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"I diversi quartieri di questa città potrebbero corrispondere all'intera gamma di umori che
ognuno di noi incontra per caso nella vita di ogni giorno".
Poi venne il 1968, e quando l'ideologia e gli apparati di cattura s'impadronirono della
fantasia, Debord sciolse in malo modo l'Internazionale Situazionista
Nel 1967 Debord scrive il suo saggio più celebre, “La Societè du Spectacle”, che denuncia
profeticamente il processo di trasformazione dei lavoratori in consumatori di spettacoli
operato dal capitale.
"Lo spettacolo non è un insieme di immagini ma un rapporto sociale fra individui mediato
dalle immagini. Lo spettacolo è il capitale ad un tale grado di accumulazione da divenire
immagine".
Debord attribuisce all'arte dello spettacolo il compito negativo di sottrarre l’esperienza al
tempo per renderla eterna. In questa visione, l'arte si contrappone alla vita perché
immobilizza e reifica, ostacolando la comunicazione diretta tra gli individui. Per questo,
secondo Debord, non può esistere un'arte situazionista ma solo un uso situazionista
dell’arte.
Anche l'arte usa il détournement, ma c'è una differenza. Mentre il détournement artistico
conduce alla creazione di una nuova opera d'arte, quello situazionista, pur valendosi di
suddette opere, conduce ad una negazione dell'arte, soprattutto per la connotazione di
comunicazione immediata che contiene. Si tratta di decontestualizzare la provenienza e di
inserirla in un nuovo insieme di significati che le attribuisca un nuovo valore. Ad esempio,
Debord apre “La società dello spettacolo” con un détournement dell’incipit del Capitale di
Karl Marx: "Tutta la vita delle società moderne in cui predominano le condizioni attuali di
produzione si presenta come un’immensa accumulazione di merci".
Questo settore che domina sul resto della società non è altro che l’economia. Lo
spettacolo è così il prodotto della mercificazione della vita moderna, il progresso del
capitalismo consumistico verso il feticismo e la reificazione. L’economia è ormai
completamente autonomizzata. Pertanto lo spettacolo può essere definito come «il regno
autoritario dell’economia mercantile elevato a uno statuto di sovranità irresponsabile, e
l’insieme delle nuove tecniche di governo che accompagnano tale regno» (“Commentari
sulla Società dello Spettacolo”).
Lo spettacolo, dunque, è il risultato della frammentazione sociale, derivante dal fatto che
un settore domina sugli altri, e la ricomposizione dell’unità perduta nella realtà sul piano
delle immagini, le quali mostrano tutto ciò che manca nella vita degli individui.
Si realizza così una nuova alienazione. Mentre nel capitalismo classico, descritto da Marx,
l’alienazione è il risultato del passaggio dall’essere all’avere, nel capitalismo spettacolare
essa deriva dal passaggio dall’avere all’apparire.
«La prima fase del dominio dell’economia sulla vita sociale aveva determinato nella
definizione di ogni realizzazione umana un’evidente degradazione dell’essere in avere. La
fase presente dell’occupazione totale della vita sociale da parte dei risultati accumulati
dell’economia conduce a uno slittamento generalizzato dell’avere nell’apparire, da cui ogni
“avere” effettivo deve trarre il suo prestigio immediato e la sua funzione ultima» (“La
Società dello Spettacolo”).
Gli individui separati ritrovano la loro unità nello spettacolo, ma solo in quanto separati.
Giacché la comunicazione è unilaterale; è il Potere che giustifica se stesso e il sistema
che l’ha prodotto in un incessante discorso elogiativo del capitalismo e delle merci da esso
prodotte.
«Lo spettacolo è il discorso ininterrotto che l’ordine presente tiene su se stesso, il suo
monologo elogiativo. È l’autoritratto del potere all’epoca della gestione totalitaria delle
condizioni di esistenza» (ibid.).
Ridotto al silenzio, al consumatore non resta altro che ammirare le immagini che altri
hanno scelto per lui. L’altra faccia dello spettacolo è l’assoluta passività del consumatore, il
quale ha esclusivamente il ruolo, e l’atteggiamento, del pubblico, ossia di chi sta a
guardare, e non interviene. Lo spettacolo è «il sole che non tramonta mai sull’impero della
passività moderna» (ibid.).
In questo modo lo spettatore è completamente dominato dal flusso delle immagini, che si
è ormai sostituito alla realtà, creando un mondo virtuale nel quale la distinzione tra vero e
falso ha perso ogni significato. È vero ciò che lo spettacolo ha interesse a mostrare. Tutto
ciò che non rientra nel flusso delle immagini selezionato dal potere, è falso, o non esiste.
Come l’immagine si sostituisce alla realtà, la visione dello spettacolo si sostituisce alla vita.
I consumatori piuttosto che fare esperienze dirette, si accontentano di osservare nello
spettacolo tutto ciò che a loro manca. Per questo lo spettacolo è il contrario della vita.
Debord descrive in questi termini tale alienazione del consumatore: «più egli contempla,
meno vive; più accetta di riconoscersi nelle immagini dominanti del bisogno, meno
comprende la sua propria esistenza e il suo proprio desiderio» (“La Società dello
Spettacolo”).
L’individuo, quindi, deve rinunciare alla propria personalità se vuole essere accettato dalla
società, poiché questa richiede «una fedeltà sempre mutevole, una serie di adesioni
continuamente deludenti a prodotti fasulli» (“Commentari sulla Società dello Spettacolo”);
e ciò gli impedirà di conoscere i suoi veri bisogni e desideri.
Tuttavia, solo nell’epoca moderna il Potere ha accumulato i mezzi sufficienti, non solo per
dominare la società, ma anche per plasmarla secondo i propri interessi, attraverso una
produzione volta alla diffusione dell’isolamento.
Rientra nello spettacolo anche la creazione di un antagonismo tra sistemi sociali che sono
in realtà solidali tra loro. È stato questo il caso della guerra fredda, definita da Debord
come «divisione dei compiti spettacolari» (ibid.).
«Lo spettacolo è il momento in cui la merce è pervenuta all’occupazione totale della vita
sociale» (ibid.).
In una società mercificata, sostiene Debord, non può che essere la merce ad avere un
ruolo centrale. Ogni merce promette il soddisfacimento dei bisogni, e quando arriva
l’inevitabile delusione, dovuta al fatto che tali bisogni sono fittizi e manipolati, subentra una
nuova merce pronta a mantenere la promessa disillusa dall’altra. Si crea così una
concorrenza tra le merci, rispetto alla quale il consumatore frustrato è un mero spettatore.
Debord afferma che questo modello impregna di sé, ormai, tutta la vita sociale, divenendo
il prototipo di ogni competizione, compresa quella politica. Questa si riduce alla
competizione tra leader che vendono la propria immagine come una merce, e fanno
promesse che non manterranno mai. Il tutto nell’assoluta passività e apatia dei “cittadini”.
Quando nel 1988 nei Commentari Debord tornerà ad analizzare lo spettacolo, affermerà
che i processi descritti negli scritti precedenti avevano avuto un’ancora più rapida
evoluzione.
Questa era dovuta al fatto che agli spettacoli concentrato e diffuso si era aggiunto un
nuovo tipo: lo spettacolare integrato. Esso è al tempo stesso concentrato e diffuso e riesce
così a combinare i vantaggi di entrambi. Il risultato è una società completamente
spettacolarizzata.
«Il senso dello spettacolare integrato è che si è integrato nella realtà stessa man mano
che ne parlava; e che la ricostruiva come ne parlava. […] Lo spettacolo si è mischiato ad
ogni realtà irradiandola» (“Commentari sulla Società dello Spettacolo”).
In questo modo tutti gli effetti dello spettacolo si amplificano in misura esponenziale. La
società è completamente dominata dalle immagini falsificate che si sostituiscono alla
realtà, facendo scomparire qualsiasi possibilità di attingere la verità al di là della
falsificazione continua che la ricopre.
Ciò determina la scomparsa del concetto di storia, e quindi anche della democrazia.
«Credevamo di sapere che la storia era apparsa in Grecia con la democrazia. Adesso
possiamo verificare che la prima sta scomparendo dal mondo come la seconda» (ibid.).
La democrazia, in quanto società dello spettacolo integrata, ha bisogno del terrorismo per
far credere in una una perfezione fragile che deve essere preservata, e garantire così
l'immutabilità delle scelte governative.
"La storia del terrorismo è scritta dallo stato. Quindi è educativa".
In questo contesto ogni critica diventa impossibile. Lo spettacolare integrato non vuole
essere criticato, e, d’altronde, gli individui vengono educati sin dalla nascita per evitare che
questo accada. Infatti, essendo inondati da un flusso inarrestabile di immagini che non
lascia loro il tempo per comprendere e riflettere, questi individui fanno costantemente
l’esperienza concreta della sottomissione permanente.
Questa formazione a quello che Debord chiama pensiero spettacolare è ciò che indurrà gli
individui a mettersi sin da subito al servizio dell’ordine costituito. Ed anche se una persona
riuscisse a superare questa formazione resterebbe comunque attaccata al linguaggio dello
spettacolo, giacché è l’unico che conosce, essendo l’unico che gli è stato insegnato.
«Magari vorrà mostrarsi nemico della sua retorica; ma userà la sua sintassi. È uno dei
punti più importanti ottenuti dal successo raggiunto dal dominio spettacolare» (ibid.).
«Il fatto nuovo è che l’economia abbia cominciato a fare apertamente guerra agli umani;
non più soltanto alle possibilità della loro vita, ma anche a quelle della loro sopravvivenza»
(ibid.).
Il risultato è quel villaggio globale di cui parla McLuhan, ma del quale Debord dà una
valutazione opposta rispetto al sociologo canadese.
«I villaggi, contrariamente alle città, sono sempre stati dominati dal conformismo,
dall’isolamento, dalla sorveglianza meschina, dalla noia, dalle chiacchiere ripetute
all’infinito sulle stesse famiglie» (ibid.).
A questo stato di cose, prodotto dalla tendenza al feticismo delle merci ed alla reificazione
dell’economia autonomizzata, Debord contrappone il concetto di totalità. Se la costituzione
del potere produce una separazione gerarchica della società, l’unica soluzione è quella di
ricostruire realmente l’unità della stessa.
Questa totalità è intesa da Debord come comunità umana che egli considera la vera
natura umana. Tale comunità è possibile solo se ognuno può accedere direttamente ai
fatti, e se tutti hanno i mezzi intellettuali e materiali necessari per decidere.
Nella comunità, la comunicazione prende la forma del dialogo e della discussione ai quali
ciascuno può partecipare, condizione necessaria per prendere decisioni in comune.
Questa comunicazione diretta è l’opposto di quella unilaterale dello spettacolo, nel quale
una parte separatasi dalla totalità pretende di essere l’unica a parlare impartendo ordini
che il resto della società deve limitarsi ad eseguire. Questa concezione consente a Debord
di affermare che «là dove c’è comunicazione non c’è lo Stato» (L’Internationale
Situationniste).
Questo risultato può essere ottenuto solo se nella Società dello Spettacolo rimane la lotta
di classe. Il soggetto rivoluzionario è sempre il proletariato, del quale Debord amplia la
definizione, fino ad includervi tutti coloro che hanno perso il controllo sulla propria
esistenza.
«È l’immensa maggioranza dei lavoratori, che hanno perduto ogni potere sull’impiego della
loro vita, e che dal momento in cui lo sanno, si ridefiniscono come proletariato, il negativo
all’opera in questa società».
Affinché questa classe sia rivoluzionaria è necessario però che prenda coscienza del
tempo storico. Debord considera l’evoluzione di questa presa di coscienza strettamente
legata al progresso tecnico. Originariamente, quando l’agricoltura era l’unica attività
produttiva, la concezione del tempo era da questa determinata. Tale rappresentazione era
pertanto quella del tempo ciclico dell’eterno ritorno. Il tempo diventa sociale quando si
formano le classi al potere, le quali, non lavorando la terra, iniziano ad avere coscienza del
tempo storico, e della sua irreversibilità. Per il vertice della società la storia inizia ad avere
un senso, e quest’idea entra in contrasto con quella della base della società, per la quale
vale l’opposto. La religione monoteista è il risultato di questa contraddizione.
La diffusione del tempo storico ha luogo con la borghesia, giacché con il capitalismo il
lavoro cessa di essere regolare e ciclico, ma subisce anch’esso una continua
trasformazione. Tuttavia, nel momento in cui la concezione del tempo potrebbe diffondersi
anche alla base, esso perde la sua storicità per tutta la società, divenendo il tempo «della
produzione in serie degli oggetti».
«Il tempo delle cose» si sostituisce a quello delle persone. Ne risulta una perdita totale
dell’aspetto qualitativo del tempo, il quale viene ridotto esclusivamente al suo lato
quantitativo. In quest’ambito, i momenti si distinguono solo per aspetti quantitativi, si attua,
quindi, per il tempo, lo stesso processo descritto da Marx per la merce, con il passaggio
dal valore d’uso al valore di scambio. Anche il tempo è mercificato.
Per essere rivoluzionario, dunque, il proletariato deve riprendere coscienza del divenire
del tempo storico. A questa presa di coscienza si oppone lo spettacolo che cerca di
perpetuarsi diffondendo la finzione di un eterno presente che pretende di aver posto fine
alla storia.
Il proletariato può arrivare alla coscienza della storia, del suo carattere di processo e lotta,
dopo essere passato per uno sviluppo «complesso e terribile». Debord analizza questo
sviluppo del movimento operaio, considerandolo come un’evoluzione verso la presa di
coscienza.
«In questo sviluppo complesso e terribile che ha condotto l’epoca delle lotte di classe
verso nuove condizioni, il proletariato dei paesi industriali ha completamente perduto
l’affermazione della sua prospettiva autonoma, e, in ultima analisi, le sue illusioni, ma non
il suo essere. Esso non è stato soppresso».
La forma nella quale tale essere può venire recuperato è quella del consiglio operaio.
Esso «è il luogo in cui le condizioni oggettive della coscienza storica sono riunite; la
realizzazione della comunicazione diretta attiva, in cui finiscono la specializzazione, la
gerarchia e la separazione, in cui le condizioni esistenti sono state trasformate in
condizioni dell’unione».
La cultura, però, non deve più essere un’attività separata, ma deve inserirsi nella vita
quotidiana, la quale rimane l’unico campo in cui può compiersi la rivoluzione. In questo
contesto l’arte deve portare nuovi valori e nuove passioni, mirando alla propria distruzione
come sfera separata.
«Ci collochiamo dall’altro lato della cultura. Non prima di essa ma dopo. Noi diciamo che
bisogna realizzarla, superandola in quanto sfera separata» (L’Internationale
Situationniste).
Questo assalto non è dovuto, come il primo, alla miseria, ma al contrario è diretto contro
l’abbondanza. E proprio come il movimento operaio è stato preceduto dal luddismo,
questo nuovo assalto assume inizialmente forme criminali, dirette alla «distruzione delle
macchine del consumo permesso».
“lo spettacolare diffuso accompagna l'abbondanza delle merci, lo sviluppo non perturbato
del capitalismo moderno... è in questa cieca lotta che ogni merce, seguendo la sua
passione, nell'incoscienza generalizzata realizza, in effetti, qualcosa di più elevato: il
divenire mondo della merce, che è altrettanto divenire merce del mondo”.
Nell'artificio generalizzato del nuovo ordine civile si inscrive la fine della modernità (intesa
come trionfo del simulacro e conseguente indebolimento della storicità). A questo artificio
totalizzante corrisponde l'affermarsi dello "spettacolo imperiale", chiuso ad ogni
dimensione o riferimento altro da sé. E' l'ultima frontiera dello spettacolare, nel contesto
storico di un dominio imperiale che si attua sia come "spettacolo globale" - inteso a
recuperare un'unità fittizia del mondo sia come "virtualità". Mentre da una parte, dunque,
si realizza la spettacolarità diffusa descritta da Debord (concentrata e integrata, che nel
globale trova infine il suo compimento), dall'altra si apre la dimensione simulativi del
virtuale, contrassegnato da un dileguarsi della realtà.
È il feticismo della merce informatica, dello spettacolare simulativo che sul piano
ideologico tende a stabilizzare la presa sull'economia dell'immaginario.
A questo proposito, Hardt e Negri affermano che l'analisi di Debord "risulta sempre più
pertinente e urgente", in relazione alla spettacolarità “imperiale” che si presenta come
distruzione di ogni forma di socialità di massa e con l'isolamento degli attori sociali. Tale
spettacolarità imperiale, nel momento in cui crea forme di desiderio e di piacere
strettamente legate alla paura, finisce essa stessa col comunicare paura.
Hardt e Negri ritengono che Debord appartenga di diritto a quella storia del pensiero critico
che ha riconosciuto il destino trionfante del capitalismo, da Lenin a Horkheimer e Adorno.
Questi ultimi scrivevano nel 1947: “Le automobili, le bombe e il cinema tengono insieme il
tutto finché la loro tendenza livellatrice finirà per ripercuotersi sull'ingiustizia stessa a cui
serviva”.
Mentre Marcuse affermava nel 1964 che “al progresso tecnologico si accompagna una
razionalizzazione progressiva ed anzi la realizzazione dell'immaginario... l'Immaginazione
non è rimasta immune dal processo di reificazione”.
Nel 1967, Debord ci parla di come nella "moderna società incatenata" il sogno divenga
sonno e di come lo spettacolo sia il guardiano di questo sonno.
Le medialità spettacolare, come esercizio del potere imperiale, opera attraverso la merce
che tende a occupare il desiderio, attraverso la biopolitica, attraverso le tecnologie della
comunicazione che veicolano saperi atti a fondare soggettività fittizie, ad alimentare
bisogni e consensi verso la merce e l'impresa: uno spazio in cui la verità non ha più alcuna
attrattiva.
Queste nuove servitù - per cui più i servi si sentono padroni più affermano la loro
condizione servile - trovano la propria spiegazione nella strategia del "grande Altro"
lacaniano: figurazione che ben richiama al dominante ordine simbolico spettacolarizzato
dell'impresa che tende a determinare e saturare sempre di più, in un ambito globale, le
dinamiche soggettive del desiderio.
Nei capitoli 5 e 6, il rapporto fra tempo e storia viene da Debord esaminato nel suo
sviluppo, procedente da un tempo ciclico senza conflitti a un tempo irreversibile proprio del
medioevo. Con l'ascesa della borghesia si afferma il tempo storico, anch'esso irreversibile,
ma il cui uso è vietato alla società dalla borghesia padrona stessa]. A tale tempo
irreversibile corrisponde il tempo-merce della produzione corrispondente, a sua volta, al
tempo pseudociclico del consumo. Si tratta del tempo spettacolare proprio di un' “epoca
senza festa”, una dimensione in cui lo spettacolo viene a porsi come “falsa coscienza del
tempo”.
Nel capitolo 7, Debord mostra come lo spazio divenga lo scenario del capitalismo e come
la strutturazione del territorio, alterando in modo strumentale il rapporto tra città e
campagna, miri a realizzare un maggior controllo delle persone e quindi il loro isolamento.
Una rivoluzione che tenderebbe ad affermarsi nell'ambito dell'urbanismo viene individuata
da Debord in un ritorno ai bisogni e alle condizioni dei lavoratori fatte proprie dai Consigli.
Nel capitolo 8, il consumo spettacolare viene da Debord denunciato come consumo della
cultura-merce anche nei suoi correlati sociologici di comodo. La cultura che viene ad
affermarsi va negata unitamente al linguaggio che la veicola, mentre il “plagio necessario”
e il détournement (rovesciamento e riappropriazione) vengono a costituire prospettive di
recupero creativo del senso.
L'ultimo breve capitolo tratta in nove tesi del trionfo dell'ideologia (qui, come in tutta la
Società dello spettacolo, il termine "ideologia" va inteso in senso strettamente marxiano)
nella sua materializzazione che è lo spettacolo. La falsa coscienza, in tal modo, celebra il
proprio trionfo che è il trionfo di una base materiale relativa ad una verità capovolta. La
lotta è dunque per un'effettiva verità e per l'emancipazione da questa base materiale.
Il tragitto del détorunement si conclude aprendosi ai primi tre capitoli che disegnano tesi il
cui valore è continuamente avvalorato dal riscontro periodico con la realtà del capitalismo
contemporaneo.
Le 72 tesi dei tre capitoli tracciano un percorso organico, partendo dal concetto di
separazione - che riprende in una prospettiva innovativa sia il concetto di alienazione
(sulla linea Hegel, Feuerbach, Marx) che il concetto di scissione (del Lukàcs della “Teoria
del romanzo”, 1920) - per giungere al concetto di falsa unità che informa di sé tutta la
realtà spettacolare. La separazione che si compie per Debord (con riferimento anche
all'eccesso di metafisica lukacsiano) sembra portare a compimento quel processo di
scissione tra il soggetto e se stesso originato dalla rottura dell'unità presente nel mondo
greco e ormai in via di compimento nel capitalismo.
Si tratta del dominio proprio di una società che è dello spettacolo, in cui più tende ad
affermarsi l'apparire, più l'uomo è separato dalla vita. Lo spettacolo quindi si fa rapporto
sociale e visualizza in modo totalizzante e pervasivo il suo essere capitale.
il predominio dello spettacolo si attua attraverso l'occupazione della vita sociale da parte
della merce. A ciò corrisponde la vittoria del valore di scambio sul valore d'uso in una
società che sancisce la vittoria dell'economia autonoma.
Ma è nel rapporto tra economia e società che Debord individua una possibile forma di
riscatto là dove, infine, l'economia finisce con dipendere pur sempre dalla società e dalla
lotta di classe. Parafrasando Freud, Debord scrive che là dove c'era l'es economico deve
venire l'io e afferma che il desiderio della coscienza e la coscienza del desiderio
costituiscono un unico progetto mirante all'abolizione delle classi.
Il terzo capitolo probabilmente è il più "francofortese". Nella sua unità fittizia, lo spettacolo
maschera le contraddizione e le lacerazioni della società e dei poteri che la dominano. La
banalizzazione, la vedette specializzata nel vissuto apparente, le finte lotte spettacolari:
tutto ciò rappresenta un "artificiale" che traduce nello spettacolare la falsificazione della
vita sociale. Uno spettacolare che si presenta sullo scenario globale come concentrato o
diffuso a seconda della miseria che smentisce o mantiene.
"Lo spettacolo non canta gli uomini e le loro armi, ma le merci e le loro passioni".
Debord aveva predetto nel 1967:
"Nel momento in cui la società
scopre di dipendere dall'economia,
l'economia di fatto dipende da essa
[...] Là dove c'era l'es economico
deve venire l'io [...] Il suo contrario
è la società dello spettacolo, dove
la merce contempla se stessa in un
mondo da essa creato". L'inconscio
sociale, l'es dello spettacolo, su cui
si basa l'organizzazione sociale
attuale, doveva mobilitarsi per
tappare questa nuova falla apparsa
proprio in un momento in cui l'ordine regnante si credeva più al sicuro che mai. Tra le
contromisure prese dall'inconscio economico troviamo anche i tentativi per neutralizzare la
critica radicale della merce che aveva trovato la sua espressione più alta nei situazionisti.
Ridurre Debord stesso a più miti consigli era impossibile, a differenza di quanto è
avvenuto con quasi tutti gli altri "eroi" del '68. E la sua teoria stessa non lasciava spazi a
equivoci: "Lo spettacolo è il momento in cui la merce è pervenuta all'occupazione totale
della vita sociale" vi si legge. Ma vi era un'altra possibilità per gli stregoni della merce:
quella di fingere di parlare il linguaggio della critica radicale, apparentemente in maniera
ancora un po' più estrema ed audace, ma in verità con intenti e contenuti opposti. Che la
nostra epoca preferisca la copia all'originale, come dice Debord citando Feuerbach, si è
rivelato vero anche nei confronti della critica radicale stessa. Secondo Debord, lo
spettacolo è il trionfo del parere e del vedere, dove l'immagine sostituisce la realtà. La
televisione viene citata da Debord solo come esempio; lo spettacolo è per lui uno sviluppo
di quell'astrazione reale che domina la società della merce, basata sulla pura quantità. Ma
se siamo immersi in un oceano di immagini incontrollabili che ci bloccano l'accesso alla
realtà, allora è apparentemente ancora più ardito dire che questa realtà è sparita del tutto
e che i situazionisti erano ancora troppo timidi o troppo ottimisti, poiché ormai il processo
di astrazione ha divorato tutta la realtà e lo spettacolo è oggi ancora più spettacolare e
totalitario di quanto si immaginasse prima, spingendo i suoi crimini fino all' "assassinio
della realtà" stessa.
[...] Lo spettacolo lasciava ancora posto per una coscienza critica e una demistificazione
[...] [mentre] oggi siamo al di là di ogni disalienazione"
Immagine:
“Il mondo è già stato filmato, si tratta ora di trasformarlo”.
Tra il 1952 e il 1978 Debord dirige tre lungometraggi e tre cortometraggi. Il cinema di
Debord rifiuta ogni tipo di alienazione.
II 30 giugno 1952, al cine club del Musée de l’Homme di Parigi, l’opera prima di Debord,
“Hurlements en faveur de Sade”, irrompe sulla scena: Si tratta di un film non-film o di un
anti-film: niente immagini, niente trama: solo voci e pause alternate al bianco e nero dello
schermo. Il film termina con 24 minuti di schermo nero. In questa maniera Debord intende
affermare la sua volontà distruttiva di questa forma d’arte, poiché egli pensa che il cinema
offra al pubblico nient’altro che vite sostitutive.
Debord viaggerà molto spesso nel corso della sua vita e visiterà spesso l'Italia, in
particolare durante gli anni di piombo: nel 1977 ne viene espulso con l'accusa di
fomentare la violenza.
“Siamo degli artisti per quello che non siamo più artisti: noi veniamo a realizzare l'arte”
GUY DEBORD
Debord e la Psicogeografia
Situazionismo - Wikipedia