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3 . L’ ANTICO E LE PREESISTENZE TRA UMANESIMO E RINASCIMENTO
La ripresa dell’ antico da parte di filosofi, letterati, poeti e antiquari produce uno dei più significativi momenti di riavvicinamento al
mondo del passato, in modo più complesso e profondo di quanto era stato fatto durante il medioevo.
Fin dall’ inizio del ‘400 si assiste alla riscoperta dei testi latini e greci: lo studio di tali codici antichi conduce ad una visione nuova
dell’ uomo in rapporto alla natura e al divino, fortemente influenzata dalla filosofia neoplatonica, che si sviluppa soprattutto nella
Firenze di Cosimo il Vecchio grazie a figure come Poggio Bracciolini, Marsilio Ficino, Pico della Mirandola.
Proprio per volere di Cosimo nasce a Firenze la prima biblioteca pubblica (sistemata poi successivamente dal nipote Lorenzo il
Magnifico su progetto di Michelangelo), mentre in altre regioni italiane si diffondono istituzioni analoghe, come la Biblioteca
Vaticana, fondata da papa Niccolo V, e l’ Accademia Pontaniana, sorta a Napoli per volere di Giovanni Pontano.
Introdotto alla metà dell’ 800 da studiosi come Michelet e Burckhardt il concetto stesso di Rinascimento è stato più volte messo in
discussione e studi approfonditi sul mondo medioevale hanno evidenziato il manifestarsi, già prima del ‘400, di diverse “rinascenze”
in particolare all’ epoca di Carlo Magno e poi in quella di Federico II.
Il Rinascimento rappresenta soprattutto un’ aspirazione culturale: si riscoprono i testi antichi con l’ intento di rintracciarvi nuovi
valori di libertà dell’ individuo, da contrapporre al retaggio medievale di una religiosità intesa in senso terrifico.
Il singolo individuo è visto come un soggetto unico in tutto il creato, in grado di autodeterminarsi e di coltivare le proprie doti, con le
quali potrà vincere la Fortuna (nel senso latino, "sorte") e dominare la natura modificandola. Celebre è l'affermazione attinta dal
mondo classico “homo faber ipsius fortunae” (l'uomo è fabbro della propria sorte), una sorta di manifesto del pensiero dell'epoca,
dove l'uomo è presentato come "libero e sovrano artefice di se stesso", con la potenza divina relegata ormai sullo sfondo.
Queste attese di libertà degli umanisti si confrontano con un’ Italia lacerata dalle guerre (nel 1453 cade Costantinopoli, quindi l’
impero romano), dal timore di invasioni barbariche da parte del mondo turco, dalla crescente corruzione della Chiesa. E’ in questo
clima che prende forma la riscoperta dell’ antico, sia dal punto di vista letterario che architettonico: le rovine romane sono percepite
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dagli umanisti come simbolo della caducità dell’ uomo e delle sue alterne sorti.
Inoltre il passato che le personalità del Rinascimento aspiravano a rievocare non era qualcosa di aulico e mitologico, ma anzi,
tramite gli strumenti moderni della filologia e della storia, essi cercavano una fisionomia dell'antico più vera e autentica possibile.
All’ inizio del ‘400 Roma consisteva in enormi ruderi coperti di vegetazione, malinconici e decadenti, e in piccoli tuguri che
rappresentavano tutta l’ edilizia civile di un millennio. Si consolida l’ interpretazione delle rovine come segni di una magnificenza
ormai perduta, ma anche di una possibile rinascita, fondata su una visione ciclica della storia.
Dallo studio delle rovine romane ha origine, verso la metà del XV secolo, la redazione delle prime “guide” della città, a partire dalla
Descriptio Urbis Romae di Leon Battista Alberti, fino alla Roma Instaurata di Flavio Biondo (1446), una ricostruzione della topografia
romana antica basata sui resti allora visibili, che fornisce anche una lista di chiese e cappelle. Attraverso la guida del Biondo si
diffonde il ricorso al metodo induttivo, fondato sull’ analisi diretta delle costruzioni, spesso in contrasto con le testimonianze scritte
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e le leggende tramandate nel tempo.
Agli umanisti si deve anche la “riscoperta” del De Architectura di Vitruvio, noto in età medioevale esclusivamente in ambiente
monastico, che si diffonderà in Italia grazie a Boccaccio e Bracciolini, che lo riproporrà nel 1414. Le riproduzioni del testo crescono,
ma sarà grazie ad Alberti che il testo vitruviano conoscerà grande fortuna.
Attraverso i letterati e gli antiquari l’ attenzione verso l’ antico si diffonde presso gli architetti: il passato inizia ad essere percepito
per la sua reale distanza dal presente, ma si riconosce altresì la possibilità di indagarlo, conoscerlo per poi riassorbirlo nel nuovo
linguaggio architettonico. Un passato che tuttavia è percepito senza una chiara cognizione della sua storia.
Accanto a una diffusa sensibilità per l’ antico perdurano ancora per tutto il ‘400 le spoliazioni dei monumenti antichi, al fine di
reimpiegarne i materiali in nuove fabbriche.
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_Bracciolini, passeggiando tra le rovine di Roma inveisce contro la fortuna maligna che aveva trasformato le sedi dei magistrati
romani in stalle di maiali, mentre Pio II a Tivoli si lamenta di come le dimore delle antiche regine siano diventate nidi di serpi.
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_ Un esempio è la vicenda della piramide di Caio Cestio a Roma, interpretata ancora dal Petrarca come la tomba del mitico Remo
(Meta Remi) e riconosciuta nella sua realtà storica da Poggio Bracciolini e Paolo Vergerio attraverso lo studio dell’ epigrafe
nascosta dalla vegetazione.
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Proprio in questo periodo Roma è oggetto di imponenti programmi urbanistici promossi dai papi che inevitabilmente investono la
città antica: i grandiosi edifici romani in rovina rappresentano sia il principale riferimento culturale per gli architetti che “fonti” di
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materiali da riutilizzare.
L’ interesse degli architetti rinascimentali verso l’ antico è volto soprattutto a riprendere le regole compositive e gli elementi formali,
soffermandosi sullo studio degli ordini, nella convinzione di poter raggiungere con le nuove costruzioni una gloria pari, se non
superiore, a quella degli antichi. Da questo atteggiamento deriva che l’ intervento sulle preesistenze risulta spesso improntato ad
un’ esplicita continuità storica, finendo per concepire ancora una volta, l’ opera architettonica come “aperta”, suscettibile di nuove
trasformazioni, e il restauro come la prosecuzione dell’ antico manufatto.
Di fronte alla necessità di completare gli edifici gotici occorreva effettuare scelte precise: lo stile gotico non era ammesso, ma non
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era neanche ammessa una violazione della concinnitas, di quella convenienza tanto propugnata dall’ Alberti.
Molto presto il giudizio verso gli edifici gotici muterà in senso negativo: l’ interesse è volto solo agli edifici pubblici, che possono
ancora suggerire qualche soluzione pratica, mentre quelli religiosi verranno censurati, perché non rispondenti ai canoni formali ed
estetici richiesti.
L’ interesse del Papato
L’ attenzione verso i monumenti della Roma antica inizia a diffondersi nei primi del ‘400 presso il papato, data la volontà di
fortificare il potere pontificio attraverso il recupero dell’ autorictas romana.
L’ interesse per gli edifici antichi è testimoniato già da Eugenio IV (1431‐1447), che avvia la liberazione del portico del Pantheon e
tutela il Colosseo dalle crescenti spoliazioni, pur sottraendovi egli stesso materiale per la costruzione di San Giovanni in Laterano.
La riscoperta dell’ antico segna il pontificato di Niccolò V (1447‐1455), mentre a partire da Paolo II si diffonde il collezionismo di
antichità e si assiste ad un primo contenimento delle distruttive pratiche di elementi scultorei e statue. Tuttavia è con Enea Silvio
Piccolomini, papa Pio II (1458‐1464) che si riscontra una più profonda riflessione sull’ antico. Preoccupato di tramandare ai posteri le
testimonianze dell’ antichità di Roma promulga uno dei primi dispositivi di tutela contro le spoliazioni, la bolla Cum Almam Nostram
Urbem, del 1462, dove si vieta la demolizione totale e parziale della antiche fabbriche o la trasformazione in calcina dei loro resti.
Egli impone il rispetto dei monumenti dando quattro buone ragioni per farlo:
‐‐‐ rappresentano un abbellimento notevole per le città;
‐‐‐ mostrano le capacità e le virtù degli antichi romani;
‐‐‐ incitano all’ imitazione dei progenitori;
‐‐‐ ricordano la fugacità della vita terrena.
Tuttavia, ancora una volta, lo stesso pontefice si concederà alcune deroghe.
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_Il Colosseo tanto ammirato rappresenterà la principale cava di travertino per nuove costruzioni.
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_il problema della conformità poteva essere risolto in tre modi:
‐‐‐ le parti preesistenti potevano essere trattate alla maniera moderna (trasformazione chiesa San Francesco in Tempio
Malatestiano da parte dell’ Alberti);
‐‐‐ l’opera poteva essere continuata in uno stile volutamente goticizzante (progetti di Francesco di Giorgio Martini e Bramante
per il tiburio del Duomo di Milano);
‐‐‐ si poteva giungere ad un compromesso tra queste due soluzioni (s. Maria Novella a Firenze).
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3.1 _ Brunelleschi e l’ antico: la cupola di Santa Maria del Fiore
Nella figura di Brunelleschi si è sempre riconosciuta la prima manifestazione di una personalità architettonica “moderna”: fu il primo
a capire il sistema strutturale dell’ architettura classica e ad adattarne i principi alle esigenze moderne. Si è soliti quindi individuare
nella sua figura le origini dell’ architettura del Rinascimento e nel suo operato la prima
diretta applicazione dello studio dell’ antichità alla definizione di una “nuova”
architettura.
Nato a Firenze nel 1377 ha una discreta formazione letteraria ed entra in contatto con i
circoli umanistici di cui fa parte Bracciolini. Brunelleschi manifesta presto doti
artistiche, e nel 1404 ottiene l’ immatricolazione nell’ Arte degli Orafi. Successivamente
è ipotizzabile un suo primo viaggio a Roma insieme a Donatello, seguito da ulteriori
visite durante le quali osserva, disegna e studia quasi tutti gli edifici di Roma. L’
interesse per le architetture romane deriva sicuramente dall’ ambiente fiorentino non
privo di reminiscenze romane, come la fabbrica del Battistero: egli studia soprattutto le
modanature e gli ordini, con scarsa attenzione per la materia. Egli non prova rimpianto
o curiosità archeologica: “l’ obiettivo finale del suo studio non è la ricostruzione dell’
antico, ma la costruzione del moderno attraverso la lezione dell’ antico”, (G.C. Argan).
È proprio nei confronti di una preesistenza che Brunelleschi adopera il suo maggiore ingegno creativo: la chiesa di Santa Maria del
Fiore. Avviata nel 1296 su progetto di Arnolfo di Cambio la chiesa era stata concepita per essere la più imponente e maestosa della
repubblica fiorentina. Il progetto iniziale fu ulteriormente ampliato da Francesco Talenti intorno al 1350, fino a prevedere una
cupola, su tamburo ottagonale, della larghezza di circa 42 metri per un altezza di 83 metri. Fin dall’ inizio quindi gli artefici del
duomo fiorentino intendevano “rivaleggiare” con il Pantheon, date le grandi dimensioni e l’ ambiziosità del progetto.
La complessità costruttiva è evidente: le dimensioni previste e l’ altezza da cui parte l’ imposta, oltre 50 metri da terra, rendono
impossibile l’ utilizzo di centine tradizionali, sia per la grande quantità di legname necessario, sia per il peso indotto dalla cupola sui
ponteggi, sia per l ‘ ingombro prodotto da questi ultimi nel coro.
Si presentarono due tipi di problemi:
uno di ordine statico, che richiedeva di ridurre al minimo le spinte orizzontali sul tamburo;
uno di tipo costruttivo, che imponeva il ricorso ad una struttura autoportante, realizzata con l’ impiego di soli ponti
appoggiati sulla muratura del tamburo.
A tutti questi problemi si aggiungeva la difficoltà di organizzare il cantiere per il sollevamento dei materiali ad un’ altezza così
elevata.
Nel 1418 viene bandito un concorso dall’ Opera di Santa Maria del Fiore per la realizzazione della cupola, al quale partecipano
Ghiberti e Brunelleschi: entrambi vengono nominati provveditori alla costruzione. Nel 1420 iniziano i lavori e l’ Opera, che sostiene il
modello privo di centine proposto da Filippo, definisce con una delibera il programma costruttivo della cupola in modo dettagliato,
anticipando i moderni capitolati tecnici.
In questa delibera del 1420 l’ impianto della cupola è descritto in modo
dettagliato, a partire dal suo sesto rialzato, che consiste in un arco di cerchio di
raggio pari ai 4/5 della diagonale dell’ ottagono di base.
Tra le scelte più significative vi è l’ adozione di una doppia calotta che
garantisce la protezione dall’ umidità ed accentua la magnificenza della
struttura all’ esterno. Il ricorso all’ intercapedine tra le due volte consente
inoltre di ridurre notevolmente il peso della cupola e di nascondere il
complesso sistema strutturale costituito da 8 costoloni principali,
corrispondenti agli spigoli dell’ ottagono del tamburo e da 8 coppie di
costoloni minori, posti all’ interno delle vele e non visibili all’ estradosso.
Questo sistema di strutture verticali è collegato da elementi orizzontali che
uniscono i costoloni maggiori ai minori, assorbendo le spinte laterali.
Col procedere dei lavori la presenza di Ghiberti si attenua, lasciando al Brunelleschi la responsabilità del progetto. Durante le fasi
costruttive si adoperano ponti mobili, infissi in buche ancora oggi visibili, che consentono la realizzazione in contemporanea delle
volte e degli sproni (costoloni) su tutto il perimetro, in modo da assicurare che ogni strato di posa si configuri come un anello chiuso
autoportante.
Nel 1422 si decide di ridurre il peso della struttura diminuendo la sezione degli sproni secondari e sostituendo la pietra con mattoni
già al di sopra della quota di 12 braccia (1 braccio fiorentino=0,583m), contro quella di 24 prevista dalla delibera.
Successivamente si sostituiscono le volte a botte con arconi orizzontali e si adotta per la muratura la struttura a spinapesce,
derivante dallo studio delle costruzioni romane. La chiusura dell’ anello sommitale è raggiunta nel 1436.
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A questo punto è necessario “tappare” l’ anello, di 15 m di diametro: le forze che agivano su di esso erano tali che, nonostante la
leggerezza della cupola, i costoloni tendevano a piegarsi verso l’ esterno e a spalancare l’ anello.
Fu quindi progettata una lanterna abbastanza pesante per il concorso del 1436, vinto da Brunelleschi. I costoloni della cupola
vengono raccordati da un arco rampante, che sostiene il corpo della lanterna alla torretta ottagonale.
Un ultimo tocco dato dal Brunelleschi al duomo è la realizzazione delle cosiddette “tribune morte” poste sui piloni angolari della
cupola, con funzione di completamento visivo ed irrigidimento della parte inferiore del tamburo. Le tribune saranno realizzate con
un impianto semicircolare a nicchie chiaramente derivato dai monumenti sepolcrali romani.
Tecniche adoperate
Man mano che la muratura in pietra veniva sostituita dai mattoni e man mano che si procedeva con l’ inclinazione della cupola
furono adoperate due tecniche che agevolarono la costruzione di ciascun anello: la corda blanda e la spinapesce.
La corda blanda (corda non tesa, perciò “blanda”) consiste nell’ adottare come piano di posa una superficie leggermente concava
verso l’ alto: il letto di posa dei mattoni non è orizzontale, ma segue una curva aperta verso l’ alto che, assieme all’ utilizzo di
mattoni angolari, assicurava una tessitura dell’ ordito murario assolutamente priva di discontinuità lungo tutto l’ anello.
La sspinapesce, adottata a partire dai 20 gradi di inclinazione sull’ orizzontale, fungeva da contenimento dei mattoni in fase di presa
della malta, è utile a condurre l’opera in regime di auto‐portanza.
Si fece ricorso a mattoni posti col lato più lungo emergente rispetto a quelli appoggiati sulla superficie conica: è una
particolare forma di apparecchiatura muraria, strutturata di per sé in modo da rendere stabili piccoli settori longitudinali grazie
all’azione di contrasto esercitata da mattoni emergenti, posti alle estremità di ogni settore stesso. L’espediente, che non ha valore
strutturale ma solo costruttivo, consente al maestro muratore di evitare lo slittamento verso il basso della muratura in corso di
realizzazione, prima ancora che si raggiunga l’equilibrio complessivo di ogni strato di posa dei mattoni con la chiusura sull’intero
perimetro dell’ottagono.
I modelli assunti dal Brunelleschi per la concezione costruttiva della cupola sono vari: è presente la componente romana, quella
fiorentina e addirittura influenze islamiche. È certa la grande capacità di assimilazione e di sintesi dell’ architetto, che vede ogni
esempio del passato non come modello diretto da imitare ma come fonte di suggerimenti da rielaborare in vista della soluzione
di specifici problemi.
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3.2 _ Leon Battista Alberti: l’ antico e le preesistenze (Tempio Malatestiano e Santa Maria Novella)
Leon Battista Alberti è una delle personalità più influenti del panorama rinascimentale: al suo contributo teorico vanno ricondotti
quasi tutti i successivi sviluppi del linguaggio e della pratica del costruire.
Umanista ed erudito egli è anche il primo architetto dedito allo studio sistematico dell’ antico condotto attraverso l’ indagine delle
fonti letterarie e l’ attento rilievo materiale. Lo studio dell’ Alberti tende soprattutto alla comprensione dei principi da trasporre
nelle pratiche costruttive attuali: se Brunelleschi aveva privilegiato gli aspetti costruttivi e la pratica di cantiere, Alberti sottolineerà il
carattere progettuale del fare architettura e, in contrasto con l’ approfondimento rivolto ad argomenti tecnici in De Architectura,
non si lascerà “coinvolgere” nella direzione dei cantieri e suggerirà agli architetti di “conservare la propria dignità”.
Nasce a Genova nel 1404 da una ricca famiglia fiorentina esiliata da Firenze. Le vicende familiare incideranno molto sulla sua
formazione: seguirà i commerci del padre in varie città e, successivamente alla sua scomparsa, vivrà un periodo di crisi economica.
In questo periodo si dedica allo studio della fisica e della matematica e consegue la laurea in diritto canonico nel 1428. Nello stesso
anno la famiglia Alberti può ritornare a Firenze e qui risolverà i suoi problemi economici. Soggiorna per quasi due anni a Roma, dove
entra in contatto per la prima volta con i monumenti antichi. Ritornato a Firenze conosce Ghiberti, Donatello e Brunelleschi.
Ritornato a Roma nel 1443 Alberti vi si stabilisce quasi continuativamente fino alla morte, accingendosi in maniera sistematica allo
studio dell’ architettura. È in questi anni che prende forma la sua indagine sulle rovine degli edifici antichi che culminerà nella
Descriptio Urbis Romae (1448‐1455). Quest’ opera è caratterizzata da un breve testo che illustra, attraverso l’ uso di coordinate
polari, la sistematica opera di rilievo urbano della città e delle sue emergenze architettoniche, condotta in prima persona dall’
Alberti.
Egli affida ai dati numerici il compito di trasmettere precisamente il rilievo della città, senza incorrere nei rischi legati alla copia di un
disegno, (l’ opera anticipa l’ incarico conferito oltre 50 anni più tardi a Raffaello da Leone X).
Verso la fine degli anni ’40 il prestigio di Alberti a Roma è ormai consolidato, nonostante i rapporti complessi con la Curia.
Nel 1447 è eletto papa l’ umanista Niccolò V, compagno di studi di Alberti, che avvia un vasto programma edilizio ed urbanistico
esteso all’ intera città di Roma. Durante il suo pontificato però il ruolo di Alberti è ridimensionato, forse anche a causa della
posizione presa nella congiura ordita da Porcari contro il papa nel 1453.
A partire dalla metà degli anni ’40 Alberti è impegnato nella redazione del De re Aedificatoria, nel quale confluiscono tutte le sue
conoscenze letterarie, in primis il trattato di Vitruvio, e l’ osservazione diretta dei monumenti antichi di Roma. Nel volume non si
limita a definire le regole dell’architettura, ma pone la questione dell’ edificare alle più remote origini della storia del genere umano.
Scritto in latino e articolato in 10 libri, il trattato è compiuto già entro il 1452, diffondendosi sotto forma di manoscritto per poi
essere stampato nel 1485, tredici anni dopo la sua morte.
Il riferimento a Vitruvio è senz’ altro il punto di partenza per la stesura di questo trattato, nonostante i limiti che Alberti vi rileva, che
si caratterizza anche per la ricchezza di citazioni erudite di autori e filosofi classici. Il vero fondamento del volume è comunque l’
osservazione diretta degli edifici antichi, intesi come “testi” essenziali da studiare così come i testi scritti. Il rilievo dell’ antico
rappresenta un elemento essenziale del suo lavoro, e il suo interesse per le opere antiche comprende tutte le opere architettoniche,
dalla più nobile alla più umile, estendendosi anche alle opere del Medioevo e dunque non classiche.
Nello studiare queste opere egli rileva il degrado a cui sono soggette, e tale rimpianto di traduce in esplicita protesta contro tale
stato di rovina e contro chi demolisce senza riguardo tali costruzioni. Egli mostra quindi un orientamento conservativo nei confronti
delle preesistenze, anche quando afferma che nel continuare una fabbrica già avviata bisogna rispettare l’ idea progettuale
originaria; tale principio sarà da lui confermato nelle sue opere più importanti, come il Tempio Malatestiano e la facciata di Santa
Maria Novella.
In questo stesso volume affronta anche il problema della ricostruzione di San Pietro mostrando una grande attenzione al restauro e
al rispetto della preesistenza, contrastando le intenzioni del papa Niccolò V e il progetto del Rossellino.
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Importante è il concetto di concinnitas introdotto dall’ Alberti come principio ordinatore della bellezza.
Tale concetto si fonda su tre leggi fondamentali: il numero (numerus), la delimitazione (finitio) e la collocazione (collocatio). Dalla
connessione di tutti questi elementi si ha la concinnitas, ovvero il concerto di tutte le parti tra loro, che altrimenti sarebbero
distinte.
Negli interventi di completamento, in base a questo principio, si preferiscono soluzioni in stile, in modo da legare i nuovi apporti
con gli elementi preesistenti per garantire un’ opera ultimata unitaria.
Il X libro è intitolato “Restauro degli edifici”, e comincia col descrivere l’ analogia tra l’ architetto‐restauratore e il medico. Inizia
quindi a descrivere l’ origine dei vari difetti (vitia) dell’ edificio, tra i quali i danni prodotti dagli agenti atmosferici e dall’ incuria
umana.
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_”ordinare secondo leggi precise le parti che altrimenti per propria natura sarebbero ben distinte tra loro, di modo che il loro
aspetto presenti una reciproca concordanza”.
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Affronta i problemi relativi ai dissesti delle pareti e le principali cause, come le erbe infestanti; segue poi una disamina delle tecniche
di consolidamento dei muri sottili, come la realizzazione di contropareti congiunte alle preesistenti o il rinforzo con legamenti in
ferro o rame.
Nell’ ultimo capitolo del libro si addentra nel tema del restauro, trattando della diagnosi dei dissesti e delle tecniche di
consolidamento. Dedica particolare attenzione allo studio delle lesioni e alle proposte di riparazione; interessanti sono anche i
suggerimenti proposti per la sostituzione di una colonna o per il raddrizzamento delle pareti. Alcune delle tecniche consigliate in
presenza di moti rigidi delle murature sono di grande attualità:
__ possibilità di sollevare la parte soggetta a cedimento con una trave che abbia funzione di leva (stadera);
__ procedere con una sottoescavazione (applicato oggi alla Torre di Pisa).
a) Tempio Malatestiano (1447/1462)
Negli stessi anni in cui è impegnato alla stesura del trattato avvia anche la sua prima opera architettonica importante, volta alla trasformazione di
una preesistenza medioevale: la chiesa di San Francesco a Rimini che Sigismondo Malatesta intende trasformare in mausoleo per la propria
famiglia. La fase iniziale dei lavori vede protagonisti Matteo dè Pasti e Agostino di Duccio che nel 1447 elaborano un programma più limitato di
quello che sarà poi effettivamente realizzato: inizialmente si pensa solo a trasformare e decorare alcune cappelle.
Sigismondo immagina un tempio che accolga il proprio sepolcro e quella della sua amata
celebrando il culto dell’ eroe attraverso simbologie religiose e pagane,come il culto del sole
e dello zodiaco.
All’ interno gli elementi preesistenti sono trasformati e resi più grandiosi con interventi
strutturali rivolti al minimo; l’ originalità presente fa pensare all’ influenza dell’ Alberti.
La presenza di Alberti all’ interno della fabbrica si ha a partire dal 1450, quando Sigismondo
pensa di intervenire anche all’ esterno. Il suo intervento all’ esterno si rapporta alla
preesistenza seguendo due approcci diversi:
__ per la facciata – accosta la nuova soluzione alle strutture preesistenti, senza
distaccarsi. Il progetto per la facciata può essere desunto dalla medaglia coniata da
Matteo dè Pasti nel 1450: la facciata è suddivisa in un ordine inferiore articolato in 3
arcate inquadrate da semicolonne su basamento e in un ordine superiore con campata
centrale più alta, raccordata ai margini del prospetto con elementi curvilinei. Lo sfondo
è dominato da una cupola, scandita da costoloni, emisferica, ampia quanto la facciata e
derivata quasi certamente dal Pantheon.
Alberti si rifà esplicitamente ed esempi romani, come l’ Arco di Costantino per la
composizione generale, o l’ arco di Augusto a Rimini per i dettagli e la zona
basamentale. Adotta un ordine maggiore di semicolonne trabeate e un ordine minore
di lesene sormontate da archi a tutto sesto, secondo una composizione mutuata da
esempi antichi, primo fra tutti il Colosseo. Inizialmente prevede la collocazione dei
sarcofagi di Sigismondo e Isotta nei due fornici laterali della facciata; per motivi statici in corso d’ opera tali archi vengono tamponati e i
sarcofagi collocati lungo i fianchi.
Più complesso è l’ incompiuto ordine superiore, dove Alberti immagina una campata centrale più alta, definita da lesene che inquadrano una
trifora trabeata e sormontata da un arco, e due raccordi curvilinei sulle campate laterali, necessari per nascondere le coperture delle cappelle.
__ per i prospetti laterali – si distacca dalle strutture più antiche realizzando un involucro costituito da una sequenza di archi su massicci
pilastri, senza preoccuparsi dell’ allineamento con le aperture gotiche preesistenti. Tale successione di arcate è riconducibile sia la motivo degli
acquedotti romani che agli archi interni del Colosseo, replicandone il rapporto
proporzionale di 1:2 tra la larghezza del pilastro e la luce del fornice. Racchiude quindi l’
irregolarità dell’ edificio in un nuovo organismo fondato sul ritmo delle proporzioni
classiche. Al tempo stesso egli si rifiuta di continuare o variare l’ antico, isolandolo dalle
nuove strutture di oltre mezzo metro: la mancata corrispondenza tra le finestre gotiche
e il nuovo paramento marmoreo è segno di onestà e rispetto.
L’ articolazione degli ordini rispetta la sintassi degli edifici antichi appena codificata dall’
Alberti nel trattato: nei templi è preferibile adoperare columnae rotundae sormontate da
trabeazioni, diversamente dalle basiliche o dagli edifici pubblici dove si devono adoperare
archi su columnae quadrangulae (pilastri). In nessun caso bisogna disporre archi su colonne
circolari; ciò comporterebbe l’ impiego di un pulvino, così come aveva già fatto Brunelleschi.
La repentina interruzione del cantiere, conseguente al tramonto delle fortune di Sigismondo dopo il 1462, lascerà incompiuto l’ ambizioso
programma, lasciando al campo delle ipotesi sia il completamento della facciata che la copertura della navata, nonché la tribuna e la cupola.
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b) Santa Maria Novella (1458/1480 e oltre)
Un approccio diverso alla preesistenza caratterizza il completamento delle facciata di S. Maria Novella
avviato su iniziativa di Giovanni Rucellai. Rispetto al Tempio Malatestiano qui gli elementi preesistenti
condizionano in maniera più significativa la nuova composizione. Alberti si trova davanti un impianto
architettonico dove le opere già compiute non possono essere demolite o rimosse: oltre alle tombe
sormontate da archi acuti occorre tener conto delle porte laterali e del grande oculo centrale superiore.
Il suo progetto si propone di inquadrare tutti questi elementi in una nuova composizione in cui prevalga
l’ ordine classico, rispettando le preesistenze in modo da raggiungere la concinnitas.
Alberti interviene con sull’ ordine inferiore, in buona parte già compiuto, con pochi elementi. Al centro,
in corrispondenza di un’ apertura forse archiacuta, viene posto il portale inquadrato da alte semicolonne
in marmo verde, replicate anche agli estremi della facciata, allargata oltre i muri perimetrali delle chiesa.
Egli adotta in tutta la facciata la bicromia bianco‐verde. Appare irrisolta la questione delle quattro
arcatelle cieche a tutto sesto impostate su stretti pilastri, la cui attribuzione è incerta. Wittkower le ritiene preesistenti, e la sua tesi sembra essere
confermata dal fatto che agli estremi della facciata le arcatelle proseguono dietro le semicolonne. Il vincolo imposto dalla quota delle arcatelle ha
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condizionato il forte sviluppo verticale delle semicolonne, i cui rapporti proporzionali forzano i canoni albertiani.
La notevole distanza tra le semicolonne è tenuta insieme dalla trabeazione.
Elemento fondamentale di connessione tra la riorganizzazione dell’ ordine inferiore e il disegno ex‐novo del livello superiore è l’ altro attico,
decorato con 15 tarsie dicromiche, che consente ad Alberti di raccordare le differenti quote degli elementi preesistenti e di inquadrare l’ intera
composizione nell’ ambito di uno schema proporzionale fondato sul quadrato. La cornice superiore dell’ attico divide a metà il quadrato perfetto
all’ interno del quale si inscrive l’ intera facciata, mentre sia l’ ordine superiore che quello inferiore sono basati su un quadrato minore di lato pari
alla metà di quello maggiore.
Questo schema proporzionale comporta che le paraste interne dell’ ordine superiore si allineano al centro, con le semicolonne sottostanti, e all’
estremità con le porte laterali preesistenti.
Ispirato nelle linee generali alla facciata di San Miniato, l’ ordine superiore si differenzia per l’ adozione di un vero e proprio timpano classico e per
le celebri volute che raccordano la sezione centrale rialzata con l’ ordine inferiore, nascondendo al contempo le navate laterali.
L’ opera risulta ancora in costruzione dopo il 1480, mentre la voluta di destra sarà completata solo nel 1920.
La facciata sottende probabilmente significati oscuri, a partire dai riferimenti al culto solare presenti nel timpano, dai temi astrologici delle tarsie
dell’ attico, fino alle due figurae mundi comprese nelle volute;sembra alludere a quella “Prisca Theologia” tramandata dall’ ermetismo, che Alberti
seguiva negli anni del Concilio e che poi rinnegherà per volere della chiesa.
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_ le semicolonne raggiungono un’ altezza pari a 11 volte il diametro.
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3.3_a _ L’ antico e il restauro nel trattato di Filarete
Il rapporto con l’ antico e le problematiche del restauro sono presenti anche nel secondo trattato di architettura del ‘400 dovuto ad
un architetto di origine fiorentina, Antonio Averlino detto il Filarete (1400‐1465). Di formazione quasi opposta a quella dell’ Alberti,
priva cioè di particolare erudizione umanistica e fondata principalmente sulla pratica di mestiere, egli compone la sua opera a
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Milano in età matura, tra il 1461 e il 1464, dedicandola a Francesco Sforza.
Scritto in volgare, corredato da numerosi disegni e diffuso sotto forma di manoscritto il trattato si differenzia da quello albertiano
per gli scopi che l’opera di propone e per i contenuti.
Articolato in 25 libri non presenta una stesura sistematica come il De Re Aedificatoria; contiene numerosi spunti interessanti sul
tema del rapporto con l’ antico, sulle preesistenze, sul restauro desunti proprio dall’ Alberti. Anche lui sostiene l’ analogia tra medico
e architetto e ritiene l’ uomo il principale artefice della rovina degli edifici. Al rimpianto per l’ abbandono segue poi una severa
critica ai responsabili della distruzione. E’ nel libro XIV che il rapporto con il passato diviene tema centrale della trattazione,
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attraverso il racconto fantastico del rinvenimento dei resti di un’ antica civiltà durante i lavori del porto di Sforzinda , che ha per
protagonisti Francesco Sforza, il figlio Galeazzo, e lo stesso Filarete.
Nel racconto si legge tutta l’ emozione e il pathos derivante dalla scoperta archelogica di una pietra squadrata con antiche iscrizioni,
al cui interno sono custoditi dei tesori e un libro. In questo volume sono raccontate le vicende del re Zogalia e della sua città
Plusiapolis, i cui resti giacciono proprio nel sito dell’ incredibile scoperta. Il valore delle nuove scoperte induce i protagonisti a
interrompere i lavori per avviare una ricostruzione filologica delle architetture originarie della città. Plusiapolis diviene quindi per
Filarete la “città della memoria”, in cui la collocazione degli edifici è dettata dalla presenza dei ruderi e dalla persistenza dell’
impianto urbano, anticipando una sensibilità propria della moderna cultura del restauro.
Dopo pochi anni dall’ allontanamento di Filarete da Milano, la città vive un momento di grande rinnovamento in campo
architettonico promosso da Ludovico il Moro, fratello di Galeazzo, succedutogli come reggente nel 1480.
In questi anni una presenza cruciale è quella di Donato Bramante.
3.3_b _ Bramante e le preesistenze tra Milano, Roma e Napoli
Originario di Urbino (1444‐1514) si forma alla corte di Federico da Montefeltro. Egli è innanzitutto un pittore, ma manifesta presto
vari interessi sia letterari che scientifici: si interessa molto anche all’ opera albertiana. Arriva a Milano nel 1478 per seguire i lavori di
un palazzo di Federico da Montefeltro.
a) Santa Maria presso San Satiro (1482), Milano
E’ la sua prima opera architettonica a Milano. Realizza un organismo a tre navate con transetto
seguendo i canoni albertiani nell’ ambito di una concezione spaziale originale. Tra gli elementi nuovi
spicca la sacrestia nella quale Bramante recupera modelli antichi insieme a soluzioni brunelleschiane,
come il sistema di paraste angolari poste agli spigoli dell’ ottagono. L’ elemento più straordinario dell’
opera è frutto di un vincolo imposto dalla preesistenza: il limite di via Falcone che impedisce di costruire
un quarto braccio per il coro. Il vincolo diventa occasione per sperimentare uno straordinario artificio
prospettico attraverso il quale realizza un finto coro in stucco che riequilibra l’ intera spazialità della
chiesa in rapporto alla cupola, conferendole una centralità visiva altrimenti impossibile. In una
profondità di 120 cm riesce a sviluppare il quarto braccio di un impianto cruciforme che sembra
estendersi per ben 11 m, delimitato, come gli altri 3 bracci, da tre arcate aperte su navatelle o chiuse da
nicchie. Diversamente dalle finzioni pittoriche l’ efficacia dell’ illusione è fondata per la prima volta su
una soluzione plastica, che utilizza gli stessi materiali dell’ edificio e che produce un reale gioco d’ombre.
b) Santa Maria delle Grazie (1492 ca), Milano
Un altro programma di trasformazione e ampliamento di una fabbrica preesistente riguarda questa
chiesa domenicana completata pochi anni prima del 1492 e che il Moro intende modificare per farla diventare sepolcro di famiglia. Assecondando
Ludovico Bramante interviene demolendo la zona presbiteriale e sostituendola con una grande tribuna sormontata da una cupola le cui
proporzioni si impongono per il loro carattere monumentale in rapporto all’ organismo originario. Con il suo impianto cubico la tribuna si propone
come un’ architettura autonoma, benché il suo rapporto con la preesistenza sia evidente in molti punti, a partire dalla forte dilatazione delle absidi
laterali. Bramante è attento anche ad mantenere vivo il rapporto con la cultura architettonica locale: l’ impianto generale, gli elementi
architettonici della tribuna, l’ alta finestra rettangolare del tiburio con colonna centrale, testimoniano la sintesi operata da Bramante tra ispirazioni
locali e centro‐settentrionali.
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_ la sua presenza a Milano è da ricondursi a quel processo di apertura verso la cultura artistica del centro Italia avviato da Sforza fin dal 1450 e
che avrebbe richiamato personalità come Leonardo e Bramante.
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_ città ideale progettata da Filarete.
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Con la caduta di Ludovico il Moro nel 1499 Bramante si allontana da Milano per andare a Roma, avviando una fase completamente
nuova della sua opera. Fondamento del nuovo linguaggio sarà un più sistematico e filologico studio dell’ antico, condotto a partire
dai resti romani e concentrato sull’ analisi degli ordini architettonici, degli schemi tipologici, dei materiali e delle tecniche
costruttive. L’ obiettivo era trarne le regole generali per il fare architettonico moderno.
In questo periodo Roma si presenta molto diversa da com’era 50 anni prima; presenta una monumentalità che non ha nulla da
invidiare a quella degli antichi grazie ai grandi interventi a scala urbana e agli imponenti programmi di Giulio II, come la Basilica di
San Pietro.
c) Basilica San Pietro (1505 ca)
Quest’ opera segna l’ affermazione di Bramante come architetto del pontefice. Superato un primo
approccio conservativo, in cui il corpo longitudinale dell’ antica basilica veniva mantenuto aggiungendo
un transetto e un coro, Bramante avanza nel 1505 l’ ipotesi di modificare radicalmente la chiesa,
disegnando un impianto fondato su un grande vano ottagonale coperto da una cupola retta da enormi
piloni. Giulio II accetta tale proposta di demolizione e nel 1506 avvia i lavori, che demoliranno anche le
grandi colonne di età costantiniana.
Nel 1514 alla morte dell’ architetto dell’ antica basilica rimane ben poco, ma il problema del
completamento della nuova chiesa si proporrà ancora per decenni, conferendo all’ insieme un aspetto
non dissimile dalle rovine romane.
d) Duomo di Napoli, Succorpo (1497)
La paternità bramantesca è stata sostenuta da Roberto Pane fin dal 1974.
Rappresenta un testimonianza importante non solo per la straordinaria architettura ma per il complesso rapporto con lo spazio absidale angioino e
i relativi imposti dalle preesistenze.
Commissionata dal cardinale Carafa, già arcivescovo di Napoli, l’ opera nasce con l’ intento di ospitare le reliquie di San Gennaro, traslate dall’
abbazia di Montevergine, e al tempo stesso di celebrare la famiglia Carafa attraverso la sepoltura dei suoi membri.
I lavori hanno inizio nel 1497, e il cardinale già da subito esprime l’ intenzione di collocare la cappella al di sotto dell’ abside angioina, caratterizzata
da un forte sviluppo verticale e interessata da problemi statici. L’ intervento prevede il rialzo del pavimento absidale di 80 cm e lo scavo della zona
di fondazione profondo 3 metri per ricavare lo spazio necessario al succorpo.
Oltre al limitato sviluppo in altezza tra i vincoli preesistenti emergono le difficoltà dovute:
__ all’ illuminazione carente (risolta con aperture ricavate negli stretti vani compresi tra i contrafforti);
__alla ripartizione dei carichi statici della zona absidale (affrontata con un sistema di voltine portanti sostenute da due file di 5 colonne che
suddividono l’ intero spazio in 3 navate di uguale ampiezza. Tali voltine sono nascoste da un cassettonato marmoreo poggiante su travi “T”
rovescia).
L’ attribuzione a Bramante scaturisce dall’ impianto spaziale e dalle raffinate soluzioni di dettaglio, condizionate dai vincoli preesistenti, come le
lesene che scandiscono le nicchie laterali, estese a tutt’ altezza per compensare il limitato sviluppo verticale dell’ ambiente.
Le stesse nicchie con il motivo a conchiglia appaiono simili a quelle realizzate da Bramante nella sacrestia di S. Maria delle Grazie e Milano, così
come le lesene angolari poste in corrispondenza delle finestre strombate richiamano il motivo portante dell’ impianto ottagonale della fabbrica
milanese. Se a ciò si aggiunge la sua probabile presenza a Terracina nel 1497, da collegare a viaggi verso Napoli, e l’ incarico conferitogli per il
chiostro di S. Maria della Pace a Roma sempre da Carafa, si può ipotizzare almeno un’ ispirazione bramantesca del succorpo dovuta a una sua
consulenza dopo l’ avvio dei lavori nel 1497.
3.4 _ Raffaello, la restituzione di Roma antica e la lettera a papa Leone X
Con l’ ascesa al soglio pontificio di Leone X, figlio di Lorenzo il Magnifico, Roma è governata da un papa attento a promuovere
importanti programmi artistici, architettonici ed urbani. Leone X dimostra subito particolare interesse per le vestigia romane e nel
1514, in seguito alla morte di Bramante, conferisce l’ incarico di architetto della fabbrica di San Pietro a Raffaello, che verrà anche
nominato sovrintendente alle antichità di Roma, con una giurisdizione che comprende tutto il patrimonio archeologico romano.
Tuttavia il suo incarico è solo all’ apparenza volto alla tutela: i poteri conferitogli dal papa servono per confiscare materiale da
utilizzare nella fabbrica di S Pietro, stabilendo quindi un monopolio papale.
In questo stesso periodo prender vita un programma di rilevamento degli edifici della Roma antica, ad opera sempre di Raffaello su
incarico di Leone X, che intende redigere una vera e propria pianta di Roma, fondata per la parte topografica sulle misurazioni della
Descriptio Urbis di Alberti.
Se poco è rimasto dei disegni prodotti permane invece una testimonianza importante: la lettera a Leone X scritta nel 1519 da
Raffaello e Baldassarre Castiglione allo scopo di presentare al pontefice il lavoro svolto. Il testo è importante anche per quanto
riguardo il tema della tutela: esso esprime una “compassione” per tutto ciò che si era perduto e una denuncia della barbarie che
ancora si perpetra. La lettera costituisce la prova dell’ acquisizione del concetto di tutela, anche se solo sul piano teorico.
La redazione della lettere è frutto di un lavoro collettivo, coordinato da Raffaello, ma nel quale confluiscono ispirazione diverse,
come Fabio Calvo, Andrea Fulvio, Alberti e, primo fra tutti, Baldassarre Castiglione.
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La lettera può suddividersi in 4 parti distinte:
1. corrisponde al “Proemio”, riconducibile al contributo di Castiglione, ispirato alla Roma Instaurata di Flavio Biondo. L’ autore del testo
inizia dichiarando n certa esperienza dell’ antica architettura, alla quale si accompagna un grande dolore provocato dalle condizione in
cui essa giace nella città di Roma. L’ autore cerca quindi le cause delle distruzioni sia nel passato remoto che nel tempo presente,
individuandole nel tempo e nell’ azione dell’ uomo.
L’ autore riconosce però che, seppur private degli ornamenti, le antiche fabbriche sono ancora comprensibili nel loro impianto strutturale
(“ossa del corpo senza carne”).
Il passo più notevole della lettere è quello in cui gli autori accusano direttamente coloro che invece di tutelare i resti antichi ne hanno
consentito lo scempio, compresi i numerosi pontefici che hanno preceduto Leone X. E’ necessario quindi un appello alla tutela, che
Raffaello rivolge al papa pregandolo di non trascurare i resti di questo patrimonio;
2. La seconda parte è rivolta a illustrare l’ oggetto del lavoro commissionato dal papa. Viene sovlta una breve trattazione della storia dell’
architettura romana, dalle origini al tempo di Raffaello. Tra le fabbriche presenti in città la lettere descrive 3 tipi di edifici:
“buoni antichi”, esistiti fino al tempo che Roma fu invasa dai Gotti;
quelli corrispondenti alla dominazione dei Gotti e per i 100 anni successivi;
quelli attuali, che Raffaello giudica molto prossimi alla maniera antica (opere di Bramante).
Agli edifici medievali dedica altre considerazioni negative, così come all’epoca bizantina, romanica e gotica. La critica all’ architettura
gotica si concentra su alcuni dei suoi caratteri ornamentali e sull’ uso dell’ arco a sesto acuto, peggiore di quello a tutto sesto sia per la
solidità strutturale che per la perfezione visiva;
3. chiarito l’oggetto del lavoro, la terza parte descrive il sistema di rilevamento usato fondato sull’ impiego della bussola;
4. si affrontano i problemi della rappresentazione, svolgendo considerazioni sul disegno architettonico: Raffaello rimarca le differenza tra
rappresentazione pittorica e architettonica e descrive i 3 modi del disegno, corrispondenti alle proiezioni ortogonali di pianta, alzato e
sezione. Ad essi è affidata la rappresentazione architettonica accompagnata da alcune prospettive.
Il lavoro però non giunge a compimento: pochi mesi dopo la stesura della lettera, nel 1520, Raffaello muore.
3.5 _ Michelangelo, le preesistenze e il non‐finito architettonico: il Campidoglio e S. Maria degli Angeli
Il confronto instaurato da Michelangelo (1475/1564) con le preesistenze, soprattutto con le fabbriche più antiche, si rivela quasi
sempre più sensibile e conservativo di tanti architetti suoi contemporanei, anche se la sua opera si fonda spesso sulla
trasformazione di fabbriche o contesti urbani già esistenti.
La straordinaria qualità dell’ architettura di Michelangelo è fondata sullo stravolgimento del canonico impiego degli ordini, tanto che
la quasi coeva “Regola delli 5 ordini” di Vignola sembra quasi una reazione a tali spinte eversive.
Già nelle prime opere Michelangelo si confronta con diverse fabbriche preesistenti, a partire dal progetto per la facciata della chiesa
brunelleschiana di San Lorenzo a Firenze, dove emerge il problema del rapporto tra interno ed esterno, risolto dopo varie soluzioni
con un unico piano rettangolare indifferente alle diverse altezze delle navate.
Tuttavia è con il celebre intervento per la Biblioteca Laurenziana, promosso dal cardinale Giulio Dè Medici nel 1523, che
Michelangelo affronta un ben più complesso problema architettonico, confrontandosi con il preesistente chiostro di San Lorenzo.
a) Biblioteca Laurenziana, (1523) Firenze
La scelta del papa di collocare la sala di lettura sopra le celle dei monaci impone il rispetto della configurazione originaria di queste ultime, i cui
ambienti non possono essere ingombrati con le fondazioni della biblioteca; inoltre il superamento del notevole salto di quota richiede un vestibolo
con scala, da ricavare in uno spazio angusto e male illuminato.
Gran parte delle radicali innovazioni introdotte dall’ artista traggono la loro origine proprio dai rigidi vincoli imposti dalla preesistenza, come l’
arretramento delle colonne binate, incassate all’ interno dei setti murari, o le volute al di sotto delle basi delle colonne, prive di ogni funzione
strutturale, che assolvono il compito di compensare il forte salto di quota tra il vestibolo e la sala di lettura.
Con il tramonto della repubblica fiorentina Michelangelo rientra a Roma nel 1534, in coincidenza con l’elezione al soglio pontificio di
Paolo III, che lo coinvolgerà in uno dei più importanti programmi di ristrutturazione urbana: la sistemazione del colle capitolino.
b) Campidoglio, (1534) Roma
Il pontefice incarica Michelangelo di studiare un basamento per la statua di Marco Aurelio, sopravvissuta per
secoli perché scambiata per la statua di Costantino, da collocare nello spazio antistante il Palazzo Senatorio.
A partire da questo incarico prende vita una sistemazione a scala urbana straordinaria, che assume i vincoli
imposti dagli edifici esistenti come spunto per la realizzazione di uno spazio che appare concepito fin dall’
inizio come unitario.
L’ aspetto del colle capitolino prima degli interventi presenta il Palazzo Senatorio sullo sfondo e il Palazzo dei
Conservatori, frutto di una trasformazione di un precedente edificio, a destra della futura piazza. Esso si
presenta come una fabbrica a due piani con porticato di archi su colonne. Michelangelo cercò di dare
razionalità alla casuale disposizione dei due palazzi, i cui assi formavano un angolo di 80°. Questa irregolarità
lo indusse ad adoperare una pianta trapezoidale dalla quale derivano le altre caratteristiche
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della composizione: lo svantaggio ancora una volta viene dominato in modo tale da sembrare un’
invenzione del tutto spontanea. Il complesso non fu concepito come un sistema di blocchi singoli,
ma come un grande spazio aperto limitato da 3 pareti.
Non meno innovativa è la soluzione di accesso alla piazza, originata da un forte salto di quota
dovuto alle condizioni orografiche del suolo, risolta con una cordonata la cui lieve pendenza
contrasta con l’ adiacente ripida scala della chiesa dell’ Aracoeli.
La pavimentazione, realizzata su disegno di Michelangelo solo intorno al 1940, nasce dall’
esigenza di mettere in risalto il centro dove sarebbe stata collocata la statua, senza però
contrapporsi all’ asse longitudinale della piazza e del monumento. Viene scelto l’ovale come
forma, che riunisce in una stessa forma i principi dell’ assialità e della centralità.
c) Santa Maria degli Angeli, (1561) Roma
Ancora più interessante è l’ intervento condotto negli spazi della palestra e del
tepidarium delle terme di Diocleziano allo scopo di insediarvi la basilica.
Oggi è difficili individuare con chiarezza gli intenti originari a causa delle notevoli
trasformazioni occorse a partire dal 1564 fino all’ intervento di Vanvitelli del 1749.
Nel 1561, mentre Pio IV coinvolge Michelangelo nella vicenda, il complesso delle terme è
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stato già oggetto di un primo intervento, attuato dal sacerdote Antonio Lo Duca nel
1550. Secondo molti studiosi il suo intervento è di scarso rilievo per le successive vicende
della chiesa: per Zevi invece tale sistemazione non va sottovalutata per l’ influenza
esercitata sul successivo progetto di Michelangelo.
Numerosi artisti avevano già manifestato interesse per il complesso termale, come
Antonio da Sangallo il Vecchio che ne aveva redatto un rilevo piuttosto accurato,
proponendone la trasformazione in chiesa.
All’ epoca del coinvolgimento di Michelangelo egli aveva raggiunto una conoscenza più
profonda del mondo classico: fin dall’ inizio lo spazio di Santa Maria degli Angeli si
configura nel rispetto del complesso termale romano, anche nel suo aspetto di parziale
rovina.
Tra le due possibili scelte, privilegiare l’ asse minore (coerente con l’ antica distribuzione
delle terme) o quello maggiore (coerente con la scelta di Lo Duca), egli sceglie di
accettare entrambe le istanze.
Con semplici setti murari egli assimila alla sala del tepidarium i due ambienti estremi posti
lungo l’ asse maggiore, nonché i 4 vani angolari coperti a botte. Si ottiene così uno schema
all’ apparenza riconducibile ad una croce greca, negato dalla posizione dell’ altare a nord‐
est dietro il quale ricava un coro inaccessibile al pubblico collegato al chiostro, su richiesta
dei certosini.
Ne risulta un organismo aperto verso la città, con due ingressi posti verso la strada Pia e la
campagna, (che suggeriscono l’asse maggiore) e un terzo ingresso in corrispondenza del
vestibolo, aperto verso la rotonda (che denuncia un asse secondario, però “negato” dall’
altare).
All’ epoca dell’ intervento dell’ apparato originario sussistevano solo le otto imponenti
colonne in granito sulle quale erano impostate le 3 volte a crociera, che Michelangelo assumerà come elementi essenziali nel nuovo spazio da lui
progettato. Rinunciando ad altri ornamenti egli assegnerà proprio alle colonne il ruolo di protagoniste della composizione, conferendo alle volte
sovrastanti, semplicemente imbiancate, l’aspetto di “vele gonfiate”.
Avviati dal 1561 i lavori, alla morte dell’ artista nel 1564, sono appena all’ inizio. Già dal 1575 partiranno quelle trasformazioni che stravolgeranno il
carattere del progetto di Michelangelo, negandone sia la spazialità originaria che il rapporto con la preesistenza.
Prima dell’ intervento di Vanvitelli infatti si realizzeranno piccole cappelle lungo l’ asse minore , si isoleranno i 4 vani angolari da Michelangelo
assimilati al tepidarium e si trasformerà il coro in tribuna absidata, retrocedendo l’ altare. Tuttavia il cambiamento più evidente è la chiusura dei
due ingressi posti lungo l’ asse maggiore, evidenziando così solo il percorso lungo l’ asse minore e limitando l’ accesso alla chiesa all’ unico ingresso
posto in corrispondenza della rotonda.
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_ Nell’ arco di 15 giorni egli seleziona la parte centrale del complesso, stabilendo un’ ideale continuità spaziale tra l’aula del tepidarium e gli
ambienti adiacenti posto verso la rotonda e individuando una direttrice in corrispondenza dell’ asse maggiore, con ingresso dalla strada Pia. Sul
piano architettonico e liturgico realizza in questo spazio 7 altari per lato intitolati a 7 angeli e a 7 martiri, adattando la rotonda sud‐occidentale a
sacrestia.
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4 . ARCHITETTURA NELLE PREESISTENZE TRA CONTRORIFORMA E BAROCCO
4.1 _ Il ruolo della precettistica borromeana durante la controriforma
Durante il periodo della Controriforma si ha una complessa a articolata revisione di liturgie e apparati religiosi; ciò rappresenta una
decisa reazione delle Chiesa di Roma all’ ondata luterana diffusasi nel ‘500. La chiesa, scossa dalle basi, dovrà “riformare” i
significati, le strutture, i simboli e lo farà ricorrendo al cristianesimo dei primi secoli, intervenendo sulle fabbriche religiose del
passato. Questo tipo di intervento sarà il mezzo essenziale per riaffermare i valori cristiani, resi evidenti e trasmissibili attraverso li
apparati architettonici e figurativi.
Subito arriverà una risposta alle tesi luterane da religiosi ed antiquari, che si serviranno della scrittura per rivalutare le antiquitates
cristiane.
Nell’ opposizione alle tesi luterane in prima linea è la cerchia oratoriana che, opponendosi alla negazione luterana del valore storico
delle testimonianze materiali della passata cristianità, si interesserà alle antichità cristiane, descrivendone il passato per
tramandarlo al futuro.
Tra i primi oratoriani attivi in questo senso c’è Cesare Baronio che nel 1588 compilerà gli “Annales Ecclesiastici”, con la volontà di
descrivere il passato solo sulla base di documenta: l’ edificio di culto costituirà esso stesso una testimonianza documentaria tangibile
di eventi tali da fornire esempi ed insegnamenti nel presente; il suo restauro pertanto contribuirà a ricontestualizzare le memorie
del passato conferendo loro nuova vitalità.
La riscoperta dei luoghi e degli edifici simbolo di una cristianità remota si accompagnerà all’ immediato accaparramento dei
frammenti, sia epigrafici che umani. I resti dei martiri verranno esposti al pubblico nel punto focale della fabbrica sacra, solitamente
l’ altare maggiore, dotati come sono di valore inestimabile, non solo sul piano spirituale.
Parallelamente il fervore che si genererà verso quegli studi eruditi riguardanti, ad esempio, paleografia, epigrafia, contribuirà alla
definizione di un’ impostazione scientifica del fatto storico.
Una linea di pensiero caratterizzata da un avvicinamento razionale verso l’ antico e da una ricerca di modelli nelle origini della chiesa
contraddistingue l’ impegno, sia teorico che operativo, di Carlo Borromeo, che nel 1577 redige le “Instructiones Fabricae et
Supellectilis Ecclesiasticae”: esse rappresentano delle raccomandazioni da seguire riguardo le fabbriche religiose e gli oggetti
religiosi. La sua preoccupazione per il decoro parrocchiale, tipica problematica controriformista, è evidente fin dalle prime righe
dello scritto, dove pone sullo stesso piano gli arredi sacri e gli ambienti costruiti.
LUOGO ‐‐‐ elevato rispetto alle costruzioni circostanti, anche attraverso l’ utilizzo di alcuni gradini, in numero dispari
isolata in modo tale da allontanare rumori fastidiosi.
FORMA ‐‐‐ croce latina, anche se viene lasciata un po’ di libertà al progettista.
POSIZIONE ‐‐‐ la chiesa deve essere rivolta con l’ abside verso est, altrimenti verso mezzogiorno, ma mai verso nord.
ABSIDE ‐‐‐ deve essere coperta a volta e decorata con dipinti o mosaici;
deve presentare differenza di quota rispetto alle altre parti della chiesa.
PROSPETTI ‐‐‐ deve vigere una gerarchia: fronti laterali e intorno all’ abside privi di decorazioni;
la facciata deve risaltare, essere splendida e conveniente al luogo.
TETTO ‐‐‐ l’ intera conservazione dell’ edificio sacro dipende dalla buona messa in opera del tetto, costruito per conservare le
immagini, gli apparati religiosi, gli ornamenti e la fabbrica stessa. La costruzione del tetto è quindi tesa ad assicurare
al futuro la trasmissione della fede; Carlo quindi suggerisce anche come proteggere l’ interno della fabbrica dalle
intemperie attraverso l’ uso di legno ben stagionato, tegole di bronzo, o di piombo. Inoltre è preferibile l’ uso delle
coperture voltate rispetto ai soffitti cassettonati, per il problema degli incendi.
APERTURE ‐‐‐ è preferibile l’ uso di porte architravate piuttosto che arcuate, tali che siano distinte dalle porte cittadine;
le finestre devono essere superiormente arcuate e strombate ai lati; il numero delle aperture sulla navata deve essere
dispari e soprattutto esse devono essere poste abbastanza in alto da evitare sguardi esterni.
Dà indicazioni anche riguardo le vetrate più opportune; sono preferibili con vetri trasparenti o dipinti con l’ immagine
di un santo.
CAPPELLE ‐‐‐ le cappelle minori possono essere escluse, se lo spazio non ne consente la realizzazione, e sostituite con altari
addossati alle pareti della navata. Ciascuna cappella deve essere sopraelevata rispetto alla navata e separata da essa
mediante cancelli.
SACRE ‐‐‐ bisogna attenersi alle disposizioni del concilio, e quindi realizzare immagini dotate di una certa compostezza.
IMMAGINI Il luogo dove dipingerle dipende dalla loro trasmissibilità al futuro, e quindi non devono essere realizzate in luoghi
umidi o dove possa gocciolare acqua.
“CHIESA ‐‐‐ aula a navata unica con eventuali cappelle laterali; “chiesa interna”, ovvero ambiente alle spalle dell’ altare maggiore
PER dal quale le religiose possono assistere alle celebrazioni; atrio porticato che isola visivamente e acusticamente.
MONACHE”
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Egli inoltre sottolinea la necessità di un FILTRO fra interno ed esterno, consistente in un atrio porticato o in piccolo vestibolo,
riallacciandosi quindi a quella funzione liturgica medioevale che prevedeva un momento e un luogo di purificazione per i catecumeni
prima dell’ ingresso in chiesa. L’ arcivescovo si preoccupa molto per la conservazione della chiesa nella sua interezza; per
proteggerla dagli agenti dannosi, come l’ umidità, suggerisce aperture mobili per consentire la ventilazione.
Accanto alla figura di Carlo si colloca quello di Federico Borromeo, il cugino, che mostra una più meditata attenzione al medioevo.
I due si pongono in modo differente nei confronti del passato:
__ Carlo è nel pieno della temperie controriformista e quindi con lui si avverte un precisa volontà di rottura con la tradizione
medioevale, sigillo dell’ identità protestante; il suo approccio è quindi di tipi normativo, prescrittivo.
__ Federico invece si riavvicina al gotico, adottando quasi un atteggiamento “conservativo”.
Federico è attento agli ornamenti religiosi, e ciò è evidente sia nella prassi sia nell’ organizzazione degli interventi sugli edifici,
oggetto del “Constitutiones ad Fabricam …” emanate nel 1620. A differenza delle Instructiones del 1577 queste non affrontano
questioni architettoniche, ma pongono quale obiettivo la sistematizzazione di un apparato amministrativo interno al clero di
riferimento per ogni operazione di costruzione o di riparazione di fabbriche religiose.
L’ intervento sul già costruito appare la soluzione migliore, preferibile all’ ex‐novo, in cui incorrere solo in casi di gravi dissesti o
incapacità di accoglienza dei fedeli; egli, per ogni scelta architettonica e decorativa, si attiene quindi alle regole conciliari e alle
Instructiones Fabricae.
4.2 _ Ammodernamenti, adeguamenti e trasformazioni della “venerabile antichità” a Napoli tra ‘500 e ‘600
Il “restauro del culto cattolico” si diffonderà ben presto in tutta la penisola: gli interventi di Giorgio Vasari nella seconda metà del
XVI secolo a Firenze forniscono un esempio eloquente della ricerca di un’ immediata chiarezza nella trasmissione della liturgia.
a) Santa Maria Novella (dal 1565), Firenze
Nel cantiere di S. Maria Novella a partire dal 1565 egli prenderà le distanze dalle operazioni albertiane di un secolo prima: all’ intervento
precedente teso a condurre la preesistenza medioevale ad una moderna concinnitas egli opporrà delle trasformazioni decise, che distruggeranno il
coro e inseriranno dei tramezzi lignei nella navata centrale, allo scopo di rendere maggiormente razionale e funzionale lo spazio sacro dal punto di
vista liturgico.
b) Complesso di Monteoliveto (1544), Napoli
Anche in questo esempio precedente è evidente il superamento della classicità rinascimentale e il rifiuto verso il gotico. Egli accetterà l’ incarico di
decorare il refettorio del compelsso allo scopo di abbagliare lo spettatore con il ricorso a ricche ornamentazioni e varie figure.
Essendo il tufo un materiale molto malleabile il lavoro di Vasari risultà
facilitato: egli, senza alcuno scrupolo “conservativo” sottrarrà materia ai
costoloni e ai pennacchi per annullare la tensione delle membrature tardo‐
gotiche, a vantaggio di un’ iconografia “moderna” per tematiche e
modalità espressive. Rispettato l’ impianto rettangolare della sala con le
sue tre campate quadrangolari, Vasari incentrerà il proprio impegno
soprattutto sulle coperture voltate, di cui schiaccerà le chiavi con ottagoni
raffiguranti la Fede, la Religione e l’ Eternità.
Le spigolosità dei costoloni sono inoltre annullate da ellissi che
racchiudono le virtù che, insieme alle grottesche che si articolano tra i
medaglioni, motivo derivante dall’ esplorazione di catacombe, marcano
ulteriormente il distacco dalla preesistenza, preludendo al barocco.
Materiale usato per realizzare tutto ciò è lo stucco che, con la sua duttilità,
ben si presta all’ “abbellimento" manierista; il suo uso in questo complesso
è uno dei primi esempi in ambito napoletano.
Lo stesso materiale si ritrova nei prospetti laterali della sala, dove
sottolineerà le aperture presenti sul lato sinistro incorniciandole entro modanature e sormontandole con festoni, e risolverà illusionisticamente il
fronte opposto con finte aperture e analoghe decorazioni.
Il periodo in cui Vasari soggiorna a Napoli è contraddistinto da diversi fenomeni: la crescita demografica e i vivaci fermenti ereticali
diffusisi sia tra i ceti civili sia all’ interno dei gruppi religiosi. Immediatamente si registrerà in città l’ arrivo e l’ affermazione di nuovi
gruppi religiosi miranti a frenare l’ ondata luterana: tali nuove presenze determineranno la realizzazione ex‐novo di diversi
complessi religiosi, con la frequente demolizione del già esistente o la trasformazione radicale di preesistenti fabbriche sacre.
Un esempio è dato dall’ arrivo n città dei Gesuiti a partire dal 1552; dal 1584 riusciranno a acquistare l’ edificio del ‘400 dei principi
di Salerno Sanseverino, in piazza del Gesù e ad intraprendere un complessa opera di demolizione delle strutture precedenti allo
scopo di realizzare la nuova Chiesa del Gesù.
13
c) Chiesa del Gesù (1584‐1601), Napoli
Sarà costruita entro i limiti imposti dalla preesistente residenza civile e, in un primo momento, sarà collocata in corrispondenza della corte del
palazzo. L’ impossibilità di estendersi sul suolo pubblico della piazza e una resistenza da parte della cittadinanza determineranno il riutilizzo del
paramento in piperno a punta di diamante lungo i 3 lati perimetrali della fabbrica, rielaborato con nuovi inserti del ‘500 e del ‘600.
Il risultato sarà un’ architettura ibrida, carattere evidente già in facciata con la sopraelevazione del fronte preesistente nella parte centrale con
bugne ricavate dai prospetti laterali, chiuso in alto con volute in pietra.
La chiesa dei gesuiti appare irrisolta architettonicamente per la mancata realizzazione di un coronamento
a timpano ricurvo che avrebbe dovuto concludere superiormente la facciata.
Il portale marmoreo rinascimentale, anch’ esso appartenente alla fabbrica civile, verrà riutilizzato come
1
accesso principale della chiesa .
A rendere palese all’ esterno l’ impianto tripartito interno contribuiranno i portalini laterali e i
corrispondenti finestroni del 1598, unici elementi che, con l’ ampia, coeva aperture centrale, denunciano
l’ esistenza, alle spalle delle quinta civile, di uno spazio religioso.
4.3 _ Architetture pagane a fabbriche cristiane a confronto: S. Paolo Maggiore e la cattedrale di Pozzuoli
A sostenere l’ opera di rinnovamento religioso durante e dopo il concilio accanto ai gesuiti ci saranno i Teatini che, giunti a Napoli
nel 1533, riusciranno a ottenere una sede definitiva in corrispondenza della chiesa di San Paolo Maggiore, nel 1538. Il cantiere
teatino è in pieno clima post‐tridentino e dimostrerà la capacità di un ordine religioso di operare un aggiornato “restauro” di una
preesistenza medioevale sull’ onda della rinnovata liturgia.
a) Chiesa di San Paolo Maggiore (1580 circa)
Una plurisecolare attività d’uso contraddistingue l’ area dove sorgerà la basilica; fin dal I secolo d.C. è ivi
collocato un tempio di età tiberina sorto probabilmente su una (III sec. A.C.).
III sec a.C ‐‐‐ preesistenza religiosa di epoca sannitica
I sec d.C ‐‐‐ tempio di età imperiale, tiberina, è dedicato alla dea Partenope e ai Dioscuri (Castore e
Polluce, figli di Zeus). Si articolava secondo la consueta successione di scalinata, pronao a
sei colonne frontali e due nei risvolti, cella; il tutto si concludeva con architrave con
iscrizione dedicatoria e un ricco frontone con sculture.
VIII‐IX sec d.C. ‐‐‐ in epoca medioevale la fabbrica pagana verrà riutilizzata come chiesa cristiana dedicata a
San Paolo: la cella templare sarà conservata e suddivisa all’ interno in 3 navate separate da
colonne in granito mentre il pronao avrà funzione di sagrato.
Nei secoli successivi la fabbrica cade, ma attira ancora eruditi, artisti ed architetti.
1538 ‐‐‐ donazione ai Teatini, primo intervento provvisorio: spostamento coro dei padri alle spalle dell’
altare maggiore.
1580 ca ‐‐‐ cominciano interventi di “restauro” nel transetto e nell’ abside.
1588 ‐‐‐ allungamento verso sud e nuova navata centrale progettata da Gian Battista Cavagna, di
larghezza corrispondente alla cella templare pur se ridotta longitudinalmente rispetto alle
dimensioni attuali2. Cavagna disegnerà un prospetto verso il decumano che rispetta il
pronao tiberino.
1671 ‐‐‐ collegamento del colonnato alla facciata retrostante mediante una nuova volta o un soffitto
piano; di conseguenza buona parte degli elementi del pronao vengono perduti in seguito al
terremoto.
1688 ‐‐‐ terremoto; ci sono sollecitazioni concentrate nel pronao con spinte verso l’ esterno, che
determinano il crollo di 4 delle antiche colonne. A seguito dell’ evento Arcangelo
Guglielmelli progetterà un nuovo fronte mantenendo in sito le 4 colonne rimaste in piedi.
Di queste 4 colonne, 2 erano ancora collegate alla facciata retrostante mediante un tratto
della trabeazione romana, mentre le rimanenti giacevano libere in sommità.
1712 ‐‐‐ la condizione di precario equilibrio delle 2 colonne ne comporterà lo smontaggio da parte di
Domenico Antonio Vaccaro; il marmo antico di queste colonne, così come quello delle
sculture del frontone gli fornirà materiale da reimpiegare nei rivestimenti dei pilastri della
navata centrale della chiesa.
1
_ A partire dal 1693 verrà restaurato da Guglielmelli, con l’ aggiunta di colonne laterali in granito rosso e di un frontone spezzato coronato da una
teoria di angeli.
2
_ nei primi del ‘600 Giovan Giacomo Conforto aggiungerà le cappelle e le navate laterali, allungando la navata verso sud.
14
b) Duomo di Pozzuoli (dal 1632)
Paragonabile al cantiere teatino per le sue diacroniche trasformazioni condotte a partire dall’ età romana, confermando la funzione religiosa e la
valenza sacra del luogo può ritenersi il duomo di Pozzuoli. Il sito dove sorgerà la cattedrale puteolana affonda le radici in età repubblicana.
II sec a.C ‐‐‐ alto podio templare in tufo appartenente al Capitolium cittadino, orientato con asse maggiore in direzione nord‐sud.
I sec a.C./I sec d.C. ‐‐‐ su questi resti Lucio Cocceio Aucto imposterà una nuova struttura templare, il cosiddetto “tempio di Augusto”, ricorrendo
quasi esclusivamente al marmo di Carrara. Il nuovo edificio è pseudoperiptero (i muri esterni hanno semicolonne
addossate) ed esastilo.
Medioevo ‐‐‐ adattamento della fabbrica pagana per uso cristiano.
1490 circa ‐‐‐ Giuliano da Sangallo elabora una ricostruzione grafica dell’ edificio
nella quale esso è caratterizzato da una cella quadrata, scandita
da semicolonne esterne e lesene interne, rivestita di lastre a
bugnato piano e preceduta da un ampio pronao colonnato. Si
accedeva alla sommità del podio mediante due gradinate
parallele e addossate ai lati lunghi del tempio.
1538 ‐‐‐ eruzione Monte Nuovo; le scosse successive resero necessario un
consolidamento dell’ edificio con l’ ispessimento delle mura
perimetrali verso l’ esterno e con la copertura delle strutture
perimetrali del tempio.
1632 ‐‐‐ il “restauro” progettato da Bartolomeo Picchiatti si innesterà su
una preesistenza di epoca romana già modificata e consolidata
nel ‘500. Regista di tali operazioni è Martin Leon y Cardenas,
vescovo di Pozzuoli dal 1631 al 1650. L’ aggiornamento
architettonico ‐ liturgico del duomo, mirante ad annullare ogni
traccia della vetustà della fabbrica, sarà condotto mediante lo
sfondamento della parete posteriore della cella e la demolizione
di 3 intercolumni del tempio romano, al fine di ricavarvi l’ arco
maggiore della tribuna. In corrispondenza dell’ arco si innesterà
una nuova soluzione absidale voltata a botte. Alla navata si
addosseranno nuovi spessori murari verso l’ interno
conservando la struttura templare e si aggiungeranno cappelle
aterali scandite da pilastri. Sarà inoltre realizzata una nuova
facciata verso l’ esterno mentre lo spazio interno della chiesa
(corrispondente all’ antico naos e pronao) verrà rivestito di
stucchi e concluso da una volta incannucciata. Si tratta di un
restauro che non si risolve in ardite invenzioni, ma che si pone l’
obiettivo di ordinare e aggiornare ai dettami moderni una
fabbrica angusta; tale restauro inoltre sottolineerà la valenza
urbana della chiesa, dotandola di maggiore visibilità dall’ esterno
in seguito alla demolizione di edifici e case a essa adiacenti.
‐ volta della cappella del SS Sacramento
15
4.4 _ Antiquitates medievali e aspirazioni innovative a Napoli tra ‘600 e ‘700
A paragone con altri contesti urbani, la trattatistica borromeana giungerà a Napoli con un certo ritardo: bisognerà aspettare il
sinodo indetto dal cardinale Innico Caracciolo nel 1676 perché i rimandi al cardinale milanese diventino espliciti. Tuttavia a partire
da questa data a circolare maggiormente in ambiente campano sono altri testi, volumi “minori”, prodotti sulla scia delle
Instructiones, che verranno adattate alle contingenze locali.
Il campo edilizio è contraddistinto da atteggiamenti contraddittori, da frenetiche attività di acquisto e demolizione di strutture, di
apertura di cantieri da parte della committenza ecclesiastica, legata sia a ordini femminili che maschili.
La tendenza da parte da parte di tali ordini, durante i cantieri, di inglobare nel proprio perimetro edifici civili e religiosi attraverso
donazioni e acquisizioni porterà varie lamentele, esposte nel “Memoriale per le fabbriche di nuove chiese ed ampliazione di esse” del
1714.
L’ influenza delle raccomandazioni borromeane nei cantieri di edifici religiosi femminili è evidente: la facciata‐portico sarà un tema
ricorrente non solo nelle realizzazione ex‐novo, ma anche nei rifacimenti. La ricostruzione della chiesa di San Gregorio Armeno
(1574‐1580) si accompagnerà all’ edificazione di un pronao ad arcate lungo il cardo corrispondente.; analogamente accadde nella
chiesa dei Santi Marcellino e Festo (1626‐1633) che si proietta all’ esterno, verso lo spazio urbano, con un atrio con volte su pilastri.
Tali soluzioni hanno una duplice funzione, distributiva oltre che simbolica, in quanto consentono di alloggiare il coro delle monache
ad un livello più alto, retto dalle strutture dell’ atrio, e non visibile dall’ esterno.
In questo periodo a Napoli si registra anche la diffusione di una ricca letteratura artistica che affianca al racconto l’ immagine per
raccontare, testimoniare, trasmettere al futuro ciò che viene realizzato o che viene osservato nel presente. Tali fonti scritte
mostrano un clima culturale ancora fortemente oscillante tra apprezzamenti3 e volontà di distacco dalla memoria del proprio
passato; tuttavia si nota una diffusa indifferenza verso il patrimonio medioevale e il rispetto verso l’ architettura classica.
a) Basilica di Santa Restituta
Le vicende che caratterizzano la storia dei “restauri” della basilica nel duomo di Napoli sono complesse; la storia del luogo ha inizio in età
paleocristiana.
IV sec d.C. ‐‐‐ impianto paleocristiano con 5 navate separate da colonne e capitelli di spoglio.
XIII sec ‐‐‐ privata di tre campate e della facciata.
XIV sec. ‐‐‐ chiusura navatelle estreme per ricavarne cappelle gentilizie mentre gli archi a tutto sesto tra le colonne verranno rifatti con sesto
rialzato.
metà ‘600 ‐‐‐ tale veste, complessa e stratificata, costituita da elementi romani, medioevali e gotici sarà oggetto di contrastanti atteggiamenti,
protesi da un lato al suo aggiornamento al coevo gusto e linguaggio architettonico e , dall’ altro, alla salvaguardia dei segni del
passato. Il “moderno” e l’ “antico” si scontreranno nelle figure di Carlo Celano, segretarie del Capitolo metropolitano, e Giacomo
Cangiano, canonico della cattedrale. La querelle sarà scatenata dalla volontà del cardinale Innico Caracciolo di riavviare una
riconfigurazione in chiave barocca dello spazio medioevale, includendone le colonne entro pilastri, rivestendone superfici e capitelli
con stucchi e alterando la percezione luministica della fabbrica costantiniana mediante il ridisegno delle aperture gotiche.
Cangiano da subito si ergerà in difesa dell’ antichità della basilica invocandone la conservazione nella forma, e concedendo
interventi solo al soffitto e al pavimento, necessari per rispondere ai problemi di risalita dell’ umidità. A tal proposito Cangiano
scrive numerose lettere a Celano a partire dal 1687, con lo pseudonimo L’ Antichità, dove motiva la necessità di conservare tale
fabbrica nella sua interezza richiamando l’ esiguo numero di antichità superstiti a Napoli.
1688 ‐‐‐ terremoto.
Il dibattito avrebbe potuto ottenere risultati diversi se il terremoto non avesse arrecato alle strutture danni tali da rendere
necessario un intervento. Nonostante il dissenso diffuso il capitolo metropolitano deciderà di alterare le strutture medioevali,
affidando il compito ad Arcangelo Guglielmelli; tuttavia i conservatori non si tirano indietro e mirano a ridurre il più possibile l’
impatto del nuovo intervento. Cangiano invocherà la conservazione la
conservazione dei fusti e dei capitelli, evitando l’ apposizione di stucchi, e il rispetto
delle finestre gotiche.
Il risultato di tale dibattito sarà un progetto anomalo nel suo duplice tentativo di
mantenere in vista i segni più eloquenti della preesistenza senza rinunciare all’
ammodernamento:
_ gli archi di sinistra verranno rifatti come quelli posti sulla destra,
_ le murature della navata centrale saranno innalzate di circa 9 palmi napoletani
(2,4 m) dove verranno aperti nuovi vani rettangolari al posto delle finestre
gotiche;
_ i problemi di umidità ascendente verranno risolti da Guglielmelli che solleverà la
quota del pavimento mascherando la modifica con l’ apposizione di nuove basi‐
collarini alle colonne di destra, che non furono rimosse.
3
_ Celebri sono le critiche di Carlo Celano ai “restauri” seicenteschi effettuati in S. Lorenzo Maggiore.
16
_ egli non rinuncerà all’ esuberanza delle ornamentazioni rivestendo le murature antiche e quelle rifatte con stucchi e ridisegnando
l’arco absidale con un effimero drappo in legno dipinto, opera di Lorenzo e Nicola Vaccaro.
4.5 _ Dalla precettistica alla libertà espressiva: alcuni cantieri di restauro nei primi del XVIII secolo a Napoli
Entro una prassi coeva fortemente connotata dal “difformar molte fabbriche” stava nascendo una prima forma di contrasto alle
trasformazioni dell’ antico in ambiente napoletano già all’ alba del 1700. Di tale sensibilità sembra farsi portavoce uno dei più
“liberi” architetti partenopei, Ferdinando Sanfelice, autore di numerosi restauri ed estimatore delle vestigia antiche4.
Tuttavia nonostante l’ avvicinamento all’ antico di alcuni esponenti della classe tecnica locale, sussistono ancora molti episodi in cui
la trasformazione o la perdita della stratificazione precedente costituirà la norma.
a) abside del duomo di Napoli – (dopo il 1732)
Il restauro dell’ abside è emblematico di un atteggiamento non molto attento alle vestigia del passato.
Di fronte ai dissesti della struttura poligonale di età gotica, già compromessa dalla realizzazione del Succorpo rinascimentale, consolidata alla fine
del ‘500 e danneggiata dal terremoto del 1732, Paolo Posi inventerà una soluzione scenografica che non terrà in alcun conto le istanze di
conservazione.
In risposta alle spinte trasmesse dalla volta a crociera sulle murature perimetrali egli penserà di demolire la copertura gotica per sostituirla con una
falsa volta, più leggera, decorata da cassettoni all’ intradosso e sospesa ad un sistema di travi all’ estradosso. L’ intervento comporterà l’
abbassamento dell’arco maggiore di circa 5 metri e la parziale chiusura del finestrone centrale al fine di collocare la “macchina” barocca dell’
Assunta. Trasferirà il coro, dalla navata centrale, dietro l’ abside e di conseguenza progetterà il prolungamento del piano dell’ abside verso il
transetto mediante un ricco avancorpi circondato da una balaustra; prevede inoltre un nuovo accesso al succorpo mediante due scalinate
simmetriche disposte ad ellisse.
Anche l’ impegno sul campo di Domenico Antonio Vaccaro, così come quello di Sanfelice, si dimostrerà variabile nei rapporti con l’
antico, con soluzioni oscillanti da una volontà di conservazione a una libera reinterpretazione della preesistenza. Tale atteggiamento
mutevole è riscontrabile negli interventi progettati per il complesso napoletano di Santa Chiara, e soprattutto per la chiesa e il
chiostro monastico.
a) complesso di Santa Chiara – (dal 1739)
CHIOSTRO __La vetustà delle fabbriche e soprattutto il desiderio della regina Maria Amalia di Sassonia (moglie di Carlo di Borbone) di
ammodernare il chiostro angioino sostituendo i viali in mattoni con viali in terra battuta, saranno all’ origine del progetto di
Vaccaro. Vincolato dal recinto claustrale su pilastri ottagoni ed archi a sesto rialzato, egli progetterà un’ architettura dentro l’
architettura esistente, ricorrendo ad un disegno essenziale in pianta ma raffinato in alzato.
Egli non si opporrà all’ antico, ma dialogherà con esso individuando in primis, quale asse generatore dei nuovi viali, quello
corrispondente alla preesistente scala regia che conduce alla chiesa, e poi realizzando un sistema a croce assolutamente
indipendente dal ritmo degli archi gotici. Vaccaro richiama il motivo ottagonale dei pilastri trecenteschi nella sezione dei nuovi
piedritti, smaterializzati dalla decorazione a motivo vegetale su maiolica; inoltre realizzerà un pergolato superiore di legno.
Il sapore “naturale” dell’ insieme sarà rafforzato dall’ uso dell’ acqua presente nelle fontane disposte tra i viali minori.
BASILICA __ concluso l’ intervento nel chiostro, le religiose procederanno con il restauro della basilica trecentesca, rimasta alla metà del ‘700 tra
le poche architetture medioevale ancora leggibili nei loro caratteri angioini originari. La chiesa, a navata unica, fiancheggiata da 10
cappelle per lato, chiusa da un presbiterio, per la sua grandiosità per la preziosità delle “memorie” sepolcrali ivi contenute aveva
goduto di una grande ammirazione ancora nel ‘600. Le clarisse affideranno a Domenico Vaccaro e Gaetano Buonocore il controllo
del cantiere avviato nel 1743 fino al 1746. In questo triennio, in maniera analoga a quanto era stato fatto per l’ abside del duomo di
Napoli, verrà posta una calotta in legno in corrispondenza dell’ altare maggiore. Nascosta la copertura a capriate con un sistema di
legno e canne l’ area presbiteriale sarà ammodernata trasformando le due arcate laterali gotiche, per alloggiarvi nuovi cori intagliati
in legno, e rivestendo la volta con finti stucchi.
Tra il 1751 e il 1763 si apre la seconda fase del cantiere, durante la quale si assiste a un passaggio di direzione, a Giovanni del
Gaizo, che non comporta il cambiamento del progetto di Vaccaro‐Buonocore. Egli termina il lavoro di mascheramento delle antiche
capriate con una volta in legno e canne a sesto fortemente ribassato; tale “copertura” della navata contribuirà a diminuirne lo,
slancio ascensionale, così come la variazione del disegno delle aperture laterali modificherà la diffusione della luce nella basilica. Le
trifore delle cappelle laterali verranno tamponate per realizzare più “moderne” aperture quadrangolari sormontate da un arco
ribassato; le slanciate bifore superiori saranno sostituite da monofore e oculi.
Verrà messo in opera il rivestimento in marmi policromi dei pilastri angioini e delle balaustre delle cappelle laterali. Il risultato finale
dell’ intervento sarà uno spazio anomalo nel panorama dell’ architettura barocca napoletana, vincolato nelle proporzioni dalla
preesistenza medioevale.
4
_ il suo atteggiamento è confermato dalla posizione assunta nel 1740 in difesa delle ultime due colonne del pronao di San Paolo Maggiore,
destinate alla demolizione per volere dei teatini o dal progetto, non realizzato, per il restauro della basilica di Santa Chiara, connotato dal
rispetto per le finestre gotiche.
17
4.6 _ Preesistenze religiose e interventi di restauro nel ‘600 a Roma: Borromini e San Giovanni in Laterano
A partire dalla metà del ‘500 e per circa un secolo Roma, come Napoli, vivrà una notevole crescita demografica che si
accompagnerà alla diffusione di fabbriche e cantieri sia civili che religiosi. All’ affermazione dei nuovi ordini e all’ istituzionalizzazione
dei dettami tridentini si accompagnerà un programma urbanistico, culminante durante il pontificato di Sisto V (1585‐1590), teso
alla valorizzazione delle “antiquitates” cristiane, concepite come fuochi entro una maglia urbana rigorosa e funzionale.
Rispetto al piano sistino, più generale, più di ampio respiro, gli interventi e i programmi urbanistici effettuati nel corso del ‘600 si
caratterizzeranno per un’ attenzione più mirata a singole parti della città: ne è un esempio la riqualificazione di Piazza Navona,
promossa da papa Innocenzo X Pamphili con l’ edificazione del palazzo di famiglia, della chiesa di S. Agnese in Agone e della fontana
dei 4 fiumi. Quest’ intervento sarà vincolato solo planimetricamente dalle preesistenti strutture del Circus dioclezianeo; si esprimerà
infatti come “moderno” spazio all’ interno di una città stratificata.
In vista dell’ anno santo del 1650 verranno commissionate numerose e dispendiose imprese dal papato, come i restauri delle grandi
basiliche di Costantino, da San Paolo fuori le mura, a S. Pietro e a San Giovanni in Laterano, che non hanno solo un significato
tecnico ma soprattutto simbolico; sono finalizzate a conferire ai monumenti interessati il ruolo di punti focali di un percorso
celebrativo che intende riaffermare le radici della cristianità.
a) Basilica di San Giovanni in Laterano – (dal 1646)
L’ intervento di Francesco Borromini, operante a partire dal 1646, sarà animato dalle “discussioni” tra committenza e progettista; tale continuo
confronto porterà ad un risultato complesso per tematiche significati e linguaggio architettonico.
IV sec d.C. ‐‐ impostata su una pianta a 5 navate suddivise da colonne, la
fabbrica costantiniana aveva perso parte delle antiche strutture
in seguito agli incendi trecenteschi, cui seguiranno la sostituzione
dei piedritti della navata centrale con pilastri ottagoni raccordati
da archi e l’ apertura di finestre ogivali lungo la medesima
navata.
Rinascimento ‐‐ decorazione prospetto nord della navata principale, posa in opera
nuova pavimentazione su quella costantiniana, ricostruzione arco
trionfale.
1559/1565 ‐‐ campagna di lavori sotto il pontificato di Pio IV:
_ rifacimento del fronte interno del transetto;
_ costruzione cassettonato di chiusura della navata centrale.
1600 circa ‐‐ le navate minori sono separate da quelle estreme da colonne di spoglio in granito, sormontate da pulvini e capitelli compositi; tali
elementi rappresentano le uniche testimonianze, gli unici resti, della basilica paleocristiana e pertanto rivestiranno grande
importanza nella “restaurazione” seicentesca. L’ incarico attribuito dal pontefice Innocenzo X a Borromini sarà preciso e
circoscritto sia riguardo i tempi che lo spazio: il restauro si concentrerà nel corpo longitudinale della chiesa, lasciando
volutamente fuori dal progetto la zona absidale e il transetto (scelta conservativa).
1646 ‐‐ A differenza di quanto accadde nella chiesa S. Pietro in S. Giovanni la committenza indirizzerà l’ intervento verso obiettivi precisi
attraverso un apposito chirografo del 1647: nel documento papale è evidente l’ importanza data alla conservazione della fabbrica
nella sua primitiva forma. Borromini realizza tre progetti e progressivamente deve lasciare da parte i suoi ambiziosi propositi,
vincolato com’è dalle aspirazioni conservative del committente.
Nel progetto definitivo egli conserva il cassettonato del ‘500, e l’ intervento si realizzerà nella navata centrale, in una scansione di
pieni (ritmati da un ordine gigante di paraste e separati da arcate), e nelle navate laterali, nella successione di campate e
cappelle. Ampie finestre verranno associate alle arcate, mentre ai pieni corrisponderanno 10 tabernacoli, sovrastati da cornici e
ovali in stucco. Una diretta corrispondenza con la navata sarà definita nell’ impaginato della controfacciata, ove il riproporsi della
travata ritmica e l’ andamento concavo contribuiranno a dare una certa unità compositiva all’ intervento. Egli attuerà anche un
programma di consolidamento dell’ esistente, mediante l’ ispessimento delle murature della navata centrale che ne aumenta la
sezione resistente ma ne sposta anche il punto d’ appoggio verso fuori; per ovviare a tale problema Borromini utilizzerà dei
saettoni.
1656 ‐‐ il progetto di completamento della facciata ideato da Borromini sarà eseguito solo più tardi da un altro architetto.
Egli prevede una soluzione porticata ad unico livello anteposta al fronte della basilica; così facendo egli cita il portico preesistente
del XII secolo con colonne architravate. Egli concepisce un’ architettura contraddistinta dalla successione di 5 arcate di cui quella
centrale segnata sui lati da colonne. La volontà di mettere a confronto la preesistenza e la più moderna aggiunta si sarebbe
attuata mediante la conservazione della quinta medioevale grezza in mattoni. Egli non vedrà mai il risultato, che sarà modificato
da Alessandro Galilei che realizzerà la facciata definitiva nel 1732; riprendendo il progetto borrominiano lo allungherà in altezza,
dando vita ad un ordine gigante che copre tutta l’ altezza dell’ edificio, incorniciato da colossali pilastri di ordine composito.
L’ intero progetto si contraddistingue per l’importanza data al valore conservativo, evidente ad esempio nella volontà di
mantenere a vista la muratura paleocristiana in corrispondenza degli oculi cinti di alloro, o nel riutilizzo delle colonne
costantiniane in verde antico, asportate per poter realizzare le navatelle laterali, in altri luoghi della fabbrica, come in un
tabernacolo. Borromini quindi adatterà la preesistenza ai suoi scopi piuttosto che piegarsi di fronte ai suoi vincoli.
18
4.7 _ Bernini “restauratore” nella chiesa romana di Santa Maria del Popolo
Il grande interesse per l’ architettura connoterà il pontificato di Alessandro VII Chigi (1655‐1667) che si tradurrà in una diffusa
attività edilizia sia a scala urbana che architettonica. L’ artista prediletto dal papa è Gian Lorenzo Bernini, che riceverà da lui molti
incarichi, fino all’ impresa del colonnato di San Pietro.
Il restauro beniniano più controllato dalla committenza è quello riguardante la chiesa agostiniana Santa Maria del Popolo.
a) Santa Maria del Popolo – (1655‐1661)
Entro la preesistenza quattrocentesca egli svilupperà un programma condotto per apposizione più
che per sottrazione dell’ antico. L’ impianto si basa su 3 navate con cappelle laterali, lo spazio è
scandito da pilastri con semicolonne addossate ed è coperto nella navata princpale da crociere a
spigolo vivo.
Bernini manterrà il ritmo delle campate originario conservando le coperture delle navate; la
successione delle arcate verrà sottolineata da un’ alta trabeazione in stucco a dentelli che si piega e
segue l’ architettura preesistente, sottomettendosi ad essa nell’ andamento ma non nel linguaggio;
tale elemento ha una funzione regolarizzatrice, unificante.
Per quanto riguarda la finitura delle superfici egli elimina il più antico intonaco per realizzare un
nuovo intonaco a finto marmo cipollino, eliminato ai primi del ‘900. Inoltre ridisegna le aperture nel
corpo longitudinale trasformandole da bifore a monofore.
Il suo intervento procede quindi per giustapposizione di figure ed elementi isolati e non lo si può
vedere come un’ unitaria riconfigurazione della fabbrica: è un esempio di arricchimento decorativo.
Tale evidente volontà di abbellire la fabbrica all’ interno si accompagnerà all’ esterno in un
intervento più modesto, con limitate alterazione della facciata originaria. Bernini ridisegnerà la
scalinata d’ ingresso, più arrotondata, aggiungerà timpani sulle porte laterali e apporrà ghirlande a
nuove volute raccordanti il corpo centrale e le navatelle. Anche in facciata le bifore diventeranno
monofore mentre l’ originario rosone sarà sostituito da un oculo finestrato. Così facendo Bernini
ricondurrà la fabbrica entro lo spirito del proprio tempo.
b) Porta del Popolo – (1655 circa)
Bernini si occuperà anche della quinta civile della porta del Popolo. Il ricorso dalle volute
segnate da ghirlande costituisce il punto d’ incontro, l’ unione tra i due poli visivi della
piazza, connotando il “restauro” chigiano non solo come un intervento architettonico
ma bensì urbanistico. L’ aspetto attuale della porta è frutto di molteplici trasformazioni,
di cui quella seicentesca è una fase intermedia: l’ antica Porta Flaminia inserita entro le
mura aureliane, aveva subito un primo dissesto durante la costruzione della chiesa,
5
quando furono realizzati due torrioni addossati alla porta (poi demoliti nel 1879) . Alle
maestranze seicentesche si presenterà ad unico fornice inquadrato da una coppia di
colonne doriche trabeate e dotata di un’ attico unicamente all’ esterno. Il fronte interno
appariva incompiuto con parti fatiscenti sui lati; l’ intervento del papa pertanto si
concentrerà soprattutto su questo lato, entro un più ampio piano di allestimento
barocco della piazza. Il prospetto interno sarà arricchito da colonne libere binate
proveniente dal transetto della basilica vaticana, mentre il registro superiore sarà
caratterizzato da un’ attico sormontato da timpani spezzati reggenti ghirlande e monti
dello stemma Chigi e culminante nella cuspide tonda con la stella, altro simbolo dei
Chigi.
4.8 _
5
_ i due fornici laterali saranno aperti nel 1887 per far fronte alle esigenze del traffico cittadino.
19
“Disse non haver talento atto alle mutazioni”: Bernini e il Pantheon
Dal 1730 circa fino alla seconda metà del ‘700 il Pantheon sarà interessato da numerosi ininterrotti restauri.
Nonostante il riutilizzo a partire già dal 608 d.C. della fabbrica pagana come chiesa cristiana dedicata a Santa Maria ad Martyres, la
monolitica romanità della rotonda si porrà quale riferimento immutabile nel corso dei secoli. Sia i progetti di Urbano VIII che i
propositi di Alessandro VII si concentreranno soprattutto sul pronao e sulla volta, cercando di consolidare il più possibile. Tuttavia le
strutture del Pantheon saranno oggetto di un serie di interventi che avranno come unico scopo quello di ricavare materiale per la
fabbrica di San Pietro e per migliorare le artiglierie di Castel Sant’ Angelo: ad esempio Urbano Barberini ordinerà di fondere il bronzo
delle capriate, poi sostituite con capriate in legno.
Con la direzione di Carlo Maderno, demolito il campanile romanico preesistente, l’ impresa Castelli‐Fancelli‐Radi‐Borromini dal
1625 al 1632 ricostruiranno le torri campanarie sul blocco compreso tra il pronao e la rotonda e “restaureranno” l’ angolo sinistro
del portico, sostituendo il capitello corinzio d’ angolo con un nuovo pezzo, scolpito forse da Borromini, seguendo l’ esempio antico,
attualizzato mediante l’ ape dei Barberini scolpita a simbolo e ricordo della committenza.
Alessandro VII Chigi manterrà fino alla morte, nel 1667, la regia di una fitta successione di
operazioni realizzate mediante la consulenza di Gian Lorenzo Bernini. Si manifesta la
volontà di ricollegare la quota di calpestio della piazza con il pavimento del pronao, posto 13
gradini più in basso e di valorizzare la fabbrica adrianea con l’ eliminazione del mercato
antistante e l’ arretramento della casa dei Canonici sul lato est;questi saranno gli obiettivi
principali del pontefice a partire dal 1657.
Il ruolo assunto da Bernini appare piuttosto marginale, limitato a presiedere la commissione
incaricata del controllo tecnico‐gestionale dei lavori, senza essere citato nei documenti
come progettista o esecutore materiale. Schizzi e disegni anonimi lasciano immaginare il
desiderio della committenza di riconfigurare l’ intorno dell’ edificio con assi viari che lo
avvolgessero seguendo tracciati preesistenti o ne segnassero la prospettiva con tagli netti
confluenti sul “fuoco” visivo della fontana cinquecentesca di Giacomo della Porta.
In seguito a tali progetti verrà ultimato solamente il ribassamento di circa un metro del
piano di sedime della piazza al fine di mettere in vista le basi delle colonne. In questa fase di
lavori si colloca anche il complesso intervento strutturale condotto sul lato sinistro del
pronao a partire dal 1666 (già interessato dal restauro di Barberini): la presenza di un tamponamento murario medioevale eretto in
sostituzione di due antiche colonne costituirà un’ incongruenza rispetto al resto dell’ edificio. Il problema da affrontare è quello di
trasferire il carico del tetto da una base continua ad un sistema puntuale come quello delle colonne. Rinvenute porzioni di colonne
di spoglio nei pressi della chiesa di S. Luigi dei Francesi si pensa di riutilizzarli qui, vengono quindi trasportati mediante argani e slitte
lignee. L’ intervento prenderà il via dal puntellamento dell’ architrave preesistente e dallo smontaggio della corrispondente porzione
di copertura. Scaricato dai pesi superiori si potrà demolire il tamponamento murario e ricomporre i rocchi di colonne,
opportunamente imbracati, al loro posto. Impegnativo sarà anche sistemare i capitelli nuovi come tutti gli altri elementi dell’ ordine,
rifatti nel ‘600 riproducendo modanature e decorazioni della preesistenza; si tratta quindi di una copia nella definizione degli intagli.
Anche l’ interno sarà oggetto di interventi rivolti alla parte basamentale, all’ attico, all’ oculo. Il papa aveva intenzione di ravvivare l’
ornato della cupola e si rivolge a Bernini il quale rifiuta di eseguire la decorazione dei lacunari, perché non si ritiene all’ altezza.
I due personaggi avevano una diversa opinione sul ruolo assunto dall’ antichità e sulla sua “trasformazione”: il papa stimava e
conosceva il passato e lo riteneva uno strumento utile anche nel presente per contribuire all’ affermazione della città di Roma, che
poteva diventare più grande di quella che era stata nel passato; Bernini invece ritiene che l’ integrità e l’ autorictas che tali vestigia
possiedono non giustificava mai la libera espressione e, pertanto, egli si rifiuterà di intervenire.
Il risultato del confronto sarà un cantiere avviato da Alessandro VII e interrotto da Clemente IX, quando già un terzo della cupola era
stato ricoperto da stucchi con monti e stelle chigiani, poi fortunatamente rimossi.
5 . DAL RIUSO ALLA CONOSCENZA DELL’
20
ANTICO ‐ (ARCHEOLOGIA E RESTAURO NEL XVIII SECOLO)
5.1 _ La riscoperta dell’ antico
Alla radice delle moderne formulazioni del restauro c’è la riscoperta settecentesca di un mondo a cui l’ uomo moderno non
appartiene ma che vuole indagarlo a fondo, scientificamente. Dalla letteratura dell’ epoca si denota l’ entusiasmo per la scoperta
dell’ antichità, il senso di attesa che tali nuove esplorazioni suscitavano.
Il contatto diretto con gli originali antichi e l’ affermazione di metodologie d’ indagine basate su un approccio analitico e
sperimentale contribuiscono allo spostamento degli interessi antiquari dai valori estetici ai valori intriseci, materiali dell’ oggetto
stesso: la forma, il tipo di lavorazione, la vicenda storica che si è impressa sul dato oggetto sono i nuovi interessi. Ciò comporta
conseguenze sul modo di scrivere la storia, sul modo di esporre, sulla metodologia e finalità dell’ intervento sul preesistente.
A un’ idea di restauro come operazione artistica volta a rifare parti perdute o a ripristinare un primitivo modello via via si
contrappone un’ istanza conservativa; tale fenomeno coinvolge sia opere classiche che rinascimentali.
Tali nuove istanze conservative si fondano sulla consapevolezza che i ripensamenti e gli ultimi ritocchi dell’ artista sono strumenti
con cui l’ autore ha perfezionato e personalizzato l’ opera e che le patine sono effetto di un processo di lenta trasformazione che
coinvolge e uniforma tutti gli strati; si contrappone all’ idea di tempo‐distruttore l’idea di tempo‐pittore.
La seconda metà del ‘700 costituisce una fase fondamentale di accumulazione per la storia del restauro; sviluppo delle discipline
storiche, ampliamento dei confini del Grand‐Tour, apertura di alcuni cantieri di scavo e restauro che registrano i primi sviluppi
metodologici delle nuove discipline. E’ giunto a maturazione quel lento processo di emancipazione della storiografia da una
tradizione che poneva alla base della conoscenza i dogmi della fede; matura la consapevolezza della discontinuità con le epoche
passate, con un passato che ha dato luogo a una produzione artistica importante ma remota, finita, non ripetibile e pertanto
conoscibile con gli strumenti del presente.
Legata al rifiuto del dogma l’ emancipazione dei concetti di arte e di bello dal giudizio morale apre la strada alla ricerca di nuovi
modelli di riferimento, che vengono attinti dalla natura e dalla storia, con la conseguenza “instabilità” dell’ ordine classico: si
scelgono in tutto il passato i modelli per il presente, si estende il campo d’ azione della tutela e del restauro a manufatti di epoche
diverse.
5.2 _ La conoscenza dell’ antico tra imitazione, revival, conservazione
Figura chiave nella fase di passaggio da un approccio erudito e antiquariale a un approccio che aspira alla sistematicità è l’ abate
tedesco Johann Joachim Winckelmann. Trasferitosi a Roma nel 1755 ha la possibilità di visionare, in qualità di curatore delle
collezioni del cardinale Albani e di consulente per vari collezionisti, una varietà di reperti eccezionale per un erudito del suo tempo.
Egli progetta di sistematizzare lo studio dell’ antico attraverso un processo che parte dall’ osservazione diretta, dalla ricerca di fonti
scritte e procede per confronto dei dati così acquisiti; questo metodo gli consente di organizzare una storia dell’ arte universale
strutturata secondo partizioni cronologiche. Tale approccio richiede una notevole quantità di dati che gli studiosi settecenteschi non
avevano. Assume quindi nuova importanza il reperto autentico, i monumenti di datazione certa e arriva un nuovo impulso all’
esplorazione archeologica.
Anche la rappresentazione dell’ antichità registra significativi cambiamenti: fin dal Rinascimento le opere antiche erano considerate
un modello da eguagliare e superare, il loro studio aveva come fine l’ appropriazione del linguaggio classico; nel ‘700 invece viene
eletta quale soggetto da rappresentare la realtà storica di luoghi e edifici.
Insieme all’ ampliamento delle rotte del Grand‐Tour aumenta il numero di pubblicazioni illustrate a carattere scientifico che
documentano tali meraviglie: la più importante è sicuramente “Antiquitaties of Athens” degli inglesi James Stuart e Nicholas
Revett. L’opera è l’ esito di un lavoro di rilievo e disegno sul posto durato 3 anni e si pone quale opera paradigmatica per l’ indagine
sistematica effettuata dagli autori sulle opere antiche, fondata sull’ esattezza e l’ oggettività dei rilievi, sull’ adozione di un’ unica
unità di misura, la rappresentazione in scala. Anche le vedute rispondono esattamente alla realtà dei luoghi, non era negli intenti
degli autori modificare la realtà per renderla più piacevole all’ occhio, o realizzare vedute pittoresche.
Tale opera di può confrontare con la coeva opera di Le Roy che pubblica prima di quella di Stuart e Revett. La sua “Torre dei Venti”
di Atene è una veduta pittoresca dove l’ oggetto è la realtà storica dell’ architettura e dei luoghi; nei disegni di Stuart l’ oggetto non
è immediato ma filtrato, rimeditato, lasciando già presagire il completamento, la ricostruzione.
Altro fenomeno diffuso è l’ antico d’ invenzione, tema di esercitazioni e concorsi, ma anche commissionato ad architetti e pittori allo
scopo di promuovere l’ immagine di una raccolta, di una famiglia, di una città all’ esterno, senza specificare se ciò che viene
mostrato esiste o meno. E’ il caso di Ennemond‐Alexandre Petitot, che ha il compito di presentare all’ esterno un’ immagine
fascinosa dei ducati borbonici padani.
In questo panorama le incisioni di Piranesi esprimo un ulteriori punto di vista: gli edifici romani sono ritratti attraverso una
dettagliata analisi della tecnica muraria, dei sistemi costruttivi, delle forme di degrado.
In Piranesi convivono due diverse tendenze in perenne contrasto: una di natura fantastica, che lo induceva a trascendere dal preciso
21
particolare della fabbrica, e l’ altra di natura culturale, che induceva alla fedeltà di fronte al vero.
L’ attenzione dell’ autore si sposta dal disegno degli oggetti alla loro consistenza fisica, alla coesistenza in un contesto, dal piano
della documentazione al pianto del racconto e della rappresentazione di una grandezza passata.
Tutte queste esperienze evidenziano un’ idea dell’ antico come modello da imitare, dalla quale è ancora possibile attingere forme,
materiali e tecniche per legittimare restauri “creativi”, dove il problema delle integrazioni viene risolto in chiave storicistica, spesso
dando luogo a veri e propri pastiche.
Si va affermando un ulteriore approccio che avrà interessanti risvolti teorici e operativi nel campo dei restauri archeologici: il
riconoscimento alle antichità di un valore storico che è premessa ad interventi di semplice conservazione, di restauri “manutentivi”
improntati a minimo dispendio di energie e materiali, dove l’ integrazione non intende rivaleggiare con l’ antico ne sottometterle ad
una nuova unità formale, quanto assicurarne la conservazione dal punto di vista statico.
5.3 _ Il restauro delle antichità
Se gli itinerari tradizionali del Grand‐Tour conoscono un notevole ampliamento, Roma rimane il centro internazionale dell’ attività
antiquaria. In rapporto agli studi e alle imprese archeologiche si sviluppano una serie di attività imprenditoriali, come l’ editoria
specializzata, il mercato di autentici, copie e falsi. E’ qui infatti, a Roma, che Winckelmann elabora alcune delle sue teorie più
significative, è qui che si forma una scuola di eruditi di prestigio internazionale.
Il restauro ha una storia lunga quanto il collezionismo d’ antichità, all’ interno della quale è individuabile una metodologia che
inizialmente perseguiva l’ unità estetica, in sintonia con lo sforzo rinascimentale di eguagliare e superare l’ antichità, per poi
giungere una prassi opposta, tesa a rendere lo steso intervento integrativo uno strumento di ricerca.
Ancora fino al ‘600 l’ integrazione di un reperto era considerata operazione simile alla costruzione di una nuova scultura, anche se
durante il periodo barocco il restauro passa in secondo piano rispetto all’ attività artistica ex‐novo.
Nella seconda metà del ‘700 il rigore filologico che si vuole imporre all’ interpretazione dei reperti, il valore di documento
insostituibile che si riconosce al pezzo autentico entra in conflitto con le esigenze dei collezionisti che vorrebbero veder reintegrate
le sculture mutile.
In questo complesso contesto emergono nuovi orientamenti metodologici direttamente ispirati alle teorie di Winckelmann:
__si afferma la necessità di far precedere le integrazioni da una accurata ricerca comparativa per giungere ad una identificazione
certa del soggetto, dei caratteri stilistici e della scuola di appartenenza di un’ opera;
__si esige il rispetto della materia autentica;
__ si esige la distinguibilità delle parti aggiunte;
__ si determinano le condizioni per un lavoro sinergico tra artisti ed eruditi nel preliminare lavoro di indagine.
Anche se tra le opere di Winckelmann non ve n’è nessuna dedicata specificatamente al restauro, il suo interesse per l’ argomento è
testimoniato dalla sua attività di Prefetto alle antichità di Roma, dal suo ruolo nella formazione delle collezioni del cardinale Albani,
e dal rapporto che lo lega a Bartolomeo Cavaceppi, il principale restauratore di marmi antichi attivo a Roma nella seconda metà del
‘700. Oltre che titolare di una bottega specializzata in restauro scultoreo è autore di un trattato in 3 volumi, pubblicato tra il 1768 e
il 1772 che si pone come una sorta di catalogo dell’ attività del restauratore, che trasmette l’ idea di un professionista con notevole
esperienza.
Secondo Cavaceppi il restauratore deve saper imitare lo stile dell’ opera su cui interviene senza dover ricorrere a trattamenti
superficiali uniformanti, con i quali gli artisti contemporanei cercavano di confondere le integrazioni con le parti antiche. Suo grande
merito è aver posto l’ accento proprio su questa questione, sull’ importanza del riconoscimento del soggetto, dello stile, dell’ epoca
di realizzazione del reperto.
Tale valore di documento per la storia e modello per l’ arte riconosciuto al reperto è tutelato Attraverso norme tecniche:
__ le integrazioni non devono superare 1/3 della materia dell’ opera finita;
__ il marmo nuovo utilizzato deve essere simile a quello antico;
__ l’ integrazione deve risultare invisibile senza l’ intervento di patinature e senza levigare le superfici antiche.
Con gli inizi del nuovo secolo, con il passaggio delle consegne ad una nuova generazione di artisti come Antonio Canova e
Quatremere de Quincy, i più legittimi prosecutori dell’ attività di Winckelmann, si fa strada un’ idea di autenticità che pone nuovi
limiti alle integrazioni, e che rivendica alla conservazione dell’ autenticità un valore non inferiore alle sue qualità estetiche e
tecniche. Un esempio di tale nuovo atteggiamento è dato dalla posizione espressa dai due artisti in merito alla reintegrazione dei
marmi Elgin6:data l’ elevata qualità artistica dei gruppi scultorei l’ imitazione dell’ antico viene ritenuta impraticabile e la
reintegrazione sconsigliata. Quatremere suggerisce di lasciare i reperti frammentari come sono e di realizzare dei calchi su cui
esercitare le pratiche integrative. La conservazione senza integrazione è riservata a esemplari inimitabili, di eccezionale valore.
6
_ Collezione di statue attribuite a Fidia che in origine componevano il fregio del Partenone e che Lord Elgin aveva portato in Inghilterra a
conclusione di una spedizione archeologica.
22
5.4 _ L’ attività archeologica nel Regno delle due Sicilie
L’ attività archeologica promossa dal governo borbonico costituisce per molti versi un caso paradigmatico. Si tratta di una serie di
operazioni distinte, attuate in aree diverse e lontane fra loro, tra le quali esiste una sorta di continuità ideale, una comunità di
intenti:
__una normativa che limita il mercato antiquario, che riconosce un valore molto importante e complesso7 ai materiali estratti dal
sottosuolo, sui quali solo la Corona può riservarsi qualche diritto;
__ istituzione di un servizio decentrato per la tutela dei monumenti in Sicilia;
__ apertura dei siti archeologici vesuviani;
__ riscoperta a Paestum ma ancora di più in Sicilia di alcuni originali esemplari di architettura greca classica di notevole purezza
stilistica.
SICILIA__In Sicilia l’ azione di tutela e valorizzazione è legata all’ iniziativa di un ceto aristocratico intellettuale che avvia a proprie
spese scavi e ricerche e promuove un intervento del governo borbonico. L’ azione di tutela in Sicilia assume il significato di
una ricerca dell’ identità dell’ isola, delle sue origini, attraverso il ritrovamento e il restauro dei luoghi‐simbolo di questa
civilizzazione. La prammatica del 1755 non è estesa alla Sicilia perché a quel tempo il numero dei visitatori era ancora
modesto rispetto a quelli diretti a Napoli. Si individua un interesse più ampio per l’ azione di tutela che si caratterizza
come opera diffusa di conoscenza e di conservazione. Nel 1767 l’ ingegnere Andrea Pigonati pubblica “Lo stato presente
degli antichi monumenti siciliani”, dove divulga i disegni riguardanti i monumenti di architettura antica siciliana.
L’ oggetto del volume tende a risvegliare gli interessi del re nei confronti del potenziale archeologico ancora inesplorato di
quella terra.
Il passaggio dagli studi antiquariali ad una coordinata attività di tutela si ha con un provvedimento del 1778 con il quale si
istituiscono due Regi Custodi, uno per la Val di Noto e Valdemone e uno per la Val di Mazara; ciascun custode doveva
presentare un plano, cioè un programma delle attività di tutela:
__ Il plano del Principe Biscari (val di Noto) si pone in continuità con l’ attività di ricerca da lui svolta: si configura come
organizzazione di una sistematica esplorazione archeologica del territorio a cui si accompagnano indicazioni specifiche
per interventi volti alla valorizzazione e alla conservazione dei monumenti. Dedica maggiore impegno alle opere di
liberazione degli edifici antichi e all’ eliminazione di cause di degrado. È raro il ricorso a interventi di restauro intesi
come integrali ripristini o ricostruzioni sia per ragione economiche che tecniche.
__ il plano del principe di Torremuzza (val di Mazara) configura un proprio programma di restauri. Tra i primi interventi vi
è il restauro del Tempio di Segesta del 1781. Era caratterizzato da un peristilio molto ben conservato con i due
frontoni ancora in situ. L’ intervento è necessario a seguito dei danni subiti dal frontone orientale e da una delle
colonne che lo sorreggevano dopo un fulmine del 1761; tutto ciò andava ad incidere su una struttura già indebolita
dalla forte erosione della pietra. I lavori sono affidati a Carlo Chenchi che intende ripristinare totalmente le parti
mancanti o deteriorate con materiali, strumenti e tecniche simili a quelle del periodo classico in modo da non essere
riconosciute e in modo tale da non disturbare la complessità. Per ragioni economiche il progetto viene limitato e
verranno impiegati materiali del posto, non simili a quelli originari. L’ intervento prevederà la messa in sicurezza dell’
intera struttura con la sostituzione di due colonne, il consolidamento degli architravi, il ricollocamento dei frammenti
distaccati del fregio e della cornice e la liberazione della base del tempio dal terreno che la sommergeva in parte.
Il caso è paradigmatico perché da un lato vi è la nuova cultura archeologica che attraverso l’ imitazione dell’ antico
cerca uniformità estetica e solidità, mentre dall’ altro vi sono le ragioni economiche e la volontà di alcuni a lasciare
intatta l’ aura di antichità, che danno luogo ad integrazioni distinguibili e dal minimo intervento.
In Sicilia la riscoperta dell’ antica assume i toni e i tempi di una progressiva conquista.
NAPOLI__Ercolano, Pompei e Stabia, una volta intuito il potenziale in termini di quantità è qualità degli oggetti, vengono sottoposte
ad uno speciale regime di tutela che privilegia il pezzo unico e che sancisce il diritto esclusivo regale di sfruttamento. Nel
1755 viene emanata la Prammatica LVII che sancisce il divieto di esportazione dal Regno di Napoli, e che quindi tutela i
soli oggetti mobili.
In stretto collegamento con gli scavi nascono l’ Accademia Ercolanense e l’ Accademia, rispettivamente con funzione di
Antiquarium e luogo di studio, restauro e coordinamento scientifico; in realtà le due istituzioni rappresentano lo
strumento burocratico attraverso il quale la Corona esercita i propri diritti di sfruttamento dei luoghi, di tesaurizzazione
dei reperti, di pubblicazione esclusiva di immagini e notizie. L’ accesso ai luoghi di conservazione non è libero ma è un
7
_ è sia risorsa economica che modello per la produzione artistica che documento per la scrittura della storia, valore simbolico per l’ immagine del
Regno.
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privilegio concesso a pochi, ai quali era proibito disegnare o prendere appunti; la politica artistica dei Borbone esprime un
ritardo culturale.
La riscoperta dell’ antico non si configura come ricerca scientifica, ma gli scavi sono ridotti alla mera scoperta di cose
antiche, magari anche per contribuire ad arricchire la galleria reale. I cantieri vesuviani sono dominati inizialmente da
figure professionali spagnole provenienti dal Genio Militare che hanno un ruolo di supervisione ma che non seguono da
vicino il cantiere. Anche i responsabili valutano gli oggetti ritrovati come oggetti d’ antiquariato, considerandone solo la
qualità estetica, la fattura, la trasportabilità come parametri per poter arricchire le collezioni reali.
È proprio in questi cantieri che vengono formulati i primi nodi problematici su come staccare e trasferire pavimenti musivi
e pitture murarie, su come conservare ciò che veniva alla luce dopo tanti secoli; però si trattava comunque di problemi
che riguardavano oggetti, dipinti, sculture mentre i contesti architettonici vengono ancora violati senza alcuna attenzione
o conservazione.
___ERCOLANO___ Dal 1738 al 1780 gli scavi di Ercolano sono diretti dall’ ingegnere militare Don Roque d’ Alcubierre che
si dedica esclusivamente all’ estrazione di statue e oggetti vari; è più un cercatore di tesori che un
archeologo, con tutti i possibili risvolti negativi sui resti architettonici. Così come accadrà anche a Pompei
il terreno spostato non veniva rimosso ma accantonato sulle zone già esplorate, senza un rilievo di quanto
fosse stato già scoperto. Questa carenza di metodo viene evidenziata da eruditi, quali Winckelmann,
Scipione Maffei, e dai successori di d’ Alcubierre, che senza una documentazione del già fatto dovranno
ritornare su zone già esplorate.
Tra i rilievi fatti eseguire da d’ Alcubierre e i successivi di Bardet, Weber o La Vega c’è un’ evoluzione
metodologica sorprendente. Nei primi l’ architettura è resa in modo schematico, essendo il documento
uno strumento di comunicazione tecnica; Bardet mostra già maggiore esattezza nei rilievi mentre Weber
si rivela il più interessato alla rappresentazione grafica del luogo e dell’ architettura.
Francesco La Vega, che agli inizi degli anni ’80 sarà direttore degli scavi, custode del museo ercolanese e
membro dell’ accademia ercolanense, fa emergere un approccio nuovo alla ricerca archeologica in cui al
primo posto vi sono le finalità della conoscenza e della conservazione; appare dunque finalmente
necessaria una documentazione grafica dei luoghi esplorati, che si accompagna alla formazione di grandi
collezioni archeologiche e alla musealizzazione dei siti di scavo.
___POMPEI___l’ avvio di scavi a cielo aperto, da lasciare aperti e da rendere fruibili ai visitatori, pone problemi del tutto
inediti di conservazione e restauro. Qui trovano spontanea applicazione alcuni di quelli che oggi sono
riconosciuti come principi fondamentali del restauro: minimo intervento, rispetto della materia antica e la
distinguibilità delle aggiunte.
I primi restauri consistono in una serie di interventi di consolidamento e di messa in sicurezza di alcuni
edifici, mentre le ricostruzioni vengono limitate alle porzioni di muratura necessarie a realizzare un piano
di appoggio per le strutture di protezione. Vengono comunque scartate le ipotesi di ricostruzione
integrale di alcune case; il desiderio di vedere realizzate nella loro completezza ambienti pompeiani trova
espressione nella costruzione ex‐novo di edifici destinati ad operai, locande, ecc, imitando l’ architettura
dei luoghi.
Il governo francese, di breve durata, segnerà il passaggio dall’ intervento isolato all’ attività sistematica e programmata. A Pompei
viene acquisita l’ intera area compresa all’ interno delle mura urbiche, mentre ad Ercolano si progetta l’ avvio di scavi a cielo aperto;
nelle metodologie di scavo vengono introdotti criteri più scientifici, come la numerazione delle insule, i primi regolamenti e i primi
organi amministrativi finalizzati a controllare i restauri archeologici. In particolare una commissione mista di archeologi e architetti
stilerà un regolamento richiamando alcuni principi fondamentali come:
_ la necessità di conservare qualunque pezzo di vecchio di intonaco che si trovi;
_ la riconoscibilità delle integrazioni di intonaco e delle aggiunte;
_ limitare i nuovi intonaci a quelle zone dove può infiltrarsi l’ acqua.
Ma man mano che l’ attenzione si sposta dal pezzo singolo (scultura o pittura) agli organismi edilizi o urbani gli aspetti museografici
delle sistemazioni archeologiche prendono il sopravvento, anche sui principi di minimo intervento e distinguibilità. È il caso della
ricostruzione dell’ Anfiteatro di Pompei, progettata da Michele Arditi,attuata in parte nel corridoio ovale voltato, dove vengono
costruiti dei sottarchi in mattoni analoghi a quelli di epoca romana presenti all’ ingresso dell’ edificio.
L’ idea di un museo aperto a scala urbana si afferma sempre con maggior forza, fino a determinare un inversione di flusso dei reperti
di scavo dai depositi e dal museo verso i siti d’ origine. Ed è proprio qui che si pongono come un tema ancora più complesso i
problemi della conservazione: bisogna stabilire il confine tra ciò che necessariamente l’ edificio richiede e ciò che invece è dettato
solo dall’ arbitrio e dal capriccio.
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6 . ASPETTI DELLA CULTURA DEL RESTAURO NELL’ OPERA DI VANVITELLI ‐ (SECONDO ‘700)
Nasce a Napoli nel 1700 dal pittore olandese Gaspar Van Wittel. L’ ascendenza paterna ha un forte influsso su l’ opera di Luigi fin
dalla prime esperienze. Le inclinazioni pittoriche sono affiancate dalla passione per la scenografia, per la decorazione e quindi per l’
architettura.
Nella Roma del primo ‘700 la situazione politica europea aveva generato una stasi per quanto riguarda le grandi opere
architettoniche, e così gli architetti diedero maggior attenzione alle opere scritte, alla progettazione di architetture effimere, all’
ammodernamento di edifici per famiglie nobili, al restauro di complessi religiosi, e all’ attività d’ accademia. Sarà proprio all’
Accademia di S. Luca che Luigi presenterà i proprio disegni a Filippo Juvarra, che lo incoraggiò e influenzò molto. In questo periodo
lavora presso la fabbrica di S. Pietro, partecipa al concorso per la facciata di San Giovanni in Laterano e a quello per la fontana di
Trevi (vinti da Galilei e Salvi).
Di formazione romana, Vanvitelli diventa poi l’ architetto di re Carlo di Borbone per il quale costruirà la reggia di Caserta e alcune
opere per la nobiltà e il clero napoletani. Nel 1751 si trasferisce da Roma a Napoli determinando, insieme a Fuga, un nuovo indirizzo
per l’ architettura.
Le sue capacità tecniche lo vedranno impegnato in importanti interventi di restauro in cui le soluzioni per il consolidamento
diventeranno pretesto per interessanti elaborazioni architettoniche. Viene attratto dai resti antichi non in quanto testimonianze da
conservare quanto perché può utilizzarne i materiali di spoglio pregiati; talvolta però si mostra anche più sensibile verso l’ antico.
6.1 _ L’ intervento sulla cupola di San Pietro
A metà maggio del 1590 viene completata la costruzione della cupola ideata da Michelangelo e costruita da Domenico Fontana e
Giacomo della Porta: già a distanza di pochi decenni dall’ ultimazione dei lavori però si manifestano i primi dissesti e le prime lesioni.
Nel marzo 1743 giunge a Roma per volere di Bendetto XIV Giovanni Poleni, che riceve l’ incarico di scrivere la storia del movimento
che aveva subito la cupola e di esaminare i dissesti e gli intervento di restauro effettuati in passato. Inoltre avrebbe dovuto
elaborare il progetto dei restauri che intendeva compiere e seguire l’ andamento dei lavori, affidati materialmente a Luigi Vanvitelli.
Vanvitelli dal canto suo propone un intervento alquanto invasivo:
_ sostiene la necessità di costruire 4 speroni di sostegno posti sui piloni e di collocare mensole rovesce con statue sui contrafforti,
modificando di molto la soluzione michelangiolesca;
_ prevede l’ uso di 3‐4 nuovi cerchioni, tutti ricoperti ed incassati;
_ prevede di rinforzare i contrafforti, riducendo quindi la luce del vano
di passaggio nel sottostante corridoio.
Viene subito attaccato e il progetto finale è molto meno fantasioso e
più “collaudato”: vengono apposte delle semplici cerchiature
metalliche previste dal progetto di Poleni.
La proposta di Poleni non ha un carattere particolarmente innovativo;
si pone come un’ attenta disamina di tutte le proposte già effettuate
per arrivare a una sintesi. Egli esamina infatti il primo parere dato sulla
cupola da tre matematici francesi (Boscovich, Seur e Jacquier) e arriva
alla conclusione che lo schema statico da loro proposto non è
compatibile con l’ analisi del quadro fessurativo.
Secondo i tre matematici il crollo della cupola poteva essere
imminente ed il restauro, da realizzare con urgenza, avrebbe richiesto
notevoli modifiche architettoniche dell’opera. Secondo Poleni, la
situazione era invece meno drammatica. I difetti della grande cupola
potevano essere pienamente riparati con l’esecuzione di lavori meno
invasivi che non avrebbero modificato l’architettura dell’opera.
Egli eseguì innanzitutto una verifica statica: il procedimento da lui
eseguito consistette nel determinare anzitutto la configurazione di
equilibrio di un filo sottoposto a carichi proporzionali ai pesi dei vari
conci in cui aveva suddiviso lo spicchio di cupola, ottenuto questo
dividendo in cinquanta parti l’intero angolo giro.
La lunghezza del filo era stata fissata in modo che le sue estremità
passassero, da un lato, per il baricentro della sezione di imposta dello ‐ i 6 nuovi cerchioni disposti da Poleni
spicchio e il tratto centrale per il baricentro dell’anello terminale di chiave.
Rovesciando la curva di equilibrio del filo così determinata, Poleni verificò che la suddetta curva era tutta contenuta all’interno dello
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spicchio.
La grande cupola potette essere riparata e rinforzata utilizzando le valide tecniche
dell’epoca sotto le attente direttive di Poleni e di Vanvitelli. I lavori di consolidamento
statico consistettero nell’esecuzione di una fitta rete di sarciture8 e di ripresa di
muratura, eseguite con la sapiente tecnica del “scuci e cuci”. Vennero inoltre disposte e
messe in forza intorno alla cupola, con un sistema curato dallo stesso Vanvitelli, cinque
cerchiature in ferro. Tale sistema consisteva in due paletti a cuneo contrastanti, utili
per serrare i cerchioni intorno alla cupola.
Un sesto cerchione venne poi disposto nel 1748, dopo che Vanvitelli, durante i lavori di
consolidamento, aveva riscontrato che uno dei due vecchi cerchioni di ferro, disposti
nella cupola all’atto della sua costruzione, era risultato spezzato.
Dopo l’intervento di restauro, nei secoli successivi vennero eseguiti altri lavori di
rinforzo nei contrafforti ma di minore rilevanza rispetto all’insieme dei lavori eseguiti
nel Settecento.
Vanvitelli rimarrà sempre convinto, anche in seguito al suo trasferimento a Napoli nel
1751, che il tipo di provvedimenti adottati sia insufficiente.
‐‐ la verifica statica di Poleni: il modello
funicolare per la verifica dei carichi
6.2 _ L’ intervento sulla chiesa di Santa Maria degli Angeli
Quando riceve l’ incarico inizialmente si trova a dove affiancare Clemente Orlandi,
che concepisce una delle soluzioni che più hanno indebolito l’ impianto spaziale
della basilica: la chiusura degli ambienti che si aprivano sulla grande aula di quella
che oggi appare come una croce greca.
Nel momento in cui Vanvitelli interviene vengono alterate definitivamente le
condizioni spaziale originarie, data la volontà dell’ architetto di segnare come asse
privilegiato quello che unisce il vestibolo circolare con la zona presbiteriale.
Gran parte dell’ aspetto attuale della chiesa è dovuto a Vanvitelli:
_ le otto colonne in muratura da inserire lungo l’ asse longitudinale per imprimervi
il ritmo di una navata;
_ l’ adozione di una trabeazione e di un cornicione fortemente aggettante vuole
fornire un elemento di mediazione, ma l’ intento non è raggiunto
completamente.
L’ aspetto maestoso ancora oggi presente nella chiesa è da attribuire più alla
sopravvivenza dell’ organismo dioclezianeo che non alle successive
riconfigurazioni.
6.3 _ Il palazzo Reale di Napoli
Nel luglio 1753 Vanvitelli era già impegnato nelle prime fasi della realizzazione delle reggia di Caserta quando riceve da Carlo di
Borbone un nuovo oneroso incarico: il restauro del palazzo reale. Dopo un accurato sopralluogo si rende conto che la situazione è
complessa ma nonostante tutto egli intende portare a compimento l’ opera con rapidità ed efficacia, viste le aspettative e l’
interessamento del sovrano.
Prima di procedere col progetto egli fa eseguire alcuni sondaggi per verificare lo stato delle fondazioni: il palazzo risulta fondato
sopra terreno molle, e così decide di realizzare in corrispondenza della facciata sulla piazza profonde sottofondazioni, a circa 30
palmi sotto le antiche fondamenta. L’ intervento va a buon fine, e entro un anno dall’ inizio dei lavori il cantiere si avvia ad ultimare
la realizzazione: viene risistemata la facciata con la tamponatura alternata9 di otto delle campate dello schema elaborato da Fontana
nel 1600. Il nuovo paramento risulta avere caratteristiche morfologiche e cromatiche differenti da quello precedente: ad esempio i
laterizi anche se affini come materiale, appaiono diseguali per dimensione e colore. Per alleggerire le tamponature realizza delle
nicchie entro le quali vengono collocate statue di dimensioni eccessive.
Da sottolineare è l’ intento programmatico di Vanvitelli di conformarsi quanto più possibile all’ opera esistente: è insolito perché
proviene da chi ha usato ogni occasione di “restauro” per proporre la propria architettura, spesso anche in contrasto con le mode
imperanti.
8
Cosa è???
9
_ propone tale soluzione anche per il palazzo Orsini di Gravina, alla quale viene preferita l’ apposizione di catene metalliche per contenere le
spinte esercitate dalle volte del cortile interno.
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6.4 _ La ricostruzione della chiesa dell’ Annunziata
Tale intervento non può essere considerato propriamente un restauro, ma piuttosto un rifacimento di una chiesa realizzata nel 1540
dall’ architetto Ferdinando Manlio poi danneggiata da un incendio nel 1757.
La soluzione progettuale adottata tiene conto delle preesistenze nella realizzazione di un nuovo spazio. Egli si trova a dover
affrontare vari problemi come: la compatibilità del nuovo edificio con le parti residue; la stabilità delle nuove strutture per la cupola;
il trattamento dei resti archeologici venuti alla luce in fase di scavo delle fondazioni che, considerati elementi di disturbo, saranno
demoliti dopo un attento rilievo.
Il danno provocato dall’ incendio è notevole in quanto distrugge la copertura e parte della murature. Rimasero intatti la sacrestia, la
cappella Carafa, l’ ospedale e il conservatorio: si trattava di una istituzione di grande valore e pertanto la chiesa convoca i migliori
architetti del tempo per sanarne i danni.
Viene convocata una riunione con vari architetti che dopo aver esaminato il problema si dividono su posizioni diverse:
__ Astarita, Pollio e Gioffredo sostengono la necessità di rifare il tetto con una finta volta;
__ Manni, Canale, Fuga e Vanvitelli suggeriscono una volta in muratura, (soluzione gradita anche al sovrano).
Il progetto di Vanvitelli viene sottoposto al parere della commissione e Astarita afferma che un tale progetto non si può realizzare in
quanto si dovrebbero rifare buona parte delle murature, e non si tratterebbe più di restauro ma di rifacimento.
Il sovrano però affida l’ incarico solo a Vanvitelli e nel 1758 gli consente di riedificare la chiesa, con grande soddisfazione dell’
architetto. A breve cominciano i lavori di demolizione di ciò che rimaneva della vecchia chiesa e nel 1760 ebbero inizio le opere di
fondazione del nuovo edificio, abbastanza complesse a causa della presenza di acqua sotterranea.
Per consentire le celebrazioni religiose anche durante i lavori di ricostruzione, il Vanvitelli realizzò una chiesa sotterranea, la
rotonda, indipendente da quella superiore, anche se posta in corrispondenza della cupola.
Si tratta di un ambiente particolarissimo e assai suggestivo: seminterrato, rispetto al livello del cortile, a pianta circolare e a volta
ribassata, con sei nicchie‐altare nelle quali Vanvitelli sistemò alcune delle sculture sopravvissute all'incendio della chiesa
cinquecentesca, più due aperture diametrali per le porte che aprono il cerchio. La particolarità dello spazio interno è sottolineata da
un ulteriore cerchio interno costituito da otto coppie di colonne tuscaniche.
Il progetto di Vanvitelli consiste nel realizzare un interno a navata unica con sei cappelle laterali; lo spazio si presenta molto ampio e
prevale il principale intervento settecentesco di suddetto artista e del figlio Carlo (la disposizione delle 44 colonne corinzie che
raccordano la navata alle cappelle laterali, intervallate dalle possenti colonne binate).
Per quanto riguarda i materiali da costruzione egli dimostra grande esperienza e conoscenza tecnica nello scegliere quelli più idonei
in base alla loro resistenza o lavorabilità.
Nel 1761 sotto un pilone della cupola, durante uno scavo, Vanvitelli si imbatte in un antico colombaio10 con celle sepolcrali, verso il
quale dimostra scarsa sensibilità. Dopo attenti rilievi dei ritrovamenti demolirà tutto per procedere alla costruzione della prima
colonna di marmo, costituita da tre pezzi scanalati.
Nella chiesa superiore il vero protagonista della composizione è la cupola, nonostante lo sviluppo longitudinale dell’ area; egli dà la
massima importanza a questo elemento non tanto per eliminare la veduta a grande distanza dell’ altare e dell’ abside ma per ridurre
il numero di cappelle lungo la navata unica. È proprio la cupola che con le fasce binate e i lacunari stellati, che domina il profilo
cittadino, a connotare lo spazio interno con un disegno originale.
Gli amministratori della casa dell’ Annunziata volevano modificare il progetto sostituendo alla cupola un più economico catino.
Vanvitelli non aderì alla proposta e nel 1769 l’ incarico fu affidato a Gioffredo. Tuttavia dopo soli due anni, nel 1771, venne di nuovo
richiamato per cominciare la costruzione della cupola i cui lavori, nel 1773, data della sua morte, ancora non erano cominciati.
Vanvitelli dimostra che la differenza di spesa era talmente irrisoria da non giustificare un tale stravolgimento del progetto, essendo
la cupola parte integrante dell’ opera.
La cupola verrà costruita sotto la direzione del figlio Carlo che completerà anche la facciata, caratterizzata da un andamento
leggermente concavo e ornata con due ordini sovrapposti di colonne classiche, nel 1782.
10
_ sepoltura a parete con loculi sovrapposti.
27
7 . CONSERVAZIONE E RESTAURO NEI PRIMI DECENNI DELL’ 800 A ROMA
7.1 _ L’ avvento dei francesi e i primi programmi
Con un decreto del 1809 fu creata da Napoleone la Consulta straordinaria per gli Stati Romani che custodirà i monumenti romani a
spese del governo francese e che ha come responsabile degli Interni il barone de Gerando. La Consulta istituisce una Commissione
preposta alla tutela e al restauro dei monumenti antichi e moderni. dopo che lo stato pontificio fu annesso all’ impero napoleonico i
francesi vollero realizzare importanti opere e portare a termine i programmi già avviati da Pio VII.
Durante il governo francese (1809‐1814) furono emanati decreti che regolamentavano gli scavi e impedivano le esportazioni di
oggetti d’arte e furono affidati a Giuseppe Valadier e Giuseppe Camporesi i progetti di architettura e i controlli dei lavori da
effettuare. Valadier doveva controllare i lavori che riguardavano le mura di Roma, il Palazzo della Cancelleria, la chiesa di San
Lorenzo, le dogane, le porte e tutte le altre antichità.
Molti interventi consistevano nella liberazione delle parti basamentali dei monumenti, anche per consentirne lo studio, come
accadde per il tempio di Antonino e Faustina.
L’ amministrazione francese per far fronte ai gravi problemi di disoccupazione promosse lavori di sgombero e abbellimento che
avevano lo scopo anche di occupare molti operai. Fu quindi anche varato un decreto che consentiva a tutti i disoccupati di
guadagnarsi da vivere in questo modo; gli scavi archeologici furono quindi addossati al capitolo della beneficenza.
Dopo un mese dall’ elezione della commissione per la tutela e il restauro la Consulta, per accelerare l’ attuazione del disegno che si
era prefisso, decide di sostituire la vecchia commissione con la Commissione degli edifici civili, il cui presidente era il barone de
Tournon, già prefetto di Roma. Egli programma il restauro di tutti i monumenti sacri e civili di Roma, che ha come motivazione
principale quella di occupare la popolazione. Egli propone un p piano generale per gli abbellimenti di Roma nel 1810, da sottoporre
alla Commissione dei Monumenti. Il piano prevede diversi progetti:
__ rendere navigabile il Tevere all’ interno della città;
__ costruire un ponte per collegare due quartieri della città;
__ realizzare un lungofiume;
__ restauro monumenti antichi: tra i primi vi è la sistemazione del Foro Romano. Egli propone di trasformare il Campo Vaccino,
pieno di case e mercati, in un parco archeologico che ridia dignità all’ antico foro. La proposta è di trasformare il campo in un
giardino pubblico che, partendo dai piedi del Campidoglio, comprenda il Colosseo e l’ Arco di Costantino.
Propone la liberazione del Portico di Ottavia e la sistemazione del Teatro di Marcello; demolendo alcune case si sarebbe
ottenuta una piazza comprendente i due monumenti. Il portico di Ottavia possiede alcune colonne di rara bellezza ma è
circondato da vecchi edifici e dal mercato; suggerisce quindi di demolire gli edifici, spostare il mercato e di realizzare una piazza
che consenta di godere della bellezza del monumento.
Il teatro di Marcello fin dall’ epoca medioevale fu occupato da piccole costruzioni fino trasformarsi in un castello fortificato; nel
1500 la famiglia Savelli fece edificare a Baldassarre Peruzzi il palazzo tuttora esistente sopra le arcate della facciata. Nel XVIII
secolo ne divennero proprietari gli Orsini. De Tournon riteneva queste costruzioni successive degli atti barbari, che hanno
distrutto i resti del teatro, che ha quindi bisogno di un rimedio.
__ realizzare passeggiate pubbliche, come quella già progettata fuori piazza del Popolo. I progetti per le passeggiate, realizzati dalla
Commissione per il Retablissement du Forum, creata in seno alla Consulta, non si proponevano tanto di valorizzare i resti
archeologici quanto di creare, in ambienti naturali, percorsi ricchi di scorci scenografici; furono quindi presi in considerazione
sopratutto i ruderi antichi che concorrevano al conseguimento di tali effetti. Gli interventi più frequenti previsti per i ruderi
archeologici riguardavano la liberazione delle parti interrate , che risultano essere le meglio conservate.
Particolare attenzione merita la relazione inviata da De Tournon al barone De Gerando, commissario del governo francese, nel
1810, relativa alla conservazione delle chiese e degli oggetti mobili in esse contenuti. Egli teme che l’ abbandono di molti edifici sacri
possa determinarne la distruzione e quindi sollecita l’ amministrazione a preoccuparsi della conservazione.
Innanzitutto sostiene che le chiese possono suddividersi in quattro classi:
__ chiese antiche (S. Clemente, S. Sebastiano, Santa Susanna);
__ chiese moderne (il Gesù, la Vittoria, Sant’ Ignazio);
__ chiese che contengono affreschi o monumenti inamovibili (Trinità dei Monti, Santa Sabina);
__ chiese che non hanno alcun pregio particolare.
Egli suggerisce di non spostare i quadri che furono dipinti appositamente per essere collocati in quella chiesa e di non spogliare le
chiese dei loro ornamenti.
Dopo aver sottolineato l’ importanza che tali chiese rivestono per l’ intera Europa, termina come delle proposte concrete: chiede
che siano destinati dei fondi fissi per la conservazione di tali beni e che tutti gli oggetti mobili rimangano al loro posto.
Le considerazioni contenute in tali documenti saranno la base per la formulazione di regolamenti e leggi che verranno emanate
anche dopo la caduta dei Francesi.
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7.2 _ Gli anni di transizione e le prime prescrizioni in materia di tutela
Dal maggio 1809 al gennaio 1814 Roma è sotto il dominio francese. Con l’ insediamento del nuovo governo viene istituita la
Consulta con responsabile il barone de Gerando. Il barone svolgerà un ruolo importante di organizzazione delle trasformazione
della città antica. Egli studia la situazione della zona archeologica, i progetti e l’ esecuzione degli scavi effettuati sotto il governo
pontificio e si preoccupa di formulare nuovi regolamenti.
Per poter affrontare i problemi di conservazione dei beni dell’ ex‐ stato Pontificio i francesi cercano di conoscere tale patrimonio
inviando un questionario a tutti i comuni in cui si richiede di indicare la presenza di tali beni, il loro stato di conservazione, la loro
utilizzazione e collocazione, se pubblico o privato.
Il 1809 è dunque un anno di transizione per l’ amministrazione delle Antichità e delle Belle Arti e ciò si evince anche dal carteggio
esistente tra il segretario del ministero dell’ Interno, barone de Gerando, e il commissario dell’ Antichità, avvocato Fea.
In una relazione del 1809 egli riassume i ruoli degli addetti al patrimonio delle Antichità e Belle Arti, i lavori che si vanno compiendo,
i regolamenti, le spese in atto. L’ avvocato, riferendosi al chirografo pontificio del 1802, regolamento vigente a Roma, sottolinea l’
importanza di vietare l’ esportazione delle sculture antiche, materiale di studio e di conoscenza; se si autorizza l’ esportazione di
marmi antichi lavorati il dazio da pagare e pari al 18%, tassa necessaria per sostenere la conservazione delle antichità. Nel
regolamento è inoltre presente il diritto di prelazione da parte del governo sui beni per i quali si richiede il permesso per l’
esportazione.
7.3 _ Criteri e metodi di conservazione e restauro sotto il governo francese
Alcuni mesi dopo il loro insediamento a Roma i francesi cominciarono ad indicare i nuovi criteri di intervento e ad attuare una
politica di tutela che tende a dettare norme di carattere generale alle quali i progettisti devono attenersi.
Molto interessante a tal proposito è la corrispondenza del 1813 tra Gisors, Ispettore degli edifici civili, Martial Daru, intendente della
Corona e il barone de Gerando, Ministro del Re.
Giunto a Roma nel 1813 Gisors è attento alle demolizioni e agli scavi che si andavano compiendo e suggerisce il sistema da adottare
in quegli edifici che minacciano rovina, come l’ arco di Tito o il Colosseo, in modo tale da conciliare gusto, solidità e rispetto. Cita
quindi alcuni esempi dove i metodi adottati, seppur efficaci dal punto di vista statico, non soddisfano il lato estetico.
È il caso dell’ intervento attuato sul Colosseo sotto il pontificato di Pio VII, quando uno sperone enorme viene fatto costruire allo
scopo di prevenire la caduta di una parte del portico esterno. C’è poi l’ esempio dell’ arco di Tito, ai cui lati, per sostenerlo, si erano
addossate costruzioni orrende e anche insufficienti: fino ad allora, egli sottolinea, ci si era limitati a consolidare le rovine, senza
preoccuparsi di trasmetterne le forme e le proporzioni al futuro.
Un intervento corretto di restauro era quello effettuato sul Pantheon, dove si era rifatto l’ angolo sinistro della trabeazione e del
timpano non utilizzando il marmo. Egli dunque, rifacendosi a questo esempio, fa una proposta di carattere generale sul modo di
intervenire in tutti gli edifici e monumenti che minacciano rovina: egli sostiene che anziché puntellare, controventare le parti
vacillanti dei monumenti è meglio ricostruirne le masse nelle loro forme e proporzioni, in pietra o mattone. Ad esempio, secondo lui,
l’ arco di Tito dovrebbe innanzitutto essere puntellato e centinato in tutte le parti per poter smontare e rimontare tranquillamente
le pietre sconnesse dopo aver ricostruito le masse delle parti di piedritti di cui l’ arco era privo, in modo tale che il monumento
presenti di nuovo la sua forma e le sue primitive proporzioni. Nell'opera di liberazione, isolamento e reintegrazione delle parti
perdute dell'Arco di Tito attuata da Raffaele Stern (1818‐21) e proseguita da Giuseppe Valadier fra il 1822 e il 1824, gli architetti si
rifanno alle indicazioni fornite da Gisors.
A queste considerazioni si accompagna tutta una fitta corrispondenza tra lui, Daru e de Gerando che mostra come il ministro de
Gerando sostiene le idee di Gisors e culmina con le considerazioni sul restauro di Daru che afferma che i monumenti devono essere
lasciati intatti fino a che il tempo lo permette e che nel conservarle bisogna fare attenzione a non snaturarle. Daru quindi pone l’
accento sull’ autenticità del monumento.
7.4 _ Il rudere nel paesaggio urbano ‐ (neoclassicismo)
Fino al XIX secolo il restauro è inteso quasi esclusivamente come operazione rivolta a ripristinare edifici antichi con lo scopo di
utilizzarli e valorizzarli. In età neoclassica tale atteggiamento è assunto solo nei confronti di opere moderne mentre il rudere viene
considerato una testimonianza storica da conservare nella sua integrità fisica. Le rovine rammentano i tempo passati e assumono
per gli architetti neoclassici un maggiore “naturalezza” quando sono immerse nelle boscaglie e nella vegetazione.
Si verificano quindi episodi di realizzazione di finti ruderi volti a realizzare particolari effetti scenografici, come nel caso della
realizzazione del Tempio di Diana e di quello di quello di Faustina all’ interno di Villa Borghese. Alla vicenda costruttiva della villa
sono legati anche i progetti di Valadier per l’ ingresso di Piazza del Popolo con la passeggiata del Pincio e il progetto di Luigi Canina
per l’ ampliamento. Quest’ ultimo intervento rappresenta il risultato dello studio fatto sui giardini francesi, inglesi e anglo‐cinesi, e
risponde a una precisa scelta estetica e funzionale. Escludendo la soluzione “romantica” dei percorsi tortuosi privilegia una
soluzione più razionale che però propone ingressi che sono il risultato dell’ imitazione di forme antiche secondo i canoni dell’
29
eclettismo diffuso in tutta Europa.
Si diffonde quindi un’ estetica del pittoresco che con i finti ruderi si propone di ricreare gli effetti di quelli autentici; questa passione
per il pittoresco indurrà Stendhal a scrivere nel 1827 a proposito del Colosseo che tale monumento è più bello nel 1827, quando
cade in rovina, che al tempo del suo splendore, in quanto allora era un teatro, mentre nell’ 800 rappresenta una testimonianza
preziosa del popolo romano.
Il restauro architettonico ha inizio sul finire del XVIII secolo, precisamente nel 1794 quando la Convenzione nazionale francese
proclama il “principio di conservazione dei monumenti”. A partire da questa data si assiste allo sviluppo di vari modi di tutelare l’
opera architettonica. La prima concezione del restauro si fonda sul principio di ricomporre le parti dell’ edificio antico; è il criterio
con il quale a Roma si eseguono le sistemazioni dei monumenti classici, che vengono restaurati con metodi più rigorosi di quelli
adottati per edifici medioevali o moderni, perché o monumenti dell’ antichità sono considerati come facenti parte di un particolare
paesaggio e quindi non materialmente utilizzabili.
E proprio durante il decennio francese saranno progettate nelle zone ricche di ruderi, passeggiate archeologiche con lo scopo di
conseguire effetti scenografici.
7.5 _ Le leggi di tutela nello stato pontificio
Nel XIX secolo la situazione legislativa in Italia era molto complessa e ogni stato emanava leggi sulla tutela di beni artistici rifacendosi
alla legislazione pontificia. Ad eccezione del Piemonte ciascuno stato di preoccupò di disciplinare gli scavi archeologici e di custodire
le opere d’arte antiche per impedirne l’ esportazione.
In particolare nello stato pontificio fin dal XV secolo i papi si erano mostrati molto attenti al problema della conservazione dei
monumenti antichi: i primi editti furono emanati al solo scopo di limitarne la distruzione, mentre quelli successivi sancirono l’
assoluto divieto di esportazione dei reperti archeologici scavati.
EDITTO del 1750 – provvedimento del cardinale Valenti, riprende e conferma le disposizioni vigenti e cerca di colpire il commercio
dei falsi molto diffuso a Roma;
EDITTO del 1802 – provvedimento del cardinale Doria Pamphili, sotto il pontificato di Pio VII, con il quale l’ amministrazione dei beni
artistici viene regolata con maggiore severità. Viene ristabilito il posto di ispettore generale delle Belle Arti,
affidato al Canova. Viene confermato l’editto del 1750, viene impedito in modo assoluto l’ esportazione da Roma
e dallo Stato pontificio di qualsiasi oggetto antico e viene impedita la demolizione dei ruderi antichi che si
trovavano in proprietà private.
Viene proibito a chiunque nel costruire nuove strade o edifici rinvenisse reperti di devastarli o demolirli. Tali
disposizioni valevano anche per le sculture e le pitture. La situazione mutò durante il governo francese, quando
molte opere d’arte furono trasferite a Parigi.
EDITTO del 1820 – provvedimento del cardinale Pacca, rappresenta un caposaldo della legislazione negli altri stati prima dell’ Unità.
Partendo dall’ editto del 1802, tale editto si avvale anche di tutti i regolamenti e disposizioni elaborate durante il
governo francese. La novità dell’ editto riguarda l’ organizzazione del servizio amministrativo, perché gli organi
destinati a far rispettare le leggi erano insufficienti, e quindi le precedenti leggi non erano stato correttamente
applicate. Al commissario delle antichità (Paolo III), ai 3 assessori (cardinale Valenti) e all’ ispettore generale
(cardinale Doria), Pio VII aggiunge un corpo consultivo tecnico: la Commissione delle Belle Arti, alla quale si
aggiungevano commissioni ausiliarie nelle province. Il principale compito della Commissione era quello di
regolare gli scavi archeologici e di sorvegliare i lavori compiuti dai privati nei loro fondi. Con questa legge
bisognava denunciare qualsiasi rinvenimento nel sottosuolo di fabbricati antichi11, era vietato rompere muri e
pavimenti antichi ed era vietato rimuovere tali oggetti dal luogo originario.
REGOLAMENTO – con esso si vuole richiamare l’ attenzione delle Commissioni ausiliarie sul patrimonio artistico custodito nelle
del 1821 chiese, di cui si auspica la catalogazione. Viene inoltre ribadito il concetto che le opere d’arte, mobili o immobili,
sono beni appartenenti alla collettività. Il documento sottolinea la necessità di eseguire precisi rilievi degli scavi
senza fare ipotetiche ricostruzioni che potrebbero non corrispondere alla realtà.
11
_ la perdita del suolo veniva indennizzata all’ ex‐proprietario.
30
7.6 _ Gli interventi di Stern e di Valadier sul Colosseo
Nel 1756, quando Piranesi scrive “Le Antichità Romane”, i resti di queste andavano perdendosi per colpa del tempo e dell’ uomo, ed
egli quindi riteneva utile conservarne la memoria attraverso le proprie incisioni, volte a magnificare la bellezza di Roma antica. Tra i
temi più trattati vi è sicuramente il Colosseo, che fin dal XV secolo viene considerato solamente come una cava di travertino utile
per costruire la Roma moderna.
All’ inizio dell’ 800 nonostante fosse meta obbligata del Grand Tour versava in uno stato di totale abbandono; era coperto di erbe
ed era diventato deposito di letame e luogo di mercato.
Si decise quindi di dare avvio ad una serie di lavori di ripristino, cominciando con l’ eliminare il letame e con il consolidare le
strutture: era infatti necessario intervenire dalla parte del Laterano, in quanto quel lato minacciava di crollare. Pio VII nomina una
commissione composta dagli architetti Giuseppe Palazzi, Giuseppe Camporesi e Raffaele Stern. I tre si oppongono alla soluzione di
demolire la parte pericolante, proponendo, nel 1806, di costruire un grosso sperone in laterizio che rispondesse sia a ragioni di
ordine economico che statico, oltre a conformarsi come una opera moderna, in grado di
reggere il confronto con l’ antico. Stern propone inoltre di murare gli archi che
presentavano un ribassamento dei conci di chiave. Egli, che risulta essere il vero
responsabile dell’ opera, con la costruzione dello sperone ritiene di aver compiuto un’
opera indispensabile per arrestare la distruzione del monumento; inoltre tale opera è
degna di essere ammirata anche per sé stessa.
È proprio per consentire la vista di tale contrafforte a coloro che arrivavano da San
Giovanni che papa Pio VII ordinò di demolire alcune casupole. Stern si mostra molto
fiero dell’ opera in quanto la ritiene capace di sostenere il confronto con l’ antico: per
questo motivo realizza lo sperone in laterizio, materiale romano12.
Altro intervento nel Colosseo attuato da Stern è il tamponamento degli archi realizzato
in modo tale da lasciare i conci di chiave nella posizione che avevano assunto in seguito
al dissesto manifestatosi dopo il terremoto del 1806. Tale intervento corrisponde al
gusto romantico del pittoresco, del voler conservare l’ aspetto di rudere anche con la
tompagnatura.
Molti all’ epoca sostennero tale intervento, ma non i francesi; Gisors, allontanandosi dai
criteri seguiti da Stern, formulò nuovi principi sui quali si sarebbero dovuti basare gli interventi futuri. Circa venti anni dopo tale
intervento, nel 1826, interverrà sul lato opposto del Colosseo, Giuseppe Valadier. Già prima di tale intervento, durante il governo
francese, erano stati compiuti dei lavori più generali di sistemazione urbanistica della zona: non sono solo le casupole a
compromettere la realizzazione del piano di risanamento di De Tournon ma soprattutto la presenza di acqua che invade l’area
causando gravi dissesti.
È nel 1823 che ha inizio l’intervento di Valadier nell’ area occidentale del Colosseo,
consistente nella realizzazione di arcate in numero decrescente a partire dal basso, con
un barbacane13 per ciascun ordine. L’ intervento nasce da esigenze di ordine statico ma
persegue l’ obiettivo di rispettare il valore estetico del monumento, utilizzando
intonaco trattato a travertino.
12
_ un affresco presente nei Musei Vaticani mostra lo sperone del Colosseo imbiancato, ma ciò non è verosimile in quanto Stern essendo così fiero
della muratura in laterizio non avrebbe avuto nessun motivo per intonacarla.
13
_ contrafforte, rinforzo a forma di scarpa nella parte inferiore di un muro per sostegno.
31
7.7 _ Il restauro dell’ arco di Tito
Il monumento è probabilmente opera dell’ ultimo imperatore della dinastia Flavia, Domiziano. È giunto fino all’ inizio dell’ 800 grazie
al suo inserimento nelle fortificazioni dei Frangipane di età medioevale, anche se subì notevoli danni dovuti all’ estrazione del
marmo. Tuttavia la zona centrale, che costituiva l’ entrata monumentale della fortezza, è in buone condizioni e permane fino ad
oggi. In età medioevale fu distrutta totalmente la zona dell’ attico, sostituita con una costruzione in mattoni, ancora visibile nelle
vedute di Piranesi del ‘700. A partire dal XVI secolo, sotto il pontificato di Paolo II e Sisto IV vennero effettuati i primi restauri che
consistettero nella demolizione di alcuni edifici addossati e nella realizzazione di un contrafforte. Successivamente l’arco fu
inglobato nelle strutture del convento di Santa Francesca Romana e solo a partire dal 1812‐13 ebbe inizio l’ intervento di liberazione
che si concluse con il ripristino dell’ arco effettuato tra il 1818 e il 1824 ad opera prima dello Stern, e dopo la sua morte nel 1820, dal
Valadier.
Durante il decennio francese, con la soppressione degli ordini religiosi, si propose di demolire parte del convento addossato all’
arco, ma è dopo il terremoto del 1812 che le condizioni statiche dell’ arco diventano precarie; il restauro del monumento pertanto è
della massima urgenza e i criteri che saranno assunti sono quelli proposti da Gisors nel 1813.
Importante è la “Narrazione artistica dell’ operato finora nel ristauro dell’ arco di Tito” del 1822 di Giuseppe Valadier, documento
che rappresenta un’ indagine storica del monumento e un’ esposizione critica dell’ intervento, contenente diverse tavole illustrate.
Tale documento mostra che la metodologia adoperata era quella che faceva precedere l’ indagine storica e tecnica all’
identificazione del dissesto e delle sue cause. Nella relazione è descritto quindi lo stato di conservazione dell’ arco ad un unico
fornice che risultava mutilo dell’ attico, ad eccezione della lapide con l’ iscrizione. Erano stati asportati sia il rivestimento dei fianchi,
sia le colonne angolari, con la base; restavano in piedi lo zoccolo e una piccola parte del podio.
Egli è certo che le colonne in origine fossero poste in angolo a reggere la trabeazione sporgente14; inoltre rinviene in situ l’ architrave
del vano, posto tra gli intercolumni, che gli permette di calcolare l’ altezza del vano.
Già in precarie condizioni l’ arco minacciava di crollare; così nel 1818 si affidarono i lavori a Raffaele Stern. La sua opera riguarda la
puntellatura della struttura e la librazione di ciò che rimaneva dell’ arco, ovvero il fornice, il passaggio interno, le colonne centrali
che lo inquadravano sui due lati, e la sovrastante trabeazione sormontata dalla grande targa celebrativa.
Giuseppe Valadier nel 1822, dopo la morte di Stern del 1820, prosegue realizzando un castello di legname utile per smontare i vari
pezzi, come la lapide, e poi rimontarli, dopo averli contrassegnati: egli compie così un’ operazione di anastilosi15. Erano già stati
predisposti da Stern i pezzi che avrebbero dovuto integrare le parti mancanti, con materiale diverso dall’ originario (travertino al
posto del marmo) e quindi Valadier non fa altro che mettere in opera quanto da lui predisposto. Valadier inoltre si oppone a coloro
che avrebbero voluto realizzare delle strutture di sostegno.
Egli reimpiegò tutto il materiale lapideo originario e utilizzò il travertino al posto del marmo non solo per motivi economici ma
soprattutto per differenziare il nuovo dall’ antico.
Pertanto tale intervento si può considerare un restauro fatto con criteri moderni, per l’ impiego di materiali diverso dall’ originale,
per il rifiuto di qualunque imitazione del dettaglio e
per il rispetto dei reperti originari.
Molto criticato da Stendhal, l’ intervento fu molto
apprezzato da Quatremere de Quincy che nel
“Dictionnaire historique d’ Architecture” del 1831
afferma: “l’ arco di Tito è stato felicemente sgombrato
da tutto quanto ne riempiva l’ insieme ed anche
restaurato nelle parti mutate, precisamente nel modo
e nella misura che abbiamo indicato”.
14
_ gli sono d’ aiuto gli archi di Traiano di Benevento e Ancona.
15
_ tecnica di restauro con la quale si rimettono insieme, elemento per elemento, i pezzi originali di una costruzione distrutta, per esempio dopo un
terremoto.
32
8 . TRASFORMAZIONI DELL’ ARCHITETTURA E DELLA CITTA’ DURANTE IL DECENNIO
FRANCESE A NAPOLI
In seguito alla scoperta di Ercolano e Pompei e alla fondazione nel 1755 dell’ Accademia Ercolanense le istanze neoclassiche erano
già diffuse a Napoli, ma in architettura bisognerà attendere il decennio francese (1806‐1815) per assistere all’ affermazione del
neoclassicismo.
Nella Napoli di fine ‘700 si vive un momento di transizione politico‐storico che si riflette in architettura. Dopo la morte di grandi
protagonisti come Vanvitelli, Fuga e Gioffredo nei primi decenni dell’ 800 si assiste soprattutto al completamento di opere
monumentali, ma anche all’ incremento di costruzioni pubbliche e private e ad un assetto urbanistico con la realizzazione di nuove
strade.
Con la venuta di Giuseppe Bonaparte prima (1806) e di Gioacchino Murat dopo (1808) si attuò una generale riforma con la quale
vennero modificati secondo gli orientamenti francesi sia gli ordinamenti politici, giudiziari, amministrativi sia le istituzioni vigenti.
GIUSEPPE BONAPARTE __ nel 1806 istituisce il Ministero dell’ Interno che si occupava dell’ amministrazione civile. Viene conferita al
regno una struttura amministrativa simile a quella francese, basata sulla suddivisione in province ciascuna
con un proprio capoluogo. Ogni provincia era dotata di un Consiglio di Intendenza, presieduta da un
intendente. La struttura amministrativa riguardante le opere pubbliche venne modificata con l’ istituzione
nel 1807 del Consiglio dei Lavori Pubblici.
GIOACCHINO MURAT __ subentra a Giuseppe nel 1808. Subito istituisce a Napoli il Corpo degli Ingegneri di Ponti e Strade e nel
1811 la relativa Scuola di Applicazione che avrebbe dovuto formare in pochi anni nuovi ingegneri
(presente in Francia con il nome di Ecole des Ponts et Chausses). Da questa scuola usciranno notevoli
figure professionali, come Stefano Gasse e Giuliano de Fazio.
Nel 1809 viene fondata la Società Reale di Napoli divisa in tre sezioni: Accademia Ercolanense di
Archeologia, Accademia di Scienze e Accademia di Belle Arti16.
La pittura è considerata una cosa importante e nel 1809 il Ministero dell’ Interno sottolinea l’ importanza
di “realizzare una storia” della pittura napoletana: nel 1809 viene emanato un decreto che ordina una
collezione di pitture di autori napoletani nel Palazzo dei Regi Studi sotto il nome di Galleria di Pittori
napoletani. Si nutrono timori in merito alla possibile sottrazione di opere pittoriche e scultoree dai
complessi religiosi (dopo la soppressione degli ordini): si emana un decreto nel 1806 che prescrive la
compilazione di un inventario di tutto quanto contenuto in ciascun monastero con l’ obbligo di conservare
tali beni.
Quindi dopo il periodo di stasi edilizia successivo alla rivoluzione del 1799 con il decennio francese si assiste ad un incremento delle
costruzioni e delle opere urbane: l’ atteggiamento assunto dagli architetti in questo periodo di fronte ai ruderi è sicuramente più
conservativo rispetto a quello adottato nei confronti degli edifici monumentali; non hanno ancora preso coscienza del valore di tali
beni e, molto spesso, non esitano a sacrificarli del tutto o in parte per la realizzazione do nuove strade o l’ allargamento di quelle
antiche. Durante tale decennio grande interesse viene rivolto alla configurazione urbana mediante la sistemazione di alcune strade e
la realizzazione di nuovi collegamenti tra il centro e l’ area orientale.
8.1 _ Istituzioni culturali e strutture amministrative
Le istituzioni che consentirono di formare gli architetti, che operarono anche dopo la restaurazione borbonica, e di controllare l’
attività edilizia sono il Pensionato napoletano di Architettura (1813‐1875), la Scuola di applicazione di Ponti e Strade e il Consiglio
degli Edifici Civili (1806), preposto al controllo dell’ edilizia.
PENSIONATO __ istituzionalizzato con un decreto del 1813, posto sotto il controllo del ministero dell’ interno, fornisce ad artisti
meritevoli borse di studio per completare gli studi a Roma. Ispirato al francese Gran Prix de Rome durava 5 anni.
SCUOLA DI __ fondata nel 1811 doveva formare nel giro di pochi anni la classe di professionisti appartenente al Corpo degli
PONTI E Ingegneri di ponti e strade. Il direttore è il generale del Genio militare Jacques David de Campredon che, seguendo
STRADE il modello francese, contraddistingue l’ istituzione col centralismo e il controllo del territorio.
Anche se furono realizzate importanti opere pubbliche, come l’ Osservatorio e l’ Orto Botanico, numerosi furono gli interventi sulle
preesistenze in seguito alla soppressione degli ordini religiosi: ciò portò ad un razionale utilizzo dei grandi complessi conventuali ma
anche ad alcune perdite del patrimonio artistico napoletano.
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_ per l’ Accademia di Belle Arti, fondata da Carlo di Borbone nel 1752, durante il decennio francese viene avviata una grande riforma, con la
creazione nel 1806 della cattedra di Architettura.
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8.2 _ Le opere pubbliche
Così come accadde a Roma molte opere avviate dai francesi furono portate a termine dopo la restaurazione e rivestirono grande
importanza per lo sviluppo della città. Opere di questo tipo sono le grandi strade, come Corso Napoleone (oggi via Santa Teresa
degli Scalzi e corso Amedeo di Savoia) che dal Museo raggiunge la collina di Capodimonte scavalcando il vallone della Sanità con un
ponte. La realizzazione di questa arteria rientra nei provvedimenti urbanistici promossi da Giuseppe Bonaparte che riguardarono l’
apertura di tre sistemi viari:
__ tracciati viari per la collina di Capodimonte;
__ collegamento tra Napoli e Aversa;
__ perimetrazione del Bosco di Capodimonte; realizzazione di una strada lungo i fondi appartenenti al sovrano.
Un ‘ altra opera importante è la strada di Capodichino e il raccordo con la via Appia: costruita in tempo brevi, da 1811 al 1814, fu
caratterizzata da importanti interventi tecnici, come tagli del monte, costruzione di due ponti e opere di consolidamento per l’
intero tracciato. Inizialmente il progetto era di Stefano Gasse e Gaetano Schioppa, ma il loro lavoro non soddisfò il ministro dell’
interno, che non vi trovò soddisfatte le qualità paesaggistiche: succeduti da Giuliano de Fazio e Luigi Malesci, re Gioacchino
collaborò per disegnare il tracciato.
Tra gli architetti più attivi durante il decennio vi è sicuramente De Fazio, architetto municipale appartenente al Corpo degli Ingegneri
di ponti e strade.
8.3 _ La soppressione degli ordini religiosi e la costruzione del mercato nel complesso di Monteoliveto
Nel 1807 fu promulgata la legge di soppressione degli ordini religiosi che agevolò la sistemazione urbanistica della città a danno
talvolta del patrimonio artistico. Furono demolite fabbriche religiose o adibite a nuove funzioni, come:
__ il complesso di San Marcellino e Festo adibito nel 1808 a educandato femminile;
__ il convento di San Pietro Martire diventa manifattura tabacchi;
__ il complesso del Gesù Vecchio viene trasformato in museo mineralogico e collegio reale;
__ il complesso di Monteoliveto che viene trasformato in mercato, inserito all’ interno del giardino. Costruito in seguito all’
emanazione del decreto del 1807 che prevedeva la realizzazione di 4 mercati, realizzato da Stefano e Luigi Gasse, costituisce un
importante opera pubblica rimasta in funzione per tutto l’ 800 distrutta negli anni ’30 per la realizzazione del Rione Carità.
Inizialmente si volevano utilizzare gli edifici esistenti intorno al giardino, ma poi si preferì inserire una nuova struttura all’ interno
del giardino che in pianta si sviluppava in un rettangolo e in un’ esedra semicircolare costituita da colonne senza basi con il fusto
in mattoni e il capitelli e la parte inferiore in piperno.
Fu considerato uno dei migliori mercati d’ Europa per la soluzione a corte chiusa verso l’ interno con due soli ingressi che
garantivano maggior controllo. La struttura era nata per risolvere problemi igienici, raccogliendo tutti i venditori sudici di via
Toledo, e il progettista adoperò un linguaggi architettonico ispirato dai temi in uso a Pompei ed Ercolano nel Foro, nella palestra,
nel peristilio delle domus.
Episodi che riguardarono il tessuto preesistente della città:
__ sistemazione della Riviera di Chiaia, 1813, consentì la realizzazione di un recupero urbano con la ristrutturazione di alcune
facciate e la razionalizzazione di attività poco decorose, come quelle delle lavandaie o dei pescatori, ad opera di Francesco
Maresca.
__ rettifica di Via Foria, tra il 1808 e il 1815, ad opera di Stefano Gasse e Gaetano Schioppa. Vengono demoliti due isolati, costruiti
nuovi edifici e ristrutturati altri allo scopo di realizzare un fronte stradale omogeneo.
__ piazza di fronte al Palazzo reale, viene ordinata con un decreto del 1806, ma solo nel 1809 viene bandito un concorso pubblico
che aveva per oggetto anche la realizzazione di una sala per assemblee popolari. Il concorso fu vinto da Laperuta, e con l’ inizio
dei lavori furono demoliti edifici religiosi, come la chiesa di Santa Maria a Cappella o i monasteri di San Luigi e Santo Spirito, e
furono costruite le fondazioni. Al ritorno dei Borbone i lavori furono interrotti e nel 1816 un nuovo concorso bandisce la
realizzazione di una chiesa, che verrà eseguita da Pietro Bianchi.
Al loro rientro i Borbone tennero conto dei programmi e dei progetti avviati dai francesi e diedero incarichi a professionisti già
impegnati col passato governo: è il caso di Antonio Niccolini che chiamato da Roma prima dell’ arrivo dei francesi, come scenografo
del San Carlo, rimase ad occuparsi del teatro, rinnovandone le decorazioni e rifacendo la facciata, aggiungendo l’ atrio e il portico
antistante.
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8.4 _ Il ponte della Sanità
I francesi per realizzare grandi opere a livello urbanistico sacrificarono anche importanti monumenti, come nel caso del complesso di
Santa Maria della Sanità. Appena giunto a Napoli Giuseppe Bonaparte volle realizzare, nel 1806, il prolungamento di via Toledo fino
a Capodimonte; l’ arteria prese il nome di Corso Napoleone, che collega direttamente la città al sito reale.
In seguito a tale decisione l’ area urbana della zona delle Vergini e della Sanità subì una notevole trasformazione e l’ importante
complesso di Santa Maria della Sanità venne stravolto.
XVI secolo __ fondazione da parte dei domenicani, progettato da Fra’ Nuvolo nel 1602. L’ intero complesso rimase inalterato fino all’
arrivo dei francesi;
1808 __ il monastero di Santa Maria della Sanità viene soppresso e i lavori per la realizzazione del corso proseguirono con la
realizzazione del ponte. Per concludere questi lavori si sacrificò una parte del borgo e del monastero; di quest’ ultimo
fu demolita la parte superiore, furono rasi al suolo il chiostro rettangolare e gli ambienti a nord, conservando il lato
sud. A tutto ciò si aggiunse la manomissione del chiostro ovale che venne diviso in due dai piloni del ponte.
Il progetto originario, di Avellino e Leandro, prevedeva il miglioramento dell’ antico percorso, mediante la
realizzazione di un passaggio attraverso una cavità nel monte ad ovest della piazza che il progetto prevedeva in
corrispondenza dell’ attuale tondo di Capodimonte. Il progetto non fu approvato e il sovrano emise nel 1807 un
decreto di approvazione dell’ apertura di una strada rettilinea che con un ponte sovrastasse il vallone della Sanità.
Ha prevalso dunque la volontà di realizzare un’ opera imponente a scapito di un rione che è rimasto tagliato fuori e di un
monumento la cui valenza architettonica non è stata presa in considerazione. Ciò non è da attribuire esclusivamente al Leandro, ma
piuttosto al clima culturale di allora, che aveva trovato nei francesi gli esecutori di un piano organico per l’ urbanistica dell’ intera
città.
8.5 _ La tutela del patrimonio artistico e archeologico
Durante il decennio si assiste ad una attività istituzionale rivolta alla tutela del patrimonio storico‐ artistico, in prevalenza quello
archeologico e quello delle opere d’arte mobili. Il ministero dell’ interno si occuperà dei monumenti, dell’ istruzione, degli scavi, dei
musei e delle accademie.
Viene promulgata una specifica legislazione per razionalizzare gli scavi delle antiche città vesuviane: nel 1807 il re fa sospendere
tutte le operazioni di scavo in attesa che venga formulato un regolamento. Nel 1808 viene emanato un regolamento che recepisce il
piano dell’ Arditi: Michele Arditi, sovrintendente generale degli scavi dal 1807 al 1837 viene incaricato di redigere un piano sugli
scavi del regno, che aveva come scopo anche quello di controllare gli scavi effettuati dai privati.
Grande impulso agli scavi fu dato soprattutto durante il regno di Gioacchino Murat, la cui moglie, Carolina Bonaparte, era
interessata alle scoperte archeologiche anche perché con essi arricchiva la propria collezione privata.
In questo decennio si avvia una vera e propria metodologia che prevede l’ istituzione di un giornale per divulgare i risultati degli
scavi e la numerazione delle insulae.
In quel periodo venne acquistata tutta l’area di Pompei e vennero accelerate le opere di sterro e di restauro; la preoccupazione
maggiore era data dagli interventi che consistevano in aggiunte di parti nuove che toglievano il carattere all’ antico. Fu quindi
emanato un regolamento di carattere tecnico che anticipa molti dei principi ancora oggi in uso.
Un altro problema che fu affrontato dai francesi fu la salvaguardia dele opere d’arte, quasi esclusivamente pittoriche, contenute nei
monasteri soppressi: nel 1806 fu emanato un decreto per evitare che il patrimonio acquisito dallo stato venisse soppresso: si stabilì
di inventariare e mettere in deposito tali beni fino alla selezione dei migliori da portare al museo reale.
Non tutti erano d’ accordo con il togliere i quadri dalle chiese e metterli in deposito senza restaurarli.
Giuseppe Mazzucca, avvocato, inviò al ministro Zurlo un memoriale in cui sostiene la necessità di conservare anche i beni immobili;
è preferibile conservare tali beni piuttosto che i musei, in quanto gli oggetti ivi contenuti separata dal luogo d’ origine perdono parte
del loro interesse, mentre i beni immobili possono durare nel tempo con costante manutenzione.
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