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Hal-Foster-pdf - Riassunto Il ritorno del reale, l'avanguardia


alla fine del Novecento
Storia dell'arte contemporanea (Università di Pisa)

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Hal Foster: Il ritorno del Reale. L’avanguardia alla fine del 900

Cap. 1: chi ha paura della Neoavanguardia?

Il libro di Foster tratta la questione della Neoavanguardia, un gruppo non ben definito di artisti nord-
americani ed europei dagli anni ’50 e ’60 che ripetevano le invenzioni avanguardistiche degli anni ’10 e ’20.
In particolare si assiste a due ritorni: i ready-made del dadaista Duchamp e le strutture del costruttivismo
russo. Entrambe le pratiche, per quanto diverse sia esteticamente che politicamente, contestano i principi
borghesi di arte autonoma e di artista espressivo, la prima avvalendosi di oggetti quotidiani con un
atteggiamento di indifferenza estetica, la seconda con l’uso di materiali industriali e la trasformazione della
funzione dell’artista. Dadaismo e costruttivismo offrivano due alternative storiche al modello modernista
allora dominante, attraverso le quali poter riposizionare l’arte non solo in relazione allo spazio-tempo
mondano, ma alla pratica sociale.

Prima di procedere oltre, Foster chiarisce i presupposti del suo discorso ossia il valore del costruito
dell’avanguardia e la necessità di una rilettura della sua storia, e per farlo tratta i limiti del lavoro di Burger,
secondo cui la neoavanguardia è una semplice ripetizione che tende a cancellare la critica avanguardistica
rivolta all’istituzione arte (secondo la sua interpretazione prettamente storicistica con la sua fusione di un
prima e un dopo). Perciò se i ready-made e i collage sfidano i principi borghesi dell’artista espressivo e
dell’opera d’arte organica, i neo ready-made e i neocollage li ripristinano reintegrandoli attraverso la
ripetizione.

La storia finisce qua per Burger ma per Foster piuttosto che sovvertire la critica prebellica dell’istituzione
arte, la neoavanguardia ha lavorato per aumentarla e nel farlo ha prodotto nuove esperienze estetiche.

Foster è un docente americano che insieme ad altri (R. Krauss) hanno avuto
un forte impatto nella storia dell’arte. Egli è esponente del post-strutturalismo
che deriva da una serie di pensatori francesi degli anni ’60 (Foucault, Althusser,
Lacan): il loro intento era quello di destrutturare la naturalezza delle costruzioni
intellettuali che la storia ci tramanda. Ciò che noi consideriamo naturale è in critica storicismo
realtà un qualcosa di costruito nel corso delle generazioni.

Foster introduce il concetto di parallasse, cioè quell’immagine che abbiamo quando la nostra prospettiva è
condizionata da uno spostamento fisico (quest’ultimo è provocato dall’osservatore).
Le Neoavanguardie non hanno fallito ma hanno completato le avanguardie con nuove prospettive, creando
lo spostamento di parallasse dalle avanguardie degli anni ’10 alle neoavanguardie degli anni ’60.

Le Neoavanguardie negano il tardo Modernismo e la sua arte il cui stile dominante


era quello dell’Espressionismo astratto in America e dell’Informale in Europa (arte anni ’50).
Qua l’arte stava tornando ad essere un’espressione autonoma quindi le Neoavanguardie
rompono l’autonomia della pittura del tardo Modernismo. Tutto questo deriva
dall’influenza di Althusser e Lacan negli anni ’60.

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Egli sostiene che in Francia ci fosse stata una rilettura dei testi di Marx riguardanti la dottrina
dell’alienazione.
Althusser dice che questi scritti giovanili di Marx dovevano essere marginalizzati e per questo egli voleva
rileggerli, per tornare ad una lettura più scientifica della storia.

Lacan (insieme a Foucault) fa una cosa simile con Freud (al di là del principio del piacere, 1920).
Freud nota che nei comportamenti umani c’è una tendenza ad esprimere eventi dolorosi e traumatici, una
cosa strana visto che siamo tendenzialmente esposti al piacere.
Questa negatività che alberga dentro di noi viene ripresa da Lacan: con lui subentra un nuovo modello di
criterio ossia quello della morte.
La caratteristica del principio di Lacan è che egli vede l’inconscio come una lingua strutturata secondo
regole linguistiche.
Attraverso l’inconscio riemergono eventi traumatici quando noi attiviamo azioni differite.

Le avanguardie storiche e le Neoavanguardie


sono costituite in maniera analoga, come un
processo di spinte avanti e indietro.
Lacan pone le premesse teorico/culturali per porre una
revisione nell’ambito dell’arte per quanto riguarda il
recupero delle avanguardie.
Gli anni ’60 sono stati quindi anni di recupero e di
revisione selettiva.

-V. Tatlin, controrilievo, 1914 (ricostruione): costruzione sospesa all’angolo le due pareti con legno metalli
ecc. l’estetica dell’artista era quella di riavvicinare l’arte alla realtà produttiva e di esprimere la poetica dei
materiali i quali secondo lui devono trascendere se stessi.

-A. Rodchenko, in abito produttivista, 1922-23. Egli voleva che gli artisti rinunciassero al fatto di essere
autonomi dalla Riv. Russa; le opere dovevano essere utili nella politica e nella vita quotidiana.

-C. Andre (fondatore del minimalismo), pezzi dalla serie di sculture tagliate con la sega radiale, 1959: queste
costruzioni di legno che sono formalmente simili alle opere di Rodchenko.
Da una parte C. Andre si interessa ai costruttivisti russi, i quali vengono riscoperti negli anni ’50 scrivendo
testi critici che vengono letti dagli Studenti delle Accademie, dall’altra si interessa a quell’artista
sconosciuto e solitario il cui interesse nasce a partire dal ’56 ossia Duchamp.
-C. Andre, Marat, 1959, telefono in una conca d’acqua: il ritorno del ready-made dada-duchampiano
intorno al 1960. P. 21.

Riemergono quindi due tradizioni così diverse ma che avevano in comune il negare l’idea dell’artista eroe,
dell’artista che esprime (non è detto che l’artista debba necessariamente esprimere qualcosa); questi sono
artisti che non vogliono avere a che fare con il concetto di sublime.
-C. Andre, Piramide, 1952, abete. Quello che interessa all’artista è esplorare la forma, studiare il legno e
trovare una forma interno ad esso.
Altri es. opere di C. Andre appunti. Il ritorno delle strutture costruttivistiche intorno al 1960.
-Brancusi, colonna senza fine, versione I, 1918. Egli rispetto ad Andre risulta più poetico nell’uso meccanico
dei materiali costruttivisti.

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-mostra del gruppo Obmokhu, maggio 1921 (foto): mostra storica che segnala la rottura nell’istituzione
della cultura artistica di cui Rodchenko era allievo e a cui di conseguenza si ribella.
Per lui l’arte era morta nelle sue funzioni decorative e voleva quindi creare delle opere che fossero quasi
dei moderni ingegneristici/meccanici dove poter sperimentare la forma.

-K. Ioganson, studio in equilibrio, 1921 ca., sembrano tubi collegati da corde che creano un equilibrio, è una
costruzione sperimentale effimera.
-Tatlin, bozzetto per il monumento alla III Internazionale, 1919-20.
-D. Flavin, Monument for Tatlin 1, 1964 (omaggio all’opera di Tatlin): fa qualcosa di simile con la luce
elettrica e le lampade fluorescenti.

Con C. Andre e D. Flavin abbiamo un’arte che riprende e che si riaccosta ai modelli del passato e che si
caratterizza per una drastica riduzione dei contenuti reali.
Questi artisti elaborano tali modelli in una pratica riflessiva per far in modo che i limiti di questi modelli
promuovano una consapevolezza critica della storia, sia artistica che non.

-J. Johns, bronzo dipinto, 1960: si tratta di una scultura che imita una lattina di birra, ricostituendo la
dimensione della scultura.
Il ready-made duchampiano torna arte, p. 27

-Arman, Boom!, Boom!, pistole ad acqua in plastica in teca di plexiglass, 1960: presentazione formale del
ready-made attraverso una teca.
Non è più l’oggetto provocatorio originario poiché è stato istituzionalizzato.

Burger nel suo libro prende alla lettera la retorica romantica dell’avanguardia in termini della rottura e
rivoluzione. Nel farlo però perde le dimensioni cruciali della sua pratica.
Egli trascura la sua dimensione mimetica grazie alla quale l’avanguardia mima il mondo degradato della
modernità capitalista non per parteciparvi ma per deriderlo; non coglie nemmeno la sua dimensione
utopica dove l’avanguardia propone non tanto ciò che può essere ma ciò che non può, come critica di ciò
che è. Secondo Foster per parlare dell’avanguardia bisogna tenere presente contestualità e performatività
dei suoi attacchi:

-S. Tauber, alla Galleria dada col costume di H. Harp e con la maschera di M. Janco, 1917: il dadaismo nasce
in polemica col contesto storico in cui viveva ossia la guerra che stava infiammando l’Europa.
In particolare essi criticano la manipolazione dei linguaggi; secondo i dadaisti il linguaggio doveva essere
distrutto e ricostruito per renderlo funzionale in un modo diverso.
Loro fanno ciò attraverso il modello primitivista: secondo loro c’è un qualcosa di primitivo e brutale nella
guerra e lo intaccano con un linguaggio nichilista.
Attaccano quindi l’arte partendo dal contesto (guerra) attraverso un attacco performativo.

Performativo perché
c’è un’azione. P.31

-H. Hoch, taglio col coltello da cucina. Dada attraverso l’ultima stagione culturale tedesca dei pancioni di
birra di Weimar, 1919-20: essa sostiene che l’associazione culturale tedesca propone il nuovo ma che dietro
il nuovo in realtà ci sia il vecchio. In quest’opera si crea un sistema di equilibri per fare una contestazione

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alla Repubblica di Weimar che secondo la Hoch è composta da burattini (personaggi politici noti alla critica
del tempo, generali dell’esercito, attori/attrici il cui burattino è il Re Guglielmo II) = attacco contestuale.

-P. Hausmann, poster di poesia fonetica, 1918: poesia senza messaggi chiari, si tratta di una recitazione di
espressioni fonali (fonemi = suoni) = attacco performativo.

Con questi attacchi, l’avanguardia non voleva creare una negazione astratta dell’arte, né una riconciliazione
romantica con la vita ma un continuo rimettere in questione le convenzioni di entrambe.

-M. Duchamp, Belle Halein, au de violette.

-M. Duchamp, Rrose Selavy, 1921

C’è un atteggiamento malizioso da parte di Duchamp:


non è polemico ma in modo sofisticato ci fa allontanare
giocando attraverso i limiti della verità di arte e vita.

Lo stesso vale per la pratica della Neoavanguardia.


-R. Rauschemberg, First time painting, 1961. Il titolo è dovuto al fatto che l’opera è stata fatta ‘a tempo’
durante una performance. Dall’avanguardia deriva il fatto di aver ripreso oggetti non artistici uniti alla
pittura espressionistica/gestuale: la trasforma in un’istituzione perché la realizza in un contesto museale.
Rauschemberg sosteneva di volersi inserire nell’intervallo tra arte e vita: l’opera deve sostenere una
tensione tra le due cose, non riconnetterle.

-A. Rodchenko, puro colore rosso, giallo e blu, 1921: tre tele monocrome che secondo una testimonianza
del ’39 sanciscono la fine dell’arte. Questa è una contestazione dell’arte o dell’istituzione arte?
Foster sostiene che l’artista metta a nudo ciò che può fare l’arte, ossia la sua convenzione e la dichiara
morta. Per Foster niente di esplicito è dimostrato sull’istituzione arte. In realtà però (secondo il prof) le due
realtà di convenzione e istituzione non sono ben distinguibili e non si capisce bene cosa voglia dire Foster.

Negli anni ’60 il lavoro degli artisti è proprio quello di criticare le istituzioni e i luoghi deputati ad arte.
Questa polemica negli anni ’60 è più facile perché le Neoavanguardie possono guardare al passato.
Secondo Foster questa è la relazione essenziale che intercorre tra le pratiche dell’avanguardia storica e
della neoavanguardia.
Questo permette di avanzare 3 rivendicazioni:
 L’istituzione arte è compresa come tale non dall’avanguardia storica ma dalla neoavanguardia.
 La neoavanguardia al suo culmine si rivolge all’istituzione tramite un’analisi creativa e allo stesso
tempo specifica e decostruttiva.
 Piuttosto che cancellare l’avanguardia storica, la neoavanguardia ne mette in atto il progetto per la
prima volta, una prima volta che per Foster è senza fine.

-D. Buren, dentro e fuori dal contesto, 1973: l’artista prende delle tele già stampate con righe e si limita a
ricalcare solo le strisce laterali, egli gioca con le ambiguità delle tele che a prima vista potrebbero sembrare
dei quadri astratti/geometrici ma che in realtà hanno un grado minimo di intervento da parte dell’artista
(ridipintura).
-H. Haacke, Gallery – Goers Birthplace and Residence Profile, 1969-71: la prima parte della mostra
consisteva in una cartina di Manhattan in cui i visitatori potevano indicare con delle puntine rosse il luogo
di nascita mentre con le puntine blu il luogo di residenza.

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Veniva così fuori una statistica sociologica. La seconda parte della mostra consisteva invece nel mostrare le
foto dei posti segnati sulla mappa. L’artista in questo modo contesta l’istituzione prendendo i posti della
borghesia e paragonandoli a quelli poveri.

Secondo Foster dobbiamo distinguere i due momenti avanguardistici.


Il primo rappresentato da Rauschemberg e Kaprow negli anni ’50 e il secondo da Broodthaers e Buren negli
anni ’60. La prima neoavanguardia recupera l’avanguardia storica (dada in politica) e lo fa letteralmente
attraverso una ripresa dei suoi mezzi di base il cui effetto non è tanto di trasformare l’istituzione arte
quanto di trasformare l’avanguardia in istituzione.
Questo istituzionalizzarsi spinge la seconda neoavanguardia ad un’analisi creativa dei limiti dell’avanguardia
storica e delle prime neoavanguardie. Il fallimento dell’avanguardia storica e della prima neoavanguardia
nel tentativo di distruzione dell’istituzione arte ha reso possibile l’analisi decostruttiva di quest’istituzione
da parte della seconda neoavanguardia. Un’analisi che oggi si estende ad altre istituzioni e discorsi
nell’ambito dell’arte del presente.

-H. Haacke, Metro Mobilitan, 1985: crea lo stendardo della mostra dedicata alla cultura nigeriana, facendo
riferimento all’azienda Mobil che supporta gli africani. Sul retro però c’è la rappresentazione di un funerale
degli africani uccisi dalla polizia. Haacke contesta quindi queste aziende multinazionali che finanziano
queste mostre e allo stesso tempo la polizia attua lo sterminio degli africani.

Caso di Neoavanguardia che supera la prima


Neoavanguardia e critica l’istituzione.

-M. Broodthaers, Musèe d’Art Moderne department des ougles, Bruxelles, 1968-69: artista derivava dal
surrealismo belga (es. Magritte); infatti molte sue opere sono basate sulla finzione e sul limite della
verosimiglianza siamo nel dipartimento delle aquile (riproduzione di aquile intagliate, cartoline…).
È l’artista che critica il museo, in particolare su come crei un messaggi e un discorso di valori.

-A. Kaprow, 18 happenings in 6 parts, 1959, rifacimento del 2007. In questi happenings venivano fatti
movimenti minimi, gli attori compivano azioni non collegate alle storie ecc. vi erano 6 stanze separate dove
gli happenings avvenivano e vi era un allarme che suonava e faceva scambiare.
Il pubblico non rimaneva così distaccato. Si riprendevano gesti ordinari/comuni per trasformarli in gesti da
guardare con occhi nuovi (spremere arance e berle).
Si riprende la filosofia Zen in cui ogni atto è visto come un progetto di creazione: bisogna cogliere la
bellezza anche nelle cose più banali.

La prima Neoavanguardia riprende l’avanguardia e la trasforma in istituzione.


C’è poi da sottolineare il fatto che mentre i nuovi artisti della Neoavanguardia riprendevano i gesti della vita
quotidiana con i ready-made ecc. Duchamp durante il suo lavoro finale stava facendo tutt’altro:
-M. Duchamp, Etants donnes: 1. la chute d’eau, 2. Le gaz d’eclairage, 1946-66: istallazione composta da una
porta dove dentro vi è un manichino di donna inserito nel paesaggio di un bosco (tutto ciò visto dal buco
della serratura). Se i ready-made diventano un genere, Duchamp va oltre costruendo un’opera altamente
concettuale e che va esplorata.
La prima neoavanguardia recepisce lo stile di produzione duchampiano, mentre Duchamp aveva
abbondanato il ready-made, p. 36.

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-M. Broodthaers, per un atto di elevare un comportamento artistico, 1964: si tratta di un’allusione all’arte
elevata (informelle) che contrasta con i gusci d’uovo i quali si presentano fragili e rigidi allo stesso tempo.
-M. Broodthaers, casseruola di cozze.

La seconda Neoavanguardia recupera il ready-made per decostruire l’istituzione arte, p. 37.

Foster sostiene che questi oggetti (cozze, gusci d’uovo) sono una metafora della condizione umana: siamo
in trappola all’interno delle istituzioni rigide e chiuse.
Ciò deriva da una poesia dello stesso Broodthaers dedicata alle cozze in cui vi è un gioco di parole tra la
cozza e lo stampo. Questa elevazione continua degli oggetti dalla loro forma, è un pretesto per Broodthaers
per fare metafora della stessa nostra condizione.
Riguardo a ciò possiamo citare anche Lucach secondo cui siamo
feticismo della merce. Nella nostra struttura sociale i nostri
i nostri comportamenti sono reificati ed associati a degli oggetti,
cose, numeri ecc.

-M. Broodthaers, Salle blanche, 1975: ambiente con scritte sui muri, sostantivi che
si riferiscono alle tecniche, alle strutture formali dell’arte o al costo/mercato che
avviene nelle Gallerie d’Arte. Si allude al fatto che il nostro modo di comprendere
l’arte non è elevato/spirituale, bensì l’arte è un fenomeno culturale ossia ciò che
gli addetti riconoscono come arte. Forse si allude anche ad una modernità di
esposizione in cui avviene una convenzione sociale.
-D. Buren, Peinture, (Manifestation 3), 1967. Il titolo rimanda all’opera stessa;
c’è un’auto-riflessività su cosa sia l’arte. Si tratta di una tela ready-made poiché
prestampato e pitturato solo ai lati. Le opere di Buren servono a sminuire
l’atto artistico e il valore che veniva dato all’istituzione.

-M. Asher, istallazione, rimozione della parete, 1974. Arte ridotta ad una transazione economica.
Si toglie la quarta parete dell’ufficio del gallerista che è anche commerciante.
Il ready-made in questo caso diventa uno spazio totale.
Altra opera di Asher: istallazione, statua di G. Washington (copia in bronzo di un modello di marmo di
Houdon, 1788), 1979: la statua viene staccata dalla facciata dell’Art Institute di Chicago e messa nella sala
dedicata all’arte europea del XIX secolo della Galleria.
Ciò sottolinea il nostro modo di concepire l’arte: la nostra attenzione è diversa rispetto alla collocazione.

-D. Hammons, A case of Injustice, 1970: l’artista usa il suo stesso corpo
cospargendolo di grasso e posizionandolo sopra la tela, mette sul grasso
del pigmento in polvere. In quest’opera si aggiunge una critica sociale
dal punto di vista degli afroamericani. Si allude al processo di Bobby Seale,
uno dei fondatori del partito Black Panthers. Egli accusato di aver istigato
un’insurrezione in Vietnam contro gli americani, viene legato e bendato
per ordine del giudice, è un caso di ingiustizia essendo lui stesso
afroamericano. La componente politica è molto importante nelle sue
opere = mette la sua impronta su una bandiera americana.
La seconda Neoavanguardia recupera il ready-made per decostruire l’istituzione arte.

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-D. Hammons, Blizaard Ballsale, 1983: performance in cui l’artista si mise a vendere palle di neve
al costo di un dollaro, presentandosi come venditore abusivo: il valore di un oggetto artistico non
è determinato dal suo valore d’uso ma da un valore simbolico testimoniato dalle dimensioni delle
palle di neve (concetto marxista, feticismo della merce).

Hammons rivendica così il sistema dell’arte: rivendica la sua libertà dal sistema economico.
Egli disse in un’intervista di essere una sorta di artista di strada perché secondo lui la povertà consente la
libertà. Fare arte di strada è più potente che farla nelle Gallerie.

Come distinguiamo le due operazioni; la prima distruttiva e la seconda restaurativa? La neoavanguardia


agisce sull’avanguardia storica e lo fa con gli stessi modi utilizzati da quest’ultima.
Quindi cosa c’è di neo nella Neoavanguardia? È il ritardo che è originale.

Cap. 2: l’Importanza del Minimalismo

Foster apre il capitolo sostenendo che il minimalismo fu spesso liquidato negli anni ’60 come riduttivo e
negli anni ’80 come irrilevante. Al di là di ciò il minimalismo aprì un campo artistico nuovo in particolare la
scultura geometrica americana degli anni ’60 viene vista come Neoavanguardia della pittura astratta, come
pura visione e come genere totalmente distaccato dalla vita.
Il minimalismo ha un carattere di contestazione dell’arte puramente asettica e autonoma.

Ad un primo sguardo questo movimento artistico sembra tutto molto semplice, eppure, in ogni corpus di
lavoro rimane la sua provocazione concettuale dato che, il minimalismo rompe con lo spazio trascendentale
di molta arte modernista.
Non solo respinge le basi antropomorfe della maggior parte della scultura tradizionale (ancora residuale nei
gesti del lavoro dell’espressionismo astratto), ma rifiuta anche il contesto siteless (senza luogo) di molta
scultura astratta. In sostanza col minimalismo la scultura non sta più in disparte su un piedistallo, né può
esistere in quanto arte pura ma è riposizionata tra gli oggetti e ridefinita in termini di spazio.
A questo punto lo spettatore piuttosto che scrutare la superficie di un’opera per trovarvi la proprietà del
mezzo, è spinto ad esplorare le conseguenze percettive di un particolare intervento in un dato luogo.
Il minimalismo minaccia l’ordine disciplinare dell’estetica moderna in cui l’arte visiva è considerata
strettamente spaziale. Nel farlo contraddice i due modelli che dominano l’espressionismo astratto: l’artista
inteso come creatore esistenziale (H. Rosenberg) e l’artista come critico formale (Greenberg).

Il minimalismo annuncia un nuovo interesse per il corpo, non nella forma di un’immagine antropomorfica o
lasciando intendere uno spazio illusionistico consapevole ma piuttosto con la presenza dei suoi oggetti,
unitari, simmetrici, come spesso sono, come se fossero delle persone.
L’implicazione di una presenza conduce ad un nuovo interesse per la percezione, cioè, ad un rinnovato
interesse per il soggetto.

Artisti che incarnano il minimalismo:


-D. Judd, senza titolo, 1969: per Judd queste non sono statue o rilievi ma li definisce ‘oggetti specifici’.
Parallelepipedi aggettanti alle pareti.
-Larry Bell, Shadows, 1967, vetro parzialmente argentato con cornice di cromo.

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-R. Serra, one ton Prop (house of cards), 1969: artista che deriva dal minimalismo e che crea delle opere
che alludono ai cubi.
-F. Stella, The Marriage of Reason and Squalor, II, 1959: titolo mitologico che allude ad un matrimonio fra
divinità. L’opera è realizzata con smalto nero industriale su tela, applicato con un pennello seguendo uno
schema razionale. Stella nelle sue opere non vuole esprimere niente, sono opere inespressive.

Stella e Judd hanno un’estetica antieuropea perché rigettano le aspettative del valore della struttura del
valore dell’istituzione europea. Essi prendono le distanze dalla pittura europea, quella di Mondrian
(neoplastica) e di Kandinskij, che conteneva messaggi alti di ascendenza.
Essi volevano solo equilibrare i colori e le linee per creare un principio di composizione che trascendeva una
soggettività. A Stella non interessava l’arte contemporanea (es. Vasarely): la sua pittura è basata solo su ciò
che vediamo; ogni quadro è un oggetto e quindi c’è una natura oggettuale anche nella pittura.
C’è solo una forma unitaria subito riconoscibile, non c’è nessun principio di composizione.

D. Judd è interessato alla composizione: i suoi oggetti sono simmetrici, non intesi come equilibrio interno
alla composizione ma nel gesto minimo di collocarli l’uno dietro l’altro.
Judd è interessato ad un’estetica della semplicità: si vuole sovvertire alla soggettività, ai sentimenti e alle
strutture significative. Anche lui va contro la tendenza europea, collegata razionalistica di Cartesio.

-R. Morris, Colonne, 1961, compensato dipinto: sono residui di una performance minimalista avvenuta in
un teatro. Una singola colonna statua in piedi sul palco per 7 minuti: dentro vi erano delle persone che le
facevano cadere.
-M. Rothko, No 16 (Red, Brown and Black).

Il dibattito sul minimalismo era dominato da 3 testi:


- Specific Objects di D. Judd, 1965.
- Notes on Sculpture, Parts 1 & 2 di R. Morris, 1966.
- Art and Objecthood di M. Fried, 1967.

 Specific Obejects: l’anno di questo testo era lo stesso con cui Greenberg rivede il suo studio
principale, Modernist Painters. In tale contesto Judd fa due affermazioni che sfidano le tendenze
storicistiche del modernismo greenberghiano; ossia che il minimalismo non è ‘né pittura né
scultura’ e che la storia lineare è in qualche modo svelata.
Judd riprende il discorso che fa Greenberg sulla pittura postcubista e la trasforma in una sintesi
contro tutta la pittura modernista il cui formato piatto e rettangolare determina e limita la
composizione. Ciò che per Greenberg è essenza definitoria della pittura, per Judd è un limite
convenzionale, letteralmente una cornice da cui uscire, perché nonostante gli elementi compositivi
della pittura modernista tendono ad enfatizzare la geometria del supporto, tuttavia rimane una
distinzione tra forma interna e superficie letterale.
C’è quindi un principio di composizione e di relazioni tra le parti da cui Judd vuole fuoriuscire e
attuare una rottura attraverso gli ‘oggetti specifici’ che Judd pone in relazione alla pittura tardo
Modernista citando degli esempi.
-J. Olitski, Cleopatra flesh, 1962, principio di composizione dell’arte tardo Modernista.
-M. di Suvero, Iroquois, 1983-99, Philadelphia: pittura tardo Modernista con caratteri ‘pittorici’ e
‘composta’ da parti.
-F. Kline, Mahoning, 1956: es. di espressionisto gestuale.

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Queste composizioni, per D. Judd, rimangono legate alla composizione antropomorfica e/o alla
gestualità, inoltre alludono ad altro.
I suoi ‘oggetti specifici’ devono solo essere interessanti (l’interesse è in sé, ossia nelle forme e nei
colori) e devono far parte dello spazio reale.

 Nel suo testo Morris presenta uno scenario diverso in cui il minimalismo è di nuovo posto in una
complicata relazione con il discorso tardo Modernista.
Morris mantiene valida la categoria della scultura ed implicitamente dissente da Judd sulla genesi
del minimalismo: il minimalismo realizza ‘l’autonoma e letterale natura della scultura che ha un
proprio spazio anch’esso letterale’.
È un’affermazione contraddittoria poiché unisce le rispettive posizioni di Greenberg e Judd
(richiesta di autonomia e di letterarietà). La scultura minimalista per Morris deve essere una Gestalt
semplice ossia la forma deve essere semplice e i colori devono essere minimi.
Morris privilegia la forma unitaria, questa unità è necessaria all’artista per mantenere la categoria
della scultura e fare della forma la sua caratteristica essenziale.
Nella seconda parte del suo testo definisce ‘il nuovo limite’ della scultura citando Tony Smith che
situa l’opera minimalista in un punto indefinito tra l’oggetto e il monumento, all’incirca delle
dimensioni del corpo umano. Questo perché per Morris la scultura piccola provoca nell’osservatore
una dominazione; realizzando una statua a scala umana la collochiamo in una posizioni intermedia
tra l’effetto piccolo e il monumentale.
Morris definisce poi le dimensioni in termini di ricezione del destinatario: le sculture devono avere
un rapporto col corpo dell’osservatore.

Morris compie non solo un percorso sulla scultura ma lo fa anche sulla pittura: ciò che interessa a
quest’ultima è il rapporto tra le forme colorate e il supporto.
Ogni qual volta che si traccia una linea su un supporto si determina una rottura dello spazio.
Dopo aver parlato della scultura barocca che riesce ad imitare la realtà, torna a parlare della pittura degli
anni’50 la quale crea un conflitto tra superficie e forma.

-K. Noland, Song, 1958: dentro una tela quadrata l’artista dipinge forme concentriche che realizzano una
composizione. È una pittura poco espressiva e priva di corpo che entra in conflitto con la superficie perché
nonostante questa sia piatta, la forma è autonoma e si stacca dalla superficie.
-J. Olitski, Purple Golubchik: le forme vanno oltre e invadono la tela ma sono riconoscibili dal supporto.

Questa attenzione verso lo spazio illusorio e lo spazio letterale (tela)


è tipico della cultura astratta americana.
Bisogna eliminare tutto ciò che porta ad un interesse per il dettaglio: i dettagli rendono la scultura da
osservare. Devono prevalere le forme semplici (Morris).

L’occhio riesce a cogliere il totale. Non si deve destabilizzare


l’osservatore con relazioni interne frammentarie (es. opere cubiste) ma
con l’opera si deve esprimere solo il suo rapporto con lo spazio.
Tuttavia Morris introduce delle contraddizioni: se da una parte
queste opere hanno una gestalt semplice, dall’altra hanno una
visione complicata nel loro insieme e nel loro spazio. Cosa che

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Greenberg non sostiene: egli predilige opere bidimensionali che


abbiano un rapporto diretto con l’osservatore e che non dipenda
dall’esperienza.

 Fried riprende le posizioni di Judd e Morris e sostiene come il minimalismo minacci la vera arte,
ossia l’arte tardo Modernista (espressionismo astratto). Fried spiega dettagliatamente il crimine
minimalista: il tentativo di rimuovere l’arte tardo Modernista con un’interpretazione letterale che
confonde ‘la presenza’ (presentness) trascendentale dell’arte con la ‘presenza’ (presence) mondana
delle cose.
-A. Truitt, Catwiba, 1962, legno dipinto: il titolo si rifà sia ad una pianta indigena che al nome di una città e
di una tribù. Vediamo due forme solide sovrapposte dipinte con uno smalto lucido.
Per Greenberg queste sculture vanno verso il loro ingombro fisico, sono cose (presence).

Secondo Fried però la vera arte dovrebbe essere quella che presenta un’immagine autonoma (presentness,
ambiguità).
La differenza essenziale è che l’arte minimalista cerca di progettare l’oggettività in quanto tale, mentre
l’arte tardo Modernista vorrebbe invece sconfiggere questa oggettività, trascendere la letterarietà del
minimalismo e quindi ottenere la presenza (presentness).
-A. Caro, Early one Morning, 1961
-A. Caro, Sculpture two, 1962
In queste sculture c’è una disarticolazione spaziale.
Fried inizia poi a criticare il rapporto tra queste sculture e l’osservatore: il fatto che siano cave facilita ancor
di più questo rapporto. Lui definisce queste sculture come ‘oggetti letteralisti’ (cose in sé), che chiamano in
causa lo spettatore, gli stanno addosso e invadono il suo spazio.
L’intento principale di Fried non è quello di presentare queste opere come arte antropomorfica ma come
‘incurabilmente teatrale’, dato che per Fried il teatro è la negazione dell’arte. Sono quindi oggetti teatrali.
Per sostenere tale ipotesi Fried fa una digressione raccontando un episodio di Tony Smith a proposito di un
giro notturno sul New Jersey Turnpike all’inizio degli anni ’50. Questa autostrada fu aperta nel ’52 e Smith
la visitò poco prima in macchina facendo la bravata di entrarci quando ancora non era stata aperta.
Nel cantiere ha quindi un momento liberatorio, fu un’esperienza estetica non rappresentabile dall’arte.
Secondo Fried ciò che si era rivelato a Smith era la ‘natura convenzionale dell’arte’ che poi lui comprende
‘come annuncio della sua fine’.
Per Fried, questo impulso cinestetico che evidenzia la convenzionalità dell’arte, preannuncia l’impostazione
eretica del minimalismo e dei suoi successori neoavanguardisti.
Prendono poi strada diverse arti come
quella dell’ambientalismo. Es. R. Smithson,
Spiral getty, grande lago salato, 1970: esperienza
cinestetica perché si può comprendere quest’opera
sia a livello aereo che terrestre: la vera opera d’arte
per Fried non ha durata.
Si vuole quindi trasgredire i limiti istituzionali dell’arte,
negarne l’autonomia formale.
Per Fried come per Greenberg, difficilmente si assiste all’inclusione dialettica dell’arte nella vita.
Egli definisce ‘teatrale’ l’arte minimalista perché coinvolge il tempo mondano, una realtà inadatta alle arti
visive. Con la sua condanna dell’arte teatrale e il suo insistere sulla grazia individuale, questo testo contro il
minimalismo risulta decisamente puritano, e la sua estetica dipende da un atto di fede.

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La reale minaccia del paradigma minimalista non è soltanto il fatto che potrebbe infrangere l’autonomia
dell’arte ma che potrebbe corrompere il credo dell’arte, minandone il potere di persuasione.

Per Fried il minimalismo è una costruzione del tardo Modernismo causata da una sensibilità teatrale.
Il minimalismo attinge dal tardo Modernismo per farlo a pezzi attraverso il teatro.
Il teatro non rappresenta soltanto una relazione col tempo estranea all’arte visiva, è anche una parola in
codice per l’avanguardia. Quindi:
il minimalismo rompe con il tardo Modernismo attraverso una parziale ripresa dell’avanguardia storica in
particolare tramite l’eliminazione delle categorie formali dell’arte istituzionale.

Il collegamento tra oggetto e vita, ripreso dalle avanguardie, viene compito nel minimalismo.
Si rompe il principio normativo più nelle neoavanguardie che nelle avanguardie.
-R. Rauschemberg, Factum I: artista anti-etico alla visione di Greenberg.
Quest’opera ha un livello di manualità ossia degli interventi pittorici che fanno distinguere le due tele, ciò lo
fa collocare in un momento pre-dada (prima del minimalismo e della pop art la produzione seriale non è
ancora integrata nella produzione tecnica dell’opera d’arte).

Le neoavanguardie si sono concentrate principalmente in due filoni: il Neodada/Pop Art e il Minimalismo.


Entrambi hanno in comune il fatto di essere finalizzati ad un nuovo ordine della produzione in serie e del
consumo: il minimalismo utilizzando oggetti industriali e mettendoli uno dietro l’altro alludono alla serialità
(es. Judd) mentre la pop art inserendo la cultura di massa e la riproduce attraverso la serigrafia, una tecnica
che allude alla serialità e che tende a sovvertire la logica referenziale.
Il minimalismo rifiuta le immagini e il simulacro opponendosi alla Pop Art.
Es. A. Warhol, Vetrina di Bonwit Teller, 1961, N. Y.: qua lavora come allestitore di vetrine.

La serialità del minimalismo e dell’arte pop sono rivelatrici della produzione e del consumo del capitalismo
avanzato perché sfruttano alcuni aspetti di questa logica come la meccanizzazione e la standardizzazione.
In precedenza altri artisti avevano già sperimentato la serialità come ad esempio Monet, ma, solo nelle
Neoavanguardie questa diventa industriale.

Cap. 3: la passione del segno

Mentre negli anni ’60 l’arte vuole inquinare l’autonomia, l’arte degli anni ’70 fa prevalere un inquinamento
del linguaggio dei segni. Questo repertorio di segni veniva usato dall’arte postmoderna in modo totalmente
libero. Secondo Foster, ciò si riferisce ad una crisi generale della rappresentazione e dell’autorialità in
relazione allo spostamento qualitativo nella dinamica capitalistica di reificazione e frammentazione.
-M. Graves, Disney Headquarters, Burbank, California, 1988-91: c’è la mescolanza della tradizione in modo
ironico, le cariatidi/pilastri sono incarnati dai 7 nani.
-P. Eisenmann, uffici Koizumi Sangyo, 1988-90, Tokyo: esempio di decostruzionismo architettonico in cui le
pareti sono frammentate da colori sgargianti, cosa che si riflette anche nell’interno.
È sia una reinvenzione ironica degli stili ma anche un nuovo stile che destruttura le forme dei moderni ma
in maniera totalmente libera.
Secondo Foster questo è un uso problematico dei codici che ha radici nelle Neoavanguardie:
-J. Johns, False Start, 1959: scissione tra due tipi di codice ossia il codice visivo e il codice linguistico (i segni
hanno dei riferimenti e denotano un oggetto).

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-J. Johns, bersaglio con calchi di gesso, 1955: due tipi di segno, le opere di Johns sono materialmente
costruite, c’è una manualità subito colta; l’opera si trova quindi in uno stadio intermedio tra l’oggetto e la
semplice rappresentazione pittorica. Si è a metà tra una cosa reale e una sua rappresentazione.
Si tratta di un’icona del bersaglio (lo imita ma non lo è). I calchi sono invece degli indici poiché c’è una
relazione fisica con la cosa che rappresentano.

Foster distingue fra due tipi di postmodernismo:


il postmodernismo post-strutturalista e il postmodernismo di resistenza.

 Gli artisti della prima categoria tendono a decostruire la cultura attingendo in modo libero dal
patrimonio culturale del passato e soprattutto dalla cultura delle immagini e dalla cultura di massa
(es. C. Sherman, R. Prince). Essi lo fanno in modo da alterare il nostro rapporto con le immagini
attraverso un atteggiamento di decostruzione dei significati ovvi.
Questa pratica deriva dall’avanguardia. Questo eccesso di libertà lo ritroviamo ad esempio in R.
Hausmann nelle sue immagini dadaiste per la rivista Arbeiter – Illustrierte – Zeitung imitando la
principale rivista illustrata tedesca di grande circolazione. I suoi fotomontaggi erano stati creati per
far entrare la tecnica avanguardista nella circolazione della cultura di massa.

 L’altro tipo di postmodernismo viene definito da Foster e Bourriaud (post production, 2002) come
postmodernismo ‘conservatore ed eversivo.
Bourriaud liquida questo postmodernismo di tipo pittorico, come ad esempio la Transavanguardia
pittorica e i pittori detti ‘i nuovi selvaggi’ dell’espressionismo astratto tedesco.
Sono artisti che vengono liquidati come vasta impresa di reificazione. Questo aspetto deteriore del
postmodernismo per Foster è la fase nascente del neoliberismo ovvero quella società capitalista
inaugurata dal presidente americano Regan nel 1980 e che è stata vista come espressione della fine
del principio politico. L’arte della Neoavanguardia e dei nuovi selvaggi ha goduto dell’appoggio
economico del collezionismo, quindi di un mercato dell’arte strutturato e organizzato per grandi
investimenti.

Questo secondo tipo di postmodernismo diventa pastiche ovvero un mescolamento di valori storici
dal punto di vista economico e intellettuale.

C. Owens, l’impulso allegorico verso la teoria del postmodernismo, 1980 e R. Krauss, Note sull’indice, 1977
sono testi importanti per la definizione del concetto di modernismo negli anni ’80.

Foster nel 1996 tende ad articolare il concetto di postmodernismo come un fenomeno di rottura del
rapporto tra significante e significato dei segni culturali.
Questi ultimi non sono più legati ad un concetto storico-ideologico; gli artisti non procedono più verso un
progresso (=novità).
Non c’è necessità di creare un qualcosa di nuovo: vi è libertà nella costruzione dei segni; i segni distintivi
delle società culturali e i codici convenzionali della storia dell’arte vengono mescolati.
Questa interpretazione per Foster deriva dalla condizione del neoliberismo e dalla condizione recente del
sistema capitalista.
Foster sostiene che questa evoluzione derivi dal fatto che c’è stata una modifica della dinamica storica della
reificazione e del soggetto e quindi dall’uomo alienato al segno frammentato.

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Foster a questo proposito cita ‘Storia e Coscienza di Classe’ di Lukàcs (1923) il quale si è interessato alla
reificazione del soggetto e in particolare alla reificazione delle dinamiche sociali e della dinamica soggettiva
degli individui. Egli parla di modello della catena di montaggio, del modello della fabbrica, di un sistema
economico capitalista che comporta con la specializzazione del lavoro il fenomeno di alienazione del
lavoratore rispetto a quello che produce.
Questo tipo di super specializzazione e massimizzazione della catena produttiva comporta conseguenze
psicologiche di reificazione, disumanizzazione e reificazione del lavoratore rispetto a quello che produce.
La scissione riguarda quindi il soggetto: se sei un soggetto autonomo non puoi funzionare nel sistema
perché tutto è meccanizzato.

Foster collega questa visione al segno:


il passaggio è avvenuto dal 1923 al 1980, dalla reificazione e frammentazione del soggetto alla reificazione
e frammentazione del segno. Ciò significa che il linguaggio non è più naturale, viene messo in discussione e
non è più funzionale. Si passa dalla reificazione del soggetto nella fase del capitalismo industriale al tardo
capitalismo degli anni ’80 il quale ha perso il contatto con la produzione fisica e che quindi ha una natura
virtuale. Questo scollamento tra il produrre (l’agire umano) le cose porta ad una trasformazione storico –
economica nel rapporto con i segni (anche artistici) e le cose.
Questa teoria viene elaborata dai filosofi che riflettono sulla condizione economica della società:

 Gilles Deleuze. Differenza e ripetizione, 1976: la sua filosofia consiste nella decostruzione del
soggetto, ossia nel fatto che esiste un oggetto tramandato dalla filosofia occidentale che ha come
cardine Cartesio quindi il soggetto è l’uomo pensante rispetto al quale il mondo è fuori da sé.
Il soggetto è quindi chiuso. Con Deleuze c’è una progressiva erosione del soggetto chiuso, cioè
mette in dubbio il criterio che esista un’essenza umana stabile e un mondo stabile: siamo catturati
in una sorta di rete d’intensità che Deleuze chiama ‘energie’ cioè intensificazioni del rapporto di ciò
che è fuori da noi. Se si è in rapporto con questo mondo un po' di questo mondo diventa me e
viceversa in questa sorta di trasformazione.
C’è quindi lo sgretolamento della centralità del pensiero del logos di Cartesio rispetto a cui tutto è
subordinato.

 Roland Barthes. S/Z, 1970: testo in cui Barthes interpreta il racconto Sarrasine di H. de Balzac del
1830. In questa novella si narra la storia di Zambinella che ha un’entità sessuale ambivalente poiché
i codici (segni di riconoscimento) con cui è in rapporto con gli altri è ambiguo e viene quindi
scambiato per una donna. Balzac lamenta che nel 1830 il progresso del capitalismo ha corrotto e ha
reso più fluida la società e rotto la solidità dei segni e l’ordine simbolico delle cose.
Balzac aveva concepito questo passaggio storico da un sistema precedente ossia quello del sistema
feudale, pre-capitalista e pre-industriale nella Francia del 1830.
Quindi i valori dell’ordine simbolico in cui siamo immersi era passato dalla terra ai valori di scambio
anche artificiali. Ciò che determina il valore della merce non è più il valore d’uso ma il valore
arbitrario di scambio. Secondo Barthes questa storia manifesta il passaggio da un mondo basato sul
segno indice (cioè cose che hanno una solidità fisica) ad un ordine che lui chiama ‘segni selvaggi’.
Balzac sostiene che la trasformazione dei segni e questo comportamento indecifrabile di Sarassine
derivino dal fatto che nella società del suo tempo non ci sono più i vecchi sistemi della società
rigida basata sulla terra mentre all’epoca di Barthes c’è il capitalismo.
La critica di Foster sostiene che ciò che Barthes dice (accettando il messaggio di Balzac) ossia che la
trasformazione del segno sia avvenuta già negli anni ’30 dell’800, rifletta in un momento in cui il

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segno è più problematico, ambiguo e selvaggio, quello del capitalismo avanzato e non più del
capitalismo monopolista.
Il periodo di Barthes non è più soltanto quello della vecchia alienazione del lavoratore (secondo a
visione del primo Marx) bensì quello della reificazione e della frammentazione del segno e non più
solo del soggetto.

Jacques Derrida interviene su questo:


egli sostiene che il responsabile, di questa complicazione dei segni, è stato il corso di linguistica
generale di F. de Saussure nel 1916 in cui egli ha distinto l’articolazione del significato in un segno
significante, in un significante quindi attribuito al suono. Così facendo ha determinato l’esistenza di
una struttura del linguaggio e il fatto che il linguaggio non sia naturale e spontaneo ma formato da
una struttura interna basata sul principio dell’arbitrarietà.
Derrida sostiene che è proprio con questo corso che il linguaggio diventa problematico portando ad
un collasso della logica cognitiva attraverso la logica strutturale.
Derrida quindi retrocede il fenomeno della rottura dei segni dal 1960, che è il suo tempo, al 1916, il
tempo di Saussure.

Secondo F. Jameson, il gioco di significazioni di J. Derrida può essere collocato in un momento


passato, al tempo di Saussure, ma in realtà ciò si realizza con l’attuale capitalismo avanzato, cioè
quando ha inizio il postmodernismo.

Uno stesso artista nel corso dell’evoluzione dagli anni ’50 agli anni ’80 esprime questo processo di
rottura dei segni. Questa libertà di significanti la possiamo trovare in F. Stella: egli passa da una
pratica modernista (di astrazione estrema) ad un periodo di maggiore libertà dopo il 1964,
reintroducendo il colore (Marrakesh).
Esempi di opere di F. Stella appunti.

Negli anni ’60 questa moltiplicazione dei segni è avvenuta perché sono esplosi i generi canonici
dell’arte (scultura, pittura, architettura) con l’affermazione di performance, land art, body art e altri
tipi di sperimentazioni.
Es. R. Smithson, A Non-site, 1968: istallazione alla mostra ‘Earthworks’ con contenuti di pietre
calcaree di una zona mineraria e foto dell’area del sito.
Viene qui attuato un processo di de-territorializzazione (concetto deleuziano, mancanza di centro,
di un sistema cognitivo che nel rapporto col mondo non è più gerarchico, radicato).
Si riflette qui l’idea in cui l’indice è problematico poiché non c’è più rapporto con l’identità ma
avviene una trasformazione radicale.

R. Krauss, Note sull’indice, 1977: Krauss sostiene che questa predominante tendenza tipica degli anni ’70
degli artisti, che lei definisce come una modalità che pertiene alla classe dell’indice (del segno indicale),
derivi da cose che Duchamp fece 60 anni prima:

 M. Duchamp, Tu m’, 1918, olio su tela, con spazzolino per bottiglia, 3 spille da balia e un bottone:
segni indicali derivanti da Duchamp; la Krauss scioglie il titolo come tu e me.

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Sull’opera ci sono delle ombre proiettate fintamente sulla tela: queste impronte (di ready-made
precedenti, ruota di bicicletta, appendiabiti, cavatappi) per la Krauss sono tracce di indici; anche la
mano che indica, che è dipinta, è legata al concetto di indice.
Es. altre opere di Duchamp negli appunti.

 Annotazioni su Tu ‘m di Duchamp: la Krauss interpreta anche il titolo come indici, tu e me.


C’è un’equivalenza tra i due pronomi e la Krauss ricorda che nella semiotica vengono definiti
‘commutatori’ e provocano fraintendimenti perché cambiano di significato in funzione della
posizione fisica dei due interlocutori all’interno di un dialogo.
Questo tipo di ambiguità la ritroviamo nel titolo dell’opera nel senso di una duplicità nello scambio
di identità tra io e tu. Questo discorso è alla base della teoria psicanalitica di Lacan (lo stadio dello
specchio, 1936) in voga negli anni ’70: egli sostiene che nell’evoluzione di un soggetto infantile tra i
6 e i 18 mesi esiste una fase in cui il bambino non riconosce sé stesso allo specchio, identifica come
un qualcosa che ha a che vedere con lui ma come se fosse altro da sé.
Questa scissione nella struttura psicologica la vediamo in particolare nelle opere autobiografiche di
Duchamp, nel suo alter ego.

 Ambivalenza dei significati nell’opera del ‘Grande Vetro’, 1915-23: è un’opera che è stata soggetta
a molte interpretazioni ma l’autore non ha svelato l’enigma in esso contenuto.
Duchamp ha scritto degli appunti raccolti in una ‘scatola verde’ che, però, non sono esplicativi ma
che rimandano ancor di più alla loro ambiguità.
In base agli appunti e ai suggerimenti di Duchamp l’opera potrebbe essere interpretata come una
sorta di autoritratto allegorico di un’entità scissa tra maschile e femminile (parte superiore della
sposa e parte inferiore degli scapoli; scritte MAR – CEL = ambiguità d’identità che è scissa).

L’indice è quel tipo di segno che ha un senso perché si riferisce ad una causa fisica.

 M. Duchamp, with my tongue in my cheek (= con la lingua nella mia guancia), 1959, assemblaggio
gesso, matita, carta su legno: espressione idiomatica per dire qualcosa in modo scherzoso.
Vediamo una parte prominente, un calco di gesso, che sporge e che compone la guancia perché la
lingua spinge verso quest’ultima. In quest’opera è presente il segno iconico (la parte disegnata del
profilo) e il segno indice (calco della guancia).
Relazione concorrente tra indice e icona.

 B. Nauman, from hand to mouth, 1967, cera su tessuto. L’artista in questo caso prende un dettaglio
del suo corpo ed effettua un calco creando così una sorta di autoritratto.
La pratica dell’indice da una parte evidenzia un estremo realismo e dall’altra un frammento della
cosa. È un artista che sostiene, in modo implicito, che c’è un’ambiguità di identità che è
frammentata (es. bersaglio con calchi di gesso di J. Johns).

La Krauss presenta questo caso per dire che queste pratiche sul corpo, e, le impronte riferite al campo
dell’indice, non rivelano mai ciò che effettivamente siamo ma è sempre una questione problematica.
Ciò che è tipico degli anni ‘60/’70 sono pratiche che la Krauss definisce già postmoderniste.
Quando inizia il postmodernismo non possiamo dirlo con certezza.
Si pensa normalmente che il postmodernismo inizi negli anni ’70, ma, alcuni lo anticipano ai decenni
precedenti. Un altro artista significativo degli anni ’70 è Gordon Matta-Clark:

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 Matta-Clark, Splitting, 1974 (tracce di oggetti rimossi, rottura della sintassi):


per la Krauss ciò ha a che vedere con l’indice mentre per Owens questo può
essere rappresentativo delle pratiche allegoriche.
Uno dei modi in cui avviene l’allegoria è la rovina, il frammento.

La Krauss sostiene che le opere di Matta-Clark hanno a che vedere con la fotografia come tipo di indice non
solo perché sono fotografate ma perché l’opera non esiste più, la casa ‘splitting’ una volta fotografata non
esisteva più. Cosa tipica delle opere ‘site specifics’ cioè specifiche per un sito.
La Krauss cita poi Barthes (la camera chiara, 1980) secondo il quale è la rappresentazione di un qualcosa
che non c’è più per sua natura, essa congela il tempo ed è un’arte della morte in senso metaforico.
Krauss sostiene che la fotografia è un tipo di indice perché è la traccia chimica che riproduce un oggetto
realmente esistito.

Barthes sostiene che la fotografia ha una natura duplice perché il suo essere impronta la fa oscillare tra
icona e indice. Egli sostiene anche che ha un messaggio senza codice perché si tratta di un procedimento
meccanico.

Affermazione che viene ripresa dalla Krauss scatenando la critica di alcuni artisti i quali sostenevano che
l’immagine fotografica non può essere considerata solo come impronta dal punto di vista meccanico perché
essa è sempre codificata, costruita e dotata di significato in base al contesto e alla volontà del fotografo in
base al tipo di inquadratura, all’uso dei colori e della saturazione ecc.
 D. Hammons, A case of Injustice, 1970, stampa corporea: esempio di indice ma non privo di codice.
 M. Rosler ricostruisce le fotografie di belle donne riprese da riviste femminili facendo vedere come
il canone di bellezza sia costruito da modelli fotografici, i quali hanno quindi un senso culturale).
Tutto ciò sfugge alla Krauss, la quale nel ’77 sposa il pensiero di Barthes.

Craig Owens, l’impulso allegorico, 1977: il concetto di allegoria, presente anche in Burger, è stato riportato
in auge dal testo di Benjamin, il trattato sull’origine del dramma barocco tedesco, 1928.
Owens sostiene che esiste una sensibilità allegorica nell’arte recente che emerge negli anni ’70, che era
stata repressa nel corso del modernismo. Per lui l’allegoria è tutti quei tipi di opere d’arte che hanno una
possibile duplicità di lettura in cui la dimensione di ciò che vediamo (ossia la lettura referenziale o letterale)
è vaga, non completa e non pienamente comprensibile poiché le forme hanno incorporati vari significati.
Il testo visivo o scritto ha in sé delle articolazioni complesse, ossia un significato ulteriore secondo la logica
dell’allegoria che non ha un significato simbolico o evidente ma è spesso attribuito dall’artista che aggiunge
una stratificazione al testo originale.
Owens sostiene che molti di questi artisti partono da diverse modalità per raggiungere l’atteggiamento
allegorico e il modo in cui l’impulso allegorico agisce.

 Categorizzazione dell’allegoria per Owens:

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appropriazione (es. Troy Brauntuch, Sharrie Levine)


specificità del sito (Matta-Clark, Pozzi)
impermanenza (transitorietà, es. Smithson, Asphalt Rundown, 1969,
è una modalità delle rovine dell’impermanenza)
accumulo (H. Darboven, Milieu 80, Heute, 1979, allegoria come
accumulo ossessivo di dati, difficoltà di lettura e perdita della storia,
Sol Lewitt, 122 variazioni di cubi, 1974)
ibridazione
discorsività (possibilità che le opere alludano a dei discorsi specifici o settoriali)

Secondo Owens, l’arte nel momento della specializzazione delle tecniche artistiche (iniziata da Monet) è
stata una storia dell’arte che ha eliminato l’atteggiamento allegorico (complessità e ambivalenza dei segni).
L’estetica romantica concepisce l’arte come unità di forma e contenuto in cui unisce in sé l’intuizione
dell’artista e vuole esprimere l’interiorità e la forma esterna realizzata.
C’è quindi una linearità di corrispondenza tra interno ed esterno.

B. Croce filosofo idealista. Per lui l’artista coglie nella sua coscienza una forma, un messaggio e lo traduce in
arte con la sua tecnica attraverso una fonte simbolica.
La parola ‘simbolo’ è usata da alcuni autori nel senso di collegamento, collegare: il simbolico è qualcosa che
connette quello che si vede ad un significato chiaro.
Allegoria: deriva da parlare d’altro, si usa una forma per parlare di qualcosa che trascende la forma stessa,
che non la riguarda in modo letterale.

Secondo B. Croce il fare artistico non è dato dal contenuto o da quello che l’artista attribuisce alla cosa; una
bella forma, dipinto o statua ha valore di per sé, ha una sua essenza già nella sua forma.
Per Croce l’allegoria è negativa, è un’aggiunta ed ha un significato che usurpa l’essenza dell’arte, che forza
l’opera stessa ad una complessità di significati costruiti artificiosamente dall’artista.
Questo tipo di concezione si basa sull’idea che l’osservatore in modo empatico debba cogliere l’essenza
dell’artista e che l’artista è quell’essere più sensibile che producendo la sua arte permette ai non artisti di
cogliere un’idea di bellezza e di forma ideale.
Questo atteggiamento degli anni ‘60/’70 era dovuto anche al fatto che molti artisti erano anche intellettuali
abituati a creare opere legate alla teoria e leggere scritti di filosofi strutturalisti e post-strutturalisti.

 Strutturalisti: essi sostengono che nel nostro sistema dei segni, significati, parole della vita sociale
siamo legati e guidati da delle strutture specifiche di ogni contesto (C. Levi-Strauss studia l’esistenza
dei miti per spiegare una formazione del mondo). Gli strutturalisti vedevano in azione, dietro la
naturalezza, i meccanismi di queste strutture.
E. Benveniste ha introdotto una distinzione terminologica che va dalla narrazione al discorso.

 Post-strutturalisti: essi hanno ripreso le strutture degli strutturalisti per decostruirle e svelare che
queste strutture sono portatrici di rapporti di potere che governano la nostra società (religioni,
miti, linguaggio) e che devono essere contestati e sciolti.
Il post-strutturalismo in ambito storico si ricollega quindi al ’68 quando in Francia, America, Italia,
Germania ecc. la generazione dei ventenni rivendicavano di voler ricostruire l’autorità e i criteri
delle logiche di potere.

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Molteplicità dei discorsi e quindi dei significati: si può tradurre con un atteggiamento allegorico?
Negli anni ’70 questo concetto era molto di moda.

 Laurie Anderson: la problematizzazione dei significati nelle sue opere è un tipo di postmodernismo
post-strutturalista ossia una decostruzione del linguaggio e sperimentatore.
Dal punto di vista musicale e della performance è una forma di ricerca.

 Es. R. Longo e C. Sherman: sono artisti emergenti degli anni ’80 che riflettono sulla teoria dei film e
dell’immagine fotografica. Le loro opere fotografiche, che hanno questa retorica di immagini
sospese tra la coreografia e le pose da film, fanno parte di immagini comuni e stereotipi ricorrenti.

R. Barthes nel ’77 scriveva un testo sul filmico come dissertazione su Ejzenstein, regista russo.
Egli sostiene che ciò che è specifico del filmico e dell’estetica cinematografica è rintracciabile
nei fermi-immagine. Barthes ritiene che esistono 3 diversi livelli dell’immagine:
1. Livello letterale: quello della narrazione in cui l’attore compie l’azione.
2. Livello simbolico dei registi (contesto, atmosfera ecc.), comprensibile nella cultura degli spettatori
(lettura retorica).
3. Livello della lettura sospesa tra immagine e approssimazione in cui vi è un significato ottuso:
significante senza significato specifico (dettagli del trucco, costume, recitazione), attraverso
l’eccesso si coglie l’artificio. Dettagli che rivelano la finzione dei film come artificioso e costruito.
Es. Sherman e Longo, lavorando sulla fotografia, mettono questi fotogrammi cinematografi che
rivelano il carattere fittizio, recitato, di messa in scena, agendo sul modello retorico della finzione.

Il testo di Owens conclude dicendo che il modernismo mette tra parentesi il referente e pensa ad un’opera
d’arte che costituisca un piacere completamente autonomo. Il postmodernismo invece non mette tra
parentesi il referente, non lo esclude, non lo sospende ma problematizza l’attività della referenzialità, del
collegamento e della mimesi. Si rende ambiguo il referente e di questo se ne possono dare molteplici
interpretazioni possibili.

I testi della Krauss e di Owens hanno la pretesa di descrivere un fenomeno


degli anni ’70 che è caratterizzato dal rifiuto del modernismo attraverso
l’indice e la pluralità di immagini e varie metodologie allegoriche.
Sono testi molto importanti ma come Foster sottolinea essi non articolano
questa evoluzione del modo di fare sulla base del contesto socio-economico
in cui gli artisti sono situati.
Analizzano il capitalismo molto marginalmente.

B. Buchloh, ‘le procedure allegoriche’, 1982: testo che riprende il tema dell’allegoria di Owens ma lo rilegge
in chiave marxista cioè della critica marxista all’ideologia connessa alla fase dello sviluppo economico e
quindi reintroduce il concetto di reificazione.
Buchloh può considerare le opere di Longo, ossia questi mutamenti della figura umana che in realtà sono
privi di vita oppure quelle di Sherman che non sono solo degli autoritratti ma delle immagini costruite,
come riflesso nel mondo dell’arte della costruzione dell’immagine di una sorta di progressiva artificialità.
Queste sono infatti immagini riprese dalla cultura di massa cinematografica. Si tratterebbe quindi di un
nuovo tipo di reificazione che è il feticismo dei segni cioè delle immagini e della comunicazione di massa.

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Gli anni ’80 sono visti come spettacolarizzazione della cultura delle immagini disponibili, sradicate dai loro
contesti tanto che si assiste ad un tipo di arte definita come ‘convenzionale’ da Foster che trae esempi
formali, estetici, iconografici dal presente o dal passato, dalla cultura alta e bassa, dalla cultura popolare
senza gerarchia e differenziazioni. Sono quindi una serie di immagini che vengono manipolate e mescolate
senza alcuna gerarchia. Anche lo stile non è più omogeneo nelle opere, i generi artistici canonici (ritratto,
pittura di storia, di paesaggio ecc.) della storia dell’arte del passato vengono scambiati indifferentemente.
Questi artisti potrebbero non avere un atteggiamento di critica sociale dal punto di vista di Foster ma
semplicemente essi hanno un atteggiamento di appropriazione e di usurpazione delle immagini che
appartengono alla loro storia perché vogliono sottolineare il fatto che vivono in un mondo in cui le
immagini sono costruite, disponibili, stereotipate e che appartengono ai miti pubblici e ne sottolineano
anche il carattere artificioso.

R. Barthes, Miti d’oggi, 1957: raccolta di saggi sociologici scritti su una rivista, l’Observateur.
Egli parla della costruzione di miti della società di allora dati dalla pubblicità, cinema, riviste, televisione ecc.
È un mondo artificiale che crea dal nulla un’eccezionalità. Barthes dice che, per decostruire questi miti
dobbiamo esplicitarli chiaramente (come fanno Longo, Sherman e Rosler).

 M. Rosler, First Lady, Pat Nixon dalla serie Bringing the War Home: House Beautiful, 1967-72.
Fotomontaggio, in questo caso l’artista riprende un mezzo di comunicazione di massa che è la
rivista illustrata ‘House Beautiful’, una rivista per ricchi. L’ambiente è il salotto della casa bianca ma
appesi alle parete ci sono immagini di guerra.
Opere di M. Rosler vedi appunti.

 B. Kruger, Untitled, your fictions became history, 1983, fotografie e caratteri tipografici su carta:
caso simile a quello di M. Rosler sulla manipolazione dei miti e delle immagini.
Il titolo è le tue costruzioni fittizie diventano la storia.
L’immagine fotografica è ripresa dall’immagine di una statua antica.
Il messaggio dice che nella storia che ci viene tramandata ci possono essere delle costruzioni che
sono degli aggiustamenti e rimozioni dei punti di vista mai veramente ascoltati.
La statua antica come segno di potere nell’antichità ora dà un senso di sgretolamento della certezza
storica che invece è artefatta.
B. Kruger contesta gli stereotipi e i miti della mascolinità e della femminilità all’opera nel mondo
dell’arte e nella cultura popolare.

 S. Levine, Untitled, After Walter Evans, 1981, stampa alla gelatina d’argento.
In quest’opera di riappropriazione dell’immagine S. Levine rimette in questione i miti dell’originalità
dell’artista e dell’unicità dell’opera d’arte.

Cap. 4: l’arte della ragion cinica

Verso la metà degli anni ’80 del ‘900 si afferma a N.Y. una pittura geometrica che, in sintonia con la mania
dell’epoca per il marketing, viene rapidamente etichettata in due modi: Neogeo e Simulazionismo.

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 S. Levine, Large Check n. 12, 1987: i quadri di S. Levine sono costruiti meccanicamente e dipinti con
colori kitsch, e rimandano al modello modernista dell’arte astratta ma senza riuscire ad ottenerla,
rimarcandone l’insufficienza. C’è forse un residuo di imprecisione e di artigianalità che salva questo
tipo di opere dall’essere puramente meccaniche tuttavia risulta evidente che l’artista voglia citare
l’astrazione modernista con modalità che la privano di qualunque valore estetico.
Esempi di pittori geometrici astratti sono P. Mondrian, che in una fase del suo lavoro fece delle
scacchiere abbastanza regolari, e J. Albers.
Tuttavia il modello storico da cui la Levine può aver attinto è:
 H. Arp e S. Tauber, Duo collage, collage di carte, cartone, 1918: opera del dadaismo di Zurigo in cui
si nega l’idea di espressione, soggettività, autonomia, perché fatta in coppia e perché realizzata in
modo meccanico ritagliando delle carte colorate e applicate su una griglia piuttosto regolare.
 S. Levine, White Knot: 1, 1986: in questa serie la Levine prende delle tavole di legno che hanno i
loro nodi in vista e li esaspera in queste opere rendendoli geometrici e più grandi.

La Neogeo si presenta come arte di appropriazione.


Ciò significa che rappresenta un’evoluzione: si appropria dell’astrazione modernista
per deriderne le pretese di originalità e sublime o per giocare sul suo fallimento.
Ma la natura di questo movimento (il ritorno ad un mezzo unico, la pittura) contraddiceva
la più importante critica dell’arte di appropriazione, la critica dell’originalità dell’opera e
dell’esperienza estetica del sublime.

 S. Levine, Fountain, (Madonna), 1991, bronzo lucidato: l’artista oscilla tra


varie tecniche di appropriazione. Quest’opera rimanda all’orinatoio di M.
Duchamp ed è l’applicazione della scultura nel discorso della
appropriazione e usurpazione dell’autorità da parte di altri. Ci sono quindi
gradi diversi di manipolazione in S. Levine; c’è il tema dell’artigianalità,
della fattualità, non c’è l’uso di assemblaggio o di oggetti esterni.
Il concetto di originalità sembra però davvero problematico: c’è una
differenza tra una tecnica e l’altra, dal ready-made alla pittura, dalla pittura
minimalista geometrica a una pittura che sembra riecheggiare uno spirito
dada nei nodi del legno. È la questione del modo di accedere da un modello
all’altro che interessa. I valori associati alla tradizione pittorica come il senso
di rivelazione di una bellezza suprema, di un senso di trascendenza e di senso
utopico assegnato alla pittura di Mondrian, qua viene a mancare.
La grandezza qua è scomparsa.

Essa quindi si appropria di tecniche già pronte, creando una sorta di ready-made in cui però non ci sono le
stesse ambizioni del primo astrattismo.

 R. Bleckner, Fallen Sky, 1981, olio su tela: l’artista come S. Levine e altri fa parte della Neogeo degli
anni ’80, una sorta di pittura astrattista che coesiste con la Transavanguardia.
 R. Bleckner, Cage (gabbia di uccellini), 1986, olio su tela: insieme alle linee ci sono anche uccellini
dipinti. Il modello in questo caso è quello dell’arte optical ossia l’arte fatta di pattern geometrici,
una sorta di astrattismo geometrico basato sulla combinazione di geometrie e colori messi spesso
in modo binario per creare un disturbo visivo (arte degli anni ’60).
Il modello è citato dall’artista e allo stesso tempo svilito con gli inserti naturalistici degli uccellini.

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Altre opere di Bleckner vedi appunti.

Un modo per definire la Neogeo è proprio attraverso la sua ambiguità soprattutto


in relazione alla rappresentazione e all’astrazione. La Neogeo partecipava ad
entrambe le modalità ma non le trattava come opposizioni piuttosto le trattava
come già riconciliate. L’astrazione però non distrusse la rappresentazione, piuttosto
al culmine del modernismo, assimilò la rappresentazione e ciò permise che questa
venisse preservata anche quando veniva cancellata.
Sostanzialmente la rappresentazione era necessaria all’astrazione.

 P. Mondrian, composizione n. 10 in nero e bianco, 1915, olio su tela, intitolato anche ‘il molo e
l’oceano’. Il quadro è derivato da una semplificazione della realtà attraverso il codice binario.
Si crea quindi un tremolio visivo tipico del mare con segni verticali e orizzontali.
I segni più lunghi in basso alludono al molo creando un legame col mare attraverso il tremolio
visivo.

 V. Kandinsky, Improvvisazione 30, cannone, 1913, olio su tela: l’artista qua non abbandona del
tutto la forma allusiva della raffigurazione. Vediamo il cannone, le colline, le case ecc. l’astrazione è
quindi un modo di semplificazione e riduzione di elementi superflui.

Modelli storici in cui è presente un esempio di assimilazione della rappresentazione dell’astrazione.

Se l’astrazione tende solo ad assimilare la rappresentazione, la Neogeo attraverso la simulazione tende a


sovvertirla, dato che la simulazione può produrre un effetto di rappresentazione senza una connessione
referenziale col mondo.
La simulazione può essere considerata critica nei confronti della rappresentazione atta a svolgerne l’ordine
concettuale. Possiamo considerarla critica anche nei confronti dell’astrazione come se volesse sovvertirne
la logica.

 P. Taaffe, Constellation Elephanta, 1994, tecnica mista su tela. Probabilmente ha a che fare con un
mausoleo indiano tuttavia non ci sono riferimenti evidenti. Vediamo delle forme circolari che
ricordano quelle delle ringhiere di ferro e delle stelle che forse alludono alla costellazione.
P. Taaffe attinge a svariate tradizioni mescolando i molti motivi decorativi più accidentali in un
atteggiamento postmoderno. Emerge il carattere decorativo del quadro.
Altre opere di Taaffe vedi appunti.

L’opt art è un tipo di arte che si diffonde negli anni ’60 nell’ambito della Pop Art. Ci sono anche pittori
italiani che realizzano opere simili a quelle di Riley: in Italia questo tipo di arte viene chiamata Gestalt o
programmata (nata col gruppo N a Padova e il gruppo T a Milano).
G. C. Argan era un difensore di questo tipo di pittura. Rispetto alla Pop Art (arte del capitalismo), egli
propone il ritorno alla Gestalt, alle forme partendo da una combinazione di segni che non hanno un
messaggio ma che sono puri ed hanno un forte potere sulla visione (potere seduttivo dell’immagine).
Le forme sono responsabili della nostra formazione ed educazione sociale secondo Argan.
Secondo Foster invece la Op Art era fallimentare in quanto la vede come un tipo di astrazione ridotta a
design, come progetto/disegno e non come prodotto consumista.

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Da sottolineare è il fatto che nel testo di Foster riecheggia spesso la parola kitsch (anche R. Krauss è
ossessionata da questa parola).
Altri esempi di arte che stanno fra astrattismo e decorazione (arte kitsch):

 P. Schuyff, untitled, acrilico su lino, 1987: non capiamo quale sia il modello e se veramente ce ne sia
uno o se si trattano di forme pure in sé. Altre sue opere vedi appunti.

 A. Bickerton, Tormented Self-Portrait (Susie at Arles, 1987-88.


Si tratta di un assemblaggio tridimensionale che ha a che vedere con Van Gogh. Ci sono dei marchi
perché l’artista sostiene che siamo definiti da marchi e oggetti che usiamo quotidianamente.
Si allude alla ciclicità della moda. La firma Susie è essa stessa un marchio. Si ha quindi un individuo
reificati e una collezione di segni, marchi anch’essi frammentati.
Altre sue opere vedi appunti.

Quest’artista inventa degli oggetti che non sono ready-made e


che alludono alla cultura di massa in cui viviamo.

 J. Goldstein, Untitled, 1987: questo artista dipinge riproducendo un qualcosa che già esiste.
Egli parte da delle fotografie che sono distaccate dalla realtà e le manipola.
Molte di queste immagini riproducono galassie, esplosioni, fenomeni atmosferici.
In questo caso all’immagine sovrappone dei rettangoli che alludono forse alla pellicola fotografica
per evocare qualcosa di artificioso.
Goldstein come Bickerton non accetta il fatto che il consumismo ha modificato gli uomini.
Altre sue opere vedi appunti.

 M. Vaisman, The Look alike, 1988 (le somiglianze): il quadro è diviso da una scacchiera (formata da
tele) con diverse profondità, sulle tele è stampata la trama delle stesse tele (riferimento alla sedia
impagliata di Picasso). La rappresentazione diventa digitale. La naturalità viene data dal mezzo
tecnologico. Vi sono poi degli ovali utilizzati come vignette. Sembra una griglia astrattista che viene
resa complicata da varie fonti della cultura popolare tra cui i fumetti.
Altre sue opere vedi appunti.

 P. Halley, Red cell with conduit, 1982: opere molto cariche di colori. Questo rappresenta una cella
del computer. L’artista allude quindi alla complessità delle reti e alle infrastrutture dei cavi.
Sono circuiti semplificati che l’artista vede dopo essere tornato a Manhattan.
Altre sue opere vedi appunti.

Questo tipo di opere (Halley, Vaisman, Bickerton) possiamo definirle ‘pitture simulacrali’ riprese da
innumerevoli fonti con le quali non abbiamo più un reale contatto.
Con ‘simulacro’ si intende proprio il significato originale di queste fonti che è andato perduto. Sono artisti
che riprendono le immagini dell’Astrattismo come ready-made.

Insieme alla pittura di simulazione nasce anche la scultura di artisti come J. Koons e H. Steinbach.
Anche la scultura come merce si sviluppa a partire dall’arte di appropriazione e assume una distanza ironica
dalla sua stessa tradizione, in questo caso dal ready-made.

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Queste due tendenze vanno considerate insieme perché si completano: così come la pittura di simulazione
tende a ridurre l’arte a design e kitsch, questo tipo di scultura tende a sostituire design e kitsch con l’arte.

La ‘commodity sculpture’ rompe metodicamente i confini tra arte alta e cultura delle merci; e sembra
trasformare il nostro feticismo del significante nella nuova economia in tema.

 J. Koons, New Shelton Wet/Dry Boubledecker, 1981, aspirapolveri, plexiglass e luce fluorescente:
L’artista riprende Duchamp secondo cui il valore di una statua o di un oggetto artistico non ha
valore d’uso ma un valore fittizio, simbolico, di scambio.
Koons estremizza questa logica rendendola più feticistica prendendo oggetti d’uso comune e
mettendoli in vetrine con luci e trasformandoli in oggetti da reliquia.
Koons restituisce un’aura (= valore) a questi oggetti costruiti artificialmente. Le strutture con luci
ricorda il minimalismo, anche per la ripetizione.
Tutto può essere rifatto e riprodotto, la cultura dell’arte e della merce si confondono.

 J. Koons, Three Ball Total Equilibrium Tank, 1985: serie di palloni sospesi in una teca con acqua
distillata e reagente cloruro di sodio. Sono prodotti d’uso (ossia merce) che possono essere anche
feticci (da Marx); c’è quindi anche un consumo del marchio.
Koons sostiene che c’è un valore attribuito molto alto che è sia dell’arte che della merce.
Per lui conta il valore dato in base alla sistemazione della merce o da quanto questa sia costosa.
Siamo di fronte ad un esempio di scultura-merce in cui non c’è critica nell’atteggiamento di Koons,
cosa che invece c’era negli anni ’10. Altre sue opere vedi appunti.

 H. Steinbach, Related and different, 1985: mensole con scarpe Nike Air Jordan e coppe di plastica
dorata. Vediamo delle scarpe Nike accanto a calici dorati come a far intendere che tutto è merce
mettendo questi oggetti su delle mensole.
Tutto è merce ma Foster sottolinea la differenziazione dei segni.

Noi non consumiamo la merce ma il marchio della merce. Consumiamo la differenza dei segni.
Il segno differenzia la merce in quanto scambio.

 H. Steinbah, Oxygen, 2011: l’artista qui tratta il tema dell’equivalenza dei segni.
Questi sono dei simulacri simili ai Dunny e di cui non cogliamo l’originalità, poiché vi è la diffusione
di un modello. Essi fanno parte della merce dei pupazzi.

Alan McCollum ha invece trattato il tema in maniera diversa ossia attraverso un lavoro manuale dato da un
calcolo matematico che crea delle equivalenze che in realtà sono totalmente diverse tra loro.
Si rimarca l’individualità che in McCollum è meno succube della produzione.

 A. McCollum, Over Ten Thousand individual works, 1987-91: 10 mila oggetti fabbricati tutti diversi
(tappi, imbuti, oggetti vari) e li unisce tra loro.

 A. McCollum, collezione di 40 surrogati di gesso con cornici dipinte. Sono oggetti individuali tutti
diversi per proporzioni e tonalità di grigi.

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Da una parte c’è il riferimento all’arte astratta di Rodchenko ma non c’è più quell’atteggiamento
utopico del 1920. Altre sue opere vedi appunti.

Questi gruppi di artisti degli anni ’80, facenti parte dell’arte Neogeo e dell’arte di simulazione, secondo
Foster hanno un atteggiamento ‘cinico’ (es. Koons, Steinbach..) e in parte ‘critico’ (es. McCollum).
In termini di ragione ‘cinica’ Foster cita il filosofo tedesco P. Sloterdijk che nel 1983 scrisse il saggio ‘Critica
della ragione cinica’. Secondo questo filosofo la ragione cinica è la relatività, l’indifferenza rispetto alla
moralità e la mancanza di scrupoli.
Questo atteggiamento è prevalso soprattutto durante la prima guerra mondiale: vi era un atteggiamento
diffidente rispetto ai progetti utopici proposti dai partiti politici (ad es. comunismo) dove non c’è realmente
il progresso della civiltà. Ciò provoca una distinzione tra l’apparenza delle cose e la realtà: questo avviene
negli anni ’70 anche nell’Unione Sovietica dove tutti provano una fiducia di facciata verso questa società
senza classi. Questo atteggiamento è di sfiducia nelle ideologie ma dietro c’è una sostanziale accettazione.
Foster riconosce questo atteggiamento disincantato in Steinbach e Koons durante gli anni ’80.

Sloterdijk parla poi di atteggiamento cinico in relazione alla scuola dei cinici del IV secolo nata durante la
filosofia ellenistica. Per distinguere ciò dall’altro atteggiamento cinico il filosofo utilizza la parola ‘kinico’.
Questa filosofia in sostanza si distaccava da tutti i beni materiali per raggiungere la felicità (eudaimonia), in
un’accettazione della natura per una non-materialità.
Tutto ciò che contava era l’amore fraterno e l’amore per la natura. Vi era poi un atteggiamento irriverente
verso le autorità.

Ciò potrebbe essere un modus operandi per quegli artisti che non vogliono
sottostare alla produzione di massa. O si accetta pienamente questo sistema
o si attua questo atteggiamento di irriverenza. Foster cita Baudelaire che
incarna l’atteggiamento del Dandy un po' distaccato.
Questo atteggiamento kinico potremmo trovarlo in McCollum ma in realtà
lo avevano manifestato i dadaisti.

 M. Ernst, piccola macchina autocostruita, 1920 ca: sovvertimento un po' sofisticato.


Il disegno fa parte di una serie che allude alle interrelazioni tra esseri umani e macchina che si
autocostruiscono.

Esempio di ironia sull’ego distrutto (ironia kinica e dadaista).

Dall’atteggiamento cinico deriva l’arte di A. Warhol; l’atteggiamento kinico rinuncia a dei valori e si ricollega
a quegli artisti che alludono alle parti viscerali degli essere viventi (es. Paul McCarthy, la sua arte esplora la
morbosità e la sessualità).

Cap. 5: Il ritorno del reale

Il reale per Foster è quindi duplice: noi siamo fatti di morbosità, sessualità ecc. (atteggiamento kinico)
tuttavia la realtà viene vista anche come realtà politica del referente (atteggiamento cinico).

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Foster analizza quest’ambivalenza tra i due diversi atteggiamenti prendendo in causa il lavoro artistico di A.
Warhol. Egli è referenziale e simulacrale? Le sue opere serigrafiche alludono negativamente alla cultura
americana, fanno riferimento alla società anche con i suoi lati oscuri.

 A. Warhol, Orange disaster 5. L’artista è coscienzioso rispetto alla realtà americana,


è quindi referenziale.

 A. Warhol, Disastro dell’ambulanza, 1963: l’artista riprende foto di cronaca della stampa di allora.
Ciò suggerisce la lettura simulacrale di Warhol: egli non è partecipe emotivamente al disastro,
queste sono solo immagini simulacrali, ossia immagini che già esistono e che Warhol replica più
volte.

Lo stesso Warhol attraverso le sue citazioni afferma questa lettura: “Mi piacciono le cose che si ripetono
esattamente uguali nel tempo; più guardi la stessa identica cosa più il significato se ne va e ti senti meglio,
più vuoto”. Replicando le immagini di questi disastri si annulla lo shock iniziale.
Il trauma che ci ferisce emotivamente, nel riviverlo torna nel ricordo: le ripetizioni di Warhol non sono però
terapeutiche; esse suggeriscono l’ossessione sull’oggetto in chiave melanconica più che una liberazione
dall’oggetto del dolore.

Warhol ha un interesse per la realtà ma anche per i suoi lati oscuri, la sua arte è quindi
simulacrale e referenziale allo stesso modo, essa è propensa verso entrambe le
prospettive.

L’idea di Foster è quella che queste immagini abbiano non solo un contenuto traumatico
ma che riproducano una storia perturbante procurandola nell’osservatore stesso.
A questo punto Foster rende esplicito il modello teoretico utilizzato fin ora ossia la ripropone
la teoria di Lacan il quale nel 1964, in concomitanza alle opere di Warhol, espone un seminario
(‘l’inconscio e la ripetizione’) in cui definisce il reale in termini di trauma.
In questa teoria dobbiamo distinguere reale, immaginario e simbolico.

 L’immaginario è la produzione mentale dell’uomo, è la fantasia che


egli fa su di sé (ad esempio quella che fanno i bambini).

 Il simbolico è il linguaggio, la cultura, il condiviso, ciò che non crea l’uomo


ma che è già disponibile: è la fase di apprendimento dei comportamenti
da parte del bambino. Lacan definisce il simbolico come ‘cesoia’, taglio,
è l’educazione derivata dalla parola. Si tratta di un taglio simbolico.
Nella fase immaginaria il bambino è fuso e gode di questo col corpo della
Madre; col simbolico e l’educazione vengono dettate delle norme.

Questa teoria è ripresa da Freud secondo il quale il bambino è perverso: egli ha un godimento del corpo
inizialmente dalla bocca in contatto con la mammella materna e poi attraverso la fase anale.
Il bambino prende coscienza delle sue feci che inizia a vedere come sua creazione.

L’educazione impone un allontanamento e un controllo (la cacca diventa privata). Avviene quindi un taglio
dalle censure; le cose che prima facevano godere il bambino adesso non possono più fare.

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Si avrà quindi sempre un desiderio verso queste cose che prima appartenevano (dopo il taglio c’è la fase
genitale). Lacan dice che l’azione del linguaggio è anche un’azione di ‘separtizione’ ossia partizione di sé che
permette al soggetto di esistere.

 Il reale rappresenta quella sorta di godimento primordiale da cui siamo distaccati, quei desideri
incensurati ad esempio quegli aspetti della sessualità in tutte le sue forme di godimento.
È quell’esperienza proibita che però ci abita al di là del nostro inconscio.

Nelle opere d’arte il reale riprende una sua parziale visibilità in particolare nelle vere opere d’arte ossia
quelle che ci prendono emotivamente (esperienza che supera la banalità di altre opere).

Lacan fa questa distinzione riprendendola da Barthes ne ‘La Camera Chiara (1980)


dove parla della fotografia. Attuando uno ‘studium’ ossia lo studio delle forme e le
composizioni delle fotografie, Barthes individua dei dettagli che catturano la nostra
attenzione, che ci toccano emotivamente e che ci ipnotizzano (punctum).
Anche Lacan sostiene che esistono delle vere opere d’arte che schermano il reale
(inteso nel senso di Lacan) come un qualcosa di traumatico, che ha qualcosa che
ci colpisce, ciò viene definito da Lacan ‘tuchè’ che però nella traduzione dal greco
significa destino (parola greca francesizzata). Il tuchè sarebbe quindi il reale che ci
tocca, che ci incade, è il punto traumatico.
Ciò Lacan lo sviluppa nel seminario 11 dove parla della funzione dello sguardo.

Il punctum per Barthes sarebbero quei dettagli che risiedono nella ripetizione
delle immagini di Warhol che ci farebbero capire il lato ancora più traumatico
di queste immagini. Il punctum risiede quindi nella tecnica ossia nella serigrafia:
essa può determinare tramite le sovrapposizioni, delle macchie e delle zone dove
il calore si deposita. È proprio questa irregolarità che determina il punctum.

 A. Warhol, disastro in ambulanza, 1963: il punctum si individua nella ripetizione dell’immagine ma


anche nello strappo dell’immagine inferiore che cancella la testa della donna riversa.

 A. Warhol, white burning car III, 1963: in questo caso il punctum sta in questa figura che sembra un
impiccato alla presenza di un passante. È una scena secondaria rispetto al disastro della macchina
ma che cattura l’attenzione. Il punctum sta anche nella ripetizione di questa indifferenza che
diventa irritante. L’artista prende un’immagine a caso dalla stampa e la replica per sottolineare e
rafforzare ancor di più il suo significato.

 G. Richter, uncle Rudi, 1965, olio su tela: qui viene rappresentato un gerarca nazista, l’artista sta tra
astrazione e figurazione perché dipinge l’immagine riprendendola da una foto storica e ricreando lo
sfocato che determina il punto dell’attenzione (punctum) e il perturbante.

Proprio sul perturbante Freud aveva scritto un testo nel 1919, che Lacan riprende e definisce come un
qualcosa di molto familiare e simile a noi (il doppio è perturbante come i gemelli, le bambole ecc.).

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In questo caso va ripreso anche il concetto di ‘inconscio ottico’ di Benjamin ossia l’inquadratura del film o
della macchina fotografica, che rappresenta i dettagli che non si notano ad occhio nudo e che attirano
l’inconscio.

 G. Richter, 18 ottobre 1977, serie di 15 tele: l’artista prende spunto da un caso di cronaca tedesca
in cui i membri della RAF, banda simile alle brigate rosse italiane, sequestrarono i capi e i maggiori
esponenti dello stato tedesco suscitando un suicidio collettivo e questi vengono poi riprodotti.

Ci sono poi altre riproduzioni: l’arresto, il confronto, la cella, l’uomo ucciso a colpi di pistola, il morto, il
funerale. Foster cita Richter parlando della manipolazione dell’immagine, dallo studium si arriva al
punctum. Questo non risiede nei dettagli ma nelle sfocature che pervadono l’immagine.

Tornando al discorso della tuchè: Hans Holbein, Gli ambasciatori, 1533. Immagine utilizzata da Lacan nel
suo seminario sullo sguardo. È un’immagine che viene vista secondo un’ottica geometrale rinascimentale.
L’oggetto in basso lo possiamo vedere solo mettendoci inginocchiati a dx: caso di ‘anamorfosi’ come
disturbo dell’ottica geometrale rinascimentale. L’immagine deformata è un teschio.

Per Lacan è un’irruzione di uno sguardo che promana da quadro e punta indietro al riguardante.
L’oggetto-sguardo annulla il soggetto e lo rende guardato, lo cattura.
Secondo Maurice Merleau - Ponty (fenomenologo della percezione) ciò che rende veramente possibile la
visione è la luce: essa quindi non deriva dal mio occhio ma è resa da qualcosa di esterno.
L’atto dello sguardo è un tentativo di entrare in connessione con la visione già dettata dalla luce.
Lacan accetta questa ipotesi e aggiunge che vi è una negazione tra lo sguardo che tocca l’oggetto;
quest’ultimo diventa esso stesso uno sguardo e il mio sguardo diventa un oggetto (la visione rimbalza).

A questo proposito Lacan cita il famoso aneddoto della scatoletta di sardine che mentre galleggiava in mare
e luccicava al sole sembrava osservare il giovane Lacan in barca ‘a livello del punto luminoso dove si trova
tutto ciò che mi guarda’. Lacan pensava quindi che ci fosse un’altra presenza che lo stava scrutando e non
una lattina. L’oggetto che noi vediamo nel quadro è come la lattina di sardine: è un punctum, una forma
che rimanda uno sguardo al soggetto catturandolo come oggetto guardato.
Questo turba e di conseguenza l’osservatore si sente guardato.
La tuchè è quindi quell’incontro emozionale/pulsionale col quadro che si rivela pienamente attraverso un
filtro. Nella funzione ‘quadro’ il quadro diventa opera d’arte quando emana lo sguardo del reale, uno
sguardo terrorizzante e che contemporaneamente viene domato.
Secondo questa teoria io divento parte del quadro e viceversa.
Triangolo visivo
Oggetto
che a sua
volta diventa io che sono occhio divento rappresentazione
sguardo
schermo o immagine (la nostra cultura)

schermo

punto quadro (non immagine, errore di traduzione)

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luminoso

Quindi il dettaglio che noi non capiamo dà al quadro la funzione ‘quadro’, esso rompe l’unità dell’immagine
attraverso un taglio di irruzione e ciò rappresenterebbe il ritorno alla pulsione repressa dopo il taglio
dell’educazione dai tubù.

Foster sostiene che questo incontro con il reale (il reale nascosti che è il godimento distruttivo, ripugnante)
è una tendenza progressiva nell’arte degli anni ’80. Esiste una linea di artisti che hanno progressivamente
bucato la sublimazione (es. C. Sherman, P. McCarthy ecc.). sono artisti che fanno emergere il reale facendo
emergere ciò che la sublimazione respinge (la sessualità, le feci ecc.) ossia i desideri perversi.

Negli anni ’60 esiste poi l’iperrealismo che sembrerebbe l’antitesi di questi artisti. In realtà quest’arte non è
pacificatrice dello sguardo ma sono dei trompe l’oeil che fanno emergere anch’essi il reale, attraverso 3
tipologie di iperrealismo:

 Caso in cui l’iperrealismo mostra il reale come se fosse già compreso dal simbolico:
M. Morley, S. S. Amsterdam in front of Rotterdam, 1966: riprende l’immagine da una cartolina,
un’immagine pubblica, già disponibile).

 Esempio di realtà come superficie simulacrale derealizzata/realtà apparente come superficie fluida,
è più illusionista del primo iperrealismo:
-J. Rosenquist, I Love you with my Ford, 1961: vediamo degli spaghetti in scatola precotti, il profilo
di una donna e il fronte di una Ford. L’artista sembrerebbe negare la realtà attraverso il simulacrale
ossia attraverso immagini riprese dalla cultura di massa.
Lacan la vede come superficie fasulla per la sovrapposizione di 3 elementi.
-A. Flack, Chanel, 1974: l’artista altera la naturalezza esaltando i riflessi della luce; questa realtà ci
appare reale ma i riflessi la fanno apparire anche artificiale e immateriale.
Altra sua opera vedi appunti.

-D. Eddy, 4 VWs, 1971: l’artista vuole rappresentare un mondo fatto di riflessi scegliendo un punto
di vista basso. Spesso sui suoi cofani viene riflesso il mondo.

 Realtà apparente come enigma visivo: con varie riflessioni e rifrazioni di fronte a questi quadri ci si
può sentire osservati da diversi punti.
-R. Estes, Telephone booths, 1967: riflesso delle porte metalliche che riverberano la piazza.
-R. Estes, Union Square, 1985: complicazione delle prospettive dell’ottica geometrale dal punto di
vista della luce l’opera converge su di noi piuttosto che estendersi su di noi.
-R. Estes, Double Self-Portrait, 1976: è rappresentata la finestra di un ristorante in cui è riflesso per
ben due volte l’artista-fotografo (si vede il cavalletto) perché egli viene riflesso anche da un’altra
superficie.

Sarebbe un tipo di pittura come inganno visivo (trompe l’oeil) che lavora su immagini culturali che vogliono
velare il reale dietro lo spettacolo della merce. Il reale diventa qualcosa di traumatico, diventa la falsa
coscienza della visione.

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Secondo Foster l’iperrealismo, essendo ‘iper’, vuole sottomettere il reale, lo vuole nascondere più che
svelare. Perciò accumula le stratificazioni di segni e superfici mutati dal mondo delle merci non solo contro
la profondità della rappresentazione ma anche contro il reale traumatico.
Eppure questo tentativo ansioso di appiattire il reale non fa che metterlo in luce, fallisce nel ricordarci il
reale e quindi diventa un ‘illusionismo traumatico’.

Se questo ‘disturbo’ è accidentale con l’iperrealismo ciò non lo è per la versione simulacrale di R. Prince che
somiglia all’iperrealismo con il suo eccesso di segni, la fluidità delle superfici e il coinvolgimento dello
spettatore. Entrambi i modi utilizzano la fotografia: l’iperrealismo quindi sfrutta alcuni valori fotografici
(l’illusionismo) ma ne esclude altri (la riproducibilità) che vengono invece adottati da Prince per criticare la
verità documentaria della fotografia (è l’arte di appropriazione che chiede allo spettatore di guardare
criticamente queste superfici, mentre l’iperrealismo invita lo spettatore quasi a divertirsi con le sue
superfici).

Se nell’iperrealismo la realtà è presentata come sopraffatta dall’apparenza, nell’arte di appropriazione è


presentata come costruita nella rappresentazione.

- R. Prince, Untitiled (four single men with interchangeable backgrounds looking to the right), 1977:
Prince è stato redattore del Times e del Square e lavora quindi nel campo della pubblicità esaltando
questo aspetto. In questo caso raffigura uomini di moda di qualche rivista che indossano abiti; tutti
quanti hanno una posizione stereotipata perché il fotografo ripete le solite immagini.
Realizza poi degli sfondi intercambiabili perché l’artista vuole sottolineare il fatto che viviamo in un
mondo in cui niente è naturale.

Se l’arte di appropriazione può essere critica verso lo schermo, può essere anche affascinata da esso;
cercando di esporre le illusioni della rappresentazione, può bucare l’immagine.
- R. Prince, ektacolour: l’artista riprende immagini da riviste di pubblicità di vacanze, da immagini
familiari di giovani amanti, bimbi sulla spiaggia come se fossero merci.
Prince manipola l’aspetto irrealista delle pubblicità, zoommandole e saturizzandole al punto da
derealizzarle a livello dell’apparenza, ma realizzandole a livello del desiderio.
In questo caso un uomo solleva un a donna fuori dall’acqua ma le loro carni sembrano bruciate
come un’erotica passione che diventa un’irradiazione fatale.
Qui il piacere immaginario di una scena di vacanza diventa oscena e viene sostituita da una di
morte. L’alienante rappresenta la rottura dello schermo.

La logica del quadro per Foster ha una funzione analitica: il quadro ci guarda,
ci cattura ed emana dall’oggetto uno sguardo a rovescio (sensazione di essere
guardati). Il reale viene visto come un qualcosa di pulsionale, fatto di desideri
primordiali e godimenti primitivi recisi attraverso l’educazione ma che abbiamo
collocato nel ‘piccolo oggetto A’. la funzione ‘quadro’ avviene quando il reale
ci tocca di nuovo. Gli artisti iperrealisti sembrano negare il potenziale del
reale dietro un mondo fatto di immagini lucide, specchianti e seduttive ma
accecanti.
Il reale emerge attraverso altri artisti come:

- C. Sherman, fotogramma di film senza titolo n. 15, 1978 e fotogramma n. 2, 1977:

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l’artista in questo periodo è ossessionata dall’immagine della donna prodotta dai film, dalla moda
ecc. e crea degli autoritratti, ipotetici fotogrammi fatti da donne che sono oggetto di un nostro
sguardo del quale esse non sono consapevoli (interpretazione eccessiva di Foster secondo il prof.
poiché l’artista cerca sempre di cambiare la sua immagine con protesi, make-up, parrucche ecc), le
immagini sono costruite, sembrano essere estratte da un plausibile film mai realizzato.
Noi siamo parte della nostra immagine perché essa fa parte della nostra cultura.
Sherman rimanda al soggetto colpito dallo sguardo, il soggetto come immagine.
Tra il quadro e lo sguardo c’è il filtro della cultura. Altre opere C. Sherman vedi appunti.
Ci sono delle opere di Sherman che rimandano al concetto di abietto, qualcosa di
ripugnante e reale.

Il concetto di ‘abietto’ deriva da J. Cristeva (il potere dell’autore, 1980).


Nel suo libro esprime il significato di questo concetto che è simile al reale
di Foster: è quella parte di noi che tentiamo di respingere e allontanare,
ciò che gli esseri umani fanno per salvaguardare la propria integrità di
soggetto a livello psichico. L’abietto è quell’aspetto delle pulsioni
primordiali, la categoria dell’abietto ad esempio è il cadavere, tutto
ciò che provoca ‘schifo’ che è qualcosa di informe che provoca disgusto.

- Es. C. Sherman, dalla serie Disasters, senza titolo 175, 1987: vediamo resti di cibo, occhiali ecc.
Nelle opere di Sherman lo sguardo oggetto è senza schermo protettivo.
Altre sue opere vedi appunti.

- C. Sherman, senza titolo 183, 1988 e n.228, 1990: ispirata a Giuditta e Oloferne di Botticelli; queste
opere sono ispirate alla storia dell’arte ma realizzate in modo grottesco. La n. 228 riprende i colori
botticelliani ma i piedi e la testa di Oloferne destabilizzano e con essi lo stesso sguardo della
Sherman. La n. 183 si ispira ad un ritratto ottocentesco e notiamo il carattere fittizio delle protesi
che vengono messe per essere viste.

Dalla de-idealizzazione alla de-sublimazione: C. Sherman in queste opere non ha più il concetto di de-
idealizzazione dell’immagine di carattere estetico ma si parla di de-sublimazione che colpisce a livello
psicologico. Mostrando questi aspetti sgradevoli delle opere d’arte Sherman sembra alludere all’emergere
di un qualcosa di desublimato cioè che appartiene alla nostra libido.
Questo è il passaggio che avviene nei lavori realizzati tra l’87 e il ’90.

- C. Sherman, senza titolo 153, dalla serie Fairy Tales: l’artista posa come un cadavere infangato che
allude ad un qualcosa di terribile che è successo. L’immagine secondo Foster rimanda ad un esterno
trasportato all’interno, al soggetto come immagine invaso dall’oggetto-sguardo e anche abietto.
p. 150.

- C. Sherman, dalla serie Sex Pictures, senza titolo n. 250, 1992: sono immagini di sesso, oscene;
Foster interpreta ‘osceno’ come fuori dalla scena ossia fuori dalla visione normale della cultura.
a volte in queste opere lo schermo appare cosi lacerato che l’oggetto-sguardo non solo invade il
soggetto come immagine ma lo stravolge.

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Il lavoro sul reale viene attuato anche attraverso approcci diversi come ad esempio l’illusionismo di D.
Hanson e J. De Andrea che spinge fino al reale:

- D. Hanson, Tourist II, 1988, tecniche miste e accessori.


- D. Hanson, old couple on a bench, 1994. Esempi di sculture iperrealiste che sfociano
verso il reale.

- J. De Andrea, Dying Gaul, 1984: si ispira alla copia romana di un galata morente ellenistico.
- J. De Andrea, Joan, 1990: ispirazione alla storia dell’arte o alle modelle.
Illusionismo spinto verso il reale.

Ci sono poi artisti che utilizzano l’illusionismo per scoprire il reale in cose e oggetti quotidiani relativi al
corpo che vengono estraniati:

- C. Ray, Viral Research, 1986: ci sono dei vasi su un tavolo collegati tra loro attraverso dei tubi
sottostanti il tavolo, essi contengono inchiostro nero.
L’artista allude al corpo per il tema della circolazione ma contemporaneamente c’è anche qualcosa
che allude ad un laboratorio. È un modo indiretto per alludere al corpo perché sono oggetti
estraniati dalla quotidianità.

- M. Barney, automobile da corsa, 1991: è un oggetto derivante da una performance dell’artista il


quale sperimentava le varie posizioni del corpo (artista con un passato sportivo).

Esempio di apparati pseudoatletici.

Altri artisti isolano gli oggetti dell’infanzia provenienti dal passato spesso distorti nelle proporzioni con un
tocco sinistro, patetico, malinconico e mostruoso.

- M. Kelly, Ah… Youth, 1991: si tratta di 7 fotografie di pupazzi e una foto dell’artista da adolescente.
I pupazzi sono rovinati e sono quelli che possiamo trovare nei mercatini a poco e che hanno a che
vedere con il mondo infantile.
I ricordi d’infanzia sono sempre presenti in quest’artista e si riferiscono a quelle parti represse del
reale. Il pupazzo rosso venne utilizzato da gruppo Rock ‘Sonic Youth’ come copertina dell’album.

- R. Gober, box inclinato, 1987: si riprende un luogo del gioco infantile che inclinato allude all’infanzia
meno felice (distorsione del passato).

- K. Fritsch, re dei ratti, 1993: opera che allude ad un fenomeno naturale secondo cui i ratti sono
rappresentati come un unico individuo e presentano problemi nel muoversi per via delle code
annodate formando un cerchio.

- A. Messager, Les Pensionnaires, 1971-72: passeri domestici impagliati, istallazione di 14 vetrine in


cui i passeri sono esposti e vestiti con dei maglioncini realizzati appositamente: oggetto accudito.

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Altri artisti si oppongono all’illusionismo nel tentativo di rievocare il reale in quanto tale.
Questo è il principale regno dell’arte abietta messo alla prova dalle frontiere infrante del corpo violato:

- R. Gober, Untitled, 1990: prende ispirazione dal trittico delle delizie di Bosh (1480-90 ca).
l’artista cita un dettaglio che lo rende oggetto.
- R. Gober, Untitled, 1991: si allude ad un qualcosa di traumatico, è un corpo oggetto di umiliazione
con le candele poste sulle gambe.

- K. Smith, Untitled, 1992: l’artista tratta il corpo come luogo di violenza fisica, psichica, di eventi
traumatici e inquietanti. Sono sculture che alludono ad un qualcosa di estraneo al corpo.
In questo caso vediamo un corpo che allude ad una supplica/subordinazione/umiliazione, perché
accucciato e allunga le braccia.
Altre sue opere vedi appunti.

Molti artisti degli anni ’90 hanno in comune l’esplorazione dell’esperienza


sociale e corporea della violenza, della sessualità e delle due cose combinate
insieme (malattia, morte, cadavere abbandonato a se stesso ecc.):

- T. Margollez: evoca un dato collettivo ossia il femminicidio in Bolivia.

- Sue Williams, cerca di essere più accomodante, 1991: si tratta di un’illustrazione tipica dei fumetti
che diventa forte per il suo contenuto perché è un’immagine di violenza sulle donne.
- S. Williams, irresistibile, 1992: mostra il corpo di una donna che mostra i segni di violenza.
Altre sue opere vedi appunti.

In alcuni casi l’esplorazione del corpo e della ferita può scivolare nel realismo codificato:

- N. Goldin, One month after being battared, 1984. Si tratta di un autoritratto dell’artista dopo
essere stata picchiata dal compagno. L’artista non fa di quest’opera una denuncia mostrando i
segni della violenza subita e allo stesso tempo essendo truccata e indossa gli orecchini.
Altre sue opere vedi appunti.

Cristeva sostiene che l’abietto è ciò che noi rimuoviamo per affermare la nostra soggettività, noi prendiamo
le distanze dal mondo abietto che è il mondo della nostra fisicità e dell’io più profondo.
Riguardo a J. Claire: Platone sosteneva che il mondo fosse la riproposizione delle nostre idee; Platone rifiuta
quindi l’abietto. Nella Repubblica di Platone si lascia intendere che l’orrore è ciò che ci fa scappare ma che
da una parte ci attira e ci incuriosisce (egli parla di un tale attratto dai cadaveri).
Cristeva parla dei nostri rigetti e parla del potere dell’orrore il quale ritorna da noi attraendoci. Cristeva
definisce come abietto il cadavere, ciò che completamente nega il nostro essere in vita e che cerchiamo di
allontanare. Per lei il cadavere è la forma estrema dell’abietto:

- A. Serrano, the morgue, 1992: l’artista lavora in un obitorio e fa delle foto molto ravvicinate dei
cadaveri che suggeriscono la causa della morte e non l’identità.

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Serrano si dedica al tema dell’abietto e di ciò che noi non vorremmo vedere (Serrano ci costringe a
vedere qualcosa che noi non vorremmo vedere = F. Miglietti), ci mette di fronte alla morte nel suo
aspetto più materiale. Vedi opere sugli appunti.

- A. Serrano, Immersion, 1987: si tratta di un’opera abietta che nasce da una fotografia che l’artista
ha fatto di un crocifisso immerso in un barattolo di urina. La foto venne esposta in una mostra a
N. Y. ricevendo un’attenzione relativa.
Potrebbe anche essere vista come una rappresentazione melodrammatica della crocifissione con
questa luce ambrata. A sx c’è la foto di un giudice perché l’opera è stata oggetto di vandalismo nel
2012 ad Avignone.

P. McCarthy è un artista che gioca con l’abietto e con l’essere esso stesso abietto. Egli fa parte di quegli
artisti che giocano con l’essere demenziali, che confondono la razionalità con l’animalità.
Vedi opere sugli appunti.

S. Freud, il disagio di una civiltà, 1930: traccia un percorso parallelo tra la storia dell’educazione alla civiltà
umana e la nascita della psicologia umana. Per Freud è quando l’uomo diventa eretto che sviluppa la vista
al posto dell’olfatto (più sviluppato negli animali).
Negli uomini non solo si è sviluppata la vista in maniera frontale riconoscendo come immagine un qualcosa
che è parallelo a noi. Per Freud c’è tuttavia una repressione animalizzata e denigratoria dell’umanità.

Perché gli artisti degli anni ’80-90 insistono sull’abietto?


Perché rappresenta un tipo di sensibilità che reagisce rispetto all’economia americana,
al mondo del successo portando invece l’animalità sembra esprimere un tipo di sensibilità
di autoindulgenza come fine di progetto culturale, come un abbandonare.
Foster dice che possiamo trovare una somiglianza nel giocare a fare i selvaggi con la musica
Rock ad esempio dei Nirvana.

- B. Nauman, Clown Torture, 1987: video-istallazione con più schermi e più scene:
-clown che apre una porta e gli cade un vaso in testa.
-clown che cerca di tenere in equilibrio una boccia con un pesce rosso (ritornello Pietro Ripeti).
-clown sulla tazza del bagno che legge.
-clown che urla ‘Noo’ ripetutamente, non capiamo però se è una tortura.
-ambiguità del complesso della video-istallazione.
Emerge un’idea di forte disagio.

Il reale nel mondo degli anni ’90 è espresso in questo modo regressivo con cui abbiamo una distruzione del
progetto artistico. Non c’è più il piacere del pastiche o dell’edonismo ma emerge questa parte traumatica.
Queste sono opere che insistono sulla ripetizione ossessiva e anti-estetizzante portando l’osservatore al
disagio totale.

- J. Miller, Dick/Jane, 1991: l’artista allude qui agli escrementi su cui conficca la testa di una bambola.
Il discorso è ripreso da una storia per bambini Dick and Jane dalla quale è stato tratto anche un
film. Era una storia che insegnava i segni distintivi di maschio e femmina.
Sembra un ritorno al godimento anale infantile prima di quello che Lacan vedrebbe nel linguaggio e
prima della ‘legge del padre’ di Freud. opera in cui si sovverte la logica maschio/femmina.

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- M. Kelley, Nostalgic depiction of the innocence of childhood, 1990: ritorno all’infanzia con giochi
erotici/anali che danno piacere anale e defecale.
Cosa non del tutto nuova:
-Merda d’artista, Manzoni
-Gioconda coi baffi di Duchamp
Marinetti la chiama ‘Gioconda purgativa’

- G. Bataille, il linguaggio dei fiori: filosofo vicino ai surrealisti che indugiava sul rituale e interessato
al legame tra il rituale e il sacro. Secondo lui se i fiori nascono dal letame vuol dire che le due realtà
coesistono, la bellezza vive grazie a questa realtà.

- Z. Leonard, Strange fruit, 1993: bucce essiccate di frutti cucite con filo o zip che alludono ad una
canzone di N. Simon il quale parla di questi frutti alludendo ai corpi carbonizzati e impiccati degli
afroamericani. In quest’opera si allude al fatto che le nuove vittime sono i gay; è centrale il tema
della fragilità.

Il capitolo si conclude citando Oprah Winfrey, importante conduttrice televisiva in America di origine
afroamericana la quale è stata essa stessa vittima di traumi.

Cap. 6: l’artista come etnografo

‘L’autore come produttore’, 1934 di W. Benjamin: intervento sulla relazione tra


l’autorità artistica e la politica culturale all’Istituto per gli studi sul fascismo (Parigi).
Egli, sotto l’influenza del teatro epico di Brecht, chiamò in causa l’artista di sinistra
perché si mettesse dalla parte del proletariato.
Benjamin cercava di convincere i migliori artisti ad intervenire, al pari dei lavoratori
rivoluzionari, sui mezzi della produzione artistica per cambiare la tecnica dei mezzi
tradizionali per trasformare l’apparato della cultura borghese.
Egli voleva privilegiare la produzione del proletkult. La produttività promuoveva
una nuova cultura proletaria attraverso l’estensione degli esperimenti formali
del costruttivismo nella produzione industriale reale; in questo modo egli
cercava di capovolgere l’arte e la cultura borghesi contemporaneamente.
La solidarietà con i produttori che contavano per Benjamin significò
solidarietà nella pratica materiale ma non per quanto riguarda il tema
artistico o l’attitudine politica.

Le due posizioni nella ricezione dell’arte (qualità estetica vs rilevanza politica, forma vs contenuto) erano
familiari nel 1934. Benjamin cercava di superare le opposizioni nella rappresentazione il termine della
produzione ma nessuna delle due opposizioni scomparve.
Artisti e critici ad inizio degli anni ’80 ripresero il testo di Benjamin rintracciando la propria traiettoria
rispondendo alla capitalizzazione della cultura e alla privatizzazione della società.
Azioni simboliche verso la metà degli anni ’80: crisi dell’Aids, diritto all’aborto e all’apartheid (es. poster di
Barbara Kruger). Emerge un nuovo paradigma simile al modello de ‘L’autore come produttore’ che era
emerso nell’arte di sinistra ovvero l’artista come etnografo.

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In questo nuovo paradigma l’oggetto di contestazione rimane l’istituzione borghese-capitalista (il museo,
l’accademia, il mercato, i media) e le sue definizioni esclusive di arte e artista.
Cambia il soggetto: l’artista impegnato combatte più spesso nel nome dell’altro culturale e/o etnico.
Avviene lo spostamento da un soggetto definito in termini di relazione economica ad un soggetto definito
in termini di identità culturale.
Alcune tesi del vecchio modello di produttore sopravvivono nel nuovo paradigma dell’etnografo a volte
però in modo problematico.
 L’avanguardia politica individua l’avanguardia artistica (J. L. David nella Riv. Francese, G. Courbet
nella Comune di Parigi, V. Tatlin nella Riv. Russa ecc.).
 Il luogo è sempre altrove nel campo dell’altro (nel modello del produttore con l’altro sociale, il
proletariato sfruttato, nel paradigma dell’etnografo con l’altro culturale, l’oppresso postcoloniale) e
questo altrove è il punto di partenza dal quale la cultura dominante verrà sovvertita.
 Se l’artista in causa non è percepito come socialmente e/o culturalmente altro, lui/lei ha solo
accesso limitato ad una simile alterità trasformativa, mentre se è percepito come altro ci ha
accesso automatico.
Presi insieme questi 3 assunti possono diminuire la compatibilità con la teorizzazione di Benjamin
dell’autore come produttore: il pericolo per l’artista come etnografo è quello del ‘patronato ideologico’.

Questo può derivare dalla presunta divisione nell’identità tra l’autore e il lavoratore o l’artista e l’altro ma
può anche sorgere dall’identificazione messa in atto per superare la divisione.
Il pericolo può aggravarsi poiché l’artista può essere chiamato ad assumere i ruoli di nativo e informatore
così come di etnografo. Identità in sostanza non equivale a identificazione.
Il sociale si sostituisce con il culturale e l’antropologico. L’altro, qui postcoloniale e là proletario, si trova in
qualche modo nella realtà o verità e non nell’ideologia poiché lui/lei è socialmente oppresso, politicamente
trasformativo e/o materialmente produttivo.

R. Barthes nel 1957 critica l’assunto realista di ambire alla verità di una posizione politica o alla realtà di
un’oppressione sociale e la fantasia primitivista (idea che l’altro di colore abbia particolare accesso ai
processi primari psichici e sociali dei quali il soggetto bianco è privato) di sfidare le convenzioni repressive
di sessualità ed estetica.
Ci sono 2 importanti precedenti del paradigma dell’etnografo nell’arte contemporanea dove la fantasia
primitivista è più attiva: il surrealismo dissidente di G. Bataille e M. Leiris, fine anni ’20 e inizio anni ’30, e il
movimento della negritude di L. Senghor e A. Cesaire, fine anni ’40 e primi anni ’50.
Entrambi i movimenti connettono il potenziale trasgressivo dell’inconscio con la radicale alterità dell’altro
culturale. Ma Bataille mette in relazione le spinte auto-distruttive dell’inconscio alle spese sacrificali in altre
culture mentre Senghor oppone l’emotività, fondamentale per le culture africane, alla razionalità,
fondamentale per le tradizioni europee.
Il surrealismo dissidente può aver esplorato l’alterità culturale ma solo in parte per indulgere in un rituale
identitario (es. l’Afrique fantome, auto-etnografia messa in scena da Leiris nella missione etnografica
francese da Dakar a Djibouti nel 1931).
Così anche il movimento della negritude può aver rivalutato l’alterità culturale ma solo in parte per essere
costretta dalla sua seconda natura dai suoi stereotipi di emotività, africano vs europeo.
Fantasia presa come tale criticamente:
- R. Green, Seen (1990): presentazione di due fantasie europee sull’esuberante sessualità femminile
africana (americana), la Venere ottentotta della metà dell’800 e la ballerina jazz Josephine Baker.

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- A. Piper, Vanilla Nightmares, 1986: egli risveglia fantasmi razzisti tra le pubblicità di moda del N. Y.
Times dove gli spettri neri terrorizzano i consumatori bianchi.

La versione primitivista dell’assunto realista, situare la verità politica all’esterno o nella proiezione di un
altro da sé, ha effetti problematici. Situare la politica come esterna e altra può distrarre dalla politica del
qui e ora.
- Problema della proiezione di questo esterno-altro.
‘Il Tempo e gli altri. La politica del tempo in antropologia’ (1983) di J. Fabian:
egli sostiene che l’antropologia si fondava su una mappatura mitica del tempo e dello spazio basata su 2
presupposti ovvero il tempo è immanente rispetto al mondo e le relazioni tra le parti del mondo (entità
naturali e socio-culturali) possono venire comprese come relazioni temporali.
Avendo quindi spazio e tempo mappati uno in funzione dell’altro, ‘laggiù’ diventava ‘allora’ e la zona più
remota diventava la più primitiva. Una simile mappatura risultava razzista: nell’immaginario occidentale
bianco il sito del primitivo era sempre nero.
In ‘Totem e Tabù’ (1913) con sottotitolo ‘Concordanze nella vita psichica del selvaggi e dei nevrotici’ Freud
presenta il primitivo come ‘un’immagine ben preservata di un nostro primo stadio di sviluppo’.
Quest’associazione del primitivo e del preistorico, dell’altro e dell’inconscio è una fantasia primitivista.
Per quanto rivalutata da Freud dove noi nevrotici possiamo anche essere selvaggi o da Bataille e Leiris o
Senghor e Cesaire dove tale alterità è considerata la nostra parte migliore questa fantasia è decostruita.

Problema della politica dell’esterno-altro.


Solo recentemente artisti e critici postcoloniali hanno spinto la pratica e la teoria delle strutture binarie
dell’alterità a modelli relazionali di differenza, da uno spazio-tempo diviso a zone dai confini misti.
Alla base di gran parte del modernismo, l’appropriazione dell’altro persiste anche nel postmoderno.
Ne ‘Il mito dell’altro’ (1978) il filosofo Franco Rella sostiene che teorici così diversi come Lacan, Foucault,
Deleuze e Guattari idealizzano l’altro come negazione del simile con effetti deleteri sulla politica culturale.
Più in generale quindi l’idealizzazione dell’alterità tende a seguire una linea temporale in cui un gruppo è
privilegiato in quanto nuovo soggetto della storia, solo per essere spiazzato da un altro gruppo, una
cronologia che può far crollare non solo differenze diverse (sociali, etniche, sessuali) ma anche posizioni
differenti entro ciascuna differenza.
Il risultato è una politica che può consumare i suoi soggetti storici prima ancora che questi diventino
storicamente effettivi.

‘Le parole e le cose’ (1966) di M. Foucault: egli sostiene che questo soggetto (l’uomo moderno che emerge
nell’800) differisce dal soggetto classico delle filosofie di Cartesio e Kant poiché cerca la sua verità nel non
pensato, l’inconscio e l’altro.
Foucault diche che ‘la rimozione dell’inconscio è costitutiva di tutte le scienze dell’uomo’.
In questa luce il rendere altro del sé, passato e presente, è solo una sfida parziale del soggetto moderno.
Ne ‘il pensiero selvaggio’ (1962) C. Levi-Strauss dice che nel rinnovamento delle scienze umane l’uomo
verrà dissolto. In ‘le Parole e le cose’ Foucault dà un’immagine ancora più audace dell’uomo ‘cancellato
come un volto tracciato nella sabbia in riva al mare’.
La proiezione del sé nell’altro è fondamentale per una pratica critica dell’antropologia, dell’arte e della
politica. Con l’uso dell’antropologia come auto-analisi (Leiris) o con la critica sociale (Bataille) questa
proiezione diventa culturalmente trasgressiva e politicamente significativa.
Però, la proiezione del sé nell’altro può diventare improvvisamente automatica e il progetto di ‘un’auto-
determinazione etnografica’ può diventare la pratica di un narcisistico accomodamento.

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Alcuni critici dell’antropologia hanno sviluppato una sorta di invidia dell’artista (es. entusiasmo di J. Clifford
per il collage interculturale del ‘surrealismo etnografico’). Per questa invidia l’artista diventa un metro di
paragone della proiezione del sé formale, un lettore consapevole della cultura intesa come testo.
L’artista qui è l’esempio ideale o è soltanto la proiezione di un ego ideale dell’antropologo nel senso di un
interprete artistico del testo culturale.
L’antropologia è premiata come scienza dell’alterità, è la disciplina che prende la cultura come suo oggetto
e questo campo allargato di riferimento è il terreno della pratica e della teoria postmoderna.
L’etnografia è considerata contestuale ossia la richiesta che oggi artisti e critici contemporanei condividono
con praticanti di altre discipline.
Per queste ragioni le pseudo-investigazioni dell’antropologia possiedono uno statuto avanguardista.

La svolta etnografica è confermata da un altro fattore. In ‘Culture and Practical Reason (1976) Marshall
Sahlins sostiene che la disciplina è stata divisa a lungo da un’epistemologia che pone l’accento sulla logica
simbolica, con il sociale compreso in termini di sistemi di scambio e l’altra privilegia la ragione pratica con il
sociale in termini di cultura materiale.
L’antropologia partecipa ai 2 modelli contraddittori che dominano l’arte e la critica contemporanea: da una
parte la vecchia ideologia del testo, la svolta linguistica degli anni ’60 che ha riconfigurato il sociale come
ordine simbolico e/o sistema culturale e ha proposto ‘la dissoluzione dell’uomo’, la ‘morte dell’autore’;
dall’altra gli studi recenti sul referente, la svolta verso il contesto e l’identità che si oppone ai vecchi
paradigmi del testo e alla critica del soggetto.
Artisti e critici possono assumere le vesti del semiologo culturale e del ricercatore sul campo contestuale,
possono continuare la critica e condannarla, possono relativizzare il soggetto e ricentrarlo.
Il metodo etnografico è un’occupazione comune di molti antropologi, artisti, critici, storici.

La svolta etnografica nel campo dell’arte contemporanea è promossa anche dagli sviluppi della tradizione
minimalista dagli anni ’60 ad oggi.
Questi sviluppi costituiscono una sequenza di ricerche: arte concettuale, performance, body art, arte ‘site
specific’ all’inizio degli anni ’70.
L’istituzione arte non potè più essere descritta in termini soltanto spaziali (studio, galleria, museo) ma era
diventata anche una rete discorsiva di pratiche ed istituzioni diverse.
Né l’osservatore dell’arte poteva essere descritto solo in termini fenomenologici; lui/lei erano anche un
soggetto sociale definito nel linguaggio e segnato dalle differenze (economiche, etniche, sessuali).
La rottura di definizioni restrittive di arte e artisti, identità e comunità, nasceva anche dalla pressione di
movimenti sociali (femminismi, politiche gay, multiculturalismo) e di sviluppi teorici come femminismo,
psicanalisi, teoria del cinema, le teorie di Althusser, Lacan sulla rivista inglese ‘Screen’. Perciò l’arte passò in
quell’area allargata della cultura che si ritiene sia compito dell’antropologia esaminare.
Si passa alle istituzioni spaziali come il museo e al fatto che artisti e critici trattano condizioni come il
desiderio e la malattia (l’essere senza casa o l’AIDS) come luoghi per l’arte.
Insieme a questo nasce l’analogia della mappatura che è una delle forme più utilizzate di arte site-specific.

La mappatura sociologica è implicita in certa arte concettuale, a volte in modo parodistico:


- Ed, Ruscha, Twenty-Six Gasoline Station, 1963.
- Dan Graham, Homes for America, rivista Arts del 1966-67: un rapporto di ripetizioni modulari in
uno sviluppo edilizio che ricontestualizza le strutture minimaliste come ‘object trouvè’ di un
sobborgo tecnografico.

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La mappatura sociologica diventa diretta in molta critica dell’istituzione:


- H. Haacke: indagini e profili di quanti visitano gallerie e musei, rapporti sui magnati delle società
immobiliari a N. Y. (1969-73). Questo lavoro interroga con efficacia l’autorità sociale.

Lavori che esaminano l’autorità che sfrutta modi documentari di rappresentazione:


- M. Rosler, Vital Statistics of a Citizen, Simply Obtained (1976).
- M. Rosler, The Bowery in Two Inadeguate Descriptive Systems (1974-75).

L’artista discredita l’apparente oggettività delle statistiche mediche sul corpo femminile e le descrizioni
sociologiche sul povero alcolizzato.

Uso critico del documentario verso gli interessi geopolitici:


- A. Sekula, Sketch for Geography lesson, 1983: l’artista traccia i rapporti tra i confini tedeschi e la
politica della Guerra Fredda.
- A. Sekula, Canadian Notes, 1986: qui traccia i rapporti tra un’industria mineraria e un’istituzione
finanziaria.
- A. Sekula, Fish Story, 1986: qui analizza i rapporti tra spazio marittimo ed economia globale.

Con queste geografie immaginarie e materiali del mondo del capitalismo avanzato, Sekula delinea una
mappa cognitiva del nostro ordine globale tuttavia con i suoi spostamenti prospettici nella narrazione e
nell’immagine, Sekula è istintivo al pari di ogni nuovo antropologo riguardo la superiorità del suo progetto
etnografico.

La consapevolezza delle congetture sociologiche e delle complicazioni antropologiche guida le mappature


femministe di artiste come Mary Kelly e Silvia Kolbowski.
- M. Kelly, Interim (1984-89): l’artista registra le posizioni sia personali che politiche all’interno del
movimento femminista attraverso una combinazione polifonica di immagini e voci. L’artista
rappresenta il movimento come un sistema di parentela al quale lei partecipa come un etnografo
indigeno di arte, teoria, insegnamento, attivismo, amicizia, famiglia, patronato e invecchiamento.
- S. Kolbowski, Enlarged from the Catalogue, 1987-88: l’artista in questo progetto raccoglie anche
una mappatura etnografica proponendo un’etnografia femminista dell’autorità culturale all’opera
nelle mostre d’arte, nei cataloghi, recensioni ecc.

Caso della mappature di culture altre:


- L. Baumgarten: in diversi lavori ha inscritto i nomi di società indigene dell’America , del Nord e del
Sud, spesso imposti dagli esploratori e dagli etnografi, in ambienti come la volta del Museum
Fredericianum a Kassel nel 1982 e sulla spirale modernista del Guggenheim Museum a N. Y. nel
1993. Piuttosto che trofei etnografici, questi nomi ritornano quasi come segni distorti del represso
per sfidare le mappature dell’Occidente: nella cupola neoclassica per dichiarare che l’altra faccia
dell’Illuminismo del vecchio mondo è la conquista del Nuovo Mondo e nella spirale di F. L. Wright
per domandare un nuovo globo privo di narrative che mettono a confronto moderno e primitivo o
le gerarchie tra nord e sud, una mappa diversa in cui anche colui che dispone è disposto, immerso
in una parallasse, in un modo che complica le vecchie opposizioni antropologiche di un noi-qui-ora

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vs un loro-là-allora. L’esempio di Baumgarten segnala la difficoltà che le mappature etnografiche


sono spesso delle commissioni.

Se l’appropriazione negli anni ’80 diventa un genere estetico, uno spettacolo mediatico, così il nuovo lavoro
site-specific sembra spesso un evento da museo in cui l’istituzione cerca di importare una dimensione
critica, come per esibire una tolleranza con cui rendersi immuni da eventuali critiche rivolte all’istituzione,
dall’istituzione. Di certo una simile posizione all’interno del museo può essere necessaria alle mappature
etnografiche specialmente quando hanno la pretesa di essere decostruttive: se l’arte di appropriazione per
entrare in contatto con lo spettacolo mediatico, aveva dovuto parteciparvi, allo stesso modo il nuovo lavoro
site-specific, per rimappare il museo o riconfigurare il suo pubblico, deve operare al suo interno.
- Es. F. Wilson, Mining the Museum, 1992: l’artista si comporta come un archeologo. Per prima cosa
esplora la collezione del museo (un primo scavo) poi corregge le rappresentazioni di storie,
soprattutto afroamericane, che di rado vengono illustrate come storiche (secondo scavo) e infine
riorganizza anche altre rappresentazioni che da tempo si sono aggiudicate il diritto della storia (es.
mostra ‘Metalwork 1793-1880’ esponendo un paio di manette per gli schiavi, terzo scavo).
Wilson agisce da etnografo delle comunità afroamericane che di solito in queste istituzioni sono
ignorate o fraintese.
- A. Fraser, Aren’t they lovely?, 1992: l’artista mette in scena una diversa archeologia degli archivi del
museo e una diversa etnografia delle culture del museo. In quest’opera Fraser riapre un lascito
privato del museo d’arte della University of California a Berkeley per indagare su come vari oggetti
domestici di un membro di una classe specifica ( dagli occhiali ai Renoir) vengano sublimati dal
conformismo della cultura pubblica di un generico museo d’arte.

Fraser si rivolge alla sublimazione istituzionale mentre Wilson si concentra sulla repressione istituzionale.
Malgrado ciò, entrambi gli artisti giocano con la museologia per esporre e anche rivedere le codificazioni
istituzionali di arte e manufatti, come gli oggetti vengono tradotti in traccia storica e/o esempi culturali,
come acquistano di valore e sono percepiti dagli spettatori.
L’approccio etnografico-decostruttivo, però, può anche diventare più ermetico e narcisista, un posto per
soli adepti. L’ambiguità della tesi decostruttiva all’interno e all’esterno dell’istituzione può scadere nella
duplicità della ragione cinica per cui l’artista e l’istituzione conservano lo statuto sociale dell’arte e
contemplano la purezza morale della critica, l’uno a complemento o compensazione dell’altro.

Lavoro site-specific sponsorizzato dall’esterno, spesso in collaborazione con gruppi locali:


- Project Unitè, commissione di 40 istallazioni per l’Unitè d’Habitation di Firminy (Francia) durante
l’estate del 1993. Qui un paradigma quasi-antropologico operava su 2 livelli: per prima cosa
indirettamente, visto che il progetto abitativo disegnativo da Le Corbusier ormai in rovina, era stato
trattato come un sito etnografico; poi direttamente nel fatto che una comunità costituita in larga
misura di immigrati veniva proposta per il suo carattere etnografico.
- Caso della coppia di artisti neo-concettuali Clegg & Guttmann: essi chiedono ai residenti dell’Unitè
di contribuire con dei nastri per una discoteca, che vengono poi editati, compilati e disposti
secondo l’appartamento e il piano in un modello dell’intero palazzo.
Attratti dalla collaborazione gli abitanti diedero in prestito queste procure culturali per vedersele
restituire come oggetti antropologici.

Tuttavia, il ruolo quasi-antropologico organizzato per l’artista può promuovere sia la presunzione che la
critica dell’autorità etnografica sia l’elusione che l’estensione della critica istituzionale.

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Le istituzioni artistiche possono usare il lavoro site-specific, finalizzandolo allo sviluppo economico, alla
crescita sociale e al turismo artistico.Per il programma di arte pubblica ‘Culture in Action’ (Sculpture
Chicago, 1993) 8 progetti furono collocati per la città. Le collaborazioni tra artisti come D. Martinez, M.
Dion, K. Ericson e M. Zeigler servirono da laboratorio urbano per coinvolgere un pubblico diverso nella
creazione di progetti innovativi di arte pubblica.
Ma non si potè evitare che questi funzionassero anche come sondaggi di pubbliche relazioni per le aziende
e le agenzie sostenevano i progetti.

Un altri esempio di questo ambiguo servizio pubblico è la designazione annuale di una ‘capitale culturale
d’Europa’. Ad Anversa, capitale culturale nel 1993, vennero commissionati diversi lavori site-specific.
Qui gli artisti esplorarono storie dimenticate piuttosto che coinvolgere le comunità presenti.
Ancora una volta degli importanti progetti site-specific vennero trasformati in siti turistici.
In questi casi l’istituzione può mettere in ombra il lavoro che per altri aspetti mette in luce: diventa
spettacolo, raccoglie il capitale culturale e il direttore-curatore diventa la star.
Così come, secondo Benjamin, l’autore proletkult cerca di ergersi nella realtà del proletariato, solo in parte
per prenderne il posto del padrone, così l’artista-etnografo può collaborare con una comunità locale solo
perché quest’opera venga reindirizzata verso altri fini. Come l’artista si erge nell’identità della comunità
locale, gli si può chiedere di rappresentare questa identità, di rappresentarla istituzionalmente.
In questo caso l’artista è primitivizzato, antropologizzato a sua volta.
- James Luna: in molte performance egli recita gli stereotipi del nativo americano nella cultura bianca
(il guerriero ornamentale, lo sciamano rituale, l’indiano ubriaco, l’oggetto da museo).
Nel farlo provoca questi primitivismi popolari per farne una parodia, per restituirli al pubblico in
modo drammatico.
- J. Durham, Self-Portrait, 1998: questo artista preme sugli stessi primitivismi portandoli ad una
esplosione critica. In quest’opera vediamo una figura di legno sulla quale si legge un testo riguardo
le fantasie popolari sul corpo del maschio indiano.
In questi lavori ibridi Durham combina object trouvè e rituali in modo auto-primitivista e ironico.
Sono feticci pseudo primitivi e artefatti pseudo etnografici.

Molti artisti trattano condizioni come desiderio o malattia come ambiti per il proprio lavoro. Così facendo
avviene lo spostamento generale dalla qualità formalista all’interesse neoavanguardista, da una pratica
medium-specific (specifica al mezzo utilizzata) ad un discours specific (specifica al discorso utilizzato).
In ‘Other Criteria’ (1968) L. Steinberg riconosceva una svolta nei primi combines di Rauschemberg, da un
modello verticale di immagine-come-finestra ad uno orizzontale di pittura-come-testo, da un paradigma
naturale ad un paradigma culturale di immagini come rete di informazioni che per lui rappresentava una
specie di fase introduttiva del fare artistico postmoderno.
La dimensione sociale di questo spostamento non venne sviluppata fino all’arrivo della pop art.
La pop art collocava l’arte in un continuum culturale. Perciò se Rauschemberg e compagni cercavano criteri
diversi dai termini formalisti di un modernismo legato al mezzo specifico, la pop art riposizionò lungo il
fronte esteso della cultura il coinvolgimento con l’arte alta.
Cap. 7: Cos’è successo al postmoderno?

Secondo J.-F. Lyotard il postmoderno metteva fine alle narrative dominanti che facevano apparire la
modernità sinonimo di progresso (progresso della ragione, l’accumulazione della ricchezza, l’avanzamento
della tecnologia, l’emancipazione dei lavoratori ecc.).

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Secondo F. Jameson invece il postmodernismo provocava una rinnovata narrativa marxista di stadi diversi
della cultura moderna, connessi ai differenti modi della produzione capitalista.
Secondo critici coinvolti con l’arte d’avanguardia il postmodernismo segnalava un movimento di rottura con
un modello ormai esausto di arte modernista che si concentrava sui dettagli formali trascurando le
determinazioni storiche e quelle sociali.
Perciò soprattutto all’interno della sinistra il postmoderno divenne una teoria dibattuta.

Foster invece sostiene un postmodernismo che contestava le politiche reazionarie e difendeva le pratiche
artistiche, non solo le critiche del modernismo istituzionale ma quelle che suggerivano forme alternative,
nuove modalità della pratica culturale e politica.
‘Trattato come una moda alla fine il postmoderno è diventato demodè’, dice Foster.
Nonostante l’attenzione per la frammentazione capitalista, la versione jamesoniana del postmoderno è
stata considerata non abbastanza sensibile ai diversi tipi di differenze culturali.

Influenza del modello di Jameson negli anni ’90: Jameson adatta la teoria dell’onda lungo i cicli economici
elaborata dall’economista E. Mandel secondo cui l’Occidente capitalista è passato attraverso 4 periodi,
dalla fine del ‘700: La rivoluzione industriale (fino alla crisi politica del 1848) segnata dalla diffusione della
macchina a vapore seguita da tre ulteriori epoche tecnologiche.
 La prima fino agli anni ’90 dell’800 segnata dalla diffusione
delle macchine a vapore prodotte industrialmente.
 La seconda fino alla seconda guerra mondiale segnata dalla
diffusione delle macchine elettriche a combustione.
 La terza segnata dalla diffusione di sistemi elettronici e
nucleari prodotti industrialmente.

Mandel mette in relazione gli sviluppi tecnologici con diversi stadi economici: dal capitalismo di mercato al
capitalismo di monopolio intorno all’ultima fine del secolo fino al capitalismo multinazionale.
Jameson a sua volta mette in relazione stadi economici e paradigmi culturali: la visione del mondo di molta
arte e letteratura realista incitata dall’individualismo che il capitalismo di mercato ha incoraggiato;
l’astrazione di molta arte e letteratura modernista in risposta all’alienazione della vita burocratica sotto il
capitalismo di monopolio; e il pastiche di molta pratica postmoderna (in arte, architettura, narrativa,
cinema, moda e cibo) come segno dei confini dispersi, degli spazi misti del capitalismo multinazionale.

Foster invece crede che modernismo e postmoderno siano costituiti in modo analogo, nell’azione differita
(nozione ripresa da Freud secondo cui la soggettività è strutturata come il riproporsi di anticipazioni e
ricostruzioni di eventi che possono diventare traumatici proprio nella ripetizione), come un processo
continuo di futuri anticipati e passati ricostruiti.
‘Ogni epoca sogna la successiva’, diceva Benjamin ma così facendo rivive quella precedente, dice Foster.
Foster dice che ogni presente è non-sincronico, una miscela di tempi diversi; perciò non c’è transizione
temporale fra moderno e postmoderno.
Per questo entrambi vanno analizzati insieme, in parallasse (l’angolo di spostamento di un oggetto causato
dal movimento di chi lo guarda), cioè che i nostri inquadramenti dei due concetti dipendono dalla nostra
posizione nel presente.
Foster dice che si occuperà a differenza di Mandel di 3 momenti del XX secolo: la metà degli anni ’30 che
considera culmine del modernismo, la metà degli anni ’60 che segna il pieno avvento del postmodernismo e
la metà degli anni ’90.

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La questione fondamentale della modernità riguarda l’identità (es. Gaugain: Da dove veniamo? Chi siamo?
Dove stiamo andando?). le risposte spesso provengono da un appello all’alterità, all’inconscio o all’altro
culturale. Molti modernisti pensarono che la verità stesse là: da ciò deriva l’importanza della psicanalisi e la
diffusione di primitivismi nell’arco del secolo.
I modernisti fecero confluire le due riserve naturali, l’inconscio e l’altro culturale (argomenti privilegiati
perché si rivolgono all’identità), mentre certi postmoderni pensano di essere stati educati nel capitalismo
avanzato.

Ognuno di questi momenti rappresenta una svolta significativa nelle discussioni


intorno al soggetto, all’altro culturale e alla tecnologia.

 Metà anni ’30: Lacan era interessato alla formazione dell’ego nella prima versione de ‘Lo stadio
dello specchio’. C. Levi-Strauss invece era impegnato sul campo di lavoro brasiliano che rivelava la
sofisticazione mitologica del ‘pensiero selvaggio’.
W. Benjamin era interessato alle ramificazioni culturali delle tecnologie moderne in ‘L’opera d’arte
nell’epoca della sua riproducibilità tecnica.

 Metà anni ’60: la morte del soggetto umanista, non la sua formazione, veniva considerata in modo
diverso da L. Althusser, M. Foucault, G. Deleuze, J. Derrida e R. Barthes (i cui testi principali ruotano
intorno alle rivolte del ’68).

Cosa è cambiato in questi 3 discorsi da allora? La morte del soggetto è morta a sua volta:
ritroviamo il soggetto nelle politiche culturali di soggettività, sessualità ed etnicità differenti,
spesso in forme opposte come fondamentalista, ibrido o ‘traumatico’.
La nostra società è diventata una società di disciplina elettronica, una società di libertà elettronica,
delle nuove possibilità del cyberspazio, della realtà virtuale ecc.
Foster afferma di non poter asserire che un momento sia moderno e il successivo postmoderno poiché
questi eventi non si sviluppano regolarmente né si interrompono di netto.
Piuttosto, ciascuna teoria parla dei cambiamenti nel proprio presente, ma lo fa indirettamente, nella
ricostruzione di momenti passati quando questi cambiamenti si dice siano cominciati e nell’anticipazione di
momenti futuri quando si prevede che saranno completati: da qui deriva l’azione differita, il momento
doppio dei tempi moderno e postmoderno.

Divisione sul soggetto in questi 3 momenti citando testi fondamentali.


Lacan sostiene ne ‘Lo stadio dello specchio’ che il nostro ego è formato al principio da una
percezione del nostro corpo nello specchio, un’immagine anticipatoria dell’unità corporea
che da bambini non possediamo. Quest’immagine riconosce il nostro ego infantile come
immaginario cioè rinchiuso in un’identificazione che è anche un’alienazione.
Nel momento in cui vediamo noi stessi nello specchio questo sé viene visto come altro.
Lacan suggerisce che quest’unità immaginaria dello stadio dello specchio produce la fantasia retroattiva di
uno stadio precedente in cui il nostro corpo era ancora frammentato e fluido, con momenti di tensione in
cui uno si sente sul punto di andare in pezzi.
Il nostro ego è impegnato contro il ritorno di questo corpo a pezzi, una minaccia che trasforma l’io in
un’armatura (termine di Lacan) da utilizzare contro quel mondo caotico che sta all’interno e all’esterno.
Lacan dà valore ad un io forte, un qualcosa che si dà per scontato in una cultura dell’io.

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Il soggetto armato di Lacan è il soggetto moderno paranoide, addirittura fascista: aleggia qui la storia di
guerre mondiali e mutilazioni militari, di disciplina industriale e frammentazione meccanica ecc.
Contro simili eventi il soggetto vuole difendersi: contro l’alterità interna (sessualità, inconscio), l’alterità
esterna (per il fascista = gay, ebrei, donne, comunisti), quindi tutte le figure della paura del corpo a pezzi
ritornano, del corpo abbandonato al frammentario e al fluido.
Secondo Foster Lacan compie un errore nel rendere il soggetto fascista troppo generico e normale.

Cosa succede a questa teoria, negli anni ’60, quando viene proclamata la morte del soggetto umanista?
Si tratta di un momento di forze storiche e imperativi intellettuali molto diversi.
A Parigi si assisteva al declino dello strutturalismo, del paradigma linguistico in cui l’attività culturale (i miti
dei gruppi indiani per Levi-Strauss, la struttura dell’inconscio per Lacan) è ricodificata come linguaggio.
Tale ricodificazione linguistica permette a Foucault di annunciare nel 1966 la cancellazione dell’uomo,
grande enigma della modernità, ‘un volto tracciato nella sabbia in riva al mare’.
Questa ricodificazione permette a Barthes di dichiarare nel 1968 il declino dell’autore, grande protagonista
della cultura umanista - modernista, nel gioco dei segni del testo (da qui momento in avanti l’opera diventa
il paradigma dell’arte). Il processo non è diretto solo all’autore-artista delle tradizioni umanistiche -
moderniste ma anche alla personalità autoritaria delle strutture fasciste, quindi a quella figura paranoide
che obbliga ad un discorso monolitico e vieta i significati promiscui (anni ’60 = giorni di rivolta contro
qualunque istituzione autoritaria).
È un attacco contro quel soggetto fascista immaginato indirettamente da Lacan, un attacco fatto proprio
con quelle forze che il soggetto più teme: sessualità e inconscio, desideri e pulsioni, che mandano in
frantumi il soggetto, che lo abbandonano alla frammentazione e al fluido.

L’Anti-Edipo (1972) di Deleuze e Guattari: sfida al soggetto fascista. Essi ricorrevano alla schizofrenia per
distruggere il soggetto fascista armato e superare quello del capitalista rapace.
Dice Foster però che questo appello è pericoloso: se il soggetto fascista è spaventato da frammenti e flussi
schizofrenici, il soggetto capitalista può invece prosperare grazie a questi sconvolgimenti.
Secondo Deleuze e Guattari, solo l’estrema schizofrenia è più schizofrenica del capitale, più abbandonata a
decodificazioni di soggetti e strutture stabili.
In quest’ottica, ciò che disperse il soggetto negli anni ’60, ciò che ne sovvertì le istituzioni, fu una forza
rivoluzionaria, una profusione di forze conflittuali (ex-coloniali, per i diritti civili, femministe studentesche)
ma comunque una forza rivoluzionaria liberata dal capitale.

Recente ritorno al soggetto: parziale riconoscimento negli anni ’60 di soggettività nuove e ignorate.
Da una parte il contenuto di questo riconoscimento rivela che il soggetto dichiarato morto negli anni ’60
era un soggetto particolare che faceva solo finta di essere universale e che si illudeva soltanto di parlare per
tutti. Dall’altra, invece, il contesto di questo riconoscimento, che G. Bush definisce New World Order,
suggerisce che le diverse soggettività vanno viste in relazione alla dinamica del capitale, alla reificazione e
frammentazione delle posizioni stabilite.
Perciò, se celebriamo l’ibridità e l’eterogeneità, si deve ricordare che questi sono anche termini privilegiati
dal capitalismo avanzato, che il multiculturalismo sociale coesiste con la globalizzazione dell’economia.
Nel New World Order anche la differenza si può consumare come sanno bene mega-aziende quali Coca-
Cola e Benetton. Una simile visione non è totalizzante, nessun ordine, capitalista o altro, può controllare
tutte le forze che scatena. Piuttosto, come suggeriscono in modi diversi sia Marx che Foucault, un regime di
potere prepara anche la sua resistenza, la crea, in modi che non possono sempre essere recuperati.

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Questo vale anche rispetto al manifestarsi di soggettività differenti, sessuali e etniche, nel New World
Order. Anche se simili forze non hanno bisogno di essere articolate progressivamente e possono provocare
risposte reazionarie perfino ancestrali; perciò, accusare queste forze di tali reazioni significa biasimare le
vittime (una posizione etica della quale figure reazionarie vogliono appropriarsi, in modo perverso).

Discorso sull’altro culturale.


 Metà anni ’30 nell’Europa Occidentale: nel 1931 si tenne a Parigi una massiccia esposizione sulle
colonie francesi, a cui i surrealisti (L. Aragon, P. Eluard e Y. Tanguy) risposero con una mostra anti-
imperialista dal titolo ‘La verità sulle colonie’. Questi artisti non solo non apprezzavano l’arte tribale
per i valori formali ed espressivi, come cubisti ed espressionisti prima di loro; essi partecipavano
anche alle sue ramificazioni politiche nel presente.
Da una parte quindi i surrealisti consideravano gli oppressi coloniali come i lavoratori sfruttati
dall’Occidente da sostenere allo stesso modo (pannello con cit. di Marx: un popolo che ne opprime
altri non sa di essere libero). Dall’altra i surrealisti annunciarono che anche loro erano primitivi e
che, come moderni abbandonati al desiderio dell’oggetto, anche loro erano feticisti (mostra di
piccole figure folcloristiche etichettata ‘feticci europei’).
Essi trasferirono il valore della rivalutazione del feticismo messa in atto nelle analisi dei feticismi
della merce e sessuali. Se Marx e Freud usarono la perversione come critica dei soggetti europei
moderni, i surrealisti invece abbracciarono l’alterità del feticista per il suo potenziale distruttivo
associandolo all’altro culturale e all’inconscio. Sotto questo aspetto il soggetto surrealista è altro
rispetto al soggetto fascista immaginato da Lacan.
1937: i nazisti avevano prodotto ignobili mostre sull’arte, letteratura e musica ‘degenerate’ che
condannavano ogni modernismo ma soprattutto metteva in relazione l’altro culturale e l’inconscio,
cioè le arti del primitivo del bambino e del pazzo per spiegare l’alterità dirompente di queste figure
aliene. Il fantasma primitivista, figura ideale per i surrealisti, terrorizzava il soggetto nazista che
invece lo associava ad ebrei e comunisti poiché rappresentava le forze degenerate che mettevano
in pericolo l’identità armata.
Se i surrealisti abbracciarono il primitivo, i fascisti lo resero abietto, lo aggredirono.

Alla metà degli anni ’30, un periodo di reazione in patria e di rivolta nelle colonie, la questione
dell’altro per l’europeo, sia di sinistra che di destra, diventò una questione di ‘distanza corretta’
(termine di C. Clement la quale notava che proprio nel momento in cui Lacan consegna lo scritto
sullo ‘stadio dello specchio’ vicino la Germania Nazista, Levi-Strauss era in Amazzonia al lavoro
sull’etnologico equivalente dello stadio dello specchio: in entrambi i casi la questione è quella della
‘distanza corretta’). Nel caso di Lacan lo stadio dello specchio riguarda la negoziazione di una giusta
distanza tra l’io in erba e la sua immagine, tra il bambino e chi si prende cura di lui.
Nel caso di Levi-Strauss anche si tratta della negoziazione della giusta distanza, in questo caso una
triangolazione tra il partecipante-osservatore antropologico, la cultura di casa e la cultura di studio.
Levi-Strauss criticò la categoria di massa per riconsiderare ‘il pensiero selvaggio’ in chiave logica e la
mente moderna in chiave mitica. Era necessaria una certa distanza dall’altro.
Tristi Tropici (1955): Levi-Strauss riformula la questione della distanza corretta.
La paura primaria dell’altro non derivava più dal fascismo ma da una “monocultura” cioè
dall’intrusione dell’Occidente capitalista sul resto del mondo.
Qui egli mostra una visione fatalista di un mondo esotico in declino che situa la sua autenticità in un
passato intatto.

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F. Fanon si chiede ad esempio come si potrebbe parlare di distanza corretta quando la violenza era
inscritta sui corpi e nelle menti di colonizzati e colonizzatori?
La corretta distanza interessa Fanon nel testo ‘Sulla cultura nazionale’ del 1959.
Qui grazie alla riscrittura della dialettica servo-padrone Fanon distingue 3 fasi del rinnovamento
delle culture nazionali.
1. Quando l’intellettuale nativo assimila la cultura del potere coloniale.
2. Quando l’intellettuale è richiamato alle tradizioni native, trattandole esotericamente
(socialmente rimosso) come tanti ‘frammenti mummificati’ di un passato folkloristico.
3. Quando l’intellettuale, che ora partecipa alla lotta popolare, aiuta a forgiare una nuova
identità nazionale in attiva resistenza contro il potere coloniale e in una contemporanea
codificazione delle tradizioni native.

Questione della distanza corretta? Come si può negoziare una distanza dal potere coloniale ma anche dal
passato nativo? Il riconoscimento della mancanza di distanza è postcoloniale, senza dubbio postmoderno,
nella misura in cui il mondo moderno era spesso immaginato in termini di opposizioni spaziali non solo tra
cultura e natura, città e campagna ma anche tra nucleo metropolitano e periferia imperiale, l’Occidente
contro tutto il resto.
Nel mondo moderno l’altro culturale con cui ha dovuto fare i conti nel corso dell’Impero, ha provocato una
crisi dell’identità occidentale che alcune avanguardie hanno affrontato con il costrutto simbolico del
primitivismo, il meccanismo di riconoscimento e disapprovazione feticistico dell’alterità.
Questa soluzione era anche una repressione e l’altro è ritornato proprio nel momento in cui pensavamo
che fosse scomparso: ritardato dai moderni, il suo ritorno è diventato l’evento del postmoderno.

Impatto della tecnologia sulla cultura occidentale a metà degli anni ’30, ’60, ’90.
L’età della riproduzione meccanica negli anni ’30, l’età della rivoluzione cibernetica negli anni ’60 e l’età
della tecnoscienza o tecnocultura negli anni ’90 (ricerca e sviluppo sono inscindibili).
Foster è d’accordo con Mandel sul fatto che il postindustriale non significa superare l’industrializzazione
quanto piuttosto prolungarla e poi concorda con Jameson in riferimento al fatto che il postmoderno non
annuncia la fine della modernizzazione ma il suo apogeo.

“L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità”, 1935-36 di W. Benjamin.


Al momento della sua pubblicazione la riproduzione meccanica era una questione culturale dominante;
Radio, film, tv incarnano il termine di ‘riproducibilità tecnica’. Benjamin sostiene che tale riproducibilità
sminuisce l’aura dell’arte, la sua unicità, autenticità, autorità e ciò emancipa l’arte dalle sue basi rituali,
avvicina le cose alle masse. Secondo Benjamin la perdita della distanza ha un potenziale liberatorio che
permette alla cultura di diventare collettiva. Ma possiede anche un potenziale ideologico dal momento che
permette alla politica di diventare più spettacolare. Socialismo o fascismo? Questo si domanda Benjamin.
Nel 1936 una simile alternativa non poteva reggere, specie se il referente socialista comprendeva l’Unione
Sovietica di Stalin che aveva condannato la cultura dell’avanguardia 4 anni prima e avrebbe cospirato con
Hitler 3 anni più tardi (patto di non aggressione nazi-sovietico).
Nel 1936 quindi l’estetizzazione della politica aveva superato la politicizzazione dell’arte.

Dialettica dell’Illuminismo, 1944, Adorno e Horkheimer: essi collegavano


la cultura totalitaria della Germania nazista all’industria culturale degli
Stati Uniti. E nel 1967 in ‘La Società dello spettacolo’ Debord affermava
che lo spettacolo dominava l’Occidente consumista.

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Secondo Benjamin l’inaridimento dell’aura, la perdita di distanza influenza sia il corpo che l’immagine: le
due cose non sono separabili.
Egli crea una doppia analogia tra pittore e mago e tra operatore e chirurgo: mentre i primi due mantengono
una naturale distanza dal motivo da dipingere o dal corpo da curare, i secondi penetrano profondamente
nel tessuto dei dati. Le nuove tecnologie visuali sono quindi ‘chirurgiche’: rivelano il mondo con nuove
rappresentazioni, scioccano l’osservatore con nuove percezioni.
Secondo Benjamin ‘l’inconscio ottico’ rende il soggetto più critico e più distratto e insiste sulla dialettica di
questo paradosso che era comunque difficile da sostenere.
Nel 1931 Ernst Junger aveva sostenuto che la tecnologia era ‘legata ai nostri nervi’ in una maniera che
comprendeva la critica e la distrazione in ‘una seconda più fredda consapevolezza’.

Alla metà degli anni ’60 il discorso di Benjamin era presente in vari dibattiti sulla tecnologia come quello di
Debord sullo spettacolo e di McLuhan sui media.

Egli elabora il Benjamin dell’immagine mentre McLuhan sviluppa il Benjamin del corpo.
Tuttavia entrambi guardano la distanza critica come se fosse condannata.
Secondo Debord lo spettacolo comprende una critica distratta e la dialettica della
distanza e vicinanza diventano l’opposizione di separazioni reali dissimulate da
unità immaginarie (i miti moderni secondo Barthes: immagini utopiche della merce
della classe media, della nazione ecc.). da una parte nello spettacolo è eliminata la
distanza esterna, dal momento che gli spettatori periferici sono connessi alle immagini
centrali. Dall’altra la distanza esterna è riprodotta come distanza interna poiché
proprio questa connessione alle immagini centrali separa gli spettatori in modo
seriale lasciandoli soli in una fantasia spettacolare. Questa separazione seriale garantisce
tutte le separazioni sociali di classe, razza e genere (Debord è interessato alla prima).

Come nello spettacolo di Debord così nel ‘villaggio globale’ di McLuhan la distanza, sia spaziale che critica è
scomparsa. Piuttosto che una separazione McLuhan vede una ‘ritribalizzazione’ e piuttosto che la perdita
dell’essere critico vede una distrazione sopravvalutata.
Dimenticando Benjamin McLuhan sviluppa idee simili spesso per invertirle. Secondo McLuhan le nuove
tecnologie non penetrano il corpo chirurgicamente ma lo estendono elettricamente.
Eppure come Benjamin considera quest’operazione doppia: la tecnologia è uno stimolo eccessivo, uno
shock per il corpo, e uno scudo protettivo contro un simile stimolo-shock con lo stimolo trasformato in
scudo. Teorizzata da Freud in ‘Al di là del principio di piacere’ (1920), questa schermatura dello shock è
cruciale per la dialettica benjaminiana tra criticismo e distrazione.
Ma in McLuhan questa dialettica si rompe in un’opposizione impossibile da riconciliare.
‘abbiamo prolungato il nostro sistema nervoso centrale al di fuori di noi nella tecnologia elettrica’, dice
McLuhan. Certe volte invece McLuhan considera quest’estensione come un corpo estatico diventato
elettrico, trasferito nel mondo e altre come un’auto-amputazione suicida.
Con tali figure contraddittorie di estensione e amputazione, McLuhan rimane dentro la logica della
tecnologia come protesi, come supplemento divino al corpo che teme una mutilazione demoniaca o una
fallicizzazione del corpo che presuppone un’orribile castrazione.
Operativa in diversi modernismi è una logica che presume sia un corpo maschile sia un soggetto diviso, un
soggetto mancante. Ma abbiamo superato questa logica oggi?
Il modello femminista del cyborg proposto da Donna Haraway attesta che l’interfaccia tra macchina e
umano non ha bisogno di essere immaginato in termini di paure della castrazione e fantasie feticiste.

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A Manifesto for Cyborgs, 1985, D. Haraway: ‘il cyborg è una creatura in un mondo postgender’ e vive
l’interfaccia uomo-macchina come una condizione di ‘fruttuosi accoppiamenti’, non come trauma di unità
perduta e separazione presente.
Questione sul cyborg: Cosa rimane della soggettività secondo la definizione psicanalitica?
Il cyborg non è meno mitico del soggetto edipico e almeno il soggetto edipico è un soggetto, un costrutto
che ci aiuta a comprendere paure e fantasie che riguardano la tecnologia.
Tali paure e fantasie non sono diminuite al contrario sono diventate più estreme ed efficaci in proporzione
alla dis/connessione avanzata nella logica del protesico.
Questa nuova intensità di dis/connesione è postmoderna. Questo collegamento ci connette e disconnette
simultaneamente, ci rende psico-tecnologicamente in diretta connessione con gli eventi e geopoliticamente
lontani da essi (es. guerra nel Golfo Persico).
Così esso comprende sia gli effetti immaginari dello spettacolo di Debord sia la nervosa ramificazione dei
media di McLuhan. Questa dis/connessione non è nuova (es. assassinio di Kennedy) ma ha raggiunto un
nuovo livello di dolore-e-piacere ossimorico.
-Guerra del Golfo: dice Foster che disgustato dalla politica era inchiodato dalle immagini da uno psico-
fremito che lo bloccava; dice che la sua percezione umana diventa una visione da super-macchina capace di
vedere ciò che distrugge e di distruggere ciò che vede.
Il corpo veniva rinforzato da queste immagini, dice Foster e secondo una figura classica del fascismo il suo
corpo, la sua soggettività, si affermava nella distruzione di altri corpi.
Questo quindi comporta ad un parziale ritorno alla soggettività fascista anche a livello di massa definendosi
in opposizione all’alterità culturale.

Il soggetto postmoderno è spesso disfunzionale, sospeso tra una prossimità oscena e una separazione
spettacolare? La paranoia è alla base dei tre periodi presi in esame da Foster: metà anni ’30, ’60, ’90.
È il concetto che li connette nel modo più efficace. In ‘L’arte della ragion cinica’ la struttura feticista di
riconoscimento-e-rinnegamento (lo so, però) è tipica della ragion cinica.
La ragione cinica non invalida come un’azione rinunciataria ma è come se la rinuncia fosse un piccolo
prezzo da pagare per la protezione fornita dal cinismo.
Ma non si tratta di una condizione necessaria e le divisioni del soggetto non necessariamente rendono una
persona non operativa a livello politico.
In modi diversi la distanza è il vero enigma del soggetto per quanto riguarda la sua immagine corporea, i
suoi altri culturali e le sue protesi tecnologiche. È anche il vero enigma del soggetto rispetto alla sua teoria
critica che spesso dipende da una distanza intellettuale dal suo oggetto.
Nelle teorie moderne e postmoderne questa distanza è spesso considerata persa o destinata a finire.
In ‘Strada a senso unico’ (1928) Benjamin offre una visione di questa fine: ‘la critica è una questione di
corretta distanza. Ora le cose premono troppo da vicino sulla società umana’.
Questo è il topos della perdita della distanza artistica sviluppato nel saggio sulla riproducibilità, dato che
Benjamin colloca questa pressione nella pubblicità e nei film che aboliscono lo spazio dove si muoveva la
contemplazione. Nello stesso saggio Benjamin prende in prestito un’opposizione della storia dell’arte tra
ottico e tattile (sviluppata da A. Riegl in ‘L’industria artistica tardo romana, 1901).
Con Benjamin il valore dei due termini non è fisso: in ‘Strada a senso unico’ il tattile fa leva sulla distanza
mentre nel saggio della riproducibilità il critico è reinventato in termini di shock tattile (sia dada che il
cinema possiedono una qualità tattile che ‘colpisce lo spettatore come un proiettile’).
Benjamin è ambiguo anche rispetto al valore della distanza: ‘Strada a senso unico’ ne lamenta la perdita
mentre il saggio sulla riproducibilità è il benvenuto.

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Panofsky, studi di Iconologia, 1939. Nell’Introduzione Panofsky si concentra sulla questione fondativa della
disciplina, la rinascita dell’antichità classica e anch’egli pone la prospettiva corretta come premessa alla
storia della critica: “Per la mente medievale l’antichità classica era troppo lontana e allo stesso tempo
troppo presente per essere concepita come fenomeno storico…”.
Troppo lontano troppo vicino, l’imperativo della giusta prospettiva: un anno dopo Benjamin rifiuta lo
storicismo di quest’epistemologia in ‘Tesi sulla filosofia della storia’ (1940).

Foster dice che possiamo giustificare Panofsky: offriva una resa della
prospettiva diversa (quasi benjaminiana) 15 anni prima in ‘La prospettiva
come forma simbolica (1924-25); mentre è interessato ad una metodologia
capace di una conferma e di una riproduzione accademica.
Tuttavia egli presenta la prospettiva come una visione vera e rappresenta
la storia come una retrospettiva scientifica.
Questo libro inizia con una domanda sulla storia critica: cosa permette il recupero critico di una pratica del
passato? Come possiamo comprendere l’insistenza di questi ritorni storici?
Panofsky rispondeva con una ‘distanza intellettuale tra presente e passato’.
Il libro si conclude con una domanda sulla corretta distanza. Panofsky rispondeva con una richiesta di verità
della prospettiva. Dice Foster, ‘io ho avanzato un modello di inquadramento parallattico che tenta di tenere
sotto controllo anche le nostre proiezioni del presente.

La distanza critica non è prevedibile e deve essere ripensata; non è per niente utile lamentare o celebrare la
sua morte presunta. Spesso coloro che si lamentano immaginano un momento mitico di pura critica mentre
coloro che lo celebrano vedono la distanza critica come un ottimo congegno di camuffamento.
Questo sospetto di distanza tocca la critica in un punto sensibile, che è la relazione tra distanza critica e
distinzione sociale. In ‘Genealogia della morale’ (1887) Nietzsche avverte che in ogni giudizio critico sono
all’opera due impulsi contrari: una nobile volontà di distinzione e un riflesso base del risentimento.
Ad un certo punto, egli asserisce che la differenza tra nobile e base (in termini etico-politici) dipende dalla
distanza tra alto e basso (in termini sociali e spaziali).
Nietzsche pone la questione se la critica possa mai liberarsi dalle distinzioni della nobiltà e dei rancori della
base. Etimologicamente, criticare significa giudicare o decidere e dubito che un artista, un critico, un
teorico o uno storico possano mai sfuggire a giudizi di valore.
Possiamo tuttavia, dice Foster, dare giudizi di valore che in termini nicciani non sono solo reattivi ma attivi e
in termini non-nicciani non solo distintivi ma utili.

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