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LA POSTILLA SULLA MORTE IN SCENA NEI DISCORSI

DI GIRALDI CINZIO
di Davide Colombo

La postilla sulla morte in scena nei Discorsi intorno al comporre del fer-
rarese Giovan Battista Giraldi Cinzio funge da catalizzatore d’intrecci
complessi della critica rinascimentale, a partire dalla nota diatriba tra lo
stesso Cinzio e il suo ex allievo, Giovan Battista Pigna.1 A metà Cinque-
cento, grazie a traduzioni e commenti, il testo greco della Poetica di Ari-
stotele diventa accessibile anche a chi della lingua greca non ha una pa-
dronanza completa. Nei Romanzi il Pigna accusa Giraldi di non sapere il
greco «in modo alcuno», e perciò di non esser capace di vergare annota-
zioni alla Poetica che non siano tre o quattro prese a prestito dai commenti
al testo tradotto, e comunque scorrette. Così, di fronte al luogo aristote-
lico ùk tÒn Nàptrwn (Poet. 1460a), letteralmente ‘dai bagni’, secondo
il Pigna Giraldi avrebbe annotato: «Questa favola chiamata le Niptre, per-
ché non si truova, ingerisce gran difficoltà», confondendo l’episodio dei
lavacri fatti da Euriclea ad Ulisse nell’Odissea col titolo d’un’opera per-
duta.2 A detta del Pigna in mancanza di commenti della Poetica Giraldi
«così gagliardo non sarebbe a favellarne; la qual gagliardia, senza intelli-
genza alcuna della lingua greca, molto debole riesce».3 L’ignoranza gi-

1 STEFANO BENEDETTI, Accusa e smascheramento del “furto” a metà Cinquecento: rifles-


sioni sul plagio critico intorno alla polemica tra G. B. Pigna e G. B. Giraldi Cinzio, in “Studi
(e testi) italiani. Furto e plagio nella letteratura del classicismo”, I (1998), pp. 233-61.
2 GIOVAN BATTISTA PIGNA, I Romanzi, edizione critica a c. di Salvatore Ritrovato,

Bologna, Commissione per i testi di lingua, 1997, p. 12 [RITROVATO].


3 Ivi, p. 13.
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raldiana in campo linguistico4 rende poco credibili certi suoi impegni in


campo esegetico-letterario, quali il progettato saggio comparativo fra
l’Edipo re di Sofocle e l’Oedipus di Seneca, o l’identificazione con Epicarmo
del poeta criticato da un passo aristotelico.5 Giraldi non è abilitato ad in-
segnare greco, anzi non sa insegnare tout court: i versi conclusivi dell’Or-
becche, «con che la tragedia è rivolta a chi legge», nell’intenzione di Gi-
raldi vorrebbero insegnare a tutti a scriver tragedie, ma quanto velleita-
ria sia quell’intenzione potranno giudicare «coloro ch’han qualche gusto
di simil facoltà».6 Il primogenito di Giraldi, Lucio Olimpio, ha assistito
ad una lezione del Pigna sull’Iliade, e perciò potrebbe confermare che que-
sti intende bene la lingua greca.7 Del resto il Pigna s’appresta ad assu-
mere la cattedra di oratoria e poesia greca prima occupata dal suo mae-
stro, il «Greco (che così dalla Candia sua patria e dalle lettere in che tiene
il primo luogo cognominato è messer Francesco Porto)».8
Un esempio della perizia da grecista del Pigna riguarda, più avanti,
la morte in scena, uno dei temi di teatro ch’egli aveva forse discusso con
Giraldi alla fine degli anni Quaranta, nella fase aurorale di stesura dei Ro-
manzi: può la morte d’un personaggio venir rappresentata direttamente
in scena, o dev’esser narrata?9 La partita si gioca prima sul piano dell’er-
meneutica delle auctoritates Aristotele e Orazio. Dacché la Poetica aristo-
telica è disponibile all’esegesi degl’interpreti rinascimentali, lo sforzo dot-

4 GIOVAN BATTISTA GIRALDI CINTHIO, Discorsi intorno al comporre rivisti dall’autore


nell’esemplare ferrarese Cl. I 90, a c. di Susanna Villari, Messina, Centro Interdipartimen-
tale di studi umanistici, 2002, pp. 73-74 [VILLARI], confonde i grecismi enargia (ùnßr-
geia ) ed energia (ùnûrgeia ). Singolare che non lo denunci il Pigna, che ha un paragrafo
chiaro sull’enargia (RITROVATO, pp. 53-54). Dato che il Pigna vi afferma che un poeta
non si deve dilungare a descrivere le vesti d’una «femina», Giraldi gli risponde in una
postilla citando le descrizioni virgiliane di Venere e Camilla (VILLARI, p. 75).
5 RITROVATO, p. 13.
6 Ivi, pp. 13-14.
7 Ivi, p. 11.
8 Ivi, p. 9. Convenzionale è l’elogio ai due Giraldi, Cinzio e Lilio Gregorio, che

FRANCESCO PORTO esprime in una delle sue oratiunculae latinae pubblicate nei Prolego-
mena alle tragedie di Sofocle (Morgiis, Ioannes le Preux, 1584, p. 50): «Geraldi [sic] vero
utriusque laus eadem in re cuinam est obscura? Quanquam alter aetate, ingenio, cor-
porisque valetudine florens, quid naturae donis, quid doctrina, quid usu exercitatione-
que dicendi possit, hic fere quotidie de loco superiore solet demonstrare».
9 GIOVANNI BATTISTA CERVELLINI, Le “morti sulla scena” nelle teoriche del secolo XVI,

in “Coltura e Lavoro”, XLVII (1906), pp. 6-7.


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trinale mira ad integrarla con l’Ars poetica oraziana in un complesso il più


unitario possibile.10 Aristotele parla di esecuzioni e stragi a scena aperta
(ùn t¸ faner¸ ); Orazio vieta d’esporre sul palcoscenico quel ch’è op-
portuno si svolga in un luogo interno e nascosto.11 Dal passo aristotelico
il Pigna desume che lo Stagirita neghi che sia possibile rappresentare sul
palco la morte d’un personaggio; dal passo oraziano, che il Venosino proi-
bisca non tutte le morti in scena, ma solo quelle che «malamente si
fanno».12 L’esito è un compromesso perfetto: «dopo una o due morti in
narrazione passate manderò fuori la rimanente persona che da sé s’uccida,
o che uccisa sia da qualcun altro».13
Della morte in scena Giraldi s’è occupato già prima dei Discorsi, sia
nella Tragedia a chi legge, il supplemento teorico alla fine dell’Orbecche, per
giustificare il suicidio in scena della protagonista, sia nel Giudizio d’una
tragedia di Canace e Macareo, per polemizzare contro il rifiuto della morte
in scena da parte della Canace di Sperone Speroni.14 Al momento di ag-
giornare i Discorsi per la seconda edizione, al centro delle preoccupazioni
teoriche di Giraldi non sono più né l’Orbecche né la Canace, il suo antimo-
dello.15 Ora invece la morte in scena consente al Cinzio di rigettare lo

10 MARVIN T. HERRICK, The Fusion of Horatian and Aristotelian Literary Criticism,

1531-1555, Urbana, The University of Illinois Press, 1946.


11 A proposito del legame fra il precetto aristotelico (Poet. 1452b: «pßqoj dû ùsti

pr≠xij fqartik¬ ƒ ‘dunhrß, oèon oâ te ùn t¸ faner¸ qßnatoi kaã aÜ periwdunàai


kaã trÎseis kaã ÷sa toia„ta») e quello oraziano (Ars, vv. 182-85: «non tamen intus
/ digna geri promes in scaenam multaque tolles / ex oculis, quae mox narret facundia
praesens: / ne pueros coram populo Medea trucidet»), cfr. CHARLES OSCAR BRINK, Ho-
race on poetry. The “Ars Poetica”, Cambridge, Cambridge University Press, 1971, p. 244.
12 RITROVATO, pp. 112-14.
13 Ivi, p. 114.
14 GIOVAN BATTISTA GIRALDI, Orbecche, in Teatro del Cinquecento. I. La tragedia, a c.

di Renzo Cremante, Milano-Napoli, Ricciardi, 1988, pp. 441-42; GIAMBATTISTA GI-


RALDI CINZIO, Scritti contro la “Canace”. Giudizio ed Epistola latina, pubblicati con SPE-
RONE SPERONI, “Canace” e Scritti in sua difesa, a c. di Christina Roaf, Bologna, Commis-
sione per i testi di lingua, 1982, pp. 126-27 [ROAF]. Non sono state rinvenute le let-
tere sulla morte in scena che Antonio Possevino, nei Due discorsi del 1556, dice d’aver
ricevuto dal Cinzio: «della quale opinione [cioè che le morti in scena siano sempre vie-
tate] non è stato il S. Giraldi, sì come e per lettere da lui ho inteso e si vede nella sua in-
troduzione al Ponzio» (cit. dal commento di Cremante all’Orbecche, p. 441, corsivo mio).
15 Pur senza rinunciare al suicidio raccontato o alla situazione del suicidio, nelle tra-

gedie successive all’Orbecche e alla Didone Giraldi non ammette la morte in scena, a causa
sia della «attenuazione dello sperimentalismo senecano […] a favore di un “addolci-
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stigma di gran traduttore dei traduttori d’Aristotele, perché richiede l’in-


terpretazione del luogo aristotelico ùn t¸ faner¸ . Stando al Pigna le
chiose cinziane alla Poetica tradotta non supererebbero le «tre o quattro
righe l’una».16 Perciò la pagina 224 della copia ferrarese dei Discorsi su-
bisce in un primo tempo integrazioni e correzioni autografe, poi viene del
tutto cancellata e sostituita da tre carte anch’esse autografe minutamente
manoscritte, che in parte ampliano, in parte riprendono le precedenti ar-
gomentazioni sulla morte in scena.17 È in gioco non solo un aspetto mar-
ginale, ma il cuore stesso della diatriba col Pigna. Dal punto di vista di
Giraldi ne è compiuto emblema la novella VIII 1 degli Ecatommiti, in cui
un giovane apprendista deruba un vecchio mercante ferrarese che l’ha va-
riamente beneficato sino a farlo suo socio; allorché il giovane riporta la
refurtiva nel fondaco del vecchio, questi vede le merci di sua proprietà
usate come prova a suo carico, proprio quel che nel 1554 Giraldi lamenta
a riguardo del Pigna: «avendo io composta questa opera [i Discorsi] per
lui e datagliele, egli la si ha attribuita a sé e poscia ha voluto dare a cre-
dere al mondo che io l’abbia tolta a lui».18 La questione della morte in
scena potrebbe svelare il dissimulato ladrocinio del Pigna. Infatti quando
i Romanzi suggeriscono che dopo una o due morti raccontate si possa in-
scenare un suicidio o un omicidio, il Pigna sta ricalcando la soluzione
compromissoria dell’Orbecche: nell’atto IV il messo racconta come Sulmone
abbia ucciso Oronte e i suoi figli (morte raccontata); nell’atto V prima il
semicoro descrive in diretta l’omicidio di Sulmone da parte di Orbecche
(di nuovo morte raccontata), poi Orbecche si toglie la vita in scena (morte
direttamente rappresentata).19 Il punto di partenza è comunque l’esegesi
aristotelica:

mento” del gusto tragico» (LAURA RICCÒ, Il teatro “secondo le correnti occasioni”, in “Studi
italiani”, XVII [2005], pp. 5-39: 16), sia delle preoccupazioni moralistiche ormai de-
terminanti all’altezza dei Dialoghi della vita civile, dove Giraldi interpreta in senso re-
strittivo le aperture al suicidio ad opera di Platone e di Aristotele, e pertanto censura il
suicidio per mezzo d’un coltello, alla Orbecche.
16 RITROVATO, p. 12.
17 VILLARI, pp. LXXXIV-LXXXV, CXLIV-CL e 239-46. Le note della Villari alla
postilla sulla morte in scena costituiscono l’indispensabile premessa alle presenti osser-
vazioni.
18 GIOVAN BATTISTA GIRALDI CINZIO, Carteggio, a c. di Susanna Villari, Messina,
Sicania, 1996, p. 264.
19 SALVATORE DI MARIA, The dramatic “hic et nunc” in the Tragedy of Renaissance Italy,

in “Italica”, LXXII (1995), pp. 275-97: articolo ampliato nel saggio The Italian Tragedy
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Dicendo massimamente Aristotile che le morti, i tormenti, le ferite che


tra congiunti di sangue per errore venivano, se si facevano palesi, erano
molto atte alla tragica compassione, anchora che io sappia che vi siano
di quelli che ùn t¸ faner¸ , che dice Aristotile, interpretano altrimente
che non faciamo noi, et non han fatto prima di noi il Valla et il Paccio.20

L’aggiunta precisa l’obiettivo della polemica: «Mi sono, adunque,


molto maravigliato c’huomo nato greco habbia cercato di torcere faner¸
ad altro sentimento che a quello c’ha voluto significare Aristotele con la
detta voce».21 Meravigliati siamo anche noi, perché ci saremmo aspettati
come obiettivo il Pigna, il ladro che accusa gli altri di esserlo, piuttosto
che il suo maestro Francesco Porto, l’uomo nato greco, denominato in al-
tri due punti «il Greco», come lo chiama il Pigna. Gli interventi auto-
grafi contro il Pigna e Porto si collocano com’è ovvio dopo il 1554, data
della giolitina dei Discorsi, forse attorno al 1560, poiché Giraldi cita
un’opera di Pietro Vettori del 1560 e una del Pigna del 1561.22 Le date
spiegano perché il Cinzio attacchi Porto e non il Pigna, e perché per farlo
aspetti il 1560-61, quando le accuse del Pigna sono pubbliche almeno
dal 1554, l’anno dei Romanzi. In primo luogo a partire dal 1556 il Pigna,
pur portando un nom de guerre all’apparenza canzonatorio, in qualità di se-
gretario personale del futuro duca Alfonso II è divenuto troppo impor-
tante per poter esser fatto oggetto esplicito d’una critica senza sottintesi;
vulnerabile è invece Porto, in odore d’eresia e perciò rimasto a Ferrara solo
sino al ’53. In secondo luogo il Principe del Pigna, uscito nel 1561, attri-
buisce alla conoscenza del greco il significato politico di competenza tec-
nica da spendere al servizio del proprio signore.23 Dire che Giraldi non
sa il greco getta un’ombra non più solo sulla sua maîtrise, ma pure sulla
sua possibilità di continuare ad essere ciò che è, uomo di lettere al servi-
zio degli Este. Già il primato dell’analisi del romanzo, conteso tra il Cin-

in the Renaissance. Cultural Realities and Theatrical Innovations, Bucknell University Press,
Lewisburg – Associated University Presses, London, 2002, pp. 155-76.
20 VILLARI, p. 241.
21 Ivi, p. 242.
22 Un’aggiunta poi soppressa precisa: «può vedere dal giudicio di questo dottissimo

et giudiciosissimo huomo [Vettori] quanto fuori di ogni verità a me dia vitio il novo
interprete della Poetica di Horatio che mi sia solamente fidato della interpretatione la-
tina» (ivi, p. CXLIX): allusione alla Poetica horatiana del Pigna (1561).
23 G.B. PIGNA, Il Principe, In Venetia, appresso Francesco Sansovino, 1561 (rist.

anast.: Sala Bolognese, Forni, 1990), cc. 59v-60r.


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zio e il Pigna, assume la valenza politica di asserzione propagandistica


dell’egemonia culturale di Ferrara.
Contro tutto ciò la strategia cinziana prevede due ordini d’argomenti:
da un lato un brano del De audiendis poetis di Plutarco, letto come riprova
d’una fruizione visiva dell’esperienza estetica; dall’altro lato il parere di
Valla, Pazzi, Maggi, illustri traduttori e commentatori di Aristotele, tutti
d’accordo con Giraldi, proprio come Vettori, nominato nella parte con-
clusiva della contesa in quanto autore dei Commentarii in primum librum
Aristotelis de arte poetarum, editi, lo si è accennato, nel 1560:

Mentre che io era colla penna in mano su questa parte, è uscita la in-
terpretatione del dottissimo messer Pietro Vittorio, gentilhuomo fio-
rentino, sulla Poetica d’Aristotile. Il quale […] ha […] esposta la greca
voce [ùn t¸ faner¸ ] «in palese», dichiarando che non è sconvenevole
che le morti si facciano nel cospetto degli spettatori […]. La qual cosa
può mostrare che, seguendo io il vero senso delle parole greche, et non
solo la interpretatione latina (come accenna chi poteva dir meglio [Pi-
gna]), dissi che le morti secondo Aristotile si potevano fare dicevolmente
in palese; che, anchora che io non faccia tanto romore delle cose greche,
come ne fa chi ciò ha detto, non hebbi io mai però bisogno di lui, in-
torno alla intelligenza di sentenze greche.24

La portata d’una controversia che rimane tacente nomine va al di là della


discorde lettura d’un passo aristotelico. Nella Ferrara mediocinquecente-
sca è in corso un Kulturkampf tra ellenisti e latinisti, con Giraldi risolu-
tamente inquadrato tra le fila dei secondi, e perciò ben disposto a scon-
trarsi coi tre colleghi dello Studio che dal 1540 si susseguono sulla cat-
tedra di greco, ossia Marco Antonio Antimaco25 e appunto Porto e il Pi-
gna. La polemica antiellenistica e il correlato encomio di Seneca sono mo-
tivi ricorrenti della riflessione metateatrale cinziana già a partire dalla let-
tera sulla Didone del ’41. Appena sceso nell’agone letterario Giraldi cerca
l’approvazione del congiunto Lilio Gregorio e di Bartolomeo Ricci, pro-
pugnatori della latinità, in primis di Seneca, del quale Giraldi loda la virtù
antidigressiva dei cori, che «ritornano maravigliosamente alle cose della
favola».26 Il Pigna invece, allievo e successore di Porto, stima Seneca «mi-

24 VILLARI, p. 246.
25 Sulla polemica con Antimaco, cfr. GIRALDI, Carteggio, pp. 104-108.
26 VILLARI, p. 283.
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racoloso», ma con la riserva sostanziale che «troppo nelle digressioni si


compiacque».27 Inoltre il Pigna, come s’è visto, nei Romanzi accusa l’ex
maestro d’ignorare il greco e d’esporre Aristotele solo grazie ai commenti
latini, ed in più interviene con piglio da grecista sulla morte in scena. Per
converso Giraldi rivendica la propria conoscenza diretta sia del greco della
Poetica in particolare (a questo serve il commento di Vettori d’accordo con
Giraldi sul locus aristotelico), sia del greco in generale (a questo serve Plu-
tarco citato in originale e poi tradotto).28 Quella di Plutarco sulla morte
in scena è l’unica, estesa citazione in greco dei Discorsi. Ora, Cicerone ri-
tiene che solo la diretta citazione d’un autore greco consenta di riportare
un lungo brano nella sua lingua: tra i greculi «che non fanno oratione o
proemio o lettera alcuna che non vogliano che sia i due terzi greca»,29 po-
trebbe figurare il Pigna, il quale punteggia il primo libro dei Romanzi
con una decina di grecismi.
La risposta cinziana privilegia il versante linguistico, ma non trala-
scia quello esegetico-letterario. Visto che il Pigna insinua che il suo ex
maestro non sarebbe capace di raffrontare Sofocle e Seneca, Giraldi pro-
cede a una lettura comparata fra la senechiana, tiestea, Orbecche e l’Elettra
di Sofocle: il pianto di Orbecche sui cadaveri del marito e dei figli va av-
vicinato al pianto di Elettra sull’urna che crede contenere le spoglie del
fratello.30 Sull’analisi della scena dell’Orbecche il Cinzio indugia in rispo-
sta all’accusa rivolta dal Pigna al plagiario di rimanere in superficie, e di
addurre esempi di proprie opere, della cui esistenza è lecito dubitare.31 Il
nesso fra enunciato teorico ed opera teatrale che potrebbe confermarlo o
smentirlo, secondo l’habitus umanistico di ricavare le regole dal modello,

27 RITROVATO, p. 24.
28 L’intelligenza del greco rientra nella formazione intellettuale d’un umanista fer-
rarese giunto ad esporre allo Studio testi in quella lingua, pur senza coglierne le più sot-
tili sfumature. Difficile dunque consentire con GIROLAMO GHILINI, Teatro d’huomini let-
terati, Venezia, Guerigli, 1647, p. 98, per il quale Giraldi «fu […] della lingua greca
intendentissimo», o, all’opposto, con GIUSEPPE TOFFANIN, Il teatro del Rinascimento, in
Storia del teatro italiano, a c. di Silvio D’Amico, Milano, Bompiani, 1936, pp. 63-102:
85, che lo bolla «aristotelico senza greco». Giraldi passa però da una conoscenza ele-
mentare del greco ad una più approfondita, dalla richiesta a Pietro Vettori di testi a
fronte latini nelle edizioni greche (GIRALDI, Carteggio, pp. 245-46), alla soddisfazione
per il fatto che lo stesso Vettori conferma il senso della postilla sulla morte in scena.
29 VILLARI, p. 194, anche per il rimando a Cicerone.
30 Ivi, p. 244.
31 RITROVATO, p. 15.
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costituisce un nodo di sicuro interesse se proviamo ad incolonnare i pa-


reri dei due contendenti. Nel Giudizio, uscito nel ’50 ma circolante da
anni, il Cinzio dichiara per bocca d’un suo personaggio: «non mi voglio
valere tanto dell’autorità di Seneca [che conferma la morte in scena],
quanto d’Euripide e di Sofocle, i quali hanno fatto nelle sue Tragedie le
morti palesi».32 Nei Romanzi del ’54, il Pigna considera:

come maggior doglianza avranno [le morti], quando si narrino, o quando


in effetto si mostrino? Senza alcun dubbio è da tenere che maggior l’ab-
biano nell’esser narrate, percioché Sofocle e Euripide accostati si sono al
meglio e apertamente mai non l’hanno indotte.33

Nei Discorsi, anch’essi del ’54, Giraldi ripropone l’argomento ex ab-


sentia che il Pigna gli rimproverava per le Niptre:

quantunque non ci manchi chi dica che di ciò [della morte in scena] non
si vede essempio nelle tragedie greche, dico che non habbiamo tutte
quelle che si leggevano al tempo di Aristotile.34

Parrebbe che il Cinzio, preso atto dell’osservazione del Pigna, in qual-


che modo l’accetti, e quindi arretri, ma che arretri per meglio colpire: un
colpo a vuoto, visto che è una «petition di principio», rileva Faustino
Summo, l’argomentazione per cui il corpus tragico antico non può sosti-
tuirsi alla norma perché incompleto, e che dunque non si può escludere
che tragedie perdute rappresentassero la morte in scena.35

32 ROAF, p. 127.
33 RITROVATO, p. 113. TORQUATO TASSO, Discorsi dell’arte poetica e del poema eroico,
Bari, Laterza, a c. di Luigi Poma, 1964, p. 73, osserva: «né converrebbono nella scena
la morte d’Ettore o l’altre, le quali, come racconta Filostrato nella Vita di Apollonio, fu-
rono proibite da Eschilo, chiamato padre della tragedia perché molto mitigò la sua cru-
deltà». Agli antichi poeti si richiama altresì FRANÇOIS HÉDELIN D’AUBIGNAC, La prati-
que du théâtre, Paris, Antoine de Sommaville, 1657, p. 268: «les anciens Poëtes font mou-
rir rarement des Acteurs sur le Theatre, à cause qu’il n’estoit pas vray-semblable que
tant de personnes qui composoient le Choeur, eussent veu assassiner un Prince sans le
secourir». Infine FRANCESCO SAVERIO QUADRIO, Della storia, e della ragione d’ogni poesia,
Milano, Agnelli, 1743, III, pp. 370-74, vieta la morte in scena perché esclude che i tra-
gici greci l’abbiano mai rappresentata.
34 VILLARI, p. 242.
35 FAUSTINO SUMMO, Discorsi poetici, In Padova, appresso Francesco Bolzetta, 1600
La postilla sulla morte in scena nei Discorsi di Giraldi Cinzio 145

L’ultima marca polemica coinvolge il commentatore aristotelico Fran-


cesco Robortello: egli, a parere del Pigna, «dell’antiquità e de’ greci aut-
tori molto intendente si scuopre»; a parere di Giraldi, «in molti luoghi
nella interpretatione della Poetica di Aristotile si è abbagliato».36 Del re-
sto, proprio seguendo, contro Robortello, un altro interprete aristotelico,
Vincenzo Maggi, Giraldi accusa Porto d’aver volutamente frainteso Ari-
stotele onde compiacere il Pigna. Maggi scrive che le sue Obiectiones a Ro-
bortello sono state dettate non dalla volontà di calunniare, ma dall’amore
per la verità, da anteporre all’amicizia: quella verità che agli allievi di Ro-
bortello sarebbe stata altrimenti negata.37 Allo stesso modo a parere di
Giraldi Porto ha tradito la verità «per piacere ad altri», l’ha sacrificata
sull’altare dell’interesse di parte: «quindi si conosce che chi contradice a
questa vera sentenza o non ha inteso Aristotile o, per piacere ad altri [os-
sia al Pigna], quantunque egli sia greco, l’ha tortamente vie più che con
verità esposto».38 La memoria di un motivo topico di derivazione aristo-
telica, «amicus Plato, sed magis amica veritas», suggerisce che Giraldi,
incline di solito ad accentuare l’ingratitudine del Pigna e a considerare
pertanto la diatriba sul piano personale, almeno in questo caso chiami in
causa la natura stessa della Wissenschaft letteraria rinascimentale. Il Giu-
dizio ripete il ragionamento per Speroni:

(rist. anast.: München, Fink, 1969), cc. 39v-40r. GIOVAN GIORGIO TRISSINO, La quinta
e la sesta divisione della Poetica, in Trattati di poetica e retorica del Cinquecento, a c. di Ber-
nard Weinberg, Bari, Laterza, 1970, II, p. 10, ammette che molti componimenti «non
pervennero alla età di Aristotele», ma a p. 25 aggiunge, in polemica col Cinzio, che
«quelle [tragedie] di Seneca che sono rimase sono per la più parte fragmenti di cose gre-
che posti insieme con pochissima arte». Invece il Giudizio: «s’egli [Seneca] tra tanti tra-
gici latini è rimaso sol vivo insino a questa etade, non è stato ciò senza cagione» (ROAF,
p. 128).
36 RITROVATO, p. 115, e VILLARI, p. 246. Per la polemica tra Robortello e Maggi

vd. KARL-JÜRGEN MIESEN, Die Frage nach dem Wahren, dem Guten und dem Schönen in der
Dichtung in der Kontroverse zwischen Robortello und Lombardi und Maggi um die “Poetik” des
Aristoteles, Warendorf, Schnell, 1967. Robortello aveva accusato Maggi di saper poco il
greco: FRANCISCI ROBORTELLI UTINENSIS De arte sive ratione corrigendi antiquorum libro-
rum disputatio, a c. di Giuseppe Pompella, Napoli, Loffredo, 1975, p. 54: «Illi [Maggi]
autem venire in mentem ne auctorum quidem ipsorum nomina potuissent, quos nun-
quam legit, nec attigit, cum vix literis Graecis sit tinctus, nec eam notionem rerum un-
quam parare sibi studuerit, in qua ego omnem aetatem consumpsi».
37 VINCENTII MADII et BARTHOLOMAEI LOMBARDI In Aristotelis librum “De Poetica” com-

munes explanationes, Venetiis, in officina Erasmiana Vincentii Valgrisii, 1550, pp. 25-26.
38 VILLARI, p. 245.
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abbiamo detto quello che ne pare circa ciò, non per voler dir mal di lui,
che questo non è ’l nostro costume, ma perché la verità, per la quale ri-
trovare tutto dì ci affatichiamo, ci è vie più amica d’ogni amico e non
vogliamo, per piacer a costui, ingannar voi che tanto ci credete e sotto
la cui disciplina già tanti anni sete stati.39

S’è già notato che la Tragedia a chi legge e il Giudizio sono animati da
un chiaro intento polemico nei confronti della Canace di Speroni, il quale,
fedele al divieto della morte in scena, racconta sia la morte di Canace e
del figlio sia il suicidio di Macareo. Mentre il Pigna e Speroni affermano
la priorità dell’udito sulla vista, Giraldi e Castelvetro sostengono una poe-
tica dell’evidenza rappresentativa, in cui la vista prevale sull’udito.40 Per
questo, scrive Maggi, un suicidio sul palco – subito viene in mente Or-
becche – va rappresentato in modo da sembrare vero: «siquis enim in sce-
nam inducatur, qui se ipsum interficiat, opus est multa praeparare, ut id
verum appareat».41 L’appello alla verosimiglianza degli effetti scenici viene
recepito da Giraldi,

è nondimeno da avertire che, quando ciò in palese si fa, riescano simili


cose talmente che, quantunque siano finte, paiano elle nondimen vere,
et chi ciò non sa fare, non biasimi coloro che fare lo sanno,42

e prosegue in Castelvetro, che pure rifiuta la morte in scena:

è solamente da considerare se la vista spaventevole e compassionevole si


può menare verisimilmente in palco, percioché si dee tralasciare se non
vi si può menare verisimilmente, come verisimilmente non vi si può
menare la vista dell’uccisioni e degli atti disonesti.43

39 ROAF, p. 103.
40 STEFANO JOSSA, Rappresentazione e scrittura. La crisi delle forme poetiche rinascimen-
tali (1540-1560), Napoli, Vivarium, 1996, pp. 37-39. Su «tale sistema gnoseologico,
che già intorno alla metà degli anni Trenta è tutto incardinato sulla visio», interviene
VALENTINA GALLO, Da Trissino a Giraldi. Miti e topica tragica, Manziana, Vecchiarelli,
2005, pp. 242-43.
41 MAGGI-LOMBARDI, Explanationes, p. 162.
42 VILLARI, p. 244.
43 LODOVICO CASTELVETRO, Poetica d’Aristotele vulgarizzata e sposta, a c. di Werther

Romani, Roma-Bari, Laterza, 1978, I, p. 387.


La postilla sulla morte in scena nei Discorsi di Giraldi Cinzio 147

Se finora la speculazione sulla morte in scena è stata condotta in base


ad argomenti estrinseci (che cosa dicono i teorici? che cosa fanno i poeti?),
ora per la prima volta viene introdotto un argomento intrinseco, basato
sulla possibilità di rappresentare sul palco la morte d’un personaggio in
modo realistico e credibile, in una parola verosimile per la platea.44 Nel
momento in cui nega questa possibilità, Castelvetro nega la morte in
scena: a conferma che l’intuizione specifica acquista rilievo solo se inse-
rita nel grande affresco di posizioni alternative – integrative o polemiche
– che la assorbono e la giustificano.

davide.colombo@unimi.it

44 Nella sua Poëtica latina TOMMASO CAMPANELLA ripropone l’argomento dell’in-


verosimiglianza della morte in scena: «In narratione quidem latent, quae inverisimilem
faciunt eventum, ut cum Medea filios trucidans narratur; in actione patet simulatio, ne-
que enim tam dextere fiet quin falsa actio videatur, et ex hoc minus movemur» (Tutte
le opere, a c. di Luigi Firpo, Milano, Mondadori, 1954, I, p. 1146). A Melchiorre Cesa-
rotti pare che Maffei e Voltaire «abbiano ben fatto a seguire il precetto di Orazio. Que-
sti fatti straordinari e sorprendenti portano sempre seco qualche inverosimiglianza
nell’esecuzione, che veduta offende, ma narrata non ferisce» (cit. da GIULIO CARNAZZI,
Alfieri, Cesarotti e il “verso di dialogo”, in AA. VV., Aspetti dell’opera e della fortuna di Mel-
chiorre Cesarotti, a c. di Gennaro Barbarisi e G. Carnazzi, Milano, Cisalpino, 2002, II,
pp. 437-68: 457).

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