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ETNOGRAFIA URBANA:

MODI D’USO E PRATICHE DELLO SPAZIO

Maria Pia Pozzato e Cristina Demaria1

L’atelier “Etnografia urbana: modi d’uso e pratiche dello


spazio” ha accolto lavori e progetti tra loro in realtà molto
differenti: da una rilettura semiotica di New Babylon, città
immaginata negli anni Sessanta dagli architetti e dagli
artisti del movimento dell’Internazionale Situazionista, alle
immagini e ai mosaici delle città che dominano gli schermi
dell’installazione Cosmopolis dell’algerino Maurice Benayoun,
fino alle città da ri-immaginare a partire dalla percezione
delle loro zone di degrado. Ne è emerso un percorso composito
che ha collegato esempi di progettazione artistica e
urbanistica a osservazioni ‘partecipanti’ sul modo in cui
alcuni centri urbani vengono usati, come nel caso di Firenze,
città d’arte i cui spazi pubblici si trasformano sempre di
più in spazi privati che i turisti si trovano a dover
‘acquistare’ insieme ai loro souvenirs.
Vorremmo provare a ripercorrere le indicazioni più
interessanti emerse nell’atelier dividendole in tre grandi
aree tematiche: città ideali e virtuali, effettive pratiche
di uso e di progettazione e, infine, percezioni della città e
della sua sicurezza, delle sue zone di esclusione e
inclusione.

1. Città ideali /città virtuali

New Baylon, ci ha raccontato Marco De Baptistis (Università


di Bologna)2, è il progetto di una città ideale pensata per i
nomadi che abitavano le rive del fiume Tanaro, ad Alba, in
Piemonte. Essa doveva essere la realizzazione concreta - di
cui ci rimangono solo le maquettes -, dell’idea situazionista
secondo cui ciascun ambiente è il risultato del comportamento
di chi lo attraversa e lo usa. Ribaltando l’idea acquisita
secondo cui sono gli spazi a influenzare i comportamenti,
l’urbanesimo unitario di architetti quali l’olandese Constant
Nieuwenhuys (conosciuto con il solo nome proprio di
Constant), e di artisti quali Guy Debord e Pinot Gallizio,

1
Cristina Demaria ha scritto i paragrafi 1-4, Maria Pia Pozzato i
paragrafi 5-6.
2
Le citazioni dei testi a cui ci riferiremo sono tratte da documenti
scaricabili dalla rete (www.associazionesemiotica.it).

1
proponeva così di progettare non tanto edifici, quanto spazi
intesi come situazioni costruite, e cioè unità di
comportamento nel tempo. Un’indicazione che in qualche
maniera anticipa una prospettiva che può essere tradotta in
termini semiotici, come ha precisato De Baptistis (p. 3):

Agli occhi della semiotica una situazione costruita è formata


da concatenamenti di azione e passione. L’osservatore agisce nello
spazio e lo trasforma: da uno spazio ancora da esplorare,
virtualizzato, ad uno spazio agito, attualizzato. Le passioni e le
assiologie timiche (euforia/disforia) possono costituire un
orientamento nei percorsi spazio-temporali dell’osservatore a
patto di sostenere che esse sono metastabili, suscettibili, cioè,
di continue modificazioni durante l’azione esplorativa stessa,
grazie a una trasformazione continua del sapere e del sentire.

New Babylon avrebbe dovuto sorgere grazie all’utilizzo di


strutture abbandonate per trasformarle in senso ludico, con
ambienti modulari, mobili e ricombinabili; staccandosi dal
terreno, l’ambiente-situazione della città doveva inoltre
aprirsi all’esterno, risultando trasparente, completamente
visibile. Nonostante il suo afflato utopico, il progetto di
New Babylon ha avuto il pregio di sottolineare l’elemento non
solo cognitivo ma soprattutto patemico che rientra sia
nell’esplorazione, sia nella progettazione, nell’esperienza
di un insediamento urbano. Le passioni sono cioè un elemento
che sempre rientra non solo nell’uso dei luoghi, ma anche
nella loro creazione e ri-creazione a opera di diverse
‘situazioni’ che congiungono spazio e attori.
Le teorie dei situazionisti, di cui De Baptistis ha
operato una sorta di archeologia, costituiscono perciò non
solamente a una sorta di a priori storico del contemporaneo
discorso sulla città praticato da urbanisti, sociologi,
architetti, ma soprattutto un campo di indagine per la
sociosemiotica, se confrontate o, meglio, rilette, attraverso
i concetti hijelmsleviani di n o r m a , a t t o e u s o , la
riflessione di Bruno Latour sull’interoggettività e la
distinzione tra tattica e strategia elaborata da Michel de
Certeau e ripensata da Eric Landowski come distinzione tra
strategie enunciazionali e tattiche enunciative.
Come ci ha invece illustrato Tiziana Migliore3
(Università IUAV, Venezia), alcuni di questi aspetti
rientrano anche nel progetto di un’altra città volutamente
ideale, o, meglio virtuale, ricreata dagli schermi e dalla
tecnologia informatica di Cosmopolis, Città ideale nella
logica della r e t e , installazione di Maurice Benayoun.
Cosmopolis è un evento artistico che gioca innanzi tutto con
l’idea che i luoghi sono costruiti anche dagli sguardi,

3
L’intervento di Tiziana Migliore, dell’Università IUAV di Venezia, è
disponibile sul sito dell’AISS con il titolo di “Cosmopolis”, di
Maurice Benayou. Città ideale nella logica della rete.

2
parziali, frammentari e frammentati, di coloro che li
percorrono e, più o meno attivamente, li abitano. Si tratta
di una mostra multimediale interattiva e itinerante al cui
centro vi è il tema dello sviluppo urbano, della sua visione
e della sua frammentazione: chi entra a visitare
l’esposizione si trova infatti a camminare lungo un perimetro
creato da 12 lunette di osservazione, ognuna delle quali
offre allo sguardo del fruitore tre panoramiche di una città
(Parigi, Berlino, Barcellona, Chicago, Johannesburg, Il
Cairo, San Paolo, Pechino, Shangai, Chongqing, Chengdu,
Jakarta), che a loro volta mostrano situazioni di vita urbana
problematiche legate alla mobilità, all’ambiente,
all’architettura, alla sanità e alle risorse energetiche. Al
centro di questo perimetro è posto un grande schermo
circolare che diffonde le immagini composite e dinamiche di
una città ‘ideale’, frutto della sintesi degli sguardi dei
visitatori captati dalle macchine e ritrascritti sullo
schermo. Il pubblico che, guardando nelle lunette e muovendo
gli occhi attraverso le panoramiche, aveva stabilito alcuni
punti di vista sulle città (e quindi l’inclusione o
l’esclusione di alcuni spazi), diventa ora spettatore di una
riscrittura delle città stesse, che è sia una traccia, sia la
sintesi di un insieme di sguardi. La domanda è allora come
questo evento artistico riesca a far riflettere innanzitutto
su “una delle maggiori conseguenze teoriche legate all’uso
delle tecniche digitali nei nuovi media: la testualizzazione
delle pratiche di fruizione” (p. 1), e di conseguenza sul
divenire urbano stesso, sul fatto che esso è sempre opera di
una collettività che lo compone, scompone e ricompone, pur
non essendone a volte consapevole, e nemmeno, sovente,
assumendosene la ‘responsabilità’. In Cosmopolis, come invece
ben sottolinea nella sua analisi puntuale di un testo davvero
complesso Migliore, “installarsi significa misurarsi con il
paradigma della postmodernità governando, da direttori di
regia, l’esplosione della mobilità. L’uso dello spazio, tra
il modus collettivo della gestione e il modus individuale
dell’appropriazione, vincola l’interprete all’assunzione di
‘posti di responsabilità’” (pp. 6-7). Responsabilità che
richiama inoltre una memoria dei luoghi e della loro patina,
nel senso inteso da Fontanille (2004). Ma il dispositivo di
C o s m p o l i s non richiama all’uso in quanto prassi
enunciazionale impersonale: “proprio per la presenza dei
soggetti di enunciazione di fronte alla significazione in
atto della patina, l’indice personale c’è (…) le immagini si
generano non per aggiunta, con tecniche di sovrapposizione,
ma per sottrazione, attraverso svuotamenti interni ottenuti
con sfocature che fanno emergere strati sottostanti”. (ib.)

3
2. La città nelle pratiche d’uso e di progettazione

Un esempio concreto di come si possa operare su di un luogo


naturale per creare comunità e vicinato, a partire cioè da
una trasformazione culturale di luoghi vissuti come selvaggi
e incolti, è quello rappresentato dai Sassi di Matera, come
ha argomentato Lucia Rita Iorio. La sua relazione ha
considerato

(…) tutto il sistema dei Sassi come un grande testo, alla cui
etimologia dal latino textum (…) ‘intrecciare” sembra richiamarsi
la stessa struttura dei Sassi, a terrazze degradanti, in cui il
prodotto della natura si intreccia con ciò che è il risultato del
lavoro dell’uomo, un testo in cui è possibile leggere la storia
dell’uomo, nel senso di genitivo soggettivo, in quanto fatta
dall’uomo, e, in quanto tale, anche testo di scrittura, una
scrittura, per dirla con Michail Bachtin, fortemente
dialogizzante. (pp. 1-2).

I Sassi di Matera costituiscono un esempio di come il


genere umano si sia appropriato dell’ambiente naturale che lo
circonda, adattandolo alle proprie necessità, e dando ‘senso’
al suo habitat. Nei Sassi questo è accaduto grazie alla
costruzione delle abitazioni scavate nella pietra (con una
inclinazione tale da sfruttare al meglio i raggi del sole), e
con l’uso delle cisterne naturali (o nuovamente scavate nella
pietra) per la raccolta delle acque pluviali. Tale modo di
interagire con l’ambiente ha determinato la realizzazione di
una sorta di ecosistema, in cui, per secoli, hanno convissuto
gli ‘spazi abitativi’ e quelli ‘di servizio’ (cantine,
stalle, caciolari) con gli “spazi sociali” (i cosiddetti
vicinati). Come conclude Iorio: “tutta la storia dei Sassi è
racchiusa all’interno del rapporto natura-cultura, anzi
direi, che essi ne sono il risultato, i Sassi sono un esempio
di continuum tra spazio naturale e architettura” (p. 4), un
rapporto di tipo “compensativo-cooperativo” che oggi, dopo
lunghi anni di abbandono, si sta ripristinando con successo
anche grazie al riconoscimento di questo insediamento come
“patrimonio mondiale dell’umanità” da parte dell’UNESCO.
Abitati quindi sin dai tempi del neolitico, i Sassi non solo
mostrano ancora le tracce di come ci si possa riappropriare
dell’ambiente naturale, ma forniscono indicazioni che vanno
“di pari passo con una delle maggiori tendenze
dell’urbanistica contemporanea, attenta alle forme del
territorio e alla sua storia”, come peraltro ha illustrato
anche Alberto Piazza4. Il punto di vista semiotico sulla

4
In questo caso citiamo dall’abstract dell’intervento di Piazza, non
essendo il suo testo disponibile in rete. Preferiamo però continuare a
dare la parola agli autori piuttosto che parafrasare concetti i quali,
soprattutto nel caso di Piazza, urbanista dell’Università di Palermo,
non rientrano direttamente in una prospettiva semiotica.

4
città a cui questo studioso è interessato “è quello poetico
dell’architetto operante che storicamente trova motivazioni e
necessità nell’interesse a dare soluzioni di qualità
all’abitare umano, di cui il progetto promuove la produzione
nei suoi vari aspetti. In questo senso i valori ed i
significati della città sono rilevabili nella forma, capace
di dare dimensione, organizzazione e caratterizzazione al
tempo e allo spazio abitato, attraverso articolate compo-
sizioni di elementi che stabiliscono relazioni strutturali
che determinano particolari sistemi abitativi”. Nell’urbani-
stica lo studio della forma è normalmente indicato come
morfologia, che negli studi di Piazza “ha assunto (…) i
caratteri del linguaggio, in quanto materia di applicazione
che consente, in ogni specifica realtà di esperienza, di
conoscere, valutare, pensare, promuovere e produrre l’abitare
umano. All’interno di tali possibilità la morfologia rivela i
caratteri culturali dello spazio e del tempo, i fenomeni di
produzione e riproduzione del senso, le metamorfosi dell’uso
e delle funzioni abitative, le dinamiche di continui
mutamenti e trasformazioni.” L a scelta progettuale
dell’urbanista è sempre, in altre parole, una interpretazione
dello spazio e di ciò che in esso già esiste. Gli esempi
portati da Piazza sono la ristrutturazione del Museo
Archeologico di Taormina, ricavato da una torre del XV
secolo, e il recupero della valle dei templi di Agrigento
come Parco archeologico e paesaggistico sotto l’egida
dell’UNESCO. In particolare, nel caso di Agrigento, il
conflitto che lacera il territorio per la presenza di
abitazioni abusive che non trovano ovviamente una
collocazione nel progetto dell’UNESCO, non va considerato
solo come una questione politica, ma anche, e principalmente,
come un problema urbanistico che chi lavora su quello spazio
deve affrontare. Quando si progetta si deve cioè pensare a
partire da quel che è già inscritto nel territorio,
consapevoli della complessità che sta dietro a qualsiasi tipo
di trasformazione urbana.
La necessità di una visione interpretativa e allargata
del territorio in quanto spazio vissuto e potenzialmente
conflittuale è dimostrata anche da quel che recentemente è
accaduto a Cosenza, così come ci è stato raccontato da
Giorgio Lo Feudo5. La città calabra si è infatti trovata a
dover affrontare la richiesta di un mecenate di origini
locali, ma statunitense di adozione, il quale, dopo aver
donato al Comune diverse sculture che oggi formano un museo
all’aperto (il M.A.P. di Cosenza), ha preteso che gli venisse
intitolata una piazza. La relazione di Lo Feudo ha dunque
tratto spunto da questo fatto locale “inteso come traccia per

5
Anche in questo caso citeremo dall’abstract di Lo Feudo, dell’Univer-
sità di Cosenza.

5
provare ad affrontare, ricorrendo agli strumenti della
semiotica, la più generale problematica inerente alla
denominazione degli spazi urbani (…) ponendo l’accento sui
rinvii e sui nessi esistenti fra la rappresentazione, la
configurazione ‘fisica’ e, ovviamente, la fruizione degli
spazi urbani”. Che cosa succede quando un luogo cittadino
viene ri-battezzato con il nome di una persona vivente,
cancellando così parte della sua storia, e quindi del
significato che attribuivamo a quel luogo? Il caso di
Cosenza, da Lo Feudo definito come un’operazione rituale di
transignificazione, ha visto quindi opporsi da un lato chi,
con un’ottica normativa, sosteneva l’impossibilità giuridica
di intitolare uno spazio urbano a un soggetto vivente, e,
dall’altro, chi invece rifletteva sulle implicazioni di
ordine simbolico e socio-culturale insite nella pratica di
denominazione degli spazi urbani, indicando gli intrecci tra
la rappresentazione dei luoghi, la loro configurazione fisica
e la loro fruizione.
Ma anche il modo in cui il turismo ha trasformato la
città di Firenze può essere considerato come un processo di
transignificazione. Lo spazio della città toscana, nella
lettura fornitaci da Raul Magallon6 viene infatti ‘concesso’
ai turisti, che continuamente lo devono acquistare, fruitori
passivi di un territorio apparentemente pubblico e aperto, in
realtà pubblicizzato, divenuto privato e chiuso. Adottando
una prospettiva sociosemiotica, questa relazione ha cercato
di indagare “le relazioni che si vengono a stabilire tra tre
‘soggetti’ comunicativi: la città di Firenze, come spazio di
significazione; il turista che la visita, come soggetto
attivo di quest'ultima, e il fiorentino,come soggetto
passivo che percepisce la relazione che si viene a costituire
tra i primi due soggetti” (p. 1). L’idea è quella di guardare
a come si è spazializzato il turismo di massa, alla luce
anche dell’idea del sociologo tedesco Ulrich Beck, secondo
cui “gli spazi della nostra integrazione emozionale si sono
estesi, si sono transnazionalizzati” ( ibidem ). Ma la
transnazionalizzazione dello spazio, e la moltiplicazione dei
soggetti che lo abitano non sempre corrisponde a una
integrazione dei luoghi e delle culture. Spesso, secondo
Megallon, si assiste invece a una sorta di perversione dello
spazio che esclude lo straniero, oppure lo colloca, in quanto
turista, entro ristrette tipologie identitarie, riducendo
inevitabilmente la qualità della sua presenza, entro “nuove
forme di nomadismo e deterritorializzazione” che rendono
Firenze una particolare “città di frontiera e di diaspore
temporanee” (p. 7).

6
L’intervento di Magallon, dell’Università Complutense di Madrid, è
disponibile sul sito AISS con il titolo Firenze: città sacra con
carattere profano: dal pubblico al privato.

6
3. Il degrado e il controllo

Il lavoro presentato da Annalisa Pellizza7 ci ha invece


offerto una riflessione semiotica sul degrado e sulle
percezioni soggettive che i cittadini hanno di una condizione
che sembra sempre più assumere nuovi significati,
accompagnandosi all’idea di sicurezza e all’interpretazione
della ‘legalità’. Partendo dai risultati di alcune interviste
condotte dall’Ufficio Speciale di Piano del Comune di Bologna
in occasione dell’elaborazione del Piano Strutturale Comunale
(PSC), e dall’analisi di un giardino pubblico percepito come
‘degradato’, Pelizza è giunta a elaborare una prima
tassonomia dei luoghi fisici e delle tipologie di degrado in
relazione al modo in cui i soggetti lo percepiscono e lo
vivono, ma anche rispetto a come esso possa svilupparsi in
percorsi narrativi e figurativi diversi, e riguardare,
alternativamente, l’arredamento urbano e la pulizia dei
luoghi pubblici, le pratiche giovanili e quelle dei migranti,
lo spaccio e il traffico. In particolare, dalle interviste è
emerso come

[I]l degrado viene percepito in misura molto minore negli


spazi privati (…) negli spazi pubblici aperti e di passaggio
(strade, piazze, stazioni, autobus) si intrecciano programmi
narrativi il più delle volte sconosciuti ai soggetti osservatori,
mentre negli spazi privati – per esempio all’interno dei centri
commerciali – l’osservatore è in grado di ricostruire i programmi
narrativi altrui sulla base della propria esperienza del mondo (…)
negli spazi pubblici non viene richiesta alcuna prova qualificante
della presenza, come invece avviene negli spazi privati (selezione
all’ingresso, biglietto, acquisizione del carrello). Vi è pertanto
un vuoto cognitivo, un non sapere relativo ai programmi narrativi
dei soggetti che co-abitano lo spazio pubblico (pp. 9-10)

Un non sapere che viene dunque assiologizzato in maniera


disforica, rendendo il degrado interpretabile come un
“programma narrativo sconosciuto” che installa nel racconto
del soggetto dei particolari anti-soggetti. Il degrado in
quanto configurazione discorsiva può così essere
interpretato come un particolare tipo di dis-ordine che
investe lo spazio, gli attori che in esso si muovono e i loro
programmi narrativi, ciò che desiderano e i modi in cui
ritengono di poterlo ottenere, ovvero gli ostacoli che ne
impediscono l’ottenimento. Dall’analisi estremamente
interessante e puntuale del giardino bolognese il degrado si
delinea invece come una “incoerenza spaziale” che mette
ambiguamente in gioco a livello topologico la categoria di

7
L’intervento di Pellizza, dell’Università Bicocca di Milano, è
disponibile sul sito dell’AISS con il titolo Spazi pubblici a un
bivio. Per una interpretazione del “degrado”:un esempio tratto dal PSC
del Comune di Bologna.

7
/continuità/ vs /puntualità/, e a livello tematico e
assiologico le categorie classiche di /pubblico/ vs
/privato/. In sostanza, il degrado sorge quando lo spazio che
viviamo e che progettiamo diviene incoerente, quando il
nostro ‘ritmo’ viene continuamente interrotto da ostacoli o
da pratiche di altri attori che non si armonizzano con le
nostre. Ed è appunto in questa direzione che il degrado può
essere ripensato come un particolare tipo di conflitto
potenzialmente risolvibile, secondo Pelizza (pp. 19-20), con
la creazione di uno spazio di competenzializzazione, vale a
dire di un

luogo in costante trasformazione tra pubblico e privato in


cui acquisire un sapere sul voler e poter fare dell’altro, sul suo
investimento modale, in cui quindi negoziare continuamente
l’accesso condiviso, come alternativa alla soluzione conflittuale
[…] Diverse tipologie abitative e un diverso tasso di influenza
dell’altrove possono spostare lo ‘spazio della
competenzializzazione’ dalla piazza, dalla strada, dal giardino e
dal portico al vano scale, al pianerottolo, al balcone. Ma anche
tradurlo in uno spazio mobile, un flusso di comunicazione
veicolato attraverso i dispositivi di comunicazione mobile da cui
l’esperienza urbana è sempre più pervasa.

L’atelier si è chiuso con la relazione di Alessandro


Rudelli8 su di un tema che riguarda in realtà una delle
possibili risposte al degrado, e quindi al problema della
sicurezza: la città come luogo di sorveglianza e lo
spostamento fisico e simbolico subìto dagli istituti penali
negli ultimi decenni. Mentre, da un lato, lo spazio urbano è
sempre più sorvegliato dalle telecamere a circuito chiuso,
dall’altro i luoghi di sorveglianza si spostano dal centro
(si pensi a San Vittore a Milano o a Regina Coeli a Roma),
per nascondersi nelle periferie, assumendo forme sempre più
simili a quelle di un grattacielo o di un grande centro
commerciale. Ma davvero, si è chiesto Rudelli, un tale
spostamento può essere letto come l’esemplificazione concreta
e materiale del passaggio da una società disciplinare, in cui
“la semiosi carceraria poneva certamente un altrove senza
essere perciò un altro” (p. 2), a una società del controllo e
dei sistemi di sorveglianza, dei campi di detenzione per gli
immigrati e dei quartieri ghetto? Tali luoghi non solo si
pongono come un altrove, ma come qualcosa di radicalmente
altro, da un lato rendendo invisibile e inaccessibile il loro
spazio, dall’altro infantilizzando chi ne resta fuori. Ma
allora “dove possono essere colti i segnali che annunciano il
passaggio dalle società disciplinari alle cosiddette società

8
L’intervento di Rudelli, consulente della A.s.l. città di Milano –
Servizio Area Penale e Carceri, è disponibile sul sito dell’AISS con
il titolo Non più, non ancora. Pragmatica operativa e trasformazionale
dei regimi semiotici negli spazi urbani delle società di controllo.

8
del controllo?” (ibidem). La tesi di Rudelli è che per
rispondere a tale domanda non sia sufficiente constatare il
“farsi carcere” di molti spazi pubblici che sempre più si
chiudono, o la ricollocazione geografica dei luoghi di
detenzione. Il problema che ci dobbiamo porre, suggerisce
invece Rudelli, “è quello di cogliere l’irriducibilità di un
sistema all’altro collocandoci sul piano della produzione
segnica e non su quello del prodotto” (p. 5) . Conducendo un
approfondita analisi dei contenuti semantici associati
all’opposizione tra liberi e prigionieri, e alla sua
correlazione con la categoria di aperto e chiuso, Rudelli
mostra come nella società disciplinare vi sia un particolare
modo di marcare il dentro dal fuori, il libero dal
progioniero, un modo “che ordina le produzioni segniche sia
dei liberi che dei prigionieri ponendole in una continuità
procedurale”, all’interno in ogni caso di un vincolo di
appartenenza. Nelle società del controllo non vi è invece
alcun vincolo di appartenenza, alcun “dentro” a cui fare
riferimento: “nelle procedure del controllo si dispone
un’infantilizzazione generalizzata nella quale l’individuo
singolarmente preso non è collocato in un processo evolutivo
di acquisizione di stadi successivi di identità, ma è
ipostatizzato come se fosse sempre all’inizio della propria
crescita” (p. 7)., in una delocalizzazione senza fine, in una
ossessiva ripetizione del “non ancora”. Ed è al mischiarsi di
queste due formule, nei penitenziari come nelle città sotto
controllo, che deve allora rivolgersi lo sguardo del
semiotico. Alla città virtuale di Cosmopolis, di Maurice
Benayou, che possiamo comporre con i nostri sguardi, si
sostituisce quindi l’immagine di mille occhi digitali che ci
guardano, e che così producono non tanto nuove città, bensì
nuovi soggetti e nuove segnaletiche, nuove possibili modi di
significare lo spazio che forse dovremmo non solo studiare,
ma anche imparare a valutare criticamente.

4. Sociologi e antropologi di fronte alla città

Abbiamo visto come la percezione dello spazio, la sua


esplorazione, ma anche la sua progettazione, possano tradursi
in programmi narrativi o in concatenazioni enunciative che
producono, ovvero riducono, modelli di soggettività e di
identità culturali. Prima però di provare a collocare le
riflessioni sin qui ripercorse entro un progetto di
etnografia semiotica della città, apriamo una breve parentesi
su alcune caratteristiche proprie del metodo etnografico. È
possibile cioè circoscrivere un metodo etnografico che
mantenga una specificità semiotica? E come si distingue un
tale metodo dal lavoro che compiono gli antropologi o gli
scienziati sociali? È sufficiente, infine, per analizzare
per esempio uno spazio urbano, cercare i percorsi narrativi

9
dei soggetti e degli oggetti, il modo in cui in esso si
iscrivono prassi enunciative e usi, così come si fa con i
testi visivi e verbali classici? Sicuramente la semiotica
possiede strumenti e categorie analitiche forti che
permettono di evidenziare il modo in cui alcune pratiche e
alcuni comportamenti (ri)producono soggetti e oggetti
culturali, come più volte ha fatto notare Paolo Fabbri,
secondo cui non vi è distinzione tra pratiche e testi, in
quanto entrambi sono luoghi di articolazione del senso. Ma è
anche vero che il testo etnografico, in cui chi interpreta è
calato, e alla cui stessa enunciazione o narrativizzazione
partecipa, presenta alcune problematiche epistemologiche che
forse vale la pena ricordare. Le pratiche nei testi e le
pratiche in quanto testo pongono cioè questioni differenti,
su cui a lungo hanno peraltro riflettuto gli etnografi, sulle
cui riflessioni vorrei ora brevemente soffermarmi. Non
intendo certo ripercorrere il dibattito, peraltro vastissimo,
che negli ultimi decenni ha letteralmente rivoluzionato
l’analisi etnografica dei sociologi e degli antropologi,
mettendo fortemente in questione la capacità euristica delle
loro categorie interpretative, ma solo evidenziarne alcuni
punti. Oggi, sostengono per esempio i sociologi (cfr. Dal
Lago e De Biasi 2002), si è abbandonata l’idea di poter
formalizzare dei metodi etnografici; essi sono definibili
solo rispetto uno ‘stile’, uno sguardo comune alle principali
forme di etnografia sociale, entro cui all’indagine
semantico-strutturale delle pratiche sociali si è sostituita
la loro osservazione e la loro descrizione. I significati e
le strutture dell’azione sociale vengono cioè problematizzati
a partire dalle stesse pratiche, da ciò che gli attori fanno
e dicono di fare nella loro esperienza quotidiana. La ricerca
etnografica presuppone quindi uno sguardo “denso” di teoria,
ma al tempo stesso scettico rispetto ai propri risultati. La
ricerca etnografica, in altre parole, non è né oggettiva, né
esaustiva, benché si proponga di collegare i punti di vista
locali e parziali che osserva a prospettive più generali (o
generalizzanti), e quindi integrare un livello micro ad un
livello macro. In quest’idea vi è l’eredità di Ervin Goffman,
soprattutto l’ipotesi del mondo sociale come incastro di
frames, cornici simboliche che conferiscono senso alle
situazioni concrete: “l’etnografo d e v e operare una
distinzione tra le diverse sfere di realtà autonome e
contestuali nelle quali si radicano i significati delle
sequenze minute di interazione” (Dal Lago e De Biase 2002, p.
XXVII). Un’eredità i n parte ripresa e trasformata
dall’etnometodologia di Harold Garfinkel, che si è
concentrata sulle storie di vita (accounts) e sul loro
statuto. I fatti quotidiani sono normalmente osservabili e
descrivibili, vale a dire accountable: in questo senso gli
accounts divengono unità di analisi fondamentali; al tempo

10
stesso, queste descrizioni sono parte integrante di ciò che
si descrive, e quindi non sono separabili dai fatti oggetto
di spiegazione: come a dire che il racconto dei fatti crea i
fatti stessi, e questo forse la semiotica già lo sa. Inoltre,
gli accounts con cui gli individui attribuiscono un senso ai
fatti sociali sono comprensibili soltanto in riferimento a un
contesto: “gli individui formulano un account ricorrendo a
espressioni linguistiche il cui significato non è ‘oggettivo’
bensì indicale (cioè vincolato a un contesto)”. Tradotto
semioticamente, ciò significa che ogni racconto fa
riferimento a una situazione di enunciazione.
L’etnografia sociale così impostata si affida però alla
soggettività del punto di vista del ricercatore, oltre che
alle diverse condizioni di accesso agli spazi e ai mondi
oggetto della ricerca, da integrare inoltre con altri
documenti: interviste, analisi di materiale audiovisivo e
sonoro, ecc. La garanzia della scientificità del lavoro
svolto da un etnografo sociale si lega allora alla
trasparenza delle procedure di descrizione e alle ragioni che
hanno spinto ad adottarle. In ogni caso, come specificano Dal
Lago e De Biase: “Analogamente a quanto è avvenuto negli
ultimi due decenni in antropologia, è lo stesso compito di
chi osserva (insieme al suo mandato, alla sua legittimità) a
essere messo in discussione” (2002, p. XXX). La
consapevolezza di una organizzazione politica del sapere ha
dunque comportato una riconversione d e l l o sguardo
sociologico, fin quasi al suo annullamento, attraverso, per
esempio, l’intervista come momento di accesso al mondo e non
solo come strumento che, a monte, guida la ricerca (Bourdieu
1993).
Ma l’elemento forse più caratterizzante l’indagine
etnografica è la centralità che in essa vi gioca la pratica
di scrittura, ovvero l’operazione attraverso cui l’oggetto
osservato viene testualizzato in rappresentazioni oggi
giudicate eurocentriche e asimmetriche. Tradizionalmente,
sono quattro gli aspetti che hanno delimitato il perimetro
delle “possibilità discorsive” del sapere antropologico, come
ha fatto notare Michel de Certeau (1975; cfr. anche Fabietti
e Matera 2004): l’oralità, l’atemporalità, la dimensione
inconscia e l’alterità, che vanno a formare i confini del
“quadrilatero etnologico”. L’oralità indica la condizione di
chi è osservato, il quale, generalmente, non scrive.
L’atemporalità, di cui è rappresentativo il presente
etnografico e transcultrale utilizzato fino a poco tempo fa
in molte monografie su questa o quella ‘cultura’, è invece
ciò che fa da sfondo all’immagine che l’etnologo possiede
della società di cui parla: una società dipinta come se non
avesse storia, o perché la si è negata, o perché si pensa di
poterne stare fuori. L’alterità è invece ciò che separa
l’etnologo dal suo oggetto, ciò che suscita stupore e deve

11
essere ricondotto a una differenza. La dimensione inconscia
rimanda infine alla convinzione, condiva peraltro anche dai
semiologi, che i fenomeni culturali hanno un significato che
sfugge agli attori, e che è prerogativa dell’etnologo mettere
in luce. Attraverso il lavoro della scrittura etnografica,
l’oralità viene tradotta, per l’appunto, in scrittura,
l’atemporalità diventa storia, l’alterità differenza, e la
dimensione inconscia ricondotta a un senso manifesto. La
scrittura è all’origine così di uno spostamento, che per de
Certeau implica il rischio di una de-significazione. Il
processo di fissazione dei significati culturali
nell’etnografia prevede però fasi diverse di elaborazione e
di testualizzazione della parola ‘altra’: le note del campo,
il testo etnografico presentato al pubblico e il corpus di
testi etnografici relativi a una determinata ‘cultura’ o
‘etnia’, fasi che riguardano sia questioni relative a una
tipologia dei discorsi e dei generi testuali, sia
l’intertestualità entro cui, per esempio, la rappresentazione
di una città si viene a definire.
Ed è nel tentativo di correggere tali modalità
oggettivanti di iscrizione dell’etnografia nell’antropologia
che si è sviluppato i l cosiddetto sperimentalismo
etnografico, che prova a restituire la parola all’altro con
una scrittura basata su di una impostazione dialogica e
polifonica del resoconto etnografico, e in questa maniera
cerca di ricreare una sorta di contemporaneità tra
antropologo, informate nativo e ‘nativi’, e cioè tra chi
osserva e interpreta, chi viene osservato e anche chi media
tra questi, traducendo (l’informante nativo). La descrizione
deve quindi non solo prevedere, ma anche mostrare il dialogo
e lo scambio su cui è fondata, le voci intrecciate di cui è
frutto. I significati che la pratica etnografica porta alla
luce emergono così dall’interazione tra soggetti diversi e
grazie alla negoziazione che tra di loro ha luogo, e non da
un inconscio che l’antropologo riporta alla luce.
Si può allora notare come le problematiche oggi al centro
della scrittura dell’etnografia, sia sociologica, sia
antropologica, tocchino alcuni problemi che in parte la
ricerca semiotica ha già affrontato, e altri che, invece, le
sono stati fino ad oggi estranei, o che ha giudicato non
pertinenti. La semiotica da sempre lavora sui testi come
oggetti costruiti, e quindi, nel complesso, sulle modalità di
testualizzazione che tanto preoccupano gli etnografi,
rendendo trasparenti le proprie categorie d’analisi; meno si
è interrogata sulla soggettività di chi interpreta, sulla
parzialità del suo punto di vista, e sulla potenziale
asimmetria che lega chi osserva a ciò che è osservato. La
dimensione interpretativa dell’indagine etnografica, il
problema della definizione del senso sociale, i modi in cui
le situazioni sono costruite e il modo in cui i racconti

12
rinviano ad esse, sono in ogni caso questioni che una teoria
narrativa, attenta alla dimensione passionale degli attori e
alla loro disposizione modale, unita una teoria
dell’enunciazione hanno se non risolto, sicuramente
affrontato, e in alcuni casi anche in modi più puntuali, o
comunque rilevanti, come discute Maria Pia Pozzato nella
seconda parte di questo articolo.

5. Verso un’etnografia semiotica della città: l’immagine


della città di Kevin Lynch

Vorrei, trattando altri autori, proseguire le riflessioni


condotte fin qui da Cristina Demaria. Tali riflessioni hanno
già evidenziato come la semiotica possa dare alcune risposte
in merito allo studio delle città e dialogare con altri campi
disciplinari come quelli sociologici, etnografici e
antropologici. Da parte mia, avevo tentato già diversi anni
fa di riflettere sui rapporti fra la metodologia semiotica e
lo studio etnografico dei media (Pozzato 1988). Lì il
problema era soprattutto quello di integrare l’analisi dei
programmi televisivi c o n uno studio, semioticamente
orientato, della ricezione da parte del pubblico. Il
problema, tuttora aperto, è quello di analizzare con gli
strumenti della semiotica pratiche effettive di fruizione e
valutazione da parte di spettatori empirici, gradi di
“aberranza” delle loro interpretazioni rispetto a una
presunta “buona lettura” delle trasmissioni, e così via. Ma
se l’oggetto d’analisi è la città, si intuisce immediatamente
che i problemi si complicano ancor di più: il semiotico cerca
di studiare la città come se fosse un testo ma molte
difficoltà gli provengono dal fatto che essa è un testo assai
diverso da un romanzo o da un quadro. La città-testo
comprende infatti anche i “lettori” che la leggono, i
moltissimi “enunciatori” che l’hanno creata, i “traduttori”
che continuamente la usano, la modificano e l’adattano;
nonché il semiotico stesso che entra nella città non come un
sorta di entomologo distaccato ma come un osservatore
inevitabilmente partecipe della vita, dei ritmi, dei valori
della città stessa con il suo enorme potenziale simbolico e
la sua misteriosa coesione. Sembra impossibile infatti
accostarsi alla città senza tener conto del suo statuto
vissuto e culturalmente stratificato a un tempo, della sua
natura di microcosmo. Come dice Jurij Lotman,

Lo spazio architettonico vive una vita semiotica doppia. Da


un lato modella l’universo (universum): la struttura del mondo
costruito e abitato viene proiettata su tutto il mondo nel suo
complesso. Dall’altro viene modellizzato dall’universo: il mondo
creato dall’uomo riproduce la sua idea della struttura globale del
mondo. A ciò è collegata l’elevata simbolicità di ciò che, in un
modo o nell’altro, è relativo allo spazio abitativo dell’uomo.

13
(Lotman 1998, p. 38)

Anche se si parte dalla definizione della città come


spazio culturale (nell’accezione lotmaniana), non è sempre
facile stabilirne confini, frontiere interne, pertinenze che
ci permettano di articolarlo in maniera efficace. Anche
Algirdas Greimas, nel suo celebre e fondativo saggio sulla
semiotica topologica (Greimas 1976), distingueva uno spazio
inteso come pura estensione da uno spazio costruito, luogo di
significazione per qualcuno. L’estensione, diceva, è la
sostanza continua dello spazio riempito di oggetti, che
conosciamo attraverso i sensi. Lo spazio è invece la messa in
forma articolata di una porzione dell’estensione, è cioè una
costruzione che sceglie solo alcune caratteristiche di questo
o di quell’oggetto in vista della significazione. Forse è
proprio in questa semplice ma importante definizione che il
semiotico può trovare il bandolo della matassa. La datità
eteroclita della città viene ridotta, di volta in volta, in
base al potenziale di significazione dei suoi formanti. Del
resto è evidente che non si viene a capo di un oggetto
complesso e mutevole se non attraverso un’attitudine
costruttivistica. Si pensi al gesto ipotetico che permise a
Lotman di dire, ad esempio, che la struttura urbanistica
dell’intera San Pietroburgo è riconducibile a pochi formanti
plastici (/apertura/, /rettilineità/, /orizzontalità/) e a un
orientamento specifico dello sguardo di uno spettatore
ideale, tutti elementi che veicolano da un lato una forma del
potere9 e dall’altro la volontà di questa città di porsi
come “finestra sull’Europa”. Quello di Lotman è gesto
estremo, certo, dotato di un’eleganza astrattiva quasi mai
alla portata dei nostri casi e delle nostre capacità
analitiche. E tuttavia il semiotico russo sembra tracciare
l’unica strada percorribile con i mezzi della semiotica. Di
fatto, quando si osserva una realtà urbana, ci si trova di
fronte a un oggetto inesauribile, sia nella sua morfologia
che nelle pratiche che lo animano. La città di oggi appare
come l’incrocio di diverse visioni: convivono in essa sogni
utopistici (molte delle relazioni del convegno hanno
affrontato il tema delle città utopiche) e zone di degrado;
elementi tradizionali e manifestazioni virtuali; elementi
funzionali fortemente caratterizzanti (per esempio le
necessità costruttive dettate in passato dalla guerra,
secondo l’analisi di Paolo Fabbri compresa in questo stesso
volume), ma anche elementi naturali persistenti e vincolanti,
come alture, forre, contrafforti rocciosi, fiumi, litorali, e
così via. Il rapporto fra l’identità morfologica della città,
il dato naturale e storico, e la messa in processo di questi

9
“[…] Capitale militare, città-utopia che doveva dimostrare la potenza
della ragion di stato e la sua vittoria sulle forze elementari della
natura.” (Lotman, 1998, p. 45)

14
dati attraverso le pratiche effettive dei cittadini non è
affatto semplice da tratteggiare anche perché spesso i
soggetti usano la città in modo imprevedibile rispetto alla
tradizione o alla progettazione. Come già sottolineato da
Cristina Demaria, le pratiche risemantizzano i luoghi, danno
loro cioè un nuovo significato, e, viceversa, esse vengono
risemantizzate dai luoghi.
La semiotica deve quindi fare un atto di umiltà e
ammettere che, al di là dei suoi consueti punti di forza, ha
bisogno anche di spunti che provengono da altre discipline.
Uno studio classico che, a mio parere, ha molto da dare ancor
oggi è L’immagine della città di Kevin Lynch (Lynch 1960).
Come nel caso di Lotman appena evocato, anche qui siamo di
fronte a un gesto ipotetico forte, a un’attitudine
costruttivistica di grande coraggio. Le città analizzate da
Lynch furono, come noto, Jersey City, Boston e Los Angeles.
Le foto del libro ce le rimandano nel loro bianco e nero anni
’50, con poche macchine e grattacieli che ricordano più
omicidi alla Hitchcock che scenari apocalittici di inizio
millennio. Ma le coordinate stabilite da Lynch appaiono, dopo
quasi mezzo secolo, sempre interessanti: quel suo
individuare, nella città, poche categorie di salienza fa sì
che l’approccio di Lynch sia molto affine, nella sostanza, al
procedere della semiotica. Come è noto, l’autore suggerisce
di analizzare la città come un sistema coordinato di nodi,
percorsi, quartieri, margini, riferimenti10. Tuttavia non è
facile tradurre nella terminologia semiotica queste
categorie: da una parte, esse possono essere considerate
delle unità tematiche che mappano dei programmi narrativi
urbani tipici come spostarsi lungo dei percorsi, bloccarsi di
fronte a un margine, orientarsi in base a punti di
riferimento, riconoscere la coerenza figurativa di un
quartiere, ecc.; dall’altra, esse sottendono certo numero di
categorie plastiche11 (uni-direzionato/irraggiante,

10
Ricordiamo brevemente le definizioni che Lynch dà di questi termini.
I p e r c o r s i sono i canali lungo i quali l’osservatore si muove
abitualmente, occasionalmente o potenzialmente. I margini sono confini
fra due diverse fasi, interruzioni lineari di continuità: rive, linee
ferroviarie infossate, margini di sviluppo edilizio, mura. Possono
costituire barriere. I quartieri sono zone della città in cui
l’osservatore può “entrare” e che possiedono qualche caratteristica
individuante. I nodi sono fuochi intensivi verso i quali o dai quali
l’osservatore si muove: congiunzioni, luoghi di interruzione dei
trasporti, luoghi di concentrazione, o di scambio, o di congiunzione.
Infine i riferimenti sono elementi puntiformi di cui l’osservatore
però rimane all’esterno: edificio, negozio, montagna, insegna, torri,
cupole, e altri dettagli urbani che sono usati come indizi di identità
e punto di riferimento negli itinerari.
11
Ovviamente Lynch non ragiona in questi termini, la categorizzazione
semantica soggiacente è un tentativo tutto mio e richiederebbe ben
altro spazio per avere esiti soddisfacenti.

15
continuo/discontinuo, denso/fluido, figurabile/non figura-
bile, ecc.) e quindi propongono una morfologia specifica
della città, tutta basata sul carattere situato di un
osservatore-utilizzatore. In realtà in questo libro non si dà
una definizione univoca di “significato” di una città.
L’autore mette insieme, abbastanza confusamente, tre
problematiche diverse: il riconoscimento percettivo dei
luoghi; l’identificazione cognitivo-funzionale degli stessi;
la ridda delle connotazioni individuali che possono investire
la città o alcuni suoi elementi. L’oggetto urbano, dice
Lynch, deve avere qualche significato, pratico o emotivo, per
il soggetto. Per esempio, l’immagine di una porta nasce: a)
quando questo oggetto è stato individuato rispetto a quanto
gli sta intorno; b) quando lo si è situato rispetto
all’osservatore; c) quando ha acquisito per quest’ultimo il
significato di un un foro d’uscita. Da questa accezione
pratica, progettuale, di tipo fenomenologico, del termine
“significato”, Lynch passa però subito dopo a un’accezione di
tipo più vago e soggettivo:

Manhattan può rappresentare vitalità, potere, decadenza,


mistero, congestione, grandezza, e chi più ne ha più ne metta, ma
in ogni caso quel distintivo profilo cristallizza e rinforza il
significato. (Lynch 1960, p.30 tr. it.)

In questo modo però il riconoscimento dell’immagine,


che prima aveva bisogno della relazione con l’osservatore e
con i suoi progetti d’azione, ora sembra un puro fatto
percettivo mentre il significato, dal canto suo, si disperde
in una nebulosa di “connotazioni”. Si nota insomma, in questo
libro, una sostanziale mancanza di chiarezza fra i livelli di
strutturazione semiotica del significato e questo fa
oscillare i l discorso d i Lynch fra formalismo e
fenomenologia, tra parametri oggettivi di tipo plastico e
valorizzazioni soggettive. Quando l’autore àncora il
significato all’uso, al valore della città per i suoi
abitanti, la sua indagine si apparenta con l’etnografia;
quando insorge in lui il timore di una proliferazione
incontrollata di “immagini individuali” della città, Lynch si
rinserra in una disamina formale, quasi topografica, dei
luoghi, fino ad auspicare una separazione tra “forma” e
“significato”.12 Greimas, forte di una tradizione
hjelmsleviana, pone in termini più chiari e univoci il
problema del significato del testo spaziale: il significante
spaziale è tale solo perché ha un significato; il testo
spaziale (significante + significato) è frutto di una

12
“Tanto vari sono i significati individuali di una città, anche se la
sua forma può essere facilmente comunicabile, che, almeno in questa
iniziale fase d’analisi, appare possibile separare significato e
forma. Questo studio ci concentrerà quindi sull’identità e la
struttura delle immagini urbane.” (Lynch 1960, p. 31 tr. it.)

16
costruzione all’interno di un quadro formale e culturale; il
significante spaziale per essere significativo deve andare al
di là della pura denotazione, parlare della società che lo ha
costruito (valori estetici, funzionali, politici). (Greimas
1976, passim)
Bisogna dire che Lynch, per fortuna, tiene fede
pochissimo ai suoi propositi formalisti. Il suo studio
presenta delle “imperfezioni” feconde fin dalla costituzione
del corpus: l’équipe infatti non sembra essersi preoccupata
eccessivamente di costruire un campione corretto e
significativo, nel senso odierno dei termini. Di fatto, come
si legge, Lynch e collaboratori chiesero a un gruppo tutto
sommato ristretto di abitanti che cosa ne pensassero della
loro città, come vi si muovessero, che cosa vi riconoscessero
come caratteristico, gradevole o spiacevole, funzionale o
meno. La ricerca nel suo complesso non ha una vera valenza
statistica m a appare piuttosto come un esperimento
metodologico, e come tale mantiene la sua attualità e la sua
possibilità di dialogo con la semiotica. Leggiamo l’incipit
del libro:

Guardare le città può dare uno speciale piacere, per quanto


banale possa essere ciò che si vede. Come un’architettura, una
città è una costruzione nello spazio, ma di scala enorme, un
artefatto che è possibile percepire soltanto nel corso di lunghi
periodi di tempo. Il disegno urbano è quindi un’arte temporale, ma
raramente essa può servirsi delle limitate e controllate sequenze
che sono proprie alle arti temporali, come la musica. […] In
occasioni diverse e per diverse persone, le sue sequenze vengono
invertite, interrotte, intersecate o abbandonate. Esso viene visto
sotto luci e condizioni atmosferiche di ogni tipo. Ad ogni
istante, vi è più di quanto l’occhio possa vedere, più di quanto
l’orecchio possa sentire, qualche area o qualche veduta rimangono
inesplorate. Niente è sperimentato singolarmente, ma sempre in
relazione alle sue adiacenze, alle sequenze di eventi che portano
ad esso, alla memoria delle precedenti esperienze.
(Lynch 1960, p.23 della tr. it.)

Rispetto al saggio già citato di Greimas, vediamo in


qualche modo echeggiare l’opposizione /estensione/ vs
/spazio/ (“ad ogni istante, vi è più di quanto l’occhio possa
vedere, più di quanto l’orecchio possa sentire”); vi è, come
nella semiotica topologica, l’idea della natura inter-
relazionale degli elementi (“niente è sperimentato
singolarmente”) e della componente sintattico-narrativa della
città (“le sue sequenze sono sempre in relazione alle sue
adiacenze, alle sequenze di eventi”). Inoltre si nota, fin
dall’incipit, una forte preponderanza dell’isotopia estetica
(“Guardare le città può dare uno speciale piacere”) che si
conferma nelle “Conclusioni” del libro, dove è chiarissimo
come per Lynch l’aspetto patemico e l’aspetto estetico
dovessero essere considerati in qualche modo gerarchicamente
superiori a quello sociale e a quello funzionale:

17
Vero è che noi abbiamo bisogno di un ambiente che non sia
semplicemente ben organizzato, ma anche poetico e simbolico. Esso
dovrebbe parlare degli individui e della loro società complessa,
delle loro aspirazioni e delle loro tradizioni storiche, della
situazione naturale e delle complicate funzioni e movimenti del
mondo urbano […] Per l’intensità della sua vita e lo stretto
avvicinamento dei suoi disparati abitanti, la grande città è un
luogo romantico, ricco di particolari simbolici. Essa è per noi
insieme splendida e terribile, “il paesaggio delle nostre
confusioni” come Flanagan la chiama. Se fosse leggibile,
autenticamente visibile, allora paura e confusione potrebbero
venire rimpiazzate dal godimento della ricchezza e della potenza
della scena.
(Lynch 1960, p. 130 tr. it.)

Anche questa è un’opzione molto in sintonia con la


semiotica attuale che considera fondamentale un profilo
patemico, le dinamiche di unione13, oltre a quelle narrative
di congiunzione e disgiunzione. E introduce, come propone
Jacques Geninasca, uno sguardo estetico sulla città, accanto
a uno sguardo razionale e funzionalista.14
Un’altra problematica di Lynch si avvicina invece a
quelle tradizionali della semiotica interpretativa. Come si è
detto, l’autore non analizza direttamente le città bensì i
discorsi che i loro abitanti fanno su di esse. In realtà,
sarebbe più esatto dire che vengono confrontate, per ogni
città analizzata, due letture: quella di un esperto che vi fa
un sopralluogo preliminare e ne stila una mappatura “ideale”;
e quella del cittadino comune, che racconta la sua esperienza
personale della città. In questo modo di procedere si profila
anche per l’ambiente urbano la distinzione che Umberto Eco
(Eco 1979) prevedeva per i testi letterari, suscettibili di
letture più o meno ingenue, più o meno critiche. Ed
esattamente come previsto dalla teoria di Eco, vi sono dei
limiti intersoggettivi all’interpretazione (Eco 1995). A
destare l’attenzione di questa équipe di urbanisti infatti
non è la semplice percezione soggettiva dei luoghi, il
carattere visivo della città così come singolarmente
percepito. Gli urbanisti, dice Lynch, si interessano
piuttosto alle immagini di gruppo, cioè a quelle immagini
della città che sono largamente condivise fra categorie
diverse della popolazione (per età, sesso, cultura,
temperamento, occupazione, ecc.). Si tratta di un’immagine
pubblica, di un quadro comune. Ma come si fa ad arrivare a
questo dato comune se, come si è detto, sono intervistati
degli individui? Le interviste servono per reperire delle
costanti e delle variabili nella percezione delle città, in

13
Mi riferisco all’ultimo libro di Eric Landowski (Landowski 2004)
14
Jacques Geninasca ha condotto una vasta riflessione sulla fruizione
estetica. Si veda in particolare il saggio “Le regard esthétique”,
apparso per la prima volta nel 1984 nella rivista Actes Sémiotiques e
poi compreso in Geninasca 1997.

18
modo da ricostruire ipoteticamente, per via induttiva, la
loro immagine pubblica. Il rapporto fra immagine pubblica e
immagine individuale è tuttavia assai problematico e
complesso:

Sembra che per ogni città data esista un’immagine pubblica


che è la sovrapposizione di molte immagini individuali. O forse vi
è un certo numero di immagini pubbliche, possedute ciascuna da un
certo numero di cittadini. Tali immagini di gruppo sono
indispensabili perché un individuo possa agire con successo nel
suo ambiente e possa collaborare con gli altri. Ciascuna immagine
individuale è unica [..] Eppure essa approssima l’immagine
pubblica [..]” (Lynch 1960, p.65 tr. it.)

Ricordiamo che anche in Greimas (1976) viene discussa


con attenzione l’opposizione /società/ vs /individuo/.15
Questa è un'altra problematica interessante che la semiotica
contemporanea può riprendere, confrontando sistemi privati,
individuali, di rappresentazione e rappresentazioni
collettive dei luoghi. Per esempio, nella ricerca sul
Mediterraneo Europeo coordinata da Patrizia Violi16, e alla
quale partecipo con un’analisi dell’isola di Grado, hanno una
certa rilevanza i racconti dei locali, degli “informatori
indigeni” insomma, e la loro voce non è meno interessante dei
grandi apparati paesaggistici o testuali attraverso cui i
luoghi creano la loro auto-rappresentazione. Molte delle
località studiate nell’ambito di questa ricerca sono in tutto
o in parte turistiche, e quindi appare particolarmente
divergente l’immagine che hanno della località gli abitanti
stanziali e gli ospiti stagionali. Vi sono casi, come questi
di tipo turistico, ma anche come quelli di tutte le nostre
grandi città ormai multi-etniche, in cui si devono prevedere
non solo diverse immagini individuali ma anche diverse
immagini collettive, data la moltiplicazione degli stili di
vita e degli ambiti culturali di riferimento.

6. Semiotica e antropologia urbana: Ulf Hannerz

Quest’ultima considerazione mi porta a introdurre alcune,


rapide, considerazioni finali sull’antropologia urbana di Ulf
Hannerz, in particolare sul suo Esplorare la città (Hannerz
1980). Hannerz propone di sottoporre le città a una analisi
delle reti (Net Analysis), cioè all’analisi degli episodi di
interazione e di interdipendenza fra gli individui che le

15
In particolare, Greimas confronta il campo d’applicazione
dell’opposizione collettivo/individuale con quello dell’opposizione
pubblico/privato che non è invece centrale in Lynch, dato che lo
studio di quest’ultimo verte esclusivamente su luoghi pubblici.
16
Cfr. in questo stesso volume il contributo di Patrizia Violi e
Andrea Tramontana, dove si dà più vastamente conto di questo lavoro
collettivo.

19
abitano. L’approccio di questo autore, francamente antropolo-
ico, non si preoccupa quindi (come invece era per Lynch) del
rapporto fra gli elementi espressivi della città e i
significati che vi iscrivono gli abitanti, ma confronta le
città in base alle relazioni sociali che le caratterizzano.
Come noto, i cinque grandi ambiti relazionali sono, per
Hannerz, a) quello della famiglia e dei legami di parentela;
b) quello della produzione e fruizione di beni e servizi17; c)
quello del tempo libero, con le attività connesse; d) quello
delle relazioni di vicinato; e) e, infine, quello della
regolamentazione fra individui nel traffico pedonale e
veicolare. I vari tipi di città non differenzierebbero allo
stesso modo questi ambiti ed è proprio il rapporto fra queste
relazioni che sembra interessare l’antropologo quando
afferma: “Bisognerebbe dedicare più attenzione, nell’analisi
dell’antropologia urbana, ai modi in cui gli individui
combinano i ruoli nei repertori.” (Hannerz 1980, p. 217 della
tr. it.) Questo suggerimento mi sembra importante perché
attenua l’approccio tassonomico a favore di una visione se
non altro combinatoria delle reti. I ruoli possono essere del
tutto indipendenti fra loro, o fortemente integrati: in una
comunità urbana ristretta, il tessuto di relazioni sociali è
più denso e tutti giocano più o meno tutti i ruoli con tutti,
mentre in ambito metropolitano ci sono relazioni rarefatte,
gli individui non si conosco fra loro e giocano i vari ruoli
in ambiti differenziati. È evidente come questa problematica
sia facilmente traducibile nei termini della semiotica
narrativa e discorsiva. La densità antropologica descritta da
Hannerz potrebbe corrispondere infatti a quello che in
semiotica è stato definito sincretismo degli attanti, “se
così si può chiamare – precisa Greimas -, dal punto di vista
della struttura attoriale, la presenza di due o più attanti
in un solo attore discorsivo.”18 In realtà, come al solito, il
paragone è imperfetto perché i ruoli previsti da Hannerz (il
parente, il vicino, il fornitore/utilizzatore di servizi, il
passante, ecc.) sarebbero, in termini greimasiani, dei ruoli
tematici più che dei ruoli attanziali. Rimane tuttavia in
comune l’idea di una maggiore o minore condensazione di
ruoli, di una loro distribuzione variabile rispetto al numero
di attori presenti sulla scena. Mi sembra quindi utile
richiamare due definizioni di “attore” date da Greimas nel
suo celebre saggio “Gli attanti, gli attori e le figure”.19 La
prima distingue una struttura attoriale oggettivata (un

17
La traduzione italiana chiama questo ambito “approvvigionamento”
traducendo a mio parere piuttosto riduttivamente l’inglese
provisioning.
18
Cfr. “Un problema di semiotica narrativa: gli oggetti di valore”, in
Greimas 1983, p. 23 tr. it.
19
In Greimas 1983. I passaggi a cui mi riferirò si trovano
rispettivamente a p.53 e p. 63 della traduzione italiana.

20
attore indipendente per ciascun attante) da una struttura
attoriale soggettivata (uno o pochi attori assumono tutti i
ruoli attanziali). La seconda sottolinea la natura astratta,
topologica, della nozione di attore, che la rende
particolarmente affine al “nodo” delle reti di Hannerz. In
altri termini, la definizione topologica de-sostanzializza
gli attori ed enfatizza il gioco mutevole dei ruoli:

Considerato a livello superficiale, il discorso appare così


come uno spiegamento sintagmatico disseminato di figure
polisemiche caricate di virtualità multiple e riunite spesso in
configurazioni discorsive continue o diffuse. Solo alcune di
queste figure, quelle suscettibili di farsi carico di ruoli
attanziali, si trovano assunte a ruoli tematici: esse prendono
allora il nome di attori. Un attore è così il luogo di incontro e
di congiunzione delle strutture narrative e delle strutture
discorsive […] La struttura attoriale appare quindi come una
struttura topologica: pur avendo a che fare sia con le strutture
narrative che con quelle discorsive, essa non è che il luogo della
loro manifestazione, senza quindi appartenere né all’una né
all’altra. (Greimas 1983, p. 62-63 tr.it.)

La riflessione di Hannerz sembrerebbe a prima vista


abbastanza omologa a quella semiotica anche sotto il profilo
socio-semiotico: l’autore dice infatti che il campo sociale è
un ritaglio, nello specifico tessuto, potenzialmente
infinito, della reti sociali. “La nozione di rete in
antropologia comporta dunque l’astrazione a scopi analitici,
a partire da un sistema più ampio, di un sistema più o meno
complesso di relazioni.” (p. 319 della tr. it.) Si può
confrontare questa idea del campo sociale di Hannerz con
quello che Landowski chiama spazio sociale di significazione.
E tuttavia, anche in questo caso, emerge una differenza nella
somiglianza. Prendiamo ad esempio questa definizione di
Landowski:

[varie manifestazioni, politiche, giuridiche, mediatiche,


pubblicitarie, giornalistiche, ecc.,] “contribuiscono alla
costruzione di uno stesso spazio sociale di significazione. Questo
spazio costruito non riflette, per natura, qualche dato sociale
preesistente, ma rappresenta il luogo originario a partire dal
quale il sociale, come sistema dei rapporti fra soggetti, si
costituisce mentre si pensa.” (Landowski 1989, p. 13 tr. it)

Il semiotico francese non si preoccupa solo di


ritagliare costruttivamente un spazio relazionale da
studiare, ma pensa già dal principio questo spazio come luogo
di trasformazione e di auto-rappresentazione. Se, come
abbiamo visto, l’analisi delle reti di Hannerz è facilmente
traducibile in termini di semiotica narrativa e discorsiva,
l’antropologo non sembra particolarmente sensibile alla
definizione della società (e delle città) in termini di
meccanismi creatori di significazione e di trasformazioni.

21
Questa prospettiva è invece assai presente in Lotman per il
quale le strutture architettoniche di una città, ad esempio,
non solo appartengono a epoche diverse costituendo così un
insieme stilisticamente eterogeneo, “ma si trovano in
relazione con la semiotica della serie non architettonica –
rituale, quotidiana, religiosa, mitologica -, con l’intero
totale della simbolicità sociale. Qui sono possibili i più
svariati scarti e i più complessi dialoghi.” (Lotman 1998, p.
40) Secondo la prospettiva lotmaniana quindi, la città non
“ospita” reti relazionali distinte su base funzionale (il
divertimento, il lavoro, ecc.) ma è un complesso di
semiotiche, di sistemi di significazione che producono reti
relazionali. Per Lotman, lo stessa dimensione spaziale è un
dispositivo di produzione-trasformazione:

Lo spazio assimilato culturalmente, e quindi anche


architetturalmente, dall’uomo è un elemento attivo della coscienza
umana. La coscienza, sia individuale che collettiva (cultura), è
spaziale. Si sviluppa nello spazio e ragiona con le sue categorie.
(Lotman 1998, p. 49)

Quindi l’analisi delle reti, pur utilissima per


sistematizzare alcuni aspetti del vivere collettivo, per
molte ragioni potrebbe risultare riduttiva dal punto di vista
semiotico, soprattutto perché chiude anzitempo, dentro
categorie limitate e statiche, gli ambiti di nascita e di
trasformazione dei significati. Lo studio sul Mediterraneo
Europeo già citato, ad esempio, ha incontrato un fenomeno
abbastanza interessante da questo punto di vista: qualcosa
che, con brutto neologismo, potrebbe essere definito
“litoraneizzazione” delle città. In altri termini,
probabilmente per l’influenza delle abitudini balneari,
decisamente incrementate negli ultimi cinquant’anni, molte
grandi città affacciate sul mare sembrano aver rivalutato e
riorganizzato le loro zone litoranee, prima abbandonate o
riservate ad attività lavorative (pesca, commercio). In
questo caso, nella terminologia di Hannerz, le relazioni
legate al tempo libero sono state determinanti nel
riformulare e riposizionare localmente le relazioni di
servizio, di traffico e di vicinato.
Naturalmente questa riflessione lascia aperte moltissime
questioni e non rende ragione della ricchezza e
dell’interesse delle opere citate. Il tutto ha voluto infatti
essere solo un modo per sperimentare la tenuta di
un’attrezzatura metodologica, quella semiotica, di fronte
alla sfida di un oggetto complesso come la città. La mia idea
è che la semiotica debba aprirsi ad altre discipline avendo
cura di capire dove è meno avanzata rispetto ai loro
risultati e dove invece, nel corso degli ultimi decenni, è
riuscita a fare più chiarezza: per usare una metafora
geopolitica, una via di mezzo tra l’imperialismo di cui la

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semiotica era accusata negli anni ’60, e una colonizzazione
eccessiva da parte di sociologia, antropologia, psicologia,
urbanistica, e così via, dove la disciplina diverrebbe
dimentica delle proprie tradizioni e competenze.

data di pubblicazione in rete: 21 marzo 2006

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