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Il Rinascimento

L’architettura del Rinascimento

Le difficoltà incontrate da chi voglia proporre una definizione soddisfacente


dell’architettura rinascimentale, o anzi del Rinascimento in generale, traggono o-
rigine dalla nostra abitudine di considerarlo, in prospettiva storica, come un fe-
nomeno in sé concluso, e dalla nostra opinione che, sebbene si possa dissentire al
riguardo della cronologia relativa al suo principio, alla sua massima fioritura ed al-
la sua fine, esso abbia avuto comunque un principio ed una fine. Le fonti perve-
nuteci da quel tempo rivelano chiaramente che quanti prendevano parte con
maggior impegno alla creazione del nuovo stile detto poi Rinascimento erano pie-
namente coscienti della loro originalità e dovevano aver capito dunque per quan-
to almeno analizzavano le loro stesse intenzioni d’attendere alla creazione di qual
cosa destinato ad avere un seguito e, con ogni probabilità, un termine: la stessa
parola rinascita, del resto, reca implicita l’idea della morte. Stranamente indeciso
ci pare tuttavia il loro atteggiamento di fronte a quanto andavano facendo. Pro-
fondamente consci di dar forma a uno stile architettonico, pittorico e scultorio
diverso e migliore in confronto a quello tradizionale, di creare perciò, entro questi
limiti, un nuovo stile, ci pare d’altro canto mostrino una convinzione non meno
ferma di non creare ex novo, bensì di ridare vita ad uno stile praticato nel passato
ma corrottosi nel corso di un millennio.
È ben certo che questo antico stile laboriosamente riproposto dalla loro opera
era, per buona parte, frutto di ipotesi storiche arbitrarie. Molto di quanto oggi
sappiamo sull’architettura dell’antica Roma non era noto nel Quattrocento, e qua-
si tutte le nostre nozioni di pittura antica erano allora affatto ignote. Pare che la
scultura antica fosse la sola arte sufficientemente conosciuta, attraverso gli origi-
nali, copie o persino copie di copie.
Nel caso dell’architettura il divario era colmato dalla sopravvivenza, nel XIV,
XV e XVI secolo, di molti edifici caduti in seguito in rovina o persino distrutti in-
teramente, come dimostrano fonti scritte, disegni ed incisioni […] [che], rarissimi
nel Quattrocento, si moltiplicarono nel Cinquecento, e rappresentano oggi una
delle nostre fonti principali per la ricostruzione non solo dell’aspetto originario
dell’architettura antica ma anche delle testimonianze di cui poteva disporre il Ri-
nascimento e dell’atteggiamen-to del tempo nei loro confronti. […]
Sorprendente è il numero delle fonti, fra le quali la più importante è natural-
mente Vasari, autore di una Vita di ogni grande architetto italiano da Arnolfo al
suo tempo; ai nostri fini, rivestono particolare importanza, inoltre, le sue idee cri-
tiche sull’architettura in genere e gli apprezzamenti dell’opera di singoli artisti. La
competenza professionale di Vasari, la cui attività si situa intorno alla metà del
XVI secolo, fa delle sue omissioni e dei suoi silenzi, non meno che delle sue pre-
ferenze, una testimonianza preziosa sullo sviluppo teorico e pratico dell’architet-
tura tra il 1400 e il 1550. Oltre a quelle del Vasari, ci sono pervenute altre Vite,
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come la Vita di Filippo di Ser Brunellesco o i XIV Uomini, attribuite entrambe ad An-
tonio Manetti. Disponiamo inoltre di guide e libri similari, soprattutto per la città
di Roma, ove conservava la sua vitalità la tradizione dei Mirabilia.
Conviene iniziare dall’idea fondamentale del Rinascimento, quella della rinasci-
ta o del nuovo splendore delle arti. Così scrive, verso il 1480, l’anonimo biografo
di Brunelleschi: «E andossene a Roma: ché in quel tempo v’era che si potevano
vedere in pobrico assai delle cose buone, e di quelle che vi sono ancora, benché
non molte, e di quelle che da diversi pontefici e signori cardinali, e Romani e
d’altre nazioni, sono state trafugate e portate, e mandate via. E nel guardare le
scolture, come quello che aveva buono occhio ancora mentale e avveduto in tutte
le cose, vide el modo del murare degli antichi e le loro simetrie; e parvegli cono-
scere un certo ordine di membri e d’ossa molto evidentemente, come quello che
da Dio, rispetto a gran cose, era alluminato: el che e’ notò molto, parendogli mol-
to differente da quello che s’usava in que’ tempi». Vasari fu altrettanto perentorio
nel Proemio alla parte II: «Perché prima con lo studio e con la diligenza del gran
Pilippo Brunelleschi l’architettura ritrovò le misure e le proporzioni degli antichi,
così nelle colonne tonde, come ne’ pilastri quadri e nelle cantonate rustiche e pu-
lite, e allora si distinse ordine per ordine, e fecesi vedere la differenza che era tra
loro: ordinossi che le cose andassino per regola, seguitassino con più ordine, e
fussino spartite con misura […]». Che l’orientamento degli architetti fiorentini
fosse mutato nella prima metà del Quattrocento è fuori discussione: se non ba-
stassero le testimonianze dei contemporanei, lo confermerebbe l’opera di Brunel-
leschi, di cui è evidente la differenza, qualitativa e non soltanto di grado, da quella
dei suoi immediati predecessori.
Il confronto fra il porticato dell’ospedale di Lastra a Signa, vicino a Firenze, e
quello dell’ospedale costruito da Brunelleschi solo pochi anni dopo per gli Inno-
centi dimostra ampiamente che si tratta di due soluzioni diverse a un medesimo
problema. Entrambi consistono di un passaggio coperto da volte sostenute da un
lato da una parete continua e dall’altro da colonne facenti parte di una successio-
ne di arcate aperte sulla strada; eppure fra le due costruzioni vi è una certa diffe-
renza, precisabile soprattutto in termini di aderenza all’architettura romana classi-
ca (o di distacco da essa). Sorge così la domanda cruciale: quale significato pro-
fondo va attribuito a definizioni del tipo di quella di resuscitatore del «modo anti-
co dello hedificare»? In questo caso specifico è chiaro che i caratteri romani non
sono in alcun modo essenziali all’opera brunelleschiana, mentre quelli che vi sono
le dimensioni e la forma delle colonne, i particolari decorativi dei capitelli,
l’impostazione delle volte sono semmai di secondaria importanza. Fatto ancora
più singolare, non sembra facile sostenere, una somiglianza testuale dello Spedale
degli Innocenti con qualsivoglia edificio romano conosciuto, pur dovendosi am-
mettere una sua probabile discendenza dal tipo di porticus classico adottato nelle
ville, mutato in chiostro monastico durante il Medioevo, precedente diretto tanto
di Lastra a Signa quanto dello Spedale degli Innocenti.
Per contro la differenza fra i due edifici è chiaramente visibile nella soluzione
delle volte, nella posizione reciproca delle colonne e nella profondità degli inter-

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columni, caratteristiche tutte ricollegabili alla tecnica costruttiva romana quale ri-
sulta tanto dai monumenti superstiti quanto dai canoni matematici fissati da Vi-
truvio. Comunque sia, nessun occhio esercitato potrebbe mai confondere le strut-
ture brunelleschiane con quelle in uso nell’antica Roma. Dopo la morte, si riferi-
sce nella Vita anonima, Brunelleschi venne considerato quale l’eroe della rinascita
architettonica, in parte per il suo studio delle tecniche costruttive romane e in
parte per la sua riscoperta dei canoni matematici su cui si basano la proporzione e
l’ornamentazione. La prima asserzione, che egli abbia compiuto circa la tecnica
costruttiva romana uno studio più approfondito di chiunque altro, è comprovata
dal successo riportato nella copertura della cattedrale, impresa abbandonata da
ogni altro. E invero anche un’autorità quale Alberti sembra riconoscerlo, se nella
dedica del suo trattato sulla pittura, scritto quando la cupola della cattedrale era
ancora in costruzione, afferma che Brunelleschi, insieme ad altri, eguagliò e, per
certi aspetti, superò gli antichi Romani. A proposito della cupola di Firenze, egli
afferma: «[…] Chi mai sì duro o sì invido non lodasse Pippo [Filippo Brunelle-
schi] architetto vedendo qui struttura sì grande, erta sopra e cieli, ampla da copri-
re con sua ombra tutti e popoli toscani, fatta sanza alcuno aiuto di travamenti o di
copia di legname; quale artificio certo, se io ben iudico, come a questi tempi era
incredibile a potersi, così forse a presso gli antichi fu non saputo né conosciuto».
Non si può ragionevolmente mettere in dubbio che Brunelleschi abbia studia-
to la scienza costruttiva dei Romani, adattandola alle condizioni del suo tempo,
come ben riconobbero i suoi contemporanei; la lode rivoltagli dal suo anonimo
biografo, tuttavia, assume un significato ben diverso: «[…] E fece pensiero, che
mentre che riguardava le scolture degli antichi, non avere meno gli occhi a questo
ordine e modo […] come negli ornamenti; e veggendovi drento molte maraviglie
e belle cose; perché furono fatte in diversi tempi, e buona parte da maestri eccel-
lentissimi, che per la sperienza delle cose e pe’ premi grandissimi de’ principi […]
non erano anche uomini vulgari […] insieme e’ [con Donatello] levarono grossa-
mente in disegno quasi tutti gli edifici di Roma, e in molti luoghi circustanti di
fuori, colle misure delle larghezze e altezze, secondo che potevano, arbitrando,
certificarsi, e longitudini, ecc. E in molti luoghi facevano cavare per vedere e ri-
scontri de’ membri degli edifici […]. E così dove e’ potevano congetturare l’altez-
ze, così da basa a basa per altezza, come da’ fondamenti, e riseghe e tetti degli e-
difici, e’ ponevano in su striscie di pergamene che si lievano per riquadrare le car-
te, con numero d’abbaco e caratte[re], che Filippo intendeva per se medesimo
[…]; e perché trovò negli edifici […] differenze assai nelle mazzonerie e delle
qualità delle colonne e delle base e de’ capitelli, architravi, fregi e cornici e fron-
toni e corpi e differenze di templi, e spessezze di colonne, col suo vedere sottile
conobbe bene la distinzione di ciascuna spezie, come furono Ioniche, Doriche,
Toscane, Corinte e Attiche; e usò a’ tempi e a’ luoghi, della maggior parte, dove
gli pareva meglio, come ancora si può vedere negli edifici suoi».
Poiché Brunelleschi non era veramente in grado di distinguere gli ordini, que-
sto passo tradisce una singolare debolezza da parte del l’anonimo autore della Vi-
ta. Era evidentemente sua opinione che Brunelleschi, quale risuscitatore dell’ar-

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chitettura classica, dovesse essere perfettamente in grado di fare tutto quanto po-
tevano fare i suoi successori, e che pertanto, essendo Alberti in grado di distin-
guere gli ordini, fosse necessario per non sminuire la latinità di Brunelleschi af-
fermare, anche a scapito della verità, che egli pure conoscesse in ogni particolare
la sintassi architettonica.
Va qui ricordato che la prima generazione di umanisti, la cui conoscenza della
letteratura classica non era necessariamente più vasta di quella posseduta da colo-
ro che li avevano preceduti, differiva da questi ultimi per un aspetto importante. I
grandi scolastici del tardo medioevo leggevano ecletticamente, ma, poiché si trat-
tava di uomini di chiesa, monaci per la maggior parte, il loro interesse era teologi-
co o filosofico. La figura dell’umanista andò delineandosi solo con lo sviluppo in
Italia della città-stato e con la richiesta di una nuova classe laica di amministratori
di mestiere: e umanisti furono appunto semplicemente coloro che leggevano i
classici, ma con intenti letterari. Vivevano insegnando il latino o mettendo al ser-
vizio di un principe o di un comune la loro conoscenza di quella lingua, le cui sot-
tigliezze idiomatiche non si stancavano di indagare, versati nella filologia, nella
grammatica e nella retorica. Pareva loro ragionevole che Alberti, umanista anch’e-
gli di professione, si preoccupasse di studiare le raffinatezze concernenti gli ordi-
ni, di ciò che Summerson (1963, p. 67) ha così bene definito come l’idioma classi-
co dell’architettura. Non è difficile capire la forma mentis di quanti opinavano che,
poiché Alberti, grande architetto, era portato allo studio di tali problemi, essi do-
vessero interessare Brunelleschi, incontestabilmente anch’egli grande architetto.
Illuminante per la comprensione della mentalità degli architetti quattrocenteschi è
la scelta compiuta dal biografo di Brunelleschi di due delle sue chiese – Santa Ma-
ria degli Angeli e Santo Spirito quali esempi canonici d’architettura. Nei confronti
della chiesa piccola, a pianta centrale, il progetto di Brunelleschi per gli Angeli di
Firenze, benché irrealizzato, doveva tuttavia essere considerato come la nuova ver-
sione del martyrium classico o meglio ancora paleocristiano. Del pari Santo Spirito
rappresentava il modello esemplare della basilica parrocchiale, derivando dalla basi-
lica civile di Roma antica, dalle basiliche romane paleocristiane nonché dalle versioni
medievali quali la fiorentina Santa Croce, che la pianta, non chiaramente traducibile
in rapporti matematici, autorizzava a considerare quali schemi grossolani, un misto
di barbaro e di gotico, restituiti da Brunelleschi alla pristina purezza. Non v’è alcun
dubbio che negli anni immediatamente successivi alla metà del secolo questa conce-
zione del nuovo stile fiorentino fosse ormai quella unanimemente accolta dai cena-
coli umanistici di tutta l’Italia, non a opera, d’altronde, del solo Brunelleschi, se già
negli anni successivi alla sua morte, avvenuta nel 1446, l’architettura di Alberti anda-
va rivestendo forme ancora più rigorosamente romane e classiche. […]
Laurana attendeva al palazzo di Urbino negli anni successivi al 1460, giusto
quando il Bramante stava uscendo dall’adolescenza (era nato nel ducato di Urbi-
no nel 1444). Uno studio congiunto del palazzo di Urbino, di opere di Piero della
Francesca quali la Flagellazione, destinata a Urbino stessa, e delle teorie architetto-
niche formulate da Alberti nei suoi scritti e concretizzate nei suoi edifici, docu-

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menta esaurientemente l’atteggiamento degli architetti e dei loro mecenati a una


delle svolte cruciali del primo Rinascimento.
La carriera di Alberti come architetto attivo non iniziò se non dopo la morte di
Brunelleschi, nel 1446; il suo interesse per la teoria dell’arte deve essere tuttavia
ben anteriore, poiché abbiamo notizia della presentazione a papa Nicolò V di una
prima stesura del suo trattato De re aedificatoria. Ancora anteriore è il suo trattato
Della pittura, ma l’interesse per le vestigia romane deve risalire al 1432 circa, quan-
do si recò nell’Urbe in qualità di segretario del cardinale Molin. Mentre attendeva
allo studio delle rovine e cominciava a formulare le proprie concezioni sull’arte
antica stese una sommaria descrizione dei ruderi romani, la Descriptio Urbis Romae,
risalente a quegli stessi anni, fra il 1432 e il 1434, durante i quali ebbe con ogni
probabilità occasione d’accompagnare tanto Donatello quanto Brunelleschi nelle
loro visite ai monumenti antichi. Sorprende particolarmente, pertanto, che la De-
scriptio sia priva d’ogni gusto archeologico, o comunque scarsamente interessante,
consistendo per gran parte in una descrizione di uno strumento di misurazione
topografica e in cenni sul suo uso nel rilievo degli edifici. Forse fu proprio questo
interesse per le misurazioni che indusse il biografo anonimo ad attribuire a Bru-
nelleschi interessi analoghi, ma è tuttavia singolare che la Descriptio Urbis Romae
non contenga descrizioni di edifici, contraddicendo in tal modo il suo titolo. […]
L’interesse di Alberti per Roma antica non era per nulla eccezionale, anzi essa
fosse stata studiata da altri ancor più a fondo. Alberti aveva, comunque, piuttosto
l’intenzione di ricostruire l’opera dell’unico superstite fra gli scrittori classici
d’architettura, che non di fare una descrizione dell’antica Roma sulla base dei ru-
deri rimasti. Attraverso quest’opera egli concepì l’idea, destinata ad avere tanto
peso nel tardo Quattrocento e per tutto il Cinquecento, che la perfezione archi-
tettonica fosse da ricercarsi in una riconciliazione del dettato vitruviano con i
monumenti. Il grande trattato di teoria di Alberti è strutturato secondo i medesi-
mi principi di quello di Vitruvio, e in alcuni casi anche l’intestazione dei capitoli è
quasi identica. Alcuni brani, tuttavia, stanno a indicare come l’Alberti fosse stu-
dioso altrettanto esperto dei monumenti che del testo di Vitruvio. Proprio
all’inizio avanza una definizione del disegno formulata in termini platonici: «L’ar-
chitettura nel suo complesso si compone del disegno e della costruzione. Quanto
al disegno, tutto il suo oggetto ed il suo metodo consistono nel trovare un modo
esatto e soddisfacente per adattare insieme e collegare linee ed angoli, per mezzo
dei quali risulti interamente definito l’aspetto dell’edificio […]. La funzione del di-
segno è dunque di assegnare agli edifici ed alle parti che li compongono una posi-
zione appropriata, un’esatta proporzione, una disposizione conveniente e un ar-
monioso ordinamento […]. Si potranno progettare mentalmente tali forme nella
loro interezza prescindendo affatto dai materiali: basterà disegnare angoli e linee
definendoli con esattezza di orientamento e di connessioni».
Più avanti, nel libro VI, descrive l’evidente dissoluzione progressiva delle ve-
stigia romane: «Si sono certo conservati esempi di opere dell’antichità, come teatri
e templi, da cui, come da insigni maestri, molto si può apprendere; e con grave
sconforto ho notato che di giorno in giorno vanno in rovina ». D’altro canto, nel-

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la famosa lettera indirizzata a Matteo de’ Pasti, scoperta e pubblicata dal Grayson
(1973), scrive del suo Tempio Malatestiano di Rimini: «[…] Le misure et propor-
zioni de pilastri tu vedi onde elle nascono: ciò che tu muti si discorda tutta quella
musica». L’opinione di Alberti che l’architettura fosse per l’essenziale retta da leg-
gi e rapporti matematici, secondo i principi esposti dallo stesso Vitruvio riguardo
all’armonia e alle proporzioni, trova qui una chiara formulazione. Prendendo Vi-
truvio quale guida fra i maestri della teoria, l’Alberti, e altri con lui, erano ben di-
sposti a seguirlo nelle descrizioni dei particolari dei monumenti antichi. Da ultimo
l’Alberti avrebbe posto Vitruvio a diretto confronto con i monumenti, non solo
perché questi costituivano una tradizione separata e autonoma ma anche perché il
testo vitruviano, come egli ebbe a lamentare, era estremamente oscuro. La fedeltà
a Vitruvio ammette tuttavia un’eccezione interessante, relativa all’ordine composi-
to. La descrizione albertiana dovette fondarsi su osservazioni personali, poiché
Vitruvio non fa mai menzione di questa variante arricchita dell’ordine corinzio;
d’altronde la prima applicazione dell’ordine composito risale all’82 d.C., nell’arco
di Tito, presumibilmente posteriore alla morte di Vitruvio. Alberti stesso ne adot-
tò una variante alquanto singolare in palazzo Rucellai, ma il primo impiego cor-
retto dell’ordine composito nel Rinascimento va pur sempre collegato alla sua
opera, essendo riscontrabile nel palazzo di Urbino […].
Confrontati alle descrizioni di un Poggio o di un Biondo, caratterizzate da un
abile uso delle fonti antiche, gli schizzi degli architetti del Quattrocento appaiono
molto ingenui, a onta della loro derivazione diretta da monumenti ancora esisten-
ti. Inoltre nessuno schizzo del genere risalente a quel periodo – gli anni dopo il
1440 – è giunto sino a noi, mentre per schizzi di studio o di documentazione
dobbiamo attendere gli ultimi anni del secolo. Due sono le categorie principali, e
potremmo definirle l’una pittorica e l’altra architettonica. La categoria pittorica
consta di paesaggi che includono casualmente degli edifici, e poichè già nello
sfondo di quadri databili dal primo Quattrocento (e anche prima per i manoscrit-
ti) si possono trovare scorci occasionali di edifici romani come il Colosseo, è
probabile che schizzi del genere siano già stati eseguiti nei primi decenni del seco-
lo. Questa categoria è degnamente rappresentata nella raccolta di schizzi nota
come Codex Escurialensis, eseguiti verso il 1492 da un discepolo del Ghirlandaio.
Alcuni di questi schizzi rappresentano paesaggi con rovine, mentre altri hanno u-
tilità e validità archeologica – per esempio, la veduta dell’interno del Pantheon
rappresentato com’era prima delle manomissioni apportate al piano attico.
La seconda categoria, “architettonica”, è più interessante agli effetti di questo stu-
dio, consistendo in schizzi di monumenti sotto il profilo architettonico, eseguiti da o
per conto di architetti. Siamo naturalmente ancora ben lontani dagli schizzi quotati
intesi nel significato odierno, benché un brano dell’anonima Vita di Brunelleschi gli
rivendichi anche il merito di questa grande scoperta: «[…] e’ ponevano [Brunelleschi
e Donatello] in su striscie di pergamene che si lievano per riquadrare le carte, con
numero d’abbaco e caratte[re], che Filippo intendeva per se medesimo». […]
Disgraziatamente né di Brunelleschi né di Alberti è rimasto alcun disegno,
benché ci sia noto che entrambi ricorrevano all’uso di modelli altrettanto frequen-

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temente che di disegni. Il disegno di alzato – come, per esempio, testimonia il


famoso disegno del prospetto della cattedrale di Orvieto – era certamente cono-
sciuto e siamo inoltre informati dell’uso frequente di modelli in legno o anche in
pietra. Una sicura conferma è data dalle note di pagamento di Brunelleschi con-
servate nei registri dell’opera del Duomo, sennonché il termine modello è un po’
ambiguo, potendo anche significare disegno. Tuttavia in alcuni casi possiamo es-
sere certi che ci si riferisca a un modello tridimensionale, e in particolare Alberti
raccomanda specificamente l’impiego di modelli in legno, consigliando persino il
ricorso ai più semplici modelli possibili – secondo, del resto, l’uso generale – e di-
stinguendoli dal genere di architettura dipinta di cui è forse esempio il famoso
pannello di Piero della Francesca alla Galleria Nazionale di Urbino.
È rimasto invece il modello in legno eseguito da Giuliano da Sangallo per il pa-
lazzo Strozzi di Firenze, esempio di come dovesse presentarsi un tipo di modello
piuttosto elaborato, eseguito per una commissione importante. D’altra parte sap-
piamo che Francesco di Giorgio fu ricompensato nel luglio del 1484 con 75 lire
per un disegno e un modello della sua chiesa di Cortona. Secondo una registra-
zione del giugno successivo, egli eseguì un modello in legno dopo una visita sul
posto, e sulla base di tale modello venne poi costruita la chiesa.
[liberamente tratto da P. MURRAY, Rinascimento, Milano 1971, pp. 5-12]

Le teorie architettoniche del XV secolo

Le concezioni medievali dell’architettura si muovono nella sfera descrittiva,


speculativa, enciclopedica o tecnica. Solo nel primo Rinascimento, mentre le arti
si andavano staccando dalla loro funzione subordinata e si sviluppavano in forme
autonome, poteva nascere il bisogno di riflettere sistematicamente sulla loro fun-
zione e sui loro principi. L’arte divenne specchio di una realtà intesa in senso
commensurabile; di conseguenza le sue leggi dovevano essere sempre uguali o
mantenersi costanti. Definizioni e sistematica significavano descrizione o enun-
ciazione di norme. Nella prima fase dell’Umanesimo gli artisti e gli artigiani di
formazione medievale non partecipano a questa evoluzione in misura tale da riu-
scire ad adeguarvisi. È perciò indicativo che sia stato uno dei più illustri umanisti
ad occuparsi per primo in modo sistematico di arti figurative e di architettura,
prima che gli artisti e gli architetti stessi fossero in condizione di formulare ade-
guatamente in parole le loro concezioni e di inserirle in un sistema.

Leon Battista Alberti (1404-1472)


[…] Nato a Genova il 14 febbraio 1404 come figlio illegittimo dell’esule fiorentino Lorenzo di
Benedetto Alberti e della genovese Bianca Fieschi, trascorse la sua infanzia a Venezia. Ricevette
un’educazione umanistica negli anni 1416-1418 a Padova da Gasparino Barzizza. In seguito stu-
diò a Bologna diritto canonico, fisica e matematica. Già durante il periodo degli studi Alberti si
fece conoscere con lavori letterari. Dal 1428 con l’abolizione dell’esilio fu possibile per Alberti
ritornare a Firenze […]. Probabilmente accompagnò il cardinale Albergati nei suoi viaggi in

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Francia, Germania e Belgio. Dal 1432 (fino al 1434) Alberti visse a Roma come segretario del
patriarca di Grado, Biagio Molin; ottenne nello stesso anno un primo beneficio ecclesiastico (il
priorato di San Martino a Gangalandi). Nella curia romana incontrò una serie di importanti u-
manisti (Bruni, Poggio, Biondo). A questo soggiorno romano potrebbe risalire un primo studio
dell’architettura di Roma antica e del trattato di Vitruvio. Al seguito del papa Eugenio IV, andò
nel 1434 a Firenze dove entrò in stretti contatti con la cerchia di artisti che facevano capo a
Brunelleschi e a Donatello. Nel 1435 ultimò lo scritto, inizialmente composto in latino, De pictu-
ra che fu poi da lui stesso tradotto nel 1436 in volgare e dedicato a Brunelleschi. Nel 1436 seguì
la corte papale fino a Bologna, poi nel 1438 a Ferrara dove ebbe luogo il concilio delle Chiese
d’occidente e d’oriente. Terminò nel 1439 le sue Intercoenales già iniziate durante il periodo di stu-
di a Bologna e le dedicò al matematico Toscanelli.
Nel 1443 Alberti ritornò a Roma dove visse e lavorò fino alla morte (aprile 1472). Ripetuti
viaggi lo condussero a Rimini, Firenze e Mantova. Consigliò papa Niccolò V nei suoi piani edili-
zi per Roma e portò a termine una serie di importanti scritti artistici e matematici: la Descriptio
urbis Romae, il De statua e i Ludi rerum mathematicarum. Nel 1452 terminò i dieci libri del De re aedifi-
catoria, stampato però per la prima volta a Firenze nel 1485 (editio princeps).
Solo negli ultimi venticinque anni della sua vita Alberti venne chiamato a concreti incarichi
edilizi, nel 1447 da Niccolò V come soprintendente per il restauro di importanti edifici antichi,
dal 1450 per opere architettoniche a Rimini, Firenze e Mantova. […]

Il De re aedificatoria. Per una adeguata valutazione dell’opera, composta tra il 1443


e il 1452, bisognerebbe conoscere esattamente il punto di vista filosofico ed esteti-
co di Alberti, ma, nonostante un’ampia bibliografia su questo argomento, non ri-
sulta spiegato in modo del tutto soddisfacente l’incontro del pensiero aristotelico e
neoplatonico, della retorica ciceroniana e della filosofia coeva (Niccolò Cusano).
Alla questione se il trattato di Alberti rappresenti o no una teoria in sé conclusa si
continuano a dare risposte quanto mai diverse. Se recentemente si è definito il trat-
tato di Alberti «un iniscuglio di teorie ispirate da Vitruvio» (H. LORENZ, 1971, p.
8), ciò appare eccessivo. Proprio la contrapposizione di Alberti e Vitruvio dimostra
quanto il primo si sia sforzato di dare una impostazione sistematica alla materia. Il
legame tra il trattato di Alberti e di Vitruvio è evidente sia nella forma che nel con-
tenuto; in particolare si può ricordare la partizione in 10 libri, l’interesse per i fatti
storici e i dettagli tecnici, la ricezione della teoria degli ordini architettonici
l’adozione di modelli costruttivi antichi e la terminologia. Tuttavia Alberti assume
nei confronti di Vitruvio un atteggiamento critico, quando sottopone a verifica le
sue affermazioni sull’architettura antica: «Tutti gli edifici dell’antichità che potessero
avere importanza per qualche rispetto, io li ho esaminati per poterne ricavare ele-
menti utili. Incessantemente ho rovistato, scrutato, misurato, rappresentato con
schizzi tutto quello che ho potuto per potermi impadronire e servire di tutti i con-
tributi possibili che l’ingegno e la laboriosità umana mi offrivano».
La sua critica a Vitruvio riguarda in linea molto generale soprattutto ciò che con-
cerne l’oscurità della sua terminologia: «Sentivo come cosa grave che tante numero-
se ed insigni fatiche degli autori fossero andate perdute per l’avversità dei tempi e
degli uomini; a tal punto che, in mezzo a tante rovine, un’opera sola è scampata
giungendo fino a noi, quella di Vitruvio: scrittore certo assai competente, ma tanto
guastato nei suoi scritti e malridotto dai secoli, che in molte parti vi si notano lacune
e imperfezioni. Non solo; il suo eloquio non è curato; sicché i Latini direbbero ch’è
voluto apparir greco, i Greci latino. Il fatto, tuttavia, basta da sé a provare che il suo

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linguaggio non è latino né greco; sicché per noi è quasi come se non avesse scritto
nulla, dal momento che egli scrisse in modo a noi non comprensibile».
Se Alberti desume da Vitruvio le categorie concettuali basilari (firmitas, utilitas, ve-
nustas), si differenzia però sostanzialmente da lui nei concetti estetici fondamentali.
Alberti non resta come Vitruvio a una descrizione dei fenomeni, ma indaga sui
principi che ne stanno a base. Nella prefazione dell’opera – al contrario di Vitruvio
non c’è in Alberti alcuna prefazione ai singoli libri – egli definisce il compito
dell’architettura e dell’architetto come impegno sociale, come servizio per l’umani-
tà. Alberti motiva in questo modo la preminenza dell’architettura fra le arti: «Ma se
si tengono presenti le più importanti [arti], non se ne troverà una sola che non si ri-
volga a certi suoi particolari scopi, escludendone tutti gli altri. O se pure qualcuna
se ne trovasse, tale da non potersene in alcun modo far senza, e tale al tempo stesso
da conciliare la convenienza pratica con la gradevolezza e il decoro, a mio giudizio a
questa categoria è da includere l’architettura; giacché essa – se si medita attentamen-
te in proposito – è quanto mai vantaggiosa alla comunità come al privato, partico-
larmente gradita all’uomo in genere e certamente tra le prime per importanza».
La definizione che Alberti dà dell’architetto prepara la sua successiva defini-
zione dell’architettura, ma acquista inoltre un peso per la consapevolezza che ha
di sé l’architetto del Rinascimento ormai su posizioni distanti dall’artigiano (faber).
«Il lavoro del carpentiere infatti non è che strumentale rispetto a quello dell’archi-
tetto. Architetto chiamerò colui che con metodo sicuro e perfetto sappia proget-
tare razionalmente e realizzare praticamente, attraverso lo spostamento dei pesi e
mediante la riunione e la congiunzione dei corpi, opere che nel modo migliore si
adattino ai più importanti bisogni dell’uomo».
Il ruolo dell’architetto nella società è altamente considerato dato che «la sicurez-
za, l’autorità, il decoro dello Stato dipendono in gran parte dall’opera dell’architetto;
per merito suo possiamo trascorrere il nostro tempo libero in modo piacevole, se-
reno e salutare, e impiegare le ore di lavoro in modo proficuo e dando incremento
alla nostra sostanza: vivere insomma dignitosamente e fuori dei pericoli». Se in se-
guito si afferma l’idea della gloria durevole, viene qui chiaramente formulato il ruo-
lo dell’architetto come responsabile modellatore dell’ambiente umano.
Nella suddivisione del suo trattato Alberti parte dalla considerazione che un
edificio è «una sorta di corpo» formato da linee e materia, dove le linee sono crea-
te dallo spirito, la materia invece è desunta dalla natura. Alberti impianta conse-
guentemente il suo trattato, cominciando, dopo alcune definizioni fondamentali,
a trattare del materiale e della costruzione e passando poi a discutere i tipi e le
funzioni degli edifici, per concludere infine con i problemi decorativi ed estetici.
Le categorie vitruviane di firmitas, utilitas, venustas determinano l’ossatura della teo-
ria architettonica di Alberti.
libro I: definizioni (progetti);
libri II e III: firmitas (materiali e costruzione);
libri IV e V: utititas (funzione e tipologia degli edifici);
libri VI-IX: venustas (decorazione; edifici sacri, pubblici e privati; teoria della proporzione);
libro X: conclusioni di carattere generale.

92
Il Rinascimento

Il trattato di Alberti scritto in latino non è destinato in primo luogo agli archi-
tetti, ma alla cerchia dei committenti umanisti che auspicavano un catalogo di cri-
teri per le loro opere edilizie; lo stimolo a comporlo sembra sia partito da Lionel-
lo d’Este. Il sostanziale atteggiamento repubblicano di Alberti, che risulta eviden-
te nella sua concezione dell’architettura, passa in seconda linea rispetto a un’idea
«neutrale» dei diversi sistemi politici che possono servirsi tutti del suo trattato.
Alberti insegna anche al tiranno come costruire il suo palazzo.
La prima redazione dell’opera fu consegnata nel 1452 a papa Niccolò V. Come
sottolinea Angelo Poliziano nella sua introduzione alla ristampa del 1485, Alberti
stava lavorando alla rielaborazione della sua opera al momento della morte. Come
voleva Alberti, l’opera stampata è dedicata a Lorenzo il Magnifico.
La teoria dell’architettura: l’atteggiamento sistematico di Alberti emerge soprat-
tutto nelle sue definizioni che si spingono molto al di là di Vitruvio. Definisce co-
sì il progetto architettonico: «Quanto al disegno, tutto il suo oggetto e il suo me-
todo consistono nel trovare un modo esatto e soddisfacente per adattare insieme
e collegare linee ed angoli, per mezzo dei quali risulti interamente definito l’aspet-
to dell’edificio».
Con criteri sistematici sconosciuti a Vitruvio, Alberti denomina i sei elementi
fondamentali dell’architettura: ambiente (regio); area dell’edificio (area); suddivisio-
ne (pianta; partitio); muro (paries); tetto (tectum); apertura (apertio).
Le considerazioni più interessanti di Alberti su questi singoli punti sono quelle
che riguardano la pianta (I, 9). Come criteri per la qualità di una pianta vengono
menzionati l’utilità (l’utilitas, da intendere piuttosto come «funzione»), la dignità
(dignitas) e la comodità (amoenitas). Alberti collega qui insieme i criteri di funziona-
lità, di estetica e di tipo di utente. Nello stesso capitolo Alberti presenta l’analogia
della casa con lo Stato, intendendo lo Stato come una grande casa e la casa come
un piccolo Stato; ambedue sono retti dal principio organico che, «come nell’orga-
nismo animale ogni membro si accorda con gli altri, così nell’edificio ogni parte
deve accordarsi con le altre». Il programma organico della concezione architetto-
nica di Alberti si manifesta nell’esigenza: «Quindi ciascun membro deve avere il
luogo e la posizione più opportuni: non occuperà più spazio di quanto sia utile,
né meno di quanto ne esige il decoro; né sarà collocato in una posizione impro-
pria o disdicevole, bensì in quella che precisamente gli appartiene, sì che non se
ne possa trovare un’altra più conveniente». Alberti vede il pericolo di una rigidez-
za delle norme architettoniche, a cui egli contrappone l’esigenza della varietas, ma
questo desiderio di varietà non dovrebbe portare a creare «un corpo deforme con
spalle e fianchi sproporzionati».
In queste formulazioni si manifesta il desiderio di Alberti di avallare la varietas,
intesa come possibilità di alternative architettoniche, se questa «poggia sull’unità e
sulla corrispondenza reciproca di elementi distanti tra loro». La difficoltà di giudi-
care Alberti sta nella sua ammirazione critica per l’antichità e, come diremo in se-
guito, in una fede incondizionata nella validità delle proporzioni matematiche;
d’altro canto l’antichità non è per lui un mondo ineguagliabile e normativo, bensì

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Il Rinascimento

crede alla possibilità di progredire nella tradizione antica per «conseguire con so-
luzioni nuove una gloria pari alla loro o se possibile anche maggiore».
Una certa contraddittorietà nell’atteggiamento di Alberti sta nel fatto che egli
sulla scia di Vitruvio parla esclusivamente dei compiti edilizi antichi, ma d’altra par-
te assume posizioni del tutto antivitruviane, quando dichiara per esempio la parete,
e non il sostegno, un elemento fondamentale dell’architettura. Per lui anche le file
di colonne non sono «altro che un muro interrotto e aperto in più punti». Le pro-
porzioni della parete sono a loro volta calcolate secondo le misure delle antiche co-
lonne. Pilastri e colonne per la loro comune derivazione dalla parete non sono per
Alberti alternative che si escludono a vicenda come sistemi. Le correlazioni, indivi-
duate con particolare acutezza da Rudolf Wittkower (1949, pp. 34 sgg.), dei pilastri
con l’archivolto o della colonna con l’architrave rappresentano per Alberti possibi-
lità, ma non norme. Il fatto che egli spieghi dal punto di vista costruttivo la colon-
na, o in altri punti il sostegno, come lo scheletro (ossatura) architettonico, e che
sotto l’aspetto estetico veda nella colonna il più importante elemento ornamentale
(primarium ornamentum) dell’architettura, salda il contrasto con il mondo antico.
Alberti crede come Vitruvio che l’architettura sia nata dall’utilitas, ma differen-
zia il concetto vitruviano di utilitas in base alla diversa funzione degli edifici. Di-
stingue compiti edilizi che servono semplicemente alla necessitas (necessità della vi-
ta), da altri finalizzati all’oportunitas (opportunità) e alla voluptas (al temporaneo di-
letto). La varietas delle diverse soluzioni edilizie appare in Alberti come espressio-
ne dell’individualità umana, posta al di sopra del mero fine. Il ricollegamento
dell’architettura alla struttura individuale e sociale dell’uomo diventa chiarissimo
quando Alberti scrive: «Ma, osservando quanti e quanto diversi edifici si possano
trovare, s’intende facilmente che la loro esecuzione non è tanto rivolta ai fini
suddetti, né ad alcuni di essi piuttosto che ad altri; la ragione fondamentale di
questa infinita varietà sta bensì nelle differenziazioni presenti nella natura umana.
E se abbiamo intenzione di classificare in modo adeguato – come vogliamo ap-
punto fare qui – i vari generi di edifici e le varie parti all’interno di ciascun genere,
il metodo di una siffatta indagine impone in ogni caso di chiarire esaurientemente
quali differenze vi siano fra gli uomini: giacché gli edifici sono fatti per loro, e va-
riano in rapporto alle funzioni che svolgono nei loro riguardi. In questo modo sa-
rà possibile mettere bene in luce ogni elemento e discuterne partitamene».
Alberti parla degli edifici pubblici e privati, ponendo in primo piano il proble-
ma della loro adeguatezza all’individuo e alla società. La grandezza e l’ornamenta-
zione di un edificio debbono adattarsi alla sua funzione ovvero a chi vi abita, la
funzione (utilitas) esercita così un influsso sulle categorie estetiche della venustas,
senza che queste si risolvano in quelle.
Nella seconda metà del suo trattato Alberti affronta le questioni estetiche in
senso stretto, soprattutto nel IX libro. Il quinto capitolo del IX libro costituisce il
centro teorico dell’opera in cui vengono date le definizioni fondamentali di bel-
lezza (pulchritudo) e ornamentazione (ornamenta). La concezione fisico-organica del-
l’architettura rappresenta anche qui il punto di partenza: «Passiamo ora a trattare
di ciò che avevo promesso: gli elementi di cui constano tutti i generi di bellezza e

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Il Rinascimento

di ornamento, o, meglio ancora, gli elementi che scaturiscono da ogni tipo di bel-
lezza. Un’indagine indubbiamente difficile; giacché un’entità qualsivoglia, la quale,
e solo essa, si debba ricavare mediante una scelta dall’intera quantità e qualità di
diverse parti, ovvero attribuire a ciascuna di esse in modo esatto e identico, ovve-
ro debba riuscire tale da riunire più cose in un unico complesso od organismo, e
da tenerle insieme in modo giusto, stabile, ordinato e armonioso – e qualcosa di
molto simile è appunto l’entità che andiamo qui ricercando –, certamente «dovrà
contenere in sé il valore, direi quasi il succo, delle cose suddette tutte quante, con
le quali si connette e si compenetra; esse, altrimenti, discorderebbero tra loro e
andrebbero disperse».
Se Alberti comprende la relatività del gusto umano nei confronti della bellezza,
cerca però di ricondurla con concetti neoplatonici a un punto fisso, a «una caratteri-
stica intrinseca». Applicato all’architettura, il concetto viene così a tradursi: «Nella
configurazione e nell’aspetto degli edifici si trova certamente un’eccellenza o perfe-
zione di natura la quale stimola lo spirito e si fa subito avvertire » Alberti elenca i tre
criteri della bellezza: numero (numerus); delimitazione (finitio); disposizione (collocatio).
La somma di questi concetti produce per Alberti l’armonia (concinnitas), il concetto
estetico chiave della sua teoria dell’architettura.
Le considerazioni di Alberti sul numero (numerus) sono tratte dalla natura.
Constatato l’impiego in natura di numeri pari e dispari, esso viene trasportato
come legge nell’architettura: «Circa il numero, prima di tutto constatarono che vi
sono numeri pari e numeri dispari. Si servirono degli uni e degli altri, ma in occa-
sioni diverse, Ad imitazione della natura, infatti, non fecero mai in numero dispa-
ri le ossature dell’edificio, ossia colonne, angoli ecc.; poiché non esiste animale
che si regga o si muova su un numero di piedi dispari. Viceversa le aperture non
erano mai fatte in numero pari; e anche questo risponde alle norme della natura,
come è verificabile dal fatto che negli animali sono bensì in numero pari orecchie,
occhi e narici, posti ai lati, ma nel centro si trova la bocca, una e ben ampia».
Alberti, conosce una serie di numeri propizi «più vicini alla natura» (4, 5, 6, 7,
8, 9, 10) e aventi per l’architettura una corrispondente importanza. Al contrario i
numeri irrazionali, il cui valore era individuabile solo per via geometrica, hanno a
causa della loro illimitatezza solo una funzione marginale.
In Alberti il concetto della delimitazione (finitio), che in Vitruvio corrisponde
grosso modo alla symmetria e all’eurytbmia, coincide perfettamente con il concetto
moderno di proporzione, seppure in senso lato. La definizione di Alberti suona:
«Chiameremo delimitazione la reciproca corrispondenza tra le linee che defini-
scono le dimensioni. Tali linee sono: la lunghezza, la larghezza, l’altezza».
Le proporzioni nella concezione di Alberti sono immutabili come le leggi di
natura. Richiamandosi a Pitagora. egli afferma: «È assolutamente certo che la na-
tura non si discosta mai da se stessa». Alberti si inserisce in una tradizione in auge
fin dai tempi di Agostino e Boezio, quando prosegue mettendo in risalto la coin-
cidenza fra le leggi architettoniche della proporzione e l’armonia musicale. L’har-
monia nella musica e la finitio nell’architettura sono soggette alle stesse leggi natu-
rali. Alberti sostiene qui evidentemente una tendenza normativa.

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Il Rinascimento

La disposizione (collocatio) è anch’essa ricondotta alla natura; il concetto indica


la posizione delle parti tra loro. Le leggi naturali osservate da Alberti nei numeri
lo portano qui all’esigenza di una simmetria architettonica (in senso moderno),
dato che «è insito nella natura che la parte destra debba corrispondere con perfet-
ta eguaglianza alla parte sinistra». Alberti esige qui una simmetria intesa come
quella legge naturale che Claude Perrault alla fine del XVII secolo postulerà in un
altro contesto come «beauté positive».
Dall’incontro di numerus, finitio e collocatio nasce per Alberti la bellezza (pulchritu-
do). Al posto del concetto di bello usa quello di «armonia» (concinnitas), ovvero la
bellezza consiste per lui nella concinnitas. La sua definizione suona: «La bellezza è
accordo e armonia delle parti in relazione a un tutto al quale esse sono legate se-
condo un determinato numero, delimitazione e disposizione, così come esige la
concinnitas, cioè la legge fondamentale e più esatta della natura».
La concinnitas è la legge assoluta e suprema, la «absoluta primariaque ratio natura-
e»: «Infatti tutto ciò che la natura crea è fatto secondo la legge della concinnitas». Al-
berti realizza con il suo concetto di concinnitas la seguente equazione: legge di natu-
ra = legge di bellezza = legge di architettura. La concinnitas è al di sopra della natura;
è la formula creativa per antonomasia. L’uso della concinnitas nell’architettura si basa
per Alberti sull’osservazione e sulla mimesi della natura, la cui molteplicità feno-
menica si concretizza per lui nei diversi ordini architettonici: «Seguendo dunque la
natura, scoprirono tre stili atti ad ornare la casa, e diedero loro dei nomi, derivanti
dai popoli che preferivano l’uno o l’altro di essi o che, forse, come si narra, li ave-
vano inventati. Uno era più robusto, più adatto agli sforzi e più durevole; e fu
chiamato dorico. Un altro, sottile e quanto mai leggiadro; e fu detto corinzio. Quel-
lo intermedio poi, che riuniva quasi i due suddetti, ebbe nome ionico. Furono que-
sti i loro ritrovati in merito all’organismo nel suo complesso».
Il fatto che Alberti consideri l’architettura in analogia con l’infinita molteplicità
fenomenica della natura impedisce la dogmatizzazione delle sue regole. Le affer-
mazioni di Alberti rappresentano modi possibili di costruire, ma esistono alterna-
tive, menzionate in diversi casi da lui stesso. Il concetto di bellezza di Alberti va al
di là dell’estetica. Essa possiede per lui una qualità morale attiva, è una forza protet-
tiva. Alberti esprime l’audace pensiero: «La bellezza fa sì che l’ira distruggitrice del
nemico si acquieti e l’opera d’arte venga rispettata. Oserei dire insomma che nessu-
na qualità meglio del decoro e della gradevolezza formale è in grado di preservare
illeso un edificio dall’umano malvolere».
Alberti non elabora una sua teoria degli ordini architettonici. Parla degli ordini
a lui noti nel libro VII, 6, ma separa l’applicazione degli ordini dal sistema vitru-
viano del decor, la correlazione fra contenuto e compito edilizio. Per la prima volta
viene da lui riconosciuto come tale l’ordine composito – lo chiama «genus itali-
cum» – mentre non sembra considerare come ordine autonomo quello toscano. Il
concreto interesse di Alberti per gli ordini risulta limitato. È perciò molto invero-
simile che possa essere riportata a lui un’opera per lungo tempo attribuitagli, I cin-
que ordini architettonici.

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Il Rinascimento

Il concetto albertiano di ornamento (ornamentum) è più limitato di quello di Vitru-


vio. Per Vitruvio il problema del decor si configurava come adeguatezza di forma e
contenuto, non come ornamentazione accessoria. Per Alberti l’ornamento è un qual-
cosa di aggiunto, nel senso moderno di ornamentazione: «l’ornamento può definirsi
come una sorta di bellezza ausiliaria o di completamente. Da quanto precede mi pare
risultare che, mentre la bellezza vera e propria è una qualità intrinseca e quasi natura-
le che investe l’intera struttura dell’organismo che diciamo “bello”, l’ornamento ha
l’aspetto di un attributo accessorio aggiuntivo, piuttosto che naturale».
Alberti compie qui un passo concettualmente gravido di conseguenze non in-
tendendo più l’ornamento come parte integrante dell’architettura, ma indicandolo
come «attributo accessorio». Alberti anticipa un’evoluzione in cui la forma e
l’ornamento andranno sempre più staccandosi finché nascerà l’esigenza di elimi-
nare l’ornamentazione dall’architettura. I concetti decor o decus compaiono signifi-
cativamente in Alberti solo di rado e in maniera marginale, mentre l’ornamentum
ricorre con grande frequenza.
Su come vada usata l’ornamentazione Alberti si riallaccia invece a Vitruvio, fis-
sando come criterio la conformità di un edificio con la sua funzione o con chi vi
abita. Può essere buono solo ciò che è conforme al rango di ciascuno. La decora-
zione di case urbane per esempio deve mostrare una «grande serietà», quella di
case di campagna «tutto il fascino dell’allegria e della grazia». Alberti delinea una
immagine professionale dell’architetto ancor più impegnativa di quella di Vitru-
vio, pur rinunciando ad alcuni requisiti richiesti all’autore latino. Alberti considera
il bravo architetto uno scienziato dotato di alte qualità morali. L’architetto è
l’esponente di una élite: «L’architettura è una grande impresa, che non è da tutti
poter affrontare. Occorre esser provvisti di grande ingegno, di zelo perseverante,
di eccellente cultura e di una lunga pratica, e soprattutto di molta ponderatezza e
acuto giudizio, per potersi cimentare nella professione di architetto. Giacché in
architettura la maggior gloria tra tutte sta nel valutare con retto giudizio che cosa
sia degno. Costruire, infatti, è una necessità; costruire convenientemente risponde
sia alla necessità che all’utilità; ma costruire in modo da ottenere l’approvazione
degli uomini di costumi splendidi, senza peraltro esser riprovati dagli uomini fru-
gali, può solo provenire dall’abilità di un artista dotto, saggio e giudizioso». L’ar-
chitetto deve recepire in sé ciò che gli appare esemplare e imitarlo. Alberti non in-
tende però una ricezione formale, ma un approfondimento dei principi che deb-
bono essere sempre riconducibili alla legge di natura.
Per Alberti le principali materie di studio dell’architetto sono la pittura e la mate-
matica. La pittura e il disegno sono per Alberti tanto importanti perché per lui il pen-
siero architettonico si rispecchia nel progetto. Il progetto e l’esecuzione sono nella
sua concezione e nella sua opera separati. La matematica è per lui indispensabile per
ben fissare le proporzioni (finitio), senza le quali non è possibile alcuna concinnitas.
Quando Alberti iniziò la composizione del suo trattato, non aveva alcuna espe-
rienza come architetto. Solo quando si avviò al termine la prima redazione dei
suoi dieci libri sull’architettura, ultimata nel 1452, gli furono offerti incarichi ar-
chitettonici concreti. […]

97
Il Rinascimento

Il trattato di Alberti non ha mai raggiunto la forza di penetrazione e la diffusione


avute per secoli da Vitruvio, Serlio e Vignola. Il suo libro ha l’alta aspirazione di
stabilire cosa debba essere l’architettura, ma era poco utilizzabile come manuale
pratico per gli architetti dato che non venivano trattati compiti edilizi coevi e non
erano previste illustrazioni. Come riflessione teorica sull’architettura il trattato di
Alberti è forse il contributo più importante che sia mai stato prodotto. […]

Antonio Averlino detto Filarete (ca. 1400-post 1465)


Noto con il soprannome da lui stesso creato (philaretes = amico della virtù), nacque verso il
1400 a Firenze dove si formò forse nella bottega del Ghiberti come orafo e fonditore di bronzo.
Trascorse la seconda fase della sua vita a Roma (1433 ca. fino al 1448 ca.), dove nel 1445 termi-
nò il suo capolavoro scultoreo, le porte monumentali di bronzo di San Pietro commessegli da
papa Eugenio IV. Dal 1451 fu, come ingegnere e architetto, al servizio del duca di Milano France-
sco Sforza. L’incarico più importante affidatogli fu la progettazione e la direzione dei lavori per
l’ospedale Maggiore di Milano (1456-1465). Il suo trattato di architettura risale probabilmente agli
anni 1461-1464. Da una lettera di raccomandazione del 30 luglio 1465 scritta da Filelfo (Francesco
da Tolentino), amico di Filarete, al medico Georgios Amoirukios residente a Costantinopoli sap-
piamo che Filarete all’epoca accarezzava seriamente l’idea di recarsi a Costantinopoli. Niente si co-
nosce sulla realizzazione di questo viaggio e sulle sue circostanze, né sulla data di morte di Filarete.
Il trattato si presenta come un romanzo scritto in forma dialogica in cui si racconta giorno do-
po giorno la progettazione e la costruzione di una città immaginaria chiamata Sforzinda. Si è perciò
parlato con una certa legittimità di «romanzo diaristico» (G. GOEBEL, 1971, p. 35). La dedica dei
manoscritti a Francesco Sforza e a Piero de’ Medici evidenzia come Filarete, la cui carriera come
architetto non era particolarmente brillante, si aspettasse, grazie al suo trattato, commissioni edili-
zie. Non è però riuscito nello scopo. Sebbene il suo libro sia stato utilizzato verso il 1490 nella cer-
chia degli artisti milanesi (Amadeo, Francesco di Giorgio, Leonardo, Bramante, Cesare Cesariano),
esso non venne mai dato alle stampe e poté perciò esercitare un influsso limitato. Solo le edizioni
degli ultimi anni hanno consentito di studiare il suo trattato in modo sistematico.

Dal punto di vista formale lo scritto di Filarete è diviso in 25 libri di dimensioni


differenti. Le sue concezioni architettoniche non sono esposte in modo sistemati-
co, ma in una forma alquanto episodica e narrativa. La scelta della forma dialogica e
alcuni punti fondamentali della sua teoria sono stati di recente ricondotti ai dialoghi
di Platone Timeo, Crizia e Leggi. Il romanzo comincia con una cortese conversazio-
ne conviviale in cui l’architetto illustra a una cerchia di persone i principi
dell’architettura. Il racconto passa poi improvvisamente a descrivere la fondazione
e il graduale ampliamento della città di Sforzinda; questa narrazione è alleggerita da
battute di caccia e ispezioni. Nello scavo per le fondamenta di una città portuale
dipendente da Sforzinda – nel XIV libro – viene rinvenuto un «libro d’oro» conte-
nente la descrizione di un’antica città, Plusiapolis, che sorgeva in epoca antica in
quel sito. L’amico di Filarete, Francesco Filelfo, traduce questo libro il cui contenu-
to è d’ora in poi intrecciato con il racconto di Sforzinda. L’architetto dell’antica
Plusiapolis, menzionato nel «libro d’oro», è Onitoan Nolivera, anagramma di An-
tonio Averlino. Gli edifici di Plusiapolis sono ricostruiti seguendo le illustrazioni
del «libro d’oro» e corrispondono in larga parte ai progetti di Sforzinda, elaborati,
secondo il racconto, già prima della scoperta del libro. Si formula così in modo i-
nequivocabile la convinzione che i propri progetti traducano in atto le norme
dell’antichità greca. Il racconto della fondazione della città si interrompe al XXI li-

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Il Rinascimento

bro. I libri dal XXII fino al XXIV trattano di disegni, pitture e sculture, il libro
XXV descrive gli edifici eretti per incarico dei Medici a Firenze e Milano.
Filarete promette all’inizio una ripartizione sistematica della sua materia, inten-
dendo parlare prima dell’origine delle misure e della casa, poi della progettazione
di una città e infine dei diversi tipi di edifici antichi e moderni; tuttavia non rispet-
ta questo ordine. Sulla scorta delle concezioni di Vitruvio e Alberti, egli vede la
nascita dell’architettura nella necessitas. La necessità umana di avere una casa è po-
sta in analogia con quella del mangiare. Il racconto vitruviano della nascita della
casa è collegato da Filarete alla tradizione cristiana: Adamo – dopo la cacciata dal
paradiso terrestre – diventa il primo architetto e l’edificatore della capanna origi-
naria. Dobbiamo a Filarete le prime illustrazioni a noi note di questa capanna. E-
gli dimostra come Adamo si costruisca con le proprie braccia un riparo contro la
pioggia; segue la descrizione di una capanna a forma di tenda, infine quella di ca-
panne il cui tetto poggia su tronchi d’albero a forcella. Filarete spiega poi che
questi tronchi determinano al tempo stesso la nascita delle colonne e fornisce
come illustrazione alla sua teoria l’ossatura della capanna originaria, costituita da
quattro tronchi verticali con biforcazioni a ramo – dunque la «colonna originaria»
– e da tronchi orizzontali sovrapposti. La lunghezza dei sostegni era secondo Fi-
larete in rapporto alle misure dell’uomo: già nella capanna originaria si realizzano
per lui proporzioni riconducibili a quelle umane. La capanna originaria di Filarete
acquista così un valore fondamentale per l’architettura. Non ne rappresenta solo
l’inizio, ma contiene già le proporzioni e gli ordini architettonici.
Le proporzioni umane diventano in Filarete il sistema di riferimento fonda-
mentale. Filarete è il primo rappresentante di una pura antropometria: «Lo edifi-
cio è derivato dall’uomo, cioè dalla forma e membri e misura». La testa, essendo
la parte più degna del corpo umano, diventa il modulo. Filarete riesce in duplice
senso a riferire le proporzioni umane agli ordini architettonici, la cui nascita è da
lui combinata con quella della capanna originaria. Parte assiomaticamente da cin-
que misure umane che si differenziano per la loro qualità: «le qualità, secondo
posso comprendere, delle misure de l’uomo sono cinque». Naturalmente per lui
sono queste cinque qualità la base dei cinque ordini, di cui però lo interessano so-
lo i tre greci: dorico, ionico e corinzio. Egli arriva a una distinzione assai arbitraria
in base a cui la colonna dorica («misura grande») è alta «9 teste» – i concetti di
uomo e colonna, testa e capitello sono correnti in Filarete – la ionica («misura
piccola ») 7 e la corinzia («misura mezzana») 8. L’ordine dorico è per Filarete il
primo dal punto di vista storico e il più importante sotto l’aspetto qualitativo.
Adamo come immagine di Dio è per lui il modello dell’ordine dorico. In seguito
gli ordini compaiono in una chiara gerarchia come riflesso della posizione sociale.
Al «Signore» soltanto si addice l’ordine dorico, mentre «gli altri più infimi sono a
utilità e necessità e servitudine del signore». Le proporzioni delle colonne ipotiz-
zate da Filarete rappresentano un rovesciamento dei dati forniti da Vitruvio. Se si
esamina la sua illustrazione degli ordini architettonici, colpisce che la colonna de-
finita da lui come dorica non abbia niente a che fare con i modelli storici, ma cor-
risponda piuttosto a un ordine composito, mentre la colonna corinzia è raffigura-

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Il Rinascimento

ta con il fusto non scanalato e con un capitello alquanto più semplice; soltanto la
colonna ionica ha un capitello a volute. Dietro questo travisamento dei genera di
Vitruvio non sta l’ignoranza archeologica, ma un atteggiamento cristiano.
Filarete parla in generale delle massicce proporzioni dei templi antichi interpre-
tati come espressione dell’umiltà umana davanti agli dei, mentre la chiesa cristiana
con le sue proporzioni più slanciate dovrebbe innalzare l’anima alla contempla-
zione di Dio: «E come loro comunemente le [chiese] facevano basse, e noi per
l’opposito le facciamo alte […]». La posizione di Filarete nei riguardi degli ordini
architettonici è il tentativo in lui tipico di unire insieme concezioni antiche e cri-
stiane – qui orientate verso evidenti canoni gotici.
L’assolutezza delle sue concezioni antropometriche si dimostra nel fatto di ser-
virsi della « figura vitruviana» (iscrizione della figura umana nel cerchio e nel
quadrato) – da lui peraltro non illustrata – per subordinare alle misure umane an-
che le fondamentali figure geometriche: «Ma quello che sia, el circolo, tondo e ‘l
quadro e ogni altra misura è derivata da l’uomo».
Filarete sviluppa il concetto espresso da Alberti della «varietà» intesa come e-
spressione dell’individualità umana, rivendicando in analogia con le molteplici
forme umane l’unicità di ogni edificio: «Tu non vedesti mai niuno edificio, o vuoi
dire casa o abitazione, che totalmente fusse l’una come l’altra, né in similitudine,
né in forma, né in bellezza». […]
Le concezioni antropometriche di Filarete assumono ancora un nuovo caratte-
re in rapporto all’idea di organismo. Per lui l’architettura non deriva solo nelle sue
misure dall’uomo, ma assomiglia all’organismo umano. L’architettura vive, si
ammala e muore come l’uomo. Ciò che in Alberti era analogia è trasformato in
Filarete in precisa concezione: «Io ti mostrerò l’edificio essere proprio un uomo
vivo, e vedrai che cosi bisogna a lui mangiare per vivere, come fa proprio l’uomo:
e cosi s’ammala e muore, e cosi an[che] nello amalare guarisce molte volte per lo
buono medico […] Tu potresti dire lo edificio non si amala e non muore come
l’uomo. lo ti dico che cosi fa proprio l’edificio: lui s’amala quando non mangia,
cioè quando non è mantenuto, e viene scadendo a poco a poco, come fa proprio
l’uomo quando sta sanza cibo, poi si casca morto. Così fa proprio l’edificio e se
ha il medico quando s’amala, cioè il maestro che lo racconcia e guarisca, sta un
buon tempo in buono stato».
Filarete rafforza la concretezza della sua concezione organica dell’architettura al
punto da indicare il committente come il padre e l’architetto come la madre di un
edificio. L’architetto deve partorire il suo progetto e pensarci e fantasticarci su per
«nove o sette mesi». La teoria organica di Filarete implica una sorta di funzionali-
smo, che si manifesta soprattutto nella sua distinzione di tipi diversi di case private;
a tale proposito egli separa i palazzi per i nobili dalle case per i borghesi e gli arti-
giani e per gente di «bassa condizione». Queste ultime, ridotte alla loro mera fun-
zione, lo interessano poco, «perché non v’entra troppa spesa, neanche magistero».
La netta separazione del progetto architettonico dalla sua esecuzione, già pre-
sente in Alberti, è legata da Filarete al vagheggiato ideale di un’enorme crescita
del prestigio sociale dell’architetto. L’architetto è scienziato e umanista, mangia al-

100
Il Rinascimento

la tavola del duca che rispetta le sue idee architettoniche e le fa tradurre in realtà
(seppure fittizia). Il valore autonomo del progetto artistico nei confronti dell’ese-
cuzione può difficilmente trovare evidenza maggiore di quella riscontrabile nella
distinzione che porta Filarete a chiamare il «disegno» della sua città Averliano,
mentre la città edificata secondo i suoi piani Sforzinda.
La Sforzinda di Filarete è la prima città utopica progettata e illustrata del Rina-
scimento, la cui edificazione non è situata in un incerto futuro; ma nel presente
immediato (posa della prima pietra: 15 aprile 1460). Filarete non ne descrive solo
la forma e la suddivisione, ma ne illustra prima la posizione nell’ambiente cir-
costante, traducendo anche questo elemento in disegni. Nel testo dialogico si fa
continuamente riferimento ai disegni. Non si tratta solo di illustrazioni per il let-
tore, ma dell’immediato riflesso della capacità inventiva dell’architetto. I progetti
di Filarete acquistano così una autonomia o addirittura una priorità nei confronti
del testo. La rilevanza del disegno in Filarete apre per le successive teorie dell’ar-
chitettura una nuova possibilità che può portare a relegare il testo in una posizione
totalmente subordinata rispetto al disegno o addirittura a farlo scomparire del tutto.
Sforzinda ha una pianta ottagonale con un sistema radiale di strade. Al centro
si trova una piazza con i mercati contigui, il palazzo signorile e la cattedrale. Sor-
prende che Filarete descriva e illustri numerosi singoli edifici senza indicarne
l’ubicazione in città. Questo vale ad esempio per il castello, descritto peraltro in
modo molto dettagliato. I singoli edifici illustrati da Filarete in senso allegorico
occupano nel testo molto spazio, e si discostano in larga parte dall’architettura
concreta del Rinascimento. […]
Il trattato di Filarete contiene molte contraddizioni. Anche se egli si atteggia a
esponente del Rinascimento, è però concettualmente e formalmente dominato
ancora in larga, parte dalle concezioni medievali. Ma la sua città utopica contiene
per esempio, nella completezza del progetto e nelle idee di una divisione del lavo-
ro, che ricorda la catena di montaggio, elementi di sconcertante lungimiranza.
Appare dubbio che si possa invece vedere nel trattato di Filarete l’apologia di una
antichità greca cristianizzata, contrapposta alla concezione architettonica di Al-
berti di impronta romana, dato che anche Filarete si riferisce quasi esclusivamen-
te a modelli romani. La forma letteraria del romanzo utopico permette a Filarete
di sviluppare posizioni teoriche e concezioni architettoniche fino ai limiti del ridi-
colo. Ma proprio in questo atteggiamento estremo sta il suo contributo fonda-
mentale per la comprensione dell’architettura del Rinascimento.

Francesco di Giorgio (1439-1501)


Artista universale, la cui opera come pittore, scultore e architetto è ampiamente studiata,
mentre la sua attività di teorico dell’architettura è stata presa in considerazione in modo sistema-
tico solo in questi ultimi anni. Hanno esercitato un influsso su Francesco di Giorgio la sua origi-
ne senese e i soggiorni alle corti di Urbino e Napoli. La sua attività come esperto durante la co-
struzione dei duomi di Milano e Pavia (1490) e il suo incontro con Leonardo da Vinci sono ri-
masti difficilmente senza influsso sulle sue successive posizioni teoriche, mentre dal canto suo
Leonardo era al corrente della teoria architettonica di Francesco.
I manoscritti di architettura di Francesco di Giorgio sono stati redatti tra gli anni settanta e
novanta del Quattrocento. In questi ultimi anni si è potuta in larga parte chiarire la loro cronolo-

101
Il Rinascimento

gia, mentre restano sempre controverse le questioni relative all’autograficità. Durante la sua vita i
trattati non furono dati alle stampe, ma vennero abbondantemente utilizzati dagli architetti del
tardo XV e XVI secolo (fra Giocondo, Peruzzi, Serlio, Pietro Cataneo, Palladio). […]

La prima versione del trattato di Francesco di Giorgio potrebbe essere forse


costituita dal Codex Saluzzianus 148 della Biblioteca Reale di Torino, noto con il ti-
tolo Architettura, ingegneria e arte militare. Il trattato non ha una partizione sistemati-
ca e inizia subito con la teoria delle fortificazioni, un compito a cui Francesco di
Giorgio si dedicò particolarmente a partire dagli anni settanta del Quattrocento.
La dipendenza da Vitruvio e la sua posizione teorica risultano già chiare dalle
prime frasi, quando, richiamandosi a Vitruvio, afferma che ogni arte e «ragione»
devono essere desunte dal corpo umano ben proporzionato. Il concetto di un or-
ganismo articolato si manifesta quando parla del «corpo della città», a cui va ag-
giunto come testa la fortezza intesa come il «più nobile membro», e quando allega
come illustrazione una pianta della città nella quale è in scritta una figura virile e
dove la fortezza si trova al posto della testa. Francesco di Giorgio paragona il so-
vrano al medico, un’immagine che ha evidentemente desunto da Filarete, le cui
idee vengono tradotte in illustrazioni. Ma l’impostazione antropometrica non si
mantiene coerente; infatti poche pagine dopo parla di piante urbanistiche geome-
triche senza porre innanzi tutto il problema della loro analogia con il corpo umano.
Tuttavia il capitolo seguente sulla città inizia con la descrizione della figura vitru-
viana in cui il cerchio e il quadrato sono armonizzati con il corpo umano. Il dise-
gno allegato, estremamente impreciso, è con ogni probabilità la prima illustrazione
in assoluto del passo vitruviano (III, 1, 3). L’importanza fondamentale della teoria
antropometrica della proporzione è confermata nell’introduzione al capitolo sui
templi, quando afferma che tutte le misure e proporzioni architettoniche sono de-
rivate dal corpo umano. Il passo che qui troviamo sulla formazione professionale
dell’architetto rappresenta una parafrasi di Vitruvio. Lo stesso vale per la menzione
del tutto incidentale dei concetti estetici basilari, che evidentemente non lo inte-
ressano. Francesco di Giorgio non conosceva ancora il trattato di Alberti nel mo-
mento in cui scrisse questa versione. È significativo che egli faccia subito seguire a
una rassegna sui diversi tipi dei templi antichi una descrizione delle «moderne for-
mazioni». Ancora una volta le proporzioni della pianta vengono derivate dal corpo
umano e il coro paragonato alla testa: «Ed avendo le basiliche misura e forma del
corpo umano, siccome il capo dell’omo è principal membro d’esso, così la maggior
cappella formar si debba come principale membro e caso del tempio».
Anche questa affermazione viene illustrata con disegni. Sono dettagliatamente
illustrati con testo e immagini i templi poligonali e rotondi. Nel capitolo sulle co-
lonne Francesco di Giorgio riesce a tradurre in disegni anche le affermazioni di
Vitruvio sui genera (IV, 1). Arriva al punto di illustrare con disegni lo sviluppo de-
gli ordini architettonici dalle proporzioni del corpo umano e di spiegare le scana-
lature con il numero delle costole.
I capitoli successivi contengono nell’ambito del medesimo atteggiamento fon-
damentale indicazioni e esempi relativi alla geometria, ai singoli compiti edilizi e
alla costruzione di macchine.

102
Il Rinascimento

In appendice al trattato troviamo un compendio a sé stante sull’architettura ro-


mana antica. Francesco di Giorgio esprime il timore di vedere presto scomparire
molti edifici dell’antichità; vuole perciò fissarli nei disegni. È fuori discussione il ca-
rattere esemplare dell’architettura antica, quando adduce come motivazione un «ac-
ceso desiderio di volere quelle innovare». Si tratta in parte di ricostruzioni fantasti-
che, come ad esempio quelle del Campidoglio e del Palatino. In queste ricostruzio-
ni colpisce che Francesco di Giorgio parta nella forma e anche nell’articolazione
della pianta da una totale simmetria, un principio che ci aspetteremmo di incontra-
re solo nel Cinquecento. Nelle sue ricostruzioni compaiono una serie di antichi edi-
fici rotondi come modelli per il tempietto di San Pietro in Montorio costruito dal
Bramante. Questi disegni di edifici antichi, pur privi di qualsiasi ordine sistematico,
erano evidentemente destinati alla pubblicazione. Rappresentano il primo compen-
dio dell’architettura antica fatto dal Rinascimento.
La successiva versione del trattato, ora intitolato Architettura civile e militare, ha
una struttura organica. Il manoscritto della Biblioteca Nazionale di Firenze, Codi-
ce Magliabechiano II, I, 141, è stato probabilmente terminato nel 1492. Il trattato
è suddiviso in sette libri, più una prefazione e una conclusione:
1. condizioni preliminari per la costruzione. Teoria dei materiali;
2. costruzione di case e palazzi. Metodi di rinvenimento dell’acqua;
3. castelli e progettazione di città;
4. costruzione di templi;
5. forme della fortificazione;
6. impianti portuali;
7. macchine mobili da trasporto etc.

Nella prefazione Francesco di Giorgio motiva la sua impostazione teorica. Il


punto di partenza è per lui lo studio degli antichi testi e monumenti dei quali si
vanta in Italia di «aver visto e considerato la maggior parte». Lamenta le difficoltà
di comprensione dell’antica terminologia che intende superare ricorrendo al con-
fronto con le forme architettoniche rimaste («concordando il significato col se-
gno»). Vitruvio resta per lui la fonte principale, ma fa riferimento anche ad «alcu-
ni moderni», che sente però come già superati. Francesco di Giorgio ritiene che
l’architettura sia stata riscoperta («ritrovata») solo in tempi recentissimi, e ugual-
mente i suoi «fondamenti, regole e conclusioni», e afferma che l’architettura mo-
derna è piena di errori e di proporzioni sbagliate. Il suo orizzonte intellettuale si è
notevolmente ampliato rispetto alla precedente versione, dato che si richiama e-
splicitamente alla filosofia platonica e aristotelica e pone come fulcro della sua te-
oria architettonica la considerazione che l’uomo è un «animale sociabile» (Aristo-
tile: zoon politikon). Sta anche qui la sua intima relazione con Alberti.
Nel II libro Francesco di Giorgio raccomanda una attività edilizia in armonia
con il clima, ricollegandosi così a Vitruvio, ma al tempo stesso ponendo in discus-
sione l’assoluta normatività dell’architettura. Per la costruzione di case elabora una
tipologia che va oltre Filarete, distinguendo cinque tipi fondamentali illustrati con
numerose varianti: abitazioni per contadini, artigiani, eruditi, mercanti e nobili. Tale
suddivisione è motivata dalla funzione a cui le case sono adibite. Per esempio la ca-

103
Il Rinascimento

sa dell’artigiano avrà l’officina sotto l’abitazione, in modo che questi e i suoi aiutan-
ti possano lavorare indisturbati e vendere le loro mercanzie. Come Alberti, parla
della costruzione di palazzi senza distinguere fra i diversi sistemi politici, quali la
repubblica e la tirannide, ma crede anche lui in una repubblica ideale.
Nel III libro (sui castelli e la progettazione di città) Francesco approfondisce i
pensieri già esposti nella prima versione del suo trattato. Sono adesso posti in a-
nalogia non solo l’uomo e l’architettura, ma anche l’uomo e il cosmo ed è quindi
gettato un ponte verso il mondo concettuale dell’alto Medioevo: «l’omo, chiama-
to piccolo mondo, in sé tutte le generali perfezioni del mondo totale contiene». In
quest’ottica sembra meno arbitraria la sua affermazione che «le colonne espres-
samente quasi tutte le proporzioni hanno dell’omo». La piazza diventa l’ombelico
della città da cui parte tutto il nutrimento. L’analogia fra la città e la casa, formula-
ta da Alberti, viene riportata in Francesco di Giorgio alle proporzioni dell’uomo
che da parte sua ha in sé l’ordine del cosmo.
Nel IV libro (sui templi) ritorna l’antica antinomia di forme fondamentali geo-
metriche e proporzioni antropometriche dato che Francesco dichiara la forma ro-
tonda la più perfetta per la pianta del tempio. Con criteri molto formalistici indica
qui come altri tipi fondamentali di piante il rettangolo e la combinazione di cer-
chio e rettangolo. Parlando degli ordini architettonici, Francesco sviluppa una
storia della genesi dell’architettura, ma parte, a differenza di Filarete, non da
un’originaria corrispondenza fra le proporzioni della colonna e dell’uomo, ma da
un loro graduale avvicinamento. Afferma di aver individuato con approfondite
misurazioni le proporzioni delle colonne e dei capitelli in cui fa coincidere misure
umane e archi te ttoniche, pervenendo con questo confronto a una «regola gene-
rale» che collima con le proporzioni delle colonne fissate da Vitruvio.
Francesco spinge però il principio della proporzione antropometrica ancora ol-
tre, desumendo anche la trabeazione del tempio dalle proporzioni della testa uma-
na. Nel tempio è possibile per lui avvertire, leggere e misurare in ogni particolare il
corpo umano. Come esempio di una chiesa a pianta rettangolare mette a frutto le
esperienze da lui fatte nella progettazione di Santa Maria delle Grazie al Calcinaio
di Cortona (ca. 1484-1490). Nel caso di questo edificio Henry Millon (1958, pp.
256-261) ha analizzato convincentemente la sua realizzazione architettonica sulla
base di un confronto con i sistemi modulari descritti da Francesco (che usa un
modulo di 7 e uno di 9). Va però detto che Francesco parte nella prassi da un de-
terminato schema modulare al quale adegua la figura umana, e non viceversa.
Nel V libro Francesco descrive e illustra una straordinaria quantità di progetti
per fortificazioni, un settore in cui aveva lavorato soprattutto per Federico da
Montefeltro del quale ha un preciso ricordo. Tuttavia in questa versione del trat-
tato rinuncia alla forzata analogia con il corpo umano. Alla fine di questo libro
viene a parlare dell’importanza del disegno per la progettazione architettonica. Il
disegno ha per lui il compito di comunicare ciò che la parola non può e che è in-
sito nella «discrezione» e nel «giudizio» dell’artista. Con chiarezza ancora maggio-
re Francesco spiega la funzione basilare delle illustrazioni nel VI libro del suo
trattato in cui dice che l’architettura non consiste solo di «concetti della mente»,

104
Il Rinascimento

ma che questi devono essere travasati nel «disegno». Rivendica il collegamento fra
teoria dell’architettura da una parte e capacità ed esperienza dall’altra. Se il rap-
porto fra testo e illustrazione era ancora in Filarete un legame schematico che
presupponeva una differenziazione abbastanza rigida tra il progetto artistico e la
sua esecuzione, in Francesco di Giorgio si manifesta un’assoluta unità. Quando
nella conclusione afferma che «non può senza il disegno esprimere e dichiarare il
concetto suo», ciò rappresenta un chiaro distacco dall’impostazione umanistico-
letteraria di Alberti. Francesco resta come teorico lo scrittore empirico che intra-
prende l’arduo tentativo di conciliare le sue esperienze con l’assioma secondo cui
tutta l’architettura si sviluppa dalle misure dell’uomo. Realizza con estrema coe-
renza l’applicazione nell’architettura di un modulo desunto antropometricamente,
anche se fornisce una motivazione metafisica.

[brani tratti liberamente da H.-W. KRUFT, Storia delle teorie architettoniche.


Da Vitruvio al Settecento, Roma-Bari 1988, pp. 33-59].

Architetti e opere

Filippo Brunelleschi (1377-1446)


Paradossalmente, la fama di Brunelleschi e la convinzione che egli avesse ri-
portato in uso gli antichi metodi di costruzione, sono entrambe dovute alla solu-
zione che seppe dare al problema, apparentemente insolubile, posto dalla cupola
della cattedrale di Firenze. Eppure, in realtà, l’opera non può affatto essere consi-
derata “rinascimentale”, dal momento che il principio che ne è alla base non a-
vrebbe potuto essere tradotto in pratica senza la tradizione gotica che Brunelle-
schi, al pari dei suoi muratori, aveva ereditato dal secolo precedente.
All’origine del problema va posta la decisione di ricostruire la loro antica catte-
drale, presa dai fiorentini sin dal 1294 nell’intento di affermare la supremazia della
città su tutta la Toscana. Il primo progetto per la nuova costruzione fu concepito
da Arnolfo di cambio negli anni immediatamente precedenti il 1300, ma fu consi-
derevolmente ampliato da Francesco Talenti mezzo secolo più tardi, con il propo-
sito, fra l’altro, di superare con ampio margine le cattedrali di Pisa, Lucca e Siena.
Sembra certo che originariamente la pianta di Arnolfo fosse composta da una larga
navata terminante in un grande spazio ottagonale, su tre lati del quale si aprivano il
coro e le due ali del transetto. L’idea di un ottagono anziché di un quadrato è quasi
certamente dovuta alla presenza del vicino battistero, che si pensava allora fosse un
antico tempio romano dedicato a Marte e ridedicato a san Giovanni Battista, pa-
trono di Firenze. Nel battistero l’ottagono è coperto da una cupola di circa 27 me-
tri di diametro, ma tale soluzione sarebbe stata di difficile impiego nella cattedrale,
poiché in essa il vano da coprire ne misurava 52. L’intenzione di coprire la cattedra-
le con una volta è implicita nei primi progetti anche se non è ben noto il procedi-
mento cui Arnolfo pensava di ricorrere. L’affresco di Andrea da Firenze nella cap-

105
Il Rinascimento

pella degli Spagnoli di Santa Maria Novella (1367 circa) prova che nel tardo Tre-
cento si pensava a una cupola senza tamburo, quale possibile soluzione anche dopo
l’ampliamento apportato al progetto dal Talenti.
Brunelleschi fu consultato in merito alla cattedrale per la prima volta verso il
1404, ma, a quanto sembra, cominciò a riflettere sul problema, fattosi sempre più
pressante a partire dagli ultimi anni del XIV secolo, solo parecchi anni più tardi. Il
nuovo ottagono era stato a tal punto ampliato da rendere impossibile il rinveni-
mento di travi lunghe o forti a sufficienza per servire da impalcatura sulla quale
costruire una cupola; nei limiti della tecnica edilizia tradizionale, perciò, la coper-
tura della cattedrale appariva impossibile, e i fiorentini si trovarono ad affrontare
la prospettiva di dover abbandonare la loro grandiosa impresa, per quanto ap-
poggiata dallo stato stesso, e divenire così lo zimbello dei vicini. Gli aneddoti
contenuti nell’anonima Vita di Brunelleschi e nel Vasari permettono di rendersi
conto del dilemma in cui ebbero a trovarsi gli operari. A peggiorare la situazione
intervenne la sorprendente decisione, presa nel 1410, di costruire un tamburo so-
pra l’apertura dell’ottagono: al momento del suo completamento, nel 1413,
l’altezza complessiva, dal suolo alla sommità del tamburo, ascendeva così a circa
56 metri. La decisione, quasi inspiegabile, di accrescere le difficoltà già esistenti
con la costruzione di un tamburo va forse giustificata con il desiderio di tempo-
reggiare, in attesa che andasse maturando una soluzione al problema della cupola.
Poiché, in realtà, il tamburo doveva avere pareti relativamente sottili, non essen-
dovi spazio alcuno ove inserire i supporti destinati a scaricare le spinte laterali,
qualunque cupola costruita su di esso avrebbe dovuto esercitare una spinta latera-
le ancor inferiore a quella di una cupola che poggiasse direttamente sulla sommità
dell’apertura dell’ottagono, adottando cioè una soluzione del tipo di quella raffi-
gurata nell’affresco della cappella degli Spagnoli e, probabilmente, di quella origi-
nariamente prevista da Arnolfo.
Con ogni probabilità Brunelleschi iniziò a pensare seriamente al problema do-
po quella decisione, rendendosi verosimilmente conto della fama immortale che
attendeva chi lo avesse risolto. I documenti dell’Opera alludono spesso a Brunel-
leschi e ad altri con riferimento a disegni e modelli e dimostrano, a partire dal
1417, che egli dedicava al problema molto tempo e studio. Il suo biografo sembra
suggerire che egli fosse già stato a Roma almeno una volta e questa sembra infatti
l’ipotesi più verosimile, poiché non avrebbe potuto intuire i principi costruttivi
delle cupole romane e applicarli alla soluzione del suo problema se non combi-
nando la sua conoscenza dell’edilizia gotica con uno studio di prima mano dei
metodi usati dai Romani nella costruzione delle volte. Allo studio del battistero
stesso deve aver fatto seguito l’analisi di varie costruzioni romane minori in stato
di parziale rovina e d’altra parte l’esame approfondito dell’unica costruzione per-
venutaci intatta dall’epoca classica, il Pantheon. Conservato quale chiesa di Santa
Maria ad Martyres, quest’ultimo presenta una cupola emisferica perfettamente con-
servata, larga 43 metri, con al centro un grande oculo della larghezza di metri.
Benché l’edificio costituisse la prova incontrovertibile della possibilità di coprire
uno spazio ampio quanto quello della cattedrale fiorentina, Brunelleschi dovette

106
Il Rinascimento

tuttavia rendersi conto per tempo di non poterne copiare puramente e semplice-
mente la cupola, sostenuta da pareti cilindriche di enorme spessore, poiché
l’intera costruzione in calcestruzzo era visibilmente troppo pesante per potere es-
sere eretta, anche nella forma più leggera possibile, sulle strutture della cattedrale
di Firenze. Ma l’ispirazione gli venne dalla considerazione che il Pantheon doveva
essere stato costruito senza centine, dal momento che gli architetti romani – co-
me d’altra parte egli stesso – non potevano aver trovato alberi di sufficiente gran-
dezza, e che, quindi, esisteva la possibilità di costruire senza centine una cupola
immensa. Nel contempo non poté sfuggirgli che una delle condizioni essenziali
della soluzione romana era l’assorbimento delle spinte laterali nelle immense pa-
reti, proprio ciò che la costruzione del tamburo gli vietava di fare. Lo studio delle
cupole in rovina dovette permettergli di capire che il Pantheon fu costruito senza
impalcatura sovrapponendo degli anelli di calcestruzzo in strati orizzontali e con-
centrici, ciascuno dei quali doveva consolidarsi prima della sovrapposizione di
quello successivo, più piccolo. Si spiegava così l’enorme oculo aperto alla sommi-
tà, che doveva riuscire affatto incomprensibile a un muratore del tempo, abituato
a pensare in termini di costoloni verticali congiungentisi in una chiave di volta.
Solo la conoscenza diretta che Brunelleschi possedeva della tecnica dei costoloni
gli permise di combinarne l’impiego, quali elementi portanti, con l’adozione di un
metodo di costruzione orizzontale, nel quale gli anelli concentrici non sono
nient’altro che costoloni riportati su di un piano orizzontale. Nel 1420 egli pre-
sentò agli operari un memorandum (pervenutoci in versioni leggermente differen-
ti) che, pur non del tutto perspicuo, poiché Brunelleschi cercava faticosamente le
parole atte ad esprimere un’idea che egli stesso poteva ancora soltanto intravede-
re e che andava oltre la comprensione della maggior parte dei suoi interlocutori,
perveniva tuttavia a chiarire il punto essenziale: la necessità, cioè, di elevare un
costolone principale a ogni angolo dell’ottagono esistente, intercalandovi due co-
stoloni più piccoli. In tal modo ve ne sarebbero stati 24, innalzantisi secondo di-
rettrici autoportanti, che avrebbero formato uno scheletro su cui appoggiare la
copertura della cupola […].
In origine, Brunelleschi volle certo imitare la forma del Pantheon con la co-
struzione di una cupola perfettamente emisferica, essendo probabile che egli fos-
se allora così entusiasta delle qualità strutturali dell’architettura romana da volerne
imitare le forme esterne, diverso in questo da tutti gli altri architetti del Quattro-
cento, Alberti in particolare, che partivano dall’assunto che l’architettura romana
andasse imitata per la bellezza delle sue forme – considerando l’emisfero per sua
propria natura più bello dell’arco a sesto acuto – e che invece i metodi costruttivi
usati dagli antichi non dovessero interessare necessariamente gli architetti moder-
ni. In ciò, naturalmente, essi seguivano puramente e semplicemente l’esempio of-
ferto dagli umanisti nella scelta di Cicerone quale modello di stile.
In realtà la cupola brunelleschiana è a sesto rialzato, poiché l’altezza è di oltre
30 metri, mentre il raggio non raggiunge i 21 metri. Risulta evidente dal memo-
randum che egli fu costretto ad adottare tale forma, poiché tutta l’esperienza
dell’edilizia gotica indicava che l’arco a sesto acuto esercita una spinta laterale no-

107
Il Rinascimento

tevolmente inferiore di quello a tutto tondo. La seconda innovazione introdotta,


l’impiego di una doppia copertura, mirava a ridurre il peso quanto più possibile;
una volta di più egli doveva essersi reso conto che il Pantheon, con il suo bellis-
simo soffitto a cassettoni, era stato così concepito per ridurre la pesantezza del
calcestruzzo nella cupola effettivamente costruita. […]
Il lavoro per la cupola occupò Brunelleschi dall’inizio della costruzione, nel-
l’agosto del 1420, sino al completamento della cupola vera e propria, nell’agosto del
1436, e alla preparazione della base della lanterna che progettò ma che la morte gli
impedì di costruire. In quei sedici anni di lavoro per la cupola Brunelleschi deve
avere dedicato a essa la maggior parte della sua attenzione, intraprendendo però nel
contempo un certo numero di altre opere dove l’evoluzione del suo stile sta a di-
mostrare che le sue idee estetiche potevano procedere senza essere condizionate
dalla tecnica costruttiva che nella cattedrale costituiva invece il fulcro delle sue pre-
occupazioni. Lo studio approfondito dei metodi costruttivi romani lo resero così fa
miliare con le forme e con gli ideali architettonici degli antichi, che non possono
sorprendere le caratteristiche formali sempre più romane e “classiche” assunte dalla
sua stessa opera architettonica. […]
Lo Spedale degli Innocenti fu il suo primo lavoro, ma sembra che gran parte
dell’esecuzione ne sia dovuta ad altri, poiché egli era personalmente troppo occu-
pato con la cattedrale. Così l’anonimo biografo giustifica gli apparenti solecismi
della costruzione, quali il trattamento della trabeazione principale con il fregio che
termina in cornice o l’architrave piegata all’ingiù parallelamente al pilastro che la
regge. Tale modulo è rinvenibile nel battistero ed è probabile che Brunelleschi
non fosse ancora in grado di distinguere fra esso e la genuina opera romana, i
moduli decorativi del battistero dovendogli sembrare affatto compatibili con
quanto sapeva in generale della decorazione romana.
La prima delle sue due chiese a croce latina fu San Lorenzo dove cominciò,
sotto il diretto patronato dei de’ Medici, con la ricostruzione della Sagrestia Vec-
chia. Poiché la lanterna sembra recare la data del 1428, la costruzione (se non la
decorazione) della Sagrestia fu la prima parte dell’edificio a essere completata; ma
la chiesa stessa, insieme con quella posteriore di Santo Spirito, fornì alle genera-
zioni seguenti un esempio normativo di chiesa basilicale. La pianta a croce latina
di San Lorenzo deriva sostanzialmente dai modelli medievali, rappresentati a Fi-
renze da Santa Croce, caratterizzati da una lunga, larga navata centrale affiancata
da due navate laterali, da un transetto non grande che incontra la navata così da
formare uno spazio quadrato all’incrocio, e completati da una grande cappella
formante il coro, con numerose cappelle più piccole su entrambi i lati. Questo ti-
po di pianta traeva la sua origine diretta dalle basiliche paleocristiane di Roma, ma
era andata modificandosi per l’influenza dell’architettura cistercense, durante il
XII e il XIII secolo. Brunelleschi, cui dovevano essere ben note le grandi basili-
che romane, ritornò al tipo di pianta più tradizionale, apportandovi alcune modi-
fiche intese a rendere la chiesa più confacente alle necessità moderne. Santa Cro-
ce presenta all’estremità orientale dieci piccole cappelle sussidiarie, e l’uso di crea-
re piccole cappelle, con il patronato di famiglie private, era andato radicandosi nel

108
Il Rinascimento

Trecento. Poiché invece nei primi tempi del cristianesimo quest’uso era scono-
sciuto, e, d’altra parte, non tutti i sacerdoti celebravano quotidianamente la messa,
le basiliche romane prevedevano un solo spazio per l’altare maggiore. Nella pian-
ta per San Lorenzo Brunelleschi volle introdurre lo stesso numero di cappelle esi-
stenti in Santa Croce, modificando però il resto della chiesa così da imitare la se-
quenza spaziale di un edificio quale Santa Sabina, costruita nel V secolo.
La pianta rivela che egli mosse dallo spazio quadrato all’incrocio fra il transetto e
la navata, ottenendo poi con la sua semplice ripetizione i due bracci del transetto e
il coro. La navata principale, a sua volta, è costituita da quattro quadrati, e le navate
laterali sono composte anch’esse da quadrati, pari ciascuno a un quarto dell’unità
principale. Per conservare la simmetria fondamentale le cappelle ai due lati del coro
dovevano essere eguali all’intercolumnio delle navate laterali, cosicché, per predi-
sporne un numero sufficiente – cinque a ogni lato –, si rese necessario continuarle
tutt’intorno al transetto, conservando in uno degli angoli lo spazio per la Sagrestia
Vecchia. La pianta originale di San Lorenzo, progettata nel 1419, fu modificata ne-
gli anni successivi al 1440 con la aggiunta di dodici cappelle ulteriori oltre sulle ali
minori, inserite nelle pareti di queste ultime con la creazione di un piccolo spazio
rettangolare pari alla metà di un loro intercolumnio. La pianta di San Lorenzo ub-
bidisce pertanto a rapporti matematici semplici del tipo 1:2 o 1:4 […].
Il ritorno di Brunelleschi a un prototipo classico ebbe successo anzitutto per
l’intrinseco rigore matematico, in accordo con la moda delle arti a Firenze nel terzo
e, in parte, anche nel quarto decennio del secolo. Più scontato era il suo “classici-
smo” in dettagli quali le colonne corinzie dai capitelli abbastanza ortodossi reggenti
archi semicircolari e la copertura tradizionale della navata, piatta ma dipinta in mo-
do da rendere l’illusione dei cassettoni (in pratica né il soffitto di San Lorenzo né
quello di Santo Spirito vennero eseguiti quando Brunelleschi era ancora in vita). La
natura sperimentale del classicismo adottato nel progetto per San Lorenzo risulta
più evidente dal raffronto diretto con Santo Spirito. In San Lorenzo le proporzioni
matematiche, evidenti nella pianta, lo sono meno nell’alzato, poiché l’altezza delle
navate laterali non presenta alcun rapporto semplice con l’altezza della principale.
Brunelleschi utilizzò certamente i suoi studi di prospettiva nella costruzione degli
archi rientranti della navata e delle cappelle, come del pari seppe sfruttare il contra-
sto fra le levigate colonne corinzie della navata e i pilastri leggeri e scanalati agli in-
gressi delle cappelle. In Santo Spirito il classicismo venne portato a uno stadio più
avanzato, assoggettando l’intero spazio interno agli stessi principi matematici della
pianta, mentre, al contempo, i particolari divennero più pesanti e scultorei: più vi-
cini, in sintesi, agli esempi imperiali romani. Identica è la prospettiva visiva dalla
navata verso le navate laterali, ma in Santo Spirito queste ultime misurano metà
dell’altezza della navata centrale, stabilendo così un rapporto proporzionale assente
in San Lorenzo. Più scontato è il ritmo greve e severo conferito all’interno dagli e-
lementi dell’arcata, dalle volte e specialmente dalle mezze colonne all’ingresso delle
cappelle. Si è voluto supporre che nella revisione finale di Santo Spirito Brunelle-
schi volesse introdurre, al posto del soffitto piatto, una volta a botte semicircolare,
ciò che avrebbe certamente aggiunto un’altra dimensione alle complesse curve cor-

109
Il Rinascimento

relate dell’edificio, ma la supposizione non è sufficientemente fondata e, in ogni ca-


so, un soffitto piatto è maggiormente tipico dei prototipi paleocristiani come per
esempio San Paolo fuori le mura. La gravitas romana assume uno speciale rilievo
nella selva di colonne che circondano il coro e il transetto, ed è assai probabile che
nel progetto originale il portico dovesse continuare nella medesima direzione oltre
l’estremità occidentale. Le numerose cappelle differiscono da quelle di San Lorenzo
per la pianta semicircolare, sempre proporzionata però alla misura dell’interco-
lumnio delle ali laterali; la ripetizione di profonde incurvature concave, in contrasto
con le semicolonne convesse degli ingressi, conferisce all’intero spazio interno di
Santo Spirito un senso massicciamente scultoreo, mentre, al confronto, San Loren-
zo pare relativamente leggero. […]
Stilisticamente, l’accresciuta gravità e romanitas delle opere brunelleschiane va at-
tribuita all’ultima decade della sua vita. Il gigantesco lavoro della cupola fu comple-
tato con l’aggiunta della lanterna, progettata verso il 1436, e con le decorative ese-
dre collocate al di sotto del livello del tamburo. Dallo studio delle esedre emergono
due fatti significativi: innanzitutto, che esse furono iniziate nel 1438, e poi che il
progetto fu modificato con la sostituzione di semicolonne ai pilastri menzionati in
un documento. La pianta mette in luce la loro somiglianza con la metà di una chie-
sa a pianta centrale, dovuta a un’alternanza di curve concave e convesse affatto
analoga a quella delle cappelle di Santo Spirito. Il modello di pianta centrale delle
esedre trova il suo parallelo nella pianta della lanterna ed entrambe derivano da
prototipi romani, per esempio il Tempio di Minerva Medica. […]
[liberamente tratto da P. MURRAY, Rinascimento, Milano 1971, pp. 12-24].

Leon Battista Alberti (1404-1472)


[…] La prima opera architettonica documentata di Alberti è il rifacimento della
chiesa di San Francesco a Rimini, solitamente denominata tempio Malatestiano.
La facciata e i fianchi della chiesa sono un’opera autografa di Alberti, e con il loro
adattamento di soluzioni e motivi ripresi dall’antico rappresentano un modo
completamente nuovo di concepire l’architettura sacra. La medaglia di fondazio-
ne e alcune lettere rimaste ci danno idea di come Alberti avrebbe voluto comple-
tare la chiesa, se le fortune del committente, Sigismondo Malatesta, non fossero
precipitate dopo il 1462. […]
La nuova decorazione della chiesa iniziò nel 1447, con le cappelle di San Sigi-
smondo e San Michele, anche se probabilmente Sigismondo pensò a decorare
completamente l’interno non prima del 1450. Gli archi a sesto acuto, sebbene
mascherati dagli archi volti rinascimentali, non riescono a celare le loro origini go-
tiche, ma sono inquadrati da paraste scanalate, con in basso un ordine maggiore
su piedistalli e sopra uno più piccolo superiore, che poggia su piedistalli molto al-
ti. Nonostante lo scarto dimensionale, la presenza di elefanti come sostegno dei
pilastri, i differenti tipi di capitelli e l’abbondanza di decorazioni scultoree, l’effet-
to è armonioso e unitario. La conformazione dell’interno è senza precedenti, ed è
la risposta di un ingegno ricco di risorse a un problema insolitamente complesso.
Gli elementi preesistenti sono trasformati e resi più grandiosi, ma con interventi

110
Il Rinascimento

strutturali ridotti al minimo. Il progetto mostra un’affinità con la più tarda tra-
sformazione di Santa Maria Novella […].
Gli studiosi hanno escluso la possibilità di una partecipazione di Alberti al
progetto di questo interno, ma tale esclusione appare troppo affrettata, basata
com’è sull’assunto che le sue proposte per l’interno dovessero essere simili per
grado di precisione al progetto per l’esterno. La varietà e la mancanza di unifor-
mità nell’interno non significano infatti che non ci fosse un singolo progetti sta
per la concezione d’insieme: l’originalità e l’intelligenza architettonica che trovia-
mo all’interno sembrano indicare che il vero coordinatore sia stato Alberti. Que-
sta ipotesi darebbe luogo a una storia alquanto differente e più semplice di quella
comunemente accreditata. Sigismondo ottenne il favore di papa Nicolò V sin
dall’inizio del suo pontificato. Già il 12 settembre del 1447 Nicolò autorizzò Isot-
ta (amante e poi moglie di Sigismondo) a spendere 500 ducati per trasformare la
cappella di San Michele nella chiesa, e nel 1448 estese i diritti di Sigismondo alla
nuova cappella di San Sigismondo. Dopo questi segni di ordinaria cortesia, Sigi-
smondo ebbe un’accoglienza molto cordiale, con ampi riconoscimenti di diritti su
città e terre in suo favore, quando nella tarda estate del 1450 andò a trovare il
pontefice a Fabriano, dove la corte papale si era rifugiata per scampare alla peste.
La data del 1450 appare sugli archi delle cappelle all’interno e sulla medaglia (do-
ve compare la scritta V/OTVM/F/ECIT), nonché sulla stessa facciata. Per qual-
che motivo personale, nel 1450 Sigismondo fece voto di rimodellare tutto
l’interno della chiesa, e probabilmente di ricostruire anche l’esterno. Il suo in-
contro con il papa a Fabriano, tra luglio e agosto, quando Alberti era probabil-
mente presente, fu forse il momento in cui Sigismondo domandò un’ulteriore au-
torizzazione papale per i lavori in chiesa, e quando Alberti, di propria iniziativa o
dietro suggerimento del papa, offrì quantomeno alcune proposte preliminari per
completare l’abbellimento dell’interno e per trasformare l’esterno.
Non conosciamo la data precisa del progetto albertiano per l’esterno e per una
crociera con cupola. La famosa medaglia di fondazione si limita a riportare la data del
voto e non è a sua volta datata. In una cronaca scritta a Forlì risulta che Sigismondo
dette inizio a importanti lavori in chiesa nel 1453: cosa che può riferirsi all’inizio della
realizzazione dell’esterno, dato che dei lavori erano in corso già da sei anni.
Il modo in cui Alberti dà forma a un nuovo esterno per la chiesa preesistente è
semplice, efficace e originale. La nuova facciata viene costruita davanti alla vec-
chia, proprio come il nuovo arco de’ Leoni a Verona era stato costruito davanti alla
porta Romana. Sui fianchi, Alberti separa completamente la nuova struttura da
quella vecchia, impiegando una serie di archi su massicci pilastri di tipo romano,
modellati direttamente su quelli interni del Colosseo fin nei profili delle imposte.
Nel livello inferiore della facciata l’impianto di base deriva da un’altra opera
d’epoca romana, l’arco di Augusto a Rimini, che sembra suggerire un parallelo tra
l’imperatore romano e Sigismondo, ribadendo così il carattere trionfale dell’appa-
rato decorativo usato all’interno. I capitelli delle colonne non sono copiati
dall’arco di Augusto ma sono di tipo composito, con elementi dorici, ionici e co-
rinzi, oltre alle teste di cherubino coronate tra le volute. […]

111
Il Rinascimento

La parte superiore della facciata poneva problemi più complessi, dato che bi-
sognava raggiungere un’altezza utile a celare il tetto della navata e al tempo stesso
a coprire i tetti più bassi sopra le cappelle, e il tutto con una composizione unita-
ria che doveva basarsi sull’arco trionfale inferiore. La soluzione di Alberti è quella
di riprendere l’arco centrale inferiore con un secondo arco (o un frontespizio ar-
cato) su pilastri arricchiti da paraste scanalate, reso ancor più alto con un girale di
fogliame scolpito. Il finestrone è rettangolare con l’architrave sorretto da due co-
lonne. L’idea del frontespizio semicircolare può essere stata suggerita dal San
Marco di Venezia, anche se compare in antichi monumenti funebri e templi raffi-
gurati su monete romane. Nel 1454 Alberti modificò il progetto della medaglia
inserendo nel modello ligneo un elemento triangolare al posto dei semifrontoni
curvi inizialmente concepiti.
Per la navata Alberti, per ragioni statiche e formali, avrebbe voluto una volta a
botte realizzata in legno. La medaglia mostra una cupola semi sferica ampia quan-
to la facciata. Questa cupola può mettersi in relazione al parere di «Manetto», se-
condo cui «le chupole deno esser due larghezze alte» e alla critica mossagli da Al-
berti: «io credo più a chi fece Therme et Pantheon et tutte queste cose maxime
che a lui». Almeno all’esterno, la cupola della medaglia è leggermente più alta del
suo raggio e, a differenza del Pantheon, la sua conformazione è pienamente mo-
strata all’esterno. L’influenza del Pantheon è tuttavia chiara. […]
È singolare che tutte le opere di Alberti siano restate incompiute tranne quelle
realizzate per Giovanni Rucellai e il coro dell’Annunziata a Firenze, ma c’è una
spiegazione. Sigismondo Malatesta venne emarginato politicamente e perse le sue
ricchezze; Ludovico Gonzaga, appassionato ed esperto mecenate, cercò di fare
troppo con entrate limitate e alla fine fu in grado di terminare solo la tribuna
dell’Annunziata, i cui fondi non potevano essere usati per altri fini. […]
La prima delle opere intraprese per Giovanni Rucellai è la facciata della sua ca-
sa su via della Vigna. Nel 1452 la ristrutturazione dell’interno, con il cortile, la
loggia e l’androne, era completata. Brenda Preyer (1981, pp. 182-184) ha dimo-
strato che i lavori per la facciata iniziarono quasi certamente dopo il 1452 (sugge-
rendo come data verosimile il 1453), con un progetto a cinque interassi che pro-
babilmente fu ampiamente completato nel 1458. In quell’anno Giovanni acquistò
un’altra casa su via della Vigna, e il rivestimento lapideo venne esteso a que-
st’ultima tra il 1465 e il 1470, mentre il tentativo di persuadere un parente a ven-
dere la casa subito oltre quell’ampliamento non ebbe esito, e così ancor oggi la
facciata si interrompe bruscamente e irregolarmente. La paternità albertiana della
facciata a cinque interassi non è confermata da una documentazione coeva, ma ri-
sulta con chiarezza a un esame diretto. Come nel caso del tempio Malatestiano,
doveva apporre una nuova facciata a un edificio già esistente, con tutte le difficol-
tà che questo comporta. Ma, a differenza di Rimini, Alberti doveva raggiungere
l’effetto voluto innestando una sottile impiallacciatura lapidea sul muro esistente,
visto che la facciata doveva rispettare la disciplina degli allineamenti imposta a
tutte le principali arterie di Firenze. Palazzo Medici, iniziato solo una decina di
anni prima, offriva un importante punto di riferimento per il progetto di Alberti.

112
Il Rinascimento

Il palazzo di Cosimo, con i suoi riferimenti sia a palazzo Vecchio sia all’antico,
divenne immediatamente l’archetipo del grande palazzo fiorentino, espressione al
tempo stesso di potere, ricchezza e cultura umanistica. Palazzo Rucellai ne ri-
prende il pronunciato cornicione, le finestre a bifora, gli irregolari ricorsi di bugne
del piano nobile, la progressiva riduzione dell’altezza dei piani, la decisione di im-
piegare solo pietra per la facciata, persino il sedile accortamente previsto per con-
cittadini, vicini e clienti; tutti elementi che qualificano il palazzo sia come antico
che come familiarmente fiorentino.
Molti aspetti del progetto sono però nuovi. Alberti, sia per scelta che per ne-
cessita, evita l’uso di massicce bugne rustiche, probabilmente per mancanza di
spazio entro i ristretti margini in cui doveva operare, tra il filo stradale e la vec-
chia facciata. Questi elementi avrebbero in ogni caso ricordato troppo il palazzo
di Cosimo e avrebbero potuto dare alla casa dei Rucellai quell’immagine di centro
di potere che veniva probabilmente comunicata dalla severa residenza di Luca
Pitti. Il messaggio di Rucellai doveva essere differente: una facciata di palazzo of-
ferta come un prezioso e bel dono alla città, adornata di «bellissimi conci alla ro-
manesca, cioè al modo facevano gli antichi romani», non un’affermazione di po-
tere politico. Alberti, formulando una nuova sintesi di antico e moderno, fece per
la prima volta uso di un’intelaiatura di paraste, che non hanno il ruolo di marcare
le estremità della facciata, come nel portico degli Innocenti o nel palazzo di Parte
Guelfa, ma vengono impiegate lungo tutta la facciata e su tutti e tre i livelli. […]
La fonte è chiaramente il Colosseo, che probabilmente ha suggerito l’uso
dell’ordine dorico senza il relativo fregio a metope e triglifi, la combinazione di
archi e ordine e l’inconfondibile forma della trabeazione superiore, dove la corni-
ce dal forte aggetto è sorretta da solide mensole ubicate nel fregio piuttosto che
nella sottocornice. È caratteristico che Alberti abbia notato questa abile soluzione
da parte dell’architetto del Colosseo, una soluzione che permette alla cornice di
avere un rilievo forte e appropriato all’intero prospetto che corona, senza allon-
tanarsi troppo vistosamente dalle giuste proporzioni della trabeazione, completa
di architrave, fregio e cornice, in rapporto alle paraste sottostanti. […]
L’ordine inferiore è differente dagli altri due, con finestrelle quadrate e porte
all’antica la cui cornice si sovrappone alle paraste contigue, come le finestre del-
l’attico del Pantheon, o le porte del frammento dorico della basilica Emilia. L’or-
dine poggia su un basamento la cui superficie è abbellita dall’imitazione di un opus
reticulatum (in realtà solo inciso sui lastroni del rivestimento) nelle zone tra i “pie-
distalli” completamente piatti. Il sedile serve da zoccolo per il basamento e quindi
per l’intera facciata. Quest’opera è l’unico caso in cui Alberti ha dovuto affrontare il
problema di creare dei capitelli per tre ordini sovrapposti. Per l’ordine inferiore ha
pensato a un capitello toscano-dorico, con collarino scanalato e decorazione a dar-
di e ovoli: è la prima volta che in un prospetto architettonico di grande scala riap-
pare una forma dorica ripresa da modelli antichi, o direttamente o tramite i capitelli
dorici che compaiono nel rilievo di Donatello per il fonte battesimale di Siena. Per
il piano nobile Alberti impiega una versione contratta dei bei capitelli agli angoli del
livello inferiore del mausoleo di Adriano, già noti a Michelozzo e ad altri. Per

113
Il Rinascimento

l’ordine superiore usa una versione semplificata di capitello corinzio, con foglie li-
sce, avendo appreso, ancora una volta dal Colosseo, che in cima a una costruzione
elevata i dettagli potevano venire semplificati senza perdere il loro effetto. […]
La facciata di Santa Maria Novella è la sola grande facciata di chiesa completa-
ta nel Quattrocento a Firenze, e in generale una delle poche facciate costruite nel
nuovo stile durante la vita di Alberti. Ancor oggi San Lorenzo e Santo Spirito di
Brunelleschi sono prive di una facciata, e cosi era anche Santa Croce all’epoca di
Alberti. Il parere del vescovo di Cortona, espresso nel 1469 e riportato con sod-
disfazione da Giovanni Rucellai, che «Non si truova più bella chiesa e chonvento
de’ frati minori che quella di Santa Croce di Firenze, ecietto la facciata dinanzi»,
oltre a essere un elegante complimento a Giovanni, riflette le tristi condizioni del-
le facciate delle chiese fiorentine, almeno dopo l’epoca in cui vennero realizzate
quelle di San Miniato e della badia Fiesolana. Come era accaduto a Rimini, anche
qui Alberti doveva affrontare un nuovo problema, reso più complesso dalle di-
mensioni della storica chiesa domenicana, dall’ubicazione delle porte, dal fine-
strone circolare e dalle tombe nobiliari collocate in facciata entro archi gotici: qui
gli erano necessari tutta l’abilità e l’ingegno di cui aveva dato prova a Rimini e a
palazzo Rucellai. […] In una copia delle Vite dei frati di Santa Maria Novella di
Giovanni Caroli troviamo annotato a margine che i lavori per la facciata iniziaro-
no nel 1460. Dal concordato del 1461 tra Rucellai e la confraternita di San Pietro
Martire risulta che la facciata di marmo era già in costruzione. Probabilmente il
progetto definitivo risale al 1458, e certo non oltre il 1460. La data del 1470 che,
assieme al nome di Giovanni, figura nell’orgogliosa iscrizione nel fregio superio-
re, indica una fase tarda dei lavori, anche se alcuni ritocchi di completamento
vennero eseguiti durante il decennio successivo.
La soluzione trovata da Alberti per i tanti elementi presenti nella facciata che
non potevano essere demoliti o rimossi (le tombe, le porte laterali, l’oculo centra-
le) è quella di dominarli per mezzo di «ossa» più grandi e possenti di quelle già
presenti. Quanto egli aggiunge nell’ordine inferiore è solo una piccola parte della
superficie complessiva, ma riesce a imporre il suo ordine classico (sia in senso ge-
nerale sia in senso stretto) sui più esili e minuti elementi dell’impianto preesisten-
te. L’intero livello inferiore è dominato al centro dal portale rettangolare
all’antica, inquadrato da semicolonne su piedistalli, ed è potentemente concluso ai
lati da una combinazione di parasta e semicolonna che trae ispirazione dalla basi-
lica Emilia. L’efficacia di tale soluzione dipende in buona parte dalla decisione di
Alberti di allargare la facciata oltre i muri perimetrali della chiesa, in modo da ag-
giungere queste monumentali terminazioni. La loro scala, l’uso della pietra di Pra-
to, di colore verde scuro, per le colonne, la trabeazione e l’attico che riconnettono
la considerevole distanza tra le colonne interne ed esterne, tutto serve a far risal-
tare l’articolazione albertiana come la parte che conta della facciata: i portali goti-
ci, le tombe e le arcate sono letteralmente relegati sullo sfondo. […]
Per quanto riguarda il livello superiore, Alberti segue la facciata di San Miniato
usando un frontespizio triangolare, che in questo caso ha una vera e propria tra-
beazione classica. Lo spazio libero tra la cima sa dell’attico e la sezione centrale ri-

114
Il Rinascimento

levata è riempito da un’allungata voluta a «S»: una variante della soluzione raffigu-
rata da Alberti in un piccolo schizzo nella sua lettera sul tempio Malatestiano.
Questa soluzione diverrà un modello costante per le facciate di chiesa, tutte le
volte che la navata centrale si innalzerà su quelle laterali o sulle cappelle. […]
La facciata di Santa Maria Novella colpisce non solo per la policromia dei suoi
marmi, ma per la concezione complessiva e la grandiosità delle principali «ossa»
dell’articolazione. Nell’ordine inferiore Alberti cita l’arco di Costantino (le colon-
ne su piedistalli, la trabeazione che aggetta in loro rispondenza e la presenza
dell’attico), la basilica Emilia, il portale del Pantheon, fondendo tali elementi in
una nuova composizione adatta ai peculiari problemi che presentava la facciata.
Come a palazzo Rucellai, la qualità e l’intelligenza del disegno sono eccezionali e
mostrano la capacità di imparare dall’antico ma senza esserne vincolati o limitati:
per esempio le colonne vengono allungate (con tutto che si innalzano su piedi-
stalli) ben oltre le proporzioni consigliate dallo stesso Alberti. […]
Dal 1460 fino alla sua morte, avvenuta nel 1472, l’impegno maggiore di Alberti in
campo architettonico è quello documentato per Ludovico II Gonzaga (1412-1478),
marchese di Mantova. […] La grande stima di Ludovico per Leon Battista è docu-
mentata nel carteggio tra il marchese e l’umanista, come pure nelle innumerevoli let-
tere tra il duca e il suo team di amministratori e maestranze. Da tali testimonianze
emergono gli eccellenti rapporti di lavoro del principale architetto alle sue dirette di-
pendenze, il fiorentino Luca Fancelli, con lo stesso Ludovico da una parte e con Al-
berti dall’altra. Il Gonzaga non era un committente comune; aveva ricevuto un’edu-
cazione umanistica da Vittorino da Feltre e i suoi stretti rapporti con Firenze e i de’
Medici gli avevano fatto conoscere esempi avanzati di architettura e mecenatismo
architettonico. Filarete lo aveva elogiato per il suo pionieristico entusiasmo per lo
stile all’antica, e ancor prima dell’arrivo di Alberti aveva richiesto progetti al fioren-
tino Antonio Manetti, aveva assunto Luca Fancelli e fatto costruire la sua bella resi-
denza sul Po a Revere. Aveva inoltre cercato di assicurarsi l’opera di Donatello, e
nel 1460 Mantegna si era stabilito a Mantova. Ludovico si vantava delle sue capacità
di architetto, riferendosi scherzosamente a se stesso come allievo di Fancelli, e mo-
strava grande familiarità con problemi costruttivi e di conduzione del cantiere […].
La chiesa di Sant’Andrea a Mantova può considerarsi il capolavoro di Alberti e
l’esemplificazione più completa del suo metodo progettuale. La ricostruzione del-
la grande chiesa, che domina il centro commerciale e amministrativo di Mantova,
era un importante obiettivo di Ludovico almeno dal 1460 e un elemento cardine
dei suoi progetti per abbellire il centro cittadino. Ludovico per vari anni non ave-
va potuto ricostruire la chiesa perché le sue idee non incontravano il consenso
dell’abate Nuvoloni, che rimase a capo dell’abbazia benedettina e della sua chiesa
fino alla morte, nel marzo del 1470. L’abbazia successivamente venne messa sot-
to il diretto controllo del figlio di Ludovico, il cardinale Francesco, e nel 1472 di-
venne una chiesa collegiata, sotto la supervisione di Francesco. Questi cam-
biamenti consentirono a Ludovico di portare avanti la ricostruzione.
Il progetto di Alberti per la chiesa non era il primo: Antonio Manetti, come
sappiamo dallo stesso Alberti, aveva steso un progetto prima di morire, nel no-

115
Il Rinascimento

vembre del 1469. La proposta di Alberti era il frutto di un’autonoma elaborazio-


ne, e la fonte più esauriente per comprenderla si trova in una lettera a Ludovico
che va datata dopo il 23 settembre 1470 e prima della risposta cautamente favo-
revole di quest’ultimo, del 23 ottobre 1470. Alberti scrive: «[…] io intesi a questi
di che la S.V. et questi vostri cittadini ragionano de edificare qui a Sancto Andrea,
et che la intentione principale era per havere gram spatio dove molto populo ca-
pesse a vedere el sangue de Cristo. Vidi quel modello del Manetti. Piaqqemi, ma
non mi par apto alla intentione vostra. Pensai e congettai questo qual io ve man-
do. Questo sarà più capace, più eterno, più degno, più lieto; costerà molto meno.
Questa forma de tempio se nomina apud veteres Etruscum sacrum. S’el ve piase-
erà, darò modo de notarlo in proportione. Raccomandomi alla V.S.».
L’architetto sottolinea il fatto che l’intento principale è quello di creare un am-
pio spazio in cui grandi masse possano raccogliersi per vedere la più importante
reliquia che si trovava a Mantova, quella del Sangue di Cristo. […] Alberti aveva
visto il modello (o progetto) di Manetti che, pur piacendogli, non giudicava adat-
to: in altre parole non era abbastanza spazioso e non offriva una visibilità adegua-
ta alla reliquia. I pregi del progetto di Alberti, «più capace, più eterno, più degno,
più lieto; costerà molto meno», assolvono tutti i requisiti della buona architettura
definiti da Vitruvio, con l’aggiunta dell’economia.
La sintetica presentazione di Alberti del suo progetto che, non avendo navate
laterali, offre una visuale priva di impedimenti verso l’altar maggiore e la reliquia,
e l’uso di mattoni e terracotta al posto della costosa pietra, ci aiutano a immagina-
re il progetto di Manetti: probabilmente si trattava di una versione del San Loren-
zo a Firenze di Brunelleschi (dove Manetti era supervisore), con colonne in pie-
tra, navate laterali e di conseguenza una visuale non libera. Come San Lorenzo e
Santo Spirito, doveva probabilmente avere un soffitto ligneo, meno durevole («e-
terno») della volta a botte di Alberti. La lettera indica il tipo di antico edificio a cui
il progetto di Alberti si rifà: «Questa forma de tempio se nomina apud veteres E-
truscum sacrum». Come evidenzia Krautheimer (1961, pp. 65-72), l’idea albertia-
na del tempio etrusco vitruviano differisce dalle interpretazioni del Cinquecento o
da quelle moderne. Invece di un tempio con tre sole celle preceduto da un porti-
co con colonne toscane ampiamente spaziate, Alberti propone un tempio con tre
celle su entrambi i lati di uno spazio mediano che termina con un’abside: proba-
bilmente in questa sua interpretazione aveva in mente la basilica di Massenzio.
[…] La demolizione della vecchia chiesa ebbe inizio il 6 febbraio 1472, ma la pie-
tra di fondazione venne posta solo il 12 giugno.
È difficile sostenere che la navata realizzata si discosta in modo sostanziale dalle
intenzioni ultime dell’autore. Anche se Alberti morì due mesi prima che venisse
posta la prima pietra (aprile 1472), è chiaro che Ludovico, nell’aprile del 1471, era
pronto a dare inizio ai lavori; il Gonzaga si riferisce anche a «uno modello ch’è fac-
to» nella lettera al cardinale Francesco del 2 gennaio 1472. Il lavoro venne portato
avanti velocemente per tutta la zona della navata e del portico. Nel carteggio rima-
stoci non risulta mai che il progetto o una sua parte sostanziale si debba a Fancelli
o allo stesso Ludovico, né che sia stato cambiato in corso d’opera. […]

116
Il Rinascimento

La presenza dei pilastri della crociera fa capire che doveva esserci un transetto
e probabilmente anche una cupola. Lungi dal costituire l’esito di una revisione
successiva, questi pilastri risultano in costruzione a partire dal 1472. Si può quindi
ritenere che l’alternanza di cappelle maggiori e minori, che costituisce un elemen-
to così notevole e originale del progetto, sia una risposta al problema di integrare
i pilastri della crociera in un sistema armonioso e coerente, sia in pianta che in al-
zato. L’ipotesi che la chiesa fosse intesa come un’aula basilicale terminata da un’ab-
side è anche contraddetta dal fatto che la navata rimase aperta sul fondo, invece di
essere chiusa da un’abside; cosa che avrebbe richiesto un’aggiunta di limitato impe-
gno e costo. Dalle lettere spedite e ricevute dal Gonzaga risulta chiaro che questi
voleva che la struttura venisse innalzata il più in fretta possibile e uniformemente
per tutta l’area interessata. Nel 1480 (Ludovico era morto nel 1478) la costruzione
era arrivata al livello della cornice esterna e molte cappelle maggiori erano già volta-
te. A fronte di questi rapidi progressi, che riguardavano l’intera navata e il portico,
sarebbe risultato strano lasciare inattuata un’eventuale abside. La costruzione della
navata e del portico dovevano costituire, nelle intenzioni di Ludovico, un prima fa-
se dei lavori, cui sarebbe seguita la demolizione di quanto rimaneva della vecchia
chiesa a est e il completamento della nuova. La demolizione doveva iniziare dal po-
zo, un coro sopraelevato o una struttura isolata, all’epoca prossimo al crollo, dove
erano esposte le reliquie del Preziosissimo Sangue. Da qui si doveva proseguire
verso la porta della vecchia chiesa e la piazza di fronte. Solo quando questa parte
fosse stata ricostruita si poteva demolire la parte restante, verso est, garantendo in
tal modo che la chiesa fosse sempre agibile in qualche sua parte.
[…] Quasi certamente Alberti intendeva realizzare una cupola, viste le dimen-
sioni dei pilastri della crociera e il modo in cui le scale alloro interno sono situate
fuori centro, così da non indebolire la resistenza strutturale di tali sostegni. […] La
lettera di Alberti chiarisce i requisiti che il progetto doveva soddisfare: un interno
privo di impedimenti visivi e una struttura grandiosa e duratura a costi contenuti.
Con la sua conoscenza dell’architettura antica e moderna, una soluzione a navata
unica era ovvia: c’erano diverse grandi chiese prive di navate laterali, sia senza volte
(l’Annunziata a Firenze, il tempio Malatestiano a Rimini) che voltate (il duomo di
Vicenza e la badia Fiesolana, con la sua volta a botte). Le grandi aule termali e la
basilica di Massenzio erano ben note ad Alberti ma erano voltate a crociera, mentre
le volte a botte in edifici recenti (i bracci laterali della cappella Pazzi o la stessa cap-
pella Rucellai) erano di scala ridotta. La sua scelta può ritenersi una questione di gu-
sto: gli antichi esempi che aveva soprattutto in mente dovevano essere le volte a
botte degli ambienti laterali della basilica di Massenzio (con una luce di circa 24 me-
tri) e dei templi gemelli di Venere e Roma (con una luce di circa 21 metri).
Una volta deciso il tipo di copertura, era necessario trovare un sistema di con-
traffortatura efficace; un problema reso più complesso dall’ampiezza della luce e
dal fatto che, a differenza di una volta a crociera il cui peso e la cui spinta sono
concentrati su punti precisi, la volta a botte esercita una spinta uniformemente
diffusa per tutta la sua estensione. Le strutture che coprono e perimetrano le cap-
pelle formano un sistema di pilastri e contrafforti che rende stabile e sicura la

117
Il Rinascimento

grande volta. Le cappelle minori formano grandi pilastri a pianta quadrata e cavi
al centro, ma di massiccio spessore in direzione della navata. I loro muri laterali
s’innalzano al di sopra del tetto, a una quota ben superiore all’imposta della gran-
de volta, in modo simile ai contrafforti della basilica di Massenzio e del duomo di
Vicenza. Questi elementi sono stabilizzati ai lati dalle volte a botte delle cappelle
maggiori (7,16 metri di luce) e assicurati tra loro dagli archi trasversali che servo-
no a sostenere le volte in mattoni a prova di incendio al di sopra delle cappelle
minori. Ulteriori contrafforti si impostano subito sopra le volte delle cappelle
maggiori. In aggiunta ai pilastri e ai contrafforti principali, la struttura che sorreg-
ge il tetto con le sue tegole forma una sorta di arco rampante continuo che si
connette alla grande volta poco al di sopra della sua imposta. […]
La gerarchia delle coperture all’interno di Sant’Andrea (volta principale e volte
delle cappelle maggiori) ricorda anche la basilica di Massenzio. Gli archi trasversa-
li di collegamento sotto il tetto che corre al di sopra delle cappelle minori rifletto-
no probabilmente la familiarità di Alberti con la cupola di Brunelleschi, dove i co-
stoloni sono raccordati da archi simili. Un analogo sistema di archi, che fornisce
un sostegno aggiuntivo a una volta, va rinvenuto nelle “cappelle” del Pantheon,
come pure nell’architettura militare. […]
Sant’Andrea, opera costruita ex novo, esemplifica bene il modo di progettare di
Alberti. L’aderenza agli scopi prefissati, la struttura, l’articolazione complessiva,
l’assegnazione di uno spazio distinto per le scale (sia quelle ai lati del portico sia
quelle della crociera) hanno la priorità rispetto agli ornamenti. La scelta dell’ordi-
ne gigante all’interno della navata conferisce chiarezza e proporzione all’articola-
zione, in armonia con la grande volta a botte. Usando un solo ordine Alberti ha
ripreso l’architettura delle terme e della basilica di Massenzio. Il ritmo alternato
delle campate (largo-stretto, aperto-chiuso) è stato concepito per suggerire l’idea
di un arco trionfale, completo dei piedistalli necessari per far raggiungere all’ordi-
ne un’altezza adeguata. Il motivo dell’arco trionfale dell’interno era appropriato
anche per la facciata, e creò un’unità tra interno ed esterno superiore a ogni altra
soluzione fino allora elaborata per le chiese. Proprio come la facciata di palazzo
Rucellai è una versione appiattita del Colosseo, così l’alzato interno della navata è
la versione piana di un arco trionfale: tale processo di “appiattimento” era pro-
babilmente facilitato dalla preferenza di Alberti per le proiezioni ortogonali negli
alzati. Portali con mostre all’antica, come quelli di palazzo Rucellai, danno acces-
so alle cappelle minori. Alberti risulta meno avverso alle finestre rotonde di quan-
to non appaia nella sua lettera a Matteo de’ Pasti. Nel contesto di un richiamo agli
archi trionfali, questi oculi possono interpretar si come una citazione parziale del-
le coppie di “tondi” che decorano l’arco di Costantino.
La grandiosità romana della navata di Sant’Andrea non dovrebbe distoglierci
dall’osservare la perspicacia con cui Alberti adatta motivi romani a scopi moderni,
inventando nuove soluzioni strutturali per ottenere con sottili diaframmi in mat-
toni e malta quello che i romani ottenevano con grandi masse di calcestruzzo e
paramenti laterizi. Egli usa negli alzati aggetti tanto ridotti che la trabeazione cor-
re ininterrotta senza sporgere in rispondenza delle paraste, sottolineando con la

118
Il Rinascimento

sua linearità la maestosa veduta prospettica della volta a botte. […]


Il disegno del portico era condizionato dalla presenza di un massiccio campa-
nile del primo Quattrocento. Il portico albertiano, che ne sostituiva uno prece-
dente menzionato nel 1459, aveva soprattutto la funzione di evidenziare la pre-
senza di una chiesa tanto importante ed era concepito, come scrive Ludovico,
«per onor vostro e nostro e di questa citade». In questo prospetto, sintesi tra una
fronte di tempio e un arco trionfale, Alberti segnala la presenza della chiesa in-
troducendo il tema dell’alternanza di interassi maggiori e minori che articola la
navata. La sezione intermedia è tuttavia una versione piana della facciata di Santa
Maria Novella, col suo arco centrale sorretto da paraste scanalate, e anche altrove
la facciata differisce dalla navata: le porte sono sormontate da nicchie, simili a
quelle poste da Michelozzo sopra i portali all’interno della cappella del Noviziato
in Santa Croce. Tali nicchie sono simili a quelle del livello superiore dell’esterno
nel conferire un effetto di plasticità e peso alla struttura muraria, mentre in realtà
servono ad alleggerirla. Sopra le nicchie si trovano ampi finestroni a tutto sesto
che danno luce a grandi ambienti voltati entro il volume del portico. Sopra il
frontespizio si trova l’enorme ed enigmatica forma dell’“ombrellone”, già ritratto
da Hermann Vischer il Giovane nel 1515. Si è pensato che questo elemento fosse
stato ideato per attenuare la luce diretta che colpiva il finestrone in testa alla nava-
ta, come indubbiamente accade. L’“ombrellone” è stato giudicato una stranezza,
ma se accantoniamo per un momento le attuali conoscenze sulla forma degli ar-
chi trionfali o delle fronti di tempio, ci sono pochi dubbi che tale presenza, col-
mando quella che sarebbe stata una sconveniente lacuna, migliori e non sminui-
sca il disegno e, come il portico sottostante, prepari alla struttura interna annun-
ciando la presenza della grande volta a botte. Bertelli (1994, pp. 242-251) ha di
recente indicato come un ampio arco libero di tale sorta, collocato a un livello
superiore, sia associato nell’opera di Alberti (a Rimini) e del suo ambiente (a Ur-
bino) al tema dell’arco trionfale. L’esame della zona dietro il frontespizio (che ri-
sulta già realizzato nel 1488) ha rivelato uno spazio rettangolare dominato da una
nicchia monumentale posta sul suo lato interno, di faccia al finestrone che dà luce
alla volta della navata. L’ombrellone potrebbe così essere la copertura per un’area
dotata di specifiche funzioni liturgiche, forse connesse all’esistenza di una “crip-
ta” al di sotto. Il parallelo con il Pantheon che propone Bertelli, adeguandosi al
modo di pensare di Alberti, è utile: tutto il portico albertiano di facciata ricorda il
blocco intermedio tra la rotonda e il pronao del Pantheon, per l’aspetto d’insieme
e per il fatto che contiene vani al suo interno. Può darsi che Alberti nutrisse
l’erronea idea, diffusa nel Cinquecento, che il portico colonnato del Pantheon
fosse aggiunto in una fase costruttiva più tarda, e pertanto concepisse la propria
facciata come un “restauro” ideale dello stato originario del celebre monumento.
Il portico di facciata, interno compreso, venne progettato unitamente alla na-
vata: le sue dimensioni e proporzioni (l’opera ha le chiare misure di 20, 40 e 60
braccia mantovane esatte) lo ricollegano strettamente al resto della chiesa. […]
[da H. BURNS, Leon Battista Alberti, in Il Quattrocento, a cura di F.P. FIORE,
Milano 1998 (Storia dell’architettura italiana), pp. 114-165].

119
Il Rinascimento

Bernardo Rossellino (1409-1464) e Pienza


Se la presenza di Pio II non ha prodotto particolari conseguenze nell’assetto e
nell’immagine di Roma, il papa Piccolomini ha lasciato invece precise tracce della
sua concezione urbanistico-architettonica in Toscana. Oltre a numerose iniziative,
dirette e indirette, sulla città di Siena, l’episodio più significativo è senza dubbio
l’intervento di trasformazione del borgo di Corsignano, luogo natale del pontefi-
ce. Come gran parte dei centri situati tra la val d’Orcia e la val di Chiana, anche
Corsignano deve la sua origine e il suo sviluppo medievale a motivi di carattere
agricolo. Nel caso in esame quei motivi sono resi evidenti dalla presenza dell’im-
portante antica pieve (già ristrutturata nel XII secolo) posta ai piedi del borgo; si
riconoscono anche nella fortunata situazione insediativa lungo il crinale di un col-
le. La viabilità di crinale costituiva ancora, nel Quattrocento, l’asse centrale per il
coordinamento del tessuto del borgo; il quale era poi anche dotato di una ottima
cerchia muraria con tre o quattro porte.
In occasione di una sua visita nel 1459, Pio II Piccolomini decide di dar corso
a una generale trasformazione del borgo. Il coordinamento dell’iniziativa, in sen-
so progettuale e in senso esecutivo, venne affidato a Bernardo Rossellino (l409-
1464); un architetto strettamente legato all’Alberti e dunque esponente qualificato
della nuova cultura rinascimentale I lavori iniziarono nel 1462. L’episodio edilizio
relativo all’antico castrum di Corsignano, che proprio in relazione all’intervento di
Pio II ha preso da allora in poi il nome di Pienza (Pientia, la città di Pio), è stato
prevalentemente studiato nel quadro delle ricerche sull’architettura. Il complesso
centrale, costituito dalla piazza e dai singoli edifici che si devono al Rossellino (la
chiesa, il Palazzo Piccolomini, il Palazzo vescovile, l’impianto del palazzo comu-
nale) sono stati cioè considerati in relazione alle loro caratteristiche morfo-
tipologiche, alle scelte linguistiche e alle correlazioni spaziali cui dà luogo il loro
reciproco articolarsi. Quanto agli aspetti urbanistici dell’intervento è stato osser-
vato che, a eccezione della zona attorno alla piazza, la tessitura dell’insediamento
non risulta modificata dall’iniziativa avviata da Pio II. Ciò è sostanzialmente vero,
infatti, per quanto si riferisce all’insieme della maglia viaria; anche se poi, qua e là,
non mancano talune smagliature e rifacimenti. Altrettanto vero, inoltre, è che,
malgrado le intenzioni e le numerose pressioni del pontefice, Pienza non mutò
sostanzialmente il suo più antico ruolo territoriale. Ma i criteri ai quali si ispirava
la trasformazione avviata dal papa mettevano in gioco valori affatto diversi da
quelli originari. Innanzitutto appare chiara l’intenzione di elevare a ruolo urbano
le funzioni dell’insediamento. Ciò si desume dalla costituzione del borgo a sede
vescovile (1462) e dall’insistenza con la quale il papa tentò di costringere alti e-
sponenti della corte pontificia e alcuni cardinali (tra i quali il futuro Alessandro VI
Borgia), a costruire in Pienza i loro nuovi palazzi. Si coglie inoltre nel tentativo di
stabilire un secondo asse direzionale, ortogonale a quello principale della spina
viaria longitudinale. Nella piccola dimensione dell’insediamento pientino, ciò è
stato tentato con la creazione di una seconda piazza, destinata al mercato e ad at-
tività di cambi commerciali, situata alle spalle del palazzo comunale, cioè in un
rapporto di bipolarità con la piazza principale. La ricerca di valori urbani traspare

120
Il Rinascimento

poi anche dall’impegno a determinare un rinnovato decoro urbano particolar-


mente lungo l’asse viario longitudinale pnncipale.
A partire dal nuovo polo civico, pensato come centro di irradiamento del nuo-
vo effetto-città, si sarebbe dovuta creare una nuova scena, a un tempo tradiziona-
le o innovativa, lungo il percorso principale. Infatti, molti tra gli edifici che si alli-
neavano lungo l’asse longitudinale di Pienza subirono nel loro prospetto modifì-
cazioni di vario ordine, il cui impegno operativo ed economico perde di intensità
mano mano che ci si allontana dalla nuova piazza del Rossellino. Tenuto conto
delle opere di esproprio necessarie per la creazione del nuovo centro civico foca-
lizzato attorno al polo urbanistico costituito dalla chiesa e dalla piazza, si constata
così che tutto l’impianto di questo polo era pensato in funzione di una doppia
scala di valori architettonici (quindi valori urbani secondo i convincimenti della
cultura umanistica e rinascimentale); gli uni relativi alla scala vicina dell’interno del
borgo, gli altri alla scala lontana della dominanza degli edifici sul paesaggio agrico-
lo delle valli vicine. È stato già notato che la collocazione della cattedrale a stra-
piombo sulla valle, e perfino il singolare uso dei materiali con i quali essa è stata
realizzata sono dati di scelta sicuramente riferibili alla sensibilità del Rossellino
verso un problema paesistico: la cattedrale della nuova città diveniva elemento di
coordinamento del paesaggio agricolo e di quello urbano.
Va segnalata, inoltre, l’iniziativa (1463) di costruire un complesso di dodici ca-
se (progettista è il da Porrina) disposte a schiera nei pressi della porta principale
(quella orientale) della città. Esse dovevano rispondere, evidentemente, al preve-
dibile accrescimento di abitanti nella zona; sia che fossero destinate ad accogliere
immigrati appartenenti ai ceti medio-popolari, sia che fossero in relazione con le
necessità di alloggio relativo alla presenza del complesso edilizio occupato da un
ospizio della compagnia della Fraternita. Dunque, se l’intervento non sortì in
concreto i risultati che il pontefice si riprometteva, ciò, tuttavia, non esclude
l’intenzione di ottenerli. Il papa si proponeva di dar vita a un organismo cittadino
che avrebbe dovuto in certo modo sostituire i legami territoriali originari con un
sistema di correlazione indiretta. Era cioè destinato a esprimere la preminenza
della città sulla campagna, quindi valori alternativi a quelli originari. Tramite o
veicolo di questa operazione avrebbe potuto essere proprio la particolare inter-
pretazione ottico-visuale dello strumento prospettico; interpretazione la quale, in-
fatti, consentiva di far coincidere la realtà di uno spazio (o di un ambiente o di un
edificio architettonico) con l’immagine o il tipo ideale a cui lo spazio, l’ambiente,
l’edificio, rispettivamente alludevano.
Alla morte di Pio II tutte le attività edilizie vennero subito abbandonate e il
numero di abitanti, che era leggermente cresciuto sotto la spinta delle imprese
papali, decrebbe continuamente.
[liberamente tratto da V. FRANCHETTI PARDO, Storia dell’urbanistica. Dal Trecento
al Quattrocento, Roma-Bari 1994, pp. 522-526]

Evidente è l’influenza di Alberti negli edifici di Pienza, dove il lavoro è dovuto a


Bernardo Rossellino, suo assistente nella costruzione di palazzo Rucellai. Ma, an-

121
Il Rinascimento

che qui, la mente direttiva fu quella di Pio II, e il risultato è quindi meno albertiano
di quanto ci si sarebbe altrimenti potuto attendere. La carriera di Enea Silvio Picco-
lomini, umanista di professione, sarebbe stata simile a quella dell’Alberti se nel
1458 egli non fosse stato nominato papa, scegliendo il nome di Pio II. Nella pri-
mavera del 1459, a quanto ci tramandano gli autobiografici Commentarii di cesariana
reminiscenza, egli decise di ricostruire la natale Corsignano, villaggio collinare po-
sto circa cinquanta chilometri a sud di Siena, così da farne una città-memoriale.
Non si tratta soltanto di uno dei primi tentativi rinascimentali di pianificazione
urbanistica, ma altresì del primo esempio d’attenzione rivolta al paesaggio verifi-
catosi sin dal tempo di Plinio il Giovane. I Commentarii testimoniano la precisa in-
tenzione posta da Pio II nell’utilizzazione dello splendido panorama che si apre al
culmine della collina sul Monte Amiata, confermata anche dalle ingenti spese che
si resero necessarie per l’edificazione delle fondamenta di palazzo Piccolomini e
della cattedrale. La pianta di Pienza – così venne ribattezzato il villaggio – mostra
che la piazza posta al centro della città ha forma trapezoidale, più larga a mezzo-
giorno, dove domina la cattedrale; palazzo Piccolomini è posto alla sua destra, il
palazzo arcivescovile alla sua sinistra, mentre il municipio, assai più piccolo, oc-
cupa il margine settentrionale. La pianta esclude una rigida simmetria e suggerisce
subito l’accostamento con la sistemazione del Borgo voluta dall’Alberti e dal pre-
decessore di Pio II, Nicolò V, che però fu quasi sicuramente condizionata dagli
edifici già esistenti. Anche nell’inquietante e misterioso quadro conservato alla
Galleria Nazionale di Urbino, ritenuto da molti, con ragione, opera di Piero della
Francesca, che vi avrebbe proposto, forse in collaborazione con l’Alberti,
un’interpretazione di Vitruvio, è rappresentata una piazza circoscritta da palazzi
nobiliari e provvista di un tempio quale centro focale del lato principale: il classi-
cismo dello stile è però qui più compiuto. Invero, l’aspetto più sorprendente del-
l’intero progetto di Pienza è che il papa non ne abbia confidato la progettazione
all’Alberti, benché ne conoscesse la competenza di urbanista, superiore a quella di
ogni altro architetto del tempo, e benché egli fosse pur sempre al servizio della
curia. Pio II volle forse progettare egli stesso il proprio monumento, servendosi
però certamente per l’esecuzione di un assistente dell’Alberti del quale d’altronde,
quale archeologo, parla con rispetto. È comunque evidente l’influenza dell’Alberti
nella facciata di palazzo Piccolomini. Nel fiorentino palazzo Rucellai, di cui aveva
assunto l’appalto solo qualche anno innanzi, Bernardo Rossellino aveva certo vi-
sto un modello di palazzo all’antica, e questo stesso modello fu bene accetto anche
a Pio II per il proprio palazzo di famiglia. Il palazzo costruito dal Rossellino si di-
stingue però dal suo prototipo per notevoli differenze visibili tanto nella facciata
quanto, e soprattutto, nella soluzione adottata sul retro. La facciata di palazzo Pic-
colomini è basata sul motivo tratto dal Colosseo che l’Alberti aveva adottato a Fi-
renze anche nell’uso dell’ordine corinzio raddoppiato al piano nobile e a quello su-
periore, benché i pilastri tuscanici al piano terreno – uno degli esempi più precoci
dell’adozione di tale ordine nel Rinascimento – siano più corretti di quelli
dell’Alberti. Per altri aspetti il palazzo è meno felice del prototipo, specie nella di-
versa proporzione degli intercolumni, immediatamente sopra ai quali si aprono qui

122
Il Rinascimento

le finestre ad arco, circoscritte invece in palazzo Rucellai da uno spazio libero con-
tinuo. Mentre gli intercolumni di palazzo Piccolomini al piano nobile sono quadra-
ti, l’altezza di quelli di palazzo Rucellai supera di due volte la larghezza.
L’invenzione veramente originale di palazzo Piccolomini è rappresentata dalla
facciata sul giardino a triplice loggiato, di per sé stesso privo d’interesse poiché le
forme sono quelle normalmente adottate per il doppio chiostro di qualsiasi edifi-
cio monastico. Fu Pio II, e non il Rossellino, a scegliere il sito del palazzo e a di-
segnarne le logge, così descritte: «sul quarto lato [del palazzo] dal quale, verso sud,
s’apre la piacevolissima vista sul Monte Amiata, v’erano tre portici, sovrapposti su
colonne di pietra. Il primo, dalle volte alte e splendide, permette una piacevolis-
sima passeggiata vicino al giardino; il secondo, dal soffitto ligneo finemente dipin-
to, costituiva un luogo gradevolissimo per sostarvi l’inverno: con la cornice, la sua
balaustra giungeva sino alla vita di un uomo. Il terzo era simile al secondo, con un
soffitto però meno elaborato». Continuando, Pio II descrive la vista in termini
che dimostrano il suo genuino amore per il luogo natale, pur nella cosciente re-
miniscenza ideale di Plinio il Giovane, descrittore delle ville beneamate, o del
Virgilio georgico, poeta della bellezza e della fecondità senza tempo della campa-
gna italiana: «Ad occidente, la vista spazi a dall’ultimo piano oltre Montalcino e
Siena sino alle Alpi Pistoiesi. Volgendo lo sguardo verso nord, per cinque miglia
si stendono colline variopinte e l’amabile verde delle foreste. Aguzzando gli oc-
chi, appaiono i lontani Appennini e si delinea al culmine del colle la città di Cor-
tona, non lontana dal lago Trasimeno; l’interposta vallata della Chiana è invece
nascosta dalla sua grande profondità. Meno estesa, verso oriente la vista raggiun-
ge solo Poliziano [Montepulciano] […] e le montagne che separano la vallata della
Chiana da quella dell’Orcia. A meridione la vista dai tre portici è limitata, come
già si disse, dal Monte Amiata, sublime e boscoso. Verso il basso appaiono la val-
lata del’Orcia, le distese verdi dei prati, le colline coperte d’erba durane la stagio-
ne, campi arborati e vigne, città e cittadelle e dirupi precipizi, e Bagni di Vignoni e
Montepescali, più alto di Radicofani portale del sole invernale». In ambito pura-
mente architettonico Pio II era meno orientato verso la classicità e, nella valuta-
zione dell’Alberti, doveva parere soddisfatto da alcunché avesse un sia pur vago
sentore di antico, come dimostra la descrizione dell’edificio della cattedrale, costi-
tuito in realtà, come egli spiega, memore della visita compiuta nel 1459 alla dupli-
ce chiesa di Assisi, da due chiese, una inferiore e una superiore, imposte dalla ri-
pidità del pendio collinare: «la chiesa superiore misura circa 42 metri di lunghez-
za, 18 di altezza altrettanti di larghezza, a prescindere dagli spazi compresi fra le
cappelle che accrescono tanto la lunghezza quanto la larghezza. Per necessità la
lunghezza maggiore è orientata, contrariamente all’uso comune, da nord verso
sud. […] La facciata è alta 22 metri, fabbricata di pietra simile al Tiburtino, bianca
e lucente al pari di marmo. Fu modellata su quella dei templi antichi e riccamente
adornata con colonne, arcate, nicchie semicircolari destinate ad accogliere delle
statue. Disponeva di tre porte dalle proporzioni ammirevoli, più grande quella
centrale di quelle laterali, e di un grande occhio come quello dei Ciclopi. Ostenta-
va le armi dei Piccolomini e sopra di esse il nastro papalino attorcigliato intorno

123
Il Rinascimento

alla triplice corona, con in mezzo le chiavi della Chiesa. Dalle fondamenta al tetto
la facciata mantiene sempre la stessa larghezza, mentre dalla base culmine del tet-
to ha la forma di una piramide adornata di incantevoli cornicioni. Gli altri muri
sono di materiale meno prezioso. Appena entrati dalla porta centrale tutta la chie-
sa è visibile insieme alle cappelle ed agli altari, ammirevole per la chiarezza della
luce e la brillantezza di tutto l’edificio. Vi sono tre navate, come vengono dette,
più grande quella mediana, tutte e tre della medesima altezza, in accordo, per que-
sto, con le direttive di Pio, che aveva osserva tale pianta tra i Germani, in Austria.
Ciò rende la chiesa più grande e luminosa. L’intero peso della volta è scaricato da
otto colonne di pari altezza e di pari spessore. Poste le fondamenta e sovrappo-
stevi le colonne con le loro quattro facce semicircolari, sormontate dai capitelli,
l’architetto s’avvide che esse non sarebbero state abbastanza alte: sovrappose per-
ciò ai capitelli colonne quadrate di sette piedi, sormontate a loro volta da una se-
conda serie di capitelli, per sostenere le arcate della volta. Fu un felice errore che
aggiunse incanto per la sua novità».
Colpisce specialmente, in questo passaggio, la compiaciuta accettazione di un
errore di 7 piedi (più di due metri), quasi si trattasse di un’affascinante novità; la
spiegazione va cercata probabilmente nei gusti goticizzanti del papa, dimostrati
dall’adozione – quasi senza riscontro in Italia – della pianta chiesastica a sala che
egli ebbe modo di osservare forse nella cattedrale di Vienna. La sua ossessione
della luce, del pari, suona più evocazione della Sainte-Chapelle che di una chiesa
italiana, ed è recisamente contraddetta dall’Alberti: «Le finestre dei templi devono
essere di dimensioni modeste e in posizione bene elevata, sì che attraverso di esse
non si possa scorgere altro che il cielo, nè i celebranti e gli oranti siano in alcun
modo sviati dal pensiero della divinità. Il senso di timore uscitato dall’oscurità
contribuisce per propria natura a disporre la mente alla venerazione, a quel modo
stesso onde alla maestà si congiunge in ampia misura la severità» (De re aedificato-
ria, VII, 12). Di maggiore interesse, tuttavia, è la descrizione della facciata, «mo-
dellata su quelle dei templi antichi»: esempi fra i migliori della capacità di un u-
manista del Quattrocento a percepire parallelismi con la classicità che oggi invece
ci sfuggono, poiché a nessuno verrebbe in mente di pensare, se non nei termini
più generali, che la facciata della cattedrale di Pienza sia stata modellata su quella
di un edificio classico per la presenza, sulla facciata, di un timpano triangolare e di
qualche colonna dalle infelici proporzioni che del resto la frase di Pio II – «ricca-
mente adornata di colonne e di arcate» – autorizza a pensare non avessero fun-
zione strutturale. Il senso della sua affermazione è sicuramente riferito alla divi-
sione verticale della facciata mediante lesene simili a contrafforti presenti ai due
angoli e fra ogni coppia di colonne. Assegnando a queste lesene le funzioni di co-
lonne (di strutture portanti, cioè, del timpano triangolare) si ottiene un frontone
tetrastilo, poiché l’altezza è uguale alla larghezza e quattro “colonne” sostengono
un timpano; ed è lecito il confronto tanto con le contemporanee opere dell’Al-
berti – il Tempio Malatestiano o San Sebastiano – quanto con autentici templi
romani, quello per esempio della Fortuna Virile.

[liberamente tratto da P. MURRAY, Rinascimento, Milano 1971, pp. 36, 38-39]

124
Il Rinascimento

Francesco di Giorgio (1439-1501)


Pittore formatosi, o almeno in contatto, con il Vecchietta, Francesco di Giorgio
svolse dal 1469 l’attività di operaio dei bottini, i condotti d’acqua sotterranei che ri-
fornivano la città di Siena, compito che lo impegnò sino al 1473 e che avrebbe ri-
preso al suo ritorno da Urbino. Ma incerta è prima della partenza, intorno al 1476,
un’attività propriamente da architetto, così come incerta è la sua identificazione con
l’architetto genericamente menzionato nel documento che definisce (1476) il pro-
gramma per la costruzione della chiesa di San Bernardino all’Osservanza, ultimata
più tardi con soluzioni strettamente legate a quelle maturate da Francesco nel de-
cennio di assenza. L’invito a rientrare in patria fu infatti rivolto dal governo di Sie-
na a Francesco di Giorgio nel 1485, qualche mese dopo la consegna del suo model-
lo per la chiesa di Santa Maria delle Grazie al Calcinaio, a Cortona.
Fu questo l’avvenimento architettonico di maggior importanza del decennio
nell’area artistica di Siena, alle porte dello stato. In città, erano anni di sconvolgi-
menti polici e poche le opere importanti: la decorazione pavimentale del duomo,
Santa Maria in Portico a Fontegiusta (1479-1484), appena terminata su progetto
di Cristoforo Fedeli di Como. Ma nemmeno la chiesa di Fontegiusta, a crociere
su colonne quasi in forma di chiesa a sala, e perciò vicina al duomo di Pienza,
può dialogare con quella che è la più matura realizzazione di Francesco al rientro
dall’esperienza in Montefeltro. Solo le ordinanze semplificate in facciata e sui
fianchi della chiesa di Fontegiusta si pongono infatti in assonanza con le speri-
mentazioni operate a Urbino da Francesco di Giorgio, il cui ritorno si può consi-
derare la terza ultima fase dell’architettura senese del Quattrocento. Il volume u-
nitario della chiesa del Calcinaio a Cortona mostrò alcuni dei principali elementi
distintivi della sua architettura matura: serrata e concatenata di posizione delle
parti; corrispondenza interno-esterno e continuità delle ordinanze verticali e delle
cornici orizzontali, che Francesco chiama «recinti»; accentuazione del valore pla-
stico dei singoli elementi aggettanti sulle distese e nude superfici murarie. La pian-
ta è a navata unica allungata con transetto, le cappelle semicircolari, scavate nel
forte spessore dei muri. L’alzato poggia sia all’estemo sia all’interno su un’alta fa-
scia basamentale, articolata da lesene con basi e capitelli formati da risalti della
sottile cornice superiore. Seguono all’interno un ordine di paraste con capitelli
pseudoionici e un’alta trabeazione, oltre la quale si prolungano le fasce che suddi-
vidono la volta a botte per sottolineare la chiusura dell’ideale maglia trutturale in-
terna, in corrispondenza con il terzo livello di paraste dell’esterno. Il maggiore
aggetto degli elementi alti della navata ne accentua l’unità spaziale, soprattutto nel
passaggio senza pause dalle nicchie concave alle edicole delle finestre e, al termine
dei bracci della croce, al grande oculo circolare, che quasi richiama il turbine ova-
to di Dio padre al vertice dell’Incoronazione della Vergine dipinta da Francesco nel
1472-1474. Tafuri definisce a ragione le testate della chiesa «espre ssionistiche»,
così come le finestre che si toccano in un calcolato effetto di compressione nel-
l’angolo esterno tra navata e transetto. Il più sorprendente risultato dell’applica-
zione degli ordini da parte di Francesco nella chiesa del Calcinaio è comunque la
progressiva diminuzione in larghezza delle campate esterne, dalla facciata all’an-

125
Il Rinascimento

golo tra navata e transetto, mentre le partizioni interne sono del tutto regolari.
Causa della soluzione il considerevole spessore di muro, ora aggiunto e ora so-
tratto alle campate interne in coincidenza con gli angoli.

[liberamente tratto da F.P. FIORE, Siena e Urbino, in Il Quattrocento, a cura di F.P. FIORE,
Milano 1998 (Storia dell’architettura italiana), pp. 282-284]

In una data compresa tra il 1447 e il 1455 Federico da Montefeltro, che aveva
preso il potere dal 1444, dà inizio a un complesso programma di riorganizzazione
generale del suo stato. Ne fanno parte le numerose opere di ingegneria militare
(soprattutto rocche fortificate come Sassocorvaro, Senigallia, San Leo ecc.) alle
quali lavorano Francesco di Giorgio, Luciano Laurana, Baccio Pontelli e numero-
si altri. Vi appartengono anche talune opere di bonifica e di riorganizzazione della
viabilità. È dunque possibile che Piero della Francesca alluda proprio a questa
complessa opera di assetto territoriale quando, nel celebre ritratto del duca, collo-
ca direttamente il profilo di Federico sullo sfondo di un lontano e ordinato pae-
saggio di colline e canali.
Tra le numerose serie di interventi non poteva mancare una iniziativa che fos-
se tesa a qualificare come capitale la città di Urbino, prescelta per la residenza du-
cale. In quella città esistevano già due proprietà dei Montefeltro: un palazzo posto
sul colle meridionale e un castellare verso la valle di Valbona. Ma questi due poli
urbani non fornivano quell’immagine unitaria e centralizzatrice del potere ducale
cui Federico voleva assegnare un importante e significativo ruolo politico. Un
piccolo stato, posto a cuscinetto tra lo stato pontificio e quello fiorentino-medi-
ceo, doveva fornire di sé una immagine sia di prestigio sia di efficienza economica
e militare. Tenuto conto del tipo di iniziative urbanistico-territoriali messe in mo-
to, appare evidente che entrambi gli aspetti dovettero essere ben presenti al duca.
Da un lato, infatti, sta l’aspetto efficientistico delle iniziative riguardanti l’intero
territorio urbinate e in particolare le opere di bonifica e il perfezionato e aggior-
nato istema difensivo; dall’altro l’aspetto ideologico del prestigio che, avendo co-
me fulcro la costruzione del palazzo ducale e la riorganizzazione della città di Ur-
bino, si proiettava in una serie di atti volti al sostegno di una politica culturale di
notevole rilievo. La correlazione che si stabiliva tra la realizzazione del palazzo
ducale e la trasformazione dell’intero ambiente urbano è stata subito notata dai
contemporanei. Sarà anzi più tardi felicemente intetizzata da Baldassarre Casti-
glione che, nel suo Cortegiano, definisce Urbino una «città in forma di palazzo».
Questa definizione, che sembrerebbe più logico ribaltare in quella di «palazzo in
forma di città», coglie il fatto che la dimensione dell’insediamento di corte (costi-
tuito dall’insieme del palazzo, della vicina chiesa e di altri edifici) è decisamente
preponderante e soverchiante rispetto all’edilizia minuta del tessuto urbano origi-
nario. Il palazzo condiziona la città. L’insediamento della corte, cioè, si insinua
nella città preesistente e, sostituendo molte parti del tessuto cittadino, ne propone
nuovi modi di funzionamento. L’articolazione dell’edificio ducale in più livelli,
nonché la complessa integrazione tra strutture edilizie e viabilità, danno luogo a

126
Il Rinascimento

un’eccezionale unità dinamica che lega il complesso ducale all’intera struttura ur-
banistica cittadina.
Così interpretato, l’intervento urbinate non sarebbe però andato oltre il caso di
un riuscito esempio di integrazione tra opera architettonica e città. Di conseguen-
za, se così fosse, l’iniziativa di Federico da Montefeltro non dovrebbe far parte di
una storia della cultura urbanistica; non più di quanto ne facciano parte i pur nu-
merosi esempi di ristrutturazione di piazze o di complessi edilizi della seconda
metà del Quattrocento, se valutati come episodi architettonici richiusi in se stessi.
Il quadro in cui si inserisce l’intervento su Urbino è però più ampio; fa parte cioè
di una scelta urbanistica e territoriale del tutto nuova per la città. Stanno a dimo-
strarlo proprio la concezione insediativa, la scelta tipologica, l’intera vicenda della
realizzazione del palazzo. La localizzazione prescelta, cioè la sommità di uno dei
due colli di cui è formata Urbino (urbs bina), non corrisponde in assoluto al punto
più elevato della città. Corrisponde però al punto in cui il nuovo complesso duca-
le guarda e domina sulle valli circostanti. Soprattutto corrisponde al luogo da cui
esso può essere visto e considerato come punto di coordinamento territoriale da
chi si avvicina alla città provenendo da Roma o da Firenze. La scelta non potreb-
be quindi essere più chiara: il complesso ducale è pensato come vera e propria in-
frastruttura ideologica dell’intero stato urbinate.
Senza tener conto dell’asse onginario di formazione della città – cioè l’asse con-
nesso con i flussi agricolo-mercantili nella direzione di Rimini – il duca di Montefel-
tro privilegia il ettore urbano che si trovava in più immediato contatto con il Merca-
tale, ponendo il suo palazzo in un calcolato rapporto di visibilità con il percorso via-
rio da e per Roma. La rotazione, nei confronti del restante impianto edilizio, del
complesso edilizio costituito sia dai due famosi torricini sia dalle logge che corrispon-
dono allo studiolo di Federico e ad altri ambienti connessi con la presenza del duca,
conferma questa ipotesi. Rispetto a tutti i canoni della ricerca quattrocentesca sul ti-
po del palazzo – in genere fondata sull’articolazione di volumi con base quadrata o
rettangolare – questa rotazione è fenomeno anomalo: dunque è il prodotto voluto
di una precisa scelta. L’asse compositivo, che si dispone ortogonalmente rispetto al
piano architettonico del complesso torricini-logge corrisponde infatti all’asse ottico di
chi si avvicina alla città. Vuole essere dunque un asse ideologico-visuale di prolun-
gamento e proiezione territoriale del potere del duca sul suo stato.
Nel caso urbinate l’effetto delle modificazioni indotte in una città dall’insedia-
mento di una corte, già per questo solo aspetto assumerebbe una sua precisa va-
lenza urbanistica. Ma quell’effetto si moltiplicò e si materializzò anche in un
completo rovesciamento dell’asse di coordinamento urbanistico della città. Ciò
dimostra la carica, non soltanto ideologica, di cui era dotata l’intera iniziativa du-
cale. La strada proveniente da Rimini, che entrando da Lavagine si immetteva or-
togonalmente sull’asse longitudinale di collegamento tra i due colli cittadini, ven-
ne prolungata fino al Mercatale nella zona di Valbona. Inoltre, ancora lungo que-
sto asse, si formò un nuovo quartiere organizzato secondo la prassi urbanistica
consueta per gli ampliamenti: la strada era cioè la spina del coordinamento inse-
diativo. Nel caso in esame, poi, quella strada assolveva anche ad altre più com-

127
Il Rinascimento

plesse funzioni. Ponendosi in stretta correlazione con l’area del Mercatale, che era
di proprietà demaniale, tutta l’iniziativa si veniva infatti a saldare anche con gli in-
teressi patrimoniali del duca.
Si riscopre qui quella concezione “patrimonialistica” dello stato che contraddi-
stingueva molti dei governi dell’Italia quattrocentesca. L’iniziativa urbinate rias-
sume dunque in sé tanto la nuova concezione urbanistica di impronta ideologica
quanto quella, piu tradizionale, legata alla prassi corrente. Il particolare equilibrio
tra le due diverse impostazioni dà ragione del successo, quindi della durevolezza
nel tempo, delle scelte effettuate da Federico da Montefeltro e dal gruppo di ope-
ratori chiamati a tradurle in atto.
L’opera di Luciano Laurana e di Francesco di Giorgio (entrambi a vario titolo
protagonisti dell’edificazione del palazzo ducale) i loro collegamenti probabili con
Leon Battista Alberti, la presenza di Piero della Francesca e forse di Donato
Bramante, la presenza inoltre di molti altri artisti italiani e stranieri (a cominciare
da Botticelli) sono forse da considerarsi le cause prime di quell’equilibrio. Esso
nasce infatti anche da un calcolato ricorso alle variate soluzioni che potevano sca-
turire da un appropriato uso delle piu recenti conquiste della cultura prospettica
(nell’ambito proposto e perimentato dalle opere di Piero della Francesca) nel dif-
ficile compito di rimodellare un intero organismo urbano. Va inoltre considera to
che queste possibilità apparivano certo maggiori che altrove in un caso, come
quello di Urbino, nel quale risultavano concomitanti due condizioni base per il
raggiungimento di un risultato urbanisticamente unitario e dominabile
[liberamente tratto da V. FRANCHETTI PARDO, Storia dell’urbanistica. Dal Trecento
al Quattrocento, Roma-Bari 1994, pp. 526-532]

Il palazzo di Urbino dimostra la complessa problematica architettonica affron-


tata verso la metà del secolo nei circoli aperti all’influsso delle idee albertiane. Ur-
bino, piccola cittadina appollaiata sulla montagna marchigiana, venne completa-
mente trasformata per volontà del più grande dei suoi reggitori, Federico da
Montefeltro, il condottiero più famoso e di maggior fortuna del suo tempo, capi-
tano generale delle forze papaline e, a differenza della maggior parte dei condot-
tieri del suo stampo, uomo devoto e illuminato nonché principe esemplare. Fra il
1444 e il 1483, anni di nascita, rispettivamente, di Bramante e di Raffaello, Urbino
fu certo uno dei centri mondiali di più alta civiltà.
Il piccolo principato venne retto da Federico, dapprima conte e poi, dal 1474,
duca, e da sua moglie, Battista Sforza. Per circa trent’anni egli si dedicò alla costru-
zione del palazzo, «abitazione bella, e degna quanto si conviene alla condizione, e
laudabil fama delli nostri progenitori, et anco della condizione nostra», e alla crea-
zione della grande biblioteca urbinate (ora in Vaticano), dotata di manoscritti d’am-
mirevole fattura, poiché Federico rifiutava di possedere qualsiasi libro a stampa.
Con un famoso breve del 10 giugno 1468 era conferita a Luciano Laurana la
supervisione di tutti i lavori eseguiti nel palazzo: non è però chiaro quanta parte
dell’edificio a noi pervenuto gli vada effettivamente attribuita. Innanzitutto, Fede-
rico stesso godeva fama d’essere un’autorità in campo architettonico, come prova

128
Il Rinascimento

l’affermazione del suo biografo, il libraio fiorentino Vespasiano da Bisticci: «Ave-


va voluto avere notizie di architettura, della quale l’età sua, non dico signori ma di
privati, non c’era chi avesse tanta notizia quanto la sua Signoria. Veggansi tutti gli
edifici fatti fare da lui, l’ordine grande e la misura d’ogni cosa come l’ha osservate,
e maxime il palagio suo, che in questa età non s’è fatto più degno edificio, sì bene
inteso, e dove siano tante degne cose quante in quello. Bene ch’egli avesse archi-
tettori appresso della sua Signoria, nientedimeno nell’edificare intendeva il parere
loro, dipoi dava e le misure e ogni cosa la sua Signoria, e pareva, a udirne ragiona-
re, che la principale arte ch’egli avesse fatta mai fusse l’architettura; in modo ne
sapeva ragionare e mettere in opera per lo suo consiglio!» (Vespasiano da Bisticci,
Vite di uomini illustri). Sappiamo inoltre dal Landino e da altri della sua amicizia
con l’Alberti e con Piero della Francesca. La Flagellazione di quest’ultimo, destinata
in origine alla cattedrale di Urbino, fu commissionata quasi certamente da Federi-
co, al pari del doppio ritratto del duca e della duchessa, Battista Sforza, e della
grande Madonna di Brera, uno dei dipinti più significativi del Quattrocento.
Le parti più antiche del palazzo furono probabilmente iniziate da Federico
prima del 1460, e quelle rimasteci – principalmente la facciata orientale – deriva-
no il loro stile da quanto si faceva a Firenze negli anni precedenti. Il Laurana fu
nel 1465 a Mantova, dovette vedervi i lavori per il San Sebastiano dell’Alberti, e
giunse a Urbino probabilmente nel 1465-1466. Nel 1468 venne nominato capo-
maestro e partì poi per Napoli nel 1472. L’incarico dovette di poi essere conferito
a Francesco di Giorgio, pittore, architetto e ingegnere militare. Nell’agosto del
1474 Federico ricevette il titolo di duca e le iscrizioni del palazzo recanti la scritta
FE. DUX. vanno presumibilmente assegnate a una data posteriore.
Lo stile che caratterizza le opere posteriori al 1474 è dunque quello di Francesco
di Giorgio, ma poiché nel palazzo si avvicendano almeno tre stili differenti, non è
facile stabilire quale sia quello proprio del Laurana, tanto più data la nostra così
scarsa conoscenza dell’attività svolta dall’architetto fuori di Urbino. Era costui un
dalmata, forse di Lovrana; e ne è lecito l’accostamento con lo scultore Francesco
Laurana che lavorò all’arco trionfale di Napoli, assai simile alla facciata occidentale
di Urbino, con la sua triplice loggia compresa fra due torri (i torricini), iniziata prima
del 1474 e da attribuirsi probabilmente a Laurana. Appena prima di recarsi a Urbi-
no, nel 1461, il Laurana si trovava a Pesaro, dove le finestre del palazzo ducale so-
migliano a certune del palazzo urbinate in modo tale da autorizzarne l’attribuzione
all’artista dalmata. Il confronto fra l’arco di Napoli e la facciata occidentale di Urbi-
no rivela evidenti analogie: fra queste, la composizione della torre e dell’arco e, più
precisamente, il motivo a voluta che corona la loggia superiore.
Nello sviluppo del cortile, quello di Urbino, assegnabile almeno in parte a
Francesco di Giorgio, segna un momento importante per due ragioni: innanzitut-
to supera le difficoltà incontrate da Michelozzo nella risoluzione degli angoli per
la corte di palazzo Medici. A Urbino gli angoli sono formati da un grande pilastro
a forma di «L»: al lato più corto è giustapposta una mezza colonna mentre, verso
l’esterno, si appoggiano alti pilastri che portano una trabeazione posta sopra il li-
vello dell’arcata. La soluzione è visualmente più soddisfacente della colonna unica

129
Il Rinascimento

adottata da Michelozzo e rimanda al sistema di trabeazione sorretta da pilastri in-


trodotta da Brunelleschi sopra l’arcata dello Spedale degli Innocenti. Il cortile di
Urbino, inoltre, segna un progresso rispetto a palazzo Medici anche nella solu-
zione della trabeazione, con la felice connessione di architrave, fregio e cornice,
ove il fregio reca una lunga iscrizione in lettere romane particolarmente eleganti.
[…] Il piano superiore (dei due originariamente previsti) è trattato in armonia con
l’arcata sottostante, ben diversamente da quanto avviene nella faticosa finestratu-
ra della corte michelozziana. Benché anche Francesco aggiunga le sue finestre di-
rettamente sulla cornice spartipiano, assegnandole una funzione di davanzale, il
proporzionamento e la sistemazione delle aperture vennero studiati ed eseguiti
con grande cura. I grandi pilastri angolari servono a distanziare le finestre, e ogni
intercolumnio del piano superiore è delimitato dalle proprie lesene e dalla propria
trabeazione, corrispondenti a quelli dell’arcata sottostante. L’altezza dell’arco,
doppia della larghezza, ne situa il culmine in corrispondenza della metà di ambe-
due i piani e il motivo viene ripreso nei rettangoli delle finestre, racchiusi negli in-
tercolumni e previsti anch’essi nelle dimensioni di 1:2. Poiché le colonne e i capi-
telli del pianterreno corrispondono all’altezza totale del piano superiore, ivi com-
presa la trabeazione, ne risulta un sistema di proporzioni più sottile non solo di
quello di Michelozzo, ma forse anche di quello di Brunelleschi. […]
La facciata, di Laurana con interventi di Francesco di Giorgio, ha subito gravi
danni ed è incompiuta, ma quanto ce ne è pervenuto basta a dimostrare che il
progetto originale doveva prevedere un pianterreno rustico con pilastri angolari,
interrotto da tre portoni e da tre finestrelle asimmetriche. Sorprendentemente il
piano nobile, forse previsto in origine anch’esso rustico, accoglie quattro finestre
così spaziate da non coincidere con i portoni del pianterreno; l’effetto d’insieme,
tuttavia, malgrado il contrasto fra il ritmo delle quattro aperture superiori e quello
delle tre inferiori, risulta armonico ed equilibrato. La Firenze del tempo non offre
nulla d’analogo, benché dettagli e proporzioni rinviino all’Alberti e trovino, per
certi aspetti, un riscontro nelle pitture di Piero della Francesca.

[liberamente tratto da P. MURRAY, Rinascimento, Milano 1971, pp. 40, 42, 44-45]

L’edilizia civile in area subalpina tra medioevo ed età moderna


a. Il Piemonte sud-occidentale

Il tessuto abitativo
«Si confaceva anco la libertà dell’aria, perché da una parte risplendeva il sol le-
vante dall’altra il meso giorno […] scorevano in oltre dall’una e dall’altra parte ac-
que chiarissime, tanto per l’uso delli huomini e delli animali, quanto per adaquar i
pratti e per mollini et altri artifizi d’acque commodissimi». Con queste parole sul
finire del Quattrocento l’anonimo cronista di Cuneo tornava indietro nel tempo
mettendo in luce i molteplici aspetti sottesi alla scelta del sito su cui sorgerà la vil-

130
Il Rinascimento

lanova di Cuneo nel 1198, alla confluenza dei fiumi Gesso e Stura, che diventerà
con la ripresa della vita comunale a partire dal 1230, durante e dopo la domina-
zione angioina, l’epicentro di una vasta area geografica in parallelo alla conquista
agraria e al progressivo popola mento delle campagne. Un sito, il «pizzo di Cune-
o», collocato in posizione strategica rispetto ai territori oltremontani, lungo i per-
corsi di uomini e merci che transitavano attraverso le vallate alpine, in vario mo-
do descritti dalle fonti coeve e di epoca posteriore. Un riferimento quest’ultimo di
grande interesse storico-documentario, la cui tangibile memoria si è conservata
soprattutto lungo l’asse viario principale dell’insediamento, attuale via Roma, cor-
rispondente all’antica platea sviluppata in direzione nord-sud dalla porta Karante si-
no alla porta Burgi. Immagine simbolo della sua perdurante vocazione commercia-
le, l’architettura porticata di via Roma è in realtà il risultato del progressivo avan-
zamento dei corpi di fabbrica in testata alle botteghe verificatosi in parallelo alla
più vasta e capillare trasformazione del tessuto edilizio retrostante.
Pertanto l’architettura di via Roma costituisce un campo di osservazione privi-
legiato per analizzare la metamorfosi del tessuto abitativo nel tardo medioevo,
anche se la mancanza di fonti archivistiche dirette non aggiunge significativi ri-
scontri conoscitivi rispetto a quelli che emergono dall’analisi delle testimonianze
materiali superstiti. Altri elementi di incertezza riguardano il riuso di reperti estra-
polati dal loro contesto originario secondo una prassi che caratterizza i modi di
costruire nel lungo periodo, attestati su base documentaria nel corso del Settecen-
to. Inoltre gli edifici che presentano caratteristiche unitarie sono molto scarsi
mentre sono numerosi quelli che lasciano trasparire le tracce stratificate degli in-
terventi solo in parte riconducibili alla stagione costruttiva quattrocentesca, nel
periodo in cui Cuneo era entrata a far parte definitiva mente dei possedimenti sa-
baudi, dopo il 1382. Tutto ciò si verificava in rapporto al nuovo ciclo di espan-
sione demografica progrediente a partire dalla fine del Trecento, sebbene punteg-
giato dalle ondate epidemiche che tuttavia offrivano, subito dopo, molteplici op-
portunità insediative ai nuovi abitanti o a quelli che erano ritornati in città. […]
Un’altra ondata di popolamento si verificava dopo la «fiera pestilensa» del
1425, periodo in cui si moltiplicavano i nomi delle famiglie provenienti non solo
dai territori limitrofi e dal distretto di Cuneo ma anche dall’Alessandrino, dalla
Riviera di Genova e dallo stato di Milano, in parallelo alla ripresa delle attività
produttive e commerciali «che cagionavano molto concorso di popolo».
Una cospicua messe di informazioni proviene dalle fonti coeve studiate da Ri-
naldo Comba (1989, pp. 206-242) per quanto riguarda gli aspetti demografico-
insediativi attraverso i «minuziosi elenchi dei fuochi». Avvalendosi poi dell’estimo
la cui stesura è collocabile tra il 1447 e il 1448 ha potuto ricostruire l’assetto della
proprietà urbana a partire dalle denunce dei beni immobili di ciascun contribuen-
te nei quartieri di Santa Maria del Bosco e di San Francesco, che seguono un cri-
terio topografico nella registrazione dei dati, La sequenza delle particelle negli iso-
lati prospicienti la platea, lato Stura, restituita graficamente e trasferita nel contesto
edilizio attuale ha offerto importanti elementi di conoscenza, con risultati analo-
ghi a quelli riscontrati per la prima volta a Carpi attraverso l’incrocio tra fonti

131
Il Rinascimento

scritte e testimonianze materiali, In quel periodo i lotti di forma stretta e allungata


rappresentavano l’elemento distintivo e caratterizzante l’ossatura portante della
proprietà edificata, anche se il termine domus utilizzato per indicare la parte co-
struita e al con tempo la sua area di pertinenza non consente di individuare la re-
altà fisica e lo spazio occupato dai fabbricati. Tuttavia l’assetto geometrico di cia-
scun lotto è nella maggior parte dei casi riconducibile a proprietari diversi fra di
loro confinanti, il che suggerisce la presenza di cellule abitative comprese all’in-
terno del lato più corto affacciato sulla platea, delimitate alle estremità dalle quinta-
ne, più raramente derivanti dall’accorpamento di fabbricati limitrofi.
Questa preziosa fonte di informazione restituisce fra l’altro la collocazione spa-
ziale di alcune famiglie che si erano inurbate a partire dagli anni trenta del Quat-
trocento, secondo l’anonimo cronista di Cuneo. È il caso di Costanzo Miglia origi-
nario della Valgrana che si era trasferito tra il 1439 e il 1441 […]. L’estimo già citato
ne ricorda la presenza fra i proprietari degli immobili affacciati sulla platea nell’iso-
lato compreso tra le attuali via Caraglio e vicolo Quattro Martiri, in un’abitazione
presumibilmente ubicata al primo piano nell’interpretazione di Comba (1989, pp.
266-267). Il termine domus indica al contempo la parte costruita e la sua area di per-
tinenza, qui come altrove nella stessa fonte, trovando puntuali riscontri nella di-
mensione attuale della proprietà delimitata dai resti delle quintane. La bottega coper-
ta da una volta a crociera occupa un terzo circa del lotto in profondità, una dimen-
sione riscontrabile in numerosi ambienti destinati alle attività commerciali nel con-
testo urbano di via Roma. Il tracciato della lottizzazione originaria si proietta sulla
facciata scandita da una sola arcata di portico che ricade su due tozzi capitelli in
pietra, sicuramente di reimpiego, parzialmente inglobati nei pilastri inseriti succes-
sivamente a rinforzo della struttura. Le foglie angolari percorrono la superficie del
calato scontornando alla base uno spazio in cui è inserito un fiore di giglio al centro
della composizione. È interessante notare a questo punto la corrispondenza fra
l’emblema dei Miglia e il giglio in questione, peraltro casuale dal momento che il
suo profilo irregolare non consente di attribuirgli un preciso significato araldico. Si
tratta piuttosto di un elemento usato in chiave decorativa come dimostrano un
gran numero di testimonianze quattrocentesche, soprattutto quelle identificate e
analizzate attraverso una ricognizione a tappeto condotta nelle valli saluzzesi.
Nel nostro caso i capitelli di fattura e dimensioni identiche assegnano una pe-
culiare identità all’avancorpo porticato, una delle poche testimonianze architetto-
niche che proprio a partire da questi reperti è riconducibile con certezza alla di-
mensione fisica del parcellare retrostante.
In altri casi invece emerge chiaramente rapporto di maestranze locali su mo-
delli di impronta tardogotica documentati in modo esemplare dal portale della
chiesa di San Francesco che reca scolpita sull’architrave la data 1481 e dai fonti
battesimali, appartenenti alla cattedrale di Santa Maria del Bosco quello datato
1490 e, l’altro, alla primitiva chiesa di Sant’Ambrogio di poco precedente. Questo
filone espressivo compare in modo del tutto sporadico nell’architettura civile di
Cuneo e più precisamente all’interno del complesso edilizio situato all’angolo di
via Roma con via Chiusa Pesio, la cui più tarda riplasmazione si deve ai conti

132
Il Rinascimento

Caissotti di Valperga a partire dall’accorpamento delle preesistenze. Come hanno


chiarito gli studi più recenti, l’attribuzione alla famiglia che possedeva in antico
una parte del fabbricato scaturisce dall’interpretazione della simbologia araldica
contenuta alla base del peduccio sul quale ricadono le volte a crociera delle due
campate di portico adiacenti all’androne settecentesco.
Si tratta di una stella che faceva parte di un vasto repertorio di testimonianze,
ormai scomparse, riguardante la collocazione nello spazio urbano dei Cravesano
o Cravisani originari di Boves «le cui armi si vedono dipinte o scolpite in marmo-
re in molti luoghi antichi ove essi sono abitati e massime nella città di Cuneo», se-
condo il consegnamento delle armi gentili zie del 1580 che fornisce ulteriori in-
formazioni in proposito ricordando la presenza del loro stemma nella fontana di
Boves, un prezioso documento materiale conservato si fino a oggi, recante nella
parte superiore quattro scudi uno dei quali contiene una stella e le date 1514 e
1516 scolpite nel bordo e sul pilastrino ottagonale.
Va ricordato infine che la famiglia era già presente a Cuneo intorno alla metà
del XV secolo e che nel 1516 è citata fra i membri del consiglio comunale. Tutto
ciò mentre conferma «l’antica e nobile origine» dei Cravesano, come pure il loro
status sociale, offre al contempo l’opportunità di circoscrivere l’ambito cronologi-
co di appartenenza del peduccio in questione, assegnabile alla fase costruttiva
quattrocentesca e, dunque, al periodo in cui fu innalzato l’avancorpo porticato
che comprende due campate coperte da volte a crociera di dimensioni identiche a
partire da via Chiusa Pesio. In seguito la cellula abitativa retrostante fu accorpata
all’edificio limitrofo ampliato e riplasmato nel corso del tempo introducendo al
suo interno lo scalone nel 1791, mentre gli interventi più recenti hanno occultato
il portico affacciato in antico verso il cortile che contiene una colonna a sostegno
di due campate coperte da volte a crociera. Il capitello databile alla metà del XV
secolo reca uno stemma non identificato e presenta sistemi decorativi a fogliami
di cardo selvatico con apice bulbiforme che ebbero ampia diffusione nel Cuneese,
nel marchesato di Saluzzo e in altre aree limitrofe. Li troviamo nel portale della
chiesa parrocchiale di Dronero eseguito tra il 1455 e il 1461 dai fratelli Stefano,
Costanzo e Maurizio Zabreri, originari di Pagliero in valle Maira, un punto fermo
nel quadro della produzione lapidea attribuita non solo alla loro bottega ma anche
a un folto gruppo di maestranze finora sconosciute. Compaiono fra l’altro nel
chiostro di San Giovanni a Saluzzo, nell’edilizia civile e in numerosi fonti batte-
simali della valle Maira risalenti alla seconda metà del secolo, con una serie di va-
rianti più semplificate in cui le foglie angolari sono appiattite e molto stilizzate,
oltre che negli esempi cuneesi appena citati.
Dunque, il panorama artistico del Piemonte sudoccidentale fa trasparire la vita-
lità del naturalismo tardogotico inserito nella trama dei rapporti con i territori ol-
tremontani, reso più esplicito dalle iscrizioni in caratteri gotici scolpite in nume-
rosi manufatti lapidei (archi travi, fonti battesimali, acquasantiere) intessuti di ri-
mandi alla civiltà franco-borgognona. Basti pensare ai rapporti internazionali sot-
tesi all’esecuzione della cappella marchionale situata in prosecuzione della navata

133
Il Rinascimento

mediana della chiesa di San Giovanni a Saluzzo, costruita nella seconda metà del
Quattrocento e considerata un vero e proprio «capolavoro dell’arte borgognona».
In realtà questo filone espressivo si intreccia con la produzione strettamente
connessa alla circolazione di maestranze e di modelli artistici provenienti da altre a-
ree geografiche della nostra penisola che, nel caso di Cuneo, aveva il suo punto di
convergenza nella chiesa di San Francesco, iniziata nei primi anni del Quattrocento
e terminata come si è detto con l’inserimento del portale nel 1481. La cronologia
delle fasi costruttive è stata ricostruita dagli studiosi che si sono occupati a suo tem-
po del primitivo edificio religioso sorto a partire dalla fine del XIII secolo, arricchita
più di recente dai dati emersi durante l’indagine archeologica condotta all’interno del
complesso conventuale. Tuttavia sono ancora tutti da indagare gli aspetti architetto-
nici, risultato del sapiente impiego del mattone in funzione strutturale e dei molte-
plici apporti sottesi alla grande varietà di soluzioni figurative dei capitelli lapidei.
Sono questi nel nostro caso, più ancora degli aspetti spaziali e costruttivi, un
sicuro punto di riferimento in grado di far emergere la cultura e il luogo di prove-
nienza delle maestranze e gli eventuali nessi che legavano le esperienze maturate
nel cantiere di San Francesco al contesto urbano limitrofo. Una linea di ricerca
che travalica l’ambito locale, trovando ulteriori elementi di riflessione all’interno
di un’area situata oggi in posizione marginale alle estreme propaggini meridionali
della regione, che allora apparteneva a un contesto geopolitico più vasto facente
capo al marchesato di Finale. Si tratta dei capitelli con le foglie angolari concluse
da volute a ricciolo piatto, inseriti al piano terreno del portico interno del castello
di Saliceto e arricchiti dall’emblema del committente Giovanni I del Carretto si-
gnore di Finale dal 1450 al 1471 anno della sua morte. Sono riconducibili al fer-
vore di iniziative che ruotava in quegli anni intorno alla sua figura, come pure gli
interventi che egli aveva promosso nella capitale del marchesato con la partecipa-
zione di magistri lombardi favorita dai legami politici con il ducato di Milano e do-
cumentata in loco anche nella seconda metà del secolo. In questo ambito di inter-
venti dobbiamo ricordare gli apporti degli scalpellini locali segnalati dagli studi
più recenti, con particolare riferimento ai capitelli di datazione certa provenienti
dalla demolizione del loggiato di Castel Gavone, nel borgo di Perti, recanti lo
stemma carrettesco unitamente a quello di Valentina Adorno che aveva sposato
Giovanni I nel 1452. Il loro disegno di insieme rivela strette affinità con quelli di
Saliceto sicuramente di reimpiego, forse provenienti anch’essi dai cantieri finalesi.
Questo patrimonio di testimonianze legate alla rielaborazione in chiave semplifi-
cata del mondo antico, sulla scia della tradizione medievale, suggerisce ulteriori
approfondimenti di ricerca nella realtà geostorica a cavallo tra il basso Piemonte e
la Liguria. Da questo punto di vista non è del tutto casuale riscontrare una vasta
campionatura di manufatti analoghi nell’entroterra di Albenga, lungo gli itinerari
che dal Monregalese portavano alla riviera, con punte di elevata concentrazione a
Cénova nell’alta valle dell’Aroscia. È il caso dei capitelli provenienti dalla primiti-
va chiesa parrocchiale, uno dei quali reca la data 1496, da confrontarsi con quelli
più curati, per quanto riguarda il disegno delle volute, appartenenti alla chiesa di
San Pantaleo a Ranzo nella bassa valle dell’Aroscia, risalenti al medesimo periodo,

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Il Rinascimento

che «uniscono elementi decorativi di ispirazione classica, come le volute a ricordi


medievali e popolareschi come le testine apotropaiche».
Sono entrambi da ricollegare ai lapicidi di Cénova la cui attività irradiava nel
Ponente ligustico per dare luogo a una variegata produzione scultoreo-architetto-
nica, attribuibile con certezza o riconducibile alla cosiddetta “scuola di Cénova”.
A partire da queste considerazioni dobbiamo infine ricordare che a loro volta gli
esempi appena citati presentano stringenti affinità con i capitelli contenuti nella na-
vata centrale della chiesa di San Francesco a Cuneo, in questo caso con gli emblemi
della città di Cuneo e delle casate che avevano contribuito alla realizzazione dell’o-
pera, mentre un solo esempio di questo tipo si è conservato nell’edilizia civile citta-
dina, ovvero nel porticato di via Mondovì, anche se si tratta di un elemento di
reimpiego molto abraso recante uno stemma illeggibile. Sempre all’interno della
nostra chiesa, ulteriori spunti di riflessione offrono quelle tipologie decorative le cui
valenze espressive sono affidate ai fogliami corposi angolari con globulo centrale.
Per questo genere di manufatti il riferimento primario è senza dubbio il cantiere del
duomo di Milano, spazio di convergenza e di irradiazione di maestranze e di artisti
nel panorama del gotico internazionale a partire dall’ultimo quarto del XIV secolo,
in stretto contatto con i maggiori centri europei della Francia, dell’area tedesca e
della Boemia. In questo contesto spaziale l’apparato ornamentale a foglie globulate
fa da sfondo a più complesse e articolate composizioni scultoree, arricchisce le
mensole dell’abside del transetto meridionale e la cosiddetta guglia Carelli attribuita
alla cerchia dello scultore lapicida Giovannino de Grassi che aveva diretto il can-
tiere del duomo dal 1391 al 1398, anno della sua morte. […]
Dobbiamo ricordare infine l’edificio che suscitò lo stupore e l’interesse dell’a-
nonimo cronista il quale per primo ne attribuì l’edificazione a Paganino del Poz-
zo, il celebre mercante proveniente da Alessandria, sottolineando che «fece un
palazzo in Cuneo di meravigliosa bellezza», dopo essersi trasferito in città allo
scadere degli anni venti del XV secolo.
Gli studi di Rinaldo Comba (1989, p. 26) consentono di riferirne con certezza
l’appartenenza a Paganino del Pozzo e di individuare in lui il proprietario che elevò
il nucleo più cospicuo dell’edificio al rango di sontuoso palazzo, anche se i caratteri
architettonici e decorativi del complesso attuale suscitano una serie di interrogativi
circa l’originaria consistenza della fabbrica riferibile all’iniziativa di quel committen-
te. Lo stratificarsi degli interventi è confermato innanzi tutto dai resti delle colonne
in laterizio, con capitelli del tipo cubico, situati nel corpo di fabbrica che risvolta in
via Saluzzo. La disposizione loro e delle corrispondenti volte a crociera farebbe
pensare all’esistenza di un porticato con loggiato sovrastante collegati alla scala a
chiocciola riprodotta nella planimetria eseguita a suo tempo da Vacchetta e succes-
sivamente demolita. Queste strutture furono inglobate all’interno del fabbricato at-
tuale sviluppato in origine intorno al cortile, che si addossa al volume affacciato su
via Roma scandito al piano terreno da tre campate di portico. Quest’ultimo deriva
a sua volta dall’ampliamento di una struttura preesistente a partire dall’accorpa-
mento di due cellule contigue. A sostenere quest’ipotesi concorre la data 1444 inci-
sa sul pilastro centrale del portico riferibile presumibilmente alla fase costruttiva

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Il Rinascimento

voluta da Paganino che forse, date le ingenti spese, era stato costretto a indebitarsi,
come farebbe presumere un altro documento redatto nello stesso anno in cui sono
menzionati Marco e Antonio de Busca creditori nei suoi confronti di una somma
cospicua. A loro nome è registrata alla metà del Quattrocento la proprietà in cui
sorge il palazzo attuale, che secondo l’interpretazione del Comba era stato «vendu-
to o alienato non prima del 1447». Queste informazioni consentono pertanto di in-
dicare gli anni immediatamente seguenti alla compilazione dell’estimo, 1447-1448,
quale terminus ante quem per il completamento del corpo di facciata relativo alla
campata allora corrispondente alla «domus cum apoteca et porticu» che appartene-
va a un certo Bartolomeo Isachy e alle due campate successive in cui si trova la da-
ta 1444. Dunque, l’architettura della fronte esterna è il risultato di un ampliamento
verificato si in tempi molto ravvicinati, forse nell’arco di pochi anni, dopo l’acquisi-
zione da parte di Antonio e Marco de Busca della proprietà confinante. Un’ipotesi
suffragata dalle caratteristiche unitarie dei capitelli sui quali ricadono le arcate del
portico che presentano gli stessi repertori a fogliami corpo si riconducibili alla civil-
tà figurativa tardogotica. In quelli del fabbricato retrostante compare il motivo ri-
corrente a foglie frastagliate con globulo centrale attribuibile tuttavia a mani diver-
se, con particolare riferimento agli esemplari situati verso piazza Audiffredi, conce-
piti in chiave bidimensionale e in forme più semplificate rispetto ai già citati modelli
milanese e chierese. Sulla loro sostanza stilistica occorrerà ancora indagare per iden-
tificare la cultura e il luogo di provenienza degli esecutori: una linea di ricerca lungo
la quale sarà interessante valutare i collegamenti con l’area lombarda tramite
l’Alessandrino da cui Paganino del Pozzo proveniva, senza peraltro escludere
l’intervento di scalpellini provenienti dal cantiere di San Francesco dove, come si è
visto, compaiono gli stessi motivi fitomorfi. Un problema aperto nell’ambito della
produzione tardogotica di questo palazzo laddove assume spiccati accenti narrativi e
simbolici esemplificati dal bassorilievo con la volpe predicante sormontata dal mot-
to ma voulonté48 e dal quanto mai variegato corredo scultoreo che caratterizza i capi-
telli del porticato interno, tenuto anche conto delle interpretazioni, peraltro prive di
riscontri documentari, del Vacchetta a suo tempo criticamente discusse da Riberi.
Il palazzo attribuito a Paganino del Pozzo rappresenta fra l’altro un sicuro
punto di riferimento per analizzare gli esiti del rinnovo edilizio cittadino segnalato
all’esterno dalle campate coperte da volte a crociera bombate con le arcate a sesto
acuto molto rialzato che alludono alla progrediente sostituzione delle tettoie li-
gnee con strutture in mura tura. Del resto in quegli stessi anni anche altrove la
costruzione degli avancorpi porticati assegnava un nuovo volto architettonico alle
aree di mercato, come nel caso di Torino per creare «una piazza porticata estre-
mamente adatta all’esercizio del commercio».
Si tratta di uno dei pochi esempi di questo tipo nel contesto urbano di via
Roma, soggetto nel corso del tempo a rifacimenti ricorrenti che hanno determi-
nato il ribassamento dei portici per inserirvi le coperture a volte o per ricavare ul-
teriori spazi abitativi ai livelli sovrastanti. Al primo piano il vasto ambiente coper-
to dal soffitto ligneo a cassettoni, con il camino nella posizione originaria, lascia
trasparire la ricerca di nuove soluzioni abitative a partire dall’accorpamento di

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Il Rinascimento

proprietà confinanti. Un mutamento segnalato fra l’altro dalla già citata scala a
chiocciola, forse una delle prime in ordine di tempo che introduceva nuovi criteri
d’uso all’interno delle preesistenze cui allude la concreta realtà materiale degli e-
sempi attuali: un patrimonio numericamente rilevante e del tutto eccezionale di
testimonianze, a differenza di altri centri urbani del Piemonte meridionale dove
questo genere di strutture compare in forme più sporadiche. Tutto ciò assegna al-
la città di Cuneo un ruolo di primo piano nel quadro del più vasto e capillare pro-
cesso di trasformazione verificatosi tra Quattro e Cinquecento nella nostra regio-
ne, nel momento in cui la riqualificazione spaziale e funzionale degli edifici de-
terminava la cancellazione delle scale preesistenti e la nuova configurazione dei
collegamenti verticali. Si consolidava al contempo una peculiare organizzazione
dei percorsi di accesso conseguente alla necessità di non intaccare lo spazio riser-
vato alle attività commerciali negli isolati della platea. Pertanto le scale a chiocciola
superstiti sono prevalentemente attestate verso i cortili e raggiungibili percorren-
do un androne di forma stretta e allungata che si sviluppa in tangenza alle botte-
ghe. La loro concentrazione lungo l’asse viario principale dell’insediamento evi-
denzia gli aspetti più vistosi di questo fenomeno riscontrabile anche altrove a Cu-
neo e più precisamente negli isolati di via Mondovì, l’antica ruata Bovisii attestata
sulla porta omonima. La sua primitiva denominazione allude agli abitanti della vil-
lanova provenienti da Boves che avevano popolato questo quartiere collegato con
il territorio circostante perlomeno fino al secolo XVI inoltrato, momento in cui la
costruzione del perimetro bastionato determinava la chiusura delle antiche porte
di ingresso alla città a eccezione di quelle situate alle estremità della platea in corri-
spondenza delle strade dirette a Torino e a Nizza. Mutavano dunque il ruolo e la
funzione della viabilità preesistente e forse anche i criteri d’uso dell’ambiente ur-
bano. Per queste ragioni, l’identificazione delle scale a chiocciola che erano più
numerose nel passato e la loro distribuzione topografica potrebbero diventare
oggetto specifico di ricerca, cioè uno degli elementi chiave per analizzare i tempi
e i modi in cui si articolò la trasformazione di quartieri allora vitali, nella fase che
precede la ridefinizione delle gerarchie urbane della città-fortezza.
Né bisogna dimenticare che molte di esse entravano a far parte di una organiz-
zazione spaziale più articolata e complessa in grado di ospitare diversi nuclei fa-
migliari fra di loro indipendenti, sulla scia dei modelli abitativi che si stavano af-
fermando anche altrove in Piemonte e nei maggiori centri urbani nei territori ol-
tremontani. È significativo in proposito il caso di Lione dove il mutamento gene-
ralizzato dell’architettura era incentrato sulle torri-scala, rotonde o poligonali, col-
legate ai loggiati e inserite, come a Cuneo, in posizione nodale all’interno del tes-
suto parcellare di forma stretta e allungata. Un mutamento verificatosi tra la fine
del XV secolo e la prima metà del successivo attraverso il sistematico impiego
della pietra lavorata, riconducibile alla committenza di un folto gruppo di mercan-
ti e banchieri che rappresentavano il tessuto vitale dell’economia cittadina.
Nel nostro caso le scale hanno un impianto solo ed esclusivamente di forma
circolare, spesso con strutture perimetrali in laterizi e ciottoli di fiume, mentre i

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Il Rinascimento

loggiati denominati in antico gallerie presentano un apparecchio murario in matto-


ni messo in opera con molta cura.
Il posizionamento dei loggiati superstiti evidenzia la progressiva occupazione
in profondità degli spazi all’interno dei lotti per collegare le abitazioni affacciate
sulla platea con le maniche sviluppate nei cortili fino al carrubio retrostante. Più ra-
ramente li troviamo addossati alle facciate interne, anche se è verosimile pensare
che molti di essi siano stati semplicemente mascherati e tamponati dagli interventi
di epoca posteriore. La loro piena visibilità lascia trasparire in modo evidente i se-
gni di questi interventi, come nel caso dell’edificio sito in via Roma 25, laddove
sorge l’organismo loggiato collegato in origine alla scala a chiocciola emergente in
altezza riplasmata e ampliata nel XVIII secolo: occupa l’intera facciata e com-
prende una sequenza di campate che unificano due cellule preesistenti la cui di-
mensione fisica è attestata dalle tracce di una quintana rinvenuta al piano terreno.
Anche la fronte esterna sembra essere il risultato di un intervento unitario, come
parrebbe dimostrare l’architettura del portico al piano terreno sviluppato su tre
campate di forma pressoché quadrata, con tre archi a sesto acuto rialzato di di-
mensioni identiche che presentano strette analogie con quelle del palazzo attribui-
to a Paganino del Pozzo che lo fronteggia sul lato opposto di via Roma.
Per queste ragioni è verosimile assegnare al medesimo ambito cronologico la
costruzione del corpo di facciata unitamente alle gallerie retrostanti scandite da
una sequenza di pilastri a sezione circolare con capitelli cubici ad angoli smussati.
Questo genere di strutture caratterizza più in generale le dimore civili dell’area
subalpina e in forme monumentali le chiese quattrocentesche del Piemonte su-
doccidentale, anche se compare nel chiostro dell’abbazia di Pogliola presso Mon-
dovì databile agli inizi del secolo seguente. […]

Ornamento e struttura: i palazzi all’inizio del Cinquecento


I risultati più vistosi del rinnovo edilizio di Cuneo gettano luce sui processi di
formazione della cortina porticata conseguenti all’avanzamento dei corpi di fabbrica
in via Mondovì e lungo l’asse viario principale dell’insediamento. La percezione e la
piena visibilità di questi interventi sono affidate innanzitutto alle strutture in mate-
riali lapidei dei pilastri costruiti ex novo a sostegno delle arcate, con un mutamento
incisivo a livello di immagine rispetto alle strutture porticate di epoca precedente.
Più raramente questo genere di manufatti si è conservato all’interno dei fabbricati
odierni, soggetti nel corso del tempo a rifacimenti ricorrenti e spesso distruttivi, ai
quali alludono un insieme di reperti (capitelli e resti di colonne) conservati nel Mu-
seo Civico o estrapolati dal loro contesto originario per essere reimpiegati altrove.
Da questo punto di vista assume un particolare interesse palazzo Della Chiesa,
l’unico edificio di Cuneo risalente con certezza ai primi anni del XVI secolo, in
grado di documentare il sistematico e coerente impiego della pietra lavorata in
funzione strutturale e ornamentale.
La dispersione degli archivi familiari non ha permesso finora di acquisire in-
formazioni sul cantiere e sulle motivazioni dei committenti sottese all’intervento,
sebbene qualche indizio in tal senso emerga dalle fonti inerenti alle vicende priva-

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Il Rinascimento

te dei proprietari. Essi appartenevano a un ampio e diramato gruppo familiare il


cui cognome «è antichissimo in diverse città di Lombardia ove è originaria» se-
condo Francesco Agostino della Chiesa, il celebre corografo della corte sabauda
che discendeva da quelli che si erano trasferiti a Saluzzo «ma quando ne di qual
tempo e luogo o città siano qui venuti no lo posso accertare».
In tutti i casi, fra i membri di questo casato si potevano contare nel corso del
XV secolo individui appartenenti all’élite saluzzese che avevano assunto ruoli pre-
stigiosi all’interno della corte marchionale in qualità di vicari e consiglieri del prin-
cipe. Nei loro «palazzi magnificamente fabbricati», annotava il nostro alla metà
del Seicento, si «vedono scolpite l’antiche armi della casa» come in quello quat-
trocentesco di via Valoria recante un capitello con il loro emblema, una chiesa e
relativo campanile entro lo scudo, privo di ulteriori attributi araldici inseriti suc-
cessivamente in allusione ai diversi rami della medesima famiglia.
Del ramo cuneese egli indicava il luogo di provenienza ricordando che faceva
capo a un gruppo di individui arrivati da «Acqui di Monferrato», una città situata
in posizione strategica lungo i percorsi verso l’entroterra padano e la Liguria, tan-
to da richiamare in loco numerosi mercanti forestieri. Tra questi compaiono, a par-
tire dagli anni trenta del Quattrocento, i nomi di quei della Chiesa originari della
val Sassina in Lombardia, le cui diversificate e redditizie attività commerciali si
svolgevano tra la pianura padana e il porto di Savona.
Sulla scia di questi interessi la città di Acqui rappresentò per alcuni di essi la
prima tappa lungo un percorso che li condurrà a risiedere stabilmente a Savona,
intorno alla metà del secolo, nel palazzo che fu acquisito successivamente dalla
famiglia Gavotti, inoltre questi itinerari li porteranno anche in altri luoghi «et
massime in Cuneo et in Genova». L’appartenenza del ramo cuneese a questa ca-
sata non è suffragata dalle fonti coeve, tuttavia qualche indizio in proposito tra-
spare dall’albero genealogico acque se in cui compare alla fine del XV secolo un
certo Giuliano discendente diretto dal capostipite di quella famiglia. Potrebbe
trattarsi della persona che reca lo stesso nome menzionato unitamente a suo figlio
Giovanni Battista nella genealogia dei della Chiesa di Cuneo anche se questa ipo-
tesi attende ancora una verifica su base documentaria.
In ogni caso la provenienza da Acqui di Giovanni Battista è atte stata nel 1580
dalla consegna delle armi gentilizie e arricchita dalle informazioni di Francesco
Agostino relative al momento in cui egli era arrivato a Cuneo dove «viveva intor-
no al 1500 e quivi aveva acquistato beni fondandovi un magnifico palazzo», in un
lotto che occupa una superficie molto ampia tra l’antica contrada di Santa Chiara
e l’attuale via Chiusa Pesio. Il sito, a differenza del settore urbano incentrato sulla
platea, offriva l’opportunità di acquisire un insieme di edifici limitrofi dopo il de-
vastante incendio verificatosi alla metà del Quattrocento, nell’ottica di costruire
un palazzo degno di rappresentare e legittimare il ruolo e il prestigio della famiglia
trasferitasi da poco in città.
Un obiettivo che traspare in filigrana dal consegnamento appena citato che, co-
me in genere avveniva, confermava un privilegio o una concessione precedente, ri-
conosciuta e ufficializzata anche attraverso le parole dei testimoni consultati in

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Il Rinascimento

quell’occasione. Pertanto, ricorrono in questa fonte i rimandi «all’origine antica e


nobile» di ciascuna famiglia, nel nostro caso resi più espliciti laddove i testimoni
precisavano che Giovanni Battista «aveva vissuto nel presente luogo da gentiluo-
mo» e che «aveva fatto fabbricare un Palazzo delli più belli della presente Città».
A confermare il contenuto di questi documenti concorre la data 1503 scolpita
sul capitello angolare del portico sviluppato su tre lati al piano terreno del cortile,
all’interno di un vasto complesso abitativo derivante dall’accorpamento di unità
immobiliari fra di loro confinanti.
Gli esiti del cantiere rendono riconoscibili permanenze e innovazioni di criteri
progettuali che assegnano caratteristiche architettoniche unitarie alloggiato costrui-
to ex novo, senza cancellare integralmente le strutture retrostanti di più antico im-
pianto. La pratica del riuso è denunciata dal notevole spessore dei setti murari che
conservano le tracce delle quintane, con il volume emergente della scala a chiocciola
situata all’interno di una torre preesistente, secondo criteri distributivi mutuati dalle
soluzioni introdotte nel tessuto edilizio del secolo precedente. La scala a chiocciola
portava direttamente al primitivo ingresso dall’attuale via Chiusa Pesio, mentre oggi
si trova in posizione decentrata rispetto all’androne settecentesco collegato allo sca-
lone e agli appartamenti del piano nobile disimpegnati dal corridoio ricavato tam-
ponando il loggiato del primo piano. In quell’occasione fu smantellato il portale re-
cuperando e trasportando nel piano cantinato uno dei due stipiti che contiene a
metà circa della sua lunghezza un ritratto di profilo molto degradato, racchiuso in
un tondo, di cui si conserva a Cuneo un altro esemplare in via Savigliano, anch’esso
caratterizzato da un ritratto anticheggiante entro una specchiatura circolare: un e-
lemento questo ricorrente nei portali cinquecenteschi, spesso desunto dalla numi-
smatica antica o contemporanea, che entrava a far parte di una semplice struttura di
tipo trilitico, come nel nostro caso, o più elaborata con archi a tutto sesto inquadra-
ti da paraste, arricchita da dettagli antiquari. Un prezioso e quanto mai raro esem-
pio architettonico-decorativo in cotto di questo tipo si trova nel cortile del castello
di Vinovo che fa capo alla committenza dei della Rovere «uno dei poli di attrazione
della cultura umanistica tardoquattrocentesca in Piemonte».
La fortuna che incontrò questa tipologia decorativa è testimoniata dalla sua
diffusione in area lombarda, sia nei portali sia in quei manufatti che fanno parte
integrante dell’architettura e fra questi va ricordato il celebre campionario sculto-
reo del basamento tardoquattrocentesco della certosa di Pavia. I tondi «all’antica»
rappresentano ancora oggi l’elemento distintivo di numerosi portali esistenti nella
fascia costiera del Ponente ligustico, come quelli genovesi più noti e studiati, in-
trodotti a partire dalla fine del XV secolo, e forse non a caso uno dei pochi e-
sempi superstiti nel Piemonte meridionale si trova a Mondovì Piazza, una città si-
tuata lungo i molteplici percorsi che legavano storicamente il Monregalese alla Li-
guria. Da qui arrivavano del resto quei vescovi che avevano retto la diocesi di
Mondovì fra Quattro e Cinquecento, la cui giurisdizione copriva una vasta area
geografica nel Piemonte meridionale che arrivava a comprendere il comune di
Cuneo. La scarsità di reperti con questo tema decorativo nel contesto urbano di
Cuneo non rispecchia presumibilmente la loro consistenza originaria. Infatti non

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Il Rinascimento

è da escludere che il mutamento dei modi di vita verificatosi nel corso del XVIII
secolo abbia prodotto la distruzione e la dispersione dei materiali lapidei cinque-
centeschi durante le reiterate trasformazioni edilizie attestate dalle fonti coeve che
parlano spesso «di ricostruzione dalle fondamenta». Un’ipotesi suffragata dai
frammenti di spoglio con iscrizioni in latino contenuti in origine nell’architrave di
cui si conserva un solo esempio in situ recante la scritta augurale SIT TIBI CURA
SALUTIS. Appartiene a un portale del tipo trilitico, privo di medaglioni all’antica,
di cui resta un insieme di testimonianze estrapolate dal loro contesto originario e
rimontate laddove si trovano ancora oggi lungo i portici di via Roma. In ogni ca-
so questo genere di manufatti rivela l’apporto di lapicidi che erano entrati in con-
tatto diretto con la civiltà rinascimentale, assai ben documentato dal loggiato di
palazzo Della Chiesa. La sua costruzione si colloca nel periodo in cui si codifica-
vano criteri e modi progettuali fondati sul ritorno all’antico nei territori del duca-
to di Milano e in altri contesti urbani limitrofi come ad Asti dove l’attività di scul-
tori lombardi è stata messa in luce dagli studi più recenti, negli anni a cavallo tra
Quattrocento e Cinquecento, durante la dominazione sforzesca e nel periodo or-
leanese. Anche la vicina capitale della corte paleologa sembra essere un significa-
tivo punto di riferimento in questa sede, nel momento in cui la nuova stagione ar-
tistica e culturale inaugurata a Casale nell’ultimo ventennio del Quattrocento po-
teva offrire un vasto repertorio di modelli alla nostra famiglia che allora abitava
ad Acqui, luogo appartenente al marchesato del Monferrato.
A quell’epoca è databile uno dei capitelli contenuti nel primitivo cortile del Pa-
lazzo Callori di Vignale, con le foglie d’acqua di tradizione medievale situate in
posizione angolare e al centro, quelle minori lungo gli assi ortogonali. Negli anni
seguenti nei vasti cortili porticati dei palazzi casalesi diventavano via via più evi-
denti gli esiti del rinnovamento su modelli classicisti, enfatizzati dai capitelli con
le volute a «S» sostenute da foglie acantacee, raccordate da palmette o da altri mo-
tivi e ornate dagli stemmi dei committenti, come nei prototipi «all’antica» delle
dimore pavesi e milanesi.
Tale tendenza è riscontrabile anche nel nostro palazzo in cui ritorna la mede-
sima composizione d’insieme, anche in questo caso con le volute a «S», integrata
da elementi naturalistici più semplificati, le foglie d’acqua angolari, arricchita in
origine dall’emblema della casata che i della Chiesa «fecero scolpire in diversi luo-
ghi si come ad occhio si può vedere massimo nel loro palazzo», scalpellato duran-
te la dominazione francese che ha lasciato intatto solamente lo scudo. La base
unghiata della colonna presenta invece una tipologia figurativa ricorrente nella
produzione quattrocentesca di impronta tardogotica, ampiamente documentata
nel Cuneese e nel Saluzzese. La paternità del progetto è finora sconosciuta, come
pure i nomi dei lapicidi, dimenticati e cancellati dopo la dispersione degli archivi
familiari. Del resto nel Piemonte meridionale sono noti su base documentaria so-
prattutto gli interventi legati alle figure di committenti prestigiosi o alle iniziative
dei poteri locali come nel caso dei Sormano o Sormani provenienti dall’area co-
masca la cui attività è attestata nel 1510 a Limone in valle Vermenagna, nella per-
sona di «Luzano de Como», o più verosimilmente «de Hostano» secondo gli studi

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Il Rinascimento

più recenti. Egli era presente in quegli anni anche a Mondovì unitamente a un al-
tro Sormano, lo scultore Giovanni Lorenzo, che significativamente rimanda alla
circolazione di modelli rinascimentali tra Piemonte e Liguria, a partire dal trittico
datato 1507 e da lui firmato, contenuto in origine nella primitiva cattedrale di
Mondovì, un’opera che precede di qualche anno la sua attività a Savona. I resti
della cattedrale lasciano trasparire il primitivo impianto, rilevante da un punto di
vista spaziale e architettonico, occultato e in parte smantellato dopo la sua parzia-
le demolizione per lasciare il posto alla cittadella voluta dal duca Emanuele Fili-
berto: un edificio di cui non conosciamo né il progettista né le maestranze anche
se il nome del committente, il vescovo Amedeo di Romagnano, indica una pro-
spettiva di ricerca legata alla cultura e agli interessi artistici di un mecenate presti-
gioso che ricopriva le cariche di canonico e di arcidiacono del duomo di Torino
nel momento in cui prendeva l’avvio la sua ricostruzione in forme rinascimentali.
Per quanto riguarda il marchesato di Saluzzo sono da lungo tempo noti gli in-
terventi di Benedetto Briosco e di Matteo Sanmicheli in rapporto alla committen-
za marchionale e del vicario Francesco Cavassa. In particolare gli studi più recenti
hanno ribadito gli interessi che li legavano alle cave di marmo situate nel comune
di Paesana in alta valle Po, sulla base di documenti inediti per quanto riguarda i
marmi per la statuaria sepolcrale lavorati a Casale Monferrato dal Sanmicheli nella
sua bottega, e forse anche quelli utilizzati nel cantiere della certosa di Pavia trami-
te il Briosco al quale è attribuito il sepolcro del marchese Ludovico II nella chiesa
di San Giovanni a Saluzzo. A questo punto è verosimile pensare che l’élite cittadi-
na abbia saputo cogliere le favorevoli opportunità legate alla presenza di artisti e
scultori che avevano introdotto a Saluzzo il linguaggio classicheggiante, come di-
mostrano i resti del loggiato cinquecentesco che appartenne tra Sei e Settecento
alla prestigiosa famiglia dei Saluzzo di Monterosso. La qualità formale dei capitelli
«all’antica» in marmo bianco provenienti presumibilmente dalle stesse cave, uni-
tamente alle colonne superstiti, è riconducibile all’intervento di maestranze esper-
te, se non ai personaggi appena citati certamente al loro entourage proveniente
dall’area lombarda. Allo stato attuale delle nostre conoscenze non è possibile ap-
purare la consistenza delle testimonianze di inizio Cinquecento all’interno del tes-
suto edilizio. Solamente una indagine puntuale e sistematica potrà chiarire se e in
che misura le riplasmazioni e gli amplia menti settecenteschi abbiano semplice-
mente occultato o più verosimilmente prodotto, come in altri casi, lo smantella-
mento delle preesistenze e la dispersione dei materiali lapidei.
Sulla scia di queste considerazioni non stupisce a questo punto ritrovare nel
Museo Civico di Cuneo una serie di reperti di provenienza ignota, che in forme
più o meno elaborate alludono agli itinerari di artisti finora sconosciuti e ai loro
committenti. È significativo in proposito il capitello contenuto all’interno del pa-
lazzo sito all’angolo di via Roma con via Seminario recante le insegne della fami-
glia Miglia entro lo scudo al centro delle volute a «S» che propone le stesse com-
ponenti figurative di Palazzo della Chiesa. La sua presenza in quel contesto spa-
ziale suscitava non pochi dubbi e perplessità dal momento che porta l’emblema di
un’altra casata, mentre sappiamo che l’edificio in questione appartenne al gruppo

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Il Rinascimento

familiare dei Ferraris per un lungo arco di tempo a partire dalla seconda metà del
Quattrocento. Il proficuo intreccio tra fonti scritte e testimonianze materiali ha
confermato che si tratta di un elemento di reimpiego inserito successivamente nel
sito della «piccola corte» menzionata a più riprese dagli atti notarili per tutto il
Seicento: questo spazio separava la casa verso la platea da quella retrostante lad-
dove sorgeva la primitiva dimora dei Ferraris, cioè la «casa vecchia» sviluppata
dalle «gallerie sino al carrobio». Pertanto le due unità immobiliari, pur apparte-
nendo alla stessa famiglia avevano mantenuto per lungo tempo una loro peculiare
identità, nella fase che precede la trasformazione allo stesso tempo abitativa e ar-
chitettonica messa in cantiere dal conte Ferraris di Celle alla metà del Settecento.
In quell’occasione, nel cortile preesistente fu costruito il volume che contiene
al piano terreno l’ambiente coperto da quattro volte a crociera sostenuto da una
colonna in pietra con il capitello in questione recante lo stemma dei Miglia. Que-
sto intervento ha occultato senza cancellarla integralmente la struttura fisica della
galleria, l’unica testimonianza superstite della «casa vecchia»: una presenza signifi-
cativa e qualificante l’intero edificio degna di essere ricordata in tutti gli strumenti
notarili redatti nel corso del XVII secolo. A tutto ciò rimandano i reperti del pri-
mo piano, ovvero le colonnine in pietra e un pilastrino nel vano di forma stretta e
allungata affacciato laddove esisteva in antico il cortile, mentre al piano sottostan-
te un pilastro in parte mascherato dalle strutture di epoca posteriore ne documen-
ta l’appartenenza ai Ferraris il cui stemma è inserito alla base del capitello. Il suo
apparato ornamentale del tutto privo di riferimenti al vocabolario antico, con due
semplici foglie d’acqua angolari che reggono l’abaco rettilineo, rimanda agli inter-
venti messi in cantiere dagli esponenti di questa famiglia provenienti dal ducato di
Milano. Ricordava in proposito Francesco Agostino della Chiesa che essi arriva-
vano «da Sartirana nobile castello della Lomellina» e che si erano trasferiti a Cu-
neo «intorno al 1480 in persona di Raffaele i cui maggiori erano pavesi». In realtà,
le fonti coeve permettono di circoscrivere con maggior precisione il momento del
suo arrivo in città, che secondo l’anonimo cronista di Cuneo può essere anticipa-
to di una ventina d’anni circa.
In questo arco di tempo il capitello a foglie d’acqua si diffondeva un po’ovun-
que nell’Italia centro-settentrionale, a partire dai prototipi toscani denominati lo-
calmente «a linguazzi» nei primi decenni del Quattrocento. Basti pensare a quelli
del loggiato antistante l’ospedale di San Matteo a Firenze eretto alla fine del XIV
secolo, ideati con una «chiarezza compositiva» che preannuncia gli esempi miche-
lozziani della villa medicea di Careggi caratterizzati da precisi rapporti geometri-
co-proporzionali, a differenza del vasto repertorio di testimonianze risalenti
all’età medievale, senza dimenticare che il tipo in questione ebbe ampia diffusione
in area lombardo-padana dove compare fino agli anni trenta del Cinquecento.
Anche a Cuneo questa tipologia figurativa del tutto priva di ulteriori attributi
decorativi è utilizzata presumibilmente fino ai primi decenni del XVI secolo:
un’ipotesi suffragata su base indiziaria dalle testimonianze contenute nelle arcate
dei portici sui quali ricadono le volte delle campate. La loro dimensione dilatata in
senso orizzontale, in rapporto ai larghi e massicci pilastri sottostanti, entrava a far

143
Il Rinascimento

parte di un criterio compositivo legato alla loro funzione, come nel portico di pa-
lazzo Della Chiesa dove, scomparse le volute a «S», restano solamente le foglie
d’acqua a caratterizzare i capitelli dei pilastri angolari del piano terreno. […]
[da P. CHIERICI, “Domus” e “palatia” allo scadere del medioevo, in Architettura e insediamento nel tardo
medioevo in Piemonte, a cura di M. VIGLINO DAVICO, C. TOSCO, Torino 2003, pp. 115-142]

b. Il marchesato di Monferrato

Nella seconda metà del Quattrocento, nonostante l’ormai consolidata investi-


tura come città-capitale, Casale non era stata ancora oggetto di grandi progetti
urbani, doveva mostrare una forma e una dimensione corrispondenti alla struttu-
ra costituitasi per lo più nell’arco del XIII secolo: un tessuto composto da un nu-
cleo, individuabile nel castrum altomedievale circostante la chiesa di Sant’Evasio,
circondato da quattro cantoni (Lago, Vaccaro, Montarone e Brignano), il tutto di-
feso da una cinta a esagono irregolare a cavallo della quale campeggiavano due
capisaldi: il castello (ovest) e la rocchetta (nord), entrambi di fondazione trecente-
sca. La piazza del mercato sorgeva nel cuore dell’abitato e su di essa si incrocia-
vano le principali vie di scorrimento interno: […] la strada che univa la porta di
Lago (nord) alla porta di Santa Croce (sud) (attuali vie Lanza e Roma) e la via che
dipartendosi dalla chiesa di Sant’Evasio giungeva al castello (vie Duomo e Saffi).
Gli edifici prospicienti questi spazi urbani, piazze e vie principali, dovevano esse-
re caratterizzati dalla presenza di innumerevoli case porticate a sottolineare la vo-
cazione eminentemente commerciale di quelle aree urbane […].
Allo stato attuale delle conoscenze, sembra comunque lecito affermare che alla
metà del Quattrocento il tessuto abitativo doveva essere costituito ancora per la
maggior parte da cellule strette e allungate, evidenti in alcune rilevazioni urbane da-
tabili tra Seicento e Settecento. Dominante doveva risultare l’uso del mattone a vi-
sta sia per le parti strutturali (murature, colonne, pilastri etc.) sia negli elementi di
carattere decorativo, quali le formelle in cotto a stampo delle fasce marcapiano e
delle ghiere di finestre e di portali. […] A questo proposito è possibile citare la tor-
re di Palazzo Sannazzaro con coronamento in mattoni posizionati a scaletta sovra-
stato da una fascia di laterizi disposti “a dente di sega”, nonché alcuni lacerti degli
archivolti delle finestre di facciata, che sulla scorta dell’analisi stilistica risultano già
proto-rinascimentali (seconda metà del XV secolo). L’uso di questo materiale do-
vette caratterizzare gran parte delle costruzioni della capitale paleologa ancora nel
terzo quarto del XV secolo e oltre, impiegato nei partiti decorativi e negli elementi
di sostegno; basti pensare ai chiostri di San Domenico e di Santa Croce o ai palazzi
Del Carretto e Fassati (casa d’Anna d’Alençon), quest’ultimo con un portico a «L»
impostato su colonne cilindriche sormontate da capitelli cubici smussati alla base,
sorreggenti al piano terreno arcate a sesto leggermente rialzato. […]
Un rilievo del piano terreno di una casa sita nel cantone Lago a Casale, datato
1738, offre interessanti informazioni circa i caratteri specifici delle case medievali
casalesi. Dalla lettura emerge, come è già stato evidenziato per altre realtà urbane
meglio studiate, che la casa medievale doveva svilupparsi su di un percorso linea-

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Il Rinascimento

re in cui la sequenza risultava essere: la strada, lo spazio chiuso – in questo caso


una bottega – il cortile. Essa plausibilmente doveva apparire come il risultato
dell’accostamento di volumi interdipendenti dove il passaggio da un ambiente
all’altro avveniva tramite una semplice porta, essendo essa priva di appositi spazi
di distribuzione (androne, corridoio, porticato). I collegamenti in verticale veni-
vano infatti assicurati da una scala, che spesse volte risultava lignea, collocata di-
rettamente all’interno di una stanza. Le strutture appartenenti al ceto dirigente
non dovevano risultare esenti da un’organizzazione funzionale di questo tipo e
prevedere la presenza di botteghe e magazzini al piano terreno e la zona residen-
ziale al piano superiore. Esse si distinguevano comunque dalle abitazioni più umi-
li – a cui risultavano molte volte adiacenti – sia per le dimensioni (risultato del-
l’accorpamento di due o tre cellule) che per una maggiore ricercatezza nell’appa-
rato decorativo di facciata (fregi in cotto, fasce sottofinestra). Gli statuti di Casale
(fine XIV secolo) attestano poi l’uso di costruire pontili, cioè balconi, spesso li-
gnei, che non potevano sporgere oltre la mezzeria della strada pubblica su cui si
affacciavano e che, come è stato dimostrato per altre realtà maggiormente note,
potevano collegare più case, appartenenti a una stessa famiglia, spesso situate sul-
lo stesso isolato, secondo una organizzazione della proprietà immobiliare riunita
in complessi e ancora atte stata a Casale nell’arco del XV secolo nel caso della
famiglia Gaspardone. […]

La politica dei Paleologi da Guglielmo VIII a Bonifacio IV


Il 18 febbraio 1464 moriva nel castello di Casale il marchese Giovanni Paleo-
logo. La mancanza di figli maschi legittimi aveva determinato la salita al potere
del fratello Guglielmo, secondogenito del marchese Giangiacomo e di Giovanna
di Savoia, più giovane del defunto di sette anni (nato intorno al 1420). Le ansie
della successione dovettero essere piuttosto modeste perché Guglielmo – soldato
di prim’ordine al servizio prima di Filippo Maria Visconti e poi di Francesco
Sforza, nonché uomo addentro ai maneggi politici essendo in contatto con le cor-
ti di molti stati signorili dell’Italia centro-settentrionale – aveva già supportato il
fratello con consigli e indicazioni utili al governo del Monferrato, che nella prima
metà del secolo aveva vissuto uno dei periodi più drammatici della sua storia a
causa della inefficace politica attuata dal padre Giangiacomo contro le mire e-
spansionistiche di Amedeo VIII di Savoia. La presenza di Guglielmo alla guida
del marchesato dovette, dunque, determinare un rafforzamento dell’immagine di
questo territorio, fino a un decennio addietro considerato per lo più mero oggetto
di conquista da parte dei duchi di Savoia e di Milano.
La mancanza di studi aggiornati sullo sviluppo della concezione politica da
Giangiacomo a Guglielmo, non permette oggi di indicare con chiarezza le diret-
trici che portarono alla creazione di uno stato in cui la figura del principe avrebbe
assunto il principale raggio d’azione; nonostante ciò alcuni elementi già a suo
tempo individuati dagli studiosi che si sono occupati del rapporto tra i Paleologi e
il comune di Casale nei secoli XIV e XV hanno riconosciuto in qualche provve-
dimento assunto da Giangiacomo e da Giovanni le intuizioni che verranno poi

145
Il Rinascimento

sviluppate appieno dal nostro. A questo proposito appare utile ricordare la rior-
ganizzazione delle strutture amministrative del marchesato di cui già Giangiaco-
mo aveva avvertito l’esigenza, secondo una tendenza avviata da Gian Galeazzo
Visconti a Milano e da Niccolò III d’Este a Ferrara, e la cui attuazione viene con-
cordemente attribuita dalla storiografia a Guglielmo. Quest’ultimo, infatti, avreb-
be stabilito una più chiara separazione dei poteri tra i consiglieri marchionali e nel
1469 avrebbe costituito il Senato di Monferrato con giudizio supremo nelle cause
civili e criminali, nelle cause feudali e di dominio sovrano, nelle liti di proprietà tra
privati e nelle inquisizioni fiscali.
Ciò non toglie che l’azione politica, amministrativa e culturale di Guglielmo,
proprio perché calata nel concreto, dovette dare vita a delle innovazioni inimma-
ginabili per i suoi predecessori, prima fra tutte la trasformazione del borgo di Ca-
sale nella capitale del marchesato, sede in cui la corte avrebbe risieduto stabilmen-
te, in opposizione alla concezione medievale del potere che richiedeva uno spo-
stamento del signore nei diversi luoghi del proprio dominio.
È noto che per volontà del nostro – il quale vantava ottimi agganci presso la corte
pontificia, tra cui un fratello cardinale elettore di Sisto IV della Rovere – nel 1474
Casale era diventata sede di diocesi. Questa operazione, come ha ben sottolineato
Settia (1989), si era sviluppata «per ragioni di prestigio politico» e «con lo scopo pre-
cipuo di decorare Casale del titolo di città, ponendo in secondo piano la stessa crea-
zione di un territorio ecclesiastico identificabile con il dominio del marchese di Mon-
ferrato», sebbene Guglielmo non fosse privo di un sincero spirito religioso.
Purtroppo manca ancora uno studio complessivo e aggiornato sul periodo del
suo governo, ma i dati oggi a nostra disposizione inducono a pensare che egli abbia
dispensato molte azioni e ingenti mezzi in campo urbano con l’obiettivo di costrui-
re una capitale “moderna” dotata di tutte le strutture idonee a ospitare la corte e il
suo apparato amministrativo. Appare plausibile pensare che i modelli a cui egli do-
veva far riferimento fossero le città-capitali che aveva conosciuto quando come
condottiero era stato al servizio di diversi signori, in particolare la Milano sforzesca
con la quale a partire dal 1454 (pace di Lodi) i Paleologi avevano instaurato nuovi
rapporti cordiali destinati a durare per più di un cinquantennio.
A questo proposito è possibile affermare che Guglielmo doveva conoscere bene
l’ambiente culturale che ruotava attorno alla corti di Francesco e di Gian Galeazzo
Sforza, non solo per essere stato al servizio del primo, ma anche per averne spo-
sato in seconde nozze la figlia Elisabetta (1469). Egli, probabilmente, era venuto in
contatto con quei fermenti culturali che avevano portato alla stesura del trattato di
architettura di Antonio Averulino detto il Filarete (iniziata poco dopo il 1458 e per
la maggior parte databile tra il 1460-1464). Quest’ultimo, infatti, proprio nell’undi-
cesimo libro della sua opera ricorda che Guglielmo di Monferrato era stato presen-
te al fianco di Francesco Sforza, di Bianca Maria Visconti e dei loro figli alla posa
della prima pietra dell’ospedale Maggiore di Milano (4 aprile 1457). Alla luce di
questi dati non stupisce, dunque, che il nostro – una volta diventato marchese –
avesse promosso la costruzione dell’ospedale di Santo Spirito (fondazione 1478),
un’unica struttura in cui avrebbero trovato sede gli ospedali dei Santi Stefano ed

146
Il Rinascimento

Evasio, della Beata Vergine e di San Lazzaro, già reducti in uno solo da suo padre
Giangiacomo secondo quanto riportato in una lettera datata 4 febbraio 1440.
Negli ultimi quarant’anni del XV secolo Casale era stata oggetto del rinnova-
mento non solo delle sue strutture assistenziali e religiose (fondazione dei con-
venti di San Domenico e della Maddalena, ampliamento di quello di Santa Croce,
impulso dato alle confraternite con la costruzione di nuovi oratori e l’abbellimen-
to di quelli esistenti) ma anche degli edifici residenziali. La presenza stabile della
corte con tutto il suo apparato amministrativo aveva determinato l’inurbamento
di tanta nobiltà feudale e l’arrivo di patrizi provenienti da altre città. È nota, infat-
ti, la disputa tra le autorità comunali e il marchese per il conferimento agli inurba-
ti della cittadinanza e dei diritti connessi, protrattasi fino al 1482 con la chiamata
in causa dell’autorità imperiale. Da qui la necessità di trovare nuovi spazi per la
costruzione di case e palazzi di un certo rango che non avrebbero potuto sorgere
sugli esigui lotti disponibili all’interno del nucleo medievale, a meno di incisivi
abbattimenti delle preesistenze, e dove la maggior parte delle proprietà immobi-
liari era di pertinenza delle ostili famiglie di estrazione comunale. La storiografia
risulta concorde nell’affermare che per porre rimedio a questa situazione Gu-
glielmo avrebbe promosso il cosiddetto «largamento di Brignano». In mancanza
di studi mirati a ricostruirne la vicenda urbanistica, alla quale ancora oggi non si è
in grado di dare degli estremi cronologici attendibili, si cercherà qui di raccogliere
le notizie disponibili in funzione del tema trattato.
Sulla scorta di tutta una serie di dati raccolti sembra lecito supporre che gli am-
pliamenti (ca. 8 ettari) del cantone Brignano e di una ridotta porzione del cantone
Montarone fossero stati effettivamente realizzati e lottizzati per la residenza. In-
numerevoli atti notarili, databili a partire dalla metà degli anni novanta del Quat-
trocento, testimoniano che «in cantone Brignani in largamento dicte civitatis» era
situata la residenza di Defendente Suardi, consigliere marchionale, inoltre è nota la
collocazione nel «largamento» delle case dei Biandrate, dei Gambera, dei della Val-
le, dei del Carretto, tutte famiglie legate a diverso titolo alla corte. In quel torno
d’anni le sedi delle registrazioni degli atti risultano sempre domus o pallatia, dato che
indica un’edificazione dell’ampliamento già abbastanza diffusa. A giudicare dai resti
delle strutture che sono giunte fino a noi e dalle indicazioni fornite dai documenti,
tra cui la più frequente risulta essere la presenza di un portico probabilmente affac-
ciato sul cortile, appare lecito pensare che si trattasse di strutture a due piani (piano
terra, piano nobile e sotto tetto) con corte porticata su uno o più lati, in alcuni casi
presumibilmente collegata a un cortile rustico o giardino. Come è già stato sottoli-
neato da altri studiosi non doveva trattarsi di un ampliamento casuale, ma di
un’addizione pianificata e impostata su una maglia ortogonale, rinsaldata al tessuto
preesistente attraverso il prolungamento degli assi delle attuali vie Mameli e Roma.
Tra i provvedimenti in campo urbanistico si ricordano, inoltre, il riassetto e la rego-
larizzazione della piazza del mercato (oggi piazza Mazzini) e dello slargo davanti a
San Domenico, nonché il potenziamento della cerchia delle mura.
La creazione della nuova capitale, avviata da Guglielmo e proseguita sotto il go-
verno dei suoi due successori (Bonifacio VIII e Guglielmo IX), dovette, dunque,

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Il Rinascimento

tradursi in un vero e proprio tentativo di reinvenzione della città, secondo un atteg-


giamento squisitamente umanistico; basti pensare alla meglio conosciuta «addizione»
ferrarese di Ercole I d’Este (1492 ca.), promossa non solo per esigenze difensive,
ma anche per dare lustro alla città, dotandola di una zona nobile dove avrebbero
trovato posto le residenze dei famigliari del duca e dei dignitari di corte. […]
Questi segni di attenzione al mondo padano verranno accentuati attraverso le
singole committenze a partire dagli anni ottanta del XV secolo con l’apertura di
nuovi cantieri, come quello della cattedrale di Alba, la cui ricostruzione venne pa-
trocinata da Andrea Novelli, vescovo di Alba dal 1483 al 1513. Nota e docu-
mentata è la provenienza di quest’ultimo da Trino. Egli, prima di accedere alla ca-
rica vescovile, era stato canonico di San Michele di Trino, arcidiacono del capi-
tolo della cattedrale casalese (nomina di Sisto IV, 11 maggio 1474), procuratore e
vicario generale di Bernardino Tibaldeschi, primo vescovo di Casale (nomina 18
maggio 1474). Come procuratore del vescovo, Andrea Novelli aveva partecipato
attivamente all’ultima fase della vicenda che aveva portato alla costituzione della
nuova diocesi. Aveva dunque avuto contatti con l’ambiente romano, rapporti rin-
novati nel 1492 quando, insieme a Benvenuto Sangiorgio e Ludovico Tizzoni, era
stato inviato dal marchese Bonifacio come ambasciatore per l’elezione di papa
Alessandro VI Borgia e poi ancora nel 1512 intervenendo al concilio lateranense
indetto da papa Giulio II. Recentemente è stata posta in evidenza la sua commit-
tenza nella realizzazione della dimora famigliare di Asti – di chiara impostazione
rinascimentale sia come impianto che come apparato decorativo – per la quale è
stata avanzata l’ipotesi di un intervento progettuale di Bernardino Fossati da Co-
dogno, intagliatore lombardo residente a Casale dal 1506 al 1521, a cui nel 1512
Novelli aveva affidato la realizzazione degli stalli corali del duomo di Alba. […]

Palazzo Gambera a Casale Monferrato


Le descrizioni della città e la storiografia indicano come palazzo Gambera ab-
bia occupato un ruolo di primo piano nel panorama urbano casalese dal secolo
XVI al XVIII. Già nel 1517 – a pochi anni, dunque, dal completamento della sua
costruzione – Antonio de Beatis, segretario del cardinale Luigi d’Aragona, anno-
tava nel suo diario di viaggio che la capitale paleologa era «ornata de belle piazze
et palazzi, fra quali è quello del Gambera che fu camerero de fe. me. di papa In-
nocentio VIII assai ben inteso e molto magnifico». Nel 1648, a causa della plausi-
bile inadeguatezza delle altre dimore nobiliari, il nostro edificio aveva ospitato il
cardinale Antonio Barberini in missione diplomatica su incarico della corte pari-
gina e di nuovo nella seconda metà del Settecento palazzo Gambera – sebbene
ancora nella sua veste rinascimentale – veniva annoverato tra le più belle case no-
biliari per essere «ornato di bianchi marmi, in cui si fermarono diversi personaggi
illustri tra i quali Vincenzo Gonzaga con Eleonora sua consorte Duchi di Manto-
va nel 1588» (O. DE ROSSI, 1787, pp. 107-108).
Ciò che lo rendeva degno di segnalazione così a lungo nel tempo non dovevano
essere tanto le sue dimensioni o la sobrietà delle sue linee, quanto piuttosto la sua
funzione di rappresentanza, il suo essere diverso, unico in un panorama architetto-

148
Il Rinascimento

nico abbastanza uniforme per quanto riguarda le radici culturali e testimonianza tan-
gibile di un periodo riconosciuto importante per la storia della città. La facciata, oggi
purtroppo andata perduta in seguito a una riplasmazione ottocentesca, mostrava
«scolture di marmo a gusto antico con gli stemmi […] Paleologi e Pontifici» (G. DE
CONTI, 1966, p. 29) e sopra il portale d’ingresso l’effige (busto) a celebrazione del
suo committente il Protonotario apostolico Bernardino Gambera (1456-1506), per-
sonaggio di primo piano della Casale paleologa dell’ultimo quarto del XV secolo.
Come hanno evidenziato gli studi di Elena Rampi (1998, pp. 69-75), Bernardi-
no era originario di Rosignano. L’ascesa sociale della sua famiglia dovette realiz-
zarsi nell’arco del Quattrocento e plausibilmente rafforzarsi nella seconda metà
del secolo grazie all’importante ruolo che il nostro aveva ricoperto presso la corte
papale. La sua carriera, iniziata sotto il pontificato di Sisto IV, che gli aveva asse-
gnato i primi benefici, aveva subito una rapida ascesa con la salita al soglio ponti-
ficio di Innocenzo VIII (1484-1492), di cui era diventato cubicolario segreto. Sul-
la scorta di fonti romane la studiosa ha indicato alcune mansioni che egli aveva
svolto presso la corte pontificia, evidenziando la presenza quotidiana del Gambe-
ra accanto al papa sia nelle cerimonie pubbliche che nella vita privata. Il nostro
mantenne la stessa carica anche sotto il pontificato di Alessandro VI (1492-1503)
e fino a che non venne nominato vescovo di Cavaillon (22 aprile 1501). Fu, inol-
tre, suddiacono apostolico, sollicitatore e abbreviatore. La sua carriera si era svol-
ta dunque a Roma presumibilmente con una presenza continua in un arco tem-
porale che va dal 1484 alla metà degli anni novanta del XV secolo, epoca in cui gli
studi compiuti individuano una minor partecipazione alla vita di corte «forse in
parte riconducibile al desiderio di facilitare l’introduzione dei nipoti avviati alla
carriera ecclesiastica» (E. RAMPI, 1998, p. 72). Dopo la nomina alla carica vescovi-
le egli aveva fatto ritorno a Casale dove le fonti finora note lo documentano sta-
bilmente a partire dal 1503. Morì il 25 novembre 1506 e venne sepolto nella cap-
pella dedicata alla Vergine Assunta e ai Santi Evasio e Antonio da Padova, da lui
fondata insieme ai nipoti Enrico e Filippo nella cattedrale di Sant’Evasio.
Sulla scorta di un documento datato 7 giugno 1497, in cui si apprende che il
cantiere del palazzo doveva essere stato avviato, appare plausibile pensare che Ber-
nardino avesse meditato durante il suo soggiorno romano di costruire in Casale una
casa degna del suo rango e avesse dato avvio alla realizzazione del suo proposito a
partire dalla prima metà degli anni novanta, epoca in cui risulta saltuariamente do-
cumentato nella capitale del Monferrato intento alla conduzione degli affari familia-
ri e forse alla predisposizione delle pratiche per l’avvio della costruzione. Non si ha
alcuna notizia sicura sulla fase preliminare all’impianto del cantiere: mi riferisco qui
alla cessione del lotto, sito nell’ampliamento di Brignano in adiacenza al nuovo pe-
rimetro murato, e alla presenza di preesistenze. Sulla base di alcuni indizi ricavabili
dal testamento del nostro appare però lecito ipotizzare che in origine la proprietà
fosse ripartita tra Bernardino e il fratello Ludovico, se il figlio di quest’ultimo Gio-
vanni Domenico in data non precisata, ma certamente antecedente al 25 novembre
1506, aveva fatto donazione al vescovo «liberam et expeditam de omnibus illis par-

149
Il Rinascimento

tibus quas habeat […] in domo ipsorum dominorum de Gamberiis sita in hae civi-
tate Casalis in alargamento diete eivitatis in eanthono Brignani».
Sul cantiere dell’edificio si hanno sporadiche informazioni. Si sa per certo che
nel 1497 già esisteva un capitolato per la sua costruzione stipulato tra Bernardino
Gambera e il capomastro lombardo Giovanni Bertolonis (o Bartolonis), figlio del
maestro Pietro da Mortara, di cui il prelato si era dichiarato scontento perché i-
nosservante i patti. Nonostante ciò i lavori alla fabbrica dovettero procedere con
una certa celerità poiché nel luglio del 1500 la struttura risultava già sede della ro-
gazione di un atto: «in palatio R.di domini Bemardini de Gamberiis apostoliei
subdiaeoni et protonotarii in salta magna superiori euius dieti palacii».
L’edificio, oggi purtroppo non in buono stato di conservazione, ancora conser-
va la sua facies rinascimentale nell’ampio cortile porticato e loggiato, su cui al piano
terreno si aprono alcune stanze che mantengono le volte tardoquattrocentesche a
padiglione unghiato. Molti ambienti al piano nobile hanno perso la spazialità origi-
naria a causa del cambio di destinazione d’uso avvenuta nella seconda metà del Set-
tecento, epoca in cui il conte Fabrizio Gambera e suo fratello Vincenzo avevano
venduto la fabbrica ai padri Somaschi che la trasformarono in collegio.
La struttura si sviluppava su di un impianto a «C», aperto sul lato meridionale
dove in origine doveva probabilmente estendersi un’area di pertinenza della casa,
forse coltivata a verde. L’asse principale dell’edificio – sottolineato dalla presenza
di coppie di capitelli pensili recanti lo stemma dei Gambera, oggi purtroppo abra-
si – risulta essere quello impostato sul portale d’ingresso, affacciato sulla odierna
via Mellana e corrispondente sul lato opposto con un’apertura a tutto sesto che in
origine doveva condurre a una zona annessa al palazzo, nel Settecento adibita a
giardino. I sostegni del portico e del loggiato, tutti in pietra, si presentano a se-
zione ottagonale regolare. Essi sorreggono arcate a tutto sesto, impostate su capi-
telli che in continuità con i pilastri sotto stanti presentano otto facce ognuna a-
dorna di una foglia, in alcuni casi d’acanto in altri «d’acqua», leggermente ricurva
in punta e staccata dall’abaco. Quest’ultimo di forma quadrata risulta composto
da due modanature e da una fila di perline. Lo spazio del porticato appare delimi-
tato nella parte superiore da una sequenza di volte a crociera ricadenti su capitelli
pensili. Anche il loggiato mostra una serie di pilastrini monolitici in pietra a se-
zione ottagonale posti in asse con i pilastri inferiori e sorreggenti, mediante capi-
telli simili a quelli appena descritti, arcate a tutto sesto. Esso appare coperto da
volte a vela che, inusuali nel tardo Quattrocento, fanno pensare a un rifacimento
della copertura, forse in origine costituita da un tavolato ligneo.
L’insieme del portico-loggia presenta linee di sobria eleganza, sia per l’unitarie-
tà e la raffinatezza dell’apparato decorativo (file di perline e fusarole, foglie d’a-
canto, foglie d’acqua, palmette), sia per quanto riguarda le proporzioni architetto-
niche, tanto da poter essere considerato esempio unico in Monferrato e nel resto
del panorama territoriale che compone l’odierno Piemonte. Già Giuseppe de
Conti (1966, p. 29) e altri autori hanno sottolineato come il repertorio architetto-
nico di Palazzo Gambera affondi le sue radici nell’ambiente culturale romano, ma
a ben vedere il nostro edificio è qualcosa di più di una semplice ripresa di moduli

150
Il Rinascimento

e apparati decorativi. Si tratta, forse, della trasposizione di un modello, quello del


palazzo cardinalizio, plausibilmente ritenuto dall’alto prelato il tipo di casa che
meglio poteva rappresentare il rango sociale raggiunto.
Bernardino Gambera dovette essere partecipe dell’ambiente culturale di passag-
gio dal periodo sistino, così prodigo di iniziative dalla fondazione della Biblioteca
Vaticana e dell’ospedale di Santo Spirito, agli interventi urbanistici e architettonici
tra cui si ricorda la costruzione della cappella papale Sistina a quelli innocenziano e
alessandrino meno incisivi nell’orientamento del gusto e dello stile architettonico.
A partire dal pontificato di Niccolò V (1447-1455) il rinnovamento della città di
Roma si può brevemente sintetizzare nei grandi interventi di carattere urbanistico,
negli edifici religiosi voluti dai papi e nelle realizzazioni di edilizia privata per lo più
commissionate da alti prelati. Il tema dell’edificio residenziale con corte porticata e
loggiata di matrice toscana diventa il modello su cui viene avviata una sperimenta
zio ne che fondendosi con la tradizione locale conferisce al palazzo romano del se-
condo Quattrocento una sua specificità. Si ricordano qui alcune delle caratteristi-
che: la finestra crociata appoggiata alle fasce marcadavanzale, la quasi totale assenza
di ordini architettonici nei prospetti, la presenza frequente di una torre e l’uso del
pilastro ottagonale. Quest’ultimo elemento, già appartenente alla tradizione gotica,
risulta particolarmente frequente nell’architettura civile e in quella religiosa (chiostri
etc.). Gli studi hanno evidenziato come esso si affermi nella seconda metà del XV
secolo, contribuendo a conferire quel distacco dalla sintassi classica che aveva ca-
ratterizzato marcatamente l’architettura della capitale pontificia dal termine del
pontificato di Paolo II (1471) fino ai primi anni del Cinquecento.
Palazzo Gambera per la sua impostazione plani metrica a «C», plausibilmente a-
perto su di un’area verde, sembra riprendere a modello l’impianto del palazzo del
cardinale Domenico della Rovere in Borgo (costruzione 1475-1481 ca.), da conside-
rarsi innovativo in quel momento a Roma proprio per le valenze ambientali. Ber-
nardino dovette vedere il cantiere dell’edificio, sito nei pressi dei palazzi vaticani, in
uno stadio ormai di completamento e forse frequentare la casa del prelato, che sotto
i papati di Innocenzo VIII e di Alessandro VI era rimasto a Roma come curatore
degli affari sabaudi presso la corte pontificia. Inoltre, appare utile ricordare che il
Belvedere, fatto costruire da Innocenzo VIII in Vaticano, presentava lo stesso tipo
di impianto. I dati disponibili sull’organizzazione originaria del nostro edificio indi-
cano la presenza di sale al piano terreno e di una salla magna posta in posizione
d’angolo al piano nobile. Quest’ultimo ambiente non era dunque situato al centro
della facciata sopra il portone d’ingresso, ma all’angolo della costruzione come del
resto la sala detta regia o prima sala del palazzo di San Marco (oggi palazzo Venezia) e
la sala grande (oggi detta del gran Maestro) del palazzo della Rovere in Borgo.
A una scarsezza di dati sulla organizzazione degli ambienti – tra cui si ricorda an-
che uno scriptorium – e sulla impostazione funzionale, fa riscontro un chiaro riferi-
mento al gusto romano nella trattazione del cortile, tanto da far pensare a un proget-
to redatto a Roma e realizzato a Casale da maestranze lombarde specializzate in ope-
re murarie, mentre nessuna indicazione è emersa circa gli scalpellini, impegnati nella
lavorazione delle parti lapidee, plausibilmente ascrivibili all’ambiente culturale centro-

151
Il Rinascimento

italiano. D’altro canto allo stesso ambito sembra riconducibile la lunetta marmorea di
porta, proveniente dal nostro edificio e oggi custodita al Museo Civico di Torino. I
capitelli di carattere stilizzato con un giro di foglie d’acanto o «d’acqua» riprendono
diffusi modelli tardogotici a Roma presenti nel chiostro di Santa Francesca Romana
e in palazzo Cesarini-Sforza detto della Cancelleria Vecchia e, in proporzioni forse
più vicine a quelle di palazzo Gambera, in palazzo della Rovere in Borgo e nella pa-
lazzina alla Magliana, edificio quest’ultimo che Bernardino dovette conoscere bene
perché direttamente commissionato da Innocenzo VIII.
A una prima lettura appare lecito pensare che il cortile di palazzo Gambera, sia
come impostazione sia come schemi proporzionali, rimandi a un prototipo di por-
ticato che a partire dal giardino del palazzo di San Marco ha trovato la sua più
compiuta elaborazione a Roma in periodo sistino con esempi quali i chiostri di San
Cosimato e dell’ospedale di San Giovanni dei Genovesi, i porticati del palazzo del
cardinale Stefano Nardini e delle chiese di San Pietro in Vincoli e dei Santi-
Apostoli. Una sintassi ancora ritenuta valida allo scadere del secolo e come tale ri-
proposta nel palazzo del cardinale Antonio Trivulzio da San Giorgio, poi Cesi. […]
[liberamente tratto da A. PERIN, Il palazzo tra gotico e rinascimento da Alba a Casale Monferrato,
in Architettura e insediamento nel tardo medioevo in Piemonte, a cura di
M. VIGLINO DAVICO, C. TOSCO, Torino 2003, pp. 143-176]

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