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L’artista prima era considerato un artigiano che imparava le tecniche del maestro.
Ora è un intellettuale, perché oltre a imparare una tecnica, studia l’anatomia, le
scienze, la matematica, la geometria.
FILIPPO BRUNELLESCHI
Sempre Vasari ci racconta che tra i partecipanti furono “Filippo e Donato, Lorenzo
Ghiberti, Iacopo della Fonte, Simone da Colle, Francesco di Valdambrina e
Niccolò d’Arezzo”. Ognuno di loro si cimenta con la storia del sacrificio di Isacco e
subito appare chiaro che la gara è tutta tra Brunelleschi, il giovane, la rivelazione e
Ghiberti, lo scultore già affermato, solido rappresentante della tradizione tardo
gotica.
I consoli faticano non poco a designare il vincitore. Alla fine la scelta ricade sul
Ghiberti, artista d’esperienza, garante della buona riuscita dell’impresa. A
Brunelleschi viene offerto di collaborare con il più maturo maestro Lorenzo ma
egli rifiuta “avendo animo di volere essere più tosto primo in una sola arte, che
pari o secondo in quell’opera”. Già è evidente l’ambizione del giovane che si è
messo in evidenza per la sua perizia tecnica e la sua innovativa energia espressiva
ma che non vuole dividere la gloria con nessuno. Com’è noto Ghiberti realizzerà la
splendida seconda porta bronzea del Battistero mentre Filippo lascerà Firenze per
andare a Roma con l’amico Donatello dove trascorrerà un periodo fecondo di studi
e di totale immersione nell’antichità, dove condurrà la sua appassionata ricerca
filologica sui principi dell’architettura antica, dove scoprirà e riscoprirà le ragioni
matematiche e geometriche della prospettiva, dove in altre parole maturerà
pienamente il concetto di “Rinascita”, propulsore della grande stagione del
Quattrocento fiorentino.
Tornato a casa Filippo si dedica per qualche anno alla scultura affrontando anche
la lavorazione della pietra, l’intaglio del legno e le grandi dimensioni. Ne è un
superbo esempio il Crocifisso ligneo di Santa Maria Novella, realizzato intorno al
1410, in cui traduce nel sacro i principi proporzionali dell’uomo vitruviano; Ma dal
1417 tutta la sua attenzione è catalizzata sul quel vuoto che la sua città ancora non
è riuscito a colmare. L’Opera del Duomo lancia un concorso di idee, diciassette gli
architetti chiamati a trovare una soluzione. La sfida non è soltanto quella di
progettare una cupola immensa ma di trovare le soluzioni tecniche adeguate e
soprattutto di contenere la spesa, il costo delle armature e delle centine rischia
infatti di superare quello delle murature. Era stato lo stesso Brunelleschi a
suggerire di consultare architetti toscani, francesi e tedeschi ma al solo scopo di
rendere ancora più grande la sua impresa, di dare risalto alla sua genialità. Egli
propone una soluzione innovativa: una doppia calotta autoportante costituita cioè
da due cupole, l’una dentro l’altra con un camminamento tra le due e un cantiere
fisso con ponteggi istallati all’altezza del tamburo anziché innalzati dal suolo.
Accorgimenti che consentivano un notevole risparmio sul materiale e rendevano
sicura la permanenza degli operai a quaranta metri d’altezza. L’opera gli darà
affidata nel 1420. Lo affianca Ghiberti ma a tutti è chiaro che solo a lui si devono il
progetto e l’esecuzione della più grande opera architettonica mai condotta dai
tempi dell’impero romano. I lavori proseguono per oltre vent’anni e alla morte di
Brunelleschi, nel 1446, alla cupola manca ancora la lanterna per la quale il
maestro lascia però un modello e precise indicazioni esecutive.
L’idea è ripresa negli anni quaranta nella Cappella de’ Pazzi, in cui l’elemento
dello spazio cubico sormontato da una cupola è ripreso anche nel piccolo elegante
portico antistante.
Nel curriculum di Brunelleschi non mancano gli edifici civili, il più celebre dei
quali assume un vero e proprio valore urbanistico, determinando l’assetto di
un’intera piazza e dando forma tangibile all’idea antica e moderna di bello e utile.
MASACCIO
Non sappiamo molto della biografia di questo pittore del ‘400: senza dubbio la sua
fu una carriera fulminea, nella quale egli si fece promotore di nuovi modelli
artistici prontamente saldi all’ epoca quattrocentesca nella quale egli operò. Per
riuscire ad affermarsi in una Firenze ancora perdutamente innamorata del Gotico
Internazionale, Masaccio dovette mettersi in società con con un pittore a lui più
anziano, quale Masolino, e di lì a poco questa collaborazione diede vita a
Sant’Anna Metterza, tipologia iconografica dove veniva raffigurata la Madonna col
Bambino e sant’Anna “messa a fare da terza” o “medesima terza”, cioè dove si
evidenziava il rango della santa come terza in ordine di importanza.
SANT’ANNA METTERZA
LA CAPPELLA BRANCACCI
Una questione molto dibattuta è quella degli aiuti che i due pittori offrirono
reciprocamente in scene destinate all’altro. Alcuni studiosi tendono ad escluderle,
altri, basandosi su confronti stilistici, le sottolineano. Per esempio si attribuiva in
genere a Masaccio lo schema prospettico della Guarigione dello storpio e
resurrezione di Tabita, identico a quello del Tributo, ma forse venne elaborato da
entrambi. A Masaccio sono attribuite le montagne realistiche nella Predica di San
Pietro, come mai ne dipinse in lavori successivi, mentre a Masolino è stata
attribuita la testa del Cristo nel Pagamento del Tributo, dolcemente sfumata come
quella dell’Adamo masolinesco nella Tentazione di Adamo ed Eva. L’opera rimase
incompiuta, anche per l’esilio di Felice Brancacci nel 1436, a causa del suo
schierarsi nel partito avversario a Cosimo de’ Medici. Solo con la riammissione
della famiglia Brancacci a Firenze, nel 1480, la decorazione della cappella poté
essere portata a termine incaricando Filippino Lippi, che oltre che essere un
artista di spicco era adatto all’incarico anche perché figlio di Fra Filippo, uno dei
primissimi allievi di Masaccio. Filippino cercò di temperare il suo stile, adeguando
la sua tavolozza alla cromia degli affreschi più antichi e mantenendo la solenne
impostazione delle figure, per non rompere l’omogeneità dell’insieme.
Nonostante ciò il suo stile appare oggi facilmente riconoscibile, poiché
improntato a un chiaroscuro più maturo e dotato della linea di contorno che è
tipica dello stile intellettualistico del Rinascimento all’epoca di Lorenzo il
Magnifico e che è opposto alla pittura “di getto” fatta di veloci stesure di colore e
luce di Masaccio. Masolino è di solito inquadrato come continuatore della pittura
tardogotica, o tutt’al più come figura di transizione, mentre Masaccio applica più
rigorosamente le nuove idee che furono alla base della rivoluzione rinascimentale:
definizione spaziale precisa, individuazione psicologica degli individui raffigurati
e riduzione all’osso degli elementi decorativi. Tutto questo è evidente nella
Cacciata dal Paradiso terrestre, dove operarono sia Masaccio che Masolino.
Masolino infatti propone un Adamo ed Eva fortemente ancorati alla
bidimensionalità generali della raffigurazione, che sembrano quasi galleggiare in
uno sfondo neutro, dal quale emerge un albero con il serpente dalla testa umana,
in Masaccio invece c’è una quanto mai più evidente tridimensionalità delle figure,
che si coglie dalle ombre, e dalli quali si percepisce un evidente stato angoscioso,
turbato del proprio animo, che invece è inesistenza nella posa composta, assente
dell’Adamo ed Eva del Masolino.
IL TRIBUTO
LA CROCIFISSIONE DI CAPODIMONTE
LA TRINITÀ
L’immagine dipinta ne La Trinità di Masaccio raffigura una nicchia all’interno
della quale si trova una scena con una crocifissione. Sotto di essa inoltre è
rappresentato un sarcofago con uno scheletro appoggiato al di sopra. Al centro
viene rappresentata la Santissima Trinità e a fianco sono dipinti i coniugi oranti.
L’architettura che incornicia la scena è composta da un arco classico sostenuto da
due colonne con capitello. Esternamente ai lati delle colonne inoltre sono
raffigurate due paraste con capitello corinzio. Infine all’interno del vano dove è
rappresentata La Trinità è presente una volta a botte con lacunari.
Al suo interno Cristo è sulla croce. Dio Padre, al di sopra, sostiene il corpo. Tra di
loro si libera lo Spirito Santo sotto forma di colomba bianca. In basso, a sinistra
Maria indica il Figlio crocifisso. A destra invece San Giovanni guarda Gesù con
un’espressione sofferente. In basso all’esterno del vano, di fronte alle paraste sono
raffigurati i due committenti. Sono inginocchiati ed in preghiera a sinistra il
marito e a destra la moglie interamente coperta da un velo blu. Alla base
dell’affresco sopra lo scheletro dipinto, deposto sul finto sarcofago, compare una
scritta. L’iscrizione latina invita l’osservatore a meditare sull’ineluttabilità della
morte e si definisce un “memento mori” (ricordati che devi morire). La scritta
recita: IO FU’ GIÀ QUEL CHE VOI SETE, E QUEL CH’I’ SON VOI ANCO SARETE
La narrazione parte dal basso, dallo scheletro appoggiato sul sarcofago. Questo
scheletro che rappresenta la morte dalla quale ci si può salvare elevandosi verso
Dio Padre. Infatti è attraverso la preghiera simboleggiata dai committenti che si
ottiene la fede necessaria per conquistare la vita eterna. Maria indica con la mano
il Figlio cioè colui che ha tracciato la via da seguire. Attraverso l’esempio di Cristo
e lo Spirito Santo si giunge così a Dio padre che concede la salvezza.
DONATELLO
nasce a Firenze nel 1386, si forma nella bottega del Ghiberti e nell’ambito dei
cantieri del Duomo, e probabilmente è qui che conosce e diventa amico di Filippo
Brunelleschi. Donatello insieme a Brunelleschi compie il suo primo viaggio a
Roma: qui ammira da vicino le opere scultoree della tradizione classica. L’attività
artistica principale di Donatello si svolge a Firenze ma lavora anche a Pisa e a
Prato, in cui esprime la sua arte attraverso il Pulpito del Duomo, e lavora alla
decorazione del Battistero e del Duomo di Siena.
IL DAVID
SAN GIORGIO
Nel proporre questa bellezza scontrosa come modello per un eroe, Donatello
affermò una delle sue più profonde convinzioni: la grandezza degli antichi si
ritrovava nel popolo che per coraggio dignità e sentimento concreto della vita era
degno di interpretare i valori di quello straordinario passato, l’artista trasformava
così i popolani in santi ed eroi perché nella gente comune identificava le virtus
degli antichi.
BANCHETTO DI ERODE
Erode è un rilievo in bronzo dorato realizzato da Donatello (in collaborazione con
Ghiberti e Jacopo della Quercia) tra il 1423 e il 1427 per la fonte battesimale del
Battistero di Siena. La formella rappresenta il momento in cui viene mostrata al
tetrarca Erode la testa mozzata di Giovanni Battista. La composizione, complessa
e ricca di figure, si muove su due registri: quello emotivo e quello razionale.
Analizziamo gli atteggiamenti: Erode si ritrae davanti al vassoio con la testa
recisa, Salomè avanza ondeggiando, la figura in secondo piano si copre il volto con
una mano. Razionale è l’impianto della scena in cui la prospettiva dà ordine e
proporzione a figure ed eventi, una prospettiva che a differenza del San Giorgio
non si stempera per dar risalto alla drammaticità dell’episodio, ma si definisce con
evidenza.
IL DAVID IN BRONZO
IL CROCIFISSO
LA PITTURA FIAMMINGA
L’uso del legante oleoso non può però spiegare da solo la rinascita artistica
fiamminga legata alla resa della luce ed al suo manifestarsi sulle più diverse
superfici, certi esiti si riscontrano infatti anche in opere prodotte con tecniche
diverse, come ad esempio le miniature. Gli studi condotti durante il restauro del
Polittico dell’Agnello mistico e di molte altre opere del periodo hanno permesso di
chiarire solo in parte le circostanze tecniche con cui le migliori opere fiamminghe
vennero prodotte. Il procedimento si può grosso modo riassumere così: il pittore
tracciava innanzitutto sull’imprimitura bianca un disegno sommario e
suscettibile di variazioni seguito da un abbozzo del modellato; su di esso stendeva
poi una tinta di base (detta mestica) che rappresentava il colore medio delle tinte,
sulla quale iniziava a lavorare il chiaroscuro; ogni figura veniva quindi ripresa con
strati successivi di velature lievemente chiaroscurate, in numero e spessore assai
variabili a seconda degli effetti desiderati.
LA LUCE
Lo spazio dei fiamminghi è molto diverso anche dallo spazio degli italiani,
improntato alla prospettiva lineare centrica. Gli italiani usavano infatti un unico
punto di fuga posto al centro dell’orizzonte, dove tutto è perfettamente strutturato
ordinatamente, con rapporti precisi tra le figure e un’unica fonte di luce che
definisce le ombre. Secondo questa impostazione lo spettatore resta tagliato fuori
dalla scena e ne ha una visione completa e chiara.
La luce dei fiamminghi inoltre non è selettiva, cioè illumina con la stessa
attenzione l’infinitamente piccolo e l’infinitamente grande e facendo da medium
per unificare tutta la rappresentazione. Vengono sfruttate più fonti luminose, che
moltiplicano le ombre e i riflessi, permettendo di definire acutamente le diverse
superfici: dal panno alla pelliccia, dal legno al metallo, ciascun materiale mostra
una reazione specifica ai raggi luminosi (il “lustro”).
L’UOMO
l’uomo non può essere il centro del mondo, come teorizzavano gli umanisti, anzi è
solo una parte del ricchissimo Universo, dove non tutto è riconducibile al
principio ordinatore della razionalità. Se da una parte i gesti e le azioni dell’uomo
non hanno quella forza culturale di fare “storia”, dall’altra i singoli oggetti
acquistano importanza nella raffigurazione, ottenendo una forte valenza
simbolica che può essere letta su vari strati
Lo studiolo si trova al piano nobile del palazzo ed era lo studio privato del Duca. Il
soffitto è a cassettoni dorati con le imprese ducali. I colori smaglianti e i continui
rimandi tra architettura reale e fantastica dovevano creare nello spettatore un
effetto di grande meraviglia.
Le pareti sono coperte da tarsie lignee tuttora in situ, che creano effetti
illusionistici di continuazione dell’architettura.
Le tarsie sono attribuite a vari autori, come Giuliano da Maiano e, per i disegni,
Botticelli, Francesco di Giorgio Martini e il giovane Donato Bramante. Spiccano
però le tarsie attribuite a Baccio Pontelli[1] e caratterizzate dalle complesse
costruzioni prospettiche di oggetti geometrici, che creano un continuo scambio
tra realtà e finzione, dilatando lo spazio della stanza altrimenti minuscola.
Gli oggetti ritratti negli armadi alludono ai simboli dell’Arti, ma anche alle Virtù
(la mazza della Fortezza, la spada della Giustizia, ecc.), come se l’esercizio delle
prime aprisse la strada alle seconde. Spesso le finte architetture delle tarsie
attenuano le irregolarità della stanza.
ARCHITETTURA PALAZZO
Il palazzo in sé è un eccezionale esempio di architettura gotico-rinascimentale
veneziana, costruito nelle forme attuali a partire dal Trecento su edifici e strutture
militari medievali preesistenti. Benché un Palazzo Ducale (che in effetti fu
sempre, oltre che residenza ufficiale dei Dogi, anche sede del governo e tribunale
della Repubblica) già esistesse probabilmente nel nono secolo, l’edificio che
vediamo oggi prese forma principalmente nel tardo Medioevo e nel Rinascimento.
Il complesso palatino è formato da tre corpi principali. L’ala più antica, che
accoglie anche l’imponente Sala del Maggior Consiglio, è quella affacciata su
Canal Grande, costruita a partire dal 1340. Il corpo che si apre su Piazza San Marco
venne realizzata nel 1424. L’ala che ospita gli appartamenti del Doge venne invece
edificata tra il 1483 ed il 1565, in questo lasso di tempo fu anche completamente
rinnovato il grande cortile monumentale.
IL DITTICO
IL RITRATTO DI BATTISTA
IL RITRATTO DI MONTEFELTRO
I trionfi (carri allegorici) erano un tema caro agli umanisti, perché rievocavano il
mondo dell’Antica Roma ed erano carichi di suggestioni letterarie derivate
dall’opera del Petrarca.
Federico è ritratto sul carro trionfale trainato da due cavalli bianchi, mentre una
Vittoria alata lo incorona d’alloro. Nella parte anteriore del carro siedono le
quattro Virtù cardinali: Giustizia (frontale, con spada e bilancia), Prudenza (di
profilo, con lo specchio), Fortezza (con la colonna spezzata) e Temperanza (di
spalle). Un amorino poi guida i cavalli, anche se è chiaro come l’ordine pervenga
da Federico stesso, che, vestito dell’armatura, impugna il bastone del comando,
evidenziato dal prolungamento della linea orizzontale tramite una strada nello
sfondo. L’iscrizione in lettere capitali romane esalta le virtù del sovrano: "CLARVS
INSIGNI VEHITVR TRIVMPHO QVEM PAREM SVMMIS DVCIBVS PERHENNIS
FAMA VIRTVTVM CELEBRAT DECENTER SCEPTRA TENENTEM (È portato in
insigne trionfo quell’illustre che la fama perenne delle sue virtù celebra
degnamente come reggitor di scettro pari ai sommi condottieri).
Il trionfo di Battista esalta invece le virtù coniugali: essa è colta durante la lettura,
con le tre Virtù teologali della Carità (vestita di nero con in grembo il pellicano,
simbolo di sacrificio materno che dona le proprie stesse carni per la sopravvivenza
dei figli), la Fede (vestita di rosso col calice e l’ostia), la Speranza (di spalle) e una
quarta virtù, la Temperanza (frontale). Un amorino guida due liocorni, simbolo di
castità. L’iscrizione recita: “QVE MODVM REBVS TENVIT SECVNDIS CONIVGIS
MAGNI DECORATA RERVM LAVDE GESTARVM VOLITAT PER ORA CVNCTA
VIRORVM” (Colei che mantenne la moderazione nelle circostanze favorevoli vola
su tutte le bocche degli uomini adorna della lode per le gesta del grande marito).
La scena mostra una Madonna stante col Bambino tra due angeli, all’interno di
un’abitazione. Il taglio del dipinto è insolito e mostra i protagonisti come mezze
figure, tagliate dal margine inferiore del dipinto. Il Bambino, in atto di benedire,
tiene in mano una rosa bianca, simbolo della purezza della Vergine, mentre al
collo ha una collana di perle rosse con un corallo, un simbolo arcaico di
protezione degli infanti, che nel caso delle scene sacre acquistava anche un valore
di premonizione della Passione per via del colore rosso-sangue.
Gli angeli, dalle tenui vesti di colore grigio e rosa salmone, sono fedelmente ripresi
dalla Pala di Brera, tanto che alcuni ipotizzano l’intervento di allievi che
copiarono le fisionomie dell’opera precedente.
Sullo sfondo si vede a destra un armadio a muro con mensole inquadrato da una
cornice scolpita con una candelabra, come ne esistevano nel Palazzo Ducale di
Urbino (sebbene non ne ritragga nessuna in particolare), mentre a sinistra si apre,
alla maniera fiamminga, un altro ambiente da dove proviene un doppio raggio di
sole tramite una finestra aperta, rifrangendosi sulla parete ombrosa non prima di
aver illuminato il pulviscolo atmosferico lungo la traiettoria. La luce disegna poi
riflessi sui rilievi della decorazione della nicchia, sulle piccole nature morte del
cestello con il panno di lino e della scatola cilindrica d’avorio nell’armadio, e poi
nei capelli, nelle vesti e nei gioielli dei quattro protagonisti. Marchi scrisse: “come
in nessun’altra opera di Piero la luce vi svolge un ruolo fondante”[3]. La luce, che
attraversa il vetro a rondelle senza romperlo, è anche una metafora del mistero
dell’Incarnazione[4], che attraversa il corpo di Maria, nella concezione e nel parto,
senza violarlo.
LA PALA MONTEFELTRO
La pala di Brera è esemplare delle ricerche prospettiche compiute dagli artisti del
centro Italia nel secondo Quattrocento. Si tratta di un’opera monumentale, con un
trattamento magnifico della luce, astratta e immobile, e un repertorio
iconografico di straordinaria ricchezza. Innanzitutto sono inconsuete sia le
dimensioni sia l’assenza di scomparti laterali, come nei tradizionali polittici,
risultando la prima Sacra Conversazione sviluppata prevalentemente in verticale:
numerose tavole da altare, in tutta l’Italia centrosettentrionale, vi si ispirano.
Il Bambino porta al collo un ciondolo di corallo che cela rimandi al rosso del
sangue, simbolo di vita e di morte, ma anche della funzione salvifica legata alla
resurrezione di Cristo. La stessa posizione addormentata era una prefigurazione
della futura morte sulla croce.
Federico è esposto più all’esterno, fuori dall’insieme degli angeli e dei santi, come
prescriveva il canone gerarchico dell’iconografia cristiana rinascimentale.
San Giovanni Battista, barbuto, con la pelle scura e il bastone, la cui presenza è
giustificata dalla Chiesa in suo onore nella città di Gubbio dove è morta Battista
Sforza, moglie di Federico; San Bernardino da Siena, in secondo piano, la cui
presenza è giustificata dal fatto che Bernardino conobbe Federico, ne divenne
amico e forse confessore; inoltre spiega la collocazione nel convento che porta il
suo nome; San Girolamo, a sinistra rispetto alla Madonna, con la veste lacera
dell’eremita e il sasso per percuotersi il petto; egli, in quanto studioso e traduttore
della Bibbia, era considerato il protettore degli umanisti; San Francesco d’Assisi,
che mostra le stimmate la cui presenza viene messa in relazione con una possibile
destinazione originaria per la chiesa francescana di San Donato degli Osservanti,
che peraltro ospitò per un periodo la stessa tomba del Duca Federico; San Pietro
martire, con il taglio sulla testa; San Giovanni Evangelista, con il libro e il mantello
tipicamente rosato. Gli abiti, molto ricercati, le pietre degli angeli e l’armatura
sono dipinti con minuziosi particolari, secondo un gusto tipicamente fiammingo.
Federico da Montefeltro è vestito dell’armatura, con la spada e un ricco mantello a
pieghe, mentre in terra si trovano l’elmo, descritto fin nei più ricercati riflessi
metallici della luce e dell’elsa della spada, il bastone del comando e le parti
dell’armatura che coprono mani e polsi, per permettergli di giungere le mani in
preghiera. Le sue mani hanno trattamento minuzioso e tondeggiante che è
estraneo alla pittura “di luce” di Piero: vengono attribuite allo spagnolo di
formazione fiamminga Pedro Berruguete, artista di corte di Federico dal 1474 al
1482. Il profilo mostrato è, come di consueto quello sinistro, poiché quello destro
era mutilato dalla perdita di un occhio durante un torneo.
La sua figura inoltre non solo è di proporzioni uguali alle divinità, come aveva già
rivoluzionato Masaccio, ma è anche coinvolta inequivocabilmente nello spazio
della sacra conversazione, suscitando anche nell’osservatore, per emulazione, la
sensazione di trovarsi nello spazio della chiesa. Molti dei santi mostrano le ferite
del loro martirio, e anche il duca, nell’elmo ammaccato, ricorda la sofferenza
terrena.
Nei gioielli indossati dagli angeli o nella croce tenuta da san Francesco nella mano
destra il pittore poté dare un saggio di virtuosismo nel rendere i riflessi luminosi
sulle diverse superfici, anche quelle più preziose e ricercate, come facevano i
fiamminghi.
SFONDO
LA CONCHIGLIA E L’UOVO
In fondo alla nicchia si trova un’esedra semicircolare dove colpisce la geometrica
purezza della calotta della semicupola nella quale è scolpita una conchiglia
(esempi simili si trovano nell’arte fiorentina dell’epoca, a partire dalla
donatelliana nicchia della Mercanzia in Orsanmichele, del 1425 circa),
magnificamente evidenziata dalla luce, al culmine della quale è appeso un uovo di
struzzo, che sembra fluttuare sulla testa di Maria. L’uovo è messo in risalto dalla
luce su uno sfondo in ombra, proiettandosi otticamente in primo piano.
La conchiglia è simbolo della nuova Venere, Maria madre di Gesù Cristo, e della
bellezza eterna nonché della natura generatrice della Vergine e del suo legame con
il mare e le acque. L’uovo di struzzo, che è anche emblema della perfezione divina,
è collocato in una posizione leggermente sfalsata rispetto all’asse mediano del
quadro, come simbolo della superiorità della Fede rispetto alla Ragione.[1] L’uovo
è un complesso richiamo al dogma della verginità di Maria, che doveva essere
noto agli umanisti del XV secolo. Si rifà alla storia di Leda, sposa del re di Sparta,
dove si trovava appeso in un tempio un analogo uovo, che venne fecondata da
Zeus sotto forma di cigno, precorrendo la fecondazione di Maria tramite i raggi
divini emanati dalla colomba dello Spirito Santo.
L’uovo era anche inteso comunemente come simbolo di vita, della Creazione (vedi
Uovo cosmico). In numerose chiese dell’Abissinia e dell’Oriente cristiano-
ortodosso viene spesso appeso nel catino absidale un uovo proprio con
quest’ultimo valore, come segno di vita, di nascita e rinascita. Proprio questa
valenza rimanderebbe alla nascita del figlio del duca, tanto più che lo struzzo era
uno dei simboli della casata del committente. Inoltre l’uovo, illuminato da una
luce uniforme, esprime l’idea di uno spazio centralizzato, armonico e
geometricamente equilibrato: “centro e fulcro dell’Universo”. L’uovo, inoltre, è il
simbolo del casato di Montefeltro, e insieme al ciondolo di corallo, simboleggia la
vita.
Secondo altri la figura ovoidale sarebbe invece una perla, generata dalla
conchiglia senza alcun intervento maschile.