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Rosaria Amendolara ARCHITETTURA E CORTESIA IN

DECAMERON V, 4

La narrativa boccacciana è tutta informata, seppure con sviluppi ed esiti i più


diversi, della materia bretone dei modelli d’Oltralpe, in Italia ampiamente penetrata
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e destinata a seguire mutevoli forme1. Si pensi al Filocolo, al Teseida e all’Elegia di


madonna Fiammetta, o ancora alla vedova del Corbaccio, la quale quando «legge
di Lancellotto e di Ginevra e di Tristano e d’Isotta [...] tutta si stritola»2: dove, come
nota Daniela Delcorno Branca3, il rimando ai «grandi amori esemplari si degrada –
conformemente al tono dell’opera – a grottesca deformazione». E si vada con la
memoria anche ad alcuni episodi narrati nel Decameron4, nei quali talvolta è possi-
bile rinvenire echi e suggestioni delle leggende cavalleresche e cortesi provenienti
dai confini francesi. Nostro intento non è tanto quello di andare alla ricerca delle
occorrenze della vicenda tristaniana o di altri amori cortesi nella vasta produzione
del Certaldese, quanto quello di scoprire il significato sotteso dietro l’operazione di
accoglimento del modello oitanico da parte dell’autore. Ché al di là del fatto che
egli accosti, sovrapponga o combini organicamente storie ascoltate o tramandate da
cantori e da illustri antecedenti, conoscenze di architettura e di giurisprudenza, o
anche usi e riti medici, religiosi, gastronomici, e insomma elementi ed aspetti della
vita nel suo quotidiano svolgersi5, resta che tutta questa materia va letta in modo da
intendere in quale rapporto essa stia con il fatto narrato e in che modo la narrazione
ne venga sostanziata, illuminata e interpretata.

1
F. BRIOSCHI-C. DI GIROLAMO, I generi, in Manuale di letteratura italiana. Storia per generi e problemi, I,
a c. di F. Brioschi e C. Di Girolamo, Torino, Bollati Boringhieri 1993, pp. 282-83.
2
La citazione è tratta da G. BOCCACCIO, Corbaccio, a c. di P. G. Ricci, Milano-Napoli, Ricciardi 1965.
3
D. DELCORNO BRANCA, Tradizione arturiana in Boccaccio, «Lettere Italiane», IV, 1985, p. 429.
4
Quale dovesse essere il significato paradigmatico della narrativa cortese sulla centuria di novelle Boc-
caccio lo esplicita con l’aggiunta dell’apposizione, «prencipe Galeotto», al titolo Decameron. L’allusione al
romanzo francese è subito spiegata: sì come Lancillotto, preso da fol’amor per Ginevra, era riuscito a conqui-
starne l’amore grazie all’intervento di Galeotto; allo stesso modo le «vaghe donne» che soffrono per amore,
destinatarie dell’opera boccacciana, potranno alleggerire i loro cuori dalla noia e dalla malinconia, eleggendo
questo libro a loro «soccorso» e «rifugio». È chiaro che, nell’offrire materia di «alleggiamento» al pubblico
femminile, con un’opera impostata su un modello di vita ideale e cortese, il Certaldese non è affatto sollecitato
da un sentimento di charitas cristiana, bensì dall’assoluta fede nei valori e nell’etica della società feudale e
cavalleresca, lontana da quella dei gretti «meccanici», tutti dediti ai vili guadagni, cfr. G. PETRONIO, La posi-
zione del «Decameron», «La rassegna della letteratura italiana», II, 1957.
5
Circa la necessità di conoscere di un autore «le cognizioni e i valori che gli furono trasmessi per via
orale, che erano propri del suo tempo e del suo gruppo sociale» si legga A. VARVARO, La filologia, in L’italia-
nistica. Introduzione allo studio della letteratura e della lingua italiana, Torino, Utet 1992, p. 285.
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Tra gli episodi che presentano allusioni, contiguità di contenuti o di schemi con
la narrativa della tradizione cortese, di certo un particolare interesse suscita quello
del «verone» nella novella di Ricciardo Manardi da Brettinoro [V, 4]. Ricciardo,
che, come recita la rubrica, «è trovato da messer Lizio da Valbona con la figliuola,
la quale egli sposa e col padre di lei rimane in buona pace», incarna l’ideale del-
l’eroe cortese, proiettato sullo sfondo di una società ormai completamente volta al
nuovo credo e ai nuovi gusti borghesi. Il «verone» conferisce, infatti, alla novella
una dimensione epica o meglio romanzesca nella accezione originale del termine e
implica di fatto una serie di analogie assai ravvicinate con quel romanzo straordina-
rio di Chrétien de Troyes, che è Le chevalier de la charrete.
La storia boccacciana è quella nota dei due innamorati, Ricciardo e Caterina da
Valbona, che, per portare a compimento il loro desiderio d’amore, s’incontrano di
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notte sul «verone» della casa paterna di lei, ove la fanciulla ha lasciato intendere ai
genitori di poter dormire con più agio, al canto dell’«usignuolo». Sul piano narrati-
vo al fondo del desiderio di dormire sul «verone» sta la opportunità di sottrarsi alla
custodia del genitore di Caterina, sul piano ideologico la motivazione è la maggiore
funzionalità alla trama e al messaggio culturale ed etico che sta sotto.
Messer Lizio, infatti, «sommamente» aveva cara la figliola e la custodiva «con
grande diligenza», nell’attesa di procurarle un matrimonio, che gli consentisse di
rinsaldare la sua posizione sociale ed economica, secondo una consuetudine molto
consolidata a quel tempo6. Per i due giovani una soluzione per sfuggire al controllo
paterno, dunque, è il «verone», dove la fanciulla fa allestire un «letticello» fasciato
«d’alcuna sargia». Qui trova la sua piena attuazione il binomio giovinezza-bellezza
che ha una lunga tradizione, resuscitata, dopo la condanna clericale, dall’esperienza
letteraria vuoi dei romanzi d’oil vuoi della lirica occitanica vuoi infine da quella
stilnovistica7. La dittologia, qui nel Decameron in generale e nella novella V, 4 in
particolare, è già di per sé forte indicatore ideologico, giacché essa rappresenta la
elusione della problematica petrarchesca circa la natura peccaminosa e circa la ne-
cessità di un come che sia travagliato superamento. E rappresenta l’opzione per
quella ideologia che aveva esaltato il binomio giovinezza-bellezza, anche al di là
dell’equazione bellezza-virtù, che era stata caratterizzante dello stil nuovo dantesco
e ciniano.
Semmai quel che occorreva per una ripresa ideologica di quella dittologia era il
completamento del valore del cavaliere che era stato il presupposto di tanti innamo-
ramenti di principesse e regine e che ora la società mercantile sembrava, se non
bandire, almeno rinnovare. Eroe, a suo modo chevalier, era stato ser Ciappelletto,
eroe del mondo borghese e del danaro e tuttavia non esente da certa connotazione

6
Cfr. C. OPITZ, La vita quotidiana delle donne nel tardo Medioevo, in Storia delle donne in Occidente: il
Medioevo, a c. di Klapisch-Zuber, Bari, Laterza 1990, pp. 337-39.
7
E valga un esempio per tutti: l’endiadi giovinezza-bellezza aveva connotato la Vita nuova di Dante
come opera «fervida e passionata», motivo per cui l’esule fiorentino, in età matura, quando le vicende politi-
che l’avevano cambiato, si era volto, nel Convivio, ad altra materia, «temperata e virile» [I, I, 16], che non lo
poneva in antitesi con quanto affermato nel libello giovanile, ma piuttosto in linea con le stagioni della vita.
Architettura e cortesia in Decameron V, 4 119

epica in grazia del coraggio con cui egli si accinge al passo estremo, certo doloroso,
ma nient’affatto dubbioso.
Anche Ricciardo dovrà dar prova del suo coraggio sì da permettere al vecchio
Lizio di recuperare l’onore sociale leso con la possibilità di un connubio tra il «ca-
valiere» del vecchio mondo ormai decaduto e il nuovo, e giovane, espressione della
nascente borghesia, capace ancora, però, di eroismi appartenenti al mondo feudale e
dunque inquadrabili nella chevalerie. Grazie a questi eroismi, infatti, la nuova clas-
se rivendicherà un ruolo più determinante nel gioco politico accanto alla vecchia
classe egemone nobiliare e paranobiliare. L’occasione per quell’atto di eroismo ver-
rà offerta al Manardi sì dal desiderio di Caterina di una notte al canto dell’usignolo,
ma soprattutto dalla collocazione del «verone» nella struttura architettonica di casa
Valbona.
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Della collocazione del «verone» all’interno del palazzo sappiamo per certo che
esso si trova «sopra» il giardino [21] e «allato» alla camera di Lizio. Entrambe le
specificazioni sono degne di nota al fine dell’attribuzione di un tono cortese alle
azioni del nostro protagonista.
Boccaccio poco prima nella narrazione aveva posto il «verone» in prossimità
del giardino: «in sul verone che è presso il giardino» [12], lasciando il lettore in uno
stato d’incertezza, che deriva dalla presenza di entrambe le allocazioni già nella
tradizione manoscritta. Nel codice B, infatti, alla colonna 65a, si legge: «presso» al
giardino, con la postilla a margine «sopra» (trasmessa da P), preceduta dal segno
grafico di rimando ÷. Sebbene l’uso della formula «presso», nel paragrafo 12, com-
menta il Branca, paia più corretto, poiché la lettura dell’intero periodo non risulta
appesantita, come nel paragrafo 21, dalla ripetizione a breve distanza delle due pre-
posizioni di luogo sul e sopra, pure nel testo Boccaccio finisce con il prediligere la
variante «sopra». Tale scelta, insieme alla considerazione che lo scrittore non pro-
cede all’espunzione della lezione propria del testo come è solito fare8, permette al
Branca di ritenere che il riporto a margine in B non è da assumere come correzione,
bensì quale «variante sostanzialmente equivalente» alla parola «presso», da tenere
a mente con una funzione eventualmente sostitutiva9. Per cui quel «presso» può
valere per noi «sopra». La precisazione, come è chiaro, non serve tanto a definire la
collocazione del «verone» rispetto al giardino, quanto ad evidenziare la «gran fatica
e pericolo» durati da Ricciardo per accedere al luogo convenuto.
La seconda indicazione, la vicinanza del «verone» alla stanza di messer Lizio,
«allato», appare più densa di significato, poiché attribuisce maggior ardimento al-
l’azione di Ricciardo e indiscussa impudenza a Caterina. Così come nel romanzo di
Chrétien la prossimità di Keu, il siniscalco di re Artù, al letto in cui dorme Ginevra

8
Branca ha dimostrato, mettendo a confronto il testo del Decameron trascritto in B e le note emarginate
nel medesimo codice, che è abitudine del Boccaccio, copista in età matura, correggere il testo sottolineando la
parola da cancellare, apponendo puntini sotto le singole lettere della parola che sono da sostituire, aggiungen-
do in alcuni casi le correzioni in interlinea, cfr. V. BRANCA, Su una redazione del «Decameron» anteriore a
quella conservata nell’autografo hamiltoniano, «Studi sul Boccaccio», XXV, 1997, pp. XXIX-XXXIV.
9
Ivi, pp. 46-47.
120 Rosaria Amendolara

rende più ardito il gesto di Lancillotto di penetrare nella stanza regale. La stanza di
Lizio probabilmente doveva essere l’unica camera dotata di un adito che consentis-
se l’accesso al «verone», creato proprio lì, nella stanza dell’uomo di casa, in osser-
vanza scrupolosa della cura a preservare le donne da una possibile esposizione al
mondo esterno. Adito ancora che non doveva coincidere con la porta d’ingresso alla
stanza di Lizio: ché se l’«uscio serrato» fosse stato proprio questo dell’ingresso
all’appartamento del vecchio cavaliere sarebbe stato meno rischioso per Ricciardo
raggiungere Caterina sul «verone», senza essere visto. La necessità di chiudere que-
st’unico limine di transizione al «verone» è determinata naturalmente dal bisogno
di creare una barriera di protezione e di difesa per la figlia, e anche di sicurezza dei
genitori, certificati così che la giovinetta avrebbe trascorso la notte al canto dell’usi-
gnolo.
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Vi è però un particolare che lascia perplessi. Boccaccio racconta che il diligente


cavaliere da Valbona serra «uno uscio che della sua camera andava sopra ‘l verone».
La prudenza nel barrare l’uscio per cautelare la figlia, che egli ha acconsentito ri-
manga a dormire sul «verone», contrasta con l’arditezza della fanciulla, la quale
progetta e pone in atto un disegno in qualche misura ‘scostumato’ in un luogo atti-
guo alla camera in cui dorme il padre.
Per vero Boccaccio non assegna a Caterina attributi di particolare «saviezza»,
come accade ad alcuni protagonisti di altre novelle del Decameron: della Marchesa-
na del Monferrato dice che è «savia e avveduta», così di Tessa, moglie di Gianni
Lotteringhi, essa pure per altri versi, o per opposti versi, «bellissima donna e vaga,
[…] savia e avveduta molto». Caterina è solo «bellissima e leggiadra e di laudevoli
maniere e costumi», ciò non significa che la giovane sia da considerare sciocca. Ché
per certo ella doveva supporre che la allocazione sul «verone» rassicurava il padre,
mentre, d’altro canto, richiedeva a Ricciardo un supplemento, per dir così, d’impe-
gno, il quale alla fin fine non le dispiaceva: giacché avrebbe connotato il suo spasi-
mante di una non so qual aura di eroismo.
Va perciò accertata l’effettiva posizione del «verone» rispetto alla stanza di Li-
zio, che di rimando rende più pregna di coraggio l’impresa del Manardi.
Se davvero il «verone» si trovasse allato alla camera del genitore, il proposito
di Caterina di far allestire un letto proprio lì sarebbe da reputare indubbiamente
imprudente. Al contrario sarebbe più facile accettare l’altra versione dell’autore,
data poco più avanti, secondo cui tale «verone» è collocato sopra la stanza di mes-
ser Lizio. Ora, non abbiamo elementi per valutare quanto più alto sia il «verone».
Certo sì è che Lizio:
ricordandosi la figliuola dormire sopra ‘l verone, chetamente l’uscio aprendo disse: «Lascia-
mi vedere come l’usignuolo ha fatto questa notte dormire la Caterina.» E andato oltre […]

Dove è proprio quell’«andare oltre» che segnala se non l’elevazione del «vero-
ne» rispetto alla camera, almeno il superamento di un qualche limite posto tra la
stanza e il «verone». Limite che se fosse dato da pochi gradini determinerebbe uno
spostamento breve e circoscritto del vecchio cavaliere e accorcerebbe le distanze tra
ambiente interno e quello esterno.
Architettura e cortesia in Decameron V, 4 121

Non che così rimarrebbe alla fanciulla e a Ricciardo un ampio margine di libertà
per agire con maggiore tranquillità, dal momento che all’anziano genitore sarebbe
bastato aprire – come poi in realtà accade – solo un uscio per comparire all’improv-
viso sul «verone»; tuttavia l’ipotesi dei gradini rende plausibile la prima scelta del-
l’autore: quella che vede il «verone» allogato accanto alla stanza di Lizio. L’esiguo
numero di gradini, infatti, non marcherebbe tanto vistosamente il dislivello tra il
«verone» e la stanza.
In tal caso l’uso della preposizione sopra conserverebbe la funzione di moto a
luogo che implica l’idea di elevazione prima accennata, senza infirmare il valore
dell’altra preposizione di luogo allato.
La visualizzazione del «verone» dall’esterno potrebbe così corrispondere a quella
della terrazza-balcone illustrata da Ambrogio Lorenzetti nel dipinto intitolato Un
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bambino risuscitato da san Nicola10. La scena mostra un terrazzino coperto, fornito


di una balaustrata sul davanti, che lascia intravedere alle spalle dei servitori, che
portano le pietanze, un adito che comunica con un vano attiguo alla terrazza-balco-
ne, sulla quale è stato allestito un banchetto. L’osservatore può figurarsi questo vano
come un pianerettolo (dove si è condotti salendo una corta scalinata), antistante il
terrazzino. Immagine, questa appena descritta, assai somigliante a quella da noi
proposta a riguardo dello spazio entro cui si svolge l’azione di Lizio, lo spostamen-
to dalla stanza al «verone».
Si inferisce di qui così come nel Medioevo sia pratica consueta nell’edilizia il
ricercare e progettare spazi esterni, complementari o alternativi agli ambienti inter-
ni, la cui coordinazione, in alcuni casi, è affidata a soluzioni tecniche, quali gli
scalini appunto, che consentono di sfruttare al massimo lo spazio disponibile.

***

A questo punto occorre dare una forma al «verone». La faccenda non è di poco conto,
anche in virtù del fatto che l’origine etimologica del termine «verone» non è chiara11.
L’Alessio in uno studio12 sul vocabolo «verone» affermò che esso definiva un
«balcone protetto da una ringhiera che corre intorno alla casa», facendolo derivare
dal veneziano antico vera, parapetto del pozzo. Un documento originario della città
lagunare risalente al 1038 infatti recita: «putheo et putheale adque vera sua». Sicché
per affinità, secondo l’Alessio, il «verone» sarebbe una «vera» di dimensioni più
larghe. Ma l’ipotesi interpretativa non convinse il Prati13, che obiettò che «il veneto,

10
Si tratta di un pannello di una tavola andata perduta, risalente al 1332 ca., proveniente dalla chiesa di
San Procolo a Firenze, ora agli Uffizi.
11
Cfr. M. CORTELLAZZO-P. ZOLLI, Dizionario etimologico della lingua italiana, Bologna, Zanichelli 1985,
s. v. Ancor meno accettabili, qui si specifica, sono l’interpretazione semantica data dal Diez che ipotizza si
tratti «di un rifacimento su vir, uomo del grecismo androne», nonché la sostituzione di quel vir facendo
ricorso all’osco veru, umbro vero, che significa porta.
12
Cfr. G. ALESSIO, Ricerche etimologiche su voci italiane antiche, «Revue de Linguistique Romane»,
XVIII, 1955, p. 62, s.v.
13
Cfr. A. PRATI, Vicende di parole, «Revue de Linguistique Romane», XIX, 1956, p. 216, s. v.
122 Rosaria Amendolara

che conosce vera ma non verón, avrebbe data verone al toscano, che conosce verone
ma non vera». Egli, tuttavia, pur mettendo in discussione la lezione dell’Alessio,
non provò a rendere meno controversa la spiegazione del vocabolo, proponendo in
alternativa un’interpretazione semantica più vicina all’originaria. La sua analisi fu
orientata piuttosto a commentare tra le definizioni avanzate dai vari linguisti quelle
più plausibili, approvate dall’uso comune. Una di queste era quella del Baldinuc-
ci14, che connotava il «verone» quale termine, utilizzato dagli uomini di campagna,
per additare «un piccolo terrazzo coperto, nel quale termina la scala di fuori, e per il
quale s’entra nel secondo piano della casa». Indicazione quest’ultima che confute-
rebbe quella dell’Alessio per via dell’assenza della menzione della ringhiera e che
comunque non si accorda con lo svolgimento della vicenda decameroniana.
Ché se al «verone» si fosse potuto arrivare tramite una scala esterna alla casa, non
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sarebbe stato necessario a Ricciardo, come racconta lo scrittore, servirsi dell’«aiuto


d’una scala» e arrampicarsi al muro sostenendosi a pietre rilevate sulla parete. Se la
«scala» adoperata da Ricciardo per appiccarsi al «muro» fosse stata un corredo ar-
chitettonico dell’abitazione, il Boccaccio avrebbe usato la preposizione «per» – altre
volte registrata nel Decameron con valore di moto per luogo15 – per indicare il movi-
mento verso un luogo, il «muro», attraverso il passaggio per un altro luogo, la «sca-
la» fissa all’edificio. Invece il ricorso del Manardi ad un mezzo, la «scala», che gli
fornisca un aiuto pratico per superare l’ostacolo rappresentato dal «muro», è richie-
sto dall’oggettiva assenza di un quale che sia passaggio, anche di un’eventuale sca-
letta esterna, parallela al muro o a chiocciola, di servizio o di uso ordinario, mediante
cui scalare l’elevato «verone». È da credere, dunque, che la «scala» utilizzata da
Ricciardo sia stata trasportata o rinvenuta nei pressi del muro e collocata lì all’uopo.
Dettaglio di non scarsa importanza che si aggiunge quale ulteriore tassello a com-
porre la già temeraria azione intrapresa dal giovane e a corroborare la nostra tesi sul
carattere romanzesco e sull’interpretazione cortese della novella.
Insomma quello che si vuole mettere in risalto è che il narratore di Certaldo,
nello scegliere per Ricciardo di farsi soccorrere da una scala avventizia, costruisce
gli eventi seguendo uno scopo preciso nella sua narrazione. Una scala esterna, orga-
nica al palazzo, sarebbe stata un pericolo per la fattibilità stessa del piano della
giovane Caterina che lì dorme.
Le lacune etimologiche riscontrate non permettono l’assimilazione del «verone»
al balcone o alla loggia. Il Boccaccio notoriamente nel Decameron manifesta una
sollecita attenzione verso particolari e aspetti della vita reale e quotidiana, che con
meticolosa puntualità vengono selezionati e allineati sulla pagina. Tal che egli in
alcune circostanze dimostra di possedere una chiara ed esatta cognizione della termi-

14
F. BALDINUCCI, Vocabolario toscano dell’arte del disegno, Firenze, Franchi 1681, p. 188.
15
Cfr. II, 5, 14: Andreuccio giunge alla casa della Ciciliana «salendo su per le scale, avendo la fanticella
già la sua donna chiamata e detto «Ecco Andreuccio», la vide in capo della scala farsi a aspettarlo». In IV, 1,
9 Boccaccio illustra il percorso che compie Guiscardo per arrivare nella stanza di Ghismunda senza essere
visto: «in questa grotta per una segreta scala, la quale era in una delle camere terrene del palagio la quale la
donna teneva, si poteva andare». Sono stati presi ad esempio questi due passi poiché la preposizione «per» è
affiancata al termine «scala» per indicare il luogo di transito attraverso cui si raggiunge un determinato posto.
Architettura e cortesia in Decameron V, 4 123

nologia relativa a qualsiasi settore della cultura materiale del proprio tempo. E que-
sto vale anche per l’architettura o l’edilizia civile cui ci riferiamo nell’analisi della
novella in questione16. Terminologia, dicevamo, che, lungi dall’essere mutuata dal
campo che le è proprio per uno sterile esercizio letterario corrisponde ad un innato
gusto dell’autore per il dato storico e ad una precisa intenzionalità di ritrarre la realtà.
Chiarificazione che, va segnalato, non smentisce l’esistenza di una stretta dipenden-
za tra storicità e invenzione, che è uno dei tratti caratteristici del Decameron17.
Una simile impostazione non può che essere coerente con la convinzione cui
siamo pervenuti secondo la quale per il Boccaccio, che per altro è il primo a speri-
mentare l’uso di questo vocabolo nella storia della letteratura italiana, il «verone»
rappresenta una componente della costruzione del cavaliere da Valbona con una sua
connotazione inconfondibile.
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Se, infatti, il Boccaccio avesse voluto indicare nel «verone» quel classico ele-
mento nella composizione architettonica della facciata di un palazzo quale è oggi
grosso modo il balcone, avrebbe potuto adoperare appunto questo nostro stesso
termine. Il cui uso tra l’altro è autorevolmente attestato nella storia della letteratura
precedente allo scrittore di Certaldo: da Folgore da San Gimignano18 al cronista
Dino Compagni19, da Giovanni Villani20 a Petrarca21 sono rintracciabili delle testi-

16
A proposito della ricchezza lessicale dimostrata dal Certaldese nel Decameron, relativamente al campo
dell’architettura, si veda l’uso del termine «finestra». Il lemma «finestra» non designa la porta-finestra, aperta
fino al pavimento, bensì indica l’apertura fatta nel muro di un edificio (eventualmente dotata di un davanzale)
per dare aria o luce alle stanze. A tale morfologia doveva corrispondere la «finestra» di II, 5, 43: «e una delle
servigiali della donna, in vista tutta sonnocchiosa, fattasi alla finestra». E quelle presenti in III, 1, 33 (benché
si tratti della «finestretta» di una cella); III, 3, 20, 40; V, 6, 13; VII, 4, 11: «Tofano, [...] andatosene alla sua
porta quella serrò dentro e posesi alle finestre, acciò che tornare vedesse la donna», per le quali finestre si veda
la miniatura raffigurata sul ms. 5070, f. 252r., che rivela come esse non consentano il passaggio delle persone,
poiché manca la comunicazione con il balcone. P. ARETINO alluderà all’uso diffuso di confondere «balcone» e
«finestra» quando, nei Ragionamenti. Dialogo, a c. di N. Borsellino, Milano, Garzanti 1995, II, 131, irride il
«favellar nuovo». Ancora, allo schema boccacciano su indicato rispondono le finestre di VIII, 3, 53 e di VIII,
7, 21 che permettono alla vedova e all’amante di vedere senza esser visti. Mentre più approsimativi i riferi-
menti alle finestre delle altre novelle, la cui identificazione, quale elemento architettonico indipendente o
accoppiato al balcone, diventa difficoltosa: II, 7, 52-54; III, 1, 33; III, 5, 22, 31; III, 7, 10; IV, 1, 17, 21; IV, 2,
45; IV, 9, 24; IV, 10, 13, 28; V, 7, 33; VI, 10, 45; VII, 5, 11; VII, 8, 8, 12; VII, 9, 48; VIII, 3, 53; VIII, 8, 21; IX,
5, 31, 39; X, 2, 20, 23; X, 7, 5.
17
Cfr. M. BARATTO, Realtà e stile nel «Decameron», Roma, Ed. Riuniti 1984, pp. 40-41, 45-46.
18
Dall’antologia ricciardiana di G. CONTINI, i Sonetti dei mesi: «E rompere e fiaccar bigordi e lance, E
piover da finestre e da balconi In giù ghirlande ed in su melerance», Maggio, vv. 9-11.
19
«Passando di poi un giorno [Buondalmonte de’ Buondalmonti] da casa i Donati, una gentile donna
chiamata madonna Aldruda, donna di messer Forteguerra Donati, che avea due figliuole molto belle, stando a’
balconi del suo palagio, lo vide passare, e chiamollo, e mostrògli una delle dette figliuole», Cronica, a c. di I.
Del Lungo, Città di Castello 1913-16, I, 2. 2.
20
«[...] in Firenze il dì dell’Ascensione apresso si feciono ne la piazza di Santa Croce ricche e belle
giostre, tenendosi tavola ferma per III dì per VI cavalieri, dando giostra a ogni maniera di gente a cavallo,
perdere e guadagnare, ov’ebbe di molto belli colpi e d’abattere di cavalieri, e al continuo v’era pieno di belle
donne a’ balconi, e di molto buona gente», Nuova Cronica, a c. di G. Porta, Milano, Guanda 1990-91.
21
Cfr. in Il figliuol di Latona avea già nove al v. 2 il poeta dice di aver «guardato dal balcone sovrano» se
fosse stato possibile scorgere la donna che lo fa soffrire; analogamente la situazione si ripete in Tacer non
posso, et temo non adopre: «Così colei perch’io son in pregione, Standosi ad un balcone, che fu sola a’ suoi dì
cosa perfetta, Cominciai a mirar con tal disio», vv. 41-44.
124 Rosaria Amendolara

monianze riguardanti il «balcone» inteso come quel luogo della casa su cui potersi
ritirare durante il tempo libero per svagarsi a chiacchierare o per assistere alle gio-
stre dei cavalieri. Finanche in Dante nel Convivio [III, VIII, 8-9] troviamo un accen-
no ai «balconi»:
E però che nella faccia massimamente in due luoghi opera l’anima [...] cioè ne li occhi e ne la
bocca, quelli massimamente adorna e quivi pone lo ‘ntento tutto a fare bello, se puote.[...] Li
quali due luoghi, per bella similitudine, si possono appellare balconi della donna che nel dificio
del corpo abita, cioè l’anima: però che quivi, avegna che quasi velata, spesse volte si dimostra.

La metafora è evidente: poiché gli «occhi» e la «bocca» della donna sono gli
aspetti più in vista del viso, quelli attraverso cui è possibile leggere, penetrare i
sentimenti dell’anima, quest’ultima si adopra, «quivi pone lo ‘ntento tutto», affin-
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ché «quelli massimamente» siano adorni. Essi, quindi, gli «occhi» e il «dolce riso»,
per similitudine possono essere definiti i «balconi» ai quali s’affaccia l’anima della
donna, costituiscono la zona più aperta allo sguardo di tutti gli uomini, dai quali
emanano tutti i «piaceri» del paradiso. Trasportata in chiave architettonica, la meta-
fora dantesca indica il luogo dal quale è solo possibile vedere e farsi vedere, che si
può velare con tende e in cui si riesce a cogliere la luce dell’interno e a immaginare
la tipologia dell’abitante.
Il termine «balcone» ricorre più volte nel vocabolario boccacciano: il Certaldese
adotta il lemma nel Teseida [II. 20; III. 83; VI. 49; XII. 66]22. In tutte le occorrenze
testè riferite esso si propone come il luogo più ricercato dalle donne per mostrare la
propria bellezza o per attendere il passaggio di qualcuno. Si prenda a modello il
primo passo:
Quanto le donne allor fossero ornate
ne’ teatri, ne’ templi e a’ balconi
e per le vie mostrando lor biltade [II. 20]

Al balcone, dunque, è possibile affacciarsi quasi ad assumere pose in cui il bal-


cone stesso incornicia in parte o tutta la figura femminile.
Mentre cita un «balco», dall’accezione di elemento architettonico, interno al-
l’abitazione, nel Decameron VIII, 2, 17 e 19:
La Belcolore, che era andata in balco, udendol [il prete da Varlungo] disse: «O sere, voi siate
il benvenuto: che andate voi zaconato per questo caldo?» [...] La Belcolore, scesa giù, si pose a
sedere

che, come fa notare il Branca23, dovrebbe corrispondere ad una «soffitta» o ad un

22
In III. 83 «e seguì tosto d’Arcita l’affetto, Ché quel giglio novel di primavera Sovr’un balcone appog-
giata col petto Si venne a star, con una cameriera Mirando il grazioso giovinetto»; in VI. 49 «Erano i campi,
l’argini e le strade, Le porte de’ palazzi e li balconi, Come che fossero o ispesse e rade, Piene di donne tutte e
di baroni»; in XII. 66 «I teatri, le vie, piazze e balconi, Per li quali essa andando gir dovea Al tempio là
dov’erano i baroni, Tutt’eran piene; e ogn’uom vi correa, Femine e maschi e vecchi con garzoni Per veder
questa mirabile dea».
23
Cfr. nota 37 a p. 1099 dell’edizione Mondadori del Decameron.
Architettura e cortesia in Decameron V, 4 125

«piano superiore» della casa, a giudicare la presenza di quell’azione della Belcolore


dello «scendere giù» per ricevere il prete. Come che sia ci sembra di poter situare tale
«balco» all’interno dell’abitazione della donna se, nel capoverso precedente [16], Pan-
filo racconta che il secolare, giunto alla casa di lei, «e entrato dentro», s’informa di chi
si trova lì. Resta da accertare l’originalità dello scrittore di Certaldo circa l’uso del
termine «balco» per il quale, a nostro parere, egli mostra di essere tributario di Dante:
La concubina di Titone antico
già s’imbiancava al balco d’oriente
fuor de le braccia del suo dolce amico [Purg. IX, vv. 1–3]

Il «balco», descritto dal sommo poeta come quell’indefinito punto dello sguardo
che sfuma nell’«imbiancarsi» della «concubina di Titone», allude chiaramente al
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limite dell’orizzonte su cui si affaccia l’aurora, dopo che l’alba ha rischiarato il


cielo. Per analogia potrebbe essere che il «balco» sul quale sale la Belcolore sia da
ritenere un «ballatoio» o un «pianerottolo» creato, secondo l’interpretazione del
Branca, al piano superiore e protetto da una ringhiera di legno o di altro materiale
che esplicita l’idea dell’affacciarsi.
Nel testo dantesco e nello studio dei commentatori, il «balco» è una struttura
piuttosto lunga che larga: dalla quale ci si può affacciare, ma sulla quale non si
possono allogare oggetti larghi oltre che lunghi. Qualcosa del genere si può vedere
nelle rampe di scale e nei pianerottoli, «balchi», restaurati di Palazzo Davanzati di
Firenze, ai quali si accede mediante una scala a vista che dal piano inferiore condu-
ce alle stanze di sopra.
La preferenza dell’autore per il termine «verone», nella novella della quinta gior-
nata, trova quindi una giustificazione nel concetto sotteso al vocabolo «balcone».
Questo, a differenza dell’interno finora descritto, indica generalmente una sporgen-
za, che aggetta dalla costruzione, quindi facilmente visibile anche da una posizione
prospettica inferiore, cioè dalla strada. Si noti inoltre che, nelle testimonianze lette-
rarie richiamate, il «balcone» si affaccia quasi sempre sulla strada piuttosto che su
un giardino, che è invece il luogo su cui si affaccia il «verone» del racconto boccac-
ciano (come il «vergier» è il luogo su cui si apre la «fenestre» ove si daranno conve-
gno Lancillotto e Ginevra nel romanzo di Chrétien). Il protendersi verso l’esterno
del balcone, e anche delle finestre, in alcuni casi è la soluzione più efficace per
ovviare all’angustia degli spazi24. Ma comunemente è l’espediente privilegiato da
chi vuol guardare e vuol farsi guardare25. Infine va considerato che il «balcone» è

24
Cfr. A. e C. FRUGONI, Storia di un giorno in una città medievale, Bari, Laterza 1997, p. 54. Anche se va
precisato che l’acquisto di uno spazio supplementare, mercé la costruzione di un balcone, doveva comportare
una spesa ulteriore specie se questo veniva realizzato con materiali pregiati e con particolari accorgimenti. In
questo caso esso diveniva piuttosto un lusso accessibile solo alle famiglie più prestigiose.
25
Si rammenti l’esempio riportato da F. DA BARBERINO a proposito delle donne che rincorrono la vanità
dimorando per lungo tempo ai balconi o alle finestre: «Va una donna a filare a finestra. Passa uno amante e ella
si volge; le man rattiene, il filato ingrossa e muta l’essere ch’ell’ha cominciato. [...]. Così ancor, chi a finestra
cuce, spesse fiate si cuce la mano quand’ella crede suo veste cucire», Reggimento e costumi di donna, a c. di
G.E. Sansone, Torino, Loescher-Chiantore 1957, V, p. 95.
126 Rosaria Amendolara

dotato di una ringhiera o balaustrata, non sempre continua e ricca di intarsi e ghiri-
gori, corrente lungo il perimetro, che consente di distinguere ciò che occasional-
mente può esserci26. Queste caratteristiche, insieme alla nota sulle dimensioni, non
avrebbero contribuito a rendere plausibile la trama del racconto. Caterina e Ricciar-
do, se avessero trascorso la notte sul «balcone», più accessibile agli sguardi di chiun-
que fosse passato per la strada, sarebbero potuti diventare facile bersaglio di indi-
screti malparlieri, che si sarebbero dati da fare per rovinare la reputazione della
fanciulla, provocando il precipitare dell’intonazione cortese impressa dal Boccac-
cio sin da principio di narrazione.
Riflessioni pressoché analoghe bisognerà fare in merito al mancato utilizzo da
parte del Certaldese del termine «loggia» in sostituzione dell’inusitata voce «vero-
ne». A tal proposito andrà rilevato che detto vocabolo presenta un uso letterario
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piuttosto stabilizzato nelle opere dello scrittore di Certaldo. Richiami a queste logge
si ritrovano nel Filocolo:
Fece adunque Sadoc in una fresca loggia distendere tappeti e venire lo scacchiere, e l’uno
dall’una parte e l’altro dall’altra s’asettarono. Ordinansi da costoro gli scacchi, e cominciasi il
giuoco [IV, 96]

nel Filostrato27, nell’Elegia di madonna Fiammetta in V, 27. 1:


Suole adunque a noi essere questa consuetudine antiquata, che poi che li guazzosi tempi del
verno sono trapassati, e la primavera con li fiori e la nuova erba ha al mondo rendute le sue
perdute bellezze, essendo con questo li giovaneschi animi per la qualità del tempo raccesi, e più
che l’usato pronti a dimostrare li loro disii, di convocare li dì più solenni alle logge de’ cavalieri
le nobili donne; le quali, ornate delle loro gioie più care, quivi s’adunano.

e nel Decameron. Nell’Introduzione all’opera il Boccaccio, con brevi tratti, descri-


ve il nobile palazzo sito presso Maiano, a Poggio Gherardi28, ove i dieci giovani
appena incontratisi in S. Maria Novella si trasferiscono per sfuggire al caos della
città ammorbata dalla peste. L’immagine, semplicemente abbozzata, descrive solo
alcuni particolari rimasti fissati nella sua memoria di giovinetto: il magnifico palaz-
zo, in cui essi s’introducono, composto di un «bello e gran cortile nel mezzo, e con
logge e con sale e con camere, tutte ciascuna verso di sé bellissima e di liete dipin-
ture raguardevole e ornata, con pratelli da torno e con giardini maravigliosi» [I, In.,
90]. Qui lo scrittore di Certaldo non si dilunga ma è opinabile che le «logge» siano

26
Si vedano il Palazzo Comunale di Cortona della seconda metà del XIII secolo, i balconi dei palazzi
pubblici tardoduecenteschi sul fondale opposto a quello principale della Piazza comunale a Todi, il balcone
della Ca’ d’Oro a Vicenza del sec. XV.
27
In Proemio, 3 «Oh me, quante volte per minor doglia sentire si sono essi [gli occhi] spontanamente
ritorti da riguardare li templi e le logge e le piazze e gli altri luoghi ne’ quali già vaghi e disiderosi cercavano
di vedere, e talvolta lieti videro, la vostra sembianza»; in II, 34-35 «E Pandar lei [Criseida], cui per la man
pigliata In una loggia seco l’ha menata. Quivi con risa e con dolci parole, con lieti motti e con ragionamenti
Parentevoli assai, sì come suole Farsi talvolta tra congiunte genti»; in II, 139 «Io vorrei esser morta il giorno
ch’io Qui nella loggia tanto t’ascoltai».
28
Si veda la nota 149 a p. 924 dell’ediz. mondadoriana curata dal Branca.
Architettura e cortesia in Decameron V, 4 127

collocate intorno al «cortile» che si trova nel mezzo dell’edificio, come nella rap-
presentazione che segue. Il riferimento questa volta è a quell’indimenticabile pagi-
na del Decameron [In. III, 4] in cui egli trasfigura sulla carta il ricordo giovanile di
un altro palazzo, tappa di uno di quegli spostamenti verso il locus amoenus della
brigata della cornice, ubicato probabilmente «sopra il poggio di Camerata»29:
Nel quale entrati e per tutto andati, e avendo le gran sale, le pulite e ornate camere compiuta-
mente ripiene di ciò che a camera s’appartiene, sommamente il commendarono e magnifico
reputarono il signor di quello. Poi, abbasso discesi e veduta l’ampissima e lieta corte di quello,
le volte piene d’ottimi vini [...] più ancora il lodarono. Quindi, quasi di riposo vaghi, sopra una
loggia che la corte tutta signoreggiava, essendo ogni cosa piena di quei fiori che concedeva il
tempo e di frondi, postesi a sedere, venne il discreto siniscalco e loro con preziosissimi confetti
e ottimi vini ricevette e riconfortò.
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Si noti con quanta perizia il narratore di Certaldo faccia vera e propria poesia in
un quadro dipinto con puntigliosa precisione. La «loggia», il particolare architetto-
nico che a noi interessa, è situata nella parte alta del palagio donde «signoreggia»
tutta la corte, zona centrale dell’edificio che serve a dare aria e luce alle camere
interne. L’idea che ci figuriamo di tale «loggia» (e quel che si dice a proposito di
questa occorrenza valga per le altre sin qui riportate), volendo dar credito all’azione
dei novellatori «abbasso discesi», è quella di un portico rialzato che abbraccia il
perimetro del palazzo, probabilmente coperto da un tetto spiovente, che in estate
doveva riparare dalla luminosità e dalla calura delle ore meridiane. La loggia, infat-
ti, nella bella stagione, grazie anche al colore e al profumo dei fiori e delle piante,
sistemati sui cornicioni, suole diventare piacevole e fresco luogo di riunione30 per i
giovani, e soprattutto per le fanciulle, i quali trascorrono il loro tempo tra ameni
conversari, riconfortandosi con vini e confetti.
E non meno interessante ci sembra menzionare in questa rassegna31 delle logge
del Decameron quella più modesta di maestro Simone (si tratta di una «loggetta»)32,
ma abbellita dall’affresco dipinto da Bruno che riproduce «la battaglia de’ topi e
delle gatte»33 in VIII, 9, 34; e quella più famosa de’ Cavicciuli [IX, 8, 13, 19], ossia

29
La nota è la settima dell’ed. cit. a p. 975.
30
Degna di nota pare per una globale visione degli usi che si solevano fare delle logge è la citazione di F.
SACCHETTI secondo il quale le donne qui vi si recavano per dedicarsi alla cura dei capelli: «tutto dì su per li
tetti, chi l’increspa [i capelli], e chi l’appiana, e chi l’imbianca», Il Trecentonovelle, a c. di E. Faccioli, Torino,
Einaudi 1970, CLXXVIII. Ma si veda pure la citazione del Novellino in cui l’anonimo scrittore ci ragguaglia
circa l’uso più comune cui potevano essere destinate le logge nel Medioevo. In LX, 10 racconta: «Ordinossi
un torniamento: dall’una parte fu il conte d’Universa e dall’altra il conte d’Angioe. La reina di Francia e
l’altre, contesse dame e damigelle di gran paraggio, fuoro alle logge».
31
Nella quale annoveriamo pure la «loggetta vicina alla camera nella quale cenavano» Pietro da Vinciolo
e la moglie [V, 10, 28], che doveva servire a degli scopi più pratici e meno signorili rispetto a tutte quelle
menzionate nel testo, giacché qui viene adagiata «una cesta da polli», sotto la quale si ricovera il garzone,
amante della donna, a causa dell’imprevisto rientro di Pietro.
32
La scelta del diminutivo non è accidentale giacché pare che la «loggetta» nell’edificio medievale sia
usata con funzione puramente decorativa: lo stesso maestro Simone per renderla più bella e originale la fa
decorare, cfr. s.v., XI, Torino, Utet 1969.
33
Affresco che in realtà la dice lunga sull’opinione che il Boccaccio doveva avere della classe dei medici.
Il soggetto scelto dal pittore Bruno, la «battaglia de’ topi e delle gatte», per adornare la «loggetta» di maestro
128 Rosaria Amendolara

degli Adimari, la cui fama è tramandata pure dalla cronaca di Giovanni Villani [XIII,
21. 2], che abbonda di citazioni riguardanti l’edificazione o la distruzione, a causa
dei frequenti incendi34, delle più note logge costruite tra il XIII e il XIV secolo35.
In vero riferimenti e notizie relativi a logge, più o meno famose, sono sparsi un
po’ ovunque nella storia letteraria, ad attestare proprio l’enorme diffusione che tale
«organismo architettonico» ebbe sia nella costruzione dei nobili palazzi sia come
complesso a sé stante fino a tutto il Quattrocento. E si pensi alla vivida scena del-
l’incendio della loggia in Orto Sammichele descritta dal Compagni36, ma anche
all’allusione vaga e indefinita della loggia di Cino da Pistoia in Signor, e’ non passò
mai peregrino37 e a quella del Petrarca in Gloriosa columna in cui s’appoggia38.
Mentre immagini di logge nobili e signorili, modellate sull’esempio di quelle schiz-
zate dal Boccaccio nella cornice del Decameron, rivivono nel Paradiso degli Alber-
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ti39 di Giovanni Gherardi da Prato:

Simone da Villa accresce il carattere comico attribuito dal Certaldese al borioso e pusillanime medico. Per
cogliere la sottile ironia che sta dietro alla rappresentazione del medico boccacciano, si legga l’incipit del
poemetto de La gran battaglia de li gatti e de li sorzi, il cui autore potrebbe essere il Folengo: «Nel tempo che
parlava li animali E che più libertà concessa gli era, anzi che invidia e suoi diversi mali Venisse a disturbar sua
pace intiera, Regnava un re de gotti e de orinali, Anzi de’ gatti, il qual con faccia altera Con mille tordi stato
era in battaglia, Ed era imparador de la Gattaglia. Per nome si chiamava re Gattone [...]. Avea Gatton merdi-
fico e potente Diece reami sotto sua corona; Ogniun di lor ne l’arme sì possente Che fuggito seria da ogni
persona e tenuto averebbe a fronte il niente», in Il Parnaso e la zucca. Testi e studi folenghiani, a c. di M.
Chiesa e S. Gatti, Verona, Edizioni dell’Orso 1995, str. 1-3, pp. 13-14.
34
Pare che una delle ragioni più frequenti del divamapare degli incendi nel Medioevo fosse proprio la
stretta adiacenza delle case (per lo più tutte di materiale ligneo). Riserve di grano, di paglia o di fieno, nelle
case o nelle stalle, e residui di materiali delle attività artigianali (lana, corde o altro), nelle botteghe, alimenta-
vano poi rapidamente lo svilupparsi delle fiamme: cfr. A. e C. FRUGONI, Storia di un giorno in una città
medievale, cit., pp. 162 ss.
35
Non possiamo dimenticare, ad esempio, la splendida e viva narrazione dell’edificazione della loggia
d’Orsammichele fatta da G. VILLANI: «E nel detto anno [MCCCXXXVII], a dì XXVIII di luglio, si cominciò
a fondare i pilastri della loggia d’Orto Sammichele di pietre conce, grossi e ben formati, ch’erano prima
sottili, e di mattoni, mal fondati. Furonvi a·cciò cominciare i priori e podestà e capitano con tutto l’ordine delle
signorie di Firenze con grande solennità; e ordinarono che di sopra fosse un grande e magnifico palazzo con
due volte ove si governasse e guardasse la provisione ogn’anno per lo detto popolo [...]. E ordinossi che
ciascuna arte di Firenze prendesse il suo pilastro, e in quello facesse fare la figura di quel santo in cui l’arte ha
riverenza; e ogni anno per la festa del detto santo i consoli della detta arte facessono co’ suoi artifici offerta, e
quella fosse della compagnia di Santa Maria d’Orto San Michele per dispensare a’ poveri di·dDio», Nuova
Cronica, cit., XII, 67. E nel libro XI, 58 la descrizione di un incendio di piccole proporzioni: «Domenica notte
vegnente, a dì XXIII di gennaio, s’apprese il fuoco in Firenze nel sesto di borgo presso a la loggia de’ Bondel-
monti, e arsonvi due case sanza altro danno».
36
«In Orto San Michele era una gran loggia con uno oratorio di Nostra Donna, nel quale per divozione
eran molte immagini di cera: nelle quali appreso il fuoco, aggiugnendovisi la caldeza dell’aria, arsono tutte le
case erano intorno a quel luogo, e i fondachi di Calimala e tutte le botteghe erano intorno a Mercato Vecchio
fino in Mercato Nuovo e le case de’ Cavalcanti, e in Vacchereccia e in Porta Santa Maria fino al Ponte Vec-
chio», Cronica, cit., IX, 71. 4.
37
Ai vv. 12-14: «Questa dagli occhi mie’ men’una pioggia, Ch’el valor tutto di mia vita stringe, S’i’ non
ritorno da la nostra loggia», in Poeti del dolce stil nuovo, a c. di M. Marti, Firenze, Le Monnier 1969.
38
Ai vv. 5-9: «Qui non palazzi, non theatro o loggia, Ma ‘n lor vece un abete, un faggio, un pino Tra l’erba
verde e ‘l bel monte vicino Onde si scende poetando e pioggia, Levan di terra al ciel nostr’intellecto», in
Canzoniere, a c. di G. Contini, con le note di D. Ponchiroli, Torino, Einaudi 1964.
39
A c. di A. Lanza, Roma, Salerno Editrice 1975.
Architettura e cortesia in Decameron V, 4 129

E tutti insieme nella ricca casa entraro; e passato per lo cortile, dove a mano destra era una
loggia ricamente ornata di tappeti, pancali e splendidissimi capoletti, e oltre passando entrarono
al giardino, dove in s’uno pratello circundato d’altissimi arcipressi abeti, melaranci e melagrani,
alori, mortini e ulivi, aparechiato si era da sedere [III, 24]

e in uno dei Motti e facezie del Piovano Arlotto40, il CLVII, dove perdura l’uso della
loggia nelle case dei nobili allo scopo di intrattenersi durante le conversazioni:
Alla loggia de’ Tornaquinci sendo in sull’ora del vespro ragunati al fresco alquanti cittadini
nobili […]

La «loggia», quindi, nell’itinerario percorso, esercita il ruolo di nobile e ameno


luogo di ritrovo, privo di finalità metanarrative come è invece la campagna della
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cornice.
Al pianterreno o ad un piano soprelevato la «loggia», come si vede, è uno degli
elementi più importanti della casa, dove si assiste a spettacoli «d’arme», si riceve
gente e dove è possibile vuoi il passeggio vuoi la cena41. Sicuramente essa non è
luogo indicato per incontri che richiedano almeno un poco di discrezione, se non di
isolamento. Vero è che l’incontro è notturno, tuttavia la loggia appare così legata al
pulsare della vita nella casa che avrebbe aggiunto imprudenza alla già imprudente
Caterina. Locus amoenus d’eccellenza, d’altra parte, nell’uso boccacciano la «log-
gia» è sempre accompagnata da una particolare attenzione al fatto artistico, che
invece nella descrizione del «verone» manca.
L’aspetto strutturale della loggia ben si concilia con la tradizione d’uso, ideale e
cortese. Nel Medioevo essa generalmente si regge su pilastri o colonne su cui si
appoggiano architravi o si impostano archi, che creano il caratteristico gioco di
ombre42 e ne determinano la copertura, grazie alla quale alcune di queste logge si
trasformarono in luogo di commercio, come quella di Orsammichele adibita alla
vendita del grano43. Così concepita, dunque, chiusa e riparata, la loggia sarebbe
stata idealmente funzionale ai due giovani protagonisti del racconto, Ricciardo e
Caterina: la sua presenza però avrebbe sospinto la novella su un terreno fortemente,
se non esclusivamente, cortese, laddove vedremo l’operazione boccacciana essere
più complessa e in qualche misura ardita: lo scrittore del Centonovelle vuole conci-
liare mondo cortese e mondo mercantile. Negli altri luoghi del Decameron in cui
Boccaccio adotta il termine invece la menzione del vocabolo si rende necessaria o
perché egli intende usufruire di un registro elevato e cortese, per allinearsi ai conte-

40
Il testo è curato da G. Folena, Milano-Napoli, Ricciardi 1965.
41
La puntualizzazione è nel poema di M.M. BOIARDO, Orlando innamorato, a c. di F. Foffano, Bologna,
Dall’Acqua 1906-07, III, I, 56 in cui si racconta che Mandricardo insieme ad una donna «Né passeggiarno per
la loggia molto Che con diletto se assettarno a cena».
42
Per tale particolarità sono note a Firenze la loggia del Palazzo del Podestà (1367), quella del Bigallo
(1352-1358), quella del Pandino (costruita intorno al 1379) e quella dei Lanzi. Fuori dell’area toscana si
ricorderanno poi la loggia del Palazzo Papale di Viterbo (1257-1266) e quella detta dei cavalieri di Treviso
(inizio XIII secolo).
43
Cfr. G. VILLANI, Nuova Cronica, cit., VIII, 99. 2.
130 Rosaria Amendolara

sti e agli ambienti raffinati dell’«onesta brigata», o per riferire un dato storico come
l’ubicazione della casa di Filippo Argenti, aristocratico fiorentino.
Ne deriva pertanto che l’oculata scelta linguistica esperita in questa novella, il
«verone», che costituisce un hapax nel Decameron, risponde ad una forte esigenza
di rinnovamento della prosa narrativa da parte del Certaldese. Perseguito tale rimo-
dernamento44 sì mediante la strada dell’avvicinamento a schemi di narrazione che
trovano la loro genesi nella vita di tutti i giorni, nella mimesi dei fatti quotidiani e
che non pretendono di riferire verità morali, come era accaduto prima dell’avvento
della borghesia comunale; ma anche attraverso l’incremento del già ricco e variega-
to panorama lessicale e sintattico sperimentato fino a quel momento45, prelevato
vistosamente dal contesto culturale e sociale in cui lui stesso, il Boccaccio, è im-
merso. La trasposizione diventa spia dell’incredibile livello di conoscenza culturale
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del narratore di Certaldo.


Particolarmente interessante diventa dunque il percorso storico, formale e se-
mantico, tracciato dal termine. Attraverso il quale è possibile dimostrare l’enorme
fortuna che ottenne il Decameron come modello di fruizione non soltanto dal punto
di vista contenutistico, ma anche linguistico-lessicale e stilistico. E questo non a
partire dal Cinquecento in poi, con il coronamento a canone linguistico del Cento-
novelle sancito dal Bembo nelle Prose, ma vivente il Boccaccio e non ostanti gli
atteggiamenti di distacco tenuti dai letterati umanisti46. Sull’utilizzo del lemma «ve-
rone», sulla scia della tradizione inaugurata dal narratore di Certaldo, che identifica
il «verone» con un terrazzino, si citi un unico esempio: il canto II, XXVIII, 4 dell’Or-
lando innamorato del Boiardo:
Stava Agramante in quel tempo a danzare
tra belle dame sopra ad un verone
che drittamente riguardava al mare,
ove era posto il ricco pavaglione.
Odendo il corno tanto ben sonare,
lasciò la danza e venne ad un balcone,
apoggiandosi al collo al bel Rugiero,
e giù nel prato vidde il cavalliero.

Va a ragione notato che la presenza di questo «verone» non è priva di conse-


guenze interpretative per quel che afferisce la lettura della nostra novella. In primo
luogo l’occorrenza del termine «verone» nel poema del Boiardo chiarisce espressa-
mente che esso non può essere confuso con un balcone, ché altrimenti l’autore della
corte estense non avrebbe usato a distanza di solo quattro versi il termine «balcone»

44
Per un’analisi dei caratteri che hanno determinato dal Duecento in poi il trapasso dal racconto tradizio-
nale esemplare e oitanico a quello nuovo laico consacrato definitivamente dal capolavoro boccacciano si
rinvia a M. DARDANO, Lingua e tecnica narrativa nel Duecento, Roma, s.n. 1969 e a A. TARTARO, La prosa
narrativa antica, in LIE, III, I, 1984, pp. 623-38.
45
Cfr. A. SCHIAFFINI, Tradizione e poesia nella prosa d’arte italiana dalla latinità medievale a Giovanni
Boccaccio, Roma, Storia e Letteratura 1943.
46
Alcuni di essi in realtà pur manifestando segnali di distanziamento dall’opera del Certaldese tentarono
la strada della traduzione in latino di talune novelle, come già aveva fatto il Petrarca con la vicenda di Grisel-
da, cfr. V. BRANCA, La fortuna letteraria e critica, in Decameron, cit., pp. LXIII-LXIV.
Architettura e cortesia in Decameron V, 4 131

per designare e distinguere quell’altro luogo del palazzo, sul quale Agramante si
sposta, abbandonando la festa. E in secondo luogo la sua presenza fornisce un’ulte-
riore informazione utile alla rappresentazione visiva di quest’inedito elemento – nel
panorama linguistico-letterario fino al Trecento – dell’architettura di un palazzo:
per contenervi il letto a baldacchino su cui riposano i due giovani della novella
boccacciana, Caterina e Ricciardo, e per allestirvi feste, durante le quali si danza,
come narra il Boiardo, il «verone» si deve estendere su una superficie davvero am-
pia. Va infine osservato che il riferimento del Boiardo alle «belle dame» del vecchio
mondo feudale, protagoniste insieme ad Amore di un’opera che ha perso molto
della tradizionale materia epica del poema francese, conferisce o piuttosto confer-
ma l’intonazione cortese del «verone», nella novella di Boccaccio scivolata verso
una china ambigua e allusiva, per il ruotare della trama attorno alla metafora del-
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l’usignolo. Tono cortese che, a sua volta, ben si accorda con l’intento che il Boiardo
s’era proposto nell’Innamorato: celebrare la dinastia degli Estensi, facendone deri-
vare l’origine dall’epopea degli eroi cavallereschi.

***

Sul «verone» si svolge l’azione dei nostri due personaggi. Qui Ricciardo, a notte
fatta, giunge e abbraccia per la prima volta Caterina, dopo aver superato una serie di
ostacoli:
Ricciardo, come d’ogni parte sentì le cose chete, con l’aiuto d’una scala salì sopra un muro,
e poi di ‘n su quel muro appiccandosi a certe morse d’un altro muro, con gran fatica e pericolo
se caduto fosse, pervenne in sul verone, dove chetamente con grandissima festa dalla giovane fu
ricevuto. [29]

E sempre qui, sul «verone», Ricciardo e Caterina, dopo aver raccolto le gioie
dell’amore, vengono sorpresi, la mattina dopo, dal padre di lei, «ignudi e iscoperti»,
in atteggiamento licenzioso:
sì ancora riscaldati sì dal tempo e sì dallo scherzare, senza alcuna cosa adosso s’adormenta-
rono, avendo la Caterina col destro braccio abracciato sotto il collo Ricciardo e con la sinistra
mano presolo per quella cosa che voi tra gli uomini più vi vergognate di nominare. [30]

Il «verone», dunque, ha una posizione centrale nella vicenda, è il luogo in cui si


realizza la crasi tra una concezione sensuale di amore ed istanze etiche, non propria-
mente cristiane, nonché l’incontro tra i valori della vecchia classe aristocratica, rap-
presentati dal cavaliere di Valbona e gli ideali della borghesia mercantile dell’età
comunale, incarnati da Ricciardo. L’una interpretazione, come vedremo, prende forma
e viene illuminata dall’altra.
Sul terrazzino infatti Ricciardo e Caterina, complice la giovinezza che li rende
imprudenti, si amano senza preoccuparsi di essere accanto alla stanza da letto di
Lizio. Boccaccio non indugia tanto sul momento della ‘conoscenza’ dei due giova-
ni, e quindi sul ‘primo’ momento del loro incontro, quando la passione brucia i loro
corpi, ché egli, sin dagli esordi letterari delle Rime e del Filocolo, ha differenziato il
132 Rosaria Amendolara

binomio amore-giovinezza rispetto al medioevo cristiano. Lo stesso Lizio, non ostante


lo scarto generazionale che lo separa da Ricciardo, riprendendolo per l’accaduto,
riconosce che «a tanto fallo t’ha trasportato la giovanezza». Ma anche la scelta
narrativa dell’autore di liquidare l’incontro tra Ricciardo e Caterina in un sintetico
passo, «dopo molti basci si coricarono insieme e quasi per tutta la notte diletto e
piacer presono l’uno dell’altro, molte volte faccendo cantar l’usignuolo», ripropo-
sto con una formula, che è grosso modo sempre la solita nel Decameron, ratifica che
per il Boccaccio l’amore è una delle forze più potenti e naturali che regolano l’agire
umano e che dà panica energia al mondo tutto. E poiché la decisione del Manardi di
rischiare il pericolo della scalata al «verone» è determinata dall’amore, che egli
nutre per la leggiadra fanciulla, la scena della notte d’amore, in cui Caterina e Ric-
ciardo liberamente si lasciano andare a passioni e a sentimenti, costituisce l’epilogo
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necessario del valoroso gesto di Ricciardo; alla quale scena l’autore guarda senza
alcuna forma di compiacimento. Così, ma vedremo più avanti, la notte di passione
regalata da Ginevra a Lancillotto di Chrétien rappresenta la ricompensa suprema,
tardiva e insperata di un amore che è stato fino ad allora sentimento segreto, profon-
do e senza possibilità di realizzazione. Eroe, dunque, nuovo, del coraggio il nostro
Ricciardo non meno grande di quell’eroe, passato, della spada che è Lancillotto.
A noi sembra piuttosto che l’attenzione dello scrittore si soffermi, seppure adom-
brandolo grazie ad un abile gioco linguistico e metaforico, sul ‘secondo’ momento,
quello successivo al congiungimento, quando Lizio, sul far del giorno, scopre Cate-
rina che «sì vaga dell’usignuolo, [...] l’ha preso e tienlosi in mano». Atteggiamento
nel quale la donzella rimane per tutta la durata del sermone rivolto dal padre a Ric-
ciardo. Ancora una volta da parte del Certaldese non si denota alcuna volontà nella
descrizione dell’immagine. Il permanere della fanciulla in quella posizione, in cui
viene colta dallo sguardo del padre, cavaliere del vecchio ordine feudale, asseconda
motivazioni ben più profonde dell’autore: investe, al di là della narrazione, valori
sociali e ideologici antichi e moderni, provoca trasformazioni e genesi di etiche.
Lizio, anziano genitore che, nella cura riservata alla figlia, mostra di osservare i
canoni dell’etica cristiana, la mattina al risveglio, deve confrontarsi con la scoperta
dei corpi «ignudi e iscoperti» di Caterina e Ricciardo. La delusione c’è tutta nelle
parole di reazione pronunciate dal vecchio Lizio, tra sarcasmo e disperazione, tra
ilarità e voglie di vendetta, ma, per vero, non è causata dalla violazione dei costumi
morali della fanciulla. È la destabilizzazione del progetto sociale al quale il genitore
ha lungamente pensato che lo mette a disagio. Ripresosi dal dispiacere dell’ingan-
no, infatti, il cavaliere di Valbona non manifesta segni di turbamento. Si può arguire
che a messer Lizio la castigatezza dei costumi morali della figlia importa meno
dell’onore sociale leso; o, meglio, importa nella misura in cui l’errore di cui si è resa
colpevole Caterina diventa l’espediente dal quale egli potrà ricavare il vantaggio di
un matrimonio, con cui reinserirsi nel gioco politico, ora prerogativa delle consorte-
rie e delle famiglie di origine mercantile in genere47. Lizio infatti, conoscendo Ric-

47
M. LUZZATI, Famiglie nobili e famiglie mercantili a Pisa e in Toscana nel basso medioevo, in Famiglia
e parentela nell’Italia meridionale, a c. di G. Duby e J. Le Goff, Bologna, Il Mulino 1981.
Architettura e cortesia in Decameron V, 4 133

ciardo quale «gentile uomo e ricco giovane» e considerando avere avuto la figlia ciò
che desiderava, si rassicura perché sa di poter trarre un «buon parentado». Egli
insomma, pur appartenendo ad una civiltà ormai superata, quella feudale e cavalle-
resca, agisce con la mentalità tipica dell’uomo borghese, dimenticandosi del siste-
ma dei valori più strettamente morali (la castità prima di tutti e la prudenza, la
temperanza e così via), sul quale in altri tempi si organizzava lo spazio domestico.
Il Manardi, per converso, è il «ricco giovane» dell’incipiente borghesia comuna-
le, che si muove in tutta la storia ispirandosi agli ideali di cortesia e di cavalleria,
che connotavano l’uomo della trascorsa età feudale. A lui va tutta la simpatia del
Boccaccio per essere lui, Ricciardo, anche rappresentante della gens nova (non di
quella mechanica) arricchitasi mercè il lavoro manuale e poi incapace di usare mi-
sura – del Comune moderna forma di cortesia – nell’amministrazione del patrimo-
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nio, al fine di ostentare un lusso e una posizione sociale, con cui cercava di imitare
l’antica aristocrazia di corte. Ricciardo è il «ricco giovane», non di stirpe nobile
(ché altrimenti l’autore ci avrebbe informati come sua consuetudine), che si è fatto
strada usufruendo probabilmente dei privilegi della emancipazione48: una forma cioè
di elargizione, riservata ai discendenti in linea maschile, praticata vuoi nelle fami-
glie di varia estrazione sociale con un cospicuo patrimonio fondiario, vuoi negli
ambienti aristocratici.
Certo stando all’esame dei dati rinvenuti dalla lettura del racconto e all’analisi
delle note storiche forniteci dal Branca, non possiamo provare che Ricciardo ap-
partenesse ad una famiglia mercantile o addirittura ad una consorteria. Ma c’è un
dato di fatto che non va eluso ai fini della definizione sociale del Manardi: la
frequentazione assidua di casa Valbona da parte del giovane deve avere un’altra
spiegazione, nella trama, che non può essere semplicemente quella di propiziare
l’incontro con Caterina. Ricciardo, prima di accorgersi della fanciulla, già «usava
molto nella casa di messer Lizio, e molto con lui si riteneva». Indizio che è segnale
di un rapporto di amicizia che doveva legare i due uomini, l’uno più anziano l’altro
più giovane. Sicuramente qui il riferimento non è a quel genere di amicizia, sollaz-
zevole, rappresentata da Bruno, Buffalmacco e Calandrino, o da Maso del Saggio
e i suoi compagni, Ribi e Matteuzzo [VIII, 5], bensì a quell’altra forma di amici-
zia, retaggio della tradizione pagana, intesa come ricerca di protezione e appoggi,
che in alcuni casi determina alleanze politiche. Tal che da questa dimestichezza
entrambi i protagonisti maschili della novella boccacciana ricavano un utile: Ric-
ciardo acquista il lignaggio artificiale, che ora il «ricco» rivendica per assurgere
all’élite morale della città; Lizio invece, destinato a decadere sul piano politico, a
seguito della graduale estinzione della classe sociale della nobiltà, condivide con
l’homo novus, il «gentile» Ricciardo, quei poteri pubblici ora sotto l’autorità della
volontà borghese.

48
Il praemium emancipationis, come apprendiamo dai libri delle ricordanze delle famiglie mercantili,
consisteva nella cessione ai figli maschi di beni immobili o di ingenti somme di danaro, allo scopo di evitare
la dispersione del potere economico e di garantire l’unità familiare, cfr. P. CAMMAROSANO, Aspetti delle strut-
ture familiari nelle città dell’Italia comunale: secoli XII-XIV, in Famiglia e parentela nell’Italia medioevale,
cit., pp. 117-119.
134 Rosaria Amendolara

Ricciardo e messer Lizio quindi, al momento della scoperta della tresca, sono
uniti da un precedente rapporto di amicizia e di fiducia – che doveva avere un so-
strato più nobile49 che non fosse il semplice interesse visto che Lizio non riteneva
necessario prendere alcuna «guardia» nei confronti del Manardi – simile a quello di
obbedienza e di fiducia che legava Lancillotto a re Artù, nel momento in cui il
cavaliere svelava la sua passione alla regina Ginevra.
Ciò che cambia, nei due episodi del Boccaccio e di Chrétien, è solo la cornice
della realtà sociale: l’amore di Lancillotto per Ginevra trova modo di realizzarsi
innestandosi sulla topica della lirica cortese che vede lui, amante e vassallo, stabili-
re un rapporto di fedeltà con una donna, Ginevra, moglie di re Artù, la quale diviene
sua domina e insieme il vero motore delle sue gesta e delle sue avventure, tagliando
fuori perciò la figura del re, che entra nell’economia della vicenda solamente perché
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Ginevra ne è la moglie. L’amore di Ricciardo per Caterina invece pur nascendo


sulle coordinate della fisiologia d’amore della tradizione cortese – la vista, la di-
screzione e la sofferenza dell’amante – si piega poi alla realtà dei sensi e alle solle-
citazioni al piacere (teorizzate da Andrea Cappellano) e non pone fuori dalla storia
il personaggio di Lizio, il quale anzi con il suo intervento, impostato sull’osservan-
za delle regole sociali, permette la realizzazione del compromesso tra nobili e popo-
lani ricchi, ma senza blasone, tipica dell’età comunale.

***
L’interpretazione della novella come esaltazione dei miti cortesi dell’eroismo e
della cavalleria, riproposti dalla figura di Ricciardo, rimanda, dunque, è stato antici-
pato all’inizio del nostro studio, ad un modello letterario che è quello incarnato da
Lancillotto, nel romanzo Le chevalier de la charrete di Chrétien de Troyes.
Non pochi sono i punti di contatto della trama boccacciana con il testo narrato
dallo scrittore d’Oltralpe, né del tutto assenti sono i salti o le differenze: presenze e
assenze che denunciano la ricezione, per altro già largamente provata, di questa
narrativa oitanica nell’opera del Certaldese. L’analisi mirerà a portare alla luce que-
sti elementi di vicinanza o di divergenza nella novella del Boccaccio, al fine di
comprendere come lo scrittore italiano si ponga, nella costruzione della vicenda di
Ricciardo, di fronte al modello occitanico, senza arrivare ad un coartato accosta-
mento formale o di contenuto. Le gesta avventurose di Ricciardo e Lancillotto, l’in-
dugiare su alcuni particolari inerenti al luogo ove si svolge l’incontro amoroso tra le
due coppie di innamorati, quali il «giardino-vergier», il «verone-fenestre», l’«uscio
serrato-fenestre ferree», il «letticello-lit», e ancora l’appagante esito del convegno
notturno sono tra i temi che vedremo di esaminare partitamente.
Per Ricciardo l’avventura della scalata al «verone», determinante per avvicinare
l’amata Caterina, ma anche per rassicurarla sull’adeguatezza della scelta da lei ope-

49
Cfr. la testimonianza di Cicerone nel De amicitia, IX, 29 a proposito del rapporto tra utile e virtù:
«Quamquam confirmatur amor et beneficio accepto et studio perspecto et consuetudine adiuncta. Quibus
rebus ad illum primum motum animi et amoris adhibitis, admirabilis quaedam exardescit benevolentiae ma-
gnitudo».
Architettura e cortesia in Decameron V, 4 135

rata, è di certo una prova di coraggio e di attaccamento, paragonabile ai tornei, quei


giochi diffusi dai signori nelle corti feudali del XII secolo, al fine di verificare le
qualità cavalleresche dei pretendenti. Nei torneamenti venivano selezionati gli ju-
venes più forti, i più pronti ad affrontare pericoli e sacrifici, i più leali nel servire e i
più capaci nell’usare discrezione e nel controllare i propri impulsi50. La dama era
allora la chimera lontana, ma visibile, per la quale si combatteva e si giostrava.
Proprio come Caterina è l’idea fissa che possiede e distrugge Ricciardo: «Caterina,
io ti priego che tu non mi facci morire amando».
Arcita e Palemone, i due tebani del Teseida51, duellano per conquistare «l’amor
di quella ond’eran sì bramosi», Emilia.
Spiega Teseo, ai sovrani lì adunati per assistere alla questione tra i due amici,
che essi sono già «contra ‘l dover ferventi» e che quindi s’impegneranno con tutte le
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loro forze «per pagare d’amore il fio»:


sol con le spade o con mazze
l’espresse forze di voi contenti proverete;
[...]
e quelli a cui il bene ovrar vittoria
darà, s’avrà e la donna e la gloria.

Ricciardo non ha rivali con cui misurarsi nella sua prova di arditezza e di caval-
leria. Egli ha solo da misurarsi con la sua determinazione e il suo coraggio. Lo
esorta infatti Caterina: «Se quivi ti dà il cuor di venire, io mi credo ben far sì che
fatto mi verrà di dormirvi». È la vista di Caterina, sono le «laudevoli maniere e
costumi» di lei, la speranza che lei, come un’esca, getta che convincono Ricciardo
ad intraprendere un’impresa che gli meriteranno la grazia e l’amore della fanciulla.
Esclamava il Cappellano52 in merito alle potenti forze d’amore capaci di svegliare
nell’amante mirabili virtù:
O, quam mira res est amor, qui tantis facit hominem fulgere virtutibus tantisque docet quem-
libet bonis moribus abundare!

Non ostante Ricciardo sia in assenza di contendenti a sfidare il pericolo, pure


resta inoppugnabile che la rischiosa ascesa al «verone» costituisce la condizione
per la quale si pone in atto l’affinamento della sua personalità come «gentile uomo».
La prova del «verone», come quella della «charrete» per Lancillotto, è l’espediente
attraverso cui più traspare la forza d’amore e più evidente è la chevalerie: più alto si
trova il «verone», più «fatica e pericolo» sopporta Ricciardo per raggiungerlo, più
evidenti e definite sono le sue qualità di eroe; più in alto socialmente è collocata
Ginevra, più infamante per Lancillotto, cavaliere, è la «charrete», utilizzata per in-

50
G. DUBY, Medioevo maschio, in G. DUBY, D. HERLIHY, J. ROSSIAUD, Amore, sesso, famiglia, matrimonio,
Bari, Laterza 1991, pp. 61-63.
51
VII, 12, vv. 3-8.
52
ANDREA CAPPELLANO, De Amore, a c. di G. Ruffini, Milano, Guanda 1980, I.
136 Rosaria Amendolara

seguire la donna senza perderne le tracce, più compiuta è la di lui perfezione. E se la


prova per Lancillotto rappresenterà un’ulteriore segno della sua devozione alla re-
gina; per Ricciardo l’ostacolo servirà a riaffermare la gentilezza dei suoi costumi
(già annunciata nella discrezione usata per non far trapelare il sentimento verso
Caterina) e a sancire la sua selezione e la successiva promozione. L’una agli occhi
dell’innamorata, che potrà così prendere atto dell’autenticità dell’amore di Ricciar-
do e ne potrà ricavare «diletto e piacer»; l’altra agli occhi di Lizio che, unendo in
matrimonio la figlia al Manardi, non potrà non tener conto della pericolosa salita sul
«verone», dimostrazione di animo eroico.
L’avventura di Lancillotto invece, che ugualmente prende le mosse da un lungo
tormento d’amore, «la reïne sa dame/ qui li a mis el cors la flame», non si distende
su un terreno fatto di implicazioni morali, come si potrebbe immaginare, quanto
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piuttosto su un conflitto tra costumi cavallereschi e amore.


Lancillotto è il cavaliere che ha giurato fedeltà al suo signore, re Artù, con l’omag-
gio feudale e che nel convegno notturno con la regina Ginevra rompe il patto di
lealtà verso il re, senza lasciarsi consumare dal senso di colpa. Laddove Ricciardo,
ravvisando di essersi comportato in modo disleale verso Lizio, suo amico, prova
«vergogna per il fallo commesso». «Vergogna», tuttavia, che non comporta alcun
pentimento nell’animo del giovane, ma che provoca semmai un pudico rossore per
il fatto che la sua intimità con Caterina, nell’atto di mostrarsi «nudo», viene svelata
al mondo esterno. Lancillotto non sente il peso della colpa nei confronti del signore,
tutt’al più evita di macchiarne pubblicamente l’onore: ecco perché la scelta dell’in-
contro di notte, la premura di non lasciare alcuna traccia, egli s’illude, dietro di sé. Il
senso del rimorso non può avere spazio nell’animo di Lancillotto, che anzi sente
crescere sempre di più il suo amore, in nome del quale è disposto a sopportare le
situazioni più umilianti e ad obbedire a qualsiasi richiesta la regina gli faccia. Dice
Chrétien in merito a questo profondo sentimento che tutto pervade l’animo di Lan-
cillotto:
[…] s’ele a lui grant amor ot
et il c. mile tanz a li,
car a toz autres cuers failli
Amors avers qu’au suen ne fist;
mes an son cuer tote reprist
Amors, et fu si anterine
qu’an toz autres cuers fu frarine. [vv. 4662–68]

Il peccato di Lancillotto pertanto consiste piuttosto nel riporre il suo amore in un


‘bene’ così elevato e prezioso come è la regina. Di qui le continue prove, le inces-
santi avventure alle quali il cavaliere si sottopone nella speranza di ottenere un
dono, che forse non sarà mai meritato fino in fondo. D’altra parte l’azione, il rischio
sono l’unico metro attraverso cui si stima il valore di un vero cavaliere. L’avventura
è il momento in cui l’eroe – e si pensi ai tanti Tristano, Orlando, Tancredi e Rinaldo,
per citarne solo alcuni – decide fra la gloria, data dal cimento dell’azione, e la morte
morale. Concetto che in un certo senso è lo stesso che anima Ricciardo: sicché la
sua avventura finisce con il coincidere, come in genere nel Decameron, con quello
Architettura e cortesia in Decameron V, 4 137

spazio riservato all’uomo, in cui egli può tentare di contrastare le leggi della realtà e
di riscattarsi con la gloria53.
Questa a livello più ampio l’utilizzazione del modello occitanico di Chrétien
nella vicenda del Boccaccio. Sul piano più strettamente narrativo converrà partire
dal momento della rivelazione del proprio sentimento da parte di Ricciardo a Cate-
rina. La calda preghiera rivolta dal Manardi alla fanciulla in quel breve scambio di
battute, il primo dopo molti silenzi, l’unico precedente l’incontro notturno
[...] a te sta il trovar modo allo scampo della tua vita e della mia [10]

pare essere il rifacimento del passo francese in cui Lancillotto, dopo aver atteso a
lungo di aprire il suo animo a Ginevra, le fa esplicita richiesta di un appuntamento:
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mes je ne vos puis mie ci


tot dire quan que ge voldroie;
volantiers a vos parleroie
plus a leisir, s’il pooit estre [vv. 4502–05]

La sola variante che il Boccaccio concede rispetto alla vicenda di Chrétien è


quella dell’inversione del personaggio, da femminile a maschile (secondo una pras-
si ricorrente in Boccaccio), che decide il luogo dell’incontro: nel romanzo francese
è Ginevra a mostrare a Lancillotto la finestra – anch’essa, come il «verone», nien-
t’affatto bassa, «n’est mie basse» – presso cui egli si dovrà recare, durante la notte,
attraversando il verziere:
Et la reïne une fenestre
li mostre, a l’uel, non mie au doi,
et dit: «Venez parler a moi
a cele fenestre anquenuit,
quant par ceanz dormiront tuit,
et si vanroiz par cel vergier». [vv. 4506–11]

mentre nella novella decameroniana è Ricciardo ad indicare a Caterina il luogo in


cui si dovranno ritrovare.
È chiaro che il Certaldese, dovendo esaltare la figura di Ricciardo agli occhi di
Caterina, deve assegnare a lui l’iniziativa dell’azione. Come in un percorso acci-
dentato nel quale l’atleta, fatica dopo fatica, si avvicina sempre più alla meta, fino a
conseguire il titolo di vincitore, così nell’evolversi della vicenda il Manardi supera
tutti gli ostacoli sì da meritare alla fine l’appellativo di chevalier. È lui infatti a
definire il luogo malsicuro in cui darsi convegno con Caterina, è lui che mette a
rischio la conveniente amicizia con Lizio, è lui infine che vede la propria vita mi-
nacciata dal padre della fanciulla. Ne Le chevalier de la charrete invece Chrétien
affida a Ginevra la decisione di eleggere il luogo più idoneo per l’incontro notturno,
perché lei è la regina. Essa è colei che induce il suo pretendente, Lancillotto, ad

53
Cfr. R. STEFANELLI, Rischio e avventura nel Decameron, Bari, Doge 1994.
138 Rosaria Amendolara

eseguire le imprese più ardue. Tal che, dal punto di vista psicologico, pare quasi che
la personalità del cavaliere venga condizionata e, in un certo senso, offuscata dal-
l’atteggiamento nobile e fiero di Ginevra, creatura però dall’animo passionale. In
realtà la mancanza di facoltà decisionale in Lancillotto si spiega con l’assoluta fe-
deltà di Chrétien allo svolgimento del topos letterario: la regina, data la sua posizio-
ne di superiorità, non gli si può donare subito, per cui egli ha come unica chance,
per essere da lei scelto e quindi sublimato, quella di dimostrare pazientemente il
proprio valore. Fino a quando le legittime riserve della sovrana cadranno dinanzi
all’ultima grande barriera superata dall’amante per acquistare il suo onore. Solo
allora, per la prima volta, il Chrétien paleserà anche il desiderio d’amore che strug-
ge Ginevra:
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Quant Lanceloz voit la reïne


qui a la fenestre s’acline,
qui de gros fers estoit ferree,
d’un dolz salu l’a saluee.
Et ele un autre tost li rant,
que molt estoient desirrant
il de li et ele de lui.
[...]
Li uns pres de l’autre se tret
et andui main a main se tienent. [4583–93]

Definito il luogo dell’incontro, le due vicende seguono poi un corso autonomo.


Nella novella del Boccaccio c’è l’intermezzo del contrasto54 tra madre e figlia, ma-
donna Giacomina e Caterina, che si risolve con la positiva mediazione della donna
presso il marito Lizio, affinché venga allestito il «letticello» sul «verone». Nel ro-
manzo di Chrétien de Troyes c’è la descrizione dello stato d’animo ansioso di Lan-
cillotto che, lieto per il consenso accordatogli dalla regina ad incontrarsi, sembra
aggirarsi nell’ignoto dell’oscurità e del silenzio della notte.
Il testo della novella boccacciana si ricongiunge all’autorevole modello francese
nella fase culminante dell’avventura, il momento dell’incontro delle due coppie di
amanti, sul «verone» e presso la «fenestre».
Prima però si osservi come l’attuabilità del desiderio tanto accarezzato da Ric-
ciardo e da Lancillotto venga per un istante messa in dubbio, quando sia Caterina
sia Ginevra – l’una nel fugace dialogo avuto con il Manardi, l’altra in quello che si
svolge dietro le sbarre della finestra – confessano ai loro amanti di essere ben pro-

54
La discussione mattutina fra le due donne, determinata dalla richiesta avanzata da Caterina di coricarsi
sul «verone», per via del «soperchio caldo notturno» che le toglie il sonno, porta ad una considerazione sul
rapporto ed influenza dell’età della vita, stagioni e agenti umorali sulla costituzione degli individui. La ripresa
della madre, in risposta alle fantasie della giovane, «[...] che caldo fa egli? Anzi non fu egli caldo veruno», si
spiega con il fatto che la donna intende subito che il «soperchio caldo», accusato da Caterina non è provocato
dall’incipiente aere primaverile, bensì dagli ardori della giovinezza. Per cui la reazione della figlia, «dovreste
pensare quanto sieno più calde le fanciulle che le donne attempate», trova qui la sua giusta ammissione. Ché
Caterina, giovane e di temperamento sanguigno, è per natura predisposta a sentire gli effetti del tepore prima-
verile e primi fra tutti gli allettamenti di Venere. Cfr. Flos Medicinae Salerni, § LXXXVII.
Architettura e cortesia in Decameron V, 4 139

tette da eventuali tentativi di incursioni esterne. Confida Caterina a Ricciardo: «tu


vedi quanto io sia guardata, e per ciò da me non so veder come tu a me ti possi
venire». A sostegno della quale confessione Boccaccio, più in là nella narrazione,
inserisce un’altra misura preventiva, quella dell’«uscio serrato», che non sarà punto
utile. Nella novella boccacciana l’eco delle parole di Ginevra è chiara:
Ceanz antrer, ne herbergier
ne porroiz mie vostre cors;
je serai anz, et vos defors
que ceanz ne porroiz venir.
[...]
Et li huis ne rest mie overz,
einz est bien fers et bien gardez. [4512–25]
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La pericolosa ascesa all’elevato terrazzino dell’abitazione di Caterina, ultimo


ostacolo alla celebrazione delle virtù eroiche di Ricciardo,
con l’aiuto d’una scala salì sopra un muro, e poi di ‘n su quel muro appiccandosi a certe
morse d’un altro muro, con gran fatica e pericolo se caduto fosse, pervenne in sul verone [29]

è il rimaneggiamento originale del Boccaccio della difficile prova dello sconficcare


l’inferriata che protegge la finestra, alla quale si sottopone Lancillotto:
As fers se prant, et sache, et tire
si que trestoz ploier les fet
et que fors de lor leus les tret. [4636–38]

Entrambe le dimostrazioni di forza e di coraggio sono precedute da un toccante


invito d’assenso, rivolto alle rispettive donne dal Manardi e da Lancillotto, a proce-
dere nei piani per dare compimento alle due vicende d’amore. Varrà rileggere i passi
parallelamente.
Ricciardo a Caterina:
Per me non starà mai cosa che a grado ti sia... [10]

Lancillotto alla regina Ginevra:


Se vostre congiez le m’otroie,
tote m’est delivre la voie;
mes se il bien ne vos agree
donc m’est ele si anconbree
que n’i passeroie por rien. [vv. 4611–15]

E sempre Lancillotto precedentemente, quando Ginevra fissa l’incontro per quella


notte: «Dame, fet il, la ou je puisse».
Nell’un caso e nell’altro insomma i due eroi, per avere un contatto più vicino
con Caterina e Ginevra, devono attendere un qualche cenno delle donne, per evitare
il capitolare della situazione voltasi a loro vantaggio, dopo il periodo di sofferenza,
in cui sia Ricciardo sia Lancillotto hanno dovuto tenere nascosto il nobile sentimen-
140 Rosaria Amendolara

to. Ottenuto il consenso, entrambi i cavalieri, l’abbiamo anticipato poco prima, si


arrischiano in quello che si può definire l’atto eroico vero e proprio, l’ultimo, che li
conforterà di tutte le fatiche.
Sicché Ricciardo, giunto sul «verone», si corica con Caterina «e quasi per tutta
la notte diletto e piacer presono l’un dell’altro» [29]; mentre Lancillotto, oltrepassa-
te le sbarre sconficcate e inchinatosi davanti alla sua sovrana, in segno di devozio-
ne, «si l’aore et se li ancline, / car an nul cors saint ne croit tant», gode del suo regale
‘bene’: «quant il la tient antre ses braz / et ele lui antre les suens. [...] Molt ot de joie
et de deduit Lanceloz, tote cele nuit « [vv. 4672-73; 4685-86].
A questo punto della storia la novella boccacciana si allontana definitivamente
dall’episodio del suo celebre modello. Ché se, in armonia coi dettami cortesi, lo
scrittore d’Oltralpe preferisce tacere su quella pagina, in cui in sordina ha lasciato
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che riecheggiasse la passione tra Lancillotto e Ginevra:


que il lor avint sanz mantir
une joie et une mervoille
tel c’onques ancor sa paroille
ne fu oïe ne seüe;
mes toz jorz iert par moi teüe,
qu’an conte ne doit estre dite.
Des joies fu la plus eslite
et la plus delitable cele
que li contes nos test et cele. [4676–84]

messer Giovanni orienta la riscrittura del mito cortese verso una direzione allusiva,
sostanzialmente diversa rispetto alla fonte, ricorrendo alla metafora dell’«usignuolo».
Questo, che era entrato nel tessuto istoriale quale emblema dell’amore nella not-
te55, qui ritorna ad occupare lo spazio della narrazione con una significazione indub-
biamente maliziosa, per una sorta di enfatizzazione favorita dalla situazione. In altri
termini: il senso del messaggio racchiuso nell’immagine dell’«usignuolo» – già chiaro
nel momento in cui Caterina lo aveva utilizzato per persuadere la madre a mediare
presso il padre – rimane adombrato nell’accezione gaia e vaga ascrittale dalla lirica
cortese, fino a quando l’episodio slitta verso un pendio vistosamente ambiguo e
ironico, che collima con il gusto del pubblico borghese, cui si rivolge l’autore del
Decameron.
Al di là delle distanze che separano i due episodi, resta dunque se non il rileva-
mento di una diretta ascendenza della novella decameroniana dalla famosa vicenda
di Lancillotto e Ginevra narrata da Chrétien, almeno il recupero della cortesia del

55
Cfr. il lai di Marie de France, in cui l’usignolo simboleggia il tragico archetipo della fol’amor tra una
dama malmaritata e un giovane cavaliere, che si consumano nel crescente bisogno di appagare il loro amore,
ma anche alla tradizione lirica dei trovatori. Esordisce J. RAUDEL: «Quan lo rius de la fontana S’esclariz, si
cum far sol, E par la flors aiglentina, E·l rossinholetz el ram Volf e refranh ez aplana Son dous chantar et afina,
Dreitz es qu’ieu lo mieu refranha», in Quan lo rius de la fontana; e ripete un ANONIMO in Quan lo rossinhols
escria: «Quan lo rossinhols escria Ab sa par la nueg e·l dia, Yeu suy ab ma bell’amia Jos la flor, Tro la gaita de
la tor Escria: «Drutz, al levar! Qu’ieu vey l’alba e·l jorn clar»». Entrambe le liriche sono edite in La poesia
dell’antica Provenza, a c. G.E. Sansone, Parma, Guanda 1993.
Architettura e cortesia in Decameron V, 4 141

mondo feudale e cavalleresco di re Artù in una società mercantile e borghese, quale


doveva essere quella in cui si sviluppa la storia di Ricciardo e Caterina. Tal che
possiamo riassumere che, a livello esegetico, il singolare richiamo al cavaliere fran-
cese, Lancillotto del Lago, nobile per l’esercizio delle armi e per essersi innalzato
ad un ‘bene’ così alto, serve per un inquadramento del «gentile» e «ricco» Ricciardo
nel mondo cortese di Lancillotto. Anche il Manardi infatti, che nobile non è di nata-
li, acquista una connotazione cavalleresca – in virtù dell’ascesa al «verone» e del
matrimonio ristabilitore dell’ordine sociale – che completa quella gentilezza innata
dell’animo, attribuitagli da Boccaccio nella narrazione.
Probabilmente quella del Manardi è una cortesia ‘limitata’ poiché nella sua azio-
ne non c’è spazio per l’inchino alla donna amata, o ‘attenuata’ poiché non perpetua-
ta da successive avventure, come quelle che armano la mano di Lancillotto, dopo la
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notte d’amore donatagli da Ginevra, ma quella di Ricciardo non è certo una cortesia
parodizzata. Anzi la cortesia del Manardi una volta di più attesta l’attaccamento del
Boccaccio agli ideali cavallereschi di un mondo scomparso, ma al quale egli guarda
ancora con immutata nostalgia e con ammirato stupore.

(Università di Bari)

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