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Parte prima L'architettura

Delle opere d'architettura tardoromana' sono a noi pervenute,


per lo piú, quelle che fin dall'origine erano state destinate a scopi di
culto cristiano. Non c'e alcun dubbio (e ce lo dimostrano, in qualche
caso, le testimonianze che ci sono pervenute) che, almeno durante il
secolo rv, nel territorio dell'Impero romano si sia proceduto a costruire
anche edifici dedicati al culto pagano. Parallelamente, occorre notarlo,
la relazione dello Stato e dei cittadini con la comunità ideale della Chiesa
non era divenuta, d'un tratto, cosí subordinata e autodistruttrice, da
eliminare ogni presupposto che impedisse l'edificare ancora delle costru-
zioni artistiche di destinazione profana. Se dobbiamo dunque lamentare
la perdita di tutte le ultime costruzioni dei culto pagano e di quelle pro-
fane dei período tardoromano (salvo pochi e insignificanti resti), questo
non ci impedisce pero di riconoscere con lungimirante chiarezza le leggi
normative dello sviluppo dell'architettura tardoromana, ché il futuro
di questa evoluzione si trova appunto ed esclusivamente, in nuce, nel-
J'edificio ecclesiastico; cagione, questa, per cui la caratteristica volontà
artística dei periodo tardoromano dovette trovare la sua piú pura espres-
sione appunto nella chiesa cristiana. Chiese, cioe case per la celebrazione
del servizio divino da parte dei cristiani radunati, offrono, quindi, i1
materiale principale per il nostro esame.
I tipi speciali del Battistero e dei Templi funerari, per quanto impor-
tanti per il !oro significato sintomatico, devono rimaner estranei ad una
ricerca che vuole determinare solamente le linee principali di una evolu-

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zione, poiché prescntano, già in funzione dd]o scopo cui erano destinati,
un tipo misto, che sta ín mezzo fra l'architettura e ]a scultura.
Gli edificí chiesastici tardoromani seguono due spcciali sistemi : l 'edi-
ficio a pianta longitudinale (basilica), e quello a pianta centrale. Due
sistemi che contrastano fra loro, corrispondendo l'uno ai moto e l'altro
ai riposo. :Ê di fondamentale importanza, percio, determinare quale dei
due sia stato scelto da ciascun popolo e in ciascun período. Ma non e
neppure da escludere, e cio ci viene ripetutamente mostrato dall'arte
egiziana in poi, che i popoli abbiano usato contemporaneamente entrambi
i sistemi, sforzandosi di accostarli: rendendo piú riposata la basílica, e
piú movimentato ínvece l'edificio a pianta centrale. Tale e stato il caso,
per lo meno, dell'Oriente romano anche nell'epoca tardoromana, e, per
prima cosa, ci chiederemo quale sia il concetto generale espresso in modo
egualmente incontrovertibile cosí dalla basílica come dall'edificio a pianta
centrale. Questo concetto generale, che distingue gli edifici rdigiosi
tardoromani dai sistemi costruttivi dell'antichítà precedente, consiste
da un lato nella formazione ddlo spazio, dall'altro nella composizione
delle masse. Le chiese tardoromane contenevano vasti spazi ínterni, che
non erano degli accessori secondari richiesti dall'uso cui esse erano adi-
bite, bensí costituivano la base della loro elaborazione artística. Parimenti
le chiese non si presentano piú come semplici forme stereometriche (pira-
mide, cubo, prisma, cilindro), ma sono composte da parecchíe di tali
forme, sulle quali una, tuttavia, di solito, domina tutte le altre. La forma-
zione spaziale si esplica, com'e ovvio, principalmente all'interno; all'e-
sterno, invece, si esprime la composizione di masse. Non si deve scor-
dare, pero, che la medesima concezione dello spazio come grandezza
divisibile cubicamente (dunque, in certo modo, materiale) era presente
all'architetto anche quando progettava }'esterno, e che, per contrario, la
composizíone delle masse ha trovato in non minor misura applicazione
anche all'interno. A questo proposito basti accennare, per esempio, alle
nicchie che accompagnano, in quanto spazi laterali in forma di mezzo
cilindro, il cilíndrico spazio principale (o polígono o quadrato che sia);
d'altra parte, invece, la ripetizione della concezione spaziale dell'ínterno

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nell'esterno, non si puo chiarire con una formula altrettanto breve e
semplice, e se ne dovrà dare spiegazione, quiodi, nel corso ulteriore
delta nostra esposizione. Anche l'esame delle relazioni reciproche fra
concetto spaziale e composizione di massa si potrà compiere solo dopo
averne aittentamente esaminato lo sviluppo. Possiamo accennare soltanto
ad una semplice realtà storica: nel Pantheon di Roma troviamo, all'in-
terno delta parete perimetrale, delle nicchie alternate, mentre !'esterno
consiste di un puro cilindro ininterrotto. Troviamo dunque qui la com-
posizione di masse all'interno, mentre essa manca ancora all'esterno.
Tali constatazioni ci permettono quindi fin da ora di presupporre, con
ogni verosimiglianza, che la formazione spaziale sia, per lo sviluppo del-
1'architettura tardoromana, !'elemento piú significativo.
Ma forse che, dai primo risvegliarsi della cultura fra gli uomini,
!'intento di tutte le architetture (che andarono oltre la creazione di un
e
semplice blocco) non stato sempre teso alia formazione dello spazio?
L'architettura e pure un'arte subordinata ad un determinato scopo, e
e
questo scopo, in realtà, sempre stato quello di formare spazi conchiusi,
all'interno dei quali l'uomo potesse godere libertà di movimento. Ma
come già ci insegna la stessa definizione, il compito di costruire si divide
ín due parti che si completano e sono interdipendenti, ma che appunto
per questo si trovano reciprocamente in posizione di un certo contrasto:
la creazione dello spazio (chiuso) in quanto tale, e la creazione dei limiti
dello spazio. Cosí fin da principio veniva ad essere aperta alia volontà
artística umana la possibilità di espletare una parte dei suo compito a
spese dell'altra. Si potevano sovraccaricare le delimitazioni dello spazio,
fino ai punto che l'opera architettonica si tramutasse in opera classica.
Si potevano, d'altra parte, spingere i limiti dello spazio tanto lontano,
da suscitare nello spettatore il pensiero della incommensurabilità e della
immensità dello spazio. Dobbiamo ora chiederci quale posizione abbia
assunto l'antichità, e specialmente la sua fase finale, quella tardoromana,
di fronte a tale contrapposizione.
I popoli antichi scorgevano negli oggetti esterni, per analogia con la
natura umana a loro presumibilmente nota (cioe con l'antropomorfi-

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smo), delle entità o individui materiali, di diverse dimensioni, ma cia-
scuno conchiuso, in indivisibile unità, da parti strettamente riunite. La
loro concezione, basata sui sensi, rendeva gli oggetti esterni confusi e
e
mescolati con poca chiarezza; ed l'arte figurativa che permise loro di
sceverare tali singole entità, e di rappresentarle in una unità conchiusa
e chiara. L'arte figurativa di tutta l'antichità ha cercato, come suo ultimo
fine, di rendere le cose nella loro chiara individualità materiale, e di
sopprimere ed evitare, di fronte alia apparenza sensibile degli oggetti
nella natura, tutto cio che poteva indebolire o turbare l'immediata, per-
suasiva impressione prodotta dall'individuo materiale.
Già questa definizione generale del fine ultimo, che ha improntato
di sé tutta l'arte figurativa dell'antichità, permette di dedurre quale fosse
la relazione necessaria fra quest'arte e lo spazio. Lo spazio riempito di
atmosfera, che secondo una ingenua concezione basata sulla percezione
dei sensi, sembrava dividere fra loro le singole cose, non e, appunto a
causa di tale concezione, una entità materialmente esistente, anzi e la
negazione della materia, e, percio, un nulla. Lo spazio non poteva,
quindi, originariamente, diventare oggetto dell'attività artística degli
antichi, in quanto non era per loro materialmente individuabile. Ma
l'arte antica doveva procedere oltre, portando a logica conclusione il
suo punto di vista: doveva cioe negare e sopprimere deliberatamente
l'esistenza dello spazio, in quanto era dannoso, nell'opera d'arte, alia
visibile chiarezza dell'individualità assolutamente chiusa delle cose. Da
cio deriva la necessaria conseguenza, che compito dell'architettura antica
(almeno in principio) era quello di seguire, possibilmente, e portare in
primo piano, fra le sue due funzioni eminenti, quella della delimita-
zione dello spazio, mentre ai contrario quella della formazione dello
spazio doveva essere contenuta e dissimulata.
Se in tal modo veniva a stabilirsi un fine comune per tutta l'arte
antica, questa, pero, non rimase internamente priva di una graduale
evoluzione: tale evoluzione era dettata dalle mutevoli forme di espres-
sione, delle quali ci si serví nelle diverse epoche dell'antichità per ripro-

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durrc nell'opcra d'arte quella unità individuale delle cose, in comune
ricercata.
Anzitutto si tento di concepire tale unità sulla via della percezione
puramente sensoria, escludendó possibilmente ogni rappresentazione do-
vuta all'esperienza. Finché si dà per presupposto chc gli oggetti esterni
sono oggetti veramente da noi indipendenti, ogni ausilio della coscienza
soggettiva deve istintivamente essere rinnegato, in quanto disturba l'unità
dell'oggetto considerato. L'organo che noi usiamo maggiormente per
renderei conto delle cose che sono fuori di noi, e l'occhio. E un organo
che ci mostra le cose unicamente come superfici colorate e niente affatto
come entità materiali impenetrabili: proprio la percezione ottica e quella
che ci fa apparire le cose dei mondo esterno in caotica confusione. Una
certezza completa dell'unità individuale dei singoli oggetti ci e data
soltanto per mezzo dei tatto. Soltanto mediante il tatto abbiamo cono-
scenza della impenetrabilità delle barriere che circondano l'individuo
materiale; e queste barriere sono costituite dalle superfici palpabili delle
cose. Peraltro noi non possiamo toccare con immediatezza delle vaste
superfici, ma soltanto dei singoli punti di esse: solo in quanto la perce-
zione di molti punti impenetrabili di una stessa entità materiale si
ripete con rapida continuità, noi arriviamo ad immaginare vaste superfici
bidimensionali, estese cioe in altezza e in larghezza. Questa immagine
non ci deriva, dunque, dalla immediata percezione dei tatto, bensí dalla
combinazione di molte percezioni consimili, che necessariamente presup-
pongono l'intervento di un processo mentale soggettivo. Ne deriva che
già la persuasione della impermeabilità ai tatto, come principale pre-
supposto dell'individualità materiale, non si puo determinare solamente
in base alla percezione dei sensi, ma e necessario ad essa l'aiuto dei
processo mentale. Nella produzione artistica degli antichi, e fin dai suoi
elementari inizi, percio, deve essere stata latente questa contraddizione,
dato che, nonostante la concezione degli oggetti volutamente conside-
rara in maniera fondamentalmente obiettiva, non si era potuto evi-
tare, fin dai principio, l 'intervento della percezione soggetti va. E in
tale latente contraddizione si trovava il germe di ogni ulteriore sviluppo.

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Ma con cio non veniva ad essere esaurita, per quanto riguarda la
piú antica produzione dell'epoca classica, la quantità inevitabile di tur-
bamento che il soggetto produceva sull'entità oggettiva delle cose mate-
riali. 11 tatto e indispensabile per consentirei l'accertamento della impe-
netrabilità degli oggetti, ma non serve affatto per dimostrarci la loro
dimensione: in questo senso esso e di gran lunga superato, come utilità,
dalla vista. L'occhio - e vero - ci permette di vedere solo lo stimolo
dei colori che, non meno di quello dell'impenetrabilità, ci viene comu-
nicato di volta in volta da singoli punti soltanto; e possiamo ottenere
l'immagine di superfici colorate, come moltiplicazione di punti, mercé
lo stesso processo mentale che ci consente di percepire superfici tangi-
bili; ma l 'occhio compie questa operazione di moltiplicazione delle
singole percezioni assai piú rapidamente dei tatto, ed e per questo che
dobbiamo all'occhio principalmente la possibilità di immaginare l'altezza
e la larghezza delle cose. Si viene, di conseguenza, ad una diversa com-
binazione di percezioni nella coscienza dell'osservatore pensante: là dove
l'occhio percepisce una superficie colorata coerente, che dà un unico sti-
molo, sorge, sulla base dell'esperienza, anche la rappresentazione di
una superficie impenetrabile ai tatto, e di una conchiusa, materiale indi-
vidualità. Per tal via si poté addivenire ben presto alia conclusione, che
fosse sufficiente l'accertamento ottico per ottenere la certezza dell'unità
materiale di un oggetto, senza doversi riferire, per una immediata testi-
monianza, ai tatto. Ma la piú importante premessa a cio rimase poi, in
fondo, sempre questa: che il piano assoluto rimanesse limitato, e che la
estensione fosse definita dalle due dimensioni, di altezza e di larghezza.
L'arte antica deve aver negato totalmente fin da principio l'esistenza
delta terza dimensione - profondità - che noi consideriamo quale
dimensione s p a z i a 1 e nel piú stretto senso della parola. Non tanto
perché la profondità non si puo accertare con i sensi - la stessa cosa,
ricordiamolo, abbiamo potuto constatare a proposito delle due dimen-
sioni in superficie - ma perché si puo concepire soltanto mediante un
processo mentale assai piú complesso. L'occhio ci mostra unicamente il
piano: noi possiamo dedurre, infatti, da scorci di contorni e da ombre,

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te variazioni in profondità soltanto pero per gli oggetti a noi noti, per per-
cepire i quali ci sorregge l'aiuto dell'esperienza; mentre, scorgendo degli
oggetti sconosciuti, rimaniamo incerti, se le linee curve dei contorno e
le macchie scure della superficie giacciano su di un piano solo o no. t di
nuovo il tatto che ci dà la sicura certezza della presenza di variazioni
in profondità, poiché i suoi molteplici organi rendono possibile l'esame
di diversi punti in un medesimo momento; ma già il riconoscimento
della variazione di profondità in superficie, e, per di piú, quello della
conclusione in una piena forma rotonda tridimensionale, richiede una
assai vasta concorrenza della capacità mentale nella ricostruzione del-
l'immagine in piano, derivata dalle singole percezioni di stimoli pun-
tuali. Se dunque le s u p e r f i e i n e I p i a n o possono venir ricono-
sciute non in base a per-cezioni dei sensi, ma unicamente con l'appello
alla riflessione soggettiva~ l'intervento di quest'ultima anche piú neces- e
sario per riuscire a corn::epire delle superfici curvate o storte. Questa
distinzione di due specie di superfici, piane e curve, e altrettanto impor-
tante per la storia dell'arte, di quella fra linea e colore, ché in essa
viene ad esprimersi la fondamentale distinzione fra piano e spazio *.
Arriviamo con cio ai seguente risultato: l'arte dell'antichità, partita
dai presupposto di rendere con la massima oggettività l'entità materiale,
<leve aver di conseguenza avvertito la rappresentazione dello spazio come
negazione della sua materia e della sua stessa individualità: e questo
non significa che si fosse già da allora chiarito esser lo spazio soltanto

• La natura delle percczioni ottenutc mediante i sensi della vista e dei tatto e presentata
:secondo la teoria che si e soliti definire empiristica. Ne differiscc quclla « nativistica », chc sup-
pone contenutc nella ricettività dei scnsi non solo J'estensione in larghczza ed altezza, ma anche
quella in profondità. Tale teoria non comprende con cio nul!a piú chc l'dementarc disposi7.ionc
a percepirc lo spazio, cui e necessario indubbiamentc l'aiuto della coscicnza (dr., per esempio,
C. 511:cu., Entwicklung der Raumvorstellung, p. 23: « Se il vedere corporco che ci e concesso
con la percezione della profondità riposa, sccondo la sua origine, nella percezione visiva, csso
consta pero, nella sua forma piú cvoluta, dei prodotto di molti altri fattori, radicati ne!l'cspe-
rienza ... ») Le constatazioni fatte sul rapporto fra la ripugnanza per il pensiero e quc\la per lo
spazio dimostrate dall'arte primitiva (in quanto questa parte dai concctto della rappresentazione
il piú possibile chiara dclla scnsibilità obictúva) hanno la medesima validità da noi dimostrata,
anche se nel!a percezionc tattile e visiva si limiti la funzionc della coscienza alla misura minima
richiesta dalla teoria nativistica.

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una forma intuitiva dell 'intelletto umano; ma perché ci si doveva sen-
tire spinti istintivamente, attraverso l'ingenuo desiderio di concepire in
modo unitario la realtà sensibile, alla restrizione massima dell'apparcnza
spaziale. Delle tre dimensioni spaziali in senso lato, le due del piano,
cioe altczza e larghczza (contorno, silhouette) sono indispensabili per
giungere alia rappresentazione di una realtà individuale: e percio sono
riconosciute sin dagli inizi dell'arte antica. La profondità, invecc, non
appare cosí strettamente necessaria; e poiché, oltre a cio, tende a turbare
!'impressione netta dell'individualità materialc, essa e stata quant'era
possibile conculcata dali' arte antica.
Gli antichi popoli, insomma, hanno cosí concepito il compito del-
l'arte figurativa: porre le cose come apparenze reali e individuali non
ncllo s paz i o (termine, questo, che d'ora innanzi va inteso sempre
come profondità spaziale), bensí in super f i c i e. Ma come puo un'en-
tità materiale esser visibile entro il piano, se non ne esce, sia pur per
un minimo? Si veniva cosí a riconoscere finda principio, incerto modo,
la necessità della concezione in profondità: latente contraddizione che
sta alia base della concezione del rilievo nell'arte antica, non solo, ma
a nche, per una metà, ha motivato l'evoluzione che si e compiuta all'in-
terno dell'arte figurativa dell'antichità. Per l'altra metà, come già
abbiamo notato, essa si attuo mediante il continuo inserirsi della con-
cezione soggettiva negli accertamenti puramente sensori dell'entità ma-
teriale delle cose.
L'evoluzione dell'arte figurativa nelPantichità - sempre presso i po-
poli culturalmente piú rappresentativi - ha seguito le seguenti tre fasi:
1) Massima coerenza della concezione sensoria della (presumibil-
mente obiettiva) entità materiale delle cose e, di conseguenza, avvicina-
mento massimo dell'apparenza materiale dell'opera d'arte al piano. Che
e
non il piano ottico, che il nostro occhio si illude di scorgere ad una certa
distanza dalle cose, ma quello tangibile suggeritoci dagli accertamenti
dei tatto; ché in questo momento dell'evoluzione perfino la persuasione
dell'individualità materiale dipende dalla certezza della impenetrabilità

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(al tatto). Da un punto di vista ottico, questo piano e quello che l'occhio
percepisce quando esso si pone cosí vicino alla superficie di un oggetto,
che tutti i contorni e perfino le ombre che potrebbero servire ad indi-
carei la profondità vengono a scomparire •. La concezione delle cose che
caratterizza questo primo stadio della volontà artística degli antichi, e,
quindi, tattile, e in quanto necessariamente, almeno fino ad un certo
grado, deve esser anche ottica, si puo ben definire v i s i o n e d a
vi c i no; la troviamo espressa, nel modo relativamente piú puro, dal-
l'arte egizia arcaica"· Scorci ed ombre (come indicazioni di profondità)
sono in essa evitati con altrettanta cura quanto l'espressione di affetti
dell'animo (indicazioni di una vita spirituale soggettiva). La accentua-
zione maggiore e data invece ai contorno, che e conservato il piú pos-
sibile simmetrico, perché appunto nella simmetria si esplica, in modo
piú persuasivo per chi guardi di fuori, la connessione tattile ininterrotta
e
entro la superficie. La simmetria connessa infatti alle dimensioni del
piano, mentre la profondità la pregiudica, quando non la elimina;
perciõ per l'arte figurativa di tutta l'antichità, la simmetria e stata il
mezzo piú sostanziale per dimostrare !'isolamento delle entità materiali
nella superficie.
2) Alla superficie delle cose non solo si ammettono per forza mag-
giore, ma si consentono di buon grado, nell'opera d'arte, delle varia-
zioni in profondità (sporgenze). Con tanta maggior rigidezza, quindi,
si cerca di ottenere una stretta relazione delle parti aggettanti con la
superficie comune e le singole sporgenze. Ché pur sempre e imprescin-
dibile scopo dell'arte figurativa il provocare gli accertamenti dell'impe-
netrabilità al tatto, come condizione dell'entità materiale; non deve

• Lo si pub provarc, per cscmpio, guardando una statua cgizia arcaica, prima da una certa
distanza, per riccvcrnc un'impressione piatta e completamente priva di vita, quindi avvicinandola
a poco a poco, in modo che !e supcrfici guadagnino sempre piú in animazione, finché ci si puo
accorgere pienamente della finczza dei suo moddlato, quando si fanno scorrcre su di essa lc
nostre dita.
" Eppurc anchc !'arte cgizia arcaica, come e comprcnsibilc data la sua millcnaria durata, ha
oltrcpassato spcsso lo stadio chc ad essa abbiamo asscgnato : e, d'altronde, ancora i Greci di
un'epoca piú avanzata si possono includcrc per una parte in questa fase.

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esservi, percio, alcuna interruzione entro la chiusa e tangibile unione
delle parti in superficie. D'altra parte anche l'occhio, in quanto l'organo
piú importante per informarei in proposito, deve accertare la presenza
di membrature aggettanti: che si scorgono mediante le ombre, per per-
cepire le quali l'occhio deve allontanarsi alquanto da un punto di visuale
immediatamente vicino: non tanto da rendere irriconoscibile la connes-
sione tattile ininterrotta delle parti (cio che accadrebbe se si osservassero
da un punto di vista lontano), ma pure ad una distanza che stia in
mezzo fra il guardare da vicino e da lontano, e che possiamo definire
come p u n to d i v i s ta no r ma 1e. La concezione delle cose, carat-
teristica di questa seconda fase dell'arte antica, e dunque o t ti c o -
ta t ti 1e e, per quanto riguarda la parte ottica, piú precisamente si
identifica con un punto di vista normale. Essa e giunta alla sua espres-
sione relativamente piú pura con }'arte classica dei Greci •. Accanto agli
scorci possono comparire anche le ombre, ma solo mezze ombre che
non interrompano - come farebbero delle ombre profonde - l'unione
tangibile delle superfici; sono ammesse anche le espressioni di affetti
spirituali, ma soltanto in misura tale che }'interesse dello spettatore verso
l'entità materiale che manifesta questi affetti non venga posto in secondo

• Per quanto possiamo stabilire in base: ai risultati finora consegui ti d alia storia deli' arte, e
nonoscantc la latente contraddizione ncll'artc orirntale arcaica, contraddizione che conteneva in
germe i futuri sviluppi, e stato necessario l'intcn-cn to dei popolo indogermanico dei Grcci, per
portare questa già accennata cvoluzione nclla giusta direzione. 1 popoli orientali arcaici tendcvano,
evidentemente, ad irrigidirsi nella loro concezione dei mondo, strettamente tattilc-obiettiva. AI
contrario i Grcci (e probabilmente tutti i popoli indogcrmanici) devono avcr avuto originaria-
mente una concezione difierentc dei compito dell'artc figurativa, volto non a percepire tattilmcnte
e guardando da vicino, bcnsí guardando l'oggctto da lontano in m anicra puramente ottica, e per-
cio assai piú soggettiva. Certc csprcssioni dcll'arte miccnea e premicenea non si possono spiegare
altrimenti in manicra convince nte; e la stcssa concczione nebulosamente soggettiva vcdiamo tornarc
chiarita, piú tardi, anche tra i Germani. Un'arte figurativa qualc qudla dassica dei Greci si poteva
fondare, naturalmente, solo sulla base di una precisa concczione tattile, e qucsta base e stata
loro tramandata appunto dai popoli orientali. D'altra parte i Grcci hanno apportato la propria
inclinazione nazionalc ad osscrvare le cose in modo ottico e soggettivo, e mediante la sintesi di
entrambi questi fattori, han no condotto alia soluzione il problema dclla espressione completa di
ogni singola forma m ateriak ndl'artc figurativa. Nell'arte moderna, che ha per soggc:tto la rap-
prcsentazione ddle entità materiali nello spazio libero ed infinito, e con lo spazio come oggetto,
le funzioni sono suddivisc: in a na Ioga maniera fra popoli romanici e germanici: in quanto i
primi scguono con parzialc prcdilc-.áone il problema dei tatto, e i secondi, in \'ece, quello ottico.

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piano per cag1one loro. La simmetria (sia che si tratti di un allinea-
mento regolare, o per contrasti, come nello stile araldico) subisce un
rilassamento nella sua rigida osservanza, ma non viene mai eliminata,
anche se alie volte si puo percepire con pienezza solo se lo spettatore
si discosta alquanto dali 'opera d'arte.
3) Si dà alie cose una piena tridimensionalità. Cosí si viene a rico-
noscere anche lo spazio, ma solo in quanto, cubicamente misurabile e
impenetrabilmente conchiuso, esso si connette alie entità materiali; e
non come infinita profondità fra i singoli oggetti. Ché anche questa
terza ed ultima fase dell'arte antica mantiene come suo unico fine quello
di rendere con chiarezza le entità materiali in sé e per sé, senza riguardo
per lo spazio nel quale esse si muovono. Per questo si pone la forma,
ora come prima, non nello spazio, ma in superficie; anzi, questa super-
ficie viene ora accentuata in modo tanto piú rigido ed energico, in
quanto le singole forme racchiudono per di piú in sé anche la terza
dimensione. II fatto piú importante di questa fase e che ogni entità
materiale abbandona la sua unione tangibile con il piano di fondo ( che
finora era sempre stata mantenuta) e, con cio, si isola dalla superficie,
anche se persiste nel rimanere allineata e articolata insieme con que-
st'ultima. Anche le singole parti (sporgenze) di ogni individualità si
isolano reciprocamente, e risolvono in tal modo la precedente unità per-
cepibile ai tatto, delle superfici: le stesse sporgenze, pero, a lor volta
quasi si appiattiscono sulla superficie. E questa non e piú tattilmente
percepibile, poiché contiene interruzioni causate da ombre profonde; e
piuttosto o t ti c o - e o lo r is ti e a , al modo con cui le cose ci appaiono
se guardate da lontano, là dove esse si dissolvono con il loro contorno•.

• Quest'ultima osscrvazione, che facciamo di continuo vedcndo le cose naturalmente, e la


cui espressione forma, com'c noto, uno dei problcmi piú cari all'arte moderna, e stata sempre
compressa al massimo dall'epoca antica, strcttamcnte individualizzatrice, perfino in questa sua
terza fase. Di conseguenza le architctture e le figure (scolpite e dipinte) tardoromane, nonostante
la tecnica imprcssionistica, di abbozzo, con la quale sono eseguite, risaltano duramente e rigi-
damente entro il loro contorno; e per questo su~itano disgusto nel moderno spettatore, che vi
scorge patente contraddizione, mancanza di stik, barbarie; mentre dobbiamo prcsumere che i
tardoromani darebbero, sull' impressionismo moderno, un giudizio altrcttanto negativo.

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11 modo di concepire gli oggettt, 1n questa terza fase dell'arte antica, e
dunque essenzialmente o t ti e o, cioe gli oggetti vengono considerati
da un p u n to d i v i s ta 1ô n t a n o . Lo vediamo usato con la mag-
giore coerenza, seppur sempre relativa, nell'arte della piú tarda età im-
periale romana. Le ombre sono profonde, e perciõ hanno, entro alle
superfici, la funzione di dividere; il compito comune a tutta l'antichità,
di rappresentare con chiarezza le entità materiali conchiuse, e affidato,
in quest'ultima fase, per grandíssima parte e con voluta intenzione,
all'ausilio integratore della coscienza soggettiva. Con l'appiattimento in
superficie, l'osservanza della simmetria ridiventa ancora una volta piú
rigida.

All'ultímo período della terza fase appartengono gli edifici a pianta


basilicale e quelli a pianta centrale del período tardoromano. Osser-
vando dei singolí, tipici esempi delle tre fasi potremo constatare che
ambedue i generi architettonici usati ín quest'epoca, con la loro forma-
zione dello spazio e la loro composizione di masse, sono soltanto la
logica conseguenza finale dei processo evolutivo che ha prevalso in tutta
l 'antichità.
L'ideale architettonico degli antichi Egizi ha trovato la sua piú pura
espressione nel tipo funerario della piramide. Lo spettatore che guardi
una qualsiasi delle quattro facce di una piramide, percepisce soltanto la
unitaria superficie del triangolo isoscele, i cui lati, col loro netto con-
torno, non fanno affatto pensare alia congiunzione che si effettua dietro,
in profondità. Di fronte a questa delímitazione dell'apparenza mate-
riale nelle dimensioni di superficie, ben ponderata ed accentuata con la
massima rigidezza, il vero e proprio compito cui l'edificio deve corri-
:spondere - la formazione dello spazio - viene meno del tutto. Esso
e limitato alia costruzione di una piccola camera sepolcrale, le cui vie
d'accesso, ridotte al mínimo, non possono quasi essere individuate da
chi osservi l'edíficio dall'esterno. La piramide dovrebbe essere definita
piuttosto come opera plastica, anziché architettonica. L'individualità ma-

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tcrialc, intesa in senso orientale-antico, non poteva trovare una espres-
sione piú completa.
Un símile espediente, pero, non bastava piú negli edifici dedicati
non già ai morti, ma alie creature vive, bisognose di movimento. Ma
anche in questo caso venne conservata il piú possibile una consimile
cristallina forma esterna, che presenta solo delle superfici inarticolate e
prive di ombre. La casa in argilla degli attuali / ellah mantiene ancora
fedelmente la forma piramidale dell'antica abitazione egizia; lo spazio
che si nasconde dietro le brevi muraglie prive di finestre non si tradisce
in alcun modo a chi guardi dal di fuori. Piú fortemente si e sentito il
contrasto fra la necessità di spazio richiesta dalla pratica e l'orrore che
si provava per esso da un punto di vista artistico, nelle costruzioni di
templi egiziani : esaminarli, quindi, e molto utile, poiché possiamo
constatare con quanta raffinatezza gli Egizi si siano adoperati per sop-
perire alle esigenze pratiche e salvare, nonostante cio e con successo, il
loro principio artistico. Anzitutto lo spazio richiesto dall'uso venne spez-
zettato in una fila di camere oscure, cosí strette da non consentire l'im-
pressione artística della spazialità. Questa, pero, non era una soluzione
in tutto soddisfacente; infatti per determinate cerimonie abbisognavano
degli spazi assai piú vasti. Si cerco di ottenerli con dei cortili aperti,
cui, per la mancanza di una limitazione in alto, mancava l'assoluto
significato di spazio interno, e dove, inoltre, alle pareti perimetrali
vennero anteposti dei colonnati (doe delle forme isolate), per rompere
l'impressione ottica della superficie parietale che si trovava dietro, e
cosí spingere davanti agli occhi dello spettatore delle singole forme
tangibili.
Accanto a questi, pero, si trovano delle vere e proprie sale chiuse,
colossali (Karnak), con un tetto solido: sale che avrebbero potuto dare
un'impressione spaziale con le superfici ampie, lontane, di effetto ottico,
sia delle quattro pareti che del soffitto e dei pavimento, e, percio, cau-
sare ad un Egizio il massimo disagio. Per evitado, le sale sono
riempite in maniera cosí fitta con una selva di colonne a sostegno dei
soffitto, poste l'una vicino all 'altra, che tutte le superfici, che avrebbero

37
dovuto produrre l'effetto spaziale, ne risultano tagliate e spezzettate;
cosí !'impressione dello spazio, nonostante la considerevole ampiezza
delle sale, veniva ad esser soffocata, anzi annientata; e, invece, era posta
in primo piano la forma singola (colonna). Nei piani esterni in declívio
delle pareti perimetrali (nella caratteristica configurazione delle pareti
piramidali) e soppresso assolutamente ogni ricordo dell'interno: la sca-
nalatura di coronamento, in quanto ne accentua la terminazione libera
e
e improvvisa, una formale protesta contro ogni accezione di un tetto
posteriore; le finestre, che avrebbero costituito una immediata comuni-
cazione fra esterno ed interno, mancano del tutto, poiché sarebbero parse
solo delle cavità di disturbo in una forma cosí tangibilmente chi usa;
le porte sono usate con la massima parsimonia possibile, come dei mali
inevitabili. Visto di fuori, il tempio egizio si presenta, con i suoi muri
inarticolati, come una tangibile unità nel mondo: all'interno si suddi-
vide in microcosmi, a loro volta riempiti con forme singole (colonne).
Ma esso contiene in sé due elementi per una posteriore evoluzione: nei
cortili oblunghi (secondo la direzione di movimento dei visitatori) e
contenuto in nuce l'elemento della basílica, in opposizione alla forma
cristaIli na e centralizzatrice della pira mi de; nella successione, s'intende
completamente libera e indipendente, delle numerose sale e cortili, }'ele-
mento della composizione di masse. ln queste contraddizioni riposano
sia la possibilità che l'esigenza di un ulteriore sviluppo.
La casa greca a colonnati si differenzia già all'esterno dal tempio
egizio in quanto, nonostante la pluralità, seppur limitata, di spazi con-
tenuti nel suo interno, forma una unità ben distinta se anche non stret-
e
tamente centralizzata. I singoli lati sono, vero, complessivamente ancor
sempre dei piani, ma non piú in particolare, superfici inarticolate e
tangibili, bensí risolte nell'allineame.nto formale di porticati a colonne.
Se l'occhio vuole goderli nel loro intenzionale rapporto, in quanto
membri di un'armonica unità, deve retrocedere ad una certa distanza:
dal che si deduce che il tempio greco si puo comprendere solo se guar-
dato da un punto di vista norma/e, in modo che la tangibile chiarezza

38
dei dettagli e la v1s1one ottica cornplessiva dell'insieme possano avere
una eguale valorizzazione.
Non si puo accentuare la relazione fra superfici parziali e complesso
dell'opera senza che la severa unità del piano venga interrotta; e, in
realtà, possiamo trovare nella casa greca a colonne i primi riconoscimenti
della tridimensionalità, dell'ombra e dello spazio. Compito principale
dell'architettura rimaneva pur sempre, in fondo, la delimitazione piut-
tosto che la formazione dello spazio; ma l'esistenza dello spazio in
e
quanto tale non piú cosí completamente negata. Anche i Greci del-
1'epoca classica non hanno affatto cercato di creare degli spazi interni;
l'unico vano piú ampio all'interno dei tempio, la cella, e stato riportato,
attraverso l'ipetralità, allo stadio dei cortile egizio, e la finestra - oggi
mezzo cosí usuale di comunicazione fra interno ed esterno in un edi-
ficio - manca del tutto nel tcmpio greco (salvo poche eccezioni, chc
sono spiegate da circostanze speciali). Sono piuttosto il tetto e la com-
plessiva forma oblunga che tradiscono (ai fianchi, non nella facciata)
l'esistenza di un interno spazio ove gli uomini possono muoversi. N ei
porticati a colonne, che raccolgono l'ombra proprio come fanno le pieghe
dei drappeggio classico, vengono ad essere parzialmente riconosciuti la
profondità e lo spazio; ma f'occhio si ferroa poi subito alla retro-
stante parete chiusa della cella, come se fosse la piana superficie <li
un rilievo. Da tutto cio si deduce che l'arte greca ha trovato, almeno
in modesta misura, accanto all'apparenza materiale, palpabile e percio
capace di agire con immediatezza sui sensi, il completamento del suo
effetto per mezzo dei pensieri derivati dall'esperienza; attraverso, dun-
que, un momento soggettivo.
Non si puo mettere in dubbio che, al tempo dei Diadochi, sia stato
compiuto un importante passo in avanti riguardo alla formazione degli
spazi interni: occorre pero ancora determinare ogni punto di riferi-
mento, cosí come occorre specificare in modo particolareggiato l'entità
di tale passo in avanti.
II primo spazio interno che ci sia rimasto, completamente chiuso, di
dimensioni considerevoli e <li intenzione chiaramente artística, e con-

39
tenuto nel Pantheon di Roma [ fig. 2], la cui forma odierna risale alla
prima metà del secolo n d. C. Non conosciamo con sicurezza la sua
destinazione originaria, ma possiamo tranquillamente considerado come
una autentica testimonianza della volontà artística monumentale della
prima età imperiale romana. La casa a colonne non aveva piú influenza
in questo caso, poiché, anche se dei templi greci a colonne dove veni-
vano onorati i vecchi dei dell'Olimpo vennero pur sempre costruiti ex
novo durante tutta l'epoca imperiale, e d'altra parte certo che la effet-
tiva adorazione dei Romani dell'lmpero ando non verso i diseredati dei,
riconosciuti dallo Stato, bensí verso grecizzate divinità orientali, quali
Iside, Mitra ed altri; e percio devono essere stati questi santuari (diversi
dai vecchi templi), destinati ai culto degli dei nuovi, quelli che espres-
sero la specifica volontà artística dei tempo in cui sorsero.
Anzitutto, qualche parola sull'esterno del Pantheon [fig. 1]. Esclu-
dendo il portico a volta che gli e stato addossato, si tratta di una pura
rotonda, che appare, almeno per chi guarda da un punto di vista lon-
tano, un insieme di superfici assolutamente simmetriche. Non soltanto
vi e conservara, come nell'età antica precedente, l'unità formale cen-
trale, tangibile, come massimo scopo artístico: ma anzi vi e attuata in
grado assai piú alto di quello mai prima raggiunto nel tempio greco e
perfino in quello egizio arcaico. 11 mezzo per raggiungere tale risul-
tato ediverso pero da quello che avrebbero usato sia i Greci classici che gli
Egizi: ogni rifrazione cristallina in piane superfici esterne e distinte,
e stata eliminata; e, in luogo del piano di assoluto riposo, caro agli
artisti egizi, e sostituita la irrequieta curva, ansiosa di profondità; invece
dello smembramento in forme parziali, che abbiamo osservato nella
casa a colonne, troviamo il concorrere indiscriminato di tutte le pos-
sibili parti, anche minime, nella forma complessiva. II Pantheon privo
com'e di finestrc, sta ancora sul terreno comune a tutta l'antichità, in
quanto vuol essere una individualità materiale, chiaramente unitaria,
concepita in ben determinati limiti; e percio evita anche esteriormente,
la composizione di masse (iJ pronao e, evidentemente, solo un arricchi-
mento dei portale: non una contaminatio di casa a colonne oblunga e

40
di rotonda); con la sua tendenza all'infinita varietà in profondità, entro
i suoi ben fissati termini, rappresenta la contraddizione diametralmente
opposta allo stile egizio arcaico e, nello stesso tempo, la sua affinità con
l'arte greca, della quale persegue al massimo gli scopi volti al movimento
misurato delle superfici; ma contrasta, d'altra parte, con !'arte classica
greca, in quanto sottomette indiscutibilmente tutte le sue parti all'asso-
luta unità dei tutto, e cosí si avvicina, di nuovo, allo stile egizio arcaico
che, a sua volta, ha conosciuto soltanto dei piani esterni disarticolati.
Piramide e Pantheon, dunque, vengono a indicare due estremi op-
posti dell'antica architettura centralizzante; la greca casa a colonne sta
ad indicare, fra di essi, la classica via di mezzo equilibratrice. Se la Pira-
mide doveva esser guardata da vicino, e la casa a colonne da una distanza
normale, per il Pantheon occorre un punto di vista lontano; ché mai
e
neppur due dei suoi punti giacciono sul medesimo piano, ed pertanto
indispensabile vederli tutti contemporaneamente, per apprezzare la desi-
derata unità (simmetria in altezza e larghezza); mentre, davanti ai fron-
toni greci, l'occhio aveva indugiato ancora con piacere vicino alle parti
plastiche. Questa continua variazione in profondità tira irresistibilmente
lo sguardo dello spettatore verso la terza dimensione : ma poiché lo si
vede in parte in modo incompleto (sui fianchi), e in parte per nulla
affatto (dietro), il Pantheon fa appello, a chi lo osserva, all'aiuto inte-
gratore della coscienza soggettiva, assai piú dei monumenti classici ed
egizi. Con cio !'esterno dei Pantheon tradisce la tendenza ad isolarsi
non solo nelle dimensioni dei piano - come le costruzioni egizie e
greche - ma anche in profondità; cio che contiene un aperto ricono-
scimento dello spazio cubice.
e
II Pantheon non affatto la piú antica rotonda che si conosca: lo
precedono, per quel che si sa, i Mausolei (che si possono considerare
addirittura privi di spazio interno) e altre costruzioni antiche, cio che
ci permette di arrivare, con gli inizi di questo tipo di costruzione,
all'età dei Diadochi. Quello che e assolutamente nuovo nel Pantheon e,
per quanto se ne puo dire oggi, lo s paz i o conte nu to n e 1 suo
1 n terno. Ovunque guardi l'occhio dei visitatore, alle pareti laterali

41
e alia cupola (al cui culmine la piccola apertura sembra piú una chiave
terminale che un'interruzione), dovunque scorge superfici varianti in
profondità, che non si conchiudono mai nella forma, ma concorrono
continuamente in se stesse. Cosí sorge nello spettatore il concetto dello
spazio: ma, dei resto, nel Pantheon tutto e calcolato in modo da risve-
gliare contemporaneamente anche la coscienza dei limiti materiali; di
porre, ai posto dei puro concetto della possibilità, la rappresentazione
sensibile della tangibile unità della forma; e al posto della profondità,
il piano (altezza e larghezza). Chi entra, infatti, osserva al primo
sguardo, sul pavimento, la forma a croce dei muri perimetrali, e ne
deduce la uguaglianza delle misure in profondità e larghezza; a cio si
accompagna la immediata percezione che anche l'altezza della larghezza
(e cosí della profondità) sono eguali; in tal modo viene risvegliata nello
spettatore, immediatamente, la sensazione tangibile dell'unità, per
quanto riguarda le masse delle superfici delimitanti. Piú che ogni altro
interno al mondo, quello dei Pantheon ha conservato la conclusione e la
chiarezza prettamente antica, che non ha bisogno di riflessione; qualità
che prese in senso assoluto non possono che portare alia forma materiale
solida, senza interruzioni. La prima epoca imperiale romana, dunque,
ha risolto il problema dello spazio interno trattandolo come materia
cubica, e lo ha fi.ssato con misure assolutamente uguali e perciõ chiare.
Con cio veniva ad essere realizzato quello che finora si era ritenuto
irrealizzabile, cioe l'individualizzazione dello spazio.
Nella zona inferiore dei cilindro murale all'interno dei Pantheon e
allineata una fila di nicchie • dissimulate nella metà dei vano d'ingresso
con una coppia di colonne, in modo da apparire come spa.zi laterali
distinti: le scure ombre che si raccolgono nelle loro cavità ottengono,
insieme alle chiare super.fiei divisorie della parete rotonda ad esse inter-
calate, un effetto di contrasto coloristico, che va guardato otticamente,
da lontano. Entrambi gli elementi, come si dimostrerà, saranno di gran-

• La predilezione dcll'architettura romana per la nicchia si chiarisce col fatto che essa, non
meno dei cilindro chiuso, esprime la comprensione dello spazio in una grandezza cilindricamente
misurabik, e perciô viene a significare una individualizzazione dello spazio.

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dissima importanza per l'epoca successiva: troveremo infatti che tanto
la composizione delle masse nello spazio centrale (con i non meno cen-
trali, seppur dimezzati, spazi laterali), quanto la tendenza all'anima-
zione ritmico-coloristica delle superfici, furono particolarità caratteri-
stiche dell'arte tardoromana; entrambc, esterionnente, derivano dalla
tendenza típica nella terza fase dell'arte antica, di interrompere le super-
fiei tangibili con ombre profonde.
Ma lo scopo piú intimo di quest'arte (scopo che venne perseguito con
l'annettervi degli spazi laterali di accompagno) stava in una piú efficace
conclusione dello spazio interno centrale ed individualizzato verso la
profondità, e nel suo evidente isolamento di fronte al piano di fondo.
Tale relazione di fano, dalla cui esatta valutazione dipende la compren-
sione dell'architettura tardoromana nel suo punto piú essenziale, diverrà
ancor piú chiara nel corso della nostra ricerca.
Nuovi elementi nell'architettura monumentale (naturalmente non
nell'architettura utilitaria) dell'epoca imperiale romana furono altresí
l'arco e la volta; nell'arte egizia e classica vi corrispondevano l'architrave
diritto e il soffitto piano. Nell'architrave diritto, poggiante su due soste-
gni, la relazione forza-peso e ricondotta alia sua espressione piú univer-
salmente comprensibile e semplice, di un effetto chiaro e immediato.
lnvece il gioco delle forze nell'arco e nascosto, e si puo comprendere
(proprio come l'arrotondamento in profondità) soltanto per mezzo della
riflessione spirituale e dell'esperienza. Analoghe sono le relazioni fra il
soffitto piano e la volta. L'arco portava già nella sua ghiera la possibilità
di un riconoscimento futuro del muro; pero nei teatri della prima epoca
imperiale si credette di dover risolvere le superfici murali ancora me-
diante dei porticati in vista. Soltanto nell'età dioclezianea (per quanto
oggi ne sappiamo) l'arco venne posto immediatamente sopra la colonna,
e, sopra ad esso, il muro; che era cosí di nuovo una superficie uguale
ai muro egizio, ma non piú tangibile ed ininterrotta, bensí superficie
ottica, ombreggiata profondamente dalle finestre.
La successiva tappa dell'evoluzione ci porta già nel período tardo-
romano stesso, seppur l'edificio che ci apprestiamo ad esa minare, il cosid-

43
6
detto tempio di Minerva Medica in Roma [fig. 3], non consente una
datazione sicura. t prima di tutto un edificio di masse, ché }e absidi,
le quali nel Pantheon erano disposte solo all'interno, sono qui evidenti
anche all'esterno, e incidono cosí nel contorno dell'insieme, per quanto
siano dominate completamente dai nucleo centrale.
Abbiamo dunque ache fare non piú con un solo elemento costruttivo,
bensí con molti di essi : uno, piú grande, dominatore, e parecchi minori;
dove quelli minori appaiono in parte ugualmente nascosti da quello
maggiore. Se si ripensa che nella creazione di elementi chiaramente deli-
mitati, centralizzati, era consistito il fondamentale scopo dell'architettura
antica (e dell'arte figurativa in generale) si desume che, colla comparsa
della composizione di masse, la volontà artística in architettura abbia
subíto una deviazione non meno importante di quella apportata dal-
l'emancipazione dello spazio. E come per quest'ultima, anche per la
composizione di masse nell'architettura possiamo trovare precedenti sin-
goli fin nell'epoca imperiale piú antica.
La comparsa della composizione di masse si inserisce altrettanto armo-
nicamente quanto quella della formazione dello spazio interno nel corso
dell'evoluzione dell'arte antica: non appena ci si chieda quale intenzione
possa averla condizionata, tale intenzione risulta chiara dall'effetto che
la massa costruttiva centrale fa sullo spettatore, da qualunque parte egli
si avvicini all'edificio. Dal grande corpo massiccio si liberano sempre
una (o parecchie) nicchie e vanno diritte incontro allo spettatore. Se
dunque il contorno dell'insieme si raffigura pur sempre come superficie,
grazie all'assoluta simmetria della sistemazione centrale, le nicchie, che
sporgono di sotto con forte aggetto, devono portare chi guarda ad una
piú chiara coscienza che l'edificio si conclude anche riguardo alla pro-
fondità in un elemento isolato e, cosí, contemporaneamente si isola <li
fronte ai piano di fondo. Le piccole costruzioni centrali (nicchie) for-
mano quasi una base ornata dalla quale con tanto maggior efficacia balza
fuori l'edificio centrale predominante; legge questa che incontreremo
spesso, e specialmente nella decorazione dell'arte tardoromana. Cosí si
chiarisce per noi anche piú il significato degli spazi laterali all'interno,

44
come già (pp. 40 sg.) abbiamo visto a proposito del Pantheon. Ché lo
spazio nel Pantheon era concepito come materia cubica, e per cio espresso
in forma rigidamente regolare, riconoscibile a prima vista come massa
individuale; e sembra appunto piú efficacemente arrotondata, se gli si
pone una fila di spazi laterali come satelliti. La relazione tra questo edi-
ficio e l'architettura antica anteriore in quali termini si puo chiarire?
Ancor sempre si tratta, in definitiva, di rappresentare esclusivamente
un'entità materiale. La quale pero non viene piú posta semplicemente
sul piano e ad esso legata, ma se ne deve liberare risaltando nella sua
piena tridimensionalità. Di conseguenza vengono inseriti fra il piano di
fondo e l'individuo una fila di elementi minori, che fanno risaltare, con
maggiore efficacia, !'elemento maggiore. Questa relazione risulta nel
modo piú chiara in esempi di decorazione tardoromana: si confronti
alla figura 101, la grande croce sul fondo lavorato a meandri: vi vediamo
da un lato l'effetto di continuità in superficie proprio dell'arte tardoro-
mana, e dall'altro, in maniera prettamente típica, il reciproco isolamento
delle singole forme.
Ma non meno importante innovazione nel tempio di Minerva Medica
e la comparsa di fines t ré nel tamburo (e pétfino nella volta della
cupola). Già nel período orientale arcaico erano state indispensabili, in
edifici a scopo utilitario, delle luci laterali; l'edificio monumentale le ha
decisamente rifiutate, ché dal punto di vista di un'arte che parte dal
concetto di foggiare la materia in chiuse unità, la finestra - sia che si
guardi da vicino, che da un punto di vista normale - e un buco che
disturba nella parete, una spiacevole interruzione della materia tangibile
mediante un niente inconsistente, puramente coloristico, qual'e l'ombra.
Le finestre sono percio una rara eccezione negli edifici rnonumentali
classici, e dove si presentano per cause di forza maggiore, sono risolte
subito, per mezzo di un'accurata incorniciatura, in indipendenti elernenti
architettonici. La premessa perché la finestra venisse accettata nell'arte
monumentale doveva essere percio la v i s i o n e d a l o n ta no , che
fa apparire le cavità ombreggiate ritmicamente alternate con le chiare
pareti in superficie (simmetria dell'allineamento) come una unità ottica

45
interdipcndente. Questa premessa venne attuata nell'arte tardoromana; e
in quanto in essa si ammette comunemente la finestra anche nelle costru-
zioni monumentali, come elemento legittimo e necessario, si viene cosí
a compiere un ristabilimento imparziale, ancora fino ai nostri giorni
non dei tutto abbandonato, di relazione immediata tra interno ed
esterno - relazioni queste che mancavano nella casa pompeiana, e
mancano spesso ancor oggi in Oriente; in secondo luogo veniva creato
un sistema decorativo nuovo, di visione da lontano, che riposa su di una
base puramente ottica di scambio regolare di interruzioni oscure e di
chiare superfici alternate. Anche per l'interno una imparziale rinuncia
alla assenza di finestre ha significato per conseguenza un interrompimento
dell'effetto esercitato sullo spettatore dallo spazio chiuso: interrompi-
mento che non e possibile ovviare in nessuna maniera. A chi entrasse
nel tempio di Minerva Medica non era dato gustare quella squisita, ripo-
sante sensazione di unità che ancor oggi Auisce dall'interno dei Pan-
theon, benché anche nel primo le misure di tutte e tre le dimensioni
fossero fra di loro press'a poco uguali; il mutamento che qui si veniva ad
attuare non dipendeva tanto dal numero molto maggiore delle nicchie,
susseguentisi in fila ininterrotta, ma piuttosto dalla apertura delle fine-
stre, che da un lato ottenevano l'effetto di animare coloristicamente le
superfici parietali, e contemporaneamente attiravano lo sguardo dall'in-
volucro materiale, fuori, nello spazio infinito.
Proprio da questo esempio risulta in modo convincente che la ten-
denza degli antichi verso l'assoluta conclusione dell'elemento indivi-
duale non poteva resistere oltre, e che la rottura avvenne appunto perché
essi scntivano intimamente la necessità di spazio. Con le finestre che
aprono lo sguardo dall'angusta strettoia, fuori, nello spazio, si annuncia
per la prima volta una nuova arte futura, che vuole rappresentare la
singola forma non piú nella sua esistenza isolata, e neppure in una
composizione di masse con diverse forme simili, ma in unione con
l 'incommensurabile infinito.
La chiesa cemeteriale di Santa Costanza in Roma [ fig. 4], costruita
verso la metà dei secolo 1v, mostra uno sviluppo ulteriore dei sistema

46
adoperato nel tempio di Minerva Medica, in quanto la corona delle
nicchie appare assorbita in un corridoio ininterrotto, diviso dallo spazio
mediano mediante un cerchio di doppie colonne. Abbiamo dunque due
rotonde concentriche, delle quali quella esterna e dominata e sopraffatta
e
da quella interna. Innovazione stilisticamente importante in questo caso
l'assoggettamento di tutte le articolazioni (nicchie) in favorc di un con-
torno semplice e massiccio. Ma lo sviluppo vero e proprio dell'edificio
centrale romano per scopi di culto cristiano non si e avverato nella città
di Roma, bensí in terra d'Oriente. Per comprenderlo esattamentc biso-
gna conoscere la formazione, avvenuta nel frattempo, della b a s i 1 i c a
cristiana.
L'unità chiara e conchiusa dell'entità materialc, tanto ricercata dai- ·
!'arte antica, trova com'e evidente - per quanto riguarda l'architet-
tura - il piú completo avveramento nell'edificio a pianta centrale; ma
la costruzione che veramente predomino fu invece quella a pianta lon-
gitudinale, e per ragioni facilmente comprensibili. La basilica e creata
per il movimento degli uomini nel suo interno; e il movimento richiede
l'abbandono del piano, la considerazione dello spazio in profondità, il
risalto dell'individualità in se stessa, in relazione con lo spazio. L'arte
antica si affaticà di continuo a superare o velare questa latente con-
traddizione; ma proprio in questo affaticarsi era insito invece il pro-
blema, e con esso }'urgente stimolo ad un incessante sviluppo. Cosí
vediamo compiersi anche nell'arte classica la soluzione della tangibile
parete esterna in portici, e questo non in un edificio a pianta centrale,
bensí in uno a pianta basilicale (il tem pio).
11 problema artistico dell'epoca imperiale consisteva in questo: nello
attuare cioe la formazione dello spazio entro la basílica alla stessa ma-
niera come era avvenuto negli cdifici a pianta centrale (il Pantheon):
cioe mediante l'individualizzazione dello spazio attraverso la forma-
zione di masse cubiche spaziali limitate uniformemente. Quando tale
problema sia stato affrontato con piena coscienza, non si puo oggi sta-
bilire. Nel secolo I dell'epoca imperiale romana la casa pompeiana ci
insegna come, almcno nclla costruzione per abitazionc profana, si facesse

47
resistenza ancor sempre e con forza contro ogni formazione di spazio
interno: strettamente parlando, non vi esiste alcuno spazio assoluta-
mente chiuso, ché quasi tutte le stanze si aprono verso l'atrio (un cor-
tile aperto), che costituisce il vero e proprio mezzo di movimento. Con-
temporaneamente pero esistevano già le basiliche. A vremmo in esse già
nel secolo I dell'epoca imperiale la testimonianza di un edifi.cio a corpo
longitudinale, cioe un'alta sala, connessa concentricamente ad un'altra
maggiore, ma piú bassa. Ma la genesi della basilica-mercato si rifà evi-
dentemente ai cortile aperto, che e stato coperto per ragioni <li necessità
e di utilità. Non c'e alcun dubbio che già in questo apprestamento di
un edificio utilitario debba riconoscersi un sintomo e un precedente della
futura evoluzione: ma e importante segnalare, d'altra parte, che gli
elementi della sala chiusa sono venuti alia luce in un edificio utilitario,
non in uno monumentale. Non siamo del resto sufficientemente infor-
mati sul modo con cui originariamente si attuarono elevazione e coper-
tura delle basiliche, poiché i resti delle basiliche del secolo I dell'Impero
ci sono conservati in uno stato troppo frammentario, e perché le raffi-
gurazioni di esse in affreschi murali lasciano assai campo al dubbio.
La cosa piú interessante da sapere sarebbe se già allora esistesse una
grossa parete superiore: penso di poterlo negare a priori e di poter
supporre piuttosto un trattamento della medesima a base di metope.
Ogni dubbio invece e escluso a proposito della copertura delle basiliche
mediante un soffitto ligneo a capriate, aperto (o anche fasciato), mentre
ogni interno chiuso (e cosí, evidentemente, ogni edificio a pianta cen-
trale) richiedeva assolutamente la copertura a volta. Finché il soffitto
ligneo a capriate rimase in uso come copertura della navata mediana
della basílica, non si puo parlare, per essa, di vero e proprio interno
limitato. Soltanto nell'arte romanica la basílica e stata coperta con volte;
va notato che e essa, pero, che ha anche portato nella nave di mezzo
la prospettiva (cioe una delimitata porzione di spazio infinito) e, cosí, ha
creato con la basílica un edificio di uno stile determinato. 11 romano del-
1'età imperiale, invece, ha scorto nella nave mediana solo le superfici pa-

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rietali che la chiudevano, e non lo spazio da queste conchiuso - appunto
perché mancava la copertura monumentale in alto (soffitto a volta).
Molto importante per il mutamento di stile era, in ogni caso, il fatto
che nella basilica le luci laterali superiori (finestre) dovettero esser rese
visíbili sia dall'interno che dall'esterno. Queste c'erano veramente anche
nelle sale egizie arcaiche, ma cosí abilmente nascoste, che né dall'esterno
né dall'interno si potevano percepire come interruzioni della parete.
E quanto il senso strutturale degli antichi abbia fatto resistenza, ancora
nella prima età imperiale, contro il perforamento della parete con fine-
stre, ce lo dimostra la casa pompeiana che ne e priva e si isola del tutto
dall'esterno; e, tra gli edifici monumentali, il Pantheon di età adrianea.
Le prime sale chiuse ci sono note dal terzo secolo dell'età imperiale
in poi. Esse dal di fuori appaiono ad arte non liberamente risolte. La
sãla oblunga delle Terme di Caracalla presenta il nucleo di una siste-
mazione di molte stanze chiuse da un muro quadrato complessivo; e
altrettanto sembra debba esser stato fatto nelle Terme di Diocleziano. ln
cio, ad ogni modo, era contenuta una intenzione, che non poteva esser
indirizzata ad altro se non ad una repressione sempre maggiore del-
l'articolazione esterna; nell'interno risulta anche piú chiaramente lo
scopo che si e perseguito per quanto ri guarda la formazione dello spazio:
e per comprenderla e opportuno prendere subito in considerazione }'in-
terno delle sale oblunghe dell'età imperiale di mezzo.
L'osservatore scorge una navata mediana che e scomposta in tre com-
partimenti centrali quadrati. Tali quadrati sono fortemente marcati per
mezzo di potenti pilastri con gigantesche colonne davanti e colla volta
a crociera, poggiante su queste ultime immediatamente (senza cioe un
muro fra le colonne e la volta) e la cui chiave si trova esattamente nel
mezzo di ciascun quadrato. Lo spettatore, entrando, scorge, osservando
la superficie de! pavimento, le uguali distanze <li altezza e larghezza dei
primo quadrato a lui piú vicino, e poiché man mano che avanza in
direzione della profondità vede ripetuto per tre volte il medesimo qua-
drato, puo cosí percepire la profondità generale dell'edificio e sentirne

49
la sicurezza e la proporzione (simmetria). La soluzione della distensione
e dunque raggiunta suddividendo il rettangolo in tre spazi centrali; e
poiché questi sono completamente identici fra loro, vengono a essere
collegati dalla simmetria dell'allineamento, cosí come lo erano i portici
dell'edificio a colonne greco. Ad ogni modo l'unità, in questo caso, non
e cosí immediatamente espressa come nel Pantheon, ché ora per com-
prenderia c'e bisogno, per lo meno, di una riflessione di addizione; ma
cio che piú importa e il fatto che e per mezzo della pura simmetria che
lo spettatore viene portato alia raffigurazione dell'unità individuale; e
al concetto di simmetria e unito indissolubilmente quello di superficie,
ed a questo a sua volta si accompagna quello della realtà materiale. Se
in cio l'epoca tardoromana esprime la sua connessione con la prima
antichità, d'altra parte essa palesa una caratteristica innovazione nello
svincolarsi dell'entità individuale dalla superficie, innovazione che risulta
chiaramente dal fatto che, tanto nella Basílica di Massenzio quanto
nelle grandi sale delle Terme di Caracalla e delle Terme di Diocleziano,
lo spazio principale vero e proprio e accompagnato da spazi laterali, nei
quali si manifesta la funzione delle navate laterali di fronte a quella
mediana, analoga a quella della superficie a piccoli ornati di fronte
all' « opera » <li grande dimensione. Con cio si otteneva che in tutti gli
spazi descritti l'occhio non trovava in alcun luogo delle pareti piane di
chiusura; ma anzi c'era nel fondo la parete curva dell'abside, verso l'alto
le non meno curve volte a crociera, e infine ai lati ci si urtava contro i
grandi spazi adiacenti che accompagnano ogni quadrato della navata
centrale in tutta la sua ampiezza e su entrambi i lati; perfino le lunette
sotto la crociera erano, per la maggior parte, interrotte da finestre, la
cui forma seguiva quella della lunetta stessa.
L'edificio rettangolare della basílica cristiana [ fig. 5] si distingue da
queste sale anzitutto per il fatto che la nave di mezzo non viene definita
come spazio interno chiuso da un soffitto curvo, bensí, ancora sempre
come la basilica-mercato, e limitata in alto da un soffitto ligneo; con
cio la navata mediana della basílica cristiana e ancora pur sempre un
cortile, coperto in via provvisoria. L'occhio dello spettatore tardoromano

50
vi scorgerà sí pareti piane interrotte da colonne, ed un'abside sem1c1r-
colare; ma non vi troverà nessuno spazio delimitato, da nessuna parte
(cioe neppure in alto). Ne consegue che non e piú necessario suddividere
la nave di mezzo in diversi spazi centrali (cubici), come nelle sale pagane.
La nave di mezzo della basílica cristiana e accompagnata da colonne
poste cosí prossime l'una all'altra, da non permettere piú una preordi-
nata suddivisione delle superfici dei pavimento; piú lontano c'e un mas-
siccio muro superiore perforato da finestre, nel quale non viene affatto
indicata, come invece accadeva prima, alcuna suddivisione verticale;
infine c'e il soffitto piano, che fa anch'esso sentire la mancanza del-
l'articolazione delle sale termali, coperte da una volta a crociera. 11
visitatore moderno di una basilica romana, di regola, si sente dunque
trasportato in uno spazio calcolato secondo un piano di attrazione pro-
spettica: che pero e sempre considerato come porzione delimitata dello
spazio infinito; ed e chiaro che nel caso che i protocristiani fossero stati
realmente guidati da una intenzione prospettica, il sorgere della loro
basilica non avrebbe potuto significare se non una improvvisa rottura
con una produzione artística millenaria, e un balzo ímmediato verso
una tendenza artística assai prossima a quella odierna. Ma un esame
piú attento cí insegna, invece, che non esiste nell'uníforme processo
dell'evoluzione un cosí innaturale strappo, e che i Romani protocristianí
non intendevano affatto con la nave di mezzo della basílica creare uno
spazio interno chiuso e, quindi, neppure una porzione di spazio pro-
spettico, quale viene per lo piú interpretato dallo spettatore moderno.
Gíà la prima constatazíone che s'impone immediatamente ai visi-
tatore di una basílica cristiana, ci conduce ad osservare delle tracce bene
individuate: l'altezza e la larghezza della navata mediana sono attuate
con proporzioni gradevoli, e cosí suscitano fin dall'inizio nello spetta-
tore una determinata impressione ai simmetria e di superficie; basta
pensare al fatto contrario, alla rinunzia cioe di questa relatività, e l'uni-
later.ale accrescimento in altezza verificatosi nel Medioevo germanico,
perché risaltino chiaramente le strette dipendenze della basílica cristíana

51
con le esigcnzc fonclamentali della volontà artística generale propna
dei popoli antichi.
11 trattamento delle singole membrature, che si crano, come abbiam
veduto, spogliate degli ultimi resti <li un collegamento tattile, non
poteva essere se non coloristico; e si esprime in basso nel rapido alter-
narsi delle fitte colonne con i loro intercolumni; e nel muro superiore
con l 'alternarsi delle finestre. La stessa tendenza all 'isolamento si
mostra anche nella relazione fra le singole parti, per esempio nella rela-
zione fra le membrature orizzontali. Prescindendo dalla formazione di
tutti i dettagli in superficie, calcolata per esser vista con un rapido
sguardo da lontano, troviamo sopra alle colonne un muro, sopra il
muro un soffitto piano, senza che tra queste parti singole ci sia alcun
elemento che ne sottolinei il congiungimento. L'inserzione dei muro
fra le colonne e il soffitto significa, di per se sola, uno strappo alla
dipendenza necessaria fra sostegno e copertura; e cio attuato in signi-
ficativo contrasto con l 'edificio a colonne greco. Sembra proprio che ci
si sia sforzati espressamente di togliere ogni indicazione di dipendenza
causale fra le varie parti.
Se all'osservatore moderno sfugge per lo piú quello che di insoddi-
sfacente c'e in essa per l'odierno nostro gusto, e che si manifesta preci-
samente nel contrasto fra le snelle colonne e la pesante muratura sopra-
stante, lo si deve all'effetto prospettico dai quale si viene afferrati, e che
non poteva affatto essere originariamente condizionato soltanto dalle
costruzioni poste nel mezzo della navata, come cancelli e amboni
(rimosse assai piú tardi, appena nell'età barocca). ln questo senso la
e
basilica protocristiana rappresenta un unicum che non si ripetuto da
quel tempo nella storia dell'arte. L'arte medioevale dei Nord ha in
seguito eliminato il muro e, nuovamente, formato delle unità spaziali
cubiche, che vengono trasportate coscientemente dalla superficie nello
spazio infinito. L'arte barocca ha bensí ristabilito il muro chiuso, ma lo
ha articolato in nicchie, e vi ha disposto sopra soltanto un fregio in&am-
messo, intagliando la finestra nella volta piuttosto che lasciare una super-
ficie parietale <li grande estensione in funzione di muratura superiore.

52
La deliberata soppressione di ogni congiunzione tattile tra le parti
della costruzione nella basilica protocristiana ha avuto per conseguenza
che quell'impressione di necessità e di intima organica dipendenza di
tutte le parti, richiesta alla composizione dall'arte classica (e anche da
quclla moderna), e andata si puo dire perduta, per la basilica protocri-
stiana come per l'edificio a pianta centrale (seppur in minor grado). E lo
stesso fenomeno che nelle figure della scultura e della pittura coeve ci
colpisce come bruttezza e rozzezza; le cause artistiche propulsive sono
state le medesime per le une e per le altre, come potremo riconoscere
esaminando lo sviluppo della scultura tardoromana . Merita osservare
quindi fin da ora tale percorso parallelo, poiché nessuno puo davvero
ascrivere la formazione dei tipo architettonico della basílica all'influsso
dei nordici Barbari; e cosí si viene ad affermare, almeno nel campo
dell'architettura, che il fenomeno di carattere decisamente anticlassico,
non solo per il modo come sono stati trattati i singoli dettagli, ma
anche per la composizione generale, che dovrebbe essere totalmente
addebitato allo « imbarbarimento », secondo la concez1one finora cor-
rente, e invece di origine mediterranea.
L' esterno della basílica cristiana [ fig. 6] pone in ri salto tutti i con-
trassegni di un edificio di massa. Una costruzione laterale sporge da
ognuno dei quattro lati, sotto la parete piana dei corpo principale (la
navata mediana). Esse sono: l'atrio addossato alia facciata (ed ecco la
ragione per cui non si e mai arrivati al concetto di una facciata vera e
propria per la basilica protocristiana), le navate laterali che poggiano ai
lati (eventualmente anche il braceio trasversale di un transetto), l'absidc
(dalla parete terminale). Viene cosí ad essere efficacemente sottolineato
lo sviluppo dei complesso architettonico dai piano di fondo; quantun-
que cio che e visibile dei corpo principale formi una piana superficie
parietale •.

• Che il risalto fondamc:ntale della tridimensionalità cubico-spazialc abbia formato il tema


predominante di tutta l'architettura d'allora, lo si vede in modo preciso negli edifici raffigurati
in ril icvi e dipinti dell'epoca impc:rialc romana e d ei sccoli succc:ssivi, dove essi sono rappresentati
sempre ed intenzionalmcntc, ncl caso che si tratti di edifici quadrangolari, di traverso e possibil-

53
La differenza che caratterizza la basilica di fronte alia costruzione
centrale consiste nell'evitare a bella posta un elemento che predomini
contemporaneamente su tutti i lati. La resistenza a questo era cosí forte,
che la basílica protocristiana ha per.fino abitualmente situato la torre
da una parte, mentre i popoli nordici hanno potenziato subito questo
membro come termine di coronamento verso !'alto, onde raggiungere
una materiale unificazione dell'edificio. Per una costruzione centrale la
parte dominante (consistente nella cupola centrale) era un mezzo di
unione, naturalmente orrnai libero, con la superficie; per il duomo roma-
nico e gotico invece e,
in quanto torre, un mezzo di unione con lo
spazio infinito. La basilica protocristiana ha eliminato sostanzialmente
ambedue tali soluzioni di unificazione, non ha riconosciuto affatto lo
spazio infinito, ma invece si e isolata nel modo piú reciso di fronte al
piano di base.
E anche istruttivo confrontare l'esterno della basílica protocristiana
con quello dei tempio periptero greco, poiché entrambi questi edifici
longitudinali sono dei rettangoli oblunghi, e il paragonarli ci permette
di stabilire con la massima chiarezza in che cosa si differenzi la conce-
zione tardoromana da quella classica. Nel tempio greco la superficie
e
esterna articolata su tutti e quattro i lati da sporgenze (colonne), che
complessivamente pero contengono una superficie e percio sembrano
aggettare da un piano di fondo; nella basílica le superfici esterne sono

mente visti dall'alto. Venivano dunque rappresentati, manifestamente, come entità poste nello
spazio; e, ai contrario, l'esistcnza deito spazio libero intorno ad cssi era altrettaoto efficaccmcntc
negata, in quanto i contorni, resi coo la massima semplicità di massa, allontanano ogni possibile
rclazione con lo spazio esterno. Lo stcsso fine artistico viene perseguito coo il far deviare di
90° le basiliche, come si vede ncl rilievo di una lastra latcrale di sarcofago ncl Latcrano (illu-
strata in Gus.u , Storia di Roma, 1, p. ~6, fig. 110) 2 , nd quale un cdificio chiesastico, ideato
presumibilmente ad una navata, comincia di pronlo con la parte absidale, poi si volta ad angolo
retto verso la facciata , mentre il soffitto segue con una curvatura prospettica dell'allineamcnto dei
tegoli, finché all'ultimo la parte dcll ' ingresso si presenta volta <li faccia verso lo spcttatore. li
fatto che non si tratti, come si e supposto finora, di insipienza barbarica, bensí di una
volontà positiva e precisa, non deve sorprenderci, poiché vediamo la stessa rotazionc usata in
rappresentazioni figurali (come ad csempio ncl cosiddetto Costanzio dei Dittico Barbmni). Con
cio si esprimc contcmporancamente una sorta di oggettivazione che ci ricorda !'arte protocgizia
(pp. 84 sg. e 88 sg.) e <li cui possiamo ritrovare lc tracce per lo meno fin dai rilievo dei
Putcale Grimani, nel Hofmuseum di Vienna (capanna, nel rilievo coo le pecore).

54
pareti piane, che non mostrano alcuna sporgenza ta t ti I e e invece
sono interrotte, con risultato o t ti e o , da aperture di finestre che pro-
ducono effetti d'ombra; invece ad ogni lato della massa dell'edificio e
addossata una costruzione adiacente (navate laterali, atrio, abside) con
la conseguenza che, ai posto della proiezionc sul piano <li base, ne risulta
un procedere in profondità.
Ambedue i tipi d'edificio cristiano tardoromano (basilica e costru-
zione centrale) obbedivano in cio a una medesima tendenza predomi-
nante; ma solo l'edificio a pianta longitudinale ha risolto il problema in
modo radicale. Mentre l'edificio a pianta centrale manteneva pur sempre
secondo l'antica tradizione una certa relazione con il piano di fondo,
anche quando in esso era posta nel massimo risalto l'individualità e si
era ormai arrivati alla composizione di masse, l'edificio a pianta longi-
tudinale respinse coscientemente e nettamente tale relazione, spianando
cosí la via a quello che fu poi realizzato dall'arte medioevale e moderna:
porre !'elemento nel libero spazio. Naturalmente tale conquista - giu-
dicata da un punto di vista moderno - venne pagata a caro prezzo,
poiché l'isolamento delle entità individuali e delle loro singole parti
entro la superficie ha imposto all'arte protocristiana, come abbiamo detto
sopra, un marchio <li naturalistica rozzezza e di ripugnanza apparente,
quale non ci e dato incontrare altra volta in tutta la storia dell'arte. Ma
l'effetto prospettico degli interni basilicali ha potuto insegnarci già come,
appunto con questo sistema, ci si poteva riallacciare a ogni possibilità di
svolgimento futuro; mentre abbiam veduto che l'edificio coevo a pianta
centrale, non avendo rinunciato alia sua relazione con la concezione che
abbiamo osservato anche per gli antichi rilievi, si era preclusa ogni pos-
sibilità di evoluzione fruttuosa. Se dunque per l'osservatore moderno e
stata meno rappresentativa la parte della volontà artistica tardoromana
rappresentata dalla basilica in confronto a quella espressa nell'edificio a
pianta centrale, d'altra parte proprio nella basílica era racchiusa ogni
possibilità di un futuro sviluppo.
Quando si vuole caratterizzare il rapporto fra questi due tipi di
costruzione, relativamente alla loro propagazione topografica nell'lmpero

55
romano, si usa dire che quello a p.ianta centrale si sarebbe diffuso dal-
l'Oriente, quello basilicale dall'Occidente. Un'affermazione di questo
genere va pero corretta nel senso che in realtà ambedue i sistemi costrut-
tivi sono propriamente originari dall'Oriente greco-asiatico (e ancor oggi
in Oriente dovrebbero esistere piú basiliche protocristiane che nel terri•
torio romano-occidentale) •. La basílica non e stata affatto dunque uno
schema architettonico specificatamente romano, ed e valsa dappertutto
(almeno nei primi secoli dell'architettura ecclesiastica cristiana), in
Oriente come in Occidente, come il tipo piú adatto di un tempio cri-
stiano. Percio il fare delle differenziazioni fra Oriente e Occidente e, in
fondo, errato 3 • I Romani occidentali disdegnano per i loro templi la
forma centrale, e in cio noi dobbiamo soltanto scorgere l'affermazione
che l'assoluto isolamento delle forme artistiche - e il conseguente appello
all'esperienza soggettiva - era per loro necessità fondamentale e impro-
rogabile, al posto della percezione sensoria. Invece i Grcci-romei non si
decisero a rinunciare in modo cosí completo all'unione della singola
forma con il piano di fondo, in quanto ideale rappresentante della mate-
rialità tattile, e, con cio, all'isolamento con i mezzi di una percezione
sensona.
Quest'ultima concezione, che si presenta come l'immediata prosecu-
zione dell'arte precostantiniana ndl'Impero romano, non ha avuto il
predomínio nell'architettura ecclesiastica greca, almeno nei secoli 1v e v;
si puo dire soltanto che non era mai spenta, ché se a~che i monumenti
a p.ianta centrale, in quei secoli, erano assai minori di numero che le
basiliche, non mancavano pero mai. Inoltre nelle basiliche orientali suben-
trano certi caratteri che ne tradiscono irrefragabilmente }'intento fonda-
mentalmente centralizzante: per esempio l'abbandono dei transetto, in
quanto elemento che annulla all'esterno la simmetria delle vedute late-

• Se ne puo ottenere conferma anche coll 'osservazionc delle miniature. Nella Wiener Genesis ,
opera romano-orientalc dei secolo v, sono raffigurati come interni, alterna tamente, costruzioni
centrali (HARTEL-W1ci-HOFP, tav. xxx, Stanza di Putifarre entro portico doppio a forma di mezza
crocc [fig. 87] e quadrangolari allungate (ibid., tav. v1, con Rifugio di Noe). f: ca rattcristico il fatto
che il Virgílio vaticano, anteriore di circa un seco,lo, probabilmcnte frutto occidentale dell'arte grcca,
prcfc:risca gli intcrni oblunghi (per c:S<:mpio ncllc: sccnc di Didone, dr. figura 90).

56
rali e aumenta all'interno la confusione, ma che in generale crea per il
visitatore moderno della basilica un 'atmosfera misteriosa intorno all'al-
tare (cosa che sembra esser stata ben accetta ai Romani) ; inoltre la dispo-
sizione delle cantorie, in modo da evitare almeno in parte la muratura
superiore della nave di mezzo, cosí urtante per la sensibilità degli antichi
(cfr. specie la chiesa di Demetrio a Salonicco, che presenta perfino l'av-
vicendamento dei sostegni e la prosecuzione dell'interruzione parie-
tale fin sotto al soffitto, cosí da anticipare per buona parte lo sviluppo
seguíto poi dai Nordici-romanici).
Si puo riassumere cosí la relazione fra architettura romeica e romana
nell'epoca tardoromana. La chiesa cristiana comunemente usata in tutto
l'Impero e anzitutto la basilica, anche se c'e voluto dei tempo onde
trovare per essa un tipo che fosse valido generalmente per tutto il ter-
ritorio. I Romei inclinano fin dall'inizio ad attuare nei limiti dei possi-
bile, sia per l'interno che per !'esterno della chiesa, !'impressione di
forma materiale, cubicamente misurabile, per quanto lo permettono la
formazione spaziale e la composizione di masse •. I Romani invece
rimangono fedeli unicamente alia basilica. Da cio deriva, in prosieguo
di tempo, una piú acuta differenziazione: ai tempo di Giustiniano que-
sta doveva aver assunto delle forme assai visibili. 11 compito prefissosi
dai Romani nell'epoca precarolingia era piú passivo, sebbene lo sviluppo
dei futuri problemi stesse nelle loro mani; ché l'allontanarsi dagli sti-
moli della percezione sensoria condizionava uno stagnare della produ-
zione artística, e ne poteva derivare una nuova evoluzione solo quando
si fosse cominciato a osservare e apprezzare nuovamente la percezione

• Che i Bizantini tendesscro, ai tempo di Giustiniano, alia misura uguale sia in profondità
che in larghezza nell'interno deite loro chiese (e nella composizionc artística in genere) non
soltanto si desumc dall'csame critico-stilistico dei rclativi monumcnti, ma anchc ci viene dctto
con espressivc parole da scrittori bizantini dell'epoca giustinianea, per csempio da Procopio e
Agazia (cfr. F. X. KllAt:S, Storia ddl'arte crfrtiana , I, p. 555). La tcndenza verso !'alto, connessa
necessariamente con la massa costruttiva (vedi il San Vitale di Ravcnna) era osservata già ai
tempo di Costantino (cfr. Bu.CJULUDT, Vira di Costantino, pp. 264 sg., con alcune osservaz.ioni
in proposito di Euscbio) 4 • Se ne dcduce un importante parallelo non solo per il collocamento degli
archi in relazione con Je cantorie e simili ma anche per ccrte tipiche immagini espresse piú tardi
dall'artc figurale bizantina, delle quali abbiamo uno dei primi esempi nci mosaici di San Vitale.

57
sensoria. Percio erano i Greci indubbiamente ad avere in principio una
piú decisa volontà artistica, ed e questa la ragione per cui, per molti
secoli essi ne mantennero il primato.
E necessario ancora definire brevemente il carattere dell'edificio greco
a pianta centrale [ fig. 7] nell'epoca tardoromana. I suoi inizi sono
oscuri; ma appena e dato vederci piú chiaro, ci troviamo di fronte al fatto
assai significativo che i piú antichi monumenti a noi noti mostrano
anche lí la manifesta tendenza a combinarsi con quelli a pianta longi-
tudinale. L'altare non vi si trova mai nel mezzo, bensí sempre ai ter-
mine opposto all'ingresso; cio che indicava una direzione, forzatamente
in conflitto con la calma espressa in genere da un edificio a pianta cen-
trale. Nella necessità di conciliare questa latente contraddizione era
insito un problema, e finché si e cercato di risolverlo, l'architettura chie-
sastica greca era per definizione fruttuosa e capace di ulteriore sviluppo.
I suoi prodotti originali che perseguono la soluzione dei problema nel-
1'età imperiale di mezzo (fra Marco Aurelio e Costantino) unicamente
con l'annettervi una disposizione di spazi laterali per metà nascosti, o
avvicinandoli alla sala scomposta in tre quadrati, vengono a mancare
dei tutto nel período tardoromano, e fra essi va considerata anche la
Hagia Sophia, in cui culminano tutte le soluzioni tentate per il problema
che abbiamo esaminato.
ln tempo successivo l'architettura greca (e l'arte greca in genere)
ha seguito evidentemente una strada propria per quel che riguarda l'edi-
e
ficio a pianta centrale, e cio accaduto in seguito alla separazione dai
territori occidentali e al commercio prevalente con !'Oriente. Come dap-
pertutto, anche per l'edificio chiesastico si arrivo qui a un tipo fisso:
la croce greca con cupola centrale, che significa, di fronte all'Hagia
Sophia, piuttosto un passo indietro, verso la tendenza formale che gli
antichi dimostrarono per una forma severamente tattile-centralizzatrice.
La cristianità greco-orientale 11011 aveva piú dei problemi da porre all'arte
figurativa, ché si era resa conto, come gli Islamici, della stretta rela-
zione fra religione e arte, e avrebbe riconosciuto la necessità di una
riforma dell 'insegnamento religioso ortodosso, se avesse potuto ritenere

58
che per l'arte fosse necessaria una riforma. Questa evoluzione cade
fuori dai limiti che ci siamo proposti. Se sia lecito parlare di icono-
clastia per l'arte bizantina (cioe per l'arte greca che faceva capo a
Bisanzio) appare assai dubbio.

E caratteristica per l'architettura tardoromana la sua pos1z1one di


fronte ai problema spaziale. Essa riconosce lo spazio come grandezza
materiale e cubica - e in cio si differenzia <lall'architettura orientale-
antica e classica; la riconosce, ma non come grandezza infinita e priva
di forma - e in cio si differenzia dall'architettura moderna.
Per vedere con tutta chiarezza queste relazioni, basta avvicinare nella
nostra mente un edificio romano a pianta centrale, un tempio greco e
una chiesetta di villaggio gotica. Noi oggi troveremmo certamente che
i contorni dell'edificio centrale (Pantheon) sono per noi duri e repul-
sivi; cio potrebbe destar meraviglia, se si considera che anche noi mo-
derni osserviamo l'opera d'arte da un punto di vista lontano, ma si
spiega invece col fatto che l'edificio romano a pianta centrale cerca sola-
mente, in se stesso, la propria conclusione individuale. Noi preten-
diamo invece da esso Ia rappresentazione dell'unione tra individuo e
spazio circostante: e percio ci appaga il campanile acuto, che si erge
ardito nell'aria. Ma anche il tempio greco trova grazia ai nostri occhi,
seppure si estrania in modo deciso di fronte allo spazio, perché cerca
almeno l'unione con l'adiacente (ideale) piano di fondo, e questa unione
di una forma artística con due dimensioni e sufficiente a illuderci e a
non farei scntire la mancanza dell'unione coo la terza dimensione.
L'edificio romano a pianta centrale non ha veramente rinnegato del
tutto la sua relazione col piano, ma certo l'ha, perlomeno, indebolita per
chi la osserva piú da vicino, e }'isolamento che ne deriva ci induce a
rifiutare questo tipo di costruzione. Dei tutto isolato e anche l'altro
tipo di costruzione tardoromana: la basilica. Ci si dovrebbe aspettare
che esso ci sembri ancor piú increscioso che l'edificio romano a pianta
centrale. Ma, vedi caso!, di solito succede il contrario. Nessuno che sia
passato con la ferrovia da Ravenna a Rimini davanti al lato orientale

59
7
di Sant'Apollinare in Classe avrà mancato di sentire in questo gruppo
di edifici un profondo effetto « pittorico ». Se pero ne ricerchiamo la
ragione, rimaniamo sorpresi; quest'impressione deriva dall'essere esso
situato in aperta campagna, cosa che certo non era stata preventivata
originariamente, e, in misura ancor maggiore, dall'esistenza della torre
che non appartiene affatto, in fondo, ai sistema di costruzione. Se invece
ci si accosta a una basilica di questo genere da una stretta strada citta-
dina, l'effetto puramente artístico sarà di regola ancor piú debole di
quello che ci possa essere offerto da un edificio romano a pianta cen-
trale. I costruttori delle basiliche protocristiane le hanno sí liberate ad
ogni costo dalla relazione con il piano, ma per lungo tempo non hanno
poi conseguito in sostituzione ad essa una relazione con lo spazio infi-
nito. Era stata soltanto liberata la via per perseguire quest'ulteriore svi-
luppo, e per tale ragione la basilica contiene elementi che poterono esser
usati dall'arte piú recente per i propri scopi; talvolta in condizioni par-
ticolarmente favorevoli, come nel caso dei gruppo di Ravenna, questi
elementi sono sufficienti a produrre nello spettatore moderno una sorta
di compiacimento artístico ai quale per certo i creatori degli edifici in
questione non avevano minimamente pensato.
•l n qual modo siano affiorati nella d e cor a z i o n e i principi fon-
damentali dell'arte tardoromana potrà esser dimostrato piú ampiamente
nelle trattazioni particolareggiate della scultura e dell 'arte industriale;
ma dobbiamo fin da ora parlare del trattamento decorativo di alcuni
membri architettonici, poiché se ne puo dedurre immediatamente che
]e leggi per la produzione artístico-decorativa sono state le medesime
- e a noi già note - della composizione architettonica, cosí come ci
risultano per entrambi i sistemi, quello a pianta centrale e quello a
pianta longitudinale.
Nelle figure 8 e 9 vediamo un capitello marmoreo di Salona, la cui
datazione possiamo precisare fra la fine del secolo 1v e il principio dei
secolo v1. Vi riconosciamo subito la forma a calice dei capitello corinzio;
e vi ritroviamo anche il motivo ad esso caratteristico della foglia d'acanto,
ma attuato in modo fondamentalmente diverso. Mentre le foglie d'acanto

60
dei capitello corinzio classico sono profondamente radicatc nella super-
ficie <li fondo, e poi d'altra parte se ne svincolano sporgendone con
libero slancio, nel capitello <li Salona esse non crescono affatto dal
piano di fondo, ma vi sono sovrapposte in modo uniforme con taglio
perpendicolare, e non se ne liberano per acquistare un moto indipen-
dente, ma giacciono sopra ai nucleo dei capitello, formandovi un piano
appena soprelevato, cosí che non vengono a interrompere mai la inar-
ticolata linea di contorno dei capitello stesso •. Questo ci convince che
le foglie d'acanto, che prima erano saldamente unite in modo tatti/e
con la superficie di fondo, si isolano ora di fronte alia superficie mede-
sima in modo che si puo definire ottico; ma, per ottenere questo, esse
hanno dovuto rinunciare alia !oro sporgenza libera e accentuata, e sono
ricadute nella proiezione in piano. Analogamente le singole parti ( ner-
vature) della foglia non sono unite fra loro in modo tattile-ottico (a
mezzo di ondulanti aggetti e mezze ombre), ma in maniera puramente
ottica, ottenuta mediante tagli di forte effetto chiaroscurale, distinti l 'uno
dali' altro e isolati. ln questo isolamento delle singole forme di fronte
alia superficie di fondo abbiamo ric-0nosciuto da tempo la legge fonda-
mentale dell'arte tardoromana ••.
Anche l'esame dei lato illustrato nella figura 9 ci permette qualche
altra istruttiva osservazione. Vi vediamo due foglie limitrofe, congiunte
in modo che tra esse una parte del piano debba rimanere necessaria-
mente vuota. Le foglie sono, anzitutto, talmente avvicinate, che appena
una piccola parte della superficie si puõ scorgere tra di esse; in secondo
luogo sono congiunte fra loro mediante puntuti germogli, in maniera

• Questa rcla:i:ionc tra foglia e nucko e il conseguente abbandono dcll'antica concc:i:ionc a


rilievo degli ornati architcttonici a fogliame si incontra, per quanto io sappia, per la prima
volta in modo irrcfragabile ncllc mcnsolc dclla nicchia mediana della cosiddctta Basilica di Mas-
scn7,io ncl Foro di Roma .
.. La medesima tendcnza a cvitarc, coscicntcmcntc, i mcmbri che possono effcttuarc un collc•
gamento si tradisce anche nel sopprimere un 'orlatura fra il cuscinctto e il capitcllo: ccco anche
qui un sintomo chc noi tendiamo oggi a inl'erprctarc come rozzczz.a, mcntrc i tardoromani con
esso pcrseguono un intento cstctico. L'cvitarc )e scanalaturc ncl fusto ddla colonna csprime
inoltre ancorJ una volta la tcndcnza dei 1ardc;,romani per i çomorni massiççj e; mancami di
articol azionc.

61
da suddividere il fondo rimanente in scompartimenti simmetrici e iso-
lati. La configurazione simmetrica, che era sempre stata unita alla rap-
presentazione di ogni individualità indipendente e conchiusa, fa sí che
di conseguenza anche il fondo composto acquista per sua parte le pro-
prietà artistiche dei modello (cioe della singola forma materiale), e percio
viene emancipato a modello esso stesso. Un modello non recede mai,
pero, in secondo piano, ma risalta invece per conto proprio, e il naturale
risultato di tutto cio e una ulteriore e raffinata negazione della superficie
di fondo. Non piú, secondo la tradizione classica, un determinato motivo
regna sul fondo piano, bensí un motivo lotta contro l'altro motivo: ma
ambedue (e qui ritorna di nuovo la concezione generale antica) riman-
gono nel piano.
Non meno importante e un'altra conseguenza derivata dai parziale
accostamento delle due foglie d'acanto. Chi guarda il capitello dai lato
illustrato nella figura 9 non puo vedere altro che le due metà delle
f-0glie; e queste metà, in quanto si toccano da vicino e presentano cosi
una composizione simmetrica di un significato decorativo fine a se
stesso, acquistano una indipendenza quale non hanno certo nella natura,
e, in secondo luogo, producono una nuova composizione ornamentale,
che le singole metà delle foglie non posseggono affatto, se considerate
nella loro vera realtà, vive nella vivente natura. Cosí viene espressa una
caratteristica tendenza alla snaturalizzazione, che non ci puo sorpren-
dere in un'arte che decisamente si avvia all'isolamento delle singole
forme (rimozione di ogni dipendenza causale fuori dall'apparenza sen-
soria). L'arte romana orientale infatti ha costruito un intero sistema
decorativo sull'applicazione di mezze foglie d 'acanto in relazione con il
rapporto infinito (infattí queste mezze foglie stimolano la cosc1enza
empírica a completarle e a immaginarle intere).
La suddivisione dei fondo in compartimenti singoli, non congiunti
fra loro, e un sintomo non meno importante della tendenza predomi-
nante nella volontà artística di quest'epoca. La superficie di fondo ha
sempre conservato nell'arte classica l'unione fra tutte le sue parti, cosí
da venire a contrapporsi, come entità di riposo, ai motivi predominanti

62
(per csempio un racemo di palma o di acanto), a loro volta non meno
connessi fra loro. Quando il piano di fondo, seguendo i principi deter-
minanti della volontà artística dei tardoantichi, perdette il suo carattere
artístico, venne anzitutto defraudato della sua unità tattile: ne consegue
la sua suddivisione in numerosi scomparti. Accadde dunque alia super-
ficie di fondo quello che abbiamo già osservato per il rnodello (la
foglia d'acanto), con le sue nervature profondamente chiaroscurate:
}'isolamento delle parti fra loro. L'unione tattile viene spezzata in modo
raffinato in ogni elemento - nel modello, come nel fondo, trattato come
se fosse un modello - e con cio viene distrutta. Le singole parti non
appariscono piú come oggetti corporei, bensí come superfici colorate;
insieme con i contorni a forte ombreggiatura esse offrono un effetto
generale coloristico, che noi usiamo appunto chiamare c o I o r i s t i c o ,
per differenziarlo da quello t a t t i l e (plastico) e da quello o t t i c o -
t a t t i 1e (pittorico).
Abbiamo cosí imparato a conoscere un lato fondamentalmente im-
portante della volontà artística tardoromana. Per afferrare interamente
e
questo antico colorismo opportuno tracciare subito un confronto fra
esso e il colorismo moderno. Quest'ultimo fa scaturire la nota tonale,
unificatrice, da uno spazio piú o meno pieno di luce, o, se si tratta di
una determinata sorgente luminosa, la fa partecipe, attraverso il mezzo
dello spazio comune, dei restanti singoli oggetti; di conseguenza domi-
nano o l'ombra o la luce, oppure ombra e luce stanno di fronte in
grandi masse contrastanti. II colorismo antico, invece, ignora lo spazio,
e
e si attiene saldamente al ritmo, che a sua volta legato al piano; mentre
l'unità compositiva dell'arte classica si basava sul ritmo lineare, essa
ora si basa sul ritmo di ombre e di luci, che, seguendo il primo, si
sviluppa ancor sempre in superficie, non nello spazio (per lei inacces-
sibile). E logico che questo antico colorismo susciti in noi un'impres-
sione di irrequietezza, di ondeggiamento, ma naturalmente per i tardo-
romani aveva la medesima funzione di armonia che ha, per noi moderni,
il colorismo spaziale.
Il trattarnento decorativo dei capitello tardoromano delle figure 8

63
e 9 puà essere riassunto in queste due proposizioni fondamentali : isola-
mento della raffigurazione nel suo complesso, mediante contorni il piú
possibile massicci e inarticolati, ché ogni articolazione avrebbe signifi-
cato unificazione con l'ideale piano di fondo, cio che appunto si voleva
evitare; isolamento di tutte le parti, sia dei modello che dei fondo, cosí
da ottenere, invece della distinzione tanto ricercata in precedenza, un
effetto coloristico comune di entrambi, come alternarsi ritmico di chiaro
e di scuro.
Le stesse leggi fondamentali si ritrovano nel capitello marmoreo a
figura 10 di Sant'Apollinare in Classe, anche se qui vi si tradisce una
articolazione alquanto piú mossa, e soprattutto, esteriormcnte, una coe-
renza piú salda con la forma tradizionale dei capitello corinzio. Ma le
foglie aggettanti sono raggomitolate in protuberanze rigonfie, sulla cui
superficie superiore le singole fogliette appaiono decisamente isolate a
mezzo di cavità traforate perpendicolarmente, e percià colme di ombra.
Qui non esiste piú affatto il piano di fondo tra le singole fogliette den-
tate, piano che e sostituito dallo spazio intermedio scuro e pieno di
ombra. Si puà dedurre da tutto cio come questa evoluzione nel suo
complesso doveva necessariamente portare, alia fine, ai riconoscimento
dello spazio (libero, non cubicamente individualizzato); ma per il mo-
mento si cerca possibilmente di limitado a cstensione lineare, ché vale
ancor sempre e soltanto come un male necessario, che si sopporta in
quanto, altrimenti, il pieno isolamento postulato (cioe la rimozione del-
l'unione tattile tra figura a rilievo e fondo) non si sarebbe potuto conse-
guire. La rappresentazione dentata e profondamente intagliata delle sin -·
gole parti delle fogliette d'acanto nella figura 10, che si e voluto inter-
pretare come imitazione di una determinata specie botanica dell'acanto,
rinnegando cosí completamente la natura di tutta la volontà artistica an-
tica, non e dunque altro se non l'adeguato mezzo usato dalla volontà artí-
stica tardoromana per esprimere uno dei suoi assiomi piú determinativi.
11 suo precedente storico, nella prima età imperiale e in quella di mezzo,
e la cosiddetta tecnica dei traforo a buchi rotondi (che ritroviamo nei
suoi inizi fin dall'epoca dei Diadochí}, quale la vediamo, nella figura 10,

64
dividere nel mezzo le grandi protuberanze deite foglie; ma vi era rimasto
un resíduo <li unione tattile, ed e per questo che l' arte tardoromana, che
mirava - all'assoluto isolamento delta forma singola, amplia le piccole
cavità rotonde in grandi, espressive dentature. Esempi di soluzioni inter-
medie sicuramente datati, e che manifestano imparzialmente sia il ricordo
della semplice trapanatura che la tendenza a un piú preciso isolamento
delle punte, ci sono offerti dalle foglie <li acanto che terminano le due
mensole della trabeazione nella porta dei cosiddetto Battistero in Spalato
(dei tempo <li Dioclcziano, figura 11) •.
Ma perché limitarei a considerare !'ornato vegetale dell'acanto, che
era stato creato dall'arte classica per la rappresentazione della libera
struttura ta t ti 1e , e la cui trasposizione in un piano di effetto e o 1o -
ris ti e o poneva per }'arte tardoromana un problema cosí difficile da
risolvere? L 'arte antica ci ha pur lasciato altre forme ornamentali che
si adattavano piú facilmente ai nuovo scopo. 11 nastro a treccia, per
csempio, sembrava creato apposta per questo: ai posto dei semplice nodo
di due nastri, infatti, bastava adoperarne una quantità maggiore, e si
veniva a guarnire non solo (come avevano fatto gli antichi) delle sottili
cornici agli orli, ma delle superfici estese. Questo passo e stato fatto in
ogni caso all'epoca di Giustiniano, ed e divenuto assai significativo per
la evoluzione che ha avuto nell'arte bizantina.
La figura 12 ci mostra un capitello di San Vitale a Ravenna, opera
di una maestranza romano-orientale, manifestamente uguale alla mag-
gior parte delle altre sculture architettoniche in marmo di questo período.
L'alternarsi coloristico di chiaro e di scuro e qui altrettanto regolare
quanto in una decorazione a scacchiera; }'intento artístico, in fondo, era
pero sempre volto a isolare i nastri di fronte alia terza dimensione. ln
tal modo soltanto si puo comprendere perché, per esempio, nelle minia-
ture decorative dei primo Medioevo si trovino tanti meandri prospettici,

• Ecccllcntc cscmpio di questa manicra ncl sccolo 1v e il capitdlo di Santa Maria in Cosmcdin
a Roma, quinta colonna a sinistra dai fondo. Si notino anche di passa1a i coevi capitelli figurati
dcllc seconde colonnc dai fondo, .a destra e a sinistra nella stessa chicsa, in quanto offrono ncl
t rattamento dd drappeggio e dcll'ornato un escmpio ccccllente di stile e o 1 o r i s t i e o .

65
visti dall'alto (che possono esser messi in relazione, secondo monumenti
esistenti nel Musco delle Terme a Roma, già con pitture dell'epoca impe-
riale romana), bastoncini modellati a tutto tondo, e simili; si doveva
appunto esprimere la tridimensionalità dei modello e il suo isolamento
di fronte al piano di fondo, anche nell'ornato dipinto, e in modo irre-
fragabile *. Nella composizione ornamentale che riem pie la parte di
mezzo dei quattro lati dei massiccio capitello della figura 12 (già pre-
ludio alia forma cubica) bisogna osservare specialmente, accanto alia
proiezione in piano e all 'intaglio pcrpendicolare dei motivo di fronte ai
fondo, lo studio posto nel curare che le puntc dclle foglie e le piegature
esterne dei gambo toccassero i limiti dei riquadro, per suddividere il
fondo in piccoli scomparti per lo piú isolati, e per negare, cosí, ogni
identificazione tra il fondo e una superficie piú grande, non interrotta,
e percío capace di produrre una impressione ta t ti 1e.
Assai spesso usata, ed espressa dalla volontà artística dei tardoantichi
con non minore caratterizzazione, e la norma di composizione decora-
tiva dei r a p porto i n f i n i to , che abbiamo già trovata nelle mezze
foglie d'acanto dei capitello salonitano [figg. 8, 9]. Consiste nell'uso
di un motivo ornamentale composto di due metà simmetriche (o di un
numero maggiore di esse in allineamento alterna to) a guisa di motivo
sparso sulla superficie : vediamo, lungo gli orli che delimitano la com-
posizione nel suo complesso, collocata sempre una metà soltanto dei
motivo (negli angoli, alle volte, un quarto dei medesimo) cosí da costrin-
gere l'osservatore a completare col pensiero la metà (o i tre quarti)
mancanti, e immaginare che quest'allineamento continui sul piano, inde-
finitamente. Come esempio, offriamo al centro della figura 13 il bordo
ricamato in porpora, bianco, verde e giallo, di una tunica ritrovata in
Egitto su di un cadavere (ora nell'Õsterr. Museum di Vienna) con un
motivo sparso assai complicato, che ci conduce, col suo alternarsi di

• Cfr. per ques10 p. 53, osscrv. •. Si comprenderà ora pcrché in rilicvi e dipinti tardoromani
venissero rappresen1ati cosi spesso alberi, rocce, vedute di ciuà, perfino figure umane con una pro-
speuiva da!l'alto: sempre e ovunquc: il motivo artístico predominante: e stato qudlo dcll'isolamen10
tridimensionalc della forma di fronte ai piano d i fondo.

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grossi motivi floreali e di minuto ornato formante uno sfondo reticolare,
fino alla composizione di massa, ma che pure, per il fatto che i grandi
motivi floreali e la rete romboidale sono stati dimezzati lungo gli orli
laterali, rende fedelmente l'essenza dei rapporto infinito•. E sorpren-
dente anzitutto l'appello, che vi e necessariamente connesso, all'espe-
rienza spirituale qua]e indispensabile completamento: appello che nelle
precedenti epoche antiche sarebbe sembrato inammissibile, per lo meno
usato in cosí vasta misura. Tipica dell'arte antica e senza dubbio l'espan-

Fig. 13. Vicnna, Musco austríaco. Bordura di stofla egizia, motivi decorativi.

• Poiché i motivi floreali si attengono alia direzionc verticalc, non era possibile dividerli
in quarti agli angoli, come sarcbbc stato invcce facile, per esempio, con delle roscttc. li rapporto
infinito puo csscrc cspresso pcrcio in questo tipo di motivi solo - come e stato fatto - dimez•
zandoli pcrpcndicolarmentc.

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sione in superficie, mentre invece tipicamente tardoromano e il n1otivo
sparso, cioe l'isolamento dei motivi fra loro (e, come naturale comple-
mento, lo spezzettamento dei fondo in superfici parziali difficilmente
distinguibili), mentre }'ornato classico aveva ricercato ovunque l'unifi-
cazione, da una parte dei motivi, dall'altra delle superfici parziali del
fondo.
Dalla definizione che abbiamo dato dei rapporto infinito, consegue
la sua stretta relazione con il colorismo tardoromano, poiché entrambi
hanno in comune la medesima volontà artística: volta a un rítmico
scambio, grande o piccolo, di modello e di fondo, di chiaro e di scuro,
nella superficie; se possibile soffocando il significato del modello e dei
chiaro e percio accentuando il significato dello sfondo e dello scuro~
Troviamo i primi accenni dei rapporto infinito già presso gli antichi
Egizi, la cui arte si presenta assai vicina, esteriormente, a quella tardo-
romana (e questa relazione noteremo spesso ancora nell'esame dei par-
ticolari): ma una piú attenta osservazione ci permette invece di defi-
niria come l'estremo opposto dell'arte tardoromana stessa. II rapporto
infinito, per gli Egizi, si limita ai modelli geometrici (per esempio a
scacchiera), la cui bipartizione deve essere intesa senz'altro come un tutto
a sé, senza bisogno, per concepirla, della collaborazione complementare
dell'esperienza spirituale. Inoltre non vi troviamo dei motivi sparsi,
ma soltanto motivi strettamente legati tra di loro (per esempio le linee
a spirale con fiori di loto a riempimento degli sproni, imitati poi anche
dall'arte micenea). Mentre invece la caratteristica dcl rapporto infinito
nella sua rappresentazione piú perfetta offertaci dall'arte tardoantica sta
da una parte nell'usare motivi tratti dal mondo organico (cosí che l'ap-
pello all'esperienza ne consegue con maggiore necessità}, e d'altra parte
il motivo sparso, in modo da effettuare }'isolamento dei motivi singoli
e delle parti di fondo entro la superficic. Troviamo indicata in modo
preciso questa concezione dei rapporto infinito, come ho notato già
nelle Stilfragen (pp. 3o8 sgg.), per la prima volta nell'età pompeiana.
ln questi primi esempi, pero, i motivi sono ancora relativamente << reali-
stici » e conservano ancora una certa unione fra loro. Ci imbattiamo in

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una fase piú evoluta di questo sistema di dccorazione negli smalti dei
secolo 111 lfig. 142]. 11 bordo nella figura 13 indica, infine, un grado di
sviluppo cosí pcrfetto, che possiamo pituarne }'origine in epoca di poco
anteriore alia decisiva frattura della volontà artistica tardoromana nel
secolo V d. e.
Nell'arte dei popoli islamici il rapporto infinito rimasto fino a e
oggi il principio compositivo piú diffuso: cosa che, insieme a molte
altre, testimonia come i popoli meditcrranei orientali siano rimasti gene-
ralmcnte fcdcli fino ai nostri g iorni agli assiomi clcmcntari della cultura
tardoantica. Nell'arte occidcntale esso ha trovato di tanto in tanto appli-
cazione come fondo operato nella composizione di massa, e in questo
caso, di solito, anche i motivi orientali sono stati imitati senza altera-
zioni; cosa invcro, qucsta, assai significativa.

1 S ull'architettura tardoromana e protocns11ana dr ., oltrc a Dmw e Btzou>, Kirchlicl,e


Baukunst in Abcndlandu, 1884-99, già noto ai Riegl: O. WuLLP, Altchrisrliche und byzanrinische
Kun11, 1914; G. T. R1Vo1u, Archirettura romana , 1921; ANDUSON-Sr1us-Amav, Tl,e architccture
of ancient Rome, 19:27; GALASs1, L'architcttura protoromanica nell'Esarcato, 1928; SEDLMAYER,
KunstwiJscntschaftlichc Forschungcn, 1933, pp. 25 sgg.; P. DuCAn, Arte in Roma dafle origini
fino ai seco/o Vlll, e F. von NAcK, Die Ba11k1mst du Altntums, s. i.
2 H. G1t.1SAR, Gcschichte Roms und der Piipste im Mittelaltcr, 1901. li Dittico Barbcrini si trova
ncl Musco dei Louvre a Par igi. Cfr. R. Buscm BA1<01snu, Storicità del/'arte classica, 1943,
PP· 234 -35, con bibliografia.
a Le conclusioni dei Ricgl sulla diffusione dcgli cdifici a pianta centrale e basilicalc in
Oriente e Occidente sono oggi universalmente accettate: dr. P. ToEScA, 1/ Medioevo, 1927, p. 141,
coo bibliografia.
' Cioc F. X. Kuus, Guchichtc der klassischen Kunst , Freiburg 1895; J. BuacllHAI.DT, Die Zeit
des Konstantin des Grossen, Leipzig 1924 (ed. recente).

69

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