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Architetti d’Italia.

Marcello Piacentini, il democristiano


By Luigi Prestinenza Puglisi - 19 marzo 2019

La storia dell’architetto Marcello Piacentini nel racconto di Luigi Prestinenza Puglisi.

La più bella, profonda e insolente critica a Marcello Piacentini l’ha scritta Bruno Zevi il 29
maggio 1960. Cioè a undici giorni dalla morte. “Nel 1925” ‒ dice Zevi dell’architetto che per
lungo tempo era stato il dominus dell’architettura in Italia ‒ “Piacentini era in grado di far
compiere all’architettura italiana una svolta capace di reinnestarla nel circuito europeo. Aveva
i giovani dalla sua parte: i vecchi lo adoravano e comunque lo proteggevano… A questo punto
invece si esaurisce il contributo… I motivi che determinarono, all’età di 44 anni, la morte
dell’architetto sono materia di psicologia… In compenso? Fu accademico d’Italia, preside della
facoltà di architettura, despota incontrastato del regime, capo di una scuola di cui si può dire
soltanto che i seguaci sono peggiori del maestro… Per questo, nel momento in cui Piacentini ci
lascia dopo una lunga malattia che ha sedato rancori e vani cato le polemiche, val meglio
ripensare al giovane che possedeva ogni requisito per diventare uno dei più quali cati
architetti europei e perì a 44 anni”.
Credo non si possa dire di meglio sul personaggio. Eppure c’è sempre stato qualcosa in queste
a ermazioni che non mi convinceva. Perché il giudizio morale si sovrappone a quello
architettonico. Il Piacentini lodato da Zevi è il progettista ante 1925, cioè quello delle palazzine
che si rifacevano alla tradizione eclettica, viennese e nanche liberty, quale la palazzina
Allegri a via Nicotera o le abitazioni in via Porpora, tutte a Roma. Opere che al massimo gli
sarebbero valse una citazione distratta in qualche testo di storia dell’architettura. Ma che
certo hanno poco a che vedere con l’operazione importante che Piacentini svolse: mettere in
chiaro, con dei testi architettonici, il linguaggio del potere, misurandosi abilmente sia con la
grandezza sia con la povertà di un ventennio che ha portato l’Italia alla vergogna delle leggi
razziali e al disastro di una guerra mondiale, ma anche al boom edilizio e a un tentativo di
modernizzazione, sia pure ambiguo e all’italiana.

Marcello Piacentini, Viale della Conciliazione, Roma. Photo N i c o l a via Flickr, novembre 2013

MARCELLO PIACENTINI E LA STORIA


Insomma: nessuno rappresentò il fascismo e l’Italia, compresa l’Italietta della borghesia di
quegli anni, meglio di lui. Ed è su questa produzione che occorre giudicarlo, il resto è poca
cosa, opera giovanile. Dire che morì nel 1925 è un brillante arti cio per calcare la mano sul
giudizio negativo: esagerando, sarebbe come dire che Mussolini sarebbe stato un buon
giornalista e Hitler era un promettente acquerellista.
Certo, se il metro che determina la bravura di un architetto è la sua capacità di pre gurare il
futuro, il giudizio su Piacentini non può essere che negativo. Piacentini rappresenta, e bene, il
suo presente. E lo fa con una abilità straordinaria di gestione delle relative contraddizioni. La
principale delle quali gli veniva dall’ideologia del regime: voler essere allo stesso tempo
antichi e moderni, proclamare di essere i discendenti dell’impero romano e insieme i
costruttori di un nuovo mondo futurista e razionale (si noti che futurista e razionale sono
anche in architettura termini che stanno insieme con di coltà). Una nazione che puntava
all’austera semplicità e nello stesso tempo all’opulenza e alla monumentalità. Un Paese che
non disdegnava la modernità, anzi che era informato su quanto di meglio si andava facendo in
Europa. Nello stesso tempo Piacentini era impegnato nell’impresa impossibile di
tranquillizzare e mettere da parte i tradizionalisti e i reazionari, quelli scatenati, alla Ugo
Ojetti per capirci. Provate voi a combinare tutti questi input e a dare una risposta. Piacentini la
dette e ci costruì una scuola. Per riuscirvi occorreva un controllo pressoché perfetto del
mestiere: della composizione, dello spazio e del dettaglio. Costruì tanto, troppo. Con opere,
non tutte della stessa qualità, ma diverse delle quali hanno segnato le principali città italiane.
Qualcuno ha calcolato che riuscì a realizzare quanto lo studio Foster oggi: sicuramente una
esagerazione, forse una balla come quando si dice che in Italia si custodisce il 70 per cento
delle opere d’arte al mondo, ma serve a dare un’immagine della sua onnipresenza.
Liquidarlo come morto nel 1925, direi proprio di no. Ecco cosa non mi convince della
abilissima costruzione retorica di Zevi: il “sarebbe potuto ma non lo è stato”. Una mancanza
di onore al nemico. Un metterlo ai margini della storia. Un po’ come se avesse detto: “Se
avesse negato sé stesso sarebbe stato un grande architetto, il resto dimentichiamolo”.
Una posizione comprensibile in un personaggio come Zevi, che visse la tragedia di quegli anni
e seppe usare la spada della cultura per vendicarla, ma meno condivisibile dalle generazioni
successive, che però ‒ mi sembra ‒ troppo sovente sono cadute nell’equivoco opposto. E hanno
voluto vedere Piacentini come un progettista di grandezza pari a quella dei protagonisti del
Movimento Moderno. Dimenticando lo spartiacque che divide chi celebra il presente da chi ha
la capacità di pre gurare il futuro, dandogli forma.
Un ritratto di Marcello Piacentini. Via Wikipedia

ARCHITETTURA E CONSENSO
In fondo Piacentini aveva ragione a sostenere che l’architettura moderna, così come era
proposta dalle avanguardie europee, era irragionevole. E che, in fondo, il vero funzionalista
era lui. I suoi edi ci hanno infatti resistito benissimo al tempo, e sicuramente hanno voluto
molte meno manutenzioni di quelle richieste dalle tante case, disegnate alla tedesca o alla
francese con forme elementari, e rivestite in intonaco pitturato. Vogliamo mettere, per
esempio, la Casa del Mutilato con il Weissenhof siedlung? Dimenticava però che il futuro non
si costruisce con il buon senso del ragioniere, ma attraverso le visioni che solo in secondo
tempo troveranno buona realizzazione tecnica.
Dove, poi, non c’è partita è nel riscontro dell’utenza. Sarebbe come paragonare la fortuna di
un’aria di Andrea Bocelli a quella di un pezzo di musica dodecafonica.
O, tanto per citarne uno, il successo popolare del pittore Renato Guttuso con quello limitato ai
soli intenditori di Lucio Fontana. Né possiamo pretendere che Mina oppure Orietta Berti, che
sono nel loro genere bravissime, si mettano alla guida della canzone italiana impegnata, ma
non per questo evitiamo di apprezzarle.
Piacentini come, del resto Speer, è un bravo architetto ma costruisce le architetture come
strumento di consenso. E rappresenta il potere nell’unico modo in cui il potere sarebbe
riuscito a vedere sé stesso. Anzi, rispetto a Speer, che assecondava le peggiori derive
monumentali di Hitler, Piacentini mostra una maggiore abilità formale, una innegabile
capacità combinatoria. Sa complicare il gioco, sicuramente perché Mussolini una qualche
apertura per le stranezze della contemporaneità ce l’ha. La casa della sua amante, Claretta
Petacci, disegnata alla ne degli Anni Trenta da Monaco e Luccichenti, è un bel pezzo di
architettura contemporanea che cita Le Corbusier e Mies van der Rohe. E non a caso anche Le
Corbusier, ma senza essere ricevuto, va da Mussolini nel 1934 a cercare lavoro.
È forse questa calcolata sfrontatezza nel mescolare nuovo e vecchio, sia alla scala edilizia che a
quella urbanistica, che rende Piacentini un prodotto italiano. Un democristiano ante litteram.
Basti citare per tutte la città universitaria a Roma, con inviti a Ponti, Pagano ‒ direttori delle
due riviste di architettura antagoniste alla sua linea ‒, che possiamo leggere sia come una
straordinaria abilità di corruzione del fronte contrapposto, sia come un saper giocare con
quella complessità e contraddizione di apporti molteplici che riesce a dare perfettamente
forma a una dittatura ideologicamente politeista come quella di Mussolini. In fondo la linea di
con ne tra opportunismo e generosità, anche per i grandi architetti, è molto sottile. Piacentini
non è morto nel 1925, forse vive tuttora.

‒ Luigi Prestinenza Puglisi

Architetti d’Italia #1 – Renzo Piano


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Un ritratto di Marcello Piacentini. Via Wikipedia

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Luigi Prestinenza Puglisi
http://www.presstletter.com
Luigi Prestinenza Puglisi (Catania 1956). Critico di architettura. Collabora
abitualmente con Edilizia e territorio, The Plan, A10. E’ il direttore scienti co
della rivista Compasses (www.compasses.ae) e della rivista on line
presS/Tletter. E’ presidente dell’ Associazione Italiana di Architettura e Critica
(www.architetturaecritica.it ). E’ il curatore della serie ItaliArchitettura (Utet Scienze
Tecniche). Da non perdere la sua Storia dell’architettura del 1900 che appare a puntate
sul sito www.presstletter.com . Tra i libri: Rem Koolhaas, trasparenze metropolitane,
Testo&Immagine ,Torino 1997. HyperArchitettura, Testo&Immagine , Torino 1998 e
Birkhäuser, Basilea 2008 ( HyperArchitecture). This is Tomorrow, avanguardie e
architettura contemporanea, Testo&Immagine , Torino1999. Zaha Hadid, Edilstampa,
Roma 2001. Silenziose Avanguardie, una storia dell’architettura: 1976-2001,
Testo&Immagine , Torino 2001. Tre parole per il prossimo futuro, Meltemi, Roma 2002.
Introduzione all’architettura, Meltemi, Roma2004. New Directions in Contemporary
Architecture, Wiley, Londra 2008. Breve Corso di scrittura critica (Lettera 22, Siracusa
2012)

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