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12/09/21, 23:38 Fortuna critica della “Tendenza” – Op. Cit.

Fortuna critica della “Tendenza”


R. AMIRANTE, F. DUMONTET, M. PERRICCIOLI, S. PONE

La nostra rassegna si propone di raccogliere i più significativi contributi


della critica contemporanea sulla corrente architettonica nota come la
«Tendenza». Essa si compone di opere, programmi, esposizioni, e di una
letteratura in parte dovuta a critici dell’architettura più o meno favorevoli ad
essa, in parte agli stessi protagonisti, identificabili peraltro solo in base a
considerazioni sulle caratteristiche delle loro opere e dei loro scritti e non per
formali adesioni alla teorica del movimento, non essendo mai esistito un
manifesto e relativi firmatari.

Tutto ciò è stato del resto già rilevato in più occasioni. Giorgio Muratore scrive
infatti: architettura di tendenza, termine approssimativo e taumaturgico,
copertura paraideologica e metastorica di una realtà assai articolata,
variegata, complessa e contraddittoria; Renato Nicolini, sempre a
proposito dell’uso del termine «Tendenza»: ciò comporta prendere atto
della sua attuale equivocità, perché vi corrispondono significati
palesemente e direi necessariamente diversi; lo stesso Aldo Rossi, infine,
così si esprime: essa [la «Tendenza»] non può nascere da slogans o
manifesti, ma dalla realtà di quei lavori — siano studi o progetti — che si
muovono in una direzione precisa, razionale, ostinata, verso un nuovo
significato dell’architettura.

Ci siamo trovati di fronte ad un materiale molto eterogeneo e ad una


produzione in atto, ed è per questo motivo che la nostra rassegna privilegia,
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rispetto ai brani di lega-mento, i giudizi critici — citati testualmente, così come


è nella formula della rivista — che includono tutti i brani ritenuti più significativi
per la ricostruzione di una «immagine globale».

Quanto alla cronistoria della vicenda, non la daremo per nota, ma neanche la
sintetizzeremo all’inizio della nostra rassegna; essa scaturirà dalla stessa
struttura del presente lavoro, che in un primo tempo avevamo pensato di
articolare per temi (il rapporto con il movimento moderno, l’architettura e la
città, la tipologia, la memoria collettiva, la didattica, la storia, il
monumentalismo etc.) ma che, ad una più attenta

riflessione, ci è sembrato più utile e meno dispersivo organizzare


secondo il modello citato.

Beninteso, la nostra rassegna non ha la pretesa di essere esaustiva, ma


aspira soprattutto ad essere utile strumento di consultazione; il suo obiettivo
più ambito è quello di essere un lavoro sintetico perché basato sulla scelta dei
giudizi ritenuti più significativi.

La parola «Tendenza» trova la sua origine in un articolo di Rossi scritto


nel 1966 «L’architettura della ragione come architettura di tendenza». E
effettivamente a quell’anno che si può far risalire l’inizio della vicenda.
Nel 1966 infatti Rossi pubblica il libro L’architettura della città, che dal titolo
dice quale sia la sua posizione… limitata al campo di azione specifico
dell’architettura, per rivendicare la sua autonomia ed il suo decisivo
contributo alla forma della città.

Lo stesso Rossi, nell’introduzione, si pronuncia in maniera chiara


sull’architettura di tendenza: in architettura i problemi di conoscenza sono
sempre stati uniti alle questioni di tendenza o di scelta. Un’architettura
che non sia di tendenza non ha né campo né modo di manifestarsi.

Nel suo libro Rossi introduce i temi — che in seguito riprenderà più volte —
per la costruzione di una «Tendenza»: un nuovo modo di considerare la città,
trasformando gli elementi urbani in elementi architettonici e
considerando la città come «un insieme di tanti pezzi in sé compiuti»; un
nuovo rapporto con la storia, che costituisce il materiale dell’architettura;
una nuova posizione nei confronti dell’eredità del Movimento Moderno:
accettare questa eredità significa comunque porre su un piano critico il
materiale disponibile; la critica al funzionalismo ingenuo: ma questo non
significa respingere il concetto di funzione nel suo senso più proprio; il
concetto di abitazione, che non può essere il risultato di un’invenzione:
essa è l’espressione di un modo di vita secolare, di tradizioni antiche e
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di tecniche moderne; lo studio della tipologia e la critica


all’Existenzminimum, che organizza nei minimi dettagli la vita degli
abitanti di un alloggio e all’architettura organica dove la forma era e resta
soltanto la traduzione plastica, quasi l’impronta, di una funzione
determinata; il concetto di monumento: noi continuiamo a fruire gli
elementi la cui funzione è andata da tempo perduta: la loro forma è
intimamente partecipe della forma generale della città, ne è per così dire
un’invariante; spesso questi fatti sono strettamente legati agli elementi
costitutivi, ai fondamenti della città, ed essi si ritrovano nei monumenti.

Vittorio Gregotti, in una recensione, definisce il libro un’esposizione dei


problemi della città … che è precisamente definibile come architettura …
ma la caratteristica della città è anche di rappresentare nel suo insieme
una testimonianza della continuità storica di un gruppo sociale.

Gregotti espone poi brevemente il contenuto dei quattro capitoli di cui il libro è
composto e conclude mettendo in risalto quelli che per lui sono i contributi più
«interessanti e creativi»: la nozione di «locus» in cui coincide l’essenza
della città come deposito della memoria collettiva, del mito come tramite
tra il modello di cultura ed i segni fisici che costituiscono la città, e il
fatto che l’opera di Rossi si inserisce in una cultura architettonica ed
urbanistica, come quella attuale, marcatamente influenzata dal pensiero
dei paesi anglosassoni e degli Stati Uniti in particolare, come un libro
europeo. Innanzitutto per la scelta delle fonti … in secondo luogo per il
modo di discuterle e di utilizzarle.

A sua volta, Maria Luisa Scalvini individua un significativo filo conduttore in


alcuni concetti che l’A. ripropone costantemente in tutto l’arco del saggio
…: puntualizzazione del carattere di artisticità, di individualità dei fatti
urbani … determinazione delle due componenti, area residenziale ed
elementi primari; a questi ultimi è intimamente connesso quello del ruolo
giuocato dai monumenti in una teoria della persistenza, nel cui quadro
essi costituiscono un tipico elemento a funzione propulsiva
permanente.

Scalvini rileva inoltre, sempre a proposito di Rossi, che il suo contributo è di


grande interesse; insiste però sul fatto che molti nessi … e passaggi …
non risultano sempre fluidi e motivati [e] resta dubbia ancora la qualità
del tessuto connettivo, … quel «valore urbano» che … si sostituirà
all’indefinibile e localizzata «âme de la cité».

Nell’introduzione al suo libro La costruzione logica dell’architettura (che si può


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considerare un altro punto di riferimento teorico della «Tendenza» ma che non


ne ha avuto il riconoscimento dalla critica) Giorgio Grassi fa esplicito
riferimento a L’architettura della città di A. Rossi, che definisce la sua opera
più importante, quella che riassume la sua ricerca e il suo pensiero;
giustifica poi i rari riferimenti a tale teoria presenti nel proprio saggio scrivendo
che gli elementi per una teoria da lui avanzati nella sua opera
rappresentano il fondamento di questa mia trattazione … e più che
discuterne determinati aspetti conclusivi … vale riconoscerne l’impronta
profonda.

Negli anni della contestazione (1968-69) Aldo Rossi è a Milano e guida un


gruppo di ricerca nella Facoltà di Architettura: i riferimenti teorici, sviluppati
in lezioni e dibattiti, sono da un lato l’impostazione descrittiva
positivistica e dall’altro l’impostazione legata alla analisi strutturale
marxista.

Un articolo di Giovanna Gavazzeni e Massimo Scolari che si riferisce alla loro


esperienza di lavoro nel gruppo diretto da Rossi all’Università di Milano,
inserisce la nascita e lo sviluppo della «Tendenza» nell’ambito del tentativo di
sperimentazione condotto a Milano a partire dal ‘68, contro la riduzione del
discorso disciplinare ad una problematica politica più generale da una parte, e
contro il professionalismo dall’altra.

La corrente in cui ci muoviamo propone la rifondazione globale


dell’architettura nei termini della tendenza: essa vuole dare pieno spazio
all’architettura senza soggezioni o tutele politiche, sociologiche,
tecnologiche … in particolare, la ricerca sui fatti specifici
dell’architettura si prospetta come il più incisivo e più esatto aspetto
della formazione di un architetto.

Agostino Renna e Salvatore Bisogni, in un articolo apparso nel 1969, parlano


del consolidarsi di una disciplina scientifica dei fatti urbani, una scienza
urbana e di una ipotesi operativa che non pretendendo di avere carattere
di universalità, esplicita le proprie valutazioni sul reale, in funzione di
una impostazione teorica tendenziosa.

Più avanti — dopo aver riferito la posizione di Aymonino per cui compito
reale cui si trova di fronte l’urbanistica moderna è quello di predisporre
le immagini e gli strumenti per una nuova forma urbana e che propone
quindi un ribaltamento dalla tecnologia all’architettura intesa come forma
— gli stessi AA. affermano che la «Tendenza», portatrice di questa nuova
«scienza urbana», considera il piano urbanistico come un progetto
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architettonico sulla città che si realizza in forma chiusa e definita per


interventi successivi, aggiungendo pezzi di città finiti a città finite, e
concludono affermando che questa ipotesi muove da una definizione
positiva della città e dell’architettura come manifestazione
esteticamente intenzionata della collettività, fondata su la permanenza
dei valori, la funzione della storia come patrimonio dell’uomo,
l’architettura come scienza, la progettazione come consapevolezza
analitica, e che nella nuova città il monumento … diventerà il luogo della
massima tensione dell’uomo moderno, sarà il «cumulo di terreno» di
Loos.

Nel 1970 Ezio Bonfanti scrive il saggio «Elementi e costruzione: note


sull’architettura di Aldo Rossi», punto di riferimento per tutti coloro che in
seguito hanno scritto su Rossi e sulla sua «scuola». Bonfanti dichiara all’inizio
del suo scritto di non voler discutere né la vocazione di Rossi e il suo
interesse per la formazione di una scuola, né la sua produzione teorica,
per quanto Rossi affermi l’inscindibilità dei due termini (teoria e
progettazione); e precisa: tratterò qui soprattutto della sua architettura e
dei suoi progetti.

Probabilmente, è proprio da ciò che discende l’importanza del suo scritto.

Dopo aver affermato l’importanza della critica accanto all’autodescrizione


(evidenziando con ciò un punto di dissenso rispetto a Rossi) Bonfanti
esamina le sue opere, che tutte insieme sono state considerate quasi un
unico progetto nel quale giudizi di valore separati avrebbero un senso
relativo … L’architettura di Aldo Rossi si presenta con caratteri di
insolita nettezza, di accentuata riconoscibilità e programmaticità.

In realtà ad un esame più profondo, tale programmaticità risulterà molto


meno rigida … [La sua architettura] è analizzabile, ciò che non vuol dire
facile. Essa esibisce comunque immediatamente … il suo carattere di
«composizione per elementi» … pezzi, irriducibili ulteriormente … e parti
… elementi più complessi che in qualche caso possono coincidere con
architetture intere.

Bonfanti enumera i pezzi e le parti di cui Rossi si serve, e sottolinea poi il suo
costante ricorso al procedimento additivo nella costruzione, che procede per
successioni o per sovrapposizioni … Corollario del procedimento
additivo è la separabilità; tutto il ciclo che va dagli elementi alla loro
addizione e torna alla separabilità, rappresenta il tentativo di tener fede
all’assunto di una teoria della progettazione legata alla forma, agli
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elementi ricorrenti, agli aspetti dotati di una precisa logicità tecnica o


distributiva … che può essere svolta come un procedimento logico-
formale, trasmissibile, didatticamente esauriente e sistematico.

Bonfanti si serve delle parole dello stesso Rossi per mettere l’accento sul
nuovo rapporto istituito con la storia dell’architettura: i monumenti romani, i
palazzi del Rinascimento, i castelli, le cattedrali gotiche costituiscono
l’architettura; sono parti della sua costruzione. Come tali ritorneranno
sempre non tanto e non solo come storia e memoria, ma come elementi
della progettazione e conclude con un accenno all’orientamento analitico e
progettuale legato all’idea di «città analoga» (che Rossi nel 1969 aveva
delineato prendendo spunto da un quadro del Canaletto che aveva dipinto
una tela con un paesaggio veneziano «fantastico» componendo tre progetti
palladiani):

Esso è il momento di sintesi tra teoria delle scelte, analisi urbana,


procedimento analitico additivo e rappresenta anche il tentativo di
trasferire su di un piano di sempre minore arbitrarietà il rapporto tra
logica e immaginazione.

Ci sembra che con questo saggio Ezio Bonfanti abbia indicato un pertinente
modo di lettura. Per parte nostra, vorremmo notare che la «Tendenza»
sembra non aver voluto sviluppare appieno le componenti strutturaliste, e
addirittura semiotiche, che erano contenute nelle sue premesse, talora con
enunciazioni anche abbastanza esplicite.

I temi fin qui trattati possono, in linea generale, essere considerati come i
principali assunti teorici della «Tendenza». Per quelli particolari, e per il
dibattito stesso, divideremo la materia incentrandola su alcune «occasioni»
progettuali e su temi specifici.

Il cimitero di Modena

Nel 1972 vengono premiati i progetti vincitori del «Concorso nazionale di idee
per il nuovo cimitero di Modena». L’iniziativa di questo Comune, che aveva
chiamato la cultura architettonica italiana a cimentarsi con un tema almeno
insolito e per lo svolgimento del quale era impossibile riferirsi ad una
tradizione progettuale moderna, ebbe un grande numero di adesioni.

In proposito, Portoghesi scrive che da questo concorso emerge l’esistenza


di una tendenza quindi la possibilità critica all’interno di un panorama
pluralistico, di identificare uno sforzo collettivo, dei denominatori
comuni di ricerca; nonché, più avanti, che i progetti vincitori si possono
considerare tutti all’interno della «Tendenza» accennata e tutti,
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aggiungerei, seppure in diversa misura, viziati da una scelta riduttiva e


inibita del repertorio linguistico.

Il rifiuto della volgarità e del pluralismo imperante nell’edilizia corrente


comportano come contropartita il distacco aristocratico e la ricerca di
metafisiche lontananze; e ancora: L’indiscutibile aspirazione arcaistica
dechirichiana e i legami con Boullée e con il neoclassicismo ideologico,
sono scorie intellettuali incombuste di un processo sintetico arrestato
troppo presto o legittime parentele culturali?

Nello stesso scritto Portoghesi riferiva che la decisione della giuria non era
stata frutto di un accordo ma di una spaccatura. D’altronde anche l’esito del
concorso suscitò aspre polemiche. Nell’aprile del 1973, in un editoriale dal
significativo titolo «Cadaveri architettonici», Bruno Zevi scrive: Lo scandalo
suscitato dai risultati del concorso di Modena manifesta un’ormai
atavica «tensione del rientro» che spinge l’avanguardia italiana a
compiere masochistici regressi non appena si sia fatto un passo avanti.

I progetti sono tutti più o meno neoclassici … gli architetti mascherano


le debolezze e i drammi del loro paese con atteggiamenti intellettuali,
retorici e olimpici … Il Novecento torna in auge; recuperiamo le più viete
espressioni fasciste così ci sentiamo ambientati. Simbolismi ed
ideologie, magari sinistrorse ma forbite, servono per contrabbandare la
reazione. In particolare, a proposito del progetto di Rossi, primo classificato,
Zevi parla di tracciati solenni, ieratici, architettura della (falsa) sicurezza
per esorcizzare il terrore o la malinconia crepuscolare.

Partendo da premesse diverse, sempre a proposito del progetto di Rossi,


Glauco Gresleri esprime un analogo dissenso: Se le qualità del progetto in
discussione sono la sua coerenza formale e plastica, il recupero per la
città di «elementi fondamentali» e di «configurazioni elementari» capaci
di autodistinguersi nell’anonimato figurativo dell’intorno urbano, ed il
suo ricollegarsi ad autori di grande dignità quali Boullée e Ledoux, è pur
vero che questa positività si è ottenuta ad un prezzo troppo alto: il
sacrificio di ogni componente umana dello spazio e la sua angosciosa
concretizzazione in un ambiente lugubremente ostile.

Su «Casabella», dove Rossi aveva presentato il suo progetto «L’azzurro del


cielo» dicendo di aver voluto costruire un cimitero che non si discostasse
dall’idea di cimitero che hanno tutti, Franco Raggi commenta: i primi tre
progetti classificati, ma specialmente il primo, si proponevano di
emblematizzare in termini monumentali il rapporto tra la città dei vivi ed
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il recinto della città dei morti, dove si condensa la memoria collettiva; e


dopo aver notato che il progetto di Rossi sfiorava il semplicismo nel tentativo
di conservare un rapporto con l’impianto precedente del Costa, riconosce
invece che la sua architettura si costruisce sugli elementi e con gli
elementi del passato al di fuori della citazione stilistica che ha con la
tradizione un rapporto imbalsamatorio. Così l’uso analogico della forma
è una scelta che costituisce il carattere della monumentalità del
cimitero.

In «L’architecture d’aujourd’hui», un altro commento: Il progetto di Rossi


prevede la selezione, escludendo il confronto con il divenire del tempo,
perché la selezione è sinonimo di introiezione e di scelta
esclusivamente personale.

Il progetto illustra questa attitudine. L’ordine che implica la sua


architettura, non vale come categoria formale … si tratta di una
categoria che si situa al di fuori della storia, che organizza dei segni
pietrificati; essa non mette in gioco un linguaggio, perché detiene la
chiave di un ordine geometrico, matematico, dinamico in sé, ma privo di
riferimenti ad una «langue».

Nell’articolo sul cimitero di Modena, Portoghesi aveva anche posto una nuova
questione, notando che nella misura in cui la «Tendenza» si realizza e si
specifica nel progetto essa perde di significato e di forza persuasiva.
Che cosa vuol dire questo? Vuol dire che probabilmente è criticamente
corretto tener conto di due fenomeni:

1) una tendenza più ampia e aperta a risolvere i problemi


dell’architettura con i suoi mezzi specifici senza pretendere di ottenere
indicazioni vincolanti e definitive dall’esterno attraverso prestiti e
compromessi con altre discipline e una

2) «tendenza nella tendenza» di carattere più esclusivo che sembra aver


bruciato le tappe nell’identificare l’oggettività con un repertorio formale
precostituito, frutto di una semplificazione rigoristica, nata da un
coacervo di inibizioni, piuttosto che da scelte coraggiose.

L’osservazione di Portoghesi non resterà inascoltata; Vanna Fraticelli sembra


riprendere il discorso in un articolo in cui, dopo aver riconosciuto alla
«Tendenza» l’impegno nella ricerca architettonica, lo sforzo collettivo, la
volontà di rivedere criticamente i giudizi correnti su avanguardia e storia
dell’architettura, aggiunge:

Questo patrimonio assai ricco di ripensamento critico e stimolo di


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indagini non ha ancora trovato una sistemazione più matura, mentre è


piuttosto cresciuto nell’ambito, forse più ricco nella sua immediatezza,
ma di incerta trasmissibilità, dell’esperienza soggettiva, della sintesi
personale … questa mancanza di sistematicità, questa incertezza o
reticenza a generalizzare pienamente i propri risultati, (costruendo teoria
anche nella storia costituisce un pericoloso alibi per fughe imitatorie e
revivalistiche non maturate criticamente.

Andrea Branzi sviluppa un tema analogo, ma lo utilizza per stabilire le «debite


distanze» tra Rossi e i «rossiani»: ci può interessare, e molto, come certi
processi di involuzione a destra possano nascere da movimenti di
avanguardia culturale e come questo pericolo sia permanente in tutti i
tentativi di rifondazione radicale della cultura, se si tenta di agire non sui
contenuti, ma sui meccanismi sociali di produzione della cultura stessa

Chi ha letto i libri di Aldo Rossi, sa bene che non è possibile confondere
le sue motivazioni con le scelte vuotamente massimaliste dei suoi
seguaci, impegnati a gara ad essere «più realisti del re» …

Aldo Rossi fondando una scuola ha perduto quel diaframma terroristico


che lo separava dalla realtà della sua opera, diaframma che gli
consentiva un margine leggibile di ambiguità e quindi di salvezza.

Il tema di una «scuola rossiana» si ritrova nell’articolo, già citato, di Dal Co e


Manieri Elia: Le ricerche effettuate da Rossi sono state riprese in
particolare in alcuni settori delle facoltà di Architettura: perché, benché
non sia possibile riprodurla, la sua architettura è facilmente imitabile.
Dando vita ad una sorta di scuola essa perde di originalità e tradisce le
sue motivazioni.

Il successo di Rossi all’Università è d’altronde significativo: aiuta a


comprendere la degradazione di questo istituto culturale, divenuto
spesso il ricettacolo delle frustrazioni che ingenerano la professione e la
clientela; ci si rifugia in un formalismo vuoto senza tenere conto della
situazione dell’Università che è stata investita senza essere trasformata
altrettanto da enormi fenomeni di scolarizzazione di massa.

La XV Triennale.

Tra la fine del 1973 e l’inizio del 1974 il dibattito sulla «Tendenza» si intreccia
con la polemica suscitata dalla sezione architettonica della XV Triennale
curata da Aldo Rossi, che presenta i lavori esposti in questi termini:
Crediamo che l’insieme di queste opere possa conformare, sia pure
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attraverso la tecnica del collage, un solo grande progetto; un progetto


che non rifiuta le contraddizioni della cultura architettonica di oggi
scegliendo però all’interno di essa tra quelle più propositive.

Rossi, ponendo quindi l’accento sul significato di «progetto collettivo» della


Mostra, ne fa praticamente una esposizione della «Tendenza». La citazione è
contenuta nel libro Architettura razionale, presentato quasi come catalogo
della Mostra, e che contiene scritti di Bonfanti, Bonicalzi, Rossi, Scolari,
Vitale. Particolarmente significativo il saggio di Scolari, che nello stesso
tempo racconta la storia e stende una sorta di manifesto della «Tendenza».
Dopo aver fatto risalire le origini del gruppo al 1967-’68, quando attorno al
corso poli-cattedra Rogers, Rossi, Canella si articola un confronto di idee
che … riesce a chiarire nei «fatti della progettazione» le singole
posizioni, superando le ambiguità programmatiche e gettando i
presupposti per la costituzione di una facoltà di tendenza, Scolari
aggiunge: «Tendenza» non scopre nuove verità ma tende
all’eliminazione degli errori in un divenire della conoscenza incentrato
sull’analisi storica e formale, sullo studio della città come manufatto, e
sui caratteri che portano un certo tipo di architettura a proiettarsi su una
certa parte di società.

Per «Tendenza» l’architettura è un processo conoscitivo che, di per sé,


nel riconoscimento della sua autonomia, impone oggi una rifondazione
disciplinare; che rifiuta di affrontare la propria crisi con rimedi
interdisciplinari; che non rincorre e si immerge negli eventi politici ed
economici, sociali e tecnologici solo per mascherare la propria sterilità
creativa e quindi formale, ma che li vuol conoscere per poter intervenire
con chiarezza, non per determinarli, ma nemmeno per subirli.

Glauco Gresleri pubblica un’ampia recensione del libro, definendolo una


copertura culturale alla sezione internazionale di architettura. A proposito
del titolo afferma: l’essersi tirato addosso il lenzuolo dell’architettura
razionale non ha certo servito al volume per scrollarsi l’alone
fantasmico che sembra impregnarlo da cima a fondo, mentre il titolo più
programmatico e indicativo di «Architettura di tendenza» … ne avrebbe
inquadrato le direzionalità e le pretese in maniera più conseguente e
pertanto più produttiva ai fini di una comprensione.

E ancora, a proposito del saggio di Scolari che stende il testamento


spirituale del movimento di «Tendenza», Gresleri aggiunge: La parte
centrale del volume cerca il recupero di «alleanze di corrente» in una
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serie non troppo articolata di episodi architettonici internazionali, di


firme al di sopra di ogni sospetto … Scolari spinge a fondo la
spiegazione di cosa sia questa tendenza, su quale filosofia si sostenga e
quali prassi applichi.

Le fonti cui attinge a questo scopo si scoprono purtroppo molto limitate


tanto è vero che … deve attingere a piene mani agli scritti, ai pensieri ed
ai saggi di Rossi; e conclude: Se il lettore ha il dubbio di essere saltato
dentro il mondo dell’Accademia, come potremmo dargli torto?

Le polemiche suscitate dalla Mostra di Rossi furono molte e di vario tipo, non
ultime quelle del Movimento Studentesco che accusava Rossi per aver
accettato l’incarico della Mostra stessa; accusa cui Rossi non si sottrae,
riconoscendo anzi un «astratto neoilluminismo» nella posizione che lo aveva
portato a credere che una mostra seria e impegnata potesse riscattare i
limiti obiettivi della situazione.

A questo proposito Branzi osserva: Rossi aveva respinto le accuse


mossegli da più parti… scusandosi con il Movimento Studentesco per
aver accettato l’incarico alla Triennale, definendosi un ingenuo
accademico estraneo a simili valutazioni. Ma non così ingenuo da non
mettere insieme una mostra che oltre alla «Tendenza» allinea tutti i
progetti dei più importanti professori universitari e rilancia la grande
architettura staliniana come antiborghese.

L’accusa di riproporre un’architettura di «regime» trova vasto eco; ne


«L’Espresso» Zevi commenta: L’esposizione architettonica incasellata in
una serie di cubicoli soffocanti, adatti forse ad un convento o forse ad
una prigione, è un capolavoro di doppio gioco culturale. Sventolando la
bandiera della «architettura razionale», esalta la tendenza più gratuita,
dogmatica, reazionaria e oscurantista: un neoclassicismo basato su
assi, simmetria, iterazione di partiti assonanti, rigurgiti piacentiniani,
rancide citazioni novecentesche.

Nessuno contesta ad Aldo Rossi il diritto di esprimere le proprie


preferenze ed idiosincrasie; inaccettabile appare invece la pretesa di
riportarci al sistema Beaux Arts mediante contorti richiami alla
tradizione del Movimento Moderno. Il trucco è troppo scoperto per non
rivelare la sua inconsistenza.

Più tardi lo stesso Zevi scriverà: ecco spuntare coloro che parlano di
«false certezze» e paralizzano il progresso pretendendo una «verifica» e
talvolta una «rifondazione» dell’architettura … oggi i tendenziosi parlano
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di autonomia dell’architettura dopo aver raccontato per anni che


l’architettura era morta, che la sua crisi dipendeva da quella strutturale
della società, che il mondo della architettura era esautorato …
L’autonomia dei tendenziosi confina con un narcisismo autarchico
velato di dannunzianesimo, implica che l’architettura vale per sé, per le
proprie forme.

Da qui al sistema Beaux Arts il passaggio è diretto: dall’autonomia


dell’architettura all’evasione formalistica. E Andrea Branzi ribadisce: La
sezione internazionale di architettura … si è trasformata in un «Summit»
della Restaurazione disciplinare.

La condanna dei gruppi dissidenti è stata imponente, cieca ed


intransigente … Non vedo come si possa parlare di Tendenza quando di
fatto si organizza una Mostra che invece di proporci una architettura di
tendenza, ci propone una architettura di qualità, usando come unico
criterio di selezione una sorta di generico monumentalismo.

Tutta un’altra parte della critica si schiera invece a fianco Rossi e della sua
scuola sottolineando la validità del loro impegno culturale e progettuale.
Franco Raggi, ad esempio, così si esprime: La sezione di architettura
proprio per la sua rigoro e brutale chiarezza ha suscitato le critiche più
aspre … si è voluto vedere nell’ipotesi decisamente disciplinare di Rossi
un sintomo di regressione, o peggio una cosciente strategia della
restaurazione culturale … Si sostiene cioè il significato riduttivo e
reazionario dell’impegno progettuale affermandone la natura
compromessa e strumentale alla rappresentazione della cultura
dominante … dogmatismo e formalismo i limiti della cosiddetta
«Tendenza», ma questo non giustifica l’accusa di restaurazione
culturale.

Paolo Deganello aggiunge: la XV Triennale si presenta come il nuovo


programma, il nuovo piano per l’architettura moderna. È la prima
presentazione ufficiale ed organica di una ricerca e di un impegno
didattico che, iniziato nel ‘66, si è andato via via affermando in molte
facoltà italiane … è anche il tentativo di documentare in tutte le sue
articolazioni, l’affermarsi, nelle scuole europee e nella cultura
architettonica, di questo programma di rifondazione globale
dell’architettura.

II quartiere Gallaratese.

Prima di raccogliere i principali scritti su questo tema, ci sembra giusto


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accennare ad un saggio di Antonio Monestiroli che mette bene in rilievo il


particolare contributo di Giorgio Grassi.

Questo saggio costituisce una eccezione ad una regola generale che traspare
chiaramente dalla nostra rassegna: la quasi totalità degli scritti critici si
pronuncia, o sul movimento di «Tendenza» nella sua globalità senza
specificarne i protagonisti, o (ed è la stragrande maggioranza dei casi) su
Aldo Rossi, considerato da tutti il fondatore ed il principale protagonista di
«Tendenza»; e non è un caso che debba essere proprio Monestiroli, egli
stesso «tendenzioso», a parlare di Grassi.

Egli scrive tra l’altro: Con i suoi progetti Grassi porta nella città del nostro
tempo un mondo di forme che con questa è in aperto contrasto. Un
mondo che, definito ed unitario, si contrappone non solo alla città
capitalista qual è ma anche a tutte le proposte che da questa traggono il
loro movente espressivo.

Monestiroli aggiunge che la ricerca di Grassi, pur non essendo isolata, resta
ignorata dalla critica ufficiale, e conclude che permane il dubbio se sia
questo il momento di sventolare la bandiera della «Tendenza» oppure
quello di cercare nessi più confortanti oltre che un ulteriore
approfondimento delle singole ricerche stesse. Occorre prendere atto
peraltro del fatto che nel momento in cui è decretata la «morte
dell’architettura» vi siano ancora alcuni esemplari di architetti che
contraddicono nei fatti questo vaticinio.

Anche Vanna Fraticelli accenna a Grassi: Vi è di notevole nel contributo di


Grassi la volontà di superare una nozione storicistica dei fatti
dell’architettura: tanto nella sua accezione di contemplazione del
passato, quanto nella forma evoluzionistica; che concepisce lo sviluppo
storico come sviluppo, reazione, crisi, superamento di astratti concetti,
a ricercare nel passato contraffatti e deformi aspetti del presente.

Contributo perciò tanto più importante in quanto ci aiuta a liberarci di


quella «storia della cultura» come fatto sostanzialmente unitario il cui
difetto risiede più che nell’inesattezza, nell’inutilità.

Il progetto per il quartiere Gallaratese di Milano è del 1970, ma la costruzione


degli edifici (progettati da Rossi e Aymonino) è ultimata solo nel 1974. Di
quest’anno è l’articolo di Ferrari che scrive: Linearità e rigore stilistico
(Rossi), complessità tipologica ed eclettismo dall’altro (Aymonino), gli
uni e gli altri al limite del tour de force … E qui lo squilibrio tra la casa
come elemento del paesaggio e la casa come abitazione è evidente …
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12/09/21, 23:38 Fortuna critica della “Tendenza” – Op. Cit.

Queste case non aiutano a vivere; aiutano al massimo a sognare e a


giocare.

E qui forse cogliamo il senso dell’errore in cui i progettisti sono caduti,


errore che sta tutto in un equivoco: altro è cercare di aiutare la gente a
combattere, nell’abitazione e con l’abitazione, l’alienazione di cui
soffrono all’esterno, altro è fare finta che l’alienazione non esista …
L’utente di tale architettura non può essere in senso proprio che uno
solo: l’autore, accompagnato al massimo dai suoi fantasmi preferiti.

Gli risponde, nello stesso numero di «Casabella», Franco Raggi: L’equazione


bello=ricco è troppo allettante per chi fa della critica demagogica e non
si accorge che al Gallaratese vengono riproposte tipologie storicamente
collaudate proprio e solo dalle classi popolari (mi riferisco soprattutto
all’edificio di Rossi).

Del Gallaratese si occupa anche «L’Architecture d’aujourd’hui», nel numero


dedicato agli architetti italiani contemporanei: mentre la costruzione di
Aymonino è un «saggio», cioè la ricerca di una continuità urbana
utopica, sintetizzata nella riproduzione d’immagini storiche tradotte in
«omaggi» e «citazioni», l’edificio di Aldo Rossi nel Gallaratese non
trasmette alcuna speranza e non esprime alcuna continuità.

Il blocco residenziale è indifferente agli avvenimenti esterni, non fa


allusione che alla propria compiutezza e alla permanenza dei segni che
hanno per significato l’immobilità ed il silenzio, la lotta per non
diventare un organismo. È un’architettura «senza qualità», appartiene al
divenire storico dei prodotti.

Anche la rivista «Arquitecturas bis» si pronuncia, riavvicinando il Gallaratese


alle Siedlungen di Karlsruhe e Dessau per l’identità della loro tematica:
evidenziare, realizzare la contrapposizione tra la Ragione e l’irrazionalità
della città del lavoro … Il gruppo di Aymonino offre da lontano
l’immagine variata, deforme, rappresentazione plastica del
compromesso, allegoria della rinuncia al dominio sulla forma … inoltre
si offre esibendo tutto il laborioso processo della sua costruzione …
Niente di tutto questo è in Rossi.

L’unica variazione del bianco e lungo blocco si produce con l’altezza dei
pilastri che lo appoggiano al terreno… Ma le colonne non uniscono il
blocco al suolo, lo separano. Il tema rossiano è nel dimostrare la
possibilità di fare un’architettura immateriale, inattuale, che passi al
disopra della città senza tagliarla.

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12/09/21, 23:38 Fortuna critica della “Tendenza” – Op. Cit.

Vittorio Savi si servirà del parallelo Rossi-Aymonino per controbattere una


delle accuse cui sono soggette le opere di Rossi, il monumentalismo:
L’esempio del complesso residenziale al Gallaratese dove l’edificio di
Rossi sta accanto a quello di Aymonino può essere adottato
strumentalmente per dimostrare che la più aggressiva manipolazione
delle componenti formali, la trascuratezza e l’invenzione variata
(Aymonino) sono monumentali quanto l’ordinamento assiale (Rossi). In
realtà il vero monumentalismo, che sussume con le strutture fisiche il
territorio al ciclo produttivo capitalistico, è altrove: nelle ristrutturazioni
terziarie dei centri storici e nei nuovi fenomeni speculativi.

La «Tendenza» e l’avanguardia.

Il dibattito sulla «Tendenza», dopo l’impennata dovuta alla XV Triennale e il


persistere di qualche accento polemico a proposito del Gallaratese, acquista
toni più pacati; vengono infatti a mancare le voci dei più vivaci oppositori, che
sembrano disinteressarsene. Tuttavia la «Tendenza» continua ad essere
oggetto di numerosi saggi ed articoli.

Nell’introduzione a Progetto e utopia, Tafuri scrive: Si è condotti quasi


automaticamente a scoprire quello che può anche apparire il dramma
dell’architettura oggi: quello cioè di vedersi obbligata a tornare «pura
architettura», istanza di forma priva di utopia, nei casi migliori sublime
inutilità.

Ma ai mistificati tentativi di rivestire con panni ideologici l’architettura,


preferiremo sempre chi ha il coraggio di parlare di quella silenziosa e
inattuale purezza. Anche se essa stessa nasconde un afflato ideologico,
patetico per il suo anacronismo.

Carlo Guenzi, dopo aver riportato il brano di Tafuri appena citato, afferma: È
un atteggiamento, una tendenza che si è incarnata nella scuola di Aldo
Rossi, ma che trova oggi nell’università di massa in via di disfacimento,
e poi nel mondo del lavoro che castra ogni ideale professionale, tutte le
sue motivazioni.

Su «Arquitecturas bis», Rafael Monéo scrive che per Rossi l’architettura è


soprattutto «costruzione logica», e aggiunge: siamo così poco abituati oggi
alla costruzione, che l’immagine della stessa, nella sua provocatoria
elementarietà, si avvicina alle immagini surrealiste e lo stesso Rossi è
ben cosciente di ciò, tanto da non sfuggire alla possibilità e alle
immediate concomitanze che legano i suoi disegni alla pittura metafisica
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12/09/21, 23:38 Fortuna critica della “Tendenza” – Op. Cit.

di un De Chirico e di un Carrà, per proseguire dicendo che Rossi ed i


«rossiani», nell’intento di far intendere la forza dei loro «principi», sono
costretti ad una continua provocazione formale che può dar luogo ad una
interpretazione, ad una lettura in chiave espressionista della loro opera.

Proprio a Monéo pare rispondere Nicolini: È legittimo che alcuni abbiano


rivendicato l’opera di Aldo Rossi all’avanguardia, tra surrealismo ed
espressionismo … Giudizio fondato sull’importanza indubbia del ricorso
alle analogie nell’architettura di Aldo Rossi … il rapporto tra opera e
realtà risulterebbe invertito rispetto ai moduli consueti: piuttosto che
riflesso di un reale, reale di un riflesso, ricerca di un’immagine mentale
della realtà, anziché di realtà.

Possiamo accostarvi, per il tipo di analisi dei progetti che credo vi sia
implicata, la critica di chi scorge in Aldo Rossi il testimonio inattuale
della «purezza» dell’architettura.

Nicolini aggiunge che la realtà storico-sociale non è necessariamente


nostalgia metafisica o allucinazione individuale, ma può essere anche
qualcosa che è un valore e che dobbiamo negare o rivendicare …
l’architettura di Aldo Rossi si presenterebbe dunque in relazione al
presente storico-sociale che la include, come una scommessa sulla
capacità di esistenza di una società radicalmente post-moderna e non
capitalista; e conclude ritrovando in Aldo Rossi un realismo che non è
adeguamento passivo alle circostanze, ma progetto di profonda
trasformazione sociale …

Né si intende bene il senso di questo impegno, se non come parte di


una tendenza più ampia e che comincia a definirsi anche in relazione ad
una problematica più direttamente politica. Questa … non ha molto a
che vedere con le avanguardie storiche e con il loro mito.

Con Nicolini sembra concordare Bernard Huet: La «Tendenza» tenta di


ricostruire la disciplina architettonica. Per la «Tendenza» l’architettura
trova la sua sola giustificazione nel suo «essere» stesso; essa non è
investita di alcun contenuto … e se si riferisce ad una monumentalità è
quella che designa la memoria collettiva attraverso la storia dei tipi. In
una parola essa è «realista».

È facile stabilire una sorta di filiazione tra la «Tendenza» e il realismo


socialista. Quelli che se ne scandalizzano e assimilano la «Tendenza» al
formalismo, al fascismo, o al ritorno all’accademia, perpetuano la
confusione della «critica formalista».

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Nel 1976 Giorgio Muratore pubblica un articolo dal titolo emblematico, «C’era
una volta la Tendenza»: Purtroppo … la stagione progressiva fu di breve
durata … i vari tentativi di rivitalizzare e di dare nuova credibilità al
discorso dovevano restare al livello di patetica invocazione … di
minoranze potenti sul piano politico culturale ma disperatamente
lontane dalle reali dimensioni di un consumo anche sociale dei dati
disciplinari e specifici;

l’A. più avanti, dopo aver riconosciuto il valore di Aldo Rossi come architetto e
il distacco dai suoi «manieristici epigoni», aggiunge: resta comunque il fatto
che tanti falsi profeti, tanti cervellotici esegeti di una mai realizzata
«saison nouvelle» dell’architettura italiana, dovrebbero costringersi ad
una serena quanto radicale autocritica.

Contrapposto alla posizione critica di Muratore è un intervento di Carlo


Aymonino dal titolo altrettanto significativo, «Un’architettura dell’ottimismo»:
La produzione architettonica di Aldo Rossi è un punto di riferimento sia
critico che operativo, tanto nel quadro della situazione italiana quanto a
scala internazionale … per la qualità di ciò che produce, l’architettura di
Aldo Rossi, si oppone sempre più chiaramente alle mode effimere, al
mito del progresso perpetuo e alle tecnologie dominanti …

L’architettura nasce da una successione di problemi analoghi e di


dimensioni simili nei contesti storici differenti … L’analisi delle tipologie
di edifici e quella delle strutture urbane ne danno la prova; attraverso i
loro rapporti reciproci si può dissociare il transitorio dal permanente …
non si tratta più di una «architettura del silenzio» o di una «architettura
della crisi» ma, ironia della storia, di una architettura dell’ottimismo,
popolare.

In un successivo articolo lo stesso Muratore è portato a rivedere la sua tesi


della «morte della Tendenza»: sembra paradossale, ma le cronache anche
recenti confermano che il «morbo rossiano» e la «sindrome di Krier» sia
pure precocemente affrontati ed abbondantemente esorcizzati (ma forse
proprio per questo), dilagano e sono a tutt’oggi incurabili, mentre
frenetici e approfonditi studi vengono condotti per debellarli a colpi di
«codici anticlassici» e di «organiche asimmetrie».

Una personale interpretazione della fortuna della «Tendenza» è proposta da


Franco Purini e Laura Thermes: in realtà la fortuna della tendenza è stata
determinata più dalla distruzione di un humus di conoscenze e
preferenze personali, provocata dalla dequalificazione della scuola, che
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da scelte culturalmente motivate. Così non è passata la linea rigorosa di


Ledoux, di Taut, di Loos, di Mies, di Tessenow, di Muratori e di Rossi, la
linea che potremmo definire «oggettiva» nella progettazione, ma le
architetture personali di questi maestri.

Viceversa, a favore della prevalenza della «linea oggettiva» sembra


esprimersi Renato De Fusco che, a conclusione di una nota dedicata al
«post-modern», mette in rilievo il fatto che molte correnti architettoniche, e tra
queste soprattutto il Protorazionalismo, non sono mai morte, ma hanno invece
avuto una esistenza parallela al «trionfante razionalismo», magari
incarnandone una versione più «moderata».

Ed era prevedibile che, una volta in crisi l’architettura razionale, esse


riemergessero più forti e attraenti; per poi chiedersi, concludendo, se molti
architetti e tra questi lo stesso Rossi, si rendano conto di costituire con le
loro opere la versione più attuale di quel Protorazionalismo, momento
chiave del Movimento Moderno, a suo tempo frettolosamente archiviato.

Il teatro del mondo

Gli ultimi contributi critici sulla «Tendenza» prendono spunto dal «Teatro del
mondo», presentato all’ultima Biennale di Venezia da Aldo Rossi. Portoghesi
commenta: Nel Teatro del mondo … convergono in filigrana, molti dei
temi caratteristici della sua architettura, ma forse si apre anche una
pagina nuova in una ricerca che, se ha il suo maggior pregio nella
concentrazione e nella coerenza, ha anche il merito di svilupparsi e
rinnovarsi periodicamente, attraverso l’acquisizione di nuovi tipi e di
nuove qualità a quel «mondo rigido e di pochi oggetti» in cui essa si
attua …

la laconicità di Rossi non si smentisce, ma perde sempre più un legame


elettivo con le austere cartilagini biancastre del lessico funzionalista;
egli rileva inoltre che il ricorso alla memoria, sempre presente nelle opere di
Rossi e sempre filtrato attraverso i tipi, si è fatto ora molto più libero e finisce
con l’ampliare il gioco delle «associazioni» fino a farne il momento
centrale del progetto che diventa così anche il progetto di una
operazione mnemonica che avviene nella mente dell’osservatore.

Manfredo Tafuri scrive: In realtà il teatro di Rossi non esclude gli


spettatori: solo che è esso che dà spettacolo … Il Teatro veneziano è
infatti destinato ad apparire e a sparire; anche tale sua condizione è
necessario assumere come materiale del comporre.

Si viene così a scoprire che lo stupito spaesamento dell’oggetto di


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Rossi, pur non avendo questa volta da reagire contro la cattiva periferia
metropolitana, è ancora carico di messaggi alternativi nei confronti del
luogo cui esso è destinato … Il teatro di Rossi è pensato come forma
viaggiante … con un risultato: l’effetto straniante di questa costruzione,
che allude ad un mondo di memorie troppo ricco per essere interamente
esplicitato, si moltiplica nel corso del suo realizzarsi e del suo tragitto.

Francesco Dal Co, dopo aver considerato il doppio significato della


costruzione di Rossi — macchina viaggiante sull’acqua da una parte, e vero e
proprio teatro che presuppone quindi l’ordine definito dell’indagine tipologica
— aggiunge: ma soprattutto il teatro di Rossi è un ennesimo tributo alla
memoria perché si presenta, pur nella ammirevole essenzialità, come un
ennesimo montaggio di immagini di diversa provenienza, ricordi magari
già affiorati ma mai precisati nel concreto della costruzione …

il teatrino veneziano placa i ricordi nell’essenzialità ed eleganza della


sua geometria, alludendo al contempo ai propri archetipi. Alla fine
questa architettura dichiara il proprio essere sostanzialmente
rappresentazione della «presenza di un’assenza».

Anche Daniele Vitale si pronuncia sul teatrino sottolineando il rapporto


particolare che questo crea con Venezia: è con questa, con la città e con il
suo mito che il teatro costruito si misura: così nella città che ha negato
di farsi realtà ai progetti dei maestri del Movimento Moderno, il
confronto con l’architettura torna a riproporsi — quasi per ironia —
attraverso la povertà di una struttura provvisoria, galleggiante
sull’acqua.

Vitale più avanti allarga il discorso formulando un sintetico giudizio su tutto il


movimento di «Tendenza»: Il discorso teorico del movimento italiano degli
anni ‘60-’70, la cosiddetta «Tendenza» si è immiserito e perduto nel
corso del suo procedere; inizialmente pieno di idee, di forza di analisi, di
spunti ideologici nuovi, esso ha prodotto diverse proposte convincenti,
ma non una linea chiara e generalizzabile nel campo del progetto; ciò io
credo, va valutato come il segno tangibile di una difficoltà e di
un’insufficienza.

La volontà di ancorare il significato alla città, l’analisi urbana e degli


edifici come base di una teoria, la rivalutazione delle questioni del tipo e
del monumento, sono stati aspetti decisivi di una polemica che ha
proposto una direzione di lavoro ed ha costruito gli elementi di una
contrapposizione: contro la riduzione dell’architettura a genere di
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consumo … contro il mito della creazione come logica delle qualità


individuali;

a questo punto Vitale nota il riaffiorare di un «vizio ideologico», e cioè la


superiorità del contesto rispetto all’architettura, anche se questa volta il
contesto non è più quello storico-sociale, ma lo studio analitico delle
architetture e delle tipologie della città, e conclude: Mutati i temi è rimasta la
stessa incapacità di concepire l’architettura come fatto positivo, come
proposta di trasformazione che ha le sue radici in relazioni più generali
e lontane, in associazioni talvolta imprecise che costruiscono un mondo
di oggetti precisi.

Per completare la rassegna dei contributi critici più recenti, può essere utile
riportare quasi per esteso un lungo brano di Tafuri dedicato a Rossi: Nulla
significano le accuse di fascismo scagliate contro Rossi, dato che i suoi
tentativi di recuperare un’aristocratica astoricità delle forme escludono
ogni ingenua verbalizzazione dei contenuti ed ogni compromesso con il
reale.

Dopo aver stabilito una precisa distinzione tra Rossi e i «rossiani» (altro
discorso faremmo per la sua scuola), Tafuri aggiunge: Riteniamo
doveroso di consigliare a Rossi di non insegnare architettura: ma non
per isterico o conformistico ostracismo, bensì per aiutarlo ad essere più
coerente con il suo affascinante quanto superfluo silenzio.

A proposito poi della ricerca di Rossi, lo stesso A. scrive che questa perde se
stessa nel tentativo estremo di salvare uno statuto umanistico per
l’architettura … [Rossi] non rifonda la disciplina bensì la dissolve … alla
ricerca dell’Essere dell’architettura … scopre che solo il limite
dell’Esserci è dicibile.

Ne scaturisce un risultato teorico di portata fondamentale in realtà già


scontato dalla cultura contemporanea ma che di continuo viene
accantonato. Il rifiuto della manipolazione ingenua delle forme, opposto
da Rossi, conclude il dibattito vissuto personalmente dal primo Loos.

Si può prendere spunto da quest’ultima citazione per tentare una conclusione,


necessariamente dubitativa, della nostra rassegna.

In sostanza, il far salva la sola opera di Rossi, se non addirittura solo un suo
aspetto, cioè quello della sua «silenziosa e inattuale purezza»,
rappresenterebbe una conferma sul campo della nota tesi tafuriana della
«morte dell’architettura», o meglio di un suo modo di intenderla.

Ma anche a condividere questo giudizio, resta il problema di come


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12/09/21, 23:38 Fortuna critica della “Tendenza” – Op. Cit.

considerare la «Tendenza», che non si può liquidare riconoscendole i limiti


propri ad un fenomeno di proselitismo.

Per cui, o si considera tutta la «scuola» come una conferma della tesi
suddetta, limite estremo di un orientamento privo di qualunque indicazione
per altri, oppure, riconosciute tutte le sue valenze, all’attivo come al passivo
— la rivendicazione della «autonomia dell’architettura»; l’approfondimento
dello specifico disciplinare, codificabile e quindi trasmissibile; i riferimenti alla
Metafisica e al Novecento; il carattere «elitario» dell’orientamento — e
riconosciuto soprattutto, pragmatica-mente, il successo della «Tendenza»
nella scuola e nel dibattito, la si considera al contrario come uno dei pochi
segni di vitalità dell’architettura contemporanea.

tratto dal numero 50 (http://www.opcit.it/cms/?page_id=390#30)

Una risposta a Fortuna critica della “Tendenza”


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