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PREMESSA
<< voglia la natura instancabile concederci un fiume di lava! Non vedo l’orda di
poter far mia anche questa realtà >>.
Ma l’auspicio di Goethe non ebbe modo di realizzarsi, in quanto, negli anni in cui egli ascese
il Vesuvio, il vulcano esibì un poderoso fumacchio, nubi di cenere, un modesto getto di
lapilli e limitate emissioni di lava incandescente.
Nel maggio del 1819 il Principe di Metternich dopo aver visto da vicino il Vesuvio in attività,
osservò:
<< I napoletani, del resto, non ci pensano; sono come marinai che dimenticano che
solo una tavola li separa dall’abisso, e si è tentati di dimenticare come il pericolo
possa essere anche ravvicinato dal godimento >>
Godere di una natura così rigogliosa fa dimenticare che si è al cospetto di qualcosa che può
distruggere. E lo stesso Goethe nel suo appassionato resoconto aveva già avuto modo di
notare che << se nessun napoletano vuole andarsene dalla sua città non si può fargliene
carico, vi fossero anche due o tre Vesuvii nelle vicinanze >>.
Recentemente, nel 2010, anche lo scrittore Erri De Luca, che al vulcano ha dedicato vari
racconti, lo ha definito << una meraviglia a orologeria >> dal momento che i partenopei
hanno sempre pagato a caro prezzo la bellezza:
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<< La città, prima greca, poi latina, bizantina, sveva, normanna, francese,
spagnola, sdraiata alle pendici occidentali del vulcano, si era data un santo
specializzato in lave. San Gennaro portato in processione incontro ai fiumi roventi,
li arrestava. Lo squaglio miracoloso del suo sangue sottovetro simulava il liquido
eruttivo e lo ammansiva. L’ultima sua dimostrazione di esercizio fu nel marzo del
1944, appena passata la Seconda guerra mondiale. Napoli aveva incassato il
maggior numero di incursioni aeree, tra le città d’Italia, il Vesuvio, non se la sentì
di aggiungere altro fuoco. Eruttò senza effetto di catastrofe, ma con spargimento
di ceneri, costringendo a salire sui tetti a scoparla via per non farli crollare >>
Il vulcano, << l’incubo principale, il più sontuoso >> ( cit. di Ferrero ) della città di Napoli,
carico di potenza distruttiva, rappresenta paradossalmente un riferimento costante e
familiare, quasi rassicurante, al punto che ogni napoletano, pure rinchiuso in una cella di
Poggioreale, sa dove sta ‘o Vesuvio. Si gioca con il Vesuvio, ispiratore di tanti artisti.
Tra i più terrificanti sgomberi imposti dal Vesuvio, il 16 dicembre 1631 colpì l’intero
comprensorio campano; l’eruzione durò fino alla fine del mese e distrusse quasi tutti gli
abitati ai piedi del vulcano, causando circa 30.000 vittime e provocando importanti
modificazioni del suolo. La catastrofe, per tutto questo, ispirò poi, tra tanti altri, Giovan
Battista Bergazzano. Si tratta di una figura alquanto singolare nel panorama letterario del
Seicento: barbiere e cerusico, poeta e drammaturgo, funzionario di corte, sodale
dell’Accademia degli Erranti di Bari e di Napoli, fu apprezzato particolarmente per una
trilogia poetica dedicata, appunto, ai tragici eventi del 1631, qui investigata quale barocca e
preziosa mistione di sacro e profano, mitologia e storia, tragico e ludico, tradizione
innovazione.
CAPITOLO PRIMO
Giovan Battista Bergazzano. Profilo biografico-culturale
Giovan Battista Bergazzano è una figura alquanto complessa: scarse sono le notizie relative
alla sua vita, dubbie le origini e difformi le grafie del cognome, attestate nella letteratura
critica. Nacque nel luglio del 1576 da Antonio e da Margherita de Piccolis, i quali lo
avviarono allo studio delle lettere e delle scienze. Se su questi dati le fonti bibliografiche
concordano, problematico risulta l’accertamento del luogo di nascita: alcuni studiosi lo
qualificano napoletano, altri, invece, come nativo di Bari e asseriscono che in seguito si
trasferì a Napoli passando al servizio dei Principi d’Avellino, presso la cui corte svolse
ufficialmente l’attività di barbiere dilettandosi anche di poesia. Ampio è il numero delle
varianti con cui il cognome del letterato è registrato in varie opere di erudizione; un’efficace
rassegna delle oscillazioni grafiche documentate, in gran parte riconducibili all’usus
scribendi dei diversi estensori e al transito fra napoletano e italiano, è offerta da Pietro
Martorana che, nelle Notizie biografiche e bibliografiche degli scrittori del dialetto
napolitano, dapprima rubrica il poeta barbiere alla voce “Breazzano” per poi rettificare la
forma in “Berganzano”. Tuttavia, il problema dell’esatta grafia del cognome è però risolto
dall’esame dei testi pubblicati a cura dello stesso autore, nei quali la sola grafia
testimoniata è “Bergazzano. È possibile, però, ripercorrere in modo esaustivo il suo
percorso letterario, il quale, assecondando le mode del mondo accademico e culturale della
Napoli barocca, intrecciò una fitta rete di relazioni con uomini di potere, scrittori e artisti del
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suo tempo, ottenendo lodi e apprezzamenti come autore di favole boscherecce e
piscatorie, oltre che come cronista dell’eruzione vesuviana del 1631.
Il primo testo edito di Bergazzano è un sonetto stampato nel 1626 e, analizzando il dato
cronologico, ci consente di capire che abbia conseguito solo tardivamente la fama e l’onore
della stampa per le sue creazioni. Questo primo componimento è a corredo del manuale Il
barbiere, di Tiberio Malfi, console della corporazione dei tonsori di Napoli: in esso
Bergazzano elogia le conoscenze e le pratiche dell’Arte del Barbier al Malfi. Dal 1628 si
delineano con maggiore precisione i rapporti di Bergazzano con i Caracciolo di Avellino che,
all’epoca, era una delle famiglie della nobiltà napoletana più importanti e dimoravano in
palazzo sontuoso che un tempo era appartenuto alla famiglia della madre di Torquato
Tasso. Don Marino Caracciolo II, terzo principe di Avellino, assolda Bergazzano in qualità di
barbiere, offrendogli la possibilità di frequentare assiduamente il suo cenacolo. La carriera
letteraria di Bergazzano decolla definitivamente proprio nel 1628, anno in cui, insieme a
numerosi altri poeti, e tra questi Giambattista Marino, partecipa con un sonetto e un
madrigale alla vasta silloge poetica intitolata Il teatro delle glorie di Adriana Basile, sorella
dell’autore de Lo cunto de li cunti. Nel sonetto Bergazzano elogia la bellezza di Adriana
attraverso l’osservazione di un suo ritratto ad opera dell’artista Aniello Folcone; nel
madrigale, invece, adotta un linguaggio arricchito di metafore rivolgendosi al pittore il
quale è stato capace di ritrarre la donna senza restare folgorato dalla sua bellezza e dalla
sua voce melodiosa (Adriana era famosa anche per essere abile nel canto).
IL DARDO FATALE: Nello stesso anno Bergazzano dà alle stampe, a Napoli presso il
tipografo veneziano Di Franco, la sua prima grande prova letteraria, la << Favola
boschereccia e marittima >> Il dardo fatale. Il testo drammatico, la cui azione è posta <<
nelle Selve Pompeiane >>, appartiene a quel genere teatrale misto ( tragico e comico ) nel
quale più volte il poeta barbiere si cimenta, avendo come modelli di riferimento l’Aminta di
Torquato Tasso e il Pastor fido di Battista Guarini. La favola offre a Bergazzano ampie
possibilità di sperimentazione entro una struttura canonica composta di cinque atti,
preceduti da un prologo e seguiti, a ogni fine d’atto, da un coro, con un sistema metrico di
endecasillabi e settenari, ora sciolti, ora ricondotti alle forme strofiche chiuse della
tradizione lirica. Le traversie sentimentali del pastore Tireno per la ninfa Selvaggia sono
dedicate, con un’epistola del febbraio del 1628, ad Orazio Rovito, abate di Sant’Angelo in
Lucania, al quale il poeta chiede protezione per sé e per il proprio componimento contro gli
strali dell’invidia. Virtù e ozio, fortuna e fama costituiscono le coordinate concettuali entro
le quali Bergazzano svolge la dedica al Rovito che, secondo il letterato, incarnando i più alti
valori cristiani e laici, assomma innumerevoli meriti quale scrittore e mecenate. Rovito
risponde a tale omaggio con un sonetto nel quale sembra apprezzare le qualità che
Bergazzano gli ha rivolto, associandolo a personalità latine come Quinto Orazio Flacco.
Il paratesto della favola è poi corredato da altri cinque componimenti ( tre sonetti e
due madrigali), scritti da altri autori:
Carlo Cuomo reputa buona la scelta di Bergazzano nel dedicare la favola all’abate
Rovito, considerando quest’ultimo un “alma pia”;
Michele Orsi esalta la fantasia creativa di Bergazzano, creatore di un universo
poetico di variegata bellezza;
Orazio Amodio nella vicenda sentimentale di Tireno e Selvaggia (protagonisti della
favola) rispecchia la propria relazione con Nice, la donna che ama;
Gli ultimi due madrigali di Cilidonio Manno decantano la forza devastante del
dardo fatale che infrange il cuore delle ninfe e le gesta di Tireno.
IL VENDICATO SDEGNO: Nel 1630 Bergazzano pubblica la << Favola Pescatoria >> Il
vendicato sdegno, altro esempio di quel tumultuoso miscuglio di generi e stili che
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tradizionalmente s’incontra nell’arte barocca e nel quale egli si specializza. Si tratta di un
testo drammatico destinato a rappresentazioni di corte, in cui si narrano le tristi vicende del
giovane e seducente Aci che, tra cori di ninfe e di pescatori, contende l’amore di Galatea al
ciclope Polifemo. L’opera è indirizzata a Giuseppe Caracciolo, marchese di Bella e patrizio
napoletano, alla vigilia delle sue nozze con Costanza di Capua. Nell’epistola dedicatoria
Bergazzano rivolge al Caracciolo la devozione e la gratitudine nei confronti della sua stirpe,
ripercorrendo i meriti dei suoi antecessori, come auspicio di futuri e analoghi traguardi.
L’omaggio al Caracciolo procede, poi, in un sonetto e in un madrigale nei quali l’autore lo
elogia elevandolo a nuovo eroe di un moderno ciclo epico.
Anche qui il paratesto dell’opera, il più ampio e ricco nella sua produzione, è corredato da
componimenti poetici, precisamente cinque coppie di sonetti che ricalcano il sistema della
tenzone, cioè le risposte del Bergazzano presentano le medesime parole in rima dei sonetti
dei suoi estimatori:
Il primo scambio con Andrea Santa Maria, membro delle accademie degli Oziosi di
Napoli e degli Umoristi di Roma, presenta un elogio alla capacità eternatrice della
scrittura, in quanto essa ha il potere di donare nuova vita e più felice sorte ai
dolenti personaggi dell’immaginario letterario;
La corrispondenza con Girolamo Fontanella, membro dell’accademia degli Oziosi, si
risolve in un reciproco riconoscimento di eccellenza letteraria;
Lo scambio con Giambattista Coppa, poeta e membro dell’accademia degli
Umoristi, ha come soggetto un amore non corrisposto;
Nella quarta coppia di sonetti Giulio Cesare Bianco loda il destino di Aci che,
infelicemente morto, è stato reso immortale dapprima con la sua metamorfosi
nell’omonimo fiume siculo e successivamente con il dotto stile della scrittura di
Bergazzano;
L’ultimo scambio con Orazio Amodio evidenza le corrispondenze tra i personaggi
de Il dardo fatale e de Il vendicato sdegno.
TRILOGIA VESUVIANA: Nel 1631 Bergazzano pubblica la celebre trilogia per la quale viene
ricordato quale “scrittore vesuviano”. Il trittico è composto dal poemetto il Vesuvio
fulminante, dall’idillio I prieghi di Partenope e dal dialogo in versi Bacco arraggiato co
Vorcano. Le prime due opere sono scritte in italiano, la terza in lingua napoletana; oltre
l’anno di pubblicazione hanno in comune l’argomento di cui trattano, la catastrofica
eruzione vesuviana del 1631. La trilogia ha tre distinti dedicatari.
Dopo la trilogia poetica legata al cataclisma del 1631, Bergazzano pubblica due testi teatrali,
oggi di difficile reperibilità: nel 1632 Il Vesuvio infernale e, nel 1633, Gli amori fra l’arme
portati dalla Gierusalemme del Tasso al teatro scenico.
LE VARIE FORTUNE: Dal 1637 Giovan Battista risulta ufficialmente iscritto all’accademia
degli Erranti di Napoli, istituita presso il Monastero di San Tommaso d’Aquino, allo scopo di
promuovere il culto delle belle lettere e della poesia. Sempre nello stesso anno, egli
pubblica a Napoli << la favola boschereccia >> Le varie fortune nella quale affronta in modo
diretto ed esplicito una questione di rilievo capitale per la scena del Seicento, con la sua
commistione di utile e dolce, di sacro e profano, di eredità culturali e conquiste moderne.
Fin dal titolo la fusione classico-cristiano si proietta su uno dei conflitti centrali della nuova
drammaturgia: quello tra la capricciosa presenza della Fortuna e l’immobile e
immodificabile legge della Provvidenza. L’offerta è fatta a Marino Caracciolo, appartenente
ai principi di Torella, suo mentore e mecenate.
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CAPITOLO SECONDO
L’eruzione vesuviana del 1631
Il più grande evento vulcanico della storia italiana moderna, l’eruzione sub-pliniana del
1631, che segnò la ripresa dell’attività eruttiva del Vesuvio dopo una lunghissima
quiescenza, catalizzò interessi scientifici, paesaggistici, naturalistici, antiquari, archeologici,
urbanistici, politici, sociali, economici, letterari, filosofici e religiosi. Difatti, all’indomani
dell’evento furono numerosissime le relazioni che intesero documentare dettagliatamente
le fasi del prodigio, tra scosse, ceneri e nubi che scandirono giorni di terrore, prima del
graduale ritorno alla normalità: scritte da eruditi locali o corrispondenti forestieri, in diverse
lingue e con toni ora più attenti ai fenomeni naturali, ora più concentrati sulla reazione
popolare, tutte provarono a trascendere l’impianto cronachistico per un più profondo
inquadramento del fatto nella storia civile e sociale della capitale e del suo territorio. La
meraviglia intellettuale era importante nell’età barocca. Chi scriveva del Vesuvio voleva
conciliare il monere con il delectare ( didattica e edonismo ), oltre ad avallare la veridicità
del racconto. Accadimenti orrifici scossero in profondità la coscienza del popolo
napoletano, il quale, non poté fare altro che affidarsi alla misericordia divina ricorrendo
all’intercessione del santo patrono Gennaro. La catastrofica eruzione, verificatasi nel
dicembre del 1631 è stata la più forte degli ultimi 1000 anni, e acquista oggi un’importanza
particolare perché rappresenta l’evento di riferimento definito Evento Massimo, e sismologi
e vulcanologi ne hanno accuratamente indagato le caratteristiche.
L’episodio vulcanico del 1631, che fece seguito al violento terremoto del 1627 e precedette
di pochi anni quello del 1638, coinvolse l’intero Mezzogiorno d’Italia in una tragica
concomitanza di sciami sismici e di devastazioni eruttive; infatti, ad essere colpite furono le
popolazioni campano-vesuviane dei territori di Torre Annunziata e Napoli fino a tutto
l’Aspromonte tirrenico, con le isole Eolie e l’area dello stretto di Messina. Molteplici furono
i fenomeni precursori, trascurati o male interpretati: la deformazione della compagine
rocciosa, il sollevamento del suolo, le frane, l’agitazione degli animali domestici. Le fonti
riferiscono che nella notte del 15 dicembre si udirono, nelle vicinanze del Vesuvio, più di 30
scoppi simili a quelli dei moschettoni, mentre all’alba del 16 dicembre, dopo alcuni giorni di
terremoti e rombi sotterranei sempre più forti, si avvertì uno scoppio tremendo e l’eruzione
iniziò. Efficace è la descrizione dell’evento offerta nell’anonima Relazione dell’incendio del
monte Vesuvio nel 1631: <<… densa caligine di fumo bianco e nero che nell’uscire
raffigurava un pino>>.
A seguito delle esplosioni si innalzò verso il cielo una colonna eruttiva che lasciò
gradualmente cadere il suo carico solido, grosse pomici, e poi lapilli e ceneri, dilagando
verso oriente e cadendo al suolo fino a Costantinopoli. Nel frattempo, la cupa nube si
diffuse per la città creando un’oscurissima notte. Nella capitale sgomenta, chi dalle finestre
e chi dai lastrichi, mirava l’orribile spettacolo. Le genti lasciarono i propri alberghi e
fuggirono altrove, scendendo in strada, nel panico, urlando e gemendo il terrore e la
disperazione. Mentre l’apocalittica eruzione infuriava, l’arcivescovo di Napoli Francesco
Boncompagni, che soggiornava a Torre del Greco in convalescenza, si affrettò a rientrare a
Napoli. L’avvenimento è descritto da Giambattista Manso, amico di Tasso, Marino e Milton,
nonché fondatore del sodalizio degli Oziosi. Secondo la relazione di Ascanio Capece, gesuita
residente a Nola, l’arcivescovo appena giunto in città, espose il Santissimo Sacramento ed il
sangue di S. Gennaro, il quale, come dicono, si sciolse in mano sua prima che fosse “vista
dal Capo” (cioè dal Vesuvio) e ordinò una processione per placare l’ira di Dio. La devota
cerimonia, preseduta dal Boncompagni e dal viceré Manuel Fonseca, fu programmata per il
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pomeriggio; le sacre reliquie sarebbero state condotte dal Duomo alla basilica di Santa
Maria del Carmine, ma durante la processione il vescovo si sentì male e dovette
abbandonarla. Intanto i terremoti scuotevano il suolo, la cenere oscurava l’aria rendendola
irrespirabile, e cominciarono a piovere con intensità crescente acqua e grumi caldi di
cenere. La pioggia perdurò per tutta la notte, mentre il suolo era continuamente agitato dai
terremoti che squassavano il vulcano. Quando il buio calò, il timore spinse le persone ad
abbandonare le proprie le case, molti trovarono rifugio nelle chiese e nei luoghi di culto che
rimasero aperti, mentre altri dimorarono per le strade e nelle piazze patendo il freddo della
stagione.
<< s’udivano per la Città le processioni di uomini e di donne, che con le lacrime
cercavano di smorzare l’ira divina, se il giorno diventò notte per l’ombra della
caligine, la notte con la vigilanza aveva sembianza del giorno>>.
Una notte, dunque, che sembrava essere giorno per l’assiduità della gente che camminava
per strada. La prima luce del 17 dicembre tardò a sopraggiungere: all’oscurità notturna fece
seguito quella delle nubi vulcaniche; invano si attese lo spuntare del sole. Nel corso di
quella giornata la cenere cominciò a cadere ricoprendo case e alberi, come se fosse neve;
successivamente il vento di scirocco portò con sé la pioggia che, mescolata alla cenere,
infangò ulteriormente le strade che divennero impraticabili. Benché le scosse si
succedessero con frequenza tale da sembrare continue, all’arcivescovo parve opportuno
anteporre il pubblico beneficio alla propria salute, così decise di alzarsi dal letto e ordinò
un’altra processione con lo scopo di portare il sangue di S. Gennaro alla Chiesa
dell’Annunziata e nonostante la pioggia fosse abbondante la gente che vi partecipò fu
numerosa. Eventi prodigiosi o mere coincidenze costellarono lo svolgimento del sacro rito.
Il popolo che si era raggruppato fuori la porta del Duomo in attesa delle reliquie del martire
gridò al miracolo: erano cessate momentaneamente le piogge, era comparso il sole e
apparve il glorioso S. Gennaro in abito pontificale che benedisse il popolo per poi sparire.
Poi, nei pressi di Porta Capuana, i partecipanti alla processione scorsero all’orizzonte una
nube ardente che stava per avanzare verso la città. Allora il Cardinale prese il glorioso
sangue dal tabernacolo e tenendolo nelle mani l’alzò verso il fuoco facendo il segno della
santissima Croce. In quel momento la nuvola calò la cima come per chinare il capo alla
santa reliquia e s’arrestò per tornare indietro; l’accaduto fu inequivocabilmente
interpretato come un segno divino. L’interazione del nostro glorioso protettore ha fatto sì
che Dio, nella sua infinita misericordia, ci salvasse. Un delirio mistico e collettivo pervase la
città e in tale scenario apocalittico si dice che si moltiplicarono le suggestioni
soprannaturali, come la trasudazione delle immagini sacre e l’apparizione di figure
angeliche. La mattina del 18 dicembre il Vesuvio era quasi irriconoscibile, perché a
seguito delle forti eruzioni il cono centrale era scomparso e al suo posto c’era un grande
cratere dai bordi impastati di ceneri fumanti. Il collasso del cono provocò un mutamento
climatico che si fece sentire soprattutto sulla zona del golfo di Napoli, dove il mare fu
maggiormente esposto all’intensità dei venti, per cui si favorirono tempeste e naufragi.
Vennero fatti nuovi riti religiosi e un’altra processione, dal Duomo a Santa Maria di
Costantinopoli, con le reliquie del Santo. L’evento fu disastroso anche per le colate di fango
e di detriti che giunte nella pianura della Campania Felix la annegarono sotto una torbida
palude, devastando villaggi interi, uomini e animali. Nella notte i terremoti diminuirono e il
mattino del 19 dicembre altri riti vennero compiuti con lo scopo di placare definitivamente i
fenomeni che stavano scemando. Solo a partire dal 20 dicembre e fino al 23 la catastrofe si
poté dire terminata e le città che subirono forti danni furono numerose: tra queste Torre
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del Greco, Resina, San Sebastiano, Somma Vesuviana, Torre Annunziata e San Giorgio a
Cremano. Furono organizzate opere assistenziali e di soccorso sia da parte delle autorità
vicereali sia da parte dei privati. I morti ammontarono a circa 30 mila solo nei giorni di
dicembre, mentre altri morirono in seguito per le conseguenze dirette dell’eruzione.
Numerose furono le epigrafi poste, poi, in alcune città colpite, a ricordo perenne del tragico
avvenimento. Tra i molti, famoso è l’epitaffio che il viceré Fonseca fere murare a Portici nel
gennaio del 1632. Scritta in latino e inglobata in Palazzo Ruffo di Bagnara, all’angolo tra
corso Garibaldi e via Gianturco, l’iscrizione è una vibrante esortazione, rivolta alla
popolazione, ad abbandonare la città a motivo dell’incombente Vesuvio. Quest’epigrafe,
orami deteriorata dai secoli e dagli avvenimenti bellici, può essere considerata di carattere
terroristico. È il primo manifesto civile di protezione del 1632, ed invoglia a fuggire da
Napoli.
CAPITOLO TERZO
Le tre opere vesuviane di Giovan Battista Bergazzano
La fama di Giovan Battista Bergazzano deriva principalmente dal trittico poetico da lui
dedicato all’eruzione vesuviana del 1631: Il Vesuvio Fulminante, I prieghi di Partenope e
Bacco arraggiato co Vorcano hanno goduto di un difforme successo, giacché la fortuna del
letterato-barbiere è legata in particolar modo alla terza opera, un dialogo satirico che più
volte ha destato l’attenzione degli studiosi. Le prime due opere sono scritte in italiano
mentre la terza in lingua napoletana e sono composte tutte nel 1632. La trilogia ha tre
distinti destinatari:
1) Il Vesuvio fulminante è dedicato a don Michele Bucca d’Aragona, signore di Torre
Annunziata, città assalita dalle fiamme;
2) I Prieghi di Partenope è indirizzato ad Onofrio Pignataro, i cui possedimenti di
Ercolano erano stati risparmiati dall’eruzione;
3) Bacco arraggiato co Vorcano è dedicato al nobile Montano, musicista, pittore e
mecenate.
Bergazzano si rivolge a tre destinatari diversi: perché? È da ricordare che le protezioni dei
“grandi” erano spesso “incerte”, poiché le promesse potevano venire meno a causa
dell’improvvisa caduta in disgrazia dei protettori o, semplicemente, della loro morte: per
questo motivo l’Autore si rivolge a tre distinti signori.
IL VESUVIO FULMINANTE: la prima opera della trilogia, il Vesuvio fulminante, dedicata il 30
gennaio 1632 a Michele Bucca d’Aragona, è l’autorevole esempio di un esercizio poetico. Il
poemetto didascalico, di 360 endecasillabi in sesta rima, conduce, all’insegna della libera
sperimentazione, un’originale esplorazione dell’evento vulcanico. Il testo si apre con versi
importanti per la ricostruzione spazio-temporale dell’evento e, così, Bergazzano introduce
ex abrupto l’argomento: l’incendio è scoppiato e ha costretto alla fuga sia il poeta che il
destinatario dell’opera. In primis egli compie un excursus rivolto a descrivere la condizione
di grazia in cui viveva Napoli prima dell’eruzione; si tratta di una condizione edenica, pregna
di gioia e divertimento, lontana da preoccupazioni e malattie. Da ciò deriva quello che è
stato il progressivo abbandono della popolazione al peccato e alla lussuria, per cui
l’eruzione assume così il compito di colpire e punire il disordine morale di Napoli per
ripristinarvi armonia e ordine. La sua prospettiva degli eventi è quella di un narratore
onnisciente che analizza e racconta la storia dall’esterno e che partecipa al dolore narrato,
intervenendo talvolta per spiegarlo e per dargli senso, senza però figurarvi come un vero e
proprio personaggio: piuttosto è da intendersi come un cronista che descrive i fatti accaduti
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dividendoli in sequenze narrativocronologiche, con lo scopo di dare un quadro storico
dell’evento. Vengono introdotti i vari personaggi, tra cui Napoli personificata nella sirena
Partenope, il Vesuvio e infine la processione presieduta dall’arcivescovo Boncompagni. Non
vi è quindi un vero protagonista. Ne deriva una struttura articolata che prevede la
commissione di vari generi, poiché alla cronaca si aggiunge la storia dell’eruzione avvenuta
nel 79 d.C., alla religione si mescola la mitologia, alla narrazione si intreccia la descrizione
scenica, al diegetico il mimetico. Ne viene fuori un macrotesto in cui s’innestano molteplici
micro-testi che contribuiscono a delineare un quadro completo degli accadimenti e vi è una
teatralità implicita nelle varie sequenze che si manifesta maggiormente in quelle continue
espressioni visive e uditive che Bergazzano attribuisce a Partenope, come nel v.91 che
attraverso un registro linguistico d’effetto consente quasi di vivere l’eruzione. Non va
dimenticato che il testo era pubblicamente declamato presso le corti nobiliari dove operava
Bergazzano, per cui egli impiega tutti gli strumenti retorico-persuasivi idonei per far sì che
l’uditorio percepisse il messaggio poetico e se ne sentisse partecipe. Vi è, inoltre, una forte
teatralità che si avverte soprattutto nell’espediente del flashback, quando si celebra la
condizione di una Napoli precedente all’eruzione e nel susseguirsi delle immagini evocate
con tragicità che ripercorrono i vari eventi catastrofici che investono i personaggi: la fuga di
Michele Bucca da Torre Annunziata, l’avanzata della lava e degli incendi, il diffondersi del
panico tra i popolani e il pellegrinaggio per la città. L’atto penitenziale della città ha il potere
di coinvolgere l’utente del testo, sia esso lettore che spettatore, agendo sulla sua
immaginazione; vi sono movimenti, gestualità, mimica, tutti caratteri tipici dell’azione
drammatica. È una teatralità vivida ben espressa, ad esempio, nella sezione in cui viene
descritta Partenope impegnata ad aiutare il popolo in pericolo e a pregare Dio perché ne
abbia pietà. Particolarmente significativi sono anche i versi nei quali si menzionano le
devote implorazioni indirizzate dalla sirena-città alla Santissima Vergine. Nell’epilogo del
poemetto campeggia la descrizione della processione guidata dall’arcivescovo
Boncompagni. La storia, in questo modo, diventa rappresentazione, l’eruzione diventa il
pretesto per descrivere il tutto. Bergazzano diventa il portavoce di un evento che si fa
spettacolo e che ha il potere di coinvolgere emotivamente chi legge o chi ascolta. Ampio è il
ricorso alla mitologia, a partire dalla città di Napoli identificata con la sirena Partenope ( a
coronamento di una fortunata tradizione letteraria che trae origine dalle Metamorfosi di
Ovidio e che prosegue con Iacopo Sannazaro e le sue Egloghe piscatorie ) sino alle
figurazioni di Venere e Bacco, di Plutone e Giove, o ancora dei Ciclopi, trasferitisi nel
Vesuvio insieme con il dio Vulcano per devastare il territorio campano.
Le immagini abbozzate nel poemetto si basano su un’interazione lirica e cronaca, mito e
storia, cristianesimo e paganesimo, e si sostengono da un complesso apparato retorico che
è evidente già dai primi versi, ricchi di metafore e alle metonimie per indicare l’alba del 16
dicembre 1631. Ancora una metafora viene adoperata per descrivere lo stato di serenità in
cui viveva Napoli prima del cataclisma, tra amore ed ebbrezza. Difatti il procedimento
metaforico, oltre a suscitare meraviglia, serve a esprimere il sublime raggiunto con il
semplice uso della parola; esso è il vero protagonista del poemetto, come pure delle altre
opere bergazzaniane, e viene impiegato come un gioco enigmatico che cela in sé un
significato più arcano e più misterioso.
Il barocco di Bergazzano è tutto riposto nel potere del verso, che riesce a far coincidere
finito e infinito, realtà e finzione, sacro e profano, e la cronaca dell’eruzione si risolve in una
complessa mescolanza di poesia e storia, in un cortocircuito tra presente e passato.
Occorre però sottolineare che Bergazzano scrisse il poemetto quando le immediate
conseguenze della catastrofe erano ancora in atto. L’autore celebra un evento tragico
muovendosi con libertà tra il reale e il fantastico, fondendoli con la morale e con la
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religione, attribuendosi il compito di comunicare il tema centrale della morte dissimulato da
un linguaggio virtuosistico. Interessanti sono le affinità che il Vesuvio fulminante ha, in
particolare, con il Breve discorso dell’incendio del monte Vesuvio del reverendo Camillo
Volpe, che riassume i drammatici eventi dell’eruzione nel feudo di Gesualdo. Entrambi gli
scritti condividono come ipotesi le lettere di Plinio il Giovane sugli avvenimenti del 79 d.C.,
nonché la descrizione della morte degli animali; ma il legame più incisivo si riscontra nel
significato attribuito all’eruzione, interpretata come una punizione divina delle colpe
umane. Là dove Bergazzano ricorre al repertorio mitologico, Volpe rimarca l’aspetto
religioso.
I PRIEGHI DI PARTENOPE: Il secondo testo vesuviano è un idillio in 318 endecasillabi e
settenari sciolti, composto nel 1632, successivamente al Vesuvio fulminante, benché la
dedicatoria a Onofrio Pignataro sia priva di data. Tale idillio combina i generi del poemetto
mitologico e le composizioni bucoliche, l’egloga e la pastorale. L’azione si svolge a
Castellammare di Stabia nei giorni dell’eruzione e si articola in tre momenti:
1) La fuga del pescatore Tireno a causa della catastrofe;
2) Manifestazione dell’attività vulcanica nella sua piena potenza;
3) La preghiera della città (personificata in Partenope)-> da qui il significato del titolo.
La narrazione è dominata dal quadro marittimo: Tireno sta pescando e trova prima la rete
colma di sassi, poi nota che il giorno sta diventando oscuro; egli interpreta gli eventi come
un qualcosa di sinistro, per cui chiede spiegazioni prima al dio Nettuno, poi si rivolge alla
dea Diana, credendo che le due divinità siano offese con lui, sebbene egli abbia adempiuto
ai voti fatti a entrambi. Ha inizio un soliloquio nel quale dominano paura e inquietudine; a
conclusione del monologo si espande una tenebra terrifica, anticipazione dell’eruzione. Di lì
a poco la scena cambia: il pescatore cerca di remare il più il più velocemente possibile per
mettersi in salvo. L’osservazione dell’evento è cambiata rispetto alle strategie
rappresentative spiegate nel Vesuvio Fulminante, in quanto non vi troviamo Bergazzano
che descrive e osserva, ma Tireno stesso che, vivendo la tragedia sulla propria pelle, ne
diventa protagonista, cosicché il motivo occasionale dell’eruzione offre la possibilità
all’autore di costruire una storia finta intorno a un evento realmente accaduto. Il gusto per
l’orrido si mescola alla sensualità espressiva, mentre le immagini rimandano a una realtà di
opposti. Le descrizioni che raccontano la distruzione provocata dal Vesuvio sono
caratterizzate da un forte pathos poetico, ricco di musicalità, che ha lo scopo di produrre
emozioni nel destinatario (abbiamo detto che lo scopo è suscitare meraviglia nel lettore).
Anche in questa seconda opera della trilogia vi sono scene di morte, ma esse non
raggiungono l’aspetto violento e cupo tipico della prima, anche perché qui l’attenzione
dell’Autore è rivolta principalmente a Partenope, la città-personaggio che parla e agisce,
mostrando una maggiore consapevolezza della colpa commessa: nei versi 240-244, ad
esempio, si legge la presa di coscienza di Partenope e la preghiera rivolta al Cielo espressa
con “alto suono”. Diverso è anche il rito penitenziale rispetto al Vesuvio fulminante: mentre
nella prima opera il ravvedimento della città non raggiunge l’effetto desiderato (il poemetto
si conclude con l’eruzione ancora in atto), nella seconda opera invece vi è un finale chiuso
ed è Partenope a pentirsi e a veicolare lei il messaggio di pentimento. Le parole di
Partenope riflettono anche la posizione etico-religiosa di Bergazzano, secondo cui la colpa
commessa deve essere punita, ma un sincero ravvedimento può placare la collera divina.
La città alla fine dell’idillio prega S. Gennaro, suo patrono, affinché interceda presso Dio e in
questo modo si sottolinea che la salvezza scaturisce prima dal pentimento dell’individuo,
poi da un intervento soprannaturale. L’opera trova affinità con L’incendio del Vesuvio,
poemetto di Bove, in cui vi è la descrizione dei luoghi ameni di Napoli, ricchi di flora e di
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fauna; entrambi i testi presentano l’invocazione a S. Gennaro. Inoltre, anche il testo di Bove
interpreta l’evento come punizione divina.
I prieghi di Partenope è la sola opera della trilogia ad aprirsi con un sonetto dedicato a S.
Gennaro. Si tratta di un vero e proprio inno di lode intonato da Bergazzano per ringraziare
dello scampato pericolo il santo che ha placato l’ira del Vesuvio. Nelle prime due quartine è
descritto il vapore nero che oscura la città e il sangue che fa cessare lo stridio dei tuoni,
mentre nelle ultime due terzine è descritta la potenza delle reliquie sacre e la fine
dell’eruzione.
BACCO ARRAGGIATO CO VORCANO: Giovan Battista Bergazzano, dopo aver conseguito un
discreto successo con la pubblicazione del Vesuvio fulminante e de I prieghi di Partenope, si
cimenta in un componimento completamente nuovo, destinato a stuzzicare la curiosità dei
lettori grazie alla sua originalità. Bacco arraggiato co Vorcano si discosta totalmente dai due
precedenti testi per l’ambientazione mitologica, per il tono esclusivamente ludico-ironico,
per l’utilizzo del dialetto e per la struttura dialogata. Il poemetto, in 347 versi sciolti,
dedicato nel marzo 1632 a Giacomo Tenerello Montano, fu scritto in occasione del
carnevale, circa un mese dopo la conclusione dell’eruzione. L’intenzione dell’Autore era
quella di scherzare sul tragico evento. Il Vesuvio da poco aveva cessato l’attività eruttiva; la
tranquillità era appena ritornata e con essa era maturata la certezza di essere scampati al
pericolo. Il carnevale, qui, assume un significato molto particolare: è il trionfo dell’effimero,
del superficiale, della gioia di vivere e l’Autore vuole esaltare la vita tramite lo scherzo e il
gioco, per cui il testo, costruito su un dialogo tra Vulcano e Bacco, appare piuttosto
spiritoso. Bergazzano ricorre ancora una volta alla mitologia classica per interpretare
allegoricamente la realtà; in particolare, il legame tra Bacco e Vulcano ha origini
antichissime; infatti, nella domus del Centenario a Pompei è possibile osservare un dipinto
che raffigura Bacco alle pendici del Vesuvio, circondato da animali e da una ricca
vegetazione. L’opera presenta un linguaggio comico e popolare, reso anche attraverso la
parodia del poema serio: i personaggi, ossia gli dèi della tradizione epica, qui
sono privati della loro sacralità e litigano, sono in preda alle passioni,
bestemmiano. L’ira di Babbo proviene dal suo proposito di vendetta nei confronti di
Vulcano a causa dell’incendio patito.
Il sacro viene quindi sbeffeggiato, la seriosità è gettata via come una maschera per lasciare
il posto a una verità che si esprime solo attraverso il riso. Il dialogo si apre, a eruzione
avvenuta, con Bacco che accusa Vulcano di avergli distrutto i pregiati vigneti; quest’ultimo si
giustifica dicendo che la sua azione è conseguenza di un ordine dettatogli da Giove. L’ira del
sovrano degli dèi, difatti, era esplosa contro lo stesso Vulcano, il quale, di propria iniziativa,
non avrebbe voluto mai distruggere i vigneti.
In realtà il pomo della discordia è costituito dal vino, che sortisce effetti dannosi sull’uomo,
allontanandolo dal retto agire. In tale frangente il disordine e il caos diventano utili per
ripristinare l’equilibrio perduto. Spetta a Giove, padre degli dèi, spiegare il perché della
distruzione delle vigne, elencando gli effetti pericolosi della bevanda.
Le espressioni utilizzate sono quelle tipiche del Seicento, filtrate da una lingua semplice e
genuina, ricca di imprecazioni, le quali sono necessarie affinché possano scaturire il riso e
l’allegria. L’utilizzo dell’espressione dialettale, per Bergazzano, non solo rappresenta un
modo per attuare la caricatura e la parodia, ma anche un’alternativa espressiva a quella
dominante del classicismo toscano (quindi l’uso del napoletano è anche una sorta di
rivendicazione di veridicità, puntando al realismo, e familiarità). Accanto al tema principale,
il vino come causa degli errori umani, troviamo il fuoco visto come forza purificatrice: il
vino, qui, subisce un processo di degrado (si pensi al vino come elemento basilare della
cerimonia liturgica cattolica, esso rappresenta il sangue di Cristo), quindi rappresenta un
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elemento distruttore che a sua volta deve essere distrutto (il fuoco purificatore).
Bergazzano capovolge quindi il mito, ridicolizza la paura della morte, offende la sacralità
degli dèi pagani e sminuisce i principi cattolici.
L’opera sembra essersi ispirata all’Ode burlesca del poeta Abati, testo che presenta un
registro scherzoso ed è ricco di immagini fantasiose. Le affinità tra le due opere sono
numerose, infatti nel testo di Bergazzano ricorre l’espressione “Vesuvio è fatto Cuoco”,
ripresa dall’incipit dell’Ode. Comune ai due testi è anche il tema della distruzione dei
vigneti: nell’Ode di Abati, però, è il sole che incendia tutto, mentre nel testo di Bergazzano è
Giove che spinge Vulcano alla devastazione; Abati elogia ed esalta le qualità e i profumi del
vino, Bergazzano, al contrario, elenca gli effetti negativi che esso produce sia negli uomini
che negli dèi (addirittura la distruzione dei vigneti, non dimentichiamolo, viene fatto per
ristabilire l’ordine in terra).
L’opera chiude la trilogia sotto il segno dell’ironia e anche se presenta una forma di matrice
popolare risulta destinato, comunque, ad un pubblico competente e sensibile alla cultura
dialettale.
Approfondimento
LE VARIE FORTUNE: Nel 1637 Bergazzano pubblica la favola boschereccia Le varie fortune,
nella quale affronta il tema della capricciosa e imprevedibile Fortuna. L’opera è dedicata a
Marino Caracciolo, figlio di Giuseppe Caracciolo a cui Bergazzano aveva dedicato Il
vendicato sdegno: nella lettera dedicatoria l’Autore fa riferimento alla tenera età del
destinatario (un bambino di sei anni) augurandogli i traguardi e la fama dei suoi
predecessori. Il paratesto della favola è arricchito da 6 sonetti (3 in italiano e 3 in
napoletano) nei quali si loda la magnificenza dell’opera:
1) Marcantonio Dentice esalta la versificazione del poeta al quale riconosce meritata
fama;
2) Il giurista e poeta Biagio Cusano elogia l’arte poetica del Bergazzano;
3) Andrea Quaranta, chierico napoletano, sottolinea nel sonetto le qualità della dea
Fortuna che è sovrana dei destini umani;
4) Francesco Ampollone evidenzia il bilinguismo impiegato nella favola da
Bergazzano, tale da renderlo un poeta meritevole;
5) Anche Francesco Antonio Giusto elogia Bergazzano, degno di essere incoronato
dalle Muse per la sua poesia;
6) L’ultimo sonetto, ad opera di un certo “Segnore Cerillo”, è di difficile lettura ed
omaggia Bergazzano con scherzosa complicità.
Opere successive da ricordare sono il sonetto con cui Bergazzano esalta Girolamo
Fontanella per la silloge Nove cieli, nella quale i testi poetici sono ripartiti secondo le sfere
astronomiche aristoteliche, e il sonetto a corredo del poemetto La Talia, di Cesare Monizio,
dedicato al vino.
Nel luglio del 1647 la vita di Bergazzano è scossa dai moti di Masaniello: in tale frangente il
poeta si dichiara partigiano del popolo contro gli spagnoli e compone opere di natura filo-
popolare, come Il campidoglio dell’illustrissimo signor Paolo di Napoli (1648), una raccolta
di 4 sonetti stampati in foglio volante e indirizzati a Paolo di Napoli il quale, nel
corso dei tumulti, aveva saccheggiato i feudi della famiglia Caracciolo di Avellino.
Il quarto sonetto, in particolare, è una violenta invettiva in lingua napoletana contro il viceré
Rodrigo Ponce, descritto come più spietato di Nerone. Sempre nel 1648, ancora su un foglio
volante, viene stampato il sonetto in lode di Ippolito da Pastena, il quale aveva aizzato i
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Salernitani alla rivolta. La stagione rivoluzionaria di Bergazzano fu, però, di breve durata.
Nel 1652 ripubblicò a Napoli la seconda edizione de Il vendicato sdegno e
la dedica a Francesco Marino Caracciolo, IV principe di Avellino: nella lettera dedicatoria si
delinea un autentico atto di pentimento e di sottomissione da parte dell’Autore che negli
anni precedenti, invece, aveva sostenuto Paolo di Napoli, saccheggiatore dei possedimenti
del principe. Rispetto alla prima edizione, il testo è corredato da due soli sonetti:
1) Nel primo Bergazzano rammenta le vittoriose imprese belliche compiute dal
principe nell’estate del ’48;
2) Nel secondo, posto al termine della favola, Bergazzano ringrazia il pittore Marotta,
esaltandone la maestria usata nel ritrarlo.
Ignote sono la data e le circostanze della morte di Bergazzano: il termine post quem è da
individuarsi nella dedica della seconda edizione de Il vendicato sdegno (15 ottobre 1652),
infatti dopo tale data si perdono le tracce del poeta.
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