l’1 novembre del 1993,
mentre nel 1994 si costituisce lo Spazio economico europeo volto a creare un
Mercato unico tra l’UE e i Paesi dell’Associazione europea di libero scambio
(EFTA – Islanda, Liechtenstein, Norvegia e Svizzera con lo status di
osservatore) che prevede la libera circolazione di merci, persone, servizi e
capitali. L’anno successivo entrano nell’Unione Austria, Finlandia e Svezia,
completando il processo di integrazione dell’Europa dei 15.

Dopo la firma del Trattato di Maastricht, l’aspetto più rilevante della storia UE
è il processo di integrazione di 10 nuovi paesi: Slovenia, Repubblica Ceca,
Slovacchia, Ungheria, Polonia, Estonia, Lettonia, Lituania, Malta e Cipro. Ai
quali si aggiungeranno Bulgaria e Romania.

In seguito al crollo del Muro di Berlino e dopo il successivo smantellamento


dell’Unione Sovietica, la Comunità Europea si trova di fronte ad una
situazione da gestire con urgenza. La Comunità e gli Stati membri, dinanzi al
necessario processo di transizione verso l’economia di mercato e la
democrazia dei Paesi dell’Europa Centrale ed Orientale (PECO) e dei dodici
stati indipendenti dell’Unione Sovietica (NIS), hanno concentrato le loro
azioni di cooperazione sull’assistenza tecnica e sull’aiuto comunitario di
emergenza. La Comunità si è impegnata nella realizzazione del Programma
PHARE – Poland and Hungary: Action for the Restructuring of the Economy -
inizialmente lanciato dal gruppo dei 24 paesi OCSE allo scopo di aiutare gli
ex regimi comunisti nella fase di transizione al pluralismo politico e
all’economia di mercato. Da parte dei PECO il PHARE viene presto giudicato
inadeguato perché non prevede nessuna prospettiva per una futura
integrazione nella Comunità. Sotto le pressioni dei rispettivi governi, e con
l’interesse sempre maggiore della Comunità verso quella parte d’Europa, la
Commissione Europea decide di procedere alla stipulazione degli Accordi
Europei di Associazione. Gli accordi prevedono la creazione di rapporti
istituzionali basati sulla prossimità geografica, su valori comuni e sulla
crescente interdipendenza fra gli Stati.

9
Geografia economico politica Modulo 5° - Unione Europea

Occorre attendere il vertice del Consiglio europeo di Copenhagen, nel 1993,


affinché l’Unione europea adotti misure concrete per una futura integrazione
dei paesi dell’Europa centrale ed orientale: gli Stati aspiranti all’ingresso
nell’UE devono soddisfare i criteri previsti per avviarsi verso l’integrazione.
Fino alla metà degli anni Novanta, sono dieci i paesi che hanno stipulato gli
Accordi europei: Ungheria, Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Lettonia,
Lituania, Estonia, Slovenia, Bulgaria e Romania. Stipulando gli Accordi, i
paesi sopraindicati entrano nel periodo preparatorio dov’è necessario, in virtù
dei Criteri di Copenhagen e di Madrid, adottare delle strategie per una futura
adesione. I paesi firmatari degli Accordi europei, insieme a Malta e Cipro,
pongono la propria candidatura per l’ingresso nell’UE.

Nella “strategia di preadesione” gli Accordi di Associazione, o Accordi


europei, sono il fondamento delle relazioni dell’Unione con gli Stati candidati.
Nell’ambito della strategia di preadesione si individuano i settori prioritari, si
fornisce assistenza finanziaria, si concludono gli accordi di associazione, si
autorizza la partecipazione ai Programmi e alle Agenzie della Comunità e si
preparano i negoziati attraverso l’esame analitico, lo screening dell’acquis.

Il Consiglio europeo di Copenhagen del 13 dicembre 2002 conclude gli


Accordi di Adesione con la Repubblica Ceca, Slovacchia, Estonia, Lituania,
Lettonia, Ungheria, Malta, Cipro, Polonia e la Slovenia. Nella stessa sede
viene decisa l’entrata nell’UE dei dieci stati firmatari, che in tal modo
sarebbero diventati Stati membri a tutti gli effetti, il 1° maggio 2004.

L’ultimo allargamento dell’Unione Europea, che ha portato i Paesi membri a


27, si è compiuto il 1 gennaio 2007, con l’ingresso della Bulgaria e della
Romania. L’unificazione del continente europeo, fornisce all’Unione il peso
necessario perché possa proporsi a livello mondiale in modo compatto e
autorevole (Pagnini, 1995).

5.3. Ruolo geopolitico dell’Europa allargata.

Qualora non si fosse d’accordo sull’osservazione di von Humboldt secondo


cui l’Europa rappresenta un enorme e articolata penisola dell’Asia, si deve
guardare all’Europa di oggi attraverso la sua complessa identità come spazio
culturale, mentre d’altra parte è d’obbligo comprendere l’essenzialità storico-
geografica del processo della sua unità e del suo ampliamento verificatosi da
mezzo secolo a questa parte.
L’Europa unita, che si estende dall’Oceano Atlantico agli Urali,
comprenderebbe la parte europea di Russia e Turchia, che hanno però la
maggior parte del loro territorio in Asia, considerazione questa, che richiama
10
Geografia economico politica Modulo 5° - Unione Europea

il “deficit” del criterio geografico nel definire i limiti dell’Europa. Un secondo


criterio di definizione, quello culturale, si baserebbe sull’eredità della
Riforma, della Controriforma e dell’Illuminismo come fondamenta necessarie
per la costruzione di un’identità comune, la quale aprioristicamente avrebbe
escluso gli ultimi due paesi entrati in Europa, la Bulgaria e la Romania, ed i
Paesi islamici. A causa di ciò, l’Unione Europea non può che basarsi su criteri
oggettivi in termini politici, economici e sociali che prescindono da criteri
d’identità che escluderebbero permanentemente alcuni Stati, anche perché i
Trattati costitutivi dell’Unione, ispirati ai principi liberali, non ne tengono
conto.

Se l’Unione adotta politiche di chiusura verso i Paesi vicini, ammettendo in tal


modo la “sacralità” dei confini, l’instabilità in uno di questi Paesi potrebbe
avere delle conseguenze inevitabilmente negative per l’Europa stessa: ciò può
essere evitato se a Bruxelles venissero elaborate delle politiche di carattere
multidimensionale, finalizzate ad un maggior coinvolgimento dei Paesi vicini,
ad esempio realizzando aree di libero scambio o stipulando accordi di
collaborazione politica.

Il Processo di Stabilizzazione ed Associazione, e la successiva apertura dei


negoziati con la Croazia, l’operazione militare ALTHEA in Bosnia e
Erzegovina e l’operazione CONCORDIA improntata sul suolo della FYROM,
forniscono le prove tangibili circa la comune volontà politica di assicurare
all’Europa una posizione incisiva e coerente nell’ambito delle relazioni
internazionali. Le riflessioni sul primo ambito dell’azione europea
testimoniano quanto sia necessario per l’Unione completare gli allargamenti,
mantenendo, senza automatismi, una concezione “aperta” del concetto di
Europa.

Tra le politiche di prossimità UE quella che riguarda l’area del Mediterraneo


allargato è tra le più importanti (vedi Modulo 6). Negli ultimi dieci anni l’UE
ha creato una solida struttura di cooperazione con i partner del Mediterraneo
ma la precaria situazione all’interno dei singoli Stati, causata dal forte deficit
democratico, rende difficoltoso uno sviluppo lineare e finalizzato dei rapporti.
Inoltre, gli attacchi terroristici di Casablanca e Madrid, assieme alla guerra in
Iraq, hanno ulteriormente destabilizzato l’intero Medio Oriente e la regione
del Golfo aumentando le preoccupazioni e alimentando le discussioni presso
le istituzioni comunitarie sulle politiche di difesa e sicurezza, sulla PESC e
PESD in particolare. Queste ultime, concepite con il Trattato di Maastricht,
sembrano aver ricevuto una collocazione definitiva nel Trattato costituzionale:
l’UE, attraverso la Convenzione, ha cercato di introdurre, sul versante
strettamente istituzionale, delle novità che si esplicano nell’idea di combinare

11
Geografia economico politica Modulo 5° - Unione Europea

ruoli, attribuzioni e risorse dell’Alto Rappresentante per la PESC e del


Commissario per le relazioni esterne, istituendo la figura di “Ministro degli
Affari esteri dell’Unione”.

Un altro strumento di natura tecnico-operativa è il partenariato generato dal


Processo di Barcellona dal 1995. Il Processo tende a valorizzare l’importanza
strategica dell’area mediterranea, perseguendo il mantenimento della pace e
della stabilità nella regione e promuovendo gli interessi comuni dei Paesi
coinvolti attraverso riforme capaci di far crescere il commercio, gli
investimenti e di tutelare e valorizzare l’ambiente e le risorse economiche. Si
vorrebbe ricostruire in questo modo un antico bacino di equilibrio al quale
potrebbe collegarsi, in prospettiva, la vasta area araba che attualmente ricade
sotto la sovranità dei paesi membri del Consiglio di cooperazione del Golfo
(Emirati Arabi Uniti, Bahrein, Qatar, Kuwait, Arabia Saudita e Oman).
L’integrazione delle due isole mediterranee, Cipro e Malta, e l’apertura dei
negoziati con la Turchia, danno all’Unione quel plusvalore necessario a
rinsaldare la propria posizione, dalla quale nel prossimo futuro potrebbero
nascere nuove ed importanti soluzioni per i conflitti nel Medio Oriente.

Il 13 luglio 2008, in occasione del semestre di presidenza francese del


Consiglio europeo, Nicolas Sarkozy, in linea con gli obiettivi del Processo di
Barcellona, promuove l’Unione per il Mediterraneo (UpM) che aveva già
annunciato l’anno precedente con quello che viene ricordato come il Discorso
di Tolone. La Dichiarazione approvata dai 43 stati presenti al Summit di
Parigi del 13 luglio 2008, infatti, riassumeva semplicisticamente in numerosi
punti quella di Barcellona, anche laddove quest’ultima si era mostrata meno
attuabile e realistica (Aliboni, 2008). Nel progetto di Nicolas Sarkozy non
mancavano, tuttavia, alcune rilevanti novità. In particolare nel nuovo possibile
assetto del partenariato euro-mediterraneo forse l’aspetto più rilevante era
l’istituzione di un Comitato congiunto permanente – simile al Coreper
dell’Unione Europea – che rappresentava i governi e al quale sarebbero
dovute essere sottoposte le principali problematiche relative alle vecchie
strutture del Partenariato euro-mediterraneo e a quelle nuove dell’Unione per
il Mediterraneo.

Non bisogna, inoltre, sottovalutare la valenza simbolica e politica


dell’iniziativa di Nicolas Sarkozy. Affermare, infatti, il concetto di unità – e
addirittura di civiltà unitaria - dei paesi rivieraschi del Mare Nostrum significa
considerare il Mediterraneo un’entità geopolitica a sé stante, riconoscersi in
essa, sostenere la prevalenza dei fattori di unità su quelli di diversità, come le
religioni. Rientra in un’operazione politica di ampia portata, che punta non
solo a contrapporsi a tutti coloro che vogliono vedere il mondo musulmano

12
Geografia economico politica Modulo 5° - Unione Europea

come un’entità geopolitica omogenea ed unita, estesa dal Marocco alle


Filippine meridionali, ma anche a contraddire l’idea che il mondo islamico
costituisca un’entità geopolitica completamente altra e fatalmente ostile
all’Occidente (Sacco, 2008). In tal modo l’allora Presidente della Repubblica
francese, contava di trovare una soluzione alternativa all’ingresso della
Turchia nell’UE, così da raggiungere il doppio obiettivo di rilanciare la
politica araba della Francia e, allo stesso tempo, ridare voce in capitolo
all’Europa sulla questione israelo-palestinese.

Il progetto si contrapponeva, così, a quello avanzato, prima di essere catturato


ed ucciso, da Osama Bin Laden in numerosi video-messaggi dove affermava
che l’origine di tutte le recenti criticità del mondo musulmano era stata
l’abolizione del califfato. Una teoria che presupponeva la nascita di una nuova
entità politica che inglobasse tutti i paesi musulmani: una vera e propria
regione omogenea sul piano culturale e religioso che avrebbe avuto anche, tra
le altre, una frontiera mediterranea. Ciò spiega perché Nicolas Sarkozy scelse
il Marocco come sede per presentare al mondo islamico il progetto di
un’Unione per il Mediterraneo. Il Regno guidato da Mohammed VI, infatti, è
sì uno stato musulmano, ma non ha mai fatto parte del califfato. E la famiglia
reale, pur vantando una discendenza diretta dal Profeta, non ha mai, pur
essendo legittimata a farlo, rivendicato la successione 1. Nonostante i buoni ed
ambiziosi propositi di Nicolas Sarkozy, l’Unione per il Mediterraneo ha
registrato progressi lenti e contraddittori. Una verità confermata da due fattori.

Il primo, il meccanismo istituzionale dell’UpM è stato avviato con molte


difficoltà, sia politiche, come ad esempio la complicata scelta del Segretariato,
che tecniche, in particolare relative alla definizione dei compiti delle nuove
strutture.

Il secondo, l’individuazione dei primi specifici obiettivi da raggiungere


all’interno dei macro-settori (commercio, immigrazione, sicurezza ed energia)
ha costituito una scelta di basso profilo. Fin da subito sono stati trascurati
ambiti sensibili come quello relativo ai flussi migratori.

Sembra che, come è già accaduto in passato, per evitare ulteriori resistenze e
divisioni tra i partner delle due rive del Mediterraneo, si sia deciso di non
perseguire obiettivi più impegnativi e sostanziali. Una impasse dovuta alle
divisioni tra gli Stati del Nord e del Sud e alle contrapposizioni interne alle
due parti coinvolte. Al vertice di Parigi del luglio 2008, infatti, non era
presente Sua Maestà il re Mohammed VI del Marocco perché alla diplomazia
multilaterale predilige quella bilaterale e, inoltre, non avrebbe mai accettato di

1 Kalifa, infatti, significa successione.


13
Geografia economico politica Modulo 5° - Unione Europea

negoziare con il Presidente algerino Abdelaziz Bouteflika suo storico nemico.


Per ragioni diverse, in nome della sua lotta per il panafricanismo, era assente
anche l’allora leader libico Muahmmar Gheddafi.

Sul fronte europeo, ha pesato, ma non è una novità, la tradizionale


contrapposizione tra gli stati mitteleuropei, interessati ad allargare verso Est i
confini dell’UE, e quelli dell’Europa mediterranea che, invece, guardano con
maggiore interesse al vicino Sud. Secondo molti osservatori, il cancelliere
tedesco Angela Merkel prese il progetto di Nicolas Sarkozy talmente sul serio
da opporvisi con estrema fermezza, riuscendo ad indebolire le ambizioni
francesi, coinvolgendovi i 27 stati dell’UE e non solo quelli mediterranei. Ha
fornito così, mutatis mutandis, un esempio di quella stessa tattica che è stata
usata contro il processo di unificazione europea: quella di annientare
l’ispirazione originaria attraverso l’irragionevole allargamento del numero di
partecipanti.

Per queste ragioni, aggravate dalla Primavera Araba che dal dicembre 2010 ha
destabilizzato lo scenario geopolitico della Sud del Mediterraneo, il
partenariato euro-mediterraneo è, oggi, in stallo, lasciando irrisolte, tra le altre,
due questioni: la libera circolazione delle persone nello spazio euro-
mediterraneo e il protezionismo europeo in campo agricolo. Ad approfittarne è
stata la Cina che sta scalzando gli europei dal ruolo di primo piano che hanno
sempre avuto in Africa.

E’ questo uno dei contesti che mettono l’Europa unita davanti alle logiche e ai
mutamenti globali e a confronto con le grandi potenze mondiali. Le relazioni
con gli Stati Uniti in questo contesto occupano il primo posto. È molto
probabile che esse continueranno a rimanere in una situazione di carattere
precario essendo radicate in alcune realtà geopolitiche: nella fine della guerra
fredda e nella differenziazione fra le priorità dell’Europa e quelle degli USA,
nell’evoluzione dell’UE e nell’adozione di un atteggiamento di maggior
indipendenza dall’alleato oltreoceano, finalizzato a raggiungere una più
ragguardevole influenza nel quadro mondiale.

Espandendosi ad Est e a Sud-Est, l’UE non può non entrare in un intenso


gioco di sovrapposte influenze: per la Russia di Putin gli interessi sono sì i
buoni rapporti con l’UE, ma anche quelli di ristabilire la propria influenza sui
paesi della Comunità degli Stati Indipendenti. Tale doppio indirizzo della
politica estera russa produce difficoltà a Bruxelles: l’UE è costretta a
rispondere con idee geopolitiche chiare, delineando l’ ”estero condiviso” come
un’area dove l’Unione deve essere in grado di promuovere attivamente i
propri interessi.

14
Geografia economico politica Modulo 5° - Unione Europea

Ciò nondimeno, sarà il Caucaso meridionale a dar la prova della saldezza


dell’azione comune europea quale manifestazione di una matura potenza
regionale: la regione rappresenta per l’UE un asse di crescente importanza
geopolitica, cruciale per l’approvvigionamento energetico. All’iniziale
inclinazione dell’Unione a lasciare ad altre organizzazioni (NATO, OSCE) il
compito di intervenire, sembra essere subentrata una nuova strategia che vede
l’inclusione degli stati del Caucaso Meridionale nell’ European
Neighbourhood Policy, con lo scopo di includerli nella propria orbita. Tale
crescente coinvolgimento europeo, sommato alla già forte presenza
statunitense nell’area, contribuisce a rinvigorire la “reazionaria” strategia
caucasica di Mosca, portandola ad un approfondimento dei legami con
l’Armenia e ad una latente politica di ostilità nei confronti di Georgia e
Azerbaigian.

Non meno rilevanti i rapporti che l’UE trattiene con la Cina: il loro relativo
successo trova la sua origine nella mancanza di conflitti di interesse e,
soprattutto, nella comune strategia negli affari internazionali. L’Europa non ha
interessi militari e strategici nel sud-est asiatico, perciò i rapporti sono
essenzialmente di natura economica. Bruxelles e Pechino stanno rafforzando
la loro collaborazione nell’ambito della ricerca e dell’innovazione ed, inoltre,
hanno dato l’avvio al più vasto programma al mondo di cooperazione nella
ricerca scientifica e tecnologica denominato “EU-China Framework
Program”.

Da quanto esposto, diventa chiaro che l’Unione Europea debba dotarsi degli
strumenti istituzionali idonei a rispondere alla sempre crescente “domanda
d’Europa” proveniente dal Mondo e in tal modo evolvere da Europa-spazio
(economica e commerciale) a Europa-potere (forte soggetto politico, forza di
attrazione e aggregazione) ed, infine, a Europa-potenza (ordine militare a
scopi coercitivi). È dalla credibilità politica che dipenderà il futuro
dell’Unione, che dovrà sapersi muovere nei nuovi contesti geopolitici,
garantendo all’interno un tipo di integrazione e prospettando all’esterno un
modello d’azione, entrambi basati su quei valori politici, economici e culturali
che l’hanno resa indispensabile attore sulla scena internazionale.

15
Geografia economico politica Modulo 5° - Unione Europea

BIBLIOGRAFIA

Aliboni R., La nuova Unione per il Mediterraneo tra luci e ombre,


http://www.affarinternazionali.it/articolo.asp?ID=892, 17 luglio
2008.

Baldwin-Edwards M., The changing mosaic of Mediterranean


migration, «Migration Information Source», June 2004

Giordano A., Geografia economico-politica, Dispensa, Unicusano, 2010.

Ó Tuathail G, Critical Geopolitics: The Politics of Writing Global Space, London,


Routledge, 1996.

Pagnini M., “Introduzione alla storia della Geografia politica”, in Corna Pellegrini G.,
Dell’Agnese E., Manuale di Geografia politica, Roma, La Nuova Italia Scientifica,
pp.229-264, 1995.

16
Corso di Laurea in Scienze della Formazione

INSEGNAMENTO DI
GEOGRAFIA ECONOMICO POLITICA

Modulo 6° - Spazio euro-mediterraneo

A cura di

Giuseppe Terranova
Geografia economico politica Modulo 6° - Spazio euro-mediterraneo

SOMMARIO MODULO 6°

Spazio euro-mediterraneo

6.1. Relazioni euro-mediterranee


6.2. Il ruolo dell’Italia nel Mediterraneo
6.3. Le relazioni italo-libiche

1
Geografia economico politica Modulo 6° - Spazio euro-mediterraneo

6.1. Relazioni euro-mediterranee.


I rapporti tra le due sponde del Mediterraneo sono stati caratterizzati, fin dai
tempi più antichi, da contraddizioni e conflittualità. Nessun altro mare nella
storia della civiltà ha, più del Mare Nostrum, strettamente e lungamente unito i
popoli che abitavano le sue rive. E nessun altro ha segnato un confine così
netto tra mondi e culture diverse. É stato, infatti, attorno al lago mediterraneo
che i romani edificarono un impero destinato a durare mille anni. Ma è stato
attraverso il Mediterraneo, lungo un fronte che andava da Gibilterra a San
Giovanni D’Acri, che cristiani e musulmani si sono affrontati più tardi per
quasi dieci secoli.

Una vera e propria duplice natura. Un’ambiguità che, dunque, non nasce oggi.
Tuttavia, rispetto al passato, negli ultimi anni - volendo indicare una data
precisa si potrebbe dire dalla caduta del muro di Berlino - l’evoluzione dei
rapporti socio-economici e politici tra le due rive del Mediterraneo presenta
nuove e ben più complesse criticità.

Le innovazioni introdotte dai processi di globalizzazione hanno intensificato


le interconnessioni politiche, economiche e sociali transnazionali. Tutto questo
nello spazio euro-mediterraneo ha accentuato, o quantomeno reso più visibili,
le disparità che storicamente si registrano tra la riva Sud e quella Nord. Si
tratta di veri e propri cleavage sui quali, sia pur brevemente, vale la pena di
soffermarsi.

Il primo è di natura squisitamente demografica. Nel Mediterraneo,


l’evoluzione demografica delle due sponde negli ultimi cinquant’anni è stata
alquanto diversa. Infatti, nella parte Nord (intendendo i soli paesi europei che
si affacciano nel Mediterraneo) si è passati da 150 a 205 milioni di abitanti,
mentre in quella Sud-Est (compresa la Turchia) si è registrato un aumento
2
Geografia economico politica Modulo 6° - Spazio euro-mediterraneo

molto più ampio: da 70 a 275 milioni. Ciò vuol dire che, a livello aggregato,
nel 1950 si contavano in tutto il bacino più o meno 220 milioni di individui,
mentre nel 2010 si è arrivati a circa 480 milioni. Ma è la lettura di questi dati
in termini relativi a darci una reale percezione del mutato equilibrio tra le due
sponde. Se, infatti, nel 1950 circa il 68% della popolazione risiedeva nella
parte Nord e, approssimativamente, il 32% in quella Sud-Est, nel 2010 la
situazione cambia radicalmente. Tanto da far registrare un sorpasso della
sponda Sud-Est, che conta nel nuovo millennio più o meno il 57% della
popolazione, nei confronti di quella Nord, che scende invece a circa il 42% del
totale.

La differenza tra Nord e Sud-Est del bacino mediterraneo, in termini di


crescita della popolazione, è dovuta sostanzialmente a due fenomeni
combinati: nei paesi europei si è verificata la diminuzione del tasso di
fecondità, diminuzione tanto sostenuta al punto che le generazioni stentano a
rinnovarsi; in quelli meridionali è la mortalità ad essere diminuita. In sostanza,
la speranza di vita alla nascita tra le due sponde tende a uniformarsi, ma la
propensione a generare nuove vite è rimasta relativamente più sostenuta solo
sul versante Sud-Est.

I dati fin qui enunciati risultano tanto più sorprendenti se si tiene conto che,
come si evince dalla seguente tabella, osservando la struttura per età della
popolazione della sponda Nord e Sud si scopre che gli europei non solo sono
sempre meno, ma sono ben più anziani dei nord-africani. Basti pensare, ad
esempio, che il 31,6% della popolazione dell’Africa Settentrionale è composto
da under 15, percentuale che è pari al doppio di quella che si registra nel
Vecchio Continente.

3
Geografia economico politica Modulo 6° - Spazio euro-mediterraneo

Struttura per età della popolazione mondiale

Fonte: Insee, 2010

Il secondo, invece, è di natura geoeconomica. Nonostante la pesante attuale


crisi economica, il Prodotto Interno Lordo dell’Unione Europea è quindici
volte superiore a quello del Maghreb. Un gap dovuto, tra le altre ragioni, al
fatto che tendenzialmente le economie dei paesi maghrebini non sono riuscite
a profittare di quello che in teoria viene considerato dagli esperti un fattore
positivo: la presenza in questi stati di una consistente forza lavoro giovanile
che, anziché diventare un importante asset socio-economico a disposizione
delle attività produttive, è diventato un vero e proprio problema sociale.

Ciò in ragione dell’elevato livello di disoccupazione tra le nuove generazioni e


della conseguente frustrazione di questa fascia della popolazione. Una realtà
ulteriormente aggravata dal fatto che i giovani arabi sono di certo meno
tutelati di quelli europei. Questi ultimi, infatti, pur riscontrando difficoltà di
entrata nel mercato del lavoro (anche se per ragioni totalmente diverse da
quelle degli stati arabi) sono però “tutelati” dalle classi demografiche più
anziane; cioè dai loro genitori e, sempre più spesso, anche dai loro nonni, oltre
che, naturalmente, da un sistema più democratico stabile e ricco che però sta
dimostrando, ormai da tempo, il peso negativo di un Welfare State che
favorisce quantitativamente e qualitativamente la sempre più crescente quota

4
Geografia economico politica Modulo 6° - Spazio euro-mediterraneo

di classi anziane e che pesa come un macigno su quelle giovani e in età


lavorativa (Giordano, 2016).

Mentre i giovani dei paesi arabi lamentano l’insufficienza di reddito e la


mancanza di prospettive future, quelli europei stanno vivendo, loro malgrado,
sulle prospettive in esaurimento delle classi generazionali più anziane (che
però sono parte del problema).

Il terzo, invece, è di ordine culturale. Se, infatti, in passato le differenze


culturali tra le due rive del Mediterraneo venivano percepite come una
ricchezza che rendeva possibile una reciproca contaminazione, oggi, invece,
sono sentite in chiave prevalentemente conflittuale, soprattutto a livello di
identificazione religiosa.

Il quarto, infine, riguarda la politica. Contrariamente a quanto si è verificato in


Europa, dal dopoguerra ad oggi, nei paesi del Maghreb le istituzioni
democratiche hanno fatto non poca fatica ad attecchire. Al punto che in questa
regione, complice la crisi economica internazionale e l’improvvisa impennata
del prezzo delle derrate alimentari, a partire dal dicembre 2011 si è levato un
potente vento di protesta popolare che, dopo aver colpito inizialmente la
Tunisia1, ha avuto un effetto domino su tutte le piazze arabe lungo le coste
africane, fino ad arrivare nello Yemen.

Un imprevisto movimento di protesta dal basso, anti-establishment che nel


giro di pochi mesi ha portato alla destituzione del presidente tunisino Zine El
Abidine Ben Ali, di quello egiziano Hosni Mubarak, del dittatore libico
Muhammar Gheddafi e di quello yemenita Ali Abdallah Sale.

1Quella che ex-post è stata definita «Primavera araba», infatti, è cominciata nella cittadina di Sidi Bouzid.
Dove Mohamed Bouazizi, uno dei tantissimi venditori ambulanti del paese, giovane e laureato, il 17
dicembre 2010 in segno di protesta contro la polizia che gli aveva sequestrato la merce (frutta e verdura), ha
deciso di darsi fuoco come una torcia umana nel centro della città tunisina. È morto il 5 gennaio 2011, con
ustioni sul 90% del corpo.
5
Geografia economico politica Modulo 6° - Spazio euro-mediterraneo

Inoltre sia il Presidente algerino Abdelaziz Bouteflika che il re del Marocco


Mohammed VI sono riusciti ad arginare la protesta, oltre che con la forza,
approvando, almeno sulla carta, significative riforme costituzionali che
assecondassero i voleri del popolo.

Questi quattro cleavage – demografico, economico, culturale e politico – non


sono una novità di oggi, rappresentano un continuum nella storia dello spazio
euro-mediterraneo, oltre che tradizionali push factor delle migrazioni
internazionali.

La novità sta nel fatto che, come già anticipato in precedenza, in virtù dei
processi di globalizzazione, la sponda Nord e Sud del Mare Nostrum si sono
ritrovate, come mai accaduto nella storia, tanto vicine, quanto diverse. Una
sorta di vera e propria cohabitation che è diventata complessa per l’Europa,
soprattutto sul fronte immigrazione.

Una realtà, si potrebbe sostenere, non così dissimile da quella che si registra,
ad esempio, Oltreoceano, nella frontiera che divide il Messico dal sogno
americano. Con una differenza, però, niente affatto secondaria: gli Stati Uniti
sono paesi di immigrazione, l’Europa no.

Ciò spiega perché di fronte a queste rilevanti novità le nazioni del Vecchio
Continente sono in difficoltà. In particolare quelle dell’Europa Mediterranea
(Grecia, Italia, Portogallo e Spagna), perché si sono ritrovate, quasi da un
giorno all’altro, da terre di emigrazione a mete di ingenti flussi migratori, con
tutte le difficoltà del caso.

Una situazione che, al contempo, ha messo in uno stato di costante allerta le


nazioni mitteleuropee, preoccupate all’idea che l’inesperienza e l’incapacità
del governo greco, italiano, portoghese e spagnolo, nella gestione della
pressione migratoria proveniente dal vicino Maghreb, favorisse una vera e
propria invasione della fortezza europea.
6
Geografia economico politica Modulo 6° - Spazio euro-mediterraneo

Non deve, dunque, sorprendere che l’esigenza di preservare la sicurezza dei


confini europei ha rappresentato, se non l’unica, la principale ragione che ha
indotto una parte dei leader del Vecchio Continente a cercare, a più riprese, di
avviare una più stretta collaborazione multilaterale con i paesi della sponda
Sud del Mediterraneo.

Volendo immaginare la storia del dialogo euro-mediterraneo come un


percorso a tappe, semplificando si può sostenere che la prima si è svolta nel
1983. Risale, infatti, a quell’anno il primo concreto tentativo di costruire una
più stretta cooperazione tra gli stati rivieraschi del Mare Nostrum.

Su iniziativa del Presidente della Repubblica francese François Mitterand,


venne lanciato nella capitale del Marocco, Rabat, il Mediterrean Forum.
Nient’altro che un’assise internazionale nella quale i principali leader della
regione discussero a lungo su diversi temi strategici di cooperazione. Senza
giungere però ad alcuna concreta conclusione. Da notare che, con questo sia
pur fallimentare tentativo, i francesi si confermavano in Europa i più attivi
sostenitori di un vero e proprio partenariato tra sponda Sud e Nord. In passato,
infatti, già il generale Charles de Gaulle si era impegnato nel tentativo,
anch’esso non riuscito, di creare una Comunità Industriale degli Stati
Mediterranei.

Dopo la débâcle di Rabat, la storia delle prove di dialogo Sud-Nord non ha


fatto altro che ripetersi.

Alla fine degli anni Ottanta si tentò, infatti, di stabilire una consultazione
periodica tra le nazioni rivierasche attraverso i cosiddetti Summit 5+4
(diventati 5+5 con il successivo ingresso di Malta). In sostanza, Francia, Italia,
Portogallo e Spagna avevano provato ad instaurare un regolare dialogo ad
ampio raggio con Algeria, Libia, Marocco, Mauritania e Tunisia 2. Una vera e

2 Le cinque nazioni che costituiscono il cosiddetto Grande Maghreb.


7
Geografia economico politica Modulo 6° - Spazio euro-mediterraneo

propria conferenza inter-governativa che, nell’intenzione dei promotori,


doveva, in particolare, instaurare un rapporto preferenziale tra Europa
mediterranea e Maghreb.

La prima riunione si tenne a Roma nell’ottobre del 1990. Senza però portare
nessun rilevante risultato. Esito che ha accumunato tutte le conferenze che
hanno visto come protagonista quello che è stato ribattezzato il gruppo dei
5+5. Il secondo Summit, infatti, organizzato nel 1991 ad Algeri, venne
interrotto dalla prima guerra del Golfo.

E lo stesso, sia pur per ragioni differenti, è avvenuto in occasione dei


successivi incontri nel corso degli anni. Tuttavia, nonostante oltre un
ventennio di insuccessi, il Summit 5+5 sopravvive ancora oggi. L’ultimo
incontro si è tenuto nel 2011 a Malta dove, ancora una volta, i buoni propositi
e i tanti obiettivi da raggiungere sono rimasti lettera morta.

Un fallimento, quello del Mediterrean Forum, prima, e del Summit 5+5, dopo,
favorito, tra le altre cause, dalla repentina dissoluzione dell’Unione del
Maghreb Araba (UMA). Il 17 febbraio del 1989, infatti, a dimostrazione di
una ritrovata pax intramaghrebina, con il Trattato di Marrakech, era nata
l’UMA. Una vera e propria Unione politica tra Algeria, Libia, Marocco,
Mauritania e Tunisia. Una novità assoluta che gli europei vedevano di buon
occhio, auspicando così di trattare e dialogare con un soggetto unico, piuttosto
che con più stati dagli interessi spesso divergenti. Tali auspici, e con essi le
iniziative fin qui descritte, si infransero nel rapido fallimento dell’UMA che,
ad appena tre anni dalla sua nascita, cessò di esistere nel 1992. Complice la
crisi algerina e l’adozione da parte della comunità internazionale delle
sanzioni a carico della Libia.

Nonostante questi primi insuccessi, nel corso degli anni Novanta


l’establishment di Bruxelles ha continuato a perseguire l’obiettivo di

8
Geografia economico politica Modulo 6° - Spazio euro-mediterraneo

affrontare, in chiave multilaterale, le problematiche politiche ed economiche


irrisolte con gli stati della sponda Sud del Mediterraneo.

Il Processo di Barcellona, avviato con la conferenza del 27-28 novembre 1995


nella città catalana, ebbe luogo proprio in quest’ottica. Un’iniziativa nata in
seguito alle decisioni prese dal Consiglio Europeo di Lisbona (giugno 1992),
da quello di Corfù (giugno 1994) e di Essen (dicembre 1994), oltre che da una
serie di raccomandazioni della Commissione Europea.

A Barcellona erano presenti i quindici ministri degli Esteri degli stati membri
UE e i loro omologhi di dodici paesi della sponda Sud del Mediterraneo:
Algeria, Cipro, Egitto, Israele, Giordania, Libano, Malta, Marocco, Siria,
Tunisia, Turchia e l’Autorità Palestinese.

Obiettivo dell’incontro era quello di promuovere un progetto, ben più


ambizioso dei precedenti, di cooperazione interregionale che puntava a
costruire un vero e proprio quadro multilaterale di dialogo e cooperazione tra
gli stati della riva Nord e quelli della riva Sud attraverso il perseguimento di
tre obiettivi strategici nell’ambito di una rinnovata politica euro-mediterranea
(S. Andò, 2009).

Il primo, di natura prettamente istituzionale, prevedeva la nascita di istituzioni


in grado di promuovere l’identità mediterranea. Obiettivo mai raggiunto
perché di fatto abbandonato dall’Unione Europea nel momento in cui ha scelto
una politica di prossimità rivolta indistintamente ai paesi confinanti verso Sud
e verso Est. Mettendo così tutti gli stati confinanti sullo stesso piano.

Il secondo, riguardava aspetti squisitamente economici in base al quale


sarebbero dovute sorgere istituzioni finanziarie capaci di promuovere uno
sviluppo autofinanziato da parte dei soggetti coinvolti nel processo; in
particolare la creazione della Banca del Mediterraneo – strumento individuato

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Geografia economico politica Modulo 6° - Spazio euro-mediterraneo

come strategico per una nuova politica dello sviluppo della regione – è rimasta
scritta sulla carta ed altre iniziative similari non sono mai decollate.

Il terzo, infine, concerneva aspetti socio-culturali. In particolare, la


Dichiarazione di Barcellona e il suo programma di lavori mettevano l’accento
sui seguenti temi:

- Il dialogo interculturale e interreligioso.

- Il ruolo dei media per una maggiore, reciproca conoscenza e comprensione


delle culture mediterranee.

- Investimenti in programmi comuni di ricerca.

- Attenzione al settore sanitario, sociale e quello relativo ai diritti umani.

- Coinvolgimento della società civile in tutte le attività inerenti al partenariato


euro-mediterraneo.

- Cooperazione contro l’immigrazione clandestina, il terrorismo, il traffico di


droga, la criminalità organizzata e la corruzione.

In breve, l’obiettivo era quello di creare una più forte coesione socio-culturale
affidata ad azioni comuni atte a promuovere, in particolare, la ricerca e la
formazione del capitale umano. In effetti, questa parte del processo ha avuto
qualche significativa realizzazione o, comunque, non ha incontrato veti o
disattenzioni paralizzanti come quelle che, invece, hanno ostacolato il
raggiungimento degli altri due obiettivi.

Un esito positivo quello relativo a quest’ultimo obiettivo (ferma restando


l’impasse sul fronte della lotta all’immigrazione clandestina e al terrorismo)
confermato dal buon funzionamento, ad esempio, di Euromesco: un network
di centri studi sulla politica e la sicurezza del bacino mediterraneo dislocati in
tutta la regione.
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Geografia economico politica Modulo 6° - Spazio euro-mediterraneo

A questo occorre aggiungere lo stanziamento europeo, sotto forma di


sovvenzioni, nel 1995/1996 di 1,205 miliardi di euro destinati ai paesi della
sponda Sud nell’ambito del terzo obiettivo e di 1,694 miliardi di euro
sottoforma di prestiti erogati dalla Banca Europea degli Investimenti.

A conti fatti, però, non vi è dubbio che il Processo di Barcellona sia stato un
vero e proprio fallimento. Ha mancato quello che era l’obiettivo principale: la
creazione di un spazio comune euro-mediterraneo per almeno due ragioni.

La prima, riguarda il metodo, tant’è che non è un azzardo definire il Processo


di Barcellona come una vera e propria dichiarazione unilaterale da parte degli
stati membri dell’Unione Europea. È prevalsa, in sostanza, una visione
eurocentrica che non ha lasciato spazio, specie su temi piuttosto delicati, alla
contrattazione.

Un dato niente affatto secondario visto che sui diritti umani, sul fenomeno
migratorio, sul rispetto della diversità e del pluralismo sociale, non esiste certo
un’unanimità di intenti fra le due sponde del Mediterraneo. Di fatto, dunque,
come aveva notato fin dall’inizio il politologo francese Rémy Leveau, il
progetto non è stato altro che uno specchietto per le allodole.

Tant’è che - e qui arriviamo alla seconda ragione, che concerne i contenuti – a
Barcellona tanto la libera circolazione delle persone, quanto la possibilità per i
paesi della sponda Sud di sfruttare il vantaggio comparato esistente in campo
agricolo, sono stati appositamente ignorati dagli stati membri UE.

In quest’ottica, non solo l’impasse del Processo di Barcellona, ma anche il


permanente stallo delle conferenze e delle successive simili iniziative non può
certo stupire.

Così, alla conferenza ministeriale euro-mediterranea di Malta (15-16 aprile


1997) e, poi, di nuovo, alla riunione ministeriale di medio termine di Palermo

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Geografia economico politica Modulo 6° - Spazio euro-mediterraneo

(3-4 giugno 1998), l’impegno a intensificare la cooperazione tra le due rive


del Mare Nostrum viene regolarmente e ritualmente reiterato, in modo
squisitamente formale senza mai portare nessun risultato concreto. Così, come
il successivo vertice di Stoccarda (15-16 aprile 1999), si conclude con un nulla
di fatto.

In virtù di questi ripetuti insuccessi e complice l’attentato alle torri gemelle


dell’11 settembre 2011, all’inizio del nuovo millennio, il partenariato euro-
mediterraneo era passato in secondo piano nell’agenda politica europea.

La svolta, quantomeno a livello formale e mediatico, si è registrata il 13 luglio


del 2008 quando Nicolas Sarkozy, inaugurando il semestre di presidenza
francese dell’UE, lanciò ufficialmente quel progetto di Unione per il
Mediterraneo che aveva già annunciato l’anno precedente in quello che viene
ricordato come il Discorso di Tolone, ma che, come abbiamo nel modulo V,
non ha raggiunto i risultati sperati.

Per concludere, se è vero che, con l’avvento dei processi di globalizzazione,


l’Europa si è riscoperta Mediterranea, è altrettanto evidente che ogni tentativo
di instaurare una maggiore cooperazione tra la sponda Nord e quella Sud si è
risolto con un nulla di fatto. Insuccessi dovuti principalmente a due limiti che
costituiscono il fil rouge del fallimento di ogni prova di partenariato.

In primis, vale la pena di segnalare che è sistematicamente venuto a mancare


un tratto fondamentale per instaurare qualsiasi forma di dialogo: gli attori
coinvolti variano continuamente al punto da essere indefiniti. Tanto nella
sponda Sud, quanto in quella Nord, infatti, individuare i soggetti interessati al
dialogo non è poi così semplice. Non solo, anche quando ciò è possibile,
subentra quello che potrebbe essere definito un problema nel problema: la
difficoltà di delineare un’agenda dettagliata degli obiettivi da raggiungere

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Geografia economico politica Modulo 6° - Spazio euro-mediterraneo

visto che, storicamente, gli interessi delle parti in causa si sono rivelati, come
abbiamo notato nei precedenti paragrafi, fin troppo divergenti fra loro.

In secondo luogo non si può certo negare che il prevalere di un approccio


eurocentrico non solo si è rivelato inefficace ma, per molti versi,
controproducente. Appare a dir poco velleitario pensare di costruire un vero
spazio euro-mediterraneo escludendo di fatto dai negoziati due questioni
centrali: la libera circolazione delle persone e il protezionismo europeo in
campo agricolo. Problematiche che, storicamente, sono state affrontate
ricorrendo alla logica dello struzzo con l’illusione che, a furia di non parlarne,
scomparissero all’improvviso. È ormai evidente che si tratta di una realtà che
non può essere taciuta nel momento in cui si ha l’ambizione di dare vita ad
una più stretta collaborazione tra riva Nord e riva Sud. La continua offerta di
dominio del Vecchio Continente è ormai superata. È tempo di un dialogo alla
pari, soprattutto perché l’Europa del Terzo Millennio non ha più il potere
contrattuale del passato. Oggi, più di ieri, infatti, sono molti i competitor
internazionali pronti ad investire tecnologie e risorse finanziarie nella sponda
Sud del Mediterraneo. In questo senso l’avanzata cinese in terra d’Africa è
quanto mai emblematica.

Nell’attesa di un dialogo multilaterale tra Europa e Africa, gli Stati della


sponda Nord e Sud del Mediterraneo ricorrono ad accordi bilaterali,
soprattutto in materia di immigrazione ed energia. È, ad esempio, il caso dei
rapporti tra Italia e Libia ai quali dedicheremo il paragrafo 6.3.

6.2 Il ruolo dell’Italia nel Mediterraneo.


Dopo la Seconda Guerra Mondiale, i paesi dell’Europa Occidentale scelgono
di allinearsi in modo istituzionale e permanente all’alleato statunitense,
firmando il Patto Atlantico nel 1949. Contemporaneamente il governo italiano
sviluppa un percorso europeo che lo vede sottoscrivere, nel 1952, i Trattati per

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Geografia economico politica Modulo 6° - Spazio euro-mediterraneo

la costituzione di una Comunità Europea di Difesa, mai realizzata e, nel marzo


1957, i Trattati istitutivi della Comunità Economica Europea e
dell’EURATOM. Individuando nelle istituzioni comunitarie ed atlantiche le
colonne portanti della politica estera italiana, l’establishment italiano lascia
poco spazio a politiche e manovre autonome; ma la forte dipendenza del
settore industriale italiano dalle fonti energetiche, provenienti innanzitutto
dall’Africa settentrionale e dal Medio Oriente, fa sì che alle politiche euro-
atlantiche si unissero intese diplomatiche bilaterali.

Il nostro paese, nel contesto geopolitico, svolse un ruolo di controllo (secondo


il sistema di difesa atlantico) sui commerci petroliferi e sugli armamenti nella
zona ma i responsabili politici italiani cominciarono a manifestare gradi di
autonomia rispetto al sistema stesso: sono esempi la politica petrolifera di
Mattei, la simpatia per i Paesi e i popoli arabi, gli accordi e le preferenze
commerciali con vari stati musulmani. Nella logica della Guerra Fredda, il
Mediterraneo ed i Paesi che vi si affacciano, all’inizio non rappresentavano
una minaccia tale da poter sbilanciare il rigido schema bipolare a favore di
uno dei due contendenti.

Fu l’Egitto di Nasser, con la nazionalizzazione del Canale di Suez, a fare in


modo che la Guerra Fredda aprisse un nuovo fronte, seguito poi dalle crescenti
pressioni sovietiche nel Medio Oriente per giungere infine alla Guerra dei sei
giorni nel 1967. Il ruolo dell’Italia in quel periodo si inquadra nel più ampio
coinvolgimento delle Nazioni Unite ed all’affidamento completo della propria
sicurezza nazionale all’alleato americano, permettendo a quest’ultimo
l’installazione sul proprio suolo dei missili nucleari.

Con la fine sistema geopolitico bipolare l’Italia deve scegliere, in campo


europeo, tra la sua vocazione continentale e terrestre, che porta al sistema
mitteleuropeo germanizzato, e la sua vocazione marittima e navale, di stretta
alleanza con la Spagna, Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti. Essere un
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Geografia economico politica Modulo 6° - Spazio euro-mediterraneo

satellite sembra indispensabile alla sua condizione di settima potenza


commerciale del mondo e alla difesa del Mediterraneo, scacchiere geopolitico
vitale per l’Italia ma di secondario interesse per la Germania, le cui direttrici
di penetrazione erano e sono ad oriente e nei Balcani.

L’Italia svolge un ruolo mediatore in un sistema mediterraneo rappresentato


da un insieme di attori nazionali con molteplici caratteristiche politiche,
economiche, sociali e culturali, transitando dalla visione di un orizzonte
mediterraneo marginale a quella di spazio e luogo di occasioni. Vengono,
pertanto, sostenute iniziative quali il Dialogo Mediterraneo dell’Alleanza
Atlantica e la Partnership Euro-Mediterranea individuata alla Conferenza di
Barcellona nel 1995. Per ciò che riguarda la politica di sicurezza nazionale,
l’Italia si trova a ridosso di quei Paesi nei quali si assiste alla progressiva
accelerazione del fondamentalismo islamico.

Pacificata l’area del cosiddetto Mediterraneo Orientale, le “Penisole


Mediterranee” di Braudel, cioè quella ispanica e quella appenninica, devono
fronteggiare la crescente pressione demografica nei paesi africani con la
conseguente immigrazione clandestina che, specificamente, ha le sue maggiori
problematiche in Italia. L’altro obiettivo basilare di cui si deve tener conto è la
tutela delle linee di comunicazione, come Gibilterra e il Canale di Suez,
attraverso le quali passa il 12-13% del commercio mondiale: non vi possono
essere altre politiche se non quelle che, integralmente ed a lungo termine,
garantiscono la stabilità dell’intero bacino e controllano le principali linee
marittime.

Sarebbe dunque auspicabile che l’Italia dispiegasse sulle sue sponde


meridionali una porzione sempre maggiore delle proprie energie politiche e
militari, coinvolgendo altri Paesi europei e del Nord Africa in modo da creare
uno spazio geopolitico teso a limitare l’influenza sul Maghreb proveniente dal
Medio-Oriente, cioè da un’area considerata il fulcro dell’instabilità che rischia
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Geografia economico politica Modulo 6° - Spazio euro-mediterraneo

di dilagare nel resto del Mediterraneo. Per rafforzare quei principi e quelle
politiche che riguardano la collaborazione economico-sociale tra i molteplici
attori regionali, i quali a loro volta sperimentano differenti fasi di sviluppo e di
crescita, il processo di Barcellona fornisce una visione del partenariato che
non considera più la sola collaborazione est-ovest, ma privilegia quella nord-
sud. Sebbene i responsabili politici associno ad essa aspetti positivi, come ad
es. l’incremento degli standard di vita, l’innalzamento della ricchezza media,
l’avvio delle riforme strutturali ed il balzo in avanti degli investimenti diretti
esteri, il processo di Barcellona non sembra aver mantenuto le promesse
iniziali, né per l’ Europa, né per Italia e nemmeno per i paesi rivieraschi della
sponda sud. Lo stesso è avvenuto con il progetto di una Unione per il
Mediterraneo, sponsorizzato nel 2008 dall’allora Presidente francese Nicolas
Sarkozy.

Il compito italiano in siffatta ottica è davvero complesso. Sul versante europeo


occorre convincere i partner europei ad aumentare le risorse disponibili
all’interno del programma, un compito perlomeno arduo visto che si tratta di
quei Paesi che hanno costituito proprio sulla marginalizzazione del
Mediterraneo le proprie fortune passate e presenti. Stati nordici, quali Gran
Bretagna, Olanda, Svezia e Danimarca, difficilmente percepiscono l’idea che
una possibile centralità del Mediterraneo non riguarda solo le coste italiane,
spagnoli o francesi, ma potrebbe interessare il cuore stesso dell’Europa
comunitaria.

Per rendere il progetto credibile, il governo italiano dovrebbe impegnarsi in


uno sforzo non indifferente che andrebbe di là di semplici e consuete
dichiarazioni di buona volontà ed azioni di un europeismo di facciata.
Altrettanto ambizioso potrebbe essere il tentativo di riorientare gli obiettivi del
partenariato, creando un blocco regionale per favorire i rapporti con l’Europa,
e con l’Italia in particolare. Questo blocco potrebbe parlare a voce unica con

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Geografia economico politica Modulo 6° - Spazio euro-mediterraneo

Bruxelles evitando in tal modo il “bilateralizzarsi” dei legami tra le due


sponde del Mediterraneo. L’ipotetica costituzione di una Banca per lo
Sviluppo del Mediterraneo, ovvero la formazione di una zona di libero
scambio, darebbe, da una parte, la spinta decisiva per la creazione di un vasto
mercato con più di un miliardo di persone mentre, dall’altra parte,
ricostituirebbe un antico bacino di equilibrio al quale potrebbe collegarsi in
prospettiva la vasta area araba che attualmente ricade sotto la sovranità dei
paesi membri del Consiglio di cooperazione del Golfo.

L’Italia, in tale prospettiva, si percepisce come protagonista. L’aspetto


fondamentale di tale politica è rappresentato dall’interesse italiano verso i vari
mutamenti socio-politici che si estendono dalla crisi algerina, e dai
conseguenti riflessi sui Paesi vicini, sulla stabilità regionale ed
approvvigionamento energetico nazionale, alla delicata questione libica la
quale, indubbiamente, rappresenta il versante preferenziale per la diplomazia
romana. La complessa identità mediterranea sfugge ai vari tentativi di
riduzionismo cartografico e politico e, dato che l’Italia è parte integrante di
tale complessità, non può marginalizzare la sua posizione nel contesto in
questione.

6.3 Le relazioni italo-libiche.


Visto il fallimento della diplomazia multilaterale (paragrafo 6.1), le relazioni
tra le due rive del Mediterraneo sono per lo più di natura bilaterale.
Esemplificativo il caso dei rapporti tra Italia e Libia.

La storia della cooperazione tra Tripoli e Roma è assai controversa per delle
motivazioni storiche e politiche che affondano le loro radici nel passato
coloniale dell’Italia, nella figura del tutto peculiare del leader libico Muammar
Gheddafi, nelle specificità dello stato libico e nell’enorme disponibilità di
giacimenti petroliferi di cui dispone Tripoli.

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Geografia economico politica Modulo 6° - Spazio euro-mediterraneo

Il colonnello Gheddafi, in nome del suo presunto panafricanismo 3, ha sempre


rifiutato di partecipare a pieno titolo ai diversi tentativi di partenariato euro-
mediterraneo e, di conseguenza, il rapporto tanto privilegiato quanto
tormentato con l’Italia ha sempre rappresentato la via maestra per coinvolgere
la Libia nei suddetti tentativi.

La firma, il 30 agosto 2008, del Trattato di amicizia e cooperazione sembrava


aver favorito, dopo anni di contenziosi, un processo di stabilizzazione dei
rapporti italo-libici. Una stabilità che altri partner europei come Spagna e
Francia, seppur con alcune difficoltà, sono riusciti a trovare già da anni con le
ex-colonie marocchina e algerina.

Per poter comprendere a pieno la difficile evoluzione dei rapporti italo-libici


negli ultimi decenni è necessario fare un’opportuna distinzione in tre grandi
fasi storiche (Varvelli, 2009): il periodo della colonizzazione libica da parte
italiana, che inizia nel 1912 e si conclude con la sconfitta dell’Italia nella
Seconda Guerra mondiale; il periodo monarchico, che va dall’indipendenza
nel 1950 al 1969; il periodo che ha inizio con la Rivoluzione dei Colonnelli
durante la quale la monarchia viene estromessa e si impone il regime di
Muammar Gheddafi, all’epoca un giovane colonnello di 27 anni.

Il periodo della colonizzazione italiana viene pianificato a partire dal


settembre 1911 quando il governo di Giolitti decise di conquistare i territori
della Cirenaica e della Tripolitania 4 che, all’epoca, erano sotto la sovranità
dell’impero Ottomano.

3 Si ricordi a tal proposito che il 28 agosto 2008, proprio alla vigilia della firma dello storico accordo di
amicizia e cooperazione con l’Italia, Muammar Gheddafi è stato nominato “re dei re, dei sultani, dei principi,
degli sceicchi e dei sindaci d’Africa” in occasione di un incontro inedito a Bengasi con oltre 200 capi tribu’
africani. In tale occasione il leader libico ha tenuto a sottolineare la necessità di favorire un processo di
unificazione dell’Africa, con l’obiettivo di creare gli Stati Uniti d’Africa.
4 Soltanto a partire dal 1934 il regime di Mussolini ribattezzò i governatorati di Fezzan, Cirenaica e

Tripolitania con il termine Libia.


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Geografia economico politica Modulo 6° - Spazio euro-mediterraneo

I circa trent’anni di dominio italiano furono caratterizzati da durissimi e


continui scontri con la popolazione locale. Secondo gli ultimi studi, avvalorati
dalle memorie dell’allora Generale Graziani, in quegli anni il 40% della
popolazione libica perse la vita nella lotta contro gli italiani.

Dal 1951 la Libia ottiene l’indipendenza e viene instaurata una monarchia con
a capo Sua Maestà il Re Idris. In questi anni l’Italia, proprio riconoscendo i
danni causati durante il periodo coloniale, decise di versare 5 milioni di
sterline alla Libia e trasferì la proprietà degli immobili demaniali e delle
infrastrutture al legittimo governo di re Idris.

In virtù di questi gesti, nel 1956 Italia e Libia siglarono un accordo che
esplicitava la fine di ogni contenzioso sul passato coloniale tra i due paesi.

In realtà gli sforzi fatti da parte italiana si rivelarono ben presto inutili. La
monarchia di re Idris, nel corso degli anni, si dimostrò sempre più debole al
punto che, nel 1969, la Rivoluzione guidata dal giovane colonnello Muammar
Gheddafi si risolse in pochi giorni, senza alcun spargimento di sangue.

Gheddafi destituì la monarchia fondando di fatto una dittatura militare e


proclamando la nascita della Grande Jamāhīriyya 5Araba di Libia Popolare e
Socialista. Fin dall’inizio il Colonnello-Capo si presentò come il leader
dell’anticolonialismo e in tutti i suoi discorsi la retorica anti-italiana sarà una
costante.

Nei mesi successivi alla presa del potere, Gheddafi definì una mera ipocrisia il
compenso economico versato, a suo tempo, dall’Italia al re Idris. Per
rafforzare la propria immagine di baluardo dell’anti-colonialismo, Gheddafi
decise, già nel 1970, il rimpatrio forzato di oltre ventimila italiani presenti in
territorio libico e la relativa espropriazione dei loro immobili e delle loro
imprese.

5 Dal termine arabo jamahir che significa masse: dunque Repubblica delle masse.
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Geografia economico politica Modulo 6° - Spazio euro-mediterraneo

Era soltanto l’inizio di un’altalena di minacce e di accordi nel deserto, che


hanno caratterizzato il rapporto tra i due paesi fino ai giorni nostri. Tuttavia,
anche nei momenti di maggiore crisi, è rimasto costante, quantomeno dal
punto visto economico, il rapporto privilegiato tra Italia e Libia. Di seguito
spiegheremo il perché.

L’Italia ha sempre voluto mantenere forti e continui rapporti economici perché


la Libia ha svolto e svolge, ancora oggi, un ruolo difficilmente sostituibile
nella politica energetica italiana. Non solo per l’entità delle importazioni di
petrolio ma, anche, per la qualità, non comune, del greggio libico e per la
prossimità geografica che consente un più facile ed economico accesso alle
risorse.

Dal lato libico, nonostante la consueta retorica anti-italiana, il Colonnello ha


preferito mantenere il rapporto privilegiato con lo Stato italiano per ragioni
economiche e politiche: l’Italia è sempre stata il maggiore importatore di
greggio e il know how delle imprese italiane era necessario per il
mantenimento della capacità libica sia di estrarre il petrolio che forniva la
rendita, sia nell’attuare il processo di distribuzione della stessa, che avveniva
grazie alla realizzazione italiana di molte opere civili e all’importazione di
beni primari e prodotti finiti. Inoltre, dopo il raffreddamento dei rapporti con
gli altri paesi occidentali, dagli Stati Uniti alla Gran Bretagna, alla Francia, per
varie motivazioni politiche - in particolare il sostegno libico al terrorismo
internazionale - per tutti gli anni Ottanta e Novanta, l’Italia rimase l’unico
vero referente occidentale della Libia.

Non sorprende, dunque, che già nel 1974, dopo solo quattro anni dal rimpatrio
forzato degli italiani presenti in territorio libico, i dirigenti dell’Ente Nazionale
Idrocarburi (ENI) e il sottosegretario libico al Petrolio Muntasser convenivano
sulla concessione all’Agip di quattro nuove aree di ricerca, tra cui il ricco

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Geografia economico politica Modulo 6° - Spazio euro-mediterraneo

giacimento di Bu Attifel, mentre le altre compagnie petrolifere straniere


subivano il processo di nazionalizzazione imposto dal regime di Gheddafi.

Così come i due Paesi superarono la grave crisi del 19866, una crisi che non
aveva origini interne alle relazioni tra i due paesi ma, piuttosto, era stata
indotta dall’atteggiamento degli Stati Uniti, anche successivamente
all’accaduto, pur nel rispetto delle sanzioni internazionali 7 da parte italiana, il
nostro paese lavorò per un progressivo reinserimento della Libia nella
comunità internazionale.

In sostanza, per molti anni, dall’ascesa al potere del Colonnello Gheddafi fino
a buona parte degli anni Novanta, nonostante le alterne crisi politiche, la
costante retorica anti-italiana e le continue richieste di risarcimento per i danni
coloniali 8 , è rimasto costante il rapporto privilegiato dal punto di vista
economico tra Italia e Libia, in virtù di quel nesso di reciproca indispensabilità
sopra descritto.

Dalla fine degli anni Novanta il rapporto politico-economico tra i due paesi ha
subìto una progressiva evoluzione in virtù di un insieme di cambiamenti a
livello internazionale che hanno contribuito a rafforzare il regime di
Muammar Gheddafi.

La crescita della domanda mondiale di petrolio ha reso il greggio e il gas della


Libia oggetto di grande attenzione da parte di altre nazioni, quasi totalmente
nuove per il mercato libico come la Cina, o nuovamente coinvolte dopo un
lungo periodo, come la Francia, la Gran Bretagna, la Spagna e gli Stati Uniti.

6 Il lancio di missili dalla Libia a Lampedusa. Circostanza poi smentita dalla nostra marina.
7 Si ricordi che la Libia rimase sostanzialmente isolata a livello internazionale, a causa del suo determinante
supporto al terrorismo internazionale, per circa 15 anni: dal 1984 al 1999.
8 Interpretate dai diversi governi italiani sempre più come un’arma negoziale adottata nelle relazioni

economiche che la dimostrazione di un’irrinunciabile e motivata rivendicazione.


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Geografia economico politica Modulo 6° - Spazio euro-mediterraneo

Questo ritrovato protagonismo dell’economia libica a livello mondiale era


dovuto principalmente alla definitiva normalizzazione dei rapporti della Libia
con la comunità internazionale, in particolare grazie alla cessazione
dell’embargo delle Nazioni Unite nel 1999 e dell’Unione Europea nel 2004.

Se a questi elementi si aggiunge il ritrovato rapporto con gli Stati Uniti 9, frutto
dell’abile politica di Gheddafi che all’indomani della strage delle Torri
Gemelle si era premurato a condannare pubblicamente l’accaduto e
successivamente di bloccare, nel 2003, il suo programma di proliferazione
nucleare, si intuisce quanto si fosse rafforzato il potere negoziale del
Colonnello nei confronti dell’Italia.

Allo stesso tempo il nostro paese necessitava, e necessita, più che in passato,
di un rapporto privilegiato con il vicino libico, per almeno due ragioni. A
differenza di altre nazioni europee non ha sviluppato né un lungimirante
progetto di investimento nel settore dell’energia alternativa né, tanto meno, ha
mai investito nel settore nucleare, di conseguenza continua a dipendere
totalmente dalle forniture petrolifere estere e libiche in particolare.

Inoltre, negli ultimi anni si è rivelata sempre più difficile la gestione dei flussi
migratori illegali. Dunque, anche in questo settore, la collaborazione del
Colonnello era essenziale per trovare una soluzione.

Questi cambiamenti sostanziali spiegano perché i diversi governi italiani, di


entrambi gli schieramenti politici, si siano affrettati a compiere continue visite
diplomatiche alla ricerca di accordi in diversi settori, assecondando gli umori,
i capricci, l’inaffidabilità e le continue richieste del Colonnello.

Gheddafi, infatti, ha sfruttato al meglio la sua forte posizione negoziale,


aumentando costantemente, al di fuori di ogni logica, la richiesta di

9Sancito dalla visita ufficiale del 5 settembre 2008 del Segretario di Stato Usa Condoleezza Rice. Un evento
epocale nei rapporti Usa-Libia, considerando che l’ultima visita risaliva al 1953 quando l’allora Segretario di
Stato John Foster Dulles incontrò il re Idris, rovesciato dal colpo di Stato di Gheddafi.
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Geografia economico politica Modulo 6° - Spazio euro-mediterraneo

risarcimento per i danni coloniali e minacciando alternativamente la chiusura


dei rubinetti petroliferi, la non collaborazione nella lotta contro
l’immigrazione clandestina o, ancora, le ritorsioni nei confronti delle
numerose imprese italiane che operano nel mercato libico. Così, nell’arco di
un decennio, è riuscito ad ottenere tutto quello che non aveva ottenuto in
trent’anni di regime.

Nel 1998, quando era ancora in vigore l’embargo delle Nazioni Unite, l’allora
Ministro degli Esteri Lamberto Dini firmava a Roma un accordo bilaterale con
cui l’Italia rinunciava: a pretendere il rispetto del trattato del 1956, violato
dalla Libia con la confisca dei beni degli italiani residenti in territorio libico e
la loro espulsione ordinata nel 1970; si impegnava alla bonifica dei campi
minati; si impegnava alla restituzione delle opere d’arte trafugate durante il
colonialismo; si rendeva disponibile ad un futuro gesto di riparazione per gli
anni del colonialismo.

La Libia, dal canto suo, prometteva: una maggiore cooperazione in campo


economico; la libertà di ingresso 10 in Libia per tutti i cittadini italiani; il
pagamento del debito che circa 100 imprese italiane vantavano nei confronti
del regime libico.

Gli impegni che si era assunta la parte libica non sono stati mantenuti.
Nonostante ciò, il 2 dicembre 1999, l’allora Primo Ministro Massimo
D’Alema si recò a Tripoli in visita ufficiale, - la prima di un capo di governo
europeo dopo l’inizio dell’embargo Onu del 1992 - rendendo al Colonnello la
Venere di Leptis Magna 11, ottenendo in cambio solo molte premesse.

10 Si ricordi, infatti, che gli italiani espulsi dalla Libia nel 1970 non possono ottenere un visto, salvo abbiano
compiuto 65 anni di età.
11 Portata a Roma da Italo Balbo.

23
Geografia economico politica Modulo 6° - Spazio euro-mediterraneo

Nel frattempo, all’inizio del nuovo millennio, diventava sempre più


irrisolvibile il nodo dell’immigrazione clandestina: Lampedusa diventa meta
di un crescente flusso migratorio proveniente dalle coste libiche.

Allo scopo di trovare un accordo su questa problematica, il Primo Ministro


Silvio Berlusconi si recò in visita ufficiale a Tripoli il 4 agosto 2004. In
quest’occasione il leader libico, in cambio della sua collaborazione, non si
limitò alla consueta generica richiesta di un risarcimento danni per il passato
coloniale, chiedendo, esplicitamente, da parte italiana la costruzione di
un’autostrada costiera avente l’esorbitante costo di 400 mln di dollari.

In questi stessi anni i già complicati rapporti italo-libici peggiorarono quando,


come reazione al gesto dell’allora ministro Roberto Calderoli che era apparso
in televisione indossando una maglietta con vignette su Maometto, offensive
per i musulmani, 11 persone morirono in gravi incidenti davanti al Consolato
italiano di Bengasi12.

Dopo mesi di continue minacce e offensive anti-italiane, nel corso del 2007
arrivò l’ennesima schiarita con un tè nel deserto offerto da Muammar
Gheddafi a Massimo D’Alema, Ministro degli Esteri dell’allora governo di
centro-sinistra. Fu così che, improvvisamente, si riaprì la strada del dialogo
italo-libico. Nell’ottobre del 2007 l’Eni ottenne un accordo per il rinnovo delle
concessioni per 25 anni 13 e, in novembre, il ministro degli Esteri D’Alema
raggiunse un’intesa preliminare con il leader libico per la compensazione dei
danni coloniali, comprendente l’impegno italiano a costruire un’autostrada
litoranea dal confine libico con la Tunisia fino a quello con l’Egitto.

Il coronamento di questo ritrovato dialogo, quanto meno dal punto di vista


formale, si ebbe il 29 dicembre 2007 quando il ministro dell’Interno Giuliano
Amato e il suo omologo libico, Adurrahman Shalgam, firmarono a Tripoli

12 Febbraio 2006.
13 Circa 20 miliardi di investimenti programmati per i prossimi 10 anni.
24
Geografia economico politica Modulo 6° - Spazio euro-mediterraneo

un’importante intesa in materia di controllo delle migrazioni irregolari e di


lotta al traffico di persone. Un accordo, in linea teorica, storico in virtù della
importante novità tecnica che esso conteneva: l’assenso da parte di Tripoli al
pattugliamento congiunto delle acque territoriali libiche. Anche in questo
caso, però, lo sforzo delle autorità italiane, che concessero persino sei unità
navali della Guardia di Finanza per il suddetto pattugliamento, è stato vano
data l’assoluta mancanza di cooperazione da parte libica.

Per queste ragioni, entrambi gli schieramenti politici si sono impegnati


costantemente nel tentativo di raggiungere un accordo con il vicino libico che
includesse il tanto discusso risarcimento per il periodo coloniale necessario
per risolvere altri problemi presenti sul tavolo negoziale tra i due paesi: gli
insoluti di pagamento sofferti da circa cento imprese italiane per complessivi
600 mln di euro; il mancato risarcimento e la concessione di visti agli italiani
rimpatriati forzatamente durante gli anni Settanta; il controllo dei flussi
migratori; la questione delle forniture energetiche.

Riuscire a raggiungere un nuovo accordo, dunque, con la Libia era necessario


e, grazie all’impegno del precedente Ministro degli Esteri Massimo D’Alema
e, successivamente, dell’allora Primo Ministro Silvio Berlusconi, si è giunti a
siglarlo il 30 agosto 2008 proprio nell’edificio che fu il quartier generale del
governo italiano a Bengasi tra il 1911 e il 1943.

Il Trattato di cooperazione e amicizia per i suoi contenuti e per il fatto di porre


fine, almeno formalmente, a 40 anni di tensioni, ha senza dubbio una portata
storica. Gheddafi ottiene tutto quello che aveva sempre desiderato:

- Le scuse formali del Premier Berlusconi a nome dell’intero popolo italiano.

- La restituzione dopo 95 anni della Venere di Cirene.

25
Geografia economico politica Modulo 6° - Spazio euro-mediterraneo

- Un risarcimento per i danni coloniali di 5 miliardi di dollari, versati in tranche


di 250 mln l’anno per i prossimi 20 anni. Fondi, questi, da utilizzare per la
costruzione di un’autostrada litoranea che colleghi il confine libico con la
Tunisia a quello con l’Egitto, per la costruzione di 200 alloggi sociali, per
finanziare borse di studio per studenti libici e per i mutilati vittime delle mine
anti-uomo italiane.

L’Italia, dal canto suo, ha ottenuto:

- La cooperazione bilaterale nella lotta contro l’immigrazione clandestina.

- L’attuazione dell’accordo firmato nel dicembre 2007 per il pattugliamento


congiunto delle coste libiche, compreso il progetto di costruzione da parte di
Finmeccanica di una rete di radar per monitorare le frontiere Sud della Libia.

- La fornitura privilegiata di gas e petrolio, in particolare attraverso Eni, i cui


contratti di esplorazione e produzione sono stati rinnovati per i prossimi 25
anni.

- È stato avviato a soluzione il contenzioso dei crediti vantati dalle aziende


italiane per 620 mln di dollari, di cui però il governo libico ne ha riconosciuto
soltanto 40014.

- Il governo italiano non è riuscito, invece, ad ottenere il risarcimento per i 20


mila italiani rimpatriati forzatamente negli anni Settanta, suscitando l’ira
dell’Associazione Italiani Rimpatriati dalla Libia (Airl).

Evidentemente si tratta di un accordo improntato su principi di mero realismo


politico, per cui il più forte - Gheddafi - ha ottenuto tutto ciò che voleva e il
più debole si è accontentato del minimo indispensabile.

14Per tale ragione era stata nominata una Commissione congiunta ad hoc con l’incarico di dirimere il
contenzioso.
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Geografia economico politica Modulo 6° - Spazio euro-mediterraneo

Bisogna, infatti, sottolineare che se da un lato il Colonnello ha potuto, dopo il


suddetto accordo15, riaffermare la sua leadership ponendosi come modello per
il risarcimento dei danni coloniali per altri Paesi del Nord Africa, è quasi
inevitabile immaginare che a Londra e a Parigi la visita di Berlusconi a
Bengasi sia stata vista con preoccupazione, se non addirittura con disprezzo.

Occorre, infine, rispondere ad un ultimo quesito: il Trattato di cooperazione e


amicizia tra Italia e Libia ha rappresentato un successo per la politica estera
italiana?

Fin dall’ascesa al potere di Muammar Gheddafi la politica estera italiana ha


sostanzialmente perseguito, come abbiamo visto, due obiettivi fondamentali.
Da un lato, il raggiungimento di un solido accordo di cooperazione economica
tra i due Paesi. Dall’altro, il tentativo di coinvolgere la Libia nel dialogo euro-
mediterraneo. Un dialogo in cui l’Italia avrebbe dovuto svolgere un decisivo
ruolo di mediatore tra le due sponde del Mediterraneo. Negli ultimi anni,
inoltre, a livello politico l’Italia ha perseguito il tentativo di raggiungere una
piena collaborazione delle autorità libiche nella lotta all’immigrazione
clandestina.

Per quanto riguarda il primo obiettivo, quello economico, occorre, in primis,


rilevare che in realtà i due paesi, nonostante gli alterni scontri politici, hanno
sempre mantenuto, come abbiamo visto, buoni rapporti economici.

Basti pensare che, nel febbraio del 1974, dopo solo quattro anni dal rimpatrio
forzato degli italiani presenti in territorio libico, il Primo Ministro Jallud si recò
in visita ufficiale a Roma. In quell’occasione Jallud e il Presidente del
Consiglio italiano Rumor siglarono un accordo-quadro di cooperazione
economica, tecnica e scientifica. Un accordo che, in sostanza, prevedeva un
aumento delle forniture di petrolio per l’Italia che, a sua volta, si impegnava,

15Siglato non casualmente proprio alla vigilia dei festeggiamenti per il 39° anniversario della «Rivoluzione
dei Colonnelli».
27
Geografia economico politica Modulo 6° - Spazio euro-mediterraneo

grazie alle sue capacità tecnologiche e industriali, a favorire lo sviluppo


dell’economia libica.

Nonostante questi preesistenti e duraturi rapporti economici tra i due Paesi, il


Trattato di cooperazione e amicizia, sotto questo punto di vista, ha
rappresentato un’importante conquista per la politica estera italiana. Esso,
infatti, avrebbe dovuto eliminare definitivamente la possibilità di future
rivendicazioni di Gheddafi, in nome del suo storico revanchismo anti-coloniale,
come condizione al mantenimento di buone relazioni economiche tra i due
paesi. Inoltre, i cinque miliardi di dollari che l’Italia si è impegnata a rendere
disponibili per progetti infrastrutturali in territorio libico non saranno prelevati
direttamente dai contribuenti italiani ma saranno invece coperti da una tassa sul
reddito delle società pari al 4% dei profitti realizzati dalle aziende petrolifere
italiane che operano in Libia. Il trattato, inoltre, ha aperto la strada agli
investimenti dei fondi sovrani libici in molte società italiane. Dall’autunno del
2008, la Banca centrale libica ha acquistato 64,6 milioni di dollari di azioni Eni
e ha manifestato interesse nell’acquisto del 10% della società. Tra l’altro, la
Libia possiede già anche le quote di due banche italiane, tra cui Unicredit, di
cui ora il paese di Gheddafi detiene il 5%.

Certo rimangono, al contempo, non pochi punti deboli. Il governo italiano non
è stato in grado di imporre a Gheddafi l’esborso di tre miliardi di euro che
l’Airl (Associazione italiana Rimpatriati dalla Libia) rivendica per le perdite e
le confische subìte dai 20 mila italiani cacciati forzatamente dalla Libia nel
1970.

Allo stesso modo, il governo italiano non è riuscito ad imporre al Colonnello il


pagamento di 650 milioni di euro che 120 imprese, medie e piccole, continuano
a vantare nei confronti della Libia dopo le nazionalizzazioni imposte da
Gheddafi nel 1980.

28
Geografia economico politica Modulo 6° - Spazio euro-mediterraneo

Quanto agli obiettivi politici, è alquanto evidente che il Trattato di


cooperazione e amicizia tra Italia e Libia ha rappresentato, di fatto, una
sconfitta per la politica estera italiana. Per quanto riguarda il nodo
immigrazione, infatti, l’accordo lasciava, in ogni caso, a Muammar Gheddafi la
possibilità ricorrere alla minaccia dei clandestini come nuova arma - in difesa
dei suoi interessi e per aumentare le sue pretese nei confronti dell’Italia - al
posto del non più spendibile revanchismo anti-coloniale.

Inoltre, la storica guida del popolo libico avrebbe potuto sempre giustificare il
persistere di sbarchi di clandestini nelle coste italiane a causa della forte
pressione esercitata sulla Libia dalle migliaia di candidati all’immigrazione
provenienti dall’Africa sub-sahariana, costretti a fuggire dalle loro terre a causa
del solito Occidente che, per decenni, ha depredato il continente africano.

Infine, anche il tradizionale obiettivo politico dell’Italia, ovvero coinvolgere il


leader libico in modo attivo nel dialogo euro-mediterraneo, è apparso
sostanzialmente irraggiungibile, sia per ragioni interne al regime libico, sia per
motivazioni da ricercare nel nuovo panorama politico internazionale del terzo
millennio.

Quanto alle ragioni interne, non si può dimenticare che la storia della Libia
rivoluzionaria si basava su una logica ben precisa: quella del sogno
movimentista e rivoluzionario di Gheddafi e dei suoi più stretti alleati. É il
sogno dell’unità araba16, della realizzazione di una società che incarni i valori
beduini di uguaglianza, consenso, lealtà che ha guidato il regime nella
demolizione delle strutture borghesi e occidentali stabilite dalla monarchia e
dalla lunga tradizione di paese colonizzato. Dunque, se è vero che Gheddafi
non rappresentava più una minaccia per la comunità internazionale ed era
realmente interessato ad un riavvicinamento con l’Occidente, era altrettanto

16Anche se negli ultimi anni il leader libico era arrivato alla conclusione che il panarabismo era una chimera,
decidendo quindi di uscire dalla Lega Araba si è dedicato a un’altra causa, quella dell’unità africana.
29
Geografia economico politica Modulo 6° - Spazio euro-mediterraneo

vero che tale avvicinamento non poteva andare oltre un certo limite; altrimenti
il Colonnello rischiava di minacciare le fondamenta ideologiche del suo stesso
regime.

A partire dai primi mesi del 2011, però, lo scenario politico e sociale della
Libia è repentinamente e radicalmente cambiato. Le rivolte popolari scoppiate
in tutto il paese, infatti, e la risoluzione 1973 del Consiglio di Sicurezza delle
Nazioni Unite che ha autorizzato “all necessary measures to protect civilians”,
hanno portato al definitivo crollo del regime, suggellato dalla morte del suo
leader il 20 ottobre 2011.

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Geografia economico politica Modulo 6° - Spazio euro-mediterraneo

BIBLIOGRAFIA

 R. Aliboni, La nuova Unione per il Mediterraneo tra luci e ombre,


http://www.affarinternazionali.it/articolo.asp?ID=892 17 luglio 2008.

 S. Andò, Cervelli non più in fuga, in «Medidea Review», Roma, n.1, 2009.

 G. Sacco, L’eccezione Mediterranea, «Lettera Internazionale», Roma, n.97,


2008.

 G. Terranova, Méditerranée: géographie des nouveaux flux migratoires, Outre-


Terre n.29, France 2011.

 C. W. De Wenden, La question migratoire au XXI siècle, Science Po Les


Presses, Paris, 2010.

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Corso di Laurea in Scienze della Formazione

INSEGNAMENTO DI
GEOGRAFIA ECONOMICO POLITICA

Modulo 7° - Sovranismo e populismo

A cura di

Giuseppe Terranova
Geografia economico politica Modulo 7° - Sovranismo e populismo

SOMMARIO MODULO 7°

Sovranismo e populismo

7.1. Origine e Definizioni


7.2. Brexit
7.3. Visegrad
7.4 Russia di Putin

1
Geografia economico politica Modulo 7° - Sovranismo e populismo

7.1. Origine e definizioni

L’attuale avanzata dei movimenti sovranisti e populisti in Occidente non era


stata prevista neanche dai più affermati esperti internazionali di geopolitica.
Nessuno di loro aveva previsto l’esito del referendum sulla Brexit, delle
elezioni presidenziali americane che hanno consegnato la vittoria a Donald
Trump o di quelle italiane. Eventi che, al netto di molte specifiche differenze,
testimoniano come loro tratto comune quello di una divaricazione tra il sentire
della pubblica opinione e quello delle tradizionali classi dirigenti.

Una frattura sfruttata, più che procurata, dai partiti anti establishment o
populisti, per drenare consenso (e voti) tra gli elettori di destra e, soprattutto,
di sinistra, con due mosse che hanno consentito loro di uscire dal ghetto
politico del vecchio populismo e mietere successi considerati, fino a poco
tempo fa, assolutamente proibitivi.

La prima:
hanno modificato parti consistenti del vecchio armamentario ideologico. Una
modernizzazione culturale che, nella strategia del revisionismo neopopulista,
rappresenta la chiave di volta per conquistare il consenso che finora era stato
negato dall’area, elettoralmente decisiva, dell’anticonformismo libertario dei
giovani e del ceto medio. Che tenendosi a debita distanza si erano, fino a oggi,
rifiutati di dare ascolto alla sirena populista proprio per l’irricevibilità iper
reazionaria, tradizionalista e oscurantista del suo messaggio.

Ragioni per le quali, ad esempio, Marine Le Pen per sostituire il volto nero,
razzista, antiebraico, maschilista e omofobo del vecchio Front National con
uno più attuale, antimusulmano, laico e amico di Israele ha deciso, come
prima cosa, di mettere da parte il padre Jean-Marie. Un cambio di strategia,
discutibile quanto si vuole, ma innegabile che molti hanno invece
sottovalutato o, peggio ancora, fatto finta di non vedere. Un errore di pigrizia
intellettuale prima ancora che politico. Per la semplice ragione che le mosse
politiche neopopuliste partono dal presupposto, come ha sostenuto Dominique
Reynié, che i conflitti di natura culturale determinano tensioni che toccano
l’identità di una nazione.

Mentre nelle rivendicazioni di tipo sindacale a essere coinvolta è solo la


“classe operaia”, questo nuovo tipo di contenziosi coinvolgono una platea di
attori sociali ben più ampia e numerosa: classe media e persino quelle
benestanti possono finire per trovarsi alleate nella difesa dei loro stili di vita. Il
trasferimento del conflitto dal terreno economico a quello culturale
2
Geografia economico politica Modulo 7° - Sovranismo e populismo

rappresenta un’ottima base per incrementare il consenso elettorale e per


l’avvio di movimenti di tipo interclassista.

La seconda:
hanno puntato sulle tensioni, diffuse nella società, sull’immigrazione. Un
obiettivo da sempre presente nel repertorio politico populista che però, nel
caso, i neo-populisti hanno, se così si può dire, rivisto ed aggiornato.
Scegliendo come target centrale della aggressiva mobilitazione politica non
più, come in passato, l’immigrato come persona e la sua diversità etnico-
razziale. Ma il fenomeno immigrazione in quanto tale cavalcando non tanto le
tensioni economico-sociali ma quelle politico-culturali che essa provoca. Con
la richiesta che a pagarne il conto più che gli immigrati fossero i responsabili
di governo e le élite che li usano.

Basta, dunque, con l’aperturismo buonista e interessato che favorisce gli


stranieri e penalizza gli autoctoni. Per tutelare i quali va imposta come regola
generale quella della preferenza nazionale. Una formulazione che rende,
secondo molti, la battaglia neo populista di difesa della comunità e del popolo
più presentabile e accettabile. Ritrovando una migliore sintonia con la
moderna pubblica opinione che non ritiene giusto colpevolizzare il singolo
solo perché straniero o immigrato, ma coloro che favoriscono, a danno di altri,
l’immigrazione per puro interesse economico o elettorale. O, peggio ancora,
per snobismo multiculturale. Dall’immigrato all’immigrazione, dunque.
Perché l’immigrazione non è a somma positiva, win-win, tutti vincitori, ma a
somma zero: c’è un winner e un loser. Stanno qui le ragioni del rifiuto e
dell’ostilità di tanti nei confronti degli immigrati. I quali temono
l’immigrazione con le stesse motivazioni con cui molti settori del lavoro
dipendente temono la globalizzazione: l’integrazione economica, e in
particolare la liberalizzazione commerciale, produce effetti redistributivi
all’interno di ogni paese e, quindi, tensioni sociali. Dal momento che i
guadagni di coloro che ne sono avvantaggiati risultano superiori alle perdite
del resto dell’economia.

Per questo complesso di ragioni, al fine di studiare cause e origini di questi


movimenti, occorre utilizzare nuovi parametri di analisi evitando semplicismi
che non aiutano a comprendere il fenomeno. I neopopulisti non vanno, ad
esempio, associati automaticamente con i partiti di estrema destra. Perché,
ricerche alla mano, hanno spiegato che è quanto meno fuorviante sostenere
che i populisti sono di destra solo perché cercano di sfruttare politicamente
temi quali l’immigrazione e la rivolta fiscale. Visto che queste stesse
questioni, spesso con l’aggiunta che riguarda il diritto del popolo di vedere
reintegrata la sovranità decisionale sottrattagli, sono caldeggiate, più spesso

3
Geografia economico politica Modulo 7° - Sovranismo e populismo

che volentieri, anche dalla estrema sinistra. E che, in aggiunta, all’opposto


della destra, gerarchica e statalista, i populisti sono, invece, per l’egualitarismo
ed il comunitarismo.

Se è discutibile, dunque, che siano di destra ancor più lo è ritenerli di estrema


destra. Infatti, ha chiarito Pietro Ignazi, un partito può essere definito di
estrema destra solo se il suo elettorato appartiene a quell’area dello
schieramento politico e professa un’ideologia basata su valori che si
richiamano al fascismo e persegue tra i suoi obbiettivi quello del
sovvertimento dell’ordine democratico. Se questo è vero, pensare di dire che
la Lega Nord è di estrema destra è, al meglio, altamente problematico.

Una teoria che potremmo sintetizzare in tre punti: 1) gli elettori dei partiti neo
populisti non vengono, né tutti né sempre, dall’estrema destra. Anzi, è vero in
molti casi proprio il contrario; 2) i legami con l’eredità del fascismo,
certamente riscontrabili in alcuni di questi partiti, non rappresentano la loro
regola generale; 3) la lotta dei neo populisti non è finalizzata al sovvertimento
dello Stato, se mai, al suo iper rafforzamento. Propugnano una democrazia
illiberale e anti-istituzionale perché nemici di qualsiasi forma di mediazione
frapposta tra il popolo e l’esercizio effettivo, diretto del potere. Criticano la
democrazia rappresentativa in nome e per conto di quella diretta. Le loro
posizioni non sono anti-sistema ma di protesta, anche estrema, contro il
funzionamento difettoso dei meccanismi della democrazia rappresentativa.

Per dirla con Halbert O. Hirschman i neo populisti hanno una posizione di
tipo voice che non sfocia nell’exit. Come invece fanno i partiti che si
collocano agli estremi dello spettro politico e, in genere, le forze extra
parlamentari. Per concludere, è bene anche ricordare che il neo populismo non
è anti mercato ma favorevole a un capitalismo assistenziale-corporativo. I suoi
veri nemici sono i burocrati di Bruxelles.

Di fronte a questa rivoluzione, la tradizionale alternanza/alleanza marxista-


liberale – che ha governato l’Europa dal Secondo dopoguerra a oggi – non ha
ancora elaborato una contro-risposta. Un clima che ricorda l’antica Roma che
tergiversava mentre Sagunto bruciava.

7.2. Brexit

Con il termine Brexit si indica l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione


Europea sancita dal referendum del 23 giugno 2016. Non era la prima volta
che gli inglesi venivano chiamati alle urne per dire Sì o No all’Europa. Nel
4
Geografia economico politica Modulo 7° - Sovranismo e populismo

1957 Belgio, Francia, Germania dell’Ovest, Italia, Lussemburgo, Olanda


firmarono il trattato di Parigi che istituiva la Comunità Economica Europea
(CEE), antesignana di quella che oggi è l’UE. Si trattava dell’ultimo di una
serie di tentativi di rafforzare la cooperazione economica tra le nazioni
europee nella convinzione che i più intensi rapporti commerciali avrebbero
evitato un nuovo conflitto mondiale dopo i due che, nella prima metà del
Novecento, avevano distrutto l’equilibrio geopolitico del Vecchio Continente.

Quando nel 1963 gli inglesi chiesero di aderire alla CEE, i francesi, storici
rivali, si opposero fermamente e dovettero aspettare il 1973 per farne parte
ma, due anni dopo, rischiarono di uscirne. Nel 1975, infatti, il governo
d’Oltremanica indisse un referendum per dire Sì o No alla permanenza del
Regno Unito nella Comunità Economica Europea. All’epoca, a differenza di
quanto accaduto nel 2016, la maggioranza degli elettori (67%) rispose
positivamente.

Nel 1984 la minaccia della Premier conservatrice Margaret Thatcher di ridurre


finanziamenti inglesi alla CEE aprì un duro scontro diplomatico con i partner
europei. La leader britannica lamentava che il 70% del budget CEE era
destinato all’agricoltura. Questo favoriva paesi con grandi estensioni agricole,
come la rivale Francia, a discapito di quelli, come il Regno Unito, che ne
avevano meno. Intorno a questo tema si è consumata tra Londra e Parigi una
lotta ultradecennale mai sopita.

Con il Trattato di Maastricht, firmato nel 1992 ed entrato in vigore l’anno


seguente, gli Stati membri della CEE misero le basi per la nascita dell’Unione
Europea. L’obiettivo era quello di rafforzare con la cooperazione economica
anche quella politica, inclusa una moneta comune, dalla quale il Regno Unito
si tirò, fin da subito, fuori.
Il Premier laburista Tony Blair, che stravinse le elezioni politiche del 1997, a
differenza di chi l’aveva preceduto, si mostrò pro-europeista impegnandosi a
ricucire le relazioni con i partner dell’Europa continentale. La sua fu una
missione non semplice. Spettò, infatti, a lui il compito di gestire, solo per fare
due esempi:

- l’emergenza “mucca pazza”, encefalopatia spongiforme bovina (Bse), un


morbo che colpì gli allevamenti britannici causando un divieto pro-tempore di
esportazione nel resto dell’Unione Europea;

- la battaglia per ottenere da Bruxelles l’autorizzazione (conquistata nel


2000, dopo 27 anni di scontri diplomatici, grazie a una sentenza della Corte
UE) a utilizzare il termine cioccolato per prodotti britannici, come Kit-Kat
5
Geografia economico politica Modulo 7° - Sovranismo e populismo

e Mars, che, secondo i concorrenti europei, essendo realizzati non con


burro di cacao ma con oli vegetali non potevano essere riconosciuti come
tali.

Nel 2007, dopo il fallito tentativo di approvare una Costituzione europea, gli
Stati UE, Gran Bretagna inclusa, firmarono il Trattato di Lisbona che dava
maggiore potere alle istituzioni di Bruxelles, ma il nuovo Premier laburista
Gordon Brown fu l’unico dei 26 Stati membri a mancare la cerimonia ufficiale
per la sigla dell’accordo.

Nel 2013, con l’obiettivo di difendere gli affari finanziari britannici, il Premier
conservatore David Cameron annunciò che se alle successive elezioni
politiche il suo partito avesse conquistato la maggioranza parlamentare,
avrebbe rinegoziato i termini della membership inglese nell’UE. A
condividere, ma con toni più duri e accesi, la posizione anti-europeista di
Cameron fu il Partito per l’indipendenza del Regno Unito (UKIP) guidato da
Nigel Farage che, approfittando della diffusa avversione degli inglesi nei
confronti degli immigrati dall’Est Europa, cominciò a registrare un crescente
consenso popolare.

Alle elezioni del 2015, David Cameron viene riconfermato Premier e, come
promesso in campagna elettorale, oltre ad avviare le procedure per rinegoziare
i termini della partecipazione britannica nell’UE, indice per il 23 giugno 2016
un referendum per chiedere ai sudditi di Sua Maestà Sì o No alla permanenza
della Gran Bretagna nell’Unione. Con sorpresa del Premier inglese, che
voleva trattare ma non abbandonare la membership nell’UE, la maggioranza
degli elettori (51,9%) ha votato a favore dell’uscita della Gran Bretagna
dall’Unione (Evans, Menon, 2017).

Questo spiega perché, all’indomani del Sì inglese alla Brexit, David Cameron
si è dimesso, lasciando il posto alla collega di partito Theresa May che, il 29
marzo 2017, come indicato dall’art. 50 del Trattato UE, ha formalmente
avviato la procedura biennale di uscita dall’Unione prevista per il 30 marzo
2019. Un iter complesso, è la prima volta che accade nella storia dell’Unione
Europea, che ha già diviso sia la Gran Bretagna che i partner europei, tra i
sostenitori di una soft o hard Brexit. Per i primi, gli inglesi dovrebbero uscire
soltanto dalle istituzioni politiche di Bruxelles, mentre i secondi chiedono di
rinunciare al mercato unico, cioè quell’insieme di accordi che fa sì che nello
spazio europeo si possa commerciare senza barriere tariffarie e doganali.

Un quadro, per gli inglesi, ulteriormente complicato dall’avvento negli Stati


Uniti di Donald Trump che non sembra intenzionato a mantenere i

6
Geografia economico politica Modulo 7° - Sovranismo e populismo

tradizionali, intensi rapporti diplomatici tra i due paesi; che Winston


Churchill, nel 1946, definì special relationship in riferimento all’unicità delle
relazioni politiche, militari, economiche e culturali tra Londra e Washington,
sulle quali l’eroe britannico della Seconda Guerra Mondiale sosteneva che
doveva fondarsi il blocco occidentale in funzione anti-sovietica.

Oltre a David Cameron, buona parte degli osservatori nazionali e


internazionali non aveva immaginato a un risultato simile. È possibile
sostenere, per questo, che con Brexit è iniziata nel mondo occidentale una
nuova era politica che ha, poi, trovato conferma, solo per fare alcuni esempi,
nell’imprevista vittoria di Donald Trump alle elezioni presidenziali americane
del 2016 e in quella, altrettanto sorprendente, di due partiti anti-establishment:
Lega e Movimento 5 Stelle nelle elezioni del 2018.

7.3. Visegrad

Con la definizione “gruppo di Visegrad” si intende l’alleanza tra quattro paesi


dell’Unione Europea: Polonia, Repubblica Ceca, Ungheria e Slovacchia.
Prende il nome dalla cittadina ungherese di Visegrad in cui fu costituito il
blocco nel 1991, dopo il crollo dell’Unione sovietica, per rafforzare la
cooperazione tra questi paesi (diventarono quattro nel 1993 quando la
Cecoslovacchia si divise in due Stati indipendenti) che, negli ultimi anni, si
sono, invece, distinti per il loro sovranismo euroscettico anti-immigrati.

L’obiettivo di partenza del quartetto di Visegrad era rafforzare la


collaborazione tra i governi allo scopo di promuovere una integrazione
unitaria nell’Unione Europea. Sono entrati nell’UE nel 2004, ma soltanto la
Slovacchia ha adottato come moneta l’Euro.

La Polonia ha una popolazione di 38 milioni di abitanti, la Repubblica Ceca


10,5 milioni, l’Ungheria 10 milioni e la Slovacchia 5,3 milioni, sommati
superano di poco la popolazione italiana.

Il leader più conosciuto e discusso, fra quelli del gruppo di Visegrad, è Viktor
Orban, Primo Ministro dell’Ungheria. Al potere dal 2010 è accusato da più
parti di autoritarismo, soprattutto per le modifiche illiberali introdotte alla
Costituzione ungherese. Vicino, in politica, alla Russia di Vladimir Putin, ha
conquistato fama e consensi per le sue iniziative anti-immigrati. Nel 2015 ha,
infatti, costruito un muro lungo il confine con la Serbia per arginare la
pressione migratoria che arrivava soprattutto dalla Siria, attraverso Turchia,
Grecia e il cosiddetto corridoio balcanico. Nel 2018 ha, invece, promosso
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Geografia economico politica Modulo 7° - Sovranismo e populismo

l’approvazione di una legge che complica le procedure per richiedere asilo in


Ungheria.

I rapporti di Orban con l’Italia sono stati a lungo difficili perché ha guidato il
gruppo di Visegrad nel tentativo di boicottare la decisione, presa nel settembre
2015 dalla Commissione UE, di redistribuire tra gli Stati membri 160 mila
rifugiati arrivati in Italia e Grecia a causa della guerra in Siria e della
Primavera Araba. Contro questo meccanismo di solidarietà, l’Ungheria e la
Slovacchia hanno fatto ricorso alla Corte di Giustizia dell'Unione Europea
che, con una sentenza del 2017, lo ha respinto e ha rigettato le due obiezioni,
di metodo e di merito, avanzate dai ricorrenti. Vediamo di capire il perché.

Sul metodo i governi di Bratislava e di Budapest consideravano debole e


inappropriata la base giuridica che il Consiglio Europeo e la Commissione
avevano scelto per adottare il piano di ricollocamento dei profughi.
Osservazione ritenuta infondata dai giudici UE perché, si legge nella sentenza,
la decisione impugnata è stata legalmente presa in base all’articolo 78 del
Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea che così recita: “qualora uno
o più Stati membri debbano fronteggiare una situazione di emergenza,
caratterizzata da una afflusso improvviso di cittadini di paesi terzi, il
Consiglio, su proposta della Commissione, può adottare misure temporanee a
beneficio dello Stato o degli Stati membri interessati…”. È quello che è stato
fatto.

Sul merito Slovacchia e Ungheria criticavano la relocation perché non adatta a


risolvere l’emergenza rifugiati di Atene e Roma. Una verità, a loro avviso,
confermata dal fatto che dei 160 mila ricollocamenti previsti, ad oggi ne sono
stati effettuati poco più di 35 mila. Un fallimento, questa la risposta dei
giudici, che, però, non certifica l’inefficacia della misura in quanto tale ma
evidenzia, invece, l’assoluta “mancanza di cooperazione di alcuni stati
membri” che il Consiglio e la Commissione UE “non potevano prevedere”.

Il gruppo di Visegrad può contare oggi sull’appoggio del Premier austriaco


Sebastian Kurz che, come Orban, fa parte del Partito Popolare Europeo e
sostiene la sua politica anti-immigrati.

Rispetto ai precedenti governi italiani, quello nato dopo le elezioni politiche


del 4 marzo 2018 ha sviluppato buoni rapporti con Orban.

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Geografia economico politica Modulo 7° - Sovranismo e populismo

7.4. Russia di Putin

Prima di osservare le caratteristiche geopolitiche della Russia di Putin, è


opportuno evidenziare brevemente alcuni aspetti che, storicamente,
determinano il ruolo e l’azione di Mosca sullo scenario internazionale.
In primo luogo, ciò che emerge anche semplicemente osservando una cartina
geografica, è l’enorme estensione del territorio russo: con 17.125,191 km
quadrati ed una popolazione di circa 150 milioni di abitanti, la Russia è il più
vasto stato al mondo, arrivando ad occupare un settimo dell’intera superficie
del pianeta.

Uno stato transcontinentale, estendendosi dall’Europa all’Asia, che si trova ad


avere 16 stati limitrofi, fra i quali paesi importanti come Ucraina, Polonia e
Cina. Condivide, inoltre, dei confini marittimi con il Giappone (attraverso il
mare di Ochotsk) e gli Stati Uniti (attraverso lo stretto di Bering). Un territorio
non solo molto vasto, ma ricco anche di risorse naturali, in particolare gas e
petrolio. La Russia è, infatti, il principale produttore di petrolio al mondo e il
secondo produttore di gas, dopo gli Stati Uniti. Inoltre possiede il 20% delle
terre dell’Artico, anche queste ricche di risorse e per tale motivo contese dai
paesi che insistono sul Circolo Polare artico, tra i quali gli Stati Uniti, Canada,
Norvegia e Danimarca. Questa enorme disponibilità la rende uno dei
principali attori del mercato energetico mondiale, un settore strategico attorno
al quale ruotano interessi, accordi di cooperazione e conflitti. Mosca, ad
esempio, si trova in una posizione privilegiata rispetto a molti paesi europei,
che dipendono dalle sue risorse energetiche. Ciò chiaramente tende ad
influenzare le relazioni tra i paesi europei (importatori) e la Russia
(esportatrice), a vantaggio di quest’ultima, soprattutto alla luce delle difficoltà
dei paesi europei di dotarsi di fonti energetiche alternative.
Sono, quindi, innanzitutto le sue caratteristiche fisiche (estensione,
popolazione e risorse) a rendere il gigante russo una delle principali potenze
internazionali.

Le proprietà geografiche del paese hanno sempre contribuito a plasmare gli


obiettivi e le priorità delle diverse forme di stato che si sono succedute sul
vasto territorio russo. Se col tempo sono cambiate le tipologie di minacce e gli
avversari, è rimasta uguale, invece, la necessità di garantire una difesa
efficiente del territorio contro i pericoli esterni. Pericoli che, se volgiamo lo
sguardo al passato, per la Russia sono arrivati quasi sempre dal suo confine
occidentale, ovvero quello che si estende verso l’Europa. Nel corso della sua
storia, il territorio della Russia è stato invaso tre volte, una dalla Francia di
Napoleone e due dalla Germania in occasione dei due conflitti mondiali. Ogni
volta è riuscita però ad approfittare delle caratteristiche del suo territorio
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Geografia economico politica Modulo 7° - Sovranismo e populismo

(l’enorme estensione e le temperature rigide del suo inverno che mettevano a


dura prova gli eserciti invasori) e a sconfiggere gli attacchi.
Tali avvenimenti hanno quindi reso evidente la necessità per la Russia di
garantire una profonda “zona cuscinetto”, che mantenesse una ampia distanza
tra le sue frontiere e quelle dei potenziali nemici. Durante le guerre
napoleoniche e la Prima Guerra Mondiale, i Paesi baltici, la Bielorussia e
l'Ucraina hanno costituito un vasto spazio che ha portato le truppe nemiche
allo sfinimento fino alla sconfitta. Dopo la Seconda guerra mondiale, la zona
cuscinetto della Russia si è espansa notevolmente, con il passaggio di Polonia,
Cecoslovacchia, Ungheria e Romania sotto l’area di influenza sovietica. Il
crollo dell’Urss ha trasformato radicalmente questo scenario, sgretolando il
dominio sovietico, fino alla nascita, negli anni novanta, di diversi stati
indipendenti lungo i nuovi confini della Russia.

Oggi è possibile affermare che i rischi di una invasione della Russia da parte
di altri stati, come avvenuto in passato, risultano particolarmente bassi. Ciò
però non ha sostanzialmente modificato le priorità in tema di sicurezza
interna. Se in precedenza il rischio era una penetrazione militare, quello che
oggi Mosca cerca di evitare è che le potenze esterne (Stati Uniti, Nato e
Unione Europea in primis) possano espandere in maniera eccessiva la loro
influenza politica ed economica nella regione, proprio in quegli stati che in
passato avevano rappresentato la “zona cuscinetto”. La volontà della Russia di
mantenere in questi paesi una presenza ed un ruolo importante ha determinato
diverse situazioni di tensione e conflitto più o meno intensi. In alcuni gli
interessi contrapposti si sono manifestati apertamente, in altri si sono tradotti
in un sostegno indiretto ad altri attori o parti in causa, come ad esempio partiti,
leader politici o altre forze politiche.

Come principale erede dell’Unione Sovietica, la Russia detiene per diritto un


seggio permanente nel Consiglio di Sicurezza dell’ONU. Siccome, secondo
quello che prevede lo statuto, le decisioni del Consiglio necessitano di una
maggioranza di almeno nove dei quindici membri e di tutti i cinque membri
permanenti, il veto che può esercitare Mosca le conferisce un potere notevole
e la possibilità di bloccare quelle iniziative ritenute in contrasto con gli
interessi russi e dei paesi alleati, o di fare pressioni politiche affinché si
adottino misure considerate invece favorevoli. La Russia ha sempre fatto
ricorso a questo strumento, basti pensare, nel passato più recente, alle
risoluzioni adottate in relazione ai conflitti in Ucraina e in Siria.

La Russia della fine del Novecento ha attraversato una fase particolarmente


problematica. La caduta del sistema sovietico (1991) aveva significato non
solo la fine dell’ordine bipolare, ma anche la rapida perdita dell’influenza

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Geografia economico politica Modulo 7° - Sovranismo e populismo

geopolitica e del ruolo di potenza globale economica, politica e militare


giocato da Mosca fino ad allora. Una perdita notevole, che aveva indebolito
l’influenza russa soprattutto rispetto all’altro grande attore mondiale, gli Stati
Uniti, e ne aveva colpito la capacità di influenza nei luoghi strategici del
mondo: il Medio Oriente, l’Europa orientale e l’Asia. Per comprendere quanto
il crollo dell’Unione Sovietica abbia rappresentato uno shock, possiamo
ricordare le parole dello stesso Putin, che ha lo ha descritto come “la più
grande catastrofe geopolitica del XX secolo”.
Da un punto di vista economico poi, le riforme degli anni novanta avevano
profondamente trasformato lo stato e la società russa. Molti ex funzionari e
pezzi del vecchio apparato erano riusciti ad approfittare delle liberalizzazioni
selvagge per arricchirsi e garantirsi posizioni di privilegio, mentre le fasce più
deboli della popolazione scivolavano verso la povertà e condizioni di vita
peggiori. A questo si aggiunge una diffusione incontrollata di fenomeni di
corruzione e clientelismo, che contribuivano ad alimentare il potere e la
ricchezza degli oligarchi a scapito della popolazione.

Il crollo dell’Unione Sovietica ha lasciato in eredità alla Russia anche una


serie di conflitti etnico-territoriali, in cui Mosca è coinvolta, in alcuni degli
stati che una volta facevano parte dell’URSS. Si tratta perlopiù di conflitti di
natura territoriale scoppiati tra la fine degli anni Ottanta e i primi anni
Novanta (ad eccezione dell’Ucraina) e che affondano le loro radici in contesti
attraversati da profonde e antiche tensioni etniche, sociali ed economiche,
spesso rimaste latenti per lungo tempo e riemerse con prepotenza dopo anni,
in particolare in seguito alla dissoluzione dell'Unione Sovietica. Conflitti
dall’andamento irregolare in cui si sono alternate fasi di duri combattimenti
con fasi in cui le ostilità sembravano cessare, per poi riesplodere di nuovo. I
vari accordi sul cessate il fuoco e le trattative di pace fra le parti sono riusciti a
raffreddare le tensioni ma non a risolvere i nodi alla base né a giungere ad una
soluzione condivisa sullo status di queste regioni. Il risultato di questi conflitti
è stata la formazione in quei territori, su cui gli stati non esercitano più alcuna
sovranità o la esercitano in maniera molto limitata, di nuove entità che nel
tempo sono riuscite a ottenere una sempre maggiore autonomia e a mettere in
atto dei processi di costruzione di istituzioni e funzioni tipiche di veri e propri
stati. Queste entità sono note come stati de facto o stati non riconosciuti, tra i
quali ricordiamo la Transnistria in Moldavia, l’Ossezia del Sud e l’Abkhazia
in Georgia, il Nagorno Karabakh in Azerbaijan e le Repubbliche Popolari di
Donetsk e Lugansk in Ucraina.
La Russia ha giocato e gioca tuttora un ruolo fondamentale in tutti questi
conflitti, sostenendo e garantendo la sicurezza delle repubbliche separatiste.
Per comprendere il coinvolgimento della Russia e l’importanza di questi
conflitti solo apparentemente minori, è opportuno ricordare ciò che si

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Geografia economico politica Modulo 7° - Sovranismo e populismo

affermava in precedenza. Con l’indipendenza, molti stati ex sovietici come la


Georgia e l’Ucraina, hanno iniziato a guardare ai paesi europei e agli Stati
Uniti, nel tentativo di costruire legami politici ed economici ed affrancarsi
dalla dipendenza con l’ex madrepatria. Una scelta sicuramente non gradita a
Mosca, che comunque mantiene forti interessi nella regione. Tali conflitti,
quindi, hanno rappresentato un ulteriore piano di scontro tra i differenti
interessi in gioco, ed una occasione per la Russia di dimostrare ancora una
volta il suo ruolo preponderante in questi territori vicini ai suoi confini.

Questa era la situazione ereditata da Vladimir Vladimirovič Putin al momento


della sua nomina come Primo Ministro nell’agosto del 1999 e poco dopo come
Presidente della Federazione, eletto nel marzo dell’anno successivo. Nei circa
20 anni trascorsi da quando Putin è alla guida del paese, la Russia è
profondamente cambiata. Sia se ad essere osservata è la politica interna, sia se,
invece, si analizzano le relazioni internazionali del grande stato euroasiatico.

È possibile affermare che, dal quel momento, l’obiettivo principale del


presidente russo sia stato quello di far riacquistare al paese lo status di potenza
mondiale. La sua politica infatti, ha mirato, nel tempo, a imporre alla comunità
internazionale la presenza e il peso della Russia e dei suoi interessi nello
scenario internazionale, sia nelle aree di crisi e conflitto, sia nei forum
internazionali. In particolare, Mosca ha operato (si può affermare, in molti
casi, con successo) per salvaguardare la sua posizione di forza nel mercato
energetico; per sostenere leader e governi di paesi terzi con cui detiene
relazioni politiche, anche in occasioni di conflitti e rivolte interne (come nel
caso della Siria); per evitare l’espansione dell’influenza di altri attori
internazionali nei suoi stati confinanti, ed affermare così il ruolo di leader
regionale e mondiale. Esemplificativa è l’opposizione di Mosca ad un
allargamento della Nato agli stati dell’ex Unione Sovietica, considerata
appunto come una minaccia agli interessi russi. In tale ottica, Mosca ha
rafforzato i legami politici, economici e militari con gli stati vicini attraverso
la creazione di organizzazioni quali l'Unione economica eurasiatica, che
comprende Bielorussia, Kazakistan, Russia, Armenia e Kirghizistan, e
l’Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva, a cui aderiscono, oltre
alla Russia, Armenia, Kazakhstan, Kyrgyzstan, Tajikistan e Uzbekistan.
Per difendere il paese e i suoi interessi, sia all’interno dei confini che fuori, il
governo russo non ha esitato nel tempo a ricorrere alla forza e alle maniere
forti: contro presunte minacce terroristiche, contro dissidenti politici e media,
contro gruppi separatisti o arrivando allo scontro con altri paesi. In tale
atteggiamento si misura una delle principali divergenze con gli stati
occidentali, che hanno accusato più volte Mosca di agire in maniera
autoritaria, unilaterale e contraria ai principi democratici. Dal suo canto, la

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Geografia economico politica Modulo 7° - Sovranismo e populismo

Russia ha sempre affermato di agire per difendere la sua sicurezza ed i suoi


cittadini, accusando a sua volta i governi dei paesi occidentali di utilizzare un
“doppio standard”, ovvero di criticare le azioni e gli interventi russi ma
legittimandone di simili se portati avanti da altri paesi. Secondo molti analisti,
il successo politico di Putin è legato proprio alla sua immagine di “uomo
dell’azione”, capace di prendere rapidamente decisioni difficili e di
raggiungere gli obiettivi programmati. In tal senso è opportuno ricordare
come, alla fine degli anni Novanta, Putin abbia visto aumentare il consenso
nei suoi confronti nel paese grazie alla gestione della seconda guerra cecena.

La Cecenia, e in generale la regione del Caucaso settentrionale (che


comprende anche il Daghestan e l’Inguscezia), ha rappresentato da sempre
una fonte di instabilità per i governi russi e i rapporti tra le autorità centrali e
quelle delle repubbliche molto conflittuali. La sua è una storia fatta di
periodiche ribellioni al potere centrale, sin da quando, nel 1873, entrò a far
parte dell’Impero russo. A seguito della Rivoluzione d’Ottobre (1917) fu
inglobata, insieme all’Inguscezia nell’Unione Sovietica, con il nome di
Repubblica autonoma socialista sovietica Ceceno-inguscia. Durante gli anni
della Seconda guerra mondiale, Stalin mise in atto delle politiche dure nei
confronti delle popolazioni caucasiche, accusate di aver collaborato con i
nazisti. Nel 1944 la Repubblica autonoma cecena venne abolita e centinaia di
migliaia di ceceni vennero deportati in Asia Centrale, con l’obiettivo di sopire
le spinte di rivolta russificando la regione. Con il crollo dell’URSS, le istanze
indipendentiste ripresero vigore e nel 1991 la Cecenia dichiarò
unilateralmente l’indipendenza dalla Russia, sull’onda di molte altre
Repubbliche Sovietiche. In un primo momento Eltsin tentò di disinnescare
l’ondata indipendentista che stava attraversando i territori dell’Unione,
concedendo ampia autonomia alle nuove entità La Cecenia, però, non ritirò la
propria dichiarazione di indipendenza e la trattativa si arenò. Eltsin ordinò di
impedire la secessione, inviando nel 1994 40.000 soldati nella Regione. Aveva
inizio la prima, sanguinosa guerra cecena, che terminò nel 1996 con un cessate
il fuoco che non risolse in pratica le questioni al centro del conflitto. Un nuovo
conflitto esplose pochi anni dopo, nel 1999. Questa volta l’intervento militare
russo fu molto più deciso, il cui risultato fu però una devastazione di enormi
proporzioni, che portò alla totale distruzione della capitale Groznyj. Al di là
dell’operazione bellica, il successo di Putin nella regione fu determinato anche
dalla capacità di imporre al potere in Cecenia delle figure a lui particolarmente
fedeli, come avvenuto dal 2003 con la nomina di Akmed Kadyrov, a cui è
succeduto nel 2004 il figlio Ramzan. Da quel momento il paese sta lentamente
vivendo un processo di pacificazione. A farne le spese sono però le libertà
civili e politiche: con la scusa del contrasto a ciò che rimane delle milizie
indipendentiste e delle formazioni jihadiste, Kadyrov utilizza metodi brutali

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Geografia economico politica Modulo 7° - Sovranismo e populismo

nei confronti dei suoi oppositori, calpestando sistematicamente i diritti e


facendo spesso ricorso alla violenza, trasformando la Cecenia in una sorta di
feudo personale.

Negli ultimi decenni, Mosca ha dovuto affrontare una nuova sfida alla stabilità
e alla sicurezza interna: quella del terrorismo. Anche il territorio russo negli
anni è stato oggetto di attentati terroristici, che hanno causato un alto numero
di vittime. Già alla fine degli anni novanta la Russia ha dovuto fare i conti con
la minaccia islamica, che ha trovato terreno fertile in particolare nelle
repubbliche caucasiche e durante il sanguinoso conflitto in Cecenia. Qui
l’estremismo religioso ha saputo legarsi con alcune delle istanze
indipendentiste. Bisogna sottolineare come in tale regione storicamente vi
fosse una presenza di un Islam moderato, vicino alla corrente sufista e in
disaccordo con le interpretazioni radicali. Nel tempo però, anche in questa
area si sono formati diversi gruppi estremisti o vi hanno trovato rifugio
combattenti jihadisti di ritorno dall’Afghanistan, dall’Iraq, dalla Siria o dalla
Libia. Tra la fine degli anni novanta e i primi anni del duemila questi gruppi
realizzano diversi attentati che provocano un alto numero di vittime: stragi
come quella del teatro Dubrovka di Mosca del 2002 (definito da Putin "il
momento più difficile della mia storia politica"), di Nazran e Beslan (2004) e
della metropolitana di Mosca (2010) hanno scosso il paese e causato più di
500 morti e oltre mille feriti. Negli ultimi anni il Cremlino sembra essere
riuscito a infliggere un duro colpo alle organizzazioni terroristiche, soprattutto
attraverso una strategia basata sul controllo del territorio, la prevenzione e
l’eliminazione dei terroristi. La prevenzione è basata su un’infiltrazione e un
controllo capillare del territorio, con eventuali azioni che vanno a stroncare sul
nascere qualsiasi tipo di input radicalizzante; nel frattempo le autorità
provvedevano a chiudere tutte quelle ONG straniere sospettate di supporto ai
jihadisti, tagliando così i canali di finanziamento. Una volta colpito nei suoi
punti vitali e privato del suo appoggio internazionale, il terrorismo islamista
del Caucaso settentrionale non è più stato in grado di coordinarsi e organizzare
attacchi di grandi dimensioni come in passato. Ad indebolire queste
organizzazione non è stata solamente l’azione del Cremlino, ma anche una
serie di fattori legati al contesto internazionale: la nascita dell’Isis ha portato
molti jihadisti ad abbandonare il Caucaso per unirsi ad allo Stato Islamico e
combattere in Siria.

La volontà di difendere gli interessi della Russia e dei suoi alleati rappresenta
la bussola che ha orientato la politica di Putin e che ha determinato la
crescente presenza di Mosca nello scenario internazionale. Una presenza che
aveva ed ha tuttora lo scopo di mostrare il ruolo fondamentale che il paese
pretende di giocare nel campo geopolitico, economico e militare. Così diversi

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Geografia economico politica Modulo 7° - Sovranismo e populismo

interventi messi in atto da Putin negli ultimi anni possono essere letti secondo
un’ottica comune: la Russia non esita ad intervenire, politicamente e
militarmente, laddove considera in pericolo i suoi interessi o quelli dei suoi
alleati, anche qualora questi interventi non siano condivisi dalla comunità
internazionale o suscitino la reazione di altri stati. Le vicende relative a
Georgia, Ucraina e Crimea ben esemplificano questo orientamento.
Nell’agosto del 2008 scoppia un breve ma duro conflitto tra la Georgia, ex
repubblica sovietica e la Russia. Mosca interviene in difesa dell’Ossezia del
Sud e dell’Abkhazia, regioni separatiste all’interno del territorio georgiano,
affermando di dover salvaguardare l’incolumità dei cittadini russi presenti
nell’area. La Russia ottiene una rapida vittoria militare e riconosce
unilateralmente l’indipendenza delle due regioni, a differenza dei paesi
occidentali che, invece, sostengono le ragioni del governo di Tbilisi. Per molti
autori l’intervento della Russia è da interpretarsi anche come una reazione al
riconoscimento, nei mesi precedenti, da parte di molti stati europei e degli
Usa, dell’indipendenza del Kosovo, una indipendenza, al contrario, osteggiata
da Mosca, da sempre legata alla Serbia.
Con la sua enorme estensione e la sua posizione strategica tra la Russia e
l’Europa, l’Ucraina ha sempre rappresentato un territorio verso il quale si sono
diretti gli interessi di Mosca. Come altre ex repubbliche, una volta parte
dell’URSS, anche l’Ucraina con l’indipendenza ha iniziato a volgere il proprio
sguardo verso i paesi europei e gli Stati Uniti. Già nel 2004, un grande moto di
protesta, conosciuto come la “Rivoluzione Arancione” si era scagliato contro
il governo considerato troppo filorusso, favorendo l’ascesa di una classe
politica più propensa ai rapporti con Usa e Ue. Questo interesse si è tradotto
nel 2013 in una trattativa volta a firmare l’Accordo di Associazione con
l’Unione Europea. La decisione del governo ucraino di sospendere
improvvisamente la trattativa ha scatenato proteste contro il governo, che
diedero vita a scontri violenti e combattimenti che portarono alla caduta del
governo in carica e causarono numerosi morti e feriti. Lo scontro politico
rifletteva le profonde differenze etniche linguistiche ed economiche che
dividono l’Ucraina, in particolare lungo l'asse ovest/est. La crisi si è andata
trasformando così in un conflitto armato tra l’autorità di Kiev e le regioni
orientali filo russe del Donetsk e del Lugansk. In seguito, nell’aprile del 2014 i
leader delle regioni separatiste proclamarono la nascita delle Repubbliche
Popolari di Donetsk e Lugansk e la creazione della confederazione della
Novorossiya, con l’annunciato obiettivo futuro di unificarsi alla Russia. A
questo Kiev rispose con una vasta offensiva militare che ha causato migliaia di
morti e sfollati. La situazione si è andata aggravandosi con il coinvolgimento,
in maniera più o meno diretta, degli Usa e degli stati Ue (in particolare quelli
dell’Europa orientale) a supporto di Kiev e della Russia, a sostegno delle
regioni indipendentiste. Nel febbraio del 2015 un accordo sul cessate il fuoco

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Geografia economico politica Modulo 7° - Sovranismo e populismo

è stato raggiunto attraverso il Protocollo di Minsk II e grazie alla mediazione


dei capi di stato di Francia, Germania, Russia e Bielorussia. Intanto, nel 2014,
la popolazione della penisola della Crimea, deicide con un referendum (non
riconosciuto dal resto della comunità internazionale, ma ritenuto valido da
Mosca) per l’indipendenza dall’Ucraina e per l’annessione alla Federazione
russa. La penisola ha un valore strategico: è sede infatti delle basi della Marina
miliare e, quindi, fondamentale per il controllo del Mar Nero. Inoltre, ha un
forte legame con la Russia: la maggioranza della popolazione è russa ed il
russo è la lingua predominante.

Come dimostrano questi avvenimenti, Putin non ha esitato ad intervenire,


anche militarmente, per difendere gli interessi russi in quelle regioni
storicamente considerate legate alla ex madrepatria. Ma il disegno geopolitico
del Presidente russo non si è limitato ad estendere questa influenza nei paesi
vicini. Nel tempo Mosca si è imposta come attore politico globale, presente in
gran parte degli scenari internazionali. In particolare, La gestione della crisi in
Siria viene considerata una dei maggiori successi politici di Putin. Il sostegno
russo al governo Assad è stato infatti fondamentale per evitare la caduta del
leader siriano, obiettivo a cui invece avevano puntato gli Stati Uniti e diversi
stati europei, impegnati da anni nel tentativo di rovesciare questo governo.
L’appoggio militare poi ha determinato la quasi totale sconfitta sul campo
delle forze ribelli siriane che combattevano contro Assad e dei gruppi
estremisti legati all’Isis. La presenza e la determinatezza di Mosca ha fatto da
contraltare alle divisioni e alle difficoltà nel campo Usa/Ue, diviso sul piano
politico e estremamente cauto nell’intervenire con le truppe sul terreno. Il
personale successo di Putin nell’area è suggellato anche dal ritrovato accordo
con il presidente turco Erdogan, altro principale attore coinvolto nel conflitto
siriano. La conferenza di Astana del 2017 tra Russia, Turchia, Iran, Siria e i
ribelli ha segnato il definitivo trionfo di Putin e dei suoi alleati in Medio
Oriente, isolando gli Usa che hanno ricoperto soltanto un ruolo marginale.
Intanto Putin sta rafforzando la presenza russa anche in altri contesti, dalla
Corea del Nord alla Libia, all’Afghanistan, sfidando quello che dal punto di
vista geopolitico era stato per anni il dominio americano.

Per molto tempo la situazione economica in Russia è stata uno dei problemi
più gravi per il governo di Putin. Dal 2014 infatti il paese ha vissuto alcune
fasi di recessione. L’economia russa aveva subìto il primo colpo con il crollo
del prezzo del petrolio, la cui vendita rappresenta una buona fetta delle
esportazioni russe. La situazione era peggiorata con l’imposizione delle
sanzioni economiche internazionali per l’intervento russo nella crisi in
Ucraina e per le sue presunte interferenze nella campagna elettorale
presidenziale del 2016 negli Stati Uniti. La crisi, comunque, non era stata

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Geografia economico politica Modulo 7° - Sovranismo e populismo

improvvisa. L’economia russa aveva mostrato già in precedenza importanti


segni di debolezza per via della forte dipendenza dell’economia dalle
esportazioni di petrolio e gas, dell’eccessivo ruolo dello stato nell’economia e
di una macchina burocratica enorme e inefficiente. Putin è riuscito comunque
a mantenere solido il suo potere in Russia e, negli ultimi tempi, il suo governo
ha avviato una serie di grandi e costosi progetti infrastrutturali che hanno
contribuito a risollevare l’economia. Fra gli investimenti, bisogna ricordare
anche quelli legati ai mondiali di calcio svolti in Russia nel 2018, ulteriore
vetrina per il paese e il suo governo. Come osservano diversi analisti, la
situazione economica della Russia rimane comunque estremamente legata al
mercato energetico e presenta ancora diversi aspetti problematici, quali: la
corruzione dilagante, la mancanza di investimenti privati locali e i pochi
incentivi alle attività dei piccoli e medi imprenditori.

Nonostante le problematiche economiche e il peso delle sanzioni


internazionali, la Russia di Putin si configura come uno dei principali attori
globali, capace di estendere la sua influenza geopolitica non solo nella sua
regione, ma anche in nuovi territori, rappresentando ad oggi una potenza in
grado di sfidare gli interessi degli Stati Uniti in diverse aree del mondo.

7.5. Usa di Trump

Con la vittoria alle elezioni dell’8 novembre 2016, Donald Trump è diventato
il quarantacinquesimo presidente degli Stati Uniti. Candidato del Partito
Repubblicano ha battuto l’avversario del Partito Democratico Hillary Clinton.
A settant’anni è diventato il più anziano e il primo senza nessuna esperienza
politica o militare ad essere eletto alla presidenza degli USA.

Pochi avevano previsto la sua vittoria alle primarie del Partito Repubblicano,
nessuno alle elezioni per la Casa Bianca. Il successo della candidatura di
Trump era considerato improbabile sulla base di dati che fin qui avevano
spiegato efficacemente i meccanismi della politica americana:
l’importanza dell’organizzazione sul territorio, degli spot televisivi, di andare
bene ai dibattiti, di costruire delle convention ben funzionanti e, naturalmente,
anche l’efficacia dei sondaggi, che però nella politica americana avevano una
tradizione di affidabilità. Fattori di cui si discuterà a lungo, compresa la
debolezza della candidatura di Hillary Clinton.

Un’altra ragione per cui la vittoria di Trump era considerata improbabile


riguardava la vaghezza dei suoi programmi elettorali e il suo linguaggio
volgare e aggressivo, nonché i moltissimi scandali in cui era stato coinvolto
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Geografia economico politica Modulo 7° - Sovranismo e populismo

durante la campagna elettorale: dalle tasse federali non pagate per vent’anni al
video in cui diceva di poter molestare le donne, dalle donazioni benefiche
promesse e mai effettuate alle accuse di eccessiva vicinanza con Vladimir
Putin, dalle molte affermazioni razziste e sessiste che ha detto fino alle teorie
del complotto sostenute sui vaccini o sul riscaldamento globale (Il Post, 2017).

Secondo il report Securing Democracy in the Digital Age realizzato


dall’Australian Strategic Policy Institute (ASPI), la diffusione virtuale delle
cosiddette fake news, bufale, è stato uno dei fattori, anche se di certo non
l’unico, che ha contribuito alla vittoria di Donald Trump. Questa la
conclusione cui giunge il rapporto ASPI, che mette in relazione la diffusione
di bufale e l’oscillazione delle opinioni degli elettori man mano che ci si
avvicinava al voto.

Il primo risultato interessante è legato all’auto-percezione degli utenti. Perché


una bufala si riveli efficace – si legge nel report – non è necessario che
convinca tutti. È sufficiente che crei un certo livello di confusione, in modo da
minare la fiducia nelle fonti ufficiali. Esattamente ciò che si sarebbe verificato
nel caso Trump: le fake news diffuse in rete avrebbero contribuito a screditare
i media tradizionali, generando indecisione. Questo dato è confermato da
un sondaggio, riportato nel rapporto ASPI, realizzato dal Pew Research Center
di Washington. Qui si vede che ben l’88% degli aventi diritto di voto si
definiva molto o un po’ confuso dalla diffusione di bufale legate alla politica,
mentre solo il 12% dichiarava di avere ancora le idee chiare. Il livello di
confusione percepita risultava trasversale: interessava persone diverse per
fascia d’età, genere, titolo di studio e reddito.

Il principale strumento di diffusione di bufale sono stati, come è facile


immaginare, i social media, e in particolare Facebook. Il report mostra infatti
come, avvicinandosi alle elezioni, l’impatto delle fake news su Facebook abbia
progressivamente superato quello delle notizie attraverso i canali mediatici
tradizionali.

Tra febbraio e aprile 2016 le fake news legate ai due candidati hanno coinvolto
poco meno di 3 milioni di persone, nei quattro mesi precedenti al voto il
numero è triplicato, arrivando a quasi 9 milioni. Il tutto a discapito delle fonti
ufficiali, il cui engagement su Facebook (ovvero la somma di condivisioni,
reazioni e commenti) è passato da 12 a 7 milioni di persone.
Questi dati sono calcolati a partire dalle 20 notizie false più diffuse che, da
sole, avrebbero superato le top-news elettorali di quotidiani come Washington
Post, New York Times, Huffington Post, e altri.

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Geografia economico politica Modulo 7° - Sovranismo e populismo

‘Papa Francesco sconvolge il mondo e appoggia Donald Trump’. ‘WikiLeaks


conferma che Hilary vende armi all’ISIS’. ‘Obama rifiuta di lasciare la Casa
Bianca se Trump sarà eletto’.
Prima delle elezioni presidenziali americane del novembre 2016 erano queste,
e molte altre, le notizie più cliccate e condivise dagli internauti.

Tracciare la genesi e l’evoluzione delle fake news non è semplice, perché si


tratta di un fenomeno rapido e in continuo cambiamento. E spesso i siti dove
vengono prodotte notizie false hanno vita breve, o cambiano frequentemente
nome.
Tuttavia il caso delle ultime elezioni americane permette di individuare alcuni
filoni principali all’interno della ‘fabbrica online’ di bufale, evidenziate da un
recente studio dell’Università di Stanford citato dallo stesso report ASPI.

Molti siti web aggregatori di notizie false su Trump e Clinton erano gestiti da
utenti singoli, spesso molto giovani. Ad esempio, indagini realizzate
separatamente da BuzzFeed e dal Guardian hanno ricostruito che oltre 100 di
questi siti erano proprietà di un adolescente originario di Veles, una piccola
città della Repubblica di Macedonia.

In base all’analisi ASPI, la dimensione più complessa – e più allarmante – è


quella che vede veri e propri gruppi organizzati alla base delle fake news. Il
report cita, ad esempio, un’indagine dell’FBI a proposito di fonti russe legate
alla criminalità informatica. Non mancano, infine, i costruttori di bufale
seriali. Uno dei casi più clamorosi, che ha giocato un ruolo rilevante anche nel
caso Trump, è il sito denverguardian.com.

È difficile dire con certezza in quale misura le fake news abbiano


effettivamente aiutato Trump nella sua campagna elettorale; ma i dati
mostrano in modo chiaro uno sbilanciamento delle notizie false a favore
dell’attuale Presidente, quasi i tre quarti del totale delle bufale più diffuse
(Bonelli, Camilli, 2017).

A prescindere dal come Donald Trump sia riuscito a diventare Presidente


degli USA, è certo che la sua vittoria, insieme a quella della Brexit,
rappresentano una, seppur non pianificata, nuova alleanza anglo-americana,
come veniva chiamata all’epoca della Seconda Guerra Mondiale; rispetto al
passato, non agisce in difesa della democrazia: dall’imposizione della
globalizzazione economica alla lotta contra di essa.

Una strategia che, sul lungo periodo, potrebbe mostrare tre limiti.

19
Geografia economico politica Modulo 7° - Sovranismo e populismo

Il primo: il messaggio economico con cui, prima i Brexiters ed oggi Trump,


hanno convinto gli elettori, ossia di poter continuare a godere dei benefici
della globalizzazione senza subirne i costi, rischia di rivelarsi un’illusione.
Pensare di produrre ed inondare il pianeta di Iphone oppure di garantire a
Google e Facebook l'80/90% della pubblicità mondiale e,
contemporaneamente, di tornare ad usare, come promesso dal neo inquilino
della Casa Bianca, solo il carbone prodotto sugli Appalachians, almeno di non
innescare ritorsioni altrui dagli esiti potenzialmente devastanti, è come pensare
di riuscire a quadrare un cerchio.

Il secondo: la variegata galassia politico-culturale, che una volta avremmo


definito liberal-democratica di sinistra, sembra aver dimenticato che della
Società Aperta, oltre ai positivi benefici, si difendono anche le sue vittime. Un'
amnesia elitaria che, ad esempio, ha fatto finta di non vedere che il populismo
xenofobo anti immigrati non si combatte semplicemente accusando i suoi
supporter come dei poveri analfabeti mezzi fascisti. Occorre battersi per
“ridurre il danno” dei settori della società che dall'immigrazione anziché
benefici ricevono, spesso e volentieri, solo guai. Se gli sconfitti di oggi
cominceranno a prendere atto di questo, potrebbero, domani, diventare dei
nemici temibili per chi oggi governa.

Il terzo: dai flussi elettorali USA, come appurato nel caso del voto inglese,
emerge un serio problema relativo al voto dei giovani che, per colpa
diretta (astensione) e per quella indiretta, legata all'invecchiamento della
popolazione, sono quelli più penalizzati dalle conseguenze delle scelte fatte
nell'urna da chi, più avanti nell'età, di fatto impone le sue convenienze sul
futuro di chi ha più anni di vita davanti a sé.

Si vedrà se le suddette variabili incideranno sulla geografia politico-elettorale


americana. Nell’attesa, Donald Trump nella prima parte del suo mandato
presidenziale ha dato segnali chiari di volere ridisegnare l’ordine globale nato
all’indomani della Seconda Guerra Mondiale, propugnando politiche
protezioniste e anti-immigrati. Sulle sue scelte in materia di immigrazione è
interessante soffermarsi perché danno la misura del suo agire politico.

Nei primi cento giorni del suo mandato, il nuovo inquilino della Casa Bianca
ha provato, ma non è riuscito, a inasprire la politica migratoria USA. I suoi
provvedimenti sono stati, grazie al sistema di check and balances americano,
edulcorati o cassati dalle Corti di giustizia federali e statali. Tuttavia, il neo-
Presidente degli Stati Uniti è stato in grado di lanciare a livello globale il
messaggio che col suo insediamento per gli immigrati sia diventato molto più
difficile l’ingresso e il soggiorno negli USA. Un proclama che ha avuto come

20
Geografia economico politica Modulo 7° - Sovranismo e populismo

effetto annuncio un drastico calo nel primo trimestre 2017 dell’immigrazione


illegale in America. Secondo gli ultimi dati, resi noti dal Dipartimento di Stato
d’Oltreoceano, nei primi trenta giorni di presidenza Trump è crollato del 40%
il numero degli ingressi illegali dalla frontiera Sud degli USA e del 90%
quello di famiglie clandestine con bambini al seguito. Senza contare che, tra
gennaio e marzo 2017, il numero dei minori stranieri non accompagnati si è
ridotto del 76%, mentre quello dei ricongiungimenti familiari dell’86%.

Numeri tanto più rilevanti se si tiene conto che, come anticipato in


precedenza, nei primi cento giorni del suo mandato ha provato invano, perché
fermato dal ricorso alla giustizia di molti suoi avversari, a inasprire la politica
migratoria USA. A titolo esemplificativo si ricordi che il 6 marzo 2017 il
Presidente Trump ha firmato un nuovo ordine esecutivo che vieta l’ingresso
sul territorio americano dei cittadini di alcuni paesi a maggioranza
musulmana, oltre a sospendere l’ingresso di richiedenti asilo nel paese per
centoventi giorni. Il provvedimento è la versione smussata di quello, ben più
rigido, che The Donald aveva fatto approvare il 27 gennaio 2017, ma era stato
successivamente bocciato per via di una decisione del Tribunale di
Washington.

Il nuovo ordine impedisce per novanta giorni l’ingresso negli Stati Uniti ai
cittadini di Sudan, Siria, Iran, Libia, Somalia e Yemen che non abbiano un
regolare permesso di soggiorno. Rispetto alla lista precedente, cioè quella del
27 gennaio, è stato rimosso l’Iraq, secondo alcuni osservatori per via di
un’intensa pressione del governo iracheno e di diversi funzionari della stessa
amministrazione. Secondo altre fonti, invece, l’ordine precedente poteva
creare problemi agli iracheni che avevano collaborato con l’esercito
americano nella guerra contro lo stato islamico e che intendevano trasferirsi
negli Stati Uniti. Sono state inoltre eliminate le restrizioni sui richiedenti asilo
siriani, che ora sono stati equiparati a tutti gli altri. I possessori di green card –
cioè il permesso di residenza permanente negli Stati Uniti – e di altre forme di
permesso potranno invece entrare negli Stati Uniti, anche se sono cittadini dei
sei paesi interessati. Il nuovo ordine esecutivo inoltre non contiene più
riferimenti alle minoranze religiose, presenti nella prima versione del 27
gennaio e molto criticati perché, secondo le accuse, avrebbero favorito i
richiedenti asilo di religione cristiana rispetto a quelli musulmani.

È stato, invece, confermato il limite massimo di 50 mila rifugiati da accogliere


nel 2017. Il nuovo ordine è stato pensato per limitare la possibilità che i
tribunali possano sospenderlo, come capitato in diverse occasioni con il
vecchio ordine: ma non è escluso che alcuni giudici possano decidere
comunque di intervenire a causa del tema e delle motivazioni controverse.

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Geografia economico politica Modulo 7° - Sovranismo e populismo

Come per il vecchio ordine esecutivo, c’è scetticismo sull’efficacia dei nuovi
divieti: Trump aveva motivato la sua decisione definendola necessaria per la
sicurezza nazionale e per garantire maggiori controlli ai confini, ma il
divieto aveva ricevuto dure critiche da parte di funzionari, esperti di
immigrazione e diritti umani e provocato diverse manifestazioni di piazza e
accuse di razzismo.

La necessità di riscrivere in una versione più soft dell’ordine esecutivo del 27


gennaio, è solo un esempio dei tanti passi indietro che Donald Trump ha
dovuto fare in materia di immigrazione. Si pensi, in aggiunta, che anche la
promessa di estendere, rafforzare e completare il muro lungo la frontiera
Messico-USA (costo stimato 15/25 miliardi di dollari) si è infranta, almeno
per il momento, di fronte al no del Congresso dove uno schieramento
trasversale di democratici e repubblicani ha negato lo stanziamento del budget
necessario per realizzare la grande opera del magnate alla Casa Bianca.

Un nulla di fatto compensato, però, da un potente messaggio mediatico che ha


fatto passare a livello internazionale l’immagine di un Presidente duro e puro
contro l‘immigrazione. Al punto da scoraggiare un calo degli ingressi illegali.
Tuttavia, se sul lungo periodo Donald Trump non sarà in grado di passare
dalle parole ai fatti, è possibile prevedere una inversione di tendenza dei flussi
migratori. In prospettiva, il probabile aumento dell’immigrazione, legale e
non, negli USA potrebbe essere dovuto a due fattori principali.

Il primo: fermare l’immigrazione per favorire l’occupazione dei nazionali,


come aveva promesso Trump in campagna elettorale, è difficile, innanzitutto,
per una ragione politica. E’ molto complicato, anche per un decisore come
Trump, riformare una materia delicata ed esplosiva come l’immigrazione
avendo contro, contemporaneamente, anche se per ragioni opposte, buona
parte dei repubblicani e dei democratici. I primi, legati a doppio filo al mondo
degli affari e del business imprenditoriale, che tutto vogliono meno che si
arresti il poco costoso ma assai laborioso flusso di braccia straniere, oltre che i
talenti immigrati super qualificati. A dimostrarlo è l’elevatissimo numero delle
richieste avanzate dal mondo delle imprese per ottenere per il 2017 uno degli
85 mila H-1B-visa triennali concessi, ogni dodici mesi, dal governo
statunitense agli immigrati altamente specializzati. E i secondi che, dopo la
sconfitta di Hillary Clinton, sperando in una possibile rivincita nelle elezione
di mid-term del prossimo anno, sono decisi ad impedire che vengano colpiti i
diritti e le aspettative dei loro fedelissimi elettori ispano-americani. A questo
occorre aggiungere che, visto come funziona il mercato, per imporre nelle
assunzioni la priorità dei nazionali sugli immigrati, ci sono solo due
strade. Una fatta di quote e liste privilegiate, che finirebbero per imporre

22
Geografia economico politica Modulo 7° - Sovranismo e populismo

alla “mano invisibile” del mercato una camicia di forza burocratica stile
sovietico. L’altra basata sull’innalzamento del salario minimo fissato per legge
che, mandando in rosso i conti e la produttività delle aziende, farebbe però
venire meno, almeno nell’area del lavoro legale poco qualificato, il vantaggio
competitivo del minor costo degli immigrati rispetto ai nazionali (Terranova,
2017).

Il secondo: mentre l’immigrazione dal Messico (bersaglio principale della


retorica di Donald Trump) e i residenti messicani illegali negli Usa sono in
calo, aumentano quelli provenienti dall’America Centrale. Dal 2007 il numero
degli immigrati illegali messicani negli Stati Uniti è calato di oltre un milione.
Nel 2016 la polizia di frontiera americana ha, per la prima volta, arrestato più
immigrati irregolari provenienti da altri paesi che dal vicino Messico. Di
contro, nell’ultimo decennio, si è registrato un aumento dei flussi migratori
provenienti dall’Asia e dall’America Centrale. Nel 2014 al confine tra USA e
Messico sono stati, ad esempio, intercettati quasi 70 mila minori stranieri non
accompagnati, provenienti per lo più da El Salvador, Guatemala e Honduras.
Cifre ragguardevoli se confrontate con i 39 mila registrati nel 2013 e i 24 mila
del 2012. Un deciso incremento degli arrivi dovuto, tra l’altro, al “the growing
power of gangs and organized-crime groups, as well as rising rates of
homicide, drug trafficking, human trafficking, and gender-based violence in
the region”1. Dati che hanno spinto il presidente USA Barack Obama a parlare
di una vera e propria crisi umanitaria.

Per Donald Trump sarebbe, forse, consigliabile cercare col vicino messicano,
non lo scontro come ha fatto fino a oggi, ma di stringere e tessere alleanze
politiche ed economiche per contrastare il crescente flusso migratorio che
arriva dal Sud del Messico.

1Hipsman F., Meissner D., In-country refugee processing in central America. A piece of the puzzle, Migration Policy
Institute, Washington, August 2015, pag. 7
23
Geografia economico politica Modulo 7° - Sovranismo e populismo

BIBLIOGRAFIA

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 Dittmer J., “Captain America’s Empire: Reflections on Identity, Popular


Culture, and Post- 9/11 Geopolitics”, Annals of the Association of American
Geographers, vol. 95, n° 3, pp. 626-643, 2005.

 Fukuyama F., La fine della storia e l’ultimo uomo, Milano, Rizzoli, 1992.

 Giordano A., Geografia economico-politica, Dispensa, Unicusano, 2010.

 Pagnini M., Sanguin, A., Storia e teoria della Geografia politica: Una
prospettiva internazionale, Roma, Edicusano, 2015.

24
Corso di Laurea in Scienze della Formazione

INSEGNAMENTO DI
GEOGRAFIA ECONOMICO POLITICA

Modulo 8° - Temi e Questioni geoeconomiche

A cura di

Giuseppe Terranova
Geografia economico politica Modulo 8° - Temi e Questioni Geoeconomiche

SOMMARIO MODULO 8°

Questioni geoeconomiche

8.1. Ambiente
8.2. Land grabbing
8.3. Sicurezza energetica
8.4 Fame nel mondo
8.5 Tecnologia e innovazione

1
Geografia economico politica Modulo 8° - Temi e Questioni Geoeconomiche

8.1. Ambiente

Era stato il geografo Friederich Ratzel, il primo a fornire un inquadramento


unitario e sistematico dei problemi della geografia intesa come scienza dei
rapporti tra Terra e uomo. Per lungo tempo, è stata la prima a influenzare il
modus vivendi del secondo. In particolare dalla fine del secolo scorso è,
invece, almeno in parte, il contrario. Nel corso degli ultimi decenni, i segni
che gli uomini con la loro presenza inscrivono sulla superficie terrestre sono,
infatti, sempre più evidenti e marcati. Gli scienziati hanno, ad esempio,
stimato che attualmente stiamo vivendo come se avessimo una terra e mezza a
disposizione, e prima del 2050 arriveremo a consumare come se ne avessimo
due.

L’utilizzo sproporzionato delle risorse naturali è da attribuire, tra gli altri


fattori, alla crescita della popolazione mondiale e all’aumentata capacità
d’intervento dell’uomo sull’ambiente attraverso la tecnologia, che ha
contribuito a quello che il geografo francese Paul Claval ha definito
“environnement artificiel”, cioè un contesto ambientale in cui le risorse
naturali sono minacciate da elementi artificiali, come ad esempio, le
infrastrutture aeroportuali e ferroviarie che si moltiplicano durante i processi
di urbanizzazione.

Nel 1972 il MIT pubblicava un libro (The limits to growth) che conteneva la
prima descrizione globale del sistema mondo attraverso la teoria sui limiti
dello sviluppo: il sistema mondo veniva descritto passando attraverso cinque
elementi strategici che esprimono la pressione del genere umano
sull’ecosistema terrestre: popolazione, produzione di alimenti,
industrializzazione, inquinamento, uso delle risorse naturali.

Veniva sottolineata la differenza tra crescita e sviluppo: sebbene le due parole,


crescita e sviluppo, nel linguaggio comune siano indifferenziate, gli studiosi
distinsero nettamente tra crescita, definita come un aumento dimensionale di
un organismo provocata dall’aggiunta di materiale attraverso l’accumulazione
o l’assimilazione, e sviluppo che consiste nell’espandere o realizzare
potenzialità, pervenire gradualmente ad uno stato più completo, più grande e
migliore. Lo sviluppo implica, sempre, l’idea di miglioramento della qualità,
mentre la crescita può essere anche associata a peggioramenti. La posizione
attuale sul tema è quella dello sviluppo sostenibile, un vero paradigma
politico: si tratta di un paradigma complesso che contiene idee di

2
Geografia economico politica Modulo 8° - Temi e Questioni Geoeconomiche

conservazione, di efficienza economica, di equità sociale, di tenere duro senza


cedere o senza fallire.

Ci sono tre rapporti strategici determinanti per le strategie ambientali di lungo


termine in campo internazionale: il rapporto Brundtland, la Conferenza di Rio
e la Convenzione di Stoccolma.

1. Il rapporto della World Commission on Environment and Development,


noto anche come rapporto Brundtland (Gro Harem Brundtland era il
Presidente della Commissione) è denominato “Our Common Future”.
Costruito nel 1987 indica, per la prima, volta le connessioni tra la strategia
economica e la strategia ecologica.

2. La United Nations Conference on Environment and Development


(UNCED) nota come Summit della Terra si tiene a Rio de Janeiro nel 1992. Il
rapporto detta le linee di una politica ambientale valide ancora oggi: la
conferenza punta soprattutto alla riduzione delle emissioni dei gas serra, sulla
base dell’ipotesi del riscaldamento globale; tratta il tema delle energie
alternative e quello della scarsità delle risorse idriche.

I documenti risultanti dalla Conferenza di Rio sono molteplici e, tra essi,


vanno ricordati: la Dichiarazione di Rio sull’Ambiente e sullo Sviluppo; la
Dichiarazione Autorevole di Principi non giuridicamente vincolanti per un
consenso globale sulla Gestione, Conservazione e Sviluppo di ogni tipo di
Foresta; la Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui Cambiamenti
Climatici; la Convenzione sulla Diversità Biologica; l’Agenda 21. Le parti si
sono incontrate negli anni in molte Conferenza delle Parti (COP) per fare il
punto sul tema del cambiamento climatico.

3. La Convenzione di Stoccolma, a cui aderiscono 150 paesi, è in vigore dal


2004. Ha come obiettivo quello di eliminare e diminuire l’uso di sostanze
nocive per la salute umana e per l’ambiente definite POP (inquinanti organici
persistenti): in particolare si tratta di sostanze tossiche scarsamente degradabili
che possono propagarsi nell’aria, nell’acqua o nel terreno.

Le politiche ambientali a livello nazionale e internazionale oggi si basano sul


concetto di sviluppo sostenibile elaborato al Summit della Terra del 1992 a
Rio de Janeiro. Sviluppo sostenibile significa preservare l’integrità degli
ecosistemi e creare gestioni efficaci delle risorse naturali, garantire equità alle
comunità umane e rispettare i diritti delle generazioni future.

3
Geografia economico politica Modulo 8° - Temi e Questioni Geoeconomiche

Oggi è possibile sostenere che le problematiche ambientali si sono trasformate


da fatti locali, che possono essere gestiti dai singoli governi, a minacce globali
che sono oggetto di trattati internazionali.

Il primo caso di un problema globale che ha richiesto l’implementazione di un


trattato internazionale è quello della riduzione della produzione dei
clorofluorocarburi, che sono responsabili della distruzione dell’ozono
stratosferico, ed è stata regolamentata dal Protocollo di Montreal del 1987,
entrato in vigore nel 1989 e ratificato da 197 paesi tra i quali l’Italia. In questo
caso esistevano osservazioni scientifiche certe che un cambiamento dannoso
era in corso, e sono state trovate soluzioni tecniche alternative all’uso dei
clorofluorocarburi. Questi fatti hanno consentito di siglare rapidamente un
accordo internazionale e di affrontare costruttivamente il problema. L’ozono
stratosferico continua a essere depauperato a causa dalle emissioni di
clorofluorocarburi avvenute in passato, ma l’aumento della distruzione è stato
interrotto e si osservano segnali di recupero verso le condizioni naturali
iniziali.

Il secondo problema globale che sta caratterizzando i rapporti internazionali è


quello del riscaldamento del pianeta, spesso ricordato come global warming, e
il conseguente cambiamento climatico causato dall’emissione della CO2
(biossido di carbonio), prodotta dalla combustione dei carburanti fossili.

Il principale accordo internazionale in questo settore è la convenzione quadro


delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (UNFCCC), una delle tre
convenzioni adottate al vertice sulla Terra di Rio del 1992. Finora è stata
ratificata da 195 paesi. All'inizio ha rappresentato uno strumento per
consentire ai paesi di collaborare al fine di limitare l'aumento della
temperatura globale e i cambiamenti climatici e per affrontarne le
conseguenze. A metà degli anni Novanta del secolo scorso, i firmatari dell'
UNFCCC hanno compreso che, per ridurre le emissioni, erano necessarie
disposizioni più severe. Nel 1997 hanno approvato il protocollo di Kyoto, che
ha introdotto obiettivi di riduzione delle emissioni giuridicamente
vincolanti per i paesi sviluppati. La principale lacuna del protocollo di Kyoto è
che richiede unicamente ai paesi sviluppati di intervenire. Inoltre,
considerando che gli Stati Uniti non hanno mai aderito al protocollo di Kyoto,
che il Canada si è ritirato prima della fine del primo periodo di adempimento e
che Russia, Giappone e Nuova Zelanda non prendono parte al secondo
periodo, tale strumento si applica attualmente solo a circa il 14% delle
emissioni mondiali. Oltre 70 paesi in via di sviluppo e sviluppati hanno
tuttavia assunto vari impegni non vincolanti intesi a ridurre o limitare le
rispettive emissioni di gas a effetto serra.

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Geografia economico politica Modulo 8° - Temi e Questioni Geoeconomiche

Dopo il protocollo di Kyoto e il fallimento della conferenza di Copenaghen


del 2009, un’altra tappa rilevante nella lotta contro il global warming è la
Conferenza di Parigi del 2015.

Tale dibattito ha coinvolto organizzazioni internazionali, movimenti di


opinione, governi e studiosi, approdando al concetto di sviluppo sostenibile.
Solo verso gli anni novanta il mondo ha iniziato a trattare i problemi
ambientali con maggiore serietà. Queste considerazioni fanno il punto sulla
storia delle Conferenze delle Parti Onu (Cop).

Le COP sul clima si dividono in due categorie: quelle che danno origine a un
nuovo corso di azioni e quelle che limano aspetti operativi dell’accordo.
Esempi della prima categoria sono Kyoto 1997 e Parigi 2015.

Nel secondo insieme rientrano tutte le altre e, quindi, anche la COP 23 da


poco conclusa (Bonn, 2017). Il negoziato internazionale sul clima altro non fa
che gettare le basi per ulteriori azioni future. Ogni COP, in un certo senso, è
base di partenza di quella che segue.

Ad esempio la COP 23 non sfugge a questa logica: può essere definita una
conferenza procedurale, prevede limiti temporali troppo lontani nel tempo,
dato che la scienza è concorde nel sostenere che le emissioni di gas serra
dovrebbero essere ridotte entro il 2020, e non a partire dal 2020.
L’impressione è che alcuni governi abbiano interpretato l’Accordo di Parigi
come un traguardo finale, anziché come un punto di partenza. Scopo della
riduzione è il cercare di contenere l’aumento delle temperature medie terrestri
entro i 2 °C, il limite massimo dell’accettabilità delle conseguenze climatiche
sul nostro globo (anche se c'è chi sostiene che l'obiettivo dovrebbe essere
collocato al massimo a +1,5 °C di crescita della temperatura media terrestre
rispetto all'era pre-industriale), ma questo ritardo fa razionalmente ritenere
però che si rischi seriamente di arrivare ad un aumento anche fino a +3°C dato
che, per non superare la concentrazione in atmosfera di 450 ppm di CO2eq
(concentrazione coerente con la soglia dei + 2 °C), le emissioni di anidride
carbonica nel 2020 dovrebbero essere sullo stesso livello di oggi.

Di fatto la Cop23 ha rimandato le decisioni al 2018 cioè ha dato l’input per la


Cop 24 (Katowice-Polonia). Ancora una volta un summit in una nazione che
punta ancora, fortemente, sullo sfruttamento del carbone per la produzione di
energia, nonostante si tratti della fonte fossile più dannosa per l’equilibrio
climatico mondiale. È proprio da tale lavoro che dipenderà buona parte della
riuscita della comunità internazionale nella sfida della lotta ai cambiamenti

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Geografia economico politica Modulo 8° - Temi e Questioni Geoeconomiche

climatici. Gli impegni assunti finora, infatti, coprono soltanto un terzo di ciò
che è necessario per mantenere la crescita della temperatura media globale ad
un massimo di due gradi centigradi, entro la fine del secolo, rispetto ai livelli
pre-industriali.

La Cop 21 a Parigi aveva fatto emergere che non dovevano misurare indicatori
fisici, chimici, ambientali ma scegliere procedure e regole da imporre a tutti i
paesi, creare cioe’ una governance.

La ventunesima Conferenza delle Parti di Parigi ha raggiunto un risultato


senza precedenti: ossia un patto climatico globale e condiviso, realizzato a
partire dagli INDC forniti dai 196 Paesi membri dell’UNFCCC, di cui
riconosce però la poca efficacia pratica. Ma per mettere tutti d’accordo il Paris
Agreement concede, forse, troppe eccezioni: non è realmente vincolante e si
basa sul principio della responsabilità comune ma differenziata. L’obiettivo
inderogabile è quello di mantenere l’aumento della temperatura «ben al di
sotto dei 2 °C», con la raccomandazione a fare di più (per uno scenario sotto
1,5 ° C). Una delle disposizioni chiave dell’accordo è la creazione di un
meccanismo di revisione per gli impegni dei vari paesi: avrà luogo ogni
cinque anni, nell’ottica di aumentarne progressivamente l’ambizione, ma per
ora nessuna data d’inizio è stata fissata. Zero progessi sui finanziamenti
climatici – il documento ribadisce i 100 miliardi di dollari da stanziare dal
2020 al 2025 – così come sulla messa al bando delle fonti fossili. L’accordo di
Parigi preferisce, infatti, puntare alla formula vaga della “neutralità climatica”,
chiedendo il raggiungimento del picco di emissioni «prima possibile». Infine,
al meccanismo per il Loss and Damage si chiede di istituire una task force che
sviluppi raccomandazioni per evitare, ridurre al minimo e affrontare le
migrazioni relative agli impatti negativi dei cambiamenti climatici. Facendo
ben attenzione a sottolineare come ciò non comporti o fornisca alcuna base per
qualsiasi responsabilità o compensazione.

Le organizzazioni dei paesi di tutto il mondo poco hanno concretizzato.


Bisogna forse riflettere su quanto scritto da Randers nel suo libro, secondo il
quale l'unico sistema per trovare una soluzione è la creazione di autorità
sovranazionali con la capacità di imporre scelte rapide e a volte dolorose, un
po' come le banche centrali o il Fondo monetario internazionale impongono
obiettivi specifici per il risanamento dei bilanci delle singole nazioni. I
problemi sarebbero risolti non più dalla democrazia e dal mercato, ma da un
istituto centrale sovranazionale.

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Geografia economico politica Modulo 8° - Temi e Questioni Geoeconomiche

8.2 Land grabbing.

Si parla di land grabbing (accaparramento delle terre) quando una larga


porzione di terra considerata “inutilizzata” è venduta a terzi, aziende o governi
di altri paesi senza il consenso delle comunità che ci abitano o che la
utilizzano, spesso da anni, per coltivare e produrre il loro cibo (Oxfam, 2018).

Il fenomeno è cresciuto nell’ultimo decennio: secondo i dati forniti nell’aprile


del 2012 dal portale Land Matrix, che monitora il land grabbing nel mondo, a
partire dal 2000 sono stati attivati 1.217 contratti per lo sfruttamento su larga
scala di terreni agricoli. Questi contratti interessano circa 83 milioni di ettari
di territorio (poco più del 2% dell’estensione mondiale delle terre coltivabili),
la maggior parte dei quali situati in Stati africani come il Sudan, la Tanzania,
l’Etiopia, la Repubblica Democratica del Congo. Seguono poi aree dell’Asia e
dell’America Latina (Favazzo, Roveda, 2013).

Per tutta la seconda metà del Novecento, i prezzi delle derrate agricole si sono
mantenuti molto bassi. Tra il 2007 e il 2008, invece, una serie di eventi
concatenati, come la scarsità dei raccolti, le cattive condizioni climatiche e le
limitate scorte di prodotti agricoli in alcuni paesi, ha determinato una forte
impennata dei loro prezzi. Questo aumento, unito al costante incremento della
popolazione (si prevede che nel 2050 la Terra sarà abitata da 9 miliardi di
persone), ha fatto scattare l’allarme in alcuni paesi fortemente importatori di
materie prime agricole: quelli del Golfo Persico, l’Arabia Saudita, ma anche la
Corea del Sud e il Giappone. Da qui è iniziata la corsa all’accaparramento dei
terreni negli Stati più poveri.

Molto limitati sono stati finora gli interventi per arginarne l’espansione.

L’unico organismo internazionale a fare una mossa concreta contro


l’accaparramento delle terre è stata la Fao che, nel maggio 2012, ha
approvato le “Linee guida per i regimi fondiari e l’accesso alle risorse ittiche e
forestali” varate dalla Commissione sulla sicurezza alimentare. Il documento
ha individuato princìpi e pratiche ai quali i governi di tutto il mondo
dovrebbero ispirarsi per garantire un più equo accesso alla terra. Benché
l’elaborazione di tali linee guida rappresenti un primo passo a livello
legislativo contro questa nuova forma di colonialismo, le sue direttive non
sono cogenti, quindi sono ben lontane dall’essere risolutive (Favazzo, Roveda,
2013).

7
Geografia economico politica Modulo 8° - Temi e Questioni Geoeconomiche

Il blocco dell’acquisizione per 99 anni di 1,3 milioni di ettari in cambio della


costruzione di un porto commerciale in Madagascar da parte della Daewoo
Logistics e le politiche difensive di contenimento dell’accaparramento di terra
in Brasile e dell’Argentina, sono forse la prima vera presa di posizione dei
governi a favore dei Paesi nel mirino degli investitori (Expo, 2015).

I problemi derivanti da queste vaste acquisizioni e dai progetti speculativi


sono, soprattutto, di natura socio-economica. I terreni ceduti dai governi,
spesso con indennizzi irrisori o addirittura senza, vengono recintati in attesa
dell’attivazione del processo produttivo, comportando l’esclusione delle
comunità locali dal lavoro della terra e dall’accesso alle risorse come l’acqua.
Le prospettive di sicurezza alimentare e occupazionale sono appannaggio dei
paesi ricchi, incrementando la disoccupazione nei paesi in via di sviluppo. Per
non parlare del danno ambientale inflitto dalla produzione agricola in
monocolture e dal consumo di suolo agricolo destinato alle nuove
infrastrutture e impianti di distribuzione (Expo, 2015).

Non è stato solo l’aumento dei prezzi dei prodotti agricoli a risvegliare
l’interesse per la terra. Anche il business degli agrocarburanti, cioè i
carburanti derivati dalla trasformazione di prodotti agricoli, e la recente crisi
finanziaria hanno contributo al dilagare del land grabbing. Aspetto sul quale è
necessario soffermarsi.

Era il 1992 quando il giapponese Yumi Someya sperimentò con successo,


grazie al supporto dei ricercatori della Hokkaido University, la possibilità di
produrre carburante grazie all’olio da cucina riciclato. Nasceva, così, il
Vegetable Diesel Fuel (VDF). Un’idea tanto originale, quanto remunerativa
per il giovane Someya che oggi è uno dei più importanti businessman
giapponesi. Basti pensare che, di recente, ha annunciato il cosiddetto Tokyo
Yuden 2017. Un ambizioso progetto che prevede in pochi anni di riuscire a
riciclare l’intera quantità di olio da cucina utilizzato nella capitale giapponese,
la cui popolazione supera i 12 milioni di abitanti.

Vale la pena di ricordare, però, che l’idea di produrre carburante, per così dire
ecosostenibile, risale almeno agli anni Settanta. Quando i due shock petroliferi
e la conseguente crisi economica internazionale, la più grave dal dopo guerra,
indussero il governo brasiliano a investire sulla produzione di propellente
derivante dalla lavorazione della canna da zucchero, ovvero il bioetanolo.
Un’idea a suo tempo bizzarra che oggi permette al Brasile non solo di
soddisfare parte della domanda interna di carburante, ma anche di essere il
principale esportatore mondiale di bioetanolo.

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Geografia economico politica Modulo 8° - Temi e Questioni Geoeconomiche

Oggi, invece, le ragioni di questo successo sono alquanto evidenti.


L’imprevista e straordinaria crescita economica di India e Cina ha generato,
infatti, in poco tempo, un forte aumento della domanda di petrolio che, com’è
noto, è una fonte esauribile. E, così, nella ricerca di una fonte alternativa, i
principali paesi industrializzati hanno iniziato a investire massicciamente sui
bio-carburanti, ovvero combustibili derivanti dalla fermentazione non solo
della canna da zucchero, ma anche dei cereali e degli oli vegetali.

Intanto, occorre rilevare che la comunità e gli esperti internazionali esprimono


opinioni del tutto contrastanti in materia. Per molti si tratta di un vero crimine
contro l’umanità, per altri il vero crimine è non investire su questa nuova
frontiera.

La realtà è che, in base alla tecnologia disponibile oggi, il principale limite


alla produzione su larga scala di combustibile di natura vegetale è quello
spaziale. Sono necessarie vaste aree agricole e fertili da sottrarre
evidentemente alla produzione alimentare. Peraltro, per produrre un litro di
biocarburante occorrono in media 4.000 litri di acqua. Mentre per produrre
100 litri di etanolo servono 240 chili di mais. Tanto quanto basta per
soddisfare il fabbisogno energetico di un essere umano in un anno.

A questo occorre aggiungere le conseguenze catastrofiche sul sistema


alimentare mondiale, o meglio dei paesi in via di sviluppo. Secondo i dati
delle Nazioni Unite, ad esempio, nel corso del 2008 si è registrato un aumento
a livello globale del prezzo del riso del 75% e del grano del 120% rispetto al
2007. Le cause sono diverse. In primis, la corsa all’oro verde e la crisi dei
mutui immobiliari statunitensi hanno contribuito a dirottare ingenti
investimenti speculativi verso la Borsa di Chicago – la più importante al
mondo per lo scambio di contratti sulle derrate alimentari - . Inoltre, ed è
questo l’aspetto più importante, i principali paesi del G8 continuano a
finanziare la produzione di agrocombustibili. Negli Stati Uniti, ad esempio, un
terzo della produzione di mais è ormai destinata alla produzione di bioetanolo
e tra il 2006 e il 2012 sono previsti sussidi al settore per una cifra che rischia
di sfiorare i 100 miliardi di dollari.

È evidente, infine, che il prezzo più alto lo pagano i paesi poveri e


sottosviluppati. Si tratta, infatti, di realtà in cui l’agricoltura è l’unica forma di
economia e la popolazione vive in media con 1 dollaro al giorno. Non
occorrono, dunque, particolari studi e riscontri per capire che una riduzione
delle terre destinate alla produzione alimentare e un aumento dei prezzi
possono avere conseguenze gravi in realtà, di per sé, così fragili. D’altronde,
non è certo un caso che, secondo gli ultimi dati presentati dalla Fao, oggi il

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Geografia economico politica Modulo 8° - Temi e Questioni Geoeconomiche

numero di affamati nel mondo ha registrato un netto aumento rispetto al 2006,


passando da 850 milioni di persone a oltre un miliardo.
A fronte di così tante critiche, la risposta del settore agro-energetico sembra
essere la Jatropha. Si tratta di una specie vegetale non commestibile. E,
soprattutto, in grado di crescere su terre meno fertili o semi-aride, così da
evitare di erodere le superfici destinate alle colture alimentari. L’India, ad
esempio, ha incluso la Jatropha nel programma per l’indipendenza energetica,
ne ha piantate 160 milioni soltanto nello Stato di Chhattisgarh.

In realtà, non è difficile prevedere che nel medio periodo, quando la domanda
di agrocarburanti aumenterà, le aziende coltiveranno la Jatropha anche nelle
zone fertili per massimizzare i profitti. Un fenomeno, peraltro, già in atto in
molti Stati africani e documentato da alcune Ong che operano nella regione.

In sintesi. I biofuel non possono rappresentare l’unica via alternativa al


petrolio, né tantomeno la principale. In base alle tecnologie oggi disponibili,
infatti, una produzione su larga scala presenta molte controindicazioni e pochi
vantaggi. Questi ultimi, peraltro, riguarderebbero soltanto i paesi altamente
industrializzati. Di contro, su base regionale, la produzione è possibile o
addirittura consigliabile. In questo caso, però, è necessario distinguere tra
biocarburanti prodotti da immense colture alimentari e quelli derivanti dal
riciclaggio di materiale organico, come ha fatto in Giappone Yumi Someya
(Terranova, 2014).

8.3 Sicurezza energetica.

La crescita e lo sviluppo dell’economia mondiale necessitano che tutti i paesi


industrializzati, emergenti e in via di sviluppo, abbiano un accesso facile e
garantito alle cosiddette fonti di energia, tra le quali, da più di tre secoli, gli
idrocarburi sono le più utilizzate. Il petrolio è il bene che ha conosciuto la più
ampia e rapida diffusione globale, è stato conteso dalle grandi potenze della
prima metà del XIX secolo, ha dato vita ad attività industriali, di ricerca, di
produzione, di lavorazione e di distribuzione quasi in ogni luogo del pianeta e
ha alimentato accesi dibattiti politici, scientifici edeconomici, con riflessi
molto importanti sulla geopolitica mondiale.

Il tema della sicurezza energetica ha acquisito rilevanza dagli anni ’60 e ’70,
quando vennero effettuati i primi studi relativamente alle possibilità di
esaurimento delle risorse energetiche nazionali e, soprattutto, quando si
produssero le conseguenze e gli effetti degli shock degli anni ’73 e ’79. La
questione della sicurezza energetica si è riproposta in maniera pressante dai

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Geografia economico politica Modulo 8° - Temi e Questioni Geoeconomiche

primi anni di questo secolo ad oggi. La formula che si rivela sempre più
necessaria per affrontare le sfide che si presentano alla comunità
internazionale consiste nell’affrontare questo tema, che è sempre stato
considerato di esclusivo interesse nazionale, in maniera internazionale,
concertata, cooperativa e congiunta.

Sono gli Stati Uniti i primi consumatori mondiali e il loro bilancio energetico
è in deficit crescente: il 34% dell’energia consumata a livello nazionale è
importata, e sul totale del fabbisogno di petrolio, il 56% proviene da fonti
estere. La dipendenza europea supera il 56% dei consumi totali di energia, e il
60% del petrolio necessario proviene da giacimenti extraeuropei. Le economie
e la correlata domanda di energia di Paesi quali India, Brasile e, soprattutto
Cina, nell’ultimo decennio sono cresciute a ritmi molto elevati: dall’inizio del
secolo ad oggi il consumo di petrolio in Cina è andato aumentando del 7%
annuo.

Nel 2025 la dipendenza di tutti i Paesi consumatori dalle importazioni


continuerà ad aumentare a beneficio dei Paesi produttori, e in particolare di
quelli appartenenti all’OPEC, che aumenteranno l’ampiezza della propria
quota di mercato internazionale, arrivando probabilmente a fornire quasi il
60% del petrolio consumato a livello globale. Attualmente in Medio Oriente è
concentrato il 61% delle riserve di petrolio, e il trend previsto viene esacerbato
dal fatto che Stati Uniti, Europa, gran parte del Sud America, Cina, India
hanno una produzione che continua a diminuire a causa del raggiungimento
del picco petrolifero.

La certezza di approvvigionamenti energetici è la chiave dello sviluppo socio-


economico dell’umanità ma gli sforzi sostenuti a livello nazionale o locale per
assicurare la sicurezza energetica sino ad ora si sono dimostrati infruttuosi.
Subito dopo gli shock petroliferi degli anni ’70 si è potuto constatare come
improvvise interruzioni degli approvvigionamenti possono avere importanti
conseguenze sulla politica, l’economia e la società stessa dei Paesi
industrializzati. Oggi, a causa di molti fattori, la sicurezza energetica è stata
riportata tra le questioni di sicurezza nazionale: si stanno impostando e
proponendo nuove strategie energetiche per garantire forniture continue e
sicure e per assicurare che la crescita economica, tecnologica e demografica
non venga arrestata da eventi inaspettati.

Da notare che la sicurezza energetica è un concetto dinamico ma anche un


principio-base su cui deve fondarsi la concezione di progresso e di crescita: è
un obiettivo che deve essere raggiunto di volta in volta con il mutare delle
contingenze internazionali. In un mercato colpito da scarsità di offerta e con

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Geografia economico politica Modulo 8° - Temi e Questioni Geoeconomiche

così grande dipendenza da petrolio e gas, le minacce per


l’approvvigionamento energetico potrebbero provenire da diverse fonti:
calamità naturali, attacchi terroristici, intimidazioni e ricatti politici,
interruzioni causate da conflitti o tensioni regionali, vulnerabilità delle linee di
comunicazione e di trasporto, ecc. In questo campo, le priorità di ogni Paese
variano a seconda del mix energetico utilizzato per il proprio fabbisogno, dello
stato dei rapporti politico-diplomatici con i Paesi produttori, del livello delle
importazioni rispetto alle necessità di consumo, del grado di sviluppo socio-
economico, del contesto geopolitico.

Quello delle fonti di energia è un mercato strettamente dipendente dalla


volatilità dei prezzi. Variazioni positive o negative delle quotazioni conducono
a valutazioni ed azioni che determinano, di volta in volta, l’andamento degli
investimenti, della prospezione, delle innovazioni tecnologiche, ma anche dei
consumi e della domanda. A questo proposito, la storia insegna che l’impatto
psicologico di aumenti o diminuzioni significative dei prezzi delle materie
prime energetiche determina dei cambiamenti nei trend di consumo della
popolazione che spesso risultano essere molto più efficaci, in termini positivi e
negativi, di qualsiasi modifica nelle politiche e nelle strategie dei singoli Stati.

Le capacità e le possibilità dei pianificatori, degli analisti e degli strateghi dei


Paesi consumatori è limitata a causa di molti fattori: non da ultimo, il fatto che
la maggior parte delle riserve esistenti al mondo siano presenti in regioni e
Paesi instabili e che, quindi, i consumatori non possano sapere con esattezza
dove ci siano riserve né quanto petrolio si potrà ancora estrarre.
Sostanzialmente, i rischi geopolitici non cambieranno di molto nel prossimo
futuro, e si potrebbe sostenere che le dinamiche dell’attuale mercato
petrolifero dipenderanno principalmente da quattro aree di incertezza
indipendenti: rischi geostrategici, fluttuazioni macroeconomiche, rischi legati
alla natura delle risorse.

L’imprevedibilità è l’unica certezza del mercato energetico globale. Le sei più


grandi aree petrolifere del mondo – Medio Oriente, Africa, Asia e Pacifico,
Eurasia, Nord America e America Latina – devono affrontare diversi elementi
di incertezza riguardanti riserve e produzione, ed è chiaro che i rischi
geostrategici cui devono far fronte hanno conseguenze tangibili sulla loro
industria energetica, nonché sul mercato petrolifero globale. Le implicazioni
geopolitiche e militari sono difficili da quantificare in termini di gravità,
espansione, diffusione ed effetti a catena, ma si possono delineare quelle che
sono considerate vere e proprie sfide geopolitiche e strategiche che possono
influenzare positivamente o negativamente, e in maniera più o meno intensa, il
premio derivante dal rischio: stabilità delle nazioni esportatrici di petrolio;

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Geografia economico politica Modulo 8° - Temi e Questioni Geoeconomiche

terrorismo nel Golfo Persico e sicurezza delle infrastrutture petrolifere;


embargo e sanzioni; conflitti etnici e civili; disastri naturali.

La necessità di garantire la sicurezza degli approvvigionamenti è un tema


estremamente delicato e dipendente da una vasta serie di fattori e circostanze
che necessitano l’implementazione di politiche e azioni nazionali, bilaterali e
multilaterali, in grado di: assicurare il costante flusso di forniture di gas e
petrolio attraverso accordi intergovernativi; promuovere l’utilizzo di forme di
energia alternative; attenuare la crescita economica a pieno ritmo,
caratterizzata da livelli di consumo in aumento costante, eliminando gli
sprechi.

La prima metà del 2018 ha ricordato ai mercati finanziari che la geopolitica è


un fattore chiave per l’andamento dei prezzi del petrolio. Il crollo del regime
venezuelano e le crescenti tensioni in Siria e Medio Oriente hanno fatto sì che
i prezzi del Brent superassero i 70 dollari al barile. A seguito del ritiro di
Washington dall'accordo nucleare con l'Iran il prezzo è salito fino a 80
USD/bbl. Benché sia difficile prevedere gli sviluppi della situazione
geopolitica, è probabile che i mercati finanziari abbiano sopravvalutato
l'impatto delle nuove sanzioni contro l'Iran sulle prospettive petrolifere globali
(Campanella, 2018).

Non è chiaro se la decisione di Trump influirà sulla produzione di petrolio


iraniana (3,8 milioni di USD/bbl). Il Dipartimento del Tesoro Usa ha
dichiarato di essere disposto a concedere un’esenzione dalle sanzioni agli
acquirenti di greggio iraniano qualora dimostrino il loro impegno a ridurre in
misura sostanziale tali acquisti, intendendo probabilmente una riduzione di
almeno il 20%, oltre alla rescissione dei contratti per future forniture.

Se le esportazioni di petrolio iraniano verso l'Occidente dovessero diminuire,


le economie asiatiche (soprattutto Cina e India) potrebbero assorbirle. Il
contratto sul greggio denominato in yuan da poco siglato a Shanghai potrebbe
aiutare l'Iran ad aggirare le sanzioni, che in genere vengono applicate quando
le banche tentano di effettuare transazioni in dollari a New York. Di recente
Pechino ha cominciato a importare greggio da Russia, Usa, Brasile, Angola e
Malesia, ma un'improvvisa mancanza di domanda occidentale potrebbe
spingere le raffinerie cinesi a rifornirsi in Iran.

Al tempo stesso l'OPEC ha affermato di disporre di risorse inutilizzate


sufficienti a compensare un calo significativo della produzione iraniana. La
nuova ondata di sanzioni potrebbe fornire all'OPEC+ (membri ed esterni che

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Geografia economico politica Modulo 8° - Temi e Questioni Geoeconomiche

aderiscono all'accordo sulla produzione) un buon motivo per rimuovere o


allentare i limiti produttivi concordati a giugno senza destabilizzare il mercato.

L'eccesso di offerta è stato quasi interamente assorbito. Lo scorso maggio la


media mobile quinquennale delle scorte dell’OCSE ha evidenziato
un’eccedenza di soli 30 milioni di barili. Di fronte all’aumento dei prezzi
molti firmatari dell'accordo sono tentati di produrre di più e incrementare i
proventi del petrolio.

Spetterà alla Russia e all'Arabia Saudita trovare un compromesso. Dati i prezzi


e la prospettiva di un calo della produzione iraniana, Mosca vorrebbe revocare
l'accordo e formalizzare il partenariato OPEC+. L'Arabia Saudita è più
prudente e preferirebbe mantenere i tagli. Riad sostiene che la media
quinquennale delle scorte dell'OCSE non sia un indice affidabile dell’eccesso
di offerta, poiché comprende anni in cui le scorte erano estremamente elevate.

E poi c’è la geopolitica: sia Russia che Arabia Saudita trarrebbero vantaggio
dall’aumento dei prezzi, ma a beneficiarne ancor più sarebbe Riad. L'IPO
(offerta pubblica iniziale di titoli azionari con cui una società colloca parte dei
titoli per la prima volta sul mercato borsistico,) di Saudi Aramco dovrebbe
avvenire tra meno di un anno e i sauditi hanno bisogno che il prezzo del Brent
sia di 80 USD/bbl per pareggiare il bilancio pubblico (contro i 55 USD/bbl
circa per Mosca). Inoltre la Russia, interessata all'IPO ma storicamente alleata
con l'Iran, nemico di Riad, ha un atteggiamento ambivalente nei confronti di
Saudi Aramco.

Su una cosa Mosca e Riad concordano: servono prezzi più bassi per
contrastare la crescente concorrenza americana. Con prezzi del WTI superiori
ai 70 USD/bbl anche i più costosi pozzi shale diventano redditizi. I fornitori di
servizi petroliferi stanno inviando un numero crescente di squadre
di fracking nei giacimenti di petrolio di scisto. Nell’immediato, l'industria
deve solo affrontare il problema dei trasporti e della carenza di manodopera.

Il calo dei prezzi del petrolio rischia di danneggiare alcuni produttori texani
ma andrebbe a vantaggio dei consumatori americani. In questo modo l'Arabia
Saudita aiuterebbe Trump a mantenere alta la pressione sull'Iran, senza paura
di compromettere i benefici economici derivanti dal suo intempestivo stimolo
fiscale. Sembra che gli Usa abbiano chiesto all’OPEC di aumentare le
forniture di circa 1 milione di barili al giorno. Questo spiega perché i sauditi
abbiano annunciato di voler aumentare la produzione durante un incontro con
i loro omologhi russi a fine maggio a San Pietroburgo. Il ritiro di Washington
dall'accordo sul nucleare rischia di destabilizzare la geopolitica del Medio

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Geografia economico politica Modulo 8° - Temi e Questioni Geoeconomiche

Oriente ma potrebbe avere un impatto limitato sull'offerta di petrolio mondiale


e sui prezzi del Brent (Campanella, 2018).

Le dinamiche e i conflitti legati all’approvvigionamento di risorse petrolifere


dipenderanno anche dalla grande transizione energetica che va oltre l’aumento
del peso delle fonti rinnovabili – per quanto questo sia fondamentale anche per
evidenti ragioni ambientali. Il passaggio verso le rinnovabili procede per ora
gradualmente, ma nei prossimi anni imprimerà ai cambiamenti già in corso
una forte accelerazione quando il costo delle nuove fonti farà calare
nettamente anche il valore degli idrocarburi. Le filiere dell’economica globale
sono tuttora molto legate ai prezzi energetici, e i Paesi più dipendenti
dall’export di materie prime fossili dovranno radicalmente modificare i propri
investimenti, con un impatto significativo sul sistema bancario mondiale
(Aspenia, 2018).

L’innovazione in campo energetico si articola su diversi piani


simultaneamente: nuove tecnologie digitali (con un ruolo crescente
dell’Intelligenza Artificiale e del meccanismo blockchain); le “smart grid” che
consentiranno un sempre migliore e costante coordinamento tra domanda e
offerta; le capacità di maggiore stoccaggio (batterie di varie dimensioni) che
permetteranno di aggirare il problema della discontinuità delle fonti
rinnovabili; la disponibilità a prezzi contenuti di energia abbondante e pulita
(dunque con minimo impatto ambientale) per individui e imprese. La spinta
delle tecnologie digitali sta rendendo molto rapide alcune di queste
trasformazioni: non è facile prevedere con esattezza tempi e modalità dei
prossimi passaggi, ma la direzione di marcia è piuttosto chiara e influenzerà la
vita quotidiana di chiunque avrà accesso all’energia elettrica (Aspenia, 2018).

I fattori geopolitici complicano indubbiamente la transizione energetica: lo


dimostrano, ad esempio, il raggiungimento di una sostanziale autonomia
energetica da parte degli Stati Uniti nell’arco di pochissimi anni - grazie
all’iniziativa privata e non all’intervento dello Stato - , il persistente uso di una
sorta di “arma energetica” da parte dei maggiori produttori di idrocarburi, e il
dinamismo della Cina sui mercati mondiali nonché in termini di investimenti
tecnologici per assicurarsi le fonti necessari alla propria crescita accelerata.
Anche in chiave geopolitica, comunque, importanti cambiamenti sono
imminenti: le fonti rinnovabili sono potenzialmente ubique, e assai meno
influenzate da elementi geografici, oltre a consentire strutture decentrate, e
dunque una minore concentrazione anche di potere politico.

Gli interventi governativi e gli aspetti regolamentari – nazionali e


internazionali – restano un fattore spesso decisivo. L’Italia – che rimane legata

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Geografia economico politica Modulo 8° - Temi e Questioni Geoeconomiche

strettamente al quadro europeo per le regole e le infrastrutture energetiche –


presenta dei punti di forza oggettivi e delle vere eccellenze tecnologiche, ma
soffre anche di alcuni ritardi nell’attuazione di linee programmatiche e di
interventi infrastrutturali. La condizione necessaria per proseguire sulla strada
dell’innovazione sostenibile è un buon equilibrio tra azione pubblica e
iniziativa privata (Aspenia, 2018).

8.4 Fame nel mondo.

Nonostante le tecnologie attuali e il livello di sviluppo raggiunto dalla società


mondiale, che permetta di produrre una quantità di cibo sufficiente a sfamare
l’intera popolazione del pianeta, tutt’oggi 1 persona su 9 nel mondo soffre
ancora la fame e in alcuni paesi 1 minore su 3 è in condizioni di sottopeso. La
fame e la malnutrizione così rappresentano il rischio maggiore per la salute
mondiale - maggiore di AIDS, malaria e tubercolosi messi insieme.

Secondo il World Food Program, soffre la fame chi per settimane, addirittura
mesi, assume meno delle 2,100 calorie necessarie a condurre una vita sana.
Ogni anno, quasi 11 milioni di bambini muoiono prima di raggiungere i 5
anni; la malnutrizione è la concausa del 53 per cento di queste morti (fonte
World Food Program).

In realtà, negli ultimi venti/trenta anni del XX secolo gli sforzi per combattere
questo problema sembravano aver raggiunto dei buoni risultati. A partire dal
1970 e fino alla fine del millennio, il numero di persone affamate è calato da
959 a 791 milioni, soprattutto grazie agli incredibili progressi nella riduzione
della malnutrizione in India e in Cina. Eppure, dalla fine degli anni 90, il
numero degli affamati cronici nei paesi in via di sviluppo è tornato a salire a
un ritmo di quasi 4 milioni di persone all' anno. Tra il 2001 e il 2003, il
numero di persone malnutrite nel mondo è arrivato a 854 milioni. Qualche
miglioramento si è registrato a partire dal 2009, quando, per la prima volta
dopo 15 anni, il numero di persone che soffrono la fame nel mondo è
diminuito, calando da 1,02 miliardi nel 2009 agli 805 milioni del 2013-2014.
Negli ultimi tempi però la cifra è tornata ad aumentare: secondo i dati
dell’ultimo rapporto della FAO (Food and Agriculture Organization, agenzia
dell’ONU) "The State of Food Security and Nutrition in the World 2018",
sono 821 milioni le persone sottonutrite nel mondo, cifra che corrisponde al
10,9% della popolazione globale, in crescita rispetto agli anni precedenti.
Questa inversione in atto, dopo i progressi degli ultimi decenni, mette
seriamente a rischio il raggiungimento dell’obiettivo dell'azzeramento della
fame nel mondo entro il 2030, come prevede L’Agenda 2030 per lo Sviluppo

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Geografia economico politica Modulo 8° - Temi e Questioni Geoeconomiche

Sostenibile, un programma d’azione per le persone, il pianeta e la prosperità


sottoscritto nel settembre 2015 dai governi dei 193 Paesi membri dell’ONU.

Con 515 milioni di persone che soffrono la fame, l’11,4 per cento dell’intera
popolazione, l’Asia si conferma la regione con il più alto numero di persone
denutrite nel mondo. Una cifra in aumento, dopo che nel decennio scorso i
progressi raggiunti in questa area avevano fatto diminuire il numero delle
persone in tale condizione. Uno sguardo più approfondito al contesto asiatico
rivela come la regione sud orientale e quella occidentale siano le aree più
colpite dalla fame. L’Asia sud orientale è stata colpita da condizioni
climatiche avverse (alluvioni e monsoni) che hanno avuto un impatto sulla
disponibilità e sui prezzi delle risorse alimentari. Mentre per l’Asia
occidentale i motivi vanno ricercati nei prolungati conflitti armati che hanno
attraversato la regione.

I dati recenti confermano che, come in passato, l’Africa rimane il continente


con la più alta percentuale di persone denutrite rispetto alla popolazione totale:
più di 256 milioni di persone, il 21% dell’intera popolazione africana. La
situazione si presenta più problematica nella regione subsahariana, dove il
23,2%, ovvero quasi una persona su quattro, si trova in una condizione di
cronica mancanza di cibo. Negli ultimi anni, inoltre, si è registrato un aumento
del tasso di malnutrizione in tutte le regioni dell’Africa Sub-sahariana, ad
eccezione dell’Africa orientale. Un ulteriore lieve aumento si riscontra
nell'Africa australe, mentre un aumento significativo si riscontra nell'Africa
occidentale, dovuto probabilmente a fattori quali la siccità, l'aumento dei
prezzi dei prodotti alimentari e un rallentamento della crescita del prodotto
interno lordo (PIL) reale pro capite. Il numero di persone denutrite nell'Africa
sub-sahariana è passato da 181 milioni nel 2010 a quasi 222 milioni nel 2016,
con un aumento del 22,6% in sei anni e - sulla base delle attuali proiezioni -
dovrebbe essere aumentato ulteriormente a oltre 236 milioni nel 2017.

Anche se ancora in un contesto dove la denutrizione colpisce un numero


relativamente basso di persone, anche in Sud America si è assistito negli
ultimi anni ad un aumento degli individui che soffrono la fame, circa il 5%
dell’intera popolazione. Tale tendenza è probabilmente legata alle dinamiche
economiche internazionali: mentre i prezzi per importare dall’estero i beni
alimentari sono rimasti stabili o sono aumentati, sono diminuiti i prezzi dei
principali prodotti d’esportazione su cui si basano gran parte delle economie
di questo continente (in particolare il petrolio). Ciò ha ridotto le risorse statali
disponibili e, quindi, la capacità dei governi di investire nell'economia e di
sostenere i ceti più deboli con misure assistenziali.

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Geografia economico politica Modulo 8° - Temi e Questioni Geoeconomiche

L’analisi dei dati raccolti dalla FAO in più di 140 paesi rivela che, in Africa,
Asia e America Latina, la prevalenza della grave insicurezza alimentare è
leggermente più diffusa tra le donne rispetto agli uomini, con la più grande
differenza tra generi riscontrata in America Latina

Negli ultimi anni sono stati compiuti scarsi progressi nella lotta agli effetti
della malnutrizione infantile sullo sviluppo dell'infanzia. Nel 2017 sono stati
151 milioni i bambini sotto i cinque anni affetti da ritardo nell'altezza dovuto
alla malnutrizione, rispetto ai 165 milioni del 2012.

In Africa e Asia vivono rispettivamente il 39% e il 55% di tutti i bambini


affetti da questa forma di ritardo. L'incidenza del deperimento infantile
(wasting) rimane estremamente elevata in Asia, dove quasi un bambino su
dieci sotto i cinque anni ha un peso più basso del dovuto rispetto all'altezza:
dieci volte più di quanto avvenga in America Latina e nei Caraibi, dove questa
forma di malnutrizione colpisce solo 1 bambino su 100.

Per quanto riguarda le donne, una donna su tre in età fertile, nel mondo, è
affetta da anemia. Nessuna regione del pianeta ha mostrato negli ultimi anni
un calo nella diffusione dell'anemia femminile, e l'incidenza del fenomeno fra
le donne africane e asiatiche è quasi tripla rispetto alle donne nord-americane.

Per contro, in Africa e in Asia i tassi di allattamento materno esclusivo (per i


primi 6 mesi di vita del bambino) sono una volta e mezzo più alti di quelli del
Nord America, dove solo il 26% dei neonati viene alimentato esclusivamente
con latte materno nel primo semestre di vita.

Le problematiche relative alle risorse alimentari riguardano anche la qualità


del cibo e la disponibilità di alimenti salutari e equilibrati. Da questo punto di
vista, anche il fenomeno dell’obesità può essere letto in relazione alla
denutrizione. L'obesità degli adulti è un fenomeno in peggioramento e, oggi,
un adulto su otto nel mondo ne è affetto. Il problema è più significativo in
Nord America, ma anche Africa e Asia stanno sperimentando questa tendenza.

Denutrizione e obesità coesistono in molti paesi e spesso compaiono entrambe


all'interno di una stessa famiglia.

Uno scarso accesso a un cibo nutriente a causa del suo costo più elevato, lo
stress e gli adattamenti fisiologici alla privazione del cibo aiutano a spiegare
perché le famiglie con insicurezza alimentare possano avere un maggiore
rischio di sovrappeso e obesità.

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Geografia economico politica Modulo 8° - Temi e Questioni Geoeconomiche

I motivi alla base della persistenza del problema della fame nel mondo sono
diversi e spesso collegati fra loro. Proviamo ad esaminare i principali:

Povertà:
Le persone che vivono in povertà non possono permettersi cibo nutriente per
sé e per le loro famiglie. Ciò le rende deboli e meno capaci di lavorare,
studiare, apprendere e spostarsi. Le rende cioè incapaci di dotarsi di quegli
strumenti e quelle competenze necessarie per sottrarsi alla povertà e, quindi,
alla fame. Nei paesi in via di sviluppo, gli agricoltori spesso non possono
permettersi l’acquisto di sementi, perciò non possono piantare le colture in
grado di sfamare loro e gli altri membri della famiglia. È possibile che
debbano coltivare i campi senza la strumentazione e i fertilizzanti necessari. In
altri casi, è la terra, l’acqua o l’istruzione a mancare. Il risultato è lo stesso: i
poveri soffrono la fame, e la fame li intrappola nella loro condizione di
povertà. Il problema non ha solo conseguenze di breve termine: quando i
bambini soffrono la malnutrizione cronica, o il ‘deficit di sviluppo’, ciò può
compromettere le loro capacità, condannandoli a una vita di povertà e stenti.

Guerre e conflitti:
Nel mondo, i conflitti compromettono sistematicamente l’agricoltura e la
produzione alimentare. I combattimenti, inoltre, costringono milioni di
persone ad abbandonare le loro case e producono vere e proprie emergenze
alimentari, poiché gli sfollati dal conflitto si ritrovano senza i mezzi per
sfamarsi. Esempio recente di questa dinamica è la guerra che, negli ultimi
anni, ha riguardato la Siria e che ha determinato l’esodo di 6 milioni di
persone in fuga da violenze e persecuzioni. Persone per le quali era, ed è
tuttora, necessario rimediare un tetto, ma anche cibo e acqua.
Durante le guerre, il cibo diventa talvolta un’arma di guerra. I militari sono
determinati ad affamare i nemici fino alla capitolazione attraverso
l’accaparramento e la distruzione di cibo e bestiame, assieme alla
devastazione dei mercati locali. I campi vengono spesso minati e i pozzi
d’acqua contaminati, costringendo gli agricoltori ad abbandonare le loro terre.

Nel corso degli ultimi dieci anni, i conflitti sono aumentati drasticamente e
sono diventati più complessi e di difficile risoluzione. Questo è un campanello
d'allarme che non si può ignorare: non porremo fine alla fame e a tutte le
forme di malnutrizione entro il 2030 se non affrontiamo tutti i fattori che
minano la sicurezza alimentare e l'alimentazione. Degli 821 milioni di persone
che soffrono la fame, circa 500 milioni vivono in paesi colpiti da conflitti e la

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Geografia economico politica Modulo 8° - Temi e Questioni Geoeconomiche

prevalenza della fame nei Paesi colpiti dal conflitto è di 1,4 - 4,4 punti
percentuali superiore a quella di altri Paesi.
Agli inizi del 2017, per diversi mesi, la carestia ha colpito alcune parti del Sud
Sudan e c'è il rischio che possa riapparire nel Paese e in altre zone colpite da
conflitti, vale a dire nel nordest della Nigeria, in Somalia e nello Yemen.

Basso sviluppo agricolo:


In molti paesi in via di sviluppo vi è insufficienza di infrastrutture agricole,
quali strade, magazzini e sistemi di irrigazione. La conseguenza sono elevati
costi di trasporto, mancanza di strutture di stoccaggio e approvvigionamenti
idrici incerti. Tutto ciò concorre a limitare le rese agricole e l’accesso al cibo.
Gli investimenti nel miglioramento della gestione dei suoli, nell’utilizzo più
efficiente delle risorse idriche e nella fortificazione delle sementi disponibili
possono apportare considerevoli miglioramenti. Studi condotti
dall’Organizzazione per l’alimentazione e l’agricoltura delle Nazioni Unite
(FAO) dimostrano che gli investimenti in agricoltura sono cinque volte più
efficaci nel ridurre fame e povertà rispetto agli investimenti in qualsiasi altro
settore.

Clima:
Disastri naturali come alluvioni, tempeste tropicali e lunghi periodi di siccità
sono in aumento – con conseguenze drammatiche per chi soffre fame e
povertà nei paesi in via di sviluppo. La siccità è una delle cause più comuni
della scarsità di cibo nel mondo. Nel 2011, fenomeni di siccità ricorrenti
hanno vanificato il raccolto e provocato gravi perdite di bestiame in aree
dell’Etiopia, della Somalia e del Kenya. Nel 2012, una situazione simile si è
verificata nella regione del Sahel nell’Africa occidentale. In molti paesi, il
cambiamento climatico sta aggravando condizioni naturali già avverse.
Sempre di più, i terreni fertili nel mondo sono minacciati dall’erosione, dalla
salinizzazione e dalla desertificazione. La deforestazione per opera dell’uomo
sta accelerando l’erosione di suoli che potrebbero essere utilizzati per la
coltivazione.

Variazioni legate al mercato:


Negli ultimi anni, il prezzo dei prodotti alimentari è risultato molto instabile.
L’andamento altalenante dei prezzi sul mercato rende difficile, soprattutto per
i poveri, l’accesso stabile a cibo nutriente. Le persone, infatti, hanno bisogno
di avere accesso a cibo adeguato tutto l’anno. Le impennate nei prezzi
possono temporaneamente rendere il cibo inaccessibile, con possibili
conseguenze di lungo periodo per i bambini piccoli. Quando i prezzi
aumentano, i consumatori spesso passano al consumo di alimenti più a buon

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Geografia economico politica Modulo 8° - Temi e Questioni Geoeconomiche

mercato, quindi di qualità più bassa e meno nutrienti, aumentando il rischio di


deficit nutrizionali e altre forme di malnutrizione.

Spreco alimentare:
Un terzo di tutto il cibo prodotto (1,3 miliardi di tonnellate) non viene mai
consumato. Lo spreco alimentare rappresenta un’opportunità mancata per
migliorare la sicurezza alimentare globale in un mondo dove una persona su
nove soffre la fame. Produrre questo cibo richiede l’utilizzo di risorse naturali
preziose di cui abbiamo bisogno per nutrire il pianeta. Ogni anno, il cibo
prodotto ma non consumato assorbe un volume d’acqua equivalente al flusso
del fiume Volga, in Russia. Produrre cibo, inoltre, incrementa l’emissione di
gas serra nell’atmosfera di 3,3 miliardi di tonnellate, con conseguenze per il
clima e, in ultima analisi, per la produzione alimentare.

Cambiamenti climatici:
Tra le diverse cause appena elencate, meritano un particolare approfondimento
le problematiche ambientali. Il cambiamento climatico e i fenomeni
ambientali violenti stanno già influenzando la capacità produttiva agricola e la
disponibilità di cibo e ciò renderà difficile raggiungere quegli obiettivi
necessari per eliminare il problema della fame nel mondo: assicurare la
sicurezza alimentare, migliorare la nutrizione e promuovere una agricoltura
sostenibile.

Il cambiamento climatico è un fenomeno che ha luogo nel lungo periodo, in


termini di decenni o secoli. Ci sono anche variazioni climatiche che si
registrano a più breve termine, come per le precipitazioni o le temperature o
eventi più estremi, i quali causano alluvioni, siccità e inondazioni. Tuttavia,
queste variazioni climatiche a breve termine non sono tutte attribuibili al
cambiamento climatico.

Data la difficoltà di analizzare un fenomeno così variabile, per cui è


necessario fare i conti con dati e analisi sviluppate su tempi di decenni, se non
secoli, nel campo scientifico vi è un ampio dibattito sul cambiamento
climatico, sui suoi effetti e sul reale impatto sull’ambiente e gli esseri umani.
Nonostante questo però, è opinione condivisa che i fenomeni ambientali più
recenti siano alla base di alcune problematiche legate alla sicurezza
alimentare. Questo ci conduce ad alcune considerazioni:

- Il numero di eventi atmosferici estremi, (siccità, alluvioni, inondazioni) è


raddoppiato rispetto ai primi anni novanta, con una media di 213 eventi del
genere registrati ogni anno nel periodo compreso tra il 1990 e il 2016.

21
Geografia economico politica Modulo 8° - Temi e Questioni Geoeconomiche

- Mentre i cambiamenti climatici avvengono nell’arco di decenni o secoli, le


persone sperimentano, nella loro vita quotidiana, variazioni climatiche e
atmosferiche violente, indipendentemente dal fatto che queste siano o meno
determinate dal cambiamento climatico.

- Chiaramente, tutte le dimensioni che riguardano la sicurezza alimentare e la


nutrizione, compresa la disponibilità e l’accesso al cibo, sono potenzialmente
influenzate dalla variabilità climatica e dal clima estremo.

I cambiamenti climatici stanno già minando la produzione di colture


importanti (grano, riso e mais) nelle regioni tropicali e temperate e, senza
accorgimenti, la situazione potrebbe ulteriormente peggiorare con
l’innalzamento delle temperature.
I disastri legati alle variazioni climatiche sono arrivati a rappresentare più
dell’80 per cento di tutti i disastri ambientali avvenuti negli ultimi anni.

Inondazioni, siccità e tempeste tropicali rappresentano quegli eventi che,


maggiormente, colpiscono la produzione alimentare. In particolare, la siccità
causa più dell’80 per cento dei danni e delle perdite totali in agricoltura,
colpendo specialmente i settori dell’allevamento e della coltivazione. Per
quanto riguarda la pesca, sono tsunami e tempeste a causare i danni maggiori,
mentre per quanto riguarda la silvicoltura l’impatto economico più pesante è
dovuto a alluvioni e tempeste.

Mentre la fame è in aumento, è altrettanto in crescita il numero di persone che


si trovano a dover affrontare livelli critici di insicurezza alimentare. Nel 2017,
quasi 124 milioni di persone in 51 paesi sono state coinvolte da tale
emergenza, che ha richiesto azioni immediate per salvaguardare le loro vite e
preservare i loro mezzi di sostentamento. Questi numeri rappresentano un
aumento rispetto al 2015 e al 2016, quando 80 e 108 milioni di persone,
rispettivamente, sono state segnalate in situazione critica. Come per l’aumento
della fame, anche per quanto riguarda l’insicurezza alimentare le cause vanno
ritrovate tra i fattori legati al clima, in particolare la siccità. Inoltre, variabilità
climatica ed eventi estremi stanno contribuendo anche agli allarmanti livelli di
malnutrizione.

Al termine dell’analisi sulla diffusione e delle cause della fame nel mondo, il
rapporto della FAO “The State of Food Security and Nutrition in the World”
evidenzia gli interventi necessari per affrontare tali problematiche e fare in
modo che in futuro si possa invertire il trend che ha visto aumentare negli
ultimi anni le persone colpite dalla fame e dall’insicurezza alimentare.

22
Geografia economico politica Modulo 8° - Temi e Questioni Geoeconomiche

Innanzitutto è necessario aumentare gli interventi volti a garantire l'accesso ad


alimenti nutrienti e la rottura del ciclo intergenerazionale della malnutrizione.

Le politiche devono prestare particolare attenzione ai gruppi che sono più


vulnerabili alle conseguenze dannose dello scarso accesso al cibo: neonati,
bambini sotto i cinque anni, bambini in età scolare, ragazze adolescenti e
donne.

Allo stesso tempo, occorre un cambiamento sostenibile verso un’agricoltura e


filiere alimentari sensibili agli aspetti nutrizionali, che possano garantire cibo
sicuro e di qualità per tutti.

Il rapporto chiede inoltre maggiori sforzi per costruire resilienza ambientale


attraverso politiche che promuovano l'adattamento ai mutamenti climatici e la
riduzione del rischio di catastrofi naturali.

8.5 . Tecnologia e innovazione.

Innovazione significa introduzione di criteri e di sistemi nuovi. Questo


concetto in Geografia è legato al cambiamento tecnologico di cui è
praticamente sinonimo. Le condizioni ottimali della localizzazione per fattori
produttivi non si basano più solo su criteri di natura prevalentemente
economica ma risentono della forte influenza dell’implementazione di
strumenti strategici d’intervento per la promozione di processi di innovazione
territoriale. Non sono quindi più così influenti le fonti di materie prime o la
favorevole posizione topografica ma elementi relativi alle risorse immateriali,
alla cultura o al know how.

L’innovazione privilegia configurazioni territoriali che raggiungono


dimensioni relazionali a scala mondiale attraverso l’offerta di alta tecnologia e
di servizi avanzati: sono nodi d’importanza superiore nella rete globale, una
rete di collegamenti che si esplica attraverso infrastrutture immateriali e
prossimità funzionale. E’ un cambiamento totale rispetto alle logiche
geografiche tradizionali: alla fisicità dei flussi materiali vengono sostituiti
flussi immateriali, soprattutto flussi di informazione. Sorgono grandi
metropoli che attirano l’interesse delle multinazionali, delle attività di ricerca
e di sviluppo, di marketing, di logistica e della pianificazione strategica. Le
nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione ancorano le scelte

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Geografia economico politica Modulo 8° - Temi e Questioni Geoeconomiche

localizzative a logiche di natura agglomerativa, e le scelte insediative risultano


legate a un’integrazione con le reti di comunicazione.

Esistono aree metropolitane dotate di risorse economiche e tecnologiche


competitive a livello internazionale che possono dimostrare una capacità
attrattiva e si espandono ulteriormente in conseguenza di processi innovativi:
la capacità di attrazione può essere costruita attraverso politiche pianificate di
marketing territoriale orientate allo sviluppo e all’implemento
dell’innovazione. Assume rilievo il contesto locale, la sua capacità gestionale
e la capacità di realizzare importanti reti relazionali. Le risorse strategiche
sono centri d’eccellenza della ricerca, strutture universitarie, parchi
tecnologici e scientifici, risorse sociali, culturali, economiche e umane
qualificate: per le sinergie è necessario incentivare i rapporti tra mondo
imprenditoriale e della ricerca, tra soggetti pubblici e privati. Il successo è
dovuto ad un punto di equilibrio tra relazioni interne e reti esterne, in un
rapporto locale e globale.

I sistemi territoriali si caratterizzano per relazioni verticali, cioè interne e


relative a condizioni localizzate culturali, storiche, economiche, naturali, e
orizzontali, che configurano rapporti esterni riferiti a un territorio più vasto. I
collegamenti tra locale e globale avvengono nell’ambito di reti di dimensioni
variabili fino ad un livello planetario nelle quali circola la conoscenza
codificata. E’ grazie a forti interazioni, che avvengono sia spontaneamente che
attraverso soggetti di intermediazione tra un sistema locale aperto a stimoli
esterni e i sistemi globali, che si produce nuova conoscenza e diffusione
dell’innovazione. E’ il concetto di milieu innovateur, concetto collegato a
quello di milieu locale: un contesto spaziale unito ed omogeneo dal punto di
vista economico, culturale e tecnico che comprende un insieme di imprese,
istituzioni di ricerca o poteri pubblici o privati che interagiscono per
valorizzare le risorse esistenti.

Tra le funzioni del milieu è fondamentale la riduzione dell’incertezza


connessa ai processi innovativi: deriva sia da scambi informali e rapidi di
informazioni e dalla loro raccolta e valutazione collettiva, sia dalle
certificazioni di qualità che vengono segnalate, sia dall’apprendimento
collettivo che deriva dalla mobilità del lavoro o dalle interazioni con la
clientela ed i fornitori, sia dalla definizione di stili manageriali e decisionali,
sia dall’accento posto sulla formazione del capitale umano. Un ruolo
importante nel milieu è dato dalle reti di impresa, quali joint ventures,
consorzi o alleanze strategiche che aumentano le capacità, l’informazione e il
controllo. Sono reti di innovazione basate sul learning by networking, una
valorizzazione del know how dei vari membri che della rete.

24
Geografia economico politica Modulo 8° - Temi e Questioni Geoeconomiche

Quando in uno spazio industriale si concentrano attività di rilevante contenuto


scientifico e tecnologico che mettono in atto rapporti di scambio di
conoscenza e di innovazione, si può attivare un Parco scientifico e
tecnologico. Si tratta di concentrazioni o agglomerazioni sorte dalla fine degli
anni ’80, inizialmente in campus vicini ad Università o centri di ricerca, per
arrivare a vere e proprie tecnopoli, città che offrono anche servizi urbani
avanzati ai loro residenti impiegati nelle varie attività di ricerca, di
trasferimento di tecnologia e di innovazione. Oggi i PST hanno carattere sia
pubblico che privato oppure sono a capitale misto: si specializzano
normalmente per settori produttivi e hanno un forte legame con il territorio nel
quale sono situati. Essi consentono supporti operativi alle imprese innovative
insediate, sostengono lo sviluppo locale e regionale basato sull’innovazione,
consentono cooperazioni a livello internazionale e diffusione di conoscenze
utili allo sviluppo locale. Il ruolo dei PST si è rivelato molto efficace per le
politiche di sviluppo territoriale soprattutto per le imprese medio-piccole che
possono essere aiutate ad aumentare il livello di competitività sui mercati
anche internazionali.

Nel mondo esistono casi molto significativi come quello della Cina. Dal 1985,
anno di istituzione del primo PST, lo Shenzhen Science and Industry Park,
sono stati avviati decine di PST che stanno attivamente sostenendo la crescita
industriale nel campo delle nuove tecnologie.

In Europa vi sono molti PST quali il CERN di Ginevra, l’ESFR di Grenoble.


In Francia è interessante la Fondazione Sophia Antipolis, un polo d’eccellenza
che nasce nel 1969 vicino a Nizza. Tra quelli italiani il Biopolo di Milano, il
Parco Scientifico Medicale San Raffaele di Milano, il Science Park di Trieste.

A partire dagli anni '50 l’innovazione tecnologica si identifica in una


convergenza tra informatica e telecomunicazioni con lo sviluppo di tecnologie
ICT (information and communication technologies). Le ICT comprendono
varie tecnologie che consentono la gestione di informazioni codificate in
forma digitale e tutti i servizi che ne rendono possibile l’utenza. Le ICT hanno
modificato il modo di vivere e lavorare delle persone e la localizzazione delle
attività produttive poichè, negli ultimi anni, molte attività economiche si
svolgono in forma digitale o in rete e la portata innovativa è tale da far parlare
di INTERNET come di una quarta rivoluzione industriale. Le connessioni
telematiche sono estensibili ad ambiti illimitati attraverso INTERNET e rese
velocissime dalle linee telefoniche digitali. La rete mondiale (world wide web
– www) collega luoghi remoti grazie a portali di accesso, siti, protocolli di

25
Geografia economico politica Modulo 8° - Temi e Questioni Geoeconomiche

trasmissione e motori di ricerca: Google, Yahoo, AltaVista sono alcuni


esempi.

Le ICT nascono e si evolvono con l’intento di diffondere in modo omogeneo


lo sviluppo. Ma nei fatti l’adesione e la diffusione delle ICT avviene in modo
concentrato e in aree ben definite dei paesi occidentali generando il digital
divide, cioè disuguaglianze nell’accesso e nell’utilizzo delle ICT da parte o di
categorie sociali o addirittura di interi paesi. Le difficoltà per la diffusione
dell’ICT sono dovute a carenze di investimenti economici nelle infrastrutture
per le telecomunicazioni, dai costi elevati di utilizzo delle linee telefoniche,
dalla scarsa disponibilità di computer e anche di alfabetizzazione informatica,
dalla scarsa estensione geografica delle connessioni che sono concentrate in
ambito urbano e prevalentemente nelle grandi città, ed assenti o quasi nelle
aree rurali.

Il GIS “geographical information system” è un insieme di procedure ed


apparecchiature in grado di acquisire, organizzare, archiviare, gestire ed
elaborare dati e informazioni riferibili al territorio che vengono aggregati ed
organizzati in banche dati. E’ un sistema dinamico che può costantemente
implementare nuove informazioni e nuovi dati su basi cartografiche dal livello
di cartografia catastale.

26
Geografia economico politica Modulo 8° - Temi e Questioni Geoeconomiche

BIBLIOGRAFIA

 Davies A., “Columbus Divides the World”, Geographical Journal, vol.


133, pp. 337-344, 1967. Defarges P., Introduzione alla geopolitica,
Bologna, Il Mulino, 1996.

 Giordano A., Geografia economico-politica, Dispensa, Unicusano, 2010.

 Pagnini M., “Introduzione alla storia della Geografia politica”, in Corna


Pellegrini G., Dell’Agnese E., Manuale di Geografia politica, Roma, La
Nuova Italia Scientifica, pp.229-264, 1995.

 Pagnini M., Sanguin, A., Storia e teoria della Geografia politica: Una
prospettiva internazionale, Roma, Edicusano, 2015.

 Vandermotten C., Territorialités et politique, Bruxelles, Editions


de l’Université de Bruxelles, 2005.

27
Corso di Laurea in Scienze della Formazione

INSEGNAMENTO DI
GEOGRAFIA ECONOMICO POLITICA

Modulo 9° - Casi studio

A cura di

Giuseppe Terranova
Geografia economico politica Modulo 9° - Casi studio

SOMMARIO MODULO 9°

Casi studio

9.1. Conflitto Israele-Palestina


9.2. Pace Etiopia-Eritrea
9.3. Stato islamico

1
Geografia economico politica Modulo 9° - Casi studio

9.1. Conflitto Israele-Palestina

Da decenni il conflitto israelo-palestinese è al centro del dibattito geopolitico


internazionale.
Analizzato superficialmente, esso appare come una contrapposizione tra due
entità per il controllo dello stesso territorio. Ma andando in profondità, si
comprende come, in tale contrapposizione, si siano innestati ulteriori fattori:
religiosi, politici, economici e demografici. Inoltre, non si può circoscrivere
questa vicenda ai soli stati di Israele e Palestina. Fin dal principio, infatti,
diversi sono stati gli attori in gioco in questa vicenda. Dalle potenze europee,
coinvolte nella riconfigurazione del mondo dopo la Prima Guerra Mondiale,
alle organizzazioni internazionali come l’ONU, fino ad arrivare agli stati
arabi.
Una regione, quella del Medio Oriente, strategica: a cavallo tra Europa, Asia e
Africa, ricca di risorse e, per questo, contesa tra tanti stati.
Non si può poi trascurare anche il valore simbolico rivestito dai luoghi come
Gerusalemme e la Terra Santa. Territori con un significato storico e religioso
per tre grandi mondi: quello musulmano, quello cristiano e quello ebraico.

Verso la fine del diciannovesimo secolo incomincia a emergere tra gli ebrei
residenti in Europa centrale ed orientale un movimento politico internazionale,
il Sionismo. Il fine ultimo di tale movimento era l’affermazione del diritto
all’autodeterminazione del popolo ebraico mediante la creazione di uno stato
ebraico in Palestina. Ai primi del ‘900 gli ebrei in Terra Santa erano pochi,
non più di 50-60 mila, concentrati soprattutto a Gerusalemme e nelle
immediate vicinanze.
Intanto, in seguito alla sconfitta dell’Impero ottomano durante la I Guerra
Mondiale, nel gennaio del 1916, Francia e Gran Bretagna firmano il Trattato
di Sykes-Picot. Con questo accordo, le due potenze definirono le proprie sfere
di influenza in tutto il Medio Oriente. Alla Gran Bretagna venne riconosciuta
influenza esclusiva nel basso Iraq e in tutti i territori della Mezzaluna Fertile,
dalla Palestina al golfo Persico. Mentre alla Francia venne concesso un
territorio che si estendeva dalla Siria al Libano sino a Mosul, nell’alto Iraq.
Le potenze europee hanno sempre avuto un ruolo centrale nel modellare il
futuro di questa regione. A tal proposito, rispetto alle vicende che porteranno
alla nascita dello Stato d’Israele, è opportuno ricordare anche la dichiarazione
di Balfour. Nel 1917 il ministro degli Esteri britannico, Arthur James Balfour
indirizzò una lettera al presidente onorario della Federazione sionista, lord
Lionel Rothschild, nella quale dichiarava che “Il governo di Sua Maestà vede
con favore la fondazione in Palestina di un focolare nazionale per il popolo
2
Geografia economico politica Modulo 9° - Casi studio

ebraico e farà del suo meglio per facilitare il raggiungimento di questo


obiettivo”. Tali parole resero di pubblico dominio l’appoggio del governo
britannico al progetto sionista.

Nel 1925 gli ebrei immigrati in Palestina erano già 122 mila. Nel corso degli
anni Venti iniziarono i primi episodi di violenza tra i nuovi coloni e gli
abitanti storici di quella regione, che mostrarono così la complicata situazione
che si stava andando a innescare già agli inizi degli anni Trenta, in
concomitanza con l’avvento del nazismo in Europa. Infatti, le persecuzioni
hitleriane fecero registrare i massimi picchi storici di arrivi ebraici in Terra
Santa. Inizia così a diffondersi nelle cancellerie europee l’idea di dividere la
Palestina in due stati, uno arabo e uno ebreo, ma la popolazione ebraica
respinse la proposta.

Con l’inasprirsi delle persecuzioni antisemite il movimento sionista cercò di


facilitare una maggiore libertà di entrata e di uscita da parte degli ebrei in
Palestina. Tuttavia, nel tentativo di non incrinare i rapporti con il mondo arabo
proprio alla vigilia di un nuovo conflitto mondiale, il governo inglese, che
controllava la regione, cercò di moderare le istanze sioniste, dettando alcune
condizioni: l'indipendenza sarebbe stata accordata entro dieci anni; in
Palestina potevano immigrare altri 75 mila ebrei, dopo di che successive
immigrazioni sarebbero state decise dalla maggioranza araba, e sarebbe stata
limitata in alcune zone l'acquisizione di terre, vietata invece in altre. Tali
imposizioni scatenarono negli insediamenti ebraici una ondata di violenze e
attacchi di stampo terroristico contro truppe, funzionari e rappresentanti
britannici.

Proprio a causa dell’escalation di violenze e attentati, nel febbraio 1947 la


Gran Bretagna annunciò che avrebbe abbandonato la Palestina e rimesso il
mandato alle Nazioni Unite. A loro volta, le Nazioni Unite convocarono
l'Assemblea Generale per il 29 novembre 1947. Nell’agenda dei lavori il punto
fondamentale fu la divisione della Palestina in due Stati, uno arabo e uno
israeliano, geograficamente incastrati l’uno nell’altro, con Gerusalemme
(abitata da 100 mila ebrei e 150 mila arabi) zona internazionale sotto il
controllo e l'amministrazione dell'ONU. Come è noto, il 14 maggio 1948, il
futuro primo capo di governo d'Israele, David Ben Gurion proclamò
l'indipendenza dello Stato d’Israele. Il giorno stesso della sua costituzione
Israele fu riconosciuto dagli USA, il 17 maggio dall’URSS e nel maggio del
1949 dall’ONU.

A dispetto del riconoscimento internazionale però, la situazione interna alla


Palestina fu tutt’altro che pacifica. Il primo conflitto israelo-palestinese
scoppiò all’indomani della spartizione delle terre. Mentre gli inglesi si
3
Geografia economico politica Modulo 9° - Casi studio

ritiravano, ciascuna delle due parti in gioco cercava di rafforzare le proprie


posizioni in previsione di uno scontro che oramai sembrava inevitabile.
Il 15 maggio 1948, data ufficiale della fine del mandato britannico e della
proclamazione dello Stato d’Israele, ne fu la prova: nonostante la loro
superiorità numerica, le divisioni arabe impegnate in Palestina furono sconfitte
dal neonato esercito israeliano. Queste operazioni militari vennero affiancate
da espulsioni in massa dei palestinesi.

La prospettiva di una guerra tra Gran Bretagna e Israele spinse gli americani
ad intervenire per un cessate il fuoco. Da quel momento l’allora ministro della
difesa israeliano ordinò la conclusione delle operazioni militari. Gli israeliani
si erano aggiudicati il Negev, tranne l’area che presto fu chiamata “striscia di
Gaza”. In quel preciso momento si crearono le condizioni per lo svilupparsi di
una questione palestinese. Come sostenne lo storico francese Maxime
Rodinson: “La causa profonda del conflitto è l'insediamento di una nuova
popolazione su un territorio già occupato, insediamento non accettato dalla
popolazione del luogo. Il conflitto ci appare così, essenzialmente, come la
lotta di una popolazione indigena contro l'occupazione straniera del suo
territorio nazionale”.

Questo nuovo stato di cose pose le due popolazioni di fronte ad una situazione
completamente nuova che presto divenne un serrato confronto tra due
nazionalismi. I nuovi confini dello Stato furono quelli raggiunti dai soldati
israeliani nel 1949, l'immigrazione non ebbe più limiti e, nel 1950, la Knesset
(il parlamento israeliano) promulgò una legge considerata fondamentale, la
Legge del Ritorno, in base alla quale: “Ogni ebreo ha diritto di stabilirsi in
Israele come immigrato”. Questa Legge, dunque, garantì la cittadinanza
israeliana ad ogni ebreo del mondo, sulla base dell'appartenenza religiosa,
purché si trasferisse in Israele con l'intenzione di viverci e di rimanervi a
condizione (se ancora in età) di compiere il servizio militare che per gli
uomini dura tre anni e per le donne un anno. La situazione dei palestinesi alla
fine della guerra apparve assai complicata, aggravata dal problema dei
profughi che, da allora, divenne un problema mai risolto. Nel tempo, i
palestinesi disseminati nei territori confinanti diventarono circa 922 mila, la
maggior parte (512 mila) in Giordania, 216 mila nel territorio con epicentro a
Gaza, 102 mila in Libano, 90 mila in Siria.

La prima guerra arabo-israeliana ebbe ripercussioni anche in tutta l’area


mediorientale, suscitando in gran parte dei paesi arabi un senso di solidarietà
verso la causa palestinese (anche se spesso solo “di facciata”) e una diffusa
ostilità verso Israele. Questa situazione è alla base di diversi conflitti che negli
anni seguenti scoppiarono nella regione: la guerra del 1956 tra Egitto e Israele,
per il controllo del Sinai e del Canale di Suez e la Guerra dei sei giorni del
4
Geografia economico politica Modulo 9° - Casi studio

1967, un attacco preventivo e improvviso delle forze aeree israeliane contro


Egitto, Siria e Giordania, che capitolarono velocemente. Con questa fulminea
vittoria Israele occupava l'intera Penisola del Sinai e la striscia di Gaza che,
fino ad allora, era rimasta sotto amministrazione militare egiziana, oltre a
inglobare l'intera Cisgiordania (compresa Gerusalemme Est), sottratta alla
Giordania, e le alture del Golan a nord-est, sottratte invece alla Siria. Nel 1973
si ebbe una nuova crisi che porterà in breve tempo alla guerra "del Kippur" (da
una festività religiosa ebraica). In questa occasione furono gli eserciti
dell'Egitto e della Siria ad attaccare a sorpresa Israele, che perse il controllo
del Canale di Suez. L'intervento dei caschi blu ONU giunse a evitare ulteriori
radicalizzazioni del conflitto e l'alterazione dei già delicati equilibri regionali.
Gli accordi fra Egitto e Israele (seguiti più tardi dal riconoscimento dello Stato
d'Israele da parte del Cairo, imitato più tardi dalla Giordania) avviarono una
nuova fase politica, tendenzialmente meno incline al confronto armato come
strumento di risoluzione delle controversie e più avviato sul piano della
diplomazia.

Si chiuse così la fase del coinvolgimento diretto degli Stati arabi in guerre
dichiarate contro Israele, mentre nella lotta per la liberazione della Palestina
assunse un peso sempre più rilevante l'Organizzazione per la Liberazione della
Palestina (OLP), che nel 1974 fu ammessa all'assemblea generale dell'ONU
con lo status di "osservatore", in qualità di rappresentante del popolo
palestinese. L’OLP si apprestò a diventare il soggetto protagonista della storia
politica palestinese, insieme ad una delle figure storiche: Yasser Arafat, capo
del movimento Al Fatah.
Il 17 settembre 1978 il Presidente egiziano Sadat e il primo ministro israeliano
Begin sotto la supervisione del presidente americano Jimmy Carter firmarono
gli accordi di Camp David. Gli accordi prevedevano di istituire una autonoma
autorità auto-disciplinante in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza, ed attuare
pienamente la Risoluzione 242 del Consiglio di Sicurezza ONU, che
prevedeva un ritiro militare israeliano ed il reciproco riconoscimento tra gli
stati.

Su questi presupposti, gli anni ’80 si aprirono in un clima di forte incertezza


che presto diede luogo a nuovi scontri. Il teatro del confronto israelo-
palestinese si spostò in Libano che, fin dal 1949, aveva sopportato lo sforzo
della guerra palestinese: il territorio libanese ospitava, infatti, migliaia di
profughi e divenne in quel periodo una base armata per le organizzazioni di
guerriglieri palestinesi. Beirut fu così il teatro di uno degli episodi più
drammatici del conflitto israelo-palestinese. Con il pretesto di scovare
eventuali terroristi la sera del 16 settembre controllati e illuminati dai razzi al
fosforo bianco lanciati delle forze israeliane dislocate a Beirut ovest, le falangi
cristiano-maronite libanesi, una forza militare politica legata alla destra
5
Geografia economico politica Modulo 9° - Casi studio

cristiana libanese (antiaraba) entrarono nei campi profughi di Sabra e Shatila.


Il giorno prima, l'esercito israeliano chiuse ermeticamente i campi profughi e
mise posti di osservazione sui tetti degli edifici vicini. Le milizie cristiane
lasciarono i campi profughi solo il 18 settembre. Il numero esatto dei morti
non è ancora chiaro. Il procuratore capo dell'esercito libanese in un'indagine
condotta sul massacro, parlò di 460 morti, la stima dei servizi segreti israeliani
parlava invece di circa 700-800 morti. Questi episodi stupirono l’opinione
pubblica internazionale per la loro inconsueta violenza. Il massacro di Sabra e
Chatila segna la fine dell’avventura israeliana in Libano che, dopo poco, ritirò
il suo esercito sostituito da una forza multinazionale.

Gli anni che seguirono furono particolarmente difficili per i palestinesi,


sempre più frustrati da 20 anni di sconfitte militari e diplomatiche, in
particolare in Cisgiordania e a Gaza. Inoltre si aggiungeva l'assenza di
progressi nel trovare una soluzione duratura per le loro richieste nazionaliste e
umanitarie poiché l’occupazione dei territori imponeva uno stile di vita che
non riusciva a rientrare nella normalità dei tempi di pace. Una situazione che
alimentava un crescente malcontento verso lo status quo.

Nel dicembre del 1987, un incidente che portò la morte di 4 giovani del campo
profughi di Jabaliyya fu la scintilla per lo scoppio di quella che è nota come
“prima Intifada”, una rivolta spontanea che, come è noto, culminò nell’evento
simbolo dell’uccisione da parte dei soldati israeliani di un giovane palestinese,
il fatto ebbe un effetto-rete che fece da detonatore per altre rivolte. La “rivolta
delle pietre” nacque e si espanse in maniera spontanea. Le immagini dei
rivoltosi palestinesi disarmati che scagliavano pietre contro l’esercito più
addestrato del mondo scosse sia Israele che l’opinione pubblica internazionale.
In concomitanza con lo scoppio della prima Intifada, infatti, nacque un nuovo
movimento islamico che prese parte all’Intifada senza riconoscersi nell'OLP.
Si trattava di Hamas, il cui obiettivo dichiarato consisteva nella creazione di
uno Stato islamico palestinese, escludendo qualsiasi possibilità di una
mediazione con Israele. Intanto ad Algeri, nel novembre del 1988, si tenne una
riunione dell’OLP che, con il riconoscimento della risoluzione 338, proclamò
la rinuncia al terrorismo e la fondazione dello stato arabo di Palestina,
riconosciuto successivamente da 90 paesi.

In questo clima di tensioni, sia interne che esterne, si arrivò all'estate del 1993,
grazie a uno scambio di lettere tra Yasser Arafat e Yitzhak Rabin
supervisionato dal ministro norvegese degli Affari Esteri Johan Joergen Holst,
alla formalizzazione del reciproco riconoscimento di Israele e dell'OLP, come
preliminare alla firma di una dichiarazione di principi. Gli Accordi di Oslo
furono la conclusione di una serie di intese segrete e pubbliche messe in moto,
in particolare, dalla Conferenza di Madrid del 1991, e dai negoziati condotti
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Geografia economico politica Modulo 9° - Casi studio

nel 1993 tra il governo israeliano e l'Organizzazione per la Liberazione della


Palestina (che agì in rappresentanza del popolo palestinese), come parte di un
processo di pace che mirò a risolvere i conflitti arabo-israeliani. Gli accordi
chiesero un ritiro delle forze israeliane da parte della Striscia di Gaza e dalla
Cisgiordania, e affermarono il diritto palestinese all'autogoverno in tali aree,
attraverso la creazione dell'Autorità Nazionale Palestinese. Il governo
palestinese ad interim sarebbe durato per un periodo di cinque anni, durante i
quali veniva negoziato un accordo permanente.

La firma degli accordi arrivò appunto il 13 settembre, alla presenza di Bill


Clinton, allora Presidente degli Stati Uniti. Al suo cospetto, i presidenti
palestinese e israeliano Peres e Arafat si strinsero per la prima volta la mano,
in un gesto altamente simbolico che sembrava alimentare le speranze per una
risoluzione pacifica del conflitto. Purtroppo nonostante le grandi speranze
suscitate dagli Accordi e dalle successive intese, che s'impegnavano alla
normalizzazione delle relazioni d'Israele col mondo arabo, il conflitto non fu
risolto. Per una parte del fronte palestinese, quella più integralista che
comprendeva anche Hamas, gli accordi raggiunti erano illegittimi e Arafat un
traditore della causa nazionale.

Purtroppo, i successivi tentativi di riportare la pace nella zona fallirono


perché, nonostante gli accordi di Oslo, il numero dei coloni in Cisgiordania e a
Gaza crebbe senza sosta. Al contrario la situazione nei territori amministrati
direttamente dall’Autorità Palestinese diventava sempre più problematica, a
causa della stagnazione economica, della disoccupazione e dei numerosi check
point israeliani che rendevano difficoltosi gli spostamenti interni. In più si
aggiungevano le continue spaccature interne che divoravano il mondo arabo e,
in particolare, quello palestinese.
Benché gli accordi di Oslo avessero rappresentato una possibilità di pace, la
questione arabo-israeliana non poté dirsi risolta. Anzi, come è noto, nei
decenni seguenti questo argomento continuò a rappresentare uno dei principali
problemi irrisolti della politica internazionale.

Nonostante i progressi nel processo di pace, gli anni Novanta furono


caratterizzati anche da numerosi episodi di violenza, come il massacro di
Hebron del 1994, in cui un ebreo israeliano uccise 29 palestinesi musulmani in
una moschea, e ripetuti attentati suicidi palestinesi, rivendicati soprattutto da
Hamas: i più sanguinosi avvennero a Tel Aviv nel 1994 (22 morti), nei pressi
di Netanya nel 1995 (21 morti), e ad Ashkelon, Gerusalemme e Tel Aviv tra il
25 febbraio e il 4 marzo 1996 (complessivamente 59 morti).
Le elezioni in Israele del 1999 furono vinte dal laburista Ehud Barak che, nel
settembre 1999, stipulò un nuovo accordo per stabilire confini definitivi e
decidere lo status di Gerusalemme entro un anno. Al vertice di Camp David,
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Geografia economico politica Modulo 9° - Casi studio

tenutosi nel luglio 2000, Barak offrì ad Arafat uno Stato palestinese sul 90%
della Cisgiordania e il ritorno dei rifugiati palestinesi nello Stato palestinese,
ma non in Israele. Tuttavia, Barak non riuscì a convincere con le sue proposte
il suo antagonista Arafat sui termini definitivi della pace e le trattative
conobbero così un cocente fallimento.

Il fallimento del tentativo degli accordi di Oslo di portare alla nascita di uno
Stato palestinese provocò un aumento delle tensioni. Dalla firma degli accordi,
gli insediamenti israeliani erano continuati ad aumentare, raddoppiando la
popolazione di coloni israeliani in Cisgiordania. La scintilla che fece
precipitare la situazione fu, il 28 settembre 2000, la visita di Ariel Sharon, di lì
a breve nuovo primo ministro di Israele, al Monte del Tempio, sacro sia per gli
ebrei, sia per i musulmani. In breve scoppiò una nuova rivolta palestinese,
nota come seconda intifada, più violenta della prima e caratterizzata da un
aumento degli attentati suicidi palestinesi. Le tensioni e la violenza si
intensificarono fino a quando Sharon scatenò un'ampia offensiva militare
(detta Operazione Scudo difensivo) nelle principali città della Cisgiordania.

Il 24 giugno, il presidente statunitense George W. Bush delineò in un discorso


una nuova "Road Map" per la creazione dello Stato palestinese, affidando la
mediazione del processo di pace a un Quartetto composto da USA, Russia, UE
e ONU. Nel 2002, Israele cominciò a costruire un muro di separazione di
Israele dalla Cisgiordania, fortemente criticato dalla comunità internazionale
perché l'85% del tracciato correva all'interno del territorio palestinese.

In seguito alla morte di Arafat, leader dell'OLP e presidente dell'Autorità


Nazionale Palestinese, l'11 novembre 2004, si tennero nuove elezioni per la
presidenza dell’ANP, vinte dal moderato Mahmùd Abbas (Abu Mazen), che
assunse anche la presidenza dell'OLP.
Negli anni seguenti le frizioni interne al campo palestinese contribuirono ad
alimentare l’instabilità e la difficoltà nel raggiungere qualsiasi tipo di
compromesso. Nel 2006 Hamas vinse le elezioni nella Striscia di Gaza mentre
l’Autorità Nazionale Palestinese manteneva il controllo della Cisgiordania con
Abu Mazen presidente. Questa duplicità risulta disastrosa perché quando Abu
Mazen tentò la strada dell’accordo, Hamas bloccò tutto con la violenza.
L’anno seguente infatti, quando Abu Mazen e il Primo Ministro israeliano
Olmert tentarono di trovare un accordo per la liberazione dei territori occupati,
l’organizzazione islamica cominciò una serie di lanci di missili su Israele, con
il chiaro obiettivo di far saltare qualsiasi trattativa. In reazione a questi
continui attacchi, nel dicembre 2008 Israele scatenò una durissima offensiva
militare denominata "Operazione Piombo fuso". L'attacco provocò 1203
vittime tra i palestinesi - tra cui 450 bambini - e oltre 5000 feriti; mentre i

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Geografia economico politica Modulo 9° - Casi studio

morti dell'esercito di Tel Aviv furono 10 e 3 i civili. L'Onu ha condannato


l'aggressione con la risoluzione 1860 del 8 gennaio 2009.

Nonostante le pressioni internazionali, Israele non ha mai smesso di espandere


i propri insediamenti nei territori palestinesi occupati. Bisogna sottolineare
però l’ambiguità di una parte della comunità internazionale al riguardo: pur
spingendo pubblicamente per una risoluzione pacifica del conflitto, spesso
molti governi, tra cui l’amministrazione Obama, si sono tirati poi indietro al
momento di mettere in atto sanzioni nei confronti dello stato israeliano.
Dato lo stallo nel processo di pace dopo il fallimento dell'ultimo round di
negoziati diretti con Israele nel 2010, Abbas decise di cambiare tattica e
cercare di ottenere un più ampio riconoscimento internazionale dello Stato di
Palestina, così da mettere maggiore pressione su Israele. Per questo, nel
settembre 2011, sottopose al Consiglio di Sicurezza dell'ONU una richiesta di
ammissione della Palestina come Stato membro, ma la richiesta non ebbe
successo data la necessità del consenso degli Stati con diritto di veto nel
Consiglio, tra cui gli USA.

L'anno seguente, Abbas cercò quindi di ottenere dall'Assemblea Generale il


riconoscimento implicito della statualità della Palestina, chiedendo che lo
status di osservatore della Palestina all' ONU fosse trasformato da "entità" a
"stato non-membro". Questa volta la richiesta ebbe uno schiacciante successo,
con 138 Paesi a favore della risoluzione, 9 contrari (tra cui USA e Israele) e 41
astenuti. Per quanto largamente simbolico, il riconoscimento permetteva alla
Palestina di diventare membro di altre organizzazioni internazionali come la
Corte Penale Internazionale. Dopo un ulteriore riacuirsi delle tensioni, nel
2014 si arriva ad una tregua che, temporaneamente, sembra porre fine alle fasi
più cruente del conflitto, ma che lascia sul tavolo tutti i nodi irrisolti alla base.

Gli ultimi sviluppi sul piano internazionale non sembrano andare nella
direzione di una risoluzione pacifica né, tantomeno, di possibili passi in
avanti. Le affermazioni del presidente americano Trump sulla condizione di
Gerusalemme come legittima capitale dello Stato di Israele hanno scatenato
diverse proteste, scaturite spesso in scontri tra la popolazione palestinese e le
forze di polizia israeliane. Una situazione di tensione costante, che sembra
potersi riaccendere in ogni momento.

Sul terreno rimangono diversi nodi critici:

- Frontiere e status: ufficialmente non esiste un confine riconosciuto a livello


internazionale tra Israele e Palestina. Le frontiere sono oggetto di
contenziosi, come anche lo status della Palestina: alcuni governi la

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Geografia economico politica Modulo 9° - Casi studio

considerano uno stato indipendente, altri (tra cui Usa, Germania e Regno
Unito) un insieme di territori sotto l'occupazione israeliana.

- Territori occupati: secondo le ultime stime, 500 mila coloni israeliani


abitano la West Bank, in violazione della legge internazionale che
proibisce alle forze occupanti di muovere i propri cittadini nelle aree
invase.

- I profughi: sono 7 milioni circa. La Palestina chiede che sia concesso loro
di tornare nella terra che fu dei padri, nell'attuale Israele, e godere di pieni
diritti. Tel Aviv si oppone perché, nel caso in cui questo accadesse, la
popolazione ebraica sarebbe in netta minoranza.

- Gerusalemme: entrambe le parti considerano la città loro capitale. E la


disposizione stessa dei luoghi sacri, ebraici e musulmani, fanno sì che una
divisione della cosiddetta Old City scontenterebbe sia israeliani sia
palestinesi.

Di fronte a questo stallo, lo scenario più probabile resta allora quello di un


mancato accordo e, quindi, di un prolungamento della situazione attuale.
Meno probabile e non durevole sarebbe la soluzione di un accordo su un mini-
Stato palestinese indipendente, contiguo e vitale solo sulla carta e che
offrirebbe poche prospettive di futuro ai suoi abitanti e poca sicurezza al suo
vicino. Né l’una né l’altra sono vie di pace. Si tratterebbe piuttosto del
consolidamento di un sistema di dominio non molto diverso da quella che fu
l’apartheid sudafricana. Il termine ha destato scalpore quando l’ex presidente
americano Jimmy Carter lo ha usato nel suo primo libro sul conflitto israelo-
palestinese Palestine. Peace not apartheid (2006), ma non si saprebbe come
altro definire un sistema che applica, come già accade nei confronti dei coloni
israeliani e dei palestinesi, un diverso regime giuridico nello stesso territorio
in base all’appartenenza etnica, imponendo al secondo gruppo una serie di
limitazioni a libertà e diritti di cui gode invece pienamente il primo. Del resto,
nei territori ne esistono dei segni tipici, dalle carte d’identità a colori diversi ai
lasciapassare, dai permessi di soggiorno per i palestinesi di Gaza ‘non
residenti’ in Cisgiordania alle strade e superstrade riservate ai coloni e chiuse
agli altri, dal controllo dell’accesso ai centri d’istruzione superiore e ai servizi
medici e in generale alle proprie risorse, a cominciare dall’acqua fino alla
distruzione di abitazioni e alle deportazioni. Israele può disinteressarsene per
due ragioni. Può rivendicare un’anomalia in positivo nell’essere ancora una
democrazia di stampo occidentale che non trova eguali nella regione. Può
rassicurarsi pensando che, quale che sia l’atteggiamento della piazza araba,
nessuno è comunque pronto a scatenare guerre e a sfidare uno degli eserciti
più forti del mondo che è anche una potenza nucleare.
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Geografia economico politica Modulo 9° - Casi studio

9.2. Pace Etiopia-Eritrea

L'Etiopia è geograficamente lontana ma storicamente vicina all’Italia. Il


governo Crispi, alla fine del 1800, aveva individuato nell’Etiopia il paese
ideale da colonizzare e lì (ad Adua) l’esercito italiano ha subìto una delle più
grandi sconfitte. Ma tutto nasce dall’idea di colonialismo, dall’idea che un
paese grande deve avere delle colonie, perché tutti i territori occidentali erano
corsi ad occupare per sfruttare al massimo luoghi africani o asiatici.

L’Italia, la neonata, sgomitava per cercare di mettersi al tavolo con i grandi.


Dopo aver preso L’Eritrea e la Somalia, l’unico paese libero era l’Etiopia,
impero dignitoso ma povero, non certo un affare economico; non solo per le
risorse tutt’altro che abbondanti, ma anche per lo sforzo bellico e quindi
economico. Ma per il fascismo e Mussolini il paese del Corno d’Africa
significava lavare lo smacco subito quarant’anni prima, trovare uno sbocco
per i migranti italiani che a migliaia lasciavano il paese in cerca di condizioni
migliori e, soprattutto, una manifestazione di forza nei confronti degli altri
paesi europei.

Nonostante il regime, in milioni erano accorsi festanti e convinti della bontà di


quella operazione militare, e di ascoltare l’annuncio della conquista della
capitale Addis Abeba in soli sette mesi. Ma è stato poi così semplice arrivare
alla capitale Addis Abeba? Ed è stato poi agevole mantenere il controllo del
territorio? Sono state rispettate le regole non scritte che bisognerebbe
osservare durante un conflitto? Gli ultimi anni del regime fascista, culminati
con le leggi razziali, sono coincisi con gli anni di occupazione della Somalia e
i due destini sono inevitabilmente andati a braccetto, però anche quando il
fascismo era caduto ed era stato presentato il conto al nostro paese, nessuno si
era scandalizzato per quanto accaduto.

Il trattato di Parigi del 1947 ha continuato a favorire l’Occidente a discapito


delle ex-colonie. Guerra, colonialismo, sfruttamento e trattati di pace sono
stati, per anni, sinonimo di un condiviso sentire: decidere e disporre per chi
non è in grado di farlo. Ma, a dispetto di quelle decisioni, il cammino
dell’Etiopia è stato, negli anni, ancora lento e tortuoso. I provvedimenti subìti
nel 1947 hanno avuto poi un’eco negli anni per i destini di Etiopia ed Eritrea,
avvicinate sulla carta ma rimaste lontane nei fatti e, quindi, in guerra. Odio
che alimenta odio e che, solo ultimamente, sembra essere meno acceso, grazie
alla nomina di Abiy Ahmed come capo del governo etiope che ha inviato

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Geografia economico politica Modulo 9° - Casi studio

segnali di apertura nei confronti dell’Eritrea. Una scia di sangue che ha


accompagnato i destini di intere nazioni, tra un tentativo di accordo e un altro.

L’Etiopia (o Abissinia che era l’antico nome dell’odierna Etiopia), pur


essendo un paese debole, aveva comunque una sua antica storia ed era un
grande impero, in cui al proprio interno aveva diverse etnie: gli Oromo, gli
Amhara o Scioane e Tigrine (popolazioni musulmane e altre animiste). Fra la
metà dell’Ottocento e il 1930, venne nominato imperatore Haile Selassie.

Nei primi anni del novecento l’Italia provò a rientrare in scena con una
politica di riavvicinamento all’Etiopia da cui scaturì un Trattato di commercio
e amicizia, datato 21 luglio 1906. Questo accordo ebbe l’importanza politica
di costringere Francia e Inghilterra ad ammettere la presenza di interessi
italiani nella regione. In base a questo scenario, nel dicembre del 1906
Inghilterra, Francia e Italia firmarono il patto tripartito, per una eventuale
spartizione del territorio etiopico, nel caso in cui fosse scoppiato l’impero
africano, ma ciò non accadde. La propaganda fascista utilizzò la sconfitta
subìta ad Adua nel 1896, come una giustificazione all’occupazione in Etiopia
e, dopo anni, i capi del fascismo volevano una rivincita per recuperare l’onore
nazionale. Nel 1935/1936, Mussolini riuscì a far accantonare il patto del 1906,
riuscendo così ad ottenere mano libera in Etiopia. La scusa, che passerà alla
storia come la causa scatenante della guerra tra Italia ed Etiopia, fu l’incidente
ad Ual, il 5 dicembre 1934, ovvero lungo la linea di frontiera tra l' Etiopia e la
Somalia italiana, in cui ebbe luogo uno scontro armato che vide truppe
etiopiche attaccare il presidio italiano, occupato dalle truppe coloniali, per il
possesso della omonima località di confine.

Questo incidente poteva essere liquidato con una trattativa, ma fu invece


ingigantito dalla propaganda fascista che stava preparando l’invasione in
Etiopia, e divenne ufficialmente il casus belli che serviva al governo italiano
per giustificare la poi successiva aggressione in Etiopia. La storia del paese
dimostrò che l’Etiopia entrò in guerra con scarse speranze. Sul lato sinistro del
fronte settentrionale vi era Ras Imru; poi al centro operava Ras Mulughieta;
infine sulla destra c’era Ras Kassa. Dietro, a capo di tutti, vi era Haile Selassie
e loro agirono prima contro De Bono e poi contro Badoglio. Gli italiani inviati
in Africa a conquistare l’impero furono almeno 200.000, appoggiati da un
ulteriore contingente di circa 100.000 ascari (soldati indigeni) eritrei. Un posto
di rilievo fu assegnato anche alla milizia fascista, che inviò al fronte etiopico
almeno 50.000 volontari.

L’avanzata sul territorio etiope avvenne da due lati. Dall’Eritrea, sul fronte
nord, varcano la linea di confine tre corpi di armata, uno dei quali composto
da ascari, guidati da De Bono; dal fronte sud, sul confine con la Somalia
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Geografia economico politica Modulo 9° - Casi studio

italiana, le truppe sotto la guida di Graziani. Il fascismo si vantò di aver


conquistato in sette mesi l’Etiopia, dall’ottobre 1935 al maggio 1936. Le
operazioni militari della guerra fascista possono essere divise in tre fasi della
guerra italiana.

Nella prima fase alla guida delle forze italiane vi era Emilio De Bono, in cui
Mussolini si aspettava una vittoria che non ci fu; nella seconda fase ci fu la
sostituzione di De Bono con il generale Pietro Badoglio e la terza fase vide
Badoglio che riuscì ad ottenere lo sgretolamento delle linee avversarie
attraverso delle battaglie campali fino alla conquista di Addis Abeba.
Mussolini inviò il comandante De Bono (senatore e poi ministro delle
Colonie) in Eritrea con il compito di portare l’aggressione in Etiopia. Nel
momento in cui il comandante iniziò le operazioni per la conquista
dell’Etiopia decise di oltrepassare, il 3 ottobre, il Mareb (che segnava all’epoca
il confine tra Eritrea, colonia italiana, e l’impero etiopico) e ordinò ai tre corpi
di armata di iniziare il primo salto, il cui obiettivo era la linea Adigrat- Adua-
Axum. Il concetto di De Bono era di dirigersi contemporaneamente verso la
posizione Adigrat – Adua per essere pronti ad un eventuale attacco ma,
invece, le truppe italiane, il 15 ottobre, penetrarono nel territorio etiopico
senza alcuna resistenza da parte di essi. Nel frattempo sul fronte sud Graziani
era avanzato per modificare un vantaggio al confine. A metà ottobre, tanto a
nord quanto al sud, il primo salto era compiuto. Mussolini incitò i due
comandanti ad ottenere obiettivi più avanzati, ma si trovavano in situazioni
diverse, poiché Graziani era interessato ad un’offensiva strategica al fronte sud
(fronte secondario), ma aveva pochi uomini e mezzi a disposizione. Invece De
Bono aveva molti uomini e decise di rafforzarsi sulle proprie posizioni
aspettando le forze etiopiche per batterle. Mussolini sollecitò De Bono per la
conquista di Macallè. Il piano di De Bono era quello di far avanzare due corpi
d’armata su Macallè, ovvero il primo e il gruppo d’armata indigeno.
L’operazione iniziò il 3 novembre e la città venne occupata l’8 novembre.
Così facendo venne sbilanciato al sud, il lato sinistro dello schieramento
italiano. La guerra d’Etiopia, oltre ad aver avuto carattere fascista, fu una
anche una battaglia costosa, poiché il duce decise di non porre un limite alle
spese coloniali, tutto ciò per raggiungere i propri obiettivi di prestigio
internazionale e interno.

Sul fronte sud (somalo) vi era Rodolfo Graziani che, inizialmente, dovette
rimanere sulla difensiva, principalmente a causa della carenza di mezzi
necessari per poter lanciare l’offensiva. Graziani fu un generale particolare per
l’esercito italiano e fece la domanda per prestare servizio in Africa soprattutto
in Eritrea e poi in Libia e, proprio qui, dimostrò la sua spietatezza. Egli era un
uomo ambizioso, pieno di enfasi e popolare soprattutto tra i giovani. Il
Generale, sul fronte sud, temeva un’azione sul lato sinistro e alle spalle del
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Geografia economico politica Modulo 9° - Casi studio

suo schieramento da parte degli uomini di ras Desta. Di fronte a queste


difficoltà Graziani decise di eliminare la minaccia sul lato sinistro e, dopo aver
rafforzato Dolo, procedette alla presa di Neghelli, ma il vero obiettivo del
fronte sud era Harar. Inoltre, in questo scenario, furono utilizzate armi
proibite, come gli aggressivi chimici, anche se la convenzione di Ginevra (in
vigore dal 1928) vietava l’utilizzo di gas venetici.

Successivamente Mussolini invitò Graziani a muoversi verso Harar e,


nell’aprile, ci fu la battaglia dell’Ogaden. Ma il generale Rodolfo fu costretto
ad ammettere che, a causa della mancanza dei mezzi e di uomini, l’offensiva
strategica sul fronte sud non era possibile da realizzare, invece erano strumenti
necessari per un territorio desertico come quello dell’Ogaden.
Contemporaneamente a qualche successo sul fronte sud, la guerra andava
avanti sul fronte settentrionale. Nel frattempo Mussolini, dopo aver perso la
fiducia in De Bono, lo sostituì con Badoglio (era una figura che appoggiava il
regime) ed ebbe inizio la fase finale della guerra, ovvero lo sgretolamento
delle linee avversarie. Badoglio cercò di sconfiggere le truppe avversarie che
si trovava di fronte, intanto il negus lasciò la capitale dirigendosi verso nord.

Dallo scontro tra truppe italiane ed etiopiche nascono della grandi battaglie
che prendono il nome dei luoghi in cui furono combattute e in ognuna delle
quali fu sconfitto un gruppo. Come quella del Tembien, dove furono assaliti i
primi etiopi; poi quella dell’Endertà o dell’Amba Aradam. Successivamente
Badoglio lanciò la seconda battaglia del Tembien e, infine, con il conflitto
dello Scirè furono annientati tutti i ras. In seguito a queste vittorie, l’Etiopia
settentrionale non aveva più una protezione, infatti il fronte nord si liberò di
tutti i maggiori corpi etiopici, a parte quello del negus. Gli italiani si
organizzarono per l’assalto finale: il 24 aprile iniziò l’avanzata sulla capitale
che Badoglio volle chiamare “la marcia della ferrea volontà”, definita cosi
poiché durò dieci giorni, giorni di enfasi e di sforzi. La marcia fu organizzata
in tre colonne, ovvero un’autocarrata con tutti i corpi di tutte le armi
combattenti e due di truppe indigene, che vennero messe su tre strade parallele
dirette ad Addis Abeba. Il 2 maggio una colonna della brigata indigena era
arrivata sulle sporgenze della capitale, intanto il negus era fuggito dal paese.
Successivamente Mussolini e Badoglio concordarono sul fatto che non
potevano essere questi soldati africani ad entrare trionfalmente nella capitale
che, dunque, fu lasciata nel caos per tre giorni. Nei disordini di Addis Abeba
morirono 14 europei e 500 etiopici. Questa vicenda venne sfruttata dalla
propaganda fascista per sottolineare il fatto che l’Etiopia era barbara e in
grado di creare solo caos. Infine, il 5 maggio del 1936, Badoglio entrò nella
capitale etiopica. Mussolini e il fascismo avevano debellato Hailé Selassié e il
suo impero etiopico.

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Geografia economico politica Modulo 9° - Casi studio

Vittorio Emanuele III fu proclamato imperatore d’Etiopia. La sera del 9


maggio 1936, il Duce fece un discorso dal balcone di Palazzo Venezia per
annunciare che l’Italia aveva finalmente il suo impero. Ma la vittoria militare
e la proclamazione dell’impero non significarono la fine delle violenze in
Etiopia. Quella che è finita, con il 5 maggio, è soltanto la guerra dei sette
mesi, la guerra ufficiale, con i suoi 4350 morti e 9000 feriti e un costo di 40
miliardi di lire. Dopo quella, ebbe inizio una battaglia segreta. Addis Abeba
pur essendo occupata, era circondata da bande di resistenti etiopi molto
agguerriti ed organizzati. Dopo aver percepito il pericolo, Badoglio rientrò in
Italia e il comando passò a Graziani che, il 20 maggio, occupò la carica di
viceré d’Etiopia e governatore generale dell’AOI (Africa orientale italiana ).
In autunno Graziani mise in atto dei lavori di “grande polizia coloniale”, che
dureranno fino al 1937. Il 19 febbraio del 1937, due studenti eritrei, ferventi
anticolonialisti, lanciarono otto bombe a mano contro Graziani e altre autorità
italiane che si erano radunate per una cerimonia pubblica ad Addis Abeba.
L’attentato provocò sette morti e cinquanta feriti e Graziani, anche se ferito, se
la cavò, reagì ferocemente a quanto accaduto. La rappresaglia durò per tre
giorni e da Addis Abeba ci fu l’ordine di eliminare: alti notabili, religiosi,
cantastorie e indovini (che secondo il viceré diffondevano false notizie).

L’episodio più grave della pacificazione guidata da Graziani avvenne nel


convento sacro per i copti etiopici di Debrà Libanòs fra il 20 e 27 maggio
1937 in cui sterminarono tutti i monaci che furono accusati di aver protetto i
terroristi che avevano compiuto l’attentato a Graziani. Ma la repressione
condotta dal viceré non riuscì a dominare la situazione e dovette abbandonare
vasti territori. A causa della disastrosa situazione, Mussolini decise di
sostituire Graziani con il duca Amedeo di Savoia - Aosta, iniziando così una
nuova fase. Il Duca si rivelò più umano e annullò alcuni provvedimenti del
predecessore, ma mantenne l’utilizzo del gas fino al 1939. Intanto in Italia,
l’impero cresceva sia nella vita pubblica che nella propaganda del regime. La
guerra d’Etiopia fu il momento in cui si registrò l’apice del consenso al
fascismo fra le comunità italiane all’estero. Per tutto il tempo del conflitto,
andò in onda il notiziario radiofonico in sei edizioni giornaliere. Mentre al
cinema venivano proiettati i cinegiornali, che erano obbligatori per tutte le
sale. A grandi linee, la propaganda utilizzò soprattutto l’immagine che la
parola, a causa anche dell’alto tasso di analfabetismo nel paese.

Tra il 1935 e 1936 in Italia circolarono foto erotiche di donne africane.


L’Etiopia veniva descritta come un “paradiso sessuale” ovvero un luogo in cui
l’italiano avrebbe potuto soddisfare i propri desideri erotici. Le donne africane
venivano raffigurate con il seno nudo: la donna etiope non era una persona ma
un oggetto. Tra il 1935-1936 in Etiopia tra le truppe italiane, circolò un
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Geografia economico politica Modulo 9° - Casi studio

pacchetto di vignette satiriche. In questo materiale satirico, gli africani


venivano privati di qualsiasi umanità. Inoltre il fascismo ha potuto
sperimentare il peggio della sua dittatura proprio nel Corno d’Africa con
l’applicazione delle leggi razziali del 1937/38; agli etiopi non era concesso
alcun diritto e neanche ai tanti figli di bianchi italiani nati dall’unione con
donne etiopi che finivano negli orfanotrofi oppure abbandonati. Solo pochi
meticci venivano riconosciuti e potevano sperare in una vita migliore, mentre
alle donne africane era concessa solo la prostituzione. Venne anche abolito il
matrimonio misto (tra una donna etiope e un italiano) poiché il fascismo lo
giudicava dannoso per il prestigio dell’Italia imperiale.

La gloria dell’impero durò pochi anni perché Mussolini prese la decisione di


entrare, nel 1940, nella Seconda Guerra Mondiale accanto alla Germania di
Hitler e contro la Gran Bretagna, ma si dimostrò una decisione suicida. Dopo
soli quattro anni dalla proclamazione dell’Impero, arrivò un’altra guerra che
riaprì un nuovo conflitto nel Corno d’Africa. La cui conseguenza fu che
l’Italia perse tutte le sue colonie e senza alcun diritto su di esse. A guerra finita
le richieste di giustizia da parte dell’Etiopia sono rimaste inascoltate, nessun
italiano è stato messo sotto processo, neanche i maggiori responsabili di tanti
orrori come Graziani e Badoglio.

A sancire il destino delle ex colonie fu il trattato di pace di Parigi del 10


febbraio 1947 che impose il ritiro dell’Italia dall’Africa; la Somalia venne
affidata, nel 1950 dalle Nazioni unite, all’Italia come amministrazione
fiduciaria in vista della sua indipendenza nel 1960 e l’annessione dell’Etiopia
all’Eritrea e, da questa decisione, scaturì poi la famosa guerra tra i due paesi
nel 1998, nata soprattutto per contrasti territoriali. Le controversie sul destino
delle ex colonie italiane si mostrarono intorno all’Eritrea che, a causa della sua
posizione strategica sul Mar Rosso, era soggetta a varie attenzioni e dispute di
progetti. La risoluzione 390 (A) V dell’Assemblea Generale dell’Onu del 2
dicembre 1950 decise di dar vita ad una federazione tra Etiopia ed Eritrea. In
seguito ci furono le elezioni per l’assemblea costituente. La costituzione venne
approvata il 15 giugno 1952 dall’assemblea costituente eritrea. Il nuovo
governo istituito in Eritrea si sosteneva sull’alleanza tra Unionisti e il Partito
dei mussulmani Beni Amer, cedendo all’opposizione la Lega Musulmana che
era stata la maggiore sostenitrice dell’indipendenza. Ma il 14 novembre 1962
arrivò il fallimento della Federazione. La colpa di quanto accadde poi nel
1998 avvenne a causa della nascita di un nuovo stato nella zona del Corno
d’Africa che peggiorò i problemi già esistenti. Un esempio fu la guerra contro
lo Yemen del 1995 per il possesso delle isole Hanish (sotto la gestione delle
Yemen). L’Eritrea rivendicò le isole che erano considerate strategiche per la
loro posizione nel Mar Rosso. La risposta dello Yemen fu negativa e scoppiò
un conflitto che si risolse nel maggio 1996, grazie all’intervento di un arbitrato
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Geografia economico politica Modulo 9° - Casi studio

del Governo Francese che assegnò l’arcipelago allo Yemen. Nell’anno in cui
si risolse la controversia con lo Yemen, peggiorarono i rapporti con l’Etiopia
che finirono in una guerra. Prima di giungere allo scontro, il neo stato eritreo
ebbe degli ottimi rapporti economici con l’Etiopia, infatti l’Eritrea divenne lo
sbocco sul mare preferito dall’Etiopia con il porto di Assab. Le prime
avvisaglie di crisi tra i due paesi, si verificarono proprio su questioni daziarie
riguardo il porto di Assab. Il peggioramento dei rapporti tra Etiopia ed Eritrea
fece venir fuori il problema della definizione dei confini tra di loro e, tutto
questo, portò alla famosa guerra del 1998 a cui si susseguirono altri conflitti
ed altri morti.

Ad Algeri, il 18 giugno del 2000, venne firmato l’Agreement of Cessation of


Hostilities between Ethiopia and Eritrea che stabiliva il ritiro di tutti e due gli
esercizi, la creazione di una zona smilitarizzata di 20 chilometri proprio nei
territori contesi e lo sminamento delle aree di confine (Temporary Security
Zone – TSZ). Questo accordo rappresentò il primo passo verso la conclusione
pacifica del conflitto. La guerra si concluse con circa 150 mila morti. Il 31
luglio 2000 il Consiglio di Sicurezza accettò, in concordanza, la Risoluzione
1312 fondando The United Nations Mission in Ethiopia and Eritrea. Con la
Risoluzione 1320 del 15 settembre 2000 confermò la richiesta del
dispiegamento delle forze di Peacekeeping (sono operazioni volte al
mantenimento della pace, promosse e svolte sotto il controllo dell’Onu) nei
due paesi. Il 14 agosto 2002 ci fu la Risoluzione 1430 in cui il Consiglio di
Sicurezza decise di mutare il mandato dell’UNMEE per aiutare la Boundary
Commission (la Commissione del confine) e decidere sulla definizione del
territorio. Ma entrambi i paesi si mostrarono contrari alle decisioni prese dalla
Commissione la cui conseguenza fu la lentezza nella demarcazione del
confine e, quindi, si riaprì una nuova stagione di conflitti tra i due paesi
africani che continuarono fino al 2017.

Da oltre vent’anni i rapporti tra Etiopia ed Eritrea sono sempre stati


complicati. L’Eritrea ottenne l’indipendenza dall’Etiopia nel 1993.
Inizialmente i due paesi conservarono buoni rapporti ma, nel 1998, iniziò una
guerra per contrasti territoriali nella quale furono uccise oltre 150 mila
persone e molte famiglie furono obbligate a separarsi. Da allora i legami tra i
due paesi rimasero avversi. Solo recentemente qualcosa sembra essere
cambiata, grazie alla nomina a capo del governo etiope di Abiy Ahmed
all’inizio di aprile 2018 che ha inviato segnali di apertura nei confronti
dell’Eritrea. Abiy ha 42 anni ed è di etnia Oromo, ovvero il gruppo etnico
prevalente in Etiopia, ma anche il più emarginato. Il nuovo Primo Ministro ha
garantito la pacificazione interna e intende istituire anche riforme nel settore
economico. Nel giugno 2018, Abiy ha dichiarato che il suo governo avrebbe
lasciato perdere le rivendicazioni territoriali che erano state la causa dello
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Geografia economico politica Modulo 9° - Casi studio

scoppio della guerra tra i due paesi. Questo ha avvicinato i due governi e
facilitato l’intesa. Con le recenti visite di una delegazione eritrea ad Addis
Abeba e del Primo Ministro etiopico Abiy Ahmed ad Asmara si completa il
processo di riavvicinamento fra Eritrea ed Etiopia, avviato alcuni mesi fa con
l’accettazione da parte etiopica dei confini decretati dall’Eritrea – Ethiopia
Boundary Commission dopo l’accordo di Algeri del 2002. Ci sono volute
poche settimane per arrivare alla dichiarazione di pace che ha portato alla fine
dello “stato di guerra” che da vent’anni turbava le relazioni fra Etiopia ed
Eritrea. Attraverso un incontro avvenuto il 9 luglio 2018 ad Asmara, i leader
di Etiopia ed Eritrea, Abiy Ahmed e Isaias Afwerki, hanno dato vita ad un
cambiamento radicale dei rapporti fra i due paesi.

L’accordo di Asmara si incentra su due punti: la conclusione dello stato di


guerra e l’inizio di una nuova fase di pace e amicizia; ambedue i paesi
lavoreranno per sostenere una cooperazione politica, economica, sociale,
culturale e nel campo della sicurezza. Una prima conseguenza dell’accordo
firmato il 9 luglio è la riapertura dei voli commerciali, dopo vent’anni di
fermo, fra i due stati africani. Questo porterà anche alla riunificazione delle
numerose famiglie separate a causa dello scontro. Ma ci sono anche voci di
dissenso. Alcuni luoghi della diaspora eritrea evidenziano la mancanza,
considerati i colpevoli dei morti durante la guerra di confine (1998 – 2000) e
di tutti coloro che perdono la vita fuggendo dall’Eritrea mettendosi nelle mani
di trafficanti. La loro pretesa è che l’Eritrea diventi uno stato costituzionale,
che tuteli i propri cittadini. Anche in Etiopia, la riconciliazione e il programma
progressista di Abiy Ahmed potrebbero trovare delle resistenze. Con gli ultimi
eventi diplomatici si potrebbe modificare, in maniera definitiva, la mappa
geopolitica del Corno d’Africa e dell’Africa Orientale.

9.3. Stato islamico

Lo Stato islamico (ISIS) è il territorio nel quale è riuscito a dominare


l’omonimo gruppo islamista radicale, insediato principalmente in Siria e in
Iraq. I successi dell’ISIS hanno permesso di implementare in questi luoghi un
proto-stato. Numerosi fattori come: le vittorie accumulate in zone dell’Iraq e
Siria; il potere economico ed il crescente numero di seguaci e jihadisti
combattenti, hanno portato molti attori a collocare l’ISIS come un nemico,
mentre per altri, che concepiscono un mondo radicalizzato, viene visto come
un esempio da seguire. A differenza delle altre organizzazioni terroristiche,
l’ISIS è riuscita a controllare un vasto territorio con una sua economia,
organizzazione ed armi proprie.

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Geografia economico politica Modulo 9° - Casi studio

L’espansione e il radicamento dello Stato islamico sono dovuti soprattutto alle


frammentazioni e alla debolezza dei paesi nel Medio Oriente. Questa divisione
è legata sia a conflitti religiosi interni ma anche alle guerre provocate da
interventi esterni. Un esempio fu l’invasione dell’Iraq da parte di una
coalizione multinazionale guidata dagli Stati uniti d’America, il cui scopo era
di abbattere il regime di Saddam Hussein, e anche il recente intervento in
Libia da parte di una colazione internazionale che aveva come obiettivo la
distruzione del regime di Muhammar Gheddafi.

L’ISIS opera principalmente in Medio Oriente, ma con i suoi seguaci si è reso


protagonista anche di attacchi terroristici in Europa, Africa, Russia e Usa.
Negli anni ottanta nacque, come risultato tra la Jihad Afghana contro l’Unione
Sovietica, Al Qaeda (un’altra organizzazione terroristica guidata inizialmente
da Osama Bin Laden). Anni dopo, Abu Musab Al Zarqawi, il fondatore
dell’ISIS che nel 2006 morì in un raid aereo americano, combatté contro i
sovietici e fondò un’ organizzazione alternativa, ovvero “ Jamaat al-Tawhid
wa-l-Jihad” (JTWJ). Vi è una differenza tra Isis e Al Qaeda: lo Stato islamico
si concentra sull’attacco al nemico vicino, rappresentato dai governi infedeli
che non impongono la sharia nei loro paesi del Medio Oriente; mentre
dall’altra parte, Al Qaeda si concentra sull’attacco al nemico lontano, ovvero
Stati Uniti ed i suoi alleati.

L’acronimo ISIS sta per “Islamic State of Iran and Al Shām” e ha incluso
quei territori che vanno tra Siria e Iraq sunnita. “ Al Shām” è la parola che
comprende tutta la zona tra Siria, Libano, Israele, Palestina e Giordania. Ma vi
è anche un secondo nome (meno conosciuto) che indica il gruppo dei
combattenti come ISIL (the Islamic State of Iraq and the Levant), che
controlla quei luoghi che si dispongono da Raqqa a Tkrit, Ramadi e Mosul.

Le origini dell’ISIS hanno avuto inizio con la guerra irachena, soprattutto


dopo l’intervento degli Usa nel 2003 e la caduta di Saddam Hussein, fatti che
hanno marchiato una guerra interna tra le due correnti islamiche sciita e
sunnita. Attraverso un conflitto religioso e civile, che non si ferma solo in Iraq
ma che si estende a tutto il Medio Oriente, i miliziani di Zarqawi hanno
diffuso la loro vicinanza ad Al Qaeda. In questo primo periodo il fondatore
dell’ISIS, Al Zarqawi, reclutò sunniti iracheni contro gli sciiti, scatenando
delle violenze settarie di massa e lanciando brutali tattiche jihadiste e lotte
apocalittiche. La parola “ Jihad” significa “ lotta”, sia internamente che
esternamente, e fornisce una vibrante identità globale ed un senso di
solidarietà al fine di attuare l’unità.

Dopo la morte di Al Zarqawi si assistette all’ascesa di un protagonista


carismatico, ovvero Abu Bakr al Baghdadi, che intuì a partire dal 2012
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Geografia economico politica Modulo 9° - Casi studio

un’opportunità concessa dall’indebolimento dello stato siriano, inviando così i


propri uomini a combattere a Damasco. L’ISIL conquistò le regioni orientali
del paese al fianco di altre organizzazioni jihadiste e nacque l’alleanza con il
Fronte Al Nusra (la filiale siriana di Al Qaeda). Ben presto però i due gruppi
entrarono in conflitto, a tal punto che tra loro prevalse l’ISIS che avanzò sia in
Siria che in Iraq, stabilendo un totale controllo militare e para-statale nei
territori occupati: Raqqa in Siria e in seguito Mosul, Ramadi, Falluja e gran
parte della provincia sunnita dell’Al Anbar in Iraq. Inoltre la caduta di
Gheddafi ha portato, oltre che al collasso dello stato libico, anche
all’espansione dell’ISIS in Nord Africa.

Il 29 giugno 2014, diverse fazioni jihadiste che avevano già operato in Libia,
decisero di giurare fedeltà ad Al Baghdadi, portando così alla creazione in
Libia del califfato islamico. Alla fine del 2016 le forze degli Stati Uniti e del
Governo di Accordo Nazionale Libico hanno liberato dallo Stato islamico la
città libica di Sirte (roccaforte dell’ISIS in Libia).

Il regime ha causato: alta disoccupazione, società stagnanti, sistemi sociali


ingiusti, il beneficio dei dittatori nazionalisti e, infine, anche un
peggioramento delle condizioni di vita. L’ISIS è diventato il gruppo militante
islamista più potente, ricco e anche finanziariamente autosufficiente,
conquistando pure migliaia di giovani di mezzo mondo in cerca di una ragione
per vivere e morire. Lo Stato islamico si auto sostiene vendendo petrolio
(contrabbando) ai paesi sotto embargo e alla Turchia. Altri fattori chiave
dell’economia dell’ISIS sono i saccheggi, le multe e le espropriazioni.

Il compito dell’ISIS è di reclutare adepti e seguaci, grazie alla capacità


mediatica e attraverso la produzione di giornali specifici e video di alta
qualità, nonché l’utilizzo di social network e tecnologie. Il successo nell’
arruolamento dei seguaci si può attribuire al fatto che lo Stato islamico offre
benefici mondani, ossia un salario mensile solido, terre per i maschi e la
poligamia. I giovani che hanno lasciato le proprie case con lo scopo di andare
a combattere per i gruppi terroristici in Siria, provengono principalmente da
ambienti svantaggiati, con livelli bassi d’istruzione e che non hanno una
conoscenza di base del vero significato della jihad o, addirittura, della fede
islamica stessa.

Gli attentati più gravi che sono stati attribuiti allo Stato islamico sono quello
di Parigi del 7 gennaio 2015, quando due miliziani del califfato penetrarono
nella sede del giornale satirico Charlie Hebdo, uccidendo dei redattori in
risposta ad alcune vignette satiriche su Maometto. Sempre a Parigi, un
commando dell’ISIS entrò in azione nella sera del 13 novembre 2015, in cui
vennero attaccati il teatro Bataclan, lo Stade de France e anche diversi locali
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Geografia economico politica Modulo 9° - Casi studio

affollati. A fine giornata si contarono circa 130 vittime. Il 22 marzo 2016,


l’ISIS colpì nuovamente ma a Bruxelles: un kamikaze si fece esplodere
all’interno dell’aeroporto mentre un altro assalì una stazione della
metropolitana della capitale belga. Pochi mesi dopo a Nizza, durante i
festeggiamenti del 14 luglio, un tunisino alla guida di un tir si fiondò sulle
persone inermi uccidendo più di ottanta persone. Ma l’ISIS non colpì solo in
Europa: il 15 marzo 2015, in Siria, toccò al museo del Bardo e, pochi mesi
dopo, a Susa. Con il passare del tempo i capi dell’ISIS hanno smesso di
coordinare gli atti terroristici in Europa, lasciando carta bianca ai lupi solitari e
alle cellule autonome.

Il 2017 rappresenta l’anno dell’indietreggiamento militare per l’ISIS, perse il


70% dei suoi territori in Siria. Le forze armate del governo recuperarono in tre
mesi gran parte del deserto e dopo la caduta di Raqqa nelle mani delle SDF
(Syrian Democratic Forces). Di fatto lo Stato islamico in Siria venne distrutto.
Ma permangono ancora due sacche nella provincia di Deir Ezzor ed al confine
con l’Iraq. Il califfato che controllava un territorio esteso quanto il Belgio,
ormai non esiste più. L’ISIS ha perso il 98% del proprio territorio, tra cui le
sue due roccaforti, ovvero Raqqa e Mosul. Il crollo del proto-stato in Iraq e
Siria non significa necessariamente la fine dell’ISIS come organizzazione
terroristica. Intanto nelle città irachene e siriane si sono create delle comunità
di potenziali terroristi che cercheranno sicuramente di condurre attacchi folli
in collegamento con quel che resta della cupola dello Stato islamico.

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BIBLIOGRAFIA

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Arab 6. Spring. Contemporary Arab Affairs, 8, no. 2 (2015): pp. 239–251.

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