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riassunto
Introduzione
I segni e le opere umane sono delle testimonianze perché esprimono idee distinte dai
processi del far segni o del costruire > queste testimonianze hanno perciò la
caratteristica di uscire dalla corrente del tempo, ed è precisamente in questo aspetto
che sono studiate dal umanista, che è fondamentalmente un teorico. Anche lo
scienziato ha a che fare con documenti umani, in particolare con le opere dei suoi
predecessori, ma egli le considera non come qualcosa da indagare, ma come qualcosa
che aiuta la sua stessa indagine. in questo modo mentre la scienza cerca di trasformare
la caotica varietà dei fenomeni naturali in quello che potrebbe dirsi Il cosmo della
natura, le umane cercano di trasformare la caotica varietà delle testimonianze umane in
quello che potrebbe dirsi Il cosmo della cultura > ci sono tuttavia alcune analogie tra i
problemi di metodo che deve affrontare lo scienziato e quelli che deve affrontare
l'umanista:
- in entra entrambi il processo di ricerca sembra cominciare con l'osservazione,
che non si limita alla semplice osservazione del materiale, ma, dirigendo la loro
attenzione verso certi oggetti, entrambi obbediscono ad un principio di
preselezione.
- Il cosmo della cultura, come quello della natura, è una struttura
spazio-temporale: le testimonianze devono essere datate e localizzate, due
fenomeni storici sono contemporanei solo nella misura in cui possono essere
rapportati all'interno di un certo ambito di riferimento > se questo manca, il
concetto di contemporaneità risulterebbe senza significato sia nella storia sia
nella fisica.
- il secondo passo, dopo l'osservazione dei fenomeni naturali e dell'esame delle
testimonianze umane, è quello di decifrare le testimonianze, in fine i risultati
devono essere classificati e coordinati in un sistema che “abbia un senso” >
quando lo scienziato osserva un fenomeno usa strumenti che sono essi stessi
soggetti alle leggi naturali che gli vuole indagare, quando l'umanista Esamina una
testimonianza usa documenti che sono stati a loro volta prodotti nel corso del
processo che gli vuole investigare > es. supponiamo che io trovi negli archivi di
una cittadina della renania un contratto datato 1471 è integrato da note di
pagamenti da cui risulti che un certo pittore locale ha avuto l'incarico di eseguire
per la chiesa cittadina un polittico con determinate caratteristiche, supponiamo
ancora che io trovi in quella stessa chiesa un polittico che corrisponda a questo
stesso contratto > questo è il caso di documentazione più semplice è chiaro che
si possa sperare. Molto meno semplice è il caso in cui si trattasse di una fonte
indiretta, il documento può essere una copia, un originale o un falso > per
arrivare a un minimo di certezza noi dobbiamo controllare il documento con altri
di analoga data e provenienza. In questo caso, il polittico è l'oggetto
dell'indagine=materiale primario,mentre il contratto, inteso come documento,
è uno strumento di indagine = materiale secondario. Uno storico dell'arte è,
allora, un umanista il cui materiale primario è costituito da quelle testimonianze
che ci sono pervenute in forma di opera d'arte.
Che cos’è un’opera d’arte? L'opera d'arte non sempre è stata creata esclusivamente
per essere goduta o esperita esteticamente, ma un'opera d'arte ha sempre un
significato estetico (che non vuol dire valore estetico). Ogni oggetto, sia Esso naturale
opera dell'uomo, può essere esperito esteticamente > di fronte a un oggetto naturale è
decisione puramente personale scegliere il piano estetico oppure no, un oggetto che sia
opera dell'uomo richiede di essere affrontato su quel piano oppure no, In quanto
possiede l’intenzione.
Gli oggetti prodotti dall'uomo che non esigono di essere esperiti esteticamente sono
comunemente chiamati pratici e si possono dividere in due classi:
1. veicoli di comunicazione, il quale è preordinato a trasmettere un concetto
2. utensili o apparecchi, è preordinato a compiere una funzione.
Le opere d'arte appartengono anche a una di queste due classi: una poesia o un quadro
storico sono, in un certo senso, dei veicoli di comunicazione, il Pantheon è un
apparecchio e le tombe michelangiolesche di Lorenzo e Giuliano de' medici sono in un
certo senso l'una e l'altra cosa.
C'è però una differenza: nel caso del semplice veicolo di comunicazione e semplice
apparecchio, l’intentio (intenzione) è chiaramente fissata sull’idea di lavoro, cioè di
trasmettere o assolvere qualche funzione > nel caso dell'opera d'arte l'interesse per
l'idea trova un contrappeso nell'interesse per la forma. L’intentio non può essere
determinata con assolutezza e con precisione scientifica, In secondo luogo, le intenzioni
di coloro che producono oggetti sono condizionate dalle convinzioni della loro epoca e
del loro ambiente.
NB. quanto più il rapporto tra l'importanza assegnata L'idea è quella assegnata alla
forma è vicino all'equilibrio, maggiore è l’efficacia con cui l’opera rivela il suo contenuto.
Il contenuto, in quanto opposto al soggetto, può essere definito, usando le parole di
Pierce, come ciò che l'opera lascia trasparire, ma non ostenta > è cioè l'atteggiamento di
fondo di un popolo, di un periodo, di una classe, una convinzione religiosa o filosofica.
Definendo l'opera d'arte come un manufatto umano che esige di essere esperito
esteticamente ci troviamo per la prima volta di fronte a una differenza di fondo tra
discipline umanistiche e scienza. lo scienziato, studiando i fenomeni naturali, può
procedere immediatamente ad analizzarli, l'umanista invece, occupandosi di azioni e
creazioni umane, deve impegnarsi in un processo mentale sintetico e soggettivo > Egli
deve mentalmente rifare le azioni e ricreare le creazioni. Lo storico dell'arte costituisce
quello che è il suo materiale mediante un processo intuitivo estetico di ri-creazione,
che comprende la percezione e la valutazione della qualità.
Chiunque, messo di fronte a un'opera d'arte, viene interessato dai tre elementi
costitutivi di essa: la forma materializzata, l'idea (nelle arti plastiche il soggetto) e il
contenuto. È l'unità di questi tre elementi che si realizza nell'esperienza estetica >
l'esperienza ri-creativa in un'opera d'arte dipende perciò non solo dalla sensibilità dello
spettatore, ma anche dalla sua attrezzatura culturale > tra l’osservatore ingenuo e lo
storico dell'arte c’è una sola differenza, cioè che quest'ultimo è consapevole della
situazione. Egli sa che il suo bagaglio culturale è diverso da quello degli abitanti di un
altro paese è di un'altra epoca, cerca perciò di ovviare a questo, apprendendo quanto
più possibile sulle circostanze in cui gli oggetti dei suoi studi sono stati creati al fine di
giungere a un giudizio più oggettivo della qualità dell'opera. Operando in questo modo,
la percezione estetica dello storico dell'arte si adatta sempre di più alla intentio originale
delle opere > così quello che fa lo storico dell'arte, in quanto opposto all'appassionato di
arte “ingenuo”, consiste nello sviluppare le sue esperienze ri-creative in modo da
adeguarsi ai risultati della sua ricerca archeologica.
La ricerca archeologica è cieca e vuota senza la ri-creazione estetica, e la ricreazione
estetica è irrazionale e spesso smarrisce se non è accompagnata dalla ricerca
archeologica, perciò sostenendosi a vicenda queste due attività possono sostenere un
sistema che abbia un senso, cioè una sintesi storica.
Questi atteggiamenti non devono essere confusi con l’attività del conoscitore o con la
teoria dell’arte. Il conoscitore è il collezionista, il funzionario di museo o l’esperto che
volutamente limita il suo contributo alla cultura dell’identificazione delle opere d’arte
relativa alla loro data, provenienza e autore o alla valutazione di esse in merito alla
qualità e allo stato di conservazione. La differenza tra il conoscitore e lo storico dell'arte
consiste nel fatto che il conoscitore considera secondaria l'elaborazione di una
concezione storica e mette l'accento sugli aspetti sopra citati, lo storico dell'arte invece è
portato a rovesciare l'importanza di questi aspetti. Allo stesso modo, formulare e dar
forma ai problemi artistici, che naturalmente non si limitano alla sfera dei valori formali,
ma includono anche la struttura stilistica del soggetto del contenuto, è compito della
teoria artistica, non della storia dell'arte.
Si può dire che la storia dell'arte è degna di essere annoverata tra le discipline
umanistiche, ma cosa servono queste discipline?
Sia le discipline umanistiche, che le scienze, hanno come loro raggio d'azione quella che
gli antichi chiamavano vita contemplativa contrapposta alla vita activa, Chi conduce vita
contemplativa non può fare a meno di influenzare la vita attiva, così come non può
impedire alla vita attiva di agire sul suo pensiero > teorie filosofiche e psicologiche,
coperte di ogni genere, hanno mutato e continuano a mutare la vita di milioni di
persone, perciò è impossibile concepire il nostro mondo esclusivamente in termini di
azione; la nostra realtà può essere compresa solo come interpretazione di atti e di
pensieri. Ammessa l'importanza di entrambi questi aspetti, perché dovremmo
interessarci del passato? Perché ci interessiamo alla realtà, non c’è nulla di meno reale
del presente. Per cogliere la realtà dobbiamo staccarci dal presente > la filosofia e la
matematica fanno questo costruendo sistemi in un elemento che per definizione non è
soggetto al tempo e, probabilmente, qui tocchiamo la differenza più sostanziale tra le
discipline umanistiche e la scienza. La scienza osserva i processi (soggetti al tempo)
della natura e cerca di cogliere le leggi (fuori dal tempo) secondo cui i fenomeni si
compiono: l'osservazione fisica è possibile solo laddove qualcosa accade, cioè Dove
avviene un mutamento > sono questi mutamenti che alla fine vengono simboleggiati
dalle formule matematiche. Le discipline umanistiche invece non hanno il compito di
arrestare quello che altrimenti fuggirebbe, ma di richiamare in vita ciò che altrimenti
resterebbe morto > anziché occuparsi dei fenomeni temporali e fare in modo che il
tempo sia arresti, e se penetrano in una regione dove il tempo si è restato da sé e
cercano di metterlo in moto.
L’iconologia è quel ramo della storia dell'arte che si occupa del soggetto o significato
delle opere d'arte contrapposto a quelli che sono i loro valori formali.
Precisiamo la distinzione tra il soggetto (o significato) e la forma > quando un mio
conoscente per la strada mi saluta togliendosi il cappello, quello che io vedo da un
punto di vista formale non è che il mutare di certi particolari all'interno del mio mondo
visivo. Quando io identifico questa configurazione come un oggetto ben preciso (un
signore) e il mutamento di particolari come un evento (il togliersi il cappello) Io ho già
superato i limiti di una percezione puramente formale e sono già entrato in una prima
sfera di soggetto o significato. Il significato percepito in questo modo è di natura
elementare e facilmente comprensibile > lo chiameremo significato fattuale (viene
percepito con la semplice operazione di identificare certe forme visibili con certi oggetti
a me noti dall'esperienza).
Ora gli oggetti e gli eventi così identificati produrranno Naturalmente una certa reazione
in me > dal modo in cui il mio conoscente compie la sua azione sono in grado di
accorgermi se è di cattivo o di buon umore e se i suoi sentimenti verso di me sono
indifferenti, amichevoli o ostili. Queste sfumature psicologiche conferiranno ai gesti del
mio conoscente un ulteriore significato > lo chiameremo significato espressivo.
Il significato espressivo differisce da quello fattuale, in quanto viene appreso non per
semplice identificazione ma per empatia, cioè per intenderlo è necessaria una certa
sensibilità che però rientra ancora nella mia esperienza pratica. Perciò sia il significato
espressivo sia il significato fattuale possono essere classificati insieme: costituiscono
la categoria dei significati primari (o naturali).
1. Soggetto primario o naturale, che può essere a sua volta diviso in soggetto
fattuale e soggetto espressivo > questo significato lo si apprende identificando
pure forme, certe configurazioni di linee e colori, infine cogliendo certe qualità
espressive come il carattere doloroso di una posa o di un gesto. Il mondo delle
pure forme riconosciuto come portatore di significati primari può essere
chiamato mondo dei motivi artistici > un’enumerazione di questi motivi
sarebbe una descrizione preiconografica dell’opera d’arte.
2. Soggetto secondario o convenzionale: in questa operazione noi stabiliamo una
connessione tra motivi artistici e combinazione di questi ultimi (composizioni)
con temi e concetti > i motivi riconosciuti come portatori di significato secondario
possono essere chiamati immagini e le combinazioni di immagini sono ciò che
noi chiamiamo storie e allegorie. L’identificazione di tali immagini, storie e
allegorie è competenza della disciplina di Iconografia.
3. Significato intrinseco o contenuto: lo si apprende individuando quei principi di
fondo che rivelano l’atteggiamento fondamentale di una nazione, di un periodo,
una classe, qualificato da una personalità e condensato in un’opera. Questi
principi non gettano luce sui metodi compositivi nè sul significato iconografico >
nei secoli XIV e XV, ad esempio, il tipo tradizionale della Natività con la Vergine
sdraiata su un letto fu di frequente sostituito da un nuovo tipo di figurazione in
cui la Vergine appare inginocchiata in adorazione davanti al bambino,dal punto
di vista compositivo questo cambiamento significa semplicemente la sostituzione
di uno schema triangolare a uno rettangolare, mentre dal punto di vista
iconografico significa l'introduzione di un nuovo tema. Considerando così le
pure forme, i motivi, le immagini, le storie e le allegorie come manifestazioni di
principi di fondo, noi veniamo a dare a tutti questi elementi il significato di
valori simbolici > la scoperta e l'interpretazione di questi valori simbolici (che
spesso ignorati dall'artista stesso) è l'oggetto di quella che possiamo chiamare
iconologia, in opposizione a iconografia.
Quando può considerarsi corretto il lavoro di indagine a questi tre livelli: descrizione
preiconografica, analisi iconografica e interpretazione iconologica?
Nel caso della descrizione iconografica, che si limita alla sfera dei motivi, La situazione
sembra abbastanza semplice > gli oggetti e infatti, la cui rappresentazione mediante
linee, colori e volumi costituisce la sfera dei motivi, possono essere identificati in base
alla nostra esperienza pratica (ognuno può riconoscere la figura di umani, animali e
piante e ognuno può distinguere un viso irritato da uno allegro). Ma, a prescindere dal
fatto che oggetti, avvenimenti ed espressioni raffigurati in un'opera d'arte possono
essere irriconoscibili per l'incompetenza, è comunque impossibile giungere a una
corretta descrizione preiconografica, o identificazione del contenuto primario,
applicando soltanto la nostra esperienza pratica all'opera d'arte > essa è indispensabile
è sufficiente come materiale per una descrizione preiconografica, ma non assicura la
sua correttezza. Il fatto che noi possiamo cogliere dei caratteri nell'opera d'arte in una
frazione di secondo, non ci deve far credere che sia sempre possibile dare una corretta
descrizione iconografica senza aver intuito il suo locus storico. L'analisi iconografica,
che ha per oggetto le immagini, le storie e le allegorie anziché i motivi, Presuppone
molto di più che la semplice familiarità con gli oggetti e gli eventi che si acquista
attraverso l'esperienza pratica > preso presuppone specifichi o trasmette letterarie,
acquisiti sia attraverso letture che la tradizione orale.
Anche in questo caso, una certa familiarità con temi e concetti trasmessi attraverso
fonti letterarie è materiale indispensabile è sufficiente per un'analisi iconografica, ma
non ne garantisce la correttezza. Come possiamo integrare e correggere la nostra
esperienza pratica indagando Sul modo in cui, con il mutare delle condizioni storiche, gli
oggetti e i fatti sono stati espressi in forme diverse, nello stesso modo possiamo
integrare e correggere la nostra conoscenza delle fonti letterarie indagando sul modo in
cui, con il mutare delle condizioni storiche, temi specifici o concetti sono stati espressi in
oggetti ed eventi, indagando cioè sulla storia dei tipi.
L’Interpretazione iconologica richiede qualcosa di più della familiarità con temi e
concetti specifici trasmessi dalle fonti letterarie > quando vogliamo fissare i principi
fondamentali che presiedono alla scelta e alla presentazione di motivi ci occorre una
facoltà mentale paragonabile a quella del diagnostico, una facoltà che possiamo
indicare con il termine di intuizione sintetica. Quanto più soggettiva e irrazionale è
questa fonte di interpretazione, tanto più necessario sarà l'intervento di quei correttivi e
di quei controlli che si sono rivelati indispensabili quando si trattava delle analisi
iconografica e della descrizione iconografica: la nostra intuizione sintetica deve essere
corretta da uno studio del modo in cui, mutando le condizioni storiche, muta anche la
maniera in cui le tendenze Generali ed essenziali dello spirito umano sono espresse
attraverso temi e concetti specifici.
3.significato
interpretazione Intuizione sintetica
intrinseco o storia dei sintomi
contenuto iconologica (familiarità con le culturali o simboli
costituente il mondo tendenze essenziali (studio del modo in
dei valori simbolici dello spirito umano) cui in diverse
condizioni storiche le
tendenze essenziali
dello spirito umano
sono espresse
mediante temi e
concetti specifici)
Il divario tra tradizione figurativa e tradizione testuale, per quanto importante, non
basta da solo a spiegare la strana divisione tra motivi classici e temi classici
caratteristica dell'arte del Pieno Medioevo. Anche in quei settori in cui la tradizione
figurativa classica si era mantenuta fu poi abbandonata per rappresentazioni di
carattere interamente non classico non appena il medioevo ebbe raggiunto uno stile
interamente suo > esempi di questo processo si hanno anzitutto in figure classiche che
ricorrono in rappresentazioni di soggetti cristiani. Tutto questo dimostra che la
separazione tra temi classici e motivi classici non si verificò solo per la mancanza di una
tradizione figurale, ma addirittura ad onta di essa > nei casi in cui un'immagine classica,
cioè la fusione di un tema classico con un motivo classico, era stata copiata in quel
periodo di assimilazione che fu l'epoca carolingia, questa immagine fu abbandonata
Non appena la civiltà medievale ebbe raggiunto la sua maturità e non fu più ripresa fino
alla fioritura del 400 italiano > fu un privilegio del Rinascimento vero e proprio di
reintegrare temi classici con motivi classici.
E’ evidente che questa reintegrazione non poteva essere un semplice ritorno al passato
classico, l'epoca intercorsa aveva cambiato lo spirito degli uomini per cui non potevano
ridiventare Pagani, aveva cambiato i gusti e le loro tendenze creative, per cui la loro arte
non poteva essere una semplice ripresa dell'arte greca e romana. Essi dovevano cercare
una nuova forma di espressione, diversa, stilisticamente e iconograficamente, da quella
classica non meno che da quella medievale e tuttavia connessa e tributaria di entrambe.
CAPITOLO 2 - La storia della teoria delle proporzioni del corpo umano come
riflesso della storia degli stili
Per teoria delle proporzioni intendiamo un sistema che fissa i rapporti matematici tra
le varie membra di un essere vivente, in particolare degli esseri umani, in quanto
pensati come soggetti di una rappresentazione artistica.
- una domanda del tipo “qual è Il normale rapporto tra la lunghezza dell'avambraccio
e quella di tutto il corpo in una persona?” riguarda le proposizioni oggettive, una
domanda la cui risposta precede l’attività artistica;
- mentre se chi chiediamo “come dovrò ridurre la lunghezza di quella parte che
corrisponde alla lunghezza del braccio in rapporto alla lunghezza di quella parte che
corrisponde a tutto il corpo sulla mia tela?” riguarda invece le proporzioni
tecniche ed è una domanda la cui risposta appartiene al processo artistico vero
e proprio.
Le possibilità di fissare una teoria delle misure umane erano perciò tre e
fondamentalmente diverse tra loro:
1. questa teoria poteva mirare alla definizione delle proporzioni oggettive senza
curarsi del loro rapporto con quelle tecniche;
2. poteva mirare a fissare proporzioni tecniche senza curarsi del loro rapporto con
quelle oggettive;
3. poteva infine considerarsi libera dall’obbligo di scegliere e questo avviene
quando le proporzioni tecniche e proporzioni oggettive coincidono (quest’ultima
possibilità si è realizzata soltanto una volta: nell’arte egizia)
Tre sono anche le condizioni che possono impedire la coincidenza tra proporzioni
tecniche e quelle oggettive (l’arte egizia seppe annullarle tutte e tre):
1. in un corpo organico ogni movimento altera le dimensioni della parte che si
muove e insieme delle altre parti;
2. l’artista, ubbidendo alla normali condizioni di visione, vede il soggetto secondo
un certo scorcio;
3. l’eventuale osservatore vede l’opera finita secondo un suo scorcio.
Nessuna di queste tre condizioni resiste nell’ARTE EGIZIA perché: i movimenti delle
figure non sono organici, ma meccanici, consistono cioè in semplici spostamenti delle
posizioni delle singole membra \ lo scorcio fu rifiutati deliberatamente, sia la pittura che
il rilievo rinunciarono a quell’apparente estensione del piano nella terza dimensione \
tutte le parti della figura umana sono trattate in modo da presentarsi in una posizione
totalmente frontale o di puro profilo. In effetti, determinare le proporzioni oggettive di
un soggetto, cioè ridurne l’altezza, la larghezza e la profondità a grandezze misurabili,
significa definire le sue dimensioni nella veduta frontale, laterale e nella pianta > dato
che una rappresentazione egizia di limitava a questi tre piani, le proporzioni tecniche
non potevano che coincidere con quelle oggettive. Da molti esempi che ci sono
pervenuti sappiamo che gli egiziani suddividevano la superficie della pietra o della
superficie muraria tramite un reticolo accuratamente quadrettato a maglie quadrate
uguali e seguivano questo procedimento non solo per la
rappresentazione di figure umane, ma anche per gli animali
> il reticolo che utilizzano gli artisti egizi precede il disegno e
predetermina il risultato finale, esso infatti indica
immediatamente al pittore o allo scultore come organizzare
la sua figura. La maglia egiziana non ha una funzione
traspositiva (come quella per gli artisti contemporanei che la
utilizzano per trasportare il bozzetto alla tela di grandi
dimensioni), ma costruttiva e può servire, oltre che per
fissare le dimensioni, anche per definire il movimento.
Questo metodico ricorso degli egiziani ad una teoria delle
proporzioni riflette chiaramente la loro volontà artistica
(kunstwollen) tendente non a ciò che è mutevole, ma a ciò
che è costante, a realizzare un’eternità senza tempo.
Lo stile dell'ARTE MEDIEVALE, eccetto forse la fase del gotico maturo, è abitualmente
definito, rispetto a quello dell'antichità classica come “piatto”,mentre rispetto all'arte
egizia potrebbe definirsi semplicemente “appiattito” > la differenza che corre tra il
carattere piatto dell'arte egizia e quello dell'arte medievale è che nella prima gli
elementi di profondità sono completamente aboliti, mentre nella seconda sono solo
svalutati: si incontrano così nell'arte medievale forme di ogni genere che, da un punto di
vista puramente tecnico, potrebbero classificarsi come “scorciate”, ma poiché il loro
effetto non è sostenuto da mezzi ottici, essi non ci appaiono come scorci nel senso
corrente del termine > i piedi posti in tralice, per esempio, il più delle volte danno
l'impressione di penzolare anziché di essere visti di fronte e le spalle disse di tre quarti
tendono a suggerire l'idea di una gobba.
La teoria delle proporzioni doveva orientarsi verso nuovi scopi: il sistema medievale
rinuncio quindi all'ambizione di determinare le dimensioni oggettive, si limitò a
organizzare l'aspetto bidimensionale della rappresentazione > laddove il metodo egizio
era stato costruttivo, quello dell'antichità classica antropometrico, quello del Medioevo
può definirsi un metodo schematico. All'interno della teoria medievale delle
proporzioni si possono tuttavia individuare due tendenze diverse > esse hanno in
comune il fatto di basarsi sul principio della schematizzazione planimetrica, differiscono
però nel modo di interpretare questo principio; si hanno così la soluzione Bizantina e
la soluzione gotica:
1. La teoria Bizantina delle proporzioni convoglia i postumi della tradizione
classica in quanto ha realizzato il suo schema Prendendo come punto di
partenza la articolazione organica del corpo umano: cioè ha ammesso il fatto
fondamentale che le parti del corpo sono per natura distinte l'una dall'altra. Si
dimostra però del tutto anticlassica nell'esprimere le misure di queste parti non
più in frazioni ordinarie ma mediante l'applicazione di un sistema modulare > le
dimensioni del corpo umano erano espresse in lunghezze della faccia e la
lunghezza totale della figura umana ammontava a 9 di queste unità. L’origine di
questo sistema, che realizza la misurazione attraverso la numerazione,
probabilmente è da ricercarsi in Oriente. La teoria bizantina delle proporzioni si
preoccupò di definire le misure dei particolari della testa nei termini del sistema
modulare, prendendo come unità la lunghezza del naso = un terzo della
lunghezza della faccia (la lunghezza del naso coincide con l'altezza della fronte e
della parte inferiore del viso) > questa riduzione delle dimensioni verticali e
orizzontali della testa a una sola unità rese possibile un procedimento che rivela
in modo molto chiaro la tendenza medievale alla schematizzazione planimetrica.
In questo modo diventa possibile anche determinare l’intera configurazione della
testa stessa mediante tre cerchi concentrici che avevano il loro centro comune
nella radice del naso > questo metodo porta ovviamente all’eccessiva altezza e
ampiezza del cranio.
Questo schema dei tre cerchi fu assai popolare nell’arte bizantina e
bizantineggiante (Germania, Austria, Italia, Francia) tanto che la tendenza alla
schematizzazione planimetrica arrivò al punto che persino le teste viste di tre
quarti erano costruite con un sistema analogo. Nonostante la sua tendenza alla
schematizzazione però, il canone bizantinp si fondava sulla struttura organica del
corpo > la tendenza alla determinazione geometrica era ancora bilanciata da un
interesse per le dimensioni.
2. il sistema gotico servì quasi esclusivamente a determinare i contorni e le
direzioni del movimento: qui la figura non è più misurata
nemmeno in visi e facce, lo schema ha completamente
rinunciato all’oggetto: il sistema di linee è sovrapposto alla
forma umana come struttura metallica a se stante (le linee
rette sono le linee guida, anziché guide di misura: la figura
è inserita in un pentagono allungato in senso verticale,
così la figura virile in piedi non ha
alcun rapporto con la struttura
organica del corpo). Villard de
Honnecourt (figura sx) compì un
interessante tentativo di applicare
lo schema elaborato per la
costruzione della veduta frontale
alla veduta di tre quarti (figura dx)> il suo tentativo si
esercitò su figure intere anziché su teste. Egli utilizzò lo
schema del pentagono senza alcuna trasformazione se
non quella di spostare la giuntura della spalla. Questa
curiosa costruzione, come anche nella teoria bizantina, è
forse l’esempio più eloquente di una teoria delle
proporzioni che si occupava esclusivamente di una
schematizzazione geometrica delle dimensioni tecniche,
mentre la teoria classica (che si basava su principi opposti) si era limitata a una
determinazione antropocentrica delle dimensioni oggettive.
Il RINASCIMENTO ITALIANO guardò alla teoria delle proporzioni con infinita reverenza:
essa fu vista sia come premessa necessaria della produzione artistica, sia come
espressione dell’armonia, sia come fondamento razionale della bellezza. Il Rinascimento
fuse l’interpretazione cosmologica della teoria delle proporzioni (quella dell’epoca del
medioevo e dell’epoca ellenistica), con la nozione classica di simmetria, come principio
fondamentale della perfezione estetica: toccò un prestigio senza pari nel rinascimento.
Le proporzioni del corpo umano furono ridotte a generali principi aritmetici o
geometrici, in particolare la sezione aurea, furono messe in relazione con varie divinità
classiche e si fecero nuovi tentativi, sulla base di un’osservazione di Vitruvio, di far
corrispondere le proporzioni umane con quelle di edifici e parti di edifici. L’alba di nuova
era si sente principalmente nel fatto che i teorici cominciano a controllare i dati forniti
da Vitruvio misurando le statue classiche.
Due artisti-teorici del rinascimento compirono passi decisivi nello sviluppo della teoria
delle proporzioni al di là degli schemi medievali: Leon Battista Alberti (profeta del
nuovo grande stile nell’arte) e Leonardo da Vinci (il vero iniziatore di esso).
ANALOGIE DIFFERENZE
Questi due sviluppi illuminano quella che forse è la differenza più sostanziale tra il
Rinascimento e tutti i precedenti periodi dell’arte.
Abbiamo visto che TRE possono essere le circostanze che spingono l’artista a
distinguere tra proporzioni tecniche e proposizioni oggettive:
1. l’influenza del movimento organico - introduce nel calcolo della composizione
artistica la volontà soggettiva e le emozioni soggettive
2. l’influenza dello scorcio prospettico - introduce l’esperienza visiva soggettiva
dell’artista
3. la preoccupazione di quella che sarà l’impressione ottica dello spettatore - i
cosiddetti “correttivi euritmici”, secondo cui si modificano delle cose in favore di ciò
che sembra giusto, introducono l’esperienza soggettiva visiva di un potenziale
osservatore
> questi tre elementi hanno una cosa in comune: presuppongono sul piano artistico il
riconoscimento della soggettività, ed è il Rinascimento che per la prima volta afferma
queste tre forme di soggettività. Solo nell’antichità classica i tre fattori soggettivi dello
scorcio, dei correttivi ottici e del movimento organico erano stati ammessi, ma - e in
questo sta la differenza sostanziale - questa ammissione era stata non ufficiale, non era
affiancata da una teoria > NB fu un’innovazione fondamentale quella del rinascimento,
che integrò l’antropometria con una teoria fisiologica e psicologica del movimento e con
una teoria matematicamente esatta della prospettiva.
Il passaggio in atto dal medioevo al rinascimento può essere osservato nello sviluppo
del primo teorico tedesco delle proporzioni: ALBRECHT DURER > erede della tradizione
nordica, gotica egli partì da uno schema planimetrico della superficie, con il quale
determinava la posizione, il movimento, il contorno e le proporzioni nello stesso tempo
( > è proprio l’affinità della struttura a rappresentare un rapporto stretto tra Durer e il
medioevo). Nella sua ricerca Durer impiegò il metodo classico e leonardesco delle
frazioni ordinarie e gli Exempeda albertiani, ma superò entrambi non solo per la varietà
e precisione delle sue misure, ma rinunciando all’ambizione di scoprire un canone
ideale di bellezza, si assunse il compito di elaborare diversi tipi caratteristici che
avrebbero evitato la informe “bruttezza”. Accumulò 26 serie di proporzioni, oltre a un
esemplare di figura infantile e le misure dettagliate della testa, del piede e della mano.
Indicò poi i modi e i mezzi per variare ulteriormente questi molti tipi fino a definire
addirittura l’anormale e il grottesco con metodi strettamente geometrici. Tentò inoltre
di completare la sua teorie delle misure con una teoria del movimento e con una
teoria della prospettiva > è costruttivo paragonare gli schemi, elaborati tra il ‘20 e il ‘30
(fig.sx), con le costruzioni del 1500 circa (fig.dx): invece di preoccuparsi della
rappresentazione finale, Durer vecchio si limita a prepararla > alla schematizzazione
matematica del disegno lineare oppone una chiarificazione matematica dei concetti
plastici.
I Quattro libri sulle proporzioni umane rappresentano un vertice mai prima raggiunto
dalla teoria delle proporzioni, rappresentano però anche il suo declino: con la loro
ammirevole esattezza e complessità, le sue ricerche finirono per perdere quasi ogni
contatto con l’esercizio dell’arte > l’importanza della teoria era destinata a ridursi via via
che il genio artistico poneva l’accento sulla concezione soggettiva: la pittura olandese
del 600 e l’impressionismo ottocentesco non seppero che farsene di una teoria delle
proporzioni, per loro gli oggetti e la figura umana significavano ben poco rispetto alla
luce e all’aria diffuse in uno spazio limitato.
Non mancarono però delle accuse da parte degli stessi monaci, da coloro che
disapprovavano le iniziative di suger a favore della tradizione: secondo la leggenda,
S.Denis fu consacrata da cristo in persona e Suger, sotto la sua amministrazione, aveva
abbattuto gran parte della basilica preesistente, la vecchia abside, la vecchia facciata,
aveva costruito un coro nuovo e la navata. Nel giustificare questa sua impresa Suger
batte su 4 punti:
1. tutto quello che è stato fatto è stato deciso su una scelta presa collegialmente
con i frati e molti di essi avevano richiesto esplicitamente questi lavori.
2. l’opera aveva chiaramente trovato grazia in dio e nei santi martiri che permisero
di trovare materiali adeguati, che avevano protetto le nuove costruzioni non
ancora compiute da una terribile bufera.
3. si ha avuto la cura di salvare il maggior numero delle vecchie pietre sacre.
4. la costruzione della chiesa era una necessità troppo forte date le sue deplorevoli
condizioni e la sua piccolezza rispetto alle volontà di Suger.
Non si può negare che Suger non fosse smisuratamente vanitoso: pretese l’onore di un
anniversario, con questo si mise sullo stesso piano di Carlo il Calvo e Luigi il grosso.
Chiese apertamente grazie al signore per aver riservato il compito di ricostruire la
chiesa alla sua vita e alle sue forze, ci sono numerosi ritratti di lui in veste di donatore.
NB Tuttavia c’è una differenza fondamentale tra la sete di gloria dell'uomo del
rinascimento e la vanità di Suger: la grande personalità del rinascimento affermava se
stessa in forma centripeta, si impadroniva del mondo circostante fino a che tutto non
fosse assorbito dal suo io. Suger invece affermava la sua personalità in modo
centrifugo: proiettava il suo io nel mondo che lo circondava fino a che tutta quanta la
sua personalità non fosse stata assorbita da ciò che lo circondava > per intendere
questo fenomeno psicologico dobbiamo tenere conto di due cose:
1. Suger era entrato in convento non come novizio che si vota alla vita monastica
per sua volontà, ma come oblato = persona consacrata a S.Denis dall’infanzia, per
offerta dei genitori a una chiesa o a un convento.
2. Suger era nato da genitori molto poveri e di condizione assai umile
Più di un ragazzo in queste condizioni sarebbe cresciuto timido, ma la sua vitalità arrivò
invece a quella che si chiama autocompensazione: invece di tenersi legato ai suoi
parenti naturali o distaccarli del tutto, egli li tenne ad amichevole distanza, facendoli poi
partecipare alla vita dell'abbazia, anche se in maniera modesta. Inoltre non nascose mai
le sue umili origini, anzi ne faceva un vanto. In questo modo Suger, considerandosi
come figlio adottivo di Saint Denis, arrivò a convogliare verso l’abbazia tutta la sua
energia e l’ambizione che gli era stata data.Coincidendo interamente le sue aspirazioni
personali con gli interessi della chiesa madre si può dire che lui abbia realizzato del
tutto il suo IO rinunciando però alla sua IDENTITÀ: aveva espanso se stesso fino ad
identificarsi con l’abbazia.
Perché a differenza di tanti altri protettori delle arti, Suger si sentì spinto ad affidare agli
scritti le sue gesta?
Una delle ragioni fu sicuramente il desiderio di giustificare la propria azione, una
seconda ragione fu certamente la sua vanità sia personale, che istituzionale.
CAPITOLO 4 - L’Allegoria della prudenza di Tiziano
Il dipinto di Francis Howard mostra tutta la magnificenza dell’ultima maniera di Tiziano e
deve essere annoverato tra le sue opere più estreme, datato fra il 1560 e il 1570: visto
nella sua produzione complessiva esso risulta unico, è la sola tra le sue opere che possa
essere detta emblematica anziché semplicemente allegorica > cioè una massima
filosofia illustrata mediante un’immagine visiva anziché un’immagine visiva investita di
connotazioni filosofiche. Di fronte alle allegorie di Tiziano infatti, ci sentiamo portati a
cercare un significato astratto e generale dietro la rappresentazione, mentre il dipinto
Allegoria della Prudenza ha tutte le caratteristiche di un’emblema: è l’unica opera di
Tiziano che presenta un vero e proprio motto (di solito limitava le scritte solo al suo
nome o a quello del modello nel caso di un
ritratto).
Ex praeterito
praesens prudenter agit
in futura actione detrupet
L’arte del medioevo trovò molti modi per rendere questa tripartizione della prudenza in
un’immagine visiva:
- a volte è rappresentata in atto di reggere un disco, diviso in tre settori che porta
le scritte “tempo passato, presente e futuro”
- un braciere dal quale si levano tre fiamme con le stesse scritte
- a volte è impersonata da un ecclesiastico che maneggia tre libri
- è rappresentata infine come una figura con tre teste: un viso giovane che
rappresenta il futuro, uno di mezza età che rappresenta il presente e un anziano
che rappresenta il passato.
La parte antropomorfica del dipinto di Tiziano può quindi derivare da testi e immagini
trasmessi al secolo XVI da una ininterrotta tradizione esclusivamente occidentale.
Per intendere invece le tre teste animali dobbiamo invece risalire al mondo remoto
delle religioni misteriosofiche egizie, un mondo che era scomparso con il medioevo
cristiano, era confusamente riapparso all’orizzonte con gli inizi dell’umanesimo
rinascimentale verso la metà del 300 ed era divenuto oggetto di appassionato interesse
dopo la scoperta, nel 1419, degli Hieroglyphica di Horapollo. Una delle divinità maggiori
dell’egitto ellenistico era SERAPIDE, la cui statua lo raffigurava seduto in trono in
atteggiamento maestoso con lo scettro in mano e il suo attributo, il moggio (una misura
del grano) in testa. L’elemento più caratteristico era però la figura che lo accompagnava,
un mostro tricefalo cinto da un serpente, che presentava una testa di cane, una di lupo
e una di leone > le tre teste del dipinto di Tiziano. Nessuno è in grado di spiegare il
significato originale di questa strana creatura, ma dato che Serapide aveva iniziato la
sua carriera come divinità del mondo ctonio = sotterraneo (era infatti indicato come
Plutone), è possibile che il suo compagno tricefalo fosse una versione egizia del Cerbero
di Plutone, con due delle tre teste di questo sostituite da teste di divinità indicanti il
rapporto con la morte (lupo e leone). Possiamo quindi dire cosa significasse per l’oriente
ellenistico questo animale tricefalo, ma non sappiamo quale sia stato il suo significato
per l’occidente latino: nel 430 d.c Macrobio scrive i Saturnalia che contengono, tra
molti argomenti di interesse antiquario e critico, anche una descrizione e l'elaborata
interpretazione della statua di Serapide e interpreta questo animale tricefalo come un
simbolo del tempo. E la presenza del serpente, che cingeva le 3 forme animali, era un
simbolo tradizionale del tempo - si credeva che tendesse a divorare la propria coda -
sembrava quindi fornire ulteriore sostegno all’interpretazione di Macrobio. Per più di 9
secoli questa creatura rimane negli scritti di Macrobio, fu per merito di Petrarca che
essa fu riscoperta e riportata alla luce: nella sua Africa egli descrive le rappresentazioni
scultoree delle grandi divinità pagane che ornavano il Palazzo del re della Numidia > in
questi esametri riappare il mostro tricefalo di Macrobio, ma viene accompagnato a
un’altra divinità: ad Apollo > una sostituzione giustificata in quanto anche Apollo
dominava le tre forme del tempo = fu dunque in rapporto ad Apollo che il mostro fu
ripreso nelle descrizioni letterarie successive. A causa però di un’ambiguità linguistica
si assiste a un curioso sviluppo della figura: entrambi descrivono le 3 teste d’animale
legate da un serpente avvolto su di sé > a uno spirito cui fosse ancora familiare l’aspetto
originale del Serapide e del suo compagno queste frasi avrebbero automaticamente
suggerito l’immagine di un quadrupede con tre teste al quale il serpente faceva da
collare, ma per un lettore medievale queste parole suggerirono l’immagine di un mostro
a tre teste con il corpo di un serpente > ecco che così appare il mostro dovunque gli
artisti del 400 si trovarono a dover realizzare un’immagine di Apollo che rispondesse
alle idee correnti dell’epoca. Grazie alla reintegrazione della forma classica con i
soggetti classici, che fu compiuta nel corso del 500, venne distrutta questa lunga
tradizione e sono nella seconda metà del XVI secolo fu possibile rendere al nostro
mostro il suo autentico corpo canino.
Nel 1419 vennero riscoperti gli HIEROGLYPHICA di Horapollo > questa scoperta segnò
l’inizio dell’incredibile entusiasmo per tutto ciò che era egizio e contribuì in larghissima
misura al sorgere di quello spirito emblematico che è così’ caratteristico dei secoli XVI e
XVII > fu sotto la loro influenza che nacquero ad esempio gli Emblemata di Andrea
Alciato. Nel 1556 Pierio Valeriano scrive un trattato,gli Hieroglyphica, che si basa su
quello di Horapollo, ma accresciuto di innumerevoli aggiunte antiche e moderne, in cui
il mostro di Serapide viene ricordato per due volte: uno nel capitolo del Sol, l’altro nel
capitolo della Prudentia > qui spiega che la prudenza è in stretto rapporto con le tre
forme del tempo, le quali sono espresse da un nesso di tre teste (tricipitium) > 40 anni
più tardi questo nesso delle tre teste = chiamato tricipitium (private dal corpo, sia
esso quadrupede che da rettile) si affermò stabilmente come simbolo autonomo che si
prestava tanto a un’interpretazione poetica (tempo) che ad una razionalistica
(prudenza). L’altro aspetto di questo tricipitium ci è offerto dall’Icolonologia di Cesare
Ripa: conscio del fatto che la prudenza, come combinazione di memoria, intelligenza e
previsione, era derivata dalla definizione del saggio consiglio, egli include il tricipitium
fra i molti attributi del Buon consiglio = si tratta di un vecchio che nella destra tiene un
libro sul quale si trova una civetta, con la mano sinistra regge tre teste su un solo collo.
CAPITOLO 5: La prima pagina del Libro di Giorgio Vasari - uno studio sullo
stile gotico come fu visto dal Rinascimento italiano
Nella biblioteca della Scuola delle belle arti di Parigi si conserva un foglio di schizzi a
penna e inchiostro con numerose piccole figure e scene su entrambe le facciate ed è
stato catalogato come Cimabue, anche se il contenuto dei disegni rende difficile ogni
identificazione e una collocazione stilistica. Ciò che colpisce lo spettatore è un carattere
spiccatamente classicheggiante che richiama le composizione del IV e V secolo d.C = la
presenza di motivi architettonici tardoantichi, come l’anfiteatro classico, il modellato e
le forme dei nudi sono tutti motivi classicheggianti che vengono però trasformati e
trattati secondo uno spirito che potrebbe essere definito genericamente come primo
300 > come spiegare questa insolita compresenza di elementi tardoantichi e del primo
300? Questo foglio è considerato o come una riproduzione fedele di un ciclo pittorico
paleocristiano oppure come una serie di disegni originali che si rifanno a modelli
tardoantichi:
- l’ipotesi di una copia diretta da dipinti del IV e V secolo presupporrebbe
l’esistenza di cicli paleocristiani con storie di martiri: esistenza che non può
essere provata.
- l’ipotesi che si tratti di un progetto originale non si accorda con l’incoerenza
dell’insieme.
- entrambe le ipotesi si urtano al fatto che l’esecuzione manuale degli schizzi
parigini non permette una data così precoce come il 1300 circa.
Non possono quindi essere assegnati a Cimabue o a un altro artista attivo attorno al
2330, ma a un artista attivo intorno al 1400 che abbia copiato un ciclo di dipinti realizzati
circa un secolo prima, solo in questo modo tale interpretazione risponde alle
caratteristiche compositive e tecniche. Così interpretato, il foglio perde l’interesse
stilistico che avrebbe avuto se fosse stato un documento artistico originale di primo
300, ma acquista un importanza dal punto di vista storico > Poco prima del 1400,
FILIPPO VILLANI scrive i giudizi in lode di Cimabue, considerato come l’iniziatore di una
nuova fase nell’evoluzione generale dell’arte perché “cominciò a riportare la pittura
all’imitazione della natura”. Se la nostra datazione degli schizzi parigini alla generazione
del Villani è esatta, essi possono considerarsi come un equivalente pittorico di questa
frase, cioè come riprova che l’idea di una rinascita dell’arte, che avrebbe avuto inizio con
Cimabue, si fondava su un’esperienza diretta. Se un artista di primo 400 si sforzava di
copiare una serie di dipinti eseguiti, se no da Cimabue stesso, almeno da uno dei suoi
contemporanei, proprio questo starebbe a dimostrare che gli artisti cominciavano a
rendersi conto che il fondamento del loro lavoro stava nei risultati del primo 300.
Per i paesi nordici, soprattutto la Germania, non ci fu mai un vero “problema del
gotico” fino al 700 inoltrato: quando ci furono nel 500 necessità di aggiunte o di restauri
di edifici queste portarono ad un incontro diretto tra il vecchio e il nuovo e i maestri del
Nord o continuarono ad applicare il vecchio stile con assoluta indifferenza oppure
procedettero, con uguale indifferenza, a far convivere i due stili per cui cupole o guglie
barocche furono messe a coronamento di torri gotiche oppure altari o gallerie barocche
furono costruiti in interni gotici. Nel primo caso non si ha di fatto una coscienza di una
fondamentale differenza di stile, nel secondo caso questa differenza è risolta non su
principi generali teorici, ma i problemi venivano risolti caso per caso. Da quando la
teoria artistica iniziò a considerare le differenze tra architettura antica, medievale e
moderna, (fine 600 - inizio 700) il gotico fu riguardato non solo come uno stile “senza
regole”, ma anche come uno stile specificamente naturalistico: cioè una forma di
architettura derivante dall’imitazione degli alberi veri, mentre il sistema classico avrebbe
avuto inizio con la combinazione di tronchi squadrati > nei paesi nordici il primo
consapevole revival dello stile gotico lo si deve non tanto alla preferenza di una
particolare forma di architettura, quanto al desiderio di evocare una particolare
atmosfera.
Il sorgere del problema della purezza artistica dello stile del gotico in ITALIA era
inevitabile sin dagli inizi: dai tempi di Filippo Villani (1400) fu pacifico per gli italiani
pensare che era sorta durante le tenebre del medioevo un’arte incivile (maniera
tedesca) perché estraniata dalla natura (maniera greca) e che il presente, avendo
ritrovato a via sia della natura che dei modelli antichi, aveva creato facilmente un’antica
e buona maniera moderna > cos’ il Rinascimento si pose, fin dagli inizi in una posizione
di contrasto rispetto al medioevo in generale e allo stile gotico in particolare. Risulta
paradossale che un’epoca nella quale la qualifica di “gotico o tedesco” rappresentava la
più severa delle critiche, non si sia accorta della corrente sotterranea di goticismo che
prevalse nel tardo 400 e nella prima arte manieristica. Mentra al Nord, per mancanza
di distacco, fu necessario un lungo tempo per giungere ad apprezzare le opere gotiche
come capaci di suscitare una particolare esperienza emotiva, fu proprio l'ostilità al
gotico a creare la base per il suo riconoscimento in Italia. Questo avvenne perché il
rinascimento italiano trovò un luogo in cui stare dal quale poteva guardare all’arte
dell’antichità classica (staccata per il tempo, ma legata per lo stile) e ugualmente all’arte
del medioevo (staccata per lo stile, ma attaccata per il tempo): questo atteggiamento
portò una fondamentale conseguenza sul piano pratico > una volta riconosciuta
l’esistenza di una differenza fondamentale tra il passato gotico e il presente moderno e
da quando il rinascimento, riscoprendo la teoria antica dell’arte, aveva fatto proprio il
concetto secondo cui la bellezza è sinonimo di quello che gli antichi chiamavano
armonia, ogni volta che un architetto moderno si trovava di fronte a una struttura
medievale da completare, ampliare o restaurare, si poneva una questione di principio.
NB: Lo stile gotico non era ammesso, ma ancor meno non era ammessa una violazione
di quella che l’Alberti chiamava convenienza o conformità: così gli italiani, rifiutando
consapevolmente la maniera tedesca per la maniera moderna, legata però al principio
della conformità, si trovarono di fronte al problema dell’unità stilistica già nel 500.
Non considerando i casi in cui le strutture preesistenti furono completamente e
volutamente trascurate il problema della conformità poteva essere risolto con uno di
tre modi:
1. le parti preesistenti potevano essere rimodellate secondo i principi della maniera
moderna;
2. l’opera poteva essere continuata in uno stile volutamente goticizzante;
3. si poteva arrivare a un compromesso tra queste due possibilità.
Il primo di questi sistemi fu iniziato dall’Alberti nel Tempio Malatestiano e applicato dal
Vasari in occasione del rifacimento del refettorio di un convento napoletano, venne
inoltre esplicitamente raccomandata da Sebastiano Serlio per la modernizzazione dei
palazzi medievali e fu seguito in tre celebri imprese di ammodernamento: la santa casa
di Loreto di Bramante, la basilica di Palladio a Vicenza e in san giovanni in laterano del
Borromini.
Il secondo sistema, subordinazione alla conformità, fu introdotto da Bramante e
Giorgio Martini nei loro disegni per il tiburio del Duomo di Milano e, a questi stessi
criteri, si ispirarono la maggior parte degli artisti che si affaticarono intorno al problema
della facciata di San Petronio a Bologna.
La terza soluzione - compromesso - è esemplificata, a una data precoce come quella
del 1455 circa, dalla facciata albertiana di Santa Maria Novella. Una tale situazione di
compromesso o anche la continuazione di una preesistente struttura in forme gotiche,
non significa però un’accettazione dello stile gotico > scegliendo l’alternativa gotica, gli
architetti si adeguavano semplicemente al postulato della conformità, e dovunque fu
possibile infatti attuarono la maniera moderna.
Di tutti questi progetti goticizzanti solo quello per il tiburio del Duomo di Milano venne
effettivamente realizzato: il principio della conformità infatti poteva portare all’effettiva
esecuzione di un progetto goticizzante solo là dove questo fosse sostenuto da una
preferenza reale per lo stile gotico > questa preferenza pare esistesse solo nell’italia
settentrionale, dove la frattura tra stile architettonico moderno e stile medievale fu
meno brusca.
In alcuni giudizi mossi nei confronti dello stile gotico, cosa significativa anche a quelli
che non sono favorevoli a questo stile, bisogna cogliere un curioso atteggiamento: si
parla di chiese tedesche ben fatte, di bellissimi accorgimenti come comportava quel tempo,
che molti errori fatti dal vecchio maestro gotico in san petronio erano stati commessi per
causa del tempo > ammissioni come queste annunciano il sorgere di quello che può
essere detto un punto di vista storico = nel senso che i fenomeni, non solo sono
connessi nel tempo, ma anche valutati secondo il loro tempo e questo ci riporta a
GIORGIO VASARI.
Il Vasari fu un pioniere di un modo di vedere storico, che a sua volta deve essere
giudicato storicamente: è caratteristico della sua concezione che ebbe della storia,
condivisa dai suoi contemporanei, il fatto che la storia apparisse dominata da due
principi opposti, che solo attraverso un lungo e faticoso processo di sviluppo
sarebbero stati distinti ( fine 700 inizio 800)
1. da un lato si sentiva il bisogno di un’esposizione dei fenomeni che
insistesse sulle loro tangibili connessioni di tempo e luogo = la storia
dell’arte
2. da un lato si sentiva la necessità di un’interpretazione di essi che ne
illuminasse il valore e il significato = la teoria dell’arte
Vista dal nostro punto di vista la concezione vasariana risulta una contaminazione di
due principi opposti, ma ancora non riconosciuti come tali: combina un pragmatismo
che si sforza di spiegare ogni singolo fenomeno come effetto di una causa e di vedere
l’intero processo della storia come una successione di fenomeni ognuno dei quali
motivato da uno precedente, credendo così in una assoluta o perfetta regola dell’arte e
considerando ogni fenomeno individuale come un tentativo più o meno riuscito di
attuare questa regola > risultando da questa contaminazione il Vasari fu costretto a
interpretare l’intera successione delle singole opere come una successione di tentativi
per avvicinarsi a questa regola d’arte perfetta e perciò fu costretto ad attribuire lode o
biasimo ad ogni singola opera a seconda del grado di perfezione da essa raggiunto. Il
risultato di questa perfetta regola però presupponeva una successione continua di
singoli risultati, ognuno dei quali rappresentava un passo in avanti, un miglioramento più
o meno significativo > il metro di misura della perfetta regola venne ad essere integrato
con quello della natura di quei tempi: si dovette riconoscere che una data condizione
storica imponeva delle limitazioni ad ogni artista e perciò si doveva attribuire un valore
positivo alla sua opera da un punto di vista storico.
Nella costruzione del tiburio per il duomo di milano gli artisti si trovarono di fronte al
problema di mantenere l’unità stilistica aggiungendo una nuova torre a una chiesa già
esistente, cioè di armonizzare due elementi, uno vecchio e l’altro nuovo, ma eterogenei
quanto a mezzi di espressione. Il Vasari si pone il problema di realizzare l’unità stilistica
aggiungendo una cornice nuova a un disegno esistente così da armonizzare due
elementi: l’arte di Cimabue, stando al Vasari, non era gotica, ma bizantina, ma non si
preoccupò della conformità stilistica perché non si fece scrupoli di decorare l’arco del
suo portale medievalizzante con un'incisione chiusa all’interno di una cartella molto
moderna > l’idea che un disegno di Cimabue debba andare in una cornice medievale
non presuppone il postulato dell’uniformità visiva all’interno di una determinata opera
d’arte, ma piuttosto l’uniformità spirituale all’interno di un dato periodo. La cornice
gotica del Vasari diverrebbe pienamente comprensibile se fossimo in grado di
dimostrare che lo stile di Cimabue e lo stile architettonico della cornice occupano lo
stesso posto nella concezione vasariana della storia: essa si fonda su una teoria
evoluzionistica secondo la quale il progresso storico dell’arte passa attraverso tre fasi
(età):
- uno stadio primitivo in cui le arti sono nella loro infanzia
- un secondo stadio di transizione, in cui notevoli progressi sono stati fatti, ma in
cui non si può raggiungere la perfezione assoluta (adolescenza)
- stadio di piena maturità in cui l’arte è arrivata così in alto che si è portati a
temere un regresso anzichè sperare in un ulteriore avanzamento.
Il Vasari aveva un tragico presentimento del declino ormai incombente dell’arte, ma
riconosce anche che c’è stata un’improvvisa inversione del moto di decadenza, il
rinascimento postmedievale, che può spiegarsi solo con la comparsa di particolari
personalità per un intervento divino, come ad esempio Giovanni Cimabue per la pittura
e, nello stesso senso, Arnolfo di Cambio per l’architettura > entrambi per il Vasari
segnano lo stesso punto nel progresso delle rispettive arti: questo ci fornisce la
risposta finale alla nostra domanda > se il Vasari voleva porre il suo disegno di Cimabue
in una cornice stilisticamente corretta doveva pensare a una cornice Arnolfiana , non
una cornice semplicemente gotica.
4. LA QUESTIONE FONDAMENTALE
In una di quelle invettive che Goethe lanciava contro coloro che disprezzavano l'antico
sostituisce alla nozione di idealismo che normalmente si applica all’arte classica, un
concetto tutto particolare di naturalismo > c’è per lui una distinzione tra natura comune
e natura nobile, quest’ultima è diversa dalla prima solo per un grado di purezza
superiore, ma non cambia nell’essenza: l’arte classica rifiutando quella comune per
quella nobile, non ripudia così la natura, secondo Goethe, ma ne rivela le più intime
intenzioni. Il mondo dell’artista classico comprende la somma complessiva di tipi,
ognuno dei quali rappresenta un gran numero di casi singoli: particolari ridotti a
universali > e non solo la struttura e il movimento del corpo umano, ma anche le
emozioni dell’animo vennero sublimate secondo i precetti dell’armonia e della
simmetria. Tutti questi stati passionali furono ridotti, per usare un’espressione di
Warburg, a formule di pathos che avrebbero conservato la loro validità per molti secoli
e ci appaiono naturali proprio perché sono idealizzate rispetto alla realtà > cioè perché
infinite osservazioni particolari sono state in esse condensate e sublimate in
un’esperienza universale. L’aver colto e ordinato la moltitudine dei fenomeni costituisce
la gloria dell’arte classica, ne rappresenta però anche l’insuperabile limite: la
tipizzazione implica necessariamente anche la moderazione: l’estetica classica insiste
sull’armonia, sul giusto mezzo, ma ogni epoca che ha aspirato a liberarsi dalla misura è
stata indifferente o ostile all’antico > le formule dei greci per la rappresentazione della
figura umana, per esempio, erano destinate ad essere rifiutate là dove si ambisse a
rappresentare la rigidità ieratica o al movimento sfrenato. Infatti, come la posa di
bellezza classica è a riposo temperato dal movimento, cos’ il motivo di pathos è
movimento temperato dalla stasi, per cui nell’arte classica sia l’azione che la quiete
appaiono soggette a un solo e identico principio, il contrapposto.
E’ chiaro così perché il rinascimento tedesco non sia stato in grado di assorbire
direttamente l’arte classica: non tanto perché non ci furono abbastanza monumenti
classici, ma perché l’antico non era stato fino allora un oggetto di possibile esperienza
estetica per la concezione del quattrocento nordico > quando infatti la tradizione del
medioevo era venuta a perdere vigore e le tendenze nazionali si erano affermate più
liberamente, nel Nord si era sviluppato un atteggiamento talmente opposto a quello
dell’arte classica che ogni contatto era diventato impossibile.
che l’arte classica tenda al tipico può l’arte nordica del XV secolo è invece
spiegarsi con il fatto che è particolaristica e pittorica: essa cerca di
fondamentalmente plastica, la sua fondere gli uni e l’altro in un omogeneo
visione è legata a corpi tangibili, i quali continuum e di produrre immagini
se sono slegati da un gruppo, sono pittoriche nelle quali l’unità è assicurata
perfettamente isolati e autosufficienti > in da un punto di vista soggettivo e da una
questo modo, isolata dall’ambiente, ogni resa egualmente soggettiva. Questo
figura deve includere in sè sia l’unità che spirito soggettivistico e particolaristico
la molteplicità, e questo accade solo se dell’arte nordica del 400 potè operare in
esprime in forma esemplare o tipica un due sfere complementari l’una all’altra:
gran numero di casi. 1. la sfera del realistico: il campo del
ritratto interiore, della scena di
genere, della natura morta e del
paesaggio da un lato;
2. la sfera del fantastico: il campo
visionario e fantasmagorico.
E’ vero che gli umanisti tedeschi scavarono profondamente nella storia e nella mitologia
antica, ma l’oggetto di tutta questa cura era la materia anzichè la forma classica > nel
nord il rinascimento dell’antichità fu all’inizio essenzialmente un fatto letterario e
antiquario, gli artisti, fino a Durer, ne rimasero completamente fuori > ad esempio,
nelle xilografie che illustravano le opere predominava uno spirito puramente antiquario,
interessavano anzitutto quei monumenti che recavano essi stessi un’epigrafe, poi quelli
che venivano ad illustrare un nome o un concetto figurante in una iscrizione, in terzo
luogo quelli ritenuti rilevanti per aspetti iconografici particolari. Per accostarsi all’arte
classica in quanto arte del, il Nord aveva dunque bisogno di un intermediario: questo
fu l’arte del 400 italiano > da un lato, l’arte italiana, erede dell’antico, era per sua
natura portata al plastico e al tipico anzichè al pittorico e al particolare; il 400 italiano
condivideva, almeno in teoria, certi postulati classici come quelli dell’armonia, del
movimento decoroso, dell’espressione mimetica. D’altro canto però il 400 italiano
condivideva con il XV secol nordico una premessa fondamentale che era stata estranea
al medioevo: sia in Italia, che al Nord, l’arte era diventata una forma di contatto
diretto e personale tra l’uomo e il mondo visibile > nel Medioevo l’osservazione diretta
della realtà era di solito limitata ai particolari e veniva a integrare, anzichè a sostituire,
gli schemi tradizionali. Il rinascimento invece proclamava la buona esperienza come la
radice dell’arte: ogni artista doveva affrontare la realtà e padroneggiarla > l’opera d’arte
è diventata un frammento dell’universo così come esso è visto da una data persona, da
un dato punto di vista e in un dato momento. Questo atteggiamento venne a porre
l’arte italiana e quella nordica su una base comune, e fu proprio il metodo prospettico
che cementò questa unione: la prospettiva, in quanto realizza lo spazio intorno e tra le
figure, postula un minimo di realismo pittorico, di attenzione alla luce, all’aria e persino
all’atmosfera. In questo modo l’atteggiamento degli artisti del primo rinascimento verso
l’antichità classica fu dominato da due impulsi antitetici: da un lato volevano
resuscitarla, da un lato erano spinti a superarla; l’arte del 400 italiano fu considerata
un’arte mediata tra l'esperienza estetica del Nord e l’antico, essa dunque tradusse il
linguaggio dell’arte classica in una lingua che il Nord poteva comprendere. Le
riproduzioni infatti rinascimentali di statue antiche non sono tanto copie, quanto
reinterpretazioni che da un lato mantengono il carattere ideale dei prototipi, dall’altro lo
trasformano secondo uno spirito relativamente realistico. Certamente Durer fu il primo
nordico a realizzare dei nudi “corretti” e scientificamente proporzionati, ma fu anche il
primo che realizzò autentici paesaggi; anche negli anni più tardi egli non divenne mai
uno schietto artista rinascimentale e quanto poco lo fosse in gioventù lo dimostra il
modo in cui seppe mantenere la sua indipendenza come paesaggista anche quando
copiava direttamente dipinti o stampe italiane. Non c’è un solo caso, per concludere, in
cui si possa dire che Durer ha disegnato direttamente dall’antico; egli trovò l’antico solo
là dove l’antico era già stato vissuto per generazioni > nell’arte del 400 italiano dove il
classico gli si presentava in una forma modificata secondo i canoni del tempo, ma
proprio per questo a lui comprensibile.
Excursus: Le illustrazione delle Inscriptiones di Apianus e Durer
Come si è già detto ogni ricerca sullo sviluppo del gruppo di Apollo di Durer deve
prendere le mosse dall’Aesculapius e dal Sole, mentre secondo Hautmann deve riferirsi
al Mercurio di Augusta; nelle Inscriptiones di Apianus, nel legno che raffigura Mercurio,
vediamo come questa figura presenta una notevole somiglianza con l’Adamo dureriano:
in entrambe le figure la gamba sinistra si sposta vivacemente di lato e indietro, il
contorno della spalla destra scende con una curva elegante, la mano sinistra si piega in
avanti al polso e tiene il caduceo nel caso del Mercurio, il ramo di frassino nel caso di
Adamo. Tutte queste analogie però di verificano tra l’incisione di Durer e il Mercurio di
Apianus e non, tra l’incisione di Durer e la statua di Augusta > in questa l’atteggiamento
della figura è totalmente diverso, la mano destra non è sollevata e nettamente piegata
al polso, ma delicatamente abbassata. Che l’incisione di Durer (1504) abbia subito
l’influenza dell’incisione di Apianus (1534) è impossibile, Hautmann lo spiega con una
comune derivazione: Durer avrebbe fatto un disegno del Mercurio di Augusta, questo
disegno sarebbe servito sia per la sua incisione che per il legno di Apianus > in questo
ipotetico disegno secondo Hautmann, Durer avrebbe modificato l’atteggiamento e il
contorno della figura e per quanto riguarda la posizione del braccio sinistro si sarebbe
confuso al punto da interpretare i lembo del mantello che scende dal braccio come un
braccio abbassato >l’incisione dureriana del 1504 si baserebbe così su un errore di
interpretazione. La posizione del braccio destro dell’Adamo si può spiegare con la
storia dell’incisione stessa: essa si sviluppò come abbiamo visto, dal disegno del Sole;
quando Durer decise di unire l’uomo ideale con la donna ideale in una scena del
Peccato Originale volle che la figura di Adamo conservasse il movimento elegantemente
ritmato dell’Apollo del Belvedere e mantenesse, fin dove possibile, la stretta frontalità
richiesta per una figura che voleva essere un esempio paradigmatico delle proporzioni
del corpo umano. In due disegni intermedi, gli avambracci di Adamo sono resi con il
semplice contorno, ma è evidente che Durer a questo punto era già stato costretto a
introdurre un secondo albero: dato che una delle due mani di Adamo doveva stare
alzata ma non poteva più reggere qualcosa (come avveniva nel disegno del Sole e di
Aesculapius) doveva appoggiarsi a qualcosa, quindi a un ramo d’albero > Durer stesso
ebbe cura di giustificare l’aggiunta di questo secondo albero con ragioni iconografiche,
attribuendo ad esso le caratteristiche di frassino di montagna, egli volle individuarlo
come l’Albero della Vita opposto all’Albero della Sapienza.
Come possiamo spiegare allora la somiglianza che esiste tra l’incisione di Durer e il
legno di Apianus? Secondo Panofsky l’illustratore Apianus ha trasformato il Mercurio di
Augusta sulla falsariga dell’Adamo di Durer. Le Inscriptiones di Apianus si basano in
larga misura su materiale raccolto dagli umanisti della generazione precedente: il ruolo
di Apianus era quindi quello di editore-capo e il disegnatore per cui si servì per i legni
delle illustrazioni, si limitò semplicemente a rivedere il materiale illustrativo già pronto.
In nessun caso egli lavorò sugli originali: suo compito era solo di migliorare i rozzi legni
che già si trovavano nelle pubblicazioni e di ricomporre i disegni non ancora pubblicati.
Per compiere questo lavoro di miglioramento, e ottenere una maggiore uniformità
stilistica, l’autore delle xilografie attinse a Durer non solo per certe soluzioni incisorie,
ma anche per le pose, i gesti e l’anatomia. cercò quindi disegni e stampe di Durer che
potessero servirgli per aggiornare le sue illustrazioni.
CAPITOLO 7 - “Et in Arcadia ego”: Poussin e la tradizione elegiaca
Il pittore Sir Joshua Reynolds mostrava al suo amico il suo ultimo dipinto: un doppio
ritratto di due dame, che appaiono sedute davanti a una tomba di cui guardano con
patetica commozione l’epigrafe: “et in arcadia ego”. Il re Giorgio III, vedendo il quadro,
esclamò “già, la morte esiste anche in Arcadia” > seppe infatti cogliere immediatamente
il significato della frase latina. Per noi questa formula et in Arcadia ego ha assunto lo
stesso valore di parafrasi di “io anche fui in Arcadia” , evocando così la visione
retrospettiva di una felicità unica, goduta in passato e non più recuperabile, una felicità
passata conclusa con la morte e non, come presuppone Giorgio II, di una felicità in atto
minacciata dalla morte.
In questo capitolo Panofsky tenterà di dimostrare che l’interpretazione di re Giorgio è
grammaticalmente corretta e l’unica corretta, mentre quella moderna di “anche io sono
nato, ho vissuto, in Arcadia” è in realtà un fraintendimento: questo fraintendimento non
si è verificato per pure ignoranza, ma al contrario, veniva ad esprimere un
fondamentale cambiamento di interpretazione. Infine tenterà di provare che la
responsabilità ultima di questo mutamento, fondamentale per la letteratura moderna,
non risale ad un grande letterato, ma a un pittore.
Come è potuto accadere che la regione dell’Arcadia (grecia) certamente non ricca, possa
esser diventata simbolo di un regno ideale di perfetta felicità e bellezza?? Nella
letteratura moderna l’Arcadia appare sotto questo aspetto, ma l’Arcadia quale fu
veramente e come è descritta dagli autori greci, fu quasi esattamente l’opposto.
Certamente fu il regno di Pan, i suoi abitanti furono famosi per i loro talenti musicali, la
loro rude virtù e la loro rustica ospitalità, ma furono famosi anche per la profonda
ignoranza e i loro rozzi modi di vita. Polibio, il più illustre figlio dell’arcadia, se da un lato
rende giustizia alla sua terra riconoscendole l'amore per la musica, dall’altro la descrive
come una regione povera, nuda, fredda, priva di ogni piacevolezza. Ecco il motivo per
cui i poeti greci non ambientavano i loro componimenti pastorali in Arcadia: la scena dei
più famosi, gli Idilli di Teocrito, è ambientata in Sicilia, così ricca a quell’epoca. E’ infatti
nella poesia latina, e non in quella greca, che avviene la trasformazione > qui possiamo
vedere due concezioni diverse: una rappresentata da Ovidio, l’altra da Virgilio.
Entrambi fondano la loro concezione su Polibio, ma se ne valgono in modi totalmente
opposti > Ovidio descrive gli arcadi come primitivi selvaggi e non menziona neanche
l’unico tratto che li distingue: quello musicale. Virgilio invece la idealizza: non solo esalta
le virtù che possedeva questa terra, ma vi aggiunge anche caratteristiche che essa non
aveva mai posseduto, trasferisce il mondo bucolico siculo di Teocrito, in quella che
Virgilio sceglie di chiamare Arcadia > in questo modo trasformò due realtà in un’unica
utopia, un mondo cioè abbastanza remoto dalla vita quotidiana romana per sfidare
ogni interpretazione realistica, tuttavia abbastanza concreto visivamente per sollecitare
direttamente l’esperienza personale di ogni lettore. Fu così, nell’immaginazione di
Virgilio, che prese vita la concezione di Arcadia che abbiamo ancora oggi: in questa
arcadia, Virgilio, non nasconde l’amore doloroso e la morte, ma li spoglia della loro
realtà attuale, egli infatti proietta sempre la tragedia o nel futuro o nel passato: la
tragedia di Dafni (protagonista), infatti, è raccontata solo attraverso i ricordi dei
compagni che sono sopravvissuti e che stanno preparando un rito commemorativo,
elevando un monumento funebre > ecco che per la prima volta appare tomba in
Arcadia. Dopo Viriglio, questa tomba cadde nell’oblio per moltissimi secoli; solo con il
Rinascimento, l’arcadia virgiliana riemerge dal passato, diventando uno degli oggetti di
quella nostalgia che contraddistingue il rinascimento: assume valore di un rifugio in cui
sfuggire. Nell’Arcadia di Jacopo Sannazzaro, del 1502, è rievocata come esperienza
emotiva, l’Arcadia stessa è la scena dell’azione ed è celebrata così, senza servire da
ambiente. E’ esattamente come l’Arcadia del Virgilio, un regno di Utopia. Quasi 50 anni
dopo, il Guercino realizzò la prima versione pittorica del tema della morte in Arcadia ed
è proprio in questo quadro dove si legge per la prima volta “et in arcadia ego”. Qual è
allora il senso letterale della frase?
Oggi noi siamo portati attribuire l’intera frase a un abitante dell’Arcadia defunto > ma
questa interpretazione è incompatibile con la grammatica latina. Questa frase è una di
quelle sentenze ellittiche in cui il verbo deve essere aggiunto dal lettore, questo verbo
deve essere suggerito dalle parole quindi non può intendersi di un passato > la frase
infatti va attribuita non a un pastore o a una pastorella dell’Arcadia morti, ma alla
morte stessa: l’interpretazione di Giorgio III è quindi grammaticalmente corretta e, se ci
riferiamo al quadro del Guercino, lo è anche dal punto di vista della corrispondenza
figurativa. Nel quadro infatti due pastori dell’arcadia si arrestano nel loro vagabondare
sorpresi non dalla vista di un monumento funerario, ma di un grosso teschio umano
posato su un frammento di muro, intorno al quale si muovono un topo e una mosca,
simboli del decadimento e del tempo che tutto divora. Sul muro è incisa la frase e non è
dubbio che queste parole siano pronunciate dal teschio.
Il teschio che parla era un motivo corrente nella letteratura e nell’arte de 500\600: il
messaggio del quadro di Guercino potremmo intenderlo come “non farmi ricordare la
mia fine”, si tratta dunque di un monito, un medievale memento mori in veste
umanistica, uno dei temi prediletti della teologia morale cristiana trasferito al mondo
pastorale classico. Sappiamo che Sir Reynolds, non solo conosceva, ma aveva anche
disegnato il quadro del Guercino > quindi è legittima l’ipotesi che si sia ricordato di
questo quadro quando inserì la scritta nel suo doppio ritratto.
L’unico pittore, i cui quadri segnano un punto di svolta nella storia del motivo del et in
arcadia ego, è Nicolas Poussin: arrivato a roma intorno al 1625, pochi anni più tardi,
negli anni 30 forse, realizzò il primo dei due dipinti che hanno come motivo questo
dell’arcadia. Classicista qual era e probabilmente lettore abituale di Virgilio, egli modificò
la composizione del Guercino aggiungendovi la figura del dio fluviale e trasformando il
cippo in rovina in un sarcofago classico con l’epigrafe et in arcadia ego. Accentuò il
motivo amoroso aggiungendo ai due pastori del Guercino una pastorella, ma,
nonostante queste modifiche, non nasconde la sua derivazione dal quadro del
Guercino:
1. ne conserva l’elemento di dramma e di
sorpresa > i pastori infatti si arrestano alla vista
della tomba;
2. c’è ancora il teschio collocato sul
sarcofago proprio sopra la parola Arcadia, ma
è stato ridotto di dimensioni, tanto è vero che
non attira l’attenzione dei pastori che appaiono
più affascinati dall’epigrafe che turbati dal
teschio;
3. il dipinto contiene, se pur in maniera
meno scoperta di quello del Guercino, un
messaggio morale e un monito
Originariamente esso faceva pendant a un Mida che si lava nel fiume, ecco spiegata la
presenza della divinità fluviale > insieme questi due quadri contengono una duplice
lezione: uno contro la brama delle ricchezze a scapito dei valori più importanti della vita,
l’altro contro lo spensierato godimento dei piaceri destinati presto a finire. Qui dunque
la frase et in arcadia ego può ancora interpretarsi come “anche io, morte, regno in
arcadia”.
5 o 6 anni dopo, Poussin realizzò una seconda versione, quella definitiva, del tema: il
famoso quadro del Louvre. In questo è possibile contatare una rottura radicale con la
tradizione moralizzante del Medioevo: