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Giuseppe Ledda

«Se fede merta nostra maggior musa»: sulla presenza di Virgilio nel Paradiso

[In corso di stampa nel volume Dante e la tradizione classica. In ricordo di Saverio Bellomo, a cura di S.
Carrai e G. Rizzarelli, Pisa, Edizioni delle Normale.]

1. Nell’ambito dei rapporti su Dante e la cultura classica, mi è accaduto di lavorare


soprattutto sulla riscrittura dantesca dei miti ovidiani. La presenza di Virgilio nella
Commedia è stata centrale nella mia attività didattica, ma non ho mai avuto occasione
di soffermarmi analiticamente in sede di ricerca su questo tema cruciale per
l’interpretazione dell’intero poema. Negli ultimi tempi, ho iniziato a coltivare il
desiderio di approfondirlo, anche grazie a un articolo di Saverio Bellomo, dal titolo
“Or sé tu quel Virgilio?” Ma quale Virgilio?, uscito su «L’Alighieri», nel 20161. È
stato purtroppo il penultimo contributo da lui pubblicato nella nostra rivista2. Proprio
l’acuta e brillante trattazione di Saverio mi spinto ad affrontare a fondo questo tema,
facendo tesoro delle sue indicazioni, ma sviluppando poi autonomamente alcune idee
che mi erano via via venute in mente in tanti anni di lavoro in ambito dantesco.
Abbiamo l’Inferno commentato da Saverio Bellomo3 e avremo anche il Purgatorio,
che aveva quasi finito e che è stato portato a compimento da Stefano Carrai4. Purtroppo
non avremo però il suo Paradiso. Ho pensato quindi di offrire a mia volta una piccola
integrazione, studiando la presenza di Virgilio nella terza cantica. Del resto, il Paradiso
è la cantica in cui Virgilio scompare come personaggio e anche le riprese dei suoi testi
paiono diradarsi. Inoltre, l’intertestualità virgiliana nel Paradiso è meno studiata
rispetto a tanti episodi cruciali nell’Inferno, che hanno ricevuto una grande attenzione
dalla critica: basti ricordare l’incontro col personaggio che si propone come guida; la
dimensione decisiva dell’intertestualità virgiliana nei primi canti dell’Inferno e
nell’incontro con Pier delle Vigne; lo statuto di guida infernale apparentemente sicura
e infallibile, che si rivela però talvolta incerta e fallibile, come negli incontri con i
diavoli alle porte della città di Dite e con i Malebranche nella bolgia dei barattieri5.
1
S. BELLOMO, “Or sè tu quel Virgilio?”: Ma quale Virgilio?, in «L’Alighieri», LVII, n.s., 47, (2016), pp. 5-18.
2
L’ultimo è stata una bella lectura di Purgatorio III, uscita l’anno successivo: S. BELLOMO, I destini del corpo e
dell’anima: lettura di «Purgatorio» III, in «L’Alighieri», LVIII, n.s., 50, (2017), pp. 79-91.
3
DANTE ALIGHIERI, Inferno, a cura di S. BELLOMO, Torino, Einaudi, 2013.
4
Ho mantenuto il futuro della relazione orale, tenuta nell’aprile 2019. Il volume è stato poi pubblicato alla fine dell’anno:
DANTE ALIGHIERI, Purgatorio, a cura di S. BELLOMO e S. CARRAI, Torino, Einaudi, 2019.
5
Mi limito a poche segnalazioni essenziali a titolo esemplificativo per ciascuno di questi nuclei: per la centralità di
Virgilio nel primo canto, Z.G. BARAŃSKI, «Inferno» I, in Lectura Dantis Bononiensis, vol. I, a cura di C. Galli, E.
Pasquini, Bologna, Bononia University Press, 2011, pp. 11-40; L.C. ROSSI, Un problema aperto: “lo bello stilo”
virgiliano di Dante, in Il mondo e la storia. Studi in onore di Claudia Villa, a cura di F. Lo Monaco, L.C. Rossi, Firenze,
SISMEL-Edizioni del Galluzzo, 2014, pp. 275-292; L. MARCOZZI, «Inferno» I. “Accessus” alla «Commedia», in «Le
Tre Corone», IV, (2017), pp. 47-71; sui primi canti dell’Inferno, M. PICONE, «Inferno» II: l’altro viaggio, in Sotto il
segno di Dante. Scritti in onore di Francesco Mazzoni, a cura di L. Coglievina, D. De Robertis, Firenze, Le Lettere, 1998,
pp. 249-260; G. INGLESE, Dante “virgiliano” nel terzo canto dell’«Inferno», in Atti delle “Rencontres de l’Archet”,
Morgex, 14-19 settembre 2015, Morgex-Torino, Centro di Studi storico-letterari Natalino Sapegno-Lexis, 2017, pp. 72-
80; G. PADOAN, Il Limbo dantesco, in ID., Il pio Enea, l’empio Ulisse. Tradizione classica e intendimento medievale in
Dante, Ravenna, Longo, 1977, pp. 103-124; L.C. ROSSI, Canto IV. Autoincoronazione poetica nel limbo, in Lectura
Dantis Romana. Cento canti per cento anni. I. Inferno, a cura di E. Malato, A. Mazzucchi, Roma, Salerno Editrice, 2013,
Grande attenzione critica hanno ricevuto anche tanti episodi del Purgatorio importanti
per la rappresentazione della guida: gli incontri con Catone, con Sordello e soprattutto
con Stazio, e poi l’arrivo nel Paradiso terrestre e la scomparsa di Virgilio,
accompagnata da significative citazioni dei suoi testi6. A partire da tale momento il
poeta latino sembra scomparire non solo come personaggio ma anche autore di quei
testi che fino ad allora erano stati continuamente citati.
Tale impressione è confermata dalla rassegna delle allusioni dantesche alle opere di
Virgilio realizzata da Robert Hollander7. Raccogliendo tutte le citazioni virgiliane
individate dai commentatori danteschi antichi e moderni, Hollander le distingue fra
«certe», «quasi certe», «probabili» e «dubbie». Si tratta naturalmente di una
classificazione opinabile, ma i risultati restano significativi e rivelatori, in quanto basati
su sette secoli di esegesi dantesca. Le citazioni sicure, quasi sicure o probabili sono
complessivamente 193 nell’Inferno, 103 nel Purgatorio, 68 nel Paradiso. In
particolare, quelle certe o quasi certe sono 80 nell’Inferno, 28 nel Purgatorio, 15 nel
Paradiso. L’unico primato che il Paradiso può vantare è quello delle citazioni
dubbie:10 nell’Inferno, 8 nel Purgatorio, 12 nel Paradiso.
Pur con qualche possibilità di interpretare diversamente il grado di certezza o
probabilità, i numeri restano eloquenti e certificano non solo una minore presenza
complessiva dei testi virgiliani nel Paradiso ma anche una minore evidenza delle
singole allusioni, in quanto risultano essere solo quindici le citazioni certe o quasi certe.
Le dodici citazioni dubbie possono indicare il persistere di tracce virgiliane nel

pp. 131-161; C. VILLA, Le maschere di Francesca e il fantasma di Didone, in «Letture classensi», 46 (2017), pp. 27-41;
su Inferno XIII, S. GENTILI, “Ut canes infernales”: Cerbero e le Arpie in Dante, in I “monstra” nell’Inferno dantesco:
tradizione e simbologie, a cura di E. Menestò, Spoleto, Centro Italiano di Studi sull’Alto Medioevo, 1997, pp. 177-203;
W.A. STEPHANY, Dante’s Harpies: “tristo annunzio di futuro danno”, in The Poetry of Allusion: Virgil and Ovid in
Dante’s «Commedia», a cura di R. Jacoff, J.T. Schnapp, Stanford, Stanford University Press, 1991, pp. 37-44 e 258-261;
sulla funzione di guida e sui suoi fallimenti, R. HOLLANDER, Il Virgilio dantesco: tragedia nella «Commedia», Firenze,
Olschki, 1983; T. BAROLINI, Il miglior fabbro. Dante e i poeti della «Commedia» (1984), trad. it., Torino, Bollati
Boringhieri, 1993, pp. 153-226; L.H. HOWARD, Virgil the Blind Guide. Marking the Way through the «Divine Comedy»,
Montreal and Kingston, McGill-Queen’s University Press, 2010.
6
Su Virgilio nei canti dell’Antipurgatorio cfr. in particolare M. FRANKEL, La similitudine della zara («Purg.» VI, 1-12)
e il rapporto fra Dante e Virgilio nell’antipurgatorio, in Studi americani su Dante, a cura di G.C. Alessio, R. Hollander,
Milano, Angeli, 1989, pp. 113-143. Su alcuni dei passaggi fondamentali in questi canti: R. HOLLANDER, Ancora sul
Catone dantesco, in «Studi Danteschi», LXXV, (2010), pp. 187-204; S. BELLOMO, I destini del corpo e dell'anima: lettura
di «Purgatorio» III, in «L’Alighieri», LVIII, n.s., 50, (2017), pp. 79-91; O. HOLMES, Virgil and Sordello’s embrace in
Dante’s «Commedia»: latin “poeta” meets vernacular “dicitore”, in «Mediaevalia», 36-37, (2015-2016), pp. 79-117; G.
SASSO, Dante, Sordello e il giudizio su Virgilio, in «Bollettino di Italianistica», n.s., XIV/1, (2017), pp. 11-45; G. LEDDA,
Canti VII-VIII-IX. Esilio, penitenza, resurrezione, in Esperimenti danteschi. Purgatorio 2009, a cura di B. Quadrio,
Genova-Milano, Marietti, 2010, pp. 71-103; sull’incontro con Stazio, R.L. MARTINEZ, La «sacra fame dell’oro»
(«Purgatorio» 22, 41) tra Virgilio e Stazio: dal testo all’interpretazione, «Letture Classensi», 18, 1989, pp. 177-193; A.
BATTISTINI, L’acqua della samaritana e il fuoco del poeta («Purg.», XXI-XXII) (1992), in ID., La retorica della salvezza.
Studi danteschi, Bologna, Il Mulino, 2016, pp. 165-195; M. ARIANI, Canti XXI-XXII. La dolce sapienza di Stazio, in
Esperimenti danteschi. Purgatorio 2009, cit., pp. 197-224; G. SASSO, “Auri sacra fames” e “sacra fame de l'oro” («Aen.»
3, 57 e «Purgatorio» XXII 41), in «La Cultura», in ID., “Forti cose a pensar mettere in versi”. Studi su Dante, Torino,
Nino Aragno, 2017, pp. 231-277; W. WETHERBEE, Ovid and Vergil in Purgatory, in ID., The Ancient Flame. Dante and
the Poets, Notre Dame, University of Notre Dame Press, 2008, pp. 117-157; su Virgilio nei canti del Paradiso terrestre e
la sua scomparsa, L. PERTILE, La puttana e il gigante. Dal Cantico dei Cantici al Paradiso Terrestre di Dante, Ravenna,
Longo, 1998, pp. 51-86; R. JACOFF, Canto XXX. At the summit of Purgatory, in Lectura Dantis. Purgatorio, a c. di A.
Mandelbaum, A. Oldcorn, C. Ross, Berkeley-Los Angeles-London, University of California Press, 2008, pp. 341-352.
7
R. HOLLANDER, Le opere di Virgilio nella «Commedia» di Dante, in Dante e la “bella scola” della poesia. Autorità e
sfida poetica, a cura di A.A. Iannucci, Ravenna, Longo, 1993, pp. 247-343.
linguaggio dantesco, ma private della memoria del contesto originario e quindi di una
dimensione allusiva o intertestuale.
Sono certo che Saverio Bellomo, con il suo orecchio finissimo e la sua grande
conoscenza dei classici, avrebbe incrementato questi dati, così come ha fatto l’altro
magistrale commento portato a termine in questi anni, quello di Giorgio Inglese8. Ma
credo che si sarebbe trattato in gran parte di nuove citazioni dubbie, prive di un
carattere di riconoscibilità e di dimensione intertestuale.

2. Prima di studiare il Paradiso, vorrei ripartire dal saggio di Saverio Bellomo. Mi


pare significativo che egli registri con puntualità, pur senza trarne tutte le conseguenze,
la pluralità e la complessità della figura di Virgilio come essa emerge già nell’incontro
rappresentato nel primo canto del poema. Egli sottolinea infatti come ciascuno dei dati
dell’autopresentazione di Virgilio, pur desunto dalle Vitae virgiliane, sia però espresso
in un modo «non del tutto corretto, e tendenzioso»9, per mettere in evidenza una serie
di aspetti funzionali al significato che la figura di Virgilio dovrà avere nel poema
dantesco. In particolare, Bellomo registra la dimensione romana e imperiale che
emerge dal collocare la vita di Virgilio all’insegna dell’Impero, anche a costo di
qualche forzatura cronologica10. Ma segnala anche, pur senza enfasi, il valore non
meramente referenziale della locuzione «nel tempo de li dèi falsi e bugiardi» (Inf. I,
72), che «mette in risalto un limite oggettivo di Virgilio, vale a dire quello di essere
pagano»11. Con maggiore enfasi Bellomo sottolinea l’autopresentazione di Virgilio
come «poeta» (v. 73), per poi valorizzare la dimensione sapienziale della sua poesia,
che emerge dalle risposte di Dante personaggio, il quale lo definisce come proprio
«maestro» e «autore» (v. 85). Infine, Bellomo chiarisce il senso del debito riconosciuto
dal protagonista nei confronti di Virgilio per il «bello stilo» (vv. 86-87), interpretando
tale espressione come riferita al contenuto morale e allo stile tragico delle canzoni
morali di Dante.
In tale analisi emergono dunque una pluralità di caratteri che indicano, già anche solo
sul piano letterale, la complessità del personaggio di Virgilio e la pluralità dei
significati e delle funzioni che gli verranno assegnate nel poema: uomo dell’Impero,
poeta di Enea e del destino imperiale di Roma, pagano, maestro di sapienza e di stile
poetico. Bellomo enfatizza soprattutto questi ultimi aspetti, e credo anch’io che
l’importanza della dimensione sapienziale e metaletteraria del personaggio non possa
essere negata. Tuttavia, credo anche che i primi due aspetti siano altrettanto se non più
rilevanti. La dimensione imperiale è alla base della riscoperta di Virgilio su un piano
nuovo all’altezza del IV libro del Convivio, e fonda e nutre tutta la tematica imperiale
che sarà una delle linee fondanti del discorso politico del poema12; il suo essere vissuto
8
DANTE ALIGHIERI, Commedia. III. Paradiso, revisione del testo e commento di G. INGLESE, Roma, Carocci, 2016.
9
S. BELLOMO, “Or sè tu quel Virgilio?”: Ma quale Virgilio?, cit., p. 6.
10
O forse seguendo una cronologia errata che in qualche modo fa capo a Servio, secondo la ricostruzione proposta da V.
DE ANGELIS, G.C. ALESSIO, “Nacqui sub Julio, ancor che fosse tardi” («Inf.» I, 70), in Studi vari di lingua e letteratura
offerti a Giuseppe Velli, Milano, Cisalpino, I, 2000, pp. 127-146.
11
S. BELLOMO, “Or sè tu quel Virgilio?”: Ma quale Virgilio?, cit., p. 6.
12
Per una sintesi recente e per altri riferimenti bibliografici cfr. F. FONTANELLA, L’impero e la storia di Roma in Dante,
Bologna, Il Mulino, 2016. Fra i lavori classici cfr. in particolare B. NARDI, Il concetto dell’Impero nello svolgimento del
pensiero dantesco, in ID., Saggi di filosofia dantesca, Firenze, La Nuova Italia, 1967, pp. 215-275; ID., Tre pretese fasi
al tempo degli dèi pagani fonda uno dei temi che saranno incessantemente ripetuti
lungo tutto il poema, quello della riflessione sull’umanità estranea al cristianesimo e
sulla sua esclusione dalla salvezza13.
Saverio Bellomo ricorda anche l’interpretazione allegorica tradizionale, che indica
in Virgilio la ragione e in Beatrice la fede, e la precisa però, sulla scorta di Pietro
Alighieri14, in filosofia razionale e teologia in quanto «scienza depositata nella divina
scrittura»: insomma, spiega, da una parte «i libri scientifici», dall’altra «i libri della
Bibbia». Ma tale senso allegorico è giudicato da Bellomo «non desumubile dal testo»
e non troppo rilevante15. Piuttosto che sul piano allegorico, la funzione delle guide
sarebbe a suo avviso definibile attraverso la retorica della metonimia: Virgilio
rappresenterebbe la sua opera, in primis l’Eneide, mentre Beatrice rappresenterebbe la
poesia stessa di Dante, quella della Vita nova e quella del nuovo poema16. Del resto,
«se il personaggio di Virgilio è deputato poi a illustrare “quanto ragion vede”, cioè i
phylosophica documenta e Beatrice quello che pertiene alla fede, cioè i documenta
spiritualia, l’uno e l’altra non fanno altro che esibire competenze legate alla loro
naturale condizione umana e storica: il primo è “quel savio gentil, che tutto seppe” (Inf.
VII, 3), come mostra la sua Eneide, mentre la seconda è una santa in paradiso che vede
la verità direttamente in Dio»17.
Inoltre, aggiunge Bellomo, «se Virgilio è la guida di Dante ciò equivale al
riconoscimento del debito di quest’ultimo nei riguardi dell’Eneide, dalla quale ha
appreso principalmente concetti di ordine morale […], ma soprattutto ha imparato a
viaggiare nell’aldilà. Lo dimostrano le ovvie e numerosissime riprese dal libro VI […]
soprattutto nella prima parte del poema»18. Questo è un altro elemento
straordinarimente importante: Virgilio non è solo il poeta di Enea e dell’Impero ma è
anche un poeta dell’aldilà. Già nel secondo canto questo aspetto viene messo in luce
attraverso il ricordo della catabasi di Enea. Il personaggio virgiliano viene citato come
uno dei due precursori, insieme a san Paolo, del viaggio oltremondano compiuto da un
vivente nell’ambito di una missione provvidenziale19.
Pur mettendo gli accenti su punti diversi e con diversa intensità rispetto a come farei
io, e pur privilegiando la dimensione metaletteraria, mi pare che Saverio Bellomo
riconosca ampiamente la pluralità dei sensi e delle funzioni attribuite a Virgilio: uomo

del pensiero politico di Dante, ivi, pp. 276-310. Fra i lavori recenti segnalo G. INGLESE, Storia e «Comedìa»: Enea, in
ID., L’intelletto e l’amore. Studi sulla letteratura italiana del De e Trecento, Firenze, La Nuova Italia, 2000, pp. 123-
164; P. FALZONE, Il «Convivio» di Dante, in La filosofia in Italia al tempo di Dante, a cura di C. Casagrande, G.
Fioravanti, Bologna, Il Mulino, 2016, pp. 225-264 (specialmente pp. 237-238).
13
Questo aspetto religioso è al centro dell’attenzione di molti dei contributi recenti citati alle note 5 e 6. Valga per tutti il
rimando a R. HOLLANDER, Il Virgilio dantesco: tragedia nella «Commedia», cit.
14
Pietro Alighieri, Comentum super poema Comedie Dantis: A Critical Edition of the Third and Final Draft of Pietro
Alighieri’s «Commentary on Dante’s “Divine Comedy”», a cura di M. Chiamenti, Tempe, Arizona, Arizona Center for
Medieval and Renaissance Studies, 2002, p. 73.
15
S. BELLOMO, “Or sè tu quel Virgilio?”: Ma quale Virgilio?, cit., p. 10-11.
16
S. BELLOMO, “Or sè tu quel Virgilio?”: Ma quale Virgilio?, cit., pp. 12-13.
17
S. BELLOMO, “Or sè tu quel Virgilio?”: Ma quale Virgilio?, cit., p. 13.
18
S. BELLOMO, “Or sè tu quel Virgilio?”: Ma quale Virgilio?, cit., p. 13.
19
Sul modello di Paolo, anche in relazione a quello virgiliano, cfr. G. LEDDA, Modelli biblici nella «Commedia»: Dante
e san Paolo, in La Bibbia di Dante. Esperienza mistica, profezia e teologia biblica in Dante. Atti del Convegno
internazionale di Studi (Ravenna, 7 novembre 2009), a cura di G. Ledda, Ravenna, Centro Dantesco dei Frati Minori
Conventuali, 2011, pp. 179-216.
dell’Impero; uomo pagano o comunque estraneo al cristianesimo; poeta dell’Eneide,
che rappresenta metonimicamente, con i suoi contenuti sapienziali e i suoi valori
stilistici; allegoria della filosofia razionale e del sapere scientifico; poeta dell’aldilà da
cui Dante trae molti spunti. Io credo che in questa pluralità, complessa e per certi aspetti
contraddittoria, di sensi e di funzioni, stia la grandezza e l’interesse del personaggio
dantesco. Sono aspetti che si alternano, si intrecciano e si sovrappongono, resistendo a
ogni lettura banalizzante e semplicistica.
La nostra tradizione critica ha privilegiato di volta in volta l’aspetto imperiale o
quello allegorico, oppure quello metaletterario, e ovviamente ha esplorato le fitte
riprese dal sesto libro dell’Eneide e più ampiamente indagato l’intertestualità
virgiliana. Il tutto sempre in una chiave di esaltazione della continuità fra Virgilio e il
poema dantesco20. La critica americana ha recentemente enfatizzato invece gli aspetti
più negativi della figura del poeta latino, che partono dalla sua identità di non cristiano
e dal suo rappresentare i saperi scientifici e razionali, di contro al sapere scritturale e
religioso impersonato da Beatrice21.

3. Per avviare l’esame del Paradiso, può essere utile prendere come punto di partenza
i primi canti della terza cantica e paragonarli a quelli delle altre due cantiche. Nei primi
canti dell’Inferno la presenza di Virgilio è massiccia e decisiva, sia come personaggio
sia come fonte di citazioni e allusioni testuali. Tuttavia, l’apparizione del testo di
Virgilio come bacino di prelievo di citazioni e allusioni coincide sostanzialmente con
la comparsa del personaggio. Se si rileggono infatti i primi 60 versi del primo canto, si
può notare che nessun indizio annuncia che quello che sta iniziando sarà un poema in
qualche misura “virgiliano”. Esso si presenta piuttosto come un poema allegorico-
didattico sulla linea del Tesoretto o di testi analoghi della tradizione mediolatina,
costruito però con forte ripresa di linguaggio biblico. La Bibbia si annuncia infatti come
l’ipotesto fondamentale per comprendere il senso degli episodi e delle singole
espressioni. Perciò l’apparizione di Virgilio è una svolta importante e mostra
l’aggiungersi e l’affiancarsi di quello virgiliano al fondamentale modello biblico.
Nel Purgatorio Virgilio si avvia a diventare più un compagno di viaggio che una
guida, in quanto si trova a percorrere luoghi in cui non è mai stato prima, tanto che i
canti dell’Antipurgatorio vedono numerosi fallimenti della sua capacità di guida. Si
trova inoltre a dover dolorosamente rievocare con Sordello la propria condizione di

20
Oltre il classico saggio di D. COMPARETTI, Virgilio nel Medio Evo, Firenze 1872, mi limito a segnalare pochi titoli
particolarmente significativi: D. CONSOLI, Significato del Virgilio dantesco, Firenze, Le Monnier, 1967; E. PARATORE,
Dante e il mondo classico, in ID., Tradizione e struttura in Dante, Firenze, Sansoni, 1968, pp. 25-54; A. VALLONE,
Interpretazione del Virgilio dantesco, in «L’Alighieri», X/1 (1969), pp. 14-40; A.M. CHIAVACCI LEONARDI, Dante e
Virgilio: l’immagine europea del destino dell’uomo, in «Letture Classensi», XII (1983), pp. 81-97. Un quadro sintetico
delle interpretazioni tradizionali in Italia offre l’ampia voce dell’Enciclopedia Dantesca, redatta da D. Consoli e A.
Ronconi, benché nella parte redatta da quest’ultimo (Echi virgiliani nell’opera dantesca) emergano sfumature più
complesse e la capacità di cogliere la tensione fra la dimensione pagana delle opere virgiliane e il riuso di esse da parte
di un poeta cristiano come Dante. Tale linea è presente anche nel saggio dello stesso A. RONCONI, Per Dante interprete
dei poeti latini, in «Studi danteschi», XLI (1964), pp. 5-44.
21
Oltre ai saggi citati sopra di R. HOLLANDER, Il Virgilio dantesco: tragedia nella «Commedia», cit., e di T. BAROLINI,
Il miglior fabbro. Dante e i poeti della «Commedia», cit., per l’ultimo aspetto sono esemplari molti saggi di Z.G.
BARAŃSKI, per esempio Canto XI, in Lectura Dantis Turicensis. «Inferno», a cura di G. Güntert e M. Picone, Firenze,
Cesati, 2000, pp. 151-164.
limbicolo e a ridefinirne i caratteri, ora che si trova alla luce del sole e al cospetto di
peccatori salvati e destinati alla beatitudine, lui che è un non peccatore ma escluso dalla
salvezza. L’apertura della cantica annuncia con l’invocazione la crescente importanza
di un altro testo classico che si aggiunge all’Eneide e che è destinato ad affiancarla, le
Metamorfosi di Ovidio, con il riferimento al mito delle Pieridi, alla loro sfida alle Muse
e alla loro trasformazione in gazze22. Perfino la dimensione imperiale del personaggio
Virgilio e della sua poesia non pare enfatizzata nei primi canti del Purgatorio23.
Invece, per la rappresentazione dell’aldilà, il sesto libro dell’Eneide si mostra ancora
sorprendentemente nutritivo anche in questo nuovo regno. La stessa invenzione
dell’Antipurgatorio rielabora il motivo virgiliano dell’attesa a cui sono costretti gli
insepolti prima di essere ammessi nell’Averno. A conferma di tale presenza, l’episodio
di Palinuro è ricordato per il tema delle preghiere, con l’esplicita citazione della frase
della Sibilla «Desine fata deum flecti sperare precando» (Aen. VI, 376), e agisce sulla
rappresentazione dei corpi insepolti di Manfredi e di Buonconte24.
Anche il modello del viaggio di Enea, posto fra i precursori fondamentali all’inizio
del viaggio (Inf. II, 10-36), è ripreso attraverso allusioni più o meno sottili. Fra queste
ha rilievo l’episodio dei riti di purificazione e umiltà alla fine del primo canto, in cui il
lavracro purificatorio dell’eroe troiano prima di entrare nei Campi elisi viene
trasformato in senso cristiano attraverso l’attivazione del simbolismo medievale della
rugiada come gratia Dei (Purg. I, 121-129; Aen. VI, 635-636)25. Altrettanto si può dire
del rinascere dell’umile giunco, che riscrive nel senso dell’umiltà cristiana l’episodio
virgiliano del ramo d’oro, anch’esso preliminare all’ingresso ai luoghi oltremondani
(Purg. I, 133-136; Aen. VI, 136-148)26.
Nei primi canti del Paradiso, non solo Virgilio non c’è più come personaggio, ma
scompare quasi totalmente anche come autore citato o alluso, al contrario di quanto
accade a Ovidio, che invece è promosso ad autore di riferimento, come mostra il
dispiegamento dei miti ovidiani nei primi canti e la funzione strutturale decisiva che è
assegnata loro. Si pensi ai miti di Apollo e Dafne e di Apollo e Marsia nell’invocazione
del primo canto e poi quello di Glauco nel momento in cui riprende la narrazione con

22
Cfr. Purg. I, 7-12 e OVIDIO, Met. V, 294-678. Al fondamentale modello ovidiano si aggiunge, ma resta del tutto in
secondo piano, l’eco virgiliana dell’invocazione a Calliope del IX libro dell’Eneide: «e qui Calïopè alquanto surga»
(Purg. I, 4); «Vos o Calliope, precor, adspirate canenti» (Aen. IX, 525). Tale rimando è registrato regolarmente da tutti i
commenti.
23
Tale dimensione avrà modo di riemergere poi nel corso della cantica, anche attraverso una serie di esempi virgiliani
dei vizi puniti: la superbia di Troia (Purg. XII, 61-63), l’ira di Amata (XVII, 34-39) e soprattutto l’accidia dei compagni
di Enea (XVIII, 136-138).
24
Cfr. in proposito, tra gli altri, A. LIMENTANI, Casella, Palinuro e Orfeo. “Modello narrativo” e “rimozione della fonte”,
in La parola ritrovata. Fonti e analisi letteraria, a cura di C. Di Girolamo, I. Paccagnella, Palermo, Sellerio, 1982, pp.
82-97; G. BRUGNOLI, Manfredi c/o Palinuro, in ID., Studi danteschi. II. I tempi cristiani di Dante e altri studi danteschi,
Pisa, ETS, 1998, pp. 89-100; M. PICONE, Il canto V del «Purgatorio» fra Orfeo e Palinuro, in «L’Alighieri», XL, n.s.,
13, (1999), pp. 39-52; S. BELLOMO, I destini del corpo e dell’anima: lettura di «Purgatorio» III, in «L’Alighieri», LVIII,
n.s., 50 (2017), pp. 79-91.
25
Cfr. in proposito le pagine memorabili di E. RAIMONDI, Rito e storia nel I canto del «Purgatorio», in ID., Metafora e
storia. Saggi su Dante e Petrarca, Torino, Einaudi, 1970, pp. 65-94, spec. pp. 92-94.
26
Si vedano specialmente i vv. 143-144, ma anche più avanti il v. 636, quando, subito dopo il lavacro, il ramo viene
fissato sulla soglia come rito preliminare all’ingresso nei campi elisi.
il trasumanare di Dante. Nel secondo canto viene evocato il mito di Giasone e degli
Argonauti, nel terzo quello di Narciso27.
A contrasto con la decisiva funzione intertestuale svolta da tali riferimenti ovidiani,
le tracce virgiliane nei primi canti del Paradiso sono poco più che reminiscenze
funzionali a un’intonazione elevata dello stile. Appena più rilevata è la ripresa
dell’incipit della decima egloga («Extremum hunc, Arethusa, mihi concede laborem»,
Egl. X, 1) in «a l’ultimo lavoro fammi del tuo valor sì fatto vaso» (Par. I, 13-14)28. Ma
rispetto al contributo ovidiano, quello virgiliano scompare. La provenienza della
citazione dalle Bucoliche anziché dall’Eneide e il valore meramente numerico
dell’aggettivo nel testo virgiliano, rispetto a quello implicitamente anche qualitativo,
di ‘ultimo e supremo’, che esso assume nel contesto dell’invocazione dantesca
indeboliscono ulteriormente il peso di un tale riferimento, a meno che non vi si voglia
scorgere una volontà di rimarcare il superamento nei confronti dell’opera virgiliana di
stile umile da parte della umile «comedìa» dantesca, che nella cantica che inizia,
proprio grazie a tale umiltà, si avvia a divenire «poema sacro».
Certo, tanti passaggi del sesto libro dell’Eneide si sono talmente fissati nella memoria
di Dante, che anche nella terza cantica tornano a offrire spunti e materiali per la
rappresentazione dell’aldilà. Così, nell’attacco della domanda che Dante personaggio
rivolge alle prime anime da lui incontrate nel viaggio paradisiaco, quelle che gli si
fanno incontro nel cielo della Luna, «Ma dimmi, voi che siete qui felici» (Par. III, 64),
risuona la richiesta che la Sibilla rivolge alle prime anime incontrate nei Campi elisi:
«Dicite, felices animae» (Aen. VI, 669)29. Rispetto alla pervasività del modello
virgiliano per la rappresentazione dell’aldilà nei primi canti dell’Inferno e
all’importanza anche per i primi canti del Purgatorio, qui il debito strutturale sembra
però ridotto al minimo. Tuttavia, si potrebbe ipotizzare che questa pur velata allusione
vigiliana abbia la funzione di suggerire l’episodio dei Campi elisi come uno dei modelli
soggiacenti alla rappresentazione del Paradiso, certo con la volontà di trasformarlo in
senso cristiano, come del resto avveniva già nelle altre cantiche.

27
Cfr. rispettivamente Par. I, 13-21 (e OVIDIO, Met. I, 450-567; VI 382-400); Par. I, 64-75 (e Met. XIII, 898-968); Par.
II, 1-18 (e Met. VI, 719-VII, 158); Par. III 10-18 (e Met. III 407-510). Per l’analisi di tali riprese dantesche dei miti
ovidiani cfr., per limitarmi a pochi titoli essenziali, K. BROWNLEE, Pauline Vision and Ovidian Speech in «Paradiso» I,
in The Poetry of Allusion, cit., pp. 202-213 e 286-289; J. LEVENSTEIN, The Re-Formation of Marsyas in «Paradiso» I, in
Dante for the New Millemnium, a cura di T. Barolini e H. Wayne Storey, New York, Fordham University Press, 2003,
pp. 408-421; B. GUTHMÜLLER, “Trasumanar significar per verba / non si poria”. Sul I canto del «Paradiso», in
«L’Alighieri», XLVIII, n.s., 29 (2007), pp. 107-120, a pp. 109-110; M. PICONE, Il tema dell’incoronazione poetica in
Dante, Petrarca e Boccaccio, in «L’Alighieri», XLVI, n.s., 25 (2005), pp. 5-26; P. RIGO, Consorte degli dei, in EAD.,
Memoria classica e memoria biblica in Dante, Firenze, Olschki, 1994, pp. 109-133; M. PICONE, La riscrittura di Ovidio
nella «Commedia» (2005), in ID., Scritti danteschi, a cura di A. Lanza, Ravenna, Longo, 2017, pp. 253-293; P.
ALLEGRETTI, Medea Giasone e Argo: l’impresa dopo venticinque secoli di letargo, in «Letture classensi» 46 (2017), pp.
57-91; ID., Dante e il mito di Narciso: dal «Roman de la Rose» alla «Commedia» (1977), in ID., Scritti danteschi, cit.,
pp. 343-356; G. LEDDA, Semele e Narciso: miti ovidiani della visione nella «Commedia» di Dante, in Le «Metamorfosi»
di Ovidio nella letteratura tra Medioevo e Rinascimento, a cura di G.M. Anselmi e M. Guerra, Bologna, Gedit, 2006, pp.
17-40.
28
La ripresa è segnalata regolarmente nei commenti. Vedi da ultimo quello di G. INGLESE, ad loc., ed. cit., p. 34.
29
Il passo è raccolto con favore da R. HOLLANDER, Le opere di Virgilio nella «Commedia» di Dante, cit., p. 323, sulla
base del commento di H. GMELIN. In realtà il riferimento era dato già da N. TOMMASEO e G.A. SCARTAZZINI. Fra i
commenti recenti il riscontro non sembra invece godere di credito: non è segnalato da A.M. CHIAVACCI LEONARDI, R.
HOLLANDER, G. INGLESE (ed. cit., p. 63), N. FOSCA.
A conferma della plausibilità di tale ipotesi, si può riscontrare che i riferimenti alla
sezione virgiliana dei Campi elisi (Aen. VI, 637-892), che aveva costituito il modello
dell’episodio del «nobile castello» del Limbo e di quello parallelo del giardino fiorito
dell’Antipurgatorio30, costituiscono una filigrana strutturale anche nell’intera cantica
paradisiaca. Infatti, dopo una cantica in cui le tracce dell’aldilà virgiliano sono state
estremamente rare, la rappresentazione dell’Empireo si aprirà circolarmente con una
sorprendente allusione alle immagini del fiume, dei prati fioriti e delle api, usate da
Virgilio per i Campi elisi. Tale ripresa, già individuabile nel canto XXX (vv. 61-69)31,
è confermata dalla piena attivazione della similitudine virgiliana delle api in apertura
del canto XXXI. È infatti evidente, e tutti i commentatori lo hanno sempre
sottolineato32, che la similitudine degli angeli-api di Par. XXXI, 1-18 ha un rapporto
intertestuale e allusivo con quella usata da Virgilio verso la conclusione del VI libro
dell’Eneide per indicare le anime che si affollano presso il fiume Lete e si preparano a
tornare sulla terra in un nuovo corpo (Aen. VI, 706-709).
Tra il momento in cui la Sibilla rivolge la parola alle anime dei Campi elisi per
chiedere loro dove si trova Anchise e quello in cui questi mostra a Enea le anime pronte
alla loro nuova vita, si colloca l’incontro fra Enea il padre, a cui Dante si riferisce
strategicamente al centro della cantica paradisiaca (Par. XV, 25-27). Una tale centralità
rende forse ragione dell’incorniciamento riscontrato, con la collocazione di riferimenti
all’episodio dei Campi elisi, nello stesso ordine rispetto al testo virgiliano, all’inizio,
al centro e al termine della terza cantica.

4. Prima di giungere a tale momento cruciale e ai suoi significati, vorrei però


percorrere le altre presenze virgiliane nel Paradiso, per valutarne la portata. Tralascio
le deboli tracce che si possono trovare qua e là, ma che non raggiungono la soglia
dell’allusione, presentandosi come riuso di materiale linguistico del tutto
decontestualizzato, che solo con difficoltà può essere individuato dal lettore33.
Per trovare una rilevata e riconoscibile presenza virgiliana si deve attendere il sesto
canto, dove si conferma la permanenza del modello virgiliano per la poesia di
argomento politico votata all’esaltazione dell’Impero. Come hanno mostrato Mariotti
e Carrai, sull’ideazione stessa del canto, tutto fatto pronunciare a un solo personaggio,
ha agito il modello del III libro dell’Eneide, tutto pronunciato, con l’eccezione degli

30
Cfr. rispettivamente Inf. IV, 106-151; Purg. VII, 70-136. E cfr. in proposito G. PADOAN, Il Limbo dantesco, cit.; M.
MASLANKA-SORO, L’oltretomba virgiliano e dantesco a confronto: qualche osservazione sul dialogo intertestuale nel
«Purgatorio», in «Romanica Cracoviensia», 15/4 (2015), pp. 288-297.
31
Cfr. A.L. ROSSI, “A l’ultimo suo”: «Paradiso» XXX and its Virgilian Context, in «Studies in Medieval and Renaissance
History», n.s., IV, (1981), pp. 37-88, alle pp. 55-58; R. HOLLANDER, «Paradiso» XXX, in «Studi Danteschi», 60 (1988),
pp. 1-33, alle pp. 17-19. Fra i commenti, H. GMELIN (nota a Par. XXXI, 7, ed. cit., 7. 52), seguito da R. HOLLANDER, ad
Par. XXX, 64-66 (ed. cit., p. 329). Fra i commenti recenti vedi in particolare quello di G. INGLESE, ad loc. (ed. cit., p.
373).
32
Cfr. R. HOLLANDER, Le opere di Virgilio nella «Commedia» di Dante, cit., p. 337. Cfr. inoltre A.L. Rossi, The Poetics
of Resurrection: Virgil’s Bees («Paradiso» XXXI, 1-12), in «The Romanic Review», LXXX/2 (1989), pp. 305-324; P.
ALBERTETTI, Il palinsesto di una similitudine: la comparazione delle api nell’«Eneide» e nella «Divina Commedia», in
Comunicazione 1. Quaderno di studi 1996, a cura di A. Pennacini, Bologna, Pitagora, 1996, pp. 59-73; N. MALDINA, Api
e vespe nella «Commedia». Osservazioni sul bestiario dantesco, in «L’Alighieri», XLVIII, n.s., 29 (2007), pp. 121-142.
33
Per una rassegna complessiva cfr. R. HOLLANDER, Le opere di Virgilio nella «Commedia» di Dante, cit., pp. 321-339.
ultimi tre versi, da Enea34. Le riprese dall’Eneide sono numerose e sono state ben
registrate dai commenti e dalle lecturae del canto35.
Se il modello virgiliano resta fondamentale per la costruzione del discorso politico-
imperiale, i canti relativi al cielo successivo, quello di Venere, si aprono invece con la
riattivazione di un altro importante aspetto della memoria virgiliana nella Commedia,
quello legato alla figura di Didone, che costituisce sempre il supremo modello
dell’amore folle e tragico, in tutti i luoghi in cui si attua la riflessione sull’amore
peccaminoso e su quello salvifico36. Del resto l’exemplum di Didone era menzionato
anche nella petrosa Così nel mio parlar vogl’esser aspro, dove il poeta si diceva colpito
da Amore «con quella spada ond’elli ancise Dido» (v. 36). La regina cartaginese era
stata citata esplicitamente per due volte nel V canto dell’Inferno (vv. 61-62 e 85), poi
era stata richiamata allusivamente anche nel canto purgatoriale della lussuria, il XXVI,
attraverso la similitudine delle formiche, costruita sul modello di quella che Virgilio
applica ai compagni di Enea che si preparano a partire da Cartagine e abbandonare
Didone37. Infine, nel canto XXX del Purgatorio la celebre espressione «agnosco
veteris vestigia flammae» (Aen. IV, 23) era tradotta fedelmente nel verso «conosco i
segni de l’antica fiamma» (v. 48), ma rovesciata nei significati profondi. Il sentimento
amoroso riconosciuto da Didone si applicava infatti colpevolmente a un nuovo oggetto
d’amore, assumeva una dimensione folle e portava a un esito tragico. Tutto al contrario,
Dante usa tali parole per il ritorno di quello stesso antico e autentico amore per Beatrice
dal quale si era colpevolmente allontanato: tale amore ritorna per dispiegare il suo
potenziale salvifico.
Non soprende, quindi, che anche nel cielo di Venere, luogo del Paradiso deputato
alla riflessione sull’amore, sia ancora evocato il grande exemplum di amore folle e
tragico costituito da Didone38. Simmetricamente a quanto avveniva nel V canto
dell’Inferno, anche qui la citazione è duplice. Il canto VIII inizia con una perifrasi per
indicare il pianeta Venere, dalla cui orbita gli antichi pagani credevano che la dea
Venere «il folle amore / raggiasse» (Par. VIII, 2-3). Così, «le genti antiche ne l’antico
errore» onoravano con preghiere e sacrifici non solo la dea ma anche la madre Dione
34
Cfr. S. MARIOTTI, Il canto VI del «Paradiso», in Nuove Letture Dantesche tenute nella Casa di Dante in Roma, vol. V,
Firenze, Le Monnier, 1972, pp. 375-404; S. CARRAI, Lettura epigrafica del canto di Giustiniano (2002), in ID., Dante e
l’antico. L’emulazione dei classici nella «Commedia», Firenze, Edizioni del Galluzzo per la Fondazione Ezio
Franceschini, 2012, pp. 75-86.
35
Cfr. in particolare S. BELLOMO, Contributo all’esegesi di «Par.» VI, in «Italianistica», 19 (1990), pp. 9-26. Mi limito
a segnalare le riprese più vistose e rilevanti: Par. VI, 3 («dietro a l’antico che Lavina tolse»); 35-36 («da l’ora / che
Pallante morì per darli regno»: cfr. Aen. X, 439-509; XI, 24-27); 37-38 («Tu sai ch’el fece in Alba sua dimora / per
trecento anni e oltre»: cfr. Aen. I, 272-273); 47 («i Deci»: cfr. Aen. VI, 824); 68 («e là dov’Ettore si cuba»: cfr. Aen. V,
371; LUCANO, Phars. IX, 961 ss.); 79 («con costui corse infino al lito rubro»: cfr. Aen. VIII, 686); 80 («con costui puose
il mondo in tanta pace»: cfr. Aen. I, 294).
36
Cfr. tra gli altri P.S. HAWKINS, Dido, Beatrice and the signs of ancient love, in The Poetry of Allusion, cit., pp. 113-
130; S. CARRAI, L’elegia di Francesca, in ID., Dante e l’antico, cit., pp. 3-24; T. KAY, Dido, Aeneas, and the Evolution
of Dante’s Poetics, in «Dante Studies», CXXIX, (2011), pp. 135-160; C. VILLA, Le maschere di Francesca e il fantasma
di Didone, in «Letture classensi», 46 (2017), pp. 27-41.
37
Cfr. Purg. XXVI, 31-36 e Aen. IV, 401-407. Per una tale lettura del passo cfr. G. LEDDA, Il bestiario dell’aldilà. Gli
animali nella «Commedia» di Dante, Ravenna, Longo, 2019, pp. 185-188.
38
Cfr. in proposito, tra gli altri, S. GENTILI, Canti VIII-IX. L’arco di Cupido e la freccia di Aristotele, in Esperimenti
danteschi. «Paradiso» 2010, a cura di T. Montorfano, Genova-Milano, Marietti, 2010, pp. 87-112; W. WETHERBEE,
Judging Dido, in «L’Alighieri», LII, n.s., 37 (2011), pp. 31-45; T. KAY, Folco of Marseilles, in ID., Dante’s Lyric
Redemption. Eros, Salvation, Vernacular Tradition, Oxford, Oxford University Press, 2016, pp. 205-246.
e il figlio Cupido, di cui in particolare «dicean ch’el sedette in grembo a Dido» (VIII,
4-9), con riferimento al racconto di Virgilio (Aen. I, 717-719). A parte il caso più
complesso di Carlo Martello, i beati incontrati da Dante nel cielo di Venere sono anime
che in giovinezza hanno ceduto all’amore folle e sensuale, ma si sono poi pentite per
dedicarsi, in modi diversi, a vite virtuose. Così ammette Cunizza (Par. IX, 32-35),
mentre poi Folchetto rievoca i propri folli trascorsi amorosi giovanili e si paragona ai
più ardenti amanti del mito classico, fra i quali al primo posto cita ancora Didone: «che
più non arse la figlia di Belo, / noiando e a Sicheo e a Creusa, / di me, fin che si
convenne al pelo» (IX, 97-99). Ricordati anche Fillide ed Ercole, infine aggiunge:
«Non però qui si pente, ma si ride, / non de la colpa, ch’a mente non torna, / ma del
valor che l’ordinò e provide» (IX, 103-105).
Se la ripresa del personaggio di Didone è coerente con le precedenti allusioni, dà
invece da pensare il modo in cui all’inizio del canto VIII è presentato l’episodio del I
libro dell’Eneide: per il suo racconto secondo cui Cupido «sedette in grembo a Dido»,
Virgilio è associato alle credenze delle «genti antiche», ferme «ne l’antico errore» del
paganesimo (VIII, 1-12). L’appropriazione del dettato virgiliano nella prospettiva
dell’ideologia imperiale e l’assunzione di Virgilio come supremo modello poetico del
mondo antico, rappresentante allegorico della civiltà classica precristiana, della
filosofia razionale e del sapere scientifico conoscevano nell’Inferno e nel Purgatorio,
tramite la messa in scena dei fallimenti palesati dalla guida, momenti di opposizione
dialettica funzionali a mostrare i limiti intrinseci della dimensione classico-filosofico-
razionalistica rappresentata dal poeta latino. Ora tale aspetto negativo sembra trovare
nel Paradiso una nuova modalità di espressione. Assente dalla scena Virgilio, per
ribadire ancora i suoi limiti Dante ricorre alla critica esplicita delle sue opere,
mostrandone su qualche punto la natura erronea.
La strettissima contiguità con l’assunzione ancora potente del testo virgiliano come
punto di riferimento per l’esaltazione politica dell’Impero nel canto VI sembra rivelare
la funzione segreta di questa linea di registrazione dei limiti di Virgilio come guida
oltremondana e come autore, come personaggio e come allegoria. Si tratta
probabilmente di un modo per bilanciare i pericoli insiti nell’ideologia imperiale, i
pericoli che l’idea dell’autonomia dell’Impero dalla Chiesa, della politica dalla
religione, potesse suggerire la rivendicazione di una fiducia illimitata nella filosofia
razionale, nella possibilità che essa porti a una piena felicità, posizione apertamente
sostenuta nel Convivio39.
Anche per questo, nonostante il Convivio non fosse stato né finito né pubblicato,
Dante segna ripetutamente le distanze dalle posizioni lì presentate40. Basti pensare alla
citazione di Amor che ne la mente mi ragione in Purgatorio II, al conseguente

39
Cfr. in particolare Conv. III, xv, 2-10. Pur con vari distinguo questa posizione dantesca è riconosciuta da tutti gli
interpreti. Cfr. per esempio, P. FALZONE, Desiderio della scienza e desiderio di Dio nel «Convivio» di Dante, Bologna-
Napoli, Il Mulino-Istituto Italiano per gli Studi Storici, 2010, pp. 101-256; P. FALZONE, Il «Convivio» di Dante, cit., pp.
240-245. Si veda anche l’Introduzione alla più recente edizione commentata del Convivio, a cura di G. FIORAVANTI, in
DANTE ALIGHERI, Opere, ed. dir. da M. Santagata, vol. II, Convivio, Monarchia, Epistole, Egloge, a cura di G. Fioravanti,
C. Giunta, D. Quaglioni, C. Villa, G. Albanese, Milano, Mondadori, 2014, pp. 5-79, a pp. 36-42.
40
Per un esempio della tendenza a sottovalutare o a negare tali differenze cfr. P. FALZONE, Il «Convivio» di Dante, cit.,
pp. 250-255.
intervento di Catone, che provoca la dolorosa tirata di Virgilio sui limiti della ragione
e sul fallimento dei filosofi antichi: «“Matto è chi spera che nostra ragione / possa
trascorrer la infinita via / che tiene una sustanza in tre persone // […] // e disiar vedeste
sanza frutto / tai che sarebbe lor disio quetato / ch’etternalmente è dato lor per lutto: //
io dico d’Aristotile e di Plato / e di molt’altri”, e più non disse, e rimase turbato» (Purg.
III, 34-45)41. Un altro celebre momento di revisione dell’incipit stesso del Convivio e
insieme di quello della Metafisica di Aristotele si trova in avvio dell’episodio che mette
drammaticamente a confronto proprio Virgilio con Stazio: «La sete naturale che mai
non sazia / se non con l’acqua onde la femminetta / samaritana domandò la grazia / mi
travagliava» (Purg. XXI, 1-3)42. Altrettanto noto è poi il cambiamento di posizione fra
Convivio e Commedia relativamente alla spiegazione del fenomeno delle macchie
lunari in avvio della cantica paradisiaca (Par. II, 49-148)43.
A tacere di altri momenti, è proprio in questi canti del cielo di Venere che si annuncia
un cambiamento concernente le gerarchie angeliche, cambiamento che sarà poi
completato e chiarito da Beatrice nel Primo Mobile. Se nel II trattato del Convivio
Dante aveva seguito l’ordinamento di Gregorio, l’ordinamento proposto da Beatrice
corrisponde invece a quello di Dionigi44. In particolare, una delle differenze riguarda
proprio le intelligenze angeliche che muovono il terzo cielo. Nel Convivio sono
identificate, come faceva Gregorio, con i Troni (Conv. II, v, 16). Nel Paradiso, invece,
al terzo cielo sono preposti, come indicava Dionigi, i Principati. Lo annuncia già,
all’inizio dell’episodio, Carlo Martello: «Noi ci volgiam coi principi celesti / d’un
modo, d’un girare e d’una sete, / ai quali tu del mondo già dicesti: // Voi che ’ntendendo
il terzo ciel movete» (Par. VIII, 34-37). La correzione va quindi a colpire il Convivio
proprio sul punto da cui partiva in tale opera tutta la trattazione dell’angelologia e
l’interpretazione della canzone Voi che ’ntendendo il terzo ciel movete, la stessa qui
citata. Tale correzione è ribadita nelle parole di Cunizza, nel canto successivo: «Sù
sono specchi, voi dicete Troni, / onde refulge a noi Dio giudicante» (IX, 61-62). Si
ricorda qui che i Troni non sono la gerarchia angelica preposta al terzo cielo, come si
sostenevea nel Convivio seguendo Gregorio, ma che essi sono in un cielo più alto. La
chiosa più diffusa tra i commentatori danteschi è che si intenda ‘nell’Empireo’. In ogni
caso, i Troni non sono preposti a muovere il terzo cielo. Più avanti si preciserà che
sono collocati al terzo posto nella gerarchia celeste (e quindi dovrebbero muovere il
settimo cielo, anche se ciò non viene detto esplicitamente), come in effetti aveva
sostenuto anche Dionigi, a cui l’aveva rivelato san Paolo, e come Dante potrà vedere
41
Sulle varie interpretazioni della citazione della canzone Amor che nella mente mi ragiona cfr. la rassegna di P. BORSA,
«Amor che nella mente mi ragiona» tra stilnovo, «Convivio» e «Commedia», in Il «Convivio» di Dante, a cura di J.
Bartuschat e A. Robiglio, Ravenna, Longo, 2015, pp. 53-82, con le cui conclusioni, tuttavia, non concordo. Incisivo mi
pare invece ancora il contributo di J. FRECCERO, Il canto di Casella: «Purg.» II, 112, in ID., Dante. La poetica della
conversione, Bologna, Il Mulino, pp. 251-260.
42
Per valutazioni nel quadro di letture complessive del canto cfr. A. BATTISTINI, Canto XXI. La vocazione poetica di
Stazio, in Lectura Dantis Romana. Cento canti per cento anni. II. Purgatorio, a cura di E. Malato, A. Mazzucchi, Roma,
Salerno, 2014, pp. 621-651.
43
Cfr. almeno il classico B. NARDI, La dottrina delle macchie lunari nel secondo canto del «Paradiso», in ID., Saggi di
filosofia dantesca, Firenze, La Nuova Italia, 1967, pp. 3-39.
44
Per approfondimenti cfr. tra gli altri D. SBACCHI, La presenza di Dionigi Areopagita nel «Paradiso» di Dante, Firenze,
Olschki, 2006; S. BARSELLA, In the Light of the Angels. Angelology and Cosmology in Dante's «Divina Commedia»,
Firenze, Olschki, 2010, soprattutto pp. 27-124.
con i propri occhi e comprendere grazie a Beatrice45. Qui sta la vera differenza: quelle
di Gregorio (e di Dante nel Convivio) erano speculazioni della ragione umana, mentre
quelle di Dionigi e di Dante sono il frutto della rivelazione divina, l’unica che può
dischiudere all’uomo le verità supreme. L’importanza di tale riscrittura della dottrina
angelologica si intreccia quindi anche con l’assunzione del modello paolino, come
sigillo del passaggio da una scrittura filolosofica basata sulle argomentazioni razionali
a una scrittura divinamente ispirata nell’ambito di una missione provvidenziale
costruita sui modelli profetici e apostolici della Bibbia46.
Occorre dunque chiedersi il perché di tanto accanimento da parte di Dante nel voler
segnalare i limiti e i fallimenti di Virgilio come guida, come autore e come figura
allegorica, e il perché di tanto accanimento nel voler correggere posizioni sostenute nel
Convivio, spesso creando una relazione fra queste correzioni e la figura di Virgilio.
Una tale volontà di correzione di Virgilio e di certe posizioni “razionalistiche”
espresse nel Convivio è stata spesso sottolineata dalla critica anglo-americana, in
particolare da importanti studiosi come Hollander, Barolini e Baranski, i quali tendono
a leggerla rispettivamente sul piano religioso-culturale Hollander, sul piano
metaletterario Barolini, sul piano epistemologico Barański47. Dall’altra parte, la critica
dantesca italiana si è invece distinta per una sottovalutazione, quando non per esplicito
negazionismo, di tale volontà correttoria nei confronti di Virgilio e del Convivio48.
Io credo che questa volontà non possa essere negata e avanzo ancora l’ipotesi che
essa si possa spiegare con la volontà di esaltare l’ideologia politica imperiale scrivendo
un poema imperiale sul modello dell’Eneide, e con la conseguente necessità, o almeno
avvertita come tale da Dante, di esorcizzare il pericolo che l’adesione incondizionata a
tale modello poetico-politico potesse essere intesa come un’adesione ai valori della
filosofia razionale e della sua autosufficienza per una perfetta conoscenza e una piena
felicità: il modello che Dante aveva effettivamente seguito nel Convivio.
Tra l’altro, a conferma di tale ipotesi, proprio nei canti del cielo di Venere, subito
dopo il discorso imperiale del canto VI, e in coincidenza con l’esplicita critica a
Virgilio al principio del canto VIII, si aprono nel canto IX due nuove linee del discorso
45
E cfr. infatti, per la precisa collocazione, Par. XXVIII, 97-139.
46
Per l’assunzione del modello paolino nella Commedia cfr. G. LEDDA, Modelli biblici nella «Commedia»: Dante e san
Paolo, in La Bibbia di Dante. Esperienza mistica, profezia e teologia biblica in Dante. Atti del Convegno internazionale
di Studi (Ravenna, 7 novembre 2009), a cura di G. Ledda, Ravenna, Centro Dantesco dei Frati Minori Conventuali, 2011,
pp. 179-216.
47
Cfr. per esempio R. HOLLANDER, Il Virgilio dantesco: tragedia nella «Commedia», cit.; T. BAROLINI, Il miglior fabbro.
Dante e i poeti della «Commedia», cit., pp.153-226; Z.G. BARAŃSKI, Canto XI, cit. Altri, come Freccero, hanno insistito
invece sulle correzioni del Convivio. Cfr. per esempio J. FRECCERO, Il canto di Casella, cit.
48
Per quest’ultimo aspetto si può distinguere una linea che riconosce questa frattura e di una linea che invece vi si oppone.
Per la prima si vedano, con diversi accenti, L. PIETROBONO, Filosofia e teologia nel «Convivio» e nella «Commedia», in
«Giornale dantesco», XLI, (1940), pp. 13-72 (poi in ID., Nuovi saggi danteschi, Torino, SEI, 1954, pp. 69-122); B. NARDI,
Dante e la filosofia, in ID., Nel mondo di Dante, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1944, pp. 207-245; ID., Dal
«Convivio» alla «Commedia», Roma, Istituto storico italiano per il Medio Evo,1960, pp. 37-150 (la posizione di Nardi è
complicata dalla sua particolare collocazione cronologica della Monarchia al 1307-08, subito dopo il IV trattato del
Convivio e prima dell’inizio della stesura dell’Inferno). Per un esempio recente cfr. M. TAVONI, Qualche idea su Dante,
Bologna, Il Mulino, 2015, soprattutto pp. 25-50 (che collega l’atteggiamento razionalistico del Convivio e quello del De
vulgari eloquentia, mettendo in luce la posizione filoimperiale anche del trattato linguistico). Per seconda si può ricordare
M. BARBI, Razionalismo e misticismo in Dante, in «Studi Danteschi», XVII, (1933), pp. 6-44; II parte, ivi XXI (1937),
pp. 5-91 (poi in M. BARBI, Problemi di critica dantesca. Seconda serie (1920-1937), Firenze, Sansoni, 1941, pp. 1-86).
Tra gli studiosi recenti ricordo come esemplare P. FALZONE, Il «Convivio» di Dante, cit., pp. 250-255.
politico nella terza cantica, quella delle profezie post eventum e quella delle invettive
contro la degenerazione della Chiesa. Mi riferisco alle profezie politiche di Cunizza,
in cui si allude per la prima volta alla figura di Cangrande e al suo ruolo di promotore
della restaurazione del potere imperiale in Italia, e all’invettiva di Folchetto contro la
cupidigia del papa e dei cardinali49.

5. Pochi canti più avanti, nel cielo del Sole, una serie di curiose espressioni sembrano
ancora colpire sotto il profilo religioso la poesia di Virgilio. Siamo nel cielo dei
sapienti, in cui si trovano i grandi filosofi cristiani, perciò il confronto con i sapienti
pagani del Limbo, e con Virgilio come rappresentante di tale sapere, si impone come
inevitabile. I sapienti cristiani danzano e cantano, come i beati virgiliani dei Campi
elisi danzano e intonano peana ad Apollo: «pars pedibus plaudunt choreas et carmina
dicunt» (Aen. VI, 644); «laetumque choro paeana canentis» (v. 657)50. Anche i sapienti
cristiani danzano e cantano, ma «Qui si cantò non Bacco, non Peana, / ma tre persone
in divina natura, / e in una persona essa e l’umana» (Par. XIII, 25-27). Pure per il
riferimento a Bacco si può pensare a un ricordo virgiliano, all’avvio del secondo libro
delle Georgiche: «Nunc te, Bacche, canam» (Georg. II, 2)51.
Un momento di straordinaria importanza per la riflessione su Virgilio e su ciò che
rappresenta si svolge nel cielo di Giove. L’aquila formata dagli spiriti giusti legge nella
mente di Dante una domanda che è una variazione di quella sull’esclusione dalla
salvezza di Virgilio e di ciò che rappresenta. Il dubbio riguarda il destino eterno di chi
si trova a vivere in una condizione di estraneità rispetto ai luoghi in cui si è storicamente
realizzata la Rivelazione, ma si comporta sempre perfettamente bene sia nelle azioni
sia nei discorsi52. La risposta dell’aquila ribadisce l’incomprensibilità della giustizia
divina per le menti umane. Non è possibile sindacare la giustizia divina sulla base di
quello che sembra giusto o non giusto alle menti umane, in quanto Dio è buono in sé
ed è somma giustizia, perciò «Cotanto è giusto quanto a lei consuona» (v. 88). L’aquila
ribadisce anche il principio secondo cui per la salvezza è necessaria la fede in Cristo o
nella sua venuta futura.

49
Cfr. rispettivamente Par. IX, 43-63; 125-142. Per il primo aspetto rimando, anche per altri riferimenti, a G. LEDDA, Il
Cangrande di Dante: poesia, storia e profezia, in Dante a Verona. 2015-2021, a cura di E. Ferrarini, P. Pellegrini, S.
Pregnolato, Ravenna, Longo, 2018, pp. 101-134. Per il secondo, tra gli altri, cfr. A. COMOLLO, Il dissenso religioso in
Dante, Firenze, Olschki, 1990, pp. 79-104; R.L. MARTINEZ, Cleansing the Temple: Dante, Defender of the Church,
Binghamton, NY, Center for Medieval & Renaissance Studies, State University of New York at Binghamton, 2017.
50
Per la presenza di questi riscontri nei commenti danteschi cfr. R. HOLLANDER, Le opere di Virgilio nella «Commedia»
di Dante, cit., p. 328.
51
Cfr. R. HOLLANDER, Le opere di Virgilio nella «Commedia» di Dante, cit., p. 348. Fra i commenti recenti, il riscontro
è addotto anche da G. INGLESE, ad loc., ed. cit., p. 179. Sulla figura di Bacco nella Commedia, cfr. ora A. CARRAI, Bacco
e i due gioghi di Parnaso: per l’interpretazione di «Par.» I, 16-18, in «L’Alighieri», LX, n.s., 54 (2019), pp. 43-61.
52
Par. XIX, 70-78: «Un uom nasce a la riva / de l’Indo, e quivi non è chi ragioni / di Cristo, né chi legga né chi scriva; //
e tutti suoi voleri e atti buoni / sono, quanto ragione umana vede, sanza peccato in vita o in sermoni. // Muore non
battezzato e sanza fede. / Ov’è questa giustizia che ’l condanna? / Ov’è la colpa sua, se ei non crede?». Su questo tema in
relazione al pensiero patristico e medievale, la bibliografia è molto ampia. Mi limito a rimandare, anche per ulteriori
riferimenti bibliografici, a M.L. COLISH, The Virtuous Pagan: Dante and the Christian Tradition, in Ead., The Fathers
and beyond. Church Fathers between Ancient and Medieval thought, Aldershot-Burlington, Ashgate, 2008, pp. 1-40; J.
MARENBON, Pagans and Philosophers. The problem of paganism from Augustine to Leibniz, Princeton, Princeton
University Press 2015 (su Dante, in particolare, le pp. 188-213).
Ma vi sono nella Commedia storie che mostrano come per i non cristiani fosse
possibile salvarsi, ricevere la grazia che apre la via alla fede e alla salvezza. Fra i casi
di pagani salvi è emblematico quello di Rifeo, proprio perché è un personaggio
virgiliano53. Virgilio dedica a Rifeo un accenno brevissimo: «Cadit et Rhipheus,
iustissimus unus / qui fuit in Teucris et servantissimus aequi / (Dis aliter visum)» (Aen.
II, 426-428). Dante sceglie proprio questo oscuro personaggio virgiliano per
esemplificare le possibilità di salvezza offerte da Dio ai pagani, e ancora una volta per
ribaltare, come nel caso di Marcello («manibus, oh, date lilïa plenis!», Purg. XXX,
21), in gioia per la resurrezione e la salvezza quello che in Virgilio, chiuso in una
dimensione solo umana e terrena, era tristezza per la morte, rimpianto senza speranza.
L’aquila formata dagli spiriti giusti nel cielo di Giove enumera a Dante i beati che
costituiscono il suo stesso occhio. E tra questi, soprendentemente, c’è proprio Rifeo
(Par. XIX 67-72), il quale, «per grazia», pose tutto il suo amore verso la giustizia, e
Dio, «di grazia in grazia», gli rivelò segretamente la redenzione degli uomini che
sarebbe stata compiuta da Cristo. Un pagano non si salva dunque per la magnanimità
e per la grandezza delle imprese, ma può salvarsi grazie all’amore per la giustizia,
all’umiltà e alla pietà.

5. Ho già segnalato come in tutte le occasioni deputate alla riflessione intorno


all’amore e alla lussuria, il personaggio virgiliano di Didone sia sempre citato o alluso
come exemplum dell’amore folle e tragico. L’unico tra questi luoghi in cui non è dato
ravvisare tracce allusive alla Didone virgiliana sembra il canto XXVI del Paradiso, in
cui sotto la guida di san Giovanni Dante personaggio celebra la virtù teologale della
carità, cioè dell’amore. Di là dalla dimensione teologica di questa celebrazione, Dante
vi inserisce un tono personale e autobiografico, attribuendo un ruolo significativo alla
presenza di Beatrice e alla riflessione sull’amore per lei54. Di qui una forte insistenza
sul lessico igneo, anche nella prima parte del canto, in cui la beata svolge per gli occhi
di Dante accecato dalla luce di san Giovanni la stessa funzione salvifica svolta da
Anania per gli occhi di Saulo/Paolo: «Al suo piacere e tosto e tardo / vegna remedio a
li occhi, che fuor porte / quand’ella entrò col foco ond’io sempr’ardo» (vv. 13-15). Tali
metafore del fuoco si riallacciano ancora all’incontro con Beatrice nel Paradiso
terrestre, dove si riscriveva il virgiliano «agnosco veteris vestigia flammae» (Purg.
XXX, 48 e Aen. IV, 23). La presenza allusiva di Didone appare fragile, ma non può
essere esclusa.
Del resto, l’intero episodio del cielo delle stelle fisse è importantissimo per
l’autorappresentazione di Dante sul modello dei grandi scrittori biblici ispirati da Dio,

53
Cfr. tra gli altri A. BATTISTINI, “Rifeo troiano” e la riscrittura dantesca della storia («Paradiso», XX) (1990), in ID.,
La retorica della salvezza. Studi danteschi, Bologna, Il Mulino, 2016, pp. 243-270; E. FUMAGALLI, Il giusto Enea e il pio
Rifeo. Pagine dantesche, Firenze, Olschki, 2012, pp. 1-33; P. PORRO, “O predestinazion, quanto remota è la radice tua”.
Il canto XX del «Paradiso», in Lectura Dantis Lupiensis, vol. 4 (2015), a cura di V. Marucci, V.L. Puccetti, Ravenna,
Longo, 2016, pp. 91-114.
54
Tra le lecturae del canto XXVI più attente a questo aspetto segnalo F. ZAMBON, Canti XXV-XXVI. La scrittura d’amore,
in Esperimenti danteschi. Paradiso 2010, a cura di T. Montorfano, Genova-Milano, Marietti, 2010, pp. 247-268; D.
PIROVANO, Canto XXVI. “A la riva” del “diritto” amore, in Lectura Dantis Romana. Cento canti per cento anni. III.
Paradiso, a cura di E. Malato, A. Mazzucchi, Roma, Salerno, 2015, pp. 747-786.
non solo gli apostoli Pietro, Giacomo e Giovanni, ma soprattutto David e Paolo55.
Inoltre, e di conseguenza, il poema stesso di Dante viene qui ridefinito non più
«comedìa» (come in Inf. XVI, 128 e XXI, 2) ma «sacrato poema» e «poema sacro»
(rispettivamente, Par. XXIII, 62 e XXV, 1)56. Al termine di un episodio tanto rilevante
per l’autorappresentazione di Dante come poeta sacro, acquista un senso forte uno degli
unici due riferimenti nella terza cantica al personaggio di Virgilio, l’unico che ricorda
anche la sua collocazione eterna nel Limbo57.
L’apparizione dell’anima di Adamo non può infatti non attivare anche il ricordo della
Redenzione, in quando quella di Adamo è la prima anima salvata da Cristo disceso nel
Limbo: «Trasseci l’ombra del primo parente» (Inf. IV, 55). L’episodio del descensus
Christi era stato ricordato nel IV dell’Inferno in modo del tutto originale, attraverso le
parole di Virgilio, che aveva assistito alla liberazione dei giusti credenti del mondo
precristiano, condotti da Cristo con sé alla beatitudine del Paradiso, mentre lo stesso
Virgilio, con gli altri limbicoli non credenti, restava escluso da tale atto di salvazione58.
Incontrato nel cielo delle stelle fisse, Adamo legge nella mente di Dante personaggio
alcune domande su questioni che l’esegesi biblica aveva sollevato relativamente al
tempo della creazione del primo uomo, alla durata del suo soggiorno nel Paradiso
terrestre, alla natura del suo peccato, alla lingua da lui parlata. Le risposte sono date da
Adamo in un ordine diverso. La prima riguarda la natura del peccato, non di gola, ma
di superbia, in quanto volontà di andare oltre i limiti posti da Dio agli uomini. Quindi
passa a parlare della durata dei suoi soggiorni nel Limbo e nel mondo terreno:

«Or, figliuol mio, non il gustar del legno


fu per sé la cagion di tanto essilio,
ma solamente il trapassar del segno.
Quindi onde mosse tua donna Virgilio,
quattromilia trecento e due volumi
di sol desiderai questo concilio
e vidi lui tornare a tutt’i lumi
de la sua strada novecento trenta
fïate, mentre ch’ïo in terra fu’ mi». (Par. XXVI, 115-120)

Di là dall’importante «trapassar del segno» e dalle sue risonanze anche ulissiache, c’è
un’altra parola chiave della massima importanza che ha in questo passo l’ultima delle

55
Cfr., anche per altri riferimenti bibliografici, G. LEDDA, L’esilio, la speranza, la poesia: modelli biblici e strutture
autobiografiche nel canto XXV del «Paradiso», in «Studi e problemi di critica testuale», 90 (2015), pp. 257-277.
56
Segnalo che la chiosa, diffusa a partire da Curtius, secondo cui in tali sintagmi Dante riattiverebbe, pur con un
significato nuovo, la definizione che Macrobio aveva dato del poema virgiliano («adyta sacri poematis», Saturn. I, 24,
13), è stata persuasivamente messa in discussione da F. ROSSI, “Poema sacro” tra Dante e Macrobio: una verifica sulla
tradizione italiana dei «Saturnalia», in «L’Alighieri», LVIII, n.s., 49 (2017), pp. 29-51.
57
L’unico altro riferimento a Virgilio personaggio è in Par. XVII, 19, quando Dante personaggio ricorda a Cacciaguida
che «mentre ch’i’ era a Virgilio congiunto / […] / dette mi fuor di mia vita futura / parole gravi» (vv. 19-23). La perifrasi
di Par. XV, 26, «nostra maggior musa», su cui si veda infra, è invece relativa a Virgilio non come personaggio della
Commedia ma come autore dell’Eneide.
58
Su questo episodio cfr. almeno A.A. Iannucci, Limbo: the Emptiness of Time, in «Studi Danteschi», LII, (1979-1980),
pp. 69-128; Id., Dante e la “bella scola” della poesia («Inf.» 4.64-105), in Dante e la “bella scola” della poesia. Autorità
e sfida poetica, cit., pp. 19-39.
sei occorrenze nel poema, la parola essilio59. La più celebre fra queste occorrenze è
quella pronunciata da Cacciaguida, la quarta nel poema, l’unica relativa all’esilio
politico di Dante da Firenze (Par. XVII, 57). Le altre attivano invece la metafora
biblica secondo cui tutta l’umanità è in esilio da quando fu cacciata dal Paradiso
terrestre e quindi vive lontana da Dio60. L’esilio originario è questa esclusione dalla
vicinanza a Dio, alla quale tutti gli uomini sono condannati per la colpa dei progenitori.
Quella della vita umana come esilio da Dio e viaggio di ritorno alla casa del padre è
un’immagine fondante nel poema fin dall’inizio, dove essa è definita il «cammin di
nostra vita». Ma l’esilio dalla patria per qualcuno non finirà mai. La dannazione è
indicata come eterna esclusione dal ritorno a Dio, «etterno essilio» (Inf. XXIII, 126)61,
con formula che si riferisce a un singolo dannato ma si estende a tutti, nella prima
occorrenza del termine. La seconda ricorda, proprio attraverso l’exemplum di Virgilio,
che a questa esclusione eterna sono condannati anche gli spiriti del Limbo. Quando
Virgilio saluta l’ombra destinata alla salvezza che li ha raggiunti nella cornice degli
avari, che poi si rivelerà Stazio, la saluta con queste parole: «Nel beato concilio / ti
ponga in pace la verace corte / che me rilega ne l’etterno essilio» (Purg. XXI, 16-18)62.
In entrambi questi casi è presente, con diverso ordine, lo stesso sistema di rimanti attivo
nella coppia di terzine di Par. XXVI, 115-120: concilio : Virgilio : essilio.
È degno di nota che l’unica altra occorrenza nel poema della rima in -ilio si trova in
chiusura del canto XXIII, il primo interamente dedicato all’episodio delle stelle fisse
che qui volge al termine: «Quivi si vive e gode del tesoro / che s’acquistò piangendo
ne lo essilio / di Babillòn, ove si lasciò l’oro // Quivi trïunfa, sotto l’alto Filio / di Dio
e di Maria, di sua vittoria, / e con l’antico e col nuovo concilio, / colui che tien le chiavi
di tal gloria» (XXIII, 133-139). Anche qui troviamo i rimanti essilio e concilio, ma al
rimante Virgilio, sempre presente negli altri tre casi63, si sostituisce «Filio», enfatizzato
dall’enjambement «Filio / di Dio e di Maria». Sono le ultime terzine del canto che
introduce quello in cui l’incontro con san Pietro porterà all’esaltazione della fede,
quella fede che, come ribadito tante volte, è mancata a Virgilio.
L’occorrenza del termine essilio riferita ad Adamo nel canto XXVI, l’ultimo dedicato
interamente al cielo delle stelle fisse, è l’ultima nel poema ed è quella che dà senso a
tutte le altre, in quanto fonda il senso dell’esilio nella superbia umana che allontana da

59
Per una rassegna completa delle occorrenze e per altri riferimenti bibliografici rimando a G. LEDDA, Immagini di
pellegrinaggio e di esilio nella «Commedia» di Dante, in «Annali dell’Università di Ferrara Online - Lettere», Vol. 7, N°
1 (2012), pp. 295-308.
60
Ambivalente fra l’evidente senso politico e quello biblico, che non può essere del tutto escluso, risulta l’occorrenza di
essilio relativa a Boezio: «Lo corpo ond’ella fu cacciata giace / giuso in Cieldauro; ed essa da martiro / e da essilio venne
a questa pace» (Par. X, 127-129).
61
Si veda, più ampiamente il passo: «mi disse: “Quel confitto che tu miri, / consigliò i Farisei che convenia / porre un
uom per lo popolo a’ martìri. // Attraversato è, nudo, ne la via, / come tu vedi, ed è mestier ch’el senta / qualunque passa,
come pesa, pria. // E a tal modo il socero si stenta / in questa fossa, e li altri dal concilio / che fu per li Giudei mala
sementa”. // Allor vid’io maravigliar Virgilio / sovra colui ch’era disteso in croce / tanto vilmente ne l’etterno essilio»
(Inf. XXIII, 119-126).
62
Si veda più ampiamente il passo: «Ed ecco, sì come ne scrive Luca / che Cristo apparve a’ due ch’erano in via, / già
surto fuor de la sepulcral buca, // ci apparve un’ombra, e dietro a noi venìa, / dal piè guardando la turba che giace; / né ci
addemmo di lei, sì parlò pria, // dicendo: “O frati miei, Dio vi dea pace”. / Noi ci volgemmo sùbiti, e Virgilio / rendéli ’l
cenno ch’a ciò si conface. // Poi cominciò: “Nel beato concilio / ti ponga in pace la verace corte / che me rilega ne l’etterno
essilio”» (Purg. XXI, 7-18).
63
Cfr. Inf. XXIII, 124; Purg. XXI, 14; Par. XXVI, 118.
Dio, a partire dal modello archetipico dei progenitori. Trovare il nome di Virgilio
coinvolto ancora in questa tematica, a ricordare la sua dannazione «ne l’etterno
essilio», è un altro indizio della volontà di ricordare la sua esclusione dalla salvezza.

7. L’episodio centrale della terza cantica, quello dell’incontro fra Dante e


Cacciaguida nel cielo di Marte, è aperto da una similitudine che chiama in causa il
modello fondante del viaggio di Enea agli inferi per incontrarvi il padre Anchise:

Sì pïa l’ombra d’Anchise si porse,


se fede merta nostra maggior musa,
quando in Eliso del figlio s’accorse.
«O sanguis meus, o superinfusa
gratïa Deï, sicut tibi cui
bis unquam celi ianüa reclusa?». (Par. XV, 25-30)

Il modello di Enea era stato già indicato, insieme a quello di Paolo, fin dall’inizio nel
poema (Inf. II, 10-36). La volontà di ricordare, nel momento in cui inizia l’incontro con
Cacciaguida, i due modelli dell’identità di Dante quale viaggiatore dell’aldilà investito
di una missione provvidenziale è ribadita, subito dopo, dalle prime parole che
Cacciaguida rivolge al pellegrino: parole che attivano il modello di Paolo, l’unico,
prima di Dante, ad avere avuto il privilegio di visitare il Paradiso per due volte64.
Come già ricordato, tra le tante citazioni di Enea o allusioni a episodi virgiliani che
lo riguardano sparse nel poema dantesco, quelle del Paradiso sono concentrate nei
canti più legati ai temi politici. Nel VI canto Enea è citato già nella prima terzina, come
«l’antico che Lavina tolse» (v. 3) insieme al quale l’aquila imperiale seguì il corso del
sole, da oriente a occidente, il che dà l’occasione per stigmatizzare invece il
comportamento di Costantino, che portò l’aquila in direzione contraria. Ricordata
brevemente la propria vicenda, Giustiniano ripercorre la storia dell’Impero attraverso
le imprese dell’aquila. Tale rievocazione si apre con un nuovo ricordo dei fatti di Enea,
e in particolare del sacrificio di Pallante, il quale «morì per darli regno» (VI, 36). In tal
modo si riannoda questo momento al primo canto del poema, in cui si ricordava
l’analogo sacrificio per la salvezza «de l’umile Italia» da parte della «vergine
Cammilla, / Eurialo e Turno e Niso» (Inf. I, 106-108)65. I riferimenti a Didone nei canti

64
Anche in questa seconda terzina sono state riscontrata tracce virgiliane: il sintagma «sanguis meus» riprende le parole
rivolte da Anchise all’anima di Giulio Cesare: «proice tela manu, sanguis meus!» (Aen. VI, 835), mentre l’avverbio «bis»,
riferito proprio alla duplice esperienza dell’aldilà si ritrova nelle parole che la Sibilla rivolge a Enea quando questi le
chiede di essere condotto nell’Averno: «si tanta cupido est / bis Stygios innare lacus, bis nigra videre / Tartara» (Aen. VI,
133-135). Quest’ultimo riscontro è particolarmente interessante, in quanto relativo al rapporto con il modello di Enea
come viaggiatore nell’Aldilà. Ma se l’eroe troiano vede per due volte i regni inferi, a Dante si aprirà per due volte la porta
del cielo: perciò il modello di Enea è superato sotto questo aspetto, e gli si sostituisce tacitamente quello di Paolo, unico
a essere stato accolto per due volte in Paradiso. A rafforzare tale lettura aggiungo un riscontro, che non mi pare sia stato
finora addotto, per il sintagma «ianua celi», che vista l’alta concentrazione di riprese virgiliane, potrebbe provenire dalle
stesso passo dell’Eneide, e in particolare dalle parole con cui Enea apre il discorso in cui formula alla Sibilla le sue
richieste, alludendo alla «inferni ianua regis» (Aen. VI, 106) e chiedendo alla sacerdotessa «sacra ostia pandas» (v. 109).
65
Cfr. tra gli altri A.M. CHIAVACCI LEONARDI, Dante e Virgilio: l’immagine europea del destino dell'uomo, in «Letture
Classensi», XII (1983), pp. 81-97. Segnalo che una nuova lettura di tale terzina, ingegnosa ma a mio avviso non
persuasiva, è stata recentemente proposta da E. REBUFFAT, Perché morì la vergine Camilla? Quattro vittime della “antica
lupa” nell’«Eneide», in I classici di Dante, a cura di P. Allegretti, M. Ciccuto, Firenze, Le Lettere, 2018, pp. 91-134.
del cielo di Venere (Par. VIII, 1-12; IX, 97-99) si portano dietro l’implicita allusione
ad Enea, alla sua capacità, opposta, di vincere le tentazioni dell’amore folle per mettere
in atto la volontà divina, anche attraverso l’accettazione dolorosa della difficile
missione che gli era stata provvidenzialmente affidata.
Anche nella terza occasione in cui si allude a Enea nel Paradiso, all’inizio
dell’incontro fra Dante e Cacciaguida (Par. XV, 25-27), il nome dell’eroe troiano non
è citato (e non lo sarà mai nella terza cantica), ma l’episodio alluso è quello
fondamentale per la funzione di Enea come figura di Dante, cioè la discesa agli inferi
per incontrare il padre Anchise e avere da lui le rivelazioni che gli consentiranno di
ottenere la vittoria nelle guerre del Lazio. Anchise, però, non si limita a questo: accanto
alle profezie e alle rivelazioni sul destino personale e alla conferma della missione che
gli è affidata, egli rivolge a Enea anche una profezia sulle future imprese dei Romani.
Il cuore di questa profezia è l’annuncio dell’impero di Ottaviano Augusto.
Nelle prime terzine del canto XVII Beatrice invita Dante a chiedere a Cacciaguida
chiarimenti intorno alle profezie di sventura che ha udito nel corso del suo viaggio (vv.
7-12). Secondo il progetto originario del poema doveva essere Beatrice a offire tali
chiarimenti, come è affermato da Virgilio (Inf. X, 127-31) e ripetuto a Brunetto Latini
dallo stesso Dante (Inf. XV, 88-90). Sui motivi di questa sostituzione sono state
avanzate molte ipotesi. Tuttavia, credo che la chiave per comprendere questa
sostituzione fosse stata già suggerita in avvio dell’episodio, attraverso la similitudine
che costruiva l’incontro fra Dante e Cacciaguida sul modello di quello fra Enea e
Anchise. Dante aveva bisogno di un Anchise a cui affidare non solo la profezia finale
sul proprio destino e sulla propria missione, ma anche una profezia politica costruita
sul modello di quella virgiliana relativa ad Augusto e capace di richiamare
esplicitamente un tale modello virgiliano e imperiale66.
L’importanza di questo modello sul piano politico rende ragione, come ho cercato di
ipotizzare, dei dubbi espressi da Dante sulla figura di Virgilio intorno ad altri aspetti,
quali la dimensione religiosa pagana delle sue opere e il simbolismo filosofico-
razionale che è attribuito al personaggio della guida. La manifestazione di questi dubbi
serve proprio a bilanciare, prendendo le distanze dagli aspetti potenzialmente
pericolosi della figura di Virgilio, l’adesione incondizionata all’ideologia romana e
imperiale di cui il poeta latino è campione e modello.
Anche per questo motivo, trovo inaccettabile la lettura dell’inciso «se fede merta
nostra maggior musa» (Par. XV, 26) che vi ravvisa l’espressione di un dubbio che
farebbe sistema con le tante segnalazioni degli errori e dei limiti attribuiti all’opera di
Virgilio e al suo personaggio67. Io credo, invece, come ho già cercato di dire, che
l’indicazione di questi limiti sia funzionale proprio alla possibilità di esprimere senza
riserve l’adesione al modello virgiliano sul piano della poesia politica imperiale. Anche
per questo, una lettura negativa dell’inciso «se fede merta nostra maggior musa», di là
66
Per una discussione più ampia e approfondita di questo punto, e per altri riferimenti bibliografici, rimando a G. LEDDA,
Il Cangrande di Dante, cit.
67
Sostengono tale lettura R. HOLLANDER, Il Virgilio dantesco, cit., p. 135-136; T. BAROLINI, Il miglior fabbro, cit., pp.
201. Fra i commentatori il primo a proporla sembra sia stato C. GRANDGENT, nella Nota a Inf. II. In tale direzione vanno
poi, con diverse sfumature, i commenti ad loc. di C. STEINER, D. MATTALIA, C. SINGLETON (nota a Inf. II, 13), R.
HOLLANDER, N. FOSCA.
dalle difficoltà linguistiche che comporterebbe, mi sembra incompatibile con tale
esigenza che fonda, a mio avviso, l’intero complesso degli atteggiamenti di Dante nei
confronti di Virgilio, della sua opera e del suo personaggio. È evidente, infatti, come
del resto ribadito dai commentatori più avvertiti, che l’inciso ha qui «valore
asseverativo, non dubitativo»68, e si riallaccia al profetismo romano-imperiale della
poesia virgiliana come un precedente veritiero su cui fondare anche il profetismo
politico-imperiale del nuovo poema. Il nesso tra la dottrina dell’Impero e la veridicità
storica del racconto di Virgilio sta alla base della svolta, realizzatasi all’altezza del IV
libro del Convivio, probabilmente sulla base di una nuova lettura dell’Eneide che
aggiunge all’esegesi, precedentementa fruita, della tradizione allegorica di matrice
fulgenziana anche quella serviana, che portava a una lettura storico-provvidenzale del
poema virgiliano e insieme della storia di Roma, lettura che costituisce il fondamento
dell’assunzione del modello virgiliano nella Commedia69.

8. Anche alcune considerazioni che si possono svolgere sui riferimenti al profetismo


virgiliano nel Paradiso sembrano poter confermare queste ipotesi di lettura
complessiva70. Nel canto XVII, la risposta di Cacciaguida alle domande di Dante è
introdotta da una lunga e complessa indicazione delle modalità del suo discorso,
costruita attraverso la contrapposizione tra le parole chiare e precise del beato e le
«ambage», cioè i discorsi tortuosi e oscuri degli indovini e degli oracoli antichi:

Né per ambage, in che la gente folle


già s’inviscava pria che fosse anciso
l’Agnel di Dio che le peccata tolle,
ma per chiare parole e con preciso
latin rispuose quello amor paterno,
chiuso e parvente del suo proprio riso. (Par. XVII, 31-36)

La parola ambage è particolarmente importante perché presente in Virgilio e Ovidio


proprio in riferimento agli enigmatici discorsi degli oracoli antichi. In particolare, nel
VI libro dell’Eneide, prima di ottenere di scendere agli inferi e incontrare il padre
Anchise, Enea riceve dalla Sibilla Cumana oscure predizioni sul suo futuro di guerre.
Al termine della sua predizione, il poeta commenta: «Talibus, ex adyto dictis Cymaea
Sibylla / horrendas canit ambages antroque remugit, / obscuris vera involvens» (Aen.

68
G. INGLESE, ad loc., ed. cit., p. 201. Tra i commenti precedenti è particolarmente esplicito in questa direzione quello di
L. PIETROBONO, ad loc.: «è un se di quelli che, invece di dubitare, affermano con più insistenza».
69
Cfr. G. Inglese, Storia e «Comedìa»: Enea, cit., a pp. 147-149; S. ITALIA, Dante e l’esegesi virgiliana. Tra Servio,
Fulgenzio e Bernardo Silvestre, Roma-Acireale, Bonanno, 2012, pp. 190-199. A questi due lavori rimando anche per
ulteriori riferimenti bibliografici. Sulla veridicità del senso letterale nella lettura dantesca dell’Eneide nel IV trattato del
Convivio insisteva già B. NARDI, Dal «Convivio» alla «Commedia», cit., pp. 101-108. Più in generale, per le posizioni di
Nardi cfr. ID., Il concetto dell’Impero nello svolgimento del pensiero dantesco, cit.; ID., Tre pretese fasi del pensiero
politico di Dante, cit.; ID., Dante profeta, in Id., Dante e la cultura medievale, nuova ed. a cura di P. Mazzantini, Bari-
Roma, Laterza, 1990, pp. 265-326, a pp. 283-285.
70
Riprendo alcune considerazione svolte in G. LEDDA, Dante e il profetisimo degli antichi pagani, in Poesia e profezia
nell’opera di Dante. Atti del Convegno internazionale di Studi (Ravenna, 11 novembre 2017), a cura di G. Ledda,
Ravenna, Centro Dantesco dei Frati Minori Conventuali, 2019, pp. 179-230, a cui rimando per una trattazione più ampia
e per ulteriori riferimenti bibliografici.
VI, 98-100)71. Opponendo i caratteri del discorso profetico di Cacciaguida a quello
degli oracoli pagani si profilerebbe dunque un contrasto fra il profetismo classico-
pagano e quello dantesco di matrice biblico-cristiana72.
A questo punto il lettore può ricordare che l’allusione all’oscurità del profetismo
pagano giocava un ruolo importante già nel corso di uno fra i più significativi interventi
profetici del poema, quello di Beatrice, nel Paradiso terrestre, sul «cinquecento diece e
cinque» (Purg. XXXIII, 31-78). Lì, tuttavia, Beatrice attribuiva al proprio discorso
profetico le stesse caratteristiche di incomprensibile oscurità proprie degli oracoli
pagani («la mia narrazione buia / qual Temi e Sfinge men ti persuade, / perch’a lor
modo lo ’ntelletto attuia», vv. 46-48» ), al contrario di quel che si dice qui del discorso
profetico di Cacciaguida, le cui «chiare parole» e «preciso / latin» (Par. XVII, 36-37)
sono contrapposti alle «ambage» degli oracoli pagani (v. 31). Naturalmente l’oscurità
del discorso profetico di Beatrice nel Paradiso terrestre non è da imputare alla beata,
ma alle limitate capacità di Dante personaggio, legato nel suo modo di ragionare al
mondo terreno. In ogni caso, è come se tale profezia ancora oscura e incomprensibile
di Beatrice sia ora perfettamente chiara nelle parole precise di Cacciaguida su
Cangrande (Par. XVII, 70-93). Attraverso questa ripresa si suggerisce quindi che le
parole di Cacciaguida costituiscono il chiarimento finale non solo delle profezie post
eventum sull’esilio, ma anche delle profezie messianiche relative al ristabilimento
dell’ordine e della giustizia attraverso le figure provvidenziali del «veltro» e del
«cinquecento diece e cinque». Infatti l’osservazione conclusiva di Cacciaguida che
definisce il proprio discorso come «le chiose di quel che ti fu detto» giunge solo dopo
la profezia relativa a Cangrande (vv. 94-96).
Tuttavia, rispetto al profetismo virgiliano occorre fare ulteriori distinzioni.
L’opposizione segnalata ai vv. 31-36 riguarda soltanto il primo dei discorsi profetici di
Aen. VI, quello pronunciato dalla Sibilla, non il lungo discorso di Anchise, che
sostituisce la Sibilla nel ruolo profetico nell’ultima parte del VI libro (vv. 756-893):
con questo vi è invece continuità. Già nel testo virgiliano si trova dunque un modello
figurale per il profetismo autentico di Caccaguida, quello di Anchise. Infatti se la
profezia della Sibilla si chiudeva con le definizioni di «horrendas […] ambages» e
«obscuris vera involvens», richiamate e respinte nel testo dantesco (Par. XVI, 31-32:
«né per ambage, in che la gente folle / già s’inviscava»), la rassegna dei discendenti
pronunciata da Anchise è invece caratterizzata da ripetute indicazioni di un parlare

71
Inoltre nelle Metamorfosi ovidiane, la Sfinge, quando Edipo risolve il suo enigma, si getta nel vuoto uccidendosi, e
giace «immemor ambagum suarum» (VII, 761). Interessante, per la struttura negativa in cui si colloca, è anche
l’occorrenza virgiliana di Georg. II, 45-46: «Non hic te carmine ficto / atque per ambages et longa exorsa tenebo». Ha
significato letterario, ma senso positivo, anche l’unica altra occorrenza nel corpus dantesco: «Arturi regis ambages
pulcerrime» (DVE, I X 2). Pertinenti al profetismo politico sono invece le due occorrenze del termine in LUCANO, Phars.
I 638; VII, 21, su cui richiama l’attenzione in relazione al passo di Par. XVII (ma forse con troppa enfasi) L. CIUCCI, Da
Luni al cielo di Mercurio: osservazioni sulla storia dell’impero nella visione politica dantesca e sul VI canto del
«Paradiso», in «Quaderni del Laboratorio di Linguistica», XIII (2014), pp. 1-37 [rivista online:
http://linguistica.sns.it/QLL/TableofContent.htm], a pp. 16-18.
72
Cfr. anche R. HOLLANDER, Il Virgilio dantesco, cit., pp. 137-138; J.T. SCHNAPP, The Transfiguration of History at the
Center of Dante’s «Paradise», Princeton, Princeton University Press, pp.140-141. Segnala, al contrario, una serie di
analogie fra la profezia della Sibilla in VIRGILIO, Aen. VI, 77-100 e quella di Cacciaguida F. MAGGINI, La profezia
dell’esilio nel canto XVII del «Paradiso», in «La rassegna della letteratura italiana», LXV (1961), pp. 219-222. Ma la
ripresa delle strutture virgiliane non esclude il rovesciamento del loro significato, operazione consueta nella Commedia.
chiaro e aperto, di una volontà di mostrare e istruire senza veli e con la massima
completezza e chiarezza73.
È stato spesso notato che nella profezia relativa a Cangrande si trovano tracce che
possono far pensare alla volontà di suggerire un collegamento fra questa profezia e
quella del «veltro» nel primo canto del poema: «ma pria che ’l Guasco l’alto Arrigo
inganni, / parran faville de la sua virtute / in non curar d’argento né d’affanni». (Par.
XVII, 82-84). In particolare, l’espressione «in non curar d’argento né d’affanni»
sembra riprendere quella usata per il «veltro» nel primo canto del poema: «Questi non
ciberà terra né peltro» (Inf. I, 103). In diversi momenti della propria vita e della scrittura
del poema Dante avrà visto il «veltro» in qualche personaggio reale74. Certamente per
qualche tempo in Arrigo VII. Ma è evidente che nel momento in cui scrive questo canto
egli introduce indizi che facciano pensare a Cangrande come al «veltro», come a colui
nel quale sono riposte le speranze di restaurazione del potere imperiale in Italia.
Su questa base acquista un significato più preciso anche il collegamento che era stato
stabilito all’inizio del discorso di Cacciaguida con la profezia del «cinquecento diece
e cinque». Quel personaggio provvidenziale, capace di restaurare l’autorità
dell’Impero, colui che era stato oscuramente profetizzato da Virgilio come «veltro» e
poi da Beatrice come «cinquecento diece e cinque», con profezie oscure ed
enigmatiche, ora, «per chiare parole e con preciso / latin», è indicato da Cacciaguida
essere Cangrande. Ovviamente Dante non pensava certo a lui quando scrisse il primo
canto dell’Inferno, ma quando scrive il XVII del Paradiso intende suggerire la
possibilità di tale identificazione, pur senza affermarla esplicitamente75.
Anchise presenta a Enea tutta la sequenza dei grandi romani che dovranno nascere
nel futuro (Aen. VI, 713-718) che culmina con Ottaviano Augusto, colui per il quale è
scritto l’intero poema virgiliano. L’esaltazione di Augusto è totale, la profezia della
sua grandezza è il cuore del discorso di Anchise (vv. 788-807). Così Cacciaguida,
accanto alle profezie sull’esilio e all’investitura profetica, pronuncia anche la profezia

73
Si vedano per esempio le seguenti espressioni: «Has equidem memorare tibi atque ostendere coram / iam pridem, hanc
prolem cupio enumerare meorum» (Aen. VI, 716-717); «“Dicam equidem nec te suspensum, nate, tenebo”, / suscipit
Anchises atque ordine singula pandit» (vv. 722-723); «expediam dictis et te tua fata docebo» (vv. 759); «Quae postquam
Anchises natum per singula duxit / incenditque animum famae venientis amore, / exim bella viro memorat quae deinde
gerenda / Laurentisque docet populos urbemque Latini / et quo quemque modo fugiatque teratque laborem» (vv. 888-
892). Inoltre l’avo di Dante è definito «quello amor paterno» (Par. XVII, 35), il che porta avanti la caratterizzazione del
personaggio di Cacciaguida su quello di Anchise, per il quale il lessico della paternità è insistentemente ribadito
nell’episodio virgiliano. Si vedano per esempio le espressioni: «pater Anchises» (Aen. VI, 679; 713; 854; 867); «tuaque
exspecata parenti / [...] pietas» (vv. 687-88); «genitor» (vv. 695 e 697); «O Pater» (v. 719); «Pater» (v. 863). Allo stesso
modo è continuo l’uso del termine filius e correlati per Enea, aspetto ripreso da Dante nel canto XV: «quando in Eliso del
figlio s’accorse» (v. 27). Entrambi questi aspetti ritornano continuamente per Cacciaguida («paterna festa», XV, 84; «Voi
siete il padre mio», XVI, 16; «quello amor paterno», XVII, 35; «padre mio», XVII, 106) e per Dante («figlio», XV, 52 e
XVII, 94), per tacere delle tante variazioni metaforiche di questo motivo.
74
Sulla necessità di tener presente la dimensione diacronica nel profetismo dantesco ha opportunamente richiamato
l’attenzione soprattutto M. PALMA DI CESNOLA, Semiotica dantesca. Profetismo e diacronia, Ravenna, Longo, 1995.
75
Alcuni studiosi ritengono che il «veltro» debba essere identificato con Cangrande sin dal primo canto del poema. Per
un elenco dei sostenitori di questa tesi e per argomenti a sostegno, si veda A. LANZA, Il Veltro “alias” Cinquecento Diece
e Cinque, in ID., Dante gotico e altri studi sulla «Commedia», Firenze, Le Lettere, 2014, pp. 53-73. Si tratta però di una
posizione che mi pare del tutto insostenibile. L’idea che Dante suggerirebbe in Par. XVII la possibilità di interpretare
retroattivamente il «veltro» come indicante Cangrande è avanzata, invece, con vari argomenti, anche da M. PALMA DI
CESNOLA, Semiotica dantesca. Profetismo e diacronia, cit., pp. 114-119 e ora da A. CASADEI, Limiti dell’interpretazione
del «veltro», in ID., Dante. Altri accertamenti e punti critici, Milano, Franco Angeli, 2019, pp. 161-176.
di Cangrande e l’esaltazione della sua figura politica di promotore della restaurazione
dell’autorità imperiale in Italia.

9. Di là dal modello politico imperiale, sempre attivo e sempre pienamente positivo,


la poesia di Virgilio mostra però sempre più i suoi limiti. L’ultima citazione virgiliana
si ha nell’ultimo canto ed è ancora tratta da un passo relativo al profetismo pagano.
Qui, per illustrare il cedimento delle facoltà umane incapaci di comprendere e
conservare la visio Dei, è richiamata l’immagine virgiliana delle foglie su cui la Sibilla
scriveva i responsi ricevuti dal dio, che il vento però disperdeva rendendo indecifrabile
il messaggio divino: «così al vento ne le foglie levi / si perdea la sentenza di Sibilla»
(Par. XXXIII, 65-66)76. È certo significativo che l’ultima immagine virgiliana citata
nel poema sia quella di uno scacco, di una perdita, dell’insufficienza delle facoltà
conoscitive dell’uomo davanti ai misteri divini77.
L’ultima allusione classica del poema non è però questa, ma quella ovidiana
dell’«ombra d’Argo», citata ancora per illustrare, sia pure in modo enigmatico,
l’incapacità della memoria di accogliere e conservare la visione di Dio: «Un punto solo
m’è maggior letargo / che venticinque secoli a la ’mpresa / che fé Nettuno ammirar
l’ombra d’Argo» (Par. XXXIII, 94-96).
La terza cantica si chiude, dunque, come si era aperta, con le allusioni ai miti ovidiani,
ma porta avanti al suo interno la riflessione, avviata nelle prime due cantiche, sui
rapporti con Virgilio, assunto sempre senza riserve come modello di poesia politica e
di profetismo imperiale, e insieme, forse proprio per questo, continuamente criticato
come autore e come rappresentante della ragione umana e della filosofia razionale.

76
Si tratta di un’immagine che ritorna due volte nel poema virgiliano: Aen. III, 441-460; VI, 74-76.
77
Per una interpretazione diversa da quella che qui suggerisco, cfr. per esempio R. HOLLANDER, Il Virgilio dantesco, cit.,
pp. 145-149.

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