1
Cristina Demaria ha scritto i paragrafi 1-4, Maria Pia Pozzato i
paragrafi 5-6.
2
Le citazioni dei testi a cui ci riferiremo sono tratte da documenti
scaricabili dalla rete (www.associazionesemiotica.it).
1
proponeva così di progettare non tanto edifici, quanto spazi
intesi come situazioni costruite, e cioè unità di
comportamento nel tempo. Un’indicazione che in qualche
maniera anticipa una prospettiva che può essere tradotta in
termini semiotici, come ha precisato De Baptistis (p. 3):
3
L’intervento di Tiziana Migliore, dell’Università IUAV di Venezia, è
disponibile sul sito dell’AISS con il titolo di “Cosmopolis”, di
Maurice Benayou. Città ideale nella logica della rete.
2
parziali, frammentari e frammentati, di coloro che li
percorrono e, più o meno attivamente, li abitano. Si tratta
di una mostra multimediale interattiva e itinerante al cui
centro vi è il tema dello sviluppo urbano, della sua visione
e della sua frammentazione: chi entra a visitare
l’esposizione si trova infatti a camminare lungo un perimetro
creato da 12 lunette di osservazione, ognuna delle quali
offre allo sguardo del fruitore tre panoramiche di una città
(Parigi, Berlino, Barcellona, Chicago, Johannesburg, Il
Cairo, San Paolo, Pechino, Shangai, Chongqing, Chengdu,
Jakarta), che a loro volta mostrano situazioni di vita urbana
problematiche legate alla mobilità, all’ambiente,
all’architettura, alla sanità e alle risorse energetiche. Al
centro di questo perimetro è posto un grande schermo
circolare che diffonde le immagini composite e dinamiche di
una città ‘ideale’, frutto della sintesi degli sguardi dei
visitatori captati dalle macchine e ritrascritti sullo
schermo. Il pubblico che, guardando nelle lunette e muovendo
gli occhi attraverso le panoramiche, aveva stabilito alcuni
punti di vista sulle città (e quindi l’inclusione o
l’esclusione di alcuni spazi), diventa ora spettatore di una
riscrittura delle città stesse, che è sia una traccia, sia la
sintesi di un insieme di sguardi. La domanda è allora come
questo evento artistico riesca a far riflettere innanzitutto
su “una delle maggiori conseguenze teoriche legate all’uso
delle tecniche digitali nei nuovi media: la testualizzazione
delle pratiche di fruizione” (p. 1), e di conseguenza sul
divenire urbano stesso, sul fatto che esso è sempre opera di
una collettività che lo compone, scompone e ricompone, pur
non essendone a volte consapevole, e nemmeno, sovente,
assumendosene la ‘responsabilità’. In Cosmopolis, come invece
ben sottolinea nella sua analisi puntuale di un testo davvero
complesso Migliore, “installarsi significa misurarsi con il
paradigma della postmodernità governando, da direttori di
regia, l’esplosione della mobilità. L’uso dello spazio, tra
il modus collettivo della gestione e il modus individuale
dell’appropriazione, vincola l’interprete all’assunzione di
‘posti di responsabilità’” (pp. 6-7). Responsabilità che
richiama inoltre una memoria dei luoghi e della loro patina,
nel senso inteso da Fontanille (2004). Ma il dispositivo di
C o s m p o l i s non richiama all’uso in quanto prassi
enunciazionale impersonale: “proprio per la presenza dei
soggetti di enunciazione di fronte alla significazione in
atto della patina, l’indice personale c’è (…) le immagini si
generano non per aggiunta, con tecniche di sovrapposizione,
ma per sottrazione, attraverso svuotamenti interni ottenuti
con sfocature che fanno emergere strati sottostanti”. (ib.)
3
2. La città nelle pratiche d’uso e di progettazione
(…) tutto il sistema dei Sassi come un grande testo, alla cui
etimologia dal latino textum (…) ‘intrecciare” sembra richiamarsi
la stessa struttura dei Sassi, a terrazze degradanti, in cui il
prodotto della natura si intreccia con ciò che è il risultato del
lavoro dell’uomo, un testo in cui è possibile leggere la storia
dell’uomo, nel senso di genitivo soggettivo, in quanto fatta
dall’uomo, e, in quanto tale, anche testo di scrittura, una
scrittura, per dirla con Michail Bachtin, fortemente
dialogizzante. (pp. 1-2).
4
In questo caso citiamo dall’abstract dell’intervento di Piazza, non
essendo il suo testo disponibile in rete. Preferiamo però continuare a
dare la parola agli autori piuttosto che parafrasare concetti i quali,
soprattutto nel caso di Piazza, urbanista dell’Università di Palermo,
non rientrano direttamente in una prospettiva semiotica.
4
città a cui questo studioso è interessato “è quello poetico
dell’architetto operante che storicamente trova motivazioni e
necessità nell’interesse a dare soluzioni di qualità
all’abitare umano, di cui il progetto promuove la produzione
nei suoi vari aspetti. In questo senso i valori ed i
significati della città sono rilevabili nella forma, capace
di dare dimensione, organizzazione e caratterizzazione al
tempo e allo spazio abitato, attraverso articolate compo-
sizioni di elementi che stabiliscono relazioni strutturali
che determinano particolari sistemi abitativi”. Nell’urbani-
stica lo studio della forma è normalmente indicato come
morfologia, che negli studi di Piazza “ha assunto (…) i
caratteri del linguaggio, in quanto materia di applicazione
che consente, in ogni specifica realtà di esperienza, di
conoscere, valutare, pensare, promuovere e produrre l’abitare
umano. All’interno di tali possibilità la morfologia rivela i
caratteri culturali dello spazio e del tempo, i fenomeni di
produzione e riproduzione del senso, le metamorfosi dell’uso
e delle funzioni abitative, le dinamiche di continui
mutamenti e trasformazioni.” L a scelta progettuale
dell’urbanista è sempre, in altre parole, una interpretazione
dello spazio e di ciò che in esso già esiste. Gli esempi
portati da Piazza sono la ristrutturazione del Museo
Archeologico di Taormina, ricavato da una torre del XV
secolo, e il recupero della valle dei templi di Agrigento
come Parco archeologico e paesaggistico sotto l’egida
dell’UNESCO. In particolare, nel caso di Agrigento, il
conflitto che lacera il territorio per la presenza di
abitazioni abusive che non trovano ovviamente una
collocazione nel progetto dell’UNESCO, non va considerato
solo come una questione politica, ma anche, e principalmente,
come un problema urbanistico che chi lavora su quello spazio
deve affrontare. Quando si progetta si deve cioè pensare a
partire da quel che è già inscritto nel territorio,
consapevoli della complessità che sta dietro a qualsiasi tipo
di trasformazione urbana.
La necessità di una visione interpretativa e allargata
del territorio in quanto spazio vissuto e potenzialmente
conflittuale è dimostrata anche da quel che recentemente è
accaduto a Cosenza, così come ci è stato raccontato da
Giorgio Lo Feudo5. La città calabra si è infatti trovata a
dover affrontare la richiesta di un mecenate di origini
locali, ma statunitense di adozione, il quale, dopo aver
donato al Comune diverse sculture che oggi formano un museo
all’aperto (il M.A.P. di Cosenza), ha preteso che gli venisse
intitolata una piazza. La relazione di Lo Feudo ha dunque
tratto spunto da questo fatto locale “inteso come traccia per
5
Anche in questo caso citeremo dall’abstract di Lo Feudo, dell’Univer-
sità di Cosenza.
5
provare ad affrontare, ricorrendo agli strumenti della
semiotica, la più generale problematica inerente alla
denominazione degli spazi urbani (…) ponendo l’accento sui
rinvii e sui nessi esistenti fra la rappresentazione, la
configurazione ‘fisica’ e, ovviamente, la fruizione degli
spazi urbani”. Che cosa succede quando un luogo cittadino
viene ri-battezzato con il nome di una persona vivente,
cancellando così parte della sua storia, e quindi del
significato che attribuivamo a quel luogo? Il caso di
Cosenza, da Lo Feudo definito come un’operazione rituale di
transignificazione, ha visto quindi opporsi da un lato chi,
con un’ottica normativa, sosteneva l’impossibilità giuridica
di intitolare uno spazio urbano a un soggetto vivente, e,
dall’altro, chi invece rifletteva sulle implicazioni di
ordine simbolico e socio-culturale insite nella pratica di
denominazione degli spazi urbani, indicando gli intrecci tra
la rappresentazione dei luoghi, la loro configurazione fisica
e la loro fruizione.
Ma anche il modo in cui il turismo ha trasformato la
città di Firenze può essere considerato come un processo di
transignificazione. Lo spazio della città toscana, nella
lettura fornitaci da Raul Magallon6 viene infatti ‘concesso’
ai turisti, che continuamente lo devono acquistare, fruitori
passivi di un territorio apparentemente pubblico e aperto, in
realtà pubblicizzato, divenuto privato e chiuso. Adottando
una prospettiva sociosemiotica, questa relazione ha cercato
di indagare “le relazioni che si vengono a stabilire tra tre
‘soggetti’ comunicativi: la città di Firenze, come spazio di
significazione; il turista che la visita, come soggetto
attivo di quest'ultima, e il fiorentino,come soggetto
passivo che percepisce la relazione che si viene a costituire
tra i primi due soggetti” (p. 1). L’idea è quella di guardare
a come si è spazializzato il turismo di massa, alla luce
anche dell’idea del sociologo tedesco Ulrich Beck, secondo
cui “gli spazi della nostra integrazione emozionale si sono
estesi, si sono transnazionalizzati” ( ibidem ). Ma la
transnazionalizzazione dello spazio, e la moltiplicazione dei
soggetti che lo abitano non sempre corrisponde a una
integrazione dei luoghi e delle culture. Spesso, secondo
Megallon, si assiste invece a una sorta di perversione dello
spazio che esclude lo straniero, oppure lo colloca, in quanto
turista, entro ristrette tipologie identitarie, riducendo
inevitabilmente la qualità della sua presenza, entro “nuove
forme di nomadismo e deterritorializzazione” che rendono
Firenze una particolare “città di frontiera e di diaspore
temporanee” (p. 7).
6
L’intervento di Magallon, dell’Università Complutense di Madrid, è
disponibile sul sito AISS con il titolo Firenze: città sacra con
carattere profano: dal pubblico al privato.
6
3. Il degrado e il controllo
7
L’intervento di Pellizza, dell’Università Bicocca di Milano, è
disponibile sul sito dell’AISS con il titolo Spazi pubblici a un
bivio. Per una interpretazione del “degrado”:un esempio tratto dal PSC
del Comune di Bologna.
7
/continuità/ vs /puntualità/, e a livello tematico e
assiologico le categorie classiche di /pubblico/ vs
/privato/. In sostanza, il degrado sorge quando lo spazio che
viviamo e che progettiamo diviene incoerente, quando il
nostro ‘ritmo’ viene continuamente interrotto da ostacoli o
da pratiche di altri attori che non si armonizzano con le
nostre. Ed è appunto in questa direzione che il degrado può
essere ripensato come un particolare tipo di conflitto
potenzialmente risolvibile, secondo Pelizza (pp. 19-20), con
la creazione di uno spazio di competenzializzazione, vale a
dire di un
8
L’intervento di Rudelli, consulente della A.s.l. città di Milano –
Servizio Area Penale e Carceri, è disponibile sul sito dell’AISS con
il titolo Non più, non ancora. Pragmatica operativa e trasformazionale
dei regimi semiotici negli spazi urbani delle società di controllo.
8
del controllo?” (ibidem). La tesi di Rudelli è che per
rispondere a tale domanda non sia sufficiente constatare il
“farsi carcere” di molti spazi pubblici che sempre più si
chiudono, o la ricollocazione geografica dei luoghi di
detenzione. Il problema che ci dobbiamo porre, suggerisce
invece Rudelli, “è quello di cogliere l’irriducibilità di un
sistema all’altro collocandoci sul piano della produzione
segnica e non su quello del prodotto” (p. 5) . Conducendo un
approfondita analisi dei contenuti semantici associati
all’opposizione tra liberi e prigionieri, e alla sua
correlazione con la categoria di aperto e chiuso, Rudelli
mostra come nella società disciplinare vi sia un particolare
modo di marcare il dentro dal fuori, il libero dal
progioniero, un modo “che ordina le produzioni segniche sia
dei liberi che dei prigionieri ponendole in una continuità
procedurale”, all’interno in ogni caso di un vincolo di
appartenenza. Nelle società del controllo non vi è invece
alcun vincolo di appartenenza, alcun “dentro” a cui fare
riferimento: “nelle procedure del controllo si dispone
un’infantilizzazione generalizzata nella quale l’individuo
singolarmente preso non è collocato in un processo evolutivo
di acquisizione di stadi successivi di identità, ma è
ipostatizzato come se fosse sempre all’inizio della propria
crescita” (p. 7)., in una delocalizzazione senza fine, in una
ossessiva ripetizione del “non ancora”. Ed è al mischiarsi di
queste due formule, nei penitenziari come nelle città sotto
controllo, che deve allora rivolgersi lo sguardo del
semiotico. Alla città virtuale di Cosmopolis, di Maurice
Benayou, che possiamo comporre con i nostri sguardi, si
sostituisce quindi l’immagine di mille occhi digitali che ci
guardano, e che così producono non tanto nuove città, bensì
nuovi soggetti e nuove segnaletiche, nuove possibili modi di
significare lo spazio che forse dovremmo non solo studiare,
ma anche imparare a valutare criticamente.
9
dei soggetti e degli oggetti, il modo in cui in esso si
iscrivono prassi enunciative e usi, così come si fa con i
testi visivi e verbali classici? Sicuramente la semiotica
possiede strumenti e categorie analitiche forti che
permettono di evidenziare il modo in cui alcune pratiche e
alcuni comportamenti (ri)producono soggetti e oggetti
culturali, come più volte ha fatto notare Paolo Fabbri,
secondo cui non vi è distinzione tra pratiche e testi, in
quanto entrambi sono luoghi di articolazione del senso. Ma è
anche vero che il testo etnografico, in cui chi interpreta è
calato, e alla cui stessa enunciazione o narrativizzazione
partecipa, presenta alcune problematiche epistemologiche che
forse vale la pena ricordare. Le pratiche nei testi e le
pratiche in quanto testo pongono cioè questioni differenti,
su cui a lungo hanno peraltro riflettuto gli etnografi, sulle
cui riflessioni vorrei ora brevemente soffermarmi. Non
intendo certo ripercorrere il dibattito, peraltro vastissimo,
che negli ultimi decenni ha letteralmente rivoluzionato
l’analisi etnografica dei sociologi e degli antropologi,
mettendo fortemente in questione la capacità euristica delle
loro categorie interpretative, ma solo evidenziarne alcuni
punti. Oggi, sostengono per esempio i sociologi (cfr. Dal
Lago e De Biasi 2002), si è abbandonata l’idea di poter
formalizzare dei metodi etnografici; essi sono definibili
solo rispetto uno ‘stile’, uno sguardo comune alle principali
forme di etnografia sociale, entro cui all’indagine
semantico-strutturale delle pratiche sociali si è sostituita
la loro osservazione e la loro descrizione. I significati e
le strutture dell’azione sociale vengono cioè problematizzati
a partire dalle stesse pratiche, da ciò che gli attori fanno
e dicono di fare nella loro esperienza quotidiana. La ricerca
etnografica presuppone quindi uno sguardo “denso” di teoria,
ma al tempo stesso scettico rispetto ai propri risultati. La
ricerca etnografica, in altre parole, non è né oggettiva, né
esaustiva, benché si proponga di collegare i punti di vista
locali e parziali che osserva a prospettive più generali (o
generalizzanti), e quindi integrare un livello micro ad un
livello macro. In quest’idea vi è l’eredità di Ervin Goffman,
soprattutto l’ipotesi del mondo sociale come incastro di
frames, cornici simboliche che conferiscono senso alle
situazioni concrete: “l’etnografo d e v e operare una
distinzione tra le diverse sfere di realtà autonome e
contestuali nelle quali si radicano i significati delle
sequenze minute di interazione” (Dal Lago e De Biase 2002, p.
XXVII). Un’eredità i n parte ripresa e trasformata
dall’etnometodologia di Harold Garfinkel, che si è
concentrata sulle storie di vita (accounts) e sul loro
statuto. I fatti quotidiani sono normalmente osservabili e
descrivibili, vale a dire accountable: in questo senso gli
accounts divengono unità di analisi fondamentali; al tempo
10
stesso, queste descrizioni sono parte integrante di ciò che
si descrive, e quindi non sono separabili dai fatti oggetto
di spiegazione: come a dire che il racconto dei fatti crea i
fatti stessi, e questo forse la semiotica già lo sa. Inoltre,
gli accounts con cui gli individui attribuiscono un senso ai
fatti sociali sono comprensibili soltanto in riferimento a un
contesto: “gli individui formulano un account ricorrendo a
espressioni linguistiche il cui significato non è ‘oggettivo’
bensì indicale (cioè vincolato a un contesto)”. Tradotto
semioticamente, ciò significa che ogni racconto fa
riferimento a una situazione di enunciazione.
L’etnografia sociale così impostata si affida però alla
soggettività del punto di vista del ricercatore, oltre che
alle diverse condizioni di accesso agli spazi e ai mondi
oggetto della ricerca, da integrare inoltre con altri
documenti: interviste, analisi di materiale audiovisivo e
sonoro, ecc. La garanzia della scientificità del lavoro
svolto da un etnografo sociale si lega allora alla
trasparenza delle procedure di descrizione e alle ragioni che
hanno spinto ad adottarle. In ogni caso, come specificano Dal
Lago e De Biase: “Analogamente a quanto è avvenuto negli
ultimi due decenni in antropologia, è lo stesso compito di
chi osserva (insieme al suo mandato, alla sua legittimità) a
essere messo in discussione” (2002, p. XXX). La
consapevolezza di una organizzazione politica del sapere ha
dunque comportato una riconversione d e l l o sguardo
sociologico, fin quasi al suo annullamento, attraverso, per
esempio, l’intervista come momento di accesso al mondo e non
solo come strumento che, a monte, guida la ricerca (Bourdieu
1993).
Ma l’elemento forse più caratterizzante l’indagine
etnografica è la centralità che in essa vi gioca la pratica
di scrittura, ovvero l’operazione attraverso cui l’oggetto
osservato viene testualizzato in rappresentazioni oggi
giudicate eurocentriche e asimmetriche. Tradizionalmente,
sono quattro gli aspetti che hanno delimitato il perimetro
delle “possibilità discorsive” del sapere antropologico, come
ha fatto notare Michel de Certeau (1975; cfr. anche Fabietti
e Matera 2004): l’oralità, l’atemporalità, la dimensione
inconscia e l’alterità, che vanno a formare i confini del
“quadrilatero etnologico”. L’oralità indica la condizione di
chi è osservato, il quale, generalmente, non scrive.
L’atemporalità, di cui è rappresentativo il presente
etnografico e transcultrale utilizzato fino a poco tempo fa
in molte monografie su questa o quella ‘cultura’, è invece
ciò che fa da sfondo all’immagine che l’etnologo possiede
della società di cui parla: una società dipinta come se non
avesse storia, o perché la si è negata, o perché si pensa di
poterne stare fuori. L’alterità è invece ciò che separa
l’etnologo dal suo oggetto, ciò che suscita stupore e deve
11
essere ricondotto a una differenza. La dimensione inconscia
rimanda infine alla convinzione, condiva peraltro anche dai
semiologi, che i fenomeni culturali hanno un significato che
sfugge agli attori, e che è prerogativa dell’etnologo mettere
in luce. Attraverso il lavoro della scrittura etnografica,
l’oralità viene tradotta, per l’appunto, in scrittura,
l’atemporalità diventa storia, l’alterità differenza, e la
dimensione inconscia ricondotta a un senso manifesto. La
scrittura è all’origine così di uno spostamento, che per de
Certeau implica il rischio di una de-significazione. Il
processo di fissazione dei significati culturali
nell’etnografia prevede però fasi diverse di elaborazione e
di testualizzazione della parola ‘altra’: le note del campo,
il testo etnografico presentato al pubblico e il corpus di
testi etnografici relativi a una determinata ‘cultura’ o
‘etnia’, fasi che riguardano sia questioni relative a una
tipologia dei discorsi e dei generi testuali, sia
l’intertestualità entro cui, per esempio, la rappresentazione
di una città si viene a definire.
Ed è nel tentativo di correggere tali modalità
oggettivanti di iscrizione dell’etnografia nell’antropologia
che si è sviluppato i l cosiddetto sperimentalismo
etnografico, che prova a restituire la parola all’altro con
una scrittura basata su di una impostazione dialogica e
polifonica del resoconto etnografico, e in questa maniera
cerca di ricreare una sorta di contemporaneità tra
antropologo, informate nativo e ‘nativi’, e cioè tra chi
osserva e interpreta, chi viene osservato e anche chi media
tra questi, traducendo (l’informante nativo). La descrizione
deve quindi non solo prevedere, ma anche mostrare il dialogo
e lo scambio su cui è fondata, le voci intrecciate di cui è
frutto. I significati che la pratica etnografica porta alla
luce emergono così dall’interazione tra soggetti diversi e
grazie alla negoziazione che tra di loro ha luogo, e non da
un inconscio che l’antropologo riporta alla luce.
Si può allora notare come le problematiche oggi al centro
della scrittura dell’etnografia, sia sociologica, sia
antropologica, tocchino alcuni problemi che in parte la
ricerca semiotica ha già affrontato, e altri che, invece, le
sono stati fino ad oggi estranei, o che ha giudicato non
pertinenti. La semiotica da sempre lavora sui testi come
oggetti costruiti, e quindi, nel complesso, sulle modalità di
testualizzazione che tanto preoccupano gli etnografi,
rendendo trasparenti le proprie categorie d’analisi; meno si
è interrogata sulla soggettività di chi interpreta, sulla
parzialità del suo punto di vista, e sulla potenziale
asimmetria che lega chi osserva a ciò che è osservato. La
dimensione interpretativa dell’indagine etnografica, il
problema della definizione del senso sociale, i modi in cui
le situazioni sono costruite e il modo in cui i racconti
12
rinviano ad esse, sono in ogni caso questioni che una teoria
narrativa, attenta alla dimensione passionale degli attori e
alla loro disposizione modale, unita una teoria
dell’enunciazione hanno se non risolto, sicuramente
affrontato, e in alcuni casi anche in modi più puntuali, o
comunque rilevanti, come discute Maria Pia Pozzato nella
seconda parte di questo articolo.
13
(Lotman 1998, p. 38)
9
“[…] Capitale militare, città-utopia che doveva dimostrare la potenza
della ragion di stato e la sua vittoria sulle forze elementari della
natura.” (Lotman, 1998, p. 45)
14
dati attraverso le pratiche effettive dei cittadini non è
affatto semplice da tratteggiare anche perché spesso i
soggetti usano la città in modo imprevedibile rispetto alla
tradizione o alla progettazione. Come già sottolineato da
Cristina Demaria, le pratiche risemantizzano i luoghi, danno
loro cioè un nuovo significato, e, viceversa, esse vengono
risemantizzate dai luoghi.
La semiotica deve quindi fare un atto di umiltà e
ammettere che, al di là dei suoi consueti punti di forza, ha
bisogno anche di spunti che provengono da altre discipline.
Uno studio classico che, a mio parere, ha molto da dare ancor
oggi è L’immagine della città di Kevin Lynch (Lynch 1960).
Come nel caso di Lotman appena evocato, anche qui siamo di
fronte a un gesto ipotetico forte, a un’attitudine
costruttivistica di grande coraggio. Le città analizzate da
Lynch furono, come noto, Jersey City, Boston e Los Angeles.
Le foto del libro ce le rimandano nel loro bianco e nero anni
’50, con poche macchine e grattacieli che ricordano più
omicidi alla Hitchcock che scenari apocalittici di inizio
millennio. Ma le coordinate stabilite da Lynch appaiono, dopo
quasi mezzo secolo, sempre interessanti: quel suo
individuare, nella città, poche categorie di salienza fa sì
che l’approccio di Lynch sia molto affine, nella sostanza, al
procedere della semiotica. Come è noto, l’autore suggerisce
di analizzare la città come un sistema coordinato di nodi,
percorsi, quartieri, margini, riferimenti10. Tuttavia non è
facile tradurre nella terminologia semiotica queste
categorie: da una parte, esse possono essere considerate
delle unità tematiche che mappano dei programmi narrativi
urbani tipici come spostarsi lungo dei percorsi, bloccarsi di
fronte a un margine, orientarsi in base a punti di
riferimento, riconoscere la coerenza figurativa di un
quartiere, ecc.; dall’altra, esse sottendono certo numero di
categorie plastiche11 (uni-direzionato/irraggiante,
10
Ricordiamo brevemente le definizioni che Lynch dà di questi termini.
I p e r c o r s i sono i canali lungo i quali l’osservatore si muove
abitualmente, occasionalmente o potenzialmente. I margini sono confini
fra due diverse fasi, interruzioni lineari di continuità: rive, linee
ferroviarie infossate, margini di sviluppo edilizio, mura. Possono
costituire barriere. I quartieri sono zone della città in cui
l’osservatore può “entrare” e che possiedono qualche caratteristica
individuante. I nodi sono fuochi intensivi verso i quali o dai quali
l’osservatore si muove: congiunzioni, luoghi di interruzione dei
trasporti, luoghi di concentrazione, o di scambio, o di congiunzione.
Infine i riferimenti sono elementi puntiformi di cui l’osservatore
però rimane all’esterno: edificio, negozio, montagna, insegna, torri,
cupole, e altri dettagli urbani che sono usati come indizi di identità
e punto di riferimento negli itinerari.
11
Ovviamente Lynch non ragiona in questi termini, la categorizzazione
semantica soggiacente è un tentativo tutto mio e richiederebbe ben
altro spazio per avere esiti soddisfacenti.
15
continuo/discontinuo, denso/fluido, figurabile/non figura-
bile, ecc.) e quindi propongono una morfologia specifica
della città, tutta basata sul carattere situato di un
osservatore-utilizzatore. In realtà in questo libro non si dà
una definizione univoca di “significato” di una città.
L’autore mette insieme, abbastanza confusamente, tre
problematiche diverse: il riconoscimento percettivo dei
luoghi; l’identificazione cognitivo-funzionale degli stessi;
la ridda delle connotazioni individuali che possono investire
la città o alcuni suoi elementi. L’oggetto urbano, dice
Lynch, deve avere qualche significato, pratico o emotivo, per
il soggetto. Per esempio, l’immagine di una porta nasce: a)
quando questo oggetto è stato individuato rispetto a quanto
gli sta intorno; b) quando lo si è situato rispetto
all’osservatore; c) quando ha acquisito per quest’ultimo il
significato di un un foro d’uscita. Da questa accezione
pratica, progettuale, di tipo fenomenologico, del termine
“significato”, Lynch passa però subito dopo a un’accezione di
tipo più vago e soggettivo:
12
“Tanto vari sono i significati individuali di una città, anche se la
sua forma può essere facilmente comunicabile, che, almeno in questa
iniziale fase d’analisi, appare possibile separare significato e
forma. Questo studio ci concentrerà quindi sull’identità e la
struttura delle immagini urbane.” (Lynch 1960, p. 31 tr. it.)
16
costruzione all’interno di un quadro formale e culturale; il
significante spaziale per essere significativo deve andare al
di là della pura denotazione, parlare della società che lo ha
costruito (valori estetici, funzionali, politici). (Greimas
1976, passim)
Bisogna dire che Lynch, per fortuna, tiene fede
pochissimo ai suoi propositi formalisti. Il suo studio
presenta delle “imperfezioni” feconde fin dalla costituzione
del corpus: l’équipe infatti non sembra essersi preoccupata
eccessivamente di costruire un campione corretto e
significativo, nel senso odierno dei termini. Di fatto, come
si legge, Lynch e collaboratori chiesero a un gruppo tutto
sommato ristretto di abitanti che cosa ne pensassero della
loro città, come vi si muovessero, che cosa vi riconoscessero
come caratteristico, gradevole o spiacevole, funzionale o
meno. La ricerca nel suo complesso non ha una vera valenza
statistica m a appare piuttosto come un esperimento
metodologico, e come tale mantiene la sua attualità e la sua
possibilità di dialogo con la semiotica. Leggiamo l’incipit
del libro:
17
Vero è che noi abbiamo bisogno di un ambiente che non sia
semplicemente ben organizzato, ma anche poetico e simbolico. Esso
dovrebbe parlare degli individui e della loro società complessa,
delle loro aspirazioni e delle loro tradizioni storiche, della
situazione naturale e delle complicate funzioni e movimenti del
mondo urbano […] Per l’intensità della sua vita e lo stretto
avvicinamento dei suoi disparati abitanti, la grande città è un
luogo romantico, ricco di particolari simbolici. Essa è per noi
insieme splendida e terribile, “il paesaggio delle nostre
confusioni” come Flanagan la chiama. Se fosse leggibile,
autenticamente visibile, allora paura e confusione potrebbero
venire rimpiazzate dal godimento della ricchezza e della potenza
della scena.
(Lynch 1960, p. 130 tr. it.)
13
Mi riferisco all’ultimo libro di Eric Landowski (Landowski 2004)
14
Jacques Geninasca ha condotto una vasta riflessione sulla fruizione
estetica. Si veda in particolare il saggio “Le regard esthétique”,
apparso per la prima volta nel 1984 nella rivista Actes Sémiotiques e
poi compreso in Geninasca 1997.
18
modo da ricostruire ipoteticamente, per via induttiva, la
loro immagine pubblica. Il rapporto fra immagine pubblica e
immagine individuale è tuttavia assai problematico e
complesso:
15
In particolare, Greimas confronta il campo d’applicazione
dell’opposizione collettivo/individuale con quello dell’opposizione
pubblico/privato che non è invece centrale in Lynch, dato che lo
studio di quest’ultimo verte esclusivamente su luoghi pubblici.
16
Cfr. in questo stesso volume il contributo di Patrizia Violi e
Andrea Tramontana, dove si dà più vastamente conto di questo lavoro
collettivo.
19
abitano. L’approccio di questo autore, francamente antropolo-
ico, non si preoccupa quindi (come invece era per Lynch) del
rapporto fra gli elementi espressivi della città e i
significati che vi iscrivono gli abitanti, ma confronta le
città in base alle relazioni sociali che le caratterizzano.
Come noto, i cinque grandi ambiti relazionali sono, per
Hannerz, a) quello della famiglia e dei legami di parentela;
b) quello della produzione e fruizione di beni e servizi17; c)
quello del tempo libero, con le attività connesse; d) quello
delle relazioni di vicinato; e) e, infine, quello della
regolamentazione fra individui nel traffico pedonale e
veicolare. I vari tipi di città non differenzierebbero allo
stesso modo questi ambiti ed è proprio il rapporto fra queste
relazioni che sembra interessare l’antropologo quando
afferma: “Bisognerebbe dedicare più attenzione, nell’analisi
dell’antropologia urbana, ai modi in cui gli individui
combinano i ruoli nei repertori.” (Hannerz 1980, p. 217 della
tr. it.) Questo suggerimento mi sembra importante perché
attenua l’approccio tassonomico a favore di una visione se
non altro combinatoria delle reti. I ruoli possono essere del
tutto indipendenti fra loro, o fortemente integrati: in una
comunità urbana ristretta, il tessuto di relazioni sociali è
più denso e tutti giocano più o meno tutti i ruoli con tutti,
mentre in ambito metropolitano ci sono relazioni rarefatte,
gli individui non si conosco fra loro e giocano i vari ruoli
in ambiti differenziati. È evidente come questa problematica
sia facilmente traducibile nei termini della semiotica
narrativa e discorsiva. La densità antropologica descritta da
Hannerz potrebbe corrispondere infatti a quello che in
semiotica è stato definito sincretismo degli attanti, “se
così si può chiamare – precisa Greimas -, dal punto di vista
della struttura attoriale, la presenza di due o più attanti
in un solo attore discorsivo.”18 In realtà, come al solito, il
paragone è imperfetto perché i ruoli previsti da Hannerz (il
parente, il vicino, il fornitore/utilizzatore di servizi, il
passante, ecc.) sarebbero, in termini greimasiani, dei ruoli
tematici più che dei ruoli attanziali. Rimane tuttavia in
comune l’idea di una maggiore o minore condensazione di
ruoli, di una loro distribuzione variabile rispetto al numero
di attori presenti sulla scena. Mi sembra quindi utile
richiamare due definizioni di “attore” date da Greimas nel
suo celebre saggio “Gli attanti, gli attori e le figure”.19 La
prima distingue una struttura attoriale oggettivata (un
17
La traduzione italiana chiama questo ambito “approvvigionamento”
traducendo a mio parere piuttosto riduttivamente l’inglese
provisioning.
18
Cfr. “Un problema di semiotica narrativa: gli oggetti di valore”, in
Greimas 1983, p. 23 tr. it.
19
In Greimas 1983. I passaggi a cui mi riferirò si trovano
rispettivamente a p.53 e p. 63 della traduzione italiana.
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attore indipendente per ciascun attante) da una struttura
attoriale soggettivata (uno o pochi attori assumono tutti i
ruoli attanziali). La seconda sottolinea la natura astratta,
topologica, della nozione di attore, che la rende
particolarmente affine al “nodo” delle reti di Hannerz. In
altri termini, la definizione topologica de-sostanzializza
gli attori ed enfatizza il gioco mutevole dei ruoli:
21
Questa prospettiva è invece assai presente in Lotman per il
quale le strutture architettoniche di una città, ad esempio,
non solo appartengono a epoche diverse costituendo così un
insieme stilisticamente eterogeneo, “ma si trovano in
relazione con la semiotica della serie non architettonica –
rituale, quotidiana, religiosa, mitologica -, con l’intero
totale della simbolicità sociale. Qui sono possibili i più
svariati scarti e i più complessi dialoghi.” (Lotman 1998, p.
40) Secondo la prospettiva lotmaniana quindi, la città non
“ospita” reti relazionali distinte su base funzionale (il
divertimento, il lavoro, ecc.) ma è un complesso di
semiotiche, di sistemi di significazione che producono reti
relazionali. Per Lotman, lo stessa dimensione spaziale è un
dispositivo di produzione-trasformazione:
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semiotica era accusata negli anni ’60, e una colonizzazione
eccessiva da parte di sociologia, antropologia, psicologia,
urbanistica, e così via, dove la disciplina diverrebbe
dimentica delle proprie tradizioni e competenze.
Bibliografia
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