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Nel 1802 Canova fu chiamato a Parigi per l’esecuzione del ritratto del primo console Bonaparte;
negli anni successivi, per tutta l’età napoleonica, egli ricevette importanti incarichi per ritratti e
opere destinati alla famiglia imperiale. Fra il 1804 e il 1807 realizzò la statua-ritratto di Letizia
Ramolino Bonaparte, ispirata all’Agrippina seduta dei Musei Capitolini, e anche la Paolina
Borghese come Venere vincitrice, in cui rifluisce il ricordo delle Veneri tizianesche, ma anche il più
antico, sacrale modello delle figure giacenti sui sarcofagi etruschi.
Contemporaneamente attendeva ad altre commissioni: in particolare concluse il monumento
funerario di Maria Cristina d’Austria (1798-1805) nella chiesa degli Agostiniani di Vienna, nel
quale offre un’altissima ed emblematica interpretazione del tema della morte e del sepolcro, così
ricorrente nella poetica neoclassica e tanto più nella produzione canoviana.
L’artista – riprendendo un precedente progetto, mai realizzato, per un monumento a Tiziano, da
erigersi nella chiesa veneziana dei Frari – sostituisce la statua-ritratto con l’effigie della defunta
entro un medaglione sostenuto da un genio femminile, e conferisce al sepolcro una forma di
piramide (che in se stessa è il tipo più antico di monumento funerario). Verso la porta buia, che in
essa si apre, lentamente incede un mesto corteo di figure, che si succedono, salendo, a intervalli
irregolari ma ritmici; un tappeto lieve come un velo d’acqua si distende sui gradini, collegando le
figure e l’esterno all’interno della tomba. Nel monumento Canova riesce a unire e a esprimere
l’interpretazione classica e quella cristiana della morte: vi troviamo il motivo antico, pagano, della
processione funebre che accompagna le ceneri al sepolcro; e insieme il motivo della memoria
consolatrice, celebrata da Foscolo nel coevo carme dei Sepolcri, 1807, che lega il defunto ai vivi
con dolci catene di affetti; infine la meditazione sul mistero della morte, sul lento, ineluttabile
procedere dell’umanità verso la soglia eterna.
David, Le Sabine
1799, Olio su Tela, cm. 385 x 522
Parigi, Museo del Louvre
Il dipinto, uno dei più celebri esempi della pittura neoclassica di Jacques-Louis David, fu realizzato
nel 1799. È una composizione di enormi dimensioni, incentrata sull’episodio narrato da Tito Livio e
da Plutarco del rapimento da parte dei romani delle donne sabine, portate a Roma per assicurare la
crescita della popolazione nella città.
Tre anni dopo il ratto, la battaglia tra i due popoli divampa, guidata dai capi Romolo e Tazio, che si
fronteggiano in primo piano, l’uno armato di lancia, l’altro di spada. Ersilia, moglie di Romolo, si
interpone tra i due nel tentativo di fermarli, mentre le altre donne sabine irrompono sulla scena coi
loro figli, sfidando la furia degli uomini tra cadaveri e cavalli imbizzarriti, e invocando la pace.
Una foresta di lance si innalza sullo sfondo contro le mura della città di Roma tra insegne e vessilli,
mentre qualche soldato già si toglie l’elmo per salutare la fine del combattimento ed il comandante
della cavalleria ripone la spada nel fodero. Presto i Romani e i Sabini si uniranno per formare un
solo popolo.