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IL RINASCIMENTO

“Come suggerisce il nome, il Rinascimento, che convenzionalmente perdura dal


1400 al 1492, è il secolo della rinascita delle arti, della politica, della società. Il
primo a lavorare sui volti più noti del secolo è Vasari, pittore e famoso storico
dell’arte italiano del ’500, il quale, nell’opera ”Le vite dei più illustri pittori,
scultori, e architetti da Cimabue ai giorni nostri”, indica in Michelangelo la
perfezione. Nel 1860 Jacob Burckhardt (storico svizzero) scrive il libro “La civiltà
del Rinascimento” nel quale per la prima volta compare questa parola intesa come
recupero della classicità, a supporto di una civiltà rinata nel migliore dei modi”

L’ARTE RINASCIMENTALE METTE L’UOMO AL CENTRO


DELL’UNIVERSO

L’arte nel Rinascimento mette l’uomo al centro di tutte le sue manifestazioni. La


pittura e la scultura mostrano allora attenzione alle espressioni, alle forme e alle
proporzioni del corpo umano; in architettura invece si realizzano edifici in cui lo
spazio interno non è più quello delle grandi cattedrali gotiche, ma al contrario uno
spazio “a misura d’uomo”. Mutano anche i soggetti, perché accanto ai soggetti
sacri si affiancano quelli profani. Si diffonde poi il genere del ritratto: sovrani,
condottieri, papi e uomini di Chiesa, nobili e mercanti, si fanno ritrarre con le loro
famiglie oppure da soli. Lo scopo è quello di mostrare la loro potenza (si fanno
ritrarre con scettri e manti di ermellino), la ricchezza (indossano vesti preziose), il
coraggio (impugnano armi), la pietà religiosa (posano in atteggiamento devoto), il
proprio amore per la cultura.

PITTORI, SCULTORI E ARCHITETTI SONO CONSIDERATI


ARTISTI E NON PIÙ ARTIGIANI

L’artista prima era considerato un artigiano che imparava le tecniche del maestro.
Ora è un intellettuale, perché oltre a imparare una tecnica, studia l’anatomia, le
scienze, la matematica, la geometria.

SI DIFFONDE L’USO DELLA PROSPETTIVA

L’arte rinascimentale scopre la prospettiva. I quadri del Medioevo appiattivano i


volumi e non davano il senso della distanza e della profondità. Ora le nuove regole
della prospettiva permettono di rappresentare la realtà in tre dimensioni
(lunghezza, larghezza e profondità), così come appare ai nostri occhi. Per un
approfondimento leggi L’invenzione della prospettiva in arte.

L’IMPORTANZA DELLA LUCE


La luce assume un ruolo di grande importanza perché l’artista vuole dare una
rappresentazione fedele della realtà. Utilizza quindi precisi effetti di chiaroscuro:
in tal modo, i volumi sono percepiti in tutta la loro consistenza.

FILIPPO BRUNELLESCHI

Pochi artisti come Filippo Brunelleschi hanno saputo incarnare l’essenza


dell’Umanesimo rinascimentale, spalancando per le arti figurative le porte dell’età
moderna. Racconta Vasari che dai tempi di Andrea Pisano non si metteva più
mano al Battistero di Firenze. Nessuno scultore aveva saputo realizzare i battenti
bronzei della seconda porta dopo quelli fusi all’inizio del Trecento. Ora però i
tempi erano maturi, una nuova generazione di artisti si affacciava sulla scena
toscana e portava un vento carico di talento e di novità. L’Arte di Calimala si
assume l’onere e l’onore di finanziare il nuovo progetto e di invitare i più bravi
scultori a concorrere tra loro per aggiudicarsi il prestigioso lavoro.

Sempre Vasari ci racconta che tra i partecipanti furono “Filippo e Donato, Lorenzo
Ghiberti, Iacopo della Fonte, Simone da Colle, Francesco di Valdambrina e
Niccolò d’Arezzo”. Ognuno di loro si cimenta con la storia del sacrificio di Isacco e
subito appare chiaro che la gara è tutta tra Brunelleschi, il giovane, la rivelazione e
Ghiberti, lo scultore già affermato, solido rappresentante della tradizione tardo
gotica.
I consoli faticano non poco a designare il vincitore. Alla fine la scelta ricade sul
Ghiberti, artista d’esperienza, garante della buona riuscita dell’impresa. A
Brunelleschi viene offerto di collaborare con il più maturo maestro Lorenzo ma
egli rifiuta “avendo animo di volere essere più tosto primo in una sola arte, che
pari o secondo in quell’opera”. Già è evidente l’ambizione del giovane che si è
messo in evidenza per la sua perizia tecnica e la sua innovativa energia espressiva
ma che non vuole dividere la gloria con nessuno. Com’è noto Ghiberti realizzerà la
splendida seconda porta bronzea del Battistero mentre Filippo lascerà Firenze per
andare a Roma con l’amico Donatello dove trascorrerà un periodo fecondo di studi
e di totale immersione nell’antichità, dove condurrà la sua appassionata ricerca
filologica sui principi dell’architettura antica, dove scoprirà e riscoprirà le ragioni
matematiche e geometriche della prospettiva, dove in altre parole maturerà
pienamente il concetto di “Rinascita”, propulsore della grande stagione del
Quattrocento fiorentino.

Tornato a casa Filippo si dedica per qualche anno alla scultura affrontando anche
la lavorazione della pietra, l’intaglio del legno e le grandi dimensioni. Ne è un
superbo esempio il Crocifisso ligneo di Santa Maria Novella, realizzato intorno al
1410, in cui traduce nel sacro i principi proporzionali dell’uomo vitruviano; Ma dal
1417 tutta la sua attenzione è catalizzata sul quel vuoto che la sua città ancora non
è riuscito a colmare. L’Opera del Duomo lancia un concorso di idee, diciassette gli
architetti chiamati a trovare una soluzione. La sfida non è soltanto quella di
progettare una cupola immensa ma di trovare le soluzioni tecniche adeguate e
soprattutto di contenere la spesa, il costo delle armature e delle centine rischia
infatti di superare quello delle murature. Era stato lo stesso Brunelleschi a
suggerire di consultare architetti toscani, francesi e tedeschi ma al solo scopo di
rendere ancora più grande la sua impresa, di dare risalto alla sua genialità. Egli
propone una soluzione innovativa: una doppia calotta autoportante costituita cioè
da due cupole, l’una dentro l’altra con un camminamento tra le due e un cantiere
fisso con ponteggi istallati all’altezza del tamburo anziché innalzati dal suolo.
Accorgimenti che consentivano un notevole risparmio sul materiale e rendevano
sicura la permanenza degli operai a quaranta metri d’altezza. L’opera gli darà
affidata nel 1420. Lo affianca Ghiberti ma a tutti è chiaro che solo a lui si devono il
progetto e l’esecuzione della più grande opera architettonica mai condotta dai
tempi dell’impero romano. I lavori proseguono per oltre vent’anni e alla morte di
Brunelleschi, nel 1446, alla cupola manca ancora la lanterna per la quale il
maestro lascia però un modello e precise indicazioni esecutive.

ASPETTO TECNICO DELLA CUPOLA

La capertura a doppia calotta, una particolare muratura a spina di pesce, e il


ricorso a costoloni ogivali di matrice gotica, assai diverso dal formato della cupola
romana per eccellenza, quella del Pantheon.

LA CHIESA DI SAN LORENZO

L’impegno nella fabbrica del Duomo non impedisce a Brunelleschi di lasciare la


sua impronta anche nel resto della città. Santa Maria del Fiore, pur con la nuova
cupola era pur sempre un edificio medievale, la nuova sfida è portare a Firenze
l’antico imparato a Roma.
I progetti di ristrutturazione per le chiese di San Lorenzo e di Santo Spirito
realizzati negli anni venti si basano su strutture di forte impronta classica: lo
spazio interno è scandito in navate sul modello delle basiliche paleocristiane, file
di colonne con eleganti capitelli corinzi sorreggono archi a tutto sesto.

Il soffitto cassettonato della navata centrale si interrompe in prossimità


dell’incrocio dei bracci della croce, su cui si innesta la cupola a spicchi. La visione
prospettica sottolinea l’andamento in direzione dell’altare. A differenza delle
chiese romaniche e gotiche queste sono strutture contenute, bilanciate, non
esageratamente slanciate in altezza. Brunelleschi, pur nelle grandi dimensioni,
crea uno spazio armonico, equilibrato a misura d’uomo. I principi dell’umanesimo
prendono in questi spazi una forma concreta, non sono pensati tanto per esaltare
il divino quanto per calarlo nella dimensione umana.
Equilibrio, proporzione e armonie geometriche guidano la progettazione di
Brunelleschi anche quando deve cimentarsi con piccoli spazi. Nella Sacrestia
Vecchia di San Lorenzo, progettata nel terzo decennio, elabora una soluzione
semplice e geniale al tempo stesso: sulla pianta perfettamente quadrata si innesta
una cupola sorretta da pennacchi e suddivisa in dodici spicchi, lo stesso schema è
ripetuto in dimensioni più piccole nel sacello dell’altare, i due elementi sono uniti
mediante l’elemento dei pilastri angolari e della cornice marcapiano che li
percorre senza soluzione di continuità.

L’idea è ripresa negli anni quaranta nella Cappella de’ Pazzi, in cui l’elemento
dello spazio cubico sormontato da una cupola è ripreso anche nel piccolo elegante
portico antistante.
Nel curriculum di Brunelleschi non mancano gli edifici civili, il più celebre dei
quali assume un vero e proprio valore urbanistico, determinando l’assetto di
un’intera piazza e dando forma tangibile all’idea antica e moderna di bello e utile.

LO SPEDALE DEGLI INNOCENTI: DESCRIZIONE E


SIGNIFICATO

Questo edificio è opera di un minuzioso progetto ideato inizialmente da Filippo


Brunelleschi, a cui si deve il loggiato esterno, e terminato da alcuni collaboratori.
Venne commissionato dall’Accademia della Seta, di cui si trova lo stemma nella
facciata esterna. È il primo orfanotrofio pubblico europeo e ciò si può capire dal
suo nome: il termine spedale infatti deriva dal dialetto fiorentino ed è una forma
aferetica di ospedale, a cui appunto venne tolta la prima lettera. Degli Innocenti
sarebbe da intendersi come dei bambini abbandonati, facendo riferimento biblico
all’episodio della strage degli innocenti. Questo progetto è da considerarsi come
una delle prime architetture rinascimentali, infatti venne costruito a partire dal
1419 e terminato nel 1427. Inoltre contiene al suo interno la maggior parte delle
caratteristiche tipiche di questo periodo ed essenziali anche per la comprensione
di Filippo Brunelleschi.

L’armonioso loggiato esterno maschera alcuni locali: il dormitorio, le cucine, una


chiesa ed il refettorio; tutti si affacciano su un cortile a pianta quadrata. Il loggiato
è lungo 71 metri ed è composto da nove campate aventi archi a tutto sesto e volte a
vela che si innalzano sopra a colonne in pietra serena; quest’arenaria, insieme
all’intonaco bianco, crea un ottimo senso di equilibrio. Il tutto risulta molto
leggero ed elegante grazie alla gradinata da cui è rialzato. Evidenti sono il modulo
ed il rispetto di canoni geometrici che l’artista decise di applicare. Il modulo da
considerare è lungo circa 5,84 metri ed è da calcolare tra i due punti esterni delle
basi delle colonne, si ripete poi nell’altezza delle stesse, dalla base al pulvino, nel
diametro degli archi, nella larghezza del portico e nell’altezza del piano
sovrastante se misurata aldilà del cornicione. Se si dimezza questo modulo si
potranno trovare l’altezza delle finestre ed il raggio delle volte, se infine si
raddoppia si trova l’altezza dal calpestio fino all’inizio delle finestre

MASACCIO

Non sappiamo molto della biografia di questo pittore del ‘400: senza dubbio la sua
fu una carriera fulminea, nella quale egli si fece promotore di nuovi modelli
artistici prontamente saldi all’ epoca quattrocentesca nella quale egli operò. Per
riuscire ad affermarsi in una Firenze ancora perdutamente innamorata del Gotico
Internazionale, Masaccio dovette mettersi in società con con un pittore a lui più
anziano, quale Masolino, e di lì a poco questa collaborazione diede vita a
Sant’Anna Metterza, tipologia iconografica dove veniva raffigurata la Madonna col
Bambino e sant’Anna “messa a fare da terza” o “medesima terza”, cioè dove si
evidenziava il rango della santa come terza in ordine di importanza.
SANT’ANNA METTERZA

Tre angeli reggicortina stendono un drappo preziosamente damascato dietro al


gruppo sacro, che crea uno sfondo piatto, più moderno del completo sfondo oro, e
che crea un piano intermedio, che ha il potere di proiettare verso lo spettatore le
figure, facendole risaltare. In basso si trovano poi due angeli spargi-incenso: le
figure angeliche seguono ancora proporzioni di tipo gerarchico, essendo molto
più piccole delle figure sacre. Il gruppo sacro si trova su un trono, che si può
immaginare composto da due gradoni, con in basso una pedana dove si trova
un’iscrizione dedicatoria alla Vergine. L’iconografia prevedeva che fosse risaltata
maggiormente la figura di sant’Anna, madre di Maria e nonna di Cristo, la quale
deve tenere tra le gambe la Madonna col Bambino, in un gesto protettivo e
confidenziale. La plasticità delle figure della Madonna e del Bambino sono un
vero spartiacque tra l’esperienza gotica anteriore e i futuri sviluppi del
Rinascimento, dove Masaccio riesce per la prima volta a creare delle figure
modellate da un forte chiaroscuro che emergono dal dipinto come se fossero dei
rilievi scolpiti, quali solidi blocchi posizionati in uno spazio preciso. Il chiaroscuro
ne squadra i volumi e blocca, pietrificandoli, gli energici gesti. Si veda ad esempio
la robusta corporatura del bambino, ispirato a un Ercole bambino ancora presente
agli Uffizi (con l’interpolazione di un’espressione vivace ispirata alla quotidianità
tipica delle opere di Donatello) o l’ovale tridimensionale del volto della Madonna,
la cui fisionomia si svincola dalla tradizionale aristocraticità del gotico per creare
una ritratto di madre più viva, presa dalla quotidianità e con un modellato che
riflette la conoscenza della reale struttura ossea.

LA CAPPELLA BRANCACCI

È frutto della collaborazione tra Masaccio e Masolino, alla quale però è da


aggiungersi la mano di Filippino Lippi, chiamato a completare l’opera 50 anni
dopo.

Masolino e Masaccio lavorarono separatamente a scene diverse, pianificando


accuratamente i loro interventi in modo da poter operare contemporaneamente.
Essi usarono un solo ponteggio dipingendo scene contigue, in modo da evitare
una netta separazione tra le loro opere, che avrebbe creato maggior squilibrio
rispetto a una divisione “a scacchiera” come si vede oggi. Sul ponteggio di forma
rettangolare l’uno dipingeva la scena sulla parete laterale, l’altro su quella
frontale, per poi scambiarsi i compiti sul lato opposto. Con questo metodo venne
sicuramente eseguito il registro superiore e forse la parte delle lunette, mentre
l’interruzione dei lavori comportò la mancata applicazione nel registro inferiore.

Una questione molto dibattuta è quella degli aiuti che i due pittori offrirono
reciprocamente in scene destinate all’altro. Alcuni studiosi tendono ad escluderle,
altri, basandosi su confronti stilistici, le sottolineano. Per esempio si attribuiva in
genere a Masaccio lo schema prospettico della Guarigione dello storpio e
resurrezione di Tabita, identico a quello del Tributo, ma forse venne elaborato da
entrambi. A Masaccio sono attribuite le montagne realistiche nella Predica di San
Pietro, come mai ne dipinse in lavori successivi, mentre a Masolino è stata
attribuita la testa del Cristo nel Pagamento del Tributo, dolcemente sfumata come
quella dell’Adamo masolinesco nella Tentazione di Adamo ed Eva. L’opera rimase
incompiuta, anche per l’esilio di Felice Brancacci nel 1436, a causa del suo
schierarsi nel partito avversario a Cosimo de’ Medici. Solo con la riammissione
della famiglia Brancacci a Firenze, nel 1480, la decorazione della cappella poté
essere portata a termine incaricando Filippino Lippi, che oltre che essere un
artista di spicco era adatto all’incarico anche perché figlio di Fra Filippo, uno dei
primissimi allievi di Masaccio. Filippino cercò di temperare il suo stile, adeguando
la sua tavolozza alla cromia degli affreschi più antichi e mantenendo la solenne
impostazione delle figure, per non rompere l’omogeneità dell’insieme.
Nonostante ciò il suo stile appare oggi facilmente riconoscibile, poiché
improntato a un chiaroscuro più maturo e dotato della linea di contorno che è
tipica dello stile intellettualistico del Rinascimento all’epoca di Lorenzo il
Magnifico e che è opposto alla pittura “di getto” fatta di veloci stesure di colore e
luce di Masaccio. Masolino è di solito inquadrato come continuatore della pittura
tardogotica, o tutt’al più come figura di transizione, mentre Masaccio applica più
rigorosamente le nuove idee che furono alla base della rivoluzione rinascimentale:
definizione spaziale precisa, individuazione psicologica degli individui raffigurati
e riduzione all’osso degli elementi decorativi. Tutto questo è evidente nella
Cacciata dal Paradiso terrestre, dove operarono sia Masaccio che Masolino.
Masolino infatti propone un Adamo ed Eva fortemente ancorati alla
bidimensionalità generali della raffigurazione, che sembrano quasi galleggiare in
uno sfondo neutro, dal quale emerge un albero con il serpente dalla testa umana,
in Masaccio invece c’è una quanto mai più evidente tridimensionalità delle figure,
che si coglie dalle ombre, e dalli quali si percepisce un evidente stato angoscioso,
turbato del proprio animo, che invece è inesistenza nella posa composta, assente
dell’Adamo ed Eva del Masolino.

IL TRIBUTO

La scena è scandita in tre momenti, tripartita: Al centro c’è Cristo, accerchiato


dagli apostoli che invita Pietro ad andare a pescare la moneta necessaria per
entrare in città dalla bocca di un pesce, a sinistra Pietro che svolge l’ordine, e a
destra Pietro che paga l’imposta. Prospettiva che si coglie dagli alberi che seguono
proporzionalmente la distanza dell’occhio, e tridimensionalità che si coglie
dall’architettura generale dell’edificio, che richiama lo stile del Brunelleschi.

LA CROCIFISSIONE DI CAPODIMONTE

La tridimensionalità è esplicitata nel gesto della piangente Maddalena, umanità


della scena nel raffigurare Cristo quasi senza collo, a sottolineare il sottinsu della
testa senza vita.

LA TRINITÀ
L’immagine dipinta ne La Trinità di Masaccio raffigura una nicchia all’interno
della quale si trova una scena con una crocifissione. Sotto di essa inoltre è
rappresentato un sarcofago con uno scheletro appoggiato al di sopra. Al centro
viene rappresentata la Santissima Trinità e a fianco sono dipinti i coniugi oranti.
L’architettura che incornicia la scena è composta da un arco classico sostenuto da
due colonne con capitello. Esternamente ai lati delle colonne inoltre sono
raffigurate due paraste con capitello corinzio. Infine all’interno del vano dove è
rappresentata La Trinità è presente una volta a botte con lacunari.

Al suo interno Cristo è sulla croce. Dio Padre, al di sopra, sostiene il corpo. Tra di
loro si libera lo Spirito Santo sotto forma di colomba bianca. In basso, a sinistra
Maria indica il Figlio crocifisso. A destra invece San Giovanni guarda Gesù con
un’espressione sofferente. In basso all’esterno del vano, di fronte alle paraste sono
raffigurati i due committenti. Sono inginocchiati ed in preghiera a sinistra il
marito e a destra la moglie interamente coperta da un velo blu. Alla base
dell’affresco sopra lo scheletro dipinto, deposto sul finto sarcofago, compare una
scritta. L’iscrizione latina invita l’osservatore a meditare sull’ineluttabilità della
morte e si definisce un “memento mori” (ricordati che devi morire). La scritta
recita: IO FU’ GIÀ QUEL CHE VOI SETE, E QUEL CH’I’ SON VOI ANCO SARETE

La narrazione parte dal basso, dallo scheletro appoggiato sul sarcofago. Questo
scheletro che rappresenta la morte dalla quale ci si può salvare elevandosi verso
Dio Padre. Infatti è attraverso la preghiera simboleggiata dai committenti che si
ottiene la fede necessaria per conquistare la vita eterna. Maria indica con la mano
il Figlio cioè colui che ha tracciato la via da seguire. Attraverso l’esempio di Cristo
e lo Spirito Santo si giunge così a Dio padre che concede la salvezza.

DONATELLO

nasce a Firenze nel 1386, si forma nella bottega del Ghiberti e nell’ambito dei
cantieri del Duomo, e probabilmente è qui che conosce e diventa amico di Filippo
Brunelleschi. Donatello insieme a Brunelleschi compie il suo primo viaggio a
Roma: qui ammira da vicino le opere scultoree della tradizione classica. L’attività
artistica principale di Donatello si svolge a Firenze ma lavora anche a Pisa e a
Prato, in cui esprime la sua arte attraverso il Pulpito del Duomo, e lavora alla
decorazione del Battistero e del Duomo di Siena.

perché fu il primo a superare la tradizione scultorea greco-romana, dando ai


personaggi umanità, introspezione psicologica e i valori dell’uomo,
sperimentando tutte le tecniche e materiali possibili.

IL DAVID

A 22 anni Donatello riceve la sua prima e importante commissione per l’abside di


Santa Maria del Fiore: deve realizzare in marmo una statua di David. La statua del
David marmoreo, terminata un anno dopo, resta inutilizzata nei magazzini; solo
nel 1416 viene trasportata nel Palazzo della Signoria a Firenze (oggi si trova al
Museo del Bargello). Nel David sono presenti elementi gotici che si ritrovano nella
linea falcata della figura e nell’atteggiamento. Le braccia sono
sproporzionatamente lunghe, una mano è posta sul fianco e l’altra è portata in
avanti che sfiora la gamba che è più in avanti rispetto all’altra. Inoltre l’anatomia
non è sviluppata con precisione ma nella figura si avverte ugualmente la volontà
di conferirle energia e vita. L’opera si presenta naturale nella vivacità e nella
morbidezza: le guance morbide, i grandi occhi la bocca piccola e il mento
appuntito.

SAN GIORGIO

Nel 1415 circa l’Arte dei Corazzai e Spadai commissiona a Donatello la


realizzazione della statua di San Giorgio, loro santo protettore, per le nicchie
esterne della chiesa di Orsanmichele.

Il San Giorgio, eseguito tra il 1416 e il 1420, rappresenta un nuovo modo di


concepire e realizzare la figura nello spazio. Il corpo è perfettamente
proporzionato e articolato, ed è dotato di una naturalezza di gesti e di forme quale
non si vedeva dall’epoca classica. Le gambe sono divaricate e costituiscono una
solida base mentre il busto e la testa sono lievemente ruotati rispetto all’asse
centrale. San Giorgio ha le mani poggiate sullo scudo: una linea dal piede a destra
sale allo scudo alla mano stesa poi a quella posata in alto per raggiungere il
braccio, il gomito, la spalla e la testa formando una specie di spirale che attraversa
la statua e le toglie staticità. La figura appare compatta nelle sue forme legate
attraverso uno schema rigoroso, l’opera è eccezionale soprattutto per la resa
dell’anatomia e per le proporzioni impeccabili.

Nel proporre questa bellezza scontrosa come modello per un eroe, Donatello
affermò una delle sue più profonde convinzioni: la grandezza degli antichi si
ritrovava nel popolo che per coraggio dignità e sentimento concreto della vita era
degno di interpretare i valori di quello straordinario passato, l’artista trasformava
così i popolani in santi ed eroi perché nella gente comune identificava le virtus
degli antichi.

Nel basamento del San Giorgio Donatello ha rappresentato in un bassorilievo San


Giorgio e il drago. Nella lastra Donatello ha esemplificato i risultati sulle sue
riflessioni sullo spazio: egli credeva molto nelle forme sperimentali e in questo
bassorilievo ha interpretato la prospettiva creando un abisso di atmosfera e di luce
dal quale affiorano le forme. Lo scultore in un sapiente stiacciato ha evocato la
profondità e ha definito i volumi. Per suggerire il movimento e il senso dell’azione
ha rinunciato a realizzare figure e ambienti con precisione: cavallo e cavaliere
sono leggermente abbozzati e il drago quasi una massa indistinta si contrae sotto
l’urto della lancia. Sullo sfondo è presente un paesaggio: l’edificio ad archi e gli
alberi appena rilevati che si vedono in lontananza e nella proporzionata
composizione.

BANCHETTO DI ERODE
Erode è un rilievo in bronzo dorato realizzato da Donatello (in collaborazione con
Ghiberti e Jacopo della Quercia) tra il 1423 e il 1427 per la fonte battesimale del
Battistero di Siena. La formella rappresenta il momento in cui viene mostrata al
tetrarca Erode la testa mozzata di Giovanni Battista. La composizione, complessa
e ricca di figure, si muove su due registri: quello emotivo e quello razionale.
Analizziamo gli atteggiamenti: Erode si ritrae davanti al vassoio con la testa
recisa, Salomè avanza ondeggiando, la figura in secondo piano si copre il volto con
una mano. Razionale è l’impianto della scena in cui la prospettiva dà ordine e
proporzione a figure ed eventi, una prospettiva che a differenza del San Giorgio
non si stempera per dar risalto alla drammaticità dell’episodio, ma si definisce con
evidenza.

L’impianto prospettico divide la scena in due parti: la prima definita da un muro


su cui si impostano archi a tutto sesto con l’evento principale, la seconda in cui si
vedono in lontananza figure e ambienti con scene di diversa natura. Sul fondo,
entro l’arco, un personaggio porta su un vassoio la testa del Battista che si vede
anche in primo piano, si tratta di un momento anteriore rispetto alla
rappresentazione principale della scena.

IL DAVID IN BRONZO

Il David in bronzo, realizzato da Donatello per Cosimo de Medici nel 1440,


rappresenta il giovane che decise la vittoria degli ebrei contro i filistei uccidendo il
gigante Golia con un sasso scagliato dalla sua fionda. La statua richiama le forme
classiche e con Donatello il nudo riacquista il significato di purezza ideale: l’eroe è
nudo perché difeso solo dal suo coraggio. Il nudo, quindi, ritorna sulla scena
artistica dopo secoli di oblio, ed è un ritorno di grande significato che si oppone al
concetto di nudo medievale (simbolo del peccato) e ripropone la struttura
anatomica e proporzionale del corpo umano.

Il David, che secondo alcuni studiosi rappresenterebbe invece Mercurio, ha le


sembianze di un adolescente acerbo e spigoloso, ha tratti del viso plebei, indossa
uno strano cappello ornato di un serto d’alloro, gambali e sandali decorati da
motivi classici. Inoltre, ai suoi piedi si trova la testa del gigante, sulla visiera
dell’elmo è rappresentata una biga trainata da putti; il cappello a larga tesa, la
corona d’alloro e la testa di Golia sono serviti allo scultore per ombreggiare il viso
dell’eroe e per creare una zona d’ombra alla base della statua. Pur nello stato di
riposo il David riesce ad esprimere energia, ancora un omaggio agli antichi è la
tecnica del bronzo con la quale è stata realizzata la statua.

IL CROCIFISSO

Il Crocifisso di Santa Croce di Donatello è una scultura in legno policromo


(168x173 cm), attribuita al 1406-1408 circa e conservata nella Cappella Bardi di
Vernio in capo al transetto sinistro Santa Croce a Firenze.
Secondo un aneddoto raccontato da Giorgio Vasari nelle sue Vite, pubblicate nella
loro seconda edizione nel 1568, Donatello chiese a Filippo Brunelleschi (1377-
1446), che era suo grande amico di esprimere un suo parere in merito a
quest’opera, «parendogli aver fatto una cosa rarissima»; e questi, ruvido e schietto
come suo solito, gli rispose che quel Cristo gli sembrava un contadino. Donatello
ovviamente si offese e commentò che è molto più facile criticare che fare. Sicché
Filippo scolpì a sua volta un crocifisso, identificato dal Vasari nel Crocifisso di
Santa Maria Novella, e lo mostrò a Donatello, il quale umilmente affermò: «a te è
conceduto fare i Cristi, et a me i contadini».

I due crocifissi sono in effetti molto diversi, sia nell’impostazione sia


nell’interpretazione del soggetto. Il Cristo donatelliano presenta caratteri gotici
evidenti, come l’andamento sinuoso del perizoma e l’eccessivo allungamento
delle membra; è costruito secondo un asse centrale, come se la figura fosse eretta,
e richiede un punto di vista frontale. Allo stesso tempo, tuttavia, il suo
naturalismo è senza precedenti, soprattutto nel volto, rappresentato nel momento
dell’agonia con gli occhi socchiusi e la bocca semiaperta. È chiaro che Donatello si
concentrò sulla sofferenza e l’umanità del Cristo, assecondando il gusto dei
committenti francescani. Il Crocifisso brunelleschiano presenta invece un
modellato dolcissimo e il suo volto, reclinato senza stanchezza, mostra
un’espressione priva di pathos. Il corpo ruota verso la propria destra, consentendo
numerosi angoli visuali. L’altezza, che coincide con la larghezza delle braccia, ne
fa il primo mirabile esempio di homo ad quadratum rinascimentale, costruito
secondo i dettami vitruviani.

LA PITTURA FIAMMINGA

Le caratteristiche principali dell’arte fiamminga sono:

Uso dei colori ad olio

• Spazialità unificata tramite la luce


• Visione particolareggiata della realtà
• Gusto per il miniaturismo
• Ritratti con posa di tre quarti

I colori a olio, già conosciuti dall’antichità e utilizzati sicuramente nel Basso


Medioevo, avevano alcuni difetti poiché asciugavano male rimanendo a lungo
appiccicosi; inoltre le vernici utilizzate alteravano la cromia desiderata scurendo o
sbiadendo.

I fiamminghi nel XV secolo perfezionarono e svilupparono la tecnica della pittura


ad olio ponendo rimedio a questi e ad altri inconvenienti. Al contrario della
tempera che asciugava rapidamente e permetteva di effettuare sfumature e
passaggi di toni solo con molta difficoltà, i colori nel nuovo legante oleoso si
lasciavano sfumare uno nell’altro più facilmente, rendendo possibile il procedere
per successive velature, cioè per strati di colore più o meno trasparenti, che
rendevano il dipinto brillante e lucido permettendo di definire la diversa
consistenza delle superfici fin nei più minuti particolari. Le pitture così realizzate
inoltre non abbisognavano più di essere verniciate come in passato.

L’uso del legante oleoso non può però spiegare da solo la rinascita artistica
fiamminga legata alla resa della luce ed al suo manifestarsi sulle più diverse
superfici, certi esiti si riscontrano infatti anche in opere prodotte con tecniche
diverse, come ad esempio le miniature. Gli studi condotti durante il restauro del
Polittico dell’Agnello mistico e di molte altre opere del periodo hanno permesso di
chiarire solo in parte le circostanze tecniche con cui le migliori opere fiamminghe
vennero prodotte. Il procedimento si può grosso modo riassumere così: il pittore
tracciava innanzitutto sull’imprimitura bianca un disegno sommario e
suscettibile di variazioni seguito da un abbozzo del modellato; su di esso stendeva
poi una tinta di base (detta mestica) che rappresentava il colore medio delle tinte,
sulla quale iniziava a lavorare il chiaroscuro; ogni figura veniva quindi ripresa con
strati successivi di velature lievemente chiaroscurate, in numero e spessore assai
variabili a seconda degli effetti desiderati.

Da registrare la sostanziale assenza nella pittura fiamminga di affreschi, tecnica


che pure tanta parte ha avuto nella storia della pittura europea. Questo fatto è
spiegato in primo luogo con la circostanza che molti dei caratteri costitutivi della
pittura fiamminga sono intrinsecamente connessi alla pittura ad olio e sono
difficilmente riproducibili nella pittura ad affresco. Altra causa di questo
fenomeno sta probabilmente nella consuetudine di affidare, in quell’era, la
decorazione parietale agli arazzi piuttosto che a pitture ed infatti nelle Fiandre si
eccelse in questa pratica, non solo per la parte strettamente tessile, ma anche
nella stesura dei cartoni preparatori. Molti dei maggiori artisti di area
nederlandese affiancavano abitualmente alla pittura di cavalletto la preparazione
di cartoni d’arazzo. Sia pure eccezionali tuttavia non mancano buone prove di
artisti fiamminghi nella tecnica ad affresco: ne costituisce un esempio Michael
Coxcie che nella chiesa romana di Santa Maria dell’Anima affrescò due cappelle
(delle quali una sola si è conservata) con dipinti che la critica antica e moderna ha
giudicato di buona fattura.

LA LUCE

In maniera analoga ai pittori toscani contemporanei, anche i fiamminghi


svilupparono un interesse verso la realtà e la rappresentazione naturalistica.
Anche in questo caso le ricerche si mossero a partire dai canoni dell’arte
tardogotica, e ben presto i fiamminghi, in particolare Van Eyck, seppero arrivare a
una completa integrazione tra figure e paesaggio, dove la luce è l’elemento che
unifica tutta la scena, delineando con incisività scrupolosa tanto le figure
principali quanto i singoli oggetti di corredo. Andava così perdendo di interesse la
spazialità sospesa e astratta delle raffigurazioni tardogotiche, dove tutto
concorreva a dare un’apparenza da favola o da balletto ben architettato.

Lo spazio dei fiamminghi è molto diverso anche dallo spazio degli italiani,
improntato alla prospettiva lineare centrica. Gli italiani usavano infatti un unico
punto di fuga posto al centro dell’orizzonte, dove tutto è perfettamente strutturato
ordinatamente, con rapporti precisi tra le figure e un’unica fonte di luce che
definisce le ombre. Secondo questa impostazione lo spettatore resta tagliato fuori
dalla scena e ne ha una visione completa e chiara.

Per i fiamminghi invece lo spettatore è incluso illusoriamente nello spazio della


rappresentazione, tramite alcuni accorgimenti quali l’uso di più punti di fuga (tre,
quattro) o di una linea dell’orizzonte alta, che fa sembrare l’ambiente “avvolgente”
o in procinto di rovesciarsi su chi guarda. Lo spazio è quindi tutt’altro che chiuso e
finito, anzi spesso si aprono finestre che fanno intravedere un paesaggio lontano,
o, come nel celebre Ritratto dei coniugi Arnolfini di Jan van Eyck, possono essere
addirittura presenti specchi che raddoppiano l’ambiente, mostrando le spalle dei
protagonisti.

La luce dei fiamminghi inoltre non è selettiva, cioè illumina con la stessa
attenzione l’infinitamente piccolo e l’infinitamente grande e facendo da medium
per unificare tutta la rappresentazione. Vengono sfruttate più fonti luminose, che
moltiplicano le ombre e i riflessi, permettendo di definire acutamente le diverse
superfici: dal panno alla pelliccia, dal legno al metallo, ciascun materiale mostra
una reazione specifica ai raggi luminosi (il “lustro”).

L’UOMO

l’uomo non può essere il centro del mondo, come teorizzavano gli umanisti, anzi è
solo una parte del ricchissimo Universo, dove non tutto è riconducibile al
principio ordinatore della razionalità. Se da una parte i gesti e le azioni dell’uomo
non hanno quella forza culturale di fare “storia”, dall’altra i singoli oggetti
acquistano importanza nella raffigurazione, ottenendo una forte valenza
simbolica che può essere letta su vari strati

RITRATTO CON POSA DI TRE QUARTI

I fiamminghi, inoltre, inventarono un altro modo di visualizzare il personaggio:


non di profilo, non frontale, ma a tre quarti, appunto. Questo cambiamento nella
rappresentazione del punto di vista, permette all’osservatore di cogliere maggiori
informazioni della fisionomia di uno stesso volto. Adesso la posa del volto è a tre
quarti, girato quindi a sinistra o destra guardando un punto vuoto.

IL PALAZZO DUCALE E LO STUDIOLO

Il progetto più ambizioso di Federico da Montefeltro, uomo coltissimo e raffinato,


fu la costruzione del Palazzo Ducale e di pari passo, la sistemazione urbanistica di
Urbino, facendone la città “del principe”. Prima degli interventi di Federico, la
residenza ducale era un semplice palazzo sul colle meridionale, al quale si
aggiungeva un vicino castellare, sull’orlo del dirupo verso la Porta Valbona.
LO STUDIOLO

Lo Studiolo di Federico da Montefeltro è uno degli ambienti più celebri del


Palazzo Ducale di Urbino, poiché oltre che essere un capolavoro di per sé, è l’unico
ambiente interno del palazzo ad essere rimasto pressoché integro, permettendo di
ammirare il gusto fastoso della corte urbinate di Federico. Venne realizzato tra il
1473 e il 1476, da artisti fiamminghi appositamente chiamati a corte dal Duca. Con
loro operarono vari artisti italiani, tra cui forse anche il celebre Melozzo da Forlì.

Lo studiolo si trova al piano nobile del palazzo ed era lo studio privato del Duca. Il
soffitto è a cassettoni dorati con le imprese ducali. I colori smaglianti e i continui
rimandi tra architettura reale e fantastica dovevano creare nello spettatore un
effetto di grande meraviglia.

Le pareti sono coperte da tarsie lignee tuttora in situ, che creano effetti
illusionistici di continuazione dell’architettura.

Le tarsie sono attribuite a vari autori, come Giuliano da Maiano e, per i disegni,
Botticelli, Francesco di Giorgio Martini e il giovane Donato Bramante. Spiccano
però le tarsie attribuite a Baccio Pontelli[1] e caratterizzate dalle complesse
costruzioni prospettiche di oggetti geometrici, che creano un continuo scambio
tra realtà e finzione, dilatando lo spazio della stanza altrimenti minuscola.

Lo schema della decorazione lignea prevede nella parte superiore un alternarsi di


sportelli semiaperti, che rivelano armadi con oggetti, e di nicchie con statue;
segue una fascia sottostante con fregi di vario genere sotto ciascun pannello,
mentre la parte inferiore imita degli stalli, con assi appoggiate sopra, sulle quali
sono disposti strumenti musicali ed altri oggetti, mentre lo sfondo degli stalli è
composto da grate magistralmente eseguite, pure imitanti degli sportelli aperti o
chiusi.

Gli oggetti ritratti negli armadi alludono ai simboli dell’Arti, ma anche alle Virtù
(la mazza della Fortezza, la spada della Giustizia, ecc.), come se l’esercizio delle
prime aprisse la strada alle seconde. Spesso le finte architetture delle tarsie
attenuano le irregolarità della stanza.

In origine le pareti erano decorate nella parte superiore da un fregio contenente


ventotto ritratti di Uomini illustri del passato e del presente, disposti su due
registri, opera di Giusto di Gand e Pedro Berruguete, del 1473-1476 circa.
Quattordici di questi ritratti originali sono oggi al Museo del Louvre, al quale sono
pervenuti a seguito delle note spoliazioni napoleoniche e mai più restituiti. Gli
altri quattordici sono ancora in loco nello stesso ambiente per il quale sono stati
pensati. I ritratti, che comprendevano sia personaggi civili che ecclesiastici,
cristiani e pagani, erano concepiti da un punto di vista leggermente ribassato e su
di uno sfondo unificante, così da creare l’impressione prospettica di una galleria
reale. Purtroppo l’effetto complessivo è alterato poiché gli originali sottratti in
epoca napoleonica sono oggi rimpiazzati da copie di minor valore.

ARCHITETTURA PALAZZO
Il palazzo in sé è un eccezionale esempio di architettura gotico-rinascimentale
veneziana, costruito nelle forme attuali a partire dal Trecento su edifici e strutture
militari medievali preesistenti. Benché un Palazzo Ducale (che in effetti fu
sempre, oltre che residenza ufficiale dei Dogi, anche sede del governo e tribunale
della Repubblica) già esistesse probabilmente nel nono secolo, l’edificio che
vediamo oggi prese forma principalmente nel tardo Medioevo e nel Rinascimento.

Il complesso palatino è formato da tre corpi principali. L’ala più antica, che
accoglie anche l’imponente Sala del Maggior Consiglio, è quella affacciata su
Canal Grande, costruita a partire dal 1340. Il corpo che si apre su Piazza San Marco
venne realizzata nel 1424. L’ala che ospita gli appartamenti del Doge venne invece
edificata tra il 1483 ed il 1565, in questo lasso di tempo fu anche completamente
rinnovato il grande cortile monumentale.

PIERO DELLA FRANCESCA

IL DITTICO

I due dipinti sono oggi separati, ma anticamente collegati da un’unica cornice. La


pittura su entrambe le parti farebbe infatti pensare a un oggetto privato, piuttosto
che a un ritratto pubblico da appendere, o magari fu richiesto da Federico stesso
come ricordo dell’amatissima moglie, come sembra suggerire anche un certo tono
malinconico dell’opera.

I sovrani sono raffigurati di profilo, come nelle medaglie, in un’immobilità


solenne, sospesi in una luce chiarissima davanti a un lontano e profondo
paesaggio a perdita d’occhio, che accentua le figure in primo piano.
L’infinitamente lontano e l’infinitamente vicino (rappresentato dalla cura dei
particolari nei ritratti) sono mirabilmente fusi, dando origine a una realtà
superiore e ordinata, dominata da leggi matematiche che fanno apparire gli esseri
umani non più come mortali ma come idealmente eterni, grazie alla loro
superiorità morale. Nel paesaggio la luce è calda, tanto da arrossare le curve dei
colli.

Le effigi si ispirano ai cammei tardo-imperiali e ai dittici consolari in avorio: non a


caso la doppia iscrizione inizia con “Clarus” e finisce con “Virorum”, rievocando le
tipiche iscrizioni del “vir clarissimus” romano. La luce è unica e proviene alle
spalle di Federico.

IL RITRATTO DI BATTISTA

Il ritratto di Battista ha una colorazione chiara, con la pelle di un candore ceruleo


come imponeva l’etichetta del tempo: una pelle chiara era infatti segno di nobiltà,
in contrapposizione all’abbronzatura dei contadini che dovevano stare all’aperto.
La fronte è altissima, secondo la moda del tempo che imponeva un’attaccatura
molto alta (con i capelli che venivano rasati col fuoco di una candela), e
l’acconciatura elaborata, intessuta di panni e gioielli. Piero, al pari dei
fiamminghi, si soffermò sulla brillantezza delle perle e delle gemme, restituendo,
grazie all’uso delle velature a olio, il “lustro” (riflesso) peculiare di ciascuna
superficie, a seconda del materiale.

IL RITRATTO DI MONTEFELTRO

Il ritratto di Federico è invece più naturalistico: la sua figura è possente,


incorniciata dal forte rosso della veste e della berretta, che isola il profilo, mentre
l’ispida calotta dei capelli accentua gli effetti di massa volumetrica. I capelli sono
irsuti, lo sguardo fiero e lontano. Il naso adunco e rotto era una cicatrice ottenuta
durante un torneo in cui aveva perso anche l’occhio destro: per questo si faceva
sempre ritrarre di profilo sinistro. La pelle è dipinta nei minimi particolari con
distaccata oggettività, dalle rughe e ai piccoli nei, riprendendo i modi dell’arte
fiamminga. La corte di Federico dopotutto proprio negli anni sessanta del
Quattrocento viveva l’apice del suo splendore, con artisti italiani e fiamminghi che
lavoravano fianco a fianco influenzandosi reciprocamente.

I trionfi (carri allegorici) erano un tema caro agli umanisti, perché rievocavano il
mondo dell’Antica Roma ed erano carichi di suggestioni letterarie derivate
dall’opera del Petrarca.

Federico è ritratto sul carro trionfale trainato da due cavalli bianchi, mentre una
Vittoria alata lo incorona d’alloro. Nella parte anteriore del carro siedono le
quattro Virtù cardinali: Giustizia (frontale, con spada e bilancia), Prudenza (di
profilo, con lo specchio), Fortezza (con la colonna spezzata) e Temperanza (di
spalle). Un amorino poi guida i cavalli, anche se è chiaro come l’ordine pervenga
da Federico stesso, che, vestito dell’armatura, impugna il bastone del comando,
evidenziato dal prolungamento della linea orizzontale tramite una strada nello
sfondo. L’iscrizione in lettere capitali romane esalta le virtù del sovrano: "CLARVS
INSIGNI VEHITVR TRIVMPHO QVEM PAREM SVMMIS DVCIBVS PERHENNIS
FAMA VIRTVTVM CELEBRAT DECENTER SCEPTRA TENENTEM (È portato in
insigne trionfo quell’illustre che la fama perenne delle sue virtù celebra
degnamente come reggitor di scettro pari ai sommi condottieri).

Il trionfo di Battista esalta invece le virtù coniugali: essa è colta durante la lettura,
con le tre Virtù teologali della Carità (vestita di nero con in grembo il pellicano,
simbolo di sacrificio materno che dona le proprie stesse carni per la sopravvivenza
dei figli), la Fede (vestita di rosso col calice e l’ostia), la Speranza (di spalle) e una
quarta virtù, la Temperanza (frontale). Un amorino guida due liocorni, simbolo di
castità. L’iscrizione recita: “QVE MODVM REBVS TENVIT SECVNDIS CONIVGIS
MAGNI DECORATA RERVM LAVDE GESTARVM VOLITAT PER ORA CVNCTA
VIRORVM” (Colei che mantenne la moderazione nelle circostanze favorevoli vola
su tutte le bocche degli uomini adorna della lode per le gesta del grande marito).

Le iscrizioni celebrative sono pienamente autografe di Piero, come ha evidenziato


Clark confrontando il carattere usato con quello delle firme su altri dipinti.

Il paesaggio è di chiara derivazione fiamminga, dove la foschia schiarisce le cose


più lontane (prospettiva aerea) e il cielo sfuma verso l’orizzonte, come all’alba.
LA MADONNA DI SENIGALLIA

La scena mostra una Madonna stante col Bambino tra due angeli, all’interno di
un’abitazione. Il taglio del dipinto è insolito e mostra i protagonisti come mezze
figure, tagliate dal margine inferiore del dipinto. Il Bambino, in atto di benedire,
tiene in mano una rosa bianca, simbolo della purezza della Vergine, mentre al
collo ha una collana di perle rosse con un corallo, un simbolo arcaico di
protezione degli infanti, che nel caso delle scene sacre acquistava anche un valore
di premonizione della Passione per via del colore rosso-sangue.

Gli angeli, dalle tenui vesti di colore grigio e rosa salmone, sono fedelmente ripresi
dalla Pala di Brera, tanto che alcuni ipotizzano l’intervento di allievi che
copiarono le fisionomie dell’opera precedente.

Sullo sfondo si vede a destra un armadio a muro con mensole inquadrato da una
cornice scolpita con una candelabra, come ne esistevano nel Palazzo Ducale di
Urbino (sebbene non ne ritragga nessuna in particolare), mentre a sinistra si apre,
alla maniera fiamminga, un altro ambiente da dove proviene un doppio raggio di
sole tramite una finestra aperta, rifrangendosi sulla parete ombrosa non prima di
aver illuminato il pulviscolo atmosferico lungo la traiettoria. La luce disegna poi
riflessi sui rilievi della decorazione della nicchia, sulle piccole nature morte del
cestello con il panno di lino e della scatola cilindrica d’avorio nell’armadio, e poi
nei capelli, nelle vesti e nei gioielli dei quattro protagonisti. Marchi scrisse: “come
in nessun’altra opera di Piero la luce vi svolge un ruolo fondante”[3]. La luce, che
attraversa il vetro a rondelle senza romperlo, è anche una metafora del mistero
dell’Incarnazione[4], che attraversa il corpo di Maria, nella concezione e nel parto,
senza violarlo.

La mancanza di punti di appoggio tra le figure e lo spazio impedisce di


determinare la distanza reciproca, facendo apparire i protagonisti vicinissimi allo
spettatore.

Nonostante la ricchezza di analogie con la Pala di Brera, la Madonna di Senigallia


ha un carattere molto diverso, più intimo, con l’allusione alla camera dal letto
dell’Incarnazione (presente tradizionalmente nelle raffigurazioni
dell’Annunciazione). Di derivazione fiamminga sono anche l’uso del legno di noce
al posto del consueto pioppo, la tecnica pittorica con un largo uso di leganti oleosi,
nonché i delicati effetti materici nella pittura, come il velo sulla testa della
Madonna, le luccicanti rotondità dei gioielli degli angeli e le pieghe plastiche e
luminose dei panneggi.

LA PALA MONTEFELTRO

La pala di Brera è esemplare delle ricerche prospettiche compiute dagli artisti del
centro Italia nel secondo Quattrocento. Si tratta di un’opera monumentale, con un
trattamento magnifico della luce, astratta e immobile, e un repertorio
iconografico di straordinaria ricchezza. Innanzitutto sono inconsuete sia le
dimensioni sia l’assenza di scomparti laterali, come nei tradizionali polittici,
risultando la prima Sacra Conversazione sviluppata prevalentemente in verticale:
numerose tavole da altare, in tutta l’Italia centrosettentrionale, vi si ispirano.

L’opera presenta al centro la Madonna in trono in posizione di adorazione, con le


mani giunte verso Gesù Bambino addormentato sul suo grembo. La sua figura
domina la rappresentazione e il suo volto è il punto di fuga dell’intera
composizione. Il trono si trova poggiato su un prezioso tappeto anatolico, un
oggetto raro e prezioso ispirato a dipinti analoghi dell’arte fiamminga.

Attorno vi è una schiera di angeli e santi. La particolare disposizione del gruppo


sacro centrale è rara, ma è documentata già nella bottega muranese dei Vivarini o
in un polittico di Antonio da Ferrara presente nella chiesa urbinate di San
Donato.La posizione venne probabilmente scelta dal committente per il
collegamento con un sentimento a lui caro, la pietà filiale. In basso a destra si
trova, appunto, inginocchiato e in armi, il duca Federico. Fa da sfondo alla
composizione l’abside di una chiesa dalla struttura architettonica
classicheggiante.

Il Bambino porta al collo un ciondolo di corallo che cela rimandi al rosso del
sangue, simbolo di vita e di morte, ma anche della funzione salvifica legata alla
resurrezione di Cristo. La stessa posizione addormentata era una prefigurazione
della futura morte sulla croce.

Federico è esposto più all’esterno, fuori dall’insieme degli angeli e dei santi, come
prescriveva il canone gerarchico dell’iconografia cristiana rinascimentale.

L’impianto prospettico del dipinto converge in un unico punto di fuga centrale,


collocato all’altezza degli occhi della Vergine il cui volto ovale si pone
perfettamente in linea con l’uovo di struzzo che pende dal catino absidale, di cui
riproduce la forma perfetta. L’armonia della composizione è ottenuta attraverso la
ripetizione di un modulo circolare: la volta a botte in alto, lo sfondo scandito da
pannelli di marmo e i santi disposti intorno alla Vergine sottolineano la struttura
semicircolare dell’abside.

I santi ai lati sono (da sinistra):

San Giovanni Battista, barbuto, con la pelle scura e il bastone, la cui presenza è
giustificata dalla Chiesa in suo onore nella città di Gubbio dove è morta Battista
Sforza, moglie di Federico; San Bernardino da Siena, in secondo piano, la cui
presenza è giustificata dal fatto che Bernardino conobbe Federico, ne divenne
amico e forse confessore; inoltre spiega la collocazione nel convento che porta il
suo nome; San Girolamo, a sinistra rispetto alla Madonna, con la veste lacera
dell’eremita e il sasso per percuotersi il petto; egli, in quanto studioso e traduttore
della Bibbia, era considerato il protettore degli umanisti; San Francesco d’Assisi,
che mostra le stimmate la cui presenza viene messa in relazione con una possibile
destinazione originaria per la chiesa francescana di San Donato degli Osservanti,
che peraltro ospitò per un periodo la stessa tomba del Duca Federico; San Pietro
martire, con il taglio sulla testa; San Giovanni Evangelista, con il libro e il mantello
tipicamente rosato. Gli abiti, molto ricercati, le pietre degli angeli e l’armatura
sono dipinti con minuziosi particolari, secondo un gusto tipicamente fiammingo.
Federico da Montefeltro è vestito dell’armatura, con la spada e un ricco mantello a
pieghe, mentre in terra si trovano l’elmo, descritto fin nei più ricercati riflessi
metallici della luce e dell’elsa della spada, il bastone del comando e le parti
dell’armatura che coprono mani e polsi, per permettergli di giungere le mani in
preghiera. Le sue mani hanno trattamento minuzioso e tondeggiante che è
estraneo alla pittura “di luce” di Piero: vengono attribuite allo spagnolo di
formazione fiamminga Pedro Berruguete, artista di corte di Federico dal 1474 al
1482. Il profilo mostrato è, come di consueto quello sinistro, poiché quello destro
era mutilato dalla perdita di un occhio durante un torneo.

La sua figura inoltre non solo è di proporzioni uguali alle divinità, come aveva già
rivoluzionato Masaccio, ma è anche coinvolta inequivocabilmente nello spazio
della sacra conversazione, suscitando anche nell’osservatore, per emulazione, la
sensazione di trovarsi nello spazio della chiesa. Molti dei santi mostrano le ferite
del loro martirio, e anche il duca, nell’elmo ammaccato, ricorda la sofferenza
terrena.

Nei gioielli indossati dagli angeli o nella croce tenuta da san Francesco nella mano
destra il pittore poté dare un saggio di virtuosismo nel rendere i riflessi luminosi
sulle diverse superfici, anche quelle più preziose e ricercate, come facevano i
fiamminghi.

SFONDO

La scena è ambientata davanti a un’abside monumentale che si trova molto


indietro rispetto alle figure, come dimostra lo studio delle proporzioni
architettoniche. Secondo il critico Clark le strutture dipinte sarebbero ispirate
dalla chiesa di Sant’Andrea di Leon Battista Alberti. L’opera venne iniziata nel
1471, ma è probabile che tra i due artisti ci sia stato uno scambio di pareri e magari
di disegni progettuali durante un loro probabile incontro a Rimini e forse nella
stessa Urbino. La struttura riecheggia anche lo schema dell’architettura reale della
chiesa di San Bernardino, di Francesco di Giorgio Martini, anche se la chiesa è
un’opera ritenuta successiva, edificata dal 1482.

Entro un monumentale arco di trionfo, retto da paraste al di sopra di un’elaborata


trabeazione con una fascia continua di marmo rosso, si sviluppa una volta a botte
con cassettoni scolpiti con rosette. Il numero dei cassettoni su ciascuna fila è
dispari, come nell’architettura classica, ma diversamente dalle opere dell’Alberti o
dalla stessa Trinità di Masaccio, di brunelleschiana ispirazione. Archi analoghi
sono impostati sui lati, come in un ipotetico transetto. Nella parte inferiore si
trovano specchiature marmoree policrome, accordate su toni delicati che fanno
risaltare le figure, amplificando la sacralità e la monumentalità. L’impianto
prospettico è esaltato dai contrasti fra luce e ombra che si creano nei cassettoni
della volta a botte.

LA CONCHIGLIA E L’UOVO
In fondo alla nicchia si trova un’esedra semicircolare dove colpisce la geometrica
purezza della calotta della semicupola nella quale è scolpita una conchiglia
(esempi simili si trovano nell’arte fiorentina dell’epoca, a partire dalla
donatelliana nicchia della Mercanzia in Orsanmichele, del 1425 circa),
magnificamente evidenziata dalla luce, al culmine della quale è appeso un uovo di
struzzo, che sembra fluttuare sulla testa di Maria. L’uovo è messo in risalto dalla
luce su uno sfondo in ombra, proiettandosi otticamente in primo piano.

La conchiglia è simbolo della nuova Venere, Maria madre di Gesù Cristo, e della
bellezza eterna nonché della natura generatrice della Vergine e del suo legame con
il mare e le acque. L’uovo di struzzo, che è anche emblema della perfezione divina,
è collocato in una posizione leggermente sfalsata rispetto all’asse mediano del
quadro, come simbolo della superiorità della Fede rispetto alla Ragione.[1] L’uovo
è un complesso richiamo al dogma della verginità di Maria, che doveva essere
noto agli umanisti del XV secolo. Si rifà alla storia di Leda, sposa del re di Sparta,
dove si trovava appeso in un tempio un analogo uovo, che venne fecondata da
Zeus sotto forma di cigno, precorrendo la fecondazione di Maria tramite i raggi
divini emanati dalla colomba dello Spirito Santo.

L’uovo era anche inteso comunemente come simbolo di vita, della Creazione (vedi
Uovo cosmico). In numerose chiese dell’Abissinia e dell’Oriente cristiano-
ortodosso viene spesso appeso nel catino absidale un uovo proprio con
quest’ultimo valore, come segno di vita, di nascita e rinascita. Proprio questa
valenza rimanderebbe alla nascita del figlio del duca, tanto più che lo struzzo era
uno dei simboli della casata del committente. Inoltre l’uovo, illuminato da una
luce uniforme, esprime l’idea di uno spazio centralizzato, armonico e
geometricamente equilibrato: “centro e fulcro dell’Universo”. L’uovo, inoltre, è il
simbolo del casato di Montefeltro, e insieme al ciondolo di corallo, simboleggia la
vita.

Secondo altri la figura ovoidale sarebbe invece una perla, generata dalla
conchiglia senza alcun intervento maschile.

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