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L’Espressionismo, I Fauves e Henri Matisse

Con il termine “espressionismo” solitamente ci si riferisce all’arte tedesca di inizio


Novecento, tuttavia l’Espressionismo fu una corrente artistica che ebbe due centri propulsivi
differenti: la Francia e la Germania. Il movimento francese dei Fauves e quello tedesco Die
Brücke (Il Ponte) nacquero quasi contemporaneamente nel 1905 e avevano in comune un
atteggiamento di protesta e di critica nei confronti sia del positivismo che
dell’impressionismo.
Il pensiero positivista, con il suo entusiasmo verso il progresso e la tecnica, considerate un
mezzo per raggiungere la felicità e la pace, aveva permeato la cultura degli ultimi trent’anni
del Novecento. Nonostante questo atteggiamento ottimista, nella società europea iniziava ad
intravedersi una crisi che alcuni letterati e filosofi, come ad esempio Nietzsche, intendevano
mettere in luce evidenziando la falsità del miraggio positivista. Se Nietzsche esercitò una
notevole influenza sugli espressionisti nordici, i Fauves furono semmai influenzati dal
pensiero di Henri Bergson, il maggior rappresentante dello spiritualismo francese che, in
opposizione al positivismo, considerava la coscienza umana diversa da una realtà materiale
conoscibile scientificamente; la coscienza per Bergson è un continuo fluire, è la vita stessa ed
un creativo slancio vitale determina il divenire dei fenomeni naturali e del pensiero umano.
I Fauves, con le loro opere caratterizzate da colori puri, violenti e dalle tinte calde, intendono
esprimere questo slancio vitale, scatenare le proprie emozioni, liberare il proprio istinto.
L’Impressionismo, con la sua ricerca di assoluta obiettività, era considerato dagli
espressionisti la manifestazione in campo artistico del pensiero positivista e della società
borghese che essi contestavano; dei dipinti impressionisti, inoltre, dava fastidio quel senso di
leggerezza e di felicità che emanavano.
Il termine “espressione” indica il contrario di “impressione”. L’impressione è un moto che va
dall’esterno all’interno; gli impressionisti registravano nelle loro opere le sensazioni visive
prodotte dall’osservazione del mondo esterno. L’espressione è un moto che va dall’interno
all’esterno; gli espressionisti portavano fuori il proprio mondo interiore, le proprie emozioni.
Il gruppo di artisti denominati Fauves non aveva un programma artistico e ideologico ben
preciso. Il loro riconoscimento ufficiale avvenne nel 1905, quando quegli artisti esposero le
loro opere nel Salon d’Automne (Salone d’Autunno) a Parigi.
In quell’occasione il critico d’arte (Luì Vosel) Louis Vauxcelles fu colpito sfavorevolmente
da quei dipinti dai colori accesi e violenti, che contrastavano con una scultura di stampo
rinascimentale esposta nella medesima sala. Nell’articolo da lui pubblicato sul giornale Gil
Blas, commentando i dipinti di quegli artisti, egli affermò: “Donatello fra le belve”
(Donatello sce le fov). Come era già avvenuto ai macchiaioli ed agli impressionisti, un epiteto
coniato in modo dispregiativo fu accolto dagli artisti quale denominazione del proprio
movimento artistico, che in tal caso era quello di “belve” (fauves).
I dipinti dei Fauves scandalizzarono critica e pubblico per i colori violenti che venivano usati
in modo antinaturalistico, per il rifiuto della prospettiva tradizionale, per la deformazione
delle immagini. Caratteristiche che portarono a sconfinare dall’Impressionismo e dal
Divisionismo costituendo la nuova avanguardia del Novecento. I Fauves furono sicuramente
fortemente influenzati da Cézanne, Van Gogh e Gauguin; dal primo artista per i soggetti e per
la capacità costruttiva del colore, dagli altri due per l’uso di colori accesi, violenti e
antinaturalistici.
Anima del gruppo dei Fauves era Henri Matisse. Matisse era uno studente di giurisprudenza,
una malattia lo costrinse a letto nel 1889 e fu l’occasione perché Matisse cominciasse a
dipingere come passatempo. Convintosi che la pittura fosse la sua vera vocazione, studiò
presso accademie private. Matisse trascorse diversi anni nel Sud della Francia e subì la
tragedia delle due guerre mondiali. Fu influenzato inizialmente dall’Impressionismo, quindi
da Cezanne e dalla sua volumetria, successivamente fu attratto anche dall’esperienza
divisionista. Fondamentale per la sua ricerca è la passione per l’arte nordafricana, in
particolare islamica, a cui si aggiungerà, nel 1906, la scoperta del primitivismo africano. La
sua indole, però, lo orientava verso il piacere del colore nella convinzione, che era già stata di
Renoir, che la pittura fosse “gioia di vivere”.
Donna con cappello- Donna con Cappello fu presentato al Salon d’Automne del 1905 e
scandalizzò subito tanto il pubblico quanto la critica. La donna ritratta nel dipinto di Matisse è
la moglie del pittore, Amélie Parayre, e viene ritratta con tinte molte forti esattamente come
facevano i pittori della corrente dei fauves. Come si può ben vedere dall’immagine che ritrae il
quadro, la fronte ed il naso della giovane donna sono verdi, i capelli rossi parzialmente coperti
da un cappello piuttosto ampio, vistoso e decorato con piume multicolori. La posizione del
busto della donna fece molto scalpore perché viene ritratta di tre quarti e rivolta allo spettatore
e riprende quella dei ritratti cinquecenteschi da Raffaello in poi. Anche il modo di trattare il
colore, in realtà, destò scalpore, in quanto si assiste con questo quadro ad un modo di dipingere
che si rifaceva al pointillisme e ai tratteggi divisionisti che però adesso venivano dilatati fino a
farne quasi delle chiazze. Molti dei critici del quadro non apprezzavano l’uso di una simil
tecnica pittorica nei ritratti.
La palette di colori del ritratto vira dal verde al giallo, dal blu al viola, dal bianco al rosso e
limitato è l’interesse da parte di Henri Matisse per la resa estetica finale del dipinto, tanto che
le grosse pennellate stese sovrapposte hanno un effetto di scarsa raffinatezza e tutto questo non
piacque ai contemporanei. Tuttavia, l’immagine dipinta di Amélie Matisse, proprio in virtù
della forza cromatica e di pennellate che potremmo chiamare “brute”, trasmette all’osservatore
una forte energia ed espressività che fino a quel momento si era avuta solo nelle opere di Van
Gogh o di Gauguin.
La stanza rossa- Nel dipinto una domestica sistema della frutta all’interno di un’alzata posta
su un grande tavolo. A sinistra è dipinta una sedia impagliata di fronte ad un grande quadro che
riproduce un paesaggio dalla composizione essenziale. In primo piano compare un cespuglio.
Fa da sfondo poi un prato costellato di fiori viola e gialli. Emergono inoltre alberi esili con una
fioritura bianca. L’orizzonte è molto alto e separa il poco cielo blu. In alto, quasi in prossimità
dell’angolo sinistro una casetta rosa completa il paesaggio. L’osservatore non ha alcun centro
focale sul quale poggiare lo sguardo. Non si individuano chiaramente i piani orizzontali e i
piani verticali. Il tavolo, dovrebbe creare un piano orizzontale, obliquo, secondo la prospettiva
geometrica. Invece si confonde con il fondo della parete e sembra diventare una carta da parati
unica. Anche la donna che sistema la fruttiera sembra essere una decorazione ritagliata dal
fondo. Le figure sono costruite con una debole linea nera di contorno e con il contrasto
cromatico. Sono quindi delle sagome colorate che emergono attraverso il contrasto di
luminosità. Ad esempio i limoni gialli contro il rosso brillante della tovaglia. Interessanti sono
gli oggetti rappresentati nella stanza, come la sedia, simbolo dell'assenza ma anche dell'attesa
di un ospite desiderato, la cameriera simbolo delle cure offerte dalle persone care che aiutano
l'artista a mantenere accogliente il suo spazio interiore.
Il pane, simbolo di genuinità e sicurezza e la frutta, di gustosa freschezza, creano un legame
simbolico con il fuori, dominato dal naturale verde che simboleggia la natura selvaggia e amica,
ristoratrice e madre.
Quindi il dipinto diviene allegoria del rapporto tra la natura, madre, e l'arte, sua figlia, al sicuro,
all'interno di essa, in una sorta di viaggio nel tempo della gestazione, e della vita artistica che
solo dall'armonia fra queste due sfere esperienziali trova il giusto equilibrio per esprimere la
bellezza.
A distanza di poco più di dieci anni Matisse rielabora lo stesso soggetto creando “La tavola
imbandita”: notiamo un interno con una tavola apparecchiata da un figura femminile e una
finestra. Tutti gli elementi presenti ne La stanza Rossa vengono ripresentati con una diversa
interpretazione dello spazio, dei volumi, della luce e dei colori.

La danza- La danza è una versione in chiave espressionista di un antico tema bacchico e


pastorale, costruito sul motivo del girotondo danzante. La scena si svolge di notte, su una
verde collina e contro un fondo azzurro. Cinque figure nude e quasi asessuate (ma nella prima
versione sono chiaramente cinque donne), allacciano le loro mani e ballano con movimenti
ampi e vitali. Stilisticamente, l’opera sembra assommare in sé tutte le caratteristiche della
grande pittura europea di fine Ottocento.
Vi riscontriamo, infatti, il primitivismo e il colore a stesure piatte di Gauguin, l’intensità
cromatica “arbitraria” di Van Gogh, lo studio della composizione di Cézanne. Il verde, che
occupa la parte inferiore del quadro, rappresenterebbe un prato ma in realtà simboleggia tutta
la Terra, come conferma la curvatura sferica di questa superficie. Il blu nella parte superiore
sarebbe il cielo, e il tono intenso di questo colore richiama l’idea dell’intero universo.
Tutta la scena, che include sia il gruppo di figure sia il profilo del prato, è dominata da linee
curve ed elastiche, che si intrecciano o si incontrano, proseguendo idealmente l’una con l’altra,
e che sono capaci comunicare un senso di armoniosa fusione tra le donne e l’ambiente
circostante. Si noti che il magico girotondo femminile è aperto: infatti, le mani delle due figure
in primo piano si toccano appena, creando una frattura nel movimento. Quel protendersi l’una
verso l’altra, quel cercare la mano della compagna testimoniano, con efficacissima
immediatezza, la tenace volontà di restare unite.
La danza nacque come l’ultimo appello lanciato dall’arte all’umanità, l’esortazione alta e
nobile a recuperare l’unità perduta, il senso della comunità. E immaginò, non a caso, un
girotondo di donne, da sempre fattrici di vita, di costruttrici di pace e tutelatrici della natura e
del mondo.
Con questo girotondo privo di gerarchie, mosso dalla ricerca instancabile della mano protesa,
Matisse volle ricordare a tutti gli uomini che possono essere fratelli, al di là di ogni professione
religiosa. In questo, è il valore universale e straordinariamente attuale di questo capolavoro.
Prima di lui, a sostenere con altrettanta lucidità che la solidarietà è l’unica risposta possibile al
male in un mondo avverso, era stato Giacomo Leopardi, come possiamo leggere ne La Ginestra
o il fiore del deserto. Qui Leopardi elegge l’umile pianta a simbolo di un’eroica speranza e dice
che È inutile scagliarsi uno contro l’altro; meglio essere solidali per affrontare insieme le
difficoltà della vita e contrastare la vera responsabile di ogni sofferenza invitando gli uomini a
unirsi in una “social catena”.

In Germania, un movimento dichiaratamente espressionista fu Die Brücke, fondato a


Dresda nel 1905, anche se l’incontro dei fondatori risaliva al 1902. Il significato
racchiuso nella simbolica denominazione Die Brücke, è spiegato, in parte, da una lettera,
con la quale Emil Nolde fu invitato a far parte del gruppo che diceva che «Uno degli
scopi della Brücke è di attirare a sé tutti gli elementi rivoluzionari e in fermento, creare un
ponte che avrebbe collegato tutte le Avanguardie che operavano per abbattere le
tradizionali convenzioni dell’arte accademica.
Ricordiamo che in Germania l’arte ufficiale era persino più conservatrice di quella
francese. Gli artisti dell’Accademia producevano, prevalentemente, opere celebrative
della famiglia regnante. Ogni forma di innovazione era giudicata con ostilità. Già le
Secessioni, alla fine del secolo precedente, si erano ribellate a questa così tenace
manifestazione di conformismo accademico. Gli espressionisti della Brücke ne
ereditarono le istanze, con l’intenzione di continuare quella battaglia.
Ludwing Kirchner fu il primo ispiratore e primo animatore della Brucke, una
formazione che attinge all’arte primitiva e al gusto per le stampe giapponesi. Anche in lui
sono forti le suggestioni che ricava da Gauguin e Van Gogh e dall’aspetto psicologico
delle opere di Munch. Si trasferì nel 1911 a Berlino dalla Baviera e adottò un linguaggio
secco e vibrante, un segno teso, contorto e spezzato, composto da una fitta sequenza di
scatti nervosi.
Nelle sue opere le proporzioni, la costruzione delle figure, l’organizzazione dello spazio
non sono vincolati alle leggi della pittura tradizionale ma si dispongono in funzione delle
esigenze espressive dell’artista.
Scena di strada berlinese- capolavoro del 1913-14, fa parte di una serie di tele che
l’artista dipinse tra il 1913 e il 1915 per illustrare, appunto, alcune scene di strada,
ambientate nel cuore pulsante della sua Berlino. Nella folla che attraversa il centro
cittadino, si notano due appariscenti prostitute che sfacciatamente si rivolgono a due
giovani uomini. Alle loro spalle si riconosce la folla dei passanti e un tram trainato da
cavalli. Tutte le figure sono grottesche, dipinte con apparente rapidità, e la composizione
caotica ben esprime il tema tipicamente moderno della vita cittadina.
Il tema della prostituta, molto ricorrente nell’arte di Kirchner, fu certamente ereditato dal
Simbolismo e marcatamente da Munch. La donna prostituta, che vende il proprio corpo e
non concede all’uomo il conforto dell’amore e del sentimento, è infatti una donna fatale
che tenta l’uomo e lo porta alla perdizione. Le prostitute di Kirchner sono dunque figure
demoniache, inespressive, fredde e crudeli e denunciano la componente marcatamente
misogina della sua pittura.
Oskar Kokoschka- Nasce il primo marzo 1886 in una cittadina austriaca in riva al Danubio.
Inizia gli studi alla Scuola d’arte e mestieri di Vienna, la stessa a suo tempo frequentata anche
da Klimt. Stringe amicizie con intellettuali e artisti innovatori come Schiele e il compositore
Schonberg. Stringerà un tempestoso rapporto sentimentale con Alma Mahler, vedova del
grande musicista Gustav Mahler. Allo scoppiare della Guerra si arruola volontario e avrà modo
anche di vivere nel clima della seconda. Da Klimt eredita la convinzione che un buon artista
deve essere anche un profondo conoscitore delle varie tecniche di esecuzione, prima fra tutte
il disegno. In Donna seduta, un delicato schizzo risalente al 1912, l’autore sintetizza la forma
del personaggio con pochi segni dal tratto netto e deciso ma, nonostante ciò, il corpo prende
volume.
La sposa del vento- Nell’opera Alma Mahler dorme tranquillamente accanto a
Kokoschka. L’artista invece è sveglio e fissa con uno sguardo sbarrato di fronte a
se. I corpi dei due amanti sono nudi ma avvolti da teli mossi dall’aria. Sono molti le
opere allegoriche della coppia che si divise a casusa del carattere possessivo e
geloso dell’artista. Infatti quando Alma nel 1914 si allontanò l’artista fece realizzare
un simulacro dell’ex amante.

Edvard Munch
L’artista Edvard Munch è stato uno dei più grandi pittori del XX secolo. I suoi dipinti, di
un’angosciante potenza, sono considerati capolavori dell’arte espressionista. Il giovane
Edvard trascorre un’infanzia devastata dalla povertà e da profondi lutti: ha solo cinque anni
quando la madre muore di tubercolosi; la stessa sorte colpirà l’amata sorella Johanne
Sophie.
Munch reagirà a queste disgrazie rifugiandosi nell’arte. Nel 1885 dipinge La fanciulla malata,
opera in cui l’artista adopera del diluente per far colare la vernice sul dipinto, come lacrime di
dolore che sporcano la tela.
Nonostante le indubbie capacità artistiche, il padre lo spinge verso lo studio dell’ingegneria.
Non durerà molto: Edvard continua a dipingere, a frequentare i circoli bohémien di Oslo e,
nonostante le sue opere di esordio non incontrino i favori della critica, nel 1899 vince una borsa
di studio che lo porterà a Parigi.
Mentre si trova a Parigi per studiare i maestri dell’avanguardia francese (soprattutto Gauguin),
Edvard Munch apprende della morte del padre. Tale notizia condurrà l’artista, già provato dai
lutti infantili, in uno stato di cupa depressione, esasperato dall’abuso di alcool che Munch è
solito bere sin dal mattino.
La fanciulla malata- Al centro della scena vediamo Sophie posta di profilo e appoggiata
sul cuscino del letto, accanto a lei vi è una donna che stringe le mani della malata. Molti
pensano si tratti della madre, ma in realtà al tempo della malattia della ragazzina era già
morta da tempo, quindi non poteva essere lei ad assistere Sophie. L’intreccio delle mani dei
due personaggi del dipinto è un punto focale rappresentando il centro geometrico dell’opera
che ha comunque una costruzione piatta.
Eppure Sophie non sembra osservare la donna che le è accanto, al contrario ha lo sguardo
perso nel vuoto, rivolto in apparenza verso la tenda della stanza. Accanto al letto vi è un
comodino su cui è posta una bottiglietta quasi certamente di una medicina. Di fronte al letto
una sedia regge un bicchiere, particolare a cui Munch inizialmente aveva dato troppa
rilevanza poichè – a suo parere – distoglieva l’attenzione dalla figura della sorella.
Si percepisce subito come la stanza della malata sia un ambiente molto piccolo e angusto, un
luogo desolato in cui sovrasta la malattia. In questo senso giocano un ruolo molto
importante anche le tonalità utilizzate, tutti fredde o molto scure. Il colore con cui è resa la
tenda, un verde tendente al nero, suggerisce un senso di sporcizia e sudiciume. La pittura tra
l’altro non è nemmeno nitida, ma appare corrosa e sfumata. Non ci sono luci naturali, gli
unici elementi luminosi sono il pallore cadaverico del volto di Sophie e il bianco del
cuscino,la luminosità diafana del viso è accentuata dall’accostamento con il rosso dei capelli.
Le sensazioni che l’opera trasmette sono sicuramente di pena, tristezza, sconforto ma anche
rassegnazione.
Il motivo per cui il pittore non utilizza il disegno e la prospettiva è anche quello di rendere
le due figure umane simili a degli spiriti.

Il Grido- È certamente l’opera più celebre dell’artista e forse uno dei quadri più famosi al
mondo. Come altre opere di Munch, fu realizzato in più versioni, quattro per l’esattezza; Il
protagonista del quadro si trova su un sentiero delimitato da una staccionata, una sorta di
ponte dalla prospettiva claustrofobica, senza inizio né fine, che si affaccia sul mare di un fiordo
nero come il petrolio. Il senso profondo del dipinto lo troviamo descritto dall’artista in alcune
pagine di un suo diario, narra di lui che camminava con due suoi amici e il rosso del tramonto
del sole gli parve come sangue e lingue di fuoco che si abbattevano sulla città così, impaurito,
si accorse che i suoi amici continuavano a camminare e, come in preda a un attacco di panico,
lanciò un grande urlo.
La scena è ricca di riferimenti simbolici: il ponte richiama i mille ostacoli che ciascun uomo
deve superare nella propria esistenza, gli amici che continuano a camminare tranquillamente
rappresentano con cruda disillusione la falsità dei rapporti umani. L’urlo disperato che esce da
quella bocca sembra propagarsi nelle pieghe di colore del cielo, della terra e del mare. E’ l’urlo
di chi si è perso dentro se stesso e si sente solo, inutile e disperato anche, e soprattutto fra gli
altri, sopraffatto da una natura prepotente e matrigna.

Pubertà- E’ un criticatissimo olio del 1893 e rappresenta Una ragazzina in un ambiente


spoglio e desolato che sembra quasi la cella di una prigione. Seduta, nuda e sola, sul bordo
del proprio letto, con le gambe strette, tiene le braccia incrociate sul pube, in un gesto pudico
e virginale, con una mano sul ginocchio e l’altra sulla coscia. La sua posizione è quasi frontale,
appena ruotata verso destra. È apparentemente turbata dai suoi stessi pensieri: il suo sguardo è
fisso e spaventato, gli occhi sono spalancati, la bocca è serrata. I lunghi capelli scendono sulle
spalle. Il suo corpo è ancora acerbo, privo di seni, e denuncia la sua giovanissima età,
prepuberale. Grazie alla luce che proviene da sinistra, questo corpo acerbo proietta contro il
muro, alle sue spalle, a destra, un’ombra inquietante e minacciosa che sembra presagire un
avvenire drammatico, forse tragico. Quest’ombra, che assume le forme di una densa nuvola di
fumo, di un nero fantasma, di un demone che si sta impadronendo della fanciulla, o che forse
proviene da lei, diventa, in ogni caso, un oscuro e minaccioso doppio della sua personalità: è,
insomma, la proiezione simbolica del suo stato interiore. Con questo soggetto Munch volle
affrontare il delicato tema del passaggio dalla dimensione infantile, innocente e pura, a quella
adulta, sessuata, tormentata e malvagia. La bambina, infatti, pare rendersi conto di quello che
le sta accadendo, pare sentire dentro di sé che le aspetta un tragico destino di dolore, che ella
stessa proverà e che infliggerà agli altri, pare percepire sulla propria pelle la solitudine cui è
destinata, sente l’alito della morte che già incombe. Potrebbe esserci anche un significato
sociale, nella scelta di Munch di affrontare questo tema: da secoli, e ancora nell’Ottocento, le
bambine, giunte alla soglia della pubertà, potendo mettere al mondo dei figli erano spesso
obbligate a sposarsi, seppure giovanissime, a rinunciare ai primi affetti familiari e ai giochi
infantili, ad occuparsi unicamente del marito e dei figli, ad andare incontro ad una vita che
quasi mai potevano scegliersi, fatta di obblighi e doveri imposti, che annullavano le loro
personalità, i sogni ed ogni ambizione.
CONFRONTO CON LA MARCELLA DI KIRCHNER
l’imbarazzo e la paura per il periodo che stanno affrontando sono dei particolari che le
accomunano; poi, entrambe cercano di coprire la loro nudità come meglio possono.
Se la ragazza ritratta da Munch usa solo le mani per coprirsi il pube, quella di Kirchner si
chiude su sé stessa incrociando sia braccia che gambe.
La marcella ha un grande fiocco bianco nella parte destra della sua tesa, forse simbolo della
purezza che ancora appartiene alla fanciulla ma che, da come si intuisce anche dallo sguardo,
è consapevole di perdere.

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