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LA DECORAZIONE DELLA BASILICA DI SAN FRANCESCO AD ASSISI COME METAFORA DELLA QUESTIONE

GIOTTESCA
ALESSANDRO TOMEI
Sin dalle origini della moderna storia dell’arte la decorazione dell’aula superiore della Basilica di San Francesco ad Assisi costituisce
il nodo problematico e critico più complesso degli anni cruciali in cui la pittura occidentale mutò radicalmente la direzione del
proprio cammino.
Sulle centinaia di metri quadrati di affreschi che ricoprono interamente le pareti e le volte della chiesa si esercitano infatti almeno
due generazioni di pittori, diversi per origine e forma culturale, ognuno dei quali contribuì a dar vita a un modo di intendere la
decorazione murale che avrebbe indicato la rotta da tenere nell’avanzato Quattrocento.

LA BASILICA SUPERIORE:
La decorazione della Basilica superiore di san Francesco ebbe infatti inizio nel transetto destro intorno al valico tra gli anni
cinquanta e sessanta del Duecento, cioè subito dopo la consacrazione nel 1524 da parte di papa Innocenzo III: inizialmente questo
spazio fu affidato a una bottega di pittori di formazione schiettamente gotica, certamente non italiani e con tutta probabilità attivi
anche nell’esecuzione delle vetrate dipinte, la cui provenienza è o dalla Francia o dalla Inghilterra, e che eseguirono immagini con
temi apocalittici nei registri alti e mediani del transetto.
Ben presto però, per motivi che rimangono oscuri, ma forse riconducibili a una certa estraneità del loro stile al gusto dei
committenti, in primis la Curia romane e poi l’ordine francescano, dunque i pittori oltramondani vennero sostenuti da maestranze
italiane, di formazione centroitaliana, che portarono a termine la decorazione dei registri superiori delle pareti con figure di
Apostoli e Profeti.
I lavori ripresero verso la fine dell’ottavo decennio nel resto del transetto destro, sinistro e nell’abside ad opera di una bottega
guidata da Cimabue, ma nella quale continueranno a lavorare pittori già presenti nel cantiere. Questa fase di rinnovamento impulso
ai lavori è legata alla volontà di papa Niccolo III.
Il denominatore comune delle opere pittoriche commissionate da Niccolo III è costituito dalla riaffermazione del potere papale e
della sua diretta discendenza da Cristo attraverso l’exemplum fornito dalle Storie apostoliche e dalla sottomissione del potere
dell’imperatore alla forza della fede. Temi che si ritrovano anche ad Assisi, e che nel transetto e nell’abside si affiancano a un ciclo
di Storie della Vergine e a uno apocalittico, questi ultimi particolarmente vicini alla spiritualità francescana.
Il 15 febbraio 1233 venne eletto al soglio pontificio Gerolamo Masci, primo papa proveniente dall’ordine francescano: assumendo il
nome di Niccolo Ive di questo ultimo proseguì anche l’attività di patronato della basilica assisiate. Appena eletto infatti rinnovò
l’autorizzazione a usare le elemosine raccolte dall’Ordine per proseguire i lavori di decorazione della Chiesa superiore.
Il Bellosi ipotizza che tutta la decorazione della Basilica superiore sia stata portata a termine entro l’anno della morte di Niccolo IV,
cioè il 1292: è però evidente che ad Assisi i lavori della navata, particolarmente impegnativi dal punto di vista dimensionale, siano
proseguiti ben oltre la morte del papa. Ed è ancora più probabile che la ripresa dell’affrescatura della navata sia stata affidata a
Jacopo Torriti il quale intrapresa la decorazione nei registri superiori delle due pareti seguendo il modello normativi dei prototipi
romani di san Pietro in Vaticano e di san Paolo fuori le mura: veniva così a sottolinearsi il carattere romano e papale della basilica
assiale, probabilmente deciso ben prima dell’elezione di Niccolo IV.
L’esecuzione degli affreschi ebbe inizio dal capocroce e nelle prime due campate a partire dal transetto: Torriti eseguì di propria
mano solo alcuni dei brani del ciclo: la volta clipeata, la seconda parete del transetto, la prima scena vetrotestamentario, la
creazione del mondo e alcuni passaggi sparsi nelle prime due campate: ne è prova disegni preparatori di straordinario livello
qualitativo e di impressionante intensità espressiva.
Inoltre sono all’opera collaboratori di altissimo livello, formatosi nel milieu figurativo di più schietta intonazione classica del tempo.
Vediamo quindi che Torriti ed i suoi mostrano una conoscenza di prima mano dei modelli antichi, che ad Assisi si manifesta per
esempio nella varietà e nella salda misura classicheggiante dell’apparato ornamentale, nella costruzione narrativa delle scene e
nella assoluta padronanza delle tecniche dell’affresco.
Ma anche il Torriti dovette ben presto abbandonare il cantiere, quasi sicuramente chiamato a Roma dallo stesso Niccolo IV per il
rinnovamento dei mosaici nelle absidi di san Giovanni in Laterano e santa Maria Maggiore.

È in questo momento e in un punto ben preciso, nel registro mediano della parete destra della terza campata, sempre a partire
dal transetto, che si manifesta, all’improvviso e senza passaggi preparatori, elementi evidenti di una interruzione nella continuità
stilistica della decorazione, e più in generale, gli inizi di una fase nuova nella pittura occidentale. È il punto in cui si trovano i due
pannelli con le storie di Isacco.
le prime due scene rappresentano l’inganno di Giacobbe: lo svolgimento dei fatti è ambientata in una collocazione spaziale la cui
coerenza ottica è del tutto estranea a quanto era stato dipinto nelle scene precedenti del ciclo, così come profondamente diverse
solo le figure che vi agiscono. Diverse nella resa plastica, diverse nell’intensità espressiva, diverse nel disporsi e nel muoversi in uno
spazio abitabile. Anche le morbide e monumentali volumetrie delle figure segnano un punto di svolta marcatissima, mostrando
apertamente la loro discendenza dalla statuaria classica, anche dal punto di vista iconografico. È evidente che un altro maestro con
un’altra bottega ha sostituito i romani guidati da Torriti ed è proprio nella identificazione di tale maestro che la critica ha
maggiormente concentrato l’indagine.
Due sostanzialmente le posizioni: la prima vede Giotto agli esordi del suo percorso, la seconda ipotizza l’intervento di un maestro
già maturo, forse di una generazione più anziano, capace di padroneggiare le tecniche di organizzazione tridimensionale dello
spazio e dotato di un ricchissimo bagaglio di conoscenza classica. Per alcuni autore non riconosciuto e quindi chiamato Pittore delle
storie di Isacco, che da altri viene identificato in Pietro Cavallini, Gaddo Gaddi o Arnolfo di Cambio. A metà strada, per Pietro Tosca,
l’autore del dittico sarebbe Giotto, ma dopo essere stato in contatto a Roma con pietro Cavallini.
Il punto centrale della questione Assisi consiste infatti nel riconoscimento delle prime prove di un giovane pittore in formazione,
Giotto, la cui presenza nel cantiere della basilica francescano è quasi concordemente ricordata dalle fonti, a partire dal secondo
decennio del Trecento. Ed inoltre prendendo come fonte i Commentari di Lorenzo Ghilberti vediamo che vi è attestazione della
presenza di Giotto nella fascia bassa delle pareti della chiesa superiore , per intenderci la parte dove sono affrescate le storie di
Francesco.
La questione Giotto non Giotto è piuttosto antica: parte consistente della storiografia ha ritenuto il ciclo francescano come una
sorta di opera collettiva eseguita da pittori più o meno collegati alla lezione giottesca. Grande rilievo si da alla tecnica di affrescatura
usata, molto simile a quella usata da Pietro Cavallini nel Giudizio Universale a santa Cecilia in Trastevere. Ciò naturalmente non vuol
dire che sia stato il Cavallini ad eseguire il ciclo, ma senza dubbio questi aspetti dimostrano il ruolo fondante svolto dalla cultura
pittura romana nella formazione del maestro che lo dipinse.
L’osservazione complessiva del ciclo francescano mostra un dato stilistico inconfutabile: si tratta dell’opera di un pittore che sta
compiendo un articolato percorso di formazione e sperimentazione, insieme a un gruppo di collaboratori. Via via che ci si addentra
nel disparsi degli episodi si vede prendere corpo una visione sempre più complessa, ma non unitaria come nelle Storie di Isacco, sia
dello spazio sia delle relazioni espressive: le figure che inizialmente facevano fatica ad avere un dialogo con lo spazio in cui
agiscono, mano mano si integrano con esso; come sempre più complesse si fanno le interazioni tra i personaggi e più
emotivamente sono le loro espressioni.
Ciò detto è allora proprio inspiegabile quello che avvenne tra il dittico delle storie di Isacco e le storie di san Francesco: si verifica
infatti uno cospicua semplificazione dello spazio e una vera e propria perdita di organizzazione.
Vi si prenda a comparazione la resa dell’elemento del letto nei due cicli: nel ciclo di Isacco il letto ha una assoluta coerenza visiva
nello spazio, reso quindi con estrema naturalezza e intensità scenica; mentre i letti su cui giace Francesco e il pontefice sono
inclinati verso l’osservatore, seguendo un principio prospettico abbastanza arcaico.
Appare chiaro che ci troviamo di fronte ad un caso di rapporto tra un modello autorevole e innovativo e un giovane pittore di
straordinario talento, Giotto, che appunto guarda a quel modello, ovvero il Maestro di Isacco, il quale probabilmente fu proprio
maestro di Giotto, soprattutto per quanto riguarda il modo di guardare la realtà e di riprodurla su muro e su tavola secondo nuovi
principi creativi e tecnici.
Non si deve inoltre sottovalutare, per meglio comprendere la questione, che i dipinti in assoluto più vicini alle Storie di Isacco si
trovano a Roma, nel transetto sinistro di santa Maria Maggiore. È proprio guardando a Roma e nella riflessione in corso sull’antico
nell’ultimo quarto del Duecento, che ebbe come protagonisti Pietro Cavallini e Arnolfo di Cambio, che si trovano i riferimenti più
diretti, sia per il dittico di Isacco sia per le storie francescane. Ed è in questa ottica che la Romanini ebbe modo di avanzare l’ipotesi
per cui il maestro di Isacco sia Arnolfo di Cambio, sicuramente per il sistema ottico centralizzato e la naturalezza e verosimiglianza
delle espressioni.
se dunque l’operazione di Maestro di Isacco/Giotto non può essere considerata del tutto attendibile, si dovranno trovare altre
soluzioni. Si dovrà allora continuare a percorrere l’ipotesi di un ignoto maestro di formazioni romana, cresciuto i quel mileu
culturale e figurativo, dove oltre ad Arnolfo di Cambio lavorava il Cavallino, dove le ricerche scientifiche sull’ottica e la prospettiva
fiorivano nella metà del Duecento e soprattutto dove la conoscenza delle opere dell’Antico era in quegli anni al centro
dell’attenzione degli artisti che la operavano.
Il riferimento a Roma è anche evidente nelle storie francescane: così vediamo Giotto lontano dalla influenza culturale fiorentina.

CHIESA INFERIORE
In riferimento al commentario di Ghilberti e delle divergenze stilistiche, nella Chiesa inferiore si parla di un Giotto più maturo
rispetto a quello della chiesa superiore.
Questi dipinti si dispiegano nelle pareti di due cappelle, quella della Maddalena e quella di san Nicola, la prima che si apre alla fine
della parete settentrionale, la seconda all’estremità del transetto dello stesso lato dell’edificio; a questi vanno aggiunti altri affreschi
sulla volta dell’incrocio con il transetto, raffiguranti le Virtù francescane e un breve ciclo con i Miracoli post mortem di san
Francesco e con Storie dell’Infanzia di Cristo nel transetto destro.
Anche per queste opere la situazione critica è intricata e divisa in opinioni a volte contrastanti, che concordano su un punto, ovvero
sulla presenza sporadica di Giotto nella decorazione delle cappelle, ambedue probabilmente eseguite entro il primo decennio del
Trecento.
La cappella di san Nicola, fatta costruire dal cardinale Napoleone Orsini per accogliervi il monumento funebre del nipote Giovanni
Gaetano: la presenza di Giotto risulta marginale, essendo riconoscibile sia pure con qualche perplessità nei busti dei Santi, mentre il
resto della decorazione è stato più o meno eseguito da diversi altri maestri umbri formatosi nella bottega. La domanda che sorge
spontanea è come mai nella Cappella di san Nicola Giotto limita il proprio intervento a parti marginali, lasciando gran parte del
lavoro a collaboratori? È davvero singolare tutto ciò, anche in considerazione della importanza del committente: si dovrà tenere
ancora conto che probabilmente Giotto era componente di una squadra ampia di pittori, alcuni già presenti nel cantiere.
Rispetto alla cappella di san Nicola, in quella della Maddalena, la presenza del maestro appare più evidente pur in un contesto di
ampia collaborazione con seguaci locali: alcuni brani sembrano riferibili però direttamente alla sua mano, ma soprattutto si impone
all’attenzione un diretto portato di quanto messo a punto nella immediatamente precedente esperienza padovana, ovvero la
costruzione volumetrica dell’immagine attraverso ampie campiture di colore.
Tra la Cappella della Maddalena e quella di san Nicola, sulle pareti del transetto destro si snodano altri murali strettamente legati
alla lezione giottesca, anzi secondo alcuni eseguiti in gran parte dal maestro stesso. Altri pannelli comunque sono attribuibili ad un
range di pittori senza nome.
IL NUOVO RACCONTO, ASSISI E LA SVOLTA DELLA PITTURA NARRATIVA
SERENA ROMANO
La decorazione della doppia basilica di san Francesco ad Assisi non fu certo un manoscritto da sfogliare: ma nacque intorno al
nucleo necessitante del personaggio del Fondatore, Francesco, e in tutte le fasi della sua pittorica conservò il nesso con la sua figura
e gli eventi della sua vita. Fu uno strumento di propaganda politica, pontificia e francescana.

1. L’architetto del programma


La prima cosa da dire è che la storia pittorica della basilica di Assisi si inquadra in una ben precisa tradizione, e che fu all’interno di
essa che committenti e pittori elaborarono un pensiero figurativo, il cui nucleo fondamentale resta incardinato al personaggio del
Fondatore, ma che conosce fasi e stadi diversi.
La tradizione a cui allude il sistema decorativo a base tipologica, rimonta ai grandi prototipi basilicali paleocristiani. In questi ultimi,
specialmente la decorazione fresco di san Pietro e san Paolo fuori le mura a Roma, era stata definitivamente superato il linguaggio
spezzato e sincopato, a episodi citati o accostati in chiave simbolica, che aveva caratterizzato la pittura delle catacombe o la
decorazione scolpita nei sarcofagi. I cicli contrapposti sulle pareti delle navate delle basiliche romane svolgono invece un racconto
continuo, una sequenza logica, i cui episodi erano stati selezionati in numero sufficiente: lo spazio architettonico e il movimento
dell’osservatore, costruiscono il racconto.
Questo stesso sistema fu adottato ad Assisi per il programma delle navate di ambedue le chiese sovrapposte.
Nella chiesa inferiore, attorno al 1260, il ciclo della vita di Francesco fu affrontato a quello di Cristo; le vite parallele accompagnano
il visitatore dall’ingresso fino all’altare, dove si nascondo le spoglie di Francesco. La retorica della narrazione, concentrata negli
episodi chiave, calibra il paragone tra il santo e il suo modello, il Cristo, tenendo la vicenda di Francesco un gradino più bassa,
definendo i limiti umani rispetto a quelli del Cristo.
Circa venti anni dopo, quando fu messo a punto il progetto decorativo per la chiesa superiore, lo schema prescelto per
l’affrescatura della navata fu di nuovo quello tipologico: la retorica di base fu ancora una volta una retorica romana; ma in questa
l’orchestrazione narrativa fu impressionante per densità e per capacità innovativa.
Il primo fra tutti gli aspetti è quello che possiamo definire la struttura del discorso. Come si sa, sulle pareti della navata assiale, in
ambedue i registri alti a partire dall’attacco delle volte, scorrono, a destra, le storie dell’Antico Testamento, a sinistra, quelle del
Nuovo: le due sequenze procedono parallele, partendo dall’attacco del transetto e finendo nella controfacciata. Nello zoccolo basso
della parete, sotto il livello delle finestre, si snodano le 28 scene della storia di san Francesco. La direzione di lettura del ciclo
francescano contraddice quella delle storie testamentarie: essa ha inizio dalla parete sinistra all’attacco del transetto ma non si
interrompe verso l’ingresso, continuando quindi e avvolgendosi in senso inverso, per terminare poi di nuovo vicino al coro. Inoltre
la chiesa di san Francesco è di stile gotico: chi dettò il programma ed i pittori che lo realizzarono si trovano quindi ad adattare il
sistema narrativo tipologico, non in spazi continui delle navate paleocristiane, ma ad un organismo architettonico ritmato dalla
successione delle quattro campate e suddiviso dalla scansione di pilastri a fascio e delle volte.
I nessi che è possibile scoprire all’interno dei cicli e tra di essi sono molteplici.
Ad esempio è chiaro che la prima campate giochi su tutti i registri un ruolo di incipit: la creazione del mondo nella serie
veterotestamentaria, l’annunciazione in quella evangelica e in quella francescana l’omaggio di un uomo semplice; nella seconda si
svolge il tema del peccato e della redenzione; nella terza campata il tema spinoso delle modalità della missione affidata da Dio e
della sua continuazione dopo la morte del patriarca (tema molto caro all’Ordine francescano).
Gli esempi di questo tipo di corrispondenze sono infiniti: alcuni sono evidenti, altri forse erano riservati agli esegeti copti capaci di
scoprirli, ed a seconda della sapienza del lettore, in una sorta di accumulazione di sapere stratificato affidato alla memoria e
fondato in una radicale forma mentis.
Ciò che inoltre fa sottolineato è che san francesco è un contemporaneo, non è una figura di tratti storici indistinti e favolosi: e
questo elemento della contemporaneità viene preziosamente utilizzato e funzionalizzato anche all’interno del ciclo pittorico.
Tuttavia a questo personaggio viene fornita una straordinaria profondità teologica: bisogna evidenziare l’importanza delle figure dei
patriarchi in ciascuno dei nuclei narrativi veterotestamentarii di ogni campata e l’evidente relazione che si stabilisce tra essi e la
figura del Fondatore. La figura di Francesco è dunque fornita di rimandi molteplici, di associazioni mentali e visive, che ne
accrescono il significato nella prospettiva della storia provvidenziale: la sua vicenda di contemporaneo ha echi nel passato e si
proietta nel futuro. I registri della storia universale perdono così i limiti temporali: la narrazione del passato, quella del presente
francescano, la previsione del futuro, si tendono l’un l’altro attraverso l’esperienza esistenziale della persona di Francesco (non
credo sia azzardato riconoscere in questa coltissima mentalità le tracce delle spiritualità agostiniana, e specialmente il debito alla
concezione del tempo propria di Agostino).

2. Testo letterario e testo figurativo: La legenda Maior e il ciclo giottesco


Fortissima in ambito francescano è l’autorità dei testi ufficiali su Francesco, specialmente la Legenda Maior, l’ultimo e l’unico
veramente ufficiale opera del carismatico generale dell’Ordine Bonaventura.
Il ciclo della chiesa superiore se ne serve in maniera imprescindibile; i tituli che accompagnano le scene vengono tutti tratti dalla
Legenda: il riferimento a questo testo è dunque vitale alla concezione del programma. Nello stesso tempo il testo figurativo però
rimane autonomo a quello letterario: la materia è comune, l’ispirazione filosofica e il senso ultimo sono comuni, ma la maniera di
raccontare, le associazioni mentali e visive utilizzate negli affreschi, gli omaggi alle abitudini iconografiche sono specifici del
linguaggio figurativo.
Così l’astrazione, che in Bonaventura riprende il modello della Vita seconda di Tommaso da Celano ed ha come contrappeso la
moltiplicazione degli episodi biografici e miracolosi, nel ciclo pittorico viene moderata e gli episodi miracolosi sono drasticamente
ridotti di numero: quelli prescelti hanno la funzione di precisare i concetti cardine, che acquistano icasticità e capacità sintetica,
ridotti al nocciolo narrativo e liberati dai commenti dotti e testuali del ciclo sono da intuire attraverso altre modalità di
comprensione.
Lo snodarsi della vita di Francesco da un riquadro all’altro è chiaramente leggibile: viene descritto prima un giovane agiato, poi
vestendolo da frate e donandogli un volto che sembra affinarsi fisicamente e spiritualmente.
Il ritmo della campate raggruppa i riquadri e organizza i concetti sulle porzioni di parete: la prima è dedicata alla giovinezza e alla
vocazione, la seconda al rapporto di Francesco con la chiesa, la terza all’approvazione della regola per passare poi a temi astratti e
probabilmente scottanti come la definizione di Francesco quale profeta o la questione degli angeli.
L’abilità del programmatore è stata impressionante: nonostante gli obblighi che la relazione con i cicli testamentari e le diverse
corrispondenze richiedevano al tessuto della storia francescana, la successione degli episodi, quale proposta nella Legenda, è
rispettata quasi ovunque. Le eccezioni sono due: la prima è quasi una precisazione filologica poiché l’episodio dell’Apparizione al
capitolo Arles, di cui Bonaventura da conto molto presto nel suo testo, viene rimesso al posto giusto, ovvero prima della
Stigmatizzazione. La seconda riguarda il Miracolo della fonte, che è stato ritardato rispetto alla sequenza del testo, per affiancarlo
ad un altro episodio: la Predica degli uccelli.
L’impressione è che il programma iconografico, estremamente innovatore rispetto a quanto fino ad allora esistente nell’iconografia
francescana, sia stato studiato e composto da un profondo conoscitore della Legenda: ma anche di qualcuno che capiva come
l’abbondanza di dettagli e di episodi tipica di un testo letterario e in particolare del genere agiografico, fosse nefasta alla
comprensione di un testo figurativo offerto a ventaglio svariatissimo del pubblico.

3. Il teatro del racconto: lo spazio tangibile


Preliminare a qualsiasi osservazione puntuale su l’una o l’altra delle scene del ciclo è il rilevamento di un elemento, possiamo
chiamarlo dispositivo scenotecnico, di natura ancora non narrativa, che costituisce un dato unitario a tutte le scene francescane.
L’intero ciclo è incardinato in un’apparecchiatura composta di finte architravi e finte colonne tortili, concepito quale dispositivo
unitario in tutta la lunghezza delle due pareti e organizzato centripetamente per campate. Le ventotto scene si trovano in un tratto
di parete leggermente più avanzato rispetto alla porzione superiore: scena in senso classico, che ha spessore dipinto e che contiene
nella sua facciata più arretrata verso il fondo il luogo dell’azione. Lo spettatore si ritrova come a teatro: sa che ciò che sta
guardando è di fatto una rappresentazione, ma è ad essa vicinissimo e coinvolto nell’accadimento stesso.
Ad Assisi l’inquadratura ad onore è riservata alle storie francescane ed è trasportata all’altezza dell’occhio umano, eseguita con un
massimo di capacità illusiva e con assoluta monumentalità che supera anche i modelli paleocristiani per raggiungere quelle della
pittura antica.
L’ingresso di Francesco sulla scena è un ingresso simbolico: il Fondatore entra nella riconoscibilissima piazza di Assisi con la facciata
del tempio antico, come il Cristo entra a Gerusalemme e come il Cristo viene accolto dai devoti che gli avevano reso omaggio , così
Francesco riceve onore dall’uomo che gli stende il suo manto sotto i piedi. Al centro, il portico sorretto da colonne sembra duplicare
lo spazio scenico che è una striscia delimitata da architravi e colonne: altera il dato fittizio sottoposto all’osservatore, e lo accerta
ulteriormente: il pittore sembra dirci che realtà immaginata e realtà rappresentata hanno una comune radice di vera esistenza.
Siamo di fronte ad un sistema visuale e pittorico di estrema raffinatezza: ed è importante sottolineare che questi artifici, ovvero il
gusto e la volontà di impostare la scena con natura illusiva e scenica, compaiono nelle due celebri scene di Isacco nel registro
superiore della terza campata, anche se si differenziano per il risalto ancora più monumentale conferito alla figura umana,
soprattutto per l’indagine profonda e non convenzionale sulla psicologia dei personaggi.
 La tangibilità degli oggetti, la plausibilità dello spazio, sono dunque alcuni dei trucchi che costituiscono un aspetto di
radicale novità nel linguaggio figurativo.

4. L’azione e il gesto
Se torniamo dunque al problema posto dal saggio di Pacht (su come si include il fattore-tempo nella narrazione e nello svolgimento
del dramma), capiamo la grande svolta attuata nella chiesa assisiate, ed essenzialmente nel momento coincidente con la
conclusione del ciclo testamentario e l’inizio di quello francescano, consista nello straordinario potenzialmente delle caratteristiche
drammatiche dell’azione, che diventano insieme più facilmente leggibile ed emozionalmente più efficace.
L’assenza del movimento, propria dell’arte figurativa, è accettata in modo totale. Anzi, la natura immobile della rappresentazione è
statua accentuata, facendo coincidere questa immobilità con il momento culminante del dramma, quasi che l’azione non sia ferma
perché impossibilitata di fatto al movimento, ma perché la solennità del momento e il suo scottante significato comportano una
sospensione di qualsiasi gesto o azione.
È più che evidente come gli incunaboli di questo modo di vedere e di narrare siano ancora una volta nelle due storie di Isacco: in
ambedue queste i personaggi ci appaiono immobili, certo come la loro natura pittorica impone, ma immobili anche perché il
precipitare degli avvenimenti sembra fatalmente bloccarli nell’attimo decisivo e provvidenziale.
Per comprende l’azione bisogna seguire il gesto determinante: infatti attorno alla immobilità, le azione degli altri personaggi
determina un movimento corale a vari gradi di rilevanza drammatica.
Vediamo un espediente pittorico-narrativo proprio nelle scene di Isacco ripreso in strettissima continuità nell’inizio del ciclo
francescano. Se vediamo il secondo riquadro di Isacco non abbiamo dubbi che il vero clou sia concentri in una fetta di vuoto >
questo vuoto è il succo del discorso.
L’idea di far stagliare il gesto che riassume l’azione in una zona pittoricamente vuota, conferisce il massimo di evidenza e di peso
drammatico: più che mai nella Rinuncia dei beni il vuoto funge da sintesi e protagonista del momento narrativo: la separazione tra i
due gruppi di persone chiarisce il senso della scena: il distacco è decisivo e irrimediabile e nella fascia azzurra tra i laici e chierici
spiccano le mani di Francesco alzate nel gesto di invocazione e dell’offerta.
L’accrescimento della capacità delle immagini è il risultato di questa ricerca dell’essenziale e dell’eliminazione di ciò che potremmo
chiamare accidente. Un esempio di maturità e di equilibrio assolutamente compiuti è il Dono del Mantello: nella scena i personaggi
essenziali sono allineati (povero/borghese, Francesco/asino), nessun dettaglio distrae, nessuno elemento è accessorio: se non
conosciamo il soggetto della storia non abbiamo problemi a capire il ruolo dei personaggi, l’evento emerge in modo icastico ed
anche il contesto naturale sembra esistere solo per sottolineare e confermare quanto avviene raccontato.

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