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Antonio Canova, Le tre Grazie

1813 – 1816, Marmo h. cm. 182


San Pietroburgo, Museo dell'Ermitage
Il soggetto delle Tre Grazie era già noto agli antichi: le raffigurazioni note, però, sono solo in bassorilievo e
Canova, che si era già misurato in questo tema nel bassorilievo, nelle tempere e in numerosi disegni, decide
per Giuseppina di Beauharnais di realizzarlo fra il 1812 e il 1816 a tutto tondo.
L’opera, ora conservata nel Museo dell’Ermitage di Pietroburgo, si discosta dallo schema antico ponendo la
figura di mezzo - tradizionalmente di spalle - in posizione frontale e facendo volgere quelle laterali verso il
centro, quasi a guardarsi l'un l'altra: è un tema che ben si presta a tradurre figurativamente il "bello e morbido
impasto naturale", che Canova ammirava nelle sculture antiche e liberamente interpretava.
Canova aveva del marmo una profondissima conoscenza e riservava grande attenzione al trattamento della
superficie una volta che la scultura aveva assunto le forme definitive: con piccole raspe di sua invenzione,
variamente utilizzate, si adoperava per ottenere effetti diversi, sfruttando la residua scabrosità del marmo per
sfumare le ombre e offrendo una "pelle" assolutamente compatta, là dove la luce doveva riflettersi come se
incidesse avorio o alabastro.
Con la stessa cura investigava i dettagli delle elaborate acconciature, dei panneggi, di cui simulava la
consistenza materica facendoli aderire al corpo e di ogni piccola parte degli incarnati, talvolta ripassati con
cera impercettibilmente colorata per attenuarne il biancore.

Canova, Monumento Funebre a Maria Cristina D’Austria


1798-1805, marmo, h. cm. 574
Vienna, Chiesa degli Agostiniani

Nel 1802 Canova fu chiamato a Parigi per l’esecuzione del ritratto del primo console Bonaparte;
negli anni successivi, per tutta l’età napoleonica, egli ricevette importanti incarichi per ritratti e
opere destinati alla famiglia imperiale. Fra il 1804 e il 1807 realizzò la statua-ritratto di Letizia
Ramolino Bonaparte, ispirata all’Agrippina seduta dei Musei Capitolini, e anche la Paolina
Borghese come Venere vincitrice, in cui rifluisce il ricordo delle Veneri tizianesche, ma anche il più
antico, sacrale modello delle figure giacenti sui sarcofagi etruschi.
Contemporaneamente attendeva ad altre commissioni: in particolare concluse il monumento
funerario di Maria Cristina d’Austria (1798-1805) nella chiesa degli Agostiniani di Vienna, nel
quale offre un’altissima ed emblematica interpretazione del tema della morte e del sepolcro, così
ricorrente nella poetica neoclassica e tanto più nella produzione canoviana.
L’artista – riprendendo un precedente progetto, mai realizzato, per un monumento a Tiziano, da
erigersi nella chiesa veneziana dei Frari – sostituisce la statua-ritratto con l’effigie della defunta
entro un medaglione sostenuto da un genio femminile, e conferisce al sepolcro una forma di
piramide (che in se stessa è il tipo più antico di monumento funerario). Verso la porta buia, che in
essa si apre, lentamente incede un mesto corteo di figure, che si succedono, salendo, a intervalli
irregolari ma ritmici; un tappeto lieve come un velo d’acqua si distende sui gradini, collegando le
figure e l’esterno all’interno della tomba. Nel monumento Canova riesce a unire e a esprimere
l’interpretazione classica e quella cristiana della morte: vi troviamo il motivo antico, pagano, della
processione funebre che accompagna le ceneri al sepolcro; e insieme il motivo della memoria
consolatrice, celebrata da Foscolo nel coevo carme dei Sepolcri, 1807, che lega il defunto ai vivi
con dolci catene di affetti; infine la meditazione sul mistero della morte, sul lento, ineluttabile
procedere dell’umanità verso la soglia eterna.

David, Giuramento degli Orazi


1784, Olio su tela, cm. 330 x 425
Parigi, Museo del Louvre
Per il soggetto del Giuramento degli Orazi David s’ispirò all’Horace di Corneille (tragedia
rappresentata a Parigi nel 1782) e alle vicende degli Orazi narrate dallo storico romano Tito Livio:
l’episodio ha origine dalla loro decisione di risolvere la guerra tra Roma e Alba con un duello con i
tre fratelli Curiazi, fino alla loro vittoria e all’uccisione, per mano dell’unico Orazio superstite, di
sua sorella Camilla, che piangeva per la morte di uno dei Curiazi cui era fidanzata.
Ma David abbandonò la versione di Livio dopo aver eseguito un disegno preliminare e scelse come
suo soggetto un momento che non trova riscontro nelle fonti: il momento del solenne giuramento,
allorché i tre giovani Orazi decidono, di fronte al padre, di sacrificare la loro vita per la patria.
Il punto centrale del Giuramento degli Orazi è la mano sinistra del vecchio Orazio che alza le tre
spade; verso lo stesso punto convergono le braccia tese dei giovani. L’unisono del gesto e della
posa spoglia i tre fratelli della propria individualità, unendo simbolicamente le tre volontà. Al
coraggio e alla determinazione virili si contrappongono i gesti compassionevoli delle donne: la
madre degli Orazi stringe a sé i nipotini mentre le sue due figlie, Sabina e Camilla, appaiono
sopraffatte da un’impotente rassegnazione al dolore. A distinguere fra fermezza maschile e
abbandono femminile contribuisce anche lo stile del disegno. La tesa anatomia muscolare,
precisamente definita, degli Orazi impone contorni netti e pose rigide, i cui ritmi fermi e lineari
sembrano riecheggiare la metallica rigidità delle armi. Nel gruppo delle donne questo energico
andamento rettilineo cede il passo a uno stile morbido di fluente sviluppo semicircolare, salendo dal
piede sinistro di Sabina – sposa di un Orazio – fino a morire nel braccio abbandonato di Camilla,
amante di uno dei Curiazi, a suggerire un’immagine di estenuata sofferenza.
La coincidenza in David di forma e contenuto, è rafforzata anche dall’impostazione di tutta la
scena, organizzata su una precisa scansione geometrica. La scatola spaziale, con le diagonali del
pavimento rigidamente definite, è chiusa, sul fondo, dalle verticali delle massicce colonne doriche,
e dai tre archi a tutto sesto, che scandiscono i tre gruppi di figure. I gesti scultorei delle figure e la
loro disposizione reiterata, con braccia tese e gambe divaricate in esatto parallelo con il piano del
quadro, hanno un andamento orizzontale, a rievocare la tecnica del bassorilievo antico.
La semplicità dell’ordine spaziale si trasmette anche alla luce che, fredda e limpida, definisce con
massima plasticità le figure, i cui precisi contorni sono riecheggiati nelle ombre nettamente
delineate. L’architettura spoglia della stanza corrisponde infine alla severità della forma e
dell’azione che domina l’intera composizione.
Con il Giuramento degli Orazi (1784-1785) David si rivela ormai padrone di un linguaggio nuovo,
raggiungendo una perfetta sintesi di forma e contenuto in un’immagine di grande immediatezza e
pregnanza. Per la realizzazione della tela, eseguita su commissione reale, l’artista sentì il bisogno di
trasferirsi nuovamente a Roma: e qui infatti essa sarà esposta per breve tempo al pubblico – nello
studio dell’artista nell’agosto 1785 –, riscuotendo grande successo, prima di essere trasferita
definitivamente a Parigi

David, Le Sabine
1799, Olio su Tela, cm. 385 x 522
Parigi, Museo del Louvre
Il dipinto, uno dei più celebri esempi della pittura neoclassica di Jacques-Louis David, fu realizzato
nel 1799. È una composizione di enormi dimensioni, incentrata sull’episodio narrato da Tito Livio e
da Plutarco del rapimento da parte dei romani delle donne sabine, portate a Roma per assicurare la
crescita della popolazione nella città.
Tre anni dopo il ratto, la battaglia tra i due popoli divampa, guidata dai capi Romolo e Tazio, che si
fronteggiano in primo piano, l’uno armato di lancia, l’altro di spada. Ersilia, moglie di Romolo, si
interpone tra i due nel tentativo di fermarli, mentre le altre donne sabine irrompono sulla scena coi
loro figli, sfidando la furia degli uomini tra cadaveri e cavalli imbizzarriti, e invocando la pace.
Una foresta di lance si innalza sullo sfondo contro le mura della città di Roma tra insegne e vessilli,
mentre qualche soldato già si toglie l’elmo per salutare la fine del combattimento ed il comandante
della cavalleria ripone la spada nel fodero. Presto i Romani e i Sabini si uniranno per formare un
solo popolo.

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