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IL RESTAURO ARCHITETTONICO

l'Ottocento il secolo delle riflessioni sulle quali si fondano le moderne teorie del restauro. Riflessioni che, peraltro, vedono i due principali
protagonisti su posizioni contrapposte che vanno dall'interventismo (anche molto invasivo) alla visione malinconica della fine irreparabile.

Eugène Viollet-le-Duc (1814-1879)

nel 1789 le fiamme della rivoluzione divoravano molte costruzioni monumentali di Francia, quelle identificate con la vecchia classe dirigente. Subito
dopo la Rivoluzione si cominciò a restaurarne alcuni. Con l'architetto Eugène Viollet-le-Duc, attorno agli anni Trenta dell'Ottocento, cominciò ad
affermarsi una nuova concezione del restauro, quello cosiddetto «in stile» o «stilistico», che consisteva nell'intervento mimetico sui monumenti
architettonici. Il nuovo, cioè, sia che si trattasse di sostituzioni di parti danneggiate sia che riguardasse una parziale ricostruzione, non si doveva
distinguere dall' esistente e, anzi, confondersi con esso. Nel suo Dizionario ragionato dell'architettura francese dall'XI al XVI secolo. Non è
importante, che il restauratore tenga conto del tempo passato, egli deve cercare piuttosto di ricreare un legame di continuità con le intenzioni
dell'antico progettista. L'architetto, inoltre, interviene facendo in modo che pure gli ornamenti, l'arredo e gli oggetti d'uso siano anch'essi in stile.

John Ruskin (1819-1900)

Contemporaneamente all'esperienza francese del restauro stilistico, in Inghilterra prendeva corpo il cosiddetto restauro romantico. Il massimo
teorico ne fu John Ruskin, scrittore e critico d'arte, vicino a Turner e ai Pre- raffaelliti. Secondo Ruskin, che considera il Gotico come puro fatto
decorativo e che ritiene l'arte rinascimentale non naturale perché intrisa di scienza, quindi non istintiva, tutti i monumenti del passato devono
essere rispettati quasi religiosamente. Essi, di conseguenza, non devono essere toccati né manomessi. Nella sua visione, infatti, ogni forma di
intervento conservativo o di restauro non è che una menzogna perché, qualunque sia il modo in cui viene attuato, ha sempre come conseguenza la
trasformazione del monumento in un qualcosa di diverso e pertanto lo distrugge irrimediabilmente, facendolo perire. Occorre, allora, lasciare ogni
fabbrica così com'è, aspettando che il tempo, consumatore di tutte le cose, la faccia spegnere lentamente. C'è in questo una sorta di fatalismo,
l'attesa della dissoluzione: senza dubbio un atteggiamento pienamente romantico. Deriva da tale concezione l'amore di John Ru- skin per Venezia,
città morente, alla quale egli dedicò quella che è forse la sua opera maggiore, Le pietre di Venezia, una guida per il viaggiatore curioso e colto.

L'Impressionismo

Nel 1870, dopo la pesante sconfitta di Sedan e l'u- scita di scena di Napoleone III, la Francia proclama la sua Terza Repubblica. A partire dagli anni
Sessanta del XIX secolo, giovani artisti, che avevano in comune una gran voglia di fare e una forte insofferenza per la pittura ufficiale del tempo,
iniziarono a riunirsi nel Café Guerbois. L'Impressionismo è privo di una base culturale omogenea, in quanto i vari aderenti provenivano da
formazione culturale, esperienze artistiche e realtà sociali fra le più disparate. In secondo luogo, poi, il movimento non è organizzato e, in analogia
solo con i Macchiaioli, si costituisce piuttosto per aggregazione spontanea, senza manifesti o teorie che ne spieghino le tematiche o ne indichino le
finalità.

Édouard Manet (1832-1883)

Manet nasce a Parigi il 23 gennaio 1832 e fin da giovane si dimostra poco incline agli studi e molto attratto dal disegno e dalla pittura. Nel 1869
Manet, intensifica la propria produzione en plein air, tanto che le sue uscite di fianco al Louvre, diventano quasi degli appuntamenti mondani.
Successivamente l'artista soffrirà di frequenti crisi depressive e, inizieranno a manifestarsi i sintomi di una paralisi degli arti inferiori. Nonostante
questo Manet continua a dipingere fino alla morte. Il giorno dei funerali, il gruppo degli Impressionisti si ricompone, attorno a quel maestro che, pur
non avendo lasciato una scuola né degli allievi, aveva contribuito, dopo Delacroix, ad aprire la strada alla pittura contemporanea.

Colazione sull'erba

Il dipinto che segnò l'inizio della tormentata carriera artistica di Manet fu Co- lazione sull'erba. Esposto si trovò subito al centro di un vero e proprio
scandalo. Parigi benpensante, rimase indignata dal crudo realismo con il quale l'artista aveva realizzato il nudo femminile in primo piano e i critici
accusarono Manet di una volgarità e di una malizia che, al contrario, erano del tutto estranee sia al suo carattere sia alla sua educazione. Ma a
destare tante critiche non fu certo il nudo, presente anche nei dipinti accademici, ma il fatto che quel nudo rappresentava una ragazza del tempo,
non una divinità classica o un personaggio mitologico, si rimproverava a Manet di aver abbandonato il repertorio della mitologia e delle allegorie e
di aver sfacciatamente rappresentato «una comune prostituta, completamente nuda fra quelli che sembrano due studenti in vacanza, che si
comportano male per far vedere che sono uomini. Contrariamente a tali interpretazioni, nella realizzazione del dipinto Manet ha ispirazione classica
(il concerto campestre, il giudizio di paride), perciò quello che disturba così tanto il pubblico non sta nel soggetto ma nella sua attualizzazione, così
come era già avvenuto, per le Fanciulle sulla riva della Senna di Courbet. La scena, ambientata a Nord di Parigi, nella radura erbosa di un boschetto,
rappresenta dunque una donna nuda, in primo piano, per la cui realizzazione ha una pittrice anch'essa e modella prediletta dell'artista. Accanto a lei
è seduto un uomo (uno dei fratelli di Manet), mentre il secondo personaggio maschile (il futuro cognato) è semisdraiato di fronte ai due, con un
braccio teso in direzione della giovane donna. Una seconda ragazza, più in lontananza, sta lavandosi in uno specchio d'acqua. Le quattro figure
risultano composte entro un triangolo ideale, uno dei cui vertici cade sul cappellino di paglia e sul vestito azzurro in basso a sinistra, che, insieme al
cestino di frutta rovesciato, costituiscono una natura morta a sé stante all'interno del dipinto stesso. I motivi di critica, comunque, non si limitarono
al soggetto, ma anche alla tecnica pittorica adottata da Manet, che veniva accusato di non aver saputo usare né la prospettiva né il chiaroscuro, (i
due strumenti principali del pittore). Osservando il dipinto, però, si nota come personaggi e sfondo siano trattati in modo diverso, quasi che i primi
siano ritagliati e incollati sul secondo, come se si trattasse di figure prive di un volume e di una consistenza propri. Il senso della profondità
prospettica, del resto, non è dato dal disegno ma dai piani successivi degli alberi e delle fronde, posti gli uni sopra alle altre come in una quinta
teatrale, creando zone di luce e di ombra più per sovrapposizione che grazie alla tecnica del chiaroscuro. I colori, infine, sono stesi con pennellate
veloci, giustapponendo toni caldi (come ad esempio quelli della frutta o del cappello di paglia) e freddi (come quelli del vestito azzurro) in modo da
creare quel contrasto simultaneo che li rende reciprocamente più vi- vaci e squillanti. L'atmosfera del dipinto è pertanto fresca e luminosa. Con esso
Manet si proclama dunque pittore di sensazioni, non più di personaggi o di allegorie, e sarà ispiratore dell'Impressionismo.
Olympia

Con la presentazione al Salon del 1865 di Olympia,, Manet si riconferma portavoce di un modo nuovo e anticonvenzionale di fare arte. Il dipinto,
anche se evidentemente ispirato alla Venere di Urbino di Tiziano, rappresenta con crudo realismo una donna nuda semisdraiata su un letto disfatto,
anche il tema della Maja denuda di Goya. Ai piedi della donna vi è un gatto nero, mentre una domestica di colore sopraggiunge dal retro reggendo
un variopinto mazzo di fiori, dono di qualche ammiratore. Lo scandalo fu, anche in questo caso, duplice. In primo luogo si criticò la scelta del
soggetto, da tutti ritenuto volgare e sconveniente in quanto si trattava di una prostituta rappresentata direttamente «sul posto di lavoro». In
secondo luogo si tornò ad attaccare la tecnica pittorica di Manet, accusandolo di non saper modellare i corpi con il chiaroscuro e di usare i colori in
modo primitivo e pasticciato. Il corpo quasi sgraziato della ragazza, per la quale posò anche in questo caso Victo- rine-Louise Meurent, appare privo
delle morbide sinuosità con le quali i pittori accademici caratterizzavano tutti i nudi femminili di eroine storiche o divinità mitologiche. La posa
volutamente sprezzante, con la mano sinistra premuta sulla coscia destra, ricorda da vicino alcune immagini pornografiche che, stante il sempre
maggior sviluppo della foto- grafia, cominciavano a circolare clandestinamente nei salotti mondani. Il nome stesso di Olympia, in- fine, diffusissimo
come nome d'arte di molte prostitute e ballerine parigine dell'epoca, costituiva uno schiaffo alla morale borghese nella quale Manet era nato e
cresciuto e che ora egli stesso contribuiva quasi inconsapevolmente a mettere in crisi. La forza rivoluzionaria dell'Olympia, però, non sta tanto nel
soggetto quanto nella tecnica di realizzazione. I colori, infatti, sono il frutto di un modo di intendere la pittura che alla seduzione della prospettiva e
del chiaroscuro opponeva i forti contrasti, la piattezza delle forme e il nitido risalto dei contorni tipici delle stampe giapponesi. Il gioco dei contrasti,
infatti, continua e si moltiplica nel resto della composizione. Significative appaiono le ricorrenti giustapposizioni di colori caldi e freddi, realizzate con
l'evidente scopo di rafforzarli a vicenda. Ecco allora la veste rosata dell'inserviente staccarsi decisamente dal cupo sfondo verdastro della stanza e il
candore grigio-azzurrognolo di lenzuola e guanciali contrastare ora con il marrone scuro del retrostante paravento, ora con le tonalità più chiare
dello scialle ricamato, ora direttamente con la pal lida nudità della ragazza. Nel mazzo di fiori, infine, Manet è già effettivamente impressionista,
infatti quelle che, osservate da vicino, parrebbero delle macchie disordinate e incoerenti di colore, stese con tocchi rapidi e giustapposti, se
osservate da lontano acquistano, nel loro insieme, un effetto naturale.

Il bar delle Folies Bergère

L'ultimo grande dipinto al quale Manet lavora è Il bar delle Folies Ber- gère realizzato tra il 1881 e il 1882 e ora conservato a Londra. La tela
accettata al Salon del 1882, l'anno precedente alla precoce scomparsa di Ma- net, ne costituisce una specie di significativo testamento spirituale. In
essa sono infatti ripresi e porta- ti al massimo grado di raffinatezza espressiva tutti gli elementi caratterizzanti della sua pittura: dall'amore per il
quotidiano (la cameriera biondiccia che fissa l'osservatore con gli occhi mesti e l'avventore forse lo stesso Manet che si riflette nello specchio alle
sue spalle) al gusto per la natura morta (le bottiglie, la fruttiera di cristallo e il bicchiere con le rose); dall'uso di colori piatti e senza chiaroscuro alla
scintillante suggestione delle luci riflesse. E proprio attraverso lo specchio, infatti, che Manet riesce a mostrare anche il vasto e affollato salone delle
Folies Bergère, un locale molto frequentato dalla borghesia parigina. I rapidi tocchi di colore, che osservati da vicino paiono privi di senso, osservati
dalla giusta distanza, ricostruiscono la sala, gremita di dame inguantate e gentiluomini con la tuba, ma anche la sua atmosfera chiassosa, inondata
dalla luce di globi di vetro bianco e di grandi lampadari di cristallo, percorsa addirittura da nuvolette azzurrognole di fumo e rallegrata anche dagli
esercizi di un'acrobata al trapezio. L'immediatezza della visione, la chiarezza della luce, la semplicità disincantata del soggetto, il vivace realismo del
bancone costituiscono altrettanti elementi caratterizzanti dell'arte di Manet, punto di riferimento non solo per l'intera generazione de- gli
Impressionisti, ma anche per le generazioni artistiche successive, che a lui devono il coraggio di aver definitivamente spezzato il predominio della
pittura accademica aprendo la strada alla pittura delle emozioni e della libertà espressiva.

Claude Monet (1840-1926)

La pittura delle impressioni Oscar-Claude Monet, indiscutibilmente riconosciuto come il più "impressionista" degli Impressionisti e principale
ispiratore della loro prima esposizione nello studio di Nadar, nasce a Parigi il 14 novem- bre 1840 e muore il 16 dicembre 1926 a Giverny, un piccolo
e tranquillo villaggio agricolo a Ovest della capitale, nella valle della Senna. Di origini familiari assai modeste, trascorre la propria fanciullezza a Le
Havre. Fin da giovanissi- mo si dimostra assai dotato per la pittura e, grazie al provvidenziale interessamento di una ricca zia, ha la possibilità di
trasferirsi a Parigi per frequenta- re una scuola d'arte. Nel 1859 giunge dunque nella capitale, rimanendo affascinato dalla vivacità della vita artistica
e culturale che vi si svolge. Le sue pri- me frequentazioni sono quelle degli ambienti arti stici vicini al più anziano e già noto Manet. Nel 1861 Monet
presta il servizio militare ad Alge- vi, dove la luce e i colori dell'Africa contribuiscono a sviluppare in lui la passione per la natura. Nel dicem- bre del
1862 è nuovamente a Parigi e qui frequenta con assiduità il Café Guerbois dove conosce, tra gli altri, anche Pissarro 2 par. 26.6 e Degas D par. 26.4
All'insegnamento accademico preferisce la pittura en plein air e le stimolanti sperimentazioni sulla luce e sulla percezione dei colori, come appare
eviden- te in dipinti quali La gazza, immerso in una magica atmosfera nevosa Fig, 26.37 , o nel più tardo Ville a Bordighera, dove trionfa 'esuberanza
variopinta del- la vegetazione mediterranea Fig. 26.38 «Ero ancora ben lungi», scriverà in seguito l'arti- sta, «dall'adottare il principio della
scomposizione dei colori per il quale molti, in seguito, si sarebbero scagliati contro di me», ma l'incontro con Manet e gli altri artisti del Café
Guerbois arricchisce enor- memente il bagaglio di esperienze di Monet. Quelli a seguire sono per l'artista anni di lavo- o accanitissimo, con poche
soddisfazioni e mol- te amarezze. Per un certo periodo si trasferisce ad Argenteuil, un paesetto circa trenta kilometri a Nord-Ovest della capitale,
dove può dipingere stan- dosene isolato dal mondo e dai problemi, comple- tamente immerso nella natura e nelle sensazioni che essa gli suscita ›
Ant. 246 . Dopo il 1880, anno della sua ultima presenza al Salon, il successo sembra infine arridere a Monet, ormai divenuto indiscutibilmente
l'uomo simbolo dell'Impressionismo e il battagliero erede di quel ruolo-guida che Manet, già stanco e malato, non è più in grado di svolgere
appieno. Intorno alla sua casa di Giverny, nella quiete del- la campagna dell'Alta Normandia, si è intanto fatto costruire un giardino ») oltre al fine di
avere a porta- ta di mano un frammento rigoglioso di natura dal quale farsi suggerire atmosfere e sensazioni sempre nuove e diverse. La casa stessa
diventa per lui un o- asi di pace dove vive circondandosi soprattutto di libri di botanica e stampe giapponesi.
Impressione, sole nascente

Fin dal celebre di- pinto Impressione, sole nascente Fig. 26.39, che diede poi - quasi casualmente - il nome all'intero movi- mento impressionista, le
tematiche di Monet ap. paiono già perfettamente delineate. La piccola tela, realizzata nel 1872, inizialmente non aveva titolo e quando, in
occasione dell'esposizione del 1874 nel- lo studio di Nadar, gli chiesero che cosa scrivere sul catalogo, è ancora Monet che ricorda: «dato che
ovviamente non poteva passare per una vista di Le Havre, risposi: scrivete Impressione». Nell'opera non vi è alcuna traccia di disegno pre- paratorio
e dunque il colore è steso direttamente sulla tela, con pennellate brevi e veloci. A fatica si riesce a cogliere (o, forse, solo a intuire) la presen- za di
alcune navi ormeggiate, sulla sinistra, i cui alberi si riflettono in mare. A destra si intravedono poi le gru e le altre strutture del porto, mentre due
barche a remi che solcano le acque appaiono come poco più che ombre. Ogni oggettività naturalistica del soggetto è superata e stravolta dalla
volontà di Monet di trasmettere attraverso il dipinto le sen- sazioni da lui provate osservando l'aurora sul por- to di Le Havre. Egli, in altre parole,
non intende più descrivere la realtà, ma vuole piuttosto coglie- re l'impressione di un attimo, diversa e autonoma rispetto a quella dell'attimo
immediatamente pre- cedente e di quello successivo. L'uso giustapposto di colori caldi (il rosso e l'a- rancione) e freddi (il verde azzurrognolo) rende
in modo estremamente suggestivo il senso della neb- bia del mattino. Attraverso il suo manto, infatti, si fa lentamente strada un sole inizialmente
debole, i cui primi riflessi aranciati guizzano sul mare, evi- denziati con straordinaria incisività da pochi e sa- pienti tocchi di pennello dati a spessore,
come se il colore stesso avesse un proprio volume e una propria consistenza materica.

Le «serie»

Negli anni Novanta l'artista, sempre più entusiasmato dai problemi della luce e dalle sensazioni di colore, si dedica a diverse serie, nelle quali ritrae
un medesimo soggetto in decine di tele successive. Il punto di ripresa è quasi sempre lo stesso - o varia comunque di poco - e quel che cambia
completamente, invece, sono solo le condi- zioni stagionali, atmosferiche e di luce, a dimostra- zione di come uno stesso soggetto possa essere suf-
ficiente a destare infinite e sempre nuove e diverse sensazioni ed emozioni. Fra l'autunno 1890 e l'estate 1891 Monet realiz- za la sua prima serie di
venticinque Pagliai Fig. 26.43 alla quale si sovrappone, fino al tardo autunno 1891, quella di ventiquattro Pioppi Fig. 26.44, tutte realizzate en plein
air nei pressi dell'amato borgo di Giverny e solo in parte conservatesi. La serie più celebre - per ampiezza e respiro te- matico - è però quella di una
trentina di tele, più o meno dello stesso formato, dedicate alla facciata della Cattedrale di Rouen, ventisei delle quali sono ancora oggi custodite in
vari musei e collezioni pri. vate del mondo. L'artista dipinge la facciata dalla Anestra della medesima stanza d'affitto e da una bottega vicina -
attualmente non più esistenti. in diverse condizioni climatiche (pieno sole, piog. gia, nebbia) e a diverse ore del giorno (mattino, mezzogiorno, sera)
in due successivi soggiorni: nel febbraio-aprile del 1892 e nello stesso periodo dell'anno successivo, completando alcune tele in atelier nel 1894,
sulla scorta di fotografie e schizzi dal vero. Nella Cattedrale di Rouen. Portale e torre Saint-Ro- main, pieno sole, ad esempio, il titolo stesso aiu- ta a
comprenderne meglio gli intenti e le final tà Fig. 26.45. Monet, infatti, si dimostra del tutto indifferente alla pur grandiosa struttura architettonica
dell'edificio gotico, concentrandosi piuttosto sul gioco di luci e di ombre che la forte illumina- zione solare produce sulla bianca superficie della
facciata e sul fitto ricamo delle cuspidi e degli archi flamboyants. In tal modo viene a crearsi un'irripetibile armo- nia di toni che spazia dal giallo-oro
del portale prin- cipale e del rosone alle ombre azzurrognole che si creano fra le nicchie e le guglie, condotte con pen- nellate brevi e pastose, in
modo da definirne con forza i contorni. «Ogni giorno», notava al riguardo Monet con sempre rinnovato stupore, «aggiungo e scopro qualcosa che
non avevo ancora visto».

Lo stagno delle ninfee

Dal 1883 fino alla morte Monet vive con la famiglia nella casa di Giverny, il cui giardino - tutt'oggi splendidamente ma- nutenuto, con le stesse
piante previste all'origi- ne - costituì per oltre quarant'anni il principale luogo 'incantamento e d'ispirazione dell'arti- sta. Soprattutto al tema
dell'acqua - comunque caro un po a tutti gli Impressionisti - si ricollegano le centinaia di dipinti aventi per soggetto le ninfee del pittoresco stagno,
nel lato Sud-occidentale del giar- dino. A esse Monet si dedicò quasi esclusivamente, a partire dal 1899, arrivando a indagarle in ogni sta- gione con
meticolosità quasi scientifica, prefiggen- dosi di riprodurne sulla tela anche ogni variazione di colore dovuta al semplice passaggio di una nuvo- la o
all'intermittente filtrare del sole tra le fronde smosse dal vento. Scrive l'artista, in una pagina molto intensa del proprio diario: «Ho dipinto tante di
queste ninfee, cambiando sempre punto d'osservazione, modificandole a seconda delle stagioni dell'anno e adattandole ai diversi effetti di luce che
il mutar delle stagioni crea. E, naturalmente, l'effetto cambia costan- temente, non soltanto da una stagione all'altra, ma anche da un minuto
all'altro, poiché i fiori acquatici sono ben lungi da essere l'intero spet- tacolo, in realtà sono solo il suo accompagna- mento. L'elemento base è lo
specchio d'acqua il cui aspetto muta ogni istante per come brandelli di cielo vi si riflettono conferendogli vita e mo- vimento. Cogliere l'attimo
fuggente, o almeno la sensazione che lascia, è già sufficientemente difficile quando il gioco di luce e colore si con- centra su un punto fisso, [...] ma
l'acqua, essen- do un soggetto così mobile e in continuo muta- mento, è un vero problema [...]. Un uomo può dedicare l'intera vita a un'opera
simile». Nello Stagno delle ninfee, dipinto nel 1899 Fig. 26.48 , Monet rappresenta anche il ponte in legno in sti- le giapponese che aveva voluto
all'interno del giar- dino, avendo verosimilmente per modello qualche stampa di Utagawa Hiroshige che ne rappresenta- va uno simile Fig. 26.49. La
fredda luce verdastra, schermata dalle chiome dei salici piangenti, gene- ra una sensazione di frescura, alla quale si somma quella originata
dall'acqua dello stagno, punteggiata qua e là dallo sgargiante affiorare di ninfee in fiore. L'atmosfera che ne deriva è quasi quella di una dimensione
incantata, nella quale la realtà non sussiste che come pretesto per dar voce e colore al mondo delle emozioni. «Io dipingo come un uccel- lo canta»,
amava dire di sé Claude Monet sottoline- ando come per lui la pittura non fosse una semplice attività artistica ma una vera e propria esigenza in-
teriore, quasi una necessità fisiologica. E a questo suo innovativo canto si sono ispirati in molti, anche se di fatto Monet, al pari di tutti gli altri
Impressionisti, non ha lasciato né una scuola né degli allievi. Il suo insegnamento è infatti già tutto nelle sue tele, in ciascuna delle quali si riconosce
sempre la volontà di parlare di un soggetto senza mai descriverlo, preferendo alla fredda certezza dei contorni l'evanescente mutabilità
dell'impressione.
Le bagnanti

In queste grandi Bagnanti Fig. 26.90 realizzate da Renoir pochi mesi prima di morire, quando già era semiparalizzato e dipingeva facer- dosi legare i
pennelli alla mano, l'artista mostra di voler dare più volume e consistenza alle figu- re, tornando a quella separazione tra personaggi e sfondo che le
atmosfere colorate del Moulin de la Galette e della Colazione dei canottieri avevano uni- ficato. Grandissima, infatti, è la diversità della tec- nica
usata per il paesaggio, una visione fantastica con forti intenti coloristici Fig. 26.91, a, rispetto a quella scelta per le figure dalle forme tornite, evi-
dente ricordo della ritrattistica cinquecentesca e barocca ammirata anni prima nei musei italiani b La definizione dei due floridi corpi femminili in
primo piano avviene per campiture di colore larghe e uniformi, la cui esasperata rotondità rappresenta anche un ultimo, gioioso inno alla vita da
par- te dell'artista ormai vecchio e infermo. Il rimando ideale alle Veneri di Giorgione e Tiziano, così come alle floride dee di Rubens, appare qui più
che evi- dente, il che contribuisce ulteriormente a isolare le figure dallo sfondo, come se vivessero di vita e di colori propri. Del resto siamo ormai
nel XX secolo e l'Impressionismo ha già da molto tempo esaurito ogni sua spinta propulsiva. Ciascuno di coloro che vi aveva generosamente aderito
(e Renoir è senza dubbio fra questi) tenta ora di superarne i limiti in modo personale, in base alla propria formazione e ubbidendo solo alla propria
sensibilità.

Moulin de la Galette

I colori di Renoir sono mobili e brillanti, in continuo e mutevole rapporto reciproco e sempre sensibili agli infiniti filtraggi che la luce del sole subisce
nell' attraversare le fronde degli alberi. Di conseguenza le ombre risultano sempre colo- rate, in quanto - secondo l'artista - la natura conosce
soltanto i colori, e il bianco e il nero non lo sono. Una delle più equilibrate dimostrazioni di questa teoria delle ombre la si trova nel Moulin de la
Galette Fig. 26.82, realizzato nel 1876 e presentato l'anno successivo alla terza esposizione impressionista, l'ultima alla quale Renoir partecipò. La
scena ritratta è quella di un ballo popolare all'aperto ambientato appunto al Moulin de la Galette, un vecchio mulino abbandonato posto sulle alture
di Montmartre, il pittoresco quartiere set- tentrionale di Parigi. Il nome del locale fa riferimento ai dolcetti (in francese galettes, appunto) che
venivano offerti come consumazione compresa nel prezzo di ingresso. Vari personaggi, uomini e don- ne, sono seduti su sedie e panchine fra gli
alberi. Alcune coppie danzano, al suono di un'orchestri- na posta a sinistra, sullo sfondo, in un'atmosfera di chiassosa allegria. Per eseguire l'opera
Renoir frequenta per mesi il Moulin, al fine di entrare meglio in contatto con quell'ambiente. Dipinto parte dal vivo e parte in atelier, dove si limita a
riorganizzare gli schizzi colti sul posto, il quadro costituisce uno dei lavori più significativi della maturità artistica di Renoir. Tramite un uso nuovo e
libero del colore l'artista cerca di suggerire non solo il senso del movimento, già di per sé assai difficoltoso da rendere, ma addirittura lo stato
d'animo collettivo e la gioia spicciola di un pomeriggio di festa. Forma e colore diventano così un tutt'uno: la prima è costruita mediante il secondo
che, a sua volta, assume un rilievo diverso in relazione al contrasto fra luci e ombre e fra toni caldi e freddi. Osservando, ad esempio, le due coppie
danzanti di sinistra, si nota come i vestiti delle ragazze spicchino contro gli abiti maschili per la diversa luminosità (sono infatti assai più chiari) che li
fa vibrare di colore definendo di conseguenza sia la forma dei corpi sia la sensazione del moto. L'apparente casualità della rappresentazione
nasconde invece un'attenta valutazione compositiva, frutto evidente dello studio dei classici. Pur non essendoci dei piani stabiliti (non esiste infatti
un soggetto principale), nessun personaggio risulta isolato, in quanto è inserito in un determinato gruppo (chi balla, chi chiacchiera, chi siede al
tavolino, chi guarda in una certa direzione) Fig. 26.83. L'insieme di questi gruppi, uniformemente inondati dalla luce tremolante che filtra dalle
fronde degli alberi, determina la profondità prospettica dell'intera scena nella quale il disegno gioca ormai un ruolo estremamente marginale.

La Grenoullere Renoir e Monet,

pur avendo gusti e formazione diversi, sono accomunati da una fra. terna amicizia. Nell'estate del 1869 i due pitonis: recano insieme a Bougival, un
pittoresco villaggio in riva alla Senna, nei pressi di Parigi. La maggiore attrattiva naturalistica del luogo era costituita dall'i solotto di Croissy
attrezzato con un ristorante all'a. perto, allestito su uno zatterone ormeggiato alla ri. va, e con alcuni stabilimenti balneari immersi nella
vegetazione. L'intero complesso, dove si svolgeva no anche piccoli concerti e feste da ballo, era noto con il nome scherzoso di Grenouillère, che
significa letteralmente «stagno delle rane» ma che, nel fran- cese parlato, sta anche a indicare un luogo ove si ri- uniscono tante ragazze desiderose
di divertirsi. Renoir e Monet collocano dunque i propri caval- letti uno accanto all'altro e in poche ore ciascuno realizza la propria Grenouillère. Il
dipinto di Monet è oggi conservato al Metropolitan Museum di New York Fig. 26.76, mentre quello di Renoir, di formato leggermente più piccolo, si
trova al Nationalmu. seum di Stoccolma Fig. 26.78 . L'analisi parallela delle due opere consente di ca- pire meglio il diverso modo di "essere
impressioni- sta" di ciascuno dei due artisti. Il punto di vista è pressoché il medesimo Fig. 26.77 , ma diversa è l'at- tenzione che essi pongono alla
scena. Mentre Mo- net privilegia l'immagine d'insieme, allontanando prospetticamente l'isolotto centrale, Renoir è più sensibile alle presenze
umane che, pur nella vapo- rosa indeterminatezza delle piccole e veloci pennel- late, appaiono comunque meglio definite di quelle dell'amico. Le
figure di Monet, infatti, sono trat- teggiate in modo più sommario, allo stesso modo delle piante e del resto della natura circostante, con la quale
appaiono anzi in perfetto equilibrio. L'at- tenzione di Monet, dunque, rimane sempre estre- mamente sintetica. Dove entrambi gli artisti hanno dato
il meglio di sé è però nella rappresentazione della mobilità dell'acqua e dei mille riflessi che la colorano. Monet usa pochi colori dati a pennellate
orizzontali, individuando le zone di luce e di om- bra con bruschi cambiamenti cromatici, come ad esempio intorno alle barche e all'isolotto centrale
(ombre) o in prossimità della riva opposta (luce). Renoir, invece, adotta una pennellata più mi- nuta, frammentando la luce in piccole chiazze di
colore e conferendo all'insieme una sensazione di gioiosa vivacità. La sua Grenouillère è indubbiamen- te più festosa, mentre l'interpretazione che
ne dà Monet è forse meno appariscente ma più attenta al dato naturale e alla distribuzione della luce. La piacevolezza del luogo affascina entrambi
gli artisti e li induce a tornare anche successivamente alla Grenouillère, come testimoniato da un altro dipinto di Renoir con lo stesso soggetto
conservato a Mosca Fig. 26.79. In questo caso Renoir concentra l'attenzione sulla piccola folla variopinta accalcata lungo la riva della Senna, nella
tremula luce che fil- tra attraverso le fronde degli alberi.
Pierre-Auguste Renoir (1841-1919)

Renoir nasce a Limoges il 25 febbraio 1841. Suo padre si trasferisce a Parigi quando il fi- glio ha appena tre anni. A poco più di tredici anni Auguste
viene messo a fare l'apprendista presso la bottega di un decoratore di porcellane. E così che si manifesta la sua precoce attitudine artistica e il padre
gli permette di frequentare anche dei corsi serali di disegno. Nel 1862 entra alla Scuola di Belle Arti frequen- tando i corsi tenuti da Charles-Gabriel
Gleyre, un pit- tore presso il quale conobbe alcuni di quelli che sa- rebbero poi stati i suoi principali amici, primi fra tutti Jean-Frédéric Bazille › par.
26.6 e Claude Monet, con cui avrebbe condiviso le interminabili discussio- ni ai caffè Guerbois e de la Nouvelle Athènes e le pri- me, fondamentali
esperienze di pittura en plein air. Pur avendo partecipato a solo tre delle otto mostre del gruppo (compresa la prima, presso lo studio di Nadar),
Renoir è - insieme a Monet - il rappresentante più spontaneo e convinto del movi- mento. Per lui la pittura è gioia di vivere, capacità di stupirsi ogni
giorno di fronte alle piccole/ gran- di meraviglie del creato, voglia di farsi travolgere dalle emozioni e dai colori. Nel gusto innato per l'arte e per la
natura sta la straordinaria grandezza del Renoir impressionista, sempre affascinato dalla luce e dai giochi di colore che essa sa creare. Nel 1881
l'artista si reca in Italia, fino ad allora conosciuta soltanto attraverso gli artisti italiani del Louvre e le descrizioni entusiaste degli amici che l'a- vevano
già visitata. Viaggiando tra Palermo, Napo- li, Roma e Venezia, Renoir rimane profondamente colpito dalla dolce violenza dei colori mediterranei,
sempre saturi e squillanti. Relativamente alle espe- rienze artistiche lo entusiasma soprattutto lo straor- dinario ciclo degli affreschi vaticani di
Raffaello. Ed è la riflessione sulla «saggezza» pittorica di Raffaello che mette in crisi la sua visione impressionista della realtà, nella quale tutto si
limita all'apparenza e alla sensazione di un attimo » Ant. 247. Agli inizi del Novecento Renoir è ormai stimatis- simo e affermato anche a livello
europeo. Purtrop- po iniziano a manifestarsi anche i primi sintomi di una malattia che, nel giro di pochi anni, lo porterà alla paralisi completa degli
arti inferiori e alla se- miparalisi di quelli superiori. Nonostante questo Renoir non rinuncia a viaggiare fra Cagnes, una cittadina della Costa Azzurra
(dove nel 1905 si tra- sferirà) e Parigi. La sua produttività è frenetica e oltre che alla pittura si dedica anche alla scultura. Muore il 2 dicembre 1919,
dopo aver chiesto una matita per tracciare un ultimo disegno.

Assenzio

Edgar Degas è un pittore che non ama i paesaggi né, di conseguenza, la loro rappresen razione. Le sue ambientazioni, al contrario, fanno sempre
riferimento ai caratteristici interni parigini Ne costituisce un esempio emblematico L'assenzio, forse il più celebre dei dipinti dell'artista Fig. 26.80
L'opera, realizzata tra il 1875 e il 1876 e ambientata all'interno del Café de la Nouvelle Athènes, presen- ta una composizione (ma sarebbe forse più
corret- to chiamarla "inquadratura" , per analogia con una ripresa fotografica) volutamente squilibrata verso destra, quasi a dare il senso di una
visione improv- visa e casuale. La scena, al contrario, è costruita in modo estremamente rigoroso, come ben si eviden- zia soprattutto dalla
prospettiva obliqua secondo cui sono orientati i caratteristici tavolini di marmo, quasi che l'artista volesse introdurci nel locale se- guendo il loro
allineamento sghembo Fig. 26.61, a. Il punto di vista è quello decentrato di un ipote- tico osservatore che, stando seduto a un altro tavo- lino, può
guardare senza essere visto a sua volta e riuscire così a cogliere la spontanea naturalezza di ogni azione. I due personaggi (in realtà la modella
professionista Ellen Andrée e l'amico pittore e in- tellettuale Marcellin Desboutin) recitano il ruolo di due poveracci: una prostituta di periferia,
agghin- data in modo pateticamente vistoso, e un clochard (un barbone) dall'aria burbera e trasandata. Dinanzi alla donna, sul piano di marmo del
ta- volino, vi è il bicchiere verdastro dell'assènzio che dà il titolo al dipinto. Davanti al barbone sta invece un calice di vino. Entrambi i personaggi
hanno lo sguardo perso nel vuoto, come se stessero seguen- do il filo invisibile dei loro pensieri b. Pur essendo seduti accanto sono fra loro
lontanissimi, quasi a simboleggiare quanto la solitudine possa rendere incapaci di comunicare. L'atmosfera del locale è pesante come lo stato
d'animo dei due avventori, imprigionati in uno spazio squallido e angusto di cui l'artista ci offre una descrizione impietosamen- te realistica.
L'ambiente dei caffè parigini, del resto, esercita un grande fascino sugli artisti del tempo. Nel 1877 Vincent van Gogh » par. 27.6 dedica ad- dirittura
una natura morta a un Tavolo di caffè con assenzio Fig. 26.62, nel quale tutta l'atmosfera circo- stante è quasi permeata dai riflessi verdognoli del
bicchierino di liquore. Anche Manet si cimenta più volte con temi ana- loghi e nella Prugna Fig. 26.63 , una tela del 1878, sembra indirettamente
rispondere all'Assenzio di Degas. Anche qui la donna ritratta - forse una prostituta in attesa di un cliente - assume un'aria svagata e malinconica, che
certo le hanno fatto di- menticare la prugna glassata che ha davanti, sul ta- volino di marmo. Ancora nel 1901 Pablo Picasso dedica almeno quattro
dipinti ai bevitori di assen- zio, a testimonianza di quanto l'abuso di quell'alco- olica bevanda continuasse pesantemente a segnare la realtà sociale
parigina

La lezione di danza
Fig. 26.56 è il primo di una nutrita e fortunata serie di dipin- ti dedicata alle ballerine. Realizzato tra il 1873 e il 1876, dunque a cavallo della prima
esposizione impressionista nello studio di Nadar, contiene in sé già tutti i temi della maturità artistica di Degas, così come li riproporrà anche nei
suoi luminosis- simi pastelli Figg. 26.58 e 26.59 : dalle ballerine alle luci della ribalta a quelle che si stanno preparando dietro le quinte, a quelle in
riposo. In questa tela l'artista rappresenta il momentrin cui una giovane ballerina - al centro - sta provardo un passo di danza sotto l'occhio vigile del
mae. mentre le altre ragazze, disposte in semicircolo, D' servano attendendo a loro volta il proprio turno d taglio che Degas impone al dipinto è di
tipo fotogi fico e, come in un'istantanea, alcune figure risultano fuoriuscire parzialmente dall'inquadratura. Ci suf gerirebbe una pittura di getto, atta
a cogliere l'im- pressione d'un momento. Il grande equilibrio compositivo, invece, e gli stessi tempi di realizzazione - quasi tre anni - stanno a
testimoniare come in re- alta l'opera sia frutto di un difficile e meditato lavo- ro di atelier, condotto su decine di schizzi prepara- tori. «Nessun' arte è
tanto poco spontanea quanto la mia», confessa l'artista, «e quanto io faccio è il risul- tato della riflessione e dello studio dei grandi mae- stri.
Dell'ispirazione, della spontaneità e del tempe- ramento», conclude, «non so assolutamente nulla». I gesti delle ballerine sono indagati con attenzio-
ne quasi ossessiva. Quella con il fiocco giallo-oro seduta sul pianoforte, ad esempio, si sta grattando la schiena con la mano sinistra; quella di spalle
con il fiocco rosso fra i capelli, invece, sta sventolan- dosi con un ventaglio. Tra le altre, poi, v'è quella che si accomoda l'orecchino, quella che si
sistema 'acconciatura, quella che osserva, quella che ride, quella che parla con la compagna: come in ogni aula scolastica quando, sul finire della
lezione, l'at- mosfera si fa più rilassata e informale. Degas ricostruisce l'atmosfera della sala con attenzione inserendo le sue fanciulle in una luce
morbida che ne ingentilisce ulteriormente le mo- venze. La fonte principale di luce è fornita da un finestrone a destra, fuori dalla scena, che però, ri-
flettendosi nel grande specchio alla parete di fron- te, genera un'altra superficie di luminosità diffusa. Dal punto di vista tecnico, infine, in
opposizione alle teorie impressioniste, Degas non rifiuta né il di- segno prospettico (che individua un punto di fuga esterno al dipinto e una linea
d'orizzonte all'altez- za di un ipotetico osservatore stänte Fig. 26.57 ) né la sottolineatura dei particolari (evidentissima nel- la figura del maestro, il
cui volume netto e definito la rende il fulcro di tutta la composizione). Anche l'abolizione del bianco e del nero in quanto non-co- lori appare qui
ampiamente disattesa. Bianchi so- no infatti i tutù delle fanciulle, nei quali il senso di vaporosa leggerezza è però sottolineato dalla pre- senza di
sfumature dello stesso colore dei fiocchi che portano in vita, e neri, invece, sono i nastrini di raso al collo. Il tono complessivamente neutro del
parquet (bruno) e delle pareti (verdoline), sul quale meglio si stagliano i chiari costumi delle ballerine, contri- buisce a dare all'insieme un senso di
pacato reali- smo, tipico di tutti gli interni dell'artista.

Edgar Degas (1834-1917)

de Gas (detto Degas) nasce il 19 luglio 1834 da una ricca e nobile famiglia all'in- terno della quale trascorre una fanciullezza e una prima gioventù
tranquille e agiate. Il padre Augu- dell'l ste, un banchiere di origine napoletana, è uomo di raffinata cultura e sotto la sua guida il giovane Degas
comincia a frequentare assai precocemen- te il Museo del Louvre, ove ammira soprattutto i grandi del Rinascimento italiano. La scelta di intra-
prendere la carriera artistica è dunque quasi subito assecondata dal padre. La prima formazione pittorica avviene in am- biente accademico e il
principale punto di riferi- mento è rappresentato inizialmente da Ingres, del quale Degas ammira in primo luogo la straordina- ria purezza del
disegno. La Scuola di Belle Arti non fa comunque per lui e dopo appena sei mesi ne ab- bandona la frequenza e intraprende lunghi e rego- lari
soggiorni in Italia (1854-1859), della quale cono- sce a perfezione la lingua, visitandone a più riprese i musei e riempiendo di schizzi e notazioni i suoi
tac- cuini. Tornato a Parigi, continua lo studio dei classi- ci, ai quali si sente ormai di aggiungere, come già fe- cero anche Manet e Renoir, il
romantico Delacroix. Da queste premesse appare subito evidente come la personalità artistica di Degas sia molto articolata. Nonostante l'impegno
impressionista, ad esempio, egli rimase sempre un convinto sostenitore del dise- gno e della pittura in atelier. Secondo l'artista, infat- ti, anche
l'impressione di un istante è così complessa e ricca di significati che l'immediatezza della pittura en plein air non può che coglierla in modo riduttivo
e superficiale. «Va molto bene copiare quel che si vede», affermava, ma è assai preferibile «disegnare quello che non si vede più, se non nella
memoria; è una trasformazione in cui l'immaginazione colla- bora con la memoria, e così non si riproduce se non quello che vi ha colpiti, cioè
l'essenziale». Nel 1861 l'artista conosce Manet, dal quale viene anche introdotto nel gruppo del Café Guerbois. Alla metà degli anni Sessanta la sua
pittura, pur rimanen- do sempre fedele agli ideali del disegno e del lavo- ro in atelier, si caratterizza non tanto per la volontà di rappresentare le
cose e le persone così come ap. paiono, ma piuttosto come si conoscono per averli visti tante volte e in diversi contesti, al fine di «stre- gare la
realtà», come era solito ripetere, «nella con- sapevolezza che l'artista può riuscire a dare il senso del vero solo agendo in modo del tutto
innaturale». Dal 1874, in seguito al tracollo finanziario della famiglia dopo la morte del padre, inizia per l'artista una lunga fase di ristrettezze e
sacrifici. Gli ultimi anni della vita di Degas sono tristis- simi. Ormai quasi cieco, viene anche sfrattato dal suo atelier-museo e solo grazie
all'interessamento di qualche amico può trovare un nuovo alloggio. Muore in solitudine il 27 settembre 1917 e al suo modesto funerale partecipano
appena trenta per- sone. Dei vecchi amici di un tempo c'è solo Monet, malfermo e quasi cieco a sua volta. A questo punto la grande stagione
dell'Impressionismo può consi- derarsi definitivamente conclusa.

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