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Aldo Rossi – L’architettura della città

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20 giugno 2019

Recensire questa ristampa de L’architettura della città scritta da Aldo Rossi e


pubblicata in prima edizione nel 1966, per noi architetti, implica grossomodo lo
stesso sentimento misto di timore e noia che potreste provare voi di fronte a
Essere e tempo o lo Zarathustra. Cosa si può dire, o meglio aggiungere, a ciò che è
già stato detto in molteplici e svariati modi fino a generare una ciclopica orografia
di interpretazioni? Cosa si può dire di più? Ci poniamo quindi di fronte al fatto in
sé: una ristampa fedele alla prima edizione del libro. Partiamo quindi da qui, dal
1966, anno in cui la casa editrice Marsilio dà alle stampe questo libro che si colloca
nella collana "Biblioteca di architettura e di urbanistica".

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Rossi, A. (1966). L’architettura della città. Padova:
Marsilio Editori.

Uscire per Marsilio aveva già un significato di per sé importante perché questa
casa editrice, nel corso degli anni Sessanta e Settanta, si presentava come un
importante veicolo di diffusione della cultura architettonica italiana e del suo
dibattito avente come protagonista una nuova figura di architetto: intellettuale
prima e professionista poi. Architetti quindi che scrivono e progettano allo stesso
modo, senza manifestare una prevalenza tra le due attività. Non è che tutto ciò
suoni particolarmente nuovo; anche gli architetti che li avevano preceduti
scrivevano libri e trattati (l’attuale interesse per il tema ben si riflette nel recente
libro di Marco Biraghi L’architetto come intellettuale, Einaudi 2019). Nonostante ciò,
se fino a quel momento scrivere riguardava in primis le poetiche dell’architettura,
per gli architetti-intellettuali degli anni ’60 l’obiettivo era un altro e aveva come
focus la città. Volumi come La Torre di Babele (1967) di Ludovico Quaroni e La
costruzione logica dell’architettura (1967) di Grassi, pubblicati entrambi per
Marsilio, esprimevano un tentativo che Aldo Rossi, forse meglio di tutti gli altri, era
riuscito ad esprimere, ovvero: mettere in scena l’architettura come un carattere
della città fisica che non ha nulla a che vedere né con l’amministrazione
urbanistica pianificata dai burocrati, né gli standard edilizi sponsorizzati
dall’industria delle costruzioni, e nemmeno le intenzioni (‘quasi sempre’ buone ma
altrettanto ‘quasi sempre’ ineffettuali) dei maestri dell’architettura.

A poche righe dall’inizio di questa recensione, ci siamo già spinti troppo in là.
D’altronde la storia di questo libro è talmente pregna di aneddoti e vicende da
aprire una mole notevole di discorsi che si ripresentano come tutti importanti a tal
punto da perdere ogni volta il filo della matassa che si vorrebbe dipanare. In ogni
caso, questo groviglio di discorsi non ha alcun legame con l’operatività che ci si
attende prosaicamente da un libro di architettura, cioè un libro scritto dagli
architetti per altri architetti che (di norma) progettano e che vorrebbero trovare nei
libri uno spunto per questa attività. In realtà, qualcuno ci aveva provato a dare un

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taglio manualistico al libro; ci riferiamo all’edizione del 1978, curata da Daniele
Vitale per la casa editrice Clup. Dalle 215 pagine a cui ammontava originariamente,
si era giunti a ben 350 pagine, di cui 30 di nuove note e altrettante in cui si
raccoglievano le varie introduzioni redatte da Rossi in occasione delle edizioni
straniere. Canonizzare questo testo nel vocabolario dottrinale dell’accademia non
poteva che avere questo effetto collaterale adiposo. Un appesantimento a cui
seguiva, già dall’edizione successiva del 1995, un dietrofront con cui si tornava al
numero di pagine originario; e così Il Saggiatore ce lo ripresenta oggi con
un’immagine di copertina che non ha nulla dell’originale sapore di collage
analogico della prima edizione, con la pianta di una città cinquecentesca
sovrapposta a una figura astratta, bensì un dettaglio fotografico della facciata
dell’edificio residenziale del Quartiere Schützenstraße di Berlino, realizzazione
fedele di un progetto di Rossi degli anni ‘90.

Se il libro è rimasto quello che era all’origine, una montagna di eventi, di


pubblicazioni più o meno cerimoniose si sono depositate nella sua immediata
periferia. In questi ultimi anni, le occasioni di parlare e pubblicare raccolte di saggi
su L’architettura della città non sono mancate. Ci riferiamo per esempio, al
collettaneo Aldo Rossi, la storia di un libro: l'architettura della città, dal 1966 ad
oggi (2014), curato da Fernanda De Maio, Alberto Ferlenga, Patrizia Montini Zimolo
per le edizioni IUAV; o al gruppo di architetti che si è riunito attorno al magazine
San Rocco che ha riportato al centro del dibattito una certa fascinazione per
l’architetto che scrive oltre a progettare (il volume 14, uscito nel 2018 e intitolato
“66”, si ispira proprio a libro di Rossi).

Insomma, di Aldo Rossi se ne è parlato tanto e se ne continua a parlare al punto


che sorge spontanea la domanda: non ne avevamo già sentite abbastanza su
L’architettura della città? Sì, è evidente, ne abbiamo sentite tante, forse troppe… al
punto che lo vediamo come un catino stracolmo che tende a tracimare al solo
pensiero di sollevarlo per vedere cosa ci sta sotto.

Quindi, avviandoci a questa recensione abbiamo pensato che fosse meglio lasciar
perdere per un attimo tutto ciò che è stato detto sul libro. Altrimenti non avremmo
mai iniziato.

Ci siamo posti cioè nell’ottica di guardare al libro con lo stesso spirito con cui
Rossi ha guardato alla città e ai luoghi della Pianura Padana, ovvero con una certa
simpatia per le cose semplici, un amore spontaneo che accomuna i luoghi fragili
alle grandi città. Un approccio che mette da parte per un attimo i pregiudizi e lascia
spazio alle intuizioni. D’altronde, dopo tutto quello che altri hanno scritto siamo
arrivati a sapere tutto del libro, quali sono stati i suoi riferimenti culturali e le sue
ricadute su altre opere. A valle di tutto ciò, ci sembra però di aver perso la ragione
della sua lettura; non sappiamo più come usarlo. Davanti a questa ristampa ci
siamo fatti qualche domanda e abbiamo provato a rispondere.

1. È un libro di storia della città?

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Rossi, A. (1978). L’architettura della città. A cura di D.
Vitale. Milano: clup.

No. L’architettura della città non è un libro di storia della città né dell’architettura.
Come ricorda Beatrice Lampariello [cfr. Aldo Rossi e le forme del razionalismo
esaltato, Quodlibet 2017], Rossi nella sua introduzione parla del libro come di un
«abbozzo di teoria» o uno «schizzo di teoria»; teoria urbana, per inciso. Per
formulare questa teoria Rossi si avvale di testi che non sono di architettura ma
scritti principalmente da geografi che si sono occupati della città tra cui, in
particolare: Federico Chabod, Pierre Lavedan e Jean Tricart. Per Rossi l’obiettivo è
quello di conferire una operatività al sapere geografico, caratterizzato da una
“ricerca rigorosa ma chiusa”, proiettandone gli effetti sulla realtà urbana tramite
l’architettura, o meglio «servirsene per la scienza urbana e l’architettura». Così,
constatando la diffusione del libro a livello internazionale (iniziata nel 1971 con la
traduzione spagnola per Gustavo Gilli), possiamo notare che nell’introduzione
all’edizione portoghese del 1977 Rossi afferma: «ho usato di questi testi come si
usa un materiale da costruzione [...], ho cercato di forzare questo materiale fino a
renderlo assimilabile alla teoria dell’architettura». Rossi ci dice che porsi come
obiettivo la scienza urbana non significa fare una cronistoria della sua evoluzione,
bensì tentare di mettere in pratica ciò che si ha a disposizione, quindi i testi e le
teorie di coloro che precedentemente si sono posti in questa prospettiva; per
esempio, i geografi. Chiaramente in tutto ciò, la storia c’entra e Rossi non
economizza nel richiamarsi a questo concetto in molte parti del libro. Si tratta però
di una storia che dissolve l’istanza scientifica in quella spiritualistica della
memoria, ovvero l’anima dei luoghi (e dei suoi abitanti): «l’ame de la cité diventa la
storia, il segno legato alle mura dei municipi, il carattere distintivo e nel contempo
definitivo, la memoria». Rossi ci propone quindi un’ermeneutica dei luoghi,
un’istanza di mediazione tra i fatti della città, che preesistono e perdurano senza
doverlo dimostrare, e le proiezioni valoriali di coloro che vivono la città: la cui
esistenza (e permanenza) è tutta da dimostrare.

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2. È un libro che insegna a progettare la città?

Se si pensa di trovare nel libro indirizzi per la progettazione architettonica si


rimane delusi; al contrario, se si ricercano spunti poetici il libro straripa di
suggerimenti… Partiamo da una considerazione sulla continuità tra teoria e
progettazione, una questione epistemologica annosa in architettura. Se ci
concentriamo sui progetti di Aldo Rossi constatiamo che essi non esprimono
alcuna continuità evidente e logicamente determinata (sottolineiamo bene questi
due concetti: continuità evidente e logicamente determinata) con le proposte
teoriche che egli avanza nel libro. Non si tratta di assumere questa discontinuità
come constatazione di un fallimento teorico o di una incapacità progettuale
dell’autore; al contrario, questa condizione ci aiuta a chiarire che la scienza
urbana, nella prospettiva di Rossi, non ha il significato di una ricetta per fare
edifici. Il libro è ben lontano da esprimere questo genere di determinismo. E a
questo scopo vorremmo sottolineare che la copertina scelta per questa ristampa
del Saggiatore sembrerebbe proprio spingerci in questa direzione (sbagliata), che
vede nelle parole di Rossi i suoi progetti; progetti, che sottolineiamo essere
successivi al libro ma non conseguenti ad esso in senso teorico. Questa scelta,
alquanto superficiale in effetti, contribuisce forse a demistificare qualsiasi
morbosità bibliofila verso il libro come oggetto, investendo invece proprio sulla
spontaneità e contingenza della sua sostanza.

In effetti, la vera priorità per Rossi era un’altra e stava proprio nella premessa al
libro, uno studio giovanile intitolato Manuale di urbanistica (1963) dove individuava
l’obiettivo essenziale del suo lavoro futuro in cui «studio e progetto si dovranno
fondere in un’unità inscindibile». Nell’ottica di Rossi, il ‘manuale’ perdeva il suo
significato convenzionale di indirizzo pratico per la progettazione e si riallacciava
piuttosto alla tradizione del trattato, ovvero a un genere misto tecnico-letterario in
cui il pensiero e l’esperienza dell’architetto fanno tutt’uno; in cui non c’è una
priorità tra il fare e il pensare, tra progettare e studiare, poiché entrambe
partecipano alla stessa costruzione. L’architettura della città va letta quindi come
espressione di un atteggiamento verso l’architettura, che è grossomodo questo:
progettare vuol dire porsi nella prospettiva di studio di un luogo. Studiare
l’architettura significa porsi nella prospettiva del progetto.

3. Cosa ci dice di nuovo?

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Rossi, A. (2006). L’architettura della città. Novara:
CittàStudiEdizioni.

Fin qui abbiamo parlato di temi con cui il libro tende a rispecchiare il buon senso di
un progettista; temi che per manifestarsi non avrebbero avuto davvero bisogno
di L’architettura della città di Aldo Rossi. Ne abbiamo invece bisogno per un altro
motivo, che è poi l’apporto suo personale e preziosissimo all’architettura, che
consiste nell’individuazione di un vocabolario con cui affrontare la città, da
architetto e con quella che egli definisce una «impostazione aristotelica». Il libro
invita il lettore a entrare nel dominio ontologico della città attraverso alcune parole
tra cui, in particolare: locus, elementi primari, tipo, area, monumento, memoria
collettiva. Il lettore ci scuserà se non ci addentreremo sul significato di ciascuno
dei termini elencati; ciò che possiamo affermare è che essi hanno il compito di
conferire alle cose che si incontrano nella città e che di per sé resterebbero mute, il
valore di fatti urbani che si consolidano nella memoria dei luoghi. Il lettore non si
aspetti che questi concetti conducano alla scoperta di una prassi progettuale
innovativa o alla scoperta di spazi inediti. Leggendo egli potrà constatare che
Rossi non parla di una realtà altra rispetto a quella che si dà nel quotidiano; egli
non ci dice nulla di veramente nuovo, semplicemente ci mostra come la
quotidianità dei luoghi possa diventare dominio di una narrazione. Questa mossa,
che può apparire un escamotage narrativo, un intellettualismo gratuito, ha in realtà
una ricaduta decisiva nello svelare un moto latente del libro che «riporta [i
problemi della] scienza urbana al complesso delle scienze umane»; una scienza
urbana di difficile delimitazione di cui Rossi intende delineare la specificità,
mostrando come la sua sfera di azione riguardi il dato ultimo di un’elaborazione
complessa: l’architettura come fatto costruito. Solo a partire da questo ‘dato
ultimo’ emerge chiaramente la portata politica implicita alla proposta di Rossi che
trova un timido abbozzo nel capitolo che chiude il libro intitolato La politica come
scelta.

4. Perché ha avuto successo?

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Questa domanda ha chiaramente tante risposte. Ci interessa solamente una
risposta possibile che implica la riformulazione della domanda. A nostro avviso le
considerazioni sul libro come bestseller hanno pochissima utilità. È ovvio che il
suo successo in termini di vendite sia esito di una congiuntura e che il libro sia
figlio del suo tempo, ecc.. Tutto ciò riguarda l’industria culturale e la politica di
marketing delle case editrici che ci compete fino a un certo punto. Fatichiamo a
pensare ad Aldo Rossi come a un influencer dei nostri giorni, che scrive un libro
nella prospettiva della sua diffusione mediatica; e se anche ciò avvenisse sarebbe
al limite un effetto e non una causa. Il progetto editoriale del Saggiatore quindi, che
come abbiamo detto appare essenzialmente estraneo dai pesi di una importante
tradizione scolastica rossiana, può semmai offrire l’opportunità di acquisire il testo
per ciò che è, senza giustificarne limiti o contraddizioni.

L’obiettivo di Rossi in effetti non era scrivere un libro, bensì proporre un


atteggiamento nei confronti della progettazione architettonica diverso da quello del
professionista tradizionale. Pertanto, il successo del libro andrebbe valutato negli
effetti che esso ha avuto nell’ambito della professione architettonica. Come
abbiamo detto, Rossi ci presenta una figura di architetto che studia e progetta a un
tempo e L’architettura della città è un libro che non può essere compreso al di fuori
di questa dimensione duplice. Una proposta intellettuale che trova un riscontro
personale in un libro successivo intitolato Autobiografia scientifica (1990) in cui,
dal confronto con altre figure come Ignazio di Loyola, emerge una dimensione
biografica profondamente intrisa da un progetto intellettuale (per approfondimento
ci permettiamo di rimandare A.A. Dutto, “The Saint and the Architect”, LOBBY
(Bartlett School of Architecture magazine), n. 05 ‘Faith’, pp. 116-119, Aldgate Press:
Londra). Il successo della proposta di Rossi non si misura tanto con le vendite ma
con la capacità di conferire alla lettura un riorientamento dell’apparato concettuale
con cui si guarda la città; città non solo come fatto ma anche come progetto. Un
riorientamento quindi del soggetto che legge e non della città, oggetto del libro,
che resta lì ferma dov’era.

5. Chi lo leggerà?

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Rossi, A. (2018). L’architettura della città. Milano: il
Saggiatore S.r.l.

Tutte le osservazioni fatte fin qui ci portano inevitabilmente a questa domanda, a


cui tuttavia non abbiamo una risposta. In linea di massima, gli architetti che si
interessano di architettura (che costituiscono una parte minima degli architetti
abilitati con licenza di uccidere) lo conoscono già, o almeno ne hanno sentito
parlare e per quella che è la nostra esperienza lo odiano o lo adorano come fazioni
avverse di uno scontro che ha tutti i caratteri di una guerra di religione. Lo
leggeranno gli studenti di architettura di alcune università in cui la presenza
carismatica di Aldo Rossi si è protratta a suon di conferenze e seminari più o meno
celebrativi. Forse, grazie a questa recensione, qualche non architetto ne sarà
incuriosito perché ci avrà trovato qualche legame con i filosofi citati o
implicitamente richiamati. Sicuramente, il miglior supporto a una futura ristampa lo
daranno i profondi odiatori, che a suon di critiche e veti costituiscono di fatto la più
autentica e produttiva risorsa pubblicitaria del libro.

Un libro che anche i veri fans devono ammettere che non possa essere che amato
e odiato a un tempo. D’altronde chi lo ama solo o chi si ostina a odiarlo non si
godrà mai un vero classico.

di Andrea Dutto e Gregorio Astengo

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