La biografia del Tintoretto è avara di notizie e di date. Per lui parlano invece le numerose opere giunte sino a noi, spesso anche di dimensioni colossali, la cui realizzazione è stata possibile, secondo la malevola interpretazione del Vasari, in quanto l’artista ha «tirato via di pratica», cioè senza grandi basi teoriche e ideali, piuttosto che «con lo studio e col giudizio, come hanno fatto coloro che hanno seguito le belle maniere de’ suoi maggiori», vale a dire dei grandi maestri del Cinquecento.Il dipinto con il quale Tintoretto si impone per la prima volta all’attenzione dei contemporanei è il Miracolo dello schiavo (noto anche come il Miracolo di San Marco), oggi conservato alle Gallerie dell’Accademia di Venezia Fig. 20.33. Si tratta di un grande olio su tela realizzato fra il 1547 e il 1548 per la Sala del Capitolo della Scuola Grande di San Marco, una delle sei maggiori confraternite laiche di Venezia. Il soggetto si rifà al miracolo di San Marco che, secondo la tradizione, interviene rendendo invulnerabile uno schiavo il cui padrone pagano, dopo averlo sorpreso a venerare le reliquie del santo, aveva comandato che venisse ucciso.La scena, ricca di luci e di movimento, si svolge – come in un allestimento teatrale – sotto una sorta di pergola bordata di edera, tra un edificio colonnato (a sinistra) e delle rovine (a destra), con sullo sfondo una piazza sulla quale, dietro a un recinto a inferriata e marmo, introdotto da un portale di gusto manierista con cariatidi e figure giacenti, si affaccia un rigoglioso giardino.La costruzione prospettica della pavimentazione e delle architetture indirizza lo sguardo verso il centro, individuando una linea d’orizzonte abbastanza alta, come se un osservatore ideale guardasse la scena da una posizione privilegiata, simbolicamente a metà fra terra e cielo Tre sono i punti di interesse principali Fig. 20.35. A terra vi è lo schiavo, rappresentato di traverso, fra i tre torturatori (in ginocchio, con l’abito blu, quello di sinistra; chino e con l’abito color arancio il secondo e in piedi, con l’abito verde, l’altro) e gli strumenti del martirio spezzatisi per intercessione divina. In cielo, orientato in senso opposto rispetto allo schiavo, appare San Marco, in ardita prospettiva dal basso e in posizione ancora arretrata, dunque visibile solo a chi osserva il dipinto e non a chi vi è rappresentato. A destra, infine, come al vertice di un’immaginaria piramide, siede, còlto in un atteggiamento di naturale stupore, un vecchio (un giudice o, forse, lo stesso padrone) al quale il carnefice di destra mostra l’ascia miracolosamente spezzatasi. Ritrovamento del corpo di San Marco Commissionato nel 1562 da Tommaso Rangone (1493-1577), il ricco e ambizioso Guardian Grande della Scuola Grande di San Marco, l’enorme telero con il Ritrovamento del corpo di San Marco Fig. 20.38, a era destinato, insieme ad altri due di dimensioni e soggetto analoghi (rispettivamente il Trafugamento del corpo di San Marco b e San Marco salva un Saraceno durante un naufragio c), alla grandiosa Sala Capitolare dell’importante confraternita veneziana. L’opera, la cui esecuzione – contrariamente alle abitudini di Tintoretto – si protrasse, a causa di vari problemi con la committenza, fino al 1566, presenta uno scenografico impianto prospettico all’interno di quella che Vasari definisce «una gran loggia» ma che in effetti appare piuttosto come una severa navata basilicale. Il punto di fuga della complessa figurazione, posto quasi alla mezzeria del dipinto ma fortemente decentrato verso sinistra, sembra concorrere nella mano levata di un solenne San Marco Fig. 20.39, in posizione stante, che con piglio deciso sta ordinando ai Veneziani di interrompere la profanazione dei sarcofagi di Alessandria d’Egitto alla ricerca della sua stessa salma. A tal fine l’evangelista patrono di Venezia fa ritrovare miracolosamente il proprio corpo, composto in ardito scorcio su un tappeto, in basso a sinistra, ai piedi del committente inginocchiato in sontuosi abiti trapunti d’oro. A destra un indemoniato sta per essere miracolosamente liberato, mentre nello sfondo, dalla tomba scoperchiata del santo, si sprigiona un’abbagliante luce soprannaturale che proietta le ombre dei due uomini intenti alla ricerca. Crocifissione Tintoretto è un uomo semplice, di fede sincera. Nel secolo in cui gli artisti hanno compreso di essere più intellettuali che artigiani, egli concentra le proprie energie artistiche non tanto nel rappresentare la realtà quanto nel suscitare, tramite arditissimi giochi di luce, le emozioni e i sentimenti di chi osserva le sue opere. Così, quando si dedica, a partire dal 1562, alla realizzazione di grandi teleri a sfondo religioso, egli si trova già – anche se inconsapevolmente – in linea con la dottrina della Controriforma. Questa, scaturita dai lavori del Concilio di Trento, prevedeva infatti che in campo artistico si realizzassero opere mediante le quali il popolo dei credenti potesse essere «istruito, a mezzo di raffigurazioni pittoriche o di altro genere, sui misteri della nostra redenzione affinché si rafforzi l’abitudine di avere sempre presenti i principi della fede».Il periodo più intenso e maturo dell’attività di Tintoretto inizia intorno al 1564 quando, dopo non poche resistenze e contrarietà, riesce a vincere l’appalto per la decorazione della Scuola Grande di San Rocco, un’altra importante e ricca confraternita veneziana che aveva appena ultimato di costruire la propria sede. Tra gli oltre cinquanta dipinti che tappezzano a tutt’oggi le pareti e i soffitti in legno dorato del vasto edificio spicca la monumentale Crocifissione del 1565 Fig. 240, un gigantesco telero che occupa l’intera parete di fondo della cosiddetta Sala dell’Albergo. In questo maestoso ambiente, al primo piano della fabbrica, si riunivano i potenti reggitori della confraternita e furono essi stessi a volerlo decorare nel modo più splendido con «tele overo Canovacci, qui con il senso di teleri.canevazze con figure, come meglio parerà». L’opera, pullulante di personaggi intenti alle più varie attività, risulta apparentemente caotica, come se il dramma della morte di Cristo si propagasse non solo intorno a lui, ma anche in mezzo a coloro che osservano il dipinto. La brulla spianata intorno alla croce centrale di Gesù, fulcro geometrico dell’intera composizione, assume la forma di un triangolo rovesciato, al quale si sovrappone quella di un altro triangolo ideale, che passa per la croce del buon ladrone, a sinistra (rappresentata nel momento in cui viene faticosamente issata), e per quella (ancora a terra) del cattivo ladrone, a destra. La luce definisce le varie figure ritagliandole da un fondo scuro e impastato, che ben si accorda con la penombra della Sala dell’Albergo. In effetti Tintoretto prima di dipingere le sue opere studiava a fondo il luogo ove sarebbero state sistemate e talvolta costruiva dei modellini in legno della scena da rappresentare, nei quali introduceva statuine di cera da lui stesso modellate che illuminava poi con lanterne e candele al fine di comprendere al meglio il gioco delle luci e delle ombre e di ottenere conseguentemente nuovi suggerimenti per effetti luministici sempre più intensi ed emozionanti.Ai piedi del Cristo, solitario nel suo soprannaturale alone di luce dorata, spicca per drammaticità il gruppo compatto dei dolenti a. Più che le forme, Tintoretto cerca, come sempre, di indagare i sentimenti. La sua luce guizza sui personaggi, come quella di un lampo, sottraendo alle tenebre dello sfondo ora un volto di grande espressività, quale quello del buon ladrone, rivolto verso Gesù b, ora un animale tratteggiato con forte realismo c, ora un particolare minuto del paesaggio d. La sensazione generale che se ne ricava è quella d’una tragedia imminente e irreparabile, sottolineata dal cielo che si gonfia di nubi minacciose all’orizzonte. Ultima cena L’Ultima Cena è l’opera alla quale Tintoretto aveva finito di lavorare proprio nel 1594, l’anno stesso della sua morte Fig. 20.43. La grande tela, pur riprendendo un tema comune alla pittura del tempo, presenta alcune importanti innovazioni. In primo luogo l’ambientazione, all’interno di una specie di osteria popolare, e poi la composizione, con la mensa disposta trasversalmente e fortemente scorciata dalla prospettiva. La collocazione sulla parete di destra del presbiterio della chiesa palladiana di San Giorgio Maggiore, del resto, motivava la singolare collocazione in quanto la mensa dipinta sembrava proseguire scenograficamente quella reale dell’altar maggiore, creando un senso di continuità dall’altissimo valore simbolico. L’intelaiatura prospettica del telero è comunque molto evidente Fig. 20.44, sottolineata, oltre che dal lungo tavolo principale, anche da quello di servizio (posto al margine destro del dipinto) e, più ancora, dal pavimento in piastrelle a disegni geometrici multicolori e dalle cassettonature lignee del soffitto. In questo modo l’artista delinea una rigida griglia tridimensionale all’interno della quale disporre e far interagire i propri personaggi.