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L’INVENZIONE DEL FOTOGRAFICO

1. CAMERA OSCURA: REINER GEMMA FRISIUS 1545


La parola camera mantiene saldo il ricordo del suo legame con l’antico dispositivo ottico, detto in latino camera
obscura, dalle cui evoluzioni e perfezionamenti tecnici e scientifici, ottici e chimici, è in seguito nata la fotografia.

Si ricorda che già nel IV secolo il filosofo Aristotele osserva i fenomeni delle eclissi grazie a una camera oscura che gli
permette di non rimanere accecato dalla luce emessa dai raggi potenti del sole. Di tale evento naturale l’astronomo
arabo Al-Hazen, X e XI secolo, ha fornito una descrizione scritta, mentre il primato della visualizzazione di una camera
oscura si ha in disegno, tracciato dal matematico e fisico olandese Rainer Gemma Frisius, riferito alla eclissi solare nel
1544.  La camera oscura nasce quindi come strumento del desiderio dell’uomo di conoscere e capire il mondo e le
sue manifestazioni visibili e perciò ottiene prima di tutto applicazione nel campo degli studi scientifici.

Nel frattempo la camera oscura assume sempre più le sembianze di una scatola, e cioè di un apparecchio che si può
spostare per effettuare riprese all’esterno delle vedute paesaggistiche e vengono costruite portantine e carrozze che
possono ospitarla e trasportarla. > Nella illustrazione della camera oscura mobile progettata da Athanasius Kircher nel
1646 è possibile vedere anche il modello a due camere: era una posta dentro all’altra in modo che il disegnatore potesse
stare dentro alla più piccola e ricalcare sulle pareti di carta trasparente di questa ciò che veniva proiettato attraverso il
foro praticato in quella esterna, più grande. Sempre nel XVII secolo, precisamente nel 1685, lo scienziato Johann Zahn
mette a punto un modello di camera oscura reflex che aggiunge alla parete di fondo, su cui proietta l’immagine della
realtà, uno specchio inclinato di 45 gradi, grazie al quale l’immagine viene ribaltata e proiettata in alto in modo che
quella proiezione di realtà risulti facilmente ricalcabile.

Ma ancora nel XVIII secolo le conoscenze in campo chimico non consentivano di conservare l’immagine formatasi
dentro la camera oscura, di renderla cioè permanente e trasformarla in una fotografia. Gli stuiosi dovevano ancora
definire quali sono le sostanze fotosensibili più adatte a registrare ciò che rifletteva sulla parete di fondo del dispositivo
ottico e in quale modo renderle stabili e dunque non ulteriormente modificabili.

1.1 LA PROSPETTIVA RINASCIMENTALE E LA FOTOGRAFIA

Di fatto la camera oscura diverrà il dispositivo ottico più utilizzato dagli artisti, e da un punto di vista tecnico porterà
alla nascita della fotografia quando le conoscenze chimiche permetterranno di fissare l’immagine che si forma al suo
interno. Come alcuni studiosi hanno evidenziato il rapporto triplice fra prospettiva rinascimentale, camera oscura,
fotografia è ben più complesso e articolato di un semplicistico loro legame di discendenza ereditaria quanto a
perfezionamento progressivo di meccanismi di visione. Non si può inoltre guardare alle vicende della nascita della
fotografia con un occhio solamente rivolto alla storia della pittura e alla trattazione della fotografia come oggetto
prodotto da un’azione e da una macchina con particolare caratteristiche tecniche che la legano all’orizzonte e all’eredità
della pittura: infatti bisogna individuare esperienze eccentriche più vicine alla volontà di cogliere la realtà.

2. VISTA DALLA FINESTRA A GRAS, NICHEPHORE NIEPCE 1826


La camera oscura aveva per secoli fornito ai pittori e ai vedutisti la possibilità di riprendere il vero con massima
precisione e dettaglio.
Il primo nome sulla strada che porta definitivamente alla scoperta della fotografia è quello del francese NICEPHORE
NIEPCE: già dal 1822 egli sperimenta una speciale resina, il Bitume di Giudea, che gli permette di ottenere immagini
con una tecnica di tipo incisorio e parallelamente continuare a ragionare su come poter applicare certe migliorie alla
camera oscura.. ma in realtà almeno dal 1816 che Niepce lavora a questo sogno di ottenere immagini dalla camera
oscura, e l’epistolario con il fratello Claude permette di seguire l’evolversi delle sue ricerche: Niepce scrive al fratello di
aver ottenuto immagini in negativo che però non lo soddisfano, essendo il suo vero obiettivo un’immagine diretta e
positiva del reale.

Dopo dieci anni di tentativi egli realizza VISTA DALLA FINESTRA DI GRAS: la veduta, quella che viene considerata
la prima immagine fotografica della storia, è un paesaggio con architetture di scarsissima nitidezza, impresso su una
lastra di peltro spalmata di Bitume di Giudea e lasciata nella camera oscura per circa dieci ore. Durante questo lungo
arco di tempo il sole, i cui raggi filtravano attraverso il foro della camera oscura, ha completato il suo percorso fino
all’orizzonte, e quindi nell’alternarsi delle zone chiare dovute al bitume e di quelle scure connesse al metallo
sottostante, non è possibile stabilire l’ora precisa > somma di temporalità, come fosse una specie di mezzogiorno eterno.
Niepce battezza ciò che ha ottenuto con il nome ELIOGRAFIA, scrittura del sole, che spiega “ la scoperta che ho fatto
consiste nel riprodurre spontaneamente, mediante l’azione della luce colle digradazioni di tinte dal nero al bianco, le
immagini ricevute dalla camera oscura”.  dicendo che l’eliografia è un’immagine spontanea, Niepce decreta
definitivamente la nascita della possibilità che un apparecchio meccanico sia in grado di riprodurre da solo, in
autonomia, una visione del reale.
Nel 1827 Niepce riesce ad avere un incontro con i rappresentanti della Royal Society londinese, ma non ne scaturisce
nessun risultato perché non vuole rivelare il metodo e le sostanze che ha usato per ottenere le sue eliografie. Tornato nel
continente, Niepce continua ad essere l’unico depositario del suo segreto: però da qualche tempo un personaggio lo sta
cercando, o meglio sta cercando di ottenere la sua attenzione proprio in merito al processo di fissazione delle immagini
nella camera oscura: è DAGUERRE. I due alla fine si conoscono e danno inizio ad una corrispondenza in cui si
scambiano notizie sui risultati reciproci. A forza di insistere, anche a causa della debolezza economica di Niepce dopo
la morte del fratello, arrivano a stipulare un accordo, nel 1829, in cui Niepce porterà la sua invenzione e Daguerre una
nuova combinazione della camera oscura. Purtroppo però nel 1833 Niepce muore e nell’accordo gli subentra il figlio
Isidore, che avrà una parte marginale e solo simbolica nella storia della fotografia.

2.1 PROTESI TECNOLOGICHE E PUNTI DI VISTA

Si è accennato al fatto che dal 1822 Niepce comincia ad usare il Bitume di Giudea, che aveva la proprietà di indurire se
esposto alla luce del sole, assumendo una colorazione bianco pallido: egli quindi inizia a sfruttare le caratteristiche del
Bitume spalmandolo sopra una lastra e mettendo questa a contatto con un’incisione o una litografia rese trasparenti
grazie all’uso di cera o di olio. Espone questo alla luce che indurisce il bitume esposto ma lascia molle laddove è
coperto dalla traccia del disegno sovrapposto e successivamente dilavando il bitume dopo l’esposizione con olio di
lavanda.

Queste prime produzioni, a metà strada tra incisioni e fotografie, vengono appunto chiamate da Niepce
FOTOINCISIONI: infatti sono immagini off-camera, realizzate senza l’ausilio della camera oscura. Ma dal 1816 egli
sperimenta anche i materiali fotosensibili dentro alla camera oscura. Ed è proprio riflettendo sulle proprietà fotosensibili
del Bitume che Niepce pensa di utilizzarlo anche nella camera oscura, arrivando a realizzare quella che lui stesso
definisce la prima immagine spontanea della storia. Dopo le otto-dieci ore di esposizione il bitume si è indurito ed
imbianco nelle parti colpite dal sole mentre la parte metallica del supporto mostra le ombre.
La ripresa però ha bisogno ancora di tempi lunghissimi e ciò rende la scoperta impraticabile e poco funzionale: servono
migliorie determinanti e tale traguardo è arrivato con Daguerre.

3. BOULEVARD DU TEMPE: JACQUES-MANDE DAGUERRE,1839

Daguerre compie dei passi fondamentali per trasformare alcune intuizioni in una tecnica utilizzabile e funzionale. Nel
1935 Daguerre scopre la cosiddetta IMMAGINE LATENTE, e cioè il fenomeno grazie al quale una lastra di rame
argentata inserita nella camera oscura, può rilevare, una volta sottoposta ai vapori di mercurio, la porzione di realtà che
vi è rimastra impressa sopra dopo una esposizione che dovrà essere di mezz’ora o poco più. Perfezionata la tecnica con
una fissazione fatta con sale comune e acqua calda, la riduzione dei tempi di posa e di sviluppo diviene in questo modo
uno degli aspetti determinanti per la messa a punto definitiva del procedimento fotografico.
Nel 1837 egli realizza un’immagine che ha come oggetto una natura morta con alcuni calchi in gesso, una borraccia di
vimini e un quadro appeso alla parete: la definizione dei particolari e la precisione offerta dalla gamma di sfumature
sono ormai molto lontane dalla Vista dalla finestra a Gras. > sarà proprio la possibilità di apprezzare i dettagli e la
lucentezza dei dagherrotipi a motivare l’immediato successo di pubblico. Eccezionale è inoltre che nel suo
BOULEVARD DU TEMPLE del 1839 riesce a fotografare per la prima volta una isolata figura umana,che è quella di
un passante fermo nella sua posizione il tempo sufficiente affinchè il suo profilo potesse essere catturato dalle sostanze
fotosensibili sulla lastra nella camera oscura. Mentre tutto ciò che si muove attorno è andato perduto.
Il mediatore giusto è FRANCOIS DOMINIQUE ARAGO, un fisico e astronomo francese che, essendo membro della
Camera dei Deputati, è anche un politico. Argo decide di patrocinare la scoperta di Daguerre e il 7 gennaio del 1839
annuncia al mondo la nascita della fotografia in seguito Argo si adopererà in tutti i modi affinchè lo Stato Francese ne
acquisisca i diritti facendo dono all’umanità intera.
Il 19 agosto del 1839 viene fatta dimostrazione del funzionamento del dagherrotipo, scatenando la curiosità e
l’ammirazione degli stanti che si accalcano per assistere al prodigio. In breve tempo alcuni dagherrotipi vengono inviati
ai regnanti delle corti d’Europa e Daguerre stesso tiene alcune dimostrazioni pubbliche e comincia ad addestrare
personale incaricato di spiegare il procedimento ovunque fosse richiesto “tutti i negozi di ottica erano assediati, qualche
giorno dopo in tutte le piazze di Parigi si poteva vedere camere oscure piazzate su cavalletti a tre gambe davanti chiese
e palazzi. Tutti i fisici, chimici e gli uomini di cultura della capitale lucidavano lastre argentate”.
Il dagherrotipo è costituito dunque da immagini tratte dalla realtà impresse su piccole lastre metalliche: l’immagine
formatosi dentro alla camera oscura può essere letta come un positivo diretto. E come una immagine allo specchio, la
destra e la sinistra risultano invertite e, dato il tipo di supporto usato, l’immagine è appunto unica, non riproducibile.

3.1 IL FASCINO DELLA COPIA UNICA

Come si è detto, l’unicità del dagherrotipo è stata la motivazione principale della scomparsa definitiva di questa
tipologia fotografica già pochi decenni dopo la sua invenzione: l’opera d’arte stava entrando nell’epoca della sua
riproducibilità tecnica, ormai decisa nella scelta a favore della serializzazione a scapito dell’unicità. La possibilità di
moltiplicare le tracce di realtà tante volte quante si desiderava, la loro diffusione nel mondo, la condivisione a distanza
di esperienza percettive analoghe, il loro sfruttamento come immagini riprodotte nelle pubblicazioni illustrare sono solo
le principali voci nell’elenco di vantaggi che hanno fatto della fotografia uno strumento di democratizzazione e
d’interazione di massa.
Ma si deve anche rilevare che la scelta dell’unicità non è per nulla morta nella contemporaneità novecentesca, ma ha
anzi trovato interpreti, forme e significati assai importanti in esperienze come quelle della Polaroid e della fototessera.
Nel 1947 un americano di none Edwin Land mette appunto la tecnica della Polaroid, un apparecchio a sviluppo
immediato, brevettandola e immettendola nel mercato mondiale l’anno successivo: la magia della Polaroid consiste nel
fatto che dallo stesso apparecchio con cui si è effettuata la ripresa, un minuto dopo e dall’apposita fessura, esce la
fotografia sviluppata. Oltre al principio di unicità, merita ricordare da ciò che unisce il dagherrotipo alla Polaroid è
anche un aspetto materico e un rapporto privilegiato di sensi oralità: la Polaroid è più tattile delle fotografie >
impossibile non citare la Polaroid come strumento centrale nella poetica delle sessioni prono soft del designer torinese
Carlo Mollino, degli autoritratti intimi di Robert Mapplethorpe, delle ricognizioni voyeuristiche sulla Tokyo hard. Ma
anche, la Polaroid di Andy Warhol quale perfetto strumento dell’arte no hands look, apparentemente povera e di grado
zero, che nel suo universo di automatismo, meccanicità e spersonalizzazione, diviene simbolo della poetica pop.

4. FINESTRA CON TELAIO A GRIGLIA: WILLIAM HENRY FOX TALBOT, 1835

Contemporaneamente a Londra si presenta un altro inventore, il matematico e botamico WILLIAM HENRY FOX
TALBOT, che decide d’urgenza di comunicare ufficialmente il punto di arrivo delle sue sperimentazioni chimiche-
ottiche. Talbot non perde tempo e prende subito contati con la Royal Istitution di Londra, dove alcuni esempi dei suoi
prototipi vengono analizzati il 25 gennaio 1839 grazie all’intervento del fisico Faraday. Talbot riesce a realizzare delle
immagini a contatto che chiami DISEGNI GOTOGENICI. In pratica egli sovrappone degli elementi naturali, ma anche
tessuti e pizzi semi-trasparenti, a fogli di carta resi sensibili alla luce (immersi in una soluzione di sale da cucina e poi di
nitrato d’argento). Lasciati esposti per un certo lasso di tempo, una volta tolti gli oggetti avranno lasciato impressa su
quel foglio la loro impronta in negativo (perché rimasta chiara) mentre tutto attorno le sostanze fotosensibili si saranno
annerite alla luce: queste immagini sono dette off-camera.
Così Talbot riporta e applica le scoperte fatte con le carte dei disegni fotogenici alle camere oscure: nel 1835 ottiene
quello che viene considerato il primo negativo fotografico della storia, chiamato FINESTRA CON TELAIO A
GRIGLIA.
Talbot ha cosi realizzato il negativo fotografico da cui si possono ottenere un numero teoricamente infinito di copie
positive: anche se le sue immagini su carta sono di qualità inferiore a quella dei dagherrotipi, poichè appaiono più
sgranate e poco definite, avranno maggior successo.
Infatti dopo aver anche subito alcune modifiche che ne miglioreranno la prestazione il metodo negativo-positivo
di Talbot s’imporrà alla storia: il brevetto depositato nel 1841 sarà universalmente noto come CALOTIPIA (dak greco
kalos, ovvero bello).
A partire dal 1844 egli dà alle stampe il primo libro fotografico della storia, the pencil of nature, seguito poi nel 1845 da
Sun Picture in Scotland.
L’inventore esalta proprio la caratteristica dell’identità automatica: per Talbot la matita della natura mostra come
l’uomo abbia raggiunto il sogno di secoli, ovvero quello di raddoppiare il mondo in un perfetto calco che non ha debiti
con la mano dell’artista. I soggetti principato dei libri fotografici sono paesaggi, granai, persone in posa, piccoli oggetti
e la famosa scopa appoggiata allo stipite di una porta aperta.

4.1 LA SCRITTURA DELLA LUCE

Schulze scopre che l’acido nitrico mescolato all’argento scurisce una volta posto sotto i raggi del sole; Wedgwood
prosegue gli studi sul nitrato d’argento: realizza delle immagini a contatto mettendo alcuni oggetti su varie superfici
spalmate di sostanze fotosensibili che lasciano la loro impronta se sottoposti per un certo periodo alla luce.
Il passaggio successivo è dato dai disegni fotogenici di Talbot che rappresentano in sostanza la possibilità di ottenere in
modo stabile le prime immagini a contatto, ottenendo un negativo, ovvero una silhouette su fondo nero.
Nell’epoca dinamica delle Avanguardie storiche alcuni artisti recuperano l’idea di far lavorare autonomamente la luce
su di una superficie sensibile, praticando la off-camera: l’artista Man Ray vede nel rayograph una nuova forma d’arte,
ovvero la possibilità di sostituire il pennello e il colore con nuovi strumenti per una nuova arte. Stessa cosa si può dire
per Moholy-Nagy e per Christian Schad: nei confronti dell’immagine rimane privilegiato un discorso di tipo
essenzialmente linguistico, ovvero verso una dimensione concettuale come l’idea del fare automatico.

5. AUTORITRATTO IN FIGURA DI ANNEGATO: HIPPOLYTE BAYARD, 1840

Un uomo seminudo sta appoggiato a una parete, ha gli occhi chiusi e le braccia aperte: si chiama Hippolyte Bayard e
con questa immagine viene dichiarata pubblicamente la sua morte, da suicida, per annegamento volontario nella Senna.
Il corpo si trova alla Morhue di Parigi e si può pensare che sia stato fotografato da qualche responsabile della pubblica
sicurezza che deve documentare la morte violenta.

Il suo nome è noto in quanto, a metà Ottocento, sta lavorando attorno all’invenzione del procedimento fotografico: il 5
febbraio del 1839 sottopone le immagine positive dirette, su carta sensibilizzata con ioduro d’argento a un membro
dell’Istituto di Francia  le chiama IMAGES PHOYOGENEES
Il 20 maggio 1839 Arago verifica di persona i risultati ottenuti, ma senza approvazione poiché il politico vuole
sponsorizzare solo Daguerre ed evitare che nuove scoperte possano distogliere l’attenzione del mondo scientifico dal
dagherrotipo. Nel frattempo Bayard organizza una sua personale esibizione d’immagini, trenta fotografie tra nature
morte e architetture, la quale passa alla storia come la prima mostra pubblica di fotografia.
Lo stesso Bayard si mette poi a studiare l’ipotesi della traccia in negativo  si prepara un foglio di carta con il bromuro
di potassio, poi con il nitrato d’argento, si espone ancora umido, per qualche minuto nel fuoco di una camera oscura. Si
questa carta ritirata ed esaminata alla luce di una candela non si vede alcuna traccia dell’immagine che intanto p stata
impressa; per renderla apparente è sufficiente esporre la carta al vapore di mercurio e questa si colore subito in nero
ovunque la luce ha modificato il preparato.

Ma questo sfortunato pioniere della fotografia non viene ascoltato e in cambio riceve una sorta di compendio di seicento
franchi dal ministerno dell’Interno che deve funzionare come una ricompensa simbolica per ripagare il suo silenzio.
Bayard viene in pratica scaricato dal governo francese perché le sue ricerche non devono oscurare l’acquisto del
brevetto del dagherrotipo ma il denaro non è sufficiente a sanare l’offesa perché l’inventore il 18 ottobre del 1840
proprone un progetto fotografico: LA NOYE: una serie di tre scatti con leggere differenze tra loro e nelle quali Bayard
gioca a costruire riferimenti all’iconografia classica grazie alla presenza di oggetti, come un vaso e una statuetta e alla
posa accademica della morte. Sul retro dell’immagine un lungo testo, a metà strada fra una lettera d’addio scritta di suo
pugno e un resoconto dell’evento accaduto.
Inoltre l’artista ha recitato nella sua performance la parte di un annegato nella Senna, e fotografando se stesso come
morto suicida, ci offre la prima messa in scena della potenzialità della fotografia di dichiarare il falso e certificare
l’immaginario.
Inoltre fotografando la morte egli rende anche mirabilmente omaggio alla fotografia stessa: congelamento mortifiero del
reale, “micro-esperienza della morte”.

5.1 IL RECUPERO FOTOGRAFICO DEL CORPO

LA FOTOGRAFIA DI Bayard è un primo storico esempio di come la fotografia possa essere usata per dare consistenza
al sogno e all’immaginazione, una prova magistrale del potere di questo nuovo mezzo di recuperare il gesto e la
corporeità, dunque di offrire consistenza e progettualità alla dimensione performativa ed estetica dell’arte.
La fotografia appare lo strumento perfetto per negoziare le problematiche inerenti all’identità e per esaltare le
esperienze di prassi e di azione mondana, cioè nella partecipazione e nella commistione con i fenomeni in cui un corpo
agisce nel mondo. Infatti il corpo diviene oggetto privilegiato delle operazione artistiche, in un’ondata diffusa e ampia
che è culminata in una corrente chiamata BODY ART > I body artisti sono i protagonisti delle loro immagini e come
Bayard ostentano la loro pelle per raccontare chi sono, di cosa sono fatti e quali limiti ha la loro corporeità (tra essi
GINA PANE, GIUSEPPE PENONE, ARNULF RAINER), ma anche ci vorrebbero essere e quali mondi abitare (LUIGI
ONTANI).
La fotografia è il mezzo che ha permesso a quegli artisti di rendere pensabili le loro azioni e di dar loro consistenza e
realizzabilità: ha la capacità di mettere in scena la realtà e fornire a chi vi si trova di fronte un attestato di presenza e
credibilità.

6. IL GIOCOLIERE: EUGENE DISDERI, 1860 CIRCA

Il 22 novembre 1854 il francese ANDRE EUGENE DESIDERI brevetta un nuovo apparecchio fotografico in grado di
realizzare delle immagini di piccole dimensioni che vengono chiamate CARTES DE VISITE. La novità sta nel fatto che
la macchina di Disderi è dotata di più obiettivi ed è dunque in grado di scattare da quattro a otto immagini dello stesso
soggetto (identiche o consequenziali) riprese sulla stessa lastra. Da queste vengono tirate delle stampe positive che poi,
ritagliate e singolarmente incollate su cartoncini 6x10 cm, raggiungono le dimensioni degli odierni bigliettini da vista.
L’effettiva economicità delle piccole immagini fa compiere un balzo avanti alla fotografia verso i progressivo e
inarrestabile processo di diffusione democratica e popolare: una carte de visite che costa in media un quinto di un
ritratto fotografico di atelier e dunque è ovvio che dal 1854 in poi moltissimi uomini,donne, politici, attori e gente
comune si riversino in Boulevard des Italiens per farsi immortalare al modo di questo nuovo e curioso formato.
 La arte de visite segna un passo importante nella marcia verso la massificazione della fotografia: seppure
troppo piccole per avere una perfetta definizione e attenzioni ai dettagli, esse però sono perfette per essere
scambiate e spedite per ricordo, acquistate per essere collezionate, custodite in album di famiglia  si svincola
da una ricezione passiva modello del quadro ed entra nei meccanismi d’interazione e perfomativi tipici della
concettualità.
Nonostante questo gli storici della fotografia si sono il più delle volte fermati sugli aspetti più superficiali, leggendo
solo gli aspetti visivo-pittorici e ignorando totalmente la sua protoconcettualità.
Altro problema rilevante fu la sparita serietà dell’artista > Desideri racconta che personaggi entravano negli studi con
abiti carnevaleschi, oggetti che richiamavano ora personaggi storici ora mitologici: esempio rappresentativo è Madame
Ristori che, nutrendo una specie di mania per Maria Stuarda, chiedeva insistentemente a Disderi di farsi ritrarre nelle
pose tipiche e con gli oggetti feticcio del suo idolo: le mani giunte, i capelli sciolti, il crocifisso tra le mani.
Era dunque sparito l’autore, reso pleonastico dalla macchina: è così che una innovazione di tipo tecnologico fa scattare
in modo istintivo, negli animi del clienti di Disderi, un’esperienza estetica da esautoramento: grazie all’idea di ritrovarsi
da soli di fronte da una impassibile macchinario si può giocare con l’immaginazione e i travestimenti identitari.

6.1 L’AUTOMATISMO FOTOGRAFICO


Quando nel 1889 i soci Carquerot e Guillaumot brevettano un car photograpique, si sta compiendo un passo
determinante verso la completa automatizzazione del processo fotografico in quella che è la strada verso la
commercializzazione della moderna cabina fotografica
Gi dall’ultimo decennio dell’Ottocento dunque, se si ha qualche soldo in tasca, e si possiede il desiderio di avere la
traccia impressa del proprio volto senza passare da un atelier, si può quasi trovare soddisfazione. Seppur con difetti
ancora evidenti e carenze tecniche con questi prototipi si arriva alle soglie dell’autografia: termine che è capace di
suggerire l’idea che esiste un meccanismo in grado di riprodurre un’immagine fotografica da sé, senza il bisogno
dell’intervento di qualche operatore, senza l’ausilio dell’arte di un pittore o della tecnica di un fotografo (come
nell’interno dell’Enjalbert si compivano automaticamente tutte le fasi necessarie).
Un prototipo perfezionato e ormai automatizzato è quello di ANATOL MARCO JOSEPHO, che da New York nel 1924
presenta la sua Photomaton: da questo momento le cabine fototessera cominciano a viaggiare ai quattro angoli del
mondo sancendo definitivamente la possibilità che una macchina produca in autonomia la traccia visibile della nostra
identità.
Nel 1928 il pittore surrealista Rene Magritte non resiste all’invito di quell’antro misterioso da cui può uscire la
testimonianza di una e mille sue identità: in quei brevi scatti da vita alla prima performance in photomatonm, accertata e
autoriale, della storia della fotografia; l’artista sgrana gli occhi, apre spaventato la bocca come di fronte ad un disastro,
oppure sorride e finge di strozzare una Georgette complice dello scherzo.

7. THE TWO WAYS OF LIFE (OSCAR GUSTAV REJLANDER, 1857)

La nascita e la conseguente pratica della tecnica del fotomontaggio è, alla metà dell’Ottocento, uno degli esempi più
fulgidi e chiari del dibattito e della temperie culturale in cui la fotografia si trova a muovere i suoi primi passi.
Nel 1857 OSCAR GUSTAV REILANDER realizza il suo primo fotomontaggio e lo intitola THE TWO WAYS OF
LIFE: per recitare le parti della complicata scenografia Ideata nel suo progetto, Reijlander non si accontenta di anonimi
dilettanti, ma assolda una trupe teatrale che può assicuragli professionalità e consapevolezza nell’assunzione dei gesti e
delle posa che lui ha previsto. La costruzione finale della scena del fotomontaggio è chiaramente ispirata da alcuni
quadri storici come la Scuola di Atene di Raffaello e I romani della decadenza di Couture; il soggetto stesso infine,
l’terna lotta tra il bene ed il male e tra il vizio e la virtù è in linea con il gusto per la retorica e per i temi mitologici a
sfondo educativo e di ammonimento allora di grande moda nell’arte.
La fotografia viene accettata come strumento ausiliare alla realizzazione dell’opera d’arte: l’immagine fotografica non
può concorrere con l’opera d’arte poiché non detiene lo stesso statuto in fatto di originalità, difficoltà, virtuosismo ed
eccezionalità.
Tanti pittori fanno uso amplissimo e strumentale della fotografia come ancella della pittura (Delacroix, Corbet, Manet e
Monet), ma numerosi sono anche coloro che la detestano e dichiarano l’ignominia, come Ingres.
Allora è chiara la lettura del lavoro di fotomontaggio di Gustav, ovvero diventa un manifesto di quello che la critica
avrebbe poi chiamato il Pittorialismo storico ottocentesco. Quale risposta migliore poteva infatti venire dalla fotografia
se non la pratica del fotomontaggio per trovare una risposta a quel complesso psicologico che la pittura non faceva altro
che alimentare?
Ciò che colpisce più di ogni altra cosa, e al tempo stesso evidenzia quello che questa tecnica vuole essere, è la
manifestazione dello sforzo, lavoro e difficoltà che l’autore si impegna ad ottenere: la volontà di innalzare al livello
della pittura reintroducendo il ruolo e la capacità di un autore contro la freddezza di una macchina.
L’obiettivo è mostrare che il fotomontaggio, che Rejlander chiama photographic composition, può far sì che la
fotografia ottenga la dignità dell’arte tradizionalmente intesa in quanto capace di ostentare laboriosità, estro,
interpretazione creativa ed originalità, togliendo quell’aspetto di meccanicità, automaticità e impersonalità.

 Ecco perché il fotomontaggio è l’emblema del Pittorialismo ottocentesco

Inoltre ciò che si rimproverava alla fotografia è l’oscenità che il pubblico percepisce, caratteristica è decisiva nel
dibattito tra pittura e fotografia: la pittura da Salon ai quei tempi è affollata di nudi, soprattutto femminili ma in vesti
mitiche e allegoriche delle divinità e ninfe. Ma di fronte al fotomontaggio, nonostante la retorica chi guarda l’immagine
capisce di stare ad assistere a una realtà manipolata e fantastica, però credibile perché fotografica: dunque quei corpi
offendono perché sono corpi veri, quelle nudità imbarazzano perché sono nudità offerte realmente all’occhio di un
fotografo.
Se la pittura è interpretazione personale di un arista, la fotografia è scrittura automatica della luce, è realtà.

7.1 IL MODELLO QUADRO


Il grande poeta francese Charles Baudelaire viene citato ogni volta che si riflette sui rapporti fra fotografia e pittura
nell’Ottocento, essendo autore di un esemplare intervento critico scritto in occasione del Salon di Parigi del 1859,
durante il quale la famosa manifestazione espositiva d’arte accoglie una rassegna di lavori fotografici. Boudlaire espone
in modo chiaro e perentorio il suo pensiero sulle pretese della fotografia di poter essere considerata un’opera d’arte.
Nella sostanza il poeta sostiene che la fotografia ha il diritto di essere usata per sottrarre i templi e i monumenti alla
decadenza causata dal passaggio di tempo, per salvare le memorie collettive, ma che mai e poi mai potrà credere di
assurgere al surnaturel, alla dimensione del sogno e dell’immaginario,a quell’attività creatrice che può davvero
assicurare il raggiungimento dell’empireo dell’arte
I difetti che impediscono alla fotografia l’accesso alla giurisdizione artistica sono sostanzialmente la sua richiesta
minima di capacità manuali e abilità eccezionali da parte dell’autore, il suo essere un calco di realtà troppo aderente a
ciò che già abbiamo quotidianamente sotto gli occhi nella sua volgarità e banalità.
La fotografia può valere come ausilio ma non può pretendere altro: l’opinione di Charles Baudelaire è dunque assai
efficace nel ricostruire il punto di vista sulla percezione della fotografia.
I suoi promotori, quei fotografici che Baudelaire definisce i pittori mancati, non possono fare altro che dibattersi alla
ricerca di modi e di sperimentazioni che facciano della fotografia una imitazione del quadro. Ecco perchè è naturale che
nell’Ottocento nasca il Pittorialismo fotografico e perché si sprechino tentativi speudopittorici. Quando comincerà il
processo di emancipazione della fotografia rispetto al quadro? Quando cambierà la stessa idea di arte.

8. SPETTACOLO DI LANTERNA MAGICA (SMEETON TILLY,1881)

Se ci si è avvicinati all’invenzione della fotografia seguendo le tracce secolari d’inventori e scienziati che usavano la
camera oscura consultando le leggi ottiche formulate da astronomi e matematici, è pur vero che parallelamente alla
scienza anche l’occulto, la magia e l’inganno visivo erano parte dell’universo dei dispositivi ottici che anticipano
l’invenzione della fotografia e del cinema.
Di certo, nel clima culturale della seconda metà dell’Ottocento, un periodo che è stato la culla della filosofia positivista
e della fede nel primato assoluto della scienza come guida della storia e della civiltà, si annida anche l’attrazione
irresistibile per i fenomeni irrazionali della visione.
È per questo che tutti i dispositivi pre-cinema si collocano in un suggestivo bilico tra serietà scientifica e tentazione del
magico illusorio > in essi più che una scienza della realtà, la prospettiva si delinea come uno strumento per forgiare
allucinazioni, secondo l’idea di un potenziamento immaginario dell’impressione di realtà che della prospettiva rispettata
nella camera oscura passa alle sue discendenze tecnologiche.
Infatti ancora prima che Niepce, Deguerre e Talbot offrano al mondo la traccia eterna attentatrice di verità, la
fantasmagoria ETIENNE-GASPARD ROBERTSON va sicuramente ricordata come uno fra i più originali esperimenti
di quello che Max Milner ha efficacemente definito il meraviglioso scientifico: inaugurata nel 1798 al parigini Pavillon
de l’Echiquier, essa consisteva in uno spettacolo di immagini in movimento che si ingrandivano e rimpicciolivano,
provocando stupore e turbamento nel pubblico e riscuotendo un tale successo da imporre lo spostamento nel ben più
spettacolare ex convento dei cappuccini nei pressi di Place Vendome.
L’idea che si potessero raddoppiare il mondo, gli oggetti, i volti e l’identità rese questi spettacoli un’attrazione per le
nuove masse urbane, facendo leva proprio sulle macchine ottiche studiate dalla scienza e dunque ammantate dal velo
della serietà e della verità. Accanto alla nuova esperienza collettiva e di massa, la fruizione degli spettacoli ottici è
anche portatrice di un nuovo ruolo dello spettatore, sempre più attratto dalla vicinanza con il mondo e i suoi fenomeni,
ma al contemplo rapito dalla dimensione dell’extra-realtà.
Per quanto riguarda il passaggio rivoluzionario portato dalla traccia fotografica, una curiosa attestazione letteraria dello
sconfinamento tra scienza e magia si vede nel francese de la Roche che nel 1761 racconta di incredibili quadri solari
prodotti dalla fissazione miracolosa d’immagini prese dal vero: ritratti di personaggi storici formatosi grazie all’utilizzo
di una materia vischiosa spalmata su tele sviluppate in ambienti oscurati.
L’ossessione visiva che percorre tutto l’immaginario ottocentesco trova nell’invenzione del cinema il suo emblema.
In fine vediamo proprio come dall’idea che dagli apparecchi progettati dagli scienziati sia sempre possibile far scaturire
esperienze al limite della realtà si sono alimentati i filoni letterari e cinematografici della fantascienza. Il cinema stesso
nasce del resto dalla biforcazione del modello realistico-domentario dei fratelli Lumiere da un lato e di quello
fantastico-letterario di Gerogers Miles dall’altro.

8.1 LA FOTOGRAFIA SPIRITICA


L’idea che la fotografia potesse raddoppiare la realtà, con quella certificazione di verità scientifica che la sua natura
indicale la conduceva, andava a incrementare e potenziare qualitativamente l’eredità di suggestione immaginifica e
fantastica che la derivava dalle tradizioni sei-settecentesche dei dispositivi ottici della visione. Quello stesso mescolarsi
di scienza e di magia è proprio anche della fotografia poiché vi è la possibilità di ottenere immagini fissate e stabili con
le quali raccontare al mondo che ciò che si vede è vero.
Mentre dunque la fotografia prosegue la sua storia ottocentesca al braccio di scienziati e studiosi, parimenti da libero
sfogo a quanti desiderano percorrere le strade oscure della magia e dell’occulto. Tra di essi posto speciale è occupato
dalle ricerche del dottor Bourion, che dal 1868 ipotizza che le retine dei cadaveri registrano sulla superficie l’ultima
immagine passata davanti ai loro occhi prima della morte: Bouerion, che chiama optogrammi le immagini che ottiene
scattando una fotografia alle retine dei deceduti di morte violenta, è convinto che esse possano raccontare ciò che di cui
sono state testimoni. Naturalemnte tale idee vengono confutate ma ciò non toglie che creino molto scalpore, stimolando
altri a studiare la porpora retinica come una sorta di laboratorio fotografico.
Ma il capitolo più curioso di questo sfondamento verso il mondo dell’irrazionale è forse quello della cosidetta fotografia
dei fantasmi o spiritica: precisamente divisa fra Fotografia dei Fluidi, Fotografia degli Spiriti e Fotografia dei Medium,
l’applicazione del nuovo mezzo fotografico a questo incredibilmente ricco e originale settore dimostra il potere di
attestazione di realtà che fin dalla sua nascita la fotografia trova ad assumere.

9. LA CATTEDRALE DI ST.PAUL (1870)

Nel 1838 lo scienziato inglese Charles Wheatstone presenta alla Royal Society di Londra un apparecchio chiamato
stereoscopio che, fondandosi sul principio della visione nella normale fisiologia umana, permette di guardare dentro a
un visore disegni di oggetti e paesaggi con la percezione della profondità e della tridimensionalità. Qualche anno più
tardi, nel 1849, David Brewster perfeziona quel brevetto dotando l’apparecchio di lenti e rendendolo più agile e
maneggevole; ma soprattutto il dispositivo diventa una specie di binocolo in cui i disegni vengono sostituiti da due
immagini fotografiche che devono essere prese a una piccola distanza l’una dall’altra. Così, una volta inserite nello
stereoscopio, attivano lo stesso meccanismo della nostra visione umana e cioè fanno percepire le cose nelle tre
dimensioni e nella loro piena spazialità.
Tra il 1859 e il 1863 Oliver Wendell Holmes, un medico americano docente di Harward scrive tre articoli sulla
stereoscopia, conducendo il lettore lungo un viaggio molto esteso, in cui le barriere di spazio e di tempo sembrano
crollare di fronte alla forza d’immedesimazione e partecipazione concettuale che la visione stereoscopica facilita e
incrementa.
Holmes, omaggiando la fotografia della famosa definizione di specchio dotato di memoria, afferma che grazie a queste
visione si gode di un effetto intensificato in modo tale da produrre una realtà apparente che inganna i sensi con una
parvenza di verità.
Ma anche altri sono i riferimenti interessanti che Holmes apre alle riflessioni sulla filosofia del fotografico che tanti
studiosi perfezioneranno negli anni successivi. Principale è la sua affermazione “proprio i dettagli che un artista
trascurerebbe o riprodurrebbe con approssimazione vengono restituiti minuziosamente dalla fotografia, e per questo
l’illusione è totale” > frase nella quale l’individua tra l’altro la distanza tra il segno iconico, che procede per selezionare
a tratti discreti cioè scelti, e quello indicale (fotografia).
Ma Holmes è capace anche di suggerire l’idea che nell’epoca delle immagini tecnologiche l’originale non servirà più;
infine solleva anche il velo inquietante sui rapporti fra la fotografia e la morte.
Sono quindi una serie di articoli da rileggere, per la lungimiranza e anche per la visionarietà del loro autore: un
appassionato cultore d’immagini capace di coniare espressioni poetiche per descrivere il nuovo mondo moderno, in cui
si immagina che il cielo fosse un solo grande specchio concavo che riflettesse ogni azione umana e fotografasse tutto
ciò che accade sulla superficie della terra.

9.1 LA REALTA’ ARTIFICIALE


L’uso dello stereoscopio permette di ragionare sul rapporto tra fotografia e mezzi tecnologici di ultima generazione, in
relazione alla possibilità che questi offrono di dare vita a esperienze di realtà artificiale. Riniando necessariamente ad
altri scritti per gli approfondimenti di un tema così complesso e affascinante ci si limiterà solo ad accennare alle
conseguenze psicologiche e culturali che l’introduzione dei cosiddetti nuovi media ha portato nella fruizione di una
seconda realtà, nella quale è possibile vivere esperienze e situazioni con una forza di coinvolgimento sensoriale
paragonabile alla realtà di primo grado.
Integrando le fondamentali intuizioni sui meccanismi della cultura materiale di McLuhan, secondo le quali l’uso della
tecnologia modifica in profondità il nostro rapporto con il mondo influenzando i modi di relazione con la realtà, si può
aggiungere che quelle sviluppate dalla galassia digitale hanno portato alla costruzione di un vero e proprio universo
parallelo, nel quale le tecnologie non sono semplicemente protesi che potenziano le nostre facoltà naturali, ma riescono
ad animare ambienti intereattivi autonomi. Ciò che è particolarmente interessante è che questa dimensione di esperienze
artificiali creata dai nuovi media può essere posta in relazione con la fotografia ed il cinema che, in qualche modo, ne
hanno anticipato le condizioni.
La natura indicale del segno fotografico, il suo statuto di traccia della realtà, ha storicamente prodotto una riflessione
che ha guardato a questo mezzo come ad una straordinaria occasione per recuperare e mantenere la realtà fisica, i corpi,
i gesti e i comportamenti.
Rivista alla luce di queste considerazioni, l’esperienza del viaggio virtuale di Holmes, espressa al meglio dalla
stereoscopia ma in definitiva proprio di tutto il fotografico, emblematizza in maniera perfetta la capacità del mezzo di
porsi di fronte al quale comportarsi come se, privilegiando i valori concettuali rispetto a quelli formali che avevano
legato la fotografia alla tradizione del quadro.

10. ALBUM FOTOGRAFICO DEI DIGNITARI DI ROMSEY (XIX SECOLO)

È abbastanza ragionevole sostenere che l’impulso più forte all’abitudine a costruire o custodire le fotografie in un album
sia stato offerto dalla piccola grande rivoluzione del brevetto della carte de visite di Eugene Disderi. La sua
economicità, e dunque la sua immediata diffusione in un mercato che cominciava a potersi definire di massa, facilitò il
suo ingresso nelle casa dei borghesi di Parigi e in seguito del mondo. L’avverarsi dell’utopia, a lungo desiderata, di
avere un proprio ritratto “disegnato dalla luce” trova nel piccolo formato la reificazione più adatta ad incarnare le
stimolazioni affettive e psicologiche che un tale miracolo della tecnica era giunto a portare.
Con il ritratto fotografico che i primi uomini dell’Ottocento possono mettere in tasca, nel portafoglio,, si verifica
qualcosa che ha a che fare con i meccanismi dei culti religiosi: è l’idea di essere custodi di una reliquia, è l’evocazione
di una presenza in assenza, è l’emanazione di una traccia di un referente reale. > la foto dell’album di famiglia si
identifica come l’oggetto concettuale per eccellenza.
Allora è naturale che parlando di album di fotografia si evochino dimensioni che hanno poco a che far con lo stile,
tecnica ecc e si privilegiano discorsi sulla memoria, sul tempo e sul recupero della realtà. Infatti proprio come gki
antichi egizi praticavano la mummificazione per assicurare una seconda vita al defunto così l’uomo moderno ha a
disposizione la fotografia che può raccogliere l’eredità di tale delicato incarico per l’umanità intera.
Ecco allora il rapporto fra fotografia e memoria trova nell’album di famiglia la sua tradizione più esemplare e un vero
inno alla concettualità fotografica. Lo stesso Roland Barthes ha dedicato uno dei suoi scritti più famosi, LA camera
chiara, alla ricerca dell’immagine che per lui rappresenta una necessità psicologica: sottolinea il rapporto genetico della
fotografia con il tempo, con la memoria e con la morte, arrivando a definire l’essenza della fotografia, il suo noema, nel
tempo verbale dell’azione conclusa = è stato. la fotografia si definisce perciò come l’universo di ciò che è terminato,
morto, imbalsamato. Naturale perciò che essa diventi custode delle memorie personali e di famiglia, dal momento che
attribuiamo ai ritratti fotografici il potere di immobilizzazione e ri rievocazione delle identità del passato.
Le foto di album di famiglia è perciò l’esempio migliore di una pratica sociale collettiva che non può resistere
all’insopprimibile vocazione del ritratto fotografico a essere un attestato di presenza e una traccia di memoria.
Cosi come il tema del doppio è centrale nelle poetiche legate al fotografico, l’album di famiglia è anche una sorta di
sdoppiamento virtuale delle vite che li dentro vengono raccontate, un compendio per immagini di esistenze reali
recuperabili. Rimane però non modificato un pudore istintivo per certi tabù: non si fotografano le malattie, i
decadimenti fisici, la morte, fanno eccezioni artisti che fotografano il non fotografabile.

10.1COLLEZIONARE LA MEMORIA

Fra gli oggetti che più facilmente si collezionano durante il corso di una vita si sono sicuramente le fotografie. Sono
immagini che sempre più di rado vengono stampate e raccolte in contenitori appositi, e che invece vengono più
frequentemente archiviati in file e hard disk, ma che sempre sostanzialmente assolvono nella stessa antica necessità
psicologica si sopravvivenza alla morte e di personale costruzione identitaria.
Bisogna dire che il collezionismo è di per sé un universo affascinante e complesso, intessuto di ossessioni e follie, di
piccole manie e di grandi curiosità. La fotografia è la riproposta di quell’esperienza, di quell’avventura, di quel ricordo.
Anzi, il mondo è un grande album, un grande archivio lì pronto per essere aperto poco a poco depredando di brandelli di
visione che subito si rigenerano per i prossimi che la fotograferanno. Nel momento in cui la fotografia è infatti entrata a
far parte delle abitudini della gente, l’idea di poter prelevare pezzi di realtà e di mondo per poterli custodire, archiviare e
rileggere ogni volta che si desideri dar vita ad uno dei fenomeni. Fenomeno che l’evoluzione delle tecnologie digitali
non hanno fatto altro che intensificare e potenziare quasi al parossismo.
Ugualmente fenomeno sociale di massa quanto elitario di mercato, il collezionismo fotografico vanta una storia che
include gli stessi fotografi come grandi collezionisti di immagini anonime: ma soprattutto il collezionismo fotografico è
una splendida occasioni per teorizzare sulla stessa fotografia.
Come si è già ricordato, dal 1854 in poi la moda dei piccoli ritratti, veri antisegnani delle figurine da collezione, si
diffonde fino a diventare una vera e graziosa mania che colpisce la stessa regina Vittoria che era proprietaria di almeno
trenta album di cartes de visite.
Tra gli artisti che nel Novecento hanno recuperato questa affascinante idea della raccolta fotografica come ispirazione
di un singolo progetto c’è sicuramente Andy Wahrol, che nelle sue oltre seicento Time Capsules ha creato un immenso
archivio visivo omaggiando la forza esorcizzazione del tempo che produce la fotografia. Simile tributo al potere della
fotografia, nell’evoluzione mnemonica e nel recupero concettuale del passato, è stato realizzato da Christian Boltanski
in tutti i suoi lavori di Narrative Art
11. IL COLOSSO DI ABU SIMBEL O IL COLOSSO DI RAMSES (MAXIME DU CAMP, 1850)

L’impulso a mettersi in viaggio per fotografare i luoghi lontani ed esotici risale ai primissimi tempi della diffusione del
brevetto fotografico. Già nel novembre del 1839 due pittori parigini, Horance Vernet e Frederic Goupil-Fesquet,
s’incaricavano di fotografare i paesaggi mitici dell’immaginario collettivo occidentale, come Giza e il Cairo, giungendo
fino in Terra Santa. E’ invece grazie all’iniziativa dell’editore Noel-Marie Lerebours che parte la prima spedizione
organizzata di fotografi con l’incarico di riportare in patria una traccia visiva dei paesaggi di ogni nazione e continente
attraversati, territori inesplorati che la maggior parte dei contemporanei non ha mai visto né visitato. Così, tra il 1841 e
il 1844, escono due volumi di incisioni ricavate dai milleduecento dagherrotipi giunti a Parigi dai confini del mondo:
portano il titolo di Excursions Daguerriennes.
Dunque la prima fotografia storica di paesaggio è già fotografia di viaggio, a testimonianza credibili di spazi, geografie,
ambienti e mondi visualizzati concretamente dalla fotografia, ma fino a quel momento solo immaginati o giunti filtrati
da visioni personali e interpretazioni individuali in forma di scritti, disegni e pitture. Guardare fotografie di posti lontani
diventa come viaggiare mentalmente e un modo per esaltare la forza del fotografico di agire come una seconda realtà.
Viaggiare con la fotografia significa, dal 1839, vivere un’esperienza reale e virtuale assieme.
Del resto si deve sottolineare come la pratica fotografica sia già in se stessa una forma di rapporto con l’ambiente, un
modo per attivare delle dimensioni relazionali con il mondo che circonda l’uomo, un’operazione estetica intesa nel
senso dell’essere sensoriale.
Ancora oggi fotografare in viaggio è sia il modo per testimoniare dell’esperienza che si è fatta, sia una strategia per
entrare in contatto con un luogo sconosciuto.

 Detto questo si possono però individuare due tendenze principali nelle modalità che i primi fotografi di
paesaggio hanno utilizzato:
la prima: si sforza di evitare clichè ereditari della letteratura e della pittura, promuovendo un atteggiamento che esalta
l’idea dell’archiviazione del reale, obiettiva e fedele perché fotografica. L’altra invece è legata alla tradizione del genere
pittorico del paesaggio nelle componenti formali dell’immagine. In questi casi l’inquadratura scelta dai fotografi
ripropone gli schemi visivi della pittura, le simmetrie e gli equilibri compositivi.
In questo senso, posto che l’atto stesso del fotografare è un’espressione estetica, il dualismo che i primi fotografi hanno
già messo in luce tra una fotografia di viaggio e una fotografia di paesaggio è assai utile per esaltare ancora una volta la
duplice identità del fotografico, oscillante dialetticamente tra presentazione automatica del prelievo di realtà ed eredità
formali della tradizione pittorica.

Appartiene certamente alla fotografia di viaggio il lavoro di MAXIME DU CAMP che compie nel 1849 un viaggio in
Medio Oriente in compagnia di Gustave Flaubert. Dal loro viaggio Du Camp e Flaubert devono riportare in patria
immagini dei monumenti delle civiltà del passato, dei bassorilievi antichi e dei geroglifici egizi sui quali studiosi e
appassionati non aspettano altro che di posare lo sguardo come se fossero stati lì con loro.
Da questa mitica esperienza i due ricavano dei prodotti editoriali; ma ciò che interessa è che nel 1852 viene stampato un
libro fotografico dal titoolo EGYPTE, NUBIE, PALESTINE ET SYRIA, realizzato incollando direttamente sulle
pagine le centoventicinque immagini stampate.
E quindi il Colosso di Abu Simbel o quello di Ramses, i rilievi egizi, la Sfinge o le mura di Gerusalemme, sono
inquadrati in modo austero e rigoroso, quasi da manuale di architettura e seguendo il più possibile visione prospettiche
geometriche. L’occhio di Du Camp si fa tutt’uno con l’occhio della macchina: quello che ne ricava è un inventario
d’immagini che s’impegna il più possibile a essere filologico.

Perfetto contraltare del lavoro di Du Camp è quello dell’inglese Francis Frith che fra il 1856 e il 1860 fotografa i luoghi
che incontra con un gusto pittorico e un’attenzione alla composizione “modello quadro” che risultano l’esempio più
chiaro della modalità da fotografia di paesaggio prima descritta. La storia del successo di Frith dimostrano come i suoi
contemporanei avvertissero il bisogno di vedere confermati gli stereotipi di un mito collettivo: le culture antiche, un
mondo misterioso e affascinante, la magia del diverso e l’inquietudine delle terre straniere.
Ancora una volta la fotografia si dimostra adatta a incamminarsi su percorsi diversi ma ugualmente importanti: da un
lato è l’esercizio automatico di un mezzo tecnologico che ne plasma l’aspetto rendendolo un immenso schedario visivo
del reale. Dall’altro è la migliore prosecuzione di un ideale pittorico e letterario, che ha nella fantasia degli artisti e nella
trasfigurazione poetica del mondo il corrispettivo di un paesaggio dell’anima.

11.1. IL VIAGGIO FOTOGRAFICO


Riallacciandosi all’idea di fotografia di viaggio come di un’esperienza concettuale ed estetica, è interessante
sottolineare che per essere tale la fotografia debba vivere sicuramente nella dimensione del suo essere atto e azione,
piuttosto che del suo imitare una bella immagine da fruire a seguito di un atto contemplativo.
Nel suo scritto, intitolato appunto l’Atto fotografico, PHILIPPE DUBOIS scrive “la foto non è solamente l’immagine,
ma è anche qualcosa che non si può concepire al di fuori delle sue circostanze, al di fuori del gioco che l’anima compie
e prova”  lo stesso atto fotografico è una sorta di viaggio nella realtà del mondo.
E se la fotografia, come metafora di un viaggio nella realtà del mondo, potrebbe valere come elemento di macropoetica
di tantissime attività svolte, è pur vero che l’attrazione per una pratica fotografica intesa come dinamica necessaria a un
viaggiare per entrare nelle cose per percepirli, conoscerli e viverli, ha suscitato un particolare interesse con l’esplosione
delle attività performative degli anni Sessanta e Settanta del Novecento.
Sotto un’impronta fortemente esistenziale, le operazioni artistiche di quegli anni hanno assunto una matrice
dichiaratamente concettuale e la fotografia un’identità di strumento estetico ad esse indispensabile.
L’atto del fotografare diventa un requisito fondamentale per ogni possibile riscoperta sensoriale e mentale, per ogni
occasione che sia in grado di innescare l’esperienza dell’epifania, quella particolare condizione di riscoperta estetica
nella visione del mondo.  allora lo sguardo fotografico diviene un meccanismo di epifanizzazione delle cose, delle
esperienze e degli spazi; un’avventura di viaggio capace di attuare di nuovo un’estetizzazione del banale quotidiano.
Tra gli esempi interpretati di questa idea si possono citare esempi diversi, e tra i più interessanti vi sono i progetti di
Franco Vaccari intitolati 700 km di esposizione e Viaggio per un trattamento completo all’albergo diurno Cobianchi. 
in questo caso, una delle due tante esposizioni in tempo reale, un passaggio in un albergo diurno milanese diventa il
pretesto per una serie di operazioni semplici di cura e igiene del corpo. Un viaggio in uno spazio parallelo che, nel
momento in cui viene esaltata l’epifania del sé e l’oblio delle cose esterne, insieme tesse un elogio del tempo lungo,
della performance comportamentale e dell’attenzione all’insignificante.
Allo stesso modo, in un lavoro famoso di Douglas Hurbler dal titolo Veduta di Parigi, dodici foto poste una accanto
all’altra sono il rimando visivo a un’avventura psicofisica reale, le tracce visive di una passeggiata lungo strade
anonime della capitale francese. Quegli scatti sono stati fatti a un intervallo di tempo fissato in precedenza, a
prescindere che ciò si fosse trovato di fronte all’obiettivo si mostrasse poi realmente interessante e importante. Le foto
di Huebler non documentano luoghi in sé significanti. Segnano invece lo spazio temporale e lo spazio mentale,
recuperabile a partire da quella sequenza di segnali-tracce inseriti nel percorso.
12. LA CONTESSA DI CASTIGLIONE, VESTITA DA SUORA CARMELITANA, NEL
ROMITORIO DI PASSY (PIERRE-LOUIS PIERSON, 1863)

“le uguaglio per nascita, le supero in bellezza, le giudico con il mio spirito” di Contessa di Castiglione,
sarebbe difficile trovare una descrizione più appropriata di quella sopra citata, per poter descrivere la figura di Virginia
Oldoini Verasis.
Questa è la migliore definizione di sé, ed ha incarnato il culto della sua personalità ed immagine, coltivando con
devozione la religione del narcisismo.
Fin da bambina Virginia è blandita e corteggiata per i suo fascino ammaliatore, così nessuno si meraviglia quando il
cugino Camillo Conte di Cavour le chiede di recarsi a Parigi per una missione diplomatica: nel 1856 entra nella corte di
Parigini con lo scopo finale di incoraggiare l’intervento delle truppe francesi in senso antiaustriaco a fianco della causa
sabauda. Presto diventa l’amante favorita di Napoleone III.
Quasi contemporaneamente al suo arrivo a Parigi, la Contessa inizia a frequentare uno degli studi di ritrattistica
fotografica più rinomati della società, l’atelier di Mayer e Pierson. Entrata infatti a far parte del giro della mondanità più
elitaria di Parigi, la Contessa ne diventa la vera protagonista, la star indiscussa. Data la sua fama di essere l’italiana più
bella a Parigi, molti uomini perdono la testa per lei e diventano a turno i suoi amanti così. La Contessa sa che c’è
sempre un prezzo da pagare e diviene maestra nello scatenare i pettegolezzi, assumendo su di sé il ruolo di simbolo
vivente di trasgressione e anticonformismo, raccontando le cronache di come si divertisse alle feste a vestire in modi
eccentrici e provocanti, per essere sempre la diva, per non passare mai inosservata: come quando, per il ballo al
ministero degli Esteri, interpreta la Regina di cuori vestendo un abito d’urgenza semitrasparente trapuntato
maliziosamente di cuori o come un cigno o come regina d’Eutropia.
La Contessa insomma, finchè anche l’imperatore non si stancherà di lei scaricandola e confinandola in un’esistenza
solitaria e nevrotica, dominando lo spettacolo di Parigi, ne è il centro e ne controlla pienamente i meccanismi. Sa che il
culto di sé va continuamente alimentato, coltivato il narcisismo, esercitando l’esibizionismo. Ed ecco che la fotografia
entra in scena come lo strumento privilegiando per questa avventura a metà strada fra arte e vita.
La frequentazione dell’atelier di Pierson da parte della Contessa di Castiglione non è infatti casuale, ma legata alla
performance cui dava vita alle feste: eccola infatti presentarsi di fronte all’obiettivo fotografico di Pierson per recitare
quell’identità fittizia ma resa credibile, perché fotografica. Con il suo narcisismo estremo, un’immaginazione sfrenata,
la mise en scene di uno studio per ritrattistica e un otturatore meccanico.
E davvero bisogna ammettere che questa donna, innamorata allo sfinimento della propria immagine, ha usato la
fotografia attribuendole quel ruolo che pochi avevano fino a quel momento intuito in modi così potenti.
La Contessa si costruisce una vita parallela nella certificazione esterna della fotografia, dove ogni trasformazione e ogni
diversa identità, insieme al suo carisma e alla sua bellezza, rimarranno inchiodate per sempre e trasmesse contro il
tempo e contro la morte.
Tuttavia, e questo è un particolare molto affascinante, anche quando depressa e isolata si chiuderà al mondo e agli occhi
della gente, vivendo appartata e nascondendo il suo volto invecchiato e il corpo gonfiato, sarà pronta a rinunciare a tutto
ma non alla fotografia.
Per lei i suoi ritratti fotografici funzionano davvero come reliquie, feticci del suo corpo e della sua vita: le dona agli
amanti e le rivuole indietro quando l’amore finisce. Insieme alle fotografie, dona anche calchi in gesso dei suoi seni, del
suo volto, dei suoi piedi, tracce della sua identità.
Inoltre su molti dei negativi che sono stati conservati c’è traccia delle tante indicazioni che lei gli fornisce su come
tagliare, evidenziare o colorare dei particolari delle immagini, poi anche note con frasi suggestive in cui costruisce une
vera e propria sceneggiatura.
Dunque la Contessa non è solo colei che sceglie i travestimenti e le messe in scena che allestisce di fronte alla
fotografia, ma anche la responsabile di tutte le fasi successive all’ideazione: la recita, la stampa e la postproduzione.

12. L’OSSESSIONE DELLO SPECCHIO


La storia ottocentesca della Contessa di Castiglione è un esempio tra i più interessanti di esibizionismo narcisistico
ottenuto per il mezzo fotografico. L’azione di ostentazione e di ripetizione della propria immagine, di cui la nobildonna
è stata una grande pioniera, è stata anche al centro di alcune esperienze importanti dell’arte del Novecento, pure con
motivazioni e obiettivi anche molto diversi dal suo.
Tra gli artisti che hanno fatto della propria immagine l’oggetto più ricorrente della loro poetica è CLAUDE CAHUN,
LUIGI ONTANI, CINDY SHERMAN e YASUMASA MORIMURA.
L’esibizione del proprio corpo, che negli anni Settanta diventerà un leimotiv della Body Art, è certamente una costante
in Francesca Woodman. Ha lavorato quasi esclusivamente con l’autoscatto, realizzando immagini nelle quali il suo
corpo, che viene messo in scena in modo che il volto, la sede più ricca di informazioni per quanto riguarda il
riconoscimento visivo identitario, viene spesso trasfigurato, nascosto, sfuocato, reso cioè irriconoscibile. Da questo
punto di vista le sue foto sono delle antisegnaletiche, ovvero delle immagini nelle quali una delle principali vocazioni
della fotografia, quella appunto del riconoscimento, dell’archiviazione e della definizione identitaria, viene disattesa,
volutamente sconfessata.
Mentre per Cindy Scherman la fotografia è stata, alla fine degli anni Settanta, la possibilità di raccontare lo stereotipo
femminile, rigido e banale, vuoto e ripetitivo, celato nei panni delle donne ritratte nei film americani di serie B degli
anni Cinquanta e Sessanta.
Con alle spalle gli esempi di queste due grandi artiste, ecco la sfida paradossale che Woodam lancia tramite i suoi
autoritratti: la continua necessità di autoritrarsi e di specchiarsi nell’obbiettivo fotografico ha come scopo quello di
sfuggire a questa vocazione così naturale e primaria per la fotografia per attingere all’altro e complementare suo
universo parallelo.
Dunque per Woodam da un lato c’è sicuramente la fuga da un’identità stereotipata o determinata per sempre, in favore
di una disseminazione dell’io che moltiplica e annulla i confini troppo claustrofobici di ciò che siamo e saremo. Ma
dall’altro nel suo lavoro c’è anche il costante desiderio di diventare cosa unica con il mondo e l’ambiente circostante.
C’è nelle sue immagini un’ansia d’immersione panica nell’ambiente, e di mimesi con tutto ciò d’inanimato che la
circonda, da ricordare le splendide performance fotografiche che autoritraendosi in fotografia, il suo corpo liberalmente
nudo, in mezzo alla natura e al canto delle poesie di Walt Whitman.
Molti degli ambienti in cui si svolgono le perfomance della Woodman sono ambientati famigliari e domestici, anonimi
e senza connotazioni particolari. Le immagini dellla Woodman creano una sinfonia che ha il comun denominatore della
rievocazione mnemonica, del recupero del tempo perduto. Anche gli eventi che si svolgono nelle sue fotografie
raccontano piccoli gesti, di movimenti senza un senso particolare.
Ma questa normalità che l’artista usa come scenografia per le immagini è in realtà finalizzata di nuovo a creare
situazioni paradossali: che Freud battezza con il termine di perturbante > la dimensione del perturbante è la banalità del
quotidiano che all’improvviso può svelare il mistero, il dramme e l’incertezza.
È stato detto che le sue fotografie sembrano descrivere uno stato di dormiveglia, dunque una fase nella quale il confine
tra verità e finzione è slabbrato, impreciso.

13. RITRATTO DI CHARLES BAUDELAIRE (NADAR, 1855)

Nel 1841 l’americano Richard Beard apre a Londra il primo atelier di ritrattistica in Europa, e nel 1853 la città di New
York conta già ottantasei studi specializzati in ritratti fotografici. La dagherrotipia diventa presto una moda che alimenta
la produzione di un numero di ritratti che potevano andare dai trecento ai mille al giorno per singolo atelier. Ma ciò che
è più interessante è che i modi e i riferimenti usati dai fotografi durante le sessioni di posa sono gli stessi di quelli della
tradizione pittorica.
Nelle cronache del tempo i grandi ritrattisti vengono elogiati per la loro capacità di resa dei particolari, per la sapienza
nel cogliere la somiglianza con il soggetto, per un insieme di qualità che nel complesso si possono definire formali.
Maestro indiscusso della ritrattista ottocentesca, che pure può vantare un nutrito seguito di specialisti e appassionati
ovunque la fotografia si sia diffusa, è GASPARD-FELIX TOURNCHON in arte NADAR.
Da abile disegnatore e affermato caricaturista quale è, il francese Nadar capisce che il nuovo strumento fotografico ha
davanti a sé enormi distese di applicazioni da sperimentare, e soprattutto può assicurare il successo di attività
imprenditoriali ad esse legate. Nel 1853 decide così di aprire, nella parigina Rue Saint-Lazare, uno studio fotografico in
cui rimane fino al trasferimento nel più famoso Boulevard des Capucines n.35 > quella via diventa una tappa
obbligatoria per tutta l’elite desiderosa di farsi fare dal grande Nadar un ritratto fotografico di eccellente qualità.
Di fronte a Nadar posano Victor Hugo, Delacroix, Wagner, Manet, Boudlaire.
A Nadar vengono riconosciute un’indiscussa abilità a una raffinatezza eccezionale nel saper cogliere la psicologia dei
suoi soggetti. Ovvio che le sue fotografie costino più del normale e che per distinguere da quelle realizzate da altri egli
usa il suo pseudonimo o una sigla, una N svolazzante.
Recarsi presso lo studio Nadar di Boulevards des Capucines è un’esperienza complessa; si viene infatti accolti da un
notevole numero di collaboratori, ognuno dei quali ha ricevuto precise disposizioni in relazione alle fasi del lavoro
fotografico di cui è responsabile: la messa in posa, lo studio delle luci dei lucenari, la stampa e il ritocco.
Nei suoi lavori Nadar fa mettere in posa i clienti in modo che il volto sia per lo più di tre quarti e illuminato
lateralmente, davanti a sfondi neutri o minimalisti, con lo sguardo rivolto in macchina e con un’inquadratura in piano
americano (dalle ginocchia in su).
La sua fotografia eminentemente pittorialista e tutta concentrata sugli effetti formali di luce, composizione, taglio,
chiaroscuri; di certo Nadar è da annoverare tra colore che, in fotografia, hanno meglio di altri dato rilevanza al ruolo
dell’autore, alla preminenza dell’artista durante l’elaborazione dell’opera. I ritratti di Nadar hanno la capacità di
catturare l’aria dei soggetti proiettandoli in una dimensione che abbatte l’incedere del tempo e dell’oblio, consegandoli
alla memoria eterna.
Merita anche ricordare che egli è stato il primo a usare la luce artificiale per fotografare i cumoli di ossa e teschi nelle
fogne parigine, ma anche che è stato un pioniere nell’uso del pallone aerostatico per fotografare dall’alto la città di
Parigi e realizza anche la prima foto intervista della storia allo scienziato Eugene Chreveul.

13.1 LA COSTRUZIONE DELL’ICONA MEDIATICA


Ogni volta che Charles Baudelaire si reca presso il Boulevard des Capucines dall’amico Nadar, ma anche presso altri
importanti studi di ritrattistica del suo tempo: egli consapevolmente si sottopone a quello che lui stesso definisce un
procedimento straordinario e crudele.
Ossessivamente attento al modo di vestire, camminare, parlare e mangiare, Baudelaire è uno dei primi dandy, un total
black dandy, che disegna di se una sorta di manifesto della modernità ricco di elementi fotografici.
Adoratore del culto dell’artificialità e del feticismo, vero pioniere del sex appeal dell’inorganico che Walter Benjamin
avrebbe descritto decenni dopo, Baudelaire individua nella moda uno dei linguaggi specifici del moderno soggetto
urbano.
Da un certo punto in poi assume il colore nero, il colore del simbolo del lutto perpetuo, adatto ad un’epoca tragica,
come segno distintivo dell’etica della distanza, della freddezza, dell’impassibilità.
Eppure, nonostanta la freddezza che il dandy deve mostrare verso il mondo, e soprattutto nonostante la sua critica
sferzante verso la fotografia e i fotografi egli si pone impettito, serio, quasi allucinato, che si sottopone, in varie tappe
della sua esistenza, al meccanismo cinico dell’obiettivo fotografico.
Organizzando una vera performance nello studio di Nadar e degli altri ritrattisti ottocenteschi che frequenta, Charles
Baudelaire fissa la macchina con ostinazione e sfida, masochisticamente affronta lo choc dello scatto meccanico che
non concede deroghe; travestendosi en dandy si fa icona di massa.
Baudlaire sa che sta finendo il tempo e la morte, che facendosi cosa e oggetto sta consegnando il suo visuale testamento
dandystico all’eternità: nessuno dimenticherà più il sguardo.

14. LA MORTE DI RE ARTU’ (JULIA MARGARET CEMERON, 1875)

Per JUIA MARGARET CAMERON l’incontro con la fotografia avviene in modo abbastanza casuale. Dopo alcuni anni
trascorsi a Calcutta, la dove il marito può gestire le piantagioni di caffè che possiede a Ceylom, dal 1860 rientrata in
Inghilterra e si è stabilita, insieme alla famiglia ed insieme ai figli, nell’isola di Wigh. Il marito però continua a tare per
lunghi periodi in India e Julia comincia a soffrire di solitudine e depressione.
Un giorno una figlia decide di regalarle un grande apparecchio fotografico in legno, assieme a tutto il necessario per
allestire una camera oscura che prenderà il posto della carbonaia, mentre lo studio-atelier verrà ricavato negli spazi
adibiti a pollaio.
La fotografia cambia la vita a Julia Margaret Cameron, o meglio gliela cambia quello strumento che si dimostra capace
di inca lanare tutti i suoi desideri e le sue passioni rendendoli qualcosa di credibile e sperimentabile.
A partire da quello che chiama “il mio primo successo” e cioè il ritratto di una bambina di nome Annie Philpot scattato
nel 1864, la Cameron si dedica con ostinata intensità a fotografare giovani donne ritratte come muse o ninfe e uomini
illustri di cui è amica.
I suoi ritratti diventano subito motivi di discussione e anche d’ironia: la Cameron usa infatti degli effetti di fuori fuoco
molto spinti che vengono detti “effetti alla Rembrandt”, ma che qualcuno sostiene derivano della sua imperizia tecnica
o anche da presunti difetti alla vista.
In realtà il fuori fuoco è una scelta di poetica molto consapevole con la quale s’impegna a registrare “fedelmente la
grandezza dell’uomo interiore oltre i lineamenti dell’uomo esteriore” e che le permette di penetrare nella loro finestra
dell’anima.
Merita inoltre ricordare che è solita usare i tempi di posa lunghissimi ma anche la tempo stesso denuncia quella
particolare dimensione comportamentale e performativa instaurata con i propri soggetti. Oltre a ciò la Cameron si
dimostra anche in grado di intuire le potenzialità psicofisiche dell’apparecchio fotografico.
Ma occorre andare oltre alla ritrattistica per arrivare alle serie fotografiche che prendono spunto dai tableaux vivants,
rappresentazioni in costume che allora erano di grande moda e che lei stessa era solita allestire alla Bibbia, alla
letteratura cavalleresca, all’arte classica e medievale.
Allora s’indebita per affittare costumi e accessori, e nel 1874 comincia a lavorare alla trasposizione fotografica degli
Idilli del re di Tennyson, realizzando 245 negativi dai quali ottiene dodici immagini finali.
 Questo è allora il lato più affascinante del rapporto di Julia con la fotografia: usarla come uno strumento
d’innesco di un’attività performativa che, per la durata della posa, è capace di far scattare l’evasione della
realtà e la sperimentazione dell’immaginario
Non è dunque la capacità illustrativa, bensì la dolce e consapevole illusione che la fotografia le concede di giocare con
le sue passioni e con le sue fantasticherie, per ricreare un mondo che non esiste se non nella fantasia dei poeti, nei sogni
del pittore, nella magia degli artisti.
In particolare, per La Morte di re Artù Gernsheim parla d’immagini ridicola e patetica a causa del sovraffollamento dei
personaggi negli spazi angusti della Glass House, e per l’arteficio mal riuscito di nascondere le travi del soffitto con
degli effetti di luna. Questi giudizi dovevano dimostrare in modo inconfutabile che la fotografia non si può adattare alle
dimensione dell’irrealtà e dell’immaginario.
È naturale che se il punto di vista sulla Cameron privilegia la preminenza di valori formali e compositivi delle singole
immagini, allora esse saranno destinate al fallimento. Ma se si sposta l’analisi dalle immagini alla performance
fotografica, a quelle ore di preparazione, allestimento, messa in posa, sguardi e pensieri fino al brivido dello scatto che
avrebbe fermato le emozioni cristallizzandole fuori dal tempo, allora le sue evasioni appaiono uno splendido esempio di
pratica fotografica concettuale, capace di riscattare il kitsch della finzione con la verità della fotografia.

14.1 L’IMMAGINARIO FOTOGRAFICO


Nata anzitutto come prodotto della tecnica e dell’ingegno la fotografia dell’Ottocento è primariamente il brevetto con il
quale l’uomo moderno conquista la conoscenza del mondo e cioè la capacità di poter leggere, documentare, studiare e
archiviare la realtà.
A fianco di questa originaria funzione dello strumento fotografico, ben presto si sviluppa la competizione con il quadro
all’interno della giurisdizione dell’arte: si diffonde, come si è visto parlando del Pittorialismo, un atteggiamento che
predispone all’imitazione e alla rincorsa dei modi, degli stili, delle idee e dell’identità della pittura dell’Ottocento.
Ma c’è un territorio, quello della fotografia che accede alle dimensioni del sogno e dell’immaginazione, che
inizialmente è delegato a casi estremi, a strane avventure, a personaggi borderline.
Ciò che meraviglia è che ancora nel Novecento, come si è visto parlando della Cameron, il sogno e l’irrealtà siano
considerati da grandi studiosi come scelte ingenue e fallimentari se inseguite tramite il mezzo fotografico.
Quello che Max Milner chiama infatti il meraviglioso scientifico è la citata natura ambigua della fotografia, che
permette di dare consistenza di varietà a ciò che non ne ha, spingendo a chi guarda l’immagine a un viaggio con la
fantasia, laddove portano le suggestioni e le sollecitazioni concettuali, come sperimenterà l’evasione e la fuga nel
fantastico Body Art.

15. DUE DONNE NUDE (1850)


Ai pari di quella tra fotografia di viaggio e fotografia di paesaggio, anche nella biforcazione che si può individuare fra
fotografia di nudo e fotografa pornografica si ritrova il dualismo di fondo dell’identità della fotografia tutta: quello tra
un’immagine realizzata su presupposti formali e compositivi adeguati all’idea di quadro e quello in cui emerge invece la
sua forza di prelievo e traccia di realtà.
Durante l’Ottocento, seppure è il modello quadro ciò a cui la fotografia deve necessariamente ancora aspirare, queste
due spinte sono già entrambe in campo. Certo, come si è visto, i casi che si liberano dalla dipendenza dai canoni artistici
tradizionali sono pochi e definibili come borderline rispetto alla gran parte della produzione fotografica ottocentesca.
Il nudi è una categoria classica della tradizione pittorica. Così i fotografi ottocenteschi si dedicano a wuesto genere
applicando fedelmente le regole e gli stilemi dei quadri di nudo che regolarmente affollano le pareti dei Salon parigini.
Una tipologia fotografica, come quella del dagherrotipo, si mostra assai predisposta a ospitare nudi fotografici. Su
quelle piccole e preziose superfici metalliche vengono infatti ritratte modelle di atelier che, nude o seminude, sdraiate su
morbidi divani e circondate di tende, velluti e broccati, si offrono all’occhio del fotografo, e poi del fruitore-voyeur,
ricreando un’atmosfera tipica dell’harem o del boudoir.
È evidente che nella testa e negli occhi dei fotografi c’è una lunga tradizione di nudo accademico, d’ispirazione
classica, mitologica o letteraria, recentemente rinsaldata dalla moda orientalista che trova allora i suoi più famosi
interpreti in grandi artisti come Delacroix e Ingres.
Da sempre il nudo dell’arte, collocato in un’ambientazione lontana dalla quotidianità, immette l’elemento erotico
rendendolo meno provocante perché appunto distante nello spazio e nel tempo. Allo stesso modo, finchè le figure
femminili della fotografia ottocentesca vengono trasfigurate sotto le spoglie delle ninfe, divinità o concubine, esse si
adeguano ai codici vigenti di moralità e di decoro e proiettando la sensualità in un mondo altro, ottengono il
lasciapassare sociale.
In particolare, nella seconda metà dell’Ottocento, alcuni laboratori e atelier di fotografia si specializzano nel genere del
nudo, e ci sono fotografi di nudo che danno vita a solide e durature collaborazioni con famosi pittori contemporanei cui
forniscono immagini fotografiche a partire dalle quali poter realizzare le loro tele.
In questi casi la propedeuticità assicura alla fotografia l’ammissione all’arte, anche se attraverso il vero e unico canale
d’accesso che è e rimane quello della pittura.
Le fotografie di nudo hanno infatti l’obbligo di possedere l’etichetta d’apres nature, perché in questo modo si assicura il
fatto che sono studi anatomici d’accademia il cui fine è funzionale alla realizzazione di quadri.
Ma se da un lato la fotografia di nudo insegue la pittura, e come tale viene considerata artistica e tolleranta, dall’altro
lato scatta subito e inevitabilmente un meccanismo inarrestabile, in cui il confine tra nudo e pornografia si fa sempre più
labile. Ed è qui che per una certa produzione d’immagini utilizzare l’etichetta moralistica di un nudo diviene assai
caricaturale, mentre diventa finalmente chiaro che si tratta di corpo nudo fotografato a scopi voyeuristici. Accanto a
tutto questo c’è una fitta produzione di immagini fotografiche dichiaratamente pornografica.
La diffusione di fotografie pornografiche è immediata, ma non è poi così semplice farle circolare perché, come è noto,
le giovani modelle che si prestano a posare nude nei retrobottega dei fotografi rischiano di essere arrestate se
riconosciute come protagoniste di foto compromettenti.

15.1 IL BORDELLO SENZA MURI


Se nel Novecento alcuni autori famosi hanno amato aggirarsi nelle stanze delle case chiuse, nei locali equivoci, nelle
strade della prostituzione e nei peep show; è pur vero che già nell’Ottocento la fotografia diviene uno strumento molto
utilizzato nei bordelli di mezzo mondo che divengono così, secondo l’efficace espressione usata da McLuhan dei
bordelli senza muri.
Ma le prostitute, che volentieri arrotondano lo stipendio facendosi ritrarre in pose provocanti dai fotografi specialisti del
genere, ben presto s’impratichiscono esse stesse di tecnica fotografica e diventano fotografe pornografe in proprio.
Ad esempio la torinese Marta detta La Spagnola: ma il caso più curioso rimane senz’altro quello dell’Atelier dei
Quattro Pontefici che, a quanto racconta Gilardi, viene aperto nel 1850 da un cero Martino Sauvedieu, italianizzatosi in
Martino Diotallevi dopo essersi registrato come fotografo nel quartiere di Santa Maria in Trastevere a Roma. In realtà
nell’atelier vi è presente anche la moglie Carolina, Antonio e la rispettiva moglie Costanza, anche lei provetta fotografa.
Il bizzarro quartetto si specializza in immagini oscene in cui sono coinvolti personaggi famosi: grazie all’uso dei
fotomontaggi dall’atelier escono immagini in cui tanti Garibaldi, Cavour, diversi papi e regnanti, tra i quali appunto la
regina Maria Sofia di Barone, sono immortalati in atti e pose pornografiche.
A proposito di fotografia pornografica ottocentesca, un cenno merita anche la vicenda legata alla figura del francese
Eugene Vidocq, en ex delinquente che ottiene la libertà del carcere mettendosi a collaborare con la giustizia. Essendo
un profondo conoscitore della malavita parigina, egli può usare e organizzare tutto l’archivio fotografico con cui si
costruiscono le schede dei criminali: egli raccoglie 100 000 mila immagini riguardanti crimini sessuali e atti di
prostituzione.
16. L’INTERNO DELLA GALERIA VITTORIO EMANUELE A MILANO (FRATELLI
ALINARI, 1915-20)

Quando nel 1852 Leopoldo, Giuseppe e Romualdo aprono nella città di Firenze un laboratorio fotografico, i tre fratelli
Alinari danno avvio a un’eccezionale storia di imprenditoria culturale italiana.
La crescente richiesta d’immagine di monumenti da parte dei turisti stranieri, di guide delle città e soprattutto
riproduzioni di opere d’arte, fa intuire un grande mercato in espansione. Così, inizialmente anche col marchio Casa
Bardi, la Ditta Fratelli Alinari si specializza nella catalogazione delle bellezze architettoniche e artistiche del territorio
italiano che è ancora a un passo della storia della sua tanto attesa unificazione. Anzi proprio l’attività di riconoscimento
e mappatura che gli Alinari s’impeganano a realizzare diventa certamente uno strumento di ricerca di identità nazionale.
Il primo catalogo Alinari esce nel 1855 ed è costituito da un solo foglio contenente vedute e pitture della Toscana,
mentre l’anno successivo viene pubblicato un album fotografico dal titolo Ohotographies de la Toscane et des Etats
Romains.  Gli Alinari sono sempre alla ricerca di nuovi metodi e di sperimentazioni innovative, ma sono anche abili
nel costruire una rete di rapporti e di relazioni con le istituzioni museali, i centri culturali e gli altri pionieri della
fotografia.
A Firenze il dibattito sulla cultura fotografica è vivo e alimentato anche, naturalmente, dagli Alinari. In particolare è
Vittorio che cura gli aspetti più intellettuali della gestione e che in pratica dal 1890 rimane il punto di riferimento della
Ditta. Egli diviene faro dell’imprenditoria culturale nazionale, Vittorio Alinari organizza concorsi, collabora con critici
d’arte, intensifica le campagne fotografiche e progetta edizioni legate ai maggiori capolavori della letteratura nazionale:
prima un Decamerone di Boccaccio e Divina Commedia di Dante.
Ma nel frattempo un nuovo lutto, quello per il figlio, annienta l’energia di Vittorio che decide, nel 1920, di cedere la
Casa Alinari a una società anonima, la Iaea (Fratelli Alinari istituto di edizioni artistiche).
Nel frattempo l’obiettivo fotografico di tutti i collaboratori del gruppo Alinari si è posato laddove ci fossero un quadro,
un’opera d’arte, una bellezza architettonica, ma anche su ogni paesino e contrada italiana, chiesa e monumento insigne.
Lo stile persegue un modello di grande precisione e di attenzione massima ai dettagli, che il più possibile esclude
dall’inquadratura ogni elemento accessorio che possa distrarre l’attenzione dell’oggetto centrale messo a fuoco e
comunque secondo rigorose prospettive geometriche. Prediligono la luce diffusa, la distanza fissa che aiutano a
conferire al soggetto un aspetto monumentale e storico.
Eredi di una cultura liberale borghese, gli Alinari interpretano alla perfezione lo spirito di fiducia nella scienza e nella
tecnica tipico del clima positivista ottocentesco, coinvolti come sono di poter immagazzinare e comunicare in modo
obiettivo ciò che vedono a milioni di occhi sconosciuti in tutto il mondo.

16.1 SCHEDARI FOTOGRAFICI

Nel 1975 l’International Museum of Photography di Rochester inaugura una storica mostra curata da William Jenkins:
tra i nuovi topografi figurano alcuni nomi destinati a divenire celebri negli anni a seguire, come i coniugi Bernd e Hilla
Becher, Leis Baltz, Robert Adams e Stephen Shore.
La topografia dei nuovi topografi propone un tipo di sguardo sull’ambiente e il paesaggio circostanti lontano da
tentazioni epiche e nostalgiche, e piuttosto disincantato nei confronti di uno spazio modificato e segnato della storia
umana (l’antecendente è Edward Ruscha che ha fotografato le stazioni di servizio incontrate durante un lungo viaggio
americano con uno stile neutro, freddo, impersonale e meccanico).
Così, sebbene paradossalmente la fotografia dei fratelli Alinari fosse nata per esaltare la bellezza e la magnificenza
dell’architettura e dell’arte, e quella invece dei nuovi topografi per individuare le tracce dell’uomo in un paesaggio
contemporaneo spesso squallido, desolante e di degrado zero, similmente lo stile adottato anche da quest’ultimi è quello
documentario, più da antropologi e scienziati che da artisti.
In realtà, si deve ricordare che il riferimento a uno stile documentario in fotografia è in genere primariamente riferito
alla grande stagione della Farm Security Administration, la missione fotografica di alcuni come Walker Evans, Lange,
Ben Shahn e Arthur Rothseìtein compiono negli anni Trenta sotto l’egida di Roy Stryker per il New Deal di Roosvelt.
Nelle immagini dei new topographers diventano protagonisti i motel, i supermercati, ma anche i bidoni dei rifiuti lungo
le strade e gli anonimi grovigli dei pali del telefono.
Un caso particolare è rappresentato senza dubbio dai coniugi Becher: con le loro serie di fotografie dedicate a oggetti
architettonici prelevati dal contesto in modo distaccato, pulito e minimalista, hanno impostato e affermato un modo di
guardare al paesaggio oggettivo e seriale, veramente antiautoriale e debitore di quello aurorale operazione linguistica
inaugurata all’inizio del secolo della ritrattistica di August Sander.

17. RITRATTO DI ALICE LIDDELL (LEWIS CARROLL, 1863)

Charles Lutwidge Dogson, meglio noto con lo pseudonimo di Lewis Carroll, ha definito la fotografia “la nuoca
meraviglia del mondo”.
Lewis Carroll conosce la tecnica fotografica nel 1856 mentre si trova in un collegio dello Yorkshire, quando uno zio gli
regala un apparecchio fotografico e poi tutto il necessario per allestire una camera oscura. Da quel momento e fino al
1880 egli scatta quasi tremila immagini.
La sua produzione rimane però praticamente sconosciuta fino a che lo storico Helmut Gernsheim non ritrova i suoi
scatti e li pubblica assieme a un diario in Lewis Carroll Photographer: la passione che Carroll aveva nutrito per questo
nuovo strumento della scienza e della tecnica diventa a questo punto nota al pubblico ma la particolarità della sua
produzione spiega il lungo oscuramento che ha ricevuto insieme alla censura esercitata su di essa da parte degli eredi
che ne hanno distrutto una buona parte.
Accanto all’attività di ritrattista che svolgeva nei confronti di varie personalità della sua cerchia di frequentazioni
sociali, i soggetti più ricercati, più amati, più consueti dell’obiettivo di Lewis Carroll sono infatti delle bambine, nella
maggior parte dei casi figlie di colleghi o di conoscenti di Oxford.
Il periodo più intenso e fervido della sua attività fotografica si colloca tra il 1863 e 1864, quando Carroll concepisce
anche il suo capolavoro letterario: Alice nel paese delle meraviglie > in questo fiabesco parco dei divertimenti, fatto
apposta per coivolgere e stupire le bambine, Carroll allestisce dei tableaux vivants al modo della collega Julia Margaret
Cameron, con la quale condivide infatti anche la passione per il teatro.

 La performance fotografica mescola la realtà al sogno, ma soprattutto deve funzionare da innesco per la
sublimazione delle sue pulsioni erotiche e voyeuristiche

Ad ALICE LIDDELL, quella Alice nel paese delle meraviglie, figlia del decano del college di Christ Church, dedica la
sua opera più importante e, nell’ultima pagina del manoscritto, incolla il ritratto fotografico che le ha scattato come
suggello simbolico.
La meraviglia, si diceva, oltre che in Alice sta per lui anche nella fotografia, e la ragione di tanta riconoscenza è in ciò
che essa gli permette di sperimentare concettualmente: quello strumento meccanico, freddo, automatico, è per Lewis
Carroll una protesi speciale grazie alla quale può, virtualmente, scrutare, toccare e infine possedere le bambine che
posano per lui. Per lo scrittore inglese l’obiettivo fotografico è un modo lecito, il solo possibile, di invadere il territorio
sacro dell’infanzia. Grazia alla fotografia, la cattura dell’immagine poteva surrogare il possesso.
Nelle pose fotografiche le bimbe di Carroll assumono indubbiamente un aspetto malizioso e demoniaco, dovuto
probabilmente alla consapevolezza di esibirsi a uno sguardo adulto, ma ciò non è sufficiente a spiegare la morbosità di
quelle immagini.
In più è ossessionato da un tabù per eccellenza, l’erotismo infantile e adolescenziale, e di conseguenza non si fa sfuggire
l’esperienza sublimata che può, con lo strumento fotografico tra le mani, vivere in differita.

17.1 LA PULSIONE VOYEURISTICA

La splendida definizione dell’uomo dell’era fotografica che offre Baudelaire “migliaia di occhi avidi si chinavano sui
fori dello stereoscopio come sui lucernari dell’infinito” descrive perfettamente l’ossessione del voyeur contemporaneo.
Nel momento in cui Daguerre ha insegnato agli esseri umani a guardare attraverso un foto e a scoprirci dentro il mondo
dell’immagine, in quello stesso momento l’insaziabilità visiva, l’avidità dello sguardo, è diventata anche uno stato
permanente della loro condizione di abitanti di questo pianeta. Anzi, la definizione di voyeur, cioè di colui che trova
appagamento nell’impadronirsi visive che riguardano a vita degli altri, è assolutamente sovrapponibile a quella del
fotografo.
Il voyeuristico fotografico si esplicita naturalmente nel guardare un’immagine che è un feticcio, una traccia di realtà,
che è tanto più eccitante quanto meno è legata a formalismi e composizioni: si esplica quindi più in un’esperienza e in
una pratica estetica che nella sua fruizione dell’oggetto finale. In questo senso è facile condividere l’idea che tutti i
fotografi sono dei voyeur, a prescindere da ciò che stanno fotografando
Il principio del voyeurismo fotografico è infatti legato anche nelle dinamiche del gossip e del fenomeno del divismo, nei
confronti del quale la definizione “ l’età della fotografia corrisponde precisamente all’irruzione del privato nel pubblico,
o piuttosto alla creazione di un nuovo valore sociale” è molto appropriato.
La nuova era del narcisismo e dell’esibizionismo esasperati, del tutto fuori e del tutto in superficie, è un universo
globale visivo costituito da un infinito mare d’immagini che la rete digitale ha amplificato a dismisura.
Tra i nomi più noti di fotografi vi sono BRASSAI, WEEGEE e SALOMON.
Weegee è un grande reporter di nera, anche lui legato indissolubilmente all’immagine di una città: la New York degli
anni Trenta e Quaranta che racconta con la sua Speed Graphic immortalando un piccolo universo di tragedia, omicidi e
povertà
Mentre Salomon è “il re degli indiscreti”, che muore con moglie e figlio nelle camere a gas di Auschwitz, ma anche
prima di allora fa un tempo a cogliere i suoi Contemporanei celebri in momenti inattesi: normalizzando la banalità del
quotidiano, Salomon ha abbattuto le barriere del privato, mostrando ciò che si considerava non fotografabile, rubando
alle ignare vittime l’immagine candida della loro parvenza sociale.
18. AUTORITRATTO DI ALPHONSE BERTILLON IN UNA FOTO SEGNALETICA DI
PROVA (ALPHONSE BERTILLON, 1912)

Il 7 gennaio 1839 Arago presenta al mondo la scoperta della fotografia, nel pieno del clima positivista ottocentesca. Con
la sua ortodossia fiducia nella scienza come faro della storia e della civiltà, la fotografia trova finalmente in Daguerre e
Talbot i suoi padri inventori, che individuano gli spazi per presentarla nel mondo della scienza e della tecnica. Così
come si è detto, il brevetto fotografico è anzitutto visto come uno strumento al servizio della conoscenza del mondo e in
quanto tale fondamentale per nuovi traguardi scientifici, sociologici e antropologici.
Ma negli stessi anni in cui la fotografia muove i primi passi, un’altra storia sta invece arrivando a compimento: quella
di una disciplina nata col nome di fisiognomica.
Dalla storia degli animali di Aristotele fino a un presunto Tratta di fisiognomica di Leonardo, molti studiosi e scienziati
si sono applicati allo studio delle corrispondenze tra le linee del volto e le inclinazioni psicologiche e caratteriali di un
soggetto. E di conseguenza la nuova nascita della fotografia propone quest’ultima come strumento perfetto per
realizzazione d’immagini fedeli al vero, meccaniche ed automatiche, utilissime per studiare il reale.
La fotografia affronta nell’Ottocento uno dei suoi capitoli più affascinanti: quello della schedatura scientifica
manicomiale, di quella criminale e di quella antropologica-etnologica.
 Nel 1851 data l’installazione del primo laboratorio fotografico in un’istituzione manicomiale a Londra
 Nell’Ospedale della Salpetriere, a Parigi, vengono fatte performare delle isteriche. E comprendendo quale
forza ha il nuovo mezzo fotografico per la diagnosi, la cura e lo strumento delle malattie mentali, Charcot crea
alla Salpetriere uno dei laboratori fotografici più famosi dell’Ottocento, dalle cui monumentali produzione
viene edito, un piccolo atlante illustrato sull’inconscio.
 Anche in Italia fornisce il suo contributo a questo sforzo di descrizione della malattia mentale e nel 1878 il
direttore Augusto Tamburini introduce l’uso del ritratto fotografico per schedare gli ospiti.
Nella fotografia che deve completare la scheda nostalgica dei malati mentali si predilige uno sguardo frontale ed
asettico, uno sfondo neutro, un’impassibilità da cui non si possono trapelare sentimenti e distrazioni. Si deve
comunicare, con un linguaggio di grado zero, che si tratta di scienza e non di arte.

Le stesse identiche neutralità e freddezza vengono adottate nella schedatura poliziesca che ha nel francese Alphonse
Bertillon il suo principale ideatore. Dal 1822 il servizio d’identità giudiziaria della polizia di Parigi mette a punto un
sistema globale di classificazione criminale: è il cosiddetto bertillonage.  il bertillonage è costituito da un cartellino
segnaletico dove ogni sospetto o accertato delinquente può ritrovare la sua fotografia di fronte e di profilo, l’indicazione
dei suoi segni particolari e infime le misure derivanti dal suo rilevamento antropometrico. Questo sistema permette ai
sistemi sociali di creare un immenso archivio visivo della delinquenza, ma anche di organizzare un sistema di studio, di
chiara derivazione fisiognomica, che deve riconoscere se ci sono continuità visivamente rilevanti e somiglianze
ricorrenti tra varie famiglie delinquenziali.
A partire da queste osservazioni vengono creati dei pannelli detti ritratti parlanti, che devono appunto dimostrare se una
certa inclinazione, per esempio all’omicidio, è ricorrente in soggetti con determinate caratteristiche fisiche o con uguali
misure e distanze antropometriche tra occhi, naso e orecchie.
ma su tali terreni di chiaro influsso positivista-deterministico, e con l’eredità di una formazione da studioso di
fisiognomica.
In Italia aveva già dato il suo contributo Cesare Lombroso che riconosce alla fotografia un ruolo primario nello studio e
nella classificazione delle diversità umane, arrivando a costruire uno dei più affascinanti archivi fotografici
ottocenteschi.
Da un’idea di Cesare Lombroso, nel 1878 nasce in Italia la prima polizia scientifica: la realizzano il suo assistente
Salvatore Ottolenghi e il commissario Umberto Ellero > il nome di quest’ultimo è legato alle Gemelle Ellero e cioè un
apparecchio in grado di far scattare due apparecchi fotografici in sincrono, posti a 90°, in modo da ottenere
contemporaneamente le due foto fronte e profilo da inserire nella schedatura.
L’ultimo capitolo della schedatura scientifica ottocentesca riguarda la campagna fotografica che le potenze coloniali, la
Gran Bretagna prima di tutte, mettono in campo per conoscere, ma anche separare e umiliare, gli abitanti indigeni delle
popolazioni assoggettate. Con uno schema assolutamente omologo a quello delinquenziale, e cioè con foto di fronte e di
profilo unite a misure antropometriche, la Corona britannica ottiene da Thomas Henry Huxley, l’organizzazione di un
fondo fotografico dei nuovi sudditi.

18.1 ARCHIVIARE IL VOLTO DEL MONDO

Il capitolo della fotografia schedativa manicomiale, criminologica e etnologica lascia all’arte del Novecento un
patrimonio suggestivo ma anche estremamente delicato da rivisitare. Non è un caso forse che, tra gli artisti che hanno
utilizzato l’idea dell’identikit poliziesco, si trovino due giganti, ovvero MARCEL DUCHAMP e ANDY WARHOL.
In wanted $2000 Reward il dadaista francese utilizza una sua stessa foto di fronte e di profilo per dare corpo e identità
fotografica a uno dei tanti e fantomatici alter ego dell’imprendibile Rrose Selavy.
In Thirteen Most Wanted men Warhol recupera l’idea duchampiana della foto antiartistica per eccellenza, e cioè
dell’identikit poliziesco, ma lo fa con pieno omaggio alla pratica del ready-made di cui il francese è stato inventore:
nell’installazione al padiglione dello Stato di New Warhol attacca alle pareti degli ingrandimenti di vere foto
segnaletiche realizzate dalla polizia americana, col risultato di essere immediatamente obbligato a rimuoverle.
Ma, al di là della stimolazione citazione cui due autori così geniali non potevano sottrarsi, si deve sottolineare come le
grande eredità che passa, transitando dalla dimensione del pratico a quello dell’estetico, dalla schedatura dell’umanità
fatta da medici, criminologi e potenze coloniali del xix secolo all’arte del Novecento sia quella determinante filosofia
del fotografico che esalta l’automatismo del mezzo, la sua distanza della definizione dell’artistico ottocentesca, la sua
capacità di straniamento e di congelamento impassibile del reale.
Altri due giganti si fanno protagonisti della scena e si tratta di AUGUST SANDER e dell’americano DIANE ARBUS.
Esaltando un fare automatico e impersonale, nel 1909 Sander comincia a coltivare l’idea di realizzazione una raccolta
fotografica di uomini e donne tedeschi di ogni classe e censo, che pubblicherà nel volume Volti del nostro tempo, e che
doveva essere solo il primo traguardo di un’utopia di classificazione tramite uno stile asettico e di grado zero.
La prassi artistica scelta da Sander per il suo progetto di archiviazione umana è volutamente ripetitiva, antiartistica e
neutra. In pratica è come se August si mimetizzasse con la macchina adottando un registro di ripresa che si priva
volutamente di sovrastrutture e si rivolge umilmente al mondo. In un certo senso la semplicità dei ritratti in serie di
Sander è disarmante e la stessa sensazione si prova di fronte a chi ne ha ereditato la modalità macchinina di sguardo.
Ma anche Diane Arbus, che ha fotografato tra anni Sessanta e Settanta un’umanità stralunata e mostruosa, sceglie un
automatismo secco e freddo per fotografare i freaks che incontra in zone e locali squallidi della New York notturna, ma
anche l’inquietante e anonima banalità umana che si annida in strade e parchi cittadini. Su quei lenti tracolli personali
posa il suo obiettivo né pietoso né compassionevole, ma anzi distaccato e duro, in questo solo modo capace di straniare
la realtà e presentarla in tutta la sua verità e crudezza.
19. LA VALLE DELL’OMBRA DELLA MORTE (ROGER FENTON, 1855)

Nel momento in cui l’invenzione della fotografia permette di viaggiare documentando con immagini testimoniali la
realtà e le situazione che prima potevano solo essere raccontate, è ovvio che si inaugurano subito progetti e missioni
fotografiche che segnano in sostanza l’inizio del fotogiornalismo.
Come è noto la prima guerra fotografata della storia è quella di Crimea, 1853-1856, termine imposto dal Congresso di
Parigi, da Francia e Gran Bretagna contro le mire espansionistiche dello zar russo sulla penisola del Mar Nero.
Inviato di guerra è il fotografo inglese ROGER FENTON che, equipaggiato di ben cinque macchine fotografiche,
settecento lastre di vetro, un carro coperto che funge da camera oscura, più viveri e sostanze chimiche, inizia a
fotografare i campi di battaglia e certamente l’immagine più nota di questo reportage è LA VALLE DELL’OMBVRA
DELLA MORTE dove però la morte è solo evocata, è una presenza fantasmatica. Manca cioè il dramma, la tragedia e
l’immagine di morte.
Nella maggior parte delle fotografie le scene più frequenti sono da retroguardia: la distribuzione dei rifornimenti, gli
schieramenti delle truppe, i ritratti in posa degli ufficiali e altre zone di battaglia ormai però deserte. Egli è il primo
fotografo di guerra ma al contemplo propone anche l’esempio di foto fotografia messa al servizio di una ideologia
politica: dal momento che l’opinione pubblica inglese non sosteneva questo impegno del proprio governo nel conflitto,
gli era stato evidentemente raccomandato di non mostrare scene troppo cruente che avrebbero potuto sconvolgere chi le
avrebbe viste in patria.  egli però con queste fotografie riesce a cogliere, sebbene senza la ripresa di cadaveri, un
senso di desolazione paragonabile alla morte.

Al posto di Roger Fenton, rientrato in luglio in Inghilterra dove muore di colera, nei territori del conflitto arriva FELICE
BEATO, un veneziano naturalizzato inglese che, insieme a un altro fotografo di nome JAMES ROBERTSON, si
occupa di continuare la missione fotografica al seguito delle truppe della regina. Il reportage di Beato in Crinea risulta
una fredda documentazione delle zone belliche. Successivamente dalla Crimea egli si spinge ancora verso est,
precisamente in India, Giappone e Cina dove fotografa per la prima volta corpi senza vita, abbandonati sul campo di
battaglia. In Estremo Oriente Beato continua infatti a fotografare i conglitti come la Guerra dell’oppio, dalle cui
immagini si deve capire quali risultati si ottengono a ribellarsi contro i colonizzatori inglesi, ma al contemplo si
appassiona anche alle culture esotiche che incontra e ai costumi e alle abitudini di queste popolazioni, tutti mondi assai
lontano da quelli a cui apparteneva.
Egli si ferma in Giappone, dedicandosi alla produzione di immagini di paesaggi e architetture dell’Estremo Oriente,
specializzandosi soprattutto nella ritrattistica dipinta sul modello delle stampe giapponesi e legata agli stereotipi e alle
messe in scena care all’immaginario europeo.
MATHEW BRADY è stato invece il fotoreporter della Guerra di secessione americana (1861-65): egli ha svolto
l’impegnativo incarico di lasciare testimonianze di questo conflitto vasto e complicato.

19.1 MORIRE IN FOTOGRAFIA


La fotografia ha sempre a che fare con la morte, avendo sempre a che fare con la dimensione del tempo: ogni fotografia
è legata ad un tempo già finito, l’è stato, dunque a qualcosa che non è più e non sarà più.
In Camera chiara, nel commentare la fot che Alexander Gardner aveva scattato nel 1865 a Lewis Payne, Barthes
sottolinea come il personaggio ritratto guardi in macchina con la consapevolezza di chi è ancora vivo pur sapendo di
morire, morte di cui lo scatto fotografico anticipa virtualmente l’esperienza. infatti il giovane Payne, condannato a
morte perché accusato del tentato omicidio del Segretario di Stato americano, è l’emblema di quello che lo studioso
francese chiama PUNCTUM, che non è più di forma, ma d’intensità, è il Tempo, è l’enfasi straziante del noema, la sua
raffigurazione pura.
 Il fotografo getta sul mondo un velo trasparente e paralizzante (Dubois): dunque la fotografia e morte sono due
universi che hanno legami genetici e ontologici strettissimi, al di là che sia la morte il soggetto esplicito di una
fotografia.
È anche opportuno citare quegli artisti che hanno citato e usato la fotografia come strumento di sublimazione estetica, o
invece di rivendicazione estrema, della vita contro la morte: questi artisti inoltre sono stati capaci ci puntare l’obiettivo
su se stessi o su persone care quando appunto la morte è venuta a segnarli. Hanno trovato nella fotografia lo strumento
catartico che poteva fermare quel processo di annichilimento totale, bloccando per sempre i volti e i corpi destinati a
sparire dallo loro vista fisica. Come fotoreporter impassibili, scattando immagini di malattia e di morte non
indietreggiando neppure quando i soggetti sono il compagno, il padre o la moglie.
Alcuni autori infine, come Rober Mapplethrope, hanno invece fotografato se stessi con la morte addosso: con il volto
scavato e il corpo deformato > ha dato prova del confine estremo di consapevolezza e sfida che la fotografia sa
ingaggiare con la realtà anche quando il cinismo che lo sguardo fotografico impone viene rivolto a se stessi.
20. IL CLUB DELLE MALEDETTE (ALICE AUSTEN, 1891)

il rapporto tra donne e fotografia nell’Ottocento rappresenta un capitolo assai curioso e soprattutto utile per
approfondire alcune riflessioni sulle vicende in cui s’imbatte e definisce il nuove mezzo tecnologico nei suoi decenni di
vita. Nonostante infatti già nella seconda metà dell’Ottocento molte donne trovino nella fotografia una via possibile al
processo di emancipazione, dall’altro lato per quanto riguarda il riconoscimento artistico le donne fotografe sono ancora
molto al di là della possibilità di attestare una loro presenza importante.
A eccezione di pochissime donne che riescono ad affidarsi arrivando anche a esporre i loro lavori fotografici in spazi
pubblici, molte sono quelle che rimangono sconosciute o assolutamente travisate dalla critica.
Dando quindi per scontata la frustrazione che le donne subiscono nelle loro ambizione artistiche, ciò che è davvero
interessante è il fatto che si possa distinguere in alcune di loro un uso della fotografia che si può definire proto-
concettuale.
Se infatti già la fotografia è condannata a rincorrere la legittimazione artistica, le donne che vogliono usare la fotografia
per essere artiste, devono scontare due epurazioni: una che viene loro imposta dall’arte e una imposta dagli uomini.
Eppure, paradossalmente, proprio l’emarginazione che le donne fotografe vivono da parte di quegli ambienti artistici
diventa l’arma grazie alla quale si dimostrano in grado di usare la fotografia, e le sue potenzialità concettuali, con una
lungimiranza e una capacità intuitiva davvero formidabile. Dal momento che gli ambienti ufficiali dell’arte la snobbano,
si alleano con l’identità più profonda della fotografia, ugualmente osteggiata; in particolare le donne si rivelano capaci
di sfruttare la forza che ha la fotografia nel recupero della corporeità.
 La fotografia si mostra come il mezzo perfetto per mettere alla donna di riscrivere quel corpo e fungere da
strumento che le concede di ricostruirsi in identità, sociale, storica, politica e di genere.
Le donne paiono con la fotografia riprendersi il diritto di essere loro a parlare e dire cosa sia il corpo delle donne,
sottraendolo al secolare voyeurismo delle sguardo altrui. Ma allo stesso tempo, la scelta naturale che le donne fanno
della fotografia come strumento di prassi e azione ne costituisce l’esaltazione come territorio principale dell’estetico e
del performativo.
Questo rapporto simbiotico diventerà un legame di necessità nel processo di costruzione visiva della new woman.
In tal senso la vicenda di ALICE AUSTEN è davvero interessante perché permette di sottolineare come, nel rapporto tra
donne e fotografia nell’Ottocento, si condensa da un lato le esigenze di rivendicazione e autonomia da parte delle donne
in una forma di femminilismo visuale, ma dall’altro anche la richiesta di liberazione degli stereotipi di genere per una
affermazione di diversità e omosessualità. Conosciuta come fotorafa professionista di reportage sociale, l’americana
Alice utilizza la fotografia come certificazione continua e fedele della propria autobiografia; fin da ragazzina si
fotografa con le amiche, il club delle maledette, in tutte le occasioni si socializzazione che si presentano, fornendo il
testimone inseparabile che le permette di infrangere i tabù che anche nella vita sta cercando di negare: le regole
predefinite e le scelte obbligate nella moralità.
Alice trova la possibilità di raccontare una dimensione intima e privata, e insieme di concretizzare visivamente la sua
scelta omosessuale > la fotografia come sublimazione di un paradiso omosessuale.

20.1 LA FOTOGRAFIA NEL DISCORSO DI GENERE


All’inizio del Novecento, mentre Duchamp sta progettando Rrose Selavy, vero emblema di un discorso di negoziazione
delle diversità e dell’attraversamento dei confini di genere e razza, già da alcuni anni a Parigi sta lavorando LUCY
SCHWOB, pseudonimo CLAUDE CAHUN.
Claude utilizza la fotografia come regolare e privato appuntamento con la propria indagine identitaria. La fotografia è il
mezzo più adatto per verificare il suo rifiuto delle regole e delle barriere precostituite; infatti, avvertendo la diffidenza
che provoca chi non si adegua agli stereotipi e rifiuta i dogmi, essa dirà ‘ il neutro è l’unico genere che mi si addice, il
mio corpo mi serve da transizione’.
Così con una semplice Kodak Pocket Camera, inizia il suo percorso personale costruendo una delle raccolte di
autoritratti fotografici più significative della storia visuale contemporanea.
Ogni volta propone una identità diversa e nuova, ogni volta cercando l’impossibile, ‘travesti la mia anima’, e individua
nella performance fotografica lo spazio migliore per esercitare l’ossessiva ricerca di autodeterminazione della propria
esistenza sociale, artistica e psicologica.
21. NEAR-NAKED MAN RUNNING (EADWEARD MUYBRIDGE, 1887)

Come è noto, quando la fotografia viene presentata la mondo non possiede ancora la capacità di cogliere un corpo in
movimento, non conosce cioè l’istantaneo. I primi soggetti fotografati dai pionieri sono infatti i corpi e situazione ferme
nel tempo. > tutto questo è dovuto alla scarsa luminosità dei primi obiettivi e all’insufficiente fotosensibilità iniziale
delle sostanze chimiche usate nei processi fotografici. Si deve perciò aspettare i progressi della scienza per poter
finalmente bloccare qualcosa che si muove nello spazio e nel tempo.
In modo particolare sono due i fotografi che si applicano allo studio del movimento, e soprattutto al sogno di poter
vedere e capire in che modo si muovono i corpi nello spazio, ovviando alla naturale fissità al congelamento tipici della
fotografia.
Il primo di questi è l’inglese EADWEARD MUYBRIDGE, che riesce ad ottenere risultati interessanti cercando di
fissare il moto di un cavallo in corsa. Era stato chiamato nel 1872 da un ricco industriale californiano, Lelan Stanford,
per fotografare il cavallo Occident nella sua tenta di Palo Alto: il magnate desiderava conoscere la dinamica del cavallo
che corre per allenarlo meglio. Mutybridge mette sul percorso di Occident dodici apparecchi fotografici a intervalli di
spazio regolari e strappando i cavetti, il cavallo aziona gli otturatori tramite delle elettrocalamite. Nel 1880 egli può
brevettare un apparecchio, detto zooprassinoscopio, grazie al quale è in grado di proiettare sullo schermo, durante
alcune conferenze, delle immagini che scorrono in rapida sequenza.
Mutybridge prosegue poi il suo monumentale progetto di creazione di un atlante visivo sul movimento umano ed
animale, che pubblicherà nel 1887 in 781 tavole contenute in dodici volumi, dal titolo complessivo Animal locomotion.
L’altro studioso che si dedica alla fotografia di movimento è il francese ETIENNE-JULES MAREY: le sue riflessioni
erano arrivate negli Stati Uniti e a sua volta egli aveva saputo delle scoperte da parte di Mutybridge leggendole sulla
rivista francese Nature. I due si mettono in contatto e si conoscono durante il giro di conferenze in Europa di
Mutybridge.
Marey mette a punto un metodo diverso e cioè sperimenta l’utilizzo di un fucile fotografico di una lastra di vetro
circolare che, ruotando, è capace di registrare dieci-dodici pose in messo secondo e sulla medesima lastra. Nel suo caso
la visione del movimento di un corpo è squadernata come se si svolgesse davanti agli occhi di chi osserva.
Ciò che meraviglia è che i due pionieri non si siamo occupati dei potenziali sviluppi di ciò che hanno scoperto in
relazione ad uno sviluppo verso la nascita del fotografico.
Sarà GEORGERS DEMENY a brevettare uno sviluppo del proiettore usato da Marey e nel 1894 è THOMAS EDISON
a mettere in commercio il cinetoscopio, un apparecchio finalmente in grado di far scorrere le immagini a una velocità
sufficiente da non dover percepire gli stacchi e dare l’idea di movimento anche se, non potendo proiettare, poteva essere
guardato da una persona alla volta.
La storia epica delle origini del cinema è notissima: il 28 dicembre del 1895 i fratelli Lumiere proiettano per un
pubbluco pagante le prime pellicole cinematografiche della storia, ma subito dopo ritornando allo studio della pellicola
a colori poiché ritengono che il cinema fosse un’invenzione senza futuro.

21.1 DALLA FOTOGRAFIA AL CINEMA

Fotografia e cinema sono due messi storicamente legati da una comune genesi tecnica sono stati gli studi della
fotografia di movimento che hanno portato alla sperimentazione di dispositivi in grado di effettuare proiezioni
velocissime di fotogrammi in sequenza, esperienze le quali hanno infine segnato la nascita del cinematografo.
Per quanto riguarda invece il dibattito teorico sul rapporto tra fotografia e cinema le riflessione sono nel corso dei
decenni molto ampie ed articolate. In grande sintesi si possono dividere in due gruppi: 1. Da un lato possono stare gli
studiosi che hanno creduto in prima istanza nella forza del rapporto e del recupero della realtà che fotografia e cinema
mettono in campo nel loro dialogo con il mondo = teorici di estrazione fenomelogica-mediale 2. Gli studiosi del
secondo gruppo hanno considerato invece questa prima idea una fase ingenua di teorizzazione dei due linguaggi, e
hanno individuato piuttosto nel momento creativo, autoriale e di costruzione soggettiva il livello culturale interpretativo
più interessante = di formazione linguistico-semiotica.
Dal punto di vista delle poetiche, è ugualmente una trattazione complessa e variegata il capitolo che riguarda il modo in
cui il cinema ha guardato alla fotografia, sia da un punto di vista dei soggetti e dei temi, sia soprattutto da un punto di
vista delle suggestioni concettuali che il fotografico può attivare. Dall’altro lato, e cioè da parte degli artisti che usano la
fotografia mutuando idee e stimoli del filmico, alcuni autori del Novecento hanno sfruttato soprattutto la dimensione di
finzione immaginaria che la fotografia può assumere, esaltando proprio la sua possibilità di funzionare come il
congelamento che una singola immagine o una serie di queste possono attivare, se viste come se fossero state estratte
casualmente e disordinatamente da un flusso filmico continuo e narrativo. Di questa poetica del citazionismo filmico:
CINDY SHERMAN, NARRATIVE ART degli anni Settanta.
22. BAYARD STREET, CASA DEGLI IMMIGRATI (JACOB RIIS, 1889)

Le nuove possibilità di documentazione offerte dal viaggio fotografico, unite all’interesse sociale e antropologico sul
mondo, portano i pionieri dell’Ottocento a realizzare immagini che ne raccontano e descrivono la realtà vista negli
aspetti meno scontati e gradevoli. Tra i primi fotografi a dedicarsi in modo consapevole a un progetto di tipo sociale ci
sono THOMAS ANNAN E JOHN THOMSON. Già nel 1876, dopo essere rientrato da un reportage etnografico in
Oriente, il fotografo Thomson ha l’idea di collaborare con il giornalista Adolphe Smith a un progetto di
documentazione sulla Londra dei quartieri degradati. Nasce Street Life in London, una pubblicazione all’interno della
quale trentasei fotografie di Thomson accompagnano il racconto di una città esclusa dalle vedute artistiche e turistiche.
Da immigrato qual’è JACOB RIIS ha invece l’occhio attratto dalla città di New York che in quegli anni sta assumendo
le caratteristiche della grande megalopoli. È in questa nuova e stupefacente realtà urbana che riesce a diventare reporter
per la New York New Association e ad assecondare così la sua insaziabile curiosità verso il mondo degli invisibili.
Anche la tecnica fotografica sta subendo grandi innovazioni e tra queste c’è la messa sul mercato di una fotocamera, la
Kodak Detective, che grazie alle piccole dimensioni e alla facilità d’uso può agevolare le sue ricerche. Stessa cosa può
dirsi per la polvere di magnesio che viene allora introdotta e utilizzata per il flash.
Come cronista per la prima volta mostra al pubblico le vere condizioni di vita degli slums americani. Poi nel 1890 esce
How the Other Half Lives, il libro composto da 17 fotografie: l’effetto di queste immagini è talmente forte da spingere
Roosvelt, allora a capo della polizia, a chiudere le camere d’affitto e sgomberare i bassifondi di Mulberry Bend.
Bayard Street, la via della famosa casa popolare abitata dagli immigrati fotografati da Jacob, apparteneva al cosiddetto
“The bend”, il quartiere malfamato del Lower East Side dove confluivano gli immigrati, circa mezzo milione in un
chilometro quadrato di città, che riuscivano a superare le barriere di Ellis Island. Nella foto di Bayard Street si capisce
che Riis deve essere entrato all’improvviso mentre gli immigrati erano ancora nel sonno, sorprendendoli con il lampo
del flash al magnesio che ha illuminato la stanza.
Le immagini di How the other half lives sollevano molte domande, ma soprattutto mostrano in modo esemplare come la
fotografia riesca ad addentrarsi in geografie urbane proibite e invisibili, a penetrare una città segreta.
Grazie alla fotografia d’impegno sociale o documentario, si formano nuove coscienze civili e si stimola nel pubblico
una nuova visione del mondo, eticamente e moralmente corretta. La fotografia, proprio per il suo carattere di verità e di
attestazione indiscutibile, è il mezzo adatto per intraprendere questa missione politica e sociale.
Altro grande fotografo è l’americano LEWIS HINE: con una spinta etica e utopistica, Hine fotografa per rendere
giustizia alle sperequazioni della società civile e per dare testimonianza del lavoro duro di tanti che abitano la città
invisibile. Anche Lewis usa il lampo del magnesio, col quale tra le altre scatta immagini del lavoro dei bambini sfruttati
dal nuovo sistema industriale, delle condizioni di lavoro dei minatori di Pittsburgh e degli immigrati ammassati a Ellis
Island animati dalla speranza di entrare a New York.
In questa raccolta confluiscono anche alcuni epici scatti delle fasi di ricostruzione dell’Empire State Bulding che Hine
segue, coraggiosamente sospeso insieme agli operai del cantiere, fino allo posa dell’ultimo chiodo. Con questa serie di
immagini asce la photostory. Si deve anche ricordare che è stato grazie alla diffusione delle immagini di Hine che negli
Stati Uniti si comincia a discutere sul lavoro minorile e a impegnarsi per eliminarlo.
L’attenzione di Hine è sempre focalizzata sulle persone, sulla loro umanità; ancora più evidente è la sua attrazione
verso gli esseri umani quando fotografa gli ultimi e gli umili i cui volti e corpi miserevoli, se anche stanno a ricordare le
ingiustizie del mondo e i soprusi vero tanti, conservano una loro dignità e autonomia. Inoltre i soggetti erano sempre
avvertiti quando stavano per essere fotografati e si premurava di permettere loro di mantenere una distanza dalla
fotocamera, anziché essere dominati.

22.1 LA DENUNCIA SOCIALE


L stessa società americana si trova chiamata a guardare in faccia le condizioni delle province rurali e dei suoi miserabili
abitanti dopo la Grande Depressione del 1929. Di nuovo è lo strumento fotografico ad assumere per l’opinione pubblica
il ruolo di testimone obiettivo e imparziale, che deve creare o rinforzare una coscienza civile, sebbene sia evidente come
il grado di sentimentalismo e di pietà che contiene un’immagine possa essere graduato dall’orchestrazione visiva della
retorica, e da ciò che il fotografo decide di includere o escludere dall’inquadratura.
Nasce cosi, sotto l’egida di Roy Stryker, la grandiosa missione fotografica della Farm Security Administration, un ente
finanziato dal governo statunitense, cui partecipano tra gli altri Walker Evans, Ben Shanh … > per questi autori l’uso di
uno stile asciutto e impersonale, frontale e schematico, diretto verso soggetti miserevoli e meschini, diventa omologo
alla funzione del racconto di una provincia americana disperata ed abbandonata.
Dalla vicenda storica e dalla missione politica, quel modo di guardare la realtà diviene appunto uno stile che John
Szarkowski, storico curatore del MoMA, descrive con queste parole: in questo periodo alcuni fotografi scoprirono l’uso
poetico dei fatti guardati in modo diretto, presentati con un distacco tale che la qualità dell’immagine sembrava identica
a quella del soggetto fotografato: questo nuovo stile si fece chiamare documentario, e si è definito in modo più chiaro
nell’opera di Walker Evans.
23. GEORGE EASTMAN A BORDO DEL S.S GALLIA

Quella che sarebbe diventata certamente una delle caratteristiche più famose e riconoscibili della fotografia, la
diffusione popolare, compie infatti i suoi primi passi grazie all’idea del piccolo formato tascabile, spendibile,
collezionabile e che, prima di ogni altra cosa, era anche economico.
Ma già negli anni Settanta le carte de visite comincia a perdere le sue attrattive nei gusti del pubblico comune e, per
incontrare un nuovo brevetto che fosse in grado di proseguire questo cammino, bisogna attendere il 1888. In quell’anno
l’americano George Eastman mette sul mercato una macchina di piccolo formato, con fuoco fisso e unica velocità di
scatto a 1/25 secondo: è l’inizio di un mito, quello della KODAK. La Kodak è una macchina leggera, è naturalmente
economica ed esce dalla fabbrica già caricata con 100 scatti pronti all’uso (all’inizio il progetta la macchina con porta
rullino, poi sarà sostituito con la celluloide trasparente).
La facilità e l’immediatezza della tecnica Kodak sono tali che, per pubblicizzarla, vengono usati degli slogan divenuti
famosissimi che insistono proprio su questo aspetto,
il successo della Kodak è immediato e diventa subito uno dei fenomeni fondamentali per la popolarità che il brevetto di
Eastman conquista presso il pubblico: il ritratto che l’avvocato, amico e socio, Chuch scatta a Eastman mostra proprio
l’inventore a bordo della nave S.S. Gallia mentre tiene in mano uno dei prototipi.
Se prima la fotografia delle origini si rivolge a un pubblico alto e borghese, la societò Eastman Kodak Co. Diventa
invece il simbolo di un imprenditoria legata ai fenomeni e ai bisogni delle nuove masse  George Eastman può
davvero affermare di aver reso la fotografia qualcosa di definitivamente accessibile a tutti.
La storia della Kodak segna l’avvento della fotografia non professionistica, di quella attitudine e passione allo scatto
privato e dilettantesco che in genere si definisce fotografia amatoriale o vernacolare. E proprio da questo nasce il
disprezzo con cui Baudelaire guardava alla folla idolatrice che seguiva un nuovo Messia ai comandi di una nuova
industria. Infatti è proprio con la Kodak che si verifica il passaggio da una moda che si era già diffusa, ma a livello di
clientela passiva si sposta all’uso attivo di tanti anonimi appassionati che si fanno fotografi in prima persona.
È qui che la fotografia diventa una pratica sociale, un’arte per tutti, un’arte possibile solo nell’epoca della riproducibilità
tecnica. Era la forma d’arte democratica per eccellenza, rendeva tutto e tutti potenzialmente importanti, e tutto e tutti
ormai potevano essere fotografati e da questo acquistare prestigio, e consentiva a chiunque di realizzare foto e costruirsi
una visione individuale, le proprie storie.
Con minori pretese formali e di posa, le immagini diventano ovviamente anche più spontanee e scherzose. Aumentano i
soggetti e le situazione fotografabili e davvero la fotografia comincia a diventare un hobby che accompagna le storie
dell’individuo e della sua cerchia di affetti.
Antiartistica e antielitaria per vocazione, volgare e istintivamente votata a riflettere e guardare il mondo nei suoi aspetti
fenomenici, alla vita nelle due declinazioni banali e quotidiane.  la fotografia partecipa dell’allontanamento dell’arte
dai principi di originalità e autorialità che il Novecento incarnerà in maniera preponderante, quando la techne e le
capacità creative non saranno prerogative indispensabili all’esercizio artistico.

23.1 LO STILE SNAPSHOT

Tra i primi primi autori che hanno scelto di privilegiare la fotografia stile snapshot, e cioè l’istantanea colta al volo,
senza grandi pretese formali, legata a storie e situazione di vita più che a pose pretenziose ed accurate, va certamente
ricordata JACQUES HENRI LARTIGUE: egli ha realizzato una ponderosa mole di scatti relativi agli incontri e ai riti
familiari, immortalando in modo spesso buffo e antiretorico parenti ed amici e posando il suo obiettivo anche su
occasioni mondane, feste e gare sportive.
 La mola che scatta è quella di una attivazione di un’esibizione di partecipazione diretta, in prima persona, agli
eventi in svolgimento. Un’atmosfera che si allontana dall’idea di opera per aderire a quella di comportamento.
E come ha osservato Jean-Marie Twenge, i giovani degli ultimi decenni hanno dato vita a pratiche esistenziali definibili
della Generazion Me, essendo abituati a porre loro stessi e le loro avventure al centro dell’attenzione, nell’arte
contemporanea è la poetica del private aspect.
l’approccio autobiografico, l’esplicitazione di una tecnica sgrammaticata fatta di inquadrature sbagliate, fuori fuoco,
occhi rossi ed errori compositivi, dove i soggetti sono spessi colti di sorpresa e in atteggiamenti privati, lontani dalla
posa auratica della tradizione ritrattista sono le caratteristiche principali.
A ciò si arriva anche grazie a una mutata capacità dei brand di moda di accogliere in modo più coraggioso le istanze
dell’arte contemporanea, un’allusione a una dimensione intima, amatoriale, dilettantistica impensabile prima che la
concettualità del fotografico divenisse la via privilegiata all’arte.

24. LADY FILMER NEL SUO SALOTTO (LADY FILMER, 1860)

Gli album fotografici dovevano parlare del loro proprietario e delle sue abitudini, dei gusti, delle tradizioni e della storia
della sua famiglia: c’è dunque di fondo una necessità identitaria, e anche narcisistica.
Se il morealismo e il perbenismo, propagandati dall’Inghilterra vittoriana, rafforzano una dimensione esclusivamente
claustrofobica e claustrale nella quale le donne devono accettare di vivere, è naturale che esse cerchino delle valvole di
sfogo che permettano loro una fuga negli immaginari e la possibilità concreta di vivere vite alternative. In letteratura lo
sfogo si manifesta nella produzione letteraria di diari o autobiografie, nelle arti visive privilegiando spesso la ritrattistica
per poter affermare la propria presenza e attestare una visiva identità. Naturale dunque che nell’Ottocento la fotografia
sia usata dalle donne come uno sfogo e uno strumento di ricognizione individuale.
Donna, vittoriana e fotografa è LADY CLEMENTINA HAWARDEN: la sua produzione fotografica è costituita da un
cospicuo numero di ritratti e tra le pareti della sua dimora la lady vittoriana mette in gioco tutte le inibizioni e i
moralismi della sua epoca, trasformando le performance davanti all’obiettivo in appuntamenti di seduzione, colloqui di
sguardi, carezze e ammiccamenti voyeuristici. La Lady sublima le sue fantasie sessuali, per oltrepassare le barriere e
vivere virtualmente, con la fotografia, un mondo altro: un mondo dove una madre può osservare dietro l’obiettivo i
corpi delle due figlie che tra specchi, scambi di sguardi e meccanismi di transfer, sono capaci di aprire un abisso di
mistero e inquietudini dietro la parvenza della più normale seduta posa fotografica. Ancora una volta la fotografia è
un’arma potentissima di evasione e è la presenza ossessiva e invadente dell’obiettivo fotografico a far scattare la molla
della concettualità.
Anche LADY FILMER, un’aristocratica inglese di epoca vittoriana, usa la fotografia per poter raccontare e visualizzare
la propria identità e insieme le dinamiche della sua realtà famigliare. Lady Filmer usa ricostruire la quotidianità del suo
ambiente, e delle sue conoscenze, creando dei foto collage: ritaglia fotografie, e le incolla insieme a pezzi di carte e
disegni, ripassando tutti con acquarello = richiamando così elementi della quotidianità ma al tempo stesso incarnando
desideri e aspirazioni sociali.
I soggetti che scegli per il suo collage Lady Filmer nel suo salotto sono sublimati da fantasie e ambizioni usando il
potere della manipolazione del reale che permette la tecnica fotografica, cioè mettendo il Principe di Galler (futuro
Edoardo VII e suo amante) al centro della composizione e suo marito in una posizione marginale.
La fotografia concorre a fornire una patente di verità e referzialità che viene poi sottoposto a un processo di
modificazione auratico.

24.1 ORIZZONRI DIGITALI


Il 24 agosto del 1981 il giapponese Akio Morita presenta al mondo la Sony Mavica, un apparecchio fotografico che
viene considerato il primo dispositivo ad acquisizione digitale di immagini -> la fotografia digitale è sicuramente uno
dei dei fenomeni più rilevanti fra quelli che hanno contribuito alle trasformazioni culturali della contemporaneità, ed è
significativo come essa abbia rafforzato e consolidato le pratiche interattive e di scambio del nuovo universo.
La facilità e la naturalezza con le quali le immagini fotografiche possono essere manipolate, trasformate, radicalmente
cambiate, hanno riacceso l’antico dibattito sul rapporto della fotografia con la realtà, e diviso gli studiosi tra chi
suppone che l’idea di fotografia sia morta e chi ritiene invece che tutte le idee di fondo rimangono sempre le stesse.
Proprio Claudio Marra afferma che la fotografia digitale non esiste perché dentro alla fotocamera è come se abbiamo
due apparecchi, uno digitale e uno scanner.
Certo è noto la differenza del sistema analogico a quello digitale poiché è privo del negativo, della distesa di Sali
d’argento addensati sulla pellicola e così di quella traccia che dava la certezza di un’impronta di realtà continua sulla
superficie fotosensibile.
E che la filosofia della fotografia non sia cambiata lo dimostra il fatto che l’uso, le funzioni, le attestazioni concettuali
che attribuiamo alla fotografia, il fotografico, rimangano le stesse: identità, fuga dell’immaginario, documentazione,
voyeurismo, presenza in essenza e memoria.

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