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Geografia dello sviluppo – Bignante, Celata, Vanolo

GEOGRAFIA DELLO SVILUPPO


BIGNANTE – CELATA - VANOLO

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1 Capitolo primo – Una breve introduzione all’analisi geografica

1.1 La geografia fra descrizione e spiegazione

La geografia si è sviluppata nei secoli da un lato come scienza della


rappresentazione cartografica e dall’altro lato come scienza della scoperta. In
entrambi i casi è l’anima descrittiva della geografia a essere stata privilegiata.
Fino al Settecento il geografo continuava a essere identificato con l’ingegnere
topografo o con il cartografo. La cartografia sembrava sufficiente a rispondere a
quello che per lungo tempo rimase il principale problema della disciplina: ordinare
il sapere geografico. E così la geografia si è focalizzata a lungo sulla dimensione
descrittiva dei fenomeni senza addentrarsi in un’analisi critica incentrata sugli
esisti prodotti dalla localizzazione e dalla distribuzione spaziale dei fenomeni. Ciò
equivaleva ad affermare implicitamente che l’ordine geografico delle cose altro
non era che il risultato imprevedibile dei capricci della storia e della natura.
Quello che caratterizza oggi la geografia come disciplina è il tentativo di accostare
la descrizione e la rappresentazione di luoghi e fenomeni alla spiegazione delle
ragioni e degli esiti della loro ubicazione in un determinato luogo: ci si domanda
quali ragioni determinino la localizzazione e quali effetti economici, politici, sociali
essa produca. Il tentativo è spiegare ciò che prima era interpretato come esito più
o meno casuale di leggi e processi naturali.
Negli ultimi anni sono stati maggiormente enfatizzati gli aspetti esplicativi, teorici e
critico-riflessivi insiti nel sapere geografico. Allo studio della terra nella sua
dimensione fisica, si sostituisce lo studio del territorio e dei processi sociali ed
economici che danno forza alla geografia dei luoghi. La differenza fondamentale
tra la geografia tradizionale e quella pratica a partire dalla metà del XX secolo stia
nel fatto che mentre la prima si occupava soprattutto di rappresentare la
distribuzione degli elementi nello spazio, quella odierna è maggiormente
interessata a studiare la complessità dei processi che determinano tale
distribuzione.
L’oggetto d’indagine della geografia è rimasto sempre lo stesso, sin dai tempi di
Eratostene, inventore della parola geografia: come sottolinea la definizione
etimologica, si tratta della pratica di “scrittura”, ossia di descrizione, della Terra.
Tuttavia l’oggetto della geografia e i suoi metodi tendono a sfuggire a ogni
inquadramento: poiché il rapporto fra l’essere umano e Tessa è in costante
evoluzione, non esiste una singola pratica geografica. Si usa suddividere la
geografia in alcune branche distinte:
1. Geografia fisica considera la geografia come una scienza della Terra,
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concentrandosi sui problemi fisici che investono la geosfera.


2. Geografia umana si colloca fra le scienze sociali e si concentra sullo
studio dei processi che danno
forma alle società umane nello spazio terrestre, focalizzandosi sulle varie
componenti umane.

1.2 Spazio e relazioni

Concetto centrale per la geografia è lo spazio e la comprensione del rapporto fra lo


spazio e i fenomeni osservati. L’analisi dello spazio ha avuto tradizionalmente un
carattere sistemico riguardante la localizzazione degli oggetti geografici, e in
particolare la loro collocazione in relazione a un sistema di coordinate e la loro
distanza reciproca. Nell’ottica della classificazione della posizione degli oggetti
terrestri nello spazio, i principali strumenti conoscitivi erano le carte geografiche,
e agli occhi di molti la geografia si caratterizza proprio come la pratica di
catalogazione, enumerazione e denominazione dei vari elementi sulla superficie
terrestre.
Questa concettualizzazione dello spazio come sistema di distanze, coordinate e
locazione è nota come spazio assoluto. Questa concezione dello spazio non è
priva di problematiche, poiché nella realtà dei fatti qualsiasi spazio è molto meno
“assoluto” di quanto si potrebbe immaginare. Poiché la superficie terrestre è
sferica, la sua raffigurazione su un piano implica un processo geometrico di
adattamento chiamato proiezione che produce inevitabilmente distorsioni nella
dimensione delle aree e della distanza: è possibile produrre mappe tra di loro
molto diverse.
Lo spazio appare poi ancora meno “assoluto” se s’introducono ulteriori elementi,
per esempio metodi di considerare la distanza: la distanza chilometrica per molti
fenomeni è poco significativa rispetto a quella intesa e misurata in termini di tempi
di percorrenza o costi di trasporto.
È importante sottolineare come in una prospettiva geografica l’oggetto di
osservazione non siano tanto singoli elementi presi nella loro individualità, bensì le
relazioni che li legano fra loro e alla superficie terrestre.

Lo spazio geografico è fatto di relazioni. Si possono distinguere due tipologie di


relazioni:
1. Le relazioni orizzontali interazioni spaziali, prendono forma fra i vari
oggetti geografici localizzati nei diversi punti dello spazio geografico.
Rientrano in questa categoria le relazioni di scambio e di circolazioni di
merci.
2. Le relazioni verticali riguardano invece il rapporto fra i singoli oggetti
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geografici e le caratteristiche
dei luoghi in cui si localizzano. Si tratta della relazione fra pratica agricola
e caratteristiche del clima e del suolo.

Lo spazio geografico è costituito da complessi intrecci di relazioni orizzontali e


verticali.
1.3 Spazio e luogo

Strettamente collegato al concetto di spazio è quello di luogo, inteso come una


particolare porzione della superficie terrestre caratterizzata da specificità che la
rendono diversa da altri luoghi. È una prospettiva assai differente rispetto a quella
dello spazio assoluto, poiché non si fa riferimento solamente alla posizione delle
cose, ma a tutte le caratteristiche che rendono uno spazio differente da un altro.
Si tratta di uno dei concetti più intuitivi della geografia: è comune intendere i
movimenti nel nostro spazio quotidiano articolati in una serie di luoghi distinti
localizzati qua e là. Ci sono molteplicità di modalità differenti attraverso le quali si
può intendere un luogo e il modo con il quale i luoghi influenzano la nostra
esperienza del mondo.
Il luogo è solitamente inteso come uno spazio di dimensioni assai variabili. I confini
che delimitano i luoghi possono variare significativamente: possono essere confini
naturali, politici, culturali, linguistici. Ciò che è significativo è che gli individui creino
particolari legami e attribuiscano significati, molto spesso soggettivi, individuali e
effettivi a determinati luoghi.
La variabilità dei possibili significati associati ai luoghi ne rende difficile la
misurazione e mappatura, ed è per questa ragione che è possibile praticare molte
geografie differenti per uno stesso luogo.
Per esempio: Roma può essere un luogo ci divertimento per il turista, un luogo di
speranza per i migranti, un luogo sacro per un cattolico.
La sensibilità per la molteplicità dei diversi significati e delle diverse costruzioni sociali di
un luogo costituisce un primo passo per la pratica geografica.

1.4 Territorio e regione

I luoghi sono prodotti a partire dal rapporto fra spazio e individuo: sono i gruppi
umani a riconoscere determinati spazi come luoghi, a investirli di valori culturali e
simbolici. Quando questo processo riguarda uno specifico gruppo umano si usa
normalmente il concetto di territorio. Luogo e territorio sono spesso usati come
sinonimi: tuttavia parlando di territorio si pone l’accento sulla dimensione politica,
chiamando in causa il potere di controllare e organizzare lo spazio geografi da
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parte di determinati soggetti. Per esempio: il termine territorio è normalmente


utilizzato con riferimento all’organizzazione dello Stato. Ma la territorialità umana
non si riferisce solamente agli Stati: il “nazionalismo metodologico” è uno dei limiti
principali che i geografi rimproverano alle altre scienze che si occupano di spazio.
Concetto utile a definire la natura contestuale e multi-dimensionali dello spazio
geografico è quello di regione: si definisce regione una porzione contigua di spazio
caratterizzata da una proprietà comune che la rende distinta dai territori
circostanti. Si può trattare di una caratteristica fisica, amministrativa, economico-
funzionale o di una presunta caratteristica indentitario-culturale. Un esempio di
ragione naturale sono le Alpi, un esempio di regione economico-funzionale sono le
Langhe, ma una ragione può anche avere al proprio interno più proprietà comuni,
le Dolomiti che sono una regione naturale, culturale, economico-funzionale.

1.5 Ambiente

La geografia si è largamente occupata del rapporto fra ambiente naturale e attività


umana. Il determinismo ambientale guardava a questo rapporto nei termini di uno
stretto collegamento causa-effetto, assumendo cioè che la geografia fisica dei
luoghi potesse influenzare i comportamenti e le pratiche umane di relazioni
verticali. Rientravano in questa categoria argomentazioni logiche che
individuavano alla base della povertà e del sottosviluppo di determinate aree del
mondo diversi situazioni ambientali.
Oggi si tende ad enfatizzare relazioni verticali in direzione opposta: in che modo
l’umanità influisce sull’ambiente naturale attraverso trasformazioni territoriali, lo
sfruttamento del suolo, l’inquinamento. Il rapporto fra ambiente e geografia appare
cruciale con riferimento a una grande quantità di tematiche che hanno a che fare
con la sostenibilità, il cambiamento climatico.

1.6 Aree e reti

Non vi è un’unica concettualizzazione di spazio, e come sia possibile misurarlo,


identificarlo e rappresentarlo in molte forme differenti. La distanza può essere
misurata in termini di tempi di percorrenza o di costo del viaggio, e in questo
senso si possono ottenere rappresentazioni cartografiche apparentemente
eccentriche; shrinking Europe rappresenta la riduzione delle distanze prevista in
Europa come conseguenza della realizzazione di linee ferroviarie ad alta velocità.
Esistono infinite possibilità di rappresentazione dello spazi, ma è importante
sottolineare la distinzione fra due logiche contrapposte assai differenti fra loro,
topografiche e topologiche. Esse non esauriscono l’universo delle possibili logiche
di concettualizzazione dello spazio, ma ne costituiscono le due tipologie
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probabilmente più importanti.


Lo spazio topografico è quello alla base delle rappresentazioni più tradizionali e
intuitive, e ha a che fare con una concezione lineare della distanza. Lo spazio
topologico ha a che fare con la distanza fra i punti, la loro posizione relativa e le
aree in cui è possibile ripartire il territorio.

Supponiamo d’immaginare una rappresentazione dello spazio in cui non è la


distanza o la posizione assoluta a costruire l’elemento cardine, quanto le relazioni
e le connessioni. Per esempio una mappa di un sistema di linee metropolitane. È
evidente come la distanza fisica fra le varie stazioni della metropolita dia
ininfluente, ed è per questa ragione che essa non è nemmeno presa in
considerazione all’interno della rappresentazione. Quello che conta, nel muoversi
in metropolitana, sono i nodi e le connessioni, il numero di fermate e la possibilità
di cambiare in determinate stazioni. Tale rappresentazione si chiama topologica e
si pone alla base della concezione reticolare dello spazio.
È importante sottolineare come lo spazio in senso stretto non sia né areale, né
reticolare, né topologico, né topografico; quello che cambia è la logica che
utilizziamo per rappresentarlo. La rete costituisce una modalità molto particolare
per la rappresentazione di una molteplicità di fenomeni geografici. Parlando di rete
in geografia si fa essenzialmente riferimento a una struttura spaziale costituita da
nodi, che rappresentano particolari luoghi o entità localizzate, collegati da una o
più tipologie di connessioni.
Nel 1996 Castells sosteneva che le reti rappresentano la nuova morfologia sociale
del mondo.

1.7 La scala geografica

I fenomeni sono analizzati utilizzando livelli d’osservazione differenti, spesso in


relazione reciproca fra loro. La geografia può pertanto utilizzare il proprio
linguaggio a livelli di analisi differenti, studiando inoltre le relazioni fra i vari piani di
osservazione.
Il concetto di scala si riferisca proprio alla strutturazione di più “livelli”
nell’organizzazione, nell’esperienza e nella rappresentazione dei fenomeni
geografici. Nello specifico, si distinguono due accezioni differenti del termine.
La prima si riferisce alla scala “cartografica”, ossia al livello di riduzione sul quale si
basa una rappresentazione topografica. Si tratta di un rapporto geometrico fra lo
spazio nella rappresentazione e le reali dimensioni dello spazio geografico: una
scala 1:50.000 significa che un centimetro sulla carta corrisponde a mezzo
chilometro nello spazio reale. Un livello di osservazione molto dettagliato conterrà
molte informazioni, a spese però delle dimensioni dell’area considerata, mentre un
livello molto generale permetterà di avere un quadro generale, seppur
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relativamente poco dettagliato.


Un differente concetto è la scala “geografica”. Si tratta del livello concettuale
utilizzato nell’applicazione degli strumenti dell’analisi geografica, ossia della

prospettiva interpretativa considerata; un geografo potrà assumere una prospettiva


urbana, regionale, continentale o globale, oppure numerose altre scale intermedie.
A scelta di una prospettiva rispetto a un’altra non implicherà solamente la perdita
di dettagli in favore della ricostruzione del quadro generale, in quanto esistono
fenomeni osservabili solamente a determinare scale geografiche.
Anche le scale geografiche sono prodotte dall’azione umana e pertanto soggette a
modifiche nell’uso e nel significato: l’utilizzo della scala nazionale per descrivere i
fenomeni mania quello che precedentemente è stato definito nazionalismo
metodologico. Le scale geografiche sono prodotte dalla politica,
dall’organizzazione dei poteri, dalla strutturazione dei fenomeni.

L’articolazione delle scale geografiche indicata con una serie di aggettivi posti in
successione logica.
L’elenco delle possibili scale è pressoché infinito, come infinite sono le modalità di
ripartizione e organizzazione dello spazio terrestre. Nessuna di queste scale si
riferisce a una precisa dimensione in termini chilometrici, quanto a differenti livelli
d’osservazione. In generale, nei discorsi geografici, due scale assumono una
particolare importanza. La prima, globale, si riferisce al livello planetario.
All’estremo opposto, la scala locale viene solitamente utilizzata in
contrapposizione alla scala globale. Si tratta innanzitutto della scala della
socializzazione. Il concetto di “locale”, tuttavia è adimensionale, ossia non fa
riferimento a una precisa estensione territoriale e si definisce spesso in relazione a
fenomeni che prendono forma a un livello superiore, tendenzialmente globale. Con
ambito locale si può indicare un piccolo paese, analizzato rispetto alle grandi
trasformazioni dell’economia globale, ma anche una regione funzionale o uno
Stato. La dialettica fra la scala locale e quella globale, ossia le connessioni fra
processi globali e forze locali, costituisce un tema tipicamente geografico: si tratta
di relazioni spesso complesse e non-lineari.

1.8 Rappresentazioni

La geografia è essenzialmente tesa alla costruzione di rappresentazioni e


interpretazioni dei fenomeni nello spazio terrestre. Le rappresentazioni
geografiche possono assumere una quantità di forme differenti, come quelle
cartografiche, testuali, fotografiche e cinematografiche, quantitative.
Nessuna rappresentazione, in nessuna scienza sociale, è mai neutrale. Ogni volta
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che si osserva un fenomeno sociale intervengono sempre elementi soggettivi che


rendono impossibile una rappresentazione universale e sempre “vera”.
Immaginiamo di dover disegnare una carta: una carta corretta potrà essere fedele
alle distanze e riprodurrà in scala i vari elementi di un territorio. A determinare
scale cartografiche, strade e fiumi dovranno essere rappresentati con simboli

convenzionali di dimensioni superiori alla loro reale dimensione in scala, altrimenti


risulterebbero invisibili. Si sceglieranno in modo relativamente libero i colori e le
loro sfumature. In pratica, saranno necessarie molte scelte soggettive che non
renderanno mai strettamente “esatta” la rappresentazione in senso
epistemologico, cioè dal punto di vista scientifico.

Si potrebbero dunque obiettare che una fotografia satellitare è sempre


oggettivamente uguale alla realtà che rappresenta. Ma, anche in questo caso, la
verità è più complessa. Anche le fotografie implicano scelte soggettive: cosa
includere o cosa lasciare ai margini; inoltre inquadrare un soggetto dall’alto
determina un senso di schiacciamento e oppressione, mentre dal basso la figura
risulta più slanciata e potente. Ma nessuna delle due foto è “falsa” o “vera” in
senso stretto.
Anche la rappresentazione testuale risente più che mai di scelte soggettive. A
seconda della scelta delle parole e della costruzione del discorso si può
comunicare contenuti molto differenti fra loro.
Anche le rappresentazioni oggettive basate su dati statistici non sono esenti da
questi limiti. La scelta degli indicatori, dei metodi di misurazione implicano
soggettività e scelte di campo molto ampie.
Esempio: l’affermazione “l’Italia uno stivale” può essere considerata vera? Potrà
essere vera all’interno di una lezione nella scuola primaria, sarà falsa per un
cartografo. Non è particolarmente utile per i nostri scopi interrogarsi sulla sua utilità
sul tipo d’interpretazioni che può supportare. Così l’Italia è uno stivale è una
rappresentazione metaforica molto utile per comunicare con facilità a un bambino.
Nel costruire determinate rappresentazioni geografiche sceglieremo di tralasciare
alcuni elementi ed evidenziarne altri, in modo da semplificare il quadro
interpretativo.
La natura parziale e soggettiva di qualsiasi rappresentazione può anche essere
opportunamente manipolata a scopi politici, anche perché la descrizione
geografica, a differenza delle descrizioni fornite da altre scienze di tipo
sperimentale i critico, viene più facilmente considerata “vera” perché fa
apparentemente riferimento a una realtà oggettiva e direttamente osservabile,
ossia lo spazio geografico.
Esempio: il conflitto in Angola ha visto come protagonisti da una parte UNITA e
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FNLA supportati da USA, dall’altra MPLA supportato dall’URSS. La scelta della


scala, dei colori, delle ombreggiature e della dimensione delle frecce consente di
comunicare due sensazioni opposte: nell’immagine di sinistra, favorevole all’USA,
il MPLA appare circondato e stretto in una morsa, mentre nell’immagine di destra il
MPLA pare assai meno costretto e in espansione. Le rappresentazioni geografiche

hanno molto a che vedere con la politica.


La scelta di manipolare gli elementi al centro della rappresentazione di un luogo
diviene esplicita nei materiali di marketing territoriale. Si tratta di eliminare dalla
rappresentazione di un luogo tutto ciò che risulta sgradevole per esaltare alcuni
stereotipi, elementi piacevoli, richiami per turisti/uomini d’affari. Le
rappresentazioni geografiche hanno una natura performativa: una
rappresentazione, anche palesemente falsa, tende a produrre effetti reali.
Esempio: un quartiere della città viene continuamente rappresentato nei media
come marginale e pericoloso, esso sarà sempre meno frequentato e tenderà a
diventare sempre più marginale e pericoloso.

1.9 Attori e territorio

I cosiddetti “attori” sono i protagonisti dei fenomeni sociali e territoriali: si tratta di


soggetti capaci di agire in maniera interdipendente e di operare delle scelte, una
facoltà nota nel dibattito internazionale come agency, capacità di azione.
Le azioni cui si fa riferimento delle scienze sociali, e quindi nella geografia umana,
riguardano i fatti sociali, ossia tutti i fatti che hanno una qualche influenza sul
comportamento di altri individui e sulla società nel suo complesso.
Qualsiasi fenomeno sociale prende forma attraversi le azioni, la razionalità e la
volontà di una moltitudine di attori.
Il legame fra attori sociali e spazio geografico può essere inteso in almeno due
direzioni:
1. Tutti i fatti sociali prendono sempre forma nello spazio geografico, e quindi
ne sono profondamente influenzati
2. Il territorio è prodotto dagli attori che vivono e lavorano in quel luogo: sono
le loro azioni che rendono viva o morta una determinata città, che
imprimono determinate caratteristiche a quello spazio, che permettono la
riproduzione di specifici tratti culturali e così via. Sono i vecchi abitanti di
una città ad aver costruito strade ed edifici, e quelli di oggi decidono se
distruggerli. Sono gli attori di un territorio a scegliere le strategie di sviluppo
economico di un determinano luogo.
Analizzare questi fenomeni non è compito semplice:
1. Attori diversi hanno un contenuto di potere e una capacità di azione assai
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differente. Gli abitanti di una città possono essere considerati attori


importanti, ma la loro posizione di potere non è paragonabile a quella di
attori privilegiati, come il sindaco. L’analisi geografica deve essere attenta
non solo a descrivere il rapporto fra attori e spazio geografico, ma anche le
differenti geometrie di potere alla base della struttura socio-spaziale di un
territorio.

2. Riguarda la constatazione di come una gran parte dei fenomeni sociali ed


economici si strutturi su reti tendenzialmente sovra-locali, se non globali.
Esempio: con la chiusura di un impianto industriale in una città italiana, ci si
chiede chi sono gli attori che hanno partecipato alla composizione di questo
fenomeno; vi sono una serie di attori locali come i lavoratori, imprenditori.
Ma probabilmente si potranno prendere in considerazione altri elementi di
natura sovra-locale, come i politici nazionali e le loro politiche di supporto. Il
raggio di attori coinvolti in molti processi potrebbe essere dilatato fino a una
scala planetaria. Ogni analisi geografica dovrà introdurre elementi di
semplificazione e restringere il campo degli attori analizzati, ma occorre
avere coscienza del raggio d’interazione globale. L’unica vera scala di

analisi è quella globale. Studiare porzioni di territorio come se fossero


isole sociali chiuse al resto del mondo è destinato a fallire.

3. Molto spesso nelle analisi si fa riferimento non tanto ad attori individuali,


quanto ad attori collettivi, ossia aggregati di attori caratterizzati da una certa
uniformità in termini di obiettivi e di localizzazione. Il concetto di attore
collettivo è utilissimo per costruire interpretazioni dei fatti sociali in quanto
consente di operare semplificazioni e schematizzazioni. Esempio: “Torino è
una città di sinistra”. In questa rappresentazione geografica non si parla di
singoli attori, ma dell’attore collettivo “città di Torino”, cui attribuisce una
caratteristica tipicamente associata agli attori-umani, ossia un determinato
orientamento politico. Non tutti gli attori-abitanti sono uguali. L’attore
collettivo “Torino” è un’astrazione concettuale, una rappresentazione
geografica utile per l’interpretazione geografica utile per l’interpretazione di
determinati fenomeni. Uno dei compiti della geografia si riferisce proprio
all’analisi critica delle rappresentazioni degli attori collettivi, guardando alle
voci “diverse”, discordanti dentro e fuori dal coro. L’idea di attore collettivo è
sempre un’approssimazione più o meno grossolana della realtà, ma
nondimeno utile per semplificare le rappresentazioni dei fenomeni sociali.

1.10 Geografia ed economia


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La geografia economica ha una storia relativamente breve. Negli ultimi decenni i


geografi economici hanno mostrato un particolare eclettismo nella scelta dei temi
approfonditi. Ne risulta una scienza eterodossa, plurale che rifugge dall’adozione
di paradigmi unificanti e che adotta approcci fortemente critici nei confronti della
realtà sociale che studia. Gli ambiti d’indagine privilegiati dalla geografia
economica sono sempre essenzialmente due: le attività economiche e lo sviluppo
regionale. Delle attività economiche la geografia economica studia innanzitutto la
distribuzione geografica costituendosi come scienza della localizzazione. Non si
tratta di fornire un supporto utile ad orientare le imprese nelle loro scelte di
localizzazione, quanto piuttosto quello di comprendere, da questa particolare
prospettiva, l’organizzazione dell’economia nello spazio. La distribuzione delle
attività economiche è strettamente associata al secondo dei due ambiti d’indagine:
lo sviluppo regionale. La distribuzione delle attività economiche dipende
innanzitutto da elementi interni come le caratteristiche degli impianti produttivi e le
strategie delle singole imprese; la localizzazione è per l’impresa una scelta
strategica difficilmente distinguibile da altre scelte riguardanti il tipo di prodotti
venduti. Sono questi gli elementi sui quali si concentrano la micro-economia e le
scienze aziendali, le quali non ignorano certo l’importanza delle condizioni esterne.
Le scienze economiche tendono a ricondurre tali circostanze esterne quasi
unicamente alle condizioni dei mercati in cui le imprese operano ignorando del
tutto la complessità. Dove l’economia si avventura in questa terra incognita,
costituita dalla geografia dei luoghi, tende ad interpretare tale geografia come
mero spazio geografico, che viene ridotto ad alcune semplici misure di distanza
geografica.
Per comprendere lo sviluppo delle città portuali, non è sufficienti analizzare la loro
posizione geografica, ma è necessario studiare le relazioni di tipo economico,
nonché geopolitico, con i mercati globali nei quali operano, nel corso di un lungo
processo di sviluppo storico. Tale sviluppo è influenzato da un sovrapporsi di
condizioni di contesto e processi di natura locale, regionale e internazionale. Il
contesto non è riconducibile a un insieme di caratteristiche date: la vicinanza ai
mercati di approvvigionamento e di sbocco, la presenza di infrastrutture, la
disponibilità di manodopera adeguata. Queste caratteristiche sono in continua
evoluzione. Le stesse attività economiche influiranno in maniera determinante
sulla possibilità che una regione si qualifichi come baricentro del sistema mondiale
dei trasporti marittimi. Il territorio è il prodotto di tipo economico e non economico,
e non soltanto il contenitore all’interno del quale tali processi si svolgono. La
distribuzione delle attività economiche influenza e contemporaneamente è
influenzata dalla caratteristiche dei luoghi. La geografia economica adotta spesso
una prospettiva multi-disciplinare e non è rigidamente distinguibile dalle altre
branche della disciplina.
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La geografia è anche una scienza dalle forti componenti applicative: s’interessa


dello studio di problemi specifici e di situazioni concrete in particolari contesti
locali, dove le eccezioni sono più spesso più rilevanti della regola. Ha inoltre un
forte orientamento etico e migliorativo delle condizioni sociali esistenti. È una
disciplina policy- oriented; può avere un utilizzo in ambito privatistico, ma è
soprattutto funzionale a tutto il complesso delle politiche pubbliche che riguardano
il territorio. In questo ambito è particolarmente adatta alla sintesi conoscitiva, ad
affrontare i contesti che studia nella loro globalità e multi-dimensionalità, rispetto
alla dimensione maggiormente analitica di molte altre scienze sociali, a cominciare
dall’economia, che tendono piuttosto a isolare i fenomeni studiati dal contesto più
ampio nel quale s’inseriscono.

1.11 Questioni di merito: Gli strumenti della geografia economica

Il rischio della geografia economica è proporre una conoscenza meramente


descrittiva, non scientifica. A ciò contribuisce il modo nozionistico e didascalico
con cui la geografia viene insegnata nelle scuole.
La geografia economica nasce come scienza descrittiva e compilativa. I primi tratti
compaiano verso la fine del XIX secolo e sono manuali di geografia commerciale,
contenenti gli innumerevoli informazioni utili alla gestione amministrativa e allo
sfruttamento economico dei territori coloniali. Nei decenni successivi la geografia
regionale ha prodotto dettagliate monografie sulle diversi componenti fisiche e
antropiche di particolari regioni. Lo strumento privilegiato di presentazione di
queste informazioni rimane la carta geografica, o meglio la carta tematica, che non
rappresenta i singoli territori nella loro generalità, ma i singoli temi. Le carte
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tematiche sono tutt’ora strumenti ideali per dare espressione efficace a fenomeni
complessi e multi- dimensionali, ma hanno scopi descrittivi e richiedono informazioni.
La tradizione della geografia come scienza pratica è stata messa in discussione a
cominciare dagli anni Cinquanta. Il problema non era più descrivere la
distribuzione delle attività economiche, quanto piuttosto comprendere tale
distribuzione sulla base di leggi e teorie generali. L’obiettivo era spiegare fenomeni
a cui la teoria economica non è mai riuscita a dare una spiegazione esauriente.
Era necessario adottare un linguaggio astratto, basato su regolarità statistiche,
formalizzazioni matematiche, e veri e propri modelli generali di organizzazione
dello spazio. Negli anni Sessanta a queste analisi si affiancavano studi che
indagavano i fondamenti epistemologici dell’analisi geografica individuandone la
radice nel positivismo. Tali tentativi proseguono con la “nuova geografia
economica”. Si tratta di una disciplina più vicina all’economia che non alla
geografia basata sulla formalizzazione matematica di alcuni aspetti spaziali.
In metodi utilizzati in questo ambito sono prevalentemente mirati all’elaborazione
d’informazioni quantitative, anche se la geografia si è sempre distinta per un
particolare eclettismo metodologico. Le stesse metodologie quantitative non
consistono necessariamente in modelli astratti che prescrivono una particolare
organizzazione dello spazio, ma possono anche essere utilizzati per descrivere
l’effettiva organizzazione dello spazio. Nel primo ambito rientrano le teorie
deduttive per le quali le attività economiche si localizzano in modo da minimizzare
a distanza rispetto ai consumatori che intendono servire. Nel secondo ambito
rientrano tutte quelle tecniche che attraverso l’utilizzo di dati statistici, indicatori di
distanza esprimono per esempio sotto forma di carte l’effettiva distribuzione sia
delle attività economiche, sia della popolazione da esse servita.
L’influenza del marxismo è stata determinante negli anni Settanta, nell’ambito
dell’approccio della political economy comparata: l’organizzazione geografica
dell’economica può essere compresa soltanto come parte di un processo più
ampio di accumulazione capitalistica. Harvey offrì un contributo fondamentale a
questo filone d’analisi. L’esistenza di regioni ricche e povere non è tanto il risultato
di un modello di ottimizzazione, ma un’ingiustizia sociale necessaria alla
sopravvivenza dell’economia di mercato.
Il marxismo ortodosso condivide con l’economia neoclassica la tendenza a basarsi

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su teorie generali che possono essere anch’esse accusate di un eccessivo


astrattismo e teoricismo. Su questa base si è avviato un aspro dibattito tra
marxismo ortodosso e una serie di approcci che hanno rivalutato la lunga
tradizione geografica della ricerca sul campo.
La stessa produzione cartografica ha da sempre richiesto spedizioni conoscitive.
La ricerca sul campo può avere finalità molto differenti: può consistere sia
nell’applicazione di metodi quantitativi che qualitative. L’indagine diretta può anche
avere lo scopo di quantificare presso un campione rappresentativo d’individui o
d’imprese, la presenza o l’intensità di determinate caratteristiche oggettive. I
metodi qualitativi di ricerca sul campo si basano essenzialmente su interviste in
profondità il cui scopo è quello d’indagare le opinioni soggettive e le percezioni
degli intervistati. Dove l’oggetto di studio sono i comportamenti, le relazioni
interpersonali o informazioni comunque complesse e implicite, la geografia può
ricorrere ai metodi tipici dell’antropologia.
Le pretese di soggettività e di scientificità della geografia sono state messe in
discussione negli ultimi anni nell’ambito di quella che è stata definita svolta-
culturale, che si riconnette a correnti filosofiche come il post- modernismo. Tale
impostazione rifiuta la convinzione che la realtà geografica possa essere
rappresentata attraverso grandi narrazione, o sottolinea i meccanismi di potere
che sono impliciti in qualsiasi rappresentazione, comprese quelle offerte dalla
geografia. Quello che si propone è un cambiamento di metodo: da scienza
epistemologica la geografia diventa ermeneutica, concentrandosi non sulla realtà
ma sui significati con cui determinati soggetti, in determinati contesti o periodi
storici, hanno interpretato il mondo. L’attenzione si sposta dallo spazio geografico
al discorso sullo spazio geografico. L’obiettivo non è verificare se le
rappresentazioni correnti corrispondano o meno ad una realtà empiricamente
verificabile. L’obiettivo è ricostruire la genealogia di queste rappresentazioni,
indagare le loro origini storiche. Ed è in questo filone di riflessione che la geografia
ha attinto ad ambiti di studio di tradizione assai differente. La geografia critica
contemporanea contiene il rifiuto per una rigida sistematizzazione metodologica,
perfino teorica, definendosi in contrapposizione negativa con tutto ciò che essa
intende superare.

1.12 Fra geografia politica e geografia umana

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Geografia dello sviluppo – Bignante, Celata, Vanolo

Nel linguaggio comune la geografia politica viene spesso associata alla geopolitica
e all’analisi delle relazioni internazionali. La paternità dell’espressione geopolitica
si deve a Kjellen che introdusse il termine con riferimento al ruolo del territorio e
delle sue risorse nella definizione dello scenario politico internazionale. Il centro
del suo ragionamento era l’analisi delle relazioni fra fatti geografici e l’elaborazione
di ipotetiche leggi scientifiche.
La politica espansionista e colonialista delle potenze europee e il crescente ruolo
del commercio internazionale resero la geopolitica una materia di grande
interesse, comunemente insegnata nelle accademie. L’autore più influente fu
Ratzel che interpretava gli Stati come super-organismi che si muovono all’interno
dello scenario naturale mondiale. Destino di ogni Stato è conquistare il proprio
spazio vitale: assicurare la propria esistenza grazie a espansioni territoriali
(ispirarono Hitler e il fascismo).
Il termine geopolitica cadde in disuso negli anni successivi alla Seconda Guerra
Mondiale. Gli intellettuali americani coniarono il termine geografia politica,
proponendo teorie e riflessioni meno deterministiche nell’indagare le relazioni tra
fattori geografici e comportamenti politici. Una serie di autori ha criticato l’idea che
la geografia politica possa descrivere il mondo così com’è, interpretando in
maniera univoca, oggettiva e neutrale lo scenario della politica internazionale.
Ogni analisi risentirà degli schemi interpretativi, culturali, linguistici e soggetti
dell’osservatore. Donna Haraway ha posto in evidenza come ogni analisi della
geografia politica possa essere paragonata a una narrazione realizzata da
determinati soggetti per un determinato pubblico.
La geografia politica non è soltanto fatta di rappresentazioni di scala nazionale e di
poteri “alti”: nella vita di tutti i giorni le descrizioni geografiche sono imbracate in
questioni e soggettività che hanno a che fare con il genere, la classe sociale,
l’etnia, la vita delle persone.

1.13 Geografia politica ed economica dello sviluppo

È utile chiarire come sviluppo significhi cose differenti in contesti differenti, e in


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questo senso come la scelta di un percorso di sviluppo sia sempre una questione
politica.
1. In primo luogo, non è scontato cosa sia lo sviluppo. Aumento della
ricchezza, della qualità della vita; questi obiettivi sono spesso in
contrapposizione. Storicamente ci sono state molte visioni differenti dello
sviluppo che hanno originato differenti teorie interpretative, spesso in aperta
opposizione fra loro.
2. In secondo luogo, ancor più ambigua è la misurazione dello sviluppo. È
assai diffuso approssimare lo sviluppo con il prodotto interno lordo o il PIL
procapite, e non è difficile imbattersi in classifiche degli Stati basate proprio
su questi parametri. Eppure il PIL è un indicatore molto limitato: non solo si
riferisce a parametri strettamente economici, ma non ci dice nulla delle
differenze sociali, delle difficoltà di vita della popolazione. Il PIL è un
indicatore assai scarso, e non è un caso che studiosi in tutto il mondo
stiano cercando di proporre misure alternative.
3. In terzo luogo, se non è chiaro né cosa sia lo sviluppo, né come lo si misuri,
sarà controverso il come ottenerlo, ossia ili campo delle politiche dello
sviluppo. La visione dello sviluppo dell’Organizzazione Mondiale è differente
da quella degli attivisti del World Social Forum. Non vi è nessuna certezza
scientifica che una determinata linea d’intervento possa aumentare
l’efficienza dell’organizzazione economica di un settore. Il compito di una
visione geografica si riferisce proprio all’analisi del conflitto fra differenti
visioni, interpretazioni e problematiche dello sviluppo, mettendo in evidenza
come ogni società elabori modalità geograficamente specifiche d’intendere
e vivere lo sviluppo, e ciò che può funzionare in un luogo potrebbe non
funzionare in un altro.
L’indagine geografica sullo sviluppo non sarà tesa a mettere in evidenza modelli
universali e grandi teorie generali dello sviluppo, quanto a individuare le specificità
geografiche e le differenze alla base di qualsiasi percorso di evoluzione di un
territorio.

2 Capitolo secondo – La questione dello sviluppo


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2.1 Molti modi di guardare allo sviluppo (manca)

2.2 L’ideologia della modernizzazione

2.2.1 La modernizzazione negli approcci tradizionali

L’ideologia della modernizzazione rappresenta la visione consolidata nel


pensiero occidentale sullo sviluppo, nella sua forma più radicale questa
ideologia appare per molti versi superata.
In biologia e nel linguaggio comune, il termine sviluppo descrive il processo
evolutivo di un organismo vero la sua forma naturale e completa, spiegando
in senso lato, da una parte la natura crescita di animali e vegetali, e d’altra
parte l’insieme delle trasformazioni che gli organismi subiscono nel corso di
tale crescita. Questa assimilazione rappresentò una novità nel pensiero
occidentale.
L’analogia con le teorie evolutive ha supportato nel tempo visioni organiciste
della società: secondo questa prospettiva, le società maggiormente capaci
di adattamento ai fattori naturali e alle contingenze storiche sono risultate
vincitrici, in opposizioni alle società tradizionali: una prospettiva
interpretativa che a lungo giustificato sul piano scientifico il dominio
coloniale delle società avanzate, civilizzate e moderne su quelle arretrate,
incivili. La visione darwiniana è generalmente considerata semplicista;
persiste sovente una certa ambigua concettuale fra termini apparentemente
simili, come fra sottosviluppo e arretratezza. Nell’ambito delle scienze
sociali è oggi opinione condivisa che mentre lo sviluppo si riferisce a
trasformazioni qualitative, la crescita si riferisce ad aspetti meramente
quantitativi. L’aumento delle ricchezze di un paese esprime essenzialmente
un processo di crescita, che non è necessariamente sinonimo di sviluppo. Il
problema non è quanto, ma quale sviluppo sia preferibile, sostenibile e
auspicabile.
Nel dibattito delle scienze economiche e sociali dei primi decenni del
dopoguerra lo sviluppo economico veniva sostanzialmente equiparato ad un
processo di modernizzazione, riproponendo una sostanziale equivalenza di
concetti quali crescita e sviluppo.
Attraverso la comparazione storica e statistica dello sviluppo di società
differenti, Rostow ipotizza che lo sviluppo dei diversi paesi avvengo
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Geografia dello sviluppo – Bignante, Celata, Vanolo

inevitabilmente attraverso cinque stadi:


1. Società tradizionalesi caratterizza per le limitate conoscenze
tecnologiche; la scienza èsostituita dalla superstizione

2. Condizioni preliminari per il decollo con lo sviluppo di strutture per


l’istruzione e la formazione. In questa fase le tecnologie utilizzate nei
paesi sottosviluppati sono ancora relativamente semplici e
rappresentano un limite per le possibilità di espansione e di
miglioramento economico. Avvengono profonde trasformazioni di
natura culturale; il progresso economico non solo sia possibile, ma
che esso sia una condizione necessaria per qualsiasi altro scopo. La
popolazione prende coscienza della superiorità e della necessità
della realizzazione di una strutture sociale moderna
3. Decolloè la fase di transizione in senso stretto. Con lo sviluppo del
settore industriale si stimola la trasformazione delle strutture sociali e
culturali tradizionali che nel corso di una decina di anni diverranno
sempre più simili a quelle moderne
¢. Percorso per la maturità con la crescita economica si afferma la
necessità di diversificazione
le attività produttive. I settori industriali che avevano guidati le fasi
precedenti inizieranno a rallentare
5. La società dei consumi di massa il sistema assumerà la struttura
delle società sviluppate e occidentali
Le implicazioni della teoria sono numerose e problematiche:la convinzione
che la strada per lo sviluppo sia una sola e che sia quella seguita dai paesi
occidentali. Il decollo è possibile solamente se si abbandonano i metodi
produttivi tradizionali e si orientano gli investimenti a favore della
modernizzazione dell’agricoltura, considerata come precondizione per lo
sviluppo del settore industriale. È un processo irreversibile e parzialmente
inevitabile nel momento in cui il tasso di crescita riesce a superare una certa
soglia critica. Lo sviluppo ha alla sua base trasformazioni di tipo economico,
ma si associa anche a cambiamenti di tipo culturale, sociale e politico.
Per descrivere la superiorità della società dei consumi di massa, Rostow
utilizza un parallelismo con la storia della famiglia Buddenbrook; racconta le


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vicende della famiglia di mercanti di Lubecca nel corso di diverse


generazioni. In un primo tempo i personaggi sono interessati principalmente
all’accumulazione di ricchezze, successivamente le vicende dei protagonisti
ruotano attorno all’affermazione del proprio status sociale; infine, dopo aver
acquisito ricchezza e prestigio, l’intera famiglia inizia a concentrarsi su arte
e musica. Analogamente le società dei consumi potranno scegliere come
utilizzare la propria ricchezza di conoscenze e il surplus economico
impiegandoli per lo sviluppo del lusso e del welfare.
Quello di Rostow è un manifesto di fede nel progresso sociale e nel legame
imprescindibile fra crescita industriale e sviluppo. In questo ragionamento è
implicito come industria e tecnologia assicurino il progresso sociale e il
benessere: è l’impostazione alla base dell’ideologia del produttivismo.
L’implicazione logica di questo schema è che i paesi del Sud del mondo
debbano industrializzarsi. L’industrializzazione determina una struttura
economica fortemente dualistica:
1. Attività tradizionali comprendenti essenzialmente l’agricoltura di
sussistenza. Considerato
marginale e non rilevante
2. Settore moderno relativo all’agricoltura commerciale. Ad esso si
riservano risorse ed attenzioni.
Una delle prospettive più influenti, è quella di Lewis che teorizzò come lo
sviluppo prenda forma con il progressivo trasferimento del surplus di lavoro
da attività non orientate al profitto, verso attività capitalistiche moderne.
Poiché nelle società rurali non esiste una quantità di surplus lavorativo, il
processo d’urbanizzazione e la migrazione dalla campagna verso la città
sono presupposti necessari per lo sviluppo. Inoltre, affinché il processo
d’industrializzazione prenda forma si rendono necessari sensibili
investimenti di capitale, di fatto impossibili all’interno di società povere. A
questo punto Lewis introdusse l’idea dell’industrializzazione su invito,
insistendo sull’importanza di attrarre capitale straniero per avviare processi
duraturi di sviluppo.
Da un punto di vista geografico, il sottosviluppo è considerato come l’esito
di natura endogena, negano l’importanza delle relazioni e delle
interdipendenze

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di livello sovra-nazionale, ossia senza tener conto del diverso ruolo che i
vari paesi o regioni svolgono all’interno del sistema capitalistico globale.
Una caratteristica comune a molte teorizzazioni dello sviluppo è l’adozione
di strutture interpretative di tipo dualistico e binario, che contrappongono
società avanzate e arretrate, civilizzate e non.
Nella visione della modernizzazione una netta linea di divisione pare
separare il mondo indigeno da tutto ciò che si configura come
sviluppato. Il compito morale dei paesi sviluppati sarebbe quello di
assistere il progresso delle altre società verso il modello moderno di
capitalismo e democrazia liberale. La prospettiva ideologica della
modernizzazione ha l’atteggiamento dei paesi occidentali nei confronti
dei paesi non occidentali. L’ideologia della modernizzazione ha
cominciato a entrare definitivamente in crisi verso la fine degli anni
Sessanta

2.2.2 Fra modernizzazione e neoliberismo

L’ideologia della modernizzazione ha profondamente influenzato il


neoliberismo. A questo, l’ideologia neoliberista associa una radicale sfiducia
sul ruolo che gli Stati possono avere nel sostenere lo sviluppo economico.
L’espressione neoliberismo è comparsa negli anni Ottanta con il rifermento
alle agende politiche si alcuni paesi, per esempio:
1. Cile di Pinochet. L’agenda di Pinochet fu tesa ad aprire il paese agli
investimenti stranieri, alla deregolamentazione, alla privatizzazione
delle imprese statali. Tutte operazioni che sembrano richiamare da
vicino l’idea d’industrializzazione su invito.
2. Regno Unito di Margaret Thatcher. Che s’impegnò in una vasta
opera di smantellamento del sistema di welfare state allora vigente in
UK, considerato inefficiente. La sua azione di governo promosse il
ridimensionamento del settore pubblico, la liberalizzazione dei
servizi, l’introduzione di un’imposta personale indipendente dal
reddito, in contrapposizione al modello di stampo Keynesiano.
3. USA di Reagan che intraprese una forte riduzione della pressione
fiscale. Ciò significò una riduzione drastica dell’impegno statale

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nell’economia e nella società e l’affidamento pressoché totale alla


politica monetaria della Federal Reserve.
L’espressione neoliberismo si riferisce a un insieme eterogeneo di fenomeni
e significati. Si devono distinguere tre accezioni:
1. Sul piano economico
il presupposto è che la razionalizzazione
collettiva di un universo di
attori che perseguono le proprie finalità sociali sia preferibile a
qualsiasi forma di razionalità centralizzata. I singoli individui che
interagiscono nel perseguire i propri obiettivi sono più efficienti di
qualsiasi governo. I sostenitori del neoliberismo puro ritengono che
l’intervento dello Stato debba essere limitato quanto più possibile,
perché opprime la libera iniziativa degli agenti economici, e si presta
a distorsioni e a forme di cattura da parte degli interessi particolari
delle organizzazioni politiche e dei gruppi di pressione che si
muovono intorno alla sfera pubblica. Auspica l’espansione
dell’economica di mercato mediante l’assimilazione a merci
scambiabili con moneta di una serie sempre crescente di fenomeni e
relazioni sociali
2. Sul piano politicosi tratterà di rimuovere tutte le barriere artificiali
che limitano la libera
espansione dell’economica di mercato.
3. Sul piano ideologico il presupposto centrale del credo neoliberale è
che le relazioni economiche, politiche e sociali si organizzino nel
migliore dei modi attraverso l’interazione tra attori formalmente
svincolati da impostazioni e liberi di perseguire razionalmente i propri
interessi.
Esiste una netta differenza tra liberalismo e liberismo:
1. Liberalismo ha rappresentato storicamente un movimento
politico e filosofico orientato alla difesa della sfera d’autonomia
del singolo individuo rispetto alle istituzioni o ai gruppi sociali
prevaricanti.
2. Liberismo rappresenta l’applicazione del liberalismo alla sfera
economica, la cui
declinazione principale è costituita dal principio del laissez-faire e

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dell’ingerenza minima dello Stato nell’economia. Il neo-liberismo è


un termine emerso più di recente e si configura come una critica a
quel particolare sistema d’interventismo dello Stato nell’economia.
Affinché il liberismo si affermi, è necessario che faccia presa su un
apparato di idee e concetti coerente con le aspirazioni, le intuizioni e
valori della gente. I principi di base del liberismo si rifanno a idee
riguardanti l’importanza della libertà personale, difficilmente
argomentabili e certamente seducenti. Nell’ideologia liberalista, la
libertà individuale è posta a rischio non solo da fascismo, dittature e
comunismo, ma anche dalle forme d’intervento dello Stato
nell’economia. Nascondendosi dietro a una generica idea di libertà. Il
liberismo ha spesso appoggiato precise strategie di tipo poitico-
economico che perseguivano una particolare idea di libertà, intesa
come libera iniziativa economica individuale.

2.3 Sviluppo e dipendenza: la critica marxista

2.3.1 L’espansione geografica del capitalismo e la critica


all’economica di mercato

Nel discutere i divari nei processi di sviluppo alla scala globale, uno dei
maggiori contributi della scuola critica si riferisce alla teoria della
dipendenza. La tesi di fondo è che la relazione fra paesi del Nord e del Sud
non si fondi sulla semplice coesistenza, ma sull’operare di un meccanismo
di dipendenza e che le condizioni di sottosviluppo dei paesi più poveri non
siano un semplice accidente del destino, ma possano essere comprese
unicamente come risultato del funzionamento del sistema capitalistico
mondiale nel suo complesso. La metropoli sviluppata e i suoi satelliti
sottosviluppati sono elementi interagenti di un unico sistema, e i processi
che si determinano al suo interno sono fra loro dialetticamente intrecciati. Le
metropoli industrializzate dominano la periferia sottosviluppata, tramite
l’appropriazione del surplus ivi prodotto, per cui alla periferia si attiverà un
processo di sviluppo del sottosviluppo.
Il sottosviluppo della periferia è funzionale alla ricchezza del centro ed
entrambi si trovano reciprocamente in una posizione dialettica che è

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paragonabile al conflitto di classe caro all’analisi marxista. I capitalisti


occidentali posseggono i fattori di produzione. I proletari non occidentali
possono offrire soltanto materie prime a basso costo.
La contrapposizione tra sviluppo e sottosviluppo sono applicati da Frank a
diversi livelli e scale: la metropoli mondiale subordinata i propri satelliti.
Frank evidenzia il fatto che la contraddizione sviluppo/sottosviluppo non
esista solo fra mondo capitalistico e paesi satelliti, ma può verificarsi anche
fra regioni interne a questi paesi.
Lo schema di Frank evidenzia la contraddizione di fondo che avrebbe
permeato lo sviluppo storico del sistema capitalistico, la quale si perpetue si
riproduce in ogni luogo e in ogni tempo, e interpreta l’ideologia dello
sviluppo come dispositivo che conduce all’estensione dei rapporti di
produzione capitalistici. Le stesse politiche di cooperazione allo sviluppo
promosse dai paesi occidentali hanno come effetto collaterale l’integrazione
della periferia nell’economia di mercato in un rapporto di dominanza e di
dipendenze basato su una rete di scambi reciproci. Venendo a contatto con
le economie pre- capitalistiche, il modo di produzione capitalistico ne
produce la dissoluzione; si disgrega e una quota di risorse viene distolta
dalla produzione per l’autosussistenza, per lo scambio monetario e il
mercato interno.
La decolonizzazione condusse alla definizione delle prime strategie
d’industrializzazione indotta, con l’effetto di aggravare ulteriormente gli
squilibri territoriali esistenti. Venne favorita la formazione di reti urbane
dominate da una città primato. Le città primato divennero fattori di
depauperamento per il resto del territorio. La penetrazione del modo di
produzione capitalistico avrebbe interrotto il corso naturale dello sviluppo,
impedendo a molti paesi di procedere lungo la strada e alla velocità
determinata dalle leggi proprie dello sviluppo precedente.
L’interpretazione del problema del sottosviluppo in un’ottica
d’interdipendenza si colloca alla base del principale modello elaborato
nell’ambito delle teorie della dipendenza, quello dello scambio ineguale
che si pone l’obiettivo di spiegare concretamente i meccanismi attraverso
cui avviene il dominio economico da parte dei paesi più ricchi. Con il
modello di scambio ineguale viene negato che il sottosviluppo sia una
fase naturale

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Geografia dello sviluppo – Bignante, Celata, Vanolo

dell’evoluzione verso lo sviluppo, e viene affermato che si tratta della


conseguenza di rapporti di potere con i paesi del Nord. Secondo il modello,
la formazione di una periferia sottosviluppata è un’esigenza del sistema
capitalistico mondiale per cui il centro si appropria della ricchezza qui
prodotta, utilizzandola per consolidare la propria posizione dominante.
Gli autori critici hanno evidenziato come le teorie economiche classiche
assumano che i costi di produzione di una merce dipendano
fondamentalmente dal costo di fattori naturali e che i fattori sociali siano
facilmente trasferibili da un paese all’altro. Occorre considerate come
nell’economia contemporanea i fattori naturali abbiano progressivamente
perso d’importanza, mentre i fattori non- naturali abbiano assunto
un’importanza primaria i fattori naturali tendono a ridursi con l’utilizzo,
mentre i fattori non naturali sono in grado di riprodursi e di crescere. Ciò fa
si che i paesi maggiormente dotati di fattori sociali tendano ad accrescere il
proprio vantaggio, mentre i paesi che basano il proprio modello di sviluppo
sull’utilizzo di risorse naturali vedano sempre più ridurlo. Commercialmente
questo si traduce in un vantaggio per i paesi del Nord del mondo. I beni
prodotti nel Sud sono relativamente semplici, in quanto fabbricati in assenza
di particolari condizioni specifiche; in questa situazione per sopravvivere alla
concorrenza, i paesi devono comprimere la remunerazione dei fattori locali
rispetto al caso degli stessi fattori impiegati in aree maggiormente
qualificate. I paesi del Nord acquistano merci dai paesi del Sud, pagano il
costo dei fattori di produzione a un prezzo molto inferiore. Il commercio fra
paesi emergenti e aree industrializzate perpetua il trasferimento del surplus
dai primi ai secondi, accrescendo in maniera progressiva e cumulativa il
divario fra le due realtà.

2.3.2 Il sistema-mondo di Wallerstein

Per Wallerstein il tema delle relazioni di potere fra differenti classi sociali
passa in secondo piano, nella ricerca di un più generale modello geografico
in grado di spiegare i meccanismi globali del capitalismo contemporaneo.
Secondo lui, storicamente si possono individuare tre generali modi di
produzione, ossia i sistemi d’organizzazione della produzione, del consumo

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e della vita socio-economica:


1. Modalità reciproco-familiare si riferisce a società nelle quali le
attività economiche sono
sostanzialmente distribuite sulla base del genere e dell’età degli
individui. Lo scambio è essenzialmente basato su meccanismi di
reciprocità.
2. Modalità redistributiva-tributaria prende forma quando la società è
organizzata soprattutto sulla base delle divisioni di classe, con una
funzione di produzione assegnata agli agricoltori che pagano un
tributo a una ridotta classe dirigenziale.
3. Modalità capitalisticasi basa su divisioni di classe, ma la sua
caratteristica peculiare è il
continuo processo di accumulazione, operante tramite logiche di
mercato per le quali prezzi e salati sono definiti dai meccanismi di
domanda e offerta.
Per capire quale modalità prevale in una società è necessario definire i
confini sulla base delle attività economiche prevalenti; Wallerstein definisce
tre tipologie:
1. Minisistemi caratteristici della modalità reciproco-familiare, sono
entità funzionalmente
chiuse, che comprendono al loro interno attività lavorative molto
semplici.

2. Imperi-mondo sono caratteristici della modalità


redistributiva-tributaria, presuppongono la presenza di un potere
centrale e di una unitarietà politica

3. Sistema-mondoè capitalistico, si differenza dai precedenti


minisistemi locali, chiusi nel loro autoconsumo, e dagli imperi-
mondo successivamente affermatisi, basati sull’impostazione di
un tributo da parte dell’autorità centrale. Storicamente si sono
avuti innumerevoli minisistemi e imperi-mondo, ma solamente
un’economia-mondo, che si è originata in Europa nella metà del
XVI secolo. Il sistema capitalistico s’identifica con un’economia-
mondo, dal momento che rappresenta un’entità dotata di una

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Geografia dello sviluppo – Bignante, Celata, Vanolo

propria divisione del lavoro e di molteplici sistemi sociali e culturali


che possono corrispondere o meno a unità politiche. L’unità
politica non costituisce più un prerequisito essenziale al
funzionamento del sistema.
Wallerstein respinge con forza l’idea di un Terzo Mondo, sostenendo che
esiste solamente un mondo connesso attraverso una complessa rete di
relazioni di scambio che includono capitale, lavoro e merci. Ogni analisi dei
cambiamenti sociali deve incorporare l’intero sistema-mondo: i percorsi di
sviluppo dei paesi non sono autonomi, ma definiti dalle traiettorie storiche e
geografiche che prendono forma alla scala mondiale. Questa tipologia di
modelli conduce alla concettualizzazione di un unico sistema-mondo
organizzato gerarchicamente in centri e periferie in un’epoca in cui la parola
globalizzazione non aveva ancora acquisito importanza. L’organizzazione
del sistema economico mondiale attraverso una sola struttura di mercato e
la presenza di molteplici Stati in competizione politica danno origine a un
sistema gerarchizzato composto da tre parti:
J. Centro ristretto dal punto di vista geografico, include quei paesi che
rappresentano il cuore del processo di accumulazione capitalistica
2. Semiperiferia circonda il centro, gode solo in parte dei vantaggi del
centro ed esercita forme
di controllo sulla periferia.
3. Periferiaè un esteso insieme di territori economicamente arretrati,
fonte di materie prime e forza lavoro a basso costo.
Tecnologicamente le regioni avanzate, ovvero il centro, sono le sole capaci
di produrre innovazioni, alcune regioni semiperiferiche sono in grado
d’imitare tali innovazioni, modificarle e adattarle alla produzione di massa,
molte regioni periferiche possono al massimo appropriarsi di queste
tecnologie una volta che le relative produzioni siano standardizzate e
facilmente imitabili.
Secondo Wallerstein i rapporti di dominanza sono storicamente dinamici:
alcuni paesi, nel corso della storia, potranno passare da una posizione
periferica a una semiperiferica, o dal centro alla semiperiferia. Il significato
concettuale della semiperiferia non deve essere inteso solamente come una

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Geografia dello sviluppo – Bignante, Celata, Vanolo

zona intermedia fra centro e periferia, ma come un elemento di dinamicità,


lungo delle maggiori tensioni nelle trasformazioni strutturali del sistema-
mondo.
Il cuore del sistema può essere individuato a una scala geografica differente
da quella nazionale, ossia nelle città che stanno al vertici della gerarchia
urbana mondiale e che possiedono superiori capacità produttive,
tecnologiche. Anche questa gerarchia urbana non è immutabile nel tempo.
Il sistema è sempre in evoluzione e le sue parti presentano forme specifiche
d’integrazione nel sistema complessivo. I tre componenti del sistema:
1. Centro prevalgono intense relazioni funzionali fra i vari elementi del
sistema, qui si realizza
più efficacemente la circolazione e lo scambio d’idee. Sono le
maggiori aree di mercato e di consumo
2. Semiperiferia aree di recente industrializzazione. Subisce una
dipendenza tecnologica,
finanziaria e decisionale nei confronti del centro e presenta sistemi di
relazioni meno complessi
3. Periferia le relazioni sono ancora più tenui, la povertà è diffusa,
l’instabilità politica e l’arretratezza tecnologica sono i tratti
caratteristici

2.4 Approcci alternativi al tema dello sviluppo

Dagli anni Ottanta si è assistito a un’esplosione di visioni e approcci teorici differenti


che sono difficilmente inquadrabili in una classificazione schematica.
1. Il primo filone si riferisce alla scuola anti-utilitaristica: si collocano in questo
filone una serie di autori che disapprovano l’approccio tradizionale della
teoria sociale contemporanea. Sia gli approcci di matrice neoliberista, sia la
critica marxista porrebbero al centro della propria riflessione una prospettiva
economicistica e produttivistica, considerata prioritaria a qualsiasi altra
dimensione nella strutturazione dell’azione sociale. L’azione sociale non è
guidata esclusivamente dalla massimizzazione dell’utilità, ma anche da
vincoli di obbligo di differente natura, di spontaneità ed esistono infiniti
esempi di fatti sociali difficilmente spiegabili in un’ottica economica.

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Geografia dello sviluppo – Bignante, Celata, Vanolo

2. Critica radicale all’idea della crescita economica. Nell’ambito dell’approccio


della decrescita, la critica all’utilitarismo incontra la riflessione ambientale,
ribadendo la necessità di limitare l’imperativo del consumo e della crescita.
Questo concetto nasce dall’incontro di filoni di riflessione maturati in seno
all’economia e all’ecologia, tra cui l’economia ecologica. Ha fatto presa in
settori diversi della società civile dando vita a una pluralità di reti movimenti.
I principi cardini sono:

a. Privilegiare la produzione e il consumo di prodotti locali

b. Ridurre il consumo pro-capite di risorse, diminuendo l’impatto


ambientale
c. Dare nuova centralità al riuso e al riciclo dei prodotti
d. Sostituire modelli di vita improntati all’individualismo e alla
competitività a modelli che favoriscano la solidarietà sociale
e. Favorire la redistribuzione delle risorse alle diverse scale

2.4.1 Sviluppo dal basso e basic need

Negli anni Settanta un gruppo di autori ha elaborato una revisione critica dell’idea
di sviluppo proposta dai teorici della modernizzazione, denunciando quando il
tentativo di aiuto si trasforma in vantaggi economici per i paesi più ricchi. Nel
dibattito sui bisogni essenziali si cominciò a sottolineare l’importanza di politiche di
sviluppo e politiche di cooperazione allo sviluppo maggiormente vicine alle
esigenze e alle necessità della popolazione locale. Un simile approccio si
concretizzò nell’idea di uno sviluppo dal basso, auto centrato, teso a soddisfare i
bisogni essenziali di una società, ossia a perseguire una serie di obiettivi
contestuali, definiti a livello locale. L’approccio dal basso si oppone agli approcci
top-down, tipici della modernizzazione e dei programmi d’industrializzazione
promossi dalle istituzioni internazionali e dagli Stati basati sulla partecipazione
popolare. Piuttosto che privilegiare il settore industriale o le attività economiche
moderne e ad alto valore aggiunto, l’approccio dei basic need si basa sul supporto
all’agricoltura locale o ad attività economiche che producono effetti di scala ridotta.
Diversi autori consideravano la prospettiva dei bisogni di base compatibile con
alcune tradizionali idee di sviluppo legate alla modernizzazione, ma s’invocava


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Geografia dello sviluppo – Bignante, Celata, Vanolo

piuttosto una maggiore attenzione e sensibilità rispetto a tematiche quali la


riduzione della povertà e la scolarizzazione. Si assistette all’affermazione del ruolo
delle organizzazioni non governative come attori fondamentali dello sviluppo. La
novità si riferiva all’idea che le ONG potessero operare maggiormente a contatto
con la società locale.
L’idea alla base è che i bisogni essenziali debbano rappresentare la priorità
essenziale. Dal punto di vista politico una simile prospettiva ha spesso giustificato
politiche di chiusura selettiva, sulla base dell’ipotesi che per i paesi poveri sia
necessario riuscire a sfruttare meglio le risorse locali, pervenire a forme più efficaci
di redistribuzione della ricchezza. Non si è trattato di un’opzione strettamente
autarchica,ma di perseguimento di forme di sviluppo promosse da forze endogene
al territorio stesso. Storicamente simili visioni dello sviluppo si sono affiancate a
posizioni socialiste.
Negli anni Settanta alcuni autori consideravano arrogante l’idea occidentale che
un’interpretazione universale dello sviluppo potesse essere definita e applicata in
tutto il mondo. La varietà si oppone all’uniformità. Viene in questo modo rifiutata
l’idea della massimizzazione del profitto individuale e d’impresa, in quanto
estranea all’ipotesi di valorizzazione dei fattori comunitari. Lo sviluppo auto
centrato contestualizza la dimensione territoriale in cui si realizza il
soddisfacimento dei bisogni fondamentali.
I nodi essenziali sono:
1. Ogni comunità organizzata sul territorio possiede proprie risorse
2. L’insieme di fattori economici, sociali, culturali definiscono l’identità di un
territorio
3. Le strategie di sviluppo auto centrato dovranno essere selettive, ovvero
incentrare su alcune variabili chiave nei paesi più poveri, si tratterà si settori
orientati al soddisfacimento dei basic need.

2.4.2 Lo sviluppo sostenibile

Il concetto di sviluppo sostenibile rappresenta il terreno d’incontro fra visioni critiche


riferite a tematiche quali crescita, natura, sviluppo, povertà.
Il punto di partenza del dibattito ambientalista è collocabile intorno agli anni
Sessanta, in un periodo di generale fiducia della modernizzazione, destinata a

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Geografia dello sviluppo – Bignante, Celata, Vanolo

entrare in crisi per due principali ragioni:


1. Riconoscimento dell’esauribilità delle risorse del pianeta rivelò tutte le
frizioni fra le esigenze dello sviluppo economico e quelle della salvaguardai
del pianeta.
2. A causa dell’emergere di formulazioni alternative, dal
basso, del concetto di sviluppo. Da allora il dibattito sembra
articolare attorno a due posizioni ideali contrapposte:
1. Economia di frontiera si riferisce alla prospettiva dominante in molti
paesi sino alla fine degli anni
Settanta: economia e natura si presentano come tue tematiche isolate, e
l’ambiente viene considerato come fonde inesauribile di risorse e deposito
illimitato.
2. Ecologia profonda propongono modelli di sviluppo alternativo, ricercando
una nuova armonia fra
essere umano e natura, in netta opposizione agli approcci e alle visioni
dominanti. Teorizza stili di vita alternativi al paradigma dello sviluppo, in cui
attraverso l’introduzione di tecnologie alternative sia possibile promuovere
un sistema socio-economico in armonia con la natura
Dallo scontro fra economisti di frontiera ed ecologisti profondi, nascono e si
sviluppano una serie di approcci teorici, politici ed economici che porteranno
progressivamente i temi dell’ecologia al centro del dibattito sullo sviluppo.

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Geografia dello sviluppo – Bignante, Celata, Vanolo

Il concetto di eco-sviluppo, introdotto nella Conferenza delle Nazioni Unite


sull’Ambiente Umano del ’72, si colloca in questo ambito. Esso si riferiva al
soddisfacimento dei basic need, alla partecipazione delle comunità nella
definizione dei percorsi di sviluppo.
Il contributo maggiormente rilevante di questo importante dibattito si riferisce al
concetto di sviluppo sostenibile, che costituisce il pilastro delle politiche ambientali.
Si tratta di uno sviluppo che soddisfi i bisogni del presente senza compromettere la
capacità delle generazioni future di soddisfare i propri.
La definizione sottolinea due concetti chiave:
1. Bisogno ponendo l’accento sulle esigenze di tutti gli abitanti del pianeta,
compresi i più poveri
2. Responsabilità verso i posteriai quali spetta il diritto di vivere in un
ambiente dotato di adeguate risorse e privo di gravi squilibri ambientali.
Sulla base di ciò, uno sviluppo sostenibile sarebbe idealmente fondato su tre
principi fondamentali:
1. Integrità dell’ecosistema significa mantenere i sistemi ecologici ben
conservati, evitando qualsiasi alterazione irreversibile in grado di
compromettere la capacità degli ecosistemi di mantenersi in equilibrio
reagendo alle sollecitazioni provenienti dall’esterno. Si pone l’accento
sull’analisi dei processi ecologici essenziali che supportano la vita sul
pianeta
2. Efficienza economica implica la necessità di adeguati processi di crescita
economica: se la povertà è spesso causa di pratiche irrispettose
dell’ambiente, la crescita è implicitamente considerabile come una cura.
Quest’enfasi sulle esigenze dell’economia ha supportato approcci e
politiche ambientali vicine alle prospettive della modernizzazione e
dell’industrializzazione, tanto che alcuni autori hanno utilizzato l’espressione
modernizzazione ecologica: la prospettiva secondo cui la soluzione al
problema ecologia sia raggiungibile senza modificare sostanzialmente le
regole del sistema economico, ma limitandosi a promuovere lo sviluppo
nelle aree più povere. L’obiettivo sarebbe quello di assicurare che il sistema
economico garantisca il massimo della produzione e dei consumi
compatibilmente con gli equilibri ecologici, consentendo di mantenere
costanti le potenzialità produttive dell’ambiente.
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Geografia dello sviluppo – Bignante, Celata, Vanolo

3. Equità socialesi riferisce tanto alla scale intra-generazionale quanto a


quella inter-generazionale:
a. Intra-generazionale
si riferisce alla possibilità di accedere alle
risorse, implicando sia un’equa distribuzione dei redditi, sia il diritto di
ogni persona alla propria cultura, religione.
b. Inter-generazionale implica l’obbligo morale di operare senza
precludere alle generazioni
future l’utilizzo dell’ecosistema e delle sue risorse
Dalla differente interpretazione di questi principi, nascono i diversi approcci e
orientamenti alla base del concetto di sostenibilità. Due differenti polarità:
1. Sostenibilità in senso debole ammette la possibilità di sostituzione fra
capitale naturale e capitale
artificiale. Ogni generazione può impoverire e degradare l’ambiente a
patto di compensare in danni con altre forme di capitale
2. Sostenibilità in senso forte implica la necessità di mantenere inalterata la
dotazione di risorse
naturali, senza la possibilità di sostituzione con capitale prodotto dall’uomo.
Conferenza di Rio de Janeiro 1992, conseguì l’importante risultato di porre
l’accento sulla necessità di una prospettiva di sostenibilità a livello globale. È
necessaria la definizione di strategie internazionali e la cooperazione fra paesi del
Nord e del Sud globale. Ai primi dovrebbe spettare il compito di aiutare
finanziariamente i secondi, a patto che i paesi emergenti adottino misure di
protezione ambientale e comportamenti ecocompatibili.
Fallimento del Protocollo di Kyoto 1997. Avrebbe dovuto prevedere una riduzione
considerevole delle emissioni di gas inquinanti; tuttavia, la mancata adesione degli
USA hanno reso assai ridotti i risultati conseguiti fino ad oggi.

2.4.3 Partecipazione, comunità locali e politiche di sviluppo

Qualsiasi intervento sul territorio debba prevedere il coinvolgimento di numerosi


soggetti. Il coinvolgimento degli attori locali ha diverse funzioni:
1. Utilità strumentale perché permette di ottenere migliori informazioni sulle
caratteristiche del

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Geografia dello sviluppo – Bignante, Celata, Vanolo

contesto, sulle necessità della popolazione locale.


2. Ruolo costruttivo permette alle comunità locali di decidere
autonomamente secondo quali priorità verranno gestiti i processi di
trasformazione territoriale.
3. Importanza intrinsecasi tratta d’incentivare la collaborazione.
Una partecipazione debole implica solo l’adozione di strumenti d’informazione e
consultazione delle popolazioni locali.
Una partecipazione forte implica la più o meno completa delega di responsabilità
agli attori locali nella pianificazione degli interventi.
Quali sono gli attori locali? Nell’ambito della cooperazione allo sviluppo i soggetti
principali sono i governi centrali. I reali destinatari sono le popolazioni di questi
paesi e le comunità locali a cui si rivolge l’intervento. La diffusione degli approcci
partecipativi prende origine da una generale sfiducia circa l’inaffidabilità e la
democraticità dei governi centrali. Il governo centrale è considerato solo uno tra i
vari stakeholder. Stakeholder significa portatore d’interessi. I cittadini poveri hanno
molta importanza come gruppo sociale nell’ambito di un intervento di lotta alla
povertà, ma difficilmente potranno avere su questo un’influenza. I politici non
hanno molta importanza perché l’intervento non si rivolge alle élite politiche.
In che modo questi gruppi possono essere coinvolti in una politica di sviluppo? La
partecipazione di questi soggetti deve essere in qualche modo mediata da
organizzazioni che rappresentano i loro interessi. Un termine utilizzato dalle
istituzioni internazionali è organizzazioni di comunità. Il termine sottintende un
ampio insieme di soggetti: gruppi che condividono la comune proprietà di risorse,
organizzazioni di produttori. Si può trattare d’istituzioni tradizionali, oppure
possono essere organizzazioni di rappresentanza che mutuano un modello più
tipicamente occidentale. Si può trattare di organizzazioni formali, aventi un
riconoscimento legislativo e politico ufficiale, ma anche di organizzazioni informali.
Il problema principale è il rischio di cattura del programma d’intervento da parte
delle élite locali e da parte di soggetti che possono più facilmente trovare
espressione nella società civile organizzata. Spesso queste élite sono le sole che
comunicano con gli stranieri, leggono documenti di progetto e scrivono proposte.
In molti casi la cattura non è positiva, poiché porta al cambiamento delle priorità
d’intervento e contribuisce alla sua inefficacia. Nei casi peggiori l’intervento
esterno contribuisce a

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Geografia dello sviluppo – Bignante, Celata, Vanolo

sostenere e legittimate i sistemi di dominazione sociale e politica pre-esistenti.


Il concetto di comunità è problematico. La comunità viene a volte individuata a
livello sociale o molto spesso a livello territoriale, si assume quindi che la
popolazione di un territorio costituisca una comunità omogenea. Non è così in
nessuna società. Le comunità possono includere identità sociali molto differenti e
sottintendono sempre un insieme di conflitti.
Strettamente connesso è il problema della rappresentanza. Chi rappresenta le
comunità? Gli enti sub-nazionali sono spesso considerati mera espressione del
governo centrale. Le strutture tradizionali di villaggio sono spesso fortemente
polarizzate intorno ai singoli individui leader. Gli altri membri del villaggio non solo
non hanno il diritto di prendere decisioni, ma non si considerano neanche nella
posizione di fare proposte.

2.4.4 Il post-sviluppo (manca)

3 Capitolo Terzo – Geografie ambientali dello sviluppo

¢o
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3.1 Questioni introduttive 8 manca)

3.2 Gli ecosistemi e i servizi ambientali

3.2.1 L’ambiente come ecosistema

Un ecosistema è costituito da un insieme di esseri viventi, dalle interazioni


che questi sviluppano tra di essi e con l’ambiente fisico in cui vivono. È un
complesso dinamico composto da piante e animali e dall’ambiente abiotico
circostante, elementi che interagiscono come un’unità funzionale. Si
compone di comunità biotiche (esseri viventi), di comunità abiotiche
(elementi non viventi).
Studiare un ecosistema significa esaminare le interazioni tre le diverse
componenti dell’ambiente. Valutare la qualità di un ecosistema significa
prendere in considerazione la sua biodiversità e stabilità. La
biodiversità indica la quantità di specie, patrimoni genetici esistenti sulla
Terra, svolge una funzione molto importante nell’erogazione dei servizi
naturali.
La stabilità è la capacità di un sistema di rispondere a situazioni di disturbo
mantenendo il proprio equilibrio. La stabilità in senso statico indica la
capacità di resistenza di un sistema, cioè la capacità di assorbire uno shock
senza modificare il proprio stato. In senso dinamico la stabilità dà luogo alla
resilienza, cioè della capacità di rispondere a sollecitazioni ritornando al
proprio stato originale, senza perdere o modificare le proprie caratteristiche.
La fragilità esprime la facilità con cui un sistema può subire modifiche
irreversibili.

3.2.2 L’ambiente come servizio

Gli ecosistemi grazie alle proprietà di cui godono erogano servizi che
rendono possibile la vita sulla Terra. I servizi offerti dagli ecosistemi
rappresentano prestazioni che gli ecosistemi e le diverse specie che li
compongono rendono all’ambiente, sostenendo la vita umana. Le quattro
principali tipologie di servizi eco sistemici sono:
1. Servizi di produzione attraverso i quali gli ecosistemi forniscono
beni come cibo, acqua

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fresca e risorse
2. Servizi di regolazione governano gli equilibri dell’ecosistema
3. Servizi culturali tutti quei benefici di carattere immateriale che gli
individui ricavano dall’ambiente, tra cui i valori estetici, culturali
¢. Servizi di supporto hanno impatto indiretto sulla vita umana e
includono le funzioni
necessarie per la produzione degli altri servizi eco sistemici

3.2.3 Ambiente naturale e antropico: il metabolismo sociale

Un ecosistema è difficilmente scorporabile dalla componente antropica con


cui entra in contatto. I sistemi ecologici e i sistemi antropici convivono e
interagiscono in maniera così ricca e complessa da rendere spesso difficile
tentare di distinguerli.
Il modello teorico del metabolismo sociale vede nell’auto-organizzazione di
un sistema grazie a un insieme di processi interni la sua capacità di
ricostruirsi. Con il termine metabolismo si fa riferimento all’insieme dei
diversi scambi di energia e materia che avvengono tra gli ecosistemi e la
società. Si può immaginare di scomporre un sistema socio-economico in
due sfere interagenti di relazioni, una regolata dalle leggi naturali e che si
riproduce attraverso processi fisici e biologici, e una sfera culturale nella
quale i processi di comunicazione simbolica permettono al sistema di
riprodursi e modificarsi. Queste due sfere sono alla base del funzionamento
dei sistemi socio-ambientali: un sistema socio-economico per garantire la
propria esistenza preleva e utilizza risorse naturali dalla sfera naturale
attribuendovi valori materiali e significati.
Ogni tentativo classificatorio inevitabilmente semplifica la realtà e non dà
conto di forme ibride, è possibile individuare tre principali modalità di
sostentamento che si sono succedute nel tempo:
1. Società dei cacciatori-raccoglitori caratterizzata da sistemi di
energia solare non
controllata e poggianti sull’estrazione di biomassa dagli ecosistemi.
2. Società agraria sistema a energia solare controllata, basato sulla
produzione di agro- ecosistemi attraverso la domesticazione di
piante

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e animali
3. Società industriale basata su un sistema a energia fossile e
sull’estrazione di minerali da
depositi geologici.

3.3 Le risorse ambientali e i limiti dello sviluppo

3.3.1 L’ambiente come risorsa

Nel linguaggio comune con risorsa naturale s’intende tutto ciò che si trova
in natura e che può essere utilizzato per trarre qualche forma di beneficio.
La maggior parte delle attività umane per essere compiuta richiede delle
risorse.
Le tipologie di risorse utilizzate e le modalità di sfruttamento cambiano nel
tempo e nello spazio, secondo i differenti modelli socio-culturali. A lungo il
pensiero economico ha dato centralità in particolare a due tipologie di
risorse naturali, la terra e le materie prime. Le materie prime sono state
considerate per molto tempo risorse illimitate. A partire degli anni Sessanta
e Settanta si è diffusa la consapevolezza che alcune risorse sono esauribili.
Le risorse non rinnovabili sono soggette a esaurimento, sia a causa del
venire meno delle condizioni per la loro rigenerazione, sia quando questa
rigenerazione richiede tempi troppo lunghi e costi troppo elevati. Si parla si
esaurimento economico quando il costo per l’estrazione della risorsa supera
il suo valore economico. Le risorse non rinnovabili sono per esempio le
risorse minerarie e i combustibili fossili. Sono invece rinnovabili quelle
risorse che sono in grado di rigenerarsi in tempi ragionevoli.
Centrale nel dibattito sull’esaurimento delle risorse non rinnovabili. Il
consumo di energia dipende da molti fattori. Il consumo di energia è
cresciuto con il passaggio da economie prevalentemente agricole a
economie industriali.
Il problema dell’esaurimento delle risorse energetiche non rinnovabili
rappresenta un tema estremamente attuale. L’aumento dei prezzi delle
risorse energetiche non rinnovabili e la diminuzione delle quantità disponibili
legate a una pluralità di concausa, la difficoltà di accesso a causa di
problemi

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politici o dai conflitti nei paesi produttori, hanno spinto verso la ricerca di
fonti alternative, rinnovabili, in grado di diminuire la dipendenza economica.
Le energie rinnovabili vengono anche definite pulite quando non emettono
in atmosfera sostanze nocive. Non necessariamente le energie rinnovabili
rappresentano fonti energetiche sostenibili. Il loro utilizzo su vasta scala può
compromettere profondamente il paesaggio.

3.3.2 Risorse naturali e sviluppo economico

Lo sfruttamento intensivo delle risorse naturali ha in ogni caso rilevanti


effetti ambientali. Lo sfruttamento delle risorse naturali è strumentale per il
raggiungimento degli obiettivi di sviluppo. Il progresso economico e
tecnologico non sempre è compatibile con l’efficienza e poca attenzione è
stata rivolta tradizionalmente ai potenziali danni all’ambiente o alla
sostenibilità nel lungo periodo dei modelli di sviluppo di volta in volta
promossi. La Terra è stata a lungo considerata una riserva illimitata da cui
prelevare risorse e un deposito inesauribile in cui collocare i sottoprodotti
delle attività umane.
Gli unici limiti individuati sono costituiti dalle frontiere dell’innovazione
tecnologica e della crescita economica, che superati consentiranno di
accumulare e produrre nuove risorse.
Non solo nelle economie capitalistiche la modernizzazione ha prodotto gravi
danni: molti governi comunisti e socialisti hanno condotto politiche di
sviluppo dannose per l’ambiente.
Esempi:
1. Lago d’Aral. Negli anni ’70 il lago ha iniziato a ritirarsi. Nel 1993 il suo
volume era diminuito al punto da dividere il lago in due bacini. Con il
ridursi del livello del lago, sale e polvere sono stati sospinti nei fiumi
e nei sistemi d’irrigazione, aumentando l’inquinamento e causando
danni alla salute umana. Anche le attività economiche hanno visto
diminuire i propri introiti.

2. Diga delle Tre Gole in Cina. Sia per il pesante impatto ambientale
determinato dalla costruzione dell’infrastruttura, sia per i problemi
sociali legati allo spostamento forzato delle popolazioni che vivevano

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in quelle aree. Al tempo stesso la produzione di energie elettrica


che la diga ha reso possibile ha contribuito a diminuire la dipendenza
del paese dal carbone e quindi dalla produzione di diossina.
oi impatti ambientali di lungo periodo sono stati sacrificati nel nome di una
crescita economica di breve e medio termine. L’approccio utilizzato può
essere riassunto con lo slogan “Crescere ora, pulire dopo”. Tuttavia il
processo di pulizia è spesso lungo e costoso.

3.4 L’impatto degli individui sull’ecosistema e gli squilibri ambientali

Una risorsa può anche subire un peggioramento della sua qualità. Si parla in
questo caso si degrado della risorsa e più in generale di degradazione ambientale.
Degradare significa deteriorarne le proprietà. Questo può avvenire perché la
risorsa viene sfruttata a ritmi più veloci di quelli necessari per la sua rigenerazione,
oppure quando la concentrazione di sostanze inquinanti supera i livelli di guardia.
Il danneggiamento può avvenire per cause naturali o per cause indotte dall’essere
umano. Il concetto di degrado è soggettivo. Il degrado può essere percepito da
alcuni gruppi e non da altri (Es:la cementificazione della costa ligure per alcuni è
un degrado ambientale, mentre per altri è una forma di valorizzazione turistica).

3.4.1 Il degrado dell’ambiente causato dall’inquinamento


atmosferico, idrico e del suolo

Inquinare significa modificare la composizione di una risorsa in maniera tale


da nuocere alla salute umana. Esistono tre forme d’inquinamento:
1. Inquinamento Atmosfericosi verifica introducendo nell’aria
sostanze in eccesso rispetto
alla
capacità di assorbimento da parte dei processi naturali, con
implicazioni per il funzionamento degli ecosistemi e con rischi per la
salute umana. Per quanto sia prodotto a livello locale, al contempo si
tratta di un problema globale, in quanto ne è coinvolta gran parte
delle città del mondo. La quasi totalità delle megalopoli supera il
livello d’inquinanti determinato dall’Organizzazione Mondiale della
Sanità, oltre il quale la salute umana è a rischio.
2. Inquinamento idrico viene misurato con riferimento alle

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caratteristiche qualitative necessarie perché l’acqua sia in grado di


svolgere le funzioni a cui a seconda dei casi è utilizzata. Le principali
cause sono gli scarichi urbani, gli scarichi industriali, le attività
agricole o l’estrazione di minerali. In molte città del Sud globale,
l’acqua che arriva nei rubinetti delle abitazioni è di qualità così bassa
da mettere a rischio la salute dei cittadini.
3. Inquinamento del suolo l’erosione del suolo, è una forma di
degradazione causata da un
deterioramento che il naturale processo di rigenerazione non riesce a
contrastare. I processi di formazione del suolo avvengono in tempi
molto lunghi. L’erosione del suolo è una componente del più vasto
processo di desertificazione. La desertificazione avviene quando il
suolo è periodicamente privato di sostanze nutritive. La
desertificazione può essere acuita dalla siccità o dall’azione di
animali selvatici che distruggono il manto vegetale. La degradazione
del suolo può anche avvenire per ragioni naturali. Le tipologie di
degradazione che il suolo può subire sono molteplici. Tra queste ci
sono la diminuzione di sostanza organica che può essere causata da
deforestazione. Anche la perdita di biodiversità può dipendere da
forme di degrado del suolo. Anche guerre e conflitti causano
degradazione del suolo.

3.4.2 La deforestazione

La rimozione di foreste e boschi è uno degli aspetti più evidenti e discussi di


degrado ambientale.
La deforestazione non è un fenomeno recente: nel Medioevo buona parte
dell’Europa è stata disboscata. Ciò che cambia è l’accentuarsi della rapidità
con cui questo fenomeno incede. Si calcola che il 70% della perdita di
foresta avvenuta negli anni Settanta sia stata determinata da conversione
agricola. Sono causa di deforestazione l’estrazione del legname, la
realizzazione d’infrastrutture e gli incendi.
La deforestazione rappresenta una minaccia per la salute ambientale
globale per via dei servizi ambientali che foreste e boschi garantiscono. Le
foreste

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forniscono radici, frutti e regolano una molteplicità di servizi ecologici.


Oltre 300 milioni di persone dipendono dai prodotti della foresta per la sua
sussistenza e la maggior parte di questi vive sotto la soglia di povertà.

3.4.3 Il cambiamento climatico

Fino a un certo livello l’atmosfera, gli oceani, la vegetazione e il suolo sono


in grado di assorbire determinati elementi inquinanti, oltre una certa soglia
questi non riescono a essere smaltiti dagli ecosistemi dando luogo al
problema del riscaldamento della temperatura terrestre. La quantità di
ossido di carbonio e altri gas serra presenti nell’atmosfera concorre a
determinare la temperatura della Terra. La quantità di calore presente sul
pianeta è controllata dall’effetto d’isolamento prodotto dai gas setta: questi
funzionano come i vetri di una serra. Senza l’effetto di questi gas la
temperatura media della Terra sarebbe di almeno 30 gradi in meno di quella
attuale. Tuttavia un aumento eccessivo dei gas serra può contribuire a far
aumentare la temperatura terrestre e avere conseguentemente impatti
duraturi sul clima. Gli studi condotti hanno evidenziato non solo un forte
aumento della concentrazione di gas serra nell’atmosfera, ma anche la
stretta relazione esistente tra attività umane e produzione di gas serra. Sulle
basi nelle analisi condotte, l’IPCC ha tracciato scenari preoccupanti per il
futuro della Terra. Il cambiamento climatico è stato definito uno dei principali
problemi che l’umanità si troverà a dover affrontare.
Ciò che una parte della comunità scientifica internazionale rivela è che il
cambiamento climatico mette in pericolo la vita sulla Terra in più modi.
Un’altra parte della comunità scientifica non concorsa con tali previsioni.
All’IPCC viene contestato l’aver preso in considerazione un periodo troppo
limitato rispetto alla storia del nostro pianeta e che anche in assenza
dell’uomo la Terra è stata soggetta in passato a fasi di surriscaldamento.
Il riscaldamento globale è un esempio di un problema ambientale
sovranazionale i cui impatti si estendono oltre i confini nazionali e legano i
destini dei vari paesi.
Molti movimento e associazioni sono nati per sollecitare un’azione
immediata e portare all’attenzione dell’opinione pubblica le disparità socio-
spaziali con

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Geografia dello sviluppo – Bignante, Celata, Vanolo

cui i problemi ambientali investono i diversi contesti del mondo.

3.4.4 La perdita di biodiversità

La biodiversità può essere ricondotta a differenze in termini di ecosistemi,


specie e materiale genetico e indica il grado di varietà presente sulla Terra.
Non esiste una definizione univoca del concetto.
Ciò che è certo è che l’impatto delle attività umane sulla riduzione della
varietà di specie sulla Terra è cresciuto con lo sviluppo industriale.
L’importanza della biodiversità è legata a una pluralità di aspetti: al valore
materiale delle forme di vita, ai potenziali produttivi.
Ci sono poi valori immateriali di carattere più soggettivo, legati all’estetica,
alle credenze religiose che hanno la conservazione della natura e del
paesaggio.
È difficile stimare il valore della perdita di biodiversità, anche perché non
esiste un accordo unanime sui parametri da prendere in considerazione.
Inoltre solo una parte delle specie presenti sulla Terra sono state ad oggi
identificate e il concetto di specie non è così univoco come si può pensare a
prima vista.
Più facile definire le cause della perdita di biodiversità: la prima causa è
l’intensificazione dell’agricoltura, che include la manipolazione genetica
delle specie. L’aumento delle monoculture ha portato a una perdita di
varietà genetica e a una maggior vulnerabilità ai predatori. Oggi il 70% del
riso prodotto in Indonesia discende da una singola pianta.
La perdita di biodiversità è una delle principali preoccupazioni di chi si
oppone all’introduzione di organismi geneticamente modificati. Al contempo
è difficile definire quali siano gli impatti della perdita di biodiversità

3.5 Il concetto di natura e la pluralità di nature

3.5.1 La costruzione sociale della natura

Il concetto di natura è al contempo sfuggevole e difficile da definire. Ciò che


è difficile è il rapporto tra esseri umani e ambiente, tra società, cultura e
natura.

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Negli ultimi decenni si è diffuso nelle scienze sociali un approccio


costruttivista secondo il quale la natura non esiste di per sé, in quanto non
è qualcosa di dato e separato dall’uomo. Il concetto di natura è una
costruzione sociale. Il problema non sarebbe solo quello di proteggere la
natura, ma stabilire quale natura sia necessario proteggere e quali siano le
conseguenza delle diverse prospettive di volta in volta adottate.
Seguendo l’approccio costruttivista, di Castree, la natura è costruita
socialmente sia da un punto simbolico che materiale. Castree discute di
come l’ambiente naturale sia prodotto materialmente dall’uomo in quanto
l’esistenza della natura è implicitamente o esplicitamente legata all’azione
umana. Tutta la superficie terrestre è esito di un modellamento umano. Non
esistono ambienti esclusivamente naturali, anche gli spazi più selvaggi e
incontaminati rilevano la stratificazione d’interventi antropici.
Ma la natura è un concetto plurale soprattutto perché può assumere
significati diversi. Nel pensiero occidentale di epoca moderna il concetto di
natura si è progressivamente affermato in contrapposizione alla società e
agli spazi antropizzati: tutto ciò che non è trasformato dalle società umane.
Alcuni studiosi sostengono che le rappresentazioni artistiche del paesaggio
abbiano contribuito a costruire una concezione della natura come oggetto
esterno.
Cosa viene considerato natura, quali valori le vengono attribuiti sono alcuni
degli aspetti indagati dagli studiosi dell’ecologia politica. Uno degli obiettivi è
esaminare criticamente i discorsi ambientalisti, le politiche ambientali, il
linguaggio utilizzato dalle scienze naturali per comprendere quali significati
vengono attribuiti alla natura e per raggiungere quali scopi. L’ecologia
politica sottolinea che le diverse visioni e modalità d’intendere il rapporto
con la natura nei diversi luoghi si ripercuotono su come differenti gruppi
sociali utilizzano l’ambiente e si rapportano con le sue risorse.
La convinzione che esistesse una natura vergine che per non essere
sciupata e compromessa necessitasse di essere preservata dalla presenza
umana ha condotto a interventi di tutela che non prevedevano la presenza
di comunità umane nelle aree parco. Interventi di conservazione della
natura che quindi appaiono neutrali dal punto di vista politico e sociale,
hanno effetti determinati che devono essere analizzati attentamente.
L’approccio costruttivista critica la concezione di una natura esterna e

¢Q
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separata dall’azione umana, definita in opposizione ad altre categorie, di


volta in volta diverse. La prospettiva dell’ecologia politica evidenzia come
determinate percezioni del mondo naturale influenzano le modalità di
gestione dei sistemi socio-ecologici.
Per gli studiosi più radicali i significati attribuiti alla natura e le modalità e i
ritmi del suo sfruttamento non possono prescindere dalla considerazione
del sistema economico, sociale e politico più ampio all’interno del quale essi
si esercitano. L’obiettivo è politicizzare il dibattito ambientalista.

3.5.2 La conservazione della natura: strumenti, effetti, questioni


aperte

La conservazione degli spazi naturali avviene speso attraverso l’istituzione


di aree protette. Le aree protette sono frutto di processi di costruzione
sociale nei quali l’essere umano trasferisce sul territorio le proprie idee di
natura. La nascita della conservazione attraverso la creazione di parchi
viene fatta risalire all’istituzione nel 1872 del parco nazionale di
Yellowstone, negli USA. In Italia, il principale riferimento normativo in tema
di aree protette è la Legge quadro sulle aree protette finalizzata alla
valorizzazione della biodiversità. Le aree protette italiane rappresentano il
12% del territorio nazionale e si concentrano nelle Alpi e negli Appennini.
Il modello della conservazione integrale è stato esportato attraverso la
dominazione coloniale in molti paesi del Sud del mondo. In Tanzania furono
distinte le aree da destinare alla produzione agricola da quelle da destinare
alla conservazione, legittimando un controllo statale sulle risorse naturali più
importanti nelle località ritenute più fertili e imponendo il divieto di pascolo,
di coltivazione e di disboscamento a comunità che per secoli avevano
sfruttato collettivamente queste terre. Negli anni Settanta il safari di caccia
rappresentava la forma principale di turismo nelle riserve e nelle aree di
caccia controllate dalla Tanzania.
La conservazione integrale produce risultati in termini di mantenimento della
copertura arborea delle aree protette e della biodiversità, ma solleva
rilevanti questioni di giustizia sociale ed equità. A ciò si aggiungono
riflessioni e studi che hanno mostrato come le risorse naturali possano
essere conservate in

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maniera più efficace attraverso un loro utilizzo consapevole da parte delle


persone.
Negli anni Novanta si è assistito a livello internazionale a un progressivo
spostamento dai modelli di gestione ambientale centralisti e top-down verso
approcci maggiormente orientati all’inclusione delle comunità locali nella
gestione delle aree protette attraverso attività co-gestione.

3.6 L’analisi dello stato dell’ambiente (manca)

3.7 Le politiche ambientali

3.7.1 Gli attori delle politiche ambientali

Il cambiamento fisico e ambientale dei luoghi è il risultato di azioni o


mancate azioni che traggono origine da condizioni ambientali e culturali
specifiche. Così azioni di salvaguardai in un luogo possono avere effetti in
altri luoghi. Questo evidenzia come i processi di cambiamento non siano
mai neutrali da un punto di vista sociale o ecologico. Per questo gli
interventi di sostenibilità socio-ambientale sono fondamentalmente questioni
politiche che definiranno soggetti che si avvantaggeranno e soggetti che
subiranno perdite di diverso tipo. E la risposta dei singoli governi, delle
imprese, delle diverse associazioni ambientali raramente è la stessa. Chi
deve adempiere alle diverse questioni ambientali?
Da un lato ci sono le politiche ambientali istituzionali, di competenza di
soggetti diversi secondo l’ordine di ogni paese. Dall’altro la gestione e il
controllo in campo ambientale è affidate a varie agenzie. Il compito di
queste agenzie è controllare il rispetto della normativa ambientale vigente,
supportare l’amministrazione nelle attività di programmazione,
amministrazione, informazione ed educazione in campo ambientale.
I soggetti istituzionali non esauriscono il campo della politica ambientale.
Esiste un’ampia arena di soggetti che sono parte attiva nelle politiche
ambientali. Oltre alle organizzazioni internazionali e alle istituzioni
sovranazionali troviamo le imprese, le associazioni di categoria, i singoli
cittadini.
Le imprese si sono trovate progressivamente coinvolte come soggetti delle

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politiche ambientali. La loro opera spazia da azioni di lobby e di opposizione


a vincoli imposti dalle normative ambientali a tentativi di coniugare valori di
tutela ambientare con una migliore efficienza economica. Un numero
crescente di imprese ha adotta strumenti volontari di tutela ambientale con
finalità di promozione e di marketing che diventano strategie competitive
efficaci.
Una categoria che si è sviluppata negli ultimi anni è quella delle industrie
verdi, riconducibili a settori che vanno dal riciclaggio al monitoraggio
ambientale delle attività produttive.
La complessità delle questioni ambientali richiede che più attori concorrano
congiuntamente nella definizione di strategie d’intervento, dalla scala
comunale a quella internazionale, per indirizzare politiche e interventi nella
direzione auspicata. Un ruolo centrale è quello svolto dall’Unione Europea.
La politica ambientale comunitaria promuove azioni di salvaguardia
dell’ambiente e delle risorse naturali e la definizione di una normativa
comunitaria che attraverso regolamenti persegue obiettivi di miglioramento
della qualità ella vita e di tutela dell’ambiente.
Si usa spesso il termine global governance, intendendo una modalità
attraverso cui il potere politico viene esercitato alla scala globale non solo
dai governi nazionali, ma anche da istituzioni sovranazionali e non
governative e soggetti privati. Se in passato le decisioni ambientali erano
prese nella maggior parte dei casi dai governi, responsabili di mettere in
atto politiche a livello nazionale, oggi il ruolo giocato dagli Stati cambia e
risulta ridimensionato.
Gli accordi di governance si sono dimostrati fino ad oggi estremamente
difficili da raggiungere e rispettare. L’adesione agli accordi internazionali è
su base volontaria e si caratterizza spesso per i forti conflitti o il disinteresse
a definire accordi vincolanti. Gli interessi dei vari paesi sono spesso
divergenti e l’assenza di dati certi su incidenza ed esiti del degrado
ambientale rende ancor più difficile la sottomissione volontaria a limiti e
sanzioni da parte dei diversi paesi. Non esiste un’autorità centrale in grado
di svolgere funzioni di controllo sull’operato dei singoli paesi che
sottoscrivono le convenzioni.
Un esito collaterale della global governance è il consolidarsi di associazioni,
movimenti e organizzazioni di cittadini transnazionali. Una delle prime

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occasioni d’incontro di questi soggetti è stato il Global Forum che si è tenuto


a Rio; si tratta di un incontro a cui hanno partecipato oltre 600
organizzazioni ambientaliste impegnate in attività di cooperazione allo
sviluppo sostenibile è stato sottoposto a pesanti critiche.
Da un punto di vista spaziale, le rivendicazioni di questi movimenti si
caratterizzano per un’attenzione agli effetti che le questioni ambientali
hanno alla scala globale: non si perde di vista l’importanza delle
problematiche locali, ma queste vengono lette alla luce dell’operato di
organismi sovranazionali. Gli obiettivi dei movimenti considerano il tempo in
un’inedita ottica multidimensionale; non sono più legati esclusivamente alla
risoluzione dei problemi del presente, ma guardano con spirito pragmatico
alle prospettive future dell’umanità, siano esse relative all’ambiente.
I movimenti per la giustizia globale affermano un ideale di cosmopolitismo
situato, sensibile alle diversità culturali e sociali, nonché alle pratiche
quotidiane che possono avere un potere trasformativo. Si parla di
cittadinanza attiva e di consumo consapevole. La cittadinanza attiva
promuove la responsabilizzazione dei cittadini nella tutela dei propri diritti,
così come l’informazione circa le condizioni socio-ambientali di produzione
dei diversi beni. Un consumo consapevole non si basa esclusivamente su
considerazioni relative al prezzo e alla qualità dei prodotti, ma significa
denunciare processi produttivi nocivi per l’ambiente.

3.7.2 Alcuni strumenti delle politiche ambientali

Le politiche ambientali si trovano a dover operare prioritariamente in due


ambiti:
1. Disinquinamento appartengono a queste politiche gli interventi di
risanamento a valle del processo produttivo, volti a trattare gli scarti
indesiderati, o portandoli a livelli considerati tollerabili di pericolosità,
o spingendosi a riciclare gli scarti
2. Prevenzione agiscono nell’ottica d’incentivare meccanismi virtuosi
per limitare il verificarsi di
situazioni d’emergenza.
Con riferimento alle strategie preventive del cambiamento climatico si

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distinguono:
1. Interventi di mitigazione s’intendono tutti quegli interventi atti a
ridurre le emissioni di gas serra in modo da stabilizzarne la
concentrazione in atmosfera attorno a valori che consentono di
contenere l’aumento di temperature entro i valori soglia.
2. Interventi di adattamento comprendono gli interventi preventivi
attuati per attenuare gli
impatti a cambiamenti climatici in corso e inevitabili
Le politiche ambientali non sono chiamate a scegliere tra politiche di
disinquinamento e politiche preventive, bensì a percorrerle entrambe
contemporaneamente.
Uno degli approcci più noti utilizzati dalle politiche di risanamento è il “chi
inquina paga”, uno dei pilastri della politica ambientale europea. Chi inquina
è chiamato a sostenere le spese necessarie a compensare i costi socio-
ambientali prodotti.
Gli strumenti regolativi operano seguendo la logica definita del command
and control, che costituisce la base della normativa ambientale in Italia:
vengono definite regole e codici di comportamento il cui rispetto è
sottoposto a verifiche e riscontri da parte dell’amministrazione pubblica o di
altri soggetti. Esistono anche strumenti economici. Essi agiscono
modificando i prezzi di mercato di determinati prodotti attraverso sistemi di
tassazione, incentivazione o attraverso obblighi assicurativi, rendendo
economicamente meno vantaggioso inquinare. Sono strumenti di tipo
economico le tasse ambientali, come le tasse sulle emissioni, sui prodotti,
per i servizi, con deposito a rendere.
Esistono anche gli strumenti volontari. Prendono piede negli anni Ottanta e
si basano su un’adesione volontaria delle imprese. si tratta di azioni che
possono favorire la costruzione di un’immagine positiva dell’impresa verde.
Uno di questi è il bilancio ecologico che indica gli strumenti:
Analisi del ciclo di vita - esamina gli impatti ambientali di un bene in tutte
le fasi di produzione
1. Sistemi di etichettatura - rappresentano uno strumento per orientare
il consumatore


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nell’acquisto attestando che il prodotto offra le migliori prestazioni


ambientali
2. Bilanci e rapporti ambientali - raccolgono le informazioni ambientali
sull’operato dell’azienda, sempre più frequentemente richieste non
solo dall’ente pubblico ma anche dai consumatori
3. Sistemi di ecogestione - forniscono riconoscimenti ufficiali del grado
di eccellenza della gestione ambientale di un’impresa. Per ottenerli è
necessario sottoporsi a procedure di certificazione che possono
richiedere modifiche del processo di produzione
¢. Accordi volontari - stipulati tra una o più imprese e
l’amministrazione pubblica. Si tratta di contratti che individuano
obiettivi ambientali che le imprese s’impegnano a raggiungere in
tempi definiti.
A questi strumenti vanno aggiunte le politiche ambientali territoriali, volte a
proteggere e gestire specifiche aree.

3.8 Geografie politiche della sostenibilità:giustizia ambientale ed


equità sociale

Il dibattito sullo sviluppo sostenibile si è sempre intrecciato con riflessioni sulla


giustizia ambientale. Il dibattito sulla giustizia ambientale pone l’accento sul diritto
degli abitanti di poter incidere sui processi costitutivi della vita associata. Secondo
Bryant la giustizia ambientale si riferisce a quell’insieme di regole, valori, norme
culturali attraverso cui si strutturano comunità sostenibili dal punto di vista
ambientale.
L’importanza dei movimenti urbani per la giustizia ambientale risiede nella
riaffermazione della consapevolezza di come le problematiche ecologiche
debbano essere comprese e affrontate nel contesto dei rapporti sociali. alcuni
studiosi sostengono che la sostenibilità è stata un progetto degli ambientalisti ma
ha ignorato più ampie questioni sociali, in particolar modo legate alla giustizia
sociale e all’equità economica. Il concetto di sviluppo sostenibile richiede la
comprensione delle complesse relazioni che si strutturano tra degrado ambientale,
sviluppo economico e temi sociali.
La giustizia ambientale ha guadagnato ampia popolarità politica e scientifica. Le

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differenze di classe, cultura e genere sono centrali nel discorso ambientalista.


L’accesso a risorse e servizi non è lo stesso per le persone che abitano in un
medesimo luogo.
Il problema delle disuguaglianze di accesso a un bene comune come l’acqua può
essere osservato dalla prospettiva dei gruppi svantaggiati, che subiscono per
questo forme di ingiustizia ambientale. Alcuni studiosi hanno mostrato come il
problema della cronica carenza d’acqua che affligge la Sicilia e il suo
aggravamento in seguito alla crisi del 2002 sono stati strumentalizzati dalle élite
locali nell’intento di attrarre flussi di spesa pubblica.
Inoltre l’accesso all’acqua è profondamente ineguale: a causa della carenza
d’infrastrutture i residenti poveri pagano un prezzo molto più elevato per uno
stesso quantitativo di acqua, e sono soggetti a malattie molto più dei ricchi. La
privatizzazione dei servizi idrici ha portato in molti paesi a tariffe più alte e con la
conseguente necessità di tagliare su altre spese.
Chi è povero si trova molto spesso a vivere in ambienti degradati o in aree fragili dal
punto di vista ambientale. Quello ambientale è un problema globale, ma i suoi
risvolti sono locali e differenziati.
Catastrofi naturali richiedono un intervento rapido e immediato che solo in alcuni
luoghi è possibile mettere in atto, producendo effetti diseguali sui vari gruppi
sociali. tali disuguaglianze sono venute alla luce in occasione dell’uragano Katrina
nel 2005 che ha distrutto interi quartieri a New Orleans: i quartieri neri hanno
subito vere e proprie devastazione, mentre i quartieri bianchi sono stati o
risparmiati o hanno potuto beneficiare d’interventi di risistemazione degli spazi
residenziali più celeri ed efficaci. L’amministrazione di George W. Bush ostacolò
l’organizzazione di una strategia efficace d’intervento a livello federale a favore dei
quartieri e dei gruppi più deboli, inducendo le comunità di residenti ad auto-
organizzarsi in comitati di quartiere per sollecitare il processo di ristrutturazione.
La scala a cui il rapporto tra povertà e degrado ambientale viene analizzato, è
dirimente. Molti problemi hanno una diffusione globale, ma i loro impatti sono
percepiti alla scala locale. Le soluzioni per risolvere tali problemi alla scala locale
non necessariamente corrispondono a quelle auspicate alla scala globale.
Per quanto sulle problematiche ambientali e sulle loro soluzioni si registri un
sostanziale consenso, i risultati effettivi sono costantemente al di sotto delle attese
mentre la gran parte delle cause di tali problemi è per definizione esclusa da cosa

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debba considerarsi una politica ambientale.

4 Capitolo Quarto – Popolazione, mobilità e cultura

4.1 Introduzione (manca 2pag.)

4.2 La popolazione del nostro pianeta: un quadro di squilibri e


disuguaglianze

4.2.1 L’aumento della popolazione mondiale

Per gran parte della storia dell’umanità, la crescita della popolazione


mondiale è rimasta vicino allo zero. La popolazione ha iniziato a
crescere con la rivoluzione agricola e industriale del diciottesimo secolo.
Questo aumento nel corso del ventesimo secolo è divenuto
particolarmente rapido nel paesi del Sud del mondo. La popolazione
mondiale è cresciuta di più dal 1950 ad oggi che non in tutta la
precedente storia dell’umanità:
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nell’anno 100 la popolazione era di 275 milioni di persone, tra il 1804 e il


1920 gli abitanti sono passati da 1 a 2 miliardi, e nel 1975 erano 4
miliardi. Nel 2013 la popolazione ha raggiunto i 7 miliardi.
Le proiezioni demografiche dell’ONU prevedono che la popolazione
mondiale continuerà a crescere e raggiungerà i 9 miliardi nel 2040, questo
perché il 27% degli abitanti ha meno di 15 anni. L’aumento della
popolazione potrebbe proseguire fino al 2100.

4.2.2 Natalità e mortalità nelle diverse regioni del pianeta

A determinare le dinamiche delle popolazioni umane sono quelli che i


demografi definiscono gli interessi costituiti dalle nascite e dalle
immigrazioni, e le uscite, determinate da decessi ed emigrazione. Il calcolo
della variazione numerica di una popolazione avviene sommando il saldo
naturale (differenza tra nascite e morti) al saldo migratorio (differenza tra
immigrati ed emigrati). La dimensione assoluta della variazione della
popolazione è un dato che per essere utilmente interpretato va messo in
relazione con la dimensione della popolazione. I quozienti demografici sono
esempi di frequenze relative che ci permettono di definire quanti eventi di un
certo tipo si verificano in una determinata unità di tempo stabilità per ogni
elemento costitutivo della popolazione.
Il tasso di natalità è il rapporto tra il numero delle nascite osservate in
una popolazione e l’ammontare di questa popolazione. Se non è
specificato altro, l’espressione tasso di natalità indica il tasso generico di
natalità annuo. Il tasso di natalità misura l’intensità delle nascite con
riferimento alla popolazione nel suo complesso, senza tenere conto in
modo specifico dei soggetti che possono aver contribuito alla
produzione di tali nascite. Il tasso di fecondità tiene conto di questo
aspetto concentrandosi sul sottoinsieme delle donne in età riproduttiva.
Questo indice ci consente di fare previsioni sulle tendenze evolutive di
una popolazione. Una tasso di fecondità pari a 2 comporta una leggera
diminuzione della popolazione, un tasso pari a 1 ne determina una
drastica riduzione. Per raggiungere il livello si sostituzione delle
generazioni, questo tasso deve essere parai a 2,1 figli per donna. Il
tasso di fecondità mondiale è oggi pari a 2,5, in USA

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si assesta a 1,9, in Africa a 5,8, mentre in Europa a 1,5.


La fertilità dipende da dinamiche culturali, sociali ed economiche. Diversi
studi hanno evidenziato come la povertà comporti una più elevata natalità
per una pluralità di ragioni: le donne sono meno libere di esprimersi circa le
scelte di pianificazione familiare, si sposano molto giovani e fanno minor
uso di pratiche contraccettive. L’occupazione femminile, il desiderio di fare
carriera, si traducono in una riduzione dei tassi di fecondità.
A influenzare le dinamiche demografiche deve essere considerata anche la
mortalità.
Il tasso di mortalità indica il numero di decessi ogni mille abitanti in un
periodo di tempo definito. Questi tassi presentano un grande variabilità
demografica, e sono influenzati da fattori diversi. Nel passato le epidemie
hanno fortemente limitato la crescita della popolazione. Ora molte epidemie
sono contrastate con misure sanitarie; alcune di queste, tuttavia, rimangono
cause di mortalità nei paesi del Sud e in quelli più poveri. Anche determinati
comportamenti sociali influenzano la mortalità: i rapporti sessuali non
protetti in contesti caratterizzati da condizioni sanitarie precarie. Nei paesi
ricchi, la possibilità di accesso alle cure sanitarie contribuisce a elevare la
vita media delle persone sieropositive a quello del resto della popolazione.
La mortalità dipende anche dal livello d’istruzione e del reddito: soprattutto
dove i servizi nazionali non raggiungono che alcuni luoghi o sono in grado di
fornire solo determinate cure. Un’altra causa di mortalità è la scarsa
manutenzione delle infrastrutture viarie, le guerre e i conflitti.
Gli indici che vengono utilizzati per comprendere la qualità delle condizioni
sanitarie, sociali ed ambientali sono:
1. Tasso di mortalità infantile indica la mortalità che colpisce i nati vivi
entro il primo anno di
vita e si ottiene calcolando il numero dei bambini morti tra la
nascita e il primo compleanno ogni mille nati vivi nello stesso
anno.
2. Speranza di vita alla nascita indica il numero medio di anni che
una persona può
statisticamente aspettarsi di vivere al momento della sua nascita. La

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speranza di vita media nel mondo è di 68 anni (in Italia 82)

4.2.3 La transizione demografica

L’andamento dei tassi di mortalità e natalità è andato modificandosi in


maniera rilevante nel tempo. Cerca di spiegare tali variazioni il modello della
transizione demografica, che analizza il tasso di crescita naturale e
ricostruisce il passaggio da tassi di natalità e mortalità elevati a valori
inferiori, in alcuni casi prossimi allo zero.
Una transizione demografica è un processo di passaggio da una situazione
di equilibrio caratterizzata da alti tassi di natalità e mortalità, a una
situazione di equilibrio caratterizzata da tassi di natalità e mortalità entrambi
molto bassi. Il modello individua 4 fasi:
1. Prima fase pre-transizione è caratterizzata come detto da una bassa
speranza di vita e da alti tassi di natalità e di mortalità. Gli alti tassi di
natalità sono dettati dalla necessità di compensare l’elevata mortalità
e far sì che alcuni figli raggiungano l’età adulta.
2. Seconda fase prima transizione, la mortalità inizia a diminuire
grazie a un miglioramento
delle condizioni di vita. L’incidenza di fame, carestie ed epidemie
diminuisce. Il tasso di natalità continua a rimanere elevato perché la
tendenza a fare più o meno figli ha radici nella cultura di una società
e quindi si modifica più lentamente. La popolazione aumenta
esponenzialmente
3. Terza fase caratterizzata da una diminuzione del tasso di crescita
naturale della popolazione.
Fattori tra cui le innovazioni tecnologiche nel settore agricolo e
industriale, il miglioramento del sistema di educazione e della
legislazione portano a una diminuzione del valore sociale e
economico della prole.
4. Quarta fasela transazione demografica può dirsi completa. Il tasso
di mortalità raggiunge il livello più basso e poiché la fertilità continua
stabilmente a diminuire, il tasso di crescita della popolazione si
assesta su livelli bassi.

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4.3 Popolazione e risorse (manca 1 pag.)

4.3.1 La distribuzione della popolazione mondiale

I 7 miliardi di persone che abitano sulla terra non sono distribuiti in modo
omogeneo nelle varie parti del pianeta. Questo è in parte l’esito delle differenze
nella crescita della popolazione e nella sua composizione demografica, in parte
dipende da fattori naturali, economici.
La carta della distribuzione della popolazione è un’anamorfosi cartografica che
assegna a ciascuno Stato una dimensione proporzionale alla sua popolazione: più
sono gli abitanti e maggiore è la superficie del paese nel cartogramma.
Dall’anamorfosi cartografica si evince che più della metà degli abitanti del nostro
pianeta vive in Asia, mentre appena un decimo della popolazione mondiale è
localizzato in Africa. Questo tipo di rappresentazione non consente di apprezzare
l’effettiva distribuzione geografica che è in genere estremamente squilibrata
all’interno di ciascun paese. Se non si considerano alcune piccole isole con alta
densità di popolazione e piccole enclave, i paesi più densamente popolati si
trovano in Asia e in Europa. Oltre a Groenlandia e Antartide, le regioni meno
densamente popolate della Terra sono Australia e Canada e le aree desertiche
dell’Africa.

4.3.2 L’aumento della popolazione e la finitezza delle risorse


(manca)

4.4 La mobilità delle popolazioni

Un fattore che influenza il cambiamento demografico è la mobilità delle persone. È


un fenomeno antico e il mosaico dei popoli del mondo è l’esito di articolati e ripetuti
spostamenti.

4.4.1 Il turismo: una forma di mobilità temporanea

Il turismo rappresenta uno dei settori che crescono più rapidamente nel
mondo, è diventato un fenomeno di massa a partire dagli anni Sessanta..
Il turismo non è un fenomeno recente: se i primi viaggiatori erano
soprattutto

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esploratori che andavano alla scoperta di luoghi ignoti, progressivamente


nel corso dell’Ottocento la pratica di recarsi a visitare altri territori si diffonde
tra le élite urbane europee e si afferma il gusto dello spostamento per
ragioni ludiche. Nel corso del Novecento si diffonde il gusto per lo
spostamento e la scoperta dei luoghi e un numero crescente di persone
investe tempo e denaro nel turismo, facendo si quest’esperienza un
bisogno, un desiderio. Oggi diverse fonti parlano del turismo come della più
grande industria del mondo, resiliente anche in tempi di crisi economica o di
fronte ad eventi terroristici.
Il turismo si esplica in una grande varietà di forme e modalità che vanno
dalla vacanza ristoratrice che mira al rigeneramento.
Chi viaggia opera delle scelte e ciascuno di noi ha una propria filosofia di
viaggio attraverso cui costruisce la propria soggettività. Chi siamo emerge
anche da come viaggiamo. Essere turista implica una costruzione del sé
che permette di definirci rispetto all’altrove. I nostri viaggi contribuiscono la
nostra geografia degli effetti, dei ricordi. Viaggiare significa creare rapporti
con altri spazi. Il viaggio e il turismo sono una forma di connessione tra i
luoghi. E i luoghi si formano anche attraverso queste interconnessioni e
attraverso questi scambi.
Un tema piuttosto indagato riguarda il ruolo del turismo come motore di
trasformazione territoriale e l’impatto che può avere sull’ambiente e sulle
società. Tale impatto può dipendere da un numero di turisti che supera le
capacità di carico di certe aree, non preparate dal punto di vista delle
infrastrutture e dei servizi ad accogliere un numero così alto di visitatori. In
alcune isole dei Caraibi il numero di turisti è superiore a quello degli abitanti.
Possono verificarsi inoltre danni ambientali dovuti al degrado diretto di
risorse naturali, esposte a un turismo aggressivo in zone sensibili dal punto
di vista ambientale. Un’attività turistica non adeguatamente contenuta e
gestita dalle amministrazioni locali può produrre degrado del suolo,
inquinamento (Es: il parco nazionale attorno al monte Everest è spesso
etichettato come l’immondezzaio a più alta quota del mondo). Ecoturismo,
turismo sostenibile, turismo responsabile rappresentano tentativi di dare
risposta a queste problematiche e di sperimentare sentieri alternativi
maggiormente attenti alla sostenibilità dei luoghi. Gli obiettivi di queste
forme di turismo alternativo sono

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limitare il numero di visitatori per tenere sotto controllo la pressione sulle


risorse, operare delle scelte adeguate circa le forme di alloggio proposte e
la loro localizzazione.
L’attività turistica è fortemente visibile e un motore fondamentalmente di
trasformazione dei territori che può sfociare in un’eccessiva edificazione,
nell’abusivismo edilizio, nella distruzione di foreste, nella loro
conservazione. Il turismo è potenzialmente fonte di conflitti nella
pianificazione delle destinazioni d’uso del suolo per fini alternativi.
I benefici economici derivanti dal turismo sono raramente ripartiti
equamente sul territorio e tra i differenti gruppi sociali. il turismo è in grado
di costruire specifiche interconnessioni tra i luoghi che rafforzano l’azione di
alcuni gruppi sociali e indeboliscono l’azione di altri. La speranza di un
guadagno più facile spinge molti giovani a migrare verso luoghi turistici e
intere comunità dedite ad attività agricole a convertire le proprie attività in
offerta turistica.
L’esperienza turistica è un qualcosa d’intangibile che non può essere
portato a casa. I luoghi vengono consumati visivamente, definito da Urry
come sguardo turistico. L’esperienza turistica si riduce alla mera
osservazione e alla spettacolarizzazione dei luoghi. Lo sguardo del turista è
costruito socialmente attraverso i media. Viaggiando cerchiamo simboli che
ci riportino a questa straordinarietà. Ciò che è tipico nella nostra mente lo è
diventato perché così ci è stato descritto e così ci aspettiamo di vederlo.
L’esperienza turistica assomiglia sempre meno ad una scoperta e si
qualifica sempre più come una conferma. Diventando prodotti che devono
competere con altre migliaia di destinazioni per attrarre visitatori, i luoghi
turistici rischiano di volere a tutti i costi assomigliare alla propria immagine,
e cioè si trasformano non solo perché si adeguano ad ospitare particolare
tipologie di turisti, ma perché cercano di corrispondere ad una particolare
interpretazione di come i visitatori se li immagino. Urry descrive il turismo
come parte della economia dei segni: è attraverso la circolazione della
cultura come prodotto che le località turistiche entrano a far parte
dell’economia globale. Ed è per questo che il turismo è una delle chiavi per
comprendere la nostra società.
Uno dei primi studi critici sul turismo è stato fatto da MacCannel, s’interroga
sul rapporto tra soggettività, autenticità ed esperienza turistica. Mentre
alcuni studiosi argomentano che è proprio grazie al turismo che certe
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culture

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tradizionali possono sopravvivere, perché il turismo ne crea un mercato,


altri sottolineano che se è vero che il turismo in parte salvaguarda gli
artefatti di una cultura, tende tuttavia a distruggere lo spirito che li ha creati,
e le pratiche tradizionali perdono i propri significati originari per trasformarsi
in performance svuotate di significato. Per MacCannel il turista interessato
alla scoperta e all’incontro con l’altro, rischia di compromettere tale
autenticità con i suoi stessi viaggi.
Diversi autori hanno parlato del turismo come di una forma di colonialismo
che trasforma le pratiche culturali in performance a pagamento svuotate di
significato, mettendo in pericolo le culture e le risorse naturali. I luoghi
autentici sono spesso associati con il primitivo, l’originale e pratiche che non
sono pensati per la vendita ma per la comunità locale . ciò che viene
criticato in questa opposizione è che per essere autentica una cultura non
dovrebbe avere relazioni con l’esterno, in particolare con culture
globalizzanti occidentali. Ma l’opposizione tra moderno e tradizionale risulta
infruttuosa in quando non tiene conto delle interazioni. Le tradizioni non
corrispondono a inalterate e idilliche relazioni immutate e immutabili. La
tradizione non solo vara ed evolve, ma risponde dinamicamente agli stimoli
provenienti dall’esterno attraverso processi d’adattamento costanti.
La pratica turistica è spesso rigidamente organizzata da diverse tipologie di
intermediari, a cominciare dall’industria dei viaggi. Per evitare un eccessivo
senso di spaesamento, intorno alla pratica turistica si strutturano queste che
sono state definite enviromental bubbole: ambienti protettivi che risultino
familiari.
Le prospettive critiche sulla pratica turistica si sono tradizionalmente
opposte all’idea del villaggio turistico e del viaggio organizzato o in gruppo.
Questi studi propongono una rigida distinzione tra i turisti di massa e i
viaggiatori. Lo stesso turista auto-organizzato agisce all’interno di un
mercato e sulla base di segnali. Si pensi alle opportunità inedite di auto-
organizzazione del viaggio offerte da Internet. Il turista auto-organizzato è
maggiormente autonomo nell’organizzazione del proprio viaggio, ma si basa
anch’egli su codici di comportamento e di significato condivisi. La
distinzione tra turismo organizzato e turismo auto- organizzato non è
sempre così evidente.
Il contatto con l’altro non è mai neutrale; influisce sui riferimento culturali dei


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turisti così come su quelli di chi abita i luoghi turistici.

4.4.2 Classificare le migrazioni

Le migrazioni sono un fenomeno estremamente difficile da ordinare in


schemi e tipologie: ogni migrazione è una storia a sé e le ragioni che
motivano la partenza, le speranze legate alla destinazione d’arrivo. Per
quanto le migrazioni siano esperienze di spostamento caratterizzare da un
certo grado di unicità e specificità, gli organismi internazionali, i media, i
governi tendono a operare una serie di raggruppamenti e distinzioni. Le
migrazioni possono essere:
Migrazioni interne - avvengono all’interno dei confini di un paese. Spesso
queste migrazioni hanno carattere circolare, nel senso che i migranti si
muovono avanti e indietro tra più luoghi: quello d’arrivo e quello originario di
provenienza.
1. Migrazioni internazionali - riguardano spostamenti che
attraversano i confini nazionali e sono pertanto dirette da un paese
d’origine a un altro paese di destinazione. Spesso, piuttosto che
limitarsi allo spostamento diretto da un paese a un altro, le migrazioni
internazionali si realizzano in più fasi, coinvolgendo diversi paesi
prima di raggiungere la destinazione finale. È difficile attribuire una
durata univoca sia alle migrazione temporanee sia a quelle
permanenti. L’OCSE definisce migrazioni temporanee quelle che non
superano la durata di tre mesi. Possono essere:
a. Migrazioni temporanee - passaggi intermedi
b. Migrazioni permanenti - caratterizzate da un progetto stabile
di vita nel paese d’arrivo
2. Migrazioni legali e irregolari - se migrare è una scelta individuale,
la sua attuazione è condizionata dalla disponibilità all’accoglienza dei
paesi in cui s’intende trasferire. La normativa di ciascun paese. Tali
politiche restrittive sono emerse in maniera particolare. Migrano
legalmente quei soggetti che hanno un’autorizzazione dal governo
nazionale a risiedere nel paese di destinazione. Diversamente i
migranti irregolari sono quelli che entrano nel paese di destinazione

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in maniera clandestina o che vi restano anche dopo che il visto di


soggiorno è scaduto. Tra i migranti irregolari è possibile distinguere
chi attraversa la frontiera legalmente e chi lo fa illegalmente.
3. Migrazione volontarie e migrazioni forzate sono considerate
migrazioni volontarie i
trasferimenti effettuati in seguito a una libera scelta del soggetto.
Tale scelta può dipendere da fattori diversi. È difficile tracciare una
linea di demarcazione netta tra migrazioni forza e volontarie: la
decisione di spostarsi si muove in un continuum tra obbligo e volontà.
Scegliere di migrare dipende dal concorso di molti elementi. Si fa
riferimento a:
a. Fattori di spinta che inducono a lasciare il luogo di origine.
Tra questi fattori c’è la povertà, anche se i migranti spesso
non appartengono alle fasce più povere della popolazione, le
quali non possono permettersi di migrare, ma godono spesso
di benessere e a volte di un’elevata istruzione
b. Fattori di attrazione che stimolano a recarsi nella
destinazione prescelta. Tra questi
fattori c’è la ricchezza dei luoghi di destinazione.
Si parla di migrazioni forzate nel caso in cui siano imposte da
condizioni indipendenti dalla volontà del singolo, come guerre e
persecuzioni politiche. Nell’ambito delle migrazioni forzate,
appartiene alla categoria di rifugiato chi fugge dal proprio paese per
salvarsi da una persecuzione, a questi soggetti il paese
d’accoglienza può concedere asilo politico, e cioè protezione dalla
persecuzione nell’ambito dei propri confini nazionali. Anche le
migrazioni economiche, le migrazioni di chi è spunto a trasferirsi
altrove per via di basso reddito o disoccupazione, rappresentano una
migrazione forzata

4.5 Migrazioni e globalizzazione

4.5.1 Migrazioni e capitalismo globale

Le migrazioni hanno costituito una parte integrante del processo di

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colonizzazione, industrializzazione e sviluppo dell’economia globale. Il


Nuovo Mondo tra il 1500 e il 1800 ha rappresentato l’approdo per oltre 2
milioni di europei. Il processo di migrazione forzata, noto come tratta
schiavistica atlantica, ha prodotto lo spostamento di oltre 10 milioni di
africani. I flussi migratori attraverso l’Atlantico si sono notevolmente
intensificati tra la fine del 1800 e l’inizio del nuovo secolo. Nel corso del XX
secolo si sono accentuate le migrazioni di lavoratori cinesi e indiani verso le
colonie europee asiatiche, americane e africane. Al termine del secondo
conflitto mondiale sono aumentate le migrazioni asiatiche verso il vecchio
continente.
Influiscono sui flussi migratori anche le stesse geopolitiche ed economiche
dei vari paesi. Le migrazioni sono alimentate e alimentano a loro vola, il
processo di globalizzazione e di accumulazione capitalistica. I migranti si
spostato dal Sud al Nord del mondo per opporsi e sfuggire agli effetti sulle
povertà del sistema capitalistico internazionale. Ma rimangono vittime di
questo stesso sistema quando approdano in paesi nei quali si trovano a
colmare i vuoti occupazionali lasciati dai residenti, svolgendo lavori pesanti
e pericolosi.
Le rimesse dei migranti sono un altro tassello del capitalismo globale,
alimentando preziosi afflussi di valuta estera che permettono di riequilibrare
le bilance dei pagamenti di molti paesi di provenienza. Questi flussi di
rimesse sono intercettati e gestiti da istituzioni e operati economici e
finanziari, pienamente inseriti nei circuiti del capitalismo finanziario. Le
rimesse possono anche prendere la forma di beni e merci, e spesso hanno
un ruolo centrale nel miglioramento delle condizioni di vita di chi le riceve.

4.5.2 Le reti migratorie e i loro risvolti insediativi

Spesso le migrazioni si configurano come esperienze che poggiano su


legami pre-esistenti. Esistono flussi preferenziali di relazioni che si
stabiliscono tra i luoghi grazie alle reti consolidatesi tra i primi immigrati, che
fungono da appoggio per i movimenti successivi di parenti e amici. George
Ravenstein osservava come le reti di relazioni avessero un ruolo centrale
nella definizione dei flussi migratori, introducendo il concetto di catena
migratoria. Per contrastare il disorientamento e trovare punti stabili e
relazioni
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sociali in grado di garantire la propria identità e l’inserimento sociale, i


migranti si appoggiano spesso a coloro che appartengono allo stesso
gruppo o nazionalità e chi li hanno preceduti nel percorso migratorio. Molto
spesso il migrante si trasferirà presso parenti o amici, che lo aiuteranno nel
processo d’inserimento.
Si parla in questi casi di reti migratorie, intese come legami interpersonali
che collegano i nuovi migranti quelli precedenti e a persone che restano nei
luoghi d’origine attraverso relazioni di parentela, amicizia e comunanza
d’origine. Le reti migratorie promuovono attivamente, attraverso i legami di
rete, altri processi migratori determinandone le modalità d’inserimento. In
questo modo l’immigrato si trasforma da soggetto potenzialmente isolato,
fluttuante in un vuoto sociale e privo di punti di riferimento, in membro di
una comunità della quale contribuisce a costruire il radicamento territoriale.
Castels interpreta l’agency dei migranti come la manifestazione di un’azione
rivolta non esclusivamente a rispondere a stimoli del mercato o a
incasellarsi in regole burocratiche. Con riferimento al genere delle reti, è
stato messo in evidenzia che tendono ad appoggiarsi alle reti migratorie sia
i flussi di migrazione a dominanza maschile, sia quelli a dominanza
femminile.
La natura relazionale del fenomeno migratorio aiuta a spiegare non solo la
strutturazione di specifici flussi tra paesi e regioni di origine e di
destinazione, ma anche le tendenze insediative degli immigrati, in
particolare nelle grandi città. Uno dei temi classici degli studi di sociologia e
di geografia urbana è la tendenza delle prime generazioni di migranti alla
creazione di quartieri fortemente connotati su base etnica. Tale
caratteristica rientra in un più generale processo di segregazione spaziale,
osservabile in molti centri urbani: la tendenza alla formazione di quartieri
omogenei dal punto di vista sociale e dal punto di vista etnico.
La formazione di questi quartieri è un fenomeno osservato in tutte le città
del mondo. Le ragioni di tale concentrazione sono due:
1. La vicinanza tra immigrati facilita lo sviluppo di relazioni economiche
e sociali che si svolgono prevalentemente tra membri della
medesima comunità
2. Al concentrazione spaziale degli immigrati può essere conseguente a
forme di repulsione: gli immigrati possono risultare poco graditi in vari

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quartieri e il loro ingresso può essere ostacolato.


Il grado di concentrazione spaziale dei migranti dipenderà da alcuni fattori:
le comunità di più antica immigrazione risultano maggiormente nelle città di
destinazione e anche maggiormente disperse.

4.5.3 La globalizzazione delle migrazioni

Per quanto gli spostamenti delle persone siano un fenomeno antico, negli
ultimi decenni si è assistito a un incremento consistente delle migrazioni
internazionali. Tra questi vanno annoverati lo squilibrio tra i livelli di
benessere nelle varie regioni del mondo e il desiderio da parte delle
persone di migliorare la proprie condizioni di vita e la mondializzazione dei
trasporti. Quest’ultima riduce le distanze mentre la diffusione dei mezzi di
comunicazione anche nei luoghi più remoti del pianeta rende possibile sia
conoscere stili e condizioni di vita degli altri paesi, sia mantenere un miglior
contatto fra le comunità migrate e quelle di origine. I movimenti migratori
internazionali nel mondo solo il 3,1%
La crescita del numero complessivo di migranti si accompagna a quella che
è stata definita una globalizzazione delle migrazioni: sempre più paesi sono
coinvolti nei processi migratori e il profilo dei migranti si diversifica
notevolmente. A migranti con altri livelli d’istruzione e competenze
professionali, si affiancano quelli con bassi livelli d’istruzione che si ritrovano
a operare nei settori dell’economia informale.
La crisi economica che ha coinvolto il Nord globale nell’ultimo decennio ha
in parte ridotto l’attrattività dei paesi cosiddetti avanzati: qui i primi a perdere
i posti di lavoro sono spesso gli immigrati. Ciò ha portato a una parziale
riduzione dei flussi in entrata e a un incremento del numero di coloro che
tornano nel proprio paese d’origine. La crescita economica dei paesi
emergenti li ha resi mete attrattive per i lavoratori dei paesi vicini, facendone
una valida alternativa alle migrazioni verso Europa e America del Nord.
Un’altra caratteristica del processo migratorio odierno è l’aumento della
quota femminile. Sono sempre di più le donne che lasciano i nuclei familiari
per cercare fonti di reddito altrove.

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4.6 Migrazioni, diritti e cittadinanza

Nell’era attuale è rivolta molta attenzione ai meccanismi che regolano l’ingresso,


l’organizzazione sociale e l’interazione spaziale dei migranti nei luoghi di arrivo.
I confini nazionali sono sempre più permeabili al passaggio di merci e capitali, ma lo
sono sempre meno nei confronti dei migranti. Il contrasto all’immigrazione è
sfociato nella costruzione di veri e propri muri per bloccare i flussi transfrontalieri.
Sempre più spesso i media raccontano di pericolosi viaggi in imbarcazioni di fortuna
che dalle coste dell’Africa tentano di raggiungere l’Europa.
Per quali motivi questa rappresentazione è divenuta dominante? La risposta è
complessa e poggia su una pluralità di fattori: si teme che l’immigrazione agisca
da freno all’occupazione dei cittadini non immigrati, i governi hanno paura di non
essere in grado di far fronte ai servizi di cui necessitano questi nuovi abitanti e si
pone l’accento sul rischio che i migranti portino un aumento della criminalità.
Dall’altro lato i migranti possono rappresentare un’opportunità per la crescita
economica di un paese.
Ciascun paese adotta le proprie politiche per il contenimento e la gestione
dell’immigrazione. I paesi tendono a favorire l’ingresso di migranti graditi e a
limitare quella di lavoratori meno qualificati. Per favorire le rimesse e limitare la
disoccupazione i paesi a forte emigrazione tendono a favorire l’uscita di
manodopera non qualificata e trattenere quella qualificata, che rappresenta un
volano per lo sviluppo. In questo modo si crea una sacca di migranti sgraditi la cui
questione pone non pochi problemi sia in termini di politiche nazionali sia in termini
di accordi internazionali. Si distinguono tre diversi modelli di politiche migratorie
nazionali:
1. Modello tedesco considera gli immigrati ospiti temporanei nello Stato e che
dunque più che tendere a
una loro assimilazione ne tutela le diversità e specificità in vista di un rientro
nella nazione d’origine
2. Modello francese uno stato democratico deve considerare tutti i cittadini
in modo eguale per garantire loro assoluta parità e piena libertà
3. Modello britannicosi fonda sul valore del pluralismo dove le diversità
etniche e culturali sono una
ricchezza da tutelare e la tolleranza è essenziale

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Queste distinzioni tra i diversi paradigmi delle politiche migratorie sono sempre
meno capaci di ricomprendere la pluralità delle politiche.
Sempre più spesso le politiche locali esulano dai modelli nazionali: sulle
amministrazioni locali ricade la responsabilità di accoglienza e integrazione ed è
nei singoli territori che avviene e si consolida l’inserimento socio-economico delle
persone. Le politiche sociali d’integrazione offrono sovente condizioni
d’integrazioni che si differenziano tra regione e regione. A livello internazionale si
prende atto del ruolo del livello locale nell’incidere sulla costruzione
dell’appartenenza sociale e della cittadinanza.
Un nodo cruciale nelle politiche per l’immigrazione riguarda i termini per la
concessione del diritto di cittadinanza. La cittadinanza è uno status legale che
determina diritti e doveri e che può essere ottenuto seguendo percorsi diversi.
Ogni ordinamento nazionale stabilisce proprie norme per l’acquisizione e la perdita
della cittadinanza. Essa può essere acquisita in virtù del diritto di sangue (ius
sanguinis) per il fatto di nascere da un genitore in possesso di cittadinanza, oppure
del diritto di suolo (ius soli) per il fatto di essere nato sul territorio dello Stato. Si
può acquisire la cittadinanza contraendo matrimonio con un cittadino o per
naturalizzazione, cioè a seguito di un provvedimento della pubblica autorità e alla
sussistenza di determinate condizioni. Tali condizioni sono la residenza per un
lungo periodo sul territorio nazionale la scelta fondamentale che si trovano a dover
compiere gli ordinamenti è quella tra ius sanguinis e ius soli. Alla maggior parte
degli Stati europei vige lo ius sanguinis. L’adozione dell’uno o dell’altro istituto ha
conseguenze non trascurabili in termini politici e sociali. Lo ius soli determina
l’allargamento della cittadinanza ai figli degli immigrati nati sul territorio dello Stato.
Lo ius sanguinis tutela maggiormente i diritti dei discendenti degli emigranti.
Lo ius sanguinis e lo ius soli assumono forme più o meno morbide a seconda delle
norme vigenti nei diversi paesi. Esistono regole diverse:
1. Nel Regno Unito si ottiene se si è sposati a un cittadino britannico e si è
legalmente residenti da almeno tre anni, altrimenti sono necessari cinque
anni di residenza legale.
2. In Francia vengono richiesti almeno 5 anni di residenza
3. In Germania si può ottenere dopo 8 anni di residenza legale permanente,
ma solo dopo un approfondito esame di conoscenza linguistica e a patto di
dimostrare la propria autosufficienza economica.

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La cittadinanza si esprime legalmente in termini di diritti e doveri dei cittadini, ma


ha anche a che fare con il senso di appartenenza e con l’inserimento sociale
dell’immigrato nel paese d’arrivo. Si fa riferimento alla cittadinanza sostanziale:
trovare un posto adeguato dove vivere partecipare alla vita sociale, culturale e
politica, essere in grado di trovare assistenza legale, avere accesso alle cure
sanitarie.
Con l’espressione esclusione sociale si fa riferimento a tutti quei processi sociali
che determinano marginalizzazione e vulnerabilità e che si traducono in
un’inadeguata partecipazione del migrante alla vita sociale, mancanza
d’integrazione e di possibilità di esprimere i propri bisogni.
Le convenzioni linguistiche spesso sono indicative: il termine extracomunitario
viene raramente adottato per indicare gli stranieri provenienti dai paesi poveri. La
legge italiana stabilisce che bastano quattro anni di residenza perché uno straniero
proveniente da alcuni paesi divenga italiano, mentre ce ne vogliono dieci per chi
proviene fa altri.
Spesso i migranti sono marginalizzati da un punto di vista culturale per via delle
differenze linguistiche, per via di pratiche culturali. Il concetto d’integrazione del
migrante fa riferimento alla possibilità e volontà di quest’ultimo d’inserirsi
stabilmente nel tessuto socioculturale. Visioni pessimistiche circa le possibilità
d’integrazione sono spesso permeate dalla paura che l’immigrazione possa
condurre a una perdita d’identità culturale.
Un concetto molto utilizzato è quello di multiculturalismo, che vorrebbe sottolineare
maggiormente la dimensione dell’interazione e della conoscenza reciproca tra
culture. Il multiculturalismo indica quell’insieme di discorsi, ideologie che mirano a
favorire un’interazione e coesistenza di culture diverse.

4.7 Transazionalismo, identità e cultura

Le migrazioni sono state tradizionalmente interpretate come cambiamenti


permanenti del luogo di residenza. I caratteri delle migrazioni odierne complicano
la prospettiva. Per esempio, chi migra per lavoro non sempre si trasferisce
definitivamente nel luogo d’arrivo.
Queste situazioni sollevano quesiti circa il significato da attribuire a concetti come
luogo e identità e viene sempre più spesso criticata l’idea che esista un unico

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luogo fisso chiamato “casa”, o che lo Stato-nazione rappresenti il contenitore di


una certa cultura nazionale. Allo stesso tempo le migrazioni sono relazioni
unidirezionali tra un luogo di provenienza e uno d’arrivo. L’idea è che esistano
delle geografie dei flussi e delle connessioni entro le quali tali flussi si svolgono. Le
geografie sempre più complesse della globalizzazione producono fitti intrecci di
connessioni che tagliano divisioni nazionali e confini. Si utilizza il concetto di
transnazionalismo o appartenenza transnazionale dei migranti. La dimensione
transnazionale si manifesta in più ambiti:
1. Transnazionalismo economico fa riferimento a reti economiche
internazionali che si sviluppano
anche grazie alla presenza di comunità d’immigrati le quali facilitano
l’instaurazione di rapporti di scambio
2. Transnazionalismo politico si esplica nel tentativo di costruire di influenza
che permettano di
aumentare il reso pubblico di determinati gruppi sociali nel paese d’origine o
in quello ospitante
3. Transnazionalismo socio-culturale pone l’accento sulle implicazioni
culturali dei legami transnazionali. Le migrazioni danno vita a spazi
transnazionali e a processi di adattamento caratterizzati da fluidità e
sincretismo. Le persone che fanno parte di questi intrecci di connessioni
presentano identità transnazionali, che non sono riconducibili a quelle
proprie del paese d’origine o di destinazione.
La complessità e l’irriducibilità di queste relazioni ci permettono di leggere sotto
un’altra prospettiva i rapporti globale e locale. Le migrazioni si traducono in una
riconfigurazione delle relazioni sociali tra persone e tra luoghi, in quanto creano
comunità che sono distribuite in più paesi e che quindi prescindono dai confini
politici.
Le reti di relazioni familiari e comunitarie accompagnano il migrante nel suo
percorso. I rapporti con i paesi di origine si mantengono non solo attraverso le
visite: la globalizzazione delle telecomunicazioni rende assai più semplice ed
economico comunicare.
In questo modo viene a strutturarsi uno spazio di relazioni sociali transnazionali
che trascende qualsiasi confine e connette luoghi distanti. Le reti di relazione con
il

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paese d’origine e quelle costruite con i connazionali immigrati nel luogo d’arrivo
possono rappresentare meccanismi di resistenza contro l’assimilazione.
I concetti di cultura e identità culturale vengono messi in discussione. L’idea che
l’identità culturale sia radicata in un particolare luogo, e che i migranti la portino
con sé da un luogo all’altro, appare semplicista e fuorviante. Nel migrante nasce il
bisogno di costruire spazi di socialità e dare senso al luogo che abita producendo
nuovi significati.
La pluralità delle direzioni e delle forme di queste relazioni transnazionali sottolinea
come identità culturali si formino e si trasformino continuamente, e si
sovrappongono, formando spazi in-between: in qualche modo intermedi tra le
fissità che è tipica di un mondo tradizionalmente suddiviso in nazioni o culturale
territoriali, e la deterritorializzazione che sarebbe implicita nella globalizzazione.
Una sorta di globalizzazione dal basso e una via di mezzo tra il pensare che la
globalizzazione porti all’omologazione delle culture, delle identità.
Un concetto utilizzato da chi studia le migrazione, è quello di diaspora. In origine il
termine è stato utilizzato per indicare l’estrema dispersione spaziale di un gruppo
di persone dalla propria regione di origine. Tale dispersione è del tutto normale e
non impedisce di mantenere un forte senso di appartenenza e di identità culturale.
Oggi il concetto di diaspora viene utilizzato nelle scienze sociali per dare conto alle
plurime e complesse appartenenze culturali ed emotive dei migranti. Vi sono
studiosi che fanno un uso ristretto del termine, e lo applicano solo a quelle
comunità per le quali esiste una patria originaria.
Le culture di diaspora mettono in discussione l’esistenza di un’identità legata a un
singolo luogo d’origine e propongono al suo posto l’idea che le culture siano create
attraverso l’incontro e la fusione di elementi culturali eterogenei.
Le identità dei migranti spesso rimangono nel mezzo, ma traggono sostante mento
da più luoghi, più lingue: si può essere al contempo italiani e senegalesi. Ma
rimanere nel mezzo può significare anche sofferenze, destabilizzazione, senso
d’incompletezza.
Hall sottolinea come le migrazioni diano vita a culture sincretiche che portano con
sé la necessità di vivere più identità ed essere in grado di operare una costante
negoziazione tra questi. La diaspora in questo senso rappresenta una forma
particolare di comunità etnica transnazionale caratterizzata da un persistente
senso di appartenenza dei suoi membri che supera lo spazio e il tempo.


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5 Capitolo Quarto – Localizzazione, sviluppo regionale e geografia


degli squilibri

5.1 Lo spazio geoeconomico e il problema della localizzazione

5.1.1 La geografia come scienza della localizzazione?


Per i geografi che si occupano di questioni economiche il problema della
localizzazione costituisce da sempre uno dei principali temi d’interesse. Le
prime analisi sul tema risalgono alla prima metà dell’Ottocento e fino agli
anni Sessanta del Novecento la geografia economica è stata equiparata
sostanzialmente a una scienza della localizzazione.
L’obiettivo delle teorie della localizzazione è innanzitutto stabilire sulla base
di quali criteri le imprese si distribuiscono nello spazio geografico e dove
decidono di ubicare le proprie unità produttive. Questi studi possono essere
utili alle imprese per scegliere una localizzazione ottimale, consentendo loro
di massimizzare la propria accessibilità potenziale, e cioè di minimizzare i
costi di trasporto delle proprie merci. Quasi tutte le grandi imprese di
distribuzione commerciale si avvalgono di servizi di geomarketing che
consentono di stimare il bacino potenziale di utenti sulla base di tre
parametri:
1. Posizione del punto vendita
2. Distribuzione della popolazione
3. Localizzazione delle imprese concorrenti
La localizzazione è una componente fondamentale delle strategie
competitive delle imprese. la disponibilità di adeguati fattori di contesto è
affinché le imprese possano avere successo o anche sopravvivere.
Marshall definiva atmosfera industriale un contesto particolarmente adatto

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alla creazione di nuove idee, nuove tecnologie e attività.


Lo studio della localizzazione delle attività economiche è motivato non tanto
dalla necessità di fornire un supporto decisionale alle imprese, quanto
piuttosto da quelle che sono le conseguenze delle loro scelte localizzative
per le città e le regioni. Il tema si riconnette in primo luogo al fenomeno
urbano. Le città sono luoghi privilegiati di agglomerazione di attività
economiche di vario tipo. Storicamente la classifica per dimensione di tutte
le città del mondo riproduceva più o meno la classifica delle regioni più
ricche e più innovative.
Non è necessario stabilire se sono le attività economiche ad attirare le
persone o se sono le persone ad attirare le attività economiche.
Non tutte le città sono uguali. Altre aree urbane sono più povere, perché
hanno un ruolo economico marginale.
Il tema della localizzazione delle attività economiche è strettamente
connesso a un altro tema cruciale: lo sviluppo regionale.
Un altro tema connesso è la questione delle differenze regionali e quindi
della diversa specializzazione produttiva dei paesi e delle regioni del
mondo. Perché ogni luogo sviluppa una particolare specializzazione
produttiva e svolge un differente ruolo nell’economia globale?
È sufficiente osservare una carta geografica per comprendere come tali
differenze non derivino dalle caratteristiche naturali dei luoghi.
Nello studio di questi temi si possono distinguere due approcci:
1. Il primo è più tradizionale e idiografico, è quello tipico della geografia
regionale. L’obiettivo della geografia regionale è comprendere e
catalogare le specificità di ogni singola regione, tralasciando l’analisi
dei processi generali. Valorizza la specificità di ogni singolo luogo e i
rapporti complessi che legano l’organizzazione economica delle
regioni alle loro caratteristiche insediative. Il rischio è produrre un
sapere descrittivo ed enciclopedico
2. Il secondo è proprio degli studi di geografia economica, tende invece
a concentrarsi proprio su questi processi generali e a ricondurre le
diversità economiche delle regioni alle logiche localizzate e di
comportamento dei singoli agenti economici. Il rischio è di astrarre
eccessivamente dalle dimensioni non economiche che
sottointendono

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all’organizzazione.

5.1.2 Le logiche localizzative delle attività economiche

La nascita della geografia economica come disciplina e la sua traduzione


iniziale in scienza della localizzazione coincide non a caso con la
rivoluzione industriale. Una differenza fondamentale distingue le logiche
localizzative delle due tipologie d’attività economiche: l’industria e i servizi.
Nel caso di molti servizi, il prodotto consiste nell’erogazione di una
prestazione per al quale è necessario un contatto diretto con il cliente. Il
luogo di produzione corrisponde a quello di consumo. Le singole unità
produttive di servizi dovranno seguire i propri clienti. Nel linguaggio tipico
sella statistica spaziale, si può dire che essi avranno un pattern di
distribuzione di tipo disperso e cercheranno di massimizzare la loro distanza
dai concorrenti in modo da poter ampliare il proprio bacino potenziale di
clienti. La distribuzione uniforme della popolazione, non impedisce che le
imprese del terziario possano avere un’organizzazione scalare, per la quale
le singole unità di erogazione del servizio sono coordinate da unità di
secondo livello, a loro volta coordinate da unità di terzo livello.
Quest’organizzazione scalare accomuna servizi molto diversi che vanno
dalle attività bancarie alle grandi catene di distribuzione commerciale. Le
singole unità commerciali possono essere molto piccole, potendo in questo
modo distribuire in maniera capillare sul territorio, ma i sistemi di
coordinamento e di controllo devono essere centralizzati per poter essere
svolti in maniera efficiente. Si dice che i servizi hanno basse economie di
scala interne a livello di sito produttivo, e quindi scarsa convenienza a
crescere in dimensione, ma hanno alte economie di scala a livello d’impresa
nel suo complesso. Esse favoriscono le grandi aziende che controllano un
numero ampio di unità commerciali.
Le attività industriali possono avere economie di scala molto alte anche a
livello di singola unità di produzione e possono servire luoghi molto distanti
dal luogo di produzione.
Le logiche localizzative delle imprese più avanzate sono invece più
difficilmente leggibili. L’impresa industriale può localizzarsi ovunque: avrà

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bisogno di poco spazio e di un bacino di manodopera, ma per il resto potrà


importare i propri input da altri luoghi e vender i propri output in tutto il
mondo. L’industrializzazione trasforma lo spazio geografico in misura molto
maggiore di quanto non si adatti alle sue caratteristiche pre-esistenti.
L’industrializzazione impone una vera e propria rivoluzione spaziale, in
seguito alla quale tutte le città e tutte le campagne del mondo si trovano
potenzialmente tra di loro connesse. L0industrializzazione fa riferimento a
uno spazio che è molto differente da quello geofisico e insediativo. Nel
nuovo mondo industriale la soddisfazione dei bisogni è regolata da un
prezzo e il rapporto tra l’essere umano e l’ambiente è mediato da segnali
che agiscono attraverso il mercato.
Il territorio diventa uno spazio più o meno uniforme: un supporto animato
per funzioni la cui distribuzione prescinde dalle specificità dei luoghi e
trasforma il mondo in una superficie geometrica a tre dimensioni:
lunghezza, larghezza e altezza

5.2 I modelli classici di localizzazione

5.2.1 Rendita di posizione e distribuzione spaziale delle attività: i


modelli di uso del suolo

Il primo modello formale e quantitativo di localizzazione delle attività


economiche riguarda la distribuzione di diverse varietà colturali agricole
intono a un centro urbano. L’obiettivo è individuare delle leggi generali di
organizzazione degli spazi agricoli e ricondurre la distribuzione di questi
spazi esclusivamente alle scelte razionali di agenti economici che
massimizzano il proprio profitto individuale. Lo spazio immaginato da Von
Thünen è uno Stato isolato, costituito da una sola città al centro di una
pianura perfettamente percorribile in ogni direzione, uniformemente fertile e
non espandibile. La città rappresenta per gli agricoltori l’unico mercato di
sbocco.
I produttori di qualsiasi varietà colturale vorrebbero tutti localizzarsi il più
possibile vicino al centro urbano, per minimizzare il costo per il trasporto
delle proprie merci, massimizzare la propria rendita di localizzazione. Ne
scaturisce una competizione per l’acquisto dei terreni più accessibile che
comporterà un costo dei terreni via via più alto man mano che ci si avvicina

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al centro. I terreni più accessibili saranno occupati da quelle varietà colturali


che possono permettersi di pagare ai proprietari dei terreni una maggiore
rendita perche hanno minori esigenze di spazio e possono trarre i maggiori
vantaggi da una localizzazione più vicina al centro. Le produzioni più vicine
al centro saranno quelle che consentono maggiori profitti per unità di
spazio. Ne scaturisce un modello semplice che mantiene la sua valenza
esplicativa anche dove si rimuovono alcune delle ipotesi molto stringenti
che ne sono alla base.
La logica alla base del modello è tuttora considerata valida e continua ad
essere applicata per descrivere la struttura delle città e la distribuzione di
varie funzioni urbane all’interno delle grandi aree urbane monocentriche.
Questo modello può essere applicato anche ai nuclei familiari: le famiglie
monocomponente hanno bisogno di appartamenti piccoli e possibilmente in
centro, mentre le famiglie con figli di case in zone periferiche.
Una rendita si verifica in tutti i casi in cui si ha a che fare con una risorsa
scarsa non espandibile e che ha un rendimento differenziale perché
caratterizzata da diversi gradi di fertilità o di centralità. La rendita consiste in
un sovrappiù che il proprietario dei terreni migliori riesce a spuntare una
volta remunerati i fattori di produzione, e che va oltre anche al normale
profitto di cui godono le attività economiche.
La proprietà terriera è stata tradizionalmente vista molto negativamente da
quegli economisti liberali per i quali il profitto imprenditoriale è giustificabile
e benefico per l’economia nel suo complesso. Il profitto presuppone
un’attività produttiva vera e propria, investimenti, la distribuzione di redditi a
lavoratori. La rendita è una sorta di reddito non guadagnato che deriva dal
mero possesso, che distoglie risorse dagli usi produttivi. Secondo Ricardo, i
rentier sono anche contrari al progresso che ne abbassa il prezzo e quindi i
loro guadagni.
Il meccanismo della rendita garantisce una distribuzione efficiente delle
varie funzioni urbane. Il semplice operare delle forze di mercato consente
una razionale organizzazione dello spazio che non richiese un’attenta e
problematica pianificazione pubblica dell’uso del suolo, ma agisce
attraverso il funzionamento del meccanismo della domanda e dell’offerta. La
rendita funziona come dispositivo di regolamentazione dell’accesso alla
risorsa

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scarsa e impedisce un’eccessiva congestione degli spazi centrali


semplicemente aumentandone il prezzo e riducendono la domanda.

5.2.2 La localizzazione delle imprese come problema di


minimizzazione dei costi di trasporto (manca)

5.2.3 La localizzazione dei servizi al consumatore: le aree di


mercato

5.3 La localizzazione d’impresa come problema micro-economico

5.3.1 Agglomerazione, prossimità ed economie esterne di scala

Le attività economiche non si distribuiscono in maniera uniforme sul


territorio, ma mostrano una diffusa tendenza a concentrarsi e a creare densi
agglomerati di attività in aree particolari come i centri cittadini. Le economie
di agglomerazione sono importanti, ma difficilmente trattabili con gli
strumenti classici dell’economia. Tali vantaggi sono difficilmente osservabili
e quantificabili, tanto da essere stati per molto tempo ignorati dalle teorie
economiche prevalenti.
Il primo economista a fornire una descrizione del funzionamento delle
economie di agglomerazione è stato Marshall. Egli definì tali vantaggi come
economie esterne di scala contrapponendo il loro funzionamento a quello
delle economie interne di scala. Fin dalla nascita della teoria economica si
suppone che le imprese possano accrescere la loro produttività
aumentando la scala di produzione, e quindi le proprie dimensioni, in modo
da poter prevenire internamente a una migliore organizzazione del lavoro.
L’impresa industriale si distingue appunto dall’impresa artigianale, non solo
per la maggiore intensi tecnologica, ma proprio per l’elevata
specializzazione interna. Le imprese più piccole non possono utilizzare
macchinari o fattori di produzione che godono del carattere della
indivisibilità.
Per Marshall le imprese possono rimanere piccole ed essere altamente
specializzate e competitive, ma solo nella misura in cui intessono con altre
imprese una fitta rete di relazioni dirette e indirette che sono possibili solo in

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particolari aree che ospitano un gran numero di imprese tra di loro


collegate. In queste aree la divisione tecnica del lavoro e quindi la
specializzazione interna che è osservabile all’interno delle grandi imprese,
può essere sostituita da una specializzazione esterna: una divisione sociale
del lavoro tra tante imprese autonome ma che partecipano allo stesso
processo produttivo. Le imprese possono quindi essere altrettanto
specializzate, ma rimanere di piccole dimensioni e risultare più efficienti nel
loro complesso rispetto alla grande impresa isolata.
Le economie esterne di scala non dipendono dalle caratteristiche delle
imprese, né dalla loro dimensione, ma dal luogo dove queste si
collocano. Sono vantaggi di cui le imprese possono godere in maniera
gratuita grazie alla prossimità ad altre imprese, e che non sempre si
traduzono in veri e propri risparmi di costi, ma che sostengono anche in
maniera indiretta l’efficienza produttiva e la competitività. Distinzione
fondamentale:
1. Economie di localizzazione sono esterne alle imprese, ma interne
ai singoli settori produttivi, perché si sviluppano tra imprese simili o
collegate tra di loro. Aiutano a comprendere un fenomeno fondamentale: la
specializzazione regionale. Perché diverse aree del mondo sono
specializzate solo in alcuni settori? Perché imprese simili tendono a
localizzarsi le une vicine alle altre? Perché richiedono necessariamente un
contatto personale. Le economie di localizzazione sono essenzialmente
quattro:
a. Lo sviluppo di un bacino di lavoro specializzato che implica
minori costi per la ricerca
b. Lo sviluppo d’imprese specializzate nella fornitura di
determinati servizi
c. Lo sviluppo d’interdipendenze tra le imprese che favoriscono
un’estesa divisione sociale del lavoro
d. Con il termine atmosfera industriale, veniva indicato l’insieme
degli elementi difficilmente osservabili che facilitavano
l’innovazione e il trasferimento tecnologico.

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2. Economie di urbanizzazione sono vantaggi connessi ai benefici


reciproci di cui le attività economiche diverse possono godere per il solo
fatto di essere localizzate in un luogo denso d’imprese, attività,
infrastrutture. Alcune infrastrutture per poter essere fornite richiedono un
livello di domanda sufficientemente ampio e sono quindi disponibili solo in
aree densamente urbanizzate e che ospitano un gran numero di utenti o
imprese. Sono esterne all’impresa e possono essere godute da tutte le
imprese
Le economie di agglomerazione sono non solo specifiche ad ogni tipologia
di attività economica, ma variano anche nel corso del tempo

5.3.2 Economie esterne, urbanizzazione e specializzazione


regionale

Le economie di localizzazione vengono a volte definiti esternalità alla


Marshall e sono tipiche delle regioni fortemente specializzate. Ad esse sono
contrapposte le esternalità alla Jacobs, che sono le economie di
urbanizzazione, di cui possono beneficiare le aree urbane più grandi.
Un’ulteriore distinzione è tra quelle che sono definite economie esterne di
tipo pecuniario, e che comportano dei veri e propri benefici di mercato, e le
economie esterne di tipo non pecuniario che sono invece vantaggi non-di-
mercato e prevalentemente di tipo tecnologico. La distinzione è rilevante
soprattutto nell’ottica dell’osservazione empirica e della formazione del
meccanismo delle economie esterne.
Il meccanismo delle economie esterne consente in definitiva di spiegare due
fenomeni che le teorie economiche non sono mai riuscite a formalizzare
adeguatamente:

1. Processi di urbanizzazione: i livelli elevatissimi e crescenti di


densità urbana non possono essere spiegati assumendo
semplicemente che le città consentano riduzioni nei costi di
trasporto. Esse consentono l’accesso a servizi e a funzioni rare e
tipicamente urbane, da un parte, e soprattutto maggiori
opportunità relazionali e conoscitive.

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Geografia dello sviluppo – Bignante, Celata, Vanolo

2. Le economie esterne consentono di analizzare da un punto di vista


micro-economico i fondamentali processi di specializzazione e
differenziazione che la geografia regionale tradizionale può al
massimo constatare.
La globalizzazione non si associa a una generica dispersione di attività
economiche in tutto il mondo, e tanto meno a un processo di mera
omologazione planetaria, ma alla persistente tendenza all’agglomerazione
spaziale e alla specializzazione regionale, per via dell’importanza che
possono avere economie esterne specifiche che sono godibili solo in alcune
località e non in altre.

5.4 Lo sviluppo polarizzato

5.4.1 Lo sviluppo regionale come processo circolare e


cumulativo

Solo negli anni Cinquanta alcuni economisti eterodossi proposero teorie più
convincenti dei processi di formazione degli squilibri geografici che ebbero
un ampio seguito. Lo sviluppo economico è un processo che tende
naturalmente ad una forte concentrazione geografica o polarizzazione, e
alla formazione di squilibri, creando densi complessi di produttori
agglomerati sul territorio che attraggano fasce di popolazione altre funzioni
urbane e di servizio. L’industrializzazione si accompagna storicamente a un
impressionante processo di urbanizzazione anch’esso fortemente
squilibrato. Se lasciato libero di seguire il suo corso, tale processo tende a
rafforzarsi piuttosto che a scomparire nel corso del tempo.
L’impresa madre attiva una domanda di lavoro, beni e servizi e può
diventare catalizzatrice dello sviluppo locale. Il suo sviluppo avrà effetti
diretti, attraverso i salari che corrisponde e la domanda locale che attiva,
effetti indiretti come la localizzazione e la nascita d’imprese più piccole che
agiscono some acquirenti o fornitrici dell’impresa più grande, e effetti indotti
che portano alla nascita di ulteriori attività necessarie a soddisfare i bisogni
della popolazione locale.
Il consolidamento di un polo di sviluppo genera una notevole forza di
attrazione perché l’impresa ha bisogno di lavoratori e di risorse. L’impresa

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madre non è in grado di appropriarsi interamente dei benefici connessi ai


suoi investimenti, che influiscono al territorio nel suo complesso sotto forma
di economie esterne di tipo pecuniario e dinamico. La polarizzazione
industriale determina effetti quantitativi, ma anche qualitativi, rafforzano il
capitale umano, sociale e organizzativo locale. Tali effetti si rinforzano
cumulativamente rendendo la località un luogo privilegiato.
Myrdal ha offerto una delle più convincenti spiegazioni della tendenza alla
concentrazione di attività in località particolari. Il suo obiettivo era mettere in
discussione il principio del laissez faire, le teorie ortodosse del commercio
internazionale e la teoria della convergenza. Egli mostrava la possibilità di
squilibri persistenti e cumulativi, oltre all’inadeguatezza delle spiegazioni
naturalistiche per le quali il percorso di sviluppo regionale è condizionato
dalle specificità geografiche dell’area. Egli adotta una logica keynesiana,
basata su un meccanismo di moltiplicatore del reddito, per mostrare
l’efficacia a prescrivere la necessità di un intervento esterno necessario per
contrastare la tendenza naturale a una crescente ineguaglianza.
L’investimento in una particolare località genera benefici moltiplicativi e
cumulativi: se non si verifica spontaneamente, può essere indotto. In caso
contrario egli indicava l’esistenza di effetti di diffusione per i quali la
formazione di agglomerati industriali era di per sé in grafo di beneficiare non
solo l’intera regione, ma anche le aree più periferiche. Lo sviluppo
economico di una località si esprime attraverso l’aumento dei salari.
Le opportunità di godere di effetti di diffusione sono minori nei paesi più
poveri. In questo contesto si possono osservare processi di
industrializzazione dovuto a investimenti esteri che sfruttano i minori costi.
Nei paesi più poveri, l’industrializzazione è essa stessa fortemente
concentrata e tende a creare enclavi economiche che non utilizzano fattori
di produzione locali, al di là del lavoro a basso costo. In questi paesi gli
squilibri interni sono in genere molto più forti che nei paesi economicamente
dominanti.

5.4.2 Interdipendenza, spazio geoeconomico e poli di sviluppo

La critica di Perroux alle teorie economiche ortodosse è ancora più radicale.


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Geografia dello sviluppo – Bignante, Celata, Vanolo

L’autore rimprovera a queste teorie di ignorare il ruolo fondamentale che il


potere ha in quello che egli chiama lo spazio economico, un campo di forze
dominato da relazioni asimmetriche d’interdipendenza e di subordinazione.
È il ruolo di alcuni oggetti dominanti le imprese motrici, rispetto alle quali la
gran parte delle altre imprese si trova in una situazione di dipendenza. Le
imprese subordinate possono esistere solo in qualità di fornitrici d’imprese
più grandi e si trovano a subire le decisione di quest’ultime. Le diverse
attività economiche sono tra di loro interdipendenti e tali relazioni, nello
spazio economico, si traducono in rapporti di subordinazione sia all’interno
di ciascuna regione sia tra regioni differenti. Le forze di mercato non sono
affatto anonime, neutrali o naturali.
Tali forme si manifestano anche tra località e regioni. L’agglomerazione
regionale è una delle più evidenti di tali relazioni asimmetriche di potere. Lo
spazio geoeconomico è uno spazio dominato da forze centripete e
centrifughe. La localizzazione delle imprese non si svolge in uno spazio
vuoto, ma su un territorio caratterizzato da massicce ineguaglianze della
distribuzione d’imprese, di risorse.
Dal punto di vista geografico, lo sviluppo economico non avviene nello
spazio astratto descritto nelle teorie economiche dominanti. Lo sviluppo non
avviene ovunque, non si realizza nella stessa misura in ogni luogo, ma ha
origine in alcuni punti nei quali si formano agglomerati industriali che
tendono ad attrarre risorse e a crescere a discapito della periferia. Ciascuna
regione s organizza intorno a una o a poche imprese motrici ì che
esercitano il proprio potere all’interno della loro sono d’influenza economica.
Lo sviluppo industriale è un processo localizzato e per sua natura tendente
alla formazione di differenze territoriali tra città e campagna, tra regioni
ricche e regioni povere.
Tali processi non possono essere osservati se l’analisi si limita allo spazio di
proprietà giuridica dell’impresa. L’impresa esercita la sua influenza ben al di
là di questo spazio e nei confronti di tutte le imprese fornitrici o collegate.
Nelle analisi di Perroux e Myrdal l’agglomerazione spaziale era solo uno dei
possibili risultati connessi al funzionamento dei meccanismi di
polarizzazione, e la pianificazione regionale era solo una delle possibili
applicazioni dei loro modelli. Quello che veniva definito evento iniziale,
ovvero

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la localizzazione di un’impresa avente caratteristiche di catalizzatrice dello


sviluppo, poteva essere indotto dall’esterno attraverso investimenti pubblici
o incentivi per l’attrazione di grandi imprese. Tali imprese dovevano essere
di grandi dimensioni e con caratteri di propulsività che garantissero l’effetto
moltiplicatore sul territorio circostante. La crescita di tale impresa avrebbe
beneficiato l’insieme delle imprese locali fornitrici. Avrebbe attivato
domanda di beni, servizi e lavoratori che non potendo essere soddisfatta
dall’offerta esistente, avrebbe determinato effetti di polarizzazione
demografica. Si sarebbero creati in questo modo poli di sviluppo che
avrebbero attivato l’insieme di azioni e retroazioni positive che si potevano
osservare nelle regioni che spontaneamente avevano intrapreso tale
processo di sviluppo regionale per prime.

5.5 Le geografie degli squilibri

5.5.1 Squilibri, gerarchie, periferie

Il problema degli squilibri si manifesta a tutte le scale geografiche, ma


assume ogni volta connotazioni diverse.
1. A scala regionale, la geografia si è a lungo occupata dei rapporti tra
città e campagna che non presuppongono più una distinzione netta
tra area propriamente urbana e il suo intorno rurale. L’auspicio è
promuovere uno sviluppo insediativo di tipo policentrico nell0ambti
del quale le funzioni economiche di livello superiore non rimangano
concentrare su un’unica centralità urbana.
2. A scala interregionale la rivoluzione industriale ha incrementato in
misura drammatica le disparità regionali, per via della tendenza delle
attività industriali a un’elevata concentrazione geografica. Le risorse
nazionali destinate alla riduzione degli squilibri interni sono state
progressivamente trasferite all’Unione Europea che persegue sia
politiche di riduzione degli squilibri interni ai singoli paesi, sia di
riduzione degli squilibri interregionali complessivi a scala
continentale. Uno dei motivi di tale europeizzazione delle politiche di
sviluppo regionale è che lo stesso processo d’integrazione europea
influisce

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sulla geografia degli squilibri. Il timore è che l’integrazione aggravi gli


squilibri già esistenti. È noto che l’Europa Occidentale è
caratterizzata da una concentrazione di risorse, d’investimenti e di
ricchezza in alcune aree centrali che sono state definite il pentagono
europeo: Londra-Francia-Italia-Germanai. Qualsiasi processo
d’integrazione economica e commerciale, rimuovendo le barriere
politiche e in un qualche modo artificiali alla circolazione di merci e
investimenti, determinerà sia effetti di diffusione sia effetti di riflusso.
Una parte degli investimenti fluirà più facilmente verso le aree
periferiche per beneficiare dei minori costi di lavoro. Ma una parte
consistente di risorse fluirà verso la aree centrali per sfruttare le
migliori condizioni di contesto. Si determineranno sia effetti di
convergenza, sia di divergenza sul cui peso e sul qui equilibrio è
ancora presente un acceso dibattito.
3. A scala globale gli squilibri riguardano il rapporto tra Nord e Sud del
mondo, i problemi
specifici dei paesi del Sud globale e le politiche di cooperazione
internazionale.
Il problema degli squilibri si pone ogni volta in termini abbastanza simili.
L’obiettivo non è tanto quello di ottenere uno sviluppo di per sé più
armonioso, ma contrastare le conseguenze negative delle disparità
economiche.
Lo squilibrio implica sempre una gerarchia. Nel sistema capitalistico
mondiale tutte le regioni sono interdipendenti le une alle altre. La periferia
non coesiste semplicemente con il centro, ma è in posizione di
subordinazione rispetto a questo e si trova a subire forme di dominazione
che sono sia di tipo pecuniario sia di tipo non pecuniario. La periferia si
trova in una situazione di dipendenza commerciale, nella misura in cui tratta
una serie di beni e servizi di livello superiore possono essere acquistati solo
recandosi presso il centro p importando i beni ivi prodotti . tale dipendenza
si traduce in un drenaggio di risorse umane che devono spesso migrare
presso le aree centrali in cerca di migliori condizioni lavorative.

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Geografia dello sviluppo – Bignante, Celata, Vanolo

Il centro esercita sulla periferia funzioni di controllo economico, di mercato,


tecnologico, politico, culturale. È qui che si introducono le principali
innovazioni, si scoprono nuovi mercati. Tali forme di dominazione si
traducono spesso anche in un controllo politico del centro sulla periferia. Il
centro è il luogo abitato dalle classi dominanti, dalle élite, il luogo dove si
definiscono gli stili di vita.

5.5.2 Capitalismo e processo di produzione degli squilibri

Secondo la teoria delle relazioni sociali di produzione sviluppata negli anni


Settanta e Ottanta da geografi come Massey, il sistema capitalistico
produce in ogni momento storico una particolare organizzazione dello
spazio per la quale ciascun luogo svolge una specifica funzione. Le
tipologie d’investimenti produttivi prevalenti in ogni fase determinano una
differente stratificazione di relazioni sociali. il ruolo di ogni regione e la
divisione spaziale complessiva del lavoro fra regioni differenti è funzione
della specializzazione regionale, della capacità di esprimere una particolare
base produttiva e di adattarsi alla localizzazione di specifiche fasi del
processo di accumulazione capitalistica e non altre.
La regione ha un ruolo prevalentemente passivo. Il capitale può tratte
enormi benefici dalle differenze e dalle disuguaglianze tra regioni nella
disponibilità e nel costo di certi fattori. L’impresa può approfittare di queste
differenze grazie all’elevata mobilità del capitale e grazie alla possibilità di
agire a una scala superiore, globale. L’impresa non agisce solo nel mercato,
ma è radicata in specifici luoghi. Per questi luoghi, l’inserimento di circuiti
economici e finanziari globali può comportare l’esplosione della ricchezza
condannando altre regioni alla marginalità economica o a pesanti processi
di destrutturazione. Le logiche del capitale sono profondamente
asimmetriche e inducono situazioni di crescente instabilità. La loro
evoluzione è funzionale agli interessi dominanti e alla produzione del
sistema capitalistico, rendendo tutte le regioni vulnerabili e trasformandone
la base sociale e culturale secondo modalità che sono funzionali agli
interessi economici dominanti. Le scelte localizzative delle imprese sono
guidate soprattutto dal fattore lavoro, piuttosto che dagli altri elementi
evidenziai dalle teorie classiche della

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Geografia dello sviluppo – Bignante, Celata, Vanolo

localizzazione.
Lo sviluppo capitalistico richiede e produce un particolare tipo di spazio. La
mobilità del capitale e degli investimenti produttivi consente alle imprese un
notevole vantaggio rispetto alla maggiore immobilità del fattore lavoro. Lo
spazio dei luoghi della vita di tutti i giorni, è subordinato allo spazio dei flussi
nel quale agiscono le imprese e nel quale viaggiano le decisioni
d’investimento. La globalizzazione ha trasformato e reso meno leggibile in
termini geografici l’organizzazione spaziale dell’economia, ma non ne ha
mutato le logiche di fondo. Non si tratta tuttavia solo di una
contrapposizione dialettica tra centro e periferia, ma assistiamo a una
crescente schizofrenia tra le dinamiche deteriorizzanti del sistema
economico-finanziario globale e il destino delle diverse regioni e delle
persone che le abitano.
L’approccio marxista ortodosso in geografia ha avuto una discreta
diffusione, ma è divenuto successivamente meno rilevante nel quadro di
una critica complessiva a tutte le grandi narrazioni. Il limite delle teorie
marxista ortodosse è simile a quello dei modelli quantitativi: sono
eccessivamente riduttive, universalistiche e astratte.
La geografia critica più recente riafferma l’importanza e la diversità delle
possibili risposte locali ai processi macrostrutturali di riproduzione degli
squilibri. Il problema non è solo teorizzare il funzionamento delle strutture e
delle sovrastrutture di accumulazione e di subordinazione, ma anche
indagare le possibili strategie di risposta locali e individuali. La ricerca critica
deve avere un’applicazione concreta ed essere utile all’analisi. Tali
fenomeni possono essere compresi nella loro interezza soltanto attraverso
dettagliate inchieste sul territorio. L’obiettivo è individuare il globale nel
locale, nella convinzione che al geografia non può essere tradotta in modelli
universali e astratti, se non al costo di pericolose generalizzazioni.

5.6 La “nuova geografia economica” degli squilibri (manca)

6 Capitolo Sesto – Sviluppo locale, cluster e sistemi regionali

8Q
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Geografia dello sviluppo – Bignante, Celata, Vanolo

d’innovazione

6.1 La transizione post-fordista

6.1.1 La crisi dell’industria Fordista

La globalizzazione ha alterato le gerarchie consolidate tra centro e periferie


mondiali rendendo i tradizionali sistemi economici nazioni più aperti,
interdipendenti e sottoposti a enormi pressioni competitive. Le attività
industriali in senso stretto hanno ridotto la loro rilevanza per via dell’avvento
di un economica post-industriale. L’innovazione è divenuta un imperativo
ineludibile da ottenere non soltanto attraverso il miglioramento continuo dei
processi e dei prodotti, ma anche attraverso la sperimentazione di nuove
modalità di organizzazione della produzione.
Il cambiamento profondo dei modelli di organizzazione industriale e delle
logiche localizzate delle imprese e del rapporto tre queste e il territorio. Tali
trasformazioni hanno avuto origine dalla crisi del fordismo-keynesianesimo.
Durante il ventesimo secolo il paesaggio economico nei paesi occidentali è
stato fortemente e caratterizzato da un sistema di produzione industriale che
ha avuto la sua origine presso le imprese automobilistiche di Ford, grazie
all’applicazione dei metodi scientifici di organizzazione del lavoro proposti da
Taylor. Tale modalità produttiva prende il nome di fordisimo-taylorimso.
Per migliorare l’efficienza produttiva, l’organizzazione delle fabbriche
doveva consentire di semplificare e velocizzare al massimo qualsiasi
operazione lavorativa attraverso la meccanizzazione del ciclo produttivo e la
specializzazione dei lavoratori. L’espressione paradigmatica di
quest’organizzazione scientifica del lavoro è la catena di montaggio intorno
alla qual ciascun lavorator si specializza nell’esecuzione di un numero
limitato di operazioni che può svolgere ripetutamente, con il minimo sforzo e
in modo rapido.
Un obiettivo fondamentale era la specializzazione delle mansioni dei
lavoratori e dei reparti, la divisione tecnica del lavoro, ovvero la principale
determinante della produttività dell’impresa e il vero motore dello sviluppo
organizzativo ed economico.
La Ford riusciva a commercializzare automobili a basso costo destinate a un

Qo
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Geografia dello sviluppo – Bignante, Celata, Vanolo

pubblico molto più vasto di quello che fino ad allora era in grado di
acquistare una vettura privata. Questo tipo di produzione in serie ha
caratterizzato lo sviluppo del sistema industriale in una lunga fase. Gli
elementi caratteristici di questo modello industriale erano la produzione di
beni standardizzati e a basso costo. L’imperativo era quello di ottenere la
massima efficienza.
Un esteso apparato di supervisione gestiva una divisione del lavoro
complessa e imponeva ritmi di lavoro che consentivano di aumentare
notevolmente la produttività. Tale disciplinamento doveva avvenire sia
all’interno che all’esterno della fabbrica. Ford si adoperava per garantire la
buona salute dei lavoratori attraverso pratiche stravaganti, come intervenite
con un corpo d’ispettori nella vita privata dei dipendenti. Il modello fordista
presupponeva la produzione di un particolare tipo d’individuo che doveva
essere istruito e disciplinato al lavoro in fabbrica e allo stesso tempo
consumatore dei prodotti che egli stesso produceva. Per queste esigenze
Ford offriva salari relativamente alti e un orario di lavoro ridotto.
Con la figura dell’operaio, nasce l’idea moderna di consumatore, e in
particolare il consumo di massa di beni a costo contenuto.
A un organizzazione del lavoro di tipo scientifico incentrata sulla struttura
della fabbrica e sul lavoro dipendente e salariato, l’industria fordista
associava una rigida distinzione tra funzioni dirigenziali e funzioni manuali a
basso livello.
La concentrazione di enormi masse di lavoratori alienati rispetto al frutto del
loro stesso lavoro e in qualche modo disumanizzati favoriva la coscienza di
classe degli operai e la loro organizzazione sindacala. S’instaurava un
rapporto conflittuale e dialettico tra operai e imprenditorie che assumeva la
forma di una mediazione di tipo corporativo tra grandi gruppi sociali e i loro
rappresentanti.
Il modello fordista non si esauriva all’interno del sistema di relazioni
industriali, ma rappresentava il fulcro sul quale si basava l’organizzazione
complessiva della società.
Il capitalismo è per sua natura destinato a periodiche crisi di fronte alle quali
esso riesce in qualche modo a reinventarsi. Il ruolo delle sovrastrutture
politiche e ideologiche è particolarmente importante per la riproduzione nel
tempo dei regimi di accumulazione, ed è per questo che il modello è da loro

Q1
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Geografia dello sviluppo – Bignante, Celata, Vanolo

definito frodista-keynesiano: è necessario considerare lo sviluppo del


modello fordista di organizzazione della produzione parallelamente
all’affermazione dello Stato del benessere di stampo keynesiano che
consente di superare le periodiche crisi di sovrapproduzione.
L’industria fordista trovava la sua locazione un quelle che sono e vecchie
regioni industriali del mondo. La crisi del fordismo è un fenomeno
economico-produttivo, ma anche politico, sociale e culturale ed è da
questa crisi che ha avuto origine il mondo post-fordista, post-industriale e
post-moderno che osserviamo oggi.

6.1.2 Transizione post-fordista e specializzazione flessibile

Il modello fordista di produzione è andato incontro a una progressiva perdita


di competitività per la combinazione di elementi interni ed esterni
all’impresa. Al loro interno le imprese fordiste avevano un’organizzazione
estremamente rigida. Questo aumentava i costi organizzativi e di
coordinamento, implicava problemi di controllo e conduceva a una
crescente burocratizzazione delle relazioni interne. La creazione di grandi
stabilmente sottintendeva la produzione di grandi quantità di prodotti in serie
e richiedeva investimenti molto ingenti.
Questa rigidità è risultata problematica in un contesto esterno che diventa
sempre più competitivo, dinamico. Il mercato dei beni tradizionali diviene
sempre più saturo per l’aumento delle imprese concorrenti e per l’ingresso
di nuovi competitori. L’accresciuta concorrenza a livello globale si associa
ad un tasso d’innovazione e di sviluppo sempre più rapido. Si trasformano i
modelli di consumo che riguardano sempre di più beni non necessari e che
mostrano dinamiche di fluttuazioni più accentuate. All’esigenza di produrre il
più possibile si sostituisce la necessità di governare l’incertezza che
caratterizza l’ambiente interno ed esterno all’impresa. Le crisi economiche
del ’73 e del ’79 comportano l’aumento del prezzo del petrolio e di tutte le
materie prime.
In risposta a questa crisi hanno preso forma una serie di esperimenti nel
campo dell’organizzazione industriale che hanno determinato una
complessiva transizione verso sistemi di produzione maggiormente flessibili

Q2
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Geografia dello sviluppo – Bignante, Celata, Vanolo

e disintegrati. In tempi d’incertezza, aumento della competitività e di rapii


cambiamenti di mercato, secondo Piore e Sabel, le imprese perseguono
strategie di disintegrazione verticale per evolvere verso sistemi produttivi
che essi definiscono di specializzazione flessibile.
L’impressa fordista si caratterizza per un’elevata integrazione verticale
all’interno della propria filiera produttiva da ottenersi attraverso il controllo
diretto di tute le attività che consentono la trasformazione della materia
prima in prodotto finito. La specializzazione flessibile comporta la
disintegrazione verticale della produzione attraverso il ricorso a forme di
esternalizzazione e di decentramento produttivo.
La rigidità interna delle imprese fordiste porta le imprese a restringere la
gamma delle funzioni svolte al proprio interno, riducendo la dimensione
degli impianti. Se l’impresa fordista è caratterizzata da una divisione del
lavoro interna, e da una struttura gerarchica e piramidale, i sistemi di
produzione decentrati, perseguono una divisione del lavoro esterna
all’impresa dando luogo a configurazioni a rete fra un gran numero di unità
produttive specializzate e più o meno autonome. Le imprese fornitrici sono
in concorrenza tra loro e maggiormente specializzate. Questo incentiva e
consente loro di produrre meglio e a un costo inferiore. L’impresa madre
può adattarsi alle mutevoli esigenze dei mercati e può perfino cambiare
completamente la propria produzione senza effettuare costosi
disinvestimenti.
Il decentramento contribuisce alla collettivizzazione del rischio d’impresa
all’interno di complesse catene di produzione, rendendo ogni singolo
elemento interdipendente e vulnerabile, ma consentendo al sistema
complessivo di essere più adattabile alle fluttuazioni tecnologiche e di
mercato.
La diffusione di nuovi modelli lavorativi, più qualificati e autonomi scoraggia
l’organizzazione sindacale dei lavoratori e abbassa i costi diretti e indiretti
del lavoro. Le imprese più piccole non devono sottostare a tutte le
regolamentazioni che sono imposte alle imprese più grandi. Il contatto
diretto dei lavoratori con l’imprenditore e la loro maggiore precarietà rende
più difficile lo sviluppo di relazioni conflittuali e l’organizzazione sindacale. I
lavoratori finiscono per accettare condizioni di lavoro per molti versi
peggiori.

Q3
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Geografia dello sviluppo – Bignante, Celata, Vanolo

I fattori di crisi danno luogo a sistemi di produzione che si riorganizzano


secondo due modelli:
1. Da una parte sorgono grandi imprese globali e reti di produzione
disperse che ricercano attraverso l’internazionalizzazione nuove
condizioni di profittabilità. Finisce l’epoca del gigantismo industriale e
dei mega-stabilimenti e inizia quella delle grandi corporation
transnazionali. Nascono imprese perfino più grandi, ma disperse su
una pluralità di siti produttivi. Le economie interne rimangono
fondamentali per l’impresa nel suo complesso, ma il loro peso si
riduce per i singoli impianti produttivi che possono essere anche
maggiormente dispersi. Nel suo sviluppo più estremo, queste
imprese divengono senza stabilimenti: centri di controllo e di
coordinamento finanziario, organizzativo e di mercato di attività
produttive che esse non svolgono direttamente, ma affidano a una
vasta rete di fornitori.
2. Dall’altro lato l’emergere di sistemi locali d’imprese organizzati
secondo il modello del cluster. Si tratta di reti d’imprese medio-
piccole, autonome, localizzate in prossimità e che partecipano
collettivamente al medesimo processo produttivo, specializzandosi
ciascuna in una particolare fase.
La specializzazione flessibile determina un processo di doppia
convergenza: le grandi imprese sono sempre più frammentate e decentrate
mentre le piccole sono sempre più in relazione tra di loro, consentendo
all’intero sistema industriale di evolvere verso configurazioni produttive a
rete. La riduzione delle dimensione degli impianti produttivi non è favorita
solo dal ricorso a forme di esternalizzazione, ma anche da innovazioni
tecnologiche. La riduzione nella dimensione delle imprese può scoraggiare
l’innovazione tecnologica poiché richiede ingenti investimenti. Le imprese
piccole hanno bisogno di risorse, infrastrutture e capacità alle quali non
sono in grado di accedere in modo autonomo. Esse d’altra parte
rappresentano la stragrande maggioranza delle imprese, in qualsiasi
sistema economico. La soluzione a questi problemi viene in genere indicata
nella crescita dimensionale delle imprese.
Alcune di queste esigenze possono essere soddisfatte dal territorio nel suo
complesso, piuttosto che da ogni singola impresa separatamente,
attraverso
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lo sviluppo di servizi collettivi. La specializzazione flessibile può funzionare


sono se si viola uno degli assunti dell’economia politica classica:
l’economica deve essere separata dalla società.

6.2 I sistemi locali di produzione

6.2.1 I distretti industriali marshalliani e la Terza Italia

I distretti industriali rappresentano un caso molto particolare di sistema


locale di produzione e secondo molti il modello organizzativo del post-
fordismo e della specializzazione flessibile. Tale interesse non deriva solo
dalla loro importanza in termini produttivi e competitivi, ma appunto dalla
loro capacità di esprimere in maniera particolarmente evidente alcune
tendenze di fondo di trasformazione dell’economia e della produzione
industriale nell’epoca post-fordista. In Italia tale interesse è ancora maggiore
perché i distretti industriali sono particolarmente diffusi.
Il distretto industriale è un sistema di produzione locale composto da un
numero elevato di imprese piccole e indipendenti che ottengono al livello del
territorio la stessa efficienza di una grande impresa integrata unitamente ai
vantaggi della specializzazione e della flessibilità. Il termine distretto
industriale è stato introdotto da Marshall. Lo studio dei sistemi di piccole
imprese che poteva osservare nell’Inghilterra del suo tempo, serviva a
Marshall per mostrare l’importanza delle economie esterne di scala. La
suddivisione del ciclo produttivo tra una pluralità di unità produttive separate
dimostrava che i medesimi livelli di specializzazione e di efficienza si
potevano ottenere non solo all0interno delle grandi imprese, ma anche
attraverso la divisione sociale del lavoro tra imprese co-localizzate. Egli
stesso considerava i distretti come espressione di un sistema economico
pre- industriale e pre-moderno che sarebbe stato gradualmente sostituito
dal sistema di produzione in serie. Ma è proprio in corrispondenza della crisi
del sistema fordista che la discussione sui distretti diviene centrale e
paradigmatica.
In termini organizzativi i distretti industriali coinvolgono una serie di unità
produttive specializzate di piccole dimensioni. La produzione è coordinata
da

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un gruppo di imprenditori puri che gestiscono le relazioni con il mercato


esterno ma non possiedono direttamente gli impianti produttivi.
I distretti esasperano il decentramento produttivo determinando un’estesa
divisione sociale del lavoro che però rimane quasi completamente
contenuta all’interno del sistema locale. Le relazioni con l’esterno
riguardano solo l’acquisto dei materiali necessari alla produzione.
I distretti industriali italiani sono specializzati nelle produzioni ad alta
intensità di lavoro tipiche dell’industria leggera. Essi riescono a contenere i
costi di produzione e a prosperare in settori estremamente concorrenziali. In
questi settori la produzione si basa su tecnologie standardizzate e
facilmente reperibili che non favoriscono la formazione di barriere
all’entrata: si tratta di settori con bassi margini di profitto. Si tratta inoltre di
prodotti con una domanda differenziata e variabile nel tempo e nello spazio.
I distretti italiani hanno alle spalle una lunga storia di specializzazione
manifatturiera e artigianale. La conoscenza di tecniche di produzione quasi-
artigianali e l’elevata specializzazione di ogni singola impresa, consente di
produrre beni di altissima qualità. La progressiva industrializzazione di
queste lavorazioni artigianali non è stata ottenuta attraverso la crescita
dimensionale degli impianti e l’avvio della produzione in serie, ma piuttosto
attraverso la crescente complessificazione del sistema delle relazioni fra
imprese autonome. Essendo piccole e simili fra loro, le imprese locali non
svilupperanno solo relazioni di produzione dirette e di tipo input-output, ma
anche moltissime economie esterne, si scambieranno informazioni.
I vantaggi dell’innovazione tenderanno a ridistribuirsi presso tutte le
imprese del distretto. L’innovazione è più che altrove un vero e proprio
processo sociale e collettivo. Le imprese devono essere abbastanza
simili, così da poter interagire, ma allo stesso tempo non totalmente
identiche, per evitare forme di concorrenza eccessiva. Le innovazioni
devono essere tali da poter essere imitate dalle altre imprese, ma non
immediatamente e in maniera identica da tutte le imprese. questo modello
produttivo si riflette nel radicamento sociale e territoriale del distretto. Il
distretto stesso diventa il marchio che viene apposto sulle merci,
piuttosto che il nome delle imprese che di volta hanno contribuito a
produrle. La definizione utilizzata da Marshall tradisce la vera natura della

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ricerca sui distretti industriali: l’individuazione di un’unità d’indagine


differente rispetto al tradizionale oggetto dell’economia industriale che è
in genere identificabile nella singola impresa. Il distretto può invece essere
un’unità intermedia tra il soggetto tipico della microeconomia, e il sistema
caro all’analisi macro-economica nel quadro di un approccio che a volte è
definito meso-economico.
L’analisi della produzione deve e può essere sostituita con l’analisi
regionale. È possibile adottare una prospettiva territoriale e indagare non
solo le specificità economiche, ma anche geografiche e storiche dei distretti.
La popolazione d’imprese caratterizzata da una densa rete di relazioni
input- output tra aziende piccole ed autonome. I vantaggi della prossimità
non sono connessi solo alla riduzione dei costi di trasporto, ma a tutto il
complesso delle economie di localizzazione. Il coordinamento e lo scambio
tra produttori è facilitato da fattori economici ma anche da fattori extra-
economici.
Il concetto di comunità locale sottintende l’omogeneità d’interessi, di valori
etici e linguaggi che caratterizza qualsiasi località. L’elevata
specializzazione finisce per caratterizzare fortemente l’area e influisce sul
senso di appartenenza dei suoi abitanti. L’omogeneità sociale e culturale
non si esprime solo nello sviluppo di una particolare specializzazione
produttiva, ma anche nell’affidabilità delle transazioni economiche e
aumentata la fiducia reciproca.
La compenetrazione tra sistemi produttivo e società si esprime anche
nell’importanza della dimensione familiare. Il distretto sviluppa un’atmosfera
industriale molto particolare che promuove l’operosità, l’imprenditorialità, la
collaborazione e l’innovazione.
Sistemi produttivi si riscontrano anche in altre regioni italiane, e in particolar
in tutto il centro-nord-est. Queste regioni non hanno mai sperimentato un
processo d’industrializzazione di tipo fordista, che si concentra piuttosto nel
cosiddetto triangolo industriale.
L’elevata flessibilità e le pressioni che l’imperativo della competitività
impone a individui e imprese sono mediate e ammortizzate ai diversi livelli
dell’organizzazione sociale dei distretti. Questa particolare forma di sviluppo
industriale ha consentito di trasformare regioni in molti casi arrestate e

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caratterizzate da intensi flussi di emigrazione in alcune delle aree più ricche


del mondo.

6.2.2 Post-fordismo, nuovi spazi industriali e cluster

Se le trasformazioni indotte dalla transizione post-fordista e dalla


globalizzazione determinano l’evoluzione verso sistemi di produzione a rete.
I vecchi fattori di localizzazione e di competitività risultano meno rilevanti
rispetto alla posizione organizzativa e geografica che ciascun’unità
produttiva ha all’interno di una complessa rete di produzione che è locale e
globale e le cui logiche debbono essere comprese attraverso nuovi schemi
interpretativi. Tali trasformazioni si associano allo sviluppo di nuovi spazi
industriali. È indicativo che la gran parte dei distretti industriali, dei cluster
d’imprese tecnologiche e il complesso dei nuovi settori produttivi che
emergono a partire dagli anni Settanta sorgano raramente nelle tradizionali
regioni industriali dei paesi occidentali.
Un’area cruciale di osservazione è stata la costa occidentale degli Stati Uniti
con i distretti del tessile- abbigliamento a Los Angeles, distretto tecnologico
di Silicon Valley, l’industria cinematografica di Hollywood che rappresentava
un esempio d’industria verticalmente integrata. L’insieme di queste imprese
rimane geograficamente concentrata in alcuni quartieri di Los Angeles non
solo perché qui possono accedere a tutta una serie di elementi di contesto
che favoriscono la creatività, l’innovazione e la competitività, ma anche
perché la prossimità facilità il coordinamento della produzione, a maggior
ragione nel caso in cui questa coinvolge una pluralità d’imprese
indipendenti. Un caso molto discusso e imitato è il modello giapponese: una
configurazione intermedia tra la produzione di massa e la produzione
flessibile che utilizza innovazioni organizzative fondamentali, come il just in
time, originatesi nell’industria automobilistica e in particolare presso la
Toyota. In questo caso, la produzione riguarda grandi volumi di merce non
standardizzata e anche tecnologicamente avanzata e strettamente
coordinata da poche grandi imprese. queste imprese si avvalgono di una
vastissima rete di piccoli fornitori locali e innovazione e di controllo della
qualità, riescono a ridurre fortemente i costi.

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Il just in time consente la drastica riduzione delle scorte di semi-lavorativi e


prodotti finiti per ottenere risparmi economici, aumentare la flessibilità
produttiva e ridurre i rischi che tale scorte risultino utilizzate in seguito a
fenomeni si spiazzamento tecnologico o di mercato. La produzione piuttosto
che precedere la domanda di mercato è successiva all’ordine a produrre
che proviene dalle imprese acquirenti. Il rischio in questi casi è che si
determino tempi di consegna eccessivamente lunghi. Il just in time richiede
per questo consegne molto frequenti da parte dei fornitori. Ordini frequenti e
di più ridotte dimensioni implicano che fornitori e committenti abbiano
convenienza a localizzarsi gli uni vicini agli altri creando dense
concentrazioni di imprese collegate in specifiche regioni.
La specializzazione flessibile tende a individuare nuovi spazi di produzione
nelle periferie di regioni urbane secondarie che precedentemente non
avevano mai conosciuto un processo così esteso di sviluppo industriale.
Sia i modelli di localizzazione neoclassici basati sul ruolo dei costi di
trasporto, sia i modelli keynesiani di causazione cumulativa, sia i modelli
dello sviluppo polarizzato e le teorie marxiane centro-periferia, mostrano al
contrario come la geografia dello sviluppo sia cumulativa. Ci si aspetterebbe
qualche effetto di rickle-down: una diffusione graduale intorno alle regioni
industriali esistenti o lungo la gerarchia urbana consolidata.
Ogni nuovo settore produttivo o ogni nuova tecnologia o modello
organizzativo della produzione produce endogenamente le proprie
specifiche condizioni localizzative. Tali condizioni mostrano per questo una
variabilità settoriale e temporale superiore di molto a quella presupposta
delle teorie classiche e universalistiche della localizzazione. Tali
trasformazioni sembrano a volte prediligere spazi in qualche modo vergini.
La crisi del fordismo si traduce quindi nella crisi della gran parte delle
regioni industriali tradizionali che vanno incontro a forme di lock-in: sono
condannate a riprodurre nel tempo le proprie logiche economiche.
Il grado di concentrazione geografica della produzione nei diversi settori
economici, piuttosto che ridursi accresce.
Viviamo in un mondo di cluster. Le imprese competitive nei loro rispettivi
settori si concentrano in particolari regioni che ospitano cluster specializzati,
ossia concentrazioni d’imprese simili interconnesse, fornitori di beni e

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servizi specializzati. Tale concentrazione accresce la competizione tra le


imprese ma facilita la loro collaborazione implicita o esplicita, favorendo
relazioni, accordi tra imprese.
La categoria del cluster è molto più ampia di quella di distretto industriale
marshalliano e può essere associata a un’ampissima varietà di casi
rischiando di perdere la sua unità analitica. La categoria del cluster include
anche sistemi d’imprese organizzati attorno a imprese leader di maggiore
dimensione, con una rete di fornitori molto vasta ma che è gestita attraverso
relazioni quasi gerarchie. La formazione dei cluster può essere anche il
risultato di un processo di decentramento produttivo che origina da grandi
imprese precedentemente fordiste.
I cluster non sono solo un antidoto alla globalizzazione, ma ne
rappresentano ance uno degli aspetti più significativi. Nell’opinione comune
la globalizzazione è descritta come morte della distanza, fine della
geografia, l’avvento di un mondo piatto, con il progressivo indebolimento dei
confini e la creazione di un unico spazio globale integrato e quindi
tendenzialmente omogeneo nel quale le imprese possono localizzarsi
ovunque. L’analisi geografica sottolinea le contraddizioni di un processo di
globalizzazione selettivo che da una parte induce all’omogeneizzazione e
alla scomparsa dei particolarismi locali, ma dall’altra esalta le differenze
regionali.
6.2.3 Logica e Spazialità dei sistemi produttivi a rete: i costi di
transazione (manca)

6.2.4 Sviluppo regionale, istituzioni e capitale sociale

La gran parte dei fattori non economici che sono fondamentali per
coordinare la produzione in tempi d’incertezza sono in genere definiti
istituzioni, e sono per questo enfatizzate dalle prospettive istituzionaliste. Le
istituzioni sono fondamentali per comprendere come le economie di
mercato funzionano nella realtà e possono variare nel tempo.
Il termine istituzione può essere frainteso perché esso è in genere associato
a vere e proprie organizzazioni collettive. È utile distinguere tra le istituzioni
formali che sono le istituzioni pubbliche e gli organi dello Stato, ma anche
istituzioni intermedie come le associazioni. Il ruolo delle istituzioni
intermedie è quanto mai importante.

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Il loro ruolo è stato enfatizzato soprattutto in relazione al cosiddetto modello


emiliano. In questi sistemi locali di produzione è particolarmente evidente
come in meccanismi regolativi tipicamente associati al mercato e il
meccanismo del prezzo , la razionalità dell’operatore economico e la
massimizzazione del profitto individuale, non siano sufficienti a sostenere il
denso tessuto di relazioni locali. Esistono tutta una serie di relazioni non di
mercato che sostengono la cooperazione e l’associazionismo, che non
possono essere ricondotte solo alle convenienze e alle decisioni autonome
delle imprese. le imprese si avvalgono di servizi comuni, infrastrutture e
risorse organizzative che non sono in grado di produrre autonomamente.
Sono necessarie per questo istituzioni intermedie che riempiono lo spazio
tra pubblico e privato e che colmano il vuoto determinato dalla crisi dei
sistemi nazionali d’intervento di tipo keynesiano.
Accanto alle istituzioni formali, risultano fondamentali le istituzioni informali,
anche dette istituzioni morbide. Le istituzioni informali sono qualsiasi
convenzione che regola le relazioni all’interno del sistema sociale. Istituzioni
come la fiducia reciproca sono fondamentali per spiegare la propensione
alla cooperazione che è osservabile nelle aree distretto. L’adozione di
linguaggi comuni e la condivisione dei medesimi riferimenti culturali sostiene
lo sviluppo di convenzioni che sono essenziali per creare le conoscenze
specifiche necessarie per produrre e innovare. Le istituzioni sono tutti quei
dispositivi sociali, culturali e collettivi che vincolano e che facilitano
l’interazione economica.
Nell’opinione comune le istituzioni sono importanti in una società
tradizionale mentre divengono meno rilevanti in un’economia di mercato
dove l’interazione anoni9ma basata sui meccanismi di mercato sostituisce
gradualmente i vincoli di tipo consuetudinario. La grande trasformazione
che conduce allo sviluppo delle economie moderne e industriali non
consiste in una liberazione progressiva dai condizionamenti di tipo non
economico che regolano l’agire economico, nella misura in cui soprattutto le
istituzioni statali hanno avuto un ruolo fondamentale in tale processo. Il
libero mercato non si è conquistato il proprio spazio attraverso un processo
autonomo di opposizione e di sostituzione ai sistemi pesantemente regolati
dalle economie tradizionali, ma è stato appositamente costruito per
acquisire le

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sembianze di un meccanismo completamente auto-regolato. Lo sviluppo e


la sopravvivenza dell’economia di mercato richiedono una serie d’istituzioni
formali e informali che sono escluse dall’analisi economica e dalle
rappresentazioni correnti dell’economia.
Un’espressione semplice e molto diffusa per definire l’insieme di queste
dimensioni non economiche dell’agire economico è il concetto di capitale
sociale. Esso è innanzitutto la complessa rete di relazioni interpersonali che
consentono la realizzazione sociale ed economica dei singoli individui. In
questa dimensione individuale il capitale sociale è interpretato come
strumento di mobilità sociale.
Il capitale sociale ha una dimensione collettiva e contestuale: ciascun
gruppo sociale o località è tenuto insieme da reti di relazioni interpersonali
più o meno dense, mediate a diverse scale da sistemi di regole scritte e non
scritte.
Il capitale sociale ha infine una dimensione organizzativa: le relazioni sociali
possono essere più o meno organizzate e coordinate da vere e proprie
istituzioni formali, gruppi o associazioni che risultano fondamentali. Nella
misura in cui tali istituzioni facilitano le relazioni economiche, le cause del
sottosviluppo possono anche essere ricondotte alla debolezza del capitale
sociale locale. Tale debolezza favorisce atteggiamenti individualistici e di
cattura della rendita che scoraggiano l’iniziativa economica. Lo studio del
capitale sociale si è notevolmente diffuso nel dibattito scientifico e pubblico
soprattutto in seguito alle ricerche di Putnam. Il noto dualismo tra Nord e
Sud l’estesa varietà delle forme di sviluppo socio-economico che
caratterizzano il paese sono ricondotte al diverso grado di senso civico
delle regioni italiane che è a sua volta dovuto al loro differente percorso
storico di sviluppo politico.
Il capitale sociale può essere in qualche modo osservato e misurato
utilizzando indicatori quali la partecipazione individuale alla vita collettiva.
Altri indicatori utilizzati sono il grado di fiducia reciproca, il senso di
appartenenza e altri.
La complessità e diversità delle dimensioni non economiche dello sviluppo
regionale impedisce di ridurre queste a semplici variabili quantitative e ha
condotto a una critica radicale dei modelli.

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6.2.5 Il radicamento territoriale e relazionale dell’agire economico

Le interpretazioni correnti dello spazio economico restituiscono l’immagine


di un mondo ipo- socializzato nel quale individui razionali rispondono
esclusivamente a incentivi e disincentivi economici in senso stretto. Bisogna
evitare anche le interpretazioni iper-socializzate, tipiche della sociologia
economica tradizionale per le quali il comportamento individuale è
interamente ricondotto a condizionamenti socio-culturali di natura estera.
Sebbene non siano legati da relazioni deterministiche di causa ed effetto, il
sistema economico e il sistema sociale co-evolvono, si sostengono a
vicenda. Lo spazio economico altro non è che una costruzione sociale.
Un concetto chiave è quello di radicamento sociale dell’agire economico
nell’ambito della sua critica alla rappresentazione di un mercato auto-
regolato per mostrare come le economie moderne siano radicate in
strutture sociali rispetto alle quali esse si presuppongono dal tutto
autonome.
L’agire economico non è solo condizionato dal contesto sociale, ma radicato
in vere e proprie reti di relazioni interpersonali. Le informazioni necessarie
agli individui per trovare lavoro sono radicate. L’informazione radicata è
estremamente economica, accurata,a affidabile. La fiducia necessaria per
pervenire a uno scambio economico non richiede necessariamente un
sistema coercitivo efficace.
Il funzionamento delle reti di relazioni interpersonali può essere anche
concretamente osservato m cartografato e analizzato attraverso la social
network analysis. Si possono individuare in questo modo legami forti come
le relazioni parentali, o legami deboli come le reti di amicizie e di
conoscenze. Queste ultime risultano fondamentali per connettere
esternamente e tra di loro gruppi come le organizzazioni, le comunità locali
che sono al loro interno molto coesi ma che hanno bisogno di aprirsi
all’esterno.
La rilevanza geografica di quanto detto va ben al di là di queste semplici
misure. In primo luogo la forma e l’intensità delle reti sociali mostra
un’elevata variabilità regionale e locale. In secondo luogo le relazioni sociali
sono radicate sul territorio perché qualsiasi rapporto interpersonale
presuppone l’incontro fisico e avviene in specifici luoghi dove l’interazione
sociale è fisicamente possibile. Anche in un mondo globalizzato la scala
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locale rimane fondamentale perché è questa la scala della socializzazione


dell’esperienza diretta.
Le istituzioni non originano soltanto per ovviare a fallimenti del mercato, non
esistono solo per ridurre i costi di transazione o limitare l’opportunismo. Le
organizzazioni come le imprese non assicurano necessariamente l’efficacia
del controllo gerarchico. Le relazioni durature e di comunità generano
standard di comportamento atteso anche migliori rispetto al controllo
gerarchico.

6.2.6 Nuovo regionalismo, sviluppo locale e approccio place-


based

La rivalutazione delle basi locali dello sviluppo economico e cella


competitività ha comportato una riscoperta del territorio come unità
fondamentale di governo dei processi economici e sociali. La riscoperta del
locale contrasta con le letture tradizionali per le quali la regione è piuttosto
l’oggetto passivo di un processo di differenziazione guidato da dinamiche
strutturali e sovra-locali. L’idea di un spazio polarizzato e organizzazione in
maniera gerarchica lascia il posto alla rappresentazione di un’unica a rete
costituita da un mosaico d’identità e specificità locali. L’immagine di un
mondo di regioni si contrappone alle consuete rappresentazioni di un
mondo suddiviso in nazioni economiche e alla tradizionale enfasi sul ruolo
delle imprese. il territorio è la vera unità di produzione e di conseguenza la
più efficace unità di analisi dei processi produttivi e il protagonista dello
sviluppo economico. È evidente l’importanza di alcune dimensioni non
economiche dello sviluppo regionale come le istituzioni formali e informali
che sostengono dense reti di relazioni e che sono essenziali per competere.
Il territorio può essere rappresentato come un luogo di cooperazione e di
specificità che si confronta con condizioni di accresciuta concorrenza. Le
forme locali di auto- organizzazione economica non sono considerate solo
come interessi casi studi, ma come un antidoto alle tendenze de
territorializzanti implicite nella globalizzazione.
Questo nuovo regionalismo comporta il passaggio da sistemi d’incentivi
diretti alle imprese a un sistema d’intervento collettivo dal basso, mirato a

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ogni specifica regione e pluri-attore. L’obiettivo non è indurre la


localizzazione d’imprese esterne, ma favorire la nascita di nuove imprese
locali e il consolidamento delle loro specificità produttive. La strategia non
mira a ridurre i costi delle imprese, ma a migliorare il territorio nel suo
complesso.
Nel quadro di un sistema politico multi-livello e multi-attore la scala locale e
regionale viene considerata la dimensione ottimale per promuovere lo
sviluppo economico sulla base di strategie che imitano i sistemi locali più
dinamici. La proposta non è solo quella di sostenere i distretti industriali, ma
di duplicare altrove le specifiche forme di regolazione sociale e politica di
questi mondi di produzioni. Lo sviluppo storico di queste aree mostra come
l’ispessimento localizzato di relazioni sia il risultato di un percorso
spontaneo. Agli attori locali viene concessa ampia autonomia.
Lo sviluppo locale si distingue dagli approcci tradizionali per tre elementi:
1. Le aree d’intervento sono delimitata a prescindere dai contenitori
amministrativi
2. Dimensione progettuale delle politiche, la necessità di definire con
chiarezza gli obiettivi d’intervento sulla base di una precisa idea forza
3. La definizione delle strategie viene demandata il più possibile a
un’ampia platea di attori locali

6.3 I sistemi regionali d’innovazione

6.3.1 I cluster tecnologici

Il modello localizzativo a cluster che è stato associato quasi esclusivamente


al caso di settori industriali maturi ad alta intensità di lavoro, si riscontra
anche nel caso di settori totalmente nuovi e ad alto consumo di conoscenze
e tecnologie. Il prototipo è inevitabilmente la Silicon Valley: il cluster
d’imprese tecnologiche in assoluto più discusso e maggiormente imitato.
Nella variabilità dei diversi casi, queste aree hanno alcune caratteristiche
comuni. In primo luogo ospitano un gran numero d’imprese altamente
tecnologiche. In secondo luogo sorgono in prossimità di università o centri
di ricerca che formano personale altamente qualificato. Si tratta di aree

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particolarmente adatte ad ospitare start-up: attività imprenditoriali giovani


innovative e rischiose. Sono necessari strumenti finanziari adatti al
finanziamento d’investimenti che offrono scarse garanzie e dagli esiti
imprevedibili che sarebbero difficilmente finanziate dalle forme di credito
tradizionali. Tali finanziamenti prendono la forma di venture capital:
investimenti diretti allo start up aziendale da parte di appositi investitori che
valutano personalmente le prospettive di sviluppo dell’iniziativa. I casi di
successo sono pochi ma promettono rendite elevatissime.
Un’importante distinzione è tra i cluster tecnologici che sorgono più o meno
spontaneamente e i tecnopoli che sono appositamente pianificati dai
governi centrali. Quest’ultimi sono la maggior parte, ma sono meno rilevanti,
anche perché si tratta d’iniziative che hanno scarso successo.
Quello che caratterizza i cluster tecnologici non è tanto la compresenza dei
diversi elementi, ma la loro interazione. Tale interazione può assumere
diverse forme, volontarie o involontarie. La piccola dimensione delle
imprese favorisce la circolazione di informazioni e conoscenze essenziali al
processo innovativo. Tale interazione può essere formalizzata in veri e
propri accordi di collaborazione tra le imprese o tra queste e le università,
ma avviene molto più spesso in maniera informale attraverso la circolazione
dei lavoratori.
Si crea in queste aree un’atmosfera industriale molto particolare. La
necessità è produrre beni e tecnologie per i quali non esiste ancora una
domanda di mercato e che hanno un alto contenuto innovativo. In questi
casi, il territorio diventa una sorta di laboratorio per l’innovazione. La
localizzazione in quella determinata area e la prossimità tra imprese
innovative di piccole dimensioni continua a favorire la circolazione di idee e
conoscenze ed è una fondamentale fonte di vantaggio competitivo.
L’elevatissima competitività che caratterizza il tessuto socio-culturale di
queste aree è una dimostrazione plastica dell’equilibrio ottimale che il
modello del cluster consente tra competizione e collaborazione. La
competitività rappresenta uno stimolo essenziale al continuo miglioramento
dei prodotti e dei processi. Essa è stimolata dalla vicinanza ai propri
concorrenti. Questa competizione attiva non deve essere tale da frenare la
cooperazione. Quest’ultima è necessaria per consentire una continua
innovazione dei prodotti ed è anche’essa facilitata dalla prossimità.

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Non è escluso che le relazioni tra le imprese del cluster prendano la forma
di vere e proprie collaborazioni formali o di rapporti di tipo input-output di
fornitura o subfornitura. In realtà i sistemi regionali d’innovazione hanno
livelli di concentrazione e specializzazione analoghi ai sistemi di produzione
flessibile, ma non mostrano la stessa densità di legami interaziendali.
L’analisi empirica ha dimostrato più in generale come i sistemi locali
d’imprese non siano necessariamente caratterizzati da una densa rete di
relazioni di tipo input-output che implicano lo scambio di beni e servizi.
Secondo Storper questo tipo di economie esterne sono interdipendenze non
di mercato:
1. Sono non di mercato perché non agiscono attraverso relazioni di
scambio vere e proprie
2. Sono interdipendenze perché legano i diversi elementi tra di loro e
con il territorio nel quale si localizzano, favorendo lo sviluppo di
convenzioni
Il funzionamento di questi legami intangibili non è escluso, ma è centrale
nell’analisi dei distretti industriali. Le interdipendenze non di mercato
includono poi anche esternalità di tipo tradizionale.
Tali vantaggi non agiscono tuttavia esclusivamente riducendo il costo della
transazione, ma facilitano un’insieme molto più complesso e informale di
connessioni.
I cluster tecnologici smentiscono le interpretazioni tradizionali per le quali le
protagoniste del processo innovativo sono soprattutto le grandi imprese. è
convenzione diffusa che le imprese di piccole dimensioni non siano in grado
di produrre innovazioni radicali, perché scarsamente specializzate e
costantemente sottocapitalizzate. Le piccole imprese riuscirebbero
difficilmente ad appropriarsi dei benefici delle loro innovazioni che
verrebbero presto imitate dai concorrenti. Soltanto agendo in mercati
oligopolistici si possono avere sia le risorse che le convenienze per
intraprendere investimenti di ricerca e sviluppo. L’innovazione si
svilupperebbe soprattutto in settori caratterizzati da regimi oligopolistici con
rilevanti barriere all’entrata. I cluster tecnologici mostrano come
l’innovazione sia un processo sociale e collettivo condotto da una pluralità
di attori. Il risultato può essere incorporato in una specifica tecnologia,
appropriato da qualche

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imprenditore e organizzato all’interno di reti d’imprese coordinate


gerarchicamente.

6.3.2 Innovazione e territorio: conoscenza tacita e contatti faccia


a faccia

Le modalità di produzione e di circolazione delle informazioni e delle


conoscenze influiscono in misura cruciale sull’organizzazione spaziale dei
processi produttivi in un’epoca nel quale l’innovazione è un imperativo
imprescindibile per qualsiasi attività economica. La geografia economica ha
tradizionalmente enfatizzano l’importanza delle relazioni di prossimità ai fini
dei trasferimenti di conoscenza e il legame inscindibile che lega innovazione
e territorio.
Lo studio dei distretti industriali ha evidenziato l’importanza cruciale che la
conoscenza contestuale di tecniche produttive neo-artigianali ha per
sostenere la competitività delle imprese distrettuali e per produrre beni di
altissima qualità.
La specializzazione flessibile consente alle imprese di concentrarsi sulle
proprie competenze distintive e decentrate le componenti meno strategiche.
La teorie dei costi di transazione ha messo in evidenzia il ruolo della
specificità delle conoscenze e del carattere proprietario delle informazioni
nello stabilire l’equilibrio fra fare e comprare.
L’importanza della prossimità è uno degli elementi più rilevanti per spiegare
il persistente radicamento sociale, relazionale e territoriale dell’agire
economico. Lo sviluppo di un luogo non dipende solo dalle attività che esso
contiene, che potrebbero un giorno trasferirsi altrove. lo sviluppo di un luogo
dipende dal patrimonio di conoscenze, capacità e creatività delle persone
che lo abitano.
La conoscenza è un bene pubblico locale. Si tratta di un bene pubblico
perché gode del carattere della non rivalità e della non escludibilità: l’utilizzo
di particolari conoscenze da parte di un individuo o di un’impresa non
impedisce ad altri di utilizzare le medesime conoscenze.
Il legame tra apprendimento e territorio è evidente se si considera che molte
conoscenze non sono solo contestuali, ma anche tacite. Una distinzione

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fondamentale in questo senso è tra le conoscenze codificabili e quelle non


codificabili. L’apprendimento richiede una qualche forma di d’interazione
che può essere diretta o indiretta. Per imparare a usare un qualsiasi
strumento possiamo avere a disposizione un libretto d’istruzioni o possiamo
chiedere a qualcuno di farci vedere come si usa. Nel primo caso si parla di
conoscenze codificabili, questa tipologia di conoscenza può essere mediata
da testi. Esistono però conoscenze non codificabili, di tipo tacito e
contestuale. La loro trasmissione implica l’interazione diretta. I processi
d’apprendimento sono favoriti dall’esperienza diretta. La conoscenza è
incorporata nel soggetto che conosce e che può trasmettere con pienezza
questa conoscenza soltanto attraverso un’interazione diretta. Le
conoscenze codificabili sono informazioni banali, non riservate. Le
conoscenze non codificabili sono informazioni complesse,
multidimensionali.

6.3.3 La prospettiva evolutiva: ciclo di vita, path dependency e


resilienza

Cosa succede ai sistemi e alle reti di produzione nel corso del loro sviluppo
storico? Cosa spiega l’emergere e il declino dei cluster e in che modo questi
subiscono gli effetti di shock di natura esterna come le crisi economiche?
Il modo più semplice per rispondere a queste domande, è pensare che
qualsiasi prodotto, tecnologia, organizzazione abbiano un proprio ciclo di
vita, caratterizzato da fasi d’espansione, maturazione e declino.
L’importanza del territorio e le logiche localizzative delle imprese sono
profondamente diverse in ciascuna di queste fasi.
Un modello precursore e molto noto mette in relazione il ciclo di vita del
prodotto con le dinamiche d’internazionalizzazione delle imprese. Nella fase
iniziale dell’innovazione che porta all’introduzione di un nuovo prodotto, la
produzione avviene su piccola scala. Le imprese innovative si localizzano
per questo in regioni dinamiche dov’è disponibile manodopera qualificata e
godranno inizialmente di una situazione di relativo monopolio. La tecnologia
è molto specifica. Nella fase successiva della maturità le tecnologie saranno
relativamente più semplici e nello stesso tempo più facili da imitare.
Aumenterà la concorrenza. La localizzazione originaria non sarà più del
tutto
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necessaria. È probabile che si verifichino delocalizzazioni in regioni più


periferiche. L’internazionalizzazione avviene nella fase successiva dalla
standardizzazione. Il prodotto è maturo, le tecnologie facilmente imitabili.
Tale concorrenza si baserà quasi esclusivamente sul prezzo del prodotto. È
possibile che l’impresa decida di trasferire interamente la produzione
all’estero.
I processi di standardizzazione tecnologica sono fondamentali per
comprendere le logiche localizzative delle imprese e sono stati per la prima
volta analizzati negli anni trenta da Schumpeter. Lo sviluppo economico è
un processo di distruzione creativa che prende avvio da innovazioni radicali
e si manifesta con l’introduzione sul mercato di un insieme di nuovi prodotti.
Successive rivoluzioni tecnologiche sono alla base delle fluttuazioni cicliche
di lungo periodo dell’economia. Il soggetto chiave dell’innovazione è
l’imprenditore che intuisce le potenzialità di una particolare invenzione
scientifica. Egli riesce in questo modo ad avere ampi profitti, che si riducono
però con ili tempo perché le innovazioni verranno limitate e perderanno il
loro carattere di novità. I benefici dell’innovazione fluiranno allora all’intera
società attraverso la disponibilità di nuovi prodotti.
I modelli evolutivi si chiamano per questo anche neo-schumperiani ed
enfatizzano l’importanza dei processi di standardizzazione tecnologica e
organizzativa. La standardizzazione è l’esito della concorrenza tra imprese
e dalla necessità di abbassare il costo del lavoro. La standardizzazione
produttiva non implica solo la meccanizzazione e l’automatizzazione della
produzione, ma tutto un complesso di dispositivi tecnici e organizzativi che
consentono di aumentare la ripetibilità, la prevedibilità e di ridurre la
complessità dell’organizzazione. La standardizzazione consiste nella
progressiva codificazione delle informazioni necessarie per produrre.
Le dinamiche locali, nella prospettiva evolutiva, sono essenziali per
comprendere lo sviluppo regionale, ma è anche vero che le imprese
agiscono per buona parte in risposta a stimoli interni, di tipo tecnologico.
Nella prospettiva evolutiva le istituzioni territoriali possono costituire
importanti condizionamenti all’azione degli attori economici, ma le logiche di
azione di questi attori sono altrettanto importanti.
Tali dinamiche evolutive sono path dependent. Imprese e territori cercano da

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una parte di adattarsi al mutamento delle condizioni estere di tipo


tecnologico, ma d’altra parte tendono a riprodurre nel tempo determinati
modi di fare e di pensare che possono ritardare l’adattamento dinamico.
Per spiegare tali dinamiche di path dependency, di lock in e di adattamento
dinamico, le teorie evolutive ricorrono spesso a metafore di tipo
evoluzionistico. Esse tendono da una parte a imitarsi le une con le altre,
dando luogo a sistemi omogenei, ma tendono anche a differenziarsi per
individuare ciascuna una propria nicchia ecologia producendo, allo stesso
tempo, omogeneità ed eterogeneità.
Essenziale, in tempi di crisi, è la capacità d’individuare nuove
specializzazioni e riorientare completamente la base produttiva locale per
rispondere alle mutate condizioni esterne. Il caso contrario è molto più
frequente. Imprese e territori in crisi incorrono spesso in situazioni di lock in
organizzativo o istituzionale: la riproduzione nel tempo di determinati modelli
produttivi comporta inevitabilmente un declino. I cicli di vita tendono oggi ad
essere sempre più corti per effetto delle accresciute capacità d’imitazione
tecnologica.

6.3.4 Locale o globale?: le prossime relazioni (manca)

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7 Capitolo Settimo – Reti economiche transnazionali e


governance globale

7.1 Le imprese transnazionali

7.1.1 Globalizzazione e internazionalizzazione produttiva

Il termine globalizzazione è in uso dalla metà degli anni Ottanta del secolo
scorso. Sottintende un fenomeno multidimensionali che implica
cambiamenti di tipo tecnologico come il miglioramento dei sistemi di
trasporto e di telecomunicazione. Un ruolo fondamentale è svolto
dall’internazionalizzazione delle imprese e del crescente coinvolgimento di
queste in attività che si svolgono all’estero. Tali attività possono essere di
tre tipologie:
1. L’internazionalizzazione commerciale consiste in attività e
importazione che sono cresciute in maniera vertiginosa negli ultimi
decenni
2. L’internazionalizzazione finanziaria e
produttiva consistono nella
realizzazione
d’investimenti all’estero. La differenza è che nel secondo caso
l’internazionalizzazione si realizza attraverso investimenti diretti
all’esteso che presuppongono da parte dei soggetti investitori il
controllo diretto di attività produttive all’estero
Le imprese multinazionali godono di economie di scala e di scopo molto alte,

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interne all’impresa, ma esterne al singolo sito o stabilimento produttivo. La


loro crescita dimensionale è connessa alla moltiplicazione e alla dispersione
di unità produttive. Esse sono uno dei soggetti principali della compressione
spazio-temporale, concetto di Harvey che esprime l’esigenza del
capitalismo di estendere le proprie reti di scambio e di produzione nello
spazio e di accelerare il processo di accumulazione dei profitti.
La diffusione della moderna impresa multinazionale può essere fatta risalire
al periodo coloniale, durante il quale diverse imprese europee stabilirono
all’estero attività per l’astrazione di risorse naturali e materie prime. Imprese
di questo tipo sono oggi definite multinazionali di prima generazione.
Alcune imprese possono ritenere preferibile installare direttamente all’estero
le proprie unità produttive. I motivi sono diversi, ma sono necessarie alcune
precondizioni. Avviare attività produttive in un contesto distante ed estraneo
è infatti un’attività complessa e rischiosa. La multinazionale deve avere un
vantaggio specifico di qualche tipo. Per questo motivo le multinazionali non
si distribuiscono uniformemente tra tutti i settori produttivi, ma privilegiano
settori ad alto contenuto d’innovazione, le produzioni di marca e tutte le
attività dov’è più probabile la formazione di vantaggi specifici. Si tratta
d’imprese molto grandi che agiscono in mercati oligopolistici con rilevanti
barriere all’entrata e che hanno impatti molto rilevanti sulle economie delle
regioni di destinazione.
La maggioranza degli investimenti all’estero non sono influenzati come
normalmente si crede dalla disponibilità, ma sono guidati dal mercato: le
imprese localizzano propri impianti in ciascuno dei paesi dove vendono le
rispettive merci.
Nel secondo dopoguerra e fino ad almeno agli anni Ottanta
l’internazionalizzazione produttiva è stata quasi esclusivamente dominata
dalle cosiddette multinazionali di seconda generazione che effettuano
investimenti diretti orizzontali replicando all’estero le stesse unità produttive
presenti nel paese di origine. In questo modo è possibile ridurre i costi di
trasporto e stare sul mercato di sbocco delle proprie merci, con tutti i
vantaggi di tipo economico. I beni prodotti delle diverse filiali possono
adattarsi alle specificità del mercato locale o essere ovunque del tutto
identici.
L’investimento all’estero guidato dal mercato è tutt’ora prevalente e la sua

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diffusione coincide con la presenza di politiche economiche protezionistiche


che sono state progressivamente smantellare dal successivo processo di
liberalizzazione. In alcuni casi è la presenza di ostacoli tariffari o non tariffari
a scoraggiare le esportazioni e a favorire la localizzazione diretta nei
mercati di sbocco dalle proprie merci. L’introduzione di barriere all’entrata di
merci straniere è stata per molto tempo uno strumento utilizzato
semplicemente da diversi paesi per forzare le imprese importatrici a
localizzarsi direttamente in loco.
Le località di destinazione della maggior parte degli investimenti all’estero
non sono i paesi arretrati con bassi costi del lavoro, ma paesi ampi e
possibilmente ricchi.
La quota d’investimenti diretti esteri guidati da fattori di costo è comunque in
forte crescita. In questi casi si assiste raramente alla rilocalizzazione
all’estero dell’intera catena di produzione, ma piuttosto di alcune fasi o del
ciclo produttivo che sono in genere attività standardizzate. Si tratta
d’investimenti diretti verticali che richiedono la scomposizione del ciclo
produttivo in differenti fasi e unità produttive che possono essere localizzate
ciascuna in un paese diverso. La diffusione d’investimenti di questo tipo ad
opera di multinazionali cosiddette di quarta generazione richiede tre
condizioni principali:
1. La diffusione di modalità post-fordiste di organizzazione della
produzione industriale che consentono di scomporre il ciclo
produttivo in unità fisicamente separate.
2. Miglioramenti tecnologici che abbassano i costi di trasporto e di
comunicazione e facilitano il coordinamento della produzione tra
unità produttive distanti
3. La riduzione delle barriere tariffarie che limitano le importazioni e le
esportazioni

7.1.2 I modelli organizzativi delle multinazionali e le loro


implicazioni geografiche

Gli investimenti diretti verticali sono ancora più complessi di quelli


orizzontali perché implicano ulteriori problemi organizzativi e di
coordinamento .

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soprattutto nelle prime fasi del loro sviluppo, le multinazionali perseguono


strategie di forte integrazione verticale all’interno delle proprie filiere in
modo da poter controllare direttamente e gerarchicamente unità produttive
localizzate in contesti distanti.
Il miglioramento degli strumenti di comunicazione facilita la frammentazione
e la dispersione del processo produttivo, ma le esternalità e la necessità di
contatti frequenti e face-to-face rimane determinante soprattutto per le
funzioni di livello avanzato. Si formano per questo imprese multifunzionali e
multi-impianto delle quali il luogo di produzione è spazialmente separato
dalle funzioni di controllo dell’impresa. L’insieme di queste funzioni avanzate
rimane spesso nel paese d’origine dell’investimento.
La prossimità tra origine e destinazione dell’investimento può essere
importante non solo per ridurre i costi di trasporto. Le scelte localizzative
delle imprese multinazionali saranno fortemente influenzate da due variabili
fondamentali:
1. L’ampiezza del mercato estero nel quale si localizzano
2. La prossimità tra luogo di origine e di destinazione dell’investimento
Ne risultano flussi d’investimento diretto all’estero che riguardano in misura
preponderante paesi ricchi e rimangono relativamente auto contenuti
all’interno di spazi macro-regionali più o meno integrati.
Il fattore distanza rimane in ogni caso importante se inteso in termini
relazionali, piuttosto che geografici. È stato dimostrato che le imprese
tendono a effettuare investimenti diretti in paesi che sono simili in termini di
dimensione del mercato, dotazioni tecnologiche e di fattori produttivi.
L’impresa ha soprattutto bisogno di ridurre l’incertezza e tende a privilegiare
localizzazioni sicure perché già sperimentate.
Sono importanti anche altri fattori extra-economici come le relazioni
geopolitiche tra Stati. I sistemi normativi possono anch’essi essere
determinati nel promuovere investimenti verso mercati meno regolamentati.
Esistono delle condizioni localizzative minime che fanno si che molte aree
non siano affatto adatte a ospitare multinazionali per problemi d’instabilità
politica e sociale, scarsa tutela dei diritti di proprietà o perché non
posseggono le infrastrutture minime necessarie alla localizzazione
d’imprese

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industriali.
L’investimento all’estero implica raramente la creazione di un’attività
produttiva ex-novo ma avviene piuttosto tramite l’acquisizione di un’impresa
straniera. La natura dell’investimento e il suo impatto economico sarà
ovviamente sarà molto diverso: la creazione ex-novo di un’unità di
produzione. L’acquisto di un’impresa esistente si associa spesso alla
riconversione del sito produttivo con conseguenti ristrutturazioni e
licenziamenti.
I principali nodi di coordinamento operativo della produzione rimangono
concentrati presso le regioni maggiormente sviluppare e nelle cosiddette
città globali. La dispersione territoriale delle attività economiche crea la
necessità di una crescente concentrazione organizzativa e territoriale dei
sistemi di controllo e di gestione in località dov’è possibile accedere a
personale qualificato.
Gli organi di governo delle imprese più grandi si occupano ormai e a volte
esclusivamente, del coordinamento finanziario di una miriade d’investimenti
e tendono per questo ad operare scelte molto drastiche con effetti rilevanti
sulle regioni di destinazione e sulle regioni d’origine. Le grandi corporation
esemplificano in questo uno dei tanti aspetti della finanziarizzazione
contemporanea. La necessità di garantire flussi cospicui e crescenti di
profitto spinge queste imprese a concentrarsi sempre di più sulla propria
capacità di produrre rendite finanziarie oltre che beni di qualità.
In seguito alla crisi economica attuale, sono emerse diverse evidenze del
fatto che l’entità degli investimenti esteri si sia drasticamente ridotta. In
alcuni casi si osservano perfino flussi inversi di reshoring con il ritorno di
alcune componenti del processo produttivo nel paese di origine
dell’impresa. Nonostante gli investimenti diretti all’esterno abbiano
raggiunto un’entità considerevole, essi rappresentano una porzione
relativamente limitata del complesso degli investimenti mondiali. Allo
stesso modo le imprese multinazionali risultano limitate sia in termini
numerici, sia d’impatto occupazionale, rispetto alle imprese che hanno
attività all’estero. Il ruolo di queste imprese va comunque ben oltre la
loro capacità di controllare direttamente unità produttive all’esteso e si
esplica anche e soprattutto indirettamente attraverso le relazioni che

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queste hanno con altre imprese.


Per le loro grandi imprese,possono condizionare lo sviluppo regionale
secondo modalità che non sono controllabili e nemmeno prevedibili.

7.2 Le reti transnazionali di produzione

7.2.1 Le catene globali di prodotto

Le imprese multinazionali sono a volte interpretate come la quintessenza di


sistemi produttivi fortemente integrati e coordinati gerarchicamente. Agire in
contesti molto distanti all’interno di reti produttive estese e complesse
favorisce un’elevata integrazione verticale e orizzontale all’interno della
propria filiera. Quest’imprese non sono esenti dalle trasformazioni implicite
nella transizione post- fordiste. Le grandi imprese rinunciano a volte
qualsiasi coinvolgimento diretto nelle attività propriamente produttive,
affidate a estese reti di fornitori e subfornitori, e si concentrano solo sul
design e sul marketing dei prodotti.
Lo studio delle reti globali di produzione si è notevolmente diffuso negli anni
Duemila per sottolineare la crescente frammentazione del ciclo produttivo
della gran parte dei beni industriali tra un pluralità di paesi diversi che si
specializzano nella fornitura di particolari componenti e nello svolgimento di
un proprio ruolo ben definito all’interno di sistemi dispersi coordinati da
grandi imprese multinazionali.
Nello studio delle reti globali si distinguono due tipologie prevalenti:
1. Nelle catene guidate dal produttore i beni prodotti sono ad alto
contenuto tecnologico e quindi richiedono e rendono possibile una
continua innovazione di prodotto e di processo. Questi sistemi
finiscono per essere dominati da poche grandi imprese transnazionali
che hanno un ruolo centrale nel controllare il sistema di produzione.
Le grandi imprese esternalizzeranno solo componenti limitate del
processo produttivo e in particolare le fasi standardizzate e a più alta
intensità di lavoro. Le reti di produzione in questi settori saranno
relativamente concentrate

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2. Le catene guidate dal consumatore riguardano settori maturi ad alta


intensità di lavoro dequalificato come la produzione tessile,
l’abbigliamento. In questi mercati la tecnologia è relativamente
standardizzata ma conta soprattutto l’innovazione di prodotto, il
design, la reputazione del marchio. La produzione vera e propria
avviene in mercati concorrenziali con scarse barriere all’entrata e
basse economie di scala. Le imprese leader in questi settori
perseguono un esteso decentramento produttivo e hanno relazioni di
lunga distanza con una vista gamma di subfornitori. In alcuni casi
non svolgono nessuna attività produttiva divenendo imprese senza
stabilimenti.

7.2.2 La governance delle reti transnazionali di produzione

Le catene di prodotto sono costituite da quattro elementi principali:


1. Struttura di relazioni input-output
2. Specifica spazialità
3. Contesto istituzionale nel quale s’inseriscono e dal quale sono
influenzate
¢. Particolare sistema di governante e di coordinamento
Lo studio delle catene di prodotto si è concentrato prevalentemente
sull’ultimo elemento, la governance dei sistemi di produzione e
sull’organizzazione delle relazioni input-output.
Il caso delle catene guidate dal consumatore è per certi versi più
interessanti di quello delle catene guidate dal produttore anche perché la
loro complessità organizzativa e geografica è molto maggiore. Si tratta di
catene che agiscono in settori simili a quelli dei distretti industriali. In questi
casi il potere delle imprese leader deriva dal controllo delle fasi di
commercializzazione finale e agisce attraverso la riconducibilità del marchio
oppure attraverso il controllo diretto delle reti di distribuzione commerciale.
Il potere delle imprese di distribuzione e commercializzazione è enorme.
Nonostante i fornitori utilizzino in genere tecnologie standardizzate ad alto
consumo di lavoro dequalificato, essi debbono comunque ricevere
dall’impresa acquirente informazioni specifiche e proprietarie. I contratti che

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regolano i rapporti tra impresa fornitrice e impresa acquirente includono a

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volte clausole di esclusività. Si parla in questo caso di catene di produzione


di tipo captive: fornitori di piccola dimensione sono subordinati ad acquirenti
molto più grandi che hanno un’elevata capacità di controllo e di
coordimento. La relazione dovrà essere esclusiva e consentire di catturare il
fornitore, il quale difficilmente potrà cambiare cliente perché l’impresa
acquirente controlla componenti essenziali della produzione. L’impresa che
richiede la fornitura può assumere in questo modo il controllo dell’impresa
fornitrice senza doversi sobbarcare i rischi di gestire direttamente la
produzione e potendo più facilmente dismettere tale attività semplicemente
rescindendo il contratto. Il fornitore si trova in una posizione di
subordinazione rispetto all’impresa cliente. Le imprese contraenti sono in
genere di piccole dimensioni, non riescono autonomamente a garantire un
certo livello di attività per un lungo periodo di tempo e sono quindi
dipendenti dalle commesse delle imprese più grandi.
Le esternalizzazioni non riguardano prodotti e componenti per i quali
l’impresa possieda dei vantaggi specifici di tipo tecnologico o di mercato,
ma piuttosto componenti standardizzate della produzione. Esistono anche
numerosi casi che sono invece del tutto diversi. L’analisi empirica ha
rilevato una varietà di situazioni nelle quali per l’impresa sarà conveniente
ricorrere a esternalizzazioni presso altre imprese molto più piccole. Le
forniture esterne possono includere anche componenti non standardizzate.
Per l’impresa che richiede forniture specifiche l’alternativa al comprare
sarebbe fare, che richiederebbe di sviluppare le competenze necessarie al
proprio interno. Questo può essere difficile e non è necessariamente
conveniente. Lo sviluppo di tali competenze richiede infatti tempo. Queste
imprese devono ricorrere a risorse esterne. L’analisi delle reti transnazionali
di produzione mostra che l’elevata specificità dei prodotti e delle forniture
richieste può favorire il decentramento produttivo.
La distinzione tra catene guidate dal produttore catene guidate dal
consumatore è quindi volutamente semplicistica ed è solo un primo passo
per comprendere la varietà delle soluzioni organizzative disponibili. In
questo caso il quadro fare e il comprare a cui fa riferimento la teoria dei
costi di transazione non sono altro che casi limiti. Nel primo caso si parla di
catene

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del prodotto gerarchiche: in presenza di elevate specificità, rilevanti


problemi di trasferimento ti conoscenze tacite e in assenza di fornitori. Nel
caso opposto si parla di catene di prodotto di mercato: le relazioni sono
episodiche o caratterizzate da frequenti cambiamenti dei fornitori e dei
partner. In questo caso il generico acquisto sul mercato è la soluzione
ottimale ma sarà necessario pervenire a specifici accordi e stipulare
complessi contratti.
Le relazioni tra imprese possono essere di tipo gerarchico.

7.3 L’industrializzazione del Sud globale

Gli investimenti diretti all’estero risultano maggiormente concentrati


geograficamente nei paesi di destinazione rispetto ad analoghi investimenti di
origine nazionale. La concentrazione risulta indispensabile soprattutto nei paesi
dove le infrastrutture sono rari.
La concentrazione degli impianti d’imprese che producono per il mercato
internazionale in aree industriali appositamente delimitate è il frutto di una strategia
esplicita messa in atto dal paese ospitante per attirare gli investimenti stranieri.
Queste zone industriali possono essere chiamate free trade zone. In queste zone
non è solo possibile predisporre un sistema d’infrastrutture e di servizi adeguati
alle esigenze delle imprese industriali, ma anche rimuovere gli ostacoli tariffari e
non tariffari all’esportazione e all’importazione di merci. La realizzazione
d’investimenti diretti verticali che implicano la localizzazione di specifici segmenti
del processo produttivo, è facilitata dalla possibilità che gli stabilimenti all’estero
possano ricevere i semilavori di cui hanno bisogno. Se questo processo di
liberalizzazione fosse esteso all’intero paese si determinerebbe una crisi
irreversibile delle piccole e medie imprese locali che non sono in grado di
sostenere la competizione. Questa liberalizzazione deve essere limitata a territori
circoscritti all’interno dei quali vengono inoltre predisposti incentivi di vario tipo per
promuovere la localizzazione d’imprese esportatrici.
Le zone economiche speciali si trovano nella maggior parte dei casi lungo le coste
o presso le frontiere. Questi territori si configurano come zone franche e come
vere e proprie enclavi. La quasi totalità delle imprese è di proprietà non locale e
specializzata in produzioni ad alta o media intensità di lavoro manuale. Il contributo
di questi agglomerati alla formazione di capitale umano è molto basso, perché si

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tratta di lavorazioni che non richiedono particolari conoscenze tecniche.


L’organizzazione industriale di queste aree riflette in tutto e per tutto le
caratteristiche delle piattaforme satellite. Per i governi locali i vantaggi connessi a
queste zone industriali sono legati al loro impatto occupazionale e soprattutto
all’afflusso di valuta estera. Il contributo occupazionale diretto delle imprese
multinazionali è in realtà molto modesto.
Tali zone possono avere però un ruolo fondamentale per avviare
l’industrializzazione dei paesi emergenti. La possibilità che le multinazionali
sostengano lo sviluppo economico dei luoghi di destinazione dipende dai loro
effetti indiretti. La teoria economica considera i trasferimenti di tecnologia e la
formazione di capitale umano. Questi legami locali aumentano il radicamento
territoriale dell’impresa.
L’auspicio è che si verifichino processi di upgrading: l’inserimento all’interno di
catene globali può essere per le imprese locali più piccole e subordinate
un’occasione di sviluppo organizzativo. L’upgrading consiste nel miglioramento
della propria posizione all’interno della catena di prodotto.
Il vecchio tema del trasferimento tecnologico viene riformulato in termini
relazionali. Relazioni verticali si possono trasformare in relazioni orizzontali e sono
quindi fondamentali elementi di crescita organizzativa per le imprese coinvolte e
veicoli per lo sviluppo delle regioni di destinazione. Il grado d’integrazione delle
imprese estere con il sistema socio-economico locale dipende anche dal grado di
prossimità relazionale. In certi casi sono invece proprio le differenze a favorire
forme di upgrading. Le imprese locali possono sviluppare competenze specifiche
che le imprese acquirenti non hanno. Non è tuttavia soltanto una questione di
costi. Un vantaggio straordinariamente importante che le imprese fornitrici locali
possono avere nei confronti dei concorrenti è la rapidità delle consegna e la
capacità di rispondere prontamente alle richieste.
Le imprese fornitrice sono autonome, ma vengono spesso coordinate da grandi
imprese di sourcing che gestiscono in maniera unitaria le forniture per grandi
aziende multinazionali.
L’organizzazione delle catene di produzione agisce nel senso di trattenere i
vantaggi specifici di tipo tecnologico e di mercato presso le imprese leader e quindi
al centro del sistema. La logica stessa di funzionamento delle imprese
multinazionali prevede un certo grado d’internalizzazione delle esternalità e
d’integrazione

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verticale che finisce inevitabilmente per ridurre degli effetti indotti.


Perfino nei paesi più economicamente dominanti l’internazionalizzazione
produttiva può avere l’effetto di creare economie duali nelle quali un universo
molto più ampio di piccole imprese a base locale ha poche relazioni con il ristretto
numero di grandi imprese multinazionali.
Le multinazionali tendono a caratterizzare fortemente l’economia di alcuni paesi
che diventano dipendenti dall’esterno, incapaci di produrre autonomamente le
tecnologiche che utilizzano e di sviluppare una propria base imprenditoriale.
L’inserimento all’interno di reti globali può in definitiva essere un’opportunità di
sviluppo ma anche un fattore di vulnerabilità, perché aumenta l’esposizione a
dinamiche e relazioni di potere che hanno comunque il proprio centro altrove.

7.4 Il problema della governance globale

La globalizzazione è in genere descritta come un processo di progressiva


liberazione dai vincoli artificiali e politici che hanno limitato il funzionamento dei
mercati. Questi ultimi tenderebbero verso una progressiva espansione geografica
anche grazie a miglioramenti tecnologici. In realtà la globalizzazione non conduce
a un generico indebolimento dei confini politici degli Stati o alla morte della
distanza, ma consiste in un processo estremamente selettivo che sfrutta le
differenze geografiche, piuttosto che eliminarle. Le istituzioni politiche hanno avuto
e hanno un ruolo fondamentale , in particolare nel caso di alcune organizzazioni
politiche internazionali all’interno delle quali alcuni Stati hanno un peso dominante
e che hanno favorito l’adozione di politiche di liberalizzazione. Il funzionamento di
queste organizzazioni internazionali è fondamentale per comprendere le cause e
gli esiti della globalizzazione.

7.4.1 Genesi e sviluppo delle organizzazioni economiche


mondiali

Il periodo postbellico fu segnato dalla nascita d’importanti organismi


internazionali. Le trattative per la loro istituzioni cominciarono le luglio del
1944 durante la conferenza di Bretton Woods, cui parteciparono 730
delegati delle 45 principali potenze del globo, con la sola esclusione della
Germania e dei suoi alleati durante il secondo conflitto mondiale. La

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conferenza fu sostanzialmente promossa dagli Stati Uniti, desiderosi di evita


il protezionismo economico che aveva contraddistinto il periodo tra le due
guerre e che aveva costituito una delle cause del conflitto.

7.4.2 Il Fondo Monetario Internazionale

Il FMI fu istituito per regolare i rapporti attraverso un sistema di cambi fissi,


ma aggiustabili. Il sistema, basato sulla convertibilità del dollaro in oro, entrò
in crisi e fu soppresso da Nixon nel 1971. Da allora si è assistito a una
ridefinizione del ruolo del FMI, che oggi si occupa perlopiù di concedere
prestiti a lungo termine agli Stati membri in caso di squilibrio della bilancia
dei pagamenti. Nell’accordo istitutivo, gli scopi indicati si riferiscono:
1. Alla promozione della cooperazione monetaria internazionale
2. All’espansione del commercio internazionale
3. Alla riduzione degli squilibri nella bilancia dei pagamenti dei paesi
membri, attraverso la concessione delle risorse del Fondo per
affrontare situazioni di difficoltà.
Il FMI per il suo funzionamento, utilizza alcuni organi:
1. Consiglio dei governatori composto da un rappresentante per
ognuno dei 184 paesi membri, che si riunisce di norma una volta
l’anno.
2. Consiglio esecutivo svolgono gran parte delle funzioni del consiglio
di governatori. È formato
da cinque membri permanenti, rappresentativi dei cinque paesi che
detengono al quota maggiore del capitale versato per il
funzionamento del Fondo a cui si aggiungono altri diciannove
rappresentanti eletti dal consiglio dei governatori
3. Direttore operativo presiede il consiglio esecutivo e viene eletto da
quest’ultimo.
Il ruolo più noto del FMI si riferisce alla ristrutturazione del debito estero dei
paesi del Sud del mondo, ossia al suo finanziamento e alla formulazione dei
cosiddetti Piani di aggiustamento strutturale. Il problema del debito è infatti
particolarmente visibile in quei paesi in cui le economie locali non sono

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nemmeno grado di pagarne gli interessi annui. In queste situazioni, l’avvio


di processi di sviluppo incontra rilevanti difficoltà, mentre la dipendenza dai
capitali stranieri diviene sempre più stringente. Numerose voci di levano
oggi in tutto il mondo auspicando la cancellazione del debito.

7.4.3 La Banca Mondiale

Istituzione di Bretton Woods. Nasce come banca per la ricostruzione e lo


sviluppo. Dagli anni 60 nel Sud del mondo nascono progetti per lo sviluppo.
La Banca per la ricostruzione e lo sviluppo cambia nome in Banca Mondiale
e si occupa di finanziare progetti puntuali negli stati più poveri. La Banca
Mondiale ha delle quote di capitale, sono obbligazioni omesse sul mercato
internazionale garantiti dai paesi della Banca Mondiale. L’affidabilità dei
creditori è espressa da un rating. L’idea di finanziare progetti sono soldi in
prestito, ma devono essere progetti auto sostenibili (i soldi devono tornare
indietro) la Banca prima di accordare il prestito verifica. Prima di accordare
un prestito, consulenti ne valutano realizzabilità e rimuneratività. I fondi
provengono da emissioni obbligazionarie sui mercati internazionali con
rating AAA (garantite dai membri). Il rating elevato permette di accordare
prestiti a tassi inferiori a quelli di mercato, pur con l’aggiunta di un margine
dell1% per di funzionamento. I prestiti sono rimborsabili in periodi lunghi, in
particolare per i paesi più poveri. Negli anni ’90 è stata oggetto di una
durissime crisi e critica.
Interventi della banca mondiale erano top-down che risente della filosofia
colonialista, non nel senso che impone un controllo, ma presuppone un
livello di superiorità dell’occidente. Intervento simbolo della Banca negli anni
‘60+’70 era la costruzione di dighe. Diga=forte simbolo di modernità negli
anni ‘60+’70. Le dighe sono state dei fallimenti nella maggior parte dei
luoghi, perché in primo luogo bisognava costruire in enormi spazi vuoti, gli
spazi vuoti non esistono poiché ci possono essere dei piccoli villaggi che
vengono spostati da un’altra parte. In secondo luogo le dighe hanno
provocato enormi danni ambientali. Le dighe sono state tendenzialmente
fallimentari. Intervento top-down perché “viene dall’alto”. In terzo luogo a
costruire le dighe erano potenza occidentali, e dunque il circuito era chiuso
perché anche

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Geografia dello sviluppo – Bignante, Celata, Vanolo

se la diga la si faceva in un paese africano, i soldi “giravano” tra i vari paesi


occidentali. Le ricadute economiche sulle società locali erano
bassissime/minime.
Questo genere di approccio caratterizza la banca mondiale fino agli anni
’90. 1996 nuovo presidente della Banca Mondiale (Wolfensohn) annuncia
cambiamenti, cambia l’idea ultima della funzione e il suo obiettivo diventa la
lotta alla povertà. L’idea di microcredito è un approccio significativo del
cambio d’approccio del cambiamento di rotta della banca mondiale. La
Banca aveva un mandato non politica, doveva essere sopra le parti, uno dei
mandati della commissione alla lotta della povertà è la lotta contro la
corruzione. La banca mondiale ha un sistema di voto simile al fondo
monetario. Per una convenzione il presidente della banca mondiale è USA
mentre il direttore del fondo monetario è Europeo.

7.4.4 Gli accordi GATT

Lo statuto dell’Ito (istituzione per promuovere la liberalizzazione del


commercio internazionale) fu approvato nel marzo del 1948. L’Ito non vide
mai la luce, probabilmente a causa dei timori del Senato statunitense e delle
élite affaristica nordamericana in genere, timorosa che la realizzazione di un
simile istituito potesse rimuovere cartelli e ridisegnare drasticamente lo
scenario commerciale. Solo uno degli accordi noto come GATT,
sopravvisse e divenne operativo, rappresentando il quadro normativo
internazionale di riferimento per il commercio estero. Oggetto del GATT era
l’eliminazione di ogni accordo commerciale preferenziale che favorisse un
paese a scapito di un altro. I primi accordi del GATT raggiunsero in buona
misura gli obiettivi prefissati.
Sebbene si tratti di un’organizzazione non riconosciuta nell’ambito del diritto
internazionale è stato comunque esclusivamente nell’ambito del GATT si
sono discusse e adottate le norme per regolare il commercio internazionale
e sono stati affrontati e disciplinati i rapporti commerciali fra Stati Uniti.
Uno dei principi sui quali si è basato il GATT è quello della nazione più
favorita: le condizioni accordate al paese più favorito sono attribuite in
condizionamento a tutti gli altri paesi.

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Il GATT si è modificato ed è evoluto attraverso otto diverse sessioni di


negoziati per la riduzione delle tariffe doganali nonché con l’aggiunta di
accordi multilaterali tra i paesi partecipanti. In particolare, l’esigenza di
ridefinire gli accordi commerciali del GATT portò all’inizio di un lungo
processo di negoziazione chiamato Uruguay Round. Il risultato del Round
andò oltre ogni aspettative: nel 1995 nacque la World Trade Organization
(WTO), un nuovo organismo sovranazionale preposto alla regolazione del
commercio globale e vennero ratificati tre accordi:
1. GATT accordo generale sulle tariffe doganali e il commercio
2. GATS accordo generale sul commercio dei servizi
3. TRIPS relativo alla tutela legale dei diritti di proprietà intellettuale
Le differenze tra GATT e WTO non sono solamente formali: il WTO è un
organismo riconosciuto da quasi tutti i paesi del mondo, dotato di poteri
nella risoluzione delle controversie internazionali con la possibilità
d’infliggere sanzione. Inoltre, il WTO non regola soltanto gli scambi di beni
industriali, ma anche di prodotti agricoli e di servizi.

7.4.5 L’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO)

Il WTO costituisce il massimo organismo in materia di commercio


internazionale, rappresentando la prosecuzione logica degli accordi
commerciali precedenti, e in particolare quelli del GATT, GATS e TRIPS.
Il WTO rappresenta una vera e propria struttura istituzionale, diventando un
organismo internazionale con sede a Ginevra.
L’obiettivo generale del WTO è quello di portare avanti il progetto liberalista
di abolizione, o perlomeno di riduzione, delle barriere tariffarie al commercio
internazionale. Questo obiettivo è guidato da tre principi generali:
1. Liberalizzazione sono proibite le restrizioni quantitative alle
importazioni
2. Non discriminazione le politiche commerciali non possono variar
nei confronti di paesi differenti
3. Nazione più favoritaè una specificazione del principio della non
discriminazionalità

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Oggetto della normativa del WTO sono non solo i beni commerciali, ma
anche i servizi e le proprietà intellettuali. Le funzioni del WTO sono:
1. Favorire l’attuazione, l’amministrazione il funzionamento degli accordi
del GATT/WTO
2. Fornire un contesto nel cui ambito si possono svolgere negoziati tra i
suoi membri per quanto riguarda le loro relazioni commerciali
3. Fungere da ambito per ulteriori negoziati tra i suoi membri per quanto
riguarda le loro relazioni commerciali multilaterali
¢. Amministrare l’intesa sulle norme e sulle procedure che disciplinano
la risoluzione delle controversie
5. Il WTO può cooperare con il Fondo Monetario Internazionale
Le due funzioni principali del WTO possono essere identificate da un lato
nel ruolo di forum negoziale per la discussione della normativa del
commercio internazionale: dall’altro lato come organismo per la risoluzione
delle dispute internazionali sul commercio. Per quanto riguarda la prima
funzione, occorre considerare uno degli aspetti maggiormente complessi
relativi al funzionamento dell’organismo: mentre in genere le organizzazioni
internazionali operano secondo il criterio un paese, un voto. Tale criterio
non prevede l’unanimità delle decisioni, ma che nessun paese membro
consideri una decisione talmente inaccettabile da porre obiezioni formali.
L’adozione delle decisioni sulla base del consenso ha il vantaggio
d’incoraggiare la proposta e l’adozione di decisioni largamente condivisibili.
Tuttavia questo processo implica l’allungamento dei tempi e la necessità di
un numero elevato di round negoziali.
Per quanto riguarda il ruolo di risolutore delle controversie internazionali, al
pari delle altre organizzazioni internazionali, il WTO non ha un potere diretto
per sostenere le proprie decisioni, ma qualora un paese membro non si
conformi a una delle decisioni dell’organo di risoluzione delle controversie
internazionali costituito in ambito WTO, quest’ultimo ha la possibilità di
autorizzare misure ritorsive da parte del paese ricorrente. Questo comporta
che i paesi con un’economia solida possano sostanzialmente ignorare i
reclami avanzati dai paesi più deboli, dal momento che a questi ultimi
semplicemente mancano i mezzi per porre in atto misure ritorsive realmente

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efficaci, ossia tali da obbligare il paese verso il quale è indirizzato il reclamo


a cambiare le proprie politiche.
Da un punto di vista organizzativo, il WTO è articolato intorno a una serie
d’istituti:
1. Conferenza dei ministri composta da rappresentanti di tutti gli Stati
membri. Si riunisce almeno una volta ogni due anni e assume
decisioni in merito a tutti gli aspetti contemplati negli accordi
commerciali
2. Consiglio generale composto anch’esso dai rappresentanti di tutti
gli Stati membri, il quale
esercita le funzioni proprie della Conferenza e le funzioni relative
alla risoluzione delle controversie
3. Consigli sovrintendere:
a. Funzionamento degli accordi commerciali multilaterali relativi
allo scambio di merci
b. Scambio di servizi
c. Tutela dei diritti di proprietà intellettuale
¢. Comitati specifici con specifiche funzioni.
5. Segretariato diretto da un direttore Generale, responsabile della
supervisione delle funzioni amministrative
Secondo il WTO, la completa attuazione dei principi di liberalizzazione in
tutto il mondo potrebbe favorire un significativo incremento del prodotto
interno mondiale, mentre la diffusione di un sistema internazionale di regole
favorirebbe la distensione politica internazionale e la pace mondiale.

7.4.6 Istituzioni e regionalismo (manca)

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8 Capitolo Ottavo – La centralità urbana e le relazioni con gli spazi


rurali

8.1 Gli spazi urbani e rurali e la geografia dello sviluppo

Nel 2008 il numero di coloro che vivono in città ha superato nel mondo il numero di
chi abita in campagna. L’intensa urbanizzazione è una caratteristica
imprescindibile di qualsiasi processo di sviluppo economico ed è tipica di tute le
aree del mondo in forte crescita. Le città concentrano ricchezze, attività
economiche, funzioni e saperi in misura molto più che proporzionale alla loro
popolazione. L’urbanizzazione ha progressivamente sostituito l’industrializzazione
come strumento privilegiato di accumulazione. Ciò mette in evidenza l’importanza
delle città per lo sviluppo economico. Tale importanza è dovuta in primo luogo alle
funzioni che le città ospitano al proprio interno. In secondo luogo, le città
esercitano effetti di polarizzazione rilevanti rispetto ai territori circostanti. Non
contenendo al proprio interno le risorse di cui necessitano per sopravvivere
devono infatti procurarsele all’esterno. Il fenomeno urbano presuppone quindi una
qualche forma di organizzazione sociale. Ed è per questo che le città sono da
sempre un fondamentale dispositivo di territorializzazione dello spazio geografico.
Un’analoga forza è giocata dalle città più grandi nei confronti di quelle più piccole
dando luogo a complesse reti e gerarchie di città che si estendono ormai a tutto il
mondo.

8.2 Centralità, struttura urbana e sub urbanizzazione (Figura 8.2 pag


296)

La città si definisce e si distingue dal proprio intorno in quanto caratterizza da un


tessuto insediativo continuo e per l’elevata densità di abitazioni. Tali elementi si
concentrano nelle città perché traggono un beneficio dalla prossimità,
dall’interazione e dalla varietà che è tipica dagli spazi urbani.
Si possono distinguere modelli di struttura urbana di tipo deduttivo, come i modelli
di von Thunen: a partire da ipotesi e sulla base di alcuni semplici parametri, si
cerca di dedurre una possibile struttura urbana per verificare di volta in volta come
il modello si discosti dalla realtà. Esistono inoltre modelli induttivi che cercano
d’individuare ipotesi e principi che consentono di spiegarne i carattere.
I modelli A) e B) sono di tipo deduttivo: la logica di base è che i diversi usi del suolo

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del modello di von Thunen e urbani, competono tra di loto per una localizzazione il
più possibile centrale. Le funzioni che hanno un maggiore beneficio dalla
centralità, spiazzeranno le funzioni dove tale beneficio è via via minore e in
particolare le attività con maggiori esigenze di spazio.
I restanti modelli nono sono parzialmente deduttivi. La struttura di tali città viene
ricondotta al processo storico di espansione urbana per il quale le differenti aree
sono progressivamente invase da nuove funzioni e gruppi sociali che spiazzano le
funzioni pre-esistenti, imponendo loro di spostarsi altrove. il modello precursore è
quello di Burgess. L’area centrale è occupata da funzioni amministrative,
finanziarie, commerciali. Il CBD è circondato da una vasta area residenziale con
gradi di densità abitativa via via decrescenti. I gruppi sociali a più alto reddito
occupano aree più periferiche, in primo luogo perché prediligono modelli abitativi
differenti, in secondo luogo perché le zone residenziali centrali non sono attrattive
e sono spesso degradate.
Le nuove generazioni d’immigrati a basso reddito sono costrette a localizzarsi nei
pressi del centro perché non possono permettersi mezzi di trasporto privati. In
alcuni casi, tali gruppi d’immigrati si concentrano in specifici quartieri mono-etnici. I
gruppi a più alto reddito tendono ad allontanarsi dal centro.
Il modello a settori si basa su una logica simile, sebbene in questo caso dia luogo
a una struttura radiale in cui le diverse funzioni urbane si strutturano intorno a
specifici assi di trasporto tendendo a respingersi a vicenda, dando luogo alla
formazione i aree mono-funzionali.
Alla logica monocentrica di tali modelli si contrappone la logica pluricentrica che è
tipica della città a nuclei multipli nella quale permane un central business district
baricentrico e dominante ma si formano centralità minori.
Una tendenza di fondo è la formazione di quartieri omogenei dal punto di vista
residenziale e funzionale. La monofunzionalità può essere ricondotta in primo
luogo alle economie di agglomerazione.
Nel caso delle scelte residenziali la tendenza alla formazione di aree omogenee
dal punto di vista sociale è anche detta segregazione spaziale. Alcuni gruppi
sociali tendono a concentrarsi in specifici quartieri per ricercare il capitale di
relazioni sociali da cui sono esclusi. Le affinità socioeconomiche ed etniche
favoriscono la collaborazione, la fiducia, la condivisione di convenzioni. Tali
vantaggi sono ulteriormente rafforzati dalla necessità di agire in un contesto ostile
o estraneo. La

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formazione di zone omogenee è infatti dovuta anche a meccanismi di repulsione e


di discriminazione tra gruppi sociali. Le scelte individuali del mercato immobiliare
condannano particolari gruppi sociali. È questo uno dei motivi per cui la
formazione di quartieri omogenei è stata storicamente vista negativamente.
La creazione di quartieri multifunzionali è stata inoltre contrastata cercano di
promuoverne la plurifunzionalità. La monofunzionalità non rappresenta un modello
efficiente. Tali tendenze si accentuano drammaticamente nelle città caratterizzate
da un intenso sprawl urbano, tipico della realtà statunitense: le aree suburbane
impongono un notevole consumo.
Accanto alla plurifuzionalità, la pianificazione urbana ha promosso con forza negli
ultimi anni lo sviluppo di città policentriche e delle cosiddette città compatte.
Un’espressione tipica delle città policentriche è la formazione di zone commerciali
o di uffici nelle periferie, come le edge city: concentrazioni di uffici, servizi e
imprese che occupano aree isolate.
Alla tipologia di suburbanizzazione appartengono i fenomeni di gentrification:
particolari gruppi sociali a medio- alto reddito, i cui pionieri sono spesso giovani
artisti, invadono quartieri centrali degradati perché attratti dagli ampi spazi
disponibili. I processi di gentrification sono stati attratta dagli ampi spazi disponibili.
Tali processi di rivitalizzazione possono dare luogo a risultati paradossali, sia
quando sono spontanei sia quando sono indotti da interventi pubblici. Se
inizialmente tali processi danno luogo a un tessuto residenziale misto. Gli abitanti
originari si trovano a dover fronteggiare un aumento generalizzato dei prezzi delle
abitazioni. Sono quindi indotti a trasferirsi altrove. il tutto è spesso accelerato da
fenomeni speculativi.

8.3 Centralità, gerarchie urbane e reti di città

Le città più grandi hanno un’importanza maggiore. Ma da cosa deriva tale


importanza? Per spiegare ciò si fa riferimento alla teoria delle località centrali che
Christaller ha proposto nel 1933 che rappresenta il modello geografico più noto e
discusso. Esso mantiene gran parte della sua valenza esplicativa. Si tratta di un
modello tipicamente deduttivo che cerca di prevedere in astratto l’organizzazione
di una rete di città, la dimensione di ciascuna di esse e i loro rapporti reciproci.
Da cosa deriva e in che modo si esprime l’importanza e la centralità urbana?

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1. In primo luogo essa dipende dalla mera dimensione della città. La stessa
dimensione della città deriva dall’importanza di ciascun centro, che dipende
a sua volta esclusivamente dalle attività economiche che essa ospita.
2. La città, in secondo luogo, sono innanzitutto luogo privilegiato per la
localizzazione di servizi.
I servizi presentano alcune caratteristiche fondamentali che li distinguono da altre
tipologie di attività economiche:
1. La produzione è immateriale e consiste nell’erogazione di una prestazione
2. Il luogo di consumo corrisponde al luogo di produzione
3. Per accedere a un servizio i consumatori devono fisicamente recarsi presso
il luogo di fornitura.
Alcuni servizi saranno molto frequenti sul territorio, per poter servir agevolmente i
propri clienti all’interno di aree di mercato di dimensioni ridotte. Altri servizi
daranno invece più rai e saranno presenti solo nelle città più importanti. Tali servizi
avranno una soglia più ampia: per poter funzionare in maniera efficiente ed
economica devono poter servire un bacino di domanda più esteso. Essi avranno
una più ampia portata: i consumatori saranno disposti e in qualche modo costretti
a percorrere lunghe distanze per poter accedervi.
Tra tutte le attività economiche sono i servizi più rari o di rango più elevato, a
determinare la centralità di una città. Il rango di un servizio è espresso
dall’ampiezza della sua area di mercato e dalla sua densità sul territorio. L’ordine
di una località è il livello gerarchico che essa occupa nella gerarchia urbana
complessiva sulla base del rango dei servizi offerti.
La centralità urbana si esprime sullo spazio geografico attraverso la capacità dei
servizi di rango elevato di attirare consumatori anche da aree distanti, e si traduce
in veri e propri flussi di gravitazione che dalla località centrale si estendono su un
raggio più o meno ampio.
Si considerino (Figura 8.4 pag 300) cinque tipologie di servizi caratterizzati da un
bacino di domanda più o meno ampio, rappresentato dalle rette di domanda
inclinate e più o meno frequenti sul territorio. Lo spazio rappresentato nella figura
può essere equiparato a una generica regione in cui c’è un'unica località centrale
che possiede tutte e cinque le tipologie di servizi, tre piccoli centri che offrono
soltanto i servizi di rango più basso, e quattro località di ordine intermedio che

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offrono servizi di diverso rango.


Il modello di Christaller si basa su un’ulteriore assunzione: che le località di ordine
superiore contengono al loro interno tutti i servizi di rango minore che sono
presenti nelle località secondarie. Si nega la possibilità che alcuni centri secondari
possano sviluppare una propria specializzazione e risultare centrali per alcune
delle funzioni che essi ospitano.
Ne risulta un modello d’organizzazione del territorio nel quale ciascuna località ha
un bacino di domanda e d’influenza e di gravitazione: tali bacini si suppongono
circolari ma, per l’esigenza geometrica di evitare sovrapposizioni tra aree di
mercato contigue. Nella figura 8.5 compare a sinistra il modello teorico originario
proposto dallo studioso, con centri di ordine da A a E caratterizzati da aree
d’influenza via via più ridotte. Tale modello teorico si basa su alcune ipotesi di
base tipiche dei modelli quantitativi: lo spazio geografico è considerato isotropo e
isomorfo, perfettamente pianeggiante e percorribile.
Nella parte di destra compare l’effettiva struttura urbana di una vasta area
compresa tra le località centrali di Francoforte, Zurigo e Monaco. È evidente che
nel confronto con la realtà il modello teorico subisce rilevanti deviazioni e
scostamenti. La logica alla base del modello ha trovato numerose conferme anche
in epoche storiche molto diverse da quella attuale.
Una conferma empirica del modello è la legge rango-dimensione secondo la quale
la seconda città più grande in qualsiasi paese ha una popolazione che è all’incirca
la metà della prima città, la terza città ha la metà della popolazione della seconda.
L’idea è che le forze della concentrazione e della diffusione determino in ogni
sistema urbano una struttura gerarchica simile. Tale regolarità statistica ha in
realtà diverse eccezioni: in paesi con una struttura urbana più policentrica o in
molti paesi del Sud del mondo dove la città più grande ha una popolazione di gran
lunga superiore a tutte le altre.

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8.4 Città e globalizzazione

Viviamo in uno spazio dei flussi globalizzato, nel quale ai tradizionali rapporti tra le
città e i propri intorni regionali o nazionali si è sostituita una complessa rete
d’interdipendenza e di relazioni tra tutte le località del mondo e un’unica gerarchia
urbana mondiale. La città rappresenta un elemento di fondamentale importanza
nelle logiche del discorso sulla globalizzazione.
Il fenomeno dello sviluppo si articola a scale geografiche differenti, e le città
costituiscono entità geografiche privilegiate per comprendere le trasformazioni più
recenti. Appadurai suggerisce che il mondo di oggi si strutturi in buona misura
sotto la spinta di flussi che prendono forma alla scala globale. L’autore ne
individua sei tipologie:
1. Ethnoscape flussi di turisti, uomini d’affari

2.

3.

¢. informazioni
5. ideologiche
6. consumo
Questi flussi non sono distribuiti in maniera omogenea nel mondo, ma tendono a
concentrarsi in specifici spazi, ossia nelle città. I principali centri urbani
rappresentano le sedi delle maggiori società multinazionali, i luoghi di
concentrazione delle strutture di controllo della finanza mondiale.
Non tutte le città assumono lo stesso ruolo in questa rete mondiale. È possibile
immaginare la rete urbana internazionale, ovvero l’insieme delle città e dei flussi
che la collegano, come organizzata in modo gerarchico. Il livello più elevato di
questa gerarchia è rappresentato da un ristretto numero di città, chiamate città
globali, in grado di assumere un ruolo strutturante in relazione a tutte le tipologie di
flussi prima descritte.
Il primo studioso a introdurre questo concetto fu Friedman,il quale intese le città
globali come centri di potere economico. Focalizzando l’attenzione sul potere
finanziario e sulla capacità di attrarre investimenti, Friedmann distinse in maniera
qualitativa fra:
1. Città primarie dei paesi del centro (Londra, Parigi…)

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2. Città secondarie del centro (Milano, Bruxelles…)


3. Città primarie dei paesi della periferia (San Paolo, Singapore)
¢. Città secondarie della periferia (Hong Kong, Buenos Aires)
Il livello più elevato della gerarchia urbana è stato oggetto di molteplici analisi da
parte di Sassen. L’autrice ha definito un quadro teorico di riferimento,
argomentando come i processi di globalizzazione e le trasformazioni economiche
si traducano in forze centrifughe e centripete. Le funzioni di comando e controllo
della produzione economica globale si concentrano spesso in poche città
d’importanza mondiale. Queste città rappresentano contesti centrali in relazioni a
quatto fenomeni:
1. Il comando e controllo dell’economia mondiale
2. La localizzazione dei servizi finanziari e altamente specializzati per le
imprese
3. La generazione d’innovazione e di attività di ricerca tecnologica
¢. Il consumo di questi prodotti e innovazioni.
La concentrazione di tali fenomeni in determinate città avviene in modo naturale, in
quanto la prossimità favorisce l’interazione fra attori economici l’accesso a
specifiche strutture capitalistiche.
Il concetto di città mondiale come nodo di potere acquista maggiore intelligibilità: la
nuova divisione internazionale del lavoro è stata resa possibile dalle tecnologie
dell’informazione e comunicazione.
Nonostante una prima ondata di studi empirici indirizzati alla concreta
individuazione delle città mondiali, appare evidente come una classificazione
univoca sia relativamente inutile. Alcune città rappresentano nodi di primaria
importanza con riferimento ad alcune tipologie di flussi, mentre assumono un ruolo
secondario in relazione ad altri. La globalizzazione non si esprime in un semplice
santo di scala, essa modifica piuttosto le logiche alla base della strutturazione
gerarchica del mondo e accentua la tendenza verso una crescente
specializzazione di tutte le aree urbane.
Il carattere globale dei maggiori centri urbani del mondo non sembra
rappresentare una prerogativa dei paesi del Nord.
Non bisogna pensare che siano spazi sempre caratterizzati da ricchezza o da
elevata qualità della vita- si tratta di città segnate dal paradosso della
polarizzazione sociale. Nonostante le grandi metropoli del mondo ospitino i ricchi
professionisti del
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mondo postindustriale, si tratta di spazi spesso afflitti da crisi fiscali, povertà


diffusa. Le città mondiali tendono a riprodurre al loro interno le contraddizioni
osservabili alla scala mondiale fra i centri e le periferie economie.
La globalizzazione non consente più di utilizzare categorie geografiche definite
come centro e periferia, Nord e Sud, tali differenze e gerarchie nono sono più così
facilmente proiettabili su una carta geografica.

8.5 L’urbanizzazione nel mondo

L’urbanizzazione è stata considerata come un fenomeno tipico del Nord del


mondo. Negli ultimi decenni, la tendenza ha però assunto una direzione differente:
molte fra le maggiori città del pianeta per popolazione si trovano nel Sud del
mondo, come si può facilmente constatare osservando la classifica delle
agglomerazioni urbane più popolose.
Se nel 1950 la maggior parte delle grandi città era localizzata nell’emisfero
settentrionale, nel 2011 la situazione si è nettamente invertita, e solamente cinque
fra le maggiori venti città sono individuabili in quest’atea. I paesi del Sud globale
rivelano tassi di urbanizzazione generalmente più contenuti di quelli del Nord: in
Asia a in Africa la maggior parte delle popolazione vive in aree rurali.
Considerando il maggior peso demografico di queste aree si determina quel
gigantismo urbano che caratterizza metropoli come Città del Messico. Un’alta
percentuale della popolazione tende a concentrarsi in poche gigantesche città,
spesso coincidenti con la capitale.
Anche le megalopoli del Sud rappresentano veri e propri elementi strutturanti di
reti globali: si tratta di nodi di ampie reti economiche, spazi in cui si concentrano le
maggiori possibilità di sviluppo, risorse materiali e non materiali. La concentrazione
spaziale dei processi di crescita economica rappresenta una costante storica:
quando in diversi paesi della periferia iniziò a manifestarsi una marcata crescita
dei livelli di reddito, il fenomeno prese forma principalmente con l’urbanizzazione e
l’industrializzazione di specifiche località come Hong Kong, Singapore.
Il risultato di questa dinamica demografica urbana del Sud globale si concretizza in
una crescita incontrollata, che avviene attraverso l’autocostruzione con materiali
di scarto di grandi baraccopoli che prendono i nomi di favelas, bidonville. La
caratteristica comune a questi quartieri è di essere composti per lo più di alloggi di

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fortuna, spesso autocostruiti e abusivi. Essi non sono tipici soltanto delle periferie
urbane ma sorgono nei pressi del centro
Si assiste a forme estreme di dualismo sociale: da un lato si manifesta la
concentrazione delle attività maggiormente avanzate e degli esponenti della classe
sociale dei capitalisti transnazionali. Questo dualismo si manifesta nella struttura
spaziale della città: le élite locali vivono sovente in gated comunities, ossia
quartieri residenziali recintati con il filo spinato.

8.6 Città e sostenibilità

I problemi della struttura urbana possono essere efficacemente letti con la chiave
teorica della sostenibilità, intesa non solo nelle sue componenti ambientali, ma più
in genere nella ricerca di forme di sviluppo eque e bilanciate. La popolazione dei
paesi ricchi tende a considerare la sostenibilità soprattutto in termini di
salvaguardia della natura e a considerare prioritari gli interventi rispetto a
tematiche quali il riscaldamento globale.
Il rapporto fra globalizzazione, sviluppo, sostenibilità e urbanizzazione assume
particolare importanza per un’ulteriore questione di cruciale importanza: la città è il
luogo in cui concretamente sperimentiamo la sostenibilità degli stili di vita. L0idea di
una compressione dello spazio e del tempo, delle forze della globalizzazione
prende forma a partire dal nostro spazio quotidiano di vita, dal dialogo con altre
persone. Taylor, analizzando il concetto di scala geografica, propone una celebre
tripartizione:
1. La scala globale corrisponderebbe a quella della realtà, in quanto ogni
fenomeno prende ontologicamente forma in uno spazio di per sé globale
2. La scala nazionale sarebbe ideologica in quanto costruita sostanzialmente
attraverso la politica e i discorsi nazionalistici
3. La scala urbana corrisponderebbe alla scala dell’esperienza
Ne deriva un’utile riflessione: la città nono solo costituisce il luogo in cui
sperimentiamo la globalizzazione, ma anche dove si procede alla sua
negoziazione, ossia il luogo del conflitto, della protesta. I movimenti collettiva e le
rivendicazioni di giustizia sociale e ambientale tendono a concentrarsi e a
prendere forma nello spazio urbano.

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8.7 Competizione urbana e dialettica locale-globale (manca)

8.8 Oltre la città : sviluppo e spazio non urbano

8.9 Strutture agrarie negli spazi rurali

L’agricoltura continua a rimanere uno dei comparti più rilevanti. Uno dei nodi per
comprendere il rapporto fra pratiche socioeconomiche, agricoltura e sviluppo è
rappresentato dalla questione del regime di proprietà dei terreni e della
conseguente organizzazione del lavoro in ambito agricolo. Con il termine struttura
agraria s’intendono le differenti modalità in cui terra e lavoro sono combinati in
varie forme di produzione. Analizzare la struttura agraria di uno spazio rurale
significa comprendere chi possiede la terra, chi la lavoro.
Le strutture sono estremamente mutevoli nel tempo e nello spazio, e in questo
senso si possono individuare vari modelli geografici. È possibile tratteggiare
quattro tipi ideali di strutture agrarie:
1. Le strutture agricole di sussistenzasi caratterizzano per elevata intensità
di lavoro manuale e per i
limitati o nulli scambi di mercato. Si tratta di forme che caratterizzano per
esempio gran parte dell’agricoltura familiare africana. L’attività agricola è
sostanzialmente destinata al consumo diretto ed è praticata mediante
tecniche tradizionali tese a sfruttare la grande varietà di vegetali.
L’agricoltura di sussistenza può assumere forme molto differenti.
2. Le strutture agricole commercialisi formano in conseguenza
dell’adozione di tecniche colturali tese allo sfruttamento dei terreni in
collegamento agli spazi urbani. I prodotti sono destinati prevalentemente
a mercati urbani. Si tratta del caso degli agricoltori localizzati in spazi
periurbani. I terreni in questo caso sono spesso caratterizzati da elevato
valore a causa della prossimità alla città, e se

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Geografia dello sviluppo – Bignante, Celata, Vanolo

il ricavato della vendita dei prodotti non è sufficiente a coprire i costi di


produzione, spesso quest’agricoltura viene abbandonata.
3. L’agricoltura speculativa di piantagione - si rinviene prevalentemente
nell’America Centrale e
insulare. Spesso retaggio dello sfruttamento coloniale, si tratta di
un’agricoltura votata all’esportazione, solitamente praticata lungo le coste e
le vie navigabili interne. Prodotti come caffè, tè, cacao sono coltivati in
regioni agricola specializzate. L’iper-specializzazione nella produzione di
particolari beni rende questi spazi particolarmente vulnerabili agli andamenti
altalenanti del mercato
¢. L’agricoltura capitalistica dei grandi spazi - è caratterizzata da elevata
specializzazione e dalla grande distanza che separa i luoghi di produzione
dai centri di mercato e di consumo dei prodotti. Si differenzia per via della
localizzazione in regioni a clima temperato scarsamente abitate.

8.10 Approcci allo sviluppo agricolo e rurale (manca)

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