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Poema a fumetti

di Dino Buzzati

Laureando Relatore
Benedetta Nucci Carlo Serafini
Poema a fumetti di Dino Buzzati

Facoltà di Lettere e Filosofia


Dipartimento di Storia, Culture, Religioni
Corso di laurea in Editoria e Scrittura [LM – Ordin. 2018]

Benedetta Nucci
Matricola 1828427

Relatore Correlatore
Prof. Carlo Serafini Prof. Giulio Perrone

A.A. 2019-2020 (SESSIONE V)


Indice

Introduzione p.3

I. Attorno Poema a fumetti: il prima e il dopo buzzatiano p.7


1. Le storie dipinte: un lasciapassare per Poema a fumetti p.10
1.1. Il lasciapassare p.11
1.2. Oltre la soglia p.14
1.2.1. Una fine del mondo, ovvero l’idea di morire p.15
1.2.2. Un amore: sentimento e catastrofe p.18
1.2.3. La nebbia, ovvero il mistero p.26

2. I miracoli di Val Morel: l’ultima ‘storia dipinta’ p.34


2.1. La spiegazione p.37
2.2. La santa dell’impossibile p.42
2.3. Un confronto a quattr’occhi p.52

II. Una cosa completamente sua p.59


1. L’autore ringrazia p.62
1.2. La persistenza della città p.64
1.3. Morte e voluttà p.69
1.4. Sul mare di nebbia p.75

III. Il canto p.83


1. Il cantante p.86
1.1. Un eroe piuttosto scombinato p.88

2. Le canzoni p.101
2.1. Un grido di piacere p.102
2.2. Chi bussa alla porta? p.108
2.3. Danza macabra p.113
2.4. Un ritorno p.124

Bibliografia p.138

Articoli p.141

1
Sitografia p.142

2
Introduzione

I fumetti non sono una cosa seria – o meglio, non lo sono per una fetta considerevole
della classe intellettuale italiana degli anni Sessanta.
Se, per essa, la cultura è un oggetto aristocratico, un impegno, il dominio dell’individualità,
allora va da sé che tutto ciò che è pensato e recepito dai molti è anticultura.
I fumetti, genere d’intrattenimento ed evasione che parla pop, sono quindi un’erbaccia
infestante che attenta al campo della cultura alta per raggiungerne il cuore, ovvero alcune
delle più fini teste pensanti del periodo.

Umberto Eco è tra i contagiati, tanto grave da dedicare ai media della cultura di massa un
saggio in cui analizza l’argomento ‘fumetto’ con perizia e dignità: si tratta di Apocalittici e
integrati (1964).
Con ‘apocalittici’ si intendono tutti coloro che nel consolidamento della cultura di massa e
dell’industria culturale vedono la fine del mondo così come lo conosciamo, i “superuomini
capaci di elevarsi [...] al di sopra della banalità media”1.
Gli ‘integrati’ sono quelli che, invece, reagiscono con entusiasmo o quantomeno con
naturalezza all’evoluzione intellettuale, coloro che guardano ai nuovi generi e ai nuovi
linguaggi con curiosità e, ogni tanto, se ne appropriano.

Dino Buzzati, in questo senso, è un integrato.


Nell’agosto 1968, quando i venti della polemica e dell’impegno soffiano impetuosi,
spazzano e spettinano la classe intellettuale, Buzzati scrive un’introduzione appassionata al
volume Vita e dollari di Paperon de’ Paperoni (1968).
Così, senza vergogna, presenta i paperi disneyani come “una delle grandi invenzioni
narrative dei tempi moderni”2 e il fumetto che abitano come una dimensione di “vertiginosa
fantasia e ingegnosità”3 con nulla da invidiare ai mostri sacri della letteratura.
La sua è una presa di posizione: trattandosi di Buzzati, è un’operazione apparentemente
ingenua che nasconde una critica non aggressiva, ma potente.

1
Eco, Umberto (1964), Apocalittici e integrati: comunicazioni di massa e teorie della cultura di massa, Bompiani,
Milano, p.5.
2
Buzzati, Dino (1968), Introduzione a Disney, Walt (1968), Vita e dollari di Paperon de’ Paperoni, Oscar Mondadori,
Milano.
3
Ibidem.
3
D’altronde, l’intero percorso professionale ed esistenziale dell’autore può essere inteso
come un mettersi di traverso rispetto al discorso accademico: è un personaggio mobile e
indefinibile, che frequenta le fiabe per bambini e la cronaca nera, la filosofia e la pornografia,
i monti e Milano, la pittura e la scrittura.
È un “gentile fumacchio impalpabile”4, come le sue Melusine, un integrato tra gli apocalittici
e un apocalittico tra gli integrati: Buzzati abita la soglia delle cose.
Non è un caso se la frontiera, come concetto, sia presente in quasi tutti i suoi testi: è
l’orizzonte senza risposte de Il deserto dei Tartari (1940), i confini inarrivabili di Sette
messaggeri (1942), l’aldilà.

Considerando dunque la naturale propensione di Buzzati per le intercapedini metaforiche,


non sorprende il suo approdo al mondo del fumetto, che, in fondo, rappresenta una felice
dimensione di frontiera tra i disegni e le parole, un genere inequivocabilmente trasversale.
Buzzati non è nuovo alla commistione tra scritto e illustrato, anzi: Barnabò delle montagne
(1933), Il segreto del Bosco Vecchio (1935), La famosa invasione degli orsi in Sicilia (1945)... è come
se, prima timidamente, poi in maniera più esplicita, abbia sempre cercato di innestare un
medium nell’altro.
L’autore stesso si definisce prima pittore che scrittore, vittima di un tremendo equivoco che,
negli anni, cercherà attivamente di correggere.

A nulla varranno i suoi sforzi: una volta che i superuomini apocalittici categorizzano, lo
fanno per via definitiva – e dunque Buzzati è condannato a essere uno scrittore che si balocca
con i pennelli e che ogni tanto accampa l’assurda pretesa di unire segni e parole.
Cosa per cui “C’è da prenderlo a schiaffi, e un giorno forse lo farò”5, scrive, ironicamente
ma non troppo, Indro Montanelli nell’introduzione a I miracoli di Val Morel (1971).
Buzzati, con sprezzo degli schiaffi che la critica gli promette, porta avanti la sua operazione
di sintesi tra i due media e se, a inizio carriera, le immagini accompagnano il testo come da
tradizione, il peso dei disegni sulle parole aumenta via via che l’autore matura.
Un esempio di questa evoluzione è Poema a fumetti (1969), che è poi l’argomento d’interesse
del nostro lavoro.

‘Poema a fumetti’ è un titolo opportuno per l’opera che introduce poiché apertamente
trasversale rispetto ai generi. Tanto vale provocare fin da subito, avrà pensato Buzzati,
accostando ‘poema’, che rimanda alla sfera dell’epica e alla sacralità della Commedia, ai ben

4
Buzzati, Dino (2017), Poema a fumetti, Mondadori, Milano, p.158.
5
Montanelli, Indro (1971), Prefazione a Buzzati, Dino (2012), I miracoli di Val Morel, Mondadori, Milano.
4
più periferici e sacrileghi ‘fumetti’. O, più probabile, l’autore ha scelto il titolo senza calcolo,
forte di quell’ingenuità che la critica gli attribuiva e per cui tanto gli perdonava.
Nel 1969, a pochi giorni dall’uscita del volume in libreria, si difende così:

Si sfogheranno tutti, ahimè. Non ha più niente da inventare questo vecchio scrittore,
sentenzieranno, e si è messo a fare i giochi infantili. Ai critici letterari il libro sembrerà
uno scantonamento, una fuga; i critici d’arte ne diranno peste e corna. Ma non importa.
Capita nella vita di fare cose che piacciono senza riserve, cose che vengono su dai visceri.
Poema a fumetti è per me una di queste [...].6

Così, dai visceri di Dino Buzzati viene su una delle prime graphic novel italiane: parole e
immagini simbiotiche raccontano il mito di Orfeo e Euridice in chiave moderna.
Questo è il canovaccio di partenza, poiché la mitologia offre la scusa perfetta perché Buzzati
faccia ciò che sa fare meglio: “rivendicare il diritto dell’artista, e prima ancora proprio, di
raccontare – e di raccontarsi – liberamente”7.
Lo fa eleggendo, liberamente, il linguaggio del fumetto e, altrettanto liberamente,
manipolandolo, così da trasformarlo in poesia visuale, testamento letterario, espressione
degnissima, la più puntuale, la più adatta a trattare l’anima nera della sua narrazione, il
cuore pulsante della sua ossessione, addomesticarla per poterle sopravvivere.

Ciò che questo lavoro si propone di fare è di avventurarsi nella foresta di simboli
baudelairiana di Poema a fumetti senza la presunzione degli ‘apocalittici’ né l’ingenuità degli
‘integrati’, di leggere l’opera con lo stesso grado di attenzione e gravitas con cui Buzzati l’ha
scritta, di giocare con i suoi molteplici riferimenti e grovigli di senso con la leggerezza,
curiosità e disposizione alla meraviglia che l’autore richiede. L’intento è quello di
dimostrare quanto, a sorpresa ma non troppo, il senso più profondo del cammino umano e
professionale buzzatiano sia custodito da una poesia a fumetti.

Per farlo, riporteremo innanzitutto il percorso che Buzzati ha compiuto per arrivare
all’opera di nostro interesse, procedendo per gli snodi in cui scrittura e pittura si sono
incontrate.
Il cuore del nostro lavoro graviterà poi attorno all’analisi critica del Poema, considerato
tematicamente e stilisticamente, spogliato strato per strato dei suoi numerosi livelli di
lettura.

6
Stajano, Corrado, Si è dipinto il suo romanzo, in «Tempo», 4 ottobre 1969.
7
Viganò, Lorenzo (2017), La discesa nell’Aldilà: l’ultimo viaggio di Dino Buzzati, in Buzzati, Dino (2017), Poema a
fumetti, op.cit., p.226.
5
Una volta scoperto il nocciolo dell’opera, faremo un passo indietro per lasciarlo inviolato:
là risiede il feticcio, il punto cieco, il nodo che non va sciolto. Là dimora il mistero, un oggetto
che non si lascia né narrare né disegnare, centro gravitazionale del percorso artistico
dell’autore. Là convergono le ossessioni ricorrenti di Buzzati, quella per l’amore, per la
morte, per il tempo, che, assorbite da un buco nero, trovano il loro senso di esistere, il loro
ordine e la loro pace.
Non male, per un fumetto.

6
I. Attorno Poema a fumetti: il prima e il dopo buzzatiano

Dino Buzzati è stato disegnatore e poeta, cronista sportivo, di nera e d’arte,


romanziere e pittore – e molto altro e non necessariamente in quest’ordine.
Prendiamo in prestito le parole di Jorge Louis Borges per tratteggiare brevemente la sua
biografia:

Buzzati nasce nel 1906 nell’antica città di Belluno, in Veneto e vicino al confine austriaco.
Era un giornalista e in seguito si dedicò alla letteratura fantastica. Il suo primo libro,
Bàrnabo delle montagne, risale al 1933; l’ultimo, I miracoli di Val Morel, al 1971, un anno
prima della sua morte.8

Tentare di ricostruire approfonditamente o di ripercorrere linearmente la sua carriera


artistica significa fargli un torto, ovvero seguire l’esempio di quella fetta di critica che ha
tentato di segregare l’autore nel “comparto degli unidimensionali”9 e l’ha punito ogni volta
che ha varcato il confine.
In Buzzati niente è dove ci si aspetta: il linguaggio figurativo invade i quaderni di scrittura,
contamina articoli, lettere private, diari e romanzi. Nel frattempo, le parole conquistano lo
spazio pittorico, rifiutano di essere didascalia e diventano con naturalezza parte della
composizione. Un quadro è una poesia, un romanzo, un articolo di cronaca e, talvolta,
un’ascensione in montagna o un miracolo. Buzzati è tanto variegato e apparentemente
caotico quanto la sua opera: il suo orizzonte di riferimento assomiglia a quello di alcuni dei
pittori che ha potuto osservare da vicino in qualità di cronista per il Corriere della Sera. Col
prediletto, Giorgio De Chirico, condivide “l’angoscia, la paura della morte, la magia, il
mistero, la ricerca dell’assoluto e del trascendente, l’ineluttabilità del destino” 10 – e un
ultimo elemento, che è forse la chiave per capire Buzzati: la “limpidezza compositiva”11.

La sua capacità di descrivere nitidamente cose oscure è ciò che mette ordine in un sistema
di continui travasi tra media e linguaggi: Buzzati, debitore all’esperienza giornalistica e
naturalmente affezionato alla chiarezza, racconta nel modo più semplice possibile.

8
Borges, Jorge Luis, Biblioteca personale in Testimonianze su Dino Buzzati a cura di Luca Siniscalco, in Dino Buzzati –
Nostro fantastico quotidiano n. 13/2018, in bietti.it [consultato in data 9 febbraio 2021].
9
Buzzati, Dino (2013), Le storie dipinte, Oscar Mondadori, Milano, p.31.
10
Carbone, Annalisa (2016), Dipingere e scrivere per me sono la stessa cosa – Dino Buzzati tra parola e immagine,
Rubbettino Editore, Soveria Mannelli, p.23.
11
Ivi, p.13.
7
Per quanto i temi di cui tratta abitino l’inconscio, nel momento in cui vengono comunicati
subiscono un processo di traduzione che li rende oggettivi, che li fa trasparenti: è l’effetto di
una scrittura e di una pittura essenziali e ordinate.

La semplicità a cui Buzzati costringe le sue opere e i suoi scritti risponde, in un certo
senso, alla volontà di desublimare la parola, di riuscire a trasmettere ciò che altrimenti
rischierebbe di essere incomprensibile.12

Il tipo di semplicità cui perviene Buzzati è il risultato di un esercizio: la spontaneità quasi


infantile che caratterizza i suoi modi d’espressione assume una forma ben più adulta per
disciplina e rigore.
Il linguaggio impiegato è mobile e cangiante: se è parola, l’autore ricorre a incisi e variazioni,
ellissi e cambi repentini di registro, costruzioni non convenzionali per lessico e sintassi. Se
è pittura, adopra violenza, inquietudine, fiaba e pornografia, assurdità prospettiche o un
numero anomalo di occhi.
Il caos adombrato da tanta abbondanza e multiformità espressiva è contenuto da “una
partitura segreta che tutto presiede”13, da una struttura leggera e invisibile: l’architrave è il
voto di chiarezza e la volontà di raccontare.
Non c’è niente di improvvisato o dilettantesco nella spontaneità di Buzzati: l’autore eleva
l’ingenuità a chiave interpretativa, a strumento che apre a una dimensione in cui assoluto e
mutevolezza possono convivere in pace.
L’assoluto è al centro ed è ciò che rimane chiuso e incomprensibile, è, per dirlo con Buzzati,
un caro mistero: talvolta è il tempo, talvolta l’attesa, la morte, una donna. Attorno al centro,
c’è il tentativo di sviscerarlo, lo sforzo di raccontarlo ricorrendo a ogni mezzo a disposizione.
Tutto l’universo di Buzzati è inquietante e imperscrutabile e, per una vita intera,
professionalmente e umanamente, l’autore non fa altro che interrogarlo, consapevole che
niente lo discioglie, che il nucleo non si spoglia.
Va da sé che di fronte a un così alto proponimento, la scelta dei giusti mezzi per
perseguirlo passa in secondo piano: Buzzati usa pennelli, inchiostro, tutto ciò che gli
sembra utile senza curarsi di chi storce il naso. Deve raccontare, e raccontando capire, e,
capendo, raccontare meglio: “Che dipinga o che scriva, io perseguo il medesimo scopo,
che è quello di raccontare delle storie”14.

12
Carbone, Annalisa (2016) Dipingere e scrivere per me sono la stessa cosa, op.cit. p.17.
13
Ivi, p.18.
14
Viganò, Lorenzo (2017), La discesa nell’Aldilà: l’ultimo viaggio di Dino Buzzati, op.cit., p.229.
8
Le sue storie dipinte e scritte sono ciò che questo primo capitolo si propone di indagare:
esploreremo i dintorni di Poema a fumetti, ovvero i “volumi disegnati” 15 che stanno
immediatamente nei pressi dell’opera, che la richiamano e le assomigliano.
Considereremo Le storie dipinte, che nasce come catalogo della sua prima personale nel 1958,
e I miracoli di Val Morel, “l’opera con cui si congeda dal mondo, la pagina finale del suo
romanzo esistenziale e poetico”16: un inizio e una fine. Nel mezzo, Poema a fumetti, la cui
analisi rappresenta il cuore del nostro lavoro.

15
Viganò, Lorenzo (2013), «Sono un pittore, ma nessuno mi crede», Introduzione a Buzzati, Dino (2013), Le storie
dipinte, op.cit., p.20.
16
Viganò, Lorenzo, L'ultimo segreto di Buzzati in «Il Corriere della Sera», 24 gennaio 2012.
9
1. Le storie dipinte: un lasciapassare per Poema a fumetti

La reazione della critica alla prima personale di Dino Buzzati è anticipata da un


estratto del racconto che la introduce: “Torni nel suo comparto, egregio signore”17.
La mostra si intitola Le storie dipinte e si tiene il primo dicembre 1958 alla Galleria dei Re
Magi.
L’evento richiama una piccola folla di invitati e curiosi che occupano quasi per intero
piazzetta Boito: è un successo di visitatori, accorsi per vedere i quadri dell’autore de Il deserto
dei Tartari e leggere le storie che li accompagnano. La natura del loro entusiasmo è sospetta:
tra i tanti che si aggirano per le quattro grandi sale c’è, ad esempio, Raffaele Carrieri, che
non esita a collocare Buzzati tra i “letterati per i quali la pittura è una ‘seconda vocazione’,
‘riposo e diletto’, una distrazione dalla scrittura”18. Leonardo Borgese è dello stesso avviso:
scrive, col sorriso del critico, che Buzzati sta provando, in questa occasione, “quanto sia
difficile l’arte della pittura”19 dopo aver imparato a “scrivere con arte”20. Buzzati rimane
insomma, per i più, un pittore della domenica, un dilettante da guardare con compatimento
o con sospetto, un usurpatore, un personaggio scomodo poiché si ostina a lasciare il suo
posto che è, inappellabilmente, tra “coloro che scrivono”21.

Il pittore de Le storie dipinte non si fa illusioni: è il primo a riconoscere il rischio di presentarsi


al pubblico in questa nuova veste. A poco vale il suo morbido contrattacco, che passa per
un ventaglio di dichiarazioni e articoli, precedenti e successivi alla mostra, in cui afferma a
più riprese e con vari gradi d’intensità che la sua pittura è una cosa seria, né hobby né
divertissement: i critici gli rifiutano il lasciapassare.
Non tutti, a onor del vero. C’è chi, come Enzo Carli, accorda alle tele la possibilità di uno
sguardo onesto, cui segue l’altrettanta onesta ammissione di un limite: “Per scrivere delle
pitture del Buzzati, bisognerebbe essere il Buzzati. Lui solo ne sarebbe capace”22. Buzzati
non chiede altro: uno sguardo scevro da pregiudizi, una disposizione d’animo propizia alla
vastità dell’espressione di quel mistero che egli, poco importa il mezzo che utilizza, cerca
instancabilmente di raccontare.

17
Buzzati, Dino (2013), Le storie dipinte, op.cit., p.30.
18
Viganò, Lorenzo (2013), «Sono un pittore, ma nessuno mi crede», op.cit., p.12.
19
Ivi, p.13.
20
Ibidem.
21
Buzzati, Dino (2013), Le storie dipinte, op.cit., p.30.
22
Carbone, Annalisa (2016), Dipingere e scrivere per me sono la stessa cosa, op. cit., p.84.
10
1.1. Il lasciapassare

Il lasciapassare, il testo autografo che introduce alle tele e alle storie della mostra, riporta
metaforicamente l’esperienza di Buzzati: l’alter ego dell’autore tenta l’accesso alla città dei
pittori solo per vederselo proibire, o meglio, concedere di malavoglia. Il personaggio ha uno
scambio piuttosto sgradevole con la guardia che sorveglia l’entrata della città, cui,
nonostante tutto, dimostra incontrovertibilmente la propria appartenenza al luogo:

Raccontare delle storie è il mio mestiere, no? E queste, queste – gli mostravo i miei dipinti
– non sono storie, forse? Non è questo il mio mestiere?23

Alla guardia che risponde, scandalizzata, che si tratta allora di ‘Letteratura’, il protagonista
replica rivendicando la dimensione comune ai due media: parole e pennellate occupano la
stessa superficie e si espandono secondo le stesse direttrici, per il largo e per il lungo.
Di fronte a simile argomentazione, la guardia vacilla per un attimo, per poi risolversi a
indicare al protagonista la baraccopoli dei dilettanti, la periferia indegna della città dei
pittori, l’unico luogo che lo avrebbe potuto accogliere, se proprio ci teneva a rimanere.
Ma Buzzati, come il personaggio che ne fa le veci, non ci tiene a rimanere.
L’autore non coltiva le proprie inclinazioni con lo scopo di assaltare il cuore
dell’establishment pittorico, non lo fa per presunzione, per ambizione o per noia: “Se mi
trovo qui la colpa non è mia”24. È il suo mestiere e chiede di poterlo esercitare, con tanta
cocciutaggine da sfiancare la guardia, che gli dice semplicemente di arrangiarsi: così che,
Buzzati, nella finzione e nella vita vera, ‘prese le sue cose e si avviò’.
Quale sia la destinazione non si sa, non è né scritto, né dipinto – non è importante.
Nel racconto, al suo percorso fanno da sfondo una siepe di sguardi ostili e un coro di voci,
che mugolano: “Letteratura! Si vergogni! Un figurativo! Pfui! Beeh! Contenutista! Porco!”25.
La storia sembra concludersi così, su una nota amara – ma è in quel preciso momento che si
realizza il miracolo di Buzzati: basta girare pagina.

Il lasciapassare serve la sua funzione di introduzione a Le storie dipinte secondo una doppia
strategia, che ricalca, riconferma e amplifica l’ambiguità rivendicata dall’autore per il suo
mezzo espressivo: la storia non è completa né conclusa se non concorrono al suo
svolgimento scrittura e pittura, se dove finisce l’una, non inizia l’altra.

23
Buzzati, Dino (2013), Le storie dipinte, op.cit., p.33.
24
Ibidem.
25
Ibidem.
11
Così, l’ultima parola de Il lasciapassare è affidata a un’immagine [fig.1]: dopo che Buzzati
registra per scritto le voci poco gentili della folla contro il suo protagonista, disegna un
esorcismo. Una piccola figura protesa in avanti oppone quel che sembra una croce a uno
stuolo di demoni e fantasmi, che si ritrae spaventato. Come tutto ciò che esce dalla penna o
dal pennello di Buzzati, il disegno in questione è un oggetto aperto all’interpretazione:
tuttavia, la sua collocazione particolare, in chiusa all’episodio appena narrato, dà qualche
indicazione rispetto alla sua lettura.
Lo stuolo di demoni può rappresentare la “piccola folla di curiosi”26 che, poche righe prima,
si era raccolta attorno al protagonista per seguire il suo scambio con la guardia, e che, una
volta concluso, era esplosa in appellativi poco educati. Sono coloro che abitano di diritto la
città dei pittori: gli esperti, i professionisti, i critici, i muniti di lasciapassare che il testo aveva
registrato come vincitori sulle assurde pretese dell’alter ego di Buzzati. La pittura racconta
invece un epilogo diverso: allora, la piccola figura che opera l’esorcismo può rappresentare
il protagonista del racconto e la croce che oppone ai demoni può trasformarsi in una penna
che incrocia un pennello – oggetto orrendo per i puristi.
È forse osare troppo nell’interpretare? Oppure è compiere, una volta per tutte, la volontà
dell’autore, guardare un suo quadro, leggere un suo racconto, e non vedervi altro che una
storia, la stessa, che si dipana?

Quel che è certo è che l’esorcismo di Buzzati, qualunque cosa rappresenti, chiunque
esorcizzi, introduce Le storie dipinte, ed è la serie di tele e racconti il vero lieto fine de Il
lasciapassare: gli sguardi ostili e le voci nemiche non hanno vinto su Buzzati, che ha
proseguito, imperterrito, oltre loro, nella sua ricerca e nel suo destino.
Buzzati è generoso di lasciapassare per chiunque sia disposto a seguirlo per la strada, ormai
sgombra di spettri, che corre per i quadri esposti quel primo dicembre 1958 e per le pagine
della monografia che li raccoglie.

26
Buzzati, Dino (2013), Le storie dipinte, op.cit., p.33.
12
fig.1: Il lasciapassare.

13
1.2. Oltre la soglia

Svuotata delle voci e degli sguardi ostili, su quella strada rimane Buzzati, per intero,
con le ‘cose’ che ha preso e portato con sé.
Popolando la soglia d’accesso a Le storie dipinte di demoni, quindi di oscurità e di gravità,
l’autore chiarisce subito cosa non è quella strada: non è una deviazione, non è una via di
fuga e non è una scampagnata.
Chi, come Carrieri, esclude Buzzati dalla dimensione dei professionisti portando come
argomentazione il fatto che, loro, “la pittura se li mangia vivi”27, dimostra di non essersi
avventurato affatto, di aver preso le parti dei demoni.
Se il critico avesse approfittato del lasciapassare che Buzzati offriva per il suo mondo
“candidamente stralunato”28, come Indro Montanelli lo definisce, avrebbe trovato il marchio
di professionalità che cercava: una pittura che mangia vivo chi la produce.
La camminata tra le tele e le parole non è una tregua, non è una vacanza: è una discesa.

Su quelle tele si ritrovano le stesse paure, le stesse fantasie, gli stessi ammonimenti,
incubi, visioni, messaggi morali, sogni che popolano le pagine dei suoi libri.29

Selezioneremo tre tele e testi da questo vasto campionario, quelli che fanno da ponte e da
riferimento esplicito all’opera di nostro interesse, Poema a fumetti.
La selezione è basata su criteri di evidente correlazione grafica e tematica col Poema e
comprende Una fine del mondo (1957), Un amore (1965) e La nebbia (1966).
Le tele e le parole in questione rappresentano un ulteriore lasciapassare per la stazione
successiva del percorso di Buzzati, proprio Poema a fumetti, ovvero il compimento della sua
discesa agli inferi dell’essere. Una fine del mondo, Un amore e La nebbia non sono altro che
porte, come “ce ne sono milioni al mondo” 30 : oltre esse c’è un approfondimento,
un’esplorazione al tempo stesso allucinata e lucida dell’aldilà di Buzzati. In questo caso,
l’aldilà è ‘al di là’ della superficie dell’autore che critici e pubblico hanno battuto in lungo e
in largo, dimenticando la terza dimensione.
Comincia, adesso, la discesa.

27
Viganò, Lorenzo (2013), «Sono un pittore, ma nessuno mi crede», op.cit., p.13.
28
Ivi, p.3.
29
Ivi, p.19.
30
Buzzati, Dino (2017), Poema a fumetti, op.cit., p.49.
14
1.2.1. Una fine del mondo, ovvero l’idea di morire

Scorrendo le pagine di Le storie dipinte (2013) a cura di Lorenzo Viganò è possibile


osservare il lavoro di Buzzati sistematizzato in modo che la parola scritta preceda sempre
la tela cui si riferisce.
Così, la ratio de Il lasciapassare si ripropone per ogni dipinto: l’immagine completa il
significato del testo, che viene talvolta “tradito, scombinato, sovvertito”31.
La costante è nel rapporto di assoluta interdipendenza tra media: il breve racconto a sinistra,
la tela a destra a rappresentare il rintocco, l’epilogo e il punto.

La nostra analisi comincia dal titolo del testo che completa la tela, in particolare dall’articolo,
‘una’, che precede un evento presumibilmente assoluto come la fine del mondo.
Buzzati ha una certa familiarità con l’indeterminativo: un esempio è il suo romanzo del 1963,
Un amore. Senza fissarla con gli artifici della lingua, l’autore tratta l’esperienza amorosa
come un fenomeno tra i tanti di una vita, dando prova del sospetto che nutre nei confronti
delle cose assolute.
La morte è l’unico assoluto, è ‘la’ e non può essere ‘una’: tutto il resto dipende dal tempo,
ha un inizio e una fine e trova la sua dignità nell’essere limitato e contingente. Il tema
rappresenta uno degli snodi fondamentali di Poema a fumetti: per il momento, è interessante
osservare come sia contenuto in nuce nel titolo che Buzzati sceglie per la sua tela del ‘57.

La fine del mondo è ‘una’ perché si riferisce a una visione di cui fare esperienza in vita [fig.2]:
l’apocalisse, secondo la versione riportata dal racconto che accompagna la ‘storia dipinta’,
si articola come ingigantimento della luna, che poi si spegne. Il buio cala, completo, sulla
Terra, fino a che un riverbero delle luci pallide della città non lascia indovinare un soffitto
cieco che cala in un attimo, come un sipario, su di noi. È il racconto di una speculazione
teorica, ancora ‘al di qua’ del mistero.

C’è una tavola [fig.3] di Poema a fumetti che rappresenta l’evoluzione in termini di atmosfera,
testo e soluzioni grafiche della tela del ‘57 e che rende la sua lettura più chiara.
Le parole incorporate alla tavola recitano:

NEL CORTILE DESERTO


DELLA SUA ESISTENZA
L’UOMO VEDE SORGERE

31
Carbone, Annalisa (2016), Dipingere e scrivere per me sono la stessa cosa, op. cit., p.87.
15
DALLE TERRAZZE E DALLE MURA
LA GRANDE LUNA NERA.32

La visione è parte di una carrellata elegiaca di ciò che in morte è perduto: in questo caso, la
capacità di immaginarla. Il testo fa riferimento all’uomo che, dal cortile deserto della sua
esistenza, vivo, sente la fine. La ‘grande luna nera’ del Poema è il “globo butterato”33 che si
allarga sulla tela de Le storie dipinte, dal quale due microscopiche figure umane tentano di
fuggire.
Nella tavola del Poema, invece, l’uomo è solo e in contemplazione pacata di ciò che accade:
più di dieci anni dopo la tela del ‘57, egli non fugge più di fronte a una fine del mondo.
Gli spazi crepuscolari sono gli stessi, nella ‘storia dipinta’ e nella tavola del Poema: la loro
vastità, dedotta dal confronto con l’insignificanza della figura umana, anziché dare respiro
soffoca la composizione. Alla sensazione di asfissia contribuiscono l’ingombro dell’astro, il
cielo livido su cui si staglia e la severità delle linee che definiscono la città nella tela del ‘57
e lo spazio mentale nella tavola del ‘69.
C’è uno scarto sostanziale tra i due momenti scritti e dipinti: nel Poema, Buzzati ha
introiettato la catastrofe, che si consuma dentro il cortile di un’esistenza umana solitaria.
Non coinvolge più la città, né un “noi”: non finisce il mondo, ma c’è una vita che contempla
la morte, che ricambia lo sguardo.
Il racconto ne Le storie dipinte utilizza un linguaggio biblico ed escatologico: “E tra qualche
ora [...]”34. I tempi verbali sono al futuro: “allargherà”35, “spegnerà”36, “vedrà”37... e segnano
la successione precisa di fasi in cui si articola l’apocalisse. La fine è un taglio di ghigliottina:
“un soffitto scabro e sterminato precipitante su di noi”38, da indovinare più che da vedere.
Nel Poema, l’apocalisse ha un tempo e un aspetto diversi: l’uomo “vede”39, al presente, la
morte alzarsi come la marea. La luna la veicola oltre le mura del cortile dell’esistenza, che è
deserto: è sempre stato così? O la morte sopraggiunge quando il resto se ne va?
La fine solleva interrogativi diversi rispetto al ‘57, si è fatta tranquilla, non si consuma in
“una infinitesima frazione di secondo”40, ma sorge lenta e, intanto, la vita le scorre a fianco.

32
Buzzati, Dino (2017), Poema a fumetti, op.cit., p.113.
33
Buzzati, Dino (2013), Le storie dipinte, op.cit., p.39.
34
Ivi, p.38.
35
Ibidem.
36
Ibidem.
37
Ibidem.
38
Ibidem.
39
Buzzati, Dino (2017), Poema a fumetti, op.cit., p.113.
40
Buzzati, Dino (2013), Le storie dipinte, op.cit., p.38.
16
fig.2: Una fine del mondo.

fig 3: Nel cortile deserto della sua esistenza...

17
1.2.2. Un amore: sentimento e catastrofe

Le fotografie e il ricordo di colleghi e amici descrivono Dino Buzzati come un uomo


elegante: aveva, nei modi, una “compostezza maniacale” 41 , un’espressione infantile e di
pietra in viso, “la giacca ben chiusa a tre bottoni”42.
Nell’esercizio crudele del guardarsi da fuori, l’autore, in Viaggio agli inferni del secolo (1966),
si descrive così:

La schiena vedevo, un po’ curva, la sommità del cranio, quei capelli piccoli e grigi. In
piedi come sull’attenti. [...] Vestito di grigio con una stilografica e una biro nella tasca
interna della giacca43.

Il colore dominante è il grigio cinereo: Buzzati se ne cosparge il capo e poi le vesti della
divisa borghese che indossa. L’autore si guarda stare sull’attenti, obbediente, entro ranghi
invisibili, e prova compassione indovinando i suoi stessi pensieri: sono ricordi, rimpianti e
paralizzante senso d’inadeguatezza; “ero io”44, ammette con stupore. La stilografica e la biro
in tasca acuiscono il senso del patetico, in quanto simboli di uno status che non ha più
significato, armi ridicole, friabili come grissini, chiuse nel segreto della giacca.

La giacca è un elemento ricorrente nelle storie di Buzzati, impiegata come protagonista,


come metafora, a volte ‘stregata’, ma sempre, immancabilmente, vuota: non poggia su spalle
borghesi neanche nella ‘storia dipinta’ di nostro interesse, Un amore [fig.4].
L’oggetto diventa soggetto: chiunque la portasse, si è consumato prima che potesse
consumarsi la sua giacca, rimasta come ultima condizione d’esistenza del proprietario.
La qualità di tale esistenza è di facile deduzione: la giacca è ritratta floscia e sconfitta, a capo
chino senza avere un volto.
Assieme alla vittima, il quadro ritrae il carnefice: una bellissima donna guarda nuda e
crudele lo spettatore, dando le spalle all’indumento. La vita che, florida, le rimpolpa la carne
e le alza i seni sembra l’ennesima beffa per quello che era un uomo, e adesso è una giacca:
in mezzo, c’è stato un amore.

41
Nordio, Claudio, Dino Buzzati, l'intellettuale timido che sublimò l’attesa in «Il Gazzettino», 22 aprile 2017.
42
Piovene, Guido, Tragico e lieve in «il Giornale», 30 luglio 1974.
43
Buzzati, Dino (1966), Viaggio agli inferni del secolo in www.letteratura-meraviglioso.it [consultato in data 19 aprile
2020].
44
Ibidem.
18
Si tratta dell’amore che dà il titolo al quadro de Le storie dipinte, al romanzo del 1963 e che
ricorre nei testi e nei disegni di Buzzati, ovvero l’unica manifestazione del sentimento che
l’autore, fino a una certa età, ha conosciuto: l’amore come furia cieca, forza che inginocchia
e spolpa il borghese fino a trasformarlo in un nulla, in un vuoto coperto dall’indumento
attraverso cui si autorappresenta perché i suoi simili lo riconoscano.
La giacca è il feticcio di una classe sociale precisa, un oggetto tanto potente nello spazio degli
uffici e degli affari, quanto scarto e straccio di fronte alla forza superstiziosa, antica e plebea
dell’amore.

Tra le vittime annoveriamo, tra gli altri, Antonio Dorigo, 49 anni, architetto; Stephen
Tiraboschi, industriale; e Dino Buzzati, l’autore che li ha ideati: l’intellettuale e i suoi
personaggi sono presi nella stessa trappola, inghiottiti dal vortice di una forza primitiva
impermeabile agli strumenti di difesa a loro familiari, forniti dalla classe sociale cui
appartengono.
Antonio Dorigo è il protagonista di Un amore, il romanzo pubblicato da Buzzati nel 1963: è
un uomo inserito e di una certa età, eppure si innamora. L’oggetto del suo amore è una
giovane prostituta: “Si chiama Laide. E con questo?”45, riporta il testo del quadro che Buzzati
dedica al personaggio, inserito anch’esso ne Le storie dipinte. Anche in questo disegno è
opportunamente presente una giacca svuotata dell’uomo che conteneva.
“È la classica trappola in cui cadono i cafoni di provincia”46: eppure, era toccata a Dorigo,
“un uomo di un ambiente così diverso, un uomo di quasi cinquant’anni”47. Le conquiste
professionali, gli interessi personali, le strategie, le forme, la logica e la vita nella sua
interezza si svuotano e si riempiono di significato a seconda degli umori mutevoli di Laide,
del suo capriccio di dominazione e conquista, dell’attenzione accordata con più o meno
sufficienza a Dorigo.
Chi è, dunque, Laide? O meglio, cos’è? “Io sono il fulmine. Io sono l’arcobaleno. Io sono una
bambina deliziosa”48, risponde lei. È la figura che Buzzati descrive e disegna con insistenza,
che nella ‘storia dipinta’ dà le spalle alla giacca e guarda da sopra il mento, sfrontata e nuda,
rosea e pulsante, circonfusa da un’aura di energia. Laide appartiene all’ordine delle cose
naturali e risponde delle stesse leggi cui rispondono “una rosa, una piccola nube, un
innocente uccellino” 49 . Lo scontro tra lei e Dorigo ricalca quello tra natura e cultura: la

45
Buzzati, Dino (2013) Le storie dipinte, op.cit., p.126.
46
Buzzati, Dino (2018), Un amore, Mondadori, Milano, p.79.
47
Ibidem.
48
Ivi, p.76.
49
Ivi, p.91.
19
seconda ne esce malconcia, invidiosa, incapace di partecipare al vigore vitale della prima e
svelata nella sua pochezza, nel suo essere niente più che una giacca vuota.
Dorigo, la cultura, si scopre “intimidito da tanta sapienza istintiva, lui con tutto il suo
ridicolo armamentario letterario nella crapa”50. Succede lo stesso al suo alter ego nella ‘storia
dipinta’ omonima del romanzo, Un amore. Il testo che completa il disegno riporta:

Egli leggeva «Manon Lescaut», leggeva «Nana», leggeva «On Human Bondage»,
leggeva «Professor Unrath», leggeva «La femme et le pantin». E diceva che erano tutte
storie. Non ci credeva.51

Non c’è che da posare lo sguardo sulla pagina successiva per conoscere il prezzo dello
scetticismo borghese: ‘l’armamentario letterario’ del personaggio si incenerisce in un istante
al cospetto “di tutto quello che lui finora non ha avuto e idiotamente disprezzava, della
follia, delle notti spavalde e condannate, delle cosiddette avventure [...]”52. Lo sterile corredo
culturale del buon borghese si scontra con una forza di gran lunga più potente e misteriosa,
che lo lascia sgonfio e floscio in un angolo.

C’è destino peggiore, per una giacca? La risposta è in un’altra ‘storia dipinta’ in cui
l’indumento è di nuovo protagonista, inserita nella monografia col titolo Ritratto di un
vecchio nobile austriaco (1967) [fig.5].
Il testo recita:

I resti del suo fatiscente palazzo di famiglia si possono ammirare ancora nella romantica
Fledermangasse, in quel di Klagenfurt.53

Nella pagina successiva, c’è il ritratto anticipato dal titolo: il vecchio nobile austriaco, ovvero
la sua giacca. L’indumento è uguale in tutto e per tutto alle altre due ricorrenze ne Le storie
dipinte: sgonfia, accartocciata e vuota. A farle da sfondo c’è il palazzo descritto dal testo: la
facciata occupa il quadro per intero, grigia di finestre affastellate le une sulle altre, distorte
come se fossero filtrate dalla lente di un incubo – alcune di esse hanno i vetri infranti. Il testo
condensa l’atmosfera del quadro in una rosa di termini: ‘vecchio’, ‘resti’, ‘fatiscente’,
‘ancora’.
I riferimenti geografici, ‘Fledermangasse’ e ‘Klagenfurt’, designano non luoghi – un
espediente cui Buzzati ricorre spesso: il non luogo è caratterizzato dalla negazione delle

50
Buzzati, Dino (2018), Un amore, op.cit., p.76.
51
Buzzati, Dino (2013) Le storie dipinte, op.cit., p.96.
52
Buzzati, Dino (2018), Un amore, op.cit., p.89.
53
Buzzati, Dino (2013) Le storie dipinte, op.cit., p.122.
20
qualità che determinano un luogo, ovvero “l’identità di chi lo abita, la relazione tra i soggetti
che vi appartengono, la memoria delle radici”54. ‘Fledermangasse’, anche senza esistere, ha
un attributo importante: è ‘romantica’. Il lettore cerca, allora, una corrispondenza al termine
nel disegno di Buzzati, e incontra solo cocci di vetro e abbandono di luoghi e indumenti.
Manca qualcosa: un amore.
Stavolta, Buzzati non accompagna alla giacca alcun nudo femminile lussureggiante che
controbilanci, con la sua vita selvaggia, la desertificazione raccontata dall’indumento.
Così, quando finisce anche l’amore, rimane il paesaggio desolato del dipinto, i ‘resti’
descritti dal testo e una giacca priva dell’ultimo soffio d’umanità che le gonfi i tessuti,
ovvero la capacità di amare e soffrire.

La perdita accomuna il ‘vecchio nobile austriaco’ protagonista della ‘storia dipinta’ a


un’altra giacca che ci riguarda da vicino: il diavolo custode dell’inferno di Poema a fumetti.
Anche lui ha il suo bel ritratto [fig.6]: a differenza dell’indumento ‘terreno’, non si affloscia,
ma si erge, stagliandosi in verticale e occupando il primo piano della tavola, con la manica
sinistra che poggia a terra come un bastone e tradisce la fatica. Dietro di lui, c’è un panorama
sterminato di palazzi punteggiati da finestre anonime a migliaia. Quando il protagonista
del Poema lo interroga sulla sua identità, il diavolo risponde al passato, “io ero come te
adesso”55, e in effetti, alcune pagine dopo, Buzzati lo rappresenta inequivocabilmente come
un uomo: prima di diventare sentinella dell’inferno, prima di consumarsi e ridursi a un
giaccone vuoto, era dunque una persona.
Il diavolo racconta di aver marciato per tutta la vita in Terra, sempre una pena, sempre un
affanno, eppure non riesce più a ricordare “che cosa c’era dentro di così bello”56. La giacca
del Poema soffre dunque della stessa privazione inflitta al ‘vecchio nobile austriaco’: non
conosce più la sofferenza. Buzzati su questo punto è estremamente chiaro: la sofferenza è
squisita, dolcissima nel dolore che provoca, e “risulta dalla volontà dei protagonisti, e non
deriva solamente dalla fatalità che regola l’esistenza”57.

Senza alcuna sofferenza, il diavolo custode è capace, poche pagine dopo, di squadernare di
fronte al protagonista del Poema una serie di donne bellissime e procaci. Il rapporto di potere
tra il nudo femminile e l’indumento è invertito: la giacca è in primo piano, poggiata su un

54
Carbone, Annalisa (2016), Dipingere e scrivere per me sono la stessa cosa, op. cit., p.100.
55
Ivi, p.76
56
Ibidem.
57
Panafieu, Yves (2005), Circe, Pentesilea ed Eura in «Poema a fumetti» di Dino Buzzati nella cultura degli anni ’60 tra
fumetto, fotografia e arti visive, op.cit., p.122.
21
divanetto, rilassata e padrona di sé, mentre le donne si susseguono alle sue spalle e quasi
sbiadiscono sullo sfondo.
Il carosello di nudi è interrotto dalla mano del protagonista, che scherma un’immagine [fig.7]
di assoluto capovolgimento rispetto all’esperienza della giacca in Le storie dipinte: la donna
ai piedi, disciolta e floscia, e la giacca gonfia, piena, alta su di lei.
All’inferno, la donna non dispone della propria energia vitale e quindi della capacità di
avvalersi di sensualità e disperazione per fare dell’uomo borghese un cumulo informe di
stracci, utile solo alla di lei venerazione. Per lo stesso motivo, la controparte maschile non
fa esperienza di “furore rabbia frenesia galoppo fiammeggiamento”58 . All’inferno, c’è la
giacca e c’è la donna nuda, ma il legame che lega l’uno all’altro è perduto e, con esso, il sale
della vita:

Fuoco che ha finito di bruciare, nuvola che ha fatto pioggia e la nuvola adesso non c’è
più, musica giunta all’ultima sua nota e dopo altre note non verranno, stanchezza vuoto
solitudine.59

Il tema delle cose perdute nel morire è uno dei motivi di Poema a fumetti, e verrà indagato in
quanto tale nel capitolo successivo del nostro lavoro: per il momento, la nostra analisi si
contenta di aver evidenziato una cosa perduta in particolare.
La donna esce dal quadro: “quella dannata, quel fiorellino, quella carogna”60, per prendere
in prestito le parole di Stephen Tiraboschi, l’industriale che in Viaggio agli inferni del secolo
viene torturato da una squadra di diavolesse. Se la donna esce dal quadro, porta via con sé
l’ultimo afflato di vita: non rimane che uno sfondo di macerie e una giacca che non è
nient’altro che una giacca.

58
Buzzati, Dino (2018), Un amore, op.cit, p.252.
59
Ivi, p.257.
60
Buzzati, Dino (1966) Viaggio agli inferni del secolo, op.cit.
22
fig.4: Un amore.

fig.5: Ritratto di un vecchio nobile austriaco.

23
fig.6: Così sono diventato...

24
fig.7: No no basta non voglio...

25
1.2.3. La nebbia, ovvero il mistero

L’universo Buzzati è vasto abbastanza da contenere un altro amore.


Oltre alle carni, alle labbra e ai seni c’è una cosa pulita: alla dannazione in vita che l’uomo
sconta a causa di una donna, un’altra donna può porre rimedio.
L’altro amore lascia un’impronta lieve sulla produzione dell’autore, orientata, piuttosto, alla
rappresentazione della faccia infernale del sentimento, al racconto postribolare “fatto di
bocche e corpi invitanti, con l’enfatizzazione di posture, di abbigliamento e di oggetti spesso
destinati a stringere i corpi desiderati per suggerire scene di bondage”61.

L’altro amore ha altre fattezze. Tanto per iniziare, non ha un corpo da stringere: non ha carni,
non ha seni, ha solo un volto approssimato nei suoi tratti essenziali. Il resto è inghiottito
dalla nebbia che dà il titolo alla ‘storia dipinta’ di nostro interesse, datata 1966.
Nel 1966 Buzzati sposa Almerina Antoniazzi: La nebbia [fig.8] è, probabilmente, il ritratto
della ‘sposa bambina’. Il volto della giovane moglie entra per via definitiva nel campo visivo
dell’autore e porta oltre la soglia del suo immaginario tutta una serie di motivi letterari e
pittorici inediti.

Dagli abissi della perversità malvagia e sadica si passa alla rinfrescante espressione di
quanto, nell’anima sia maschile sia femminile, testimonia le alte capacità partecipative,
di dono e di riconoscenza, di sollecitudine, di accompagnamento, di fusione affettiva.62

L’amore di segno negativo appartiene all’ordine delle cose naturali, quindi risponde a leggi
crudeli, indifferenti e vorticose, capaci di scuotere l’uomo con la forza di una catastrofe e di
ridurlo alla giacca vuota di cui abbiamo fatto conoscenza. L’amore che adesso si aggiunge,
quello di e per Almerina, appartiene invece al sovrannaturale, abbandona ciò che è
mondano per una dimensione diversa, più vicina e complice del mistero.
Per questo non ha bisogno di un corpo, né degli artifici della sensualità moderna e urbana
che guarniscono le carni delle diavolesse di Buzzati: corde, catene, calze di seta, oppure la
ancor più conturbante assenza di orpelli, il corpo nudo esposto con aggressività come una
pistola carica.
L’amore buono ha altre armi: nella ‘storia dipinta’ è abbozzato nei pochi tratti, necessari,
che emergono dalla visione, un accenno di lineamenti, quattro occhi viola, “due a destra,

61
Gargiulo, Gius (2005), Dark side e iconismo delle pop-streghe in «Poema a fumetti» di Dino Buzzati nella cultura
degli anni ’60 tra fumetto, fotografia e arti visive, op.cit., p.62.
62
Panafieu, Yves (2005), Circe, Pentesilea ed Eura in op.cit., p.129.
26
due a sinistra”63, e un rampicante fiorito che incornicia teneramente il tutto. Quest’ultimo
dettaglio è forse l’unico rimando al mondo terreno presente nel quadro, impiegato per
delimitare nello spazio un’apparizione impalpabile.

Il ritratto torna in Poema a fumetti con pochissime modifiche [fig.9] per presentare l’amore
perduto all’inferno dal protagonista: “Si chiama Eura”64.
Come nel caso della ‘storia dipinta’, anche Eura emerge dalla nebbia, causata in questo caso
dal nugolo di streghine che infestano le tavole precedenti: “Barbara Ivonne / Lida Fiorella
/ Bibi Silvana / Ester Luisella”65; “Lea Benedetta / Ludi Maurizia / Claudia Faustina /
Anna Ginetta”66; “Matilde Gloria / Iva Bianchina / Carla Francesca / Ada Vittoria”67 – una
serie di nomi tra cui non si frappone neppure una virgola, che designano una altrettanto
confusa serie di donne, “le streghe della città”68.

[...] Donne dalle bocche aperte con labbra carnose e denti affilati, segno di disponibilità
ma anche di pericolo per il morso che lacera, contamina e impedisce alla coscienza delle
vittime di organizzare i ricordi affettivi profondi a causa della degradazione o
scarnificazione ossessiva del desiderio, assoluto, imperioso ed esigente.69

Le ‘vittime’ sono i soliti uomini perduti nel maleficio delle streghine, rovinati dal loro gioco
selvaggio di seduzione.
Poi, c’è Eura: un nome cui corrisponde un volto, che occupa la pagina senza dividerla con
nessun’altra e che, col suo mistero, costringe a una pausa contemplativa il Poema accelerato
dal climax di streghine.
Eura non ha “carne, [...] gambe, [...] ventre, [...] cosce”70, nessuna delle armi di seduzione
delle donne raccontate fino a quel momento. Quando, in seguito, il protagonista del Poema
la ritrova all’inferno, il suo aspetto è tutt’altro che sensuale. Il compiacimento con cui
Buzzati indugia nel disegno del nudo femminile non si applica a Eura: l’autore abbozza il
suo corpo con approssimazione, con tratti elementari, come se la forma non godesse di se
stessa, ma servisse solo a rappresentare materialmente qualcosa di trascendente. Il corpo di
Eura in Poema a fumetti ha lo stesso scopo della cornice floreale nella ‘storia dipinta’: sono
oggetti utili a fissare l’evanescente.

63
Buzzati, Dino (2013) Le storie dipinte, op.cit., p.100.
64
Buzzati, Dino (2017), Poema a fumetti, op.cit., p.31.
65
Ivi, p.22.
66
Ivi, p.23.
67
Ivi, p.24.
68
Ivi, p.22.
69
Gargiulo, Gius (2005), Dark side e iconismo delle pop-streghe, op.cit., p.61.
70
Buzzati, Dino (2017), Poema a fumetti, op.cit., p.25.
27
L’arma irresistibile dell’amore buono ha a che fare con la sua qualità sfumata e col mistero
dei suoi quattro occhi. Buzzati li giustifica così:

Un giorno, probabilmente per caso, disegnando, mi è venuta voglia di fare due occhi, e
subito sotto, due altri occhi. E mi sono accorto che provocava un effetto di diplopia. Vale
a dire, dava l’illusione, dava la sensazione, a chi la guardava, di veder doppio, mentre
vedeva giusto. Ne deriva un senso di disagio, quasi, in chi vede. Ma ne deriva nello
stesso tempo una grande vitalità nell’immagine.71

Lo sguardo di diavolesse e streghine è tutto sommato dimenticabile, un orpello tra gli altri:
affilato, avido e lussurioso, non aggiunge nulla a ciò che già è stato detto da cosce e seni. È
uno sguardo trasversale, acceso di un fuoco fatuo e dato da sopra il mento, che incrocia
quello dell’uomo raramente e solo per liberarsene in fretta: nel momento in cui si posa, già
prefigura l’uomo successivo e la noia che seguirà ogni desiderio.
Gli occhi dell’amore buono sono diversi. Spalancati e fissi, del colore dell’esoterico, Buzzati
li dipinge al centro della composizione in quanto unico elemento del volto che conserva la
sua specificità: si stagliano sopra la nebbia, guardano l’uomo da pari e chiedono reciprocità.
Il tema dello sguardo è talmente importante da essere doppiamente ribadito. Quattro occhi
elevano esponenzialmente il grado di coinvolgimento, attenzione e irretimento causato da
due: “per questa soluzione il pensiero corre immediatamente a una tavola di Nadja di André
Breton (1927)”72.

Nadja non è un’opera di fantasia: il contenuto del romanzo, fatti, luoghi, lettere e disegni,
sono registrazioni del reale in letteratura, ovvero una commistione di caso e interpretazione.
La donna che dà il nome al libro è realmente esistita, Breton l’ha realmente incontrata, un
giorno, in una via di Parigi, e ha immediatamente riconosciuto in lei una profonda e
spontanea partecipazione al mistero surrealista. “Non avevo mai visto degli occhi come
quelli”73, scrive. L’autore la conosce, la osserva e interroga e fa di lei materia letteraria. Nadja,
dal canto suo, presta a Breton un amore devoto e al gioco surrealista il proprio pensiero
atipico, profondo e originale, le visioni che le costeranno, infine, l’internamento in una
clinica psichiatrica, e la loro traduzione in parole e disegni.

71
Ferrari, Mariateresa (2002), I segreti svelati, in Buzzati 1969: il laboratorio di “Poema a fumetti” a cura di
Mariateresa Ferrari, Mazzotta, Milano, p.18.
72
Del Puppo, Alessandro, Fonti visive e intenzioni narrative nel Buzzati illustratore in La cultura visuale di Dino Buzzati,
Università di Palermo, 21-22 maggio 2013, p.4.
73
Breton, André (2007), Nadja, Einaudi, Torino, p.52.
28
Nadja inventa per Breton ‘il Fiore degli amanti’ [fig.10], simbolo grafico che le fornisce “la
chiave di tutti gli altri”74: dalla bocca di un serpente si sviluppa una pianta con quattro occhi,
due a destra, due a sinistra.

Nadja e Buzzati, perciò, disegnano l’amore nello stesso modo: con quattro occhi, perché lo
sguardo possa comunicare col doppio dell’intensità “una certa cosa”75.
Quale sia il contenuto del messaggio è al di là della possibilità di rappresentazione sia delle
parole e dei disegni di Buzzati, sia delle strategie surrealiste prestate a Nadja da Breton.
I quattro occhi appartengono al dominio del mistero. Ne Le storie dipinte, difatti, ricorrono
in altre due occasioni: Buzzati li disegna a una Sfinge, soggetto di un quadro omonimo del
1958, e alla zingara Consuelo Fabian, in I misteri dei condomini (1967): due simboli femminili
potenti, custodi di segreti.
Il testo che completa il primo quadro è particolarmente interessante, poiché rimanda al
campo semantico della vista e dell’indicibile: narra di alcuni viaggiatori che, trovata la
Sfinge, non sono poi in grado di raccontarla, o anche solo di nominarla.

Eppure l’hanno vista coi loro propri bulbi oculari. Dopo settimane di cammino,
all’estremità ultima del deserto, l’hanno vista. [...] Non proseguono.76

Quello di cui fanno esperienza i viaggiatori di fronte alla Sfinge della ‘storia dipinta’, il
lettore di fronte al ritratto di Eura nel Poema, Breton di fronte a Nadja o Buzzati di fronte ad
Almerina è un tipo di smarrimento diverso rispetto a quello catastrofico provato dall’uomo
al cospetto delle streghe della città. In questo scambio, non concorrono crudeltà e desiderio
masochistico e chi si smarrisce non è perduto.
È possibile, dunque, intuire la ‘certa cosa’ che dicono i quattro occhi: “abbandònati, vedrai
che troverai e sarai trovato” 77 . Ricambiare il loro sguardo è un atto di fede, e poi una
celebrazione dell’unica bellezza possibile secondo Breton: non quella pop, misera e
lussuriosa della femme fatale urbana, ma quella che “sarà CONVULSA o non sarà”78, che
“sarà erotico-velata, esplosivo-fissa, magico-circostanziale o non sarà”79.

In conclusione, la forza di irresistibile attrazione dell’amore buono secondo Buzzati, di gran


lunga più potente di quella esercitata dall’amore di segno negativo, risiede nella qualità

74
Breton, André (2007), Nadja, Einaudi, Torino, p.98.
75
Buzzati, Dino (2013) Le storie dipinte, p.100.
76
Ivi, p.52.
77
Scarpa, Domenico (2007), in Breton, André (2007), Nadja, op.cit., p.X.
78
Breton, André (2007), Nadja, op.cit., p.137.
79
Breton, André (1974), L’Amour fou, Einaudi, Torino, p.20.
29
impenetrabile di quegli occhi convulsi. Il mistero che contengono è un non detto magnetico:
il fascino dell’amore di carne risiede nella sua somiglianza stretta con la morte; l’amore
buono, invece, è un assaggio di eternità, un affaccio su un assoluto che è al di là della
capacità d’espressione di parole e pennelli. Lo dicono quattro occhi di donna, però, nitidi
oltre la bruma dell’esistenza umana, presi dallo stesso incanto dell’uomo che li guarda.

In merito a questo è interessante citare, come esempio conclusivo, l’ultima ricorrenza del
doppio sguardo presente ne Le storie dipinte: è quello di tale Rosetta Muttironi, protagonista
di Santa Ingenuità (1966) [fig.11], quattro occhi. Il testo che completa il quadro fa riferimento
alla sorprendente innocenza di Rosetta che, a tredici anni suonati, ancora è convinta che i
bambini li portino le cicogne. Il volto della ragazza è arido come il paesaggio che fa da
sfondo al suo ritratto e il doppio paio d’occhi si perde tra gli altri lineamenti, grigio e ocra,
terreo come tutto il resto. Prima che il doppio sguardo di Rosetta diventi brillante e
protagonista come quello dipinto ne La Sfinge, come quello di Almerina, Eura o della zingara
Consuelo Fabian, deve essere messo a parte del mistero dell’amore e della sua spasmodica,
indicibile bellezza. Solo allora, dirà ‘una certa cosa’.
Giunto all’ultima stazione del narrabile, Buzzati, che di mestiere racconta storie, si ferma:
né le penne, né i pennelli sanno dire quella ‘cosa’. Occorre farsela rivelare da due paia di
occhi amati e, per una volta, ascoltare soltanto. Il mistero è l’unica cosa che non si lascia
raccontare: segna il limite invalicabile cui perviene la strada intrapresa dall’autore quando,
nell’introdurre Le storie dipinte, ‘prese le sue cose e si avviò’.

30
fig.8: La nebbia.

31
fig.9: Il suo amore si chiama Eura.

32
fig.10: Il Fiore degli amanti.

fig.11: Santa Ingenuità.

33
2. I miracoli di Val Morel: l’ultima ‘storia dipinta’

Quando la strada finisce, è tempo di tornare a casa.


Quando Renato Cardazzo, gallerista d’arte, chiede a Dino Buzzati una serie di tele per la
mostra alla Naviglio-Venezia, nell’autore si sono già manifestati i sintomi della malattia che
lo spegnerà un anno e mezzo dopo. È l’estate del 1970.
La galleria in questione consiste in una casa antica, quattro vani l’uno sopra all’altro come
una sorta di torre: Cardazzo pensa, per le tele esposte, a una storia che si sviluppa
narrativamente seguendo le scale. È un progetto ambizioso: più di trenta quadri per una
storia di più di trenta capitoli, tutti da inventare. Buzzati sta per rinunciare, quando arriva
l’idea: avrebbe raccontato la storia di un santuario di montagna, della santa cui è dedicato e
dei miracoli che la santa ha compiuto, raccolti nella forma di ex voto.
Miracoli inediti di una santa viene dunque inaugurata il 3 settembre 1970: colleghi, critici e
curiosi riempiono la galleria e seguono appassionati il racconto che si sviscera dalle pendici
della torre all’ultima sala. La moglie Almerina ricorda:

Tutti consideravano quel racconto “in quadri” in linea con i lavori di Dino, con il suo
stile, la sua poetica. E dopo le polemiche che avevano seguito l’uscita di Poema a fumetti,
parevano ora più rassicurati.80

Pubblico e critica rispondono entusiasti al tono scherzoso e apparentemente leggero


suggerito dal titolo della mostra e confermato dagli ex voto esposti: ritrovano le favole, gli
animali fantastici, i paesaggi di montagna, le paure degli uomini, i temi cari alla narrativa
di Buzzati, risolti con il lieto fine promesso dal miracolo. Il racconto visionario si lascia
godere senza impegno, e anche le più atroci brutture, si pensi ai dipinti di abusi, violenze
ed esorcismi, sono ricevuti con un sorriso.
La qualità ‘leggera’ attribuita all’opera non esclude, nell’ordine d’idee dei critici, il suo
carattere importante e profondo – piuttosto lo amplifica. Indro Montanelli si sbilancia:
Buzzati “ha scritto col pennello la sua poesia più bella”81 proprio perché, proponendosi di
compilare un album di scherzi, ha lasciato la mano all’incoscienza, all’innocenza e alla
spontaneità che, sempre secondo Montanelli, rappresentano il genio dell’autore.

80
Viganò, Lorenzo (2012), Postfazione – Dino Buzzati e il miracolo della vita in Buzzati, Dino (2012) I miracoli di Val
Morel, Mondadori, Milano, p.95.
81
Montanelli, Indro (2012), Prefazione in Buzzati, Dino (2012) I miracoli di Val Morel, Mondadori, Milano, p.5.
34
“Buzzati è pericoloso solo quando pensa o crede di pensare”82, continua il critico nel suo
commento a I miracoli, riferendosi alla ‘serietà’ cui ormai da qualche decennio l’autore si
‘costringe’, la stessa con cui ha scritto, per esempio, Poema a fumetti.

Montanelli, difatti, riserva ben altra accoglienza al Poema, che precede la mostra di qualche
anno: in quell’occasione, plaude all’ ‘innocenza’ di Buzzati per risparmiare all’amico il
dispiacere di una stroncatura, pur suggerendola tra le righe del Corriere. Nella sua
recensione, Montanelli scrive con antipatia delle femmine provocanti che popolano l’aldilà
del Poema, pur scagionando Buzzati dall’accusa di essersi avvicinato a un linguaggio nuovo
perché vittima delle nuove tendenze: Montanelli lo conosce abbastanza da assolverlo e
accordare fiducia alla naturalezza con cui l’autore ha trattato la materia. Sulla qualità del
trattamento e sul risultato dell’esperimento, però, si allunga l’ombra di una sospensione di
giudizio che tradisce tutto l’imbarazzo del critico.

Alla luce di queste considerazioni, la risposta di Montanelli a I miracoli risulta quantomeno


curiosa: possibile che al critico sia sfuggito l’accanimento che Buzzati riserva alla
rappresentazione del nudo femminile, anche in quest’ultima opera? Tra le tele, infatti, non
mancano i ritratti di donne infernali, peccatrici e tentatrici, spesso complici anziché vittime
dei diavoli, e i loro corpi piegati in posizioni tutt’altro che innocenti.
Il benestare di Montanelli, ovvero il ‘lasciapassare’ che in questa occasione il critico accorda
all’autore, si spiega con un elemento presente ne I miracoli e carente nel Poema, capace di
assolvere anche il più grave dei peccati: l’ironia.
Buzzati capisce che, schernendosi, sarebbe potuto penetrare ovunque, avrebbe potuto
utilizzare qualsiasi media, appropriarsi di qualunque linguaggio, tutto gli sarebbe stato
concesso e scusato. L’autore pecca imperdonabilmente quando si prende sul serio come
scrittore e pittore, quando racconta con tragica serietà le profondità dei suoi abissi
autobiografici, quando pretende che la lettura di Un amore, di Poema a fumetti sia grave
almeno quanto lo è stata la loro scrittura.
I critici non ci stanno perché, se considerato con serietà, un corpo nudo è un affronto; se
invece è presentato con ironia, allora è comico – così per Buzzati: se egli si mette a nudo con
gravità, scatena imbarazzo e repulsione in coloro che leggono le sue parole e guardano i
suoi dipinti. Se, spogliandosi metaforicamente, ride di sé, i critici ridono con lui e
partecipano appagati dello scherzo.

82
Montanelli, Indro (2012), Prefazione in Buzzati, Dino (2012) I miracoli di Val Morel, op.cit., p.5.
35
Allegro e compiaciuto, l’establishment è finalmente disposto a considerare con serietà
l’opera di Buzzati: Miracoli inediti di una santa e il libro tratto poi dalla mostra, I miracoli di
Val Morel (1971), sono un successo.
I miracoli di Val Morel presenta alcune interessanti novità rispetto all’esposizione: a cambiare
sono titolo, numero e ordine delle tavole; a essere aggiunti sono la Prefazione entusiasta di
Montanelli, la Spiegazione di Buzzati e i testi che precedono ciascun ex voto. Così come
accade per Le storie dipinte, le parole “aggiungono elementi, indizi, retroscena e sviluppi che
i disegni nascondono [...] nel completamento – e depistaggio – reciproco”83.
Il nuovo titolo riporta una precisazione geografica importante: i miracoli hanno luogo nella
terra d’origine di Buzzati. Se per la mostra era stato deciso un titolo ironico e scandalistico,
i miracoli erano ‘inediti’, il nuovo supporto cartaceo risponde a un nome diverso, che
soddisfa esigenze differenti: l’autore colloca da subito la storia entro un orizzonte nitido,
ovvero il bellunese, la sua terra e la sua infanzia.
Il ‘ritorno’ salutato con favore dalla critica non si riferisce solo alla ripresa di temi e toni
riconosciuti in Buzzati: è un ritorno a casa in piena regola, allegorico ed esistenziale.
Dopo la parabola di serietà consumata a Milano, l’autore “rispolvera il passato, ritrova le
radici, i sogni e le fantasie dell’infanzia, gli odori, i suoni della sua terra. Le origini, la sua
gente, le case, i luoghi, gli scenari”84.
Dopo l’esplorazione dell’aldilà compiuta in Poema a fumetti, Buzzati risale le scale e cerca
un’occasione di salvezza altrove; dopo aver fatto qualche passo oltre la soglia della fine,
torna indietro e trova casa. Quando ormai “la torre grande e nera”85 della morte e della
malattia allunga l’ombra su di lui, reale, stavolta, non solo esercizio intellettuale o cara
ossessione, Buzzati si appella a un ultimo miracolo: di nuovo, ‘prende le sue cose e si avvia’.
La sua è sempre la solita fede incrollabile nella possibilità di raccontare; prossimo alla fine,
Buzzati ricomincia, e il vero miracolo non è quello operato dalla santa, ma dalla storia. È
lecito pensare “che questa ennesima sfida-duello con la morte, questo ultimo gioco, Dino
Buzzati l’abbia riservato per primo a se stesso. Che l’abbia costruito per la propria
salvezza”86.
Il prodigio riesce: nei suoi quadri e nelle sue parole, Buzzati è immortale.

83
Viganò, Lorenzo (2012), Postfazione – Dino Buzzati e il miracolo della vita, op.cit., p.103-104.
84
Ivi, p.105.
85
Buzzati, Dino (2018), Un amore, p.261.
86
Viganò, Lorenzo (2012), Postfazione – Dino Buzzati e il miracolo della vita, op.cit., p.108.
36
2.1. La spiegazione

Tra le novità introdotte dall’edizione in volume della mostra, c’è Spiegazione.


Il cambio di supporto, dai quadri al libro, permette di ripensare la fruizione dell’opera:
mentre il visitatore dell’esposizione percorre la storia verticalmente, su per le scale della
Galleria Naviglio-Venezia, il lettore compie un cammino orizzontale attraverso i miracoli,
di andate e di ritorni.
Prima di entrare nel vivo dei prodigi, può attardarsi sulla soglia e godere della cornice
fantastica che l’autore ha ideato per lui e che delimita lo spazio delle sue esplorazioni.
Si tratta, sempre secondo l’entusiastica prefazione di Montanelli, di “uno dei più magici
racconti”87 di Buzzati: Spiegazione.

Spiegazione ricolloca la creazione e collezione degli ex voto riportando un antefatto di


fantasia: la storia comincia con il rinvenimento di un quaderno nella biblioteca paterna.
Il quaderno è fitto di annotazioni rispetto agli interventi miracolosi di una santa, Santa Rita
da Cascia, onorati nel Santuario di Val Morel. Ciò che commuove e incuriosisce Buzzati è il
linguaggio in cui sono trasposti, suggestivo e selvatico, e la sostanza stessa dei miracoli:

C’erano le tradizionali cadute da cavallo, le ferite in guerra, gli incendi, le inondazioni,


il classico repertorio insomma dei miracoli nostrani.
Ma c’erano anche degli episodi del tutto insoliti e sorprendenti [...].88

L’autore si risolve a fare una piccola inchiesta: nell’estate del 1938, a Val Morel, incontra
Toni Della Santa, l’ultimo di una generazione di ‘custodi’ del piccolo santuario ricordato nel
quadernetto.
È Toni l’autore degli strampalati ex voto: Buzzati appunta alcuni dei miracoli più singolari
che egli, durante l’incontro, gli mostra e riferisce, continuazione ideale di quelli già registrati.
Accade la Seconda guerra mondiale, che tiene a lungo Buzzati lontano da Val Morel: l’autore
torna sul posto un pomeriggio di settembre del 1946, “ma il sentiero che conduceva al
«santuario» non esisteva più”89. Oltre al sentiero, non vi è più traccia del piccolo tabernacolo,
né della casupola gremita di ex voto di Toni Della Santa, né, men che mai, di Toni. Niente.

87
Montanelli, Indro (2012), Prefazione in op.cit., p.5.
88
Buzzati, Dino (2012), Spiegazione in op. cit., p.7.
89
Ivi, p.11.
37
È per sottrarre il ricordo al “senso della vita che passa, che è passata per sempre” 90 che
l’autore sostiene di aver ridipinto e riscritto, aggiungendo le sue note personali, gli ex voto
che, eppure, un giorno Toni gli ha mostrato e raccontato.
“Sulle sbilenche pagine”91 l’autore sfida, una volta in più, il potere corrosivo del tempo: I
miracoli di Val Morel serve la funzione di salvare dalla realtà ciò che la trasgredisce, di fissare
il fantastico, seppure in modo ‘sbilenco’, di non farlo passare – cosa che ha, di per sé, del
miracoloso.

In questo, come osservato da Montanelli, il racconto è magico.


Il fantastico non è, però, l’unico linguaggio a intervenire nella stesura della storia: non
sarebbe stato Buzzati se non avesse coinvolto almeno un altro registro nel processo di
scrittura, da mescolare al primo per creare un amalgama delicato.
Sorprendentemente ma non troppo, trattandosi dell’autore bellunese, lo stile prescelto per
trattare la raccolta di miracoli è di carattere prevalentemente scientifico – fin dal titolo
asettico del testo introduttivo, ‘Spiegazione’.
La scienza secondo Buzzati si basa su “la convivenza di vero e falso, il loro incastro, il
continuo passaggio da un piano all’altro, il confondere i confini che li separano; di più: il
servirsi del reale, della cronaca, per dare più sostanza e forza al fantastico”92.
È una dottrina mobile e superstiziosa che Buzzati impiega per giocare un ultimo dispetto
alla critica, deliziata dai suoi ex voto: in Spiegazione, né professori, né studiosi, né preti sono
capaci di dare risposte all’autore rispetto all’origine e al valore del quaderno scoperto.
Il primo personaggio cui l’autore si rivolge è un amico del padre, architetto e conoscitore
della storia bellunese, che liquida la raccolta di ex voto ipotizzando uno scherzo letterario;
“anche altri studiosi delle antichità locali non seppero darmi alcuna spiegazione” 93 ,
considera Buzzati.
A essere interpellato è poi il parroco di Limana, che dà un responso altrettanto deludente:
fa “una simpatica risata”94 prima di ricondurre alla superstizione degli abitanti del posto,
più che alla loro fede, l’esistenza di un rustico tabernacolo dove i montanari pagano la loro
devozione, il ‘santuario’ di Val Morel descritto dal quaderno.
Sono gli abitanti del posto, in effetti, i primi a dare un’informazione utile a Buzzati rispetto
alla collocazione del microsantuario.

90
Buzzati, Dino (2012), Spiegazione in op. cit., p.12.
91
Ibidem.
92
Viganò, Lorenzo (2012), Postfazione – Dino Buzzati e il miracolo della vita, op.cit., p.102.
93
Buzzati, Dino (2012), Spiegazione in op. cit., p.8.
94
Ivi, p.9.
38
Infine, una volta giunto al tabernacolo battuto dai venti e scolorito, adornato di soli lumini
e fiori di campo, a dimostrarsi risolutivo è l’intervento di Toni Della Santa, rappresentante
per eccellenza della scienza altra.

Toni emerge da una siepe di noccioli: è un vecchietto dall’aspetto rustico, “un artigiano, un
contadino, un custode di stalla, un sagrestano” 95 , senza dubbio un personaggio molto
lontano, nei modi e nelle apparenze, dalle autorità consultate da Buzzati.
Interpellato sul quadernetto, Toni si schernisce e si riferisce al padre dell’autore, l’effettivo
proprietario, come al “grande professore, che era tutto sulle carte” 96 – che tuttavia si
interessava di “cose importanti”97, nella fattispecie dei miracoli verificatosi in Val Belluna e
accuratamente registrati da Toni.
Personaggi di ogni classe e levatura, anche da molto lontano, raggiungono il modesto
santuario per chiedere la grazia a Santa Rita, o per pagare il debito per grazia ricevuta. Si
rivolgono poi a Toni incaricandolo di dipingere un ex voto adeguato, ed egli esegue, con
immagini che “definire «naïfs» era un eufemismo”98 integrate da “un linguaggio candido,
sgrammaticato e intensamente dialettale”99.
Il miracolo, così raccontato, è sottratto al mondo civile e alle leggi che lo definiscono: lo stile
primordiale di Toni, della sua mano e della casupola in cui custodisce gli ex voto, protegge
i miracoli dal sapere ingordo e prepotente dei rappresentanti ufficiali della conoscenza,
professori e preti.
Né la scienza né la fede sanno raccontare i “luminosi benefizi” 100 di Santa Rita, il cui
santuario è ignorato da “le autorità e gli specialisti”101 ed è ben noto invece a chi, come Toni,
possiede “una schiettezza, una umiltà, una bontà straordinarie; anche una fantasia [...]”102.

Poiché i miracoli riportati da Buzzati sono la copia e il ricordo di quelli collezionati dal
bizzarro vecchietto, l’autore non può che imitare il suo stile: così, scienza ufficiale e religione
sono escluse da I miracoli di Val Morel e sostituite da un complesso sistema di rimandi e
incastri, che le prescinde o le rielabora arbitrariamente. Il libro segue una struttura precisa
per cui la pagina a destra è occupata dall’ex voto, quella a sinistra dal commento di Buzzati,

95
Buzzati, Dino (2012), Spiegazione in op. cit., p.10.
96
Ibidem.
97
Ivi, p.11.
98
Ivi, p.10.
99
Ivi, p.7.
100
Ivi, p.11.
101
Ibidem.
102
Ibidem.
39
che informa, appunta, precisa e confuta secondo i dettami di una sua personale dottrina,
combinazione di:

il sentito dire, i testi scolastici, la cronaca, la letteratura alta (Melville, D’Annunzio, Poe,
Klossowski gli autori citati o rievocati), gli enigmi, le opinioni differenti, la tradizione
orale, i memoriali, le lettere conservate negli archivi, i racconti dei familiari, i diari e le
cronache del tempo, [...], l’esperienza personale, le leggende, le canzoni popolari, i
racconti orali, la storia.103

La sufficienza con cui l’establishment tratta la questione non priva il santuario di Val Morel
della sua significanza, né i prodigi là raccolti del loro status di “fatti magnifici... fatti
documentati...”104.
Per prendere in prestito le parole che Buzzati spende in un’altra occasione per un suo
personale prodigio letterario, ovvero l’invenzione del Babau, mostro metaforico e buffo
‘amico-nemico’ di tutti i bambini del mondo, il miracolo è fatto “di quell’impalpabile
sostanza che volgarmente si chiama favola o illusione: anche se vero”105.
Per difendere la dignità e veridicità del fantastico, l’autore combatte gli scettici opponendo
la propria scienza alla loro: nel riportare l’intervento miracoloso di Santa Rita rispetto a
creature quali il Colombre, la Balena Volante o il Gatto Mammone, egli cita rispettivamente
“certe ristrette cerchie di studiosi” 106 , “gli studiosi più autorevoli” 107 , “la più parte dei
naturalisti” 108
sempre pronti a dubitare del prodigio, a considerarlo suggestione,
superstizione o, nel peggiore dei casi, “pura fantasia”109.
Buzzati risponde a tono, opponendo al loro scetticismo il proprio: il linguaggio che utilizza
nel commento agli ex voto non è mai sentimentale, ingenuo o romantico. Piuttosto, è una
collezione fredda di informazioni e dati utili a confutare le convinzioni di suddette cerchie
di studiosi, talmente seria da far crepare dal ridere i critici come Montanelli. Buzzati non ha
paura di mettere in dubbio persino la fonte amica, il suo alter ego, ovvero Toni: la sua ricerca
di attendibilità è scrupolosa e non risparmia nessuno, chiama in causa testimoni, diari e
cronache del tempo – tutto fittizio, naturalmente. Viene da chiedersi, però, se questo basti
perché le fantasie di Buzzati non siano reali almeno quanto le convinzioni di professori e
preti.

103
Coglitore, Roberta (2012), Storie dipinte: gli ex voto di Dino Buzzati, Edizioni di passaggio, Palermo, p.113.
104
Buzzati, Dino (2012), Spiegazione in op. cit., p.10.
105
Buzzati, Dino (1971), Il Babau, in Le notti difficili, Mondadori, Milano, p.7.
106
Buzzati, Dino (2012) I miracoli di Val Morel, op. cit., p.14.
107
Ivi, p.16.
108
Ivi, p.20.
109
Ibidem.
40
L’autore prende in prestito il linguaggio dell’establishment, ovvero la sua fermezza, la sua
durezza, la sua sicurezza, per portare argomenti a difesa di ciò che l’establishment mal
tollera, o di cui ride con presunzione: il miracolo supremo, quello operato dalla fantasia.
È utile, di nuovo, considerare le parole di commiato che Buzzati spende per il suo Babau:

Galoppa, fuggi, galoppa, superstite fantasia. Avido di sterminarti, il mondo civile ti


incalza alle calcagna, mai più ti darà pace.110

Per incoraggiare la corsa dell’immaginazione, per farle guadagnare tempo rispetto al


nemico che avanza, Toni custodisce e Buzzati racconta. Spiegazione si conclude con la
sparizione del primo: Toni, “sorta di ispirato folletto, di gentile mago delle nostre
montagne”111, personaggio di fantasia, è sconfitto dagli anni che passano, dalla Storia che,
progredendo, desertifica. L’unica traccia rimasta della sua esistenza sono “vecchi calcinati
sassi che sembravano rammemorare antichissime illusioni perdute”112.
Buzzati, invece, rimane e salva Toni includendolo nel racconto: lo fa su pagine sbilenche,
con quadri che la critica non è mai stata capace di prendere sul serio, con la sua ultima opera
e quindi la sua ultima azione sovversiva.
I miracoli di Val Morel è da considerarsi “pagina finale del suo romanzo esistenziale e
poetico” 113 perché Buzzati vi riversa il proprio senso di responsabilità rispetto alla
salvaguardia del fantastico.
Il racconto è un’oasi ancora rigogliosa di un mistero non colto, da opporre all’azione del
mondo civile. Toni custodiva il santuario così come Buzzati custodisce lo spazio delimitato
dal suo racconto, impegno non da poco, sebbene la critica ne rida, poiché “nessun altro al
mondo avrebbe potuto raccontarvi queste cose”114. Il racconto è una richiesta di grazia per
la fantasia: che Santa Rita possa proteggerla sempre, che nelle pagine di Buzzati possa
riposare in pace.

110
Carbone, Annalisa (2016), Dipingere e scrivere per me sono la stessa cosa, op. cit, p.70.
111
Buzzati, Dino (2012), Spiegazione in op. cit., p.11.
112
Ivi, p.12.
113
Viganò, Lorenzo (2012), Postfazione – Dino Buzzati e il miracolo della vita, op.cit., p.93.
114
Ivi, p.12.
41
2.2. La santa dell’impossibile

Perché il miracolo del racconto si esaudisca, Buzzati non prega una santa qualunque.
L’autore si rivolge a un personaggio con cui ha un legame particolare e doppio, di ordine
terrestre e celeste: Santa Rita da Cascia, avvocata dei casi impossibili.
La prima ragione è terrena in senso letterale: nata a Roccaporena nel 1381, morta a Cascia
nel 1457, la Santa, da tradizione, è una campionessa di umiltà e semplicità, venerata
immediatamente dai concittadini e canonizzata con un certo grado di ritardo dalle autorità.
Buzzati raccoglie queste sue caratteristiche per collocare nel bellunese la sua storia e i suoi
miracoli, con una transizione senza traumi dalla cultura popolare a quella pop. La sua
presenza gentile accorcia l’intrinseca lontananza tra l’eccezionalità della grazia e il
quotidiano: Santa Rita è un personaggio simpatico, eroina positiva da fumetto anziché
figura inarrivabile e sovrannaturale, donna capace di rimboccarsi le maniche e di trovare
soluzioni pratiche anziché creatura profusa di luce.
Ne I miracoli di Val Morel, la Santa non si scompone se le è richiesto di mettere le proprie
sottane a difesa di un podere dal cataclisma della Balena Volante, o di imbracciare la scopa
per scacciare il Vecchio della Montagna, o di tirare la coda al lupo alle calcagna di
Cappuccetto Rosso. La Santa non si risparmia di rimproverare i destinatari della sua grazia
quando in errore, ovvero di chiamare “svergognata”115 la bella Listilina, in pericolo sulla via
del ritorno dopo una notte brava, o di andarsene indispettita se invocata da una tavolata di
amici solo perché caduti in preda alla malinconia. Per quanto ‘santa’, è capace di azioni e
reazioni decisamente umane: è pur vero che in molte tavole è separata dal resto della
composizione da una nuvoletta o una cornice, posta “su un altro piano e un altro momento
rispetto alla scena rappresentata” 116 . In altre ricorrenze, però, la Santa è il cuore stesso
dell’azione, è parte integrante del contesto mondano e il suo intervento spettacolare offre a
Buzzati l’occasione di pittura.

Per quanto protagonista, Santa Rita è rappresentata con tratti fisiognomici sommari
in tutti gli ex voto escluso uno: molto spesso il suo volto è riassunto in una chiazza rosa, i
suoi gesti e le sue espressioni approssimate, il suo ruolo riconoscibile solo per la presenza
dell’aureola e della veste monacale – con un’eccezione, da ricondursi a un’occasione
singolare.

115
Buzzati, Dino (2012), I miracoli di Val Morel, op.cit., p.48.
116
Coglitore, Roberta (2012), Storie dipinte: gli ex voto di Dino Buzzati, p.110.
42
Si tratta del quarantesimo ex voto, aggiunto soltanto nel 1971 a chiusura della nuova
edizione de I miracoli di Val Morel. La tavola rappresenta con tutta probabilità l’ultimo
quadro dipinto in vita da Buzzati, creato in ragione della proposta di un professore
bellunese al parroco di Limana: l’idea è di tradurre la fantasia dell’autore in realtà, ovvero
di costruire una cappelletta dedicata a Santa Rita esattamente come descritta. “Se la
facessero veramente, sarebbe per me, scrittore e pittore, la più grande delle soddisfazioni”117,
scrive Buzzati – e non è difficile da credere: è la resa del mondo civile, o, almeno, un
tentativo di redenzione. Scienza e religione si sono infine piegate alla fantasia, tanto da
impegnarsi a erigere il santuario prodotto da essa: il miracolo dell’autore ha un altro luogo
ove risiedere oltre alle pagine, tutt’altro che sbilenco stavolta, ma fisso, di pietra,
indiscutibilmente reale.
“È la vita a imitare l’arte e non viceversa”118, commenta Buzzati: è la scienza a imitare la
fantasia, verrebbe spontaneo parafrasare.

La cappelletta si farà: inaugurata quando Buzzati è ormai al di là dell’ultima porta, il 3


settembre 1973, l’autore potrà presenziare soltanto – e, è lecito pensare, con suo grande
onore – in qualità di personaggio di fantasia. Sicuramente è fervida quella dello scrittore e
giornalista presente all’evento, Rolly Marchi, che immagina Buzzati “curioso e divertito”119,
impeccabile nel suo abito grigio, affacciato a una siepe di noccioli – la stessa da cui sbuca
Toni in Spiegazione.
Il cerchio si chiude, autore e personaggio si fondono, il racconto ricomincia: come Toni,
Buzzati è l’ispirato folletto di quei luoghi, il custode del santuario e delle preghiere a esso
rivolte; come Toni, con il suo stesso stile pittorico primitivo, Buzzati dipinge un ultimo ex
voto, che adorna la cappelletta per qualche anno per poi essere sostituito da una copia e
conservato negli uffici del Municipio di Limana.
Finzione e realtà si sovrappongono e mescolano come nei sogni più arditi di Buzzati, tanto
che la prima è condizione d’esistenza della seconda: l’establishment, infine, riconosce e paga
il proprio debito al genio creativo, senza riderne più, ma partecipando attivamente per dare
corpo alla sua visione. È un’operazione da fare col sorriso, così come avrebbe voluto Buzzati:
quello aperto di un uomo bambino, però, che neutralizza quello saccente del critico.

Quando l’autore dipinge l’ultimo ex voto, la prospettiva di appenderlo in una cappelletta


reale è poco più che un sogno e una provocazione. L’autore sceglie come soggetto Santa Rita

117
Viganò, Lorenzo (2012), Postfazione – Dino Buzzati e il miracolo della vita, op.cit., p.99.
118
Ibidem.
119
Ibidem.
43
stessa [fig.12], che sintetizza nella sua persona la ragion d’essere de I miracoli di Val Morel e
che, dopo essersi tanto sbattuta nel corso dell’opera per estrarre diavoletti, redimere
fedifraghi, debellare angosce, merita un ritratto di pace, riposo e stasi santa.
Nel quadro, la relazione tra il personaggio e i miracoli è invertita: la Santa esce dalla cornice
di nuvole o di luce in cui è spesso relegata e sono i prodigi a farle da sfondo, disposti agli
angoli della composizione e chiusi in quattro fumetti. È possibile riconoscere la casa che
brucia, la nave che affonda, il treno che deraglia e la macchina presa d’assalto dai banditi:
la Santa è quattro volte presente, stilizzata in una linea e un’aureola, colta nel momento del
suo intervento risolutivo. Buzzati non rinuncia al carattere narrativo della propria pittura
neppure quando, finalmente, dipinge Santa Rita una quinta volta, al centro: la donna è sola
e protagonista, disegnata con cura e colta nella sua individualità, eppure dinamica. La sua
divinità si irraggia ben oltre i confini dell’aureola e riempie la composizione di linee mosse;
cespugli di rose vermiglie, fiore che la tradizione agiografica le attribuisce, crescono
rigogliosi tra i fumetti; l’imposizione delle mani è un movimento sinuoso, con le dita arcuate
quasi a evocare un incantesimo.
Santa Rita secondo Buzzati, “giovane e avvenente, [...] con le mani curate e le unghie
laccate”120, è quanto di apocrifo e pop possa essere concepito, così come lo sono i miracoli a
lei attribuiti dalla buon’anima di Toni. Alla luce di questa considerazione, è osare troppo
associare lo sguardo tagliente e il broncio della Santa alle diavolesse dipinte così di
frequente dall’autore? I suoi occhi grandi, freddi e cristallini si alzano al cielo cercando il
divino o per malcelata sopportazione, per il solito gioco crudele di superbia e punizione
inflitto all’uomo borghese?
Il sospetto aumenta se consideriamo che Buzzati non è nuovo alla pratica di associare figure
religiose a donne fatali. Memorabile è il primo incontro tra Laide e Dorigo in Un amore, in
cui:

Lui si ricordò di una Madonna di Antonello da Messina. Il taglio del volto e la bocca
erano identici. La Madonna aveva più dolcezza, certo. Ma lo stesso stampo netto e
genuino.121

La prostituta, ballerina e bambina crudele e la donna più sacra alla tradizione si riscoprono
connesse per un canale inaspettato, attraverso lo sguardo dell’uomo che coglie, in entrambe,
un segno di innocenza. Buzzati immette la stessa purezza nel ritratto pop di Santa Rita,
aggiungendo un’implicita sensualità non per profanare il sacro, ma per santificare il terreno.

120
Viganò, Lorenzo (2012), Postfazione – Dino Buzzati e il miracolo della vita, op.cit., p.98.
121
Buzzati, Dino (2018), Un amore, op.cit, p.14.
44
Le ragioni terrestri per cui Buzzati elegge Santa Rita come protagonista dell’ultima fatica
autoriale si esauriscono qui: in un ritratto di donna.

Rimane da approfondire il motivo celeste, anche se più che ‘celeste’ è ‘blu’: il


personaggio che fa da ponte tra Buzzati e la Santa è, difatti, Yves Klein – pittore
dell’immateriale, proprietario del vuoto, dispersore di monocromie.
I due si conoscono in occasione di uno dei viaggi che Buzzati compie come ‘cronista d’arte’
per il Corriere della Sera. La natura del loro rapporto è esemplificata dall’articolo che
l’autore dedica al ‘folletto’ all’indomani della sua morte, nel 1962: è di simpatia e profonda
comprensione.
Buzzati guarda al percorso esoterico-artistico di Klein con stupore e incanto, affascinato da
quello che, a detta sua, è “uno degli artisti più bizzarri e sconcertanti”122 del secolo scorso,
eccezionale per purezza e genuina stravaganza. L’autore riconosce nell’artista una sincerità,
un’innocenza e una dedizione inusuali, che Klein riversa in un processo di redenzione
condotto secondo leggi private. “Quando lo vidi la prima volta capii subito – era fin troppo
chiaro – che lui ci credeva fino in fondo”123, ricorda Buzzati. La coerenza logica dietro alle
bizzarrie dell’artista, all’impiegare come pennello le fiamme, la pioggia, il vuoto, il corpo,
risiede nella tensione all’immateriale che caratterizza la sua intera vicenda umana e artistica.

L’idea del vuoto, dell’immateriale e dell’indefinibile permeano tutta l’opera


dell’eclettico artista e non possono lasciare indifferente Buzzati che ne acquisirà la
portata innovativa e le cui ricadute troveranno dimora in opere come Poema a fumetti
[...].124

Buzzati e Klein trovano territorio comune in un’ossessione che il primo cerca tutta la vita di
fuggire, il secondo di incontrare: quella per il nulla.
Buzzati combatte il nulla con i mezzi artistici a sua disposizione, dipingendo e scrivendo
per raccontare e così definire, capire, riempire, approssimarsi. Klein, con i propri,
costantemente chiama il nulla, lo evoca e lo invita perché, a un certo punto, sia tutto: “un
puro presentimento, un appello telepatico, un invisibile flusso di pensiero sparso
nell’aria”125 , questo è il suo capolavoro.

Il nulla Buzzati lo chiama ‘mistero’, racconta attorno a esso per definirne i contorni, lo
inchioda alla soglia delle cose, fugge il tempo perché è un mistero che incalza e la morte

122
Buzzati, Dino, Addio al folletto in «Il Corriere della Sera», 9 giugno 1962.
123
Ibidem.
124
Carbone, Annalisa (2016), Dipingere e scrivere per me sono la stessa cosa, op. cit., p.35.
125
Buzzati, Dino, Addio al folletto, op.cit.
45
perché è un mistero che attende; canta l’amore perché lo fa dimenticare. Klein lavora in
direzione opposta: il mistero non va fuggito né risolto – piuttosto sublimato e dilatato.
Poiché la tela non serve lo scopo, l’artista concepisce le Zone di sensibilità pittorica immateriale
(1962): il mistero svolazza in una stanza vuota e può essere acquisito a prezzo d’oro perché
il lingotto corrisposto possa poi essere sparso nella Senna e restituito, infine, al nulla.
Tra chi si presta a questo complicato rituale spicca un nome familiare: Dino Buzzati,
acquirente del nulla [fig.13]. L’autore riporta l’episodio nell’articolo di commiato per Klein:

Mi portò in riva alla Senna, alla presenza di due testimoni, mi consegnò una scatoletta
di plexiglas contenente venti grammi d’oro in fogli. A mia volta io diedi l’oro a lui. Lui
mi diede la ricevuta. Io bruciai la ricevuta. Lui buttò i fogli d’oro nella Senna, la quale
per qualche istante luccicò tutta come ai tempi delle fate.126

Buzzati partecipa al modo in cui Klein si rapporta al nulla con simpatia per la causa,
curiosità per il mezzo e incanto per il risultato. Lui, abituato a riempire, allo sforzo continuo
di sviscerare in immagini e parole quel temutissimo nulla che fagocita, si avvicina a chi,
invece, svuota:

Non esisteva più la tela, non esisteva più il colore, non esisteva neppure la sua presenza
fisica, il fatto artistico si dissolveva nel nulla assoluto e nessuno al mondo doveva venire
a saperlo.127

Il punto zero per Klein e Buzzati è lo stesso nulla.


L’affinità tra i due non si esaurisce in questo: entrambi interpretano il percorso professionale
come processo di guarigione del cosmo e del sé, hanno la stessa attitudine alla rivoluzione
tranquilla, la stessa inclinazione al paradosso e all’ironia, la stessa Santa.

Il culto di Santa Rita è, difatti, parte integrante del percorso esoterico-artistico, cristiano-
alchemico di Yves Klein: la venerazione è particolarmente sentita nella sua città natale,
Nizza, e intensamente praticata dalla madre e dalla zia.
L’artista compie il primo pellegrinaggio a Cascia nel 1957, un mese prima di esporre la
Sensibilità immateriale: Santa Rita è “elemento chiave del sistema, detentrice del potere di
controllo e di intercessione”128. Passando per lei, l’artista si assicura di operare entro l’ordine
divino e giustifica la propria sete di infinito, di vuoto e di bellezza.

126
Buzzati, Dino, Addio al folletto, op.cit.
127
Ibidem.
128
Restany, Pierre (2008), Yves Klein – Il fuoco nel cuore del vuoto, Giampaolo Prearo Editore, Milano, p.46.
46
La Santa è la stessa, il rapporto che Buzzati e Klein stringono con lei diverge: a determinarlo
è la presenza o meno di fede.
Buzzati riconosce la fede di Klein al loro primo incontro, intensa, inamovibile e
irragionevole alla stregua di una ‘scorribanda mentale’, salda ma vasta, comprensiva di una
linea dura e morbida:

Era estremamente sensibile all’ordine divino, che invocava attraverso Santa Rita, santa
protettrice delle cause disperate, o che teatralizzava attraverso la pompa dei rituali
cavallereschi. Questo per quanto riguarda la linea dura della sua fede. Ma il suo
fondamentale dualismo gli faceva ricercare, in opposizione dialettica, una linea morbida
in grado di assumere la logica delle sue contraddizioni.129

Klein muove la rigida morale cattolica che eredita con principi filosofici, esoterici, alchemici
e psicoanalitici che acquisisce, destinati a prolungare il cristianesimo senza annichilirlo – il
tutto in vista dell’assoluta necessità che l’artista attribuisce al proprio procedere, all’urgenza
della ricerca e rivelazione per gradi della propria verità, al bisogno di introdurre gli altri
all’immateriale.
Di questo aspetto “esemplare e messianico”130 il percorso umano e artistico di Buzzati è del
tutto sprovvisto: egli, come abbiamo più volte osservato, racconta per un’esigenza personale
di tradurre, capire ed esorcizzare l’esistenza, colta nelle ossessioni private di un individuo
che non ha intenzione di spiegare o rivelare alcunché – specie perché il suo percorso non
approda alla verità, ma a ciò che può essere considerata a tutti gli effetti una ‘anti-epifania’.
Avremo modo di approfondire il tema nella trattazione di Poema a fumetti: per il momento,
è una considerazione utile all’analisi della differenza tra gli ex voto collezionati da Buzzati
ne I miracoli di Val Morel rispetto al prodotto di fede di Klein.

Nel 1961, Klein si reca a Cascia per consegnare alle suore Agostiniane, custodi del santuario,
un ex voto dedicato a Santa Rita [fig.14].
Si tratta di un cofanetto di plastica suddiviso in scomparti: la parte superiore si compone di
tre vaschette corrispondenti a pigmenti di colore differenti; la parte inferiore contiene tre
lingotti d’oro di peso diverso, frutto della vendita di zone di sensibilità immateriale, adagiati
su un letto di pigmento blu. Nella parte centrale, l’artista ha disposto un testo manoscritto
che contiene il cuore della sua preghiera. Un estratto:

Santa Rita da Cascia, Santa dei casi impossibili e disperati, grazie di tutto l’aiuto così
grande, decisivo e meraviglioso che mi hai dato finora. Infinitamente grazie. Anche se

129
Restany, Pierre (2008), Yves Klein – Il fuoco nel cuore del vuoto, op.cit., p.16.
130
Ibidem.
47
non ne sono personalmente degno, aiutami ancora e sempre nella mia arte e proteggi
tutto ciò che ho creato affinché, nonostante me, sia tutto, sempre, di Grande Bellezza.
Y.K.131

Nella forma e nel contenuto, niente di più diverso da I miracoli di Buzzati.


Klein riconosce in Santa Rita il “passaggio fondamentale verso l’assoluto” 132 : è lei a
intercedere presso l’immateriale; è lei ad attivare la sacralità dei pigmenti contenuti nell’ex
voto, trini perché corrispondenti al Padre, al Figlio e allo Spirito; senza di lei, avvocata dei
casi impossibili, l’impresa di convocazione, manipolazione e produzione del divino non si
sarebbe realizzata; a lei è dedicato per intero il percorso spirituale e artistico di Klein.
Buzzati, d’altro canto, intrattiene con la Santa un rapporto decisamente più informale: ne I
miracoli di Val Morel, la figura religiosa è un agente narrativo che, come già osservato, ha
molto più a che fare col terreno e con l’esistenza piena che col vuoto celeste. Il regno del
sensibile in cui Buzzati la inserisce è assolutamente estroflesso, tangibile e visibile: tutto ha
corpo, uomini e diavoli, fenomeni naturali e pensieri. Santa Rita stessa è materia dipinta da
un ‘figurativo’: per operare miracoli è lei a discendere e, nel processo, a guadagnare una
massa e un volume.
Il lavoro di Klein segue la direttrice opposta: tutto ascende, cambia di stato e si sublima,
sintetizzandosi in “questo vuoto colmo, questo Niente che afferma il Tutto Possibile, questo
soprannaturale silenzio astenico del colore”133.
Klein vede nella Santa un agente dell’immateriale, Buzzati un elemento in più da sottrarre
a esso. L’artista, in lei, trova una sintesi, l’autore una ragione in più per allungare il racconto,
per guadagnare tempo, per opporsi alla tensione al vuoto che si fa più forte negli ultimi
mesi della sua esistenza, quando il mistero della malattia preannuncia quello della morte.

La Santa è la stessa e c’è un motivo se due personalità artistiche, tanto affini quanto distinte,
l’hanno eletta come termine estremo della propria opera – Klein consacrandogliela per
intero, Buzzati dedicandole l’ultima storia dipinta. La ragione risiede nella sua speciale
capacità di realizzare l’impossibile, un impossibile soggettivo e diametralmente opposto:
per Klein è il raggiungimento dell’assoluto, per Buzzati è la possibilità che l’assoluto lo
risparmi.

131
Politi, Giancarlo, Una inaspettata scoperta su Yves Klein, in flash—art.it, 30 maggio 2019 [consultato in data 4 luglio
2020].
132
Scaraffia, Lucetta (2014), La santa degli impossibili – Rita da Cascia tra devozione e arte contemporanea, Vita e
Pensiero, Milano, p.164.
133
Restany, Pierre (1957), L’epoca blu, il secondo minuto della verità, in Yves Klein: Proposte monocrome, epoca blu,
Edizioni della Galleria Apollinaire, Milano, in Janulardo, Ettore, Yves Klein. Disperdere il blu, in artapp.it, 8 gennaio
2020 [consultato in data 4 luglio 2020].
48
Solo un miracolo, sembra dire Buzzati, può cambiare il destino, può sconfiggere la morte,
e non solo quella inferta dai vespilloni o dalle formiche mentali, ma anche, e soprattutto,
quella che lo sta raggiungendo. Solo un miracolo, sembra azzardare – lui non credente –
può portare con sé l'antidoto (divino) alla fine eterna.134

Rimane da augurarsi che la grazia di Santa Rita abbia raggiunto entrambi i ‘folletti’: che le
ultime parole di Klein, “Je vais entrer dans le plus grand atelier du monde. Et je n'y ferai
que des œuvres immatérielles”135, siano state esaudite; che Buzzati sia pervenuto a un aldilà
diverso da quello, svuotato e amarissimo, presagito in Poema a fumetti. “Dopotutto, Rita è la
santa degli impossibili, e non ha mai deluso nessuno”136.

134
Viganò, Lorenzo, L'ultimo segreto di Buzzati in «Il Corriere della Sera», 24 gennaio 2012.
135
Yves Klein Archives, Biography, in yvesklein.com [consultato in data 3 febbraio 2021].
136
Scaraffia, Lucetta (2014), La santa degli impossibili – Rita da Cascia tra devozione e arte contemporanea, op.cit.,
p.167.
49
fig.12: Ritratto di Santa Rita da Cascia di Dino Buzzati.

50
fig.13: Yves Klein e Dino Buzzati.

fig.14: L’ex voto di Yves Klein per Santa Rita da Cascia.

51
2.3. Un confronto a quattr’occhi

Un’ultima osservazione è dovuta: se I miracoli di Val Morel è da considerarsi il


testamento artistico di Buzzati, l’ultima stazione del suo percorso umano e creativo, cosa
rimane in esso della tappa precedente, ovvero di Poema a fumetti? Cosa sceglie di salvare,
l’autore, di un’opera tanto incompresa, trattata con imbarazzo da larga parte della critica o,
nel migliore dei casi, scusata e perdonata?
Tutto: il senso profondo del Poema scivola con naturalezza nella raccolta, tra gli ex voto,
trova il suo spazio e lo occupa con garbo, senza destare sospetti nell’establishment distratto,
impegnato a ridere dei goffi prodigi di Santa Rita.

Basta il primo ex voto della raccolta [fig. 15] a suggellare il legame tra le due opere a fumetti:
è dedicato al Colombre, “un pesce di grandi dimensioni, spaventoso a vedersi,
estremamente raro”137 – ma, soprattutto, dotato di due paia di occhi, proprio come Almerina
ne Le storie dipinte ed Eura nel Poema. In tutte le sue manifestazioni nell’universo buzzatiano,
il Colombre ha il doppio sguardo tipico degli agenti del mistero, ‘mostri’ perché
meravigliosi e sovrumani, depositari del segreto che l’uomo non sa raccontare.
Gli studiosi citati da Buzzati nel testo che accompagna l’ex voto preferiscono negare la
narrazione del Colombre anziché approfondirla: considerano la creatura “una arbitraria
contraffazione della grande Balena Bianca”138, quindi metaletteratura, una finzione al cubo.
Nel racconto di Buzzati del ‘66, in cui il Colombre debutta da protagonista, i naturalisti
“stranamente lo ignorano”139 e “qualcuno perfino sostiene che non esiste”140.
Come già osservato, Buzzati tende a tratteggiare un’immagine poco virtuosa della scienza
ufficiale e dei suoi non particolarmente perspicaci rappresentanti, considerati alla stregua
di scagnozzi della ragione positiva, disabituati alla sacralità del mistero, maldisposti
rispetto al suo alto grado di inspiegabilità – accolto e compreso, e senza esitazione, dalla
scienza popolare che, non a caso, mostra grande familiarità col Colombre: “a seconda dei
mari, e delle genti che ne abitano le rive, viene anche chiamato kolomber, kahloubrha,
kalonga, kalu-balu, chalung-gra”141.
Santa Rita secondo Buzzati, pop e folkloristica com’è, appartiene allo stesso ordine di cose
del Colombre, perciò ne accoglie l’esistenza, lo combatte e salva la nave: così è narrato

137
Buzzati, Dino (1992), Il Colombre, in digilander.libero.it [consultato in data 6 settembre 2020].
138
Buzzati, Dino (2012) I miracoli di Val Morel, op. cit., p.14.
139
Buzzati, Dino (1992), Il Colombre, op.cit.
140
Ibidem.
141
Ibidem.
52
dall’ex voto che lascia, però, un vuoto interpretativo rispetto alla vera natura della minaccia
scampata.
La leggenda riportata nel racconto del ‘66 prevede che lo scopo del mostro sia di ‘divorare’
la sua vittima. L’ex voto informa che, stavolta, lo sfortunato è il Capitano Simone Lak, a
comando del Maria Immacolata: nel disegno di Buzzati la nave, vento in poppa, è una
tensione di linee oblique in fuga dalla creatura che la incalza, proprio il Colombre, immenso
ed elettrico, la bocca spalancata, i quattro occhi irresistibili. Per quanto stazza e aspetto non
siano rassicuranti, i denti della feroce creatura sono piccoli e radi e la grande bocca più
disposta al dialogo che alla digestione. Sembra voler dire ‘una certa cosa’ che la nave non è
disposta ad ascoltare – e quindi fugge, a cavallo delle onde del tempo che non ammettono
ritorno.

Santa Rita, evidentemente, favorisce la fuga e guadagna così la riconoscenza del Capitano
Lak: i loro due ritratti, un rettangolo lui, un ovale lei, incorniciano l’inscrizione interna all’ex
voto.
Eppure Buzzati, nel commento che precede il disegno, non prende le parti né della vittima
né della Santa, ma di quel mostro che “non ha mai fatto male a nessuno”142.
In assenza di un antagonista, il quadro si complica: se il Colombre, parola di Buzzati, non si
è mai macchiato di “azioni disonorevoli”143, a che pro l’intervento di Santa Rita? Che cosa è
stato risparmiato al Capitano Lak?
“Come è tutto sbagliato”144 sospira Stefano Roi, l’altra ‘vittima’ del ‘mostro’ nel racconto del
‘66.

Perché giustizia sia fatta, occorre innanzitutto capire cos’è un Colombre.


Nel commento all’ex voto, Buzzati si guarda bene dal definire cos’è, concentrandosi
piuttosto su cosa non è. Nel racconto del ‘66, l’autore lo descrive assumendo il punto di vista
parziale di Stefano Roi: “tremendo e misterioso” 145 , strumento del fato, un “funesto e
insieme affascinante miraggio”146.
Il padre di Stefano è il capitano e il proprietario di un bel veliero: va da sé che il figlio erediti
la sua professione. Eppure, la prima volta che Stefano esce per mare, avvista tra le onde
qualcosa che corregge il suo destino: il leggendario Colombre.
Il padre lo avverte:

142
Buzzati, Dino (2012) I miracoli di Val Morel, op. cit., p.14.
143
Ibidem.
144
Buzzati, Dino (1992), Il Colombre, op.cit.
145
Ibidem.
146
Ibidem.
53
È il pesce che i marinai sopra tutti temono, in ogni mare del mondo. È uno squalo
tremendo e misterioso, più astuto dell’uomo. Per motivi che forse nessuno saprà mai,
sceglie la sua vittima e, quando l’ha scelta la insegue per anni e anni, per una intera vita,
finché è riuscito a divorarla.147

La vita del ragazzo è segnata: dovrà spenderla in fuga dal mostro che l’ha scelto.
E così sia: Stefano trascorre alcuni anni sulla terra, lontano dalla minaccia del Colombre,
finché il richiamo del mare si fa irresistibile. Il tempo passa e Stefano naviga e naviga,
racimolando un discreto successo e una discreta fortuna, adombrati però dal mistero che lo
bracca da vicino. Vittima e mostro invecchiano insieme, in un inseguimento placido e
costante, senza fine.

Fino a che la fine arriva: Stefano sente la morte vicina, perciò decide di affrontare il ‘suo’
Colombre. Sale su una barchetta, gli va incontro e sguaina l’arpione, pronto a concentrare
tutte le sue energie di vecchio nello sforzo di uccidere il mostro – quando quello, a sorpresa,
gli svela il vero motivo per cui lo ha inseguito: il Colombre aveva il compito di donare a
Stefano la Perla del Mare, destinata a lui da sempre, che dà a chi la possiede tutto ciò che c’è
di desiderabile, ovvero fortuna, amore, ricchezza e pace dell’animo.
“Ma era ormai troppo tardi”148, commenta il narratore, con parole che sembrano un rintocco
funebre e che, in parte, riecheggiano quelle rivolte dal guardiano del portone all’uomo di
campagna nel celebre racconto kafkiano: “Questa porta era destinata a te. Ora vado a
chiuderla”149.

Che il Capitano Lak dell’ex voto sia vittima dello stesso equivoco? Che l’intervento di Santa
Rita sia tutt’altro che salvifico, ma dannato? Possibile che la Santa abbia ostacolato
un’occasione di felicità, non abbia saputo scrutare le ragioni del Colombre, che il mistero sia
al di fuori della sua divina portata?
Sono domande di difficile risposta e l’autore non ci aiuta: nel commento all’ex voto, come
già osservato, egli si limita ad attestare l’esistenza del Colombre e la natura buona della
bestia, nonostante “lo spavento dei marinai alla sua vista, grandissimo”150. È forse da quello
spavento che Santa Rita protegge il Capitano Lak? È abbastanza per dedicarle un ex voto?
Se solo la nave potesse tornare indietro, girare le vele, andare incontro al mostro e capire.
Ma, come per Stefano Roi, è ormai troppo tardi.

147
Buzzati, Dino (1992), Il Colombre, op.cit.
148
Ibidem.
149
Kafka, Franz (1966), Davanti alla legge, in studioroma.istitutosvizzero.it [consultato in data 3 febbraio 2021].
150
Buzzati, Dino (2012) I miracoli di Val Morel, op. cit., p.14.
54
Rimane un mistero, un nocciolo duro che resiste a ogni tentativo d’interpretazione,
un’incognita da cui fuggire a vele spiegate.
È quel che accade fuori e dentro la letteratura, dato che Buzzati, come abbiamo più volte
ricordato, scrive, disegna, dedica la sua intera esperienza umana e professionale
all’esorcismo del mistero, di un nulla che ‘divora’ colui che insegue. Egli resiste
riempiendolo di segni e di parole: le vele del Maria Immacolata sembrano virgole
d’inchiostro, gonfiate dal vento.
Eppure, come i suoi personaggi, l’autore non può che essere fatalmente attratto dall’abisso.
Il mistero l’ha rincorso e lui ha rincorso il mistero, così come il Colombre insegue Stefano e
Stefano torna al mare per lasciarsi inseguire: “Egli sapeva che quella era la sua maledizione
e la sua condanna, ma proprio per questo, forse, non trovava la forza di staccarsene”151.
I ruoli intercambiabili nella fuga, il paradosso di un perseguitato che cerca persecuzione,
questa confusione di preda e cacciatore è il succo della vicenda, fantastica e reale, di Stefano
e di Dino.

Nel racconto del ‘66, l’autore scrive rispetto al personaggio:

Stefano non mollava. La ininterrotta minaccia che lo incalzava pareva anzi moltiplicare
la sua volontà, la sua passione per il mare, il suo ardimento nelle ore di lotta e di
pericolo.152

Ecco la risposta che pacifica inseguitore e inseguito, il mistero e l’uomo che lo fugge e lo
chiama; ed ecco il riferimento più esplicito a Poema a fumetti, il ponte tra il senso profondo
dell’opera del ‘69 e il successivo (e conclusivo) I miracoli di Val Morel.
Per scioglierlo, torniamo a Stefano Roi: alla fine del racconto, egli scopre che il Colombre
che ha temuto e considerato nemico per tutta la vita, in realtà, intendeva donargli successo,
benessere, felicità.
Ciò che c’è di interessante è che Stefano avrebbe potuto ottenere tutto questo senza l’ausilio
della Perla del Mare; anzi, già lo possiede e vi rinuncia per scegliere il mistero che lo aveva
a sua volta scelto: saluta gli amici e la fortuna per trovare il suo destino in quella corsa.

Grandi sono le soddisfazioni di una vita laboriosa, agiata e tranquilla, ma ancora più
grande è l'attrazione dell'abisso.153

151
Buzzati, Dino (1992), Il Colombre, op.cit.
152
Ibidem.
153
Ibidem.
55
Stefano cede a quel fascino e dedica la sua vita a negarlo e approfondirlo: così facendo,
condanna la sua esistenza, eppure la trascorre con ardore, hybris, vivo tormento.
La vita ‘agiata e tranquilla’ cui rinuncia ricorda da vicino lo stato di prevedibilità, uniformità
e noia in cui si trascinano gli abitanti dell’aldilà di Poema a fumetti: “Sono felici!
Sbadigliano”154.
Ai trapassati del Poema manca un Colombre, qualcosa che li incalzi e moltiplichi la loro
volontà, accenda le loro passioni, faccia dire ‘una certa cosa’ al vento, al buio:

NON DICE PIÙ NIENTE L’ULULATO DEI CANI


NELLA VASTA CAMPAGNA AL LUME DI LUNA
NÉ LA STRADA BIANCA E DESERTA CHE SI PERDE
DI LÀ DELLA COLLINA ALL’ORA DEL TRAMONTO
PERCHÉ DIETRO NON ESISTE PIÙ L’IGNOTO
CIOÈ IL NERO, LA FINE, L’ULTIMA SEPARAZIONE, L’ADDIO.155

Stefano, inseguito dal Colombre, sarà pur “amaramente infelice”156, consumato dallo stato
d’allarme e inquietudine che sempre lo accompagna, eppure vive e non sbadiglia.
Che il Colombre sia, allora, la mortalità dell’uomo? Il ‘nero, la fine, l’ultima separazione,
l’addio’? Che Stefano fugga l’idea di morire, di finire, di cui ha avuto una percezione così
chiara, così presto?
Quel che è certo è che il ‘grandissimo spavento’ avvertito dai marinai alla vista del Colombre
è ciò che vivifica le cose e la sua assenza è la dannazione dei morti.
Eppure, come commenta Stefano alla fine della vicenda, è tutto sbagliato: l’errore dei vivi è
quello di non capire la carica positiva e salvifica di quel mistero che li incalza, di non provare
gratitudine per il terrore ma appellarsi a Santa Rita per esserne risparmiati.
Una lezione, questa, che il narratore dà ai suoi personaggi solo per impartirla a se stesso:

Che la morte non solo può essere dimenticata come era successo ad Antonio Dorigo in
Un amore grazie alla tormentata passione per Laide, ma può, addirittura, essere
sconfitta.157

154
Buzzati, Dino (2017), Poema a fumetti, op.cit., p.90.
155
Buzzati, Dino (1992), Il Colombre, op.cit.
156
Buzzati, Dino (2017), Poema a fumetti, op.cit., p.90.
157
Viganò, Lorenzo (2012), Postfazione – Dino Buzzati e il miracolo della vita, op.cit., p.108.
56
Laddove ‘sconfitta’ significa accolta, compresa, considerata per quello che è, ovvero il
termine massimo e impossibile che dà senso a tutto il resto: “la cara morte” 158 , il caro
Colombre che, nonostante tutto, Stefano sente di non voler deludere o tradire.
L’autore, come il personaggio, fugge e cerca il suo Colombre per tutta la vita: si scherma dal
suo doppio sguardo irresistibile con trucchetti collaudati, che siano il racconto o l’amore o
una Santa; in un’unica occasione lo addomestica e lo carezza: proprio nel Poema.
Ciò che la maggior parte della critica non coglie di Poema a fumetti, e per cui trascura il suo
grado senza pari di significanza, è il fatto che in quell’opera e non altrove Buzzati affronta
e risolve il suo Colombre; che poesia e fumetto permettono, qui e in nessun altro luogo
letterario, pittorico o metafisico, una seconda possibilità; la nave può girare le vele, è
concesso il ritorno, c’è un lieto fine per la ‘vittima’ e il ‘mostro’ che non prevede l’intervento
di Santa Rita né i soliti artifici volti a ritardare la chiamata dell’abisso. In Poema a fumetti,
Buzzati non fugge.
Quando, finalmente, guarda in fondo ai quattro occhi del mistero, capisce ciò che Stefano
Roi scopre a fine vita: che il Colombre, e quindi la morte, è buona, mansueta e condizione
d’esistenza di ciò che c’è di bello in vita. Attraverso il percorso di discesa e ritorno del
protagonista del Poema nell’aldilà, l’autore fa la pace con la madre di tutte le sue ossessioni.

Non è difficile credere che l’establishment abbia trovato più digeribile I miracoli di Val Morel,
abbia parteggiato per la Santa anziché per il Colombre, preferito ridere rispetto alla gravitas.
Va bene così, purché a Buzzati sia concesso di lasciare il mondo terreno sorridendo come il
protagonista de Il deserto dei Tartari, Giovanni Drogo, con gli occhi rivolti all’“ultima
porzione di stelle” 159 , consapevole che nell’aldilà senza morte e senza spavento “non
palpitano come lassù”160.

158
Viganò, Lorenzo (2012), Postfazione – Dino Buzzati e il miracolo della vita, op.cit., p.112.
159
Buzzati, Dino (2016), Il deserto dei Tartari, Mondadori, Milano, p.
160
Buzzati, Dino (2017), Poema a fumetti, op.cit., p.90.
57
fig.15: Il Colombre.

58
II. Una cosa completamente sua

Dunque, ci siamo.
La strada è battuta, percorsa dall’inizio alla fine: da quando Buzzati, pittore errabondo e
reietto, ‘prese le sue cose e si avviò’ ne Le storie dipinte, all’incontro col miracolo e una Santa.
Rimane da esplorare cosa c’è in mezzo, il punto in cui la strada si annoda: proprio Poema a
fumetti. L’opera esce nel settembre ‘69.

Per quanto il cammino di Buzzati prescinda dalle suggestioni della critica, le accuse rivolte
a Un amore, 1963, rappresentano un precedente da soppesare: la storia del borghese e della
squillo raccoglie reazioni indignate, “con critici e lettori che accusavano l’autore di aver
tradito la narrativa fantastica per un libro realista, i suoi temi esistenziali – l’attesa, il tempo
che passa, le contraddizioni e le debolezze dell’uomo, la morte – per un argomento non solo
scabroso, ma ancora tabù”161.
È il cruccio di Buzzati: quello di non essere capito, di essere guardato con imbarazzo e
considerato con sospetto non appena abbandona l’incanto della metafora per il disincanto
dell’esperienza umana.
Eppure, l’accusa di critici e lettori è infondata: i temi che tratta Un amore sono quelli che,
ossessivi, ciclicamente ritornano, vita, tempo e morte.
È l’establishment a tradire Buzzati e non viceversa, pronto a fargli le fusa quando l’autore
agisce in un contesto onirico, metafisico o di fiaba e ad arruffare il pelo ed estrarre gli artigli
quando trasferisce l’identica operazione di ricerca nella realtà.
Cosa distingue l’attesa dei Tartari da quella di una chiamata di Laide? Perché la prima è
geniale e la seconda scabrosa? Che si riduca tutto al malessere generato dalla realizzazione
di quanto poca, patetica e banale sia la vita svuotata dei suoi simboli?

In ogni caso Buzzati, nel suo stile, fa tesoro delle perplessità di lettori e intellettuali per poi
disertarle completamente con l’opera successiva, il famigerato Poema.
Lo smacco più grande per la critica, probabilmente, è il fatto che l’autore scriva e disegni
con intenti nient’affatto provocatori: le opinioni altrui, che siano autorevoli, amiche o piccate,
non spostano di una virgola il processo creativo buzzatiano. Non che l’autore non le ascolti,
non le subisca e non si misuri con esse: nel momento in cui traccia un segno o scrive una
parola, però, lo fa per sé e per nessun altro, vanificando in un attimo il gran chiacchiericcio
che si leva all’uscita di ogni sua opera.

161
Viganò, Lorenzo (2017), La discesa nell’Aldilà: l’ultimo viaggio di Dino Buzzati, op.cit., p.235.
59
Vale per Un amore, “L’ho scritto perché non potevo farne a meno”162, come per il Poema, “È
la faccenda che mi interessa più di ogni cosa”163. Buzzati porta avanti un’azione sovversiva
con snervante, apparente inconsapevolezza e in giacca da borghese – “con il suo solito
candore”164.

D’altra parte, abbiamo già avuto modo di dedurre dal confronto con Klein quanto l’opera
di Buzzati sia povera di intenti messianici, pedagogici o epifanici: è un lavoro introflesso,
centripeto, uno scavo psicologico personale compilato per sé, come un diario, e solo in un
momento successivo e solo collateralmente consegnato agli altri. È vero per la sua opera in
generale e per Poema a fumetti in particolare:

Capita nella vita di fare cose che piacciono senza riserve, cose che vengono su dai visceri.
Poema a fumetti è per me una di queste, come Il deserto dei Tartari, come Un amore.165

Il Poema ribolle nei visceri di Buzzati almeno dal ‘63 – anno di Un amore, a dimostrazione
che la reazione dei critici non può nulla contro le urgenze creative dell’autore. Il settembre
di quell’anno egli rilascia un’intervista in cui prefigura vagamente “una serie di piccole
scene dipinte, che svolgano un racconto, completate da brevi poesie, scritte alla base della
tela”166.
Negli anni successivi, tracce del Poema in formazione sono rinvenibili nella corrispondenza
scambiata tra Buzzati e l’allora direttore letterario della Mondadori, Vittorio Sereni: da poeta
a poeta, l’autore parla del suo progetto in termini estremamente lucidi dal punto di vista
tecnico e contenutistico. “Non ridere”167, gli scrive. Infine, nonostante alcuni momenti di
incertezza e scoramento, il libro si farà: esce nelle librerie nel 1969 con lo zampino della
moglie di Buzzati, Almerina, che si accorda direttamente con Arnoldo Mondadori.

Ma cos’è questo Poema per cui Buzzati teme lo scherno? Perché pensa, a più riprese, che
l’idea non vedrà mai la luce se non “tra vent’anni”168, quando il suo autore non ci sarà più?

162
Viganò, Lorenzo (2017), La discesa nell’Aldilà: l’ultimo viaggio di Dino Buzzati, op.cit., p.235.
163
Ivi, p.236.
164
Ivi, p.241.
165
Ivi, p.225.
166
Ivi, p.231.
167
Ivi, p.232.
168
Ivi, p.235.
60
“In pratica si tratta, horribile dictu, di un poema in prosa e poesia, fatto di disegni e
parole” 169 spiega per scritto a Sereni: un oggetto due volte ibrido e che quindi avrebbe
doppiamente messo in difficoltà editori, critici e lettori.
L’unico a vivere con disinvoltura la genesi e l’uscita dell’opera, salvo i momenti di sconforto
in cui teme per la sua pubblicazione e ricezione, è proprio l’autore: con Poema a fumetti,
Buzzati traccia un autoritratto, attraversa lo specchio; il risultato è un’opera difforme,
scomoda e scivolosa, che gli somiglia. “Se non piace vuol dire che non piaccio io,
pazienza”170, sospira.

Buzzati ancora una volta ci racconta se stesso, si consegna a noi senza veli né ipocrisie,
onestamente.171

Il Poema ha le contraddizioni, le insicurezze, i dubbi e l’innegabile, grande poesia di ciò che


vive. È un impasto di suggestioni e memoria cui Buzzati si dedica con la serietà che lo
caratterizza, poco importa se la materia, stavolta, non è un fatto di cronaca, una fiaba o un
sogno, ma lo spettacolo delle sue viscere – da leggere come gli aruspici latini leggevano
quelle animali, con predisposizione al mistero e stomaco forte.
Non sorprende lo scetticismo di Buzzati rispetto alla ricezione del suo Poema, né il fatto che
più di un critico rinunci alla discesa: chi, invece, ha abbastanza fantasia per improvvisarsi
aruspice, guadagna “cose nuovissime e poeticamente molto forti”172, oltre alla possibilità di
guardare Buzzati come non si è mai lasciato vedere, un nudo frontale.

169
Mondadori, Fondazione, Lettera di Dino Buzzati a Vittorio Sereni, anni ’60, in imprese.san.beniculturali.it
[consultato in data 3 febbraio 2021].
170
Viganò, Lorenzo (2017), La discesa nell’Aldilà: l’ultimo viaggio di Dino Buzzati, op.cit., p.226.
171
Ivi, p.239.
172
Ivi, p.232.
61
1. L’autore ringrazia

I temerari che si avventurino nel Poema possono contare sulla guida gentile di Buzzati
che, ancor prima dell’inizio del viaggio, fornisce al lettore una cartina: gli svincoli e gli
incroci corrispondono ai nomi delle persone che l’autore sceglie di ringraziare in una nota
scritta in piccolo e siglata in minuscolo, che introduce l’opera.
Buzzati tende un filo che il lettore può seguire obbediente oppure intrecciare e complicare
a sua discrezione, aggiungendo nodi e deviazioni. Il viaggio interiore negli inferi diventa,
così, una gita in comitiva, cui partecipare investigando, decifrando e interpretando a piacere,
tenendo a mente un’unica condizione: la matassa non va sbrogliata.

Più cose di questo libro si vengono a sapere, più il suo mistero aumenta; più ci tuffiamo
nelle sue pagine, credendo di averlo capito, più Poema si moltiplica, si ramifica e ci
rimanda sempre a qualcos’altro.173

Il primo nome citato è quello del modello che ha ispirato il disegno di Orfi, protagonista di
Poema a fumetti: Antonio Recalcati, ‘pittore’. La specifica rispetto la sua professione è
sospetta: che Buzzati voglia indicare una chiave di lettura autobiografica in più?
Ogni nome della lista si presta a questo gioco dei perché; Buzzati ringrazia degli “utili
consigli” 174 i personaggi più disparati, appartenenti al mondo dell’arte, dell’eros, della
letteratura e della cultura pop – consueto calderone di suggestioni. A ognuno di essi è
associato il numero della pagina ideata apparentemente sotto loro consiglio: pagina 27 per
i tre architetti Belgioioso, Peressutti e Rogers, responsabili della costruzione della Torre
Velasca, pagine da 194 a 197 per Fellini e la sua idea del treno a più piani dei trapassati, e
così via.

Quella che a prima vista sembra una raccolta di informazioni di servizio, piuttosto freddina,
si trasforma prontamente in un “serissimo gioco”175 articolato su più livelli.
Alessandro del Puppo ne individua almeno tre176: quello delle ‘deduzioni dichiarate’, “fonti
figurative il cui debito è esplicitamente dichiarato da Buzzati”177, ovvero i nomi della lista;
quello delle ‘deduzioni documentabili’, ovvero le ispirazioni non dichiarate ma “verificabili

173
Viganò, Lorenzo (2017), La discesa nell’Aldilà: l’ultimo viaggio di Dino Buzzati, op.cit., p.245.
174
Buzzati, Dino (2017), Poema a fumetti, op.cit., p.4.
175
Viganò, Lorenzo (2017), La discesa nell’Aldilà: l’ultimo viaggio di Dino Buzzati, op.cit., p.243.
176
Del Puppo, Alessandro (2005), Il laboratorio di «Poema a fumetti»: tra metafisica e «surrealismo», in «Poema a
fumetti» di Dino Buzzati nella cultura degli anni ’60 tra fumetto, fotografia e arti visive, op.cit., p.85.
177
Ibidem.
62
con un semplice confronto”178; infine, quello delle ‘deduzioni congetturali’, fonti che “non
sono dichiarate e nemmeno dimostrabili filologicamente” 179 , massimo divertimento per
l’autore e per il lettore che partecipi al gioco. Trattandosi di Buzzati, i tre tipi di deduzione
si confondono e si compenetrano, per cui l’una conduce all’altra, la conferma oppure la
confuta: vale tutto purché si continui a giocare. Il Poema si lascia percorrere casella dopo
casella, la sua lettura è un tiro di dadi, un sistema di imprevisti e probabilità, un continuo
tornare al via:

Una volta capito il meccanismo, il gioco potrebbe continuare all’infinito. Si apre. Offre
suggerimenti, suggestioni che ognuno può cogliere e sviluppare a piacere sulla trama
della propria memoria.180

E allora giochiamo.
Nell’interesse del nostro lavoro, selezioneremo tre nomi dalle ‘deduzioni dichiarate’ per
ricavare alcune indicazioni utili rispetto la struttura di Poema a fumetti ancor prima di
avventurarci nella lettura e analisi dei suoi contenuti.
I prescelti sono Salvador Dalì, Mademoiselle Féline e Caspar David Friedrich, citati in
quest’ordine nella lista di ringraziamenti siglata d.b.: il surrealista, la Venere nera e il pittore
tedesco d’età romantica, in rappresentanza della spensierata varietà dei riferimenti culturali
buzzatiani, della loro apparente casualità allegra che tormenta i critici.

178
Del Puppo, Alessandro (2005), Il laboratorio di «Poema a fumetti»: tra metafisica e «surrealismo», op.cit., p.85.
179
Ibidem.
180
Viganò, Lorenzo (2017), La discesa nell’Aldilà: l’ultimo viaggio di Dino Buzzati, op.cit., p.244.
63
1.2. La persistenza della città

Il nome di Salvador Dalì è associato a pagina 33 [fig.16] di Poema a fumetti, in


particolare al telefono che, per effetto della stanchezza che ha colto improvvisamente
l’intera città, si scioglie.
Lorenzo Viganò chiarifica che il riferimento è al Telefono Aragosta d’artista, oggetto di
design che combina un elemento di uso comune e uno anomalo, erotico e incongruo:
“Perché, quando chiedo un’aragosta all’americana in un ristorante, non mi portano mai un
telefono alla griglia?”181 si chiede Dalì nella sua autobiografia, riassumendo il Surrealismo.

Dalla ‘deduzione dichiarata’, ovvero il nome di Dalì e la pagina del Poema a lui associata,
Viganò ha tratto una ‘deduzione documentabile’, ovvero il confronto tra telefoni, quello
stanco buzzatiano e quello aragosta.
Partecipiamo anche noi al gioco dell’autore e, partendo dalla ‘deduzione dichiarata’,
approdiamo a una conclusione diversa rispetto a quella tratta da Viganò. Perché essa abbia
comunque una solida base argomentativa, occorre contestualizzare pagina 33 all’interno
della narrazione.

Il testo che accompagna le immagini è il seguente:

MA
DENG DENG DENG!
IN QUESTO PRECISO MOMENTO
LA STORIA COMINCIA
UNA SERA CHE
LUI STANCO UNA
SERA CHE
ANCHE LA CITTÀ ERA STANCA
ANCHE I TELEFONI
ANCHE LE ANTENNE TV
FORSE ANCHE LA TERRA È STANCA
E SI STA
AFFLOSCIANDO
SULLE GINOCCHIA
DI DIO.182

181
The Dalì Universe, Telefono Aragosta, in thedaliuniverse.com, 20 gennaio 2017 [consultato in data 19 ottobre
2020.]
182
Buzzati, Dino (2017), Poema a fumetti, op.cit., pp.32-34.
64
La storia narrata da Poema a fumetti comincia ‘in quel preciso momento’ – una formula cara
a Buzzati, titolo della raccolta di racconti brevi, elzeviri e pensieri, di “coriandoli di
poesia”183 usciti nel 1950 e arricchiti nel corso degli anni. ‘In quel preciso momento’ è una
combinazione di parole prodigiosa per chi, come Buzzati, è così dolorosamente consapevole
del tempo che passa: è una ricetta che fissa l’istante, precisamente quello e nessun altro, in
cui il racconto comincia.
‘In quel preciso momento’ è introdotto da un ‘ma’ avversativo e da una curiosa scampanata,
resa dalla combinazione del disegno con la parola onomatopeica. La coincidenza di elementi
– ovvero il suono ripetitivo e il torpore che immediatamente investe il protagonista del
Poema, la mollezza che si irradia per la città, colpisce telefoni e antenne tv e coinvolge, ‘forse’,
il mondo intero – ricorda un’ipnosi.
Le campane non assolvono alla loro normale funzione, quella di scandire le ore: segnalano,
piuttosto, l’entrata in trance del protagonista, che trascina con sé l’ambientazione e il lettore,
incantato dal moto ondulatorio di disegni e parole.
‘Una sera che / lui stanco una / sera che’ è un pendolo: Orfi fissa il testo stregato [fig.17], la
testa appoggiata sul gomito, cercando di resistere alla forza della narrazione che gli
appesantisce le palpebre. Nella pagina successiva, la 33, tutte le cose sono colte da una
misteriosa mollezza: i palazzi, i telefoni e le antenne tv, e infine, a pagina 34, il mondo intero,
che poggia sulle ‘ginocchia di Dio’ come un pallone sgonfio.
Sono dunque tre pagine ipnotiche, funzionali all’inizio vero e proprio della storia, necessarie
a contestualizzare il fatto entro un orizzonte allucinato. L’abbandono all’inconscio sembra
la condizione d’esistenza del racconto, teoria avvalorata dalla conclusione del Poema, per
cui tutto è stato sogno, o forse fiaba, o forse no: “un’epifania oscura, mossa dall’istinto della
paura e dal sentimento del caso”184.

Proprio tra queste pagine, che parlano di inconscio, tempismo e mollezza, Buzzati decide di
seminare il riferimento a Salvador Dalì: si consuma, allora, “una sorta di contaminazione”185
tra il Telefono Aragosta e il celeberrimo La persistenza della memoria (1931) [fig.18], ispirazione
che ci proponiamo di approfondire.
Dalì ricorda nella sua autobiografia: “E il giorno in cui decisi di dipingere orologi, li dipinsi
molli. Accadde una sera che mi sentivo stanco [...]”186, proprio come Orfi, la città, i telefoni,
le antenne e il mondo la sera in cui comincia Poema a fumetti.

183
Viganò, Lorenzo (2017), La discesa nell’Aldilà: l’ultimo viaggio di Dino Buzzati, op.cit., p. 226.
184
Del Puppo, Alessandro (2005), Il laboratorio di «Poema a fumetti»: tra metafisica e «surrealismo», op.cit., p.89.
185
Del Puppo, Alessandro (2002), Buzzati 1969: il “Poema” e la pittura, in Buzzati 1969: il laboratorio di “Poema a
fumetti”, op.cit., p.26.
186
Nicosia, Fiorella (2002), Dalì, in Vita d'artista, Giunti Editore, Firenze, p.43.
65
Il soggetto de La persistenza della memoria è la liquefazione del tempo: i tre orologi ritratti si
deformano e si decompongono; le ore di un quarto orologio sono segnate da formiche
brulicanti. Rimane ben poco di ‘persistente’: non la memoria, né il tempo, né la parvenza
umana adagiata sulla spiaggia, forse solo il paesaggio mentale che fa da sfondo,
trasposizione visionaria di quello della costa Brava.

La distorsione operata nel quadro è la stessa che Buzzati pratica su Orfi, sull’ambiente in
cui è narrativamente inserito e sul lettore:

La pittura poteva offrire al testo del Poema una scenografia fantastica, a sostegno di
un’atemporale ambientazione onirica.187

L’ipnosi esercitata dall’autore colpisce, innanzitutto, la sua opera: la narrazione si squaglia


per aprirsi e accogliere in sé la possibilità di un viaggio agli inferi, assurdo eppure
verosimile – surrealista.
La seconda vittima è il lettore: sedotto da parole e immagini mobili, che si alternano e
oscillano, gira pagina trasognato, predisposto a ricevere il racconto e ad assorbirlo. La
relatività di tempo, spazio, verità e memoria è una nozione da interiorizzare prima di
avventurarsi giù per Poema a fumetti: sarà una strada liquida, e chi non crede al miracolo
non cammini sull’acqua.

Buzzati, abile giocatore, da un lato ammalia il lettore, dall’altro gli fornisce la chiave per
rompere l’incantesimo: è nella ‘deduzione dichiarata’, il riferimento esplicito a Salvador
Dalì, una personalità tanto riconoscibile da contestualizzare immediatamente la pagina che
ispira, la precedente e la successiva nel proprio irrazionalismo onirico, nel proprio sistema
di realtà seconde, visioni e psicoanalitico abbandono. Buzzati chiede al lettore di chiudere
gli occhi solo per riaprirne quattro: è il doppio sguardo di chi coglie le ‘deduzioni
congetturali’, di chi costruisce una narrazione personale e obliqua in dialogo col Poema, di
chi sa leggere il mistero.

187
Del Puppo, Alessandro (2005), Il laboratorio di «Poema a fumetti»: tra metafisica e «surrealismo», op.cit., p.87.
66
fig.16: Anche i telefoni...

67
fig.17: Una sera che...

fig.18: La persistenza della memoria, Salvador Dalí, 1931.

68
1.3. Morte e voluttà

Mademoiselle Féline è la musa dietro pagina 91 [fig.19], la ‘deduzione dichiarata’ e


quindi la casella uno del nostro gioco.
Originaria della Martinica, regina dello strip-tease nella Parigi anni ‘50, presta il suo volto e
le sue forme all’incarnazione della morte, o meglio, a una delle rappresentazioni buzzatiane
della morte [fig.20].

Poiché il Poema contiene l’autore, nell’opera coesistono più versioni dello stesso concetto,
tante quante le volte in cui suddetto concetto torna alla mente di Buzzati, lo carezza e poi
gli sfugge: la morte è tra questi, un pensiero capriccioso che si ripresenta, nell’autore e nel
Poema, cambiando aspetto di volta in volta.
A pagina 66 è la “grande Signora”188, la “famosa vecchia Signora”189 che rosicchia le carni
della “valletta dell’Averno”190, Trudi, che fino alla pagina precedente era piena, colorata e
ammiccante.

COME EBBE VARCATO LA PORTA


TUTTO È DIVENTATO DIVERSO
ANCHE LA RAGAZZA CHE FA DA GUIDA
SEMBRA DIVERSA [...]191

Un passo oltre la frontiera basta per smarrire tono, vezzi e sensualità, perché Trudi perda,
di fatto, vita. La morte la trasforma in una creatura bianca e smagrita, in una banshee da
incubo con gli occhi vuoti e inespressivi, la bocca dischiusa, il corpo abbandonato in una
posa senza grazia, femminilità, gioventù.
La ‘famosa vecchia signora’ è ritratta poi in azione nella pagina successiva: è la silhouette di
un tifone, un vortice di polvere che arriva, cancella e se ne va. Non c’è nulla di femminile in
lei, se non la sua natura di tempesta: la morte, “che distrugge i piaceri / e disperde le liete
compagnie”192, è suprema sottrazione, saccheggia lo spirito, violenta i corpi e lascia un vuoto
di entropia dietro di sé.
È curioso, considerato ciò, che Buzzati le attribuisca il volto e il corpo florido di
Mademoiselle Féline una manciata di pagine più in là, o che le dedichi i seguenti versi
elegiaci:

188
Buzzati, Dino (2017), Poema a fumetti, op.cit., p.66.
189
Ibidem.
190
Ivi, p.4.
191
Ivi, p.66.
192
Ivi, p.67.
69
O MORTE, O MORTE
DONO SAPIENTE DEL DIO.
DA TE LE GRAZIE DEL MONDO
ANCHE L’AMORE.193

La morte, che a un’altezza diversa del Poema ha prosciugato la sensualità di Trudi, assume
adesso altre fattezze: ciglia lunghe, labbra piene e una nudità coperta solo da due teschi
davanti ai seni e dai versi che, strategicamente posizionati, celano il ventre.
La fisionomia della morte, così bella, così umana, è il rovescio del gorgo distruttivo di pagina
67: da ‘colei che distrugge i piaceri’, è il piacere.
Eppure, lei non è cambiata: ad essere alterato è il punto di osservazione, che varia a seconda
del superamento o meno della soglia. Quando la morte si manifesta come incubo è perché
chi la descrive, ovvero l’autore che assume la prospettiva di Orfi, ancora indugia su una
frontiera superata da poco più di qualche verso. Quando, invece, la morte è donna florida e
amabile, è perché la ricordano coloro che abitano già da un po’ il mondo oltre la frontiera.
La morte, per chi non può più morire, è paradossalmente vita: memoria delle carni, dei sensi
e dei piaceri definiti, in maniera calzante, mortali; è una ballerina di strip-tease; è
Mademoiselle Féline.

L’associazione Eros e Thanatos non è certo invenzione di Buzzati, sebbene egli l’abbia
raccontata ricorrentemente e ostinatamente come fa con tutte le sue ossessioni: Poema a
fumetti è forse il luogo entro cui l’autore si è maggiormente sbizzarrito.
Se è vero che nell’aldilà “ciascuno porta con sé il proprio mondo”194 come il ‘Diavolo custode’
informa Orfi, il mondo del protagonista, che ricordiamo essere un alter ego dell’autore, è un
brulicare di “diavolesse-filles de joie nude, dalle posture provocanti” 195 , una “‘casa
d’appuntamenti’ metafisica e sotterranea”196. In una dimensione in cui “i palpiti i languori
la carne dannata / i vizi squisiti e crudeli / le bocche che domani, / tenere cose brevi come
fiori”197 sono sottratti dalla morte, resta una sessualità orba e vuota, scialba e costretta, e
schiere di impassibili voyeur [fig.21].
Buzzati ritrae l’eros ancora e ancora, provocando lo storcimento di non pochi nasi della
critica borghese: Montanelli, come già ricordato, si sofferma infastidito sui nudi di donna di

193
Buzzati, Dino (2017), Poema a fumetti, op.cit., p.91.
194
Ivi, p.72.
195
Gargiulo, Gius (2005), Dark side e iconismo delle pop-streghe, op.cit., p.61.
196
Ibidem.
197
Buzzati, Dino (2017), Poema a fumetti, op.cit., p.86.
70
cui è farcito il Poema, risparmiando all’autore lo stigma della pornografia per pochissimo,
un po’ per amicizia, un po’ perché considera Buzzati “amorale”198 e non “immorale”199.
È così: la serie di immagini erotiche che l’autore squaderna lo assolvono perché prive di
malizia, di quel senso del peccato prettamente mortale che nell’aldilà lascia il posto a
“ottusità indistruttibile / uniformità, prevedibilità, noia”200. Il nudo in Poema a fumetti non è
un vezzo, ma un dispositivo narrativo che si serve di un labirinto di forme convulse, di pose
febbrili, di bocche, seni e cosce per raccontare lo “smarrimento-smembramento simbolico
dell’eroe attraverso gli incontri erotici di Orfi”201, la “difficoltà di trovare una via d’uscita,
una soluzione o una fine”202. È un nudo surrealista e metafisico: “Si va da Max Ernst, Dalì,
a Magritte tra citazioni frammentarie di corpi seminudi o vestiti solo di un paio di calze di
seta nera”203.

Il nome di Dalì riattiva il gioco dei riferimenti cui stiamo giocando con Buzzati: il surrealista
dialoga con Mademoiselle Féline di morte e di eros; le due ‘deduzioni dichiarate’ non
interagiscono solo con la pagina che ispirano, ma anche tra loro e col lettore.
Ricordiamo la fotografia artistica realizzata da Dalì e Philippe Halsman nel 1951, In Voluptas
Mors [fig.22], sette corpi nudi di donna avviluppati in una stretta sensuale e fatale, che
compongono l’immagine di un teschio. Una frase tratta dall’allucinata autobiografia
d’artista basta, poi, per stringere il legame tra Dalì e l’opera buzzatiana una volta in più:
“l’erotismo deve essere per me brutto, l’estetismo divino e la morte meravigliosa” 204 . È
Poema a fumetti in sintesi: la ‘bruttura’ dei corpi nudi privi di mistero che abitano l’aldilà,
l’estetica pulita, velata e divina dell’amore, Eura, per cui Orfi scende agli inferi, e la morte
meravigliosa, quella che spia il lettore da sotto le lunghe ciglia di Mademoiselle Féline.

198
Montanelli, Indro, “L'ultimo Buzzati”, «Corriere della Sera», 15 novembre 1969.
199
Ibidem.
200
Buzzati, Dino (2017), Poema a fumetti, op.cit., p.86.
201
Gargiulo, Gius (2005), Dark side e iconismo delle pop-streghe, op.cit. p.61.
202
Ivi, p.62.
203
Ibidem.
204
Malatesta, Stefano, Stravagante anche nel sesso, in «La Repubblica», 24 gennaio 1989.
71
fig.19: O morte, o morte...

72
fig. 20: Mademoiselle Féline in Metaphysique du strip-tease, Irvin Klaw, 1961.

73
fig.21: Prevedibilità uniformità noia.

fig. 22: In Voluptas Mors, Salvador Dalì e Philippe Halsman, 1951.

74
1.4. Sul mare di nebbia

Il surrealista, la spogliarellista e infine Caspar David Friedrich, pittore romantico


tedesco nato a Greifswald il 5 settembre 1774: il gioco di Buzzati confonde linee temporali,
confini geografici e campi di applicazione artistica, tutto nel calderone di suggestioni in cui
ribolle Poema a fumetti.

Si tratta di un percorso che attraversa, talvolta con piena visibilità, talaltra sottotraccia,
la cultura figurativa europea in un arco che va dalle teorie e pratiche settecentesche del
sublime e del romantico fino al simbolismo di matrice francese [...] e, più in generale, a
quelle esperienze promosse da quanti [...] sono stati definiti i pittori dell’immaginario.205

Quella dei ‘pittori dell’immaginario’ è una pista interessante da seguire, utile per stabilire
un legame tra le deduzioni dichiarate che abbiamo scelto di approfondire: Friedrich e Dalì
rientrano senza dubbio nella categoria e Mademoiselle Féline, con uno sforzo di fantasia in
più, può fare altrettanto in qualità di ballerina, pittrice di suggestioni.
C’è di certo che i tre personaggi si inseriscono nel solco della ‘rivoluzione psicologica’ che
Giuliano Briganti, nel suo saggio I pittori dell’immaginario. Arte e rivoluzione psicologica (1977),
definisce così:

[...] un nuovo atteggiamento nei confronti della realtà caratterizzato sin dalle origini
dallo spostarsi dell’obiettivo del pensiero dai concetti statici verso i concetti in
cambiamento, da un rinnovato interesse per i problemi psicologici, per la natura del
sogno, dell’inconscio, del genio, del mito, del linguaggio, così come delle sensazioni
meno spiegabili e che portava a riconoscere nelle cose un aspetto di indefinito
ossessionante mistero che ne sottende le apparenze e il senso di un enigma che non si
esaurisce, ad accogliere le rivelazioni del sogno in cui ogni visione si trasfigura e ogni
immagine diventa simbolo, a far risorgere il mito dell’unità universale.206

Anche Buzzati, va da sé, è un pittore dell’immaginario, parte di una corrente che ha origini
tardo-settecentesche ed entro cui si inseriscono, più o meno propriamente, tutti i nomi dei
dispensatori di ‘utili consigli’ che l’autore cita nei Ringraziamenti: eterogenei per mestiere,
epoca, nazionalità, accomunati da “la consapevolezza di un’altra realtà, che non sia quella
percepita dai sensi; la fraternità con la notte, il sogno, il mito, la morte; la coscienza
dell’importanza dell’«immaginazione» come tramite con l’inconscio”207.

205
Del Puppo, Alessandro (2002), Buzzati 1969: il “Poema” e la pittura, in Buzzati 1969: il laboratorio di “Poema a
fumetti” op.cit., p.26.
206
Briganti, Giuliano (1977), I pittori dell’immaginario. Arte e rivoluzione psicologica, Electa Editrice, Milano, p.6.
207
Ivi, p.9
75
Considerata in quest’ottica, la lista di nomi sciorinata dall’autore chiarisce un ordine non
immediato: è una masnada di visionari, una brigata di vaneggiatori, una combriccola di
allucinati illustri.
Il nome del pittore tedesco, allora, non può trovare collocazione più adatta: preceduto dal
giocoliere surrealista dell’inconscio e dalla danzatrice amorosa e funebre, Friedrich
consegue al loro umore velato e sognante, che corrisponde poi a quello dell’autore e del
Poema.

La pagina a lui associata è la 112 [fig.23], che ospita il seguente testo:

QUINDI COMINCIÒ:

RICORDATE LE COSE LE ORE LE VOCI


LE QUALI LASSÙ VI RIDESTAVANO
L’ETERNO PENSIERO IL PENSIERO MALEDETTO
CHE ORA QUI RIMPIANGETE,
LA CARA MORTE?208

Il salto da una casella all’altra, da una deduzione dichiarata alla successiva, riporta il lettore
al Via: non solo la protagonista dei versi è, come nel caso di Mademoiselle Féline, la morte
cara e rimpianta; l’atmosfera della pagina ricalca quella catalizzata dal telefono molle,
perché è un inizio – sebbene stavolta non sia la storia a essere introdotta, ma il canto.
‘Quindi cominciò’, come ‘in questo preciso momento’, segna il grado zero del racconto: nel
caso di pagina 112, l’incipit apre all’immagine ispirata da Friedrich.
La danza di testo e figure segue una coreografia differente rispetto a quella dispiegata sulle
pagine surrealiste: se in quel caso gli elementi seguono un moto ondulatorio, utile a evocare
un’ipnosi, a quest’altezza del Poema parole e immagini si controbilanciano per spiegare di
volta in volta un concetto perduto. A pagina 112, sono disposte secondo un principio
razionale e scolastico: c’è il segno ortografico dei due punti, l’introduzione a un discorso
diretto che si serve in egual misura di visioni e parole, c’è l’immagine che è già un’elegia. Il
tema dei versi sono ‘le cose le ore le voci’ che rimandano all’oggetto perduto per eccellenza,
la morte dal punto di vista dei morti, perciò desiderata e dolce come Mademoiselle Féline.

Qui il cerchio si chiude, con una precisione tale che non può essere casuale: le deduzioni
dichiarate tracciano un sentiero con una coerenza interna di senso, temi e stilemi, un filo da
tirare perché la trama del Poema affiori; nei Ringraziamenti c’è una porta, una delle

208
Buzzati, Dino (2017), Poema a fumetti, op.cit., p.112.
76
numerosissime sparpagliate un po’ ovunque nel mondo di Buzzati, che conduce a una
dimensione parallela e sotterranea più attraente della superficie.

Friedrich è, dunque, un passo tra i tanti da fare per avere contezza delle strade, gallerie e
vicoli che percorrono Poema a fumetti: scelto per rinforzare la narrazione e per affinità elettiva
con l’autore, perché “[...] vedeva non «con» gli occhi, ma «attraverso» gli occhi, quasi fossero
una finestra aperta sull’aspetto più vero, segreto e significante delle cose” 209.
Per la rappresentazione de ‘le cose le ore le voci’ che hanno in sé la morte, Buzzati prende
in prestito il paesaggio simbolico del suo Collina e campo arato presso Dresda (1824) [fig.24]
impiantandovi gli alberi scheletrici de Il cimitero dell’Abbazia sotto la neve (1817 ca.) [fig.25]:

la Natura assorbe i contenuti del nostro inconscio e quello specchio che ce la rappresenta,
quel lago di luce illuminato dallo spirito, indica significati imprecisabili, vaghi, così come
è imprecisabile e vaga l’essenza stessa dello sgomento, del disagio, della attrazione,
dell’incanto, anche dell’amore [...].210

La natura che Buzzati ruba al pennello di Friedrich è orba e scabra, perde le atmosfere
fumose del pittore tedesco per recuperarne i simboli, sintetizzati nelle linee del campo brullo,
nei rami degli alberi ossuti e tesi verso l’alto come mani orribili, nel volo stanco degli uccelli,
nel cielo bianco e vuoto e infine nella struttura lontana all’orizzonte, appena accennata nei
suoi tratti essenziali: una chiesa? O, piuttosto, un cimitero, identificato dalle sagome severe
di giganteschi cipressi. Una ragione in più a favore di quest’ultima interpretazione è senza
dubbio offerta dal testo, che fa riferimento, come già osservato, alla morte cara ai morti,
ormai passata, lontana, al di là dell’ultimo orizzonte.
Per restituire il dramma dell’irrecuperabilità, Buzzati prende in prestito una tecnica
familiare a Friedrich, ovvero quella di dividere la scena in due momenti:

a una zona in primo piano spesso animata da figure e in cui l’osservatore può
agevolmente figurarsi l’ingresso, fa immediatamente seguito lo sfondo, per lo più
nettamente separato da quella, sì da apparire lontano e irraggiungibile. In esso chi voglia
stabilire delle misure non riesce a orientare lo sguardo, per cui questa zona si presenta
come una visione, come la meta di un anelito nostalgico o anche l’oggetto di una
recondita paura.211

La morte, oggetto dell’immagine e soggetto del testo, è posta a una distanza siderale
dall’osservatore, in fondo al campo, seminascosta dalla collina; così come le cupole e i

209
Briganti, Giuliano (1977) I pittori dell’immaginario. Arte e rivoluzione psicologica, op.cit., p.236.
210
Ivi, p.236-238.
211
Il romanticismo e la pittura di C. D. Friedrich, in acmenovara.it, p.9, [consultato in data 13 novembre 2020].
77
campanili dipinti da Friedrich nel quadro che ispira Buzzati, appena visibili oltre una linea
netta di demarcazione, immersi nella bruma e nella luce della sera, prossimi a svanire; così
la morte, e quindi la vita di coloro che ascoltano il canto del Poema, un ricordo pallido e
lontanissimo, inghiottito dal tempo – o meglio, dall’assenza dello stesso nell’aldilà.
In forza dell’immaginario poetico di Friedrich, Buzzati costruisce uno spazio mentale ove
collocare la narrazione:

una sorta d’immagine da monologo, un possente simbolo della solitudine dell’essere


umano, dell’‘uomo abbandonato’ che non vuole più affermarsi in una relazione di
dominio nei confronti della natura e che non partecipa più al suo divenire, ma ne resta
soltanto ai margini come spettatore.212

Il pittore tedesco e Poema a fumetti aderiscono a una forma condivisa: entrambi comunicano
il dramma dell’esclusione dalla vita, costringendo, al contempo, gli esclusi a testimoniare il
suo scorrere.
Davanti agli occhi dello spettatore o del lettore si squaderna un’immagine tanto vasta che
polverizza, a cui è impossibile sottrarsi: “è come se a chi lo osserva fossero recise le
palpebre” 213 , scrive Heinrich von Kleist nel 1810 commentando il quadro di Friedrich
Monaco in riva al mare (1808-1810). Continua:

ciò richiede nondimeno che si sia andati là, che si debba tornare indietro, che si desideri
passare dall’altra parte, che non lo si possa fare, che si senta la mancanza di tutto
l’occorrente per vivere, eppure si oda la voce della vita nel mormorio della marea [...].214

Un’interpretazione trasferibile, così com’è, su pagina 112 di Poema a fumetti: le distanze


impossibili, la certezza che eppure esista un’“unica scintilla di vita nel vasto dominio della
morte”215, la sensazione, tremenda, che sia fuori portata, “un’esigenza che il cuore avanza e
un sottrarsi [...] che fa la natura”216.
I trapassati che ascoltano il canto delle cose perdute nel Poema vivono lo stesso dramma
dello spettatore davanti a un quadro di Friedrich: smarrimento, desiderio insoddisfatto,
nostalgia, senso dell’impossibile, fatale attrazione.

Manca un ultimo simbolo da esplorare, comune alla poetica del pittore tedesco e dell’autore
e utile a concludere il nostro gioco delle deduzioni: è la nebbia.

212
De Paz, Alfredo (1992), Il Romanticismo e la pittura. Natura, simbolo, storia, Liguori, Napoli, pagg. 104-105.
213
Von Kleist, Heinrich, Sensazioni davanti alla marina di Friedrich, «Berliner Abendblätter», 13 ottobre 1810.
214
Ibidem.
215
Ibidem.
216
Ibidem.
78
La qualità velata e opalescente della pittura di Friedrich non interessa pagina 112, ma altri
momenti poetici e artistici buzzatiani sono figli della stessa sensibilità: un esempio è il
ritratto di Almerina in cui ci siamo imbattuti analizzando Le storie dipinte, i tratti somatici
della donna che emergono, appunto, dalla nebbia, o quello di Eura nel Poema.
Si tratta della stessa foschia prodigiosa che sale da Viandante sul mare di nebbia (1828) [fig.25],
il quadro-manifesto del romanticismo di Friedrich: un paesaggio liquido e vaporoso e una
figura che lo contempla da un’altura,

il personaggio visto di schiena di tanti suoi dipinti, che ci rappresenta e si configura come
il punto di convergenza di raggi che provengono dall’infinito, il fuoco di una prospettiva
rovesciata.217

Il profilo aguzzo di cime e speroni di roccia emerge dal ‘mare di nebbia’, proprio come la
fisionomia della donna amata da Buzzati, e quindi di quella amata da Orfi: il viandante di
Friedrich si perde nella contemplazione, rimane immobile, fisso e irretito a guardare – così
lo spettatore della ‘storia dipinta’ e, infine, il lettore di Poema a fumetti, smarrito al cospetto
del mistero delle pagine che, per quanto il gioco delle deduzioni aiuti a svelare, trovano nel
loro enigma non dischiuso il loro senso più sacro e profondo.

217
Briganti, Giuliano (1977) I pittori dell’immaginario. Arte e rivoluzione psicologica, op.cit., p.236.
79
fig.23: Quindi cominciò.

80
fig.24: Collina e campo arato presso Dresda, Caspar David Friedrich, 1824.

fig.25: Il cimitero dell’Abbazia sotto la neve, Caspar David Friedrich, 1817 ca.

81
fig.26: Il viandante sul mare di nebbia, Caspar David Friedrich, 1808-1810 ca.

82
III. Il canto
Abbiamo indugiato a lungo sulla soglia del Poema, attenti a cogliere tutti gli spunti
provvisti dall’autore così da discendere con una bardatura adeguata.
Abbiamo indagato il prima e il dopo letterario e artistico buzzatiano, le sue storie dipinte e
i suoi miracoli, le sue ossessioni che affiorano in superficie o corrono sotterranee; abbiamo
giocato al suo serissimo gioco, còlto e inventato riferimenti, unito e disegnato nuovi puntini:
siamo pronti.
“Pensaci però / prima / di scendere!”218, tuona rivolta a Orfi la valletta dell’Averno. “Ma
lui si buttò”219, e noi come Orfi.

Tuffarsi nell’opera significa, innanzitutto, rispondere a una domanda che abbiamo


furbescamente evitato finora, o liquidato troppo in fretta: cos’è Poema a fumetti?
“Poema a fumetti è insieme molte cose e propriamente nessuna” 220 , risponde Nella
Giannetto.
Intanto, tra le nessuna e centomila cose che è, ne fissiamo una: è la favola di Orfeo ed
Euridice riscritta e ridisegnata secondo una commistione di “paure ‘classiche’ e angosce
‘moderne’”221. Orfeo è Orfi, figlio minore dei conti Baltazano che con scandalo del parentado
porta i capelli lunghi e si esibisce come cantautore al Polypus, locale che raccoglie tutte le
minorenni in deliquio della città. Dopotutto, sono gli anni Sessanta. Euridice è Eura Storm
che, come da mito, viene strappata al suo amato e consegnata a un Ade che, trasgredendo il
mito, è Milano.
Orfi cerca, dunque, di andare a riprenderla: la sua musica impregnata di immagini terrene
commuove i morti, che gli aprono la porta. Purtroppo, il suo viaggio è inconcludente, per
ragioni molto più disperanti rispetto a quelle addotte dalla tradizione: l’ultimo capitolo si
chiama Eura ritrovata, non liberata.

La struttura del Poema così intesa è lineare: Il segreto di Via Saterna, Spiegazione dell’aldilà, Le
canzoni di Orfi ed Eura ritrovata, quattro capitoli per un prologo, un viaggio, un confronto e
scontro e una conclusione.

218
Buzzati, Dino (2017), Poema a fumetti, op.cit., p.57.
219
Ivi, p.58.
220
Giannetto, Nella (2002), Ma cos’è “Poema a fumetti?”, in Buzzati 1969: il laboratorio di “Poema a fumetti”, op.cit.,
p.10.
221
Ferrari, Mariateresa (2002), I segreti svelati, in Buzzati 1969: il laboratorio di “Poema a fumetti”, op.cit., p.16.
83
Il lettore poco avvezzo alla complessità labirintica buzzatiana si contenterebbe di questo: da
esperti esploratori delle sue viscere, ci spingiamo più in là, “all’interno di questo laboratorio
[in cui] si respira un sapore alchemico”222.
Gli stati della narrazione si sublimano secondo formule ben precise: le canzoni.
La storia si scioglie e si riannoda seguendo il ritmo di una musica: inseriti tra i versi,
incastrati tra le immagini, ci sono canti utili a spiegare, a evocare atmosfere, a produrre
senso; fanno parte della leggenda, del repertorio pop di Orfi, sono frutto
dell’improvvisazione del protagonista di fronte alla folla oceanica dei morti, stregati quanto
il suo pubblico di minorenni al Polypus.
Il testo si riordina naturalmente sotto forma di canto ogniqualvolta Buzzati necessita di uno
spazio sospeso, da riempire con un repertorio di corrispondenze e simboli:

le canzoni sono quindi la sua arma principale, la capacità di raccontare storie in musica,
ovvero la capacità di trasfigurare la realtà in poesia musicata; o, in altre parole, la
capacità di racchiudere la realtà in forme umane, date, comprensibili.223

Il canto permette di riorganizzare il discorso secondo criteri originali di musicalità e


associazione libera, ammette atmosfere altrimenti difficili da evocare e si inserisce con
gentilezza nel gioco delle parole e delle immagini perché è un linguaggio a metà, uno di
quelli con cui Buzzati si diletta volentieri, un po’ verbale e un po’ inconscio.
Al Poema, così ricco di spunti, di idee e contaminazioni, mancava giusto la musica, che
l’autore improvvisa in qualità di direttore di un’orchestra infernale e celeste, di una ballata
macabra che si avvita su se stessa, composizione allegra ma non troppo.

La canzone non è altro che l’ennesimo artificio impiegato da Buzzati per raccontare
l’inenarrabile, per approssimarsi alla morte e alla vita, l’una da capire attraverso l’altra e poi
da afferrare e da esorcizzare.
La storia di Poema a fumetti si scioglie in un canto che è la sintesi di scrittura e disegno in
un’unica lingua di suggestioni, in un trucco capace della magia più grande di tutte:
risvegliare i morti.
Il canto è libero, è una poesia che non risponde dello spazio-tempo terreno perché ne ha uno
tutto per sé, fatto di fili, di trame e di possibile; ed è ciò che c’è di più umano e vibrante,
risponde al ritmo dei corpi ed è tanto vivo da passare indenne la porticina dell’aldilà.

222
Ferrari, Mariateresa (2002), I segreti svelati, in Buzzati 1969: il laboratorio di “Poema a fumetti”, op.cit., p.18.
223
Barbieri, Daniele (2002), I fumetti e il poema: un’opera (quasi) in musica in «Poema a fumetti» di Dino Buzzati nella
cultura degli anni ’60 tra fumetto, fotografia e arti visive, op.cit., p.6.
84
Cos’è Poema a fumetti? È il canto di Buzzati, un’occasione di salvezza e di ritorno che l’autore
fa intonare al suo Orfeo con chitarra.

85
1. Il cantante

Orfi è il protagonista di Poema a fumetti: “ora guardiamolo un po’ da vicino”224.


L’Orfeo del mito classico gli fitta il retroterra e Antonio Recalcati i tratti del volto.
Buzzati chiede al pittore di posare per la parte di protagonista, probabilmente colpito dal
suo essere “biondo, pallido, timido, di poche parole”225: il primo incontro tra i due avviene
un mattino del 1961 nello studio di Recalcati; il pittore presenta a Buzzati il suo ultimo
progetto, Impronte, e questi, conquistato dall’opera e dall’artista, scrive una recensione
entusiasta.
Contrapponendo Recalcati a Francis Bacon, che fa “dei terribili ritratti d’uomo”226, osserva:

I personaggi delle sue tristi ballate non sono i dominatori delle folle e delle città, bensì
gli ignoti eroi di oscure dannazioni che si consumano nei corridoi degli immensi
falansteri, negli angoli dei cortili vuoti, nella fradicia nebbia che sale dai canali della
periferia.227

Il breve testo contiene in nuce gli elementi comuni all’artista e alla sensibilità buzzatiana:
l’attitudine a esprimersi per ‘tristi ballate’, la passione per gli antieroi urbani, i fabbricati
brulicanti di inquilini, i ‘cortili vuoti’ e la ‘fradicia nebbia’. “Recalcati impersona
l’inquietudine”228, continua l’autore: non può che finire per impersonare Orfi.

L’artista posa nello studio milanese di Rolly Marchi: Buzzati dirige il suo corpo nello spazio
e il tormento di Recalcati fa il resto. “Notai subito, nella stanza, una chitarra”229, ricorda.
L’autore costruisce un fotoromanzo da trasformare in Poema: istruisce il fotografo e gli attori,
selezionati per motivi di cuore e fascinazione, e insieme recitano la trama del suo fumetto.
Sono ricordati nei Ringraziamenti con cui abbiamo già avuto modo di giocare: Franco
Gemignani e Runa Pfeiffer che, rispettivamente, impersonano “l’uomo verde di via
Saterna”230 e Trudi, la segretaria sexy dell’aldilà; l’autore, da galantuomo qual è, tace il nome
della moglie Almerina, ovvio modello per l’amore che è Eura.
Recalcati è il primo nella lista in ordine di apparizione, pittore che, sublimato nel laboratorio
alchemico del Poema, passa attraverso un paio di trasformazioni: è la trasposizione di Orfeo,

224
Buzzati, Dino (2017), Poema a fumetti, op.cit., p.30.
225
Buzzati, Dino, Un momento interessante, in «Rassegna di scienza e cultura», n.5, maggio 1962.
226
Ibidem.
227
Ibidem.
228
Ibidem.
229
Ferrari, Mariateresa (2002), Dino Buzzati e Antonio Recalcati, in Buzzati 1969: il laboratorio di “Poema a fumetti”
op.cit., p.39.
230
Buzzati, Dino (2017), Poema a fumetti, op.cit., p.4.
86
è Orfi idolo pop delle minorenni ed è l’alter ego dell’autore. Così come prepara il lettore,
Buzzati non lascia il suo protagonista sprovveduto: gli fornisce la sensibilità artistica di chi
gli presta la fisionomia, quella musicale del mito classico e quella personale del suo autore
che, capo burattinaio, lo pilota nel mistero buffo del proprio dramma esistenziale.

Nel personaggio di Orfi, Buzzati riassume molto di sé. Più in generale, nella figura
mitica del cantore per eccellenza, non è difficile riscontrare l’immagine stessa del poeta;
nel suo canto, l’analogia col processo creativo.231

È difficile conciliare l’immagine di Buzzati, “un signore impeccabile nello stile – cappotto
nero e Borsalino in testa”232 come lo ricorda Recalcati, con quella del chitarrista capellone
con gli stivaletti a punta. Eppure, questa apparizione di “pura letteratura, film, fantasia”233
passa attraverso il processo chimico-esoterico che essa stessa attiva e diventa carne, corpo,
persona, più vera del vero proprio in virtù dell’identità immaginaria che si autoattribuisce.
Orfi fa ciò che al borghese Buzzati è interdetto: possibilità di intrattenere le minorenni a
parte, può cogliere l’occasione di fare un viaggio dentro le proprie ossessioni, tuffarsi
nell’inconscio, scandagliarlo e poi risalire, senza che nessuno, teoricamente, possa obiettare.
Dopotutto, è solo un trucco.
Memore del polverone suscitato da Un amore, in cui il protagonista è troppo simile al suo
autore, nei modi, nello status, nei pensieri, Buzzati si risolve a travasare la propria
rispettabile, ultrasessantenne persona nella forma di un ragazzo con la faccia di un pittore.

La sostanza onirica e mobile di Orfi, proiezione di un inconscio prima ancora che


personaggio letterario, spiega la sua rappresentazione nel corso del Poema: l’ombra di
Recalcati si flette a seconda della piega presa dalla narrazione, cangiante quanto le
apprensioni vissute dal protagonista e dall’autore.
Analizziamo la figura del cantore prima di inoltrarci nello studio del suo canto,
proseguendo col modus operandi impiegato finora: indugiamo sulla soglia delle cose,
perlustriamo i loro angoli polverosi e le loro intercapedini, perché è là che Buzzati opera
miracoli.

231
Del Puppo, Alessandro (2002), Buzzati 1969: il “Poema” e la pittura, in Buzzati 1969: il laboratorio di “Poema a
fumetti” op.cit., p.22.
232
Ferrari, Mariateresa (2002), Dino Buzzati e Antonio Recalcati, in Buzzati 1969: il laboratorio di “Poema a fumetti”
op.cit., p.40.
233
Ibidem.
87
1.1. Un eroe piuttosto scombinato

Le occorrenze di Orfi nel Poema non sono mai funzionali alla sola narrazione: il
personaggio manca di compattezza, tanto che il tratto fatica a mantenersi in ordine, si
disperde per le tavole, galleggia alla deriva su una superficie liquida e increspata. Tutto ciò
ha conseguenze ovvie sul Poema, che, nelle parole di Cesare Garboli,

difetta in velocità, in suspense, in ritmo narrativo. Ignora quella simultaneità,


quell’automatismo nelle immagini per cui un vero fumetto è sempre un film
misteriosamente spiaccicato sulla carta.234

Certo, il lettore che si aspetti una pellicola d’azione da Poema a fumetti e un attore principale
definito e fisso da Orfi rischierebbe di restare deluso: tuttavia, è possibile dissentire da
Garboli e difendere il carattere cinematografico della narrazione buzzatiana con una precisa
distinzione di genere.
Il Poema non sarà un western, un poliziesco e quindi, forse, un fumetto propriamente detto,
ma nulla vieta di allungarsi sulla poltroncina e godersi lo spettacolo del racconto che si
scioglie con la potenza visiva, allusiva e suggestiva di un film di Hitchcock o di Fellini:
pensiamo a Spellbound (1945) del primo e alle scenografie convulse disegnate da Dalì per la
sequenza onirica, o all’interpretazione di Marcello Mastroianni in 8 ½ (1963) del secondo,
magnifica illusione.

Orfi è così, e il suo carattere fantasmatico si radicalizza da un punto preciso della narrazione
in poi, quando comincia l’incanto dell’ipnosi – il suono delle campane, la mollezza della
città e la stanchezza del personaggio, la storia che comincia.
Il lettore lo incontra poche pagine prima, nella seconda parte del prologo che si divide tra
l’introduzione della villa misteriosa e la sua: Orfi fa una prima apparizione sotto la scritta
sgargiante del Polypus [fig.27]. Il nome del locale è circonfuso di un’aura dorata, fumettistica
ed esclamativa, quasi fosse la trasposizione della luce al neon proiettata dall’insegna sulle
notti della città.
Orfi, là sotto, si staglia in primo piano, ma non gode di quella luce: il suo volto è il calco
preciso di una foto di Recalcati del 1968 scattata da Rolly Marchi [fig.28], lo stesso sguardo
fuori fuoco, lo stesso ciuffo, camicia e sorriso – la stessa penombra che si allunga dalla destra
dell’immagine.

234
Garboli, Cesare, Tutta la vita in venti minuti, in «Il Mondo», 4 dicembre 1969.
88
Dietro di lui, c’è una ragazza dall’aspetto pulito e bianco, l’espressione distesa e gli occhi
placidi, utile a creare un contrasto con la pagina successiva, occupata da una schiera di volti
sedotti dall’estasi della movida sotterranea milanese, di cui la sagoma nera di Orfi, piegato
in una mossa da rockstar, è il contrassegno. Il lettore ancora non lo sa, ma quella è Eura dai
quattro occhi.
Il volto di Orfi torna a pagina 29, portando con sé la penombra della prima apparizione. Coi
tratti inselvatichiti dalla stessa ebrezza che rapisce il pubblico, canta la strofa finale del suo
ultimo successo, ‘Le streghe della città’: “Le streghe uh uh / uh uh!”235.
Metà della faccia è cancellata da uno spettro nero che invita a voltare pagina, che risucchia
Orfi dalle atmosfere caotiche della sessualità urbana per risputarlo in una dimensione
genuina, abitata da lui, che si disfa e si sfilaccia, e dal suo amore. “Un po’ da vicino”236, il
protagonista è doppio, quadruplo, cubista; è la sua bocca contratta in una smorfia e svariate
inquadrature di occhi tristi: “non è forse / piuttosto scombinato?”237. Pagina 31 è occupata
dalla visione diplopica di Eura in cui ci siamo imbattuti più volte nel corso del nostro lavoro,
su cui il vorticare dell’identità di Orfi sembra posarsi per un attimo e trovare respiro: il
tempo di una tavola. La successiva chiude la porta su quell’assaggio di paradiso con un
“ma”238 che cala come una ghigliottina e lo scampanare surrealista che segna l’inizio del
viaggio.
Non abbiamo altro su Orfi: la sola indicazione che è un ragazzo innamorato, ‘scomposto’
tra la frenesia pornografica della città e il candore di un sentimento buono.
Le campane hanno suonato, la soglia è stata oltrepassata: da ‘questo preciso momento’, Orfi
perde le parvenze umane residue per contrarsi e allungarsi come un elastico, soggetto alla
tensione del canto che si radicalizza o decresce.

La prima forza fisica che agisce su di lui è la realizzazione della morte di Eura, che si abbatte
sul personaggio e lo frattura.
È un processo che si articola in tre fasi, rappresentate con soluzioni differenti a seconda del
grado di deterioramento di Orfi: c’è un primo momento in cui il protagonista è testimone
del trapasso di Eura oltre la porticina misteriosa. La vede scendere da un taxi mentre, stanco,
guarda casualmente dalla finestra. Riconosce i suoi capelli raccolti in una coda bassa, il suo
modo di muoversi e il suo cappotto: la ragazza attraversa la soglia “come fosse stata uno

235
Buzzati, Dino (2017), Poema a fumetti, op.cit., p.29.
236
Ivi, p.30.
237
Ibidem.
238
Ivi, p.32.
89
spirito”239, lasciando spazio, nella pagina successiva, alla serie di domande che Orfi scambia
con se stesso [fig.29.].
La tavola è suddivisa in quattro parti uguali, ognuna occupata dall’ombra del personaggio
appoggiato alla finestra, in parte in cerca di sostegno, in parte tentato di oltrepassarla e di
piombare in strada per sincerarsi che quel fantasma non sia lei.

LEI? NON È POSSIBILE!


LEI? NON È POSSIBILE!
NO, NON È POSSIBILE
NON È POSSIBILE?240

Dalla prima all’ultima inquadratura, il modo in cui Orfi soppesa l’evento cambia:
dall’incredulità e negazione, ripetuta per due volte e rinforzata da un punto esclamativo che
non ammette repliche, il linguaggio si ammorbidisce, perde la punteggiatura, o meglio,
sostituisce le interpunzioni veementi con le virgole e, infine, c’è un’interrogativa, terribile,
che dubita di se stessa – non è possibile?

Il secondo stadio della graduale presa di coscienza del protagonista si verifica il giorno
successivo: Orfi, un’ombra scura, attraversa la città derealizzata. Di spalle rispetto al lettore,
cammina in una dimensione privata in bianco e nero, trasognato al punto che la passante
colorata, quindi parte di un ordine di cose diverso, si volta stupita quando lo incrocia. Forse
è lui il morto, non Eura.
Milano è attraversata da un interminabile corteo funebre, che serpeggia per le strade come
un trenino triste. Orfi si risolve a chiedere conto della situazione all’uomo verde interpretato
dal collega di Buzzati, Franco Gemignani [fig.30]; l’incomunicabilità centripeta della sera
prima presso la finestra si evolve per estroflettersi e proiettarsi sull’altro. L’uomo verde è
attraversato da ombre diverse, che per tre volte cambiano i suoi connotati: Orfi, invece, è tre
volte uguale a se stesso, come la domanda che ripete, sordo e ottuso, ancora cocciutamente
impermeabile alla tragedia.

SCUSI,
SIGNORE,
CHI SONO
TUTTI
QUESTI
MORTI?241

239
Buzzati, Dino (2017), Poema a fumetti, op.cit., p.37.
240
Ivi, p.38.
241
Ivi, p.41.
90
L’uomo verde risponde:

NON SONO.
È.
TUTTI
FUNERALI
DI LEI
CHE
TU
DOVRESTI
SAPERE.242

Il tono che usa non è quello accidentale del passante, ma di confidenza e rimprovero.
Il suo linguaggio chiarifica il ruolo che riveste nella narrazione: l’uomo verde è deus ex
machina, depositario di conoscenza (o di bugie?), compare quando deve, scompare quando
vuole, con una sigaretta tra le dita. È uno dei tanti misteri del Poema che non si schiudono.
Che appartenga al mondo dei vivi, dei morti o all’inconscio di Orfi, è lui a rivelargli ciò che
già ‘dovrebbe sapere’: che Eura è morta, dorme il sonno della ragione sulla città, e che a
ucciderla è stata un “male misterioso”243, disegnato da Buzzati come il teschio sanguinolento
di un dinosauro, selvaggio, preistorico e indomabile.

Siamo all’ultimo stadio della presa di coscienza di Orfi: il protagonista ha infine ottenuto
risposta alla domanda che mai avrebbe voluto sciogliere. Finito è il suo vagare trasognato
per Milano e, in un certo senso, la sua innocenza, rotta da un urlo [fig.31]. Il dolore per la
morte dell’amata esce da un buco di oscurità e denti che gli occupa l’intera faccia, gli fa
alzare i pugni contro il cielo in un’invocazione epica, da Orfeo. È uno di quei ‘terribili ritratti
d’uomo’ di Francis Bacon.

Oltre la soglia della storia e dell’ipnosi, ce n’è un’altra di dolore: comincia qualcosa di
diverso, che richiede una diversa rappresentazione di Orfi.
Nella pagina successiva all’urlo, Buzzati lo disegna alla sera, accovacciato sulla chitarra.
Curiosamente, alle sue spalle, c’è una finestra coi vetri in frantumi, forse la stessa a cui il
personaggio si era appoggiato quando ancora si interrogava, incredulo, sul trapasso
dell’amata di cui era stato incidentale voyeur. La risoluzione di bussare alla misteriosa
porticina che l’ha inghiottita è della pagina successiva:

CI ANDÒ.

242
Buzzati, Dino (2017), Poema a fumetti, op.cit., p.42.
243
Ivi, p.44.
91
A TARDA NOTTE.
PORTAVA LA CHITARRA.
SI SENTIVA PIÙ FORTE.244

Entrare significa attraversare un’altra soglia ancora, prestarsi a un’ulteriore metamorfosi:


Orfi, nell’aldilà, è la chitarra che Montanelli, nel suo commento al Poema, definisce
“inutile”245 e invece è il perno su cui si avvita la speranza dell’eroe di scendere e risalire.
Il cantante si fonde col canto perché solo a quella condizione, come accade a Orfeo, è
concesso di entrare: Orfi è le sue parole, le domande e i dubbi irrisolti.
Chi abita l’aldilà ha tutte le risposte: Dio è morto e anche il mistero; chi abita l’aldiqua,
invece, si agita e si dibatte ancora, e in quella sofferenza di argento vivo, di pesce preso nella
rete che cerca di sfuggire tra le maglie, c’è la vita.
Perciò, Orfi interroga l’inferno: “allora, Eura posso vederla?”246, “ma tu chi sei?”247, “ma qui
che cosa vi manca?”248, “ma le stelle le avete? [...] E il vento? La tempesta? [...] E la notte?”249.
Quello gli risponde deliziato, per ogni domanda una sentenza da chi ormai, uscito dal cono
d’ombra, ha chiara ogni cosa; tutto è illuminato, perciò manca della profondità insondabile
che Orfi invece porta con sé, intessuta nel suo canto, qualità che lo rende irresistibile per
coloro il cui “peggior vizio vietatissimo”250 è:

[...] GUARDARE NEL MONDO DEI VIVI


ATTRAVERSO CERTI FINESTRINI
CLANDESTINAMENTE
PER ASSAPORARE I PARADISI
PERDUTI [...].251

Le domande di Orfi sono i finestrini clandestinamente affacciati sul mondo e sono i paradisi
perduti, un fetish cui aggrapparsi morbosamente per godere il piacere crudele e sottile di
guardare e non toccare ciò che non appartiene, che non apparterrà mai più – la vita col
mistero dentro.
A pagina 92 Buzzati ne fa il ritratto [fig.32]: è Orfi, uno scarabocchio, un filo d’inchiostro, una
serie di parole in successione, un uomo e un gomitolo di pensieri. Si rivolge ancora una volta
al diavolo custode che gli ha spiegato l’inferno: ‘ma tu ma tu ma tu ma tu ma tu’, come una
linea del telefono occupata. E poi, ripercorrendo il filo: ‘tu sei tu sei’, ‘deciditi a parlare’, e la

244
Buzzati, Dino (2017), Poema a fumetti, op.cit., p.47.
245
Montanelli, Indro, L'ultimo Buzzati in «Il Corriere della Sera», 15 novembre 1969.
246
Buzzati, Dino (2017), Poema a fumetti, op.cit., p.70.
247
Ivi, p.76.
248
Ivi, p.78.
249
Ivi, p.82.
250
Ivi, p.78.
251
Ibidem.
92
lingua si incarta e cambia, ‘tell me tell me please’, e si perde, ‘oh quanto assomiglia
all’inverno la mia assenza’.
Buzzati lo disegna con la pelle trasparente, così che tutto il tramestio dell’esistenza sia
visibile: Orfi è un formicolare di pensieri connessi e scomposti, di dubbi, esitazioni e volontà,
dell’urgenza che appartiene solo a chi sente ancora il tempo. L’immagine acquista forza
nella sua contrapposizione al diavolo custode, impersonato dal giaccone ormai familiare al
lettore: se Orfi è un tremito, un brulicare inquieto, l’altro è indolente, abbandonato,
immobile; se Orfi è il contenuto, l’altro è un contenitore svuotato; se Orfi è vivo, l’altro è
morto.

Il groviglio di pensieri si scioglie in canto e procura al protagonista il lasciapassare per


continuare la discesa. ‘Eura ritrovata’ segna il superamento di un’altra soglia ancora e Orfi,
liquido, cambia di nuovo forma. Al cospetto dell’amata, riacquista le fattezze prestategli da
Recalcati, torna un corpo da stringere e da toccare, tanto che la ragazza grida: “Oh, tu sei
caldo, Orfi, sei vivo!”252; e aggiunge: “Anche se / sono così fredda, dammi un / bacio”253.
L’amore si riscopre sensazione tattile, fatto di carne come di spirito anche nell’aldilà: Orfi
cinge le spalle di Eura, le carezza i capelli e poggia la guancia sulla sua [fig.33]. Eppure, i due
ricordano Gli amanti (1928) di Magritte, il cui contatto non trapassa la tela del lenzuolo, o
Ettore e Andromaca (1931) di De Chirico, che non si abbracciano perché non hanno braccia:
tanta vicinanza ammette incolmabile distanza.
Mentre il protagonista del Poema è caldo e in maniche di camicia, passato indenne per
l’inferno, uguale in tutto e per tutto a quando vi è disceso, da creatura viva, quindi disposta
al ritorno, Eura è un corpo pallido, nudo e freddo, strappato per via definitiva alle leggi
della società, del mondo e degli uomini. A contatto con Orfi, sente il suo calore ‘spaventoso’,
brucia; le parole che lui le rivolge attingono a un vocabolario che non le appartiene, cui lei
non risponde. Orfi le parla della porta, delle sue canzoni, la incalza col tempo, le promette:
“Torneremo al Polypus. Questa sera / ti condurrò a ballare”254. Lei è stanca, “tutti qui siamo
stanchi”255, e gli resiste, gli ricorda dell’esistenza di potenze rispetto cui gli uomini sono
“formiche sperdute”256 e gli consiglia resa e accettazione. La dimensione che abita Eura non
ha una porta per uscire, non contempla la possibilità di nuovi balli al Polypus, e così sia a
prescindere dall’incapacità di Orfi di accettarlo, dalla sua ostinazione nel trascinare la

252
Buzzati, Dino (2017), Poema a fumetti, op.cit., p.201.
253
Ivi, p.206.
254
Ivi, p.202.
255
Ivi, p.205.
256
Ibidem.
93
ragazza per un braccio lungo le scale, violento al punto da arrivare al paradosso per cui lei,
morta, gli chiede: “lasciami respirare”257.

Il viaggio di Orfi non è altro che un finestrino clandestino attraverso cui guardare dalla
prospettiva opposta rispetto a quella assunta dai morti, che dalla vita scruta la morte, perché
là trova amore, il paradiso perduto. Non è il mito di Orfeo, è peggio, poiché l’eroe si può
voltare, può stringere l’amata, ma per lei non c’è comunque ritorno:

CERCÒ DI TRASCINARLA CON SÉ. STRINSE CON TUTTE


LE FORZE, STRINGEVA, STRINGEVA. INUTILMENTE.258

Sulla soglia dell’ultima soglia, presso la porta che collega la Milano infernale e quella
terrestre, una forza irresistibile separa i vivi dai morti: Orfi si strappa e si frantuma per
ricomporsi, solo, dall’altra parte. Buzzati si corregge immediatamente: il protagonista non
è solo, ma in presenza dell’uomo verde, che espone una spiegazione dell’inferno alternativa
a quella fornita dal giaccone, ma poco importa a quale delle due Orfi scelga di credere.
L’ultima rappresentazione del personaggio registrata dal Poema, la metamorfosi conclusiva,
occupa la pagina finale del racconto [fig.34]. Diverso da chi era all’inizio, stanco e
vecchissimo, il protagonista è una figurina insignificante, microscopica e lontana, su cui
passano “le turriti nubi dell’eternità”259 , la cui individualità si stempera in un orizzonte
troppo vasto, persa nel deserto della vita, sola con la responsabilità del ritorno.

257
Buzzati, Dino (2017), Poema a fumetti, op.cit., p.206.
258
Ivi, p.210.
259
Ivi, p.222.
94
fig.27: Ma Orfi il figlio minore...

fig.28: Antonio Recalcati, 1968, Fotografia di Rolly Marchi.

95
fig.29: Lei? Non è possibile!

96
fig.30: Scusi, signore...

97
fig.31: Nooo !

98
fig.32: Ma allora, bel giaccone...

fig.33: - Stiamo così. Tanto, lo sai che è inutile.

99
fig.34: E sul deserto di Kalahari...

100
2. Le canzoni

Una volta stabilito carattere, natura e forma mobilissima del protagonista,


continuiamo l’opera di scavo in Poema a fumetti, che, in quanto cosa viva, disossiamo,
studiamo nelle carni e puliamo come un pesce così che riveli cosa nasconde sotto le squame.
Le vene, i nervi e le ossa sono fatti di canzoni: pagando un debito al mito che lo ispira e alla
tradizione poetica in generale, il Poema procede per ballate.
Ce n’è una che racconta la natura della villa in Via Saterna, la facciata dell’inferno; ce n’è
una già osservata che introduce il protagonista e il mondo che porta giù con sé; ce n’è una
per aprire la porticina; un’altra, in due tempi, che Orfi canta ai morti e che lo autorizza a
continuare il cammino; un’ultima, omessa, pensata e non cantata, per uscire.
Accordiamo gli strumenti critici per l’analisi della prima canzone.

101
2.1. Un grido di piacere

Buzzati installa l’inferno in una via centralissima, per quanto inventata, di Milano.
Si prende il disturbo di inserire tra le pagine una pianta topografica:

colloca la via Saterna in posizione affettiva, nel quadrilatero corso Garibaldi, largo La
Foppa, via Solferino e via Marsala, parte di un itinerario quotidianamente percorso sino
al 1962 per recarsi alla redazione del “Corriere della Sera”.260

L’aldilà fa parte di una geografia a lui familiare, che ha già utilizzato per disporre gli eventi
di Un amore: Laide vive in un formicaio di vecchie case in corso Garibaldi, “un labirinto di
viuzze, anditi, sottopassaggi, piazzuole, scale e scalette dove si annida ancora una densa
vita”261.
Una densa morte alberga nello stesso luogo, almeno secondo l’opera successiva di Buzzati,
il Poema, che sostituisce ai caseggiati popolari una villa abbandonata con grande giardino,
circondata da un muro di cinta e a cui si accede da una porticina.
La villa cambia aspetto a seconda di chi la guarda: all’occasione può essere diroccata,
surrealista, gotica. A modificare la sua architettura è l’alone di leggenda che la circonda, che
gonfia la fantasia dei passanti e i versi della canzone di nostro interesse: è un componimento
popolare, corale, scritto dalla curiosità dei vivi, che evitano la strada eppure sono fatalmente
attratti dal suo mistero.

La ballata occupa due pagine, con un effetto onda lunga sulle successive: la prima tavola
dispone i versi da un lato e un impiccato dall’altro [fig.35].
I versi recitano:

CHI FA DONDOLARE
IL COSO APPESO LÀ IN CIMA?262

Continuano: è il vento a far oscillare il ‘coso’, e il ‘coso’ in questione è dubbio se sia “un
comm un cav / un prof un ing un dott un avv”263. Qualche riga dopo, la canzone risponde:
“era un uomo anche lui”264 ed è tale tremenda realizzazione la ragione del suo suicidio.

260
Roda, Roberto (2002), Nel labirinto di “Poema a fumetti”: un gioco interattivo “anti-litteram”, in Buzzati 1969: il
laboratorio di “Poema a fumetti” op.cit., p.35.
261
Buzzati, Dino (2018), Un amore, op.cit, p.22.
262
Buzzati, Dino (2017), Poema a fumetti, op.cit., p.12
263
Ibidem.
264
Ibidem.
102
I versi continuano con una specifica: a spogliarlo del suo status sociale per poi appenderlo
metaforicamente nudo al pennone della villa “è stato l’amore. / Anche i commenda hanno
un cuore”265.
La tavola successiva a quella occupata dall’impiccato ospita un’illustrazione del sentimento
da pamphlet [fig.36]. Il contrasto è stridente: una pagina per il suicida, gonfio, bianco e
sconfitto, col vestito borghese che lo ingoffa anche nella morte, ricalcato con cura da Buzzati
dall’Atlante di medicina legale (1966) di Waldemar Weimann e Otto Prokop; l’altra per la recita
di due figurini cartooneschi, inverosimili protagonisti di una commedia rosa. Lui,
evidentemente un comm o un cav, si propone a petto in fuori e col cuore che sfavilla; lei,
evidentemente donna di malaffare, è vestita di fronzoli, il seno è esposto, il cuore nascosto.
La canzone è il racconto di una causa e un effetto temporalmente invertiti: la storia più
vecchia del mondo, almeno nell’universo Buzzati, per cui l’amore uccide il borghese
svelando la sua miseria. L’eco dei versi si propaga per le due tavole successive, il cui tema
è ancora eros e thanatos. Eppure, la rappresentazione della sensualità a pagina 14 [fig.37] è
lontanissima dal suo immediato precedente pudico: il soggetto è il favoleggiato inquilino
della villa, “un ricco signore misantropo e dissoluto”266 con una bocca famelica e ferina e
mani ripugnanti. Davanti a lui, il pasto: una donna nuda, di cui il lettore spia l’espressione
riflessa in uno specchio. Ha un volto di sfinge, che la cornice dell’oggetto separa dalla scena
e chiude in una dimensione personale in cui è sola.
La pagina successiva rappresenta idealmente le ultime battute della canzone: le “grida
disperate”267 che escono certe notti dalla villa, intonate dalla ragazza che Buzzati disegna in
maniera opportunamente ambigua, sono il vocalizzo conclusivo che riassume in sé piacere,
dolore e senso.

La canzone serve lo scopo di chiarire subito il campo semantico coperto da Poema a fumetti,
che Buzzati stesso, intervistato da Claudio Quarantotto poco dopo l’uscita dell’opera,
precisa:

In quanto alla coincidenza del sesso con l’angoscia, l’orrore, la morte, è appunto ciò che
ho cercato di spiegare nel mio libro “a fumetti”.268

265
Buzzati, Dino (2017), Poema a fumetti, op.cit., p.13.
266
Ivi, p.14.
267
Ivi, p.15.
268
Quarantotto, Claudio, Orfeo a fumetti in «Roma», 11 dicembre 1969.
103
I confini dello spazio entro cui il racconto esiste sono rappresentati dall’eros e dal trapasso:
sono loro gli inquilini della villa in via Saterna, sono a turno l’uomo borghese e la donna
nuda, la vittima e l’omicida, il predatore e la preda, la vita e la morte.
La canzone lo spiega esaurientemente, e lettore avvisato, mezzo salvato.

104
fig.35: Chi fa dondolare / il coso appeso là in cima?

105
fig.36: Con una scala / o con l’ambizione?

106
fig.37: Si favoleggia che...

107
2.2. Chi bussa alla porta?

‘Le streghe della città’, la seconda canzone in cui il lettore si imbatte, precisa
l’orizzonte di interessi del protagonista del Poema, infestato da donne vampiro. Abbiamo
precedentemente studiato i versi della composizione nel confronto tra la sensualità
diabolico-urbana e l’amore buono per Eura, perciò non ce ne voglia Buzzati se passiamo
direttamente alla terza canzone, quella intonata presso la soglia dell’inferno.

Orfi si crogiola nel mistero della morte dell’amata, incapace di accettarlo; una notte,
imbracciando la chitarra, si presenta alla porticina che ha inghiottito la ragazza oltre il muro
di cinta della villa in Via Saterna.
Ad aspettarlo, là appoggiato, c’è l’uomo verde che lo ha informato della morte della stessa.
Nel ruolo peculiare di carismatico enigma, la sigaretta tra le dita, dà al protagonista una
spiegazione in più: la porticina in questione è una delle tante di accesso al mondo dei morti.
Si apre “quando canta la civetta” 269 , quando si approssimano “i camion di miserere” 270 ,
quando la nebbia risale le vecchie scale e il buio, la stanchezza e il nulla risalgono il profondo
dell’individuo, in un crescendo grave. Si apre alla fine. La civetta che Buzzati accosta alla
spiegazione di pagina 49 assomiglia curiosamente al ritratto dell’uomo verde della tavola
precedente, accomunati forse dallo stesso modo di essere contemporaneamente incombenti
e impalpabili.
“E io posso / passare?”271, domanda Orfi. La risposta dell’uomo verde è lapidaria e, come
probabilmente tutte quelle fornite nel corso del racconto, inesatta: “No tu sei / vivo”272.
Ma l’eroe non se ne cura:

PORTATO DAL
VENTO DELLA
DISPERAZIONE
E DELLA NOTTE,
ORFI SI
MISE A
CANTARE [...].273

Un randagio, una foglia autunnale che si accartoccia al suolo, Orfi si presenta nella prima
strofa come “passante solitario, [...] vedovo ramingo, [...] bambino nel bosco, [...] ragazzo

269
Buzzati, Dino (2017), Poema a fumetti, op.cit., p.49.
270
Ibidem.
271
Ivi, p.50.
272
Ibidem.
273
Ibidem.
108
infelice”274 e le sue parole risuonano ‘toc toc’. La città si ferma ad ascoltare: da immobili e
indifferenti a pagina 51, i palazzi si assiepano, si accalcano, si affollano nella tavola
successiva, un po’ pubblico, un po’ coro, così come le loro finestre nere sono a metà tra
bocche e orecchie spalancate.
Orfi continua il suo canto: “Mi inseguono i lupi”275. È un verso che segnala una delle strade
sotterranee del Poema, inaspettata scorciatoia che porta il lettore abbastanza attento, o
abbastanza fantasioso, a pagina 166.
La tavola in questione ospita un episodio appartenente alla canzone successiva, quella che
il protagonista canta ai trapassati: racconta della visita di un lupo in una notte di tormenta,
che curiosamente batte alla porta della casa di due amanti. È “il pensiero antico, / il solito,
il nostro, di noi uomini, / l’unico anzi”276, spiega lui a lei: è la morte, che si presenta come
un presagio impossibile da scacciare. Il lupo bussa e bussa: “Ancora un bacio, forse c’è il
tempo”277, si dicono i due amanti, anticipando le parole scambiate da Eura e Orfi a fine Poema,
quando un altro lupo, peggiore della morte, li incalza.
È lo stesso presagio che morde le caviglie dell’eroe quando bussa all’inferno. La morte batte
alle porte dell’anima e presto o tardi forzerà la serratura: “Tra poco pioverà”278, si chiude la
strofa.

Nella successiva, perciò, Orfi accelera il ritmo e vezzeggia l’entrata dell’inferno con paroline
dolci, costruendo un ‘apriti sesamo’ che addomestica la porta come il fachiro incanta il
serpente:

APRITI PORTA GRAZIOSA


COSÌ PICCOLA COSÌ SEVERA
APRITI MISTERIOSA
APRITI PORTA DIVINA
APRITI PORTICINA NERA [...].279

Le lusinghe fanno effetto: una ‘voce d’oltretomba’ chiede a Orfi la ragione del suo insistere.
Quello risponde “Perché là dietro c’è lei / se c’è lei io non ho paura” 280, col coraggio di un
eroe epico e l’ingenuità di un ragazzo. Il valore comprovato, o piuttosto la motivazione

274
Buzzati, Dino (2017), Poema a fumetti, op.cit., p.53.
275
Ibidem.
276
Ivi, p.166.
277
Ibidem.
278
Ivi, p.53.
279
Ibidem.
280
Ibidem.
109
amorosa, che come già osservato ha una certa affinità col mondo ultraterreno, fa sì che la
porta si apra.
Il canto ha esaurito il suo compito; prima di lasciare la pagina in cui è impresso, rivolgiamo
all’immagine [fig.38] che lo accompagna uno sguardo più profondo: come spesso accade
quando Buzzati è coinvolto, là il senso delle parole si compie e si complica.

Buzzati disegna il suo eroe microscopico, una ‘formica sperduta’ di cui distinguere a
malapena la chitarra che porta in braccio, uno sbaffo di inchiostro. Davanti a lui, la porticina
proporzionata, parte non più delle mura della villa, ma di una montagna che si staglia,
altissima, smisurata, contro uno sfondo astratto. L’aria della scena, impossibile e subacquea,
ricorda un quadro surrealista di Tanguy, o la metafisica di De Chirico.
Le parole che Buzzati dedica all’opera di quest’ultimo possono essere applicate, così come
sono, alla tavola del Poema in questione:

[...] atmosfera e presenza [appunto] magiche, perché sembra che la scena sia uscita da
un sortilegio, che tutto viva in un piano più alto del nostro, che tutto sia sospeso e quasi
trattenga il respiro nell’attesa di qualcosa che non si sa: clima estatico, nello stesso tempo
enigmatico e inquietante.281

L’elemento più interessante è la “speciale ‘presenza’ delle cose” 282 che De Chirico è un
maestro nell’evocare; Buzzati, in questa occasione, supera il maestro: la montagna è
letteralmente una presenza. A un’analisi più attenta, il complesso roccioso è antropomorfo,
ha la testa, le spalle e le braccia, inglobate dal blocco in un complesso di venature.

Secondo il sistema buzzatiano, una montagna non è mai soltanto quel che è. L’autore,
innamorato delle sue Dolomiti, le conosce abbastanza da ammettere che è impossibile
conoscerle, al massimo le si può interpretare. È un ambiente talvolta materno, altre nemico,
predisposto alla magia, custode di misteri, che poco ha a che fare con la natura – a meno che
non si intenda quella umana: “Quando sono solo sulle rocce, allora sfoglio le pietre come
fossero pagine di un diario”283. La montagna introiettata è cangiante e bizzosa.
La sua occorrenza nella canzone di Orfi apre un passaggio segreto, che collega la tavola a
pagina 125 del Poema. A quell’altezza, il racconto è passato al canto successivo, che è un
elenco di suggestioni: quella, nello specifico, si articola come palazzi-vette con trafori-
finestre e comignoli-crepacci.

281
Buzzati, Dino, La scoperta di De Chirico, in «Corriere della Sera», 17 luglio 1968.
282
Ibidem.
283
De Mario, Guido (1980), In vita, in Il mistero in Dino Buzzati a cura di Romano Battaglia, Rusconi Libri, Milano, p.9.
110
I versi recitano:

QUANDO LA GRANDE MONTAGNA ALL’IMPROVVISO DIVENTA LA NOSTRA /


VITA,
LA NOSTRA CITTÀ, LA NOSTRA VECCHIA CASA, L’ANTICA NOSTRA /
TOMBA.284

È ciò che accade nella tavola in cui l’eroe bussa all’inferno: l’inferno, all’improvviso, gli
somiglia. La domanda allora è: dove sta cercando di entrare, davvero, Orfi? È forse un
indizio in più che il viaggio compiuto dall’eroe sia, tutto sommato, presso i suoi inferi
personali?
Dietro la porta c’è il nugolo di donne discinte a lui familiare, la sua Milano, la sua Eura, se
stesso rifranto e ripresentato a se stesso, come in un gioco di specchi surrealista – ma tutto
questo l’eroe lo scoprirà solo dopo aver bussato. Per il momento, il suo inconscio gli si staglia
davanti nella forma di una montagna, granitico, all’apparenza impossibile da scavare e
restio alla scalata: eppure, la testa di roccia è leggermente inclinata, ascolta il canto, e
un’apertura, per quanto piccola, c’è.
Guarda caso, proprio a misura d’uomo.

284
Buzzati, Dino (2017), Poema a fumetti, op.cit., p.125.
111
fig.38: Toc toc...

112
2.3. Danza macabra

La quarta canzone intonata da Orfi scioglie il nodo di tutta la filosofia buzzatiana.


Il protagonista del Poema, saturo della spiegazione dell’inferno fornitagli dal giaccone,
insiste perché gli sia concesso di ritrovare Eura. Il diavolo custode propone uno scambio: il
permesso alla discesa per una canzone, nonostante sia proibito assecondare il ‘peggior vizio
vietatissimo’ dei dannati e abbandonarsi ai ricordi, nonostante il giaccone sia l’astratto
responsabile della legge nell’aldilà. Nell’inferno postmoderno e post-ideologico di Buzzati
tutto è concesso: la regola è relativa e può essere trasgredita, tanto più che il giaccone,
retrocesso a guardia confinaria, lascia il ruolo di capo dell’Ade a un “tipo elettronico robot
/ manageriale dirigenziale executive” 285 , per ovvi motivi meno sensibile nel captare le
umane trasgressioni, che “manco suppone che...”286, che “non ci sentirà”287.

Perciò, in uno spazio segreto delimitato dalla complicità tra vivo e morti, Orfi è invitato a
cantare ciò che è più squisitamente illecito ascoltare: “le leggende, la solitudine, la
disperazione, le gloriose e inarrestabili vittorie, le definitive sconfitte, fantasmi, demoni” 288.
A pagina 105 il diavolo glielo chiede afflosciandosi al suolo, in ginocchio come se avesse un
corpo:

I TUOI RICORDI DI BAMBINO


LE SERE I FANTASMI GLI STRANI PENSIERI L’IMBUTO DEL TEMPO
[...] I PRATI GLI ALBERI L’AMORE,
LE DISPERAZIONI POI, I SEPOLCRALI TERRORI,
LE DIVINE ANGOSCE MORTALI [...].289

Negli inferi, la prospettiva è sottosopra: ciò che è mortale è ‘divino’ e la morte è la vita: il
giaccone chiede a Orfi di cantargli la finitezza delle cose soggette al tempo, imbevute del
presentimento “di quello che ti aspettava in fondo alla strada”290, dotate, in virtù di esso, di
una speciale lucentezza, di un sentore dolcissimo di marcescenza.
Ai morti che hanno le stelle, il vento e la notte, che non hanno malattie e ferite, né fame, né
bisogni, affetti da un’apatica felicità, Orfi canta il dolore, il dubbio e il desiderio, tutto ciò
che danna i vivi con la sua presenza e i trapassati con la sua assenza.

285
Buzzati, Dino (2017), Poema a fumetti, op.cit., p.105.
286
Ibidem.
287
Ibidem.
288
Carbone, Annalisa (2016), Dipingere e scrivere per me sono la stessa cosa, op. cit., p.57.
289
Buzzati, Dino (2017), Poema a fumetti, op.cit., p.106.
290
Ibidem.
113
L’eroe imbraccia la chitarra e attorno a lui, a pagina 108 [fig.39], si affollano le anime, come
tante riproduzioni de L’urlo (1883) [fig.40] di Munch. È un riferimento curioso, soprattutto in
virtù del fatto che Buzzati non inserisce il nome del pittore tra i personaggi ringraziati per
‘gli utili consigli’ a inizio Poema, ma lascia al lettore la sorpresa di riconoscere il volto
spettrale, gli occhi sgranati, l’abisso della bocca presi in prestito dal quadro-simbolo
dell’angoscia moderna.
I dannati di Buzzati e il personaggio di Munch hanno in comune la sola fisionomia:
l’ipersensibilità, lo stato di allarme, l’affanno è cosa dei vivi. I morti, invece, sono piuttosto
sbiaditi, fantasmi, nonostante rubino dal quadro espressionista anche le linee di energia che
vibrano e vertono a imbuto sul soggetto: se l’uno è febbrile e serpentino, posseduto dall’urlo
della vita, gli altri sono sua pallida imitazione; se l’uno si protegge le orecchie perché sente
troppo, gli altri hanno fame di ascoltare, quel che sentono è niente.
A Buzzati piace giocare e il lettore lo sa. L’autore attribuisce ai morti il volto di ciò che
bramano provare, eppure non possono e non potranno più: la sopraffazione dei sensi, il
patire impossibile e disperato, il peso schiacciante di esistere e, dentro la troppa vita, la
morte, il sangue e la fine – bramano l’urlo, ed è ciò che chiedono a Orfi di cantare.
Buzzati, giocatore sveglio, inserisce come suo solito un livello di lettura in più. Munch del
suo quadro racconta:

Una sera camminavo lungo un viottolo in collina nei pressi di Kristiania – con due
compagni. Era il periodo in cui la vita aveva ridotto a brandelli la mia anima. Il sole
calava – si era immerso fiammeggiando sotto l’orizzonte. Sembrava una spada infuocata
di sangue che tagliasse la volta celeste. [...] Esplodeva il rosso sanguinante – lungo il
sentiero e il corrimano – mentre i miei amici assumevano un pallore luminescente.291

Il pittore descrive un tipo di esperienza familiare a Buzzati, che l’autore delinea con scrupolo
in un passaggio de Il deserto dei tartari (1940):

Allora si sente che qualcosa è cambiato, il sole non sembra più immobile ma si sposta
rapidamente, ahimè, non si fa tempo a fissarlo che già precipita verso il fiume
dell’orizzonte, ci si accorge che le nubi non ristagnano più nei golfi azzurri del cielo ma
fuggono accavallandosi l’una sull’altra, tanto è il loro affanno; si capisce che il tempo
passa e che la strada un giorno dovrà pur finire.292

Buzzati visualizza l’esperienza mortale come una fuga a precipizio incalzata dal tempo, un
processo lineare e inarrestabile che conduce al crollo.

291
Oranti, Luisa, L’urlo – di Edvard Munch – Analisi e descrizione dell’opera, in culturainrete.it, 7 novembre 2019
[consultato in data 5 febbraio 2021].
292
Buzzati, Dino (2018), Il deserto dei Tartari, op.cit., p.41.
114
La vita è un percorso che passa repentinamente dall’illusione, la speranza e l’innocenza al
presagio e alla condanna, da scontare soli:

Intanto i compagni si perderanno di vista, qualcuno rimane indietro sfinito, un altro è


fuggito innanzi, oramai non è più che un minuscolo punto all’orizzonte.293

I compagni di strada di cui parla Buzzati sono le figurine appena abbozzate del quadro di
Munch, due sagome che procedono sorde all’urlo, a una distanza ormai impercorribile per
il protagonista dell’agonia: “I miei amici continuavano a camminare e io tremavo ancora di
paura...”294.
L’esperienza è spietata: l’epifania colpisce mentre si passeggia ‘lungo un viottolo in collina
nei pressi di Kristiania’, mentre inconsapevoli si esiste, come un fulmine, come un chiodo
che cede all’improvviso e infrange il quadro al suolo. Possibile che sia questa l’esperienza
di cui i trapassati hanno fame e nostalgia? Che vogliono sentir cantare?

Nella richiesta rivolta a Orfi, il giaccone lascia pochi dubbi a riguardo. I morti vogliono
ascoltare:

I PRIMI PRESENTIMENTI
DI QUELLO CHE TI ASPETTAVA IN FONDO ALLA STRADA
APPENA COMINCIATA, PER ORA ILLUMINATA DAL SOLE [...].295

Si tratta dell’epifania in negativo che Buzzati racconta e Munch dipinge: l’intuizione chiara
e fulminea, impossibile da dimenticare, dell’ultima porta che attende – perché le parole, le
strisce di fuoco, il rosso sanguinante, il blu profondo del fiordo urlano quello, morte.
A quest’altezza del Poema, il racconto risponde alla domanda: c’è qualcosa di peggio da
scontare?
È una domanda che l’autore rivolge a se stesso prima che al lettore: ricordiamo che gli inferi
cui Orfi accede sono i suoi, che il dialogo col diavolo custode, lo scambio con le diavolesse
tentatrici, coi morti e con Eura avviene internamente, che l’intera discesa è potenzialmente
“solamente, / solamente un sogno”296, un’ipnosi, una seduta di terapia, e, infine, che Orfi è
Buzzati che parla allo specchio.
L’autore, dunque, si chiede se ci sia qualcosa di peggio dell’ossessione che per tutta la vita
lo ha rincorso, del suo Colombre, dell’idea chiara e tremenda della morte. Risponde: sì, c’è

293
Buzzati, Dino (2018), Il deserto dei Tartari, Mondadori, Milano, p.41.
294
Oranti, Luisa, L’urlo – di Edvard Munch – Analisi e descrizione dell’opera, op.cit.
295
Buzzati, Dino (2017), Poema a fumetti, op.cit., p.106.
296
Ivi, p.213.
115
qualcosa di peggio dell’urlo, ed è il silenzio; di peggio dell’ultima porta, c’è la sua mancanza;
peggio di morire, c’è l’essere immortali.
Buzzati, che ha urlato con garbo per tutta la sua carriera, che ha trasformato in disegni e
parole il suo nodo alla gola, canta e ascolta, un po’ Orfi un po’ pubblico di morti, di quanto
quella pena sia importante, di quanto le lingue di fuoco che hanno lambito la sua esistenza,
pur sembrando l’inferno, erano in realtà il suo opposto. L’inferno non è pena eterna: la vita
lo è, ma va bene così.
Al di là dell’ultima porta, “ecco la striscia di uno smisurato mare immobile, colore di
piombo”297 dice Buzzati: ecco la noia, la stasi eterna, grigia, fredda e pesante come il metallo,
ecco la fine di tutti i dolori, quindi di tutti i piaceri, la fine dello sperare e di tutti i domani.
Ecco la marcia eterna di pagina 109, 110 e 111 del Poema, file e file di uomini-formica, accanto
eppure soli, che battono le strade della Milano infera “dove ‘non manca nulla’, ma è l’intera
vita a mancare”298, che avanzano sulla schiena di una donna [fig.41], forse Eura, forse no, che
aleggia trasparente come uno spirito, o peggio, un ricordo.

‘Soffri finché sei in tempo’, sembra dire Buzzati ai suoi morti, ai suoi lettori e a se
stesso.
Non lo dice alla leggera, poiché lo strazio di vivere è ciò che indaga in ogni dipinto, appunto,
romanzo o racconto breve, come autore e individuo: Buzzati scrive Poema a fumetti con la
fine alle calcagna, che cala su di lui come un ‘soffitto cieco’ pochi anni dopo la pubblicazione
dell’opera.
La morte è il rintocco lugubre che incalza, il contrappunto di ogni momento sereno rubato
al tempo, il ‘toc’ che segue ad ogni ‘tic’ e la protagonista indiscussa di tutta la sua opera, di
più, la diva smorfiosa, la star che non si lascia adombrare da nessuna delle altre comparse –
siano esse l’amore, la natura, la magia: è il mistero che avanza, l’assoluto, il punto cieco, ciò
che l’uomo non sa raccontare.

Poema a fumetti fa e non fa eccezione: la morte è comunque il personaggio principale, ma,


per la prima volta, non è l’antagonista impossibile, bensì l’eroina positiva; la salvezza, non
la condanna.
Nell’incanto del racconto, la prospettiva si ribalta: in via del tutto straordinaria, nel suo
modo originale e perverso, attraverso la morte, Buzzati canta la vita.

297
Buzzati, Dino (2018), Il deserto dei Tartari, Mondadori, Milano, p.41.
298
Del Puppo, Alessandro (2002), Buzzati 1969: il “Poema” e la pittura, in Buzzati 1969: il laboratorio di “Poema a
fumetti” op.cit., p.22.
116
Lo fa con una danza macabra, evocando un sabba di streghe, raccontando la miseria, l’orrore,
il buio: ogni momento di tristezza e abbandono si trasforma in una celebrazione, nelle note
di una musica che commemora l’esistenza senza romanzarla, ma accogliendola per ciò che
è, per la cosa piccola, sporca e magnifica che è. Orfi canta ai morti senza morte cosa significa
sentire il tempo scorrere e scavare nella carne viva, goccia dopo goccia come una tortura
cinese: ogni strofa della sua canzone li incalza con un ‘quando’ o un ‘ti ricordi’, la croce e la
delizia dei maniaci della nostalgia, i ritornelli dell’altra dimensione.
Ciò che i morti spasimano di ascoltare non sono i momenti alti, epici o illustri della vita
terrena: vogliono, piuttosto, le astrazioni, le supposizioni, i presagi, ciò che si consuma
internamente all’uomo, le metafore di senso, parziali e viziate, elaborate dall’individuo nella
sua insignificanza.
Orfi li accontenta:

TI RICORDI I TRENI DEI DIAVOLI


CHE USCIVANO DALLE NUVOLE
SENZA STREPITI
ALLE SEI DI SERA?
I DIAVOLI SCENDEVANO
I DIAVOLINI SCENDEVANO
SU DI TE. ERI FELICE.299

Oppure:

QUANDO IL VECCHIO PROFESSORE DI


MATEMATICA INCONTRA IL PRIMO AMORE.300

Oppure:

QUANDO IL VECCHIO INQUILINO PER LA CENTESIMA VOLTA GUARDA SE


C’È POSTA NELLA SUA CASELLA IN PORTINERIA MA NON C’È NIENTE
NON CI SARÀ MAI NIENTE.301

A volte il racconto dura un verso: “Quando l’uomo solo si perde nel bosco”302; altre, la storia
si dipana per più pagine, riportando dettagliatamente uno spaccato di mondanità: “Ma nella
casa dell’ingegnere Claudio Nocini, atti- / co del / sedicesimo piano, nel condominio

299
Buzzati, Dino (2017), Poema a fumetti, op.cit., p.114.
300
Ivi, p.122.
301
Ivi, p.124.
302
Ivi, p.128.
117
signorile dovuto / all’architetto / (di moda) Bruno Peril (dello studio Lattanzi-Pier- /
franceschi-Peril) [...]”303.
In entrambi i casi, Orfi si comporta come un menestrello medievale che riferisce al suo
pubblico vicende esotiche di terre lontane. La folla non ne ha mai abbastanza, “Ancòra! /
Ancòra!”304, e dà all’autore la scusa per elencare l’esperienza umana per intero: Orfi la canta,
Buzzati la precisa con la sua singolarità.
Tra le strofe, il lettore trova le creature del bestiario dell’autore, i riferimenti militareschi,
fantastici, naturalistici, i salotti borghesi, l’amore dai quattro occhi – è quello verso cui il
vecchio professore di matematica tende le braccia come uno zombie, che segue in trance,
come i topolini della fiaba antica fanno col pifferaio, fino a un cimitero...
Ci sono i corpi di donna nudi e lussureggianti costretti in pose sadomaso, il pulviscolo della
sera che penetra nelle stanze, la speranza, le montagne; c’è un lungo détour sull’amore
carnale e uno su Dio. C’è, come da premessa, il contenuto delle viscere dell’autore, ordinato
attraverso il canto.

Difatti, in termini di esorcismi, Poema a fumetti è il capolavoro di Buzzati: Orfeo ammansisce


le fiere con la sua musica, Orfi i morti e l’autore se stesso. Le sue ossessioni passano per un
processo di sublimazione che le frantuma e le trasforma in materiale per la ballata:
organizzate in strofe e interpretate da un giovane scarmigliato, non fanno più così paura.
Ognuna ha un principio e una fine e si ricicla come esperienza universale e partecipata, sono
“piccole storie”305 che il protagonista dà in pasto ai morti e di cui i morti non sono mai sazi.
In questo senso, è interessante considerare la pagina che ospita la richiesta del diavolo
custode e la successiva, 106 e 107 del Poema: sopra all’elenco delle “cose crudeli”306 che il
giaccone vuole sentir cantare, Buzzati disegna una freccia rossa che dirotta l’attenzione del
lettore verso un collage di nove riquadri [fig.42]. Disposti ordinatamente e in modo da
occupare tutta la tavola, ogni riquadro è una scatola contenente una delle suddette cose
crudeli: c’è la paura, la solitudine, la claustrofobia e l’attesa, una montagna antropomorfa,
un tavolo anatomico, figurine umane abbozzate perse in una stanza con una porta. Per
quanto le scene siano efferate, una netta linea di demarcazione le contiene e le organizza,
così che l’orrore si dispieghi sulla pagina, mostri il fianco al lettore e si riveli insulso e pop:
chi è il demonio che occupa la scatola al centro? È così oppressivo da invadere tutto lo spazio,

303
Buzzati, Dino (2017), Poema a fumetti, op.cit., p.140.
304
Ivi, pp. 136-137.
305
Ivi, p.138.
306
Ivi, p.106.
118
eppure la sua espressione è più caricaturale che feroce. E il suicida, immediatamente alla
sua sinistra? Più che un impiccato, è un quadro appeso a un chiodo.
L’inquietudine che grava su tutta l’opera buzzatiana è contenuta in nove riquadri,
sintetizzata in pochi tratti essenziali, minimizzata e ridicolizzata, la sua forza soverchiante
è un lontano ricordo: tanto è il potere delle parole. Ciò che può essere cantato può essere
raccontato, quindi controllato – e Orfi canta tutto il cantabile.

Tutto risolto, dunque. Tutto compreso, accolto e sconfitto, analizzato sintatticamente,


grammaticalmente piegato. O forse no?
La canzone di Orfi, dopo aver toccato le vette dei monti e gli abissi dell’essere, scandagliato
le solitudini e gli amplessi, il profano, l’umano, il divino, si interrompe bruscamente.
MA A QUESTO PUNTO, SOPRA UN ALTRO RICORDO CONTENENTE
LA GRANDE IDEA FATALE, ORFI SI FERMÒ.307

C’è qualcosa che neanche il protagonista del Poema è capace di cantare: ancora lei, la morte.
Il lettore salterà su piccato: non è forse ciò che Orfi ha raccontato, strofa dopo strofa, fino a
quel momento? Ma Buzzati ha passato troppo tempo in compagnia della ‘grande idea fatale’
per non riconoscerne tutti i volti e sapere che ce n’è uno di Medusa che neanche la parola
può guardare.
Della morte si può cantare l’ombra, il sospetto, le sue innumerevoli correspondances; è
possibile approssimarsi a essa, raccontare ciò che è attorno e le somiglia – ma, ricordiamo,
lei è il mistero.
Il mistero non si conosce, non si controlla e non si racconta, ma è una fortuna: altrimenti
saremmo i morti afasici che abitano la Milano infera e non ci sarebbe più nulla da cantare.

307
Buzzati, Dino (2017), Poema a fumetti, op.cit., p.178.
119
fig.39: Allora Orfi ha cominciato a cantare.

120
fig.40: L’urlo, Edvard Munch, 1839-1910.

121
fig.41: Non sarebbe finita mai…

122
fig.42: Su, comincia, ti ascoltiamo.

123
2.4. Un ritorno

Buzzati non è tipo da seconde occasioni: non le dà a se stesso e men che mai le accorda
ai suoi personaggi. Uno dei temi della sua narrazione, strettamente correlato alle ossessioni
per la morte, il tempo e il mistero, è quello del non ritorno.
La prima canzone analizzata, quella con cui Orfi fa ‘toc toc’, specifica che anche e soprattutto
l’inferno non fa eccezione:

[...] TUTTI SANNO


CHE DI NOTTE O DI GIORNO
DI LÀ NON ESISTE RITORNO.308

L’ultima canzone la contraddice.

Consideriamo che il viaggio esplorativo agli inferi è un topos: il mito cui attinge Buzzati
prevede una risalita per Orfeo, per quanto infelice, e la storia della letteratura pullula di
argonauti che fanno dell’esperienza post mortem un viaggio educativo di andata e ritorno.
Perciò, è ragionevole che il lettore si aspetti lo stesso destino per il protagonista di Poema a
fumetti: pagina dopo pagina, il Bildungsroman si articola come un passaggio a doppio senso,
giù per poi tornare su con un bagaglio di esperienza diverso. Per quale motivo, dunque,
conoscendo le aspettative del lettore, Orfi canta quella specifica sulla soglia dell’inferno?
Adducendo inoltre il fatto che ‘tutti sanno’ che il cammino che vuole intraprendere conduce
a un vicolo cieco?
Il punto è che ciò che è vero per la maggior parte dei romanzi e degli autori non vale per
Poema a fumetti e per Buzzati. I coraggiosi che si avventurino nella sua narrazione conoscono
il rischio: più che una discesa, è una caduta.

Buzzati scrive, disegna e intende l’irrimediabile come effetto collaterale del tempo,
considerato nella sua marcia in avanti che non conosce requie. Il passato è una perversione
da consumarsi nel “palazzo dei maniaci”309, il presente una fuga, il futuro è l’inferno: questa,
a grandi linee, è la linea temporale entro cui si colloca l’intera opera buzzatiana, dai romanzi,
ai quadri, ai racconti brevi.
Due di quest’ultima categoria, in particolare, interessano il tema del non ritorno: Sette piani
(1937) e Sette messaggeri (1942).

308
Buzzati, Dino (2017), Poema a fumetti, op.cit., p.53.
309
Ivi, p.79.
124
Il numero ‘sette’ torna in entrambi i titoli: sette come i giorni della settimana, che è l’unità
di misura, tra le tante, che l’uomo inventa e poi impiega per costruire l’illusione di avere
controllo sul tempo, presentando il racconto biblico come prova a supporto.
Sette piani è il racconto di una malattia misteriosa, i cui sintomi sono vagheggiati appena
dalla narrazione, di cui il protagonista Giuseppe Corte è vittima e per cui entra in una
struttura specifica.
L’edificio è suddiviso in sette piani, a ogni piano corrisponde un grado di gravità del morbo:
i casi lievi sono all’ultimo, i moribondi al primo. Il Corte, che ha soltanto una “leggerissima
forma incipiente”310 della malattia, si colloca al settimo piano, dove “tutto era tranquillo,
ospitale e rassicurante”311: i mobili sono chiari, il personale gentile, la vista dà su uno dei più
bei quartieri della città.
Da quel momento in poi le cose, letteralmente, precipitano: per un motivo o per un altro, il
paziente comincia la sua discesa, di piano in piano. Raramente la ragione della sua
retrocessione è di carattere medico: il Corte è vittima dell’entropia, che segue un’unica
direttrice verso il basso. “Giunse così, per quell’esecrabile errore, all’ultima stazione”312.
La discesa corrisponde a uno scollamento sempre maggiore dalla realtà: la cinta di alberi
nasconde la vista della città e per quanto il Corte, ancora al quarto piano, tenti di interessarsi
degli affari degli uomini sani, la sua vita interiore ed esteriore è ormai circoscritta alle mura
del sanatorio.
Giunto alla fine, neppure gli alberi che vede dalla finestra gli sembrano veri: l’impressione
è quella di essere “in un mondo irreale, fatto di assurde pareti a piastrelle sterilizzate, di
gelidi androni mortuari, di bianche figure umane vuote di anima”313. È interessante notare
che la maggior vicinanza con la terra sia inversamente proporzionale alla percezione di
connessione col mondo: per Buzzati le cose conservano un senso di realtà solo se viste da
una prospettiva alta e lontana.
Gli ultimi momenti di vita del paziente sono così descritti:

Con uno sforzo supremo Giuseppe Corte, che si sentiva paralizzato da uno strano
torpore, guardò l’orologio, sul comodino, di fianco al letto. Erano le tre e mezzo. Voltò il
capo dall’altra parte, e vide che le persiane scorrevoli, obbedienti a un misterioso
comando, scendevano lentamente, chiudendo il passo alla luce.314

310
Buzzati, Dino (1937), Sette piani, in settepiani.com [consultato il 5 febbraio 2021].
311
Ibidem.
312
Ibidem.
313
Ibidem.
314
Ibidem.
125
Il moribondo, nonostante gli costi uno sforzo supremo, si rivolge all’orologio: l’ora
rappresenta l’ultimo legame col mondo al di là della cinta degli alberi. È curioso notare come
l’oggetto ritorni nelle pagine finali di Poema a fumetti, quando Eura ‘ritrovata’ ha una
reazione molto forte vedendolo al polso di Orfi:

FAMMI VEDERE. L’OROLOGIO! L’OROLOGIO


VERO DEL TEMPO CHE PASSA, L’OROLOGIO DEI
VIVI. FAMMI SENTIRE. OH SÌ. FA TIC [...].315

L’accessorio è il feticcio dei trapassati: il Corte vede in esso ciò che vede Eura perché per lui,
come per lei, il tempo è finito.
Sette piani si apre a più interpretazioni: forse il sanatorio rappresenta la vita, o forse la vita è
la malattia che affligge con leggerezza chi è ancora in vetta e poi grava sempre più. La
costante è la speranza verso una risoluzione positiva del morbo di vivere, che non c’è perché
il suo decorso naturale è la morte.
Di piano in piano, il Corte precipita senza capire realmente il perché, scacciando i momenti
di consapevolezza con la negazione o battendo i piedi. A fine racconto, è come sul fondo di
un pozzo: non c’è possibilità di risalita, il pozzo si chiude ed esclude per sempre il passo
alla luce.

Sette messaggeri risponde alla stessa necessità di narrare il non ritorno, ma con due differenze
sostanziali rispetto al primo racconto analizzato: la direttrice che segue la storia è
orizzontale e non verticale; il protagonista ha un ruolo attivo nel fabbricare il proprio
destino.
È il resoconto di un viaggio narrato in prima persona dal figlio minore di un re che, poco
più che trentenne, lascia la sua reggia per raggiungere e conoscere i confini del regno.
Prima di partire, mette a punto un sistema per non perdere contatto con la capitale: sette
messaggeri, scelti tra i migliori cavalieri della sua scorta, avrebbero fatto da spola tra la
spedizione e casa, riportando notizie e messaggi.
Nelle previsioni del protagonista il viaggio era ben poca cosa, questione di settimane: il
percorso, però, si stira e si allunga, senza che mai se ne veda la fine. L’intervallo di tempo
tra l’invio di un messaggero e il ritorno di un altro è sempre più lungo, inutili i plichi di fogli
e lettere che portano con loro, già ingialliti al momento della consegna.
Nel presente narrativo, il principe soppesa l’assurdità di quell’esistenza spesa alla ricerca di
un confine che si sposta insieme a lui:

315
Buzzati, Dino (2017), Poema a fumetti, op.cit., p.203.
126
Non esiste, io sospetto, frontiera, almeno non nel senso che noi siamo abituati a pensare.
Non ci sono muraglie di separazione, né valli divisorie, né montagne che chiudano il
passo. Probabilmente varcherò̀ il limite senza accorgermene neppure, e continuerò ad
andare avanti, ignaro.316

Il principe, a differenza del Corte, asseconda la corsa del tempo, va “avanti, avanti!” 317
compiendo l’unico, imperdonabile errore di sottovalutare la forza contro cui gareggia: ben
presto, il tempo lo supera, lo doppia, trasforma per comparazione il suo procedere in fissità.
“Noi in realtà siamo forse andati girando su noi stessi”318 è un’altra delle spiegazioni che
azzarda il principe. L’autore, nei ricordi del giornalista Ruggero Orlando che scrive di lui in
morte, dà ragione al personaggio:

Buzzati credeva che non ci muoviamo. Siamo fermi, siamo alla fine del tempo: il
movimento, pensava, è un’illusione come il dolore alla gamba per quello a cui la gamba
è stata amputata.319

Il viaggio del principe, più che la caduta del Corte, ricorda l’esperienza di Giovanni Drogo
ne Il deserto dei tartari: la rincorsa della frontiera in Sette messaggeri e la ricerca di un segno
dalle mura della Fortezza Bastiani si assomigliano per ostinazione e vocazione al fallimento.
Il principe e Drogo scelgono l’esilio a favore di un grande evento desiderato e che non si
verifica: per entrambi, il non ritorno è a metà tra la scelta e l’ineluttabile.
In teoria, i personaggi sono liberi di girare sui tacchi e rientrare a loro piacimento; in pratica,
c’è un momento in cui Giovanni Drogo tenta il ritorno casa, provando empiricamente che è
impossibile.
Il racconto dei suoi giorni lontano dalla Fortezza occupa poche pagine su cui soffia un
presagio.
Il momento più significativo è quello che descrive l’incontro tra il protagonista e Maria, la
sorella di un amico per cui Drogo ha nutrito un sentimento:

Entrambi tacquero. Il pomeriggio ristagnava sulla città, gli uccelli erano ammutoliti, si
udivano solo i lontani accordi di pianoforte, tristi e metodici, che salivano salivano,
riempiendo l’intera casa, e c’era in quel suono una specie di ostinata fatica, una difficile
cosa da dire che non si riesce a dire mai.320

316
Buzzati, Dino (1942), I sette messaggeri, in giorgiocadorini.org [consultato il 5 febbraio 2021].
317
Ibidem.
318
Ibidem.
319
AA.VV., (1980), Il mistero in Dino Buzzati a cura di Romano Battaglia, Rusconi Libri, Milano, p.19.
320
Buzzati, Dino (2018), Il deserto dei Tartari, op.cit., p.134.
127
L’indicibile è che per Drogo non c’è ritorno. La sua vita si consuma altrove, entro le mura
della Fortezza, avviata su un binario morto: nel luogo che chiama casa può presentarsi solo
in visita, aleggiare come un fantasma.

Il lettore che si diverta a percorrere i passaggi segreti buzzatiani approderebbe, da questa


osservazione, a Il mantello (1940), altro racconto breve, che narra il ritorno di un soldato dalla
madre dopo due anni passati sul campo di battaglia. Curiosamente, il soldato porta lo stesso
nome del protagonista de Il deserto dei tartari, Giovanni; altrettanto curiosamente, quella che
sarebbe stata la sua promessa sposa, ricordatagli dalla madre, si chiama Marietta.
L’entusiasmo della donna alla vista del figlio si spegne nel giro di pochi paragrafi: ben
presto intuisce che il soldato è morto lontano da casa, che è di passaggio per un rapido saluto,
che “il signore del mondo” 321 lo sta aspettando pazientemente al cancello, “prima di
condurselo via per sempre”322.
Nel suo ritorno c’è qualcosa di temporaneo, di eccezionale e, a conti fatti, di sbagliato.

Vale per il protagonista de Il mantello, per Drogo e per il principe in Sette messaggeri, che si
misura con le notizie della capitale dove lui non esiste più:

I più recenti messaggi mi hanno fatto sapere che molte cose sono cambiate, che mio
padre è morto che la Corona è passata a mio fratello maggiore, che mi considerano
perduto, che hanno costruito alti palazzi di pietra là dove prima erano le querce sotto
cui andavo solitamente a giocare.323

Ciò che è alle spalle è ormai perduto: il tempo ha chiuso il passo, l’unica direzione è avanti.
Di questo il principe ha una percezione chiara, tanto che si risolve, nel presente narrativo, a
invertire la direzione dei suoi messaggeri, animato “dalla curiositas verso l'ignoto che lo
precede, lo aspetta e gli spetta”324.
Avanti, dunque. Tanto più che ultimamente ha un presentimento:

Vado notando – e non l'ho confidato finora a nessuno – vado notando come di giorno in
giorno, man mano che avanzo verso l'improbabile mèta, nel cielo irraggi una luce
insolita quale mai mi è apparsa, neppure nei sogni; e come le piante, i monti, i fiumi che

321
Buzzati, Dino (1940), Il mantello, in iispandinipiazza.edu.it [consultato in data 5 febbraio 2021].
322
Ibidem.
323
Buzzati, Dino (1942), I sette messaggeri, op.cit.
324
Benvengù, Antonella, Dino Buzzati, I sette messaggeri in La boutique del mistero, in letteratour.it [consultato in
data 5 febbraio 2021].
128
attraversiamo, sembrino fatti di una essenza diversa da quella nostrana e l'aria rechi
presagi che non so dire.325

È probabile che, come da sua intuizione, il protagonista abbia effettivamente superato la


frontiera senza accorgersene, che quella frontiera sia la morte e che ora il principe varchi la
soglia accorgendosi appena di aver vissuto e, a quel punto, di morire. Il racconto riporta in
chiusura le sue ultime parole:

Una speranza nuova mi trarrà domattina ancora più avanti, verso quelle montagne
inesplorate che le ombre della notte stanno occultando. Ancora una volta io leverò il
campo, mentre Domenico scomparirà all’orizzonte dalla parte opposta, per recare alla
città lontanissima l'inutile mio messaggio.326

La speranza di cui parla è la stessa di Drogo che ne Il deserto dei tartari, nonostante muoia
solo e dimenticato, mentre il grande evento che ha orientato il suo viaggio si consuma senza
di lui, sorride.

Buzzati non concede ritorno, ma ammette consolazione: la speranza, considerata dal


giaccone in Poema a fumetti “il più malvagio dei supplizi” 327 , è l’unica forza capace di
gareggiare col tempo, di batterlo se vogliamo, poiché lo precede e lo manipola. La corsa tra
i due mima quella tra Achille e la tartaruga: la speranza è il grande sfavorito che non perde
la gara per paradosso.
La fiducia irrazionale in un futuro che non c’è è un altro dei dispositivi di sopravvivenza
dell’uomo, basato su un principio di illusione e menzogne. Eppure, è una voce importante
nella lista di cose che mancano ai trapassati di Poema a fumetti, “senza le speranze di
domani”328: fa parte della sofferenza di segno positivo che i morti spasimano di ricordare,
anche solo per un momento, ascoltando Orfi. È il vecchio inquilino descritto dal suo canto
che, nonostante non ci sia mai niente, controlla la casella della posta per la centesima volta;
sono i due innamorati, “abbracciàti, allacciàti”329 nonostante il lupo batta già alla porta per
mangiarli.

Speranza e non ritorno sono i termini entro cui si colloca il finale di Poema a fumetti,
il tema musicale dell’ultima canzone.

325
Buzzati, Dino (1942), I sette messaggeri, op.cit.
326
Ibidem.
327
Buzzati, Dino (2017), Poema a fumetti, op.cit., p.74.
328
Ivi, p.204
329
Ivi, p.166.
129
In virtù del miracolo compiuto emozionando i morti, Orfi guadagna ventiquattr’ore di
tempo per ritrovare Eura: a guidarlo è la speranza che lo caratterizza in quanto vivo tra i
trapassati, riposta nel suo canto. “La mia voce passerà / anche gli Imalaia delle anime”330,
tuona facendosi strada tra le folle dell’aldilà.
Le diavolesse tentatrici, forse intenerite, gli indicano la via: Orfi fa tappa rapidamente
all’anagrafe dell’aldilà buzzatiano, poco epico e molto burocratico, per dedurre dalla scheda
di Eura la sua collocazione. È alla stazione dei treni che non partono, paesaggio felliniano,

immagine della tensione de-tesa, dell’incoatività che non ha sviluppo, della passione de-
passionata: la figurativizzazione della delusione che si ha quando un’attesa viene
frustrata troppo a lungo. Il luogo della non-tensione.331

È lo scenario entro cui si consuma il conflitto tra le speranze di Orfi e la legge del non ritorno:
il protagonista del Poema, incalzato dal tempo dei vivi scandito dall’orologio che porta al
polso, si dibatte come un’anguilla nel luogo delle “ore perdute per sempre”332.
I treni dei morti assomigliano ai palazzoni popolari cari alla narrativa di Buzzati, solo su
ruote e allacciati a una locomotiva: le caldaie sono piene di “stupendo vapore” 333 , il
capostazione dà il “fischio benedetto”334, i finestrini sono illuminati e i passeggeri febbrili –
ma il treno non partirà. L’inferno mima la vita terrena col suo fermento, la sua bruciante
aspettativa insoddisfatta, somiglia all’esistenza che si consuma in superficie meno il solito
dettaglio: manca la porta, la destinazione verso cui tendere, il tempo che scansiona e
organizza lo spazio.
I morti si sporgono dai finestrini-finestre, salutano Orfi, “Canta per noi!”335, gli chiedono di
raccontare la partenza per sempre mancata – e tra loro c’è Eura.
Il protagonista del Poema ritrova infine la sua amata: abbiamo già descritto il decorso del
loro incontro, la forza della ragazza che resiste a quella di Orfi, agente del tempo, che cerca
di strattonarla in avanti senza capire. In quest’occasione ci soffermiamo su un elemento che
prescinde il piano narrativo, ma si colloca invece su quello del non detto, o del non cantato.

Orfi si appella a un argomento ben preciso per convincere Eura ad assecondarlo.


Lo vediamo in questo scambio:

330
Buzzati, Dino (2017), Poema a fumetti, op.cit., p.187.
331
Barbieri, Daniele (2002), I fumetti e il poema: un’opera (quasi) in musica, op.cit, p.10.
332
Buzzati, Dino (2017), Poema a fumetti, op.cit., p.196.
333
Ibidem.
334
Ivi, p.195.
335
Ivi, p.196.
130
- [...] LA PORTA CHE TU
DICI NON ESISTE, E ANCHE SE ESISTESSE,
COME PUOI FARMI PASSARE?

- IO SONO ORFI, LO DIMENTICHI?


CON LE MIE CANZONI... CON LE MIE
CANZONI SONO ARRIVATO FINO A TE, ADES-
SO CANTERÒ LA STORIA PIÙ BELLA, CANTERÒ L’AMORE CHE
QUI NON AVETE.336

Secondo i suoi calcoli, il canto che gli ha permesso la discesa sarà lo stesso trucco che gli
assicura la risalita. Lo stesso amore buono, puro, che ha commosso la porta dell’inferno e
per lui l’ha spalancata, funzionerà anche per il ritorno – questo l’unico accorgimento: se per
scendere Orfi ha cantato la morte ai senza-morte, per risalire canterà l’amore ai senza-amore.
Una lunga parte della sua canzone precedente, in realtà, è dedicata alla descrizione del
sentimento, ma circoscritto a una delle sue sfumature, l’aspetto carnale, sensuale,
strettamente correlato all’idea della fine: “sarebbe zero / se mancasse nel fondo quel
pensiero / che un giorno tutto finirà”337. È l’amore del tatto e dell’orgasmo, del corpo per il
corpo: “‘petit mort’, dicono i francesi”338.
Stavolta, Orfi è determinato a cantare un amore diverso, ‘la storia più bella’: quello
impalpabile, astratto, capace di andare al di là del corpo e approdare in una dimensione
altra, che in quanto sovrannaturale è impermeabile alle leggi del tempo e della morte, le
sospende.
È l’amore dai quattro occhi, quello di Orfi per Eura, di Buzzati per Almerina: l’altra faccia
del mistero.
A quest’altezza del Poema, la speranza dell’eroe si mescola alla hybris del ragazzo: il
protagonista, arrivato così lontano con la sua chitarra, ha la presunzione di poter cantare
l’inenarrabile, perché “quando io canto, nessuno resiste” 339 . Preso nel vortice della sua
impresa, inseguito dal tempo che lui solo sente passare nell’aldilà, Orfi dimentica per un
istante la sua condizione, nega di essere uomo e quindi di sottostare, come tutti, alla “grande
legge”340 – pensa di poterla ingannare con un’ultima canzone. “Ecco la porta. Adesso mi
metterò a cantare”341.
Eura, che invece ha familiarità con la grande legge, sebbene non sia vittima della speranza
poiché ormai ha abbandonato le spoglie umane che la implicano, fa lo stesso errore del

336
Buzzati, Dino (2017), Poema a fumetti, op.cit., p.204.
337
Ivi, p.164.
338
Ivi, p.173.
339
Ivi, p.206.
340
Ivi, p.204.
341
Ivi, p.207.
131
ragazzo, solo speculare: se lui cerca di portare avanti il corpo di lei senza tempo, lei cerca di
fermare quello di Orfi, di fissarlo, di frenarlo nella sua corsa rovinosa. “Povera favola di
Orfeo”342 , sospira: se anche l’eroe non si voltasse, come accade nel mito, non servirebbe
comunque.
L’ultima canzone non si farà: l’amore resta indicibile, l’inferno non ascolta. Vige la grande
legge del non ritorno.

Eppure, e qui sta la grandezza di Poema a fumetti, un ritorno c’è.


Non per Eura, poiché quel che tenta di comunicare Buzzati, a se stesso e al lettore, è che la
morte non va truffata, negata né elusa, neppure con un miracolo di Santa Rita: la morte è
un’occasione di grazia da accogliere poiché l’altro miracolo, quello della vita, lo opera lei.
Ma un ritorno c’è, ed è per Orfi.
A fine Poema, il ragazzo si ritrova al punto di partenza, in Via Saterna, solo, o meglio, in
compagnia dell’uomo verde che gli spiega che il suo viaggio è stato vano come un sogno,
come una fantasia senza alcun significato: che Orfi dimentichi giacconi, diavolesse, città
infernali ed Eura. I morti dormono “piccoli, buoni, sempre più piccoli, / più terra, più
polvere, più nulla”343, gli spiega, e “non c’è musica o canzone / dinanzi a tanto riposo”344.
Potrebbe essere la fine del racconto: è stata tutta una fantasmagoria, un esercizio
intellettuale che ora si conclude, un canto inutile che scema nel silenzio. Non c’è ritorno,
poiché non c’è stata andata. Potrebbe essere un’altra parabola di immobilità di Buzzati, di
movimento illusorio che si avvita su se stesso e dal nulla conduce al nulla.
Eppure, ed ecco l’eccezione, ecco il ‘lieto fine’ tutto buzzatiano, il Poema continua: mentre
ascolta le parole dell’uomo verde, Orfi si rende conto di stringere un oggetto nella mano
sinistra, per coincidenza la mano del cuore: qualcosa che ha fatto ritorno con lui.
Negli ultimi momenti con Eura nell’aldilà, quando la ragazza considera con entusiasmo
l’orologio al polso del protagonista, gli propone un baratto: l’orologio per il suo anello, vale
a dire il tempo per l’amore. Ora, Orfi si accorge di averglielo strappato dalle dita senza
accorgersene, nella foga della risalita. Ne chiede conto all’uomo verde, che intanto sta
sciorinando la sua spiegazione, poiché l’oggetto la sbugiarda: “E allora, / questo anello?”345.
L’uomo verde scompare senza rispondere, lasciando Via Saterna completamente deserta –
meno Orfi e l’anello che ancora, nel disegno di Buzzati, emana bagliori.

342
Buzzati, Dino (2017), Poema a fumetti, op.cit., p.205.
343
Ivi, p.216.
344
Ibidem.
345
Ivi, p.219.
132
In quel preciso momento, la storia si conclude per davvero: al lettore, e a Orfi, tocca
trarre le proprie conclusioni. Forse l’anello è il simbolo che, anche se non si può cantare,
l’amore sopravvive comunque alla morte, o forse rappresenta tutt’altro, oppure nulla: ciò
che conta è che esista, che con la sua esistenza attesti quella del viaggio dell’eroe, che
rappresenti la prova inequivocabile che c’è stato un percorso di discesa e risalita e che
qualcosa è stato salvato.
Orfi fa eccezione rispetto ai suoi colleghi-personaggi buzzatiani e ritorna, esibendo perfino
una prova tangibile della strada percorsa – e che il ritorno sia comunque doloroso non è
importante, perché non potrebbe essere altrimenti. Dopotutto, in estrema sintesi, ciò che
l’autore racconta con Poema a fumetti è che la morte è dolce e la vita amara e che va bene così.

Il viaggio dell’eroe corrisponde a quello che l’autore compie professionalmente e


umanamente; le canzoni di Orfi sono i racconti, i romanzi e i disegni di Buzzati; la Milano
infera del Poema è quella abitata e percorsa abitualmente; la discesa è quella che il bellunese
compie giù per le proprie ossessioni; e il ritorno? È la risalita compiuta dopo aver dato loro
un volto, anzi, due, tre: amore e morte che è anche tempo, e tutto è mistero. Infine, per
concludere il parallelismo, l’anello di Eura che Orfi stringe tra le dita non può che essere
Poema a fumetti stesso, la prova tangibile della discesa agli inferi che Buzzati compie dentro
sé, ma soprattutto del suo aver fatto ritorno.

Buzzati ci tiene a fare un’ultima specifica prima di riporre penna e pennelli: quel che
ha raccontato è un atto di conoscenza rivoluzionario per l’individuo, ma non cambia di una
virgola l’andamento caotico ed entropico dell’universo come lo intende l’autore, piuttosto
indifferente al destino delle ‘formiche sperdute’ che lo abitano.
Difatti, sebbene la storia di Orfi sia compiuta, la sua fine non coincide con la fine dell’opera:
sono tre pagine apparentemente irrelate a chiudere il cerchio.
Ognuna di esse ospita la descrizione verbale e visuale di un evento metafisico.
Le tre tavole sono introdotte dalla formula magica preferita di Buzzati, “in quel preciso
momento”346, che rompe l’ipnosi esercitata su lettore e personaggi a inizio racconto solo per
operarne un’altra:

l’espressione ‘in quel preciso momento’ crea un legame di contemporaneità, e quindi,


implicitamente, di relazione semantica, tra la conclusione della storia di Orfi e questo
ulteriore evento347.

346
Buzzati, Dino (2017), Poema a fumetti, op.cit., p.220.
347
Barbieri, Daniele (2002), I fumetti e il poema: un’opera (quasi) in musica, op.cit, p.12.
133
Vediamo l’ulteriore evento nello specifico: nella prima tavola si articola come un turbinare
delle “solite anime in pena”348 sulle creste della Gran Fermeda [fig.43]; nella seconda, “gli
ultimi re delle favole”349 si incamminano all’esilio a grandi falcate [fig.44]; nell’ultima, “le
turrite / nubi dell’eternità”350 passano lentamente sul deserto del Kalahari e su una figurina
umana microscopica [vedi fig.34].

Il lettore avvezzo alle stregonerie dell’autore vorrà soffermarsi su tre elementi in particolare:
in primo luogo, sul cambio repentino di protagonista.
Fino alla pagina precedente, la star è Orfi che colloca la narrazione in una dimensione
personale, a sua misura, terrena pur trattando l’ultraterreno. Parole e immagini replicano le
proporzioni dell’individuo, il campo è stretto oppure interamente occupato da presenze.
Sono pagine ‘umane’.
Queste ultime tavole, invece, riportano qualcosa di diverso, di più grande e arioso, lontano
e altro rispetto all’uomo: chissà, il mistero inviolato.
La storia dell’eroe, per quanto immensa e necessaria dal suo punto di vista, non tocca la
storia generale, che procede incorrotta e riprende il ruolo di attore principale dopo aver
diviso il palcoscenico per una breve parentesi di senso.
Un secondo elemento da considerarsi è il movimento che percorre le tre tavole: la prima è
un esempio di pointillisme tagliato in verticale dal turbinio delle anime perdute e proiettato
verticalmente dalle creste dolomitiche. La terra freme e il cielo è fisso, trapunto di stelle e
dalla mezza falce di luna. La seconda tavola procede orizzontalmente: le nuvole
assecondano il passo delle due figure, avanti, avanti. Infine, l’ultima tavola: il movimento
delle nubi è tanto lento da risultare impercettibile. Il paesaggio è fisso, eterno e muto, e
l’occhio si perde nello spazio. Così finisce, stavolta per davvero, Poema a fumetti: un soffitto
altissimo, un pavimento vastissimo e una formica sperduta col suo piccolissimo significato.
Infine, c’è un ultimo elemento per il lettore che, arrivato a questo punto, è sensibile ai
malefici di Buzzati, ha orecchio per la sua musica.
C’è un ultimo suono, infatti, che assorbe il senso del Poema, a un tempo lo preserva e lo
diffonde: è quello del vento, che soffia forte sulle creste dei monti, gonfia le tuniche degli
ultimi re delle favole e si disperde nel deserto eterno.

348
Buzzati, Dino (2017), Poema a fumetti, op.cit., p.220.
349
Ivi, p.221.
350
Ivi, p.222.
134
“Con Buzzati se ne va la voce del silenzio”351, commenta Indro Montanelli in occasione della
sparizione dell’amico: queste tre ultime tavole inverano la sua osservazione, sono pagine in
cui l’autore dimostra di essere capace di fare anche del nulla una canzone.
È questo il senso più profondo del lavoro di Buzzati per intero, il compimento di quel
cammino iniziato quando ‘prese le sue cose e si avviò’: della sua “visione dolorosa della
vita”352 ha fatto un canto, l’ha raccontata fino a riempire il suo vuoto di significato – fino a
trovare il suo senso proprio in virtù di quel vuoto.

Tutto è vano, sicuramente, eppure se la raccontiamo persino la vanità acquista un senso!


Ed è il racconto quindi ciò che ci permette di dare passione alle cose, anche a quelle
depassionate,
anche alla morte.353

Poema a fumetti è la confessione e la redenzione del suo autore, un’opera, come dichiarato,
scritta innanzitutto per se stessi, un antidoto al veleno, alla mania e alla paura.
È un oggetto che, come l’anello di Eura, sopravvive alla morte e al tempo, riesce nell’impresa
impossibile di sconfiggerli. È, innanzitutto, un’occasione di ritorno.
Buzzati la coglie: autentica, intima al punto da risultare scandalosa, non ci sono sante,
miracoli, acrobazie ontologiche, è la vita com’è, o almeno, com’è per l’autore bellunese, che
la celebra nel suo paradosso e nel suo mistero e, così facendo, una volta per tutte, ci fa la
pace.

351
Viganò, Lorenzo, L'ultimo segreto di Buzzati, op.cit.
352
Radius, Emilio, La vita che cos’è? in Testimonianze su Dino Buzzati a cura di Luca Siniscalco, op.cit.
353
Barbieri, Daniele (2002), I fumetti e il poema: un’opera (quasi) in musica, op.cit, p.13.
135
fig.43: In quel preciso momento...

136
fig.44: Gli ultimi re delle favole si incamminavano all’esilio.

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