Sei sulla pagina 1di 11

Presentazione del libro: L.

Benevolo, L’architettura nel nuovo millennio, Roma-Bari


2006.

Il mio primo incontro con Leonardo Benevolo risale al 1947: quando cominciavo
come "matricola" il corso di laurea in architettura e Benevolo era un freschissimo
assistente del corso "Storia dall'arte e storia e stili dell'architettura" di cui era titolare
Vincenzo Fasolo. Tanto per dire che da allora all'odierna occasione sono passati
sessanta anni! Ma soprattutto per ricordare, come molti di voi sanno, che devo a
Benevolo la mia prima formazione, i miei primi passi e poi i successivi sviluppi della
mia attività accademica.
Un libro di Benevolo sull'architettura è un avvenimento storiografico sempre
fortemente incisivo: questa sua recente opera ne è ulteriore conferma. Nella premessa
l'autore mette subito le carte sul tavolo. Sottolineando che questo nuovo libro si
"affianca" alla sua più volte aggiornata Storia dell'architettura moderna" (per tutti
noi opera centrale della storiografia del XX secolo), e che ha deciso di intitolarlo
"L'architettura nel nuovo millennio" eliminando il termine "storia". E, sempre per
mettere da subito le carte in tavola, cioè per guidare il lettore, nella Premessa dichiara
anche: "Ho preferito che la mia opinione [cioè i giudizi di valore] risultasse dalla
selezione personale dei progettisti e delle opere incluse od escluse". Perché: "i criteri
dell'inclusione rimandano ad un'ipotesi unitaria, storicamente motivata [che l'autore si
augura sia convincente] ....Invece i motivi dell'esclusione sono molteplici, e conviene
semplicemente tacerli". Aggiungendo, forse prudentemente, che questo tacere sui
motivi di esclusione "è anche la decisione più riguardosa; [infatti] ogni omissione può
essere considerata una dimenticanza": e qui, direi, traspare una sottile ironia di sapore
un po' anglosassone. Questo libro esce in una fase confusa e "gridata": sia del
dibattito teorico, sia dei giudizi sui risultati della progettualità relativamente alle
diversificate varie scale degli interventi sul territorio (urbano e no). Benevolo assume
come retroterra cronologico di questa sua nuova opera un periodo compreso tra il
1919, data che, per così dire, segna l'atto di nascita del movimento moderno europeo
(quando Gropius fonda in Germania il Bauhaus, ma anche quando in Italia, però su
tutti altri presupposti, nascono le facoltà universitarie di architettura) ed il 1989
(quando cade il muro di Berlino). Date, cioè, che si riferiscono a due vicende di
natura e valore del tutto differente. Tiene cioè conto che a partire dall'ultimo decennio
del XX secolo si è andato modificando il ruolo dell'architetto delineato e teorizzato
dai primi maestri del movimento moderno, e che, inoltre, in molti casi sono anche
mutati il significato e gli obiettivi del fare architettura. Anche il settantennio 1919-
1989 del secolo icasticamente definito "secolo breve" (per l'intensità, la radicalità, e
la rapidità dei processi di cambiamento intervenuti in tutti i settori ed in ogni parte del
mondo), a seconda dell'epoca ed a seconda dell'area di riferimento, presenta
oggettivamente, quanto all'architettura che è l'argomento che qui interessa, (ma non
certo solo in riferimento ad essa: basti ricordare i totalitarismi, il secondo conflitto
mondiale ed i drammatici sconvolgimenti che ne sono conseguiti) aspetti diversificati
e talvolta perfino contradditori. Però, ed è questo il senso che emerge dai ripetuti
aggiornamenti della "Storia dell'architettura moderna" di Benevolo (la cui matrice è

1
la definizione morrisiana che l'architettura contempla tutte le trasformazioni
introdotte dall'uomo sull'intera superficie terrestre), il fare "architettura moderna" e di
concepirne le implicazioni e le valenze, poteva essere ancora analizzato, e presentato,
con riferimento a quel settantennio, come il divenire di un genoma (l'architettura
etichettata appunto come "moderna" assieme ad altri aspetti del "moderno") pensabile
come sistema unitario. Fino, appunto, al momento della sua scomparsa: della quale,
negli ultimi decenni de XX scolo, erano del resto segnali evidenti sia il proliferare
delle varie componenti "post-moderne", o di "tendenza", o "minimaliste", o
"decostruttive", ecc., sia il progressivo diminuire dell'incidenza del ruolo dialogante
dell'architetto (esteso dalla scala architettonica sino a quella della pianificazione
territoriale) nei confronti della committenza (sia quella delle istituzioni pubbliche sia
quella di natura privatistica). Cosicchè, malgrado che si fosse affermata una cultura
pianificatoria normativamente ed istituzionalmente estesa a tutte le scale, ed in
particolare a quella della pianificazione urbana, nell'immaginario (nelle intenzioni?)
della committenza pubblica e privata, in molti casi l'architetto ha finito per assumere
la figura, mediatica e/o pubblicitaria, di operatore per eventi eccezionali: dunque
"firmati". In tal modo, ci dice Benevolo, è però anche andato disperso il complesso e
sedimentato retroterra culturale prodotto dall'intero contesto socioeconomico e
politico (questo argomento viene esaminato icasticamente nel primo capitolo di
questo volume), che dall'età medievale sino ai nostri giorni ha condotto alla
costruzione armonica dei paesaggi europei. Quando invece "la ricerca delle qualità-
l'appropriatezza, la stabilità e l'elasticità [cioè i nuclei tematici sui quali si fonda un
valido progetto architettonico] - è indispensabile al mondo moderno". Questa nuova
opera benevoliana è articolata in dieci capitoli (oltre alla premessa). E se il primo
capitolo costituisce una sorta di generale introduzione metodologica, sono poi gli altri
nove a dar conto dell'intera panoramica di ciò che all'autore preme di sottolineare
nella fase sorgiva dell'architettura del nuovo millennio. Una spia delle scelte e delle
intenzioni dell'autore è che il secondo capitolo (il primo della serie degli altri nove)
sia dedicato al quadro generale che presenta l'Europa dopo gli anni ormai lontani
delle ricostruzioni postbelliche: è ancora l'Europa, dice Benevolo, il luogo di nascita
della cultura architettonica del nuovo millennio. Impostazione che viene poi infatti
puntualmente riproposta nel settimo capitolo (Le patrie europee fuori d'Europa) dove
si affronta il delicato ed anche controverso argomento della esportazione della cultura
"europea" (molti preferiscono però parlare di "cultura occidentale": non senza
incisive implicazioni di varia natura) in più aree del mondo. E' signficativo, per
tornare al secondo capitolo, che esso risulti suddiviso in due paragrafi (la
conservazione del patrimonio passato; la progettazione del nuovo): perchè il loro
dialettico comporsi propone il tema della continuità dello scenario fisico. Infatti, dice
Benevolo, "per <<nuovo>> intendiamo ciò che si aggiunge al patrimonio passato,
conforme o difforme che sia". Comunque occorre ristabilire la unitaria complessità
del fare architettura alle diverse scale, e, quindi, occorre sia una nuova ed assai ampia
organizzazione degli studi professionali di architettura, sia la capacità di questi di
collegarsi e rapportarsi a diversificate competenze: come dimostra il numero di

2
addetti presenti nei maggiori studi professionali e la loro connessa allargata rete di
relazioni tecniche.
Come se guardasse la produzione attuale con un binocolo, i punti di osservazione
scelti dall'autore sono cioè essenzialmente due: che però, appunto come nella visione
tramite binocolo, compongono poi un'immagine unitaria. Il primo punto
d'osservazione è ovviamente il movimento moderno in architettura, il secondo è la
matrice originaria di quel movimento, cioè la cultura europea. Sono dunque
analizzate in sequenza le posizioni (teoriche e professionistiche) degli "eredi della
tradizione moderna europea", "le ricerche degli innovatori dell'architettura
europea", ed infine la coppia, che riunisce posizioni tra loro in parte antitetiche,
costituita dai "cercatori di novità pazienti e impazienti"; esaminandone le probabili
prospettive future. E' qui che traspare meglio il motivo delle inclusioni e delle
esclusioni di nomi di architetti e di loro opere: perchè le esclusioni non dipendono
(salvo eccezioni sempre possibili) da "dimenticanze", ma, al contrario, da deliberate
scelte di ordine metodologico e concettuale (come nel caso delle poche parole
dedicate a figure come Bofill ed a qualche parola in più dedicata a Bohigas): e sta
prprio qui il valore provocatoriamente ed utilmente sollecitante di questo libro. Per
necessaria brevità sottolineerò soltanto alcuni dei molti spunti di riflessione che mi
sono stati proposti dalla sua lettura. Comincio da qui. Mi ha destato qualche sorpresa
vedere indicati come ancora attuali punti di riferimento, in quato continuatori della
tradizione moderna europea, alcuni architetti (Gino Valle, Vittorio Gregotti,
Giancarlo De Carlo, Rafael Moneo) che hanno dato il loro importante e
qualificatissimo contributo piuttosto negli ultimi decenni del secolo scorso che agli
inizi del nuovo millennio. E ciò anche se alcuni di loro sono tuttora attivi e
continuano a svolgere ruoli da protagonisti sia nel settore profesionistico del "fare"
architettura, sia anche (come per esempio nei casi di Gregotti ed in parte di Moneo)
in quello del dibattito teorico e critico sulle recenti linee di ricerca. Perchè questa
scelta? Una risposta a questa domanda si potrebbe trovare nel VI capitolo
(L'architettura europea alla riprova della pianificazione urbana e territoriale) nel
quale la progettualità risulta analizzata dalla dimensione dell'architettura in senso
proprio a quella degli assetti urbani e no. Particolare attenzione, in questo senso, è
dedicata alla pianificazione territoriale italiana, e correlate scelte architettoniche,
analizzata dagli ultimi decenni del XX secolo fino ai primi anni del secolo attuale.
Traspaiono qui, in sottofondo, le speranze in un auspicato diverso futuro che
sottostanno, ne sono convinto, alla scrittura 2di questo libro; ma emerge, soprattutto,
il sapore amaro di veder sperperato un patrimonio di esperienze (comprese anche
quelle dello stesso Benevolo: piani di Brescia, di Venezia, proposte per Roma, ecc.) e
di opportunità operative quanto al rapporto ottimale (invece trascurato, o volutamente
negletto: accettando o favorendo il tema dell'abusivismo edilizio) da istituirsi tra
pubbliche amministrazioni ed iniziativa privata. Quanto agli effetti sul costruito e sul
distrutto negli interevnti sul territorio, questo sapore amaro è infatti sintetizzato nella
constatazione del fallimento delle ottimistiche e fiduciose proposizioni di Zevi. Che
(pagg. 276-277) "trent'anni fa... individuava, fra le <<invarianti>> del linguaggio
architettonico moderno, <<l'elenco come metodologia progettuale>>... [il quale a sua
3
volta] nasce da un atto eversivo di azzeramento culturale che induce a rifiutare
l'intero bagaglio delle norme e dei canoni tradizionali, a ricominciare da capo, come
se nessun sistema linguistico fosse mai esistito". Benevolo commenta: "Mi chiedo
che cosa direbbe oggi [Zevi], quando l'<<elenco>> è vittoriosamente [ma nel
contesto all'avverbio è attribuito un sapore aspro ed amaro] realizzato nel paesaggio
urbano e rurale, ed è ribadito nel paesaggio virtuale, visivo ed auditivo, offerto dai
mezzi di comunicazione di massa. L'uno e l'altro [infatti] sostituiscono alle
<<regole>> di ogni tipo- e in primo luogo a quelle di lontana origine- la successione
casuale e ultraveloce delle immagini e dei suoni". Ma la delusione di Benevolo in
materia di pianificazione territoriale, certo accentuata dalle negative vicende italiane
insistentemente e minutamente analizzate, investe anche i casi (in Italia, per esempio,
quello di Milano o quello di Firenze, ma ve ne sono esempi anche in altre città
europee) nei quali sono stati mobilitati i più noti architetti del mondo. Riporto alcuni
degli esempi più significativi. Se in Germania, scrive l'autore, la pianificazione
territoriale è fra le più aggiornate e soddisfacenti, invece "la pianificazione urbana
non regge il suo confronto": come provano i casi di Amburgo e di Francoforte, e
come (malgrado talune eccellenti architetture) risulta dalla stessa assai propagandata
riorganizzazione del tessuto urbanistico di Berlino. Fanno invece eccezione Londra
ed in parte Parigi, e risulta addirittura ottimale la situazione in Olanda. Dove,
perpetuando una consolidata locale tradizione che si innesta nell'alveo del movimento
moderno, in una certa fase della programmazione, è stato chiamato un architetto,
Rem Koolhaas, ad armonizzare e rendere tra loro coerenti la pianificazione
territoriale e quella urbana: ne è conseguita una buona produzione architettonica (non
solo opere in sè stesse emblematiche) ed un omogeneo nuovo o rinnovato tessuto
edilizio. Questo ragionamento rinvia dunque alle principali linee di tendenza che
l'autore individua nelle più importanti e significative scelte architettoniche realizzate
(o da realizzarsi) alle soglie del nuovo millennio. Vista la mole di informazioni
fornite da questo libro, non è certo possibile entrare in dettaglio. Mi limito a
segnalare alcuni punti. Intanto che questo tema è svolto soprattutto nei capitoli quarto
(Gli innovatori dell'architettura moderna) e quinto (I cercatori di novità pazienti e
impazienti e le loro prospettive), ma anche, su diverso registro, sia nel già citato
capitolo Le patrie europee fuori dell'Europa, sia in quelli titolati, rispettivamente, "Il
Giappone" e "I paesi in via di sviluppo". E che, inoltre, il tema affiora ovviamente
qua e là anche in altri precedenti capitoli. Da segnalare, a questo proposito, il giudizio
non positivo che Benevolo dà della celebre Philarmonie realizzata da Scharoun a
Berlino nei primi anni sessanta (un prodotto "fuori stagione di una tendenza
minoritaria coltivata negli anni Trenta"), e, all'inverso, il giudizio del tutto positivo
della vicina, e di poco successiva, opera di Mies van der Rohe. Apre la serie degli
innovatori un gruppo di quattro architetti di diversa nazionalità e formazione:
Norman Foster, Richard Rogers, Renzo Piano, Jean Nouvel. Li accomuna, dice
Benevolo, il forte interesse tecnologico. Essi, al riparo da altre polemiche, "dalla più
lontana tradizione europea non ricavano modelli, ma premesse metodologiche sulla
priorità dell'invenzione formale in tutte le scale progettuali". E sta qui l'innovazione
nella continuità: perchè "la padronanza della tecnologia [e relativi metodi progettuali]
4
è il primo gradino di un'esplorazione da proseguire...per l'ideazione di nuovi scenari".
Questo impianto logico e metodologico consente all'autore di analizzare come
variabili di un flusso progettuale unitario opere di architetti tra loro oggettivamente
diversi. Basti qui citare qualche esempio. Di Foster il Sainsbury Centre for Visual
Arts dell'università di East Anglia, alcuni edifici alti per uffici (ad Hong Kong, a
Tokyo ed a Francoforte), il progetto per la stazione per l'alta velocità di Firenze, la
immaginifica soluzione per la ricostruzione del Reichstag di Berlino, la
ristrutturazione di parte del British Museum di Londra, e, sempre a Londra, il
grattacielo per la Swiss Re e la sede per la Greater London Autorithy, inoltre il
viadotto autostradale sul Tarn (la cui immagine, significativamente, è stata rielaborata
nella copertina di questo libro). Di Rogers, oltre al notissimo Centre Pompidou
condiviso con Renzo Piano, l'aeroporto di Madrid, il progetto per il riuso della
penisola di Greenwich, il Millennium Dome di Londra; ancora a Londra il grattacielo
a Leadenhall Street, una serie di contributi alla pianificazione di città inglesi, l'invito
da parte francese di realizzazioni in Cina (a Shanghai), ma anche la mancata
realizzazione del "master plan" per la Potsdamerplatz a Berlino; così come, a Firenze,
il mancato esito della sistemazione dell'area della Fiat e del <<piano guida>> per
l'urbanizzazione dell'area di Castello. Di Piano, oltre alla sua compartecipazione per
il parigino Centre Pompidou, a Roma il complesso della Città della Musica, che è
divenuto un interessante e frequantato luogo di incontri e manifestazioni di varia
natura non soltanto musicale (ma i cui difetti nei dettagli esecutivi e soprattutto talune
oggettive carenze funzionali suscitano sconcerto in molti romani), a Genova la
sistemazione del porto antico ed il progettoper il nuovo fronte a mare, a San Giovanni
Rotondo il complesso chiesastico; in altre parti del mondo, il Centro culturale Jean
Marie Tijbaou in Nuova Caledonia con il suo sfumare nel paesaggio aereo, il grande
ed impattante Museo Nazionale della Scienza e della Tecnica ad Amsterdam
(suggerito, mi sembra, dall'immagine dello scafo di una grande petroliera),
l'inquietante (perchè strapiombante) edificio per uffici a Rotterdam, l'edificio per
Hermes a Tokyo, il progetto per la grande torre-guglia di Londra, il progetto per il
museo dedicato a Paul Klee a Berna. Di Nouvel a Parigi il celebrato Institut du
monde arabe, il progetto per la Tour san fins, il museo gallo-romano di Perigueux
(memore di Mies van der Rohe), i progetti per la sistema zione di alcuni tratti della
rive gauche, a Tokyo la Dentsu Tower, a Madrid l'ampliamento del museo Reina
Sofia, a Barcellona la grande Torre Agbar (un segno che campeggia sfrontatamente
sul paesaggio del tessuto cittadino e che richiama quello londinese di Foster).
Benevolo riporta alcuni stalci dell'interessante (sorprendente?) pensiero di Nouvel:
che preferisce "costruire in luoghi storici... per partecipare meglio all'evoluzione della
città...la modernità dell'architettura oggi sta nel legame con il contesto... Nella
<<rottura>> c'è continuità, e le città si costruiscono così...E' sempre una cattiva idea
fare come se la storia nopn ci sia stata. Bisogna conservare, invece, le tracce di ciò
che è accaduto... Questi sono gli anni di un rinascimento per l'architettura. Quanto al
futuro, je n'en sais pas, non lo so". Il capitolo V è dedicato ai cercatori di novità
pazienti ed impazienti. Specularmente opposto a quello del gruppo del precedente
capitolo, è ovviamente il quadro delineato da Benevolo relativamente ad un celebre e
5
celebrato gruppo di architetti: l'anziano Gehry, "il redivivo Peter Cook", ed i più
giovani Tschumi, Liebeskind, Zaha Hadid. Le loro opere principali (ben analizzate in
questo libro) sono però così note a tutti noi che qui non importa ricordarle. Interessa
invece il giudizio complessivo dato da Benevolo al loro modo di fare architerttura.
Che cioè "perdendo la pazienza raccomandata da Le Corbusier [questi] "aspiranti
innovatori ricadono, volentieri o no, nel mercato delle tendenze ideologiche tuttora
dominanti, che non rientrano nel nostro discorso. [In loro vi è infatti] la tendenza alla
ripetizione e al manierismo individuale.... mentre [i loro] ateliers personali
conservano un'impronta artistica, e debordano in molti casi verso la produzione
virtuale". In sostanza "L'ostacolo insuperabile sembra proprio il successo
professionale" proprio perchè ottenuto, tra i più giovani, già nelle loro opere prime. E
se ciò vale soprattutto nel caso esemplare della Hadid, lo stesso accade in fondo
anche per Liebeskind e soprattutto nel caso del già ricordato progetto per il "Ground
Zero" di New York. Diverso e più positivo (ma non del tutto) è il giudizio sugli
svizzeri Herzog e Pierre De Meuron: in questo capitolo la loro opera funge cioè, in un
certo senso, da cerniera di snodo verso le linee di quanti sono proiettati alla ricerca
paziente. Dei due architetti olandesi sono segnalati, tra l'altro, il triangolare grande
complesso polifunzionale della Diagonal di Barcellona e la sala di musica nella
Hafencity di Amburgo. L'inserimento di Santiago Calatrava proprio in questo
capitolo, ma anche in questo caso come tramite verso i "cercatori pazienti", mi ha
lasciato qualche dubbio. Molte le opere citate: oltre ai celebri ponti, le stazioni
ferroviarie di Zurigo e Lisbona, il Planetario della Città della Scienza a Valencia, la
torre delle comunicazioni di Montjuic a Barcellona; inoltre il progetto per il
cosiddetto quarto ponte di Venezia (peraltro ancora oggi contrastato da non
secondarie critiche anche di ordine costruttivo), ecc. Perché non collocare Calatrava
tra gli innovatori che hanno fatto della tecnologia l'asse portante della loro ricerca?
Benevolo risponde che "gli riescono meglio i numerosi ponti [compreso quello di
Venezia?], dove l'arbitrio compositivo si restringe": che è, questo, un principio che,
quando ero studente, mi ricordo di aver sentito enunciare da Pier Luigi Nervi.
L'autore spiega la sua scelta giudicando che la carriera di Calatrava "dimostra che
l'invenzione costruttiva non è una guida sufficiente per i compiti contemporanei". [E
che] così la sua opera diventa un caso speciale di ricerca originale frenata dal
pregiudizio stilistico: uno dei tanti intoppi alla vera invenzione, che s'incontrano
oggi". Alla fine del capitolo, dopo aver segnalato che da parte dei committenti si
guarda spesso agli architetti come testimonials (archistars) di marchi commerciali
famosi, come ad esempio gli italiani Mendini e Fuksass (ma in questo quadro
rientrano anche molti altri già citati architetti- Koolhaas, Nouvel, Calatrava- ecc.),
Benevolo segnala "il disturbo recato da una parte dei critici, che si occupano delle
<<mostre di architettura>>...[secondo una visione che risulta] omogenea alle arti
visuali". Ne è bersaglio diretto Celant, che sostiene la necessità di un'architettura "che
lavori sulla pelle" degli edifici abbandonando ogni istanza funzionale e costruttiva:
tema, questo, che in effetti ha purtroppo avuto ed in parte continua ad avere un certo
seguito in molti ambienti (comprese le facoltà di architettura italiane) come si è anche
visto nella veneziana Biennale dell'architettura che ha preceduta quella di quest'anno.
6
Così, oltre a Celant, il giudizio di Benevolo si estende a colpire anche altri, italiani e
no, responsabili dell'assegnazione di premi. Nel panorama dei cercatori di novità
pazienti si colloca in prima fila l'insieme dei protagonisti del dibattito olandese. Da
Hertzberger, al gruppo OMA di cui è esponente di spicco Rem Koolhaas ed al quale
sono dedicate più pagine, a Ben van Berkel, ai Mecanoo, ai più giovani Maas, van
Rijs e Natalie de Vries. Di questi ultimi, segnalando il loro interesse ai rapporti tra
architettura ed acqua (interessante l'episodio del Silodam di Amsterdam), Benevolo
indica il trasparire del legame con "l'antico fascino del paragone fra le architetture
navali e quelle piantate per terra, coltivato anche da Le Corbusier". Torna la lode per
la cultura architettonica olandese per "la libertà dell'architettura dalla subordinazione
ad altri interessi": in Olanda "il meccanismo dell'urbanizzazione mette a disposizione
un grande spazio materiale e mentale, aperto alle risorse dell'invenzione
architettonica". Un caso a sè stante, in questo gruppo, è quello dello studio <<Foreign
Office>> costituito dalla iraniana Farshid Moussawi e dallo spagnolo Zaera-Polo; di
cui sono esempi il singolare terminal marittimo di Yokohama, il parco costiero nella
sede del Forum di Barcellona, ed il centro di servizi di Logroño. Chiude questo
capitolo il paragrafo intitolato Il rilancio dell'eredità classica francese: Chaix e
Morel. Esponenti di una corrente "minoritaria e per ora isolata", il loro "classicismo"
è proposto come canonizzazione (qui mi riferisco ad un recente saggio di Settis che
nota appunto come in certe interpretazioni il concetto di "classico" coincide con
quello di "canone") degli apporti della "tradizione costruttiva francese -da Henry
Labrouste a Eiffel, ai fratelli Perret e per certi aspetti a Le Corbusier...- ma [continua
Benvolo] prima ancora interpreti "della classica disciplina culturale francese" che può
risalire sino a Boileau. Chaix e Morel propongono insomma una sorta di "nuova high
tech fuori stagione". Il settimo capitolo, Le patrie europee fuori dall'Europa, ha
un'estensione di oltre un centinaio di pagine: quasi il doppio della media degli altri
capitoli. E, ovviamente, la parte maggiore è dedicata agli Stati Uniti: cioè alle
dinamiche dei suoi sviluppi demici ed insediativi, ed ai suoi principali architetti. Il
titolo scelto, coerentemente con il punto di osservazione "europeo" scelto dall'autore,
è una dichiarata parafrasi del concetto braudeliano delle <<nuove Europe>>. Ma in
esso, tuttavia, si sottolinea anche la diversa "dialettica dei <<modelli di
urbanizzazione>>": nel contesto americano, differentemente dall'Europa, prevale
infatti ancora la condizione di "prima occupazione del suolo": e dunque, aggiungerei,
il modello culturale che ne consegue. E' così emblematica la vicenda, attentamente
analizzata, del concorso per la programmata ricostruzione dell'area "Ground Zero" di
New York dopo l'attentato dell' 11 settembre 2001. A questo ecezionale concorso
hanno partecipato più studi di livello internazionale. E' risultata vincente la proposta
di Liebeskind. Benevolo avrebbe invece preferito quella di Foster seguita a ruota da
quella di tre dei "Five Architects" di New York: Meier, Eisenman e Gwathmey. I
"Five Architects", (ma significativamente Benevolo esclude gli altri due, Eisenmann
ed Hejduk, "che conducono esperienze isolate"), sono comunque i protagonisti
principali della primaria e dominante "Europa fuori d'Europa" costituita dagli Stati
Uniti: dove però, ed è questo un punto saliente dell'analisi benevoliana, a differenza
dei coetanei architetti europei citati dall'autore come "innovatori" che si fonda sul
7
principio di "un'architettura diversa per ogni luogo", negli architetti euro-statunitensi
prevale la ricerca di "stili personali...che, produce la riconoscibilità professionale dei
titolari degli studi e dei principali collaboratori". Qui però mi sembra di rilevare una
intrigante doppia realtà. E' infatti vero che l'impostazione concettuale degli
"innovatori" europei sta ottenendo successo in ambito internazionale proprio per
l'intenzionale riferimento delle loro soluzioni progettuali alle specificità dei luoghi,
ma, parallelamente, si coglie l'altrettanto importante sviluppo del fenomeno inverso:
cioè il diffondersi di modi e modelli non relazionati ai "luoghi". Ciò propone un
interessante interrogativo. Se, cioè, questo secondo modo di esercitare l'attività
professionale da parte dei principali studi di architettura americani, non costituisca
una vera e propria ondata di ritorno degli impulsi indotti in ambito americano nei
decenni centrali del XX secolo dalla cultura architettonica europea: un ritorno che,
però, avviene dopo che di essa erano stati modificati il codice e la natura; cioè dopo
che, nel frattempo, quegli impulsi sono divenuti "altro" da sé stessi. Il fenomeno non
sarebbe nuovo: compare infatti più volte nella storia. Cito alcuni esempi: la doppia
reciprocità tra grecità ed ellenismo, o tra mondo ellenistico e Roma, o il reciproco
influsso tra il Rinascimento maturo italiano (e dei suoi sconfinamenti "romani" o
palladiani della metà del XVI secolo) ed il classicismo francese così come, più tardi,
il palladianesimo inglese; ecc. Tornando al XX secolo, mi pare dunque di dover
constatare anche una doppia reciprocità tra le proposte originarie dei maestri del
movimento moderno e la loro metamorfosi a contatto con la realtà sociale ed
economica americana. Nel senso che dopo gli anni cinquanta ed i successivi due o tre
decenni, da un lato, e soprattutto in Italia (perciò anche espulsa dai CIAM), si è
andata sviluppando una ricerca intesa ad una propria autonoma "modernità", ma,
dall'altro lato, e questo anche in più ampi ambiti internazionali oltre che in taluni
settori della produzione italiana (quelli più consumistici e di immagine), vi è anche
stata l'ondata di ritorno proveniente dal mondo statunitense: che ha infatti influenzato
sia molti contesti europei, sia altre e nuove aree entrate progressivamente (dopo la
fine della seconda guerra mondiale ed anche dopo il modificarsi degli assetti
economici e politici in più aree continentali) a far parte del mondo in via di
globalizzazione. Ne è un esempio paradigmatico in special modo il Giappone, che in
questo libro è giustamente considerato come caso differente da quello di altri paesi
"non occidentali", ma intensamente "occidentalizzati", dove il linguaggio "europeo"
si è innovativamente e potentemente sviluppato a partire dal precedente accoglimento
della lezione di Le Corbusier: ma anche questo, ancora una volta, dopo averne
metabolizzato gli apporti in ordine a percezioni ed intuizioni spaziali che si innestano
nel vissuto e nel pensiero locale. Sarebbe troppo lungo riportare le analisi relative a
ciascuno di questi casi; ed in particolari relativamente a quelli relativi ad opere di
esponenti del gruppo dei "Five Architects". Per una certo troppo riduttva
esemplificazione del problema che ora ho posto, assumo come episodi emblematici
due vicende italiane: quella delle opere realizzate da Meier a Roma, (diverso il caso
del ponte ad Alessandria), e quella progettata da Isozaki per Firenze (l'accesso
posteriore al museo degli Uffizi), ma ad oggi non ancora (o non più?) concretamente
eseguita. Nelle due opere realizzate a Roma (la nuova chiesa in un quartiere
8
periferico, il complesso museale dell'Ara Pacis nel cuore del centro cittadino), Meier
ha tenuto due comportamenti differenti. Nel primo caso pervenendo ad una libera
invenzione spaziale e configurativa (non senza intenti simbolici peraltro in ossequio
al programma suggerito dalla committenza vaticana) che è straordinaria anche dal
punto di vista dei materiali prescelti e delle ardite tecniche costruttive che si sono rese
necessarie. Nel secondo caso contraendosi in un intimidito (direi quasi
"modernamente" accademico) tentativo di dialogo con la eterogenea complessità
delle preesistenze (le due chiese, i resti ruderizzati del mausoleo di Augusto, la
contestatissima piazza creata per "liberarlo" dal circostante stratificato tessuto
edilizio), ed infine, ma non secondariamente, la complicata situazione altimetrica dei
luoghi nei quali si è materializzato il suo intervento. Siamo in molti, ed anche
Benevolo, ad attribuire gran parte del mancato successo (che peraltro alcuni gli
riconoscono) di questa seconda opera di Meier agli impropri, non contestualizzanti, e
troppo frettolosi dettati della committenza. Va tuttavia rilevato che le difficoltà
incontrate da Meier nel realizzare (in mezzo a tumultuose controversie di ogni genere
e natura) il complesso museale dell'Ara Pacis, dipendono anche dal fatto di aver egli
assunto come modello di riferimento il suo precedente e ben riuscito Museo di Arte
contemporanea di Barcellona. Senza valutare quanto, invece, i due casi differissero
tra loro; e quanto, forse, un più coraggioso tentativo di innovazione generale (forse
suscitato dal dialogare con la committenza ed anche con i futuri "utenti" cittadini sui
temi del contesto urbanistico e storico) avrebbe invece potuto, o meglio dovuto,
suggerire nuove linee progettuali: cioè, dice Benevolo, "un linguaggio nuovo, come
hanno imparato a fare i migliori architetti europei negli ultimi decenni". Perchè, e
condivido il giudizio benevoliano, Meier si trova a disagio quando deve operare in un
contesto ambientale diverso da quello americano (o ad esso assimilabile): che, per sua
natura ma anche per impostazione culturale, è sostanzialmente privo "di spessore
temporale"; ma che è invece proprio quello nel quale egli ha elaborato e maturato il
suo riconoscibile e personale stile. Come appunto dimostra, tornando agli incarichi
romani, la circostanza che Meier, nella progettazione della nuova chiesa per il
periferico ed anonimo quartiere di Tor Tre Teste, ha saputo elaborare, ulteriormente
ed in modo nuovo, il suo riconoscibile e personale linguaggio, mentre ciò non è
accaduto nel caso del complesso museale dell'Ara Pacis. La vicenda fiorentina di
Isozaki è ad un tempo simile ma diversa da quella romana di Meier. A Firenze
l'architetto giapponese (ma con formazione di matrice euroamericana) propone una
soluzione oggettivamente coraggiosa ed innovativa: rievocare, con una semplice
intelaiatura (una sorta di grande tettoia) la configurazione volumetrica preesistente
agli interventi di demolizione degli ultimi decenni. Ma, a Firenze, appare impropria
(ed ha infatti suscitato polemiche accese ed anche avvelenate) l'eccessiva rarefazione
ed astrazione mentale di questa proposta. Che, in sostanza, consiste nell'azzeramento
dei valori della materia costruita a tutto vantaggio di quelli di una rarefatta realtà o
"memoria" concettuale (cioè mentale o addirittura virtuale); e che, dunque, tenta una
difficile saldatura tra un tessuto urbano occidentale certamente destrutturato ma
contiguo a quello carico di spessori storici sia di età medievale che rinascimentale e
moderna, ed un altro tessuto immaginario o forse metaforico (dunque avvertito come
9
espressione di un processo di "straniamento") che scaturisce però da un referente
culturale la cui matrici sono forse da individuare nel pensiero dell'architettura
giapponese tradizionale. Che cioè il valore di un'opera architettonica sta più nella sua
allusività di natura atemporale che nella sua materica verità storica: come dimostra
anche il modo tradizionale di intendere il "restauro" delle opere architettoniche quale
processo di continua sostituzione delle componenti strutturali e decorative
ammalorate. Salto per necessarie considerazioni di opportunità molti altri temi ed
argomentazioni che mi sono stati sollecitati da questo nuovo libro di Benevolo. Ma
non posso non sottolineare come tutto quanto sono andato segnalando trovi poi una
sua logica conclusione, un'apertura sul futuro di questo "nuovo millennio",
nell'attenta ed altrettanto discriminante scelta degli esempi della produzione
architettonica e pianificatoria dei cosiddetti "paesi in via di sviluppo" che sono
oggetto del capitolo IX. Un interessante caso della intima correlazione tra la
tradizionale ed esperta manualità locale e la raffinatezza di matrice olandese è ad
esempio la sede dell'ambasciata olandese a Maputo (la martoriata capitale del
Mozambico e della sua altamente indigente popolazione). Nè posso trascurare di
mettere in luce che tra i paesi in via di sviluppo siano inseriti anche la Cina e l'India
(ma anche paesi di altre aree asiatiche e non solo) che già attualmente appaiono esser
veri e propri laboratori di trasformazione (anche approssimativa e male assimilata)
della cultura europea; e che si stanno avviando a tappe forzate a diventare, forse tra
breve, i protagonisti delle nuove e diverse realtà architettoniche e pianificatorie del
XXI secolo. Ed è allora interessante notare che, nel frattempo, questi paesi (e con
maggior impegno la Cina) si stanno rivolgendo all'opera di quanti, in Europa ma
anche nelle "patrie europee fuori d'Europa", sembrano in grado di proporre nuovi
modelli, od anche soltanto alcune "mode", che possano fungere da pungolo per un
rapido pervenire alla modernità globalizzata (vi è anzi chi in quei paesi pensa che
l'obiettivo sia gia stato centrato). Infatti, la Cina, sia nello speciale statuto ed assetto
di Hong Kong, sia in quello dei prorompenti sviluppi di centri metropolitani e sopra-
metropolitani come Shanghai, o Chong-ching, oppure Shentzen, e soprattutto come la
tumultuosa e rinnovata Pekino, sembra proporre scenari che potrebbero modificare
radicalmente lo stesso nostro modo di intendere ciò che chiamiamo architettura.
Anche se, in questa affannata ricerca di modernità, ciò si traduce spesso da un lato in
occasionali e quasi infantili "aggiunte" di dettagli figurali tratti dal repertorio
convenzionale del linguaggio architettonico "cinese" (con risultati di vero e proprio
"kitsch"), e, dall'altro lato, un disinvolto stravolgimento dei pur affermati principi
della "conservazione" dei luoghi e degli edifici per tener sorprendentemente conto
delle istanze della speculazione edilizia. Passo ora al decimo ed ultimo capitolo di
questo libro. Qui sono presi in considerazione, come timidi segnali di possibili
innovazioni, gli spunti, per ora soltanto sporadici, casuali e forse autobiografici, che
provengono dalle sperimentazioni di prototipi abitativi quali la casa per vacanze a
Victoria, o la casa-negozio a Malacca, o perfino quella di cultura "ambientalista"
come quella di Canete in Perù o di Addis Abeba in Etiopia. Qual'è il futuro cui
sembrano voler alludere? E' oggi troppo presto per dirlo. Tra una cinquantina di anni i
giovani di oggi sapranno forse scrivere una loro storia dell'architettura del nuovo
10
millennio; e sapranno forse trovare un altro Benevolo che ne possa essere l'autore
magari individuando schemi storiografici oggi non prevedibili.
Ritorno ora alla premessa per aggiungere alcune notazioni sulla struttura
espositiva ed editoriale di questo libro. Oltre a quanto ho già inizialmente riportato,
l'autore indica che il modello da lui sempre prescelto (ed anche in questa occasione) è
il libro di Alfred Roth "La nouvelle architecture" apparso nel 1940. Nel quale ogni
opera è descritta e presentata con un corredo di notizie riguardanti l'architetto
progettista, il contesto nel quale egli ha realizzato o progettato l'opera, ed i vari
elementi iconografici (piante, sezioni, vedute) che la illustrano. Aggiungo un ricordo
personale: oltre che per Benevolo, il libro di Roth ha costituito il modello dei libri di
architettura moderna anche per molti della generazione che è entrata in scena, o si è
formata (come io stesso), negli anni centrali del secolo scorso: anche per noi studenti
possedere "il Roth" equivaleva infatti ad una "patente" di appartenenza all'architettura
moderna. Però, dice Benevolo, nessun editore è oggi in grado di confezionare
un'opera come quella di Roth, la cui qualità editoriale può essere paragonata ad una
Rolls Royce", e nessun autore, vista la complessità, la eterogeneità ed il continuo
accrescersi qualitativo e quantitativo delle informazioni, può pensare di elaborare ex
novo il necessario materiale di documentazione. Ma questa seconda dichiarazione è
un evidente caso di ”under statement”. Perchè, al di là della resa grafica (spesso
buona) delle immagini, l'articolata ed aggiornata loro quantità e complessità (piani
urbanistici e territoriali, planimetrie, piante, sezioni, prospetti, vedute fotografiche,
ecc.), è già di per sè un essenziale contributo di conoscenze sulla attuale globalizzata
realtà: tanto in riferimento ad opere già realizzate, tanto a quelle ancora allo stato
nascente, quanto, infine, a quelle ancora in fase propositiva.

11

Potrebbero piacerti anche